*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 48727 *** AMALIA GUGLIELMINETTI LE ORE INUTILI NOVELLE MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1919 =Secondo migliaio.= PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._ Tip. Fratelli Treves, 1919. IL RITRATTO A PASTELLO. Discutevano da quasi mezz'ora, il giovine schermendosi con parole vaghe e perplesse, la donna indagando con una ostinazione che diveniva a grado a grado impaziente. Finalmente egli disse: — Hai ragione. Oggi io sono diverso, oggi io ti devo confessare qualche cosa di abbastanza grave e mi è mancato fino ad ora il coraggio di farlo. Devi darmelo tu questo coraggio, tu che sei una piccola donna forte, capace di affrontare sola la vita e tutte le sue sorde ostilità. Confortami tu, Ottavia, a parlare. Dimmi che sarai indulgente e clemente col tuo povero amico che ha paura, che ha paura di te. Ottavia Dimauro che ascoltava, adagiata nell'angolo del divano giallo-oro, coi capelli neri sciolti sulla spalliera come un viluppo di serpenti foschi, con le spalle nude e i fianchi avvolti strettamente in una spirale di seta d'un color violaceo pallido che le scopriva i piedi rosei nelle babbucce orientali ricamate di perle, lasciò sfuggire una lunga risata non più gaia e non ancora beffarda, volgendosi a fissare Dino Altavilla, seduto accanto a lei, nell'altro angolo del divano giallo-oro. — Mio povero amico, tu hai paura di me? Ci conosciamo ormai da due anni e mezzo ed è questa la prima volta ch'io ti scopro una sensibilità così tremebonda e che mi riconosco una così terribile forza. Che cosa dunque accade di tanto spaventevole? — Spaventevole? — ripetè Dino Altavilla con un breve sogghigno. — Non esageriamo. Ho detto soltanto che si tratta di una cosa importantissima, la quale non mi giunge, d'altronde, improvvisa poichè la prevedevo da almeno sei mesi. È un fatto che, del resto, non ha nulla di spiacevole, tranne l'impressione, la prima impressione che tu ne potrai riportare. Ed è appunto ciò che mi costringe ad esitare tanto dinanzi a te, prima di decidermi a confessarti questa semplice realtà. Ottavia lo lasciò parlare sino alla fine, attese ancora alcuni minuti, fissandolo con lo sguardo interrogativo, la confessione di quella semplice realtà e, constatando che il momento della rivelazione non era ancora giunto, si strinse nelle spalle con una piccola smorfia sdegnosa, poi s'alzò, mosse alcuni passi sul folto tappeto persiano che copriva interamente l'impiantito della vasta camera gialla. Giallo era il broccato della coperta sul letto disfatto, gialla, incrostata di merletti di Venezia, la seta delle tende alle due finestre altissime, d'un chiaro giallino il legno di cedro dei mobili e le due poltroncine basse ai lati del tavolino da tè, e di un intenso oro caldo a riflessi di rame la grande cornice ovale che occupava la parete al disopra del divano, la cornice preziosa la quale racchiudeva un delicato pastello: il ritratto di Ottavia Dimauro. Ella sollevò il capo e si fermò dinanzi a quell'altra se stessa, così somigliante pur nella leggera nebulosità del colore sfatto che le parve di vedersi in fondo ad uno specchio antico, un po' velato dalla polvere e dal tempo, oppure in fondo ad un'acqua stagnante in una luce di crepuscolo. Scendeva difatti la prima ombra della sera dai vetri chiusi dietro le cortine leggere, e la violenza ardente di colore da cui traeva tanto risalto la particolare bellezza di quella donna bruna e pallida come un'andalusa, si fondeva ora dolcemente in un'armonia più discreta e più raccolta. I larghi occhi neri di Ottavia fissavano i larghi occhi neri del ritratto che apparivano immensi e profondi nella penombra. Era stato quello sguardo immenso e profondo, segnato con pochi tratti di colori da un pittore grande e modesto, ora morto, ad avvicinare quasi d'improvviso i loro destini in un amore durato oltre due anni e pieno di tumultuosa intensità di vita. Dino Altavilla vi si era fermato dinanzi in una esposizione d'arte, lo aveva osservato contemplato meditato interrogato a lungo, per molti giorni, finchè si era risolto ad acquistarlo per giungere a conoscere, se veramente esisteva, la creatura umana a cui splendevano in volto quegli occhi. Codesta creatura umana esisteva, era una giovane signora sola, che abitava una villa in una piccola città di provincia, dove il pittore, passando per svago un'estate, le aveva fatto, per proprio diletto, il bel ritratto a pastello. Il permesso di venderlo ad un ammiratore sconosciuto che il ritrattista le chiese per iscritto, il gentile consenso della signora e una successiva lettera di ringraziamento di Altavilla gli porsero l'occasione di una corrispondenza cortese, a cui seguì ben presto un incontro e quando, poche settimane più tardi, il nuovo amico la pregò di venire ad ammirare il ritratto in una cornice e in un ambiente degni della bella opera d'arte e della bella opera umana ch'esso rappresentava, Ottavia Dimauro fu accolta in quell'appartamento lussuoso e misterioso, a terreno d'una villetta suburbana, dove ogni cosa era stata scelta e disposta con una sapiente cura d'amore. Da allora ella vi era ritornata ogni settimana, vi aveva talvolta passato giorni e giorni, notti e notti, in quella completa libertà di esistenza che il suo stato di donna sola, separata da un marito ignobilmente vizioso, le concedeva. — Io e quell'altra me stessa, lassù — diceva Ottavia, accennando al pastello chiuso nella sua cornice d'oro, — abbiamo passato qui dentro, in persona o in ispirito, quasi due anni e mezzo di vita, eppure mi accorgo in questo momento che, se le tue labbra, Dino, e le mie labbra si sono tante volte avvicinate, le nostre anime invece sono rimaste infinitamente lontane. — Non è vero, non è vero. Perchè dici così? — mormorò egli corrucciato, afferrandola d'un tratto alla vita e piegandola riluttante verso di sè. — Non ti ho dato per oltre due anni tutto me stesso? — Tutto, forse, meno la tua fiducia e la tua confidenza — ella rispose, rigida, negandosi per la prima volta alle sue carezze. — Da parecchi mesi c'è nella tua vita qualche cosa di molto importante e tu me lo nascondi per timore d'una mia sgradevole impressione. E questo si chiama, per te: dare tutto se stesso? — Ottavia, non parlarmi con tanta asprezza, te ne prego — egli la supplicò, umile, baciando con avidità le sue mani che lo allontanavano. Ella rise, ancora più aspra nell'ostentazione della gaiezza che nelle fredde parole e andò a guardarsi nel triplice specchio dell'armadio, seguendovi con gli occhi torbidi sotto le ciglia socchiuse ogni atteggiamento ed ogni moto del giovine, tuttora affondato nell'angolo del divano. Egli s'era stretto la tempia fra le palme e restava a fissare il suolo con lo sguardo assorto e la fronte corrugata. Balzò in piedi, come per incitarsi a una improvvisa risoluzione, e movendo alcuni passi le venne vicino. — Ascolta. Seduta in una delle basse poltrone presso il tavolino da tè, ella aspirava con una espressione di voluttà esagerata un mazzo di violette languenti in una coppa di cristallo verde. Non si mosse quando egli le fu accanto, non si mosse quando egli si inginocchiò ai suoi piedi, sorridendo con una tenerezza alquanto impacciata. — Ascoltami, cara. — Ti sei deciso a rivelarmi la semplice realtà? Ella sogghignò sollevando il viso dalle violette languenti, poi sospirò a lungo sbattendo le palpebre come se si destasse da un sogno, e la crudeltà del suo sogghigno contrastava così singolarmente con lo smarrimento voluttuoso degli occhi che il giovine, chino alle sue ginocchia, ne tremò di desiderio e quasi di rancore.. — Ebbene, — egli confessò con finta semplicità, — fra dieci giorni prendo moglie. Ottavia tornò a chinare il viso sulle viole e tacque per un lungo momento. Quando lo sollevò, esso rassomigliava stranamente al ritratto a pastello nel colore sfatto delle gote e delle labbra, nell'ombra che riempiva l'incavo degli occhi. Sulla bocca pallida si disegnava lo stesso sorriso di prima, ma quasi contorto in una piega amara. — Davvero? — ella disse con un piccolo sussulto delle spalle. — Sì, — susurrò Altavilla, prendendole i polsi. — Ecco la notizia che non avevo il coraggio di darti. Essa non è poi così spaventevole come pareva. Non è vero? — Difatti.... — ella mormorò ambiguamente, guardando i propri polsi ch'egli stringeva fra le sue dita, quasi perchè ella non gli sfuggisse. — Difatti — il giovine ripetè. — Questo non muterà nulla di ciò che è stato e di ciò che è fra di noi. Io sposo mia cugina, la solita cugina imposta dalla volontà dei cari genitori ai soliti figlioli docili, tranquilli e morigerati come me. Mia cugina è giovane, ricca e non ha nulla di particolarmente ripugnante perchè io rifiuti la sua mano. — E tu, naturalmente, non la rifiuti — ella concluse, scotendo il capo più volte, quasi per convincere lui e se stessa di questa inoppugnabile verità. — È evidente — ammise il giovane, alzando lentamente le spalle, come a soppesarvi la lievità del giogo a cui esse si assoggettavano con tanta docile calma. — Nemmeno se, accettando la mano di tua cugina, tu dovessi perdermi per sempre? La domanda inattesa giunse dopo una prolungata pausa di meditazione e vi succedette un'altra pausa piena di stupore. — Ciò che tu dici è assurdo — le osservò il giovine, più sgomento di quanto non volesse apparire. — Sarà assurdo, ma è l'espressione più semplice e più vera del mio pensiero, — ribattè con una risoluta e pacata fermezza la donna. — Mi sei appartenuto esclusivamente per oltre due anni, o almeno io ebbi di questo esclusivo possesso l'assoluta convinzione. Non posso e non voglio condividerti consciamente con un'altra donna, sia pure tua cugina, sia pure una moglie che ti è imposta dalla parentela. Ti prego, anzi, ti impongo di scegliere fra lei e me, ossia di rinunziare definitivamente all'una o all'altra. Dino Altavilla l'ascoltò in piedi, a ciglia corrugate, torcendo la bocca in una espressione di tedio irritato. — Io non vedo affatto la necessità di correre ad un _ultimatum_ di questo genere — tentò di scherzare con qualche ironia — e di creare un dramma di una situazione così semplice. Esistono infiniti uomini che posseggono insieme una moglie tollerata e un'amante adorata, senza essere costretti a rinunziare all'una o all'altra. Sono queste le vicende più comuni della società moderna. — Ebbene, le vicende più comuni della società moderna non fanno al caso mio, e non le accetto — proruppe aspramente Ottavia, alzandosi d'impeto ed incominciando a ravviarsi con gesti nervosi i capelli dinanzi allo specchio dell'armadio. Il giovine girò la chiavetta della luce e la camera gialla parve riempirsi di uno sfolgorante sole meridiano sotto il quale la bellezza appassionata della donna splendette di un così meraviglioso risalto che egli tremò di perderla per sempre con altre imprudenti parole. — Tronchiamo questo colloquio, cara. Non parliamo più di simili cose spiacevoli. È meglio ch'io me ne vada e che ci rivediamo più calmi, domani, — le susurrò nel collo tentando, senza riuscirvi, di baciarla. — A domani, dunque. Addio. Ella non si volse neppure. Continuò ad appuntarsi nei capelli le forcine di tartaruga che teneva fra i denti e quando ne tolse l'ultima stirò le labbra ad un sogghigno amaro, ripetendo come un'eco spenta il saluto dell'amante: — Addio. Lo vide sparire dietro la portiera di damasco giallo e allora soltanto s'abbandonò tutta sul divano, e chiuse gli occhi in un'espressione di spasimo disperato. — Addio, addio, addio, — gemette tra aridi singhiozzi, torcendosi sotto la violenza dello strazio, premendosi sul cuore dolente le mani rattratte. — Addio, addio. Poi balzò in piedi e si guardò attorno smarritamente, come per salutare un'ultima volta le cose familiari che sapevano il suo amore, che lo avevano per tanto tempo accolto e tutelato benigne. Il ritratto a pastello le ricambiò il suo sguardo accorato, la fissò con quegli occhi immensi e profondi che rassomigliavano ai suoi, ch'erano i suoi, parve dirle con taciturna angoscia: — E io resterò qui sola mentre tu andrai lontano. Quest'altra te stessa rimarrà qui, vedrà forse un amore che non sarà più il tuo, assisterà a una gioia e a un dolore che ti saranno ignoti, soffrirà dell'inganno e del tradimento e non potrà non guardare, non potrà chiudere i suoi occhi immensi e profondi. Dovrà vedere, sapere e sarai tu che vedrai e saprai. Allora Ottavia Dimauro salì sul divano giallo, sciolse il cordone d'oro che assicurava alla parete il quadro e lo discese cautamente, cautamente lo depose a terra, sul tappeto persiano. Il cristallo terso e sottile che proteggeva la figura scintillò sotto la luce intensa delle lampade ed ella posò il piede su quegli occhi che la guardavano ancora, ve lo premette con tutto il suo peso, con tutta la sua forza. Il vetro cedette scricchiolando, le fenditure s'allargarono in forma di raggi sino alla cornice, e la donna s'inginocchiò, ne tolse un primo frammento lungo e acuminato come un pugnale, poi un secondo e un terzo. Scoperse i colori tenui e sfatti del pastello, mise a nudo l'intero ritratto già gualcito e già martoriato dal suo piede, liberò dalla loro trasparente custodia quegli occhi che la guardavano ancora, interrogando. Ma non si fermò nella sua opera di distruzione. Strappò dalla cornice il cartoncino ovale segnato dalla mano del grande maestro morto e con le dita convulse, tuttora inginocchiata sul tappeto, ella lo lacerò in due, in quattro, in innumerevoli lembi e li disperse al suolo, con un piacere acre, con un sorriso di blanda follia diffuso sul volto, col petto e le tempia pulsanti di un battito febbrile. Quindi s'alzò, sedette sfinita sul divano e contemplò quella rovina con un senso di commiserazione così profonda per se medesima e per il suo amore che un'onda di pianto le salì dal cuore straziato. Ma quando sollevò le mani per ricoprirsene il volto e premersi le palpebre brucianti di lacrime, s'avvide che le sue dita sanguinavano, ferite dai frammenti acuminati del cristallo, s'avvide che sui chiari disegni del tappeto, sul broccato giallo del divano, sulla vestaglia di seta violacea erano cadute le stille intensamente vermiglie del suo sangue, come tanti piccoli segni visibili della sua sofferenza, come le stigmate palesi del suo dolore. E con una struggente malinconia ella pensò che queste vi sarebbero rimaste. I MUGHETTI DEL PROFESSORE. Il professore Biagio Valenzi, dottore in lettere e filosofia, vide un giorno nella vetrina d'una fioraia un leggiadro cestello di mughetti di serra e si fermò ad osservarli con raccolta ammirazione pensando alla sua giovane allieva, la signorina Diana Vallebella. Egli non sapeva con esattezza perchè quei fiori dalla tinta così delicatamente pallida, dalla forma così gentile, raggruppati con grazia armoniosa nel leggiero cestello dorato, richiamassero alla sua memoria la snellezza elegante, la biondezza rosea, l'arditezza ingenua della fanciulla alla quale egli commentava tre volte per settimana i grandi maestri della letteratura e i memorabili avvenimenti della storia. Nondimeno, poichè egli era un poeta sentimentale, non ostante gli occhiali a stanga e la corpulenza un po' goffa dei suoi quarantaquattro anni, risolvette d'offrire alla piccola Diana l'omaggio di quei fiori che tanto le rassomigliavano ed entrò nel negozio elegante della fioraia. I mughetti di serra avevano un prezzo piuttosto esorbitante per le sue magre finanze di insegnante governativo, ma il professore non s'indugiò dinanzi a considerazioni d'ordine così prosaico e, acquistati i fiori, diede l'indirizzo di Diana Vallebella e li mandò a destinazione senza un biglietto e senza una parola. — Ella comprenderà prontamente che il dono non può venirle che da me, — rifletteva il professore dirigendosi a lento passo verso il Liceo, dove i suoi cinquanta tumultuosi alunni lo attendevano per discendere con lui negli infernali gironi danteschi. E quando terminata la lezione egli s'avviò finalmente verso il lontano villino Vallebella, dall'altro lato della città, già sorrideva con la larga faccia troppo florida, pregustando i vivaci ringraziamenti e le meravigliate esclamazioni di Diana, ferma in estatica ammirazione dinanzi al cestello dei suoi mughetti deposto sulla tavola delle riviste nello studio. La vedeva venirgli incontro col suo elastico passo sportivo e stringergli tutte e due le mani con quella nervosa energia che nessuno avrebbe sospettato in una personcina così smilza e flessibile, rimproverandolo amabilmente con la sua grazia un po' monellesca di farle la corte nel modo più riprovevole per la sua serietà di professore. Ma allorchè il domestico lo introdusse nella chiara stanza arredata all'inglese, dove Diana ascoltava tre volte per settimana le sue conversazioni letterarie, non vi scorse traccia di fiori nè sulla tavola delle riviste, nè sulla scrivania. La sua allieva si fece anzi aspettare dieci minuti e quando apparve lo salutò quasi freddamente e si dispose con gesti annoiati e nervosi a prendere i consueti appunti della lezione. Il professore doveva parlare quel giorno di Leopardi e s'era preparato un appassionato commento sulla poesia _Amore e Morte_, il quale avrebbe fatto piangere di commozione la più scettica delle anime femminili. Senonchè, dinanzi alla svogliatezza irrequieta di Diana egli non osò, o gli parve inopportuno, richiamare fra di loro quelle parole di sconsolata amarezza amorosa che dovevano farli insieme vibrare di esaltato consentimento. Diana, dal canto suo, abbreviò con un pretesto la lezione e lo accommiatò con un saluto distratto che lo riempì di timore e di tristezza. — Ho creduto di renderle un omaggio e invece l'ho offesa, — rifletteva desolato Valenzi, camminando pel viale deserto che lo riconduceva al centro della città dov'egli abitava. E con quella mitezza di cuore che stonava alquanto con l'apparenza ruvida della sua persona, finì con l'ammettere che Diana aveva ragione di ritenersi offesa di quel dono, il quale era certo un atto di eccessiva famigliarità, indelicato e scorretto. Ma, tornato dopo due giorni al villino Vallebella, trovò la fanciulla completamente mutata. Ella portava alla cintura un mazzolino dei suoi odorosi mughetti e gli corse incontro a mani tese con gli occhi sfavillanti. — Segga, professore, e parliamo di poesia. Ma niente Leopardi, niente malinconie! Oggi mi sento più gaia di un'allodola e sono disposta soltanto ad ascoltare cose liete. — Me ne rallegro signorina. — Se ne rallegri, se ne rallegri pure. Vede questi mughetti? — Li vedo. — Ebbene, ne ho ricevuto un cestello pieno, un dono squisito che è una meraviglia, un gioiello, un amore. — Oggi stesso? — No, ieri l'altro, poco prima della sua lezione. Per questo mi aveva trovata così preoccupata ed irascibile. — Non capisco. — Com'è tardo a capire, caro professore! L'altro giorno io ignorava chi m'avesse inviato quei fiori e sebbene me ne fosse balenato un vago dubbio, tuttavia l'incertezza mi rendeva irrequieta e nervosa. — Ed ora? — Ora io so da chi mi viene quel dono e ne sono felice. — E come avvenne la scoperta? — In un modo molto semplice. L'ho indovinato io stessa e il donatore troppo discreto non può più smentirmi. — Quel donatore timido è certamente un poeta intinto di sentimentalismo. — È un artista, questo sì. Ed ora, professore, incominciamo a discorrere di letteratura. — Come vuole, signorina. Dopo un'ora di dotta conversazione Valenzi uscì dal villino Vallebella accompagnato al cancello del giardino dalla sua stessa allieva, la quale gli pose anche all'occhiello, con una grazia deliziosamente inquietante, prima di lasciarlo, al momento del saluto, alcuni profumatissimi mughetti. — Questa ragazza è un enigma. Sa o non sa che fui io a inviarle quei fiori? — egli si chiedeva per via, meditando a capo basso. — Sa o non sa? Durante alcune settimane egli continuò a rivolgere a se stesso questa domanda senza poter giungere ad una logica risposta, e continuò ad osservare con occhio indagatore la sua alunna la quale, con un avvicendarsi capriccioso di benevolenze confidenti e di inquietudini taciturne, di gaiezze vivaci e di irose malinconie, sconvolgeva oggi i suoi giudizi di ieri, apparendogli ogni giorno quel piccolo enigma vivente che lo turbava sempre più. Egli s'accorgeva ora di correre alla sua lezione in casa Vallebella con un'ansietà rimasta fino allora ignota alla sua tempra solida ed alla sua chiara serenità di curioso, e ogni volta la speranza di sciogliere il mistero che lo agitava nell'intimo gli metteva nell'anima un oscuro tremore. Finì un giorno per confessare tristemente a se stesso che per colpa di quel cestello di mughetti mandato a destinazione come un omaggio della poesia alla bellezza, egli si era a poco a poco innamorato nella maniera più ingenua della sua allieva. Con la sua grave maturità, coi severi studi, coi suoi titoli accademici, si sentiva il cuore oppresso e la gola stretta come un adolescente alla sua prima avventura dinanzi alle incoerenti bizzarrie di quella ragazza di vent'anni che nascondeva un segreto d'amore. E si chiedeva senza posa trepidando: — Sa o non sa? Ama me, o ama un altro? Aveva inteso dire che le giovinette si sentono attratte di preferenza verso uomini maturi, forse per quella legge di contrasti e di compensi che guida la cecità dell'amore e a cui un filosofo sottile diede l'esattezza attraente d'una formula. Ma quale realtà umana si nascondeva sotto quelle argomentazioni letterarie? Ed era questo veramente il caso particolare di Diana Vallebella? Con alcune domande egli avrebbe potuto conoscere la verità. Bastava che la interrogasse ancora una volta sul supposto donatore dei fiori e che la costringesse abilmente a rispondere, senza dissimulare il suo pensiero. Esitò ancora per qualche tempo, con una specie di strano pudore, finchè risolse un giorno di troncare le sue incertezze da cui non gli veniva che danno, rintracciando coraggiosamente il vero, anche col pericolo di andare incontro a una delusione. Ma la sua allieva gli evitò queste difficili indagini, partecipandogli una sera, all'improvviso, una notizia inattesa. — Professore, fra poco saremo costretti a troncare le nostre piacevoli lezioni. — E perchè, signorina? Ella aveva pronunciato con gaiezza, sebbene con una leggiera intonazione di rammarico le parole che annunziavano un prossimo commiato, ma Valenzi sentì che la propria voce tremava mentre egli mormorava con un sobbalzo trattenuto la domanda ansiosa. — Perchè sono fidanzata, caro professore. Mi sposerò fra un mese e mezzo. Valenzi inghiottì qualche cosa che lo stringeva alla gola e rispose con un sorriso penoso: — Ne sono lieto, veramente lieto. E chi è dunque l'uomo fortunato che mi rapisce la più gentile fra le mie allieve? — L'uomo fortunato è un giovane artista non ancora celebre, ma che lo sarà certamente un giorno. È il pittore Fulvio Albanesi, quello che ha lo studio in questa stessa casa all'ultimo piano. — Non lo conosco, — mormorò Valenzi, crollando lentamente il capo e trattenendo a denti chiusi un sospiro. — Nemmeno io lo conoscevo alcune settimane or sono. Conduceva una vita molto ritirata e laboriosa. Veniva a studio la mattina presto e se ne andava la sera tardi. Mammà diceva che era un giovine molto serio e papà che pagava puntualmente la pigione. Io lo guardavo spesso, nascosto dietro le cortine della finestra perchè mi piaceva molto, ma egli sembrava ignorare persino la mia esistenza. Finchè un giorno, al principio di marzo.... — Al principio di marzo? — ripetè Valenzi trepidamente, rammentando che proprio in quei giorni egli le aveva mandato i malaugurati fiori. — Sì, ai primi di marzo io ricevetti un bellissimo cestello di mughetti di serra, assolutamente anonimo e subito immaginai che il donatore così discreto di quei fiori non poteva essere che il giovine pittore dell'ultimo piano. — Ed era lui? — Era lui. Rimasi tutto un giorno tormentata dall'incertezza, ma il domani lo attesi sulle scale e, fingendo di averlo incontrato a caso, gli chiesi la cortesia di farmi visitare il suo studio, soggiungendo di non essere mai penetrata nello studio di un pittore. Egli rispose schermendosi con timidezza, osservandomi che la sua casa era povera d'opere e poverissima d'arte, ma invitandomi tuttavia ad entrarvi quando mi piacesse. Allora, senz'altre divagazioni, io lo ringraziai del suo omaggio silenzioso, lodando la gentilezza e il profumo del suo cestello di mughetti e soggiungendo ch'esso era stato per me un dono squisito, degno di uno squisito artista come lui. — E che cosa rispose lo squisito artista? — Tornò a schermirsi timidamente, negando con aria di mistero d'essere lui stesso il colpevole di simile arditezza, ma alle mie insistenze finì col tacere, lasciandomi comprendere che non aveva osato manifestarmi in altro modo la sua ammirazione appassionata e che quei fiori mi portavano tacitamente le parole oscure che occupavano il suo pensiero, ma ch'egli non avrebbe mai ardito rivolgermi. Ed ecco come cominciò il mio fidanzamento, caro professore, ecco per quale via io sono giunta alla felicità. Valenzi non rispose subito. Si pulì con cura gli occhiali che gli parevano annebbiati di un vapore grigio ed aperse e richiuse due o tre volte un libro deposto accanto a sè sulla scrivania. — Che cosa debbo fare? — si chiedeva frattanto. — Rivelare la sottile ipocrisia e lo scaltro opportunismo di quel giovine pittore che s'era valso d'un gesto di grazia altrui per arrivare a quella deliziosa creatura e per concludere con abilità un eccellente matrimonio? Egli se ne sentiva sdegnato come d'una beffa e umiliato come d'una profanazione, ma comprendeva ch'era ormai troppo tardi per scoprire alla fanciulla la verità. A che cosa avrebbe essa ormai servito? Diana era innamorata di quel giovine e dinanzi all'amore non c'è nulla di più dolce che l'inganno, nulla di più odioso che il vero. — Professore, ella che è poeta scriverà un sonetto per le mie nozze? Diana gli stringeva le mani sorridendo di quel suo bel sorriso luminoso che lo abbagliava, mentre egli in piedi dinanzi a lei prendeva commiato con un volto atteggiato a grave serietà. — No, signorina. La mia musa non ha sufficiente dimestichezza con le caste gioie d'Imene, — rispose alquanto ironico il professore Biagio Valenzi. E subito soggiunse più sereno: — Le faccio però un augurio da poeta. — Ossia? — Ossia che la sua felicità non abbia mai a trovarsi faccia a faccia con la verità. — Non comprendo. — È meglio che non comprenda. Giunsero insieme al cancello del giardino, in silenzio, un poco oppressi entrambi dalla oscurità grave di quelle parole, poi il professore si chinò a baciare per la prima volta la mano della sua allieva, quella piccola mano ch'egli stesso, senza saperlo, aveva offerto ad un altro. Quindi varcò la soglia e se ne andò a capo chino, senza voltarsi. DATEMI SOCCORSO. — Lo sapevi pure ch'ero venuta per salutarti. Tutti ormai lasciano la città e mio marito doman l'altro mi accompagnerà egli stesso col bimbo, lassù, nella nostra villa sul lago. — Dove tu ti diverti a lasciarti corteggiare da tutti gli sfaccendati eleganti che egli ti porta in casa. — Ma che dici, Gustavo? Io compio il mio dovere di padrona e di ospite, ma, in realtà, nel segreto del mio cuore non amo che te, te solo. E tu lo sai. — Io non so nulla. So soltanto che tu te ne vai e mi lasci qui a spremermi il cervello arido sulle pagine di questo romanzo che non mi riesce di condurre a termine, sebbene il mio editore lo reclami per la fine del mese. Tutto mi mancherà con la tua partenza. Anche il conforto del tuo sorriso, del tuo sguardo e dei tuoi baci che mi aiutavano a ritrovare me stesso nelle soste di questo faticoso lavoro. Ma non mi sorprendo. Voialtre donne non sapete amare, non sapete abbandonarvi all'onda travolgente di una passione, nel divino oblìo di tutto e di tutti. Per una metà vi concedete, e per l'altra metà rimanete attaccate tenacemente ai piccoli doveri della famiglia, della casa, della mondanità, alle stupide esigenze della vostra vita ristretta. — Gustavo, te ne prego, non parlare così aspramente. Mi fai troppo, troppo male. Ricordati almeno che ti offersi un giorno di lasciare tutto quanto mi legava e di fuggire con te. Non hai voluto. Sono pronta a farlo domani, oggi stesso, se me lo chiedi. — Io non ti chiedo nulla. Vattene pure in villeggiatura, e divertiti e godi. Io rimango a soffrire in silenzio e in solitudine. Il mio dolore ti parlerà forse un giorno per mezzo di queste creature fittizie che escono con pena dal mio cervello tormentato. Addio. Lo scrittore s'alzò dalla poltrona in cui giaceva sdraiato con gli occhi al soffitto e tese le due mani alla giovine signora sgomenta che s'appoggiava col dorso incontro al piano del largo tavolo da lavoro sparso di carte in disordine. Ella gli premette invece sulla spalla le sue piccole palme inguantate e lo fissò negli occhi lungamente. — Mi mandi via a questo modo, con un saluto così amaro e così gelido? Egli si strinse nelle spalle e non rispose. — Verrai domani a dirmi ancora una parola buona prima ch'io parta? — Non so.... — Verrai a passare alcuni giorni od alcune settimane lassù in villa, presso quel lago che ti piaceva tanto, un tempo? — Dovrò consegnare il mio romanzo innanzi tutto e forse non giungerò mai a finirlo. Conta su altri ospiti, non contare su di me. — Quando ci rivedremo? — Chi sa? Forse mai più. Erano giunti passo passo nella grande anticamera deserta, dove alcune statue greche e un basso sarcofago di porfido si specchiavano nella lucentezza del pavimento veneziano, e Gustavo Ardenzi accarezzava il piede calzato di coturno d'una baccante, senza guardare l'amica che impallidiva alle sue parole crudeli. — Ti aspetterò domani tutto il giorno, — ella sospirò a guisa di commiato. — Forse inutilmente, — le rispose l'amico con un ultimo freddo sguardo, e richiuse adagio il battente, ritornò nel suo studio, s'abbattè sulla poltrona, trasse un lungo sospiro iroso, quindi si raccolse a meditare. Era stato duro, era stato malvagio, ma non se ne rammaricava nè se ne pentiva. Quella donna lo amava: glie ne aveva dato prove sicure, eppure egli provava un acre, egoistico piacere nel ferirla così, senza ragione, nel pungerla di sospetti infondati e di accuse ingiuste, sfogando su di lei, docile e innamorata, i suoi nervi troppo vibranti di intellettuale raffinato e insodisfatto. Ora lo irritava quella sua partenza per la villeggiatura mentre egli se ne rimaneva solo a lottare col suo assillante lavoro letterario che lo deludeva e lo inaspriva. E s'era compiaciuto, forse soverchiamente, di quella sua voce così tremante e supplichevole nell'ultimo saluto. Tanto se n'era compiaciuto che gli pareva quasi di non amarla più, di sentirla già estranea al suo cuore e indifferente al suo desiderio d'amante. Che cosa contava finalmente quella donna nella sua vita? E se anche l'avesse lasciata? Non ne esistevano al mondo tante altre più belle, più intelligenti, più appassionate? Gustavo Ardenzi crollò sdegnosamente le spalle e andò a fumare una sigaretta presso la finestra aperta, la quale s'affacciava sopra un immenso parco folto d'ombre e sonante di gorgheggi. — Ora mi pongo serenamente al lavoro, col pensiero libero da qualunque ossessione femminile, — rifletteva. — In fondo le donne sono i peggiori impacci allo svolgersi delle nostre facoltà superiori. Occorre eliminarle, per quanto è possibile, dalla vita del nostro spirito. Buttò dalla finestra il residuo della sigaretta e si volse per sedere allo scrittoio riordinando i fogli sparsi e riprendendo la penna. Ma in quel momento il campanello del telefono squillò acutamente e lo scrittore afferrò con mal garbo l'apparecchio ricevitore e se lo portò all'orecchio. Rimase un attimo in ascolto pensando: — È lei, ancora lei — e sospirò con gli occhi al cielo, infastidito e insieme lusingato. Invece una voce dal timbro maschile suonò nell'incavo. — Parlo con Gustavo Ardenzi? — Sì. — Permette a un suo ammiratore sconosciuto di rivolgerle la parola? — Dica rapidamente. Ho poco tempo a disposizione. — Mi perdoni, la prego. Mi trovo in un momento così sconvolgente della mia vita che ho bisogno di comunicare la mia pena a qualcuno che mi comprenda, a un conoscitore d'anime, a un forte, a un consolatore come lei, per non restarne vinto e sopraffatto. La voce lontana e ignota s'abbassò e tremò nell'apparecchio trasmettendo a colui che ascoltava la sensazione di un dolore intensamente sentito, di un affanno trepido, in attesa. Ma colui che ascoltava attraversava l'ora dello scetticismo arido e freddo e non se ne commosse. — Voi soffrite per una donna? — domandò con un lieve accento di ironica commiserazione. — Sì, per una donna che mi ha lasciato, che ho supplicato con tutte le umiliazioni di tornare a me, e che attendo ormai da tre giorni invano. Sono all'estremo della mia resistenza, mi trovo ridotto a un miserabile brandello d'umanità. Ditemi voi, ve ne scongiuro, una parola che mi consoli e che mi sollevi; datemi la forza di attenderla ancora e di credere ancora in lei, datemi conforto, datemi soccorso, prima che.... Gustavo Ardenzi sbuffò d'impazienza e battè il piede in terra. Quella lamentela diventava troppo prolissa e la ragione di tutti quei gemiti, quei sospiri, quegli spasimi gli pareva così futile e così sciocca! E perchè confidare proprio a lui quelle troppo vane e troppo solite pene d'amore? Che importava a Gustavo Ardenzi se una donna si faceva aspettare dal proprio innamorato, e se costui smaniava nell'attenderla inutilmente? Che gli importavano i casi di quello sconosciuto? Lo sconosciuto dovette sentire, attraverso al filo sottile che portava la sua voce, l'impazienza sdegnosa di colui che l'ascoltava, perchè s'interruppe d'improvviso quasi intimidito e timoroso. — Voi siete un povero ingenuo od un povero illuso. Non ho altro a dirvi, — dichiarò Gustavo Ardenzi duramente, e troncò la comunicazione. Quindi sedette allo scrittoio, afferrò la penna e si pose a scrivere. Lavorò fino a sera e parte della notte a quel suo romanzo di violenta passione, egualmente lontano e staccato col pensiero dalla donna dolente ch'egli aveva angustiato con le sue amare parole e dal triste sconosciuto che invano aveva implorato da lui una consolante espressione di fede nella vita. Lavorò fino ad ora tardissima, chiuso in quell'egoistico cerchio di ardente cerebralità in cui lo scrittore s'isola con le creature del suo spirito sereno e s'apparta con esse in un suo mondo irreale, così vero tuttavia per la propria esaltazione che il mondo reale gli diviene invece fittizio e inesistente. Quando si coricò era quasi l'alba e quando, dopo un sonno pesante e senza sogni, egli si destò suonavano a tutte le torri le campane del mezzogiorno. Il cameriere gli portò il caffè e i giornali ch'egli aperse distrattamente e che percorse con lo sguardo svagato, qua e là, senza soffermarsi. Ma nella cronaca della città un titolo più vistoso lo attrasse: — _Un noto artista suicida per amore._ I fatti passionali interessavano sempre in lui lo studioso dell'umanità d'eccezione, ed egli lesse con attenta curiosità la narrazione minuta di quel dramma, avvenuto il giorno innanzi al tramonto. Il suicida era un pittore trentenne già molto apprezzato nel mondo dell'arte e ch'egli rammentava per aver acquistato in una esposizione, pur senza conoscerlo, un suo piccolo studio di testa femminile. Con la brutale profanazione d'ogni segreto che la tragicità d'un suicidio permette, il giornale raccontava come il giovane fosse stato abbandonato un mese innanzi dalla propria amante, una bellissima mondana, la quale gli serviva spesso da modello e che il dolore d'averla perduta e l'inutile, spasmodica attesa del suo ritorno lo avevano spinto alla volontaria morte. La madre del pittore visitandolo verso sera allo studio lo aveva trovato al telefono intento a comunicare con qualcuno, e sembrandole abbastanza calmo se n'era andata senza sostare. Venti minuti dopo il giovane si sparava al cuore un colpo di rivoltella e cadeva riverso ed esanime ai piedi dell'apparecchio telefonico. Gustavo Ardenzi, giunto a questa parte della narrazione, si fermò a meditare con la fronte segnata da due profonde rughe e lo sguardo veemente fisso al suolo. Il vago dubbio che gli era balenato al principio della lettura si faceva a questo punto rodente certezza. Lo scioglimento sanguinoso di quel dramma era dovuto a lui. La voce lontana che lo aveva implorato la sera innanzi al tramonto, il grido angoscioso che chiedeva soccorso ed al quale egli aveva freddamente, beffardamente negato aiuto era quello del giovine morituro che invocava da lui, esperto conoscitore d'anime, indulgente rivelatore delle umane miserie, una piccola luce di speranza o d'illusione per resistere al desiderio di morire. La luce non era apparsa a rischiarare l'ombra della sua disperazione, il conoscitore d'anime, il rivelatore indulgente aveva risposto con uno sdegnoso motteggio; colei ch'egli attendeva attaccato tenacemente a un inganno estremo non sarebbe più tornata alle sue braccia protese, e la forza di vivere gli era mancata d'un tratto, la volontà della fine di tutto era sopravvenuta all'improvviso, come il bisogno d'una liberazione e d'un riposo, e il gesto tragicamente definitivo, che tronca ogni male ed ogni bene, era stato compiuto. Lo scrittore, col capo fra le palme, rifletteva su quel triste caso umano del quale egli era stato involontariamente partecipe, e un'angoscia irosa verso se stesso lo mordeva, quasi col tormento sottile d'un rimorso. Perchè non s'era piegato più fraternamente verso quell'afflitto, il quale gli dimostrava tanto abbandono di confidenza da aprirgli interamente il suo cuore, e tale illimitata fede da renderlo arbitro della sua vita e della sua morte? Forse perchè la sua voce gli era giunta in un momento di arido scetticismo, nel quale il soffrire a cagione di una donna gli pareva una ridicola ingenuità d'illuso. Questo egli gli aveva seccamente dichiarato e, per quella ridicola ingenuità d'illuso, l'altro, ai piedi di quello stesso apparecchio che gli trasmetteva la beffarda risposta, s'era ucciso. Un momento prima egli aveva ferito con parole ingiuste e crudeli la dolce amica che gli rimaneva da anni fedele, e mentre ella se ne andava sgomenta, con gli occhi e l'anima pieni di pianto sotto la minaccia di un abbandono, un altro uomo, più sensibile, più giovine, più puro, per lo stesso abbandono moriva. Si poteva dunque sentire l'amore in modo e in misura così diversi? Quale strano essere era dunque una donna, perchè si potesse apprezzarla fino all'offerta della vita, o sdegnarla fino a volgerle duramente le spalle? E quale dei due sentimenti era più vicino alla verità? Gustavo Ardenzi s'agitò per alcune ore in questo intimo dibattito, così appassionante per il suo spirito di scrittore e per il suo cuore d'uomo. Non scrisse nemmeno una cartella del suo romanzo, ma verso sera uscì di casa, passò da una fioraia ed ordinò una grande corona di rose, senza nome, per il giovane artista suicida. Poi, passo passo, giunse fino alla casa della sua dolce amica fedele, e quando ella con ansia sbigottita gli apparve e gli sorrise timidamente, in silenzio, senza osare di manifestargli la sua meraviglia e la sua gioia ancora dubbiosa, egli le afferrò tutte e due le mani, ed incominciò a baciarle nelle piccole palme, avido, ad occhi chiusi, come un assetato che si ristori finalmente a una fresca fonte. SCHERZI DI GUERRA. Ieri l'altro la mia amica Rosalba Tranesi mi chiamò al telefono e mi pregò con la sua voce più ansiosa: — Vieni un momento a casa mia. Debbo parlarti. — Non potresti attendere fino a domani? Oggi non sono in vena di chiacchiere. — No, cara, oggi, subito. Non si tratta di chiacchiere. Ho bisogno di chiederti un consiglio. Mi dibatto da alcune ore in un terribile dubbio. — Nientemeno! Mi commuovi fino alle lacrime. Sarò da te fra un'ora. Nella mia amica Rosalba vive la creatura assolutamente opposta a quella che vive in me. Ella è tanto bionda quanto io sono bruna, tanto dolce quanto io sono aspra, tanto fiduciosa quanto io sono diffidente. Ella riconosce la superiorità del mio buon gusto, com'io riconosco quella del suo buon cuore; ella tenta di mettere un po' di miele nel mio pessimistico amaro, com'io tento di insinuare un po' di fiele nella sua candida dolcezza. Cose perfettamente vane, ma che servono a mantenere fra di noi quel leggero e pur vivace disaccordo, necessario ad alimentare il nostro leale affetto, senza dover ricorrere a quelle vicendevoli perfidie che sono quasi sempre il sale delle femminili amicizie. — Quali consigli mi vorrà chiedere? — meditavo lungo il cammino. — Forse è incerta nella scelta dei suoi abiti primaverili fra un modello di Drécoln ed uno di Paquin; oppure è perplessa sul miglior modo di trascorrere i prossimi mesi estivi e non sa decidersi fra una spiaggia marina graziosamente infiorata di mine subacquee, o una vetta di monte ridotta alla più spirituale rarità di viveri; oppure.... Interruppi le mie riflessioni perchè ero giunta frattanto ai cancelli del suo villino, ed a Rosalba la quale mi venne incontro silenziosa e mi ricevette nello studio di suo marito ch'era la stanza più appartata della casa, come quando voleva comunicarmi qualche cosa di importante e di segreto, domandai con qualche ansietà: — Ma, dimmi, che cos'è accaduto? — In questo momento nulla, ma ho il dubbio che mi sia accaduto nel passato qualche cosa di molto spiacevole. — Un passato lontano? — Di un paio d'anni. — E te ne preoccupi ancora? — Potrebbe ripetersi nell'avvenire. — Questo è più grave. Ma, spiegati: di che si tratta? — Ecco, — incominciò Rosalba, e andò ad assicurarsi che la porta fosse chiusa. — Ti ricordi di Frida Wok, quell'istitutrice di Monaco che tenni in casa mia per un anno e che partì alla nostra dichiarazione di guerra alla Germania? Mio marito la chiamava “_l'ussero della morte_„ perchè vestiva sempre di nero e portava come spilla di cravatta un piccolo teschio d'oro. Rammentavo perfettamente quella ragazza alta e fulva, abbastanza seducente pur nelle linee dure del volto e nei chiari occhi di gatto. La incontravo quasi sempre in casa Tranesi e spesso in giro per la città, a piedi o in automobile coi due bimbi della mia amica e m'ero talvolta sorpresa di certe sue espressioni di serafica mansuetudine così in contrasto con la mascolinità del suo volto e con la voracità del suo sguardo. Io la chiamavo dantescamente _la tedesca lurca_. — Me ne ricordo. Ebbene? — la incitai con curiosità. — Ebbene, dalla Svizzera dove andò a rifugiarsi, costei continuò a scrivermi di quando in quando, raccontandomi in un cattivo italiano, imparato in pochi mesi, le sue varie vicende, parlandomi di certi suoi piccoli allievi russi ai quali non può voler bene come ai miei figli, e sospirando in ogni lettera, regolarmente aperta dalla censura, la fine della guerra e la gioia di poter ritornare in casa mia. — Non mi pareva tanto tenera quand'era qui — osservai, ricordando qualche suo scatto nervoso subito represso dalla consueta soavità. — Faceva il suo dovere. Null'altro. Però da alcune ore mi tormenta il sospetto che qualche volta abbia esorbitato dalle sue semplici funzioni d'istitutrice. — Ossia? — Mi è giunta stamane una lettera che non riesco a comprendere. Eccola. — E Rosalba trasse dalla tasca del suo _golf_ di seta azzurra una busta aperta, invasa per metà dal bollo della censura e la battè più volte con un gesto impaziente sull'orlo della scrivania come per disperdere l'ombra misteriosa che pareva avvolgerla. — Perchè non riesci a comprenderla? — domandai, meravigliata di quegli irrequieti preamboli, così poco in armonia col carattere della mia amica. Questa sollevò il seno in un lungo sospiro, crollò il capo, chiuse gli occhi per un momento e rispose con voce grave: — Perchè è una lettera d'amore. — Che dici? — Una lettera d'amore, indirizzata a me, ma scritta evidentemente per un'altra persona, per un uomo che forse non conosco, o che forse conosco troppo bene. — Scusami, cara. Ma tu sei ancora più incomprensibile della tua lettera. E glie la strappai dalle dita, l'apersi e percorsi con lo sguardo attento le due pagine e mezza che la componevano, mentre Rosalba seduta di fronte a me, col gomito sul ginocchio e il mento sulla palma, seguiva ogni espressione del mio viso, quasi per cogliervi il silenzioso commento del mio pensiero. Lo scritto incominciava con le parole: “Mio dolce amor„, che certo alla alemanna pesantezza della signorina Frida erano sembrata la apostrofe più poetica e più patetica per rivolgersi ad un amante lontano, quindi rievocava con alcuni errori di grammatica e molti d'ortografia, una certa gita in automobile, un primo bacio furtivo durante un ritorno al chiaro di luna e parecchi deliziosi convegni “laggiù„, in un luogo non definito da più precise indicazioni, terminando con abbracci e carezze, proteste e raccomandazioni, espressi nella effusione del commiato parte nel suo linguaggio e parte nel linguaggio dell'amante, per modo che ne risultava una conclusione alquanto babelica, ma forse perciò ancora più esasperante per i memori nervi ai quali era destinata. Restituii la lettera a Rosalba in un perplesso silenzio, sorridendo entro me stessa ad una mia maligna supposizione, ma sollevando con lentezza stupefatta le spalle come chi si sente sperduto fra gli oscuri meandri di un enigma indecifrabile. — Che ne pensi? — domandò ansiosa la mia amica. — Non penso nulla e capisco soltanto che questo sfogo erotico-sentimentale è giunto a te per errore. Tuttavia, non mi posso persuadere che quella donna sia stata così imprudentemente distratta da chiudere in una busta indirizzata a te la lettera scritta per un amante. — È ciò che anch'io mi ripeto da alcune ore senza giungere ad una conclusione, — confermò Rosalba alzandosi e passeggiando inquieta pel vasto studio di suo marito, con gli occhi fissi ai fiori mostruosi del tappeto e una ruga sulla fronte, come se riflettesse profondamente. Meditammo entrambe con una taciturna intensità d'alcuni minuti, finchè io scattai in piedi esclamando: — Ho capito: è la censura. — La censura? — Certo. Quella busta fu aperta da una mano profana e letta da una persona alla quale tornava del tutto indifferente che la signorina Frida Wok scrivesse una lettera di gratitudine a te ed una lettera d'amore a.... ad un altro. L'importante per il censore era che non contenesse notizie di carattere politico e guerresco. La signorina Frida dev'essere una cattiva tedesca perchè desidera la fine della guerra per tornare nella casa dei suoi nemici, o meglio dei nemici della sua nazione, coi quali ella si trova in perfetto accordo. Sono questioni d'ordine affettivo di cui la censura non si interessa o se ne interessa così poco e così male che con la più noncurante sbadataggine confonde i destinatari e dirige alle amiche le parole d'amore ed agli innamorati le parole di amicizia. A meno che il censore non sia uno psicologo malvagio, o un autore di commedie fallito, o un marito geloso, il quale si diletti di queste confusioni per far nascere complicati drammi familiari. Non appena ebbi pronunciato questi apprezzamenti me ne pentii, perchè Rosalba mi spalancò in faccia le sue iridi azzurrine e mormorò sgomenta: — Ma allora, credi veramente anche tu che quella lettera fosse destinata a.... S'interruppe ansando, quasi intimorita dalle parole stesse che stava per pronunciare, interrogandomi con lo sguardo. — A chi? — la incoraggiai, sorridendo con un simulato candore. — A mio marito — ella finì in un soffio di voce. Irruppi in una gioconda risata, protestando con energia: — Ma tu sogni, mia cara. Io non pensavo affatto a tuo marito e sono ben lontana dal supporre che un uomo il quale ha la fortuna di possedere una piccola moglie come te, abbia potuto distrarsi con una ragazza stipendiata, con quella walchiria da strapazzo che ti è, sotto tutti gli aspetti, infinitamente inferiore. — Ne sei certa? — dubitò Rosalba, non per anche persuasa dalla mia impetuosa eloquenza. — Metterei la mia destra sul fuoco, come Muzio Scevola, — insistetti porgendo la mano con gesto drammatico. — D'altra parte, esiste un semplice mezzo per assicurarsi della verità. — Quale? — Se tu hai ricevuta la lettera destinata all'innamorato di Frida Wok, l'innamorato di Frida Wok ha ricevuta evidentemente la lettera destinata a te. È chiaro? — Chiarissimo. Ma non vedo come.... — Ecco. I due brani di prosa furono scritti nello stesso giorno, quindi se sono giunte a tuo marito le espressioni di riconoscente affetto uscite per te dalla penna della signorina Frida, come sono giunte a te le espressioni teneramente infiammate della signorina Frida per l'ignoto amatore, ciò significa.... — Continua, te ne prego, ma un po' più concisamente. Tu mi stordisci con questi giri di frase. — In poche parole: se tuo marito ha ricevuta la lettera, l'amante di Frida è lui, se non l'ha ricevuta è un altro. Vidi l'amica mia correre all'apparecchio telefonico posato sul piano della scrivania e afferrare il ricevitore scattando: — Ora glie lo chiedo. Le tolsi di mano dolcemente l'ordigno e le parlai con soavità. — Calmati, cara. Si tratta di cose troppo delicate per affidarle ai fili aerei e alle molte orecchie di questo strumento loquace. È tardi. Fra poco tuo marito rientrerà e si potrà allora interrogarlo con abilità e con discrezione, costringendolo a rivelare, senza nemmeno avvedersene, la verità qualunque essa sia. — Non dubitare, che se mente me ne accorgo al primo sguardo — dichiarò Rosalba con severità corrucciata. — Mio marito non ha mai detto una bugia senza ch'io l'abbia letta sulla sua fronte, e se scopro che mi ha tradita con quella _tedesca lurca_ prendo con me i miei figli e ritorno a vivere in casa di mia madre, com'è vero che sono una donna onesta. S'aggirava per la stanza in preda ad un'agitazione iraconda e gelosa assolutamente inconsueta per il suo calmo temperamento, preparandosi ad assalire il povero Tranesi con le unghie e coi denti come una belvetta inferocita. Cercai di placarla con le parole suadenti. — Ascolta, amica mia. Se tu aggredisci tuo marito appena entrato e gli scaraventi addosso le tue domande accusatrici, è naturale che egli, colpevole o no, si dimostri offeso e si rifiuti di parlare, oppure avvertito dal pericolo corra ai ripari e neghi, come sanno negare in questi casi non solo le donne, ma anche, ed assai meglio, gli uomini, per modo che tu te ne rimanga dopo con la tua incertezza ancora più oscura, col tuo tormentoso sospetto insoluto ed insolubile. — E allora? — chiese Rosalba, già alquanto mansuefatta. — E allora lascia che lo interroghi io. — Tu? — Ma sì, cara. Io sono in questa vicenda un'estranea, ed a parte il mio affetto per te e il dolore che proverei per un affronto fatto a te, non ho lo spirito intorbidato da alcuna passione e posso ragionare con lucidità, indagare con scaltrezza, giudicare serenamente, far subire insomma a tuo marito un piccolo esame di coscienza, durante il quale egli sarà costretto a confessare i suoi torti se ne ha, oppure a manifestarsi, quando lo fosse, innocente. — Ma, — mormorò Rosalba incerta — tra moglie e marito, tu lo sai.... — Per carità, non citarmi la sapienza dei proverbi che sono stupidi vecchiumi, molesti e volgari come la polvere della strada che si attacca ai piedi di tutti i passanti. Ah, finalmente! Ecco l'automobile di tuo marito che giunge. Osservammo dietro le cortine della finestra abbassate l'agile vettura grigia scivolare silenziosa nel giardino, percorrere la curva del viale, fermarsi davanti alla gradinata. Tranesi, con la fascia tricolore al braccio perchè fabbricava proiettili in un suo grande stabilimento metallurgico, lasciò il volante e balzò a terra. — Non gli trovi una faccia da uomo infedele? — mi chiese Rosalba sottovoce. — No. Piuttosto una faccia d'uomo enormemente affaccendato, — risposi atteggiandomi a una rigida gravità. — Ora verrà qui nello studio a scrivere note nei suoi registri, come ogni giorno, — mi avvertì l'amica. E docilmente soggiunse: — Debbo lasciarti sola con lui? — Sì, ma prima dammi la lettera incriminata. Ella me la consegnò con atto rassegnato e si allontanò, ma dalla soglia si volse e con un ultimo sguardo implorante depose nelle mie mani i suoi destini. * Tranesi entrò dopo alcuni minuti cantarellando un'aria della _Tosca_, coi due pugni nelle tasche della sua giubba da casa, dal largo colletto scozzese, e mi s'inchinò profondamente alquanto sorpreso della mia presenza nel suo studio, senza la compagnia di sua moglie. — Voi, amica mia? — Io, amico mio. — E Rosalba? Perchè vi ha lasciata sola? — Era qui or ora. Si è assentata vedendovi giungere. — Per quale ragione? — Per non assistere ad una scoperta, o meglio, ad una conferma che poteva tornarle molto sgradevole. — Mi duole di confessare la mia scarsa intuizione, ma non intendo, — egli confessò tutto sorpreso. — Eccovi la spiegazione, — risposi porgendogli la carta denunziatrice. — Ella mi ha incaricata di consegnarvi queste pagine e di chiedervi una lettera che la signorina Frida Wok le ha scritto dalla Svizzera e che dev'essere giunta a voi per errore. Tranesi non ritirò i fogli ch'io gli tendevo, ma si frugò in tutte le tasche sollevando con stupore le sopracciglia nella fronte già un po' calva. — Ma sì, la cosa è abbastanza curiosa ed altrettanto oscura. Mi giunsero stamane allo stabilimento, naturalmente col visto della censura, tre o quattro pagine affettuose che quella buona ragazza, ora nostra nemica, scrisse evidentemente per mia moglie. Eppure l'indirizzo è tracciato con chiarezza e quella donnina dai capelli rossi sembrava tutt'altro che sbadata. Lo sbadato sono piuttosto io che non riesco nemmeno a ricordarmi il suo nome. Forse perchè io la chiamavo quasi sempre per ischerzo _l'ussero della morte_. Rammentate ancora? — Rammento. — Non so davvero spiegarmi la causa di questo sbaglio e sarei lietissimo se voi m'illuminaste. Aveva finalmente rinvenuto in fondo ad una tasca della sottoveste i foglietti gualciti e me li porgeva ridendo e rievocando: — Era forse un nome un po' funebre, ma stava bene a quel bel pezzo di tedesca sempre tutta in nero col teschio d'oro come ornamento. E inoltre sembrava quasi una profezia. Chi l'avrebbe mai detto in quei tempi d'alleanza che ci saremmo così presto voltati incontro reciprocamente i cannoni? Ma veramente non riesco a comprendere che cosa significhi questo scambio di lettere. — Se permettete ve lo spiegherò io, — insinuai con un sorriso leggermente schernitore. Il marito della mia amica mi considerò un momento non senza qualche trepidazione, poi mi s'inchinò con cerimoniosa disinvoltura: — Davvero? Ve ne sarò molto riconoscente. — Orbene, — incominciai con una ostentata gravità, — ciò significa che la censura con un abile gesto da giocoliere ha cambiato le buste e quindi i destinatari, ed ora la mia amica Rosalba, ossia vostra moglie è in possesso d'una ardente lettera d'amore che quella donnina dai capelli rossi vi ha scritto, ricordando le gite in automobile, i baci furtivi e i deliziosi convegni “laggiù„. Tranesi spalancò gli occhi esterrefatti e picchiò il piede in terra con iracondia. — E che c'entra la censura? Perchè s'immischia in questi affari privati? — Perchè sieno puniti non soltanto i traditori della patria, ma anche i traditori della fedeltà coniugale, — sentenziai con una solennità alquanto beffarda, consegnandogli la busta che conteneva gli sfoghi erotici-sentimentali di Frida Wok. — Leggete, marito indegno, e tremate. Leggete, amante indimenticabile, e inteneritevi. Egli afferrò le pagine nervosamente e le scorse con rapido sguardo, poi lasciò cadere la palma aperta sul piano della scrivania in atto crucciato ed iroso. — Ma quella donna è pazza. Non si scrivono simili cose, specialmente quando devono passare sotto gli occhi di un terzo il quale poi si diverte a far pascere imbrogli pericolosi. Mia moglie ha dunque lette queste compromettenti sciocchezze? — Le ha lette. Da capo a fondo. — Ed è certa che furono scritte per me? — Lo suppone. Le indicazioni non sono abbastanza precise per darle l'assoluta certezza. — Ah! — esclamò con un sospiro di sollievo l'infedele, — lo suppone soltanto. Allora il male non è irrimediabile. Bisogna convincerla che.... — Che l'amante era un altro. — Precisamente. — Mentre eravate voi. — Precisamente. Ossia, amica mia, ve ne prego, non compiacetevi di cogliermi in fallo. Aiutatemi piuttosto e consigliatemi. Come posso persuaderla che s'inganna sospettando la mia infedeltà? Crollai il capo ridendo, divertita del suo turbamento, agitando nell'aria i foglietti gualciti tratti dianzi dal fondo della sua tasca e glieli riconsegnai, suggerendogli a bassa voce, con un'aria di complicità allegra: — Strappate o bruciate questa lettera e non confessatele mai ch'essa è giunta stamane al vostro indirizzo. M'ero avvicinata alla finestra e scorgevo di sotto alle tendine abbassate la mia amica Rosalba appoggiata a un albero del giardino, con un viso pieno di trepida ansietà e gli occhi fissi sulla vetrata chiusa dello studio, come se attendesse di là il responso estremo sulla propria sorte. — Mi crederà? — chiedeva intanto suo marito, riducendo in minutissimi brandelli le espansioni epistolari di Frida Wok. — Sì, perchè il suo desiderio di prestar fede alle vostre menzogne è almeno tanto grande quanto il vostro desiderio di essere creduto. Le verità sono quasi sempre le nostre peggiori nemiche, le intriganti litigiose che si intromettono nelle cose nostre più intime e più care per suscitar gelosie, diffidenze e rancori. Egli mi porse le due mani, pienamente convinto della scettica forza di quel ragionamento e strinse con forza le mie, mormorando con una sorridente emozione: — Grazie. Vi debbo la salvezza della mia pace familiare. Avete la mia eterna gratitudine. Grazie. Io mi sottrassi a quelle effusioni di riconoscenza, anche perchè non ignoro che la riconoscenza dura soltanto finchè sussiste il terrore del pericolo e cessa a pericolo superato e fuggii verso il giardino, corsi a raggiungere la mia amica e le sussurrai prendendola a braccetto: — Non è lui. — Ne sei sicura? — Sicurissima. Figurati che non ricorda nemmeno più il nome di quella ragazza. Ho investigato con una accortezza e una abilità da giudice istruttore, ma debbo riconoscere che lo abbiamo indegnamente calunniato. Rosalba rimase un momento assorta, con gli occhi di nuovo fissi alla finestra dello studio, poi si riscosse e mi abbracciò con un improvviso impeto giocondo, esclamando: — Ah, come sono felice, come sono felice! E nel rapimento di quella felicità giunse persino a compiangere il calunniato. — Povero caro! Quanto mi duole d'averlo incolpato a torto! Chi sa in quali mani sarà andata a finire la lettera destinata a me! E chi può essere l'uomo dei convegni “laggiù„? — Chi sa! — sospirai crollando il capo trasognatamente, con gli occhi al cielo. — Ma la colpa è della censura, — protestò Rosalba con vivacità. — Scherzi di guerra, — io conclusi con mitezza, e mi chinai a raccogliere due pervinche da poco sbocciate che da un'aiuola vicina ci fissavano con uno sguardo azzurrissimo, pieno di meravigliata innocenza. LA VERITÀ. Ella volle conoscere finalmente la verità. Rimasta sola discese a gran fatica dal letto, indossò una vestaglia e a piccoli passi, reggendosi ai mobili, andò a spalancare le imposte, quindi si pose dinanzi allo specchio. Dapprima, abbagliata dalla soverchia luce non distinse nulla, poi a poco a poco un volto a contorni indecisi incominciò ad emergere dalla lucentezza del cristallo, vi si illuminò, prese forma e colore, le apparve in tutta la sua nuda realtà. Ma quel volto ch'ella fissava e che la fissava con occhi foschi, smarriti, atterriti non era più il suo. Ella non lo riconosceva e continuava a interrogarlo con lo sguardo, con uno sguardo di stupore folle, torcendosi come una forsennata e trattenendosi a mala pena dall'urlare: — Ma sono io quella donna? È mia quella faccia contorta, solcata di cicatrici, deformata, grottesca, spaventevole? Eppure non c'era dubbio: quello era il volto di Flora Conti, era la nuova maschera umana che il beffardo destino, valendosi d'un fatto qualsiasi, dell'urto di due automobili nella notte, aveva impresso recentemente su quella forma di donna, la quale brillava fino a poche settimane innanzi di chiara grazia e di mirabile freschezza. Sposa ad Attilio Conti da appena un anno, poco più che ventenne, adorata amante del giovine marito, lo aveva visto partire per la guerra chiamato fra i primi e da allora seguendolo giorno per giorno di lontano con l'ansia vigilante della sua passione, le era sembrato di proteggerlo contro il pericolo, si era illusa di salvarlo dal dolore e dalla morte mettendo il suo amore, la sua tenerezza, tutta se stessa fra lui ed il nemico. Una sera, mentre Flora si trovava in villeggiatura con sua madre ricevette la lettera di un'amica la quale la informava storditamente che suo marito doveva passare il domani con alcuni compagni d'armi qualche ora in città, in seguito ad un improvviso ordine del Comando. La notizia non era che una vaga diceria raccolta nei discorsi di un comune conoscente giunto allora in licenza, ma la giovine donna vi credette e meravigliata di non averne ricevuto dal marito stesso l'annunzio, piena di impazienza e di inquietudine, si procurò immediatamente un'automobile e non ostante i consigli della madre volle tornare la sera medesima in città per ricevere il domani fra le braccia il suo Attilio. Nella notte buia, tempestosa, percorsa da raffiche di vento e da ondate di pioggia, ella ad occhi chiusi rannicchiata in fondo alla vettura, impaurita e felice, correva velocemente incontro al suo amore e in mezzo a quell'agitazione della natura fra la luce dei lampi e il rombo dei tuoni le sembrava quasi di vivere un poco la vita ormai consueta di lui fra i balenii e gli scoppi formidabili degli assalti. A un tratto ella sentì che la vettura convergeva per uno svolto improvviso e subito dopo le parve di udire alcune voci di allarme seguite da un urlo altissimo. La sua mente non potè formulare alcun pensiero che già ella si sentiva sbalzata con violenza terribile incontro al vetro della parete di fronte e per lo strazio perdeva i sensi. Li ricuperò molte ore dopo distesa nel suo letto con la madre al fianco, e s'accorse d'avere tutta la faccia bendata, con un solo breve spiraglio per gli occhi dal quale il suo sguardo annebbiato, stupefatto, ancora assente, s'aggirava interrogando. Giorni e giorni, settimane e settimane erano passati così nella completa immobilità di quel letto, nella quasi completa oscurità di quella stanza. Un medico sconosciuto veniva di quando in quando a sbendarle il volto, a medicarlo, a ribendarlo ancora e se ne andava quasi senza parola accompagnato dalla madre che gli parlava supplicando ansiosamente a bassa voce. L'inferma distesa nel suo letto in un'inerzia più tetra che rassegnata non chiedeva nulla, quasi non pensava a nulla. Era riuscita mediante uno sforzo di volontà aiutato dallo stato di prostrazione in cui si trovava a fare nel suo cervello il vuoto, l'ombra o quella nebulosità appena trasparente del pensiero che permette di sorvolare sulle cose senza approfondirle, senza considerarle, senza lasciarle penetrare nell'anima con tutta la crudezza della loro realtà presente e futura. Soltanto le lettere di Attilio riuscivano a trarla dal suo cupo torpore. Attraverso allo spiraglio delle sue bende ella s'impadroniva con lo sguardo, con la carne, con l'anima di ciascuna delle sue parole e vi si indugiava per assaporarla di più, per imprimerle in sè maggiormente, per rivivere con lui l'attimo felice in cui erano state pensate e scritte pel suo conforto. Ella aveva permesso a malincuore a sua madre di informarlo dell'avvenuto disastro, poichè anche i giornali ne portavano qualche cenno, ma la gravità della disgrazia gli era stata nascosta ed egli credeva già sua moglie guarita o convalescente con appena qualche piccola traccia del male sofferto, sul suo fresco volto di bambina, qualche piccolo segno roseo come l'impronta di un bacio troppo forte. Così egli si esprimeva nelle sue calde pagine, piene di nostalgia e di desiderio, fra la monca descrizione di un assalto notturno e la notizia della morte di un compagno caduto al suo fianco. Qualche volta al termine della sua lettura che durava intere ore ella s'accorgeva d'aver bagnato di pianto le bende intorno agli occhi, ma non si ricordava quasi più d'aver sofferto o d'essersi commossa o intenerita leggendo. Solo le rimaneva nel cuore un senso di oppressione e di sgomento ch'ella non voleva definire, quasi l'intuizione oscura d'essere circondata di un abisso nel quale ella si rifiutava di gettare lo sguardo per paura di misurarne la spaventosa profondità. E venne il giorno in cui le sue ferite furono cicatrizzate e la sua faccia potè finalmente essere sbendata. Ella non osò guardare negli occhi sua madre. Ma ad un tratto, rimasta sola nella sua camera, una smania terribile di sapere, di vedersi, di giudicarsi la prese, la costrinse ad alzarsi, a spalancare le imposte, a guardarsi in uno specchio. Allora soltanto ella conobbe fino a qual segno il destino l'avesse colpita, allora seppe in quale miserevole orrore la sua bellezza, la sua freschezza, la grazia del suo sorriso si fossero brutalmente mutate, e le mancarono le forze per sostenere tutto il suo strazio. La trovarono poco dopo svenuta ai piedi dello specchio e rimessa a letto, febbricitante, delirò tutta la notte, ora chiamando in aiuto il suo Attilio, ora supplicando che l'uccidessero prima ch'egli tornasse. Da quel giorno la sua idea fissa fu quella di morire innanzi ch'egli la rivedesse. Il pensiero che il marito, per il quale ella continuava a vivere nell'immaginazione e nel ricordo creatura di dolce bellezza e di deliziosa giovinezza, la potesse ritrovare ridotta a una maschera deforme e pietosa di donna, la sconvolgeva a segno che le pareva d'impazzire, e tutto, anche la morte, le sembrava preferibile a questo terrore. Furono costretti a vigilarla di continuo, a costringerla con preghiere e con astuzie a nutrirsi quel tanto che occorreva per tenerla in vita e a nasconderle tutti gli specchi nei quali si guardava ogni momento smaniando come una demente. Da due settimane anche le lettere di Attilio mancavano e ciò la rendeva ancora più agitata e smarrita. Sebbene avessero nascosta a tutti la gravità della sua sventura, ella giungeva a supporre che qualcuno, segretamente informato, gli avesse rivelato la verità e che il marito disgustato di lei e offeso del suo silenzio, pensasse ormai di abbandonarla sola alla sua miserabile sorte. Ella ne parlava a sua madre come d'una possibilità quasi certa ed imminente, sogghignando con la sua bocca contorta, stirata verso sinistra da una cicatrice che le solcava la guancia, e il suo sogghigno aveva qualcosa di così fosco, di così macabro pur nel suo ironico scherno, che sua madre ne fremeva e chiudeva gli occhi per non vederlo. Ma dopo un'altra settimana giunse invece un breve biglietto di Attilio in cui egli si diceva convalescente di una grave ferita e pregava la moglie di venire a visitarlo nell'ospedale in cui lo avevano trasportato. Flora lesse parecchie volte le poche linee prima di comprenderle, poi si accasciò su se stessa come un cencio, combattuta fra un dolore e una gioia così strazianti da fermarle i battiti del cuore. Ma subito si sollevò risolutamente, pensò ch'egli soffriva, che la voleva presso di sè, e decise di andare. Per tutto il giorno, durante i preparativi del viaggio ella evitò di fermare la sua mente su altra cosa che non fosse Attilio, la ferita di Attilio, il male di Attilio, e sulla felicità affannosa di rivederlo. Ma al momento di uscire di casa, ponendosi istintivamente dinanzi allo specchio per mettersi il cappello, la terribile realtà riapparve d'un tratto dinanzi ai suoi occhi. Una crisi di disperazione la prese, la scosse, le strappò lacrime, gemiti e grida, la lasciò quasi inebetita, in uno stato di accasciamento cupo ed inerte. Sua madre che doveva accompagnarla approfittò di quella specie di atonia per completare il suo abbigliamento da viaggio, per avvolgerle il volto in un velo fittissimo, per trascinarla alla stazione e collocarsi con lei nel treno appena in tempo per partire. Viaggiarono parte della notte quasi sempre sole in quello scompartimento semibuio, in un fosco silenzio rotto soltanto da quel rombo ritmico delle ruote che sembra il pulsare d'un possente cuore in movimento. E su quel ritmo continuo la giovine donna stesa sul divano, nell'ombra, premeva nel petto il suo piccolo cuore traboccante di dolore e ripeteva all'infinito a se medesima una tragica promessa che sola riusciva a consolarla: — Lo vedrò e morrò. Giunsero all'alba nella cittadina di provincia fredda, muta, quasi spopolata che ospitava nel suo ospedale i feriti. Scesero in un vecchio albergo vuoto e pretenzioso sulla piazzetta della stazione e attesero l'ora di visitare il malato. — Andrò io sola, — disse con risolutezza Flora a sua madre mentre aspettava, seduta in una poltrona, col cappello, il mantello, i guanti, immobile e tetra sotto l'ombra del suo denso velo nero. L'altra non osò opporsi, ma quando ella uscì e si diresse verso l'ospedale, la seguì furtivamente di lontano e l'attese all'angolo della strada deserta. — Lo vedrò e morrò, — si ripeteva Flora ad ogni passo che la portava verso la sua ultima tortura, e crudamente cercava di immaginare l'espressione di terrore e di orrore che avrebbe sconvolto la faccia di Attilio quand'ella avesse sollevato dinanzi a lui il velo che copriva la deformità del suo volto. — Forse la mia figura gli sembrerà così grottesca ch'egli si metterà a ridere, — pensava con una brutalità feroce verso se stessa. E le pareva di udire quella risata, lunga e stridente, di sentirla già nell'orecchio un po' falsa ma quasi gaia, come ne aveva talvolta Attilio dinanzi a qualche nemico odiato e ridicolo che lo metteva in un cinico buon umore. Quando Flora Conti entrò nell'ospedale e chiese di vedere suo marito mostrando la lettera che la chiamava e le carte personali che s'era procurate, la pregarono di aspettare in una saletta imbiancata a calce, piena di sole, con un crocifisso nero nel centro della parete. Il suo cervello s'era fatto di nuovo vuoto ed assente come nei giorni della malattia quando ella ignorava ancora l'atroce verità della sua sventura. Solo un martellare sordo, doloroso, profondo in mezzo al petto l'avvertiva che un attimo orrendamente decisivo della sua vita s'avvicinava. Entrò una monaca attempata, dal viso magro e intelligente sotto la cornetta candida, che le sorrise con commossa tenerezza e le strinse le mani sedendole accanto. — Lei è la moglie del tenente Conti? Suo marito fu ferito gravissimamente ma non permise mai durante i giorni nei quali fu in pericolo di vita che la signora fosse avvertita. Soltanto ora poichè sta meglio e il pericolo è scomparso ha chiesto di vederla e le ha scritto. Soltanto ora. Pareva che la suora s'indugiasse in vani e prolissi discorsi per preparare sè a dire e la sua ascoltatrice a udire qualche cosa di molto grave e di molto difficile a rivelarsi, una di quelle notizie per cui le parole umane sembrano persino troppo dure e precise e a cui non si sa per quali tortuose e leggiere ambiguità del linguaggio si vorrebbe giungere, per non colpire mortalmente con una sillaba cruda e senza pietà. — Guarirà, suora? È in via di guarigione, non è vero? Mi dica, mi dica tutto. D'impeto la giovine donna interrogava ansimando, scuotendo le mani della monaca, sentendo confusamente fra sè e lei una cosa oscura, ancora più terribile di tutte le altre e ancora sconosciuta. — Abbia forza, signora, abbia forza, — incominciò ad incoraggiare la suora dopo una lunga pausa d'esitazione. — Ma che c'è, Dio mio, che cosa mi nasconde? Dica, dica, dica subito, la supplico. Non mi tenga in questo stato. La voce della donna tremava con una convulsione di spasimo, come tremavano le sue mani e tutte le membra del suo corpo. — Si metta nelle mani di Dio, signora, e gli offra il suo sacrificio.... — Ma vi sono nelle mani di Dio, sono da tre mesi sotto i suoi colpi più crudeli. Che cosa si vuole ancora da me? Mio marito è mutilato, forse, è rimasto invalido e infermo per tutta la vita? È questo che non mi si vuol dire? — Forse, signora, è qualcosa di ancora più triste. — Non so, non so, parli, Dio mio, io non so.... Ella balbettava ormai fra i singhiozzi sotto il suo fitto velo nero, con una piccola voce di bambina sperduta che non sa ritrovarsi e guardava la suora coi suoi grandi occhi chiari rimasti limpidi e belli nel povero volto devastato, con una muta domanda che chiedeva e insieme temeva la risposta. La monaca ebbe ancora una pausa di perplessità, quindi le circondò le spalle col suo braccio quasi temesse di vederla cadere e disse: — Suo marito è cieco, signora. Poi raccolse contro di sè la creatura dolorante, soffocò contro di sè il suo urlo selvaggio che parve un grido di strazio e insieme di liberazione. PER UN BACIO. Il giorno che Albertino Farri ebbe compiuto il suo ventunesimo anno di età fu visto passeggiare per le strette vie della città provinciale con un viso raggiante di allegrezza. La sua personcina dritta e svelta, la quale sorreggeva un visetto da topo nero e vispo, coi denti un po' sporgenti sotto il labbro superiore e gli occhi lucenti sotto le ciglia lunghe, aveva quella mattina scatti di così bizzarra vivacità che le persone posate e calme ch'egli incontrava si volgevano ad osservarlo con uno sguardo diffidente. Ma egli non se ne curava e continuava ad aggirarsi dalla piazzetta della chiesa alla piazzetta del municipio con la sua inquieta andatura a sbalzi e a salti, tra brevi soste sorridenti all'angolo di qualche viuzza ombrosa di dove sbucavano le massaie sorreggendo a fatica la rete di spago ricolma d'ortaggi olezzanti. — Ella dovrebbe giungere da questa parte, — rifletteva per un momento Albertino imprimendo con le dita un moto vertiginoso al suo leggero bastoncino di bambù e frugando la stradetta ombrosa con lo sguardo acuto. Ma poichè ella dopo un minuto d'attesa non era ancor giunta, con una rapida giravolta e alcuni passi precipitosi Albertino correva a collocarsi presso un altro angolo a spiare con la medesima inquietudine gaia e impaziente s'ella apparisse. Ella apparve finalmente quando finì la messa cantata tra i fedeli che uscivano a gruppi dalla chiesa spalancata, tra odor d'incenso e di gigli, e s'avanzò tutta sola, vestita d'azzurro cupo, con un piccolo cappello nero adorno di una coroncina di miosotidi, per la viuzza lunga e deserta a capo della quale Albertino Farri aspettava trepidante. Quando fu a pochi passi egli si staccò con un balzo e la salutò con un sorridente impaccio timido e ardito al tempo stesso, ponendosi quindi, sebbene non invitato, al suo fianco e proseguendo con lei il cammino. Ella aveva corrugato le ciglia all'improvviso incontro e risposto freddamente al saluto ed ascoltava ora in un silenzio un po' sdegnoso le parole perplesse del giovine. — Come sono contento d'averla incontrata questa mattina, signora Anna-Maria! Era quasi una settimana che non la vedevo e temevo che fosse partita, signora Anna-Maria. Egli insisteva per lusingarla su quei due nomi uniti, dei quali si compiaceva la giovine moglie del medico, che tutti in paese chiamavano più semplicemente la signora Anna o la signora Montani. Unica figlia del conte Delbalzo, gentiluomo d'antica nobiltà già mezzo rovinato alla morte del proprio padre e morto poi egli stesso in una affannosa miseria con gli uscieri implacabili alla porta della sua camera d'agonizzante, ella s'era adattata a sposare il solo uomo che fosse stato ad entrambi generoso di devota benevolenza e d'aiuto disinteressato, ossia il dottor Montani, il medico quarantenne che aveva curato suo padre. Uscita a diciott'anni da un aristocratico collegio religioso dove il suo nome e la sua povertà le davano diritto ad un posto gratuito, Anna-Maria era piombata in quella cittadina petulante e tediosa dove la sua bellezza e la sua superbia le avevano creato intorno la più diffidente solitudine, e per quattro anni aveva assistito allo sfacelo della stanca esistenza paterna, la quale chiedeva tutti i giorni ancora qualche cosa per trascinarsi avanti fino al domani. Il dottor Montani, pietoso e buono ma povero anch'egli e provvisto solo delle risorse della sua professione, portava loro il conforto amichevole della sua parola e il sollievo delle sue cure, ma un altro uomo saliva di quando in quando il lungo viale della villa Delbalzo, entrava nelle piccole stanze della portineria, divenute ora l'ultimo rifugio all'antico padrone, e, portandosi via una firma tutta tremula e contorta del malato, lasciava sul suo letto alcuni sudici e preziosi biglietti di banca. Suo padre aveva umilmente spiegato ad Anna-Maria che costui s'era arricchito esercitando la professione lucrosa dell'usuraio, dopo aver in gioventù arrischiato meno scaltramente la galera sotto una certa ma non abbastanza provata accusa di falsario, e che alla propria morte il ricavo di vendita della villa Delbalzo sarebbe bastato appena a sodisfare le sue avide ma del resto legalizzate pretese. Tutto ciò era regolarmente avvenuto ed anni dopo, un mattino di maggio, la contessina Anna-Maria Delbalzo, diventata più borghesemente la signora Montani, uscendo dalla messa cantata con un abito azzurro cupo e un cappello adorno di miosotidi, camminava per una viuzza semideserta di quella cittadina provinciale, ascoltando piuttosto sdegnosamente le parole incerte di Albertino Farri, il quale le faceva da alcuni mesi una timida corte. Ed Albertino Farri era il figlio di Alberto Farri, lo scaltro usuraio che anni innanzi saliva di quando in quando il lungo viale della villa Delbalzo per lasciarvi, mediante un'affannata firma di moribondo, alcuni sudici e preziosi biglietti di banca. La casina del dottore, situata sulla strada provinciale un po' lontano dall'abitato, già appariva splendente sotto il sole di mezzodì, tutta dipinta a strisce rosse e bianche, chiusa nella cintura verde del suo giardino, e Albertino Farri non aveva ancora comunicato alla signora Montani lo scopo per cui egli s'era posto al suo fianco accompagnandola per quasi mezz'ora di cammino. Poichè egli nascondeva nella parte più intima dei suoi pensieri uno scopo ben determinato e, per raggiungerlo, gli occorreva innanzi tutto renderne partecipe l'insensibile donna dei suoi sogni, ossia la signora Anna-Maria. Non ostante l'esordio piuttosto trepidante, egli non era riuscito ad avviare la loro conversazione sopra un terreno propizio alle dichiarazioni lungamente meditate e, rosso in viso per il sole e per l'ansia, continuava a discorrere di cose inutili e vaghe, lanciando tratto tratto di sotto alle ciglia qualche lungo sguardo indagatore alla sua compagna, la quale gli rispondeva a monosillabi senza guardarlo, andando dritto di fronte a sè col suo passo rapido e leggiero di giovinetta. A poca distanza della casa un immenso pino stendeva la sua densa ombra sul biancore accecante della strada, e una rustica panca, costruita pei suoi riposi da qualche ingegnoso viandante, si appoggiava al tronco scabro dell'albero invitando i passeggeri a sostare un momento alla verde frescura. Anna-Maria non resisteva mai alla tentazione d'abbandonare la sua persona sottile alla dolcezza riposante di quell'indugio prima d'iniziare la breve salita che la portava alle soglie della sua casa, e anche quella mattina sedette sulla panca rustica al rezzo odoroso del pino silvestre, e sorrise blandamente a se stessa con un piccolo sospiro di raccolta felicità. Albertino rimase in piedi dinanzi a lei e trasse da quel sospiro la forza di manifestarle il proprio tenero sentimento. Lo fece senza grazia, con parole e con gesti impacciati, ma con un tale fuoco di sincerità negli occhi e tale tremore d'emozione nella voce che Anna-Maria, la quale si scalzava lentamente i guanti a capo chino mentre egli parlava, alzò d'improvviso il capo e si pose ad osservarlo con una attenzione fra pietosa e meravigliata. — Le voglio tanto bene, signora Anna-Maria, che non riesco neppure a dirglielo senza sembrare ridicolo a' suoi occhi. Eppure bisogna assolutamente che glie lo confessi per non sentirmi più soffocare dall'ansietà ogni volta che la vedo e sentirmi morire di malinconia quando rimango due giorni senza vederla. Oggi, non so come, non so perchè, ho trovato il coraggio di salutarla e di accompagnarla fin qui. Capisco perfettamente di non averle fatto piacere, perchè una signora come lei non può che disprezzare un ragazzo come me. Eppure io non sono forse così stupido quanto sembro. Mi piace leggere e studiare e avrei voluto laurearmi, ma mio padre non me lo permette e vuole che m'occupi d'affari come lui. La signora Montani a quell'accenno riabbassò il capo e si pose a guardarsi le unghie ch'erano rosee e lucide come smalto, ma fra l'arco delle sue sopracciglia si era scavata una piccola ruga sottile e diritta come un taglio, mentre un lieve sogghigno le contorceva la bocca. — Io la faccio ridere, lo so, con le mie sciocchezze, — riprese mortificato Albertino. — Ma mi risponda almeno con una parola, anche con un'insolenza. Mi dica chiaramente che sono un idiota ed io me ne andrò senza più seccarla. — È un bambino, — mormorò Anna-Maria, crollando il capo con un sorriso di compatimento blando, e s'alzò per riprendere la sua via. Ma Albertino, rianimato da quella parola benevola, le si pose di fronte e la supplicò d'ascoltarlo ancora un momento, di sedere ancora un momento su quella panca all'ombra di quel pino sul quale incominciava allora il frinire alto e roco d'una cicala meridiana. — Vede, — soggiunse Albertino con un sorriso d'ingenua malizia e di gioia infantile, — io non sono poi tanto bambino. Ho compiuto proprio oggi i miei ventun anni e mio padre questa mattina mi ha fatto un magnifico regalo. — Me ne rallegro, — disse fra i denti con una beffarda ironia la signora Montani, e vide in pensiero passare fra quelle mani le firme di suo padre, alternate alla sudicia preziosità di alcune carte monetate. — Ecco il regalo, — le confidava intanto Albertino Farri traendo con cura gelosa dal suo portafogli un biglietto di mille franchi e tenendolo disteso sotto i suoi occhi. — Ne posso fare quello che mi pare, comprarmi ciò che voglio, nessuno me ne chiederà conto. Ed egli lo raggirava fra le dita con una specie di avidità sensuale che lo faceva in quel momento rassomigliare a suo padre, l'usuraio. Ma lo sguardo sprezzante che la signora Montani gli lanciò senza rispondere, lo trasse subitamente dalla sua venale compiacenza. — Io potrei comprare per mille franchi di fiori e mandarglieli, riempirle tutta la casa di fiori rari e preziosi come le orchidee, — sospirò il giovine senza convinzione, ma con una voce e un viso pieno di sentimento. Anna-Maria s'alzò dalla panca rustica con una breve risatina stridente. — Adesso è proprio un po' idiota, — gli affermò fissandolo negli occhi con una specie di gaia provocazione. Erano l'una di fronte all'altro, così vicini che quasi si toccavano, e Albertino Farri contemplava da presso, estatico, per la prima volta, il bel viso superbo di Anna-Maria. — Com'è bella la sua bocca quando ride così, — le susurrò tuttora immobile, quasi affascinato da quel riso che piano piano si spegneva sulle fresche labbra della donna. — Io darei qualsiasi cosa per poter baciare quella bocca, — sussurrò con improvvisa audacia, divenendo un po' pallido, senza staccare da lei lo sguardo che palpitava sotto le ciglia lunghe. Anna-Maria ebbe di nuovo un breve sussulto di riso e chiese ambigua, con una voce di beffa gioconda: — Anche il biglietto di mille franchi? — Anche quello, — rispose Albertino alzando con un bel disdegno le spalle, ma osservandola tuttavia con uno stupore alquanto scandalizzato. Ella comprese il suo pensiero e continuò a ridere con una arguzia un po' amara. — Non crederà ch'io voglia vendere un bacio per mille franchi. Sarebbe buffo, non è vero? Buffo, lucroso e ignobile come quel genere d'operazioni che si praticano nella sua famiglia. — Quali operazioni? — domandò inquieto Albertino. Ma ella non gli rispose e proseguì, sempre sogghignando: — Un biglietto di banca non è che un pezzo di carta e si può bruciare. Albertino ascoltava spalancando gli occhi pieni di ansiosa meraviglia. — E mentre brucia, — ella soggiunse lentamente, quasi suggerendogli la conclusione alla quale voleva ch'egli stesso giungesse — e mentre brucia c'è tutto il tempo.... — C'è tutto il tempo di dare un bacio a una donna, — finì in un mormorìo rauco il giovinetto, sempre fisso alla bella bocca che quasi gli si offriva e gli si prometteva. Ella non disse più parola. Gli lanciò ancora di sbieco uno sguardo ed un riso balenanti e poi s'avviò rapidamente verso la casa rossa e bianca, splendente sotto il sole di mezzodì. Poche sere dopo la signora Montani, tutta sola nella sua casa isolata fra il verde del giardino, leggeva un romanzo francese appoggiata al davanzale della finestra, quando udì aprirsi con un cigolìo il cancelletto in fondo al viale e un passo scricchiolare sulla ghiaia. Quasi subito le apparve fra le due siepi di mortella Albertino Farri, il quale s'avanzava lentamente verso di lei, masticando, per darsi un contegno disinvolto, un rametto di cedrina. Quando giunse sotto la finestra egli la scorse e la salutò sorridendo: — Buona sera, signora Anna-Maria. Ho visto passare il carrozzino di suo marito ed ho pensato che doveva essere sola ed annoiarsi. Perciò sono venuto a tenerle un po' di compagnia. — Io non mi annoio mai, — ella rispose col suo abituale orgoglio, sebbene pensasse tutto il contrario. E gli porse la mano dalla finestra bassa. — Mi permette d'entrare? — chiese il giovine quando fu sulla soglia della stanza da pranzo e venne a sederle vicino. Guardò la copertina del libro, poi guardò il viso della signora, che gli pareva ancora più freddo e altero del consueto. Tuttavia, dopo qualche esitazione, Albertino osò trarre un lungo sospiro e osò dire sottovoce: — Sono venuto anche per seguire il suo consiglio dell'altra mattina. — Il mio consiglio? — ripetè Anna-Maria corrugando la fronte come se non rammentasse. — Sì, — soggiunse Albertino ancora più piano, — non si ricorda? Quel bacio, quel bacio, che si può dare a una donna mentre brucia un biglietto da mille franchi. — Ma era una sciocchezza, — affermò ella sollevando le spalle. — Son cose che si facevano, che si son fatte in altri tempi, da altra gente. Non ha compreso la mia canzonatura? — Io non voglio essere canzonato, — scattò Albertino alzandosi in piedi. — Voglio un suo bacio al prezzo che le ho detto e bisogna che me lo dia qui, questa sera stessa. Egli aveva tratto dal portafoglio il suo biglietto di banca, lo aveva gettato con un atto di disprezzo sul tavolo, buttandovi sopra una scatola di fiammiferi. Anna-Maria lo osservava con una attenzione fra ironica e stupefatta, aprendo e chiudendo il suo romanzo. Le pareva impossibile che quel ragazzo, figlio d'usuraio, certo usuraio egli stesso nell'anima, il quale possedeva per la prima volta una somma ch'egli riteneva quasi favolosa, fosse capace di buttarla così per lei, di distruggerla in una rapida fiammata per un bacio. La stanzetta terrena si riempiva d'ombra e, fatto da questa anche più coraggioso, a grado a grado Albertino giunse in silenzio a sfiorare con le dita i capelli di Anna-Maria, la quale non si mosse. — Non mi dice di no? — le mormorò tremando all'orecchio, e poichè ella continuava a tacere, s'allontanò di due passi e s'accostò al tavolo. Si udì lo strofinìo del fiammifero acceso, si vide sprizzare, balenando, la scintilla rossa, poi nell'ombra grave della stanza, una piccola fiamma violacea continuò lentamente ad ardere sopra un vassoio di vetro nel centro della tavola: era il biglietto di mille franchi che lentamente si distruggeva. Anna-Maria sentì in quel momento intorno alle sue spalle allacciarsi due braccia convulse di desiderio e sulla sua bocca premere freneticamente due labbra avide d'amore e fresche di giovinezza. Dimenticò chi fosse e che cosa volesse colui che la baciava così. Ma quando la piccola fiamma violacea si spense ed essi si staccarono con gli occhi torbidi e le vene pulsanti, ella ritrovò quasi subito, insieme con la sua naturale superbia, il ricordo amaro del passato, confuso ad un pentimento sottile e iracondo per l'oblioso abbandono presente. Allora s'alzò, fece scattare la chiavetta della luce, guardò bene in faccia Albertino Farri, e il suo sguardo era quello d'una nemica. — Ora che ha raggiunto il suo scopo può andarsene e non rimettere piede qui dentro, — gli ingiunse con voce bassa ma ferma. Egli, ancora ansante, raggiunse umilmente la porta, poi si fermò e le rivolse d'un tratto la sua faccia da topo piena di sarcastica malignità. — Me ne vado contento, — le disse sorridendo, ed accennando con l'indice teso le ceneri del biglietto che ancora fumavano sul vassoio di vetro, soggiunse: — Per un bacio, e per un bacio come questo, anche se adesso mi vedo scacciato per sempre da casa sua, valeva bene la pena di rimetterci un biglietto da mille franchi, tanto più.... Egli esitò, calcolò l'effetto delle sue parole, la spiò di sotto in su e attese ch'ella lo incitasse a completare la frase. Anna-Maria aspettò un momento, mordendosi le labbra, e ribattè gelida: — Tanto più? E Albertino Farri, oltrepassando la soglia della stanza concluse: — Tanto più che quel biglietto era falso. “IL SOPRAPPIÙ.„ Il gobbetto posò la tazza vuota sul tavolino del caffè, s'accomodò sul divano e aperse un giornale. Il Comunicato, i saluti dei combattenti, l'albero di Natale pei feriti, la guerra, sempre la guerra, dovunque la guerra! Egli solo non poteva parlare della guerra, perchè quando ne discorreva con amici, conoscenti od ignoti, tutti quanti lo guardavano con un'aria di compassionevole canzonatura e se vi pensava si rodeva dentro di sè. Eppure egli sentiva gli altri ed anche se stesso supremamente ingiusti verso la sua sorte. La quale finalmente non era che la sorte di moltissimi giovani venticinquenni come lui che per varie ragioni non potevano vestire la divisa militare e recarsi a combattere. Mario Ponti non era malato di petto e sempre tossicoloso? Piero Giannoni non trascinava la gamba destra per un disastro automobilistico? Carluccio Lanzi non era mezzo cieco e del tutto ridicolo con la sua miopia che gli faceva commettere le peggiori scempiaggini? Eppure tutti costoro potevano parlare della guerra e dichiararsi senza vergogna riformati per malattia o per difetto fisico senza che a nessuno saltasse in mente di sogghignare e di sternutare comicamente come accadeva quasi ogni giorno per lui. — Caro mio, la tua non è un'insufficienza fisica — gli aveva detto una sera Mario Ponti, il mezzo tisico che aveva uno spirito maligno specialmente velenoso verso coloro che stavano benissimo. — Il tuo difetto si può invece chiamare un soprappiù. Tutti avevano riso di questa trovata e da quel giorno la sua gobba era stata battezzata “il soprappiù„. Gli amici che lo incontravano per via e al caffè gli battevano sul dorso allegramente chiedendogli notizie del “soprappiù„, consigliando a sottoporre il suo caso all'ufficio di leva perchè non era giusto che un uomo sano, giovane e provvisto per soprappiù di simile magnifica esuberanza restasse a casa mentre poteva rendersi utile al paese più di qualsiasi altro soldato diritto e mingherlino. Ferdinando Ducas, il gobbetto, ascoltava, sorrideva, talvolta rimbeccava, ma dentro di sè soffriva tutte le torture. Quante volte avrebbe voluto drizzarsi sulla sua piccola persona così robusta e forte non ostante il “soprappiù„ e pigliare sonoramente a schiaffi il suo sorridente insultatore! Ma anche questo onesto sfogo era riserbato ai galantuomini e ai gentiluomini almeno di media statura e di schiena a linea retta ed egli non ne poteva usufruire senza rendere sè e la sua gobba ancora più grotteschi di quanto già non fossero. Tra gli amici che più mordacemente si burlavano di lui ve n'era uno partito da un paio di settimane per la guerra il quale, sino al momento di salire in treno accompagnato da tutta la comitiva, non aveva cessato di colpirlo coi suoi frizzi e coi suoi motteggi a cui egli non s'era stancato di rispondere col più amabile sorriso e col più benevolo spirito. Questi si chiamava Giovanni Bonvicini ed era fidanzato a una cugina del gobbetto, la signorina Lauretta Ducas, graziosissima ragazza ventenne ricca e superba, corteggiata da molti ammiratori. Anche Ferdinando si sarebbe schierato con gioia da molto tempo nel numero degli adoratori più assidui e appassionati di sua cugina Lauretta, se non ci fosse stato di mezzo ciò che anch'egli ormai chiamava come gli altri “il soprappiù„ e appena si arrischiava a darle timidamente del tu come lo autorizzava la sua parentela ed a farle due o tre visite all'anno, accolto da lei e da sua madre con una tediata indifferenza. Pareva ch'esse si vergognassero d'avere un gobbo nella loro famiglia, come se questo potesse nuocere ai futuri destini di Lauretta e gli lasciavano chiaramente comprendere che desideravano di vederlo il meno possibile. Ma quando ella si fidanzò a Gianni Bonvicini, il quale era un ottimo partito e un bellissimo ragazzo, gli si mostrarono alquanto più indulgenti e si degnarono di ammetterlo con qualche maggiore frequenza in casa loro, forse perchè Gianni si divertiva a confrontarlo così piccolo e mal costrutto con la sua magnifica aitanza di bell'ufficiale in divisa. Senonchè, partito Bonvicini per la zona di guerra fra le lagrime della fidanzata, Ferdinando non osò più mostrarsi alla cugina, come se ella dovesse ora maggiormente disprezzarlo perchè egli se ne rimaneva a godersi il suo agiato ozio e la sua sconfinata libertà, mentre Gianni passava le notti nell'umidità gelida della trincea e si esponeva ogni giorno alla morte. Il gobbetto sfogliò lentamente il giornale sostenuto dal bastoncino di legno trovato sul tavolo del caffè e gli venne sott'occhio nell'ultima pagina, fra gli annunzi mortuari, un nome che lo fece sobbalzare. “Gianni Bonvicini, ufficiale nel.... cadeva eroicamente sul Carso il giorno.... Costernati ma orgogliosi ne dànno l'annunzio i genitori, la sorella e il cognato, la fidanzata....„ — Ah! povera Lauretta, — esclamò Ferdinando balzando in piedi e si vide nello specchio di contro così pallido e sconvolto che si meravigliò del proprio dolore. — Povero Gianni! Così allegro e spiritoso, così bel giovane e così fortunato, — si diceva il gobbo uscendo dalla saletta fumosa e camminando senza avvedersene sotto la pioggia che cadeva a dirotto. — Morto, morto dopo quindici giorni di vita di campo. Scomparso così con un sorriso ed un frizzo dietro lo sportello di un treno per non più ritornare. Morto, lasciando tutti a piangere e a desiderarlo vivo, a ricordarlo così bello, ad amarlo così forte. Ah! che fortuna andarsene a quel modo con un addio pieno di baldanza e sparire nell'ombra con un ultimo baleno degli occhi neri, con un ultimo riso dei denti bianchi! Perchè povero Gianni? Chi più avventurato di lui? Perchè compiangerlo? Chi sa? S'era avviato in questi pensieri sotto una fila di portici dove la gente si pigiava per ripararsi dalla pioggia e d'un tratto s'accorse d'essere giunto davanti alla casa di sua cugina Lauretta. Allora si fermò e pensò che poteva salire da lei con la speranza di trovarla, per dirle il suo doloroso stupore ed alcune parole di sincero compianto. Nel salotto semibuio per l'oscurità del cielo e dei cortinaggi egli trovò sua zia tutta in lagrime intenta a narrare con molti sospiri ad un'amica matura la tragica fine del suo futuro genero. Ella salutò appena Ferdinando e non lo presentò alla signora ma egli sedette sull'orlo d'una poltrona, nell'ombra, e stette ad ascoltare i particolari di quella morte con una avidità vibrante di commozione. Quindi la visitatrice si alzò e fu chiamata Lauretta perchè venisse a salutarla. Ella si presentò sulla soglia tutta vestita a lutto come una vedova, più bella e più superba nel suo pallore senza lacrime e si lasciò baciare silenziosamente dalla matura signora che s'accomiatava. Soltanto quando questa fu uscita ella s'accorse della presenza di Ferdinando e lo guardò con due occhi foschi, senza rivolgergli la parola. — Lauretta, — egli balbettò timido e impacciato dinanzi a quel dolore così rigidamente chiuso in se stesso, — ho letto poco fa la crudele notizia e non so dirti, non so esprimerti davvero quale profonda angoscia ne abbia provato. Ella lo ascoltava senza guardarlo, col gomito sul bracciuolo della poltrona e la guancia sulla palma, corrugando di tanto in tanto la fronte come se quella voce la infastidisse. — Tu non puoi immaginare, Lauretta, — continuava il gobbo — come mi abbia commosso la fine eroica del povero Gianni, e quanto lo ricordi come lo vidi l'ultima volta mentre partiva, così gioviale, così pieno di salute e di vivacità. Rammento persino, vedi, che le sue ultime parole furono per me. Addio, Nando, tanti saluti al “soprappiù„ mi gridò, mentre il treno si metteva in moto e tutti gli altri risero di cuore perchè aveva tanto spirito e non era cattivo neppure con me, povero Gianni! Egli ebbe un piccolo sorriso accorato sul viso pallido e ossuto e guardò sua cugina aspettando ch'ella gli rispondesse con una parola, con un cenno, con uno sguardo, con un sospiro. Ma ella rimaneva immobile col viso rivolto verso la finestra da cui scendeva fra i cortinaggi una luce grigia di giornata piovosa. — Eppure — riprese il gobbetto incoraggiato da quel silenzio che gli permetteva di aprire tutto il suo cuore — eppure, vedi, Lauretta, la sua morte è stata così bella che io non posso trattenermi dall'invidiarlo. Perdonami questa confessione che ti parrà quasi un sacrilegio, ma io sento che quando si lascia la vita in quel modo, giovani, belli, forti, amati, non c'è compianto che per il dolore di chi resta. Quello che se ne va, così di colpo, senza sapere forse di morire, è un fortunato degno d'invidia e non di pietà. A queste parole seguì una brevissima pausa durante la quale Lauretta si alzò e gli venne vicino mostrandogli all'improvviso tutta la durezza orgogliosa e beffarda del suo viso. — Che puoi sapere tu di queste cose? — gli disse con una voce aspra che lo colpì in pieno petto. — Puoi cantare e sospirare le belle frasi, tu che te ne rimani beatamente a casa mentre gli altri si battono e cadono. È facile parlare d'invidia per uno che muore quando si ha la fortuna di possedere una gobba che salva da tutti i rischi e da tutti i pericoli. Va là, che sei ben felice di avere, come diceva Gianni, il tuo bel “soprappiù„ che ti impedisce di esporre la pelle con gli altri. Di' la verità almeno, e non raccontare la patetica storia della tua invidia per chi se ne va. Tanto, nessuno ti crederebbe. Ella scomparve dietro una portiera e il gobbetto rimase solo, così instupidito da quelle parole che non riuscì per un poco a trovare la porta e ad andarsene. Ma quando fu nella strada, sotto la pioggia che cadeva sempre, se le ripetè ad una ad una e gli parve a un tratto che nessun destino al mondo fosse più triste del suo. Non poteva nemmeno compiangere chi rimaneva, non poteva nemmeno invidiare chi se ne andava. “Tanto, nessuno ti crederebbe„. Camminò un paio d'ore sotto la pioggia ruminando fino all'esasperazione questi pensieri e quando fu notte si fermò su un ponte di strada ferrata sotto il quale passavano continuamente treni in partenza e in arrivo. Veniva dalla stazione vicina un urlìo allegro di soldati che partivano per la zona di guerra, salutati dagli amici e dai parenti e di quando in quando lo scoppio d'una fanfara militare echeggiava più forte coprendo le grida. Ferdinando ascoltava quella musica e quelle voci con un palpito sordo nel cuore e non osava neppure più formulare un pensiero di invidia per quei giovani pieni di baldanza che potevano andare a combattere e a morire fra urli di gioia. Egli possedeva per unico scopo, per unica meta, per unica gioia della vita il suo bel “soprappiù„ che lo sottraeva a tutti i pericoli: alla coscienza di sentirsi un uomo come gli altri, alla speranza di amare e d'essere amato come gli altri, alla possibilità di morire di una bella morte come gli altri. Che cosa gli rimaneva? Il treno militare si mosse fra un tumulto di grida irrefrenabili e s'avanzò fumando verso di lui, sotto l'arco del ponte sul quale egli sostava. Era salito sul parapetto a muro perchè la sua piccola statura gli impediva di vedere e si sentiva pigiato intorno dalla folla curiosa che si sporgeva per guardare in basso. Un omone sgarbato lo spinse con tale violenza ch'egli si sentì scivolare verso il vuoto ed allora pensò ch'era cosa facile lasciarsi cadere laggiù proprio nel momento in cui il treno militare passasse. I due occhi di fuoco s'avanzavano lentamente fra le grida frenetiche dei soldati affacciati agli sportelli e quando la colonna di fumo nero e denso sollevandosi fu quasi per investirlo, il gobbetto si diede un piccolo slancio e cadde sui binari un momento prima che il treno vi giungesse. La gente che si pigiava intorno al parapetto urlò atterrita: — Un ragazzo è caduto. Ferma! Una disgrazia! Per carità, ferma! Ma il macchinista non udì nulla, perchè la musica e le grida facevano un rumore assordante. E le ruote passarono sul piccolo corpo già svenuto, sul povero “soprappiù„ che aveva impedito ad un uomo di vivere e di morire come tutti gli altri. LA VIA RITROVATA. — Aprite le finestre, — ordinò il medico con voce sommessa ma imperiosa alla cameriera in cuffietta bianca che pregava piangendo, inutile e desolata presso il letto della sua signora. Entrò dal giardino antico un'ondata di luce verde, una ventata di profumi agresti, uno stridìo acuto di rondini e il viso spento dell'inferma vi si volse avido, le labbra cianotiche si aprirono a respirare un alito più puro di vita, quasi a rinfrescarne le membra dolenti. Quindi sorrisero stancamente al dottore accennando a parlare. Il medico si curvò, raccolse nell'orecchio le parole affaticate: — Grazie, dottore, sto meglio ora. Ma che crisi terribile, Dio mio! Un'altra come questa e me ne vado. Ella agitò sui cuscini la testa grigia, il volto esangue grasso e floscio dove le sopracciglia ancora nere nella gran fronte scoperta segnavano due vasti archi pieni d'alterigia e di volontà. — Si calmi, marchesa, — l'esortò il medico prendendole il polso inerte sulla coperta di broccato azzurro e ne contò con volto assorto i battiti scuotendo il capo dall'alto al basso in segno di sodisfatta approvazione. Ma quando fu per andarsene dopo aver dato alla cameriera gli ultimi ordini, l'inferma gli afferrò la mano, lo trattenne presso di sè, gli disse con voce supplichevole: — Rimanga ancora un poco, dottore. Vorrei parlarle. Per un caso singolare ma non infrequente agli esseri già votati ad una vicina morte, la marchesa Saveria Vallarsi, la superba gentildonna che si vantava di non aver mai pregato nessuno, tranne Dio, si piegava ora a implorare consiglio ed aiuto da quel giovine medico quasi ignoto che il caso le aveva mandato a soccorrerla durante una crisi del suo male incurabile in uno dei primi giorni di villeggiatura. Egli sedette grave a piè del letto mentre la cameriera usciva, congedata da un cenno della signora. — Io ho bisogno di conoscere la verità sul conto mio, dottore. Sono vecchia ormai e la morte non mi fa più paura. Donna Saveria pronunciò queste parole quasi duramente fissando il giovine scienziato coi suoi occhi acuti sotto il vasto arco nero dei sopraccigli corrugati. Pareva voler infondere nell'altro la convinzione che di nessuna menzogna e di nessuna pietà occorreva mascherare la risposta, qualunque essa fosse stata. — Marchesa, — rispose il medico con la medesima fermezza di volto e di espressione — la scienza non può dare quasi mai un esatto responso, solo può con una certa sicurezza prevedere l'avvenire. — L'avvenire? — ripetè donna Saveria con un sorriso d'ironica amarezza. — Esiste ancora per me un avvenire? — Tutto è relativo, — osservò il giovine stringendosi nelle spalle. — Le forze da opporre al male sono ormai molto depresse e poichè ella vuole assolutamente sapere.... Egli sostò, colpito dalla gravità della sua stessa voce che aveva la cruda freddezza d'una sentenza. Ma l'inferma lo incitò con lo sguardo, con l'ansia interrogativa di tutto il volto, con le parole impazienti: — Dica, dica, dottore. — Ebbene, — egli proseguì, — per qualche settimana, per un mese al più si potrà lottare contro il morbo e illudersi forse di averlo vinto o almeno domato. Ma sarà una speranza fittizia. — E bisognerà cedere, — soggiunse donna Saveria scrutando il volto del medico. Egli sollevò le spalle con gli occhi all'alto nell'atteggiamento della rassegnazione mentre ella proseguiva: — È questo che m'occorreva conoscere. Un mese di vita, il tempo per salutare i figli di mio figlio che sono lontani, dispersi pel mondo. Per uno di essi, per il più giovane, mi sarà necessario il suo aiuto, dottore. Ella incrociò sulla coperta le dita pallide e grasse e sollevò verso di lui le mani congiunte, supplichevoli: — Bisognerà che lei scriva annunziando la mia non lontana fine e chiedendo nel nome di una moribonda la grazia di lasciarmelo rivedere prima di chiudere gli occhi per sempre. Senza di questo non potrò andarmene in pace, nè ottenere forse il riposo nell'al di là. La sua voce prima implorante s'era fatta fioca e quasi incomprensibile come s'ella parlasse ormai per sè stessa, per il bisogno di esprimere un pensiero lungamente chiuso nell'anima tormentata. Ma il medico, chino su di lei, la ricondusse al presente con un'altra domanda: — E dove si trova questo suo nipote? — È frate, dottore; è frate della più rigida clausura, — rispose la marchesa coprendosi il volto con le palme, con un lungo sospiro doloroso. Ella trasse a fatica di sotto il guanciale un libriccino di pelle nera, ne tolse un foglietto ripiegato e lo porse al giovine: — Ecco l'indirizzo al quale deve scrivere. Questo è il nome del padre superiore, questo è il convento. Mio nipote si chiama padre Jacopo Vallarsi. E Dio voglia ch'io lo riveda prima di morire e ch'io ottenga il suo perdono. Il medico le volse un lungo sguardo indagatore, ma non manifestò alcuna curiosità e racchiuse il biglietto nel suo portafogli. Quindi tese all'inferma la sua mano ch'ella afferrò con gli occhi pieni di lagrime e strinse convulsamente. — Lei è giovane e serio come il mio Jacopo e forse per questo mi ispira tanta fiducia. Forse anche un poco somiglia a lui prima che vestisse l'abito, quell'abito ch'io stessa l'ho costretto a indossare e che fu il castigo di questi ultimi anni della mia vita. Ella sentiva il suo cuore traboccare nel bisogno di una espansione, di una confidenza, forse di una confessione che la sollevasse da un lungo rimpianto e da un cocente rimorso, ora fatti più acuti e più intollerabili della certezza della morte non lontana. E le pareva che accusandosi a quel giovine taciturno che l'ascoltava con una impassibile fermezza di giudice già incominciasse la sua espiazione e già l'addolcisse la speranza del perdono. — M'erano rimasti due giovinetti orfani da allevare e da educare alla morte del mio unico figlio ed io m'ero proposta di seguire le tradizioni della mia famiglia e di destinare il maggiore alla diplomazia, il minore al sacerdozio. Il dottore risedutosi a piè del letto ascoltava senza guardare l'inferma, col gomito appoggiato alla sponda e la fronte nella palma in un'attitudine raccolta di confessore. — Il primo, quieto e docile, s'avviò tranquillamente ai suoi studi, conseguì i suoi diplomi, superò i suoi concorsi ed ora è un ottimo diplomatico e un padre esemplare, lieto della sua bella carriera e della sua florida famiglia. Ma Jacopo, il minore, di parecchi anni più giovane del fratello, non seguì così docilmente la via ch'io gli avevo tracciata. D'intelligenza vivacissima e di modi pronti, si sentì subito inceppato e chiuso nelle severe costrizioni ecclesiastiche e morse lungamente il freno prima di sottomettersi alla mia volontà. Fra i miei ricordi più amari mi torna sovente al pensiero quello d'una sua crisi terribile di lacrime e di disperazione prima di pronunciare i voti che lo legavano alla Chiesa. Rammento ch'egli si attaccò alle mie ginocchia implorando almeno una dilazione di qualche anno o di qualche mese, affinchè la sua vocazione si chiarisse e s'affermasse. Ma io sapevo che questa attesa lo avrebbe distolto da ciò che reputavo ormai il suo preciso dovere dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini e fui inflessibile. Jacopo obbedì, entrò nei sacri ordini, ma non volle essere un prete secolare, un predicatore alla moda, un vescovo decorativo. Si chiuse in un convento e fu un oscuro frate tutto dedito a Dio e alla pietà. Egli ha ora quasi ventisette anni; da cinque anni non lo rivedo, non ho notizia di lui, non conosco che il luogo della sua residenza. Ignoro la vita del suo spirito, ignoro se le sue ribellioni si siano placate nella rinunzia e nella preghiera, ma so di essere stata in grave colpa dinanzi a lui e temo di averne fatto un infelice, forse un disperato. La marchesa Saveria si terse le lagrime che durante il racconto erano sgorgate senza posa dai suoi occhi e pronunciò con la voce rotta e quasi gemente la sua accusa. Quando tacque il medico s'alzò, disse risoluto: — Scriverò stasera stessa. Se le regole del convento lo permettono, ella rivedrà certo suo nipote. — Nessuna grazia si rifiuta a un morente — mormorò l'inferma con un mesto sorriso, e porse la mano al dottore con uno sguardo di gratitudine. * Scese la notte sull'antica villa e vi stese il suo velo d'ombra e di silenzio. L'ammalata volle che la finestra affacciata sul giardino rimanesse aperta, per poter contemplare dal suo letto un lembo di cielo tutto fiorito di stelle e mandare lassù all'invisibile Dio raggiante negli astri muti le sue orazioni di rammarico e di speranza. Sembrava pure pregare con un lungo trillo d'umiltà serena il coro ampio dei grilli nascosti nel buio della campagna dormente, e pareva alla vecchia anima afflitta che i piccoli coristi implorassero, col loro canto monotono, pace per il lontano e pietà per lei. A un tratto il cane di guardia, vagante per il giardino, incominciò a mugolare sordamente. Si sentì l'ansare affrettato della sua corsa verso il cancello e la cadenza del suo galoppo sulla ghiaia scricchiolante dei viali. La marchesa Saveria, che teneva chiusi gli occhi in un leggero assopimento, sobbalzò destandosi, all'abbaiare furioso del cane; chiamò la cameriera, che dormiva tutta vestita su un piccolo divano dietro la porta e le ordinò con voce agitata: — Va' a vedere; c'è qualcuno. Qualcuno è entrato nel giardino. Scendi subito. — Ma no, signora, — mormorò la donna, ancora assonnata, reprimendo uno sbadiglio. — Il cane abbaia a tutti i passanti. Ecco. Ha già cessato. Ma le rispose un ululato più forte e l'inferma si agitò più affannata nel suo letto, mentre l'indolente cameriera si sporgeva dalla finestra. — Ecco, vedo luce nel casino del giardiniere. Devono aver picchiato alla sua porta e chiamato qualcuno. Adesso sapremo di che si tratta. — Scimunita! — le gridò la marchesa, tremante d'ira. — Torna ad accucciarti là dietro e dormi, poichè non sai far altro. Ma essa discese ad aprire la porticina al giardiniere, che la chiamava sommessamente dal basso e attutiva la voce e i passi per non impressionare la padrona. Tuttavia questa, con l'udito finissimo dei malati, l'intese e gli impose di salire, di portare egli stesso l'ambasciata. — Ho un biglietto per lei, signora marchesa. Mi è stato consegnato ora attraverso il cancello da un giovine che non conosco, alto, pallido, avvolto in un mantello. Ella si sollevò sui guanciali, afferrò il suo occhialino cerchiato d'oro e decifrò a fatica le poche parole a lapis, le quali dicevano laconicamente: “Non spaventarti, cara nonna. Sono Jacopo, e approfitto del solo momento che ho per darti un saluto„. Donna Saveria incominciò a tremare per tutte le membra ed a battere i denti nel volto atterrito come se le si fosse annunziato un fantasma. Non poteva parlare, ma abbassò ripetutamente il capo rivolta al giardiniere per significargli d'introdurre il notturno visitatore, quindi attese immobile sui guanciali volgendo alla porta il volto più pallido e più floscio dove gli archi neri dei sopraccigli s'appuntivano verso la fronte in un'ansietà paurosa e interrogativa al tempo stesso. E suo nipote, il padre Jacopo Vallarsi, apparve. Aveva sulle spalle un largo mantello grigio e non portava cappello. Sorrideva con la testa eretta avanzando verso l'inferma e il suo passo non più ostacolato dalla tonaca sembrava ancora un poco esitante, quasi sorpreso della propria libertà. Come fu presso il letto, s'inginocchiò e baciò la mano di sua nonna con la stessa riverenza di quando era fanciullo. In quell'atto il mantello scivolò dalle sue spalle e dinanzi agli occhi sbalorditi della marchesa Saveria quell'uomo inginocchiato che le baciava la mano, Jacopo, il monaco della più rigida clausura, apparve vestito d'una divisa d'ufficiale segnato al braccio di una rossa croce. — Benedicimi, nonna, affinchè possa compiere il mio dovere sui campi di battaglia meglio di quanto non l'abbia fatto negli orti del Signore. La mano grassa ed esangue della marchesa si posò sul capo del giovine mentre il suo spirito rivolgeva a Dio una fervorosa invocazione. — Mi hanno chiamato ed eccomi qui, pronto a tutto. Soccorrerò i feriti, benedirò i morenti, affronterò io stesso la morte, — diceva Jacopo con un sorriso luminoso che sua nonna non gli conosceva, ritto accanto al letto con le mani incrociate sull'elsa della sciabola. — E forse, nonna, — soggiunse fissandola in volto con uno sguardo eloquente e con un lungo sospiro represso, — forse, nonna, troverò finalmente la mia via. Allora la marchesa Saveria ebbe per la prima volta nella sua lunga vita che stava per tramontare un gesto spontaneo d'umiltà, di rimorso e d'amore. Tese a suo nipote le braccia e stringendolo a sè, con la sua vecchia testa contro la giovine spalla di Jacopo, lo supplicò piangendo di perdonarla. IL BELL'ARTURO. La prima volta che l'ingegnere Arturo Derni si sentì chiamare il “bell'Arturo„ fu ai bagni di mare, una sera di plenilunio. Egli aveva compiuto allora in Inghilterra certi lunghi studi tanto aridi quanto tediosi, ai quali era stato avviato da suo padre, un ambizioso industriale, e vi aveva perseverato per inerzia anche quando questi improvvisamente era morto, rendendogli vana quell'astrusa scienza di formule e di cifre assorbita dal suo cervello quasi per virtù d'automatismo. Arturo Derni attendeva sua madre in una cittadina a specchio del Tirreno dove non conosceva nessuno e da otto giorni ella protraeva il suo arrivo scrivendogli lettere affrettate e nervose che lo lasciavano pieno d'ansiosa incertezza. Ma quella sera di plenilunio gli aveva portato con l'ultima posta la lettera definitiva con la quale ella lo pregava di lasciare in libertà la camera attigua alla sua, già fissata per lei all'albergo, poichè troppe preoccupazioni la trattenevano in città. Soggiungeva che Giorgio, il suo figliuolo primogenito, s'era acquistata una _Limousine_ da viaggio con la quale compiva lunghe gite in compagnia dei suoi molti amici. La lettera si chiudeva con un saluto abbastanza espansivo e con la preghiera di scriverle spesso. Arturo tormentava con le dita inquiete la lettera di sua madre, una lettera di donna elegante, di un color eliotropio pallido, foderata di violetto cupo e passeggiava su la sabbia fine e umida della spiaggia, ancora vestito di flanella bianca e calzato di sandali silenziosi. Non s'era rivestito per il pranzo, non era sceso alla _table d'hôte_, non voleva vedere nè sentire nessuno, tranne se stesso e la sua malinconia. Egli comprendeva bene quale preoccupazione tratteneva sua madre in città. Giorgio, la passione e la tristezza di tutta la sua vita, la legava come sempre alla sfrenata bizzarria del suo capriccio. Ella non voleva ora lasciarlo solo nella città insidiosa, fra le avventurose compagnie, e s'illudeva di esercitare ancora su quel figliuolo prodigo e malaticcio un poco del suo tenero dominio materno. Invece Arturo, così ordinato e tranquillo e saggio, non aveva bisogno di lei. Arturo sapeva vivere solo con la sua bella salute, con la sua vigorosa prestanza e con la sua educazione inglese che lo aveva fortificato di spirito e di muscoli. E Arturo passeggiava su la fine sabbia della spiaggia coi suoi sandali silenziosi, gualcendo con le dita irose la lettera color eliotropio, mentre la luna piena sorgeva dal mare. * — Stasera il bell'Arturo non è apparso a pranzo, — disse la voce un po' roca della marchesina Oltano che aveva trent'anni e tutti i desideri nei begli occhi dalle palpebre così brune che parevano bruciate dalla fiamma dello sguardo. Ella scendeva la gradinata del giardino al braccio delle due sorelle Fusari, e tutte e tre s'avviavano verso l'argento tremulo dell'acqua. Egli ebbe appena il tempo di appiattarsi nell'ombra, vergognoso del suo abbigliamento così poco notturno e insieme più urtato che lusingato da quell'accenno amabilmente ironico alla sua persona. — Già, — insistette la maggiore delle Fusari, — il bell'Arturo ha ricevuto stasera la sua solita lettera color _mauve_. — E s'è pasciuto di quella, — finì la minore in un trio di risatine. — Sapete che ha fissata da otto giorni una camera accanto alla sua? — Per la signora color _mauve_? — La quale non si decide ad arrivare. — Che sciocca! Le voci si confusero con lo sciacquìo dell'onde e Arturo uscì dall'ombra protettrice e si diresse quasi di corsa alla sua stanza. Non aprì la chiavetta della luce per non attrarre le zanzare e si appoggiò alla finestra fumando e meditando su quella conversazione, senza sapere se ne fosse divertito od offeso. — Il bell'Arturo, la camera attigua, la signora color _mauve_.... Tutto ciò era abbastanza buffo ed egli a poco a poco incominciò a sorriderne, come d'una piccola farsa di cui egli fosse l'involontario protagonista. Poi, richiuse la finestra, accese la luce e scrisse a sua madre una lunga lettera piena di affettuoso rammarico, che finiva col racconto esilarante della signora color mauve.... Il domani la camera accanto fu occupata da un maturo signore reumatizzato; e non appena Arturo scese s'imbattè nel vestibolo con la marchesina Oltano, la quale gli presentò sorridendo un ventaglio di cartoline illustrate a cui faceva da pernio il suo pollice dall'unghia acutissima. — È per beneficenza, signor.... — e appoggiò su l'interruzione quasi interrogando. — Derni, ingegnere Arturo Derni, — egli compì con un mezzo inchino, e porse alcune monete d'argento senza guardare le cartoline. — Grazie, — disse l'Oltano. — Sono per l'Asilo infantile. Quale sceglie? — Nessuna. Prego. Ella si strinse nelle spalle lievemente sdegnosa e uscì in fretta, ma nel varcare la soglia urtò col braccio arrotondato in uno spigolo e il ventaglio disfatto sparpagliò sul pavimento una dozzina di effetti lunari pateticamente verdognoli. Arturo s'inginocchiò a raccoglierli e tentò di ricostruire il ventaglio, mentre ella con le mani alle tempie rideva gaia e confusa, ripetendo: — Grazie, grazie, scusi.... Così avvenne che l'ingegnere Derni fu introdotto alquanto riluttante fra quella gente disoccupata che da otto giorni commentando il colore dei suoi occhi, la forma della sua bocca e la linea del suo torace, lo aveva soprannominato “il bell'Arturo„. Glie lo raccontò la marchesina Oltano la prima volta che, per diritto di civilizzazione, com'ella dichiarava col suo spirito mordace, riuscì a farsi portare in barca sopra un bellissimo mare tutto argenteo d'ombre e di luci crepuscolari. — Ma questo per un uomo è un'offesa, — rise Arturo remando, con la testa bruna buttata all'indietro e i capelli ondulati già confusi coi primi veli della sera imminente. — Tutt'altro: è una lode, — ella rispose fissandolo immobile, coi suoi grandi occhi divoranti. — Una lode piuttosto sarcastica, — commentò il giovane con serenità. Ella non rispose più, ma continuò a fissarlo con le pupille dilatate e il suo volto si faceva sempre più pallido. A un tratto si ripiegò su se stessa e mormorò dissimulando l'orribile spasimo della contrazione nauseosa: — Mi porti a riva. Vi giunse col viso verdastro e le palpebre nere, ma saltò dalla barca sorridendo, con quella forza di volontà che è nelle donne nervose un estremo di superbia. — Hai sofferto il mare? — le domandarono le amiche, attorniandola con sorrisi ambigui. — Affatto, care. Per nulla! Sto benissimo! Ma corse nella sua camera e si buttò sul letto sconvolta, dolendosi con gemiti d'ira contro quello stupido male che le aveva impedito di esperimentare, in un'ora così dolcemente complice, qualche suo sentimentale diritto di civilizzazione. Intanto Arturo, disteso sulla spiaggia, leggeva una delle solite lettere color eliotropio, consegnatagli allora e una signora matura confidava nell'orecchio di una signora giovine il risultato di certi suoi profondi studi psicologici ed estetici, compendiandoli in questa sentenza: — È un uomo pericoloso. E la signora giovine, ch'era sposata da un anno, una sera trovò anch'essa modo di farsi portare in barca dall'uomo pericoloso. Egli le parlò di Londra e di alcune usanze inglesi, di bagni di sole e di docce gelate e sebbene ella non soffrisse il mare, lo guardava e non rispondeva. Fecero il giro di un isolotto e tornarono al largo, mentre la signora continuava a tacere e a guardarlo, quasi fosse in attesa o stesse all'erta per la paura o per la speranza di una sorpresa. Presero terra dopo mezz'ora senza che nulla fosse accaduto, ma il marito della signora, giunto inaspettato in automobile, smaniando come una belva incatenata, artigliò con uno sguardo da Otello il bell'Arturo, poi spinse in camera la moglie, la costrinse a rifare i bauli e dopo una scenata violenta ripartì con lei a mezzanotte. — Povera signora! Me ne dispiace molto, — la compianse Arturo Derni il domani, quando gli narrarono ampiamente la drammatica scena dell'arrivo e quella clandestina della partenza notturna. Guardò lontano; oscurò un momento la sua faccia di giovine dio in riposo; poi s'immerse nella lettura di una rivista inglese. * L'autunno lo ricongiunse finalmente a sua madre. Egli incominciò a guarire di tanta nostalgia accumulata fuori di patria, a piegare il suo spirito mite e il suo cuore restìo alle gaie consuetudini della sua età e della sua condizione. Ebbe amici ed amiche, s'arrischiò con grazia a qualche avventura insolita e portò con elegante disinvoltura quel suo nomignolo pimentato di seducente malizia. Ma nell'inverno seguente sua madre seguì Giorgio alla Costa Azzurra e Arturo si ritrovò solo nella grande casa deserta. Fu così che un mattino, destandosi, gli balenò d'improvviso il pensiero di prender moglie e subito gli parve un eccellente proposito. Vi fantasticò una settimana o due e già incominciava a stancarsi di quel vano immaginare, quando una sera all'Opera gli parve di riconoscere in un palco un lontano congiunto di sua madre, nonno di due giovinette orfane che s'era raccolto in casa bambine. Dissipati i dubbi e fatto certo ch'egli aveva con sè una delle nipoti, salì a salutare il vecchio parente, e poichè la fanciulla era graziosa e lo guardava volentieri ridendo con bellissimi denti arcuati nelle gengive rosse, egli si adornò di tutti i severi titoli che gli servivano solo ormai come un abito di parata da indossare in onore delle persone serie e notò che gli occhi austeri del vecchio signore molto si compiacevano di quei lustrini e di quei pennacchi. Li accompagnò all'albergo e fu invitato per il domani a colazione. Egli sentiva di piacere alla giovinetta e sopportava amabilmente le indagini un po' pedantesche che il vecchio si ostinava a compiere su le ragioni della sua vita oziosa, così male adatta alla sua età e alla sua cultura. La mattina seguente, girovagando nei dintorni dell'albergo, scorse la graziosa fanciulla intenta a scegliere alcune rose nel canestro di una fioraia errabonda e si avvide di correre a salutarla con una impazienza piena di gioia e di meraviglia. Ella rispose al suo buon giorno avvampando nel chiaro viso diciottenne e sbattendo le palpebre come abbagliata da una luce soverchia. Il giovine acquistò tutte le rose e glie le pose fra le braccia, dicendole con ammirazione ch'ella pareva in quell'atto la stessa primavera. Ella rispose che si sentiva difatti quel mattino un'anima primaverile, ma che la sua felicità sarebbe stata breve come la freschezza di quelle rose. — Non dipende che da lei, signorina Franca, il farla durare tutta la vita, — insinuò Arturo a voce sommessa, e lo sguardo balenante con cui ella gli rispose senza parola fu una fervida dedizione e una promessa d'amore. Li salutò due giorni dopo alla stazione, stringendo intensamente la piccola destra di Franca e la sera stessa scrisse a sua madre chiedendole consiglio su quella possibile unione. Ne ebbe una risposta così calda di approvazioni e di incoraggiamenti che, senz'altre meditazioni, egli diresse al congiunto una formale domanda di matrimonio per la signorina Franca, sua nipote. Quindi attese, male dominando una ansietà nervosa, quasi sconosciuta fino allora alla sua tempra solida ed equilibrata. Ingannò quei giorni eterni consultando cataloghi d'arredi, attardandosi per via ad osservare i gioielli magnifici disposti sui velluti cupi delle vetrine, come costellazioni su cieli illuni, le pellicce preziose, felinamente distese oltre i cristalli, come fiere ancora vive in agguato, i grandi cappelli gravi come tiare per le piccole teste femminili fasciate di chiome attorte. E si sentì prossimo e pronto a quella chiara felicità ch'egli sentiva di ben meritare. Dopo dieci giorni la risposta giunse. Arturo la dissuggellò col cuore pesante come una pietra e alle prime linee si lasciò cadere in una poltrona. La lettera fredda e cortese chiedeva scusa del ritardo e lo attribuiva alle necessità di prudenza e di calma con cui un cauto informatore aveva assunto il suo delicato còmpito. Soggiungeva che dolorosamente tali informazioni non erano risultate troppo favorevoli al suo desiderio e alla sua domanda e che il tutore e nonno della signorina Franca si sentiva, per onestà di coscienza e per dovere, costretto a rispondergli con un rifiuto. Egli s'indugiava quindi in qualche consiglio e terminava con queste parole: “Se venir chiamato “il bell'Arturo„ ed essere considerato un uomo pericoloso per le donne può parere titolo di gloria a un giovine elegante nella società elegante, non è a parer mio, sufficiente garanzia per assicurare la felicità di una moglie. Il passo ch'ella vorrebbe tentare è abbastanza grave per esigere qualche esperienza di più, se pure qualche seduzione di meno.„ Arturo Derni sollevò gli occhi. Lo specchio di fronte gli rimandò uno di quei volti bellissimi sconvolti di passione, quali ne balzano allo sguardo in qualche antica galleria d'arte. E gli parve di detestarsi. LA SALVATRICE. Il giovane, disteso bocconi sulla spiaggia con le gambe affondate e nascoste nella sabbia calda, teneva il volto chino su le braccia ripiegate e pareva dormire o meditare al canto lungo ed eguale delle onde. Bianca Selmi lo vide per la prima volta in quell'atteggiamento di solitario scontroso e stanco mentre tornava dalla sua consueta passeggiata pomeridiana lungo il mare e rallentò il passo per osservarlo, ma poco più tardi, giunta alla piccola pensione ormai quasi deserta ch'ella abitava, stentò a riconoscere in lui il nuovo ospite giunto il giorno innanzi. Non più modellato dalla maglia nera che ne disegnava la linea agile e vigorosa, egli pareva più basso e più tarchiato e nella sua faccia pallidissima già solcata di rughe s'aprivano due occhi velati, assenti, quasi sperduti in una visione confusa e paurosa, due occhi che parevano guardare più in sè che attorno a sè, privi d'ogni desiderio e d'ogni curiosità. Quando s'alzò dalla tavola d'angolo ch'egli occupava presso la finestra, Bianca vide che trascinava penosamente la gamba destra e mentre i pochi altri commensali sollevavano il viso a osservarlo attentamente, ella abbassò gli occhi sopra un giornale, quasi per non ferirlo con quell'avido sguardo d'indagine che scruta un'infermità e che offende una tristezza. Egli se ne andò solo verso il mare che palpitava sotto le prime ombre del crepuscolo settembrino e sedette sulla rotonda deserta con le braccia appoggiate alla balaustrata e il capo sopra le mani, intento a guardare la luna che sorgeva a fatica da un cumulo di nuvolette. Bianca ne osservò passando il profilo schietto, leggermente aquilino, i capelli neri un po' buttati all'indietro e scompigliati dal vento marino che scoprivano la fronte diritta e gli facevano una testa romantica alla Jacopo Ortis. Ella ne sorrise fra sè passando e andò oltre; ma il mattino seguente, mentre si dirigeva alla rotonda col viso chino, intenta a girare con l'uncinetto intorno a un passamontagna di lana grigia che pareva un antico camaglio in maglia d'acciaio, lo ritrovò d'improvviso al medesimo posto e nella uguale posizione della sera innanzi, come s'egli vi avesse passata l'intera notte. Il giovane la vide e chinò il capo scoperto a un cenno di saluto al quale ella rispose con grazia sorridente, sedendo presso di lui in una sedia a sdraio. — Forse io disturbo la sua meditazione, — disse dopo un momento con un leggero rossore. E come egli scuoteva la testa un po' confuso, cercando senza trovarla qualche parola di protesta cortese, ella soggiunse: — Io vengo qui ogni mattina a lavorare per i miei soldati. Ho quindi su di lei un piccolo diritto di precedenza. Me lo concede? — Senza dubbio, signora. Mi perdoni anzi questa involontaria usurpazione. Io non sono che un ozioso e posso anche andarmene a oziare altrove. Egli tacque dopo aver pronunziato a stento queste parole, ansando come se avesse compiuto uno sforzo enorme e non potè neppure rispondere con un sorriso alla gaia risata con cui la giovane donna si dichiarò offesa e spaventata di tale minaccia. Sembrava comprenderla a mala pena e non rendersi pienamente conto del tono leggiero di quella conversazione, come se una lunga assenza dal mondo o una malattia grave avessero appesantito o depresso l'agilità del suo spirito. Bianca ne fu a un certo punto così incuriosita che tentò una vaga ricerca: — I suoi occhi sembrano quelli d'un convalescente, ma d'un convalescente che non abbia voglia di guarire. Il giovane sospirò e chiuse gli occhi ma dopo un momento li riaperse tutti grandi verso il mare e senza guardarla disse: — Sono uscito ieri l'altro dall'ospedale militare, ma non sono ancora guarito. Non potrò mai guarire. Ella lasciò cadere a terra il suo lavoro, tanto fu rapido il balzo col quale s'eresse. — Ferito in guerra? — domandò. — Sì, — egli mormorò. — Una scheggia di granata qui, nella gamba destra, e nel cervello uno smarrimento, un orrore, una visione così terribile che mi ha istupidito per sempre. Balbettando, interrompendosi, soffrendo, egli aveva confessato per la prima volta il suo male a una creatura viva e questa creatura era una sconosciuta non mai incontrata prima di ieri, una donna di cui non sapeva nulla, nemmeno il nome. Lontana e nemica egli possedeva un'agiata famiglia, padre e zii, fratelli e congiunti dei quali non aveva notizie da cinque anni e che ignoravano completamente la sua sorte. Prodigo discolo ozioso, era stato cacciato dalla casa paterna a diciott'anni e aveva errato il mondo alla ventura, senza recar danno ad altri che a se stesso, ora spinto dalle necessità della vita al più accanito lavoro, ora dissipatore spensierato di una improvvisa fortuna, abbastanza intelligente, tenace e orgoglioso per ricominciare da capo e abbastanza indifferente alla ricchezza per disperdere ancora al vento le sue fatiche. Al primo squillo di guerra era accorso sotto le armi e durante uno dei primi combattimenti era rimasto ferito. Nessuno aveva avvertito la sua famiglia, nessuno dei suoi era venuto a chinarsi sul suo guanciale per spiarvi in ansia le vicende dolorose del male. Egli stesso s'era rifiutato di dare il nome e il recapito di suo padre, assicurando d'essere orfano e solo. Ora, a convalescenza inoltrata, era venuto a cercare l'ultimo tepore dell'estate e la prima pace dell'autunno in quel paesello fra mare e colle già noto alla sua fanciullezza, dove la morbida spiaggia sabbiosa offriva alla sua stanchezza lunghi riposi e lunghi silenzi alla sua malinconia. Vagamente, a frasi disordinate e monche, egli raccontò qualche cosa della propria vita alla nuova amica ancora sconosciuta, ed ella gli disse il suo nome, gli narrò d'essere vedova e d'aver varcato di parecchi anni la trentina, gli confessò d'annoiarsi rassegnata, in quel villaggio di pescatori che un caso qualunque le aveva fatto scegliere per sua dimora. Ella parlava con una voce bassa di tono ma armoniosa e dolce, interrompendo a mezzo le frasi più gravi con una delle sue risate piene di gaiezza che invitavano al sorriso il suo ascoltatore, lasciandogli intravedere una di quelle rare anime rimaste giovani fresche e sane, nonostante le avversità e gli urti della vita. Anche il suo volto rispecchiava l'alacre giocondità dello spirito, tanto era chiaro, mobile, luminoso negli occhi e nei denti, quantunque non bello, di linee imperfette e quasi ancora infantili. Dario Restani, il ferito, non ne poteva staccare lo sguardo e gli pareva che un poco di quella vitalità gioconda penetrasse in lui attraverso ai limpidi occhi azzurri della donna, come una calda ventata di profumi agresti penetra in un sottosuolo pieno d'ombre e d'acque stagnanti. Insieme si diressero alla piccola pensione quasi deserta, ella moderando il suo passo agile e svelto, egli appoggiandosi meno penosamente al suo bastone. E tornarono nel pomeriggio presso il mare, l'una per fare il consueto bagno, l'altro per affondare nella sabbia calda la sua gamba non ancora risanata e chiedere alla salsedine e al sole la guarigione della sua carne inferma. Ma Bianca Selmi aveva intrapreso, senza quasi ch'egli se ne avvedesse, la guarigione del suo spirito assai più gravemente malato del suo corpo e gli parlava, lo interrogava, gli sorrideva, scuoteva quell'anima dalla sua fosca inerzia, gli metteva nella mente baleni e battiti nel cuore. A grado a grado il doloroso intontimento del suo cervello che un terribile spettacolo di carneficina e di morte aveva riempito di confusione, di smarrimento, d'orrore e forse annebbiato per sempre, si risollevava, sospinto da quell'incitamento, in una luce nuova e diversa, riacquistava vigore e disciplina, viveva di una propria vita, guariva. Dario Restani potè dopo una settimana raccontare alla sua amica, con una certa lucidità di memoria e d'impressioni, le fasi dell'assalto al quale aveva partecipato e alcuni episodi di trincea del tempo che l'aveva preceduto. Bianca se ne rallegrò come di un proprio trionfo. La prima volta ch'ella aveva arrischiato su quell'argomento qualche domanda, egli s'era oscurato in volto rivolgendo altrove lo sguardo pieno di terrore e balbettando a stento: — Non so, non so, non ricordo. La prego, non parliamo di questo. Dopo qualche tempo egli incominciò a osservarla e a commentare gli abiti che Bianca indossava, dimostrandosi abbastanza esperto in fatto d'acconciature femminili. La giovane donna rideva del suo fresco riso comunicativo e lo canzonava amabilmente, incitando la sua vanità di bel ragazzo, certo un tempo fortunato conquistatore. Ed egli si prestò tutto lieto a quel gioco elegante, si pose a farle una piccola corte fra galante e tenera, dimenticò d'essere un convalescente, quasi ancora un malato. Non zoppicava più quand'ella lo guardava, discorreva con leggerezza e con spirito delle molte cose che la sua avventurosa esistenza gli aveva insegnato e si compiaceva di stupire Bianca ripetendole una frase amorosa in tutte le quattro o cinque lingue ch'egli correntemente parlava. Ridevano insieme come due ragazzi guazzando nell'acqua o rincorrendosi sulla spiaggia nelle giornate di sole, e a Dario pareva di ritornare fanciullo e di giuocare con qualche amica della sorella nel gran giardino della casa paterna, sotto la vigilanza della vecchia istitutrice inglese, la quale sollevava di quando in quando lo sguardo dalla Bibbia e lo chiamava a sè per ammonirlo con la sua voce gutturale. Un giorno essi finivano di prendere il tè sulla spiaggia, nella mitezza del primo sole d'ottobre, quando la cameriera della pensione li raggiunse correndo e annunziò a Dario che un vecchio signore, arrivato in automobile, chiedeva di parlargli. Egli pensò trattarsi di qualche ufficiale superiore venuto a informarsi della sua convalescenza o a richiamarlo in servizio e accorse prontamente scusandosi e pregando l'amica di attenderlo. Bianca lo attese un'ora e già si risolveva ad andarsene quando Dario le venne incontro con una faccia sconvolta. — È giunto mio padre, — egli disse a bassa voce. — Desidera ch'io riparta con lui questa sera, ch'io ritorni a casa. Me ne scongiura piangendo. È venuto a prendermi. Ella ascoltava e taceva, col cuore improvvisamente stretto da una oscura pena. — Mi dica, mi dica, amica mia, che debbo fare? Mi supplica fra le lagrime di andare a vivere con lui. È solo, è vecchio, è malato. I miei fratelli sono tutti sposati e vivono lontano. Ha saputo, non so come, ch'ero ferito, è riuscito a trovarmi e vuole trascinarmi via con sè. Che debbo fare? Ella tentò di sorridere come prima, come sempre, ma le sue labbra ebbero solo una contrazione dolorosa. Anche la sua voce tremò e suonò alle sue stesse orecchie mutata mentre ella diceva con uno sforzo: — Non può rifiutare. Vada, vada con suo padre. A un vecchio padre che prega non si può dire di no. V'era nelle sue parole un sapore un poco amaro, che Dario confusamente sentì. Egli soggiunse: — Si stava tanto bene qui insieme noi due. La sua amicizia mi ha guarito. Debbo restare, mi dica, debbo restare? Mio padre ha sempre contato così poco nella mia vita! Un'amica è talvolta più d'un consanguineo. Non dipende che da un suo consiglio. Che debbo fare? Ella inghiottì il nodo di pianto che le serrava la gola e con un sorriso quasi eroico mormorò quel consiglio: — Vada. È bene che vada. Dario le baciò le mani e s'allontanò in silenzio. Ella si distese sulla spiaggia, nascose il volto sulle braccia ripiegate e guardò atterrita nel proprio cuore. Ella aveva dato all'amico la guarigione e ne aveva ottenuto in cambio un altro male, un male più triste di qualsiasi infermità della carne: una inutile passione. La salvatrice s'era ella stessa perduta. Rimase così fino a sera ad assaporare uno spasimo lacerante e quando rientrò nella sua camera sfinita d'angoscia, seppe che Dario Restani era partito. L'INTRUSA. Nello scompartimento “signore sole„ le due donne viaggiavano d'oltre un'ora senza dirsi una parola, quasi senza guardarsi, immersa ognuna nei propri oscuri pensieri. Non si conoscevano: gli occhi, l'anima, la vita dell'una erano completamente ignoti agli occhi, all'anima, alla vita dell'altra, eppure un'intima, segreta preoccupazione, quasi un indefinibile disagio non le lasciava completamente indifferenti ed estranee come due viaggiatrici che l'indicazione di un orario ferroviario avvicini per alcune ore e poi separi per sempre. Ognuna confusamente avrebbe desiderato che l'altra non fosse là, seduta in faccia a lei, con l'ombra di un occulto dolore diffusa sul volto stanco, con la traccia di un pianto recente sulle palpebre enfiate, con la piega dell'amarezza sulla bocca pallida. Si riconoscevano entrambe rattristate da una comune e pure ignota angoscia, la quale era costretta a contenersi e a raffrenarsi per la presenza di quell'altra spettatrice e si irrigidiva ognuna nel proprio chiuso affanno, gettando tuttavia di quando in quando uno sguardo fra adirato ed ostile alla muta compagna che le sedeva di fronte. Una delle viaggiatrici era giovane e bionda, ma alquanto pingue e vestita con una ingenua eleganza provinciale. Portava un mantello chiaro che ne disegnava senza grazia la persona esuberante e un cappello adorno di piume ad ala tesa il quale le impediva di appoggiarsi allo schienale, costringendola a rimanere rigida e impettita nella più incomoda delle posizioni. Il viso che doveva aver brillato di singolare freschezza, era uno di quei volti a tratti piccoli ed irregolari i quali appassiscono rapidamente e sembrano chiudersi su se stessi come i fiori avvizziti, non appena la primissima giovinezza è passata. Ella teneva quasi sempre il capo abbandonato sulla mano, nascondendo la faccia sotto l'ala del cappello e le dita che stringevano un piccolo fazzoletto orlato di trina si portavano di tanto in tanto furtivamente agli occhi quasi per tergervi un irrefrenabile pianto. L'altra viaggiatrice poteva contare cinquant'anni ed era grigia di capelli, magra di volto e di persona, ma improntata nelle vesti, negli atti, nel portamento del capo e delle spalle a una grande distinzione, a una severa dignità. Tutta in nero, pur senza crespi di lutto, con uno stretto cappello di velluto che le concedeva di adagiarsi senza impaccio nel suo angolo, ella aveva appoggiato il capo allo schienale e con gli occhi chiusi, il viso pallido e fine sotto il velo fitto, rimaneva immobile in un atteggiamento di inerte abbandono e insieme di rassegnata tristezza. Le sue mani, nascoste in un grande manicotto di volpe nera, uscivan tratto tratto or l'una or l'altra con un movimento incosciente ad accarezzare la copertina d'un volumetto ch'ella teneva sulle ginocchia e le sue dita nervose lo aprivano e lo richiudevano ripetutamente, mentre una ruga si incideva sulla sua fronte fra l'ali grige dei capelli ondulati, e il petto esile tra i risvolti dell'abito nero si sollevava, quasi a trattenere un'onda di angoscia irrompente. Andavano così da più ore in quel treno semideserto attraverso alla campagna solitaria, fermandosi in brevi soste a qualche piccola stazione sperduta e cadeva intanto a poco a poco la sera violacea sui campi. Presso ad ogni fermata ciascuna delle viaggiatrici gettava sull'altra un rapido sguardo d'indagine e pensava: — Ora essa scenderà. Ora io rimarrò sola col mio dolore senza che codesta importuna compagna mi osservi e mi commenti. Ora io potrò finalmente piangere, gettarmi sul divano e singhiozzare e gemere e non più comprimere dentro di me questo male che mi torce il cuore. Ma il treno dopo una breve sosta ripigliava la sua corsa e nessuna delle viaggiatrici scendeva. S'addensò la sera violacea sui campi, vi cadde la notte nera punteggiata in alto da uno sfolgorìo di stelle e le due donne ignote gettate dalla loro sorte attraverso alle buie strade del mondo, andavano andavano senza tregua, sedute l'una di fronte all'altra, mute e ostili, portando ognuna nell'anima oscura il suo triste segreto. Ora la più giovane s'era tolto il cappello troppo ampio, e con le chiome abbondanti pettinate semplicemente e disposte a treccia intorno al visetto stanco appariva meno goffa, quasi infantile pur nel suo precoce sfiorimento. Meno padrona di sè della vicina, si abbandonava ora alla propria disperazione celandosi nell'ombra che riempiva gli angoli dello scompartimento e lasciava sfuggire qualche gemito dal petto oppresso e pieno di singulti. La matura signora rimase qualche tempo ad ascoltare immobile quel pianto, più infastidita che commossa, quindi ritenne suo dovere, dovere di semplice umanità, di tentare una vaga parola di conforto. — Signora, non si disperi così, — disse con la sua voce che era dolcissima e piena di inflessioni calde, come dev'essere la voce educata di una dama, — quel pianto le farà certo più male. — È impossibile, — gemette l'altra senza sollevare il volto che teneva chiuso nelle palme e nascosto incontro allo schienale. — Quello ch'io soffro è così orribile! Mi sembra di morire, di morire anch'io con lui. E non mi resta altro da desiderare. — Se il dolore di un'altra donna può confortarla, pensi che la mia angoscia è forse più grande della sua, sebbene certo diversa, — mormorò la signora attempata chiudendo gli occhi e sospirando profondamente; ma la sua compagna si strinse nelle spalle e crollò il capo in un disperato diniego. Tacquero entrambe di nuovo, e la matura dama scrutò per un lungo momento nell'ombra la persona accasciata e sconvolta della giovane donna, e non aggiunse parola. Ma pensava intanto con amara meraviglia: — Anche costei va dunque incontro a qualcuno che muore, a qualcuno che ella ama? E chi sarà quest'altro agonizzante? Un fratello, un amante, un marito? V'erano dunque tanti che stavano morendo a quell'ora stessa? Ella non rivolse più la parola alla sconosciuta, ma nell'ombra dello scompartimento, sotto la lampadina velata intensamente d'azzurro, incominciò pur essa a piangere in silenzio. Piangeva senza un singhiozzo, senza un sospiro, senza un gemito le sue terribili lagrime materne che fino allora non avevano potuto sgorgare. Piangeva quasi per una comunicazione di debolezza dinanzi alla desolata anima umilmente messa a nudo da quell'altra afflitta. E se ne sentiva sollevata pur nella tragica incertezza in cui si dibatteva fra le ardenti speranze del cuore e gli sconsolati ammonimenti della ragione. Poichè la donna matura correva a vedere e a salutare forse per l'ultima volta il suo figliuolo moribondo. Egli era partito quattro mesi innanzi per una cittadina del Veneto, vestito d'una bella divisa di ufficiale, seduto al volante della sua veloce automobile, allegro, disinvolto, brillante come ella non l'aveva mai veduto. E le sue lettere piene di gaiezza e di entusiasmo le erano giunte a intervalli frequenti e irregolari, rassicurandola sempre più ch'egli non correva quasi pericolo e che viveva lietamente e gagliardamente la sua avventurosa e varia esistenza di guerriero moderno. Senonchè un giorno, in mezzo alla più illusa e fiduciosa tranquillità, un telegramma con poche ma orrende parole le era giunto: “Suo figlio gravemente ferito disastro automobilistico. Parta subito„. Inebetita di terrore ella s'era buttata nel primo treno in partenza, e durante le lunghe ore del viaggio una specie di torpore fisico e spirituale s'era impadronito di lei, l'aveva tenuta ferma, immobile, quasi impassibile fra quelle quattro brevi pareti, rassegnata fatalmente alla lentezza di quel cammino che la portava incontro a suo figlio morente, forse a suo figlio morto. Soltanto la presenza di quell'altra creatura dolorante, salita poco dopo di lei, le era sembrata dapprima intollerabile. Quella compagna impostale dalla sorte l'aveva costretta forse a chiudere dentro di sè, con più rigida austerità, il suo dolore lacerante, per quell'istintivo pudore composto di sensibilità e di orgoglio che aveva improntato tutti gli atti della sua vita di signora nobile e ricca. L'ignota compagna continuava intanto a gemere nell'ombra con sollevamenti di singhiozzi in tutta la persona accasciata, quando il treno si inoltrò sotto una tettoia appena illuminata e qualcuno gridò il nome d'una città. Era una stazione d'arrivo, il treno non andava più oltre. Tutti scendevano. Scesero anche le due viaggiatrici e scomparvero piccole e nere per due strade diverse, inghiottite dalla oscurità paurosa che avvolgeva e proteggeva quella città di confine esposta agli attacchi di un aereo nemico. Giunse la madre presso il letto di suo figlio moribondo e lo trovò desto ad attenderla, con gli occhi e le gote accesi dalla febbre, ma tremendamente presente a sè stesso e consapevole del suo stato. Le sorrise fievole e si lasciò baciare sulla fronte fra i capelli scomposti che ella con l'atto consueto della sua mano bianca e leggiera tentò di ravviare. — Baciami, mamma, che me ne andrò presto, — le susurrò con uno sguardo di desolata implorazione. Ella stoicamente potè reprimere l'irrompere di un grido che la strozzava e sedere accanto a lui accarezzando le sue mani con trepida tenerezza. — Ti vorrei dire una cosa, — egli le mormorò quasi all'orecchio, battendo le palpebre con una timidità ritrosa che sua madre gli aveva conosciuta ai tempi dell'adolescenza. — È una cosa molto difficile a dirsi, — egli continuò parlando lento e aprendo e chiudendo le dita con un gesto nervoso, mentre il suo povero petto lacerato dall'urto del volante ansava di pena e di fatica. — Dimmi, dimmi, caro, — lo incoraggiò la madre ansiosamente curva su di lui. — C'è una donna, — riprese il malato a stento, quasi in un balbettìo sommesso, — c'è una donna da cui ho avuto un figlio sei anni fa e che ho sposato. La madre strinse le mascelle e chiuse gli occhi. Fece dentro di sè, nel suo cuore orgoglioso il vuoto e il silenzio, si impedì di giudicare quel suo figliuolo morente che si confessava a lei. — Il bambino è morto, — potè dire ancora l'infermo dopo una pausa, — ma ella è qui, ella vorrebbe vedermi un'ultima volta. La madre alzò gli occhi al cielo, come per accettare quella suprema tortura, poi disse con voce rassegnata: — Venga pure, io mi ritiro. — No, mamma! Non mi lasciare! — supplicò il malato afferrandole le mani. — Bisogna che tu sia qui, bisogna che tu la veda, che tu le parli, che tu dopo.... dopo che me ne sarò andato la consideri un poco, oh! solo un poco, come una tua figlia. — Ma, fanciullo mio, questa donna mi è sconosciuta. Forse non ha meritato il tuo amore, forse non meriterebbe quello che tu chiedi a me. Tu vuoi farmi accogliere e amare una creatura ch'io non ho mai incontrata sulla mia strada, di cui non so nulla, nè il viso nè il nome, che forse s'è attaccata a te per un basso interesse, senza un vero affetto, indegnamente. — No, mamma, è buona. Era una povera bimba sola ed io l'ho fatta tanto soffrire! Io le ho fatto tanto male! Tu mi perdonerai e le perdonerai, non è vero? Tu le vorrai un poco di bene? — È ben duro ciò che tu chiedi. La madre trasse a denti serrati un lungo, profondo sospiro, poi chinò il capo grigio sul letto e attese. — Posso farla chiamare, mamma? Ella accennò di sì a testa curva, in silenzio, e con la faccia sconvolta nascosta fra le palme, con un tremito convulso nelle gracili spalle, aspettò che entrasse la moglie di suo figlio. Sentì la porta aprirsi dopo un momento, sentì qualcuno entrare di un balzo, cadere su di lui, coprirlo di baci gemendo e singhiozzando, chiamandolo a nome perdutamente. Rimase ancora affondata sulla sponda di quel letto, nel terrore di sollevare lo sguardo su quella donna ignota che si gettava improvvisamente nella sua vita per essere protetta e amata, rimase immobile ancora un attimo ad immaginare l'aspetto di quella intrusa, oscuramente partecipe della esistenza di suo figlio, misera preda d'amore tenuta nascosta per non ferire l'orgoglio del loro nome, la quale si presentava ora, fra gli sgomenti e i pentimenti di un'agonia, a spargere le sue lagrime e a chiedere la sua parte di pietà. — Mamma! — la implorò roco il moribondo sfiorandole con una tremula mano la spalla. Allora ella si sollevò, guardò la donna inginocchiata presso il letto, quasi ai suoi piedi, e riconobbe la sua compagna di viaggio. L'UOMO TINTO. — Eccolo! Eccolo! — annunziò la giovine signora sporgendo il busto dalla balaustrata dell'alta terrazza. E con la mano sottile, dalle unghie molto rosee, additò qualcosa di nero che camminava con lentezza per la strada bianca, laggiù. Nell'atto l'ampia manica del suo chimono di crespo azzurro scivolò e apparve la morbidezza chiara del suo braccio tornito che molte armille d'oro tintinnanti cingevano al polso. Il giovane che le stava alle spalle buttò la sigaretta e l'afferrò all'avambraccio quasi con durezza. — Perchè ti occupi di quel vecchio avanzo d'umanità miseranda? — Miseranda? — ella ripetè, volgendosi a balenargli in faccia il suo riso. — Dicono che quel vecchio avanzo d'umanità possegga parecchi milioni accumulati in mezzo secolo di losche speculazioni e d'esosa avarizia. — Fa schifo. Dev'essere un ebreo usuraio. — Usuraio certo, ma ebreo no. Appartiene anzi a una cospicua famiglia e si fregia d'un titolo nobiliare. — Davvero? Me ne rallegro tanto. — Si chiama il marchese Licandri. Suo padre fu ambasciatore, sua madre era una principessa polacca. — Non si può affermare che il discendente abbia aggiunto lustro alla gloria degli avi. Ma chi ti ha così ampiamente informata sul passato e sul presente di quell'individuo? Parlando egli le cinse la vita col braccio e la costrinse a rientrare nella saletta da pranzo dove, sulla tavola ancora apparecchiata e lucente di cristalli e di metalli, la cameriera serviva il caffè. La giovane coppia, sposata da un anno e mezzo e tuttora immersa in tenerezze blande di nuzialità, abitava da una settimana in quel grande casamento moderno a molti piani e a molti strati umani sovrapposti, dove si rifugiava a vivere la sua ristretta esistenza borghese un piccolo mondo ancora ad essi sconosciuto. — Chi m'ha informata? — ripetè Nora Dellaris, la donna dal chimono azzurro, sedendo dinanzi alla sua tazza e rimestando lungamente il caffè. — Un'antica amica di mammà che tu non conosci, perchè ora vive in campagna, ha abitato per alcuni anni in questa casa e conosce minutamente la storia e la genealogia di tutti coloro che vi abitavano al suo tempo. — Sostò un momento, inghiottì un sorso e proseguì con un sorriso acuto: — È una donna che meriterebbe di essere assunta come agente informatore al servizio di qualche polizia segreta, tanto è avida di conoscere i fatti altrui, tanto è ostinata nel rintracciarli e sagace nello scoprirli. — Io la definirei più semplicemente un'intrigante curiosa e pettegola, — dichiarò suo marito con aria sprezzante. — Hai torto. È una persona interessante perchè conosce od ha l'aria di conoscere i suoi simili come il romanziere conosce i personaggi dei suoi libri. — E allora ho ragione di chiamarla pettegola. È evidente che, quando non sa, inventa. — Credo che inventi di rado. Possiede il fiuto d'un vecchio cane da caccia che non s'inganna seguendo una pesta. Mio fratello se ne servì molte volte quando andava in cerca di persone facoltose e generose per.... La voce di Nora s'abbassò e s'interruppe. Ella chinò il viso rabbuiato su la sua tazza sfuggendo per un momento allo sguardo di Riccardo che gettava all'aria larghe boccate di fumo torcendo la bocca con disprezzo. — Per farsi pagare i debiti, — egli concluse con una smorfia espressiva, e soggiunse a mezza voce: — e per fuggirsene poi chi sa dove, a finire i suoi giorni chi sa come. — Buttò la sigaretta, la guardò fumigare e spegnersi sul portacenere d'argento, e s'alzò parlando con ostentata gaiezza: — Dunque, che cosa ti ha narrato la tua informatrice su quel blasonato rudere umano? — Ti ho già ripetuto tutto quanto so, — rispose Nora di nuovo rinfrancata. — Che ha un titolo, molti quattrini, quasi sessant'anni e che si tinge capelli e barba con una miscela di sua fabbricazione che, per ragioni d'economia, si prepara egli stesso nel mistero impenetrabile di casa sua dove nessuno è entrato mai. — Magnifico! — esclamò Riccardo in una beffarda risata. — Quell'uomo è il poema della sordidezza, è l'apoteosi vivente dell'avarizia. — Qui nella casa e nei dintorni, — informò Nora, — lo chiamano soltanto “l'uomo tinto„, perchè quell'intruglio quasi nero e molto semplicista di cui s'impiastriccia il viso, sconfina spesso dai limiti che gli sono assegnati, con un effetto di comicità ed anche di trascurata pulizia più grave anche di quanto forse in realtà non meriti il vecchio marchese Licandri. — Si direbbe quasi che vuoi assumerne la difesa, — notò il marito alquanto sarcastico. — Tu scherzi, Riccardo, — ella sorrise con una blanda protesta. — Sì, scherziamo da dieci minuti tutti e due, smarrendoci in chiacchiere inutili su questo nostro sconosciuto vicino di casa, il quale appartiene a quella numerosa categoria del nostro prossimo che è, e che ci sarà sempre profondamente indifferente. Nora, dammi le tue mani. Riccardo prese fra le sue le sottili mani ch'ella gli tendeva e si chinò a baciarle nelle palme; poi le accarezzò i capelli e baciò le fresche labbra su cui errava un sorriso distratto. — Ora vado, amore caro. Il dovere mi chiama, — e s'avviò all'anticamera, infilò il soprabito parlando con leggerezza serena. — Oggi debbo difendere un ladruncolo che tagliò una tasca per rubare un portafogli. Il derubato, che è un ricco signore, non se ne accorse e avrebbe creduto a uno smarrimento se non si fosse trovato il taglio nella giacchetta. Ciò lo indusse a denunciare il furto e a far acciuffare l'abile ladro. — Che peccato! — esclamò Nora crollando la testa bionda. — Che peccato? — rise Riccardo con gaio stupore. — Ma io scopro in mia moglie un'anima di delinquente. — Rubare ai ricchi non è un atto di delinquenza. È così giusto ed è così umano! — ella sospirò. — No, mia piccola Nora. Sei troppo graziosa per parodiare Carlo Marx, — l'ammonì suo marito dirigendosi alla porta. — E poi, le donne belle non hanno bisogno di rubare. Ottengono tutto con assai meno fatica e con assai meno rischi. — Tu credi? — ella domandò senza sorridere e il marito non sentì l'ironia sottile che vibrava nella sua voce. La salutò dalla soglia con un gaio cenno della mano e corse via canterellando. Nora Dellaris richiuse la porta alle spalle di suo marito e andò a guardarsi nel grande specchio appeso sull'antica cassapanca dell'anticamera. — Le donne belle ottengono tutto, — si ripeteva, osservando il suo volto emergente dallo sfondo in penombra. E sogghignò con amarezza a quell'altra Nora che la fissava con due occhi bui, stringendosi intorno alla persona le pieghe del suo chimono azzurro e sospirando a denti chiusi, come sospira la malinconia aspra e desiderosa. Sapeva d'essere bella e riconosceva che ben poco le aveva concesso la sorte in omaggio alla sua bellezza. Vi pensava talvolta con una tristezza irosa la quale si placava poi a poco a poco nell'inerzia indolente che viene dalla certezza di trovarsi di fronte alle cose ineluttabili. Ora le parole leggiere di Riccardo le risuscitavano in cuore l'antico malcontento di donna insodisfatta. E rientrò nella sua camera da letto, s'abbandonò sul lungo divano senza spalliera, alla Récamier, chiudendo gli occhi assorta in una inquieta meditazione. La ricchezza! Ella non la possedeva. Non godeva di ciò che un poeta ha definito: quella spaventosa meraviglia che si chiama il denaro. La posizione del marito le concedeva una piccola agiatezza discreta, misurata giorno per giorno col compasso limitato della possibilità. Aveva dinanzi a sè la sicurezza di un domani sempre eguale e sempre mediocre, privo dei bei capricci e delle improvvise follie che la ricchezza consente. Ed era giovane, poichè non contava ancora i trent'anni. Si sentiva più giovane pel desiderio di vivere e di gioire che le riempiva le vene. Amava avidamente le cose rare, magnifiche e preziose, sacre alla vanità e al lusso femminile. Le sete molli che accarezzano le carni, i profumi intensi che stordiscono come gli oppiati, i gioielli che splendono sui velluti delle vetrine come stelle su firmamenti bui. E le lucenti macchine sorvolanti sulle vie polverose, i cavalli agili lanciati al galoppo vertiginoso tra eleganti folle in attesa fremebonda, le ville sognanti dietro cancelli dorati, immerse in verzure cupe, rifugi fastosi del godimento, ove la vita sembra trascorrere come una voluttà senza fine. Nora s'alzò con impeto dal suo divano e mosse alcuni passi per la stanza, come per scacciare da sè quelle visioni tormentose e ostinate. Un mazzolino di ciclami moriva lentamente con l'umile grazia dei fiori di selva in un vasetto di fiorazzo pesarese a vivaci colori posato sul piano della piccola scrivania. Ella lo odorò socchiudendo gli occhi, a lungo, poi staccò alcune di quelle corolle rosee e le sminuzzò fra le dita nervose. Perchè torturarsi nella vanità irritante di quei pensieri tante volte scacciati come tentatori inutili e grotteschi? Ancora una volta ella li allontanava con molestia irosa sentendoli puerili e stolti, ma nondimeno, ritta in mezzo alla stanza, con le sopracciglia congiunte sugli occhi fissi al suolo, ella vedeva passare dinanzi a sè, come poco prima dall'alta terrazza, la figura nera di quel vecchio vicino, ricco, avaro e ritinto che le aveva forse ricondotto in cuore l'antico tormento sopito. Perchè mai quell'uomo, che racchiudeva nei suoi scrigni quella forza stupefacente e prepotente con cui tutto si può ottenere, anche l'illusione della felicità, preferiva invece di vivere come un povero, in una solitudine umile e gretta, ostentando dinanzi al prossimo che lo scherniva quella sua persona meschina, intorno a cui aleggiava un sentor losco di mistero e d'intrigo? Costui possedeva il mezzo prodigioso con cui ammansare le ferocie dell'umanità, con cui piegare ai suoi piedi in adorazione coloro che adesso lo deridevano e non se ne serviva nè contro di loro nè in pro di se stesso. Vegetava solo, contando il suo danaro, infagottato in vecchi abiti male odoranti, in poche stanzette buie dove nessuno entrava mai, mentre avrebbe potuto vivere in un palazzo sfarzoso, fra domestici esperti in tutte le arti del servire, fra donne esperte in tutte le arti dell'amare, godendo nei pochi anni che ancora gli restavano tutte le obliose dolcezze che quel cumulo gelido di carte racchiuse in un mobile tarlato inutilmente gli offriva. Ed ella si domandava con uno scatto di sdegno quale insensato, quale incosciente, quale bruto fosse dunque costui. Ella si chiedeva che cosa fossero state la giovinezza e la maturità di quest'uomo per ridurlo nella vecchiaia a quella volontaria miseria, a quella rinunzia cercata di tutti i beni considerati necessari o invidiabili nel mondo che lo circondava. Che era dunque mai quest'uomo? Un filosofo, un pazzo, un disilluso? Di nuovo ella si scosse e sogghignò di se medesima e del suo vaneggiare. Entrava il sole dall'alta finestra aperta sul cielo chiaro, alcune rondini guizzavano per l'azzurro con strida giulive di bimbe inseguite, un orologio non lontano suonò in cadenza squillante tre colpi. Nora rammentò che doveva uscire poco più tardi e incominciò lentamente a vestirsi. Vi pose una cura minuziosa, quasi amorosa come sempre quando s'occupava della propria persona. Infilò le lunghe calze di seta, aerea trama nera sul biancore opaco della carne, e le scarpette lucenti su cui il largo nodo si posava, come una farfalla bruna sopra un fiore notturno. E quando ebbe indossato l'abito di velluto molle appena chiuso alla cintura e il cappello stretto da cui sfuggivano alcune ciocche bionde, s'avviò verso l'uscita calzando indolentemente i guanti di camoscio bianco. In anticamera diede qualche ordine alla cameriera e si trovò sulle scale sfolgorate dal gran sole che penetrava dalle finestre a vetri colorati. Scendeva senza affrettarsi, calcando ogni gradino, col suo passo abbandonato e pigro di donna che spesso sogna e meglio che nella vita ritrova se stessa in qualche angolo incantato della fantasia. Scendeva languidamente nella chiarità calda di quel pomeriggio d'avanzata primavera, chè le torbide meditazioni di poco prima, pur già lontane e quasi dimenticate, le avevano lasciato dentro un amaro di cose insodisfatte, un rimpianto non ben definito, ma tuttavia acre e bramoso. Sentiva in sè l'oppressione delle sue volontà inappagate e inappagabili sotto forma di quella inquietudine oscura che quasi sempre l'accompagnava, ma che oggi non riusciva a dominare, nemmeno con l'aridità voluta dal suo scetticismo. Quando fu in fondo alle scale e prima di percorrere l'androne che s'apriva sul viale deserto, si fermò e chinò il capo intenta ad abbottonare sul polso uno dei suoi lunghi guanti scamosciati. Ma quando sollevò lo sguardo, lo fissò dinanzi a sè pieno di meraviglia. Il suo vicino di casa, il marchese Licandri, l'uomo tinto, percorreva l'atrio invaso dalla luce variopinta delle vetrate a colori. Si avanzava lento verso di lei, appoggiato al suo bastone di canna d'India, a brevi passi misurati e a testa alta, fissandole in volto due rotondi occhi azzurri, due pupille chiare, quasi fanciullesche nella devastazione senile del viso, e quello sguardo che non si staccava da lei e pareva al tempo stesso implorare perdono per la propria insistenza inopportuna, manifestava un'ammirazione stupita e profonda, traduceva l'adorazione muta d'un uomo che contempla una cosa bella e se ne compiace, che osserva un tesoro non suo e se ne duole. Anche la giovine donna lo guardò e si meravigliò di non trovarlo così ributtante come lo immaginava. La povertà dell'abito, la trascuratezza disordinata della persona, la barba a chiazze nerastre che gli invadeva metà del volto le sembrarono quasi bizzarrie sdegnose di uno spirito strano che abbia in disprezzo l'umanità. Sempre fissandola egli le passò accanto, si levò il cappello in un gesto rispettoso di saluto e le parve in quell'atto meno sinistro e meno brutto, con l'alta fronte scoperta e i capelli buttati all'indietro. Portava un colletto molle arrovesciato sopra una cravatta nera e svolazzante, una redingote sciupata e d'antico taglio, scarpe di grosso cuoio su cui ricadevano i pantaloni troppo lunghi. Così magro, giallastro e dimesso pareva un vecchio professore a riposo, o un vecchio artista deluso e affamato. Poteva forse anche sembrare una persona rispettabile senza quell'incerto colore di nero-fumo che gli si diffondeva intorno alle orecchie e alla nuca e rappresentava per lui una lontana illusione della giovinezza da tanto tempo perduta: strana contradizione, stonatura grottesca con quella sua figura meschina d'usuraio, con quella sua anima avida d'avaro. Esisteva dunque in quell'uomo, oltre al tenace amore per il denaro, anche il bisogno di dissimulare la sua vecchiaia, indizio confuso ma certo d'un sopravvivere d'aspirazioni o di desideri in contrasto con l'egoistica linea di vita che egli pareva seguire. Passò oltre, salì i pochi gradini che lo conducevano al suo alloggio, un piccolo appartamento a terreno che s'apriva sul pianerottolo semibuio. Trasse dalla tasca una chiave, aprì adagio la porta dissimulata nell'ombra e si rivolse un'ultima volta ad ammirare la bella signora bionda, tuttora ferma nella gran luce variopinta che scendeva dalla vetrata. Ella, a testa china, di sotto il suo velo arabescato, di sotto alle ciocche dei suoi capelli, gli lanciò uno sguardo furtivo, balenante di curiosità, mordendosi il labbro quasi in un trattenuto sorriso. L'uomo si levò di nuovo il cappello e rimase così, appoggiato allo stipite della sua porta aperta come ad un invito, rimase a contemplarla dalla soglia della sua casa misteriosa dove nessuno era entrato mai, finchè ella non ebbe percorso l'atrio deserto che risuonò sotto il tacchettio dei suoi tacchi parigini, finchè ella non fu scomparsa nell'arco verde del viale. Passarono gli anni. Il vasto casamento moderno che rifugiava sotto il suo tetto immenso tanta diversa umanità, mutò e rimutò più volte i suoi ospiti, oscurò di polvere grigia i colori smaglianti delle sue vetrate, ingiallì con la patina del tempo la bianca vernice delle sue pareti, vide entrare coppie di sposi impazienti dopo le nozze, vide uscire neonati vocianti portati al battesimo, vide andarsene morti taciturni, nelle chiuse bare coperte di drappi neri. Ma non ostante il tempo che tutto cambia e molto distrugge, qualcuno rimaneva ancora dopo anni e anni a vivere entro le stesse stanze la sua esistenza consueta, dietro una delle porte allineate sui pianerottoli, sulle quali la targhetta di metallo col nome inciso in nero sembrava il numero d'ordine cucito sul berretto del detenuto. L'uomo tinto abitava sempre nel suo buio alloggetto del pianterreno, la coppia Dellaris non aveva abbandonato il suo chiaro appartamento dell'ultimo piano. Ma il nome del vecchio marchese ricchissimo e avarissimo non tornava più nei loro discorsi. Lo guardavano ormai dall'alta terrazza uscire e rientrare, lo vedevano passare e ripassare nero, curvo e sfuggente sotto i loro occhi, senza interesse e senza curiosità, figura ormai sbiadita, profilo comune nel piccolo cerchio del loro orizzonte quotidiano. Talvolta Riccardo, il marito, gli dirigeva ancora nei giorni d'umor gaio qualche innocua ingiuria o qualche allegro motteggio sperduto tra il fumo della sua sigaretta, ma Nora pareva non udire e non rispondeva. Ella s'era leggermente ingrassata pur conservando sempre la bella linea elegante d'un tempo. Le rimaneva tuttavia in fondo allo sguardo, sotto la ruga profonda che univa i due sopraccigli, quella sua luce torbida d'inquietudine che gli anni avevano fatta più intensa e più fosca. Quando si trovava sola con sè stessa ella pareva torturarsi nell'attesa dubbiosa di qualche avvenimento, che mutasse la sua vita, che la lanciasse per vie sconosciute, che vestisse di realtà una sua inconfessata speranza. E vibrava tutta come vibra lo stelo della pianta acquatica, scossa da una corrente profonda. Spesso Riccardo la canzonava affettuosamente per la sua sensibilità eccessiva che la faceva sobbalzare sconvolta e pallida a ogni suono improvviso e a ogni gesto inaspettato ed ella tentava di sorriderne con lui, spianava per un momento la ruga meditativa della sua fronte lanciando una risatina squillante che non oltrepassava il chiuso nodo della sua gola, ma dietro le spalle del marito gli gettava uno dei suoi sguardi obliqui dove si raccoglieva una silenziosa commiserazione, un'ironica pietà. E allorchè egli con un ultimo bacio tenero e un ultimo saluto leggiero usciva diretto al suo studio d'avvocato, Nora si chiudeva nella sua stanza, si vestiva con cura minuziosa, dava in anticamera alcuni ordini alla cameriera, quindi scendeva cauta, quasi furtiva le lunghe scale, cercando d'attutire nel passo premuto sulla pietra il ticchettio sonoro dei suoi tacchi parigini. Ma un giorno, era una mattina piovosa e fredda di marzo e Nora s'alzava appena dal letto, le entrò in camera tutta sgomenta la figlia del portiere, una giovinetta quindicenne ch'ella quasi non conosceva, per avvertirla tremando e balbettando che il vecchio signore del pianterreno stava male, male da morire e la chiedeva con insistenza presso di sè. Riccardo era partito la vigilia per una città di provincia dove discuteva una causa d'affari ed ella non esitò. Acconsentire al desiderio del vicino poteva sembrare un semplice e doveroso atto di pietà verso un infermo. Si vestì di scuro, discese con le ginocchia malferme e la schiena percorsa da brividi di gelo ed entrò nella stanza buia dove il marchese Licandri agonizzava solo. Ne uscì a sera tarda, quand'ebbe chiusi con le sue dita gli occhi del morto e accesi due ceri ai piedi del piccolo letto di ferro dov'egli giaceva. Ella visse i giorni che seguirono in una trepidazione angosciosa, in un'ansietà fremebonda e quando, dopo una settimana, Riccardo tornò, le trovò una faccia così pallida e due occhi così febbrili che se ne commosse. — Se io fossi un marito presuntuoso direi che tu hai sofferto della mia assenza, — le osservò accarezzandole il mento, come si fa coi bimbi riottosi. Poi guardò l'orologio, infilò il soprabito e si diresse al suo ufficio, percorrendo quasi di corsa le scale e canterellando un motivo d'operetta. Ma trascorse alcune ore egli rincasò e si precipitò con un viso stravolto nella camera di sua moglie. Nora distesa fra molti cuscini sul suo divano basso alla Récamier lo vide entrare senza muoversi, senza batter ciglio, poichè ella sapeva, poichè ella aspettava! — M'hanno dato in questo momento una notizia inverosimile. Ho visto una carta che deve essere falsa, — le mormorò cupo, afferrandola a una spalla e attese ch'ella gli si volgesse stupita a interrogarlo. Ma Nora taceva con la ruga profonda scavata fra i sopraccigli congiunti. — Tu sai, dunque, tu sai che quel vecchio sordido ha lasciato un testamento in tutta regola col quale ti nomina sua erede universale? — So, — confermò Nora chinando il capo. — E sai anche, — continuò Riccardo senza più dominare il suo sdegno e il suo furore, — che ti ringrazia per la tua amicizia durata sei anni e ti dimostra la sua gratitudine legandoti il suo schifoso denaro? — So, — ripetè Nora affondando il gomito in un cuscino e appoggiando la tempia al pugno chiuso. — Ed è molto, — proseguì Riccardo in un ghigno iroso, — è molto questo sozzo denaro. Il tuo tradimento vergognoso fu un ottimo affare per te. Ti sei venduta bene, lo riconosco. Ma mi fai orrore, lo sai? Sai che se io ti dicessi tutto il ribrezzo che c'è in me.... Ella lo interruppe e s'alzò di scatto. — Non occorre. Lo immagino perfettamente, lo riconosco giusto e me ne vado per evitarti la fatica di tradurre in parole e in atti i tuoi sacrosanti sdegni. Riccardo, in piedi di fronte a lei a braccia conserte, l'ascoltava sbalordito. Ella gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, con le labbra stirate a un sorriso ch'era una smorfia dolorosa. — Abbiamo vissuto insieme quasi otto anni, — gli mormorò crollando il capo, con una sconfinata tristezza, — e tu non supponesti mai d'ospitare in casa tua e nel tuo letto una creatura miserabile, una vipera che ogni giorno si nutriva del proprio veleno, una belva che ogni giorno si dilaniava coi suoi stessi denti. Addio, Riccardo. Tu meritavi una compagna migliore di me. E perdonami se non so nemmeno chiederti perdono. S'avvolse con rapidi gesti in un mantello. S'attorcigliò un velo intorno al capo e fuggì correndo incontro al suo nuovo destino. IL GIOIELLO DELL'AVA. Allorchè Giorgio Sanminiato entrò nel salotto di donna Lucilla De-Renzi sentì nell'aria qualcosa di diverso e d'insolito. Non languiva più nelle alte coppe di cristallo la bellezza morente delle rose d'autunno, erano scomparsi dalle cornici d'argento i ritratti degli amici e delle amiche, e dalla finestra aperta sul giardino entrava la luce scialba d'una giornata novembrina, non più attenuata nè ammorbidita dalle cortine di merletto. Un dubbio lo morse al cuore. Perchè questo senso di freddo e d'abbandono? Lucilla forse.... Ma non ebbe il tempo di formulare il proprio dubbio che la sua amica gli fu alle spalle col suo passo leggero, ancora attutito dalla morbidezza dei tappeti, e lo baciò d'improvviso sulla tempia, mentre Giorgio si volgeva, l'afferrava alla vita con violenza e le parlava con impeto. — Dimmi, Lucilla, che cosa accade? perchè questo vuoto e questo gelo? — Parto, — ella disse ponendogli le mani sulle spalle e costringendolo a piegare verso di lei la sua faccia rabbuiata. — Per pochi giorni — egli mormorò fissandola in fondo agli occhi, attendendo ansioso. Ella lo lasciò d'un tratto, andò a sedere sul divano d'angolo, suonò perchè portassero il tè, accese una sigaretta, aspirò alcune boccate di fumo e finalmente disse: — Non so. Forse per sempre. Donna Lucilla De-Renzi era una vedova non più giovanissima la quale, trascorsi in provincia con sua madre i primi anni della vedovanza, s'era stabilita da qualche tempo a Roma, dove l'antica posizione abbastanza eminente del marito le aveva creato vaste relazioni e numerose amicizie. Ella vi aveva però prodigato eccessivamente la propria fortuna che non era cospicua, e sua madre, che vegliava sui suoi interessi, la chiamava urgentemente a casa rifiutandole le risorse che le occorrevano per continuare la sua vita brillante alla capitale. — Parto, — ella ripetè; — ho affari urgenti e gravi da sbrigare a casa mia e non so se potrò ancora ritornare. Ciò dipende da circostanze che mi è impossibile di prevedere per ora. Giorgio Sanminiato ascoltava, chiuso in un silenzio cupo, battendo nervosamente il piede a terra e lasciando raffreddare la sua tazza di tè. Egli conosceva da cinque mesi quella donna, l'amava da quattro e da due settimane ne era l'amante. Soltanto da quindici giorni gli parea di essere realmente entrato nella vita con la conquista intera di quella creatura bella ed esperta, la quale concedeva finalmente all'ardore timido dei suoi vent'anni la gioia d'espandersi senza umilianti volgarità in una passione vera, in un amore fervido, ma insieme nobile ed alto per una signora, degna in tutto di questo nome. Egli l'aveva collocata sopra l'altare della sua esaltata devozione e quando ella scendeva benigna da questo altare per passargli nei capelli le sue dita fini, chiamandolo con piccoli nomi teneri e dolcemente idioti, egli se ne meravigliava come d'un prodigio che si compisse per virtù d'amore. Non era ancora uscito da quello stato di inebbriante e perfino dolorosa felicità che è tutto proprio delle passioni giovanili all'inizio, non conosceva ancora nè profondamente nè compiutamente la squisita persona e l'anima complicata della sua amica, che già un'avversa sorte gliela contendeva, che già le odiose esigenze della vita gliela rapivano. — Tu sei mia. Tu m'appartieni. Devi tornare. Tornerai, — egli ripeteva da mezz'ora con un'ostinazione imbronciata e caparbia di fanciullo che la faceva sorridere. E subito dopo egli volle inginocchiarsi ai suoi piedi, supplicandola con parole d'umiltà, sollevando verso di lei il suo volto così regolare di linee e ancora un poco femmineo, dove gli occhi chiari splendevano d'appassionata speranza. — Lo sai ch'io non vivo più che per te, ch'io non ho vissuto prima di conoscerti. Perchè vuoi scacciarmi dalla tua vita, perchè vuoi dividermi da te? Se non ti è possibile di ritornare a Roma, concedimi di vederti altrove, dove tu vorrai, nella città che sceglierai tu stessa, dove ti sia più facile e meno pericoloso recarti. Ella taceva assorta e inquieta, non sapendo se consentire alle implorazioni del giovine, incerta ella stessa se gli avesse ceduto per amore, per capriccio o per noia; per le persuasioni del suo orgoglio lusingato da quell'adorazione, o per quelle del suo egoismo di donna frivola e oziosa. Tuttavia la possibilità d'interrompere di quando in quando la tediosa monotonia della sua vita provinciale con una giornata di segreto amore, le balenava al pensiero come una promessa non spregevole, come un'avventura abbastanza attirante per non escluderla dal suo prossimo avvenire. — Ciò che tu mi chiedi sarà tutt'altro che facile e sempre molto arrischiato — ella rispose. — Nei piccoli centri tutto si vede e tutto si sa ed io godo laggiù una fama di donna incorrotta e incorruttibile che tengo molto a conservare intatta. Basterebbe un sospetto di questo genere per farmi chiudere in faccia tutte le porte stemmate o dorate della provincia. — Queste sciocchezze t'importano assai più del mio amore — mormorò fosco Giorgio alzandosi e mettendosi a tamburellare con le dita sui vetri della finestra. — Tu temi più di perdere le buone grazie di qualche stupida sottoprefettessa che di perdere un'anima che t'ha dato tutta se stessa, una passione che ti ha esaltata come cosa divina. — Non si vive d'anima, di passione e di cose divine, mio piccolo caro, — ammonì Lucilla con una voce dolcissima, e finì le sue parole in un sospiro così profondo che Giorgio tornò presso di lei, sedette sul bracciuolo del divano e le baciò una spalla. Ma ella in quel momento si alzò e gli offerse le mani in un gesto di saluto e di congedo. — Adesso lasciami, — disse — ho tante incombenze da sbrigare, tante disposizioni da prendere per questa partenza. — Quando andrai via? — Posdomani, col treno del pomeriggio. — Permettimi di vederti un momento domani sera. — Sì, ma un momento solo, dopo le dieci. Ella lo accomiatò, concedendo a un lungo bacio avido le sue palme tepide e morbide; e rientrò nelle sue stanze, dove il disordine di quell'affrettata partenza ammucchiava alla rinfusa le cose più diverse e sovrapponeva i più stridenti colori, con una vivace brutalità zingaresca. — Questa sera accompagnami alla prima della Carmen, — gli disse il domani sua madre, la marchesa di Sanminiato, che era una donna molto mondana e ancora assai piacente nonostante i quarantacinque anni abilmente nascosti e la pinguedine vigorosamente imbustata. — Potrò rimanere con te durante il primo atto soltanto, — rispose seccato Giorgio che aveva passata la giornata a torturarsi nel rammarico di quell'abbandono e ad apparecchiarsi all'addio della sera. Indossò irosamente la marsina, infilò all'occhiello la gardenia che sua madre gli aveva disposto sul cassettone e per la prima volta, ritto dinanzi allo specchio, gettò a se stesso uno sguardo distratto, senza ammirare la bellissima perla dai rari riflessi azzurri e violacei, perfetta nelle sue trasparenti rotondità che dolcemente brillava sul candore del suo sparato. Quand'ebbe collocata sua madre nel palco fra due vecchi amici che le facevano la corte con una discreta galanteria d'altri tempi, Giorgio le baciò la mano e le chiese il permesso d'assentarsi. E poichè suonavano in quel punto le dieci, si precipitò in automobile e suonò alla porta di Lucilla De-Renzi pochi minuti dopo. Ella salutava in quel momento una coppia di giovani amici suoi, marito e moglie, che s'indugiavano da mezz'ora in complimenti e in lamentele senza fine e fu tutta lieta dell'arrivo di Giorgio che le permise di liberarsi dei tediosi visitatori. — Come sei bello! — ella esclamò mentre lo introduceva nel salotto; ed ammirò il taglio elegante della sua marsina, la trasparenza delle sue calze di seta, la fresca gardenia del suo occhiello e più di tutto la meravigliosa perla che gli brillava sul petto. Ma Giorgio non sorrideva e continuava a stringerla a sè con un fervore quasi selvaggio che stonava con l'impeccabile mondanità del suo abito. — Ci rivedremo, non è vero? Giurami che ci rivedremo presto laggiù. La sua voce tremava di tale intensità che la donna guardandolo ne fu scossa, tanto più che quella sera egli era bellissimo, così snello elegante pallido, vero tipo di razza, chiuso nel nero e nel bianco di quella cornice severa. — Forse, — ella promise a mezzo, sorridendo ambigua e guardandolo di sotto in su, con quel suo sguardo sfuggente che le dava talvolta un'espressione subdola e falsa. — Non dirmi forse. Dimmi di sì. Giurami che verrai. — Forse! — ella ripetè con voce lunga, indolente, quasi distratta. Egli la guardò. Vide la direzione dei suoi occhi, seguì il gesto della sua mano e le sollevò il volto afferrandola alle tempia. — Ti piace? — le domandò quasi torvo. — Molto, — ella mormorò fissandolo senza batter ciglio. Allora Giorgio Sanminiato dimenticò che quella perla era più una reliquia che un gioiello, dimenticò che per tutta la vita la sua ava l'aveva portata all'anulare e con uno strappo nervoso la tolse dal suo sparato e l'offerse all'amica. — Ecco: fattene un anello e portalo al dito, — le impose quasi duramente. E dopo un momento soggiunse: — Ma voglio in cambio una promessa. — Quale? — Che ci rivedremo. — Ci rivedremo, te lo giuro, — ella rispose con impeto, lungamente baciandolo sulle labbra, tutta rosea di gioia. E subito dopo lo lasciò per ammirare la perla alla luce vivida delle lampade, volgendola e rivolgendola fra le dita per trarne i riflessi così soavemente leggiadri che un momento prima s'irradiavano dal petto di Giorgio. — È un dono da regina, — susurrò quasi a se stessa, senza guardare l'amico. — Un dono troppo bello per me. Egli sentì che Lucilla mentiva, ma gli piacque in quella ostentazione d'umiltà che accresceva valore alla sua offerta. — Nulla è troppo bello per te, nulla è troppo prezioso per ripagare l'amore d'una donna come te, — le mormorò all'orecchio con fervore, trascinandola nella camera attigua, quella che li rifugiava nelle loro ore d'intimità più appassionata. Era passata la mezzanotte quand'egli lasciò l'amica con un ultimo bacio e un'ultima promessa: — Ti verrò a salutare domani alla stazione. Per via riflettè che doveva ancora passare al teatro per riprendere sua madre e vi si diresse, ma fatti pochi passi rammentò che dal suo sparato mancava la perla e, per evitarsi spiegazioni che lo tediavano, ripigliò la sua strada e dopo mezz'ora si spogliava lentamente e si poneva a letto con l'anima e i sensi rivolti alla sua dolce lontana. — Come mi ama, — meditava nel dormiveglia, — come si è mostrata felice del mio dono che le ricorderà continuamente l'amico assente, che sarà fra di noi come un legame occulto, quasi come l'anello d'una fede nuziale nota a noi soli! Si addormentò in questi pensieri ed essi lo riafferrarono il domani a tarda mattina quando si destò e si ricordò ch'ella doveva partire quel giorno. — Saprò certo oggi stesso dove e quando ci rivedremo, — egli si ripeteva, e immaginava luoghi ignoti e incantevoli, meravigliose cornici al loro amore circondato di mistero e di pericolo. E nella sua impazienza giunse alla stazione mezz'ora innanzi tempo. Ma attese con rassegnazione e quando finalmente la vide giungere, scendere da una carrozza fra valige e cappelliere, le mosse incontro pallido e le tese la mano. Ella sembrò non vedere quel gesto confidenziale, lo salutò appena con un freddo cenno del capo e passò oltre, come una persona enormemente affaccendata e preoccupata. Giorgio la seguì, osando appena rivolgerle alcune parole insignificanti, mentre Lucilla prendeva il biglietto e s'avviava verso il suo treno. Congedò il facchino, l'aiutò a disporre con cura le sue valigette in uno scompartimento ancora vuoto e rimase solo con lei. Ella si guardò nello specchio della parete, s'adagiò in un angolo e continuò a tacere, chiusa in se stessa, fredda e ostile, gettandogli di bieco qualche occhiata torva, come una nemica. — Ma che hai? Dimmi, che hai? Sei triste perchè devi partire o un altro pensiero ti preoccupa? Io non comprendo. Giorgio non comprendeva quell'ostinato mutismo, quell'atteggiamento iroso e scontroso e se ne disperava con parole piene di rammarico, con domande trepide d'ansietà. Ed ella taceva sempre, con gli occhi fissi lontano e la faccia torbida. Ma quando il treno si mosse, balzò in piedi e lo spinse verso lo sportello imponendogli seccamente: — Vattene. Ora si parte. — Ci rivedremo, non è vero? Dimmi che ci rivedremo. Ella torse la bocca a un sogghigno e rispose: — Mai! — Ma, Lucilla, che hai? Che cosa ti ho fatto di male? Sentì stridere una lunga risata beffarda, vide ch'ella gli tendeva la mano dall'alto, che gli porgeva un piccolo involto. — Ecco che ho. Ti restituisco la tua perla. Conservala. Starà assai meglio sulla tua marsina che sulla mia mano. — Perchè? — Perchè è falsa. Il treno partì e Giorgio Sanminiato rimase inchiodato dallo stupore sul marciapiede bituminoso. La sera stessa, chiuso nella sua camera, egli meditava cupamente sulla miserabile fine della sua passione, senza tuttavia riuscire a spiegarsi le parole taglienti di Lucilla, quando sua madre bussò alla porta chiamandolo con la sua consueta gaiezza rimasta giovanilmente stordita a dispetto dell'età matura. — Giorgio, vieni fuori del tuo antro. Ti propongo una passeggiata in automobile prima di pranzo. Egli aperse il battente e le apparve d'un tratto così sconvolto ch'ella non potè trattenere un piccolo grido. — Ma, bimbo mio, tu stai male. Come sei pallido! Mi spaventi. — Non spaventarti, mamma, — egli disse freddamente, — e spiegami piuttosto una cosa che non comprendo. — Che cosa? — Ecco, — egli continuò mettendole sott'occhio la perla. — Ho creduto finora d'aver ereditato dalla mia nonna un gioiello di qualche valore e invece oggi ho delle ragioni per sospettare che questa perla non è vera. Sai tu dirmi la verità? Ella prese il gioiello fra le dita e lo esaminò in silenzio. Ma Giorgio s'accorse che le mani di sua madre tremavano e che il suo seno ansava di mal dissimulata emozione. — Tu sai qualche cosa, mamma. Dimmi la verità: questa perla è falsa. La marchesa Sanminiato s'accasciò in una poltrona presso la scrivania e incominciò a piangere con sussulti e gemiti, coprendosi gli occhi come se temesse gli sguardi di suo figlio. — Dimmi qualche cosa invece di piangere. — Non ne ho forza. Giorgio, sento che tu non potrai mai perdonarmi. — Perdonarti, mamma? Che significano queste parole? Egli s'era curvato su di lei e con le mani aggrappate ai bracciuoli della poltrona la stringeva in un cerchio di interrogazioni così insistenti e impazienti, che la marchesa Sanminiato cessò all'improvviso di piangere e si risolse a confessare la verità. — Un giorno, due anni e mezzo or sono, avevo bisogno urgente di danaro. Non sapevo dove rivolgermi e vendetti la tua perla. Ne avevo acquistata prima un'altra falsa ma somigliantissima e nessuno s'accorse del cambio. La verità è questa. Ed ora disprezza pure tua madre: hai ragione. Il giovane si sollevò senza guardarla, coi denti chiusi sotto le mascelle contratte, e uscì. Si sentiva soffocare, si sentiva profanare da tutte quelle volgarità, da tutta quella falsità e, più atroce d'ogni altro male, sentiva morire dentro di sè il suo luminoso amore, schiacciato da troppe cose impure e vili. Ecco: sua madre gli rubava un'antica perla che gli era cara per pagare un fornitore prepotente, e la sua amante ch'egli adorava più d'ogni cosa al mondo, gli sfuggiva insultandolo, perchè si accorgeva d'aver fatto un cattivo affare. La nausea gli saliva alla gola dal cuore stretto d'indignazione per gli altri e di pietà per se stesso. Egli vagò tutta la notte solo, alla ventura, assorto nelle sue amare meditazioni, e quando all'alba rincasò, la prima ruga sottile, la prima cicatrice della vita, solcava la sua fronte ventenne. INDICE Pag. Ritratto a pastello 1 I mughetti del professore 15 Datemi soccorso 27 Scherzi di guerra 39 La verità 57 Per un bacio 71 “Il soprappiù„ 87 La via ritrovata 99 Il bell'Arturo 111 La salvatrice 123 L'intrusa 135 L'uomo tinto 147 Il gioiello dell'ava 167 DELLA MEDESIMA AUTRICE: _L'amante ignoto_, poema tragico. Con coperta a colori di EDUARDO RUBINO. 2.º migliaio. L. 4 — _L'insonne_, nuove poesie. In-8, con coperta disegnata dal pittore CASANOVA. 2.º migliaio. 4 — _I Volti dell'Amore_, novelle. 3.º migliaio. 4 — _Anime allo specchio_, novelle. Con coperta a colori di MARIO REVIGLIONE. 3.º migliaio. 4 — _Le vergini folli_, sonetti. 2 — _Le seduzioni_, liriche. 3 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Le ore inutili, by Amalia Guglielminetti *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 48727 ***