*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 64106 *** S. FARINA IL TESORO DI DONNINA _(Quarta edizione)_ MILANO A. BRIGOLA & C., EDITORI Via Manzoni, 5 PROPRIETÀ LETTERARIA _Milano, 1884 — Stabilimento tipografico F. Pagnoni._ I. UN GIORNO DI NATALE. Gran bella mattinata davvero! Chi direbbe che siamo in dicembre e quasi alle porte di gennaio, vedendo questo cielo azzurro e questo sole in gran pompa di raggi? È molto se l'aria frizzante fa pensare a novembre, e pure la neve è raccolta qua e là a monticelli nel cortile, ed i diacciuoli si appendono con civetteria alle grondaie e riflettono i colori dell'arcobaleno entro i nidi deserti delle rondini. Gran bella mattinata davvero, perchè annunzia un giorno ancora più bello — il Natale. Per le vie è un gran silenzio, ma un silenzio dolce, il silenzio della gioia, assai più profonda e più pura quando tace che quando schiammazza. Non uno strider di ruote, non uno scalpitar di cavalli, e nemmeno quel sordo mormorio lontano, che segnala il ridestarsi della vita cittadina. Gli è che la vita della città è oggi la vita del focolare; gli è che migliaia di uomini, i quali forse fino ad ieri non ebbero se non buone o cattive passioni, si ricordano d'essere padri, mariti, fratelli, e di aver degli affetti: gli è che la società e la famiglia — due mondi che spesso roteano in un'orbita differente — si sono incontrate. Qui, nel cortile in cui ci siamo introdotti, la segreta vitalità del silenzio si indovina meglio; fra le alte mura che separano questo luogo dal resto del mondo, e gli danno aria d'un chiostro, lo spirito è un maliardo più attento, l'immaginazione un cavallo di battaglia più focoso. Noi ci sentiamo qui padroni del segreto di Asmodeo, e ci trastulliamo a scoperchiare le case per ritrovarvi i diversi aspetti d'una stessa gioia, per udirvi le stesse vocette infantili che confrontano i doni del Bambino che è venuto, e si anticipano le dolcezze di quelli dei Re Magi, che hanno ancora da venire, fantasticandone il reame di confetti e di cavallucci. È la stessa nota da per tutto: due labbruzzi che interrogano, un volto sereno di madre che guarda amorosamente, e mille domande, e mille risposte che si compendiano alla stessa maniera — un bacio sopra una guancia color di rosa. La reggia ed il tugurio sono pieni della stessa dolcezza: l'infanzia che schiamazza, la vecchiaia che sorride. Da per tutto è la festa del focolare; il tizzo che arde nel camino scoppietta allegramente per rispondere alle ciancie dei vecchi fanciulli che si scaldano al suo fuoco; però che oggi più di ieri ogni uomo si senta vicino all'infanzia — e non gli state a dire che egli non crede ai Re Magi, è facile che non vi dia ascolto. Accanto a queste gioie, vi è il dolore, vi è di peggio: la noia; — accanto ai felici che specchiano il loro sorriso nelle papille attonite dei bambini, vi ha chi dorme fino a tardo mattino un sonno greve, agitato dalle nauseabonde immagini dell'orgia della vigilia, e nondimeno più dolce del ridestarsi che lo attende; vi è la casa che non ha teste ricciute e bionde; vi è il cuore vuoto d'affetti e sordo agli echi d'una gioia tranquilla.... Ma l'Asmodeo che ci ha confidato il suo segreto non ci ha dato la sua malignità, e noi vogliamo pure illuderci che alcuna miseria non oscuri il sole di questo giorno, se per ciò non occorre altro che chiudere bonariamente gli occhi. Ritorniamo al cortile ingombro di mucchi di neve. È più di un'ora che un uomo va su e giù, rasentando la muraglia col capo basso e le braccia penzoloni. Quante volte ha misurato la larghezza dello spazio? Forse egli lo sa, poi che a vedere con qual aria severa e con quanto scrupolo attende alla sua bisogna, senza affrettare il passo mai e senza voltare mai un pollice prima, si direbbe che egli abbia prefisso un numero inesorabile alle sue misteriose evoluzioni, e che dalla esattezza dipendano le sorti di un disegno occulto. Non vi ha viaggio che, coll'aiuto della Provvidenza, non abbia presto o tardi un termine; tutto sommato quello del nostro incognito è ancora dei più brevi, perchè ha durato un'ora, dieci minuti ed un certo numero di secondi di cui non terremo conto per non essere più scrupolosi dell'enorme orologio che ci sta in faccia, il quale ha due sole frecce, — una per le ore, l'altra per i minuti — nè per ciò si crede un orologio da poco. Quell'infaticabile camminatore s'arresta di botto colla precisione d'un automa, solleva il capo, gira lo sguardo intorno e muove difilato verso una porticina a vetri, senza badare ai mucchi di neve nei quali inciampa ad ogni passo gettandosi innanzi un polverio luccicante; gira la gruccetta di ottone e sparisce chiudendosi l'uscio alle spalle — non però così presto da impedire il passaggio a chi avesse la buona volontà di tenergli dietro, come l'abbiamo noi. Appena il nostro sconosciuto ha posto il piede nella stanza, una voce cavernosa e tremante, ma raddolcita ed assottigliata ad arte, lo saluta per nome: — Buon giorno, babbo Jacopo. — Buon giorno, figliuolo mio. — Hai dormito bene, babbo? — Benissimo, grazie. La voce infantile tace, ed il signor Jacopo passa oltre, tirandosi dietro la più bizzarra creatura che si possa immaginare. È un vecchio curvato, assottigliato, rimpicciolito dagli anni, ma tuttavia alto più del comune; ha capelli bianchi, cadenti in ciocche arruffate sulle spalle, e cammina a piccoli passi saltellanti, sforzandosi evidentemente di dare ai suoi modi un'apparenza bambinesca. Il viso scolorito e scarno ed il corpo mingherlino lo fanno somigliare ad una gigantesca pergamena. — Non domandate la storia di questa pergamena vivente. Non chiedete quali avvenimenti ha enumerato il cuore di questo uomo in settant'anni. E sono proprio settanta? Poi che egli se n'è dimenticato, poi che il suo cuore non invecchia, può essere che la canizie mentisca. Se i fanciulli sono prima di tutto creature ingenue ed innocenti, mastro Paolo è il miglior fanciullo che noi conosciamo; e nessuna volgare considerazione ci tratterrà dal chiamarlo Paoluccio, come egli vuol esser chiamato. Il signor Jacopo e Paoluccio formano un contrasto piuttosto bizzarro, come ognuno può immaginare, e nondimeno le molte persone radunate in quell'ampia sala non sembrano darsene alcun pensiero, e continuano a seguire con raccoglimento le fasi d'una partita di carambola, giocata con molto maggior gravità che di solito non se ne richiegga per simile occupazione, da due atleti fatti più formidabili dalla rivalità. Oltre il cerchio compatto che si stringe attorno al biliardo è uno spazio vuoto, con panche e tavolini lungo le pareti, e nel mezzo una stufa enorme. Qui ritroviamo alcuni volti curvi sopra i giornali della vigilia. — Badi, dice uno levando gli occhi furbi dal giornale, per guardare maliziosamente il signor Jacopo e Paoluccio, i quali si scaldano in silenzio accanto alla stufa, badi alla faccia di mastro Paolo; che cosa ci legge lei? — Nulla, risponde il vicino spalancando due occhietti grigi attraverso i vetri degli occhiali. — La natura le ha posto gli occhi in fronte per burla... si capisce... non fu che un pretesto per farle portare gli occhiali, anzi gli occhiali sono un pretesto trovato bene per far credere che gli occhi ce li ha. — Ce li ho, ribatte l'altro, levandosi gravemente gli occhiali e passando una mano sugli organi calunniati, come per accertare la cosa. Il calunniatore sorride in aria compassionevole, e si affretta a confortare il suo vicino assicurandogli che ha voluto fare una celia: poi ritorna alla prima indagine. — Crede lei che abbia messo fuori la scarpetta? L'interrogato si accontenta di ridere fra sè e sè, ma non risponde. E l'altro insiste: — Crede lei che ci abbia trovato qualche cosa? Ma l'interrogato sembra aver paura di arrischiare le sue credenze e s'inabissa in una riflessione molto profonda, che minaccia d'essere altrettanto lunga. — A che pensa, reverendo? A questo titolo che gli ricorda il suo carattere sacro, una mistica luce sembra animare il viso del pensatore, il quale immagina di rispondere direttamente alla domanda col primo versetto latino dell'orazione domenicale. Questa furberia liturgica non è però molto fortunata e fa una meschina figura in faccia al sorriso laicale dell'altro. — Reverendo, dice costui, è furbo lei! — Le pare, professore? — Se mi pare! interrompe cattedraticamente il professore, se mi pare! Ma ci è ben altro che mi pare! E prima di tutto ci è che mastro Paolo ha messo fuori la scarpetta, un demonio di scarpetta, che se non fosse scarpetta potrebbe essere una barca... — Proprio? — Proprio.... e contenere una mezza dozzina di barcaiuoli, a due remi, in tutto dodici remi, senza contare il timoniere. — È curioso. — È vero.... In secondo luogo ci è che la scarpetta deve avergli fornito le pasticche di menta per tutto il mese, a masticazione continua; ed eccolo appunto che incomincia. — È vero. — È curioso.... questo sì, reverendo, è curioso; in tutta la sua diocesi lei non incontrerà mai una creatura più curiosa di mastro Paolo. Quale stravaganza, con quel paio di carnovali sulla coscienza, essersi posto in capo di essere un bambino svezzato da poco!... Oh! perchè non addirittura da latte? Il reverendo sembra meditare sul quesito e trovarlo insolubile; il professore continua: — È proprio una pazzia bizzarra, non è vero? Ma io domando: è mai possibile essere pazzi a tal segno? Un gramma di pazzia tutti quanti ce l'abbiamo, dobbiamo averlo, questo è in natura, ma o che mastro Paolo ne ha invece una tonnellata, o che tutto il suo cervello non pesa più di un gramma. Che dico?... ma egli è tutto pazzo, dai capelli bianchi fino alla pianta dei piedi, anzi fino alle scarpette... ah! ah! ah! Messo di buon umore dalla sua arguzia, il professore batte amichevolmente sull'omero del reverendo, il quale s'ingegna d'associarsi a quell'ilarità per dimostrare la propria gratitudine. Quando anche avessi in animo di torturare la curiosità dei lettori e fare d'ogni capitolo un indovinello, le ciarle del professore Rigoli non mi permetterebbero di andare innanzi lungamente senza guastare il sistema; ora poichè non si deve farne un mistero, meglio è dire subito che ci siamo introdotti nella sala di ricreazione d'un manicomio di Milano, e che i personaggi che vi abbiamo incontrato hanno tutti, secondo il linguaggio del professore, il loro gramma di pazzia, quando non ne hanno una tonnellata. Il professore Rigoli per altro — ognuno se ne sarà accorto — è uomo ragionevolissimo, il che non toglie che egli ami la barzelletta e la forma caustica, quando si dimentica d'essere professore. Parla con sussiego di molte cose, anche di quelle che non sa, ed in mancanza di meglio possiede un silenzio così scientifico, che non ha confronti se non nei geroglifici egiziani. Tutto questo suole nel mondo condurre a gran cose. Il nostro professore ebbe però la disgrazia di non aver saputo coltivare la scienza, senza trascurare la moglie, la quale, giovine e bella, incontrò alla prima cantonata un giovinotto, che si era fatto un dovere di trascurare la scienza per coltivare le mogli degli altri. Avvenne che la scienza rimase fedele al professore, ma la moglie no, ed il marito dopo varie peripezie finì coll'innamorarsi d'un sistema scientifico capace di mettere la botanica in rivoluzione, voglio dire il sistema di «seminare i raggi di sole.» Questa scoperta, che doveva spalancargli le porte della gloria, fu dai profani accolta con diffidenza e gli aprì tutti gli usci del manicomio. La partita di carambola è finita, ed il vincitore riceve modestamente le felicitazioni della _galleria_, mentre il perdente si conforta dandosi dell'asino colla convinzione di un carambolista ragionevole, il quale sa di non poter salvare il decoro di giocatore senza questo rimedio eroico. Quasi nello stesso tempo l'orologio del cortile brontola le undici ore. La voce nota non si fa mai udire senza che qualcuno dei personaggi raccolti nella sala sollevi il capo dal giornale od esca dalla sua meditazione per tendere l'orecchio e stare in ascolto molto tempo dopo che l'onda sonora si sia smarrita nello spazio; questa volta però non una di quelle fisionomie si conturba; sorridono anzi, e le ciancie, un istante interrotte, sono ripigliate con maggior ardore, ed i capannelli si ingrossano dei più melanconici, che se ne stavano in disparte, ed un'allegria meno sospettosa del consueto esala da quelle povere anime. Si capisce all'insolito pigiarsi l'uno contro l'altro, all'aria di affaccendarsi che tutti pongono nel far nulla, che i loro spiriti lavorano irrequieti alla prospettiva d'un avvenimento aspettato. Laggiù è uno, il quale sfoga la sua impazienza pestando con un certo garbo un valzer di Strauss sopra un pianoforte verticale; qui un altro che cammina a gran passi fregandosi le mani e sorridendo benignamente ai fantasmi del suo pensiero. In verità, il viso più tetro della comitiva è quello del guardiano del luogo, il quale, seduto in un canto, sembra meditare sulla idea melanconica d'aver conservato la ragione, ed ha l'aria di sentirsi umiliato perchè non riesce a darsi saviamente la metà dello spasso di quei cervelli malati. Fra i più impazienti ve n'ha uno a cui viene un'idea luminosa; egli esce all'aperto, dà un'occhiata d'intelligenza segreta all'orologio, poi rientra contentissimo della sua gherminella... Ecco... battono le undici e mezza... Ancora poche battute di valzer, ancora due ciancie animate, poi tutti escono dalla sala, dandosi un contegno grave più che forse non si richieda da gente piena d'appetito ed avviata alla mensa; ma l'ipocrisia, come tutte le altre scienze della vita, non può pretendere nei manicomi ai trionfi che l'accompagnano nel mondo ragionevole. Nell'attraversare il cortiletto i poveretti sollevano il capo e dirigono gli occhi verso uno stesso punto, e fanno un saluto della mano colla regolarità di chi obbedisce ad una abitudine, e, prima di sparire ad uno ad uno nell'uscio del refettorio, si voltano e spingono il capo indietro e sprigionano il più dolce sorriso come per prendere commiato. Da chi? Da un'adorabile figurina bionda, da un volto color di rosa, che si protende fuor del davanzale d'una finestra poco lontana, inviando per l'aria un saluto amichevole. L'avete udita la sua vocetta d'argento? — Buon appetito! Il cuore dei poveretti ha risposto «grazie.» Sono scomparsi tutti... anche gli occhi della curiosa personcina... Si dà in tavola. Il refettorio è trasformato; sono sparite le note mense, piccole e solitarie, disposte in giro per l'ampia sala, ed in loro vece pompeggia nel mezzo — proprio in quello spazio vuoto che tanti occhi sogliono guardare melanconicamente durante i pasti d'ogni giorno — una lunga tavola imbandita con una certa pompa appetitosa. Una mensa sola, una sola famiglia! Qual gioia! ciascuno prende posto con un impaccio non dissimulato, ma senza disordine; chi ha un amico con cui divide più intimamente le sue idee se gli fa accosto senza complimenti; ma in fondo non vi ha vero contrasto d'idee fra nessuno, e poi la gioia d'essere uniti e di sedere ad un banchetto, avvicina ogni antagonismo — l'appetito fa il resto. Paoluccio è in preda ad una giocondità nervosa, perchè ha notato alla prima che la sua posata si è, per l'occasione straordinaria, accresciuta di un coltello, un vero coltello a punta rotonda, pochissimo tagliente, ma col manico d'ebano e colla sua lama di ferro genuino lucente come specchio. Pensate che beatitudine per quella povera creatura, e che sorriso infantile fra le sue rughe! Egli non è però il solo a rallegrarsi, perchè ciascuno dei suoi colleghi ha il proprio coltello a punta arrotondata e col manico d'ebano, e tutti se ne sono accorti alla prima e ne fanno festa! E come non far festa ad una _infrazione del regolamento_? Però la vigilanza dei guardiani è raddoppiata: è avvenuto molte volte che qualcuno degli ospiti del luogo si ostinasse a non trovare di suo genio questo mondo e a volersene andare all'altro — e provatevi a persuadere del contrario un matto che si ostina!... il minor rischio è di buscarvi del matto. I bravi guardiani hanno pensato che, con un po' di buona volontà, adoperando molto ingegnosamente, è possibile tagliarsi la gola anche con quei coltelli simbolici, ed hanno l'occhio a tutto, fuorchè al cuore dei poveretti, dove è scritto a caratteri maiuscoli che quest'ora è una delle più belle della loro vita. Oh! gli eloquenti silenzi delle prime mense! Oh! i sereni preludi d'ogni allegro concerto di piatti e di bicchieri! Quel raccoglimento solenne dura più che non sia costume fra gente che ha la testa sana; vi è chi figge gli occhi nel desco e non sa distaccarneli; i servitori attendono a mutare le stoviglie e le vivande con una specie di premura compassionevole; ogni tanto uno dei commensali china il capo sul petto, o muove gli occhi in giro lentamente, e dimentica la sua occupazione, e si oscura in volto — ma un servitore gli offre del burro fresco o dei sedani... eccolo che riattacca il filo e sorride. Tutta la buona volontà dei guardiani non può fare per altro che, cessato il primo impeto di gioia, il banchetto pigli un aspetto grave e taciturno. È permesso a Paoluccio di avere un'opinione sua e d'esporla? «Ecco... egli pensa che il fritto era eccellente, e che il brodo non teme confronti nella cronaca dei brodi dello stabilimento.» Bravissimo! tutti sono dello stesso parere; il professore Rigoli aggiunge anzi con enfasi che la zuppa fu scodellata con soverchia parsimonia, e domanda scherzosamente il permesso di far replica; e l'ottimo reverendo, che gli sta al fianco, dopo essere stato il primo a trovare quell'idea piena di giudizio, si risolve a fare altrettanto. La conversazione è così posta sopra un terreno che non offre pericoli di male intelligenze; l'istintiva diffidenza dei commensali più ritrosi scompare, ed un bagliore d'entusiasmo brilla sulla fronte di ciascuno. Si esce dal silenzio ad un tratto per cadere nella verbosità; si ciancia molto, si scherza spesso e si balbetta qualche volta, intendendosi meno che è possibile. — I savi non sanno far meglio. Un vinello color di rosa circola con una dotta parsimonia, il tanto che basti a snodare la lingua ai melanconici, ad imbrogliarla ai parolai. Vi è uno che ha fatto allusione all'equilibrio europeo, un altro che ha rievocato le fasi contrastate della partita di carambola, un terzo il quale confida ad alta voce a chi vuol sentirlo il suo occulto disegno di bandire una riforma sociale, ed il professore, ghignando in disparte, con un fare tra l'olimpico e lo sdegnoso, resiste alla superba tentazione di confondere i suoi colleghi coll'esposizione particolareggiata del sistema di seminare i raggi di sole. Ma improvvisamente l'Europa, dimentica della statica, ripiglia col rimanente del globo le sue evoluzioni intorno al sole, la partita di carambola rientra nel passato, la riforma sociale nell'avvenire, ed il professore, tolto alla contemplazione del suo sistema, è il primo ad annunziare lo arrosto. Così, o all'incirca, è del resto degli uomini: mille che disegnano, mille che fantasticano, mille che rammentano, mille che sognano, poco d'accordo le unità, pochissimo le decine e le centinaia, quasi mai le migliaia, ma un pensiero in cima agli altri, ed un sublime accordo in quell'immensa discordanza — l'arrosto! Il desinare volge al termine; il professore trova bella la vita e ne fa la confidenza al reverendo, il quale dà prova d'una rara perspicacia, aggiungendo che il pranzo era eccellente; Paoluccio si è empito le tasche di zuccherini, e babbo Jacopo ha smesso la sua aria melanconica, quando improvvisamente apparisce, senza che alcuno l'abbia visto venire, un uomo sulla sessantina, di statura alta e maestosa, ma benevolo e sorridente, seguito da un ometto rotondo, paffutello, biondo, specie di amorino a quarant'anni sonati, non buono, a giudicarne dall'aspetto, se non a sorridere perennemente. L'atto con cui ciascuno dei commensali risponde alla famigliarità di quei due, dice chiaro che essi hanno sopra i disgraziati una dolce autorità che ispira gratitudine. In fatti il più vecchio è il direttore, ed il più giovane il medico dello stabilimento. Voi non avete visto mai un direttore più alla mano, un medico più di buon umore. Il signor Fulgenzio, sebbene non abbia ancor toccato la sessantina, usa chiamare _figliuoli_ i suoi ospiti; i poveretti gliene sono grati, e Paoluccio più di tutti. Quanto al rubicondo dottore, è opinione incrollabile nel luogo che non vi sia un compagnone ed un amico più piacevole di lui. E bisogna vedere com'egli stringe la mano a tutti, e come dà del tu, e come ammica furbescamente ai più furbi, quasi a dire: «ne abbiamo fatte di belle, noi, eh! chi sa? ne faremo ancora!» Bisogna vederlo! Certo è che la sua dimestichezza gli ha guadagnato la fiducia d'ognuno. «Per il dottor Parenti non si hanno segreti; innanzi al dottor Parenti non vi devono essere melanconie; questo bisogna farlo per il dottor Parenti, e quest'altro per il dottor Parenti.» Era stato naturalmente il dottor Parenti a mettere in corso questa specie di moneta spicciola di aforismi; e siccome egli stesso mostrava d'averli in conto di verità di fede, tutti li pigliavano per tali, ed il reverendo avrebbe giurato senza scrupoli sul nuovo evangelio. Il signor Fulgenzio aveva accostato una sedia presso a babbo Jacopo, e gli parlava amorosamente; e gli altri lo guardavano colla coda dell'occhio, ma senza invidia, perchè babbo Jacopo, avendo intervalli di buon umore assai radi o melanconie assai lunghe, sebbene non si sapesse null'altro dei fatti suoi, passava per il più sventurato del luogo, e la preferenza del direttore era considerata saviamente quello che era — un triste privilegio della sventura. Da qualche tempo il professore Rigoli guarda il soffitto di nascosto; lasciatelo fare, non gli manca più che una rima. Eccolo che si alza con impeto, solleva il bicchiere come uno che non possa più resistere, e getta un altro sguardo al soffitto, dove si deve supporre che abiti la musa prepotente e tentatrice. Ma la maggior parte dei commensali hanno il bicchiere vuoto... incomincia... non incomincia... perde il rimario, perde il metro, gli si oscura la fronte... occorre un rimedio eroico, parlerà in prosa. «Io bevo, dice egli, alla salute del nostro eccellente ed amoroso padre, del nostro amico dilettissimo, ed auguro che per molti anni ancora, questo giorno ci trovi...» Al professore viene il sospetto che stia per dire una castroneria, ma la frase è incominciata, e perciò egli conchiude con un paralogismo appena perdonabile ad uno scolaro: «Questo giorno ci trovi... col cuore pieno degli stessi sentimenti di affetto e di riconoscenza verso il nostro eccellente ed amoroso padre ed il nostro amico dilettissimo.» — Evviva! gridano i commensali — e l'altro prosegue: «Possa la memoria di questo giorno non cancellarsi mai, come non si cancellano i raggi del sole che tramonteranno nell'altro emisfero per ritornare domani splendidi come prima.» Il professore sorride non solo in qualità di poeta contento della similitudine, ma come scienziato, che con due paroline ha messo il suo prossimo alle porte di un edifizio scientifico, in cui egli fa da padrone. Il dottor Parenti se ne accorge, indovina pure che il brindisi ha bisogno di essere interrotto, e corre a stringere la mano all'oratore colla sua maggior serietà. Il primo a ridere è il professore; non per nulla si ha dello spirito! . . . . . . . Quando siamo felici, la terra ci fugge sotto i piedi; ecco, è il meriggio.... ecco, è il tramonto, è la notte. Svaniscono i giocondi fantasmi, il pensiero si abbruna, i commensali si guardano l'un l'altro freddamente... «È finito!» Non è finito — si apparecchia il focolare; entro un enorme camino che non si accende mai, si butta una gran catasta di legna secca, e tosto cento lingue di fuoco si fanno beffa della stufa enorme. Che splendida rivincita! Quanto dura il bagliore della prima fiammata, il cuore dei poveretti batte più forte, ma la seconda non ha la stessa virtù; l'abitudine è nemica d'ogni nuova gioia. Alle ciance un istante riprese con ardore, succede un silenzio profondo; i più felici si addormentano, gli altri si rincantucciano o leggono i caratteri che si disegnano nelle brage, o tendono l'orecchio alle parole misteriose mormorate dalla fiamma. Quanta vita in quel silenzio, quanta melanconia in quei quattro tizzoni che si consumano splendidamente! A poco a poco il silenzio e la melanconia si abbarbicano, diventano i padroni del luogo, la fiamma si ripiega sopra sè stessa, i tizzi rotolano, e la bragia si scolorisce sotto la cenere — ma chi vi pone mente? Ognuno ha l'occhio ad un proprio focolare, ne vede la fiamma viva, ricerca sotto le ceneri la bragia ardente, e interroga volti assenti che gli sorridono. È tardi... invano l'orologio ha fatto l'appello molte volte; non gli si dà ascolto; Paoluccio si è addormentato appoggiando la testa all'omero di babbo Jacopo, il quale guarda tristamente nel vuoto, ed il professore singhiozza in un canto. Tutta la vacua dimenticanza di quei cervelli è scomparsa, quella melanconia ha un significato: è un dolore, è una gioia, è una casa, è una famiglia che riappare nell'ombra; quel giorno di Natale ne ha fatto rivivere un altro, un altro, un altro... II. MOLTE COSE IN UNA CHICCHERA DI TÈ. Che casa allegra quella del dottor Parenti! Di giorno la luce vi fa galleria; il sole ci si tuffa entro dal primo mattino e non se ne va se non poche ore innanzi il tramonto, quasi a malincuore, e quando scompare dietro i tetti della casa dirimpetto, sembra che, rizzandosi sulle punte dei piedi, si tenga un istante appeso ai comignoli per darle un'ultima occhiata. Che casa allegra quella del dottor Parenti! Domandate a quei canarini perchè cinguettino con tanto gusto e perchè scuotano le testine con tanta spensieratezza entro i fili di ferro della gabbia. Ed a quel micio bianco che russa saporitamente sopra una seggiola, perchè ogni tanto socchiuda gli occhi ed ammicchi tra il furbesco e l'indolente ai suoi compagni ciarlieri. Osservate come tutto è in ordine, come ogni oggetto sa la sua parte a memoria, e che disciplina e che nettezza! A chi obbedisce tutto ciò? Qual è la fata che prepara l'incantesimo? Il dottor Parenti no certo; egli fa le sue faccende, cura i suoi ammalati, e tutta la malìa si compie durante la sua assenza. Quando è di ritorno batte le mani e si stringe al seno la fata della sua casa, la qual fata è una faterella di quindici anni, bionda, con due grand'occhi color della pervinca, con un corpicino snello ed irrequieto, ed un visino incarnato e sorridente — un bocciuolo di rosa che si chiama Olimpia, amica dei pazzerelli, fedele all'amore della sua bambola. Che casa allegra quella del dottor Parenti! Quand'è la notte, non importa che sia la notte; d'estate ci è la terrazzina, in cui si annodano le ciance guardando le stelle; d'inverno il focolare, innanzi al quale si sta così bene in due. Le ombre che si allungano nella stanza, sono ombre note e non danno la melanconia, i canarini dormono, il micio si aggomitola accanto al fuoco, ed una bella lampada con un globo disegnato di figurine chinesi manda una certa luce gioconda che fa allegria. La neve che scende di fuori guarda curiosamente attraverso i vetri quella scena di pace e vuol la sua parte dei riflessi rossigni del focolare allegro. A questo punto il signor Fulgenzio si guarda intorno, come timoroso che si abbia potuto leggergli nella mente, e rassicurato dalle apparenze, conchiude le sue fantasie con un lungo sospiro, che ha tutta l'aria di ripetere: «Che casa allegra quella del dottor Parenti!» Ma non per nulla il dottor Parenti porta in fronte due occhietti scintillanti; ci si vede chiaro con quei lampioncini; e se ti fidi al risolino da spensierato che gli socchiude le labbra o credi la felicità mal'accorta, metti il tuo cuore allo scoperto. Il signor Fulgenzio immagina di aver sospirato al sicuro, e che i due compagni, durante il breve monologo del suo pensiero, fossero così intenti ad amarsi da non badare più al prossimo; ma egli non ha ancora ripreso fiato coll'intenzione di ricominciare, quando sente due manine intorno al collo, e si vede un volto d'una bellezza quasi infantile dinanzi, così vicino, così vicino, che è impossibile resistere alla tentazione.... Un bacio, un bel bacio, uno di quelli che ricacciano indietro un reggimento di sospiri; il dottor Parenti accosta la sedia al focolare, Olimpia si curva dinanzi ai tizzoni e li ricompone, e ci soffia entro perchè mandino una bella fiammata, ed eccoli tutti e tre serrati l'un contro l'altro. Ma non si dice verbo; chi sarà primo a rompere un silenzio, in cui hanno parte il cuore ed il cervello, con una frase vuota e menzognera? Olimpia non ha siffatti scrupoli. — Babbo, dice ella con una vocetta che pare il tintinnio d'un campanello, il Natale sta per passare, e per poco non ce ne avvediamo, manca un'ora alla mezzanotte; chi sa che cosa fanno in questo momento i miei pazzerelli? — I tuoi pazzerelli fanno come la tua bambola, dormono, risponde il dottor Parenti, e tu da un pezzo dovresti fare come i tuoi pazzerelli e come la tua bambola. Ma Olimpia crolla la testa con molta gravità e ripete che il Natale bisogna finirlo come si è incominciato, allegramente, e per aggiungere in qualche modo il fatto alle parole dà un balzo e tira il cordone del campanello, che fa udire da lontano la sua voce festosa. Subito dopo si sente un passo strascicato, ed apparisce nel vano della porta una donna enorme portando un enorme vassoio con sopra quattro chicchere ed un enorme bricco di tè. Quel donnone si chiamava Simplicia, ma fa ribattezzato Semplicetta, e non si sa proprio perchè, essendo che di semplice non ha che il nome, ed incominciando dal suo corpo, in cui è la materia prima per due Semplicette, anche non semplicissime, fino alle rotondità carnose che le incorniciano il mento, essa ha tutto doppio. La maniera grave e composta con cui porta il vassoio e lo posa sulla tavola, fa uscire Olimpia in una risata, a cui fa eco il dottor Parenti e di rimbalzo la stessa Semplicetta, la quale non ha la debolezza di lasciarsi sgominare da checchessia. Ma perchè quattro chicchere invece di tre? Per la bambola? Chi avesse fatto questa domanda ad Olimpia l'avrebbe posta evidentemente in imbarazzo: infatti ella scosta una chicchera, e cerca di nasconderla, senza riuscirvi così presto che il signor Fulgenzio non se ne avveda. Si capisce: in quattro si doveva tentare il prosciugamento di quell'oceano di tè. Ma che cosa trattiene l'assente? Nessuno ne fiata parola, ed il signor Fulgenzio, che ha nascosto un istante la fronte fra le mani, la rialza colle rughe non del tutto spianate per ricevere dall'amabile padrona di casa la sua chicchera. Niente di meglio d'una tazza di tè molto caldo per nascondere i moti dell'animo; il signor Fulgenzio ci soffia entro a pieni polmoni la sua commozione, ed il dottor Parenti fa altrettanto per non mostrare di avvedersene. La sola Olimpia nel mescere il latte caldo non sa trattenere un tremito delle mani, e Semplicetta, che in fondo capisce le cose a volo, guarda la quarta chicchera rimasta vuota, come minacciando di schiacciarla con tutto il proprio peso. La cerimonia del tè, che doveva essere lietissima, riesce invece freddina; checchè facciano i tre amici non riescono a riattaccare il filo del buon umore, a dopo una mezz'ora misurata a monosillabi, Olimpia dà la buona notte all'amico, si butta nelle braccia del babbo e se ne va a letto. Non appena la bionda creatura ha passato l'uscio, il signor Fulgenzio balza dalla sedia e si dà a camminare a gran passi. Il dottor Parenti sa il fatto suo e lascia che si ammorzi il primo impeto; si china intanto a frugare attentamente nella cenere senza sperare di trovarvi nulla di buono. Dopo aver fatto una mezza dozzina di giri per la stanza, l'altro infatti ricade sulla seggiola lasciata vuota poc'anzi, proprio nel momento in cui il dottore rialza il capo non cessando di brandire la paletta. — Non mi dirai più che quello scapestrato in fondo ha del cuore! Il dottor Parenti veramente non aveva mai detto nulla, ma siccome egli sa che tutti sono eguali in faccia alla fisiologia, scapestrati e timorati di Dio, non esita a fare una crollatina di capo, come a dire che avrebbe intenzione di sostenerlo ancora. Ma il vecchio direttore non bada al gesto o non lo capisce, e fissa gli occhi tristamente nei carboni; il dottore tira più vicino la sua sedia, si gratta il rovescio della mano in forma di esordio, poi domanda, col tono di chi entra addirittura in materia: — Che cosa ne è di tuo figlio? Questa parola sembra risonare duramente nel seno del vecchio, il quale tentenna il capo in atto di profonda amarezza e non risponde. — Che cosa ne è di Mario? ripete dolcemente l'altro. — E lo so io? Non sono forse l'ultimo a saperle io lo cose di _mio figlio_? Il dottore concede un minuto di silenzio al risentimento dell'amico, poi soggiunge lentamente e dando alla sua voce un'espressione quasi carezzevole: — Forse tu sei troppo severo con lui! — Severo! Non ha sempre fatto quello che ha voluto? ho io mai cercato di sostituire il mio volere al suo? e non si serve appunto della sconfinata libertà che gli ho dato per affannare la mia vecchiaia? E siccome il dottore non lo interrompe subito, egli aggiunge con accento più sereno: — Sai tu dirmi perchè, invece di passare la notte di Natale con noi, se n'è andato fuori di casa subito dopo il desinare e non si è più visto? È cuore questo? È affetto? È gratitudine, domando io, è gratitudine? E il povero padre tormenta colle molle i tizzoni che levano miriadi di scintille. — Mario non ha che ventidue anni... — Gli ho avuti anch'io ventidue anni e so come si ama a quell'età! Ma stolto chi ne ha sessanta sonati e non ha ancora imparato a conoscere gli uomini, o quando gli ha conosciuti una volta, non ha saputo odiarli, ed ha preferito starsene solo per continuare ad amarli. Che bisogno avevo io di conchiudere la mia vita da scapolo con qualche opera meritoria, come se il vivere in questo mondo di egoisti non fosse già un'opera meritoria? Mi sono dato una famiglia di disgraziati; doveva bastarmi.... Ma mi venne lo sciocco appetito di far qualcuno felice, e pensai a darmi un figlio... Ho creduto che un estraneo non dovesse più rimanere tale in faccia al beneficio e che la riconoscenza potesse mutarsi in amore. Dovevo aspettarmelo: ho voluto domare l'egoismo d'un mio simile, e la belva mansuefatta, invece di pigliare le sembianze dell'ipocrisia, ha preso quelle dell'ingratitudine. Ciò fa più male, ma è più schietto; non è vero che è più schietto? L'insistenza della domanda è di quelle che non vogliono risposta; il dottore infatti se la cava cacciando tre o quattro volte la paletta nella cenere in modo da lasciarvi l'impronta. Il vecchio intende quel linguaggio a modo suo, ed aggiunge: — So che cosa mi vuoi dire, non proseguire. Nulla di più facile per il dottor Parenti, il quale presta l'orecchio attento e curioso. — So che la mia vita manca di logica; che dopo aver dubitato di tutto ero in obbligo di tirar dritto fino all'ultimo, e che, avendo rinunziato alla famiglia, dovevo andare incontro senza paure alla solitudine della vecchiaia; ho sbagliato; un barbone od un bracco, che avrei battezzato Melampo od Azor, era il fatto mio meglio di un animale della umana specie a cui ho dato il mio nome. Non è così? — È così. E se a quel tempo io fossi stato in età di dare consigli e tu me n'avessi chiesto uno, avrei dato il mio voto a Melampo, come alla sola creatura riconoscente che respiri sulla crosta del globo. L'enfasi che il dottore pone in queste parole, lascia evidentemente incredulo il suo compagno, il quale, dopo breve titubanza, fa una professione di fede, che in fondo non è se non una domanda. — Il cielo mi guardi dallo sfrondare le illusioni di chicchessia; beato te se potessi credere alla riconoscenza degli uomini come vi ho creduto io alla tua età! — Io non vi ho mai creduto, risponde l'altro senza batter ciglio. E siccome il vecchio insiste collo sguardo, egli aggiunge collo stesso accento pacato: «La colpa non è però dei beneficati.» — No, ma del benefizio. — O dei benefattori... Il signor Fulgenzio non pare comprendere, e lascia dire. — Il beneficio, com'è inteso dai più, è il capitale che si vuole impiegare ad usura; nella massima parte dei casi il meccanismo di un'opera buona si spiega così: uno che spende parte del suo superfluo a comprare l'indipendenza d'uno che non ha il necessario. Tutti i quesiti possono ridursi a quest'unica formula. — E chi facesse il bene per la sola soddisfazione di farlo? — A costui basterebbe la sola soddisfazione d'averlo fatto; ma è un'eccezione. La regola è l'usura. Ora il beneficio strozzino fa la riconoscenza bancarottiera. — Spiegati meglio. — Mi spiego meglio. A rigor di logica la riconoscenza comprende averi, vita, pensieri, opere, parole, libertà e coscienza. Con pochi spiccioli in moneta di beneficio si vorrebbe assicurarsi un canone perpetuo in moneta di gratitudine. Il balzello è così grave ed uggioso, che la più spiccia è non pagarlo. E si fa bancarotta. Il vecchio non dice parola. Quel silenzio sembra pesare sull'animo del dottore, il quale prosegue a dire, come pentito della sua franchezza: — Parlo della maggior parte dei benefattori, ma vi possono essere eccezioni. — Lascia le eccezioni, interrompe bruscamente il vecchio direttore, e conchiudi la tua regola, e di' pure, poi che lo pensi, che l'ingratitudine è l'assenza d'un vizio, anzi una virtù; che per aver cuore aperto alla riconoscenza conviene essere nati a servire, deboli e pieghevoli come il giunco; che le umane querce debbono ribellarsi alla schiavitù del benefizio e trovar la forza di mostrarsi liberamente ingrate. Via, di' tutto questo, poi che lo pensi. Il dottore prosegue pacato: — Io penso che la riconoscenza non esiste, e non dico che sia bene o male: esistono solo i benefattori ed i beneficati; uomini che col benefizio credono di aver comprato un loro simile, ed uomini che hanno in conto di prestito il benefizio ricevuto. I cattivi debitori ti vedrebbero agonizzare e ti lascerebbero morire professandotisi eternamente _grati_; i buoni smaniano aspettando un'occasione che non viene, molto più beneficati se tu porgi loro maniera di saldare il primo debito, capitale ed interessi. — Costoro non sono riconoscenti meglio degli altri. — I poveretti credono d'esserlo.... e bisogna compatirli perchè sono in buona fede... — Io non vorrei altro che un po' d'affetto! — Una bagattella! Lo comprendo, ma la cosa è impossibile. Il beneficio si misura a soldi ed a centesimi e la riconoscenza pure: ma la moneta del cuore non ha prezzo. Di gente oppressa sotto il peso della gratitudine, pronta a buttarsi nel fuoco per il benefattore pur di sottrarsi a quel fardello, ne ho conosciuta.... Che sta per aggiungere il dottor Parenti? Fortunatamente il suo vecchio amico lo interrompe. — Mario forse? — Non parlo di Mario, io non lo conosco abbastanza. Perchè il signor Fulgenzio non risponde? E perchè abbandona ancora il capo fra le mani, e guarda attraverso le dita, attonito, i tizzoni fumiganti nel caminetto? Per un momento il silenzio non è rotto che dal respiro sommesso dei due amici. Alla fine il vecchio solleva il capo, fissa gli occhi in volto al compagno e dice con un filo di voce: — Lo conosco io meglio di te? Mi chiama suo padre, ma io sono rimasto per lui un estraneo. So io come pensa, come sente? — Forse non ti sei preso la briga d'indovinarlo, arrischia a dire il dottore. — L'ho creduto dieci volte, e mi sono ingannato sempre; sapendo che egli non mi avrebbe aperto l'animo suo, ho cercato d'imparare a leggere in quel libro chiuso. Quante vie non ho tentato per arrivargli al cuore, senza che egli se ne avvedesse? Tutto inutile. Le sue abitudini all'Università di Pavia mi sono note. Non ci ho nulla a ridire. Ha studiato, studia, avrà presto finito il suo corso con onore; non ne so altro. L'ho visto dalla spensieratezza arrendevole dell'adolescenza passare un po' per volta alla calma, alla riflessione, alla melanconia, ed irrigidirsi, e farsi contegnoso e severo; da qualche tempo quella melanconia è divenuta tetraggine, e i suoi modi hanno preso una dolcezza di gelo che mi fa male al cuore. Il disgraziato è quasi riuscito a convincermi ch'io ho commesso una cattiva azione e ch'egli è la mia vittima. L'affanno del vecchio è cresciuto man mano, e le ultime sue parole sono rotte dal singhiozzo. Il dottor Parenti non sa più come tenersi, quando l'orologio batte le dodici ore. A quel suono il povero padre si pianta un istante ritto ed immobile, come a far prova della sua saldezza, porge la mano all'amico e se ne va augurando la buona notte. — Buona notte, dice il dottore accompagnandolo fin sull'uscio; e finchè si ode il rumore dei passi che scendono la scalinata, egli non si muove dal pianerottolo, e ripete ancora una volta: «Buona notte.» Oh! i tristi pensieri che accompagnano il vecchio fra le vuote pareti della sua casa! giunto sulla soglia si guarda intorno stando in ascolto; un lumicino col lucignolo carbonizzato arde in un canto, il servitore russa sopra una seggiola! Oimè! a qual notte fitta fa pensare quella agonia di luce, di qual silenzio profondo è l'immagine quel sonno! Al rumore dei passi il servo si rizza ancora dormente sulla sedia. — Sono io, Tomaso. — Scusi, credevo che fosse il signor Mario. — Non è ancora rientrato mio figlio? — Nossignore... almeno... mi pare... Il signor Fulgenzio non dice parola, attraversa le stanze silenziose e deserte e muove dritto alla camera di suo figlio. Non vi è nessuno... Il vecchio sta un momento immobile a guardare le pareti, il tavolino, il letticciuolo, come se vegga tutto ciò per la prima volta, mentre Tomaso tiene alti i lumi lottando vigorosamente col sonno. — Quando mio figlio ritornerà, gli dirai che dormo. — Non vuole che l'aiuti a spogliarsi? — Farò da me. Senza aggiungere parola, il povero padre prende un lume dalle mani del servo e se ne va nelle sue camere. Proprio in quel momento il dottor Parenti, dopo aver dato di catenaccio alle porte ed origliato all'uscio della camera della figliuola per udirne la respirazione tranquilla, passa col lume in mano dinanzi alla gabbia dei canarini; uno dei quali si sveglia, batte le alucce e dà un moto di altalena al cerchio in cui è accoccolato. — È Piccolino, pensa il dottore, e dice forte: «Addio, Piccolino.» Che casa allegra quella del dottor Parenti! III. LA FAMIGLIA DEL MAESTRO DI SCUOLA. Mi si permetta di nascondere dietro la prima lettera dell'alfabeto il nome del paese in cui stiamo per recarci — si sa che un narratore può avere cento ottime ragioni per celare il _teatro_ degli avvenimenti che narra. Per arrivarvi la via non è lunga; si esce da una porta, si infila una strada fiancheggiata di olmi, si fanno tre chilometri in linea retta, si volta a mancina, e poi a diritta, e poi di nuovo a mancina, altri due chilometri in tutto, e si è nel bel mezzo di A..., frazione di B..., mandamento di C..., provincia di Milano. La chiesuola e la casa comunale si guardano faccia a faccia, alle due estremità d'una larga piazza, tagliata in due dalla strada _maestra_ ed unica, che incomincia con un filare di gelsi e finisce con un filare di gelsi. A cinquanta passi fuor dell'abitato dei vivi è l'abitato dei morti: un campicello quadrato, con un muricciuolo di cinta assai meglio intonacato degli edifizi del paese; con una cancellata di ferro all'ingresso ed il suo _Memento_ che i latinisti del luogo traducono in volgare di generazione in generazione. All'estremo punto del paese, in una casetta color di rosa, che pare voglia prendere la via dei campi, penzola un'insegna con un'altra scritta che non ha bisogno d'interpreti: _Vino buono_, e in faccia, sopra una porticina stretta, come ha fama d'esservene una in paradiso, un'altra scritta: _Scuola comunale_. Tutti gli edifizi si rassomigliano, e paiono rachitici e sciancati, posti in fila per una rassegna burlesca; sporgono il ventre, barcollano sulle gambe e si tengono in piedi raccomandandosi all'intercessione dei Santi del territorio. In sostanza il paese di A.... non ha aspetto molto leggiadro. Quando il sole entra nella via maestra vi passa solo un paio d'ore melanconiche, non vi trovando nulla che faccia festa ai suoi raggi. Le finestre non hanno vetri, e sono invece coperte di fogli di carta, che il più delle volte hanno già servito agli esercizi calligrafici dei _letterati_ del paese. È impossibile trovare un metodo più economico per impedire alla luce di entrare; l'ospitalità è meglio intesa per gli altri elementi: il vento e la pioggia vi fanno da padroni; anzi, quando piove accompagnato da vento, i più accorti spalancano addirittura le finestre. La campagna circostante non è molto più allegra; sempre filari di gelsi, che nella bella stagione incorniciano campi di grano turco; qua e là un olmo che deve aver côlto un momento di distrazione del proprietario per nascere, e si è poi ingegnato di campare la vita contorcendosi e piegandosi per non levar troppo alto il capo ed avere il meglio possibile l'aria d'un gelso. Tutto ciò non toglie che, quando alla domenica un merciaiuolo della città giunge ad A.... colla sua famiglia, per domandare all'_Osteria della Salute_ un po' di oblio delle noie della _capitale_, non trovi nel paese la beata semplicità rusticana che innamora, ed un certo aspetto di benessere bonario che fa bene al sangue. Per la semplicità rusticana ci sto anch'io, ma per il benessere dico che l'ottimo padre di famiglia confonde il paese di A... coll'_Osteria della Salute_, in cui veramente si trova del _vino buono_ che fa bene al sangue. Nel momento in cui abbiamo posto il piede nel paesello il sole se n'è andato, e qualche finestra comincia ad illuminarsi. Non vi è persona sulla via, e la neve che imbianca i tetti, ricama gli alberi, si appende ai muri screpolati, e si ammucchia nel mezzo della via, lasciando solo ai due lati un picciol passo fangoso, cresce la tristezza di quest'ora melanconica. Pure anche qui è gente felice, vecchi che tentennano il capo e sorridono alle baldanze giovanili, fanciulli che schiamazzano, madri che fanno peggio per correggerli; e stamane dopo la messa avresti potuto vedere una dozzina di giovinette colle guance vermiglie farsi più vermiglie vedendosi adocchiate, e raccogliersi ridendo forte, e sparpagliarsi ridendo più forte; ed il sindaco far gli augurii al curato, ed il curato raccomandare a Dio il sindaco, ed il vecchio maestro di scuola salutato dai suoi piccoli allievi irriconoscibili colla vesticciuola delle feste, e l'oste della _Salute_, roseo come la sua osteria, con un sorriso cordiale appeso sulle labbra come un'insegna, su cui anche i più mal pratici leggevano: _Vino buono_. Tutti avevano un'allegria inconsueta sul volto, una patriarcale arrendevolezza di modi, e si separavano stringendosi la mano, e si salutavano per nome incontrandosi, e gli augurî s'incrociavano: «Buon Natale!» Ora tutto tace, poichè la gioia, in campagna come in città, quanto è più schietta e meno schiamazza e più si nasconde; la via è deserta, l'orizzonte s'oscura, e ad una ad una le finestre aprono gli occhi a guardare nelle tenebre. Oh! chi sapesse leggere ora gli sgorbii calligrafici degli antenati che dormono nel cimitero! Ingegniamoci di passare attraverso la fessura, che serve d'ingresso alla _scuola comunale_. È un ampio rettangolo a terreno, con tre finestroni che mettono nella via, colle pareti tappezzate di lavagne e di carte geografiche, col soffitto a travicelli ed il pavimento di mattoni. In un capo del rettangolo è qualche cosa che, dovendo raffigurare una cattedra, ha il diritto di non assomigliare punto ad un tavolino, ma ne approfitta male, e dietro di essa una vecchia sedia a bracciuoli coperta di cuoio che fu verde in una età molto remota, ma che ora tira al nero. In faccia a quel simulacro di cattedra tre file di panche. Queste panche hanno una leggenda. Da tempo immemorabile i naturali di A.... vanno alla scuola per imparare a leggere, scrivere e far di conto; quando credono di essere abbastanza approfonditi nei tre rami dello scibile, incidono il loro nome sul _posto_ che hanno occupato e non ci tornano più. A forza di incisioni di tal natura le tre file di panche hanno l'aria di reliquie, le quali non stiano al mondo se non per dichiarare quanto si può togliere di panca ad una panca, senza farle smarrire la sua natura. A lato delle panche l'ammattonato è roso per lo lungo dai passi del maestro, ed in fondo al rettangolo, di rimpetto al seggio magistrale, sorge un ampio camino, la cui foggia patriarcale rammenta il primitivo ufficio del luogo. Non è raro che nell'inverno vi si veda al fuoco una pentola, ma è rarissimo vedervene due. Per compiere la descrizione della scuola comunale di A... conviene dire che le vetrate dei finestroni sono fatte di piccoli vetri genuini, limpidissimi, quasi tutti intatti, e che solo ogni tanto, per non dare agli studiosi una cattiva idea dell'amministrazione della cosa pubblica, quel lusso è opportunamente temperato a spese del Comune, da fogli di carta oleata che sostituiscono mano mano i vetri che vengono a mancare. Il signor maestro ha fatto il calcolo aritmetico che, durando la proporzione, occorrono ancora dieci anni perchè tutti i vetri di vetro diventino vetri di carta, e siccome egli ha già passato la settantina, si conforta e dice sospirando che non vedrà quel giorno. Il signor maestro si chiama propriamente Ciro Neri, ma non è chiamato in paese altrimenti che _signor maestro_. Eccolo là, nella sua scranna di cuoio, accanto al focolare, in cui scoppiettano alcuni tizzoni che non vogliono ardere, colla fronte serena, cogli occhietti scintillanti, coi pomelli delle gote arrossati dal calore — una bella testa espressiva lieta della sua bella cornice di capelli bianchi. — Maestro, dice una voce di donna che viene dall'ombra, ti sei accorto? L'interrogato esce con un sussulto dalla sua beata fantasticheria, e non sapendo che rispondere, si frega le mani. — Nessuno mi toglie dal capo, prosegue la voce, che essa ci nasconde qualche affanno. Non pare anche a te? — Qualche affanno! E quale affanno, Teresa mia? — Teresa mia! L'ho da saper io! L'ho da saper io che non so nulla! Lo domando a te, a te che leggi nei libri, che da quella pancaccia parli come fa il curato dal pulpito. Via, dimmelo tu che cosa ha la nostra Donnina. — La nostra creatura ha qualche cosa, ed io non me ne sono accorto! esclama il povero vecchio sbigottito. — Se non te ne sei accorto, è perchè te ne vivi nelle nuvolo, coi tuoi _a_, e coi tuoi _b_ e coi tuoi numeri. Tu pensi solo a quella frotta di biricchini che ti mettono a soqquadro la casa; e lasci che la tua vecchia compagna, finchè le rimane un occhio, lo consumi a vederci per due. La non può durare. La donna che così parla a poco a poco è uscita dall'ombra, ed a queste ultime parole si è rizzata in tutta la sua lunghezza, che non è gran cosa, ed è venuta dinanzi al focolare. — E che vuoi ch'io faccia! osserva dolcemente maestro Ciro. — Nulla... nulla, balbetta la vecchierella sconcertata da tanta arrendevolezza, non dico che tu debba occuparti della cucina e della dispensa... sono cose che non danno molto da fare neppure a me... e tu hai altro... hai di meglio, lo so, ti dico che lo so; ma mi stupisco che non ti sia accorto che Donnina tutto ieri e tutt'oggi è più mesta del solito. — Oggi non mi pare; mi è venuta incontro sorridendo, mi ha dato un bacio; piuttosto, mi ci fai pensare, ieri non volle che io facessi scuola ai piccoli, volle fare essa la mia parte e finì col dare _brevis letio_. — E gli ho sentiti, quei piccoli rompicolli, a dir «grazie!...» ma non diranno così i parenti, nè il sindaco... — L'ho pensato anch'io... noi siamo pagati per fare la scuola... — Siamo pagati! Bella paga davvero! Seicento lire ogni anno per insegnare tutti i tuoi _a_ e b, e le aste, ed i numeri, e cento altre cose ad un paio di dozzine di mariuoli... Il signor maestro non può udire gli epiteti che la degna consorte regala ai suoi allievi senza sentirsi ferito nel vivo; la signora Teresa se ne avvede, e leva gli occhi al cielo. — Che cuore ha questo sant'uomo! Per me già non gli amo niente affatto quei... disgraziati che ti fan perdere il capo... — È il mio mestiere... — Mestiere! non posso sentirti a dire così. Si provino a trovarne un altro che sappia quello che sai tu, ed insegni ai loro figli tutto ciò che tu insegni; si provino se sono buoni! Maestro Ciro pensa modestamente che _essi_ ne troverebbero cento, ma si accontenta di dire: — Io sono vecchio; vi è chi crede che un giovine farebbe meglio la scuola. — E lo dica costui! Lo venga a dire a me! Un giovine! vuoi dire un fanciullone; non sei forse giovine tu? Non hai quattro buoni anni meno di me, e ti pare che sia tanto vecchia, io? Così dicendo l'impetuosa signora Teresa drizza tutto il suo sistema osseo con un moto risoluto ed imprime ai muscoli delle braccia un movimento ondulatorio che le dà una bizzarra energia. — Tu dicevi che Donnina... interrompe il marito. — Donnina ha qualche cosa per la testa; ci scommetto; ma appena torna la piglio io in disparte e mi ha da confessare tutto; così non la può durare... — Non è che da ieri, tu dici... — Ha già durato troppo... Mi deve sentire!... Eccola. Il signor maestro si frega le mani con nuovo ardore e sorride, o la irascibile signora Teresa sparisce nell'ombra senza aggiunger verbo. Eccola! Al passo leggiero, al fruscio dell'abito, a quel misterioso fascino che la precede, non si può ingannarsi; è dessa — l'angiolo della casa. È una giovinetta di diciotto anni, alta di statura, con un visino pallido e due grandi occhi profondi, serena la fronte, lo sguardo, il sorriso, il portamento — serena, ma mesta. Da tutta la sua persona spira qualche cosa di misteriosamente leggiadro; i lineamenti del suo volto sono pur belli, più bella è l'anima che vi si riflette limpidamente. Un'anima mite, ingenua, soave, pieghevole, ma non debole nè timida — serena. La stessa mestizia non pare conturbarla; approfondisce vieppiù il suo sguardo, cancella il suo sorriso, non le oscura la fronte. Quand'era bambina ed abitava il paese di S... vi fu chi le trovò una certa somiglianza con la madonna della parrocchia; non ci volle altro perchè il vicinato, accertata la cosa, desse alla fanciulla il nome di Madonnina; ma il curato lo seppe, parlò dal pulpito contro i sacrilegi, ed ottenne che Madonnina fosse troncato in Donnina. Siccome quest'ultimo battesimo aveva la tacita approvazione della persona incaricata di rappresentare ad S... il paradiso, non ci fu chi chiamasse altrimenti la fanciulla. Donnina del resto giustificava pienamente il nuovo nome. A soli sette anni, quando ritornava dalla messa con molta serietà, o quando, rimasta sola in casa a vigilare, non si arrendeva all'invito delle compagne che la volevano a giocare nel prato, quanti la incontravano le dicevano: «addio, Donnina», e ripetevano fra sè e sè: «la par proprio una donnina!» Essa entra recando in mano un lume acceso che depone sopra la vecchia cattedra: le ombre fuggono in rotta dinanzi a lei, le lavagne appese alle pareti si accendono di un allegro riflesso, le reliquie di panche zoppicanti par che danzino allegramente, come quando arriva la scolaresca, il signor maestro si frega fervorosamente le mani e si china vie più sul focolare, guardando sottecchi la sua ossea compagna, la quale, ora che le vien tolta l'ombra dattorno, non sa come contenersi. — Mamma Teresa, dice la giovinetta, andando direttamente a lei, il letto è pronto. — Il letto è pronto! E chi ti ha detto di andare a prepararlo? Siamo alle solite! Ti paiono fatiche da far tu? Non ci sono io in questa casa? Non sono più buona da nulla io? Mamma Teresa nel dire queste parole di rimprovero si ingegna di non guardare in viso la colpevole, ma tanto tanto non riesce ad afferrare il tono giusto. E il signor maestro continua a fregarsi le mani ed a chinarsi sul focolare. — Cascherai nel fuoco, dice la vecchia, rivolgendo la sua collera formidabile al marito; o che hai tanto freddo tu!... Ma Donnina le si è accostata, le ha sorriso, ha posto il visino soave così presso alle sue rughe, che non ci è più verso di tenere il broncio — e la pace è fatta, con un bacio. — Oh! sospira allegramente il signor maestro rizzandosi sulla seggiola; ma uno sguardo severo della sua compagna lo ricompone. — Volevo andare in collera; non è possibile; hai una certa maniera di guardarmi, di sorridermi! Chi ti ha insegnato a guardare ed a sorridere a questo modo? Ma non credere d'averla passata liscia... oggi è Natale, ma domani mi sentirai. — E perchè non oggi? Che cosa ho fatto? — Hai fatto... nulla, hai fatto! Hai fatto che da ieri sei più mesta del solito... Ecco, perchè vuoi che lo dica, l'ho detto... — Teresa, osserva con accento dolcissimo il signor Ciro, temendo che le parole della moglie abbiano turbato la sua creatura, Teresa teme... — Non temo, sono sicura. Ma già la signorina dirà che non è vero, e lo dirà con una maniera così schietta, che me lo farà credere... — Ebbene, sì, risponde Donnina dopo di aver meditato un momento, ieri ed oggi ho avuto ragione di essere più mesta, ma credevo di non essermi fatta scorgere. Il signor maestro non si frega più le mani, non si piega sul focolare, ma si drizza sulla seggiola di cuoio, la spinge dietro di sè con una mano e muove un passo verso la giovinetta senza più badare alla consorte, la quale, più lesta, ha preso le mani di Donnina nelle sue, se l'è tirata vicino e l'interroga con uno sguardo che non ha proprio nulla di severo. — Una fantasia, sapete, una sciocchezza, dice Donnina cercando di sorridere, mi è parso di vedere una persona che non ho più vista da molti anni... — In sogno? — No, ero desta, l'altro ieri notte, qui in questo stesso luogo. — Qualcuno è entrato in casa? chiese trepidando la vecchia. — No, ma un volto si è affacciato ai vetri, là nella finestra di mezzo... un momento solo... ho gettato un grido ed è sparito. — Ed era? — Non so chi fosse, ma aveva una somiglianza singolare con Ognissanti; vi ricordate di Ognissanti? — Io me ne ricordo, dice il vecchio, era il mio miglior scolaro della scuola di S... un po' bisbetico, un po' caparbio... — Ma molto buono, osservò Donnina, a saperlo pigliare pel suo verso. — Per te che sapresti pigliare pel suo verso anche lo spirito maligno!... interrompe la vecchia; era un arnesaccio superbo e fantastico quel tuo Ognissanti; me ne ricordo anch'io; partì cinque anni sono... — Sei... — Saranno sei, già io non gli ho contati, partì sei anni sono da S... col babbo e non se n'ebbero più novelle; suppongo che sarà finito male. Ma come vuoi che egli sia venuto qua?... — Non lo so, non lo immagino. Ma mi è venuto in mente che fosse morto e che il suo fantasma... — Sciocchezze! Hai tu visto mai che i morti del nostro cimitero si piglino il gusto di andare a zonzo pel paese! E ti pare che dovrebbe apparire a te un fantasma, e non piuttosto a me che sono, si può dire, della loro famiglia... o almeno poco ci manca...? — Non dire questo, mamma. — Teresa! balbetta il signor maestro. — Eh! lo so che non sono cose da dire, ma se le penso, mi pare!... La più vecchia di tutti... sono io! ed è naturale... — Teresa! ripetè il marito, cacciando una mano tremante nei capelli bianchi. — Via, non se ne parli, ma nemmeno tu hai da star mesta per simili cose. Ti pare, un fantasma! E qual fantasma! Il fantasma di un birichino che rideva sempre, ma a cui non si potevano dire due parole serie senza vederlo piangere. — Per troppo cuore... — No, per dispetto... A questo punto Donnina, che teneva gli occhi rivolti alla finestra, mandò un piccolo grido. — Che è stato? — Là... in quella finestra. La signora Teresa non sta ad udire, altro, corre alla porta, leva la stanghetta e guarda nella via... non vi è nessuno... Rientra, richiude e dice a Donnina: — Sei proprio sicura che fosse il fantasma di Ognissanti quello che hai visto? — Sicura, veramente no, anzi... ora non mi è sembrato più che gli somigliasse tanto... — Di' che non gli somiglia niente, e che è fantasma come te e me; lo so io chi è, è il nipote dell'oste della Salute qui rimpetto, quello scioccherello che non sa distaccare gli occhi da te, quando vai a messa... Ma è tardi, mi pare... — Sono le otto, dice il vecchio maestro, cavando dal taschino del panciotto un'enorme scodella che gli fa ufficio d'orologio. — A quest'ora le altre notti russi saporitamente, risponde mamma Teresa. — Russo io!... non me ne sono mai accorto... — Lo credo... me ne accorgo ben io... — E tu svegliami. — Già, perchè poi tu mi venga ammalato! Credi che sia divenuta così delicata, che non ti possa più udire a russare dopo quarantacinque anni di matrimonio? — Quarantacinque anni! ripete il signor maestro; quarantacinque anni! — Già, quarantacinque anni! ripiglia a dire la vecchia, e per resistere al sentimento di tenerezza che la vince a questa riflessione, si butta al collo di Donnina. Il signor maestro si volta da una parte per asciugare una lagrima. — Sei pure il gran fanciullone! dice la vecchia.... il gran fanciullone, dotto come non so chi, ma sempre un gran fanciullone! E in così dire si è fatto passare innanzi il marito e lo spinge dolcemente su per le scale, proteggendolo come si fa ad un bambino. Donnina li precede facendo lume, e si volta indietro sorridendo. IV. CIÒ CHE INTENDONO LE SIEPI. Al di fuori il cielo si è fatto più scuro e l'aria più rigida; nel fondo nero del firmamento le stelle splendono senza scintillio, e paiono punti di fuoco che si sprofondino nell'infinito quanto più li guardi. Alcune nuvole corrono pazzamente, si adunano, e proseguono la loro corsa, ed il vento gelido ruba alle siepi ed ai gelsi larghe falde di neve che sparpaglia in pioggia di brina. È un silenzio profondo; per l'unica strada di A... non si ode una pedata umana; qua e colà, nel nero spazio, brilla un lume ad una finestra; dalla porta socchiusa dell'osteria della Salute, insieme con un filo di luce che traccia una linea d'argento sulla neve, esce ad ora ad ora un confuso rumore di voci ebbre. Donnina ha aperto la finestra della sua cameretta che mette nell'orticello contiguo, e spinge lo sguardo sulla via maestra. La luce che le batte sul capo sfiorando le sue guance, ne disegna nettamente i contorni. Invano il vento soffia sul lume per cancellare la cara visione; la fiamma si agita, si piega, resiste e sembra accarezzare coi mobili riflessi la leggiadra testina. Ma perchè il cuore di Donnina batte così forte? Perchè le è sembrato di vedere un'ombra attraversare la via ed accostarsi alla siepe, e di udire — ma non sa se sia inganno della fantasia o beffa del vento — una voce, un soffio, che l'ha chiamata per nome: «Donnina!» Non risponde; non sa, nè l'oserebbe: qualcuno potrebbe udirla, bisogna lasciare la finestra, e chiuderla, e piangere perchè la gioia non la uccida. Ma la voce ripete un'altra volta il suo nome, e con un accento di preghiera così intenso, che ella si sente come incatenata e non sa staccarsi dal davanzale. Succede un istante di silenzio, un raggio di sole che risveglia un mondo di atomi nel buio. Le passano in capo mille idee in un punto. «È lui? è lui? E perchè fuggirlo, perchè nascondermi? Egli ritorna! Dunque mi ama! Che importa il tempo che è passato, se egli mi ama? Ma perchè a quest'ora? E perchè tale mistero? Non lo so, ma egli me lo dirà, perchè è ritornato, ed è ritornato perchè mi ama! E non l'amo io forse? Ah! il cuore le batte così forte! Non pensa, non ragiona, non fantastica più. La serenità della sua natura diventa una forza; può forse esitare un istante, e vedere pericoli, e temere minacce, chi ha la sicurezza dell'innocenza e la baldanza dell'amore? Si toglie alla finestra, apre l'usciolo della cameretta che gira sui cardini senza far rumore, passa il pianerottolo sulla punta dei piedi, porge orecchio per accertarsi che nessuno possa udirla, e scende le scale all'oscuro... apre la porta che mette all'orticello, e stringendosi lo scialletto intorno al collo, è d'un balzo presso alla siepe. Udite come fremono flagellati dal vento i nudi virgulti. — Donnina! dice la nota voce, rotta dall'ansia, Donnina! Che tu sia benedetta per questa immensa felicità che mi dai! Parlami, ho bisogno di udire la tua voce, ho bisogno di sentirmi chiamare per nome come io ti chiamo: Donnina mia! — Mio Ognissanti! risponde la fanciulla commossa, mio Ognissanti! Ma non sa dir altro. — La riconosco! questa è la musica che io sognava, la tua dolce voce di fata. Non sapevo come fare per venirti innanzi e dirti: «Donnina, guardami in volto, sono il tuo fidanzato.» Oh! qual dolere se tu non mi avessi riconosciuto! Donnina non risponde; non le pare di aver nulla a dire che già non dica la sua presenza in quel luogo. Ma il suo silenzio è più eloquente d'ogni parola. — Ho avuto paura che tu diffidassi di me e del tempo passato, e che potessi credermi mutato ed attribuirmi intenzioni perverse. — Il passato è come un sogno lungo, e il ridestarsi lo cancella; questo momento compendia per me sei anni, Donnina tua è come l'hai lasciata. — E non hai paura di me? — Paura di te! E perchè dovrei aver paura di te? Ti ho aspettato e sei giunto; il mio cuore batte forte, ma non ho paura. — Ah! non hai visto il mondo, tu! — E tu l'hai visto? — Ti parlerò di me un'altra volta; ora potremmo essere scoperti; avevo bisogno di sapere che tu vuoi essere mia, che tu sei rimasta mia, che non hai cessato un istante di pensare al nostro giuramento. Ripetimelo. — Non sarei qui se fosse altrimenti. — È vero, prosegue la voce affannosa. E avevo anche bisogno di dirti che t'amo, che t'ho sempre amata, che lontano da te, te sola ho posto in cima ai miei pensieri, e che in tutto il tempo passato non ho sospirato ardentemente altro giorno che questo. Lo credi? Donnina non risponde. L'altro ripiglia a dire soffocando un gemito: — Te lo giuro su ciò che gli uomini hanno di più caro, sopra la disgraziata che fu mia madre e ch'io non conobbi! Donnina manda un lieve grido. — Me lo credi ora? insiste Ognissanti. — Te lo credo. — Grazie! Ti dirò poi come non mi sia riuscito di rivederti prima d'oggi, di ritrovare le tue traccie smarrite, di riannodare il nostro amore reciso. Ti dirò come io ti abbia pianto perduta, non di te dubitando, ma del destino; ti dirò quello che la mia anima ha crudelmente sofferto fino ad oggi; ti dirò tutto; ora non interrogarmi, è tardi, e se qualcuno mi vedesse qui, in quest'ora, non risparmierebbe la tua innocenza. Io so come sono fatti gli uomini! — Tu non mi domandi di... mio padre, di mia madre... — Le ho viste con te alla messa, le buone creature!.... So che ti amano e che tu le fai felici... — E tuo... padre? La voce del giovine non è ratta a rispondere; nè la siepe può soffocare così un gemito, che non giunga all'orecchio di Donnina. La povera fanciulla comprende. — Tu sei solo nel mondo? — Solo, risponde Ognissanti come a malincuore, solo fino ad oggi; ma in avvenire non più, perchè ti ho ritrovata, e sarai mia. Ora addio... — Aspetta, dice Donnina obbedendo ad un impeto del cuore; non posso lasciarti partire così! Saperti solo forse, ramingo, infelice, e rimanermene qui, ignara del tuo destino... — Il mio destino è lieto, perchè è il tuo destino. Avrai mie notizie presto, saprai tutto, ora non chiedere altro, ti fida... — Oh! sì, mi fido, non ti domanderò nulla, ma voglio vederti in viso, e leggere negli occhi tuoi che non sei un infelice. Aspettami... E senza aggiungere parola, Donnina attraversa l'orticello, accende un lume, entra nella scuola ed apre senza far rumore l'uscio di strada. Chi le dà quel coraggio? Non lo sa, non lo domanda neppure, ella compie tutto ciò come chi si sente d'obbedire ud un dovere. Ognissanti ha appena avuto il tempo di scostarsi dalla siepe e ritrarsi nell'ombra, ed ecco vede la porticina socchiusa ed un volto angelico incorniciato nel vano. Il desiderio non è più ratto. — Ognissanti è presso alla fanciulla. Ma tutta la baldanza che spirava dal suo linguaggio è svanita; conviene che la mano di Donnina lo tragga come un fanciullo dalla soglia che egli non sa determinarsi a varcare. La debole luce del lumicino rischiara un'epopea: il pallore di due giovani volti, due sguardi che sfavillano, due mani che si stringono. Ognissanti non dice parola; un sorriso di Donnina, una stretta di mano più tenace lo avvertono che sta per isvegliarsi, che la visione sta per sparire — ed egli protende innanzi le braccia come per trattenerla ancora un istante. — Addio, dice Donnina, addio; ora sono contenta. — Come sei bella! come sei bella! mormora il giovane, non sapendo risolversi ad abbandonare la manina della fanciulla. — Se hai un segreto, aspetterò che tu me lo confidi, e se mi toccherà aspettare molto... aspetterò... Addio. — Come sei bella! come sei bella! Quando la porta si richiude, ed il leggiadro fantasma svanisce, e ogni luce si spegne alla finestra, Ognissanti fissa ancora l'occhio nel buio e ripete: «come sei bella!» È un silenzio profondo; per l'unica strada di A.... non si ode una pedata umana; solo dalla porta socchiusa dell'osteria della _Salute_ esce ad ora ad ora un rumore di voci avvinazzate, e l'orologio della chiesa batte nove ore. Cinque minuti dopo il giovinetto, ebbro della sua gioia, corre all'impazzata lungo la via maestra. Le nere nuvole lo inseguono, il vento gelido lo involge, rubando alle siepi ed ai gelsi larghe falde di neve che sparpaglia in pioggia di brina sopra il suo capo... V. IN CUI SI SPEGNE IL LUME E CI SI VEDE PIÙ CHIARO. Donnina si fa leggiera come una piuma nel risalire le scale, e rivede la propria cameretta che non le è mai parsa così piccina come ora. Come farà a contenere la sua immensa felicità? Si guarda intorno; la finestra è ancora aperta, e fa un gran freddo; bisogna chiuderla; si accosta, si appoggia senza avvedersene al davanzale come poc'anzi, e spinge lo sguardo nel buio, poi chiude a malincuore e si guarda un'altra volta intorno. Com'è piccina la sua cameretta!... Ma perchè il lume si trova sul cassettone e non sul tavolino di mezzo? Ella si ricorda benissimo di averlo lasciato sul tavolino di mezzo! Si ricorda proprio benissimo?... Potrebbe averlo posto sul cassettone prima di scendere le scale, anzi le pare.... no.... l'ha lasciato sul tavolino di mezzo.... no.... l'ha posto sul cassettone... Ha perduto la testa, la poverina! Bisogna andare a letto, dormire, acquetare nel sonno quella ridda di fantasmi che le passa in mente! Ma che leggiadri fantasmi! Che piacere nell'abbandonarsi tutta alle memorie e risalire la facile corrente della vita! No, è tardi; ecco, battono le nove; e a quest'ora di solito ella sogna.... Ma i cari sogni che si fanno ad occhi aperti! Non ci è verso; finchè non chiude l'usciolo, finchè non si caccia nel lettuccio, e non spegne il lume, non le riuscirà di serenarsi. Ecco fatto; il silenzio è profondo, la tenebra fitta — bisogna dormire. Per un momento tutte le belle fantasime si confondono, come ad un soffio gli atomi dell'aria; è il caos, ma a poco a poco apparisce un'immagine distinta, chiara e bella innanzi agli occhi, nè vale il chiuderli ed il tenerli stretti, chè tanto tanto la vede. Bisogna voltarsi sull'altro fianco; ma la bella immagine fa il giro del lettuccio ed apparisce tal quale. È l'immagine d'Ognissanti, è il suo pallido volto, è il suo dolce sorriso, la sua melanconica estasi, il suo sguardo innamorato. Come è bello! Per un istante Donnina dimentica la lotta, guarda quel fantasma e cerca di ricomporlo intero alla mente e di dargli la vita che gli manca; poi si avvede, e si volta ancora sul lettuccio — bisogna dormire. È inutile; ora non c'è più un solo Ognissanti; ne vede due, uno pazzerello e scherzoso che ha quindici anni, l'altro che ha il volto serio, la parola melanconica, lo sguardo profondo. Il confronto le sfoglia innanzi il picciol libro delle sue memorie che ella ha letto tante volte. Quel picciol libro è assai voluminoso; perchè ogni parola ha cento significati; ci è un sasso su cui si è seduta ad aspettar _lui_, un rigagnolo in cui, un giorno d'estate, ella ha tuffato i piedi ridendo innanzi a _lui_, una svolta di via da cui _egli_ soleva apparirle, e tutto un mondo di vecchi amici che la chiamano per nome: «Donnina!» Che giova il dormire? Ora il cuore non le batte più così celere, può pensare, può fissare lo sguardo su tante care fisionomie e riconoscerle — ecco: quest'è il paese di S..., quest'è la casicciuola del maestro, quest'è la scuola, ora giunge la scolaresca chiassosa; vedi il campanile del villaggio, ed il praticello dietro la chiesa, in cui per la prima volta udì ripetere da Ognissanti il giuramento di non vivere se non per essa! Ed ecco l'ora melanconica di lasciarsi e l'ultimo addio... e poi più nulla, fuorchè il ritorno, il fantasma visto attraverso i vetri, la voce udita dietro la siepe, il volto sfavillante guardato innanzi al lume! Come è bello Ognissanti! Le vengono in mente molte cose a cui non aveva pensato prima — il modo di vestire di Ognissanti, la sua baldanza di fanciullo, il suo timido mistero d'uomo. Ha un segreto, ma non bisogna pensarci; ritornerà, dirà tutto, lo ha promesso! E chi sa come egli l'avrà trovata diversa da quello che era! Prima d'ora ella non aveva pensato mai a farsi una domanda — ora se la fa: «sono bella?» Ognissanti, ha già risposto per lei. Ha detto che è bella! E quanto è bello Ognissanti! A poco a poco le immagini si oscurano, si confondono — scende il sonno lungamente aspettato, il sonno che non è se non una nuova maniera di fantasticare. L'orologio della chiesa batte le due del mattino, per Donnina è corso veloce il tempo. Quando l'alba si affaccia alla finestra della cameretta non trova la fanciulla desta secondo l'usato — ed allora soltanto che il sole getta attraverso i vetri la sua festa di raggi, essa si rizza sul lettuccio, sbigottita della propria negligenza. Ai piedi del letto vi è una larga cuffia, candida come neve, che incornicia un volto pieno di rughe e di amore, due occhi che guardano maliziosi ed indulgenti, un corpo osseo e mingherlino che si curva sopra di lei, e vi è in aria una mano tremante che minaccia con vezzo bizzarro — vi è insomma la terribile mamma Teresa! Donnina si copre un istante la faccia colle mani, e guarda attraverso le dita allargate. — L'ho fatta grossa! dice furbamente, l'ho fatta grossa! il sole è alto, deve essere tardi... — Sono le nove, dice dal pianerottolo la voce del maestro Ciro; hai dormito bene? — Taci tu, ribatte la vecchia voltandosi a minacciare col pugno la porta chiusa; se ha dormito è segno che aveva sonno, mi pare! — Così pare anche a me, risponde maestro Ciro; temevo solo che non istesse bene e volevo assicurarmi prima d'andare a far scuola. — Grazie, babbo, risponde Donnina, sto benissimo, non sono mai stata così bene. — Vedi un po' se ti riesce di far che quei monelli tacciano! aggiunge mamma Teresa. In fatti gli scolari radunati da basso pongono a profitto l'assenza del maestro per lanciarsi reciprocamente delle pallottole sul naso, e ciò con molto maggior rumore che non richieda questo esercizio clandestino. Si ode maestro Ciro che scende le scale, ed un istante dopo il silenzio è profondo. Frattanto Donnina si è vestita in furia, si ha tirato indietro i capelli, ha aperto la finestra perchè i raggi del sole possano entrare liberamente, e tutto ciò evitando di guardare in viso la terribile mamma Teresa, la quale continua a starsene immobile, collo stesso sorriso furbesco, colla medesima malizia negli occhi. Donnina non sa dire perchè quello sguardo e quel riso le diano soggezione più del consueto. Non ci è verso; dopo di aver assestato tutto ciò che è possibile assestare voltando le spalle alla vecchia, bisogna pure che ella si determini a guardarla in faccia. — Alla buon'ora, borbotta l'altra, alla buon'ora, credevo già che non ti voltassi più. — Tu hai qualche cosa meco, dice la fanciulla uscendo all'improvviso in lagrime senza saper perchè. Mamma Teresa è una creatura terribile, non vi è dubbio, ma ha il suo debole, ed alle lagrime di Donnina non ha mai saputo resistere. Bisogna vedere come lascia d'un balzo il suo atteggiamento da sfinge per farsi presso alla figliuola, e scostarle le mani dal viso, e premersi contro il petto la soave testina. — Che vuoi che abbia? Non ho nulla! — Mi hai fatto una paura... — Già, ti faccio paura, io! E ci è subito da piangere! Sicuro, la mamma Teresa è una tristaccia che fa paura e fa piangere! — Non hai proprio nulla con me? — Non ho proprio nulla, cioè, sì, ho qualche cosa; ho che la signorina non ha confidenza nella sua vecchia mamma, ho che... La vecchia mamma è arrestata un'altra volta dall'espressione attonita del volto di Donnina... — Ma non starmi a piangere ancora, veh! Non ti si può dunque più parlare, a te? Ma già nessuno me la ricaccia in gola, quando l'ho da dire, la verità... tu non hai più confidenza in noi... — Che dici? Prima di rispondere, la vecchia piglia le sue precauzioni: accarezza colle mani scarne il volto della fanciulla, col pretesto di cacciarle sotto la reticella un ricciolino che sfugge, e la guarda bene in viso, evidentemente per farle paura, poi dice: — So tutto! Pronunziata con un po' di mistero, questa frase ha un effetto irresistibile, anche quando quegli a cui è diretta non sappia nulla. Pensate come ne rimanesse sbigottita la povera fanciulla, la quale correva col pensiero dietro al suo fantasma notturno. — E che cosa sai? chiese titubando. — So tutto, ti dico, so tutto; alla vecchia Teresa non la si dà ad intendere così facilmente; ti dico che so tutto... voglio dire quello che ho visto con questi occhi ed udito con queste orecchie, non ciò che la signorina ha nel cuore... perchè io non ho l'abitudine di origliare agli usci chiusi. Per Donnina fu un raggio di luce. Si ricordò benissimo che ella aveva lasciato dietro di sè tutti gli usci aperti, ma non parve trovare la cosa molto differente, e mostrò nel viso il proprio pensiero. — Dilla pur forte la parolaccia che pensi; ti ho spiato, certo ti ho _spiato_; è la prima volta che l'insonnia mi serve a qualche cosa, perchè almeno ho potuto esserle vicina, e proteggerla senza che la signorina si avvedesse, mentre dava ascolto alle frasi di zucchero di quei bellimbusto. Questa volta Donnina non sa più contenersi e si butta singhiozzando nelle braccia della mamma. — L'hai fatta grossa! l'hai detto tu stessa, prosegue la vecchia cercando di dissimulare il tremolio della voce commossa, l'hai fatta grossa; ma almeno sei ancora in tempo a riparare, a dimenticare, ed apprezzare per quello che valgono le scipitezze dei damerini della città. — Ognissanti non è un damerino, non è un bellimbusto, dice Donnina, sollevando il capo ed asciugando le lagrime per dare maggior valore alla sua protesta. — Non è, non sarà... che ne so io del tuo Ognissanti? Ma i suoi panni non m'ispirano fiducia; come fa egli, che non aveva la croce di un quattrinello in tasca, ora che gli è morto il babbo, come dice... vedi bene ch'io so tutto! come fa a vestire gli abiti smorfiosi della città? Già tu non ti sarai nemmeno accorta, tu! — Al contrario mi sono accorta benissimo. — E dici? — E dico che non ne so nulla, ma che Ognissanti mi vuol bene, che se è venuto a ripetermelo dopo sei anni, non può avere che buone intenzioni... — Ti ha forse detto qualche cosa di ciò che fa, di ciò che pensa di fare? — Nulla, ma mi ha detto che sarà mio. — E tu gli hai detto che sarai sua; vi ho sentiti! — E che male c'è? chiese Donnina; non poteva fare altrimenti; non era io la sua fidanzata? — La sua fidanzata! esclama la vecchia tirandosi indietro d'un passo, come per lasciar posto all'enormità del suo stupore. — Non lo sapevi? — No... cioè sì, ti dico che so tutto; ma questa poi non me l'aspettavo, e da quando in qua? — Da sei anni. Mamma Teresa leva gli occhi al soffitto e congiunge le mani invocando la misericordia del cielo. Poi si lascia cadere sopra una vecchia seggiola a braccioli; Donnina accosta uno sgabello e si accoccola ai suoi piedi. Il sole sembra raccogliere tutti i suoi raggi sul fantastico quadro. — Mi prometti di non andare in collera? chiede la giovinetta, lisciando le mani nodose della vecchia. Poi, pigliando il silenzio per consenso, soggiunge: — E di lasciarmi dire fine alla fine? Sì?... Ebbene, ascoltami e ti dirò tutto. La fanciulla appoggia un istante la fronte alle ginocchia della mamma per scegliere il punto di partenza del suo racconto, e la signora Teresa la guarda di nascosto con un'espressione di amorevolezza indulgente, che è il massimo segreto della sua formidabile esistenza. In quel momento di silenzio profondo si ode dal basso la voce grave di maestro Ciro che dice: «Lei, signor Pastori, quante sono le operazioni fondamentali dell'aritmetica?...» Ed il signor Pastori che risponde in falsetto: «Le operazioni fondamentali dell'aritmetica sono...» Donnina solleva il capo sorridendo e domanda: — Incomincio?... VI. IL ROMANZO DI DONNINA. «Ti ricordi del campicello dietro la chiesa di S..., dove la domenica, quando era piccina piccina, andavo a giocare colle compagne di scuola? Te ne ricordi? Io lo vedo ancora il bel tappeto di trifoglio, sul quale scorrazzavamo e facevamo cento pazzie. Non ci volevo andare, ti ricordi? Ma tu mi ci mandavi e dicevi che bisognava giocare come giocavano le _altre_ per non farsi voler male. Non è vero che mi dicevi così? Ubbidivo, e ci andavo, ed è là che conobbi Ognissanti. Come vedi, io non ci ho colpa. — Già, ce l'avrò io! interrompe la vecchia. «Lasciami dire, mi hai promesso di lasciarmi dire. Veramente io l'avevo visto prima Ognissanti, perchè veniva tutti i giorni a scuola dal babbo, ma fu là che lo conobbi e che diventammo amici. Egli volle che diventassimo amici, avevo da dirgli di no? Ora ti conterò come avvenne. Io era china sul praticello, perchè giocavamo a trovare il trifoglio di quattro foglie. Tu sai che chi trova il trifoglio di quattro foglie trova la fortuna... Veramente non potevo immaginare quale altra fortuna mi potesse toccare; mi pareva di essere così felice colla mia vesticciola nuova (poichè era domenica), così felice!... «Basta, per fare come le altre, cercavo il trifoglio della buona fortuna. Ognissanti e due o tre fanciulli del vicinato, dopo averci guardato un pezzo, si diedero a cercare anch'essi. Lo crederesti? il trifoglio di quattro foglie fu trovato proprio vicino a me, e da chi? da Ognissanti. Un momento ancora e l'avrei colto io. Ma nossignore, lo aveva colto lui! Lo guardai in faccia, si mise a ridere e mi offrì il trifoglio in cambio d'un bacio. La fortuna per un bacio? Tutte le mie compagne si offrivano di baciarlo allo stesso prezzo. Ma Ognissanti voleva contrattare con me sola. Quando lo baciai le mie compagne risero forte, egli si fece rosso, ed io custodii il trifoglio. Il giorno dopo, quando Ognissanti venne a scuola, volli nascondermi per non vederlo; non so perchè, non avendo arrossito baciandolo, ora arrossivo d'averlo baciato. Ma invece di abusare della mia debolezza, egli, vedendomi, chinò gli occhi a terra. Pensai che non avesse studiato bene la lezione, e perciò fosse mortificato. Ma alla sera domandai al babbo, e seppi che Ognissanti la lezione l'aveva saputa e la sapeva sempre. Non puoi credere come ciò mi facesse piacere. «Due giorni dopo ero ancora andata a giocare nel praticello. Ognissanti ci venne pure, e ne fui contenta. Giocavamo a mosca cieca, si faceva un chiasso, un chiasso... tu immagini che chiasso! M'infastidii e sedei sull'erba. Ognissanti mi venne vicino, e mi disse: «Vuoi che cerchiamo ancora il trifoglio?» e si curvò a terra. Ma io lo lasciai fare. Non trovò nulla. Gli dissi: «La fortuna non si incontra due volte, e chi l'ha avuta non l'ha più a cercare». «Facevo per darlo a te», mi rispose. «Ma io non saprei che farmene». «E nemmen io». «E allora perchè cercarlo?» «Perchè volevo un bacio». «E perchè volevi un bacio?» «Perchè ti voglio bene». Nessuno ci aveva uditi. Gliene avrei dati cento di baci, se non me li avesse chiesti con quell'aria; perchè infine che cosa è un bacio? — ma siccome egli mostrava di dargli molto valore, feci la preziosa e non l'ebbe proprio. Gli dissi che gli volevo bene anch'io; allora mi offrì d'essere amici, accettai; mi raccomandò di non dirlo alle mie compagne, e via di corsa. «Alla notte non potei levarmi dal capo le parole di Ognissanti: cercavo di comprenderne il senso arcano che doveva farmisi noto più tardi, e senza sapere perchè, era lieta e commossa dell'amicizia che avevo promesso. Io sapeva, tu lo dicevi con tutti, che per la mia età ero una donna fatta, che vi era nella mia testa tanto giudizio per il doppio dei miei anni: ma a comprendere quello che io provavo non ci arrivavo davvero. M'ero avvezzata a considerare Ognissanti come un fanciullo, sebbene avesse quattro anni più di me, solo perchè era tardo a crescere e se ne rimaneva piccino di statura; allora mi parve d'un tratto uomo, e pigliai molto sul serio le sue parole, e le commentai in cento modi, senza trovar mai il buono. Anche il suo volto, che non mi era mai sembrato diverso da quello degli altri scolari della età sua, cominciò a parermi simpatico. Del rimanente, siccome fino a quel giorno egli aveva avuto un modo così rumoroso di ridere, che non era l'eguale in tutto il paese, converrai anche tu che averlo visto melanconico ed aver udito la sua voce mesta doveva darmi ragione di fantasticare. Anche il saperlo studioso e sempre il primo della scuola mi aveva fatto stupore; perchè io aveva immaginato il contrario vedendolo, fuor di scuola, tanto allegro e scherzoso tanto. «A poco a poco divenne con me quello che era sempre stato con tutti: piacevole e motteggiatore. Ci vedevamo molto spesso; prima e dopo la scuola, nel praticello, per la via, sulla porta di casa, nei campi; le occasioni non mancavano; facevamo mille castelli, cioè era lui l'architetto, io non aveva che gridar: «bello!» Tutto il suo vanto era di farmi ridere e ne trovava cento modi; a volte m'impuntavo a star seria, ed allora ci cascavo più presto. Bastava mi dicesse: «Scommetti che ti faccio ridere», ed io rispondevo: «Scommetto», o non rispondevo nulla, ed egli diceva serio serio: «Ridi». Ed io rideva. Ne era così lieto lui! Una volta sola lo vidi piangere, e fu in cimitero. Vi eravamo andati sbadatamente, la vista delle croci mi fece scendere al cuore una mestizia profonda! quando levai gli occhi, vidi Ognissanti che piangeva. Oh! come mi commosse quella vista! «Che hai?» gli chiesi. Mi rispose stringendo forte la mia mano nelle sue, e trascinandomi di corsa. Quando fummo lontani, si volse a guardare il muricciuolo del camposanto e disse: «Tutti hanno colà dei parenti, noi soli non ne abbiamo, perchè non abbiamo parenti». «T'inganni, gli risposi, io ho babbo e mamma, e il babbo ce l'hai anche tu». «Tu sei una disgraziata come me e per questo ti voglio bene». Allora non mi disse altro, più tardi seppi che intendeva parlare d'un'altra mamma e d'un altro babbo di cui nè io nè lui avevamo avuto le carezze. Che dirgli? Che io non ero infelice perchè amata ed accarezzata fin troppo. No, perchè avevo paura, dicendogli questo, che non mi avesse più a voler bene. E poi quel lampo di fierezza e quell'ora di mestizia furono presto scontati con cento ore gioconde. Non se ne parlò altro.» A questo punto Donnina si arresta, leva gli occhi in volto a mamma Teresa, e dice bonariamente: — Ti annoio? — Sì, mi annoia il sentirti tanto parlare di quel... disgraziato. La fanciulla non sa quanto è costato alla signora Teresa lo scegliere un epiteto così benevolo, fra tanti che le sono venuti sulla punta della lingua! — Mi spiccio, dice Donnina con un sorriso malizioso: «Ognissanti amava molto molto Donnina, e Donnina amava molto Ognissanti.» — E la mamma non si accorgeva di nulla. — Non si accorgeva di nulla... — E il babbo meno della mamma... immagino. Non immagina giusto, a giudicare dal silenzio della fanciulla, durante il quale maestro Ciro, come se si accorgesse che si tratta di lui, alza la voce per discolparsi pitagoricamente: «Cinque per cinque, venticinque; cinque per sei, trenta; cinque per sette...» — Gran buon uomo! mormora la vecchia tentennando il capo, e guardando fisso il pavimento in direzione della scuola, eccolo lì, dinanzi alla sua lavagna. E come me li tratta a bacchetta quei numeri! Che testa, sia detto ora che non ci sente, che testa!... «L'affetto di Ognissanti, prosegue a dire Donnina senza accorgersi dell'inopportunità dell'interruzione, l'affetto di Ognissanti mi era divenuto necessario. Egli mi diceva sempre di voler studiare tanto da divenire un giorno... non sapeva bene che cosa, ma _qualche cosa_ di sicuro.» — Oh! sicuro! — Non te ne beffare; era un poveretto, e se voleva aprirsi una via nel mondo ere per me sola. Domanda al babbo quante volte, nei giorni di festa, mentre egli si sedeva sull'atrio della chiesuola, gli è toccato di far scuola ad Ognissanti che veniva a fargli cento interrogazioni. E domanda al babbo se era contento di avere un allievo come Ognissanti, a cui poteva parlare di cose che gli altri scolari non comprendevano. — A me di tutto questo non si è mai detto nulla! — Se non ti si è detto, è perchè probabilmente ci avresti trovato mille malanni. — E sa Dio se ce n'erano; quel povero vecchio affaticato tanto a profitto di... — D'uno che, quando ci disse addio per andarsene non so dove, baciò piangendo la mano del vecchio maestro, il quale piangeva anch'esso... — Non ci mancava altro, farmelo piangere... — Fu un triste giorno, prosegue a dire Donnina; ma a me non è mai uscito di mente. Era venuto a dirci addio, e mi salutò sebbene mi avesse detto di trovarmi verso il tramonto nel praticello del trifoglio, per l'ultima volta. Mi volò un'ora con lui senza quasi parlare; i due anni che avevamo passati amandoci ci avevano congiunti come se ci fossimo sempre voluti bene; ne avevamo fatto di bei castelli, di bei propositi! Destarci così, dopo tanti sogni, ci pareva impossibile; non credevamo alla sorte; e pure era inesorabile: il domani all'alba egli doveva partire per lontani paesi. Perchè? Nessuno poteva dirlo, Ognissanti nemmeno; il vecchio babbo, le cui faccende erano andate a male dal dì che aveva perduto la moglie e i figli, si era messo in capo che la fortuna fosse fuor del paese e che bisognasse andarle dietro, e non ci fu modo di trattenerlo. Così diceva Ognissanti. E piangeva. Poi mi accarezzava i capelli, stringeva la mia testa e mi domandava se sperassi nell'avvenire. Io sì, sperava; non sapevo dire perchè, ma avevo più forza di lui, piangevo, ma non disperavo. Mi fece giurare di volergli sempre bene, di pensare sempre a lui, di serbarmi per lui; giurai; egli giurò altrettanto, e quando fu l'ora di separarci io per la prima lo baciai in fronte stretto stretto; tornai a casa col cuore gonfio. Al mattino uscii sperando in una determinazione improvvisa, in un ostacolo impreveduto che avesse fatto differire la partenza; il cuore mi batteva così forte, che ero quasi sicura di non ingannarmi. M'ingannavo. Ognissanti aveva lasciato il paese. Fu allora che io compresi tutto lo strazio della separazione. Fu allora che, presami in disparte, tu mi chiedesti che cosa avessi, e ti dissi che ero molto infelice, e piansi tanto tanto sulle tue ginocchia! Il tempo ed il mio silenzio ti fecero più tardi credere che avessi dimenticato, ma non era vero. — Mi hai ingannata. — Te lo meritavi, perchè ti avevo sentito dire col babbo che era una fanciullaggine, e che mi sarebbe uscita subito dal capo. Il babbo no, non mi diceva così... — Il babbo, il babbo, sempre questo tuo benedetto babbo! Non conto più nulla io? Via? Hai finito ora? — Ho finito. Mamma Teresa non vuol parere, ma dentro di sè è scossa nelle sue opinioni; le pare che quell'Ognissanti qualche cosa di buono ce l'abbia, che questo ritorno dopo sei anni, significhi, se non amore, almeno proposito onesto e virile. Le pare, ma non vuol dirlo, perchè ci sono in aria tanti ma da porre in fuga il più agguerrito esercito di belle speranze messo in armi da una testolina di diciotto anni. Che fa ora Ognissanti? di che vive? che spera per l'avvenire? che può offrire alla fanciulla? Senza contare che il pensiero di separarsi da Donnina sta in fondo a tutte le dolcezze per amareggiarle tutte venuto il buon momento; ma a questo egoismo la vecchia è disposta a dare temporanea sepoltura con un sospiro, certo che la morte ne scaverà una più profonda non molto dopo, lo dice lei... Si alza, passeggia per la camera, borbotta. Donnina lascia fare; alla fine, quando si accorge dell'espressione del viso della vecchia amica d'aver vinto la propria causa e quella di Ognissanti, le balza al collo, facendola barcollare tutta, la tira presso il canterano, apre un cassetto, ne cava un involto, e dice sorridendo: — Vuoi vederlo? — Che ci hai là dentro? Donnina apre l'involto con religiosa cura, e mostra uno stelo a cui sono appese poche fogliuzze disseccate. — Che roba è questa? — Non lo conosci?... È il trifoglio di quattro foglie! — Quello che deve recarti fortuna? — Quello che mi ha fatto voler bene ad Ognissanti. — Eh! via, finiscila col tuo Ognissanti. Ma il tono di voce non è più aspro, il gesto non è brusco, gli occhi non sfavillano le terribili saette del vecchio arsenale di guerra... Assolutamente la causa è vinta. «Signor Nosedi, dica lei: per qual fine Dio ci ha creati?» interroga la voce di maestro Ciro. Il signor Nosedi tenta di rispondere colla sua voce di falsetto, ma non è persuaso di quanto deve dire, o non ha compreso la dimanda, come avviene a molti scolari quando non trovano subito la risposta... o più verosimilmente non ha studiato la lezione. Oh! se invece di chiedere al signor Nosedi, si avesse domandato a Donnina: «Per qual fine Dio ci ha creati?» VII. ENTRANO IN ISCENA PERSONAGGI NUOVI E COSE NUOVE. Idee picciolette, affetti mingherlini, volgari cure — i vostri personaggi sono tutti pazzi ad un modo; chi fa festa come Donnina ad un raggio di sole è molto vicino a volerlo seminare secondo il sistema del professore Rigoli: parlateci d'altro. Domandiamo scusa al savio che c'interrompe. Intorno a quel tempo i savi della città erano tutti alle loro grandi imprese; formicolavano per le vie molto affaccendati quando non avevano ancora raggiunto il supremo intento della vita, o camminavano pettoruti sfoggiando il lusso della loro vanagloria. I primi si sberrettavano incontrando i secondi, ed i secondi concedevano qualche volta un cenno di protezione e d'incoraggiamento ai primi. Un eccellente negozio da ambo le parti, però che l'umile credesse di comperare il superbo ed il superbo l'umile. Si usa ripetere volentieri essere il mondo passato per varie età; ci furono età patriarcali, età religiose, età artistiche, età mercantili, ed ora, si dice, è l'età bancaria. Ma dappoi che le banche hanno svelato il loro organismo, ai più increduli è chiarito come non ci fosse se non un'età, in ogni tempo, in ogni luogo — l'età bancaria appunto. Eterna come l'uomo è la banca. Le passioni avevano la loro borsa; gli affetti, i sentimenti, le opinioni e le opere si presentavano allo sconto al tempo dei patriarchi come nel tempo degli strozzini, allora ed oggi, domani e sempre. Milano conta molti pazzi, ma i savi sono in maggioranza, e di questi ve n'ha che sarebbero terribili ragionatori sol che volessero darsi la pena di ragionare. Costoro sanno benissimo il valore delle derrate umane; ci è l'uomo che costa dieci e quello che costa cento. L'adulazione ha la sua tariffa ed è pagata per parlare; la maldicenza e l'invidia hanno la loro tariffa e si fanno pagare per tacere; la vanità compra e l'egoismo vende. A Milano come altrove ci sono donne che fanno pagare a mille il desiderio d'un solo e passano per cortigiane... e son riverite. Allora è la vanità che vende e la lussuria che compra. Al sole, alle stelle e alla luna i suoi di Milano non pensano mai, ed hanno ragione; alla miseria che geme, al dolore che tace nemmeno, e non hanno torto. Hanno una classe di gente pagata per guardare il sole e le stelle, ed un'altra per nascondere la miseria ed il dolore a buon mercato. Hanno uomini, e li pagano (poco) per pensare, per scrivere la prosa od il verso; uomini e donne per tenerli allegri e non lasciarli pensare, e li pagano molto. Hanno servitori per tutto, per aprire lo sportello delle loro carrozze, per augurar loro il buon giorno ogni mattina, per ricevere un buon desinare, per far la giustizia e per non lasciarla fare, per allestire la casa di città, la casa di campagna e la loro porzione di paradiso. L'appetito lavora, l'ozio e la sazietà vanno svogliamente al mercato — così a Milano, come altrove, ieri, oggi, sempre, da per tutto dove sono pazzi e savi. Di codesti savi ve n'ha che non fanno se non tre cose: la digestione, non potendo pagare chi la faccia per loro, la maldicenza per aiutare la digestione... e nulla. Quest'ultima è la più difficile e la più costosa; quante veglie, quante febbri, quante fatiche per riuscire! E non tutti riescono; vi è sempre qualche inetto che abbandona la partita. Intorno a quel tempo una comitiva delle teste meglio pettinate di Milano soleva radunarsi nelle sale di un caffè molto riputato per attendere alle sue occupazioni favorite. Colà, fra uno sbadiglio ed una boccata di fumo, si dicevano le migliori arguzie della giornata e si beveva l'assenzio sopraffino; si parlava di lettere, di arti, di scienze, di donne, di avventure avvenute e di avventure avvenire; chi non aveva nulla da raccontare e non era forte nell'invenzione, ascoltava e rideva o negava l'autenticità delle narrazioni degli altri — ma tutto ciò con un garbo squisito, con un'eleganza di maniere di cui nulla può dare l'immagine, colla scioltezza del _buon genere_, e coi polsini inamidati sporgenti quattro buone dita dalle maniche del farsetto. E siccome ogni testa ha i suoi argomenti favoriti e gli idoli suoi, anche le teste pettinate della nostra comitiva avevano idoli ed argomenti favoriti. Erano quattro o cinque in tutto negli ultimi tempi: la bionda Fanny, prima ballerina assoluta d'un teatro dell'opera, e la bruna Fanny, cavalla inglese di proprietà del banchiere Redi; poi un capitolo inedito tolto al romanzo di una bella donna apparsa da poco tempo nel mondo colla fama di esser vedova e ricca, col nome di Serena e colle sembianze di una pallida sirena (il bisticcio è degli adoratori); e poi un paio di madrigaletti scritti dal signor Maurizio, un letterato d'ingegno, il quale faceva parlare molto dei fatti suoi, dacchè avendo avuto l'eredità d'uno zio supposto milionario, non aveva più scritto nulla e si era dato alla vita del _buon genere_. Fanny, la bruna ed inglese, e la vedova sirena portavano ogni tanto il discorso sul banchiere Redi, il quale possedeva la prima e mostrava un vivo desiderio di possedere la seconda. Si diceva di costui che era ricco come un Creso e splendido come un Cesare, che tutti i negozii gli andavano a meraviglia, che le operazioni _a fine mese_ le imbroccava giuste lui solo: che quando il banchiere Redi comprava, i venditori facevano bancarotta, e quando vendeva, tristo il compratore! Chi era il banchiere Redi? Un bel giorno era apparso alla Borsa e vi si era segnalato con uno di quei colpi di fortuna che fanno vantaggiosamente le veci dei voli del genio; poco dopo il banchiere Redi aprì la banca Redi, rimasta un mito prima di quel tempo. La banca Redi fece lo sconto delle cambiali con tre firme, ricevette valori in deposito, aprì crediti in conto corrente con garanzia, fece anticipazioni e prestiti sopra depositi — in una parola tutto quanto fanno le altre banche per il bene dell'industria e dell'umanità. Il suo credito era saldo come la sua cassa forte, la sua fortuna era considerata alla Borsa siccome un valore effettivo, e molte volte più. Chi era il banchiere Redi? Alla Borsa una potenza, fuori un'incognita. Al caffè si parlava meno di lui che dei suoi cavalli e delle sue cene; chi aveva visto la sua enorme bocca ridere stupidamente entro la cornice dei favoriti biondi, od aveva scandagliato i suoi due occhioni attoniti che gli uscivano dal capo, lucenti come due scudi di zecca, ma senza maggior espressione, costui aveva, a dispetto dei quattrini e della fortuna, un lontano sospetto ch'egli fosse uno scimunito; ma i più, partendo dalla massima sacrosanta non poter essere scimunito chi abbia l'arte di ammucchiare i napoleoni d'oro o di spenderli, asserivano che quella sua aria inebetita era un sublime artifizio della natura, ed il riso fatuo e lo sguardo bonario, la quintessenza della furberia e dell'accortezza. «Il suo segreto, il segreto dei grandi della sua fatta, si diceva, è appunto questo: che tutti si fidano, ed a tutti vien voglia di gabbarlo, e tutti restano gabbati.» Una sola cosa non gli si perdonava nemmanco da chi divorava le sue cene, ed era l'aver pensato a fissare i due lucernarii che portava in fronte sopra il volto angelico della vedova ricca e bella, la quale faceva girare il cervello perfino a quanti godevano riputazione di non averne punto. Pensate un volto candido come l'alabastro, due occhi profondi e neri, una capigliatura copiosa e bruna che scendeva a ricci inanellati, con un vezzo infantile, ed una bocca tutta sorrisi, con un picciol neo sull'orlo del labbro superiore. Pensate un collo fatto al torno, un corpo modellato come quello d'una Venere, forse un po' piccino, ma svelto, agile, pieno di eleganza e di fascino, due manucce da fata, due piedini da adorare in ginocchio! Tutte queste leggiadre cose, ed altre più leggiadre, gliele avevano dette cento volte i suoi adoratori, i quali, per quanto s'ingegnassero di variare il frasario, non vi riuscivano così che la furba non se ne avvedesse e non beffasse colla miglior grazia di questo mondo i diplomatici della sua corte. Gli aveva ridotti a tale, i disgraziati, che i più abbandonavano l'assedio per mancanza di munizioni da guerra. E dite voi quanto dovesse parer burlesca la fiamma d'un banchiere Redi, con due occhioni tondi, da spiritato, ed una bocca che si apriva come una voragine e si chiudeva non lasciando sulla faccia carnosa altro che una lunga cicatrice trasversale, con due favoriti di stoppa, e coi capelli spartiti sulla nuca ed appiccicati dietro le orecchie e sulle ossa parietali, come due larghi cerotti. Immaginate questa testa sopra due spalle tozze, sorrette da due gambe esili, e le gambe terminate da due piedi enormi... e dite se la signora Serena dovesse ridere di quell'ultimo trofeo delle proprie vittorie. Dapprima non si era voluto credere, ma bisognò poi arrendersi all'evidenza: il banchiere Redi metteva in opera tutte le seduzioni del suo sesso per arrivare al cuore della bella creatura dell'altro. Non fu mai visto un banchiere caracollare con tanta grazia, nè un uomo rotolare giù dalla cinquantina più a malincuore. I polsini della sua camicia presero proporzioni inusate, il taglio dei suoi abiti sfidò l'eleganza del figurino, ed i cerotti che portava in capo divennero il ritrovo di tutte le essenze più irresistibili. La sua vita divenne una continua cavalcata, e per farne il prossimo convinto non si lasciò più cogliere fuori di casa senza gli speroni, e non si permise più di gesticolare se non collo scudiscio. Alla Borsa quanti si erano attaccati al carro della sua fortuna, veneravano anche questo capriccio; quelli che erano stati rovesciati dalla sua corsa trionfale, nella foga del maledirlo, non si avvedevano di nulla. Ma al caffè era ben altro; le teste fine del luogo, gli occhi non ce li hanno solo per portare l'occhialetto, e ci vedono chiaro, ed alla fregola del banchiere avevano dato il nome che si conveniva... Ma un dì si seppe che la sirena vedova sembrava accogliere, senza ridere, l'incenso del banchiere; fu argomento inesauribile. Il vecchio quesito dell'origine del Creso divenne nuovo; il suo abito silenzioso trovò interpreti benigni; il sorriso stupido commentatori più accorti, i quali ci videro di repente una scintilla nascosta. «Perchè, si diceva, come credere che una donna giovine, bella, ricca e piena di spirito pigli sul serio il culto d'uno sciocco... se fosse proprio uno sciocco?» «Non lo piglia sul serio» rispondeva uno. «Non è uno sciocco» ribatteva un altro. «Vedrete che se ne beffa» pronosticava un terzo. Tutte queste affermazioni e profezie si facevano in un caffè molto riputato, da un paio di dozzine delle teste meglio pettinate di Milano. VIII. LA CORTE DELLA SIRENA. Fra tanti che ambiscono l'onore _d'essere presentati_ alla Venere della giornata, io scelgo chi legge, sol ch'egli voglia darsi la pena di seguirmi. La leggiadra vedova abita in uno dei quartieri più eleganti della città, in una delle case meglio costrutte, al primo piano, un quartierino di cinque o sei stanze in tutto, un vero paradiso maomettano, dove si respira un'aria corretta e migliorata dai più squisiti profumi e si vede una luce vaporosa e fantastica che sfuma i contorni delle cose e dà alle persone una somiglianza di famiglia colle visioni de' sogni. Il salotto è un prodigio del genere; colle pareti tappezzate di seta azzurra e cogli stipiti dorati, in cui si riflette la luce di tutti i colori che passa attraverso i trasparenti, colla vôlta in cui è una processione di amorini di stucco che s'inseguono arrampicandosi a ghirlande di fiori pure di stucco, ha l'aspetto d'un piccolo tempio preparato a riti misteriosi. Un ricco tappeto pseudo-orientale attutisce i passi del visitatore, e due enormi specchi, collocati uno rimpetto all'altro, ne moltiplicano all'infinito le sembianze. Tutto ciò si vede alla prima; quando vi siete seduti sopra i larghi seggioloni di velluto azzurro con borchie e frange d'oro, vi apparisce un mondo d'inezie a far nuova testimonianza del lusso, dell'eleganza e del buon gusto. Nel vano delle finestre, da piccole cestelle di giunco dorato, pendono i festoni verdi di certe crassulacee e dell'edera, e sopra appositi tripodi gran vasi di porcellana miniata alimentano splendidi caladii dei più vaghi colori. Sui tavolini è sparso un infinito numero di ninnoli, album da ritratti che, aprendosi, vi cantano una strofetta, vaschette di cristallo colle loro famiglie di pesciolini rossi, lampade, paralumi, libri, la cui rilegatura paga dieci volte il valore del contenuto. A tutto ciò gettano dalle pareti uno sguardo sbadato quattro tele raffiguranti le virtù cardinali. Sono quattro belle virtù, molto vezzose, molto espressive, molto tentatrici e molto ignude, le quali sembrano aver spogliato insieme cogli abiti ogni rigidità, ed essersi acconciate, per mortificazione, a rallegrare il rito d'una suprema virtù amorosa, che è l'abitatrice del luogo. Non certo per dar tempo a chi aspetta di vedere tutto ciò, la leggiadra vedova si fa sospirare, perocchè chi aspetta ha avuto tempo di ammirare due volte tutti gli oggetti ammirabili e di farne l'inventario con crescente stupore. Chi aspetta è uomo che di poco ha passato la trentina, bello del volto, della persona e più degli abiti. Immaginate la splendida uniforme di luogotenente del reggimento delle Guide, già per sè stessa seducentissima, fatta più seducente e più elegante dalla suprema disinvoltura di chi la indossa e dalla bizzarra armonia dei colori delle pareti o dei mobili. Il giovane luogotenente si è seduto sopra un seggiolone e si è lasciato andare sulla spalliera senza complimenti, ha posto la sciabola fra le gambe ed è passato di meraviglia in meraviglia guardandosi intorno; ma siccome il tempo se ne va e nessuno viene, ed i suoi pensieri non bastano a quell'ozio, ha preso un _album_ dal tavolino e ne ha sfogliato le pagine ad una ad una, intanto che il docile filarmonico nascosto fa eseguire dalla sua orchestrina una pastorale svizzera. Alle ultime note della pastorale si apre finalmente una portiera, ed apparisce qualche cosa di vaporoso somigliante meno ad una donna che ad una divinità evocata da quella musica. Il bel guerriero si rizza in piedi, depone l'_album_, afferra la sciabola con una mano; fa un saluto mezzo borghese mezzo militare coll'altra, e muove un passo verso l'apparizione. — Cuginetta, mi hai fatto fare trentatre minuti e dodici secondi di anticamera. Il tono di voce con cui l'amabile luogotenente pronuncia queste parole, il sorriso di compiacenza che gli sta sul labbro, e l'atto cavalleresco, ma compassato, dicono molte cose, e prima di tutto ch'egli è stupito di quanto vede, e poi che alla sua volta si aspetta legittimamente di cagionare alla bella un magnifico stupore. Ma la bella lo guarda senza commuoversi, gli porge la mano esaminando nello specchio la propria acconciatura, e dice con un'indolenza adorabile: — Sei venuto trentatre minuti e dodici secondi troppo presto. — Ecco un bizzarro complimento in bocca d'una bella cugina che non si vede da un anno. — Non è un complimento; mi hai côlta allo specchio; il più che potessi fare per te era di farti aspettare. Non è forse vero? E dicendo così, la vedovella che non ha cessato di guardarsi alla sfuggita nello specchio, leva per la prima volta gli occhi in viso al cugino e lo fissa come sfidandolo ingenuamente a dir di no. — Sì, certo, balbetta il cavaliere, sebbene veramente pensi tutt'altro. — Anzi, soggiunge la vedova, poichè tu sei il primo a farmi visita, dimmi che ti pare della mia acconciatura... — È un miracolo di eleganza, risponde il luogotenente ridendo. — Di che ridi? — Dell'accoglienza che mi fai; immaginavo di averti preparato un'improvvisata. — Sapevo dell'arrivo del tuo reggimento in Milano; ti aspettavo. — E se devo proprio dirti tutto, mi lusingavo di farti piacere... — E me ne fai, dice Serena porgendo la mano che l'altro stringe fra le sue; ti pare che questa camelia mi stia bene? — Tu stai sempre meglio senza fiori in capo, lasciando cadere i ricci come vogliono. Te l'ho sempre detto, ti ricordi?... — Può essere... è un'_alba ploena_... me le provvede il Ferrario. È bella, non è vero?... — Bellissima. La vezzosa vedova si determina finalmente a sedersi, e lo fa con una mollezza piena di fascino. Il luogotenente continua a lasciar vagare sotto i baffi biondi un risolino che fra i compagni d'armi gli ha dato riputazione d'uomo _superiore_, e guarda intento la cuginetta! È pur bella la cuginetta! Quella espressione languida del viso è corretta meravigliosamente dal lampo degli occhi; non è una creatura svenevole, come ce ne sono tante, è una bella indolente, un'annoiata del _gran genere_. Eccola che porta una manina alla bocca, e trattiene uno sbadiglio! È impagabile in quell'atto, un pittore ci perderebbe il capo... ma un luogotenente delle guide! — Scusami, sai, dice Serena, non appena vede sparire il riso che illuminava il volto del cavalleresco cugino; parlami di te, dove sei stato tutto l'anno? — A Firenze. — E che c'è di bello a Firenze? — Il palazzo Pitti, il giardino Boboli, il Palazzo Vecchio, il Lung'Arno... Ed il luogotenente allunga le gambe ed esce in una larga risata. — Che c'è di nuovo? chiede la cugina senza sgominarsi. — Sai che ti trovo molto mutata? — Davvero? — Davvero. — È passato un anno. — È passato; anch'io sono molto diverso da quel tempo... S'interrompe per essere interrotto... ma siccome Serena pare molto attenta a districare i fili d'una larga frangia del suo abito che si sono arruffati, gli tocca ripigliare, e dice con un po' di malumore: — L'acconciatura deve renderti molto feroce coi tuoi ammiratori... — Sei un ammiratore tu? — Sincero... — E dicevi? — Dicevo che è passato un anno e che sono molto mutato... — Davvero? — Non pare anche a te? — Mi sembri lo stesso; hai sempre i tuoi baffetti attorcigliati e la tua bella uniforme azzurra; sei forse un po' più calvo, ma tutt'insieme mi sembri lo stesso. — Al contrario tu ti sei fatta più bella... — Vuol dire che io ho imparato a farmi più bella. Se sapessi come è difficile! ma devi saperne qualche cosa.... — Taci, profanatrice, interrompe il luogotenente con voce scherzosa; ti paiono cose queste che una bella donnina debba dire ad un luogotenente delle guide? — Oh! mio Dio! sì; dopo quello che è passato tra noi possiamo parlarci chiaro, mi pare. Questa risposta finisce di gettare lo scompiglio nella logica del luogotenente, il quale — bisogna sapere anche questo — era riuscito a mettersi in capo che il contegno della cuginetta adorabile fosse una parte studiata a memoria. — Il nostro passato, tu dici... Lo crederesti? ho avuto per un momento il pensiero che, invece di farti piacere, fossi capitato in mal punto e ti dolesse di rivedermi... — Perchè mi avrebbe a dolere? — È quello che dicevo io pure... perchè? — Ci siamo separati come buoni amici... — Come i migliori amici. — Tu mi lasciasti per una modistina, bella fanciulla bionda meritevole della sua fortuna. — E tu per... — Ed io ti dissi che non me ne importava niente... — Tutto ciò è verissimo. Ed ora ti ritrovo in Milano, dove, appena giunto, odo parlare di te come della più leggiadra vedova che aspiri a passare a seconde nozze. Ti vedo per la via, ti riconosco, e mi propongo di farti visita, ed eccomi. Tuo marito, dunque, è morto? — Sì. Questo monosillabo contrae le labbra della leggiadra creatura; la cosa di un baleno, ed il sorriso riappare subito. — Ed ami? chiese il cugino dopo un momento di silenzio. — Sei molto indiscreto, risponde la bella; guardati intorno. — Hai un quartierino splendido e di molto buon gusto. — Di mio, non ci è che il buon gusto. — La qual cosa vuol dire che tu ami... — Molto. — Molto?... — O molti, è tutt'uno. Ella pronunzia queste parole coll'usata indolenza, senza commuoversi e guardando in faccia il suo interlocutore, il quale, parendogli finalmente di trovarsi a suo agio, si alza e va innanzi allo specchio. — Te ne vai già? dice allora Serena sollevandosi a mezzo e stendendo il braccio a tirare il cordone d'un campanello. Ma il luogotenente protesta di non aver punto questa intenzione e con un accento scherzoso scongiura la crudele cuginetta di non mandarlo via. La crudele cuginetta risponde con uno sbadiglio che questa volta si degna appena di nascondere. — Dunque, tu non sei ricca, cugina Serena? — Non più di te, cugino Ferdinando. — Pur troppo! perchè saresti ancora mia; ho solo il mio grado! — Ed io il mio. — Il mondo però ti crede ricca... Serena non risponde; ricaduta nella fatuità indolente, che sembra formare il fondo della sua indole, segue con occhio sbadato le pieghe della splendida veste di seta color d'arancio. — In fede mia! dice il luogotenente, non mi so più tenere dal dirti una cosa che mi sta sulle labbra. — Dilla. — Tu sei magnificamente bella! — Ah! — Non ti ho mai vista così bella! E do ragione al mondo che impazzisce per te. Serena è in piedi d'un balzo, trasfigurata in volto, e si fa presso al guerriero galante. — C'è della gente che impazzisce per me, hai detto?... — Il mondo! — E che importa a me del tuo mondo di sciocchi? — Cuginetta, confessalo, tu sei in collera meco, hai un segreto rancore, non mi sai perdonare... La vedovella non si degna di rispondere, e si lascia ricadere mollemente sul seggiolone. — Tu ricevi?... chiede il luogotenente mutando tono di voce. — Il giovedì. — Non farai per me un'eccezione? — Vieni quando vuoi, ti riceverò se ne avrò voglia. — Questo almeno è parlar schietto. E pensa: — Non vuol mostrarlo, ma in fondo è ancora innamorata di me. In questo punto un servitore viene ad annunciare il banchiere Redi. — Passi — risponde la bella, e rizzandosi dice al cugino: — È il mio banchiere. — Devo andarmene? chiede l'altro. — È meglio. Il luogotenente serra le ànche, piega il corpo con un atto che sta tra la rigidità militare e la scioltezza del damerino, prende la manina della bella vedova, poi si volta con un moto risoluto ed esce. Sulla porta s'incontra cogli occhioni da spiritato, coi favoriti biondi, colla bocca madornale e coi cerotti lucenti che compongono il viso del banchiere Redi; fa un saluto poco percettibile e se ne va colla sciabola sotto il braccio, pensando che la cuginetta è molto bella e che il banchiere della cuginetta è molto brutto. IX. IL SECONDO CORTIGIANO. Il banchiere Redi mette il capo alla portiera del salotto, e sta un momento immobile sul limitare, intanto che l'incantatrice del luogo si è lasciata andare sopra una seggiola ed accarezza fra le mani un riccio dei propri capelli. — Se non disturbassi, dice alla fine il banchiere arrischiandosi a mettere tutto il corpo nel tempio, se non disturbassi dovrei dire alla signora Serena... Il sorriso grazioso con cui il banchiere accompagna le proprie parole, spalanca la più larga bocca del regno d'Italia, e mette in mostra due file di denti bianchissimi. — Dite, interrompe la signora Serena senza voltarsi. Il banchiere si fa innanzi, guardando con la coda dell'occhio la bella indolente, trae dal portafogli alcune carte, e dopo averle osservate attentamente, ne fa un piccolo fascio che depone sul tavolino. — Sono le scadenze che lei sa... sol che volesse guardare se tutto è in regola... — Tutto è in regola, risponde fieramente la bella. — Mi lusingo anch'io... — Sono quindicimila lire, credo. — Diciasette. — Tutto è pagato? — Tutto. Se lei volesse degnarsi di sottoscrivere questa carta... La vedova rizza il capo e guarda in faccia il banchiere, i cui occhi, attoniti, non sanno staccarsi dal viso leggiadro. — Una nuova obbligazione, una nuova ipocrisia. Quanto vi debbo a quest'ora? — Una bazzecola. — Che non potrò pagarvi mai. — La signora scherza... — Non ischerzo e lo sapete meglio di me; vi ringrazio della delicatezza, ma è inutile. — Lei sa... — Io so quel che mi volete dire; ci penso. — I miei voti... — Portate via quelle carte, non ho testa a badare a nulla... Lasciatemi. — E devo sperare? — Ritornate fra otto giorni. — È l'ultima dilazione?... — Non lo so. — La signora mi permette che le baci la mano? La vedova risponde stringendosi nelle spalle, e volta la faccia da un altro lato; in un attimo il banchiere ha preso la morbida manina e se la porta avidamente alla bocca. No, signori, non si è mai vista una manina più appetitosa ed una bocca meglio capace di farne un boccone solo. Poi il Creso galante esce a ritroso, continuando a saettare con uno sguardo assassino la donna insensibile e leggiadra. Rimasta sola, la vaga creatura si leva in piedi repentinamente coll'atto di chi voglia divincolarsi dalle strette della noia e si invola nella stanza da letto, un vero tabernacolo color di rosa. Una bella donna che corre tanto ratta allo specchio e si siede innanzi al segreto complice dei propri trionfi con tanta impazienza, deve avere una gran paura che le caschi una treccia o se le sia scomposto un riccio. La signora Serena ha preso un foglio di carta aperto, ma non ne dubitate, non ne fa un cartoccio, non si guarda nemmeno nello specchio e legge colla curiosità d'un'annoiata: «_Signora_, »Per la quarta volta mi presento alla porta di vostra casa, e mi si risponde che non ricevete. Che v'ho fatto io? Sono sceso dentro di me ed ho interrogato il mio cuore — non so d'aver meritato la vostra collera. Solo se l'amarvi vi offende, avete diritto di castigarmi così, perchè io vi ho offesa molto. »Lasciate che lontano da voi io ponga su questa carta ciò che innanzi al vostro sguardo affascinante si rannicchia paurosamente nel cuore — io vi amo; sorridete pure, non può il vostro glaciale sorriso fare che io non vi ami... È un sentimento più forte della mia volontà, più forte del mio stesso orgoglio che io depongo ai vostri piedi. Altri avrà per voi più lusinghevoli omaggi, ma nessuno potrà dirvi parola più sincera di questa: vi amo. Avvezza a vedere, nell'ammirazione di quanti vi circondano, lo specchio della vostra suprema bellezza, vi farà meraviglia che io non vi abbia detto mai che siete bella. A me non importa della vostra bellezza; v'hanno forse nel mondo altre creature più belle di voi a cui non darei il mio cuore. A voi l'ho dato. Non so perchè, non so quando, nè come incominciai ad amarvi, so che mi trovai incatenato senza avvedermi. Volli rompere il laccio, sdegnoso non di voi, ma della mia debolezza, e sfibrai invano i miei muscoli; divenni debole come un fanciullo per amarvi, ma non voglio rimanermi eternamente fanciullo. Ho bisogno di amarvi altrimenti. »Non so se parlandovi questo linguaggio sincero mi esporrò alle vostre beffe; so ch'esso merita altra fortuna. Nell'infinita turba dei vostri adoratori non ne troverete un solo, il quale vi dica tutto ciò che gli sta in cuore. Io lo dirò. Lasciate che venga a voi e vi sveli un sogno che ho fatto. Quanto ho da dirvi merita che mi ascoltiate; accordatemi un quarto d'ora, non lo spenderò a ripetervi il vacuo frasario che dovete sapere a memoria. A me abbisogna la suprema felicità o l'abbandono; deciderete voi la mia sorte; qualunque essa sia, mi sarà cara se mi toglierà dal viso la maschera volgare d'un insipido adoratore. Attribuite l'arditezza di questo linguaggio all'amore, e la sincerità alla mia stima grande quanto l'amore. »MAURIZIO.» La signora Serena si lascia cadere la lettera di mano e segue sbadatamente un raggio di sole che è penetrato attraverso le tendine calate, ad illuminare un mondo di atomi color di rosa. All'improvviso si alza in piedi e sorride. Io non vorrei che il signor Maurizio vedesse il sorriso di trionfo di cui s'illumina quel volto; il raggio di sole si vergogna al confronto e si nasconde, e la leggiadra incantatrice va in giro per la camera a gran passi. Ma a poco a poco quella foga si allenta, il bel viso si oscura, e le due candide manine arrivano appena in tempo a soffocare un singhiozzo. Un vero singhiozzo? una bizzarria? un capriccio nuovo?... Quel raggio curioso di sole che si affaccia un'altra volta alla finestra, è pratico del luogo, e deve saperlo. Ve' come rianima allegramente la fantastica danza degli atomi color di rosa! X. IL TERZO. Il signor Maurizio! disse improvvisamente una voce dietro la portiera. Serena parve uscire da una lunga fantasticheria, sollevò il capo con un moto risoluto, e rispose senza voltarsi: — Passi! Poi si guardò nello specchio, chiamò sul labbro il più bel sorriso, e mosse incontro al nuovo visitatore. Costui è uomo che sta a cavallo della quarantina, alto della persona e piuttosto esile, ma di forme proporzionata e di aspetto dignitoso. Il volto pallido esce come da una cornice fuor della barba nera, che gli scende lungo l'orecchio e si riunisce sotto il mento. Due rughe trasversali gli solcano la fronte, e gli occhi nerissimi mandano baleni nel cavo delle orbite profonde. Veste con massima eleganza e semplicità, ed ha il portamento d'uomo che, avvezzo a vivere fra gli uomini, sa di bastare a sè stesso. Nondimeno, mentr'egli se ne sta immobile sul limitare, un lieve tremito nervoso scorre per tutto il suo corpo irrigidito da uno sforzo di volontà, e quando il servitore ritorna e lo invita con un cenno ad andare innanzi, egli è costretto ad appoggiarsi al muro un brevissimo istante. Nel porre il piede nel salotto due occhi ammalianti lo trattengono un'altra volta: è l'ultima debolezza, ed egli s'inchina profondamente a nasconderla, poi muove verso la vezzosa padrona di casa, la quale si è rizzata a mezzo sulla poltroncina per porgergli la mano con adorabile languore. — Mi aspettavate? chiede Maurizio dopo aver stretto nelle sue mani quei ditini di fata. — Veramente no, risponde la bella, invitando il visitatore a sedere con un cenno. — Sono venuto in mal punto? — Mi annoiavo. — Ciò che ho da dirvi vi divertirà, forse... — Tanto meglio... E vedendo che il volto del signor Maurizio si fa scuro, soggiunge sorridendo: — Scusate, io non so che cosa m'abbiate a dire. — Non lo indovinate? — No, davvero; se pure non volete ripetermi quanto mi avete scritto, che mi amate... — E non vi diverte questo? — Mi annoia, perchè me lo dicono tutti. Serena pronuncia queste ultime parole senza ombra di fatuità nè di collera, prolungando l'incantevole sorriso, agitando lievemente la mano in cadenza; poi fissa i grandi occhi abbaglianti in volto al signor Maurizio, il quale ne regge per poco la luce e si dà vinto. — Voi siete schietta, ripiglia a dire il visitatore dopo una lieve titubanza; e ciò rende più facile il colloquio che vi ho chiesto. La bella vedova continua a guardare, a sorridere, a muovere la mano in cadenza senza mostrare curiosità di sorta. L'altro prosegue: — Non vi dirò che vi amo, nè quanto vi ami; non mi credereste, ed alla mia età non sta bene non essere creduti. — Alla vostra età! — Ho trentanove anni compiti. — Cioè quaranta non compiti... vi credevo più giovine. — Vi pare ch'io sia troppo vecchio? — Al contrario, che siete troppo giovine per gli anni che avete. — Gli anni però non si cancellano. — Qualche volta sì; io per esempio ne voglio avere ventidue soltanto e me ne cancello parecchi. Vi pare che io abbia più di ventidue anni? Maurizio getta alla sua volta un lungo sguardo nella tenebra di quell'incantevole enigma vivente. — Ho promesso d'esser breve, abbrevio, e vi scongiuro di rispondere schiettamente ad una domanda, per quanto vi possa parere indiscreta. — Dite. — Amate voi qualcuno? Serena sta alquanto dubbiosa. — Aspettate.... mi pare di no.... anzi ne sono sicura; lo credereste? non avevo mai fatta a me stessa la domanda che mi fate voi. — E stimate qualcuno? — Pochi. — Io sono nel numero? — Certo. — Quand'è così, dice Maurizio protendendo le mani congiunte, come per darsi forza, io vi offro di divenire mia moglie. Oh! se egli avesse potuto cogliere il lampo che brillò nell'occhio di Serena! Ma, com'ebbe pronunziata la dimanda, non si sentì la forza di leggere subito la risposta nei volto della bella e chinò lo sguardo. — La vostra offerta mi onora, mi insuperbisce, dice Serena con gravità insolita. — Accettate dunque?... — La stima che mi dimostrate, prosegue Serena misurando le parole, merita la maggior schiettezza. Il mondo ha sul mio conto molte opinioni bizzarre... — Che importa a me del mondo?... — Una fra le altre più bizzarra di tutte, quella cioè che io sia ricca. Serena si arresta per guardare in volto Maurizio, il quale non batte palpebra. — Il mondo s'inganna, aggiunge la bella; io non sono ricca. — Lo sapevo, risponde l'altro, o almeno lo immaginavo; poichè voi stessa me lo dite, tanto meglio; non mi si perdonerà certo la mia felicità, ma almeno non si potrà dire che volli fare un buon negozio. — Siete fiero voi? — È la mia maggior ricchezza; me pure si crede molto ricco; sappiatelo, mi rimane solo il tanto che basti ad una vita modesta; non avrete da arrossire accettando, sono povero anche io. — Lo sapevo. — Lo sapevate?... e dite? — Tanto peggio. Serena sembra fare uno sforzo sopra sè stessa per mantenersi grave, ma è inutile; il riso le sta sul labbro, gli occhi le sfavillano giocondi. E ripete: — Tanto peggio. Io sono avvezzata male; ho provato a vivere negli agi, nelle mollezze e mi ci trovo bene; mi piace avere un bell'appartamento.... non badate a questo, è una bicocca se lo confronto co' miei sogni... mi piacciono le veglie, i viaggi, le villeggiature, i bagni; mi ci annoio qualche volta, ma vi ha noia e noia; quella che voglio io è una bella noia; il mio desiderio più ardente è di avere una magnifica pariglia ed una splendida carrozza con due servitori; ma se anche dovessi rinunziare a questo bel fantasma, non saprei distaccarmi dai miei abiti di seta e di velluto, dai miei merletti, dai miei pizzi... e tutto ciò costa caro, orribilmente caro. La bella si arresta, getta uno sguardo fuggitivo a Maurizio, il quale ha rialzato il capo con superbo disprezzo. — Che cosa potete darmi voi? continua Serena con crescente disinvoltura. Il vostro cuore, il vostro affetto; ciò potrebbe bastare ad un altro cuore, forse anche al mio, ma non basta alla mia fantasia, alle mie abitudini, ai miei bisogni. Dovrei vivere una vita modesta, accudire alle faccende domestiche, vestirmi sempre degli stessi abiti, di falsi pizzi e di falsi gioielli, rinunziare al mondo, alle feste, alle ville, ai palchetti in teatro, ai bagni, e tutto ciò a soli... ventidue anni! Voi stesso comprenderete che non è possibile; siete fiero e sta bene; io no, non sono fiera; non vorreste che il mondo vi accusasse di aver fatto un buon negozio sposandomi; a me invece un buon negozio è indispensabile, ed io del mondo non mi curo. E poi, il mondo è galante con noi donne, e dirà ancora ch'io mi sono rovinata, che ho fatto male i miei conti... Maurizio si è alzato in piedi senza dir parola; la leggiadra vedova s'interrompe e gli porge la mano sorridendo. — Lo sapevo io che vi avrei posto in fuga; eccovi guarito, immagino. Mi avete voluto sincera e vi ho svelato tutta me stessa. Me ne terrete rancore? — Vi ringrazio, dice Maurizio, sfiorando appena la mano della bella. Ed esce senza più rivolgersi, con un amaro ghigno sulle labbra, col cuore in tumulto. Serena continua a sorridere finchè il visitatore sia scomparso, poi si getta sul divano e piange. XI. LA SIGNORINA OLIMPIA FA GLI ONORI DI CASA. Queste cose ed altre molte, tutte savie e sapienti ad un modo, avvenivano nel mondo dei savi intorno alla vigilia del Natale. Ritorniamo ai nostri pazzerelli. Il dottor Parenti che li cura ha forse bisogno egli stesso dei propri rimedii, poichè a frugar bene nella sua testa ci si trovano alcune idee fantastiche e bizzarre, le quali alla Borsa non hanno, fra i pubblici valori, un valore certo e definito; ad ogni modo egli è creduto un sottile ragionatore, dotato d'un'avvedutezza rara, e sempre intento ad aguzzare lo sguardo per farlo passare attraverso i corpi più duri. È opinione fra i suoi ammalati che nulla gli abbia mai saputo resistere (il granito da un pezzo gli ha svelato il suo segreto); e quando fissa gli occhietti scintillanti in faccia a qualcuno, state sicuri che gli scompagina il cervello e gli sfibra il cuore — e il peggio è che non pare, perchè sorride come la più buona pasta d'uomo che esista sulla terra. Con un oculare di quella fatta — povero dottor Parenti! — ha dovuto vederne di brutte cose! Al domani del Natale passato melanconicamente al focolare in compagnia dell'amico Fulgenzio, egli si levò molto di buon umore, misurò tre o quattro volte la stanza da letto e finì fregandosi le mani, rialzando il capo, e piantandosi nel mezzo della camera. Allora terminò di vestirsi in fretta, diè il bacio del buon giorno ad Olimpia, sorbì prosaicamente la sua chicchera di caffè e latte, poi misurò di nuovo a gran passi la sala da pranzo e finì un'altra volta fregandosi le mani, rialzando il capo e piantandosi come un pilastro. Olimpia, che lo guardava aprendo tanto d'occhi, non ci capiva nulla e se ne rimaneva anch'essa immobile come una statua della curiosità. — Ma che bella statua! pensò il babbo volgendo finalmente lo sguardo alla sua creatura. Per carità paterna, avrebbe dovuto dirle qualche cosa, ma non le disse nulla, e sedette accanto al fuoco. Trasse il taccuino, ne staccò un foglietto e scrisse colla matita, poi chiamò un servo e gli ordinò di recare lo scritto al signor Mario. — È ammalato il signor Mario? chiese Olimpia, che non aveva tolto un istante gli occhi di dosso al padre. — E chi ti dice che sia ammalato? — Poichè gli mandi una ricetta. — E chi ti dice che sia una ricetta? — Fai sempre così a farle... Il dottor Parenti rise allegramente dell'equivoco, ma non disse altro. Pochi minuti dopo ritornò il servo ed avvertì che il signor Mario s'era appena levato e che sarebbe venuto subito. Non andò molto che si udì il tintinnio del campanello alla porta d'ingresso. Il dottor Parenti si rizzò come spinto da una molla e fece per uscire dalla stanza. — Te ne vai? chiese Olimpia. — Vado e vengo; trattienilo un momento tu... — Ma io... — Vengo subito, ti dico... E senza ascoltar altro, il dottore sparve chiudendosi l'uscio dietro le spalle, mentre la porta rimpetto si apriva lasciando il passo al signor Mario. Il signor Mario è a rigore un bel giovinotto, ma ha una aria di Amleto precoce che mette in dosso la melanconia; porta l'abito abbottonato fin sotto al mento ed ha i lineamenti corrugati, come uomo che abbia fatto scommessa di non ridere. Olimpia vorrebbe muovergli incontro, tanto più che il nuovo venuto, vedendo sola la fanciulla, si è arrestato sulla soglia e sembra disposto a non se ne staccare, se la signorina non gli viene in aiuto. Ma come fare? È così difficile ricevere un giovinotto! — Signor Mario, dice la bella creatura, prendendo il proprio coraggio a due mani, si accomodi; il babbo viene subito, subito... E intanto guarda colla coda dell'occhio verso l'uscio. Dio sia lodato! il signor Mario apre la bocca per parlare! — Buon giorno, signorina. Non dice altro e s'inoltra un passo. — Segga qui, dice Olimpia a cui pare di sentirsi in petto un cuore di bronzo, vicino al fuoco; deve fare molto freddo, tutti i vetri erano arabescati di ghiaccio stamane. — È vero, deve fare molto freddo. — Non se n'è accorto lei? — Non sono ancora uscito di casa. Qui ha luogo un intervallo di silenzio che entrambi spendono a guardare molto curiosamente le vetrate. — È un pezzo che non la vediamo, dice Olimpia; non viene mai a trovarci? Perchè non viene mai? — È vero; ma in questi pochi giorni di vacanze, ho dovuto studiar molto... — Le farà male studiar tanto; lo dice il babbo che le farà male. Il signor Mario si determina ad abbozzare colle labbra qualche cosa che rassomiglia lontanamente ad un sorriso. — Ieri l'abbiamo aspettato; credevamo che venisse a passar la sera con noi, aggiunge Olimpia, tutta sbigottita di essere un'eroina. Il signor Mario risponde che fu trattenuto fuori dagli amici, gli duole di essersi fatto aspettare inutilmente. — L'abbiamo aspettato un pezzo; il babbo diceva sempre: verrà, verrà. Non era vero, ma di che parlare con uno studente di medicina così patologicamente taciturno? — Il dottor Parenti è troppo buono con me... — Le vuol bene... — Non lo merito... — Oh! sì sì che lo merita!... La fanciulla si è lasciata scappare queste parole con tanto candore che ne arrossisce essa stessa. Il silenzio diviene un'altra volta profondo; il signor Mario guarda i carboni accesi, confronta il pomello d'ottone delle molle col pomello d'ottone della paletta e nota che fanno un paio di pomelli d'ottone assolutamente simili, poi leva gli occhi al soffitto, li figge sulle pareti, sul pavimento, da per tutto fuorchè sul volto imporporato della fanciulla, la quale guarda i vetri, la volta, il pavimento ed il focolare, tutto fuorchè la faccia scura del signor Mario. Ed i canarini svolazzano per la gabbia, e spendono i loro trilli senza riuscire a farsi intendere. Quella situazione diventa sempre più imbarazzante, perchè Olimpia non trova assolutamente più nulla da dire, ed il signor Mario non pare nemmeno si dia la pena di cercare. L'aiuto della Provvidenza è indispensabile e deve giungere dall'uscio dello studio del dottore.... Oh! perchè non giunge? Non si mormori contro la Provvidenza; ecco, l'usciolo si apre e ne esce frettoloso l'ottimo babbo. Olimpia fa un lieve inchino e se ne svolazza via, lasciando il sorriso del dottore alle prese col broncio del signor Mario. XII. IN CUI IL DOTTOR PARENTI INCOMINCIA UNA CURA. Il dottore entra in materia senza preamboli; prende nelle proprie le mani del signor Mario e lo guarda fissamente in volto. — Mi devi promettere di essere schietto con me. Il signor Mario, non preparato al repentino scongiuro, non risponde nulla; quel silenzio può significare cento cose, ma il dottor Parenti non istà in forse e si attiene all'interpretazione che gli conviene meglio. — Così va bene, dice egli; tu sai se ti sono amico e se di me ti puoi fidare; quel che ho da dirti, da un pezzo mi sta in mente; se tu sei uomo, la schiettezza non deve offenderti, ed io ti voglio parlar schietto. Mario leva fieramente il capo e pronunzia una sola parola, ma con molta fermezza: «Parli.» — Parlo, prosegue a dire il dottore, fregando le palme della mano contro le ginocchia e dondolando lievemente il corpo; e dico che tu sei un gran colpevole verso tutti coloro che ti vogliono bene, che la tua tetraggine è un affanno per tuo padre e la tua taciturnità un'ingiuria per me. Chi sono io? Non te lo ricordi più? Una volta il signorino sapeva venire dal dottor Parenti; era il suo vocabolario medico, il suo balocco, il suo passatempo. Ma sissignori che a poco a poco ella mi si imbroncia, mi si rincupisce, mi fugge! È questo che ti hanno insegnato all'Università? Non sei ancora medico, e già mi tratti corno un tuo collega, odiandomi cordialmente. E Dio sa a quanti hai detto che io sono un asino calzato e vestito, coll'intenzione di rubarmi la clientela! Il dottor Parenti ha incominciato molto seriamente ed ha finito con un accento così burlesco, che lo stesso Mario è costretto, a ridere. — Lei scherza! — Io scherzo, sicuro che scherzo, voglio scherzare fino... alla fine; tu no, non ischerzi! In fede mia, la tua clientela è fatta fin d'ora; hai in te stesso un ammalato che ha bisogno di tutta la tua dottrina, se ne hai... se ne hai, perchè lo so io forse se ne hai? Ti sei tu degnato più di interrogare il tuo antico maestro? Alle corte, ecco quello che ti devo dire: se ti rimane ancora un briciolo di amicizia per me, esigo che tu mi confidi tutto quanto hai nel cuore... — Non ho nulla io! — E se della mia amicizia non t'importa, allora serba i tuoi segreti a chi ne sia più degno, e vattene, ma che almeno sappia con chi ho da fare. Il giovane, a queste ultime parole, china il capo sul petto con uno scoraggiamento profondo. Il dottor Parenti prosegue con dolcezza: — Via, dimmi tutto; una buona confessione può sanare molti mali, anche quando è fatta ad un cattivo medico. E poi, chi sa che io non abbia proprio il rimedio che ti abbisogna; il tuo _caso_ non è disperato.... al contrario.... e ti prometto che se il rimedio dipende in qualche modo da me, io non saprò negartelo. In queste parole, pronunziate con lentezza e quasi con finta sbadataggine, è nascosta un'intenzione che al signor Mario sfugge interamente, perchè non batte ciglio, nè muta positura. Il dottore sta alquanto in forse, poi aggiunge: — Devo aiutarti a farmi questa confessione? Sì?... Ebbene, tu sei innamorato! Il giovane leva il capo con un moto repentino che il dottore, per generosità, finge di non vedere. — Tu sei innamorato e disperi, come fanno tutti gli innamorati, di veder mai avverato il tuo bel sogno. Non è così?... «Come fanno tutti gli innamorati...» è evidentemente un pleonasmo, perchè Mario dà una risposta che rovescia la regola generale. — Non è così, dic'egli, non potrebbe essere così, io non amerei mai alcuna fanciulla senza esser certo di poterla far mia. — Al cuore non si comanda, giovinotto. — Il mio cuore mi ubbidisce, risponde semplicemente Mario. — E poi le difficoltà, i contrasti... — Non vi sono difficoltà per chi ama. — Benissimo, benissimo, benissimo, ripete il dottor Parenti, curvandosi sempre più sul focolare e fregando con crescente fervore le palme delle mani sulle ginocchia. Rimane adunque perfettamente stabilito che tu non sei innamorato. Mario non risponde nulla; l'altro prosegue: — Ebbene, mi dispiace dirlo, ma quando è così il negozio diventa più grave e ti fa maggior torto. Se non sei un innamorato, sei qualche cosa di peggio, un cattivo amico... — Dica tutto il suo pensiero, un cattivo figlio. — Ebbene sì, un cattivo figlio! Io non so per quali pretesti il tuo cuore, che è buono, si mantenga in questa selvatichezza che fa tanto male a tutti; so che vi è un vecchio, il quale sperava di avere un figlio in te, e che tu fai di tutto per parere a lei un estraneo; so che quel vecchio soffre, e che tu soffri, e so che, invece di confortare la sua vecchiaia e te stesso, tu gli sei cagione di dolore e di affanno. Il volto del dottore è serio come nei momenti solenni, e la sua parola amorevole ha una gravità insolita; il giovine sembra fare un gran sforzo per mantenersi indifferente, ma l'occhio indagatore del medico gli si appunta in viso e non lo lascia un istante, finchè, incapace di dissimulare più oltre, Mario dà in un singhiozzo soffocato. Il dottor Parenti balza in piedi, prende la testa del giovane fra le mani e se la tira sul petto come avrebbe fatto ad un fanciullo viziato. Non dice nulla. Mario si toglie a poco a poco a quel laccio amorevole, e leva gli occhi in alto per mostrare che non piange più. — Preferirei che tu piangessi, dice il dottore comprendendo il significato di quello sguardo, che ti spogliassi del tuo orgoglio insensato. — E che mi rimarrebbe allora? chiede fieramente il giovine. — La tua famiglia, un padre. — Io non ho padre, prorompe Mario con voce sorda. Dica pure che io sono un ingrato, l'ingratitudine è la mia sola virtù. Mi hanno dato una casa, un nome, una professione; cose ottime che io non chiedeva, e che accettai con giubilo; ma si vorrebbe che io scontassi tutto ciò a caro prezzo; che portassi scritto sulla fronte il benefizio ricevuto e lo pagassi coll'umiliazione e colla vergogna. È troppo caro; se non posso estinguere il mio debito, voglio almeno mostrare che la mia anima non si vende — sono un miserabile, lo so, ma non sono un vigliacco; meglio ingrato che codardo. Mario ha parlato con impeto ed ammutolisce a un tratto; il dottore osserva con voce commossa: — Il cuore di tuo padre è buono. — Chi lo sa? — E non vuole che un po' d'affetto... — Me n'ha egli dato dell'affetto? Quando io me gli mostrai amorevole, credette egli forse che la riconoscenza avesse in me preso gli aspetti dell'amor filiale? Lo credette egli mai? E quando io, coll'anima piena di affettuosa gratitudine, provando il bisogno d'essere stimato e di trovare un po' di quell'affetto che nissuno più doveva darmi in terra, feci di tutto per giungere al suo cuore, credette egli forse alla mia sincerità? Io era fanciullo, ma gli leggevo dentro meglio che egli non leggesse in me perchè avevo la doppia vista della sventura. E vidi, lo sa lei che vidi? Vidi che egli mi teneva per un egoista e per un dappoco. Fu buono, arrendevole, non mi lasciò mancare nulla, tranne la sola cosa che io spiava inutilmente nei suoi occhi: un pensiero di stima sincera, un sentimento di vero affetto. Si era imposto il dovere di far di me suo figlio, ma non fu mai, un solo istante, mio padre. E poichè il dottor Parenti fa atto d'interromperlo, tace, ma continua a tentennare il capo come per respingere, innanzi di udirli, tutti gli argomenti che gli si possono opporre. Ma il dottore non ha argomenti veri da opporre a quel grido partito dal cuore; e se interrompe il dire affannoso del giovine, lo fa da medico accorto, perchè egli non si sfibri nell'impeto e gli rimanga forza di proseguire più pacato. — Vi fu certo un equivoco, gli dice; tuo padre è mio amico, e lo conosco come ti conosco, e più, perchè mi si è dato a conoscere più presto. Egli ti vuol bene. — Non lo creda, ribatte Mario amaramente; l'amore non passa se non dove prima è passata la fede, ed il cuore di quell'uomo non crede in nulla. Ho poco studiato nei libri; ho molto studiato nel cuore di... mio padre; appena mi avvidi del suo contegno con me, volli darmene ragione, e come gli ebbi letto dentro ciò che doveva fare d'un figlio affettuoso un indifferente, non passò giorno senza che io meditassi il mio nuovo supplizio; ogni sua parola, ogni sua opinione divennero oggetto di una tormentosa e puntigliosa analisi, che mi lasciava sempre più ebbro di dolore e di orgoglio; ma il mio dolore era la mia debolezza; il mio orgoglio, la mia forza; divenni ingrato. — Mario, dice il dottor Parenti pigliando la mano del giovine, tu hai cuore e ne ha egli pure; voi dovrete amarvi. — Oh! ch'egli non sappia mai, prosegue Mario senza mostrare di aver inteso quelle parole; oh! ch'egli non sappia mai, se è vero che ha cuore, con quale occhio d'invidia io ho guardato i miei fratelli che camminano per le vie come un gregge, che portano un camiciotto grigio ed hanno una sola famiglia, l'ospizio! Coloro almeno sono in diritto di non arrossire della loro sventura; a me quel diritto non rimane più; mi fu pagato con un nome, con un'educazione; agli altri resta il potere di serbarsi liberi, onesti e forti; a me non è concesso se non di parere un docile parassita od uno schiavo ribelle. Per chi ha anima d'uomo in petto, la massima infelicità non è il non aver padre, nè nome; ma è il portare un nome imprestato, è l'avere un padre che non è padre. La voce di Mario è passata per tutte le gradazioni della commozione e finisce in un rantolo. — Il tuo orgoglio è generoso, dice il dottore tanto per rompere l'affanno del silenzio; io lo stimo quello che vale, e vale molto; ma tu gli dai certo maggior prezzo che non abbia. Se tu avessi preso ad amare l'uomo che ti ha dato il suo nome e la sua casa, non avresti patito tante torture. Questo di buono ha l'affetto, che basta al cuore e ne caccia o vi soffoca le altre passioni... — S'inganna, interrompe il giovane coll'accento di una convinzione profonda; s'inganna; l'affetto è una malattia del cuore che ne rende più sensibili e più delicate le fibre; corrisposto, è un balsamo; non corrisposto, è un veleno; e se non si può cessare di amare, si odia. — Tu non hai cessato d'amarlo, dunque? Mario non risponde, e si alza in piedi con un moto risoluto. — Ho già detto troppo, ho già troppo sofferto. Lasci che me ne vada e grazie, grazie della sua amicizia. Il dottore si alza anch'egli, e pone le sue mani sugli omeri del giovine. — Il tuo male è grave, gli dice, ma spero di guarirti, poichè il cuore è sano. Mario scuote il capo melanconicamente e si allontana senza aggiungere parola. E il dottore, rimasto solo, si afferra il mento colla mano manca, il gomito manco colla mano destra, e rimane in quell'atto, immobile, senza avvedersi che Olimpia, l'angelo biondo della sua casa, fa il broncio in un canto. — Tu qui! dice finalmente togliendosi alla meditazione. E come hai fatto a venire senza ch'io ti abbia udita? — E come hai fatto tu a non udirmi? — È vero; ma che hai? — Ho che so tutto.... — Tutto? — Tutto!... — Avresti per caso origliato all'uscio? — Non ne sono capace!... Ma so tutto... — Tutto? — Tutto... — Fammene sapere qualche cosa anche a me. — Io so perchè hai fatto venire il signor Mario, e so perchè sei andato nel tuo studiolo e mi hai lasciata sola con lui. — Proprio! dice il dottor Parenti spalancando tanto d'occhi, e pensa fra sè e sè: «mia figlia è mia figlia!» — Tu hai creduto ch'io volessi bene al signor Mario! — Che! esclama il padre; ed ho sbagliato, non è vero? — Sicuro, io non gli voglio bene niente, proprio niente... Che ne importa a me del signor Mario? — È quel che dicevo anch'io; Olimpia ha quindici anni, e vuol bene soltanto alla sua bambola! Che deve importare ad Olimpia del signor Mario? — Nossignore, tu non dicevi questo, perchè tu non lo sapevi. — Ed ora che lo so, ti dico che la tua avvedutezza ti ha ingannata, e che ho fatto venire il signor Mario per altro... — Anche per altro, questo lo so. — E come lo sai? — Lo immagino; avete parlato un pezzo. — Ci ascoltavi? — Propriamente no; stavo zitta per veder d'udire senza ascoltare. Ma dall'altra stanza non si sente nulla, ci sono due usci; se fossi stata nello studiolo, forse... Il dottor Parenti si affretta a soggiungere: — Ebbene, poichè la signorina è curiosa, vuol sapere che cosa il suo babbo aveva sospettato? Che ella non volesse niente affatto bene al signor Mario, ma che il signor Mario ne volesse a lei. — E non è vero niente! — E non è vero niente... — Bastava che l'avessi chiesto a me, ti avrei subito detto che il signor Mario non mi vuol bene. — E tu lo sapevi, tu? — Oh! sì, sì che lo sapevo! La piccola Olimpia ha una gran voglia di piangere, e corre nella sua stanza a versare nel seno della bambola la piena dell'immenso dolore. XIII. ANCORA DELLA CURA INCOMINCIATA. Il dottor Parenti, dopo aver accompagnato cogli occhi la propria creatura, esce dalla stanza tentennando il capo, scende le scale, muove difilato verso il gabinetto del direttore e viene innanzi all'amico Fulgenzio, col viso, contro il costume, oscurato dal pensiero. Fulgenzio, sebbene intento ad esaminare documenti che si riferiscono a qualche nuovo membro della sua numerosa famiglia, è colpito alla prima dalla singolarità del caso che si legge sulla faccia del suo giovine amico, e si rivolge a lui colla premura impaziente di chi si aspetta una disgrazia. — Buone nuove! dice il dottore per tranquillarlo. — Buone nuove? ripete l'altro sbigottito, e me le rechi con quella faccia? — Hai visto tuo figlio? domanda il dottore mutando accento e spianando le rughe della fronte. — Non mi parlar di lui. — Sono venuto a posta per parlarti di lui... Il povero padre non risponde; l'altro soggiunge: — E per dirti una millesima volta che Mario ha cuore, che Mario ti vuol bene. — T'inganni, non ti credo, non ti voglio credere. — Tanto è vero che non m'inganno, quanto è vero che tu mi credi e che vuoi credermi. E dopo un istante di silenzio, durante il quale il direttore ha appuntato i gomiti al tavolino e stringe la fronte fra le mani, prosegue a dire, pronunziando le parole ad una ad una: — Mario ti vuol bene, la sua tetraggine ha la stessa origine della tua; al pari di te egli non si crede amato e ti nasconde l'amore. Le buone nuove sono come certe medicine che non bisogna trangugiare tutte d'un fiato; quelle parole cadute a goccia a goccia sul cuore del vecchio devono essere un balsamo, se bisogna giudicare dall'espressione di gioia quasi paurosa che si dipinge sulle sue severe sembianze. — Vuoi dire?... — Voglio dire che tra te e tuo figlio ci è di mezzo l'orgoglio d'entrambi, risponde il medico con accento un po' scherzoso; se Domeneddio avesse voluto fare il miracolo di darti un figlio autentico, non avrebbe potuto dartene uno che avesse meglio di questo il marchio di fabbrica; Mario ti assomiglia. — Senti, interrompe Fulgenzio con voce commossa, tu non m'inganni, non è vero? perchè tu sei il mio amico migliore; io ti domando in nome della nostra amicizia: non ti parve mai che la mia testa vacillasse? — Quale idea! — Idea vecchia e tormentosa! I melanconici compagni della mia esistenza possono avermi attaccato il loro male; a volte penso che io stesso sono forse un pazzo senza avvedermene, e che tu mi curi di nascosto. — Quale idea! — Idea da pazzo!... — Sicuro, idea da pazzo, e da pazzo della peggior specie che io conosca. Ed il dottor Parenti sghignazzava così allegro, che è impossibile proseguire in quell'argomento. — Mario dunque?... — Mario si è accorto che tu non avresti stimato l'affetto che voleva darti se non come una moneta di basso conio, ed ha nascosto il suo borsello... E ti so dire che è un borsello gonfio, grosso così, e che ci è dentro un bel gruzzolo di napoleoni d'oro lampanti, e che potrebbe essere tutto tuo, solo che tu volessi. Non dico che Mario abbia tutta la ragione, ma ha certo il minor torto... — Il maggior torto... — L'hai tu; non stare a ribattere, l'hai tu. A te, esperimentato dagli anni, toccava leggere in quel libro aperto, che è il cuore della giovinezza, e fu lui il primo a leggere nel tuo libro chiuso. Se tu, invece di immaginare di aver tutto fatto col benefizio, ti fossi dato pensiero di studiare l'indole di tuo figlio, avresti saputo che egli è superbo, e gli avresti risparmiato il peso della gratitudine sollevandolo coll'amore. Dovevi mostrarti padre, e non sapesti essere che un benefattore. Le tue massime, tutto lo scetticismo dell'educazione che è passato sulla tua anima, lasciandola miracolosamente buona, non facevano per Mario se non affermare la sua salda credenza che, ritrovando un padre, non aveva cessato d'esser orfano. — E come sai tutto ciò? chiede sospettoso il signor Fulgenzio. — Me l'ha detto egli stesso; ho avuto con lui un colloquio or ora; piangeva... — Piangeva!... Ed ha detto che mi ama? — Ha detto che ti ama... Il dottore sa benissimo che ha invece detto di odiarlo; ma per lui è tutt'uno. Succede un lungo silenzio. Il vecchio preme più forte la fronte colle mani, ed il dottore lo guarda intento. — Che cosa mi consigli di fare? dice alla fine il direttore senza levare il capo. — Che cosa ti consiglia di fare il tuo cuore? — Il mio cuore è impotente; io non so neppure se mi rimanga un cuore per altro che per soffrire; e il mio orgoglio si ribella. S'egli... Il dottore comprende e l'interrompe. — Non verrà... nè tu devi andare a lui; ma bisogna che v'incontriate sulla stessa via per caso; le parole non valgono; al punto in cui sono le cose, occorrono le opere: tu devi dargli una prova del tuo amore, senza che te la chieda e senza mostrar di volergliela dare. — E quale? — Non lo so; so per altro che Mario mi nasconde un segreto che mi bisogna scoprire. Stamane mi pareva di averci posto la mano sopra, ed ho sbagliato. — Spiegati. — Credevo che Mario si fosse innamorato di mia figlia, e che perciò fosse tetro e taciturno. — E non è vero, per buona sorte? — Per buona sorte! Ecco una parola che non è da padre. — Mario in faccia al mondo sarà sempre un orfano. — Lascia che questo lo pensi lui, come fa pur troppo, ma tu non lo dire. Se il mio sospetto si fosse avverato... — Avresti allontanato tua figlia... — L'avrei data in moglie a Mario. Il signor Fulgenzio aveva una esclamazione ammirativa sulle labbra, ma la trattenne, vergognoso di parer più debole dell'amico. — Disgraziatamente avevo visto le cose alla rovescia. — Non è vero? — Non è vero, ed è invece verissimo che Olimpia vuol bene a Mario. — Ti pare? — Ne sono sicuro; non tanto però quanto ne vuole alla sua bambola, e questo mi conforta. Torniamo a Mario; il poveretto ha dunque un altro segreto. — Quale? — Quando lo saprò non sarà più un segreto. Il disgraziato padre è venuto a poco a poco abbandonando il cuore alla gioia della nuova rivelazione, ed a queste parole, incapace di trattenersi, si alza commosso e si butta nelle braccia dell'amico. — E non ti pare che la mia testa vacilli, non è vero? — Al contrario, mi pare; oh! se mi pare! L'avete udita la risata sonora che prorompe dal labbro del dottor Parenti? XIV. QUATTRO MILA E SEICENTO LIRE ALLA CASSA DI RISPARMIO DI MILANO. Che fa Donnina? I passeri le hanno cantato una bella canzone per risvegliarla; e ne aveva bisogno, sebbene tenesse gli occhi aperti. È scesa da basso, lieta di non essere stata prevenuta, come la vigilia, da mamma Teresa, e vuole che la vecchia abbia a trovare ogni cosa in ordine quando si desterà. Vedete come corrono agili quelle manine gentili! In breve ora tutto è in sesto; «già non ci vuol molto!» direbbe mamma Teresa. Quando ha finito, siede accanto al focolare per invigilare il bricco dove riscalda l'acqua del caffè, e pensa. Pensa prima di tutto che mamma Teresa tarda più del solito a comparire, e che ci sarà tempo di prepararle un magnifico stupore, facendole trovare il caffè fatto. Oh! il magnifico stupore!... E verrà poi oggi? Ne riceverà almeno notizie?... Chi?... Ripetano pure i passeri le loro più belle canzoni ed il focolare scoppietti allegramente, e il bricco del caffè incominci a canticchiare, e mamma Teresa tardi pure a discendere, tutto ciò non può fare che Donnina non pensi ad Ognissanti. E verrà poi oggi? E ne riceverà almeno notizie?... Non è più sola; i cari fantasmi le fanno compagnia. Possiamo lasciarla, e andare nella camera dei vecchi perchè assolutamente mamma Teresa tarda troppo a discendere. Dalla porta socchiusa si può vedere la vecchia, che passeggia per la camera a gran passi, continuando a dire di sì; e la testa di maestro Ciro, coperta ancora da un berretto da notte non meno bianco dei suoi capelli, che segue cogli occhi tutti i movimenti della terribile donna ed accenna quasi impercettibilmente di no. — Sì, conchiude mamma Teresa, piantandosi improvvisamente in faccia al marito, che diviene immobile d'un tratto; sì, chi manda denaro di nascosto, ha cattive intenzioni. — Il beneficio che si nasconde, dice maestro Ciro coll'accento con cui enuncia le definizioni ai suoi allievi, il beneficio che si nasconde... Ma la terribile compagna non lo lascia finire. — Tutto ciò che si nasconde ha paura di essere veduto, ed io sostengo ancora che dopo quest'elemosina mi diventa più inesplicabile, e temo peggio pell'avvenire della nostra Donnina. Evidentemente si parla d'Ognissanti. «E chi altri mai, aveva detto la vecchia nel ricevere l'avviso postale che annunziava l'arrivo di una somma, può mandarci mille lire? — _mille lire!_ — al domani della sua apparizione? — E se non fosse lui? osservò un'altra volta il maestro di scuola. — E dalli, coi tuoi dubbi! dev'esser lui. Non ha avuto bisogno di comparire a Donnina di notte, come fanno i malfattori? E non le ha forse taciuto l'esser suo? — È vero, ma pensa che non è la prima volta che noi riceviamo del denaro senza sapere chi ce lo mandi. Sono oramai cinque anni. — Appunto. E sono sei anni che Ognissanti partì col padre a cercar la fortuna; l'avranno trovata subito, e chi sa in quali strade. — Teresa, il sospettare del prossimo... — Non sono sospetti, sono fatti; tu già colla tua placidezza finirai col farmi andare all'altro mondo più presto. — Teresa... mormora il vecchio con voce compassionevole. — Eh! via, ripiglia la vecchia, ti pare che io dica sul serio? ma se ti vedessi una volta andare in collera, credo che mi toglieresti dieci anni di dosso. Ti dico che quell'Ognissanti io l'ho visto co' miei occhi, e che se mi sono lasciata pigliare alle parole di Donnina, tanto tanto ho subito detto a me stessa: «quel giovine è una vecchia birba e vuol perdere la nostra creatura.» Le prime impressioni non si cancellano, ed ora mi pare di vedermelo lì dinanzi... come lo vedevo... ed il suo denaro glielo vo' buttare sul viso appena osi portarlo a tiro, e gli voglio dire... lo so io che cosa gli voglio dire. Maestro Ciro si tira le coltri fin sotto il mento e minaccia di sparire. — Mille lire! ripiglia la vecchia, mille lire! E sono là a B... a nostra disposizione, e non ci rimane che andarle a prendere. Mille lire! Hai tu mai visto come sono fatti i biglietti da mille?» Il vecchio sorride come farebbe un banchiere e non risponde. — E dire che noi credevamo di poterli spendere onestamente, aggiunge, quei denari che parevano piovuti dal cielo! Non erano mai tanti come questa volta; e pure quanto piacere ci davano! — Potrebbe essere.... — Eccolo lì l'uomo del potrebbe o non potrebbe; non sei ancora ben sveglio dai tuoi sogni? — E mi sveglio mal volontieri, anzi non voglio svegliarmi punto. Se anche questi denari non vengono da un padre... — Se anche!... — Nissuno mi leva dal capo che Donnina è figlia di qualche principe o di qualche nobilone ricco a milioni, e che un giorno ritroverà la sua fortuna. — Bei nobili da milioni, che le lascerebbero patire anche la fame se non fosse... — E se invece quei denari sono, come abbiamo sempre creduto?... — Abbiamo sempre creduto ciò che non è; questi danari e gli altri vengono da Ognissanti, e sa Dio che origine hanno, e non bisogna tenerli proprio. — Mille lire! dice maestro Ciro ad alta voce, come parlando fra sè e sè, mille lire aggiunte alle altre farebbero quattromila e seicento lire... al sicuro... là negli scrigni della Cassa di Risparmio, a Milano, finchè Donnina avesse a prendere marito; allora si andrebbe a pigliarle tutte, e si direbbe a Donnina: «Questa è la dote, non te l'abbiamo fatta noi, perchè siamo poveretti, ma i tuoi parenti, i quali devono essere qualche cosa di grosso...» — Non le si direbbe nulla di tutto ciò per non farla soffrire. — È vero... Ma! Questo _ma_, preceduto e seguito da un sospiro, significa che tutto ciò è un sogno, e che se si hanno a restituire le mille lire, bisognerà, a rigore, restituire anche le altre, così bene al sicuro negli scrigni della Cassa di risparmio di Milano... — Ma!... ripete con un altro sospiro mamma Teresa, la quale capisce le cose a volo... addio dote! addio avvenire! bisognerà dare Donnina ad un poveretto o lasciarla sola nel mondo a soffrire. Quest'idea è più forte dello scrupolo; la vecchia soggiunge: — Nossignore, non bisogna restituir nulla, questi denari sono stati mandati a te, non è vero che sono stati mandati a te? Ci è forse in paese un altro _Egregio signor Ciro Neri, maestro delle scuole comunali_? Maestro Ciro protesta col capo che non ce n'è nessuno. — E non sei tu l'_Egregio Signor Ciro Neri, maestro delle scuole comunali_? Il vecchio sorride come por attestare la propria identità. — Dunque questi denari sono tuoi, e farai bene a tenerli. — Sicuro, e li terrò per far la dote a Donnina — fossero anche... — Fossero anche dell'inferno... Non gli hai mica chiesti a nessuno tu! nè rubati! Sono danari mandati a te, che tu riscuoti facendo la tua bella firma sul vaglia — sono danari tuoi. Tu non stai a domandare chi li manda, e d'onde vengano, o perchè; sei uno spensierato tu, uno scimunito, uno che non sa far altro che la sua firma, e mettere in tasca il danaro... — Verissimo, grida giubilante il vecchio, io sono uno spensierato, uno scimunito, non so nulla io, e non voglio saper nulla. Ora mi alzo e vado subito a B... per riscuotere... — Già, credi che ti lasci andare solo fino a B... col freddo che fa? — Non ho freddo io... — E poi la scuola... — È vero, mi era uscita di mente anche la scuola. — Ci andrò io, tu scriverai il tuo nome sotto questo pezzo di carta..... mi conoscono a B..... Tutti sanno che da quarantacinque anni sono tua moglie.... — Bravissima! e non si hanno a restituire a nessuno! — A nessuno. — E domani stesso andremo a Milano a portarli alla Cassa di Risparmio... — Che felicità! Il vecchio maestro di scuola, nel fervore della gioia, è uscito a mezzo il corpo dalle lenzuola, ma la sua formidabile compagna gli corre addosso e lo obbliga a rientrare nel guscio. — E bada bene a non levarti prima che io ti abbia scaldato i panni. Maestro Ciro vede in aria il dito minaccioso della sua piccola tiranna senza nemmeno spaventarsi. Eroico maestro Ciro! E quando è solo, egli osa levare le braccia al cielo in atto di ringraziamento, e ridere di quelle minacce, e dire a voce alta: «Gran buona donna! Tutta fuoco! ha quindici anni quella creatura! ha quindici anni non ancora compiti! E finisce sempre col fare a modo degli altri!» Si frega le mani, il furbo, e sorride lungamente per conchiudere: «Gran buona donna! peccato che non sappia leggere!» XV. IL SIGNOR MAESTRO SPIEGA LA MOLTIPLICAZIONE. Chi non ha visto mamma Teresa colla sua veste di lana nera, tagliata alla moda di mezzo secolo fa, collo sciallo nero ricamato a gran fiorami in rilievo, e l'enorme cappellino, ultima reliquia d'una razza spenta di colossi, non ha visto mai nulla di bello. L'oste della _Salute_, da persona igienica che sa quanto bene al sangue faccia un grazioso spettacolo, e quanto i graziosi spettacoli sieno rari in paese, è venuto sull'uscio e sorride un sorriso che non ha prezzo. Due o tre donnicciole, dopo aver dato il buon giorno alla vecchierella, si voltano a guardarla, e maestro Ciro, ritto nel piccolo vano della porta della scuola, segue cogli occhi la compagna, finchè alla prima cantonata ella si volge a fargli un cenno d'addio che ad altri potrebbe parere una minaccia. Il vecchio si frega le mani fervorosamente e spira dalla faccia rubiconda una benevola felicità. Gli scolari che giungono in frotta, e se ne intendono, dicono a sè stessi che il signor maestro è di buon umore, ed il signor Nosedi, che non ha studiato la lezione, si confida col signor Pastori, il quale gli assicura che oggi la passerà liscia... se pure non si avrà _brevis letio_. _Brevis letio!_ La magica parola corre per tutta la scolaresca, ed in breve le panche stesse sembrano far festa. L'aria è solcata in tutte le direzioni da pallottole di carta masticata che si attaccano alle pareti ed al soffitto; col pretesto di deporre sull'ampio camino il ceppo che ogni studioso di A... deve contribuire due volte la settimana, i più arditi monelli si armano delle molle o della paletta e fanno le evoluzioni militari, si mettono a sedere sul vecchio seggiolone di cuoio del signor maestro, e si somministrano vicendevolmente qualche pugno. E il signor maestro continua a starsene immobile nel vano dell'uscio, mostrando di non avvedersi di nulla, voltando ogni tanto il capo, ma col pensiero a mamma Teresa, a Milano, alla Cassa di Risparmio, a Donnina alla dote. E non si scuote finchè il chiasso diviene così assordante da sembrare una rivoluzione. Allora si volta e gira l'occhio intorno intorno. I piccoli monelli subito fanno a gara a chi guarda più attentamente il libro ed a chi mormora più a bassa voce la lezione, e il signor maestro conchiude la sua severa occhiata dicendo tra sè e sè: «Nessuno mi farà credere che Donnina non sia la figlia d'un principe o d'un duca, o almeno d'un milionario». Intanto, coll'occhio amorevole, guarda verso il focolare lontano, dove la figlia del principe, del duca o del milionario è circondata da cinque marmocchi, alti due spanne l'uno, a cui essa insegna a balbettare a bassa voce l'_abbici_. Il signor Pastori ed altri sei o sette signori sono uno alla volta pregati molto compitamente dal signor maestro di dire la lezione. Le campane del paese dovrebbero sonare a festa perchè tutta la generazione nuova di A.... ha detto i due paragrafi della dottrina cristiana ed ha coniugato un verbo senza sbagliare nemmeno una sillaba; perfino il signor Nosedi trova il modo di farsi dir bravo recitando ad occhi bassi. È sempre stato eccessivamente timido quel signor Nosedi! si ha da incoraggiarlo... «tenga la testa alta.» La rialzerà quando avrà finito, ma se ha da dire la lezione bisogna che abbassi gli occhi a guardare sotto la panca — è un vizio organico. Ha finito anch'egli, «Bravissimo!» Dal canto suo Donnina non ha mai trovato i suoi cinque allievi più intelligenti; sono un prodigio di talento, anzi cinque prodigi di talento e trattano le lettere dell'alfabeto proprio come vecchie conoscenze. Vedrete ora come scriveranno! Donnina piglia i loro cartolari, ed in certe pagine assai più nere che bianche fa la traccia, cinque belle aste colla coda, che di solito si moltiplicano sotto gli occhi della maestra. Quest'oggi però la maestra non sa star ferma, ha bisogno di muoversi, di andar nella sua camera, di trovarsi sola, perciò raccomanda ai suoi allievi di fare attenzione ed esce sulla punta dei piedi per non disturbare il babbo, il quale, tutto attento a fare sulla lavagna una magnifica sottrazione, la guarda colla coda dell'occhio, e ripete fra sè e sè: «nessuno mi toglie dal capo che quella figurina da nicchia diventerà una duchessa, una principessa, ricca a milioni.» E rivede col pensiero per la centesima volta l'ufficio postale di B..., mamma Teresa, e la Cassa di Risparmio, e le 4600 lire in biglietti di Banca. Dalla finestra della sua camera Donnina guarda il sole di quello splendido mattino, gli alberelli freddolosi e la pianura scintillante di neve, senza vedere in tutto ciò altro che Ognissanti. Passano ogni tanto carrettieri e contadine con cesti e sporte e cogli zoccoli che picchiano sordamente sul ghiaccio, passano carrozze affrettate. Tutta quella gente ha uno scopo, una meta, a cui si propone di arrivare... Ognissanti non arriva. Ma ecco un'altra carrozza; questa, invece di andar oltre, lasciandosi alle spalle il paese, entra di corsa nella via maestra. Il cuore di Donnina fa uno scampanio di festa... la carrozza si ferma innanzi all'osteria della _Salute_, qualcuno n'esce... è lui... non è lui... è un piccolo signore, che ha l'aria cittadinesca non ostante un ampio cappello di feltro a larghe tese; quell'uomo entra nell'osteria, e subito la carrozza si allontana senza voltare. Ah! Donnina ha mandato un grido di gioia. Questa volta non è più una carrozza, nè una contadina, nè un carrettiere; quello che essa vede in fondo alla strada è lui... proprio lui... Ognissanti! Nell'impeto della gioia non nota che l'uomo dall'aria cittadinesca e dal cappello di feltro, si è arrestato sulla soglia dell'osteria e la guarda curiosamente dietro i vetri. «Volendo moltiplicare un numero per dieci gli si aggiunge uno zero; pigliamo un numero qualunque: quattro mila e seicento, per esempio, se voglio moltiplicarlo per dieci, aggiungo uno zero ed avrò quarantasei mila; se voglio moltiplicarlo per cento, aggiungo due zeri ed avrò quattrocentosessantamila; ma io lo moltiplico per mille, ed aggiungo tre zeri ed avrò quattro milioni e seicentomila! Quattro milioni e seicentomila! E tutto ciò aggiungendo soli tre zeri». E maestro Ciro, nel suo entusiasmo moltiplicatorio, traccia una dozzina di zeri fino a formare un numero favoloso che le paia degno della sua Donnina. Gli scolari guardano sbigottiti al miracolo compiutosi sotto i loro occhi, senza capirne molto; ma in quella s'apre la porta che mette verso strada, e l'altra che mette in cucina; appariscono ad un tempo Donnina ed Ognissanti. Il signore dal cappello a larghe tese ha continuato a guardare dietro i vetri senza badare all'oste della _Salute_, il quale, per accoglierlo degnamente, ha in pronto il suo più bel sorriso della domenica. XVI. OGNISSANTI ED IL SIGNORE DAL CAPPELLO A LARGHE TESE. All'apparire d'un uomo vestito meglio dell'oste, del sindaco e del farmacista, la scolaresca si è rizzata in piedi con un movimento concorde, che di solito riesce di molto effetto e solletica l'amor proprio del maestro. Questa volta però Donnina soltanto ne rimane impressionata; vedendosi dinanzi quella triplice schiera di monelli, a cui non aveva pensato nel discendere, non osa inoltrarsi, domanda scusa con un angelico sorriso, e ritorna indietro. Quanto a maestro Ciro, egli non capisce nulla, o piuttosto gli par di capire troppe cose in un punto — che è tutt'uno; ritto sulla cattedra, guarda verso il giovinotto come sbigottito. Il giovinotto, appena vede sparire la fanciulla, si accosta al vecchio con franchezza e gli dice: «Io sono Ognissanti!» Il maestro di scuola gli prende le mani, lo scosta da sè, ed allontana il capo per vederlo meglio, fino a tanto che non lo vede più perchè le lagrime gli fanno velo agli occhi, ed esclama: «È proprio lui! è proprio lui!» Eccoli nelle braccia l'uno dell'altro. Per la scolaresca rimasta in piedi corrono occhiate che hanno un gran significato; i più ardimentosi nascondono il capo dietro le spalle del vicino e pronunziano la parola d'ordine: _brevis letio_, sperando di farne venire la buona idea al maestro; ma siccome costui non pare udirli, ed esce dalla cattedra, un altro la ripete più forte coll'accento di chi dà un buon consiglio del tutto disinteressato. Maestro Ciro sa però il fatto suo, e non vuole che gli scolari siano visti per le strade nell'ora della scuola. «Raccomando a lor signori di star buoni, io sono di là ed odo tutto» — ed esce tirandosi dietro Ognissanti. Non era andata molto lontano Donnina, perchè appena Ognissanti passa l'uscio, egli se la vede innanzi colla testa alta, cogli occhi illuminati da una espressione di profonda felicità. La fanciulla gli porge la mano con un atto schietta ed affettuoso, ed Ognissanti la prende timidamente fra le sue. Maestro Ciro li guarda entrambi, confronta la serenità robusta del corpicino di fata della sua creatura e l'atto quasi pauroso di quel magnifico pezzo di giovinotto vestito alla cittadinesca, e riesce, non so per qual labirinto di logica, a conchiudere che sono fatti l'uno per l'altra. La timidezza di Ognissanti svanisce presto; rialza il capo, e guardando il vecchio maestro, gli dice: — Vi ricordate di me? — Se me ne ricordo! tu eri, lascia che io ti parli così, tu eri il mio orgoglio, la mia consolazione, il mio amico; quando ti insegnavo il poco che sapevo, dicevo a me stesso: «Ognissanti diventerà qualche cosa di grosso, perchè ha una testa...» non ho sbagliato, mi pare! Così dicendo, guarda superbamente il giovine da capo a piedi, come per misurare la grandezza dell'opera sua. «Sei proprio il mio capolavoro, tu, sei proprio il mio capolavoro!» Ognissanti pare turbato da quelle parole, e soggiunge melanconicamente: — Io chieggo solo di non parere indegno del vostro affetto. — Indegno! — E perciò vi domando se vi ricordate di me, e se mi credete capace d'una bassezza o d'una menzogna. — D'una bassezza tu! Il cielo mi danni se me lo faranno credere mai. — E tu, Donnina? Donnina non trova parole; ma quali parole possono valere quel sorriso, quello sguardo sereno, quella stretta di mano tenace? — Ebbene, soggiunge Ognissanti, maestro Ciro, se me ne credete degno, io vi chiedo la mano di Donnina. — Ed io te l'accordo, la mia Teresa te l'accorda, tutti te l'accordano. Ma ci devi dire... — Che io amo Donnina, che farò la sua felicità, che essa farà la mia, che da quando l'ho lasciata non ho nemmeno con un pensiero fatto cosa che possa rendermi immeritevole del suo amore... tutto ciò lo giuro. — Non bisogna giurarlo, e nemmeno dirlo; ti si legge in volto... ma la mia Teresa... la miglior creatura della terra in fondo... ed una testa!... peccato che non sappia leggere!... la mia Teresa per esempio vorrà sapere che ne è di tuo padre. — È morto. Il maestro di scuola ammutolisce un momento e si sente il cuore gonfio non così per la notizia, come per racconto lagrimevole con cui Ognissanti ha pronunziato la triste parola. — Perdona, se ti ho rammentato un dolore!... e poi vedi, la mia Teresa, ne sono sicuro, vorrà sapere che fu di te in questo tempo, e come e perchè non ci desti mai tue novelle, e poi... Lo sguardo del vecchio dice chiaro il suo pensiero. Ognissanti lo interrompe. — Non badate alle apparenze, io sono povero. — Povero!... proprio?... cioè, poichè lo dici, lo credo. Donnina non fa un atto, non dice parola a dimostrare che approvi o disapprovi le domande del vecchio padre. Per essa tutto è indifferente, fuorchè l'amore del suo Ognissanti, e l'amore è prima di tutto fede sterminata e senza condizioni. — Io sono povero, ripete Ognissanti, non ho null'altro che un avvenire, e l'offro a Donnina; essa è povera come me. — Sicuro, Donnina è povera, dice maestro Ciro con un risolino impercettibile — e chiude gli occhi per vedere lo scrigno della Cassa di Risparmio di Milano, e si frega le mani per contenersi. — Non mi chiedete altro, soggiunge Ognissanti; non è ancora il momento di dirvi tutto; è un povero segreto e ve lo nasconderò ancora per poco; se m'interrogate, per non mentire, vi dirò tutto, ma non mi comprenderete e vi sembrerò diverso da quello che sono. — Io ho fede, dice Donnina, e non voglio saper altro. — Ed anch'io ho fede e non voglio saper altro; cioè, voglio sapere una sola cosa; tu sei povero, non ne dubito, ma ci è povero e povero... quanto sei povero tu? — Più che non crediate; questi abiti che porto in dosso non mi appartengono; io stesso non mi appartengo... — Che dici? — No, io mi appartengo, l'avvenire mi appartiene, soggiunge Ognissanti con forza, è la mia sola ricchezza, dopo Donnina. A questo punto il sordo mormorio della scolaresca ha preso le proporzioni d'un vero tumulto. A star bene attenti, si può udire la voce ingrossata d'un monello, il quale si studia d'imitare il signor maestro, per imporre silenzio, ottenendo, perchè la satira sia più piacevole, che si gridi più forte. Maestro Ciro non può lasciar malmenare di tal guisa la sua dignità magistrale, e lascia un istante i due innamorati per portare il suo formidabile aspetto nelle file dei piccoli rivoltosi. Rimasti soli, Ognissanti guarda fissamente in volto Donnina, e dice: — Domani dovrò partire, andar lontano da te, e non più vederti per qualche mese; e forse quando sarò di ritorno non potrò ancora farti mia... non ti stancherai di aspettare, non è vero? — Ho aspettato sei anni, posso aspettare ancora. — Addio, dunque, per ora. La mano del giovine afferra tremante quella di Donnina. — Addio, risponde la fanciulla con accento fermo e tranquillo, ed avvicina ella stessa la fronte alle labbra di Ognissanti, che vi imprimono un bacio fuggitivo. Maestro Ciro, che rientrava in quella, si volge indietro e mette il capo fuor dell'uscio a raccomandare un'ultima volta il silenzio a suoi scolari. Quand'egli si determina finalmente ad entrare, Ognissanti ha il volto imporporato dal rossore, e Donnina gli sorride senza sgominarsi. «Essa è innocente ed egli è timido» pensa il maestro di scuola, e conchiude alla sua maniera, fregandosi fervorosamente le mani. Un quarto d'ora dopo il giovine dà un'ultima volta l'ultimo addio, bacia le rughe del vecchio, stringe la mano della sua fidanzata, e s'allontana, comprimendosi il cuore che vuole uscirgli dal petto, finchè, giunto alla svolta dello stradale, balza dentro una carrozza che l'aspetta, e via di corsa. Press'a poco nell'istesso momento, il signore dal largo cappello di feltro, attraversata l'unica via di A..., raggiunge la sua carrozza che l'aspetta, vi balza dentro, e via anch'egli di corsa. . . . . . . . — Mio caro Fulgenzio, guardami bene, perchè tu hai dinanzi un uomo soddisfatto di sè medesimo. Al direttore del manicomio, per una vecchia abitudine, passa per un istante in mente che gli stia invece innanzi un pazzo; ma il volto del dottor Parenti spira una giocondità così schietta, che non è possibile nemmeno l'ombra d'un dubbio. — Che cappello è questo che porti? — Il mio travestimento; non si può andare ad A..., immagino, col nostro solito cappello a staio, che fra i selvaggi della campagna ci dà l'aria di spauracchi da passeri... — Tu sei andato ad A...? — Sono andato ad A... — Per che fare? — Colazione prima di tutto, poi la conoscenza dell'oste della _Salute_, uomo piacevole e copioso parlatore. — Null'altro?... — Ti par poco? Per via ho anche sciolto un indovinello, il segreto di Mario! — Che! — Una bagatella! Vuoi saperlo? Mario è innamorato! — Di tua figlia? — No, di una signorina molto bella, molto virtuosa e molto povera, che si chiama Donnina! Ed ora, se vuoi, Mario è in tue mani, ed in una settimana può divenire il figlio più affettuoso della terra... Il signor Fulgenzio è balzato in piedi ed ascolta sbigottito figgendo gli occhi negli occhi dell'amico. . . . . . . . Maestro Ciro è risalito sulla cattedra per far sentire tutti i rigori della disciplina al piccolo drappello irrequieto, e Donnina esamina i saggi calligrafici dei suoi cinque allievi. È impossibile, se non si è forniti di molta immaginazione, farsi un'idea di ciò che quei cinque hanno posto sui loro cartolari col pretesto di fare delle aste. Ma Donnina ha il cuore pieno d'indulgenza. Passano le ore lente; alla fine battono le undici. Che gioia immensa per tutti! In un baleno la strada risuona di voci squillanti; nella scuola non rimangono più che Donnina e maestro Ciro, i quali irresistibilmente si sentono attratti nelle braccia l'un dell'altra. — Quanto tarda mamma Teresa! Dice Donnina, e si affaccia all'uscio di strada. Ed ecco, spunta dalla cantonata il formidabile mortaio in forma di cappellino, in fondo al quale, pronto a partire come una bomba, è il volto irrequieto e vivace della vecchierella. — Gran novelle! le dice Donnina movendole incontro. — Gran novelle! ripete maestro Ciro, dando un'occhiata d'intelligenza alla moglie. — Indovina chi è stato qui. — Chi è stato? — Ognissanti! La vecchia non pare molto allegrata dalla gran novella, e passa oltre senza chieder altro. — E sai che cosa è venuto a fare? — Me l'immagino... — Non te l'immagini... a chiedermi in isposa. — Già, ripete il vecchio, a chieder Donnina in isposa... — E ti ha detto che fa, come vive, se è un pitocco o se ha denari? — Sicuro, interrompe Donnina, ha detto che è povero e che mi vuol bene... — I poveri non dovrebbero pensare a prender moglie... sentenzia la vecchia, stringendo nelle tasche il biglietto da mille. — Che dici mamma? — Dico... dico... — Dice... dice... dice così per dire, interrompe il maestro Ciro. — Tu taci; dico che dovrebbero prima di tutto pensare a far denari, che sono la prima arte della vita.... con piccoli cenci di carta i signori fanno le cose grandi e le gran novelle... la povera gente invece... Mamma Teresa ne dirà di grosse, se non si tappa prudentemente la bocca. — La conclusione è? — È ch'io sono la fidanzata d'Ognissanti. — E tu hai permesso? dice la vecchia, scagliando un piccolo fulmine sul volto rubizzo del marito. — Ho permesso... gli avrei sposati subito io... Tenuto conto di tutto, la gran notizia non sembra impressionare gran fatto mamma Teresa. Ella si leva il cappellino e lo sciallo e consegna a Donnina le preziose reliquie perchè le riponga nella guardaroba. È un pretesto par rimaner sola col marito. — Ci sono! dice tirando fuori da un abisso che le sta appeso al fianco in forma di tasca, un mucchio di biglietti... eccole... mille lire, proprio mille, le ho contate quattro volte... — Le conterò anch'io! — Domani si hanno a portare a Milano, alla Cassa di Risparmio... — Sicuro... si potrebbe sapere che siamo ricchi e venircele a rubare... Mamma Teresa abbassa la voce e soggiunge: — Il _vaglia_ era arrivato da otto giorni, ma all'uffizio postale di B... non c'era abbastanza in cassa... capisci... non c'era abbastanza in cassa! e si dovette aspettare che il danaro venisse da Milano... Comprendi tu che cosa ciò significa? — Che cosa? — Che quel danaro è arrivato prima che Ognissanti riapparisse; non vi è più dunque ragione di credere che sia stato Ognissanti a mandarceli.. — Io sono sicuro che non è lui. — Ne sei sicuro? — Si perchè Ognissanti ha detto di essere povero. — Ah! Ha detto di essere povero! Ed ha osato chiedere in isposa la nostra Donnina che è ricca?... E tu hai lasciato che facessero il piacer loro? Ed io non ci ho da entrare per nulla, io!... Mamma Teresa si arresta, guarda il mucchio di biglietti che maestro Ciro conta senza badarle, e ripiglia con impeto nuovo: — Non finirai mai di contarli quei quattro cenci? La bella cosa! per poco non abbiamo calunniato i nostri vicini; è la prima volta che temiamo dei ladri... Bel guadagno ad aver i quattrini! si diffida del prossimo, si disprezzano i poveretti... io dico che non sta bene diffidare del prossimo e disprezzare i poveretti; quell'Ognissanti potrà essere un soggettaccio, io non lo so e non ti voglio sostenere il contrario, ma se è poveretto... non ce n'ha colpa, e in fin dei conti è meglio così! Vorresti dirmi il contrario tu? — Novecento... mille! dice maestro Ciro, proprio mille, e colle tremila e seicento che sono là (ed indica col dito il luogo preciso) fanno quattromila e seicento! E tutte per Donnina! XVII. UN ESAME DI COSCIENZA. Al signor Fulgenzio l'insistenza del dottor Parenti fece in fondo un gran bene; a forza di sentirsi dire che Mario aveva un cuore buono, egli che non vi era arrivato mai, incominciò a temere d'aver sbagliato la via. La sua natura sdegnosa si ribellava non tanto all'idea di aver errato, quanto alla necessità che per farsi amare gli bisognasse adoperare le arti dell'innamorato. Infine chi era Mario? Un disgraziato a cui egli aveva dato nome, famiglia, casa, educazione, avvenire, chiedendogli solo in cambio un po' di affetto e di gratitudine. Vero è che l'affetto che egli domandava doveva essere palese, testimoniato a tutte le ore in mille modi con un continuo rendimento di grazie, e che se Mario si fosse acconciato a questa parte, egli forse avrebbe dato un altro nome a quegli atti, a quell'affetto; ma questo non se l'era detto mai. Il signor Fulgenzio era una di quelle nature tutte fuoco, che sono diventate fredde alla superficie a forza di riflessione, incapaci di male e desiderose di bene, ma fatalmente portate a credere tutti gli uomini incapaci di bene. Di queste anime deboli, che girano attorno al cinismo senza adagiarvisi, ghignando beffardamente, ce n'ha più che non si creda; l'educazione ed il contatto dei primi anni le fanno tali per tutta la vita. Osservate chi nei crocchi giovanili porta un po' di fede e di entusiasmo ed una natura pensierosa più che non si convenga all'età, costui, se pure non si imbatte in un ostacolo, ha la sua mala via tracciata: il disprezzo degli uomini. Così era stato di Fulgenzio; rimasto ricco e solo al mondo di buon'ora, col cuore pieno di sentimenti miti, colla mente invasa dalle indefinite aspirazioni dei suoi vent'anni, timido nelle maniere perchè fiero nel cuore, gentile cogli altri per istinto della sua stessa timidezza, trovò ai suoi passi la spensierata e sistematica beffa d'ogni sentimento, ed il precoce cinismo filosofico con cui si maschera il libertinaggio. Disprezzò i suoi compagni, ma gli imitò; non volendone accettare i modi e le scioperatezze, ne chiese ed ottenne scusa accettandone la filosofia. Ciò che per gli altri era verbiloquio a fior di labbro, balbettato come un pretesto ad orgie oscene, nella sua mente si aguzzò come una freccia e gli si piantò in cuore per sempre; quando la riflessione gli ebbe fatto vedere sè stesso e gli altri da tutti i lati, comprese il disprezzo, e fu la sua forza per non corrompere il cuore. Triste forza! Nelle massime della sua fede filosofica vi era che l'amicizia è una chimera, che l'amore è un inganno del senso, e la fedeltà un rilassamento della fibra; non ebbe amici, passò tenebrosamente la gioventù senza amore, gli anni volsero per lui in arida solitudine. Una donna, una casa, una famiglia, la gioia d'esser padre gli avrebbero serenato il cuore e volto la mente ad altra e più profonda filosofia, quella dell'amore; non ebbe moglie, nè casa, nè famiglia. Un giorno, guardandosi nello specchio, vide un capello bianco e se lo strappò sorridendo. Ma non sorrise gran tempo. Quel disprezzo infinito degli uomini non gli bastò più; sentì un gran vuoto, comprese come non si potesse vivere senza più serene idee, senza un affetto, e quanto dissimile avrebbe potuto essere la sua esistenza senza la sfiducia dei primi anni. Troppo tardi; lo specchio accusatore aveva ogni giorno nuove rivelazioni. La via della solitudine e dell'apatia che aveva percorso fino a quel punto gli si allungava innanzi agli occhi, inesorabile. Ma il bisogno di affetti, avvertito una volta, non gli lasciò più pace. Egli aveva svegliato un gigante che sonnecchiava nel suo cuore; la lotta incominciava allora, tremenda, continua, inutile. Quel disprezzo dell'umanità, che aveva bastato a tutta la sua vita, non si arrendeva alle strette del nuovo atleta — ma la sua forza d'un tempo divenne la sua debolezza. Il suo pensiero, vestito fino allora di cinismo, cedeva un'altra volta alle aspirazioni incomprese della prima giovinezza; l'indefinito di vent'anni prese contorni netti, le fantasie sognate divennero tesori perduti. Quella lotta gli tolse a poco a poco la sicurezza, gli sfibrò la volontà, fece tentennare le sue convinzioni. Fu preso da una indomabile smania di riguadagnare il tempo perduto, di amare per quanto non aveva mai amato, di spendere la vita a far del bene, di farsi una casa, una famiglia, un amico. Avrebbe forse potuto trovare ancora ogni cosa — ma non ci credeva, diffidava di sè, degli altri, delle altrui miserie e delle proprie ricchezze, e nei suoi affetti temette si nascondessero tante male passioni tardive. Fare il bene! Non è facile per tutti; per lui, vissuto fra gli uomini solo quanto basta a disprezzarli, fu cosa difficilissima. Vi sono nel mondo poche nature ribelli, le quali confondono superbamente il beneficio coll'elemosina e lo sdegnano, ma i molti non arrossiscono di tendere le mani all'elemosina purchè non siano visti da chi passa. Ai benefici istinti di Fulgenzio si offersero solo di questi ultimi; egli volle fare il bene e non potè fare se non la carità; la sua casa fu assediata da tapini, i quali non possedevano al mondo altro che la loro umiliazione e la sfruttavano perennemente. Cercò amici ed ebbe parassiti adulatori, e come si seppe aver egli danaro, e volerne spendere, gli fu offerto in vendita amore, amicizia, onore. Ogni giorno più egli ebbe ragione di vedere il mondo sotto l'aspetto d'un osceno mercato, e di ripetere a sè stesso: «io ho il mio denaro, essi hanno la loro codardia — siamo pari.» Il disprezzo dei suoi simili crebbe più forte, gli si fece maggiore il vuoto nel seno, e la solitudine più grave, ed il bisogno di affetti più irresistibile. Un giorno conobbe il dottor Parenti, il quale, giovanissimo, godeva riputazione di valente alienista; fu vinto dalla schietta natura di lui e più dalla giovialità del suo umore, che era in così bizzarro contrasto col proprio. Ritroso da prima, finì col sentire un bisogno irresistibile di quell'uomo; senza avvedersene, e senza saper dire perchè, gli volle bene. La vista d'un manicomio lo impressionò vivamente; quivi nessun calcolo di codardia nei beneficati, nè alcuna arte di adulazione: «Nel vostro ospizio, disse un giorno al dottore, tace l'egoismo!» — O se non tace del tutto, rispose scherzosamente il dottore, sproposita, che torna quasi lo stesso. — E non è pericoloso? — Coll'aiuto dei guardiani, no. Pensandoci, un'idea balenatagli in mente, divenne intenzione, l'intenzione proposito, ed il proposito fu messo in atto coll'istituire una casa di ricovero pei pazzerelli, di cui egli stesso diveniva direttore, medico il dottore Parenti. Credette di aver trovato una famiglia, ed ebbe un amico; così Fulgenzio si riconciliò alquanto col mondo e con sè stesso. Ma il dottor Parenti aveva una creatura sua, un piccolo amorino biondo che gli balzava sulle ginocchia e gli diceva di volergli bene tanto col suo miglior senno, e lo baciava in volto e lo accarezzava colle sue manine, senza bisogno che il babbo aspettasse un momento di lucido intervallo. Il dottore confessava candidamente come in quell'angioletto fosse tutta la sua felicità, e diceva quello essere il segreto del suo cuore gioviale, ma lasciava capire che per guadagnarselo aveva dovuto amar molto profondamente una donna e piangerla molto amaramente, perduta, essere felicissimo prima ed infelicissimo poi, fino a tanto che il tempo non lo avesse guarito. Fulgenzio ad ogni passo si accorgeva d'aver sbagliato cammino, ma non era più tempo di dare indietro. Per avere chi lo amasse e portasse il suo nome, una sola via gli era aperta. Il caso lo favorì mettendogli innanzi uno che rimaneva solo nel mondo, senza amore e senza nome — e così Ognissanti divenne Mario. Il resto è noto. Gli errori di cui aveva sparso la propria vita erano entrati a far parte della sua natura. Diffidente per vecchio abito, lo fu anche col figlio; sdegnoso dei suoi simili, non seppe arrendersi neppure con Mario; venne a poco a poco all'amore, ma ne vergognò quasi e non volle mai passare per l'amorevolezza. Parevagli d'aver fatto tutto, e che, seminato il beneficio, non gli rimanesse se non raccogliere la gratitudine e l'affetto. Gli toccò una più terribile disillusione: aveva sempre trovato la bassezza e s'era nauseato di adulazioni e di vergognose condiscendenze; trovò presto nel cuore del giovinetto l'ingratitudine, la ribellione muta, la fredda sterilità del cuore. Prima che il dottor Parenti gli parlasse aperto, non aveva pensato mai che potesse quella freddezza essere orgoglio, e quella ingratitudine fierezza d'animo, e quella muta ribellione, opera dell'affetto disprezzato. Ora una luce si faceva nel suo spirito, un balsamo nuovo gli scendeva in cuore. Bisognava rompere al più presto l'impaccio dell'orgoglio, vincere la ritrosia, spogliare il vecchio abito della fierezza e riguadagnare la confidenza perduta. Non era difficile, bastava lasciar fare al cuore, tirarsi sul seno il figlio, cingere il giovinetto colle braccia, baciarlo in volto e piangere con esso. Un istante di abbandono poteva pagare tutte le lotte lungamente tormentose; spesso una lagrima cancella il passato; bisognava piangere, bisognava amare, bisognava lasciarsi amare. Gran parte della notte che succedette alla rivelazione del dottore, passò per il vecchio nell'insonnia; i propositi buoni gli si affollavano al pensiero, il cuore gli batteva come a venti anni, gli ardeva le vene una febbre impaziente. Si rimproverava di non aver fatto prima tutto ciò, pensava che avrebbe potuto trascorrere felice, amato e benedetto, tanti lunghi anni passati invece a rodersi l'anima in una sterile sfiducia. Provava un benessere insolito, una novissima gioia; gli pareva d'uscire da una lunga malattia, e che le forze gli ritornassero d'un subito più gagliarde di prima. Non era illusione; il pentimento è la forza dei deboli. La notte era lenta a passare; Mario doveva partire al mattino. Egli se lo immaginava nella sua cameretta, addormentato, e pensava che due sole stanze ne lo separavano, e che poteva uscire sulla punta dei piedi, e picchiare all'uscio, e dire: «figlio, apri a tuo padre.» Avrebbe bastato questo; non ne dubitava, avrebbe bastato, poichè, pensandoci, si ricordava di non averlo più da gran tempo chiamato con quel nome. E che gioia, nel vederselo balzare incontro, e nel confondere palpito a palpito, lagrima con lagrima, e non dir parola, nemmeno una, ma baciarsi in volto e piangere, perdonati entrambi, rinati entrambi agli affetti, e quindi innanzi confidenti, l'uno coll'altro, proprio come i migliori amici che Dio ha posto sulla terra — il padre ed il figlio. Per poco il signor Fulgenzio non pose in atto quella dolce fantasia; ma era notte calata, che avrebbe detto Mario? Cedendo finalmente al sonno, il vecchio continuò a veder suo figlio, a stringerlo nelle proprie braccia, a guardarlo fisso negli occhi ed a dirgli con fremito d'amore: «Guardami, sono proprio tuo padre.» L'alba lo trovò intento a dibattere il quesito se fosse meglio recarsi egli stesso nella camera del figlio e spiarne ai piedi del letto il ridestarsi, oppure aspettare ch'egli fosse levato e fargli dire che venisse. La paternità e la vecchiezza hanno i loro diritti e non era biasimevole orgoglio mantenerli. E, in sostanza, più giovava forse parlare aperto, senza lagrime, da uomo, da padre; dire: «noi ci siamo ingannati a vicenda, io so che tu mi ami e so d'amarti; smetti la tua fierezza, io butterò in un canto la mia; tu sei alla vigilia d'essere uomo, ed io alla vigilia d'essere più nulla; è tuo dovere farmi lieta la vecchiezza, perchè sei mio figlio; di amarmi perchè ti amo.» Oppure: «tu hai un segreto, ed io so qual è; non ti accuso di nulla, solo di avermelo celato; dovevi risparmiarmi la pena d'indovinarlo... ora che so tutto...» Ed ora che sapeva tutto... Chi era questa Donnina? doveva egli acconsentire ciecamente a tutte le fanciullesche pazzie di suo figlio, solo per ottenere che non gli facesse il broncio? Bisognava prima pensarci, interrogare, vedere. Infine Mario era suo figlio innanzi alla legge: egli lo aveva educato, gli aveva dato un nome, una famiglia, una professione... Tutte le argomentazioni del vecchio incominciavano e finivano collo stesso ritornello. «Non bisogna pensare a questo, non bisogna pensare a questo.» Verissimo; ma e se la ritrosia di Mario era indomabile? e se il dottor Parenti si era ingannato? Il primo passo incontro a Mario non era difficile, pur di essere sicuro che il figlio avrebbe fatto il secondo. Che dico il secondo? Ed il terzo, e superare d'un balzo tutta la distanza, e domandare perdono di non essere stato il primo ad arrendersi. Questo doveva fare, se vero è che aveva cuore di figlio! Ma se non era vero? La tortura incominciò più forte; poche ore ancora e Mario sarebbe partito... Che fare? Il mattino era alto quando il vecchio si lasciò andare scorato sopra un seggiolone. Proprio in quel punto il servitore picchiò all'uscio, e gli annunziò che Mario chiedeva di parlargli. Perchè non balza in piedi, e non corre incontro a suo figlio, e non pone in atto il bel sogno di quella notte insonne? «Desidera parlarmi e manda ad avvertire!» ripete amaramente in cuore, ma, aggiunge coll'accento rigido d'una abitudine implacabile: «venga.» Un istante dopo padre e figlio sono in faccia l'uno dell'altro. Il vecchio non si è mosso dal seggiolone, non volge la testa e non ha nè un gesto nè uno sguardo più benevolo del consueto. Mario, in piedi sul limitare, colla fronte levata, guarda superbamente e fisso innanzi a sè, ma non suo padre. — Sono venuto a prendere i tuoi ordini, dice freddo freddo il giovane; fra due ore parto. Il vecchio sembra lottare un istante dentro di sè. Poi, facendosi forte, leva gli occhi a guardare il figlio, che sostiene quello sguardo senza batter palpebra. — Fa il dover tuo, dice allora Fulgenzio con voce lenta, e levandosi in piedi, aggiunge: come hai sempre fatto. Non ho null'altro a dirti, addio. Mario tocca alla sfuggita la mano che gli viene porta con riluttanza, volge le spalle mormorando un addio, ed esce col cuore gonfio. Ed il povero padre ricade sulla seggiola. XVIII. PAOLUCCIO. Mario, prima di partire, scende da basso e si fa aprire la porta ferrata che conduce al manicomio. Il mattino è freddo, ma limpido, ed il sole scintilla allegro sulle ultime reliquie di neve. Babbo Jacopo passeggia in silenzio; un altro, postosi nel mezzo del cortile, declama le proprie glorie e fa pompa di bizzarre decorazioni che si è messo sul petto; un altro se ne sta seduto sopra una panca di granito e la guarda fisso, pensando forse che il granito è molto duro, mentre un guardiano non lo abbandona dell'occhio per paura che gli venga in mente di assicurarsene col proprio cranio. Tutti costoro, coll'apparire di Mario, si fermano o levano gli occhi curiosi sopra di lui; solo il declamatore continua a gridar più forte ed a sfoggiare la propria vanagloria. Mario fa un cenno amichevole ad uno, un sorriso stentato ad un altro che gli si fa accosto colle braccia legate a guardarlo con puerile curiosità, ed entra nella sala comune. Quivi si fa un chiasso assordante: i soliti atleti del biliardo si contendono gli onori della carambola e l'ammirazione della _galleria_; qualcuno legge i giornali della vigilia accanto al reverendo che medita il breviario; il professore Rigoli concentra tutta la sua scienza sopra una partita agli scacchi giocata con un suo nuovo allievo, ed il filarmonico della comitiva picchia sulla tastiera il suo Strauss. Quanto a Paoluccio, egli passeggia su e giù per l'ampia sala, col passo strascicato, come fanno i bambolucci dell'età sua quando non hanno forza di levar le gambe, guarda curiosamente di qua e di là, e parla fra sè e sè, colla bocca piena di zuccherini. Mario si è tirato in disparte e segue coll'occhio commosso i passi vacillanti di quell'uomo, il quale pare avvedersi di lui, perchè quando gli viene vicino si ferma un istante a guardarlo meravigliato, coll'indiscreta insistenza propria della prima età, poi tentenna il capo canuto e prosegue la singolare passeggiata. E si ode il rumore delle palle urtantisi sul biliardo, il bisbiglio del curato che legge il breviario, la cadenza ritmica dei suoni del pianoforte. Mario non ha occhi che per Paoluccio. L'armeggìo di costui dura alcuni minuti; ad ogni volta che viene innanzi al giovine egli si arresta più a lungo, e se ne va tentennando il capo più forte; finalmente gli si fa vicino e gli dice melanconicamente: «è inutile, sai? è inutile; datti pace, non ci sono più figli; vedi, il mondo è pieno di padri che cercano le loro creature; l'infanzia è spenta, rimango io solo...» Mario piglia la mano tremante del vecchio e la stringe fra le sue. «Non mi danno retta, prosegue il vecchio abbassando la voce, tutti piangono, piangono, non sanno far altro. E _lui_ ride, _lui_! — Chi? balbetta Mario, vedendo che il vecchio s'interrompe. «_Lui!_» E per spiegare il proprio concetto leva gli occhi al soffitto; poi soggiunge: «sono stanco, mi annoio.... Lo crederesti? mi annoio!.... Sono solo, non ho con chi giocare al cerchio, al cavallo; se mi nascondo non vi è un cane che venga a cercarmi; e se getto la palla, nessuno me la rimbalza... Non ne vogliono sapere... piangono, ed io solo rido per far la smorfia a _lui_!» Paoluccio si scioglie dalla stretta del giovine e ricomincia la passeggiata, Mario abbandona il suo posto colle lagrime agli occhi. Ed ecco il professore Rigoli si alza a mezzo il corpo sulla sedia, appunta il dito sullo scacchiere e dice trionfante all'avversario: _scacco matto!_ Scacco matto! Il suono di queste parole sembra impressionarlo e fargli venire un'idea curiosa, perchè si lascia cadere sulla seggiola e ride. Un istante dopo giungono all'orecchio di Mario, già fuor dell'uscio, i battimani della _galleria_ plaudente al vincitore della carambola. Il giovine non ha ancora attraversato il cortile, quando sente dietro di sè alcuni passi affrettati, una voce che lo chiama a nome ed una mano robusta che lo raggiunge e gli scende sull'omero — tutto ciò quasi prima di aver avuto il tempo di voltarsi; voltandosi, incontra gli occhietti scintillanti e la bocca ridente del dottore, e gli pare che i raggi visuali, aguzzi più del consueto, si appuntino coll'intenzione di passar meglio attraverso, e che la bocca sorrida tra furbesca e benevola. — Te ne vai, lo so io che te ne vai; me l'ha detto il dito mignolo; di' un po' che te ne vai? — Fra un'ora, risponde Mario freddamente. — E di' un po' che te ne andavi senza nemmeno venirmi a salutare. Non è così? — Non è così; venivo diritto da voi. — Tanto meglio, giovinotto, tanto meglio; io so che tu hai un cuore, un cuore... E, come a sincerar la cosa, fissa lo sguardo sul panciotto di Mario, il quale, senza sapere bene perchè, si sente imbarazzato. — Hai visto tuo padre? gli domanda il dottore, passando amichevolmente il braccio in quello del giovine. — L'ho visto. — E...? Un breve silenzio ed un sospirone lungo del dottore, il quale prosegue a dire: — Ho capito, ho capito; si fa il ritroso, ma tanto tanto dovete amarvi e vi amerete. Scommetto che vi amerete... fra otto giorni, o fra quindici, o fra un mese... non più tardi... Scommetti che fra un mese vi amerete...? La scommessa non è accettata, ma per il dottore è tutt'uno. — Benissimo... benissimo, siamo perfettamente intesi... ed il signorino, appena sia medico laureato, ci mostrerà che anche i medici vanno soggetti a malattie di cuore e ci farà la diagnosi d'un vecchio vizio cardiaco che a me pare di indovinare, solo guardando il suo panciotto a scacchi color caffè. Se Mario non avesse avuto una forza d'animo singolare, avrebbe ceduto al suo istinto, ed il suo istinto era di abbottonare il soprabito, tanto per nascondere il panciotto a scacchi color caffè. . . . . . . . Nessuno immagina il garbo bizzarro di Semplicetta nell'aiutare a vestire la bambola della padroncina. Veramente, ella dice, che non ci ha garbo di sorta, che non ci è nata, ma non bisogna crederle, è tanto modesta! Olimpia ride, a volte, di gran gusto, ma ciò non vuol dire che non creda Semplicetta eccellente in quelle funzioni; anzi essa riconosce volentieri che la bambola non ha mai avuto da lamentarsi, e ride più forte. Bisogna sapere che la bambola di Olimpia è una bambola viziata, piena di capricci, di dispettuzzi, di collere, ma in fondo una gran buona pasta di bambola. E sì che ne potrebbe pretendere di attenzioni e di cure, perchè di pari sue non se ne incontrano da per tutto, neppure a Norimberga, sua patria. Venuta in Milano, aveva da prima voluto un amore sconfinato ed un'obbedienza senza condizioni; ma a poco a poco si era abituata a vedersi posta in un canto nell'ora delle faccende domestiche, ed oggi si accontenta di uscire una volta la settimana dall'armadio, di abbigliarsi sulla tavola e rientrare in casa col suo più bell'abito; è diventata taciturna e melanconica e si lascia ridere sotto il naso senza dolersene, contentandosi di essere amata un poco quando non ci è più nulla a fare. Le cose sono in questi termini tra Olimpia e la sua bambola, e benchè il dottor Parenti non sospetti di nulla, qualche volta si va fino a freddezze. Olimpia guardava attraverso i vetri nel cortile dei pazzerelli, in quella appunto che il babbo correva dietro a Mario, e quando entrambi sono scomparsi, ella si è tolta alla finestra e si è accostata alla bambola con una certa intenzione di piangere. Ma la bella norimberghese è in gran gala e vedrebbe mal volontieri che le si gualcissero gli abiti, e Semplicetta, la quale non aspetta altro, affida alla padrona la piccola dama e se ne va alla finestra opposta borbottando. — Il signor Mario, dice ella alcuni momenti dopo, ha in mano la valigia e si separa dal dottore... — Buon viaggio, buon viaggio, ripetè due volte Olimpia, una volta probabilmente per conto della bambola. — Non viene a vederlo partire? — Che ne importa a me di vederlo partire? Che ne importa a me di vederlo partire? Semplicetta sta zitta e continua a guardare dai vetri. Olimpia aggiusta il cappellino sulla testa pettinata della bambola. — È partito! dice finalmente Semplicetta lasciando la finestra. Ed Olimpia si stringe al petto la bella norimberghese, e le mormora sotto voce: «è partito! è partito!» XIX. OGNISSANTI A DONNINA. È giorno di vacanza. Maestro Ciro, uscito per andare a spasso alla campagna, è rientrato più presto che non sia suo costume e si è accostato furbescamente a Donnina, colle mani dietro la schiena, con un risolino piacevole sul labbro. Non le ha detto nulla, e la maliziosa ha compreso tutto, e gli è venuta dietro in un balzo, ed ha visto ciò che egli le nasconde, e gliel'ha preso di mano — una lettera di Ognissanti! La formidabile mamma Teresa se ne sta in un canto, immobile, solenne; non vi è pericolo che rivolga gli occhi dalla parte di Donnina e del marito, o faccia atto che accenni la sua intenzione di uscire dalle ostilità; oh! non vi è pericolo! Solo ogni tanto getta una sbirciatina di traverso, una sbirciatina curiosa se vogliamo, ma d'una curiosità misurata, tutta dignitosa. Maestro Ciro è uscito a ridere sonoramente, e Donnina s'è fatta presso alla mamma e le ha gridato nell'orecchio: «è di lui!» L'impertinente! E quel maestro Ciro che continua a ridere ed a fregarsi le mani! Mamma Teresa si è provata a resistere, a tener duro, ma ride, e quando Donnina le circonda il corpo colle braccia, le vien fuori senza volerlo uno sguardo di misericordia, e quando infine l'impaziente fanciulla ha rotto i suggelli e tratto fuor dalla busta, devotamente, una mezza dozzina di fogli bianchi tutti neri di scrittura, la terribile fortezza crolla, e mamma Teresa esce a parlamentare: — È lui che scrive? Ebbene, che me ne importa? Non scrive già a me, immagino; e poi io non saprei leggere tanto tanto; ti dirà le solite cose che si dicono. — La lettera è diretta a Donnina, osserva maestro Ciro, a Donnina, proprio a lei. — Proprio a lei, proprio a lei! Come se io non sia più nulla, come se ciò che è diretto a Donnina non sia diretto a me? E siccome Donnina ha squadernato i fogli un paio di volte e si è seduta al fianco della mamma, senza badare ai pericoli della collera di lei, la vecchia, crollando il capo, strascica con suprema degnazione una parola: — Sentiamo! E maestro Ciro fa eco: — Sentiamo! E Donnina, con un lieve tremito nella voce, incomincia: «Il luogo da cui ti scrivo e ciò che ti voglio scrivere saranno per te cagione di meraviglia e forse di affanno; ma è giunto il momento di dirti tutto. Temo che il segreto del nostro amore non sia più un segreto per taluno a cui desideravo nasconderlo ancora, e non voglio che tu possa da altri nulla apprendere sul conto mio che io già non ti abbia detto. Confessarmi a te è il mio diritto ed il mio dovere; e poi chi sa se non ti ingannerebbero — io no, non ti potrei ingannare.» Mamma Teresa, guardando al soffitto e dimenandosi, ha l'aria di dire che per conto suo non ci crede moltissimo; ma Donnina non pone mente al sospetto ingiurioso e tira innanzi. «Ti ricordi di quando eravamo entrambi ad S...? A me non fu data gioia più bella della sventura d'allora, perchè in premio dei dolori patiti fu là che ti conobbi e che mi amasti. Ma io ero sventurato, e tu lo ignorasti sempre, e nessuno lo seppe mai. Intorno a me si magnificava la mia fortuna, perchè, nato in un ospizio ed ivi cresciuto, m'era toccata la sorte di essere raccolto da un vecchio pieno di cuore, il quale mi avrebbe fatto da padre e data una professione. Tutto ciò era verissimo, e nei primi mesi che entrai a far parte della desolata famigliuola di mastro Paolo, mi parve di avervi portato come un barlume della immensa luce di gioia che si era fatta nel mio cuore e nel mio cervello nel momento di mettere il piede fuor dell'ospizio. Mi pareva d'incominciare allora ad essere me stesso, e che prima non fossi stato altro se non una cosa che si raccoglie nei trivii e si numera.... perchè non dia inciampo ai passanti. Ero lieto, ero felice, ero libero! Avevo dieci anni soli, ed il mondo mi apparteneva. «Mastro Paolo aveva ancora un figlio, l'ultimo di cinque; i primi quattro erano morti un dopo l'altro, alla stessa età, dello stesso indomabile malore, e la madre gli aveva preceduti tutti sotterra. «Luigi, l'ultimo figlio, aveva diciott'anni, era scolorito in volto, esile, dolce nelle maniere e nell'accento; un'ottima creatura; mi prese ad amare appena mi vide, e mi chiamò _fratello_. Immagina tu quanto bene mi facesse quella parola! Mastro Paolo invece non mi chiamava mai _figlio_; non me ne dolsi, comprendendone la ripugnanza. «Un giorno lo vidi piangere in un canto, nell'ombra della camera; Luigi ci volgeva le spalle e se ne stava immobile, ritto nel vano dell'uscio a contemplare il tramonto. Il povero padre non sapea distaccar gli occhi da quel corpo che, per effetto dell'estrema luce sempre più indebolita, pareva disegnarsi sempre più lontanamente nell'infinito orizzonte. E piangeva premendo forte la mano alla bocca a soffocare i singhiozzi, per non farsi udire dal figlio. Io me gli accostai col cuore gonfio, egli circondò la mia testa con un braccio, se la strinse al cuore che gli batteva concitato e non mi disse nulla. Fu la sola volta che mi mostrasse affetto di padre. «Luigi pareva assottigliarsi sempre più; a me invece la nuova vita, la gioia d'esser libero e di appartenere ad una famiglia, davano forza, vigore ed apparenza di salute. Mastro Paolo, nel vedere il contrasto tra me e suo figlio, mi disse una volta, facendosi forza per sorridere: «si direbbe che quanto perde Luigi lo acquisti tu!» Io lo guardai in volto senza troppo comprendere; oh! come era amaro quel sorriso! Compresi... fu una rivelazione e me gli feci istintivamente presso perchè mi battesse. Egli dovea sentire un bisogno irresistibile di battermi per vendicarsi della sorte, ma era buono, si accontentò di respingermi con un cenno, e chinò la testa sul petto con uno scoramento profondo. «La vita che facevamo non era certo larga; il povero vecchio, assiduo alla fatica del suo mestiere di falegname, guadagnava appena il tanto da vivere; la casicciuola gli apparteneva; un gramo campicello, e più il risparmio gli venivano in aiuto quando il lavoro mancava: ma delle sue condizioni economiche non lo udii mai lamentarsi, ed al figlio non voleva permettere il lavoro, a me permetteva appena di aiutarlo. Mi mandava a scuola, e non mostrava mai di volermi apprendere la sua professione. «Il giorno lungamente temuto venne: Luigi stava per entrare nel ventesimo anno ed aveva sembianza più di fantasma che d'uomo; parlava ansimante: non visto dal padre, se ne stava lunghe ore immobile, a fissare un punto dello spazio; per noi aveva sempre un sorriso. Un giorno si sentì più debole; voleva starsene a letto e non sapeva come fare per non affliggere il vecchio; si vestì, scese da basso, sedette sfinito in un canto. Mastro Paolo da qualche tempo aveva acquistato una forza d'animo insolita, la forza d'animo che proviene dall'imminenza d'una sciagura. «Appena vide il figlio, lesse la propria sorte, e non battè palpebra; gli chiese con amore come si sentisse; gli fece dolce rampogna perchè non fosse rimasto in letto, e volle ci si rimettesse subito, e lo aiutò a risalire le scale ed a svestirsi, non cessando di ripetere che doveva essersi costipato la vigilia stando all'aperto dopo l'imbrunire, e che sarebbe stata cosa da nulla. «Luigi rispondeva che così era senza dubbio. Inutile, pietoso e vicendevole inganno. Io fui mandato pel medico, il quale ordinò un calmante, ma non volle dir nulla. Il domani non avevo più chi mi chiamasse «fratello.» «Non credere, buona Donnina, che la lunga aspettazione d'una sventura la faccia parere meno amara quando sopraggiunge. «Io appresi allora come l'uomo non si arrenda mai al dolore, e come la stessa disperata rassegnazione altro non sia che un inganno della fibra. Il dolore, anche preveduto ed aspettato, giunge sempre improvviso, se pure il lungo affanno non fa più deboli e più sensibili, negando perfino quello sbigottimento che dà un repentino disastro. «Il vecchio padre non versò una lagrima, dacchè il figlio si fu posto a letto per l'ultima volta, ma non lo abbandonò più un istante, ne raccolse l'ultimo sguardo e l'ultima parola, e quando tutto era finito, se ne stette ancora lungamente immobile a contemplarlo a ciglio asciutto. «Io piangevo in un canto. « — Così lo vedo da quattro anni, diss'egli finalmente, coll'attonita immobilità e colla voce monotona di chi parla a sè stesso, lo vedi tu ora? così io lo vedo da quattro anni. Egli giocava, o mi sorrideva, od attendeva tranquillamente al melanconico lavoro, mi era dinanzi, od era assente, ed io lo vedeva sempre così come ora lo vedo. «Bisognò separarlo quasi a forza dalla _sua creatura_; i vicini spendevano vane parole a confortarlo; egli non ascoltava, e rispondeva invariabilmente a tutti: «così lo vedo da quattro anni.» E anche quando fu allontanato da casa sua, continuò a guardare fissamente nella stessa direzione ed a mormorare ogni tanto fra sè: «così lo vedo da quattro anni.» «Nel giorno seguente egli si sottrasse con violenza agli amici che lo trattenevano e volle ritornare a _vederlo_. « — Se si fosse svegliato! diceva. «Bisognò lasciarlo andare; io, dimenticato da tutti, e quasi dimentico di me stesso, gli tenni dietro; sentivo qualcuno che diceva: «il povero uomo perde la testa; ne impazzirà.» «Quando mastro Paolo ebbe riveduto il cadavere di suo figlio, parve acquistare una forza singolare, scese da basso, andò in bottega e si pose al lavoro. «Si cercò di allontanarlo, e nessuno osò chiedergli che cosa volesse fare. Io stesso compresi inorridito. « — C'è forse in paese un altro che faccia le bare meglio di mastro Paolo? chiese agli astanti; si mostri se ci è! «E continuava a pigliare le misure, ed a segare le tavole con sinistra energia. Ma quando ebbe preparato i pezzi e le commessure e volle inchiodarli, il primo colpo di martello parve cadergli sul petto, gli vennero meno le forze, e si gettò bocconi sul pancaccio, piangendo.» A questo punto il tremito della voce di Donnina è cresciuto tanto che le bisogna troncare la lettura. Nessuno dice parola. Mamma Teresa non sa come tenersi per starsene in contegno, il signor maestro fa i suoi comodi ed asciuga una lagrima colla pezzuola. A poco a poco una mano della vecchia incontra, sull'omero di Donnina, una mano di babbo Ciro e non si ritrae... E Donnina prosegue: «Luigi fu sepolto la notte, accanto ai suoi fratelli, e il povero padre parve ritornare a poco a poco in sè. «Per tutto il tempo corso dalla morte alla sepoltura io mi era tenuto in disparte timoroso, comprendendo per istinto che la mia vista doveva fargli più male; mi sentivo una gran voglia di venirgli incontro e di dirgli: «vedi, tu hai ancora un figlio; io ti amerò qual padre.» Ma qual merito in me? Avevo forse io altri da amare? Temei d'essere accolto male, non dissi nulla a lui, ma sentii il bisogno di prometterlo a qualcuno, ed andai in cimitero e lo dissi piangendo a Luigi, sulla sua fossa. «Venne appunto allora mastro Paolo; pallido, severo, si inginocchiò accanto a me senza mostrare di avermi visto, poi se ne andò fuggendo, come per sottrarsi ad un sinistro pensiero. «Ebbi paura. Mi passarono in mente mille disegni; volevo fuggire, andare a Milano, chiedere al mondo ciò che solo può dare: del lavoro ed un padrone, e non mendicare l'affetto dai padri di altri figli. «Avevo dodici anni, e mi sentivo forte, ma non ero abile a nulla, mi scorai, ed accettai la mia sorte. Contro quel che credevo, mastro Paolo quel giorno fu meco amorevole più del solito, e, venuta la sera, mi prese fra le sue ginocchia ed appoggiò la testa tremante sulla mia. Tu solo mi rimani!» «Egli diceva queste parole con un accento che mi strappava le lagrime: io solo! gli _altri_ erano tutti morti! Gli altri... i suoi figli veri! «-È venuto il momento, mi disse poco dopo, ti ho preso meco apposta; io prevedevo questo giorno; era il solo libro in cui sapessi leggere spedito, la mia sciagura! Sapevo che sarei rimasto solo, che mi avrebbero ritolto ad una ad una le mie creature dopo avermele date per vederle agonizzare; lo sapevo. Ora sono solo, solo, solo! «E siccome io continuava a piangere, egli soggiunse: « — Non bisogna piangere; provati a ridere, provati; quando i tuoi fratelli avevano la tua età, ridevano essi, e queste pareti risonavano di allegrie; e finchè la morte non ebbe imparato la strada che conduceva alla mia felicità, ridevo anche io perchè ero felice; provati a ridere; basto io solo a piangere. «Un altro giorno, appena desto, mi chiamò a sè e mi disse: « — Hai da essere tu il mio figlio; sono _essi_ che lo vogliono; tu sei solo ed anch'io; non saremo più soli; porterai il mio nome; andremo dal sindaco, gli chiederemo che cosa bisogna fare per essere proprio padre e figlio. « — Volerci bene, gli risposi baciandolo sulla guancia. «Egli mi guardò come sbigottito, e mi chiese: «e potrai tu volermi bene?» « — Sì, tanto. «Il pensiero di adottarmi in faccia al mondo e di darmi il suo nome gli ritornò più volte ad intervalli lunghi, ma pareva non sapesse determinarsi a porlo in atto. « — Sai, ci sono tante seccature... una carta che dica quando sei nato, un'altra che dica quando son nato io, un'altra in cui si provi che tu sei orfano, e poi andare innanzi ai giudici, e dirlo là e far scritture lunghe... v'è da perdere la testa; e mi hanno anche detto che bisogna spendere del danaro, oppure farsi fare un'altra carta a provare che sono miserabile... Lo sanno tutti che io sono miserabile, lo domandino al becchino dove è il mio tesoro... nossignori, vogliono una carta scritta!... «Quand'egli così parlava, cedendo ad una lieve collera, io lo guardava in volto non potendo allontanare un sospetto pauroso; e mi venivano in mente quelle parole udite per via: «il poveruomo ne impazzirà.» «Erano passati parecchi mesi, ed il vecchio continuava a parlare di Luigi come se fosse morto il giorno innanzi: attendeva tutto il dì al lavoro facendosi aiutare da un apprendista, e voleva che io andassi alla scuola. «A me pungeva d'essergli di aggravio, e gli dissi più volte piacermi la professione di falegname, me la insegnasse. « — Non è vero, mi rispose un giorno, non è vero, a te piace leggere e scrivere come a Luigi; a te piace divenire maestro di scuola, come a Luigi; tu devi imparare a leggere e scrivere e diverrai maestro di scuola; finchè mi rimane forza, basto io al lavoro; quando non ne avrò più, sarai maestro di scuola e soccorrerai tu il tuo vecchio. Luigi ti voleva bene... non puoi essere un ingrato. «Non diceva più _padre_, non mi chiamava più _figlio_! «A poco a poco sparve anche quella specie d'intimità che era fra noi; vedendo come nei giorni di vacanza, toccandomi di rimanere in casa, egli fosse collerico ed alcune volte ingiusto, mi venne in mente che mi mandasse alla scuola per non avermi sempre innanzi agli occhi. «Incominciò per me una più terribile solitudine di quella che prima avessi temuto — la solitudine dell'uomo respinto. Accorgendomi che la mia vista faceva male a mastro Paolo, nella bella stagione me ne andavo coi libri in campagna a studiare, molte volte a piangere. Esaurii in breve tutte le mie lagrime. «La mia natura gioconda riprese a poco a poco il sopravvento... «Provati a ridere» mi aveva detto mio padre; io mi stordiva ridendo. «Era una maschera, una livrea per riuscir meno ingrato ai miei compagni, e mi conveniva deporla alla porta di casa. «Non ero, no, felice. A dispetto degli sforzi che faceva per darmene le apparenze, mi pareva che tutto quel cumulo di sciagure ch'io doveva sanare pesasse sul mio capo come una condanna, e che in me si dovesse leggere solo il dolore, e che tutti mi fuggissero. «In quell'abbandono, in quella ridente desolazione dell'anima mia, nella tenebra fitta del mio pensiero, penetrò un raggio di sole — l'amor tuo, Donnina. E bastò a tutto; ritrovai fede, avvenire, ritrovai il mio cuore; ebbi perfino l'ardimento di venire innanzi a mastro Paolo e di amarlo in palese; parevami che la mia felicità mi desse un gran diritto sugli uomini e che tutto quanto mi aveva respinto dovesse accogliermi a braccia aperte. «Non era illusione la mia; la felicità è una forza a cui non si sa resistere; abbandonato prima dai compagni, ritrovai allora qualche amico, e, migliore amico di tutti, il mio maestro, il tuo ottimo padre. «Trovai cento porte aperte, ma non quella della sventura; il cuore di colui che aveva promesso di essermi padre mi rimase chiuso. «Mi convenne dissimulare, ma nol seppi tanto che il vecchio non si avvedesse. «Un giorno mi minacciò col pugno udendomi canticchiare. Io canticchiava perchè mi passasse più presto l'ora che mi separava da te; fuggii, venni ad aspettarti, non ti dissi nulla. «Maestro Paolo la sera mi mosse incontro, mi guardò fisso in volto, e mi passò leggermente una mano sul capo — era pentito. «Ma non mai parola buona, non mai carezza: mi sfuggiva, gli ero divenuto odioso. «Una mattina non lo vidi scendere al lavoro, l'aspettai trepidante prima di andare alla scuola, allora salii nella sua camera e vidi che passeggiava seminudo colla finestra aperta; ed eravamo nel cuore dell'inverno! «Gli parlai, non mi rispose, e continuò a passeggiare ed a mormorare fra sè. Alla fine si arrestò, si vestì in silenzio, mi passò innanzi e scese da basso. « — Domani partiremo, mi disse al ritorno dalla scuola; andremo a Milano; bisogna provare a fuggire, non sei tu del mio parere? «Io lo guardai temendo che fosse impazzito; anch'egli mi guardava fisso, ma con fermezza insolita. Non dissi parola — ed il domani, tu lo sai, partimmo. Sul far dell'alba, a piedi, con pochi panni annodati entro una pezzuola, io, col cuore gonfio, cogli occhi rossi di lagrime. Mi voltai più volte a guardare la casicciola che mastro Paolo aveva venduto ad un suo creditore, a guardare il noto campanile, e, nella direzione di quello, la scuola comunale ove erano i miei soli amici, dove eri tu, Donnina! I gelsi, che io mi lasciava indietro coi rami nudi imbiancati dalla brina, non mi erano mai sembrati così belli nemmeno nell'estate, quando gettavano la loro ombra circolare, e quando da ognuno di essi partiva la canzone degli sfogliatori. «In breve la casicciola sparì dietro la svolta della via, il campanile si perdette nella bruma, ed i nuovi gelsi nudi, muti, irrigiditi, continuarono a passarmi innanzi lentamente e mi parevano dirigersi ad S... che io lasciava a malincuore. «Mastro Paolo camminava spedito, guardando innanzi a sè, come ad una meta prefissa, senza arrestarsi od allentare il passo, senza volgersi mai, tentennando ad ora ad ora il capo in sinistra maniera. Io faticava a tenergli dietro. «Quel viaggio melanconico durò due ore; un immenso ed indefinito ronzìo si fece udire a poco a poco, — la voce della città — Milano! Mi ero preparato a resistere alle mie sensazioni, e seppi soffocare un singhiozzo. «Guardando attraverso la nebbia quelle file d'alberi di forme così regolari, la punta estrema del Duomo, e tutto intorno quel viluppo immenso di tetti, di cupole, di terrazzine, di campanili, quel mondo ignoto in cui io avevo vissuto la prima età, mi sentivo invaso da una invincibile ripugnanza. Fissai coll'occhio un punto, e dissi a me stesso: «quello è l'ospizio in cui sono nato.» — Non vidi altro. «Passammo la porta in silenzio; vedendo tanta gente affrettata, tante carrozze incrociantisi, pensai che tutti dovevano avere uno scopo per affaccendarsi così, e noi... «Guardai mastro Paolo — egli continuava a camminar diritto, dello stesso passo. « — Dove andiamo? gli chiesi. « — Dove andiamo? ripetè a sè stesso, come se non comprendesse il significato della domanda. Poi soggiunse, parlandomi sotto voce ed in aria di volermi fare una confidenza: fra i vivi; qui di gente vivace n'ha, mi pare, laggiù erano tutti morti. «Lo sguardo fisso, il ghigno delle labbra e quell'accento sinistramente singolare, mi tolsero le ultime forze; uscii in dirotto pianto. Temevo di comprendere una sciagura immensa. «Il povero vecchio mi guardò meravigliato, mi prese per mano, mi condusse innanzi ad un sedile di pietra, e mi disse: « — Siedi, tu sei stanco. « Sedei, asciugando le lagrime, e facendomi forte per guardarlo in viso. Egli stette alcuni istanti sopra pensiero, e si assise accanto a me. « — Padre, mormorai. « — Padre, ripetè senza voltarsi; poi voltandosi d'un subito, mi disse con impeto: «non sono tuo padre, non sono più padre, non ci sono padri. Tutti costoro che passano sono gente orfana come tu ed io. Padre! Lo conosci tu tuo padre? Gli ho io i miei figli? Ti dico che non ci sono più padri.» «Non mi rimase più dubbio, mi guardai intorno, cercando un soccorso, ma non piansi più; pensai che quel vecchio, fattosi mia guida, era in mie mani, che mi bisognava esser uomo. «Mastro Paolo s'adirò del mio silenzio e proseguì a dire: « — Padre! che ho io fatto per esser tuo padre? Ho forse pianto per te, ho preso la misura della tua bara? Muori anche tu, e sarò tuo padre. Vedi quel cielo azzurro; non pare, ma è un invidioso, un cattivo invidioso della terra; è colpa sua se noi siamo orfani. Ti sei riposato? Affrettiamo; tutta quella gente cerca i proprii figli; andiamo a dar loro la notizia, a dir loro che non ci siamo che noi due. « — Mastro Paolo, gli dissi pigliando le sue mani e stringendole forte nelle mie, mastro Paolo, voi non vi sentite bene.... provate a ragionare, a ricordarvi; guardatemi in volto, ditemi se mi riconoscete... Chi sono io? «Il vecchio, commosso un istante dalla veemenza delle mie parole, uscì a ridere, ma non rispose. « — Chi sono io, per pietà, dite, dite, chi sono io?... « — Chi sei tu? rispose il vecchio, balzando in piedi, vuoi proprio saperlo chi sei tu? Sei l'uomo che io odio, sei l'uomo per cui sono morti i miei figli, dei quali volevi occupare il posto nel mio cuore! Ecco chi sei tu! Ma hai fatto male i tuoi conti; guarda, qui dentro non ci è più cuore, l'ho seppellito con essi. «Così dicendo, il disgraziato vecchio schiudeva colle mani tremanti le vesti e la camicia, e mi mostrava il povero petto ignudo. « — Ed ora che ti sei fatto dire chi sei, vattene, soggiunse, vattene a ridere di me altrove; credi forse che non ti abbia visto ridere delle mie miserie? Ebbene, vattene, e ridi.» «_Piangi?_» Quest'ultima dimanda non è nella lettera, ed avrebbe potuto esser rivolta a Donnina, che pure è stata la prima a farla a mamma Teresa. È un'indiscrezione, ed il signor maestro si affretta a rimediare a quell'imprudenza dicendo: — È il fumo; sono due giorni che il camino manda fumo; ti pare che Teresa possa piangere? — E perchè no? interrompe l'intrattabile signora asciugandosi rapidamente gli occhi col rovescio della manica; e perchè no? Maestro Ciro, che ha anch'egli gli occhi rossi dal fumo, non si prova a ribattere, ma urta del gomito nel gomito di Donnina ed esce a ridere senza paura al mondo, mentre la fanciulla ripiglia il filo. «Alcuni passanti si erano arrestati e ci guardavano senza accostarsi; io non aveva lagrime, non udivo più nemmeno le parole del vecchio, il cuore mi batteva forte e mi sentivo un vigore insolito, ma non sapevo che fare. « — Che ha quel vecchio? mi chiese una voce. «Mi volsi e vidi un signore dalla faccia benevola. « — Vaneggia, risposi, gli sono morti cinque figli, io solo gli rimango e non sono suo figlio; mi volle seco, ora mi respinge perchè vaneggia; ma il suo cuore è buono. « — Qua entro non ci è più cuore, aggiunse mastro Paolo facendosi innanzi « — È vero, gli rispose lo sconosciuto, fingendo di guardargli in petto, è vero; e che intendete di fare? « — Di fare? di andar per il mondo a dare la cattiva notizia... La sapete voi la cattiva notizia? « — No, rispose il signore, accompagnandosi col vecchio verso una carrozza che si accostava. « — Non ci sono più figli; siamo tutti orfani; quell'azzurro di cielo è un inganno, ed il cielo è un cattivo invidioso della terra. « — Possibile! allora bisogna far presto. «In così dire, lo sconosciuto spingeva il disgraziato vecchio entro la carrozza, vi saliva egli stesso e mi faceva cenno di seguirlo; un istante dopo la carrozza partiva di galoppo, rompendo la folla che s'era radunata intorno a noi. «Per via, mastro Paolo non disse più nulla, e continuò a guardare attraverso il vetro degli sportelli con una specie di stupore ingenuo; lo sconosciuto ne seguiva attento ogni gesto, ed io non distaccava gli occhi da quella sua faccia sbigottita, come timoroso di leggervi qualche nuova e più terribile sciagura. «Ahi! Donnina mia, nissuna sciagura più terribile di quella per me: mastro Paolo era impazzito; il benevolo che ci aveva raccolti era un medico, ed il luogo ove ci condusse, un ospizio di pazzi. Me ne avvidi all'aspetto melanconico del cortile in cui eravamo scesi di carrozza, ai cancelli ed alle grate di ferro e di legno che tenevano luogo di porte e finestre. Lo sconosciuto invitò mastro Paolo a seguirlo; a me fe' cenno di rimanermi un istante. Rimasi col cuore gonfio, col pensiero smarrito in una profonda dimenticanza; mi si cancellarono dalla mente i fantasmi del passato e dell'avvenire, per non vedere più se non quel momento, quel luogo melanconico, quelle grate, quella solitudine e quel cancello che si era chiuso dietro di me. «Ebbi un terribile pensiero: che io stesso fossi impazzito o fossi per impazzire, e mi premei il capo colle mani, e cercai di comporre dinanzi a me la tua soave immagine. «Quella penosa solitudine durò poco; lo sconosciuto ritornò alcuni istanti dopo con un vecchio dall'aspetto severo, il quale si raddolcì meco singolarmente. «Il più giovane mi prese per mano e mi condusse in una stanza tutta coperta di scaffali, ed il più vecchio mi passò innanzi, si pose a sedere ad una scrivania, aprì un gran registro ed incominciò ad interrogarmi. «Vollero che dicessi tutto quanto io sapeva di mastro Paolo, quali fossero i miei rapporti con lui, quali i suoi mezzi d'esistenza, quali le sue sventure; ripetei ad essi ciò che ho scritto a te, ma senza piangere, senza batter palpebra, con una specie di attonitaggine nuova. «Quand'ebbi finito di dire, ed essi d'interrogare, ed il vecchio di scrivere nel registro, il medico (ora lo chiamo così) si chinò e disse all'orecchio dell'altro una parola che io non compresi; ma tosto, seguendo il movimento della penna dello scrivente, lessi: _lipemania_. «Che voleva dire? io non aveva mai udito quella parola ma ne intesi subito il significato. « — Mastro Paolo è pazzo? ebbi la forza di chiedere. «Non mi risposero. « — Guarirà? insistei. « — Senza dubbio, figliuolo mio, mi disse il medico; senza dubbio. « — E lo guarirà lei, signore? « — Io stesso, figliuolo, coll'aiuto dell'arte, della natura e del tempo.... « — E quanto tempo occorre perchè un pazzo guarisca? « — Un paio di settimane, qualche volta più.... qualche volta meno. «Il vecchio teneva il capo basso e non diceva parola. « — Ed io? balbettai... potrò venire a vederlo? « — Tu rimarrai qui finchè mastro Paolo sia guarito, disse il vecchio, che era il direttore del luogo... se ti piace. «Pensa se accettassi! La gratitudine mi diede le lagrime che mi aveva negato il dolore. «Mi fu dato uno stanzino in casa del vecchio; uno stanzino pulito, con bei mobili, con un bel lettuccio, in cui non potei chiuder occhio la prima notte, tanto si stava bene. «Pensavo: babbo Paolo avrà uno stanzino come questo ed un lettuccio come questo? «Al giorno successivo trovai panni nuovi e biancheria di bucato; non usciva già dalle mie valigie; non sapevo che dire; mi tornavano in mente i racconti delle fate, e Milano mi pareva una città di incantesimi. «Il signor Fulgenzio, così si chiamava la mia buona fata, mi parlava rare volte, ma amorevole. Non osavo chiedere di rivedere il babbo, per paura stesse peggio, e perchè temevo di far dispiacere ai buoni che mi avevano colmato di tanti benefizi; ma il vecchio direttore fu il primo a dirmi che potevo andare da mastro Paolo quando volessi. «Ci andai subito. «Ah! Donnina mia, quale spettacolo orribile! vedere tanta gente, tutta fatta come noi, che pare sana e robusta, e dire che non ragiona, che non sa pensare nè amare! Quella prima impressione come di sgomento cedette ad un dolore più profondo, perchè, appena mastro Paolo mi vide, diede in ismanie, e mi venne incontro coi pugni stretti, dicendomi che io gli aveva strappato il cuore, che io gli aveva ucciso le sue creature. Appena fu acquetato mi volse le spalle e passeggiò per la sala senza più badare a me, finalmente sedette in un canto e prese a guardarmi curiosamente, come se mi vedesse per la prima volta. « — Babbo, gli dissi colla voce tremante, babbo... «Non mi rispose. « — Mastro Paolo, mastro Paolo! e muovevo un passo incontro a lui. «Ma egli si raggomitolò nel suo cantuccio e mostrò di aver paura di me, e mi scongiurò col gesto di non fargli male... «Mi arrestai, e mormorai ancora una volta: «babbo!» «Il disgraziato non mi conosceva più, e continuava a guardarmi con quel suo sguardo attonito e curioso. «Passarono otto giorni senza che osassi più venire innanzi al vecchio. Quando l'osai fui accolto alla stessa maniera; solamente non si adirò meco, ma la ripugnanza e la paura mi facevano più male della sua collera. «Un'altra volta, mentre io me ne stavo in un canto a guardarlo con tenerezza compassionevole, ed egli era là, immobile, fingendo di non vedermi, ma gettandomi ogni tanto uno sguardo fuggitivo, venne il dottore. Allora fui testimonio del singolare potere che aveva dato a quest'uomo la benevolenza schietta e quasi ruvida, perchè, appena egli fu entrato, mastro Paolo gli venne incontro trasfigurato in viso, e gli prese la mano colla gioia riconoscente d'un uomo scampato ad un pericolo. «Mi allontanai coll'anima in tumulto. «Il dottore mi raggiunse subito dopo, e mi pose confidenzialmente una mano sull'omero. « — È inutile ch'io rimanga qui, balbettai, l'orrore che egli prova per me mi dice che non potrà amarmi mai; quando egli sarà guarito, io non avrò padre ugualmente — non ho più padre. « — Non hai più padre perchè quella è pazzia di cui non si guarisce in quell'età se non colla morte. Fa conto che sia morto. «La durezza di queste parole era temperata dall'accento — e me ne dolsi solo per l'uomo che fino allora avevo chiamato padre. A me non pensai. « — Ebbene, dissi, bisogna che io lasci questo luogo, e pensi a guadagnarmi la vita. « — Che sai fare tu? « — So leggere, scrivere e far di conto; sono andato alla scuola ed ho voglia di studiare. « — Non altro? « — No, ma imparerò. « — E intanto?... «Il dottore mi lasciò in pensiero. Il giorno successivo fui chiamato nella camera del mio vecchio ospite. « — Quanti anni hai? mi chiese. « — Sedici. « — Io ne ho cinquantaquattro; potrei quasi essere tuo nonno; vuoi esser mio figlio?» — Suo figlio! esclama mamma Teresa sollevandosi quattro buoni pollici sulla sedia e girando intorno uno sguardo pieno di dubitosa meraviglia. — Suo figlio! ripete più forte il signor maestro curvandosi a leggere egli stesso dietro le spalle della giovinetta, la quale non pare punto commossa, e risponde col sorriso sereno alla ingenua curiosità dei due vecchi. Mamma Teresa, trasfigurata in volto, cogli occhi immobilmente fissi nelle labbra di Donnina, vi legge le parole prima che la fanciulla le proferisca. «Non risposi; quell'improvvisa proposta era così straordinaria, e le porte dischiusemi per essa mi lasciavano vedere un mondo così diverso da quello immaginato dianzi, che mi parve tutt'uno come se mi si proponesse un'altra vita, in un altro mondo, sotto un cielo di altro colore. « — Dice davvero! esclamai; suo figlio! e che ho da fare io per divenire suo figlio? « — Nulla. « — Ma allora lei mi vuol bene, se vuol essere mio padre! E che ho fatto io perchè lei mi voglia bene? « — Nulla; tu hai sedici anni, ed io non ho un figlio; vuoi tu essere quello? « — E mastro Paolo? mormorai, che dirà mastro Paolo? « — Non saprà nulla. «Mi passò in mente che io stessi per commettere una bassezza e che fosse dover mio rinunziare alle gioie finchè il vecchio babbo soffriva. Anche ora sono talvolta assalito da tali dubbi, ed oggi il tormento è più forte. «Ma potevo io gettarmi nel mondo, senza consiglio, senza mezzi, senza professione? «Pensai allo squallore che la sorte, oggi così lusinghiera, poteva minacciarmi domani, pensai che mi si offriva di scegliere tra la miseria e la pace, tra l'andar ramingo e l'avere una casa ed un nome, ricordai l'orrore intenso mostrato per me dal vecchio babbo, ed accettai l'offerta sciogliendo un inno puerile di grazie. «Pochi giorni dopo, il signor Fulgenzio compieva ciò che mastro Paolo aveva voluto fare, senza indurvisi mai: mi dava il suo nome, mi faceva suo figlio di adozione. «Ecco il mio segreto, Donnina: io ho un padre che non è mastro Paolo, ed il disgraziato non è morto, come ti ha detto, ma agonizza fra le care larve dei suoi veri figli. «Io non mi nascondo come questa che pare la mia fortuna sia la mia colpa; dovevo accettare la miseria, l'abbandono, l'oscurità, le lotte della vita, ma non tradire quell'uomo che mi aveva primo chiamato a far parte della sua famiglia. Io l'ho lasciato solo nella sventura per far me lieto — accettai di vestire di gai colori la mia sciagura, volli entrare nella schiera degli eletti, io reietto da colei che fu mia madre! Che penserai tu di me? Potrai tu essere più benigna di me stesso? E con quali occhi vedrai la mia arrendevolezza alle prime carezze della sorte? Ho un nome, ho una famiglia, sto per avere una posizione onorata nel mondo; una sola cosa mi manca — la stima di me medesimo. «E quando tu saprai che l'uomo stesso da cui fui chiamato figlio, non ricava dal suo benefizio altro che l'ingratitudine? Tanta è la miseria, Donnina mia, che questa stessa ingratitudine è il solo mio orgoglio, la mia sola virtù. Sappilo, fra il vecchio ed il nuovo padre, il mio cuore è rimasto orfano, la mia sorte non si è mutata. Quest'uomo, di cui porto il nome, non mi ama, non mi ha amato mai; volle pagare alla virtù a cui non crede, alla società che disprezza, alla famiglia che offende collo scetticismo nella donna, il suo debito d'uomo, di cittadino, di figlio: volle fare un'opera buona ed un ingrato. Egli lo sapeva già prima, e mi disprezzava già prima che io cessassi d'amarlo. Perchè io l'ho amato come si può amare un vero padre, e forse lo amo ancora. «Quanto debole ed intristito ti parrà il mio cuore! «E non mi accuserai dentro di te di averti dimenticata sei anni per aver mutato fortuna? E non crederai Mario (quest'è la mia livrea d'oggi), vergognoso dei cenci di Ognissanti? «Tu sei buona e facile al perdono, lo so; ma le mie non sono colpe che si cancellino col pentimento, solo si espiano, ed io le ho duramente espiate. «Il giorno che dovei rinunziare al mio bel sogno di correre a te, di venirti a dire: «Donnina, io ho trovato un padre che mi ama e che amo, un padre che sarà il tuo, quando tu sarai mia; io studierò, la larva dei miei sonni si farà persona, diventerò uomo, avrò una professione e basterò col lavoro e coll'amore a farti felice!» oh! tu non immagini quant'io soffrissi quel giorno. «La mia colpa, ingigantita dalla freddezza che ogni giorno mi si faceva meglio palese nel cuore del mio nuovo padre, mi disse che io era indegno di te, che non dovevo più pensare a te, che coll'avere abbandonato la mia miseria io aveva perduto il diritto alla felicità che doveva andarle compagna. E poi con qual cuore rivederti per ingannarti, o per dirti la mia desolazione? E avresti tu compreso altro fuor che io aveva, volontariamente, posto una barriera tra te e me, che più non mi appartenevo, che la nostra felicità, dove pure tu me ne credessi ancora degno, dipendeva dalla volontà d'un altro uomo, il quale si faceva chiamare mio padre? «Pensai che fosse meglio uccidere in germe l'affetto deposto nel tuo cuore; volli venire a dirti: non ti amo più, amane un altro. — Un altro!... Non ne ebbi forza. «Poi mi venne un amaro pensiero. «Forse, dicevo a me stesso, Donnina mi dimenticherà davvero: tra l'aspettare molti anni per esser mia ed il divenir sposa più presto, sceglierà d'amare un altro. «Frattanto il signor Fulgenzio mi dava maestri, dai quali appresi rapidamente, con una specie di febbre continua che mi rendeva meno amara la nuova condizione. Pensando di potere collo studio farmi un avvenire, e, padrone un giorno di me stesso, chiamar te a dividerlo, studiavo senza riposo; mi pareva come se ogni nuova cognizione mi avvicinasse a te, mi desse un nuovo diritto alla felicità pensata di nostro capo ad S... nel praticello dietro la chiesuola. «Presto fui in grado di presentarmi ad alcuni esami, ed un anno dopo a nuovi esami, e finalmente, a 19 anni compiti, nell'università per istudiare medicina — fra quattro mesi sarò dottore! «Ora che il mio lungo disegno sta per aver compimento e la mia ambizione è presso ad essere soddisfatta, ora che io so come il tuo cuore sia rimasto mio, forse la tua stima mi manca, la mia stima... «Volli indugiare per poterti dire: «io sono padrone di me stesso, ho uno stato, posso darti una onorata miseria per ora, l'agiatezza poi; eccoti la mia mano, cancelliamo il passato.» «Oggi non posso più tacere, sai tutto; ma sappi anche, qualunque sia la sentenza che uscirà dal tuo labbro, che io voglio rimanere per te sempre, come fui sempre «OGNISSANTI.» Donnina ha proferito le ultime parole della lettera lentamente, e si è arrestata a scandere le sillabe del nome del suo fidanzato come per separarsene più tardi... poi volge uno sguardo alla vecchia. In quello sguardo è la sicurezza di sè, d'Ognissanti, dell'avvenire, ed è una tacita domanda a cui mamma Teresa è sollecita a rispondere: — È vero, dice ella accarezzando severamente, con un garbo tutto suo, la testa della fanciulla, è vero; comincio a credere anch'io che Ognissanti sia un bravo figliuolo, comincio a crederlo... e se non ti basta... lo credo... ne sono convinta... Non ti basta ancora? Vuoi che gli domandi scusa d'aver sospettato di lui? Te lo leggo in cuore il tuo trionfo; ma tu sbagli di grosso perchè il tuo trionfo è pure il mio; avrei dato un paio di dozzine di giorni, dei pochi che mi rimangono, per vedere smentiti i miei sospetti. Ma tu dirai che mamma Teresa sa solo brontolare e non ci vede chiaro. E se fosse anche?... Per chi non ci vede chiaro, il meno male è il non fidarsi mai alle apparenze. Dici di no tu? E siccome Donnina le bacia il volto rugoso senza rispondere, tutta la stizza della vecchia si rivolge al signor maestro. Ma costui, dacchè la moglie ha preso a parlare, s'è dato a fregare le mani sulle ginocchia, infervorandosi vie più e facendo festa ai fantasmi del pensiero. Poco stante la terribile mamma si abbandona anch'essa alle meditazioni, che le fanno fare, senza avvedersene, la smorfia d'un sorriso bonario... Quando dopo brev'ora escono entrambi ad un tempo da quel muto fantasticare, rompono insieme il silenzio con una parola: «E Donnina?» Donnina non è più nella stanza, se n'è andata di soppiatto, ha salito le scale e si è raccolta nella sua cameretta... A che fare? — Io lo so che cosa è andata a fare! dice maestro Ciro. — E anch'io lo so! Bella cosa! Sappia chi nol sapesse che Donnina si è ritirata per rileggere la lettera del suo Ognissanti, e che il signor maestro aveva indovinato davvero. Quanto a mamma Teresa, la presuntuosa si vantava, e maestro Ciro lo sapeva benissimo. Forse che la cara dolcezza di rileggere in segreto una lettera, può essere compresa da chi, come la terribile mamma, non aveva voluto addimesticarsi mai coll'alfabeto?... Maestro Ciro è pronto a giurare di no. XX. CHI FOSSE IL SIGNOR MAURIZIO. Chi legge si compiaccia di fare più intima conoscenza col signor Maurizio, personaggio molto chiuso, molto taciturno, ma che ha anch'esso il suo romanzo intimo a dire, sol che se ne porga occasione. Così almeno assicurano i curiosi, razza di affamati, la quale ha questo innocentissimo privilegio di vedere un palazzo incantato quando non vede nulla, e divide sapientemente il prossimo in due bocconi: quelli che hanno un segreto da nascondere e quelli che non l'hanno più. Se è vero che il signor Maurizio lo abbia ancora, è un miracolo genuino, perchè fino a questo giorno furono poste in giro parecchie dozzine di segreti, e tutti sottratti, per quanto si diceva, allo scrigno del letterato. Codesto signore appartiene solo da quindici anni al suo prossimo: prima nessuno si occupava dei fatti suoi, nemmeno la portinaia (perchè abitava una casa che non si poteva concedere questo lusso), nemmeno i vicini, creature occupatissime delle miserie della terra, sebbene paressero aver scelto di starsene vicino al cielo. Era allora un bel x, abbandonato intero alle proprie meditazioni; ma l'algebra della vita non gli pareva nè amara nè penosa, perciò solo che egli la condiva col rimario, con raggi economici di luna al davanzale della finestra, con civetterie di stelle, e, quando il cielo era a nugoli, con una buona e schietta imprecazione in versi sciolti, atta a sbarazzare il suo cielo di poeta ed a serenargli la coscienza. Certo più erano le volte che il vate convitava a lauto banchetto la musa, di quelle in cui l'uomo si trovasse ad un vero e proprio desinare; i suoi pranzi e le sue cene avevano quasi sempre l'aria di mutilati, i quali portassero melanconicamente il loro battesimo pomposo; ma se ad un disgraziato mancano due braccia e due gambe, al rimanente si dà tuttavia il nome di uomo; così era di quei pranzi o di quelle cene, le cui gambe e braccia Maurizio non aveva visto da tempo immemorabile. Per queste prove d'astinenza s'impoveriscono le vene, tranne la poetica, la quale invece si fa torrente. Tutto ciò per dire come la lirica occupasse onoratamente la prima parte della vita di Maurizio. Che sarebbe stato di lui, se avesse tirato innanzi a passo di rimario, nessuno può dire, ma a tutti è lecito immaginare. Volle fortuna che la musa, in un momento di buon umore, lo consigliasse a scrivere in prosa; fu un'apostasia, non dico di no, ma un'apostasia magnificamente riuscita, rispetto alla gloria ed al ventricolo, perchè mentre parecchie migliaia di versi editi ed inediti non gli avevano dato nè un bricciolo di gloria, nè una bricciola di pane, un paio di articoletti fatti coll'amarezza dell'apostata, il quale si vendica del proprio delitto, gli schiusero la porta del piano terreno d'uno dei più grandiosi e quotidiani edifizi di carta del suo tempo. Fu una specie di trionfo, e fornì l'argomento a mille dicerie; Maurizio diveniva di moda, si sentiva accarezzato, lodato, adulato, gli piovevano nuove amicizie ogni giorno, gli fioccavano le strette di mano, e non udiva se non ripetere: «ho letto il tuo ultimo articolo!» Questa frase, accompagnata da un punto d'esclamazione, compendiava tutta la sua vita, compresa fra due articoli. Una metà della settimana era spesa a raccogliere il frutto dell'_ultimo_, l'altra metà a preparare il _prossimo_. Ad un'anima della tempra di Maurizio non poteva bastare. Veramente non si è detto ancora di che tempra fosse l'animo di Maurizio. Giudichi il lettore da questo, divenuto notorio, che quando il giornalista era crisalide, cioè poeta, viveva negli stenti di una misera pensione pagatagli da uno zio milionario, il quale si era posto in capo di far del suo unico nipote un console od un senatore. La fedeltà alla musa costava dunque a Maurizio gli agi della vita, ed anche ora che la crisalide era divenuta farfalla, cioè giornalista, l'apostolato della critica gli costava forse ancora gli agi della vita, ed indubitabilmente un consolato. Quell'aureola di vittima aveva contribuito la sua buona parte al rumore che si era fatto intorno a Maurizio; ma, ripeto, l'anima di lui non se ne accontentava. Aver inseguito per tanti anni i fantasmi di una gloria poetico-letteraria, per starsene pago ad una fuggitiva nomea comprata a prezzo di un po' di spirito e di molta maldicenza, gli pareva cosa bassa. Comprendeva benissimo essere il pubblico così fatto che, mentre fa buon viso alle inezie che punzecchiano, lascia dimenticato in un canto tutto ciò che approfondisce e pensa: ma, sazio del plauso della folla, volle il plauso degli eletti, invece di una gloriuzza volle una superba gloria tanto fatta. Affettò primo egli stesso di disprezzare le proprie chiacchiere settimanali, e non col falso disprezzo di chi vuol collocare i capitali ad interesse più alto, ma con un disprezzo vero e profondo. «Ho letto il tuo ultimo articolo.» «Sciocchezze! rispondeva, sto preparando un altro lavoro!» «Che lavoro?» «Uno studio sui filosofi della rivoluzione francese.» «Ah!» Non ci volle altro. È possibile leggere ancora, e trovar belle, le scritture d'uno che premediti uno studio sui filosofi della rivoluzione francese? Le teste meglio pettinate del caffè... furono le prime ad accorgersi come da qualche tempo la stella di Maurizio andasse declinando, ed il suo spirito si esaurisse, e perdesse egli i denti della satira. Ciò in parte era vero; sbollite le prime collere contro la società, Maurizio cedette alla propria natura e ridivenne benigno; e poi la sua fierezza si ribellava a questo scendere in piazza collo staffile, ed occuparsi delle persone col dispetto, colle ire e colle ironie che non devono ispirare se non le cose e le istituzioni; era troppo superbo per mordere dalla sua cuccia alle gambe degli inermi; non lasciò la cuccia perchè vi trovava un po' di pane, ma lasciò di mordere, raddolcì l'amaro della critica; dimenticò sè stesso nello scrivere, per ricordarsi solo delle cose di cui doveva parlare; non forzò gli argomenti ad atteggiarsi come piedestalli, per mettervisi in mostra, come aveva fatto per lo innanzi; invece del getto continuo di spirito, di cui frodava i lettori, provò a dar loro idee vere e pensate. Fu come lo sfasciarsi d'un idolo. Rientrò nell'ombra, per escirne periodicamente visto da pochi; l'oscurità non lo sbigottì, se ne compiacque, e si adoperò a farsi più oscuro, sostituendo al proprio nome, a' piedi dei suoi articoli, due iniziali. Parevagli che il disdegno interno dovesse così apparire al di fuori; fu invece accusato di debolezza, e divenne l'esempio di un critico col cilicio e coll'amor del prossimo. A poco a poco nessuno ricordò che sotto le iniziali di Maurizio era Maurizio. Egli poteva dire, a confortarsi, che fuor delle mura, lontano, questo incognito era un benefizio; che il nascondere la persona dà maggior autorità alla parola, che gli dèi della commedia parlano dietro le quinte; ma nemmeno di questa commedia si dava pensiero, solo gli premeva lo studio sui filosofi che prepararono la rivoluzione francese. Gli bisognarono parecchi anni di vita oscura per compiere questo lavoro; quando lo diede alle stampe non ne ricavò un centesimo, nè una lode. Per tutti questi contrasti inselvatichì, divenne intrattabile; passava come uno spettro; quando s'imbatteva in uno degli antichi ammiratori, scantonava ad una svolta di via o fissava ostinatamente un punto dello spazio. Allora meditò una magnifica vendetta degli uomini che non lo comprendevano, intinse la penna nel fiele che gli aveva dato i primi allori, lanciò una mezza dozzina di saette, infine rovesciò la faretra ed uscì ringhioso per sempre dalla sua appendice. Fu un momentaneo sgomento, poi una generale risata. I curiosi, di quanto si passava nel cervello e nel cuore del vecchio idolo non sapevano nulla di nulla. Erano stati d'accordo in dire che Maurizio aveva un segreto. Quale? ne bisbigliarono dieci; poi tacquero; ora finalmente vedevano chiaro; il segreto di Maurizio era che gli aveva dato volta il cervello! E non averci pensato prima! quando si dice!... Pochi mesi dopo questa catastrofe, lo zio milionario se n'andò _ab intestato_ all'altro mondo, senza potersi tirar dietro i milioni che non aveva, e che toccarono, per eredità legittima, al nipote. Il disgraziato Maurizio, a forza di prefiggere a scopo della sua vita l'ambizione letteraria, era venuto a disprezzare sinceramente il denaro, che vedeva così di rado; trovatosi di botto quasi ricco, sulle prime fu sbigottito; poi si ricordò di aver pensato e scritto che il denaro fa le gran cose del mondo e gli parve il portinaio del tempio della gloria non aspettasse se non la prima manciata di scudi per spalancargli l'uscio a due battenti. Tutti gli antichi sogni ambiziosi risorsero; pensò il cerchio dei vecchi e dei nuovi ammiratori fatto più compatto intorno a sè, ed il proprio disprezzo superbo circondato dalla invidia, ed il suo nome portato lontano sulle ali della fama. Gli si forniva un'occasione di far chiaro ai nulli carichi d'oro il disprezzo, mostrando come del suo proprio oro egli facesse poco conto. Comparve nelle brigate, nei caffè, al _club_, nei teatri, nelle sale da biliardo. In pochi giorni ebbe amici, ammiratori, scimmie dei suoi modi, delle sue vesti, gente che s'informava del suo sarto e della sua stiratrice. Di lettere nessuno gli fiatava. Il mondo pensava che il meglio di Maurizio fosse il suo borsello. A poco a poco prese l'abito elegante. Il suo quartierino da scapolo fu il ritrovo dei più leggiadri bellimbusti; vi si dissero le più gaie maldicenze, vi si sturarono le migliori bottiglie di sciampagna, vi si fecero le cose più matte e più di buon gusto. Se la gloria gli rimaneva chiusa, la nomea gli ritornava incontro a tiro da quattro. I milioni di Maurizio divennero proverbiali. Ma la fama di milionario costa cara, specie se non si hanno i milioni. Maurizio, sprezzante della sua nuova fortuna, non volle però lasciarsela ghermire dallo scialacquo. Egli non diceva più a sè stesso l'ingegno esser tutto nel mondo, nè tutto essere il denaro, ma che il meglio è il piacere, e che a prolungarlo gli bisognava porre un argine alle spese. Lo fece senza curarsi di quanto il mondo avesse a dire e con maggior fortuna che non pensasse; nessuno ne malignò; la sua riputazione di milionario si trovò essere così solidamente fabbricata, che i cenci stessi non l'avrebbero demolita; i suoi nuovi modi parvero frutto di balzano umore; la sua parsimonia sazietà. Vero è che questa parsimonia era ancora la lauta vita colle sue orgie e coi suoi bagliori, e che in fondo aveva solo mutato l'andatura, ma la meta era la stessa, la rovina. Di questo però non si dava pensiero; si proponeva d'arrestarsi in tempo; dove? quando? non sapeva. Era avido di piaceri; pareva volersi stordire da qualche secreto tarlo; anelava ad ebbrezze ogni volta nuove; sentiva, soddisfatti, riardere con altro fuoco gli stessi desiderii; in fondo era il vuoto ed un indefinito sgomento di sè. Lo sbigottiva la vacuità della sua vita, l'avvenire diverso tanto da quello che aveva sognato. In tutto il suo stato d'oggi, qual parte aveva la propria volontà, qual parte il proprio ingegno, a cui aveva tutto immolato? La sua stessa agiatezza gli era uggiosa; portava sulla fronte il marchio del sacerdozio fallito; era un disertore che la fortuna aveva comprato co' suoi favori. Un giorno si avvide che invecchiava, e che nel suo cuore era un posto vacante per un amor di donna. Qual donna amare? Non importa quale; gli bisognava una donna che non si potesse comprare, un affetto che non avesse origine dal suo denaro; qualche cosa di veramente suo, ad accarezzare il proprio egoismo e la propria superbia. Lasciò le orgie, dicendo agli amici essere stanco dei vezzi noleggiati dalle belle, ed alle belle esser sazio degli affetti imprestati dagli amici; — le belle e gli amici sentenziarono: «Maurizio è colpevole d'innamoramento.» Non era ancora vero. Alcuni mesi dopo, Serena fece la sua apparizione in Milano. Fu un avvenimento. Non parlò più se non della sua bellezza sovrumana, del suo lusso, del suo passato, delle sue ricchezze; le si diedero in prestito altri milioni, come a Maurizio; le si compose un romanzo molto intricato. Maurizio cercò ed ottenne _la fortuna d'esserle presentato_, e tanto s'accostò alla fiamma di quei due occhioni, che vi ritrovò — miracolo nuovo — le proprie alucce di poeta, ed uscì in un madrigale che fece il giro del mondo elegante in ventiquatt'ore. Allora chi aveva accusato Maurizio di innamoramento, lo rimandò assolto, non so con quanta logica. I mille adoratori della nuova divinità, apparsa nell'Olimpo molto pagano della ricca borghesia, non badarono nemmeno all'autore del madrigale, il quale non dava ombra a chicchessia coll'insistenza simmetrica del suo culto e colle quotidiane intercessioni. Il segreto di Maurizio stette nell'ombra, immolato sull'altare del segreto di Serena. Costei non rimase lungamente come era apparsa; era vedova, sola, senza amanti conosciuti, circondata da vecchi e nuovi tentatori; chi era penetrato nel suo tempio, vi aveva visto gli arredi del culto proprio d'una divinità ricca e superba; tutto ciò è qualche cosa, poniamo anche sia molto; ma non è una _posizione_ chiara e definita. Si discuteva, si almanaccava, ma in questo almeno si era d'accordo, che il mistero avviluppava tutta la bella figura di Serena, come il fondo nero d'un quadro, da cui esce più fascinatrice la superba bellezza d'una venere fiamminga. Con questa sola differenza, che la bella incognita aveva tutto delle veneri e nulla di fiammingo. Non si andò fino a darle il carattere di avventuriera, ma si aggiunsero colla fantasia i casi più bizzarri al suo romanzo ipotetico; taluno più accorto ritirò nello scrigno i milioni concessi al primo apparire di lei. Si sa che nel mondo vi ha della brava gente, avara fino allo scrupolo dei proprii milioni. A Maurizio non si pose mente gran fatto. Era suo desiderio vivere ignorato da tutti, noto a lei sola, ed alimentare nel proprio segreto la nuova fiamma, scaldarsi a quel fuoco insolito, rinascere alla nuova vita. Ambizione, gloria, ricchezze, piaceri — vecchio mondo in rovina, l'amore — ecco la vera vita, ecco l'avvenire, e gli sorrideva sulle labbra di Serena. Quest'ultima frase non vuol essere presa se non come una figura della rettorica innamorata di Maurizio; il vero è che Serena non fu con altri tanto severa quanto fu con Maurizio, il quale fra tutti era il solo devoto e sincero. Arti di bella capricciosa? Bisognò che Maurizio se lo dicesse almeno dieci volte il giorno per non impazzire. Per lui non esisteva se non Serena, quel volto candido come l'alabastro, quegli occhioni di fuoco, quei capelli nerissimi; scopo della sua vita fu giungere al tesoro chiuso in quel magnifico scrigno di donna — al cuore. Quando ebbe la certezza che il magnifico scrigno era vuoto, ch'egli aveva affidato ad una vana sembianza tutti i suoi affetti, che quella suprema bellezza era da vendere al miglior offerente, che tutto quel lusso di forme apparteneva di diritto a chi lo avesse coperto con lusso maggiore di vesti e di gioielli, che il proprio amore era sprezzato, la nobiltà delle sue intenzioni quasi derisa, fu la fierezza dell'anima il medico della profonda ferita del cuore; si armò di disprezzo disposto ad entrare coraggiosamente in convalescenza. Ma il disprezzo, che talvolta è forza, si ritorce di frequente contro chi l'adopera; uno che disprezzasse sinceramente tutto quanto lo circonda, finirebbe, di necessità, col disprezzare sè stesso. Uscito dal primo impeto, Maurizio non potè tanto disprezzare Serena che non disprezzasse il mondo, nè tanto il mondo, da dimenticare come egli ne facesse parte. Per la prima volta vide nelle veglie tormentose delle sue ultime febbri tutto sè stesso, la povertà dei desiderii seminati e la miseria del raccolto. Amore, piaceri, ambizioni, ogni cosa fa fatta spregevole o vana, e disistimabile tutto e sè stesso nell'immensa disistima del mondo. Ad una di queste lunghe notti nevose era succeduta un'alba povera di luce, ed all'alba un mezzodì che pareva un tramonto, quando Maurizio, rizzandosi sui gomiti nel tormentoso letto, gettò alle proprie sembianze, riflesse da uno specchio, queste parole che gli venivano in mente per la prima volta: «stupido! il denaro fa tutto; puoi tu darmi un milioncino?» L'altro non rispose, ed il servitore bussò colla nocca del dito alla porta. Recava una lettera. Quella lettera diceva così: «_Signore_, «Sul punto di lasciare Milano, per non tornarvi forse mai più, sento il dovere di rivolgervi una parola di ringraziamento e di addio. Non mi importa di ciò che dirà il mondo, ma di quanto potrete pensare voi sono gelosa. La proposta sincera che mi avete fatto vi dà il diritto di giudicarmi severamente. Fatelo; la mia colpa non trovi pietà nel vostro cuore, io lo merito. Ma sappiate almeno che sotto la maschera del cinismo e dell'indifferenza era il rossore della vergogna, e che il cumulo di menzogne, di cui feci pompa con voi, nascondeva un cuore. Non oso stringere la mano che mi avete offerto. Siate felice. «SERENA». XXI. IL SECONDO COLLOQUIO DI MAURIZIO E SERENA. Mezz'ora dopo Maurizio attendeva nel leggiadro salotto di Serena, col cuore agitato da una febbre più gagliarda di tutte le precedenti, colle mani contratte come per forzare la propria impazienza a contenersi. Era uscito da casa ed aveva fatto la strada senza pensieri, o piuttosto con un solo pensiero, che era insieme un delirio: «ella mi ama!» Tutte le idee si confondevano in quest'una: dubbii, ansie, paure, affannose notti, più nulla, nebbia ogni cosa; egli aveva l'occhio ad un raggio di sole: «ella mi ama!» Pensava egli a quanto stava per fare, a ciò che stava per dire? Che importava? Si sentiva più grande degli avvenimenti, gigante quanto era il fascino di queste parole: «ella mi ama!» Serena si fe' molto aspettare. Quando apparve nel vano della porta, come una cara visione lungamente evocata, Maurizio mandò un piccolo grido e fece un passo incontro ad essa; ma la bella volse il capo a sbarazzare lo strascico della serica veste, che si era molto opportunamente impigliata nello stretto passo, e Maurizio si sentì inchiodato al suolo. Nel sorriso, nella fredda e cerimoniosa disinvoltura di Serena, non era proprio nulla della donna innamorata; invano, su quel pallido volto incantevolmente bello, Maurizio si adoperava a leggere una sillaba di ciò che aveva creduto di leggere nella preziosa lettera... proprio nulla! Serena fe' cenno al visitatore di sedere, e sedette ella stessa. Maurizio si lasciò cadere sopra uno dei seggioloni azzurri a frange d'oro, senza poter profferire parola e non distaccando gli occhi dalla bella indolente. — Vi ho scritto, fu la prima a dire Serena. — E per questo io sono qui, rispose Maurizio con voce commossa. Se quanto siete bella, voi siete generosa, dovete abbreviare la tortura che provo, promettermi d'esser schietta come sono io. — Non vi comprendo, rispose freddamente Serena. — Mi comprendete; lo leggo nel vostro cuore che mi comprendete; promettetemi di essere sincera. — Prometto, disse Serena con lieve atto dispettoso; non abuserete, immagino, della fiducia che ho riposto in voi e della volontaria parte di rea da me scelta, per farmi un interrogatorio. Volete essere mio giudice? Ve ne ho concesso il diritto, aspettate però che io sia lontana. — Voglio essere il mio giudice, riprese a dire Maurizio con un accento pacato e grave che dava solennità alle sue parole, e socchiudendo gli occhi profondi, come per nasconderne il lampo: voglio essere il mio giudice; mi sta dinanzi agli occhi un superbo fantasma, ho fatto un sogno audace; se vero è quel sogno, voi mi amate. Serena, sorrise in singolare maniera, e rispose scherzosamente: «Svegliatevi.» — Non ancora, soggiunse Maurizio trattenendo invano l'impeto della passione; non ancora. Non prima d'avervi detto che il vostro amore mi è necessario, che è il mio delirio, tutta la mia vita. Non prima d'avervi detto che le cento ambizioni meschine per cui è passato il mio cuore hanno ora fatto una grande ambizione: essere amato da voi; che l'amor vostro sarebbe ad un tempo una pietà, che nessuno potrete mai rendere tanto felice con una parola quanto me. Ora dite, ho io sognato scioccamente, od è vero che mi amate? «Svegliatevi» ripetè Serena collo stesso accento, collo stesso atto, collo stesso sorriso. E siccome Maurizio la guardava fisso in volto tentando di cogliere nelle sembianze di lei una mentita alle parole, soggiunse: — Vi ho dato la mia stima, vi ho dato la mia fiducia, e sono cose che vengono dal cuore; potrei darvi un effimero affetto, e sarebbe capriccio, dire d'amarvi e sarebbe menzogna. Uscite dal vostro inganno. Risalendo il mio passato non trovo per gran tratto di via una parola schietta come la vostra, un'offerta generosa come la vostra, un cuore più nobile del vostro — ecco perchè mi duole d'essere da voi creduta più trista di quello che sono — ed ecco perchè vi ho scritto. Mi sentivo disprezzata e volevo essere rammentata senza maggior disprezzo domani... Non credevo di rivedervi... — Sentite, interruppe Maurizio pigliando con audacia lontanissima dalla impertinenza la mano della bella, io ho gli anni in cui le passioni sono fatali, e nondimeno mi rimarrebbe tanta forza da soffocarle se le credessi ignobili: sentite, io non chieggo del vostro passato, io non voglio guardare in un tempo che non mi appartiene; qualunque sia la colpa da cui siete uscita così bella e così forte, io so già che è una sciagura. Ebbene, sappiatelo; ho anch'io una colpa, e la nascondo anch'io invano a me stesso; accettate di divenire mia moglie, farete una generosa azione, e mi aiuterete ad espiare e riparare il passato. Devo dire di più? — No, ve ne scongiuro. Serena non disse altro, pareva le mancassero le parole ad una folla d'idee e di sentimenti. Maurizio approfittò di quell'istante di debolezza e soggiunse: — Non sono ricco, lo sapete, pure mi rimane tanto da vivere in un'onesta oscurità; non mi dite che vi piace il lusso, che amate la pompa e gli agi d'una splendida esistenza; ho potuto crederlo un istante, ma oggi non la crederei. — Avreste torto, osservò Serena ritrovando un'uscita al suo imbarazzo. Maurizio non l'udì. — Andremo lungi da Milano, andremo dove vorrete, il mondo è vasto ed offre mille nascondigli alla vera felicità; ne cercheremo uno insieme. Dicendo queste parole, il volto severo di Maurizio brillava di una luce insolita, e la voce gli tremava come per affanno. Serena rimaneva impassibile; od almeno se ne dava l'aria. — È inutile, diss'ella, questa bella cornice non si adatta a me; vi pare che, se anche potessi accettare di divenir vostra, l'ombra mi accontenterebbe? Mi crediate o no, io amo la luce, tutti mi dicono che sono bella, ed a forza di sentirlo dire mi piace crederlo; finchè ciò dura bisogna metterlo in mostra; è la mia parte. — Cessate, interruppe Maurizio con dolcezza pietosa, cessate; io vi leggo in cuore che non sentite una parola di quanto dite per guarirmi. Non sono un ammalato che risani; finchè durerà la mia speranza sarò un audace sognatore, se risvegliandomi non sarò nelle vostre braccia, impazzirò. Serena si rizzò in piedi e guardò intorno a sè come sgomentata, poi si fece presso a Maurizio col volto in fiamme. — È vero, sì, è vero, io vi ho ingannato, io vi amo! E gettandogli senza ritegno le braccia al collo, ruppe in un singhiozzo le ultime parole. Quell'atto fu così repentino, che Maurizio rimase un istante trasognato. Uscendo dal suo torpore, sentendosi fra le braccia il bel corpo di Serena, e sul volto l'alito della sua bocca ed i ricci dei suoi capelli, e sul cuore il martellare affrettato di quel cuore rimasto fino allora un mistero, diè un grido. — Oh! ch'io non impazzisca ora per l'immensa gioia! — Tacete, per pietà; tacete! mormorò la bella, e chiuse colla mano tremante la bocca di Maurizio. In quell'atto, in quella sconfinata ebbrezza dei sensi, Maurizio non si sentiva più uomo; nascose il capo nell'onda dei ricci della bella, ne baciò le labbra, le guance, la fronte, e tacque. Quanta parte pigliava Serena a quella muta frenesia? A poco a poco l'ansia del suo petto si quetò, cessò l'affanno, e fu essa la prima a sciogliersi dolcemente da quell'amplesso. — Se voi mi amate, mormorò Maurizio prolungando quanto poteva la sua felicità, se voi mi amate siate mia. Serena non rispose, allontanò per l'ultima volta la mano che le cingeva il corpo e riuscì a sedersi sopra un seggiolone. Aveva ripreso tutto l'imperio di sè medesima, era ancora la bella indolente di prima. Quanto a Maurizio, nell'atto d'uno a cui sia stato tolto dalle mani un tesoro, la guardava con occhi sbigottiti, avendo l'aria di non credere alla sua felicità di poc'anzi. — Siate mia, insistette Maurizio facendosi più presso: ho guardato nel mio avvenire ed ho visto che non mi riserba altra felicità se non l'amarvi; siate voi dunque tutto il mio avvenire, siate mia. Maurizio nel dire queste parole aveva riguadagnato un po' della sua consueta fermezza; pregava, ma come un superbo. — Sono vostra, rispose Serena con semplicità; la parola che mi è uscita dal labbro mi fa vostra. Le donne mie pari quando hanno detto di amare sono fortezze smantellate; l'amore è la parola d'ordine. Sono vostra... Quelle parole trattennero Maurizio, il quale sulle prime aveva dato loro un altro significato. Ciò che ora comprendeva era tanto inverisimile, che stentava a darvi fede. Nulla rispose, ma l'atto quasi pauroso con cui si ritrasse, ed il fiero modo con cui sollevò la fronte, dissero chiaro il suo pensiero. Serena lo guardava senza sbigottimento. — Mi avete detto di stimarmi, prese poi a dire Maurizio con voce grave, mi avete ingannato. Io non sono venuto per farvi ingiuria; è un'altra maniera d'amore quella che vi chieggo. — Non ne ho altra, rispose Serena. Maurizio non udì. — Non parlo alla donna che ha l'incenso di tutti, parlo a quella che ha il mio cuore. Il passato qualunque sia non è cosa mia; non voglio di voi altro che voi sola! A me basta sapermi amato e sapervi moglie virtuosa. Non potete voi divenirlo? — Non posso, rispose Serena senza esitare, non posso. La colpa è la mia sorte, la porto meco, non mi abbandona, non può abbandonarmi mai... nè con voi, nè con altri... — Mi basta, mormorò Maurizio, mi basta. Ma non era vero; non gli poteva bastare; lottava dentro di sè tra la superbia e l'amore, e si guardava intorno con occhio smarrito. Serena vide quello sguardo e n'ebbe paura, e fu di nuovo in piedi d'un balzo, ma invece di farsi presso a Maurizio, rimase immobile, severa, quasi minacciosa, cogli occhi fissi all'uscio della sua camera. Maurizio si volse, e vide nella stessa cornice, dove poc'anzi gli era apparsa la soave figura di Serena, un uomo tozzo, una faccia spartita per metà dal sorriso d'una bocca enorme, due occhioni da coniglio sotto una piccola fronte, e tutto ciò in atto tra l'umile ed il beffardo. Allo sguardo di Serena il banchiere Redi si ripiegò sopra sè stesso e scomparve; e Maurizio, a cui l'ingrata apparizione apriva gli occhi, non seppe resistere al primo istinto della propria superbia, s'inchinò lievemente e fece atto di uscire. Non aveva mosso un passo, e già era pentito, e voleva rimanere; ma Serena non fe' cenno, non disse parola per trattenerlo, ed il disgraziato si trovò fuori dell'uscio senza avvedersi che gli sanguinava il cuore. Questa volta Serena non pianse, non uscì in singhiozzi, ma rimase in piedi immobile gran tratto dopo che Maurizio fu lontano. Quando si risovvenne del banchiere Redi, entrò nella propria camera che trovò deserta; il prudente milionario se n'era andato. Ma aveva lasciato di sè il profumo, un irresistibile olezzo di bergamotto che doveva guidare la fantasia più ritrosa dietro i suoi passi. Forse per resistere più coraggiosamente alla tentazione, Serena ritornò nel salotto e sedette dove sedeva poc'anzi, e fissò l'occhio dove poc'anzi era Maurizio, e così rimase a lungo. Fu tolta, o piuttosto non fu tolta, ai suoi pensieri, da un servitore che recava un bigliettino olezzante di mammola. Serena riconobbe l'essenza favorita del vago luogotenente delle guide, e si lasciò cadere di mano il pistolotto senza degnarlo d'uno sguardo. Così passava il tempo; già la luce invernale incominciava ad affievolirsi; a poco a poco si abbrunarono successivamente le quattro virtù delle pareti, i ninnoli di bronzo ed i mobili di palissandro, poi l'azzurro delle stoffe e le dorature, e da ultimo non rimasero di quell'allegra comitiva di colori, altro che i bianchi amorini di stucco appesi alla vôlta a ghirlande della propria natura. Serena fantasticava sempre, fissando la candida boccia d'una lampada; e solo quando l'ebbe perduta di vista, perchè l'ultimo tizzo si spense nel caminetto, solo allora si avvide dell'oscurità e del freddo. Chiamò; due minuti dopo tutti i colori, che si erano sottratti ad uno ad uno e come di nascosto, riapparvero in frotta a far festa al lame giocondo della lampada ed alle fiammate allegre del focolare. Ecco: le frange d'oro dei mobili e gli stipiti dorati si rimandano i riflessi, ogni spigolo sfoggia la sua pennellata di splendore, le quattro virtù sembrano sorridere agli amorini, e gli amorini ricominciano più allegramente che mai le loro tentazioni sul capo delle quattro virtù. È il buon momento. Il cugino Ferdinando, l'amabile luogotenente delle guide, domanda d'esser ricevuto. La bella pensosa rialza il capo e fa un cenno sbadato che si può tradurre: «venga.» E l'amabile luogotenente viene, colle gambe sparate, colla sciabola sotto il braccio, come un eroe che muove alla conquista. Deh! se la vittoria ha un minuzzolo di cervello non tardi a buttarglisi nelle braccia. XXII. IL LUOGOTENENTE DELLE GUIDE TORNA ALLA CARICA. Cuginetta, disse l'azzurro cavaliere, sono stato più volte al punto di credermi meno fortunato; dentro di me qualche cosa scommetteva che non mi avreste ricevuto. Il cuore ha vinto la posta; lasciate che vi ringrazi. — Di che? rispose Serena, volgendo appena il capo dalla parte del nuovo venuto, senza però staccare gli occhi da un punto fisso che non era nella sala. — Di aver aderito alla mia preghiera. — Quale preghiera? Il luogotenente parve sbigottito da quella ostinata distrazione. — Non avete ricevuta la mia lettera? — Mi pare di sì, ma non ho avuto tempo di leggerla. E si volse senza affettazione; in aria di sincero pentimento, ricercò e mostrò sulla tavola, ancora intatta, l'odorosa missiva del galante guerriero; l'aspetto del quale è intraducibile colla penna; quello stentato sorriso, quella violenta contrazione dei muscoli della faccia per non fare il broncio, e quel dimenarsi per non parere sgominato, gli davano un'aria burlesca di vittima niente affatto rassegnata. — Vi domando scusa, disse Serena ridendo forte, come se non potesse resistere all'impeto del suo umore giocondo; mi direte voi stesso che cosa contiene questa lettera, caro cugino. Il cugino Ferdinando aveva perduta la testa, ed infilò due spropositi uno in coda all'altro. Il primo sproposito fu di non far eco alla gaia risata della bella, il secondo di rispondere pregando la bella di leggere ora il suo biglietto. Il lettore avveduto non ha bisogno che gli si dica quanto magra figura faccia un innamorato, il quale assiste alla lettura della propria _dichiarazione d'amore_. Ma era proprio un innamorato, il luogotenente delle Guide? Questo non è certo, quanto è certo è che la sua lettera era una dichiarazione profumata, a bruciapelo. Serena si arrese all'invito con molta grazia, spiegò la lettera, ne fiutò il profumo con un atto di lieve beffa, e lesse a voce alta, facendo scherzosamente tutte le fermate delle virgole e dei punti. Quell'omaggio all'ortografia del luogotenente fu ricevuto male, perchè, invece di esserne lusingato, il guerriero continuò a dimenarsi sulla seggiola non sapendo come tenersi. Finita la lettura, la bella depose sbadatamente la missiva dove l'aveva presa e si rivolse al cugino: — Dunque voi mi amate? Ne siete sicuro? Il luogotenente, a sentire enunciato il suo tema, fece uno sforzo coraggioso per non darsi l'aria d'uno scolaretto, ed incominciò l'amplificazione così: — Credetelo, cugina, ve ne prego. So tutte le idee che possono venirvi in mente, so che il passato sta contro di me per quella volgare opinione che non si ama due volte la stessa persona; potrei dirvi che non ho mai cessato di amarvi, ma sarò schietto; è vero, io ho potuto cessare d'amarvi; non so come, non so perchè; ed ora vi amo più della prima volta. Ho ritrovato in voi tutta la vostra bellezza che mi accese, e per giunta un fascino nuovo che m'incatena. Il linguaggio del luogotenente era divenuto a poco a poco sicuro e determinato. Serena lo lasciò dire senza interromperlo. — Siete bella come non foste mai, tutti vi adorano, ed io sono geloso. Non voglio mascherare i miei sentimenti, attribuiteli voi a voi stessa, non a merito mio; ma se la schiettezza merita un premio, siate schietta anche voi con me, ditemi se vi pare proprio che non possiate amarmi mai. — Mi pare proprio, rispose Serena. Il cugino insisteva collo sguardo. — Vi comprendo, disse la bella, con un leggiadro sorriso; voi stesso vi fate illusione sui vostri sentimenti; non volete ingannarmi perchè siete schietto e generoso, ma vi ingannate, perchè nessun uomo è padrone d'essere schietto e generoso con sè stesso. Credete di amarmi per le mie nuove bellezze, per un mio fascino nuovo; se poteste leggere dentro di voi come io vi leggo, vedreste che in me non amate più la donna, ma la cortigiana in voga. — Cugina... disse l'uffiziale accostandosi. — Cugino... ribattè la bella, fredda, ma senza collera, il vostro amore è un'impertinenza. Il disgraziato amatore ammutolì. — Domani lascio Milano, proseguì Serena, ridiventando la creatura indolente di prima. — È dunque vero? — Lo sapete? — Si diceva al caffè; non ho voluto credere, e per questo vi ho scritto e sono venuto. — E si diceva dove mi recherò? — A Parigi. — Sono meglio informati di me, perchè io stessa non lo so ancora. Non si diceva altro? — Null'altro. Ebbene, vi scongiuro... — Cugino, ci rimettete uno scongiuro; è deciso che io parta. — Sola? — No. — E l'uomo che vi accompagna, lo amate? Serena si strinse nelle spalle e non rispose. — Sentite, riprese a dire il luogotenente dopo un breve ed affannoso silenzio; se una cosa vera è mai uscita dalle mie labbra, ve lo giuro sul mio onore, è questa, ch'io vi amo. Non vogliate vendicarvi di me, oppure vendicatevi meglio, ridatemi avaramente una bricciola del passato, ridatemi... — Io non mi do, interruppe Serena con tono indifferente, mi vendo. — E il vostro compratore? rispose incollerito il cugino. — Mi paga cara, e potrebbe comprare dieci mie pari; non vi fu detto il suo nome al caffè? — Non mi fu detto, ma ora l'indovino; il banchiere Redi. Serena non rispose. — Lo ucciderò, disse il guerriero, mettendo il pugno sull'elsa della sciabola. — Un milionario non si lascia uccidere; e poi, ucciso uno se ne trova un altro; non vorrete uccidere tutti i milionari, immagino. Cugino Ferdinando, ridiventate uomo di spirito, come siete sempre stato fino a questo momento. E la bella, senza muoversi dall'indolente positura, fece un cenno di commiato al galante guerriero e sonò un campanello. Un pezzo di servitore alto sei piedi apparve nel vano dell'uscio. Di mala voglia il luogotenente si rizzò, fece un lieve inchino, uscì. E la bella continuò a fissare lungamente un punto immobile, che non era nel suo salotto. Il domani Serena era partita. Appena la novella si sparse per la città, i frequentatori del caffè e del circolo tennero adunanza e discussero _a posteriori_ tutti i segni infallibili che avevano annunziato la catastrofe. E che fosse una catastrofe non fu posto menomamente in dubbio dagli adoratori, i quali spiegavano così la fortuna del banchiere a danno delle loro legittime speranze. Del resto tutti si consolavano e ricevevano consolazioni a vicenda, col riso e l'arguzia sulle labbra. Rimaneva un paio d'inconsolabili, i quali, ciascuno per proprio conto, si erano vantati che la bella ritrosa non avesse saputo resistere alle loro seduzioni; ma costoro non furono visti al circolo nè al caffè. In fondo la fuga (s'era finito coll'accettare questa espressione), la fuga di Serena col banchiere Redi fu una vera fortuna. Gli echi del caffè e del circolo non udirono mai tanti motteggi, e gli specchi dovettero credersi disoccupati, non avendo più a riflettere alcuno sbadiglio. Quanto a Maurizio la notizia gli venne solo a tardo mattino. Nella notte il disgraziato aveva fatto pazzi sogni ad occhi aperti. Per la prima volta, dacchè il cuore aveva preso la mano alla fantasia ambiziosa, il senso prese la mano al cuore. «Quella donna, quel miracolo di forme, poteva esser sua!» Quando spuntava l'alba egli diceva a sè stesso che gli bisognava ritornare da Serena prima che partisse, trattenerla o seguirla, stringersela al cuore, e dimenticare in quello spasimo dolce ogni altro spasimo. XXIII. SERENA A MAURIZIO. «Parto, reco altrove la mia vergogna, senza rammarico, senza dolore, senza gioia; non mi importa dove, purchè sia lontano. «Non ritornerò forse, non vi rivedrò forse mai più; queste parole sono il testamento che mi separa da tutto ciò che ho amato. Mi spinge a scrivervi non una vanitosa compiacenza od una fantasia melanconica di donna colpevole; ma un bisogno, un dovere. L'offerta che mi avete fatto vi dà ogni diritto sopra di me; ora che io non potrò più arrossire in faccia a voi, sappiate tutto il vero. «Non potevo esser vostra nè d'altri; nella terribile vedovanza che mi sono fatta intorno al cuore, mi rimane il primo vincolo, mio marito! Ho ucciso tatti i miei affetti, tutte le mie gioie, tutto il mio avvenire con una colpa sola, ma è sopravvissuta la colpa, implacabile, continua. Io non sono vedova. «È la sorte di molte, è la storia d'ogni giorno. «Se vi dicessi che l'uomo a cui fui sposa io lo amava, che egli mi amava e che un istante di dimenticanza mi tolse alla casa mia, all'uomo mio, agli affetti miei, per restituirmi più tardi al pubblico corrotto, non ancora corrotta io stessa al pari del pubblico; se vi dicessi che la _passione_ da cui venni tolta alla famiglia, divenuta sazietà, mi respinse colla fredda ingiuria e mi lasciò sola, vi direi la storia di mille. «Ad ogni sole che tramonta si offusca insieme la pace d'una famiglia; ogni alba nuova saluta il primo ghigno di una cortigiana. «Leggetemi in cuore. Vi hanno momenti della mia triste vita in cui rivedo una casicciuola in fondo ad una viuzza di Modena, ed in quella casa il cumulo dei miei sogni di fanciulla, ed i nuovi sogni di sposa, e la felicità di avere una famiglia mia, d'essere come il primo anello d'un mondo fatto per me, ed un sorriso sereno in premio della mia gioia, e la mia gaia e spensierata natura di donna riflessa in un maschio volto d'uomo occupato nei suoi studii, ma buono, affettuoso, pieno di fiducia, fatto cieco dalla sua stima; Quella casa serena io l'ho fuggita, quel volto sereno io l'ho oscurato per sempre, per me quell'anima mite maledice la esistenza, e quell'intelletto che viveva di due amori, della scienza e della famiglia, ora... E tutto ciò per una creatura fatua, insipida, volgare, che, coll'arditezza e con quattro freddure imparate a memoria, trionfò della mia virtù. «Rinsavita, più pel nuovo senno del mio innamorato che per proprio mio senno, mi rimaneva una sola via aperta — scendere ad uno ad uno i gradini che menano alla colpa. «Feci scrivere a colui che mi fu padre; mi fece rispondere «la mia dote restituitagli da mio marito essere a mia disposizione presso il banchiere Redi; vivessi di quella non ignominiosamente, _se mi era possibile_». Nulla più. _Non mi era possibile._ Rientrare nel mondo come una pentita, rinnovare la mia riputazione, non far parlare di me la gente maligna; tutto ciò era possibile; ridivenire onesta, no. La mia anima ebbe una singolare fierezza e non volle ricomprare con un facile pentimento l'impunità della mia colpa. Uscita dal santuario della mia casa, io doveva avvoltolarmi nel fango; era la sola riparazione possibile; — onesta moglie o cortigiana pubblica — non è via di mezzo per chi, oltre all'anima corrotta ed al corpo contaminato, non vuol mascherarsi coll'ipocrisia. Volli essere spregievole, poichè avevo cessato d'essere stimabile. «Le porte della mia casa erano chiuse dietro di me, e mio padre non mi chiamava più figlia; cento altre braccia si aprivano per accogliermi nella caduta. «Volli stordirmi; mi concessi il lusso, le feste, le adorazioni; accettai la mia parte quale io me l'era fatta; disprezzai me stessa per arrivare più presto e più forte allo sprezzo del mondo. « — Fa di venderti caro, mi ripeteva la mia nuova saggezza e sarai onorata. Gli uomini ingiuriano i piccoli mercati, applaudono ai grandi; inflessibile colla colpa coperta di cenci, si piegano in arco quando passa la colpa coperta di velluto. — Mi parai di gioielli falsi e di velluti e scesi al mercato. Ecco, ora ho i gioielli veri! «Disprezzatemi, siate più forte di chi mi ingiuria e si strugge dal desiderio o dall'invidia, abbiate in cuore ciò che i meschini hanno sul labbro — disprezzatemi. «È la mia pena e la invoco. «Ma non siate ingiusto; non mi fate carico di aver preferito all'affetto vostro le ricchezze d'un uomo che mi è odioso. Dite piuttosto a voi stesso che ho scelto la colpa che contamina la persona meglio di quella che fa battere il cuore, che volli rimaner cortigiana anzi che amante di un uomo amato; e che questo è il mio volontario supplizio. Ogni altra espiazione mi è negata; amarvi, essere vostra e felice del vostro amore, mi parve maggiore ingiuria all'uomo tradito. «Non dico di più; non gioverebbe a nulla. Disprezzatemi solo quanto io mi disprezzo e vi basterà a cancellare interamente dal petto il tristo amore d'una sciagurata. «SERENA». XXIV. CIÒ CHE RIMANE A MAURIZIO. Il suo amore! pensò Maurizio; ambizioso sentimentalismo di cortigiana, ipocrisia di un cuore di donna che batte fra le braccia di un compratore!» Stette lungamente immobile, come istupidito, cogli occhi fissi in quei caratteri che andava rileggendo a spizzico senza più comprenderne il significato. Gli passavano in mente, in folla disordinata, mille fantasie; vedeva quella donna in cento aspetti, se la immaginava in viaggio, entro la carrozza, all'albergo, al braccio del banchiere, ora con un triste sorriso sulle labbra, ora colla fronte annuvolata, carezzevole e dispettosa, innamorata e cortigiana, pensosa e beffarda. Questa folla pazza di fantasmi si avviava tutta per una strada, dietro la fuggitiva, e passava innanzi a lui lasciandolo solo nel mezzo del cammino, a ghignare in silenzio, senza nemmeno volgere il capo per accompagnarli un tratto di via. Quelle ombre passavano, si riflettevano un istante sopra di lui, che se ne stava immobile e non ne serbava alcuna traccia: pareva che tutti quei pensieri fossero gente frettolosa e gli domandassero la via per cui Serena era passata, e che il suo cuore dovesse rispondere: «per di qua» — ma la sua mente era altrove. Quella donna che fuggiva, quella bellezza di forme che si cancellava nello spazio, non era più se non una visione; il suo disgraziato amore una leggenda. Egli si sentiva la forza di strapparsi dal petto ogni sentimento estraneo; ritrovava sè stesso; il suo orgoglio medicava con sinistra pietà la sua ferita. E pensava... A che pensava egli? Tutte le belle fantasime giovanili gli riapparivano colla beffa sul labbro; le meditate opere del suo ingegno, le vergini collere e le ardenze dei primi anni avevano il ghigno della parodia: più oltre erano le sospirose miserie allietate da un inno e le gagliarde fami contente ad un pane e ad una strofa, e più oltre... Più oltre i vent'anni, la balda e ridente stagione della vita... E nondimeno egli ne rifuggiva, ritornava indietro, rifaceva il suo cammino fino ad arrivare all'amarezza dell'oggi; allora fissava l'occhio più intento, e lo spalancava vie più, e dallo sguardo immoto gli balenava una tetra luce. E pensava... A che pensava egli? Alla sua credulità beffata dallo esperimento degli uomini, all'intatta fede d'una volta ed allo scetticismo datogli dalla pratica del mondo. E forse, pigliando le parti del volgo — volgo oramai egli stesso — contro le proprie utopie generose, si diceva che tutte le sue ambizioni erano stolte, tutte le sue speranze sciocche, ridevole ogni sua chimera; e che l'aver voluto attendere dallo ingegno e dal cuore altra moneta da quella dell'elemosina era la massima ingenuità. E che in fin dei conti il mondo è un mercato, e che se ci vai con una moneta che nessuno conosce, dovrai spenderla per vilissima, e chiamarti fortunato se non ti si lasci morire di fame. L'ingegno! Tutti ne hanno!... Ma tu parli del tuo proprio che vale di più... E quanto vale? E chi ti dice se più valga lo appaiare due endecasillabi ed il mettere in prosa elegante ciò che ti frulla per il capo, ovvero la speculazione profetica che ha l'occhio al rialzo ed al ribasso, e la dotta fiducia che accetta allo sconto una cambiale? E che fan di buono le tue strofe e la tua prosa, quando non fanno del marcio? E poi, via, perchè questa sorta d'ingegno, letterario od artistico, pretende di andare innanzi all'altro? A condurre con garbo un negozio, a stringere i nodi della borsa quando è il momento buono, si richiede uno squisito acume d'intelletto; a fare che la lira, invece d'un soldo, ne renda due, occorre un'arte greca sopraffina. Tu te la intendi benissimo coi numeri del verso, ma io me la rifaccio coi numeri dell'abbaco; invertiamo le parti e ti farò ridere, e mi farai ridere; ma io riderò più forte ed il coro farà eco al mio buon umore. Non è così grand'uomo che non sia più piccolo del suo portinaio, a sentire il portinaio. «Egli fa libri, sapesse così fare i conti di casa sua!» «Codesti signori eruditi non capiscono nulla; hanno il capo nelle nuvole, fossi io nei suoi panni, questo vorrei fare! o questo! o questo!... un po' di buon senso come ce lo dà la madre natura vale meglio di tutti i genii dell'universo!» Conclusione: non è uomo più corto dell'uomo di genio. Invece se tu entri nel mondo col borsello ripieno, ti basterà mostrarlo perchè ti si apra ogni rupe; avrai servitori e clienti che ti faranno codazzo, attratti dalla musica dei tuoi scudi; se distribuisci le mancie, meglio, ma non occorre nemmeno; ti fuggiranno i parassiti, ma ti rimarrà la immensa maggioranza, la quale se ne sta contenta a sapere che, se tu volessi, potresti comprare tutte le loro virtù insieme; non vuoi, ma è tutt'uno, un milionario è come una cassa forte, e dà lo stesso religioso stupore: non importa che sia chiusa con mille congegni, e non ne esca uno spicciolo, e sia a prova di incendio e di lagrime. Accuserai tu il prossimo tuo perchè non ammira abbastanza il tuo ingegno, o la tua prodezza, o la tua virtù, quando il mondo è pieno di falsi prodi, di ipocriti e di cerretani? Sii schietto: la sola cosa schietta è il denaro; lo conti e sai il fatto tuo; hai mille lire in tasca e le mostri al tuo vicino; se il tuo vicino frugando in tutte le sue tasche non vi trova una lira, dirà nel segreto del suo cuore che tu vali novecentonovantanove volte più di lui. Questo pensava Maurizio. Due giorni dopo egli aveva speso il rimanente del suo patrimonio nell'acquistare azioni di una certa impresa umanitaria, che prometteva dividendi del trentacinque per cento. A calcoli fatti, rivendendo le azioni quando fossero raddoppiate di valore, comprandone altre alla pari in una nuova impresa, e così di seguito, un soffio di fortuna ed un paio d'annetti dovevano bastare a dare a Maurizio il fatato milioncino. XXV. DONNINA AD OGNISSANTI. «Vedi tu chi mi sta dietro le spalle minacciando di non andar via prima ch'io non abbia incominciato a scriverti? Gli ho pur detto che se rimane non ne faccio nulla, ma egli ride e non si muove. «Questa volta ride più forte e se ne va... se n'è andato — ottimo maestro Ciro, ottimo babbo! «Ti volevo scrivere ieri, appena letta la tua lettera, e mi pareva di non poter tanto affrettare da tener dietro all'immenso desiderio che avevo di consolarti. Ma ero io stessa così mesta, e le tue parole ed i casi tuoi mi avevano tanto conturbata, che sarei riuscita a fare il contrario del mio proposito ed a rattristarti peggio. Per quanto mi dovesse costare, meglio che mandarti il mio improvviso di lagrime, ho preferito dormirci su una notte e scriverti i pensieri del mattino, che sono i più sereni. «Ora sono lieta e soddisfatta di me; e penso che se avessi ceduto a quell'impeto melanconico, non solamente ti avrei afflitto, ma ingannato anche, e mi avresti creduta dolente mentre io non sono stata mai allegra e felice tanto. Perchè, vedi, a forza di pensare a tutte le improvvise melanconie che mi assalsero nel leggere le tue parole, non me n'è rimasta nemmeno una, e non è più uno sgomento, dei tanti d'ieri sera, di cui ora non mi senta in vena di sorridere. «Io so pure che ti parrò pazzerella, ma poichè tale pazzia non fa male e l'attingo in una sconfinata fiducia nel tuo avvenire, nel nostro, mi pare che non vi sia grave danno. Non ti venga in mente che io non comprenda quanto tu devi aver sofferto per tutti quegli schianti del cuore. Tutto io m'immagino: la tua generosa fierezza ribelle alla servilità fino a pigliar sembianze d'ingratitudine, e lo scrupolo del volermi bene così intenso da parerti per ogni nonnulla di meritare che io te ne volessi più; ho come costretto il mio cuore a picchiar qua dentro alla maniera del tuo, e so quanto devi aver patito. Ma so pure, se vero è che tu mi vuoi bene, ed è verissimo, che io ho il rimedio pronto; mi basterà dirti che la nostra sorte, qualunque essa sia, non potrà mutare il cuore di due poveretti che si chiamavano Ognissanti e Donnina, per ridonarti il tuo sorriso giocondo di allora. «Che tu sia un medico, un sapiente, non fa proprio nulla. Nel nostro patto era compreso l'avvenire, ed io sapeva già che saresti divenuto qualche cosa di grosso. Non fosti forse tu a trovar il trifoglio dalle quattro foglie? Lo vendesti a me, è vero, ma dovevo sapere che la fortuna non si vende. «Dunque se il tuo cuore non è mutato, nulla di te è mutato da quel che eri allora; e come io vorrei essere una principessa solo per rimaner sempre la tua Donnina, così tu sei l'Ognissanti mio. Se ti avessi scritto ieri, avrei scritto altrimenti — e ne sarei pentita. Il cuore è un gran ciarliero, e quando non ti grida un vero sacrosanto, ti bisbiglia cento innocenti bugiuzze... innocenti a patto di avere il cervello a casa. «Non ti pare che io ragioni bene? Quanto all'altro tuo affanno non ci vedo conforto, se non nella tua stessa coscienza; e poi è tale che quasi non lo comprendo, tanto mi pare che tutti ti dovrebbero amare. Un padre poi! uno che ti volle seco egli stesso, che ti diede l'educazione e l'avvenire! Dico anch'io con te: chi lo costringeva a chiamartisi padre se poi non te ne voleva dare l'affetto? Poi che ebbe la scelta della sua creatura dovrebbe volerti bene il doppio, mi pare, e ne ho un esempio in cuore: maestro Ciro! «Ma non so come avvenga, in mezzo a tutto ciò, io veggo sempre più limpida l'immagine dell'avvenire nostro. Stamane la mia testa è come un prisma allegro e tutti i barlumi che vi passano attraverso vi vestono i colori dell'iride. E non so come, invece di odiare quel tuo cattivo babbo per tutto il bene che non ti dimostra, gli voglio bene per quanto ha fatto per te. E penso che forse null'altro gli manca se non una voce, la quale gli scenda al cuore e lo costringa a guardarti nell'anima. Potesse essere la mia quella voce! «Com'è il tuo babbo? Come si chiama? Senti se assomiglia all'immagine che me ne son fatta. «È alto, smilzo, con due occhi grigi affondati nell'orbita, ha la fronte spaziosa ed un poco di rughe sopra il ciglio, una barba rara ed incanutita, e due labbra sottili che non ridono mai, cammina impettito ed abbottonato, porta gli occhiali... «Ti fa paura questo ritratto? «Ebbene, lo crederai se ti pare, a forza di guardarlo da ogni lato gli ho trovato il suo lato buono, ed in poche ore me l'ho addomesticato, per modo che, se l'originale corrisponde proprio alla mia copia fantastica, è un uomo nostro. «Io scherzo col tuo dolore, ma non so star seria perchè mi sento felice. «Conchiudo colla massima gravità: se la tua coscienza non ti rimprovera nulla, metti pure il cuore in pace. «È doloroso, lo comprendo, ma io ti vorrò bene anche la parte degli altri, e se proprio ti abbisogna un babbo che ti ami, ci ho il mio che sarà il tuo. Maestro Ciro ha un cuore tanto fatto, capace per farmi piacere di amare in una volta sola tutto l'universo. «Quanto a pagare il tuo debito di riconoscenza verso quell'uomo che ti ha aperto la via del mondo e dell'avvenire, ci voglio pensare io. Farò la tua parte io che non sono superba. E poi è così facile farsi amare! E quando uno è arrivato all'amore (bada quando vi è proprio arrivato), ricorda forse più dove s'era messo in cammino? «Sai? da otto giorni il cielo faceva il broncio alla campagna; nugoli fitti o nebbie fitte, ed al sole non riusciva di passare un raggio attraverso quel dispettoso mantello per fare una carezza al piano e distaccare i diacciuoli dai gelsi che ne devono essere stanchi; sono otto giorni che tace il concerto dei passeri, otto brutti giorni in cui si ebbe una vera carestia di luce; or eccoti un'allegra novella — il sole! E forse ora appunto tu guardi in alto e ti allieti allo stesso raggio che mi fa lieta, pensando a me, e vorresti sapere che faccio in questo momento, ed immagini tutt'altra cosa... come io ora di te forse. Ma non importa. Le cose sono come noi le vediamo, e quando non possiamo vederle, come ce le colora la fantasia, tal quali. E se anche taluno potesse dirmi di sicuro che in questo momento tu dormi stanco d'una studiosa veglia, io non gli crederei e mi ostinerei a vederti così: gli occhi a questo raggio di sole, il pensiero... a Donnina. «In sostanza questa credulità che si fida alle proprio fantasime vale più e meglio di certo scetticismo dubitoso anche di ciò che vede. Non è vero? «Te lo voglio dire; la tua lettera ci ha fatto piangere; il mesto racconto dei sei anni passati lontano e la tarda rivelazione di quanto già prima avevi patito al fianco di quel poveretto che fu il tuo primo padre, ci ha commossi. Me non solo, ma anche la mamma, la terribile mamma. «Ciò mi fa pensare che anch'io ti devo una confessione generale. Che cosa ho fatto durante la tua assenza? «Prima di tutto sono ingrandita sei buoni pollici, e poi sono diventata una donna, una vera donna, sebbene mi si continui a chiamare Donnina. Ho imparato a tenere in sesto le faccende di casa, ho rubato ogni giorno un po' della sconfinata autorità di mamma Teresa, e mi sono avvezzata poco alla volta a fare la massaia. Ti farò meravigliare colla mia dotta economia. «Ho anche compito la mia educazione tanto da potere, all'occasione, supplire il vecchio babbo nelle sue lezioni. So spiegare le regole dell'abbaco e guidar la mano ai miei allievi di calligrafia. Nelle ore perdute ho studiato il ricamo e la storia, ma pochino, pochino. E poi, devo dirlo? il più del mio tempo l'ho speso pensando a te. Ogni santo giorno ti mandavo il pensiero dietro, per la via di Milano, ma senza saper dove. E dicevo a me stessa: «egli, almeno, dovunque sia, può venirmi incontro colla mente, perchè sa dove trovarmi di sicuro; io no, non posso.» Ma non dubitavo di te, non ti faceva colpa del tuo silenzio; solo me ne affliggevo come d'una disgrazia. «Ogni sera pregavo per te, per noi, e quando (raramente), mi assaliva uno sgomento, non di noi, ma della sorte nostra, ricorrevo al mio amuleto e mi rasserenavo. Quell'amuleto tu lo sai, o l'indovini, è il trifoglio delle quattro foglie. «Ti ho solo detto il bene. Ma ti puoi immaginare che la fanciulla non è divenuta donna senza passare per le tentazioni del peccato; sono anch'io un po' vanerella, un po' capricciosa, un po' impertinente... al par di tante altre, ed anche un po' maligna, come vedi... «Infine, tal quale, sono tua. «Sono tua! Che piacere infinito a poterlo dire, a poterlo scrivere, e dopo di averlo detto e scritto non dovermi destare per accorgermi che sognavo, per chiudere un'altra volta gli occhi e cacciare la testa fra i guanciali invocando lo stesso sogno! Ma in virtù di quei sogni ora mi pare di non essere mai stata divisa da te... E poi anche il passato non è forse un sogno? Questi sei anni vissuti melanconicamente mi paiono dimenticati da un pezzo; si cancellano i contorni dei giorni melanconici numerati nella solitudine, e non rimane altra sembianza tranne la tua, che mi era sempre dinanzi. Non è vero che siano passati sei anni; fu un sogno, un brutto sogno, ed io voglio tenere gli occhi aperti per paura di addormentarmi ora che sono felice. «Ecco: il raggio del sole è arrivato a poco a poco fino al mio letticciuolo; la scolaresca arriva in frotta, ed il babbo incomincerà la sua lezione. Ho aperto la finestra; non fa freddo, i passeri cianciano saltellando sulle nude braccia dell'olmo; v'ha ancora per aria una nebbiuzza sottile, trasparente, che si dirada mano mano e scintilla ai raggi del sole come un polverìo luminoso. Tutto ciò mi farebbe pensare al cielo del tropico che ho visto solo nei libri, se non fossero la nudità degli alberi e la tinta gialliccia delle zolle. «Vuoi saperla la gran novità del nostro paese? Da otto giorni non si parla d'altro, ed io che l'ho tutto il santo dì innanzi agli occhi sarei pur disgraziata se non te ne dicessi nulla. Parlo della nuova insegna dell'_Osteria della Salute_. Rappresenta una figura umana rotonda e carnosa, molto rotonda e molto carnosa, la quale solleva ridendo un bicchiere colmo di vino e lo guarda con occhio di amore. «A dare il meglio possibile l'immagine della salute, il pittore ha prodigato il rosso sulle guance del suo ideale e gli ha disegnato tre curve parallele sotto la fossetta del mento. Così come è, pare il ritratto dell'apoplessia. «Dirai che t'intrattengo d'inezie, ma se avessi solo dovuto scriverti delle gran cose che accadono, avrei finito prima d'incominciare. Ora a me scrivendoti pare di esser teco e qualunque sciocchezza mi passi per il capo la voglio dire, purchè tu intanto legga quanto mi sta nel cuore: che ti voglio un gran bene, un gran bene, e che sono la tua «DONNINA.» XXVI. VIAGGIO DI SCOPERTA. I passeri lo hanno detto ai gelsi, alle acacie delle siepi ed ai bassi virgulti che levano le braccia nude dal letto di neve: il tempaccio è finito, la bruma è in rotta, i nugoli si disperdono come un esercito sgominato, ecco il sole. Ecco il sole! L'immenso piano di neve è tutto uno scintillìo, interrotto dalle lunghe ombre nere gettate da ogni stelo. Un'impalpabile nebbia nuota nell'aria, ma così lieve e così trasparente, che la diresti un polverìo di rose e d'oro; i colori fanno festa; il poco verde delle foglie pare più verde, la limpidezza del cielo, da tanto tempo vestito a bruno, sembra cosa nuova ed allegra oltre l'usato. Da ogni ramo gocciola la neve disciolta, e le mille pozzanghere improvvisate, in cui si specchia il mattino, hanno sembianza di pezzi di firmamento caduti sulla via maestra. A poco a poco l'aria si fa più trasparente, il cielo che pare d'argento e di porpora per i riflessi della neve e del sole nascente, si tinge d'un azzurro purissimo, e l'astro radioso si innalza nell'orizzonte. L'unica via di A... è inondata di luce; l'_Osteria della Salute_ è tutta tripudio, e non sentì mai così forte l'orgoglio di aver tutti i suoi vetri intatti; gran dire! la nuova insegna sembra più bella, ed il signore che vi è dipinto più rosso del solito. Un venticello lieve stacca dai rami degli alberi le ultime falde di neve; nè hanno tempo di giungere a terra che già sono squagliate; l'orizzonte ristretto dalle brume si è allargato sterminatamente, tanto che dalla finestra di Donnina si vedono splendere al sole le nevi delle montagne lecchesi. Ma Donnina ha l'occhio ad un altro cielo, ad un altro orizzonte. Il suo pensiero corre per la pianura verso Milano, si lascia indietro la guglia del Duomo e va oltre, e va oltre... poi rifà la via percorsa. Si ravvede e rilegge la lettera scritta poc'anzi, e le pare di non aver detto nulla di quanto voleva dire, fino a che il sole, baciandola in volto, la costringe a togliersi dalla finestra e dal suo Ognissanti per assettare la cameretta. Proprio allora che Donnina staccò l'occhio dalla via maestra apparve all'estremità una carrozza, la quale ebbe in pochi istanti percorso quel tratto di via e fu innanzi alla porta ospitale dell'_Osteria della salute_. Il saluberrimo proprietario del luogo mandò il suo più balsamico sorriso incontro ai nuovi arrivati, che erano due e salutò in uno di essi una vecchia conoscenza. — Ha buona memoria l'amico, disse il dottor Parenti accennando l'oste. Il signor Fulgenzio pareva sopra pensiero e non rispose. Poco stante i nuovi arrivati attraversavano il tratto di via che separa la locanda dalla scuola comunale, e si arrestavano innanzi alla nota porticina. Li seguiva furtivamente l'oste, ma solo cogli occhi che teneva appiccicati alle vetrate. Il signor Fulgenzio non voleva passare per il primo, ed il dottor Parenti si fece innanzi; usciva dal vano sottile dell'uscio socchiuso il dotto mugolìo che esala da ogni scientifico banchetto di fanciulli punto punto affamati di scienza. Il dottore picchiò tre volte colla nocca, e subito ogni rumore cessò; un istante dopo la testa canuta del signor maestro s'incorniciava nel vano innanzi ai due visitatori, e si ritraeva con un atto di meraviglia che ben valeva un saluto, e la porta si spalancava, e i due visitatori si trovavano innanzi alla scolaresca, la quale balzava in piedi rispettosamente con molto maggior rumore del necessario. Tutto ciò, ripeto, in un istante. Maestro Ciro, mal pratico dei cerimoniali, non domandò «a che cosa dovesse l'onore di quella visita,» ma era tutt'occhi per indovinarlo, e tutt'orecchi per non farselo dire due volte. Il dottore fu il primo a parlare. — Lei, se non isbaglio, è il signor maestro della scuola comunale di A... — Da sei anni sono io quello, per servirla. — Il signor Ciro Neri...? — Appunto... — Noi abbiamo bisogno di parlarle di cose che riguardano la sua famiglia... Ed aggiunse, additando prima il compagno, poi facendosi innanzi egli stesso: «Il signor Fulgenzio, il dottor Parenti.» Maestro Ciro s'inchinò profondamente, ed intanto colla coda dell'occhio guardava se mai gli venisse fatto di vedere due seggiole, le quali non ci erano mai state, e pensava che una cameretta decente, dietro la scuola, avrebbe servito tanto bene a ricevere i visitatori. Il dottor Parenti si avvide alla prima dell'imbarazzo del signor maestro, e gli disse col più amabile sorriso: — Se lei potesse lasciare i suoi allievi alcuni istanti e volesse seguirci a due passi, nell'osteria della Salute qui rimpetto... vi ha una stanzetta in cui si starebbe soli... Ed è sempre meglio... le pare? A maestro Ciro pare di sicuro; e poi quella visita inaspettata, la benevolenza del dottore e la contegnosa taciturnità del signor Fulgenzio gli hanno messo innanzi tanta folla di fantasia, che non sa più raccapezzarsi. Ed ecco, Donnina, la quale ha finito di dar sesto alla sua camera, scende appunto da basso; il vecchio babbo le va incontro, la chiama e se la fa venire dietro nella scuola. Stamane la fanciulla è così lieta, che pare le stia ancora sulla fronte il raggio di sole che la baciava poc'anzi; entra senza titubanza, vede i due sconosciuti e si arresta un tantino, mentre maestro Ciro le dice: — Ti affido i miei scolari; se Teresa domanda di me, io sono alla _Salute_ coi signori... E si volge per mettersi a disposizione _dei signori_, i quali non sanno staccar gli occhi di dosso alla giovinetta. — È Donnina, la mia creatura, balbetta allora. — È lei! aggiunge il dottore tentando il gomito del signor Fulgenzio. Ma Donnina s'è già accostata ad uno dei suoi allievi per avvertirlo che il sillabario non è propriamente fatto per lacerarne i margini e masticarli; intanto il dottor Parenti ha infilato l'uscio, e il signor Fulgenzio dietro, ed il signor maestro in coda, ruminando un sospetto nuovo ed un timore antico. «È Donnina... la mia creatura!...» aveva detto. Oh! perchè non aveva detto semplicemente «la mia figliuola!» Ohimè! E se l'altro, quel vecchio taciturno e severo, gli avesse risposto: «non è vero, non è tua, tu mi hai rubato un affetto che è cosa mia; son io suo padre!» Ah! qual gioia infinita e quale infinito dolore! Nei venti passi che separano la scuola dall'osteria, babbo Ciro non stacca un istante gli occhi di dosso al signor Fulgenzio, come per trovargli nel naso e nel mento le prove autentiche della paternità. Il dottor Parenti, persuaso che uno scherzo è la via più spiccia per arrivare alla domestichezza d'un colloquio intimo, dice: «quanta filosofia nella vita paesana! il nutrimento del corpo ed il nutrimento dello spirito a poche spanne; e le due cose si fanno dirimpetto, perchè nessuno ne dimentichi la necessità.» Il signor maestro tira il fiato lungo ed assicura che del nutrimento dello spirito i filosofi del luogo se ne dimenticano volontieri; ed avrebbe aggiunto, ma sta zitto, che dimenticherebbero, a lasciar fare, anche di nutrire il corpo del signor maestro. L'oste della _Salute_ non sa discendere dalle regioni iperboliche della sua meraviglia, vedendo babbo Ciro coi due ospiti, e quando gli si domanda un boccale del suo miglior vino bianco, ed egli lo reca e lo depone sopra una tavola nella cameretta solitaria, non sa come fare per non andarsene. Ma il dottor Parenti lo spinge fuor dell'uscio con un'amorevolezza tutta sua, e dice mettendosi a sedere: — Poveraccio! questo camerino sembra fatto a posta per mortificare la curiosità d'un oste. Bisogna fare una certa violenza a maestro Ciro per indurlo a sedere fra i due; quando la cosa è riuscita, e l'unanime consenso ha dichiarato il vinello bianco molto salutifero, il dottore, parendogli il momento buono, entra addirittura in materia senza ombra di preambolo. — Caro signor maestro, noi siamo qui per parlare della sua Donnina, della sua figliuola... Maestro Ciro si sente venire i sudori, e per rinfrancarsi vuota d'un sorso ciò che gli rimane nel bicchiere; il dottore si affretta a colmarglielo, non ostante la resistenza, poi prosegue: — Il signor Fulgenzio qui presente, ha bisogno di sapere qualche cosa su quel tesoro di giovinetta... — Lor signori sanno?... balbettò il vecchio. — Che Donnina non è propriamente sua figlia; non è un segreto, lo devono saper tutti in paese, posto che lo sa l'oste... Il povero padre ha un esercito di domande che gli sfilano nella mente, gli arrivano a fior di labbro e si inabissano in gola; fa cenno al dottore di proseguire e non dice nulla. Ma il signor Fulgenzio, a cui non è sfuggita la lotta che si combatte in quel petto, entra a dire: — Non le paia curiosità importuna la nostra; abbiamo gravi ragioni... si fa pel bene della sua figliuola... — Benedetti! risponde maestro Ciro, perchè vuole che mi paia curiosità? Un giorno o l'altro già io me l'aspettava... mi ci ero preparato. Lor signori conoscono dunque il padre?... Il maestro di scuola ha smozzicato l'ultima domanda con due colpi di tosse, che sono in realtà due singhiozzi belli e buoni. Fulgenzio e l'amico si guardano in viso, coll'aria di dire: «a questo non avevamo pensato.» — Ci è un equivoco, osserva il signor Fulgenzio; noi non veniamo per ciò che lei suppone. Una domanda ci farà intendere: Conosce Mario? — Mario! dice il maestro fra sè, e lo ripete due volte senza che gli venga in mente dove ha udito quel nome. — Conosce Ognissanti? interroga sorridendo il dottor Parenti. — Se conosco Ognissanti! se lo conosco!... è vero, lo chiamano anche Mario. — Mario è mio figlio, dice il signor Fulgenzio; e senza dar tempo al vecchio di riaversi dalla meraviglia, prosegue: Mario ama la sua Donnina, si è promesso a lei, io so tutto; — Quand'è così, la saprà che i due poveretti si erano promessi da bimbi, si può dire... e che... — E che Donnina ha un cuore d'angelo, e farà un'ottima moglie come ha fatto un'ottima figlia... aggiunge il signor Fulgenzio. I pomelli lucenti delle gote di maestro Ciro ricevono un insolito lustro da due grosse lagrime che è impossibile trattenere. — So tutto, prosegue a dire l'altro; e non domando di meglio che di fare la felicità di mio figlio, se lei non ci ha nulla in contrario. A questo punto la porta si spalanca con impeto, ed entra mamma Teresa. La terribile donna, dal fondo del suo enorme cappellino, guarda come inorridita lo spettacolo di quell'orgia e si arresta sulla soglia. Il dottor Parenti le va incontro cavallerescamente, le offre una seggiola e la invita a sedere; la vecchia non si fa pregare ed apre bocca per parlare, ma il signor maestro si mette un dito in croce sul labbro, ed il dottor Parenti dà all'oste, il quale ha creduto opportuno di venire a prendere gli ordini dei signori, il consiglio di recare un altro bicchiere. Intanto che l'oste va e torna, la vecchia, fiutando in aria lo _straordinario_, dice abbassando la voce, come per farsi scusare: «ero uscita a far la spesa, torno e non trovo più il mio vecchio; dov'è il mio vecchio? domando a Donnina; — alla _Salute_ con due signori che avevano bisogno di lui; se avevano bisogno di lui, dico io, avranno bisogno anche di me; maestro Ciro non ha mai fatto nulla senza di me, tranne la scuola; ci vado, e se non mi vorranno ritornerò... Devo andarmene?» Il dottor Parenti le sorride amorosamente, il signor Fulgenzio la guarda con curiosità, ed il marito mette un'altra volta l'indice sul labbro. Ritorna l'oste col bicchiere. «Grazie, amico mio, gli dice il dottore; ci farete un regalone, chiudendo l'uscio e badando che nessuno venga a disturbarci. L'oste fa un sorriso apocrifo e se ne va, ed il signor Fulgenzio ripiglia a dire, come se nulla lo avesse interrotto: — Dunque, se lei non ci ha nulla in contrario, Ognissanti sposerà la sua Donnina. — Ma le pare? risponde mamma Teresa, a cui di repente si è chiarita ogni cosa; la nostra Donnina vuol bene ad Ognissanti, e gli vogliamo bene anche noi; lo abbiamo conosciuto piccino piccino, alto così; era un amore, un vero amore, un po' birichino, un po' bisbetico, ma un amore; se la meritava proprio la fortuna che gli è toccata di trovare un padre come lei... Dicevamo dunque che non solo non abbiamo nulla in contrario, ma siamo felici, felicissimi... Via, parla anche tu, soggiunge, toccando col gomito il marito, devo sempre dirle io le cose? parla tu, che sai come si fa coi signori... Il signor maestro si frega le mani, come nelle grandi allegrezze, ed approva del capo ogni parola della vecchia. — Facciamo conto che abbia parlato io stesso. — Dunque, a quando le nozze? domanda mamma Teresa, avanzando il corpo per modo che il cappello le ricade sulle spalle ed il viso rugoso esce dal vano enorme. Il signor Fulgenzio non può trattenere un sorriso a quell'accento ed a quell'atto, ma il dottor Parenti accorre serio serio in aiuto della signora, e le riadatta in capo il cupolone, sebbene la vecchia dica che non occorre. — Presto, risponde il signor Fulgenzio, se non vi sono altre difficoltà. — E che difficoltà v'hanno a essere? — Donnina, che lei sappia, ha padre o madre viventi? Maestro Ciro, a cui è rivolta la domanda, guarda in faccia mamma Teresa, la quale ha gli occhi altrove e tende le orecchie per non perdere una sillaba. — Ecco, la mamma non ce l'ha più di sicuro, ma il padre, almeno credo, vive ancora, sebbene non si sia più visto. Anzi, da cinque anni ci giunge ogni tanto del denaro, che non sappiamo da chi venga, e poco tempo fa abbiamo ricevuto per la stessa via _mille lire_; quel denaro lo abbiamo messo alla Cassa di Risparmio di Milano per Donnina... Non è vero, Teresa? — Se è vero? lo sai pure che è vero! risponde la vecchia tentennando il capo per l'impazienza; ma a che serve tutto ciò? Contenta Donnina, contenti noi, e contenti noi contenti tutti! Quel padre doveva farsi vivo prima, e non lasciare la povera creatura in abbandono col rischio di mandarla all'altro mondo. Dico bene? — Dice benissimo, risponde il signor Fulgenzio, a cui è diretta la domanda, e per me... — Ah! interrompe la vecchia, meno male! Non siamo forse noi che l'abbiamo raccolta, allevata, chiamata figlia? Donnina è cosa nostra, tutta nostra, lo domandi a lei e sentirà. E se suo padre se n'è dimenticato, peggio per lui. Mi pare di ragionare, mi pare... — Lei ragiona benissimo; ma la legge... — Che legge, che legge! Io non so di legge, non so leggere io, non ne voglio sapere; e maestro Ciro se ne dimenticherà, se occorre, ma Donnina deve fare quello che vogliamo noi, e noi vogliamo che faccia quanto le pare e piace. Maestro Ciro, tra i monosillabi del signor Fulgenzio e le sfuriate della moglie, non capisce nulla di nulla, ed ha piuttosto l'aria di uno scolaro, che del signor maestro. — Vediamo, dice il dottor Parenti, non complichiamo le cose, lasciamo le querele da una parte; il codice mettiamolo da banda per ora, e poichè ci siamo intesi circa lo scopo del nostro colloquio, badiamo d'andare con ordine. Ora, per andare con ordine, si deve incominciare dal conoscere la storia di Donnina... Maestro Ciro, ci vuol dire lei quanto ne sa? — Dall'_a_ fino alla _zeta_, risponde mamma Teresa, lieta di poter fare quest'allusione al carattere scientifico del marito. E sentiranno loro se quello è un padre... Maestro Ciro, posto al cimento di una narrazione, sembra raccogliere le idee e pigliare in pugno le redini della grammatica; dopo di che, incomincia con un lieve tono cattedratico: «Sono quindici anni che Donnina è con noi; ora essa ne ha diciotto compiti, quasi diciannove, dunque, quando divenne nostra figlia, non ne aveva ancora quattro. Allora io era maestro di scuola ad S... un allegro paesello lungo la ferrovia; la scuola era poco frequentata, una ventina di allievi in tutto; ma l'onorario era proporzionato al numero degli scolari, non alla fatica nè ai bisogni. Perciò alla prima occasione, e si fece aspettar molto, mutai residenza. «Era nel paese una coppia di giovani sposi, Brigida e Tommaso; la moglie sfrondava i gelsi nella stagione, il marito era cantoniere sulla ferrovia; s'erano sposati perchè si volevano bene, ma erano tutti e due soli al mondo e non possedevano se non il loro affetto e le loro braccia. In paese erano amati molto, vivevano nella solitudine della campagna, nel piccolo casotto, con quattro spanne di orticello; erano felici di poco, ma felici davvero e molto. — Sicuro, interrompe mamma Teresa, e siccome i felici fanno ombra a quella razza d'invidiosi che manipola le cose di questo mondaccio... — Teresa... — Lasciami dire, tanto lo penso, ed è tutt'uno... e così un giorno il povero Tommaso cade e si fiacca uno stinco, e gli viene la cancrena, e se ne va all'altro mondo... Maestro Ciro, sentendosi incapace d'arrestare la moglie intanto che parla, continua ad approvare col capo ognuna delle sue parole, poi ripiglia: «La povera Brigida rimase sola col cuore gonfio dell'affanno, colla salute affranta dalle veglie e dagli stenti, e per di più madre. Venne al paese; visse o piuttosto non morì subito; ebbe una figlia, e la restituì al cielo pochi giorni dopo. Qualche pietoso le consigliò di recarsi a Milano e di offrirsi per nutrice. Così fece; andò a piedi, stette via un paio di giorni, al terzo ritornò dando il latte ad una bambina non sua, a Donnina. La povera creatura aveva perduto la madre nel venire al mondo; il padre non doveva essere agiato, perchè pagava un meschino compenso alla Brigida. Come si chiamava la fanciulla? Camilla. Come si chiamava il padre? Non sapeva dirlo. Sapeva solo che abitava in una via stretta, in stanze molto piccine, e poste in alto in alto. «Ci fu un po' di curiosità in paese per conoscere il padre di quella creaturina. Un giorno, dopo parecchi mesi, si vide venire a piedi un giovine tra i ventidue ed i venticinque; era lui; «aveva un'aria molto patita,» così almeno si diceva. Stette un paio d'ore, se ne andò come era venuto, a piedi; ritornò un'altra volta parecchi mesi dopo, ed un'altra; poi nessuno più lo vide. Donnina aveva quasi tre anni ed era graziosissima; veniva considerata come la figlia del Comune e non le mancavano i baci; ma le mancò la madre. La povera Brigida, non bastando al lavoro, ammalò; da qualche tempo non riceveva più ogni mese le poche lire dal padre di Camilla, e non sapeva a chi scrivere, perchè quell'uomo non le aveva mai detto il suo nome. Per farla corta, morì anch'essa; allora la mia Teresa ed io, vecchi e senza figliuoli, si pensò di far nostra la creaturina. Molti dissero che avevamo fatto una buona azione; qualcuno sospettò che il padre si fosse nascostamente rivolto a me, e m'avesse incaricato della sua figliuola, e sparse la voce essere Camilla la figlia d'un ricco signore, il quale non voleva farsi conoscere; nessuno indovinò il vero, cioè che noi, la mia vecchia ed io, ci eravamo tirati in casa la felicità. — E del padre di Donnina non ebbero più notizie? chiese il dottor Parenti. — Una volta sola e da altri, e senza sicurezza d'indizii, seppi che un giovine alto, _sotto la trentina_, era stato sul far dell'alba ad informarsi di Brigida, e saputala morta, ed inteso che Camilla era stata raccolta da noi, non aveva chiesto altro e se n'era andato. Sperai di ricevere qualche lettera che mi togliesse dall'incertezza; non ricevei mai nulla. Finalmente, cinque anni sono, mi pervenne da Milano, entro una busta da lettere, un _vaglia_ in mio nome. — E chi mandava quel vaglia? — La signora _Donnina Neri_... il nome che portava la fanciulla. Era lo stesso come dirmi che quel denaro veniva mandato per Donnina e che il padre non voleva farsi conoscere. — E qual prova che fosse il padre e non altri a mandare il denaro? chiese il signor Fulgenzio. — Veramente, nessuna... ma noti che Donnina era il nuovo nome venuto dall'uso alla piccina; e se colui lo sapeva era segno che aveva avuto informazioni della sua creatura e che non l'aveva dimenticata del tutto. — Dunque, secondo lei, il padre di Donnina vive? — Lo credo. — E non ha veruna prova che la sua Donnina sia nata fuori di matrimonio? — Nessuna. Il signor Fulgenzio stette un istante in meditazione sotto gli sguardi impazienti e curiosi dei due vecchi, poi riprese a dire crollando il capo: «Se il padre vive ed è padre legittimo, Donnina non può prender marito senza il suo consenso.» Mamma Teresa fece un balzo sulla seggiola ed appuntò le mani sulla tavola. — Donnina non può sposare Ognissanti? — Nè Ognissanti nè altri... — Senza il consenso di lui... di quella birba che non ha fatto altro se non metterla al mondo... E questa è la legge? Ma dove avevano il cervello quei signori che hanno fatto la legge? Dunque se a quello sciagurato venisse in mente di non farsi conoscere mai o di non volere mai, Donnina dovrebbe starsene ad ammuffire in casa in eterno? — Fino a che non avesse vent'un anno almeno. — La cosa è diversa, osserva maestro Ciro, il quale ha sempre avuto un gran rispetto alla legge. — Non è diversa niente affatto, ribatte mamma Teresa; fino a vent'un anno! e Donnina, tu lo sai, non ne ha ancora diciannove, e noi siamo vecchi e non abbiamo gran tempo da aspettare per vederla felice... — Noi forse, osserva il maestro di scuola, ma Donnina può aspettare un pezzo! — Non può, ti dico io che non può, e che questa è una birbonata della legge; già, l'ho sempre detto, la legge è fatta per favorire i furfanti, i quali o l'hanno per sè e se ne approfittano, o l'hanno contro e non ci badano. Sbollito l'impeto, mamma Teresa tace per non saper più che dire, e siccome nessuno parla, ella va girando gli occhi dall'uno all'altro dei tre, ed aspetta che da quel silenzio esca qualche cosa di buono. Il dottor Parenti è il primo a parlare e lo fa colla sua consueta sicurezza, togliendo se non altro il pensiero dalla contemplazione della propria impotenza. — Bisogna assolutamente trovare il padre di Donnina, e lo troveremo vivo o morto. — Meglio morto, osserva mamma Teresa, e se lei lo trova vivo, gli dica pure da parte di mamma Teresa che se ne muoia, che ci farà un regalone a tutti. — Lo troveremo, prosegue il dottore senza badare all'interruzione; non ci bisogna altro se non sapere in qual parrocchia è stata tenuta a battesimo Donnina. — Nemmeno questo non lo sappiamo, dice melanconicamente maestro Ciro. — Benissimo, nemmeno questo non si sa; benissimo, vediamo un po' che cosa si sa: l'anno in cui nata? — 185... Il dottor Parenti scrive il numero nel suo taccuino. — Il mese? — Maggio. — Il giorno? — La prima settimana, giorno più o meno. — Il paese? — Milano, ma non è certo. Il dottore legge forte: «L'anno 185... nella prima settimana del mese di maggio nacque a Milano e fu battezzata nella parrocchia di... una bambina a cui fa posto il nome di Camilla...» — Ecco fatto, prosegue a dire ricacciando in tasca il taccuino; mi basterà andare in giro per le ventisette parrocchie di Milano; non domando per questo più d'una settimana. Ed ora che il padre di Donnina è trovato, amico Fulgenzio, non so che cosa ti trattenga dal fare la tua domanda ufficiale: maestro Ciro, mamma Teresa, il signor Fulgenzio ed io abbiamo l'onore di chiedervi la mano di vostra figlia Donnina per il nostro figlio Mario, ovverosia Ognissanti... L'accento con cui è fatta questa domanda di nozze, ridona a tutti il buon umore. Maestro Ciro risponde colla voce rotta dalla tenerezza, e mamma Teresa spinge il suo entusiasmo fino a dire che quello è parlare a dovere, e ch'è un negozio fatto, e non se ne parli altro. Rimangono ancora quattro buone dita di vino bianco in fondo alla bottiglia, ed il dottor Parenti ha il pensiero di empire mezzo il bicchiere di mamma Teresa, e mezzo il proprio e quello di maestro Ciro. E siccome il signor Fulgenzio è stato dimenticato, egli avanza sorridendo il bicchiere e chiede la sua parte. — Alla salute di Donnina ed alla loro salute, dice a mezza voce il dottore. — E di Ognissanti, risponde maestro Ciro nello stesso tono. — E di lor signori, aggiunge la vecchia in un'ottava più alta. Poi si muovono ed escono. L'oste della _Salute_ è tutto sorrisi; ne regala un paio a mamma Teresa, uno a maestro Ciro, uno di prima qualità al signor Fulgenzio e sciorina i fondi di magazzino al dottore, rimasto ultimo per pagare il conto. — Grazie infinite, ed a ben vederla. — E presto, forse, rispose il dottore. — Ai suoi comandi (e qui un altro sorriso), tutta la _Salute_ è ai suoi comandi. — Vi ringrazio per i miei ammalati. — Vossignoria è medico? interroga l'oste, felice di apprendere qualche cosa. — Sono medico, ma non abbiate paura, le mie visite alla vostra osteria sono innocenti. L'oste comprende lo scherzo. — Già!... noi siamo sani sempre. — Tranne la vostra insegna; non mi piace dissanguare il mio prossimo, ma a quel signore ordinerei volontieri una cavata di sangue. L'oste ride da quell'uomo di eccellente umore che egli è, e rimane sull'uscio persuaso di non saperne più di prima. XXVII. IL POSCRITTO DELLA LETTERA DI DONNINA. Bizzarre cose aveva detto il cuore a Donnina. Al primo vedere i due sconosciuti che cercavano del babbo, ed il babbo che se n'andava con essi, ella aveva sentito come il segnale di uno scampanìo di festa, e rimasta sola per accudire ai piccoli scolari, non ci fu verso di mettersi sul serio a far la maestra. Le passavano in mente cento fantasie, sentiva in petto cento sussulti nuovi; era proprio la donna più disadatta in quel momento a tener in freno una brigata di monelli. Le bisognava la pace, e parevale di poterla trovare altrimenti che nelle cure della scolaresca. Dal canto suo la scolaresca metteva a profitto quegli istanti di ozio coll'entusiasmo di chi li immagina troppo brevi. Donnina salì sulla cattedra del babbo, e raccomandò il silenzio, accordando a questo patto dieci minuti di riposo: avvertì che se non sapessero tacere, farebbe dire a tutti la lezione; e se invece sapessero, ella ne avrebbe tanto piacere. Tutte queste considerazioni messe insieme dovevano avere un gran peso, perchè ognuno tacque o all'incirca, e nel primo quarto d'ora il sordo mormorìo che quegli studiosi spacciavano per silenzio non fa rotto se non da uno scapellotto che un piccolo signore diede al suo vicino di destra e che costui restituì scrupolosamente al suo vicino di sinistra. Donnina intanto aveva levato di tasca la lettera preparata per Ognissanti e vi aggiungeva in coda il seguente poscritto: «_P. S._ Riapro la lettera per dirti che il cuore mi batte forte, che io sono sola nella cattedra del babbo innanzi alla scolaresca, e che il babbo è all'osteria rimpetto con due signori venuti poco fa, e che mamma Teresa è uscita a fare alcune spesuccie e che io penso a te... ah! il cuore mi batte forte! «Non so perchè, o piuttosto lo so benissimo, ma ho timore d'ingannarmi; dei due signori uno l'ho già veduto vestiva altrimenti, ma mi è sembrato di riconoscerlo; il giorno in cui tu fosti da noi l'ultima volta, pochi minuti prima di veder te, avevo visto lui che entrava nell'osteria della _Salute_. «Oh! perchè allora non venne dal babbo ed ora ci viene? «L'altro è un uomo più maturo, ha la barba grigia, l'aspetto severo; e mi ha guardato fisso ed a lungo; io gli volgeva le spalle, ma ho visto tutto. Che diranno essi in questo momento? «Mi passa un gran pensiero in capo, e invano lo caccio, ed esso ritorna; ed ho riaperto la lettera per dirti l'animo mio a costo di dovermi pentire della mia credulità. È così ingannevole il desiderio! «Te lo voglio dire, a patto che tu ne rida poi se avrò errato; ho in mente...» Donnina ebbe appena tempo di nascondere la lettera, e mamma Teresa entrò; appena la vecchia seppe dove era il marito, via di galoppo... ma il filo era spezzato, la prima titubanza riprese vigore, e insieme colla titubanza il dubbio più forte. Donnina non aggiunse una sillaba al poscritto ed aspettò una buona mezz'ora. Ci fu un momento in cui era così pentita di aver dato fede ad un sogno, che voleva cancellare quanto aveva scritto e copiare tutta la pagina prima di mandarla. Per resistere alla tentazione esaminò i saggi calligrafici dei suoi allievi, e le parvero perfetti. Quanto tempo passò a quel modo? Un tempo lungo, penoso. Ma alla fine la porta di strada si aprì, mamma Teresa comparve la prima sulla soglia, e senza dir parola si buttò nelle braccia della fanciulla. La quale comprese, guardò maestro Ciro ed i due sconosciuti che le sorridevano, e infine spinta dalla terribile mamma si trovò quasi senza avvedersene fra le braccia del signor Fulgenzio. Un'ora dopo la scolaresca, tumultuando per l'allegrezza, usciva dallo stretto varco, e Donnina riattaccava il filo del suo poscritto così: «Ognissanti mio! Non è più sospetto, è certezza: quanto sono felice di essere la prima a darti questa notizia! erano proprio essi, come avevo pensato, il tuo babbo e l'amico tuo, il dottore! E sappi anche che il tuo babbo mi ha baciata in fronte per te e che non è vero che sia cattivo, nè superbo. Vorrei dirti un mondo di cose; ma le compendio tutte in un pensiero, Ognissanti mio!» XXVIII. SECONDA TAPPA DEL VIAGGIO DI SCOPERTA. Non è luogo più acconcio alla meditazione di una carrozza chiusa. Vi si entra col cervello vuoto, se ne esce iniziati alle dolcezze del mestiere di filosofo. Il signor Fulgenzio ed il dottor Parenti, seduti l'uno a fianco dell'altro, indifferenti alla bellezza della pianura nevosa che si stendeva dai due lati dietro gli sportelli, pensavano. Vi hanno cose che si pensano e non si dicono, ve n'ha che si direbbero, ma non si gridano: ciò che passava in capo ai due compagni di viaggio era di questa seconda natura, e le ruote del carrozzone facevano tanto rumore, da rendere impossibile l'intendersi senza gridare. Il signor Fulgenzio ed il dottore pensavano adunque ciascuno per proprio conto. Evidentemente col dire la scoperta del padre di Donnina una bazzecola, il dottor Parenti aveva detto troppo, e domandando, per condurre a buon fine l'impresa, una settimana, aveva domandato poco. Tutti gli ostacoli intravveduti appena e tolti di mezzo con un atto baldanzoso di buona volontà, riapparivano ora ad uno ad uno; e più il pensiero vi si accostava e più li vedeva grandeggiare e farsi irti di difficoltà non prima sospettate. Andare in traccia dell'atto di nascita di Donnina per le ventisette parrocchie di Milano, era bensì una bazzeccola per un uomo della fatta del dottore, a patto però che Donnina fosse veramente nata in quel tratto di tempo indicato ed in Milano. Vero è che le probabilità gli parevano favorevoli a queste due condizioni, ma di certezza non ne aveva l'ombra. Quanto al ritrovare il padre, ora non gli sembrava più una bagattella; poteva essere andato in paese straniero, in modo che se ne fossero smarrite le pedate, ed allora... Questi pensieri, avvicendati con altri mille, angustiavano visibilmente il dottore. Non tanto però che nello smontare dalla carrozza egli non avesse il suo magnifico sorriso per aiutare a discendere il vecchio amico. A costui si vedevano in volto più fitte le nebbie delle nere fantasie di viaggio. Non s'erano detti una parola, e non erano in vena di dirsene; il signor Fulgenzio si ritrasse meditabondo nel gabinetto, il dottore continuò il suo sorriso per non darsi una mentita ed andò a visitare gli ammalati. Ritornò poco dopo. — Non si è più padroni di muoversi, disse con un accento tra melanconico e scherzoso, senza che ce ne facciano qualcuna. — Che c'è di nuovo? domandò il direttore. — Quel fanciullone di Paoluccio, il quale approfitta proprio del momento ch'io non ci sono per ammalarsi... — Gravemente? — A quell'età ed in quello stato, ogni malanno è grave. Il signor Fulgenzio era in tale disposizione di spirito che ogni novella non lieta gli pareva un aggravio di più al proprio fardello; crollò il capo e non disse nulla. — Delira, dice qualche corbelleria più del solito; gli ho ordinato del ghiaccio, non sarà niente... non vi è pericolo... Il signor Fulgenzio si levò in piedi e passeggiò a gran passi. — Che pensi? gli chiese il dottore. — Lo sai pure... — Lo so... a Donnina ed a Mario, ci ho pensato anch'io; poveretti, bisognerà farli felici... — Lo speri tu? — Ne sono sicuro; in fine due anni non sono eterni quando si ha la loro età, ed amandosi _col permesso dei superiori_ possono parer brevi. — Dunque tu disperi di scoprire? — Al contrario... sono certo di scoprire ogni cosa, ma dico per dire... — Sei certo? Non hai pensato che Donnina potrebbe non essere nata a Milano? — Ci ho pensato, ma ho conchiuso che... dev'essere nata a Milano. — E che il padre potrebbe non essere qui, che i sussidii mandati a maestro Ciro potrebbero venire da altri... — E che il padre potrebbe essere andato agli antipodi... Ho pensato anche a questo; ma, grazie al modo con cui è ordinata la nostra polizia, grazie ai consolati, grazie alle navigazioni transoceaniche, alle vie ferrate, ai telegrafi ed alle poste, se pure quell'uomo, dopo aver messo al mondo una creaturina adorabile come Donnina, non se n'è andato nelle foreste della Papuasia o nelle terre incognite dell'Africa australe, in mezzo ai selvaggi, è facile scoprirlo e fargli pervenire una lettera e riceverne la risposta. Ma io preferisco che quell'uomo non si sia mosso dall'Italia e da Milano, e vedrai che sarà in Italia ed in Milano per farmi piacere... senza contare... Non pare che tutto il rimanente avesse molto rassicurato il signor Fulgenzio, perchè a questa reticenza dell'amico si affrettò a incoraggiarlo a proseguire. — Senza contare?... — Senza contare che da tutto il romanzetto di Donnina, argomento che ella non ha padre legittimo di cui le bisogni il consenso per il matrimonio. Se l'atto di nascita dirà che quel bottoncino di rose non è frutto di giuste nozze, non avremo più altro a fare, e lo dirà... spero. — Lo spero anch'io, disse il direttore, sebbene questa speranza mi paia una colpa. — Non entriamo in sottigliezze, interruppe il dottore; per non perder tempo, io corro da don Alfonso, il curato della parrocchia più vicina. Già... potrei incominciare dalla più lontana, e sarebbe meglio, perchè sono sicuro che non ritroverò il fatto mio prima di aver visto la sacra polvere dei registri di tutte le ventisette basiliche di Milano. Un po' dell'anima del dottore era passata nell'anima del signor Fulgenzio, il quale rise allegramente. Il dottore aggiunse serio serio: — Ma, se cominciassi dalla più lontana, allora la fede di nascita di Camilla X, figlia dei coniugi X, nata nel giorno X del mese di maggio dell'anno 185... si troverebbe nella parrocchia più vicina. E, senza attendere oltre, volse le spalle all'amico, infilò l'uscio e scomparve. Don Alfonso, don Michele, don Alessandro, e successivamente un altro paio di reverendi, avevano permesso al dottor Parenti di frugare colle sue mani profane nei registri dei nati del 185..., ed aiutato essi stesse le ricerche senza frutto alcuno. Il dottor Parenti gli aveva pagati largamente con cinque dei suoi sorrisi, ed aveva rimandato al giorno successivo la visita al sesto parroco. Al signor Fulgenzio, il quale lo aveva interrogato in proposito, aveva risposto che tutto andava a meraviglia, che, avvezzo a non fare fidanza colla fortuna, era certo di non poter risparmiare nè un passo nè una parrocchia, e che infine quello era un viaggio di nuovo genere, e voleva farlo in tutte le ventisette tappe... Il curato della parrocchia di San... (si tace il nome del santo, perchè l'ottimo reverendo non amerebbe di vedere la sua persona sacra in un libro profano) il curato della parrocchia di San... è uomo faceto, e sta volontieri allo scherzo. Vide alla prima il lato vulnerabile della singolare dimanda del dottore, e si offerì pronto «ai suoi comandi» con una lieve tinta d'ironia, pregandolo, intanto ch'egli finiva di far colazione, di aspettarlo in sacristia. Il dottor Parenti non aveva niente più di quello che si meritava; era venuto troppo di buon mattino, e non voleva mettersi sulla coscienza il digiuno d'un reverendo. Questo almeno pareva significare l'inchino con cui rispose alle parole del curato, e l'accento con cui lo scongiurò di fare i suoi comodi. Rientrò in sacristia e vi rimase un buon quarto d'ora che spese, poichè una simile occasione non gli si era mai offerta in vita, a studiare l'_Oratio dicenda a sacerdote cum lavat manus_. Quando il curato entrò, il dottore, il quale aveva acquistato un'aria liturgica tutta sua, lo salutò come uomo ben intenzionato, capace di fargli gli onori di sacristia. Il reverendo si piegò appena, quanto permetteva la delicata condizione d'uno che si levava allora da tavola, andò diritto ad un antico armadio di legno di noce lavorato ad intagli ed a bassorilievi, lo aprì e mostrò una schiera di enormi libri venerandi, coperti di carta pecora, coll'indicazione dell'anno scritta sul dorso. — La persona di cui lei fa ricerca è nata?... chiese il curato col suo risolino evangelico. — Nel 185... — Nel mese? — Di maggio. — E si chiama? — Camilla... Il reverendo intanto s'era messo dinanzi il registro del 185... e lo sfogliava senza interrompere il risolino incominciato... — Lei dice che si chiama? — Camilla..... rispose il dottore imperturbabile, null'altro che Camilla... — Capisco... capisco... ed è nata nel giorno... — Nella prima settimana del mese... — I genitori si chiamavano... Il dottore non rispose; la malizia del curato diveniva maligna. — Si chiamavano? insistè. Ma il dottore zitto. «N. 181... _è nato alle ore 3 antimeridiane del giorno 1_, incominciò a borbottare il curato leggendo nel registro, _un bambino maschio..._ niente... N. 182... _alle ore 8 antimeridiane del giorno 1, e fu battezzata nello stesso giorno, Teresa Giovanna Maria..._ niente Camilla... N. 183... _alle ore 7 pomeridiane, e fu battezzata nello stesso giorno, Margherita Camilla..._ — Camilla! interruppe il dottore, e curvandosi sul registro proseguì: _Margherita Camilla legittima; da Maria Longhi e Giovanni Bergoni, cattolici, padrini Marianna S. e Luigi V..._ Se permette, trascrivo questi nomi, mi pare di aver trovato... E senza aspettare altra risposta, levò di tasca il taccuino e si accinse a copiare tutta la dicitura, intanto che il curato, facendo correre l'indice di colonna in colonna, seguitava a leggere come se nulla lo avesse interrotto: «N. 184... _alle ore 9 pom. del giorno 3, e fu battezzato al giorno 4 un bambino..._ «N. 185... _alle ore 5 ant. del giorno 5, e battezzata nello stesso giorno Camilla..._ — Camilla! interruppe un'altra volta il dottore arrestandosi di botto nello scrivere. «_Camilla Maria Luigia, legittima, di Teresa Altani e di Giorgio Boli, cattolici..._ Quelle due Camille gettavano un po' di scompiglio nella mente del dottore; nondimeno egli s'affrettò a trascrivere le indicazioni di entrambe, seguendo paurosamente cogli occhi ogni movimento delle labbra del reverendo, il quale continuava a leggere ed a sorridere, come se le due cose non facessero in realtà che una sola. Finalmente il curato tacque; era giunto al giorno 10, e di Camille non ne aveva trovato altre. Era un orizzonte nuovo per il dottore; gli venivano in bocca cento domande, ma comprese che il curato non avrebbe avuto risposta per nessuna, serrò il taccuino fra le mani, ringraziò caldamente, fece un saluto profondo, sorrise con una devozione esemplare, ed uscì fuor del sacrato per darsi dell'asino con l'entusiasmo di un vero credente. «Asino! Asino! E non avere pensato prima! Ma se in questa sola parrocchia di Camille ce n'ha due, quante non ne incontrerò io prima di essere arrivato all'ultima? Se dura la proporzione posso far conto sulla dozzina...» E s'avviava a passi affrettati, come per togliersi più presto dal campo della sua sconfitta. Poco dopo si fermò e disse: «A Milano, su per giù, nascono venti milanesi il giorno, il che in una settimana dà un totale di 140 milanesi. Così, o all'incirca, doveva accadere anche vent'anni sono. Di questi 140, la metà sono maschi; e di settanta tra Caroline, Clotildi, Amelie, Marie, ecc., quante possono essere le Camille?» La cosa pigliava un aspetto tutto differente; ora, tra la certezza di dover visitare ad una ad una le 27 parrocchie e l'impazienza d'aver finito di raccogliere tutte le Camille, per poi accingersi al difficile còmpito di sceverare la buona, il meglio era di balzare in una carrozza da nolo. E così fece, a dispetto della sua igienica abitudine di camminare a piedi. «A Sant'Alessandro! ordinò al cocchiere.» E via di galoppo. Quattro giorni dopo, quelle peregrinazioni erano finite, ed i risultati, stando all'opinione del dottore, non potevano essere più soddisfacenti, però che egli fosse andato in cerca d'una Camilla e ne avesse invece incontrato sette. Il signor Fulgenzio non prese la cosa ridendo come il dottore gliela aveva detta, ma tolse di mano all'amico il taccuino e ne lesse le annotazioni, tentando il mestiere dell'indovino. Se il cuore fosse la buona pasta di consigliere intimo che tanti vogliono che sia, fra le sette Camille avrebbe indicato Donnina con una martellata di quelle famose nel petto del vecchio; ma, o la regola è sbagliata, o il cuore del signor Fulgenzio faceva eccezione. — E come faremo?... parve dire costui restituendo il taccuino senza dir parola. — Tu non farai nulla, farò io, rispose il dottore alla stessa maniera, ed aggiunse forte: «tutte queste Camille sono legittime; tanto meglio, e tanto peggio; ma di queste sette io ne ho già messe da banda tre... _Camilla Margherita_, figlia di Maria Longhi e di Giovanni Bergoni, _Eugenia Maria Camilla_, figlia di Concetta Lavini e di Tommaso Gori; _Fortunata Camilla_, figlia d'Innocenza Baldi e di Rocco Sani, ed a queste non voglio nemmeno pensare o ci penserò in ultimo.» Il direttore seguiva attentamente il filo del sistema d'indagini che doveva guidare sulle tracce del padre di Donnina; al dottor Parenti splendeva in faccia il genio inquisitorio. — E lo ho escluse, proseguì egli a dire, perchè i signori Giovanni Bergoni, Tommaso Gori e Rocco Sani sono venuti in terra il primo per fare il cenciaiuolo, il secondo il fabbro ed il terzo il calderaio, tre mestieri onorati, che non mi paiono corrispondere alle indicazioni avute circa il padre di Donnina... — E quali indicazioni abbiamo che si possano dire certe e si riferiscano proprio al padre di Donnina? — D'indicazioni certe e che si riferiscano proprio al padre di Donnina, ne abbiamo una sola: Donnina, e mi pare che basti! Oh! vorresti credere quel capolavoro di fanciulla uscita dalle mani di un calderaio? L'argomento non aveva di stringente altro che la fede dell'oratore, ma doveva bastare ad un uditorio desideroso di credere come il signor Fulgenzio. — Rimangono le altre quattro: _Grazia Maria Camilla..._ Due colpi frettolosi battuti all'uscio ruppero le parole in bocca al dottore, ed un infermiere entrò a dire che mastro Paolo era stato côlto da un nuovo accesso di febbre e di delirio. XXIX. UN ALTRO VIAGGIO ED ALTRI VIAGGIATORI. Sono trascorsi otto giorni da quello che negli annali del bel mondo segna la fuga di Serena e del banchiere Redi, ed in questo tempo sono avvenute incredibili cose sulla faccia del Creso seduttore. Salvo gli occhi, che si sono ostinati a non voler rientrare nel loro guscio, ed i capelli rimasti fedeli all'intonaco odoroso che li appiccica sulle tempie, tutto il resto pare mutato; l'enorme bocca sgangherata si è come ricomposta per tener stretto fra le labbra un sorriso ironico; gli sguardi cadono spesso di sotto le palpebre e di sbieco, come al domani di un trionfo; le gambe, sempre bonariamente frettolose, si muovono con una certa indolenza piena di mistero; tutta la persona dice cose sì nuove e bizzarre tanto, che le orecchie sembrano protendersi innanzi sul viso per ascoltare, ed il naso ha l'aria d'un punto d'interrogazione nel mezzo d'una superficie carnosa. È probabile che a tale metamorfosi del suo Plutone, la bella Proserpina non avrebbe neanche posto mente, dove l'accento e le maniere non ne l'avessero fatta accorta. Non era più in fede mia quell'ossequioso e riverente imbecille, che aveva quasi l'aria di offrire i suoi milioni come si stende la mano all'elemosina; era un uomo sicuro di sè, impertinente quanto era stato umile, sprezzante quanto era stato desideroso. Aveva modi da gentiluomo colla sua dama; ma da un piccolo gesto, da una lievissima sbadataggine, da un tono di voce più alto o più basso, la sua dama era avvertita che l'usar quei modi era degnazione o galanteria di abitudine. Sulle prime, come fu detto, Serena non si avvide; fatta accorta, continuò a mostrare di non avvedersi fino a tanto che le fu possibile senza ostentazione; e quando dovette deporre quello scudo ed uscir dalla sua indifferenza e guardare alle nuove sembianze con cui le si offriva l'avvenire, allora si armò di disprezzo e combattè a viso aperto. Fu una lotta muta, tenace, in cui il banchiere portava l'astuzia del non parere e Serena la schietta sicurezza di chi legge in cuore all'avversario. La posta era palese; il banchiere, avendo trionfato della cortigiana, voleva ora trionfare della donna e farla docile ai propri voleri; la donna, più convinta nel disprezzo, e sprezzante tanto da non curarsi di mantenere alcun imperio, si accontentava di resistere. Quella scherma di tutte l'ore senza frutto alcuno venne a noia al banchiere prima dell'ottavo giorno. Per uscirne egli fece un errore di tattica. Aveva detto fin dalla vigilia che avrebbe avuto bisogno di trovarsi a Rouen presto, altro non attendere se non un avviso per lasciare Parigi. In quel mattino ordinò venissero preparate le sue valige e «quelle della signora.» La _signora_ seduta in un canto non mostrò di aver udito e lasciò che il _signore_ uscisse senza nemmeno guardare dalla sua parte. Quando il banchiere tornò, le sue valigie erano pronte, non quelle della signora. — Avevo pur detto...! gridò incollerito alla cameriera. — La signora non ha voluto, rispose costei. Il banchiere ebbe il torto d'aspettare che Serena entrasse a dire qualche cosa, ma l'indolente non disse verbo. Era una mezza sconfitta, a cui non mancava nemmeno la ritirata, poichè il disgraziato sentì improvvisamente il bisogno di andare nelle sue stanze. Ritornò quasi subito, del tutto mutato nelle maniere. Serena non s'era mossa. Questa volta la _signora_ fu avvertita in bel modo della necessità della partenza. — Vi duole? aggiunse il banchiere, radunando in questa interrogazione tutto il fascino della sua galanteria. — Prepara le mie valige, disse Serena alla cameriera. Tre ore dopo partivano alla volta di Rouen. Per via il banchiere fu taciturno fuor dell'usato; chiudeva gli occhi fingendo di dormire e pensava. A che pensava? Evidentemente la partita era perduta od almeno non rimaneva speranza di vittoria; quella donna non sarebbe mai divenuta uno strumento nelle sue mani. Non era però tal cosa da doverlo rendere inquieto, come ad ora ad ora si mostrava. A che altro pensava egli dunque? Il domani, a Rouen, nel movimento incessante di quella città manifatturiera, il banchiere ritrovò la vena del suo prezioso buon umore. Erano i primi giorni di febbraio, ma splendeva un magnifico sole, che anticipava alla natura ancora arsiccia i gai colori della primavera. Non si vide mai un uomo tanto contento di sè quanto pareva il banchiere in quel giorno; era come uscito dal contegnoso torpore che gli irrigidiva le membra, e camminava ancora coi passi frettolosi e brevi con cui fino a pochi giorni innanzi s'era tirato dietro il carro della propria fortuna. Rideva forte e per ogni nonnulla, e si adoperava invano a comunicare un po' dell'anima propria al bel marmo di Paro che aveva pagato a peso d'oro. L'impassibilità di Serena faceva un singolare contrasto con quella specie di frenesia gioconda; deposte le armi della lotta, la bella rientrava nel castello merlato della propria indolenza, sdegnosa perfino della vittoria. Conveniamone: non si può avere una innamorata più noiosa. Il banchiere, non potendo far di meglio, ordinò uno splendido desinare in una sala appartata, una specie di festino a due, e se ne andò a spasso per «mettersi in appetito.» La qual cosa gli riuscì benissimo. A tavola Serena, cui il contegno insolito del suo compagno riusciva inesplicabile, ne interrogava il volto arrossato dalle libazioni, parendole di notare un po' di stento in quell'allegria balzana, e nella pompa di quel banchetto un proposito che non le veniva fatto d'indovinare. Il banchiere assaggiava di tutto e portava ad ogni tanto il bicchiere alla bocca, ma in realtà faceva più ciance che bocconi, e spesso non si avvedeva che il bicchiere era vuoto. Due o tre volte parve raccogliersi in pensiero ed uscì da quella breve meditazione con un diluvio di parole. Serena parlava poco ed il più sovente a monosillabi; ma i suoi sospetti erano divenuti certezza, ed alla frutte non esitò ad interrompere il verboso commensale per dirgli a bruciapelo: — Perchè tante parole? Voi avete qualche cosa da dirmi; dite. Il signor Redi fu lievemente sbigottito; pur non istette un pezzo in forse prima di prendere il suo partito, vuotò d'un fiato le poche goccie di vino che rimanevano in fondo al bicchiere, per darsi un contegno, spinse la sedia più presso al desco e fissando gli occhioni spiritati in volto alla sua donna, tentò un risolino ribelle. — Ho infatti qualche cosa da dirvi, una gran cosa, una cosa bizzarra. La curiosità di Serena non ebbe testimoni indiscreti nel sangue o nei nervi, poichè nulla ne parve fuori; il banchiere proseguì: — Non avete domandato mai a voi stessa, nell'atto di stringere il negozio che doveva farmi il più felice degli uomini... quanti milioni possedesse il vostro banchiere? No?... Ebbene, in questo momento a Milano non si pensa che ai miei milioni: solo invece di domandare quanti ne ho, si vuol sapere quanti sono quelli che mi mancano. Serena guardò in volto il banchiere, per questo solo atto accennando che ella prendeva interesse alle parole di lui. — Mi spiego. Stamane, alle undici in punto, la banca Redi ha annunziato la sospensione dei pagamenti, o in altri termini, ha fallito per tre milioni. Una bagattella, direte, mi avreste creduto più ricco; ma non ho saputo far di meglio. Il banchiere ebbe bisogno di attingere nuova disinvoltura e vide un'altra volta il fondo al bicchiere vuoto. Serena, riavutasi dallo stupore, non trovava parole. — Voi siete dunque rovinato? chiese poco dopo con freddo accento. — Se chiamate rovina il dover rinunziare ai milioni che non ho mai avuti, il trovarmi qui a tavola colla più bella donna dell'universo ed il poter dire che quella donna e il mondo mi hanno appartenuto... Serena lo interruppe ripetendo la domanda collo stesso tono di voce: — Voi siete dunque rovinato? — Press'a poco; mi rimangono solo cinquecento mila lire. — Che non sono vostre... — Che sono mie. Comprendo quanto vi passa in mente; ognuno ha la sua propria virtù e voi tenete a quella che chiamate la lealtà dei negozi; e anch'io ci tengo; solo, per giudicarne, non uso il criterio delle moltitudini, ma quello della mia coscienza. Dando ascolto a chi strilla si sostituirebbe il sentimentalismo all'onestà commerciale. Non sorridete, signora mia; vi spiego il mio pensiero. Prima di spiegare il suo pensiero, il banchiere Redi ebbe l'aria di raccogliere le idee. — Se vent'anni sono avessi chiesto al mondo qualche migliaio di lire per porre in atto un mio buon disegno economico, non avrei probabilmente ottenuto nulla. Supponete ch'io l'abbia fatto, ed abbia raccolto ciò che da simili credulità infantili si raccoglie, la beffa e la miseria, e che allora abbia detto: «bada, il mondo vuole essere ingannato, e mentre non saprebbe perdonarsi d'essersi lasciato gabbare dal sentimento e diffida della compassione che sente e di ciò in cui può veder chiaro, ti apre il cuore e la borsa e ti corre dietro per cacciarla nelle tue tasche sol che tu mostri di andartene per la via della fortuna; bada, tutti vogliono essere onesti, ma tutti credono nella sorte e nel danaro, nell'onestà non credono. Pensaci.» Supponete che io abbia detto tutto ciò in un momento di sfiducia. Questo buon senso, badate, è molto facile a parole, raro in pratica; ed io l'ho avuto, mi faccio giustizia da me. Divenni banchiere. Per quali vie, sarebbe lungo a dire ed inutile, nè mi comprendereste; in questo si compendiano tutte: il disprezzo del danaro, la fede nella fortuna. A molti manca o l'una o l'altra delle due cose: io seppi averle entrambe. In pochi anni la mia riputazione era fatta; cosa difficile nel mio genere di commercio più che in ogni altro; perchè se ad un fabbricante basta produrre merce migliore e darla più a buon mercato per trionfare della concorrenza, a me bisognava ispirare la fiducia col mio solo nome, cogli atti della mia vita, col mio contegno, colle mie parole. La Banca non dà che una derrata, la più difficile, la più soggetta ad avarie — la buona fede. È nulla ed è tutto. Vi tocca dar valore ad un pezzo di carta che non ne ha, fare che una firma diventi una moneta, e la parola una caparra. È difficile molto, ma non tanto come l'avere denaro a prestito da un amico per non morir di fame. «Non andò molto ed ebbi la soddisfazione di vedere la fiducia pubblica regolarsi dalle mie azioni; il termometro capriccioso della Borsa segnò i miei capricci; gente che non mi avrebbe dato uno spicciolo d'elemosina, per non far la fatica di snodare i cordoni della borsa, non pareva aver altra ambizione fuor quella di mettere al sicuro il suo oro nella mia cassa forte; mille piccole fortune timorose si attaccarono al carro della mia fortuna; fu un'apoteosi. Si commentava ogni mia parola, si almanaccava intorno ad un mio sorriso; alla Borsa, dove non hanno fede se non nella fortuna, mi credevano accorto; fuori mi dicevano sciocco perchè ne avevo un po' l'aria, mi dicevano furbo perchè non ne avevo l'aria. Ebbi anch'io i miei adoratori come voi, e come voi li pagai con un sorriso, con una stretta di mano, con una buona parola; voi colla pompa dei vostri vezzi, io col bagliore dei miei vasellami d'argento e dei miei scudi d'oro. Siamo schietti: guardandovi nello specchio, se pure non siete d'una modestia feroce, dovete confessare a voi stessa che siete bella; io, specchiandomi negli occhi cupidi della folla, finii col convincermi che qua dentro vi era qualche cosa di buono. Il banchiere appuntò l'indice nel mezzo della fronte e guardò in singolare maniera la sua compagna, la quale sembrava porgere ascolto sbadatamente. — Non crediate, ripigliò a dire il fallito, che tutto ciò mi costasse alcuna fatica; ebbi le mie brutte giornate, i miei pessimi quarti d'ora, provai gli spasimi d'un'idea che sfugge, d'un consiglio che non viene. Il mio fu lavoro assiduo, indefesso, senza riposo. Non so se voi comprendiate che cosa sia lo struggimento affannoso di chi è costretto a puntellare di continuo un edifizio che può cadere ad un soffio di mala fede; io so quanto valga e vi posso dire che non è lusso, compiacenza o potere che lo paghi. Un uomo d'ingegno, dopo aver faticato tanto, ha diritto, mi pare, agli ozii beati dell'età matura; ed io sono abbastanza maturo per oziare... A questo punto della sua argomentazione, il banchiere credette di poter spendere opportunamente una sonora risata; ma gli echi di quell'ilarità morirono nello stanzino senza percuotere una sola fibra della statua indifferente che il Don Giovanni in rovina aveva convitato alla sua mensa. — Ma io non intendo che vi sia capitale dove non fu prima l'economia; ora appunto i cinquecentomila franchi che mi avanzano, rappresentano i miei piccoli risparmi di ogni annata cogli interessi degli interessi, accumulati nel tempo felice. Cinquecentomila lire sono una miseria, ne convengo, ma chi ha saputo sparagnarle sulle spesucce di casa, deve saper vivere lautamente anche con meno. È il doppio benefizio della economia domestica, la quale, come tutte le umane virtù, non dà mai un beneficio solo. Serena non diceva nulla, ed il banchiere incominciava a sentire il bisogno di essere interrotto. — Persistete in credere che quei cinquecentomila franchi appartengano di diritto (lasciamo la legge da una parte, che non è sempre tutto uno) ai creditori del fallimento? Invece di rispondere direttamente, la bella disse, lasciando cadere ad una ad una le parole: — Il vostro è un fallimento doloso? L'interrogato esitò alquanto a rispondere. — Non conosco se non due maniere di fallimenti, disse poi; vi è chi fallisce bene e chi fallisce male; comprenderete che non si nasce col genio del banchiere per finire la vita in prigione, e che io ho fallito bene. Non dubitate, i cinquecentomila franchi che mi rimangono non mi saranno tolti, nè mi manderanno in carcere; i miei registri sono in regola. Io sono un galantuomo che ha scelto un mestiere costoso ed ha fatto male i suoi negozi, dopo di aver reso servigio all'umanità. Che sono i tre milioni consumati in confronto di quelli che passarono per le mie mani? E chi può fare la somma dei benefizi che il mondo ha ricavato dalla mia Banca? Domandatelo agli economisti. Gli occhioni del banchiere mandarono il lampo di due napoleoni nuovi di zecca e si aguzzarono per leggere in volto alla bella ciò che le passava in cuore. Vi fu un istante penosissimo di silenzio. Nessuna domanda diretta era stata fatta dal Creso rovinato, e pure era evidente ch'egli attendeva una risposta. Serena stette alcuni istanti in pensiero, poi disse con voce pacata: — Se tutto questo mira a liberarvi di me, è una cosa intesa. Come se la malìa da cui attingeva vigore si sciogliesse di repente al suono di uno scongiuro cabalistico, il banchiere Redi si scolorì in volto a quelle parole, e rispose con voce che aveva insieme del supplice e dello sfiduciato: — Ho voluto solo giustificarmi in faccia a voi... — Ed a qual fine? Mi avete ingannata; giungo tardi al banchetto dei vostri milioni. Che importa? Salvo gli otto giorni della mia vita che vi ho dato, domani, lontana da voi, sarò la stessa di prima, nè più stimabile, nè meno. — Volete lasciarmi? — Deve essere il nostro comune desiderio; io basto a me stessa, e le vostre cinquecentomila lire non possono quasi bastare a voi solo. Sul volto del banchiere passò una nube di mestizia. Aprì le labbra, protese le mani, nascose in esse il volto e chinò il capo sulla mensa. La beffa contraeva le labbra di Serena. Lo sfatato comensale parve lottare alcuni istanti dentro di sè, infine sollevò la testa lento lento, senza staccare le mani dal volto, appuntò i gomiti sulla tavola e disse penosamente: — Io vi amo, io vi ho sempre amata, io per voi ho affrettato la mia rovina; non mi lasciate; non vi domando amore, nè stima, rimanete mia; voi non sapete quanto mi costi ora il parlarvi così, e quanto mi costasse il mascherare la mia febbre sotto il capriccio d'un milionario per non farmi beffare; non mi guardate in viso, ma lasciatemi dire che vi amo. Il banchiere continuò a tener celato il volto. Serena lo guardava con disdegno e non rispondeva. — Mi amate, disse poco dopo, senza alcuna commozione nella voce, e che ne importa a me? — Tutto quanto mi rimane è vostro, insistè l'innamorato, rialzando il capo e fissando gli occhi desiderosi nel volto della bella. — Io ho la mia vergogna, e mi basta, rispose costei, non voglio farmi complice della vostra. La fronte del banchiere si curvò vie più e picchiò sulla mensa; Serena si levò e si ritrasse nella sua camera. Un'ora dopo il signor Redi la raggiunse, e le venne innanzi con un contegno insolitamente rude. — È inutile che affrettiate la vostra partenza, disse; poichè dobbiamo separarci, sarò io a lasciarvi libera! — Non prima che vi abbia restituito quanto ebbi da voi... rispose freddamente Serena. — Ciò che diedi, rispose ruvidamente il banchiere, è cosa vostra; a quel tempo non era fallito; lasciate gli scrupoli voi lo avete guadagnato quel denaro. — È vero, disse Serena, e volse il capo a guardare alteramente da un'altra parte. Il banchiere stette un istante sulla soglia, poi si allontanò in silenzio. La bella, rimasta sola, non si mosse, non battè palpebra, fin che il superbo sguardo non fu oscurato da una lagrima di vergogna. Poi giunse il tramonto melanconico, e la notte, la tetra notte. XXX. SOLA! Marta, la cameriera della signora, viene in punta di piedi fin sulla soglia, getta uno sguardo nella tenebra della camera, si ritrae e ritorna subito dopo con due candelabri accesi. Ecco la luce gioconda, i riflessi rossigni, le mobili ombre. — Serena non dice nulla; intorno al suo cuore è sempre la notte, la tetra notte. Fa un cenno, rimane sola. Sola no; un mondo di fantasmi le sta intorno; appariscono in silenzio dagli angoli oscuri della camera, si svolgono dalle ampie pieghe delle cortine da letto, od escono dal vano delle finestre, si fanno innanzi ad uno ad uno, le passano rasente, ne sfiorano le vesti e si curvano per mettere il loro volto dimenticato sotto gli occhi della bella; beffano, o lagrimano; si rialzano, girano intorno intorno senza far rumore e rientrano nel loro nascondiglio. Serena non si muove, non respira quasi, pensa. Una mano ignota le sfoglia innanzi agli occhi il libro della vita; qui era un trastullo infantile, la carezza mormorata da un labbro di donna, qui, dopo i sogni fatti dalla fronte serena di una madre, i primi sogni della vergine, e le prime armi civettuole della fanciulla, e più oltre il primo battito del cuore alla prima parola uscita da un labbro lusinghiero, e poi l'amore... l'amore colle sue care febbri, coi suoi spasimi dolci, fiducia intensa d'un'anima che si congiunge ad un'altra anima, d'un pensiero che corre dietro ad un altro pensiero — l'amore, che fantastica giocondo, che legge nell'avvenire, che assoggetta la sorte e placa la stessa sciagura, il sereno amore di sposa in cui sorride la futura madre... E poi una frenesia nuova, un turbamento insolito, un bugiardo bisogno, una bugiarda parola proferita nell'ansia tentatrice, ed una falsa riluttanza della fibra stanca, e il tradimento che invoca ed il tradimento che si arrende, e lo abbandono nelle braccia di un altro uomo quasi ignoto... E a poco a poco, nell'inconsapevole volto del tradito una accusa perenne, nella sua nota voce un'eco paurosa, nelle sue carezze uno strazio; ed a poco a poco, col rimorso che illumina, la doppia vista che legge in petto all'ospite nuovo del cuore e vi scopre l'indifferenza, la sazietà, il disgusto, quando non è più tempo, quando, in un ultimo impeto virtuoso, si ha volto le spalle alla casa profanata per non aggiungere alla bassezza della colpa la bassezza della ipocrisia. Ed allora, allora solo, il grido soffocato della vergogna che si copre il volto... Che fare? Oh! se la coscienza le balbettasse una scusa, se le potesse dire che tutta sua non fu la colpa, che potente era la seduzione e fragili troppo le forze per combatterla, che un dispetto o una collera l'aveva indotta alla prima arrendevolezza, ed un momento di febbre o di oblio all'ultima. Ma la coscienza morde la fibra del cuore, e tace od impreca. Perchè non è scusa alcuna a tal colpa; nemmeno la complicità, sollievo a tante colpe. No, nemmeno la complicità del seduttore; costui ti è venuto innanzi senza maschera, e ti ha offerto il disonore, e tu lo hai accettato; quali che siano le parole belle che ti ha bisbigliato all'orecchio, egli non poteva nascondere che quanto ti offriva era il disonore, e tu lo sapevi, e tu l'hai accettato! Non è via di scampo; guardati intorno, sei sola; non hai più casa, non hai più famiglia; la tua casa è il mondo, la tua famiglia il pubblico, la prostituzione incomincia. Ed ecco l'amore un'altra volta, ma l'amore merciaiuolo, colla faretra sdruscita, piena di dardi usati che han perduta la punta; ecco l'amore dalle ali spennate; ecco la folla innamorata! In cambio del sereno e robusto affetto che ti sei tolta dal cuore, hai mille galanterie leggiadre per riempirne il vuoto; scegli tra il vecchio libertino che paga e il giovine che ti offre un amore _disinteressato_ perchè tu lo faccia pagare da un altro. Ti si preparano cento trionfi; la tua vanità non fu convitata mai a così lauto banchetto; hai gemme, vesti strascicanti ed immodeste che prima non avevi; la tua bellezza si riflette in mille occhi desiderosi; i tuoi amici sono tutti maestri di belle parole, di belle maniere, ammirano il tuo spirito, ti prestano il loro; tu li torturi con un capriccio, li metti in croce con un'emicrania, li manderesti in capo al mondo con una parola; sono così bonini, così dotti di garbuzzi e di manieruzze gentili... bisogna credere: «li manderesti in capo al mondo con una parola!» Non potresti così con due levarteli dai piedi, ma non monta; hanno imparato la ginnastica per cui si cammina senza inciampare nello strascico d'una veste, sono affatto innocui, non ti fanno dimenticare la casa che non hai, non ti possono più nulla togliere di cui non ti rimanga abbastanza: e poi la solitudine è così paurosa ed il pensiero così indocile alla nuova vita! E ti amano! Da quanti l'hai sentita, impassibile, quella parola che un giorno ti ha fatto battere il cuore? Ecco, perfino l'amabile luogotenente ritorna, è geloso del mondo, gli è venuta una fantasia amorosa tardiva; aveva creduto spento l'incendio, ma gli era rimasta una scintilla; non ti scalderai tu con essa il gelido petto? E anche il banchiere Redi ha un cuore, tutti intorno a te hanno cuore, e te l'offrono con manierine leggiadre. Scegli dunque il tuo amore! E se mai da questa folla uscisse una parola schietta, un gagliardo affetto, lo respingi, perchè non è cosa tua; se ti sentissi riardere in una fibra sola, ti trattieni in tempo, è un ardore non tuo, fuor della folla prodiga non è che l'avarizia; ora tu ti doni al mondo e il mondo ti ridona a te stessa, se ti conservi ad un amore geloso non sarai più tua. E poi non l'hai tu detto a te stessa? Nella vergogna più scendi basso e meno contamini il cuore; se ti risolvi ad un affetto sincero ed unico sarai più sciagurata di prima; quell'uomo che tu hai abbandonato ha diritto alla tua vergogna, tu espii per esso, tu lo vendichi; sentirti in petto il cuore e non strappartelo sarebbe un'altra ingiuria, un tradimento nuovo; nulla più ti è concesso della donna; oltre la soglia della tua casa era il pubblico, e tu l'hai varcata! Da tutta questa folla indifferente che passa per le vie affaccendata, togli le donne ed i fanciulli e gli onesti che hanno una casa, il resto è tuo, qui ed a Milano e dovunque, e infin che il sole rischiari la tua bellezza. Ancora una volta, ecco i fantasmi che escono dal vano delle finestre, e si staccano dagli angoli in cui tremolano le ombre gettate dai candelabri, ecco il trastullo infantile, la carezzevole parola mormorata in un bacio di donna, la fronte pensosa d'un padre, ed i sogni sereni d'una madre, e le confidenze ingenue della vergine, e l'amore primo ed ultimo... Ohimè, tutto ciò è morto per sempre, ogni fantasma che hai visto è una tua menzogna; il tempo non rifà la via percorsa, e se giunta è sotterra alcuna notizia di te, colei che fu tua madre si è scavata una fossa più profonda. Guardati intorno: gli spettri non iscoperchiano le tombe; sei sola. Un unico fantasma ghigna tristamente in un canto, ma è il fantasma d'un vivo... Lo fissa in volto, lo riconosci... Serena uscì con un grido dalla sua melanconica inerzia. L'avveduta cameriera l'intese ed accorse. — Che fa il signore? — È uscito testè dall'albergo mandandosi innanzi le sue valige; non mi ha detto parola, gli ho chiesto i suoi ordini, e mi ha posto in mano due napoleoni d'oro. Siccome la padrona non gli dava più ascolto, tacque. — Domani partiremo all'alba; ora vattene a dormire, deve essere tardi. — Non vuole che l'aiuti a svestirsi? — Farò da me. L'alba trovò la leggiadra Serena addormentata sopra un divano, e i candelabri ancora accesi. In quella stanza e nel cuore di quella donna era ancora la notte, la tetra notte... E il banchiere Redi? Fallitogli il tentativo di legare alle ruote della sua fortuna la bella Serena, se ne andava solo da Rouen ad Havre. Il _Velox_ nave a tre alberi, mercantile, doveva far rotta il domani diretto a Nuova-York, ed al banchiere occorreva un nuovo mondo. Ah! egli sarebbe rimasto molto volontieri nel vecchio, solo che avesse avuto nel suo portafogli la metà della somma di cui si era vantato possessore in faccia a Serena; ma dire che gli rimanevano centomila lire era forse più ancora del vero, e qual'è l'intelletto audace che con simile bazzecola possa uscire incolume da un fallimento di tre milioni? Messo da parte ogni vantamento, il banchiere doveva convenirne — era stato meno furbo di sè stesso. E forse con quel viaggio somigliante molto ad una fuga, contava di far tacere una voce brontolona che gli ripeteva ogni tanto il fastidioso ritornello: — Hai tu _fallito bene_? XXXI. LO SCOPPIO DELLA BOMBA. La notizia del fallimento della banca Redi aveva fatto molto rumore. Novelle siffatte hanno le gambe lunghe; epperò alle due il cassiere annunziava la sospensione dei pagamenti, alle quattro mezza Milano avea ripetuto le parole del cassiere alle orecchie dell'altra metà. Quanto alla somma del fallimento, salvo leggiere oscillazioni di rialzo o di ribasso, aveva seguito una progressione decrescente; lo sgomento balbettò la prima parola, una bagatella, come sarebbe a dire una ventina di milioni e più; ma la cifra, passando mano mano allo sconto degli accorti o degli indifferenti, scese rapidamente fin presso alla vera somma, ed alle quattro anche questo era notorio, che la banca Redi falliva per tre milioni circa. Le meraviglie, i dolori, le gioie segrete che seguono ogni disastro finanziario, non entrano in questa narrazione. Alla Borsa nessuna meraviglia, chè lo stupore è degli inetti, ed il genio speculativo non ci dà tempo; un fallimento può essere una buona od una cattiva notizia per A o per B, alla Borsa non è che un _affare_. Nella stessa giornata abili calcolatori, tenendo conto di tutto, erano giunti alla convinzione che le rovine di quel magnifico edifizio che era stato la banca Redi, avrebbero appena potuto dare il due per cento ai creditori. E ci fu un nobile cuore, il quale, a risparmiare a tanta gente noie e brighe interminabili, offrì di comprare i crediti ad uno e novanta; più tardi si disse sottovoce che il banchiere Redi faceva forse un fallimento di speculazione e riscattava egli stesso di soppiatto i suoi debiti. Tale sospetto, tassato in Borsa, produsse un fenomeno curioso e frequente, voglio dire che chi poc'anzi aveva venduto ad uno e novanta ricomperò a due e dieci. E così le cose tornarono allo stato di prima, salvo che i creduli ed i timorosi aveano messo qualche spicciolo del loro borsello nelle tasche degli avveduti e degli arditi. In fondo le ruote delle banche non si muovono altrimenti. I mille nodi che fan capo e si annodano sotto i suggelli delle porte d'un fallito, formano un'epopea che attende ancora il suo Omero. Il colosso Redi, cadendo, aveva schiacciato parecchie dozzine di piccoli galantuomini che stavano sotto. Quei tre milioni rovinati pomposamente assorbivano il mille ed il cento del padre di famiglia, che aveva creduto di porre i suoi risparmi al sicuro. Due giorni appena dopo la catastrofe, incominciarono le notizie aspettate e temute; erano società disciolte, imprese andate a picco prima d'uscire di porto, e fallimenti in processione. Nuove lagrime, nuovi sgomenti, e negozi nuovi; la Borsa accoglieva tutte le notizie, le metteva in circolazione, ed il giuoco non interrotto mai, ricominciava ogni tanto colle stesse vicende. Una sola novella riuscì a scuotere l'olimpica indifferenza della speculazione, e fu il sapere che le splendide argenterie sequestrate in casa Redi, ultima reliquia preziosa della miniera bancaria, erano, come i vantati milioni... _cristophle_. La speculazione, che barattava sulla soglia del tempio, per la prima volta dacchè era cominciato l'_affare_, si arrestò senza parole. Il genio del banchiere Redi poteva vantare l'ultimo trionfo. XXXII. RITORNO. Rouen è una cara cittadina; conta una prefettura, una zecca, un museo, molte accademie, parecchie antichità, ha una magnifica torre ed una biblioteca di molte migliaia di volumi, bei dintorni, belle donne..., ma per una viaggiatrice della fatta di Serena doveva essere assolutamente un paese noioso. Questo pensava l'avveduta Marta intanto che la signora farneticava in silenzio nella propria camera. E quando fu ora di dichiarare se si rimanesse o no nell'albergo per quel giorno, la premurosa fanciulla venne arditamente ad informarsi, dispostissima a dare il suo buon consiglio solo che se ne porgesse l'opportunità. — La signora intende rimanere a Rouen? Serena fe' cenno di no. La cameriera aspettò qualche schiarimento, poi s'arrischiò a dire: — Devo preparare le valige della signora? Serena fe' cenno di sì. E l'altra pigliando animo: — La signora vuol recarsi?... — Dovunque!... — Vuoi ritornare a Milano? — No, rispose Serena con prontezza, ed aggiunse poco stante: dovunque, fuorchè a Milano. — Se mi permette di darle un consiglio, Parigi non è lontana, vi si stava assai bene; e poi lei non è in grado di fare un lungo viaggio. — Sta bene... Parigi, disse Serena, ed abbandonò il capo fra le palme. Marta uscì in punta di piedi, dicendo in cuore che la signora incominciava a divenirle insopportabile, e che, se durava a questo modo, la poteva far conto di _provvedersi_. Verso il mezzodì Serena volse le spalle alla via percorsa nella notte dal banchiere Redi e ritornò a Parigi. Durante il viaggio parve alla cameriera di scorgerle in volto i segni d'un pensiero importuno; poco prima di giungere alla gran città, Serena infatti ruppe il silenzio così: — Antonio è rimasto a Milano? La cameriera mandò un sospirone non all'indirizzo dell'atletico servitore, ma a Parigi da cui le pareva d'allontanarsi prima ancora d'esservi giunta. — Sì, signora. Questa volta era la padrona che desiderava gli schiarimenti e la cameriera che stentava a metter fuori le parole. — La mia casa è rimasta tal quale, come avevo dato ordine? — Sì, signora. Un altro sospiro. — Non furono toccati i mobili, nè i tappeti? Erano queste le mie istruzioni?... — Erano queste. Ahi! ogni domanda respingeva la fatata città un buon centinaio di chilometri. — Piglierai i biglietti per Milano, disse Serena. Erano allora alle porte di Parigi, ma la povera cameriera guardando innanzi a sè non seppe vedere se non la guglia del Duomo. Il domani, Serena rientrava nella sua deliziosa dimora, dove l'aspettavano i variopinti caladii a cui il bravo Antonio non aveva lasciato mancare nè una goccia d'acqua, nè un raggio di luce, nè un grado di calore. Era tornata in Milano con una singolare riluttanza, quasi di soppiatto, in una carrozza chiusa di cui aveva calato le cortine, e s'era guardata intorno nello smontare, non certo per paura che alcuno la vedesse, ma come obbedendo ad un istinto. La furba cameriera, per mettere in pace la propria curiosità, diceva a sè stessa che la padroncina era vergognosa d'essere andata all'estero con un fallito. La riputazione di una cortigiana ha le sue verginità che giova rispettare, e il parer vittima del fallimento del banchiere Redi ne avrebbe offuscato la bella aureola. Ma il ragionamento zoppicava; rendeva conto della timorosa inquietudine di Serena, non della sua determinazione di venire a Milano. E perchè a Milano appunto, dopo aver detto che sarebbe andata dovunque, a Milano eccettuato? La cameriera ricordava benissimo d'aver udito quel proposito sulle labbra della sua padrona un'altra volta, contraddetto poi dal fatto nella stessa maniera. E fu precisamente quando il luogotenente Ferdinando, lasciata in una villetta sulla riviera ligure l'amabile compagna, non s'era più visto. Anche allora l'abbandonata voleva andare in capo al mondo, tranne che a Milano, dove era poi andata per davvero. In tutto ciò doveva essere un segreto che la padroncina aveva avuto il torto di non confidare, come nei melodrammi e nelle commedie, alla sua Vespina. Quanto ad indovinarlo, la giovinetta, piena di buona volontà, vi si era pur provata, ma non era venuta a capo di nulla. Ah! se si avesse avuto bisogno dei suoi servigi un paio di anni o un paio di mesi prima, tanto che non le mancassero le fondamenta per un solido edifizio di congetture, voglio dire le nozioni indispensabili ad ogni cameriera, allora il segreto di Serena non sarebbe più un segreto, e da un pezzo Marta ne avrebbe detto qualche cosa a chi legge. Ma così costretta a congetturare sovra congetture, ad appoggiare ipotesi sovra altre ipotesi, la poveretta non ci ha colpa davvero se non ne sa nulla. Una cosa colpì Serena al primo entrare nella sua abitazione e fu l'apprendere che il giorno innanzi era stato a chiedere di lei... chi?... Maurizio. Maurizio il quale doveva saperla partita! Ed a qual fine? E che aveva detto? E che aspetto mostrava? Il colossale Antonio non sapeva rispondere a siffatte domande e ad altre tali che la signora aveva sulle labbra. Il signor Maurizio era venuto alla vigilia, intorno alle due, vestiva di nero e portava neri i guanti, aveva chiesto della signora colla massima naturalezza; inteso come fosse assente da Milano, aveva lasciato il suo biglietto di visita e promesso di ritornare il giorno di poi...; «oggi...» aggiunse il servitore in maniera di commento. «Oggi!» balbettò la bella tra sè e sè, pigliando il biglietto di visita che le veniva presentato. Il servitore stette alcuni istanti in aspettazione, poi vedendo che più non gli si badava si allontanò in silenzio; Serena rimase ritta nel mezzo del salotto, immobile e mutola, finchè lo scatto improvviso d'una molla la fece sobbalzare. Si volse e guardò l'orologio a pendolo intanto che sonava le due. Prima che fosse battuta la seconda squilla, Serena d'un balzo fu nella stanza da letto, dove la cameriera le preparava le vesti per l'acconciatura. — Non sono in casa per nessuno, disse a Marta, la quale non ebbe tempo di riaversi dallo stupore di quell'ordine precipitoso e di quelle singolari maniere perchè si udì il tintinnio del campanello alla porta d'ingresso. La cameriera si mosse vivamente per uscire, ma la mano di Serena le afferrò il braccio e la trattenne. Un istante, un brevissimo istante, che parve lungo alla curiosità della giovinetta, la signora stette dubbiosa; poi con quella variabilità che aggiunge un fascino di più a tutte le Serene della terra per la disperazione di tutte le Marte dell'universo mondo, prese un atteggiamento rigido e disse con voce ferma: — Se è il signor Maurizio, passi. XXXIII. TERZO COLLOQUIO DI MAURIZIO E SERENA. Era il signor Maurizio. Serena non si dissimulava le conseguenze di quel colloquio; venire innanzi al severo amatore, udirne per la terza volta la calda e schietta parola, e resistere colla simulazione non le era più possibile dopo quanto era avvenuto. Anche volendo, le sarebbero mancate le armi alla lotta; chè da gran tempo essa aveva cessato d'essere una _donna_ ed in quel mentre non era ancora rientrata nella sua corazza di cortigiana. Nè solo di lottare, ma non si sentiva nemmeno la forza di volere; tacevano le voci della coscienza; guardando agli scrupoli che l'avevano trattenuta dal venire prima, amante ella stessa, nelle braccia di così caldo amatore, le parevano singolari e ridevoli, faceto capriccio del cuore. Pensava, se pure era pensiero la fuggevole schiera dei fantasmi, pensava che, volendosi concedere un sentimento generoso, aveva scelto una stravaganza. E poi amava essa Maurizio? In quel momento no, od almeno dell'amore non aveva la consapevolezza; altro non era se non una donna, la quale, pur d'uscire da sè stessa, sceglieva di buttarsi nelle braccia del primo venuto. Davvero Maurizio indovinava il buon momento. All'atto di porre il piede nel salotto, la bella chiuse un istante gli occhi, come per radunare le proprie forze, poi mosse diritta incontro al nuovo padrone. Costui se ne stava immobile nel mezzo della sala, gli occhi fissi in Serena, con una singolare espressione di meraviglia; non profferì parola. La bella gli fe' cenno di sedersi e sedette ella stessa; le batteva il cuore affrettato, ma aveva il pensiero lucido e ritrovò un po' di forza per non dar tempo all'imbarazzo di porsi di mezzo nel loro colloquio. — Signor Maurizio, diss'ella con accento fermo, io non immaginava di rivedervi così presto; voi però vi tenevate sicuro che sarei ritornata? Maurizio la guardava fisso; e quand'ella tacque, rispose solo con un cenno del capo. Serena proseguì con un singolare accento, tra il serio e lo scherzoso: — A me non è lecito adontarmi di ciò che vi ha d'offensivo in tale certezza; non voglio parer diversa da quella che sono; se avete creduto impossibile che io seguissi la sorte d'un fallito, non mi avete fatto ingiuria, e forse avreste pensato che, non volendo parer complice di quel fallimento, il mio _onore_ doveva ricondurmi a Milano. Avete pensato questo? Maurizio, senza staccare gli occhi dal volto leggiadro, rispose: — Non so che cosa ho pensato, non lo so proprio. Sono venuto ieri, e sarei venuto domani se oggi non vi avessi incontrata. Ero io certo che sareste tornata? Mi pare di sì. Mi avevate detto tante volte che facevate un negozio. Il banchiere era fallito, ed io sono venuto. La singolare maniera con cui Maurizio parlava, a periodi rapidi e concisi, facendo una pausa in fine di ciascuno, come per scegliere le parole, fermò l'attenzione di Serena, la quale si aspettava altri modi ed altro linguaggio. Non le stava innanzi un innamorato ardente ed impetuoso, nè un beffardo giudice, nè un volgare vezzeggiatore di cortigiane; le maniere di lui non erano nè timide, nè impertinenti, nè fredde, nè appassionate; la sola insistenza dello sguardo poteva sembrare indizio di un occulto sentimento. Quello sguardo era fisso e pareva scrutatore. Serena lo sentiva ardere sul volto e suo malgrado arrossiva. — E perchè siete venuto? chiese la bella per uscire dall'imbarazzo. E l'altro rispose collo stesso accento: — Sono venuto a prendere il posto vacante, perchè ora io sono ricco, e posso concedermi il lusso del vostro amore. Serena non battè palpebra; Maurizio soggiunse: — Potete fare un buon negozio. I milioni del banchiere Redi gli ho io; ho giocato al ribasso contro la sua buona stella. Lui ha fallito; io sono ricco. Se nel mondo non vi sono due giustizie, voi mi appartenete di diritto. Ma non dubitate, farete un buon negozio. Sempre quello sguardo insistente, quel volto impassibile, quel linguaggio rotto, e quei brevi intervalli di silenzio misurati dall'affanno di Serena. Alla sciagurata donna venne meno la forza di resistere; le passarono in mente mille fantasie, mille sospetti, mille paure in un baleno; non le parole di lui l'offendevano, ma quelle sembianze impallidite, quell'accento monotono e freddo come un destino crudele. Si rizzò in piedi ed andò a sedersi altrove; Maurizio non mutò positura, non battè ciglio e continuò a tener l'occhio fisso sulla seggiola rimasta vuota. E dopo un istante di silenzio, durante il quale Serena, colta da un nuovo e terribile sospetto, guardava Maurizio paurosamente, la voce fredda, sommessa, uguale del visitatore ripetè come prima: — Potete fare un buon negozio. I milioni del banchiere Redi gli ho io; ho giocato al ribasso contro la sua buona stella. Lui ha fallito; io sono ricco. Se nel mondo non vi sono due giustizie, voi mi appartenete di diritto. Ma non dubitate, farete un buon negozio. E da capo quel silenzio, quello sguardo fisso, quell'immobilità dell'atto. Serena, dopo breve interna lotta, fu d'un balzo presso a Maurizio, e pigliandogli le mani e mettendo la leggiadra fronte presso al volto di lui, mormorò con voce spenta e carezzevole: — Maurizio, Maurizio mio! E siccome non le veniva risposto, crollò il bel capo disperatamente, e le anella dei suoi neri capelli sferzarono il volto severo. A quel contatto Maurizio si scosse e passò lievemente una mano fra i morbidi ricci, ma senza distrarre l'occhio dalla seggiola vuota, senza mutar positura. E dopo un altro momento di silenzio, ripetè non variando un accento, colla stessa monotona lentezza: «Potete fare un buon negozio, i milioni del banchiere Redi li ho io...» Serena non lo lasciò finire, diede un piccolo grido, balzò in piedi col volto scolorato dal terrore, si guardò intorno stupidamente ed uscì dalla camera. Maurizio rimasto solo, continuò: «Ho giocato al ribasso contro la sua buona stella. Lui ha fallito, io sono ricco. Se nel mondo non vi sono due giustizie, voi mi appartenete di diritto. Ma non dubitate, farete un buon negozio.» Poi tacque, continuando a guardare fissamente nel vuoto. Antonio, il servitore alto sei piedi, era entrato cautamente nella camera e se ne stava in disparte, mentre la povera Marta, vittima dei doveri del suo ufficio, si teneva presso alla padroncina, la quale non voleva rimaner sola. Maurizio stette lungamente immobile e mutolo; alla fine volse in giro uno sguardo sbigottito, si levò ed uscì a passi lenti senza mai profferire parola. Antonio lo seguì sino al pianerottolo, poi venne a dire alla signora che colui se n'era andato.... E la disgraziata Marta, rimasta finalmente libera, corse alla finestra per veder passare _colui_... XXXIV. IL DOTTOR PARENTI AL SIGNOR MAURIZIO. «N. 24. Oggetto (Particolare) Milano. Si rende noto alla S. V. che Camilla *** figlia di Maurizio *** e di Camilla *** dimorante ad A... in casa del signor Ciro Neri, maestro di scuola, dovendo farsi moglie a Mario P., figlio adottivo del signor Fulgenzio P., ha bisogno del consenso de' suoi genitori legittimi, i quali lo devono dare a voce o per iscritto con atto di notaio. «Il sottoscritto si permette di aggiungere che Camilla *** vuole tanto bene a Mario, che Mario vuole tanto bene a Camilla, che entrambi si sono giurati di essere l'un dell'altro, e che sarebbe una crudeltà inutile il volerli tener divisi due anni ancora, fino all'età maggiore della fanciulla. Il sottoscritto a buon conto pone la propria persona ed il proprio domicilio a disposizione del padre di Camilla; e se sarà necessario, verrà a ricevere una risposta. «_Dottor_ PARENTI «Medico della Casa di Salute, in via *** N. ***.» XXXV. PAOLUCCIO LASCIA L'OSPIZIO. Prima di scegliere la forma epistolare, l'ottimo dottore aveva lungamente almanaccato se per avventura non gli convenisse trattare il negozio a quattr'occhi nell'intimità d'un colloquio, coll'eloquenza della parola e del gesto. E si sentiva in petto un paio di polmoni da oratore ed al bisogno una faccia tosta corrispondente. Certo sarebbe stato più spiccio e più sicuro, secondo egli diceva, ma diffidò della forma d'una domanda a bruciapelo, la quale non dà tempo a pensare, ed ebbe timore che la soggezione, od il dispetto, o qualunque altra delle tante meschinità del cuore pigliasse la mano al sentimento di padre a cui voleva fare appello. In fondo, a dar tempo al rimorso, era meglio scrivere. Quanto alla forma della lettera, da prima non ne vide che una: commovente _esordio_, concisa esposizione del fatto, lunghissima _mozione degli affetti_. Poi ne vide cento, e facendo l'inventario della propria rettorica, trovò ch'era meglio sopprimere l'esordio, e poi la perorazione, e si domandò se non fosse più conveniente scrivere pacato e grave, esponendo le condizioni legali della fanciulla; finalmente si attenne alla forma d'ufficio, scevra insieme da ogni affettazione e da ogni indiscretezza. Quando ebbe finito la sua lettera credette d'aver fatto un capolavoro. Rispetto al modo per cui era venuto a scoprire che Maurizio era il padre di Donnina, la cosa fu facile quanto era sembrata e quanto poteva essere difficile; appena ebbe intraprese le indagini, seppe che delle quattro Camille rimastegli, una era morta, un'altra era andata a nozze l'anno prima e la terza aspettava marito nel tetto paterno. La quarta era figlia di Maurizio — era Donnina. Se il dottore non isbagliava la prognosi, si preparavano tali cose, per cui era necessaria la presenza di Mario in Milano, e volendo lasciare in tutte le faccende del cuore la parte all'improvviso e non guastare gli effetti con importune riflessioni anticipate, senza fiatarne parola a Fulgenzio, scrisse nello stesso giorno a Mario, raccomandandogli di venire subito, perchè Paoluccio era forse in fin di vita. La cosa era vera, ma in altra occasione il dottore non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di lasciar spegnere quel misero avanzo di vita, senza darne il triste spettacolo al giovane studente. Ed oh! il triste spettacolo! Quando Mario arrivò, corse difilato alla casa paterna, ma trovò il signor Fulgenzio assente; poco dopo gli venne innanzi il dottore, il quale contro il consueto non ebbe per salutarlo nè lo splendido sorriso, nè le replicate strette di mano; si mostrava invece frettoloso ed affannato. Mario, commosso da quanto gli pareva d'indovinare in quegli atti, appena osò domandare: — È morto? — Non ancora. Non ancora!... Il dottore si avviò frettoloso, e Mario dietro. Attraversarono il cortile, salirono le scale, e percorsero un lungo corridoio, in capo al quale era la camera del disgraziato Paoluccio; solo quando furono all'uscio, il dottore si arrestò, tese l'orecchio un istante, e ripetè, volgendosi al giovine: «Non ancora!» Mario fece per andare oltre, ma il dottore lo trattenne e stringendogli per la prima volta la mano, così gli parlò pacato: — Ha chiesto di te, voleva vederti, diceva d'aver gran cose a dirti. Il pensiero del giovane lesse nel desideroso pensiero del dottore. — E credete che prima di morire riacquisterà il senno? chiese Mario. — Questo avviene raramente; è il rimedio ultimo, e non è in mano degli alienisti...; lo spero per te. Il giovane tentennò il capo melanconicamente, ma senza amarezza, e disse, additando l'uscio socchiuso: — Se _egli_ sa qualche cosa del mio albero genealogico, meglio è che porti il mio segreto nella tomba. Il dottore spinse lievemente la porta socchiusa e passò oltre; Mario lo seguì. Ed oh! il triste spettacolo! Sopra un piccolo letto, inondato di luce, giaceva il moribondo, col volto, le mani ed il petto incadaveriti, cogli occhi spalancati e fissi nell'ampia finestra da cui si vedeva il cielo azzurro, colle labbra agitate come per mormorare una risposta a qualche domanda segreta. Gli occhi del giovine si arrestarono subito sul noto volto, in cui per tanti anni egli aveva letta l'impronta del dolore, e non videro il signor Fulgenzio, il quale se ne stava in un canto. Ad un cenno del dottore, Mario si fe' presso al capezzale, e si pose fra il letticciolo e la finestra per modo di arrestare lo sguardo del moribondo. Paoluccio tenne un istante gli occhi fissi sul giovane, poi li socchiuse e disse qualche parola al suo invisibile interlocutore. Mario si chinò sul capezzale, toccò la fronte del vecchio e cercò i polsi che misuravano gli ultimi istanti di quella miserabile vita. Un sorriso rianimò fugacemente il volto del moribondo, il quale guardò fisso il giovane e mostrò di riconoscerlo. — Ti aspettavo, disse finalmente ad alta voce con un accento fermo, che commosse i tre astanti. Ma lo sforzo fatto per parlare forte gli cagionò l'affanno; non potè soggiungere altro. — Sai? ripigliò a dire poco dopo con voce più sommessa ed interrompendosi ogni tanto; ho una buona notizia da darti... Non è vero che siano là sotto, ti ricordi?... là sotto... non è vero. Fu un brutto scherzo... invece sono là, non ne manca uno, mi aspettano. Tacque, e per brev'ora si udì solo il rantolo dell'agonia. Il dottore si accostò al letticciuolo, guardò il moribondo e poi Mario con un triste sguardo. Cessò il rantolo... un breve silenzio, poi un lungo sospiro. L'ultimo? No, tutto non è ancora finito. Improvvisamente il vecchio levò il braccio e sembrò fare un ultimo sforzo per cercare la mano di Mario, e quando l'ebbe nella sua la strinse forte, fe' un cenno del capo, e ripigliò a dire: — Sai?... fu un brutto scherzo... Ma non si udì altro, nè una voce, nè un soffio; il disgraziato aveva finito il delirio e la vita. Aveva gli occhi aperti, e la mano fredda stringeva ancora la mano del giovane. Il quale si svincolò della gelida stretta, chiuse gli occhi del morto e si ritrasse dal capezzale, senza una lagrima, col cuore impietrito dall'affanno. Allora gli venne fatto per la prima volta di scorgere il signor Fulgenzio, ma non l'ebbe per anco visto, che già il pover'uomo lo teneva stretto nelle braccia e lo baciava in volto, carezzevole, come non aveva mai fatto, come non aveva mai saputo fare, e lo chiamava col nome di «figlio.» — Padre, padre mio! Mario non seppe dir altro, ma la tenerezza aprì le vie che il dolore aveva chiuso; le lagrime bagnarono i due volti riavvicinati dall'affetto. Paoluccio, i cui occhi non avevano voluto rimaner chiusi, pareva guardare dal letto di morte e sorridere, intento che il dottor Parenti, col cuore grosso, cercava di spingere i suoi due amici fuori della melanconica cameretta. Il dottore non veniva mai meno alla sua accortezza naturale, e sapeva, checchè gliene costasse, mettere in disparte la propria persona quando era necessario. Comprese che tra padre e figlio, per la prima volta egli avrebbe fatto la parte dell'importuno, e trovò un pretesto per lasciarli soli, come due innamorati che si fossero fatti il broncio un pezzo ed avessero allora riannodato il filo. Il paragone non parrà capriccioso a chi abbia esperienza della vita; il cuore non batte in due maniere la corda dell'affetto, nè altro è l'amore se non affetto misto di desiderio. Non bastano le lagrime a quei due petti allacciati per la prima volta nei nodi d'un gagliardo sentimento; non bastano la parola mormorata ed il fremer delle fibre nella tenerezza del ravvedimento; hanno tutto detto e non basta, bisogna tornar da capo, rifare colla parola la via fatta col pensiero, rivedersi riluttanti, diffidenti l'un dell'altro, rievocare quei tristi giorni in cui erano insieme ed eran soli, in cui il loro affetto era uno strazio dissimulato, una simulata freddezza, mentre ora è una gioia così pura! E dire: «Ti ricordi? Ti ricordi? In quel giorno io ti parlai aspro, e ti amavo. Ti ricordi? Una volta ti vidi mesto e non ti venni incontro, e non ti chiesi che avessi, e non ebbi una parola per rasserenarti, e sognavo ad occhi aperti la felicità di poter fare tutto ciò, perchè ti amavo! Ti ricordi?...» Non fu mai confidenza così intera d'amico ad amico, nè tenerezza di innamorati così schietta, nè entusiasmo più bello di quel che s'incornicia nei grigi capelli del vecchio, nè così salda sicurezza di sè come nel baldo aspetto giovanile di Mario. Sono come due viaggiatori che già si abbiano vôlte le spalle, e dopo aver camminato sempre dritto, scostandosi sempre più, si incontrino ora faccia a faccia per rimpiangere la via non fatta insieme. Si riconoscono e si leggono in petto. E cianciano amorosamente senza riserve, senza diffidenze; tatto ciò che viene loro in mente è buono, perchè apre meglio la via del cuore, ogni sentimento che si mostra è una meraviglia nuova; così essi avevano sognato il loro affetto; e così era e così lo ritrovano! Una folla disordinata d'idee, di memorie, di speranze, di propositi, trabocca dalle loro parole, dai loro atti, dai loro sguardi intenti. Chiedete il nome della fata che gli ha guidati in quel caro labirinto... Donnina! La faterella ha fatto davvero il miracolo, le è bastato mostrarsi per farsi amare; udite la confessione del signor Fulgenzio: anch'esso è innamorato della sua futura nuora! Oh! come batte forte il cuore di Mario! Intanto la notizia della morte di Paoluccio si è sparsa per lo stabilimento. Costui che parla sottovoce col reverendo, è stato uno dei primi a saperla, in grazia del sistema di spionaggio in cui persiste da dieci anni per la difesa propria e de' suoi compagni; egli vuol persuadere il reverendo, il quale lo ascolta a bocca aperta, che se Paoluccio è morto, segno è che non poteva più durare in quella vita, e che bisognerà in avvenire raddoppiare la vigilanza. Altrove si vuol sapere di qual malattia è morto, e nessuno lo sa dire: gli uni escono nel cortile e levano il capo verso la finestra della stanza mortuaria, altri si accoccolano nel canto più oscuro, e babbo Jacopo passeggia su e giù senza badare a nissuno, ma col volto rincupito più del consueto e col passo malfermo. Il solo indifferente è il professore Rigoli, su cui pare che il dolore non possa assolutamente nulla. Se alcuna cosa lo tocca da vicino, è il vedere come un avvenimento tanto naturale, qual è, nell'ordine dei fatti, la morte d'un uomo decrepito, impressioni tanto quelle teste vacillanti. E siccome nessuno gli bada e gli cuoce il non veder la solita allegria, spinge le palle a carambolare sul biliardo, muove le pedine sullo scacchiere, mescola e taglia i tarocchi, legge forte i giornali e picchia sulla tastiera del pianoforte. E in quello stesso mentre, in una camera al primo piano i canarini ripetono una strofetta spensierata alle orecchie di un grosso micio, che socchiude ogni tanto gli occhi per non far villania ai concertisti, e una bionda creatura con un volto che pare un bocciolo di rosa, si stringe amorosamente al petto del dottor Parenti, il quale ha qualche cosa che non vuol dire. Ma tanto fa la fanciulla, che egli è costretto a dirla: «Paoluccio non è più pazzo!...» Due lagrime, che la piccola Olimpia aveva sul ciglio da un pezzo, sgorgano in silenzio e rigano il bel volto. Il giorno successivo si annunziò con uno splendido mattino. I rami degli alberelli nudi che crescevano nel cortile del manicomio, parevano levare in alto le loro gemme per scaldarle ai raggi di quel sole primaverile; le vetrate scintillavano, ed un magnifico cielo azzurro si incorniciava nelle quattro ale di muro. E nondimeno, quanta mestizia in quel luogo! Una cerimonia lugubre si era compiuta all'alba. Il povero Paoluccio era stato vestito coi suoi migliori panni, e gli si era presa la misura per la bara, che aveva dovuto essere molto lunga; il falegname, sapendo di aver da fare con un collega, s'era fatto scrupolo di servir a dovere il suo cliente ed aveva scelto assicelle di abete stagionate, e s'era vantato che il morto stesso non avrebbe fatto meglio; tutte queste cose, se non erano verissime, formavano l'argomento dei melanconici crocchi dei pazzi. Quella mattina passò tristamente; si aspettava la sera, e non si sapeva far altro. E la sera venne, e finalmente la triste curiosità fu paga: una lunga bara chiusa attraversò il cortile e fu deposta nella cappella; a quella vista taluno fuggì pauroso, altri rimase come istupidito a guardare, senza lagrime e senza parole, i più vennero dietro la bara. Si udì un lieve bisbiglio come ai preci; poi la bara ruppe un'altra volta la piccola folla e fu posta sopra un carro. Così Paoluccio lasciò l'ospizio. I suoi antichi amici si sbandarono allora e si raccolsero, in vari capannelli, ma non ritrovarono le liete ciancie; il solo professore protestava mani e piedi contro l'incomprensibile inerzia dei compagni. Mario aveva voluto accompagnare il povero vecchio fino al cimitero e lo vide calar nella fossa a ciglio asciutto, senza dolore, anzi con una specie di tenerezza profonda, con un sentimento quasi di gioia. Un istante pensò a rendersi conto di quanto avveniva dentro di sè, e parendogli colpa il non avere il cuore rotto dall'affanno, provò ad affliggersi. Ma la sua stessa pietà fu ribelle a quell'ipocrisia. E poi no, non era luogo a mestizie; guardando il fondo della fossa tranquilla ed il magnifico azzurro del cielo ampio come una promessa, e sentendo l'alito fresco del mattino, pensò che quel viaggiatore smarrito aveva cessato allora solo d'essere meritevole di lagrime. E poi, poteva egli impedire al cuore di battergli forte e giocondo? Non si era mai sentito tanta vita nè tanta felicità; ritrovava insieme l'affetto d'un padre, e nel padre un amico, e sè stesso e la fede dei primi anni smarrita nella ritrosia dell'amor proprio. E sopra tutto ciò l'amore per Donnina, l'amore di Donnina ed il carezzevole pensiero dell'avvenire, ampio tanto quando si hanno ventitre anni e si ama! Guardata dietro il prisma dei suoi affetti, anche la bara di Paoluccio gli sembrava sorridente, e quella sepoltura aveva quasi i colori di una festa. Ebbene, sì, una festa, ora che la terra ha cancellato le tracce del dolore, se le voci dell'anima non sono una menzogna, se quel cielo infinito non è un deserto, qualche cosa di colui che fu Paoluccio rimane ancora... e fa festa! XXXVI. POVERA OLIMPIA! Olimpia ha spiato dalle persiane socchiuse i passi di Mario, e non oggi solo, ma ieri, e ad ogni volta che egli è uscito di casa od ha attraversato il cortiletto. Ella sa tutto, la disgraziata fanciulla, sa tutto! Ed oh! se le rimanesse tempo e comodità di piangere, quante lagrime verserebbe sulla propria sorte! Ma sì! Non si ha mai finito di dar sesto alla casa, e poi ci è sempre quella Semplicetta che ha l'aria di aspettare la prima lacrima per versarne un torrente, oppure il babbo, il malizioso babbo, con quegli occhi fatti apposta per sgominare ogni proposito in petto alle figliuole melanconiose. Basta, è un gran dolore non essere padrona delle proprie lagrime, e non poterne versare nemmeno una quando vorrebbe versarle tutte per _fargli_ dispetto. Potesse almeno dirgli, poichè il cattivaccio ne ama un'altra e vuole sposarsela, che a lei non ne importa un bel niente, e che anch'essa ama un altro e se lo sposerà! Potesse _dirgli_ questo, via, sarebbe già una magnifica vendetta! Ma nemmeno, nemmeno! Non ci è _un cane_ che la guardi, la poverina! Se vuole sfogare il malumore non le rimane che Semplicetta; ma la matrona dei fornelli mette tanto buon volere a lasciarsi tormentare dai capricci della padroncina, che costei si pente prima ancora di stancarsi. Ditelo voi, non è vero che è una disgraziata creatura? Vi sono dei momenti in cui crede proprio che ne morrà, e si guarda nello specchio e si trova un'aria patita, e si prova a tossire per vedere se potrà buscarsi una bronchite! E immagina di vedersi morta, di veder _lui_ lagrimoso dietro la bara, col petto straziato dai rimorsi. Anche questa sarebbe una magnifica vendetta! Oppure vivere eternamente zitella, per non lasciargli più pace e perchè egli fosse costretto a pensare a tutte le ore: «Quella poverina invecchia senz'amore, ed è colpa mia; sono io la causa della sua sventura, povera Olimpia!» Oh! sì, povera Olimpia! Ma il vedersi zitellona non finisce di piacerle; meglio morta di tisi, meglio sotterra come Paoluccio! Talvolta pensa anche alla sua rivale, a quella ladra che le ha rapito il cuore di Mario. Senza dubbio sarà bella, _più bella..._ E specchia il volto da cherubino... oh! che colpa ne ha lei se è tanto brutta!... tanto brutta poi no, via, no davvero! Ah! le pare di sentirsi ribollire il sangue nelle vene al pensiero della sua rivale, si sente il cuore capace d'odio, non ne è sicura, ma incomincia ad odiar forte quella donna. Le vengono in mente tante terribili vendette consigliate dalla gelosia; ripensa mille torture; ah! se avesse la forza di far del male, se fosse buona d'essere cattiva! Ma bisogna reprimere tutte queste fantasie, giova farsi forza, e venire ad una determinazione seria, e fermarsi in quella. Un giorno o l'altro dovrà trovarsi in faccia alla sposa — _alla sposa!_ — dovrà parlarle come un'indifferente, sorriderle anche; ci vuol coraggio, bisogna preparare un contegno, e non lasciarsi cogliere alla sprovveduta per non farci una triste figura, poichè in fin dei conti è meglio che quella smorfiosetta non abbia a godere del trionfo. E immagina qual veste indosserà... oh! certo la veste color di rosa... peccato che non abbia lo strascico, anzi che le arrivi appena alla caviglia!... peccato! E le dirà... Che cosa le dirà? Ci pensa molto... è difficile! Ma a poco a poco si fa strada un altro pensiero; quella fanciulla, dicono, è poveretta, è orfana, è buona! Perchè armarsi contro di lei, invece di volerle bene? Ah! le pare che le vorrebbe tanto bene se non la odiasse! Odiarla! una tapina che non ebbe mai le carezze della mamma come lei, e che, di lei più disgraziata, non ha nemmeno il babbo... nè fratello... nè sorella... Oh! ma Mario basta a tutto. Proprio? A tutto? All'amore del babbo, per esempio, no: se scende in fondo al cuore, ella trova d'amar più il babbo che Mario, senza paragone!... Dopo lunga contesa, Olimpia ha formato il suo proposito. Ed il primo momento che si trova con Mario si fa forza e gli dice senza preamboli: — Signor Mario, come si chiama la sua fidanzata? Il giovane sorride e rispondo arrossendo un tantino: — Donnina! — Ebbene, soggiunge la fanciulla, dica a Donnina che io voglio esserle amica. Glielo dirà? — Glielo dirò. Ed Olimpia corre, senza ascoltar altro, nella propria camera col cuore che le batte forte, proprio come in petto ad un'eroina. XXXVII. UN GIORNO DI VACANZA IN CASA DEL MAESTRO DI SCUOLA. Come fuggì ratta quella domenica! Ognissanti era venuto in carrozza per far più presto, e fidandosi al desiderio aveva tanto anticipato il viaggio da giungere ad A... assai prima che non promettesse la sua lettera, e tuttavia non prima che Donnina si fosse affacciata dieci volte alla finestra ed avesse sentito martellare il cuore a dieci nugoli di polvere che aveva visto levarsi in fondo in fondo, sulla via maestra. Maestro Ciro se ne stava alle vedette da basso, sul limitare della scuola, nel piccolo vano della porta come in una cornice, e non usciva dalla sua immobilità se non per fregarsi le mani e sorridere benignamente ai passanti. L'oste della _Salute_ gli rimandava quel sorriso illeggiadrito dalla più prepotente smania di attaccar discorso che abbia travagliato il petto d'un oste, ma il maestro di scuola non ci badava nemmeno. Mamma Teresa andava e veniva dai fornelli alle spalle del marito, tanto più impaziente quanto più non voleva parere, e poneva nel mentre le fondamenta di uno splendido desinare, il calderino per lessare un pollo nato e domiciliato ad A..., cresciuto sotto gli occhi della scolaresca e morto la vigilia. Finalmente Ognissanti venne; anticipava di un'ora e ritardava d'un'ora. Maestro Ciro se lo strinse al petto per il primo, e non lo avrebbe lasciato se mamma Teresa non glielo avesse tolto di mano per ispingerlo contro Donnina. La cara fanciulla non ebbe parole; Ognissanti la baciò in fronte ed ella gli restituì quel bacio senza rossore. La gioia su quei volti ravvicinati aveva una serenità profonda, che contrastava colla febbrile ardenza di maestro Ciro. Costui intendeva l'allegria un po' alla maniera dei suoi scolari, e se il decoro magistrale e le gambe glielo avessero permesso, avrebbe fatto a saltare le panche di scuola anche sotto gli occhi della terribile mamma Teresa. Al contrario, Ognissanti aveva come una lieve nube di mestizia, e dagli occhi di Donnina spirava quella dolcezza pacata e tranquilla che pareva esserle compagna nelle maggiori commozioni. A spicciar le cose, mamma Teresa concesse al giovine un amplesso pieno di dignità, poi spinse in cucina i tre fanciulli, maestro Ciro compreso, e sbattacchiò l'uscio di scuola per impedirne l'ingresso a due sguardi curiosi, in cui si era concentrata tutta la vitalità dell'oste della _Salute_. Incominciò la festicciuola di ciance. Donnina ed Ognissanti avevan tante cose da dirsi, anche a non dirsi nulla che già non sapessero. E poi gran cose erano avvenute: la visita del signor Fulgenzio, il colloquio all'osteria, le indagini sul padre della giovinetta. Tutto ciò fornì al signor maestro occasione d'un lucido racconto che mamma Teresa ascoltò a bocca aperta all'ora del desinare, ben inteso protestando quello essere il momento di far bocconi e non chiacchiere. Anche Ognissanti aveva le sue novelle da dare, ed una melanconica, che non avrebbe fatto bella figura a tavola — la morte di Paoluccio. Questa, naturalmente, tenne per sè; e parlò del signor Fulgenzio, della vita universitaria, del tempo che ancora gli rimaneva per pigliar la laurea, e guardava Donnina, mentre maestro Ciro si fregava le mani ridendo del suo meglio per far capire alla moglie che la laurea e Donnina erano tutt'uno. La fanciulla ascoltava tenendo gli occhioni fissi nel volto d'Ognissanti; essa non aveva nessuna novella da dare, e l'avvenire le parlava sulle labbra del futuro sposo. Ma si sentiva felice quanto non era mai stata, perchè per la prima volta Ognissanti le appariva come lo aveva in cuore, senza quell'inquieta ansia dell'avvenire, senza quello sconforto di sè medesimo, non più in lotta tra i proprii sentimenti ed il proprio orgoglio. Poteva essere buono, poteva mostrarsi affettuoso, riconoscente, poteva svelare il tesoro della sua anima gentile; era come restituito a sè medesimo. Egli, di solito chiuso e taciturno, diveniva verboso, non per abbondanza di parole, ma per trabocchevole onda di sentimenti e di affetti; e non bastandogli la lingua, favellava cogli occhi, col sorriso. Pareva impaziente di apparire a Donnina come egli si sentiva di essere; ad ogni motto che svelava una riposta pagina del suo cuore, fissava l'occhio in Donnina per vedere come essa accogliesse la nuova rivelazione. E continuava a dire, ad interrompersi per dar luogo ad una improvvisa idea, ad un improvviso ricordo, rifacendosi indietro col pensiero nel cammino della vita, ripetendo il già detto, o tornandoci su per dargli valore con una considerazione fresca fresca, con un episodio nuovo. E quando finalmente gli parve d'aver mostrato di sè ogni aspetto, allora tacque, e ricompose il volto a quel dolce e melanconico entusiasmo d'innamorato che ha come paura della propria felicità. Quando il desinare fu al termine («un desinare luculliano» disse maestro Ciro, ammiccando degli occhi ai fidanzati perchè facessero lo stesso complimento alla cuoca), quando il desinare fu al termine, i commensali stettero ancora a tavola. Maestro Ciro non aveva mai finito d'interrogare, sebbene da un pezzetto Donnina ed Ognissanti si stringessero le man sotto la tovaglia e non parlassero altrimenti che cogli occhi; l'intervento della formidabile mamma era necessario. — Non vorrai finirla colle tue chiacchiere? Non vedi? essi hanno altro per il capo che badare a te; lasciali in pace e vattene a far due passi... Ed in così dire la vecchia si levò da tavola e si tirò dietro il marito, che non potè, tenersi dalle risa. I due giovani, rimasti soli, continuarono a guardarsi in volto senza dir nulla, prova evidente non già che non avessero nulla a dire, ma che quel muto linguaggio diceva abbastanza. — Fra tre mesi! disse finalmente Ognissanti, stringendo, più forte la mano della fanciulla. — Fra tre mesi, ripetè Donnina senza chinar gli occhi con falso pudore. — E saremo sempre felici? domandò il giovine quasi pauroso del contrario. — Sempre, rispose la fanciulla con accento fermo, come se ne fosse sicura. — Sempre, sempre, sempre! entrò a dire il signor maestro, che era sfuggito dalle mani della sua tiranna, ed aveva inteso ogni cosa, e si allontanò subito «per non dar soggezione.» Ognissanti si accostò vie più a Donnina, e, lisciandole con una mano i capelli, disse: — Saremo poveretti; io non voglio costar molto a mio padre; ha già troppo fatto per me, voglio vivere con quanto ora mi dà fino a che basti l'opera mia. Vorrei pure esser ricco per circondarti di agiatezze! Ma dì un po', mi ameresti egualmente s'io fossi ricco, e vorresti esser mia? — Ti amerei lo stesso, e vorrei esser tua egualmente; tua, non delle tue ricchezze. Non mi vorresti tu se io fossi ricca? Ognissanti non rispose, e portò alle labbra la mano della fanciulla. — Siamo entrambi poveretti, ripetè poco dopo; saremo poveretti. — Saremo ricchi, perchè avremo pochi bisogni; io so come si conduca una casa; chiederemo al cielo il necessario soltanto, e faremo che il necessario nostro sia il meno possibile; ci rimarrà sempre abbondanza d'amore, e sarà il nostro lusso. Alla città vi è tanta gente che vive di rendita, noi vivremo di risparmio. Come tenersi da faro un bacio su quella bocca tanto savia, e tanto leggiadra! Mamma Teresa, che giungeva allora, s'era, per buona sorte, voltata proprio in quella da un'altra parte, e maestro Ciro, il quale non aveva perduta una sillaba, si allontanava, contando con gli occhi le quattromila e seicento lire custodite _negli scrigni_ della Cassa di risparmio di Milano per conto di Donnina, della poveretta piena di giudizio... e di scudi! Fuggì ratta quella domenica! XXXVIII. IN CUI SI VEDE COME MARIO NON RITORNASSE A MILANO SOLO. Ed ora Mario se ne ritorna verso Milano a piedi non avendo alcuna fretta di arrivare, ed invece di pigliare la via maestra, infila, senza avvedersene, una scorciatoia, non già per far più presto, ma perchè da quella parte può, volgendosi, veder più lungamente la casicciola che biancheggia in mezzo al verde dei gelsi abbrunati dal crepuscolo. Cammina a passo lento, ma il suo cuore va di trotto serrato e la fantasia più che di galoppo. Passa per lo stretto sentieruolo costeggiato da prunai che gli afferrano le vesti per trattenerlo; quella muta campagna non ha una voce; ne avesse mille, non giungerebbero fino a lui, chè la sua fantasia lo precede o ritorna indietro, ed ora è a Milano, ora non ha lasciato il povero tetto del maestro di scuola; pensa all'avvenire a cui muove incontro, pensa a Donnina! Il sentiero si restringe tanto che appena vi può passare una persona; ed ecco, senza avvedersene e d'un subito, Mario si trova alle spalle d'un uomo che lo precede camminando assai più lento di lui. Il giovine, tolto bruscamente alle proprie fantasie, è costretto ad arrestarsi, aspettando che l'altro gli ceda il passo, ma colui nè si piega da un lato, nè affretta, e Mario finisce col toccargli lievemente la spalla. Lo sconosciuto si volge, e si pianta ritto in faccia al giovine. L'atto può sembrare arrogante, ma nel volto di quell'uomo è dipinta una sciagura che toglie le parole aspre di bocca a Mario. E lo sconosciuto, con un singolare accento misto di fierezza, di umiltà e di mistero, prende a dire: — Voi venite da A... non è vero? La conoscete voi, la mia figliuola? Un amorino, la più cara bambina di A... la conoscete?... Si chiama Camilla! E tende l'orecchio come timoroso di non afferrare subito la risposta, e fissa gli occhi spalancati in volto al giovane, o lo eccita, crollando il capo e sorridendo amorevolmente, a rispondere. Mario non sa credere ai propri sensi: quell'uomo che vede, quelle parole che sente, il pensiero melanconico che gli balena, ed insieme la grandiosa speranza che gli empie il cuore, gli paiono cose di sogno. Sa come Camilla sia il nome vero di Donnina, e come Donnina abbia un padre che non è babbo Ciro! Allora guarda il volto severo dello sconosciuto, interroga le vesti ch'egli indossa e tenta di indovinare quell'enigma. Maurizio (il lettore l'ha riconosciuto), continua a crollare il capo ed a sorridergli. — Conosco una fanciulla che si chiama Camilla, ma non so se sia la vostra figliuola... — È la mia, vi dico che è la mia... — Quella che io conosco ha un padre, il maestro di scuola... Le labbra di Maurizio incominciano un amaro sorriso, che subito si cancella. — Il maestro di scuola non è suo padre, ribatte con faticosa dolcezza; il padre di quell'amorino sono io: quella bambina cara mi appartiene, vi dico che mi appartiene, che è mia... e posso provarlo. La voce di Maurizio ha preso a poco a poco l'accento della collera; ma quella collera è così paurosa e quella paura così straziante, e quei modi così singolari, che Mario ne è commosso e si affretta ad interromperlo: — Non ne dubito, voi dovete saperlo... Maurizio sembra meditare su questa parola, e prima si rasserena, e poi si rattrista in volto, ed infine ripiglia a dire melanconicamente: — È vero, io devo saperlo... ma è passato tanto tempo... dite, credete voi che quell'uomo... quel maestro di scuola acconsentirà a privarsi della sua... della mia figliuola? E vorrà restituirmela? — Io credo di sì... — Non ne siete sicuro? E perchè non ne siete sicuro? — Ne sono sicuro. Ma la profonda nube che oscura il volto dello sciagurato padre non si dirada. Intanto Mario ha cercato di spingere oltre quell'uomo per uscir dal sentieruolo che poco più innanzi mette nella via maestra, ma Maurizio si è ribellato senza dir parola, e non si è mosso un pollice dal luogo in cui si trovava. — E se anche il maestro di scuola non me la rifiuta, essa, la poveretta, Camilluccia mia, vorrà venire? Non mi conosce! — aggiunge abbassando la voce — non mi conosce! Mario non sa che rispondere, ed il disgraziato insiste collo sguardo. — Quali sono le vostre intenzioni? chiede il giovine per uscire da quel silenzio penoso. Maurizio crolla il capo melanconicamente e balbetta: — Non so. — Perchè siete venuto qui? — Non so. — Volevate andare dal maestro di scuola, o presentarvi a Camilla? — Non so. E continua a crollare il capo. Poco stante soggiunge: — Sono venuto perchè avevo bisogno di sapermele vicino; anche ieri sono venuto; ho cercato di vederla, ho attraversato il paese... ma non ho visto nessuna bambina che rassomigli alla mia. Oggi sono tornato, tornerò domani. Tace un'altra volta, poi soggiunge abbassando la voce e guardandosi intorno: «Ah! se potessi farle sapere in qualche modo che io sono ricco, molto ricco, ricco a milioni, che venendo col babbo, ella avrebbe scudi lucenti per giocare, e se potessi offrire al maestro di scuola un bel gruzzolo per la vecchiaia! — Ebbene? — Ebbene! La bella dimanda! Così fatto è il mondo. La mia figliuola sarà come tutti gli altri, è come tutti gli altri; non l'ho da saper io che sono suo padre? Ah! il cuore del giovine non ribollisce per dispetto, ma si gonfia per l'affanno! Ha tutto compreso! Guarda intorno per la deserta pianura; non sa che risolvere, non sa che fare. Maurizio se ne sta mutolo, immobile, cogli occhi fissi alla casicciola che non apparisce più se non come uno sgorbio bianco confuso in mezzo al verde. La notte scende rapidamente. — Ecco, dice Mario, obbedendo come ad un istinto; è meglio che vi allontaniate di qui: mi piglio io il carico di parlare a maestro Ciro, di dire alla vostra figliuola che siete ricco... — Ricco a milioni... — A milioni, che ella avrà ogni ben di Dio. — E scudi lucenti. — Sicuro... le dirò che suo padre la vuole con sè, per farla felice, per volerle tanto bene... le dirò tutto. Ed in così dire Mario passa innanzi e prende per mano il povero padre, che non esita più a seguirlo. Giunti sulla via maestra, si arrestano un istante. Il giovine si guarda intorno per vedere se mai non giunga qualche carrozza vuota, ma per tutta la bianca linea della via maestra, che si stende lunga lunga alle sue spalle, non si vede nulla. Intanto Maurizio guarda curiosamente Mario e sembra incerto se o no seguirlo; ma il giovine medico, che si avvede di quella lotta e ne indovina la cagione, non gli dà tempo di pensarci, e si muove a passo rapido verso Milano senza dirgli nulla. E Maurizio gli vien dietro coma un automa. Fanno così gran tratto di via senza dir parola. Ma improvvisamente Maurizio accelera il passo e raggiunge il nuovo amico e gli dice: — Chi siete voi? — Sono un poveretto, risponde Mario senza arrestarsi, un poveretto che vuole il vostro bene ed il bene della vostra creatura. Maurizio sembra aver udito una sola parola e la ripete più volte fra sè e sè: «Poveretto! Poveretto!» — Ebbene, aggiunge poco dopo, raggiungendo un'altra volta il compagno che accelerava quanto più poteva il passo — ebbene, se siete poveretto, io sono ricco e basto a tutti; sarete ricco anche voi, purchè abbia la mia Camilla — voglio che siate tutti ricchi, anche quel dottore che mi ha scritto... — Il dottor Parenti? — Lo conoscete? Anche lui, anche lui... tutti! L'oscurità a poco a poco si è fatta profonda; gli alberi che costeggiano la via, a poca distanza sembrano fantasmi; il silenzio è alto nei campi circostanti, chè le zolle non hanno ancora i loro ospiti canori, e le prime foglie degli alberi attendono mute le nozze degli insetti. — Come vi chiamate? domandò Maurizio dopo un lungo intervallo di silenzio. — Mario. Il disgraziato ripete fra sè quel nome e non dice altro. Sono giunti alle porte di Milano, Maurizio si arresta di botto, piglia le mani di Mario, le stringe nelle sue, gli dice _addio_ e si allontana a passi rapidi, voltandosi indietro come timoroso d'esser seguito. Il giovine rimane alcuni istanti sbigottito da quella improvvisa diffidenza e non cerca di vincerla, al contrario finge d'andar da un'altra parte, poi si volge, e rasentando le muraglie per non esser visto, segue Maurizio a distanza fino alla sua abitazione. Allora ritorna indietro, ma non ha fatto dieci passi e si sente battere sull'omero da una mano larga e pesante. Si volge, e si trova faccia a faccia col dottor Parenti sempre lieto e giocondo. — Vi trovo a tempo, dice Mario, ho seguito finora uno che ha bisogno della vostra scienza. — Il signor Maurizio, il padre di Donnina. — Lo sapete? Ed è dunque vero?... — È verissimo. — Sapevate anche che era?... — Ne ebbi un sospetto; da tre giorni io tengo dietro alle fasi della vita di quest'uomo, e vedo che si compie in maniera molto irregolare. Oggi sono andato per parlargli di Donnina e di te: non l'ho trovato, era uscito alle nove del mattino e non s'era più visto; sono ritornato più tardi; non era rientrato; allora l'ho atteso. Te lo confesso, mi era venuta un'idea senza senso comune, cioè che, ricevuta la mia lettera, egli avesse preso la fuga. Sono contento di essermi ingannato; Donnina ritroverà ancora suo padre! — Ma quell'uomo è pazzo! — Può essere, ma meglio pazzo che briccone; qualche volta i pazzi guariscono; i bricconi sono incurabili. XXXIX. MAESTRO CIRO RIMANE SOLO. I due amici passarono la prima metà della notte a strologare insieme sul da fare, ed il signor Fulgenzio fu terzo nella consulta. Nella fitta tenebra che avvolgeva il passato di Maurizio, questo almeno sembrava farsi chiaro: che il cuore era buono. Il dottor Parenti ne era sicuro, e giungeva a tal sicurezza per una via di argomentazioni non forse molto stringenti, ma avvalorate dall'accento e dai modi dell'argomentatore. Quand'egli diceva: «quell'uomo ha il cuore buono» appuntava i gomiti al tavolino, corrugava le sopracciglia e fissava gli occhietti indagatori nello spazio vuoto in una certa maniera singolare, come se «quell'uomo» gli stesse dinanzi col petto scavato e col cuore allo scoperto. Del rimanente Mario e Fulgenzio non desideravano se non di credergli. Quanto al da far, si erano intesi senza molte parole. Al domani il giovine doveva recarsi in casa di Maurizio, fargli credere d'aver parlato alla figliuola ed indurlo a seguirlo, intanto che il dottore e Fulgenzio l'avrebbero preceduto ad A... per prevenire Donnina ed i due vecchi. Il dottor Parenti non solo affrettava quell'incontro per troncare una situazione penosa, ma ci contava come sopra una medicina eroica. — Il mio amico Maurizio non è veramente pazzo, diceva al suo amico Fulgenzio; ha un po' di confusione di idee nel capo, e guarirà... — Ma tu non l'hai visto, osservava l'altro. — Non importa: la sua condotta mi basta; le parole che egli ha proferito non sono da vero pazzo; e bada che la sua idea fissa non è nel falso, ma obbedisce ai suoi sentimenti ed ai suoi bisogni; questo è ottimo indizio; da due giorni si reca ad A... per vedere la figlia e non osa mostrarsele; ritornerà domani, e forse non oserebbe ancora senza la spinta di Mario; ci è dell'ordine nella sua pazzia, ci è uno scopo determinato, giusto, corrispondente ai moti del cuore; e la scelta dei mezzi è la più logica: vuol vedere la propria figlia, che è ad A..., e va ad A.... Un savio farebbe forse altrimenti? H signor Fulgenzio sorrideva di questa singolare maniera di fare la diagnosi, ma in fondo vi scorgeva qualche cosa di vero. Ed il dottore continuava: — Prova a farti ragione di tutti gli atti di quell'uomo e lo vedrai sempre logico; il suo ravvedimento lo riconduce alla figlia dimenticata da tanti anni; è un bisogno ed egli obbedisce: ma giunto ad A.... gli vengono meno le forze... perchè? — Perchè non è più padrone della sua volontà e non sa mantenere quel che propone. — Non per questo, ma perchè ragiona; un pazzo sbaglia strada, o si svia a metà cammino, o passa la meta, ma non vi si trattiene dinanzi a riflettere. Il mio amico Maurizio, quando si trova in faccia alla casicciuola dove sta Camilla, pensa a tutto il suo passato; numera gli anni dell'abbandono; si vede col pensiero in faccia alla figlia che forse non riconoscerà nemmeno, sconosciuto egli stesso, comprende di venir tardi a domandare un posto nel cuore della fanciulla che altri ha già occupato intero; teme di apparire in quella casa come una minaccia, e non ci va, e ritorna indietro, per rifar la stessa via al domani. Più ci penso e più mi persuado che quel pazzo è savio come noi, anzi che ha fior di criterio nel cervello. Il signor Fulgenzio non ribatteva sillaba, ed il dottore faceva da sè stesso e per sè stesso la tara alle proprie argomentazioni. Venne il domani. Il dottor Parenti, incontrando l'amico Fulgenzio, gli avea dato una mezza dozzina di buone notizie; prima di tutto splendeva un magnifico sole, e poi avrebbero avuto una buona carrozza ed un eccellente cavallo, e infine tutti i dozzinanti stavano benissimo, il che permetteva di rimanersene una mezza giornata assenti senza alcun danno; tutte cose che il signor Fulgenzio sapeva a memoria; ma il signor Fulgenzio non sapea che da quel cumulo di cose liete si doveva a rigor di logica dedurre, come pronostico infallibile, la buona riuscita dei disegni fatti la vigilia. Intorno alle dieci ore i due amici voltavano le spalle alla città, e Mario saliva le scale dell'abitazione di Maurizio. La via è breve e pare lunga all'impazienza del dottore. — Pensa, dice egli al suo compagno, pensa alla gioia di Donnina quando la piglierò in disparte per dirle: «Piccina mia, il tuo babbo è trovato, e ti cerca e verrà a momenti.» — Gran brava bestia! chi direbbe che è un animale da nolo? è lo Spartaco della sua razza; vedi come sopporta nobilmente la sua miseria! Queste ultime parole sono rivolte al cavallo, il quale veramente fa di tutto per meritarsi quegli elogi senza riuscire a togliere loro ogni carattere d'adulazione. Ma il dottore è in buona fede e mortifica così la propria impazienza. Fulgenzio non risponde; pensa al dolore profondo dei due vecchi, all'amarezza dei loro cuori dissimulata sotto un sorriso straziante, e intanto che il dottor Parenti mena la frusta sulle groppe dello Spartaco della razza cavallina, per poco non obbedisce all'istinto di appoggiarsi colla schiena ed appuntare le gambe e far forza per ritardare quella corsa niente affatto sfrenata. Ma il tempo corre più veloce del cavallo; tre quarti d'ora sono passati; ecco il noto filare di gelsi, ecco l'unica via di A..., ecco l'insegna della _Salute_, e la scuola comunale, e la scolaresca che esce chiassosa dalla lezione del mattino, ed il melanconico sorriso di maestro Ciro, il quale indovina tutto e s'ingegna di fare accoglienze festose ai nuovi arrivati. Il dottor Parenti premette, in forma di preambolo, che i preamboli sono inutili; si fa venire innanzi Donnina, le piglia le mani, e le domanda ridendo se sarebbe contenta di ritrovare il suo padre vero. Il padre falso, il quale non era molto lontano, nè molto occupato a sfogliare un libro, come voleva far credere, a questo punto si ricorda d'aver dimenticato qualche cosa e corre di sopra frettoloso. E mamma Teresa, che non lo ha perduto di vista un momento, dietro. Il povero maestro Ciro, giunto nella sua camera, si butta colle braccia protese sul letto matrimoniale, e nasconde la testa fra i guanciali, di modo che la faccia sparisce e la canizie si confonde con lieve disuguaglianza di tono nel candore delle lenzuola. Ma la formidabile mamma Teresa lo raggiunge, gli afferra un braccio, lo scrolla, una volta, due, finchè il poveretto è costretto a rialzarsi ed a mostrare la faccia rigata da due grosse lagrime. Mamma Teresa si prova due volte ad avventare la sua terribile collera, ma un importuno singhiozzo le toglie le parole — alla terza riesce. — Ti pare questa la maniera? Proprio questa? Venire qui solo?... perchè poi?... per piangere.... come un fanciullone?... Già tu credevi di farla franca... e che io non ti avessi a vedere? Che dirà Donnina? Ma mentre così parla, la sua voce è rotta dall'affanno, e quelle parole di rimbrotto le vengono fuori tenere e dolci come una carezza. — Hai ragione, dice il signor maestro, asciugando gli occhi e rizzando il corpo; hai ragione; che dirà Donnina? Io sono un egoista, un ingrato verso la Provvidenza, un cattivo amico della mia creatura; ho in petto un cuore feroce.... non dire di no.... ho in petto un cuore feroce, che invece di rallegrarsi del bene di Donnina se ne addolora... Tu non crederesti che io sono giunto fino a desiderare che quel babbo non s'avesse a ritrovare, ebbene, sì, io ho desiderato questo! La confessione, che dovrebbe far inorridire la vecchia, le fa solo crollare il capo melanconicamente. — Povero Ciro! mormora come parlando a sè stessa. Poco dopo, mutando tono e maniere, ripiglia a dire: — Bisogna essere uomini; bisogna farsi forti; io sono forte, io! e non lo sarai tu? Ma questo argomento, invece di rinfrancare il povero uomo, sembra togliergli un'altra volta ogni vigore. — Per te la cosa è diversa, dice lasciandosi cadere sopra una seggiola; tu sei sua madre ancora e sempre; Donnina non ritroverà le carezze d'un'altra madre; io solo non sarò più nulla per essa, io solo non avrò più figlia! — Padre! padre mio! È Donnina! Donnina, la quale, non vedendo i suoi vecchi amici, si è sciolta dal dottor Parenti, ed è corsa di sopra ed ha udito le ultime parole. Maestro Ciro se la stringe al cuore, poi la scosta lievemente da sè e la guarda in viso. La fanciulla non batte ciglio, ha la fronte serena, il labbro sorridente. — Non darmi retta, le dice il maestro di scuola, lisciandole i capelli colle mani tremanti, non darmi retta, non ti affliggere per me, bambina mia. E il disgraziato si prova a ridere. — Vedi, è passato, è stato un momento di debolezza; alla mia età non si ha la forza di resistere alle prime impressioni, che sono di solito bugiarde.... domandalo a Teresa; questo giorno l'ho tanto sospirato.... non è vero?... l'ho sempre detto che tu dovevi essere figlia di un ricco sfondato, il quale avrebbe finito coll'accorgersi che il suo più bel tesoro era fuori di casa e sarebbe venuto a domandarmelo. Ho fatto il babbo come ho fatto il maestro di scuola; ora esco di carica; sarò un babbo a riposo. Maestro Ciro parlava guardando in volto ora Donnina ora mamma Teresa; ma l'accento scherzoso pigliava ogni tanto inflessioni tenere e cadenze lagrimose. Donnina, senza titubanza, getta le braccia al collo del vecchio, e gli ripete sottovoce: — Tu solo! tu solo! — Che dici mai? È tuo padre, bisogna amarlo, fanciulla mia, bisogna amarlo molto. La fanciulla sorride melanconicamente. — Mi proverò. — Non basta, mi devi promettere che l'amerai, e che lo amerai più di me; a lui devi la vita. — A te quella del cuore, risponde Donnina. Mamma Teresa non può dignitosamente stare testimonio di tante fanciullaggini, e se ne va da basso brontolando. Il dottor Parenti, rimasto solo col signor Fulgenzio, avea da prima provato a parlar di cose indifferenti, ma vedendo che il suo compagno se ne stava taciturno, diede un'occhiata alla scala di legno per cui erano spariti prima i due vecchi e poi Donnina, ed esclamò: «povera gente!» come per avvertire che si cacciava anch'egli nello stesso melanconico sentiero delle meditazioni. All'apparire di mamma Teresa, uscì però di botto dalla sue fantasie, per mostrare alla vecchia tutta la luminaria del suo volto sorridente. — Ecco, disse, tenuto conto del tempo che Mario deve avere impiegato prima di salire in carrozza, fra venti minuti al più dovrebbe esser qui, e siccome ho le mie ragioni per credere che oggi tutto debba andare senza inciampi, così vi annunzio che Mario e Maurizio saranno qui fra venti minuti. Ma aveva appena finito di dire queste parole, che si udì un rumore di ruote sul lastrico della via; una carrozza si arrestò dinanzi alla porticina della scuola comunale, ed apparve Mario, solo! Il giovine narrò come avesse trovato il signor Maurizio in peggior stato che non fosse alla vigilia; lo dipinse colla faccia stravolta, coi capelli arruffati e coll'occhio fisso, e disse come, introdotto da una vecchia donna nella camera dove l'infermo se ne stava soletto, dapprima non fosse stato riconosciuto, e come finalmente il povero delirante, venutogli incontro e guardatolo negli occhi, fosse stato a rimirarlo un pezzo curiosamente prima di sorridergli. Mario aveva nominato Camilla per dar contezza di sè, e non era bastato; quando finalmente ogni diffidenza era scomparsa dal volto del signor Maurizio, allora egli aveva ripetuto un'altra volta il nome di Camilla, ed il disgraziato padre s'era posto l'indice attraverso le labbra, raccomandando il silenzio. «Dorme!» gli aveva detto. Ed aveva soggiunto che la sua creatura era venuta nella notte a perdonargli tutto, e ch'egli aspettava fosse desta. Il giovine aveva pur cercato di toglierlo dal suo inganno e ricondurlo a poco a poco al vero, ma il povero demente s'era ostinato nella sua idea. Allora Mario s'era accomiatato, ed avea lasciato quella casa, raccomandando il pover'uomo alla vecchia governante, perchè, se fosse possibile, lo inducesse a mettersi a letto e gli facesse sapere che la sua Camilla sarebbe venuta a trovare il babbo. La vecchia levando al cielo due occhi pieni di lagrime aveva promesso di così fare, ed egli aveva sceso le scale a precipizio, era balzato in una carrozza da nolo ed aveva fatta la strada di galoppo, col cuore commosso, con un tumulto d'idee nel cervello, ed ora era lì a chiedere che cosa bisognasse fare... o piuttosto non dava più retta a nessuno, perchè in quella due volti amorosi apparvero sul limitare, e maestro Ciro aprì le braccia al giovine, ed il giovine si buttò nelle braccia di Donnina. A Mario riuscì finalmente di dire che non sapeva se avesse fatto bene o male promettendo che la fanciulla sarebbe andata in persona in casa del babbo; ma il dottor Parenti, dall'alto della cattedra in cui s'era accomodato, sentenziò che aveva fatto benissimo, ed aperta la discussione in proposito, prese la parola per conto proprio, parlò sempre lui senza lasciarsi interrompere e finì col dichiarare che l'assemblea aveva votato all'unanimità quanto segue: «Donnina doveva andare dal babbo accompagnata da mamma Teresa, mentre maestro Ciro sarebbe rimasto per non far perdere la lezione agli studiosi di A..., e, dovendo starsene solo, avrebbe alloggiato all'albergo della _Salute_; l'oste, suo buon amico, si sarebbe fatto premura di dargli la miglior camera dell'albergo e di servirlo di tutto il necessario.» Mamma Teresa si provò a ribattere, ma il medico protestò che non si poteva ritornare sulla votazione, ed aggiunse che la presenza di Donnina era necessaria per la guarigione del padre, che la compagnia di mamma Teresa era indispensabile a Donnina e che maestro Ciro avrebbe fatto per un paio di giorni la vita dello scapolo allegramente. La terribile mamma borbottò, per non perdere l'abitudine, e domandò almeno un giorno per i preparativi della partenza; il dottore volle fare il generoso ed accordò un quarto d'ora. E tutti a ridere, compresa la mamma, la quale mezz'ora dopo era in carrozza allato di Mario; costui, dovendo stare in mezzo per tenere le redini, aveva al fianco Donnina. Maestro Ciro, rimasto solo, accompagnò collo sguardo melanconico le due carrozze, ma invece di lagrime trovò un sorriso tutto paterno, ed un bacio niente affatto magistrale per salutare l'allievo che venne primo alla scuola. XL. IN CARROZZA. Ma Donnina non era più lieta; abbandonava la sua mano fiduciosa in quella di Mario, e pensava. Fino a tanto che le avevano parlato del padre suo come d'un incognito al quale era stato possibile vivere tanti anni lontano, arbitro tuttavia dell'avvenire di lei, d'uno che poteva riapparire domandandole il cuore per tanto tempo sprezzato e gli affetti da essa dati ad altrui; fino a tanto che quell'uomo non aveva in favor suo altro che il nome di padre, ella si era acconciata all'idea di rivederlo quando che sia con freddezza, e, se non con severità, colla dignitosa indulgenza del giudice. Si sentiva forte dei propri diritti, sicura dei moti del cuore, pronta ai doveri di figlia, riluttante agli affetti. E quando, alla domanda del dottore, se le piacerebbe ritrovare il suo padre vero, ella era scesa dentro di sè a domandarsi conto del perchè quella notizia la lasciasse fredda, non aveva potuto farsene una colpa. Ma ora sapeva che l'uomo a cui doveva la vita era infelice, solo nel mondo, senza affetti, vaneggiante per rimorsi, affranto forse dai patiti dolori, non di altro desideroso che della sua creatura, ultima larva d'un passato cancellato col pentimento. Se lo immaginava debole, pauroso, vacillante, e la compassione faceva ciò che non poteva fare l'istinto, ridestava il sentimento filiale, le faceva battere forte il cuore, le toglieva quella serenità di cui aveva fatto prova fino allora, e che prima le pareva giusta ed ora le sarebbe sembrata colpevole. Quante volte la sua mano tremò in quella di Mario, e tante il giovane si volse a guardare la fanciulla, la quale aprì la bocca per fare una dimanda e la trattenne, e di nuovo venutale sulle labbra, ancora la trattenne, e infine la fece cogli occhi inumiditi: — Com'è mio padre? XLI. IL SIGNOR MAURIZIO RICEVE. Maurizio s'era stancato d'aspettare che la sua ipotetica creatura si svegliasse, e dopo una serie di giri, a cui la governante aveva tenuto dietro paurosamente cogli occhi, senza però contarli e senza riuscirle di farsi dare ascolto, il poveretto era entrato nella camera contigua — e la governante dietro. Invece di dare in ismanie, come era da temere, Maurizio si era seduto in un canto ed era rimasto un gran pezzo immobile senza dir verbo; poi ritornato nel salotto, aveva ricominciato ad andar su e giù... ed ecco... si udiva appunto il rumore monotono dei passi lenti ed uguali. Tutto questo, con assai più parole, narrò la vecchia al dottor Parenti, il quale non ostante la verbosità della buona donna, quando ella ebbe finito e si tacque, parve non averne abbastanza, e stette ancora come in ascolto e si fece ripetere a spizzico, rovinandone l'effetto, la bella narrazione filata. Donnina guardava fisso il dottore; trepidava d'ansia, di timore, sbigottita per mille affetti nuovi, per mille idee non prima pensate. In ogni affetto che si palesa novello è alcuna parte paurosa, anche nei più dolci e nei più santi. È un nuovo padrone, forse un nuovo tiranno, e chi sa se farà buon viso agli amici vecchi del cuore! Per alcuni istanti tutti stettero in silenzio ad ascoltare quei passi, e più di tutti il dottore, il quale, gli si leggeva in volto, avrebbe preferito che il signor Maurizio si fosse dato a correre su e giù per la casa come un forsennato. Anche la terribile mamma Teresa stringeva le labbra per trattenere il respiro ed ascoltare meglio, ed intanto stringeva una mano di Donnina, ed aveva in faccia dieci volumi di scritto. Il dottor Parenti stette per poco ancora in meditazione, poi ne uscì di botto, e, per iscuotersi di dosso l'incertezza, disse alla vecchia: — Il signor Maurizio riceve? La buona donna sbarrò tanto d'occhi, e per poco non pensò che il medico non aveva il cervello più sano dell'ammalato. E l'altro soggiunse, sorridendo: — Andate ad annunziare al signor Maurizio la nostra visita. E mentre, per avvalorare la raccomandazione, spingeva gentilmente innanzi la governante, aggiunse, vôlto a Mario ed a Fulgenzio: «Non ci si perde nulla; egli non ci conosce ed è in casa sua; prima medicina di un pazzo è il non avvedersi della sua pazzia; sono sottili ragionatori i matti, e se si avvedono che li avete per tali, non si fidano, diventate un nemico.» Così dicendo, s'era fatto all'uscio socchiuso e si teneva alla portiera pronto a pigliare l'atteggiamento cerimonioso d'un visitatore. Il dottor Parenti non s'era ingannato; poco stante la faccia stravolta di Maurizio apparve nel vano. Donnina soffocò un piccolo grido, pose la mano sul cuore e si ritrasse indietro, come per acquistare nuove forze, ed intanto non istaccava gli occhi dalle sembianze paterne. E mamma Teresa, sentendo tremar nella propria la mano della fanciulla, pensò assai giudiziosamente che il signor maestro, il quale leggeva tanto spedito, aveva fatto bene a rimanere ad A... così non si trovava allora a leggere in cuore della figliuola! Il dottore fece un profondo inchino, e, senza aspettare di farselo dire, passò oltre; Mario veniva dietro, e presa la mano di Maurizio, gliela strinse forte; lo trasse dolcemente in un canto dell'ampia sala e gli disse: — È venuta! — Camilla? chiese il povero padre, e parve che un lampo di ragione balenasse in quell'impeto dell'affetto. — Camilla, rispose il giovine, ed eccola... — Non ancora, non ancora... In quel mentre la fanciulla entrava nella camera lagrimando; mamma Teresa sentiva ribollire il dispetto vedendo la propria creatura piangere, ma invece di parole di collera le venivano fuori lagrime. Il signor Fulgenzio seguiva le due donne, ed il dottor Parenti faceva gli onori di casa ed offriva a tutti da sedere. — Bisogna esser forti, disse alla giovinetta; vedete, io rido e non ne ho voglia, ve lo assicuro; non bisogna piangere... — Non piangerò più, sarò forte, rispose Donnina asciugandosi le lagrime; è passato... ma dite, soffre molto mio padre?... — Vi guarda, vi cerca coll'occhio, disse il dottore senza rivolgersi e senza rispondere direttamente alle domanda..., posso allontanarmi, siete sicura di voi? La fanciulla pose la mano in quella del medico e gli sorrise un sorriso melanconico, ma forte. L'altro si ritrasse e venne presso a Maurizio componendosi una faccia gioviale che faceva allegria a vederla. Gli occhi di Maurizio, allontanandosi da Donnina, avevano seguito amorosamente il dottore, come se una parte della cara fanciulla gli venisse incontro con lui, ed ora interrogavano tra impazienti e timorosi. Tutto questo armeggio s'era compiuto rapidamente, tanto che non erano corsi due minuti dal primo inchino del dottore al secondo. — Che cosa vi diceva? chiese Maurizio. — La cara fanciulla osservava che le sembrate pallido, abbattuto, e come uscito di fresco da malattia, e mi diceva di mandarvi a letto... In così dire il dottore aveva preso il polso di Maurizio e ne contava i battiti. — Com'è bella! disse il povero padre senza badare al medico; vorrei, ma mi manca il cuore; c'è qualcuno che mi trattiene... vorrei... Il dottore comprendeva benissimo, e rispose: — Sarete a tempo poi; avete commesso una imprudenza levandovi; avete la febbre; date retta a chi vi vuol bene; andate a letto; Camilla verrà poi.. — Non se ne andrà? — È venuta per rimanere sempre col babbo... Bisognò far lieve forza per togliere Maurizio dalla sua estasi ed indurlo a mettersi a letto; e quando finalmente il povero padre sparve, accompagnato dalla governante, dal dottore: e da Mario, Donnina, rimasta fino allora sorridente, cancellò il sorriso con un'onda copiosa di lagrime e si abbandonò fra le braccia di mamma Teresa, la quale si fece da capo ad arrabbiarsi peggio ed a piangere più forte. Il signor Fulgenzio guardava intenerito, avrebbe voluto dire... e non sapeva che dire... Poco stante tornò il dottore, pigliò per mano Donnina e la condusse nella camera dell'infermo. Mamma Teresa e Fulgenzio le erano venuti dietro. Il povero padre teneva gli occhi chiusi, ma li riaprì più volte alla sfuggita e guardò il volto pietosamente bello della fanciulla che le stava a fianco; poi stette lungamente immobile. L'ansietà mozzava il respiro ad ognuno. Finalmente Maurizio si scosse, e volgendosi dall'altro fianco, chiamò a sè Mario, lo fece curvare e gli bisbigliò, non tanto sommessamente che non si udissero nel profondo silenzio, queste parole che agghiacciarono il cuore degli astanti: «Non è lei!» Mario fissò uno sguardo attonito in volto al dottore, il quale girò intorno al letticciuolo e venne accanto al giovine. — Non è lei, ripetè Maurizio crollando il capo melanconicamente, non è lei; la mia Camilla, soggiunse poi stendendo il braccio fuori del letto ed abbassando quanto più poteva la mano aperta, la mia Camilla era piccina così... vedete... così... Il singhiozzo di Donnina nessuno l'udì, perchè la poveretta nascondeva la faccia nel guanciale e tutti avevan l'occhio al dottore, il quale, senza sgominarsi, rispose: — È vero. — Non più di così, ecco, non più di così, continuava l'infermo crollando il capo. — Diciotto anni sono, disse il dottor Parenti. Maurizio levò gli occhi e li fissò nella faccia sorridente del dottore e parve meditare un istante; finalmente disse: — Siete in errore... sono sedici anni... Poi chiuse gli occhi e stette nella positura di prima. Un'ora dopo nella cameretta non rimaneva altri che Donnina e mamma Teresa, e l'infermo continuava a tenere gli occhi chiusi. E Mario e Fulgenzio lungo la via avevano preso in mezzo il dottore; quell'atto compendiava mille interrogazioni, alle quali il medico s'ingegnò di rispondere così: — Quell'uomo non è pazzo, ripeto, ha un po' di confusione nel cervello, cosa che può capitare ad ogni galantuomo che viaggi in questo basso mondo, ma vi dico io che è un viaggiatore metodico, e non tarderà a mettere in perfetto ordine le sue valigie. — Può essere, può essere! Sì, ma un pensiero importuno teneva Mario inquieto, e checchè egli facesse per non lasciarlo parere, non gli riusciva, e sebbene gli avvenimenti sembrassero dare una ragione a quell'inquietudine, il dottore si avvide che ve ne doveva essere un'altra. E però, appena potè trovarsi un istante solo col giovane, gli venne innanzi petto a petto e gli disse a bruciapelo: — Che hai?... Bisogna dirlo. Che ti manca ora? Nei tuoi panni (e coll'età tua) vorrei far salti da acrobata, e non mi terrebbe davvero la mia dignità di uomo fatto. Sei alla vigilia d'avere il lauro di dottore e qualche cosa che vale meglio assai nella botanica della vita, un bocciolo di rosa in moglie; per giunta la tua Donnina ritrova il padre, un padre un po' avariato, ma che m'incarico io di rimettere a nuovo; via, se ti lagni della sorte, sei incontentabile, e se non salti fino a dar le capate nel soffitto, va là che hai garretti di pasta frolla... Ma non ci era verso che Mario sorridesse. Ed il dottore tornava all'assalto. — Che hai? — Ho, disse finalmente il giovine tra il melanconico ed il dispettoso, che il padre di Donnina è ricco... — Tanto meglio... — Ed io sono povero, ed avrò l'aria di fare un buon negozio, sposandola; e poi chi sa se egli non si arrenderà di mala voglia alle nostre nozze... Il dottor Parenti lasciò penzolare le braccia lungo i fianchi e fece una smorfia così grottesca, che fu impossibile non ridere. — Lasciami stare, è atroce, è atroce; quando ad un galantuomo si dànno di questi colpi sullo stomaco, gli si dice almeno: «guardati.» Poi ridiventando serio, parlò colla massima gravità così: — Generose ubbie, ma in fondo sciocchezze; tu hai da sposar Donnina, non il babbo, e l'avresti sposata anche senza i milioni del babbo, e forse sarai ancora in tempo, perchè ai milioni dei pazzi io non credo finchè non gli ho contati — in fine tu non sei il primo venuto, sei medico, chirurgo, ostetrico, hai un pozzo di scienza, che nissuno sa quanto valga... meglio di noi. Pensiamo a guarire Maurizio, il resto verrà da sè... — E lo guariremo? — Cioè, lasceremo che guarisca; è una gran concessione in bocca nostra. Quell'uomo ha seco il suo medico e la sua medicina... Camilla! XLII. AL CAPEZZALE DELL'INFERMO. Il dottor Parenti si contraddiceva un pochino per desiderio che le cose andassero a meraviglia, ma aveva ragione di dire che Maurizio aveva seco il suo miglior medico e la sua sola medicina... Camilla! La buona giovinetta aveva preso l'ufficio d'infermiera con un entusiasmo tranquillo, punto punto parolaio, che le traluceva nello sguardo e nel sorriso, melanconico insieme e lieto, con cui s'ingegnava d'incoraggiare la terribile mamma Teresa al sacrifizio di lasciarle fare quel che voleva, vale a dire vegliare fino a tarda notte al letto del babbo, e non istaccarsi quasi mai dal fianco dell'infermo. Quanto a Maurizio, pareva essersi rassegnato all'idea di starsene a letto, e non cercava nemmeno più di alzarsi; solo, per non dire le matte stravaganze, sembrava aver fatto proposito di non fiatar parola, e di solito se ne stava lunghe ore cogli occhi socchiusi, salvo a riaprirli ogni volta che Donnina faceva atto d'uscire dalla camera o solo di muoversi. «In fondo una pazzia tirannica, la peggiore delle pazzie e delle tirannie,» avrebbe detto mamma Teresa se avesse osato manifestare tutto il suo pensiero. Per il dottore invece lo stare in silenzio, il tener gli occhi chiusi, il ricercare Donnina cogli sguardi erano tutti buoni indizii. Certo qualche gran cosa avveniva nell'animo di Maurizio. A Donnina, la quale lo spiava attenta, non era più accaduto di vedergli in volto quello smarrimento che l'aveva tanto sbigottita sulle prime; e nei fuggevoli momenti in cui l'infermo riapriva gli occhi e s'incontrava collo sguardo della sua creatura, egli pareva lottare un istante dentro di sè, poi si ricomponeva alle sembianze del sonno. Molte volte aveva l'aria di dormire davvero, e quando Donnina, fidandosi a quell'apparenza, si buttava vestita sul lettuccio in fondo alla camera e cedeva ella stessa al sonno, allora il povero infermo si rizzava trattenendo il respiro a mezzo il corpo, ed appuntando i gomiti al guanciale, figgeva l'occhio avido e timoroso nel caro viso dormente, e rimaneva così un gran pezzo, agitato da un lieve tremito, e finalmente usciva in un dirotto pianto senza singhiozzi. Pur non sapendo nulla di questo, e più per potenza fatidica del desiderio che per accortezza di medico, il dottor Parenti aveva sentenziato che Maurizio «faceva l'esame di coscienza ed era bell'e guarito.» Erano così passati tre giorni. Il quarto mattino, quando Donnina venne presso al letto del babbo e gli baciò la fronte senza dir parola, Maurizio aprì gli occhi e li tenne lungamente fissi nel leggiadro volto della sua creatura, e si guardò intorno, e parve lottare senza sapersi indurre ad una determinazione, finchè entrò sulla punta dei piedi mamma Teresa, a decidere l'esito della lotta; Maurizio richiuse gli occhi e non disse verbo. Passò quel giorno, e parve lento; venne la notte. A Donnina riuscì di mandare la mamma a letto più presto del solito per rimaner sola coll'infermo; e non appena fu sola la disse per la prima volta la soave parola, che le tremò nelle labbra come confessione d'innamorata: «Babbo!» Maurizio pose un braccio sull'omero della fanciulla, e le favellò sotto voce con un singolare accento carezzevole, come se parlasse ad una bambina: — Tu gli vuoi bene al babbo; io ti leggo in cuore; so che tu sei buona: tu gli vuoi bene al babbo! E siccome la fanciulla fece atto di portare la mano dell'infermo alle labbra, egli la trattenne, e le accennò di andare alla scrivania, e come vi fu, di aprire un cassetto. Donnina l'aprì e ne trasse alcuni fogli piegati che portò sul letto del padre. Il quale spiegò i fogli e li pose sotto gli occhi della fanciulla. In capo alla pagina erano queste parole scritte con mano tremante: «_A mia figlia_» Maurizio aveva chiuso un'altra volta gli occhi e stringeva nelle proprie una mano di Donnina. Era la notte alta, il silenzio profondo tutt'intorno, ed al lume della lampada notturna, la giovinetta lesse quei caratteri diletti che vedeva per la prima volta. Il cuore le batteva forte. XLIII. A MIA FIGLIA. «Sì, queste parole che io scrivo sono per la mia piccina, per te, Camilla mia, per te sola! Hai tu pensato mai al tuo babbo? E ti hanno insegnato a pregare per lui? E se hai chiesto perchè non venisse ad abbracciarti ed a portarti le chicche e la bambola, ti fu risposto che era un poveretto, e che solo la disgrazia lo teneva lontano dalla sua creatura? E ti hanno almeno detto che avevi un altro babbo, che non era il maestro di scuola? »Ebbene, se non lo sapesti mai, apprendilo ora che tu hai un babbo vero, un babbo che fu molto infelice se non potè averti al fianco, un babbo che ancor oggi ti scrive non osando mostrarsi a te all'improvviso, per paura d'apparirti come uno sconosciuto, o forse come un nemico dei tuoi affetti. »E pensa pure le mille colpe per fargliene carico, e poi le confronta con questa unica immagine d'un padre, il quale non osa mostrarsi alla sua figliuola, e teme di non ritrovare mai aperto l'ingresso del cuore di lei, e di' solo allora che egli non merita la beatitudine per tanti anni rifiutata. »Tu non sai che io venni ad A... per vederti, per udire la tua voce, per abbracciarti, e mi mancò il cuore; e che dopo avere sognato per via il tuo sorriso, la tua parola, le tue lagrime dolci, t'immaginai fredda, impassibile, muta, ed ebbi paura e fuggii. E che ritornai il dì di poi, e mi spinsi fino alla svolta del sentiero, e gettai uno sguardo sulla via sperando il caso te la facesse attraversare allora perchè io ti vedessi un istante, e che, nascosto dietro una acacia, da prima contai le acacie che mi separavano da te, ed eran cinque, e poi cercai cogli occhi la tua finestra, e dissi che doveva esser quella, quella o nessun altra, e vidi un vetro rotto, e pensai che il vento avrebbe potuto ammalarmiti; e che immaginai la felicità di poter attraversare quel breve tratto di via, entrare nella porticina della scuola, chiedere di te, e condurvi meco te, il maestro Ciro e la mamma, e spartire fra voi le mie ricchezze, conservandomi solo l'amor tuo — e intanto non mi moveva, e se qualcuno passava pel sentieruolo, mi davo l'aria d'un indifferente perchè non si comprendesse quest'orribile segreto di un padre che non osa mostrarsi alla sua creatura. E quando, stanco di un'inutile lotta, assalito da mille idee insieme, mi provavo a fuggire, dicendo a me stesso che il mio passato era un sogno, che non avevo figli, che non avevo affetti, che altro non mi rimaneva al mondo se non i miei cumuli d'oro, inutili ed odiosi, pareva che qualche cosa mi trattenesse, e rifacevo la via indietro, e ti venivo più presso, più presso, più presso ancora, e finalmente me ne andavo voltandomi ogni tanto per vedere se mai qualche segreta voce avendoti parlato del padre tuo, non fossi tu pure venuta a vedermi di nascosto attraverso la siepe. »Ma finchè durava il giorno, io era solo; alla notte no, chè allora tu mi seguivi davvero, e sentivo i tuoi piccoli passi frettolosi, e rallentavo l'andatura per stancarti meno; ma se mi fermavo ad aspettarti, e tu pure ti fermavi; e se mi volgevo, ti appiattavi dietro un gelso della via maestra, ed altro non mi lasciavi vedere se non i ricci de' tuoi capelli. Erano fantasmi, erano sogni, erano paure; all'ingresso della città, dov'io ti aveva dimenticato per tanto tempo, tu mi abbandonavi. Rientravo in casa solo! »Non oggi per la prima volta mi venne in mente di scriverti, ma oggi solo mi sento la forza di tornare indietro nella mia miserabile esistenza, ed il coraggio di guardare nel mio cuore. Anche ieri lo tentai, e feci prova di radunare le mie memorie, ma non mi parve di poter resistere alla lenta tortura dello scrivere; le idee mi si presentavano in folla, l'impazienza mi vinse, e ancora volli parlarti, ed ancora me ne venne meno la forza. Oggi sono tranquillo. Pure avrei già dovuto essere lontano, ed incomincio appena. »Sono molti anni, non so bene quanti; parlo di un tempo in cui io era un giovinetto baldo, e la tua mamma che ora dorme nel cimitero, una ingenua sognatrice, la quale nelle mie braccia vedeva ad occhi aperti un avvenire leggiadro per la sua creatura, per te. »Poveretti eravamo entrambi, ma ricchi di speranze e d'amore. Ci eravamo sposati a dispetto d'un mio zio, unico parente rimastomi, il quale mi dava una misera pensione pur vivevamo lieti in una cameretta, sotto il soffitto, non d'altro allegri che dei raggi del sole e dell'ampio spettacolo dei monti. Sopportavamo gli stenti senza avvedercene; io componeva strofe ed essa le cantava; aspettavamo l'avvenire, avevamo molto tempo dinanzi. »Portava il tuo nome — Camilla — e mi amava. Ella era tutto per me; la mia famiglia incominciava e finiva in lei. Il padre mi era morto da alcuni anni, e non mi avea lasciato in cuore la memoria delle sue carezze. Era uomo severo, taciturno; non mi dava dimestichezza, ed immaginava di essere il migliore dei padri, perchè ingegnoso in mille modi di provvedere al mio avvenire. La morte lo interruppe in quell'opera; mi lasciò povero d'oro e di conforti; non mi diede l'avvenire pensato nè la cara memoria del suo affetto. Lo zio aveva presa altra via; era rimasto scapolo e s'era arricchito col risparmio; ma aveva la stessa natura rigida, e voleva facessi non so che, e sposassi non so chi per fargli piacere. Ma io amava Camilla e la sposai essa mi fu madre, amica, sorella — fu tutta la mia vita. Facevamo insieme mille disegni, mille fanciullaggini; dall'alto del nostro nido guardavamo alla folla che passava sotto con una specie di pietà sincera; non ci pareva che il mondo avesse due più felici di noi. D'inverno mancava la legna al focolare, e la neve disciolta gocciolava nella camera; ma non perciò si soffriva; ci rimaneva il sole; e quando mancava anch'esso avevamo la giovanile baldanza, inesauribile, ed un altro cielo senza stagioni, ed un altro sole senza tramonti. »La mia Camilla era bella, era buona, e mi amava, e l'amavo — morì, dopo averti dato la vita. Ah! se io avessi potuto anticipare di una dozzina d'anni il nostro sogno, e darle gli agi che ella fantasticava meco per farmi piacere, ma senza desiderio; se avessi potuto condurla ad abitare in una camera molto calda, e farla curare da un medico non frettoloso, come i medici della povera gente, e nutrirla di cibi sani!... Ma io era povero, l'inverno rigidissimo — e la mia compagna mi lasciò solo. Da principio non mi parve vero; la morte le aveva lasciato la sua bellezza ed il suo sorriso; ma quando, allontanato ogni estraneo, feci prova di risvegliarla, e compresi che tutto era finito, mi buttai per terra smaniando, e, come vennero a portarmela via, lasciai fare sbigottito. »Si bisbigliava di me che ero pazzo, che mi si erano confuse le idee; io sapeva d'averne una chiara e mi andavo dicendo che la finestrella dell'abbaino era alta e metteva sul lastrico sottoposto, e che avrei potuto per quella via raggiungere la mia diletta. »A te non pensavo; ti avevo vista appena; quasi mi ero dimenticato d'esser padre; mi fu ricordato in buon punto un istante di compassione, non l'amore, mi fece accettar la vita. Ciò che io provava in vederti era un sentimento angoscioso, indefinibile; invece di rallegrarmi, davo in ismanie, e se tu, allattata da una vicina, piangevi, forse per iscarsità di cibo, mi pareva d'udire la voce prepotente d'un tiranno che avesse voluto venire al mondo camminando sulle rovine del mio cuore. In fondo era quasi un sentimento d'odio; ti accusavo di avermi ritolto tutto e di non potermi dare nulla in compenso. Non ti amavo, no; la paternità non è un sentimento istintivo quanto si dice, e tu non sapevi se non piangere, come se fossi nel tuo diritto. »Provando a rendermi ragione di ciò che mi passava in cuore, vi fu un istante in cui mi accusai d'ingiustizia, e per darmi pace colorai col pensiero un avvenire con te, una vita consacrata a te, e sorrisi lacrimando a quell'immagine, e dissi a me stesso che tutto di Camilla io non aveva perduto, se tu mi rimanevi, e te chiamai Camilla; ti vidi col pensiero cresciuta, carezzevole, somigliante alla mamma nel volto e nel cuore, cercai nelle tue sembianze infantili le traccie di quelle che mi stavano sempre innanzi agli occhi; mi accesi d'un improvviso entusiasmo e giurai di consacrare a te sola la mia vita; quando venne l'ora di doverti lasciare colla nutrice, credei di provare una vera pena, e rimasto solo mi chiusi in camera e piansi, e piansi... ma non te, colei soltanto che era scesa sotterra, e la terribile solitudine e l'assoluta vedovanza del cuore! Non ti amavo, no; e poteva io amarti allora? Sapevo la perduta immensità degli affetti e delle speranze; a te, piangente, senza lagrime sul cumulo di quelle rovine ed incapace di conforti, già più non pensavo. »In quei giorni lo zio, saputo della morte di Camilla, mi scrisse — una lettera fredda, pacata, in cui, senza dirlo, appariva la contentezza dell'uomo che vede la via aperta ai primi disegni; di te non parlava come se non esistessi; incollerito risposi che avrei continuato a vivere a modo mio, mi togliesse anche ogni suo piccolo soccorso, gli sarei grato se così potesse affrettarmi la morte; la mia ira santa era per la morta; di te non dissi parola. »Venni rare volte a vederti, a lunghi intervalli, e sempre mi trattenni poco; m'imponevo con giubilo mille sacrifizii per provvedere al tuo mantenimento; avessi io potuto vivere senza spendere uno spicciolo, tutto avrei speso per te, ma il mio cuore era uno scrigno vuoto — non ti amavo. Tu crescevi e ti facevi bella; la tua nutrice ti voleva bene come a creatura sua, e tu per lei sola trovavi il riso giocondo e le carezze; me non conoscevi e guardavi appena. »Fu una nuova ingiustizia la mia, te ne feci carico! il vedere un'estranea — io così chiamava la tua nutrice, l'unica persona al mondo che t'amasse — preferita a me, tuo padre, era una crudele ferita alla mia superbia. »Intanto le tribolazioni della mia vita crescevano; lo zio insisteva colle lettere e col silenzio perchè mi ponessi in altro ordine di studi da quelli che prediligevo, e quando vide ogni suo tentativo vano, ricorse all'estremo: mi tolse la mesata. Allora per la prima volta sentii nel cuore una forza nuova; accettai la miseria francamente, cullandomi d'ambiziosi sogni e vivendo fra indicibili stenti. A te non pensavo; e pure mi fu forza cessare per qualche tempo di mandare alla tua nutrice, povera anch'essa, il denaro pattuito. »Alcuni mesi di poi, venni al paesello con animo di rimediare a quella dimenticanza; avevo qualche centinaio di lire, mi pareva d'essere padrone della mia sorte; trovai la nota casicciuola abitata da altri e seppi che la tua nutrice era morta e che tu eri stata raccolta dal vecchio maestro di scuola del villaggio. Volli venire a vederti; ma erano passati tanti mesi, non osai mostrarmi a quella gente; volli trovare un pretesto per discolparmi, ma la mia fierezza si ribellò; lottai dentro di me, e finii col volgere le spalle al paesello senza averti visto. »Facevo proposito di scriverti e di venir più tardi, quando avessi prevenuto il maestro di scuola; ma appena fui a Milano pensai ai casi miei, mi chiesi che avrei fatto di te, inesperto ancora della vita, povero e solo; temei, svelandomi a maestro Ciro, che egli volesse ridonare al padre la sua creatura, e feci proposito di tenermi nascosto. Non si sapeva il mio nome; e mi sarebbe stato facile soccorrere i nuovi genitori senza svelarmi. Avrei aspettato che tu fossi cresciuta e ch'io avessi fatto fortuna, poi sarei venuto a riprenderti... E intanto? »Intanto io sapeva di vincolarmi a non vederti, a non avere tue novelle, e lasciarti crescere orfana, a permettere che il tuo cuore si aprisse a tutti gli affetti senza passare per quello di figlia! Ma di questo non mi doleva, perchè ti conosceva appena; nel mio cielo eri come un cirro che si dilegua al più lieve soffio di vento — e già mi soffiava in petto l'uragano. »Per questa serie di errori, io non sapeva però di perderti per sempre; non m'ero arrestato ad immaginare tutte le conseguenze della mia condotta, non avevo misurato le mie forze e non avevo tenuto conto degli ostacoli che mi avrebbero creato la mia fierezza e la tua fierezza, ed i tuoi nuovi affetti, e l'aridità del mio cuore, più tardi, quando fosse giunta l'ora di mettere in atto il bel sogno. Ma altro era il mio sogno. Fra i molti idoli che formano il trastullo della vita, me n'ero scelto uno che credevo di non dover infrangere capricciosamente mai — l'indipendenza. Più tardi fu l'ambizione, più tardi la ricchezza, e più tardi assai, riconosciuto stolto ogni culto in cui non abbia parte il cuore, mi arse la febbre di ricostrurre i vecchi altari colle loro rovine. »Divenuto ricco — e fu vicenda necessaria che avrei indovinato se avessi avuto in cuore l'affetto non ingannevole, invece delle bugiarde passioni — divenuto ricco, arrossii di me stesso, ebbi vergogna di mostrarmi nel mondo che mi aveva aperto le sue porte con una figlia apparsa all'improvviso, e t'immaginai indifferente al padre tuo, rimasto per te un estraneo, amantissima di coloro che ti avevano date le carezze, aperto il pensiero, ed educato il cuore — mi rassegnai a perderti. »Allora incominciò il rimorso, incominciò il dolore; e venne l'angoscia delle notti insonni, e vennero gli sgomenti dell'età, e le paure della solitudine; e una smania segreta, indefinibile, tormentosa d'uscir da me stesso, di soffocare nel piacere la coscienza; e poi la sazietà, il disgusto, il martello del pensiero e del cuore, e finalmente il supplizio della ragione che si ecclissa e ritorna a balzi a farmi accorto e pauroso di me stesso. »Questo fu lo sciagurato tuo padre; uscendo dalla ignara dimenticanza in cui ha vissuto lieta finora, per saper d'aver un padre, prima di respingerlo da te, ecco tu puoi almeno dire a te stessa: «questo fu il mio padre sciagurato!» . . . . . . . Non era qui tutto; seguivano due pagine di fitto carattere, che apparivano scritte più di recente; in esse il povero padre riepilogava a stento le proprie idee, e molte volte ripeteva il già detto; e molto parlava con insistenza delle proprie ricchezze, che pareva voler mettere in mostra come una tentazione. Quel caos d'idee sconnesse era rotto a mezzo con uno sgorbio. Era caduta la penna di mano allo scrittore, e da quel che pareva, insieme colla penna una lagrima... Ma per quell'una, Donnina ne verserà cento; la poveretta ha il cuore gonfio, le vengono alle labbra mille tenere parole; le si oscura la vista ed appoggia il viso, più leggiadro nell'espressione della tenerezza e del dolore, al volto del padre. Maurizio ha sentito fremere nella sua la mano di Donnina; il cuore gli batte... Ed anche ora che il volto della fanciulla si appoggia al suo volto, e che sente le lagrime di lei confondersi colle proprie lagrime, anche ora non osa guardare a viso aperto una felicità a cui non sa credere, e, come timoroso che il caro fantasma notturno si involi, continua a tener gli occhi chiusi ed a stringersi al cuore agitato la propria creatura. E finalmente apre gli occhi, guarda, sorride, e lagrima di nuovo senza dir nulla; e quando, passato un tempo lungo, che par brevissimo, in quella muta contemplazione, schiude le labbra per parlare, un bacio lungo, insistente, quasi autorevole, gli impone silenzio, ed una vocina sommessa e dolce come una musica gli mormora all'orecchio: — Dormi ora, è tardi, babbo mio. Babbo mio! Ma il poveretto non ode, ha bisogno di sentire un'altra volta quella voce e quella parola, e se la fa ripetere; e venuta l'ora dell'ultimo bacio e dell'ultima raccomandazione, finge di ubbidire, e quando la lunga veglia ha chiuso finalmente gli occhi della fanciulla, riapre i suoi clandestinamente, si rizza sui gomiti, come suol fare ogni notte, e guarda amoroso la propria figliuola e le domanda «perdono, perdono, perdono» a bassa voce, così che l'oda solo l'orecchio vigile della propria coscienza pentita. E più non piange. XLIV. I MILIONI DI MAURIZIO. È un buon spirito quello che ha indotto Mario a frenare l'impazienza fin presso al mezzodì, ed a recarsi prima di quell'ora in casa di Maurizio. Poco fa l'infermo dormiva, ed ora invece padre e figlia parlano appunto di lui. — Lo ami tanto?... — Tanto. — E t'ama? Vi rispondono il rossore della fanciulla ed un picciol grido di gioia, perchè eccolo, è lui — Mario. Mario, il quale sembra recar negli occhi due raggi del sole di mezzodì, ed ha nel sorriso, nella scioltezza delle maniere tutta l'aria di chi porta una buona notizia. — Mario, dice Maurizio porgendogli la destra, spero di non aver più bisogno di medico; non di meno toccami il polso; ho la febbre? — Nulla. — E pure me la sento in dosso, una febbre nuova, da cui spero di non guarire mai. Mario non sa ancora che credere; l'occhio di medico gli dice che quell'uomo è guarito; le sottigliezze degli alienisti gli pongono mille dubbi in capo; sente il bisogno di dar fede a quella gioia, ma ha lo scientifico dovere di dubitarne. — Tu ami la mia creatura, prosegue a dire Maurizio, ed ella t'ama: io sono l'unico ostacolo alla vostra felicità, non è vero? È verissimo, come è vero che non si può ragionare meglio di così, nè dire cosa più assennata. Assolutamente Maurizio non è pazzo! — Ebbene, soggiunge costui dopo breve silenzio, sarete felici; ma non quanto io vorrei... Si arresta, si turba, sembra pauroso di svelare un ultimo secreto. — Ho paura di avervi ingannato... anzi ne sono sicuro... Mario... Camilla... non pensate ai milioni che vi ho promesso; vostro padre è un poveretto. E il disgraziato nasconde la faccia fra le mani per disperazione. «Tanto meglio» dice una voce. Maurizio guarda Camilla e poi Mario e li vede sorridenti entrambi, nè punto sgomentati dalla terribile notizia. — Io lo sapeva, dice Mario senza nascondere la propria gioia. — E tu? Donnina sorride indovinando il pensiero di Mario, e risponde più semplicemente e con più efficacia: — Io non lo sapeva. «Tanto meglio» ripete la voce di prima. È la terribile mamma Teresa, la quale non così sentenzia per vana affettazione, ma perchè pensa alla gioia di maestro Ciro, quando saprà di poter fare la dote alla sposa colle quattromila e seicento lire che aspettano negli scrigni della Cassa di risparmio di Milano... e anche perchè, in fin dei conti, non vi è rimedio. E ripete una terza volta, più filosoficamente delle prime due: «Tanto meglio!» XLV. CASI DI COSCIENZA. Al domani un fattorino recava un pacco diretto alla signorina Camilla ***. Donnina, tra per la novità del battesimo, e perchè a Milano non conosceva nessuno, e perchè il fattorino domandava la ricevuta dell'involto, stette alcuni istanti dubbiosa e si consigliò con mamma Teresa, la quale fu d'opinione che a ricevere un involto che non pesava nemmeno sei oncie ed a farne la ricevuta non vi era nulla di male. Avuto l'involto, fu ancora la terribile mamma ad insistere perchè Donnina lo aprisse, ed apertolo, fu sempre la vecchia a spalancar tanto d'occhi ed a scompaginare un mazzetto di fogli bianchi, mentre la fanciulla guardava senza nulla comprendere. — Ne ho visto una volta sola, dice tra sè mamma Teresa, ma il cielo mi danni se questi non sono biglietti da mille! — ed aggiunge volgendosi a Donnina: — Di' tu: che ci sta scritto qui sopra? — Mille lire! — Mille lire, e anche su questo, e su questo, e su tutti; so leggere anch'io, ora! Stelle del firmamento! e di queste mille lire ve ne sono trenta! La vecchia non usciva dal suo sbigottimento, se non infilzando l'uno in coda all'altro i modi ammirativi del proprio repertorio; e si affliggeva solo che maestro Ciro non fosse lì, per vederlo smaniare dall'allegrezza. Frattanto Donnina aveva preso un foglio di carta piegato, e vi leggeva e rileggeva queste parole, come se non riescisse ad intenderne bene il significato: «Questo denaro è una restituzione al padre vostro: chi la fa desidera rimanere incognito.» — È proprio come nei racconti delle fate! esclamò la vecchia; tale e quale; ma che bel racconto questo, acid... acid'erba, che bel racconto! E siccome Donnina continuava a tenere il foglio spiegato dinanzi, ed al denaro non badava, proseguì a dire: — Ma che almanacchi tanto! La è chiara come l'acqua di sorgente! Qualcuno a cui tuo padre ha prestato denaro! — To'!... Ma Donnina crollò il capo, e rispose: — Non si nasconderebbe... — Allora qualcuno che gliel'ha rubato; ma lascia un po' quel cencio, qui hai da leggere, fanciulla mia! Donnina si arrese, ma continuò a pensare senza averne l'aria. La vecchia però vide chiaro in cuore alla fanciulla, e d'improvviso le disse: — Che ti affanna ancora? dillo. — Ecco, perchè quest'incognito ha mandato il danaro a me invece del babbo? — Perchè... perchè... oh bella! perchè sapeva che il tuo babbo non aveva il cervello sano, mi pare! — Pare anche a me, ma sapeva anche che io sono sua figlia, dunque è molto bene informato... — Niente di male che chi è disposto a cavarsi di tasca un esercito di lire, s'informi e sappia quel che si fa... A conti fatti, la via più sicura di sincerar la cosa è di informarne Maurizio. — È la più spiccia, aggiunge mamma Teresa, facendo per avviarsi; ma Donnina la trattiene. — Più tardi, ora dorme. Mamma Teresa pensa che se non devono destare un galantuomo trentamila lire, non lo desterà nemmeno la tromba del giudizio. E se in quel pomeriggio Maurizio non avesse avuto il sonno greve, si sarebbe desto non una volta solo, ma dieci, a certi impeti di tosse che presero mamma Teresa nella vicina stanza: finalmente si desta — finalmente sa tutto! E prima egli osserva che non ha mai prestato danaro a chicchessia, e nemmeno non gliene fu mai rubato. A mamma Teresa non par vero, ma è proprio così. Poi anche Maurizio nota che se il danaro fu diretto a Donnina, e si sa che Donnina è sua figlia, l'incognito è informato appuntino, e che per essere così informato deve aver bazzicato in qualche modo per casa negli ultimi giorni. Non ci è male; per un cervello guasto, mamma Teresa conviene dentro di sè che non è mal ragionato; ma perchè tante smorfie per intascare trentamila lire che han da servire a Donnina? Ella no, non ha fatto così, quando riceveva quei bei _vaglia_ che parevano piovuti dal cielo... To', e se questi venissero dalla stessa sorgente? Questa poi vuol dirla e la dice «tanto per gettare un barlume nell'oscuro,» ma in verità per dare al cervello di Maurizio una buona idea. Il padre sorride melanconicamente e crolla il capo. — Quel denaro, buona mamma, avete fatto bene a riceverlo, perchè allora Donnina non sapevate di chi fosse figlia; ma ora il padre è noto, e chi manda il denaro non può essere che un estraneo. Si chiamò la governante, e fu sollecitata a dire se nei passati giorni non fosse mai venuto nessuno a domandare di Maurizio... — Sì, balbetta la buona donna, il dottor Parenti.... — Ed altri? — Non so.... ecco.... non so se devo dirlo, perchè mi fu fatto promettere di tacere, ma se la cosa è grave... se bisogna proprio.... — Bisogna proprio.... — Quand'è così, sissignore, è venuto qualcun altro. — E chi mai? — Una signora. — Una signora? — Ed un servitore a nome di quella signora.... la quale era bella, bella come un amore, un po' patita, pallida, con due grandi occhi, vestita di nero, portava un velo sul viso; e mi domandava di lei, e saputo che era con lei una fanciulla, sua figlia, volle sapere quel che io sapeva e le dissi ogni cosa; non avrò fatto male, spero; mandò poi il servitore più volte per avere notizie... Maurizio fino dalle prime parole ha piegato il capo sul petto, e quando la buona donna tace e guarda ora Donnina ora mamma Teresa per comprendere qualche cosa, egli continua a rimaner pensieroso ed immobile. Finalmente si scuote, prendo Donnina per mano, la bacia in fronte, e si fa dare l'occorrente per iscrivere. E scrive: «_Signora_, «Voi avete avuto pietà della mia sventura, e vi siete consigliata col cuore solamente. Non vi faccio carico di quanto vi può essere di umiliante per me nella vostra generosità; sarebbe forse una giusta fierezza, ma crudele; mi preme solo di rimandarvi il vostro denaro e di farvi sapere, perchè non vi vinca una grande pietà delle cose mie, che ho ritrovato la mia vera ricchezza in mia figlia, e che essa avrà presto la sua ricchezza, uno sposo che l'ama e che ama il lavoro. «Se il vostro cuore ha bisogno di un'azione generosa, non vi sarà difficile fare un po' di bene con questa somma che vi rimando. «MAURIZIO.» Donnina che aveva seguito coll'occhio la penna, appena il babbo ebbe finito di scrivere il proprio nome, gli balzò al collo e gli ridonò il bacio ricevuto, e mamma Teresa, la quale non capiva altro se non che i trenta biglietti da mille avrebbero rifatto la via che avevano percorso per venire, tanto tanto si provò a dire: «meglio così,» e lo disse, ma alle parole mandò dietro un sospirone. Due ore dopo, veniva così risposto a Maurizio: _«Signore,_ «Perdonate la mia cecità, ma non attribuitemi, vi prego, alcuna intenzione di offendervi. Il mio danaro è sospetto e non può fare il bene senza nascondersi; ma non per questo io mi celai; non un benefizio, nè un'azione generosa io contava di fare, ma veramente una specie di restituzione, poichè so che il vostro patrimonio fu ingoiato dal banchiere Redi. In fondo, avete ragione, la cosa non muta aspetto, e perciò vi prego nuovamente di perdonarmi. Siate felice come meritate. «SERENA.» XLVI. IL PROFESSORE RIGOLI RICEVE UNA VISITA. Alcuni giorni dopo gli avvenimenti narrati poco prima del mezzodì, il signor Fulgenzio era nel camerino intento ad interrogare un enorme registro, quando un inserviente venne a dirgli che una signora domandava di lui. La signora entrò: vestiva a bruno ed attraverso un velo nero che le scendeva fin sopra il mento, mostrava un viso giovane e bello: si lasciò cadere sulla seggiola offertale dal vecchio direttore, e si volse a guardare la porta d'onde era venuta, con visibile titubanza. Pure nel parlare, salvo un tremito quasi impercettibile, si mostrò franca. — Perdoni, diss'ella, il mio imbarazzo; è la prima volta che mi accade di entrare in un manicomio, e vengo a compiere una missione dilicata; non sono un'eroina, come vede. E lasciò indovinare un sorriso mesto, che non apparve attraverso il velo. Il signor Fulgenzio s'inchinò e prese quell'aspetto arrendevole di fanciullone che fa serene e paterne tante belle teste di vecchi. — Io ho un'amica, continuò a dire l'incognita rinfrancata, e quest'amica ha qui un parente... da qualche anno, di cui non ebbe mai notizie, e che non osa venire a vedere essa stessa... L'incognita s'interruppe per interrogare il volto benevolo del direttore, poi prosegui: — Ha pregato me, la disgraziata... e sono giunta... — Il parente della sua amica si chiama....? Prima di rispondere, la donna velata parve fare uno sforzo. — Il professore Guido Rigoli, disse, e fissò più intento lo sguardo come timorosa d'una cattiva notizia. — Il professore Guido Rigoli, prese a dire il direttore, è uno de' miei migliori amici e sta benissimo, salvo, s'intende, la sua pazzia, che è delle più innocue. La signora non perdeva sillaba, e quando il direttore tacque, col silenzio e coll'atteggiamento lo pregò di continuare. — Fra tanti disgraziati che passano la vita in questa casa di dolori e di malinconie, il professore è uno dei meno infelici... — Soffrono dunque molto i pazzi? — Non più dei savi, signora; qualche volta sono come dimentichi di sè stessi, ed allora paiono felici. Dal lieve sollevarsi ed abbassarsi del velo, il signor Fulgenzio comprese l'ansia dell'incognita, e come per rispondere a quel sentimento di commiserazione, soggiunse: — Il parente della sua amica ha indole mite e gentile, e non dà mai in ismanie; è passato da una breve melanconia ad una spensieratezza gioconda che dura ancora; gli piacciono i motteggi e non sembra pensoso del suo triste passato... che per me non è un mistero. Siccome la signora non rispose subito, impressionata forse dal sapere il segreto dell'amica svelato, o forse, per un'ultima diffidenza, timorosa di inganno, il direttore soggiunse: — Sempre che riceviamo un nuovo infermo, dobbiamo fare indagini sul suo passato; il conoscere le cause che hanno determinato la pazzia è condizione necessaria per il trattamento; e se non sapessi ogni cosa del professore Rigoli, la pregherei schiettamente di dirmi tutto quanto ne sa ella stessa... e dovrebbe dirmelo in coscienza. Certo l'incognita approvava col silenzio quelle parole ferme e dolci ad un tempo; poco stante disse: — Quand'è così non mi rimane altro che farle noto lo scopo della mia visita... Ma si arrestò ancora titubante, e come per dar tempo alla propria commozione, levò di tasca una pezzuola, l'appoggiò alle labbra e tossì. Il signor Fulgenzio pareva la creatura più ingenua che avesse mai esistito sulla terra. — La sciagurata donna, prese a dire la visitatrice con tremula voce, la sciagurata donna, cagione di tanta infelicità, è molto infelice ella stessa, e vorrebbe far qualche cosa... rimediare no, perchè non si rimedia mai alla colpa, ma uscire da un'apparente indifferenza che è continuazione di colpa... Che potrebbe fare... la mia amica per... colui che fu suo marito? — Nulla da lontano, rispose il direttore, parlando lentamente e con persuasiva dolcezza, tutto coll'affettuosa ed amorevole assiduità d'ogni giorno... — E dovrebbe?... — Ridonargli ciò che gli ha tolto, la sua casa; fargli ritrovare le sue vecchie abitudini... amarlo con affetto materno... consacrarsi tutta a quella sventura; questo potrebbe fare. L'incognita uscì dal silenzio affannoso con un'affannosa domanda. — E guarirebbe? — Forse... — E sarebbe felice? — Io credo di sì. — E perdonerebbe alla sciagurata? — Ne sono sicuro. — Ma lo stesso perdono farebbe più grande il rimorso della colpevole? — Sì. Questo monosillabo fu mormorato appena, come a temperarne la durezza. Nuovo silenzio. — Molti, prese a dire lentamente il direttore, molti infelici escono da queste mura risanati, perchè sanno di ritrovare una famiglia che li aspetta, una casa nota, una parola affettuosa, e cuori aperti alla nuova luce della loro intelligenza. Chi non ha una casa, una famiglia, lascia più raramente il manicomio, che è tutto per lui. — Se la sua amica venisse in questo triste luogo e si mostrasse a me, a me solo, che sono vecchio ed ho la paternità di tante sventure, e mi dicesse tutto il suo pensiero e mi chiedesse di vedere, non vista, l'uomo che le fu già compagno, quello spettacolo le darebbe la forza che le manca ad intraprendere l'opera della carità e del pentimento. E se lei ha ancora influenza sul cuore di quella infelice, la consigli a venire, e rassicuri che non reggerà, no, a tal vista, e si sentirà più grande della propria sciagura e saprà compiere l'ultimo sagrificio. L'incognita pareva profondamente commossa, ed aveva chinato la testa sul petto ansimante. Il signor Fulgenzio, non si accorgendo di nulla, proseguì: — Immagino lo sgomento di quell'anima affranta dal dolore, le sue paurose lotte, le sue febbri, le sue notti vegliate e lo struggimento d'essere stata causa di tanto male... ebbene, le dica che ad uscire da questo strazio, a muovere incontro alla pace del cuore, basta un passo solo; non sarà felicità spensierata ed intera, ma una serenità melanconica e confortata; e forse più tardi sorgeranno giorni più lieti, maturati dal pentimento. E poi, se veramente l'amica sua è desiderosa di bene... Un singhiozzo l'interruppe; l'incognita sollevò il velo, mostrò il bel volto in lagrime, prese le mani del vecchio e vi appoggiò le labbra arse. — L'ho ingannata, mormorò, perdoni; sono io, sono io stessa!... E le mancarono le parole a compiere la frase. Era dessa, il lettore lo ha indovinato, sì, era dessa — Serena! Il signor Fulgenzio non pronunciò accenti di falso stupore, e facendosi più presso alla sciagurata donna, perchè ella nascondesse meglio le lagrime, e carezzandole lievemente i capelli come avrebbe fatto con una propria creatura, le fe' intendere che aveva compreso ogni cosa e che ella poteva fidarsi interamente a lui, e che bisognava farlo, e che non v'era via aperta all'espiazione... fuor una... Nè disse parola. Serena neppure; piangeva liberamente, come da gran tempo non aveva potuto fare; aveva il petto pieno di singhiozzi, e le deboli sue fibre sussultavano con uno spasimo nuovo; se ne stava nell'atto di una bambina; pure era la prima volta che si sentiva la forza di misurare la propria colpa con altro occhio da quello pauroso con cui si misura un abisso. — Non avrò mai il coraggio, balbettò poco dopo, senza rialzare il capo, non l'avrò mai. Il signor Fulgenzio non rispose. — E poi, proseguì Serena, è certo lei che sia il modo migliore di espiazione? E vi ha una espiazione, oltre quella del rimorso della coscienza, concessa alla donna colpevole? Perchè non solo io l'ho abbandonato, lui buono ed affettuoso, ma mi sono imbrattata nel mio fango. Ritornare a lui è l'impunità dopo la colpa... bisognava farlo prima, ora è tardi. — Non è mai tardi per fare il bene; riapra le porte della sua casa abbandonata, è il dover suo; e non a lei nè alla colpa deve avere il pensiero, ma prima di tutto alla sventura di lui; il rimorso inoperoso è accasciamento, non espiazione; ed è pure un inganno della debolezza; perchè le pare che le manchi la forza del sagrifizio e il coraggio di vederselo innanzi ad ogni ora del giorno.... le pare, ma non è... Serena rialzò il capo e riasciugò le lagrime, respinse una ciocca di capelli con un atto febbrile, guardò in viso il signor Fulgenzio, parve adunare tutte le forze in uno sforzo estremo, e disse: — Voglio vederlo! Ma come se il pensiero divenisse atto al semplice suono di quelle parole, tutta la fittizia energia le venne meno, diè indietro quasi le stesse in faccia uno spettro temuto, si addossò alla spalliera della seggiola, e coprì ancora il volto colle mani. — Lo vedrà, disse il direttore dopo alcuni istanti di affannoso silenzio. — No, no, io non reggerò al suo sguardo. — Egli non vedrà lei, non deve vederla; la sua malattia non è di quelle a cui un'improvvisa commozione possa dare un felice avviamento; anzi potrebbe accadere il contrario; bisognerà prepararlo prima... ma lei sì, può vederlo e lo deve... Ed unendo l'atto alle parole, sonò il campanello. Serena lasciò fare, sbigottita, e volse il capo da un'altra parte per non farsi scorgere dall'inserviente accorso subito alla chiamata. Il direttore si levò, mosse incontro al nuovo venuto e gli parlò all'orecchio. Rimasero un'altra volta soli; Serena tremante da capo a piedi, collo sguardo fisso nella propria sciagura, il signor Fulgenzio ritto accanto a lei, commosso più che non lasciasse parere. Poco stante il direttore toccò lievemente la spalla della donna, la quale a quel contatto diè un sussulto e balbettò: «non ancora, non ancora.» Poi, volgendosi al vecchio, lo interrogò con uno sguardo pieno d'angoscia. Il signor Fulgenzio andò alla vicina finestra che metteva nel cortile, ne aprì le vetrate, lasciò socchiuse le persiane e guardò attraverso il vano; poi si volse e disse melanconicamente: «eccolo!» Serena rispose con un gemito, ma non si mosse; il direttore le venne presso stando in un silenzio discreto, quasi carezzevole. — Com'è? mi dica se sta bene, che fa, se sospetta nulla, se guarda da questa parte... E in così dire si sollevò dalla seggiola, ed abbrancandosi con una mano all'omero del vecchio fece due passi e si trovò innanzi alla finestra. Il professore Guido Rigoli se ne stava nel mezzo del cortile sull'estremo lembo della lunga ombra gettata da un'ala dell'edifizio, guardava con visibile compiacenza ai raggi del sole che dardeggiava sulle vetrate dirimpetto, e sorrideva a sè medesimo. Serena lo vide, e spalancando le imposte gridò con voce straziante: «Guido, Guido!» Sentendosi chiamare a nome e vedendo una signora in faccia a lui, il professore non venne meno alla propria educazione eletta ed alla naturale squisitezza delle sue maniere, e fece due o tre inchini profondi. Serena si rovesciò come istupidita nelle braccia del signor Fulgenzio. Alcuni istanti dopo la disgraziata donna, uscendo come da una lunga dimenticanza, si vide in una camera ignota, sopra un lettuccio, e vide chino sul suo un volto color di rosa, d'una bellezza quasi infantile, ed un sorriso pietoso più splendido dei capelli d'oro, il sorriso di solito tanto birichino d'Olimpia. XLVII. L'ULTIMO. Gli avvenimenti che rimangono sono in gran parte preveduti da chi ha seguito fin qui la narrazione: formano come un programma che attende la esecuzione dal tempo, dal tempo che non dimentica, dal tempo che non falla. E viene un giorno — un melanconico giorno — in cui il professore Rigoli deve lasciare i compagni e volgere le spalle al manicomio. Gli hanno domandato con mille giri di parole se ricorda il suo passato, ed ha risposto ridendo di sì; gli hanno domandato se amerebbe riveder la sua casa e ripigliar le sue abitudini di padre di famiglia ed assidersi a mensa ed andare a letto all'ora che gli accomodasse, ed ha risposto di sì; e finalmente gli hanno pronunciato il pauroso nome... _Serena!_ — e collo sguardo intento gli hanno chiesto se serbi rancore alla disgraziata donna e se le perdonerebbe, ed alle due domande egli ha risposto col più amabile sorriso di sì. E non l'ha detto, perchè ripugna alla sua benigna natura, ma tutto quell'interrogatorio lo ha fastidito, gli è parso inutile ed uggioso; e non ha pensato fuor che alla gioia di mutar domicilio, di esser libero, di vedere il sole da una finestra senza le inferriate, e di aver dei lumi alla notte. Ed è felice, e dice addio ai vecchi amici colla spensierata giocondità d'un giovinetto che lasci il collegio. È tutt'uno; quella scena è triste; alcuni dei poveretti, ai quali il professore stringe la mano coi modi d'un conquistatore, lo guardano sbigottiti senza comprendere, e vi è chi lo segue alcuni passi, scongiurandolo di condurlo seco, ed un altro che se ne sta in un canto a guardare colla faccia scura — babbo Jacopo. Perfino il dottor Parenti, il quale dà braccio al professore, non riesce a parer disinvolto quanto vorrebbe, ed Olimpia dalla finestrella guarda senza sorridere. Una cancellata gira sui cardini, un'altra, ed un'altra, l'ultima... si è all'aperto, si sale in carrozza... si parte. Al rumore delle ruote sul lastrico, il professore batte amichevolmente sulle ginocchia dell'amico dottore, e gli dice: — Temevo che voleste farmi uno scherzo... e dove andiamo? — In casa vostra... vostra moglie vi aspetta. — È un pezzo che aspetta! osserva il professore. — Sicuro. — Ho una casa io? Nessun pensiero del passato, nessuna inquietudine dell'avvenire. Si arriva; il signor Fulgenzio apre lo sportello; una donna è con lui, pallida, cogli occhi smarriti, ma senza lagrime. — Mia moglie... dice il professore ed ha quasi l'aria di fare una domanda. — Vostra moglie. Il professore si fa innanzi due passi, e saluta con un garbo tutto suo. — Come sta, signora? Bene? Ne ho tanto piacere... anch'io, grazie. Serena è forte, non piangerà, ha promesso di non far vedere le sue lagrime, che le ricadono ad una ad una sul cuore. Vengono giorni più lieti. Mario è diventato il dottor Mario e nulla più si oppone a diventar sposo di Donnina. «Gli manca la pratica,» dice lui. «Ma per fare il marito, risponde il dottor Parenti, la pratica non è necessaria, per fare il medico ti rimane tempo; e finchè te ne stai colla teorica avrai la coscienza netta; la teorica è innocentissima, te lo dice un uomo... che ha pratica.» E viene il giorno in cui i naturali di A*** leggono sull'albo municipale i nomi e le qualità di Camilla (Donnina), nubile, e di Mario (Ognissanti) celibe, dottore in medicina, appaiati col più bel _rotondo_ del segretario comunale, e finalmente gli sponsali e le nozze, due cose che fanno con giudizio un giorno solo. Donnina fin dalla vigilia ha provato la veste bianca di sposa, e s'è mostrata in quell'acconciatura al babbo, a maestro Ciro ed a mamma Teresa; ad Ognissanti no, chè non era ancora il momento. Ma la notte misurata da mille fantasie gioconde, sorride a tante impazienze e se ne va veloce; e giunge l'alba serena che schiude le porte dell'avvenire sognato... Eccoli nelle braccia l'un dell'altro, eccoli sposi, eccoli uniti per sempre. Per sempre. La cara minaccia! Quanto al contratto di nozze, la quistione dotale diede molto da fare al notaio, il quale prima di _sottoscriversi colle parti_, come di prammatica, ed apporre la impronta del suo tabellionato, non dovette numerare meno di 12 paragrafi da capo. Il signor Fulgenzio faceva donazione ai due sposi _in comunione di beni_ della somma di 30,000 lire (dico _trentamila_) in cedole del Debito pubblico; Maurizio, radunando le reliquie delle proprie ricchezze, faceva alla figlia una dote di lire 16,000 (dico _sedicimila_) in titoli della Banca Nazionale, e maestro Ciro aumentava la dote aggiungendovi lire 4600 (dico _quattromila e seicento_) in libretti della Cassa di Risparmio di Milano. Senza dire che Maurizio faceva conto di lavorare e di far vita comune coi figli, e che Mario intendeva, fatta la pratica, di bastare ai bisogni della sua nuova famiglia; in tutto una ricchezza da Cresi; più l'amore infinito e la stima profonda. Quello fu un bel giorno! Domandatelo a mamma Teresa se quello fu un bel giorno! ed a maestro Ciro, il quale per l'occasione straordinaria aveva messo un cappello nuovo a staio! Peccato che al mezzodì piovesse un momento, e che, cessata la pioggia, quando l'ottimo maestro Ciro ed il suo cappello si fidavano bonariamente, le gronde di Milano facessero il tiro di lasciar cadere goccioloni pesanti come tegole, e dove?... proprio sul cappello nuovo di maestro Ciro, quasi volessero sfondarlo!... Ma tanto tanto, provate a domandargli se quello fu un bel giorno!... E il tempo fugge a Camilla e Mario che si amano... Una notte giunge un triste messaggio dal paesello; la mamma Teresa sta male assai, vorrebbe abbracciare le sue creature. E come è l'alba, i due sposi partono. Maestro Ciro è sul limitare, ha udito il rumore delle ruote nella via maestra ed ha indovinato che erano essi, e li aspetta per avvertirli che mamma Teresa dirà molte stravaganze, non le pongano mente, non si affliggano invano; non è vero che ella stia per morire, egli lo sa, non è vero. Mamma Teresa si ostina a dir di sì, ma finirà col far di no, come ha sempre fatto. Ma così dicendo il povero maestro Ciro ha gli occhi gonfi di lacrime che non vogliono uscire, ed il petto travagliato da un singhiozzo represso. Mamma Teresa è nel lettuccio, un po' abbattuta, un po' più scarna e più ossea del consueto, ma conserva negli occhi una luce ribelle, e le rimane tanta forza da sorridere e tanto senno da allontanare il marito con un pretesto, per rimanere sola con Donnina e con Mario. Allora si rizza sul guanciale, bacia tremando per commozione le guance della fanciulla inumidite di lagrime, e dice carezzevole: — Non ti ho visto molte volte piangere; ebbene no, non bisogna piangere..., che ci è da piangere? avrei forse da vivere in eterno? E poi è tempo che qualcuno porti lassù le buone novelle, e vada a dire a tua madre, Donnina, ed anche alla tua, Mario, che voi vi amate e siete felici... andrò io... Solo mi affanna il lasciare quel fanciullone di maestro Ciro: così come lo vedete, è un fanciullone, ed ha bisogno d'essere curato molto, perchè egli non si cura niente affatto; a te tocca, Donnina, gli farai da mamma.... Eccolo che ritorna.... non gli dite che io morrò questa sera, non glielo dite; ci soffrirebbe troppo, e tu asciuga le lagrime e sorridi...» Maestro Ciro entra col passo leggiero e l'occhio fisso come un fantasma. Mamma Teresa lo guarda con un lungo sguardo che pare una carezza, poi chiude gli occhi e sembra dormire... «Non è vero, sapete, non è vero che ella debba morire...» Ma in quella, Mario, il quale non si era scostato dal lettuccio, appoggia la mano sulla fronte della vecchia, e poi sul cuore, e ne ricerca i polsi, ed infine si rialza pallido come il lenzuolo di quel letto di morte. Donnina ha compreso tutto, e trova la forza di non piangere per allontanare con dolce violenza il povero babbo Ciro, il quale continua a dire, guardando al letticciuolo: «Dorme tranquilla; non le credete... ha sempre fatto così... si ostina, si ostina, ma infine fa sempre a modo mio...» E se interrogassimo il tempo che non falla, il tempo che non dimentica, esso ci mostrerebbe forse in una bella cornice il banchiere Redi, reduce dal Nuovo Mondo con qualche annetto di più sulle spalle, ma sempre colla bocca sgangherata, coi capelli appiccicati sulla nuca, col sorriso da milionario; e lo vedremmo, per un felice rivolgimento della sua carriera, novellamente riverito ed ammirato ed invidiato, a capo d'una nuova casa bancaria, farsi promotore di cento imprese che tirano gli azionisti, dimentico del passato, ed incrollabile come prima nella sua massima sacrosanta di «arrischiare il denaro degli altri come cosa propria; e custodire il proprio denaro come un deposito sacro.» Questa postulato semplicissimo è il segreto della sua vecchia e della sua nuova fortuna e di tutte le fortune che assomigliano alla sua. Perchè, via, che altro è la Banca se non l'arte di collocare al più alto interesse i capitali altrui per farsene una rendita di moltissime migliaia di lire? Il banchiere Redi, il quale ne sa un dito più di me, scaverna il suo più grazioso sorriso per dirvi che non è altro. E vi ricordate del leggiadro luogotenente delle guide, dell'amabile cugino Ferdinando? Il tempo, che nulla dimentica, gli recherà la nomina di capitano, e più tardi, quando le rughe non gli consentano più di aver le mogli degli amici, gli darà una moglie propria, e farà trovare al marito capitano un luogotenente giovine e leggiadro... che gli sia molto amico. Ma non passiamo innanzi agli eventi; ritorniamo indietro, sono solo passati pochi mesi dal matrimonio di Mario e di Donnina, e tre mesi appena dalla morte di mamma Teresa... ed ecco l'alba d'un altro giorno sospirato — il Natale. . . . . . . . Ancora il Natale! Ancora il sorriso che illumina le rughe della vecchiaia, ancora i confetti ed i balocchi che empiono di tante fantasie gioconde lo testoline dell'infanzia; ed ecco il cortile ingombro dai mucchi di neve, ed i diacciuoli delle gronde che aspettano un raggio di sole dal cielo annuvolato; ed ecco, la voce dell'enorme orologio brontola il mezzodì, la processione dei pazzerelli attraversa il cortile e s'avvia alla sospirata mensa comune; ed ecco il saluto di Olimpia dalla finestrella. E poi l'immenso silenzio, la pace immensa. Entriamo nella casa del signor Fulgenzio, già così melanconica, ora tanto lieta... Laggiù, in fondo, come raccolta in sè stessa, perchè l'eco della festicciuola non esali di fuori, è una mensa imbandita ed un focolare in cui arde un fuoco patriarcale, ed intorno a quel fuoco le ciancie di quattro uomini e d'un patriarca vero — maestro Ciro. Sì, maestro Ciro, che è venuto a fare una casa sola cogli sposi novelli, con Maurizio e col signor Fulgenzio... Per quelle stanze paurose, già misurate dai passi solitarii del padre dei pazzerelli, ora è un continuo via vai che mette allegria. Negli angoli oscuri, ognuno dei quali aveva un brutto fantasma, se ne stanno rannicchiati sereni e vispi spiritelli, amici di casa, e le pieghe delle cortine non scendono più come lunghe rughe di faccio imbronciate; dov'era la tetra, uggiosa solitudine del cuore, ora è una brigatella di affetti che si raduna intorno agli sposi novelli. Oggi è Natale; ed a quella brigata si è aggiunto l'affetto sincero dell'amico, il cuore tanto fatto, il perenne sorriso e gli occhi dardeggianti del dottor Parenti. Fa freddo fuori di casa; ma, curvi dinanzi al focolare, quei cinque volti sereni, come lambiti dai rossi bagliori della fiamma, spiranti in vario modo le tepide esalazioni d'una stessa gioia, provano che fa caldo in cuore! E quando tace per poco la ciancia, ecco giunge all'orecchio l'allegra squilla di due voci che si avvicendano e di due risate che si confondono... Donnina ed Olimpia dànno mano a Semplicetta perchè affretti... perchè si ha appetito. «Ah! se mamma Teresa non si fosse ostinata! pensa maestro Ciro, o se almeno potesse tornare un istante, e rizzargli innanzi, là, in quel vano, quant'era lunga e formidabile, ed ancora una volta lo minacciasse, tenendo alta la mano che dava tanto spavento!... Ma no, non è ora di melanconie; a che giova piangere? Ella non se ne è già andata per sempre, è solo arrivata prima, aspetterà... E, pensando a questo, maestro Ciro si curva a guardare la bragia perchè nessuno veda la lagrima solitaria che gli scende nel solco d'una ruga profonda. Ma no, non ò ora di melanconie; ecco, il sole ha vinta la partita, si affaccia tra nugolo e nugolo e manda un raggio curioso nella stanza. Il dottor Parenti leva il capo, tocca col gomito il signor Fulgenzio e non dice nulla. Quel raggio scende per un vano della finestra e disegna una striscia dorata che si allunga sul pavimento, si arrampica per la tovaglia e si arresta ad accarezzare il collo di una bottiglia. I due amici si guardano, si sono intesi, si sono incontrati in una medesima idea: il professore Rigoli che avrebbe fatto tanta festa a quel raggio di sole. E lo vedono col pensiero nella sua casa modesta, sempre lieto ad un modo, immemore del passato, felice di avere una casa propria, un pezzo di giardino da coltivare ed un bel volto di donna che si prova a sorridergli, ed una mano industre ed operosa che lavora tuttodì e parte della notte a nascondergli la povertà. Poichè sì, il professore è povero, sebbene abbia una casetta propria e dei lumi alla notte, è povero e non ne sa nulla; Serena ha fatto dono di quanto potesse parere acquistato male ad un ospizio; più non le rimangono se non le reliquie della dote ed il lavoro delle proprie mani... — A quest'ora, dice il dottor Parenti, rompendo il fascino di quelle melanconie, a quest'ora i nostri commensali hanno avviato le loro ciancie, mi pare di sentirli, peccato che il professore non sia là meditando di nascosto il brindisi da improvvisare alle frutta! — Peccato! ripete sbadatamente il direttore. Ma siccome continua a stare meditabondo, il dottor Parenti non è contento e domanda a bruciapelo: — A che pensi? — Penso che il mondo ha l'aria di un manicomio, e che un po' pazzi lo siamo tutti. — Di' che lo siamo molto, interrompe il dottor Parenti, di' che siamo pazzi da legare; e che a far bene i conti i più savi sono i matti. Tutto il tuo mondo a cui pensi, se pure vale che ci si pensi, banchetta oggi in comune, nè più nè meno di quel che fanno i nostri malati. Domani li ritroverai pazzi come prima: pazzi ambiziosi che sognano onori e grandezze e camminano sui trampoli della boria; pazzi libertini che corrono dietro ai piaceri; pazzi fanatici che si arrovellano nella politica; e pazzi annoiati che si consumano nell'inerzia, — tutta gente che ha un'idea fissa e le corre dietro finchè non inciampa nella propria fossa. — Il tempo è il medico di queste pazzie, dice Maurizio. — Cattivo medico, ribattè il dottor Parenti, non lo dice per gelosia di mestiere; cattivo medico che viene sempre troppo tardi, quando il meglio della vita è passato, quando si comincia ad aver le rughe ed i capelli bianchi... Un buon medico è la fortuna, vi sto garante; quella che vi manda fra i piedi, nell'età in cui non avete ancora ubbie per il capo, un buon esempio, una parola buona, un consiglio sano, o vi fa incontrare a vent'anni in una fanciulla la quale vi ami davvero, e cura di sbarazzarvi la via da tutte le incantatrici del giardino fatato, in cui si entra a vent'anni e da cui si esce solo a cinquanta sonati. Questa fortuna tocca a moltissimi, ma spesso è rifiutata; i pochi che chiamano in casa la felicità, e ve la chiudono a chiave e le fanno la guardia dì e notte, sono i soli savi ed i soli felici... perchè, se l'ho da dire, non ho punto fede nella felicità dei pazzi. Si fa silenzio, si porge l'orecchio, si ha come bisogno di udire, e si ode ancora la voce scherzosa delle giovinette a cui fan capo tutti quegli affetti, a cui si annoda tanta felicità. Mario, che non ha mai aperto bocca, non resiste più, si leva, facendo lo sbadato, dal focolare, si accosta alla finestra, poi alla mensa, e finalmente sguscia fuor dalla camera e corre a baciare sulle due guance Donnina, senza un riguardo al mondo per la bionda Olimpia, la quale dà un grido e si copre il viso col grembiale per non veder quell'orrore!... «Non vi è un cane che le voglia bene alla poveretta!» Guardatela ora che non ha più il grembiale sul viso: due occhi del colore d'un limpido cielo, capelli che mandano i riflessi del sole, guance ridenti come una primavera, e il corpiccino snello ed elegante che non sta mai fermo; tutto ciò a sedici anni appena, con un ottimo cuore, ignaro d'altri affetti fuor quelli del babbo e della bambola. E dite ora se non si troverà presto chi l'adori come una faterella, o della faterella aspiri a fare una sposina magnifica?... Un istante dopo le due giovinette rientrano mandandosi innanzi una festa di sorrisi, seguite dall'enorme Semplicetta, la quale porta in trionfo la zuppiera fumante... Quando si è felici la terra ci fugge sotto i piedi — ecco, è il meriggio, è il tramonto, è la notte. Non la paurosa notte popolata da fantasime nere, non la notte dalle cieche angosce, dagli stolti terrori, ma la notte silenziosa, che ascolta i battiti dei cuori che amano. E quando tutti gli occhi sono chiusi dal sonno, quelli di chi misura la propria felicità, non ancora stanchi, resistono. E Donnina, la quale ha quasi voglia di piangere perchè è troppo felice, sente il bisogno di rivedere un prezioso amuleto, apre un cassettino riposto, e mostra ad Ognissanti il proprio tesoro. Ognissanti sorride, e dice per la centesima volta a Donnina che il tesoro di lei è il cuore buono, è l'anima gentile... Ma Donnina no, non vuole sentirlo, e per la centesima volta ribatte che il proprio tesoro è il trifoglio dalle quattro foglie. E lo richiude nel cassetto. FINE INDICE I. Un giorno di Natale Pag. 5 II. Molte cose in una chicchera di tè » 21 III. La famiglia del Maestro di scuola » 33 IV. Ciò che intendono le siepi » 46 V. In cui si spegne il lume e ci si vede più chiaro » 52 VI. Il romanzo di Donnina » 61 VII. Entrano in iscena personaggi nuovi e cose nuove » 70 VIII. La corte della sirena » 77 IX. Il secondo cortigiano » 86 X. Il terzo » 91 XI. La signora Olimpia fa gli onori di casa » 98 XII. In cui il dottor Parenti incomincia una cura » 102 XIII. Ancora della cura incominciata » 111 XIV. Quattromila e seicento lire alla cassa di Risparmio di Milano » 116 XV. Il signor Maestro spiega la moltiplicazione » 123 XVI. Ognissanti ed il signore dal cappello a larghe tese » 128 XVII. Un esame di coscienza » 138 XVIII. Paoluccio » 148 XIX. Ognissanti a Donnina » 154 XX. Chi fosse il signor Maurizio » 180 XXI. Il secondo colloquio di Maurizio e Serena » 191 XXII. Il luogotenente delle guide torna alla carica » 200 XXIII. Serena a Maurizio » 206 XXIV. Ciò che rimane a Maurizio » 210 XXV. Donnina ad Ognissanti » 214 XXVI. Viaggio di scoperta » 221 XXVII. Il poscritto della lettera di Donnina » 238 XXVIII. Seconda tappa del viaggio di scoperta » 241 XXIX. Un altro viaggio ed altri viaggiatori » 251 XXX. Sola! » 263 XXXI. Lo scoppio della bomba » 269 XXXII. Ritorno » 272 XXXIII. Terzo colloquio di Maurizio e Serena » 277 XXXIV. Il dottor Parenti al signor Maurizio » 282 XXXV. Paoluccio lascia l'ospizio » 283 XXXVI. Povera Olimpia » 293 XXXVII. Un giorno di vacanza in casa del Maestro di scuola » 297 XXXVIII. In cui si vede come Mario non ritornasse a Milano solo » 303 XXXIX. Maestro Ciro rimane solo » 310 XL. In carrozza » 320 XLI. Il signor Maurizio riceve » 322 XLII. Al capezzale dell'infermo » 330 XLIII. A mia figlia » 333 XLIV. I milioni di Maurizio » 343 XLV. Casi di coscienza » 346 XLVI. Il professore Rigoli riceve una visita » 352 XLVII. L'ultimo » 360 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 64106 ***