Project Gutenberg's Le cronache italiane nel Medio Evo, by Ugo Balzani This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org/license Title: Le cronache italiane nel Medio Evo Author: Ugo Balzani Release Date: May 6, 2020 [EBook #62038] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LE CRONACHE ITALIANE NEL MEDIO EVO *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
LE
CRONACHE ITALIANE
NEL MEDIO EVO
DESCRITTE
DA
UGO BALZANI
SECONDA EDIZIONE RIVEDUTA
Le cronache portano le azioni, i soli tempi rivelano l'individuo.
L. Tosti, La Contessa Matilde.
ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
—
1900
PROPRIETÀ LETTERARIA
36-900. — Firenze, Tip. di S. Landi, dirett. dell'Arte della Stampa
A
TERENZIO MAMIANI DELLA ROVERE
IN ATTESTATO
DI REVERENZA E DI AFFETTO
[vii]
Inteso a far noti popolarmente i cronisti italiani del Medio Evo, io ho cercato di togliere ogni ingombro di erudizione da questo libro e presentarlo ai lettori il più semplice e spedito di citazioni che si potesse. Ché se non m'è riuscito di tenermi più strettamente a questo metodo, n'è cagione l'avere io tentato per quanto sapevo, di fare un lavoro il quale non riuscisse del tutto inutile anche agli eruditi poiché questo, a mia notizia, è il primo tentativo che siasi fatto di raccogliere espressamente in un libro tuttaquanta la storia della cronografia medioevale italiana. Perciò ho procurato di studiare con diligenza nelle migliori edizioni il testo degli autori dei quali tengo parola, e prima di profferirne definitivo giudizio, ho procurato di vedere quanto sopra ciascuno autore altri ha pensato o scritto.
[viii]
Per quel che si riferisce alla struttura del libro, se talora mi sono diffuso alquanto nel tratteggiare i vari periodi storici che questo lavoro attraversa, io spero che mi sarà perdonato da chi pensi che non è facile nè sarebbe buon metodo parlar di storici e tacere sui tempi nei quali essi han vissuto e dei quali scrissero. Così anche mi è spesso accaduto di dilungarmi a narrare le vite degli scrittori dei quali esaminavo i lavori. L'ho fatto perché mi è parso narrandole di chiarir meglio i tempi che essi descrissero e le ragioni delle opere loro, giacché la storia del Medio Evo è stata detta in Italia più che altrove da uomini che parteciparono largamente ai fatti di cui ci lasciarono memoria, e ciò dai primi agli ultimi tempi, da Cassiodoro e Gregorio Magno fino ad Albertino Mussato, a Dino Compagni, a Giovanni Villani.
Per far meglio conoscere l'indole, la natura e lo stile delle diverse cronache, ho recato di esse nel libro molti e lunghi frammenti volgarizzati dai testi. In tal modo que' vecchi cronisti nelle ingenue pagine loro descriveranno sé stessi alla memoria e alla fantasia del lettore assai meglio che non varrebbe a descriverli l'amoroso ma incerto tentare di uno scrittore moderno. Questi frammenti erano già stati tradotti da mia moglie che ha dato veste inglese a tutto il libro e diviso con me in larghissima parte la fatica e il piacere del compilarlo. Nel voltarli ora io in italiano, [ix] ho cercato com'ella avea fatto di tenermi il più che potevo fedele alla lettera dei testi, ma, dove alcuni d'essi per la oscura e intralciata latinità si opponevano ad una traduzione letterale, mi sono sforzato d'accostarmi al concetto degli autori quanto meglio e più precisamente ho saputo farlo. Il numero dei libri dei quali mi son dovuto giovare è stato di necessità assai grande, e poiché non potevo mentovarli tutti, ho cercato almeno di professare la gratitudine mia ricordando quelli da cui ho ricavato maggior profitto. È superfluo poi l'avvertire che non essendo questo uno studio critico sulle fonti ma una storia descrittiva della nostra cronografia, ho di proposito evitato ogni discutere intorno alle sorgenti da cui ciascun cronista è venuto attingendo. Del pari non si fa discorso, o di rado e solo fuggevolmente, dei lavori che si son pubblicati e si pubblicano ad ogni ora intorno alla critica dei testi, ma ho speranza che coloro i quali hanno familiarità con siffatti lavori, non vorranno perché io ne taccio mettermi tra quelli che li ignorano e scusano il peccato della ignoranza con una sciocca mostra di dispregio. Ma costoro per fortuna ed onore degli studî nostri son rari, e la critica storica italiana, memore di sue tradizioni, cresce sempre più in fiore e dà frutti.
Questo libro fu prima pubblicato in inglese per incarico e cura di una poderosa società che con [x] larghe vedute e concetti vasti s'affatica di spargere la cultura cristiana dovunque la lingua inglese è parlata o si legge, e stima a ragione questa cultura essere universale e non doversi disgiungere dal pensiero moderno[1]. Sebbene sieno corsi sol pochi mesi da che la edizione inglese fu pubblicata, già nell'intervallo son venuti fuori altri studî intorno a parecchi testi e io ho procurato per quanto ho potuto di vederli e aiutarmene, ed anche ho cercato di corregger qua e là talune imperfezioni secondo che io stesso le scoprivo o m'erano indicate da qualche benevolo. Tra questi ringrazio particolarmente il conte Costantino Nigra che non solo mi additò un errore ma, come si vedrà a suo luogo, volle indicarmi la via di correggerlo, e ringrazio l'autore dell'insigne libro sul Sacro Romano Impero, il professor Bryce dell'Università di Oxford a cui debbo alcuni utili suggerimenti per questa edizione. All'amico mio avvocato Scipione Lupacchioli son grato per la critica arguta e vigorosa colla quale accompagnò la compilazione del mio lavoro man mano che lo scrivevo. Da ultimo amo rendere anche qui reverente tributo alla memoria del canonico Robertson di Canterbury il quale innanzi ch'io li mandassi la prima volta alla stampa, lesse ed onorò di consigli i primi capitoli di questo libro. Pur [xi] troppo la morte gli tolse di continuare nell'amorevole ufficio, e certo molti in Inghilterra lo rimpiangono meco per le nobili e gentili qualità del cuore, mentre e in Inghilterra e in Italia è rimpianto da quanti ne studiarono i libri ed ammirarono in essi la dottrina vasta e quella calma ed acuta serenità di giudizio che ci fa fede della bontà di chi scrive ed è tra le prime doti e più necessarie a chi va cercando il vero nella storia[2].
Oxford, 21 settembre 1883.
Ugo Balzani.
[xiii]
Capitolo I — Pag. 1
L'arte storica decade col decadere di Roma — Si ravviva durante la età gotica — Cassiodoro. Sue dignità e tendenza politica delle opere sue. La perduta storia dei Goti e i «Libri Epistolarum Variarum» — Compendio della storia di Cassiodoro compilato dal goto Giordane — Dissensi tra Romani e Goti fomentati da Bizanzio — Guerra gotica narrata da Procopio di Cesarea. Pregi e importanza di questo scrittore — Scrittori minori.
Capitolo II — Pag. 39
Calamitose condizioni d'Italia nel primo periodo della invasione longobarda — Gregorio il Grande. Raccolta delle sue lettere. Altissima importanza di esse per la storia d'Italia. I libri dei Dialoghi — Editto di Rotari — La «Origo Langobardorum» e scritti minori fino a Paolo Diacono — Vita di Paolo Diacono, sue opere e specialmente sua storia dei Longobardi.
Capitolo III — Pag. 87
Decadenza della cronografia italiana — Il «Liber Pontificalis» — «Gesta Episcoporum Neapolitanorum» — Agnello Ravennate — Scritti polemici di Ausilio e Vulgario — I monasteri e le invasioni saraceniche — Farfa: la «Constructio,» le vite dei santi Vulturnensi, la «Destructio» — Montecassino: il «Chronicon Sancti Benedicti Casinensis» — I cataloghi e le traslazioni dei Santi — La Historia di Erchemperto e l'Anonimo Salernitano — Andrea da Bergamo — Panegirico di Berengario — Stato della cultura laica in Italia — Liudprando — Scritti imperialisti — Benedetto di Sant'Andrea — Cronaca veneta di Giovanni Diacono.
[xiv]
Capitolo IV — Pag. 141
Movimento intellettuale del secolo undecimo e del dodicesimo — Riforma della Chiesa — Risveglio della cultura ecclesiastica e delle indagini storiche nei monasteri — Regesti e cronache monastiche — Il monastero di Farfa e le opere di Gregorio di Catino. «Chronicon Vulturnense» — Rinascenza artistica e letteraria di Montecassino promossa dall'abate Desiderio. Il monaco Amato e la storia dei Normanni. Leone Marsicano e Pietro diacono, storici di Montecassino — Scritti storici dell'Italia meridionale — Cronaca del monastero della Novalesa.
Capitolo V — Pag. 177
I continuatori del Libro Pontificale: Bruno da Segni. Guiberto di Toul. Paolo di Bernried. «Annales Romani.» Pandolfo. Bosone — Scritti polemici. San Pier Damiani. «Liber ad Amicum» di Bonizone — La Vita di Anselmo da Lucca — La Vita della contessa Matilda di Donizone — Le lettere di Gregorio VII.
Capitolo VI — Pag. 213
Nuove fasi del pensiero italiano dal dodicesimo secolo al decimoquarto — Scrittori meridionali dei tempi normanno e svevo — Saba Malaspina — Storici del Vespro Siciliano — Vite dei Papi — Vita di Cola di Rienzo — Scrittori municipali lombardi del primo periodo — Ottone di Frisinga — Altri cronisti imperiali — Storie generali — Fra Salimbene da Parma — Cronisti di varie città dell'alta e della media Italia — Cronisti di Lombardia e della Marca Trivigiana — Albertino Mussato.
Capitolo VII — Pag. 279
Cronisti delle repubbliche marinare — Cronache di Venezia: Martino da Canale e Andrea Dandolo — Gli Annalisti di Genova da Caffaro a Giacomo D'Oria — Pisa: Le «Gesta triumphalia». Bernardo Marangone — I cronisti della rimanente Toscana e principalmente i Fiorentini: I Malispini. Dino Compagni. I Villani.
[1]
LE CRONACHE ITALIANE NEL MEDIO EVO
L'arte storica decade col decadere di Roma — Si ravviva durante la età gotica — Cassiodoro. Sue dignità e tendenza politica delle opere sue. La perduta storia dei Goti e i «Libri Epistolarum Variarum» — Compendio della storia di Cassiodoro compilato dal goto Giordane — Dissensi tra Romani e Goti fomentati da Bizanzio — Guerra gotica narrata da Procopio di Cesarea. Pregi e importanza di questo scrittore — Scrittori minori.
Colla decadenza di Roma e lo sfasciarsi lento della unità latina fiaccandosi il nervo della vita all'Italia, s'era dileguata da essa la potenza e l'arte dello scrivere storie. L'antichità moriva in Occidente e con essa veniva meno la vasta luce della civiltà sua. Da secoli eran cessate le magnifiche ispirazioni di Tito Livio e la incisiva parola di Tacito era fatta muta. A poco a poco ogni fonte di ricordi s'era così inaridita, che al quinto secolo la buia e malcerta storia di quella età dolorosa vuolsi cercare a fatica tra i pochi scrittori che si mostravano ancora e i più non erano storici neppur di nome. Ammiano Marcellino, Prudenzio, Claudiano, Rutilio Numaziano, Olimpiodoro e con San Girolamo i principali Padri della [2] Chiesa, ecco le scarse sorgenti a cui si volge ora lo storico che tenta d'investigar quel passato, ed è naturale che venissero meno le memorie della vita là dove la vita stessa languiva. Nè, mentre si spegneva la storia dei Latini, poteva nascer d'un subito quella dei primi popoli invasori. Mancava l'arte in costoro, e non potevano mutare in istoria le tradizioni vive dei loro canti senza prima imparar quest'arte in Italia o trovare almeno tra i vinti chi prendesse a narrare le loro vicende. Per giungere a questo era necessario che vinti e vincitori mescolati insieme si confondessero in una aspirazione comune, e mentre gli uni infiltravano sangue nuovo nelle stanche vene d'Italia, gli altri lo fecondassero con quel che avanzava dell'antica sapienza. Una siffatta fusione che non potea farsi coi primi invasori parve un momento effettuabile coi Goti, e nel tempo loro risorgendo a un tratto il culto delle memorie può dirsi che abbian principio le narrazioni e i documenti storici del medio evo.
Certo di tutti i popoli germanici il gotico era il meglio temprato a civiltà, il più capace di assimilarsi la cultura latina e d'intrecciarsi alle antiche stirpi tra cui era disceso recando nuovi elementi di vita. Quando la luce del cristianesimo penetrava in Germania, trovò pronto a propagarla il linguaggio dei Goti, ed Ulfila traducendo in gotico la Bibbia gettò le prime fondamenta delle lingue e delle letterature germaniche[3]. [3] Popolo forte e originale, da lungo e di frequente in commercio colle nazioni latine e coi Greci di Bizanzio, i Goti non ignoravano le tradizioni intellettuali di Roma, nè potevano accostarsi con tutto rozzo dispregio alle opere dell'arte greco-romana o a quella sapienza legislatrice che stava per sintetizzarsi tutta quanta nella raccolta Giustinianea. E come in questi barbari men rudi era una cotale capacità d'intendere le tradizioni dell'antico, così queste ancor vive nella loro caduta avevano in sé tanto di forza da attirarli e costringerli ad ammirazione e a rispetto. Se il compaginarsi del doppio elemento in una forte nazione fosse stato possibile, solo sarebbe stato possibile coi Goti e solo in quel tempo. La maestà dell'Impero era ancor grande e non pativa ancora l'ingiuria della noncuranza. Più tardi dopo molti contrasti e guerre lunghe e disastri, smunta dissanguata spoglia d'abitatori, cupidamente desiderata e mal difesa dai Greci, [4] l'Italia non avrà più forze in sé d'aiuto, e i nuovi invasori potranno calpestar senza cura le ultime reliquie della scaduta civiltà romana. Ma per allora era altrimenti, e in quel supremo albore di vita il regno di Teodorico sembra mirar del continuo a riunire in un fascio le forze germaniche e le romane affratellando i due popoli in comunione d'affetti e di pensieri. Cassiodoro che tenne le più alte cariche dello Stato da Teodorico a Vitige per un tratto lunghissimo della dominazione gotica, cercando quanto era da lui di dar ferme radici al nuovo regno, volse a questa riunione tutto il potere dell'ingegno suo. «Siam nel proposito, se Iddio ci aiuti, di far che i sudditi nostri si dolgano d'esser troppo tardi venuti al nostro dominio.» Così esclamava Cassiodoro per bocca di Teodorico, e queste parole in cui si ripone il concetto fondamentale della sua mente, come un ago magnetico gli puntano innanzi una via che vuole esser seguìta senza oscillare.
Finché resse la cosa pubblica, Cassiodoro concordò a questa le opere sue letterarie e ne trasse aiuto per tendere alla mèta prefissa, onde bene può dirsi che egli rappresenta l'età sua così nelle lettere come nella politica. La corte di Teodorico, animata da lui, si fe' centro in breve ai più colti ingegni di quel tempo, e in essa furono originate molte opere per le quali calò al medio evo la conoscenza del sapere antico. La scuola dei grammatici Donato, Macrobio, Marciano Capella, scende di questi anni a congiungersi con Prisciano e Cassiodoro dai quali l'età di mezzo imparerà ammirando lo stile intralciato e la latinità [5] gonfia ed oscura. La filosofia aristotelica prenderà impero sulle menti medioevali per mezzo del maggiore erudito allora vivente, Severino Boezio, nobilissimo uomo fatto immortale dalle sue sventure e dal libro ch'esse gl'ispirarono a conforto. Quello che fra tanto rivolgimento d'uomini e di pensieri non era morto dell'antica sapienza, ripullulava in questi uomini i quali in certa guisa cristallizzandola la rendeano accettevole alle generazioni future. Nè i Goti se ne tennero in tutto lontani. Alcuni tra essi, per quanto pare, s'avvicinarono ai dotti romani e ne seguirono l'esempio e le usanze studiose. Non è ben chiaro se vissero veramente i filosofi goti Atanarido, Ildibaldo e Marcomiro menzionati in alcun luogo, ma senza dubbio Teodato parente di Teodorico e più tardi re egli stesso inclinava agli studî filosofici e seguiva Platone; la vittima di costui Amalasunta regina fu pei suoi tempi donna di rarissima cultura, e al goto Giordane dovrò rivolgermi di corto dopo aver discorso di Cassiodoro del quale per buona fortuna egli compendiò la storia dei Goti ora perduta.
Magno Aurelio Cassiodoro Senatore, nato, secondo ogni probabilità, a Squillace[4] da nobilissima famiglia[5] e fin da giovane entrato nella vita pubblica, [6] teneva con quella parte del patriziato romano che riputò opportuno fondere in una le sorti della patria e quelle dei barbari. Seguiva in questo le tradizioni del padre che ebbe nobili incarichi sotto Odoacre e raggiunse i massimi onori sotto Teodorico. Iniziato dal padre, il giovane Cassiodoro percorse anch'egli il suo cammino con Teodorico, il quale in premio d'un suo panegirico[6] lo nominò Questore e poi di grado in grado sollevatolo a dignità altissime gli diè in mano molte fra le cure maggiori dello Stato. Ciò valse a determinar sempre più l'indole dei lavori suoi letterari e a farla concorde allo scopo politico della sua vita. E prima è da menzionare una breve cronaca, intesa a glorificare i Goti e gonfia d'ampollose lodi per Teodorico, meschina opera e grave di errori indicati e censurati severamente da Teodoro [7] Mommsen innanzi al quale Cassiodoro trova di rado favore[7]. D'assai maggior pregio invece e tali da onorarsene la erudizione del tempo suo sembrano essere stati i dodici libri della sua storia gotica sui quali peraltro pesa a ragione il sospetto di soverchia parzialità verso i Goti. Ma questa storia andò presto smarrita e solo ci avanza di giudicarne in modo imperfetto dal compendio che ce ne lasciò Giordane. L'intendimento del libro apparisce dalle parole colle quali il re Atalarico annunzia al Senato Romano l'innalzamento di Cassiodoro a Prefetto del Pretorio. Non solo, egli dice, Cassiodoro ha magnificato i suoi signori presenti, ma rifacendosi indietro, «si distese anche sulla antica nostra prosapia imparando col leggere quello che appena ricordavano in lor tradizioni i nostri canuti. Egli dalle latebre dell'antichità trasse i re de' Goti nascosti per lungo oblìo. Egli restituì l'antica nobiltà di sangue agli Amali, dimostrando aperto la stirpe nostra essere stata regale per diciassette generazioni. Fe' diventare storia romana la origine dei Goti[8] raccogliendo quasi in ghirlanda i germi fioriti che prima si dispergevan [8] qua e là pe' campi dei libri. Considerate quanto in lodarci v'amò colui che dimostrò esser mirabile fin dall'antichità la nazione del vostro principe, affinché come foste sempre ritenuti nobili così imperasse sopra voi una antica progenie di re.»[9] Lo scopo politico del libro si mostra qui chiaro. Ai Romani tanto più alteri di loro storia quanto più era scadente la grandezza reale di Roma, riusciva opportuno il dire che questi barbari calati di Germania a divider con loro la patria, avevano anch'essi nobiltà d'origine e storia gloriosa. A ciò, dice il Wattenbach, intese la erudizione di Cassiodoro. «Che i Goti e i Geti fossero un sol popolo già da lungo tempo era facilmente creduto, ma nessuno aveva ancora cercato di dimostrarne la parentela. Fe' ciò Cassiodoro. Intrecciò le memorie propriamente storiche dei Goti, il contenuto dei loro canti, con quanto intorno ai Geti egli trovò presso i Romani ed i Greci, e poiché così gli uni come gli altri dai Greci erano detti Sciti, risalì la intera storia primitiva degli Sciti e senza esitare chiamò donne gotiche anche le Amazzoni. Così gli Amali di cui lo splendore era narrato dalle saghe gotiche, apparivano ora come i discendenti immediati di Zamolclii e di Sitalchi, e i Romani potevano trovare in ciò un conforto all'amarezza della signoria straniera.»[10]
[9]
Le parole indirizzate a Cassiodoro dai re Teodorico e Atalarico che ho citato più sopra, furono scritte da Cassiodoro medesimo e leggonsi tra le lettere che egli per ufficio venne scrivendo in nome dei suoi sovrani e delle quali più tardi compose una raccolta divisa in dodici libri. Queste lettere rivolte per lo più a personaggi importanti o agli istituti maggiori dello Stato, contengono come in una serie i principali atti coi quali i re goti e il loro ministro governarono la cosa pubblica in Italia fino al principio del regno di Vitige. Il valore ch'esse hanno per la storia d'Italia è supremo. La stessa smarrita storia dei Goti non avrebbe potuto indicare con tanta evidenza le condizioni morali e politiche degli Italiani, nè recar tanti ragguagli intorno alla vita d'allora e allo stato degli uomini e delle cose. Documenti di tal sorta parlano ai posteri con una eloquenza che nessuna storia può raggiungere mai, perché inconsciamente toccano di fatti a cui la storia non arriva. Così, per citare un esempio, Teodorico annunziando al Senato d'aver conferita al padre di Cassiodoro la dignità di Patrizio, mentre ci rende una immagine che non potremmo avere altrimenti della reverenza che si spandeva ancora dal nome romano, ci mostra insieme con quale romanità di espressione il re goto rammentasse le invasioni di Attila. «Anzitutto, egli dice, noi bramiam con ardore che il vostro collegio s'adorni nel lume delle dignità quando coloro che crebbero [10] nel potere aulico tributano onestamente alla patria la loro grandezza.... Ché il padre di questo candidato per giovare alla repubblica associossi con gran carità ad Ezio patrizio.... Ad Attila fu inviato non vanamente in legazione. Mirò intrepido quell'uomo di cui tutto l'Impero temeva; forte nel vero, non curò que' volti terribili, minacciosi, nè dubitò di contrastare agli alterchi di colui che rapito da non so qual furore parea pretendere al dominio del mondo. Trovò superbo il re ma lo lasciò placato.... La sua costanza rialzava i timorosi, nè furon creduti imbelli coloro che s'armavano di tali ambasciatori. Riportò una pace che parea disperata.»[11] E mentre queste lodi all'avo di Cassiodoro indicano come un timoroso desiderio di veder tenuto alto ancora e riverito il nome della virtù romana, altre ne contiene questa raccolta che giovano mirabilmente a chiarirci intorno a varie questioni storiche di gran momento. Il brano seguente ci serba un insegnamento duplice anch'esso, affermando a un punto le condizioni giuridiche dei due popoli e ritraendoci in vera e trista dipintura gli scaduti costumi del patriziato romano. In uno di quei tumulti che per brutta usanza venuta da Costantinopoli [11] nascevano frequenti nelle ire partigiane del Circo, un patrizio di nome Teodorico e il console Importuno avean fatta ingiuria ai popolani della parte avversa alla loro nei giuochi e fatto uccider l'un d'essi. E Cassiodoro parlando nella persona regia così ne scriveva al magistrato con austera fermezza: «Se noi moderiam colla legge le usanze di straniere genti, se chiunque si associa all'Italia obbedisce al diritto romano, quanto più si conviene alla sede stessa della cittadinanza aver maggiore la reverenza delle leggi affinché la grazia delle dignità risplenda in esempio di moderazione? E dove sarà da cercare un animo modesto se i Patrizi si macchiano con atti violenti?.. Ma affinché i magnifici personaggi non sieno offesi dalla loquacità popolare frenisi di questa la presunzione. Si tenga in colpa chiunque sulla via faccia ingiuria ad un reverendissimo Senatore, poiché mal si condusse quando era da parlare onesto. Ma chi può pretendere gravità di costumi agli spettacoli? Al Circo non sanno convenire Catoni. Checché ivi il popolo gaudente si dica, non s'ascriva ad ingiuria ché il luogo protegge gli eccessi. Ché se la costoro garrulità sia portata pazientemente, se ne onoreranno gli stessi principi.»[12] Nobili e temperati sensi a cui fanno bel riscontro questi cenni dati a Sunivado senatore inviato da Teodorico nel Sannio a compor liti tra Romani e Goti: «Entra dunque nella provincia del Sannio. Se un Romano avrà a far co' Goti [12] o un Goto co' Romani, e tu definisci considerando la legge nè si conceda vivere in diversa legge a coloro che vogliam protetti da un giudice solo. Sentenzierai dunque in comune ciò che è secondo giustizia, ché non sa guardare alle persone colui che solo fa stima dell'equo.»[13]
Era dunque diritto che Teodorico lodasse Cassiodoro per avere reso famoso il suo regno recando la integrità della coscienza nelle corti e dando alta quiete ai popoli[14]. Sulla soglia del medio evo si sente ancora per le lettere di quest'ultimo uomo di Stato romano che l'antichità non è tutta spenta, e che alla civiltà romana avanza tuttavia un ultimo alito di vita e di vigore. Nessuno elemento di civiltà è trascurato in esse. Come alla conservazione delle leggi romane, così v'apparisce continua la cura alla conservazione dei monumenti e delle opere d'arte in tutta Italia. Ora son lettere per ricuperare all'ornato pubblico una statua di bronzo rubata a Como, ora per restaurare [13] le terme di Spoleto, ora pel rifacimento di acquedotti che minacciavan, rovina, ora per inviare a Ravenna colonne e marmi giacenti fuor d'opera in Roma e colà ornare nuovi monumenti poiché l'arte scaduta mal si prestava ad ornati nuovi. La musica ha suo tributo d'onore anch'essa in una lettera a Boezio al quale un'altra pure è diretta di cui i brani seguenti ci mostrano in quale stato si conservassero gli studi meccanici. «Il signore dei Borgognoni ci richiede a grande istanza d'inviargli un orologio che si muova pel correr dell'acque sotto la ruota, e segni l'ora comprendendo in sé la luce dell'immenso sole. E chiede maestri dell'arte a collocarlo, talché godendo questo impetrato piacere sembri miracolo a loro quel che è quotidiana cosa per noi.... Il meccanico è a così dire come il socio della natura, svela le occulte cose, le manifeste trasforma, scherza co' miracoli, e così bene dissimula che non si sospetta artificio e l'imitato si ritien vero. Ora poiché ti sappiamo addentro in siffatte cose, studiati di mandarci al più presto i predetti orologi, e ti farai così conosciuto in quella parte del mondo dove non hai potuto penetrare altrimenti. Imparino per te le genti straniere esser tali i nostri nobili quali si leggon gli autori. Quante volte non crederanno agli occhi loro! quante volte stimeranno sogni d'illusi questa realtà! E quando saranno usciti dallo stupore non vorranno chiamarsi uguali a noi presso i quali sanno tali cose essere escogitate dai nostri sapienti.»[15]
[14]
Leggendo questa lettera si fa più doloroso il pensare che Teodorico macchiò negli ultimi anni la gloria del suo regno colla crudele uccisione di Boezio che ha qui così largo tributo di lodi. Forse la feroce condanna sua e quella di Simmaco sono indizio che il patriziato romano s'andava staccando dai Goti e l'accordo fra i due popoli appariva arduo più che non s'era creduto in sulle prime. Ma intorno a questo argomento non ci ponno dar luce le lettere ufficiali di Cassiodoro, e, poiché ogni certezza storica ci fa difetto, forza è contentarci d'ipotesi. Ad ogni modo, comunque andassero gli eventi e qual che fosse l'animo dei nobili romani, Cassiodoro rimase fermo nei suoi propositi di conciliazione, e, morto Teodorico, tenne il suo ufficio presso Amalasunta che regnò qualche anno in nome del fanciullo Atalarico e da cui fu innalzato alla suprema dignità di Prefetto del Pretorio. Reggendo ella lo Stato, gli screzî tra Romani e Goti appariscon più aperti. L'educazione del giovinetto re fomentava specialmente ire e sospetti, ché i Romani con Amalasunta tendevano a coltivarne latinamente lo spirito, ma i principali Goti lo volevano Goto e non Latino, alieno da ogni studio e unicamente inteso agli esercizî del corpo e alle arti di guerra. Il governo imperiale frattanto da Costantinopoli soffiava nel fuoco, e raccendendo la vampa di queste discordie nazionali e quella che serpeggiava interna tra gli stessi Goti, si apparecchiava a giovarsene per ricuperare le provincie italiane. Alla morte del giovinetto Atalarico, la madre Amalasunta tenne alcun tempo il regno da sola, ma nè l'intelletto [15] suo vasto nè l'esser figlia di Teodorico valsero a salvarla dalle diffidenze dei Goti, talché per un momento nelle cupe angoscie d'un regnar minacciato, trattò in segreto con Giustiniano imperatore per fuggir d'Italia e avere asilo a Costantinopoli. Poi nella lusinga di potersi reggere ancora sul trono vacillante, tentò di legare a sé Teodato un suo cugino della stirpe degli Amali, già suo nemico. Sperava conciliarselo associandolo al regno, ma l'abbietto uomo salito al trono rilegò Amalasunta in una isoletta del lago di Bolsena dove indi a poco la lasciò trucidare. Rimasto solo regnò breve tempo, ma pericolando anch'egli e desideroso com'era di menar vita pacifica, offrì a Giustiniano di cedergli lo Stato e chiese in ricambio ricchezze e tranquilli onori sul Bosforo. I Goti avvedendosi d'esser traditi da quel codardo, lo deposero, e coltolo fuggente a Ravenna lo sgozzarono. Vitige, un prode guerriero loro, levato sugli scudi fu acclamato re, e Cassiodoro rimasto in carica tutto quel tempo scrisse in nome del nuovo sovrano la lettera seguente che riferisco intera perché mi par che suoni come uno squillo di tromba destinato ad annunziare la fortunosa guerra imminente.
«A tutti i Goti, Vitige re. Se ogni bene vuolsi riferire a dono della divinità nè v'ha nulla di buono se non quanto ella ci concede, tanto più vuolsi attribuire la dignità regale al giudizio divino che ordina coloro a cui vuol soggetti i suoi popoli. Di che a Cristo signor nostro riferendo grazie con umilissima compiacenza, giudichiam che i Goti ci abbiano coll'aiuto di Dio conferita la dignità regia [16] levandoci tra le spade in sugli scudi, secondo l'uso dei maggiori nostri, affinché l'armi dessero l'onore a colui cui le guerre procacciarono stima. Imperocché sappiate ch'io fui eletto non tra l'angustia delle stanze ma nel largo aperto dei campi, nè fui chiamato tra i sussurati colloquî de' blandienti ma tra lo squillar delle trombe, affinché il popol gotico concitato da quel fremere nel desiderio dell'ingenito valore, si trovasse un re guerriero. E quanto mai tempo uomini forti e nutriti nel fervor delle guerre avrebbero potuto tollerare un principe non provato di cui fosse dubbia la fama, anche s'ei presumesse del valor suo? Imperocché, come avrete udito, io chiamato nel pericolo dei parenti Goti ero accorso a portar cogli altri la fortuna comune, ma e' non si contentarono d'avermi a condottiero desiderosi com'erano d'un re sperimentato. Per la qual cosa, prima nella grazia d'Iddio poi compiacetevi nel giudizio dei Goti, perché tutti mi fate re voi che unanimi rivolgete in me i voti. Deponete oramai ogni timore di danni, ogni sospetto di spese; non temete nulla d'aspro sotto di noi. Noi trattando così spesso la guerra imparammo ad amare i forti. S'aggiunga ch'io son testimonio a ciascuna delle prodezze vostre, nè v'occorre che altri mi narri le vostre gesta perch'io le conobbi tutte, socio con voi nelle imprese. L'armi dei Goti mai non si frangeranno pel mutar delle mie promesse. Ad utilità del popolo si rivolgerà ogni atto nostro nè trascureremo i privati. Promettiam di compiere quel che orni il nome di re. Da ultimo promettiamo [17] di far che l'imperio nostro sia tale quale ponno aspettarselo i Goti dopo l'inclito Teodorico, uomo così singolarmente e mirabilmente adatto alle cure del regno, che ben può ogni principe esser tenuto insigne a seconda ch'ei mostra d'amare i precetti di lui. Pertanto dovrà esser creduto parente suo chiunque potrà imitarne le imprese, e perciò siate solleciti per la utilità del regno nostro e sicuri dello stato interno se Iddio ci aiuti.»[16]
Questa ed un'altra inviata da Vitige a Giustiniano per annunziargli la sua elezione ed esortarlo a pace senza mostrar timore di guerra, sono le due ultime lettere importanti che si leggono nella raccolta di Cassiodoro, e parrebbe notevole segno dei tempi il non trovarsene alcuna diretta al Senato Romano. Non è ben noto in quale momento Cassiodoro lasciasse la vita pubblica, ma è opinione comune ch'egli se ne ritraesse alla chiusa del regno di Vitige dopo la prima grande disfatta dei Goti. A me dall'improvviso interrompersi delle sue lettere, dal non trovar menzione di lui nelle storie di Procopio e dalle nuove decise tendenze sorte col cadere degli Amali, pare invece probabile ch'egli cessasse anche prima, stanco alla fine e perduta ogni fede in un accordo tra Romani e Goti più che mai necessario in quell'ora suprema alla salute del regno. Ad ogni modo verso l'anno 540 aveva abbandonato le cure del mondo. Ritiratosi presso Squillace, fondò il Monastero Vivariense e vi condusse la rimanente vita in quieta solitudine tra [18] lavori letterarî e pie contemplazioni. Quivi oltre le opere storiche già composte da lui raccolse e fece tradurre una storia della Chiesa[17], e nel novantesimo terzo anno di sua età compose un trattato sull'ortografia per ammaestramento dei suoi monaci ai quali aveva imposto l'obbligo di copiar libri. In quale anno egli morisse è incerto, ma forse la vita sua si prolungò fino alla invasione dei Longobardi e si chiuse tra le calamità di una oppressione ch'egli aveva indarno tentato di stornar dalla patria favorendo la fondazione di un regno goto-romano[18].
Allo scopo di Cassiodoro mirava anche il compendiatore della sua storia Giordane escito da nobilissima famiglia gotica stretta di parentela cogli Amali. L'avo suo Paria era stato notaio in Mesia e cancelliere di Candac re degli Alani, e prima d'abbracciare la vita ecclesiastica fu egli stesso notaio presso il [19] nipote di Candac, Guntige o Baza. Scrittore spesso ricercato e sentenzioso come Cassiodoro, e come lui smodato lodatore dei Goti, egli è del pari dominato dallo stesso pensiero. Dimostra lo Stahlberg e lo ripete il Wattenbach, com'egli riconoscesse in quel pensiero ogni speranza per l'avvenire di sua nazione. Perciò Giordane non pure s'astenne dal prender parte nella lotta che seguì tra i Goti e l'Impero, ma parve piuttosto propendere verso i Greci che verso i suoi connazionali. La stessa sua parentela cogli Amali e le tradizioni di Teodorico che pure serbandosi indipendente s'era mostrato ossequioso all'Impero ed amico ai Romani, schieravano Giordane in un partito contrario alle idee prevalenti allora tra i Goti e che mal s'acconciava alla caduta degli Amali e al distacco dei Goti dai Romani. Di che si chiarisce come nel suo lavoro egli faccia appena menzione di Totila che doveva parergli quasi un usurpatore. Del resto egli [20] non scrisse in Italia i libri suoi, ma a Costantinopoli e, come il Mommsen dimostra, intorno all'anno 551. Ciò spiegherebbe per qual ragione egli scrivendo non avesse innanzi a sé l'opera di Cassiodoro, ma la compendiasse di memoria aggiungendovi alquanto di suo circa agli eventi contemporanei[19]. Ma poiché di questi ei tratta assai brevemente e degli anteriori la narrazione sua è confusa molto e disordinata, ne segue che il valor del suo libro come fonte di storia italiana è scarso più della fama sua. Un altro libro di Giordane che vien chiamato De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum, è compilazione anch'essa di poco pregio[20]. Già il Wattenbach ha [21] notato come la caratteristica principale di Giordane stia nel suo concetto storico secondo il quale l'impero romano legato attraverso i secoli alle generazioni del Vecchio Testamento è destinato a perpetuarsi nel tempo fino alla fine del mondo. A me più che per questa romana universalità di vedute, sembra essere particolarmente notevole in quanto egli ci rappresenta tutto un partito gotico che, per convincimento o per interesse, voleva accomunarsi ai Romani e si sforzava di creare una nazionalità mista dei due popoli riuniti[21].
[22]
Ma le forze di questo partito erano frante oramai e ogni legame tra Romani e Goti era sciolto. Giustiniano frattanto, uscite vane le pratiche per ricuperare pacificamente l'Italia, s'apprestava a riconquistarla colle armi. Belisario, già famoso per le guerre vinte contro i Vandali in Affrica, era stato spedito in Italia, e, regnando ancora Teodato (A. D. 535-536), erasi impadronito della Sicilia e di Napoli. Vitige fatto re appena, non sentendosi forse in forza da resistere al primo urto di Belisario, indietreggiò fino a Ravenna, e il bizantino mettendo a profitto quella mossa, rapido s'impadronì di Roma. Qui veramente incomincia il periodo eroico di questa guerra, una fra le più memorabili che sieno state mai combattute. Vitige raccolte tutte le forze gotiche, con largo esercito mosse da Ravenna a Roma e vi pose assedio. La costanza e il genio militare di Belisario tennero contro lo sforzo, e dopo accanite lotte e patimenti indicibili di fame e di peste, Roma fu sollevata da quel primo assedio e la forza dell'esercito goto in gran parte esaurita. Ma la guerra continuò in tutta Italia. In ogni luogo combattimenti e assedi di città prese e riprese, da Milano infin presso a Roma le campagne devastate, le messi distrutte, e per una gran parte d'Italia una dolorosa fame che menò strage tra il popolo (A. D. 537-538). Il combattere seguitava e i suoi mali con esso, quando un esercito di Franchi valutato a circa centomila uomini calò dalle Alpi improvviso come un nuvolo di locuste, e spargendo intorno devastazione, incendio e rapina, corse un largo tratto della penisola e se ne tornò indietro per la Liguria [23] carico di preda. Di lì a poco Ravenna stretta dai Greci arrendevasi, e Belisario con Vitige prigioniero tornava a Costantinopoli rifiutando il regno d'Italia che gli era offerto dai Goti (A. D. 540). Questi allora si scelsero prima Ildibaldo poi Erarico uccisi ambidue entro pochi mesi. A loro succedette un eroe, Totila, il quale radunati quanti rimanevano Goti e riordinatili, mentre i capitani greci discordavan fra loro riuscì in breve a ricuperare quasi tutta Italia tranne Ravenna e Roma (A. D. 542). Belisario mandato di nuovo in Italia non poté come avrebbe voluto soccorrer subito Roma cinta strettamente dai Goti, e poi più tardi con inauditi sforzi lo tentò invano. Roma resse a lungo in preda alla fame, ad ogni sorta d'angoscia, ma finalmente cadde in mano di Totila. Poiché se ne fu impadronito il re dei Goti, forse perché non avrebbe potuto reggersi dentro la vasta cinta della città, ne smantellò le mura, ne cacciò fuori i cittadini, e abbandonandola la lasciò vuota e deserta; poi mosse verso il mezzogiorno. Belisario la rioccupò subito, e pur così diroccata seppe difenderla da ripetuti assalti intanto che la guerra continuava sparsamente per tutta Italia (A. D. 547). Più tardi per intrighi di palazzo richiamato Belisario a Costantinopoli, le cose d'Italia scesero di nuovo alla peggio pei Greci. Totila poté rifar sua Roma e spingersi fino in Sicilia ad occuparla, mentre i Franchi giovandosi della debolezza dei Greci e dei Goti, calati di nuovo si stendevano devastando nel Veneto e nella Liguria (A. D. 548-552). Narsete eletto capitano alla guerra d'Italia rialzò le sorti dei Greci, [24] i quali vinta prima una battaglia navale nell'Adriatico liberarono Ancona assediata. Poi ricuperata Corsica, Sardegna e Sicilia, seguitarono combattendo e vagando per tutta Italia, finché raccoltisi i due eserciti nemici un contro l'altro presso Tagina nell'Umbria[22], i Goti dopo una ostinata battaglia furono disfatti e Totila ucciso (A. D. 552). All'eroe caduto i Goti sostituirono un altro eroe e s'elessero in re Teia a Pavia, mentre i Greci compievano nel mezzogiorno altre imprese, ricuperavano Roma e assediavano Cuma dove Aligerno fratello di Totila difendeva il riposto tesoro dei Goti. Il nuovo re Teia con le ultime reliquie dell'esercito percorrendo quasi tutta l'Italia arrivò fino a Nocera alle falde del Vesuvio. Quivi ebbe luogo l'ultima decisiva battaglia nella quale i Goti soggiacquero per sempre, e Teia trovò una morte degna di rinomanza imperitura.
Di questa maravigliosa epopea non ci sarebbe rimasto quasi nessun ricordo contemporaneo se per buona sorte non ce l'avesse narrata Procopio lo storico il quale seguì Belisario e gli fu compagno nelle sue guerre. Perciò ho voluto richiamarla alla memoria dei miei lettori prima di farmi a parlar di lui e dei particolari del suo lavoro.
[25]
Da Cesarea in Palestina dov'egli sortì i natali, Procopio ai tempi dell'imperatore Anastasio venne a Bizanzio e per le molte doti dell'ingegno e della dottrina presto seppe aprirsi innanzi una via. Giustino I seniore, in un momento arduo per l'Impero, mentre i Persiani prevalevano in guerra, pose Procopio come consigliere presso Belisario. Con lui rimase anche più tardi ai tempi di Giustiniano, e nelle guerre d'Affrica e d'Italia meritò bene dello Stato in vari uffici e fu di molto aiuto al grande capitano imperiale. Richiamato Belisario dall'Affrica soggiogata, Procopio si trattenne qualche tempo col successore di lui Solomone, e si die' con prudente energia a rassodare l'autorità dell'Impero mal ferma ancora in quelle regioni così rapidamente piegate. Egli stesso ci ha lasciato memoria di ciò che compì in Persia, e più tardi a Roma, a Napoli, a Siracusa, nè veramente gli si può far mai rimprovero di soverchia baldanza in parlar di sé stesso. L'operosità sua non restò senza premio, e prima ascritto al Senato, salì alla Prefettura Urbana nel trentacinquesimo anno dell'Impero di Giustiniano. Intorno a quel tempo avea già composte le sue storie e divulgatele tutte tranne un ultimo libro che fu chiamata Anecdota ed è noto universalmente col titolo di Historia Arcana[23]. [26] In quest'ultimo libro scritto ma non pubblicato innanzi alla morte di Giustiniano, ei rivelò molti intrighi di palazzo che mettono in mala luce la corte imperiale. Contro Giustiniano e sua moglie Teodora salita dai giuochi del Circo alla maestà dell'impero, si volge specialmente velenosa la Historia Arcana, la quale per essere tortuosa rivelatrice di vizî taciuti nei libri anteriori, ha messo in qualche sospetto la veracità di Procopio. Ma oltreché l'impero di Giustiniano ebbe varia luce di virtù e di colpe tanto da potersene fare descrizioni diverse insieme e veraci, non è di questo luogo esaminar la giustezza delle accuse che la critica ha mosse a Procopio, nè la bontà delle difese. Io qui, tralasciando la Historia Arcana che non riguarda molto direttamente l'Italia, e la narrazione delle guerre condotte da Belisario in Affrica e in Persia, debbo trattar solo di quella parte delle sue storie che propriamente si riferisce alla guerra gotica. Il valore della testimonianza sua intorno a questa guerra è doppio, e per la parte ch'ei v'ebbe a fianco del condottiero supremo, e per la grande imparzialità che dimostra inverso i Goti ai quali non nega una ammirazione sincera e onorevole[24]. Testimonio di vista, egli non pure descrive vivido le imprese di quei diciotto anni di guerra, [27] ma anche raffigura i mali lunghi che ne derivarono, onde è agevole immaginar dal suo libro lo stato d'Italia alla fine di quel contrasto, e come rimanesse smunta di forze e prostrata in un letargo mortale. Scrittor greco d'una età di decadenza, apparisce chiaro ch'egli ha scritto il suo libro a Bizanzio e non in Atene, e così il suo stile come la sua lingua cedendo alla povertà dei tempi, rimangono assai lontani dalla severa purità degli antichi. Tuttavia non gli manca vigore nè colorito, si sente in lui lo studio dei maestri antichi[25], e il suo libro superiore di molto all'arte latina contemporanea, in paragone cogli scritti di Cassiodoro è un modello. Quando egli narra la fame che desolò tutta Italia e le malattie che ne seguirono e falciaron via un infinito numero di vite, trova a dipingerla una evidenza di colori fosca terribile paurosa, quale occorreva a ritrar que' famelici vaganti per cibo in cerca di cadaveri. La brevità stessa colla quale racconta di cinquantamila agricoltori morti nel solo Piceno e dei molti più morti oltre il seno Jonico, rende più efficaci i suoi detti e ne cresce la pietà e lo sgomento. Basterebbe quel cenno a farci intravvedere [28] quanto per quella guerra restasse disertata l'Italia, ma non è il solo purtroppo. Quasi ogni pagina narra nuove miserie, descrive nuovi dolori, e ne sia esempio la descrizione seguente di un'altra fame che cruciò Roma in uno dei frequenti assedî sostenuti in quegli anni:
«Frattanto continuando e aumentandosi, la fame si mutò in grande miseria e suggerì strane maniere di cibi ripugnanti a natura. E anzitutto Bessa e Conone, i quali eran capi del presidio di Roma e avevano abbondanza di frumento raccolta ne' granai entro le mura della città, e i soldati risparmiandone dal vitto loro, ne vendevano per molto danaro ai ricchi romani, ché sette monete d'oro erano il prezzo d'un moggio. Ma coloro che non avevan modo di spender tanto pel cibo, pagavano il quarto di tal prezzo per un moggio di crusca, e necessità la faceva parer loro dolcissima e squisita. E un bove che gli scudieri di Bessa prendessero in una sortita, era venduto ai Romani per cinquanta monete d'oro. E ogni Romano che avesse un cavallo morto o qualcosa di simile, bene era stimato felice ch'ei poteva sfamarsi nella carne della morta bestia. Ma tutto il rimanente popolo si pasceva solo d'ortiche le quali crescono abbondanti d'ogni intorno tra le mura e le ruine della città. E affinchè la ruvidezza della pianta non pungesse loro le labbra e la gola, ei le bollivano bene prima di mangiarle. Pertanto finché i Romani ebbero oro e' lo barattarono come s'è detto in grano e in crusca, ma finito l'oro traevano al mercato le lor masserizie e le barattavano [29] nel cibo d'ogni giorno. E finalmente, quando nè i soldati dell'Imperatore avean più grano da vendere, appena rimanendone alquanto per Bessa, nè ai Romani era più nulla lasciato da offrire in cambio, tutti ebbero ricorso alle ortiche. Ma poiché questo cibo non era sufficiente e neppure ne avevano tanto quanto avrebber potuto mangiarne, i corpi loro man mano s'estenuavano, e il colorito loro presto divenendo livido li faceva in tutto parer simili a spettri. E molti mentre camminavano e ancor masticavano fra i denti le ortiche, cadean di botto morti in terra. E molti altri spinti dalla fame, uccidevansi quando non potevano più trovar cani o sorci nè cadaveri d'animali onde cibarsi. E fuvvi un Romano, padre a cinque figliuoli i quali lo circondavano e gli s'attaccavano alle vesti implorando cibo. Ma egli senza piangere e senza mostrare la sua confusione, con gran forza d'animo celando la sua miseria comandò ai figli che lo seguissero come s'ei volesse procurar loro il cibo. E quando fu al ponte sul Tevere, avvoltasi nel manto la faccia e copertisi gli occhi con esso, lanciossi nel Tevere in vista dei figliuoli e di tutti i Romani ch'eran presenti. Dopo ciò i governatori imperiali, estorta maggior moneta, diedero a quanti Romani piaceva, licenza di fuggirsene dove volevano. Così, pochi soltanto rimanendo indietro, tutti gli altri usciron fuori a gran fretta per dove potevano. E molti di loro morirono in lor via per mare e per terra essendo ogni loro forza esaurita dalla fame. E molti furono presi dal nemico e uccisi. [30] A tale fortuna s'erano ridotti il Senato e il popolo di Roma!»[26]
La cupidigia sordida atroce di Bessa e Conone, rivelata qui dallo scrittor greco è altrove rimproverata con fierezza acerba. Per contrario di fronte a questa viltà dei Greci si trova contrapposta la condotta del diacono Pelagio che poi fu papa, il quale si volse con dignitose preghiere al vincitore Totila chiedendo che i Goti risparmiassero le vite dei Romani contro i quali essi entrati appena nella città incominciavano ad incrudelire. Totila si mostrò benigno alla domanda ma s'impadronì egli stesso e i suoi Goti delle ricchezze rimaste. Per tal modo i male accumulati tesori di Bessa caddero in mano del goto principe e tutte le case patrizie furono spogliate. «E così,» continua Procopio, «accadde agli altri Romani e senatori, e più specialmente a Rusticiana moglie di Boezio e figliuola di Simmaco la quale avea sempre dato tutto il suo ai poveri, tanto ch'essi dovevano andare accattando dai lor nemici il pane e ogni cosa necessaria al vivere, in veste di schiavi o di contadini. Imperocché essi andavano picchiando di porta in porta mendicando il cibo nè ciò teneano a vergogna. E i Goti instavano che Rusticiana fosse messa a morte accusandola d'aver pagato romani ufficiali affinché distruggessero le statue di Teodorico per vendicar l'uccisione del padre Simmaco e del marito Boezio. Ma Totila non concesse che le si facesse ingiuria e salvò da oltraggio lei e tutte l'altre [31] donne, della qual temperanza ei ricevette gran lode.»
Mentre Procopio in questo episodio commovente tributa onore a Totila e alle ultime reliquie del patriziato romano, ci dà prova insieme di possedere una grande serenità di giudizio e quella qualità eccellente in uno storico del saper cogliere la vera luce dei fatti ed esporli in guisa che dal complesso loro appariscano le condizioni generali dei tempi descritti. Del resto le migliori qualità sue di scrittore mi par che si mostrino tutte in questa descrizione dell'estrema battaglia combattuta tra Bizantini e Goti, colla quale Procopio conclude la sua narrazione:
«A pie' del monte Vesuvio sono sorgenti di pura acqua e ne deriva un fiume chiamato Draco (Sarno) che passa assai prossimo alla città di Nocera, e i due eserciti s'erano accampati a' due lati del fiume. Ma il Draco ancorché contenga poca acqua, non può guadarsi da cavalieri nè da fanti perché stringe il suo letto in breve spazio e solca d'ambo i lati la terra a molta profondità talché le sponde divengono ripide molto. Se ciò avvenga per la qualità del suolo o dell'acqua io non so. E i Goti occupato il ponte e accampativisi presso, posero in quello torri di legno e macchine diverse, e tra esse quella che chiamano balista, per modo ch'essi potevano dall'alto ferire e tormentar l'inimico. Imperocché, come ho detto, per cagion del fiume che si frapponeva, era impossibile combatter petto a petto e per lo più ciascuna parte attaccava l'altra con missili avvicinandosi per quanto poteva sulla [32] sua sponda. Pochi certami singolari avean luogo quando qualche Goto varcava il ponte recando una sfida. E così i due eserciti passarono lo spazio di due mesi. Ma quinci i Goti eran padroni del mare presso a cui s'accampavano, e potevan reggere finché le lor navi recavan per essi le provviste occorrenti. Poi i Romani[27] preser le navi nemiche per tradimento del Goto che comandava l'armata, ed anche navi innumerevoli da Sicilia e dal rimanente Impero vennero a loro soccorso. Nel tempo stesso Narsete ponendo torri di legno sulla sponda del fiume riuscì interamente ad abbatter l'animo dei suoi avversari. I Goti scorati e stretti dal difetto di cibo si rifugiarono ad una montagna vicina chiamata dai Romani in latino Mons Lactarius. Quivi non potevano inseguirli i Romani per cagione del cattivo terreno. Ma presto i barbari incominciarono a pentirsi d'esserci andati ché le provviste si fecero anche più scarse tanto che in nessun modo potevano più mantener sé stessi e i cavalli loro. Di che, stimando meglio accettevole morire in ordine di battaglia che per lenta fame, calaron giù quando il nemico men li aspettava facendo contro esso impeto improvviso. I Romani li fronteggiarono così com'erano senza ordinarsi secondo lor capitani, o compagnie, o posizioni, nè collocarsi in alcuna maniera d'ordine tra loro, ma difendendosi contro il nemico ciascuno come gli [33] accadde trovarsi. Allora i Goti lasciati i cavalli composero una profonda falange tutti colla faccia rivolta al nemico e anch'essi i Romani vedendo questo lasciarono i cavalli e tutti si strinsero insieme nello stesso ordine.
«E qui io narrerò una battaglia assai memorabile per sé stessa e per la chiara virtù spiegata da Teia che non si mostrò minore ad alcuno di quelli a cui diamo nome d'eroi. E il disperato partito a cui erano ridotti i Goti accresceva in essi prodezza, mentre i Romani li confrontavano con ogni possa vergognosi di cedere a coloro che già eran vinti, sicché d'ambe parti s'attaccavano i più vicini nemici, gli uni cercando la morte gli altri la gloria. E cominciando la battaglia per tempo al mattino, Teia riparato dallo scudo e imbrandita la lancia stava in luogo cospicuo innanzi alla falange. Quando i Romani lo videro, pensarono che s'egli cedesse sarebbe più facile romper tutta la linea di battaglia, onde quanti pretendevano d'aver coraggio, ed eran molti, s'adunarono insieme contro di lui, alquanti appuntando in lui le lancie altri scagliandogliele addosso. Ma egli celato dallo scudo, in questo riceveva i dardi e poi a un tratto gettandosi sui nemici, molti ne uccideva. E quando vedeva che lo scudo era carico di dardi, ei lo dava ad uno de' suoi scudieri e prendevane un altro. Così continuò a combattere per una terza parte del giorno, quando essendo il suo scudo trapassato da dodici dardi ei non poteva più muoverlo a posta sua nè respingere i suoi assalitori. Ma egli soltanto chiamò [34] in fretta uno dei suoi scudieri, senza lasciar suo posto o dare indietro un pollice o lasciare il nemico avanzarsi, e senza rivolgersi o coprirsi le spalle con lo scudo o mettersi da lato; ma egli stava con lo scudo come piantato in terra, menando colpi mortali colla destra, tenendo tutti a distanza colla manca, e chiamando per nome il suo scudiero. E allorché questi gli portò lo scudo, ei subito lo cambiò con quel che aveva greve per gl'infissi dardi. In quella avvenne che gli rimase il petto scoperto un momento e un giavellotto colselo e l'uccise di colpo. E alcuni Romani infissero una picca al capo suo e questo portarono attorno mostrandolo ai due eserciti; ai Romani per incorarli, ai Goti affinché, sparita ogni speranza, cessassero la guerra. Pure nemmen per questo i Goti lasciarono il combattere, ancora che per certo sapessero ch'era morto il re loro. Ma quando fu scuro, gli uni e gli altri separandosi passaron la notte entro l'arme, e sorgendo presto il mattino appresso venner fuori di nuovo nell'ordine medesimo e combatterono fino a notte, gli uni non cedendo agli altri nè rivolgendosi o lasciando presa un momento, avvegnaché molti restassero morti d'ambo i lati, ma ostinandosi nel contrasto e infuriati a vicenda. Imperocché i Goti bene sapevano di combattere la battaglia suprema e i Romani stimavano troppo da meno di loro l'essere vinti. Da ultimo i barbari spedirono alcuni di lor capi a Narsete dicendo d'essere omai persuasi ch'eglino contendevano con Dio perché sentivano che il poter suo stava contr'essi. Perciò [35] considerando questa verità al paragone di quanto era accaduto, desideravano mutar d'avviso e cessare la lotta non già per obbedire all'imperatore ma per vivere liberamente con altri barbari. E chiesero che i Romani li lasciassero ritirarsi in pace e non contrastassero a loro un trattamento ragionevole, ma concedessero loro come mantenimento pel viaggio tutta la moneta ch'essi tenevan raccolta in lor castella in Italia. E mentre Narsete stava deliberando, Giovanni figlio di Vitaliano lo consigliò di acconsentire alla domanda, e che non era da seguitare a combatter con uomini disposti a morire, nè porre più oltre a prova una virtù che veniva da disperazione e del pari era funesta a chi la mostrava e a chi l'opponeva. ‘Imperocché, egli disse, all'uom saggio dovrebbe bastare il vincere, e il voler troppo rischia d'essere in pregiudizio d'ambe le parti’. Questo consiglio piacque a Narsete, e combinarono che quanti rimanevano dei barbari, raccolti i lor beni tosto se n'andassero fuori d'Italia, e per nessuna ragione combattessero più contro i Romani. Frattanto circa mille dei Goti, lasciato il campo s'erano recati alla città di Pavia e alle contrade di là dal Po; e quell'Indulfo che abbiam già menzionato era tra coloro che li conducevano. Ma tutti gli altri confermarono per giuramento quanto s'era combinato. Così i Romani presero Cuma e tutti gli altri luoghi, e questo fu il termine del decimottavo anno della guerra coi Goti che fu scritta da Procopio.»
In Cassiodoro e Procopio si riassume tutta la storia [36] di questa età, ma v'hanno insieme alcuni scrittori minori degni di menzione. Agatia continuò, anch'egli in greco, la storia di Procopio narrando le imprese di Narsete, e può essere consultato con frutto circa le ultime vicende della guerra gotica dopo la morte di Teia[28]. Un'arida cronaca latina è quella di Marcellino Conte, la quale dai tempi di Teodosio va fino a quelli di Giustiniano (A. D. 379-558), ma pur malgrado l'aridità sua ha valore specialmente per la cronologia di alcuni fatti. Lo stesso può dirsi per la cronaca di Mario Aventicense[29]. Assai superiore a costoro per interesse e per pregio è Magno Felice Ennodio vescovo di Pavia. Di stirpe indubbiamente gallo-romana e nobile, nacque per quanto pare a Pavia e certo v'ebbe dimora fanciullo. Fu legato di parentela e d'amicizia coi primi uomini del suo tempo e più segnalati per sapere e per nascita. Ebbe moglie ed un figlio, ma più tardi egli e la sposa lasciato il secolo si consacrarono alla Chiesa. Nominato diacono, Ennodio rimase lungamente in tal grado finché fu chiamato alla dignità di vescovo di Pavia dove morì verso il 521. Godè riputazione grande come retore a' suoi tempi, e scrisse in nome suo e d'altrui moltissime orazioni, lettere ed epitaffi per cui fu celebrato largamente. Ma la fama maggiore gli venne da un panegirico di Teodorico e da un libro apologetico [37] in favore di papa Simmaco. Il panegirico fu scritto nei primi anni del sesto secolo. Non è ben certo in quale città fosse recitato a Teodorico, e taluno reca valide ragioni per credere che esso non sia stato recitato mai[30]. È scrittura di pessimo gusto, abbondante in tutti i difetti dello stile di Cassiodoro, scarsa nei pregi. La povertà di migliori documenti le dà qualche importanza storica ma non certo paragonabile alla importanza delle sue lettere e della vita di Santo Epifanio vescovo di Pavia. Le lettere dirette quasi sempre a personaggi cospicui, contengono molte notizie preziose per gli studiosi del secolo quinto e del sesto. La vita di Santo Epifanio poi non pure dipinge l'accesa carità d'un santo tutto rivolto a riscattar coloro che i barbari nelle loro incursioni trascinavano schiavi fuor della patria, ma è una pittura viva della torbida età che precedette immediatamente i tempi gotici, torbidi anch'essi e sovra i quali purtroppo incombono oramai tempi di maggior dolore[31].
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Calamitose condizioni d'Italia nel primo periodo della invasione longobarda — Gregorio il Grande. Raccolta delle sue lettere. Altissima importanza di esse per la storia d'Italia. I libri dei Dialoghi — Editto di Rotari — La «Origo Langobardorum» e scritti minori fino a Paolo Diacono — Vita di Paolo Diacono, sue opere e specialmente sua storia dei Longobardi.
Caduto il regno dei Goti, l'Italia non fu affrancata. Belisario e Narsete colle loro imprese erano bastati a spezzar le armi gotiche ma non potevano erigere un baluardo sicuro dagli assalti nuovi. L'Impero in Occidente era davvero sfasciato e i suoi legami coll'Oriente gli erano inevitabile cagion di rovina. La corte di Bizanzio fiacca per corruzione non era sufficiente a sé stessa e sciupava le forze d'Italia col suo dominio non nazionale e non abbastanza straniero. Da ciò la rovina d'Italia. Se, come già si è venuto dicendo, il concetto di Cassiodoro avesse potuto avverarsi e il popol goto fondersi nelle stirpi latine, forse un vero regno italico sarebbe sorto capace di contrastare da un lato alle nuove immigrazioni barbariche, dall'altro alle sordide pretese dei Bizantini. Assicurata così per quanto comportavano i tempi una specie di nazionalità italica, forse la civiltà [40] romana non sarebbe rimasta soffocata per tanto andare di secoli, e i giorni della rinascenza si sarebbero maturati prima e con minore stento. Se non che guida le vicissitudini umane una legge storica profonda come ogni decreto della Provvidenza e non facilmente scrutabile, e l'umanità attraversando tanto dolore ha forse invece affrettato il suo cammino. Ma se il rimpianto è vano, mal sa guardarsene chi s'affaccia a riconsiderar nella mente gl'immensi mali che sovrastavano in quell'ora all'alma parente delle nazioni moderne.
Il primo invadere e stabilirsi dei Longobardi in Italia segna il periodo più infausto della storia medioevale italiana. Venuti dalla Pannonia, sotto la guida d'un re prode e feroce, Alboino, i Longobardi scesero in Italia alcuni anni dopo l'ultima disfatta dei Goti. Trovarono poca resistenza. A Narsete era succeduto un dappoco, Longino, e le città abbandonate a sé stesse si difesero come poterono. In breve giro di tempo la dominazione loro incominciata nel Friuli si distese per una gran parte d'Italia. Diversi di religione perché altri d'essi erano ariani, altri idolatri ancora, i Longobardi vivevano ferocemente e ferocemente operavano verso i conquistati. Le rapine e le stragi, spargevano intorno squallore e desolazione echeggiate nel lamento che prorompeva dal cuore di papa Pelagio II quando in una lettera ad Aunacario vescovo di Auxerre, esclamava: «E perché non gemete in vedere sparso dinanzi agli occhi nostri tanto sangue d'innocenti, e profanati i sacri altari, e fatto insulto dagli idolatri alla fede cattolica?» [41] Le condizioni giuridiche degli Italiani sotto i nuovi conquistatori furono durissime per tutto il tempo della loro dominazione che si mantenne due secoli finché fu abbattuta da Carlomagno. L'antica civiltà già scadente patì un ultimo colpo e fu gran pena se potè serbare qualche povero frammento di vita e la tradizione del gran nome di Roma.
E in Roma veramente giaceva il seme della redenzione futura. In quell'ora di dolore Roma si maturava ad una grande trasformazione, e l'antica dominatrice scaduta dalla primitiva grandezza e coi barbari alle porte, s'apparecchiava ad esercitare una influenza nuova e non meno vasta sul mondo. Mentre l'Italia era lacerata dal mal governo dei Bizantini di Ravenna e dalle devastazioni dei Longobardi, un uomo di genio, Gregorio il Grande, dalla cattedra di Pietro sorgeva a difendere l'Italia, e girando lontano lo sguardo, quasi inconscio e per istinto di romana grandezza poneva le fondamenta alla supremazia universale della Chiesa. Certo niun uomo poteva nascer temprato meglio di lui a condurre un rivolgimento così tenace e durevole, così riccamente fecondo d'eventi nella storia futura. «A pochi altri uomini,» ha scritto di recente uno storico, «natura e fortuna si fecero incontro con più benigna concordia, ma pochi uomini anche più solleciti di quello in spender bene i lor doni e cavarne il più largo frutto e farne ricco patrimonio altrui. Rampollo di illustre stirpe patrizia (si crede che fosse della gente Anicia; suo padre era il senatore Gordiano, tra gli antenati contava un papa, Felice IV) insieme col [42] censo cospicuo de' maggiori ne aveva ereditate le tempre robuste e l'assennatezza. La gravità del romano e l'ardore del cristiano si unirono in Gregorio come in nessun altro pontefice prima e dopo di lui.»[32]
Un uomo siffatto, mescolato com'era a quanto di notevole accadeva nel mondo, di necessità doveva riflettere l'età sua in quante scritture gli sgorgavano dalla penna feconda, onde talune di queste, intese allora a tutt'altro scopo, hanno oggi un valore storico altissimo che s'accresce per la gran povertà di ricordi contemporanei. Nato verso il 540, mentre Belisario contrastava ai Goti il dominio d'Italia, Gregorio studiò a Roma grammatica, rettorica, filosofia e diritto[33]. Giovanissimo ancora era salito alla dignità di Pretore o di Prefetto in Roma, ma le cure politiche non bastavano a distoglier lui uomo insieme di azione e di pensiero, dalle pie opere e dalle abitudini contemplative. Mosso da quella forza infaticabile che non gli fallì mai nella vita, egli dietro la guida d'Ambrogio e d'Agostino, fonti limpide e profonde com'ei le chiamava, intendeva la mente alla teologia e intanto volgeva le vaste ricchezze sue a fondare sei monasteri in Sicilia e un settimo a Roma al Clivo di Scauro là sul Celio, dove oggi ancora sorge una Chiesa che s'intitola dal suo nome. In [43] questo monastero egli si chiuse alquanto più tardi a vita austera abbandonando la cosa pubblica, ma da questa non gli fu dato sottrarsi gran tratto. L'illustre casato e la potenza dell'ingegno suo non erano tali da lasciarlo rimaner nell'oscuro. Il pontefice Benedetto l'ordinò diacono per affidargli una delle sette regioni di Roma, e Pelagio secondo lo mandò come apocrisario a trattar gli affari della Chiesa a Costantinopoli. Quivi durante l'ambasceria acquistò credito presso l'Imperatore, e salì in tale riputazione, che al suo ritorno in Roma, morto nel 590 papa Pelagio, i Romani con voto unanime lo chiamarono a succedergli. La sua resistenza e la tentata fuga da Roma non valsero a salvarlo dal peso di quella gran dignità. Il volere del popolo e del clero di Roma ebbe a Costantinopoli la sanzione imperiale, e gli fu forza rassegnarsi ed accettare un incarico che tanto più lo sgomentava quanto al suo genio e al suo cuore ne apparivano più vasto il concetto e più tremendi i doveri. I tempi calamitosi imponevano all'alto ministero sempre nuove fatiche e suggerivano sempre nuovi pensieri, ma la sua mente anelando al cielo ritornava ogni ora al ricordo della pace perduta e richiamava con tenerezza infinita la solitudine del monastero. «Il dolore ch'io soffro continuamente, ormai per uso è antico ed è pur sempre nuovo. L'anima mia angustiata ricorda quale era un tempo nel monastero, e come ella sovrastava alle cose fugaci, e pensando solo delle celesti per virtù di contemplazione trapassava oramai il claustro della carne e la morte divenivale cara come principio di vita e premio dell'opera, [44] sua.»[34] Con tale rimpianto egli apriva un giorno l'angosciata anima ad un amico che lo aveva sorpreso sedente in luogo solitario, a meditare in silenzio il suo dolore. Ma nè le tendenze ascetiche dello spirito nè le infermità che lo travagliavano ebbero forza di stornarlo dagli obblighi dell'ufficio suo. Un cuore romano gli batteva nel romano petto, ed ei ne seguiva i dettami con fermezza d'antico. La mente sua larga come il suo zelo spandeva in ogni plaga le cure benefiche, e per esse ei diveniva centro a popoli diversi e guida ad una nuova civiltà ignota ancora ma nascente per impulso di lui. Or tutte queste cure continue e varie, animate da una carità così intensa e così comprensiva, originarono tra gli altri suoi scritti uno stupendo volume di lettere che attestano la sublimità di sua vita e sono insieme il maggiore monumento storico dell'età sua. Divise in quattordici libri secondo gli anni del suo pontificato[35], [45] e scritte ad ogni ceto di persone, queste lettere spiegano mirabilmente le condizioni dei tempi gregoriani e riflettendo l'immagine della vita d'allora mantengono o confermano il ricordo di fatti ignoti o mal noti. Semplici e prive d'ogni ornamento, ciascuna d'esse rivela la ispirazione momentanea per cui fu dettata, ma dal loro complesso si ricava il lungo e continuo pensiero dello scrittore. Lo stile dei profeti ai quali ispiravasi nelle altre opere sue, non veniva innanzi a Gregorio quando esprimeva caldamente e improvviso i pensieri suoi senza scopo letterario e stretto quasi sempre da motivi immediati e incalzanti. Perciò lo stile delle sue lettere scevro da mistica ampollosità procede piano e scorrevole ricordando talora la semplice e dignitosa latinità di tempi migliori[36]. I soggetti d'esse svariatissimi trattano ogni [46] materia dalle più ardue questioni religiose e politiche alla minuta amministrazione dei beni della Chiesa, dalla ansiosa cura delle singole anime al patetico familiare racconto dei suoi lunghi e quasi continui patimenti morali e fisici[37]. Ma il riferire alcuna di queste lettere gioverà meglio d'ogni discorso a descriverne l'importanza e a dipingere lo squallore che ravvolgeva allora la storia nostra. Così la lettera seguente indirizzata all'imperatrice Costantina per ottenere alleviamento ai mali che gravavano sulla Corsica e la Sardegna, mostra qual fosse il governo dei Greci e come stesse l'Italia a strazio tra le due tirannidi dei nuovi e degli antichi oppressori.
«Posciaché» egli scrive «io conosco la serenissima Donna nostra esser pensierosa della patria celeste e della vita dell'anima sua, io terrei me gravemente colpevole, se tacessi quanto per timore dell'onnipotente Iddio è da suggerire. Avendo io saputo essere nell'isola di Sardegna molti gentili, ed essi tuttavia secondo il loro mal uso, sacrificare agl'idoli, e i sacerdoti di quell'isola andare torpenti a predicare il Redentore, vi mandai uno de' vescovi italiani, che, aiutando Iddio trasse alla fede molti [47] dei gentili. Ma egli mi ha annunciata una cosa sacrilega; che coloro, i quali colà sacrificano agl'idoli, pagano al giudice affinché ciò sia lecito loro. Dei quali essendo alcuni stati battezzati e avendo lasciati quei sacrifizi, tuttavia il giudice dell'isola, anche dopo il battesimo, esige quella paga usata dare da loro. Ed avendolo il vescovo ripreso di ciò, rispose egli, aver promesso tanto in paga dell'impiego, che nol potrebbe riavere se non a quel modo. L'isola di Corsica poi è oppressa di tanta soverchieria degli esattori e tanta gravezza d'esazioni, che gli abitatori vi possono a mala pena supplire vendendo i proprî figliuoli; ondeché lasciando la pia repubblica e' sono sforzati a rifuggire alla nefandissima gente de' Longobardi. E qual cosa più grave, qual più crudele veramente, potrebbero eglino patire dai Barbari, oltre all'esser ridotti a vendere i propri figliuoli? In Sicilia dicesi d'un cotale Stefano cartulario delle parti marittime, che coll'invadere ogni luogo, e con porre senza pronunziar giudizio i cartelli a' poderi e alle case, arreca tanti danni, tante oppressioni che s'io volessi dire tutte le opere riferitemi di lui, nol potrei compiere in un gran volume. Adunque vegga la serenissima nostra Donna tutte queste cose, e sollevi i gemiti degli oppressi. Ben sono io certo non essere elleno pervenute alle vostre pie orecchie; che se 'l fossero non avrebbero durato fino al presente. Suggeritele a suo tempo al piissimo Signore, affinché dall'anima sua, dall'Imperio e da' suoi figliuoli ei rimova tale e tanto gravame di peccato. E ben so ch'ei dirà forse, [48] mandarsi a noi per le spese d'Italia quanto si raccoglie dalle suddette isole. Ma dico io: conceda meno per le spese d'Italia e tolga dal suo Imperio le lacrime degli oppressi. E perciò forse tante spese fatte per questa terra giovano meno perché con mescolanza di peccato lor si provvede. Comandino adunque i serenissimi Signori che nulla più si raccolga con peccato. E se così si attribuisca meno alle spese della repubblica, tuttavia le si gioverà più, e sarà meglio non provvedere alla vita nostra temporale che procacciare impedimento alla vostra eterna. Pensate di che animo, di che cuore, in che strazi esser debbano quei genitori che per salvarsene strappansi dappresso i figliuoli! E chi ha figliuoli ben può sapere come s'abbiano a compassionare gli altri. A me poi basti l'aver questo brevemente suggerito, affinché se rimanesse la vostra pietà ignorante di quanto succede in questi paesi, non fossi io poi del mio silenzio appresso il severo Giudice incolpato e castigato.»[38]
In quella desolazione d'Italia, Gregorio conscio che il governo imperiale piuttosto era d'aggravio che di soccorso ai mali, cercava quando poteva di concluder [49] paci temporanee coi Longobardi per procacciare almeno a Roma e alle provincie dell'Impero qualche respiro in quella vita d'oppressione. Ma Romano esarca di Ravenna con gretta e gelosa politica gli faceva ostacolo e gli ruppe tra gli altri un accordo iniziato con Ariolfo duca longobardo di Spoleto. Ne conseguì una incursione longobarda intorno a Roma e stragi e rapine fin sotto le mura della città. Il pontefice oppresso dal gran dolore ne cadde infermo e solo riebbesi per andare incontro a nuove amarezze. Agilulfo, re dei Longobardi, volendo ricuperare alcune città ritoltegli per tradimento dai Greci, mosse rapidamente da Pavia verso Toscana, ricuperò Perugia e accostatosi anch'egli fin sotto le mura di Roma, recò ivi intorno nuovi guasti e saccheggi. Gregorio che a quel tempo spiegava ai Romani Ezechiele in un corso d'omelie, sopraffatto dalle calamità del suo popolo, non ebbe forza di seguitare. «Da ogni lato» sclamava «udiam gemiti; città distrutte, castella rase, campi devastati, la terra mutata in un deserto. Altri vediam tratti prigioni, altri mutilati, altri uccisi.» E di lì a poco cessando, così se ne scusava: «Non mi si faccia rimprovero s'io cesso dopo questo discorso, poiché, tutti lo vedete, le nostre tribolazioni s'accrebbero. D'ogni parte ne circondan le spade, da ogni parte temiamo un pericolo imminente di morte. Altri ci tornano innanzi colle mani mozzate, d'altri ci si annunzia che son captivi, d'altri che spenti. M'è necessario oramai trattener la lingua da questa esposizione.»[39]
[50]
Intanto ch'egli tentava d'alleggerir le sventure della patria e soffriva per esse nell'anima col doppio dolore di cristiano e di cittadino, i dignitari imperiali affaticandosi di scalzare l'autorità sua a Costantinopoli, l'accusavano d'esser caduto negli inganni del Duca di Spoleto e d'aver con ciò ingannato l'Imperatore. Gregorio indignato si difese, e scrivendo aperto ed austero all'Imperatore stesso: «Se la schiavitù di mia terra» diceva «non crescesse ogni dì, io pur tacerei del disprezzo e della derisione fatta di me. Ma questo mi duole che mentre mi si dà taccia di mentitore si strascina Italia più e più sotto al giogo de' Longobardi. Io dico al mio piissimo signore: pensi egli di me ogni male; ma intorno all'utile della repubblica e alla liberazione d'Italia, non dia facile le pie orecchie a ciascuno ma più creda ai fatti che alle parole. Contro ai sacerdoti poi non si sdegni nella sua terrena potestà il signor nostro sì prontamente; ma in considerazione di colui onde essi sono servi, comandi loro in modo da mostrar la dovuta riverenza.... Di quanto ebbi a soffrire dirò brevemente. Primo, mi fu guasta la pace ch'io senza spesa della repubblica avea fatta co' Longobardi in Toscana; poi, guasta la pace, si tolsero dalla città di Roma i soldati, e gli uni rimasero uccisi da' nimici gli altri collocati a Narni o a Perugia; e per tener Perugia si lasciò Roma. Fu peggio la venuta d'Agilulfo, quando io ebbi di miei occhi a vedere i Romani a guisa di cani colle funi al collo ire ad esser venduti in Francia. Noi, la Dio grazia, sfuggimmo, racchiusi nella città, dalle [51] costoro mani; ma allora fu cercato d'incolparci che mancasser frumenti nella città, dove pure, com'io esposi altra volta, non si possono a lungo serbare. Nè di me duolmi; che fidato, il confesso in mia coscienza, purché salvi l'anima mia, mi tengo apparecchiato ad ogni cosa. Duolmi sì dei gloriosi uomini Gregorio prefetto e Castorio maestro de' militi, i quali fecero ogni cosa fattibile e durarono nell'assedio durissime fatiche di vigilie e guardie, e tuttavia poi furono colpiti dalla grave indignazione de' signori. Ond'io ben veggo aver ad essi nociuto non le azioni loro ma la mia persona; che dopo essersi con me affaticati con me ora son tribolati. E quanto a ciò che mi si accenna del terribile giudicio dello onnipotente Iddio, prego io per lo stesso onnipotente Iddio che mai più nol ripeta la pietà de' miei signori. Perché noi non sappiamo quale abbia ad essere quel giudicio; e dice Paolo egregio predicatore: Non giudicare anzi tempo, finché non venga il Signore il quale illuminerà i nascondigli delle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori. Questo io dico brevemente perché, indegno peccatore più m'affido nella misericordia di Gesù che nella giustizia della vostra pietà. E Iddio regga qui di sua mano il mio piissimo signore e in quel terribil giudicio lo trovi libero d'ogni delitto; e faccia poi piacere me, se è d'uopo, agli uomini; ma in cotal modo che io non offenda la sua eterna grazia.»[40]
[52]
Del resto nè calunnie nè ostacoli lo trattennero dal negoziar nuove tregue coi Longobardi studiandosi così di sollevar le campagne specialmente da quelle guerre devastatrici. Regnava allora sui Longobardi Agilulfo già duca di Torino principe di gran valore e conciliante d'animo, chiamato al trono da Teodelinda allorché rimasta vedova di re Autari, i nobili, al dire di Paolo Diacono[41] la lasciarono arbitra del regno invitandola ad eleggersi fra i duchi longobardi un successore all'estinto. Questa principessa, donna d'alte virtù, bavarese di nascita, cattolica di fede, esercitò una grande e salutare influenza nelle cose del regno e sui consigli del marito, e fu spesso mediatrice di pace. Dalle lettere di Gregorio apparisce sovente com'egli la tenesse in gran pregio e sperasse per lei di condurre al cattolicesimo i Longobardi. Riuscì in parte all'intento. Per le persuasioni di Teodelinda par che Agilulfo s'inducesse a lasciar l'arianesimo a quel modo che in Inghilterra le persuasioni di Berta aiutarono la conversione di Etelberto. Certo dopo Agilulfo i Longobardi a poco a poco, sebbene non senza molta resistenza, incominciarono a tenere una sola fede con gli Italiani e il fatto avea grande importanza perché valeva a scemare le divisioni tra i due popoli e n'aiutava la fusione [53] alla quale peraltro fu sempre impedimento la coesistenza dell'Impero in Oriente. Verso quel tempo per cura di Teodelinda sorse la cattedrale di Monza a cui fu data in offerta la corona ferrea che servì da quel tempo a incoronare i re d'Italia e dopo aver cinta la fronte a Carlomagno e a Napoleone, apparve in un giorno di dolore solenne dietro al feretro di Vittorio Emanuele rinnovatore del regno italico. Quando nacque ad Agilulfo un figliuolo (A. D. 603), fu battezzato secondo il rito cattolico. Gregorio che afferrava bene la utilità di quell'evento, ne mandò lieto rallegramenti e lodi a Teodelinda. «Quello che mi mandaste in iscritto dalle contrade genovesi,» così le diceva Gregorio, «mi fece partecipe del gaudio vostro col farmi noto che per la grazia di Dio onnipotente vi fu concesso un figliuolo, e, quel che torna a lode della eccellenza vostra, ch'egli fu ascritto alla fede cattolica. Nè altro era da aspettarsi dalla cristianità vostra se non che avreste procurato di munir del sussidio della giustizia cattolica colui che v'era dato per dono divino, affinché il Redentore conoscesse in voi una serva fedele, e alimentasse nel suo timore il nuovo re alla nazione dei Longobardi. Perciò prego l'onnipotente Iddio ch'egli custodisca voi nella via de' suoi mandati e faccia crescer nell'amor suo l'eccellentissimo figliuol mio Adaloaldo per tal modo ch'egli già grande infra gli uomini anche per sue buone opere divenga glorioso dinnanzi agli occhi del nostro Iddio.
«Quanto a ciò che scrisse la eccellenza vostra che io dovessi sottilmente rispondere all'abbate Secondo, [54] figliuol mio carissimo, chi mai, se infermità nol contrastasse, vorrebbe indugiarsi a soddisfare la domanda sua e il desiderio vostro il quale, vedesi, riuscirebbe utile a molti? Se non che mi opprime tale infermità di podagra, che non pur m'è negato il dettare, ma a stento posso levarmi a discorrere. Ciò sanno i legati vostri apportatori di queste lettere, i quali mi trovarono infermo al venire e mi lasciano in pericolo grande e dubbio della vita. Ma se l'onnipotente Iddio vorrà ch'io guarisca, a quanto egli mi scrisse risponderò sottilmente.
«.... All'eccellentissimo figliuol mio Adaloaldo re, mando alcune reliquie, cioè una croce col legno della santa croce del Signore, ed una lezione del Santo Vangelo inclusa in una teca persica. E alla figliuola mia, sua sorella, mando tre anelli, due con giacinti uno con onice, le quali cose prego sien date da voi a loro affinché per mezzo della eccellenza vostra riesca loro grato l'affetto mio.
«Nel mandarvi con amor paterno il debito saluto, chieggovi che al figliuol nostro eccellentissimo il re vostro sposo rendiate grazie per la fatta pace, e che per l'avvenire secondo l'uso vostro, lo esortiate con ogni maniera alla pace. Così tra le molte buone opere vostre potrete trovare innanzi al cospetto di Dio la mercé usata ad un popolo innocente che poteva perir nel dissidio.»[42]
Queste lettere scelte non senza esitazione tra molte d'ugual valore, possono in qualche modo mostrar la [55] luce che viene alla storia d'Italia da questo singolare epistolario. Ma l'ampia mente di Gregorio, le ispirazioni del suo ministero, la larghezza cristiana della sua carità, non gli consentivano di restringere nella sola Italia l'opera sua, onde le sue lettere sono fonte di storia non pure italiana ma universale. La storia d'Europa si chiarisce mirabilmente per le lettere scritte nelle Gallie e in Ispagna, notevolissime tra le prime quelle dirette alla famosa Brunichilde[43], e tra le seconde quelle dirette a Leandro quel vescovo di Siviglia che indusse il re Recaredo e i suoi Visigoti ad abbandonar l'arianesimo. Del pari le lettere [56] dirette a Costantinopoli, ad Alessandria ed altrove in Oriente e in Affrica, descrivono lo stato dei paesi più lontani e le loro relazioni con Roma. Quali poi fossero le relazioni tra Gregorio e la Inghilterra, e qual parte egli avesse alla conversione di quel paese, è famoso al mondo. Beda il venerabile raccogliendo le tradizioni inglesi ne ha lasciato un racconto notissimo ripetuto per tutto il medio evo. Egli narra come Gregorio non ancora pontefice veduti in Roma alcuni schiavi inglesi, colpito dall'angelica bellezza loro, udendo ch'essi erano idolatri, concepisse il pensiero di convertir l'Inghilterra alla fede. Ottenutane licenza ei s'avviava missionario a quelle contrade, ma appena mosso, ecco il popolo romano a sollevarsi e costringere il papa a richiamarlo. Questo racconto della cui verità non apparisce traccia nelle opere di Gregorio, riflette non solo l'affettuosa venerazione che nutrivasi per lui in Inghilterra qualche secolo dopo la sua morte, ma puranco l'affettuosa sollecitudine che nelle lettere di Gregorio traluce continua per quella missione[44]. L'infiammato ardore di carità che lo ispira su tale argomento mi sforza a varcare i limiti di questo lavoro, e uscendo dalla storia particolare d'Italia raccolgo qua e là qualche frammento in cui Gregorio parla di questa impresa a lui cara, e nel compiacersi della riuscita, coi gravi e dolci ammonimenti la dirige al suo termine.
[57]
«Ma,» egli scrive ad Eulogio vescovo Alessandrino, «poiché io so che voi tanto vi rallegrate nel bene operato da voi quanto in quel che è operato dagli altri, rendovi cambio del favor vostro e v'annunzio non dissimili cose. Imperocché perfidiando finora nel culto de' tronchi e delle pietre la nazione degli Angli che vive nel più remoto angolo del mondo, a me collo aiuto delle orazioni vostre entrò nell'animo ch'io dovessi mandar colà un monaco del monastero a predicare colla grazia di Dio. Il quale con mia licenza fatto vescovo dai vescovi di Germania, anche col conforto loro fu condotto laggiù in fin del mondo a quella gente, e pur ora ci son pervenute scritte notizie di sua salute e dell'opera sua. E tra quella gente splendono di tanti miracoli ed egli e gl'inviati con lui, che sembrano imitar le virtù insigni ch'essi vanno sponendo degli apostoli. Nella festa della Natività del Signore occorsa in questa prima indizione, ci annunzia il fratello e convescovo nostro che oltre a diecimila Angli furono battezzati. La qual cosa io vi narro affinché sappiate ciò che parlando operate tra il popolo Alessandrino, e pregando operate ai confini del mondo. Le orazioni vostre sono dove voi non siete e dove siete appariscono le opere sante.»
Nel seguito di questa lettera così notevole per giusta compiacenza e per l'umile fede che ne traspare, si fa cenno d'una grave questione ch'egli ebbe in Oriente con Giovanni il Digiunatore patriarca costantinopolitano, intorno al titolo di vescovo universale ch'egli rifiutava per sé e non voleva riconoscere [58] in altri. Ma una tale questione che originò molte lettere della raccolta importantissime per la storia della Chiesa, trasmoda troppo la cerchia di questo libro. È necessità tralasciarla e concludere queste citazioni, forse già troppo lunghe, coi brani di un'altra lettera scritta ad Agostino l'apostolo d'Inghilterra: «Gloria negli eccelsi a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà. Come il morto grano di frumento recò molto frutto cadendo a terra affinché non regnasse solo nel cielo, così noi viviamo per la morte sua, ci confortiamo per la sua infermità, pel suo patire siam tolti al patire, per l'amor suo cerchiamo in Britannia i fratelli che ci erano ignoti, per sua grazia troviamo quelli che noi ignoranti cercavamo. Chi varrà a dir quanta gioia sia nata quì in cuore di tutti i fedeli a udir che la nazione degli Angli per la grazia dell'onnipotente Iddio e le fatiche della fraternità tua, scacciate le tenebre dell'errore s'è circondata della luce della santa fede, che già con mente franca essa calpesta gl'idoli a cui prima soggiaceva insana per terrore; a Dio onnipotente si piega pura nel cuore, dalle prave opere è trattenuta per le regole della santa predicazione, ai precetti divini inchina l'animo e sollevasi coll'intelletto, infino a terra umiliasi coll'orazione per non giacer colla mente a terra? Di chi è questa opera se non di colui che dice: Il Padre mio opera fino ad ora ed opero anch'io?[45].... Or tu godi pure perché le anime degli Angeli pe' miracoli esteriori [59] son tratti alla grazia interiore, ma temi che fra queste maraviglie che sono operate l'infermo animo non si levi a presunzione, e mentre esaltasi fuori ad onore non cada internamente per vanagloria... Imperocché ai discepoli del vero non deve arrecar gaudio se non quel bene che hanno comune con tutti e nel quale non hanno fine alla letizia. Resta dunque, o fratello carissimo, che tra ciò che tu per opera di Dio fai esternamente, sempre all'interno ti giudichi sottilmente, e che sottilmente osservi ciò che sei tu stesso e quanta grazia sia in quella gente per la cui conversione ottenesti perfino il dono di far miracoli. E se ti ricorderai d'aver mancato talora innanzi al Creatore nostro o colla parola o coll'opera, sempre ti richiamerai ciò a memoria affinché il ricordo della colpa reprima la insorgente vanità del cuore. E quanto di operar miracoli ti sarà o ti fu concesso, stimalo donato non a te ma a coloro per la cui salute ti si concede.... Molto adunque vuolsi premer giù l'animo tra i segni e i miracoli affinché esso non cerchi la propria gloria ed esulti nel gaudio privato della sua esaltazione.
«Le quali cose io dico perché desidero umiliar l'animo di chi m'ascolta, ma tuttavia abbia anche la sua fiducia l'umiltà tua. Imperocché io peccatore tengo speranza certissima che per la grazia dell'onnipotente nostro Creatore e Redentore Dio e Signore Gesù Cristo, già i peccati tuoi sono rimessi e perciò sei eletto affinché per te si rimettano i peccati altrui. Nè avrai afflizione d'alcun [60] peccato in avvenire tu che ti sforzi di far gaudio in cielo per la conversione di molti. Lo stesso Creatore e Redentore nostro, parlando della penitenza degli uomini, afferma: Io vi dico che si farà maggior gaudio in cielo per un peccatore penitente, che per novantanove giusti a cui non fa d'uopo pentirsi[46]. E se per un sol penitente è così grande gaudio nel cielo, qual gaudio crederem noi che si faccia per tanto popolo convertito dall'error suo, il quale venendo alla fede condannò col pentirsi il male che fece? In tanto gaudio di cielo e d'angeli ripetiam dunque quelle parole angeliche che premettemmo: “Gloria negli eccelsi a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà.”»[47]
L'anno 604, nel giorno 14 di marzo, chiudeva la santa vita Gregorio Magno e col cessare del suo epistolario la storia d'Italia perde la guida sua più luminosa attraverso que' secoli. Altre opere di Gregorio hanno pregio storico per le allusioni che vi si trovano a fatti contemporanei o recenti, e principale tra queste opere è il libro dei Dialoghi. In questo libro singolare, uno di quelli che più hanno affascinata la fantasia del medio evo, Gregorio descrisse le vite e i miracoli di San Benedetto e d'alcuni altri Italiani in fama di santità vissuti intorno al suo tempo e i più d'essi o conosciuti da lui o da persone a lui note. È una raccolta di leggende strane e fantastiche narrate con ferma fede e con ferma fede ripetute per [61] secoli, ed è maraviglioso insieme e caratteristico di que' tempi e di questa nostra natura umana il trovar tanta puerile credulità in uomo di genio così mirabile. Ma queste leggende riescon preziose alla storia sparse come sono di fatti reali e d'allusioni a luoghi ad usi a monumenti non ancora scomparsi, a personaggi che vissero e operarono in quella età momentosa[48].
Colla morte di Gregorio le testimonianze contemporanee e dirette sulla storia d'Italia nei tempi longobardi cessano quasi del tutto. Il documento di maggior valore è l'Editto di re Rotari (A. D. 643), che con le aggiunte fattevi dai re successivi raccoglie in sé tutta la legislazione longobarda. Rotari prefisse all'Editto un prologo il quale nella scarsità delle memorie serve molto alla storia essendo riferita in esse con diligenza la serie dei re longobardi coi nomi di loro famiglie ed una accurata genealogia per dieci generazioni della famiglia dello stesso Rotari che era degli Arodi.
Finché Rotari non le raccolse, nessuno aveva scritto le leggi dei Longobardi. Esse scendevano tramandate colla parola viva da generazione a generazione e il somigliante accadeva per la memoria di loro genealogie e di loro imprese che circonfuse di leggende erano affidate al canto. Verso il 670 un Longobardo tentò come seppe di ricavare da quelle saghe alquanti cenni intorno alla provenienza del suo popolo, e questo [62] lavoro eletto Origo Langobardorum s'aggiunse ab antico nei codici al prologo dell'Editto di Rotari e parve quasi confondersi in quello[49]. Prima di questi tentativi esisteva una storia dei Longobardi compilata da quell'abbate Secondo di Trento († 612), che levò al fonte battesimale il fanciullo Adaloaldo e si trova nominato qui sopra nella lettera di Gregorio Magno alla Regina Teodelinda, ma di questa storia, che sembra essere stata importante, riman la sola menzione negli scritti di Paolo Diacono a cui siam giunti oramai[50]. Il continuatore di Prospero d'Aquitania il quale condusse la sua continuazione fino al 671 ed un magister Stefanus che verso il 698 compose una rozzissima poesia in lode di re Cuniperto [63] sono le sole fonti contemporanee che abbiamo oltre la Origo e l'Editto, e provenienti da scrittori di origine latina. I Longobardi stentarono sopra ogni altro popolo germanico ad avvicinarsi alla cultura latina e vi si avvicinarono sol quando la loro dominazione era presso al tramonto. Però, come osserva il Wattenbach, «i grammatici che malgrado la contrarietà dei tempi avevano sempre continuata l'opera loro, trovarono a poco a poco discepoli tra i Longobardi e quando la costoro signoria si appressò alla fine, già avevano educato al popolo straniero il suo storico che, come Giordane, alla caduta del regno ne serbò almeno la memoria.»[51] Questo storico fu Paolo Diacono, e di lui, insigne tra gli storici dell'antico medio evo italiano devesi ora trattar di proposito[52].
Paolo Diacono ci ha lasciato egli stesso memoria di sé qua e là ne' suoi scritti, e in essi possiamo seguir le traccie della sua vita che fu certo notevole. Nasceva da stirpe antica ed egli ne risalisce la storia [64] intessuta di leggende. Leupchis, lo stipite ch'egli menziona del suo casato, scese nel Friuli con Alboino al tempo della prima invasione longobarda e quivi morì lasciando cinque figliuoli che poco appresso presi in una incursione degli Avari furon tratti via dalla patria. Durava da lungo la lor prigionia quando Lopichis un d'essi, pervenuto alla virilità potè scampar colla fuga. Dopo un lungo vagar solitario alla ventura tra stenti immani e pericoli, un dì sulle Alpi mentre considerava incerto il suo cammino, ecco presentarglisi innanzi d'improvviso un lupo e farglisi guida per la via sconosciuta. Poi a un tratto sparitogli dagli ocelli misteriosamente il lupo, una visione gli venne a soccorso nel sonno e gl'indicò la rimanente strada fino al Friuli. Quivi trovò la deserta casa dov'era nato, e riconosciuto dai suoi parenti potè ristorarla e fondare in essa la sua famiglia. Da Lopichis derivò Arechis e da lui Warnefrit, il quale unitosi ad una Teodelinda, n'ebbe alquanti figliuoli. Un d'essi, nato per quanto si congettura [65] tra il 720 e il 725 all'incirca, fu il nostro Paolo Varnefrido o, come più universalmente è chiamato. Paolo Diacono.
Paolo ebbe a maestro nelle lettere il grammatico Flaviano nipote ad un altro grammatico di nome Felice. Nelle scuole studiò la lingua greca non senza profitto come è da credere malgrado la modestia colla quale egli accenna a questo ramo del suo sapere. Non è ben sicuro in quale luogo Flaviano gl'impartisse l'insegnamento suo, ma par probabile ch'ei fosse educato in Pavia alla corte del re dove per questi grammatici la cultura latina schiudevasi un varco. Certo Paolo trovavasi in corte ai tempi del re Ratchis (A. D. 744-749), perché ci narra d'avere egli stesso veduto quel re mostrare dopo un convito la tazza famosa che Alboino fe' far col teschio di Cunimondo re dei Gepidi. Com'è noto, Alboino, ucciso in guerra Cunimondo di cui poscia sposò la figliuola Rosemunda, soleva ai solenni conviti ber nel suo teschio ridotto ad uso di coppa. Un giorno a Verona grave di vino oltre il dovere, il tiranno offrì la tazza orrenda alla regina invitandola a ber lietamente col padre. L'atroce ingiuria vendicata più tardi ferocemente par così enorme a Paolo che nel narrarcela esclama: «Affinché ciò ad alcuno non apparisca impossibile, dico la verità innanzi a Cristo, io stesso un dì di festa vidi il re Ratchis che tenea in mano questa coppa mostrandola a' convitati suoi.»
Questo episodio che s'introduce qui ad esempio della feroce barbarie de' primi Longobardi, bene ci aiuta a seguire la storia della vita di Paolo e non [66] è il solo per cui lo vediamo trattare familiarmente coi principi del suo tempo. Lo scritto più antico che ci rimane di Paolo (A. D. 763), è un carme sulle sei età del mondo, di cui le strofe recano acrosticamente il nome di Adelperga pia figlia del re longobardo Desiderio e moglie di Arichi duca di Benevento. Questa principessa che aveva avuto Paolo a maestro, gli rimase sempre amica e lo invitò più tardi ad aumentare e continuare la storia romana di Eutropio. Pare che egli componesse l'epitaffio in versi per la regina Ansa madre di Adelperga il cui cadavere fu ricondotto in patria dalla Francia dove Ansa era andata con Desiderio quando l'armi di Carlo Magno fransero il regno dei Longobardi. I versi della iscrizione che dallo stile pare sicuramente esser di Paolo, spirano una malinconia profonda e attestano l'affetto che l'autore portava alla stirpe sua longobarda. Non si sa in quale anno egli ricevesse i sacri ordini nè quando entrasse nel chiostro, ma il Waitz tiene per non improbabile ch'egli si rendesse monaco a Montecassino quando Ratchis balzato dal trono vi trovò un rifugio. Quivi la solenne pace del monastero presto pigliò tanto impero sull'animo di Paolo, che mai forse non si sarebbe indotto a lasciarla se gravi casi non l'avessero chiamato fuori. Nel 776 i Longobardi da breve conquistati si rivoltarono in varî luoghi contro a' Franchi e più vastamente nel ducato del Friuli. Se Paolo non s'immischiò in questa rivolta certo vi prese parte il fratel suo Arechis, il quale tratto prigioniero in Francia ebbe confiscate tutte le sostanze sue. Da questo fatto dee trarre origine una [67] leggenda intorno a Paolo nata verso il secolo decimo e largamente diffusa nei secoli posteriori. A voler seguire questa leggenda, Carlo Magno sospettando Paolo complice in una congiura, l'avrebbe cacciato in esilio e confinatolo nell'isoletta di Tremiti donde egli qualche anno appresso avrebbe potuto fuggire per miracolo, rifugiarsi a Benevento e di là a Montecassino. Ma tutto questo racconto è fantastico. Per contrario quando già Carlo era venuto a Roma e avea dato prova di temperata mitezza nelle cose di Stato e mostravasi protettore delle lettere, vediamo Paolo rivolgersi al monarca vincitore. In versi ei gli chiede che sia reso il fratel suo alla famiglia da sei anni giacente in una miseria di cui dipinge lo squallore con gran vivezza di colorito e gran calore d'affetto. A far più efficace la intercessione, Paolo lasciò il monastero e valicate le Alpi si recò in corte di Carlo. Questi lo accolse con molto onore e lo trattenne più a lungo ch'ei non avrebbe voluto. Dalle rive della Mosella il desiderio del monaco tornava alla dolce pace gustata tra i maestosi silenzî delle rupi cassinesi: «Sebbene,» egli scrive all'abate suo Teodemaro, «uno spazio vasto di terra mi separi dal consorzio vostro, me congiunge a voi un tenace affetto che non può mai disciogliersi, nè il riferir per lettera e la brevità di queste pagine bastano a dirvi l'amor che mi crucia ad ogni momento per voi e pe' miei seniori e fratelli. Imperocché quando mi sovvengono alla mente gli ozî occupati solo in opere divine, e la grata dimora della cella mia, e il pio religioso affetto vostro, e la santa caterva di tanti [68] soldati di Cristo intesa al culto divino, e di ciascun fratello gli esempi fulgidi per virtù diverse, e i dolci colloqui sulle perfezioni della superna patria, io tremo attonito e languisco, nè so trattener le lacrime tra i sospiri che m'escono dal profondo del petto. M'aggiro tra cattolici e dediti al culto cristiano, tutti m'accolgono bene, tutti mi si mostrano benigni per amore del padre nostro Benedetto, e pei meriti vostri. Ma al paragone del cenobio vostro il palazzo m'è carcere, al paragone di tanta quiete che si trova fra voi il viver qui m'è tempesta. Solo pel corpo frale son tenuto via da codesta patria, con tutta l'anima mia sono con voi. E ora mi pare d'essere ai vostri troppo soavi concenti, ora seder nel cenacolo a saziarci più colla lettura che col cibo, ora a considerar le opere di ciascuno negli uffici diversi, ora a indagar lo stato degli aggravati per vecchiezza o per male, ora a logorar le soglie dei santi care a me come un paradiso.» E chiudeva la lettera esprimendo la speranza di raggiunger presto i fratelli suoi, ma l'indugio al ritorno non fu così breve. Appunto in quel tempo Carlo adunando alla sua corte da ogni paese tutti coloro nei quali splendeva ancor qualche raggio della ormai spenta cultura, studiavasi di ravvivare intorno a sé la luce della civiltà romana mentre si preparava a far rivivere nell'ordinamento politico il nome di Roma e l'autorità dell'Impero. Paolo Diacono non poteva rimanersi estraneo a quest'opera di civiltà e si lasciò indurre a prendervi parte. Di ciò avanza un chiaro monumento nei versi che Pietro [69] da Pisa gli scrisse in nome di Carlo magnificando le doti e la scienza di Paolo e paragonandolo agli scrittori più grandi della antichità. «La figliuola mia,» dice Carlo in que' versi «deve andare sposa in Grecia ed è mio desiderio che Paolo ammaestri nella lingua greca coloro che dovranno accompagnarla a Costantinopoli.» Paolo verseggiando in risposta accetta l'incarico ma rifiuta modesto le lodi regali ed anche nega d'aver tentata la conversione del re di Danimarca Sigfrido, attribuitagli da Carlo in altri versi di Pietro da Pisa. Verso quel tempo Paolo compose l'epitaffio d'Ildegarde moglie di Carlo Magno († 783) e delle sorelle e figliuole di lui. Inoltre, sempre ad istanza di Carlo, condusse a termine una pregevole raccolta di omelie, abbozzata già a Montecassino la quale, come già altri osservò, venne in grande aiuto all'ignoranza quasi universale in quei tempi del clero[53].
Nè si limitarono a tanto le fatiche letterarie del nostro monaco cresciuto oramai in fama tra i letterati dell'età sua. Fece un estratto del trattato De verborum significatione di Festo Pompeio, serbando così [70] ai posteri almeno in parte un documento che ancora è prezioso ai filologi e agli studiosi della legislazione romana. Pregato da Angilramno vescovo di Metz, compose la storia dei vescovi Metensi e aprì egli primo oltre l'Alpi, la serie di quelle storie episcopali che hanno tanto giovato in ogni paese alla storia della chiesa cristiana[54]. In quest'opera narrò diffusamente la vita di santo Arnulfo stipite della casa carolingia e colse al volo la propizia occasione per celebrare le glorie e le virtù del monarca che gli si mostrava così benigno. In corte dovette Paolo incontrarsi e si strinse di calda intima amicizia con uno dei maggiori uomini di quella età, parente a Carlo, Adalardo abate di Corvey. Pur questa amicizia recò frutti letterari, e, a richiesta dell'amico, Paolo si diè ad emendare il testo delle lettere di Gregorio il Grande del quale anche dettò una vita, ma colto da infermità potè solo compiere una breve parte del suo lavoro che mandò ad Adalardo con una soave lettera riboccante d'affetto.
Pare che Paolo mettendo a profitto quegli anni di dimora oltralpe visitasse gran parte di Francia e i monasteri più famosi in essa. Ma nè le attrattive di quel bel paese bastarono a fargli dimenticare la cara patria, nè i dolci legami delle nuove amicizie a fermarlo per sempre in corte di Carlo. Nota il Wattenbach che forse la nimicizia tra Carlo e Arechis principe [71] di Benevento, sempre crescente finché scoppiò in guerra aperta, potè da ultimo rattristargli la dimora in Francia sebbene il re gli rimanesse sempre amico. Inchina altri a credere che Paolo sul cadere del 786 tornasse in Italia collo stesso Carlo. Conghietture probabili entrambe ma non sicure. Certo è solo che intorno al 787 Paolo dettava da Montecassino una bella iscrizione per Arechis morto in quell'anno, e con quel pio tributo suggellava l'amicizia fedele onde s'era legato al marito d'Adelperga sua discepola. L'affannoso desiderio del monaco toccava alfine la cima sua. Dopo così lungo aggirarsi tra i rumori del mondo e il fasto delle corti, egli poteva adesso rigoder quella pace profonda verso cui s'affannano certe anime con tanto più ardore quanti più trovano contrasti a raggiungerla. Dalla vetta di quel monte venerando per pie memorie, dove Benedetto aveva deposto un seme tanto fecondo di civiltà, quel monaco solitario sciolto alfine d'ogni cura mondana poteva levarsi dalla contemplazione degli eventi umani alla contemplazione serena di Dio. Così in quei riposi tranquilli nacquero gli ultimi due lavori a cui consacrò la rimanente vita[55], un commentario alla regola monastica e quella storia dei Longobardi che gli ha assicurata la fama presso i posteri.
[72]
La nascita di Paolo Diacono e i casi di sua vita sembravano destinarlo all'ufficio di storico. Nato in Italia da stirpe longobarda quando il regno longobardo si avvicinava alla sua caduta, amante del popolo da cui traeva l'origine, amico ai suoi principi, e d'altra parte educato da maestri italiani alle tradizioni doppiamente latine della antichità classica e della Chiesa, Paolo Diacono era insieme italiano e longobardo. Da ciò quella specie di patriottismo che unisce in lui le due razze e par che simboleggi tra esse una fusione che non potè mai compiersi intera e solo si compì in parte quando il popolo oppressore soggiacendo ai Franchi scese alquanto più vicino agli oppressi. Già Paolo rifacendo l'opera d'Eutropio aveva narrata la storia di Roma, ed ora mutato per dir così il titolo del suo lavoro, nelle vicende del popolo longobardo narrava il proseguimento di quella storia. Come s'è già veduto, i popoli germanici ignari di lettere affidavano la notizia di loro genealogie e di loro imprese alla tradizione che le tramutava in canti e in leggende. Ricavare da queste leggende la vita del popolo ch'esse celebravano, era l'ufficio di chi metteva mano alla storia quando le imprese accumulate e i primi raggi della civiltà penetrati ispiravano quasi inconsciamente il desiderio d'una narrazione più certa e più duratura. Da ciò quell'intrecciarsi continuo dei fatti reali coi leggendari che dà un carattere così spiccato alla storia dei Longobardi i quali anche, per loro indole rude ma cavalleresca, spesso condussero imprese da leggenda piuttosto ispirati da vaghezza di mostrarsi prodi che da ragione di Stato. [73] Bene Cesare Balbo con l'usata acutezza sua ha notato che fin dai tempi di Autari e di Teodelinda «possono dirsi incominciati in Italia i tempi, benché il nome non peranco, della cavalleria; tempi più piacevoli all'immaginazione che all'effetto, più ammirabili ne' romanzi che nelle storie; tempi non senza virtù, ma di virtù sprecata.»[56] Nè v'ha per fermo romanzo cavalleresco delle età posteriori che narri alcun racconto più ricco d'avventurosa poesia di questo che ci è narrato da Paolo:
«.... Dopo queste cose re Autari inviò legati in Baviera per chiedere in matrimonio la figlia del re Garibaldo, e questi accoltili benignamente promise di dare ad Autari la figlia sua Teodelinda. Ciò nel tornare riferendo i legati ad Autari, egli desideroso di veder cogli occhi suoi la sua sposa, presi con sé alcuni pochi ma scelti Longobardi e conducendo quasi come seniore un suo fedelissimo, senza indugio trasse in Baviera. I quali introdotti secondo l'usanza dei legati al cospetto di re Garibaldo, posciaché colui ch'era venuto con Autari quasi come seniore ebbe fatti i saluti e le parole d'uso, Autari ignoto a tutta quella gente, fattosi più presso a re Garibaldo gli disse: ‘Il signor mio Autari re qui mi ha propriamente inviato a veder la figliuola vostra sua sposa, affinché io possa sicuramente annunziare al signor mio quale ne sia la bellezza.’ E udendo ciò il re e fatta venir la figliuola, Autari contemplatala tacitamente [74] e vedendola di belle forme e compiacendosene in ogni cosa, disse al re: ‘Poiché tale vediamo essere la persona della figliuola vostra che bene dobbiamo desiderarla per nostra regina, noi ameremmo, se piace alla podestà vostra, che ella ci desse di mano sua la coppa del vino come dovrà fare appresso con noi.’ E avendo il re conceduto che ciò si facesse, ella presa la coppa del vino, prima propinò a colui che pareva esser seniore. Poscia avendola pôrta ad Autari ch'ella ignorava esser lo sposo suo, questi, dopo aver bevuto, nel render la tazza, senza che altri lo notasse col dito le toccò la mano, e accostò la fronte e il volto alla sua destra. Ella suffusa di rossore narrò il fatto alla nutrice. A cui la nutrice disse: ‘Se questi non fosse lo stesso re e il tuo sposo, certo non avrebbe osato toccarti. Ma tacciamo frattanto che non lo sappia tuo padre: per fermo egli è persona degna e di tenere il regno e d'associartisi in matrimonio.’ Era allora Autari florido d'età giovanile, di bella statura, biondo di crine e di nobilissimo aspetto. Coloro preso commiato dal re, ripigliando la via della patria mossero in fretta a' confini dei Norici. Imperocché la provincia dei Norici abitata dal popol de' Bavari, ha la Pannonia da oriente, da occidente la Svevia, da mezzogiorno l'Italia e da tramontana il corso del Danubio. Autari adunque essendo già arrivato presso a' confini d'Italia e avendo con sé i Bavari che lo riaccompagnavano, levossi quanto potè sul cavallo che inforcava, e con tutta forza infisse nell'albero che gli era più prossimo la scure [75] che tenea in mano e ve la lasciò infissa con queste parole: ‘Di cotali ferite suol fare Autari.’ E avendo ciò detto, allora i Bavari che l'accompagnavano intesero ch'egli era lo stesso re Autari.»[57]
Nè solo per fatti somiglianti apparisce in forma così leggendaria la storia dei Longobardi. Il racconto di rivolgimenti politici gravissimi mostra il vero della osservazione del Balbo intorno alla tendenza cavalleresca che si veniva manifestando allora in Italia e improntava del suo carattere molte azioni reali di quel popolo. Questa tendenza si riflette come in uno specchio nell'anima ingenua ed immaginosa di Paolo diacono ed è gran fortuna pei posteri. Ispirato da essa egli narra la storia delle cose avvenute quali la voce viva delle tradizioni gliele riferisce e non sciupa queste ultime sfoggiando una vana erudizione o una critica non concessa ai suoi tempi. Così per lui rientriamo davvero nella età longobarda e i suoi personaggi sono ritratti con un vigore di movimento e di colorito che ci aiuta a maraviglia per intenderli e per rifarci nella mente que' tempi de' quali egli solo ci ha lasciato un largo e durevole ricordo. Dalle prime mitiche origini longobarde egli scende fin quasi ai tempi di Desiderio e di Adelchi di cui non tratta, o che la morte gli rompesse a mezzo il racconto o che gli fosse troppo arduo narrar la conquista del suo popolo compiuta da quel Carlo che lo aveva tanto onorato. Longobardi, Greci, Romani da Alboino a Liutprando ci ritornano ancor vivi dinnanzi. Tra la [76] gran folta del popolo tutti quei papi e re e gran baroni, e gli aderenti loro e i nemici, e monaci e guerrieri e santi e donne eroiche ed abbiette tutti risorgono e si muovono nel libro di Paolo. Battaglie aperte e congiure, splendori di corti e spelonche di romiti, virtù e delitti, sacrilegi e miracoli, si seguono e s'intrecciano in un contrasto pieno di vita. Scegliere esempi dalle narrazioni di Paolo è difficile, massime quando è necessità limitarsi: valga perciò questo solo episodio che narro in gran parte colle parole stesse di Paolo.
Dopo il glorioso regno di Rotari il legislatore e l'altro assai breve di Rodoaldo, fu chiamato al trono Ariperto figlio ad un fratello di Teodelinda il quale regnò nove anni di cui quasi nulla ricorda la storia. Alla sua morte due figli suoi Godeperto e Pertarito si divisero il regno e il primo pose stanza a Pavia l'altro a Milano. Questa divisione, nuova presso i Longobardi, mostra come gli animi fossero divisi intorno alla elezione e si potessero male accordare. Infatti indi a breve pur tra i fratelli sorse dissenso, e Godeperto istigato da mali consiglieri, spedì il duca di Torino a Grimoaldo duca di Benevento, principe dei più potenti d'Italia e per le qualità sue personali riputatissimo. Godeperto offriva una sua sorella in isposa al beneventano e in cambio gli chiedeva aiuto contro Pertarito, ma il messaggero fattosegli traditore offrì invece a Grimoaldo la corona regia e l'esortò a trar partito dalle discordie di que' fratelli per farsi signore d'Italia. Grimoaldo si recò in Lombardia, e quel da Torino inteso sempre nel suo proposito, [77] eccitando sospetti vicendevoli tra i due alleati, adoperò così scaltro che al primo loro abboccarsi Grimoaldo uccise di mano sua Godeperto. All'annunzio del fatto Pertarito, sentendosi forse mancare a un tratto ogni appoggio, abbandonò Milano a così gran fretta che si lasciò dietro la regina e il figliuol Cuniperto i quali furono confinati entrambi a Benevento mentre egli vagava. Grimoaldo intanto sposò la sorella dell'ucciso principe, fatto non senza esempio nella storia longobarda ma pur molto strano, e nel 662 fu confermato re a Pavia. Le vicende dello sbandito re Pertarito lungo l'esilio ci sono così narrate dallo storico nostro:
«Confermato dunque Grimoaldo nel regno sul Ticino, non molto dopo si tolse in moglie la figliuola di re Ariperto che già eragli stata promessa e di cui egli avea ucciso il fratello Godeperto. L'esercito beneventano che l'aveva aiutato a impadronirsi del regno rimandò con gran doni alle sue case. Tuttavia trattenne solo alquanti di esso a star seco concedendo a loro possedimenti larghissimi.
«Il quale posciaché seppe che Pertarito fuggendo era arrivato in Scizia e dimorava presso del Kan, a quel medesimo Kan re degli Avari mandò dicendo per suoi ambasciatori, che se ricoverasse Pertarito nel regno suo, non potrebbe mantener più quella pace che s'era mantenuta fino ad allora tra i Longobardi e lui. Udendo ciò il re degli Avari chiamato Pertarito dissegli ch'egli andasse pure in qual parte gli piaceva ma che gli Avari non avean da contrarre nimicizie coi Longobardi. E Pertarito [78] in udir ciò si rivolse all'Italia per tornarsene a Grimoaldo perché aveva udito ch'egli era clementissimo. Pervenuto adunque alla città di Lodi, prima di sé mandò a re Grimoaldo, Unulfo un fedelissimo uom suo che gli annunziasse la sua venuta. Unulfo quindi presentandosi al re gli annunziò che Pertarito veniva a mettersi nella sua fede. La qual cosa udendo colui promise sicuramente ch'egli non patirebbe alcun male poiché veniva alla fede sua. In questa venendo Pertarito, entrato presso Grimoaldo, mentre voleva buttarglisi a' piedi, il re clemente lo trattenne e lo sollevò all'amplesso suo. A cui Pertarito: ‘Io son tuo servo, gli dice; sapendoti cristianissimo e pio, mentre potea viver tra i pagani, m'affidai alla tua clemenza e ti venni innanzi.’ A cui il re col solito suo giuramento così promise dicendo: ‘Per colui che mi fe' nascere, posciaché tu venisti alla mia fede, in niuna cosa tu patirai male, ed io così ordinerò le tue cose che tu possa vivere onoratamente.’ Quindi assegnandogli ospizio in una casa spaziosa gli disse di riposarsi dopo il travaglio del viaggio, e impose che gli si somministrasse largamente dal denaro pubblico il vitto e ogni cosa necessaria. Ma poiché Pertarito fu andato alla casa apparecchiatagli dal re, subito cominciarono torme di cittadini pavesi ad accorrer quivi o per vederlo, o, quelli che già lo conoscevano, per salutarlo. Però dove non giungono le male lingue? Imperocché tosto alcuni adulatori maligni recatisi al re gli sussurrano che s'ei non toglierà prestamente Pertarito di vita, egli stesso [79] perderà in breve e regno e vita, asseverando che perciò tutta la città accorreva a lui. Udito ciò Grimoaldo troppo credulo e dimentico delle promesse, s'accende subito al pensiero d'uccider Pertarito e fa consiglio del come ucciderlo l'indomani poiché l'ora era omai troppo tarda. In sul vespro gli invia diversi cibi, scelti vini e bevande di varie maniere, affinché abbandonatosi quella notte al molto bere e sepolto nel vino non valesse a badare in nulla alla salvezza sua. Allora un tale ch'era stato ai servigi di suo padre, avendo recato a Pertarito le regie vivande, inchinando il capo fin sotto la mensa quasi a salutarlo, segretamente gli annunziò che il re aveva divisato d'ucciderlo. E Pertarito subito comandò al suo coppiere che nella tazza d'argento null'altro gli versasse fuorché un po' d'acqua. E poiché coloro che gli portavano le varie bevande lo pregavano a nome del re che si bevesse tutta la fiala, quegli promettendo di berla tutta in onore del re, libava un po' d'acqua nel calice d'argento. Quei ministri annunziando ciò al re e ch'egli beveva avidissimo, il re lieto rispose: ‘Beva quel briacone; domani renderà quel vino medesimo misto col sangue.’ Pertarito intanto chiamato a sé subito Unulfo gli narrò la trama del re per ucciderlo. Unulfo subito mandò a casa sua un ragazzo che gli portasse i panni del letto e si fe' apparecchiare un letto presso quello di Pertarito. Nè andò un pezzo e Grimoaldo diresse i suoi satelliti a circondar la casa dove Pertarito dormiva talché non potesse scampare in alcun modo. E finita la cena e tutti [80] usciti, rimanendo soli Pertarito, Unulfo e il guardarobiere di Pertarito che gli era fedele davvero, essi s'aprono con lui e lo supplicano che, mentre Pertarito fuggirà, egli, il più lungo tempo che potrà, entro la stanza da letto finga di dormire. E promettendo quegli di far così, Unulfo impose sulle spalle e sul collo a Pertarito i panni del letto e la coltrice e una pelle d'orso, e secondo l'accordo cominciò a cacciarlo fuor della porta ingiuriandolo forte e per giunta battendolo colla verga, senza cessar mai di sgridarlo, talché colpito e spinto ruzzolava spesso a terra. E interrogandolo di ciò i satelliti regi che eran lì posti a custodia: ‘Questo servo cialtrone, rispose Unulfo, mi avea collocato il letto nella stanza di codesto briacon Pertarito, il quale è così pien di vino ch'ei giace come morto. Mi basta d'aver seguita finora la pazzia sua, d'ora innanzi, finché viva il re, io nella propria casa, mi rimarrò.’ Udendo tali cose coloro e credendole vere se n'allietarono, e dando luogo a lui e a Pertarito, che stimavano essere un servo e che per non farsi conoscere avea il capo coperto, li lasciarono andare. Mentre essi andavano, quel fedelissimo guardarobiere chiusa bene la porta se ne rimase dentro solo. Unulfo intanto calò con una fune Pertarito giù da quel lato delle mura che è verso il Ticino, e l'associò a que' compagni che potè raccogliere. I quali tolti que' cavalli che trovaron lì alla pastura, corsero in fretta quella stessa notte ad Asti dove Pertarito aveva amici i quali si mantenevano tuttavia ribelli a Grimoaldo. Quindi movendo quanto più presto [81] poté a Torino, superati i confini d'Italia giunse alla patria dei Franchi. Così Iddio onnipotente per disposizione di misericordia e strappò un innocente alla morte e salvò da colpa il re che nell'animo suo desiderava di far bene.
«Ma Grimoaldo stimando che Pertarito dormisse nella dimora sua, tra questa e il suo palazzo fece distendere una schiera d'uomini per far passare Pertarito in mezzo a loro affinché non potesse fuggire in nessun modo. E venendo i messi del re a chiamar Pertarito a palazzo, e picchiando alla porta dove e' credean che si stesse dormendo, quel guardarobiere che stava dentro li pregava dicendo: ‘Abbiategli misericordia e lasciatelo dormire alquanto perché stanco ancora del viaggio è oppresso da sonno gravissimo.’ E annuendo quelli riportarono al re che Pertarito dormiva tuttavia un grave sonno. Egli allora: ‘Così s'è caricato iersera che adesso non può tenersi sveglio.’ A quelli tuttavia impose che svegliatolo subito lo conducessero a palazzo. I quali recatisi all'uscio della stanza dove speravano che Pertarito riposasse, incominciaron più forte a picchiare. Allora il guardarobiere di nuovo prese a pregarli che concedessero ancora a Pertarito di dormire un poco. Quelli irati esclamando che ormai il briacone avea dormito a sufficienza, rompono a calci l'uscio della stanza ed entrati cercano nel letto Pertarito. Non trovandolo chiedono al guardarobiere che cosa fosse di Pertarito e quegli rispose ch'egli era fuggito. Furenti a ciò lo prendono pe' capelli e tra le percosse lo strascinano a palazzo, e condottolo [82] alla presenza del re, lo dichiarano conscio della fuga di Pertarito e però degnissimo di morte. Il re comanda che lo lascino e s'informa ordinatamente in qual modo Pertarito sia scampato. Quegli riferisce ogni cosa come s'era fatta. Il re interrogò allora i circostanti dicendo: ‘Che vi par di quest'uomo che fece una siffatta cosa?’ E tutti a una voce risposero ch'egli era degno di morir fra mille tormenti. Ma il re: ‘Per colui che mi fe' nascere, disse, degno è d'essere ben trattato quest'uomo che non ricusò di consacrarsi a morte per la fede del suo signore.’ E tosto comandò che l'annoverassero tra i suoi guardarobieri ammonendolo che gli serbasse la stessa fede che aveva serbata a Pertarito e promettendo di largirgli ogni agio. Chiedendo poi il re che fosse avvenuto d'Unulfo, gli dissero che s'era rifugiato nella Chiesa del Beato Arcangiolo Michele. Il re mandò subito per lui promettendogli spontaneo che non patirebbe alcun male, ma ch'ei venisse sulla sua fede. Unulfo poi udendo una tale promessa del re, subito venne a palazzo e gettatosi ai piedi del re fu interrogato da lui come e qualmente Pertarito avesse potuto scampare. Ma quegli avendo riferita ogni cosa per ordine, il re lodando la fede e la prudenza sua, gli concesse clemente tutte le sue facoltà, e quanto poteva avere.
«Il re poi dopo qualche tempo interrogando Unulfo s'egli volesse allora esser con Pertarito, quegli giurando disse che piuttosto vorrebbe morir con Pertarito che vivere altrove nelle maggiori delizie. Allora il re interrogò anche il guardarobiere chiedendo [83] s'egli trovava migliore lo star con lui in palazzo o andar seguendo Pertarito nell'esilio. E avendo quegli risposto il medesimo che Unulfo, il re accogliendo benignamente le parole loro e lodando la loro fede disse ad Unulfo che dalla casa sua prendesse quanto piacevagli, cioè garzoni, cavalli e suppellettile diversa, e se ne andasse illeso a Pertarito. Nel medesimo modo licenziò anche il guardarobiere. I quali secondo la benignità regia pigliando a sufficienza tutte le cose loro, coll'aiuto del re medesimo si recarono nella patria de' Franchi al diletto lor Pertarito.»
Nè qui finisce questa drammatica storia. Qualche anno più tardi Pertarito sentendosi mal sicuro nella terra Franca pensò d'andarsene in Inghilterra. Frattanto Grimoaldo morì d'una ferita ch'egli avea cagionata a sè stesso nel tirar d'arco, e fu sospettato che i medici l'avessero avvelenata mentre mostravano di curarla. «Questi, conclude Paolo parlando di lui, all'editto composto da re Rotari aggiunse alcuni capitoli di legge che gli parvero utili. Fu egli validissimo di corpo, innanzi a tutti per audacia, calvo del capo, lunga la barba, non meno ornato di consiglio che di forza. Il corpo suo fu sepolto nella basilica del beato Ambrogio confessore, già fabbricata da lui entro Pavia. Un anno e tre mesi dopo la morte del re Ariperto egli avea invaso il regno dei Longobardi, e regnò nove anni lasciando re in età ancor puerile Garibaldo un figliuolo che da lui avea generato la figlia del re Ariperto. Adunque, come avevamo incominciato a dire, Pertarito lasciata [84] la Gallia, salì una nave per passar nell'isola britannica al regno dei Sassoni. E già aveva alquanto navigato in mare, quando fu dalla riva udita una voce chiedente se Pertarito si trovasse in quella nave. E risposto ch'ei v'era, colui che chiamava, soggiunse: ‘Ditegli che egli se ne torni alla patria sua: già fan tre giorni oggi da che Grimoaldo fu tolto alla luce.’ Udendo ciò Pertarito subito tornò indietro ma giunto al lido non potè trovar la persona che avevagli annunziata la morte di Grimoaldo, onde fe' stima colui non essere stato un uomo ma un nunzio celeste. E quindi, movendo verso la patria, giunto ai confini d'Italia trovò che l'aspettavano palatini ossequi ed ogni regia dignità con grande moltitudine di Longobardi. Adunque tornato a Pavia, tolto del regno il fanciulletto Garibaldo, fu da tutti i Longobardi sollevato al regno nel terzo mese dopo la morte di Grimoaldo. Era egli uomo pio, cattolico di fede, tenace della giustizia, e dei poveri nutritore larghissimo. Il quale subito mandò a Benevento e richiamò di quivi Rodolinda consorte sua e Cuniperto suo figlio.»[58] Dagli esempi che son venuto recando non sarà malagevole al lettore il figurarsi i pregi principali e i difetti di Paolo e come scrittore e come storico. Nato quando le lettere latine erano cadute nel folto della barbarie, egli al paragone de' suoi tempi è scrittore assai buono ma non è da aspettarsene quella purezza sicura che abbellisce lo stile di latinisti fioriti in età [85] diverse. Poeta gentile e talora perfino elegante egli adopera la lingua latina colla facilità nativa di chi l'ha usata fanciullo ancorché talvolta pecchi di qualche errore. Di stile è disugualissimo, e la disuguaglianza per lo più deriva dalle fonti a cui egli attinge spesso copiando. Generalmente egli è chiaro, ma si incontrano nel suo libro taluni passi intralciati e in tal modo oscuri, che dopo infiniti lavori tormentano ancora la fantasia e la pazienza degli eruditi a cui tocca d'interpretarli. Ama il vero con ardore di uomo onesto, ma ripete credulo le leggende e i racconti favolosi che ha trovato sparsamente nelle cronache o nelle tradizioni nè cerca d'alterarli togliendo ad essi o aggiungendovi nulla. E ciò è un gran pregio e tanto più gliene dobbiamo esser grati quanto più la cultura sua, vastissima pe' suoi tempi, poteva tentarlo ad una narrazione più ricercata e artificiosa che ne avrebbe insieme distrutto il fascino e il merito storico. Così com'essa è la sua narrazione ha un valore immenso che s'accresce per l'uso ch'egli fece degli scritti perduti oramai senza speranza di Secondo di Trento. Il lungo e vario commercio di pensieri e d'affetti ch'egli ebbe con uomini e paesi assai diversi tra loro, lo trae quasi per istinto ad allargar la tela del suo racconto e a largamente giovarsi di altri scrittori per narrar fatti lontani da lui di tempo e di paesi. Perciò oltre che alla Origo e all'abbate Secondo, egli attinge sovente a Gregorio di Tours, a Beda il venerabile, alle vite dei Pontefici, alle opere di Gregorio il Grande e d'altri somiglianti scrittori. L'amore della verità che lo animava, i viaggi, le molte [86] cose vedute, l'accesso familiare alle corti dei Longobardi e dei Franchi, gli agevolarono il mezzo di raccogliere le tradizioni del passato, mentre la fantasia vivida e la ingenuità sua lo muovevano a dipingerle al vero. Quanto ha di plausibile la Historia Langobardorum vuolsi riputar grave e degno d'esame maturo, e quanto v'ha di non plausibile in essa, bene dipinge e fedelmente gli antichi costumi dei Longobardi, a quel modo che la vecchia Scozia meglio che da ogni storico ci rimane innanzi dipinta dal maraviglioso pennello del suo gran romanziere.
[87]
Decadenza della cronografia italiana — Il «Liber Pontificalis» — «Gesta Episcoporum Neapolitanorum» — Agnello Ravennate — Scritti polemici di Ausilio e Vulgario — I monasteri e le invasioni saraceniche — Farfa: la «Constructio,» le vite dei santi Vulturnensi, la «Destructio» — Montecassino: il «Chronicon Sancti Benedicti Casinensis» — I cataloghi e le traslazioni dei Santi — La Historia di Erchemperto e l'Anonimo Salernitano — Andrea da Bergamo — Panegirico di Berengario — Stato della cultura laica in Italia — Liudprando — Scritti imperialisti — Benedetto di Sant'Andrea — Cronaca veneta di Giovanni Diacono.
La historia di Paolo Diacono ebbe alcune continuazioni[59], ma il valor d'esse appena merita una fuggitiva menzione in questo libro che non considera esclusivamente le opere dei cronisti come sorgenti di storia ma sì anche come manifestazioni letterarie della età medioevale. La cronografia italiana entra ora nel periodo più povero della sua vita. Un decadimento profondo seguì gli ultimi bagliori del classicismo e quello sforzo verso una rinascenza tentato da Carlo Magno e cessato con lui. Al notevole lavoro [88] di Paolo tennero dietro cronache o ricordi storici d'assai minore importanza. «È ben da compiangere, nota il gran Muratori, la storia d'Italia che ci lascia per tanto tempo digiuni dei fatti ed avvenimenti d'allora, con restarne solo un qualche barlume presso gli antichi oltramontani.»[60] Infatti dal periodo dei Carolingi a quel degli Ottoni, dove non ci soccorrono documenti indiretti come iscrizioni, diplomi e somiglianti aiuti, spesso è necessità ricorrere a fonti tedesche o francesi per aver qualche luce tra il folto buio della storia nostra. Come vedremo, non s'era spento del tutto nei laici ogni ricordo dell'antico sapere ma l'impulso a scrivere mancava in essi, e la parte più colta del clero era troppo intesa nelle agitazioni politiche per consacrarsi a dettare scritti di storia. In genere la cultura ecclesiastica parve concentrarsi pressoché intera nella trattazione degli affari, talché le raccolte delle lettere pontificie di Niccolò I († 867) e di Giovanni VIII († 882), così per forza e bontà d'espressione e di stile come per valore storico, sono forse i documenti più pregevoli che ci abbiano lasciato quei tempi. Ma il silenzio che nel secolo nono sembra regnare in Italia intorno agli avvenimenti contemporanei, non può dirsi assoluto. Quegli avvenimenti medesimi furono talvolta occasione pressoché necessaria di scritti che direttamente o indirettamente hanno carattere storico, tra i quali vuolsi dar luogo eminente al Liber Pontificalis che per quanto riguarda la prima metà del nono secolo [89] è di grande sussidio alla storia generale della Chiesa e a quella particolare di Roma. Questo libro andò lungo tempo sotto il nome di Anastasio Bibliotecario uomo di molta dottrina, che tradusse dal greco varie opere ma che, se pur n'ebbe alcuna, ebbe pochissima parte in questa. Certo l'attribuire il Libro Pontificale ad un solo autore è contraddire all'indole stessa dell'opera la quale consiste in una serie di notizie biografiche dei papi compilate or più or meno estesamente in varî tempi e da varî scrittori. La storia di questo libro e delle sue compilazioni, le indagini circa gli autori di esso, la critica dei manoscritti che lo contengono, hanno dato materia di lungo lavoro agli eruditi e pur di recente originarono alcune dissertazioni dottamente elaborate e ricche d'acume le quali hanno poi fatto capo alla mirabile edizione datane dal Duchesne che può considerarsi fondamentale[61]. Basti ora descrivere brevemente la prima parte di questo libro che pel frequente variar di forme può in certo modo rassomigliarsi al nascere e al correr d'un fiume. Il bisogno continuo d'aver familiare per motivi ecclesiastici la cronologia pontificia [90] fu prima origine del libro. Così, verso il quarto secolo, dagli antichi cataloghi dei nomi dei papi, dalle costoro lapidi sepolcrali, dalle menzioni che se ne trovavano negli atti dei martiri o in lettere o in libri, cominciò a comporsi il primo nucleo del libro pontificale per la più antica e popolare redazione. Sulle prime le biografie indicavano fuggevolmente il nome, la famiglia, la patria del pontefice, la durata del suo pontificato, i decreti dati nel suo tempo e il luogo di sua sepoltura. Tra un pontefice e l'altro era notato il tempo della sede vacante. Poi a poco a poco le brevi indicazioni aumentarono, e le compendiose notizie si vennero mutando in biografie più larghe e ricche di particolari preziosi[62]. Sventuratamente nell'ultimo quarto del nono secolo quando avremmo più bisogno dei soccorsi di questo libro esso ci vien meno quasi interamente. Le turbolenze politiche vincono la forza della tradizione, e il Libro Pontificale ricaduto nella aridità primitiva si scheletrisce di nuovo e si riduce a un catalogo. Più tardi, giunti al pontificato di Leone IX, col risorgere della cultura storica lo ritroveremo più ricco di fatti e più fiorente, [91] rendendoci così sempre la immagine di un fiume che si nasconde a un tratto per riapparire più vasto e più copioso altrove.
Quando Paolo Diacono scrisse le Gesta dei vescovi di Metz, inaugurava un genere di letteratura storica che rispondeva veramente a un bisogno dei suoi tempi, e nei secoli seguenti trovò molti imitatori. Lo stesso concetto che aveva ispirato il libro pontificale ispirava qua e colà in varie diocesi storie di vescovi alle quali talvolta la importanza della sede e la povertà di altre notizie allargano il valore nella storia generale della Chiesa. Così le storie dei vescovi napoletani e dei ravennati, compilate nel nono secolo, sono documenti che vogliono tenersi in gran conto da chi indaga studiando le vicende di quella età. Come la raccolta delle vite dei vescovi romani, così le Gesta Episcoporum Neapolitanorum sono opera di diversi autori e anch'esse furono attribuite quasi per intero ad un autor solo, Giovanni Diacono. Il Waitz e il Capasso pubblicando ciascuno una nuova edizione di questo libro[63], hanno dimostrato come essa [92] debba dividersi in tre parti. La prima compilata da un ignoto autore verso la metà del secolo nono, incomincia da Cristo e arriva con arida compilazione fino all'anno 763 aggiungendo poco o nulla di nuovo alla storia. La seconda parte è da ascriversi a quel Giovanni Diacono che già fu stimato autore di quasi tutto il libro e a cui veramente riman l'onore d'averne composta la parte maggiore e la meglio pregevole. Giovanni cominciò adolescente il lavoro suo, e ripigliando la storia dei vescovi napoletani all'anno 763 dove l'altro l'aveva lasciata, la continuò fino alla morte del vescovo Atanasio I (A. D. 872). Col successore di lui incomincia la terza parte delle vite, scritta da un Pietro suddiacono, ma n'avanza un frammento così breve che non serve esaminarlo[64]. Lo scrivere di Giovanni è corretto a sufficienza nè s'hanno da rimproverar molte mende al suo latino. Considerando i tempi è scrittore di qualche merito, e gli acquista lode la cura ch'ei pone a cercare il vero delle cose che narra e a darne assicurazione al lettore. Le molteplici relazioni di Napoli con altri paesi e specialmente con Roma, colla Grecia e col Principato Beneventano, accrescono dal lato storico il valore a questo lavoro di Giovanni [93] e ad alcuni altri suoi scritti minori sulle vite e la traslazione delle reliquie d'alcuni santi napoletani.
Di maggior momento è il Libro Pontificale di Agnello da Ravenna. La importanza di questa città, assai grande mentre decadeva l'Impero, non pur si mantenne alta, ma per la favorevole sua posizione sulla costa adriatica si fece forse maggiore nei primi secoli del medio evo. Poiché i Greci ebbero riperduta gran parte d'Italia all'invadere dei Longobardi, Ravenna divenuta sede del governo imperiale poteva assai più di Roma considerarsi come capitale dell'Impero. Mentre gli Esarchi di Ravenna reggevano la Pentapoli in nome degli Imperatori, Roma circondata dal dominio longobardo, tanto si scioglieva man mano dalla influenza imperiale quanto più i Papi venivano slargando la loro e aspiravano a sottrarsi dalla soggezione bizantina. La rilevanza della città crebbe rilievo alla diocesi di Ravenna, e l'autorità dei vescovi ravennati salì così alto da indurli a contrastare con Roma e a non voler facilmente accogliere le papali pretese di supremazia. Da ciò si fa agevole intendere come il libro di Agnello che tratta dei vescovi ravennati, debba riuscire di pregio. Composto in modo somigliante al Libro Pontificale romano, ha comune con esso il titolo ancorché sovente mostri tendenze poco favorevoli a Roma. Contro l'usanza seguìta dai compilatori delle vite papali, Agnello ha lasciata ampia traccia di sé nel suo libro, onde la sua biografia riesce facile a tessere. Nacque di nobile famiglia a Ravenna verso l'anno 805, e destinato dai primi anni alla vita ecclesiastica, fu educato nella cattedrale [94] (Ecclesia Ursiana). Fanciullo ancora ebbe in beneficio l'abbazia del monastero di Santa Maria ad Blachernas e in seguito anche quella di San Bartolomeo. Più tardi però quest'ultima gli fu tolta per qualche tempo dall'arcivescovo Giorgio il quale, senza giusta ragione al dire d'Agnello, d'amico grande gli si convertì in nemico. Agnello fu ordinato prete da Petronace arcivescovo che governò la sede ravennate dall'anno 817 fino all'anno 835. Oltreché la nascita e le ricchezze già lo collocavano in posizione elevata, Agnello poté splender tra il clero non pure per queste doti esteriori ma per quelle ancora dell'ingegno e del sapere. Nè ciò vorrebbe dir molto, come osserva a ragione l'ultimo editore d'Agnello, ché la cultura del clero ravennate era allora meno che scarsa, ma tuttavia fu bastevole occasione per un lavoro utilissimo ai posteri lontani. La fantasia vivace, l'amor suo per le arti e i frequenti incarichi ch'egli ebbe d'attendere all'ornamento e ai restauri delle chiese ravennati, una certa conoscenza del greco necessaria allo storico d'una diocesi così legata ai Bizantini, tutto doveva aiutarlo all'opera che si metteva a comporre. E però è naturale il credere che la riputazione della sua dottrina inducesse gli altri preti di Ravenna ad insistere forte presso di lui per fargli intraprender la storia dei loro vescovi. Accettato l'incarico, Agnello lo eseguì con lentezza e a frammenti, malgrado lo stimolo impaziente dei colleghi ai quali, per quanto apparisce, egli veniva leggendo il libro man mano che lo componeva. Questo lavoro, compiuto verso la metà del secolo nono, muove dai tempi apostolici colla [95] vita di santo Apollinare e giunge fino ai vescovi contemporanei dell'autore. È opinione generalmente accolta che il libro d'Agnello traesse origine ed ispirazione dal Libro Pontificale romano, ma non trovo per essa molta solidità di fondamento. Gli argomenti addotti per sostenerla s'appoggiano principalmente sulla identità del titolo e su talune somiglianze nella disposizione del libro, ma al giudizio mio sono argomenti deboli e inefficaci alla prova. Inoltre ammettendo queste ipotesi non è facile intendere come Agnello non si sia mai giovato del Pontificale Romano. In parecchi luoghi egli avrebbe potuto attingere da esso utilissime notizie, e non par cosa probabile il suo trascurarle senza ragione[65]. Ma tralasciando questo mio dubbio, il libro di Agnello ha certo tra i suoi pregi maggiori quello di non aver solo attinto dai libri come da unica fonte. Una delle sue somiglianze colle vite dei papi consiste nell'essersi molto giovato dei monumenti e d'avere ritrovata in essi una gran parte della sua storia. Come s'è detto, il sentimento e il sapere dell'arte lo aiutarono grandemente nel suo lavoro. Del continuo s'incontrano nel suo libro descrizioni di chiese e d'altri edifici ravennati, e il suo racconto s'appoggia alla autorità di epigrafi trovate in que' monumenti. Persin le figure dei personaggi di cui fa discorso, ci son recate innanzi dall'autore con descrizioni ricavate dalle pitture e dai [96] mosaici di cui era allora così gran copia in Ravenna che ancora è ricchezza stupenda quel che ne avanza dopo tanti secoli e tante vicende. «E,» dichiara egli stesso, «se a voi che leggete questo Pontificale verrà alcun dubbio, e vorrete indagare dicendo: ‘Perché non narrò i fatti di questo pontefice come degli altri predecessori?’ udite per qual ragione. Questo Pontificale dal tempo del beato Apollinare per ottocento e più anni dopo la sua morte composi io Agnello che anche son detto Andrea, esiguo prete di questa santa mia chiesa ravennate, pregandomi e costringendomi i fratelli di questa sede medesima. E dove trovai quel ch'essi fecero certamente, ciò io recai dinanzi a voi, e di quanto udii da più vecchi e longevi non defraudai gli occhi vostri, e dove non trovai storia o qual fosse la vita loro nè per uomini annosi e vetusti nè per edificio nè per autorità alcuna, per non far lacuna tra i santi pontefici, io, secondo l'ordine in che ottenner la sede un dopo l'altro, composi la vita loro aiutandomi Iddio per le vostre orazioni, e credo di non aver mentito perché e' furono pii e casti e limosinieri e acquistatori a Dio d'anime umane. E della effigie loro, se forse nasca pensiero tra voi come io potei conoscerla, sappiate che mi ammaestrò la pittura, perché ai lor tempi sempre si facevan le immagini a lor simiglianza. E se nasca questione che io dovessi affermare dalle pitture la effigie loro, Ambrogio vescovo santo di Milano, nella Passione dei beati martiri Gervaso e Protaso parlò della effigie del beato Paolo apostolo dicendo: ‘Il cui volto mi additò la pittura.’»
[97]
Com'è da aspettarsi, Agnello con questo suo metodo di scriver la storia mescola frequenti leggende di miracoli tra i fatti che narra e le notizie artistiche che ci tramanda indirettamente. Quando nelle vite più antiche gli vien meno l'aiuto di positive indicazioni nè trova molto oltre il nome del vescovo, egli stima lecito aggiunger di suo parole e racconti di lode contrapponendo, non senza amarezza di rimproveri, quelle vite ideali degli antichi alle vite reali dei vescovi recenti. Ciò d'assai scema fede alla sua storia quando in essa raccontasi direttamente alcun fatto antico, ed anche vien dubbio della imparzialità sua verso i contemporanei leggendo le acri espressioni appuntate contro quell'arcivescovo Giorgio che per qualche tempo gli tolse l'abbazia di San Bartolomeo. Dei papi parla spesso con gran libertà e con poco favore, la qual cosa ha forse ristretta la sua fama nel medio evo e ha reso scarsi a tal punto i manoscritti del suo libro, che oramai solo un codice se ne conosce che lo contiene intero. Lo stile suo molto disuguale è stato descritto bene dall'Holder Egger con queste parole che pongo qui a conclusione: «Il suo linguaggio, come quello di tutti gli scrittori italiani di quella età, simile piuttosto alla lingua del volgo che a quella dei classici, poco cura le leggi di grammatica. Ma le varie parti differiscono molto tra loro di stile e di maniera. Talora scrive abbastanza corretto, e, per quanto può, elegante; talora spropositato a maraviglia, negligente d'ogni composizione buona e costruzion retta di parole; per lo più semplice e asciutto, ma dove riferisce [98] udite favole, parla copioso, concitato e spesso tumidissimo nè di rado oscuro. Massimamente imita la Sacra Scrittura, de' cui detti è ripieno il suo discorso oltre quanto può notarsi, ed i Padri della Chiesa, ma dove descrive fervidamente t'imbatti qua e là a spesso ripetute sentenze di Virgilio. Dal quale anche pigliò in ridicol modo nomi d'antichi, onde chiama i Greci dei suoi tempi Pelasgi e Danai e Mirmidoni. Inoltre vuolsi avvertire che il discorso suo abbonda di parole altrove inusitate, ἅπαξ λεγομένοις, per lo più tratte dalla lingua greca.»[66]
Il rapido decadimento morale a cui soggiacque la Chiesa Romana sul finire del secol nono, mentre inaridiva alle sorgenti il Libro Pontificale romano, die' vita a taluni scritti polemici il cui valore storico risalta per le molteplici questioni lungamente agitate sulla infallibilità papale. La storia di papa Formoso è nota. Strappato dalla tomba per volere di Stefano VI suo successore e nemico, il suo cadavere fu come persona viva sottoposto al giudizio di una sinodo e condannato solennemente (A. D. 897). L'assemblea sacrilega e feroce dichiarò reo quel miserando avanzo di papa, e affermò ch'egli era stato contravventore alle leggi della Chiesa e usurpatore della sedia apostolica. Rinnegata la elezione sua, tutti gli atti del suo pontificato furono annullati e l'informe spoglia, svestita delle insegne pontificie e mutila, fu con obbrobrio [99] gettata in Tevere. A così turpe strazio la malvagità dei tempi sempre crescente e la dura ferocia delle parti avean messo il papato, e cosiffatti successori sedevano dove Gregorio Magno avea ministrato! Ma contro lo scellerato atto di Stefano s'alzò la voce d'alcuni scrittori, e il morto Formoso ebbe sue difese. Uno di questi scrittori, Ausilio, nato d'origine franca, viveva a Napoli e credesi che morisse monaco a Montecassino. Lo aveva consacrato prete Formoso, e la consacrazione sua considerandosi nulla, egli alcun tempo dopo lo scandalo di Roma sostenne coraggioso e per quella età con molto sapere, la causa del condannato papa che in certo modo era sua causa. Colle stesse tendenze scrisse Eugenio Vulgario grammatico italiano, anch'egli per quanto pare dimorante a Napoli. Lo scritto suo è piuttosto una glorificazione che una difesa di Formoso a cui peraltro non si tenne sempre fedele. Dopo i primi scritti piegò verso la parte contraria, ma poi venuto al pontificato Giovanni X, di nuovo si mostrò formosiano colla Invectiva in Romam se è vero ch'egli la componesse, ma di ciò resta ancor qualche dubbio. Scritto con pesante artifizio di stile questo libello è fatto quasi eloquente dalla fiera iracondia che lo anima. Con ardor grande inveisce contro la intera città di Roma, e chiama in colpa della esecranda opera i Romani usati ab antico a ripagar di morte i loro benefattori. Perciò la violenza patita in altri tempi da Romolo e da San Pietro e San Paolo, doveva ora patire Formoso uomo santo giusto cattolico. «Il cadavere già per nove mesi sepolto strappaste dal sepolcro. Se era interrogato che [100] mai poteva rispondere? Se avesse risposto, tutta quella orrenda congrega colta di terrore si sarebbe dispersa.»[67] Così in pochi tocchi egli descrive la sinodo che giudicò Formoso e che fu chiamata horribilis pur dal Concilio Romano dell'anno 898 adunatosi a riparare la sozza ingiuria.
Da questi scritti polemici i quali malgrado la passione che li impronta recano pure utilissime testimonianze su quel fatto straordinario, volgiamo ora a diverso genere di componimento. Appena Benedetto da Norcia ebbe fondati i primi monasteri, tosto il viver monastico si distese rapido per una immensa regione. La scintilla accesa a Subiaco e a Montecassino s'era propagata lontano, e a stuoli i benedettini popolavano ormai le campagne dell'intero occidente. A secondare questa tendenza verso la vita cenobitica e per impulso di essa, erano frequenti le fondazioni di nuovi monasteri. I quali spesso, favoriti dalle circostanze, privilegiati dai principi, arricchiti da ogni maniera di gente con doni di terre che i monaci colonizzavano quando il valor della terra era in picciol conto, presto salivano a grande stato di ricchezza e [101] potenza. La regola benedettina che oltre al lavoro manuale dei campi, imponendo ai monaci il leggere promuoveva la trascrizione dei manoscritti, accoppiava al beneficio inestimabile di moltiplicar libri l'altro non lieve di serbar nei monasteri alcun barlume di quella cultura che allora spegnevasi negletta dal rimanente clero in Italia. Fioca luce invero, ma pur così fioca valse tra il nono secolo e il decimo a ispirar talune scritture intorno alla origine e alle prime vicende di parecchi monasteri. Mista di leggende e di racconti miracolosi esse contengono una messe considerevole di fatti veri e molti tratti caratteristici di cui può servirsi lo storico nel ricomporre da quegli scarni profili il quadro di una età tanto buia[68].
Tra questi lavori uno ve n'ha che narra le origini del monastero di Farfa in Sabina. La storia della prima fondazione di questo monastero non posa nel fermo e si perde nella leggenda. Un santo uomo di nome Lorenzo, venuto dalla Siria a Roma nei tempi di Giuliano imperatore, fondò il monastero distrutto poi alla prima venuta dei Longobardi o, secondo un'altra versione, anche prima durante l'invasione vandalica di Genserico. Più tardi coll'aiuto di Faroaldo duca di Spoleto, il pellegrino Tommaso da [102] Morienna ricostruì il monastero. Presto v'affluirono d'ogni lato i monaci, e la badia prosperò di tal guisa che a breve andare fu delle prime d'Italia, vasta per la estensione de' suoi possedimenti, potente per le sue relazioni coi duchi di Spoleto e coi re d'Italia. Perciò riesce pieno d'interesse quanto ce ne narra la Constructio o Liber Constructionis Farfensis, dall'anno 705, a cui può ricondursi approssimativamente la seconda e certa fondazione del monastero, fino all'anno 857 nel quale essa Constructio ha il suo termine. Opera d'un monaco ignoto del secolo nono, questo scritto non è pervenuto a noi quale lo compose l'autore, e solo ce ne resta quel che ne fu interpolato in un antico codice del monastero che contiene lezioni sulle vite di alcuni santi[69]. Questi avanzi della Constructio copiati senza alcun dubbio dal testo originale, recano testimonianza di una latinità assai migliore di quella che s'incontra per solito in quella età. Ciò forse è dovuto alla influenza delle relazioni onde il monastero fu sempre legato ai dominatori longobardi e franchi che nei loro contrasti colla sede [103] apostolica lo tennero fin dal principio come il baluardo loro più prossimo alle mura di Roma. Governato da abbati di origine franca quando la cultura ecclesiastica era meglio curata oltralpe che a Roma, il monastero non soggiacque del tutto a questo periodo di decadenza letteraria che si attraversa, e vedremo più tardi sorgere tra le sue mura i primi inizî di una rinascenza storica a cui prelude intanto questa Constructio. Ad essa collegasi strettamente e fornisce materia di compilazione, la vita dei tre fondatori del monastero di San Vincenzo al Volturno. Nel primo quarto del secolo ottavo fondarono questo monastero tre giovinetti beneventani di nobile lignaggio e parenti fra loro, consigliandoli ed aiutandoli all'opera quel medesimo Tommaso di Morienna che avea ravvivato il monastero di Farfa. Autperto monaco e più tardi abbate di San Vincenzo raccontò la storia de' suoi fondatori non molti anni dopo ch'essi eran morti. Per questo racconto non s'accresce invero il patrimonio della storia, e solo è da farne menzione perché si ricongiunge alla storia di Farfa ed è monumento antichissimo della età longobarda[70]. Più [104] rilevante invece è la Destructio Farfensis, scritta nel principio del secolo undecimo da Ugo abbate di Farfa. Al fermarsi delle invasioni barbariche calate da settentrione, l'Italia ebbe a patire nuove invasioni dall'Affrica. I Saraceni fattisi signori della Sicilia, venivano distendendo il dominio loro nel mezzogiorno d'Italia, e dove non avevano dominio stabile si spingevano rapinando in temporanee incursioni. Secondo il più o men di resistenza che lo stato politico d'Italia poteva opporre, essi davano indietro o avanzavansi. Roma stessa minacciata sovente, vide un giorno le orde saraceniche irrompere in San Pietro, e le vôlte della venerata basilica echeggiarono l'urlo selvaggio degli Infedeli saccheggiatori. È agevole intendere come i monasteri meridionali o non lontani dal mezzogiorno, isolati nelle campagne e celebri per le raccolte ricchezze, fosser continuo oggetto di mira pei Saraceni. L'odio pei tempî cristiani e la cupidigia del bottino eran d'invito a spiar le occasioni per invadere quelle badie e spesso dopo averle predate distruggerle. La badia farfense posta alle falde d'un colle sabinate in luogo molto bene accessibile ad una [105] incursione, soggiacque alla sorte comune e fu distrutta. Così ridotta in rovina, Farfa rimase a lungo deserta dai monaci che vi tornarono sol quando fu possibile tornarvi con qualche speranza di sicurezza. La restaurata badia patì varie vicende finché il monaco Ugo levato al seggio abbaziale poté in un governo lungo e glorioso (A. D. 998-1039) rialzarne le sorti e la scaduta disciplina. Uomo di gran cuore e d'ingegno, Ugo non s'appagò del riformare il suo monastero e richiamarlo allo splendore antico: volle farsene storico e seguitar l'opera dell'anonimo autore della Constructio. Colla buona latinità tradizionale nella scuola di Farfa, Ugo ripigliò il lavoro dove l'altro lo aveva lasciato, e continuandolo fino ai suoi tempi lo intitolò Destructio dal gran fatto ch'ei narra della incursione saracenica. Per la storia di queste incursioni e per quella di Roma e di Spoleto ai tempi di Alberico, di Marozia e di Ugo re d'Italia, la Destructio ha grande importanza e merita forse più attento esame che non ebbe finora dagli storici[71].
Prima di distruggere la badia di Farfa, i Saraceni avean distrutta quella di San Vincenzo al Volturno e quella di Montecassino non meno fiorente e più famosa d'ogni altra. Quest'ultima fortemente situata a mezza via tra Roma e Napoli sul vertice d'un monte che domina la valle del Garigliano, fu minacciata lungamente prima di patire il saccheggio degli [106] Arabi. Tra le ansietà di questa minaccia fu scritta una breve cronaca che dopo avere riassunto rapidamente dietro le vestigia di Paolo Diacono la prima storia di Montecassino, si distende in molti particolari sui fatti avvenuti in quei luoghi d'Italia verso il mezzo del secol nono fino all'anno 867. Intreccia, al solito, fatti veri e leggende, ed è scritta in un latino di cui la rozzezza male potrebbero superare altri scritti di quella età così barbara. Ma per la storia del Principato longobardo di Benevento, per quella degli Arabi in Italia e di lor guerre con Ludovico imperatore, è una preziosa cronaca. Nel frammento che segue si narra in qual modo il Monastero sfuggì una volta l'eccidio minacciatogli, e bene si pare da esso con quali cautele debba aggirarsi lo storico tra queste cronache per isceverare il vero tra le molte fallacie che ne precludono la vista agli occhi suoi.
«A questi dì i Saraceni uscendo di Roma, tutto devastarono l'oratorio di Pietro principe degli apostoli beatissimi, e la chiesa del beato Paolo, e uccisero Sassoni[72] assai, e molt'altra gente varia di sesso e d'età. E pigliarono la città di Fondi e depredati i luoghi vicini, a settembre accamparonsi di là da Gaeta. Contro ai quali arrivò l'esercito dei Franchi, ma sbaragliato dai Saraceni il dì quarto delle idi di novembre, si mise in fuga. I Saraceni inseguendo i Franchi e pigliando loro ogni cosa, [107] giunsero da ultimo a santo Andrea e ne arsero il convento. I quali pervenuti al convento del beatissimo Apollinare vescovo, che chiamano d'Alviano, vider da presso il monte del beatissimo confessore di Cristo, e volean subito salirvi ma l'ora tarda vietò loro il passaggio. Adunque tanta era allora serenità di cielo e siccità di terreno, che il fiume poteva attraversarsi a piedi da chi voleva. I monaci del beatissimo padre Benedetto, vedendosi così vicina la morte, tosto si dieder l'assoluzione a vicenda supplicando il Signore misericordioso che ricevesse propizio in pace le loro anime ch'essi ad ogni minuto aspettavansi dovesser migrare per morte repentina. Tutti dunque a pie' nudi, sparso di cenere il capo, con litanie trassero al patrono loro Benedetto beato. Mentre era grande il terrore e trepida l'aspettazione e facevasi copiosa prece all'onnipotente Signore, apparve in visione a Bassacio padre il suo predecessore Apollinare abbate, dicendo: ‘O che avete? che dolore vi preme?’ E Bassacio: ‘Padre, ci sta sopra la morte, e non è da temere?’ ‘No, dice, non vogliate temer nulla: il pio padre Benedetto ottenne la salvezza vostra. Pregate dunque ardentemente Iddio con litanie e solennità di messe. Iddio esaudirà pronto le voci che chiamano a lui: da ultimo noi pur che siam nella chiesa, non cessiamo insieme cogli altri cittadini del cielo di pregare Gesù Cristo Signore per voi.’ E sorgendo dal sonno il pastor Bassacio e narrando ciò ai fratelli, tutti insieme con eccelsa voce benedissero Iddio che salva chi spera nella [108] misericordia sua. Allora subito ecco venire una pioggia immane, e lampi e tuoni così veementi che il fiume Carnello (Garigliano) crescendo oltre il segno, die' fuori. E mentre il dì prima potevano i nemici passarlo a piede, il dì appresso, costretti dalla repulsione divina, non potevano neppure accostarsi alle ripe. Volevan pure attraversare ad ogni modo il fiume, ma non trovando alcun adito per passare al cenobio, mordevansi le dita secondo lor fiera barbarie, e fremevano e stridevano i denti correndo qua e là furibondi. E per non tralasciare l'usata scelleratezza loro arsero i conventi dei beatissimi martiri Stefano e Giorgio, e passando pei Due Leoni se ne tornarono all'accampamento. Alquanti giorni dipoi uccisi i loro cavalli si misero in mare. I quali quando furono così prossimi alla patria loro che già vedevano i monti vicini, fecero festa con applausi marinareschi secondo l'usanza loro. Ed ecco apparir tra loro una navicella che recava due uomini, e l'uno avea l'abito come di chierico e l'altro di monaco. I quali dissero a loro: ‘Onde venite e dove andate?’ Ma quelli risposero dicendo: ‘Torniamo via da Pietro, devastammo a Roma tutto l'oratorio di lui, predammo il popolo e il paese, vincemmo i Franchi e ardemmo i conventi di Benedetto. E voi,’ dicono, ‘chi siete?’ Rispondono quelli: ‘Chi noi pur siamo vedrete or ora.’ Tosto venne su una gran tempesta e una procella veemente: onde le navi tutte furono infrante e tutti i nemici perirono: nessuno affatto di loro rimase che annunziasse la cosa ad altri. Nel tempo seguente [109] poi, Leone venerabile papa, circondò l'oratorio del beato Pietro di mura fermissime ed eccelse affinché un evento somigliante non accadesse più mai in Roma.»[73]
Alla cronaca cassinese è aggiunto un catalogo degli abbati del monastero colla indicazione degli anni in cui vissero e governarono a Montecassino. E qui mentovando un catalogo mi par luogo d'accennare a quest'altro genere di componimento storico, non raro intorno a questi tempi fino all'undecimo secolo e utilissimo specialmente alla cronologia. Questi cataloghi consistono generalmente di semplici liste con nomi di sovrani, di vescovi, d'abbati o d'altri personaggi, colla menzione degli anni in cui governarono, e talvolta col ricordo di qualche avvenimento. Così per esempio in un catalogo la serie dei re longobardi termina in questo modo:
«Ratchis regnò anni cinque e mesi tre.
«Astolfo regnò anni otto e mesi sei.
«Desiderio regnò anni diciotto, mesi due, giorni dieci. E così compiono 201 anni nei quali i predetti venti re regnarono nel regno d'Italia, come s'è notato particolarmente di sopra. Nel qual tempo fu presa Pavia e la incarnazione del nostro signore Gesù Cristo a quel tempo correva nell'anno 775. E dopo questi predetti venti re, il dominio del regno d'Italia pervenne a Carlo imperatore succedente al re Desiderio sopraddetto....» e dopo qualche altra [110] parola cominciando la serie dei Carolingi scende per tutti i dominatori d'Italia fino agli Enrichi dell'undecimo secolo[74].
Quando finalmente Montecassino fu preso e devastato dai Saraceni (A. D. 883), toccò ai monaci di rifugiarsi come in esilio ad aspettare giorni migliori nelle vicine città di Teano e di Capua. Il monaco Erchemperto trasse cogli altri a Capua ed ivi poi scrisse una storia de' Longobardi beneventani la quale incomincia dal duca Arechis e si distende fino all'anno 889 appoggiandosi come di consueto per la parte più antica a Paolo Diacono e ai suoi continuatori. [111] Nato a Teano, Erchemperto entrò fanciullo nel monastero e ne seguì le sorti travagliose in quella età di procelle. Lasciata Capua dopo restaurata la Badia (A. D. 886), pare ch'egli tornasse in breve a quella città, e vi tenesse poi stabilmente dimora, accolto forse in qualche monastero dipendente da Montecassino. Quivi egli longobardo di origine e di aderenze, fu indotto dagli amici suoi a scrivere il suo lavoro e a riferire le vicende dei Longobardi meridionali «dei quali,» egli dice, «a questi giorni nulla si trova degno e lodevole che meriti d'esser notato con verace stile, e perciò io non il governo loro ma l'eccidio, non la felicità ma la miseria, non il trionfo ma la rovina, non come sieno cresciuti ma come si sieno disfatti, non come abbiano superati gli altri ma come dagli altri sieno stati superati e vinti, traendo alti sospiri dall'intimo core, narrerò rozzamente e breve ad esempio dei posteri. E vinto dalle preghiere degli amici, dichiaro che io non solo narro quanto vidi cogli occhi miei, ma e più quanto udii cogli orecchi, imitando l'esempio di Marco e Luca evangelisti i quali piuttosto per quel che udirono che per quello che videro, scrissero gli evangeli.»[75]
Vivente nel teatro della sua storia, talvolta spettatore o vittima dei fatti che narra, e più sovente, amico e uditore di chi ne fu testimonio di vista, Erchemperto produce il suo racconto colla semplicità [112] spedita di chi parla cose familiari alla sua mente. Alquanto rozzo ma non pesante di forma, nella sostanza sincero e credibile, ei ci ragguaglia intorno alle guerre che si aggravavano sull'Italia meridionale ed alle spogliazioni che infliggevano ad essa le orde dei Saraceni e dei Greci i quali ultimi odia e spregia assai peggio dei primi. Il lavoro suo che ci abbandona all'anno 889, aveva un seguito la cui perdita è grave. Di questa perdita ci compensa in qualche modo lo scritto di un anonimo salernitano[76], che ci ragguaglia intorno alla storia dei principati longobardi fino al 974. Egli adopera molto Paolo Diacono ed Erchemperto nella compilazione sua, e solo può considerarsi come fonte originale nell'ultima parte del suo lavoro. Scrittor vivace ma di poca critica, è l'unico cronista a cui possa appoggiarsi in questi anni la storia dell'Italia inferiore. Ciò rende tanto più importuna la interruzione dell'opera di Erchemperto il quale per fermo tra gli scrittori meridionali è il maggiore, e neppure trova, fuor della scuola di Farfa, chi possa paragonarsegli nell'Italia centrale.
Nell'alta Italia due scrittori assai diversi tra loro diedero segno di loro attività letteraria nel campo storico. Un d'essi, il prete Andrea da Bergamo, compilando nell'anno 877 un riassunto della storia longobarda di Paolo Diacono, la continuò fino al suo tempo. Di quante se ne sono menzionate finora questa è forse la scrittura più barbara, talché la esattezza [113] delle notizie la fa pregevole per la parte media del secolo nono ma non vale a salvar dal tedio e dalla fatica chi prende a leggerla[77]. Per contro pochi anni dopo, sullo schiudersi del secolo decimo, ci apparisce innanzi un lavoro di poesia storica il quale lasciandosi indietro a gran pezza ogni altro scritto contemporaneo, rivela d'improvviso una larga conoscenza della lingua latina e degli autori classici. Il poeta si propone per eroe Berengario e celebra le imprese ch'egli sostenne per conquistarsi il regno d'Italia e la corona imperiale. Il poema che s'intitola: Panegyricus Berengarii è veramente un panegirico, e l'autorità sua come fonte storica per chi lo pigli da solo, non ha gran valore. Con molta finezza l'autore si studia di far sempre apparire legittima ogni pretesa di Berengario, e di palliare coi versi il signoreggiar della forza sopra ogni pretesa di diritto. Ma se non si vuol dar cieca fede alla storia di questo poema, certo come produzione letteraria, ragguagliandolo alla stregua dei tempi, è lavoro mirabile. Fu composto, per quanto pare, a Verona tra l'anno 916 e il 924 da un maestro di grammatica il cui nome è rimasto ignoto. Non può affermarsi con sicurezza se l'autore fosse laico od ecclesiastico, ma l'ignoranza che prevaleva allora nel clero italiano, indurrebbe piuttosto a farlo ritener laico. Postosi innanzi gli esempi d'Omero, di Virgilio e di Stazio, egli racconta sulle orme loro le imprese dell'eroe fino alla [114] sua coronazione in Roma. Tra i frequenti difetti di costruzioni stravolte e d'espressioni ricercate ed oscure, gli esametri suoi tutti fioriti d'emistichii e di versi classici son messi insieme con abilità sufficiente. Composto per essere letto e studiato nelle scuole di grammatica, questo panegirico ebbe l'onore di un commentario contemporaneo che lo spiega nei passi men facili. Anch'esso questo commentario è notevole per la buona conoscenza che mostra della letteratura classica, e ancor più per un certo modo di commentare che indica come coloro ai quali il commento si dirigeva, possedessero pure nozioni classiche non troppo scarse nè vili[78].
[115]
Dinnanzi a questo poema e ai segni di sapere che intorno a questo tempo appariscono sparsi qua e là in Italia, viene naturale il domandarsi quale fosse allora lo stato della cultura italiana. È egli ben vero che l'Italia fosse ottenebrata dalla profonda barbarie indicata dalle scarse e ruvide scritture ecclesiastiche che ci avanzano di quei secoli? A questa domanda, dopo il Tiraboschi e il Giesebrecht, ha risposto con tanta giustezza l'alemanno Wattenbach che mi stimerei in colpa s'io togliessi ai lettori una bella pagina [116] esponendo con parole mie le sentenze di quell'insigne maestro:
«Noi ci troviamo innanzi ad una cultura» così egli parla «che non trae origine dalla Chiesa ma è nutrita da quegli isolati grammatici di cui l'attività non cessò mai in Italia. È merito di Guglielmo di Giesebrecht l'avere indicato per la prima volta come queste scuole rimanessero sempre in Italia e spargessero un grado di cultura tra i laici sconosciuto dall'altro lato delle Alpi. In Italia, dice [117] Wipone nell'undecimo secolo, tutti i fanciulli vanno regolarmente a scuola, e soltanto in Germania si stima cosa inutile o sconveniente l'educare un fanciullo s'egli non è destinato alla Chiesa. I laici italiani leggevano Virgilio ed Orazio, ma non scrivevano libri, e intanto il clero parte s'immergeva nell'ignoranza e parte si consacrava troppo agli affari politici per affannarsi dietro agli sforzi eruditi di quel tempo. Per tal modo si spiega il difetto di produttività letteraria e la povertà della attuale letteratura, mentre d'altronde per quel panegirista, e alquanto più tardi per Liudprando, apparisce una piena maravigliosa di erudizione classica e grande abilità d'espressione, massime nel verseggiare che era oggetto precipuo della cultura scolastica. Alcuni del clero gustavano avidamente il frutto proibito, ma generalmente il clero stava contro questo movimento in cui non senza ragione riconosceva un elemento pagano. La scienza non era qui presa a servizio della Chiesa: essa teneva una posizione indipendente ma era quasi esclusivamente di una natura formale e però essenzialmente improduttiva.»[79]
[118]
Col sorgere della dominazione degli Ottoni (A. D. 961), si chiude il faticoso ciclo storico di cui sono venuto descrivendo le fonti man mano che le raccoglievo di qua e di là secondo che mi riusciva. La fiacca dominazione dei successori di Carlomagno, scemando in Italia le forze della monarchia, aveva per guisa accresciute quelle dei nobili, che a poco a poco essi fatti come indipendenti guerreggiavan tra loro disputandosi il potere supremo. Così crebbero quei fieri e potenti signori d'Ivrea, del Friuli, della Toscana, di Spoleto, i quali oramai fuor d'ogni soggezione dall'Impero ambivano al regno. Sono di questa età le lotte di Berengario duca del Friuli con Guido e Lamberto di Spoleto pel trono d'Italia, e le dispute tra loro e i principi tedeschi e francesi per la corona imperiale (A. D. 888-924), e i regni turbolenti e tirannici di Rodolfo, Ugo, Lotario di Provenza, e, per ultimo, di Berengario II. Tra queste lotte pativa oppressa l'Italia, mentre a Roma gli Alberichi e Marozia trascinavano nel fango il Papato di cui s'erano fatti padroni (A. D. 924-961). A questo punto le tenebre cominciano a diradarsi e succede l'età dei tre Ottoni sassoni i quali tennero l'Impero e ressero Italia per quarant'anni circa, dal 961 al 1002. [119] Non è di questo luogo esaminare i vantaggi e i danni di questa dominazione, e come con essa si stringesse inestricabilmente quel vincolo tra Italia e Germania per cui la storia delle due nazioni quasi si confonde in un cumulo doloroso di vicende piene di miseria e di sangue. Giovi qui soltanto accennare come Ottone il Grande per abbassare la potenza dei nobili aiutò lo svolgersi delle libertà comunali, e nelle città accrescendo le attribuzioni politiche dei vescovi, sostituì in certo modo la forza di una nobiltà elettiva a quella di una nobiltà ereditaria. Da ciò le aderenze degli Ottoni tra gli uomini di chiesa e massimamente tra i vescovi dell'alta Italia. Tra questi campeggia Liudprando vescovo di Cremona che si fece storico di quei tempi[80]. Simile in ciò ai più antichi scrittori di cui si è trattato, Liudprando ebbe parte non ultima nella vita pubblica. Nacque verso il 920 in Lombardia e, secondo alcuni, fu propriamente pavese. Perdette nella infanzia il padre, e fu [120] educato con molta cura dal suo patrigno, uomo, come egli ci narra, grave di costumi e pieno di sapienza[81], le quali parole ricordano quel che s'è detto sulla cultura del laicato italiano. Nell'anno 931 raccomandato al re Ugo come fanciullo ricco d'ingegno e dotato di bella voce, fu ammesso alla corte regia. Guadagnatosi il favore del re, prese più tardi la via ecclesiastica e fu ascritto tra i diaconi della chiesa di Pavia. Quando nel 945 Ugo abbandonò in fuga il regno, Liudprando potè ottenere onorata posizione alla corte del nuovo re Berengario II. Sembra che per qualche tempo anche questo sovrano ne tenesse in pregio le doti e si servisse di lui volentieri. Negli anni 949-950 fu inviato a Costantinopoli in imbasciata e a siffatta legazione parevano designarlo particolarmente i suoi studî e le tradizioni di famiglia perché già il padre e il patrigno suo avevano entrambi disimpegnato lo stesso ufficio. Il viaggio gli giovò mirabilmente a farsi pratico delle usanze e delle istituzioni dei Greci, e a procacciarsi una conoscenza piena di lor lingua e di loro letteratura da cui doveva trarre gran giovamento più tardi. Quando fu ritornato in patria alienò da sé fino all'odio Berengario e la regina Willa ma non se ne sanno i motivi, e fu costretto a rifugiarsi in Germania dove il sassone re Ottone I lo accolse onorevolmente. Nell'esilio si rese familiare la lingua tedesca che anch'essa gli riuscì poi di grande vantaggio nella trattazione degli affari a cui fu chiamato allorché Ottone spinto dai suoi grandi destini [121] scese in Italia. Nell'anno 956, mentre ancora era a corte in Germania si strinse d'amicizia con Recemundo vescovo di Elvira il quale lo consigliò d'intraprendere la storia dei suoi tempi. Maturato un pezzo il consiglio, Liudprando dopo due anni cominciò a Francoforte il suo lavoro. L'odio che nutriva verso Berengario e Willa, gli suggerì il titolo del libro e lo chiamò Antapodoseos, o libro della restituzione, volendo significare ch'egli avrebbe restituito bene per bene agli amici e male per male a chi lo aveva cacciato in esilio. I sei libri dell'Antapodoseos furono scritti interrottamente tra il 958 e il 962 in luoghi e tempi diversi. Incominciando dall'anno 888, data abbastanza vicina all'autore per ottener verbalmente le testimonianze contemporanee o quasi contemporanee, egli racconta la storia dei fatti accaduti in Europa. È un libro curiosissimo nel quale gli avvenimenti dei diversi paesi si seguono e s'incalzano con grande abbondanza e con ricchezza di particolari maravigliosa. Naturalmente le cose d'Italia occupano la parte maggiore dell'opera, ma la vasta tela di essa abbraccia luoghi e persone lontane. Italiani, Tedeschi, Saraceni, figure e storie d'ogni maniera dagli atti di papi e d'imperatori fino a quelli del volgo, racconti di battaglie, esempi di virtù, pitture di scandali osceni, v'è un po' di tutto nel libro, ed anco è notevole che le leggende occupano in esso piccolissimo luogo. La narrazione giunge fino all'anno 950 dove il sesto libro dell'Antapodosi rimane interrotto. Liudprando s'era proposto di condur l'opera fino ai tempi del suo esilio, ma la gran mole degli affari che gli [122] venne sopra, e forse, come pensa il Dümmler, l'odio suo placato per la caduta di Berengario, lo distolsero dal continuare. Le sorti della sua vita s'erano mutate. La nazionalità sua, l'ingegno pronto e versatile, l'attitudine agli incarichi diplomatici, la familiare conoscenza di varie lingue, lo chiamavano alle cose di Stato. Nell'anno 961 Ottone il Grande sceso appena in Italia lo aveva preposto alla sede vescovile di Cremona. Da quel tempo egli fu in mezzo a tutti gli affari d'Italia e alle relazioni d'Ottone colla Grecia. Nell'estate dell'anno 964 andò a Roma legato al papa Giovanni XII e di lì a breve si trovò con Ottone presente al Concilio dove quell'indegno pontefice fu deposto, e toccò a lui d'interpretare ai vescovi italiani il discorso del monarca tedesco. Partecipò alle elezioni di Leone VIII e alla deposizione di Benedetto V suo competitore. Di tutti questi avvenimenti occorsi sotto gli occhi suoi tra il 960 e il 964, egli scrisse la storia per comando dello stesso imperatore in un libro intitolato Historia Ottonis. Forse la dignità delle cariche a cui era salito e la parte presa alle cose narrate, contribuirono a rendere questo scritto assai più calmo e scevro da quella passione di parte che fa così acre l'Antapodosi. Nè ciò giova solo a diminuirgli d'assai il difetto di parzialità onde è accusato, ma aggiunge se è possibile evidenza di colorito al suo racconto. La deposizione di Giovanni XII, per esempio, è narrata in modo così vivo e spiccato, che leggendola par d'assistere al Concilio che la decretò. Dopo aver descritte le differenze per le quali l'imperatore e il papa erano venuti a [123] termini inconciliabili, e come il pontefice non solo non avesse badato alla sua legazione, ma, contro i patti, avesse accolto Adalberto figlio di re Berengario entro le mura stesse di Roma, Liudprando prosegue:
«Mentre accadean tali cose, la costellazione del Cancro ardua per gli accesi raggi di Febo allontanava l'imperatore dai castelli romani, ma quando la costellazione della Vergine tornando portò seco la stagion grata, egli invitato segretamente dai Romani venne a Roma (A. D. 963). Ma perché dirò «segretamente» quando la maggior parte degli ottimati invase il castel di San Paolo e invitò il santo imperatore dando perfino gli ostaggi? A che indugiarsi in parole? Accampatosi l'imperatore presso alla città, il papa e Adalberto se ne fuggon da Roma. I cittadini accolgono nella città il santo imperatore con tutti i suoi, promettono fedeltà, aggiungendo e giurando fermamente ch'essi mai non eleggerebbero il papa nè l'ordinerebbero senza il consenso e la elezione del signore imperatore Ottone cesare augusto, e del figlio di lui il re Ottone.
«Dopo tre giorni, chiedendolo del pari i vescovi romani e la plebe, si fa grande adunanza nella Chiesa di San Pietro, e coll'imperatore sedettero gli arcivescovi, di quei d'Italia: Rodaldo diacono per Ingelfredo patriarca d'Aquileia trattenuto colà, come suole accadere, da una improvvisa malattia, e Gualperto di Milano e Pietro di Ravenna; di quei di Sassonia: Adeltac arcivescovo, e Landoardo [124] vescovo Mimendense; di Francia Otcherio vescovo di Spira; dell'Italia i vescovi Uberto di Parma, Liudprando di Cremona, Ermenaldo di Peggio.» E qui segue una lunga lista di vescovi quasi tutti italiani e dei preti e cardinali romani che si trovarono al concilio oltre ai rappresentanti della nobiltà e del popol di Roma menzionati anch'essi nella lista, dopo la quale Liudprando ripiglia il suo racconto:
«Sedutisi adunque costoro e fattosi un gran silenzio, così sorse a dire il santo imperatore: ‘Quanto sarebbe acconcio che a tanto chiaro e santo concilio si trovasse presente il signor papa Giovanni! Però avendo egli rifiutata la compagnia vostra, noi consultiam voi, o padri santi, che avete seco comune la vita e gl'interessi.’ Allora i pontefici romani e i cardinali preti e diaconi con tutta la plebe universale esclamarono: ‘Ci maraviglia che la santissima prudenza vostra voglia farci scrutare quello che non è nascosto agli Iberici nè ai Babilonesi, nè agli Indi. Costui non è già di coloro che vengono in veste di agnello e dentro son lupi rapaci: egli infierisce così apertamente, tratta così in palese i suoi diabolici affari che non usa andare in circuito.’ L'imperatore rispose: ‘A noi par giusto che le accuse siano espresse nominatamente, e quindi si tratti di comune consiglio ciò che dobbiamo fare.’ Allora sorgendo Pietro cardinale prete, attestò che egli l'aveva veduto celebrar la messa senza comunione. Giovanni vescovo di Narni e Giovanni cardinale diacono, dichiararono d'averlo veduto ordinare un diacono in una stalla di cavalli e non nelle [125] proprie ore. Benedetto cardinale diacono con altri condiaconi e preti dissero ch'ei sapevano che egli faceva a prezzo ordinazioni di vescovi, e che aveva ordinato vescovo un fanciul di dieci anni nella città di Todi. Dissero non esser necessario indagare sui sacrilegî perchè ne avevano veduto più di quanto potrebbero apprendere udendo. Dissero degli adulterî.... Dissero che aveva esercitata pubblicamente la caccia; che avea privato degli occhi Benedetto padre suo spirituale talché ei n'era morto indi a poco; che aveva evirato e ucciso Giovanni cardinale suddiacono; e attestarono che avea fatti incendi, cinta la spada, vestito l'elmo e la lorica. Che avea bevuto per amor del demonio lo acclamarono tutti, chierici e laici. Dissero che giuocando ai dadi aveva invocato l'aiuto di Giove e di Venere e degli altri demoni. Dichiararono ch'egli non avea celebrato mattutino e le ore canoniche, e ch'ei non si muniva col segno della croce.
«Udito ciò l'imperatore, poiché i Romani non potevano intendere il linguaggio suo sassone, impose a Liudprando vescovo di Cremona di esprimere a tutti i Romani quanto segue in latino. Onde quegli sorgendo incominciò: ‘Spesso accade, e noi per esperienza crediamo, che gli uomini costituiti in dignità sieno macchiati d'infamia dagli invidiosi, ché il buono spiace ai malvagi come il malvagio ai buoni. E ciò è cagione che ci sembri dubbia questa accusa contro il papa, che ora lesse e fece con voi Benedetto cardinale diacono, incerti se essa prorompa da zelo di giustizia o da livore d'empietà. [126] Onde coll'autorità della dignità concessa a me indegno, io vi prego per quell'Iddio che pur volendo niuno può ingannar mai, e per la santa madre di lui Maria Vergine intemerata, e pel corpo preziosissimo del principe degli apostoli nella cui Chiesa si tiene questo discorso, che non si lanci al signor papa accusa nessuna di colpe ch'egli non abbia commesse e che non sieno state vedute da uomini provatissimi.’ Allora i vescovi, i preti, i diaconi e il rimanente clero e tutto il popolo dei Romani come un sol uomo dissero: ‘Se e quanto lesse Benedetto diacono, e indegne cose anche maggiori e più turpi non commise Giovanni papa, non ci assolva dai legami dei peccati nostri Pietro principe beatissimo degli apostoli che chiude il cielo agli indegni e l'apre ai giusti, ma ci annodi il vincolo dell'anatema e nel giorno novissimo siam posti dalla parte sinistra con coloro che dissero al signore Iddio: Allontanati da noi, non vogliamo la scienza delle tue vie. Che se non concedete fede a noi, almeno dovete credere all'esercito del signor imperatore, a cui quegli andò incontro cinque giorni or sono cinto di spada e armato di scudo, di elmo e di lorica.’ Allora disse il santo imperatore: ‘Tanti sono i testimoni di ciò quanti i combattenti nell'esercito nostro.’ La Santa Sinodo disse: ‘Se piace al santo imperatore si mandino lettere al signor papa, che venga e si purghi da tutte queste accuse.’ Allora gli fu mandata questa lettera:
«‘Al sommo pontefice e papa universale Giovanni signore, Ottone per concessione della clemenza divina [127] imperatore augusto, cogli arcivescovi e vescovi di Liguria, Toscana, Sassonia e Francia, nel nome del Signore. Venuti a Roma per servigio di Dio, avendo richiesto intorno alla vostra assenza i figliuoli vostri, cioè i vescovi romani, i cardinali preti e diaconi, e tutta la plebe universa, per quale cagione non volevate veder noi che siam difensori di vostra Chiesa e vostri, tali e così oscene cose ci riferirono di voi, che ci farebbero vergogna se si dicessero d'un istrione. Delle quali, per non tenerle nascoste alla grandezza vostra, descriveremo qui alcune brevemente, che se volessimo specificarle tutte, un sol giorno non ci basterebbe. Sappiate adunque che non da pochi, ma da tutti, così dell'ordine nostro che dell'altro, voi siete accusato d'omicidio, di spergiuro, di sacrilegio e d'incesto. Dicono anche, e fa raccapriccio a udirsi, che avete bevuto per amor del diavolo, e che al giuoco dei dadi avete invocato l'aiuto di Giove, di Venere e d'altri demoni. Ora noi preghiam vivamente la paternità vostra che non lasciate di venire a Roma e di purgarvi da tutte queste accuse. Se per avventura temete la violenza della moltitudine temeraria, noi vi promettiamo con giuramento che non si farà nulla fuor della sanzione dei santi canoni.’
«Colui avendo letta questa lettera scrisse questa apologetica: ‘Giovanni vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i vescovi. Abbiamo sentito dire che voi volete fare un altro papa; se ciò farete io vi scomunico da parte di Dio onnipotente per modo [128] che non abbiate licenza di ordinar nessuno nè di celebrar la messa.’»[82]
Allorché questa rozza lettera fu letta in Concilio, spiacque del pari per la forma e per la sostanza. Fu stabilito che l'imperatore e con lui tutta la sinodo intimassero a Giovanni di venire in Roma alle discolpe, minacciandogli di deporlo se non si piegasse. La lettera d'intìmo come era stata concepita fu subito scritta con vigore fermo di pensiero e di stile. Respingeva sdegnosa la scomunica papale con acerbi rimproveri per l'inconsulta ingiuria fatta all'assemblea, affermava l'autorità di questa a minacciar lui di scomunica se non compariva, e concludeva paragonandolo a Giuda di cui l'autorità apostolica era cessata col tradimento. Il messaggio fu affidato ai cardinali Adriano e Benedetto e questi si mossero subito per andarlo a recare.
«I quali arrivati a Tivoli non lo trovarono; ché già se n'era andato in arme alla campagna nè v'era alcuno il quale sapesse indicar loro dov'egli fosse. E non potendo trovarlo se ne tornarono alla Santa Sinodo che si raccolse allora per la terza volta. Ed ora l'imperatore disse: ‘Aspettammo la venuta sua [129] per lamentarci con lui presente della condotta sua verso di noi. Ma poiché sappiam certo ch'ei non verrà, vi chiediam con istanza di ascoltare com'egli siasi con noi condotto perfidamente. Facciam dunque noto a tutti voi, o arcivescovi, vescovi, preti, diaconi e a tutto il rimanente clero, e a voi conti, e giudici, e a tutta la plebe, che questo medesimo Giovanni papa oppresso da Berengario e da Adelberto ribelli nostri, mandò nunzî in Sassonia pregandoci che per l'amor d'Iddio venissimo in Italia a liberar la chiesa di san Pietro e lui dalle loro fauci. Quello poi che noi coll'aiuto di Dio abbiamo fatto, non serve dire perché voi lo vedete innanzi a voi. Strappato per opera mia dalle loro mani e restituito al debito onore, egli, dimentico del giuramento e della fedeltà che mi promise qui sopra le reliquie di san Pietro, fece venire a Roma Adalberto e lo difese contro di me e fece sedizioni e in vista dei soldati nostri, fatto duce di guerra vestì l'elmo e la lorica. Decreti ora sopra ciò la Santa Sinodo e sentenzii.’ A ciò, i romani pontefici e il rimanente clero e tutto il popolo risposero: ‘Una piaga inaudita vuolsi cauterizzare con inaudito cauterio. Se coi corrotti costumi sé solo danneggiasse e non gli altri, potrebbe in qualche modo tollerarsi. Ma quanti che prima erano casti son fatti incestuosi per imitazione di lui? Quanti probi conversando seco divenuti reprobi? Noi domandiamo adunque alla imperiale grandezza vostra, che quel mostro i cui vizî non sono redenti da virtù alcuna, sia respinto dalla Santa Chiesa Romana, e un altro [130] sia posto in suo luogo che possa guidarci e giovarci coll'esempio della buona conversazione; viva retto per sé e c'insegni coll'esempio a ben vivere.’ Allora l'imperatore: ‘Piace a noi ciò che dite, e nulla ci sarà caro più del potersi trovare tale uomo che possa preporsi a questa santa ed universale sede.’»
«A ciò tutti ad una voce dissero: ‘Leone venerabile protoscriniario della santa chiesa romana, uomo provato e degno del supremo grado sacerdotale, noi ci eleggiamo in pastore, come sommo ed universale papa della Santa Chiesa Romana, riprovato pei suoi mali costumi Giovanni l'apostata.’ E ripetuto ciò per tre volte, consenziente l'imperatore, secondo la usanza conducono tra le laudi il nominato Leone al palazzo Lateranense, e al tempo determinato lo sollevano con santa consacrazione al sommo sacerdozio nella chiesa di san Pietro, e con giuramento promettono d'essergli fedeli.»
«Compiute così queste cose, l'imperatore santissimo sperando di poter dimorare in Roma con poca gente, die' licenza a molti di tornarsene a casa affinché il popol romano non rimanesse consunto dalla moltitudine dell'esercito. E risapendo ciò quel Giovanni che già fu chiamato papa, non ignorando come potesse facilmente corrompere a denaro le menti dei Romani, manda di celato messaggeri a Roma promettendo il denaro di san Pietro e di tutte le chiese se dessero addosso al pio imperatore e a papa Leone ed empiamente li trucidassero. A che indugiarmi in parole? I Romani confidando, anzi [131] ingannati per la picciolezza dell'esercito, animati dal denaro promesso, dato fiato alle trombe corrono contro all'imperatore per ucciderlo. Ai quali l'imperatore muove incontro sul ponte del Tevere che i Romani avevano ingombrato di carri. I forti soldati suoi, assuefatti alla guerra, intrepidi di petto e armati, si caccian tra loro, e come falchi tra una moltitudine d'uccelli, li atterriscono senza incontrar chi resista. Non nascondigli, non corbe, non barche, non cloache furon tutela ai fuggenti. Li uccidono, e come accade ai forti, li feriscono nelle terga. E chi mai sarebbe avanzato superstite dei Romani, se il santo imperatore, inclinato ad una misericordia che non era certo dovuta, non avesse ritratti e richiamati i suoi ancora assetati di sangue?»[83]
È gran danno che l'intero racconto di questi avvenimenti, scritto mentre essi accadevano, non sia stato terminato da Liudprando e s'interrompa poco oltre l'esagerato ragguaglio di questa sedizione dei Romani. Gli affari lo incalzavano. Concluso il Concilio tornò a Cremona ma di lì a poco, morto Leone VIII (A. D. 965), fu spedito un'altra volta a Roma per la elezione del nuovo papa. Nel 967 intervenne a due altri concilî, un di Ravenna e un di Roma, e in quest'ultima città si trovò alla incoronazione del giovinetto Ottone associato dal padre all'impero. Coll'animo inteso a restaurar l'impero d'Occidente, Ottone tendeva ad assoggettarsi il papato mentre lo riformava, [132] e a far sua tutta Italia scacciando dal mezzogiorno Arabi e Greci. In pari tempo, sempre collo stesso pensiero, desideroso di circondare il suo trono coi classici splendori delle tradizioni antiche, egli immaginava d'amicarsi la corte di Bizanzio e stringersi di parentela ad essa maritando al figliuol suo una principessa greca. Ma la diffidenza dei Greci ombrosi a ragione per l'allargarsi d'Ottone nella Italia inferiore, faceva ardua l'esecuzione di questo concetto. A vincere questa diffidenza era mestieri trovar l'uomo adatto, destro nei maneggi diplomatici ed esperto della Grecia. Certo pareva tale Liudprando e fu inviato a Niceforo Foca per chieder la mano di Teofania figlia di Romano II, ma l'ambasciata andò a vuoto. Liudprando fu male accolto e con patente dispregio. Fin dalla prima udienza Niceforo gli mosse acerbe lagnanze contro il suo signore per l'occupazione di Roma, pel titolo assunto d'imperatore, per la soggezione ottenuta dai principi di Benevento e di Capua; tutte cose nel parer suo lesive dei suoi diritti. Gli argomenti e le ardite risposte dell'ambasciatore non giovarono a nulla o valsero solo ad inasprir maggiormente l'animo del sovrano orientale. Dopo varie udienze tutte inutili, raggirato schernevolmente in mille modi, trattenuto a lungo in Costantinopoli tra mille pretesti più come prigioniero che come legato, Liudprando ebbe in grazia di potersene alfine tornare in patria senza nulla concludere. Di questo smacco egli provò un dispetto amaro e lo versò tutto quanto in una relazione della missione sua ch'egli compose [133] e indirizzò ai suoi sovrani. Malgrado la impronta della vanità personale e della parzialità caratteristiche di Liudprando, questa Relatio de Legatione Costantinopolitana ci offre un quadro spiccato e vivissimo della corte greca. Il Gregorovius con quella ricca esuberanza d'immagini onde colorisce il suo stile, afferma che «questo bellissimo pamphlet somiglia ad un'oasi che s'incontra dopo avere percorso un deserto letterario[84]» ed aggiunge che da Procopio in poi non possediamo uno scritto che gli sia paragonabile. Io col pensiero a Paolo Diacono non vorrei far mio questo giudizio, ma certo la Relatio è tra gli scritti più dilettevoli ed istruttivi che ci offra l'antico medio evo italiano. La descrizione della corte di Niceforo, le vivaci argute risposte colle quali, s'ei dice il vero, Liudprando rimbeccava le accuse mosse al suo sire e al suo popolo, la fede bugiarda e la rapace corruttela dei Greci, gli ostacoli posti alla sua partenza e le angherie patite sulla via del ritorno, tutto così nell'insieme come nei particolari porge risalto al libro e lo fa attraente. Anch'esso come gli altri libri di questo autore è incompleto e s'interrompe mentre narra il viaggio che fece tornando, sul principio dell'anno 969. Rientrato in corte, Liudprando seguitò a prender parte nei pubblici affari. Nel 971, morto Niceforo Foca e rese più facili le relazioni tra i due imperi, pare ch'egli andasse di nuovo a Costantinopoli colla [134] solenne ambasceria inviata a prendere la principessa Teofania destinata sposa di Ottone II. Ma oramai il corso della sua vita era al termine ed egli non toccò più la sua Cremona. S'ignorano la data precisa e il luogo di sua morte, ma par ch'ei sia trapassato mentre era ancora in Grecia, o appena tornato con Teofania in Italia nei primi mesi del 972, tra il quinquagesimo e il sessagesimo anno della età sua.
Così terminava quest'uomo singolare la cui vita e gli scritti mostrano profondo lo stampo di un ingegno arguto e originale, di un carattere vivace e appassionato. Uguale ai più capaci tra gli scrittori suoi contemporanei in Europa, incomparabilmente superiore a quelli d'Italia, non sempre corretto latinista ma neppure spregevole. Egregiamente e laicamente educato nella infanzia, conobbe per tempo ed amò i classici. Ebbe familiari quasi tutti gli antichi e tra essi Terenzio, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio, dei quali cercò d'incastonar qua e là frasi ne' suoi libri non senza pompa ma pur con migliore discernimento d'altri scrittori medioevali. Nè si tenne contento alle citazioni latine, ma in ogni scritto amò sfoggiare la sua conoscenza del greco interpolando nel suo latino greche parole e frasi. Come a modello dei suoi lavori mirò molto a Severino Boezio i cui libri nel medio evo ebbero una smisurata influenza, e, specialmente nell'Antapodosi, sull'esempio di Boezio mescolò la sua prosa con versi abbastanza bene architettati. Ma quell'esagerato spirito d'imitazione non bastò a cancellare la originalità dello stile in un uomo [135] così conscio ad ogni ora della personalità propria. L'Antapodosi, che de' suoi libri è il più lungo e il più liberamente composto, è forse quello in cui si rivelano meglio il carattere dell'uomo e le sue contraddizioni. Ingegnoso e credulo, acuto osservatore dei fatti e impetuoso nei giudizî, desideroso del bene ma troppo facile censore del male e cupido raccontatore di scandali. De' suoi nemici, massime di Berengario e di Willa, flagellatore acerrimo, degli amici e benefattori lodatore smisurato e adulatore, ma è pur chiaro a chi lo legge ch'egli sente in cuore ciò che manda fuori, e per caldo di fantasia denigra o adula colla convinzione d'esser nel vero. Da queste qualità personali l'autorità sua di storico per un tempo patì di soverchio, ed ora parmi di notare una moderna tendenza ad alzarla oltre il dovuto alquanto. Io per me son d'avviso che le narrazioni di Liudprando in quanto riguardano i particolari dei fatti sieno preziose a confermare o a spiegare quanto ci è detto da altri, ma ch'esse debbano esser pure adoperate con maggior cautela di quella usata da qualche storico recente. Certo in complesso nessun lavoro contemporaneo potrebbe aiutarci meglio dei suoi a darci una idea generale del secolo decimo e a recarcelo innanzi alla mente. Uomo di Stato e di Chiesa, esperto della vita per fortuna varia di casi, pronto d'ingegno, abile e colto scrittore, Liudprando potè come niun altro afferrar col pensiero e congiunger tra loro le relazioni delle cose che vide e narrò, mentre l'indole sua vivacemente ingenua era mirabilmente formata [136] a suscitare in noi le impressioni medesime che l'insieme degli avvenimenti reali avevano suscitato nell'animo suo[85].
Affatto diversa dalle opere di Liudprando nelle tendenze come nella forma, è la cronaca di Benedetto di S. Andrea scritta ancor essa intorno a questi tempi[86]. Grossissimo di stile, il monaco Benedetto [137] si sforza di raccogliere la storia del mondo dalla venuta di Cristo, ma non ha vera importanza che per la storia locale di Roma verso i tempi d'Alberico al quale come a protettore del suo monastero prodiga lodi larghissime. La voce di Benedetto avversa ma senza odio e non ingiusta, suona rampogna contro i nuovi monarchi calati d'oltralpe, le cui soldatesche egli dalle falde solitarie e poetiche del Soratte vedeva spargersi per la campagna romana. In contrasto colle amplificazioni adulatorie di Liudprando e mestamente ispirate, quelle rozze pagine lasciano in chi le percorre un senso di tristezza pietosa. Il rude uomo che le scrisse non conosce i classici, non sa di grammatica, ma l'amor della patria gli scalda il petto e il volgare linguaggio suo si leva ad una eloquenza funerea quando ricorda l'abbandono desolato di Roma dopo le repressioni feroci colle quali Ottone soffocò ogni resistere dei Romani alla autorità sua. «Guai per te, o Roma,» esclama egli «oppressa e conculcata da tante genti! Anche il sassone re ti prese, e il popol tuo fu mandato a fil di spada e la tua forza annullata! Tu che nella tua grandezza trionfasti delle genti, mettesti a morte i re della terra, calcasti l'universo; tenevi scettro [138] e potestà suprema, tu sei spogliata dal re sassone e desolata.... Fosti troppo bella! Vediamo ancora le tue mura colle torri e i merli. Avevi trecento ottant'una torri, quarantasei castelli turriti, seimila ottocento merli, quindici erano le tue porte. Guai a te, o città Leonina! già fosti presa dal re sassone ed ora egli t'abbandona!»[87]
Malinconiche parole invero e triste richiamo dalla decadenza presente allo splendor del passato! Ma se lo squallore di Roma ispirava il rozzo compianto di Benedetto del Soratte, a Venezia invece il diacono Giovanni cappellano del Doge Pietro Orseolo II (A. D. 991-1009), ci schiude le prime pagine di una tra le più maravigliose storie dell'universo[88]. Inviato più volte ad Ottone III e ad Enrico II come ambasciatore, usato a conversare in una corte di gente [139] pratica, Giovanni era uomo avvezzo alle cose ordinarie della vita e aperto agli affari. Di ciò riman traccia nella sua narrazione, la quale semplice, non curante di rettorica e spesso neppur di grammatica, procede spedita e piacevole a leggersi. Dalle prime origini di Venezia essa giunge fino al 1008, manchevolissima ed erronea per la parte più antica, preziosa per la contemporanea massime dove parla delle relazioni tra gl'imperatori d'Occidente e Venezia. Nella cronaca sua ci è dato di conoscer più pienamente quale fosse l'operoso governo di Pietro Orseolo e quanto per impulso di lui la repubblica veneta si lanciasse più sicura nella via delle sue grandezze. È lodator grande, forse soverchio, del suo principe a cui lo stringeva un affetto devoto, ma è pur vero che quel principe è annoverato tra i più insigni che [140] vanti l'antica storia di Venezia. Con Giovanni siam fuori della vita claustrale e respiriamo aperta e libera l'aria delle sue lagune. Degno predecessore di Andrea Dandolo egli ci fa intravveder primo la gloriosa età dei Comuni a cui stava per muover l'Italia attraverso il laborioso periodo che ora s'affaccia innanzi allo sguardo nostro.
[141]
Movimento intellettuale del secolo undecimo e del dodicesimo — Riforma della Chiesa — Risveglio della cultura ecclesiastica e delle indagini storiche nei monasteri — Regesti e cronache monastiche — Il monastero di Farfa e le opere di Gregorio di Catino. «Chronicon Vulturnense» — Rinascenza artistica e letteraria di Montecassino promossa dall'abate Desiderio. Il monaco Amato e la storia dei Normanni. Leone Marsicano e Pietro diacono, storici di Montecassino — Scritti storici dell'Italia meridionale — Cronaca del monastero della Novalesa.
Usciti dalle chiuse anguste per le quali ci siamo avvolti così lungamente, ora si aprono dinnanzi a noi orizzonti più vasti. Incomincia un'età di giganti e la storia d'Italia si risolleva ad altezze epiche. Il Papato trattosi appena dal fango entro cui s'era ingolfato, riafferma con audacia grandiosa il suo potere, esagera le romane tradizioni di Gregorio il Grande e colla universalità del dominio spirituale reclama ad alta voce la supremazia della Chiesa sopra popoli e re. L'Impero geloso di sue prerogative contrasta alla smisurata pretesa, si difende or cavilloso or violento contro la prepotenza morale del sacerdozio e tenta invano di soggiogarselo. Una mano di venturieri normanni approda in Sicilia e sgombrati da essa i Saraceni, s'allarga nel mezzogiorno d'Italia a fondare un regno talora nemico, talor protettore dei papi i [142] quali intanto mirando lontano, maturano in mente il vasto concetto delle crociate e lo bandiscono al mondo. E, quasi inavvertito, tra tanto mutare di casi il genio latino risorgente mette i primi germi di una vita nuova feconda di gloria all'Italia: la vita dei Comuni. Le lettere rinverdiscono. Chiesa, Impero, popolo, tutti variamente tendono al rinascimento degli studi. Il bisogno di una riforma nella Chiesa e gli sforzi per ottenerla tentati prima dagli Ottoni e ripigliati con maggior lena dai grandi papi del secolo undecimo, riconducono la cultura e l'amor dello studio nel clero. Il cozzar delle parti suscita frequenti e vivaci le scritture polemiche, e il bisogno di trovar nel passato le conferme dei diritti asseriti apre una via allo studio della legge romana. Il rinnovato vigore del diritto pubblico e privato ispira l'amore e lo studio dei documenti, mentre il primo sorgere e svolgersi della vita comunale è come un'alba di nuovi tempi che sveglia a maggiore attività letteraria il laicato non immemore delle antiche tradizioni. L'età del ferro per la cronografia italiana è oramai cessata.
La riforma penetrata nella Chiesa al tempo di cui teniamo discorso, non fu nè tutta opera dei papi, nè tutta degli imperatori, nè tutta del minor clero, nè del popolo. Fu opera complessiva e comune. Un alito rigeneratore si agitava pel mondo e gli animi aspirando all'alto tendevano quasi inconsapevoli per vie diverse alla riforma. Una tendenza siffatta, essenzialmente religiosa da principio nel suo carattere, di necessità doveva appoggiarsi al monachismo e trattolo [143] seco farne leva precipua al gran moto. La seconda metà del secolo undecimo e la prima del dodicesimo possono in certo modo chiamarsi il secol d'oro pel monachismo d'Occidente così per la influenza ch'esso esercitò in generale sulla Chiesa e l'impulso che diede alla sua riforma, come per la influenza e l'impulso che ne ricevette. Nell'età precedente la corruzione dei monasteri era grande in ogni luogo, e, come vedemmo, in Italia grandissima. Ma quando le cose toccavano all'estremo, ecco risorgere a Cluny la vigorìa del monachismo e di là muover l'iniziativa di un miglioramento universale. I monasteri italiani furono rinsanguati per questa via. Odone di Cluny riformatore zelante e savio riuscì tra molti ostacoli a far molto bene massime a Montecassino e, dietro invito del famoso Alberico principe dei Romani, anche nei monasteri di Roma e della Sabina. Questo missionario della riforma monastica alle virtù morali accoppiava il sapere, e in Francia aveva studiato filosofia, grammatica, musica e arte poetica. Naturalmente egli dovette cercare di ricondurre l'amor dello studio nei chiostri e farne rifiorire le scuole, onde i semi gettati da lui, presa lentamente radice, diedero entro il giro d'un secolo frutti copiosi. Il monastero di Farfa è primo in questa risurrezione intellettuale. Nel capitolo precedente abbiamo veduto che l'abbate Ugo non contento di restaurar la Badia e di ritornarla agli antichi splendori, si era adoperato a perpetuarne la storia dettando uno dei più notevoli tra gli scritti storici dell'età sua. Nè questa iniziativa fu sterile. Allorché nel 1039 Ugo moriva, dietro a [144] quel glorioso abbate rimaneva nel monastero una scuola destinata a ripigliar l'opera sua e ad essa fu educato il fanciullo Gregorio di una nobile famiglia di Catino in Sabina. Suo padre, seguendo un costume dei suoi tempi, aveva offerto questo fanciullo al monastero insieme con un altro figlio, che morì di lì a poco nel 1068. Da circa trent'anni Gregorio viveva modesto ed oscuro nella Badia quando, uscente il secolo undecimo, suggerì all'abate Beraldo II un vasto lavoro e fu incaricato di mandarlo ad effetto. Le invasioni patite nell'età anteriore, la distruzione e il lungo abbandono del monastero, gli abbati dilapidatori, avevano inevitabilmente disordinato molto e indotto mutazioni nelle proprietà del monastero, onde seguiva un frequente contestar di diritti, e litigi innanzi ai tribunali. Perciò Gregorio propose di riordinare l'archivio e radunati tutti i documenti sui quali si fondavano i diritti del monastero, copiarli ordinatamente in un sol libro. Così con una copia autentica e maneggevole essi eran fatti facilmente adoperabili, e il monastero si premuniva da ogni possibile deperimento degli originali. Affidatagli la impresa, Gregorio si accinse a compierla, e quindici anni durò nell'opera laboriosa nè la lasciò finché l'età omai tarda e la vista indebolita non gli fecero impedimento a seguitare. Ma la maggior parte e la più difficile del lavoro era fatta, ond'egli poté senza timore affidarne il rimanente ad un suo nipote di nome Todino, monaco anch'egli di Farfa, il quale die' l'ultima mano all'opera e la condusse al compimento.
Il Regesto di Farfa, o, come Gregorio lo intitolò, [145] il Liber gemniagraphus sive cleronomialis Ecclesiae Farfensis, è per fermo uno dei documenti di maggiore importanza per la storia del medio evo italiano dai tempi longobardi fino alla fine del secolo undecimo. I numerosi documenti antichissimi ch'esso ci tramanda, presentano un insieme di valore insuperabile per la storia del diritto e pel problema delle relazioni che correvano tra le popolazioni latine e i dominatori longobardi e franchi nei secoli ottavo e nono. Relativi a questi due soli secoli il Regesto contiene quasi trecentocinquanta documenti, e sovr'essi come sovra una delle basi principali, posa molta parte degli studî fatti in Italia e in Germania intorno a questo periodo della nostra storia. A centinaia trovansi in questa raccolta diplomi di papi, di imperatori, di re, di duchi, e si aggiungono alle carte private anch'esse piene di parole e di notizie che giovano indirettamente alla storia, o allo studio del diritto o della topografia medioevale. La importantissima storia del Ducato spoletino si attinge tutta per la parte più antica nel Regesto di Farfa, che inoltre ha capitale importanza per la storia particolare di Roma nel decimo secolo e nel decimoprimo.
I limiti del libro presente non consentono ch'io mi dilunghi trattando di questo insigne documento di nostra storia. Fin qui la scarsità dei ricordi storici mi ha invitato ad allargarmi e a parlar di raccolte che non erano propriamente cronache; adesso l'abbondanza a cui muoviamo incontro mi costringe di lasciar da lato e menzionare appena ogni fonte indiretta di storia come i diplomi e le lettere. Tuttavia [146] è necessario indugiarsi alquanto sul Regesto di Farfa che è l'antichissima tra le raccolte vaste e complete del suo genere. Esso a dir così è il foriero degli altri Regesti che comparvero verso quella età e giovarono maravigliosamente a fare risorgere non pure l'amor del racconto, ma la critica della storia con esso[89], poiché ai Regesti, o almeno alle indagini fatte negli archivî, tenevano dietro come natural conseguenza le cronache delle badie, e il lume della critica si accendeva spontaneo in quei monaci archivisti. Nei pensosi silenzi di loro celle essi interrogando i documenti e comparandoli insieme, vedevano uscirne la storia del monastero e s'invogliavano di narrarla ai posteri. Gregorio di Catino ci porge un esempio di questo spontaneo educarsi ad un senso sagace di critica. Solo e non soccorso da verun modello anteriore, egli immaginò per la compilazione del suo lavoro un metodo così giusto e semplice che quasi non [147] potrebbe aspettarsi migliore dalla critica odierna. Conscio di fare opera storica e degna di pregio, egli vi si consacra con dignitosa coscienza e con un concetto limitato e manchevole della storia ma moralmente elevato. In qualche modo s'accosta alla definizione ciceroniana allorché dimostra la storia dover giovare ai posteri narrando ad esempio le virtuose opere compiute dai giusti delle generazioni passate. «Le età dei giusti,» egli dice in un luogo, «sono principalmente descritte affinché noi passiam l'età nostra con saggia e somigliante felicità e senza offesa. Imperocché sta scritto che noi siam fatti più cauti dagli esempi dei giusti, le cui orme seguendo non cadremo per via.» E tra questi pensieri egli cercava con amor sincero la verità nella storia della sua Badia, respingendo le favole e cercando appoggio nei documenti dell'archivio. Per le prime leggendarie notizie sulla antichissima fondazione di Farfa, egli non ha altra guida che la Constructio, ma se ne serve, citandola, con molta cautela e senza affermar nulla dove l'affermazione non ha fondamento di certezza: «Basti sapere,» così si contenta di dire. «che questo santo cenobio fu costruito da questo santissimo uomo (Lorenzo) e non per opera pubblica. Siccome poi il tempo di tale costruzione ci è ignoto, amiamo meglio tacere intorno a ciò che profferir cosa mendace o frivola. Ché se a noi non è lecito ascoltar la menzogna, assai meno si conviene il profferirla in alcun modo.»[90] Nobile sentenza degna di storico, [148] pur troppo non seguita sempre dagli scrittori di storia ecclesiastica! Ma se da un lato lo scrupoloso timor d'ingannarsi lo ritiene dal creder troppo, dall'altro non si perita di cercar nella critica aiuto a congetture probabili, e in questo caso aiutandosi con un passo dei dialoghi di San Gregorio, immagina argomenti assai validi per riferire la data della prima fondazione ad una età non precisa ma certo anteriore a quel pontefice. Del resto le norme ch'egli seguì nel suo lavoro sono molto bene chiarite in questa pagina di una sua prefazione al Regesto, la quale merita anche d'esser considerata come indizio del nuovo movimento intellettuale che incominciava ad agitarsi nei monasteri: «Io,» dice l'onesto monaco, «non presumo nulla delle mie forze, ma per carità d'Iddio e fidente nel suo aiuto per la intercessione della nostra gloriosissima Signora, sonomi studiato attentamente di compier quest'opera molto devota e assai proficua nel modo più verace e fedele. Non ch'io sia sufficiente in emendar le parti corrotte della rettorica, ma secondo la pochezza del mio picciol sapere[91] procacciai di correggere quelle parti che oltremodo parevan confuse, ma nol feci interamente affinché i semplici non avessero a credere che si volesse confonder l'intelligenza della prima edizione nella quale furono scritte. E massimamente perché io non mi sedei soletto in disparte remoto dalle turbe per insister più attento al quieto lavoro, ma situato all'aperto appena potei esser tranquillo [149] alquanto e aver favore della solitudine necessaria a tale opera. Nè io mi reputo di essere a ciò abbastanza idoneo, perché non fui erudito alle scuole dei poeti nè addottrinato nella profondità dei grammatici, ma nudrito fin quasi dalla cuna agli esercizi divini nella scuola di questo sacro cenobio e alimentato nella fedele sapienza del latte della madre di Dio, a lei, operando alcun che d'utile, ho voluto riferire quanto imparai. Adunque come m'imposero il predetto abbate e gli altri religiosi seniori, nulla di ciò che vidi tolsi dalla intelligenza delle carte e nel trascriver le cose nulla v'aggiunsi, ma come le vidi cogli occhi mentre scrivevo e potei capire con intelletto sincero, mi studiai di riscriverle, tranne certe prolissità di parole e ripetizioni inutili, come dir talune obbligazioni già estinte, affinché per le moltissime corruzioni delle parti, lungamente affaticato e trattenuto nello scrivere non mi venisse composto troppo lentamente il volume, e fastidioso male acconcio ad esaminarlo ed immenso. Adunque solo contento alla verità delle cose e all'utile delle cause, col soccorso di Cristo e i suffragi della genitrice sua sempre vergine, mi studiai di compier questo lavoro sincerissimo e senza frode alcuna, con solerte e sottile sagacia. Anche nelle singole carte curammo d'inserire i nomi dei testimonî come li trovammo descritti negli originali. Que' nomi poi che per antichissima vetustà trovammo consunti e corrosi dai tarli, e difficilissimi a intendere, con equo giudizio omettemmo intatti, non volendo in questa purissima [150] operetta inserir nulla che non vedessimo chiaramente cogli occhi o potessimo copiare con intelletto verace[92]. E poiché io mi sono sforzato di trasferir qui una verissima e fedele riproduzion delle cose, così possa io avere delle colpe mie certissima remissione dall'onnipotente Iddio per intercessione della Nostra Signora, e ottener mercede perpetua a' miei parenti. E a questo libro imponemmo il nome di Gemniagrafo ossia Memoria della descrizione delle terre, perché inserimmo in esso memoria delle terre di questo cenobio da qualunque persona e in qualunque luogo acquisite. Anche ci piacque che si chiamasse Cleronomiale ossia ereditale della chiesa farfense, perché dimostra fin dal principio i suoi possessi immobili. Premettemmo inoltre i nomi di tutti i luoghi e a ciascun d'essi aggiungemmo i proprî numeri e notammo con gran cura in quali scritti tu potrai ritrovarli.»[93]
Da questo brano rilevasi chiaro con quanto discernimento Gregorio conducesse la compilazione del vasto lavoro, e oggi la dispersione completa dei documenti originali cresce lode al pensiero prudente che ne ispirò la raccolta. Nè l'erudito monaco limitò ad essa l'attività sua, ma pose mano e recò a termine tre altri lavori: il Largitorium, il Floriger e il Chronicon Farfense. Il primo, simile nella disposizione al Regesto, contiene i documenti dei beni dati dal monastero [151] in enfiteusi ai coloni che ne imprendevano la coltivazione. Così mentre il Regesto autenticava i diritti immobili del monastero, il Liber Largitorius, o come Gregorio anche lo chiamò, Liber notarius sive emphiteuticus, registrava tutti i contratti temporanei e ne determinava le circostanze e il valore. Esso incomincia con un documento dell'anno 792 e termina verso il principio del dodicesimo secolo coi documenti contemporanei al compilatore. Un indice e un prologo spiegano il concetto di questa raccolta, ancora quasi sconosciuta e di gran pregio per la storia della proprietà fondiaria e delle condizioni dell'agricoltura in Italia durante il medio evo. Delle altre due opere di Gregorio, il Floriger cartarum è un copioso indice topografico del Regesto disposto per ordine alfabetico ed ha minore importanza degli altri due. Grandissima invece è la importanza del terzo libro che fu pubblicato dal Muratori col titolo di Chronicon Farfense[94]. Questa compilazione fatta un po' in forma di cronaca, riassume il contenuto del Regesto e riferendone i principali documenti spreme da essi la storia del monastero. Colla guida della Constructio e della Destructio, di cui già ho tenuto parola nell'altro capitolo, Gregorio di Catino narra in questo libro gli avvenimenti dei tempi più antichi ponendo le sue fonti al paragone della critica e dei documenti, e cercando in essi la conferma dei fatti narrati. Ricchissimo di notizie [152] e di diplomi tolti le une e gli altri dall'archivio di Farfa, questo libro mi par descritto a sufficienza nella descrizione del Regesto, di cui può in certo modo ritenersi come il compendio e il commento. Del resto il Chronicon Farfense nel suo concetto e nella sua partizione, non ha forma propria di storia e ciò farebbe maraviglia se non apparisse manifesto che malgrado la latinità sufficiente del suo dettato, a Gregorio manca affatto l'arte dello scrittore. I pregi suoi son diversi, e l'essersi egli prima e meglio d'ogni altro aperta la via all'esame critico dei documenti, il suo genio erudito e il suo schietto amore del vero, levano alto il valore dell'opera sua e lo fan degno di una fama assai superiore a quella che gli fu concessa finora[95].
All'ordinamento dell'archivio Farfense corrispondono intorno a quel tempo gli ordinamenti di altri archivî monastici, e le cronache e i regesti che ne derivarono. Il monastero di San Vincenzo al Volturno legato fin dalle origini sue con una specie di affinità al monastero di Farfa, ci offre anch'esso la sua cronaca documentata che fu composta da un monaco di nome Giovanni. Intrapreso il lavoro per esortazione di Girardo abbate del monastero, Giovanni ebbe il conforto di poter mostrare già molta avanzata l'opera sua al pontefice Pasquale II (A. D. [153] 1099-1118) che lo incoraggiò dicendogli: «Bene, o fili, magnum opus coepisti sed bene coepta melius perficere stude.» La cronaca che incomincia ripigliando il racconto di Autperto sulle origini della Badia[96] e prosegue fino all'anno 1075, fu compiuta quando Gelasio II era già pontefice (A. D. 1118-1119). Anch'essa può dirsi piuttosto un regesto che una cronaca e la sua vera importanza consiste nei diplomi che le servono di base e ne costituiscono la parte maggiore. L'antichità di questi diplomi rilasciati per lo più da sovrani, estende l'utilità del libro non solo alla storia dell'Italia meridionale ma a quella di tutta la penisola, e la storia del diritto può anch'essa trarne partito. Abbastanza buona è la latinità di Giovanni nei brani che aggiunge di suo tra documento e documento, ma il senso critico di Gregorio da Catino gli fa difetto, e le notizie pregevoli che ci fornisce vanno spesso commiste a favolosi racconti di miracoli accolti senza ombra di discernimento.
Se può dirsi che Farfa nel secolo undecimo iniziasse un nuovo movimento storico, a Montecassino tocca invece la gloria d'aver prodotte le migliori storie monastiche scritte in Italia a quei tempi. Dopo che l'abbate Aligerno (A. D. 949-985) ebbe ricostruito quel famoso luogo già rovinato dai Saraceni, la vita intellettuale rinata a poco a poco nei chiostri cassinesi erasi venuta svolgendo man mano e aumentando finché toccò sua cima tra l'anno 1058 [154] e il 1087, durante il governo abbaziale di Desiderio che fu poi papa col nome di Vittore III. È questo il periodo più glorioso che vanti Montecassino nei secoli della sua storia fino ai dì nostri, e questa luce di rinascenza si fa notevole pei tempi torbidamente procellosi tra cui risplendette. Nato dai principi di Benevento, signorile in ogni sua tendenza, di mente versatile, d'animo mite fin troppo, pio, dotto, elegante, Desiderio pareva destinato a proteggere le arti e le lettere e a dar loro un impulso efficace. Aggiungansi a ciò i viaggi ch'egli compì, quello in ispecie a Costantinopoli dove andò in qualità di apocrisario insieme con Federico dei duchi di Lorena chiamato come lui più tardi a salir sul trono pontificio dove prese il nome di Stefano IX. «Il monaco lorenese e il longobardo,» nota di loro opportunamente il Tosti «quando tornavano dalle Bizantine legazioni, recavano nel loro saio la semenza della civiltà greca, e sul loro labbro il racconto di quel che fosse la santa Sofia di Giustiniano: per cui poi Desiderio chiamò colonie di artisti alla costruzione e decorazione della basilica e del monastero, di cui fu veramente altro fondatore. Anzi parmi che questo Desiderio s'avesse quasi per natura inchinato l'animo all'oriente, donde voleva quasi evocare un raggio di sole, che collustrasse e vivificasse la sconvolta ragione occidentale e scaldasse le radici del vecchio tronco latino a dar fuori germogli di nuova civiltà. Imperocché egli fu il primo tra' Romani Pontefici a levare la voce adunatrice di eserciti contro gl'Islamiti di Oriente. Le crociate furono [155] una santa follia: ma non è dubbio che in quella incomposta commozione di tutto l'occidente e peregrinazione in oriente venne molto bene alle scienze ed alle arti per ricambio di pensieri tra le disgiunte generazioni.»[97]
Mosso dalle incivilitrici sue aspirazioni Desiderio rifece per gran parte il monastero e la sua chiesa. In questa raccolse quanto di più squisito sapeva concepire ed eseguire l'arte a quei tempi, ed è grande sventura che il mirabile lavoro fosse tutto scrollato alquanti secoli appresso da un terremoto. Ma l'arte non teneva sola il campo a Montecassino. Mentre ogni maniera d'artisti chiamati da Lombardia, da Amalfi, da Costantinopoli, lavorando ai mosaici, allo scolpire, al dipingere, fondavano colà una scuola artistica, anche sorgeva accanto ad essa una scuola letteraria e allargava i suoi rami. La biblioteca si arricchiva di codici preziosi che Desiderio faceva scrivere e alluminare nella Badia; i documenti ordinavansi, e tra le scritture teologiche e le polemiche s'apriva un varco la storia. A quel modo che Farfa parteggiava per l'Impero nella gran lotta delle Investiture, Montecassino teneva fermo pei Papi. Di là come da rocca munita uscivano spesso cavalieri di Cristo i monaci, e lasciata appena la quiete del chiostro si gettavano ardenti in quel turbine di guerra politica e religiosa a combattere le loro battaglie colla penna e colla parola. Solo da una gran forza morale [156] poteva veramente trar vittoria il Papato, e strumento poderoso ad ottenerla era la dottrina che i monaci quasi per istinto si affaticavano di riguadagnarsi e di possedere. Situato non lontano da Roma, ma al riparo delle violenze imperiali, Montecassino divenne in breve il convegno dei più dotti e zelanti ecclesiastici di quel tempo, e centro di un movimento politico e letterario. Appartenevano a Montecassino, tra molti altri uomini insigni, Pandolfo dei principi di Capua che in versi scrisse di matematica e d'astronomia; Costantino l'Affricano fondatore della scuola medica di Salerno; Oderisio dei conti marsicani, scrittore di grido e più tardi abbate del monastero; Guaiferio poeta, e Alfano poeta anch'egli e celebratissimo uomo che divenuto arcivescovo di Salerno ospitò quivi il fuggiasco Gregorio VII e ne raccolse il sospiro morente. La storia naturalmente doveva approfittare di queste tendenze erudite, e lo stesso abbate Desiderio scrivendo un libro di dialoghi sui miracoli di San Benedetto ci serbò notizie storiche rilevantissime, massime intorno al pontificato di Leone IX col quale aveva vissuto familiarmente e aveva divise molte vicende. Del pari le poesie d'Alfano non sono solo monumenti letterarî ma anche storici[98], e così quelle [157] di Guaiferio e, in genere, molti altri scritti cassinesi di quel tempo. Ma alle testimonianze storiche indirette s'aggiunsero le dirette, e il salernitano monaco Amato dedicava al suo abbate Desiderio, con bellissime parole, una storia della conquista dei Normanni in Italia e dei primi tempi di loro dominazione. Questa storia risalisce alla origine dei Normanni e trattando delle invasioni loro nella Spagna, nell'Inghilterra e in Italia, termina colla morte di Riccardo principe di Capua, uno dei figli di Tancredi, avvenuta nell'anno 1078. La narrazione è divisa in otto libri, e ciascuno di questi in varî capitoli che portano in capo un breve sommario dei fatti narrati. Sventuratamente l'opera di Amato è perduta, e solo se ne conosce il contenuto per una antica traduzione francese scoperta prima e pubblicata dallo Champollion Figeac e ripubblicata di recente dal Delarc[99]. [158] Tutte le ricerche fatte finora per ritrovare l'originale sono riuscite vane, ed esso è forse scomparso per sempre, ma per somma fortuna oltre alla traduzione francese ci compensa di questa mancanza il sapere che l'opera di Amato pochi anni dopo essere stata composta fu largamente adoperata da uno storico assai maggiore di lui per un lavoro che ancora ci rimane.
Intorno all'anno 1060, l'abbate Desiderio accoglieva nel monastero un giovinetto quattordicenne di nome Leone destinato al chiostro. Istruito con cura nelle scuole cassinesi, ebbe tra i suoi maestri Aldemario che già prima d'esser monaco era stato «un prudentissimo e nobile chierico di Capua e notaio del principe Riccardo»[100]. Di pronto ingegno e di buona indole, Leone attirò presto l'attenzione dei monaci sopra di sé e divenne caro a Desiderio. Il quale in breve fattoselo familiare, incominciò a servirsi di lui ne' gravi e molteplici affari che gli occupavano l'animo. Questa consuetudine di vita gli avvinse Leone con grato e venerabondo affetto che non venne meno quando Desiderio morì a Montecassino, dopo essere stato papa due anni col nome di Vittore III. A Desiderio successero nel pontificato romano Urbano II, e nel governo della Badia Oderisio dei conti di Marsi, il quale probabilmente era parente a Leone e certo gli mantenne la fiducia e l'affetto del suo predecessore. Il nuovo abbate gli commise di scriver [159] la vita di Desiderio; e di lì a poco allargò la tela del lavoro commettendogli invece di scrivere, dalle prime origini fino ai loro tempi, tutta la storia della Badia. Non si poteva scegliere autor migliore di Leone per siffatto lavoro. Lo designavano a ciò l'ufficio suo di archivista che gli dava una facile opportunità di conoscere i documenti storici del monastero, la sua dottrina, gli affari monastici e di stato tra cui era vissuto, e la familiarità avuta con tutti i principali uomini che dimoravano o convivevano a Montecassino. Dubitoso in sulle prime, egli intraprese il lavoro e proseguendolo con amor grande ne narrò l'origine e il concetto allo stesso abbate Oderisio in una lettera dedicatoria. «La beatitudine tua,» egli scrive, «o padre venerando, già avevami ingiunto che io dessi opera a scrivere per ricordo dei posteri le gesta magnifiche del glorioso tuo predecessore l'abbate Desiderio di santa memoria, uomo per fermo singolare e a questi tempi unico dell'ordine suo. Imperocché ti parve indegno imitar la inerzia degli antichi di questo luogo i quali non si studiarono di riferir cogli scritti quasi nulla dei fatti di tanti abbati e tempi: e se di ciò taluni scrissero alcuna cosa, queste scritture inette e rozze di stile piuttosto recano fastidio che scienza a chi legge. La paternità tua provvedendo solerte che ciò non avvenisse pel nostro abbate Desiderio, compiacquesi di destinar me a questa opera, imponendomi un peso per verità impari alle mie forze, talché soccombente al solo pensiero di essa, per quasi un anno non mi sono attentato di cominciare. Ma poco fa quando [160] io per mio ufficio t'accompagnava al ritorno da Capua, risovvenendoti lungo il cammino dell'egregio ordine tuo, mi richiedesti s'io avevo adempiuto la tua voglia e scritte le gesta di Desiderio. Io, colpito da quella subita domanda, dovetti pure rispondere che invero non ne avevo fatto nulla. Poi ripigliato un po' di coraggio: ‘e quando,’ dissi, ‘potevo io obbedire all'ordine tuo, mentre quasi tutto quest'anno occupato per tuo incarico ora in servizio del Signore Apostolico, ora in varie faccende tue, appena rimasi nel monastero otto giorni di seguito? Un siffatto lavoro richiede non poca quiete nè è per uomo affaccendato lo assumere una così vasta materia ma sì piuttosto per uno sciolto da ogni altra cura.’ Ascoltata questa ragione pazientemente e rimproveratami assai blando la mia negligenza, ‘ed ora,’ dicesti, ‘abbiti la quiete che desideri e non metter più indugio a scrivere di Desiderio. Anzi io voglio e comando, poiché la cosa fu indugiata finora, che tu pigliando le mosse pel tuo lavoro dal padre Benedetto, ricerchi, indagatore studiosissimo, la serie degli abbati del nostro luogo e i tempi e le gesta fino a Desiderio medesimo: e quali e per chi e in qual modo sotto ciascuno abbate sieno venute al monastero nostro le possessioni e le chiese che ora possediamo; ed esaminando scrupolosamente i diplomi degli imperatori e dei duchi e dei principi e le carte degli altri fedeli, a mo' di cronaca comporrai una storia non poco utile a noi e ai successori nostri. Non ti sia grave inoltre aggiungere brevemente a suoi [161] luoghi tanto la distruzione che la restaurazione di questo cenobio due volte avvenuta in diversi tempi, e se qua e là capiterà alcuna cosa memorabile delle opere e azioni dei chiari uomini di queste parti.’ Quando io ebbi incominciato a considerar tra me stesso la gravità di questo comando, mi sorse in mente uno spineto fitto di pensieri, e non vedendo facile per la povertà del mio ingegno donde e in qual modo eseguirlo degnamente, io stava incerto tra l'accettare e il ricusare un così gran lavoro. Accettando, mi pungeva il pensiero della temerità; ricusando, della inobbedienza. Oltre a ciò io mi ricordava che il predetto signor mio Desiderio già aveva commessa questa opera medesima ad Alfano arcivescovo di Salerno, uomo nei nostri tempi sapientissimo, ma egli prevedendo troppo laborioso il tema si sottrasse alla prova. Che se colui il quale allora era così incomparabilmente eccelso per sapere e per eloquenza, ebbe timore di sottomettersi a questo peso, che dovrei fare io che non ho scienza di sorta nè eloquenza? Anche mi tormentava la coscienza mia chiedendosi perché tu non commetteresti piuttosto quest'opera a qualche altro dei confratelli nostri di gran lunga più scienziati di me e più esperti nell'uso dello scrivere, i quali già aveva aggregati a questo luogo la diligenza del medesimo santo predecessor tuo o da lui erano stati fatti educar con gran cura in questo stesso cenobio. In tali pensieri io m'affannavo ondeggiando, ché la cosa troppo era più alta ch'io non potessi attingere e certo più [162] astrusa ch'io non valessi a scrutare. Tuttavia, poiché io per la divozione singolare che da lungo portavo alla paternità tua già m'ero proposto di non volerti ricusare mai nulla, fermai finalmente l'animo mio. E mentre prima pusillanime avevo temuto di attentar le sole gesta di Desiderio, ora poi fidando nell'aiuto di Dio e stimando di dover così fare, impresi come sapevo a scriver di tutti i predecessori suoi. Raccolti adunque tutti quegli scrittarelli che di questa materia avevano trattato, pur con cencioso stile e scarsi, e principalmente la cronaca di Giovanni abbate che primo costruì il monastero nostro di Capua Nuova; e presi i libri che erano necessari a quest'opera, vale a dire la storia dei Longobardi e la cronaca degli imperatori e dei pontefici romani; indagati diligentemente i privilegî, i precetti, le concessioni e le carte di diversi titoli, tanto cioè dei romani pontefici che dei varî imperatori, re, principi, duchi e conti, e d'altri uomini illustri e di fedeli, che dopo due incendî ancora ci rimangono, sebbene neppure mi riuscisse di veder tutti questi; da ultimo interrogai scrupolosamente coloro che dei tempi moderni e dei fatti degli abbati avevano potuto udir dappresso o vedere. Come lo concede la tenuità dell'ingegno mio io mi accingo ad eseguire quanto m'imponesti, più certo affidato alla obbedienza che ti debbo come a padre e a signore che presumente d'alcuna scienza. Mi assista Iddio e la grazia del suo Spirito, tanto che io possa mandare ad effetto quello che ti sei degnato amorevolmente d'ingiungermi, talché questa [163] operetta e a te sia grata e profittevole a molti. Queste cose pertanto, guardando a me stesso, ebbi io necessità di premettere in questa prefazioncella affinché chi le ignora non mi arguisse di temerità o di presunzione, e se m'accusa la pochezza mia mi scusi almeno l'autorità di colui che mi comanda.»[101]
Incominciata così la sua storia, egli la condusse dalle prime origini della Badia fino all'anno 1075, ma non la potè condurre oltre quell'anno ancorché v'attendesse pur dopo che Pasquale II l'ebbe nominato cardinale vescovo d'Ostia, onde gli venne tra i posteri il nome di Leone Ostiense. I troppi affari e i tempi affannosi lo distoglievano dalla impresa e gli vietavano un continuato lavoro. Si trovò a Roma (A. D. 1111) quando Enrico V impadronitosi violento di papa Pasquale in San Pietro, lo trascinò seco prigioniero in Sabina. Travestiti da popolani egli e Giovanni cardinal vescovo di Tuscolo, poterono sfuggire alla cattività, e non par dubbio che anch'egli, come Giovanni, tentasse d'infiammare i Romani alla fiera resistenza ch'essi opposero ai Tedeschi d'Enrico. Ma se non fu preso ancor'egli e non sottoscrisse la convenzione sulle investiture strappata per forza al Papa, la ragion dei tempi lo costrinse pure di malavoglia a piegarsi e a tenere con quei prelati che insieme con Pasquale II preferivano le vie conciliative ad una inflessibilità immota. Inflessibili [164] erano altri prelati e un dei principali tra questi era Bruno d'Asti vescovo di Segni e abbate di Montecassino, uomo di molta dottrina, austero e santo di vita, nella sua resistenza all'Impero irreconciliabile. Il Papa stimando pericoloso che un forte nucleo di oppositori gli si formasse contro a Montecassino, tosto inviò quivi Leone a cui riuscì d'ottenere che Bruno, abdicata la dignità abbaziale si ritirasse nella sua diocesi di Segni. Tornato a Roma Leone prese gran parte nel concilio Lateranense del 1112, ma dopo riman poca traccia della sua vita. Essa cessò un ventidue di maggio, non si può bene affermare di quale anno tra il 1115 e il 1117.
Come può intendersi anche dalla lettera premessa al suo lavoro, Leone, oltre al grande sussidio trovato nei documenti dell'archivio, s'era pure aiutato della biblioteca cassinese che gli fornì dovizia copiosa di scritture relative in qualche modo alla storia del monastero. Il maggior numero degli scrittori di cui sono venuto parlando finora fu nota a quel dotto uomo e se ne servì largamente. Inoltre attinse talvolta a qualche fonte che non è pervenuta infino a noi, e verso l'ultimo periodo della narrazione aggiunse di suo quanto della storia contemporanea aveva veduto o udito egli stesso. Di quanti scrissero in quella età di tendenze partigianesche, Leone per la elevatezza e la naturale imparzialità dello spirito, è uno di quelli che meritano maggior fede. Se gli fosse rimasto agio di condurre il lavoro fino agli ultimi tempi di sua vita, forse oggi dovremmo considerarlo come il maggiore storico italiano del medio [165] evo dopo Paolo Diacono. Nè come monumento letterario l'opera di Leone è inferiore alla sua importanza storica. «In quanto alla forma,» volentieri torno a citare il venerando storico di Montecassino, «noi pensiamo, che in mezzo alle barbarie, il cassinese Leone sia il primo a farci ricordare degli storici latini e ad accennare a quelli che sarebbero stati per fiorire in Italia dopo il risorgimento delle lettere. Nè in Italia nè fuori troviamo alcuno che in quei tempi vada al pari di Leone per certa tal quale composizione de' fatti, nesso di ragioni e decenza di discorso, per cui la storia si distingue dalla rozza cronaca, che non è altro se non una materiale riproduzione per la scrittura delle successive e incoerenti notizie di fatti, le quali cadono dall'animo dello scrittore senza che ci dicano del come e del perché vi siano entrate. Egli stesso sente non essere un volgare cronista; imperocché deputato dall'abbate Oderisio a scrivere dei fatti del suo predecessore Desiderio, afferma, che quelli giudicassero indegna cosa il non esser stato per lo passato alcuno che avesse messo opera a tramandare con le scritture le opere degli antichi abbati, e se pur ve ne fosse stato alcuno, lo avesse fatto con isconcio e selvaggio stile, da ingenerare in chi legge piuttosto fastidio che dottrina. Egli prende le mosse da San Benedetto fino ai suoi tempi; si prepara con molto studio al racconto che imprende; accenna alle fonti onde attinse la notizia dei fatti.... e sotto il velame di religiosa modestia rivela la coscienza d'aver fatto da più degli altri nella sua narrazione, [166] alla quale lo stesso Alfano, richiesto dall'abbate Desiderio, non volle porsi; per cui reputa non degno della sua cronaca il titolo di cronaca ed osa chiamarla historiola. Adunque e per la veracità del racconto e per la forma questa cronaca arrecò molta luce alla storia del Medio Evo.»[102]
L'opera di Leone interrotta col racconto della consacrazione della restaurata badia, fu ripresa da Pietro Diacono e continuata fino all'anno 1138. Discendente dalla illustre famiglia dei conti Tusculani, Pietro era nato verso il 1107, dal romano Egidio figlio di Gregorio patrizio e console dei Romani, e pronipote di Alberico e di Marozia. Offerto da fanciullo in oblazione al monastero nel 1115 sotto l'abbate Giraldo, Pietro fu educato con cura ed ebbe a principal guida ne' suoi studi il monaco Guido, uomo, al dire del suo discepolo, assai riputato, autore di varie opere storiche ora perdute e di una Visione di Alberico, rimasta famosa perché parve ad alcuni di ravvisare in essa un concetto ispiratore della Divina Commedia. Nel 1128 la nimicizia dei conti d'Aquino ai quali si era strettamente legato il padre di Pietro, indussero l'abbate Senioretto ad allontanare il giovinetto [167] monaco da Montecassino. Pietro allora si ritrasse nella prossima Atina dove, richiesto da Adenolfo conte di quella città, scrisse una storia del martirio di San Marco vissuto nei tempi apostolici e primo vescovo della diocesi atinate. Mentre durava il suo esilio, gli zii di Pietro dai quali suo padre erasi distaccato per allearsi ai conti di Aquino, gli scrissero esortandolo a tentare d'indurre il padre a tornare in lega con loro. Non può affermarsi con sicurezza ma pare probabile che Pietro aderisse all'invito de' suoi parenti. Certo noi lo troviamo di lì a poco a Montecassino in amiche relazioni con essi, e nel favore dell'abbate suo Senioretto che gli commise più tardi di continuare la storia della Badia e gliene narrò molta parte di cui egli stesso era stato testimonio oculare. Ma prima che gli fosse affidato l'incarico di questa storia, egli s'era venuto acquistando fama con altri lavori. Nominato come Leone archivista e bibliotecario della Badia, l'ingegno facile arguto meridionale gli spianò la via a sviluppare una prodigiosa attività letteraria. In varî tempi e tra molte occupazioni copiò molti codici, scrisse vite di santi e narrazioni di miracoli e versi e lettere, compilò un grande Regesto dei documenti serbati nell'archivio, narrò le vite dei più illustri monaci del monastero, e continuò l'opera che Leone d'Ostia aveva lasciata interrotta. Pietro fu men di Leone mescolato nelle vicende politiche della età sua, e le molteplici cure sue si restrinsero quasi tutte entro la cerchia del suo monastero. Da ciò si spiega la moltitudine dei suoi lavori e la mole di alcuni tra essi. La calata di Lotario nel mezzogiorno d'Italia (A. D. 1137) segnò il [168] punto più culminante della sua vita, che ci vien descritto da lui con boriosa compiacenza. Ai tempi di Pietro, cessata oramai la lotta delle Investiture, Montecassino cercava come sapeva l'appoggio della protezione imperiale per sottrarsi dalle frequenti e varie pretese dei principi normanni e della Curia romana. La soggezione ad un imperatore lontano riusciva assai meno molesta alla Badia delle relazioni sue temporali e spirituali con possenti vicini. Allorché Lotario insieme con Innocenzo II trovavasi presso Melfi a Lago Pesole, Pietro recossi colà col suo abbate ed ivi fu incaricato di sostenere innanzi all'imperatore le ragioni del monastero contro i diritti asseriti dal cardinale Gerardo in nome della Chiesa. La facile arguta parola del monaco riportò vittoria dopo varî giorni di contrasto, e l'Imperatore stupito di tanta facondia e di tanta dottrina pose grande benevolenza a Pietro, lo colmò di onori e mostrò desiderio d'averlo seco in Germania. Almeno così egli ci narra, e veramente parve ch'egli fosse sul punto di seguirlo colà, ma varie cagioni ne lo distolsero e rimase nel suo monastero. La data della sua morte è incerta, ma non è debole la congettura del Wattenbach che lo reputa morto non molto dopo il 1140. Infatti dopo quel tempo non si ha più notizia di lui, nè par naturale che uno scrittore così fecondo, il quale nello spazio di circa dieci anni aveva posto mano e compiuti tanti lavori, cessasse a un tratto lo scrivere e cadesse in un silenzio assoluto.
Tralasciando le minori opere sue, Pietro Diacono ha raccomandata la sua fama ad alcuni lavori storici [169] ricchi di merito e di difetti. I suoi libri sugli uomini illustri di Montecassino e sulla vita e la morte dei giusti di quel monastero, contengono, miste a portentose leggende, notizie storiche di gran pregio massime pe' tempi più vicini all'autore. Ma i due lavori suoi più importanti sono il Regesto di Montecassino e la continuazione della cronaca cassinese. Se l'onorato amore del vero che animò Gregorio di Catino e Leone Ostiense avesse animato anche Pietro Diacono, per fermo il pregio di questi due suoi lavori, e specialmente della cronaca, sarebbe riuscito incalcolabile; ma per disavventura non fu così. I dubbi ch'egli c'ispira del continuo sono l'opposto di quella fede sicura colla quale possiamo abbandonarci alle narrazioni di Leone Marsicano. Questi semplice imparziale veridico, e Pietro vanitoso appassionato malsincero[103]. Colla compilazione del Regesto egli fece opera grande e utilissima anche oggi sebbene i documenti originali dell'archivio cassinese si conservino ancora in gran parte. Questo suo libro scritto in bellissimo carattere longobardo, è quasi altrettanto vasto di mole quanto il Regesto di Farfa ma diverso nella distribuzione del contenuto. I documenti non si seguono tutti indistintamente un dopo l'altro in ordine cronologico, ma sono ripartiti in varî gruppi secondo la varia loro natura e, come si pare dalle parole della prefazione, secondo un piano già iniziato da Leone Marsicano. [170] «Di grandissimo aiuto,» dice Pietro, «mi fu in ciò la storia di Leone venerabile vescovo d'Ostia, il quale pigliando cominciamento dal beatissimo padre Benedetto, scrisse sulle cose del cenobio cassinese un libro utilissimo nel quale pose tanta ricchezza d'ingegno che quasi nulla tralasciò di quanto è avvenuto in questo medesimo cenobio. Non potendo adunque seguire la diligenza di un tanto uomo in quest'opera per la facoltà troppo impari dell'ingegno, tenni tuttavia il medesimo ordine ch'egli avea stabilito alle carte di donazione.» Questa opera di Pietro fu consultata spesso dagli eruditi con gran profitto, e certo è desiderabile che i monaci di Montecassino, terminata la magnifica descrizione che stanno facendo dei loro manoscritti, mettano mano a pubblicare un codice diplomatico dei documenti originali dell'archivio cassinese, raffrontandoli quando sia opportuno e completandoli col Regesto di Pietro Diacono[104]. Ma se il lavoro di Pietro è pregevole, non è però tale da accettarlo mai senza molta cautela. La tendenza dell'autore e quella dei suoi tempi contribuiscono a toglier fede a quel lavoro. Le contese frequenti sulle proprietà dei beni monastici e talora sulla santità delle origini o sulla autenticità delle [171] reliquie serbate nei monasteri, non solo spingevano i monaci alle compilazioni dei regesti ma spesso anche a falsificare o ad alterare i documenti con impudente audacia. Nè Pietro fu immune da questa colpevole tendenza a cui lo spingeva in molti casi l'animo vanitoso e il desiderio di trovare immaginarie nobiltà di origini e di vicende al suo monastero pur così nobile e famoso. Se non si può affermare del sicuro ch'egli abbia fabbricato documenti falsi, certo ha talora scientemente alterato con interpolazioni gli originali che copiò entro il Regesto. E lo stesso difetto di onesta sincerità macchia la sua cronaca di Montecassino che movendo, come dicemmo, dal punto dove s'era fermato Leone (A. D. 1075) prosegue fino all'anno 1138 e abbraccia così il periodo storico più rilevante di quell'età fortunosa. Anzi qui alla vanità del monaco pel suo monastero si aggiunge la boria gentilizia e personale grandissima in lui, talché il suo lavoro dovunque si riferisce agli interessi della Badia o alla persona sua nominata ad ogni tratto, sempre è di autorità molto dubbia. Ma tuttavia la importanza dei tempi per cui s'aggira la sua narrazione dà uno speciale valore a questa cronaca, fatta anche piacevole dalla spigliata franchezza del suo stile che attira pur coi difetti e svela spesso all'aperto l'anima dello scrittore ingenua nella sua scaltrezza. Diverso anche in ciò da Leone il quale attingendo notizie ad altre fonti componeva sempre di suo il racconto, Pietro spesso copia brani d'altri scrittori e li innesta colle stesse loro parole nel libro. Di che viene una grande disuguaglianza di stile. Ma dove egli [172] scrive del proprio, se talora è un po' scorretto per frettolosa negligenza, egli è pur sempre vivace evidente ricco di colorito e di vita, e malgrado i difetti rimane sempre un curioso e singolare scrittore, degno d'essere letto da chi voglia aver familiare la letteratura storica di questo periodo[105].
Il grande risorgimento artistico e letterario di Montecassino si collegava ad un consimile movimento in tutta la bassa Italia nella quale per gli immediati contatti suoi colla Grecia e cogli Arabi spargevansi a un tempo i raggi fecondatori di due civiltà. Gli istinti quasi medicei che Desiderio avea recato nel chiostro, eran pure gl'istinti dei principi longobardi da cui usciva. La nobiltà longobarda di quei luoghi protettrice delle lettere fin dai tempi di Paolo Diacono, erasi a poco a poco assimilata agli indigeni, e nel fondersi con essi e ingrecandosi cogli elementi avanzati dal greco dominio, aveva assorbito i pregi e i difetti della nuova patria. Da ciò la prontezza di quelle regioni nel risvegliarsi alla civiltà, e l'influsso efficace che esercitarono sovr'essa per alcuni secoli da quel tempo. A testimoniare questo primo risveglio nel Mezzogiorno, oltre i lavori monastici di Montecassino [173] concorrono varî lavori di carattere storico dei quali terrò discorso ora per isgombrar la via ad altri soggetti che son da trattare nel capitolo seguente[106]. Della città di Bari sulla costa adriatica ci lasciò notizie fino al 1102 Lupo Protospatario, e più tardi fino al 1152 l'anonimo Barense. Benevento ha suoi annali fino all'anno 1130 ed una cronaca che per mala ventura è incompleta, rude di stile ma di gran pregio alla storia. Del pari ha suoi annali il famoso monastero della Trinità della Cava presso Salerno, ricostruito anch'esso a que' tempi e consacrato solennemente da Urbano II, della quale consacrazione riman pure memoria. Da Taranto derivano le notizie intorno ai primi invasori normanni che ci son porte dal Chronicon nortmannicum breve. Del monaco Amato che scrisse più largamente intorno ai Normanni si è già detto, e quando il suo lavoro ci lascia, serve a completarlo il poema eroico di Guglielmo di Puglia che celebra Roberto Guiscardo e le imprese dei suoi [174] Normanni. Buon poeta pe' suoi tempi e abbastanza familiare coi classici, egli ci canta le gesta del suo eroe in esametri infiorati di citazioni virgiliane. L'opera sua intrapresa per desiderio di Urbano II e dedicata a Ruggiero figliuol di Roberto, oltre al pregio dell'essere scritta in tempi e luoghi prossimi agli avvenimenti, mostra una buona conoscenza degli scrittori che lo precedettero e tra questi di un biografo di Roberto del quale oggi non avanzano traccie. E, contemporaneo al poeta Guglielmo, Goffredo Malaterra per incarico del gran conte Ruggiero scriveva una preziosa storia dei Normanni in Sicilia con sufficiente scioltezza di stile e ricca di notizie anche per la storia delle relazioni che corsero tra i Normanni stessi e il pontefice Urbano. Come si vede, la cavalleresca epopea dei Normanni non mancò di scrittori che la celebrassero, e la nuova tendenza storica dei tempi trovò in quelle imprese spazio largo abbastanza per non aver bisogno di tramutarsi in leggenda.
E per fermo, attratta dalla verità della vita, animata da forti ideali, la fantasia si volgeva all'umano e la luce della leggenda impallidita innanzi alla luce della storia rifugiavasi nelle tradizioni del popolo o in qualche oscuro libro monastico destinato a lontane e inaspettate risurrezioni. Infatti, lontan lontano dai luoghi di cui si tiene parola, in Val di Susa alle falde del Cenisio, un monaco del monastero della Novalesa raccoglieva le tradizioni della calata di Carlomagno in Italia e manteneva ricordi di un ciclo di leggende che più tardi ispirò trovatori e poeti del medio evo, illuminò la fantasia dell'Ariosto e, ai tempi [175] nostri, innestato alla storia crebbe colore alla musa pensosa di Alessandro Manzoni. La storia vera del monastero della Novalesa somiglia alle altre storie monastiche di quei tempi. Fondato nell'anno 726, distrutto dai Saraceni nel 906 o nel 916, restaurato verso il mille, ebbe tra i suoi intorno alla metà del secolo undecimo un monaco del territorio di Vercelli che ne scrisse la cronaca[107]. Quest'opera fantastica ci è avanzata mutila nello stesso antico rotolo membranaceo su cui l'autore la scrisse a più riprese, tra lunghi intervalli di tempo, senza condurla a termine mai. Attinta alle fonti del popolo, incomincia quasi subito con una favolosa leggenda di un monaco ortolano di sangue reale chiamato Waltario che compì gesta prodigiose a tutela del monastero, ed è, come nota il Bartoli, quello stesso Walter figliuolo del re di Aquitania preso in ostaggio da Attila e la cui leggenda si rilega ai Niebelunghi alla Wilkina-Saga scandinavica e a tutto il ciclo delle tradizioni eroiche [176] intorno ad Attila. Alle quali leggende tengono dietro altre leggende del cielo di Carlomagno importantissime perché dopo men di tre secoli narrano ciò che la fantasia popolare aveva creato sui fatti avvenuti tra quelle montagne dove il monaco le raccoglieva. La visione di Carlomagno, l'ospitalità ch'egli trovò alla Novalesa, il giullare che insegnò a Carlo il valico per passar le Alpi e prendere i Longobardi alle spalle, la presa di Pavia, le miserie del longobardo re Desiderio, e le maravigliose prodezze di suo figlio Adelchi, sono altrettanti episodî di leggende ricchi di poesia e di sentimento. Diversa dalle cronache erudite dei monaci del Mezzogiorno, questa cronaca della Novalesa ha pure una importanza singolare perché raccoglie le impressioni del popolo durevoli assai lungamente oltre le sue cagioni. Tornando indietro con essa fino alla età longobarda, al punto ove Paolo Diacono s'arresta, noi possiam colorire quelle scarne notizie che la critica ci aiuta a trarre dagli ampî Regesti e dalle cronache più severe. Ché se questo scritto nato al pié delle Alpi è piuttosto poesia che storia, certo è poesia che ricorda la vita dei tempi lontani e la ripete dopo secoli di silenzio, come le maestose montagne che incoronano le ruine della Novalesa ripetono tra i vasti silenzi la lunga e solitaria eco dei suoni cessati.
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I continuatori del Libro Pontificale: Bruno da Segni. Guiberto di Toul. Paolo di Bernried. «Annales Romani.» Pandolfo. Bosone — Scritti polemici. San Pier Damiani. «Liber ad Amicum» di Bonizone — La Vita di Anselmo da Lucca — La Vita della contessa Matilda di Donizone — Le lettere di Gregorio VII.
«Il beato papa Gregorio (VII) soleva narrarci assai cose di quest'uomo (Leone IX), e da lui ho memoria d'avere udito in gran parte tutto ciò che sono venuto dicendo fin quì. Ora egli un giorno, parlando di lui incominciò a rimproverarci, e me principalmente (come mi parve poiché tenea fissi in me gli occhi) perché lasciavamo passare in silenzio le gesta del beato Leone, e non iscrivevamo ciò che sarebbe riuscito a gloria per la Chiesa Romana e ad esempio di umiltà per molti che avrebbero ascoltato.»[108] Queste parole di Bruno vescovo di Segni [178] mostrano come al risorgere dell'autorità e del vigore nella sede romana, rinascesse il bisogno di un libro pontificale, e come i papi stessi promuovessero quest'opera. Infatti nel secolo undecimo, le vite dei papi, a muover da quella di Leone IX († 1054), incominciano ad essere narrate con larga estensione da scrittori non privi di merito, spesso testimonî oculari o assai prossimi delle cose narrate e mescolati in qualche modo ad esse. Così, per esempio, le parole citate qui sopra furono scritte in una vita di Leone IX da quel medesimo Bruno vescovo di Segni e abbate di Montecassino, che nell'altro capitolo ci apparve tanto attivo e ardente partigiano nella lotta delle Investiture. Ma quest'opera sua non ha molto valore, e fu superata da altre venute in luce verso il suo tempo, quali la commovente descrizione della morte di Leone IX dettata in Roma dal chierico Libuino custode del sepolcro di quel papa, ricca di fatti veri tra molte leggende, e la vita scritta da un monaco beneventano, specialmente stimabile pel racconto della mal provvida spedizione di Leone contro i Normanni, e della prigionia che seguì alla sua disfatta. Più importanti ancora sono due altri lavori di due tedeschi[109], Guiberto [179] di Toul e Paolo di Bernried, che scrissero molto diffusamente il primo di Leone IX, il secondo di Gregorio VII. Guiberto che fu familiare di Leone quando questi era vescovo di Toul, è specialmente ricco di particolari circa la prima parte della sua vita, ma pel rimanente, il suo scritto, sebbene pregevole, non ci dà un ritratto così completo di quel pontefice che non sia bisogno di cercare anche da altre fonti aiuto a rifarne la storia.
Dettata mentre cessava la contesa delle Investiture, la storia di Gregorio VII lasciataci da Paolo di Bernried ripete l'eco delle antiche querele e magnifica la potenza morale di Gregorio, quasi ad ammonir gli avversarî del pericolo che correrebbero a rinnovar la gran lotta. Dedicatosi fin dal 1102 alla vita ecclesiastica, Paolo fu ordinato prete nel 1120. Per le persecuzioni dell'imperatore Enrico V, riparò l'anno seguente a Bernried nella diocesi di Augusta. Nel 1122 si recò a Roma, e quivi forse gli venne in animo di narrar la vita di Gregorio VII. Senza dubbio radunò colà la materia del suo lavoro, studiò il registro delle lettere gregoriane, interrogò i superstiti testimonî delle vicende del suo eroe, tra i quali lo stesso pontefice Calisto II. Tornato a Bernried si mise all'opera e la condusse a termine nell'anno 1128. Narratore ingenuo, egli, sebbene sprovveduto di critica, attinge per lo più a buone fonti e fa largo uso di documenti ufficiali. Per tal modo bene e coscienziosamente informato, scrive di eventi occorsi quasi cinquant'anni prima di lui con una tenace semplicità di convinzione che penetra efficace nell'animo di chi lo legge. Con [180] facile credulità egli corre spesso al soprannaturale e spiega miracolosamente assai fatti o li colorisce colla aggiunta di episodi leggendarî, ma è così onesto e di buona fede in queste aggiunte, che la critica può facilmente respingerle o spremer da esse il vero della storia, e l'arte aiutarsene a descrivere una età drammatica oltremodo. Uno storico artista, il Villemain, che ha lumeggiato a maraviglia la vita di Gregorio VII[110], si giovò assai di questo biografo per dar colore ai suoi quadri, e specialmente alla sua descrizione di quella fosca notte di Natale, quando il romano Cencio entrato in Santa Maria Maggiore strappò Gregorio dall'altare e lo trascinò in una sua torre prigioniero e ferito. Amo riferir qui in parte il racconto dell'antico scrittore, che è bello confrontare collo storico moderno per vedere in qual modo le vivide impressioni d'un semplice cronista del medio evo abbiano ispirata una delle più luminose pagine di cui si onori la moderna letteratura storica di Francia.
«Ecco venuta la notte in cui il figliuol delle tenebre sta per assalire il ministro della luce. E prima manda esploratori ed altre spie, perché tra gli abitanti di quel quartiere presso alla chiesa essi s'erano aggiunta una certa società che notando ogni cosa ne mandava notizia a quello scellerato. Allora egli messa in arme la legione sua, la condusse rapidamente, disponendo in modo che, o dopo aver vinto uccidendo Gregorio o trionfato portandolo via vivo, chiunque potesse avere un cavallo lo inforcasse affinché [181] niuno s'attentasse d'insorger contro di loro. E si viene alla chiesa. Il Papa in luogo glorioso nel presepio, come insegna la religione cantava la prima messa di notte e già egli e il suo clero avean preso il corpo del Signore. Partecipavano gli altri alla comunione quando ecco tuona improvviso un clamor grande, un grande ululato, e riempie la chiesa. Ed eccoli a percorrer d'ogni parte la chiesa, colle spade sguainate a percuoter chi capitava, e affacciatisi alla cappella del presepio dove in alto sedeva il Papa, percotendo alcuni e spezzando i cancelli, a cacciar truculenti le mani nel presepio del re eterno e della madre sua. Allora poser le mani sul Papa e lo tennero. Un d'essi tratta la spada voleva troncargli il capo ma per volontà di Dio non potè. Però percosso in fronte e gravemente ferito, colle violente mani lo strapparon via dalla chiesa che ancora la messa non era finita, tra le uccisioni e il percuotere. Quegli intanto come agnello innocente e mansueto, levando gli occhi al cielo non die' loro alcuna risposta, non si lagnò, non fe' resistenza, non pregò che lo risparmiassero. Spogliato del pallio e della pianeta, della dalmatica e della tunica, ravvolto solo nel camice e nella stola, trascinandolo come un ladro lo poser sul dorso a uno di quei sacrileghi. Quel tale poi che colla spada gli aveva percossa la fronte, preso dal demonio s'avvoltolò spumando un pezzo nell'atrio della chiesa, e il suo cavallo fuggì via e non fu più trovato.
«La fama di tanto male tosto colpì la città tuttaquanta, e chi potrebbe ridirne il pianto e i funerei [182] lamenti?... Il clero tutto, perché il pastore era percosso, correva qua e là, e spogliando denudava tutti gli altari. Tranne ciò che si era detto prima, nulla in niun luogo nelle chiese fu detto del divino ufficio. E gli elementi che erano stati turbati fino ad allora, per non impedire il popolo zelante nello zelo del Signore, si mostrarono pacati, e la terra assorbendo tutta l'acqua che reggeva per la soverchia inondazione, mostrò di nuovo l'asciutto per far che tutti accorressero alla vendetta. Tutta la notte adunque, suonandosi le campane e le trombe, i soldati percorsero ogni andito affinché con qualche astuzia non portassero fuori della città il Papa, ma di lui non apparve vestigio. E per vero, mentre si dubitava, ignorando tutti s'egli era vivo o morto, radunatosi il popolo in Campidoglio, riferirono alcuni ch'egli era tenuto prigione in certa torre. Tutta la gente allora mandò grida alle stelle. E appena tornò sulla terra il giorno, tutti esortandosi a vicenda, s'avviarono innumerevoli alla casa di quell'anticristo. S'appiccò la zuffa, ma al primo scontro la parte nemica si die' in fuga e tutta la fazione si rinchiuse nella torre. Allora in tutta la parte munita fu posto il fuoco, e recate macchine e arieti spezzasi il muro, e quanto era là chiuso divien preda al popolo del Signore. Nessuno evitava il pericolo, ma dimentico di sé combatteva ciascuno a tutta possa.
«Peraltro un nobile uomo e una nobil matrona avevano seguìto il padre Gregorio e gli erano stati di qualche sollievo. L'uomo trovate alcune pelli [183] scaldò il pontefice affranto dalla via per cui era stato trascinato, e se ne pose i piedi sul petto. La matrona deplorando molceva coi medicamenti la piaga del nostro padre, molle pel rosso profluvio del molto sangue, e sclamava contro quegli omicidi sacrileghi nemici di Dio. Era quasi un'altra Maria, ché come quella piangendo i delitti suoi bagnava in lacrime le vestigia del Signore, così questa con le lacrime sue bagnava un tanto pastore!
«.... Ma quanto era animosa la fede di costei tanto era linguacciuta la perfidia d'un'altra donna. Imperocché come già nella Domenica di Passione l'ancella ostiaria aveva atterrito Pietro, così costei con suoi mordaci obbrobri ne conturbava il Vicario. La quale era sorella di quel traditore e però non temeva di maledire a tanto padre. E un altro ministro e seguace di quel traditore colla spada alla mano minacciava bestemmiando di voler troncare in quello stesso giorno il capo di tanto uomo. Ma il giudizio velocissimo di Dio non differì la vendetta della empietà sua: un dardo vibrato dal di fuori troncandogli la gola onde usciva la crudel voce, lo prostrò a terra moribondo e palpitante, e così lo mandò all'inferno.
«.... Finalmente il pio Papa affacciatosi alla finestra, aprendo le braccia verso la turba furente, fece cenno che si calmassero, e alcuni dei maggiori salissero entro la torre. Alcuni però credendo ch'ei li esortasse all'opera incominciata, fatto impeto schiudono la torre. E così fu condotto fuori, piangendo di gaudio tutte le turbe esclamanti per la pietà. [184] Imperocché lo si vedeva tutto cosparso di sangue per la gran ferita, onde presi d'orrore mandavan le voci alle stelle. Avuta così vittoria, tutti con papa Gregorio pieni d'infinito gaudio tornarono alla chiesa della Madre di Dio da cui l'avevano strappato in quella notte. E il comun padre compì allora la messa che non aveva potuto terminar nella notte impedito dai ministri del diavolo, e ai ritornati dalla gran vittoria die' la grazia della benedizion del Signore.»[111]
Il cozzar delle parti ora più che mai favoriva il risorgere della storia pontificia cercando aiuto nella esposizione dei fatti. E poiché il giudizio dei fatti raro scompagnasi dal giudizio sugli uomini che li promuovono, così le vite dei papi erano di frequente narrate e poste in buona luce o cattiva secondo il sentimento del narratore. Entro le stesse mura di Roma i partiti in contrasto produssero alcuni scritti che furono pubblicati col titolo di Annales Romani[112], e manifestano le due contrarie tendenze nei pensieri di quel tempo. Il primo di questi scritti, inteso a continuar propriamente l'antico Libro Pontificale, contiene le vite dei vari papi che si seguirono a breve distanza tra l'anno 1044 e il 1049. È uno scritto [185] anonimo condotto con diligenza e ricco di dettagli intorno alle cose cittadine e alle famiglie nobili di Roma. Ad esso tengono dietro due narrazioni che comprendono la serie dei papi da Leone IX fino ad Alessandro II (A. D. 1049-1072), scritte da partigiani dello Impero e con animo avverso ai papi. Per contrario è favorevole ad essi un altro scritto che ci narra con semplicità evidente la violenza patita in Vaticano da Pasquale II quando Enrico lo trascinò via da Roma come prigioniero. Presente ai fatti che narra, «queste cose» afferma l'autore «come le abbiamo patite, e le vedemmo cogli occhi nostri e udimmo colle nostre orecchie, così in pura verità abbiamo scritte.»[113] E procede descrivendo anche le vite degli antipapi che si opposero a Pasquale II e a Gelasio II. L'ultima continuazione finalmente viene a tempi più recenti ed abbraccia i pontificati che si seguirono a breve intervallo tra Lucio III e Clemente III (A. D. 1181-1188), e le controversie di quei papi con Federico Barbarossa. Scritture tutte quante appassionate, eccedono nel biasimo o nella lode, e parteggiano secondo le passioni dei loro autori, ma per essere state composte nei tempi e sui luoghi degli avvenimenti, rimangono pur sempre sorgenti ricchissime di informazioni. Nè hanno pregio storico solamente; dal lato letterario il rozzo e popolare latino in cui son dettate, acquista loro importanza per le forme linguistiche italiane le quali fanno già presentire il [186] gran mutamento che veniva operandosi nel linguaggio di quella età feconda di trasformazioni all'Italia.
A questa raccolta di vite pontificie che può considerarsi in certo modo come una continuazione popolare dell'antico Liber Pontificalis, figura accanto un'altra continuazione di carattere più ufficiale, scritta quasi sotto gli occhi dei Papi da un dignitario della Chiesa di nome Pandolfo, nipote al cardinale Ugo d'Alatri, che ebbe incarichi importanti nella Curia dai tempi di Pasquale II a quelli d'Onorio II[114]. Nello scisma che alla morte d'Onorio divise la chiesa, Pandolfo parteggiò per Anacleto contro Innocenzo II di cui parla aspramente nei suoi scritti. Anacleto lo creò cardinale, ma spento lo scisma, non pare che il suo grado fosse riconosciuto da Innocenzo, e da quel tempo vien meno ogni memoria di lui e il nome suo scompare dalla storia.
Le vite dei papi che ressero la Chiesa da Leone IX fino a Calisto II (1049-1124), possono in certo modo considerarsi come altrettanti atti di un dramma che ha il suo punto culminante nel pontificato di Gregorio [187] VII. Tutti quei pontificati hanno una sola tendenza e lottano per un principio comune che il monaco Ildebrando promosse prima d'esser pontefice e lasciò morendo in eredità ai suoi successori. Di che si spiega naturalmente come il Libro Pontificale ripigli un racconto più largo delle vite dei papi a cominciare da Leone IX, poiché da lui s'inizia un periodo nuovo nella storia della Chiesa. Dalle parole che si sono citate, secondo le quali Gregorio VII esortava Bruno da Segni a parlar di Leone, già traspare questo concetto e ad esso si attenne Pandolfo. Egli pertanto ci ha lasciato quasi senza interruzione le vite dei papi di quel periodo, le prime assai inesatte e confuse nel racconto dei fatti, quelle di Gregorio VII e d'Urbano II più importanti, sebbene non prive di mende, ma superiori a tutte e dettate con una grande e profonda conoscenza dei fatti, le vite di Pasquale II e di Gelasio II a cui fanno seguito quelle di Calisto II e d'Onorio II, però trattate più brevemente delle altre due.
Educato allo studio degli antichi e desideroso di fare sfoggio delle sue attitudini letterarie, Pandolfo quando giunge ai tempi vicini a lui non appoggia particolarmente il suo racconto a documenti, ma trae dalla memoria gli elementi del suo lavoro, cercando in essa quei fatti che più lo aiutano a dar vita alla narrazione, e si adattano meglio all'indole sua che par più di soldato che di prete[115]. Narratore di cose quasi [188] sempre vedute e patite in tempi d'angoscia, ei le dipinge con evidenza, e imprimendo in esse un cotal suo sentimento pieno d'efficacia drammatica, risuscita le immagini di quel passato come egli le vide agitarglisi intorno. È gran colorista, e le scene descritte da lui per istinto d'affetto e di fantasia, durano nella mente di chi le legge e non si cancellano. Veggasi come egli descrive l'affannosa fuga a Gaeta colla quale il vecchio e travagliato papa Gelasio scampò all'improvviso assalto d'Enrico V (A. D. 1118):
«.... Mentre accadean queste cose, un tale che avea molti amici, mandò nel silenzio della notte tarda un uomo al predetto egregio cardinale Ugo, per avvertirlo che Enrico chiamato Imperatore Romano, veniva armato contro il Papa entro il portico di San Pietro. Non serve ch'io mi dilunghi: il Papa è prevenuto dal cardinale, e poiché, acciaccato dagli anni e dalla infermità, non poteva così di repente fuggire, vien condotto a mano dai servi, e messo su a cavallo fugge e nascondesi per quella notte nella casa di Bulgamino. Fuggiam tutti con lui. Venuto il mattino, turbati noi tutti e sbalorditi, poiché nè potevam rimaner sicuri in città nè potevam fuggire per terra, essendo da ogni lato piena d'inciampi la via, facciam consiglio di darci alla fuga per mare, e così fu fatto. Entriam nel Tevere e con due galee scendiam fino a Porto, ma [189] quivi cielo e terra e mare e quanto è in essi tutto ci congiura contro. Perché il cielo era carico di pioggia greve e grandine e tuoni e lampi e folgori, e il mare e il Tevere insieme contrastavano con tali tempeste alla nave, che, nonché metterci in mare, a stento potevamo rimaner vivi nel porto. Inoltre già dalla ripa la crudel barbarie degli Alemanni ci lanciava contro dardi avvelenati, e minacciavano anche con fuoco di pece di abbruciarci, così galleggianti com'eravamo, in mezzo all'acqua, se non davamo nelle mani loro e il Papa e noi stessi. E credo che saremmo stati presi se coloro non fossero stati impediti dalla notte e dall'ira del fiume. Che potevano opporre a tanto que' miseri? Si presero, anzi Ugo cardinal prete fu lui che si pigliò in collo il nostro Papa, e così di notte lo portò al castello di San Paolo in Ardea[116].
«Il dì appresso all'aurora i Tedeschi tornarono volendo impadronirsi di noi. Ma giurammo loro che il Papa era fuggito, e, sia lodato Iddio, s'allontanarono da noi. Frattanto ritentammo se potevamo ancora metterci in mare; di notte riportammo il Papa. Allora non senza pericolo arrivammo ai flutti marini, e il terzo giorno toccammo alla ripa di Terracina, e il quarto entrammo nel porto di Gaeta, e [190] dagli uomini di quella terra fummo ricevuti a grande onore e benignamente trattati.»
Al romano Pandolfo succede come biografo pontificio l'inglese Bosone cardinale del titolo di Santa Pudenziana. Ascritto, per quanto pare, alla Curia verso il 1147, quando Eugenio III era in Francia, Bosone continuò nel suo ufficio di scrittore apostolico fino al pontificato di Adriano IV, il solo inglese che abbia mai saliti i gradi del trono pontificio. Allora Bosone, com'egli stesso ci narra, nominato Camerario fin dal principio da quel pontefice, e ordinato cardinale diacono della chiesa dei Santi Cosma e Damiano, restò con lui assiduo e familiare finché egli morì. Sollevato così alla dignità cardinalizia, maneggiò con molta cura le finanze pontificie, costrinse colle armi alla soggezione alcuni vassalli che s'erano ribellati alla Chiesa, andò legato in Inghilterra. Morto Adriano, propugnò strenuamente la elezione di Alessandro III, osteggiata da Federico Barbarossa, e, finché il Papa fu eletto, tutelò in San Pietro il conclave dalle minaccie armate che lo circondavano. Da Alessandro III ebbe il titolo di cardinale prete di Santa Pudenziana, e partecipò con lui alla famosa lotta che si raccese tra l'Impero e il Papato, e che, per la lega dei comuni lombardi, trasformatasi in lotta nazionale, fiaccò l'Impero alla battaglia di Legnano. Fissata la pace di Anagni, Bosone si trovò presente in Venezia all'incontro del Papa coll'Imperatore, e seguì il Papa nel suo ritorno a Roma (12 marzo 1178). Di lì a poco cessa ogni menzione di lui nei registri pontifici, ed è probabile ch'egli verso quel tempo chiudesse la vita sua.
[191]
Il lavoro di Bosone abbraccia, con qualche interruzione, la storia dei pontefici da Stefano VI fino ad Adriano IV ed Alessandro III, ma non ha valore di scrittura originale che per questi due ultimi pontificati[117]. Per tutti gli altri, egli quasi a parola copia gli antichi cataloghi e gli autori delle vite che lo precedettero, e per l'undecimo secolo massimamente Pandolfo e il Liber ad Amicum di Bonizone di cui sto per discorrere. Ma se la prima parte dell'opera di Bosone non reca nulla di nuovo, assai ci compensa la seconda parte e più lunga. La familiarità sua coi due pontefici di cui scrive, il grado eminente che occupò nella Chiesa, i varî e difficili ufficî suoi pei quali si trovò a conoscere personalmente i principali personaggi d'Europa, dànno autorità grandissima alle biografie di Bosone. Meno ingegnoso e men colorito di Pandolfo, è più diffuso, più minuto, più preciso di lui, e narra particolarmente tutti gli avvenimenti che ebbero luogo a quel tempo nella Curia, e le relazioni di essi cogli avvenimenti generali dell'età [192] sua. I primi disaccordi tra Adriano e Federico Barbarossa, la morte di Arnaldo da Brescia, le relazioni del Papa col mezzogiorno d'Italia, la lotta d'Alessandro III e dei collegati lombardi contro l'Impero, e finalmente l'abboccamento del Papa e dell'Imperatore a Venezia, sono i punti più salienti del vasto quadro che Bosone ha dipinto. Il suo racconto che vien come a concludere le antiche redazioni del Libro Pontificale, ci fa sentir che la storia si muove in un ambiente nuovo. In legger quelle due vite si sente il rapido trasformarsi dei tempi, e ci si dischiude innanzi allo sguardo il mare delle nuove vicende in cui siam per entrare coi cronisti municipali. E appunto le relazioni del Papato non solo con l'Impero ma anche coi municipî italiani, trovano in Bosone un illustratore molto pregevole, sia ch'egli si appoggi a documenti tratti dalla cancelleria pontificia, sia ch'egli scriva di memoria le cose vedute. Pregevolissimo poi egli mi sembra per la storia di Roma, e degno di essere ponderato più che non siasi fatto finora, per contrapporlo agli esagerati scrittori di parte imperiale troppo seguìti da qualche storico moderno. E dico contrapporlo, perchè vuol essere anch'egli sottoposto alla critica, e gli scrittori di parte contraria giovano alla lor volta a ritrovare nelle sue narrazioni quella giusta verità da cui quasi sempre, pur con animo inconscio, si distacca ogni storico che tratta cose nelle quali ebbe parte. Nè certo sarebbe potuto accader diverso a Bosone. Anche tralasciando l'affetto personale che lo avvicinava ai due pontefici di cui descrisse la vita, troppo sarebbe stato difficile [193] ad ogni uomo evitare qualche tendenza partigiana in quel poetico periodo di lotte nelle quali per un momento la causa nazionale d'Italia s'intrecciò a quella della Chiesa, e il lombardo rintuzzar delle spade straniere ebbe per un momento il bagliore di una guerra sacra.
Ma la prosecuzione del Libro Pontificale mi ha tratto lontano fuor dell'undecimo secolo, ed è mestieri rifare indietro la via. Il contrasto delle Investiture, lungo ostinato violento, die' luogo a molti scritti polemici i quali anch'essi, qual più qual meno, hanno valore storico, e taluni anzi sono addirittura scritti di storia. Già si è menzionata la Orthodoxa Defensio Imperialis, opuscolo composto senza dubbio a Farfa nei tempi di Pasquale II, e, parmi a torto, attribuito generalmente a Gregorio di Catino[118]. Scrittura sobria dotta misurata, la migliore forse che sia stata scritta in quel tempo a favor dell'Impero per dimostrarne canonicamente i diritti, sembra precorrere il futuro trattato dantesco De Monarchia, ed è meritevole di speciale attenzione. Appoggiata all'autorità della legge romana è un'altra difesa dei diritti imperiali scritta da Pietro Crasso, e son pure notevoli alcuni scritti in favore dell'antipapa Guiberto, e specialmente quello di Guido vescovo di Ferrara, il quale dopo aver seguita la causa di Gregorio VII e avere scritto per [194] essa, mutò parte al morir di Gregorio e rovesciò le proprie argomentazioni in un altro lavoro ricco di notizie storiche. Di carattere polemico e di parte imperiale è pure l'apologia di Enrico IV, scritta da Benzone vescovo d'Alba, in una prosa rimata abbietta per l'adulazione sua verso l'Imperatore e per le turpi ingiurie che scaglia contro i Gregoriani[119], e, peggior d'essa, il libello intitolato: Vita Gregorii VII che Bennone cardinale guibertino compose non solo contro Gregorio ma anche contro i papi che lo precedettero e contro Urbano II. Scritti calunniatori entrambi, hanno valore non pei fatti che narrano, ma come espressione dello stato degli animi e della violenza colla quale i due partiti avversi si combattevano. Ché se da un lato è vera l'osservazione del Wattenbach che questa violenza era in Italia più aspra e meno scrupolosa nel partito imperiale, e se i Gregoriani avevano contro questo il vantaggio di una maggiore cultura e di una moralità più elevata, certo è tuttavia che neppur essi si mostravano miti quando scrivevano. L'eccitamento della passione apparisce in tutti gli scritti di quella età, e come già s'è veduto in Brunone da Segni e negli scrittori delle vite papali, così fra gli altri traluce nel fiero ritmo che deplora la prigionia di Pasquale II, nello scritto sull'onor della Chiesa composto da Placido priore della Badia di Nonantola, e in quell'altro sul diritto del Papa a scomunicar [195] l'Imperatore, scoperto di recente e attribuito a Lamberto d'Ostia che fu più tardi papa col nome di Onorio II[120]. Ma non è il caso d'indicar quì tutti minutamente gli scritti polemici comparsi intorno a quel tempo, e poiché s'è altrove accennato sufficientemente a Brunone da Segni, convien limitare il discorso a due altri scrittori soltanto: Pietro Damiani e Bonizone da Sutri.
Tra i polemisti papali dell'undecimo secolo senza dubbio tiene il primo posto San Pier Damiani monaco e cardinale, uno dei più singolari uomini che la età sua producesse, sempre in contrasto tra il misticismo dell'anima che lo faceva anelare alla solitudine e all'asprezza delle penitenze, e la inflessibile volontà d'Ildebrando che imperiosamente lo costringeva di uscir dal chiostro a combattere con tutte le [196] appassionate forze che aveva in core. Natura nervosa sensibilissima complessa, impastata di lacrime e di fuoco, di tenerezza e di violenza, Pietro Damiani improntò di sé stesso tutti gli scritti suoi che si appoggiano per lo più a fatti avvenuti di recente, e traggono argomento dallo stato della società e soprattutto del clero, alla cui riforma egli mirò con infiammato zelo. Sostenitore del celibato ecclesiastico, gli opuscoli suoi sono la principal guida che ci aiuti a seguire lo svolgersi di quella questione così fieramente contrastata, e che, malgrado le resistenze, ebbe allora definitiva risoluzione secondo il volere della Chiesa di Roma. Nè per quello solo, ma per quanti problemi si trattarono allora, Pietro Damiani mescolato in tutti, operò, scrisse, parlò, nei Concilî nelle Corti tra il popolo, teologo ambasciatore agitatore. Da ciò s'intende che sarebbe impossibile tracciar la storia della Chiesa e d'Italia al secolo XI, senza tener conto delle opere polemiche e più dell'epistolario di quest'uomo, nel quale si confusero in così strano congiungimento l'operosità appassionata di un partigiano e l'ascetismo contemplativo dei primi romiti d'Oriente[121].
[197]
Singolare anch'essa è la vita di Bonizone il cui Liber ad Amicum è più che altro una storia del Papato ai suoi tempi scritta in forma di trattato polemico. Nato, per quanto può congetturarsi, a Cremona intorno al 1045, egli apparisce nel 1074 come suddiacono a Piacenza, e un dei più zelanti capi di un partito popolare surto allora in Lombardia e chiamato la Pataria, il quale, favorito dal Papa e favoreggiandolo, osteggiava aspramente le tendenze imperialiste dell'alto clero lombardo e il matrimonio dei preti. A capo del suo partito Bonizone entrò presto con Dionigi vescovo di Piacenza in una lotta che terminò sfavorevolmente a quest'ultimo, riprovato da Roma e discacciato dai Patarini di Piacenza che non vollero più saperne di lui. Nel 1078, Gregorio VII nominò Bonizone alla sede di Sutri, città che per esser posta presso Roma sulla via che mette al settentrione d'Italia, domandava un vescovo fedele a prova e di robusta energia non pur nelle lotte spirituali ma nelle temporali, e pronto occorrendo a difender la Chiesa colle armi. In quello stesso anno, volgendo gravi le cose di Lombardia, Bonizone fu inviato colà dal Papa come Legato Apostolico. Quivi lo troviam poi di nuovo nel 1081 sempre tra i più attivi capi della Pataria e così formidabile, che Benzone d'Alba, nella Apologia di cui si è discorso, congratulandosi coll'Imperatore che impadronitosi di Runcio capo dei Patarini di Cremona lo aveva fatto abbacinare e morire, soggiunge: «O Runcio, fatto deforme dormi senza luce! Lode a Dio che mal poté fuggir dalle tue mani chi osò assalirti colle ingiurie [198] della sua lingua. Nelle quattro plaghe del mondo si udì in qual modo tu, o formidabile potestà, ti vendicasti di Runcio da Cremona e d'alcuni altri. Ma tutto il popol si lagna che di Bonizello[122], d'Armanello e di Morticello, tre demoni, non avvenne il medesimo»[123]. Sfuggito appena da quel pericolo, egli lasciò Lombardia e corse a raggiungere il pontefice mentre Enrico IV muoveva verso Roma (A. D. 1081). Poi quando l'imperatore volgeva indietro, egli s'affrettò alla sua sede di Sutri dove l'anno appresso Enrico, tornato da quelle parti, lo prese e lo trasse con sé prigioniero. Ma, o fosse rilasciato o gli riuscisse una fuga, certo di lì a qualche tempo egli ricompar sulla scena come Legato Apostolico in Lombardia, in Toscana, e presso la contessa Matilde che lo ebbe tra i suoi consiglieri, sempre attivo coraggioso indomabile. Forse per dargli modo di guidare [199] più facilmente le forze della Pataria in cui soffiava il caldo alito suo, egli fu trasferito dalla Sede di Sutri a quella di Piacenza dove aveva fatto le sue prime prove, e quivi, non si sa bene in quale anno ma certo prima del 1092[124], egli finì tragicamente la vita martire della sua causa. «Bonizone di pia memoria» così ne ha lasciato ricordo l'annalista Bernoldo di Costanza «vescovo di Sutri, ma scacciato di quivi per la fedeltà sua a San Pietro, da ultimo dopo molte prigionie, tribolazioni, esilî fu eletto vescovo dai cattolici piacentini, ma gli scismatici di quel luogo strappatigli gli occhi, dilaniate quasi tutte le membra sue, lo coronarono di martirio.» Così l'ardore posto da lui nel combattere eccitò la vendetta, e la rabbiosa voglia espressa da Benzone d'Alba era finalmente sbramata e si mutava in trionfo.
All'attività nell'operare Bonizone accoppiò l'attività nello scrivere, e lasciò dietro a sé testimonî di sua erudizione ecclesiastica una collezione di canoni, un libro sui sacramenti e un estratto delle opere di Santo Agostino. Ma lo scritto pel quale egli vuole essere annoverato tra gli scrittori di polemica insieme e di storia, è un libro intitolato: Liber ad Amicum, de persecutione Ecclesiae, nel quale, appoggiato ai canoni e alla storia della Chiesa, risponde ad un amico che gli proponea per quesiti come mai Iddio lasciasse affliggere da tante calamità la sua Chiesa, e se fosse lecito di impugnare le armi temporali a [200] difenderla[125]. E a trovar la risposta egli risale al passato e la cerca dalle prime vicende della Chiesa, condensate in breve con molta ma confusa erudizione, fino a quelle dei suoi tempi che narra distesamente. E nelle prime persecuzioni, dal sangue dei martiri vede nascer la pianta del cristianesimo e prendere radice tra i popoli, seguitar nel germoglio in mezzo a mille eresie da Costantino fino ai Longobardi, fiorire coi primi carolingi, e di nuovo intristirsi e risorgere con varia vicenda fino alla età sua. Qui comincia la parte preziosa del libro, che lasciando molto in disparte le questioni proposte dall'amico, narra a lungo con intelletto di storico e per gli ultimi anni con voce di testimonio, i fatti avvenuti nel corso di quasi mezzo secolo dai tempi di Leone IX fino a quelli di Gregorio [201] VII. Scrittore non elegante ma neppure artificioso, scrive semplicemente i fatti come li sa, senza alterarli mai di proposito. Cercando in essi se non le cause, almeno la giustificazione dei fatti posteriori, veniva inaugurando uno studio quasi filosofico della storia mentre Gregorio di Catino nella solitaria sua cella inaugurava la storia erudita. La tendenza di Bonizone è sempre di giustificare i fatti narrati con esempî canonici e scritturali, perché, convien rammentarlo, la sua narrazione è intesa sempre a dimostrare che l'opera del Papato ai suoi tempi era giusta e consentanea alle tradizioni della Chiesa. Ché se la mal digerita erudizione sua gli fa sovente confondere date e alterar fatti lontani da lui, man mano che s'avvicina all'età sua egli divien più preciso, finché arrivato alla storia contemporanea, e specialmente nella vita di Gregorio settimo, il suo racconto prende una forma molto sicura e, per fermo, autorevole. Il Watterich, il quale ripubblicando il lavoro di Bonizone ne ha scritto con gran diligenza la vita, trova a ragione che ciò è assai naturale. Le stesse vicende della sua vita lo avean condotto a conoscere tutti i principali uomini di quella età, e a trattar con loro degli eventi di cui ha lasciato memoria. Gregorio VII e il suo successore Desiderio di Montecassino, la imperatrice Agnese, la contessa Matilde, Bruno da Segni, l'antipapa Guiberto e tanti altri, gli furono personalmente noti, e con molti d'essi ebbe consuetudine familiare, onde ad ogni nuovo avvenimento che narra, nasce nella mente il pensiero ch'egli può averlo udito da chi ne fu autore o lo vide compiere. Perciò amo [202] scegliere dal suo libro il racconto di uno tra i maggiori episodî che son registrati nella storia del medio evo, l'episodio del convegno di Canossa (A. D. 1077), narrato com'egli certamente dovette udirlo dai principali personaggi che vi presero parte. La storia di quella scena e delle cagioni che la produssero è nota all'universale, e par superfluo aggiunger nulla a chiarire il racconto già per sé così chiaro di Bonizone.
«Frattanto poiché fu arrivata all'orecchio del popolo la notizia che il re era messo al bando, tutto il nostro mondo romano tremò, e ne fecero diverso giudizio gl'Italiani e gli Oltramontani. Imperocché gl'Italiani dopo la Pasqua celebrarono a Pavia un Concilio di male intenzionati, in cui per opera di Guiberto, del pari i vescovi e gli abbati lombardi, imitando Fozio e Dioscoro, scomunicarono il signor Papa della seniore Roma, nè mai s'era udito che l'inimico dell'uman genere armasse a un sol tempo tanti mentecatti vescovi contro la Santa Chiesa Romana. Mentre a persuasione del diavolo si facean tali cose in Italia, i principi oltramontani convengono insieme e con salutare consiglio chiamano quasi in giudizio le due parti, per potersi chiarire se il Papa potesse o non potesse scomunicare il Re, o se l'avesse o no scomunicato a ragione. Imperocché non volevano distruggere la legge loro la quale prescrive che se taluno non sia prosciolto dalla scomunica entro un anno e un giorno, perda ogni onore delle sue dignità. Adunque i prudentissimi vescovi e gli abbati e i chierici di quel regno, preso insieme consiglio decretarono secondo [203] i decreti dei Santi Padri e gli esempi dei maggiori, che il Re bene poteva essere scomunicato dal Papa, e che come Fozio e Dioscoro era scomunicato a ragione. Che più? Non trovando nulla di meglio in sul momento, affermano con giuramento e appresso a loro affermarono i duchi Rodolfo, Guelfo e Teodorico (Goffredo marito della eccellentissima Matilde era morto pochi dì innanzi), insiem cogli altri maggiori del regno, che se il Re volesse acconsentire al consiglio loro, essi entro il giro dell'anno condurrebbero oltre i monti il Papa, il quale liberamente lo assolverebbe dalla scomunica. E costrinsero il Re a giurare colle sue labbra ch'egli aspetterebbe la presenza e il giudizio del Papa. E fatto ciò tutti di nuovo giurarono unanimi, che se il Re tenesse il dato giuramento, eglino farebber con lui una spedizione in Italia, e assalendo i Normanni libererebbero Puglia e Calabria dalla dominazione loro. Ché se pei suoi peccati egli venisse meno al giuramento, mai più non lo riconoscerebbero per signore e sovrano. Frattanto mandano a Roma il vescovo di Treviri affinché conduca il Papa oltre i monti ad Augusta. Ma come egli per l'astuzia del Re fosse preso presso Piacenza, e non fosse liberato prima che da Spira arrivassero lettere regie al vescovo piacentino per la liberazione, io non dirò perchè la storia è lunga.
«Il venerabile Gregorio per amor della pace muoveva intanto verso Augusta tra somme difficoltà di viaggio, ché l'inverno allora era gravissimo. Ma il Re sprezzando il suo giuramento entrò d'improvviso [204] in Italia, e sono alcuni i quali dicono ch'egli voleva all'impensata impadronirsi del Papa, ciò che par verosimile. Imperocché Gregorio vescovo di Vercelli e cancelliere suo, a cui i principi avean commesso di condurre il Papa oltre i monti, poiché ebbe passato il giogo d'Apennino, udì ch'Enrico nascostamente era arrivato a Vercelli, e annunziatolo al Papa, questi subito si ritrasse a Canossa, sicuro Castello della eccellentissima Matilde.
«Il re allora vedendo svelate le macchinazioni sue, deposta in apparenza ogni fierezza, ammantandosi di colombina semplicità, andò a Canossa. E per alquanti giorni durando tra la neve e il ghiaccio a pie' nudi, ingannò i meno accorti, e dal venerabile Gregorio, che però non ignorava l'astuzia sua, ottenne la richiesta assoluzione, e fu mediatore tra loro il sacramento eucaristico nella celebrazione della messa per questo modo. In presenza di vescovi, abbati, religiosi, chierici e laici, lo fe' partecipe della mensa divina a questo patto, che s'egli s'umiliasse della mente come del corpo, e se credesse lui esser Pontefice di diritto e sé scomunicato a imitazione di Fozio e di Dioscoro, e se credesse di potere essere assoluto per quel sacramento, gliene crescerebbe salute, ma se fosse altramente, come a Giuda gli entrerebbe per la bocca Satana in persona. Che più? celebrata la messa ebbero la mensa in comune. Quindi assoluti tutti gli altri dalla scomunica, fu imposto loro che si guardassero dal consorzio degli scomunicati. Taluni anche asseriscono ch'egli giurò omaggio al Papa per la sua vita, le sue membra [205] e il suo onore, ma io di ciò che ignoro interamente non vuo' affermar nulla.
«Intanto il Re, posciaché fu assolto dal bando, mostravasi in apparenza devoto al Papa e obbediente, ché si sequestrava dal consorzio di tutti i vescovi considerandoli scomunicati, ma di notte, aderendo ai consigli loro nefandi, volgeva in mente ciò che i fatti mostrarono più tardi. E così fece per tutto il tempo che rimase a Piacenza, assai temendo la presenza di sua madre imperatrice religiosissima, che per avventura colà si ritrovava.
«In quel tempo medesimo venne a lui quel Cencio odioso a Dio, di cui facemmo sopra menzione[126], ed egli di giorno rifiutava di vederlo come scomunicato, ma di notte si dava tutto ai pestiferi consigli suoi. E vedendo che non gli riusciva di tôr via il Papa da Canossa, ei mosse a Pavia. Quivi Cencio odioso a Dio morì d'amara morte, e Giliberto e gli altri scomunicati ne celebrarono il funerale con pompa mirabile.»
Narrata la storia di Gregorio VII, il libro di Bonizone torna al punto onde era mosso, e dagli ammaestramenti del passato viene nella sentenza che pure tra le persecuzioni vive la Chiesa cara al Signore, e fiorisce pur nei contrasti pei quali talora è di necessità costretta ad usar l'armi temporali e le è lecito usarle. «Adunque» egli conclude «combattano i gloriosissimi soldati di Dio per la verità, [206] contrastino per la giustizia, e combattano con tutta l'anima contro l'eresia che si rizza contro a quanto si dice e si venera. Emulino nel bene la eccellentissima contessa Matilde, la quale con virile animo, postergata ogni cosa mondana, piuttosto è pronta a morire che a frangere la legge di Dio, e con quante ha forze in ogni modo impugna l'eresia che ora infierisce nella Chiesa. In mano sua, noi crediamo, sarà dato Sisara, e come Jabin sarà disperso nel torrente Cison perché sterminò la vigna del Signore e la divora, talché è fatto come sterco della terra. E noi secondo il tenore del ministero nostro, preghiamo che l'eresia si distrugga prontamente arsa dal fuoco e sgominata dalla severità del tuo volto, o Signore.»
Così termina questo libro che aveva una specie di continuazione storica in un altro opuscolo scritto da Bonizone contro Ugo cardinale guibertino. È gran danno che questo opuscolo sia ora perduto, perché, da quanto ne sappiamo, può rilevarsi che contenesse notizie importanti pei primi anni del pontificato di Urbano II. Amico di Bonizone e suo compagno di lotte era stato un nipote di papa Alessandro II, Anselmo vescovo di Lucca, uom caro e devoto a Gregorio VII che lo aveva dato per consigliere alla contessa Matilde, e tale era rimasto fino alla morte. Di lui ci rimane una biografia che pei tempi e le persone che tratta ha un certo valore, e fu scritta da un prete suo famigliare, di nome Bardone, il quale con affetto fedele raccolse le memorie delle sue virtù e dei miracoli che si moltiplicavano sulla sua [207] tomba[127]. Più importante e più noto è un curioso poema scritto da Donizone, monaco benedettino addetto alla Chiesa di S. Apollonio nel castello di Canossa ai tempi della contessa Matilde[128]. In versi barbari oltremodo ed oscuri, egli narrò le gesta della sua signora, ispirato ad un affetto profondo e ad un culto pieno di ammirazione per la fortissima donna. Questo culto naturalmente scema autorità ai suoi detti, e l'ufficio suo lo induce talora ad una cauta riserva, mentre la intralciata rozzezza dei suoi versi lo rende a leggere faticoso e spesso difficile a capire. Tuttavia, come nota un ardente ammiratore suo[129], tutti coloro che scrivono di Matilde e dei suoi tempi sono costretti a valersi di lui e a tenerne gran conto. Erroneo relatore dei fatti lontani, rapido o silenzioso dove teme d'offender Matilde, del resto egli è minuto e abbastanza preciso nei fatti dei quali ha personalmente contezza, e l'affetto serbato oltre la tomba alla sua eroina gl'ispira nei rozzi versi parole non prive di patetica eloquenza, come queste colle quali nel chiudere il suo poema si volge a Canossa esclamando: «O candida pietra.... un tempo fosti felice e gloriosa, allorquando la gran Matilde fu teco; gl'illustri [208] suoi antenati ti amarono di spontaneo affetto e in alto edificarono le tue mura. La stirpe che in te riposa non è più.... Più non esiste la grande Matilde, ma vive in te gloriosa la sua memoria, e mentr'ella è in nuovi regni beata, risuona per ogni parte la fama dell'eccelso suo nome.»[130]
Generazioni feconde di segnalati uomini furono queste, ma vinti tutti da Gregorio VII che fu per certo lo spirito animatore della età sua. Grandissimo uomo, superiore ad ogni altro papa dopo il primo Gregorio, pontefice e monaco, visse nel mondo e col mondo, eppure tanto se ne distaccò nella rigida fermezza dell'anima, da parer quasi diverso nella natura sua dall'umano. Mentre lo straordinario uomo colla mano ferrea scolpiva un monumento di storia maraviglioso, ei ne veniva insieme scrivendo gli annali, e segnava le pietre miliari del suo cammino nel registro delle sue lettere. Fin da tempi antichissimi e per tutto il Medio Evo, la Curia Romana usò, e continua l'uso, di trascriver gli atti spediti in suo nome e serbarli in appositi registri ordinati cronologicamente in libri e divisi per anni. Questo provvido pensiero avrebbe potuto preparare una infinita miniera di notizie alla [209] storia, se nel corso dei molti secoli e delle molte vicende, tranne alquante lettere di Giovanni VIII (872-882), tutti i Regesti che stanno tra quello di Gregorio primo e questo di Gregorio VII, non fossero andati smarriti. Per maggiore sventura, neppur esso il Regesto di Gregorio VII ci avanza intero, e solo ne son discesi a noi otto libri, talché gli ultimi quattro anni di quel pontificato rimangono senza tanto sussidio. Filippo Jaffé, che ha pubblicato la migliore e più completa edizione delle lettere gregoriane[131], supplì in parte alla mancanza raccogliendo ogni altra lettera che poté trovare sparsamente, edita o inedita, ma pur così gli avanzi relativi a quell'ultimo periodo riescono scarsi al paragone del desiderio. E tuttavia, anche monco in tal guisa, questo massimo tra i documenti storici apparsi allora in Italia, sparge un immenso tratto di luce sugli eventi di quella età, e riproducendo con evidenza scultoria la figura grandiosa e severa di Gregorio VII, ce lo mostra quale era nelle sue relazioni coi contemporanei e nelle lotte [210] sue quotidiane colle infinite difficoltà che si levavano contro i suoi vasti disegni. Libro mirabilissimo, degno di molta meditazione, solo paragonabile alle lettere di Gregorio Magno, dalle quali però differisce per molti rispetti. Paragonar quei due libri vale paragonarne gli autori. Benedetti entrambi dalla forza di una fede senza confini, mossi dall'impersonale desiderio d'assicurar la vittoria a questa fede, dotati entrambi di genio, superiore ciascuno di essi all'età sua, eppure stretti e ossequenti a molti dei pregiudizi che li circondavano, que' due papi differiscono tra loro per l'indole diversa, e per un diverso concetto dell'idea della Chiesa dovuto alla diversità dei tempi, delle circostanze, delle ispirazioni. Nel primo d'essi, comparso sul limitare del medio evo, germoglia ancora la vita del passato, e l'anima gli si tempra fra le tradizioni dell'antica Roma e le tradizioni dei tempi apostolici, fra gli echi del Palatino e gli echi delle Catacombe. Intelletto prudente pieghevole, cuore indulgente e bisognoso d'espansione e d'affetto, anima essenzialmente umana, il più perfetto uomo che sia comparso in tutta la storia medioevale. L'altro vien fuori nel colmo del medio evo, dopo una lunga tenebra di corruzioni e di barbarie, monaco fin dall'infanzia, non freddo, ma meno dischiuso a tenerezza d'affetti, calmo severo inflessibile dominatore. Riformare la Chiesa imputridita per le colpe passate, trasformare l'ammollito clero in una falange d'apostoli austera e staccata da ogni cura d'affetti mondani, l'episcopato sottratto all'autorità regia e stretto intorno al pontefice pastore di popoli e di re, [211] guida suprema alla giustizia e alla pace. Tale il concetto di Gregorio VII come scaturisce da queste lettere, se non materialmente scritte certo almeno sempre ispirate da lui, ed esprimenti tutte in diversi casi una tendenza sola. Ché se questo concetto, avanzando i termini del possibile e del giusto non toccò interamente la sua meta, e presto cedendo luogo a concetti nuovi si trasmutò in parte, non si scema per questo la grandezza di Gregorio, ed egli rimane pur sempre nella storia come un'aquila solitaria che posata sulla cima d'una rupe, ivi sovrasta e guarda in basso impassibile e maestosa.
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Nuove fasi del pensiero italiano dal dodicesimo secolo al decimoquarto — Scrittori meridionali dei tempi normanno e svevo — Saba Malaspina — Storici del Vespro Siciliano — Vite dei Papi — Vita di Cola di Rienzo — Scrittori municipali lombardi del primo periodo — Ottone di Frisinga — Altri cronisti imperiali — Storie generali — Fra Salimbene da Parma — Cronisti di varie città dell'alta e della media Italia — Cronisti di Lombardia e della Marca Trivigiana — Albertino Mussato.
Mentre durava la lotta delle Investiture tra la Chiesa e l'Impero, un grande mutamento veniva maturandosi nelle condizioni politiche e intellettuali d'Italia, e al cessare di quella lotta la storia letteraria italiana trovasi come all'improvviso in un campo diverso. Nel Mezzogiorno, il reame fondato prima dai Normanni, radicatosi forte, divenne la sola monarchia che rimanesse ferma in Italia, accolse per un momento la sede dell'Impero, e, nè per le molte vicissitudini nè pel mutare delle dinastie, si disciolse mai più. La Chiesa Romana salita in alto per l'impulso poderoso di Gregorio VII, mentre allargava vastamente le influenze sue spirituali e politiche, veniva aumentando e rafforzando il patrimonio suo temporale, finché ai tempi d'Innocenzo III († 1216) toccò il culmine di una potenza che cominciò a scadere con Bonifazio VIII († 1303). Nell'Italia centrale e [214] nell'alta, i Comuni dopo una laboriosa gestazione di germi latenti, fiorivano a un tratto d'ogni parte e si svolgevano rapidamente forti liberi e ricchi. Milano, Venezia, Genova, Pisa, Firenze, ad ogni passo s'incontra una città, ed ogni città è una potenza. Il sole sorto dopo i primi albori dell'età precedente, s'accampa in cielo e sale a splendere la luce di Tommaso d'Aquino, di Giotto e di Dante. Tra così rigogliosa ricchezza di vita, il laicato comincia ad uscire dalla tutela ecclesiastica, anzi la democrazia invadente nello Stato tenta d'invader la Chiesa. Dappertutto al fervore del pensiero s'accompagna il fervore dell'azione, e lo spirito filosofico appena rinato cerca subito di promuovere nuove riforme. Agitato prima da Arnaldo da Brescia esso scruta arditamente le dottrine ecclesiastiche difese da San Bernardo e più tardi dai Domenicani, e intanto varie eresie serpeggiano tra il popolo, stendono loro riti e ispirano sacri entusiasmi ed eccessi strani, mosse in parte da tendenze non diverse da quelle che muovono l'ordine democratico di Francesco d'Assisi. Le mutate condizioni mutano le condizioni dell'Impero tedesco che, s'impegna in una lotta nazionale ai tempi di Federico Barbarossa, s'italianizza un momento con Federico II, e poi trapiantato di nuovo in Germania, perde ogni forza tra noi ed è svigorito quando Arrigo VII vi discende confortato dai Ghibellini. I nomi di guelfo e di ghibellino divengono pretesto e segnacolo delle discordie italiane, che crescono quanto più esuberante è la vita, e creano lotte e anarchie e tirannidi e sventure infinite alla patria. Ma pur tra queste discordie si esplica [215] la espressione vera del pensiero e dell'indole italiana coll'esplicarsi delle arti e più della lingua, che tenta le sue prime canzoni a Bologna e alla corte di Federico II in Sicilia, canta tra il popolo le laudi spirituali dei Francescani, e cercando perfezioni per tutta Italia, pone finalmente sede in Toscana ad aspettare la vicina musa dell'Alighieri.
Tale il periodo di cui si debbono ora esaminare gli storici. Come al rovinar dell'Impero s'erano inaridite le fonti storiche, così ora quanto più cresce e si feconda la vita del popolo tanto si moltiplicano le cronache e a poco a poco saliscono a dignità di storia. I materiali ci si affoltano intorno così aumentati d'importanza e di numero, che non è più possibile per me, e non gioverebbe oramai, il tener dietro singolarmente alle centinaia di cronisti che spuntano fuori da ogni parte d'Italia tra il dodicesimo secolo e il decimoquarto. È necessario restringersi. E per cominciare dal Mezzogiorno, ai cronisti del primo periodo normanno menzionati più sopra nel capitolo quarto, altri se ne vogliono aggiungere[132] fioriti sotto [216] gli ultimi re di quella dinastia, i quali più o meno si collegano coi cronisti del periodo svevo che succedette (A. D. 1194-1268). Le cronache monastiche danno un secondo germoglio. Appartengono a questa età gli Annales Casinensens (1000-1212), compilazione di diversi monaci che ritesserono la storia di Montecassino traendola dagli storici che già si sono esaminati ed aggiungendovi notizie proprie per gli anni posteriori. Il monastero di S. Clemente di Casauria e quello di S. Bartolomeo di Carpineto situati entrambi in Abruzzo, entrambi di fondazione antichissima, ebbero anch'essi le loro cronache infarcite di documenti preziosi al modo della cronaca di Farfa, e compilati sul finire del dodicesimo secolo la prima da un Giovanni, la seconda da un Alessandro monaci ciascuno del monastero di cui raccolsero le memorie. Di carattere più vasto di queste cronache monastiche, la storia di Alessandro abbate di Telese sugli avvenimenti del regno di Ruggiero di Sicilia (A. D. 1127-1135), è libro notevole malgrado le tendenze panegiriche a cui l'autore s'ispira. Gli Annales Ceccanenses, pubblicati prima col titolo di Chronicon Fossae Novae dal monastero dove furono rinvenuti, e composti in forma di storia universale, cominciano dall'èra volgare e proseguono fino al principio del secolo decimoterzo in cui furono scritti, per quanto pare, da Landulfo abbate di S. Maria de Flumine presso Ceccano[133]. Inutile [217] rabberciamento di antiche scritture nella prima parte, questo lavoro divien diffuso e circostanziato nella parte più recente. In essa, all'anno 1192, anche si contiene di diverso autore una rozza ed oscura poesia contro Enrico VI imperatore, il quale pel suo matrimonio colla principessa normanna Costanza, aveva impiantata nel mezzogiorno la dinastia sveva degli Hohenstaufen, e s'era fatto odioso così per l'influenze tedesche che introduceva, come per le sue crudeltà contro il partito normanno divenuto oramai nazionale e caro ai Siciliani. Più universale ancora è la cronaca di Romualdo Guarna arcivescovo di Salerno e celebrato tra i medici della scuola salernitana. La quale cronaca incomincia dalla creazione del mondo e scende fino alla seconda metà del secolo dodicesimo dove si interrompe. Uomo di alto affare nella Corte normanna dei due Guglielmi di Sicilia, ai quali era legato di sangue, occupò cariche eminenti presso quei due sovrani, ed ebbe gran parte nei molti rivolgimenti che agitarono quegli ultimi regni della dinastia degli Hauteville. Andò a Venezia rappresentante di Guglielmo II il Buono, e prese parte in nome del suo signore al convegno e ai trattati di pace che ivi ebbero luogo tra Alessandro III e i Comuni Italiani da un lato, e Federico Barbarossa dall'altro. Accolto con particolari attestati d'onoranza dall'Imperatore, e condotti [218] a termine con buon esito i suoi negoziati, egli parla del convegno di Venezia con diffusa compiacenza nella sua cronaca. Questa, come può credersi, ha gran pregio quando giunge ai fatti contemporanei, sebbene una certa parzialità spiegabile in un uomo vissuto in mezzo alle lotte vive e violente dei partiti, inclini spesso l'autore a colorire i fatti o a sbiadirne le tinte o a tacerli, secondo il vantaggio del partito suo. Egli stava coi governativi e monarchici, ai quali si opponeva il partito feudale dei baroni mal sofferenti degli uomini nuovi che salivano al potere con danno loro. A questo partito apparteneva invece Ugo Falcando, robusto e generoso scrittore che si guadagnò colla sua storia dei fatti di Sicilia il glorioso soprannome di Tacito del Medio Evo[134]. È disputa sul luogo della sua nascita, ma par vero ch'egli nascesse in Francia, e venuto in Sicilia da giovane, rimanesse non breve tempo nell'isola dov'ebbe, come narra egli stesso, favore, sostegno e condizione onorata. Ripassato in Francia o, forse, in Inghilterra, scrisse la sua storia e la compì verso il 1169. Poi più tardi, nel 1189, ripresa la penna, in una lettera a Pietro di Blois toccò nuovamente delle cose di Sicilia quando Guglielmo II moriva e Tancredi di Hauteville levatosi a capo del partito siculo-normanno e proclamato re, tentò d'opporsi, e per quattro anni che durò in vita si oppose, alle pretese del tedesco Enrico VI. Partigiano [219] ed amante della feudale nobiltà normanna stabilita in Sicilia, Falcando ne accomuna gl'interessi a quelli del Regno, che gli è caro malgrado le amare parole che di tanto in tanto volge a Siciliani e a Pugliesi, mosso piuttosto da antipatia di partito che da antipatia nazionale. Diverso in ciò da Romualdo Salernitano, egli ci parla appena di sé, e da questo riserbo deriva la povertà delle notizie che rimangono sul conto suo. Anche vi è un'altra diversità tra lui e l'arcivescovo, che dove questi tende a tacere le circostanze sfavorevoli al suo partito, Falcando invece è più coraggioso e affronta la difficoltà francamente, esponendo, mentre li giudica, i fatti pervenuti a sua notizia o per averli egli stesso veduti o per averli uditi dai ragguagli dei nobili normanni ai quali fu familiare. E sebbene egli attinga a fonti partigiane e parteggi egli stesso in cuor suo, tuttavia è più imparziale che non potrebbe aspettarsi. Inoltre, sagace com'egli è ed acuto, sente che la nuda narrazione dei fatti non basta all'ufficio di storico, e ci serba una quantità di notizie che non sapremmo altrimenti, intorno alla costituzione politica della monarchia, alle condizioni dei feudatari, dei municipî e del popolo. Il Gibbon, malgrado qualche lieve inesattezza, parla di Falcando con l'usata intuizione sua, e dice: «Falcando è stato chiamato il Tacito di Sicilia, e io dopo una giusta ma immensa riduzione dal primo al dodicesimo secolo, da un senatore ad un monaco, non lo vorrei privar del suo titolo. La sua narrazione è rapida e lucida, il suo stile ardito ed elegante, il suo spirito d'osservazione è [220] acuto: aveva studiati gli uomini e sente come un uomo.»[135] E narrando le ultime vicende del regno normanno, e come Enrico VI se ne impadronisse coll'armi «contro l'unanime volere d'un popolo libero,» il Gibbon reca in parafrasi le profetiche parole che Falcando compiuta la sua storia mandava a Pietro di Blois sul cominciar della lotta. Le quali parole son qui ripetute per intero come le scrisse lo storico di Sicilia, a testimoniare i nobili affetti e la malinconia profonda che gl'ispirava la caduta del regno normanno.
«E Dio volesse che entrata col re tedesco in Sicilia, mancasse a Costanza la fermezza del perseverare, nè le si desse copia dei campi messinesi, o di trapassare i confini dell'Etna! Là rimarrebbe benissimo quella gente dove la crudeltà dei Pirati verrebbe in cozzo colle atrocità dei Teutoni.... Ma i luoghi interni di Trinacria, massime dove splende il fulgore della città nobilissima preminente per singolar merito a tutto il Regno, sarebbe nefando e mostruoso veder polluti dall'ingresso dei Barbari, scomposti dal terrore degli irruenti, esposti alle rapine dei predoni, o turbati dalla barbarie delle leggi straniere. Ma tu mi dirai, ‘A che vuoi venire, e [221] qual consiglio stimi che prenderanno i Siciliani? Si eleggeranno essi un Re e combatteranno a forze unite contro i Barbari, ovvero cedendo alla diffidenza e all'uggia della insolita impresa, preferiranno accettare ogni duro giogo di servitù piuttosto che provvedere alla fama e alla dignità propria, alla libertà della patria?’ Io stesso trattando tacito questi pensieri nella mente dubbiosa, tenzono tra me distratto dalle varie ragioni, nè veggo chiaro il partito da scegliere. Certo se si eleggeranno un Re di non dubbio valore, e se i Saraceni non discorderanno dai Cristiani, l'eletto Re potrà soccorrer le cose quasi disperate e perdute, e conducendosi prudentemente respinger le incursioni dei nemici. Imperocché s'egli si concilierà il favor dei soldati aumentando gli stipendî, se conferendo beneficî si cattiverà l'animo della plebe, se premunendo con cura le città e le fortezze, anche in Calabria, disporrà presidî in luoghi opportuni, ei potrà protegger per modo Sicilia e Calabria che non cadano in man de' Barbari. Ma in Puglia dove godon sempre del nuovo e voglion sempre cose diverse, non reputo che si possa riporre speranza o fiducia veruna. Che se raccogliendo soldati a forza li comanderai alla battaglia, e' ti si metteranno in fuga prima che si dia fiato alle trombe: se li porrai a difender le fortezze, ecco che gli uni tradiscono gli altri e ti introducono dentro il nemico alla insaputa o a malgrado dei compagni. E poi perché è difficile che, tolto il timore del re, in tanto turbinar delle cose i Saraceni non sieno oppressi dai Cristiani, [222] se i Saraceni stanchi per le molte ingiurie di costoro comincieranno a discordarne, e occuperanno le castella marittime e le fortezze della montagna, per modo che si debba combatter da un lato i Tedeschi a tutta possa, e dall'altro respingere le frequenti scorrerie dei Saraceni, che credi faranno i Siculi oppressi tra queste angustie, e posti come tra il martello e l'incudine? Faranno come potranno, e arrendendosi in quella miserevole condizione ai Barbari si metteranno nella potestà loro. Oh voglia Iddio che s'accordino i voti della plebe e dei nobili de' Cristiani e de' Saraceni, affinché eleggendosi concordemente un Re, si sforzino di contrastare con ogni potere, con ogni sforzo, con ogni aspirazione alla irruenza dei Barbari. Infelice isola condannata dalla sorte a nutrire e far così prosperare i tuoi figli, che quando sono giunti alla desiderata maturità di lor forze, prima ne fanno esperimento in te, e gli allevati dalle tue pingui mammelle ti scerpono ricalcitrando le viscere! Così molti nutriti già nel tuo seno e nelle tue delizie, t'afflissero poi con infinite ingiurie e guerre infinite. Così anche Costanza educata dalla cuna alla abbondanza delle tue delizie, istruita nelle tue dottrine, informata ai tuoi costumi, se n'andò da ultimo tra i Barbari ad arricchirli delle tue ricchezze, ed ora con esercito ingente viene a ripagarti una scellerata mercede, a distrugger violenta la ornatezza della sua bella nutrice, a contaminar colla sozzura barbarica quella tua purezza per cui sovrasti ad ogni altro regno. Muoviti ora o Messina città possente e prevalente [223] per molta nobiltà di cittadini, segui qual miglior consiglio t'è dato guardando alla salvezza tua, per fiaccare i primi sforzi dei Barbari e vietare il passo del Faro alle armi nemiche. Preme che tu maturi ponderatamente ciò che farai. Imperocché come tu prima ti presenti innanzi alle navi che vengono in Sicilia appena passato il Faro, anche t'è necessità sostenere i primi impeti dei combattenti e sperimentare i primi auspicî della guerra. Certo ti crescerà gran forza e fiducia, grande speranza e sicurezza, se guardi al valore e alla audacia dei cittadini tuoi, i vecchi atti a maturar consigli, i giovani avvezzi alle cose di guerra, il giro delle tue mura tutto cosparso intorno di torri, se pensi alle forze tue colle quali spesso frangesti la superbia dei Greci, e spogliando Affrica e Spagna ne traesti spesso preda ingente e spoglie opine. Non ti dia dunque nessun timore, nessun terrore la turbolenta barbarie di costoro, se resistendo fortemente potrai sostenere i primi assalti, scuoterai dal tuo collo un giogo durissimo e spargerai lontano la gloria immortale del celebrato tuo nome.»[136]
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Con Ugo Falcando può dirsi che abbiano termine gli storici del periodo normanno, dai quali si fa passaggio a quelli del periodo svevo mediante il carme di Pietro da Eboli (A. D. 1187-1195), che in versi eleganti narrò la lotta fra Tancredi ed Enrico VI, scrivendo piuttosto un panegirico di quest'ultimo che una storia. È un periodo povero di cronisti speciali per la bassa Italia, sebbene in esso grandeggi la figura di Federico II che tanto affascinò le menti de' suoi contemporanei in Italia, e la corte sua di Sicilia divenisse convegno d'uomini dotti e di letterati, e quasi culla della poesia italiana. La cronaca anonima De rebus siculis, gli Annales Siculi, il Breve chronicon lauretanum sono scritture utili a consultar dallo storico ma di mediocre valore, e solo davvero importanti tra i cronisti meridionali di quella età sono Riccardo da San Germano, Niccolò di Jamsilla e Saba Malaspina sul continente, e nell'isola di Sicilia Niccolò Speciale e Bartolomeo da Neocastro. Il primo di questi scrittori, nato nella città di San Germano alle falde di Montecassino, fu notaio imperiale e adoperato in molti negozî da Federico II. Le molte cose vedute, l'esperienza della vita pubblica, e, forse, le tradizioni della letteratura storica attinte alla grande Badia presso cui era nato, lo invogliarono a scrivere la storia dei tempi che corsero dalla morte di Guglielmo il Buono fino al 1254. Lavoro preciso e semplice, scritto con imparzialità diligente, ricco di fatti narrati schiettamente, senza nessuno ornamento oratorio, povero di colorito, cronaca vera e non storia, esso è la guida più sicura che abbiamo per quegli [225] anni intorno alle vicende di Federico II e delle provincie napoletane.
Onesti narratori anch'essi gli altri due, ma parteggiatori entrambi e appassionati nella lotta risorta per la terza volta tra la Chiesa e l'Impero, della quale descrivono le ultime vicende. Del ghibellino Niccolò di Jamsilla non sappiam nulla oltre il nome, e questo pur dubbiamente, ma dalla stessa opera sua può dedursi ch'egli era notaio, familiare e segretario di re Manfredi, e suo seguace negli anni 1253-1256, tanto appariscono minute e sicure le notizie che egli più specialmente ci dà per questi anni del regno di quel cavalleresco sovrano. Scrive con eleganza dignitosa, e le tendenze ghibelline non nuocciono alla sua fedeltà di storico, ché anzi lo stesso parteggiar suo gli cresce forse la naturale attitudine di connettere insieme gli avvenimenti e di giudicarne da un punto di vista complessivo e sintetico. Questa attitudine egli ha comune con Saba Malaspina, di cui pure si hanno scarse notizie. Saba nacque a Roma d'una vecchia famiglia romana, fu decano della Chiesa di Mileto in Calabria, e addetto alla Curia di papa Martino IV, durante il cui pontificato (A. D. 1281-1285) scrisse la storia sua e la dedicò ad un collegio di ufficiali della Curia. In questa storia, egli dichiara di voler narrare i fatti veri de' quali fu testimonio egli stesso, o quelli, che divulgati tra i contemporanei, gli sono giunti all'orecchio e gli paiono aver sembiante di certezza. L'opera divisa in due parti, tratta gli avvenimenti del regno dalla morte di Federico II fino alla morte di Carlo d'Angiò (A. D. 1250-1285). È la storia di un [226] periodo agitato e pieno di rivolgimenti, e abbraccia le fortunose vicende del regno di Manfredi. Il quale da Federico II colla regia corona ereditò il mortale odio del partito guelfo, e la nimistà dei papi onde si spianò la via a Carlo d'Angiò, finché alla battaglia di Benevento cadde Manfredi cessando insieme il regno e la vita. E dopo Manfredi, continua Saba narrando lo stabilirsi di Carlo d'Angiò, e le molteplici sue relazioni col partito guelfo in tutta Italia, e specialmente coi papi e col municipio di Roma di cui fu senatore; e il tentativo del bello e infelice Corradino di Hohenstaufen che scese di Germania a sedici anni per riacquistare il regno de' suoi, ma fu vinto a Tagliacozzo, e il fosco Angioino gli fe' come un fiore reciso cader sul patibolo la testa giovinetta vendicata più tardi in Sicilia quando suonò la tremenda campana del Vespro[137]. Guelfo d'animo e addetto alla curia pontificia, Saba rende bella giustizia al valore e alle sventure di Manfredi e di Corradino, e non si studia di nascondere le colpe del re Carlo di cui, pure pregia oltremodo le doti che gli valsero di conquistare il regno e di piantarvi la sua dinastia. Gonfio ricercato oscuro di stile, rozzo nel suo latino, non difetta tuttavia d'efficacia nè di colorito, ispirato com'è dalla importanza del suo soggetto e dai sentimenti [227] che gli desta in core il continuo mutarsi di tante fortune[138].
Lo scoppio improvviso che determinò la rivoluzione del Vespro e lo stabilirsi della stirpe d'Aragona in Sicilia, trovano in Saba uno storico acuto ed onesto, che pur malgrado l'animo sfavorevole, seppe vederne le cause e le conseguenze, e con lui sono tra i principali storici di quell'avvenimento i siciliani Bartolomeo da Neocastro e Niccolò Speciale. Bartolomeo da Neocastro, messinese, giurista, magistrato repubblicano di Messina durante la rivoluzione del 1282, indi avvocato del fisco e nel 1286 ambasciatore di Giacomo I di Sicilia al pontefice Onorio IV, è forse il miglior testimonio che ci rimanga intorno a quel fatto. [228] La sua narrazione muove dal 1250 e va fino al 1293, distendendosi nell'ultimo periodo di tempo e descrivendo gli eventi ancor freschi nella memoria dell'autore con intendimento onesto di dire il vero, salvo che un soverchio amore alla nativa Messina lo rende talvolta ingiusto ai Palermitani e a ciò ch'essi fecero per affrancar l'isola dalla tirannia dei Francesi. La Historia Sicula di Niccolò Speciale abbraccia un periodo posteriore, e, muovendo appunto dal Vespro, giunge fino al 1337, e narra la storia dei primi regni aragonesi di Sicilia. Uomo d'alto stato e ricco di buone lettere, Niccolò Speciale era stretto di amichevoli legami colla corte di Federico II d'Aragona, il quale nel 1334 mandò anche lui ambasciatore a papa Benedetto XII. Da questi legami, nota giusto l'Amari, «abbiamo un bene ed un male, il bene che fu in luoghi e in tempi da conoscere appunto, e non da uom del volgo, ciò che scrisse, veduto cogli occhi propri e ritratto da vicino; il male che poté peccar di prudenza cortigiana contro la verità.»[139]
[229]
Dalla famosa isola tornando ora di nuovo alla terra ferma, senza indugiarmi a parlare degli scrittori dei primi tempi angioini, che sono scarsi e di poco interesse allo scopo del libro, passerò d'un tratto a parlare degli scrittori romani. Anch'essi scarseggiano, e dice vero il Gregorovius osservando che le migliori notizie sulla storia municipale di Roma ci sono fornite dai cronisti inglesi, Guglielmo di Malmesbury, Rogero Hoveden, e soprattutto da Matteo Paris i cui lavori sono preziosi alla storia italiana del tredicesimo secolo. Di Saba Malaspina si è detto come, egli romano, trattasse insieme gli avvenimenti del reame napoletano e quelli di Roma allora assai mescolati. Le vite dei papi, dopo quelle che scrisse il cardinal [230] Bosone furono prima ripigliate da un altro inglese, Giovanni di Salisbury, del quale avanza un frammento pregevolissimo per la storia di Eugenio III, che fu pubblicato col titolo di Historia Pontificalis[140]. Dopo lui un prete anonimo narrò le Gesta d'Innocenzo III (A. D. 1198-1216), e trattò le relazioni di quel pontefice illustre verso l'Oriente e la Sicilia, con diffusione e autorità di contemporaneo, ma non chiaro nè elegante. Scritta anch'essa da un contemporaneo, ma parziale assai e nemica all'imperatore Federico II, è la vita di Gregorio IX († A. D. 1241). A questo, di gran lunga più pregevole tien dietro la storia d'Innocenzo IV (A. D. 1243-1254), composta da un cappellano di lui, Niccolò da Calvi, scrittore apologetico ma bene informato e diligente, che ricorda i migliori scrittori del Libro Pontificale e li supera per la facile eleganza dello stile e per una purezza di linguaggio, che ci fa sentire come oramai la buona latinità sia risorta e s'avanzi rapida nella via di maravigliosi progressi[141]. Dopo Niccolò da Calvi non abbiam più proprie biografie di pontefici, ma solo aridi cenni riuniti più tardi nelle raccolte che si vennero compilando al secolo decimoquarto, quando [231] la storiografia pontificia, trasformandosi, prendeva un carattere più generale nella cronaca di Martino di Troppau, famoso col nome di Martin Polono, e in quelle, men celebrate ma migliori assai, dei domenicani Bernardo Guidone e Tolomeo di Lucca, le quali muovendo entrambe dall'èra volgare, cessano nella prima parte del secolo decimoquarto[142].
Il passaggio della sede pontificia ad Avignone, togliendo ogni occasione di scriver da Roma la storia dei papi, riuscì a danno della storiografia romana ed è ragione che sia così. I municipi dell'alta e della media Italia rappresentavano propriamente uno stato, ed avevano una vita politica che difettava alla città di Roma assorbita com'era nella vita politica del Papato. Quando questa veniva meno, il valore della storia di Roma non superava quello d'ogni mezzano Comune fuorché per la grandezza del nome romano e de' suoi ricordi immortali. E ciò è così vero, che appena tra i ruderi giacenti del Fôro, si rizzò la figura fantastica di un uom singolare che, risognando la vaghezza delle glorie antiche, salì al Campidoglio, brillò quivi un momento e svanì nel buio, tosto ecco apparire una cronaca a ricordarne le gesta, ma venne isolata, e la Vita di Cola di Rienzo riman solitaria com'è solitaria la figura dell'eroe che descrive.
Tra pochi altri frammenti di mediocre valore, la Vita di Cola di Rienzo è il lavoro storico più poderoso [232] prodotto da Roma nel secolo decimoquarto. Della autenticità di questo lavoro fu mosso dubbio e taluno anzi la negò addirittura, e neppur io, lo confesso, oserei dichiararmi scevro da ogni esitazione. Ma le ragioni per ritenerlo autentico mi sembrano tali, che quando per uno studio accurato dei manoscritti che restano, e per un esame storico e filologico del testo, si potrà pronunciare un giudizio definitivo, io fo stima che la sentenza sarà favorevole alla cronaca, e se ne avrà una edizione genuina e monda dagli errori e dalle interpolazioni che la deturpano adesso. Del resto pur così imperfetta come oggi la leggiamo, quella vita è piena d'attrattive, dettata in dialetto romano, animata da esclamazioni e da dialoghi, semplice evidente piena di movimento e di vita. Mossa da grande ammirazione per Cola, è temperata dal profondo patriottismo del cronista, il quale amante ancor più di Roma che di lui, ci mette innanzi l'immagine fantasiosa del Tribuno in tutte le sue strane contraddizioni. Quel suo misto di senno e di capricci, la grandezza classica dei propositi di un uomo quasi ispirato, e le puerili vanità di chi a un tratto salisce da umiltà di stato ad autorità illimitata, ogni impulso, ogni nota caratteristica di quella curiosa indole, ci si descrive con tanta vivacità, che egli sembra risorgerci innanzi a rivivere la clamorosa sua vita. E con lui rivediamo i legati del Papa e i baroni, ora accarezzati or minacciati da Cola, tremargli innanzi di paura e d'ira e covar la brama della vendetta in core; e le sedizioni bollire e sbollire, e agitarsi armati que' turbolenti Romani e muovere a combattere [233] nelle piazze e talora acquetarsi e poi frementi riarder di nuovo e tornare alle ire, alle grida, ai tumulti. È quel libro un romanzo immaginoso e vivace assai più di quello del Bulwer ed è insieme storia, come il tipo del tribuno romano è di quei tipi che fermano a un tempo la mente degli storici e la fantasia dei poeti[143].
Se in Roma era grande povertà di cronisti, ben diverso accadeva in altre parti d'Italia, in Lombardia [234] soprattutto, dove la vita comunale si svolgeva floridissima, le libertà cittadine si allargavano, e con esse i commerci e le ambizioni e il cozzar delle armi agitate talora contro le invasioni tedesche, più spesso in guerre fratricide tra le città vicine e fin dentro le mura d'una sola città. Già fin dal secolo undecimo, quando la Chiesa lottava per la supremazia, comincia in Milano a profilarsi la storia secondo le nuove tendenze, e un elemento laico e popolare penetra in essa e vi soffia dentro l'alito della vita sua. In tal modo Arnolfo, sebbene partigiano della aristocrazia ecclesiastica milanese, è inconsciamente animato ancor egli da questo elemento nelle Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium (A. D. 925-1076). In esse egli narra quel periodo agitato d'ansie e di contrasti tra l'alto clero milanese da un lato, e dall'altro gran parte del basso clero e del popolo: quello per antica tradizione ostile alle pretese romane, geloso di sue prerogative e di sue ricchezze, contrario al celibato ecclesiastico, ma il basso clero e il popolo trascinati dalla corrente delle idee riformatrici, e addicentisi a quel partito della Pataria di cui abbiam veduto farsi campione a Piacenza e divenir martire Bonizone da Sutri. Arnolfo inizia a Milano la cronaca municipale, che ci apparve iniziata a Venezia da Giovanni diacono, e nelle pagine d'Arnolfo, dice assai bene uno scrittore recente, «non siamo più nel chiostro, siamo nella città in mezzo ai suoi tumulti e alle sue lotte.»[144] E mentre [235] la Pataria milanese aveva anch'essa i suoi martiri in Arialdo e in Erlembaldo delle cui vite ci rimane un racconto, altri storici sorgevano a narrare le vicende delle lotte religiose e delle civili. Così due Landolfi, il seniore e il giuniore, riproducevano il popolo tra cui vivevano, il primo addetto al partito degli arcivescovi, fiero appassionato parzialissimo; assai migliore e moderato il secondo, più veritiero e ricco di maggior dottrina e di maggior diligenza. Nato sul cadere dell'undicesimo secolo, Landolfo giuniore fu educato con cura, viaggiò per motivo di studî a Parigi, dove allora conveniva d'ogni parte d'Europa la gioventù ad istruirsi, e tornato in patria fu addetto alla chiesa di San Paolo riedificata da suo zio Liprando, eloquente ardentissimo e perseguitato capo della Pataria. Perseguitato ancor egli ma pur tenuto in gran conto, Landolfo giuniore scrisse una storia di Milano dal 1095 al 1137, che, al dire del Muratori, è breve ma contiene tutti i maggiori eventi che muovevano allora Milano, e i rivolgimenti degni di memoria, ed esprime vividamente quel che poteva in que' tempi, e potrà sempre, la cupidigia del dominare. Nè la narrazione di Landolfo si restringe entro le mura della città, ma s'allarga ad illustrare molta parte della storia italiana[145].
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Contemporanei a Landolfo un Magister Moyses celebrava verseggiando le lodi della nativa Bergamo, dov'era tornato dopo essersi guadagnato ricchezze ed onori alla corte di Costantinopoli, e un altro poeta, anonimo, piangeva la devastazione di Como compiuta dai Milanesi e la guerra lunga ed aspra che la precedette dal 1118 al 1127. Ma i tempi procedevano rapidi, e i nuovi avvenimenti apparecchiavan materia ai nuovi cronisti, tra i quali ci si presenta primo un Milanese, a cui dobbiamo una buona storia delle guerre sostenute dai Milanesi contro il Barbarossa[146]. Il momento solenne per la storia di Milano, che rasa al suolo e solcata dall'aratro del vincitore, era risorta a un tratto indomita e più implacabile che mai contro Federico, le feroci crudeltà di quella lotta accanita, le nimicizie mortali di talune città fra loro, [237] e la gloriosa concordia delle altre che liberò l'Italia colla vittoria di Legnano (A. D. 1176, 29 maggio), trovano in questo cittadino di Milano un testimonio oculare che narra i fatti con calma austera e con desiderio di cavarne ammaestramento per le generazioni future: «Ciò ch'io vidi e che udii di verace, tenterò di scrivere. Imperocché è di grande utilità a chi vien dopo l'imparare da ciò che è accaduto a guardarsi per l'avvenire.» E alla voce di questo severo cronista che narra le difese della patria, dalle coste adriatiche fa eco quella del fiorentino Boncompagno che descrive con molto maggiore impeto un episodio di quel contrasto, l'assedio d'Ancona, la quale stretta dai soldati imperiali guidati da un prete guerriero, Cristiano arcivescovo di Colonia, si difese ostinata e costrinse i Tedeschi a levare l'assedio.
Guardando le cose con occhio affatto diverso e appassionati per la parte imperiale, scrissero Ottone Morena e suo figlio Acerbo, i quali lasciarono memoria delle cose operate in Italia da Federico I, e delle vicende di Lodi loro patria. Ottone che fu giudice e messo imperiale di Lotario e di Corrado III, produsse fino al 1162 il suo lavoro, continuato poi fino al 1167 dal figliuolo Acerbo, caro all'imperator Federico che lo nominò podestà di Lodi. Alla costui morte avvenuta in Siena nel 1167, un anonimo proseguì la storia interrotta, e la prolungò di qualche anno con intelletto alquanto più nazionale dei due Morena, i quali vincolati d'affetto all'Impero e accesi dell'antico odio di Lodi contro Milano, sono ardentemente nemici a quest'ultima. Ma pur con questo [238] difetto di parzialità, per la forza dell'ingegno e della espressione, e per le molte notizie che recano, voglionsi tenere tra le migliori fonti che ci rimangono di quella età memoranda[147].
La figura grandiosa di Federico Barbarossa ebbe fra i Tedeschi uno storico il cui nome di necessità si registra in queste pagine. Fu questi Ottone vescovo di Frisinga, nato verso il 1114 dalle seconde nozze di Agnese figlia dell'imperatore Enrico IV, con Liupoldo marchese d'Austria, e così fratello uterino del re Corrado III e zio del Barbarossa, che l'ebbe tra i più fidati consiglieri e partecipe negli affari dell'Impero. Ingegno pronto e versatile, indole mistica e malinconiosa, Ottone tendeva al chiostro, e dopo alcun tempo passato agli studi in Parigi, si [239] rese monaco cisterciense nella badia di Morimund. Di quello stesso monastero fu eletto abbate, ma presto dopo fu sollevato alla sede episcopale di Frisinga, senza però ch'egli smettesse l'abito e gli affetti di monaco. Durante la seconda crociata guidò in Palestina contro i Saraceni un esercito che fu distrutto, e scampato a fatica egli stesso e visitata Gerusalemme, tornò in Occidente. Non par che fosse molta armonia di pensiero tra lui e il fratello Corrado, ma quando salì al trono Federico, ei s'accostò maggiormente alle cose del Regno. Rimase coll'Imperatore fino al 1158, ma apparecchiandosi Federico a tornare in Italia, egli per la fiaccata salute sua ottenne di rimanere in patria. Quivi morì di lì a poco in quella stessa badia di Morimund dove era stato monaco ed abbate, e alla quale era legato d'affetto come alla diocesi sua di Frisinga la cui cattedrale trasandata nelle turbolenze dei tempi precedenti, egli aveva restaurata nobilmente e resa splendida e ricca.
Meditabondo per istinto e nutrito di forti studî filosofici e teologici, Ottone dallo spettacolo degli avvenimenti umani nei quali si trovò mescolato trasse ispirazioni ad un libro di storia in cui filosofar mestamente sulla caducità delle cose mondane, e andar cercando conforto nel pensiero di un avvenire immortale. Il Chronicon, o, per chiamarlo come lo chiamò Ottone stesso, il Liber de duabus civitatibus, raccoglie sinteticamente le varie età del mondo, e dalla creazione perviene ai suoi tempi, in sette libri, ai quali se ne aggiunge un ottavo che tratta del giudizio finale e della vita futura. Informata all'erudizione storica di Paolo [240] Orosio, e ispirata per le vedute filosofiche agli scritti di Santo Agostino, questa è forse la prima opera che in quegli albori di rinascenza tentò di conglobare tutta quanta la storia dell'umanità in un sistema preordinato di cause e d'effetti. E ciò ha gran pregio per chi cerca il vario e progressivo svolgersi degli studî storici, come senza dubbio hanno pregio per lo studio minuto della storia tedesca quei libri del Chronicon che trattano dei tempi più vicini ad Ottone. Ma il libro che ha speciale valore per la storia italiana è un altro, che s'intitola Gesta Friderici Imperatoris e discorre la prima parte delle imprese del Barbarossa. Calmo estimator del dissidio fra la Chiesa e l'Impero[148], questo vescovo monaco, zio dell'Imperatore, testimonio oculare di molti fatti, assai bene informato di molti altri, sarebbe senza paragone il migliore storico di quella età, se alcuni gravi difetti non gli vietassero quella gloria. La stessa tendenza filosofica della sua mente, che gli fa abbracciar d'uno sguardo i fatti e giudicarli abbastanza giusto quando li contempla dall'alto, lo rende spesso trascurato nei particolari e non bene sicuro. Inoltre un certo pomposo amore di frasi, un desiderio rettorico di crear contrasti d'ombre e di luce, lo inducono spesso ad alterare per modo le circostanze narrate, che se anche riman veritiero nel complesso di un fatto, nei particolari riesce inverosimile. Tale si mostra narrando la impetuosa sollevazione dei Romani contro l'esercito [241] di Federico (A. D. 1155, 18 giugno), e il lungo ostinato contrasto e la strage che ne seguì, dove afferma che dei sollevati mille furono i morti, dugento i prigioni, innumerabili i feriti, ma aggiunge che uno solo perì dei Tedeschi e un altro ne rimase prigione, e con un mirum dictu si sbriga classicamente dell'ardua asserzione[149]. Ma se questo difetto e un cotal misto di boria nazionale e di cortigiana adulazione lo rendono men degno di fede in certi particolari, egli tuttavia è nell'insieme uno storico pregevolissimo, e in questo ancor singolare che nel rendersi conto degli avvenimenti, spesso con sottile intuito ne ritrova le ragioni storiche e politiche, e risalendo al passato spiega con grande acume il presente. Così per esempio il passo che son per citare mi sembra mirabile, specialmente se si consideri che fu dettato da un Tedesco imperialista quando la volontà di Federico e lo studio rinascente della legge romana tendevano [242] ad esagerare oltre ogni termine i diritti e le pretese del cesarismo.
«Tuttavia i Lombardi, forse perché i lor figliuoli pei maritaggi cogli Italiani ereditavano in linea materna, e per influenza del suolo e del clima, alcunché della romana mitezza e della sagacia, deposta tutta l'asprezza della ferità loro, ritengono la eleganza del linguaggio latino e certa cortesia di costumi. Inoltre essi imitano la solerzia dei Romani antichi nel governo delle città e nella conservazione della cosa pubblica. Da ultimo essi così sono affezionati alla libertà loro, che ad evitar la insolenza de' reggitori amano meglio essere governati da consoli che da principi. E poiché sono fra loro tre ordini, quel dei capitanei, quel de' valvassori e quel della plebe, a tener giù l'arroganza, questi predetti consoli sono scelti non da un solo ordine ma da ciascuno, e affinché non li vinca la cupidigia del potere, essi quasi ogni anno sono mutati. Di che avviene che quella contrada è tutta divisa in città le quali hanno costretto quei del territorio loro a vivere in esse, e a stento troverebbesi uom nobile o grande con tanto potere da esser franco dell'obbedienza alle leggi della città sua. E usano di chiamar Contadi o Comitati questi diversi territorî, dal privilegio del vivere insieme[150]. E affinché non manchi loro il mezzo d'infrenare [243] i vicini, e' non disdegnano di levare al grado della cavalleria, e ad ogni grado di autorità, giovani di bassa estrazione e perfino operai di spregevoli arti meccaniche, che gli altri popoli allontanano come pestiferi dalle più nobili e liberali professioni. Da ciò avviene che essi avanzano ogni altro del mondo per loro ricchezza e potenza. E a ciò, come s'è detto, sono aiutati dall'indole loro laboriosa e dalla lontananza dei loro principi residenti di solito a settentrione dell'Alpi. In ciò tuttavia essi, dimentichi della nobiltà antica, ritengono la traccia di lor barbare costumanze, che mentre si vantano di viver secondo la legge, pure alle leggi non obbediscono. Imperocché di rado o non mai accolgono riverenti il principe a cui sarebbero in obbligo di mostrare una volenterosa reverenza di soggezione, nè accettano obbedienti quel ch'egli impone secondo la giustizia delle leggi, se non sentono l'autorità sua costretti dal coadunarsi di molto esercito. Onde egli accade frequente che mentre il cittadino dovrebbe esser frenato sol dalla legge e il nemico secondo la legge essere costretto dall'armi, essi veggono colui presso il quale come lor principe dovrebbero trovar clemenza, aver più spesso ricorso [244] alle armi per mantenere i diritti suoi. Di che viene allo Stato un doppio danno, ché il principe deve torcer sue cure a raccogliere un esercito per tenere in freno i cittadini, e questi debbono esser costretti ad obbedire al principe non senza grave dispendio della sostanza sua. Onde per la stessa ragione che il popolo è in tal caso colpevole d'improntitudine, vuolsi scusare il principe innanzi a Dio e agli uomini per la necessità del caso.
«Tra le altre città di questa nazione, è principale ora Milano posta fra il Po e le Alpi.... Ed è stimata più famosa d'altre città non pure in ragione di sua maggiore ampiezza e del suo maggior numero d'uomini d'arme, ma sì anche perché entrano nella giurisdizion sua altre due città poste nella regione medesima, ciò sono Como e Lodi. Quindi come avviene nelle umane cose pel blandir della ridente fortuna, essa per tal modo si gonfiò in ardimento d'orgoglio, che non solo non s'astenne dall'assalire i vicini suoi, ma perfino s'avventurò senza sgomento a incorrere nella recentemente offesa maestà del principe.»
È da dolere che una morte immatura togliesse ad Ottone di proseguir la sua storia oltre il 1158, quando il conflitto tra Federico e i Comuni poteva dirsi poco più che iniziato. Per fermo la esperienza dei fatti, la familiarità sua coll'Imperatore, e l'uso facile di documenti ufficiali avrebbero sempre più cresciuto valore al suo libro col progredir degli eventi. Non ce ne compensa abbastanza il suo fedel cappellano [245] Ragevino che per comando di Federico[151] ne proseguì alquanto l'opera e la protrasse fino al 1160, testimonio anch'egli di vista e forse più diligente del suo patrono, ma come di stato così d'ingegno e di dottrina infinitamente minore. E oltre a questa continuazione, le Gesta ispirarono il poema Ligurinus o Carmina de rebus gestis Friderici I Aenobarbi che ha dato luogo alcuni anni or sono, a molte discussioni sulla autenticità sua. Qualche erudito dichiarò essere quel poema una impostura del secolo decimosesto, ma questa par sentenza esagerata. Assai più ragionevole è quella dell'erudito francese Gastone Paris, e dei tedeschi Pannenborg e Wattenbach, i quali ritengono essere il poema una specie di esercitazione letteraria scritta sul finire del dodicesimo secolo quasi intieramente sulle traccie delle Gesta di Ottone di Frisinga e di Ragevino, talché dal punto di vista storico non eccede molto il valore di una parafrasi in versi.
Nè molto più, a parer mio, valgono le Gesta Friderici di Goffredo da Viterbo, che trattò anch'egli lo stesso tema, ma rozzamente, disordinato e senza dir quasi nulla di nuovo. Goffredo scrisse alcune altre opere tra le quali una storia assai nota intitolata Pantheon, ed anche fu attribuito a lui un carme sulle [246] imprese di Enrico VI contro Tancredi in Sicilia, ma non par che sia suo. Si disputa s'egli nascesse a Viterbo o in Germania, e il più dei critici lo ritiene Tedesco, ma io non oserei affermare migliore l'una sentenza dell'altra. Certo fu educato fanciullo a Bamberga, e addetto alla corte di Federico si adoperò molto per lui. Lo seguì nelle sue imprese, e, come dice egli stesso, viaggiò per lui «due volte in Sicilia, tre in Provenza, una in Ispagna, sovente in Francia e quaranta volte dalla Germania a Roma.» Morì a Viterbo che, se non lo vide nascere, gli fu patria adottiva negli ultimi anni suoi, e certo gli mancò piuttosto l'arte che l'occasione di salir più alto fra gli storici del suo tempo[152].
Ben diversamente pregevole apparisce invece un altro poema scoperto dal professore Ernesto Monaci nella Biblioteca Vaticana e pubblicato dall'Istituto Storico Italiano. L'anonimo autore, nativo per quanto pare di Bergamo, e molto probabilmente discepolo di [247] quel Magister Moyses che si è già menzionato, è un imperialista ammiratore del Barbarossa, e canta le costui imprese in Lombardia fino al 1160, interrompendosi a un tratto forse perché mentr'egli scriveva, intorno al 1166, Bergamo mutata parte staccavasi da Federico ed entrava nella lega lombarda. Verseggiatore abbastanza buono, dipintore vivace, testimonio contemporaneo e bene informato, egli se non accresce di molti fatti nuovi la conoscenza che abbiamo di quei tempi, ne modifica alcuni ed altri ne conferma o ne spiega. Così per esempio egli narra, modificando il racconto di Ottone di Frisinga e con molto maggior sembianza di vero, la incoronazione del Barbarossa e la zuffa avvenuta tra i Romani e gl'Imperiali. Questo episodio, molto efficace nella semplicità sua, si chiude con una digressione commovente intorno alle dottrine e al supplizio d'Arnaldo da Brescia, ch'egli ci mostra serenamente intrepido innanzi al laccio ed al rogo, martire fermo della sua fede.
«Ma come vide preparargli il supplizio e affrettandosi il fato legarglisi il laccio al collo, richiesto se volesse abbandonare il pravo dogma e confessar sue colpe a mo' de' savî, egli, mirabile a dirsi, intrepido e sicuro di sé rispose parergli salutare il suo dogma, nè dubitare di patir la morte per le sue parole nelle quali nulla era assurdo nulla nocivo. E chiese un breve indugio per pregare un momento, perché disse di voler confessar le sue colpe a Cristo. Allora piegate le ginocchia, levati gli occhi e le mani al cielo, gemette sospirando dall'imo petto, e senza parole pregò mentalmente il celeste Iddio [248] raccomandandogli l'anima sua; e rimasto così alcun poco, diede il corpo alla morte preparato a patirla costantemente. Gli spettatori scoppiarono in lacrime, ed erano perfino alquanto commossi i littori. Finalmente pendette sospeso al laccio che lo tratteneva, e dicesi che ne dolesse al re, troppo tardi misericordioso. O dotto Arnaldo, a che ti giovò tanta letteratura? a che tanti digiuni e tanti travagli? Perché mai seguì egli sì dura vita, e spregiò i molli ozî, nè volle conceder nulla alla carne? Ah, chi mai lo persuase di volgere il dente mordace contro la Chiesa? Ecco perisce il tuo dogma pel quale, o condannato, portasti la pena, e non rimane viva la tua dottrina! Arse, e s'è risoluta teco in tenue favilla, affinché non avanzino reliquie che taluno potrebbe forse venerare.»
L'esser questo un poema storico e non propriamente una storia, le difficoltà del verseggiare, le reminiscenze classiche di cui s'infiora il libro, massime dove descrive battaglie, tolgono alquanto alla precisione storica delle notizie narrate. Ma l'amore e l'intuito del vero che trovansi in esso lo fanno prezioso, ed è ammirabile l'attitudine del poeta a scolpire in un solo verso i particolari importanti di un fatto o le intime ragioni di molti. Così allorquando, nel dir del fascino esercitato dalla eloquenza d'Arnaldo in molte città d'Italia, egli aggiunge che l'esercitò anche sulla
.... Romanam facilem nova credere plebem,
ci snuda innanzi e ci dipinge al vivo quel popolo sempre irrequieto attraverso i secoli del medio evo, [249] sempre troppo memore del suo passato che gli pesava addosso colla sua grandezza, sempre male contento del suo presente che non poteva rivendicare ad alti destini[153].
Colla pace tra i Comuni e Federico fermata a Costanza nel 1183, cessa il primo periodo della storia comunale e un altro se n'apre ancor più fecondo di attività e di rivolgimenti interni, età di guerre intestine fiere e continue, età di commerci, d'arti, di letteratura. La storiografia se ne giova, e mentre la erudizione crescente e il propagato desiderio d'apprendere fan crescere il numero di quelle compilazioni generali che abbracciano tutta la storia, dal nascere del mondo fino ai tempi del compilatore, ogni città grande o piccola ha suoi cronisti, e tra essi ne sorge alcuno che stendendosi oltre la cinta delle sue mura è storico veramente di tutta Italia o di gran parte di essa. Anche il soffio animatore dell'arte penetra [250] in queste pagine di storia, e cominciano a rivelarsi scrittori ricchi di pensiero, ed eleganti dettatori o nell'antico linguaggio o nel nuovo vivente parlare, che si vien formando sotto la lor penna e diventa classico. Degli autori di compilazioni generali vuolsi qui trattar brevemente, e toccherò appena alcuni dei minori tra i cronisti particolari, per potermi distendere alquanto più sui maggiori. Dei primi apparisce notevole Sicardo, eletto vescovo di Cremona nel 1185, uomo di gran zelo e di gran cuore, che molto si adoperò in favor della patria presso Federico I, esortò i Cremonesi a mandare aiuti ai Crociati in Oriente, e colà si recò egli stesso nel 1203 spingendosi fino in Armenia compagno di un legato apostolico. Scrisse varî libri tra i quali una cronaca, abbondante di favole pei tempi antichi ma assai diligente ed esatta in ciò che espone delle cose avvenute all'età sua. Altri scrittori dello stesso genere sono il domenicano Giovanni Colonna, il quale compose un Mare Historiarum che ancora è quasi tutto inedito[154]; Ricobaldo da Ferrara, che sul finire del tredicesimo secolo scrisse una storia universale intitolata Pomarium, e Iacopo d'Acqui, e Giovanni diacono veronese, e Landolfo Colonna romano, scrittori tutti le cui opere, come quella di Sicardo, non hanno [251] verun valore per la parte antica, ma dai quali si possono estrarre utili notizie pei tempi contemporanei a loro. E molta utilità di notizie si può ricavare da frate Francesco Pipino, domenicano bolognese, che tradusse di francese in latino una storia della guerra di Terra Santa e i viaggi di Marco Polo, e, dopo essere stato anch'egli in Oriente descrisse i suoi viaggi, aggiungendo per ultimo a tanti lavori una cronaca generale dalla prima origine dei Re Franchi fino al 1314. L'ultima parte di essa abbonda di fatti avvenuti in varie parti d'Italia, ch'egli narra con diligenza accurata.
La cronaca di Francesco Pipino rappresenta una tendenza letteraria dell'ordine domenicano, il quale inteso alla predicazione e alle controversie, aveva bisogno di vaste compilazioni che facilitassero una certa erudizione, abbracciando in gran copia avvenimenti tratti dalla Scrittura, dalle storie, dalle tradizioni, propriamente enciclopedie storiche mescolate di vero e di leggende. Diversa invece la tendenza dei Francescani che s'aggiravano tra il popolo e ne avevano l'intelletto, la fantasia e gl'istinti. Mirabile libro tutto ingenuità e freschezza popolare i Fioretti di San Francesco, ardore infiammato di zelo e spirito di satira mordace nei canti di Iacopone da Todi che sfogava l'un sentimento nella mestizia solenne del suo Stabat Mater, e l'altro nelle satire sanguinose contro Bonifazio VIII. L'ordine francescano era democratico, e pur quando, accarezzato e temuto, penetrava come un'onda di popolo nei palagî e nelle corti, mai non abbandonava la primitiva tendenza, [252] e vi penetrava colla familiarità sprezzante di una democrazia conscia della sua forza. Era naturale che il guelfismo popolare del secolo decimoterzo trovasse a rappresentarlo il suo pittore in un francescano, ché frate Salimbene da Parma più che lo storico è il pittore dei suoi tempi. Nacque a Parma nel 1221, di quindici anni abbandonò la casa paterna per rendersi francescano, e resistè ostinato alle preghiere, alle lusinghe, alle maledizioni del padre che lo supplicava di tornare alla dolce compagnia dei parenti. Di convento in convento peregrinò per l'Italia centrale e per l'alta, arrestandosi più o men lungamente nei principali paesi di quella regione; viaggiò la Francia per circa due anni, e tornato in Italia dimorò un pezzo a Ferrara, poi seguitò a muovere da città a città, sbalestrato qua e là secondo i casi, il volere dei superiori e un certo irrequieto bisogno di moto e di novità che era nella natura sua. Vide e conobbe infinita gente, varia di paese, di condizione, d'animo; papi, re, vescovi, baroni, popolani, e profeti e giullari e santi e ribaldi. Trattò parecchi affari per l'ordine suo, nel 1256 cooperò colla nomina di un arbitro a comporre certe differenze tra il Comune di Bologna e quel di Reggio. Di lì a poco lo troviamo presso Piacenza al capezzale di un contagioso, nel 1260 guida per le vie di Modena una di quelle strane processioni di flagellanti che, intorno a quegli anni, eccitavano l'ascetismo disordinato e fantastico delle popolazioni. Passato in Romagna, mentre s'occupava di studî e a Ravenna esaminava il Libro Pontificale di Agnello, vide accadergli intorno molti fatti notevoli [253] «... e così sempre con un pié nel chiostro ed uno nel mondo, sempre in mezzo a quell'agitarsi d'idee e di passioni, di penitenze e di delitti, di libertà e di tirannide.»[155] Visse certamente fino al 1288, e probabilmente oltre il 1290, attraversando così nella sua vita la parte maggiore e più caratteristica del secolo decimoterzo. Dopo aver composte diverse opere teologiche e storiche quasi tutte perdute, finalmente per una sua nipote monaca in un monastero di Parma raccolse quanto aveva imparato dai libri o veduto nel mondo, e tutto fuse e mescolò insieme in una vasta cronaca discesa infino a noi.
Il secolo in cui visse Salimbene si riproduce in questa cronaca come in uno specchio luminoso. Diverso in ciò da quasi tutti i principali cronisti italiani, questo frate fu piuttosto spettatore che attore [254] nella storia del suo tempo, ma spettatore acuto sagacissimo pieno d'osservazione, abbastanza sciolto dai pregiudizi del suo partito e della età sua per giudicar liberamente ogni cosa, abbastanza legato ad essi per rifletterli inconsciamente. Francescano del tredicesimo secolo, l'abito e i tempi gl'ispiravano un certo misticismo ascetico, che non era nel fondo dell'indole sua ruvidamente schietta e piena di buon senso. Scrivendo, diceva senza reticenze il vero d'ogni uomo, o lo coprisse l'elmetto o il cappuccio o la mitra, e del pari giudicava le cose alla libera con quel suo stile andante e pittoresco, e quel suo latino rozzo e così pieno di forme italiane che della latinità non ritien quasi nulla. Non è uno storico, è un raccontatore che viene man mano descrivendo quanto gli cade sott'occhio, familiarmente, senza ordine e quasi senza proposito, tra digressioni continue, inframettendo ai suoi racconti osservazioni e giudizî arguti che mostrano in lui una lucidezza di mente usata a cogliere per intuito il vero delle cose. La lotta tra Federico II e i Comuni guelfi di Lombardia, è narrata a frammenti in mille episodi nei quali appariscono e si muovono tutti que' personaggi secondarî, e molti anche degl'infimi, che sono tanta parte della storia eppur trovano appena rade e fuggevoli menzioni presso gli storici di professione. E coi minori uomini dipinge a larghi tratti anche i grandi, e l'imperatore Federico II «non avea punta fede, fu uomo scaltro, furbo, lussurioso, malizioso, iracondo; e tuttavia fu valente uomo quando gli piacque mostrar sue bontà e cortesie; sollazzevole, giocondo, industrioso; [255] sapea leggere, scrivere e cantare e trovar cantilene e canzoni.... sapeva parlar molte e diverse lingue: e, a sbrigarmi in breve, se fosse stato buon cattolico.... pochi uguali avrebbe avuto nell'Impero.... fu bell'uomo e ben formato ma di mezzana statura. Io l'ho veduto alcuna volta e mi piacque.» E dopo aver parlato di alcune crudeltà commesse da Federigo per curiosità d'investigazione scientifica, aggiunge ch'egli era epicureo «e quanto poteva per sé o pei suoi sapienti ricavare nella Divina Scrittura che dopo morte non ci fosse altra vita, tutto tirava fuori.»[156] Ed era sua intenzione che «tanto il papa che i cardinali e gli altri prelati fosser poveri e andassero a piedi, e ciò non intendea fare per zelo divino, ma perché avaro era molto e cupido, e voleva avere le ricchezze e i tesori della Chiesa per sé e pe' figliuoli suoi.... e ciò egli riferiva ad alcuni dei suoi segretarî.» E altrove aggiunge che Federico «coi suoi principali si sforzava di rovesciare la libertà ecclesiastica e corrompere la unità dei fedeli,» la quale accusa che dovette essere popolare a que' dì, par quasi accostarsi all'opinione di chi tra i moderni attribuisce a Federico e a Pier della Vigna il disegno di volersi staccar dal Papato e fondar nuova Chiesa, e spiega [256] sempre più il favore accordato dai Papi a Carlo d'Angiò contro gli Hohenstaufen. E questo principe fortunato, ipocrita simulator di pietà, per interesse e senza affetto capo e rovina del guelfismo italiano, anch'esso qual fu vien descritto in più luoghi della cronaca di Salimbene, che prima lo vide in un monastero di Francia in compagnia del fratello, il re santo Luigi. Ma in questa cronaca più d'ogni cosa è attraente e pregevole la dipintura larga insieme e minuziosa dello stato d'Italia, quale scaturisce in ogni pagina, in ogni episodio ch'ei narra[157]. L'agitarsi delle dottrine teologiche e la tenace fermezza di Roma tra quel nuovo fermento indagatore degli spiriti, o volgenti come Federico II verso una specie di epicureismo negativo, o come i gioachimiti verso un misticismo visionario, è mirabilmente ritratto da Salimbene. Il quale, seguace egli stesso per alcun tempo dell'abate Gioachino, non rimase a lungo in quelle dottrine per l'indole sua inclinata al pratico e troppo diversa dalle tendenze fantastiche del visionario calabrese. Onde, nella cronaca egli si volge naturalmente a molti episodî che descrivono la vita dei varî ceti del clero e le virtù loro e i vizî, e le relazioni di essi col popolo, e le stranezze religiose di questo, che in parte approva e in parte talor disapprova. Del pari la vita politica del suo tempo, il largo spandersi delle libertà repubblicane, e i mali a cui le guerre di Federico II [257] conducevano la Lombardia, ch'egli dipinge «ridotta in solitudine tanto che non avea più cultori nè passeggieri.... Non potevano arare gli uomini, nè seminare nè mietere nè far vendemmia nè abitare in villa.... Tuttavia presso le città si lavorava colla scorta dei soldati.... E bisognava far così, a motivo dei berrovieri e predoni che erano moltiplicati a dismisura. E pigliavan la gente e la incarceravano affinché si riscattasse a denaro.... E così volentieri in quel tempo un uomo incontrava un'altr'uomo in sulla via, come vedrebbe volentieri il diavolo.»[158] Dolorose circostanze, aggravate dalle lotte parziali e continue, che Salimbene descrive ad ogni tratto, tra il guelfismo popolare e la vecchia nobiltà ghibellina sdegnosa della democrazia che la sforzava di curvarsi alle leggi. Ma seguir negli infiniti meandri suoi questa cronaca, tutta digressioni ed episodî di piccoli fatti e di grandi, è impossibile. Tanto varrebbe quanto il volere stringere in una pagina la compiuta dipintura degli uomini e dei costumi d'Italia in quel periodo di rivolgimento, quando la vita comunale [258] distendeva più rigogliosi intorno i suoi rami, e il sangue scorreva più fervido nelle vene di quel popolo ringiovanito.
La cronaca di Salimbene arriva al 1288 ed ha relazioni con esse un'altra cronaca che si prolunga fino al 1290, e fu pubblicata come anonima dal Muratori col titolo di Memoriale Potestatum Reginensium. Tratta questa le cose della città di Reggio e si distende molto sulla storia della Lombardia e dell'Emilia. E discendendo da esse a parlare delle altre cronache particolari, può dirsi che appena si trovi una città in quelle parti, la quale, tra il secolo decimoterzo e i primi anni del decimoquinto, non conti una o più cronache quasi tutte abbondanti di notizie pregevoli. Bologna, Ferrara, Modena, Parma, Piacenza hanno principalmente cronache degne di nota; Piacenza soprattutto, la cui storia si è recentemente arricchita di altre due cronache del più alto valore pei tempi di Federico II, pubblicate prima dall'Huillard Bréholles, poi dal Pertz, e con una edizione corredata di buone note, dalla Società storica di Parma e Piacenza. A Milano, Stefanardo da Vimercate, domenicano, teologo e dotto scrittore di libri legali e canonici, in un poema dettato con eleganza scrisse intorno alle cose avvenute colà tra il 1262 e il 1295 mentre era arcivescovo Ottone Visconti. Un altro frate di San Domenico, Gualvano Fiamma milanese, nato sul cadere del secolo decimoterzo, scrisse varie opere importanti per la storia milanese e della casa Visconti, delle quali opere la più nota finora che ha per titolo Manipulus Florum fu pubblicata dal Muratori nella sua [259] grande raccolta[159]. Milanese anch'egli ed amico al Fiamma, fu il notaio Giovanni da Cermenate, che ebbe qualche parte negli avvenimenti della patria e ne descrisse quelli che occorsero dal 1309 al 1314 con gran precisione e vigorosa eleganza di stile[160]. Men buono scrittore ma sincerissimo, fu Pietro Azario da Novara, che narrò la storia della famiglia Visconti dal 1250 al 1362, e un anonimo la storia di Fra Dolcino eretico novarese, e Bonincontro Morigia quella di Monza fino al 1349, testimonio oculare anch'egli e partecipe dei fatti narrati nel suo lavoro. Del Piemonte, più scarso allora di cronisti, basterà citar solo la cronaca d'Asti, scritta da un Ogerio uscito dalla famiglia degli Alfieri, un'altra cronaca pur d'Asti di Guglielmo Ventura, ed il Chronicon Imaginis Mundi di Giacomo d'Acqui[161]. Molto ricca invece per copia e qualità di scrittori la Marca Trivigiana, e specialmente Verona, Vicenza e Padova. Per la prima di queste città merita menzione il cronista guelfo Parisio da Cereta, che riferì con semplice stile e con animo molto imparziale gli avvenimenti di Verona nella prima parte del tredicesimo secolo, fermandosi principalmente sui fatti di Ezzelino e di [260] Mastino della Scala. Ma gli storici maggiori di tutta quella regione son vicentini e padovani. Mescolato sovente alle vicende che narra, Gerardo Maurisio scrisse con spirito ardente di ghibellino le imprese della famiglia da Romano dal 1182 al 1237, e trattò specialmente dei primi tempi d'Ezzelino. Profuse lodi a costui, che stupirebbero se non fosse che il Maurisio scriveva quando Ezzelino non aveva ancora rivelata la mostruosa efferatezza dell'anima sua, e inoltre l'opera del Maurisio fu raffazzonata in versi leonini dal contemporaneo Taddeo notaio, il quale molto probabilmente esagerò quelle lodi. E pur di Vicenza e dei paesi che furono in relazione d'amicizia o di guerra con essa nel secolo XIV, scrissero Antonio Godi e Nicolò Smerego[162] il quale fu continuato da un anonimo monaco di Santa Giustina di Padova, ma superiori a tutti furono gli storici Ferreto da Vicenza e i due padovani Rolandino e Albertino Mussato.
Nato verso il 1295 di buona e ricca famiglia vicentina, Ferreto Ferreti, dal pronto e immaginoso ingegno, e dall'indole vivace e satirica fu tratto alle lettere. Lo guidò alla poesia Benvenuto de' Campesani celebrato per un poema in lode di Arrigo VII e di Cangrande Della Scala, e in vitupero di Padova. Seguendo il salutare impulso della età sua, studiò con grande affetto i classici e cercò d'imitarli. Lodato dal Muratori come uno dei migliori latinisti di quel tempo, egli tuttavia non evitò di cadere in quella stentata [261] affettazione da cui nei due secoli seguenti si salvarono appena i migliori umanisti del rinascimento. Scrisse una storia delle cose avvenute in Italia tra il 1250 e il 1318, ch'egli trattò specialmente in relazione cogli avvenimenti a cui si trovava più prossimo, mostrandosi abilissimo a raggruppare i fatti e, scegliendoli acconciamente, a rappresentarli con vivacità alla fantasia del lettore. Ma questa abilità stessa che gli veniva da una ricca vena poetica, più che a minute indagini lo trascinava a cercare nelle azioni umane la parte abbagliante, e a servirsene per crear begli effetti nel quadro che dipingeva. Rerum gestarum splendida facta percurrimus, egli esclama, e davvero, come osserva il professor Zanella nel suo bel saggio sopra Ferreto «campo migliore non poteva desiderare al suo ingegno; poiché quel periodo che prese a narrare, dal 1250 al 1317, è de' più splendidi e fecondi di avvenimenti che abbiano le storie italiane. Niuno negherà che Carlo d'Angiò, Piero d'Aragona, Bonifacio VIII, le fazioni di Toscana, Corso Donati, Clemente V, Arrigo VII, Cangrande, Matteo Visconti, Uguccione della Faggiuola non sieno vivamente ritratti da Ferreto, che si compiace parimente di descrivere con ricchezza di stile, siti, battaglie, assedii, ingressi, coronazioni, morti di papi e d'imperatori. Ma quanto alla professione che fa di essere sempre veridico e di non lasciarsi indurre a menzogne nè per amore nè per odio, credo che spesso dimenticasse la fatta promessa. È notabile come di molte voci che corsero intorno ad un fatto, mai non trascuri quelle che tornano a vituperio [262] di qualche potente; propensione satirica che male si concilia coll'amore del vero.»[163] Anche come poeta Ferreto tentò soggetti storici, e il suo poema sull'origine della gente Scaligera dedicato a Cangrande, abbonda di notizie intorno alle principali città del Veneto, e specialmente, oltre Vicenza e Padova, a Verona la quale per la estesa influenza degli Scaligeri che v'ebbero sede, viene ad essere illustrata da tutti i cronisti di quella parte d'Italia. E come aveva celebrato gli Scaligeri, così Ferreto celebrò in un carme la morte del grande fuoruscito che aveva trovato alla loro corte il primo suo rifugio e il primo ostello, e ch'egli probabilmente aveva conosciuto di persona, ma questo tributo antico alla tomba dell'Alighieri sventuratamente è perduto.
Rolandino da Padova scrisse la storia di sua patria dal 1200 al 1260. Aveva studiato alla Università di Bologna, e nel 1221 ricevuto ivi il titolo di Maestro e Dottore in grammatica e rettorica. Tornato presso suo padre ch'era notaio in Padova, questi gli cedette alcune note ch'era venuto scrivendo sulle cose più memorabili accadute a' suoi tempi, e l'esortò a scriver la storia della loro città. Rolandino seguì l'esortazione paterna, e aiutato dagli studî fatti in Bologna, dettò in dodici libri il suo lavoro con tanta [263] chiarezza e così diligente e ordinata conoscenza dei fatti, che si meritò subito fama di storico insigne. Nel 1262, due anni dopo ch'egli l'ebbe condotta a termine, la sua storia fu in segno di grande onore letta pubblicamente nella Università di Padova al cospetto dei professori e della scolaresca che l'approvarono solennemente, e i posteri han confermato il giudizio[164].
A Rolandino tenne dietro uno storico anche maggiore, in verità uno dei maggiori letterati d'Italia, Albertino Mussato che fu contemporaneo ed amico di Ferreto da Vicenza. Nacque in Padova nel 1262. La povertà gli fu maestra, e fin da giovinetto dovette provvedere a sé e ai fratelli minori col copiar libri per gli scolari dello studio padovano, finché facendosi man mano erudito collo stesso copiarli, cominciò a trattar qualche causa nel fôro. La potenza dell'ingegno e la grandezza generosa dell'animo gli procacciarono [264] favore e lo sollevarono rapidamente in fama e in agiatezza, talché nel 1296 era fatto cavaliere e chiamato al Consiglio di Padova che allora si reggeva liberamente in Repubblica. Quivi in breve salì a tanto credito nelle cose di Stato, che nel 1302 fu inviato ambasciadore a papa Bonifazio VIII, ebbe pubblici incarichi a Firenze, e da quei primi tempi in poi, egli tra le varie vicende della patria, anche quando le procelle della fortuna lo sbattevano al fondo, statista, soldato, storico, poeta, sempre, fino al fin della vita, rimase in evidenza e fu tenuto in gran conto pur dai nemici.
Quando, tormentandosi Italia tra la fazione guelfa e la ghibellina, Arrigo VII di Lussemburgo scese, invocato da quest'ultima, a prender la corona imperiale, fu un grande rimescolarsi nella parte superiore e centrale della penisola. Non che il novello imperatore avesse in sé vera potenza, ma i partiti percorsi da un nuovo fremito per la sua venuta, e agitati da indefinite speranze e indefiniti timori, divampavano in fuoco più acceso. Le città guelfe di Lombardia, gelose di loro libertà e memori delle resistenze opposte in passato a ben altri imperatori, accoglievan quest'ultimo freddamente o gli negavano risolute l'ingresso. Lo favorivano invece le città ghibelline, ma e nell'une e nell'altre rigogliose com'erano di vita propria, l'autorità sua era assai poca, e la parte che egli credeva far di paciero riusciva invano. Più che la reverenza o l'odio dell'Impero potevano le ire cittadine, e ciascuna città era divisa in due parti, di cui la prevalente s'affannava di reggersi, mentre la soccombente [265] era sempre agitata nella speranza d'abbatter l'altra, e afferrato il timon dello stato dirizzarne altrove la prora. Di che spesso un salire e discendere delle fazioni, e la città guelfa mutarsi a un tratto in ghibellina e la ghibellina in guelfa, e un combattere entro le mura di cittadini contro cittadini, e i vincitori radere al suolo le case dei vinti, e questi andar profughi sbanditi in esilio col rancore nell'anima e l'invincibile speranza del ritorno e delle vendette. Questa agitata vita viveva anche Padova, guelfa per la prevalenza di quella parte e pel timor che Vicenza, su cui dominava, scosso il suo giogo si desse a Cangrande della Scala, signore di Verona e capo dei Ghibellini in quelle provincie. Al primo giungere di Arrigo VII in Italia, Padova con qualche riluttanza, ma con savio consiglio, aveva mandato un'ambasciata a salutarlo in Milano (A. D. 1311). Degli ambasciatori uno fu Albertino Mussato, ormai glorioso tra i letterati del tempo suo, e già noto come uno dei primi restauratori della poesia latina in Italia. Arrigo VII lo accolse con tanta e così singolare benevolenza, da ispirargli un affetto che mai non si smentì, neppur quando i suoi doveri di cittadino l'obbligarono di far tacere il suo sentimento privato e d'opporsi coll'armi alla volontà imperiale. Dopo alcun tempo, Albertino Mussato di nuovo fu inviato in ambasceria ad Arrigo VII, per chiedere guarentigie alla libertà padovana, che furono consentite con qualche condizione. Ma tornando in Padova, gli ambasciatori trovarono i lor cittadini forte agitati per la voce corsa che Arrigo avesse nominato Cangrande della Scala a Vicario Imperiale per Padova, [266] titolo abborrito dai guelfi e quasi sempre sinonimo di signore e tiranno. Si respinsero le condizioni proposte da Arrigo, il quale se ne irritò. Il momento parve propizio ai Vicentini, i quali si ribellarono a Padova e si buttarono in braccio allo Scaligero, che fu principio di una guerra lunga e accanitamente contrastata tra le due città (A. D. 1311). Albertino Mussato che aveva fatto tutto il poter suo per impedirla, ebbe più volte a recarsi presso Arrigo cercando di compor le cose verso la pace, e d'ottener la conferma delle prime concessioni. Ma l'opera sua era malagevole tra lo sdegnato sovrano e gli animi eccitati de' suoi concittadini, che piegavano a stento verso le proposte pacifiche solo quando il pericolo pareva maggiore. Di questo stato pieno di ondeggiamenti pativa il contraccolpo Albertino, che tornava dalle frequenti ambascerie ora accolto in patria come un salvatore, or cupamente come se recasse con sé il tradimento e la vergogna. Le cose si facevan sempre più gravi. Nel settembre del 1311, Arrigo VII, a tenore di certe condizioni pattuite, scelse tra quattro persone proposte dallo stesso Consiglio Padovano, Gherardo da Enzola come Vicario Imperiale in Padova. Il nome odiato di Vicario accrebbe i malumori nel popolo, e si faceva oramai impossibile vincer le proposte pacifiche nel Consiglio. Nel 1312 tornando da Genova cogli ultimi patti ottenuti dall'Imperatore, Albertino trovò la città in gran tumulto. Lo Scaligero era stato nominato Vicario per la città di Vicenza, certo lo sarebbe in breve per Padova, forse la nomina era già decretata in segreto e s'aspettava il momento opportuno per pubblicarla. Tali le voci che [267] concitavano la città fiera e desiderosa di guerra, e l'ira di tutto il popolo echeggiava in core dei consiglieri adunati nella gran Sala della Ragione. Era un fremito in tutta l'Assemblea. Rolando da Piazzola ch'era stato dell'Ambasceria col Mussato, levatosi, con impeto grande ricordò le calamità già sofferte per altri Vicarî imperiali, e profetando nello Scaligero un nuovo Ezzelino: «Vidi io» esclamava infiammato riferendosi al recente suo viaggio presso l'Imperatore, «vidi città poco innanzi floridissime, ora scacciatine i cittadini andare in rovina, le campagne deserte abbandonate alle ortiche, le facce dei nobili divenute squallide per inedia, la plebe esausta per fame. O vergogna! La ferace terra lombarda, inculta adesso, è paragonabile a un deserto selvaggio.... E chi abita le nobili castella? I vecchi tiranni ammantati del titolo di Vicarî Imperiali. Da loro oggi son consumate le reliquie ultime di Lombardia.... Vidi Genova.... la vidi bella e la rividi sformata in tre giorni; bella per l'allegrezza dei cittadini che accoglievano questo fantasma di felicità, sformata pel mutato aspetto del popolo vivente a comune, cui s'eran cangiate le usanze patrie in principati dispotici. Come se, o cittadini, rimosso questo nostro Preside, si sostituisse a lui un ignoto, e rescissi e distrutti fossero i plebisciti vostri e le leggi, e questo Senato disciolto, e i tribuni che voi chiamate gastaldioni turpemente e ignominiosamente deposti.... S'ebbe forse vergogna, mutando il sodalizio di Vicenza e Padova in pace tra loro, d'eleggere questo Cane, uom nefando, a Vicario di Vicenza [268] proprio in sull'uscio di questa nostra fiorente città? Non solo non se n'ebbe vergogna, o cittadini, ma fu consiglio di partigiani affinché questo Cane vi tragga alla sua tirannide e muova guerra civile tra i vicini nel seno di questa città. Oh vi torni in memoria la fiera strage dei padri nostri, orribile pure a ridirsi, e quel figlio di Satana Ezzelino da Romano che lo scellerato Federico, predecessore di questo Enrico di Lussemburgo, costituì qui ministro solamente di stragi, con questo falso titolo del Vicariato Imperiale....» e rivolgendosi al Vicario Imperiale seguitava: «E tu, Gherardo, se così ti piacerà di fare, giura di rinunziare al Vicariato e ripigliare il dolce e sacro ufficio e nome di Podestà nostro, e di reggere pel semestre questa città nella libertà sua, se no, prendi il tuo stipendio e vattene. Abbiam qui Rodolfo da San Miniato eccellente uomo, che io stimo adatto a pigliare la sede di questa beata e libera podestà e a reggerla.»[165]
Fu un grido di plauso[166]. Invano Albertino tentò rimetter calma negli animi, espose lo stato dubbio delle cose in Italia, mostrò come la parte ghibellina ancor vigorosa potrebbe divenire un aiuto dell'Imperatore pericoloso alla patria, invano pregò, scongiurò, per più mite consiglio. Tutta la sua eloquenza si franse contro l'ira popolare, e vinse il partito dell'armi.
[269]
La guerra incominciò indi a pochi giorni, interrotta e ripresa ogni tratto, e condotta molti anni con varia vicenda e con tutto l'odio che solevasi mettere allora da quegli appassionati animi in quelle guerre fraterne. Albertino Mussato che s'era mostrato così blando al consigliare, apparve un leone al combattere, sempre nelle più arrischiate fazioni, primo a gettarsi nel folto del pericolo, ultimo a ritrarsene. Pareva che gli fosse scomparso dalla mente quell'Arrigo VII ch'egli amava tanto e di cui descriveva le imprese, le quali egli, come Dante, si lusingava dovessero riuscire a benefizio d'Italia. Padova la cara patria era in guerra, ed egli ne combatteva i nemici. Nel novembre dei 1313, parve che l'odio cedesse un momento. Albertino Mussato ed un altro padovano andarono a discutere le parole di pace che lo Scaligero faceva proporre, ma le trattative si ruppero senza alcun frutto, e si tornò di nuovo a pensar di guerra. Intanto Arrigo VII era morto (24 agosto 1313), e con lui si spezzavano molte speranze dei Ghibellini più ardenti, molte illusioni di coloro che guardavano a lui come ad un angelo annunziatore di pace. Il partito guelfo ne saliva in superbia, e a Padova sotto colore di riforme impadronitosi d'ogni potere si sfrenava non pur contro i ghibellini ma contro i cittadini più temperati e diveniva tiranno (A. D. 1314). Ne seguì una sommossa popolare violenta, nella quale contro ogni ragione fu preso di mira il Mussato, alle cui case si volse una plebaglia inferocita per portarvi l'incendio e la morte. In vista del pericolo, Albertino non si smarrì: consigliato di nascondersi, non volle, [270] e per non macchiarsi nel sangue del popolo non volle difendersi, ma inforcato un cavallo, venne fuori arditamente dalla casa infestata, e di gran corsa uscì incolume dalla città e si ritrasse in salvo. Fu un gran dolore al cuor del Mussato, a cui pareva tanto più amara l'offesa e l'esilio quanto più gli era cara la patria e se ne sentiva benemerito. Onde in una concione ch'egli dettò a sua difesa, e inserì poi nella storia, esclamava dolente e sdegnoso: «Dovrei io vergognarmi o arrossire, se avendo bene meritato in alcuna cosa, la tanta ingratitudine onde son circondato mi sforza a recitar da me le mie lodi? Anche se lo facessi con petulanza? No, perché quando una cagione di passati contrasti ci costringe a parlare per respinger le ingiurie, la violenza del timore vince la calma d'ogni più forte uomo. Dopo le uccisioni compiute il dì innanzi da quegli iniqui, e le stragi orrende, una turma tumultuaria concorse alla casa di me Albertino Mussato, la tenne assediata da manipoli di gente che le infuriava attorno chiedendo i miei penati, i miei figli, il sangue mio. Se posso parlare col Redentore del mondo: ‘O popol mio’ Egli diceva ‘che t'ho mai fatto? Per quarant'anni ti guidai nel deserto.’ Io ti condussi, dico io Mussato, o popol di Padova, per altrettanti mesi tra vasti pericoli dietro le orme mie sulla mia strada, da cui tu stessa confessi d'aver deviato per tua ignavia....» E dopo avere enumerata una lunga serie di servigi resi alla patria, e i miti consigli dati ai Padovani nella prospera fortuna, alludendo al loro timore nei pericoli, procede: «.... Ma tardo viene dopo [271] la grandine il pentimento. E che rimedî si son trovati a tanti mali? O tribuni della plebe, ricordatevene. Parlo a voi conscî ed autori di tanto provvedimento. Voi, pensaste, Ottimati della città, che se era fattibile, Cesare doveva esser placato. E in che modo? con quale ingegno? con quali arti? E che? la opportunità, la difficoltà chiamò innanzi Albertino Mussato. Costui, si asserì, può far salva la repubblica e rovinata rialzarla. Se avanzava da far qualche cosa, a lui solo ricorreste, a lui privo d'ogni speranza di trattar gli affari e prostrato, e vi consigliaste seco, e lui unico imploraste. E Vitaliano de' Basilii, che allora quasi dominava sul volgo, a mani giunte, a ginocchia piegate, lacrimando, stipato da voi tutti, o Tribuni, mi supplicò di andare al Re.... Io guardo a me stesso ammirando e compassionando. È necessario che la penna mandi tutto alla posterità. Forse mi resi colpevole verso questa Repubblica? Tralascio le diurne, le notturne, le annuali fatiche. Non vale la pena di allegare le vigilie, le cure, le sollecitudini mordaci. Non si nascondano gli assertori; attestino affinché io sia creduto. Consumai forse il denaro pubblico? E quale? e quando? Mi son forse arricchito coi danni dei privati? Di quali? Venga fuori un solo vessato o spogliato da me. Abbiatevi, o Tribuni, un argomento efficace della sincerità nostra. In queste ultime calende di decembre, per non ricondurvi indietro al non ricordabile, la sorte mi prepose allo ufficio di Anziano, onore uguale quasi al consolato dei Romani. Questo Pietro d'Alticlino potentissimo [272] uomo e formidabile contro cui si esclamava, e molti altri dell'ordine equestre e plebeo, io convenni in giudizio di restituzione, li feci incatenare, li convinsi, e li costrinsi a rimettere nell'erario la mal tolta moneta con rigido e severo ardore. Così mi persuadevano a fare i miei costumi, così l'audacia, l'amor della patria, l'atrocità di quelle rapine e la giustizia.» E dopo queste calde parole altre ne aggiunge enumerando le prodezze compiute in guerra, spiega per quali ragioni egli avesse promossa la imposizione di una tassa utile e giusta che gli aveva procacciato l'odio del volgo e l'esilio, e conchiude con disdegnosa fierezza: «A ragione il gregge macchiato odia il vello della pecora dorata. Sia lungi da voi, o Tribuni, la ferocia delle vili belve assetate di sangue innocente. Salvato, io voto la mia salute, le mie fortune ed ogni poter del mio ingegno e delle facoltà mie, ai Padri, ai Maggiori e al Popolo più sano.»[167]
Pagine eloquenti davvero, che strappavano l'ammirazione ai contemporanei, e ancora l'ispirano ai posteri richiamati per esse come a un ricordo della romana repubblica, e di quella forte eloquenza che scoppiava in Grecia e in Roma nel tumultuoso bollire degli affetti politici quando la democrazia stendeva sovr'esse l'agitato suo impero! Sedato finalmente il disordine e ricomposta la quiete nella città, si adunò il Consiglio, e, abolite le esorbitanti riforme e ripristinato [273] il vecchio stato, decretò unanime il richiamo d'Albertino Mussato, e pubbliche solenni onoranze per compensarlo dello sfregio patito. Ne esultò il buon cittadino, ma prima pure del suo ritorno, i Padovani mossero improvvisamente ad oste contro Vicenza ed egli s'aggiunse agli armati. Nelle fazioni che seguirono egli combattè con l'usato ardimento, finché in una mischia, precipitando da un ponte in una fossa, accerchiato dagli uomini di Cangrande, fu con undici ferite preso e condotto a Vicenza. Quivi egli rimase onorato prigioniero di Cane, che con la sua corte andava a visitarlo e a scambiar con lui amicamente gravi discorsi e celie frizzanti, esempio non unico di quell'età, che all'abbassar delle spade stillanti sangue, l'ammirazione prevalesse sull'ira, e un prepotente barone rendesse onore alle virtù e all'ingegno d'un semplice cittadino.
Nel novembre del 1314, al conchiudere d'una pace, Albertino liberato dalla prigionia tornava in patria a ricevere le decretate onoranze, e a cinger le tempia di quell'alloro poetico a cui sospirò tutta la vita Dante nella vana speranza che il poema sacro vincesse la crudeltà che lo serrava fuori della patria. Pieno di compiacenza egli descrive a lungo e con tratti caratteristici nella sua storia la festa che gli fu fatta e che riuscì solenne, perché a celebrarla concorse col Senato e colla Università la città tutta quanta, altera adesso di questo suo figlio la cui fama letteraria spargevasi ormai onorata per tutta Italia.
E veramente le opere letterarie di Albertino Mussato [274] meritavano quegli onori[168]. Latinista ottimo pei suoi tempi, egli, con Giovanni Del Virgilio, con Dante e gli altri latinisti contemporanei, superiore forse a tutti, spiana le vie della rinascenza al Petrarca, e mentre studia gli antichi e ne ritenta le forme del dire, nel concetto e nell'architettura de' suoi lavori apparisce scrittore originalissimo. Poeta dettò epistole, [275] sermoni, egloghe, elegie non prive di pregio, ma soprattutto si rivelò creatore potente nella sua tragedia l'Ezzelino. Spastoiatosi d'ogni teoria preconcetta, pur senza abbandonare le orme classiche che trovava tracciate da Seneca, egli primo tra i moderni italiani scelse un soggetto moderno, vivo anzi ancora nella memoria e nel terrore del popol suo, soggetto cupamente tragico ch'egli trattò con evidenza drammatica e, soprattutto nei cori, con impeto lirico maraviglioso. L'argomento storico ch'egli scelse e che accrebbe di tanto la popolarità del suo lavoro, annunzia la tendenza storica dell'intelletto del Mussato. Il quale, innamorato degli antichi scrittori e dei tempi romani, colla mente vigorosa d'immaginazione e di pensiero, doveva sentirsi irresistibilmente attratto a raccontar la storia ch'egli aveva vissuto, e ridir le cose vedute e pensate fra tanto tumulto di azione, fra tanta grandezza di virtù e di vizî. E io son venuto finora descrivendo così lungamente la vita di quest'uomo, perché mi parve di veder compendiata in lui una gran parte dell'età sua come egli la descrisse e come fu veramente. Dettò la Historia Augusta delle gesta in Italia di Arrigo VII (A. D. 1308- 1313), principe di buone intenzioni ma di debole potere, caldamente invocato dai Ghibellini, pregiato anche dai Guelfi, ma nè obbedito nè temuto veramente mai, sceso dall'Alpi a risuscitare il fantasma d'un Impero che aveva perduto i nervi in Italia tra tante repubbliche e coi papi avversi e ancor potenti per l'aiuto dei Guelfi e degli Angioini. Scrisse Albertino con imparzialità grande, ma con tutto l'ardore [276] di chi ha preso parte nelle cose pubbliche e postovi tutta l'anima sua desiderosa del bene. Il viaggiar suo frequente, per lo più come ambasciatore, in molte parti d'Italia (e negli ultimi anni andò anche ambasciatore in Germania) gli avean dato modo di veder d'appresso le condizioni dei diversi paesi che eran teatro della sua storia, di conoscer gli uomini principali, e d'attingere dappertutto o d'appurare molte notizie. Non tutto guelfo nè tutto ghibellino, diresti ch'egli ondeggia intra due, ed è ondeggiamento non raro nelle menti più elevate di quella età. Vorrebbe dall'Impero una forte unità di comando a cessar le discordie dei partiti, mentre piega ai Guelfi per le tradizioni repubblicane e la cura di una libertà gelosa dell'aquila imperiale e dei tirannelli che col nome di Vicarî crescevano all'ombra dell'ale sue. Amico e ammiratore d'Arrigo, ma storico libero e austero, nel dedicargli la sua storia lo avvertiva che in quelle pagine non avrebbe trovato lusinghe nè solo le imprese degne di lode, ma gli errori altresì dai quali, come uomo, anche egli Arrigo non era immune. La morte d'Arrigo troncò il suo lavoro, ma più tardi egli lo continuò con una seconda storia che intitolò Gesta degli Italiani dopo la morte di Enrico VII, divisa in dodici libri, dei quali tre in versi descrivono l'assedio sostenuto da Padova nel 1320. Lavoro piuttosto abbozzato che finito, presenta qua e là varie lacune di tempo ed è assai men perfetto di stile che non la Historia Augusta, ma non è inferiore ad essa per la importanza storica. Lo intraprese per esortazione di Pagano della Torre, vescovo allora di Padova, [277] e tra le molte cure che lo affaticavano[169], lo condusse innanzi molti anni per andarlo a terminare nell'esilio di Chioggia, dove abbozzò anche uno scritto su Ludovico il Bavaro rimasto in frammento. Poiché il 31 maggio 1329 concluse in esilio la forte e onorata vita Albertino Mussato. Dopo molti altri servigi resi alla patria e molto travagliar di fortuna, egli fu nuovamente sbandito, nè lo richiamarono questa volta. Fu lasciato morir fuori, nella miseria, colla vecchiezza aggravata dal dolore di una cara amicizia tradita, dalla ingratitudine di un figlio, dalla vista delle libertà padovane spente per mano di tiranni. Malinconica fine e piena di pietà, eppur confortevole e bella di quella morale bellezza che splende da una vita pura ed eguale a sé stessa nella fortuna prospera e nella avversa, da una vita destinata a mostrarci nelle stesse ingiustizie delle sorti terrene, la testimonianza certa di una giustizia immortale.
[279]
Cronisti delle repubbliche marinare — Cronache di Venezia: Martino da Canale e Andrea Dandolo — Gli Annalisti di Genova da Caffaro a Giacomo D'Oria — Pisa: Le Gesta triumphalia. Bernardo Marangone — I cronisti della rimanente Toscana e principalmente i Fiorentini: I Malispini. Dino Compagni. I Villani.
Volgendomi ai cronisti delle città marinare, primi mi si porgono innanzi alla mente quei di Venezia. Illustrata pei tempi più remoti dalla Cronica Altinate e dalla Gradense, che recano qualche luce nel buio delle sue origini, poi da quel Giovanni diacono che ci si mostrò ai primi albori della vita comunale, Venezia ebbe copia di storici degna degli splendori della sua storia[170]. A que' primi cronisti tenne dietro un anonimo che dettò gli annali veneti dalla metà dell'undecimo [280] secolo fino alla fine del dodicesimo, e tra le notizie sulla storia politica lasciò molte importanti indicazioni intorno ad avvenimenti locali relativi alla città di Venezia. Un frammento di cronaca, scritto certamente dopo la morte del doge Sebastiano Ziani (A. D. 1229) e già pubblicato come parte del Chronicon Altinate, è anch'esso pregevole per la storia delle relazioni di Venezia cogli altri Stati, e in particolare coll'Oriente dove essa, padrona oramai dell'Adriatico, stendeva largamente la sua influenza e il potere. E dal tredicesimo secolo in poi la letteratura storica veneziana diviene sempre più fiorente, e s'ispira alla poesia del luogo e alla grandezza di quel senno politico che mentre reggeva dentro con tanta sapienza lo Stato, guidava lontane imprese in ogni parte del mondo. Pieno di questa poesia e di questa grandezza è il cronista Martino da Canale. Questo cronista descrisse la storia di Venezia fino al secolo decimoquarto in forma piuttosto di romanzo che di storia, ma appoggiato alle fonti che lo precedettero, alle tradizioni, e pe' suoi tempi alla fede degli occhi suoi o alla viva voce di testimonî oculari, egli in ciò che narrò del secolo decimoterzo, apparisce sostanzialmente scrittore veridico e, spesso pur nei particolari, bene informato ed esatto quanto è vivace. Di lui non si sa quasi nulla, e neppure s'egli fosse veramente veneziano, ma certo visse lungamente in Venezia per la quale mostra un affetto caldo ed una ammirazione infinita. Come il Tesoro di Brunetto Latini, come il Libro di Marco Polo, la sua cronaca è scritta in francese perché «lengue franceise cort parmi le monde [281] et est la plus delitable a lire et a oir que nule autre.» Sui principî di Venezia favoleggiò colle leggende troiane e con quelle d'Attila, e seguitò breve fin verso i tempi di Enrico Dandolo. Con questo glorioso Doge la narrazione di Martino incomincia a distendersi e diviene sempre più ricca. Quando tocca poi i tempi del doge Giacomo Tiepolo fino al 1275, ultima data della sua cronaca, i particolari che reca, specialmente sui costumi di Venezia, acquistano un valore inestimabile. Le sue notizie intorno ai personaggi dell'età sua, alla Chiesa di San Marco, alla Piazza e ai tornei celebrati in essa, alle vesti ed onorificenze dei Dogi, alle loro comparse e a quelle delle varie corporazioni delle Arti, alla festa solenne delle Marie, sono altrettanti quadri di un'età singolare dipinti sopra un fondo maraviglioso. Scrittore con cui è necessario adoperar molta critica, storico, come s'è detto, e romanziere a un tempo, Martin da Canale colla ingenua vivacità della sua fantasia riesce tale pittor di Venezia da non aver chi lo superi tra i contemporanei o l'agguagli a gran pezza. Dal suo libro pieno d'attrattive tolgo l'episodio della presa di Zara avvenuta per opera del Doge Dandolo mentre si recava coi Crociati in Oriente al conquisto di Costantinopoli:
«.... Vi dirò che il Conte di S. Polo e il Conte di Fiandra, il Conte di Savoia ed il Marchese di Monferrato, nell'anno della Incarnazione di Nostro Signor Gesù Cristo MCCII, inviarono loro messaggi al nobile Doge di Vinegia messere Errico Dandolo, e lo pregarono ch'egli loro donasse naviglio per [282] passare di là il mare. E quando Monsignore il Doge Errico Dandolo udì la preghiera che li messaggi dei Baroni di Francia gli ferono da parte di lor signori, sì ne fu lieto e disse ai messaggi: ‘Andate e dite ai signori vostri che di quell'ora ch'elli vorranno venire in Vinegia troveranno l'armata apparecchiata per passare di là il mare, e che il Doge di suo corpo medesimo vorrà passare con loro al servigio di Santa Chiesa.’ Allora se ne tornarono li messaggi a' Signori loro, e loro dissero tutto in così come Monsignore il Doge loro mandava. E quando i Baroni di Francia udirono ciò, ne furono molto lieti che dell'armata, la quale Monsignore il Doge loro aveva promesso, che del voler passare il mare di suo corpo medesimo con loro, e dissero che miglior compagnia non potrebbon elli avere in tutto il mondo.
«Messere Errico Dandolo, il nobile Doge di Venezia, mandò venissero li carpentieri e fece rettamente apparecchiare e fare palandre e navi e galee a gran numero, e fece prestamente fare medaglie d'argento per dare il soldo ai maestri ed ai lavoratori, ché le piccole ch'elli aveano non venian loro così opportune. E del tempo di monsignore Errico Dandolo in qua fu cominciato in Vinegia a ferire le nobili medaglie d'argento, che l'uomo dice Ducato, le quali corrono per mezzo il mondo per la bontà loro. Molto si affrettarono li Viniziani per apparecchiare il naviglio, e' Francesi allorquando furono in punto si misero alla via e cavalcarono tanto ch'elli furono venuti in Vinegia, ove furono [283] molto bene ricevuti, e fecer loro li Viniziani grande gioia e grande festa. E Monsignore lo Apostolo loro avea dato un suo legato che de' peccati li avea prosciolti. A quel legato fece Monsignore il Doge grande onore, e prese la Santa Croce da sua mano e molti nobili Viniziani la presero e del popolo ancora.
«A grande gioia ed a grande festa entrò messer Errico Dandolo in una nave per passare il mare coi Baroni di Francia al servigio di Santa Chiesa; ed i Baroni si misero ciascuno in sua nave, ed i cavalieri entrarono negli uscieri e nelle palandre e nelle altre navi da ciò ove loro cavalli erano messi. Ed allorquando elli furono in mare i marinai drizzaron le vele al vento e lasciarono ire a vele piene le navi per mezzo il mare alla forza del vento. E Monsignore il Doge avea lasciato in Vinegia in luogo suo un suo figliuolo detto messer Rinieri Dandolo, e quegli governò i Viniziani in Vinegia molto saggiamente.
«Monsignore il Doge se ne andò tanto per mezzo il mare ch'egli fu venuto a Giadra e tutta sua compagnia: e Giadratini erano a quel tempo sì orgogliosi ch'elli aveano rifiutata la signoria di Monsignore il Doge e faceano dirubare i trapassanti pel mare ed aveano levate le muraglia d'intorno la città. Il temporale era cambiato ed il mare iroso, sì loro convenne prendere terra per salvare il naviglio, ed allora se ne andarono a Malconsiglio, ciò è un'isola la quale è tutto dinnanzi Giadra. Quando elli furono dentro il porto messi a salvezza, Monsignore il Doge disse ai Baroni: ‘Signori, vedete [284] là quella città? sappiate ch'ella è mia, ma quelli di dentro sono sì orgogliosi ch'elli hanno rifiutato mio comandamento: io voglio che voi m'attendiate qui, ch'io vuo' mostrar loro quale merito debbano avere essi che rifiutano il comandamento del Signor loro.’
«Quando i Baroni udirono ciò, dissero a Monsignore il Doge: ‘Sire, noi siamo apparecchiati di venire con voi e nostri cavalieri anche.’ ‘In nome di Dio, disse Monsignore il Doge, già nullo di voi non vi metterà suo piede, anzi voglio che voi vediate ciò che io so fare ed i Viniziani con me.’ Ed allorquando elli furono apparecchiati di loro armi e di loro scale, non fecero altro soprastamento fuorché messere Errico Dandolo, l'alto Doge di Vinegia, si mise avanti e li Viniziani appresso ed andarono assalire Giadra e fu la battaglia cominciata; e già non rimase per nessuna difesa che i Giadretini ci facessero, che i Viniziani non salissero in secca terra. Sì fu allora la battaglia a colpi di lance e di spade, e quelli di sovra le muraglia gittavano giavelotti e pietre canterute e pali aguti e difendevano la città a lor podere. Ma la difesa non valse loro niente perché immantinente che i Viniziani misero loro scale alle mura vi montarono sopra ed abbatterono i Giadratini a terra, e presero la città rattamente rincacciandone i cittadini e dando Giadra in preda di monsignore Errico Dandolo.»[171]
[285]
A quel modo che Martino Da Canale aveva attinto largamente dagli storici che lo precedettero, così un altro cronista di nome Marco si giovò molto di lui per compilare una cronaca latina di cui furono pubblicati sol dei frammenti, e dopo lui e d'assai maggiore rilievo appariscono Marin Sanudo Torsello, e il frate Paolino, due delle principali fonti storiche di cui si servì il grande cronista medioevale di Venezia, Andrea Dandolo.
Da una antica e gloriosa famiglia di guerrieri e d'uomini di Stato e di Chiesa, Andrea Dandolo nacque nei primi anni del secolo decimoquarto. Giovanissimo sostenne cariche importanti, Procuratore di San Marco nel 1331, Podestà di Trieste nel 1333, e tre anni appresso Provveditore in campo nella guerra contro Mastino della Scala. Nel 1343 a soli trentasei anni, o, come altri vuole, a trentatrè, Andrea con esempio insolito fu levato al trono ducale. Giusto liberale benefico, i contemporanei sono pieni di lodi per lui; dottissimo di giurisprudenza e di storia, volse le sue cognizioni a benefizio dello Stato e delle lettere che gli procurarono amicizie di letterati insigni, massimo fra questi il Petrarca. L'indole e gli studî lo traevano alla pace, ma i tempi gravi in cui resse lo Stato volgevano a guerra e gli fu mestieri spender gran [286] parte della sua mente a negoziati che s'appoggiavan sull'armi. Le continue relazioni di commercio e di guerre tra l'Asia Minore e Venezia, alla quale anche s'aprivano allora i porti d'Egitto e di Siria, le contese commerciali sorte e appianate coi Tartari, la ribellione di Zara in Dalmazia, vinta malgrado gli sforzi avversi del re d'Ungheria, e quella di Giustinopoli nell'Istria vinta ancor essa, e una terribile pestilenza in Venezia, occuparono con molte altre cure l'attività di Andrea Dandolo nei primi anni del suo principato. In proceder di tempo queste cure si accrebbero per la rivalità ognor crescente tra i Veneziani e i Genovesi i quali anch'essi volgevano le loro mire al commercio coi Tartari nel mare d'Azof. La rivalità si mutò presto in guerra (A. D. 1351), e tal guerra quale potevano farsela le due maggiori potenze marittime d'Europa a quel tempo. Guerra lunga fortunosa varia di vittorie e di sconfitte, difficile a condurre per le molteplici alleanze ch'era necessario stringere e opporre alle alleanze nemiche. E qui è bello ricordare come la inerme voce del Petrarca, si levasse tra quel frastuono d'armi a consigliare di pace il doge Andrea Dandolo. Ma a questo non era dato ascoltarlo. I casi incalzando rendevano necessaria la prosecuzione della guerra nella quale i Veneziani toccarono una grave sconfitta. Mentre si provvedeva a difender la città da un possibile assalto, o fosse il crepacuore pel danno patito dalla patria, o fossero le fatiche sopportate in quegli allestimenti di difesa, Andrea Dandolo morì il 7 settembre 1354 dopo appena cinquant'anni di vita e dodici di principato.
[287]
Le molte cure dello Stato e i tempi bellicosi in cui governò, non lo avevano distolto dai suoi lavori di giurisperito e di storico. Aggiunse un libro agli Statuti di Venezia, rivedendo egli stesso e perfezionando il lavoro man mano che si preparava. Assicurò l'ordinamento degli archivi veneti facendo compilare due libri di grande pregio intitolati Liber Albus e Liber Blancus, contenenti il primo i trattati conclusi da Venezia cogli Stati orientali, l'altro quelli conclusi cogli Stati d'Italia. Prima di salire al principato aveva già intrapreso qualche lavoro storico che poi rifuse nella grande opera sua, la Cronaca o, come altri la chiama, gli Annali di Venezia, scritta mentre egli era Doge. È lavoro insigne pel quale si aiutò con ogni maniera di materiali, e raccoglie in sé tutta quanta la storia di Venezia fino al chiudersi del tredicesimo secolo, cercata con cura grande e grande erudizione. La piena libertà di consultare gli archivî gli rendeva facile l'uso dei documenti, ed egli se ne servì largamente anche inserendone molti o per intero o in estratto nel suo lavoro. Lesse molti degli scrittori non veneziani dai quali poteva trarre notizie utili all'opera sua, e dei veneziani che lo avevano preceduto non gli sfuggì quasi nessuno e forse conobbe qualche scrittura che non è pervenuta infino a noi. Di tutti fece uso non senza acume di critica talché non sarebbe ingiustizia affermare che dove tutti fossero periti, la cronaca di Andrea Dandolo avrebbe conservato il succo delle opere loro e la storia di Venezia rimarrebbe intera. Come scrittore non ha grandi attrattive: assai semplice e lucidissimo ma piuttosto [288] scarso di fantasia, narra i fatti senza curarsi d'ordinarli con intendimento d'artista. E neppure il nostro cronista è storico perfetto. Non si guarda abbastanza dalle favole, dice il Muratori, dove narra cose remote da' suoi tempi, e talvolta nella cronologia egli incespica e cade negli errori di chi l'ha preceduto. Ma pur con ciò non è da spregiarlo, e quanto egli dice intorno all'origine e al crescere di Venezia è da avere in gran conto, nè certo si troverebbe scrittore più grave di lui[172]. Dei suoi tempi non parla nella sua cronaca, ma di quelli abbastanza vicini a lui tratta con molta larghezza di giudizio e, pare, con animo sereno, sebbene ora taluno cominci a muovere qualche dubbio sulla grande imparzialità che tutti gli riconoscevano finora. Intorno alla vita e all'ordinamento politico di Venezia ha idee chiarissime, e man mano che narra i fatti, egli espone lo svolgimento storico e progressivo di quella mirabile costituzione, e in ciò è tal pregio che solo basterebbe a farlo considerare come uno dei più grandi e più importanti storici di tutto il medio evo italiano. All'opera sua premise una lettera introduttoria Benintendi de' Ravegnani cancelliere della Repubblica, amico anch'egli al Petrarca, letterato di fama e autore di una storia veneta che rimasta incompiuta non oltrepassa i primi secoli di Venezia. Un altro cancelliere, Raffaello o Rafaino de' Caresini, proseguì l'opera del Dandolo e ne continuò gli Annali fino al 1383, in [289] un lavoro accurato anch'esso, e sebbene meno imparziale di quello del Doge, pure molto commendevole come opera di storico contemporaneo e di cittadino devoto e generoso verso la patria[173].
Nè la superba Genova volle restare indietro all'emula sua, ma con sapiente consiglio provvide alla città una serie di istoriografi i quali succedendosi gli uni agli altri ne descrissero le vicende per circa due secoli dal 1100 al 1293. Ideatore e iniziatore di questa serie fu un illustre cittadino genovese, Caffaro, il quale nato intorno al 1080 si trovò come soldato e come duce a molte spedizioni, e prese gran parte come console nelle cose della Repubblica e come ambasciatore a papa Calisto II e a Federico Barbarossa. In sui vent'anni d'età, al tempo della spedizione di Cesarea nel 1100, entrò nel proposito di descrivere le gesta dei concittadini suoi, e da quel tempo quanto vide egli stesso o seppe dalla testimonianza oculare d'altri consoli o somiglianti personaggi, tutto notò costantemente, e nel 1152 presentò il suo lavoro in pieno Consiglio ai consoli della Repubblica. I consoli decretarono che il libro, copiato con gran cura ed eleganza, fosse collocato nell'archivio pubblico. Lieto Caffaro con raddoppiato zelo si ripose all'opera e condusse innanzi gli Annali fino al 1163, [290] ottantesimoterzo dell'età sua, ma le turbolenze civili che agitavano Genova a quel tempo gl'impedirono di seguitare per gli altri tre anni che visse. Morì nel 1166 lasciando oltre gli Annali un Liber de Expeditione Almariae et Tortuosae alla quale egli aveva preso parte (1147-1148), ed uno De liberatione civitatum Orientis che descrive le spedizioni dei Genovesi in Siria e in Palestina. In essi, come negli Annali, Caffaro rivela sé stesso quale scrittore ottimamente informato, testimonio quasi sempre oculare delle cose che narra, uom forte pio candido, della patria amantissimo, indagatore solerte di quanto possa riferirsi alla vita pubblica e privata dei cittadini, d'affari intendentissimo, familiare coi sommi uomini del suo tempo, coll'imperatore Federico specialmente e coi papi, tenace del retto e del giusto così nelle cose dell'Impero che della Chiesa, uomo alla cui felicità, dopo le nobili cose operate in pace e in guerra, s'aggiunse da vecchio di vedere il figliuol suo Ottone console nella Repubblica. Tali le ampie e meritate lodi colle quali il Pertz delinea il ritratto di Caffaro.
Proseguì la sua storia per ordine della Repubblica il cancelliere Oberto, e la condusse dal 1164 al 1173. Mescolato ancor egli a tutti gli eventi della patria, Oberto ebbe campo di vedere e conoscer bene quanto accadeva d'importante per la Repubblica genovese e dentro la città e lontano, talché la sua storia rende una viva immagine dei tempi suoi. Le trattative di pace coll'imperatore di Costantinopoli, gli armamenti a Porto Venere contro Pisa, la esposizione ch'ei fece a Federico Barbarossa sulla contesa tra Pisani e Genovesi [291] a proposito della Corsica, i sussidî dati a Milano per fabbricare Alessandria, sono alcuni tra i molti episodî nei quali ebbe parte. Dopo lui, Genova per circa quindici anni non ebbe storiografo, ma Ottobono scriba del Comune riprese l'opera, e colmata succintamente la lacuna di quei quindici anni continuò con maggior larghezza gli Annali fino al 1196. Fu a molte imprese, e narrò quel che vide egli pure scrivendo con quello stile piano e scorrevole che è proprio di una mente usata agli affari e a guardar nelle cose il lato reale e pratico. Nel 1194 colla flotta genovese mandata in soccorso d'Enrico VI, partecipò all'assedio di Gaeta, e quando quella città fu presa ne ricevette per Genova il giuramento di fedeltà. Nel 1196 si trovò presso San Bonifacio al conflitto tra la flotta di Genova e quella di Pisa, e dalle minute e precise narrazioni sue può indursi ch'egli assistesse anche alle altre spedizioni narrate nel seguito del suo lavoro. Lasciò anche importanti notizie sui mutamenti politici interni avvenuti in Genova nel 1194 quando ai Consoli del Comune fu sostituito un Podestà annuo e forestiero secondo l'usanza generale allora nelle Repubbliche italiane. Gli succedette nel lavoro Ogerio Pane (A. D. 1197-1219), uomo che si adoprò molto in varî negozî della Repubblica col Re d'Aragona Ildefonso, colla città di Marsiglia, e con Federigo II. Dopo Ogerio, pregevolissimi e adoperati anche più di lui nelle cose di Stato, Marchisio (A. D. 1220-1224) e Bartolomeo (A. D. 1225-1248) ebbero, quest'ultimo specialmente, a narrare un tratto di storia rilevantissimo, e ci mostrano Genova nelle [292] sue relazioni colle potenze vicine e lontane del Mediterraneo e la varia parte ch'essa ebbe nelle lotte in Italia tra Federico II e la Chiesa.
Dopo una continuazione rimasta anonima che va dal 1249 al 1264, la cura degli Annali genovesi fu affidata non più ad uno ma contemporaneamente a diversi scrittori i quali allargando alquanto oltre la cerchia di Genova i confini del loro lavoro, lo continuarono dal 1264 al 1279, con grande zelo e, tra quel parteggiare continuo che travagliava la città loro, con imparzialità mirabile nell'esporre i fatti e nel giudicarne. Tra gli ultimi chiamati a questo ufficio fu sin dal 1269 Giacomo D'Oria, al quale nel 1280 fu dato incarico di proseguir solo gli Annali, ed egli li condusse fino al 1294. Nato nel 1234 da Pietro figlio del celebrato ammiraglio Oberto D'Oria, fu tra le varie vicende della patria esperto uomo di toga e di spada. Nel 1284 saliva con molti parenti una galera di casa D'Oria in una gran battaglia contro i Pisani, ma nel tornar vittorioso, assalito da una tempesta presso a Porto Venere, scampò a fatica da morte. Tornato in patria, attese a riordinare l'archivio della città, fece trascrivere in regesto molti documenti e di essi si servì nel suo ufficio di storico. Dotto conoscitore degli antichi scrittori, ricercò in essi quanto poté trovar di notizie per riassumere brevemente la storia di Genova anteriore ai tempi di Caffaro. Di ciò che concerne i suoi tempi fu larghissimo espositore, massime per le relazioni tra Genova e Carlo d'Angiò e per la spedizione in Corsica condotta da Percivallo D'Oria. Scrittore sagacissimo, avanza tutti i predecessori suoi per acutezza d'osservazione, per [293] larghezza di vedute e per una precisione di mente che non gli fa mai trascurar dettaglio che possa importare ai posteri. A queste doti la storia di Genova deve la memoria d'infinite notizie intorno alla sua costituzione, all'esercito, alla flotta, alla moneta. Il 16 luglio 1294, stanco per fiaccata salute più che per vecchiezza, egli consegnò il suo lavoro ai magistrati della città che lo ricevettero solennemente e con lodi degne del servigio ch'egli avea reso alla patria. Con lui si conclude la serie di questi Annali, l'unica che sia stata scritta per incarico di una Repubblica italiana, la più completa in tutta l'età dei Comuni. Storia di un popolo mercantile e guerriero, riflette l'indole di questo popolo nelle pagine di ciascun degli autori malgrado la moltiplicità loro e la differenza dei tempi in cui scrissero. A questi autori molte caratteristiche sono comuni. Latinità piena di forme e di parole italiane, quasi nessuno ornamento oratorio ma semplicità di frase e precisione di stile grandissima, grande abbondanza di fatti, di nomi, di date, molto amor patrio e molta imparzialità di giudizio, si trovano in tutti questi scrittori da Caffaro a Giacomo D'Oria che sono il primo e l'ultimo della serie e i due maggiori per vastità di vedute e acutezza di indagini. Gli Annali di Genova provano più sempre come la storia contemporanea per rendere viva figura di ciò che descrive, vuole essere rappresentata da chi la vide e partecipando ad essa si scaldò al calore dell'azione[174].
[294]
Men ricca di Annali fu Pisa ma non priva affatto di essi. Alleata nel 1088 a Genova e ad Amalfi per una gloriosa impresa in Affrica contro i Saraceni, che fu preludio alle crociate, ebbe un cittadino che ricordò questa impresa con un rozzo ritmo rimato pieno di fuoco patrio. Del pari un poema latino in sette libri notevole per molte notizie e per la tendenza classica del verseggiare, celebrò la presa di Maiorca (A. D. 1115) che fu pure descritta da un anonimo, che il Watterich e il Giesebrecht credettero potesse essere il cardinale Pietro Pisano ed ora il Duchesne inclina a credere che fosse quello stesso Pandolfo di cui si è già fatto ricordo tra i compilatori del Libro Pontificale. L'autore narrando la [295] spedizione dei Pisani alle Isole Baleari, allargò il concetto del suo lavoro, e risalendo fino alla prima crociata e alla presa di Gerusalemme, dettò le Gesta triumphalia per Pisanos facta, magnificando anch'egli con molto calore e con molta evidenza le glorie dei suoi concittadini. Ma il principale fra i cronisti pisani fu Bernardo Marangone che fiorì nel dodicesimo secolo, ebbe molti pubblici incarichi in patria e sostenne in più luoghi varie legazioni, una delle quali nel 1164 a Roma per la conferma di una pace pattuita tra i suoi concittadini e il popolo romano. Dopo brevi note cronologiche gli Annali suoi incominciano all'anno 1004, da principio brevissimi, poi dal 1136 al 1175 più larghi e con maggior pienezza nei fatti. Al 1175 cessa il lavoro suo che fu continuato fino al 1269 da Michele De Vico canonico pisano del secolo decimoquarto. Il Marangone è scrittore rozzo ma chiaro, e la latinità sua è piena anch'essa di forme e di parole italiane. Annalista, quanto alla sostanza, bene informato e sincero, egli ci lasciò notizie che non sapremmo senza di lui, e che attinse a fonti oggimai perdute. Ha pregio specialmente per la storia delle relazioni di Pisa coll'Impero e coi Papi, con Genova, e colla rimanente Toscana di cui la storia appunto in quei tempi veniva in gran luce pel salire della importanza politica di Firenze, e per quel maraviglioso sorgere d'arti e di lettere destinato a stampare un segno così profondo nella storia della civiltà[175].
[296]
Infatti verso quel tempo i cronisti cominciarono a fiorire in ogni città di Toscana, utilissimi illustratori della storia d'Italia dal secolo dodicesimo al decimoquinto. Lucca, Siena e Pistoia principalmente ebbero cronisti pregevoli tra i quali gioverà menzionare, per Lucca gli Annali (A. D. 1061-1394) di quel Tolomeo da Lucca che abbiam veduto autore di una storia ecclesiastica, la vita di Castruccio di Nicola Tegrimo (A. D. 1301-1328), e la cronaca di Giovanni Sercambi (A. D. 1400-1409). Per Siena, a non dir d'altri posteriori, vogliano citarsi la Cronica di Andrea Dei continuata da Angelo Tura (A. D. 1186-1352) e gli Annali di Neri Donati (A. D. 1352-1381), e per Pistoia le Istorie Pistolesi (A. D. 1300-1348) dettate in italiano. E in italiano furono scritte varie di queste cronache menzionate ed altre di cui si tace; non piccolo merito ancor esso, sì perché aiutavano lo svilupparsi della lingua, e perché gli autori, scrivendo come parlavano, non avevano impaccio che rallentasse il pensiero loro, e l'esprimevano tutto quanto vivace e vero come scintillava ad essi nella mente.
[297]
Sopra la rimanente Toscana, dopo il dodicesimo secolo, torreggia Firenze, dagli umili e mal noti principî salita rapidamente al primato, e fatta insigne dalle cresciute ricchezze, dalle arti e dalla letteratura. Popolo pieno d'ingegno ed attivo, il più simile all'antico ateniese di quanti ne conosce la storia moderna, per natura vivace arguto riottoso discorde, i Fiorentini quasi d'istinto si formarono ad una mirabile democrazia ricca di tutti i pregi democratici e di tutti i difetti. Il sentimento individuale forte in tutti gl'Italiani si mostrò fortissimo in Firenze e creò miracoli di virtù e di colpe. Da un lato, gare d'ufficî e nimistà private suscitavan feroci le lotte delle parti, ghibellina e guelfa dapprima, e poi, quando il partito guelfo e democratico prevalse, di quelle dei Guelfi Bianchi e Guelfi Neri: lotte tra famiglie e famiglie, tra nobiltà e popolo, insofferenti gli uni degli altri. Dall'altro lato, un fiorir di commerci, di ricchezze, d'industrie, e le corporazioni degli artieri così saldamente costituirsi da divenir base allo Stato e curvare la nobiltà costringendola per entrar negli uffici d'ascriversi ad essa, e Dante fa esempio. La lingua formarsi, e le lettere e l'arti spiccare un volo non tentato prima nelle età moderne nè mai superato in appresso. È sentenza perpetua di Dio, che solo un popolo il quale senta in ogni cosa con forza possa esser grande in ogni cosa, e non v'era bellezza, di cui non s'innamorassero quegli animi così fieri e appassionati; nè, tra le guerre fratricide e le uccisioni e gli esilî, v'era altezza di pensiero a cui non giungessero, o gentilezza [298] d'affetto che non capisse in loro. Una fraterna simpatia legava tra loro quasi misticamente quei grandi artisti che sorgevano a rinnovar di bellezza i regni del pensiero, e quasi inavvertitamente e per istinto si legavano a Dante giovine allora e pensoso di versi e d'amore. E mentre egli dettava la Vita Nuova, Casella musicava la sua canzone Amor che nella mente mi ragiona, e Giotto lo dipingeva bello di sentimento e di dolcezza, e Guido Cavalcanti e Lapo Gianni e Cino da Pistoia gli scrivevano versi ed egli a loro. Erano nella primavera dei loro pensieri e mettevan fiori; ma presto l'arduo fiotto delle ire civili travolse Dante, e lo gettò a maturar l'anima grande tra i dolori dell'esilio. Vagando da paese a paese, l'immortal profugo guardò nel segreto degli uomini e delle cose, imparò una ad una le virtù, le colpe, le sventure d'Italia; e nel comporre il poema sacro a cui posero mano e cielo e terra, scolpì in esso la storia d'Italia, e in verità gettò le basi alla storia di tutto il medio evo. Non è di questo libro trattare il valore storico del poema di Dante, ma giovi aver qui evocata la immagine sua, e che la santa figura attraversi queste pagine come una fulgente visione di luce[176].
[299]
Le origini di Firenze son buie. Fondata, per quanto pare, due secoli prima di Cristo e rifondata da Augusto, la sua storia fino al secolo undecimo non ha quasi altra base che le note e favolose leggende di Troia, di Catilina e di Totila, popolari a Firenze[177]. Intorno a queste leggende spaziò la fantasia de' suoi cronisti, e finora non si ricavò quasi nulla che non sia congettura dalle più antiche memorie che possono descriversi in breve. Le Gesta Florentinorum del Sanzanome partendo dalle origini incominciano a uscir del vago intorno al 1125 colla unione di Fiesole a Firenze, e ci mostrano quest'ultima già bene avviata nel corso della prosperità sua materiale e intellettuale fino al 1231. La Chronica de origine civitatis sembra essere una compilazione di varie mani e di varî tempi, nella quale sono venute agglomerandosi le varie leggende delle origini. Gli Annales Florentini primi (A. D. 1110-1173) e gli Annales Florentini secundi (A. D. 1107-1247), un elenco dei Consoli e dei Podestà di Firenze dal 1197 al 1267, ed un'altra cronaca, che si soleva attribuire a Brunetto Latini, completano la raccolta delle prime memorie di Firenze. Alle quali è da aggiungere un gruppo di notizie che verso il secolo decimoterzo si venne formando e trasformando in varî codici, e fu adoperato nelle varie sue forme dagli antichi scrittori Fiorentini e Toscani, e citato da essi col nome generico di [300] Gesta Florentinorum. «Opera,» come congettura sagacemente Cesare Paoli «di compilazione e ricompilazione continua, molteplice, anonima, universale; non opera veramente letteraria ma fondamento d'una letteratura storica splendidissima, quale fu la fiorentina del secolo decimoquarto.»[178]
Finora questa letteratura facevasi risalire di qualche tempo più in alto e incominciar dalla cronaca che va sotto il nome di Ricordano e Giacotto Malispini, vissuti nella seconda metà del secolo decimoterzo, e delle cui persone si sa poco ed incerto. Era questa considerata come la più antica cronaca scritta in volgare dopoché i Diurnali di Matteo Spinelli furono dichiarati apocrifi. Ma pur contro essa ora si accampano taluni eruditi e la combattono con gran vigor di ragioni, talché par difficile che possa difendersene l'autenticità malgrado alcune serie obbiezioni mosse da chi la sostiene. Certo oramai tutti ammettono che s'anco la cronaca nella sostanza è autentica, essa deve [301] essere pervenuta a noi sformata oltremodo e diversa dalla primitiva lezione. Finora ad un giudizio definitivo manca una base ferma, e non si può andare oltre le ipotesi tra le quali ci sembra probabile quella del professor Paoli che questa cronaca sia un raffazzonamento di più antiche memorie sconosciute a noi e da cui avrebbero attinto parecchi cronisti senza citarle o con citazioni mal certe. Così come ci rimane, la cronaca Malispiniana è libro molto attraente; muove dalle leggende delle origini e discende fino ai secoli dodicesimo e tredicesimo in cui narra per disteso la storia di Firenze. Ha forme antiche di stile ed arcaismi di lingua che la fanno scrittura assai pittoresca e coloriscono le abbondanti notizie e i molti fatti ed episodi che si ritrovano poi quasi tutti ripetuti nella grande cronaca del Villani, accusato finora d'aver copiato e rifusa nella sua l'opera dei così detti Malispini mentre ora parrebbe che essi abbiano, almeno indirettamente, attinto a lui. Ma innanzi d'affermar nulla è necessario aspettare il risultato di nuove indagini condotte sui manoscritti e di più profondi studî di critica, e ad ogni modo, se anche potesse venir dichiarata in tutto o in parte apocrifa, alcuni pregi letterari vieteranno che questa cronaca sia cancellata interamente dalla letteratura italiana[179].
[302]
Dagli ardori della vita pubblica fiorentina, derivò la Cronaca di Dino Compagni, una delle più care gemme che vanti la lingua italiana[180]. Nato verso il 1260 d'antica famiglia popolana, l'autor della Cronaca, giovine ancora si trovò come Dante partecipe alle vicende della città quando per Firenze s'apriva un periodo agitato di lotte civili, e la costituzione sua popolare volgeva a forme sempre più democratiche. La città divisa per la nimicizia d'alcune potenti famiglie, il popolo in lotta vittoriosa colla nobiltà, fiero contr'essa e tendente ad opprimerne la prepotenza con rigore prepotente di leggi. Il guelfismo [303] prevalente, poiché ebbe sconfitti i Ghibellini d'Arezzo e quei di tutta Toscana con essi alla battaglia di Campaldino (A. D. 1289), si veniva lacerando rabbiosamente da sé, diviso come abbiam detto, in Guelfi Bianchi e in Guelfi Neri, i primi colla famiglia dei Cerchi, con quella dei Donati i secondi. A questi si piegava favorevole Bonifazio VIII che della parte bianca adombravasi perché non gli pareva staccata abbastanza dai Ghibellini. Perciò il Papa mandava a Firenze i suoi legati a spalleggiare i Neri, e più tardi chiamava sovr'essa le armi di Carlo di Valois, principe avventuriero, povero e affamato di ricchezze e d'onori, la cui dimora in Italia fu tutta una vergogna e non recò altro frutto che di discordie. Pochi anni innanzi, il popolo di Firenze guidato da un generoso tribuno, Giano della Bella, aveva stabilita co' suoi Ordinamenti di Giustizia una delle più fiere costituzioni democratiche che potessero immaginarsi. Poi Giano andava bandito in esilio, sopraffatto da molte invidie di potenti e da un altro e ben tristo tribuno, il beccaio Pecora che s'era fatto innanzi adulando le male passioni della plebe e facendone pro. Contro gli Ordinamenti di Giustizia tramava intanto Corso Donati, il Catilina di Firenze, il quale messosi a capo dei Neri si sforzava di rendersi superiore alla legge e di scuotere il giogo a cui i popolani avevan curvata la nobiltà. Per la venuta di Carlo di Valois, Corso Donati e i Neri eran saliti in forza e se ne giovarono alla oppressione dell'altro partito, onde la dimora in Firenze di quel Francese venuto con titolo di Paciere, servì solo a sbrigliar le male passioni e a insozzar [304] la città e i sobborghi d'omicidî, di saccheggi e violenze d'ogni maniera. Poi il Valese lasciava Firenze alle sue desolazioni. Bonifazio VIII indi a poco, patito l'insulto d'Anagni, moriva, Corso Donati era ucciso, ma sempre duravano le discordie e il contrastare indomato. Intanto molti dei Bianchi che erano stati banditi dalla patria, e Dante tra essi, per necessità di casi e similtà di nemici si venivano accostando ai Ghibellini, e più vi s'accostarono quando splendette anche a Toscana quel raggio di speranza che illuminò un momento l'affaticata Italia. Arrigo di Lussemburgo scendendo a coronarsi imperatore, pareva invece dello scettro recar nella mano il ramuscello dell'ulivo. Era un sogno desideroso di stanche anime affannate di pace, e già abbiam veduto a Padova il guelfo Mussato inneggiare ad Arrigo e celebrarne le gesta. Però le discordie non si assopivano, e quando Arrigo mosse per la Toscana, i Ghibellini di quelle parti esultarono e nei Guelfi Bianchi si ravvivò la speranza del rialzarsi. Ma i Neri di Firenze non s'impaurirono, e strettisi agli Angioini di Napoli si mostrarono apertamente ostili ad Arrigo a cui la morte non die' tempo di continuar nel contrasto. Con lui cadde ogni forza alla parte bianca e la speranza di mai più prevalere.
A tutti questi avvenimenti aveva assistito e partecipato in Firenze Dino Compagni che fu, tra il 1282 e il 1301, più volte Priore nel governo della città e nel 1293 Gonfaloniere di Giustizia. Anima intemerata, cuor mite e sincero, mente diritta e semplice, tentò fra le turbolenze della patria di richiamar gli [305] animi verso la pace, e prodigò vanamente a quel santo scopo le forze della eloquenza sua fervidissima e dell'onesto volere. L'indole temperata lo accostò ai Bianchi e quando la parte sua cadde, egli costretto a cessare dalla vita pubblica e sospiroso sui mali della patria, si restrinse all'arte sua di setaiuolo e cercò conforto nelle lettere di cui già prima aveva dato qualche saggio in alcune liriche e, per quanto pare, in un poema che ha per titolo la Intelligenza. Coll'anima piena delle impressioni delle cose vedute e dell'affetto doloroso che portava alla patria, ei si sentì tratto a scrivere i fatti a cui s'era trovato: «Le ricordanze dell'antiche istorie,» egli dice «lungamente hanno stimolata la mente mia di scrivere i pericolosi avvenimenti non prosperevoli i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, e specialmente nel tempo del giubileo dell'anno 1300. Io scusandomi a me medesimo siccome insufficiente, credendo che altri scrivesse, ho cessato di scrivere molti anni; tanto che moltiplicati i pericoli e gli aspetti notevoli sì che non sono da tacere, proposi di scrivere a utilità di coloro che saranno eredi de' prosperevoli anni, acciò che riconoscano i beneficî da Dio, il quale per tutti i tempi regge e governa.
«Quando io incominciai, proposi di scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udii, però che furon cose notevoli, le quali ne' loro principî nullo le vide certamente come io: e quelle che chiaramente non vidi, proposi di scrivere secondo udienza; e perché molti secondo le loro volontà corrotte trascorrono [306] nel dire e corrompono il vero, proposi di scrivere secondo la maggior fama.»
Narrato così la ispirazione e il concetto del suo lavoro e descritte con vivida brevità la città di Firenze e le origini di sue discordie civili, egli entra propriamente nella sua storia che dal 1280 al 1312 abbraccia tutti gli eventi ai quali siam venuti accennando. In quella storia egli vive e respira, e si agita in essa per modo che non sapremmo trovar fra i moderni uno scrittore di storia che gli si agguagli per la potenza ch'egli ha di scaldare il petto di chi lo legge con tutto il fuoco che scaldava il suo petto. Tra gli antichi l'han paragonato di preferenza a Tucidide e a Sallustio, e forse somiglia più al primo per lo spontaneo candore che manca al secondo a cui pure s'accosta Dino per una certa esteriorità dello stile pittoresco e nervoso. Nella Cronaca di Dino è tutta l'anima dell'autore quale essa fu, consacrata alla patria e piena di sdegni virtuosi e d'amore per essa. L'amor patrio infatti è la passione che muove sempre l'anima di Dino o ch'egli narri imprese di virtù e se ne esalti, o ch'egli giudichi severo e bolli d'infamia quei tristi che distruggevano la patria per passioni private o di parte, imprecando ad essi come in questa apostrofe: «Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie. Palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti; non penate più; andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de' vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello amore, nieghi l'uno [307] all'altro aiuto e servigio. Seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granai de' vostri figliuoli. Fate come fe' Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso fece in dieci anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una. Guardate a' vostri antichi, se ricevettono merito nelle loro discordie: barattate gli onori che eglino acquistorono. Non vi indugiate, miseri: che più si consuma in un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace, e picciola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.»
L'indole mite e schietta di Dino male adattavasi alla età turbolenta in cui visse. Tra l'agitarsi di tante passioni, se come uom di Stato ei rimaneva sempre nel giusto e accordava gli atti alla purità delle intenzioni, non sempre nell'ingenuo candor di sua mente trovava rimedî efficaci a prevenir le discordie o a reprimerle. E ciò sente egli stesso, e quando ripensa il passato e lo giudica nella sua narrazione, da sé riconosce gli errori proprî e dei suoi colleghi e li confessa, e com'è giusto dispensiero di lode e di biasimo a tutti, così non rifugge dal chiamarsi in colpa. Non è la persona sua ch'egli vede ma i fatti che l'hanno mossa, e questo rende bello il seguirlo dov'egli parla di sé e rivela nella semplicità sua la magnanima indole del suo carattere e la serena imparzialità del giudizio. Niuno episodio più commovente che quello narrato da lui, di ciò ch'ei fece essendo Priore quando Carlo di Valois stava per entrare in Firenze. Paventando le discordie civili in faccia d'uno straniero, egli [308] ascolta la voce del cuore, e parendogli che debba parlar potente in ciascuno dinnanzi alla carità della patria, con fiducia ingenua e sublime la invoca dai suoi concittadini:
«Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero imaginando: ‘Questo signore verrà e tutti i cittadini troverà divisi; di che grande scandalo ne seguirà.’ Pensai, per lo uficio ch'io tenea e per la buona volontà che io sentia ne' miei compagni, di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così feci. Dove furono tutti gli ufici; e quando mi parve tempo, dissi: ‘Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendeste il sacro battesimo di questa fonte, la ragione vi sforza e stringe ad amarvi come cari fratelli, e ancora perché possedete la più nobile città del mondo. Tra voi è nato alcuno sdegno, per gara d'uficii, li quali, come voi sapete, i miei compagni e io con saramento v'abbiamo promesso d'accomunarli. Questo signore viene, e conviensi onorare. Levate via i vostri sdegni, e fate pace tra voi, acciò che non vi trovi divisi: levate tutte l'offese e ree volontà state tra voi di qui adietro; siano perdonate e dimesse, per amore e bene della vostra città. E sopra a questo sacrato fonte, onde traesti il santo battesimo, giurate tra voi buona e perfetta pace, acciò che il signore che viene trovi i cittadini tutti uniti.’ A queste parole tutti s'accordorono, e così feciono, toccando il libro corporalmente, e giurorono attenere buona pace e di conservare gli onori e giuridizion [309] della città. E così fatto, ci partimmo di quel luogo.
«I malvagi cittadini che di tenerezza mostravano lagrime, e baciavano il libro, e che mostrarono più acceso animo, furono principali alla distruzion della città. De' quali non dirò il nome per onestà: ma non posso tacere il nome del primo, perché fu cagione di fare seguitare agli altri, il quale fu il Rosso dello Stroza; furioso nella vista e nelle opere; principio degli altri; il quale poco poi portò il peso del saramento.
«Quelli che aveano maltalento, diceano che la caritevole pace era trovata per inganno. Se nelle parole ebbe alcuna fraude, io ne debbo patire le pene; benché di buona intenzione ingiurioso merito non si debba ricevere. Di quel saramento molte lagrime ho sparte, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia.» «Pietosissime parole» esclama il Tosti riferendole in un suo libro[181] «ed oh fossero nelle italiane menti scolpite!» Ma le pietose parole che infiammavano dopo sei secoli il santo e patriottico petto del monaco cassinese non bastavano tra quei torbidi casi, e forse, come Dino stesso lamenta un'altra volta di non aver fatto, sarebbe stato meglio arrotare i ferri. La concordia delle parti era in cima dei suoi pensieri, ed egli sperava di ottenerla con la mitezza delle persuasioni come ci è mostrato da un altro episodio che non è meno degno di memoria [310] nè men bella pittura dei tempi e degli sforzi che pure si venivano facendo per tornare alla pace la travagliata città. «I Signori erano molto stimolati dai maggiori cittadini, che facessono nuovi Signori. Benché contro alla legge della giustizia fusse, perché non era il tempo da eleggerli, accordammoci di chiamarli più per pietà della città che per altra cagione. E nella cappella di San Bernardo fui io, in nome di tutto l'uficio, e ebbivi molti popolani, i più potenti, perché sanza loro fare non si potea. Ciò furono Cione Malagotti, Segna Angiolini, Noffo Guidi, per parte Nera: messer Lapo Falconieri, Cece Canigiani e 'l Corazza Ubaldini, per parte Bianca. E a loro umilmente parlai con gran tenerezza, dello scampo della città, dicendo: ‘Io voglio fare l'uficio comune, da poi che per gara degli uficî è tanta discordia.’ Fummo d'accordo, e eleggemmo sei cittadini comuni, tre de' Neri e tre de' Bianchi. Il settimo, che dividere non si potea, eleggemmo di sì poco valore che niuno ne dubitava. I quali, scritti, posi in su l'altare. E Noffo Guidi parlò e disse: ‘Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino.’ E io li dissi che tacesse; e pur parlò, e fu di tanta arroganza, che mi domandò che mi piacesse far la loro parte, nell'ufficio, maggiore che l'altra: che tanto fu a dire, quanto ‘disfà l'altra parte,’ e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi, che innanzi io facessi tanto tradimento, darei i miei figliuoli a mangiare a' cani. E così da collegio ci partimmo.»
Così, senza saperlo, dipinge tutto sé stesso quest'uomo, il quale col cader di sua parte, lasciata la [311] cosa pubblica, continuò come s'è detto tra la mercatura e le lettere una vita forse per necessità oscura, di cui non riman quasi traccia fino all'anno 1324 che fu l'ultimo suo[182]. Storico mirabile e uom giusto e buono, degno contemporaneo e concittadino di Dante a cui, più d'ogni altro scrittore della età sua, rassomiglia per l'ardore grande degli affetti, per l'indole piena d'amore e di sdegno, per la singolare attitudine di guardar le cose dall'alto, di giudicare conciso degli uomini e di scolpirne con una frase il ritratto. Di lui molti scrittori han parlato, e con molto sapere, tra gli altri, il nobile storico di Firenze, Gino Capponi, che ne fa memoria così: «Dino Compagni buon uomo e un po' corto nei suoi politici pensamenti, ma caldo fautore del buono e del retto, era impossibile che scrivesse con la pazienza d'un erudito o con l'accuratezza di uno stenografo, che a volte non basta. Compagno allegro dei primi fondatori d'un governo popolare, devoto a chi aveva saziato le ire contro ai nobili, poi male contento dei nuovi uomini e delle plebi salite in iscanno; guelfo ma per l'amore dell'ordine pronto ad accogliere un Imperatore, da ultimo impaurito di questo stesso imperatore, a cui gli pareva che si facesse una pazza [312] e inutile guerra; onesto in ciascuno di questi concetti, ma in tutti accorgendosi avere sbagliato; immaginoso e appassionato e sempre rigido moralista: è un chiedergli troppo pretendere ch'egli desse alla storia l'esattezza d'un registro minuto e impassibile.... La sua Storia è tutta composta sopra una serie d'impressioni di cui l'evidenza, la vivacità, la forza sono argomenti della sincerità: lo scrittore nel raffigurare sé medesimo dipinge il suo tempo; e in questo appunto consiste il pregio di Dino Compagni, che ha pochi uguali per questo rispetto.... Ai prosatori del dugento sovrasta molto con quella sua Cronaca il fiorentino Dino Compagni: l'Alighieri tiranneggia col fiero ingegno la lingua, alzandola come una bella prigioniera fino agli amplessi del sire; Dino, che ha tanto viva ed efficace la parola, non riesce però a nascondere un qualche sforzo nella composizione; sinceramente appassionato, ma pure ambizioso di dare al racconto la forma di storia secondo forse poté averne l'esempio in Sallustio. In quanto all'arguta speditezza dello stile si lascia il Compagni addietro il Villani, che tanto lo supera per la universalità dell'argomento e nella scienza dei fatti.»[183]
[313]
Nei tempi di Dino ma d'alquanti anni più giovane, nasceva in Firenze il grande cronista Giovanni Villani il quale, secondo le tradizioni di sua famiglia, addettosi alla mercatura la esercitò in patria e fuori. Nei primi anni del secolo decimoquarto viaggiò a Roma, in Francia e nei Paesi Bassi, dove vide e notò molto d'uomini e di cose. Tornato in patria, incominciò a consacrarsi alla cosa pubblica verso il tempo in cui Dino se ne staccava, quando alle turbolente agitazioni che Dino descrisse, succedeva un periodo di calma relativa. Negli anni 1316 e 1317 fu dell'ufficio dei Priori ed ebbe parte negli astuti maneggi dei Fiorentini per concluder pace coi Pisani e i Lucchesi. Anche nel 1317 fu Uffiziale della Moneta, e amministrando le cose della zecca, ne raccolse studiosamente le memorie componendo in gran parte egli stesso un registro delle monete coniate in Firenze fino al suo tempo. Priore nuovamente nel 1321, presiedette alla riedificazione delle mura di Firenze con zelo grande e mal ripagato, perché poi l'opera sua fu soggetta ad accuse di cui però si disciolse provando la innocenza sua. Più tardi fe' parte dell'esercito mosso dai Fiorentini contro Castruccio degl'Interminelli e sconfitto da lui ad Altopascio. In una [314] dolorosa carestia che travagliò molte provincie d'Italia nel 1328, egli s'adoperò con l'usata attività sua a lenirne i danni entro Firenze, e de' provvedimenti che furon fatti lasciò memoria in un capitolo della sua cronaca che è monumento di quella sapienza economica per la quale i Fiorentini del medio evo, antivenendo i tempi, s'accostarono spesso nella pratica alle teorie degli economisti moderni. Due anni dopo presiedette alla fattura delle porte di metallo di San Giovanni «molto belle e di maravigliosa opera e costo, e furono formate in cera e poi pulire e dorare le figure per uno maestro Andrea Pisano, e gittate furono a fuoco di fornello per maestri viniziani.» Nel 1341 fu ostaggio di guerra a Mastino della Scala in Ferrara, e quivi insiem cogli altri ostaggi rimase alquanti mesi trattato a grande onore e con grande amorevolezza. Tornato a Firenze, vide tra le ulteriori vicende della patria, e la descrisse vivamente, la breve usurpazione e la cacciata del Duca d'Atene. Travolto senza colpa in un grande fallimento della Compagnia de' Bonaccorsi (1345) fu sostenuto qualche tempo in prigione. Morì nel 1348 vittima della gran peste, famosa per la dipintura che ne ha fatto il Boccaccio.
L'anno 1300 pel solenne Giubileo bandito da Bonifazio VIII, Roma accolse tra le sue mura uno sterminato numero di fedeli accorsi d'ogni parte della cristianità in pellegrinaggio a venerar le tombe degli Apostoli. Colà mosse fra gli altri pellegrini il Villani, e mentre s'aggirava per la maravigliosa città, lo attrasse il fascino suo misterioso, e innanzi alla maestosa [315] solitudine delle sue rovine risalendo con la mente al passato sentì il core infiammarglisi nelle antiche memorie. E mentre a Dante che s'aggirava anch'egli per le vie di Roma in quell'anno, tumultuava indistinto nell'anima il grande concetto del suo poema, allo spirito sagace e osservatore del mercante fiorentino si rivelava la sua potenza di storico[184]. «Negli anni di Cristo 1300, secondo la nativitade di Cristo, con ciò fosse cosa che si dicesse per molti, che per addietro ogni centesimo d'anni dalla natività di Cristo, il papa ch'era in que' tempi, facea grande indulgenza, papa Bonifazio ottavo che allora era apostolico, nel detto anno a reverenza della natività di Cristo fece somma e grande indulgenza in questo modo: che qualunque Romano visitasse infra tutto il detto anno, continuando trenta dì, le chiese de' beati apostoli santo Pietro e santo Paolo, e per quindici dì l'altra universale gente che non fossono Romani, a tutti fece piena e intera perdonanza di tutti i suoi peccati, essendo confesso o si confessasse di colpa e di pena. E per consolazione dei cristiani pellegrini, ogni venerdì o dì solenne di festa, si mostrava in San Pietro la Veronica del sudario di Cristo. Per la qual cosa gran parte dei cristiani che allora viveano, feciono il detto pellegrinaggio, [316] così femmine come uomini, di lontani e diversi paesi, e di lungi e dappresso. E fu la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l'anno durante, avea in Roma oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini sanza quegli ch'erano per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vittuaglia giustamente, così i cavalli come le persone, e con molta pazienza e sanza romori o zuffe: ed io il posso testimoniare, che vi fui presente e vidi. E dell'offerta fatta per gli pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e' Romani per le loro derrate furono tutti ricchi. E trovandomi io in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma, veggendo le grandi e antiche cose di quella, e leggendo le storie e' grandi fatti de' Romani scritti per Virgilio e per Sallustio e Lucano e Tito Livio e Valerio e Paolo Orosio e altri maestri d'istorie, li quali così le piccole cose come le grandi, delle geste e fatti de' Romani scrissono, e eziandio degli strani dell'universo mondo, per dare memoria e esemplo a quelli che sono a venire, presi lo stile e forma da loro, tutto sì come discepolo non fossi degno a tanta opera fare. Ma considerando che la nostra città di Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare e a seguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare, mi parve convenevole di recare in questo volume e nuova cronaca tutti i fatti e cominciamenti della città di Firenze, in quanto m'è stato possibile a ricogliere e ritrovare, e seguire per innanzi stesamente i fatti de' Fiorentini e dell'altre [317] notabili cose dell'universo in breve, infino che fia piacere di Dio, alla cui speranza per la sua grazia feci la detta impresa, più che per la mia povera scienza; e così negli anni 1300 tornato da Roma, cominciai a compilare questo libro, a reverenza di Dio e del beato Giovanni, e commendazione della nostra città di Firenze.»[185]
L'opera incominciata dal Villani nel 1300 risalisce ai tempi biblici e scende al 1346. Nè solo il concetto del suo lavoro era vasto pel profondarsi ch'ei fece nel buio delle età lontane, e pel raccogliere dei pochi fatti noti e delle molte leggende tra le quali si nasconde il primo sorgere di Firenze. La vasta universalità del suo racconto, massime pei tempi che gli sono vicini, mentre attesta i viaggi dell'autore e la mente sua comprensiva, ti fa quasi sentire la romana ispirazione del libro. La cronaca del Villani è cronaca universale e spazia per tutta Europa. Dino Compagni sente i fatti della sua storia e vive in essi, il Villani li guarda e li narra quasi estraneo ad essi pur quando vi è in mezzo o ne è autore egli stesso. Pregevolissimo per la storia italiana del secolo decimoquarto, egli è come la pietra angolare alla storia medioevale di Firenze di cui rianda e aggruppa le tradizioni, e raccogliendo ogni cosa che sa, tutto con più o meno d'ordine racconta dei tempi passati e dei presenti. Di questi è conoscitore grandissimo. Mescolato agli affari pubblici, educato alla vita intellettuale e alla vita economica della sua città [318] quando essa primeggiava per entrambe in Europa, egli dipinge le cose vedute e udite con quella evidenza che è spontanea in una mente chiara e avvezza agli affari e alla osservazione degli uomini. È guelfo ma una certa serenità si diffonde in tutto il suo libro che assai più si rivolge a considerare le ragioni dell'utile e del vero che quelle delle fazioni. Cronista veramente e non istorico, le cose che gli sono lontane di tempo o di luogo riferisce spesso come le ha apprese, senza vagliarle, e spesso cade in qualche inesattezza, ma tutti questi difetti ei compensa largamente con pregi davvero grandissimi. Narratore di una storia della quale ha veduto svolgerglisi innanzi una parte notevole per mezzo secolo, egli sulla costituzione di Firenze, sui costumi, sulle industrie e i commerci e le arti sparge notizie in gran copia, e pel valore dei dati statistici ch'egli ha serbati non ha forse l'uguale tra i cronisti di tutta l'Europa. Giovanni Villani è meno profondo scrittore che arguto e chiaro, e se la sua prosa non è robusta nè colorita come quella del Compagni, è però semplice e spedita, e nel suo insieme egli è indubbiamente senza paragone il più grande tra quanti cronisti hanno scritto in lingua italiana. È maraviglia che del suo libro manchi ancora all'Italia una perfetta edizione, ma si può ormai sperare che tra i molti e dotti ricercatori di storia che vanta Firenze presto si trovi chi voglia accingersi all'arduo lavoro e sappia condurlo a compimento.
Il filo del racconto che s'era spezzato per la morte di Giovanni, fu riallacciato da suo fratello Matteo che [319] condusse la cronaca fino al 1363 quando, colpito anch'egli di peste, morì lasciando a suo figlio Filippo la cura di continuare il libro fino al 1364. Pur seguendo lodevolmente le orme di Giovanni, Matteo gli rimane per alcuni rispetti indietro, ma nondimeno mostra talora un più largo e profondo intendimento delle ragioni dei fatti e una maggior robustezza di pensiero. Di lui si sa assai poco. Meglio nota è la vita di Filippo che fu più anni cancelliere del Comune di Perugia, uomo di dottrina e di lettere, nel 1401 e nel 1404 eletto a spiegar pubblicamente la Divina Commedia nello Studio Fiorentino, e autor celebrato d'una raccolta di vite di Fiorentini illustri. Più letterato del padre e dello zio, egli è cronista inferiore ad entrambi.
Come in altre parti d'Italia così in Firenze non mancano per l'età seguente a quella dei Villani altri cronisti e alcuni d'essi eccellenti. Marchionne Stefani, Piero Minerbetti, il Boninsegni, Giovanni Morelli, il Velluti, il Pitti ed altri, sono tutti cronisti pregevoli e s'avvantaggiano sugli altri d'Italia pel facile uso della lingua materna. Forse superiore a tutti, Gino Capponi scrisse una eccellente narrazione del tumulto dei Ciompi (A. D. 1378) e anche, seppur non è autore di esso suo figlio Neri, un Commentario sull'acquisto di Pisa (A. D. 1402-1406). Ma coi Villani può dirsi che la serie dei cronisti medioevali sia chiusa. Dopo loro sorge la storia, non sempre sostanziosa, e nella forma spesso imitatrice troppo ossequente dei modelli antichi, durante il movimento umanistico del Quattrocento, ma pel secolo seguente, meditabonda acuta [320] vigorosa nelle pagine non ancor superate del Machiavelli e del Guicciardini. I quali con intelletto e cuore diverso s'affacciarono entrambi all'età moderna mentre la patria loro moriva, e meditando sulle cagioni di quel morire, aprirono nuovi spazî al volo del pensiero umano. Ma la vigoria dei loro intelletti s'appoggia al passato, e le loro storie traggono molto succo vitale da quelle umili e robuste cronache che congiungono l'antichità ai nostri tempi moderni, e che raccolgono per quasi dieci secoli la storia di uno tra i più travagliosi sforzi che l'umanità abbia compiuto nel suo cammino.
[321]
1. La Society for Promoting Christian Knowledge.
2. Nel pubblicare una nuova edizione di questo libro ho ben poco da aggiungere a quanto e scritto qui sopra. Mi è parso bene di mantenere al libro il carattere che gli diedi quando prima lo scrissi, ma i molti studi critici sui nostri cronisti, e le nuove edizioni dei testi che han veduto la luce da quel tempo, mi hanno obbligato ad una lunga e minuta revisione di tutto il lavoro, e a modificare, dove era necessario, giudizî e asserzioni a seconda dei risultati nuovi raggiunti dalla critica nel suo andamento progressivo. Sempre cercando di non ingombrare il libro con note superflue, ho però abbondato alquanto più di prima nelle citazioni, quando mi è sembrato che il farlo potesse riuscire di qualche utilità agli studiosi. Ai molti amici che mi hanno aiutato con utili indicazioni esprimo qui la mia gratitudine, e in particolare al conte Nigra e ai professori Isidoro Del Lungo e Cesare Paoli, che mi furono larghi di notizie nuove e di osservazioni opportune.
Roma, 24 aprile 1900.
3. «How carefully the Moeso-Gothic language was considered and prepared for the expression of Scripture, becomes manifest to the philological student, when he examines those precious relics of the fourth century which bear the name of Ulphilas. Here we often meet the very words with which we are so familiar in our English Bible, but linked together by a flexional structure that finds no parallel short of Sanscrit. This is the oldest book we can go back to, as written in a language like our own. It has therefore a national interest for us; but apart from this it has a nobility and grandeur all its own, as it is one of the finest specimens of ancient language.» John Earle, The philology of the English tongue. Oxford, Clarendon Press, 1873. Oltre la traduzione di Ulfila avanzano alcuni altri frammenti in lingua gotica dopo la quale vien l'anglosassone per antichità di reliquie scritte, che però non risalgono di là dal secolo settimo.
4. Squillacium prima urbs Bruttiouem.... cuius laesiones cogimur plus dolere, dum patriotica nos probatur affectione contingere.
5. Prima del nostro tre Cassiodori fiorirono e presero parte con onore agli avvenimenti occorsi in Italia ai loro tempi, il bisavolo che difese la costa di Sicilia ed i Bruzzii dalle invasioni vandaliche; l'avo, Tribuno e Notaio sotto Valentiniano III, amico ad Ezio che andò ambasciatore ad Attila; il padre che servì Odoacre come Comes Privatorum Rerum, e Comes Sacrarum Largitionum, e poscia entrato ai servizi di Teodorico salì all'ufficio di Prefetto del Pretorio e all'onore del Patriziato. Si è molto discusso intorno al nome di Cassiodoro. Diversi eruditi, per lo più tedeschi, preferiscono la forma Cassiodorio, ma io inclino con Tommaso Hodgkin e per le ragioni indicate da lui alla forma comunemente in uso. Anche il Mommsen il quale parve per qualche tempo dell'altro avviso, è tornato alla forma Cassiodoro nella sua edizione delle Variae. V. Hodgkin, The Letters of Cassiodorus, London, Frowde, 1886, pag. 5. I migliori e più recenti studi su Cassiodoro pongono approssimativamente la data della sua nascita tra il 477 e il 481.
6. Cassiodorus Senator.... invenis adeo, dum patris Cassiodori patricii et praefecti praetorii consiliarius fieret et laudes Theodorichi regis Gothorum facundissime recitasset, ab eo quaestor est factus. Anecdoton Holderi, ap. Usener, pag. 4.
7. Intorno a questa severità di giudizio, T. Hodgkin (Op. cit., pag. 29) osserva argutamente: «When he [Mommsen] makes this unfortunate chronicle reflect suspicion on the other works of Cassiodorus and especially on the Gothic History, the german scholar seems to me to chastise the busy Minister more harshly than he deserves.» Questa cronaca è stata ripubblicata recentemente dal Mommsen tra le Chronica Minora in Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum, t. XI.
8. Originem gothicam historiam fecit esse romanam.
9. Variarum, IX, 25.
10. Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter, I, 70. Berlino, 1893-1894. Di questa opera magistrale mi sono giovato molto in queste prime pagine, e avrò frequente occasione di giovarmi in seguito.
11. «Vidit intrepidus quem timebat Imperium: facies illas terribiles et minaces fretus veritate despexit, nec dubitavit eius altercationibus obviare qui furore nescio quo raptatus mundi dominatum videbatur expetere. Invenit regem superbum sed reliquit placatum.... Erigebat constantia sua partes timentes, nec imbelles sunt crediti qui Legatis talibus videbantur armari. Pacem retulit desperatam.» Variarum, I, 4.
12. Variarum, I, 27.
13. Variarum, III, 13.
14. «.... nostra fecisti eximia tempora praedicari. Ornasti de conscientiae integritate palatia, dedisti populis altam quietem.» Variarum, III, 23. Un bell'esempio di tolleranza antica trovasi in queste parole di una lettera motivata dall'incendio di una sinagoga in una sedizione contro i Giudei, «quia nolumus aliquid detestabile fieri unde romana gravitas debeat accusari.... Hoc enim nobis vehementer displicuisse cognoscite ut intentiones vanissimae populorum usque ad eversiones pervenerint fabricarum, ubi totum pulchrum volumus esse compositum.» Variarum, IV, 43. Anche il codice Teodosiano, pur così poco tollerante, favorisce i Giudei e impone che sieno rispettati. Cod. Theod., lib. XVI, tit. VIII, 9. De Iudaeis.
15. Variarum, I, 45.
16. Variarum, X, 31.
17. A questa storia col nome di Historia Tripartita per essere compilata dalle opere dei tre scrittori greci Socrate, Sozomene e Teodoreto, rimase per secoli una grande e popolare autorità nella Chiesa d'Occidente. La traduzione di questi autori fu eseguita da Epifanio amico di Cassiodoro.
18. Magni Aurelii Cassiodori Senatoris, Opera Omnia.... opera et studio J. Gareth, Venetiis, 1729; Cassiodori Senatoris, Variae, rec. Th. Mommsen, Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum, t. XII; e cf. Mommsen, Die Chronick des Cassiod. Senator in Abhandlungen der Koen. saechs. Ges. der Wiss. phil.-hist. Kl., vol. III, 1861; A. Olleris, Cassiodore conservateur des livres de l'antiquité latine, Paris, 1841; Koepke, Anfänge des Königthums bei den Göthen, Berlin, 1859; A. Thorbecke, Cassiodorus Senator, Heidelberg, 1867; A. Franz, Cassiodorius Senator, Bresslau, 1872; I. Ciampi, I Cassiodori, Imola, 1876; Usener, Anecdoton Holderi, Ein Beitrag zur Geschichte Roms in Ostgothischer Zeit, Bonn, 1877; A. Gaudenzi, L'opera di Cassiodorio a Ravenna in Atti e Memorie della R. Deputazione di Romagna, 1885; Wattenbach, Op. cit., I, 65; A. Ebert, Hist. Générale de la littérature du Moyen Age, trad. Aymeric e Condamin, Parigi, 1893. Citando l'Ebert mi valgo di questa traduzione che fu approvata e arricchita di qualche aggiunta dall'autore; T. Hodgkin, fa precedere il lavoro suo già citato sulle Variae da uno studio notevolissimo intorno alla vita e agli scritti di Cassiodoro. Egli e l'Ebert riassumono con molta chiarezza le opere teologiche di questo scrittore e specialmente il trattato De anima, e le Institutiones divinarum et saecularium lectionum. Un altro studio interessante è quello del Church intitolato Cassiodorus. Church, Miscellaneous essays, London, Macmillan, 1891.
19. Giordane afferma ch'egli ebbe in mano per soli tre giorni il libro di Cassiodoro, ma a questa asserzione nessuno degli scrittori moderni sembra prestare molta fede.
20. Quasi universalmente finora si tenne, dietro la scorta di Giacomo Grimm, che il Vigilio a cui questo libro è dedicato fosse papa Vigilio. Il Mommsen, e ancor prima di lui l'Ebert, hanno però notato che un semplice ecclesiastico come era Giordane, mai non avrebbe potuto nella dedica trattar familiarmente un papa, e meno ancora rivolgergli le esortazioni che si leggono nel passo seguente: «Tu vero ausculta Iohannem apostolum qui ait: carissimi, nolite diligere mundum neque ea que in mundo sunt, quia mundus transit et concupiscentia eius: qui autem fecerit voluntatem Dei, maneat in aeternum. Estoque toto corde diligens Deum et proximum ut adimpleas legem et ores pro me, novilissime et magnifice frater.» Veggasi la prefazione del Mommsen alla recente edizione di Giordane pubblicata da lui nei Monumenta Germaniae Historica (Auctorum Antiquissimorum, tom. V, Pars Prior). Al Wattenbach tuttavia le ragioni addotte dall'Ebert e dal Mommsen non sembrano abbastanza persuasive. Op. cit., I, 77, e anch'io mi accosto al Wattenbach.
21. Per dare un saggio del libro di Giordane reco tradotto qui in nota questo ritratto di Attila ch'egli però attinse da Prisco: «Uomo nato a desolazione di popoli, a sgomento d'ogni terra, il quale, non so per qual sorte, atterriva tutti colla formidabile fama che si spargeva di lui. Incedeva superbo girando gli occhi qua e là per mostrar l'altera potenza sua pur col muovere del corpo. Amante di guerre ma temperante di mano, validissimo di consiglio, arrendevole ai supplicanti, propizio a chi una volta egli avea ricevuto nella sua fede. Breve di statura, largo del petto, grosso il capo, piccoli gli occhi, rada la barba sparsa di canizie, schiacciato il naso, pallido il colorito, segni di sua razza. Il quale, avvegnaché per natura confidasse molto, pur gli cresceva fiducia la ritrovata spada di Marte sempre sacra agli Sciti. Questa, narra Prisco lo storico, ritrovossi in tal modo. Un pastore, egli dice, vedendo zoppicare una giovenca dell'armento nè potendo trovar la cagione di quella ferita, seguì attento le tracce del sangue e finalmente arrivò alla spada che la giovenca aveva calcato incauta pascendo, e trattala di terra subito la recò ad Attila. Questi rallegratosi di quel dono, di gran core com'era, stimò d'esser fatto principe dell'universo e per la spada di Marte essergli concessa la potestà della guerra.»
22. Per gli studi particolari che ebbi una volta occasione di fare su quei luoghi, inclino a credere con T. Hodgkin (Italy and her Invaders, IV, 278) che il cozzo dei due eserciti avvenisse nella località detta ad Ensem, presso l'attuale villaggio della Scheggia dove la via biforcandosi procede da un lato verso Fossato e dall'altro va a Gubbio. Cf. Rivista Storica Italiana, vol. III, pag. 753.
23. Esaminando in questa ristampa del mio lavoro le opere di Procopio, ho adoperato per la storia della Guerra Gotica la edizione del Comparetti pubblicata dall'Istituto Storico Italiano nelle Fonti per la Storia d'Italia. Per gli altri scritti mi sono giovato della edizione del Dindorf che trovasi nel Corpus Scriptorum historiæ Byzantinae, stampata a Bonn, 1833-1838, in tre volumi. Oltre le storie, rimane di Procopio un altro lavoro intitolato Degli Edificî, nel quale si descrivono i monumenti e le opere pubbliche eseguite sotto Giustiniano.
24. «Illud vero sciebat Author, condendae huic historiae idoneum se esse maxime omnium; ob aliud certe nihil, nisi quia cum a consiliis fuerit Belisario Duci, quidquid fere gestum est vidit. Hoc etiam persuasum habuit, arti Oratoriae convenire eloquentiam; Poeticae, fabularum figmenta; Historiae veritatem. Quare ne amicissimorum quidem peccata texit; sed cuiusque actus, pravos iuxta atque honestos, quam potuit accuratissimis literis prodidit.» — Procop., De Bello Persico, I, 1. Adopero per questa citazione la versione del Maltreto.
25. «Tucidide che, oltre ad Erodoto, è suo principale modello.» Comparetti, Op. cit., I, IX.
26. Lib. III, cap. 17.
27. La parola Romani è qui usata genericamente per indicar gl'imperiali.
28. La continuazione di Agatia è pubblicata nella citata edizione di Procopio a cura del Dindorf.
29. Entrambe ripubblicate dal Mommsen tra le Chronica Minora in Mon. Germ. Hist. Auctorum Antiquissimorum, tom. XI.
30. Tale è l'opinione del conte Carlo Cipolla nell'Archivio Storico Italiano, XI, 3 (1883). Il Magani (Ennodio, Pavia, 1886) è d'opinione contraria, ma il Cipolla mantiene le sue conclusioni in uno scritto pubblicato negli Atti e Memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova. N. S., IV, 1888.
31. Oltre l'edizione delle opere d'Ennodio curata dal Sirmond e pubblicata a Parigi nel 1611, se ne ha una edizione critica comparsa nel VI volume del Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum col titolo: M. F. Ennodii, Opera Omnia recensuit et commentario critico instruxit G. Hartel, Vindobonae, 1882. Un'altra a cura di F. Vogel, fu pubblicata nel 1885 pei Monumenta Germaniae Historica (Auctorum Antiquissimorum, tom. VII).
32. Malfatti, Imperatori e Papi. Hoepli, 1876, I, 163. Quanto alla discendenza di Gregorio dal papa Felice, cfr. Duchesne, Liber Pontificalis, I, LXXVI; De Rossi, Inscript. Christ., I, 372.
33. Una sua frase mostra che Gregorio non aveva familiare la lingua greca: «Quamvis Grecae linguae nescius» dice egli di sé stesso in una sua lettera. Epistolarum, VII, 29.
34. Dialog., Lib. I, nell'esordio.
35. Intorno alla cronologia delle lettere Gregoriane gioverà riferire alcune parole di una avvertenza premessa dal caro e compianto amico mio Paolo Ewald al regesto di esse nella seconda edizione della raccolta dello Jaffé: «.... Nam cum argumentis meis certe probatum sit, non Registri illius authentici libris charticeis scripti apographum nobis traditum esse, sed tria excerpta solummodo extare et haec excerpta, quamvis ratione et numero epistolarum eligendarum maxime secum dissentiant, tamen pari modo in eo consentire, quod ad certum temporis ordinem respiciant, hoc iudicium non paucis locis priorum editionum auctoritatem tollit. Ad quem annum et mensem epistolae antea incerti temporis regerendae sint, hanc rationem excerptorum intelligentes penitus pernoscere possumus. Sed hoc praemittendum esse videtur de signis illis chronologicis, quae epistolis adscriptae sunt, notas annorum et mensium non tempus edicere, quo epistola quaeque scripta sit, sed quo scriptores Registri eam receperint; ita ut mirari non liceat interdum et epistolas diversis temporibus scriptas sub eodem mense coniunctas esse, et alias loco disiunctas ad idem tempus spectare. Registri igitur seriem talibus locis relinquentes secundum chronologiam epistolas hic ordinavimus. Authenticum autem, ut ita dicam, datum in epistolis Gregorianis non invenitur, nisi in eis perpaucis, quae etiam diem non tacent.» Regesta Pontificum Romanorum... edidit Ph. Jaffé, ed. secunda. Anche vuolsi qui menzionare il notevolissimo studio dell'Ewald, Studien zur Ausgaben des Registers Gregors I, pubblicato nel Neues Archiv., III, 433-625.
36. È singolare che l'Ebert il quale espone con cura le altre opere di San Gregorio faccia appena menzione delle lettere considerandole utili bensì allo studio dei tempi gregoriani ma prive d'interesse letterario. Op. cit., I, 590.
37. «Inerat denique ei tanta abstinentia in cibis, vigilantia in orationibus, strenuitas in ieiuniis, ut infirmato stomacho vix consistere posset. Sustinebat praeterea assiduas corporis infirmitates et maxime ea pulsabatur molestia, quam graeco eloquio medici syncopin vocant; cuius incommodis ita dolore vitalium cruciabatur, ut crebris interceptus angustiis, per singula pene horarum momenta ad exitum propinquaret.» S. Gregorii Magni Vita, auctore Paulo Diacono.
38. Gregorii I papae, Epistolarum, V, 38. Per questa lettera e per la seguente diretta a Maurizio imperatore, riproduco, con alcune poche e lievi modificazioni, la bella traduzione che ne dà il Balbo nella Storia d'Italia sotto ai Barbari. Per le lettere di Gregorio mi son valso della edizione dei Monumenta Germaniae. (Gregorii I papae, Epistolarum, pars I et II) curata da Paolo Ewald e da L. M. Hartmann; per le altre opere ho seguito l'edizione dei Maurini.
39. Homiliarium in Ezechielem. Lib. II, Hom. 10.
40. Epist., V, 36.
41. Intorno alla avversione che Teodelinda incontrava tra i Longobardi presso il partito nazionale ariano, ed i sospetti che ispiravano le sue relazioni con la Baviera, la Francia e Roma, vedansi tra altri Schupfer, Istituzioni politiche longobarde, Firenze, 1863; Tamassia, Longobardi, Franchi e Chiesa Romana, Bologna, 1888; Hodgkin, Italy and her Invaders, VI, 150.
42. Epist., XIV, 12.
43. Questa corrispondenza di Gregorio con la fiera regina dei Franchi ha chiamato su lui il rimprovero d'alcuni storici. Secondo essi Gregorio non avrebbe dovuto trattar con forme tanto amichevoli una donna di cui la memoria è discesa ai posteri così macchiata d'infamia. Il rimprovero non mi par giusto. La Chiesa pativa a quel tempo grave danno nelle Gallie per le frequenti elezioni simoniache dei vescovi, e contro questo scandalo Gregorio appuntava tutte le sue forze adoperandosi del continuo presso Brunichilde affinché s'inducesse a farlo sparire. Il Pontefice adunque trattando con quella singolar donna trovavasi in posizione assai delicata e difficile, della qual cosa è da far conto nel giudicare la condotta d'un uomo la cui virtù e la purezza delle intenzioni sono riconosciute dall'universale. Più grave parrebbemi l'altro rimprovero che gli è mosso per la lettera colla quale riconobbe l'autorità del tiranno Foca usurpator sanguinoso del trono di Costantinopoli, ma pur qui è da riflettere alla responsabilità che pesava su Gregorio per la sorte di tanto popolo che si volgeva a lui come ad unico protettore, e di cui, come si rileva anche dalle lettere citate qui sopra, egli aveva invano narrate le miserie e difesi fieramente i diritti innanzi al predecessore di Foca.
44. Non ricordo se altri l'abbia notato: a me pare non improbabile che la leggenda di Beda tragga in qualche modo origine dalla fuga da Roma che, secondo il biografo suo Giovanni Diacono, Gregorio tentò per sottrarsi all'onore della dignità papale.
45. Johann., V, 17.
46. Luc., V, 7.
47. Epist., XI, 36.
48. Sancti Gregorii Papae, Dialogorum Libri IV, de Vita et miraculis Patrum italicorum et de aeternitate animarum.
49. Cfr. A. Vogeler, Paulus Diaconus und die Origo gentis Langobardorum. Berlin, Gaestner, 1887.
50. «Possiamo credere che il monaco (Secondo), come altri dopo di lui, si sia limitato a registrare i fatti più notevoli di cui fu testimonio, o che giunsero a sua notizia. Lavoro ad ogni modo prezioso, massime per quei tempi, e da considerarsi come l'ultimo riflesso della cultura romana nel Trentino. Non sono difficili a rintracciarsi i passi dove Paolo s'ebbe a giovare della Historiola. Oltre alle notizie d'accidenti atmosferici e d'inondazioni, di carestie e di altri disastri che travagliarono le regioni alpine e la valle dell'Adige, sono certamente desunte da Secondo le informazioni intorno alle imprese del duca Evino, ai dissapori fra il duca Gaidoaldo e al re Agilulfo, ed al battesimo di Adaloaldo. Ma soprattutto i capitoli IX e XXXI del terzo libro di Paolo sono desunti da Secondo e narrano fatti taciuti dagli altri cronisti e molto importanti per la storia dei Longobardi in relazione coi re Franchi e i Duchi Bavari.» Così B. Malfatti, I Castelli Trentini distrutti dai Franchi, in Archivio storico per Trieste, II, 289.
51. Wattenbach, op. cit., vol. I, c. 2, § 6.
52. Pauli, Historia Langobardorum edentibus L. Bethmann et G. Waitz, nel volume degli Scriptores rerum langobard. et italic, saec. VI-IX nei Monumenta Germaniae Historica. Le poesie di Paolo sono raccolte in un altro volume dei Monumenta: Poetae Latini aevi carolini recensuit E. Duemmler. Intorno alla persona e agli scritti di Paolo Diacono s'è in quest'ultimo mezzo secolo affaticata con amore tenace una schiera d'eruditi, tedeschi pressoché tutti. Oltre al Dahn, al Wattenbach, allo Jacobi e al Mommsen, noto i nomi del Bethmann, del Waitz e del Duemmler come di quelli che hanno meglio meritato del grande cronista friulano. Il Bethmann iniziò gli studi lunghi e pazienti che proseguiti dal Waitz hanno condotto ad una eccellente edizione della Historia Langobardorum; al Duemmler poi devesi la raccolta delle poesie paoline e la possibilità di raffrontarle utilmente colle altre poesie dell'età carolina. Non è nei propositi di questo libro il discorrere degli studi che i critici sono venuti facendo intorno al Varnefrido fino alla edizione del Waitz. Chi ne desidera notizia potrà consultare con profitto uno studio fatto con gran diligenza e gran lucidezza dal professor P. Del Giudice, pubblicato col titolo Lo storico dei Longobardi e la critica moderna, Milano, Hoepli, 1880, e ristampato da lui nei suoi Studi di Storia e diritto presso lo stesso editore nel 1890. L'Istituto storico Italiano si propone di pubblicare una nuova edizione della Historia Langobardorum.
53. Celebrandosi a Cividale il millenario di Paolo Diacono, il P. Amelli di Montecassino ha dato in luce un trattato grammaticale inedito ed un epigramma pure inedito ch'egli dimostra doversi attribuire a Paolo. Ars Donati quam Paulus Diaconus exposuit, nunc primum ex cod. Vaticano-Palatino 1746 Monachi Archicoenobii Montis Casini in lucem properunt. Typ. Montis Casini, 1899, e Paolo Diacono, Carlo Magno e Paolino d'Aquileia in un epigramma inedito, intorno al canto Gregoriano e Ambrosiano. Montecassino, 1899.
54. Vedasi intorno a queste storie il bel lavoro di Gabriel Monod, Études critiques sur les sources de l'histoire carolingienne, Paris, Bouillon, 1898, pagg. 21 e 56.
55. Un necrologio cassinese indica il giorno della morte di Paolo che fu un tredici d'aprile, ma si è incerti dell'anno. Il Waitz ed altri stimano ch'egli morisse prima dell'incoronazione di Carlo Magno, e forse nel 799. Ebbe nel monastero parecchi discepoli tra i quali un Ilderico che verseggiò a ricordo di lui un epitaffio pregevole.
56. C. Balbo, Storia d'Italia sotto i Barbari, II, pag. 18. Firenze, 1856.
57. Historia Langobardorum, III, 30.
58. Historia Langobardorum, V, 1, et seq.
59. Pauli Continuationes nel volume Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX dei Monumenta Germaniae Historica.
60. Muratori, Annali d'Italia, ad an. 860.
61. Le Liber Pontificalis, texte introduction et commentaire par l'abbé Louis Duchesne, Paris Thorin, 1886-1892. Quel che si dice qui si riferisce al primo volume di questa edizione. Avrò più oltre occasione di giovarmi del secondo volume quando dovrò parlare delle vite pontificie da Leone IX in poi. Un'altra edizione del Libro Pontificale pubblica ora il Mommsen pei Monumenta Germaniae Historica: Gestorum Pontificum Romanorum, vol. I. Libri Pontificalis pars prior edidit Theodorus Mommsen, Berlino, 1898.
62. «Il Libro Pontificale utilissimo per le preziose notizie che ci fornisce delle riparazioni e de' lavori fatti da romani pontefici in que' luoghi venerandi» (le catacombe).... De Rossi, Roma sotterranea cristiana, I, 8. Roma, 1864. Lo stesso De Rossi e il Duchesne pongono la data della primitiva redazione del Liber al principio del sesto secolo. Il Waitz riteneva, e con lui s'accordano lo Harnack ed il Mommsen, che questa data debba portarsi al secolo settimo, ma il Duchesne non s'arrende a questa opinione.
63. Gesta Episcoporum Neapolitanorum edidit G. Waitz, nel volume Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX dei Monumenta Germaniae Historica. Per queste notizie sul testo delle Gesta seguo l'autorità del Waitz e quella del Capasso che ne ha pubblicato dopo il Waitz un'altra eccellente edizione col titolo di Chronicon Episcoporum S. Neapolitanae Ecclesiae corredandola di note dottissime. Entrambi questi eruditi lavorando contemporaneamente e indipendentemente un dall'altro, sono arrivati a molto simili conclusioni intorno al testo del libro e agli autori di esso. Noto tuttavia che il Waitz reputa che l'anonimo autore della prima parte abbia scritto sul finire del secolo ottavo mentre il Capasso reca gravi ragioni per credere ch'egli scrivesse verso la metà del secolo nono. Monumenta ad Neapolitani Ducatus historiam pertinentia.... cura et studio Bartholomaei Capasso, vol. I. Napoli, 1881.
64. «De Petri subdiaconi auctario, utpote minimo, nihil singulare dicendum est.» Capasso, Op. cit.
65. Il signor abate Duchesne vede una relazione tra alcuni passi di Agnello ed altri del Pontificale Romano, ma a me questa relazione non par chiara abbastanza.
66. Dalla prefazione al Liber Pontificalis di Agnello pubblicato nel volume Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX dei Monumenta Germaniae Historica.
67. «Cadaver namque per novem menses sepultum de sepultura extraxisti. Si interrogabatur quid responderet? Si responderet, omnis illa horrenda congregatio timore perterrita ab invicem separata discederet.» Intorno a questi polemisti è da vedere come fondamento a quanto se ne è detto appresso, lo studio del Dümmler, Auxilius und Vulgarius, Lipsia, 1866. Il Dümmler pubblicò la Invectiva insieme con l'edizione delle Gesta Berengarii di cui si terrà parola più innanzi. Cf. anche il Wattenbach, Op. cit., I, 305.
68. Nel render conto di questi scritti monastici non posso seguir sempre l'ordine cronologico come ho cercato di fare finora. In qualche caso per motivi di affinità che il lettore potrà veder facilmente, mi è stato necessario aggruppare insieme alcuni scritti lontani di tempo fra loro, oltrepassando fors'anco il tempo che dovrebbe limitare questo capitolo.
69. Un frammento della Constructio fu pubblicato dal benedettino Caetani, secondo il testo unico che se ne conserva, nel terzo volume degli Acta SS. Ord. S. Benedicti, e riprodotto nella raccolta dei Bollandisti al volume terzo di settembre. Il Bethmann pubblicando per primo l'intero testo nei Monum. Germ. Hist. SS., vol. XI, credette che esso contenesse la Constructio completa e genuina quale prima fu scritta. Il dotto tedesco, del resto assai benemerito degli studi farfensi, era in errore, e l'amico mio Ignazio Giorgi ha dimostrato con evidenza che il vero testo originale è perduto. Archivio della Società romana di Storia patria, anno II, p. 409.
70. Stimo tuttavia opportuno il riferire un tratto in cui si accenna all'opera colonizzatrice del monachismo, la quale sembrami essersi poi continuata in Italia anche verso la metà del nono secolo quando molti monasteri eran caduti giù nel più profondo della corruzione. In questo passo che segue, Tommaso di Morienna consiglia i tre giovani a fondare il loro monastero sulle rive del Volturno: «Est autem, dilectissimi filii, locus, ad quem vos ire desidero, in Samnii partibus super ripam Vulturni fluminis, ubi initium sumit a mille fere passibus. In quo videlicet loco situm est oratorium martyris Christi Vincentii nomine dedicatum; ex utraque vero parte fluminis silva densissima, quae tantum habitationem praestat ferarum latibulaque latronum. Omnipotens autem Dominus, cui vos famulatum exhibere desideratis, et vos in eodem loco illaesos servabit et cunctis iter agentibus a timore latronum pacatum atque securum constituet, necnon et erutis dumis ac sentibus, lignis fructiferis habundare faciet. Ite, ait, filii, ite, et in eodem loco, sine metu cuiuscumque permanete.» Vita Paldonis Tatonis et Tasonis Vulturnensium, nel volume citato degli Scriptores Rerum Langob. et Ital.
71. Di tutti questi scritti farfensi sta per comparire una nuova edizione nelle Fonti per la storia d'Italia pubblicate dall'Istituto Storico Italiano.
72. Par che il cronista alluda ai soldati lasciati in Roma dagli imperatori Franchi. Cfr. Waitz nelle note a questo passo.
73. Chronica S. Benedicti Casinensis, ed. G. Waitz nel volume degli Scriptores Rerum Langob. ed Ital. nei Monum. Germ. Hist.
74. Dal volume citato qui innanzi tolgo i titoli di alcuni cataloghi che hanno relazione colla storia e specialmente colla longobarda. Sono i seguenti: Catalogus regum Langobardorum et ducum Beneventanorum (è quello da cui traggo il brano tradotto qui sopra), Catalogus comitum Capuae, Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Brixiensis et Nonantolanus, Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Venetus, Catalogus regum Langobardorum et Italicorum Lombardus, Catalogus regum tuscus, Catalogus regum Italicorum Oscelensis, Catalogus imperatorum, regum Italicorum, ducum Beneventanorum et Spoletinorum Farfensis. Nel medesimo volume sono anche pubblicate una breve vita piena d'interesse di Sant'Anselmo fondatore della Badia di Nonantola ripubblicata dal Bortolotti nella sua Vita di Sant'Anselmo, Modena, 1892, e diversi racconti di traslazioni di reliquie meritevoli anch'essi d'attenzione. Com'è noto, nei secoli rozzi e superstiziosi dei quali si tiene discorso, tanto avida era la smania di possedere reliquie di santi, che spesso ora con buone or con male arti, esse venivano tolte da una terra e trasportate in un'altra. Sotto il nome generico di translationes trovansi negli atti dei santi frequenti narrazioni di questi trasporti, le quali assai volte hanno un carattere storico.
75. Erchemperti historia Langobardorum Beneventanorum, ed. G. Waitz, in Scriptores Rer. Lang. et Ital. saec. VI-IX.
76. Cronicon Salernitanum in Mon. Germ. Hist. SS. III e cfr. Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno, Napoli, 1887.
77. Andreae Bergomatis historia, ed. Waitz in Script. Rerum Lang. et Ital. saec. VI-IX.
78. Panegyricus Berengarii Imperatoris, in Monum. Germ. Hist. SS. IV. Un'altra edizione ne aveva già dato il Duemmler preceduta da uno studio notevolissimo: Gesta Berengarii Imperatoris, Beiträge zur Geschichte Italiens im anfange des zehnten Jahrhunderts, Halle, 1871. Cfr. anche Wattenbach, Op. cit., I, 310. È notevole pure una lunga poesia in metro saffico dettata a Verona in lode del vescovo Adalardo che sembrami tanto più degna di nota perché pare accertato che anche il panegirico di Berengario uscì da penna Veronese. Alcuni altri versi di carattere indirettamente storico furono compilati da autore anonimo nell'anno 876 in lode del vescovo Azzone d'Ivrea ma non hanno nessun valore. Anche vuolsi far menzione dei versi composti da un monaco irlandese in lode dell'arcivescovo di Milano Tadone (A. D. 861-869, Ughelli, Italia sacra, IV, 83. Ed. Venezia, 1719) e di Lotario imperatore. Queste produzioni poetiche attestano la presenza di letterati stranieri in Italia e collegano il nostro paese con un movimento letterario che uscito d'Irlanda sparse una certa luce di civiltà in parecchi luoghi d'Europa. E qui mi corre il caro obbligo di ringraziare pubblicamente il conte Costantino Nigra che in una dotta lettera mi corresse amorevolmente d'alcuni errori nei quali inceppai toccando di tale argomento nella edizione inglese di questo libro. E aggiungerò, approfittando di quanto l'illustre celtista mi scrisse, che il codice da cui furono tolti que' versi ne contiene altri, scritti probabilmente dallo stesso monaco irlandese, in lode di un Sofrido, ch'egli identificava col vescovo Sofredo o Seufredo che pontificava in Piacenza negli anni 858-867, ed in lode del Duca Lodfrido ch'egli identificava col Duca di Trento vivente nell'845. Inoltre qualche altro verso nel codice fa menzione di Angilberto Pusterla immediato predecessore di Tadone (A. D. 827-861, Ughelli, Italia sacra, IV, 79). Ermanno Hagen ha pubblicato tali versi nella raccolta intitolata Carmina medii aevi.... inedita, ex bibliothecis Helveticis collecta. Bernae, Froben, 1877. Li trasse da questo codice prezioso che si conserva ora nella biblioteca di Berna e di cui lo stesso Nigra nella Revue Celtique (luglio 1875) diede una descrizione assai precisa. In esso si contengono parecchie materie d'argomento vario, «e poi,» mi scriveva il conte Nigra, «nelle pagine rimaste vuote e di mano posteriore ma irlandese, i versi sopradetti, iscrizioni, prove di penna e chiose marginali e interlineari, non copiose, alcune delle quali in lingua irlandese del IX secolo. I nomi propri scritti nei margini appartengono alle tre nazionalità, irlandese, longobarda ed italiana. Fra i nomi irlandesi vi è quello di Dungal, il quale da un capitolare dell'anno 823 di Lotario I imperatore fu chiamato ad istituire la scuola di Pavia (Muratori, Ant. Ital., III, 815).... Fra i nomi italiani, oltre quelli degli arcivescovi Tadone e Angilberto che sono longobardi italianizzati, vi sono quelli della maggior parte dei vescovi contemporanei dell'alta Italia. Sono notevoli alcune prove di penna nei margini scritte da mani longobarde che fanno supporre che il codice servisse alla scuola, probabilmente di Pavia. Certo fu scritto in Irlanda, ed era in Italia fino allo scorcio del IX secolo portatovi probabilmente da Dungal.» Così quell'erudito, e bene vorrei che i limiti del mio lavoro mi concedessero di stampar qui tutta la sua lettera a dimostrar sempre meglio come sia da tenere in gran conto un siffatto elemento irlandese nella storia difficile di questo periodo letterario. Certo farebbe pregevole studio chi, massime aiutandosi di paragoni paleografici, s'accingesse a indagare se vi sono traccie d'influenza irlandese nei monasteri dell'Italia centrale e del mezzogiorno.
I versi relativi ad Angilberto e a Dungal sono stati pubblicati nuovamente dal Duemmler, e quelli relativi a Tadone, Lotario, Sofrido e Lodfrido dal Traube, nei tomi II e III dei Poetae Latini aevi carolini in Mon. Germ. Hist. Il Traube dopo aver creduto anch'egli che Sofrido dovesse identificarsi col vescovo piacentino di quel nome, inclina ora a credere ch'egli fosse un nobile laico dell'Italia superiore.
79. Wattenbach, Deut. Geschichtsqu., I, 312. Mentre m'accordo con questa opinione, stimo debito di osservare che assai prima del Giesebrecht, la continuata esistenza delle scuole italiane era stata affermata e dimostrata dal Tiraboschi nella sua storia della letteratura. Vi accenna anche il Muratori nella Dissertazione XLIII delle Antiquitates. Su questo argomento l'Ozanam pubblicò un saggio eccellente intitolato Des Écoles en Italie aux temps Barbares, nel quale anche tien conto, forse con favore alquanto soverchio, della esistenza delle scuole ecclesiastiche. Un lavoro del signor Salvioli sulla istruzione pubblica in Italia dall'ottavo al decimo secolo, è scritto con uno spirito meno comprensivo ma è pregevole per molte indicazioni che reca. Si consulti anche A. Dresdner, Kultur und Sittengeschichte der italianischen Geistlichkeit in X und XI Jahrhunderten, Bresslau, Koelner, 1890.
80. Liudprandi Episcopi Cremonensis opera omnia in usum scholarum ex Monumentis Germaniae historicis recusa. Editio altera. Recognovit Ernestus Dümmler. M. G. SS. III, 264-363. Hannoverae, 1877. Per quanto si riferisce alla vita di Liudprando mi appoggio molto alla bella e concisa prefazione del Dümmler il quale restringe con grande competenza i molti studî fatti nel corso di questo secolo intorno a Liudprando, di cui peraltro tende ad esaltare forse un po' troppo il valore. E vedansi Wattenbach, Op. cit., I, 423; Koepke, De vita et scriptis Liudprandi, Berlino, 1842; Giesebrecht, Geschichte der deutschen Kaiserzeit, I, 779-81; Paolucci, Liutprando, Bari, 1883; Colini Baldeschi, Liudprando vescovo di Cremona, Giarre, Castorina, 1888; Hantsch, Ueber Liutprand von Cremona, Leoben, 1888.
81. «Viro gravitate ornato et sapientia pleno.»
82. «Joannes episcopus, servus servorum Dei, omnibus episcopis. Nos audivimus dicere quia vos vultis alium papam facere: si hoc facitis, excommunico vos da deum omnipotentem, ut non habeatis licentiam nullum ordinare, et missam celebrare.» È curioso che nella lettera diretta in risposta dal Concilio a Giovanni, gli si rimprovera anche l'errore di grammatica commesso scrivendo nullum invece di ullum. Dell'idiotismo da deum, non è fatta parola.
83. Historia Ottonis, 8-16.
84. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo. Lib. VI, c. IV, § 1. Traduz. Manzato.
85. L'idea imperiale risuscitata dagli Ottoni e sostenuta così caldamente in Italia da Liudprando, già prima della discesa di Ottone il Grande aveva trovato un campione nell'autore di un Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma che ha molto valore storico (Mon. Germ. Hist. SS. III, 719-722). Di questo scritto hanno discorso particolarmente lo Hirsch e lo Jung. Il Lapôtre nel suo libro Le Pape Jean VIII, Parigi, 1895 dà ad esso grande importanza e lo attribuisce con molta verosimiglianza ad uno scrittore quasi contemporaneo di Giovanni VIII, d'origine longobarda e probabilmente nativo di Rieti. Quest'ultima asserzione non mi sembra abbastanza provata. L'opinione di chi vorrebbe attribuire il Libellus a Benedetto di S. Andrea non mi pare in alcun modo accettabile. Del pari hanno valore storico e tendenze imperiali due poesie comparse nell'alta Italia nei primissimi anni del secolo XI. Una di queste poesie specialmente, in cui si rimpiange la morte immatura di Ottone III, contiene qualche strofa da fare impressione.
86. Chronicon Benedicti de S. Andrea (Mon. Germ. Hist. SS. III). L'autore di questa cronaca è stato chiamato finora Benedetto del Monte Soratte, ma il Tomassetti nei suoi studi sulla Campagna Romana dimostra che Benedetto era monaco della Badia di S. Andrea in flumine posta presso Ponzano ai piedi del Soratte. Anche la vita di San Nilo fondatore del monastero di Grottaferrata, scritta in greco da un suo discepolo, e le lettere del famoso Gerberto che fu poi papa col nome di Silvestro II, contengono dati storici contemporanei intorno al periodo degli Ottoni. Sono parimenti degne di attenzione due vite di sant'Adalberto e specialmente la più antica di esse, scritta in Roma da Giovanni Canapario abbate del monastero di sant'Alessio sull'Aventino. «Das werk» osserva giustamente il Giesebrecht nella sua Geschichte der deutschen Kaiserzeit, «schon dadurch interessant dass er das einzige namhafte litterarische Erzeugniss eines Römers iener zeit ist, gehört zu den wichtigsten Quellen der Zeitgeschichte.» Fu pubblicata dal Pertz (Mon. Germ. Hist. SS. IV, 615-618).
87. «Ve Roma, quia tantis gentis oppressa et conculcata; qui etiam a Saxone rege appreensa fuisti et gladiati populi tui, et robor tua ad nichilum redacta est.... Celsa tuarum triumphasti gentibus, mundum calcasti, iugulasti regibus terre; sceptrum tenebat et potestas maxima; a Saxone rege expoliata et menstruata fortiter.... Nimium speciosa fuisti! Omnes tua moenia cum turris et pugnaculis sicuti modo repperitur. Turres tuarum tricenti octoginta una habuistis, turres castellis quadraginta sex, pugnaculi sex milia octocenties, portes tue quindecim. Ve civitas Leoniana! dudum capta fuistis, modo vero a Saxonicum rege relicta!»
88. Cronache Veneziane antichissime (vol. I) pubblicate a cura di Giovanni Monticolo dall'Istituto Storico Italiano tra le Fonti della Storia d'Italia. Questo primo volume oltre la Cronaca Veneziana di Giovanni Diacono e alcune brevi scritture storiche aggiunte ad essa, contiene una Cronica de singulis patriarchis nove Aquileie e il Chronicon Gradense. Il Pertz aveva pubblicato insieme la Cronaca Veneziana e quella di Grado intitolandole Johannis Diaconi Chronicon Venetum et Gradense ma più moderni critici tornano alla sentenza del Foscarini e staccano la cronaca di Giovanni da quella di Grado. Assai notevole è anche il Chronicon Altinate che ci dà elementi antichissimi e pregevoli per la storia di Venezia. Ne ha dato una ottima edizione il Simonsfeld, in Mon. Germ. Hist. SS. XIV, e un'altra ne promette il Monticolo nel secondo volume delle Cronache Veneziane antichissime. Veggansi intorno a tutte queste cronache il lavoro del Simonsfeld sul Chronicon Altinate pubblicato anche in Italiano nell'Archivio Veneto, e gli studî del Monticolo, La Cronaca del Diacono Giovanni e la Storia politica di Venezia sino al 1009, Pistoia, 1882, e I manoscritti e le fonti della cronaca del Diacono Giovanni nel Bullettino dell'Istituto storico italiano, n. 9.
89. Il Regesto di Farfa, compilato da Gregorio di Catino e pubblicato dalla Reale Società romana di storia patria, a cura di I. Giorgi e U. Balzani, Roma, 1879-1892. Vol. II-V. Il primo volume contenente le prefazioni e gli indici è in corso di stampa.
Il solo regesto di una certa importanza che si conosca anteriore in parte al Regesto di Farfa, è quello del monastero di Subiaco. Esso per altro non è una compilazione unica e tutta di un tempo, ma opera di varî autori cominciata verso il principio dell'undecimo secolo e terminata verso il principio del decimoterzo. Contiene documenti antichissimi e ha molto valore per la storia locale di Roma, ma non così grande per la storia generale. Il Regesto Sublacense del secolo XI, pubblicato dalla Reale Società romana di storia patria, a cura di L. Allodi e G. Levi. Roma, 1885.
90. Il Regesto di Farfa, vol. II, pag. 5.
91. «Juxta meae scientiolae parvitatem.»
92. Infatti nel Regesto s'incontrano qua e là lacune di qualche parola lasciata in bianco specialmente tra le sottoscrizioni.
93. Il Regesto di Farfa, vol. II, pag. 6.
94. Rer. Ital. Script., vol. II, pag. 2. Una nuova edizione del Chronicon sta per essere pubblicata dall'Istituto Storico Italiano tra le Fonti per la storia d'Italia.
95. Generalmente a Gregorio di Catino si attribuisce un altro scritto polemico intitolato: Orthodoxa Defensio Imperialis, inteso a sostenere i diritti dell'Imperatore contro le pretese papali. Mi astengo dal notarlo tra i suoi lavori perché inclino forte a credere che egli non ne sia l'autore.
96. Vedasi il capitolo precedente.
97. L. Tosti, La Biblioteca dei Codici manoscritti di Montecassino. Napoli, 1874.
98. Specialmente i Versus de situ, constructione et renovatione coenobii casinensis, relativi alla riedificazione della Badia compiuta da Desiderio, hanno grande valore per la storia dell'arte al secolo XI, e vogliono essere paragonati con ciò che sullo stesso argomento scrisse Leone Ostiense nella storia di cui son per parlare. Li pubblicò primo l'Ozanam per intero nei Documents inédits, pag. 261-268.
99. L'ystoire de li Normant et la Chronique de Robert Viscart par Aimé moine du Mont-Cassin, publiées par M. Champollion Figeac. Paris, 1835. Lo Champollion Figeac attribuì erroneamente ad Amato la cronaca di Roberto Guiscardo che è soltanto un riassunto di una cronaca di Goffredo Malaterra. La più recente edizione porta per titolo: Ystoire de li Normant par Aimé évêque et moine du Mont-Cassin, publiée avec une introduction et des notes par l'abbé O. Delarc. Rouen, 1892. La introduzione e le note di questa edizione sono molto accurate e contengono notizie pregevolissime. Del valore storico di Amato si sono occupati in vario senso lo Hirsch, il Baist, lo Schipa e il Giesebrecht. Nel Bullettino dell'Istituto Storico Italiano il Gaudenzi ha pubblicato dei versi di Amato contenenti una vita di San Pietro nella quale egli crede vedere delle allusioni al contrasto tra il Papato e l'Impero.
100. «Capuanae civitatis prudentissimum ac nobilem clericum et Richardi principis notarium.» Così Leone stesso nella sua cronaca, III, 24.
101. Leonis Marsicani et Petri Diaconi Chronicon Monasterii Casinensis edidit W. Wattenbach in Mon. Germ. Hist., § VII e cf. anche il Wattenbach, Op. cit., II, 234.
102. L. Tosti, La Biblioteca dei Codici manoscritti di Montecassino, Napoli, 1874. Veggasi anche ciò che l'illustre monaco scrisse del tempo di Desiderio nella sua storia di quella Badia; e il Caravita nel libro intitolato: I codici e le arti a Montecassino. E per citare altri giudizî, il Baronio chiamò il cronista Leone «scriptor sui temporis integerrimus,» il Muratori «magnae gravitatis et auctoritatis» e il Wattenbach che ne curò l'edizione pei Monumenta Germaniae gli dà gran fede.
103. Mendacissimum Petrum Diaconum Casinensem, lo chiama il Baronio, all'anno 1131, e vedasi anche quello che ne dice il Tosti nella sua Storia della Badia di Montecassino, II, 67.
104. Così scrivevo nella prima edizione di questo libro e mi è caro vedere il mio desiderio in via d'attuarsi. Col titolo di Tabularium Casinense i monaci di Montecassino vengono ora pubblicando in una serie di codici diplomatici le carte più importanti del loro archivio. Finora ha veduto la luce il Codex Diplomaticus Caietanus, raccolta pregevole di carte e diplomi che vanno dalla fine del secolo ottavo alla fine del decimoterzo.
105. Un altro Regesto detto di San Placido, di minore importanza ma anch'esso pregevole, si conserva attualmente a Montecassino ed è opera di Pietro Diacono. Ivi si conservano anche due altri regesti pregevolissimi della stessa età e di monasteri connessi a Montecassino, quello di Sant'Angelo in formis, monastero del territorio di Capua, e l'altro del monastero di San Matteo, di cui avanzano le rovine in una montagna vicinissima alla madre Badia.
106. Annales Barenses e Annales Lupi Protospatarii in Monumenta Germaniae Historica, Script., vol. V; Anonymus Barensis in Muratori, Rer. Italic., Script., vol. V; Annales Beneventani e Chronicon Ducum Beneventi in Mon. Germ. Hist., Script., vol. III; Falconis Beneventani Chronicon in Muratori, Op. cit., vol. V e presso Dal Re, Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani, vol. I; Annales Cavenses in Mon. Germ. Hist., Script., vol. III, e più recentemente una edizione importante nel Codex Diplomaticus Cavensis, vol. V; Chronicon Nortmannicum Breve in Muratori, Op. cit., vol. V; Guillermi Apuliensis, Gesta Roberti Wiscardi in Mon. Germ. Hist., Script., vol. IX; Gaufredi Malaterra, Historia Sicula in Muratori, Op. cit., vol. V; cfr. anche Hirsch, De Italiae inferioris annalibus saec. X et XI. Berlino, 1864.
107. Edizioni complete del Chronicon Novalicense furono pubblicate dal Muratori, Rer. Ital., Script., vol. II, 2, dal Terraneo, e dal Combetti, ed una migliore dal Bethmann in Monumenta Germaniae Historica, Script., vol. VII. Ora ne porge un'altra e più perfetta edizione il conte Carlo Cipolla nel secondo volume della importante pubblicazione intitolata: Monumenta Novaliciensia data in luce dall'Istituto Storico Italiano nelle Fonti per la Storia d'Italia. Oltre la molta cura con la quale ha pubblicato il testo, il Cipolla lo ha arricchito di note ed osservazioni molto pregevoli, rilevando anche la importanza storica del Chronicon, ch'egli per molti rispetti crede degno di stare al paragone col Regestum Farfense di Gregorio di Catino e col Chronicon Vulturnense.
108. La importanza di queste parole era stata già rilevata molto opportunamente dal Watterich nella prefazione alla sua raccolta sulle vite dei pontefici, lavoro di cui mi sono molto giovato nello scrivere questo capitolo. Pontificum Romanorum Vitae.... ab aequalibus conscriptae, edidit J. M. Watterich, Lipsiae, 1862. Per questa seconda edizione mi giovo anche molto della introduzione, densa di notizie e di osservazioni originali, premessa dall'abate Duchesne al secondo volume del suo Liber Pontificalis.
109. È da notare che molti annalisti tedeschi del secolo undecimo e del principio del dodicesimo hanno importanza per la storia del Papato, tanto strettamente congiunta in quel tempo colla storia di Germania. Non essendo del mio ufficio il prenderli specialmente in esame, io mi limito qui a menzionar di passaggio tra i più cospicui gli annalisti Bertoldo, Bernoldo di Costanza e Lamberto di Hersfeld, scrittori che meritano tutta l'attenzione di chi studia la storia d'Italia.
110. Villemain, Histoire de Grégoire VII. Paris, Didier, 1872.
111. Ap. Watterich, Vitae Pontificum, I, pag. 501 e segg. Paolo di Bernried ci ha anche lasciata una relazione della vita e miracoli della Beata Herluca, una santa visionaria morta nel 1142, alla quale egli era legato di stretta amicizia.
112. Nei Monumenta Germaniae Historica, SS. vol. V, e ripubblicati dal Watterich, Op. cit. e dal Duchesne, Liber Pontificalis, II, pag. 329 e segg.
113. «Haec sicuti passi sumus, et oculis nostris vidimus et auribus nostris audivimus, mera veritate perscripsimus.»
114. Una parte di questa continuazione era stata attribuita, dietro la scorta del Giesebrecht e del Watterich, al cardinale Pietro da Pisa che fu uomo di gran valore ai suoi tempi e l'anima dello scisma contro Innocenzo. L'abbate Duchesne ha dimostrato che tutto questo gruppo di vite pontificie fino ad Onorio II deve attribuirsi al solo Pandolfo. Queste vite ci sono state conservate in una redazione del Liber Pontificalis compilata da un Petrus Guillermus bibliotecario di un priorato S. Egidii de Aceio in diocesi di Reims. Cf. Duchesne, Liber Pontificalis, II, XXIV e segg. e 199 e segg.
115. Ai tempi di Pasquale II ebbe anche il comando di alcune milizie pontificie, e in genere si ferma sempre con molta compiacenza sulle frequenti fazioni combattute in quei tempi agitati delle quali fu spesso testimonio, e che descrisse con molta vivacità. Cf. Duchesne, Loc. cit.
116. Secondo il Guglielmotti la lezione di questo passo è errata nel manoscritto che ce lo ha tramandato, e Gelasio non fu portato ad Ardea (ad castrum Sancti Pauli de Ardea) ma alla men lontana Isola Sacra sul Tevere. Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, I, 262, Firenze, 1871.
117. Il lavoro di Bosone, ripubblicato dal Watterich nelle Vitae Pontificum, e più di recente dal Duchesne, nel Liber Pontificalis, ci fu conservato da Cencio Camerario (più tardi papa col nome di Onorio III) il quale nel 1192 lo inserì nel suo Liber censuum Romanae Ecclesiae, compilazione indigesta ma di gran valore storico, ricavata dagli archivî per servire come registro di tutti i redditi della Chiesa. Circa le relazioni tra Bosone e Cencio Camerario cf. E. Stevenson, La Collectio Canonum di Deusdedit, in Archivio della R. Società romana di storia patria, VIII, 371, e Paul Fabre, Les vies des Papes dans les mss. du Liber Censuum in Mélanges de l'École de Rome, VI, 147.
118. La pubblicò pel primo il Giorgi nell'Archivio della R. Società romana di storia patria, vol. II, ed è stata ristampata a cura di L. Heinemann nella raccolta dei Libelli di cui si fa menzione più oltre.
119. Benzonis Albensis, Ad Heinricum IV, libri VII, in Mon. Germ. Hist., SS. vol. XI, e cf. Lehmgrübner, Benzo von Alba ein Verfechter der kaiserlichen Staatsidee. Berlin, Gaertner, 1887.
120. Tranne quello di Benzone d'Alba, tutti questi scritti polemici ed altri di cui non tengo discorso, sono stati ripubblicati di recente pei Monumenta Germaniae Historica, nella raccolta in tre volumi intitolata Libelli de lite Imperatorum et Pontificum saeculis XI et XII conscripti. Hannoverae, 1891-97. Le prefazioni premesse a ciascuno scritto dagli editori sono spesso molto notevoli e riassumono gli studi che sono stati fatti intorno ai diversi scrittori. Due altri scritti notevoli, ripubblicati anch'essi nella stessa raccolta, sono quello del cardinale Umberto, Contra Simoniacos, e quello del cardinale Deusdedit, Libellus contra invasores et simoniacos et reliquos schismaticos. Il cardinale Deusdedit è anche autore di una specie di regesto in cui oltre una collezione di canoni sono raccolti diplomi imperiali e carte di grande antichità che si riferiscono alla Chiesa Romana. Fu pubblicato da monsignor Martinucci a Venezia nel 1869. Un lavoro molto pregevole sui polemisti del periodo Gregoriano è quello di C. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII. Leipzig, 1894.
121. S. Petri Damiani, Opera, ed. Const. Caetani, 1783, in-4. È una raccolta in quattro volumi delle opere uscite dalla feconda penna di questo scrittore che in prosa o in verso trattò d'ogni materia nella sua corrispondenza, in vite di santi e in trattati di politica e di religione. Oltre le lettere sono notevoli e insieme assai strani i due scritti intitolati: Apologia e Liber Gomorrhianus. Altri due suoi scritti, il Liber Gratissimus e la Disceptatio Synodalis, sono stati ripubblicati tra i Libelli de lite Imperatorum et Pontificum.
122. Forma dispregiativa per Bonizo. L'uso di alterare il nome degli avversarî per torcerlo a significato spregevole, frequente in questi scrittori polemici, è frequentissimo in Benzone. Così, oltre i nomi citati in questo passo, quello di Anselmo vescovo di Lucca, l'amico della contessa Matilde, diviene Asinelmus, quel d'Alessandro II Asinandrum, e si potrebbero moltiplicar questi esempî di scurrile violenza, da cui anche gli scrittori di parte avversa non si astenevano.
123. «Runcie deformis factus sine lumine dormis! Laudetur Deus quia vix potuit manus tuas evadere, qui iniuriis linguae ausus est te invadere. Auditum est in quattuor mundi plagis qualiter es ultus, formidanda potestas, super Runtio Cremonensi atque quibusdam aliis. Sed de Bonizello, Armanello, Morticiello, tribus daemonibus, quod non idem contigit improbat omnis populus.»
124. Il Lehmbgrübner pone la data della sua morte al 14 luglio 1090.
125. «Queris a me, unicum a tribulatione que circumdedit me presidium: Quid est quod hac tempestate mater ecclesia in terris posita gemens clamat ad Deum nec exauditur ad votum, premitur nec liberatur, filiique obedientie et pacis iacent prostrati, filii autem Belial exultant cum rege suo praesertim cum qui dispensat omnia, ipse sit qui iudicat aequitatem? Est et aliud, unde de veteribus sanctorum patrum exemplis a me petis auctoritatem: si licuit vel licet christiano pro dogmate armis decertare? Quibus tuae mentis fluctuationibus, si aurem sani cordis adhibueris, facile respondebitur, tum quia in promptu nobis est, tum quia hoc tempore mihi scribere hoc visum est pernecessarium. Igitur de Dei misericordia confisi, qui linguas infantum disertas facit, adoriamur sermonem.» Bonithonis Sutriensis, Liber ad Amicum, I, ap. Watterich, Op. cit., e nei Libelli de lite, vol. I ed. Dümmler. Oltre il Watterich e il Dümmler pubblicò una edizione di questo libro anche lo Jaffé nei Monumenta Gregoriana.
126. È quello medesimo che fece violenza al Papa in Santa Maria Maggiore.
127. Vita Anselmi episcopi Lucensis, auctore Bardone, in Monun. Germ. Hist. SS., XII. Lo stesso Anselmo era autore di parecchi lavori, alcuni dei quali polemici, ma la maggior parte di essi è perduta.
128. Domnizo, Vita Mathildis, ed. Bethmann, Mon. Germ. Hist. Script., XII.
129. A. Ferretti, autore di un saggio piuttosto diligente intitolato: Canossa. Reggio Emilia, 1876.
130. I versi seguenti che descrivono rincontro di Enrico IV con Gregorio VII, serviranno a dare un'idea del verseggiare di Bonizone il quale si trovava anch'egli in quel momento nel castello di Canossa.
Ante dies septem quam finem Janus haberet,
Ante suam faciem concessit Papa venire
Regem cum plantis nudis a frigore captis
In cruce se iactans, Papae saepissime clamans:
Parce, beate pater, pie, parce michi, peto plane!
131. Monumenta Gregoriana, edidit Ph. Jaffé, Berolini, 1865. Alcune altre lettere sono state scoperte dipoi. Intorno a questo regesto, il Giesebrecht pubblicò una importante dissertazione col titolo De Gregorii VII registro emendando, Regiomonti, 1858. Secondo l'opinione del Pflugk-Harttung e di altri, il cardinale Deusdedit avrebbe adoperato per la sua Collectio Canonum un altro registro gregoriano, anteriore a quello pubblicato dallo Jaffé e più completo. Contraddice a questa opinione il Loewenfeld. Io qui mi limito a far cenno soltanto delle lettere di Gregorio, ma hanno pur grande valore quelle che ancora si trovano degli altri pontefici che gli furono vicini di tempo.
132. Per questi scrittori del Mezzogiorno, oltre lo studio che sono venuto facendo sui testi, mi giovo grandemente dell'eccellente lavoro pubblicato dal Capasso col titolo: Le fonti della storia delle provincie napoletane, nell'Archivio storico delle provincie napoletane, an. 1876. Mi hanno pure molto giovato alcune pubblicazioni inserite nell'Archivio storico siciliano, e varie opere dei due storici siciliani, il La Lumia e l'Amari. Anzi al caro e venerato autore del Vespro Siciliano e della Storia dei Musulmani in Sicilia, debbo anche speciale gratitudine per alcune indicazioni verbali che mi riuscirono utilissime.
133. Il nome di questo cronista era ignoto. Il prof. Gaudenzi lo ha trovato in un manoscritto della biblioteca nazionale di Napoli in cui questi Annali portano il titolo Landulphi abbatis S. Mariae de flumine apud Ceccanum Chronica. Il Gaudenzi dà questa notizia nella prefazione alla cronaca di S. Maria di Ferraria, ma non dà alcuna indicazione circa l'autorità e l'età del manoscritto.
134. Il Siragusa, ultimo editore del Falcando, pur mentre ne loda i pregi letterari e la mirabile eloquenza, trova soverchio questo appellativo.
135. «Falcandus has been styled the Tacitus of Sicily, and after a just but immense abatement, from the first to the twelfth century, from a senator to a monk, I would not strip him of his title; his narrative is rapid and perspicuous, his style bold and elegant, his observation keen: he had studied mankind and feels like a man.» Gibbon, Decline and Fall of the Roman Empire, cap. LVI.
136. La Historia o Liber de Regno Sicilie e la Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium di Ugo Falcando a cura di G. B. Siragusa tra le Fonti pubblicate dall'Istituto Storico Italiano. Nella prefazione alla Historia, il Siragusa riassume con molta diligenza e discute le varie opinioni e i molti studî compiuti intorno al Falcando massime dall'Hartwig, dall'Hillger e dallo Schröter. Anche un altro libro del Siragusa, Il regno di Guglielmo I in Sicilia, è da consultare per ciò che riguarda Ugo Falcando e Romualdo Salernitano.
137. «Madet terra pulchro cruore diffuso, tabetque iuvenili sanguine cruentata, iacent veluti flos purpureus improvida falce succisus.» Sabae Malaspinae, Rerum Sicularum Historia, IV, 16.
138. Giunto a questa età non è più possibile per me trattare neppur brevemente d'altre fonti storiche oltre i cronisti. Mi limito quindi a rammentar qui in nota le lettere di Pier della Vigna il Gran Cancelliere di Federico II. Il suo epistolario è uno dei più pregevoli monumenti letterarî di quel tempo, e ha valore storico inestimabile. Anche si conoscono altri epistolari contemporanei a quello, scritti da uomini che presero parte alla vita pubblica, ma i più sono inediti e meriterebbero d'essere pubblicati in tutto o in parte. È pure assai desiderabile una edizione completa e definitiva dell'epistolario di Pier della Vigna intorno al quale sono da consultare il saggio del napolitano De Blasiis, e l'altro dell'Huillard Bréholles, Pierre de la Vigne, sa vie et sa correspondance. Voglionsi menzionar di passaggio anche la grande raccolta fatta dall'Huillard Bréholles in dieci volumi col titolo Historia Diplomatica Friderici II, quella di Bartolomeo Capasso, Historia Diplomatica Regni utrimque Siciliae ab an. 1250 ad an. 1266, e quella del Winkelmann, Acta Imperii inedita seculi XIII.
139. Annales Casinenses in Mon. Germ. Hist. SS. vol. XIX. — Chronicon Casauriense, in Muratori, Rer. Italic. Script., II, 2. — Alexandri abbatis Telesini lib. IV de rebus gestis Rogerii Siciliae regis 1127-1135 in Muratori, Op. cit., V, e presso Dal Re, Cronisti Sincroni Napolitani, Napoli, 1845. — Chronicon S. Bartholomaei de Carpineto, in Ughelli, Italia Sacra, vol. VII. — Romualdi Salernitani, Annales, Ibid. — Hugonis Falcandi, Hist. de rebus gestis in Siciliae regno, in Muratori, Op. cit., VII, e nella edizione già citata del Siragusa. — Petri de Ebulo, Carmen de bello inter Heinricum VI et Tancredum, ap. Dal Re, Cronisti sincroni napoletani e ed. Winkelmann, 1874. — Ricardi De Sancto Germano, Chronica, Mon. Germ. Hist., SS. XIX. — Nicolai de Jamsilla, De rebus gestis Friderici II, Muratori, Op. cit., VIII e Dal Re, Op. cit. — Sabae Malaspinae, Res Siculae, Ibid., e meglio ap. Dal Re, Op. cit. — Nicolai Specialis, Hist. Sicula, Muratori, Op. cit., X. — Bartholomaei de Neocastro, Hist. Sicula, Ibid., XIII. Un'altra e più antica redazione della cronaca di Riccardo di San Germano è stata pubblicata nei Monumenti Storici della Società napoletana di Storia patria dal prof. Gaudenzi, insieme ad una cronaca inedita di S. Maria di Ferraria che non è priva d'interesse. Ignoti Monachi Cisterciensis S. Mariae de Ferraria Chronica, et Ryccardi de Sancto Germano, Chronica priora ed. A. Gaudenzi, Neapoli, 1888. — Degli scritti riconosciuti apocrifi come i Diurnali di Matteo Spinelli, e tra le croniche romane quella del Monaldeschi, non tengo parola, nè tengo parola del Rebellamentu de Sichilia, una specie di romanzo storico, come lo chiama l'Amari, dettato in Siciliano e che mi par dimostrato non essere contemporaneo del Vespro.
140. Historia Pontificalis ed. Arndt, in Mon. Germ. Hist., SS. XX.
141. Questo scrittore è stato finora conosciuto sotto il nome di Niccolò da Curbio. Il Pagnotti in uno studio molto pregevole che precede una nuova edizione della Vita d'Innocenzo IV, dimostrò ch'egli va chiamato Niccolò da Calvi. F. Pagnotti, Niccolò da Calvi e la sua Vita d'Innocenzo IV, con una breve introduzione sulla Istoriografia pontificia nei secoli XII e XIV, in Archivio della R. Società romana di storia patria, vol. XXI.
142. Ptolemaei Lucensis, Historia Ecclesiastica, in Muratori, Rer. Italic. Script., vol. XI. — Tutte le altre vite pontificie Ibid., vol. III.
143. Vita di Cola di Rienzo, Bracciano 1624 e 1631; ap. Muratori, Antiq. Ital., III, e con note di Zefirino Re, Forlì 1828, ristampata a Firenze dal Le Monnier. Tutte edizioni imperfette e l'ultima più imperfetta delle altre. È debito ricordar qui che Cola di Rienzo fu benemerito degli studi storici, e iniziò in certo modo l'archeologia romana indagando negli storici antichi e nelle epigrafi, la storia di quei monumenti che gl'infiammavano l'anima. I quali fino ad allora ebbero per quasi unica illustrazione le leggende medioevali contenute nella Mirabilia, curioso e caratteristico libro di cui molto volentieri avrei parlato se non fosse stato il timore d'ecceder troppo i confini di questo lavoro. Oltre alle Mirabilia è notevole un libro di storie romane, che forse fu noto a Cola di Rienzo, e contiene storie o leggende dell'antica Roma. Se ne ha una traduzione in volgare romano che risale verso la metà del secolo decimoterzo. La R. Società romana di storia patria la pubblicherà tra breve col titolo di Lyber hystoriarum Romanorum o Storie de Troia et de Roma a cura del professore Ernesto Monaci che già ne discorse ampiamente nel volume XII dell'Archivio della Società stessa. Importantissima per la storia di Cola di Rienzo è la raccolta delle sue lettere pubblicata dall'Istituto Storico Italiano a cura di A. Gabrielli, tra le Fonti per la Storia d'Italia. Voglionsi anche menzionare alcuni annali relativi a Roma e a paesi prossimi a Roma, pubblicati nel volume XIX (SS.) dei Monumenta Germaniae Historica.
144. Adolfo Bartoli, Storia della Letteratura Italiana, vol. I. Firenze, 1878.
145. «Brevis est, grandia tamen in Mediolanensi urbe gesta continet, et rerum perturbationes memoria dignas; graphiceque exprimit, quid in animis hominum eorum temporum potuerit, semperque poterit, dominandi cupido. Neque intra pomoeria unius Mediolani consistit Landulphi narratio: multa etiam habet, quibus Italica eius aevi historia illustretur.» Muratori, in praef. ad Landulph. R. I. S., vol. V.
È bene notare che questi cronisti attinsero a più antiche fonti di storia milanese, molte delle quali ci rimangono, e saranno raccolte e date in luce dall'Istituto Storico Italiano, col titolo Monumenta Mediolanensia antiquissima. Veggansi intorno a queste fonti gli studi pubblicati dal prof. L. A. Ferrai, nel Bullettino dell'Istituto Storico Italiano, e nell'Archivio Storico Lombardo.
146. Questa cronaca è stata generalmente attribuita finora ad un Sire Raoul, di cui non si sapeva nulla oltre il nome, ma il signor Holder-Egger pubblicando pei Monumenta Germaniae Historica una nuova edizione di questa cronaca, ha dimostrato in modo certo che il nome dell'autore è ignoto. Gesta Friderici I Imperatoris in Lombardia, auctore cive Mediolanensi, recognovit O. Holder-Egger. Hannoverae, 1892.
147. Arnulphi, Gesta Archiepiscoporum Mediolanensium, in Mon. Germ. Hist. SS. VIII. — Landulphi, Historia Mediolanensis. Ibid. — Landulphi Junioris de S. Paulo, Historia Mediolanensis. Ibid. XX, e Muratori, Op. cit., vol. V. — Andreae, Vita S. Arialdi in Acta Sanctorum (5 giugno). — Moysis Magistri Bergomensis, De Laudibus Bergomi. Muratori R. I. S. vol. V. — Anonymi, Poema de bello et excidio urbis Comensis. Ibid. — Radulfi sive Raul, De rebus gestis Friderici I. Ibid., VI, e Annales Mediolanenses, Mon. Germ. Hist. SS. XVIII, e nuova ediz. Holder-Egger già citata. — Boncompagni Magistri Florentini, De Obsidione Anconae, Murat. R. I. S. VI. — Un nuovo testo dell'Assedio d'Ancona, di Boncompagno, fu pubblicato da A. Gaudenzi, nel fasc. 15 del Bullettino dell'Istituto Storico Italiano. — Otto Morena, Acerbus Morena, Anonymus, De rebus Laudensibus, in Mon. Germ. Hist. SS. XVIII. Una traduzione dell'opera dei Morena, fu pubblicata nell'Archivio storico per la città e comune del circondario di Lodi. Anni II e III.
148. «Ottoni Frisingensi episcopo.... viro utique qui singularem habebat dolorem de controversia inter regnum et sacerdotium.» Rahevini, Gesta Friderici, III, 22.
149. «Praelium hoc a decima pene dici hora usque ad noctem protractum est. Caesi fuerunt ibi vel in Tyberi mersi pene mille, capti ferme ducenti, sautiati innumeri, caeteri in fugam versi, imo tantum ex nostris, mirum dictu, occiso, uno capto. Plus enim nostros intemperies coeli aestusque illo in tempore maxime circa Urbem immoderatior, quam Romanorum laedere poterant arma.» Eppure «Finito tam magnifico triumpho,» il dì seguente l'Imperatore ritraeva l'esercito e s'accampava a rispettosa distanza da Roma. Non è senza interesse il confrontar questo episodio della storia del vescovo di Frisinga col passo di Liudprando citato qui sopra alla pagina 131. Il testo pubblicato dal Waitz nella nuova edizione delle Gesta, porta il numero dei Romani morti a seicento, ma tra le numerose varianti ch'egli reca, non indica il manoscritto da cui ha tratto questa variante, che pure è così considerevole.
150. Le edizioni recano veramente: ex hac comminandi potestate, ma la frase non mi par che abbia senso. Io credo che debba leggersi commanendi e traduco a seconda della mia congettura, la quale mi par confermata da tutto il passo che dice: «Ex quo fit ut tota illa terra inter civitates ferme divisa, singulae ad commanendum secum diocesanos compulerint, vixque aliquis nobilis vel vir magnus tam magno ambitu inveniri queat, qui civitatis suae non sequatur imperium. Consueverunt autem singuli singula territoria ex hac comminandi (l. commanendi) potestate comitatus suos appellare.»
151. «Ego autem, qui huius operis principium eius [Ottonis] ex ore adnotavi, finemque eius de principis iussu perficiendum suscepi, et manu mea ipsius extrema lumina clausi.» Rahevini, Gesta Friderici, IV, 14.
152. Ottonis Frisingensis, Opera (I. Chronicon, II. Gesta Friderici Imperatoris) in Mon. Germ. Hist. SS. XX ed. R. Wilmans, e una nuova edizione delle Gesta curata del Waitz, Hannover, 1884. Oltre Ragevino o Rahevino, che nelle antiche edizioni veniva erroneamente chiamato Radevico, e che ebbe egli stesso un continuatore anonimo, il vescovo di Frisinga ebbe un altro continuatore in Ottone da San Biagio, il quale condusse il Chronicon fino al 1209. Intorno ad Ottone di Frisinga si è scritto molto, e sono da segnalare sopra gli altri gli studî del Giesebrecht e del Wattenbach, e le belle prefazioni del Willmans alla edizione delle opere citate qui sopra. Guntheri Ligurini, De Rebus gestis Friderici I Aenobarbi, ed. pr. Basileae, 1569. Gotifredi Viterbiensis, Opera, in Mon. Germ. Hist. SS. XXII.
153. Gesta di Federico I in Italia.... a cura di Ernesto Monaci, nelle Fonti per la Storia d'Italia, pubblicate dall'Istituto Storico Italiano, e cf. Ernesto Monaci, Il Barbarossa e Arnaldo da Brescia a Roma, nell'Archivio della Società romana di Storia patria, vol. I, e W. v. Giesebrecht, Sopra il poema recentemente scoperto intorno all'imperatore Federico I, lettera al prof. Monaci. Ibid., vol. II. Il signor C. Wenck propose il dubbio che l'autore potesse essere un Thadeus de Roma, nel Neues Archiv, IX, 1 (Anno 1883), ma la sua congettura non venne accolta. Il manoscritto che contiene il poema è del secolo XIII, e in calce porta questo titolo: Gesta per imperatorem Federicum Barbam rubeam, in partibus Lumbardie et Italie. Ruggero Bonghi nel suo mirabile studio sopra Arnaldo da Brescia si giovò assai della pubblicazione del Monaci rilevandone il gran valore.
154. Ne pubblicò alcuni frammenti il Waitz nei Mon. Germ. Hist. SS. XXIV. Intorno a questo scrittore io ebbi occasione di fare alcune osservazioni pubblicando un frammento di cronaca scritto da Landolfo Colonna. Cf. Landolfo e Giovanni Colonna secondo un Codice Bodleiano, in Archivio della R. Società romana di storia patria, vol. VIII.
155. M. Tabarrini, La cronaca di Fra Salimbene da Parma. In tutto ciò che dico di Salimbene, seguo precipuamente il saggio del senatore Marco Tabarrini, uno dei più perfetti lavori usciti dalla penna di quello scrittore eminente. È stato ripubblicato tra i suoi Studî di critica storica, Firenze, 1876. Quanto al Chronicon Fr. Salimbene Parmensis, esso fu per la prima volta pubblicato nel 1857 in Parma (Monumenta historica ad provincias Parmensem et Placentinam pertinentia, vol. III). Nuove edizioni di questa cronaca sono annunziate dall'Istituto Storico Italiano e dalla Società dei Monumenta Germaniae. Intorno alla critica del testo salimbeniano e alle sue relazioni con altre cronache, si è molto discusso, e principalmente dal Clédat, dal Novati, dal Dove, dallo Scheffer-Boichorst, dallo Holder-Egger, dal Wattenbach e dal Michael. Quest'ultimo è autore di un buon libro su Salimbene. E. Michael, Salimbene und seine Cronik, Innsbruck, 1889.
156.
Suo cimitero da questa parte hanno
Con Epicuro tutti i suoi seguaci
Che l'anima col corpo morta fanno.
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . .
Qua entro è lo secondo Federico.
Dante, Inferno, X.
157. «Il guelfo Salimbene in quel suo stile caldo e abbondante ci fa sentire i palpiti del cuore italiano.» Amari, Storia del Vespro, I, 5.
158. «Reducta in solitudinem eo quod non esset nec cultor nec transiens per eam.... nec poterant homines arare, nec seminare, nec metere, nec vineas facere, nec in villis habitare.... Verumtamen prope civitates laborabant homines cum custodia militum.... Et hoc oportebat fieri propter berruarios et praedones qui multiplicati erant nimis. Et capiebant homines et ducebant ad carceres ut se redimerent pro pecunia.... Et ita libenter videbat homo hominem, tempore illo euntem per viam, sicut libenter videret diabolum.» Salimb., Chron., pag. 71.
159. Altre due opere storiche notevoli di lui sono la Cronaca Galvagnana e il Chronicon Maius. Cf. L. A. Ferrai, Le Cronache di Galvano Fiamma e le fonti della Galvagnana, nel Bullettino dell'Istituto Storico Italiano, n. 10.
160. Ne ha data una nuova edizione il Ferrai nelle Fonti per la Storia d'Italia, col titolo Historia Johannis de Cermenate.
161. Cf. Gorrini, Il Comune Astigiano e la sua Storiografia. Firenze, 1884.
162. La cronaca dello Smerego fu ristampata dal senatore Lampertico nel volume II dei suoi Scritti storici e letterari.
163. Zanella, Ferreto de' Ferreti, nel volume intitolato: Scritti varii, Firenze, Le Monnier, 1877, e cf. Morsolin, Le Fonti della storia di Vicenza, Venezia, 1881; Max Laue, Ferreto von Vicenza; e Cipolla, in Giornale storico della Letteratura, III, 229; Amari, Storia del Vespro, III, 19.
164. Ferreti Vicentini, Historia rerum in Italia gestarum ab an. 1250 usque ad an. 1318, e De Scaligerorum origine poema, in Muratori, Rer. Ital. Script., vol. IX. — Rolandini Patavini, De factis in Marchia Tarvisina, lib. XII. Ibid., vol. XII, e Mon. Germ. Hist., Script., vol. XIX. Gli altri scritti menzionati qui sopra trovansi anch'essi nella raccolta muratoriana. Anche è da ricordare una cronaca che già il Muratori aveva pubblicato col titolo di Chronicon Patavinum (Antiq. Ital., vol. IV) e di cui il professore A. Bonardi ha dato una nuova edizione nella Miscellanea di storia veneta, ser. II, t. VI, col titolo Liber Regiminum Paduae. Il Bonardi dimostra come l'autore del Liber attingesse a fonti originali che sono ora perdute. Le cronache piemontesi furono ripubblicate a Torino negli Historiae Patriae Monumenta.
165. Albertini Mussati, Historia Augusta, ap. Muratori, Rer. It. Script., vol. X, col. 417.
166. «Fine facto fremens Senatus in altum voces tulit pari assensu haec omnia sancienda dijudicans.» Ibid.
167. De Gestis Italicorum, loc. cit., col. 614.
168. Albertini Mussati Opera, Venetiis, 1636. De Gestis Henrici VII Caesaris, Historia Augusta. De Gestis Italicorum post mortem Henrici VII. Eccerinis Tragoedia, ap. Muratori, Rer. Ital. Script., vol. X. Una nuova pregevole edizione dell'Eccerinis è comparsa testé accompagnata da uno studio importante del Carducci. Albertino Mussato, Eccerinide, tragedia a cura di Luigi Padrin con uno studio di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, 1900. In un codice vaticano si sono scoperti sette libri della Historia Augusta tuttora inediti, che fanno sempre più desiderare una completa edizione delle opere storiche di Albertino Mussato. Diversi lavori sono apparsi su questo autore, tra i quali uno assai notevole di Giacomo Zanella, Di Albertino Mussato e delle guerre tra Padovani e Vicentini, in cui l'autore esamina con molta finezza oltre gli storici alcuni altri componimenti letterari, e in uno d'essi intitolato Il Sogno vede alcune relazioni colla Divina Commedia. Ne ho tratto aiuto. Veggansi anche sopra il Mussato gli scritti del Wychgram, del Cappelletti, dello Zardo, del Minoia, del Gloria e del Novati. Buono il saggio di W. Friedensburg, Zur Kritik der Historia Augusta nelle Forschungen zur Deutschen Geschichte. XXIII, 1. Il Friedensburg ha anche tradotto in tedesco il lavoro d'Albertino, di cui non esiste, ch'io sappia, traduzione italiana. Finora il Mussato è il migliore storico di sé stesso. I due Cortusi e i due Gatara zio e nipote i primi, padre e figlio i secondi, scrissero di Padova dopo Albertino, ma son di molto inferiori a lui. È necessario limitarsi a menzionarli qui in nota. Le opere loro furono pubblicate dal Muratori, Op. cit., vol. X e XVII.
169. «Scis quippe tu nostrorum actuum in Rempubblicam, fide testis Episcope, quantis domi militiaeque solertiis implicer, ut nec nox agendorum variis meditationibus suppetat, nec agendis lux diurna sufficiat.... Sed quamquam sic agitantibus vexatus anfractibus, quia in parte laborum ipse fuerim, scribendi laborem recusasse nolim, praesertim tanto permotus auctore.»
170. Le fonti della storia veneziana sono, com'è naturale, oggetto continuo di ricerche e di dissertazioni per gli eruditi. Oltre ciò che hanno lasciato su tale argomento il Muratori, il Foscarini, il Tiraboschi ed il Pertz, cito particolarmente per averne ricavato grande aiuto i due lavori del Simonsfeld e del Monticolo già mentovati, ed un altro studio del Simonsfeld sopra Andrea Dandolo pubblicato nell'Archivio Veneto. Veggansi anche i lavori del Prost nella Revue des Questions Historiques.
171. La Cronique des Veniciens de Maistre Martin Da Canal, edita dal Polidori con traduzione a fronte del Galvani. Ho adoperato questa traduzione nel frammento riportato qui sopra. La cronaca è pubblicata nell'Archivio Storico Italiano, prima serie, vol. VIII, an. 1845. Lo stesso volume contiene il Chronicon Altinate pubblicato da A. Rossi, e i frammenti della cronaca di Marco pubblicati da Angelo Zon.
172. «Certe graviorem de iis rebus scriptorem nullum proferam.» Muratori, In praef. ad A. Danduli chronicon.
173. Andreae Danduli, Chronicon Venetum, a Pontificatu S. Marci ad an. usque 1339: succedit Raph. Caresini continuatio usque ad an. 1388 nunc primum evulgata, in Muratori, Rer. Ital. Script., vol. XII. Menziono qui anche la cronaca scritta in italiano da Daniele Chinazzo sulla guerra di Chioggia tra Veneziani e Genovesi (A. D. 1378 e seg.). Ibid. vol. XV.
174. Cafari et continuatorum Annales Januenses, ed. Pertz, in Mon. Germ. Hist., vol. XIII. Agli Annali è premessa una buonissima prefazione del Pertz alla quale mi sono attenuto assai da vicino per le notizie che reco sugli annalisti. Una nuova edizione assai migliore ne dà in luce ora l'Istituto Storico Italiano nella sua raccolta. Il primo volume già pubblicato contiene gli scritti di Caffaro e gli Annali di Oberto Cancelliere fino all'anno 1173. Curò l'edizione di questo primo volume Luigi Tommaso Belgrano e vi premise una introduzione ricca di notizie e di particolari eruditi intorno ai due primi annalisti. Interrotto per la morte del Belgrano, il lavoro viene ora continuato dal marchese Cesare Imperiale di S. Angelo di cui vuolsi anche menzionare il bel libro su Caffaro. Annali Genovesi di Caffaro e de' suoi continuatori nelle Fonti per la Storia d'Italia, e cf. C. Imperiale di S. Angelo, Caffaro e i suoi tempi, Torino, Roux, 1894. Relativamente a Genova anche giova ricordare il Chronicon Genuense ab origine urbis usque ad an. 1297, di Jacopo da Varagine, noto autore della Legenda aurea. Lo pubblicò il Muratori nel IX volume dei Rerum Italicarum compendiandone la parte antica e leggendaria e conservando intera la serie dei vescovi e la parte del Chronicon più vicina ai tempi dell'autore.
175. Laurentii Vernensis, De bello Maioricano libri VII. Rer. Ital. Script., vol. VI. — Gesta trumphalia per Pisanos facta, Ibid. Bernardi Marangonis, Annales Pisani, 1004-1115, Mon. Germ. Hist. Script., vol. XIX, e colla continuazione di Michele De Vico, in Muratori, Ibid. Le opere nominate qui appresso immediatamente, in Muratori, Op. cit., vol. XI, XV, XVIII. E veggasi anche il volume VI dei Documenti di Storia italiana pubblicato dalla Deputazione Toscana di storia patria, che contiene, gli Annales Ptolemaei Lucensis pubblicati a cura di C. Minutoli, e i Gesta Florentinorum a cura di C. Milanesi. Le Croniche di Giovanni Sercambi sono state pubblicate a cura di Salvatore Bongi nella raccolta delle Fonti dall'Istituto Storico Italiano.
176. Non mi pare di dover far menzione del Petrarca, perché l'azione sua come storico si volse alla antichità classica, di cui promosse con tanto amore e con tanta fortuna la risurrezione. Tra le opere sue hanno grande importanza per la storia contemporanea le Epistolae. Per le stesse ragioni non parlo del Boccaccio di cui neppure tengo discorso per la Vita di Dante e pel Commento alla Divina Commedia che mi condurrebbe agli altri commentatori e fuori dei miei confini.
177.
L'altra traendo alla rocca la chioma
Favoleggiava con la sua famiglia
De' Troiani e di Fiesole e di Roma.
Dante, Paradiso, XV.
178. Intorno a questi primi cronisti cf. P. Scheffer Boichorst, Gesta Florentinorum in Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, vol. XII. Otto Hartwig, Quellen und Forschungen zu ältesten Geschichte der Stadt Florenz, Marburg, 1875, Halle, 1880 e le buone osservazioni del prof. Cesare Paoli su questo libro, nell'Archivio Storico Italiano, 4ª serie, t. IX. P. Villari, I primi due secoli della Storia di Firenze, Firenze, 1893-94, e specialmente il primo capitolo di quest'opera, e l'appendice in cui il Villari pubblica la cronaca già attribuita a Brunetto Latini. R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, Berlino, 1896. P. Santini, Documenti dell'antica costituzione del comune di Firenze, pubblicato dalla R. Deputazione Toscana di storia patria, Documenti, vol. X.
179. Vedasi su questo argomento il bellissimo studio di Vittorio Lami, Di un compendio inedito della Cronica di Giovanni Villani nelle sue relazioni con la storia fiorentina malispiniana, in Archivio Storico Italiano, 5ª serie t. V. Con questo lavoro il Lami si avvicinò molto alla soluzione del problema, ed è assai da dolere che la morte immatura gli vietasse di giungere ad una conclusione definitiva.
180. L'autenticità di questa cronaca è stata cagione di lunghe appassionate controversie ormai sopite, giova sperare, per sempre. L'opera ponderosa, ma dotta onesta e sagace, del professore Isidoro Del Lungo (Dino Compagni e la sua cronica, Firenze, Le Monnier, 1879-1887) ha conclusa la questione e reso doppio servigio alle lettere, provando l'autenticità della cronaca e porgendone anche una edizione assai buona. Di tutta questa questione di Dino Compagni, come l'hanno chiamata, io non farò parola, memore che il libro presente non è polemico. Solo era necessità accennare al fatto, e ricordare il libro del professore Del Lungo che mi è guida in queste pagine, e al quale dovranno sempre aver grande obbligo quanti d'ora innanzi studieranno la cronaca del Compagni. Il Del Lungo ha pubblicato anche un'altra edizione della Cronica per uso scolastico con un commento ed una prefazione eccellenti, ed ora, ristudiando il suo maggior libro, ne ha tratto un volume di pregio singolare. I. Del Lungo, Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII, Milano, Hoepli, 1899.
181. Tosti, Storia di Bonifazio VIII e dei suoi tempi.
182. Morì il 26 di febbraio del 1324. I brani della Cronica che si leggono qui sopra, sono citati secondo il testo della edizione scolastica curata da I. Del Lungo nella sua terza ristampa (Firenze, 1895). Nomino qui con sentimento di particolare riconoscenza i miei cari amici Isidoro Del Lungo e Cesare Paoli, pei molti suggerimenti che mi hanno dato mentre rivedevo queste ultime pagine relative ai cronisti fiorentini.
183. Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze. Firenze, Barbèra, 1876. Il prof. Del Lungo (Op. cit., vol. I, pagg. 971 e segg.) fa alcune eccezioni a questo giudizio del Capponi, e nella sua prefazione alla edizione scolastica scrive queste parole che pure mi sembrano meritevoli di nota: «Il libro di Dino non è una cronica, nel senso in che questa forma di narrazione si distingue dalla storia propriamente detta.... Del resto la Cronica del Compagni è proprio la storia d'un fatto determinato e speciale, cioè la Divisione di Parte Guelfa in Firenze tra Bianchi e Neri; storia nella quale spiccano, in modo rilevantissimo, gli antecedenti il mezzo e la conclusione; e dove inoltre la partecipazione dell'Autore in non piccola parte de' fatti che narra, dà alle sue pagine.... alcuno dei caratteri del Commentario.»
184. «Like our own Gibbon musing upon the steps of Ara Coeli, within sight of the Capitol, and within hearing of the monks at prayer, he felt the genius loci stir him with a mixture of astonishment and pathos.» J. A. Symonds, Renaissance in Italy.
185. G. Villani, VIII, 36.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
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