The Project Gutenberg EBook of Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. III, by Pasquale Villari This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. III Author: Pasquale Villari Release Date: March 30, 2020 [EBook #61706] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NICCOLÒ MACHIAVELLI *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
PASQUALE VILLARI
NICCOLÒ MACHIAVELLI
E
I SUOI TEMPI
ILLUSTRATI
CON NUOVI DOCUMENTI
3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore
Volume III
ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
—
1914
PROPRIETÀ LETTERARIA
46-913. — Firenze, Tipografia «L'Arte della Stampa», Succ. Landi
Via Santa Caterina, 14
[v]
La ristampa di questo volume dovette, per diverse ragioni, procedere con molta lentezza. E intanto gli studi sul Machiavelli sembravano rifiorire. Vennero infatti alla luce parecchi nuovi lavori, e prima di tutti il secondo volume del Tommasini, con un'appendice di documenti. Di questi lavori era mio debito tener conto, come cercai di fare nel miglior modo che seppi. Alcuni di essi però mi pervennero troppo tardi perchè io potessi valermene. Di uno, come il lettore potrà vedere, detti qualche ragguaglio in una nota speciale, messa dopo i documenti. Altri due ricorderò adesso.
La stampa del volume era già compiuta, quando potei vedere la terza ed ultima parte dell'opera, di cui il signor Adolfo Gerber da più tempo aveva iniziata la pubblicazione. Con essa egli ci ha dato un ampio, assai utile studio critico-bibliografico sui manoscritti, le edizioni e traduzioni delle opere del Machiavelli nei secoli XV e XVI, illustrato con molti facsimili.[1]
[vi]
Un'altra opera notevole pel biografo del Machiavelli, è quella del signor Jean Dubreton, La disgrâce de Nicolas Machiavel.[2] L'autore si è proposto di trattare quella parte della biografia, che è stata, secondo lui, a torto trascurata dagli altri. Mediante lo studio specialmente della corrispondenza epistolare con Francesco Vettori e cogli altri amici o parenti del Machiavelli, egli ha cercato di descriverne minutamente il carattere personale e privato. Nemico, come egli dice, della storia endimanchée, il Dubreton vuol far discendere il Segretario fiorentino dal solenne piedistallo, su cui lo han voluto porre gli altri biografi, studiandolo invece nella sua nudità e semplicità. L'esame imparziale dell'uomo privato varrà forse a far meglio conoscere anche l'uomo pubblico, lo scrittore.
Seguendo questo concetto l'autore ha cercato di darci un minuto ragguaglio della vita del Machiavelli nella famiglia, nella cancelleria, nei ritrovi, fermandosi sopra tutto a descrivere i più o meno illeciti amori di lui, e quelli anche dei suoi amici o compagni. Insiste moltissimo su tutte quante le sue debolezze. Delle sue legazioni, della sua vita pubblica, delle Opere, di tutto ciò che ha dato l'immortalità al Machiavelli, egli si occupa certamente, ma assai meno, rimanendo fedele allo scopo che si era proposto, al metodo che aveva dichiarato di voler seguire.
Quando noi leggemmo il libro del signor Dubreton, avevamo assai prima riveduto e stampato quei capitoli del nostro lavoro, in cui, valendoci appunto della corrispondenza privata, avevamo già trattato quella parte della biografia, su cui lo scrittore francese si era più [vii] particolarmente soffermato. Non ci era quindi possibile tornare indietro e discutere, e neppure rispondere a qualche osservazione che egli ci aveva fatta con una cortesia di cui sentiamo l'obbligo di ringraziarlo. Il Dubreton ritiene che noi ci siamo troppo poco fermati sulla vita privata del Machiavelli, che siamo stati troppo riservati, abbiamo voluto attenuare le sue debolezze, coprire le sue nudità.
Non v'ha dubbio alcuno, lo scopo che noi ci eravamo prefisso era diverso dal suo. Noi volevamo sopra tutto far conoscere il Machiavelli uomo di Stato, scrittore, patriotta. Quanto alle sue debolezze, sopra tutto ai suoi amori, spesso non molto edificanti, li abbiamo sempre ricordati; ma certo non erano ciò che più c'importava di mettere in luce. Ammettiamo che di un grande uomo è necessario conoscere tutto, anche le debolezze, anche gli errori; ma qui appunto ci permettiamo di esporre una osservazione, che risponde a quella fattaci dallo stesso autore.
Ponendo in maggior luce una parte sola, non sempre la migliore, del carattere di un grande uomo, si corre il rischio, a noi sembra, di lasciare nell'animo del lettore una impressione troppo unilaterale. È avvenuto infatti allo stesso signor Dubreton che, dopo aver descritto quella che egli chiama la mediocrità, quasi la bassezza, del Machiavelli, resta più tardi assai maravigliato di vederlo a un tratto, verso la fine della sua vita, quando la patria era in pericolo, divenir poco meno che eroico. Lo vede adoperarsi con grande entusiasmo, con ardente patriottismo, ad armare il popolo, ad apparecchiarlo alla difesa; e, allora, quasi dominato egli stesso da eguale entusiasmo, ci descrive con viva eloquenza «cette vie de médiocrité, qui sur la fin éclate en noblesse.»
[viii]
Ma se, quando descriveva, con tanta cura e precisione, le debolezze del Machiavelli, non avesse un po' troppo allontanato lo sguardo dall'altro lato più nobile del carattere di lui, sarebbe forse venuto a diversa conclusione. Avrebbe nelle sue Opere, nella fedeltà con cui servì la Repubblica sotto il gonfalonierato del Soderini, nell'irrefrenabile ardore patriottico, di cui diè prova costante sin da quando propose ed iniziò l'ordinamento della milizia nazionale, ritrovato anche quel medesimo entusiasmo, quel medesimo patriottismo, quella medesima nobiltà d'animo, che tanto ammirò più tardi. La sua maraviglia sarebbe allora cessata, e si sarebbe forse persuaso che, se di un grande uomo è necessario conoscere tutto, anche le debolezze, non è poi necessario fermarsi troppo a contemplarle, correndo il rischio di lasciare in ombra quelle più nobili qualità che costituiscono la vera grandezza di lui, quelle per cui egli appartiene alla storia.
Luglio 1913.
[1]
Leone X, la sua politica e la sua Corte.
Prima di ripigliar l'esame delle opere del Machiavelli, dobbiamo di nuovo fermarci alla storia dei tempi, coi quali esse sono in una continua relazione, e dei quali continuamente discorrono.
Leone X era salito sulla cattedra di San Pietro, destando per tutto, specialmente in Italia, grandissime speranze di sè. Il mondo era stanco degli eccessi scandalosi d'Alessandro VI, e delle audacie irrequiete di Giulio II. Si desiderava un poco di tregua e di pace; il cardinal Giovanni de' Medici sembrava perciò il papa da tutti desiderato. Il Vettori dice di lui, che «aveva saputo in modo simulare, che era tenuto di ottimi costumi.»[3] Certo aveva una generale reputazione di buono, ma anche di assai accorto, che sapeva condurre ed aggirare i cervelli degli uomini. In politica era della scuola di suo padre Lorenzo il Magnifico; ambiziosissimo del potere per sè e pe' suoi, con una grande apparenza di bonomia e di semplicità, serbando sempre quelli che a Firenze chiamavano i modi civili. Ma ciò non impediva punto che, all'occorrenza, sapesse non solo mentire ed ingannare, di che quasi menava vanto; ma porre crudelmente le mani nel sangue. Aveva anche una grande reputazione, e meritata, d'uomo liberalissimo del suo. Dava in fatti quello che aveva e quello ancora che non aveva. «Era tanto possibile,» dice lo stesso Vettori, [2] «che Sua Santità tenesse mille ducati, quanto è possibile che una pietra vada in alto da sè.»[4] «È certo che se le porte del Panteon fossero d'oro, il Papa non le lascerebbe al loro posto,» diceva uno degli ambasciatori veneti.[5] Ed un altro aggiungeva, che non solamente non sapeva tener conto alcuno del danaro, ma che i Fiorentini i quali gli si affollavano d'intorno, e dicevano d'esser suoi parenti, non gli lasciavano mai un soldo in tasca, per il che erano venuti in grande odio alla Corte.[6] Nè minore era la sua fama di mecenate, protettore e cultore delle lettere e di tutte le arti belle. Il palazzo a Sant'Eustachio,[7] quando egli lo abitò da cardinale, era divenuto ben presto un ameno ricetto d'artisti e di letterati, un museo, nel quale collocò la biblioteca Medicea, che nel 1508 aveva comperata dai frati di S. Marco, i quali l'avevano acquistata ai tempi del Savonarola.[8] Di mezzana statura, di testa grossa, d'un colore che tendeva al rosso, con occhi sporgenti, di vista corta in modo che portava sempre una lente, Leone X aveva allora trentotto anni, era vanissimo della sua bella mano, che faceva sempre vedere, ornandola di molti anelli, e più ancora della sua voce armoniosa così nel parlare, come nel cantare. Lo tormentava però molto una fistola che rendeva disgustoso l'avvicinarlo; era assai corpulento ed intollerante d'ogni fatica prolungata. Tutti i poeti cortigiani lodavano, esaltavano i suoi versi latini, che erano assai mediocri, ma che egli improvvisava con molta facilità; [3] tutti lo ammiravano ed applaudivano quando cantava e quando disputava di pittura, di scultura, di musica, d'ogni cosa. In sostanza però egli non riuscì mai a produrre nulla di originale. Era un gran dilettante, un grande amatore delle arti e delle lettere, non altro. Ed in ciò si vedeva assai chiara la sua inferiorità di fronte a Lorenzo il Magnifico, che non solo fu mecenate, ma lasciò anche una impronta personale nella letteratura del suo tempo.
Non era anche sciolto il Conclave, che lo aveva eletto (11 marzo 1513) quando il Papa nominò suoi segretari Pietro Bembo veneziano, erudito latinista, elegante scrittore italiano, amante del bel sesso, del lieto vivere, e Giovanni Sadoleto, altro latinista erudito, vago del conversare ameno e dei piaceri. Simili a costoro erano, più o meno, tutti i prelati di cui si circondò. Un luogo eminente fra loro tenne per qualche tempo Bernardo Dovizi da Bibbiena, il noto autore della scandalosa commedia La Calandra. Questi era un capo ameno, molto pratico però degli affari; aveva assai contribuito all'elezione del Papa, e ne fu compensato col cappello cardinalizio, di cui godè poco, perchè la sua salute era già rovinata, e perchè ben presto il sospetto d'avere intrigato colla Francia, gli fece perdere ogni favore, tanto che la sua morte, seguita poco dopo, venne attribuita a veleno. Quando si trovava in mezzo a questi prelati, ai suoi poeti, ai suoi artisti, Leone X pareva veramente felice. Egli manifestò la propria indole, espresse tutto l'animo suo, quando, poco dopo l'elezione, incontrando il fratello Giuliano, gli disse: «Godiamoci il papato, poichè Dio ce l'ha dato.»[9] Godersi la vita, non tanto sensualmente, quanto esteticamente, era ciò che più di tutto desiderava. «Non vorria nè guerra, nè fatica,» scriveva l'ambasciatore veneto Marin Giorgi.[10] «Pensava a ogni [4] altra cosa che a guerra,» scriveva l'ambasciatore fiorentino Francesco Vettori.[11] E pure, sebbene tutto egli sacrificasse ai desiderati piaceri, e tanto volesse la pace, fu sempre in guerra, e tenne in agitazione continua l'Italia intera.
Per la sua Corte, per i suoi piaceri e conviti, per i suoi letterati ed artisti, anche per i suoi buffoni, aveva bisogno di molti danari, il che gli faceva tentare ogni via onesta e disonesta per averli, e qualche volta da ciò nascevano dissensi, che erano poi cagioni di guerra. In fatti volse subito l'occhio alle terre di Cervia e di Ravenna, da cui si cavavano cinquantamila ducati l'anno di sale, senza riflettere che così insospettiva ed irritava i Veneziani, che le possedevano.[12] A questo s'aggiungeva una brama ardente di far parlare di sè, d'essere tenuto potente in Italia; ma soprattutto un desiderio vivissimo, che non gli dava mai pace, di rendere potenti anche tutti i suoi. «Il Papa e i suoi Medici,» scriveva l'ambasciatore veneto, «non hanno altra fantasia che di far grande la prosperità della casa, e i suoi nipoti non si contentavano d'esser duchi, ma pretendevano che uno di loro fosse re.»[13] Abbiamo già visto come questi desideri, di cui parlano tutti i contemporanei amici e nemici di Leone X, spingessero di continuo al disegno di formare nell'alta Italia uno Stato di Modena e di Parma, da estendersi poi sino a Ferrara e ad Urbino, il che naturalmente doveva esser causa di guerra cogli Este e coi Della Rovere. Un tale disegno era stato quello che aveva suggerito al Machiavelli l'idea del Principe, nel quale consigliava ai Medici, che s'allargassero addirittura a tutta Italia, riunendola ed armandola. La prima speranza del Papa [5] fu per qualche tempo di dare il nuovo Stato al nipote Lorenzo, supponendo di poter profittare degl'inevitabili garbugli d'Italia, in modo da ottenere pel fratello Giuliano il regno di Napoli. Trovata ben presto impossibile l'effettuazione del secondo e più ambizioso disegno, voleva dar Modena e Parma a Giuliano. Ma questi, che era fantastico e buono, morì nel 1516, e così restò solo Lorenzo, che aveva ventun anno, ed era, secondo l'ambasciatore veneto, «di un animo gagliardo, astuto e atto a far cose grandi, non come il Valentino, ma poco meno.»[14] Costui stimolava continuamente il Papa, tanto più che non gli piaceva punto lo starsene a Firenze, dove poteva comandar più di nome che di fatto.
V'era anche un altro Medici, di maggiore età e più autorevole, Giulio (1478-1534), figlio naturale di quel Giuliano che fu ucciso nella congiura dei Pazzi. Nato poco dopo la morte del padre, e notissimo più tardi col nome di Clemente VII, s'era dato ben presto alla vita ecclesiastica; fu poi cavaliere di Rodi, frequentò molto la Corte del cardinal Giovanni, e continuò più che mai, quando questi fu papa Leone X. S'era molto adoperato nella congiura che cacciò il Soderini da Firenze, e venne poco dopo nominato arcivescovo di questa città. Non andò guari che fu promosso cardinale, dopo essere stato prima falsamente dichiarato figlio legittimo, al modo stesso che s'era da Alessandro VI praticato pel Valentino. Insieme con lui ebbero il cappello Bernardo da Bibbiena, il datario Lorenzo Pucci ed Innocenzo Cibo, nipote del Papa per parte di sorella. Questo fu il primo passo, dice il Vettori, dato da Leone X a violare i giuramenti, cosa che incominciò subito a far mutare la buona opinione che s'era prima concepita di lui. Il cardinale Giulio veniva adoperato in tutte le più gravi faccende, e passava per un uomo accortissimo, consigliere non solo, [6] ma quasi guida del Papa.[15] Assai meno dedito ai piaceri, meno curante di fare il mecenate, reggeva meglio al lavoro, e si dava agli affari senza distrazioni. Ma il vero è, che il Papa se ne valeva come di un utile e docile strumento della propria volontà. Per cansar fatica egli adoperava sempre e molto gli altri; ma voleva far le cose a suo modo, ed ottenere il proprio intento, senza punto badare ai mezzi.
Fu sventura per lui salire al pontificato quando l'Europa era travagliata da lotte sanguinose per le gare dei grandi potentati; quando già cominciava l'agitazione della Riforma religiosa; quando l'Italia era lacerata da Francesi e da Spagnuoli, che se ne contendevano il dominio, e vi chiamavano, per farsi a vicenda aiutare, altri stranieri. Egli presumeva farsi grande moderatore della politica generale in tutta Europa. L'autorità della Chiesa, il nome della famiglia, la grande fortuna che lo aveva mirabilmente secondato, lo ponevano certo assai in alto, e facevano a molti sperare, che come suo padre era stato chiamato l'ago della bilancia d'Italia, così il figlio potesse essere arbitro delle grandi contese politiche, non solo in Italia, ma in tutta Europa. Ad ottenere un tal fine però, Leone X avrebbe dovuto avere un grande scopo ed il carattere proprio d'un uomo di Stato, lasciando da ciò costantemente regolare la sua condotta; ma questo appunto era invece ciò che gli mancava del tutto. Di certo sarebbe un grave errore il credere che, in mezzo a così gravi conflitti, egli non pensasse che ai suoi interessi personali e di famiglia. Doveva anch'esso, al pari di tutti i papi, sentire il bisogno d'assicurare lo Stato della Chiesa, e quindi, se non poteva, come aveva sperato Giulio II, cacciar dall'Italia gli stranieri, impedire almeno ad ogni costo, che uno solo di loro divenisse [7] padrone della Lombardia e del Napoletano. Non poteva un uomo del suo ingegno non vedere, che chi avesse così avuto in mano «il capo e la coda d'Italia», avrebbe circondato e stretto dai due lati lo Stato della Chiesa, privandolo d'ogni possibile indipendenza. Ma il bisogno costante, irresistibile di profittar sempre di tutto a vantaggio non solamente suo e della Chiesa, ma dei parenti, creando a ciascuno di essi uno Stato, era quel che toglieva alla sua politica ogni valore impersonale.[16] A ciò s'aggiungeva quella sua indole amante dei piaceri e del quieto vivere, senza troppi pensieri; il non prendere mai nessuna cosa sul serio; il continuo, l'eterno tergiversare senza mai decidersi; il trattare contemporaneamente con tutti nello stesso tempo, ingannando tutti con una doppiezza, di cui menava vanto, che aveva anzi elevata a principio. Quando si stringe alleanza con uno, egli diceva, non bisogna mai tralasciare d'aprir trattative anche cogli altri, per tenersi sempre aperta una via d'uscita, ed esser sempre pronto agli eventi.[17] Così la sua politica fu una serie continua d'interminabili mutazioni, un caos, [8] un laberinto in cui non è possibile trovare nessun filo conduttore, perchè nessun alto principio la guidava mai. Neppure della tremenda rivoluzione religiosa, iniziata allora da Martino Lutero, egli, indolente e scettico com'era sempre, seppe formarsi un concetto chiaro.
Che la condotta d'un tale uomo dovesse riuscire funesta all'Italia, è facile immaginarlo. Non era appena morto Giulio II, che il generale Cardona s'impadronì di Parma e di Piacenza, a vantaggio del ducato di Milano, dove governava, di nome più che di fatto, Massimiliano Sforza, giovine inesperto e debole, il quale perciò si trovava in balìa degli Svizzeri, degli Spagnuoli e dell'Imperatore, a grande dispetto del suo segretario Girolamo Morone, uomo di molto ingegno, di animo audace, irrequieto e pieno sempre di ardimentosi disegni. Il Papa si sentì allora mortalmente ferito per la perdita di quelle due città, su cui aveva fatto pe' suoi parenti grande assegnamento, e cominciò subito ad intrigare. Invitato dalla Francia, che nel marzo del 1513 aveva fatto lega con Venezia, per assaltare Milano, ricusò d'aderire, perchè non gli volevano assicurare la restituzione di Parma e di Piacenza.[18] Faceva quindi mostra d'avvicinarsi invece alla lega, che nell'aprile avevano conchiusa a Mecheln Enrico VIII e l'Imperatore, per difendere Milano e le terre della Chiesa, per assalire la Francia. Girolamo Morone era intanto corso a Roma, sperando d'avere aiuti a difesa del suo signore, ed il Papa, sebbene ancora non si sbilanciasse, gli dava danari per assoldare Svizzeri. La guerra cominciò subito. Da un lato scesero i Francesi, da un altro s'avanzarono i Veneziani; e Milano si ribellò al Duca, cui non restava altro che Como e Novara, nella quale ultima città si rinchiuse. Ma allora scesero dalle Alpi gli Svizzeri, i quali nel giugno diedero [9] alla Riotta una grande disfatta ai Francesi, mutando così lo stato delle cose. Il Cardona in fatti aderì prima in nome degli Spagnuoli, alla lega di Mecheln, e dette Parma e Piacenza al Papa, che, com'era naturale, senza più esitare, aderiva anch'egli. Assalì poi subito i Veneziani, ed arrivò sin quasi alla laguna. Nell'ottobre venne alla Motta a giornata coll'Alviano, che i Francesi avevano liberato dalla prigionia, e lo ruppe. La Francia nello stesso tempo perdette Genova, e fu in casa assalita da Inglesi ed Imperiali, che le diedero una grave rotta a Guinegatte (16 agosto 1513). Gli Svizzeri l'assalirono dalla parte di Dijon; ma al La Trémoille riuscì, con danari e larghe promesse, a farli ritirare da Milano.
Luigi XII capì finalmente che il suo interesse lo portava ad unirsi col Papa, il quale poteva suscitargli contro troppi nemici. Rinunziò quindi al Conciliabolo iniziato a Pisa, e sottomise la Chiesa gallicana al Concilio lateranense, il che era un gran trionfo per il Papa. Così fu subito conclusa una nuova lega tra lui, la Francia e l'Inghilterra. Leone X adunque si trovava adesso legato con la nazione francese, stata sempre avversa alla sua casa; anzi allora appunto s'imparentava col re Luigi XII, mediante il matrimonio di Filiberta di Savoia con Giuliano, promettendo di mandarlo ad aiutare la ripresa di Milano, con la speranza, ben inteso, d'ottenere altri vantaggi. E intanto già cercava in segreto di stringere accordi fra la Spagna, l'Impero, Venezia, Firenze e Milano, tanto per tenersi, come faceva sempre, aperta la via a gettarsi di qua o di là, secondo l'occorrenza. «Pieno di artifizî,» così scrive il Guicciardini, «voleva da un canto che il re di Francia non ricuperasse lo Stato di Milano; da un altro intratteneva lui e gli altri principi, quanto più poteva, con varie arti.»[19] È [10] quindi impossibile tener dietro alle sue mille tergiversazioni. Egli trattava con tutti e non si teneva fermo a nessuno, perchè da nessuno poteva avere le promesse ed assicurazioni che voleva pel reame di Napoli e per l'alta Italia. Tutti conoscevano però quali erano i suoi ambiziosi disegni.[20] Quando si vedeva che Giuliano se ne stava a Roma, quasi disprezzando la dimora in Firenze, si diceva dai più accorti: «Bisogna che abbi fantasia a cose maggiori, che non può essere altro che il regno di Napoli.»[21] Quando si vedeva che il Papa permetteva ai Fiorentini d'assalire i Lucchesi; quando si vedeva che invece di restituire Reggio, secondo la data promessa, acquistava Modena dall'Imperatore per 44,000 ducati, tutti capivano quali erano anche da questo lato le sue mire. Siena, Ferrara, Urbino temevano d'essere da un momento all'altro avvolte nelle reti artificiose del Santo Padre, che era perciò circondato da una generale diffidenza. Ma ora un nuovo avvenimento mutava affatto le condizioni politiche dell'Europa. Luigi XII, dopo la morte della moglie Anna, aveva sposato Maria, sorella del re Enrico VIII, bella e giovane tanto, che fu dai malevoli detto aver egli tratto d'Inghilterra «una chinea, che camminò sì forte, che in pochi mesi lo portò fuori del mondo.»[22] Egli era infatti malaticcio, aveva 53 anni, e con una moglie di soli 16, non reggendo al mutato tenore di vita, morì il primo del 1515. Francesco I, che gli successe, non aveva più di 20 anni; era pieno delle memorie di Gastone di Foix, del desiderio di vendicar le disfatte di Novara e di Guinegatte; s'era l'anno innanzi sposato con la figlia primogenita del re Luigi, la quale ereditava dalla madre il ducato di Brettagna, e dal padre le pretese su quello di Milano. Alto della persona, bello, forte, [11] d'animo cavalleresco, amante delle lettere e dei piaceri, capace di concepire e di condurre ad effetto arditi disegni, assunse, con la corona di Francia, il titolo ancora di duca di Milano, e s'apparecchiò all'impresa d'Italia. A questo fine concludeva alleanza con l'arciduca Carlo, rinnovava il trattato con l'Inghilterra, confermava quello già fatto da Luigi XII con Venezia.[23] Ma non gli fu possibile accordarsi col Papa, perchè il nunzio Canossa, vescovo di Tricarico, uomo operoso ed accorto, insisteva, secondo il solito, non solamente per Modena e Parma, ma anche per avere la promessa del regno di Napoli. A tanta insistenza Francesco I fu per perdere la pazienza. «Questa che Nostro Signore ci domanda,» egli rispose, «è troppo gran cosa, e male potremmo concederla senza gravissimo carico nostro e della Corona. Nè egli poi, nè suo fratello Giuliano avrebbero la forza di comandare e governare un regno così vasto, così irrequieto, che non stette mai a lungo sotto uno stesso padrone.»[24]
Senza perdere tempo, il Re raccolse un poderoso esercito tra la Saona, il Rodano e le Alpi, movendo finalmente per l'Italia con 60,000 uomini a piedi, 30,000 a cavallo, e 72 pezzi d'artiglieria. V'erano i celebri uomini d'arme francesi, formati dalla prima nobiltà del regno, comandati dal Re in persona. V'erano molti lanzichenecchi e molti Guasconi, questi ultimi comandati dal Navarro, che aveva disertato la Spagna.[25] Il 17 luglio intanto s'era conclusa una confederazione armata fra l'Imperatore, il Cattolico, lo Sforza ed il Papa, «per la difesa e la libertà d'Italia.» Ad aver l'adesione del Papa era stato necessario cedergli addirittura Parma e Piacenza, [12] promettendo un qualche compenso allo Sforza, che le possedeva. Raimondo di Cardona era già alla testa di otto o dieci mila Spagnuoli, e gli Svizzeri discendevano dalle Alpi in grandissimo numero. Massimiliano Sforza ed il Papa che li avevano arrolati, dovevano non solo pagarli, ma provvederli anche di buona cavalleria, la quale si trovava già pronta sotto il comando di Prospero Colonna. E oltre di tutto ciò, il Papa aveva inviato un esercito di genti fiorentine e pontificie, comandate prima da Giuliano, poi, essendosi questi ammalato, da Lorenzo de' Medici, col titolo di capitano della Chiesa e dei Fiorentini. Ma già si diceva, e si vide poi esser vero, che avevano avuto ordine di non combatter davvero la Francia, conducendosi in modo da cavare pel Papa buoni patti da chiunque vincesse, il che, com'era naturale, riuscì di grave danno al fine della guerra.[26]
Il 13 settembre 1515 i due eserciti vennero presso Marignano a giornata. Gli Svizzeri, in tre corpi di 8 a 10 mila uomini ciascuno, assalirono con vigore e fortuna le genti d'arme francesi, e s'apparecchiavano, secondo il solito, a correre sulle artiglierie, quando Francesco I venne co' suoi all'assalto, e, combattendo sino a notte inoltrata, lasciò incerto l'esito della giornata. Mandò allora ad [13] avvertire l'Alviano, perchè s'avanzasse coi Veneziani; avvertì altri de' suoi generali, e riposò qualche ora appoggiato ad un cannone, ricominciando in sull'alba a combattere. La battaglia fu fierissima, e pareva risolversi a favore degli Svizzeri, quando arrivò l'Alviano che li assalì al grido di Viva San Marco, ed allora dovettero cedere. Fecero ancora un ultimo sforzo disperato, e poi si posero in ritirata, lasciando da 7 ad 8 mila morti sul campo. Questa che il Trivulzio, il quale pur ne aveva visto tante, chiamò battaglia di giganti, recò grave danno alla reputazione per così lungo tempo goduta dagli Svizzeri, i quali d'allora in poi non furono più tenuti invincibili come pel passato. Essi, ciò non ostante, eseguirono la ritirata con ordine ammirabile; lasciarono qualche migliaio dei loro nel castello di Milano, e, ritornando alle Alpi, promisero di scender di nuovo a fare vendetta.
Francesco I, che s'era fatto sul campo di battaglia ordinar cavaliere dal Baiardo, entrò in Milano, imponendole una taglia di 300,000 ducati. Poco dopo s'arrese la cittadella, non ostante i consigli contrari del Morone, che riuscì a fuggire dalle mani dei Francesi.[27] Massimiliano Sforza, stanco ormai degli Svizzeri e dell'avversa fortuna, si pose nelle mani del Re, e, ritiratosi in Francia, si godette una pensione di 36,000 ducati senza più pensare ad altro. Il Cardona, disgustato del Papa e dei Fiorentini, le cui genti avevano sempre tergiversato, mancando poi al bisogno, se ne andò verso Napoli. Francesco I si fermò a Pavia, donde voleva muovere a prendere Parma e Piacenza, andando poi anche più oltre. Queste notizie, come è da immaginarsi, posero uno spavento grandissimo nell'animo del Papa, il quale si vedeva abbandonato dagli amici, lasciato in preda ai nemici. Nel primo giorno della battaglia di Marignano, la fama dei vantaggi ottenuti dagli Svizzeri, s'era per via ingrossata in modo che era [14] giunta a Roma, annunziando piena disfatta dei Francesi e dei Veneziani. Il cardinal Bibbiena fece subito illuminare la città, Leone X da sè stesso volle dar la grande notizia all'ambasciatore veneto Marin Giorgi. Questi però, avuto il giorno seguente lettera della Signoria, che annunziava la vittoria, vestitosi in gala, corse al Vaticano, fece svegliare il Papa, che uscì di camera sbalordito e ancor mezzo spogliato. «Padre Santo,» gli disse l'oratore, «ieri Vostra Santità mi diede una cattiva nuova e falsa, io gliene darò oggi una buona e vera: gli Svizzeri sono rotti.» E così dicendo gli mostrò la lettera della Signoria, letta la quale, Leone X esclamò tutto spaventato: — «Quid ergo erit de nobis, et quid de vobis? — «Di noi sarà bene,» rispose l'oratore, «che siamo col Cristianissimo re, e Vostra Santità non avrà male alcuno. — Ci metteremo nelle mani del Cristianissimo, domandando misericordia,»[28] — concluse il Papa, che neppure in quel momento volle dire di rimettersi nella Signoria di Venezia.
Prima d'avventurarsi a nuove imprese, Francesco I, da vero uomo di Stato, cercò di consolidare quello che aveva acquistato. Dopo quindi aver preso Brescia ed alcune altre terre, dopo aver tentato di prender Verona, che però fu difesa dall'Imperatore Massimiliano, fece un trattato con l'arciduca Carlo a Noyon (13 agosto 1516), promettendogli in moglie la propria figlia, che avrebbe portato in dote i diritti sul reame di Napoli, il che poteva metter fine a dispute e guerre altrimenti interminabili. Intanto il re Cattolico, cioè lo stesso arciduca Carlo, per la morte di Ferdinando d'Aragona (23 gennaio 1516) successo al trono della Spagna, che governava ora per mezzo del cardinal Ximenes, doveva pagare 100,000 scudi d'oro ogni anno, sino al compiuto matrimonio, necessariamente [15] ritardato per l'età troppo tenera della sposa. Carlo, autore principale di questi accordi, fece consentir Massimiliano a cedere con nuovo trattato (Bruxelles, 3 dicembre 1516), mediante pagamento di 200,000 ducati, Verona ai Veneziani, i quali si trovavano così insieme con la Francia padroni dell'alta Italia. Un'alleanza perpetua venne inoltre conclusa da Francesco I coi tredici Cantoni svizzeri (Friburgo, 29 novembre 1516), ai quali il Re dovè pagare grosse somme di danaro. E finalmente il dì 11 marzo 1517 fu concluso il trattato di Cambrai, mediante il quale Carlo, Massimiliano e Francesco I si garentivano a vicenda i propri Stati. In questo modo l'Arciduca, divenuto già sovrano dei Paesi Bassi e della Spagna, s'assicurava il dominio del Napoletano, e cominciava a spianarsi la via alla sua straordinaria potenza in avvenire. Ma per ora gli occhi del mondo restavano rivolti sempre verso Francesco I, il quale, dopo avere umiliato gli Svizzeri, se ne era assicurata l'amicizia; e dopo essersi fatto padrone del Milanese, levava dalle mani del fantastico ed irrequieto Imperatore Verona, chiave del Tirolo; si faceva assicurare i propri Stati dalla Spagna e dalla Germania, rimanendo amico dei Veneziani.[29]
Quest'opera sarebbe però rimasta incerta e precaria, se Francesco I non fosse riuscito ad assicurarsi del Papa che, restando nemico, poteva di nuovo suscitargli avversari per tutto. Furono quindi iniziate pratiche, a concluder le quali venne deliberato, che il Re ed il Papa s'incontrerebbero a Bologna. Leone X giunse in Toscana verso la fine di novembre del 1515, e a dar tempo di compiere i grandi apparecchi che si facevano in Firenze, per riceverlo solennemente, si fermò qualche giorno a Marignolle, nella villa dei Gianfigliazzi. Il 30 del mese entrò per la Porta di San Pier Gattolini,[30] di cui fu necessario [16] demolir l'antiporto, perchè il Papa potesse passare col suo numeroso seguito, del quale facevano parte diciotto cardinali. Alloggiò a Santa Maria Novella, donde si recò il giorno seguente al palazzo dei Medici, ripartendo il 3 dicembre per Bologna. Affermano i cronisti che per più d'un mese s'erano a Firenze adoperate circa duemila persone, spendendo settantamila fiorini e più, per apparecchiare le feste.[31] Le vie e le piazze, per cui doveva passare il Papa, erano piene di archi trionfali, di statue, di obelischi, di tempii, opere tutte dei migliori artisti d'Italia, che allora fiorivano in grandissimo numero nella Città.[32] Alcuni di questi lavori riproducevano antichi monumenti romani,[33] altri erano invenzioni nuove. Antonio da San Gallo aveva fatto un tempio ottagono in piazza della Signoria; Baccio Bandinelli, un gigante nella Loggia; più di tutto richiamava l'attenzione del pubblico la facciata del Duomo, condotta in legno. L'architettura, con bassorilievi e statue, era opera di Iacopo Sansovino, dipinta da Andrea Del Sarto. L'idea prima ne era stata già altra volta suggerita da Lorenzo il Magnifico.[34] Leone X, partito da Firenze, fece il 7 dicembre solenne ingresso a Bologna, dove il Re giunse l'11, per ripartirne il 15. Ritornò il Papa a Firenze il 22 dicembre, restandovi tra feste continue tutto [17] il Natale ed il Carnevale, fino al 19 febbraio, quando ripartì finalmente per Roma.[35].
A Bologna fu concluso un trattato, che era già stato formulato il 13 ottobre 1515. Con esso Leone X non solamente disdisse l'accordo già fatto con l'Imperatore; ma, quello che fu più duro al suo cuore, dovette restituire al Re Parma e Piacenza; promettere di restituire Modena e Reggio al duca di Ferrara, il quale avrebbe reso a lui la somma già pagata all'Imperatore. Francesco I prometteva dal canto suo di difendere Firenze e lo Stato della Chiesa, dare al fratello ed al nipote del Papa dignità e rendite in Francia. La Prammatica Sanzione fu abrogata con un accordo, che sempre più sottometteva la Chiesa gallicana al Re ed a Roma.[36] In questa occasione Francesco I fece due nuove domande. Chiese d'avere in dono il gruppo del Laocoonte, da poco trovato nelle Terme di Tito, e del quale era corsa per tutto il mondo la fama. Leone X che, secondo l'espressione d'un moderno, avrebbe più volentieri ceduto la testa d'un apostolo,[37] promise, con la intenzione però di dare invece una copia. La ordinò infatti a Baccio Bandinelli, ma neppur questa andò poi in Francia, trovandosi anche oggi in Firenze. Chiese inoltre che fosse perdonato al duca d'Urbino, Francesco Maria della Rovere, il quale, dopo aver preso soldo dal Papa, s'era nella guerra inteso colla Francia. Ma qui Leone X tenne duro. Aveva perduto ogni speranza su Napoli; aveva dovuto cedere Parma e Piacenza, promettere Modena e Reggio; voleva pei suoi poter fare assegnamento almeno sopra Urbino, [18] il cui duca egli odiava. Rispose, quindi, che i proprî sudditi voleva punirli, secondo che meritavano le loro colpe. Ed il Re non insistette.[38]
Il Papa s'era liberato da un pericolo imminente; ma era tutt'altro che contento. Egli odiava la Francia, si sentiva umiliato perchè nulla aveva ottenuto pe' suoi, e quindi già sottomano cercava d'avvicinarsi a Massimiliano, a Venezia, per aprirsi la via a nuovi intrighi, a nuove diserzioni. Al duca di Ferrara, che fu subito pronto col danaro, invece di cedere Modena, secondo l'accordo, dette solamente parole. Intanto apparecchiava la guerra d'Urbino, che doveva essere condotta da Lorenzo. Questi esitava, perchè vedeva la difficoltà dell'impresa; ma fu spinto dall'ambizione propria e della madre Alfonsina, dall'insistenza del Papa, che diceva di voler mantener salvo l'onore della Chiesa di fronte al Duca. Se non lo puniva, egli aggiungeva, ogni più piccolo barone dello Stato si sarebbe ribellato.[39] E pubblicò subito l'accusa di fellonia contro il povero Duca. Lorenzo, avanzatosi allora alla testa d'un piccolo esercito, fu in poco tempo padrone del Ducato, e n'ebbe dal Papa l'investitura. Ma ben presto lo spossessato Duca, secondato da Odetto di Foix, signore di Lautrec, che governava Milano per la Francia, ed era scontentissimo della mala fede del Papa; aiutato efficacemente da Federigo di Bozzolo, ardito venturiero, si pose insieme con lui alla testa di numerose bande di ventura, rimaste disoccupate dopo l'ultima guerra, e s'impadronì da capo del proprio Stato, col favore delle popolazioni. Il Papa allora, tutto pieno di sdegno, ricorse agli alleati, che trovò indifferenti e diffidenti.
Si decise perciò di assoldare nuovi capitani di ventura, parte in nome proprio, parte dei Fiorentini, che [19] così costringeva a spendere per una impresa alla quale essi erano affatto estranei ed indifferenti. La guerra intanto ingrossava con grave danno delle popolazioni, taglieggiate da tutti quei soldati di ventura, i quali, non avendo altro da fare, la portavano in lungo più che potevano. E quando le paghe non arrivavano, perchè il Papa spendendo sempre ne' suoi piaceri, pe' suoi cortigiani e protetti, si trovava a secco, essi si rifacevano saccheggiando e taglieggiando di nuovo. Lorenzo così continuava a guidare e comandare l'impresa, ma era poco o punto obbedito dai suoi. Vi furono, ciò nonostante, diversi scontri, in uno dei quali egli venne ferito, e dovette, prima di poter tornare al campo, curarsi alcune settimane a Firenze. Francesco Maria della Rovere era invece rinforzato dai soldati che disertavano il Papa; s'avanzava quindi e devastava spesso il territorio occupato dal nemico. Avrebbe allora potuto vincere, se non si fosse anch'egli trovato alla testa di bande di ventura, delle quali non poteva in nessun modo fidarsi, tanto più che dall'una e dall'altra parte erano a combattere Spagnuoli, i quali non volevano fra loro ammazzarsi. Pertanto, stanco, sfiduciato e senza denari, si decise a cedere il suo Stato, avendo con la mediazione di re Francesco e di re Carlo ottenuto di portar seco le sue robe, specialmente la libreria, con tanti sacrifizî raccolta dal duca Federigo. Così nel settembre del 1517 ebbe fine questa malaugurata guerra, che costò 800,000 ducati, buona parte dei quali il Santo Padre addossò ai Fiorentini, dando loro in assai magro compenso San Leo ed il piviere di Sestino.[40] Fu questo il tempo in cui, essendo morto Giuliano, il Machiavelli mutò la lettera dedicatoria del suo Principe, indirizzandola invece a Lorenzo, che aveva allora sperimentato che cosa erano i soldati di ventura, e trovavasi padrone [20] d'uno Stato nuovo, acquistato per fortuna e per armi. Non sembra però, come già notammo, che il piccolo volume riuscisse mai ad essere presentato ed accettato.
Questa guerra ebbe parecchie gravi conseguenze. Scontentissimi restavano i Fiorentini, per le grandi spese, cui erano stati, senza ragione, costretti, nè meno scontenti erano allora in Roma i cardinali. Sino all'aprile del 1517 Leone X non ne aveva nominati che otto; e quindi molti nel Collegio erano ancora gli eletti o aderenti di Giulio II, venuto appunto dalla famiglia Della Rovere, e dovevano naturalmente essere assai irritati dalla guerra mossa al duca Francesco Maria. E v'era già nel Collegio un'altra causa di fiero malumore. Il Papa, durante la sua ultima dimora in Toscana, s'era mescolato nelle cose di Siena, favorendo una rivoluzione, per la quale fu spossessato Borghese Petrucci figlio di Pandolfo e fratello del cardinale Alfonso, ponendovi invece un altro Petrucci Raffaele, cugino di Borghese. Ora Pandolfo era stato fra coloro che molto s'adoperarono pel ritorno dei Medici in Firenze, ed il Cardinale aveva anche assai contribuito all'elezione di Leone X. La rivoluzione promossa ora dall'ingratitudine del Papa non solo obbligava il Cardinale ad abbandonar Siena, ma lo privava ancora de' suoi averi. Egli se ne stava quindi a Roma, pieno di tanto sdegno, che portava il pugnale quando usciva a caccia col Papa, e persino quando andava in Concistoro, sperando d'avere occasione ed animo alla vendetta. Cercava intanto e trovava aderenti ad una congiura, e questi crebbero di numero per la guerra d'Urbino. Guadagnò facilmente l'animo del cardinal Soderini, che non aveva mai perdonato al Papa la cacciata del fratello ex-gonfaloniere, sebbene questi sembrasse viversene tranquillo ed onorato in Roma, dove morì poi nel 1522, e fu sepolto in Santa Maria del Popolo. Nè aveva mai perdonato la promessa fatta e non mantenuta del matrimonio fra casa Medici e casa Soderini. Il cardinal Riario, che era parente dello spodestato [21] duca d'Urbino, tenuto in disparte e non curato dal Papa, s'unì anch'egli ai malcontenti. Tutto era pronto, quando furono intercette alcune lettere del cardinal Petrucci al suo segretario, dalle quali appariva che la congiura era ordita e vicina ad avere effetto. Un chirurgo assai celebre, Battista da Vercelli, che veniva a Roma sotto colore di curare il Papa della sua fistola, doveva amministrargli il veleno. Senza indugio vennero allora messi in carcere i cardinali Petrucci, Sauli e Riario. Il primo fu strangolato; il suo segretario ed il chirurgo, che fu preso a Firenze, finirono fra atroci tormenti. Il cardinal Sauli venne liberato pagando 50,000 ducati, ed il cardinal Riario fu condannato a pagarne 150,000. I cardinali Soderini ed Adriano, che furono in Concistoro costretti a confessare la loro partecipazione alla congiura, vennero condannati in 12,500 ducati ciascuno. Quando però avevano già convenuto di dover essere liberati mediante una tal somma, questa venne dal Papa raddoppiata, ed essi si dettero allora alla fuga. Il primo fu lasciato vivere tranquillo a Palestrina, il secondo fu degradato e privato dei suoi averi.[41]
In tutto questo processo Leone X dette prova d'una gran mala fede, perchè egli volle non solo punire i colpevoli, ma far le sue vendette, e profittar della congiura, per cavar dai cardinali più danaro che poteva, avendone in quel momento grandissimo bisogno. E di ciò s'ebbe nuova conferma quando, il 26 giugno 1517, nominò in una sola volta 31 cardinali, dai quali ebbe una somma grossissima, che si disse ascendere sino a 500,000 ducati, che tuttavia non bastavano alle larghe e continue spese. Con una così scandalosa infornata di cardinali, il Papa mirava anche a riempire il Collegio di sue creature, ed avere in esso una sicura maggioranza, che lo secondasse nelle faccende politiche, e non ponesse ostacolo [22] alla elezione, che voleva allora fare al cardinalato, del cugino Giulio, il quale in gran parte aveva anche consigliata e condotta la lucrosa operazione.[42]
Leone X cercava intanto di trar profitto dalla Francia, valendosi dell'opera di Francesco Vettori, che trovavasi colà ambasciatore dei Fiorentini, e per mezzo di lui concluse il matrimonio fra Lorenzo de' Medici e Maddalena de la Tour d'Auvergne, congiunta alla famiglia reale. Nel marzo del 1518 Lorenzo andò ad Amboise con un lusso non minore di quello del Valentino, con doni ricchissimi per la sposa e la regina, doni ai quali si attribuiva il valore di 300,000 ducati. Egli tenne a battesimo il Delfino, e fu tra continue feste, che si ripeterono poi al suo ritorno in Firenze, dove ricominciò a governare, sempre però con poca voglia di restarvi;[43] giacchè non poteva fare a suo modo, ma doveva destreggiarsi fra i repubblicani della Città, e gli ordini imperiosi del Papa, che lo voleva docile strumento ai suoi disegni. Stando al giudizio del Vettori, ed a quello ancora più esplicito del Machiavelli, Lorenzo s'era finalmente persuaso che solamente con quelli che chiamavano i modi civili, si poteva governare Firenze, ed era così riuscito ad essere accetto ai Fiorentini.[44] Ma pare che appunto per la necessità di governare in tal modo, e per la sua mal ferma salute, sempre più affranta da vecchi [23] morbi e da continui vizî, si fosse di tutto ciò annoiato; onde se ne andò a Roma, dove ben presto fu chiaro che s'avvicinava rapidamente alla morte. Non volle allora altra compagnia che quella del cognato Filippo Strozzi e di un buffone, il quale pareva gli fosse unico conforto nelle ultime ore della sua vita, che finì il 4 maggio 1519. Sei giorni prima era morta la moglie, dopo aver partorito una figlia, che fu la celebre Caterina dei Medici, divenuta poi così infausta regina alla Francia. Giuliano era già morto il 17 marzo 1516, e quindi con Lorenzo finiva la stirpe legittima di Cosimo il Vecchio. Non restava che il Papa e qualche figlio illegittimo, fra i quali principalissimo il cardinal Giulio, che venne ora a governare Firenze. Uomo pratico degli affari, prudente, semplice nel vivere, ecclesiastico e però anch'egli senza eredi, faceva sperare che gli dovesse riuscire più agevole il governare con quella civile temperanza e quella apparenza di libertà, tanto amate dai Fiorentini. Fu questo infatti il momento nel quale molti autorevoli cittadini vennero consultati sulla forma di governo più adatta a Firenze; e si ebbero, come vedremo, molti pareri, fra i quali uno dal Guicciardini ed uno dal Machiavelli. Il primo consigliava al solito un governo ristretto in mano di pochi amici fidati; il secondo, invece, un governo fondato sul favore del popolo,[45] com'era stata sempre sua costante opinione. Ma tutti questi discorsi rimasero discorsi.
Le cose d'Europa intanto s'ingarbugliavano di nuovo, ed il Papa, sebbene non avesse più il fratello Giuliano, nè il nipote Lorenzo cui pensare, pur teneva sempre con la stessa avidità rivolti gli occhi a Parma, Piacenza, Ferrara e Perugia, che voleva adesso avere per tutelare, così almeno diceva, l'indipendenza della Chièsa. Un tentativo [24] fatto contro Ferrara verso la fine del 1519, gli andò a male. Nel seguente anno gli riuscì invece un assalto improvviso contro Perugia, donde s'era allontanato il signore Giovan Paolo Baglioni. Questi, sebbene si fosse sempre condotto da volpe e da lupo, ora si lasciò invece, come un agnello, cadere nelle mani del Papa, che, invitatolo prima colle lusinghe, lo prese e decapitò poi in Castel Sant'Angelo, nel giugno del 1520.
Intanto, ai primi del 1519, era morto Massimiliano I, e cominciò subito la gara tra re Carlo e Francesco I per la corona imperiale. Il Papa, che non voleva la elezione nè dell'uno nè dell'altro, trattava in segreto con ambedue, e sperava di veder riuscire invece qualcuno dei principi elettori della Germania. Alleato della Francia, egli aveva nello stesso tempo discusso un accordo segreto con Carlo, da durare tutta la loro vita. Sembra però che, saputo appena della morte di Massimiliano, non volesse più firmarlo, e concludesse invece una capitolazione con Francesco I, mostrando di volerlo favorire nella elezione. Parlavasi anche d'un altro segreto accordo con Francesco Maria Sforza, figlio del Moro, erede presuntivo della Lombardia, tenuta sempre dai Francesi. Lo Sforza, dicevasi, avrebbe fatto cessione di tutto al cardinal Giulio, ricevendone in cambio il cappello cardinalizio, la cancelleria ed i benefizî che questi godeva allora, con l'entrata di cinquantamila ducati.[46] Ma il 28 giugno 1519 veniva eletto come re dei Romani Carlo, che fu quinto di questo nome. Giovane, ambizioso, di grande ingegno politico e militare, egli univa adesso la potenza dell'Impero alla sovranità della Spagna, dei Paesi Bassi, del reame di Napoli; era quindi prevedibile, che fra poco sarebbe stato l'arbitro dei destini dell'Europa. Il Papa perciò insisteva sempre di più per stringere alleanza con [25] la Francia; aveva anzi già firmato il trattato, e lo inviava a Francesco I, che esitava, temendo sempre i soliti inganni. E allora, senza perder più tempo, strinse invece accordo con Carlo V, il quale gli promise non solamente di difendere gli Stati de' Fiorentini e della Chiesa; ma di cedergli anco le tanto agognate provincie di Parma e Piacenza, di aiutarlo contro il duca di Ferrara. Milano sarebbe stata ripresa per darla a Francesco Maria Sforza; e pel cardinal Giulio, che aveva promosso e condotto questo trattato, fu stipulata una pensione sul vescovado di Toledo; un'altra fu stipulata pel fanciullo Alessandro, bastardo del duca Lorenzo.[47]
Si disputò assai lungamente sulle ragioni che potevano aver indotto il Papa a gettarsi così repentinamente nelle braccia di un principe tanto potente, rendendolo ancora più potente, abbandonando il re di Francia, col quale s'era poco prima imparentato. Si pretese da alcuni che lo avesse fatto per dar forza a Carlo V contro la Riforma, che vedeva sorgere minacciosa. Ma coloro che più lo conoscevano, negarono fede a tali supposizioni, inclinando a non vedere in lui altro che ragioni d'interesse personale, sopra tutto l'eterno desiderio di aver Parma e Piacenza, che Francesco I non volle dare, e Carlo V promise. Così dice il Vettori, che era stato allora ambasciatore fiorentino in Roma ed in Francia.[48] Il Guicciardini nega anch'egli risolutamente, che il Papa fosse in tutto ciò mosso da alcun vero interesse per la religione, ed anzi attribuisce a colpa di lui il progresso che fece la Riforma, pel modo scandaloso con cui lasciava vendere le indulgenze pei vivi e pei morti, a solo fine di far danaro. La indignazione salì al colmo, egli dice, quando si videro molti ministri vendere per poco prezzo, o giocarsi nelle taverne la facoltà di liberare le [26] anime dei morti dal Purgatorio, e quando si sentì che il Papa, con incredibile leggerezza, aveva concesso a sua sorella Maddalena l'emolumento e la esazione delle indulgenze in molte parti della Germania.[49] «Forse,» egli conchiude altrove, «il Papa fu mosso dal desiderio di aver Parma, Piacenza e Ferrara; forse dalla paura di vedere i due sovrani unirsi a suo danno, e forse anche dalla speranza di fare qualche gran cosa prima di morire. Il cardinale dei Medici, conscio di tutti i segreti del Papa, mi disse che questi sperava cacciar prima con l'aiuto di Carlo V i Francesi da Genova e da Milano; poi, con l'aiuto dei Francesi, Carlo V dal Napoletano, vendicandosi quella gloria della libertà d'Italia, alla quale aveva prima manifestamente aspirato l'antecessore. Sapeva bene, che questo non gli poteva riuscire colle proprie forze, e che non era facile avere poi per alleato colui che aveva prima combattuto; ma pure sperava che a suo tempo avrebbe potuto, con elezione di cardinali francesi e con altre lusinghe, indurre il Re ad aiutarlo, e quasi pigliare in luogo di sollazzo, che a Cesare accadesse il medesimo che era accaduto a lui.»[50] E questo è il più probabile. Sebbene dominato sempre da personali interessi e poco curante della religione, Leone X era pure un uomo d'ingegno ed assai ambizioso. Non avendo omai eredi a cui dover pensare, lasciavasi più facilmente indurre a meditare qualche disegno grandioso e d'interesse generale, che potesse farlo passare appresso i posteri come principe liberatore. Ma anche in ciò era come sempre mutabile ed incerto; e quindi ora lasciava credere, e forse anche credeva per un momento egli stesso, di voler ricostituire la repubblica in Firenze; ora mostrava e pareva davvero che volesse, come il suo predecessore, liberare l'Italia dagli stranieri, [27] ed assicurare lo Stato della Chiesa. Questa grande, sebbene incerta e mutabile ambizione, fu quella che più volte illuse il Machiavelli, il quale, dominato come era sempre dai suoi ideali politici, troppo facilmente sperava. Così era stato ispirato a scrivere il Principe, e tante lettere aveva mandate al Vettori e ad altri, per alimentare una fiamma, la quale, quando più sembrava riaccesa, spegnevasi da capo a un tratto, senza lasciare alcuna traccia di sè.
Il Papa aveva sino all'ultima ora vacillato anche con Carlo, ma questi lo fece decidere con la minaccia d'un Concilio, e così finalmente il giorno 29 maggio 1521 fu firmato il trattato, e subito si cominciò la guerra. Insieme coi Fiorentini mise in pronto 600 uomini d'arme; altrettanti ne conduceva da Napoli il Marchese di Pescara Ferdinando d'Avalos, con 2,000 fanti. Al campo imperiale si trovavano già 2,000 Spagnuoli, 4,000 Italiani ed altrettanti fra Tedeschi e Grigioni. Francesco Guicciardini, che era pel Papa governatore di Reggio, mandò 10,000 ducati al Morone, che se ne stava a Trento presso Francesco Maria Sforza, coi fuorusciti milanesi, per scendere ad assalire i Francesi dalla parte di Parma. V'era però sempre una generale e grandissima diffidenza del Papa, temendosi che, avuto una volta quel che voleva, abbandonasse gli amici. Sapevasi bene che anche i Fiorentini assai di mal animo combattevano contro la Francia, avendo grandissimi interessi commerciali in quel paese. Da un altro lato però i Francesi erano malissimo comandati, essendo per intrighi di Corte caduti in disgrazia e stati allontanati dal campo i migliori generali, come il Conestabile di Borbone ed il vecchio Trivulzio, dando invece il comando dell'esercito a Odetto di Foix, signore di Lautrec, il cui merito principale era quello d'esser fratello della contessa di Châteaubriand, amante del Re. Così ne avvenne che i capitani imperiali poterono condurre l'esercito nel Mantovano, e, dopo aver [28] passato prima il Po e l'Adda, s'unirono agli Svizzeri, già arrivati colà, e tutti insieme andarono verso Milano, che il Lautrec non seppe difendere, e fu subito presa.[51]
Leone X se ne stava alla sua villa di Magliana, quando il 28 novembre gli giunse la fausta nuova, e ne fece gran festa, esclamando: questo mi piace più del Papato. Era d'inverno, egli teneva nella stanza acceso il fuoco ed aperta la finestra, alla quale accorreva di continuo per vedere coloro che facevano sollazzo celebrando la vittoria. Questo bastò a far peggiorare di molto un raffreddore che aveva preso alla caccia, e che, essendosene egli tornato subito a Roma, lo condusse colà a morte il dì 1º dicembre, quando già Parma e Piacenza erano state occupate, ed il duca di Ferrara trovavasi circondato e stretto dai soldati della Chiesa. Al solito si parlò anche di veleno, e si fecero molte ipotesi senza fondamento. Il continuo e rapido passaggio dal caldo al freddo, era più che sufficiente a provocare la febbre che lo uccise. Il Vettori osserva, a questo proposito, essere piuttosto da meravigliarsi che non fosse morto prima. Sebbene avesse solo 46 anni, non era punto d'una forte costituzione. «Il suo capo era di una grossezza assai poco proporzionata al corpo, sempre pieno di catarro, e neppure poteva egli dirsi regolato nel vivere, perchè a volte digiunava troppo, a volte invece eccedeva nel mangiare. Ebbe nella sua vita molte vicende; ma gli ultimi otto anni furono davvero fortunatissimi, così pel suo ritorno a Firenze, come per la elezione, e continuò durante tutto il papato, nel quale quanti più errori commise, a tanti più rimediò la fortuna, la quale anche nella congiura dei cardinali gli dette modo di rinnovare il Collegio, empiendolo di suoi amici. Non voleva [29] noie, eppure se ne procurò molte, pel continuo desiderio d'ingrandire i suoi; ma la fortuna, per favorirlo sempre, lo liberò anche da questo pensiero, levandogli, oltre al fratello, il nipote.»[52] E dopo di ciò il Vettori rimane incerto, se in Leone X vi fosse più da lodare o da biasimare. Anche il Guicciardini dice, che in lui si trovava molto dell'uno e molto dell'altro, essendo riuscito più prudente ed assai meno buono che non era stato prima giudicato.[53] La sua morte fu pianta assai dai ricchi banchieri, che gli avevano prestato grandi somme che perdettero, e dai moltissimi cortigiani coi quali egli era stato sempre largo di favori. Contro di essi e contro del Papa uscirono allora sonetti e satire pungenti. Nè mancò chi scrisse da Roma, che questi era morto con pessima fama, e che solo fra Mariano buffone gli aveva raccomandato l'anima.[54]
Certo non poche furono le contradizioni e singolarità del suo carattere. In mezzo ai più grandi avvenimenti politici, quando si combattevano continue e sanguinose battaglie; quando la Riforma divideva, lacerava la Chiesa, Leone X passava il suo tempo fra artisti e letterati, sopra tutto fra improvvisatori, cantori e buffoni. Vago della musica, vanissimo sempre della bella mano e della voce armoniosa, pigliava parte ai concerti de' suoi cortigiani, facendo lauti doni a chi accompagnava il suo canto. Giuocava di continuo agli scacchi ed alle carte coi cardinali; ma più di tutto si dilettava a sentire improvvisare in latino, anche in ciò facendo egli stesso a gara cogli altri, beffandosi di coloro che si credevan poeti solo perchè avevano facilità di far pessimi versi. Molti erano i suoi poeti istrioni. Celebre fra gli altri un Andrea Morone da Brescia, pel suo porgere e per l'arte con [30] cui s'accompagnava colla musica. Credesi che Raffaello lo ritraesse nel suo celebre sonatore di violino. Un altro, per nome Camillo Querno, aveva scritto un poema di ventimila versi, pei quali l'Accademia Romana gli dette una corona di cavoli e d'alloro, e per maggior dileggio anche il titolo d'archipoeta. Il Papa soleva dargli di buoni bocconi, e porgendogli da bere nel proprio bicchiere, annacquava il vino se i versi non riuscivano; se invece gli piacevano, rispondeva subito improvvisandone altri.
Archipoeta facit versus pro mille poetis,
diceva il Querno, ed il Papa rispondeva, riempiendo il bicchiere:
Et pro mille aliis archipoeta bibit.
Il Querno chiedeva da bere:
Porrige, quod faciat mihi carmina docta, Falernum;
ed il Papa ricordavagli, che il vino promuove la podagra:
Hoc etiam enervat debilitatque pedes.
Una simile gara aveva luogo anche tra Leone X e le donne gentili, quando v'erano in Corte di quelle che avevano il dono dell'improvvisare latino. Un giorno, trovandosi fra di esse, egli ripeteva un mezzo verso di Virgilio, dicendo: ora posso davvero chiamarmi formosi gregis pastor; ed una, più pronta delle altre, compiendo il verso, aggiungeva: formosior ipse.[55] Il Baraballo, altro infelicissimo verseggiatore, che aveva sessanta [31] anni, e credevasi un secondo Petrarca, era sempre lo zimbello della Corte e del Papa, senza mai avvedersene. Un giorno gli fecero credere di volerlo coronare in Campidoglio, e lo menarono in processione, vestito all'antica, sopra un elefante, tra le acclamazioni della plebe. Arrivati sul Ponte Sant'Angelo, finirono improvvisamente la commedia, con un pretesto qualunque, abbandonando il pover uomo, che rimase sbalordito, senza mai di nulla avvedersi.[56]
La più grande spesa di questo Papa, che aveva una rendita di 420,000 ducati, e faceva sempre nuovi debiti, era la mensa, alla quale accorrevano poeti, cortigiani, cantori, buffoni, parenti veri o supposti, sopra tutto Fiorentini. «A papa Giulio II,» dice un oratore veneto, «bastavano circa quattromila ducati il mese; ma a Leone X non bastavano, per la grande spesa del suo tinello, neppure otto o novemila, e la causa principale di ciò era che molti Fiorentini andavano in tinello a mangiare.»[57] Dicemmo che di rado eccedeva, perchè troppo epicureo; ma la sua mensa era occasione a mille ritrovi, a mille facezie. Ora imbandiva ai suoi parassiti carne di scimmia o di corvo, ora invece cibi delicati. Spesso lasciava la Città, andando a caccia vestito da laico, sempre con la sua lente in mano; altre volte pescava nel lago di Bolsena, o se ne stava alla Magliana, dove aveva bellissimi giardini. E da per tutto lo seguiva uno sciame di poeti, letterati, artisti e cantori, nelle strade, in villa, al Vaticano, e perfino nella sua camera; nè gliene doleva, che anzi amava esser sempre circondato e corteggiato. Un altro de' suoi divertimenti prediletti era la commedia, che egli promosse ed incoraggiò molto, contribuendo così al progresso che essa fece allora. Più volte ne furono [32] rappresentate innanzi a lui del Trissino, del Rucellai, dell'Ariosto, oltre la famosa ed oscena Calandra del Bibbiena, che era fra le preferite, e per essa le scene furono nel 1518 dipinte da Baldassarre Peruzzi. Nel 1519 vennero rappresentati i Suppositi dell'Ariosto in Castel Sant'Angelo, presso il nipote cardinal Cibo. Il Papa fece però le spese della festa, e quindi anche gli onori di casa, ricevendo e benedicendo gli ospiti. Entrato nel teatro, seduto in luogo eminente, ammirò a lungo con la sua lente la scena, che era stata dipinta da Raffaello. Sul sipario era ritratto fra Mariano buffone, in mezzo a diavoli che lo tormentavano. Poi vi fu una splendida cena offerta a cardinali, cavalieri e signore, fra le quali molto si rallegrava il Santo Padre.[58]
È notevole però che con tanto ingegno e tanto gusto, quanto ne aveva di certo Leone X; con sì vivo desiderio d'essere, come fu di fatto, un gran mecenate, egli fosse quasi sempre circondato da letterati assai mediocri, in un secolo che pur ne ebbe di grandissimi. Il Bembo, il Sadoleto, il Molza ed il Rucellai, non certo uomini di genio, ma pur di molto ingegno, erano fra i migliori; gli altri, quasi tutti al di sotto del mediocre, troppo spesso semplici pedanti o anche veri buffoni. Leone X non ebbe la gloria nè la fortuna d'incoraggiare nessuna delle più grandi opere letterarie del suo tempo. Nulla debbono direttamente a lui le storie e gli scritti politici del Guicciardini e del Machiavelli, sebbene questi fosse mosso più volte dalla speranza di riuscirgli accetto, e quegli fosse da lui molto adoperato negli affari di Stato. Il più grande poeta del secolo, Lodovico Ariosto, che il Papa aveva da cardinale assai ben conosciuto, facendogli mille profferte, [33] venuto a Roma, non ebbe da lui che parole. Lo accolse con grandi dimostrazioni d'affetto, gli baciò le gote; ma lì finì tutto. «Sono,» scriveva egli allora, «come quella gazza che in tempo di siccità e di gran sete, trovata che fu l'acqua, dovette aspettare che bevessero prima il padrone, i parenti, i servi, gli armenti, gli animali utili, fino a che non le restò che il morire di sete. Così per me in Roma non v'è nulla da sperare.»
Li nipoti e i parenti, che son tanti,
Prima hanno a ber; poi quei che lo aiutavo
A vestirsi. . . . . . . . . . . . .
Se fin che tutti beano aspetto a trarme
La volontà di bere, o me di sete
O secco il pozzo veder d'acqua parme.
Meglio è star nella solita quïete,
Che provar s'egli è ver che qualunque erge
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.[59]
Quanto alle arti belle, le cose andarono assai diversamente. Per la scultura e per l'architettura, è vero, egli non fece molto. Michelangiolo venne da lui trascurato, costretto a perder tempo nel far cavare blocchi di marmo a Carrara, nel far lavorare colonne, o ebbe ordine di eseguire opere alle quali il suo genio non si sentiva punto inclinato, che spesso non finiva, e qualche volta neppure incominciava. I celebri monumenti a Lorenzo ed a Giuliano de' Medici, fatti in quel tempo, nella sagrestia nuova di San Lorenzo in Firenze, sono dovuti alla iniziativa del cardinale Giulio, non del Papa. Questi s'occupò certo assai della fabbrica di San Pietro, con grande ardore cominciata già dal suo predecessore; e per continuarla, vendette con scandalo di tutto il mondo cristiano, le indulgenze per le anime dei defunti. Ma il danaro raccolto [34] in questo modo così biasimevole, valse più ad affrettare lo scoppio della Riforma, che a far progredire la costruzione del tempio, la quale allora avanzò meno che sotto tutti gli altri papi. Nessuno potrà tuttavia mettere in dubbio il moltissimo che Leone X fece a pro' della pittura, specialmente per opera di Raffaello, che egli amò e protesse tanto, che pensava di farlo addirittura cardinale. È bensì vero che anche per la pittura Leone X non fece altro che spingere innanzi le grandi imprese già prima iniziate da Giulio II; ma è pur certo che, in questi anni, da lui spronato, incoraggiato, lusingato, Raffaello dette prova d'una febbrile attività, producendo un numero veramente sterminato di opere immortali, che n'eternarono la fama, ma gli abbreviarono la vita, e ne resero più deplorata la morte immatura.
Quando fu eletto Leone X, Raffaello lavorava alla sala dell'Eliodoro, ed appena che l'ebbe finita, pose mano a quella dell'Incendio di Borgo. I soggetti che all'artista vennero ora dati, a differenza di quelli suggeriti sotto Giulio II, avevano qualche cosa di più circoscritto, e diremo anche di più personale, per la maggiore vanità del nuovo Papa, che voleva far troppo chiaramente trasparire le allusioni alla propria persona. La sua figura s'avanza assai spesso in primo piano, con danno qualche volta delle creazioni dell'artista. Nei medesimi anni questi pose mano ai lavori delle Logge vaticane, costruite dall'architetto Bramante, e le coprì d'ornati, di rabeschi, di composizioni diverse, dipinte da' suoi scolari, ma disegnate e dirette da lui. Fu così l'inventore d'un genere nuovo, ispirato dagli antichi monumenti, ma proprio della sua fantasia e del Rinascimento italiano, di cui si direbbe quasi un'artistica cornice. Dipinse la Santa Cecilia e lo Spasimo; disegnò le mirabili storie della Psiche, dipinte poi dai suoi migliori allievi nella Farnesina; fece un numero grandissimo di ritratti. [35] Sotto il pontificato di Leone X furono concepite e condotte ancora la Madonna di San Sisto e la Trasfigurazione, che son certo fra le opere maggiori del grande artista. Egli fu dal medesimo Papa costituito sopraintendente per le arti belle e per gli scavi in Roma. Lavorò quindi moltissimo a misurare, a disegnare i monumenti antichi, a dirigere i lavori per scoprirne altri.[60] E con l'aiuto del suo amico Andrea Fulvio, del suo segretario Marco Fabio Calvo da Ravenna, si pose alla difficile opera d'una pianta archeologica di Roma, fondata sullo studio dei monumenti. Questo lavoro, da Raffaello iniziato, fu dopo la sua morte continuato e compiuto da' suoi compagni. Di lui ci resta solamente qualche disegno ed un proemio sotto forma di lettera a Leone X, piena di calda ammirazione per gli antichi. Attribuita dapprima a Baldassarre Castiglione, che forse ne corresse la forma, e col suo nome pubblicata, essa fu poi, nei giorni nostri, rivendicata a Raffaello suo vero autore.[61] Non si capisce come le forze d'un uomo solo potessero bastare a tanto; ben si capisce com'egli morisse nella giovane età di 37 anni. L'ardore costante, sincero con cui Leone X lo ammirò e protesse, rimarrà sempre l'aureola che splende più viva intorno alla immagine di questo Papa che dette nome al suo secolo.
Che a promuovere tali e tante opere egli profondesse tesori, ognuno lo capisce facilmente. Se poi si aggiunge che, largo sempre d'aiuti e remunerazioni agli artisti, non era meno largo ai suoi cantori, sonatori e parassiti, [36] non ci sarà da maravigliarsi, che si trovasse sempre in bisogno di danari. Giulio II aveva avuto l'uso di prendere l'eredità dei prelati che morivano in Roma, come già aveva fatto Alessandro VI, il quale a tal fine, ricorreva spesso anche alla iniquità di farli morir di veleno o di ferro. Leone X, in ciò assai più umano ed accorto, abbandonò la scandolosa usanza, e tutti si sentirono più sicuri. Così a Roma accorse gente d'ogni parte, per godere la vita allegra, la tranquillità nuova e la generosa protezione del Papa, che morendo lasciò un gran cumulo di debiti. Doveva al banco Bini 200,000 ducati, ai Gaddi 32,000, ai Ricasoli 10,000, al cardinal Salviati 80,000, al cardinal Santi Quattro 150,000, ed altrettanti al cardinale Armellini. Gli Strozzi furono addirittura per fallire; molti de' suoi intimi restarono rovinati. La Camera apostolica si trovò vuota in modo, che pel funerale di colui che era stato il più splendido dei papi, s'adoperarono le candele di cera poco prima servite per le esequie del cardinale Riario.[62]
[37]
Il Machiavelli e la sua famiglia in villa. — I suoi figli. — Corrispondenza col nipote Giovanni Vernacci. — Viaggio a Genova. — Gli Orti Oricellari. — Discorsi del Guicciardini. — Il Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze. — Commissione a Lucca. — Sommario delle cose di Lucca. — Vita di Castruccio Castracani.
Il gusto letterario e la moda prevalente nella Corte di Leone X avrebbero dovuto consigliare al Machiavelli di porsi a scrivere poesie, satire, commedie. Da questi lavori poteva certo sperare maggior fortuna, ed egli vi era anche inclinato, come aveva con qualche primo saggio dimostrato, e come dimostrò anche meglio più tardi. Noi lo abbiam visto scrivere i suoi Decennali in mezzo a una moltitudine d'affari, che appena gli lasciavano qualche riposo; lo abbiamo visto, dopo le sue disgrazie, passar buona parte del giorno sotto gli alberi del proprio bosco, accanto ad una fonte, leggendo poeti italiani e latini. Da una lettera che scrisse a Lodovico Alamanni in Roma, il 17 dicembre 1517, si vede che, avendo letto con grande ammirazione l'Orlando Furioso dell'Ariosto, si doleva di non esser da lui stato annoverato fra i molti poeti che nominava. Ed aggiunse, che stava allora scrivendo il suo poema l'Asino, nel quale avrebbe invece reso giustizia al merito eminente dell'Ariosto, che lo aveva dimenticato.[63] Ma questo poema del Machiavelli, che contiene molte allusioni satiriche a' suoi contemporanei, rimase presto interrotto, e se egli compose allora, come fece di certo, altre poesie e lavori puramente letterarî, non furono cose di lunga lena. L'animo suo era troppo addolorato dagli ultimi fatti seguiti in Firenze, dalle sventure [38] che lo avevano colpito; la sua mente era ancor tutta piena delle immagini e memorie del passato; la sua attenzione era troppo vivamente rivolta a meditare sugli avvenimenti che ogni giorno turbavano l'Europa, minacciavano l'Italia. E però solo gli scritti politici potevano allora dargli qualche conforto, perchè solo essi riuscivano ad impadronirsi veramente dell'animo suo, ad occupare tutte le sue facoltà, facendogli per poco dimenticare il triste stato in cui era condannato a vivere.
Egli continuava a starsene in villa, dove aveva scritto e ritoccava il Principe, continuava i Discorsi, finiva l'Arte della guerra. Posta fra le colline che circondano Firenze, lontana alcune ore da essa, pareva che questa villa, chiudendolo fra boschi e poderi, lo separasse dal natìo luogo, che era stato la sede della sua attività, delle sue gioie, delle fallite speranze e delle sventure. Si sentiva colà come isolato dal mondo, cercava pace nella solitudine e nello studio; pure, guardando a tramontana, di mezzo all'ondeggiar delle vaghe colline, ricomparivano la cupola, il campanile, la torre di Palazzo, a ricordargli continuamente il passato, a non fargli mai dimenticare il presente. Aveva allora cinque figli, quattro maschi ed una femmina. Bernardo, il primo, era nato il dì 8 novembre 1503;[64] Pietro, l'ultimo, il 4 settembre 1514.[65] Degli altri tre, Lodovico, Guido e Bartolommeo, l'età [39] non è certa. Ma in ogni modo la famiglia era numerosa, il patrimonio assai povero, e questi figli davano non poco pensiero. Qualcuno, come Pietro, che ebbe poi vita assai avventurosa nelle armi,[66] era ancora in età tenerissima. Guido era anch'egli fanciullo, giacchè da una sua lettera del 1527, come vedremo, apparisce che allora studiava tuttavia grammatica. D'indole assai mite, si dette poi alla vita ecclesiastica ed alla letteratura, nella quale non uscì mai dalla mediocrità.[67] Di Bernardo, che era assai più innanzi cogli anni, sappiamo poco. Ma una condanna da lui subita nel 1528, per avere bestemmiato al gioco, e tentato di stuprare una donna del contado, non fa certo pensar bene del suo carattere.[68] Lodovico, poco più giovane di Bernardo, era di un'indole violentissima. Una sua lettera del 14 agosto 1525[69] ce lo fa vedere in Adrianopoli, occupato nel commercio, in mezzo a brighe continue, pieno d'ira e desiderio di vendetta. Nello stesso anno aveva già avute varie condanne dagli Otto per diverse [40] risse, nelle quali v'erano state da una parte e dall'altra ferite e sangue. Nè le cagioni di queste risse erano sempre onorevoli; una di esse nacque anzi da gelosia per donna di mal affare.[70] Più tardi, egli si potè, almeno in parte, redimere, combattendo e morendo in difesa della libertà, nell'assedio di Firenze.[71] Intanto era di certo fra quelli che più davano da pensare al padre. Della figlia Bartolommea o Baccia, che andò poi sposa nei Ricci, sappiamo assai poco. Dal secondo testamento, che il Machiavelli fece nel 1532, vediamo che pensava a costituirle una dote sul Monte delle Fanciulle, senza esservi ancora riuscito.
Anche la Marietta rimane assai nell'ombra. Di lei abbiamo una sola lettera, che è scritta al Machiavelli in Roma, poco dopo la nascita d'uno dei figli. Sfortunatamente è senza data; ma la crediamo anteriore agli anni di cui ora ragioniamo.[72] Da essa trasparisce una vera [41] affezione, diremo anzi amore verso il marito. Si duole di non ricevere più spesso lettere di lui, e gli ricorda che sa bene, come ella non possa mai esser lieta, quando è separata da lui, tanto più sentendo che «è in luogo dove c'è gran morbo. Pensate come io sto contenta, che non trovo riposo nè dì nè notte. Il bambino sta bene e somiglia voi. È bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare un velluto nero, ed è peloso come voi. E dacchè somiglia voi, parmi bello, ed è vispo che pare che sia stato un anno al mondo, e aperse gli occhi che non era nato, e messe a romore tutta la casa. La bambina si sente male. Ricordovi el tornare.» Da tutte le lettere di famiglia che ci restano, apparisce assai evidente, che questo affetto di moglie e di madre durò nella Marietta inalterato sino alla fine della sua vita. E sebbene non ne abbiamo del Machiavelli a lei, pure da quelle che scrisse ai figli, si vede chiaro che, non ostante i suoi trascorsi, qualche volta veri, ma qualche altra, come già vedemmo, solamente immaginari, anch'egli amò sino all'ultimo la moglie, e fu in famiglia migliore assai che non ci si è voluto far credere.
Di questi medesimi anni abbiamo una sua corrispondenza con Giovanni Vernacci, figlio di sua sorella Primerana, il quale trova vasi per affari commerciali in Pera. Da essa di tanto in tanto traspariscono tutta la tristezza da cui il Machiavelli era allora oppresso, ed anche un affetto sincero, vivace tra il nipote e lo zio. Questi che, come abbiam visto altrove, aveva sin dal principio annunziato al Vernacci la propria sventura, gli dava amorevoli consigli nell'agosto del 1513, e gli faceva sapere [42] come alle altre sue calamità s'era in quell'anno per lui infausto, aggiunta la perdita d'una bimba, morta tre soli giorni dopo la nascita.[73] Nel 1514 gli parlava di affari, e gli faceva la proposta d'un matrimonio; il 17 agosto 1515 si scusava se non gli scriveva più spesso, «perchè i tempi sono stati di sorta, che mi hanno fatto sdimenticare di me medesimo. Pure non mi dimentico mai di te, e sempre ti avrò in luogo di figliuolo, e me e le cose mie saranno sempre ai tuoi piaceri.»[74] Queste lettere, andando in Oriente, spesso si perdevano; laonde il nipote scriveva e lamentavasi continuamente del silenzio, ed il Machiavelli era costretto a ripetere le sue attestazioni d'affetto. «La perdita delle mie lettere ti farà credere che io mi sia dimenticato di te, il che non è punto vero, perchè la fortuna non mi ha lasciato altro che i parenti e gli amici, e ne fo capitale. Ma se non scrivo più spesso ancora, egli è che io sono diventato inutile a me, ai parenti ed agli amici, perchè ha voluto così la mia dolorosa sorte. Non mi è restato altro di buono che la sanità a me ed a tutti i miei.»[75] Più tardi, nel 1517, gli scrisse di nuovo e fece scrivere anche dai figli; ma le lettere al solito andarono perdute, e però il 5 gennaio 1518 gli scriveva da capo. Di quest'ultima lettera fece due copie, che dette a due persone diverse, ragguagliandone con un'altra il nipote, il 25 dello stesso mese.[76] L'8 di giugno gli diceva d'amarlo sempre più, per aver esso «fatto prova d'uomo buono e valente. Io sono anzi orgoglioso di te, perchè ti ho allevato. [43] La casa mia è sempre al tuo piacere come pel passato, ancora che povera e sgraziata.»[77] Nè meno affettuose erano le lettere del nipote. Il 31 ottobre 1517 gli chiedeva al solito notizie di lui e della famiglia, dolendosi di non averne da un anno. «Di me più non avete ricordo come di caro nipote. Pure amandovi io sempre come figlio, spero che se avete perso la penna e 'l foglio allo scrivermi, non abbiate perso l'amore che tanto tempo mi avete portato.»[78] Da altre lettere apparisce, come questo affetto dello zio pel nipote non fosse di sole parole, perchè il Machiavelli, in mezzo ai suoi mille fastidî, s'occupava spesso anche degli affari del lontano e affettuoso parente, che in lui riponeva piena fiducia.[79]
Tale era in realtà l'uomo che ci è stato per sì lungo tempo descritto come un mostro, incapace d'ogni sentimento gentile, d'ogni sincero affetto, d'ogni onestà. Egli continuava ora a lavorare, a lottare contro l'avversità e la povertà, dimostrandosi pronto a tutto, pur di guadagnare onestamente qualche cosa per aiutare la famiglia. Nell'aprile del 1518 andò a Genova a trattare gli affari d'alcuni mercanti fiorentini, i quali dovevano colà riscuotere parecchie migliaia di scudi,[80] e poi tornò alla sua villa. Da essa veniva però di tanto in tanto a Firenze, dove aveva sempre una casa, dove aveva qualche faccenda, e dove, non ostante l'avversità dei tempi, serbava pure alcuni amici fidati, coi quali gli era conforto intrattenersi.
Quando a poco a poco i tempi divennero più tranquilli, [44] s'andaron nella Città ricostituendo alcuni di quei convegni letterari, che molto diffusi in tutta l'Italia del secolo XVI, formavano una parte essenziale nella società di quel tempo, uno dei piaceri più geniali e desiderati da tutti gli uomini culti in Firenze. Il più rinomato allora fra questi convegni si teneva negli Orti Oricellari, e v'intervenivano molti dei primi letterati non solo di Firenze, ma d'Italia. Bernardo Rucellai, vissuto nella seconda metà del secolo XV, scrittore di satire latine, fautore de' Medici, ricco e potente cittadino, aveva, in sul finire del secolo, comperato un orto in via della Scala. Con molta spesa vi costruì uno splendido palazzo, con più splendido giardino, il quale ben presto fu celebrato pe' suoi bellissimi alberi, ed è nella storia letteraria del tempo conosciuto col nome d'Orti Oricellari. Anch'oggi possiamo avere un'idea abbastanza esatta di quel che dovevano essere allora palazzo e giardino, se da questo leviamo la singolare e colossale statua di Polifemo, messavi più tardi dai Medici, ed alcune piccole costruzioni di pietra che vi furono aggiunte ai nostri giorni, e fanno singolare contrasto col carattere antico. Gli alberi sono tuttavia bellissimi, e paiono invitar sempre sotto le loro ombre al meditare ed al conversare. Attraverso i loro folti rami si vedono ancora le linee eleganti, armoniche dell'antico palazzo, che ha tutto il severo carattere architettonico della scuola di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti.[81] Le ampie sale terrene sono sempre aperte, come a sicuro ricovero dalla pioggia o dal sole nelle ore canicolari. Per poco che la mente si distragga, le ombre del passato sorgono intorno a noi, e ci pare [45] di sentir nuovamente la voce degli uomini che così spesso s'adunavano colà, e dei quali tanto parlano le storie.[82]
Bernardo Rucellai moriva nel 1514. Gli anni che precedettero, e quelli che seguirono di poco il 1512, erano stati così turbolenti da non lasciare agio al pacifico conversare letterario, e però gli Orti furono allora poco frequentati. Dei figli Cosimo e Piero che lo precedettero nella tomba, poco dicono le storie, che parlano invece assai del secondogenito Palla, il quale tenne alti ufficî politici, e s'adoprò tenacemente, fin quasi agli ultimi anni di sua vita, a favore de' Medici, essendosi da essi alienato solo nel 1537. Un altro fratello, Giovanni, come tutti i Rucellai, amico de' Medici, di cui erano anche parenti, si dette con grande fortuna alle lettere, e fu il noto autore della tragedia la Rosmunda, e del poema Le Api. Discepolo o amico dei primi letterati di Firenze, cominciò a raccoglierli intorno a sè; ma aspirando al cappello cardinalizio, se ne andò poi a Roma, presso Leone X, suo cugino. Vestito l'abito ecclesiastico, entrato in prelatura, passò colà la maggior parte del tempo, anche sotto Clemente VII, che lo nominò castellano di Castel Sant'Angelo, ufficio che tenne sino alla morte, seguita nel 1525, quando aspettava maggior grado. Per tutte queste ragioni, sebbene la casa de' Rucellai fosse da un pezzo già molto frequentata, il primo ad iniziar davvero, in modo regolare, le adunanze negli Orti, fu il figlio di Cosimo, che, nato nel 1495, l'anno stesso in cui moriva il padre, ne ebbe il nome, e fu [46] da tutti chiamato Cosimino. Si dedicò alle lettere, scriveva versi e dava grandi speranze di sè, dimostrava indole generosa e benevola assai verso gli amici. Ma per trascorsi di gioventù aveva preso una malattia venerea, che, non ben curata, lo ridusse storpio in modo, che dovè per sempre giacere in una specie di culla o in una lettiga, su cui veniva trasportato. Questa sua sventura, i facili modi, l'indole benevola e lo svegliato ingegno raccolsero intorno a lui tutti i migliori amici di casa Rucellai, i quali lo visitavano assai spesso, sicuri di trovarlo sempre in casa o nel giardino, dove solamente poteva respirare all'aperto.[83]
Fra i più assidui frequentatori di queste adunanze, erano Zanobi Buondelmonti e Luigi di Piero Alamanni, poeta assai noto per le sue liriche, pe' suoi poemi cavallereschi, ma più di tutto per il poema La Coltivazione, in cui volle imitare le Georgiche di Virgilio, dimostrando molta eleganza e facilità in un verseggiare, che non è però senza monotonia. Questi due giovani, i quali più tardi divennero ardenti fautori di libertà, erano allora anch'essi amici de' Medici, come quasi tutti coloro che frequentavano gli Orti Oricellari.[84] Assai spesso venivano colà anche due cugini, che si chiamavano, così l'uno come l'altro, Francesco da Diacceto, e però a distinguerli, erano dal colore degli abiti chiamati uno il Nero, l'altro il Pagonazzo, ed appartenevano ambedue alla scuola degli eruditi. Il secondo, nato da Zanobi da Diacceto nel 1466, era stato fra i principali discepoli del Ficino, aveva scritto molte opere filosofiche ed insegnava [47] nello Studio.[85] Un Diacceto d'altra famiglia, ma discepolo del Pagonazzo, e chiamato il Diaccetino, si trovava anch'egli fra i principali frequentatori degli Orti; aveva studiato il greco ed ottenuto dal cardinale dei Medici una lezione nello Studio.[86] Costui era, come l'Alamanni ed il Buondelmonti, ambizioso, audace, passionatissimo. Loro comune amico fu sempre un Giovan Battista della Palla, il quale, essendo stato molto affezionato a Giuliano dei Medici, sperava per tal mezzo d'ottenere il cappello di cardinale, e se ne andò quindi ben presto a Roma ad intrigare. Ma, come vedremo, egli non tralasciò mai di corrispondere per lettere continue co' suoi amici di Firenze, coi quali più tardi cospirò. Frequentavano gli Orti moltissimi altri, fra cui i due ben noti scrittori di storie, Iacopo Nardi e Filippo dei Nerli, questi mediceo, quegli repubblicano, ma per ora anch'egli in buoni termini col Cardinale. V'erano spesso tutti i Rucellai, tutti i più celebri letterati d'Italia, che capitavano a Firenze, fra i quali ricorderemo solo Giangiorgio Trissino, il celebre gentiluomo di Vicenza, erudito, grammatico, poeta tragico ed epico, l'autore della Sofonisba e dell'Italia liberata dai Goti, che tanto faceva allora parlare di sè.[87]
A torto s'è in tali riunioni voluto vedere una continuazione o rinnovamento dell'Accademia Platonica. [48] Questa era morta col Ficino, ed il tentativo di rinnovarla fu fatto assai più tardi da altri uomini. Quelli che adesso frequentavano gli Orti Oricellari, appartenevano, se facciamo eccezione di Francesco da Diacceto e di qualche altro, ad una generazione non solo posteriore, ma anche assai diversa. Tutti ammiratori dell'antichità, tutti più o meno conoscitori delle lingue antiche, non erano di coloro che a tempo di Lorenzo il Magnifico passavano i giorni ed i mesi a disputare sulle idee di Platone, sulle forme di Aristotile, sulle allegorie di Plotino e di Porfirio, sopra questioni di grammatica. Alcuni di essi erano solamente uomini politici, pratici degli affari; altri erano poeti, scrittori di storie, di prose italiane, veri letterati del Cinquecento, contemporanei di Raffaello, di Michelangelo, del Guicciardini, dell'Ariosto, sebbene, essendo ingegni minori assai di questi sommi, e però meno indipendenti, rimanevano più servilmente legati all'antichità. E neppure si deve credere che queste adunanze fossero allora ostili al Cardinale ed al Papa, come si è detto e ripetuto tante volte, a causa della congiura più tardi tramata da alcuni di coloro che spesso v'intervenivano. Quasi tutti erano anzi amici dei Medici; quegli stessi che più tardi cospirarono contro di loro, erano stati per molto tempo in buonissimi termini con essi, e se ne alienarono la prima volta per ragioni affatto personali, alle quali s'aggiunse poi la passione politica. Una riprova di tutto ciò deve vedersi anco nel fatto, che venuto Leone X a Firenze nel 1515, fu invitato negli Orti, dove per rendergli onore, si fece, alla sua presenza, rappresentare la Rosmunda del Rucellai.
Quando queste adunanze erano già fiorenti, vi fu introdotto anche il Machiavelli, ed il suo andare colà non era certamente segno ch'egli s'allontanasse dai Medici; indicava anzi il contrario. Infatti noi troviamo che alcuni anni dopo egli fu introdotto in casa Medici. Il 17 marzo 1519 Filippo Strozzi scriveva da Roma al [49] fratello Lorenzo: «Piacemi assai abbiate condotto el Machiavello in casa e' Medici, che ogni poco di fede acquisti co' padroni è persona per surgere.»[88] Questa lettera da un lato conferma quello che abbiam detto sulla compagnia degli Orti Oricellari, e dall'altro spiega come il cardinal de' Medici cominciasse allora appunto a dimostrare qualche benevolenza al Machiavelli. Se adesso solamente egli fu introdotto in casa Medici, ciò prova del pari quanto esagerate, anzi addirittura immaginarie, fossero le pretese relazioni intime che, secondo molti scrittori, l'autore del Principe avrebbe avute con Lorenzo e Giuliano.
Il Machiavelli, com'era naturale, venne assai bene accolto negli Orti, e Cosimino specialmente lo ammirò molto, legandosi a lui d'un affetto sincero, che fu ricambiato con vera amicizia. A lui ed a Zanobi Buondelmonti il Machiavelli dedicò i Discorsi; di lui con vivo dolore parlò nell'Arte della Guerra, poco dopo la morte immatura. A questi amici cominciò a leggere i Discorsi, che molto piacquero, e dettero luogo a discussioni assai animate, che finivano sempre incoraggiandolo a continuare con zelo indefesso l'opera intrapresa, la quale il Nardi dice «di nuovo argomento, non più tentata (che [50] io sappi) ad alcuno.» Ed aggiunge, che il nuovo ospite fu tanto amato da quei giovani, che essi trovarono modo anche di sovvenirlo cortesemente, perchè si dilettavano oltre ogni dire della sua conversazione, e ne ammiravano gli scritti per modo, che egli non fu poi giudicato senza colpa, quando il loro animo si trovò infiammato ad imprese audaci e pericolose a favore della libertà.[89] Questa benevola accoglienza si spiega facilmente. Ammiratore sincerissimo degli antichi, il Machiavelli aveva pure, studiando le loro opere, ritrovato tutta l'indipendenza del proprio spirito, meditando con originalità vera sugli avvenimenti del suo tempo. E quindi le sue opere riuscirono a quegli uditori, ancora troppo servilmente imitatori dell'antichità, come la rivelazione della loro più intima coscienza. Anche in mezzo a questi fautori dei Medici, egli che non sapeva mai parlare o scrivere diversamente da quel che sentiva, manifestò tutto il suo amore di libertà, tutto il suo entusiasmo per la repubblica romana. Nè ciò produceva scandalo veruno. Ogni dotto Italiano ammirava allora l'antica Roma; ogni vero Fiorentino si sentiva repubblicano; i Medici stessi facevano mostra di voler governare Firenze a repubblica, e promettevano di sempre più ridurla tale. Il Machiavelli perciò si espandeva, si manifestava liberamente fra quei giovani, esaltandosi e tornando di continuo all'idea prediletta della sua Ordinanza, cioè del popolo armato. Cavando esempi dalla storia antica, esponeva in che modo poteva armarsi l'Italia di buone armi, tali da resistere agli stranieri, tutelare la dignità e la indipendenza nazionale. Questi erano i ragionamenti stessi ripetuti poi nella sua Arte della Guerra, che andò via via leggendo ai giovani amici. La nuova opera, che fra poco esamineremo, è in fatti composta a forma di dialoghi tenuti negli Orti Oricellari fra i principali frequentatori di quelle adunanze. [51] L'entusiasmo, non solamente letterario, ma politico, che con tali discorsi e con tali letture il Machiavelli destava in essi, s'accendeva sempre di più; ma egli, tutto compreso del suo soggetto, trascinato dalle proprie idee, non s'accorgeva che le sue parole producevano qualche volta sull'animo loro, l'effetto stesso di una scintilla sulla polvere da sparo, e potevano perciò avere pericolose conseguenze. Se ne tornava quindi tranquillo nella solitudine della sua villa, e continuava a porre sulla carta i ragionamenti avuti, per tornare poi a leggerli ed a discuterli coi suoi amici ed ammiratori.
Tutto questo però, allora almeno, non gli noceva punto appresso ai Medici, anzi faceva sì che, secondo la frase adoperata dallo Strozzi, egli fosse tenuto veramente «persona per sorgere.» Molto in fatti parlavano di lui coloro che circondavano il Cardinale, il quale, come altra volta lo aveva da Roma, per mezzo del Vettori, interrogato sulla politica generale d'Italia, così ora lo incitava a scrivere sul modo di riformare il governo di Firenze, indirizzando il suo discorso a Leone X, che in sostanza era il vero padrone della Città. Usavano allora i Medici, massime il cardinal Giulio, interrogare così le persone più autorevoli; ed era anche assai gradito ai Fiorentini esporre le proprie opinioni sugli eventi che seguivano alla giornata, sulle riforme da portare nel governo, per rendere contenta la loro sempre irrequieta città. Abbiamo quindi un numero non piccolo di tali discorsi, più o meno eloquenti, più o meno audaci o accorti, scritti in questi anni appunto.
Vedemmo altrove[90] come il Guicciardini nel 1512, essendo nella Spagna, dove prevedeva già le caduta del Soderini, ma non sapeva ancora del ritorno de' Medici, scrivesse un discorso, in cui con grandissimo acume suggeriva i modi secondo lui migliori per rendere più forte [52] e sicura la Repubblica. E vedemmo pure, come avuta appena notizia del mutamento seguito nella Città, ne scrivesse un altro, nel quale, senza ancora troppo dichiararsi pronto a mutar parte, esponeva invece i modi con cui il governo dei Medici avrebbe potuto rafforzarsi.[91] Più esplicitamente e più largamente ancora trattò questo medesimo soggetto in un terzo discorso, scritto nel 1516, quando, già da tre anni tornato a Firenze, era divenuto uno dei loro più caldi fautori. «I Medici,» egli scriveva allora, «s'erano impadroniti della Città contro il desiderio e la volontà del massimo numero dei suoi abitanti. La elezione di Leone X aveva, è vero, mutato le cose in loro favore; ma era tuttavia necessario pensare all'avvenire con accorti provvedimenti, se non si voleva da un momento all'altro vedersi esposti a gravissimi pericoli. Il principale ostacolo a questi provvedimenti trovavasi però nella indifferenza di Giuliano e di Lorenzo, i quali avevano messo così alto la loro mira, che poco o punto si curavano di Firenze, pensando invece a formarsi altrove uno Stato. E questo era un sogno pericoloso, perchè nella sua effettuazione urtava contro difficoltà insormontabile. A Firenze i Medici, sotto le apparenze di repubblica, avevano un dominio assai più solido e sicuro di quello che potevano sperare a Parma, a Modena o altrove. Era bene ricordarsi, che i nipoti di Calisto III e di Pio II, contentandosi di poco, restarono nel loro grado anche dopo la morte di quei [53] papi; il duca Valentino, invece, che voleva grande e nuovo Stato, rovinò.» «E la ragione ci è manifesta, perchè privati acquistare Stati grandi è cosa ardua, ma molto più ardua conservarli, per infinite difficoltà che si tira dietro un principato nuovo.»[92] Qui è chiaro che il Guicciardini si dimostra contrario affatto non solamente alle illusioni del Machiavelli sul Valentino; ma allo stesso concetto fondamentale del Principe, non che ai consigli che l'autore di esso aveva già dati ai Medici per mezzo del Vettori, quando si parlava della formazione d'uno Stato nuovo a Parma ed a Modena. I Medici, secondo il Guicciardini, avrebbero fatto assai meglio e operato da savi smettendo queste illusioni pericolose, pensando solo a conservare quello che avevano in Firenze. A tal fine occorreva formarsi un nucleo d'amici fidati e sicuri, i quali conoscessero bene la Città, e fossero perciò in grado di dare aiuto e consigli opportuni. «Senza affidarsi ad essi troppo ciecamente, ma tenendo sempre nelle proprie mani la briglia, è pur necessario dar loro favori e potere. Con i favori si è ben sicuri di potersi guadagnare l'animo di ciascuno, giacchè ora non sono più i tempi dei Greci e dei Romani, che si contentavano della sola gloria. Non v'è oggi in Firenze alcuno, il quale ami tanto la libertà, che non si volti facilmente ad un altro reggimento qualunque, se può in esso avere maggior parte e miglior essere che nella repubblica. Quanto poi alla universalità dei cittadini basta fare economia per non aggravarli di tasse, curare che la giustizia civile sia bene amministrata, difendere i deboli contro i potenti, usare con tutti modi cortesi. A coloro che consigliano di prendere addirittura in Firenze il dominio assoluto, senza alcuna ombra di civiltà e di libertà, bisogna ricordare, che non si potrebbe prendere un partito peggiore, più pieno di sospetti, [54] di difficoltà, ed, a lungo andare, anche assai crudele e quindi pericoloso a tutti.»[93]
Questi erano i consigli che dava ai Medici il Guicciardini; ben diversi invece furono quelli dati dal Machiavelli, quando venne interrogato.[94] In sostanza egli consigliava nè più nè meno che il ristabilimento della repubblica, sforzandosi però di trovare un modo col quale il Papa ed il Cardinale potessero, durante la loro vita, restar padroni della Città, senza di che sapeva che ogni sua proposta sarebbe stata vana e puerile. Molti lo hanno perciò accusato di contradirsi, rimproverandogli che, dopo d'avere nel Principe suggerito il governo assoluto a Giuliano ed a Lorenzo de' Medici, consigliava ora a papa Leone X la repubblica. Ma ogni contradizione scomparisce del tutto, se per poco si rifletta che il Principe fu scritto per dimostrare come si poteva colla forza formare uno Stato assoluto e nuovo, e come, formandolo in Italia, si poteva ingrandirlo per riunire tutta la Penisola. Adesso invece erano già morti Giuliano e Lorenzo, ai quali questi consigli erano stati indirizzati, ed il Machiavelli veniva interrogato dal Cardinale sopra un altro e assai diverso argomento. Non si trattava più d'uno Stato nuovo a Parma e Modena, o altrove; si trattava di Firenze solamente. Egli aveva già molte e molte volte ripetuto nei Discorsi, nelle lettere familiari, in quasi tutte le sue opere politiche, che se nell'Italia settentrionale e nella meridionale non era possibile altro che una monarchia; se con questa solamente poteva iniziarsi colà uno Stato nuovo, ed ingrossarlo sempre più, nella Toscana invece, massime poi a Firenze, per [55] la grande uguaglianza che v'era e per le antiche consuetudini, solo una repubblica poteva contentare e durare. Di ciò appunto si trattava adesso. Il Papa stesso ed il Cardinale sembravano persuasi, che i Fiorentini, più o meno, volevano tutti la repubblica. Non avendo eredi legittimi, essendo perciò certi che in loro spegnevasi il ramo mediceo di Cosimo il Vecchio e di Lorenzo il Magnifico, mostravano di esitare a far qualche passo decisivo verso la repubblica, solamente per non perdere il loro protettorato assoluto finchè vivevano. Veri o finti che fossero questi loro sentimenti, essi li manifestavano e li facevano credere a molti. Ed il Machiavelli era persuaso d'aver trovato il modo di risolvere l'arduo problema, di fondare cioè sicuramente la libertà per l'avvenire, mantenendo ferma nel presente l'autorità assoluta del Papa e del Cardinale, finchè vivevano. Con tale intendimento egli scrisse il suo nuovo Discorso.
Incomincia adunque con l'esaminare le cagioni della instabilità di tutti i governi che si successero in Firenze, e le ritrova nell'essere stati sempre ordinati a vantaggio d'una sola parte e non del pubblico, nell'essere riusciti tutti una mescolanza ibrida e poco durevole di monarchia e di repubblica. «Questi governi di mezzo,» egli dice, «riescono sempre debolissimi, perchè hanno più vie aperte alla loro rovina. Il principato rovina andando verso la repubblica, e questa andando verso il principato. Ma i governi di mezzo rovinano da ogni lato, sia che vadano verso la repubblica, sia che vadano verso il principato. Vi sono molti che esaltano il governo di Cosimo e di Lorenzo il Magnifico, e vorrebbero perciò ristabilirne oggi uno simile. Ma esso non fu esente dai difetti e dai pericoli già notati negli altri, e questi difetti sarebbero oggi di gran lunga maggiori. I Medici erano allora educati e vissuti nella Città, e la conoscevano assai bene; governavano con una familiarità alla quale non si saprebbero più piegare adesso che sono divenuti [56] potentissimi, dopo essere stati lungamente in esilio. Allora avevano assai favorevole la universalità dei cittadini, ora l'hanno contraria. Nè v'erano come oggi in Italia tanti potenti armati, contro i quali un governo debole non potrebbe più in alcun modo resistere. Dicono molti che Firenze non può stare senza un capo; ma non riflettono costoro che si può avere un capo pubblico ed un capo privato. Nessuno dubita che se si dovesse scegliere un capo privato, tutti preferirebbero uno della casa dei Medici. Quando però si dovesse scegliere tra capo pubblico e privato, sempre piacerà più ai Fiorentini avere il primo, o sia un magistrato eletto dai cittadini, e frenato dalle leggi. È certo in ogni modo, che a volere ordinare il principato in Firenze, dove è sì grande uguaglianza, non si riuscirebbe senza mutare tutto con violenza. E perchè questa sarebbe una cosa non solo difficile, ma ancora inumana e crudele, deve giudicarsi indegna di chiunque desideri essere tenuto pietoso e buono. Io, adunque, lascerò indietro il ragionare del principato, e parlerò della repubblica, anche perchè s'intende la Santità Vostra esservi dispostissima, ed esitare solamente, perchè desidera trovare un ordine con cui l'autorità sua rimanga grande in Firenze, e gli amici vivano sicuri. Parendomi pertanto d'averlo pensato, ho voluto che intenda questo mio pensiero; acciocchè, se ci è cosa veruna di buono, se ne valga, e possa ancora, mediante questo, conoscere quale sia la mia servitù verso di lei.»[95]
Il concetto del Machiavelli era, in termini generali, semplicissimo: fondare una vera e propria repubblica, lasciando per ora le elezioni dei magistrati in mano dei Medici. Così essi sarebbero stati i veri padroni d'ogni cosa, durante la vita; ma alla loro morte Firenze sarebbe tornata libera davvero. Non era un concetto nuovo del tutto, giacchè per mezzo delle elezioni appunto, Cosimo [57] e Lorenzo il Magnifico erano riusciti a rendersi padroni della repubblica. È vero che così avevano anche ucciso la libertà; ma adesso il Papa era lontano, e nè egli nè il Cardinale avevano successori cui dover pensare; non potevano o almeno non era, secondo il Machiavelli, ragionevole che si dolessero se, dopo la morte loro, la libertà potesse davvero prosperare. In sostanza adunque tutto si riduceva a cercar di persuadere i Medici, che essi acquisterebbero una gloria immortale, se, pur mantenendosi in vita padroni di Firenze, assicurassero fin d'allora il trionfo della repubblica per l'avvenire. A risolvere praticamente l'arduo problema, il Machiavelli ricorre nel Discorso anche a molti ripieghi, che finiscono col rendere assai artificiosa la sua proposta. Egli torna un momento alla vecchia teoria fiorentina delle tre ambizioni, dei tre ordini di cittadini da soddisfare: coloro che vogliono primeggiare e comandare; coloro che sono contenti di partecipare in qualche modo al governo; e coloro che formano la moltitudine, la quale chiede solo libertà e giustizia. Vuole sopprimere tutte le complicazioni dei vecchi Consigli e dei vecchi magistrati, che i Medici, per mera apparenza, avevano risuscitati dagli Statuti anteriori al 1494, ed istituire un Gonfaloniere con la Signoria, il Senato ed il Consiglio Grande. Questa era la forma di governo fondata nel 1494, al tempo del Savonarola, e, con poche modificazioni, durata sino al 1512. Essa era anche quella che in sostanza veniva proposta dal Guicciardini, quando favoriva la repubblica, e più tardi dal Giannotti, sebbene ciascuno, a suo modo, la modificasse.
Venendo poi ai mezzi pratici d'attuare una tale riforma, il Machiavelli incominciava col proporre, che si eleggessero a vita sessantacinque cittadini di quarantacinque anni finiti, nominando uno di essi Gonfaloniere per due o tre anni, od anche a vita. La metà dei sessantaquattro che restavano, doveva formare una specie di Consiglio del Gonfaloniere, per un anno, venendo, nel seguente, [58] sostituita dall'altra metà, e continuando così ad alternarsi. Questi trentadue si dividevano poi in quattro parti di otto cittadini ciascuna, i quali per un trimestre formavano la Signoria propriamente detta, alla cui testa era il Gonfaloniere. E così venivano, egli credeva, soddisfatte le ambizioni più irrequiete. V'era inoltre un Senato o Consiglio dei Dugento, i quali dovevano avere ciascuno quaranta anni finiti. Il Machiavelli che aboliva, come dicemmo, molti dei vecchi magistrati, lasciava invece sussistere gli Otto di Guardia e Balìa, che formavano una specie di tribunale ordinario, e gli Otto di Pratica, che provvedevano alle cose della guerra, e quindi all'Ordinanza, che fu sempre l'istituzione a lui più cara. I Medici l'avevano nel 1512 disciolta, per poi in modo efimero ricostituirla, con una provvisione del 19 maggio 1514, chiamandola Ordinanza del Contado.[96] Su questo soggetto che [59] doveva riuscire assai scabroso, perchè si trattava di far dare dai Medici le armi al popolo, il Machiavelli non si fermò allora, deliberato com'era a tornarvi più tardi, dopo essere cioè prima riuscito a persuader loro la opportunità di ricostituire la repubblica. Per adesso lasciava l'Ordinanza quale essi l'avevano ridotta, proponendo solo che fosse divisa in due parti, ciascuna delle quali venisse comandata da un commissario, eletto ogni due anni dal Papa. Questi ed il Cardinale dovevano inoltre, con l'autorità e balìa di tutto il popolo fiorentino, eleggere il Gonfaloniere, la Signoria, i Dugento, gli altri magistrati. Tale era il mezzo dal Machiavelli escogitato per assicurare ai Medici un potere che, dopo la loro morte, sarebbe andato tutto nelle mani del popolo.
Rimaneva ancora l'ultima parte, la più importante della riforma, quella cioè con cui bisognava soddisfar subito alla universalità dei cittadini. A tal fine, proseguiva il Machiavelli, cominciando subito ad esaltarsi, è necessario riaprire la sala del Consiglio Grande. «Senza satisfare all'universale, non si fece mai alcuna repubblica stabile; non si satisfarà mai all'universale dei cittadini fiorentini, se non si riapre la Sala; però conviene, a volere fare una repubblica in Firenze, riaprire questa Sala e rendere questa distribuzione all'universale. E sappia Vostra Santità, che chiunque penserà di torle lo Stato, penserà innanzi ad ogni altra cosa di riaprirla, e però è partito migliore, che quella l'apra con termini e modi sicuri.»[97] Bisognava adunque ricostituire [60] il Consiglio Grande, componendolo di mille o almeno di seicento cittadini. E non occorreva determinare il modo della elezione, perchè si dovevano in esso alternare tutti coloro che, secondo gli antichi statuti erano cittadini beneficiati o sia abili al governo. Suo ufficio principalissimo doveva essere, oltre l'approvazione delle leggi, la elezione dei magistrati. Queste attribuzioni però gli venivano per ora solo in minima parte concesse, dovendo restare ai Medici, finchè vivevano il Papa ed il Cardinale. E quindi il Machiavelli suggeriva ai Medici, che di tanto in tanto chiamassero il Consiglio ad un più largo esercizio de' suoi diritti. Così si sarebbe cominciato fin d'ora ad educare il popolo alla libertà, nel che stava lo scopo principalissimo che egli si era proposto nel Discorso.
«Con questi ordini,» così egli conchiudeva, rivolgendosi al Papa ed al Cardinale, esaltandosi sempre di più, «voi siete i padroni assoluti di tutto. Nominate i principali magistrati, il Gonfaloniere, la Signoria, i Dugento; fate le leggi con l'autorità di tutto il popolo; ogni cosa dipende dal vostro arbitrio; nè, durante la vostra vita, v'è alcuna differenza da questo governo ad una monarchia. Alla vostra morte, lasciate alla patria una vera e libera repubblica, che dovrà a voi la sua esistenza.» «Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini, sia quello che volontariamente è loro dato dalla loro patria; credo che il maggior bene che si faccia ed il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltre di questo, non è esaltato alcun uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quelli che hanno con leggi e con istituti riformato le repubbliche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati.... Non dà adunque il Cielo maggiore dono ad un uomo, nè gli può mostrare più gloriosa via di questa; ed in fra tante felicità, che ha date Dio alla casa vostra ed alla persona di Vostra Santità, è questa la [61] maggiore, di darle potenza e subietto da farsi immortale, e superare di gran lunga per questa via la potenza e la avita gloria.»[98]
Sebbene una tal conclusione ci riconduca al pensiero dominante del Machiavelli, e ricordi la celebre esortazione finale del Principe, pure noi non possiamo attribuire a tutto il Discorso un grande valore scientifico, e neppure un grande valore pratico. Egli o ripete idee che già aveva esposte altrove più ampiamente, o accetta senz'altro dottrine universalmente divulgate in Firenze. La forma di repubblica da lui proposta è, ne' suoi lineamenti generali, quella stessa che allora tutti più o meno consigliavano. E quanto alle modificazioni con cui voleva migliorarla, i suoi suggerimenti restavano di gran lunga inferiori a quelli assai più accorti e pratici, che aveva dati dalla Spagna il Guicciardini nel primo de' suoi discorsi.[99] I ripieghi poi coi quali voleva apparecchiare il passaggio dal dispotismo presente alla futura libertà, erano davvero troppo sottili ed artifiziosi, com'ebbe a notare più tardi Alessandro de' Pazzi, quando fu del pari interrogato dal cardinale dei Medici.[100] E quando essi fossero stati davvero accettati, difficilmente avrebbero ottenuto l'intento cui miravano. Una repubblica lasciata in pieno arbitrio d'un papa come Leone X, o avrebbe portato ad immediato conflitto col popolo, o avrebbe reso sempre più difficile fondare in avvenire la libertà. In tal modo non poteva quindi il Discorso riuscire nè scientifico nè pratico abbastanza, ma solo fantastico. Ciò non ostante, esso dimostrava ancora una volta quanto [62] sincero, costante, profondo fosse nel Machiavelli l'amore della libertà. Dopo aver tanto desiderato il favore dei Medici, per poter essere in qualche modo adoperato da loro negli affari, appena essi rivolgono a lui lo sguardo e lo interrogano, non sa far altro che ripetere con entusiasmo irrefrenabile un solo e medesimo pensiero: la maggior gloria, la più grande fortuna che si possa dai mortali desiderare su questa terra, sta nel sapere e nel volere fondare uno Stato libero, civile e forte. E di ciò era tanto convinto, che non capiva come non dovesse subito convincersene ognuno. Questo gli fece credere di poter persuadere prima Giuliano e poi Lorenzo a farsi redentori d'Italia; questo gli faceva sperare adesso d'indurre Leone X a fondare per l'avvenire la libertà di Firenze. Ma s'illuse la prima e la seconda volta, senza però mai perdere la sua fede o smettere il pensiero di tornare alla prova. Per ora il Papa non dava nessuna importanza a tutte le proposte che da più parte gli venivano, principalmente per istigazione del Cardinale.[101] L'uno e l'altro del resto avevano promosso questi scritti solo col fine di alimentare speranze ed illusioni nei più caldi amatori di libertà, e così tenerli sospesi e tranquilli, scoprendone in pari tempo le più riposte intenzioni.
[63]
Il cardinale però sembrava che volesse veramente avvicinare a sè il Machiavelli. Lo aveva da poco conosciuto di persona, gli aveva cominciato a scrivere qualche lettera, a rendere qualche favore. Pareva quindi che dovessero per lui cominciare tempi migliori; ma erano ancora segni così tenui e favori così meschini, che qualche volta riuscivano più ad umiliarlo che ad esaltarlo. Nell'anno 1520 ebbe in fatti dalla Signoria e dal Cardinale una prima commissione a Lucca, per trattar gli affari d'alcuni mercanti fiorentini, i quali avevano colà un credito di 1600 fiorini con un tal Michele Guinigi, che non voleva pagare. Questa privata faccenda avrebbe dovuto esser decisa dai tribunali ordinarî, ma s'era andata complicando ed arruffando in maniera, che veniva ora trattata dai due governi. Il Guinigi aveva ereditato dal padre una grossa fortuna, la più parte della quale era stata vincolata ai suoi figli, sapendosi che egli l'avrebbe subito mandata a male. Oltre i debiti da lui contratti con Fiorentini e con altri non pochi per faccende commerciali, ne aveva già fatto altri moltissimi al gioco, ed era nella impossibilità di pagarli. Si cercava dunque d'ottenere dalla repubblica lucchese, che l'affare venisse eccezionalmente rimesso nelle mani di arbitri, con facoltà d'annullare questi secondi debiti, o almeno dare precedenza assoluta ai primi. In tal caso solamente i parenti e tutori dei figli del Guinigi promettevano di pagare quelli che risultavano da affari commerciali, cosa che in nessun modo avrebbero consentito pei debiti fatti al giuoco. Se non che questi erano stati contratti con carte così legali e regolari, che occorreva a metterli da parte l'intervento del potere politico. Ove ciò non si fosse ottenuto, la fortuna di Michele Guinigi, cui spettava solo l'usufrutto, sarebbe rimasta vincolata tutta ai suoi figli minori, ed i parenti che ne avevano la tutela, avrebbero con loro pieno diritto negato di nulla concedere ai creditori fiorentini. Il Machiavelli, dopo lungo negoziare, ottenne che il Consiglio [64] Generale di Lucca deliberasse di rimettere la cosa al pretore ed a tre arbitri, che rivedessero i libri; esaminassero quali obblighi erano contratti veramente per debiti giustificati, quali erano fittizi, e nei casi dubbi ne riferissero agli Anziani della repubblica, i quali avrebbero portata di nuovo la cosa al Consiglio Generale.[102]
Egli si trattenne per questa faccenda parecchi mesi a Lucca, dove passò il tempo, studiando al solito la forma di quel governo, e pigliando su di esso alcuni appunti. Noi abbiamo in fatti un suo Sommario delle cose della città di Lucca,[103] che il Machiavelli dovè scrivere in questo tempo. È un abbozzo compilato in fretta, nè senza qualche inesattezza; non vi mancano però opportune osservazioni. Nove cittadini ed un Gonfaloniere, egli dice, componevano la Signoria, che mutava ogni due mesi, dopo i quali ciascuno aveva divieto per due anni, cioè non poteva in quel tempo essere rieletto. Seguiva un Consiglio di trentasei, che si rinnovava da sè ogni sei mesi, non potendo, chi aveva seduto un primo semestre, continuare nel secondo, ma bensì nel terzo. Il Consiglio Generale durava un anno, ed era composto di [65] settantadue[104] membri, i quali venivano eletti dalla Signoria e da dodici altri cittadini nominati dai trentasei; avevano divieto un anno. La Signoria esercitava grandissima autorità nel contado, il quale, secondo l'uso repubblicano di quei tempi, non godeva delle libertà politiche; ma ben poca ne aveva nella città, dove poteva solo radunare i Consigli, e proporre le deliberazioni apparecchiate nelle Pratiche, che a Lucca si chiamavano Colloqui, ai quali erano invitati i più savî cittadini. Il Consiglio Generale era il vero padrone della città; faceva leggi e tregue; pronunziava condanne a morte senza appello, e i partiti si vincevano in esso con tre quarti dei voti. V'era nonostante un Potestà,[105] che aveva autorità nelle cause civili e nelle criminali.
Il Machiavelli osserva che questo governo a Lucca operava bene, quantunque non fosse senza difetti. Loda il non dare alla Signoria molta autorità sui cittadini, «perchè così hanno sempre fatto le buone repubbliche giacchè il primo magistrato facilmente può abusare, se non è frenato. Non avevano i Consoli romani, non avevano e non hanno autorità sulla vita dei cittadini il Doge e la Signoria di Venezia.» A Lucca però la Signoria mancava, secondo il Machiavelli, della dovuta maestà, «perchè la breve durata dell'ufficio, e i molti divieti obbligavano a nominare persone di poco conto. Si era quindi necessitati di continuo a richiedere nei Colloqui il consiglio di privati cittadini, il che non si usa nelle repubbliche bene ordinate, nelle quali il numero maggiore [66] distribuisce gli ufficî, il mezzano consiglia, il minore esegue.» Questa infatti, era allora tenuta la norma fondamentale e la base necessaria d'ogni regolare governo, non essendovi alcuna idea della moderna divisione dei poteri. E perciò il Machiavelli continuava: «Così facevano a Roma il popolo, il Senato, i Consoli; così fanno a Venezia il Gran Consiglio, i Pregadi, la Signoria. Ma a Lucca invece questi ordini sono confusi perchè il numero mezzano, cioè i Trentasei distribuiscono gli uffici; i Settantadue e la Signoria parte consigliano, parte eseguono. Pure anche da ciò non viene nel fatto gran danno, per la ragione già notata, che i magistrati non sono, per la loro poca maestà, punto ricercati, e i ricchi si occupano più che altro delle loro private faccende. Questo è tuttavia un ordine da non raccomandarsi.» Loda poi l'autorità data al Consiglio Generale sulla vita dei cittadini, perchè questo è, secondo lui, un gran freno all'ambizione dei potenti, i quali non sarebbero mai condannati da pochi giudici. Vorrebbe però che vi fosse, come a Firenze, un tribunale di quattro o sei magistrati per giudicare le minori cause civili e criminali fra i cittadini, lasciando al Potestà quelle del dominio, e tutte le altre a lui devolute dagli Statuti. «Se una tale magistratura non si istituisce,» egli diceva, «le minori cause che occorrono alla giornata, saranno sempre trascurate con danno e pericolo della libertà. Infatti anche a Lucca s'è dovuto venire ad una legge speciale, che fu chiamata dei discoli, per la quale, nel settembre e nel marzo, i Consigli riuniti deliberano di mandare, per tre anni, fuori dello Stato un certo numero di giovani creduti più pericolosi. Essa mise di certo un freno, ma è pure riuscita impotente contro l'insolenza della famiglia, che è chiamata di quelli di Poggio.» Questo breve Sommario, come si vede facilmente, non ha gran valore; ma dimostra, che allora come sempre il Machiavelli non lasciava mai fuggire alcuna occasione [67] per studiare le istituzioni, gli ordinamenti politici dei popoli vicini o lontani, cercando d'indagare e suggerire i modi per migliorarli.
Fu tuttavia un lavoro che potè occuparlo poco tempo, nè molto l'occuparono altre piccole faccende. Ricevette allora varie lettere, una fra le altre del cardinal dei Medici, in data dell'ultimo di luglio, la quale incominciando con le parole: Spectabilis vir, amice mi carissime, gli raccomandava di far cacciare da Lucca tre studenti dell'università di Pisa, già mandati via di là per cattiva condotta.[106] Gli amici degli Orti Oricellari gli scrivevano lettere ora serie, ora facete, pregandolo di tornare presto, e più vive premure gli facevano i figli, in nome loro e della madre Marietta.[107] Ma il Machiavelli non si poteva muovere, se prima non veniva a qualche conclusione l'affare di cui era incaricato, e quindi profittò del tempo che gli restava libero, per comporre un altro suo breve lavoro, che è assai noto, e che da lui fu intitolato Vita di Castruccio Castracani. Il 29 agosto lo mandava di là all'amico Zanobi Buondelmonti, al quale ed a Luigi Alamanni, suoi amicissimi, lo aveva dedicato. E già il 6 settembre il Buondelmonti gli rispondeva d'averlo ricevuto e letto con l'Alamanni ed altri, ai quali tutti era molto piaciuto.[108]
[68]
È notissimo che questo lavoro dette anch'esso occasione a dubbi e dispute non poche. Chi lo chiamò un romanzo, chi una imitazione della Ciropedia di Senofonte, chi altro. Certamente esso non è una storia, come può accorgersene chiunque lo paragoni per poco con la narrazione autentica dei fatti più conosciuti ed accertati. L'autore compose la biografia d'un personaggio ideale, cui diede il nome di Castruccio Castracani, e la ricavò in parte dalla vita di questo capitano, quale ci è data nelle storie e biografie; ma in parte non piccola ancora dalla vita d'Agatocle, narrata nei libri XIX e XX di Diodoro Siculo, aggiungendovi anche fatti che sono addirittura di sua propria invenzione. Castruccio, in vero, fu un figlio legittimo della nobile famiglia Antelminelli, nacque nel 1281, ed andò ben presto col padre Geri in esilio ad Ancona. Restato senza genitori, fu a combattere in Fiandra insieme con Alberto Scotti e Musciatto Franzesi, al soldo di Filippo il Bello. Nel 1310 combatteva in Lombardia, a favore dei Visconti. Il Machiavelli, invece, comincia coll'affermare, che gli uomini straordinari sogliono aver quasi tutti bassa ed oscura origine, perchè la fortuna vuol mostrare la sua potenza, e poi aggiunge, che un canonico Castracani ed una sua sorella Dianora, i quali vivevano insieme, trovarono nel proprio giardino un bimbo abbandonato, che allevarono in casa loro, e fu questi il celebre Castruccio. Mostrando egli attitudine alle armi, venne da messer Francesco Guinigi educato e condotto poi a combattere in Lombardia, dove sin dall'età di 18 anni cominciò a mostrare il suo valore. Il canonico e la sorella sono personaggi immaginari del tutto, come immaginario è il fatto del bimbo trovato nel giardino. Nell'età di 18 anni Castruccio era inoltre fuori d'Italia, nè si trova un Francesco Guinigi, cui si possano attribuire i fatti narrati dal Machiavelli. Invece Agatocle, secondo Diodoro Siculo, fu dal padre abbandonato, e dopo alcuni giorni la madre lo prese e menò dal proprio fratello, che [69] lo allevò. Venne più tardi protetto da un nobile che gli diè grado nell'esercito, nel quale Agatocle subito fece prova del suo valore.
Prosegue il Machiavelli raccontando come, tornato che Castruccio fu dalla Lombardia a Lucca, messer Francesco Guinigi morì e lasciò un figlio di tredici anni, di nome Paolo, nominando Castruccio tutore di esso, ed amministratore de' suoi beni. Paolo è personaggio immaginario come il padre e come tutto l'episodio, imitato anche questo da Diodoro, il quale narra in fatti che Agatocle sposò la vedova del suo protettore, e così di povero divenne ricco. Il modo con cui Castruccio, a poco a poco, prima coll'aiuto d'Uguccione della Faggiola signore di Pisa, poi contro la volontà di lui, riuscì a farsi padrone di Lucca, è narrato dal Machiavelli con maggiore verità. Ma la battaglia di Montecatini, nella quale i Fiorentini furono disfatti, e Castruccio combattè tanto valorosamente sotto gli ordini d'Uguccione, che per ciò appunto ne ingelosì e gli fu nemico, è descritta in un modo affatto arbitrario. Il Machiavelli fa ammalare Uguccione, che invece si trovò a comandare l'esercito, e ciò per dare il comando a Castruccio, cui attribuisce, a suo modo, tutto un disegno immaginario di battaglia. Divenuto Castruccio signore di Lucca, e capo dei Ghibellini di Toscana, per la morte d'Uguccione, segue la narrazione del modo con cui egli soppresse una ribellione in quella città.
E qui il Machiavelli imita di nuovo Diodoro, attribuendo al suo eroe una condotta simile a quella tenuta da Agatocle nello spegnere i propri nemici, condotta già ricordata e lodata tante volte nel Principe e nei Discorsi. Secondo Diodoro Siculo, Agatocle, formato prima, come capitano dei Siracusani, un grosso esercito, chiamò i capi del Consiglio dei seicento, sotto pretesto di ragionar con loro, e gli spense tutti. Indi sollevò contro i Grandi il popolo che li odiava, e furono così uccise da quattromila [70] persone. Secondo il Machiavelli, Stefano di Poggio s'unì prima ai ribelli in Lucca; poi li sedò, e quando Castruccio fu tornato dal campo, si presentò a lui, mostrandogli come tutto era tranquillo per opera sua, e gli raccomandò i propri amici e parenti. Castruccio lo accolse con benevolenza e lo invitò a condur seco gli amici. Venuti sotto la data fede alla sua presenza, furono tutti presi e morti, dopo di che egli spense ancora molti altri, i quali potevano per ambizione aspirare ai primi onori, e così fu finalmente sicuro padrone di Lucca.[109]
Anche la narrazione del modo in cui Castruccio s'impadronì di Pistoia, è affatto immaginaria. Secondo il Machiavelli, egli si sarebbe messo d'accordo coi capi delle due parti che dividevano la città, facendo credere così agli uni come agli altri, che entrerebbe una tal notte per combattere gli avversarî. Invece, al momento stabilito, dato il segnale, s'impadronì subito degli uni e degli altri, facendoli tutti ammazzare. La città venne allora corsa in nome di Castruccio, e si sottomise insieme col contado, «tale,» così conchiude il Machiavelli, «che ognuno, pieno di speranza, mosso in buona parte dalla virtù sua, si quietò.»[110] Invece Pistoia fu ceduta da Filippo Tedici, che n'era capo. Sentendosi troppo debole per lottare ad un tempo contro Castruccio, contro i Fiorentini e contro i nemici interni, ingannò i secondi e s'arrese al primo, che lo fece suo capitano e gli dette in moglie la propria figliuola. Così almeno raccontano le Storie Pistoiesi, ben più credibili. Il Machiavelli, fra le altre cose, non dà a Castruccio nè moglie nè figli, quando ebbe moglie e molti figli, nove secondo il suo biografo Tegrimi.
Dopo la presa di Pistoia seguono storicamente due battaglie, che sono i fatti più importanti nella vita militare [71] di Castruccio. La prima e principale fu quella di Altopascio (1325), nella quale i Fiorentini vennero pienamente rotti. E di questa il Machiavelli, che la descrive minutamente nelle sue Storie, non dice qui neppure una parola. Dopo varî altri fatti d'arme, Castruccio, divenuto duca di Lucca, Volterra, Pistoia, ecc., e vicario imperiale in Pisa, trovavasi in Roma, dove aveva accompagnato Lodovico il Bavaro. Ivi seppe che i Fiorentini avevano ripreso Pistoia. Corse allora a Lucca, formò un esercito, assediò Pistoia, e battè nello stesso tempo i Fiorentini, che volevano liberarla. Ma qui prese una febbre, di cui morì a Lucca. Ed anche di questo fatto militare, che è per la sua importanza il secondo nella vita di Castruccio, il Machiavelli tace affatto, per narrare invece battaglie immaginarie. Secondo lui, Castruccio, uscito di Lucca coll'esercito, incontrò i Fiorentini a Serravalle, dove è minutissimamente descritto uno scontro, che non avvenne mai, nel quale Castruccio avrebbe dato prova del suo grandissimo genio militare, rompendo il nemico. Divenuto così nuovamente padrone di Pistoia, corse verso Pisa, dove era scoppiata una congiura. Incontrò per via i Fiorentini, che lo assalirono con numerosissimo esercito, ed abbiamo a Fucecchio la descrizione minutissima di un'altra battaglia immaginaria, nella quale risplende di nuovo il genio militare di Castruccio, e i Fiorentini sono rotti un'altra volta. In queste due narrazioni, che sono smentite dalle Storie stesse del Machiavelli, si vede anche più chiaro che altrove, come nella sua Vita di Castruccio egli si fosse proposto di scrivere una specie di piccolo romanzo politico-militare, per dimostrare alcuni suoi concetti politici, e fra le altre cose, anche la grande superiorità che nella guerra i fanti hanno contro i cavalli. Ci dice infatti che Castruccio riuscì facilmente vittorioso contro i Fiorentini, perchè essi s'erano fondati sui cavalli, ed egli invece sui fanti. E questa fu sempre la teoria non senza valide ragioni sostenuta dal Machiavelli. [72] L'aveva già prima accennata nei Discorsi; più tardi, come vedremo fra poco, l'espose a lungo e dimostrò teoreticamente nell'Arte della Guerra. Nella Vita di Castruccio cercò invece descriverla, e renderla visibile, con esempî da lui immaginati, ai quali dette un'apparenza storica, per renderli più efficaci.
La fortuna intanto, eterna dominatrice delle cose umane, continua il Machiavelli, come aveva sinora favorito Castruccio, volle, per dimostrare sempre meglio la propria potenza, troncarne a un tratto la vita, con una febbre che lo colpì dopo l'ultima sua gloriosa battaglia. Presso a morire, egli chiamò l'ipotetico suo successore, Paolo Guinigi, e gli tenne questo discorso: «Se avessi saputo, che la fortuna voleva troncare a mezzo il mio cammino, ti avrei lasciato più piccolo Stato e meno nemici. Ma essa vuole essere arbitra di tutto, e non mi ha dato tanto giudizio da conoscerla prima, nè tanto tempo da poterla poi superare. Io non presi moglie per dimostrarmi grato al sangue di tuo padre, che mi aveva protetto. Ora tocca a te cercar di mantenere il regno che ti lascio, e che acquistai con la guerra.» Paolo non ebbe però nè la virtù nè la fortuna di Castruccio, e subito perdette il regno. Così ci narra il Machiavelli; ma anche questo è un romanzo, perchè, come abbiamo già detto, Castruccio lasciò invece molti figli, e furono essi che ebbero lo Stato, e che per la loro incapacità lo perdettero.[111] [73] Questa singolare biografia, che incomincia e finisce con l'esaltare l'onnipotenza della fortuna, ha come in appendice una serie di detti memorabili attribuiti a Castruccio. Si credette da molti che fossero quasi tutti cavati dagli Apoftegmi di Plutarco; ma fu invece dimostrato recentemente che sono in parte non piccola cavati dalla Vita d'Aristippo, scritta da Diogene Laerzio.[112]
Da tutto quello che abbiam detto, ci par che risulti chiaro quale scopo ebbe il Machiavelli nel comporre il suo scritto. Trovandosi a Lucca, meditò, com'era suo costume, sulla storia di quel paese, e naturalmente si fermò sopra il carattere e le avventure di Castruccio, ardito soldato, accorto politico, che fondò uno Stato nuovo, e fu un personaggio del genere del Valentino. E come questi, trasformato dalla fantasia del Machiavelli, era divenuto un suo ideale politico, così anche Castruccio, che più facilmente poteva essere trasformato, perchè più antico, divenne un altro suo ideale politico-militare. Facendone l'eroe d'un singolare romanzo storico, volle in lui personificare [74] alcune delle idee espresse nel Principe e nei Discorsi, ma più ancora le teorie più tardi da lui esposte nell'Arte della Guerra. Dove la storia di Castruccio non bastava, gli attribuì fatti ricavati dalla vita d'Agatocle, e dove neppur questa era sufficiente, supplì colla sua immaginazione, che del resto fu quella che riunì e compose tutto a suo arbitrio. Può ben essere, come da molti si è ripetuto, che la Ciropedia di Senofonte o altri scritti dell'antichità dessero il primo suggerimento alla composizione di questo scritto. La vita di Castruccio fu sin dal principio, a cominciare dallo stesso Tegrimi, circondata da leggende. Il Machiavelli, ricordandola nei suoi Discorsi,[113] la dice scritta da lui per dimostrare quali sono le qualità che hanno, e che, per riuscire nelle loro imprese, è necessario abbiano i principi conquistatori. È certo in ogni caso, che la Ciropedia o altri lavori poterono dargli solo un qualche suggerimento intorno al genere del lavoro ed al modo di condurlo. Quanto alla sostanza, agl'intendimenti di esso, ai precetti che suggerisce, la Vita di Castruccio è tutta propria del Machiavelli e del suo tempo.
Non vi è quindi da maravigliarsi, se uno scritto composto con tali intendimenti ed in tal modo, desse occasione a molte dispute. I dubbî sullo scopo e sull'indole di esso cominciarono in fatti sin dalla sua prima apparizione, e persisterono sempre. Anche nella lettera più sopra menzionata di Zanobi Buondelmonti, questi diceva d'aver subito letto con piacere il nuovo lavoro del Machiavelli, insieme con molti amici degli Orti Oricellari, e tutti lo incoraggiavano a scrivere storie, «perchè voi qui vi alzate [75] con lo stile più che non fate altrove.» Mentre però tutti erano in ciò d'accordo, «ciascuno si fermava e dubitava circa all'istoria ed alla esplicazione dei sensi e concetti vostri.» Osservava inoltre, e non senza ragione, che i detti da lui attribuiti a Castruccio parevan troppi, tanto più che alcuni di essi erano stati ad «altri antichi e moderni savi attribuiti.»[114] La narrazione della sua Vita di Castruccio procede veramente con una rapidità, con una evidenza e freschezza di stile che trascina, come gli seguiva ogni volta che, sotto una o un'altra forma, presentava e descriveva l'immagine de' suoi ideali prediletti.
L'Arte della Guerra.
Noi abbiamo già ricordato che il Machiavelli scrisse in questi anni a Firenze i sette libri dell'Arte della Guerra. Dedicati a Lorenzo di Filippo Strozzi, che lo aveva presentato in casa Medici, essi sono dialoghi, che si suppongono tenuti negli Orti Oricellari fra Cosimo Rucellai, Fabrizio Colonna, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla e Luigi Alamanni, nel 1516, quando il Colonna, finita la guerra di Lombardia, era tornato a Firenze. È chiaro però che quest'opera fu scritta alcuni anni dopo, giacchè sin dalle prime pagine l'autore parla della morte di Cosimo Rucellai, che non avvenne prima del 1519.[115] Il libro si può credere già finito nel 1520. [76] In fatti il 17 novembre di questo anno Filippo dei Nerli, scrivendo al Machiavelli, gli diceva di non aver ricevuto ancora nè la Vita di Castruccio nè l'opera De re militari, e del non aver quest'ultima specialmente si doleva, perchè anche il cardinal de' Medici la voleva leggere.[116] L'Arte della Guerra, in ogni modo, era già stampata in Firenze, il 16 agosto 1521.[117]
[77]
Come il Principe svolge più ampiamente alcune idee già accennate nei Discorsi, così l'Arte della Guerra espone a lungo ciò che in essi è brevemente detto sul modo di formare gli eserciti, e condurli dinanzi al nemico. Le tre opere in vero, dominate da uno stesso concetto, si potrebbero facilmente riunire in una sola. I Discorsi, che contengono in germe le altre due, e però tutto il sistema politico dell'autore, ragionano principalmente del come render libero lo Stato; il Principe, del come si fonda una monarchia nuova ed assoluta, per potere poi con essa rendere unita e indipendente la patria; l'Arte della Guerra espone come si debba armare il popolo, per difendere non solo la libertà, ma anche l'indipendenza di uno Stato, sia esso repubblica o monarchia. Ed in tutto ciò il Machiavelli, pur discorrendo assai spesso teoricamente ed in termini generali, mira sempre in particolare all'Italia. Laonde questi suoi scritti hanno nello stesso tempo un valore non solo scientifico, ma anche storico e pratico, il che, se ne aumenta il valore, rende sempre più difficile il giudicarli. A fare poi un esame accurato ed una vera critica dell'Arte della Guerra, s'incontrano altre e maggiori difficoltà. Agli uomini pratici delle armi facilmente sfugge il carattere storico d'un libro, che, messo fuori de' suoi tempi, riesce affatto incomprensibile, ed ai profani non è possibile determinar con precisione il valore intrinseco e tecnico, che esso ha certamente. Nè giova a diminuire tali difficoltà il non essere neppure il Machiavelli stato mai, a parlar propriamente, un uomo del mestiere. Ciò in fatti non agevola punto il giudicare che reale importanza abbiano davvero le sue teorie militari, in quali errori sia egli caduto, e quali di questi errori derivino dalla sua inesperienza, quali invece da' suoi tempi. Quando egli [78] scriveva, le armi da fuoco non avevano ancora prodotto quella rivoluzione negli eserciti, che li modificò poi sostanzialmente, creando la tattica moderna. Anzi una scienza della tattica non era allora neppur cominciata. Il Machiavelli fu di certo colui che osò primo iniziarla, e lo fece con un'audacia intellettuale non punto minore di quella con cui s'era deciso a fondare la scienza dello Stato. Fino a che punto vi riuscì? È questa la domanda a cui si deve, ed a cui è assai difficile rispondere, specialmente quando si è affatto estranei a tali studî. Cercheremo quindi valerci degli autori più competenti, dei consigli e suggerimenti di persone del mestiere, alle quali molto spesso dovemmo ricorrere per avere aiuto in questo capitolo.[118] Fortunatamente [79] però vi sono nel libro del Machiavelli alcune idee fondamentali e generali d'un grandissimo valore politico-militare, che si possono esporre e giudicare da ognuno. E di queste ci occuperemo prima di procedere ad un esame più speciale e minuto dell'opera.
L'arte della guerra, come del resto tutta la società in Europa, era allora in una grande e rapida trasformazione. Gli uomini d'arme, coperti di ferro da capo a piedi, cavaliere e cavallo, avevano con le loro lunghissime lance cominciato nel Medio Evo ad abbattere i fanti, che perciò finirono col cadere in discredito, e così il nerbo degli eserciti fu la cavalleria pesante. Di questa vennero principalmente composte le Compagnie di ventura, che in Italia prevalsero, riducendo quasi a nulla le milizie degli antichi Comuni, formate da artigiani, i quali militavano a piedi, e assai difficilmente potevano trovare il tempo e i denari per educarsi ai più lunghi e difficili esercizî della cavalleria. Nel secolo XV però le fanterie degli Svizzeri scesero dai loro monti a difesa della propria libertà. Coperti d'una semplice corazza, riuniti in grossi e serrati battaglioni, con lunghissime picche, che poggiavano a terra, e puntavano contro gli uomini d'arme, essi combatterono con grandissimo valore contro l'Austria e contro i duchi di Borgogna, dimostrando come i fanti potevano resistere non solo, ma vincere anco la più forte cavalleria. Con ciò conquistarono nello stesso tempo la loro indipendenza e la reputazione d'essere i primi soldati del mondo. Cominciarono quindi a servir come soldati di ventura presso gli stranieri, e furono subito [80] da tutti ricercati in modo, che pareva non si potesse più vincere una battaglia, senza avere in aiuto un buon numero di Svizzeri. Vennero imitati prima dai lanzichenecchi tedeschi, poi dagli Spagnuoli, e sempre con fortuna. Così a poco a poco la forza principale degli eserciti si fondò sulla fanteria, e non più sulla cavalleria; s'andò abbassando la temuta potenza delle antiche Compagnie di ventura, che per molte altre ragioni dovevano col tempo scomparire; e neppure i tanto celebrati uomini d'arme francesi furono più giudicati invincibili dai fanti.
Di tutto questo il Machiavelli cominciò ad avvedersi sin dalla prima esperienza che ebbe di cose militari al campo di Pisa, e sempre più se ne convinse nei viaggi da lui fatti più tardi nella Svizzera e nel Tirolo. E su di ciò si pose lungamente a meditare. L'idea fondamentale della sua Arte della Guerra è in fatti, che la vera milizia è il popolo armato; che in ogni tempo il nerbo degli eserciti sta nella fanteria, e quindi che all'ordinamento ed alla disciplina di questa bisogna sopra tutto provvedere. Nei paesi, egli dice, dove, come in alcune regioni dell'Asia, sono immense pianure e popolazioni nomadi, può darsi che la cavalleria debba nella guerra avere una parte predominante; ma in Europa essa vale solo a fare scorrerie, a riconoscere il paese, a venire alcuna volta in aiuto dei fanti, ad inseguire il nemico vinto, non però mai a decidere la battaglia. E lo dice e ripete con tanta precisione, con tanta sicurezza, che autorevoli scrittori militari affermano trovarsi in queste sue parole addirittura il linguaggio di un tattico moderno.[119]
[81]
Partendo da tale concetto, il Machiavelli veniva dalla sua ammirazione pei Romani naturalmente condotto a studiare in Tito Livio, in Polibio, sopra tutto in Vegezio l'ordine, la formazione, la disciplina della loro fanteria, e si persuase subito che la legione romana era un modello, non solo da imitarsi, ma assai difficilmente superabile. Nè in ciò s'ingannava. Anche dopo di lui essa fu, per più secoli, oggetto di studio e di ammirazione da parte dei grandi riformatori di eserciti. Se in fatti lasciamo per poco da un lato le profonde modificazioni portate nella tattica moderna dalle armi da fuoco, la legione romana resta anch'oggi un modello non mai superato, e dal quale si può tuttavia apprendere molto. A tali studî unendo l'esperienza avuta dei fanti svizzeri, le osservazioni ripetute ne' suoi viaggi sui fanti tedeschi, e quello che aveva negli ultimi anni sentito degli Spagnuoli, il Machiavelli si pose a meditare sulla riforma della fanteria, e arrivò così alla sua Ordinanza, che andò nella propria mente sempre più perfezionando. E questo concetto della nuova fanteria si univa all'altro di maggiore importanza, dal quale derivava, e che gli era suggerito anch'esso dall'esempio dei Romani, degli Svizzeri, dei Tirolesi, il concetto che è fine principale del suo libro, e fu uno degli scopi più costanti di tutta la sua vita: la vera forza militare dello Stato moderno, l'esercito veramente nazionale, invincibile è il popolo armato. Tale idea, non senza ragione fu da alcuni chiamata profetica, perchè, sebbene a lui suggerita dai Romani, trionfò nuovamente solo ai nostri giorni col sistema prussiano del servizio militare obbligatorio, più o meno imitato ora in quasi tutta Europa.[120] Il pensiero politico ed il pensiero militare del [82] Machiavelli si riuniscono così in uno solo nell'Arte della Guerra, e se la originalità del primo apparisce luminosa a tutti, anche le riforme tecniche da lui proposte per migliorare la fanteria de' suoi tempi, riscossero più volte l'approvazione e l'ammirazione dei tattici moderni.
Noi abbiamo già detto, che il Machiavelli non era uomo del mestiere, e questo apertamente riconosce egli stesso sin dal principio della sua opera. Ciò rende di certo maggiore il merito delle verità da lui divinate, e dimostra sempre più l'altezza del suo ingegno; ma lo fa anche cadere qualche volta in errori. E sopra uno di questi errori dobbiamo ora fermare la nostra attenzione, perchè esso ha conseguenze che determinano in parte il carattere generale dell'opera. Il Machiavelli aveva assai poca fede nelle armi da fuoco. Già nei Discorsi aveva detto, che se le artiglierie possono molto contro le mura di una fortezza, e contro un esercito che si difenda in luogo chiuso, assai poco valgono in campo aperto, contro chi muova all'offesa, nella quale, ben più che nella difesa, sta la vera importanza della guerra, come dimostrarono col loro esempio i Romani.[121] Nè egli mutò punto questa sua opinione nell'Arte della Guerra, dove, sebbene faccia osservazioni di gran valore anche sul modo di assediare e difendere le fortezze con le artiglierie, arriva qualche volta sino a dire che, in campo aperto, i cannoni fanno [83] poco altro che fumo. E quanto alle armi portatili da fuoco, ne faceva così poco conto, che più d'una volta si vede chiaro come egli sarebbe stato disposto ad abolirle del tutto, se non avesse temuto di andar troppo contro a quelli che gli sembravano pregiudizî del suo tempo. Bisogna però determinare bene la natura e le cagioni di questo che chiamiamo errore del Machiavelli, se non vogliamo noi stessi cadere in esagerazioni ingiuste a suo danno. Le armi portatili da fuoco erano allora davvero così imperfette, così difficili ad adoperarsi con qualche celerità e profitto, che in nessun modo potevano ancora sostituire vantaggiosamente l'arco e la balestra. In fatti non solamente in tutte le battaglie del secolo si continua a parlar sempre di arcieri e balestrieri; ma a più d'un secolo di distanza, il Montecuccoli proponeva ancora una fanteria armata per due terzi di moschetti, ed il resto di picche, le quali scomparvero davvero solo nel secolo XVIII con l'invenzione della baionetta.[122] Del resto quanto si sia nella guerra lenti ad accettare grandi mutamenti, anche se dimostrati utilissimi, lo abbiamo visto a' nostri giorni col fucile ad ago. L'esercito prussiano, che lo aveva adottato già sin dal 1840, potè farne la più sicura esperienza nella guerra di Danimarca, l'anno 1864, e, ciò nonostante, l'Austria continuava a fare studî, nè lo aveva ancora nella guerra del 1866. Solo il grande disastro di Sadowa lo fece finalmente adottare da essa e da tutti gli eserciti d'Europa. Quali difficoltà non doveva dunque incontrare la diffusione delle prime armi portatili da fuoco, le quali erano così imperfette, che sembravano venir solo a sconvolgere tutte le migliori tradizioni della guerra, tutta quanta la tattica militare degli eserciti allora più reputati? Ma per le artiglierie la cosa era assai diversa, e però queste osservazioni non valgono a difendere del tutto il Machiavelli. A Ravenna (1512) i cannoni [84] assai celebrati di Alfonso d'Este avevano fatto molto danno al nemico; a Novara (1513) gli Svizzeri avevano perduto gran numero dei loro, stracciati dalle artiglierie, secondo l'espressione del Giovio; a Marignano (1515) l'artiglieria francese ebbe una parte decisiva nella battaglia, e fece soffrire perdite enormi alle fitte ordinanze degli Svizzeri. Anzi da questo momento appunto le loro fanterie cominciarono a perdere la reputazione d'invincibili.[123] Ora il Machiavelli scrisse la sua Arte della Guerra dopo la battaglia di Marignano, dove per giunta anche gli scoppiettieri poterono la prima volta dimostrare l'utilità della loro arme, la qual cosa più tardi riuscì assai meglio a Pavia (1525).
La causa vera del troppo poco conto che il Machiavelli faceva delle armi da fuoco, bisogna ricercarla nell'assai ristretta esperienza militare da lui avuta solo nel campo di Pisa, e nel formare poi l'Ordinanza fiorentina. Aveva potuto, è vero, esaminare le fanterie svizzere e tedesche; ma anche ciò assai fugacemente, e sempre alcuni anni prima del 1512. Nei giorni della battaglia di Ravenna, egli era tutto intento ad apparecchiare la difesa di Prato e di Firenze; quelle di Novara e di Marignano seguirono quando egli era già fuori degli affari, ritirato nella sua villa, dove solo da lontano e per relazioni d'uomini politici o d'uomini di lettere potè esserne informato. La conseguenza fu, che egli conobbe da vicino e personalmente le fanterie e le armi quali erano prima [85] del 1512; cercò il modo di perfezionarle, tenendo presenti le condizioni in cui le aveva viste allora, e meditando sull'arte della guerra presso i Romani. Se fosse stato davvero un uomo di guerra, avrebbe di certo avuto maggiori occasioni di meglio conoscere le grandi battaglie seguite al suo tempo, e quindi anche un più chiaro e sicuro presentimento dell'avvenire serbato alle armi da fuoco. La lancia, la picca, la spada e l'arco non sono nella loro semplicità capaci di grandi perfezionamenti, tanto che restano presso i moderni poco diversi da quel che erano presso gli antichi; ma le armi da fuoco, infinitamente più complicate, furono appunto perciò capaci di grandissimi miglioramenti, dei quali si poteva prevedere l'importanza, ma non certo determinare l'estensione. Meno che mai era al Machiavelli possibile determinarla, e però il valore delle sue teorie militari bisogna giudicarlo, tenendo conto delle condizioni in cui esse furono meditate ed esposte.
Egli fu, in ogni modo, il primo che cercò di dare una teoria ragionata e scientifica di ciò che la tattica era nelle guerre del suo tempo, e dei miglioramenti che in essa si potevano portare. Le sue proposte risguardano quella che si può chiamare la parte fondamentale e costante dell'arte militare; hanno perciò un valore incontrastabile e permanente, meraviglioso davvero in un uomo che non fu mai soldato.[124] Se le armi da fuoco non avessero [86] fatto grandissimi progressi, tutto mutando o modificando, anche quelle parti del libro che oggi hanno solo un valore storico, ne avrebbero uno pratico, non meno notevole, perchè egli indicò con sicurezza l'unica via per cui era possibile progredire, fino a che non intervenne un elemento così disturbatore della tattica antica. Pur tale quale è, il suo libro basta a provare, secondo la opinione dei più esperti, che il fondatore della scienza politica è anche «il primo classico moderno di cose militari.»[125]
Nella lettera dedicatoria a Lorenzo Strozzi, uno de' suoi amici e protettori, il Machiavelli espone subito assai chiaro il concetto politico dominante, lo scopo principalissimo del suo libro. «È stato un errore funestissimo,» egli dice, «l'avere in Italia separato la vita civile dalla militare, facendo di questa un mestiere, come è seguìto colle Compagnie di ventura. Il soldato diviene così violento, minaccioso, corrotto, nemico d'ogni vivere civile. Bisogna perciò tornare agli ordini antichi dei Romani, i quali non conoscevano differenza alcuna tra cittadino [87] e soldato; questo anzi doveva più degli altri essere fedele, pacifico, pieno del timore di Dio. In quale uomo, in fatti, dobbiamo ricercare più fede, più onestà e virtù, che in colui il quale deve esser sempre pronto a morire per la patria? Esso è più degli altri offeso dalla guerra, e trovandosi in continui pericoli, ha quindi maggior bisogno dell'aiuto di Dio. Volendo adunque provarmi a restaurare fra noi l'antica virtù, il che io non giudico impossibile, e per non passare questi miei oziosi tempi senza operare alcuna cosa, ho deliberato di scrivere dell'arte della guerra quello che io ne intendo. So bene che è assai animoso trattare di quella materia di cui non si è fatto professione; pure gli scrittori non possono con le parole recar danni gravi come son quelli che spesso recano coi fatti i capitani inesperti.»[126]
L'opera incomincia con un elogio di Cosimo Rucellai, morto di recente in assai giovane età, pel quale il Machiavelli dimostra una riconoscenza sincera, un affetto caldissimo, profondo. Con una commozione in lui rara, dice di non poterne ricordare il nome senza lacrime, perchè egli ebbe tutte le qualità che in un buon amico dagli amici, in un cittadino dalla patria si possono desiderare. «Io non so qual cosa si fosse tanto sua (non eccettuando, non ch'altro, l'anima) che per gli amici volentieri da lui non fosse stata spesa; non so quale impresa lo avesse sbigottito, dove quello avesse conosciuto il bene della sua patria.» E dopo di ciò ha subito principio il dialogo. Fabrizio Colonna, ben noto capitano, arrivato allora dalla guerra di Lombardia, è invitato da Cosimo fra gli amici degli Orti Oricellari, ed appena giunto, entra a ragionar della guerra. Nel primo dei sette libri, nei quali l'opera è divisa, si discorre principalmente di che sorta d'uomini debba essere composto un esercito. Pieno d'una grandissima ammirazione [88] per la milizia romana, il Colonna, che in sostanza qui rappresenta il Machiavelli, di cui espone le dottrine, osserva che tutti volevano allora imitar degli antichi le cose esteriori, quando invece bisognava cercar d'imitarne la sostanza, cioè i costumi e l'anima. Noi dovremmo, egli dice, come essi facevano, «onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà; stimare i modi e gli ordini della disciplina militare; costringere i cittadini ad amare l'uno l'altro, a vivere senza sètte, a stimare meno il privato che il pubblico.... I quali modi non sono difficili a persuadere, quando vi si pensa assai, ed entrasi per i debiti mezzi, perchè in essi appare tanto la verità, che ogni comunale ingegno ne puote essere capace.»[127]
Ma tutto questo non si potrà mai ritrovare in coloro che fanno della guerra un mestiere, come i soldati di ventura. Essi debbono di necessità essere violenti, rapaci, fraudolenti, e desiderare sempre guerra, o commettere nella pace violenze e ruberie per vivere. «Non avete voi tutti alla memoria le taglie, i saccheggi, le ruberie commesse dalle Compagnie di ventura, senza che vi si potesse porre alcun rimedio? Al tempo dei padri nostri Francesco Sforza non solo ingannò i Milanesi, di cui era soldato, ma tolse ad essi la libertà e divenne loro principe; Attendolo suo padre costrinse la regina Giovanna, che lo aveva stipendiato, a gettarsi nelle braccia del re d'Aragona, avendola a un tratto abbandonata; Braccio di Montone, con le medesime arti, si sarebbe addirittura impadronito del Reame, se non trovava la morte in Aquila. E tutto questo perchè della guerra avevano fatto un mestiere, e solo con essa potevano vivere. Fino a che la repubblica romana visse immacolata, i suoi capitani furono contenti di trionfare per la patria, e tornarsene poi alla vita privata. Dopo la guerra cartaginese mutarono i tempi; sorsero [89] uomini che facevano il soldato per mestiere, e si cadde subito nei medesimi pericoli in cui siamo caduti noi, come ne sono esempio Cesare e Pompeo. Per questa ragione nessuno Stato bene ordinato ammise mai che i suoi cittadini esercitassero la guerra per mestiere. Nè si alleghi in contrario alcuno dei presenti regni, perchè non sono mai condotti secondo le buone regole. Ma gli Stati bene ordinati danno ai loro re imperio assoluto sugli eserciti solo in campo e durante la guerra, perchè solo allora è necessaria una subita deliberazione, e quindi una potestà unica. Nelle altre cose il re nulla deve operare senza consiglio, e si deve con ogni cura evitare che in tempo di pace egli abbia appresso di sè alcuno di coloro che vogliono sempre la guerra, e non sanno nè possono vivere senza di essa.[128] Ma lasciando anche da parte gli Stati bene ordinati, neppure ai presenti re può convenire l'aver soldati di mestiere, massime ora che il nervo degli eserciti sta tutto nelle fanterie. Se non si ordinano in modo le cose, che in tempo di pace i fanti sieno contenti di tornarsene a casa a vivere delle loro arti, conviene che di necessità per una via o per l'altra lo Stato rovini. Tu sei forzato o a far sempre guerra, o a pagar sempre i tuoi soldati, o a portare pericolo che non ti tolgano il regno. Far sempre guerra non è possibile, pagarli sempre non si può; ecco come di necessità si corre alla rovina.»[129] Al tempo del Machiavelli, veniva, per questo rispetto, dalla fanteria un pericolo maggiore assai che dalla cavalleria. Gli uomini d'arme in fatti erano generalmente dell'aristocrazia, e potevano quindi, massime in Francia ed in Germania, vivere delle loro entrate. La fanteria invece veniva formata di popolani e di contadini, i quali, se non tornavano alle arti della pace, avevano bisogno di guerra o di paga continua.
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Dopo di ciò si viene a discorrere del come fare la scelta dei soldati, quella cioè che noi chiamiamo leva militare, e che il Machiavelli chiama deletto. «Vogliono coloro che alla guerra hanno dato regola,» così dice il Colonna, alludendo al libro di Vegezio, in parte imitandolo, in parte traducendolo, «che bisogna scegliere gli uomini dai paesi temperati, perchè essi li generano animosi e prudenti, quando invece i paesi caldi li generano prudenti e timidi, e i paesi freddi li generano animosi ed imprudenti.[130] Ma questa sarebbe una regola buona solamente per chi fosse padrone del mondo, e avesse libera la scelta. Volendo invece dare una regola utile a tutti, bisogna trovar modo di scegliere i soldati in ogni provincia, formandoli poi, come facevano gli antichi, con la disciplina, che val più della natura.[131] Dallo stesso Vegezio è copiata anche la descrizione delle qualità fisiche e morali che sono desiderabili nel soldato: «gli occhi vivi e lieti, il collo nervoso, il petto largo, le braccia muscolose, le dita lunghe, poco ventre, i fianchi rotondi, le gambe ed il piede asciutto, le quali parti sogliono sempre rendere l'uomo agile e forte, che sono due cose che in un soldato si cercano sopra tutte le altre. Debbesi sopra tutto riguardare ai costumi, e che in lui sia onestà e vergogna, altrimenti si elegge un istrumento di scandalo ed un principio di corruzione, [91] «perchè non sia alcuno che creda, che nella educazione disonesta e nell'animo brutto possa cadere alcuna virtù che sia in alcuna parte lodevole.»[132]
«Voi adunque,» osserva qui Cosimo Rucellai al Colonna, «volete ricostituire l'Ordinanza fiorentina, la quale da molti savî è stata biasimata come inutile, ed ha fatto all'occorrenza cattiva prova. Questi allegano i Romani, che, avendo le armi da voi raccomandate, perderono la libertà; allegano i Veneziani, che mai non vollero questa Ordinanza, ed il re di Francia, che ha disarmato i suoi sudditi per poterli meglio comandare. In conclusione essi condannano l'Ordinanza più come inutile che come pericolosa.» A tali osservazioni Fabrizio Colonna risponde, che queste opinioni si possono sostenere solo da chi non ha sicura cognizione nè vera esperienza delle cose di guerra. «È infatti,» egli dice, «dimostrato dalla storia e dalla esperienza, che tutti gli Stati si debbono fondare sulle armi proprie, e che con esse sole si possono difendere davvero; nè si può avere milizia propria se non con l'Ordinanza. Se questa una volta non fece a Firenze buona prova, bisogna correggerla, non condannarla, [92] e ricordarsi ancora che non vi sono al mondo eserciti i quali vincano sempre. Nessun savio ordinatore di Stati dubitò mai che la patria debba essere difesa dai suoi cittadini. Se i Veneziani avessero compreso tutto ciò, avrebbero fondato un nuovo imperio nel mondo. Essi in fatti combatterono in mare colle proprie armi, e furono sempre vittoriosi; ricorsero in terra ai capitani di ventura, ai soldati di mestiere, e questo tagliò loro le gambe. I Romani, invece, assai più savî, essendosi prima esercitati a combattere solo in terra, quando ebbero sul mare nemici i Cartaginesi, educarono subito le loro genti alle battaglie navali, e vinsero del pari. Circa poi all'esempio della Francia, che non tiene i suoi abitatori esercitati alla guerra, e deve perciò ricorrere molto anche a soldati di mestiere, non v'è uomo alcuno, che non sia accecato dalla passione, il quale non veda che questa è la vera cagione che ha indebolito quel regno.»[133] In conclusione Fabrizio Colonna vuole che tutti gli uomini sani, dai diciassette ai quaranta anni, vengano esercitati alle armi in certi giorni determinati, per essere sempre pronti a difendere la patria.
Da questo primo libro dell'Arte della Guerra chiaro apparisce, che la monarchia del Machiavelli, la quale egli accetta e sostiene dove la repubblica non è possibile, circonda il re d'uomini savî, che lo consigliano, non lasciandogli mai nella pace assoluto dominio. Solo in guerra, il principe deve essere alla testa del proprio esercito, con assoluto imperio. Repubblica poi o monarchia, lo Stato deve riporre la sua forza nella nazione armata, riunita dalla disciplina, dalle leggi e dal dovere, a difesa comune. Questo è l'esercito in cui il Machiavelli ha piena fiducia, e lo vuole composto d'uomini non solamente forti, educati alle armi; ma sopra tutto virtuosi, modesti, pronti ad ogni sacrifizio pel bene [93] pubblico.[134] Mille volte nell'Arte della Guerra egli ripete che la virtù dei cittadini è la vera forza degli eserciti, e quindi l'unica solida base degli Stati. E ciò non contradice punto a quanto egli disse nei Discorsi e nel Principe. Anche il capitano deve seguire norme di condotta che sono ben diverse da quelle imposte nella vita privata. Ma nella vita pubblica, cittadini, principi e capitani debbono sacrificare tutto allo Stato, alla salute della patria; ed in ciò anch'essi ritrovano il valore morale delle loro azioni. Crediamo noi forse che sia meno leale degli altri, meno generoso, meno devoto al proprio dovere il soldato d'onore che, senza odî o rancori personali, va con calma e fermezza alla guerra; ma che all'occorrenza inganna il nemico, per sconfiggerlo, e ne premia i disertori, che son traditori della loro patria, e paga le spie, che qualche volta compiono anch'esse un necessario e pericoloso dovere? Noi non possiamo perciò, secondo il Machiavelli, negar vera grandezza morale nè al politico, nè al capitano che, seguendo le leggi inesorabili, naturali, fatali dell'arte di Governo e dell'arte della guerra, operano solo nell'interesse della patria, da esso solo lasciandosi guidare, ad esso solo sacrificando tutto. Questo sacrifizio del privato al pubblico bene deve essere la norma costante della condotta politica e militare in uno Stato bene ordinato. E riuscirà a seguirla davvero solo chi è realmente onesto e buono, quantunque possa apparire tristo agli occhi del volgo. Non si speri però d'aver mai una patria ed un esercito forte, senza virtù vera.
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Nel secondo libro si comincia a ragionare del come debbano essere armati ed esercitati gli uomini. E qui, anche più che altrove, il Machiavelli ricorre agli antichi scrittori, dei quali in tutta l'opera, più o meno, continuamente si vale, senza quasi mai citarne i nomi. Vegezio riman sempre la sua fonte principale, ed a lui allude ogni volta che accenna in genere a «coloro che scrivono delle cose di guerra.» Spessissimo si vale di Polibio e di Livio, massime quando discorre della falange greca e della legione romana, la quale è, come dicemmo, il modello che propone alla imitazione degl'italiani. Da questi due autori il Machiavelli attinge molte notizie intorno alle armi ed agli esercizi militari degli antichi, di tanto in tanto ricorrendo anche ad altri, una o due volte a Giuseppe Flavio. Se non che, assai poco curandosi che queste sue varie fonti appartengono a tempi diversissimi, li segue senza distinzione di sorta. E quindi, non ostante le osservazioni spesso acutissime che fa nel paragonare gli eserciti greci ai romani, la legione che da lui ci vien descritta, e che è il termine costante d'ogni suo paragone, non riesce storicamente esatta, avendo egli in essa riunito cose, che furono in realtà divise da non breve distanza di tempo. S'aggiunge poi che, volendo egli trovar sempre alle proprie idee sostegno nell'autorità degli antichi scrittori, si lascia qualche volta andare ad interpetrazioni, che si possono dire addirittura arbitrarie. Oltre poi ai sopra accennati autori greci e romani, dobbiamo notare che, nell'Arte della Guerra, a cominciar dalla fine del libro terzo, il Machiavelli fa un uso frequentissimo di Frontino, il quale diviene anzi la sua fonte costante ogni volta che si parla di astuzie, stratagemmi o accorgimenti militari da usarsi nel condurre le guerre.[135]
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«I Romani,» così comincia il secondo libro, «coprivano di ferro il loro fante; gli davano lo scudo, la spada e un dardo, che chiamavano pilo; i Greci, e specialmente i Macedoni, lo armavano meno gravemente, più ad offesa che a difesa, con una lancia lunga dieci braccia, che chiamavano sarissa.»[136] E qui è da notare che il Machiavelli, non ostante le prove in contrario, non vuole in nessun [96] modo ammettere che i Greci adoperassero lo scudo, perchè non sa vedere come potessero utilmente farlo insieme con la sarissa.[137] È una difficoltà notata anche da altri; ma non è perciò giustificata la sua affermazione contro l'autorità degli antichi. Determina poi mirabilmente quali sono i difetti della falange greca, e quindi la sua grande inferiorità di fronte alla legione romana. Si sforza di trovar somiglianza fra le armi, l'ordinamento degli Svizzeri e quello dei Greci, per meglio provare la superiorità della sua Ordinanza, armata quasi in tutto alla romana. «Gli Svizzeri,» egli dice, «hanno imitato, col loro battaglione, la falange greca, ponendo tutto lo sforzo nelle picche, coprendo assai poco i loro uomini. E dietro questo loro esempio i fanti hanno oggi un petto di ferro, una picca lunga nove braccia, ed una spada che è pure assai lunga. Pochi portano coperta di ferro la schiena e le braccia, nessuno il capo, e questi pochi hanno l'alabarda lunga tre braccia, il cui ferro è come una scure. Si aggiungono alcuni scoppiettieri, che fanno l'ufficio di balestrieri. Questo modo fu trovato dagli Svizzeri, quando con le picche dimostrarono che i fanti possono vincere i cavalli, salendo così in grandissima reputazione, venendo poi imitati dai Tedeschi. Ma fermati e vinti che sono i cavalli, quando si viene alla mischia stretta, la picca non giova più, e questi soldati così poco coperti sono esposti ai colpi del nemico. Si è perciò visto che gli Svizzeri, fortissimi sempre contro la cavalleria, [97] riescono deboli contro quei fanti che sono armati in modo da poter combattere anche da presso. I Romani in fatti coprivano di ferro il soldato, gli davano lo scudo per difesa, e la spada per offesa, venendo subito alla pugna stretta. Gli Spagnuoli son ben armati, tanto da poter vincere i Tedeschi, quando si combatte corpo a corpo; ma non reggono poi contro la cavalleria moderna, che è più forte dell'antica, perchè meglio coperta di ferro, ed ha gli arcioni alle selle, e le staffe che allora non usavano. Quando il Carmagnola si trovò con seimila cavalli e pochi fanti contro diciottomila Svizzeri, fu dalle loro picche respinto. Ma egli, che era un capitano valente, fece scendere a terra i suoi uomini d'arme coperti di ferro, e così vinse il nemico. Quando gli Spagnuoli vennero a liberare il loro capitano Consalvo, che era chiuso in Barletta, si fecero loro incontro i Francesi con le genti d'armi e quattromila Tedeschi. Questi con le lunghe picche aprirono subito le file dei fanti spagnuoli, i quali allora, aiutandosi coi brocchieri e con la propria agilità, si cacciarono tra i nemici, tanto da raggiungerli con la spada, e così li finirono. Lo stesso sarebbe avvenuto a Ravenna, dove gli Spagnuoli si cacciarono in mezzo ai Tedeschi, e li avrebbero finiti, se non sopravveniva la cavalleria nemica, contro la quale essi non potevano resistere con uguale fortuna. Occorreva dunque trovare una fanteria armata alla romana, capace di resistere ai fanti come la spagnuola, ma capace anche di resistere alla cavalleria come gli Svizzeri. Ed in questa fanteria bisogna, come facevano i Romani, riporre tutta la forza dell'esercito, perchè la cavalleria è buona a fare scoperte, a correre e guastare il paese nemico, a tenere l'esercito di quello tribolato e sempre in sulle armi, ad impedirgli le vettovaglie; ma nelle zuffe campali decide la fanteria. Il non avere di ciò tenuto conto, fu, ai tempi nostri, la rovina d'Italia, la quale è stata predata, rovinata e corsa dai forestieri, non per altro peccato che per aver tenuto poca cura [98] delle milizie a piedi, ed essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo.»[138]
Si viene poi a parlare degli esercizî coi quali deve essere formato il soldato; nè qui il Machiavelli fa altro che imitare Vegezio, descrivendo e raccomandando tutto ciò che facevano i Romani,[139] concludendo che come tali esercizî si potevano fare dagli antichi, «così possono farsi presso di noi, avendosene anche un esempio in molte città tedesche, nelle quali si tengono vivi questi modi, ed ogni abitante decide quali armi preferisce, in quelle viene descritto, e nei giorni oziosi esercitato. Ma non basta educare e formare ciascun soldato per sè; occorre anche ordinarli ed esercitarli insieme. Ogni esercito deve perciò avere come un membro principale, in cui riunire e formare i suoi uomini. I Romani avevano la legione, i Greci la falange, gli Svizzeri hanno i battaglioni, e così dobbiamo fare anche noi.»[140] E quindi, per le ragioni già esposte, egli arma il suo battaglione parte alla greca, parte alla romana; formandolo di seimila uomini, che divide in dieci battaglie, come in dieci coorti era divisa la legione romana, composta, egli dice, di cinque in sei mila uomini.[141] Ogni battaglia è di 450 fanti, 400 dei quali armati gravemente, o sia 100 con le picche, e 300 con lo scudo e la spada. Restano 50 fanti, che sono i veliti, armati alla leggera, con scoppietti, con balestre o simili. [99] Le picche sono nelle cinque prime file, di venti uomini ciascuna; nelle altre quindici sono gli scudi. Ma perchè il battaglione sia da ogni parte difeso contro la cavalleria nemica, s'aggiungono 1500 fanti straordinari, di cui mille armati di picche, e questi si distendono ai lati del battaglione, con 500 veliti, che si uniscono con essi, e formano le ali. Una volta o due l'anno bisogna riunire tutto il battaglione, ed esercitarlo come in tempo di guerra. «L'esercito animoso lo fa non tanto l'essere in quello uomini animosi, quanto l'esservi buoni ordini, perchè se io sono dei primi combattenti, e sappia, sendo superato, dove io m'abbia a ritirare, e chi abbia a succedere nel luogo mio, sempre combatterò con animo, veggendomi il soccorso propinquo.»[142] Come nei Discorsi il Machiavelli attribuiva una straordinaria efficacia ai buoni ordini politici, e li credeva per sè stessi capaci di dare la libertà e generare la virtù, così nell'Arte della Guerra attribuisce una straordinaria efficacia ai buoni ordini militari, e li crede sufficienti a formare il soldato, ad infondergli valore.
Egli ordina ora la sua battaglia, esponendo le varie forme che può prendere, i vari movimenti che deve fare, descrivendone tutte le evoluzioni assai per minuto. «Importa più che cosa alcuna avere i soldati che si sappiano mettere negli ordini tosto, ed è necessario tenerli in queste battaglie, esercitarveli dentro e farli andare forte, o innanzi o indietro, passare per luoghi difficili senza turbare l'ordine; perchè i soldati che sanno fare questo bene, sono soldati pratichi, ed ancora che non avessero mai veduti nemici in viso, si possono chiamare soldati vecchi.... Questo è quanto al metterli insieme, quando sono nelle file piccole, camminando. Ma messi che sono, e poi essendo rotti per qualche accidente che nasca o dal sito o dal nemico, a fare che in un [100] subito si riordinino, questa è l'importanza e la difficoltà, e dove bisogna assai esercizio ed assai pratica, e dove gli antichi mettevano assai studio.»[143] Il Machiavelli aveva ragione d'insistere moltissimo sopra di ciò. Gli eserciti erano allora ordinati in maniera, che quando, durante la battaglia, il nemico riusciva ad assalire di fianco, tutto era perduto, per la grande difficoltà di mutar posizione; e così, quando le prime linee retrocedevano, la confusione diveniva subito generale, e non v'era più rimedio.[144] Insistendo sempre sulla necessità di rendere l'esercito mobile e capace di mutare forma istantaneamente, in presenza del nemico, e d'ogni nuovo accidente o pericolo che sorgesse, l'autore dell'Arte della Guerra dimostrava di conoscere quale era il modo più sicuro di migliorare la tattica de' suoi tempi.
Se attentamente si esamina il modo, con cui è formato il battaglione del Machiavelli, apparisce in un punto qualche contradizione. Egli si fonda tutto sulla fanteria, e la vuole armata ed ordinata al modo romano, mobilissima, pronta all'offesa più che alla difesa, nè sembra voler mai far gran conto della cavalleria. Pure non solo copre di ferro i soldati della sua Ordinanza, ma la circonda da ogni lato di picche, perchè possa esser difesa contro gli assalti della cavalleria, ai quali pensa di continuo. Rimprovera anzi alle fanterie spagnuole d'aver troppo poco pensato a questo, onde spesso venivano sbaragliate dai cavalli, sebbene poi nella mischia stretta si rifacessero. Tutto ciò segue, perchè, sebbene egli vedesse chiaro quale era l'avvenire della fanteria, non poteva poi nella pratica negare alla cavalleria una parte almeno di quella importanza grandissima, che nelle guerre [101] d'allora essa continuava ad avere, e quindi il pensiero di difendersi dagli uomini d'arme ricompariva e spesso prevaleva.[145] Questo si vedeva pure nell'ordinamento dei battaglioni svizzeri, che egli tanto ammirava, ed a questo lo induceva ancora il poco conto in cui teneva le armi da fuoco. Messa però da un lato una tal contradizione teorica, è certo che il battaglione del Machiavelli è un vero miglioramento di quello degli Svizzeri, per la sua maggiore articolazione, la sua mobilità e mutabilità.[146] Era tale in fatti che, se non fosse intervenuto il progresso delle armi da fuoco, l'incremento logico e naturale dell'arte militare avrebbe necessariamente portato a seguire la via da lui indicata, e fatte adottare le riforme da lui proposte.[147] Il fucile ed il cannone perfezionati [102] scomposero di poi i battaglioni compatti, obbligando a presentare al nemico masse meno profonde e più estese. Ma ciò avvenne assai più tardi, nè si poteva allora prevedere.
A questo punto gl'interlocutori fanno una domanda simile ad un'altra, che il Machiavelli s'era già fatta nei Discorsi. Aveva in essi domandato: perchè mai gli antichi ebbero maggiori libertà, maggiori virtù politiche dei moderni? E la risposta era stata: perchè ebbero governi repubblicani, e perchè le religioni pagane esaltavano la forza, l'amor di patria, anche la ferocia dell'animo, quando invece il Cristianesimo pensa al cielo più che alla terra, ed esalta la mansuetudine al di sopra della forza. Solo fra gli Svizzeri ed i Tedeschi si trovano ancora esempî dell'antica virtù. E nell'Arte della Guerra Cosimo Rucellai domanda del pari: quale è la cagione per la quale l'Europa ebbe in antico tanti gran capitani, e così pochi ne ebbero l'Asia e l'Africa, così pochi se ne hanno oggi per tutto? «Gli antichi,» risponde Fabrizio Colonna, «ebbero in Europa molti principati o repubbliche, che, combattendo fra loro, educavano le virtù militari; i popoli dell'Oriente ebbero invece solo uno o due grandi imperi. L'Africa, per questo rispetto, si trovò in condizioni più fortunate, a cagione della repubblica cartaginese. Dalle repubbliche escono più uomini eccellenti che dai regni, perchè in quelle il più delle volte si onora la virtù, ne' regni invece si teme; onde ne nasce che nelle une gli uomini virtuosi si nutriscono, negli altri si spengono.[148] Quando poi in Europa, cresciuto l'impero romano, e divenuto signore del mondo, non vi furono più nemici da temere, allora la virtù militare scomparve per le ragioni stesse che l'avevano spenta fra i popoli dell'Oriente. I barbari, è vero, la divisero di nuovo; ma la virtù che una volta è venuta meno non rinasce così [103] facilmente. Oltre di che, come fu già osservato, il Cristianesimo è più mite delle religioni pagane, e sotto di esso le cose non procedono perciò con l'antica ferocia.[149] Inoltre abbiamo ora grandi regni, che non temono i vicini, e piccole città, che si accostano ai potenti per farsi difendere da essi; così manca occasione a quelle lotte, che promuovono la virtù militare. Considerate la Magna, nella quale per essere assai principati e repubbliche, vi è assai virtù, e vedrete come tutto ciò che nella presente milizia è di buono, dipende dall'esempio di quei popoli, i quali, essendo gelosi dei loro Stati, temendo la servitù, che altrove non si teme, tutti si mantengono sicuri ed onorati.»[150]
In fine del secondo libro, Cosimo ricorda a Fabrizio, che della cavalleria non ha ancora parlato. E questi risponde, che ha taciuto, perchè essa ha minore importanza della fanteria, e perchè era allora in assai migliori condizioni. «Se non è più forte dell'antica, le è certo pari.» La vorrebbe perciò poco o punto mutare. Porrebbe fra i cavalleggeri qualche scoppiettiere, più per far paura ai paesani, che per produrre effetto reale. Vorrebbe per ogni battaglione 150 uomini d'arme e 150 cavalli leggieri; vorrebbe diminuito molto il numero eccessivo in Italia dei cavalli e dei carri, che portavano le armi e gli arnesi della cavalleria. Nè altro aggiunge. Gli studî, la principale esperienza del Machiavelli, e quindi le proposte che faceva, si riferivano quasi sempre alla fanteria.
Nel terzo libro si ordina l'esercito, per poter venire a giornata col nemico. Il più grande errore che si possa commettere, secondo il Machiavelli, è quello di dare all'esercito, come facevano al suo tempo, una sola fronte, una sola linea di battaglia, obbligandolo così ad un impeto [104] e ad una fortuna sola. Questo avveniva perchè non si sapevano imitare i Romani, «i quali dividevano la legione in Astati, Principi e Triarî. I primi erano nella fronte, con ordini spessi; i secondi seguivano più radi, in modo da potere all'occorrenza ricevere i primi, quando questi dovevano retrocedere; i terzi, più radi ancora, per ricevere i primi ed i secondi. I Greci, armati di lunghe lance, non avevano questo modo di rifarsi; ma il soldato che cadeva, veniva sostituito da chi gli era dietro, e così le file restavano sempre piene, salvo l'ultima che andava diradando. Siffatto ordine imitarono in principio anche i Romani; poi non piacque loro, e divisero le legioni in coorti o in manipoli, perchè giudicarono, che quel corpo avesse più vita, che aveva più anime, ed era composto di più parti, ciascuna delle quali per sè stessa si reggesse.[151] Gli Svizzeri sono tornati alla falange greca, e dividono il loro esercito in tre grossi battaglioni, che scalano così: il secondo a destra e dietro al primo; il terzo più indietro ancora, a sinistra. I primi, ritirandosi, non possono essere ricevuti nei secondi e terzi; ma questi s'avanzano, invece, a soccorrere i primi, quando è necessario. E però, come la solidità delle falangi dovette cedere di fronte alla mobilità ed articolazione della legione [105] romana, così i grossi battaglioni svizzeri debbono cedere di fronte alla nostra Ordinanza, pronta a combattere da ogni lato; a rifarsi tre volte, quando deve retrocedere; a prendere ogni forma; a resistere contro i cavalli con la picca, contro i fanti con la spada.»[152]
Il Machiavelli compone il suo esercito normale di quattro battaglioni, diviso ciascuno in dieci battaglie, come dieci erano le coorti della legione descritta da Vegezio. In tutto sarebbero 24,000 fanti e 1200 cavalli; ma egli dice che, per maggiore semplicità, fa i suoi ragionamenti solo su due di essi, o sia 12,000 fanti e 600 cavalli, potendo con facilità le stesse osservazioni applicarsi ad un doppio numero di uomini. Pone adunque in prima linea dieci battaglie, sei in seconda, e quattro in terza, perchè la prima linea, ritirandosi, possa essere ricevuta nella seconda, e ambedue nella terza. Ogni battaglia ha le picche nelle prime linee e gli scudi nelle altre. Ai fianchi dell'esercito sono disposte le picche chiamate straordinarie, perchè da ogni lato si possa far fronte ai cavalli nemici. Pone la sua cavalleria alle ali, l'artiglieria dinanzi. Se queste battaglie, durante la mischia, si ristorano nel modo che egli ha chiamato romano, le prime ritirandosi cioè nelle seconde, ed ambedue nelle terze, dentro ciascuna di esse invece gli uomini si aiutano seguendo il modo proprio della falange greca, colui che è indietro avanzandosi cioè a prendere il posto del compagno che gli è caduto dinanzi.
I due eserciti sono ora di fronte, e Fabrizio Colonna espone come procede il suo. Le artiglierie tirano e fanno poco altro che fumo. Subito dopo i militi e la cavalleria leggiera escono sparsi per la campagna, ed assaltano il nemico, la cui artiglieria ha già tirato, ma i colpi sono [106] passati sul capo dei fanti di Fabrizio. Le picche resistono fieramente all'assalto; quando però la mischia si stringe non possono più nulla, e si ritirano per dar luogo ai fanti armati di scudo e di spada, i quali disfanno il nemico.
Dopo che Fabrizio Colonna ha con calore e minutamente descritto questa battaglia, Luigi Alamanni domanda: «Perchè avete voi fatto tirare una sola volta le vostre artiglierie, e poi subito smettere; perchè mai avete posto quelle del nemico in modo che i colpi sono passati sul capo dei vostri? Io invece ho sentito da molti spregiare le armi e gli ordini degli antichi, dicendo che sarebbero ora inutili contro le artiglierie, le quali rompono gli ordini e passan le corazze.» «È vero,» risponde Fabrizio, «che feci tirare una volta sola, ed anche di ciò stetti in dubbio, perchè, più del percuotere il nemico coi miei cannoni, m'importa non essere io percosso dai suoi.[153] È quindi necessario andar contro alla sua artiglieria subito e con ordine rado, per non lasciargli tempo ad offendere, e perchè in ogni caso esso tiri solo contro uomini sparsi. Esitai, come ho detto, perfino a tirare la prima volta, perchè so che il fumo delle artiglierie ti leva la vista del nemico. E feci passare i suoi colpi sulla testa dei miei uomini, questo essendo ciò che di fatto segue quasi sempre. Sono in vero le artiglierie così difficili a trattare, che quando appena tu le alzi, passano sul capo al nemico, ed ogni poco che le abbassi, danno in terra. Appiccata poi che è la zuffa, riescono addirittura inutili. So bene che molti presumono essere contro le artiglierie affatto inefficaci gli ordini antichi, quasi se ne fosse ora trovato uno nuovo, che riesca utile contro di esse. Se voi lo conoscete, avrò caro che me l'insegnate, perchè infino a qui io non ce ne so vedere alcuno, nè credo se ne possa trovare. Vorrei sapere da voi, perchè i soldati a [107] piedi dei nostri tempi portano ancora il petto ed il corsaletto di ferro, e perchè quelli a cavallo sono sempre tutti coperti di ferro? Gli Svizzeri, a similitudine degli antichi, formano battaglioni stretti di sei o ottomila uomini, e tutti gli hanno imitati. Non v'è contro le artiglierie un ordine più pericoloso che l'ordine stretto, eppure è quello che oggi prevale. Se questi modi non difendono dalle artiglierie, contro le quali non v'è rimedio che valga, essi difendono sempre dai fanti, dai cavalli, dalle picche, dalle spade, dalle balestre, ecc. Del resto, se oggi è ancora possibile mettere il campo sotto una città, di dove le artiglierie ti offendono senza essere offese, molto più possiam farlo in una pianura aperta, senza sbigottirci e senza presumere che sia possibile mai abbandonare gli ordini antichi. Questo esercito adunque manterrà sempre il vantaggio sugli altri dei nostri tempi, perchè, meglio ordinato ed armato, può fermare al primo scontro il nemico, e disfarlo poi quando si accosta; può riprendere la battaglia tre volte, senza mai confondersi; può facilmente combattere da ogni lato.»[154]
Nel quarto e quinto libro si parla dei movimenti di tutto l'esercito, tenendo sempre dietro all'esempio romano, senza che il Machiavelli possa molto aggiungere di nuovo per esperienza propria, non essendosi trovato mai nè a grandi guerre, nè fra grandi moltitudini di armati. Ed è qui che incomincia a fare uso frequentissimo di Frontino, da lui pigliando continuamente gli esempî di astuzie e stratagemmi di guerra, che suggerisce.[155] [108] Ciò a cui ora più costantemente mira, si è il poter dare all'esercito, con grande rapidità, anche in presenza del nemico, tutte quante le possibili forme. Egli biasima però sempre il distenderne molto la fronte, giudicando che sia cosa pericolosissima.[156] Il troppo poco conto che faceva delle armi da fuoco, non gli rendeva possibile prevedere, che esse avrebbero reso necessaria una formazione sempre più larga e meno profonda.
Quando l'esercito si trovi molto scarso di cavalli, il Machiavelli consiglia di ordinarlo, potendo, fra vigne ed alberi, come fecero gli Spagnuoli alla Cerignola. Consiglia di porre la parte più forte de' suoi contro la più debole del nemico, per poter meglio, ritirandosi da un lato, circondarlo dall'altro.[157] E questa fu in ogni tempo l'arte dei grandi capitani. Alcune altre sue osservazioni possono dirsi più di senso comune che veramente di arte della guerra, sebbene anche in questa l'ingegno naturale di colui che comanda, e la sua conoscenza degli uomini ebbero ed avranno sempre una importanza superiore alle cognizioni tecniche. Il Machiavelli raccomanda il segreto in tutte le imprese militari, lo studio e la conoscenza dei luoghi, e dice che giova sopra ogni cosa saper mettere il soldato nella condizione di potersi salvar solo colla vittoria. «Le necessità possono essere molte, ma quella è più forte, che ti costringe a vincere o morire.»[158] Gli esempî che adduce in questi due libri, sono quasi tutti cavati dalla storia antica.
[109]
E così ancora nel sesto libro, dove discorre del modo d'alloggiare l'esercito, cerca attenersi ai Romani, quantunque sia pur necessario che se ne allontani più d'una volta, a cagione delle mutate condizioni dei tempi. Il Colonna comincia col riconoscere che sarebbe stato forse più opportuno «alloggiare prima l'esercito, per farlo poi muovere e finalmente combattere.» Ma volendo egli dimostrare come poteva, camminando, ridurlo a un tratto dalla forma tenuta nell'avanzarsi a quella della zuffa, fu indotto a cominciare dall'ordinario a battaglia più presto che poteva.[159] E viene ora a parlar degli alloggiamenti, senza molto aggiungere di nuovo, che meriti particolar menzione. Qui egli ordina non più due, ma quattro battaglioni, cioè tutto quanto l'esercito normale di 24,000 fanti e circa 2000 cavalli. Come i Romani componevano il loro esercito di 24,000 fanti, e nei casi estremi non superarono, secondo il Machiavelli, quasi mai il numero di 50,000, «coi quali poterono vincere 200,000 Francesi, così debbono fare i moderni.[160] I popoli dell'Oriente e quelli dell'Occidente fecero, è vero, la guerra con le moltitudini armate; ma questi si fondarono tutti sulla loro naturale e selvaggia ferocia, quelli sulla grande reverenza e passiva obbedienza ai loro re. Per i popoli meridionali in Italia ed in Grecia, dove mancano così la naturale ferocia, come la passiva obbedienza, fu necessario ricorrere alla disciplina, la quale ha tanta forza, che con essa i pochi e bene ordinati poterono vincere il furore e la ostinazione dei molti. Gli antichi fecero ogni cosa meglio di noi, massime nella guerra, e chi vorrà imitarli non deve formare eserciti troppo numerosi, perchè si disordina la disciplina e si genera confusione.»[161] A mantenere con sicurezza questa disciplina, propone che la [110] pena ed in parte anche il giudizio sieno dati popolarmente, come avevano fatto i Romani e come facevano gli Svizzeri, presso i quali chi violava la disciplina veniva ammazzato dai propri compagni d'arme. «E ciò,» egli dice, «è assai bene considerato, perchè il reo non troverà mai difensori in coloro che lo avranno punito.»[162] Fra i consigli o suggerimenti dati in questo libro, ve n'è qualcuno che torna a ricordarci quanto, così nella guerra, come nella pace, la moralità di quei tempi fosse diversa dalla nostra. Il Machiavelli dice, per esempio, che alcuni abbandonavano il campo con tutti i viveri al nemico, per poi sorprenderlo quando s'era ripieno di vino e di cibo, ed aggiunge, senza altro osservare, che qualche volta, per meglio riuscire, si avvelenavano prima i vini.[163]
Il valore di quest'opera si rialza di nuovo nel settimo ed ultimo libro, nel quale l'autore espone alcune idee assai notevoli intorno alle fortificazioni, e poi conclude. Le fortificazioni erano da un pezzo materia di studî, fatti in Italia e fuori da valenti ingegneri civili e militari. Ma l'uso delle artiglierie rendeva adesso necessaria anche in ciò una trasformazione radicale. Le antiche mura assai alte venivano facilmente abbattute dai cannoni, e le altissime torri non facevano più danno al nemico, perchè su di esse non potevano portarsi le artiglierie, nè il gettar sassi o altro noceva a chi poteva ora tenersi lontano. Si cercavano quindi costruzioni più basse e più solide, sulle quali fosse possibile portare i cannoni. Di tutto ciò il Machiavelli aveva avuto qualche esperienza, così al campo di Pisa, come nell'apparecchiare la difesa di Firenze e di Prato contro gli Spagnuoli nel 1512. Più tardi, quando però il suo libro era stato già scritto, dovè occuparsene di nuovo col celebre Pietro Navarro, per apparecchiare la difesa della sua città nativa contro l'esercito di Carlo V.
[111]
Le idee a questo proposito esposte nell'Arte della Guerra, non mancano certo di valore e di originalità,[164] sebbene qualche volta sembrino accennare ad uno stato di cose anteriore a quello in cui la scienza delle fortificazioni era allora arrivata. Il Machiavelli voleva sempre tenere assai alte le mura per impedire che venissero scalate.[165] Riconosce però in questo caso tutto il valore che avevano le artiglierie, delle quali dice, «è tanto il furore, che un muro solo non può in alcun modo resistere.»[166] Ma ciò che è più, riconosce quale era allora il problema fondamentale, proponendo anche una soluzione sua propria. «Se le mura sono troppo alte,» egli osserva, «non vi si possono far salire le grosse artiglierie, e non si può resistere a quelle del nemico, che facilmente apre la breccia; se sono troppo basse, vengono scalate.» A questo pericolo si era da più tempo cercato un rimedio con ciò che i Francesi dicono rempart. Il muro, sempre alto, veniva rivestito di terra nell'interno, e così ingrossato e reso più forte contro i colpi del nemico. Ma tale sistema aveva un gran difetto, già notato da altri, e di cui il Machiavelli stesso s'era coi propri occhi avveduto a Pisa. Appena aperta la breccia, le pietre del muro rovinato cadevano sempre dalla parte donde venivano i colpi, e dietro seguiva la terra con cui era stato ingrossato. In questo modo, il fosso esterno si trovava ricolmo, ed al nemico era reso facile dare l'assalto decisivo. Il Machiavelli perciò proponeva un [112] sistema nuovo, del quale un piccolo saggio, aveva potuto vedere ben due volte a Pisa, nel 1500 e nel 1505,[167] quando i Fiorentini, avendo aperta una larga breccia nelle mura di quella città, sperano dovuti ritirare, perchè dietro il muro era stato dai Pisani cavato un fosso, e dietro il fosso alzato un riparo. Lo stesso esperimento, in assai più larga misura e con maggior fortuna, era stato fatto l'anno 1509 a Padova, ordinando la difesa di tutta la città secondo il nuovo sistema, e costringendo così il poderosissimo esercito di Massimiliano a levare vergognosamente l'assedio. Tutto quello che avvenne nella guerra di Pisa era, com'è noto, familiarissimo al Machiavelli, e nel 1509, trovandosi a Mantova ed a Verona, aveva potuto ricevere esatte notizie della tanto celebrata difesa di Padova. Di essa allora si parlò molto; il Guicciardini ce ne lasciò una minutissima descrizione,[168] e dalle lettere dirette al Machiavelli apparisce chiaro, che sin dai primi giorni, egli volle esserne minutamente ragguagliato.[169]
Il sistema che suggeriva era dunque il seguente. Le mura debbono essere «ritorte e piene di volture, per poter ferire il nemico da più lati.» Proponeva poi due cerchi di mura, con un largo fossato tra l'uno e l'altro. L'esterno doveva essere grosso tre braccia almeno, con torri ad ogni dugento braccia, alto più che era possibile, acciò il nemico non potesse scalarlo. Invece d'avere il fossato dinanzi, doveva averlo di dietro, largo trenta braccia, profondo dodici, con casematte nel fondo ad ogni dugento braccia. Il terreno cavato per formare il fosso, doveva gettarsi dalla parte che guardava la città, e servire a formare il muro interno, alto tanto da coprire un uomo, grosso in modo da sostenere le artiglierie pesanti, [113] e poter quindi rispondere a quelle del nemico. In tal modo, egli diceva, quando sarà aperta la breccia nel muro esterno, avverrà come a Pisa, che le pietre, cadendo dal lato di dove vengono i colpi, invece di colmare il fosso che è nell'interno, formeranno un riparo esterno che renderà il fosso più profondo ancora; e così il nemico si troverà di fronte un primo argine o riparo ingrossato dalle pietre cadute, poi il fosso, poi il secondo muro con le artiglierie più pesanti.[170] Il Machiavelli non vuole bastioni esterni o altre opere staccate, a distanza dalle mura, perchè una volta prese tali opere, è presa, egli dice, la fortezza. Fino ad un miglio di distanza sarà quindi spianato e libero il terreno.[171] Ed anche quest'ultimo concetto è, secondo gli scrittori moderni, originale e nuovo per quel tempo. Qualche cosa di simile pare che suggerisse in Germania il grande ingegno del pittore Alberto Dürer, che potè ricevere la sua ispirazione dallo stesso assedio e difesa di Padova. In ogni modo è certo che queste idee scientificamente esposte nell'Arte della Guerra, dànno un'altra prova dell'acume singolare e del genio pratico del Machiavelli. Le artiglierie però mutarono allora con sì grande rapidità tutti i vecchi sistemi di fortificazione, che non lasciarono tempo a fermarsi in questi tentativi intermedi, per quanto fossero ingegnosi ed anche fortunati nella prima esperienza che se ne fece.[172]
[114]
Noi potremmo qui ripetere una serie di osservazioni sui modi di migliorare la costruzione delle feritoie, delle saracinesche, delle ruote e dei carri per trasportare le artiglierie, dei ponti levatoi e simili. Da esse si vedrebbe come il Machiavelli non tralasciasse mai occasione alcuna di tutto osservare e ricordare, e come le sue osservazioni fossero sempre ingegnose, acute e non prive di valore pratico. Ma preferiamo di affrettarci alla conclusione dell'opera, alla quale s'arriva dopo alcuni pensieri, quasi direi aforismi militari, come i seguenti: «Colui che seguita con disordine il nemico poi ch'egli è rotto, non vuole fare altro che diventare di vittorioso perdente. — Muta partito, quando ti accorgi che il nemico lo abbia previsto. — Agli accidenti subiti con difficoltà si rimedia, ai pensati con facilità. — Gli uomini, il ferro, i danari ed il pane sono il nervo della guerra; ma di questi quattro sono più necessari i primi due, perchè gli uomini ed il ferro trovano i danari ed il pane; ma il pane ed i danari non trovano del pari gli uomini ed il ferro.»[173]
E qui il Colonna s'affretta a concludere, dicendo che avrebbe potuto esporre molte altre cose intorno alla milizia degli antichi; ma il suo scopo era stato di dir solamente ciò che gli pareva necessario al buono ordinamento di quella de' suoi tempi. Della milizia navale non aveva parlato, perchè non se ne intendeva.[174] «Se voi [115] volete sapere, quali sono le qualità che deve avere un buon capitano, io sarò assai breve, bastando il dirvi che deve conoscere tutte le cose soprascritte; ma che esse non bastano, se non saprà nulla trovare di suo, perchè niuno mai fu grande nel suo mestiere senza invenzione, e questa è sopra tutto necessaria nella guerra.[175] Ridurre la milizia ai modi antichi non è difficile, come io vi ho mostrato; ma a poterlo fare, sarebbe necessario essere un principe grande abbastanza da mettere insieme quindici o ventimila giovani, per farli buoni soldati. E nulla si può immaginare di più glorioso, perchè se è lodevole con un buon esercito vincere una battaglia, più lodevole assai è formare un esercito vittorioso. Di questo numero furono Pelopida, Epaminonda, Filippo di Macedonia padre di Alessandro, Ciro re dei Persi. Costoro riuscirono per la loro prudenza, e per avere avuto soggetti adatti ad un tale scopo; ma nessuno di loro, ancorchè eccellente, avrebbe potuto compiere opere lodevoli in una provincia piena di uomini corrotti, non usi ad alcuna onesta obbedienza, come è l'Italia. Qui non basta saper comandare un esercito; bisogna saperlo e poterlo prima formare, e però è necessario cominciare coll'essere principe di uno Stato grosso. Di questi tali non posso essere io, che comandai sempre eserciti forestieri, soldati di ventura, uomini obbligati ad altri e non a me. E lascio giudicare a voi, se è possibile introdurre in essi qualche utile riforma. Come potrei io indurli a portare più armi del solito, ad esercitarsi più ore del giorno? Quando si asterrebbero essi dalle lascivie, dalle insolenze e dalle violenze che ogni giorno commettono? Quando si ridurrebbero mai in tanta disciplina, che un albero carico di pomi, in mezzo ai loro alloggiamenti, rimanesse intatto, come si legge che presso gli antichi molte volte intervenne? Che cosa posso loro promettere, quando, [116] finita la guerra, non hanno più nulla da fare con me?» «Di che gli ho io a fare vergognare, che sono nati ed allevati senza vergogna?... Per quale Iddio o per quale Santo gli ho io a fare giurare? Per quei che eglino adorano, o per quelli che bestemmiano? Che ne adorino non so io alcuno; ma so bene che li bestemmiano tutti.... Come possono coloro che bestemmiano Iddio riverire gli uomini? Quale adunque buona forma sarebbe quella che si potesse imprimere in questa materia?»[176]
«Gli Svizzeri e gli Spagnuoli, sebbene lontani dalla perfezione, sono assai migliori degl'italiani, che non avendo preso alcun ordine buono, rimangono il vituperio del mondo. Non ne hanno già colpa i popoli, ma i principi, i quali ne sono stati puniti col perdere ignominiosamente lo Stato, senza dare alcuno esempio virtuoso. E che gli ordini vigenti siano pessimi, lo prova chiaro il fatto che, dopo tante guerre seguìte in Italia dalla venuta di Carlo VIII in qua, i nostri eserciti, invece di agguerrirsi col combattere, sono andati sempre peggiorando. Nè c'è altro rimedio fuori di quello indicato, cioè di un principe che possa e sappia formare il suo esercito con uomini rozzi, non ancora guasti dai cattivi ordini presenti. Una nuova forma s'imprime assai meglio in animi rozzi ed inculti, che nei corrotti, come un buono scultore riuscirà meglio a fare una statua da un blocco di marmo greggio, che da uno male abbozzato.» «Credevano i nostri principi italiani, prima che egli assaggiassero i colpi delle ultramontane guerre, che a un principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co' sudditi avaramente e superbamente, [117] marcirsi nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia;... nè si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel mille quattrocento novantaquattro i grandi spaventi, le subite fughe, e le miracolose perdite, e così tre potentissimi Stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti.» «Ma peggio ancora si è, che coloro i quali restano, vivono nel medesimo errore e nel medesimo disordine, nè considerano che quelli che in antico volevano tenere lo Stato, erano i primi tra i combattenti, e se perdevano, volevano con lo Stato perdere la vita, talmente che o vivevano o morivano virtuosamente. E se in alcuno di essi si poteva dannare troppa ambizione o ferocia, non si troverà mai alcuna mollizie o cosa che faccia gli uomini delicati ed imbelli. Le quali cose se fossero state lette e credute dai nostri principi, sarebbe impossibile che essi non mutassero forma di vivere, e che le loro province non mutassero fortuna.»
«Ma perchè voi vi doleste della nostra Ordinanza, vi dico, che se davvero l'avete formata come di sopra ho detto, e non ha fatto buona esperienza di sè, ve ne potete dolere; ma se non l'avete esercitata e formata come io ho detto, essa può dolersi di voi, che avete fatto un abortivo, non una figura perfetta. Anche i Veneziani e il duca di Ferrara cominciarono e poi non seguirono, il che fu colpa loro e non dei loro uomini.» «Ed io vi affermo che qualunque di quelli che tengono oggi Stati in Italia, prima entrerà per questa via, fia prima che alcun altro signore di questa provincia; ed interverrà allo Stato suo come al regno de' Macedoni, il quale, venendo sotto a Filippo, che aveva imparato il modo di ordinare gli eserciti da Epaminonda tebano, diventò con questo ordine e con questi esercizî, mentre che l'altra Grecia stava in ozio ed attendeva a recitar commedie, tanto potente, che potette in pochi anni tutta [118] occuparla, ed al figliuolo lasciare tale fondamento, che potè farsi principe di tutto il mondo. Colui adunque che dispregia questi pensieri, se egli è principe, dispregia il principato suo; s'egli è cittadino, la sua città. Ed io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi doveva fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facoltà a poterlo eseguire. Nè penso oggimai, essendo vecchio, potere averne alcuna occasione, e per questo io ne sono stato con voi liberale, che essendo giovani e qualificati, potrete, quando le cose dette da me vi piaceranno, ai debiti tempi in favore dei vostri principi aiutarle o consigliarle. Di che non voglio vi sbigottiate o diffidiate, perchè questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura. Ma quanto a me si aspetta, per essere in là cogli anni, me ne diffido. E veramente se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto Stato, quanto basta a una simile impresa, io crederei in brevissimo tempo avere dimostro al mondo, quanto gli antichi ordini vagliano; e senza dubbio, o io l'avrei accresciuto con gloria, o perduto senza vergogna.»[177]
Ed ecco ricomparir sulla scena il re liberatore, che a similitudine di Filippo il Macedone deve con le armi salvare la patria. Così anche l'Arte della Guerra si riconnette col Principe. — Colui che primo in Italia seguirà i miei consigli, riuscirà con suo onore immortale nella magnanima impresa di liberare la patria. — Questo aveva il Machiavelli detto a Giuliano ed a Lorenzo de' Medici; questo ripetè agli amici degli Orti Oricellari, e scrisse [119] nel suo Discorso sulla riforma di Firenze, al cardinal dei Medici ed a Leone X; questo ripete di nuovo nell'Arte della Guerra. Se in essa il suo pensiero dominante riesce anche più chiaro che altrove, e più esplicita apparisce la sua ammirazione per la virtù, più ardente e puro il suo patriottismo, ciò dipende solo dalla natura del soggetto che trattava. E se egli parlava così chiaro quando s'era potuto finalmente avvicinare ai Medici, e ne aveva la prima volta avuto sicura speranza di qualche favore, nessuno potrà credere che avesse voluto esprimere diversi pensieri, o cercato di mascherare il suo patriottismo, scrivendo i Discorsi ed il Principe, quando si trovava da tutti abbandonato, e vivevano ancora Giuliano e Lorenzo, il primo dei quali almeno era certo d'animo più mite del Cardinale e del Papa.
Il Machiavelli ha la commissione di scrivere le Storie. — Il Soderini cerca dissuaderlo dall'accettare. — Gita a Carpi e corrispondenza col Guicciardini. — Papa Adriano VI. — Nuove proposte di riforme in Firenze. — Congiura contro i Medici e condanna dei congiurati.
Quando molti, fra i quali lo stesso cardinal dei Medici, cominciavano a leggere e meditare l'Arte della Guerra, la Vita di Castruccio Castracani era, come abbiamo veduto, già corsa per le mani di tutti gli amici degli Orti Oricellari, i quali, pur disputando sullo scopo, sperano trovati d'accordo nel vedere in essa una prova sicura, che il Machiavelli aveva una singolare attitudine allo stile storico, e lo avevano perciò incoraggiato a provarsi anche in tal genere. Molti di questi amici erano allora potenti in Firenze, ed il loro favorevole giudizio non restò senza effetto [120] utile per lui. Nel novembre del 1520 infatti egli ebbe dagli ufficiali dello Studio fiorentino e pisano la commissione di scrivere la storia di Firenze. Il cardinale dei Medici, come arcivescovo pro tempore della Città, era capo dello Studio e conferiva i grandi accademici, secondo una bolla di Leone X (31 gennaio 1515), la quale confermava i privilegi già concessi dall'imperatore Carlo IV.[178] Si deve perciò attribuire in gran parte all'opera sua la commissione data al Machiavelli, il quale poi a lui appunto, divenuto papa Clemente VII, dedicò le Storie, e da lui ricevette più tardi nuovo aiuto a continuarle. La condotta, come la chiamavano, egli l'ebbe nello Studio di Pisa, per mezzo del suo parente Francesco del Nero, il quale allora appunto era stato mandato presso quella Università, per riparare ai disordini che v'erano seguiti. Il Machiavelli formulò di sua mano la proposta, la quale fu che, per un numero d'anni e con un salario che egli non determinava, dovesse scrivere la storia di Firenze «da quello tempo che gli parrà più conveniente, et in quella lingua latina o toscana che più gli parrà.»[179] Gli ufficiali dettarono la deliberazione [121] il dì otto novembre 1520, conducendolo per due anni, l'uno fermo e l'altro a loro beneplacito, con salario di cento fiorini l'anno, e con l'obbligo d'essere a servizio loro, se altro gli volessero comandare.[180]
[122]
Il Machiavelli si pose subito all'opera, ma, com'era naturale, per qualche tempo non potè far altro che studî preparatorî, tanto più che ebbe varie interruzioni. Anzi, donde meno se lo aspettava, gli venne ora il consiglio di ricusare addirittura l'incarico, per accettare invece un'assai diversa offerta. Piero Soderini, l'ex-gonfaloniere, dopo che da Ragusa gli aveva scritto, dando consigli[181] che, a quanto pare, non furono accettati, tornato a Roma, non gli aveva più indirizzato lettere, o almeno noi non abbiamo notizia alcuna di corrispondenza seguita fra loro. Vedemmo invece come, per evitare sospetti pericolosi, usavano mille riguardi vicendevoli. A un tratto però il Soderini ruppe il lungo silenzio, scrivendogli da Roma il 13 aprile 1521: «Giacchè non vi piacque la proposta che vi feci da Ragusa, ho preso occasione [123] di suggerire il vostro nome a Prospero Colonna, che cerca un segretario, ed egli, conoscendo la fede vostra, ha accettato. La provvisione sarà di dugento ducati d'oro e le spese. Se vi soddisfa, partite subito e senza conferire con alcuno, in modo che si sappia prima il vostro arrivo che la partenza. Non saprei trovare per voi partito migliore di questo, il quale giudico assai preferibile allo stare costà, a scrivere storie a fiorini di suggello.»[182] Come e perchè a un tratto così viva e non chiesta premura; così insolito disprezzo per lo scrivere storie, con un sussidio concesso dallo Studio fiorentino, per iniziativa dei Medici, in un tempo nel quale tutti ne accettavano in Italia dai Mecenati, e l'essere storico ufficiale d'uno Stato grande o piccolo era reputato un onore invidiabile? La spiegazione si può facilmente indovinare. I Soderini con l'aiuto dei Francesi tramavano allora, come vedremo fra poco, una congiura contro i Medici, ed anche l'ex-gonfaloniere, uscendo dalla sua lunga neutralità, vi pigliava parte. Era quindi naturale che vedesse assai poco volentieri, che ora appunto il suo antico segretario entrasse nella loro grazia, e perciò la grande premura per allontanarlo da Firenze. Prospero Colonna si trovava a servizio degli Spagnuoli, nemici dei Francesi; laonde, quando pure si fosse scoperto da chi veniva l'offerta al Machiavelli, l'autore di essa non ne avrebbe avuto danno, sebbene il segreto fosse preferibile e quindi assai raccomandato.
Ma il Machiavelli non poteva in verun modo accettare un'offerta così inaspettata, che arrivava nel momento in cui le sue condizioni erano davvero per migliorare in Firenze. Uscito appena dalle persecuzioni e dai sospetti, correva rischio di vedersi confiscati i beni, se improvvisamente abbandonava la Città contro il volere dei Medici, [124] e per suggerimento dei loro nemici, quali ormai già s'erano dichiarati i Soderini, quantunque ancora non si sapesse che cospiravano. Egli adunque non solo continuò i lavori per le Storie, ma accettò anche un altro incarico temporaneo, che ricevette dal Cardinale, con lettera firmata il dì 11 maggio 1521 da Niccolò Michelozzi segretario degli Otto di Pratica. Con essa era inviato a Carpi, dove si riuniva allora il Capitolo Generale dei Frati Minori, ai quali doveva chiedere, in nome della Signoria e del Cardinale, che i Minori residenti nel territorio fiorentino fossero separati dagli altri in Toscana, per poterli meglio sorvegliare e correggere, con vantaggio della religione e del costume, che andava fra loro decadendo.[183] E perchè riuscisse anche più singolare questa commissione che, data al Machiavelli, era già singolarissima, egli non era appena arrivato a Carpi, che ricevette un'altra lettera de' 14 maggio, con cui i Consoli dell'Arte della Lana, ai quali era affidata la cura di Santa Maria del Fiore, lo pregavano d'ottenere dal superiore dell'Ordine licenza di lasciar venire in Firenze un frate detto il Rovaio, che essi avevano eletto predicatore per la futura quaresima.[184] Il Machiavelli, com'è da credere, prese questo secondo incarico assai leggermente, e se ne occupò poco o nulla, tanto più che lo stesso frate Rovaio non sembrava aver voglia di predicare in Firenze. Quanto poi al decreto di separazione, sebbene insistesse molto, anche in nome del Cardinale, presso il Ministro generale e gli assessori del Capitolo; sebbene presentasse due Brevi favorevoli del Papa, i frati sofisticarono sulle parole, e dichiararono di dover portare la cosa all'assemblea generale. Onde stanco finalmente d'una faccenda, che s'andava prolungando, e che, affidata a lui, sembrava divenire ridicola, partì a un tratto, [125] fermandosi per via qualche giorno a Modena, come ne fu richiesto dal Cardinale stesso, per vedere il Guicciardini, che era colà governatore in nome del Papa, ed ancora perchè il cavalcare in fretta gli nuoceva, essendo minacciato dal male della pietra[185].
Questa commissione ha qualche importanza solamente per la corrispondenza, che il Machiavelli allora appunto tenne da Carpi col Guicciardini. Motteggiavano fra di loro sull'affare del predicatore e dei frati, ed egli, annoiato del tempo che perdeva colà, s'abbandonava al suo spirito mordace e satirico, con tutta la vivacità del suo stile. Il Guicciardini scriveva il 17 maggio augurandogli che per l'affare del predicatore potesse rispondere ai Consoli dell'Arte della Lana, secondo l'aspettazione che avevano di lui, «e secondo che ricerca l'onore vostro, quale si oscurerebbe se in questa età vi dessi all'anima,[186] perchè avendo sempre vivuto con contraria professione, sarebbe attribuito piuttosto al rimbambito che al buono.» Sperava che si affretterebbe, perchè nello stare colà portava due pericoli: «l'uno che quelli frati santi non vi attacchino dello ipocrito, l'altro che quell'aria da Carpi non vi faccia diventare bugiardo, perchè così è l'influsso suo, non solo in questa età, ma da molti secoli in qua.»[187] Ed il Machiavelli rispondeva lo stesso giorno, con uguale ironia. Egli perdeva il tempo, aspettando che i frati eleggessero il generale e gli assessori. Pregava perciò il Guicciardini che, andando a spasso, [126] arrivasse insino a Carpi per visitarlo, o che almeno gli mandasse un secondo fante con lettera, perchè sarebbe molto più stimato dai frati, quando vedessero spesseggiare gli avvisi.[188] «E vi so dire che alla venuta di questo balestriere, con la lettera e con un inchino infino in terra, e col dire che era stato mandato apposta e in fretta, ognuno si rizzò con tante riverenze e tanti romori, che gli andò sossopra ogni cosa, e fui domandato da parecchi delle nuove. Ed io, perchè la riputazione crescesse, dissi: che l'Imperatore si aspettava a Trento, e che gli Svizzeri avevano indetto nuove Diete, e che il re di Francia voleva andare ad abboccarsi con quel re; ma che questi suoi consiglieri ve lo sconsigliavano. In modo che tutti stavano con la bocca aperta e con la berretta in mano; e mentre che io scrivo ne ha un cerchio d'intorno, e veggendomi scrivere a lungo, si maravigliano e guardonmi per spiritato; e io per fargli maravigliare più, sto alle volte fermo sulla penna e gonfio, ed allora essi sbavigliano, che se sapessino quel che io vi scrivo, se ne maraviglierebbero più.» Quanto alle bugie dei Carpigiani, e quanto alla ipocrisia dei frati, il Machiavelli, spingendo l'ironia sino al cinismo, rispondeva che non ne aveva paura, perchè da un pezzo era in esse divenuto maestro, ed anche dicendo il vero, lo nascondeva fra le bugie.[189] E così continuarono con qualche [127] altra lettera. Il Guicciardini, divenuto un momento più grave, scriveva che la condizione presente del Machiavelli ricordavagli quella di Lisandro, costretto a distribuire la carne a quei medesimi soldati che aveva condotti alla vittoria.[190] Deplorava che un uomo, adoperato presso tanti re ed imperatori, fosse ora costretto a «succiare la repubblica degli zoccoli.» Si rallegrava con lui della commissione avuta di scrivere le Storie, lo diceva «ut plurimum estravagante di opinione dalla comune, e inventore di cose nuove e insolite.» Poi tornava allo scherzo.[191] Il Machiavelli rispondeva anch'egli ridendo, e conchiudeva che in ogni modo aveva fatto pasti eccellenti e si era rinfantocciato. Così ebbe fine questa commissione, che il Guicciardini giustamente chiamava una baia. Nè essa poteva durare più a lungo, perchè ormai i frati cominciavano ad avvedersi che il Machiavelli si prendeva gioco di loro.
Giunto a Firenze, egli attese alle Storie e ad altri lavori letterari; ma poco dopo seguiva la morte di Leone X, con tutti i mutamenti che n'erano necessaria conseguenza. La guerra fu sospesa, perchè mancavano i danari, coi quali era stata principalmente alimentata dal Papa; e però gli Spagnuoli dovettero licenziare i fanti tedeschi, quasi tutti gli Svizzeri. Ed allora subito coloro che erano stati lungamente oppressi, si sollevarono. Francesco Maria della [128] Rovere ricuperò Urbino, Pesaro, il Montefeltro, anche San Leo già dato ai Fiorentini, ai quali restò solo il piviere di Sestino. Sigismondo Varano, antico signore di Camerino, tornò nel suo Stato, cacciandone lo zio Giammaria, messovi da Leone X. Alfonso d'Este ricuperò quasi tutti i suoi dominî, ma non potè riavere Modena e Reggio. Il governatore Francesco Guicciardini seppe, nell'interesse della Sede pontificia, difendere Parma da un assalto che le fu dato. Più tardi Malatesta ed Orazio Baglioni tornarono a Perugia. Il Conclave intanto, dopo quattordici giorni, non aveva nulla concluso. Aspiravano al papato il cardinal Wolsey, il cardinal de' Medici, il Cardinal Soderini ed altri. Le cose andarono in lungo tanto che lo stesso Medici, il quale capì che l'ora non era per lui anche sonata, e vedeva per la sua prolungata assenza messo in forse anche il dominio di Firenze, propose uno straniero, lontano e quasi ignoto in Italia. La proposta fu accettata, e venne eletto il cardinale di Tortosa, Adriano Dedel di Utrecht, il quale era stato maestro di Carlo V, e prese il nome di Adriano VI.
L'indignazione del popolo contro l'elezione di questo papa straniero fu tale e tanta, che molti scrissero sulle loro case: Roma est locanda. E lo scontento divenne generale, quando Adriano fu conosciuto da vicino. Nato il 2 marzo 1459, eletto il 9 gennaio 1522, egli non parlava l'italiano, e pronunziava il latino in modo che ai Romani riusciva poco o punto intelligibile. Uomo culto e di costumi intemerati, diminuì subito le spese della Corte, restringendo tutto al puro necessario. Nè con ciò faceva altro che accrescere il malcontento. Voleva seriamente occuparsi di religione e riformare la Chiesa; lasciar da parte le feste, i poeti e gli artisti; ma nessuno gli dava retta. E così si trovò subito in un mondo a lui affatto sconosciuto, dal quale non era inteso, nè molto meno amato. Pasquino lo canzonava continuamente, ed egli, invece di riderne come facevano i Romani, se ne sdegnava [129] tanto, che un giorno voleva farne gettare la statua nel Tevere. Ma il duca di Sessa gli disse, che Pasquino avrebbe continuato le sue satire, perchè sapeva parlare anche sott'acqua come le rane. Tutti in Roma, massime gli artisti ed i letterati, non più protetti dal Papa, erano adiratissimi contro lui e contro i suoi più intimi, dei quali neppur sapevano pronunziare i nomi.
Ecco che personaggi, ecco che Corte,
Che brigate, galanti cortigiane,
Copis, Vincl, Corizio e Trincheforte!
Nomi da fare sbigottire un cane.[192]
Così scriveva il Berni in un capitolo contro l'elezione d'Adriano, e contro i quaranta cardinali poltroni, che gli avevano dato il loro voto, e che venivano dal poeta ricoperti d'ingiurie. Egli ebbe quindi una vita assai infelice nel suo papato, che fortunatamente per lui durò poco, giacchè il 14 settembre 1523 cessò di vivere. La gioia allora fu così grande nella Città Eterna, che alla porta del medico il quale lo aveva assistito, furono appese corone con la iscrizione: Ob Urbem servatam.[193]
A Firenze seguivano intanto altre novità. Il cardinale de' Medici governava con prudenza e, secondo il giudizio anche di repubblicani come il Nardi, riusciva superiore all'aspettativa, meglio certamente di Giuliano e di Lorenzo, che alla Città avevano sempre poco o nulla pensato. Civile nei modi, accorto e paziente, cauto nel costume tanto da non dar luogo a maldicenze, amava Firenze e cercava abbellirla. Vi costruì un canale per impedire in essa [130] le inondazioni dell'Arno, ne fortificò le mura; e senza essere un gran Mecenate proteggeva letterati ed artisti.[194] Ma non per ciò gli mancavano nemici e nemici pericolosi. In Firenze v'erano i fautori di libertà, e fuori v'erano i Soderini, che nutrivano contro di lui un odio irrefrenabile. Essi non potevano mai perdonare ai Medici, che li avevano cacciati di Firenze, il parentado promesso, come segno di conciliazione, e poi non mai concluso. Il cardinal Soderini s'era inoltre trovato nella congiura del Petrucci contro Leone X, ed unito ai Francesi, aveva fatto vivissima opposizione al cardinal dei Medici nell'ultimo Conclave. Lo stesso sarebbe inevitabilmente seguito alla morte d'Adriano. Per tutte queste ragioni non era sperabile, che vi fosse più pace fra di loro. I Soderini in fatti si adoperavano a tutt'uomo per avversare il governo dei Medici a Firenze, dove cercavano e trovavano aderenti, dandosi per ciò molto da fare anche l'ex-gonfaloniere.
Il maggiore scontento era adesso tra i giovani che frequentavano la compagnia degli Orti Oricellari, sebbene in origine fossero stati quasi tutti partigiani de' Medici. Qualcuno s'era, come allora seguiva facilmente, da essi alienato per ragioni tutte personali; altri come Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Iacopo da Diacceto, educati alle lettere classiche, animati da una voglia grandissima di far qualcosa di straordinario, che illustrasse il loro nome, s'erano andati ogni giorno più esaltando nel sentire i ragionamenti del Machiavelli. Questi, che ormai aveva passato i cinquant'anni, e non pensava certo a congiure, non s'avvedeva neppure che i suoi scritti e più ancora i suoi discorsi facevano sull'animo di quei giovani un effetto che non era solo letterario o scientifico. Continuava quindi con entusiasmo a parlar loro [131] di repubblica romana e d'Italia; di popolo armato; di grandi uomini messi in cielo accanto agli Dei, per avere sacrificato alla patria le sostanze, la vita. Ed intanto alcuni de' suoi uditori cominciavano a intendersi coi Soderini ed a cospirare con essi, senza nulla dire a lui nè agli altri compagni, molti dei quali rimanevano sempre amici del Cardinale e ne frequentavano la casa. Questi poi, di buona o di mala fede che fosse, aveva anch'egli contribuito ad infiammar l'animo di quei giovani. Sia che qualche volta pensasse sul serio, secondo il concetto già espostogli dal Machiavelli, a riordinar la Repubblica per modo, che dopo la sua morte rimanesse libera davvero; sia (e ciò era forse la verità) che volesse, coll'alimentare le illusioni degli scontenti, scoprirne i nomi, certo è che egli, come aveva già fatto altre volte, continuava anche ora ad interrogar molti sul modo di ricostituire e riordinar la Repubblica. E per ispirare a tutti maggior fede nelle sue intenzioni, si faceva di continuo veder passeggiare nel proprio giardino col poeta Girolamo Benivieni, l'ardente seguace del Savonarola.[195]
Così fu che gli presentarono nuove proposte di riforma Zanobi Buondelmonti, Alessandro de' Pazzi, e Niccolò Machiavelli. La prima non abbiamo, ma fu vista dal Nerli che la ricorda. Quella del Pazzi, che venne poi pubblicata, proponeva un Gonfaloniere perpetuo, un Consiglio Grande ed un Senato, il quale doveva essere anch'esso a vita, rinnovandosi da sè stesso, ed avere in mano la somma delle cose.[196] Com'era naturale poi in chi sosteneva questo governo aristocratico, al Pazzi non piaceva la proposta assai più democratica fatta già a Leone X dal Machiavelli. Ma questi la ripeteva ora al Cardinale, modificandola alquanto, solo per renderla ancora più esplicita, e dandole addirittura la forma di deliberazione. [132] «Considerando i nostri Magnifici ed Eccelsi Signori, come nulla sia più laudabile cosa, che l'ordinare una repubblica concorde e libera, nella quale ogni privato interesse ceda al pubblico bene, e gli appetiti d'una falsa gloria si spengano; confortati e spinti dal reverendissimo nostro Signore, signor Giulio cardinal dei Medici; invocato il nome di Dio, provvidono ed ordinarono, ecc.» Così cominciava la proposta di provvisione, la quale ricostituiva il Consiglio Maggiore, rappresentante di tutto il popolo, coi poteri già avuti prima del 1512; ordinava la elezione di un Gonfaloniere ogni tre anni; annullava i Consigli del Popolo, del Comune e dei Cento, trasformando quello dei Sessanta in una specie di piccolo Senato o nuovo Consiglio dei Cento, con l'autorità stessa che avevano avuta gli Ottanta prima del 1512. Si proponeva inoltre di far eleggere dai Signori in ufficio dodici cittadini di 45 anni finiti, ai quali, insieme col Cardinale, veniva per un anno solo concessa, senza poterla prorogare nè rinnovare, piena autorità di fare altre leggi.[197] E ciò sempre per assicurare ai Medici il potere durante la loro vita. Il Machiavelli compose allora anche un altro breve scritto sulla milizia cittadina, cercando senza mai smettere, di persuadere a tutti, che unico modo ad avere un buono esercito era il ricostituire l'Ordinanza, come a tempo del Soderini, non restringendola però a pochi armati, come s'era fatto recentemente, perchè ciò la rendeva inutile.[198]
[133]
La fede nelle buone intenzioni del Cardinale divenne allora così generale, che Filippo de' Nerli, frequentatore degli Orti Oricellari, e sempre fidato pallesco, narra come la Città si trovasse divisa, e gli animi sollevati per queste nuove speranze. Ricordando poi che appunto per ciò si proposero in quei giorni parecchi modelli di riforma, aggiunge: «Se ne scopersero molto Zanobi Buondelmonti ed anche Niccolò Machiavelli, gli scritti dei quali io vidi, e tutti andavano nelle mani del Cardinale, che mostrava farne grandissimo capitale. Alessandro de' Pazzi scrisse una molto elegante e bella orazione latina, con la quale lo ringraziava, in nome del popolo, per la restituita repubblica, e fu letta con applausi fra molti cittadini, ad una cena.» Le cose, egli continua, andarono tanto oltre, che il Cardinale cominciò a pensare di farle tornare indietro, ma non sapeva più come.[199] E Iacopo Nardi, che nelle sue Storie fa pur molti elogi al governo di lui, dice chiaro che in questa occasione egli «simulava, abusando della buona fede di alcuni forse troppo creduli cittadini, che tanto più facilmente cadevano nell'inganno, quanto più vedevano che non dava punto ascolto ai lamenti ed ai rimproveri de' suoi intimi, i quali avvertivano che questo era un gioco pericoloso.» Ma il suo animo cominciò a scoprirsi finalmente, quando il Pazzi gli presentò la propria orazione. Rispose che era in quel momento assai occupato e non poteva leggerla; la portasse a Niccolò della Magna, il tedesco Niccolò Schömberg, suo fidatissimo. E questi, dopo averla letta, disse con molta freddezza: [134] «Piace veramente la vostra orazione, ma non punto il suggetto di quella.»[200]
Fu chiaro allora a tutti che Sua Eminenza aveva giocato finamente d'astuzia, ingannando gl'ingenui. Egli aveva nell'ultimo Conclave dovuto capire, che l'odio de' Soderini era inestinguibile, che essi tramavano qualche cosa contro di lui, e ciò lo aveva, come vedemmo, indotto ad affrettare il suo ritorno a Firenze. Nè poteva ignorare che Battista della Palla, per favori chiesti e non ottenuti, era da amico divenuto nemico, e se ne stava in Roma a trattare anch'egli co' Soderini, ricevendo da Firenze lettere continue. Ma con chi corrispondesse, che cosa tramasse, non riusciva facile indovinarlo. Malatesta ed Orazio Baglioni erano col duca d'Urbino andati nel Senese, dopo la morte di Leone X, col proposito di mutarvi il governo, indotti a ciò dal cardinal Soderini, nemico del Petrucci, messo colà dai Medici. Dopo questo primo passo, si sperava di poterli più facilmente cacciar da Firenze. Ma il cardinale Giulio mandò a vuoto l'impresa, per mezzo di Svizzeri e Tedeschi da lui assoldati, riuscendo poi a prendere i Baglioni stessi e il duca d'Urbino ai suoi stipendi. Poco dopo s'avanzava con le sue genti Lorenzo Orsini, detto Renzo da Ceri, mandato anch'egli dal cardinal Soderini, a tentar di nuovo la fallita impresa. E da Genova partivano, al medesimo scopo, parecchi soldati francesi. Ma anche questo secondo tentativo andò a vuoto, perchè il cardinal de' Medici aveva riassoldato un discreto numero di fanti e di cavalli; ed i Francesi furono richiamati, per la cattiva piega che [135] pigliavano le loro cose in Lombardia. Il Conclave che, aspettando l'arrivo di papa Adriano, governava in Roma, si dimostrò subito avverso all'impresa; e Renzo da Ceri allora, non avendo più animo di avanzarsi, tornò indietro.[201]
Questi fatti però dimostravano ad esuberanza, che i nemici dei Medici, in Firenze e fuori, non erano pochi, non mancavano nè di animo, nè di danari. E per iscoprire appunto chi essi erano, il Cardinale continuava con sempre maggiore insistenza i ragionamenti sulla ricostituzione della Repubblica. Un tal suo procedere non restò finalmente senza qualche resultato. Il poeta Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Iacopo da Diacceto ed altri giovani degli Orti Oricellari avevano d'accordo coi Soderini cospirato d'ammazzarlo. Battista della Palla era il loro intermediario in Roma, ed essi aspettavano che riuscisse l'impresa di Renzo da Ceri, per metter mano ai pugnali. Fallita invece tale speranza, per meglio nascondersi, si rivolsero con più calore degli altri ad esaltare la finta liberalità del Cardinale. Speravano così di salvare la vita, e senza i pericoli della congiura, che ormai non poteva più riuscire, costringerlo a dare le riforme promesse o fatte sperare.[202] Tutto ciò doveva certo insospettire, ma non bastava a scoprirli con sicurezza, perchè insieme con essi molti altri ancora esprimevano le medesime [136] opinioni, ed al Cardinale perciò non era possibile distinguere chiaramente gli amici dai nemici.
Il caso venne allora in suo aiuto. Fu in quei giorni appunto preso il corriere, che aveva portato le lettere e le notizie fra Battista della Palla e i congiurati di Firenze. Costui confessò d'aver parlato con Iacopo da Diacceto, il quale subito venne chiuso in carcere. Il poeta Luigi Alamanni, che era entrato nella congiura e si trovava in villa, fu avvertito in tempo. Egli fuggì allora in così gran fretta, che non pensò neppure a mettere in sull'avviso suo cugino Luigi di Tommaso Alamanni, il quale aveva del pari congiurato, e trovavasi in Arezzo, dove fu preso. Zanobi Buondelmonti passeggiava per la Città con Filippo dei Nerli, quando seppe che tutto era stato scoperto. Corse subito a casa per nascondersi; ma la moglie, raccolto il denaro che v'era, lo indusse a fuggire. E così potè andarsene prima in Garfagnana, dove era governatore Lodovico Ariosto suo amico; poi ricoverò, insieme con l'Alamanni, in Francia.
A Firenze si procedette intanto ad un giudizio sommario. Iacopo da Diacceto, messo alla tortura, senza punto esitare, disse: «Io mi voglio cavare questo cocomero di corpo: noi abbiamo voluto ammazzare il Cardinale.» Ed aggiunse, che ciò avevano deliberato, non per odio a lui, ma per amore della libertà, e perchè sapevano che egli fingeva nel parlar di riforme.[203] Finito il processo, il Diacceto e Luigi di Tommaso Alamanni furono decapitati il 7 di giugno 1522, avanti giorno. Prima di morire, il Diacceto scrisse alcuni versi latini pieni di reminiscenze classiche, cosa assai comune a quel tempo.[204] Continuarono poi le indagini e le condanne. I Soderini furono quasi tutti dichiarati ribelli; [137] all'ex-gonfaloniere, che era stato citato, ma che morì il 13 giugno, vennero confiscati i beni, e fu dannata la sua memoria.[205] Altri ancora furono presi e processati, senza però che se ne cavasse nulla, perchè i veri e soli colpevoli erano già morti o lontani. Il cardinal Soderini non cessava per questo di tramare coi Francesi contro gli Spagnuoli e loro amici o protetti, quali erano i Medici. Se non che Adriano VI, il quale, sebbene molto temperato ed equanime, già manifestamente aderiva a Spagna, finì presto col farlo chiudere in Castel Sant'Angelo. Così tutto tornò tranquillo in Firenze, nè della nuova libertà si fece più parola.
Questa congiura, con la sua repressione sanguinosa, sciolse necessariamente la compagnia degli Orti Oricellari. Il Machiavelli, per sua fortuna, non cadde allora in sospetto, sebbene non restasse senza qualche carico d'avere co' suoi discorsi, sia pure involontariamente, acceso gli animi dei più giovani e più impetuosi. Il cardinal dei Medici gli restò tuttavia benevolo. Se non che la sua elezione al pontificato, che seguì poco dopo, lo indusse, come vedremo, a lasciare il governo di Firenze nelle mani del cardinal di Cortona, che, in nome del nuovo Papa, resse la Città con assai minore esperienza e maggiore durezza. Il Machiavelli dovette quindi decidersi a vivere sempre più ritirato in villa, dove attese alle Storie, e condusse a termine diversi lavori letterarî, fra i quali primeggiano le commedie. Di queste dobbiamo ora parlare.
[138]
Condizioni generali del teatro in Italia. — Le Sacre Rappresentazioni, la Commedia dell'arte e la Commedia erudita. — Le Commedie dell'Ariosto. — La Calandra del cardinal Bibbiena. — Le Commedie del Machiavelli: La Mandragola, La Clizia, la Commedia in prosa, la Commedia in versi, la traduzione dell'Andria.
L'Italia, com'è noto, ebbe più di uno scrittore comico, e qualche poeta tragico di grandissimo merito; ma non quello che si chiama veramente un teatro nazionale. Quando dai Mimi e dalle Atellane, che erano farse e rappresentazioni popolari, comiche, satiriche, i Romani potevano cavare una commedia originale e nazionale, sopravvenne l'imitazione greca, da cui non si potè liberare neppure il genio di Terenzio e di Plauto. S'ebbe quindi una commedia letteraria, che non era sorta dalle viscere del popolo, il quale continuò a preferire i Mimi e le Atellane. Queste antiche farse, lentamente alterandosi, sopravvissero anche nel Medio Evo, quando si avvicinarono, s'innestarono alle Sacre Rappresentazioni, che finalmente resero laiche e cavarono fuori delle chiese. Più tardi dettero origine a quella che si chiamò la commedia dell'arte, la quale divenne assai popolare, e nel Rinascimento s'era già molto diffusa fra di noi. Essa, com'è noto, veniva quasi improvvisata dagli attori, ai quali si dava solo lo scenario, cioè il soggetto, l'intreccio generale, lo scheletro delle varie scene, determinando il carattere che ciascun personaggio doveva rappresentare, i punti più salienti dei principali dialoghi. Le maschere di questa commedia, Pantalone, Arlecchino, Pulcinella, Brighella sono, secondo ogni probabilità, lente trasformazioni dei personaggi delle Atellane e dei Mimi.
[139]
Nel Rinascimento avvenne poi qualche cosa di simile a ciò che era assai prima seguìto a Roma. Poteva dalle Sacre Rappresentazioni, che già erano arrivate ad uno svolgimento letterario notabile, come poteva dalla commedia dell'arte, che già fioriva, cavarsi un dramma, una commedia nazionale, quando sopravvenne invece l'imitazione dei tragici e dei comici antichi. La tragedia rimase addirittura soffocata da questa imitazione. In un tempo nel quale lo scetticismo invadeva gli animi, le istituzioni politiche si decomponevano, la nazione non riusciva a formarsi, e le invasioni straniere cominciavano, non erano più possibili nè la vera ispirazione epica, nè il dolore veramente tragico. La Sofonisba del Trissino e la Rosmunda del Rucellai, che sono le migliori tragedie di quel tempo, non mancano di pregi; vi si ritrova qualche slancio lirico ed anche qualche lampo di drammatica potenza: ma esse non abbandonano mai il modello antico, non hanno mai una vera e propria vitalità, nè furono seguìte da altre opere migliori. Allora però, in mezzo a tante sventure, pur troppo si rideva molto in Italia, e più fortunata fu quindi la commedia, quantunque anch'essa s'andasse formando con la imitazione, specialmente di Terenzio e di Plauto. Questa che fu chiamata commedia erudita, si diffuse largamente fra i letterati, nelle Corti, avvicinandosi sempre più alla commedia dell'arte. E senza mai confondersi con essa, riuscì pure a migliorarla, correggerla non poco, ricevendone in cambio maggiore vivacità e spontaneità. Nondimeno la commedia erudita era pur sempre un'opera di letterati, un lavoro d'imitazione, e quindi il popolo continuò a preferire quella dell'arte, che sebbene cominciasse a divenire anch'essa alquanto artificiosa, non perdè mai affatto il suo carattere popolare e primitivo.
Si è molto disputato intorno alle ragioni, per le quali l'Italia non potè nel Rinascimento arrivare alla creazione d'un vero teatro, neppure d'una vera commedia [140] nazionale, quando già per questa v'erano ad esuberanza tutti gli elementi necessarî a costituirla. Non mancavano certo vivacità e fecondità d'invenzione nella commedia dell'arte, e nella erudita si ritrovava pure una grande ricchezza di quello spirito comico, che abbondava anche in quasi tutte le novelle, in molte poesie italiane di quel tempo. Da un altro lato moltissimi dei nostri lavori letterarî cominciarono dalla imitazione, e da essa poi, per forza intrinseca, per vitalità propria, si resero indipendenti, arrivando ad una vera originalità nazionale. Perchè dunque a questo non potè mai giungere il nostro teatro? In verità l'essere una nazione riuscita felicemente in molte cose, non è una ragione, perchè debba riuscire del pari fortunata in tutte. La creazione del teatro richiede che la vita sociale e nazionale siano già formate e progredite, e l'Italia non era anche costituita a nazione, quando le invasioni straniere sconvolsero tutto, soffocando la libertà ed affrettando la decadenza. Richiede inoltre una larga partecipazione del pubblico, quasi la cooperazione del popolo, che, in questo come in molti altri generi, apparecchia la materia poetica, in cui i sommi scrittori infondono poi la nuova vita dell'arte. Ed è pur da riconoscere, che allo svolgimento originale, vigoroso, compiuto d'una poesia popolare propriamente detta, fu in Italia assai spesso contraria l'azione continua, incessante, che l'arte dei letterati esercitò sempre su quella del popolo, più culto che altrove. Prima che un genere qualunque di componimento popolare arrivi fra noi a quella maturità, che è necessaria a far germogliare una nuova forma di arte nazionale, più di una volta s'è visto, che esso comincia ad inaridire, cedendo il terreno all'arte dei letterati, che s'avanza e penetra nel popolo. Essi certo si giovano molto d'ogni elemento popolare, anzi è con tale aiuto, che l'imitazione classica riuscì a divenire in Italia un vero e proprio rinascimento. Ma quando l'elemento popolare dovrebbe prevalere, per arrivare alla [141] creazione originale d'una forma poetica nuova e nazionale, è allora che la nostra letteratura incontra le maggiori difficoltà. Non c'è quindi da maravigliarsi se essa non le supera in quei casi nei quali anche le condizioni politiche le riescono avverse, come furono certo al nostro teatro nel secolo XVI.
Per queste ragioni avvenne, che la Sacra Rappresentazione era nel Rinascimento italiano già piena di classiche reminiscenze, di forme letterarie e convenzionali, prima che fosse giunta alla sua piena vitalità popolare, prima cioè di offrire ai grandi scrittori materia adatta a nuove creazioni. La commedia dell'arte si era anch'essa ripulita, modificata, alterata, avvicinandosi alla erudita. E questa, senza poter mai lasciare del tutto l'imitazione di Plauto e di Terenzio, si sforzava continuamente d'accostarsi al popolo. Più di una volta pareva che fosse già per toccare la mèta; che sorgesse finalmente per questa via la commedia originale, nazionale, quando invece prevaleva da capo la imitazione classica. Così si oscillava sempre fra l'artifizioso ed il plebeo, senza poter mai arrivare permanentemente al vero comico di Aristofane e di Molière.
Terenzio è assai facile, e però fu subito molto imitato in Italia; ma l'azione di Plauto sul nostro teatro non è piccola. Come scrittore comico, sebbene più rozzo, egli è assai superiore. Il suo sguardo psicologico è quello di un accorto conoscitore degli uomini; la rappresentazione dei caratteri, la forza e varietà con cui riproduce le innumerevoli forme della vita cittadina, e sopra tutto il genio che dimostra nel porre in rilievo il lato comico delle azioni e dei caratteri, con una certa ardita superiorità che ride di tutto, sono le qualità che lo distinguono e che lo resero popolare in Italia. Egli, come osserva il Mommsen, stringe e scioglie i nodi del suo intreccio comico con grande accortezza e malizia; preferisce di stare nella bettola, che nella sua commedia è in opposizione [142] con la casa. Terenzio, invece, sta nella casa, fra gente di buona e civile condizione; va dietro alla verosimiglianza, anche a costo di lungaggini; ha un'indole quieta e tranquilla, e le sue commedie ci presentano un concetto più morale della donna e della vita matrimoniale. Plauto colorisce i suoi caratteri con largo pennello; l'analisi psicologica di Terenzio è una miniatura. Nella commedia del primo i figli canzonano continuamente i padri, ed il suo linguaggio è pieno di frizzi; il secondo sembra spesso avere un fine pedagogico, il suo stile ornato, sereno ha finezza e movimenti eleganti: il suo lato debole è la invenzione, alla quale supplisce con l'arte.
I nostri eruditi cominciarono subito con le imitazioni, traduzioni, rappresentazioni in italiano ed in latino di questi due comici. Pomponio Leto fu a Roma dei primi, con la sua Accademia Romana, a far rappresentare antiche commedie. Seguì ben presto l'Accademia dei Rozzi in Siena, e per tutto poi un gran numero di altre: Infiammati, Infocati, Intronati, Immobili, Costanti, ecc. Questo movimento ebbe però il suo vero impulso e la sede principale in Ferrara, per opera di quei duchi. Colà i Menecmi di Plauto furono tradotti e rappresentati sin dal 1486. E come, per l'innesto degli antichi romanzi francesi con la erudizione, a Ferrara trovò una vera forma il nostro poema cavalleresco; così dall'innesto di Plauto e di Terenzio con elementi nazionali e popolari colà nacque pure la nuova commedia, di cui fu iniziatore Lodovico Ariosto, prima che si rendesse immortale col suo Orlando Furioso.
Il modo con cui egli successivamente compose le sue cinque commedie, ci presenta in breve la storia del teatro comico italiano. Incominciò con traduzioni che andarono perdute, e si dette poi alle commedie originali. Nella Cassaria, che fu scritta nel 1498, s'incontrano ad ogni passo imitazioni da Terenzio; i Suppositi che vennero dipoi, presero il soggetto dai Captivi e dall'Eunuco, fusi insieme. [143] E l'autore dichiara nel suo prologo, che «non solo nelli costumi, ma anche nelli argomenti delle favole, vuole essere degli antichi e celebrati poeti a tutta possanza imitatore.» Pure con i Suppositi già siamo a Ferrara, nel tempo della presa d'Otranto pei Turchi; le allusioni ai fatti contemporanei e i costumi del tempo appariscono frequenti, il dialogo acquista una vita propria e indipendente. Le due commedie, scritte dapprima in prosa, furono più tardi voltate dall'autore in versi, come in versi scrisse le altre, perchè solo in essi l'Ariosto trovava quel suo stile tanto semplice, naturale, originale, e si sentiva assai più nel proprio elemento. Così si allontanava però dalla via che era propria della commedia italiana, scritta quasi sempre in prosa, per la necessità di riprodurre il dialogo familiare. Nella Lena il soggetto e i caratteri sono del secolo XVI. Più originali di tutte le altre riescono le due ultime, il Negromante e la Scolastica. Siamo con esse fra gli studenti di Padova e di Ferrara, in mezzo agl'intrighi amorosi. La corruzione della società italiana ci è rappresentata senza velo, e la satira sferza i costumi del tempo: gli uomini che s'imbellettano come donne, i poveri che voglion fare da ricchi, i rettori delle terre che sono rapaci come lupi, i preti che danno scandali d'ogni sorta, i papi che vendono le indulgenze.
In questo modo la commedia erudita uscì dalle mani degli accademici, acquistò indipendenza e naturalezza, sempre più avvicinandosi alla società de' suoi tempi. Le dava vita uno spirito mordace e satirico, una grande semplicità e sensualità, che sono caratteri proprî della letteratura del Cinquecento in Italia, e trovavano alimento nello studio e nella imitazione di Plauto. Le commedie del Rinascimento sono quasi tutte d'intreccio, e spesso si compongono riunendo insieme più commedie antiche, che solevano esser di carattere. Ciò che principalmente si ammira in quelle dell'Ariosto, è la vivace dipintura dei [144] tempi, la satira di essi, la quale è piuttosto una fine ironia, con cui l'autore, parte egli stesso del secolo che descrive, ride di tutto. Vi si ritrova l'ingegno del gran poeta, l'iniziatore d'un genere nuovo; ma si sente pure che egli già s'apparecchia ad un'opera maggiore e diversa. Per quanto maravigliosamente spontaneo e naturale sia il suo verso, l'indole privata e domestica della commedia italiana trova solo nella libertà del dialogo in prosa la propria forma. Inoltre ciò che più richiama l'attenzione dell'Ariosto e colpisce la sua immaginazione, ciò che egli sopra tutto ci rappresenta è l'intreccio, la mutabilità continua degli avvenimenti, la forma esteriore de' suoi personaggi. Non vuole, non può lungamente fermarsi all'esame psicologico di nessun carattere, di nessuna passione. Una grande varietà di episodî, che non sempre trovano la loro unità, o la trovano solo nel continuo mutare; una moltitudine d'individui, che compariscono pieni di vita, e scompariscono prima di aver compiuto nulla d'importante, ci avvertono che in queste commedie si va educando e formando il genio immortale di colui che creerà l'Orlando Furioso. Il grande poema sembra già vivere nella sua fantasia, pieno di vigore e di giovinezza, impaziente di venire alla luce. Si direbbe che esso già agita la mente del poeta, ed altera il carattere dell'opera che, in questo momento, egli ha ora fra le mani.
La Calandra del cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena, composta nel primo decennio del secolo XVI, levò gran rumore. Fu da molti affermato che essa iniziò il nuovo genere in Italia, il che non è vero, essendo stata già preceduta da alcune commedie dell'Ariosto, alle quali è molto inferiore. Il Bibbiena era però cardinale, toscano ed assai faceto; non era un poeta, ma voleva scrivere alla buona per divertire il pubblico, e vi riuscì. Il popolo, il papa, i cardinali, i personaggi più autorevoli del tempo lo ascoltarono, ridendo, e lo applaudirono. Il favore [145] da lui ottenuto fu davvero grandissimo. La commedia fu subito molte volte recitata in varie città d'Italia, e poi anche, nel settembre del 1548, a Lione in Francia, ad iniziativa della nazione fiorentina, da attori toscani, fatti espressamente venire d'Italia, per festeggiare l'entrata di Errico II e Caterina dei Medici.[206] Nel suo prologo il Bibbiena dichiara, che non vuole usare il verso, «perchè la commedia rappresenta cose familiarmente fatte e dette, e perchè e' si parla in prosa con parole sciolte e non ligate.» Si scusa inoltre co' suoi uditori, se la commedia non è antica, perchè le cose moderne piacciono più; si scusa anche se non è latina, perchè vuole essere inteso da tutti, e la lingua che Dio e la natura ci han data, non bisogna stimarla meno che la latina, la greca e l'ebraica.[207] Tutto questo prova quanto il gusto del pubblico s'era allora mutato. Pure la Calandra è presa dai Menecmi di Plauto, sostituendo ai due gemelli maschi, affatto simili tra loro, un uomo e una donna anch'essi gemelli e simili in modo che, mutando abiti, vengono facilmente scambiati l'uno per l'altro. Da questa somiglianza e dalla sciocchezza di Calandro, che s'innamora dell'uomo credendolo donna, nascono mille equivoci buffi, comici, oscenissimi, il che secondava mirabilmente il gusto del tempo, e richiamava l'attenzione tanto più, perchè l'autore era cardinale, e papa e cardinali applaudivano e ridevano. Di moderno e di veramente nuovo non v'è che la forma esteriore, la vivacità e la naturalezza del dialogo toscano, che pur qualche volta è troppo lungo e monotono. La commedia si regge quasi del tutto sopra [146] espedienti più osceni e buffoneschi che veramente comici. I personaggi sono vacui, e gl'incidenti non hanno mai un vero valore drammatico o comico, perchè tutto dipende dalla eccessiva imbecillità di Calandro, cui si può dare ad intendere quello che si vuole. Insomma è più che altro una farsa ripiena di facezie buffe ed oscene. La grande fortuna che ebbe allora, venne in parte anche dal modo in cui fu rappresentata; e si può facilmente capire come valenti attori potessero con essa riuscire a fare smascellar dalle risa un pubblico del secolo XVI. La Calandra rappresenta il momento in cui la commedia erudita e d'imitazione, avvicinandosi a quella dell'arte, trova finalmente nel dialogo in prosa la sua propria forma. Questo è ciò che le dà una importanza storica nella nostra letteratura.[208]
Ma colui al quale, dopo l'Ariosto, spetta il primo luogo, per aver dato il suo vero carattere alla commedia italiana, è di certo il Machiavelli, che superò tutti con la Mandragola. Che egli avesse un grande spirito comico e satirico, lo abbiamo già visto ne' suoi scritti, massime nelle lettere familiari; che perciò si sentisse inclinato a scrivere commedie, lo vedemmo del pari fin dal 1504, quando si provò ad imitar le Nuvole di Aristofane, scrivendo le [147] Maschere, che andarono perdute, e nelle quali mordeva i suoi contemporanei. Ma tutto questo non poteva far supporre, che egli fosse capace di darci nella Mandragola la migliore commedia del teatro italiano, superiore, secondo il Macaulay, alle migliori del Goldoni, inferiore solo alle più belle del Molière.
L'azione, che par suggerita da un fatto avvenuto in Firenze, ha luogo nel 1504.[209] Ma il prologo ci fa chiaramente [148] capire che la commedia fu scritta assai più tardi, certo dopo del 1512, nei giorni meno lieti della vita del Machiavelli.[210] Il Giovio, ne' suoi Elogia doctorum virorum, dice che Leone X, sentito del gran successo della Mandragola in Firenze, la fece dai medesimi attori rappresentare anche in Roma.[211] E da una lettera che scrisse Battista della Palla il 26 aprile 1520, vediamo che allora tutto era già pronto per farla recitare.[212] In quell'anno [149] adunque la commedia era stata assai probabilmente già rappresentata in Firenze. La più antica edizione, di cui, secondo i bibliografi, si crede conosciuta la data, sarebbe quella che si suppone pubblicata a Roma nell'agosto del 1524;[213] ma par certo che, fra le edizioni senza data, ve ne sia qualcuna ancora più antica. Il Sanudo racconta, ne' suoi Diari, che il 13 febbraio 1523, la Mandragola fu recitata a Venezia, dove il teatro era così affollato, che non si potè dare il quinto atto. Ma la recita che si pretese data negli Orti Oricellari, dinanzi a Leone X, non viene in alcun modo confermata, anzi non par credibile. Si fece probabilmente confusione con la Rosmunda del Rucellai.
La Mandragola ha per noi una doppia importanza, perchè da un lato ci fa conoscere il genio comico del Machiavelli, nella sua maggiore originalità; da un altro ci presenta sotto nuova luce, il concetto che egli s'era formato degli uomini e della società del suo tempo. Di [150] essa egli fa come una fotografia, che spiega sotto i nostri occhi, quasi cinicamente ridendo. Ma la sua spensierata gaiezza è pur qualche volta interrotta da uno scoppio improvviso di pianto, che egli comprime subito, e, quasi se ne vergognasse, cerca far credere che sia invece uno scroscio di riso. Se voi chiedete, così dice nel prologo, come mai l'autore si perda in una materia troppo leggiera per chi voglia parere uomo savio e grave,
Scusatelo con questo, che s'ingegna
Con questi van pensieri
Fare il suo tristo tempo più soave,
Perchè altrove non ave
Dove voltare il viso,
Che gli è stato interciso,
Mostrar con altre imprese altra virtue.[214]
«Ora non c'è più rimedio possibile ai nostri mali. Bisogna contentarsi di vedere ognuno starsene da canto a ghignare e sparlare. Così il secolo traligna dall'antica virtù, perchè vedendo come tutti biasimano e ridono, nessuno s'affatica alle opere generose, che il vento dissipa e la nebbia ricopre. Ma se qualcuno credesse di spaventar l'autore col dirne male, io vi ammonisco che sa dir male anch'esso, che questa anzi è la sua prima arte; e non istima in Italia alcuno, sebbene faccia reverenza a chi sembra portare miglior mantello di lui.»[215]
Callimaco è un fiorentino che ha trenta anni d'età, venti dei quali ha passati a Parigi tranquillamente. Ivi ha sentito tanto lodare la bellezza e le virtù della moglie di Nicia Calfucci, che è venuto a Firenze per vederla, e subito è stato preso di grande amore per lei. Questa donna per nome Lucrezia è così buona ed onesta, che [151] l'unica speranza di Callimaco sta nella scempiaggine del marito, nel desiderio vivissimo in lui e nella moglie d'avere figliuoli. Mezzano di questo amore è un tale Ligurio, scroccone, al quale Callimaco ha promesso danari, e che frequenta casa Calfucci. La semplicità e la scempiaggine ingenua di messer Nicia, che ha titolo di dottore e si crede gran cosa, mirabilmente rappresentate, divengono una delle principali sorgenti del comico nella Mandragola. Ligurio intanto vuol persuadere messere Nicia di condurre, come consigliano i medici, la moglie ai bagni. Così egli pensa, che Callimaco avrà più facile modo a conoscerla ed avvicinarla. Ma messer Nicia resiste, perchè, sebbene desideri molto aver figliuoli, pure gli sembra gran cosa il muoversi, e i dottori dicono chi una cosa, chi l'altra; «non sanno quello che si pescano. — A te dà briga,» — gli dice Ligurio, — «il non essere uso a perder di vista la cupola del Duomo. — Tu, erri,» — risponde subito messer Nicia, — «io sono stato da giovane molto randagio, e non mancavo mai alla fiera di Prato, nè c'è castello intorno Firenze, dove io non sia andato. E ti vo' dire più là: io sono stato a Pisa ed a Livorno. Oh! va. — Avete visto il mare? quanto è maggiore d'Arno? — Che Arno! Quattro, sei, sette volte. Non si vede se non acqua, acqua, acqua!» — Si conchiude finalmente, che Ligurio sentirà i medici, e messer Nicia cercherà intanto disporre la moglie a partire.
Nella terza, che è l'ultima scena del primo atto, Callimaco chiede ansioso a Ligurio, che cosa hanno conchiuso, e Ligurio risponde che i Calfucci facilmente andranno ai bagni; ma teme che con questo non si sia fatto nulla. — «Io conosco che tu di' il vero,» — risponde Callimaco. — «Ma come ho a fare? che partito ho a pigliare? dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia pericolosa, sia dannosa, sia infame: meglio è morire che viver così. S'io [152] potessi dormire la notte, s'io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliar piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare il tempo. Ma qui non ci è rimedio, e se io non son tenuto in isperanza da qualche partito, io mi morrò in ogni modo; e veggendo d'avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudo e nefando.» Questo linguaggio manifesta, con molta eloquenza, una passione assai singolare, perchè divenuta già violenta, prima ancora che Callimaco abbia parlato alla donna amata. Ligurio dice a un tratto d'avere una felice idea, e gli propone di fare esso le parti di medico col Nicia. Gli dirà poi il resto. E così vien fissato.
Nel secondo atto, Ligurio presenta Callimaco a Nicia, dandogli a intendere che è medico, e che ha una pozione, bevuta la quale, la moglie avrà un figliuolo. Se non che colui che le si avvicina la prima volta, dopo che essa ha bevuto, deve ben presto morire. Bisogna quindi consentire che la moglie sia la prima volta avvicinata da un altro. Lo spavento di Nicia a queste parole, la sua presunzione di parlar latino col finto dottore, la sua ammirazione nel sentirlo rispondere con citazioni latine che non capisce, la facilità con cui si persuade, appena gli viene affermato che il re di Francia ed altri principi consentirono all'esperimento, e tutto ciò credendo sempre essere più furbo degli altri, rendono questo secondo atto comico davvero. Ma non basta aver persuaso messer Nicia, bisogna ora persuadere la moglie, ed a ciò Ligurio suggerisce, unico mezzo, il confessore, che è un frate. — «Chi disporrà il confessore?» — gli domanda Callimaco. — «Tu, io, i danari, la cattività nostra, la loro,» — risponde l'altro, proponendo che si parli alla madre, perchè poi induca il confessore ad aiutarla, con l'autorità della religione, a persuadere la figlia.
Nel terzo atto la madre è già persuasa, a condizione però che non si gravi la coscienza. I prudenti, ella dice, [153] debbono pigliare dei cattivi partiti il migliore. Nicia intanto ha già dato 25 ducati a Ligurio, che gli ha chiesti per corrompere il frate, ed a tal fine s'avviano ora alla chiesa. «Questi frati,» osserva Ligurio, «sono trincati ed astuti, perchè sanno i loro peccati ed i nostri. Chi non ne è pratico s'inganna e non sa condurli a suo proposito.»
Ed ora comparisce la prima volta sulla scena fra Timoteo, che sotto un certo aspetto può dirsi davvero il personaggio più notevole della commedia. Egli se ne sta in chiesa, tranquillamente discorrendo con una fantesca, e il dialogo, nella sua impareggiabile vivacità e naturalezza, nella sua spensierata tranquillità, fa un contrasto così singolare con tutto quello che deve seguire tra poco, che richiama alla memoria l'arte inarrivabile dello Shakspeare. — «Se voi vi volete confessare,» — dice il frate, — «io farò ciò che voi volete. — Non per oggi,» — risponde la donna; — «io sono aspettata, e' mi basta essermi sfogata un poco così ritta ritta. Avete voi detto quelle messe della Nostra Donna? — Madonna sì. — Togliete ora questo fiorino, e direte due mesi, ogni lunedì, la messa dei morti per l'anima di mio marito. Ed ancora che fosse un omaccio, pure le carni tirano; io non posso far ch'io non mi risenta, quando io me ne ricordo. Ma credete voi ch'e' sia in Purgatorio? — Senza dubbio. — Io non so già cotesto. Voi sapete pure quello che mi faceva qualche volta. Oh! quanto me ne dolsi io con esso voi. Io me ne discostava quanto io poteva; ma egli era sì importuno. Uh! nostro Signore. — Non dubitate, la clemenza di Dio è grande. Se non manca all'uomo la voglia, non gli manca mai la potenza a pentirsi. — Credete voi che 'l Turco passi questo anno in Italia? — Se voi non fate orazione, sì. — Naffe! Dio ci aiuti con queste diavolerie; io ho una gran paura di quello impalare. Ma io veggo qua in chiesa una donna, che ha cert'accia di [154] «mio; io vo' ire a trovarla. State col buon dì. — Andate sana.»[216]
Intanto arrivano Nicia e Ligurio, il quale subito annunzia al frate, che vi sono alcune centinaia di ducati da distribuire in limosine, purchè egli dia mano ad aiutarlo in una faccenda, che è però tutta un'invenzione, che egli racconta solo per vedere se, colla promessa delle limosine, può sperare aiuto dal frate, e fidarsene tanto da domandargli ciò che veramente vuole. Vistolo infatti pronto a cedere, gli espone con arte ogni cosa, e ne riceve la promessa desiderata. Arrivano in questo mezzo le donne, e la madre va dicendo alla figlia, che non vorrebbe mai consigliarle nulla di male. «Se però fra Timoteo dirà che non c'è carico di coscienza, tu puoi stare tranquilla.» La figlia non sa persuadersi di dovere «esser cagione che un uomo muoia per vituperarla.» E qui di nuovo entra in campo il frate, e fa prova di tutta la sua destrezza. «Io sono stato in su i libri a studiare più di due ore questo caso, e dopo molte esamine, io trovo di molte cose che in particolare e in generale fanno per noi.... Voi avete, quanto alla coscienza, a pigliare questa generalità, che dove è un ben certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi avrete un figliuolo, acquisterete un'anima a messer Domenedio.... La volontà è quella che pecca, non il corpo, e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi gli compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltre di questo, il fine si ha a riguardare in tutte le cose. Il fine vostro si è riempiere una sedia in Paradiso, contentare il marito vostro.»[217] E così continua, ricordando ancora come la Bibbia dice che le figliuole di Lot non peccarono, perchè la loro intenzione fu buona, [155] concludendo, che si tratta d'un peccato veniale, il quale va via con l'acqua benedetta. «A che mi conducete, Padre?» esclama qui la povera Lucrezia, e promette, confusa, di fare il voler loro; ma aggiunge che teme di non poter sopravvivere alla vergogna ed al dolore.
Il quarto atto s'apre con Callimaco, che è nelle angosce dell'incertezza. Un momento spera, un momento dispera. «Sei impazzato?» egli dice a sè stesso. «Non sai che verranno poi il disinganno ed il pentimento, anche se otterrai l'intento? Ma che cosa è il peggio che ti possa mai seguire? Morire ed andare all'Inferno. Vi son però tanti uomini da bene morti ed andati all'Inferno, perchè devi vergognarti d'andarvi tu? Volgi il viso alla sorte. Fuggi il male o, non potendolo fuggire, sopportalo come uomo. Non ti prosternare, non t'invilire come una donna. Ma io non posso restar fermo su questo pensiero,» «per- chè da ogni parte mi assalta tanto desio di essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira.»[218]
Ora arriva da capo Ligurio, e la trama già ordita si avanza rapidamente al suo fine. Fra Timoteo s'è travestito, ed è divenuto un ausiliario potente e deciso al male, sebbene faccia tutto con la più grande bonomia. «E' dicono il vero quelli che dicono, che le cattive compagnie conducono gli uomini alle forche. E molte volte uno capita male, così per essere troppo facile e troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa ch'io non pensavo ad ingiuriare persona. Stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei devoti; capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intingere il dito in un errore, donde io ci ho messo il [156] braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforta, che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura.»[219] Tutto ormai procede secondo i desiderî di Callimaco.
Il quinto ed ultimo atto incomincia con un altro soliloquio di fra Timoteo, il quale ha passato la notte senza dormire, per la smania di sapere come siano andate le cose. «Io dissi mattutino, lessi una vita de' Santi Padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada che era spenta, mutai un velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati, che la tengano pulita! E si maravigliano poi se la divozione manca. Io mi ricordo esservi cinquecento immagini, e non ve ne sono oggi venti. Questo nasce da noi che non le abbiamo saputo mantenere la reputazione.» «Noi vi dicevamo orazioni e facevamo processioni, perchè si vedessero sempre immagini fresche. Ora non si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo che la cose vadano fredde. Oh quanto poco cervello è in questi miei frati! Ma sento un gran rumore di casa messer Nicia.» Tutti vengono allegri e contenti, per menare la Lucrezia in Santo, ed il frate, ricordandosi delle limosine promesse, fa l'orazione e li benedice. «Chi non sarebbe allegra?» sono le ultime parole della madre in questa commedia, che finisce con una benedizione data in chiesa all'adulterio.
Quello che più stranamente qui ci colpisce, non è il vedere una società in ogni sua parte corrotta, il non incontrare un solo personaggio veramente onesto e virtuoso; ma il vuoto orrendo, spaventoso che è nella coscienza di tutti; il vederli passare dal bene al male, senza quasi accorgersi di mutare. Callimaco s'è innamorato di Lucrezia prima d'averla veduta, solo per averne sentito lodare la bellezza e l'onestà; la sua passione diviene subito irresistibile, nè ha altro che un solo scopo e sensuale. [157] Non può viver così, è disposto a pigliare piuttosto «qualche partito bestiale, crudo e nefando.» Gli balenano un momento l'idea dello scrupolo e la paura dell'Inferno; ma vi sono andati tanti uomini dabbene, può dunque farsi animo e andarvi anch'egli. La sola persona che apparisce onesta è la giovane sposa, la povera Lucrezia, un essere negativo, senza volontà, pienamente in balìa degl'inganni e dei capricci altrui. Quando la madre, il marito, tutti la spingono all'adulterio, perchè abbia un figlio, ella inorridisce e resiste; ma la menano in chiesa, dinanzi al confessore, il quale subito la persuade, che non c'è poi nessun peccato a «riempire una sedia in Paradiso.» Ed ella finisce non solo col rassegnarsi, ma col volersi allegramente godere la vita nell'abisso morale in cui l'hanno precipitata. La più chiara espressione, la più compiuta personificazione di questo stato di cose, si trova in fra Timoteo. Egli dice le sue orazioni e la messa, attende devoto alle immagini ed alla confessione; ma quando, per indurlo ad un'azione infame, gli sono promesse alcune limosine, non si turba punto. Considera che si diranno più messe, s'accenderanno più ceri; esamina i libri sacri e, trovato un sofisma adatto al caso, consente ad aiutare l'adulterio, a persuadere alla povera Lucrezia, che il male è bene, e che, disonorando se stessa, farà cosa grata a Dio. Ben riflette un momento che le cattive compagnie inducono al male anche i migliori; ma ormai ci si trova, e lo conforta il pensare che tutti sono interessati a nasconder la colpa. Spolvera le immagini, rilegge le vite dei Santi Padri, deplora la poca devozione de' suoi tempi; lo domina intanto, sopra ogni cosa, il desiderio di sapere se l'adulterio preparato, e col suo aiuto reso possibile, è riuscito ad votum. Saputo il resultato, li benedice tutti in chiesa.
Non vi pare, dinanzi a questa commedia, di veder sorgere, come evocata dalla vostra coscienza, la tragica figura del Principe, che con la sua spada insanguinata [158] percorre le vie, e con la forza, la violenza, anche l'inganno, costringe i suoi sudditi ad unirsi per formare uno Stato, avere una patria, e, dopo averli disciplinati con l'Arte della Guerra, li conduce dinanzi al nemico, sospingendoli, con l'esempio di Roma, non cristiana, ma pagana, a difendere questo Stato e questa patria col proprio sangue, ed a ricordarsi finalmente, tra i pericoli e le sventure, d'essere uomini? Non vi pare di sentir tuonare la voce potente di Martino Lutero, il quale grida che c'è pure una coscienza, che c'è qualche cosa in essa di sacro e d'inviolabile, ed obbliga così i cattolici stessi a vergognarsi ed a correggersi? La Mandragola, fu già osservato, è la commedia d'una società, di cui il Principe è la tragedia. Questo vuole col ferro rimediare ai mali che quella descrive ridendo, ma dei quali accenna pure la causa riposta. Perciò essa incomincia e finisce nella chiesa. Ivi già i Discorsi ci dissero trovarsi il germe della corruzione italiana, ed ora noi vediamo rappresentato sotto i nostri occhi, come la religione, divenuta puramente formale e meccanica, possa col sofisma giustificare così il male come il bene, e produrre quindi il vuoto nella coscienza. Si direbbe che qui gli uomini commettano il male senza rendersene conto, senza neppure esser cattivi. Le azioni da essi compiute non sono più loro proprî atti. Par che li guidi, che li conduca una forza esteriore, la quale si chiama ora passione, ora istinto, ora consuetudine, pregiudizio, non si chiama mai coscienza. E però solo una forza esteriore può portarvi rimedio. Unica medicina il ferro. Tale fu sempre il pensiero dominante del Machiavelli, ed ogni volta che lo espone, il suo animo si esalta, il suo linguaggio acquista una precisione, una eleganza, una forza che trascina: egli pare allora un uomo ispirato, e diviene superiore a sè stesso. Questo pensiero, che fu il soggetto dominante del Principe, nella Mandragola si vede continuamente balenare da lontano. Lo stile e la lingua dell'autore salirono nei due scritti a tanta altezza [159] da farli riuscire due grandi capolavori della prosa italiana. Il Machiavelli è di certo il primo nostro prosatore; ogni sua parola esprime un'idea, senza inutili ornamenti, senza artifizî, senza sforzo alcuno. Gli uomini, gli avvenimenti, le cose stesse sembrano aver trovato il loro proprio linguaggio, e parlare direttamente al lettore. Egli ha tutto il mirabile atticismo che è sulla bocca del popolo fiorentino, qualche volta riproducendone con singolare vigore anche gl'idiotismi, non sempre grammaticalmente corretti. Dal latino piglia ciò che è più necessario a dar forza, dignità al suo stile. E se questa imitazione prevale qualche volta un po' troppo in altre opere, di rado assai ciò gli succede nel Principe, e meno ancora nella Mandragola, dove i tesori della lingua parlata si manifestano liberamente, largamente in tutta la loro freschezza, in tutta la loro vivacità, la loro inesauribile varietà d'armonìa e di colori. Senza mai cader nel volgare, egli è sempre naturale, spontaneo; senza mai cader nell'artificioso, è sempre elegante.
Il Macaulay, che come critico letterario è certo autorevolissimo, ha per la Mandragola un'ammirazione quasi sconfinata. Crede che il Machiavelli abbia in essa provato, come, se si fosse dato al dramma, sarebbe salito alle maggiori altezze, ed avrebbe prodotto un effetto salutare nel gusto e nella letteratura nazionale. Ciò, egli afferma, si deduce non tanto dal grado, quanto dalla natura stessa dell'eccellenza conseguita: «con una corretta e vigorosa descrizione dell'umana natura, tien desta l'attenzione del lettore, senza bisogno d'un intreccio complicato o piacevole, senza la più lontana ambizione a far prova d'arguzia.»[220] Il carattere più originale in tutta la commedia è, secondo lui, quello di Nicia, e lo dichiara perciò superiore ad ogni elogio.[221] E [160] veramente questo sciocco presuntuoso, che, senza mai avvedersene, diviene zimbello di tutti, è il personaggio più ingenuo e più vero, in un mondo nel quale non sembrano avere coscienza di sè, quelli che più dovrebbero averla. Il riso che muove, il comico di cui è sorgente continua, non vengono in noi amareggiati mai da nessuna considerazione estranea. Nicia è quindi nel suo genere perfetto, ed il conoscerlo rallegra artisticamente, senza moralmente affliggere.
Nella Mandragola v'è però un lato più serio, che è sfuggito al Macaulay, come gli è sfuggito quello che n'è il lato più debole. Se noi guardiamo alla unità fondamentale, al concetto dominante della commedia, Fra Timoteo è il personaggio che richiama la nostra attenzione principale. Il comico si unisce in esso ad una satira sanguinosa e profonda della società italiana, e possiamo quindi assai meglio riconoscere l'altezza del genio di colui che creava il singolare carattere. È però certo ancora, che il nostro riso è in questa commedia, assai spesso fermato, soffocato a mezzo. La immaginazione è come di tratto in tratto, quasi violentemente, dominata da troppo gravi riflessioni, per osare d'abbandonarsi a sè stessa, alla pura contemplazione estetica. L'autore, è ben vero, sembra occuparsi di rappresentarci solo il lato comico della società che gli sta dinanzi; ma dalla stessa sua rappresentazione sorge inesorabile, nel suo e nel nostro spirito, una satira sanguinosa. È come un nuovo, più alto, profondo e segreto concetto, [161] che apparisce a distanza, senza poter mai entrar davvero nella commedia, perchè rimane sempre in una forma astratta, teoretica di riflessione filosofica. Il Machiavelli non riesce a concretarlo, ad individuarlo poeticamente, comicamente, facendo ricadere il ridicolo e il disprezzo sui veri autori d'una colpa, che ci mette orrore, e che egli invece si ostina a far trionfare ridendo. Ma questa non è l'atmosfera di cui la commedia ha bisogno per vivere, per respirare liberamente; e però i personaggi della Mandragola si trovano qualche volta come a un tratto circondati da una nebbia, che offusca i lineamenti della loro fisonomia reale, determinata e vivente, che pur costituisce il merito principale di questa commedia.
Si è detto da qualche critico, che Fra Timoteo è un buon frate, volendoci l'autore rappresentare in esso solo le conseguenze d'una falsa religione. Resta però a dimostrare come si possa esser buoni, ed aiutare a commettere azioni turpi, benedicendole anche in nome della religione. Che questa, una volta corrotta e mutata in puro formalismo, sia cagione di molti danni, è vero. Non è però vero che l'uomo possa mai trascorrere dal bene al male con animo così sereno e tranquillo, come fa Timoteo. E che dire d'una madre la quale cerca, ridendo, l'aiuto del confessore, per disonorare la propria figlia, la sola onesta, ma che finisce anch'essa col ridere del suo morale naufragio? I sospiri che sembrano qualche volta uscire involontari dal petto dell'autore, quando deplora i tempi in cui è nato e di cui fa parte, valgono solo a provar nuovamente, che neppure nella commedia è possibile sopprimere del tutto quel lato appunto dell'umana natura, che nella Mandragola è troppo spesso dimenticato. La descrizione che essa ci dà dell'uomo e delle sue passioni, se è sempre vigorosa ed originale, non è sempre corretta, come crede il Macaulay. L'arte ha bisogno della realtà vivente, deve rappresentarci la natura umana nella sua [162] integrità, ed è uccisa dalle vivisezioni,[222] che possono giovar solo alla scienza. Al di sotto di ogni delitto, d'ogni corruzione, vuol sentire da vicino o da lontano la voce della coscienza, che anche nella colpa non può mai essere spenta del tutto, se prima non si spegne l'umana natura.
Con tutto ciò, riman sempre certo che la Mandragola fu scritta in un momento di vera ispirazione, nel quale il Machiavelli finì col superare sè stesso. La potenza della rappresentazione quasi sempre felicissima, la freschezza della forma e la profondità del concetto ne fanno un'opera che, non ostante i suoi difetti, è maravigliosa davvero. Ma che egli non fosse nato per esser un grande autore drammatico, lo prova il fatto, che non riuscì mai a compor nulla di simile alla Mandragola. Tutti gli altri suoi tentativi, riconfermarono sempre che, sebbene avesse scritto una commedia eccellente, egli non avrebbe mai saputo dare all'Italia un teatro nazionale. Il suo pensiero dominante, nella forma in cui costantemente lo vedeva, solamente nelle scienze politiche e storiche poteva riuscire davvero originale e fecondo, dando inesauribile materia a nuove riflessioni. La commedia italiana continuò, durante tutto il secolo XVI, a seguire la via in cui era già prima [163] del Machiavelli entrata. E così avvenne che, con una fantasia ed uno spirito comico inesauribili; con una ricchezza, naturalezza, eleganza veramente prodigiose di lingua e di stile; con una vivacità inarrivabile di dialogo, gl'Italiani produssero un numero infinito di commedie, senza mai riuscire ad avere nè un Aristofane nè un Molière.[223] L'arte non è di certo una predica di morale; ma neppure può, senza rinnegare l'umana natura ed uccidere sè stessa, supporre che morale non vi sia, o presumere di ridere là dove ci sarebbe invece materia di pianto.
La Clizia, che venne rappresentata a Firenze nel 1525,[224] fu scritta certo dopo la Mandragola, e la ricorda infatti nella terza scena del secondo atto. L'azione, che in questa è messa nel 1504, è posta nell'altra due anni dopo, cioè nel 1506.[225] Il merito n'è assai inferiore, trattandosi d'una pura e semplice imitazione della Casina di Plauto, essa stessa, com'è ben noto, imitata dal greco. Il Machiavelli, sebbene qui muti in Fiorentini del suo tempo tutti quanti i personaggi della commedia antica, pure s'avvicina qualche volta tanto al suo originale, che addirittura lo traduce; qualche altra invece se ne allontana, abbandonandosi ad inopportune lungaggini e riflessioni astratte: di tanto in tanto però raggiunge qui appunto un'assai grande vivacità. Ma il suo genio comico si dimostra quasi sempre molto inferiore a quello di Plauto, che vuole emulare; e le sentenze e considerazioni generali raffreddano lo stile della commedia. [164] Quasi tutte le aggiunte che vi fa di suo, ne indeboliscono lo svolgimento drammatico, scemandone il vigore comico.
Il prologo comincia col ripetere, in grave e solenne prosa, ciò che il Machiavelli ha già tante volte esposto altrove, che gli uomini cioè sono sempre gli stessi, e però quello che una volta seguì in Atene, è seguìto anche a Firenze. Egli preferisce il caso di Firenze, perchè ora non si parla più greco. — Cleandro ed il suo vecchio genitore Nicomaco si sono innamorati della giovane Clizia, allevata in casa loro, e tenuta come figlia. Nicomaco vuol darla in moglie al servo Pirro, e Cleandro, con lo stesso fine, cerca sventare la trama del padre, proponendo di darla al fattore Eustachio, nel che è secondato dalla madre, la quale s'è avvista d'ogni cosa. — La rappresentazione, che spesso è qui solo una narrazione di tutto ciò, forma l'intero primo atto e parte del secondo. A Plauto bastò invece un semplice dialogo, vivacissimo e comico, tra il servo ed il fattore, per entrar subito nel cuore del soggetto, senza prima narrare quello che doveva poi rappresentare. Ma il Machiavelli non si contenta ancora, ed aggiunge un lungo monologo di Cleandro, che è un paragone tra la vita dell'innamorato e quella del soldato, dialogo che starebbe assai meglio in una dissertazione politica o storica. Più vivace assai, nel secondo atto, riesce la commedia là dove la moglie disputa col marito, dicendo che vuol dare la giovane non al servo, ma al fattore, «che sa attendere alle faccende, ha un capitale, e viverebbe in su l'acqua, quando l'altro vive nelle taverne, nei giuochi, e morrebbe di fame nell'Altopascio.» Rimasta sola, essa ci dà una vivacissima pittura del mutamento che ha fatto il marito, la quale è anche una fedele descrizione della vita dei borghesi fiorentini a quel tempo. «Udiva la messa, trattava gli affari, andava ai magistrati, era ordinato in tutto. Ma da poi che gli entrò questa fantasia di costei, le faccende [165] sue si trascurano, i poderi si guastano, i traffichi rovinano. Grida sempre e non sa di che; entra ed esce ogni dì mille volte, senza sapere quello si vada facendo.» La lingua è vivacissima, piena di motti fiorentini. Si finisce con un dialogo tra il servo ed il fattore, nel quale è molto bene imitato quello con cui incomincia la commedia di Plauto, e ne forma tutto il primo atto.
Nel terzo atto della Clizia, Cleandro si duole di trovarsi in lotta d'amore col padre. E questa sua condizione non apparisce in verità nè molto comica nè punto tragica. Come nella Casina, così nella Clizia, la moglie finalmente s'accorda col marito, per rimettere tutto alla decisione della sorte. S'imborsano i due nomi, si estrae quello di colui che sarà lo sposo, e riesce Pirro, secondo il desiderio di Nicomaco. Questi crede ora di trionfare, ma ha fatto i conti senza l'oste. Tutto lieto, egli fissa col pieghevole servo come avrà luogo il matrimonio, e la casa in cui egli, primo e solo, vedrà la novella sposa. Ma la moglie lo tien d'occhio, non lo perde mai di vista, e sa disporre le cose in maniera, che il povero Nicomaco si ritrova la notte non con la Clizia, ma con un famiglio. Il modo in cui il vecchio marito, tirato nella trappola, diviene ridicolo a tutti, è assai comico, forse anche più originale che in Plauto stesso,[226] sebbene nella maggior parte di questo atto il Machiavelli imiti o anche traduca la Casina.[227] La quale riesce però nel suo insieme [166] molto più naturale, perchè la giovane è promessa sposa ad uno schiavo, non ad un uomo libero come nella Clizia, e la cieca, assoluta sottomissione al padrone è quindi più verosimile, più tollerabile. Nel quinto atto la moglie, mediante la trama che ha ordita, raggiunge il proprio fine, ed il marito umiliato si pacifica finalmente con lei. E qui la commedia veramente finisce, ma il Machiavelli v'aggiunge di suo quattro scene, nelle quali si scopre il padre della Clizia, un gentiluomo che arriva da Napoli; ed allora si celebra il matrimonio di lei con Cleandro. Quest'ultimo incidente è solo annunziato nella commedia di Plauto, il quale, come non fa comparire la fanciulla, nel che è seguìto dal Machiavelli, così non fa comparire neppure Cleandro. Egli capì, che un figlio in lotta d'amore col proprio padre, non può mai riuscir veramente comico; e che era addirittura superfluo il portar sulla scena il padre della fanciulla, il quale in fatti riesce nella Clizia niente altro che una vuota comparsa. Il Machiavelli abbandonò qui il suo modello, e fu a tutto suo danno.
La Commedia in prosa, brevissima, in tre soli atti, è piuttosto una farsa. Il soggetto è preso da un fatto, di cui sembra che si parlasse allora molto in Firenze. — Una serva si trova fra il vecchio padrone Amerigo, che s'è innamorato della comare, moglie di Alfonso, e frate Alberigo, che s'era innamorato della giovane padrona Caterina. Questa, confidandosi colla serva, le dice che ormai è stanca, e vuol cercarsi anch'essa un amante. L'altra allora le parla subito di Alberigo, vincendo facilmente le resistenze di lei. E il frate, divenuto così sicuro del fatto suo, [167] cerca di mandare a vuoto la tresca fra Amerigo e la comare, di cui conosce il marito. Nella casa di costui viene la moglie d'Amerigo, e dopo aver colà visto prima l'amante, aspetta il proprio marito, che crede invece trovarvi la comare, e ne segue una scena clamorosa. In questo mezzo sopravviene, come a caso, il frate, che cerca metter pace fra marito e moglie, i quali, dopo essersi di nuovo ingiuriati, s'accordano finalmente, e pigliano a proprio confessore il frate stesso, che trionfa così ne' suoi intenti. — L'oscenità è qui anche maggiore del solito, l'azione è più narrata che rappresentata, e manca un vero svolgimento di caratteri. Il dialogo ha tutta la vivacità fiorentina del tempo, sebbene non sempre quella che è più propria del Machiavelli. Se questa commedia fosse veramente di lui, come per lungo tempo fu creduto, non aumenterebbe di certo la fama del suo genio comico. Ma dopo che il professor Bartoli pubblicò il prologo e l'argomento d'una farsa del Lasca, intitolata Il Frate, fu dimostrato che essa è una cosa stessa con la Commedia in prosa la quale non può quindi essere più attribuita al Machiavelli.[228]
Resta a dir qualche cosa di due altre commedie, quella chiamata la Commedia in versi, e l'Andria, che è solo una traduzione di Terenzio. L'autenticità della prima fu pure messa in dubbio da parecchi; altri la ritennero invece lavoro giovanile del Machiavelli. Ciò che [168] potrebbe farla creder sua è il fatto, certo notevolissimo, che nel ben noto codice strozziano della Nazionale di Firenze, se ne trova una copia autografa di lui. Ma questa prova esterna perde il suo valore, quando si pensa che nello stesso codice v'è, di mano pure del Machiavelli, la Descrizione della peste, della quale nessuno oggi lo crede autore. In fine della commedia trovansi anche di sua mano scritte le parole: Ego Barlachia recensui,[229] E ciò ribadisce il dubbio, che egli avesse qui copiato alcuni scritti non suoi, del che troveremo più innanzi nuova conferma. Se poi dalle prove esterne passiamo alle interne, sarà assai difficile attribuire al Machiavelli questa Commedia in versi. Fondata tutta sull'equivoco di due nomi, Camillo e Catillo, essa porta sulla scena personaggi e fatti di tempi romani; non ha intreccio, non bellezza di stile, non realtà o verità di caratteri, ed è [169] noiosa tanto che non si può reggere alla lettura. Piena d'eterni monologhi, non ha neppure quei motti e sali fiorentini, che non mancano mai nelle commedie e nelle poesie del Machiavelli. Scorrendola anche a caso, difficilmente si crederà che sieno di lui versi come quelli del monologo che incomincia:
Oh! che disgrazia, oh! che infelicità
È quella di chi vive in gelosia!
Oh! quanti savi tener pazzi fa,
Ma de' pazzi giammai savi non fe'.
Non si mangia un boccon mai che buon sia;
Usasi sempre solo. Adunque egli è
Piacer da mille forche. E spesse volte
Stassi desto la notte a udir quel dice
Sua donna, perchè già n'è sute colte;
Che c'è chi in sogno i fatti suoi ridice.[230]
E così continua per sessanta versi. Un altro monologo incomincia:
Oh! che miseria è quella degli amanti,
Ma molto più di quelli
Ch'hanno i lor modi strani a sofferire!
Io, per me, innanzi vuo' prima morire,
Che seguir tai cervelli.[231]
E continua allo stesso modo per cinquantasei versi. Di simili e di peggiori tutta questa commedia è piena. Il Polidori, che l'ha pubblicata fra quelle del Machiavelli, dubita assai della sua autenticità; l'Hillebrand, che l'accetta come autentica e vi trova qua e là qualche bellezza, conviene anch'egli che è indegna dell'autore della Mandragola. Il Macaulay però non l'accetta per genuina, dicendo che nè i meriti, nè i difetti di essa ricordano [170] mai il Machiavelli.[232] Questa opinione, che fu anche la nostra, è stata recentemente messa fuori d'ogni dubbio dal fatto che in un codice Ashburnham. (572 a c. 52b) Filippo Strozzi scrisse di sua mano che la commedia era sua.[233]
L'Andria è una traduzione della commedia di Terenzio, che porta lo stesso titolo. Paragonandola con l'originale, vi si trovano alcuni luoghi in cui la frase latina non è resa fedelmente, ed altri nei quali la frase italiana è ancora incerta ed oscura, il che farebbe supporre che manchi l'ultima lima. In generale però essa non solo interpetra con fedeltà l'originale latino, ma ha una freschezza ed una spontaneità assai maggiori che nelle più moderne e reputate traduzioni.[234]
[171]
Queste sono le commedie del Segretario fiorentino. Ma non dobbiamo tralasciar di ricordare, come fu più volte da altri già osservato, che anche la Sporta, la migliore cioè delle due commedie di Giovan Battista Gelli, sia stata da questo composta sugli abbozzi che ne lasciò il Machiavelli.[235] E ciò, sebbene da alcuni sia stato negato, è pur messo fuori d'ogni dubbio dal Ricci, il quale nel suo Priorista, enumerando le opere dello zio, dice chiaro che questi compose ancora, «pigliando il concepto dall'Aulularia di Plauto, un'altra commedia detta la Sporta; ma perchè gli fragmenti di essa restarono in mano di Bernardino di Giordano, essendo capitati alle mani di Giovan Battista Gelli, aggiuntovi poche cose, la diede fuori per sua.»[236] Questi, nella sua dedicatoria, dice d'avere ritratto il caso dal vero, e nel prologo riconosce di aver voluto imitare Plauto e Terenzio; nella scena IV dell'atto III, ricorda la Mandragola e la Clizia del Machiavelli, senza altro aggiungere. Che egli però, non solo [172] ne leggesse molto gli scritti, ma spesso anche li imitasse, è cosa certa. Il concetto stesso della Circe, che è il miglior suo lavoro, trovasi già nell'Asino d'Oro del Machiavelli, che lo aveva preso dagli antichi; e la sua seconda commedia, intitolata l'Errore, fu in parte almeno, come egli medesimo implicitamente riconosce, imitata dalla Clizia.[237] Quanto alla Sporta, leggendola con attenzione, si può qualche volta credere di ritrovarvi la mano del Segretario fiorentino, nella più grande naturalezza e vivacità del dialogo, ed in alcuni monologhi, che hanno le ben note riflessioni di lui. Il Gelli, secondo noi, con la introduzione di episodî e di personaggi secondarî, arruffò non poco l'intreccio della commedia, della quale il Machiavelli assai probabilmente aveva disteso solamente l'ordito, cominciando qua e là a colorirne le scene e i dialoghi colla sua consueta vivacità. Sono però ipotesi, giacchè una volta perduto questo suo abbozzo, non potrà mai con certezza essere determinata la parte che gli spetta nella composizione della Sporta. In ogni modo tutto ciò potrebbe assai poco aggiungere o levare alla sua fama di autore comico, la quale riposerà sempre sulla Mandragola, sola commedia in cui il Machiavelli dette prova d'un vero genio drammatico. Fu un momento di felice ispirazione, di vera creazione poetica, che non si ripetè una seconda volta in tutta la sua vita.
[173]
L'Asino d'Oro. — I Capitoli ed altre poesie minori. — Il Dialogo sulla lingua. — La Descrizione della Peste. — Il Dialogo dell'ira e dei modi di curarla. — La Novella di Belfagor arcidiavolo. — Altri scritti minori.
A tempo avanzato il Machiavelli scrisse, specialmente in questi anni, alcune opere minori, in versi ed in prosa, delle quali dobbiamo ora occuparci. Quanto alle poche poesie, i suoi versi sono facili, ed hanno spesso una satirica e pungente vivacità; ma somigliano troppo alla prosa. Vi si trovano di tanto in tanto energiche espressioni, pensieri profondi e lungamente meditati; ma sono massime filosofiche e considerazioni che ricordano i Discorsi ed il Principe; quello che invece manca è la forza delle immagini, la originalità della rappresentazione, in una parola, tutte le qualità essenziali a costituire un vero poeta. Questi versi nondimeno sono spesso utili a farci indovinare lo stato d'animo dell'autore, e ci aiutano quindi a meglio conoscere la storia del suo spirito.
L'Asino d'Oro è il principio d'un poema in terza rima, a cui il Machiavelli lavorava nel 1517, come apparisce dalla lettera che in quell'anno stesso indirizzò a Lodovico Alamanni,[238] nella quale si vede che dava molta importanza a questo suo lavoro. Pure, dopo averne scritto otto brevissimi capitoli, lo abbandonò, mancandogli la vena e la voglia di continuare una narrazione senza intreccio, senza passione e senza attrattiva. Il titolo è preso da Apuleio e da Luciano, il soggetto dal dialogo di Plutarco, Il Grillo. Di tanto in tanto vi si scorge una certa pretensione d'imitare la Divina Commedia; ma in sostanza è, o almeno [174] voleva essere, una satira de' Fiorentini del suo tempo. Il poeta ci dice che, dopo essersi un pezzo quetato dal mordere ne' suoi scritti or questo or quello, è stato a un tratto ripreso dalla vecchia smania, stimolato specialmente dai tempi, che offrono alla satira larga materia. Egli entra in un'aspra selva, nella quale, invece delle tre fiere di Dante, incontra una delle donzelle di Circe, circondata da animali che conduce, e che sono uomini trasformati in bestie. È da lei menato in un palazzo, dove viene avvertito che sarà mutato in bestia anch'egli. Intanto cena e sta in compagnia di lei, ne descrive le bellezze minutamente, ma senza eleganza o finezza d'arte:
Avea la testa una grazia attrattiva
Tal ch'io non so a chi me la somigli,
Perchè l'occhio al guardarla si smarriva.
Sottili, arcati e neri erano i cigli,
Perchè a plasmargli fur tutti gli Dei,
Tutti e' celesti e superni consigli.[239]
Lasciato solo, si pone subito da filosofo a meditare sulle cagioni
Del varïar delle mondane cose,
ed entra nelle ben note sue considerazioni. Ciò che fa rovinare dalle loro maggiori altezze i potenti è il non esser mai satolli del potere. Venezia cominciò a decadere, quando volle allargarsi sulla terraferma. Sparta e Atene cominciarono a decadere, quando ebbero domati i vicini. Le città della Germania, invece, che hanno solo sei miglia di territorio, sono libere e tranquille. Firenze, cui non fece paura l'imperatore Arrigo IV, quando essa aveva i suoi confini presso alle mura, oggi ha invece paura d'ognuno. Certo un governo dura assai più quando ha buone leggi e buoni costumi; ma anche allora non siam [175] certi di poter esser sempre tranquilli, perchè le cose umane mutano inevitabilmente.
La virtù fa le regïon tranquille;
E da tranquillità poi ne risolta
L'ozio, e l'ozio arde i paesi e le ville.
Poi, quando una provincia è stata involta
Ne' disordini un tempo, tornar suole
Virtute ad abitarvi un'altra volta.
Quest'ordine così permette e vuole
Chi ci governa, acciò che nulla stia
O possa star mai fermo sotto 'l sole.
Così è stato e sarà sempre. Il bene succede al male e viceversa; l'uno è cagione dell'altro. S'ingannano assai coloro i quali pensano di salvarsi coi digiuni e colle orazioni da queste vicende.
Creder che senza te, per te contrasti
Dio, standoti ozïoso e ginocchioni,
Ha molti regni e molti Stati guasti.
Son ben necessarie al popolo le orazioni, e matto sarebbe chi gliele vietasse;
Ma non sia alcun di sì poco cervello,
Che creda, se la sua casa ruina,
Che Dio la salvi senz'altro puntello;
Perchè e' morrà sotto quella ruina.[240]
Questa, come ognun vede, non è poesia, sono pagine dei Discorsi tradotte in versi. Negli ultimi tre capitoli c'è meno filosofia. La bella donna conduce il poeta a vedere gli animali, ed egli ce ne dà prima un elenco, poi si ferma a parlare con un grosso porcello, cui domanda se vuol tornare uomo, ed in risposta ha il ben noto elogio delle condizioni in cui sono gli animali, privi di cure e di pensieri tormentosi, condizioni che il porcello si sforza [176] di provare essere, sotto ogni aspetto, preferibili a quelle dell'uomo.[241]
Secondo il Busini, nell'Asino d'Oro s'alludeva a Luigi Guicciardini ed agli amici de' Medici, ma egli non sa poi dirci altro di più preciso.[242] Certo il Machiavelli stesso dichiara, che nelle bestie da lui vedute ritrovò persone che aveva già conosciute, che gli eran prima parse Fabî e Catoni, ma che più tardi colle opere riuscirono pecore e montoni; e per questa ragione egli voleva morderle. Il poema resta però interrotto prima che avvenga la trasformazione in asino, cioè appunto là dove le allusioni dovevano cominciare a divenire più trasparenti; onde se non riuscì al Busini ed ai suoi contemporanei l'indovinarle, molto meno può riuscire oggi a noi.
Seguono nelle Opere, poesie minori, e prima il breve Capitolo dell'Occasione, che venne indirizzato a Filippo dei Nerli,[243] e fu creduto imitazione d'un epigramma greco dell'Antologia Planudea; ma invece, come venne dimostrato dal prof. Piccolomini, è quasi tradotto dalla imitazione che ne fece Ausonio nel suo epigramma XII.[244] Più lungo è il [177] Capitolo di Fortuna, indirizzato a Giovan Battista Soderini. Con molta evidenza e naturalezza, con qualche felice immagine, il Machiavelli torna qui ad esporre le sue idee sulla Fortuna. Colui è veramente felice, che sa adattarsi alle ruote su cui essa gira; ma non basta, perchè mutano continuamente il loro moto. Bisognerebbe quindi essere pronti a saltar di ruota in ruota, cosa che non consente l'occulta virtù che ci governa: noi non possiamo mutar persona e quindi natura. Assai spesso avviene perciò, che quanto più siamo saliti in alto, tanto più precipitiamo in basso, e la Fortuna mostra allora tutta la sua potenza.
Avresti tu mai visto in loco alcuno,
Come un'aquila in alto si trasporta,
Cacciata dalla fame e dal digiuno?
E come una testuggine alto porta
Acciocchè il colpo nel cader la 'nfranga,
E pasca sè di quella carne morta?[245]
Così fa la Fortuna.
Dopo questo Capitolo, che è certo dei migliori, segue l'altro Della Ingratitudine, indirizzato a Giovanni Folchi.[246] È assai più tirato via; ma v'è pure qualche notevole allusione alle sventure dell'autore. Il dente dell'altrui invidia che mi morde, così comincia il Machiavelli, renderebbe maggiore la infelicità che mi ha colpito, se le Muse non rispondessero alle corde della mia cetra. So di non essere veramente un poeta, ma spero di coglier pure qualche ramo d'alloro nella via che n'è piena.
Cantando, dunque, cerco dal cuor torre,
E frenar quel dolor de' casi adversi,
Cui dietro il pensier mio furioso corre;
[178]
E come del servir gli anni sien persi,
Come in fra rena si semini ed acque,
Sarà or la materia de' miei versi.
Quando alle stelle dispiacque la gloria dei mortali, nacque l'Ingratitudine figlia dell'Avarizia, e dei sospetti, che ha la sua sede principale nelle Corti e nel cuore dei principi. Essa colpisce con tre saette avvelenate: non compensando i benefizî ricevuti, dimenticandoli affatto, e finalmente ingiuriando addirittura il benefattore.
Questo colpo trapassa dentro all'ossa,
Questa terza ferita è più mortale,
Questa saetta vien con maggior possa.
Poi aggiunge, che quando il popolo comanda, la sua ingratitudine è tanto maggiore, quanto è maggiore la sua ignoranza; e però ne segue che i buoni cittadini sono da esso sempre male rimunerati, qualche volta spinti sino anche a meditar la tirannide. Ricorda la storia greca e la romana, Aristide, Scipione e Cesare, per venire poi ai suoi tempi, nei quali trova che i principi sono divenuti anche più ingrati dei popoli, esempio il gran capitano Consalvo, che
al suo re sospetto vive
In premio delle galliche sconfitte.
Questa allusione prova che il Capitolo non fu scritto più tardi del 1515. E finalmente il Machiavelli conchiude, quasi ammonendo sè stesso:
Dunque non sendo Ingratitudin morta,
Ciascun fuggir le Corti e Stati debbe;
Che non c'è via che guidi l'uom più corta
A pianger quel ch'e' volle, poi che l'ebbe.[247]
[179]
Nel Capitolo dell'Ambizione, indirizzato a Luigi Guicciardini,[248] si torna di nuovo alle considerazioni filosofico-politiche. Esso non potè essere scritto molto dopo del precedente, perchè allude più volte, come di recente seguìta, alla fraterna lite dei Petrucci in Siena, la quale scoppiò l'anno 1516. L'Ambizione è cominciata da Caino, e non ha mai abbandonato i mortali. Perciò il mondo non ha pace, i regni, gli Stati furono disfatti, i principi rovinati. E se tu chiedi, perchè essa in un caso riesce nel suo intento, nell'altro no, io ti dico che questo dipende dall'essere o non essere all'ambizione unita la ferocia dell'animo. Ma se qualcuno volesse incolpare la natura, perchè non fa ora nascere fra noi uomini che abbiano questa energia, io gli ricorderei, che l'educazione può sempre supplire, dove manchi la natura. L'educazione fece un giorno fiorente e forte l'Italia, che
Or vive (se vita è vivere in pianto)
Sotto quella rovina e quella sorte,
Ch'ha meritato l'ozio suo cotanto.
Se tu in fatti rivolgi a questa lo sguardo, non vedrai altro che desolazione e stragi. I padri sono uccisi coi figli; molti vanno fuggendo in straniere regioni; le madri piangono il destino delle figlie; le fosse e le acque sono sozze di sangue, piene di membra umane;
Dovunque tu gli occhi rivolti e giri,
Di lagrime la terra e sangue è pregna,
E l'aria d'urli, singulti e sospiri.
«Tutto questo è nato dall'Ambizione. Ma a che vado io discorrendo lontano, ora che essa sopra i monti di Toscana vola, ed ha già messo tante faville tra quelle genti piene d'invidia, che arderà le terre e le ville, se grazia e ordine migliore non la spegne?»[249] Qui il Machiavelli [180] allude alla guerra contro Urbino, cominciata appunto in quegli anni, e condotta da Lorenzo de' Medici, che partì da Firenze nel maggio 1516.
Poco di notevole hanno le terzine del Capitolo Pastorale e la Serenata in ottava rima. Il soggetto non si presta nè alla satira, nè alle considerazioni filosofiche; il merito dovrebbe essere puramente poetico, e la penna del Machiavelli procede quindi più fiacca. Le ottave sono abbastanza disinvolte, ma dopo quelle del Poliziano e dell'Ariosto, c'è poco in esse da ammirare. Scrisse ancora sei Canti Carnascialeschi di vario metro. Alcuni hanno brio e naturalezza, ma non v'è altro. Mancano la freschezza e la vivace descrizione che s'incontrano così spesso in quelli di Lorenzo de' Medici, il quale fu anche l'inventore del genere. Le oscenità che vi abbondano, restano perciò semplici allusioni indecenti. Nel primo, il Canto dei Diavoli, questi discendono saltellando sulla terra, e si dichiarano autori di tutti i mali e di tutti i beni che vi sono, incitando gli uomini a seguirli. Nel secondo, Canto d'amanti disperati e di donne, gli amanti piangono le pene invano patite per amore, e dichiarano che perciò preferiscono ora l'Inferno; le donne vorrebbero averne pietà, ma ormai è tardi, non è più tempo d'amore, e però esse concludono avvertendo le giovani a non aver troppi rispetti, per non pentirsi poi invano del tempo perduto. Nel terzo, che è intitolato Canto degli Spiriti beati, si deplorano i mali che tribolano il genere umano, specialmente l'Italia.
Tant'è grande la sete
Di gustar quel paese,
Ch'a tutto il mondo diè la legge pria,
Che voi non v'accorgete
Che le vostre contese
Agl'inimici vostri apron la via.
. . . . . . . . . . . . . .
Dipartasi il timore,
Nimicizie e rancori,
[181]
Avarizia, superbia e crudeltade.
Risorga in voi l'amore
De' giusti e veri onori,
E torni il mondo a quella prima etade.
Così vi fien le strade
Del cielo aperte alla beata gente,
Nè saran di virtù le fiamme spente.[250]
Da questi versi si vede chiaro, come anche in mezzo al brio ed all'oscenità dei Canti Carnascialeschi, si facciano strada le solite riflessioni del Machiavelli, l'eterno pensiero della patria italiana e delle antiche virtù. Il Canto d'uomini che vendono le pine, e il Canto de' ciurmadori s'avvicinano più degli altri ai veri componimenti carnascialeschi. Seguono un'assai breve canzone, due ottave ed un sonetto. La canzone che incomincia: Se avessi l'arco e l'ale, è parsa a qualche critico moderno imitata da un epigramma greco dell'Antologia Palatina;[251] ma fu dal Piccolomini giustamente osservato che non solo è assai difficile provare che vi sia davvero imitazione visibile, ma che il codice unico contenente l'Antologia di Cefala, cioè il Palatino, fu fatto conoscere dal Salmasio assai dopo la morte del Machiavelli. Le due ottave ed il sonetto non hanno molto valore, sono versi amorosi, come pure amoroso è l'altro sonetto che trovasi a stampa nella sua lettera del 31 gennaio 1515. Dei tre sonetti a Giuliano de' Medici e dell'epigramma sul Soderini abbiamo parlato più sopra. Non è difficile che qualche altra breve poesia del Machiavelli sia rimasta inedita, giacchè soleva comporne spesso per suo passatempo.[252] Nella Vaticana trovasi un suo sonetto giovanile, indirizzato al padre, e poco [182] intelligibile, perchè scritto, con allusioni oscure, in una lingua piena di riboboli fiorentini, che ricordano il Burchiello.[253]
Venendo ora alle prose letterarie, cominceremo innanzi tutto dal Dialogo sulla Lingua, nel quale si disputa, se la lingua in cui scrissero Dante, il Petrarca ed il Boccaccio, debba chiamarsi italiana o fiorentina. Le ragioni che furono addotte dal Polidori per negare che questo dialogo sia veramente del Machiavelli, non hanno secondo noi, valore di sorta. A lui pare impossibile che il Machiavelli, il quale disse che la venuta dei barbari, fra tanti mali, aveva all'Italia portato l'inestimabile vantaggio della nuova lingua, potesse poi, come si legge nel Dialogo, biasimare aspramente coloro che la chiamano italiana e non fiorentina o toscana. Ma la disputa intorno al nome, sollevata nel 1513 in Firenze, negli Orti Oricellari, dal Trissino,[254] che fece conoscere la prima volta il De Vulgari Eloquentia di [183] Dante, non implica nulla quanto al merito della lingua. Al Polidori sembra impossibile del pari, che colui il quale deplorò sempre i mali d'Italia, accusi poi Dante d'aver profetato una grande rovina a Firenze, aggiungendo che la fortuna, per farlo bugiardo, l'ha condotta invece «al presente in tanta tranquillità e sì felice stato.» Tali parole gli sembrano un'allusione favorevole al governo del principato, cosa di cui non poteva, dice, il Machiavelli esser capace.[255] Ma questi lodò più volte le condizioni in cui Firenze si trovava al suo tempo, anche sotto i Medici, come lodò i Medici stessi. Al principato, che cominciò solo dopo la sua morte, non poteva certo alludere nel Dialogo. Ma tutti i dubbi del Polidori o di altri debbono cadere innanzi all'autorevole testimonianza del Ricci, il quale afferma chiaro che quel lavoro è del Machiavelli, «quantunque in alcune parti lo stile sia diverso dal solito.» Ed aggiunge, che «Bernardo Machiavelli figlio di detto Niccolò, oggi di età d'anni 74, afferma ricordarsi averne sentito ragionare a suo padre, e vedutogliene spesso fra le mani.»[256] V'è qualche volta, è vero, un certo sussiego e classicismo insolito in lui, non però mai tale da giustificare i dubbi, che si vorrebbero muovere sull'essere egli l'autore del Dialogo. Queste diversità di forma non solamente si spiegano con la natura del soggetto, erudito e letterario, ma son poche, e trovan pure qualche riscontro nei Discorsi, nel Principe e nelle Storie. In tutto il resto non mancano punto la solita vivacità, evidenza e spontaneità del Machiavelli. Se poi si esamina la sostanza, vi si trovano paragoni, osservazioni, pensieri così acuti ed originali, così propri di lui, che ogni dubbio deve di necessità sparire del tutto.[257]
[184]
Questo scritto fu assai probabilmente composto nell'autunno del 1514.[258] L'anno innanzi era stato a Firenze, ed aveva frequentato gli Orti Oricellari il Trissino. Egli che, secondo il Gelli, come abbiamo già accennato, fu primo a far conoscere ai Fiorentini il De Vulgari Eloquentia di Dante, sollevò anche la disputa sul nome da darsi alla nostra lingua. Appoggiandosi alle dottrine sostenute dal sommo poeta, affermava doversi essa chiamare italiana, non toscana, nè fiorentina. Ed il Machiavelli, col suo Dialogo, pigliava parte alla disputa, che s'accese allora in Firenze assai vivamente.[259] Incomincia, con una forma, come dicemmo, un po' più pomposa del solito, ad esporre quel concetto, che non manca quasi mai del tutto nelle sue opere, piccole o grandi che sieno, cioè che il maggiore obbligo e [185] più sacro noi l'abbiamo verso la patria. Aggiunge poi, che fu mosso a scrivere questo suo Dialogo dalla «disputa accesa più volte, nei passati giorni, se la lingua, cioè, in cui scrissero i poeti e prosatori fiorentini, sia da chiamarsi italiana, toscana o fiorentina. Vogliono alcuni, egli continua, che ad ogni lingua dia il proprio carattere la particella affermativa, e così si avrebbero la lingua del sì, la lingua d'och e di huy,[260] come di yes, d'hyo (ja), ecc. Ma, se ciò fosse vero, parlerebbero la stessa lingua Siciliani e Spagnuoli. Ond'è che altri sostengono invece, che solo quella parte del discorso che si chiama verbo, è la catena e il nervo della lingua. Le lingue che variano nei verbi, sono, secondo questi tali, veramente diverse; quelle, invece, che variano nei nomi o altro, ma non nei verbi, hanno solamente una qualche dissomiglianza fra di loro. Le provincie d'Italia variano molto nei nomi, meno nei pronomi, assai poco nei verbi, e però s'intendono tutte facilmente l'una coll'altra. Anche gli accenti variano il parlare degl'Italiani, non però tanto che essi non s'intendano fra loro, come si vede fra i Toscani, che fermano le parole sulle ultime vocali, e i Romagnuoli, i Lombardi, che le sospendono. Considerate adunque quali sono le differenze in questa lingua italica, bisogna vedere quali, fra i parlari che la formano, tiene la penna in mano. I nostri primi scrittori, fatta qualche rara eccezione, sono fiorentini. Il Boccaccio dice, che egli scrive in lingua fiorentina; il Petrarca non ne parla; Dante, è vero, afferma di scrivere in lingua curiale, e danna ogni lingua particolare d'Italia, compresa la fiorentina; ma egli era nemico di Firenze, e la biasimava in ogni cosa. Inoltre parlare comune è quello che ha più del comune che del proprio, e viceversa proprio è quello in cui è più del proprio che del comune; giacchè non si trova nessuna lingua, la quale non abbia [186] accattato qualche cosa dalle altre nel conversare. E con le nuove dottrine e le nuove arti, è pur necessario che vengano vocaboli nuovi di là appunto donde vengono quelle arti e dottrine. Questi vocaboli però sono sempre modificati con i modi, i casi e gli accenti della lingua in cui entrano, e formano una sola cosa con essa; altrimenti le lingue parrebbero rappezzate, e non tornerebbero bene. Così fra noi anche i vocaboli forestieri diventano fiorentini. In questo modo le lingue dapprima arricchiscono, più tardi si corrompono per la soverchia moltitudine di vocaboli nuovi la imbastardiscono e fanno divenire un'altra cosa. Ma tutto questo segue in uno spazio lunghissimo di tempo, tranne il caso d'una invasione, perchè allora la lingua si perde affatto in breve tempo. In questi casi, bisogna, volendo, riassumerla per mezzo degli scrittori di essa, come si fa oggi col latino e col greco.[261] Ora io vorrei chiedere a Dante, che cosa [187] è in lui, che non sia scritta in fiorentino?» E qui, il Machiavelli comincia a disputare in forma di dialogo, per dimostrare che, salvo poche, tutte le parole adoperate dall'immortale poeta sono prettamente fiorentine.
Ogni lingua, egli osserva, è di necessità più o meno mista; ma quella «si chiama d'una patria, la qual converte i vocaboli che ella ha accattati da altri, nell'uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano, ma la disordina loro, perchè quello che ella reca da altri, lo tira a sè in modo che par suo». E si spiega poi anche meglio, ricorrendo ad uno de' suoi soliti paragoni. «I Romani avevano negli eserciti due legioni di loro cittadini, che erano in tutto 12,000 uomini, e 20,000 di altre nazioni;[262] nondimeno, siccome quelli erano veramente il nervo dell'esercito, così esso si chiamava sempre romano. E tu che hai messo nei tuoi scritti,» così dice il Machiavelli a Dante, «venti legioni di vocaboli fiorentini, ed usi i casi, i tempi, i modi, le desinenze fiorentine, vuoi che i vocaboli avventizî facciano mutar nome e natura alla lingua? Se la chiami comune, perchè s'usano in tutta Italia i medesimi verbi, questi sono pure variati in modo che sono da provincia a provincia un'altra cosa. Quello che t'inganna è che tu e gli altri Fiorentini che scrissero, foste celebrati tanto, che i nostri vocaboli furono perciò adottati e seguìti [188] in tutta Italia. Paragona in fatti i libri scritti nelle altre provincie prima e dopo di noi. Negli uni non troverai le parole fiorentine, che abbondano negli altri, il che è una riprova che imitarono i nostri. Anche oggi gli scrittori delle altre parti d'Italia imitano con mille sudori la nostra lingua, nè vi riescono sempre, perchè la natura può più dell'arte. E quando adoperano termini loro, li spianano alla toscana. Nelle commedie poi, dove è necessario usare le parole e i motti familiari, che per riuscire noti debbono esser propri, i non Toscani hanno poca fortuna. Se uno di essi vorrà usare i motti della patria sua, farà una veste rattoppata; se poi non vorrà usarli, non conoscendo quelli di Toscana, farà una cosa monca, che non avrà la perfezione sua. Io voglio portare in esempio una commedia (I Suppositi) scritta da uno degli Ariosti da Ferrara.[263] Vedrai in essa una gentil composizione, uno stile ornato ed ordinato; vedrai un nodo bene accomodato e meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una commedia, non per altra cagione che per la detta, perchè i motti ferraresi non gli piacevano e i fiorentini non sapeva.»[264] Cita poi alcuni esempi di espressioni ferraresi, che stanno assai male fra le toscane, e conchiude che per iscrivere bene bisogna intendere tutte le proprietà della lingua, e per intenderle, andare alla fonte, altrimenti si fa una composizione dove una parte non corrisponde coll'altra. «La poesia passò di Provenza in Sicilia, di quivi in Toscana, più di tutto in Firenze, e ciò per esservi la lingua più adatta. Ora poi ch'essa s'è così formata, si vedono Ferraresi, Napoletani, Veneziani scrivere bene, avere ingegni [189] attissimi allo scrivere, il che non sarebbe seguìto, se i grandi scrittori fiorentini non avessero prima dimostrato loro, come dovevano dimenticare quella naturale barbarie, nella quale il loro patrio linguaggio li sommergeva. Si deve conchiudere, adunque, che non v'è una lingua curiale o comune d'Italia, perchè quella cui si dà questo nome, ha il fondamento suo nella fiorentina, alla quale, come a vero fonte, è necessario ricorrere, e però anche gli avversari, non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessarla fiorentina.»[265]
Se qui si considera in quali condizioni si trovava allora, fra gli eruditi italiani, la scienza filologica; se si ricorda quanti elogi furono, ai giorni nostri, fatti a Leonardo Aretino, solo per avere egli ragionato della grande differenza che passava fra il latino parlato e lo scritto;[266] [190] se si pensa che il Machiavelli non era nè erudito nè filologo, le sue osservazioni debbono dare sempre maggior prova dell'ingegno originale che aveva. Dire che l'indole propria delle lingue non sta nel maggiore o minor numero di parole che esse hanno in comune; ma nel verbo, sola parte del discorso che veramente si modifichi nella lingua italiana, la quale ha coniugazioni, non declinazioni, val quanto dire che la grammatica costituisce il carattere distintivo delle lingue. Ora questo è il concetto appunto col quale Federigo Schlegel iniziò la filologia comparata nel 1808. Il Dialogo sulla lingua prova chiaro, sebbene nessuno lo abbia finora osservato, che la stessa idea era stata tre secoli prima intravveduta dal Machiavelli. È ben vero, che nell'esporre le sue osservazioni, egli dice spesso: vogliono alcuni; e ciò potrebbe far supporre che avesse preso da altri il suo concetto fondamentale. Ma è prima di tutto da ricordare, che il Machiavelli, come abbiam visto altrove, dichiarò che credeva opportuno fare uso di queste o di altre simili parole, a conciliarsi meglio l'animo del lettore, quando esponeva idee e considerazioni sue proprie, che potevano sembrare troppo nuove o ardite.[267] Oltre di che, non solamente non si trova, per quanto noi sappiamo, negli eruditi del tempo una qualche traccia anche lontana del concetto suo; ma questo fu sino quasi ai nostri giorni combattuto in Italia, dove, più lungamente che altrove, la tendenza generale della filologia fu di sostenere invece, che la somiglianza delle parole costituisce la parentela delle lingue. Il Machiavelli, non solo partì dal principio opposto, ma provò che il concetto era suo, sapendone cavare conseguenze assai giuste, allora nuove ed arditissime. Certo i tempi non erano maturi, nè egli poteva avere le cognizioni necessarie a promuovere la [191] grande rivoluzione scientifica, che fu possibile solo nel principio del secolo XIX. Pure anche dalle osservazioni secondarie, dalle applicazioni che fece del suo concetto, si vede assai chiaro che egli ne comprendeva tutto il valore. L'importanza che dà non solo alle forme grammaticali, ma anche all'accento; la confutazione che fa dell'ipotesi, sostenuta da Dante, d'una lingua curiale composta di più dialetti, che il Machiavelli dice giustamente sarebbe una lingua rappezzata e non viva; la esposizione del come il parlare dei Fiorentini, pure accettando molte parole dagli altri dialetti, le assimilò e fece sue, dando ad esse le desinenze e le forme grammaticali sue proprie; tutto ciò, dato come conseguenza logica del primo concetto fondamentale, è ragionato in modo che par di sentire il linguaggio d'un filologo moderno. E così sempre più si conferma che, quando si tratta di scoprire i caratteri sostanziali dei fenomeni sociali, morali o intellettuali, e determinarne le leggi, il genio del Machiavelli apparisce in tutta quanta la sua potenza, ed il suo occhio vede assai lontano, penetra assai al disotto della superficie.
Di un altro scritto, che è intitolato la Descrizione della Peste di Firenze dell'anno 1527,[268] ed ha forma di epistola, è messa, con assai maggior ragione, in dubbio l'autenticità, sebbene in favore di esso militi il fatto, che ne abbiamo una copia senza dubbio di mano del Machiavelli. In questo autografo sono però giunte e correzioni fatte da Lorenzo di Filippo Strozzi, al quale, in più parti del manoscritto stesso, è da altra mano antica attribuita tutta la Descrizione.[269] Ciò fa credere che il Machiavelli, [192] come nello stesso codice aveva copiato la Commedia in versi, che non si può creder sua, così copiasse ancora uno scritto dell'amico Lorenzo Strozzi, che poi lo rivide e corresse di sua mano, il che non avrebbe osato fare con una composizione del suo amico, tanto a lui superiore. Ogni dubbio scomparisce poi, quando appena si comincia a leggere questa Descrizione, che non sarà mai attribuita al Machiavelli da nessuno che ne abbia con attenzione letto le opere.
Lasciamo pure da parte, che l'anno 1527 fu quello in cui il Machiavelli morì, e non è certo credibile che, fra i tanti gravissimi pensieri che lo assediavano allora, egli avesse trovato il tempo per mettersi a fare una descrizione della peste. Questa era cominciata alcuni anni prima, e la data potrebbe perciò essere inesatta. Ma si può egli supporre che, nel 1527 o qualche anno prima, il Machiavelli parlasse d'un suo nuovo matrimonio, come fa nella [193] Descrizione, quando si sa che a lui sopravvisse la Marietta, la sola moglie che egli ebbe? E chi vorrà mai crederlo autore d'uno scritto che incomincia con un periodo contorto e pedantesco come questo: «Non ardisco in sul foglio porre la timida mano, per ordire sì noioso principio, anzi quanto più le tante miserie per la mente mi rivolgo, più l'orrenda descrizione mi spaventa; e sebbene il tutto ho visto, mi rinnuova il raccontarlo doloroso pianto; nè so anche da che parte tale cominciamento fare mi deggia, e se lecito mi fosse, da tale proponimento mi ritrarrei.»[270] E continua sempre allo stesso modo. Ecco in fatti come descrive la bellezza d'una donna: «Candido avorio sembravano le fresche sue e delicate carni, e sì gentili e morbide da riserbare d'ogni quantunque leggiero toccamento forma, non meno che di un verde prato la tenera rugiadosa erbetta i sospesi vestigi dei leggieri animaletti faccia.... Ma che dirò io della melliflua e delicata bocca tra due piagge di rose vestite e di ligustri posta, la quale in tanta mestizia parea, che di un celeste riso non so come splendesse?... Le rosate labbra sopra gli eburnei e candidi denti accesi rubini parieno, e perle orientali insieme miste. Aveva da Giunone del soavemente esteso naso la forma tolta, così come da Venere delle candide e distese guance, ecc.»[271] Se vuol dire d'uno che sedeva sul pancone degli Spini, incomincia: «E sopra il solitario in questi tempi pancone degli Spini, ecc., ecc.»[272] [194] Il verbo non viene, se non dopo tre o quattro versi ancora. Ha quindi pienissima ragione il Macaulay, quando afferma che nessuna prova esterna potrebbe indurlo mai a credere il Machiavelli colpevole d'uno scritto così detestabile, che si potrebbe appena tollerare in uno sciocco scolare di retorica.[273]
Il Dialogo dell'ira e dei modi di curarla, dettato anch'esso in uno stile assai contorto, fu da tutti, salvo il Poggiali e qualche altro, giudicato tale da non potersi in nessun modo attribuire al Machiavelli. È una traduzione dell'opuscolo di Plutarco, Del non adirarsi, come già dicemmo più sopra.[274] Ed anche qui noi crediamo che basti [195] citarne qualche periodo, a convalidare senz'altro l'opinione che si può dire universalmente accettata, che esso cioè non sia un lavoro del Machiavelli. Ecco il principio: «Rettamente a me pare, Cosimo carissimo, che faccian quei prudenti pittori, li quali avanti che del tutto finischin l'opere loro, se le tolgono dalla vista per qualche tempo; acciocchè l'occhio, per quello intervallo, perdendo l'assidua consuetudine del vedere quella pittura, e dipoi, tornando nuovamente a rivederla, meglio e più dirittamente ne giudichi, ed in essa conosca i difetti, i quali forse gli avrebbe celati la continua familiarità.»[275] Chi vorrà supporre che un periodo come questo, che è pure uno dei più semplici e dei meno contorti in tutto il Dialogo, possa mai attribuirsi al Machiavelli?
La ben nota Novella di Belfagor arcidiavolo fu senza dubbio scritta da lui. Essa non ha grande intreccio, nè vera analisi di caratteri; può dirsi uno scherzo, un capriccio grazioso, di cui molti esempi troviamo nei nostri novellieri. Plutone, osservando come tutti coloro i quali venivano nell'Inferno, si lamentavano sempre delle mogli, a cui attribuivano la cagione della loro condanna, riunì i suoi a consiglio, e deliberarono d'indagare la verità del fatto. A questo fine venne mandato sulla terra l'arcidiavolo Belfagor, sotto forma d'uomo, con 100,000 ducati, a prender moglie. Egli sposò in Firenze una tale Onesta, figlia d'Amerigo Donati; e subito la superbia, lo spendere, i modi, i parenti di lei lo ridussero alla disperazione ed alla miseria. Perfino alcuni diavoli, che in forma di serventi aveva seco menati, preferirono tornarsene a stare nel fuoco all'Inferno. I creditori lo assediarono in modo, che finalmente si dovè dare alla fuga, per evitare la prigionia. Inseguito da essi, dai magistrati, dal popolo, fu nascosto e salvato da un contadino, [196] al quale promise, per gratitudine, d'arricchirlo. Gli disse in fatti, che quando avesse sentito parlare di qualche donna spiritata, indemoniata, fosse pur venuto a trarlo fuori, che esso, per dargli occasione di grosso guadagno, se ne sarebbe andato via. E così per ben due volte s'avverò il caso, con grande fortuna del contadino. La seconda volta però il diavolo, che era entrato nella figlia del re di Napoli, gli disse: Bada che questa sia l'ultima volta, che tu vieni a cavarmi di dove sono, perchè, se tu ritorni ancora, avrai a pentirtene amaramente. Ed il contadino, che allora ricevette da quel re la somma di 50,000 ducati, contento ormai dei guadagni fatti, voleva tornarsene a casa, a vivere tranquillo. Ma invece la fama del suo misterioso potere s'era diffusa per tutto, in guisa che trovandosi indemoniata la figlia del re di Francia, Luigi VII, questi ricorse a lui, e non accettò scuse. Il contadino dovè adunque provare la terza volta. Ma non s'era appena accostato alla figlia del Re, che il diavolo ricordandogli di quanto aveva già detto, minacciava di farlo pentire, se non andava subito via. E da un altro lato il Re, non volendo sentire ragione, lo minacciava nel capo. Messo così fra l'incudine ed il martello, il contadino ricorse all'astuzia. Ordinò che fosse nella piazza di Nostra Donna costruito un gran palco di legno, su cui dovevano sedere tutti i grandi baroni e prelati del Regno, e in mezzo della piazza un altare, su cui doveva prima celebrarsi la messa, poi esservi condotta la figlia del Re. In un canto dovevano trovarsi venti persone almeno, con trombe, corni, tamburi, cornamuse ed ogni altra sorta dei più romorosi strumenti, con ordine di sonare e correre verso l'altare, non appena il contadino avesse fatto un cenno, levando in aria il cappello. Tutto finalmente era pronto: i dignitari al loro posto, la piazza piena di popolo, la messa celebrata, la figlia del Re all'altare. Ma il diavolo minacciava sempre il contadino, e da capo lo avvertiva che, se non s'allontanava subito, qualche cosa [197] di ben triste gli sarebbe seguìta. Questi allora fece il segno convenuto, levando il cappello, e senza indugio i sonatori s'avanzarono, facendo strepito grandissimo cogli strumenti. All'inaspettato romore, il diavolo, stupito, domandò al contadino: Che cosa è mai seguìto? Ohimè! gli rispose l'altro, è la moglie tua che viene a ritrovarti. A questo annunzio, senz'altro chiedere, il diavolo si dette a precipitosa fuga, tornandosene per sempre all'Inferno, a far fede dei pericoli e dei guai del matrimonio.[276]
Si pretese da alcuni, che con la sua piacevole novella il Machiavelli avesse voluto alludere ai tormenti che egli ebbe dalla sua Marietta; ma i fatti più noti e i documenti più accertati dimostrano chiara la insussistenza della pretesa allusione. La Marietta, come abbiam visto, fu sempre una buona moglie, e, se mai, poteva piuttosto fare rimproveri al marito, che meritarne da lui.[277] Vi fu ancora chi pretese, che della novella non fosse autore il Machiavelli, perchè un'altra compilazione, non molto diversa, ne venne alla luce col nome di monsignor Giovanni Brevio, nel 1545. I Giunti però la pubblicarono nel 1549, nella sua forma primitiva, col nome del Machiavelli, dichiarando di volerla così restituire «come cosa propria al fattor suo, essendo stata usurpata da persona che ama farsi onore degli altrui sudori.»[278] [198] L'autografo di essa fu poi trovato nella Biblioteca Nazionale di Firenze,[279] il che pose termine alle dispute, giacchè le prove intriseche, cavate dallo stile e dalla lingua, erano già tutte in favore del Machiavelli. Egli non fu certo l'inventore del soggetto, che si trova già nei Quaranta Visiri, libro turco, derivato da fonte araba, e questa da indiana.[280] Il racconto venne dunque, per tradizione orale, se non scritta, dall'Oriente in Italia, e fu dal Machiavelli narrato nella sua novella, imitata poi dal Brevio, da Doni, dal Sansovino, da G. B. Fagiuoli e da altri. Fra di essi è da citarsi anche il La Fontaine, che riuscì in questa imitazione meglio assai che nel racconto imitato dalla Mandragola. Una novella molto simile è oggi popolare anche fra gli Slavi del Sud.[281]
Ricorderemo ora solamente il titolo d'alcuni altri brevissimi scritti del Machiavelli, che hanno poca o nessuna importanza. I Capitoli per una bizzarra compagnia[282] non sono che uno scherzo da ridere. L'Allocuzione fatta da [199] un magistrato nell'ingresso dell'ufficio[283] non contiene altro che alcune considerazioni generali sulla giustizia, pel benessere degli Stati, con una lunga citazione dalla Divina Commedia sullo stesso argomento. Sembra il principio d'un qualche esercizio letterario, appena abbozzato. Nè molto diverso è il Discorso morale,[284] che pare scritto per essere letto in una delle tante confraternite religiose che v'erano allora a Firenze, ed espone, con una devota unzione, non scevra di certa velata ironia, l'obbligo ed i benefizî della carità verso il prossimo, della obbedienza verso Dio. Nè occorre fermarsi oltre su di ciò.
Le Istorie fiorentine. — Il primo libro o la introduzione generale.
Quando il Machiavelli si pose a scrivere le Storie, vi erano in Firenze due scuole di storici, quella, cioè, di coloro che continuavano sempre nella via tenuta dal Villani, e gli eruditi, che avevano preso una direzione affatto diversa. Cronache, Annali, Prioristi, Diarî, che registravano giorno per giorno i fatti seguìti, se ne scrivevano allora molti, e l'uso n'è rimasto in Toscana fino anche ai nostri giorni, presso alcune famiglie. Nessuno di questi lavori però riusciva più, nel tempo di cui discorriamo, ad avere una reputazione letteraria. Il Tumulto dei Ciompi di Gino Capponi, le Istorie di Giovanni Cambi, quelle dello Stefani, il Diario di Biagio Buonaccorsi e molti altri simili scritti sono dicerto sorgente preziosa di notizie, ma come opere d'arte valgono assai poco. Da un [200] pezzo quindi primeggiavano già gli eruditi, che avevano messo nell'ombra i cronisti, e, seguendo una via nuova, trovarono imitatori in tutta Italia. Ormai solo gl'ingegni minori, e quelli che non facevano professione di lettere, osavano seguire la vecchia strada. I principali rappresentanti fra gli storici eruditi erano stati a Firenze Leonardo Aretino e Poggio Bracciolini, che godevano ancora una grandissima fama. Essi, come abbiam visto altrove,[285] scrivevano in latino ciceroniano; non si contentavano più di registrare giorno per giorno i fatti seguìti; volevano aggrupparli con arte, alla maniera di Tito Livio, che pigliavano a modello. Sprezzavano la cronica, perchè miravano alla dignità classica della storia; ma la facevano consistere nel dare ai fatti che narravano, grandi proporzioni; nel trasformare le più piccole scaramucce dei Fiorentini in battaglie strepitose. I loro personaggi vestivano la toga romana e, per sempre più imitar gli antichi, pronunziavano solenni discorsi che riuscivano retorici. Tale era il carattere generale di questi scrittori. Leonardo Aretino però faceva, pel suo raro ingegno critico, in non piccola parte, eccezione. È ben vero che egli dice d'essersi messo a scrivere, «perchè le gloriose opere del popolo fiorentino meritano d'essere tramandate ai posteri, e la guerra da essi sostenuta contro Pisa può essere paragonata a quella dei Romani contro Cartagine. Sgomenta però la difficoltà dell'impresa, e soprattutto la rozzezza dei nomi moderni, che sono restii ad ogni eleganza.»[286] E con tali parole sembrerebbe voler seguire la via di quasi tutti gli altri storici eruditi. Ma [201] così non era, a causa appunto della originalità del suo ingegno.
Agli storici eruditi in generale mancava ogni spontaneità e vivacità, ogni colorito. E sotto questo aspetto riuscivano inferiori ai cronisti del Trecento ed anche a coloro che, nello stesso Quattrocento, per mancanza di cultura classica li imitavano. Chi, per esempio, legge le storie del Bracciolini, non si avvedrebbe che egli era stato segretario della Repubblica fiorentina. Giammai un aneddoto, un ritratto copiato dal vero, una descrizione di uomini o di luoghi personalmente veduti. E questo può dirsi un carattere generale degli eruditi. Essi però abbandonarono la via tenuta dai cronisti, i quali narravano cronologicamente i fatti, senza punto coordinarli fra loro. Gli eruditi invece, anche in ciò imitando gli antichi, li aggruppavano, li collegavano. Era però un collegamento più letterario e formale che logico. Ma questa unità letteraria e formale aprì la via alla unità intrinseca e logica.
Quelli che primi entrarono per questa via, iniziando così la critica storica, furono il Biondo e più specialmente l'Aretino. Essi vennero spinti a ciò dalla natura del loro ingegno, ed anche del soggetto che avevano impreso a trattare, perchè non si limitarono solo alla storia contemporanea; ma si occuparono molto di storia generale del Medio Evo. E questo doveva di necessità spingerli alla critica delle fonti.
Noi avemmo già occasione di notare che Flavio Biondo fu uno di coloro che iniziarono la critica storica nel tempo stesso che altri iniziavano la filologica e la filosofica. Egli in fatti non solo esamina la diversa credibilità degli autori; ma anche quando narra avvenimenti contemporanei dei quali ha avuto notizia da testimoni oculari, discute se questi erano in condizione da conoscere il vero e da volerlo fedelmente esporre. Qualche volta, perfino dall'esame di una frase popolare, sa cavare la prova della [202] credibilità di alcuni avvenimenti storici.[287] Leggendo i suoi scritti si vede, come fu già osservato da altri, che la critica era allora nell'aria stessa che si respirava. Essa pareva qualche volta che nascesse spontaneamente prima quasi, che gli scrittori che la promovevano ne fossero del tutto consapevoli.
L'Aretino però che precedette il Biondo aveva maggiore ingegno ed originalità, più vasta dottrina e non minore spirito critico. Egli scrive che vuole non solamente narrare, ma anche esporre «le cagioni dei partiti presi e rendere giudizio delle cose accadute.»[288] Certo non sempre riesce nel suo intento; ma più di una volta apparisce come un precursore del Machiavelli, quasi un anello di congiunzione fra gli storici del secolo XV e quello del XVI. Dopo avere accennato agli Etruschi ed ai Romani, incomincia col dare uno sguardo alla storia generale del Medio Evo. Suo scopo è qui, egli lo dice chiaramente, di ricercare le origini storiche della città di Firenze, abbandonando le volgari e favolose opinioni (vulgaribus fabulosisque opinionibus rejectis).[289] Senza dubbio fu il primo (e gli fa grande onore) che abbandonò tutte quante le favolose e spesso puerili leggende, sulle origini della Città, leggende di cui le cronache, a cominciare dal Villani, sono piene. Si ferma invece a parlar di Firenze colonia romana. Così pure lascia da parte il racconto favoloso di Firenze distrutta da Totila e ricostruita da Carlo Magno, più di una volta correggendo il Villani, che è pure, nei primi libri la [203] sua fonte principale. A differenza dal Bracciolini, egli non è contento di narrar solamente le guerre esterne, fermandosi spesso a parlare anche dei fatti interni di Firenze. E, quello che è anche più notevole, in questi casi non si contenta dei soli cronisti, ma ricorre anche ai documenti d'archivio, di che la sua opera dà spesso prove sicure. La storia speciale di Firenze incomincia col secondo libro e nei nove successivi è condotta fino al principio del secolo XV. Non ostante i suoi molti pregi, questa storia non riesce però, come abbiam già notato, a liberarsi da molti difetti degli umanisti, specialmente nei discorsi qualche volta interminabili che pone in bocca dei personaggi.[290]
Questi difetti sono assai più visibili nel Bracciolini, il quale, dopo avere accennato, in sei o sette pagine, gli avvenimenti seguìti fino al 1350, comincia a procedere più lento, fermandosi però sempre alla sola narrazione magniloquente delle guerre, che nella sua storia paion tutte guerre degli antichi Romani.[291] Egli scrive con assai minore critica dell'Aretino e con più fretta, ma con maggiore vivacità e spontaneità di forma latina. Questo bastò, perchè il suo libro avesse allora gran fama.
Ma la storia erudita decadeva al tempo del Machiavelli; l'Aretino ed il Bracciolini, che le avevano dato [204] rinomanza, appartenevano ad un'altra generazione. La lingua italiana che era tornata in onore, il grande e continuo studio che degli avvenimenti politici avevano cominciato a fare gli ambasciatori e gli uomini di Stato italiani, rendevano necessario un altro modo di trattarla. Si voleva una storia scritta in italiano, che fosse ad un tempo eloquente, vivace e fondata sullo studio della realtà, sulla conoscenza dell'uomo e delle vere cagioni dei fatti, che dovevano essere fra loro logicamente connessi. La forma moderna, quella stessa a cui anche oggi tutti miriamo, doveva finalmente nascere. Per questa ragione, quando gli amici del Machiavelli trovarono nella sua Vita di Castruccio Castracani il nuovo stile storico, gli furono prodighi di lodi, e lo incoraggiarono a trattare anche questo genere.
Non dobbiamo però dimenticare, che allora il Guicciardini aveva già scritto la sua Storia fiorentina, della quale abbiamo altrove parlato.[292] E sebbene essa non sia che un lavoro giovanile, fino ai nostri giorni restato inedito in casa de' suoi eredi, e quindi ignoto a tutti, pure vi si ritrovano già i caratteri sostanziali di quel genere storico, che è una delle creazioni più originali degli Italiani del Rinascimento. Il circoscriversi, com'egli fece, alla narrazione d'avvenimenti che si possono dire contemporanei, ed il non avere del tutto abbandonato la divisione per anni, dimostrano, è vero, che nel suo scritto resta ancora qualche debole legame con la forma della cronica e degli annali. L'evidenza però e la precisione della narrazione sono maravigliose; grande è l'accuratezza delle indagini fatte anche su documenti originali. La connessione intrinseca degli avvenimenti, l'analisi del carattere degli uomini politici, l'esatta descrizione dei partiti e delle ambizioni personali, sopra tutto dell'azione esercitata dai principi, dai capi di parte e dalle passioni [205] popolari sugli avvenimenti, danno a quest'opera giovanile un altissimo valore.
Il Machiavelli spezzò finalmente ogni legame colla cronica. Egli non conosceva l'opera del Guicciardini, a cui l'autore stesso, già troppo occupato negli affari, dava poca importanza: si direbbe quasi che la tenesse celata. Ricevuta, per favore del cardinale de' Medici, la commissione di scrivere le storie di Firenze, voleva incominciarla dal 1431. In quest'anno Cosimo il Vecchio era tornato potentissimo dall'esilio, e l'autorità dei Medici s'era potuta finalmente consolidare. Gli avvenimenti dei tempi anteriori erano stati già trattati dall'Aretino e dal Bracciolini, «duoi eccellentissimi istorici.»[293] Si dovette però ben presto accorgere, che essi «avevano parlato solo delle guerre esterne; ma delle civili discordie, delle intrinseche inimicizie e degli effetti che da quelle erano nati, avevano o taciuto o ragionato appena fugacemente. Ed in ciò essi errarono, perchè nessuna lezione è utile a coloro che governano, quanto quella che dimostra le cagioni degli odî e delle divisioni, massime in una città come Firenze, in cui le divisioni furono per numero infinite; portarono esili, morti, devastazioni, e pure non poterono impedire la prosperità della Repubblica, anzi pareva che l'aumentassero.» Come apparisce da ciò che abbiam detto più sopra non è esatto il dire che delle cose interne l'Aretino non si sia occupato. Di esse in ogni modo il Machiavelli si propose d'occuparsi; e questo costituisce il pensiero che informa e dirige i primi libri delle sue Istorie Fiorentine (a cominciare dal secondo), ne determina il carattere e la grande originalità, facendo di lui il vero fondatore della storia civile e politica. Non bisogna però credere che egli proceda sistematicamente, tutto sottoponendo ad un solo e medesimo concetto. La sua storia, scritta in più anni, ha carattere, nei suoi varî [206] libri, diverso e mutabile. Spesso anche l'autore si lascia trascinare da simpatie o antipatie personali, che egli ha per alcuni uomini o fatti sui quali si ferma più lungamente.[294]
La sua opera è divisa in otto libri, che formano tre parti assai ben distinte fra di loro. Il primo è una introduzione generale sulla storia del Medio Evo, per cercare in esso le origini del Comune, e farsi un'idea chiara della nuova società formatasi dopo la caduta dell'Impero Romano. Questo libro, incominciando dalle invasioni barbariche, si distende fino ai primi del secolo XV, e si può esaminare come un lavoro a parte. I tre successivi narrano la storia civile, interna di Firenze, dalle origini fino al ritorno di Cosimo nel 1434. Gli ultimi quattro trattano gli avvenimenti seguiti dopo, fino al 1492, anno in cui morì Lorenzo il Magnifico. Ed in questi l'autore cambia nuovamente il suo metodo, giacchè sembra non avere più voglia di fermarsi ai fatti interni della Repubblica, i quali lo avrebbero obbligato ad esporre minutamente come fu dai Medici distrutta la libertà. Scrivendo per commissione del cardinal Giulio, al quale, quando fu papa, dedicò poi la sua opera, il Machiavelli doveva naturalmente rifuggire da un argomento, che non avrebbe potuto nè voluto trattare con la fredda impassibilità, di cui diè prova il Guicciardini nella sua Storia fiorentina. Si fermò quindi lungamente a parlare, invece, delle guerre esterne, che in quegli anni furono condotte da capitani di ventura, dei quali potè far conoscere tutta la malvagità, insieme con la inutilità delle loro armi, con i pericoli che da esse venivano agli Stati italiani. Seguono i Frammenti storici, che dovevano formare il libro nono, non mai compiuto.
[207]
Il primo libro è stato dai critici assai lodato, anzi esaltato. Si è voluto in esso vedere un concetto nuovo, originale, il primo tentativo di narrare, per sommi capi, la storia generale del Medio Evo; si è voluto anche trovarvi una grande erudizione, un ordine ammirabile, una esatta e nuova distribuzione, che pone in luce i fatti principali, trascurando sempre tutto ciò che è secondario, tale in sostanza che fu necessario, a chi trattò lo stesso soggetto, d'imitarla sempre.[295] Ma per mettere le cose a posto, bisogna innanzi tutto ricordarsi, che l'idea d'una storia generale del Medio Evo non era nuova. Una tale storia l'aveva già scritta in grandi proporzioni Flavio Biondo, ed anche Leonardo Aretino se ne era occupato nel suo primo libro, come dopo di lui fece ampiamente e di proposito il Machiavelli. E quanto alla erudizione, è pur forza riconoscere che dal Biondo egli la prese tutta, assai spesso compendiandolo, qualche volta anche traducendolo.[296] Molti errori di fatto sono dal [208] primo senz'altro passati nel secondo, che dallo stesso originale imitò ancora quella che è la parte migliore nella distribuzione generale della materia, la quale più volte, invece, per sola sua colpa, disordinò a capriccio. Trattandosi però di raccogliere in sessanta pagine in ottavo tutto ciò che era contenuto in un grosso volume in foglio, l'imitazione non poteva mai oltrepassare certi confini. Nel Machiavelli v'è inoltre un nuovo concetto politico, generale, a cui il Biondo non avrebbe saputo mai sollevarsi, e che informa tutto questo primo libro, dandogli, come vedremo, un nuovo e grande valore. Ma discorriamo prima delle imitazioni.
Dette alcune brevi parole sulle invasioni dei barbari in generale, il Machiavelli narra che, dopo i Cimbri respinti da Mario, i primi invasori furono i Visigoti, i quali vennero da Teodosio disfatti per modo che si ridussero alla sua obbedienza, e sotto di lui militarono. Ma quando egli morì, lasciando eredi dell'Impero i figli Arcadio ed Onorio, Stilicone consigliò loro che negassero lo stipendio ai Visigoti; laonde questi, per vendicarsi, elessero a loro re Alarico, e saccheggiarono Roma. Tutto il racconto è qui imitato dal Biondo, da cui l'ultima parte è quasi tradotta.[297] E così si continua. Imitata dal Biondo è la narrazione del passaggio dei Vandali in Africa, chiamati colà [209] da Bonifazio, che vi governava in nome dell'Impero. Dalla stessa fonte sono prese le strane ed erronee notizie che il Machiavelli ci dà sull'Inghilterra. Non è imitato il ritratto che fa di Teodorico; ma più di una frase dimostra chiaro che, nel disegnarlo, egli non aveva abbandonato del tutto il suo originale. E vi torna subito assai più da vicino quando arriva ai Longobardi, compendiandolo addirittura nel discorrere dei Greci, specialmente di Narsete e di Longino. Là dove poi il Biondo, uomo religiosissimo, si ferma a parlar lungamente dei papi e della loro storia, il Machiavelli lo abbandona, per accennar solo pochi fatti, e fermarsi invece a far molte osservazioni sue proprie. Anche quando arriva ai Comuni, ritroviamo nuovamente le tracce del suo originale. E così può dirsi ogni volta che si narrano fatti, e non si espongono considerazioni, le quali il Machiavelli non copiava, nè imitava mai da nessuno. Perfino la narrazione delle origini di Venezia, di cui fu tanto lodata, esaltata l'eloquenza, e che ha veramente lo stile proprio di lui, apparisce in più parti imitata dallo stesso modello. Basta paragonare i due autori, per convincersi di quanto abbiam detto.[298]
E neppure può dirsi meritata l'altra lode, che il Machiavelli cioè abbia saputo ordinare logicamente i fatti, e distinguere i principali dai secondari, fermandosi su quelli, per sorvolare appena su questi. Egli invece li ordina non già obbiettivamente, ma secondo alcuni suoi concetti generali, ai quali qualche volta artificiosamente costringe i fatti a servire. È assai evidente, che egli si ferma più a lungo, non su quelli che hanno una maggiore importanza propria, ma su quelli che valgono meglio a mettere in luce il suo pensiero dominante, trascurando spesso, in modo singolarissimo, ogni cosa che a tal fine non può servire. Da questi concetti adunque [210] derivano così i pregi come i difetti dello scritto che ora esaminiamo. Quali siano poi questi concetti non occorrono molte parole a dimostrarlo. Essi si presentano da sè stessi, appena incominciamo la rapida e sommaria esposizione del libro.
Dopo avere accennato alle prime invasioni germaniche, alle cause ed origini di esse, il Machiavelli prosegue ricordando sommariamente la presa ed il sacco di Roma pei Visigoti di Alarico, le irruzioni degli Unni di Attila, dei Vandali di Genserico, per venire poi a quella di Odoacre re degli Eruli, che, «partitosi dalle sedi che teneva sul Danubio, prese il titolo di re di Roma, e fu il primo dei capi dei popoli, che scorrevano allora il mondo, e che si posasse ad abitare in Italia.»[299] Su tutto ciò cammina rapidissimamente. La prima figura che egli si fermi davvero a contemplare e descrivere con particolare amore, alla quale dà un grande rilievo, facendola giganteggiare nel principio della sua narrazione, è quella di Teodorico re degli Ostrogoti, che, dopo avere combattuto e vinto Odoacre, gli successe col titolo, egli dice, di re d'Italia, e cercò riordinarla, rispettando e ripristinando le istituzioni romane. Qui il Machiavelli si esalta, e non può passar oltre con la solita fretta, incontrandosi, come a dire, sulla soglia della sua storia, con una immagine vera e reale di quel Principe riformatore, da lui, in tutta la sua vita, vagheggiato. Ne resta perciò come affascinato. Ha sempre dinanzi a sè l'opera del Biondo; ma per meglio far corrispondere al suo ideale il personaggio reale che descrive, omette o attenua alcuni particolari, i quali ricordano troppo chiaramente che si tratta sempre d'un barbaro conquistatore, non di un liberatore. Dove il Biondo [211] dice, che Teodorico non solo impedì ai Romani ed agl'italiani tutti di formar parte dell'esercito, ma anche di avere armi proprie, il Machiavelli dice: «accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed eccettochè la disciplina militare, rendè ai Romani ogni altro onore.»[300] E conchiude che, se le tante virtù, le quali esso ebbe nella pace e nella guerra, non fossero state, in sul fine della vita, macchiate da alcune crudeltà, come la morte di Boezio e di Simmaco, sarebbe la sua memoria in ogni parte degna di onore grandissimo. «Mediante la virtù e la bontà sua, non solamente Roma e Italia, ma tutte le altre parti dell'occidentale Imperio, libere dalle continue battiture che, per tanti anni, da tante inondazioni di barbari, avevano sopportate, si sollevarono, ed in buon ordine ed assai felice stato si ridussero.»[301]
Per far poi anche meglio grandeggiare e risplendere la figura del suo eroe, si ferma a descrivere con eloquenza i dolori e le calamità che prima di lui, cioè sotto Arcadio ed Onorio, l'Italia aveva sopportate. «Erano mutate,» egli dice, «le leggi, le lingue, i costumi; v'erano state la rovina ed il nascimento di molte città,» «le quali cose, ciascuna per sè, non che tutte insieme, fariano, pensandole, non che vedendole e sopportandole, ogni fermo e costante animo spaventare.... In tra tante variazioni non fu di minor momento il variare della religione, perchè, combattendo la consuetudine dell'antica fede coi miracoli della nuova, si generarono tumulti e discordie gravissime in tra gli uomini.» «Nè solo combatteva l'antica colla nuova religione, ma la cristiana, [212] divisa e suddivisa in varie sètte e Chiese, era internamente lacerata.» «Vivendo adunque gli uomini intra tante persecuzioni, portavano descritto negli occhi lo spavento dell'animo loro, perchè oltre agl'infiniti mali ch'e' sopportavano, mancava a buona parte di loro di poter rifuggire all'aiuto di Dio, nel quale tutti i miseri sogliono sperare, perchè, sendo la maggior parte di loro incerti a quale Dio dovessero ricorrere, mancando di ogni aiuto e di ogni speranza, miseramente morivano. Meritò pertanto Teodorico non mediocre lode, sendo stato il primo che facesse quietare tanti mali, talchè per trentotto anni che regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che le antiche battiture più in lei non si riconoscevano.»[302] La cresciuta eloquenza dello stile rivela qui il grande entusiasmo dello scrittore.
Dopo la morte di Teodorico segue il dominio dei Greci, per opera di Belisario e di Narsete. Questi, sdegnato contro l'Imperatore greco, chiamò i Longobardi, che furono padroni d'Italia. Essi non la unirono, ma la divisero fra trenta duchi; e così non solo non riuscirono mai a dominarla tutta, ma dettero modo ai papi di farsi ogni giorno più vivi, mantenendola sempre divisa, per comandarvi a lor modo. In fatti, appena videro che, non ostante le loro arti, si trovavano alla mercè dei Longobardi, e non potevano sperare più aiuto dall'Imperatore greco, che era divenuto debolissimo, chiamarono i Franchi. «Dimodochè tutte le guerre che a questi tempi furono dai barbari fatte in Italia, furono in maggior parte dai pontefici causate, e tutti i barbari che quella inondarono, furono il più delle volte da quelli chiamati. Il qual modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi, il che ha tenuto e tiene l'Italia disunita ed inferma. Pertanto, nel descrivere le cose seguite da questi [213] tempi ai nostri, non si dimostrerà più la rovina dell'Impero, che è tutto in terra; ma l'augumento dei pontefici e di quelli altri principati, che dipoi l'Italia infino alla venuta di Carlo VIII governarono. E vedrassi come i papi prima colle censure, dipoi con quelle e con le armi insieme, mescolate con le indulgenze, erano terribili e venerandi; e come, per avere usato male l'uno e l'altro, l'uno hanno al tutto perduto, e dell'altro stanno a discrezione d'altri.»[303] E questo è il secondo concetto che domina costantemente nel primo libro delle Storie. Da un lato il Principe riformatore, che tenta riunire l'Italia, sollevarla dai dolori e dalla miseria, renderla felice; da un altro i papi che, per mantenersi potenti, la tengono divisa, la risospingono nella sventura, e però sono dal Machiavelli abominati. Tutto ciò egli dice e ripete con eloquenza, con enfasi, in un libro scritto per commissione d'un papa, al quale lo dedica. Tale era veramente colui, che ci fu dipinto come astuto, finto, falso. Invece egli non seppe, non volle mai nascondere nè velare le sue convinzioni scientifiche o politiche, in nessun tempo, a chiunque rivolgesse la sua parola, per quanto potessero riuscire ingrate a chi lo ascoltava, ed anche pericolose a sè stesso, che del Papa aveva bisogno a poter continuare la sua opera, la quale per commissione di lui aveva cominciata. Fortunatamente anche la consuetudine dei tempi lo secondava, lasciando essa in tali materie ampia libertà di pensare e di parlare. Clemente VII infatti non si offese punto d'un così libero e severo linguaggio.
In ogni modo, il Machiavelli continuava inesorabile la sua narrazione, esponendo come i Franchi, chiamati che furono in Italia, vennero e fecero le ben note donazioni, che dettero origine al dominio temporale dei successori di S. Pietro. Carlo Magno fu coronato imperatore dal Papa, [214] al quale egli aveva dato nuovo potere sulla terra. Alla sua morte, l'Impero, diviso prima tra i figli, passò in Germania, e l'Italia cadde in un periodo di grandissimo disordine, durante il quale si fecero varî tentativi per la creazione d'un re nazionale, tentativi che, non solo riuscirono vani, ma finirono col farla cadere sotto l'impero degli Ottoni, durante i quali cominciarono più tardi a sorgere i Comuni. Ed in questo mezzo i papi, fedeli sempre alle loro tradizioni, avidi sempre d'autorità, e di potere, tolsero al popolo romano prima il diritto di acclamare l'imperatore, poi quello di eleggere il capo della Chiesa, per dare finalmente essi l'esempio di deporre un imperatore. Ed allora alcuni presero le parti dell'Impero, altri del Papato, «il che fu seme degli umori guelfi e ghibellini, acciocchè l'Italia, mancate le inondazioni barbare, fosse dalle guerre intestine lacerata.»[304]
Nel parlare della grande contesa tra il Papato e l'Impero, cominciata con Arrigo II imperatore ed Alessandro II papa, continuata sotto Gregorio VII, il Machiavelli si ferma poco o punto ai particolari, non ricorda neppure il nome di questo grande pontefice; ma accenna in generale alla superbia, alla pertinacia e fortuna dei papi, alla umiliazione da essi inflitta in Canossa all'Imperatore, dopo di che trovarono nuovi aiuti nei Normanni, che avevano fondato il reame di Napoli, ed erano molto ossequenti alla Chiesa. Tutto questo però, egli dice, non bastò loro, perchè i papi meditavano sempre cose nuove. Urbano II, che era in Roma odiato, non gli parendo essere abbastanza sicuro fra le divisioni d'Italia, si volse ad una generosa impresa. Andò in Francia a predicare la Crociata contro gl'infedeli, e tanto accese gli animi, che fu deliberata la guerra contro i Saraceni in Asia, «dove molti re e molti popoli concorsero con danari, e [215] molti privati senza alcuna mercede militarono. Tanto poteva allora negli animi degli uomini la religione, mossi dall'esempio di quelli che ne erano capi.»[305] E se questa volontà del Papa è la sola causa delle Crociate, le conseguenze generali e molteplici del grande avvenimento riduconsi, secondo il Machiavelli, alla istituzione dell'ordine dei Templari, di quello dei Cavalieri Gerosolimitani, e ad alcune conquiste in Oriente. «Seguirono in vari tempi vari accidenti, dove molte nazioni e particolari uomini furono celebrati.»[306] Ecco tutto.
E qui si presenta a noi un'altra considerazione. Non solamente le Crociate, ma tutti quanti i più grandi avvenimenti storici hanno pel Machiavelli una causa individuale, personale. I Visigoti vengono in Italia sotto Alarico, per tradimento di Stilicone; i Vandali vanno di Spagna in Africa, perchè chiamati da Bonifazio, di cui Ezio aveva provocato la destituzione; e vengono in Italia chiamati da Eudossia, che voleva vendicarsi; i Longobardi vengono, perchè Narsete persuade Alboino loro re a fare la nuova impresa; e così le Crociate sono provocate, cominciate quasi per capriccio d'Urbano II. Le cagioni e le conseguenze generali, impersonali di tutti questi fatti scompaiono sempre nelle Storie del Machiavelli. Perchè egli si occupi della religione, bisogna che essa diventi una istituzione, una Chiesa, o si personifichi in un papa; perchè si occupi della civiltà, bisogna che assuma la forma di legge, di Stato, di governo o di un grande personaggio politico. E come nel Principe e nei Discorsi egli dà al suo legislatore una potenza illimitata, rendendolo capace di fondare a suo arbitrio o distruggere una repubblica, una monarchia, un governo qualunque, per dar luogo ad un altro, così nelle Storie la volontà, l'energia e l'intelligenza individuale sono per lui la causa [216] unica di tutti i più notevoli avvenimenti. E i grandi uomini che ne son gli autori, non vengono educati, formati, ispirati dal popolo; non ricevono da questo la propria forza; ma sono essi, invece, che gl'impongono la loro volontà, gl'infondono il loro pensiero, gli dànno quasi la propria forma. Qui è la chiave che ci schiude ad un tempo il segreto del suo sistema storico e del suo sistema politico. Di certo la leggenda medioevale aveva già prima immaginato queste spiegazioni personali dei fatti storici anche più generali. Ma pel Medio Evo l'uomo era sempre un cieco strumento nella mano della Provvidenza, che guidava popoli, capitani, imperatori e papi, e con essa tutto si spiegava. Per gli eruditi del secolo XV la Provvidenza, invece, era scomparsa del tutto dalla storia, e la leggenda si trasformò in spiegazioni affatto personali. Di esse abbonda già l'opera del Biondo, che il Machiavelli aveva dinanzi; ma egli le riunì facendone addirittura il suo sistema storico, su cui fondò il suo sistema politico. L'uno e l'altro derivano dalla medesima sorgente, da uno stesso modo di concepire l'uomo e la società; sono quasi le due facce sotto cui ci apparisce il suo concetto fondamentale. La sua storia inoltre, anche in ciò simile alla sua politica, poco o punto si occupa di lettere, di arti, di commercio, d'industria, di religione, di questioni sociali. Si occupa solo di chi vince e di chi perde, sia nella guerra, che nella lotta dei partiti; si occupa dei mezzi con cui la vittoria si ottiene, delle cause che producono la disfatta; ma soprattutto dello Stato e di coloro che lo fondano, lo modificano o lo distruggono. Gli altri problemi, le altre attività dell'uomo e della società, le altre considerazioni gli sono quasi del tutto indifferenti.
Continuando la sua narrazione, il Machiavelli accenna assai brevemente alla lotta dei Comuni contro Federigo Barbarossa, ed all'aiuto che essi ricevettero allora dal Papa. Si ferma invece più a lungo a parlare del giudizio, [217] al quale papa Alessandro III sottopose il re Arrigo d'Inghilterra, «giudizio cui un uomo privato si vergognerebbe oggi sottomettersi.»[307] E poi torna al solito a parlare delle arti e della politica dei papi, narrando come, estinta la famiglia dei Normanni di Napoli, non potendo essi prendere per sè il Reame, lo fecero occupare dagli Hohenstaufen. E dopo avere accennato a Federigo II, senza dir nulla della parte grandissima che egli ebbe nel promuovere la cultura, si ferma invece a narrare come i papi, sempre inquieti e gelosi, chiamarono contro i discendenti di lui Carlo d'Angiò, cui dettero l'investitura del Reame. E quando l'Angioino, che fu colle sue armi vittorioso, divenne anche Senatore di Roma, e parve perciò ad essi troppo potente, subito gli chiamarono contro Rodolfo imperatore. «Così i pontefici ora per causa della religione, ora per loro propria ambizione, non restavano di chiamare in Italia umori nuovi, e suscitare nuove guerre; e poichè eglino avevano fatto potente un principe, se ne pentivano e cercavano la sua rovina, nè permettevano che quella provincia, la quale per loro debolezza non potevano possedere, altri la possedesse. E i principi tremavano, perchè sempre, o combattendo o fuggendo, quelli vincevano.»[308] E così i papi, per la loro smodata ambizione, fecero sempre più peggiorare le cose d'Italia. Niccolò III (1277-81) fu poi il primo che iniziò il nepotismo, e subito dopo i suoi successori passarono anche in ciò ogni confine. «Laonde, come da questi tempi indietro non s'è mai fatta menzione di nipoti o di parenti di alcuno pontefice, così per l'avvenire ne fia piena l'istoria, tanto che noi ci condurremo ai figliuoli, nè manca altro a tentare ai pontefici, se non che, come eglino hanno disegnato insino ai tempi nostri di lasciarli principi, così per l'avvenire [218] pensino di lasciare loro il papato ereditario.»[309] E procederono tanto oltre nella loro ambizione, che Bonifazio VIII volse contro i Colonnesi, suoi nemici, le armi spirituali insieme con le temporali. «Il che, sebbene offese alquanto loro, offese assai più la Chiesa, perchè quelle armi, le quali per carità della fede avevano virtuosamente adoperate, come si volsero per propria ambizione ai Cristiani, cominciarono a non tagliare. E così il troppo desiderio di sfogare il loro appetito, faceva che i pontefici a poco a poco si disarmavano.»[310]
Gli altri avvenimenti politici, anche se di grandissima importanza, come ad esempio i Vespri Siciliani, le discordie dei Guelfi e dei Ghibellini, le vicende nel Napoletano, sono appena accennati, per parlar sempre di quei fatti che in qualche modo potevano valere a giustificare le simpatie o antipatie politiche dell'autore, a confermare le sue teorie. Così sempre più chiaro apparisce, che egli non mirava punto ad un ordinamento obbiettivo dei fatti, secondo il loro intrinseco valore, nè quindi poteva riuscirvi. Il suo scopo, invece, è costantemente quello di ritrovare nella storia la conferma del suo concetto politico, il che non gli era difficile, avendolo da essa la prima volta cavato, nè essendo egli molto scrupoloso nella esattezza dei minuti particolari. Assai rapidamente parla ancora del viaggio d'Arrigo VII in Italia, e delle molte conseguenze che ne derivarono; e si ferma invece lungamente a descriverci le arti, le astuzie, le perfidie con cui i Visconti, specialmente Matteo, s'impadronirono di Milano, cacciandone i della Torre. E colorisce a suo modo questi fatti, nei quali ritrova da capo le arti del Principe nuovo, argomento di cui, direttamente o indirettamente, non si stanca mai di parlare. Più innanzi, dopo aver narrato altri avvenimenti, il Machiavelli dà, [219] non si sa come nè perchè, un gran passo indietro, per raccontarci le origini di Venezia. E poi da capo incontra un personaggio che lo induce a fermarsi, e questi è il tribuno Cola di Rienzo, che se avesse finito come aveva cominciato, sarebbe stato un altro degli uomini da lui più ammirati. Ed infatti comincia subito a parlarne con entusiasmo, per poi abbandonarlo con disprezzo, appena lo vede, senza ragione, disertare la bene iniziata impresa di ricostituire la repubblica romana.[311] Continua descrivendo i disordini d'Italia; lo scisma della Chiesa; il trasferimento della sede in Avignone ed il suo ritorno a Roma; i Concilî di Pisa e di Costanza; le ambiziose mire dei Visconti, massime di Giovanni Galeazzo; le strane vicende di Giovanna II di Napoli; le imprese militari dello Sforza, di Braccio di Montone e degli altri condottieri italiani, i quali egli, fin da questo momento, ci dice che furono la rovina della patria e delle sue armi.
E finalmente, dopo avere enumerato i principi e gli Stati, che nel secolo XV tenevano divisa l'Italia, il Machiavelli conchiude: «Tutti questi principali potentati erano di proprie armi disarmati. Il duca Filippo,[312] stando rinchiuso per le camere, e non si lasciando vedere, per i suoi commissarî le sue guerre governava. I Veneziani, come e' si volsero alla terra, si trassero di dosso quelle armi, che in mare gli avevano fatti gloriosi, e seguitando il costume degli altri Italiani, sotto l'altrui governo amministravano gli eserciti loro. Il Papa, per non gli star bene le armi in dosso, sendo religioso, e la regina Giovanna di Napoli, per essere femmina, facevano per necessità quello che gli altri, per mala elezione, fatto avevano. I Fiorentini ancora alle medesime necessità ubbidivano, perchè, avendo per le spesse divisioni spenta la nobiltà, e restando quella [220] repubblica nelle mani della mercanzia, seguitavano gli ordini e la fortuna degli altri.» «Erano adunque le armi d'Italia divenute mercenarie, in mano di condottieri che ne facevano mestiere, e che, alleatisi per comune interesse, avevano ridotto la guerra a un'arte in cui nessuno vinceva. Finalmente» «la ridussero in tanta viltà, che ogni mediocre capitano, nel quale fosse alcuna ombra dell'antica virtù rinata, gli avrebbe con ammirazione di tutta Italia, la quale, per sua poca prudenza gli onorava, vituperati. Di questi adunque oziosi principi e di queste vilissime armi sarà piena la mia istoria, alla quale prima che io discenda, mi è necessario, secondo che nel principio promisi, tornare a raccontare dell'origine di Firenze.»[313] E di qui infatti comincia il secondo libro, che è veramente il primo della storia fiorentina.
Riepilogando, adunque, l'Italia, invasa dai barbari, dei quali fu preda per la decadenza dell'Impero, e per colpa di alcuni generali romani, che, mossi da gelosie e da odî privati, li chiamarono, godette un momento di pace e di felicità quando Teodorico, principe accorto, seppe unirla, formandone uno Stato solo. Ma dopo la sua morte riuscirono vani tutti gli sforzi fatti per mantenerla unita, e ciò principalmente a cagione dei papi, i quali, per aumentare sempre più il proprio potere, la vollero divisa, invitando sempre nuovi barbari e nuovi stranieri, che in fatti vennero di continuo a lacerarla ed a conculcarla. Vani del pari riuscirono gli sforzi dei Comuni a renderla sicuramente libera, perchè nè essi nè altri seppero tenerla unita. Tutti caddero finalmente in balìa degli eserciti mercenarî, che furono l'ultima rovina d'Italia, la quale si trovò così esposta ai colpi di chiunque volle assaltarla; e con la venuta di Carlo VIII ricominciò la serie delle invasioni e delle calamità. Ecco quale è dunque [221] il concetto fondamentale del primo libro delle Storie. Da esso ne resulta naturalmente un altro, che è veramente il pensiero dominante del Machiavelli: unico rimedio a tanti mali che travagliarono l'Italia, era la istituzione delle armi nazionali, comandate da un principe che sapesse con esse difenderla, costituendo fortemente lo Stato, emancipandolo dalla Chiesa e dall'aristocrazia feudale, assicurandone con buone leggi la libertà per l'avvenire. Chi vorrà e saprà fare tutto ciò, sarà veramente degno di salire in cielo, per sedere accanto agli Dei.
Ed ora dobbiamo esaminare che cosa dice il Machiavelli della storia interna di Firenze, nei tre libri che seguono.
Alcuni brani del libro I delle Storie del Machiavelli, messi a confronto con altri delle Decadi di Flavio Biondo.[314]
Erano da Teodosio preposti alle tre parti dell'Imperio tre governatori, Ruffino alla orientale, alla occidentale Stilicone, e Gildone all'affricana; i quali tutti, dopo la morte del principe, pensarono non di governarle, ma come principi possederle; de' quali Gildone e Ruffino ne' primi loro principii furono oppressi. Ma Stilicone, sapendo meglio celare l'animo suo, cercò d'acquistarsi fede coi nuovi imperatori, e dall'altra parte turbare loro in modo lo Stato, che gli fosse più facile dipoi l'occuparlo. E per fare loro nemici i Visigoti, gli consigliò non dessero più loro la consueta provvisione. Oltre a questo, non gli parendo che a turbare l'Imperio questi nemici bastassero, ordinò che i Burgundi, Franchi, Vandali ed Alani, popoli medesimamente settentrionali, e già mossi per cercare nuove terre, assalissero le provincie romane. Privati adunque i Visigoti delle provvisioni loro, per essere meglio ordinati a vendicarsi della ingiuria, crearono Alarico loro re, ed assalito l'Imperio, dopo molti accidenti guastarono l'Italia, e presero e saccheggiarono Roma (Machiavelli, Istorie fiorentine, Lib. I, p. 2-3).
Commiserat Theodosius in Imperio florens, tres potissimas Imperii partes tribus ducibus gubernandas, Buffino orientalem, occidentalem Stiliconi, et africanam Gildoni. Hic primus de morte Imperatoris compertum habens, parvique faciens in [222] puerorum manibus Imperii vires, Africam sibi retinere conatus est.... Eodem vero in tempore Ruffinus Orienti praefectus, dum barbaris ad rebellionem concitatis, Imperium sibi parare contenderet, Archadio curante, interfectus est. Tertius ducum Stillico, genere Vandalicus, summam erat post Theodosii mortem apud novos principes gratiam consecutus.... Fuit vero et ipse impiissimus, sed suam perfidiam maximis tegens simulationibus, nihil apertum contra rempublicam est molitus, quin potius affectatum Eucherio filio Imperium, non prius invadere constituit, quam imperatores maximis calamitatibus involvisset. Itaque primum omnium immanes Svevorum, Burgundionum, Alanorum et Vandalorum suorum gentes, propriis excitas sedibus concitavit ad romani Imperii Galliarum provincias invadendas. Exinde Visigothos, gentem ut noverat ferocissimam, curavit stipendiis privari ab imperatoribus.... cuius machinationis haec ratio [223] fuit, quod ipsos Visigothos, rerum necessariarum indigentia compulsos, optabat in Italiam se conferre (Blondi, Historiarum, ab Inclinatione Romanorum libri XXXI, ed. cit., Dec. I, lib. I, pag. 7-8).
Nè fu l'isola di Brettagna, la quale oggi si chiama Inghilterra, sicura da tanta rovina, perchè temendo i Brettoni di quei popoli che avevano occupata la Francia, e non vedendo come l'imperatore potesse difenderli, chiamarono in loro aiuto gli Angli, popoli di Germania. Presero gli Angli sotto Votigerio loro re l'impresa, e prima gli difesero, dipoi gli cacciarono dall'isola, e vi rimasero loro ad abitare, e dal nome loro la chiamarono Anglia. Ma gli abitatori di quella, sendo spogliati della patria loro, diventarono per la necessità feroci, e pensarono, ancora che non avessero potuto difendere il paese loro, di poter occupare quello d'altri. Passarono pertanto colle famiglie loro il mare, ed occuparono quei luoghi che più propinqui alla marina trovavano, e dal nome loro chiamarono quel paese Brettagna (pag. 4-5).
Itaque romani cives, qui Britanniam frequentes diversis respectibus inhabitabant, et ipsi simul Britanni, salutis desperatione animos faciente, arma ceperunt, et tunc quidem Scotos Albienses, Pictosque, a quibus agitabantur, praelio superarunt, ac in ulteriorem insulae partem recedere compulerunt. Sed paulo post, cum Britanni sese a Scotis Pictisque diutius tueri diffiderent, Anglicos Saxones, datis in stipendium pecuniis, ex proximis Germaniae littoribus conduxerunt praesidio affuturos. Qui quidem Saxones cognomine Anglici, duce Vortigerio eorum rege, insulam ingressi, Scotos atque Pictos represserunt praelio superatos. Sed et ipsi postea mercenarii Saxones, ambitione ducti, magis Britonibus quam Picti [224] et Scoti hostes nocuerunt, romanos enim cives et Britannorum primores, maiori ex parte vario mortis genere interfecerunt, ex eoque tempore cooperunt Saxones Anglici Britanniae dominari (Dec. I, lib. II, pagine 20-21).
Campeggiando Attila re degli Unni Aquileia, gli abitatori di quella, poichè si furono difesi molto tempo, disperati della salute loro, come meglio poterono, con le loro cose mobili sopra molti scogli, i quali erano nella punta del mare Adriatico disabitati, si rifuggirono. I Padovani ancora, veggendosi il fuoco propinquo, e temendo che, vinta Aquileia, Attila non venisse a trovarli, tutte le loro cose mobili di più valore portarono dentro al medesimo mare, in un luogo detto Rivo Alto, dove mandarono ancora le donne, i fanciulli ed i vecchi loro, e la gioventù riserbarono in Padova, per difenderla. Oltre a questi, quelli di Monselice con gli abitatori dei colli intorno, spinti dal medesimo terrore, sopra gli scogli del medesimo mare ne andarono. Ma presa Aquileia, ed avendo Attila guasta Padova, Monselice, Vicenza e Verona, quelli di Padova, ed i più potenti, si rimasero ad abitare le paludi che erano intorno a Rivo Alto; medesimamente tutti i popoli all'intorno di quella provincia, che anticamente si chiamava Venezia, cacciati dai medesimi accidenti, in quelle paludi si ritrassero. Così, costretti da necessità, lasciarono luoghi amenissimi e fertili, ed in sterili, deformi e privi di ogni comodità abitarono. E per essere assai popoli in un tratto ridotti insieme, in brevissimo tempo furono quelli luoghi non solo abitabili, ma dilettevoli, e costituite fra loro leggi ed ordini, fra tante ruine d'Italia, sicuri si godevano, ed in breve tempo crebbero in riputazione e forze (p. 45-46).
Et prima inter omnes mirabili non magis modo quam loco condi coepit veneta urbs, origo cujus in hunc modum fuisse videtur. Athila Hunnorum rege Aquileiam obsidente, Aquileienses, sicut ostendimus, Gradum Concordienses, Caprulas et Altinates Torcellum, Maiorbum, Burianum, Amorianum, Costantianum et Aimanum populariter commigrarunt. Patavini autem, ea Aquileiae obsidione durante, sacra et supellectilem preciosam cum imbelli multitudine, in Rivumaltum comportarunt, iuventute tutandis a potenti hoste moenibus retenta. Montesilicenses vero Adeustinique et Euganeorum collium incolae, Metamaucum et Albiolam, Pelestrinam Clodiamque confugientes, Athilae [225] terrorem declinavere.... Patavini quidem plures potentioresque ditionis suae paludes, in quas sua miserant, frequentavere, et aquis elevatiora apud Rivumaltum Dorsumque, cui duro a soliditate fuit cognomen, tenuere. Sic et caeteri Venetiae provinciae populi, premente metu, ubicumque potuerunt eisdem in paludibus consederunt. Eam vero provinciam Abdua, Pado, lacu Benaco, Alpibus et Adriatico mari constat terminari. Per hunc modum populi amoenissimis et uberrimis omnium Italiae soli in regionibus nutriti, patriam avitosque lares commutavere, informem in uliginem, stagnaque omni vel puri littoris sterilitati, si libera sit per securitatem electio, postponendam, ut nequaquam dubitandum sit, illos Dei munere coactos, cepisse loca brevi futura optima, quae tranquillis securisque rebus nulla prudentia elegisset (Dec. I, lib. III, p. 31).
Giustiniano morì, e rimase suo successore Giustino suo figliuolo, il quale per il consiglio di Sofia sua moglie revocò Narsete d'Italia, e gli mandò Longino suo successore. Seguitò Longino l'ordine degli altri di abitare in Ravenna, ed oltre a questo dette all'Italia nuova forma, perchè non costituì i governatori di provincie come avevano fatto i Goti, ma fece in tutte le città e terre di qualche momento capi, i quali chiamò duchi. Nè in tale distribuzione onorò più Roma che le altre terre, perchè tolto via i consoli e il Senato, i quali nomi infino a quel tempo vi si erano mantenuti, la ridusse sotto un duca, il quale ciascun anno da Ravenna vi si mandava, e chiamavasi il Ducato Romano, ed a quello che per l'Imperatore stava a Ravenna e governava tutta Italia, pose nome esarco. Questa divisione fece più facile la rovina d'Italia, e con più celerità dette occasione ai Longobardi di occuparla (p. 13).
Coeperunt autem tunc urbs Roma et Italia novam habere gubernationis, formam, [226] ex qua dignitatem, gloriam et apud orbem terrarum timorem magis amiserunt quam omnibus, ex illis calamitatibus, quae eas centum et sexaginta annos attriverant, atque aliquando Romam fecerant relinqui feris et obscenis avibus habitandam. Longinus namque novum in Italiam adduxit magistratus nomen Exarchatus Italiae, qui interpetrabatur summus Italiae magistratus. Et Ravennae se continens, nunquam ivit ad urbem Romam vel qualis esset inspiciendam. In administratione vero Italiae et urbium, quae in Iustini imperatoris partibus cum Roma et Ravenna duraverant, hunc primus servavit morem, ut non provinciae aut regioni praeesset praeses sive quispiam magistratus, sed singulae urbes, singula oppida a singulis custodirentur, regerenturque magistratibus, quos appellavit duces. Parem itaque faciens urbem Romam aliis Italiae vel urbibus vel oppidis, hac una in re illam honoravit, quod impositum tunc magistratum praesidem [227] appellavit, sed qui successerunt sunt appellati duces, ut postea per multos annos sic romanus appellaretur Ducatus, sicut Narniensis Spoletanusque est dictus. Neque post Basilium, qui cum Narsete consul fuit, vel consules Roma habuit, vel Senatum legitime coactum, sed a duce graeculo homine, quem exarchus ex Ravenna mittebat, res romana per multa tempora administrata est (Dec. I, lib. VIII, p. 101-102).
Era Narsete sdegnato forte contro l'Imperatore per essergli stato tolto il governo di quella provincia (l'Italia), che con la sua virtù e con il suo sangue aveva acquistato, perchè a Sofia non bastò ingiuriarlo rivocandolo, che ella vi aggiunse ancora parole piene di vituperio, dicendo che lo voleva far tornare a filare con gli altri eunuchi; tantochè Narsete ripieno di sdegno persuase Alboino re dei Longobardi, che allora regnava in Pannonia, di venire a occupare l'Italia (p. 13).
Nec satis fuit praestantissimum ducem, et optime de republica meritum privare, quod ille pro sua modestia videtur optasse, nisi et convicia procax infaustaque romanis rebus mulier addidisset: illi enim comminata est futurum, ut posthac non solum degeret privatus, sed quod eunuchum deceat dispartiendis inter ancillas pensis a se deputetur. Qua indignitate non commoveri non potuit vir ingentis spiritus Narses, cui rerum a se gestarum magnitudinem et pietatis integritatisque conscientiam, cum [228] tanta ingratitudine atque nequitia, mente et animo metienti ita incensi sunt animi, ut continere nequiverit quin adversus virum et uxorem eo indignos imperio suam ulcisceretur iniuriam. Quamprimum itaque Longinum in Italiam venturum intellexit, secessit Neapolim, urbem optime de se meritam. Ea in urbe cum aliquot fuisset menses, ad Alboinum regem Longobardorum sibi amicissimum misit, qui suaderent, ut Pannoniam, quod usu antea compertum erat, semper novis barbarorum incursibus expositam, linquens, gentem longobardam traduceret in Italiam, terram omnium orbis terrarum primariam, et cuius possessio illos, etiam nolentes, ab orbis imperium sublimaret (Dec. I, lib. VII, p. 98-99).
Erano stati i Longobardi 232 anni in Italia, e di già non ritenevano di forestieri altro che il nome (p. 20).
Quantum vero attinet ad Longobardos, ea gens, ducentis iam triginta et pene duobos annis maiori Italiae portione potita, nihil iam externi praeter nomen retinebat (Dec. II, lib. I, p. 163, che per errore è nella stampa 167).
E così veniva l'Italia in questi tempi ad essere maravigliosamente afflitta, sendo combattuta di verso le Alpi dagli Unni, di verso Napoli da Saracini. Stette l'Italia in questi travagli molti anni, e sotto tre Berengari che successero l'uno all'altro (p. 22).
Ut confidenter affirmemus [229] sex sive imperatores sive reges Italia oriundos, tres scilicet Berengarios, Guidonem, Lotharium et Albertum, inter quos Rodulphus Burgundus et Ugo Arelatensis regnarunt, per eos quinquagintaquinque annos Italiam motibus agitasse. Sed ad rem. Dum Sararceni quos Ioannes decimus pontifex et Albericus marchio superaverant, ex Gargano monte unam, et Hungari aliam Italiae partem saepe infestant, etc. (Dec. II, lib. II, p. 180).
[230]
Le Istorie Fiorentine. I libri II, III e IV, o la Storia interna di Firenze sino al trionfo dei Medici.
Il secondo libro comincia dalle origini di Firenze, delle quali dice appena alcune parole, per saltar subito all'anno 1215, narrando il fatto del Buondelmonti, cui si attribuisce la prima divisione della Città in Guelfi e Ghibellini. Dal 1215 si salta di nuovo a piè pari fino al 1250, da cui il Machiavelli, come fa anche l'Aretino, incomincia veramente la narrazione non interrotta della storia di Firenze, che in questo secondo libro conduce sino al 1348. Così in ottanta pagine abbraccia tutto il vastissimo periodo, che forma il soggetto della lunga cronica di Giovanni Villani. E di questo autore si vale ora continuamente, una sola volta ricordandone il nome insieme con quello di Dante Alighieri.[315] Se ne vale però assai diversamente che non fece della storia di Flavio Biondo. Lascia da un lato tutte le tradizioni favolose, che il Villani ricorda sulle origini di Firenze; tutti i moltissimi capitoli che narrano la storia generale d'Europa, ed ancora quelli che trattano di guerre esterne della Repubblica. Raccoglie invece le notizie sulle divisioni, le rivoluzioni interne, le riforme politiche, e le ordina a suo modo. Si paragonino le narrazioni che i due scrittori ci danno del fatto del Buondelmonti,[316] delle rivoluzioni e riforme del 1250,[317] [231] del 1267,[318] del 1280,[319] di Giano della Bella e degli Ordinamenti di Giustizia,[320] e si vedrà subito che il Machiavelli non abbandona mai il suo originale. Ciò è più d'una volta confermato dagli errori stessi in cui cade, ora per colpa del Villani, ora per non averlo saputo fedelmente interpretare. Dominato com'era da un suo nuovo concetto, e quindi dal bisogno di dare con esso un proprio ordinamento a tutta la storia di Firenze, egli procede con qualche fretta, senza essere troppo scrupoloso intorno alla esattezza dei minuti particolari, fermandosi sugli avvenimenti che giovano al suo scopo, trascurando invece gli altri, anche se più importanti. Raccogliendo poi in poche pagine molti capitoli della Cronica, gli accade spesso di riunire in un solo anno fatti seguiti in tempi assai diversi, ed anche di determinar male il carattere delle varie istituzioni, il numero dei Consigli della Repubblica, massime quando il Villani adopera un linguaggio politico, di cui nel secolo XVI s'era cominciato a perdere il significato preciso.
Dopo alcune considerazioni generali sulle colonie, il Machiavelli ci dice che Firenze discese da Fiesole città etrusca, i cui mercanti lasciarono il monte e si stabilirono presso il fiume Arno, dove le colonie romane ingrossarono la nascente città, che poi sottomise quella da cui era nata. Ciò detto, arriva subito al 1215, narrando il fatto del Buondelmonti, al quale, come dicemmo, attribuisce l'origine dei Guelfi e dei Ghibellini in Firenze. E non s'avvede che lo stesso Villani aveva, nei precedenti capitoli, narrato una serie di guerre del Comune fiorentino contro i baroni del contado, che furono sottomessi ed obbligati a vivere in città, il che, per opera principalmente [232] degli Uberti, dette origine alla guerra civile prima assai del 1215. Ma quando, dopo un nuovo salto fino al 1250, incomincia la narrazione di avvenimenti meno remoti e meno oscuri, il Machiavelli fa subito due osservazioni, che gettano una luce inaspettata sulla storia delle interne rivoluzioni di Firenze. Egli qui si avvede, che i Ghibellini non sono solamente il partito dell'Impero, ma anche dei nobili feudali; ed i Guelfi, sebbene abbiano anch'essi fra di loro dei nobili, sono il partito della Chiesa e dei popolani. Le divisioni e rivoluzioni di Firenze vengono perciò determinate e regolate da due ordini di cause e di fatti diversi, alcuni cioè interni, altri esterni: le vicende dell'Impero, della Chiesa, degli Svevi e degli Angioini di Napoli[321] da una parte, e dall'altra gli odî naturali nelle città fra grandi e popolani. Il crescere dell'industria e del commercio dava sempre nuova forza ai popolani; l'allontanarsi o indebolirsi dell'autorità dell'Impero in Italia, ne toglieva invece ai grandi destinati perciò a sparire. Queste sono le cause che cagionano le divisioni ed i partiti in Firenze, e ne determinano la storia. In fatti cresce la potenza Federigo II, e subito esso favorisce gli Uberti, capi dei Ghibellini, ed i Guelfi sono cacciati. Muore Federigo II (1250), e gli uomini di mezzo, che erano guelfi, sono padroni della Città, che prende forma nuova e più democratica, con quella che si chiamò la Costituzione del Primo Popolo.
Il Machiavelli si ferma qui a descrivere minutamente questa costituzione popolare, ma cade, nel descriverla, in molti e gravi errori. La crede fatta in conseguenza dell'accordo tra i Guelfi ed i Ghibellini, quando invece fu fatta dai primi a danno dei secondi, massime dei nobili. Crede che sia la prima costituzione libera di Firenze, dicendo [233] che ai Fiorentini allora «parve tempo di pigliar forma di vivere libero,» e non ricorda la costituzione precedente dei Consoli, nè la istituzione del Podestà, seguìta nel 1207, secondo i cronisti, ed anche prima, secondo i documenti del tempo. Ma v'è di più, egli pone nel 1250 la creazione così del Capitano del popolo come del Podestà, chiamandoli senz'altro due giudici forestieri per le cause civili e le criminali. Invece solo il Capitano del popolo fu creato in quest'anno, a difesa degl'interessi popolari, in opposizione del Podestà, di più antica origine e cavaliere, che pigliava la parte dei nobili. Tanto l'uno che l'altro non erano semplici giudici, ma avevano anche attribuzioni politiche e militari; erano circondati da due Consigli; comandavano in campo gli eserciti del Popolo e del Comune. E per raccoglier tutto in uno, il Machiavelli pone nel medesimo anno anche la istituzione del Carroccio fiorentino, che è assai più antica.[322] Con questa costituzione, egli continua, fu ordinata la libertà, armato il popolo, e la Repubblica estese il suo territorio.[323] Ma il sorgere di Manfredi, dopo la morte di Federigo II, restituì animo e forza ai Ghibellini, che si sollevarono, e dopo una prima [234] disfatta in Città, vinsero i Guelfi a Montaperti (1260), donde tornati vittoriosi, s'impadronirono del governo, che fu così di nuovo tolto ai popolani e dato ai nobili.
Fin qui gli avvenimenti generali d'Italia sono quelli che principalmente hanno determinato la storia dei partiti in Firenze; ma ora incominciano a prevalere le cagioni interne, ed il Machiavelli è, fra tutti gli storici, il primo che se ne avveda, e che si fermi a notare come sia già cominciata, sebbene ancora poco visibile, una grande trasformazione della società fiorentina. Il partito ghibellino andava divenendo sempre più il partito dell'aristocrazia feudale; ma perdeva di numero e di forza innanzi al rapido crescere del popolo, che ingrossava i Guelfi. La gravità di questo fatto non poteva sfuggire ai nobili, che cercarono perciò di transigere, il che affrettò la loro rovina, e più tardi mutò del tutto le parti in Firenze. Essi, adunque, sebbene fossero sempre padroni del Governo, pure, a fine di guadagnare il favore del popolo, e così assicurarsi l'avvenire, secondarono la costituzione delle Arti Maggiori e delle Minori. Ma tutto ciò non valse a nulla. La lontananza dell'Imperatore, la decadenza del suo potere in Italia, il trionfo degli Angioini nel Reame finirono col far cadere di nuovo la Città interamente nelle mani dei popolani, che posero alla testa del Governo i Priori delle Arti (1282). Il Villani, cui sembra sfuggire qui il vero significato ed il valore della nuova magistratura, ricorda solo che il nome di essa fu preso dal Vangelo, là dove Cristo dice agli Apostoli: Vos estis priores. Ma il Machiavelli, che guardava più alla sostanza, senza disputare sull'origine del nome, osserva invece assai giustamente: «Questo magistrato fu cagione, come con il tempo si vide, della rovina dei nobili, perchè ne furono dal popolo per vari accidenti esclusi, e dipoi senza alcuno rispetto battuti.»[324]
[235]
Dopo essersi con due parole sbrigato della battaglia di Campaldino (1289), come aveva fatto con quella di Montaperti, ritorna alle rivoluzioni interne, che spianarono la via a quella del 1293, che ne fu l'ultima e necessaria conseguenza. Sebbene i Ghibellini fossero stati a poco a poco superati dal popolo in modo, che quasi scomparvero del tutto, pure «restarono sempre accesi quegli umori, che sono in tutte le città fra i potenti, che vogliono comandare, ed i popolani, che vogliono vivere secondo le leggi. Queste nuove divisioni non si scopersero fino a che i Ghibellini facevano ancora paura; ma come prima essi furono domi, incominciarono quelle a mostrare subito la loro forza. Ogni giorno qualche popolano era offeso dai Grandi, e le leggi non bastavano a vendicarlo, perchè essi con i parenti e gli amici dalla forza dei Priori e del Capitano si difendevano.»[325] Così crebbero i mali umori fino a che non si venne per opera di Giano Della Bella agli Ordinamenti di Giustizia (1293), coi quali i Grandi, come già i Ghibellini, furono del tutto esclusi dalla Signoria, e disfatti. «Il popolo allora trionfò pienamente, e la Città fu molto felice, sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione ripiena.»[326] Così i nobili Ghibellini, divenuti potenti coll'aiuto dell'Impero, furono disfatti dai Guelfi, che si divisero in Grandi e Popolani, e questi poi vinsero e distrussero quelli. Tutta la storia di Firenze adunque, non è fin qui altro che un lento e continuo cammino verso la democrazia, la quale finalmente trionfa.
Ma le divisioni non cessano per questo, che anzi adesso appunto incomincia un periodo transitorio di capi di parte, di ambizioni personali e di nuove discordie intestine, le quali conducono alla tirannide del Duca d'Atene. E questo episodio, che è di certo assai notevole nella [236] storia di Firenze, diviene addirittura principalissimo nel secondo libro del Machiavelli, per la grande estensione che esso gli dà nel raccontarlo. Ci descrive prima il carattere ambizioso di Corso Donati, che turbò la Repubblica; poi le guerre contro Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani, le quali narra assai più fedelmente che non aveva fatto nella sua fantastica Vita di Castruccio; arriva finalmente alla venuta del Duca (1342), chiamato dai Fiorentini a governarli ed a guidarli nella guerra contro i Ghibellini di Toscana. I cittadini, egli dice, erano, per le loro continue discordie, giunti a tale, che «non sapevano mantenere la libertà, e non potevano tollerare la servitù.» Il Duca perciò fu subito un tiranno armato, un Principe nuovo, ed il Machiavelli, esaltandosi, si ferma lungamente a descrivere per minuto, drammatizzandola con eloquenza, la ben nota istoria. Egli prende i fatti dal Villani; ma v'aggiunge di suo considerazioni, descrizioni, episodî e discorsi. Dalla cresciuta forza e potenza dello stile ci accorgiamo subito, che l'argomento è di quelli che più vivamente lo attraggono. Dimentica perfino i limiti che le proporzioni generali del suo lavoro dovevano imporgli, e si lascia prender la mano dal desiderio di ribadire le sue ben note teorie, che ora pone in bocca dei personaggi del suo dramma.
Quando il Duca è finalmente divenuto sicuro padrone della Città, e si vede chiaro che è deciso a rendersi addirittura tiranno, appoggiandosi alla plebe, il Machiavelli fa venire i Signori a fargli un discorso eloquente e singolarissimo. «Voi cercate,» essi gli dicono, «far serva una città la quale è sempre vivuta libera.... Avete voi considerato quanto in una città simile a questa importi, e quanto sia gagliardo il nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, e merito alcuno non contrappesa?... Negli universali odî non si trova mai sicurtà alcuna, perchè tu non sai donde ha a nascere il male, e chi teme di ogni uomo, non si può [237] mai assicurare di persona. E se pure tenti di farlo, ti gravi nei pericoli, perchè quelli che rimangono si accendono più nell'odio, e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desiderî della libertà non basti è certissimo, perchè s'intende spesso quella essere in una città da coloro riassunta, che mai la gustarono; ma solo per la memoria che ne avevano lasciata i padri loro l'amano.... E quando mai i padri non l'avessero ricordata, i palazzi pubblici, i luoghi de' magistrati, le insegne dei liberi ordini la ricordano, le quali cose conviene che siano con massimo desiderio da' cittadini conosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre, che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che faccino mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiungessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri, perchè tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si vedrebbero nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fossero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare non basterebbero. E se voi credessi che bastassero, v'ingannereste, perchè a uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa, ed ogni legame lo stringe.»[327] In questo modo lo avvertono, che il suo desiderio della tirannide lo spinge a sicura rovina.
Il Machiavelli, com'è ben noto, non era il primo a porre questi lunghi discorsi nella sua storia. Gli eruditi, per imitare gli antichi, avevano già da un pezzo introdotto un tale uso, di cui assai spesso fecero anche abuso. Mentre però gli antichi storici, dandoci anch'essi discorsi solamente immaginarî, riuscivano eloquenti e veri, perchè facevano parlare i Greci ed i Romani nel modo in cui veramente sentivano; gli eruditi, volendo far parlare [238] da Romani gl'Italiani del Medio Evo e del secolo XV, finivano col fare solo poveri esercizî di retorica. E lo stesso difetto si riscontra anche in molti storici del Cinquecento. Un valore ben diverso hanno però i discorsi del Guicciardini e del Machiavelli. Il primo qualche rara volta pone in bocca de' suoi personaggi quello che veramente dissero; quasi sempre fa da loro esporre le cause, le relazioni e le conseguenze reali dei fatti stessi. E così i suoi discorsi riescono ad avere un gran valore, sebbene di tanto in tanto non manchi in essi un po' di retorica. Quelli del Machiavelli, immaginarî anch'essi, espongono invece i sentimenti, le considerazioni proprie dell'autore intorno agli avvenimenti storici, e sono perciò sempre profondi, eloquentissimi, sebbene, se si guarda ai personaggi che parlano, l'anacronismo e la inverosimiglianza siano spesso assai visibili. Chi infatti può credere che i Signori di Firenze avrebbero mai osato parlare al Duca d'Atene, armato e già padrone della Città, con tanto ardire, manifestando un così profondo amore della libertà? Pure il loro discorso riesce eloquentissimo, perchè esprime quello che i fatti stessi dicevano ed ispiravano al Machiavelli, il quale, esaltato dalla sua propria narrazione, è quello veramente che parla, e parla con profonda convinzione.
Dopo di ciò, sempre colla scorta del Villani, egli prosegue la storia della tirannide del Duca, dell'odio che ne nacque nel popolo, delle tre congiure contemporaneamente ordite da tre ordini diversi di cittadini, e finalmente ci descrive con vivissimi colori lo scoppio feroce dell'ira popolare, che prima cacciò il tiranno, e poi si rivolse contro i più fidi seguaci e sostegni di lui, specialmente contro il conservatore Guglielmo d'Assisi ed il suo figlio di 18 anni.[328] «Appariscono gli sdegni maggiori e sono le ferite [239] più gravi, quando si ricupera una libertà che quando si difende.... Furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de' nemici loro, e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni. Nondimeno l'età, l'innocenza, la forma sua nol poterono dalla furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti, nè saziati di straziarli col ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perchè tutti i sensi si soddisfacessero nella vendetta, avendo prima udito le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le lor carni lacere, volevano che ancora il gusto le assaporasse, acciocchè, come tutte le parti di fuori ne erano sazie, quelle di dentro ancora se ne saziassero.»[329] Anche questi ultimi particolari sono, con poche alterazioni, cavati dal Villani; ma lo stile è tale che solo il Machiavelli sapeva trovarlo, specialmente quando doveva manifestare odio alla tirannide, amore alla libertà.
Cacciato il Duca, spenti i suoi più fidi, dopo altre discordie e tumulti, furono richiamati in vigore gli Ordinamenti della Giustizia, e i Grandi vennero da capo esclusi affatto dal governo, che tornò nelle mani del popolo. Questa loro ultima disfatta fu tale, che cercarono, mutando nomi, di confondersi col popolo, contro il quale non osarono più di prendere le armi, «anzi continuamente più umani ed abietti divennero. Il che fu cagione che Firenze non solamente di armi, ma di ogni generosità si spogliasse.»[330] Qui è notevole che il Machiavelli, il quale tanto desiderava il trionfo della democrazia, e tanto odiava l'aristocrazia, pur vide e francamente dichiarò, che col cadere di questa, decaddero le armi dei Comuni italiani, i quali si gettarono poi in braccio ai capitani di ventura, che furono la rovina della libertà, della indipendenza e della forza nazionale, come egli dimostra nei libri seguenti.
[240]
Il secondo libro delle Istorie adunque ha grandi lacune, ha molte inesattezze, non parla dei fatti esterni della Repubblica, sopra alcuni fatti interni si ferma a lungo, sopra altri passa leggermente; compilato sulla Cronica del Villani, non ha ricerche originali d'alcuna sorta. Eppure, se anche mettiamo da parte l'episodio principale, cioè quello del Duca d'Atene, con così vigorosa e splendida eloquenza narrato, questo secondo libro rimane sempre un vero capolavoro nella nostra letteratura storica. In esso il Machiavelli, con uno sguardo di aquila, abbraccia nella sua unità la storia di più d'un secolo. I fatti che nel Villani sono narrati con evidenza, ma restano disgregati e come gettati a caso sulla carta; quella serie di rivoluzioni, di sempre nuovi disordini e sempre nuove costituzioni politiche, che, secondo tutti i cronisti ed anche secondo gli storici, sembrano in piena balìa del caso, conseguenza solo di odî brutali e di feroci passioni, si connettono a un tratto mirabilmente, logicamente fra loro, e per la prima volta divengono finalmente una vera storia. Il Machiavelli s'è avvisto che tutte queste rivoluzioni hanno una stessa cagione, un solo scopo, verso cui continuamente sospingono la Repubblica, fino a che essa non tocca la mèta predestinata. Si tratta di una lotta sanguinosa fra il popolo, in cui scorre il sangue latino, e l'aristocrazia feudale, che è di origine germanica, straniera all'Italia. La fine di questa lotta è la distruzione totale prima dei nobili feudali, poi dei Grandi, il che avviene nel 1293, e si compie anche meglio dopo la cacciata del Duca d'Atene. In questo modo tutte le rivoluzioni e costituzioni fiorentine non solo si connettono fra loro, ma si seguono come evoluzione d'una sola e medesima idea. E così, per opera dell'analisi critica del Machiavelli, la storia più intricata e confusa acquista ad un tratto l'evidenza d'una proposizione geometrica. Egli ha illuminato le tenebre con la luce vivissima della sua potente intelligenza, ed ha portato il più mirabile [241] ordine nel caos che ci avevano lasciato i cronisti. Tutto il segreto della storia fiorentina è in questo secondo libro. E qui si può veramente affermare che nessuno è mai riuscito a far meglio, e che i molti i quali non seppero, anche dopo, seguire la via da lui aperta, deviarono sempre dalla mèta, ricaddero nel disordine e nella confusione.
Il terzo libro va dall'anno 1353 fino a poco dopo il 1414,[331] ed è compilato con tre diversi autori. Fino al 1378 il Machiavelli si vale dell'Istoria Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani, nel modo stesso che ha fatto del Villani, fermandosi cioè alle sole rubriche che parlano delle lotte interne della Repubblica, e delle sue riforme politiche. L'argomento proprio di questo libro è la esposizione del modo in cui i partiti, moltiplicandosi, decompongono lo Stato, corrompono la Città, e col distruggere la libertà, spianano la via alla tirannide. L'episodio principalissimo è quindi il tumulto dei Ciompi (1378), che cogli eccessi della plebe pone i germi della potenza futura dei Medici, i quali perciò appunto erano stati i segreti fautori e promotori del tumulto stesso. Nel raccontarlo il Machiavelli si vale della storia che ne scrisse il contemporaneo Gino Capponi. Siccome però questa non è compiuta, così egli deve, verso la fine, tornare di nuovo a Marchionne di Coppo Stefani. Più oltre, nello stesso libro, ricorre anche ad altri autori, ma è difficile determinarli tutti, perchè la narrazione procede qui assai rapida. Il Machiavelli è cautissimo nella scelta delle sue fonti; gli scrittori che preferisce sono sempre i più autorevoli e sicuri nella narrazione dei fatti pei quali se ne giova. Questo però non gl'impedisce di farne un uso affatto arbitrario, quando specialmente vuol dar forza a qualche suo concetto o teoria politica.
[242]
Ogni libro di questa storia incomincia con alcune considerazioni generali. Il primo, col ragionare brevemente delle emigrazioni ed invasioni dei popoli germanici, il secondo, col discorrer delle colonie. Dal terzo libro in poi abbiamo vere e proprie introduzioni, ciascuna delle quali pone in termini chiari e precisi un problema storico-politico, che dalla narrazione seguente viene dimostrato. Esse sono preziose, non solo per il loro intrinseco valore, ma perchè ci fanno vedere come col Machiavelli la storia s'andò trasformando in scienza politica. Questa trasformazione noi la vediamo seguire quasi sotto i nostri occhi. «Le nimicizie naturali,» così incomincia il terzo libro, «fra il popolo e i nobili sono quelle che dividono e perturbano le città. Esse tennero divise Roma e Firenze, ma in modo diverso; perchè a Roma si manifestavano disputando, e si sopivano con una legge fatta pel pubblico bene; a Firenze invece si cominciavano combattendo, si inasprivano con gli esilî e la morte de' cittadini, si finivano con una legge fatta a solo vantaggio dei vincitori. Quelle di Roma, avvicinando il popolo ai nobili, alimentarono la virtù militare; quelle di Firenze, distruggendo i Grandi, la spensero. Tutto ciò avvenne, perchè il popolo romano voleva dividere coi Patrizî il governo dello Stato; quello di Firenze voleva invece escluderne i Grandi, per esser solo a comandare. Il primo desiderio era giusto, e la nobiltà romana cedette; il secondo ingiusto, e la nobiltà fiorentina dovè resistere. Così si venne alle armi, agli esilî, al sangue, e le leggi furono ingiuste, parziali, crudeli. I nobili dovettero mutare nomi, insegne, costumi, e confondersi col popolo, tanto che quella virtù d'armi e generosità d'animo, che era nella nobiltà, si spense, e nel popolo dove la non era, non si potè riaccendere. Così Firenze sempre più umile e più abietta ne divenne.»[332]
[243]
Questo paragone, che si trova più volte ripetuto anche nei Discorsi, non è esatto. Il Machiavelli qui non osserva che l'aristocrazia fiorentina era feudale, di origine straniera, e quella di Roma, di origine nazionale; esagera assai quando dice che le lotte fra il popolo ed i Patrizî furono a Roma sempre pacifiche, e dimentica che anch'esse portarono ad una uguaglianza su cui si fondò poi il Cesarismo. In realtà egli paragona la storia di Firenze con una storia alquanto immaginaria di Roma, cui attribuisce le qualità tutte che egli vuol vedere nel suo concetto ideale delle lotte politiche. Quello che dice di Firenze è però verissimo, profondamente osservato; e le sue considerazioni, a questo proposito, hanno un gran valore intrinseco. Esse somigliano singolarmente a ciò che disse più tardi un grande scrittore moderno, paragonando la storia politica della Francia con quella dell'Inghilterra. L'aristocrazia inglese s'unì alla borghesia nel governare il paese, e ne ricevette sempre nuovo vigore e nuova vita; la francese si separò affatto dalla borghesia, dal popolo, e finì coll'essere distrutta dalla democrazia restata padrona. L'Inghilterra ebbe perciò un regolare progresso, un governo forte, ordinato e libero; la Francia ebbe invece continue rivoluzioni, ed arrivò ad [244] una grande uguaglianza, in mezzo alla quale divennero possibili e si poterono sperimentare tutte le forme di governo. Nè molto diversamente il Machiavelli finisce la sua introduzione al terzo libro, quando dice che «Firenze a quel grado è pervenuta che facilmente da un savio dator di leggi potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata.»[333]
Il duca d'Atene aveva, per fondare la sua tirannide, sollevato la plebe, appoggiandosi sopra di essa. E così, dopo la sua cacciata, si vide apparire nella lotta dei partiti un nuovo ordine di cittadini, che divenne un nuovo germe di discordia. In fatti si videro ora lottare a Firenze il popolo grasso delle Arti Maggiori, il popolo minuto delle Arti Minori e la plebe. Le armi, per la distruzione della nobiltà, erano decadute; le guerre si facevano perciò colle Compagnie di ventura, e quindi col danaro. In tale stato di cose cominciarono a primeggiare la famiglia degli Albizzi ed altri popolani grassi, che prevalevano nella Città, non come facevano una volta i Grandi, con la forza e la violenza, ma per mezzo di quelli che si chiamavano allora i modi civili, o sia impadronendosi degli uffici politici, perseguitando, esiliando gli avversarî come Ghibellini, sebbene questo partito più non esistesse. Il disordine fu grande davvero, ed il Machiavelli, per meglio dipingerlo, per esporre di nuovo le sue considerazioni sulla storia dei partiti, esprimendo tutto il suo dolore dinanzi allo spettacolo della patria e della libertà pericolanti, fa venire dinanzi ai Signori alcuni cittadini, uno dei quali parla ad essi in questo modo: «Nelle città d'Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri, si raccozza. I giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso, ogni età è piena di brutti costumi, a che le leggi buone, [245] per essere dalle cattive usanze guaste, non rimediano.... Di qui gli ordini e le leggi non per pubblica, ma per propria utilità si fanno. Di qui le guerre, le paci, le amicizie non per gloria comune, ma per soddisfazione di pochi si deliberano.» «E se alcuna città fu mai da queste divisioni lacerata, la nostra è certo più d'ogni altra.» «Onde ne nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione, ne sorge un'altra; perchè quella città che con le sètte più che con le leggi si vuol mantenere, come una sètta è rimasa in essa senza opposizione, di necessità conviene che intra sè medesima si divida.» «Si credeva in fatti che, distrutti i Ghibellini, resterebbero lungamente felici i Guelfi; ma essi si divisero invece in Bianchi ed in Neri. Vinti i Bianchi, si combattè per le divisioni fra popolo e Grandi. E per dare poi ad altri quello che per noi medesimi possedere non sapevamo, ora al re Roberto, ora al fratello, ora al figlio, ed in ultimo al Duca d'Atene la nostra libertà sottoponemmo. Ma perchè non fummo mai d'accordo a vivere liberi, nè d'essere servi ci contentammo, cacciammo il Duca d'Atene, il cui acerbo e tirannico animo non riuscì tuttavia a farci savî, ad insegnarci a vivere. Combattemmo infatti fra di noi più di prima, tanto che l'antica nobiltà fu vinta, e dovè rimettersi in balìa del popolo. Si credette così finita ogni cagione di scandalo, essendosi messo un freno a coloro che per superbia dividevano la Città. S'è visto, invece, quanto l'opinione degli uomini sia fallace, perchè la superbia e l'ambizione de' Grandi non si spensero, ma furono ereditate dai popolani, alcuni dei quali, secondo l'uso degli ambiziosi, cercano ottenere essi il primo grado nella Repubblica, e risuscitano il nome di Guelfi e di Ghibellini, che era già spento. Per carità della patria, spegnete ora quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide, ponendo freno all'ambizione di costoro, annullando gli ordini che sono delle sètte [246] nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi.»[334]
I Signori elessero allora cinquantasei cittadini per riformare la Repubblica; ma questi riuscirono solo a portare maggior confusione, perchè, come già molte volte il Machiavelli aveva osservato e qui ripete, «gli assai uomini sono più atti a conservare un ordine buono, che a saperlo per loro medesimi trovare.»[335] Così gli Albizzi ne uscirono più potenti di prima, e quando papa Gregorio XI mosse da Avignone guerra a Firenze, essi, alla testa del popolo grasso, presero tutti i provvedimenti necessarî alla difesa, e condussero la guerra con tanta energia, che non solamente furono respinte le forze del Papa, ma le città da lui dipendenti nel suo proprio Stato vennero sollevate in nome della libertà. E gli Otto della Guerra, sebbene avessero fatto poco conto delle censure, avessero spogliato le chiese dei loro beni, e forzato il clero a celebrare gli uffici divini, ebbero tutto il favore del popolo, e vennero chiamati Otto Santi, «tanto quei cittadini stimavano allora più la patria che l'anima.»[336]
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La cagione del potere acquistato dagli Albizzi e dal popolo grasso stava nel fatto che solo i ricchi mercanti, i quali si trovavano alla direzione della grande industria e del grande commercio fiorentino, erano interessati a sostenere le guerre esterne della Repubblica, per aumentarne la potenza, e nello stesso tempo tutelare la libertà dei traffici, coi quali venivano accumulate le ricchezze loro e della Città. Essi erano perciò pronti sempre a tutti i sacrifizî necessarî. Aggravavano di tasse sè stessi e gli altri, nè avevano troppi scrupoli a restringere, occorrendo, le pubbliche libertà. Le Arti Minori, invece, che vivevano della piccola industria e del piccolo commercio interno, volevano la pace, il lusso necessario alla loro florida esistenza, minori gravezze e maggiori libertà; volevano avere anch'esse qualche parte nel governo. Così avveniva costantemente che il popolo grasso trionfava con la guerra, ed il popolo minuto con la pace. E così, non appena fu finita la guerra contro il Papa, cominciarono subito i lamenti per le spese fatte, per le gravezze sopportate. Gli Albizzi allora perderono favore; il popolo minuto invece guadagnò terreno, e si volse a cercare capi che lo guidassero. Ne trovò uno accortissimo in Salvestro de' Medici, il quale, sebbene fosse del popolo grasso, si fece sin d'allora sostenitore degl'interessi del popolo minuto, cominciando così con infinita avvedutezza a spianare la via del principato alla propria famiglia. Il Machiavelli è il primo che veda fin da questo momento, le origini remote della potenza medicea, e determini chiaramente il carattere della loro astutissima e fortunata politica.
Eletto Gonfaloniere nel 1378, Salvestro avversò gli Albizzi, favorì i loro nemici ed il popolo minuto, richiamò in vigore gli Ordini della Giustizia andati in disuso. Ma tutto ciò non si potè fare, senza che ne nascesse tumulto, e ne seguissero conseguenze inaspettate. «Non sia mai,» osserva qui il Machiavelli, «alcuno che muova un'alterazione [248] in una città, per credere poi o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.»[337] Questo fu in fatti il principio del tumulto dei Ciompi, che occupa una gran parte del terzo libro, e che il Machiavelli racconta minutamente con la scorta del Capponi, aggiungendovi di suo molti discorsi e considerazioni.[338] Il popolo e la plebe, avute le prime concessioni, cominciarono a sollevarsi, tumultuando, e facendo alla Signoria sempre nuove domande. Quando appena esse erano soddisfatte, ne aggiungevano subito altre più esagerate, e finalmente cominciarono anche a saccheggiare ed a bruciare le case dei cittadini. Laonde il gonfaloniere Luigi Guicciardini, radunati i capi delle Arti, diceva loro: «Noi abbiamo ceduto a tutte le vostre domande. Si è tolta autorità ai magistrati; si sono raffrenati di nuovo i Grandi; abbiamo mandato in esilio molti potenti cittadini, perdonato a coloro che bruciarono le case e spogliarono le chiese. Che fine avranno omai queste vostre domande? Non vedete che noi sopportiamo con più pazienza l'esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno queste vostre divisioni questa vostra città?»[339]
E dopo che il Machiavelli ha fatto in tal modo parlare [249] il Gonfaloniere, pone in bocca d'un popolano un altro discorso, che ricorda qualche volta il linguaggio di Catilina in Sallustio, e ritrae con singolare eloquenza le passioni selvagge della plebe sfrenata di Firenze. V'è anche una strana mistura di paganesimo e di cristianesimo tutta propria del Rinascimento. «Quando noi dovessimo ora deliberare, se si avessero a pigliare le armi, ardere e rubare le case dei cittadini, forse anch'io consiglierei piuttosto una quieta povertà che un pericoloso guadagno. Ma perchè le armi sono prese e molti mali già fatti, bisogna ora non lasciar quelle, e de' mali commessi assicurarci. Quando altro non c'insegnasse, la necessità c'insegna. La Città è piena di odio contro di noi, e nuove forze contro le nostre teste si apparecchiano. Nè a farci perdonare gli errori vecchi c'è altro modo che farne dei nuovi, raddoppiando le arsioni e le ruberie, cercando di avere in esse molti compagni», «perchè dove molti errano, niuno si gastiga, ed i falli piccoli si puniscono, i grandi ed i gravi si premiano. E quando molti patiscono, pochi cercano di vendicarsi, perchè le ingiurie universali con più pazienza che le particolari si sopportano. Il moltiplicare adunque nei mali ci farà più facilmente trovar perdono.... Duolmi bene ch'io sento che molti di voi delle cose fatte per coscienza si pentono, e dalle nuove si vogliono astenere. E certamente s'egli è vero, voi non siete quelli uomini che io credeva che foste, perchè nè coscienza, nè infamia vi debbe sbigottire;[340] perchè coloro che vincono in qualunque [250] modo vincono, mai non ne riportano vergogna. E della coscienza noi non dobbiamo tener conto, perchè dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carceri, non può nè debbe quella dello Inferno capere.»[341]
Ed ora, in mezzo al tumulto, si presenta al Machiavelli la singolare figura di Michele di Landò, che scalzo e con poche vesti indosso, con tutta la turba dietro, salì sopra la scala del Palazzo, e fu dal popolo proclamato Gonfaloniere. Per mostrarci poi come questo popolano, che ormai ha già esaltato la sua immaginazione, era «sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna obbligato,» egli ci narra un aneddoto che in buona parte è sua invenzione. Dice adunque che Michele di Lando, vedendosi esaltato da un popolo, nell'ebbrezza della vittoria avido di sangue, voleva trovar modo di dominarlo, per impedirgli di trascendere a maggiori eccessi. Comandò quindi che si cercasse un tale ser Nuto, uomo odiatissimo, che era stato dagli avversari del popolo designato per bargello; e tutti allora s'avviarono, pieni d'ira, [251] a cercarlo. Michele di Lando profittò subito del momento, per cominciare con giustizia quel governo che aveva acquistato con fortuna, e non solo ordinò che niuno osasse più di ardere le case, ma fece piantare le forche in Piazza, dimostrando così che era deciso a punir severamente chi non obbediva. In questo mezzo tornò la moltitudine, menando ser Nuto, che fu «a quelle forche per un piede impiccato, del quale avendone qualunque era intorno spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di lui altro che il piede.» Secondo il Machiavelli, Michele di Lando non dette l'ordine esplicito d'ammazzare ser Nuto, perchè non ve n'era bisogno. Designando però la vittima odiata, che nessuno avrebbe potuto o voluto salvare, pensò con essa di saziare l'ira popolare. E così avrebbe trovato il modo di risparmiare la vita e le case di molti cittadini, di ristabilire subito l'ordine e la giustizia.[342]
Se non che, tutto ciò non è storicamente vero. Il Capponi, nel suo Tumulto dei Ciompi, non parla del fatto, perchè la sua narrazione si ferma prima d'arrivare a questo punto; ne parlano invece gli altri storici, a cui ora ricorre il Machiavelli, ma essi[343] l'attribuiscono ad uno scoppio feroce e spontaneo d'ira popolare, senza punto accennare che Michele di Lando vi avesse avuto parte alcuna. L'eccidio seguì di certo, e sembra ancora [252] che, dopo averlo compiuto, il furor popolare si calmasse davvero. Ma l'ordine dato da Michele al popolo, e la intenzione con cui l'avrebbe dato, sono menzionati solo dal Machiavelli, e furono da lui inventati. Egli era talmente persuaso, che un uomo il quale, nelle rivoluzioni, nella politica, salga d'un tratto a grande altezza, deve di necessità avere nelle vene una qualche goccia del sangue di Cesare Borgia, che la vedeva anche là dove non ve n'era traccia.[344] Del semplice scardassiere, che godè di una brevissima popolarità, che fece in vero più bene che male, ed ebbe molti lodatori, ma non fu nulla di singolarmente grande, volle formare un accorto politico, un gran personaggio. Lo ammirò oltre misura, perchè lo vide difensore della libertà popolare, senza pensare a valersi mai della prospera fortuna, per tentare di farsi tiranno. Ed una volta cominciato a dipingere il suo quadro in proporzioni assai maggiori del vero, egli lo volle, perchè riuscisse anche più attraente, colorire colla propria immaginazione, la quale troppo spesso vedeva il Valentino per tutto. E continuò, con la stessa ammirazione, con la stessa fantasia, sino alla fine. Quando poi la plebe tornò ai disordini, passando ogni confine, e non valsero [253] ragioni nè minacce a frenarla, Michele, secondo il Machiavelli, corse la Città con la spada in mano, seguito da molti armati, e domò colla forza i ribelli. Così finalmente si sarebbero posati i tumulti «solo per virtù del Gonfaloniere, il quale d'animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo qualunque cittadino, e merita d'essere annoverato in tra i pochi che abbino beneficato la patria loro, perchè la bontà sua non gli fece venir pensiero nell'animo che fosse al bene universale contrario.»[345] Ma tutto ciò è lavoro d'immaginazione. Michele di Lando fu invece un personaggio assai modesto, che spesso divenne involontario, inconscio strumento nelle mani di Salvestro de' Medici, ed in nessun caso avrebbe mai potuto, seriamente aspirare alla tirannide.[346]
Il Machiavelli torna qui a Marchionne Stefani,[347] e poco giovandosi dell'Aretino[348] o di altri, continua la sua narrazione fino al 1414. Esamina, innanzi tutto, le prime conseguenze del Tumulto dei Ciompi, le quali furono una reazione contro l'eccessivo potere della plebe, cacciata ora dal governo, ed un nuovo trionfo delle Arti. Le Minori prevalsero però sulle Maggiori, e salirono quindi in auge i nemici degli Albizzi, come Giorgio Scali e più specialmente ancora Salvestro de' Medici. Questi, che era stato sin da principio il segreto promotore e manipolatore del tumulto, seppe profittare a suo proprio [254] vantaggio della reazione che ne seguì a danno della plebe e delle Arti Maggiori. Egli e non Michele di Lando fu veramente l'accorto politico, e ciò, secondo il Machiavelli stesso, il quale poi, non volendo lodare una condotta senza audacia e di soli sotterfugi, che mirava a distruggere la libertà, esaltò e idealizzò invece il modesto e ardito scardassiere, che non pensò mai ad abusare della fortuna, a danno del popolo ed a suo proprio vantaggio.
Quando incominciò più tardi la lunga guerra dei Fiorentini contro Giovan Galeazzo Visconti, chiamato il Conte di Virtù, signore di Milano, che voleva farsi padrone di tutta Italia, il governo di Firenze tornò di nuovo nelle mani delle Arti Maggiori e degli Albizzi, i quali condussero la guerra con energia e con mirabile patriottismo.[349] Ma essi dovettero aumentare le gravezze, e tener basso il popolo minuto, che ne restò naturalmente assai scontento. Laonde, quando appena cessarono i pericoli e si tornò alla pace, la moltitudine si sollevò subito, rivolgendosi a messer Vieri de' Medici, che divenne come il capo della Città, seguendo sempre la stessa accorta politica di aspettazione.
Il quarto libro descrive in qual modo i Medici arrivarono finalmente a toccare la mèta desiderata. S'incomincia dal 1420, facendo così un salto di parecchi anni, e si arriva fino al trionfo di Cosimo de' Medici, dopo il suo ritorno dall'esilio nel 1434. La ragione del salto non sta solamente nel non essere in quel mezzo seguiti fatti molto notevoli. Il Machiavelli si vale qui esclusivamente d'una nuova fonte, le Istorie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti, e queste incominciano appunto dal 1420.[350] [255] Il poco o nessun valore letterario dell'opera, la fece restar lungamente dimenticata; pure come narrazione di avvenimenti contemporanei, essa fu giudicata ed è veramente [256] una guida sicura. Il Machiavelli ebbe quindi ragione di giovarsene moltissimo, più assai che non fece di tutte le altre sue fonti. Qualche volta, mutandone solamente lo stile, la copia addirittura.
I Medici incominciano ora ad essere potenti davvero, ed egli sembra perciò rivolgere più che può lo sguardo dai fatti interni di Firenze, per fermarsi invece a parlare lungamente delle guerre esterne, che aveva finora sempre trascurate. Ne parla però solo per avere occasione a dir male dei capitani di ventura, a notare la funesta azione che esse ebbero sui partiti in Firenze, ponendo in luce l'arte infinita con cui i Medici seppero cavarne profitto. Prende dal Cavalcanti il racconto d'alcune di esse, e lo colorisce a suo modo; ne lascia però da parte altre non poche, seguendo il suo autore nella narrazione che egli ci lasciò dei fatti interni. Il Cavalcanti fa su di essi anche le sue considerazioni, esponendole in lunghissimi, eterni discorsi, che pone in bocca de' suoi personaggi. Questi discorsi sono retorici, gonfi, penosissimi a leggersi; ma hanno il pregio di contenere i ragionamenti che si facevano allora in Firenze. Ed il Machiavelli li imita, qualche volta li copia addirittura. Se non che, quelle retoriche cicalate, per la magica forza della sua penna, diventano eloquentissime, come anche le lunghe, monotone narrazioni del Cavalcanti diventano, spesso con pochi accorti mutamenti, rapide, efficaci, vivacissime. E se a ciò s'aggiunge la connessione logica de' fatti, che egli vi pone sempre di suo, capiremo come questo quarto libro delle Storie possa avere un proprio e non piccolo valore, nonostante la continua imitazione, la quale è tale davvero, che niuno può farsene un'idea chiara, senza paragonare fra loro i due autori. E dal paragone apparisce ancora con quanto poco un uomo di genio possa mutare un pessimo scritto in uno eccellente.
Dopo una breve introduzione sui pericoli che corre la libertà, se le buone leggi non frenano gli eccessi dei nobili, [257] che spingono alla oppressione, e quelli del popolo, che spingono alla licenza, il Machiavelli osserva come queste buone leggi le ebbero gli antichi, non le repubbliche italiane del Medio Evo, che perciò finiron tutte coll'aver bisogno d'essere da qualcuno comandate. «Un esempio manifesto ne dette Firenze, dove le parti nate per la discordia degli Albizzi e dei Ricci, e da messer Salvestro de' Medici con tanto scandalo risuscitate, mai non si spensero. Grandi furono certo i meriti degli Albizzi verso la patria; ma essi divennero subito insolenti, e si lacerarono per invidia fra di loro, il che dette modo ai Medici di riprendere sempre maggiore autorità sul popolo. Così Giovanni arrivò finalmente al primo magistrato, con grande allegrezza dell'universale. Ed invano i più savî, massime Niccolò da Uzzano, avvertirono che già si era al principio della tirannide.»[351]
Di qui si vien subito alla guerra contro Filippo Maria Visconti, che aspirava al dominio d'Italia. E gli Albizzi furono di nuovo a capo del governo, di nuovo conducendo con molta energia la guerra, che finì nel 1424 con la rotta di Zagonara.[352] Il Cavalcanti dice che la battaglia «incominciò grandissima e mortale;» ma che i Fiorentini furono per imperizia dei capitani circondati e messi in fuga. Il generale supremo fu fatto prigioniero; Lodovico degli Obizzi, uno dei capitani, fu morto; un terzo affogò nell'acqua.[353] Secondo l'Ammirato furono inoltre disarmati dal nemico 3200 cavalieri.[354] Tutto questo fa credere che, oltre i capitani, morissero anche parecchi soldati. Ma al Machiavelli, che pure ha dinanzi a sè la narrazione del Cavalcanti, non par vero di trovare [258] una prima occasione ad esprimere il disprezzo che aveva per le armi mercenarie, e senza parlare d'alcuna resistenza, conclude dicendo, che «in tanta rotta per tutta Italia celebrata, non morì altri che Ludovico degli Obizzi, insieme con due altri dei suoi, i quali cascati da cavallo, affogarono nel fango.»[355] Vedremo che lo stesso presso a poco egli ripete anche di altre guerre fatte allora, nelle quali la resistenza fu assai maggiore ed il numero dei morti meglio conosciuto.
La rotta di Zagonara ebbe per sua immediata conseguenza, la disfatta in Firenze delle Arti Maggiori e degli Albizzi. In tutte le piazze si gridava contro la loro ambizione. «Ora hanno creato costoro i Dieci per dar terrore al nimico? Ora hanno eglino soccorso Forlì e trattolo dalle mani del Duca? Ecco che si sono scoperti i consigli loro, ed a qual fine camminavano: non per difendere la libertà, la quale è loro inimica, ma per accrescere la potenza propria, la quale Iddio ha giustamente diminuita. Nè hanno solo con questa impresa aggravata la Città, ma con molte, perchè simile a questa fu quella contro al re Ladislao. A chi ricorreranno eglino ora per aiuto? A papa Martino, stato a contemplazione di Braccio straziato da loro? Alla reina Giovanna, che per abbandonarla l'hanno fatta gettare in grembo al re di Aragona?»[356] Chi mai crederebbe che questo discorso è addirittura calcato sopra quello già scritto dal Cavalcanti? E pure è così certamente.[357] Vennero [259] allora creati venti cittadini, per mettere nuove imposte, e pagar le spese della guerra. Essi però aggravarono principalmente i popolani grassi; e questi si radunarono in Santo Stefano, dove Rinaldo degli Albizzi tenne loro un discorso, che il Cavalcanti ci dà in quindici pagine, diluendo in un mare di frasi le proposte che furono fatte, e che il Machiavelli raccoglie, con grande evidenza, in poche parole. Bisognava rendere, disse l'Albizzi, lo Stato ai potenti, e torre autorità alle Arti Minori, riducendole da quattordici a sette.[358] Seguono ancora altri discorsi, che son sempre imitati dal Cavalcanti. E finalmente l'Albizzi riceve dai suoi incarico di guadagnare alla parte Giovanni dei Medici. Ma questi gli rispose dichiarandosi avverso alle novità, amico del popolo,[359] il che gli accrebbe subito favore grandissimo [260] nella Città. E qui il Cavalcanti continua, in venticinque capitoli, a parlare delle guerre esterne, che il Machiavelli tralascia quasi del tutto, ricordandone appena qualche aneddoto.
Seguìta la pace, rinacquero al solito le discordie, e Giovanni dei Medici favorì la legge del Catasto, la quale, dando modo di mettere le imposte secondo i redditi accertati, e non più ad arbitrio, era dal popolo grasso avversata, dal minuto desiderata, e fu vinta coll'aiuto di Giovanni,[360] che poco dopo morì (1429). La descrizione della sua morte, il discorso ai figli, e perfino il suo elogio son presi sempre dalla stessa sorgente, migliorandola con la solita arte.[361] Corre poi il Machiavelli rapidissimamente sopra altri fatti, ed arriva alla guerra contro Lucca, che riuscì in fine tutta a favore dei Medici. Deliberata, per opera d'Astorre Gianni e di Rinaldo degli Albizzi, i quali andarono commissari al campo, essa fu ben presto causa della loro rovina. Astorre Gianni si condusse con grande crudeltà contro Seravezza che pur si era già spontaneamente arresa. E però alcuni di quei cittadini vennero in Firenze, dicendo: «Questo vostro commissario non ha d'uomo altro che la presenza, nè di Fiorentino altro che il nome: una peste mortifera, una fiera crudele, un mostro orrendo, quanto mai da [261] «alcuno scrittore fosse figurato.»[362] Astorre allora fu richiamato, e l'Albizzi, pieno di sdegno perchè lo accusavano di aver mercanteggiato sugli approvvigionamenti dell'esercito e sulle prede di guerra, abbandonò il campo e rinunziò l'ufficio.[363] Dopo di che la guerra andò di male in peggio, ed i Fiorentini vennero disfatti presso il Serchio.
Il Machiavelli, ricordate in breve queste fazioni, che il Cavalcanti narra a lungo, introduce finalmente sulla scena Cosimo de' Medici, che da gran tempo aspettava l'occasione ormai vicina. Ne fa il ritratto, lodandone i modi, la prudenza singolare, la liberalità grandissima verso gli amici, della quale si valeva a divenir sempre più potente. Egli aveva prima favorito la guerra contro Lucca, ed ora che, condotta dall'Albizzi, era riuscita così male, taceva o ne faceva cadere su questo tutta la colpa. Il Barbadori che s'era avvisto dell'arte finissima, invano andò da Niccolò da Uzzano,[364] per indurlo ad unirsi [262] coll'Albizzi, e cacciare dalla Città Cosimo. Nel farci questo racconto, seguendo le tracce del Cavalcanti, il Machiavelli tralascia il discorso che questi pone in bocca del Barbadori; ma copia, modificandolo nella forma, quello dell'Uzzano, aggiungendovi di suo appena qualche riflessione. «E' si farebbe per te, per la tua casa e per la nostra Repubblica, che tu e gli altri che ti seguono in questa opinione, avessero la barba piuttosto d'ariento che d'oro, perchè i loro consigli, procedendo da capo canuto e pieno di esperienza, sarebbero più savî e più utili a ciascheduno.»[365] «Questa nostra parte voi la chiamate dei nobili; ma se così è, io ti ricordo che i nobili furono sempre in Firenze vinti dalla plebe. Ed ora si aggiunge, che noi siamo divisi e gli avversari sono uniti.[366] Cosimo ha poi in mille modi beneficato il popolo.» «Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perchè egli è pietoso, officioso, liberale e amato da ciascuno. Dimmi un poco qual legge è quella che proibisca o che biasimi e danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore?[367] E benchè siano modi tutti che tirino gli uomini volando al principato, nondimeno e' non sono creduti così, e noi non siamo sufficienti a dargli ad intendere, perchè i modi nostri ci hanno tolta la fede.» «Certo, sebbene e' sia molto difficile il cacciare Cosimo, pure, avendo una Signoria amica, si potrebbe riuscirvi. [263] Ben presto però egli tornerebbe,» «e ne avreste guadagnato questo, che voi l'avreste cacciato buono, e tornerebbeci cattivo, perchè la natura sua sarebbe corrotta da quelli che lo revocassero, a' quali sendo obbligato, non si potrebbe opporre.»[368] Fu quello che in fatti seguì; e di quest'ultima osservazione venne data gran lode al Machiavelli; ma essa, come quasi tutto il discorso, si trovava già nel Cavalcanti.
Niccolò da Uzzano morì, e restarono a contendersi Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de' Medici, che coi loro seguaci tenevano da capo divisa la Città. «Qualunque volta,» così scrive il Machiavelli, seguendo sempre il suo modello, «si creava un magistrato, si diceva pubblicamente quanti dell'una e quanti dell'altra parte vi sedevano, e nella tratta de' Signori stava tutta la Città sollevata. Ogni caso che veniva davanti ai magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in gara; i segreti si pubblicavano; così il bene come il male si favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano lacerati; niuno magistrato faceva l'ufficio suo.»[369] [264] E quando stava per essere eletto gonfaloniere Bernardo Guadagni, amico dell'Albizzi, questi, ad evitare che la elezione fosse annullata, gli dette il danaro necessario per soddisfare alle imposte da lui non ancora potute pagare,[370] chiedendogli che si adoperasse nel nuovo ufficio a cacciar dalla città Cosimo de' Medici, divenuto sempre più potente. Anche nel riferire questo discorso, il Machiavelli ci dà un sunto fedele di quello che si legge nel Cavalcanti. «Gli ricordò che se messer Salvestro dei Medici aveva potuto ingiustamente frenare la grandezza de' Guelfi, ai quali spettava il governo della Città, a cagione del sangue dai loro antenati per essa versato, ben poteva egli giustamente fare contro un solo, quello che ingiustamente era stato fatto dagli altri contro tanti.[371] Confortollo a non temere, perchè gli amici lo avrebbero aiutato colle armi, e Cosimo dalla plebe, che ora sembrava adorarlo, non trarrebbe altri favori che si facesse già messer Giorgio Scali; nè v'era da dubitare delle ricchezze di lui, perchè, quando fosse preso dai Signori, anderebbero anch'esse nelle loro mani. Questo renderebbe finalmente la Repubblica sicura ed unita, e lui glorioso.»[372]
Dal Cavalcanti è preso tutto il racconto della prigionia, dell'esilio e del ritorno trionfale di Cosimo, non solo nelle linee generali, ma anche nei minuti particolari e nei [265] discorsi.[373] Molti incidenti si trovano nel suo libro che non sono in quello del Machiavelli, ma nessuno quasi è nel secondo, che non sia nel primo. Ed anche le parole di rimprovero, che nella fine di questo libro, l'Albizzi, costretto ad esulare, dice a papa Eugenio IV, sono prese dalla stessa fonte.[374] Il Machiavelli però, come sempre, aggiunge col nuovo stile anche la connessione e la profonda intelligenza dei fatti. Egli in vero fu il primo che fece vedere, come la guerra portò al potere gli Albizzi con le Arti Maggiori, e la pace vi portò invece le Minori, dietro le quali stavano come in continuo agguato i Medici, che ottennero il favore della plebe, facendo mostra di favorirla, per poi opprimere tutti. Così potè trasformare in una storia originale e nuova, che poneva in luce l'arte più segreta dei Medici, la narrazione lunga e noiosa del Cavalcanti, scritta pessimamente, nella quale i fatti più gravi e gl'incidenti più insignificanti sono messi gli uni accanto agli altri, senza legame, senza ordine o distinzione di sorta, perdendo il loro significato, il loro proprio valore. Il paragone fra le due opere riesce quindi assai utile, ed è perciò che noi abbiamo creduto opportuno di fermarci a discorrerne così a lungo.
[266]
Le Istorie fiorentine. — I libri V e VI, il trionfo dei Medici e le guerre d'Italia. — I libri VII e VIII, Lorenzo dei Medici e le congiure. — I Frammenti storici. — Gli Estratti di lettere ai Dieci di Balìa. — La prima bozza delle Istorie.
I quattro libri che seguono, costituiscono la terza ed ultima parte delle Storie, e procedono assai meno ordinati. Il Machiavelli avrebbe qui dovuto parlare del dispotismo dei Medici, e dei modi con cui distrussero la libertà. Ma era un argomento assai difficile per lui. Anche lodando le loro buone qualità, avrebbe dovuto biasimare aspramente la loro condotta politica, e non poteva farlo con la necessaria libertà, in un'opera dedicata a Clemente VII, che gliene aveva fatto avere la commissione. Il 30 agosto 1524 egli scriveva al Guicciardini: «Attendo in villa all'istoria, e pagherei dieci soldi, non voglio dire di più, per consultarvi; giacchè sono venuto a un punto, che avrei bisogno d'intendere da voi, se offendo troppo con l'esaltare o abbassare. Pure m'ingegnerò di fare in modo che, dicendo il vero, nessuno si possa dolere.»[375] Nel quinto e sesto libro perciò egli si ferma lungamente a parlare delle guerre fiorentine, anzi delle italiane in generale, per sempre più condannare i capitani di ventura, dimostrando di nuovo che essi furon causa della rovina d'Italia. Solo di tanto in tanto ritorna ai fatti interni di Firenze, pei quali continua a valersi del Cavalcanti; ma poi subito ne rifugge, per discorrer nuovamente delle guerre, nel raccontar le quali si vale di Flavio Biondo, di Gino Capponi e del Simonetta, che ne furono spesso testimoni oculari.
[267]
Dopo avere adunque accennato alle sue ben note idee sul crescere e decadere degli Stati, osserva che nelle umane società prima sorgono i capitani e le armi, poi la filosofia e le lettere. «Le armi portano vittoria, la vittoria quiete, nè si può la fortezza degli animi con il più onesto modo, che con quello delle lettere corrompere. L'Italia percorse anch'essa queste vicende, riuscendo con gli Etruschi ed i Romani ad essere ora felice, ora misera. E sebbene, dopo la rovina dell'Impero, non si fece nulla che riuscisse a redimerla, riunendola sotto un virtuoso principe che sapesse farla gloriosamente operare, pure essa potè per qualche tempo avere la virtù necessaria a difendersi dai barbari. Ma si venne poi a tempi i quali non furono per la pace quieti, nè per la guerra pericolosi. I principi e gli Stati, è vero, si assaltavano l'un l'altro; ma non si possono chiamare guerre quelle in cui gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiano, i principati non si distruggono. Esse si cominciavano senza paura, trattavansi senza pericolo, finivansi senza danno. E così quella virtù militare, che altrove fu spenta dalla lunga pace, venne fra di noi spenta da tali guerre, come si vedrà per ciò che diremo dal 1434 al 1494, quando fu di nuovo aperta la via ai barbari, e rimessa l'Italia nella loro servitù.» «E se nel descrivere le cose seguite in questo basso mondo, non si narrerà o fortezza di soldati o virtù di capitani o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie ed arti i principi, i soldati e capi delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevano meritata, si governavano.»[376] Questa è la introduzione al quinto libro.
Comincia poi il Machiavelli a parlar delle due scuole della milizia italiana, capitanate l'una da Francesco Sforza, l'altra da Niccolò Fortebracci e da Niccolò Piccinini. [268] Narra rapidamente, incompiutamente, con assai poca esattezza le loro imprese nello Stato della Chiesa dopo l'anno 1433,[377] sempre col solo scopo di far conoscere la triste natura di quelle guerre, le grandi rovine che portarono alla libertà ed all'Italia. E tutto ciò, ora venendo bruscamente ai fatti interni di Firenze, ora allontanandosene di nuovo non meno bruscamente. Il ritorno trionfale di Cosimo, e le persecuzioni che subito ne seguirono, conducono l'autore a fare alcune osservazioni, le quali rivelano che cosa egli veramente pensasse di quei fatti, e perchè rifuggisse dal narrarli. «Ai cittadini allora non solo l'umore delle parti nuoceva; ma le ricchezze, i parenti, le inimicizie private. E se questa proscrizione fosse stata dal sangue accompagnata, avrebbe a quella d'Ottaviano e di Silla renduto similitudine, ancora che in qualche parte nel sangue s'intingesse; essendo stati decapitati Bernardo Guadagni ed altri cittadini.»[378] Non furono mutati i magistrati, ma alterate le loro attribuzioni, diminuita la loro importanza politica. Si trovò con le Balìe il modo d'assicurare in favore dei [269] Medici le nuove elezioni, anzi questa fu poi sempre la loro arte di governo.[379] Poco altro ci dice della storia interna di Firenze il quinto libro, che torna ora a parlar delle principali guerre italiane, sulle quali assai più lungamente si ferma.[380]
Da Firenze si salta in fatti alla morte di Giovanna II di Napoli, alla venuta di Alfonso d'Aragona ed alla guerra da lui sostenuta contro i Genovesi, che lo fecero prigioniero insieme con due suoi fratelli, e li condussero al duca Filippo M. Visconti, per ordine del quale avevano combattuto. Qui il Cavalcanti immagina uno strano e assurdo discorso del Duca, dopo del quale esso avrebbe senz'altro liberato i prigionieri, colmandoli di cortesie, con parole sempre retoriche, ampollose e vuote.[381] Il Machiavelli compone invece un discorso, mediante il quale Alfonso d'Aragona avrebbe, con assai accorte ragioni, persuaso il Duca a lasciarlo libero. Questo discorso non ha certo nulla di storico; ma espone quali furono le vere ragioni che, secondo il Machiavelli, dovettero decidere il Duca a liberare i prigionieri. «A lui più che ad altri era pericoloso,» così gli avrebbe detto il Re, «col tener prigionieri gli Aragonesi, far trionfare in Napoli gli Angioini. Milano avrebbe allora avuto i Francesi a settentrione [270] ed a mezzogiorno, rimanendo così in loro balìa. A nessuno quindi più che a lui importava il trionfo degli Aragonesi in Napoli, se già ei non volesse soddisfare ad un suo appetito, piuttosto che assicurarsi lo Stato.»[382]
Segue, in conseguenza di ciò, la rivoluzione dei Genovesi, sdegnati d'aver combattuto invano, vedendosi costretti a ricondurre liberi sulle proprie navi i prigionieri che avevano presi. Di qui la loro alleanza con Firenze e Venezia contro Milano, che fu difesa dalle armi di Niccolò Piccinini.[383] Ed ora il Machiavelli incomincia a valersi dei Commentarî di Neri Capponi, giovandosene anche nel narrare le guerre tra lo Sforza ed il Piccinini.[384] Va d'un tratto alle vicende del celebre e fiero cardinal Vitelleschi, che raccoglie da Flavio Biondo.[385] E si ferma poi a narrare la battaglia d'Anghiari, vinta dai Fiorentini con le loro armi mercenarie, contro l'esercito del Piccinini, il quale combatteva pel Visconti. Qui si lascia trascinar nuovamente dalla voglia di parlar [271] male dei soldati di ventura. Avendo dinanzi a sè scrittori autorevoli, che davano narrazioni minute e fedeli della battaglia, se ne allontana per esagerar contro il vero, in modo appena credibile. Dopo aver detto che il Piccinini fu disfatto pienamente, aggiunge che «in tanta rotta, in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì altri che un uomo, il quale non di ferite o altro virtuoso colpo, ma, caduto da cavallo e calpesto, espirò.» «I capitani non vollero inseguire il nemico, ma contro il volere dei commissari fiorentini, contro ogni buono ordine di guerra, andarono in Arezzo a deporre la preda fatta, liberando gli uomini d'arme che avevano presi al nemico. Onde è da meravigliarsi solamente, che si fosse trovata in questo tanta viltà da lasciarsi vincere da un esercito siffatto.»[386] Eppure nulla di tutto ciò dicono gli scrittori del tempo. Il Capponi, che era commissario al campo, si duole molto dell'esercito; ma afferma che il nemico venne inseguito sino ai fossi degli alloggiamenti, e che furono fatti 1540 prigionieri. Parlando poi della cura che i Fiorentini dovettero prendere dei loro feriti, ci fa chiaramente capire che la battaglia non era stata senza sangue, come affermò poi il Machiavelli.[387] Flavio Biondo, che per questi tempi è anch'esso molto autorevole, parla di sessanta morti e quattrocento feriti tra i ducheschi, di dugento feriti e dieci morti tra i Fiorentini, oltre seicento cavalli d'ambo le parti, distesi sul suolo dalle artiglierie. E aggiunge che il capitano Astorre Manfredi fu fatto prigioniero dopo essere stato ferito.[388] Il Bracciolini dice che vi furono quaranta morti e molti feriti da parte del nemico.[389]
[272]
Dopo avere narrata la presa del Casentino, per opera del commissario Capponi,[390] e la morte di Rinaldo degli Albizzi, il Machiavelli finisce il quinto ed incomincia il sesto libro, tornando nella introduzione di esso a deplorare il modo con cui allora si facevano le guerre. Narra le fazioni di Lombardia tra il Piccinini, che era ai servigi del Duca, e lo Sforza, che combattè prima pei Veneziani e pei Fiorentini; poi, mutato padrone, pel Duca contro il Piccinini, che ora aveva mutato anch'egli. E qui l'autore torna bruscamente ai fatti di Firenze, dicendo come Cosimo era vissuto in gelosia grandissima verso Neri Capponi e Baldaccio d'Anghiari, il quale venne poi ucciso a tradimento e gettato dalle finestre di palazzo.[391] Di questo ultimo fatto il Cavalcanti ed il Machiavelli[392] danno tutta la colpa agli amici di Cosimo; ma il Guicciardini, forse con maggior verità, afferma invece che primo ordinatore dell'assassinio fu Cosimo stesso, il quale seppe operare in maniera da disfarsi d'uno dei due nemici, indebolendo anche l'altro, senza potere essere accusato da alcuno.[393]
E da capo, giacchè questo libro, al pari del precedente, manca d'ogni unità, si ripiglia la narrazione delle guerre di Lombardia fino a che muore il Duca senza eredi, come [273] da tanto tempo aspettava lo Sforza, suo capitano e suo rivale. Il Machiavelli si ferma qui a narrare la storia della repubblica ambrosiana, che commise l'errore di scegliere a suo capitano lo Sforza, il quale iniquamente la tradì, rivolgendo contro di essa quelle armi che erano a lui pagate per difenderla. Ma sebbene avesse dinanzi a sè la narrazione dello storico Simonetta,[394] pure, essendo egli avversissimo allo Sforza, perchè capitano di ventura e distruttore di una repubblica, colorisce a suo capriccio la brutta storia,[395] senza voler rendere giustizia neppure all'ingegno politico e militare di lui. E rende anche più singolare il suo racconto, ponendo in bocca dei rappresentanti della tradita città, un discorso, che certo essi non avrebbero mai osato di fare allo Sforza; ma che esprime invece, in modo assai chiaro ed eloquente, il giudizio che il Machiavelli faceva della condotta di lui. Venuti adunque al campo del vittorioso traditore, essi così avrebbero parlato: «Noi non possiamo adoperare nè prieghi, nè premi, nè minacce, perchè negli uomini potenti e crudeli non hanno forza. Conoscendo ora la crudeltà ed ambizione tua, vogliamo solo ricordarti i benefizî che hai ricevuti dai Milanesi, per dimostrarti così la tua ingratitudine, e gustare qualche piacere nel rimproverarteli. Noi ti pigliammo al nostro soldo, quando eri da tutti abbandonato, e tu subito incominciasti a tradirci. Chè non differisti insino ad ora a dimostrarci l'iniquo animo tuo; ma ne desti segno, quando fosti appena [274] padrone delle nostre armi, ricevendo in tuo proprio nome Pavia. Oh! infelici quelle città che sono, colle armi mercenarie ed infedeli come le tue, necessitate a difendersi. Noi certo non dovevamo porre speranza in colui che aveva tante volte tradito; ma se la nostra poca prudenza accusa noi, non scusa perciò la perfidia tua, e tu stesso dovrai giudicarti degno della pena dei parricidi.»[396]
Queste guerre dello Sforza sono, può dirsi, l'argomento principale del quinto e del sesto libro. In mezzo al disordine apparente con cui esse procedono, il Machiavelli vede ed espone assai chiaro il loro scopo costante, che ne determina l'unità. La vita di quel capitano, i mezzi con cui arrivò all'ambita signoria di Milano, scalzando prima la potenza del Duca, e tradendo poi perfidamente la repubblica ambrosiana, riescono il più chiaro esempio d'una pertinace e sleale ambizione, dando un'altra prova manifesta della nessuna fede che si poteva avere negli eserciti di ventura, ed in coloro che li comandavano. Dopo di che il Machiavelli narra altre guerre, ed arriva alla fine del sesto libro, conchiudendolo con le vicende seguìte nel reame di Napoli sino alla morte d'Alfonso d'Aragona, ed all'avvenimento di Ferrante al trono.
Incomincia poi il settimo libro collo scusarsi d'avere troppo divagato nella storia generale d'Italia; ma ciò gli parve necessario a far meglio intendere quella di Firenze, alla quale ora ritorna per poco, premettendo alcune nuove riflessioni sui modi con cui i Medici, in mezzo alle divisioni, si fecero strada al potere assoluto. «Le divisioni sono in tutte le città inevitabili; ma i capi di parte possono divenire autorevoli e potenti per vie pubbliche o per vie private. Quando si compie lodevolmente una guerra o un'ambasceria, quando si danno utili consigli alla repubblica, allora si sale per vie pubbliche, giovando [275] alla patria, e si trovano amici e aderenti. Quando si rendono benefizî o favori ai privati, e si gratificano con danari o con ufficî; quando si trattiene il popolo con giuochi e feste pubbliche, allora si sale per vie private, e si fanno partigiani che danno origine alle sètte, le quali sono sempre nocive. Queste deve un savio legislatore cercare di spegnere, non potendo mai evitare del tutto le divisioni. Neri Capponi era salito solamente per vie pubbliche; Cosimo de' Medici, per vie pubbliche e private, onde ebbe non solo amici, ma anche partigiani, che formarono una sètta. Essa si tenne più o meno unita dal 1434 al 1455, e potè quindi in ventun anno, per mezzo delle Balìe, riassumere sei volte il governo. Ma dopo la morte del Capponi (1455) i partigiani de' Medici si divisero, volendo alcuni da capo la Balìa, altri le elezioni a sorte. Vinsero i primi, e la sètta divenne allora più potente e audace che mai. Fu questo governo che durò otto anni, insopportabile e violento, perchè Cosimo, vecchio e stanco, lasciò fare ai suoi, che restarono senza freno, e Luca Pitti, suo amico, pensò solo a costruire il proprio palazzo ricevendo donativi da ognuno.»[397]
Segue nel 1464 la morte di Cosimo, ed il Machiavelli deve fermarsi a farne l'elogio. Dice adunque che egli fu esempio unico di potere acquistato in città libera, senza le armi, solo con la prudenza e l'astuzia. Seppe per trentun anno tenere lo Stato, rivolgendo così le divisioni interne della Città come le guerre esterne a proprio vantaggio, perchè conosceva i mali discosto e preparava i rimedî a tempo. Accenna alla protezione data da Cosimo alle lettere ed alle arti; ma neppure in questo luogo trova modo di parlare alquanto largamente della nuova cultura che fu allora iniziata a Firenze, e nella quale i Medici ebbero così gran parte. Non volendo o non potendo dir tutto quello che pensava del carattere [276] politico di Cosimo, conclude ricordandone alcuni detti, che abbastanza chiaramente lo dipingono anche nelle sue parti meno lodevoli. — Gli Stati non si governano coi paternostri. — Meglio città guasta che perduta. — Con due canne di panno rosate si fa un uomo dabbene.[398] — Con queste ultime parole Cosimo rispondeva a coloro che lo accusavano di fare entrare nel Palazzo e negli ufficî uomini di poco conto. Basta, egli voleva dire, che si dia loro il panno rosso per farsi il lucco, che saranno cittadini rispettabili come gli altri.
Qui la storia del Machiavelli entra in un nuovo argomento, che forma il soggetto principalissimo dei due ultimi libri. La società italiana s'andava sempre più corrompendo; il dispotismo trionfava per tutto; le guerre erano condotte in modo sempre più vergognoso: unica protesta, unico segno d'energia e d'amore alla libertà erano le congiure, che in questi anni furono molte. E però esse e le arti con cui i tiranni cercavano difendersi contro i proprî sudditi, sono ora il soggetto principale della narrazione. I fatti che il Machiavelli deve da qui innanzi esporre, si trovavano ricordati in molti scrittori contemporanei, ed erano allora freschi nella memoria di tutti. Una ricerca ed uno studio delle fonti è quindi inutile. Egli narrava quello che tutti sapevano e ripetevano; cercava qualche volta le altrui narrazioni ed anche i documenti autentici, qualche altra s'affidava alla memoria. Ciò che ora sopra tutto l'occupa è l'analisi delle passioni e dei sentimenti che animavano i congiurati, le cui imprese egli descrive, rappresenta con una eloquenza, con una potenza tale che alcune di queste pagine sono fra le più belle della sua storia. Ma anche qui, a meglio ottenere il suo intento, più d'una volta non ha scrupolo d'aggiustare i fatti, e comporre i discorsi a suo arbitrio.
Incomincia col narrare la fine di Iacopo Piccinini, il [277] quale da Milano, incoraggiato dallo Sforza, andò a Napoli, dove fu proditoriamente ucciso da Ferrante d'Aragona. Il Machiavelli non esita punto a vedere in ciò l'accordo ed il tradimento dei due principi italiani, i quali, come tutti i tiranni, «quella virtù che non era in loro, temevano negli altri, e la spensero in modo da non poterla più ritrovare in alcuno, il che fu poi causa della rovina comune.»[399] Il Guicciardini invece è più cauto, ed osserva che se pure vi fu l'accordo, sempre sdegnosamente negato dallo Sforza, non era possibile averne certezza, perchè i due sovrani non lo avrebbero mai concluso in modo da farlo conoscere agli altri.[400]
Segue la congiura tramata a Firenze contro Piero dei Medici, uomo debole d'animo e di corpo, ma che pure, in questa occasione, riuscì superiore all'aspettativa. Il Machiavelli nondimeno colorisce il fatto in modo da far risaltare anche più del giusto la prudenza e prontezza dimostrate allora da Piero. Questi ricevette da Ercole Bentivoglio una lettera, con cui venne avvertito che i suoi nemici avevano raccolto genti, le quali già erano in via per Firenze. Allora, sebbene fosse ammalato in villa, scrisse subito, dando ordini per avere armati in sua difesa e, accompagnato da essi, si fece in lettiga portare nella Città, dove la sua inaspettata prontezza gli fece trovar modo di aggiustar le cose. Ma di tutto ciò il Machiavelli non si contenta, e per descrivere Piero anche più astuto che non fu realmente, afferma che egli, accortosi delle trame contro di lui ordite, finse d'aver ricevuto la lettera dal Bentivoglio, perchè gli servisse di pretesto ad armarsi improvvisamente. Questa infedeltà storica da esso ideata a favore del Medici, non gl'impedisce però di biasimare la condotta tenuta da lui e dagli amici nel perseguitare gli avversarî, in modo «che pareva che Iddio avesse loro [278] dato quella Città in preda.»[401] Nè si può supporre che simili errori siano sempre involontarî, perchè vi sono spesso prove del contrario. Un esempio ne abbiamo poco dopo, quando gli esuli che volevano tornare a Firenze, si rivolsero a Piero. Gli scrisse fra gli altri Angelo Acciaiuoli, chiedendo grazia con un linguaggio alquanto ironico, e quasi offensivo, cui egli rispose negando la grazia, in modo però abbastanza cortese e dignitoso. Sono a stampa le due lettere, che il Machiavelli certo vide, perchè ne riporta fedelmente alcune frasi, alterandone però il resto in maniera da fare apparire l'Acciaiuoli più rimesso, e Piero più duro e cinico che non fu.[402] Dominato dalle sue teorie, e qualche volta anche eccentrico, egli obbediva spesso al solo capriccio della sua fantasia.
Non fu quindi senza ragione se l'Ammirato, giunto a questi medesimi tempi nelle sue Storie fiorentine, perdè la pazienza, e dopo avere notato in quelle del Machiavelli diversi errori, affermò che esso «scambia i nomi e gli anni, aggiunge, toglie, diminuisce, e, quello che è più, non sempre per solo errore, ma anche a disegno e per rendere la sua narrazione più eloquente.»[403] Ed in vero poco più [279] oltre, nel descrivere la battaglia seguìta l'anno 1466 alla Molinella, tra i Veneziani e i Fiorentini, egli finisce al solito con queste parole: «Vennero a una ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno, senza che niuna delle parti inclinasse. Nondimeno non vi morì alcuno; solo vi furono alcuni cavalli feriti, e certi prigionieri da ogni parte presi.»[404] Anche qui, l'Ammirato giustamente osserva, v'è grandissima esagerazione,[405] perchè gli scrittori del tempo parlano tutti più o meno di parecchie centinaia di morti, ed il Guicciardini dice addirittura, che quello fu «un bel fatto d'armi.»[406]
Ed ora si torna alle congiure. Bernardo Nardi, esule fiorentino, messosi d'accordo con Diotisalvi Neroni, andò [280] a Prato per sollevare quella terra contro Firenze e contro Lorenzo e Giuliano dei Medici, che erano allora successi a Piero. Nel narrare questo fatto, il Machiavelli ci descrive una scena ignorata dagli altri scrittori, ma assai poco credibile. Il Nardi, secondo lui, s'impadronì del Podestà, ed era per impiccarlo alle finestre del Palazzo, quando questi, trovandosi col capestro al collo, gli fece un discorso così ben ragionato, con tali e tante promesse, che lo persuase a lasciarlo andar via libero.[407] Allora il Podestà fu di nuovo padrone della terra, la congiura andò a monte, ed il Nardi venne decapitato. Il vero è invece che l'impresa fallì, perchè il popolo non si mosse, ed al rappresentante del governo fiorentino non fu quindi difficile vincere subito i ribelli e punirli.
Dopo la rivoluzione, la sottomissione ed il sacco crudelissimo di Volterra, il Machiavelli arriva all'episodio principale del settimo libro, alla congiura, cioè, scoppiata contro Galeazzo Sforza duca di Milano nel 1476. Lo stile qui si rialza con un vigore che va crescendo sino alla tragica fine del sanguinoso dramma. L'autore descrive con la penna di Tacito i vizî del Duca, che tutti offendeva, tutti insultava, pubblicamente vantandosi delle donne che disonorava, e l'odio feroce che negli offesi animi sorgeva perciò contro queste iniquità. Nel comporre la sua narrazione egli di certo aveva letto la coraggiosa confessione dell'Olgiati, che fu poi pubblicata dal Corio, e però con molta verità, con singolare eloquenza ci pone sotto gli occhi l'animo esaltato di quel giovane e de' suoi due compagni, continuamente riaccesi a cospirare, con la lettura dei classici latini, dal loro maestro Niccola Montano. I discorsi e preparativi che essi facevano, i continui esercizî a ferirsi impetuosamente colle guaine dei pugnali, e sopra tutto la strana mescolanza d'odio pagano contro la tirannide, e di sentimento cristiano, col quale volevano [281] santificare quell'odio, sono descritti, rappresentati con tale evidenza, che noi abbiamo una visione tanto chiara e precisa del modo di sentire e di pensare in quei tempi, quale non si trova nè forse si troverà mai più in nessun altro scrittore antico e moderno. Il Machiavelli supera veramente sè stesso, quando, narrata che ha l'uccisione del Duca nella Chiesa, ci descrive la fine eroica dell'Olgiati, il solo dei congiurati che scampò al primo impeto del furor popolare. Sottomesso alla tortura, egli, come apparisce anche dal suo processo, invocava la Vergine e componeva distici latini, esaltando la libertà, ed affrontando impavido la morte.[408] La prosa italiana difficilmente può presentarci esempî d'uno stile più vigoroso ed eloquente di quello del Machiavelli in questo luogo.
Pure seppe innalzarsi ancora più alto. L'ottavo libro continua il settimo, trattando lo stesso argomento. E perchè le considerazioni generali sulle congiure furono già esposte nei Discorsi, l'autore non fa su di esse nuovi preamboli, ma incomincia subito con quella dei Pazzi, scoppiata a Firenze l'anno 1478. Questa può dirsi il punto culminante della tenebrosa serie dei fatti sanguinosi, ricordati nei due ultimi libri delle Storie. Il Poliziano ed altri testimoni oculari l'avevano narrata, essa era quindi notissima a tutti in Firenze. Il Machiavelli aveva di certo parlato con più d'uno di coloro che vi si erano trovati presenti, ed aveva letto la confessione del Montesecco,[409] uno dei congiurati, la quale venne divulgata quattro mesi dopo l'accaduto, ed è ricordata anche dal Guicciardini.[410] La narrazione d'una tale congiura non poteva quindi permettere [282] capricciose alterazioni; ed essa riuscì non solo esatta e fedele, ma anche un vero capolavoro di stile. La propria eloquenza trascina solo una o due volte l'autore, facendogli aggiungere di fantasia qualche particolare assai secondario, che senza mutar la natura dei fatti, serve a più vivamente colorirli. Di tanto in tanto il racconto, sempre vivace, sempre efficace, è interrotto da brevi considerazioni, esposte rapidamente come di passaggio, in modo da aggiungere, non da togliere forza.
Il Montesecco, sebbene fosse un soldato di ventura, ricusò di prender parte alla esecuzione della congiura, quando seppe che Lorenzo e Giuliano dovevano essere pugnalati in Duomo, nel momento della elevazione dell'ostia. Non volle unire il sacrilegio al tradimento. Vennero quindi scelti in fretta due altri, uno dei quali era prete, e si credeva perciò che, avendo con le cose sacre maggiore familiarità, dovesse avere minori scrupoli. Ma questo fu invece causa della rovina dell'impresa, «perchè se mai in alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo, e nella vita e nella morte per molte esperienze risoluto, è necessario averlo in questa, dove si è assai volte veduto agli uomini nell'arme esperti e nel sangue intrisi l'animo mancare.»[411] Il Machiavelli è insuperabile, quando descrive i congiurati che, per esser sicuri di colpire a un tratto le due vittime predestinate, cercarono Giuliano e lo condussero in chiesa. «È cosa veramente degna di memoria, che tanto odio, tanto pensiero di tanto eccesso si potesse, con tanto cuore e tanta ostinazione d'animo, da Francesco (dei Pazzi) e da Bernardo (Bandini) ricoprire. Perchè condottolo nel tempio, [283] e per la via e nella chiesa con motteggi e giovanili ragionamenti l'intrattennero. Nè mancò Francesco, sotto colore di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo, per vedere se lo trovava di corazza o d'altra simile difesa munito.»[412] Di poi, nel momento fissato, gittatoglisi sopra, «lo empiè di ferite, e con tanto studio lo percosse, che, acciecato da quel furore che lo portava, sè medesimo in una gamba gravemente offese.» Lorenzo era scampato al pugnale degli assassini, ed il Bandini, vistolo ancora vivo dopo che Giuliano era morto, invano gli si scagliò contro con grandissimo impeto, ammazzando un altro che gli si parò allora dinanzi, perchè Lorenzo fu in tempo a salvarsi nella sagrestia.[413] Il tumulto divenne tale «che pareva il tempio rovinasse.»[414] La tremenda confusione di uomini, di grida, di ferite e di sangue è qui viva dinanzi a noi, nè meno vivamente sono descritte le stragi che nei giorni seguenti furono commesse dal popolo adirato, sempre più eccitato all'odio ed alla vendetta contro i congiurati dallo sdegno irrefrenabile di Lorenzo dei Medici. Francesco dei Pazzi venne con altri impiccato alle finestre del Palazzo; il suo vecchio parente, Iacopo, invano chiamò in aiuto il popolo, invano gridò il nome della libertà. «L'uno era dalla fortuna e liberalità dei Medici fatto sordo, l'altra in Firenze non era conosciuta.... Le membra dei morti o sopra la punta [284] delle armi fitte o per la Città trascinate si vedevano.»[415] Iacopo fu preso, mentre fuggiva su pei monti vicini, nè i montanari gli dettero ascolto, quando pregò che per pietà l'ammazzassero. Condannato a morte e sepolto nella tomba de' suoi, ne venne tirato fuori perchè scomunicato, e fu sotterrato lungo le mura. Poi di nuovo lo disseppellirono, trascinandolo per le vie della Città, collo stesso capestro col quale lo avevano impiccato. Finalmente il cadavere venne gittato in Arno, dove galleggiò lungo tempo, spettacolo orrendo agli occhi di tutti.[416]
Dopo questo episodio principalissimo, l'ottavo ed ultimo libro continua con la narrazione di altre guerre e congiure italiane, arrivando sino alla morte di Lorenzo dei Medici nel 1492, con la quale finisce. Il Machiavelli si ferma qui a descriverne il carattere ed a tesserne l'elogio. Lo dice potente e fortunato in tutto, salvo nelle cose del commercio, che andarono a lui tanto male, quanto erano andate bene a Cosimo. Accenna, in termini assai generali, alle opere pubbliche da lui compiute, alla protezione data alle arti ed alle lettere, alla grande reputazione acquistata fra tutti i principi. «La quale riputazione ciascun giorno per la prudenza sua cresceva, perchè era nel discorrere le cose eloquente ed arguto, nel risolvere savio, nell'eseguirle presto ed animoso. Nè di quello si possono addurre vizî che maculassero tante sue virtù, ancora che fosse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse d'uomini faceti e mordaci, e di giuochi puerili più che a un tanto uomo non pareva si convenisse.»[417] Questi elogi, sebbene in gran parte meritati, e da tutti universalmente ripetuti, sono pure espressi in forma alquanto vaga e generica, perchè il Machiavelli non sapeva senza riserve, [285] esplicite o sottintese, ammirare colui che aveva con tanta astuzia finito di distruggere la libertà di Firenze, e s'era dato a proteggere letterati ed artisti, quando invece vi sarebbe stato bisogno di formare soldati. Il Guicciardini, invece, che non ebbe mai troppo ardenti entusiasmi repubblicani, e scrisse la Storia fiorentina nella sua gioventù, quando i Medici erano in esilio, e non si prevedeva ancora che potessero tornare, si trovò, nel parlare di Lorenzo, in una condizione d'animo più libera ed indipendente. Ce ne lasciò quindi un ritratto assai fedele, un giudizio più sicuro e determinato. Lo dichiara un tiranno, ma il più amabile che si potesse avere. Ne riconosce e ne esalta l'ingegno vario, elegante, originale. Come uomo politico lo crede inferiore a Cosimo, che in condizioni assai più difficili corse minori pericoli, e fondò uno Stato che Lorenzo fu spesso in procinto di perdere. Questi ebbe una superbia grande, governò col sospetto e collo spionaggio, esaltò gli uomini di poco conto, abbassò i più autorevoli e reputati, promosse la corruzione. E tutto ciò il Guicciardini dice colla massima calma, senza mai esaltarsi nè in favore, nè contro la libertà o i Medici.[418]
Seguono ora i Frammenti storici,[419] che son brani staccati, [286] i quali dovevano formar parte dei libri seguenti, che non furono mai compiuti. Se diamo ad essi un'occhiata, vedremo facilmente come furono compilati dal Machiavelli, ed apprenderemo anche il modo da lui tenuto nel comporre il più recente periodo delle sue Storie. Questi Frammenti vanno dal 1494 al 1499, e sono divisi in due parti, la seconda delle quali, ancora più informe, è intitolata: [287] Estratto di lettere ai Dieci di Balìa. I Dieci ricevevano, com'è noto, le lettere dei commissarî di guerra e degli ambasciatori. Da esse il Machiavelli ricavò i suoi Estratti, che sono semplici appunti, con i quali compose poi i Frammenti, che sono già brani staccati da far parte delle Storie, generalmente narrazioni di guerre della Repubblica. La forma dei Frammenti e degli Estratti è molto varia, qualche volta quasi finita e limata, qualche altra invece allo stato di primissimo abbozzo. In alcuni punti vi si trovano perfino le frasi stesse delle lettere su cui furono composti. Spesso infatti vi leggiamo: le vostre genti, i vostri ambasciatori fecero, dissero questo o quest'altro. Qualche volta vi si trovano semplici richiami per memoria dello scrittore: «domanda di questa risposta mess. Francesco Pepi.»[420] Una tal forma informe apparisce anche più visibile verso la fine. Tutto vi è dall'autore accennato appena, per doverlo poi meglio studiare: «A dì otto di aprile 1498 morì il re Carlo di apoplessia, e quel medesimo dì seguì il caso del Frate, del quale si vuole dire appunto.»[421] Spesso rimanda ad altre ricerche [288] da farsi nelle lettere e nei documenti d'archivio: «Tutta la pratica si vede per una lettera che è in filza. — Sono in filza molte lettere, dalle quali si caverà ordine, come e quando le genti inimiche venissero a Marradi.»[422]
Un tal modo di comporre le storie contemporanee era allora assai generale. Il Diario del Buonaccorsi è compilato colle lettere ai Dieci ed ai Signori; i Diarî di Marin Sanuto non son quasi altro che una gigantesca collezione di lettere e relazioni d'ambasciatori, cui ne furono aggiunte moltissime altre di privati. Il Machiavelli però che, come il Guicciardini, scriveva una storia, non un diario, raccolto che aveva i suoi materiali, doveva ordinare i fatti e dar grande importanza allo stile. Dopo quindi d'aver messo sulla carta i suoi estratti, componeva con gran cura alcuni brani della narrazione; poi collegava tutto, secondo un disegno generale, scrivendo e riscrivendo da capo. Anche le sue Nature di uomini fiorentini non sono altro che quattro ritratti scritti e corretti, per esser poi messi nelle Storie, come chiaro apparisce dalla loro forma,[423] e dall'essere qualcuno di essi già entrato a far parte dei Frammenti.
Abbiamo poi mille altre prove della grandissima cura che il Machiavelli poneva nello stile. Trovasi fra i suoi manoscritti parte non piccola d'una bozza, a quanto pare, [289] già qualche volta corretta, delle Storie. Essa fu recentemente pubblicata, e se la paragoniamo con le stampe che ci danno lo stesso lavoro di nuovo riveduto dall'autore, potremo osservare che le ultime correzioni furono quasi tutte di sola forma, e avremo un'idea del modo, del criterio con cui furono fatte. Certo anche il Machiavelli si lascia di tanto in tanto vincere dal desiderio, allora comune fra i letterati, d'usar frasi e parole ricercate, di dare maggiore dignità al periodo, rendendolo più latino che non veniva alla prima. Ma tutto ciò faceva meno assai de' suoi contemporanei. Correggendo, egli mirava sopra tutto a rendere lo stile sempre più semplice e chiaro, ad aumentarne con la maggiore naturalezza il vigore e l'efficacia.[424] Il linguaggio parlato, con tutta la sua nativa [290] spontaneità, qualche volta anche coi suoi idiotismi, non iscomparisce mai affatto neppur dalle Storie, sebbene in esse più che altrove il Machiavelli cercasse, con uno studio continuo dei classici latini, di raggiungere una maggiore solennità. In ogni modo, qui come altrove, la maravigliosa potenza del suo stile nasce principalmente dalla sua semplicità: più egli si esalta, più semplice, più spontaneo diviene. Ma il suo vigore, il suo calore, non bisogna dimenticarlo, risultano solo in parte dalle doti proprio dell'ingegno, dalle qualità del pensatore, giacchè in parte non piccola risultano anche dall'entusiasmo che sempre anima il cittadino per la patria e per la libertà. Qui è sopra tutto, come vedemmo, la sorgente [291] principale de' suoi pregi e difetti così nelle Storie, come nelle opere politiche del Machiavelli, il che sarà più evidente, se le paragoniamo con quelle del Guicciardini.
Questi non ha teorie da dimostrare, non entusiasmi che lo trasportino mai; è sempre sereno, tranquillo, impassibile. Qualche volta si lascia vincere dal desiderio di lodare un po' troppo sè stesso, e troppo deprimere i suoi avversarî politici; ma trionfa poi subito il bisogno irresistibile di ritrarre la realtà vera dei fatti, le loro cause e conseguenze prossime, perchè questa è la natura del suo ingegno. Nei Ricordi autobiografici egli mette in luce le proprie debolezze, i difetti, i vizî de' suoi antenati, con una franchezza che pare cinismo, ed è invece bisogno di descrivere gli uomini quali sono. Nell'immensa moltitudine di fatti che espone nella sua Storia d'Italia, non riesce, è vero, a trovare un ordine razionale, anzi non lo cerca neppure; ma non li riunisce mai in un ordine artificiale e forzato. S'attiene ancora un po' troppo alla forma di annali, abbandonata affatto dal Machiavelli, ed è costretto perciò ad interrompere continuamente il filo della narrazione, per riprenderla da capo nell'anno successivo. Ciò la rende spesso intralciata e faticosa. Di certo la storia d'Italia è ben più varia, più multiforme di quella di Firenze, trattata dal Machiavelli, ed è così piena d'avvenimenti fra di loro oscuramente connessi, che neppur noi oggi riusciamo a darle ordine logico ed unità razionale. Ma lo spazio di tempo che il Guicciardini abbraccia è anche assai più ristretto. Egli si occupa solo di fatti contemporanei, in molti dei quali ebbe grandissima parte; e però di essi e degli uomini che li compierono, sempre vasta, profonda è la sua conoscenza. Non v'ha luogo ad ipotesi, a teorie, e neppure a cercare le grandi leggi della storia o le cause remote degli avvenimenti. Ciò che sopra tutto occorre è solo un esame severo, accurato della realtà. Ed in questo appunto il Guicciardini riesce inarrivabile davvero.
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Molte furono le sue accurate ricerche anche nei documenti,[425] grande la sua esperienza; nessuno conobbe e ritrasse al pari di lui il carattere degli uomini di Stato, e i più oscuri intrighi diplomatici del suo tempo. Nato, educato in Firenze, che era allora il più gran centro di attività, di accortezza e di coltura politica, andò assai giovane alla corte di Ferdinando il Cattolico, dove imparò a conoscere gli affari d'Europa. Tornato in Italia, venne adoperato a servizio dei papi, in altissimi uffici. Tenne il governo di vaste provincie in tempi assai difficili; ebbe una parte notevolissima nei grandi avvenimenti che allora seguivano in Italia, e si mostrò sempre un vero uomo di Stato. Questa esperienza, queste qualità si ritrovano nella sua grande opera. Gl'Italiani avevano da un pezzo imparato a scrivere ammirabili storie municipali; il Guicciardini fu il primo che scrisse con egual pregio una storia generale. All'acuta penetrazione dei Fiorentini egli aggiunse la pratica della grande politica in Italia ed in Europa, una indipendenza e larghezza di giudizio, che non si lasciava mai vincere da pregiudizî locali, nè si spingeva mai a speculazioni troppo audaci. Tutto ciò si vede così nella narrazione, come anche nei discorsi di cui la sua storia è piena. Se quelli del Machiavelli partono spesso da un concetto generale e mirano a dimostrarlo, quelli del Guicciardini cercano invece di mettere in luce la natura dei fatti e il loro legame, dimostrandone le cause e le conseguenze più prossime; dicono ciò che nel momento determinato, nell'ora che fugge, è necessario ed è possibile fare. Altri ideali, intellettuali o morali, egli non ne ha mai; quasi ne rifugge come da vane illusioni.
L'adagio, così spesso ripetuto, che lo stile è l'uomo, trova anche qui una singolare conferma. La Storia fiorentina del Guicciardini, tutte le altre sue Opere inedite, [293] scritte nella prima gioventù, o più tardi in mezzo agli affari, senza ambizione letteraria di sorta, hanno una tale evidenza, una così spontanea eleganza, che il suo stile si confonderebbe con quello del Machiavelli, se non fosse il calore dell'entusiasmo che anima sempre il secondo, e non riesce mai ad alterare la impassibile serenità del primo. Quando invece questi si pose a scrivere la Storia d'Italia, e volle mirare a maggiore solennità, a maggiore dignità di forma, raggiunse certo una eloquenza più grandiosa; ma perdette subito la primitiva e spontanea semplicità. La sua frase troppo studiata, il suo periodo troppo ciceroniano stancano affannosamente il lettore. Nè è vero, come si disse, che ciò gli avvenne perchè non ebbe il tempo necessario a rivedere e correggere. Fu anzi la lima, fu l'artificio studiato e cercato quello che alterò e sciupò il suo stile. Se ne ha prova chiarissima nel manoscritto originale, corretto, ricopiato un gran numero di volte.[426] Le sue lettere, le sue legazioni, buttate giù alla prima, sono sempre semplicissime ed eleganti. Quando volle innalzare le sue idee, rivestirle di forme solenni, grandiose, sentiva come un bisogno di allontanarle da sè, e diveniva artificioso. Sublime invece pareva al Machiavelli ciò che più profondamente sentiva; ciò che era più vicino, più intimo al suo spirito. Ogni volta che dinanzi a lui balenavano i suoi ideali, egli si sollevava al di sopra di sè stesso, ed acquistava una forza, una evidenza, una spontanea naturalezza, nella quale superò tutti nel suo secolo. In lui ardeva più viva e pura la fiamma del patriottismo; fu più grande scrittore, perchè migliore assai era il suo animo, nonostante le calunnie de' suoi detrattori. Divenne perciò il nostro più grande prosatore, come Dante era stato il nostro più grande poeta.
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Morte di Adriano VI. — Elezione di Clemente VII. Battaglia di Pavia. — Congiura del Morone.
Mentre il Machiavelli lavorava ancora a compiere le Storie avvennero fatti che interruppero per sempre i suoi lavori letterari. Improvvise e grandi complicazioni politiche lo ricondussero agli affari, negli ultimi anni della sua vita, che furono assai infelici, perchè dovette assistere alla rovina della patria, senza che i suoi sforzi valessero in modo alcuno a lenirne i dolori.
Il 14 settembre 1523 moriva Adriano VI. La prossima elezione aveva una grandissima importanza, combattendosi nel Conclave le tendenze rivali della Spagna e della Francia, che fuori si disputavano il dominio d'Italia. Il nuovo Papa poteva facilmente far pendere la bilancia da un lato o dall'altro. La gara s'accese perciò vivissima. I cardinali arrivavano da ogni parte; giunse fra gli altri anche il Soderini sempre potentissimo, sebbene allora liberato appena dalla prigionia, in cui Adriano VI lo aveva tenuto. Quando egli s'avvide che Giulio dei Medici, aiutato dalla Spagna, guadagnava rapidamente terreno, s'unì ai fautori di lui, che così fu sicuro del trionfo. Nella notte del 18 al 19 novembre questi venne eletto, e prese subito il nome di Clemente VII. Tutti sapevano che era un bastardo, quantunque si facesse ogni opera per nasconderlo. Si dice che la fortuna arride ai bastardi; ma essa fu invece a lui tanto nemica, quanto in ogni cosa era stata amica a Leone X. A questo in fatti riuscivano bene anche le cose peggio pensate, a Clemente VII riuscivano male anche i partiti più lungamente ponderati. Il suo pontificato fu non meno funesto a lui, che a Firenze, all'Italia ed alla Chiesa.
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Assunse la tiara con la reputazione di buoni costumi, di uomo religioso, accortissimo, instancabile al lavoro, conoscitore degli affari e delle umane passioni. Tutti avevano creduto che egli fosse stato la guida di Leone X, e assai più di lui atto a governare. Ma Leone X, quantunque amasse i piaceri e non volesse durare fatica, aveva pure un certo istinto politico, che gli faceva prendere le più grandi risoluzioni senza molto esitare. Del cardinale Giulio s'era valso solamente per avere le notizie che gli occorrevano, a compiere gli studî necessarî alla piena conoscenza degli affari, per eseguire le proprie deliberazioni. Questi era in fatti un attivissimo strumento, e pareva quindi che guidasse colui che invece serviva. «Così,» osserva il Guicciardini, «le faccende messe in mano di due nature tanto diverse, mostravano quanto qualche volta convenga bene la mistura di due contrari.»[427]
Non appena però Clemente VII si trovò solo a reggere gli affari della Chiesa, si vide subito che a lui mancava assolutamente quella facoltà che costituisce il genio pratico dell'uomo di Stato, la quale, facendogli quasi istintivamente calcolare l'impreveduto, lo spinge a decidere ed operare, senza pericolosi indugi. Timido e irresoluto, il nuovo Papa rifuggiva invece da ogni grande responsabilità, e questa debolezza di carattere, che gli fu sempre funesta, veniva accresciuta dalla natura del suo ingegno, il quale, nei più di facili momenti, si perdeva a bilanciare lungamente il pro ed il contra d'ogni partito da prendere. E come se tutto ciò fosse poco, egli prese a suoi consiglieri due uomini di carattere e d'intendimenti opposti: un Italiano, Giovan Battista Giberti, ed un Tedesco, Niccolò Schömberg. Questi, vestitosi frate al tempo del Savonarola, e fatto poi arcivescovo di Capua, era accorto, tenace, impetuoso, e favoriva con ardore la [296] politica spagnuola, dominando il Papa, da cui si faceva quasi temere. Quegli, il Giberti, si faceva invece amare, ed era uomo più d'impeto e di passione che di ragione, tanto che dopo essere stato grande avversario della Francia, n'era divenuto poi non meno caldo fautore. È facile capire come dovesse essere assai pericoloso il veder salire al pontificato un uomo in balìa di tante incertezze, di così opposti consigli, quando s'avvicinava un gigantesco conflitto, il cui esito poteva da un momento all'altro dipendere dalla sua condotta politica.[428]
Primi a sperimentare le conseguenze dall'incerto carattere del Papa furono i Fiorentini. Sebbene egli da lungo tempo li conoscesse, pure cominciò subito a consultare ognuno sul modo in cui doveva farli governare, e da chi. I più gli rispondevano quello appunto che egli voleva, cioè: mandasse nella Città il cardinale di Cortona, Silvio Passerini, con i due giovani bastardi, Ippolito ed Alessandro de' Medici, perchè in loro nome la reggesse. Se non che, il Passerini, durissimo di modi, era affatto incapace. Ippolito de' Medici, che passava per figlio di una Pesarese e di Giuliano, aveva appena sedici anni. Ed anche più giovane era Alessandro, figlio di Lorenzo e d'una schiava mora o mulatta, da cui aveva ereditato la pelle scura, le labbra grosse, i capelli crespi. Questi due giovani erano l'ultimo avanzo del ramo principale dei Medici. Restava anche Giovanni, allora già noto, e ben presto notissimo come capitano delle Bande Nere; ma esso apparteneva ad un ramo collaterale della famiglia, nè fu mai nelle buone grazie del Papa. Alcuni Fiorentini [297] assai autorevoli, quali Iacopo Salviati, Francesco Vettori e Roberto Acciaiuoli, apertamente disapprovarono l'idea di far governare Firenze dal cardinale di Cortona, e dicevano al Papa con pari franchezza, che Ippolito ed Alessandro era meglio mandarli ora a scuola, per vedere se sarebbero poi riusciti uomini di governo. Lasciasse che, sotto la sua protezione, i cittadini si reggessero da sè; aprisse la sala del Consiglio come tante volte aveva fatto sperare. Ma Clemente VII preferì l'avviso di coloro che lo adulavano, e dicendo di volersi attenere al parere dei più, mandò a Firenze i due bastardi col Cardinale. La conseguenza naturale fu che questi si fece ben presto odiare, e l'odio si rivolse poi contro i Medici, crescendo sempre fino a che scoppiò più tardi in aperta ribellione.[429]
Ma assai più gravi erano gli eventi che s'apparecchiavano altrove. La grande lotta tra Francesi e Spagnuoli doveva ora decidersi col ferro. I primi si ritiravano dalla Lombardia, i secondi s'avanzavano pieni di baldanza. Questi erano comandati da valorosi capitani, perchè Carlo V non li nominava, come troppo spesso seguiva in Francia, per lusinghe di donne o intrighi di cortigiani. V'erano Antonio de Leyva ed il marchese di Pescara napoletano di nascita, ma spagnuolo d'origine, ambedue valorosissimi; v'era il celebre Conestabile di Borbone, che aveva clamorosamente disertato la Francia ed il suo re; v'era il vicerè di Napoli, visconte di Lannoy, fiammingo. Francesco I, essendosi deciso a farla una volta finita, passò ben presto le Alpi con un esercito di 50,000 uomini; ed il 21 ottobre 1524 entrò in Milano. Andò poi subito a Pavia, dove Antonio de Leyva s'era chiuso con 4,000 fanti, e colà doveva quindi decidersi ora la gran lite. Gli Spagnuoli facevano di tutto per tirare dalla loro parte il Papa; ma questi al solito esitava. Non poteva [298] desiderare la loro vittoria nè quella dei Francesi, perchè sarebbe in ambedue i casi rimasto a discrezione del vincitore, divenuto arbitro delle sorti d'Italia. L'interesse dello Stato della Chiesa era perciò immedesimato ora con la indipendenza nazionale, e ciò poteva dare alla politica del Papa una grande importanza. Ma nè Leone X, nè Clemente VII osarono mai di sollevarsi all'altezza cui pareva che gli eventi per forza li chiamassero. E sebbene i migliori statisti italiani, fra cui il Machiavelli, li avessero in mille modi eccitati, spronati per questa via, non seppero far altro mai che tergiversare.
Francesco I s'era intanto fortemente trincerato nel suo campo, quando nuovi Tedeschi scendevano ad ingrossare il nemico. Il suo esercito era sempre assai numeroso; ma egli aveva dovuto mandare nel mezzogiorno d'Italia il duca d'Albany con 3,000 fanti e 2,000 cavalli; i suoi Grigioni erano partiti per difendere il castello di Chiavenna, e le nuove genti mandate di Francia in suo aiuto, erano state sbaragliate per via. Gli stava di fronte il grosso del nemico, ed alle spalle, in Pavia, era Antonio de Leyva, che aveva già fatto fortunate sortite, in una delle quali il valoroso Giovanni dei Medici era stato gravemente ferito, e messo così per qualche tempo fuori di combattimento. Nella città cominciavano a mancare i viveri, nel campo imperiale mancavano i danari; e tutto consigliava perciò il Re ad aspettare, a non dare battaglia. Ma il Pescara, cui il tempo stringeva, lo provocava ogni giorno con abilissime scaramucce, ed a lui parve finalmente viltà non accettare. In sul mattino del 24 febbraio 1525 il capitano spagnuolo penetrò nel campo dei nemici, per una breccia aperta la notte, nel muro del parco, in cui essi alloggiavano, e nello stesso tempo il de Leyva uscì da Pavia. I Francesi, che erano già pronti, s'avanzarono schierati in battaglia. Dapprima pareva che la vittoria loro arridesse; ma poi il Pescara, alla testa de' suoi archibusieri, mise in rotta i loro uomini d'arme, [299] ed il Frundsberg diede prova d'ugual valore coi suoi lanzichenecchi. Il de Leyva s'era unito agli altri nel dar l'assalto ai Francesi. Gli Svizzeri, che già a Marignano avevano cominciato a perdere la loro reputazione d'invincibili, si misero in rotta, e così ben presto la vittoria fu degl'imperiali. Caddero quel giorno i migliori capitani di Francia; il suo valoroso esercito fu disfatto, e diecimila cadaveri rimasero sparsi sulla strada che da Pavia conduce alla Certosa.[430] Ma il peggio di tutto fu che venne fatto prigioniero lo stesso Francesco I, il quale scrisse allora a Luisa di Savoia sua madre: «Tutto è perduto fuorchè l'onore e la vita, che è salva.»[431] Il Pescara, il de Leyva e il Frundsberg furono gli eroi di questa battaglia, la più decisiva di quante se n'erano da secoli combattute,[432] perchè essa rese Carlo V il più potente fra tutti i sovrani d'Europa, arbitro dell'Italia, che ormai aveva perduto la sua indipendenza.
Poco dopo la battaglia di Pavia avvenne un fatto stranissimo, che fu molto diversamente interpretato e narrato dagli storici. Esso è, fra le altre cose, una prova [300] assai chiara che gl'Italiani non solo vedevano la disperata condizione in cui si trovavano, ma volevano uscirne, e che le aspirazioni, le speranze espresse dal Machiavelli nella esortazione del suo Principe, eran pure, sebbene assai vagamente e fiaccamente, sentite da moltissimi. Mancava però la virtù necessaria a metterle in atto. Diffidavano tutti gli uni degli altri, e anche per rendersi indipendenti cercavano, speravano aiuto solo dagli stranieri. Non v'era uomo capace d'assumere la direzione della grande impresa: meno d'ogni altro poteva poi quest'uomo essere Clemente VII, che il fato sembrava, quasi per ironia, ostinarsi a fare apparire come il rappresentante delle più nobili aspirazioni nazionali.
Il dì 1º aprile 1525 gl'imperiali che, sebbene vittoriosi, si trovavano senza danaro, vennero ad un accordo, mediante il quale si obbligavano a garantire Milano da ogni assalto nemico. Lo Stato della Chiesa, Firenze, i Medici restavano sotto la protezione dell'Imperatore, al cui esercito, ed era questo il punto essenziale dell'accordo, si dovevano pagare 100,000 ducati. L'insolenza del vincitore, i saccheggi e le continue taglie non cessarono per ciò, anzi crescevano ogni giorno. Gl'Italiani erano quindi sempre più scontenti ed irritati di dover passare, come un branco di pecore, da uno ad un altro padrone, tanto più ora che gl'imperiali, già signori del Napoletano, erano riusciti a farsi padroni della Lombardia. Ma questo scontento, sebbene assai generale, sembrava impotente. I soli che si trovavano in condizione da fare qualche resistenza, erano i Veneziani ed il Papa. Ma i primi pensavano ai loro commerci, alle loro colonie; il secondo non osava e non risolveva mai nulla.
In Francia invece il governo era subito venuto in mano della reggente Luisa di Savoia, ai cui cenni obbediva unanime la nazione, pronta a ripigliare la guerra per vendicare e liberare dalla prigionìa il suo Re. Questo generale ardore di vendetta, questo desiderio di rivincita dava [301] speranza agl'Italiani. E la Reggente, che lo sapeva, fece dire al duca di Milano, e subito dopo anche ai Veneziani, che essa era pronta ad aiutare in Italia un movimento generale per liberarla dal dominio imperiale, rinunziando per parte della Francia ad ogni pretesa sul reame di Napoli, lasciando la Lombardia al Duca. La medesima proposta venne fatta al Papa, che l'accolse subito, e con più ardore degli altri. A lui pareva finalmente di vedere la possibilità di quella guerra nazionale d'indipendenza, che già tante volte gli era stata suggerita, e che i fatti stessi, nell'interesse della Chiesa, ora consigliavano. Essa, così gli avevano detto e con maggiore insistenza molti ripetevano adesso, avrebbe a lui salvato lo Stato, facendogli acquistare quella gloria immortale di liberare l'Italia, che Giulio II aveva un momento sperata, e che lo stesso Leone X aveva più volte invano desiderata.[433] Il datario Giovan Matteo Giberti era quello che più di tutti lo sospingeva e spronava per questa via. Egli s'era in verità cosiffattamente acceso nell'idea d'una guerra nazionale, che incominciò, per mezzo delle sue lettere ai nunzi e messi straordinari del Papa, a riscaldare l'animo di tutti i potentati italiani, perchè non perdessero «l'occasione, che non potria essere al mondo più bella, di liberarsi e acquistar gloria eterna.»[434] Così scriveva il dì 1º luglio 1525 ad Ennio Filonardi nunzio nella Svizzera, e il 10 dello stesso mese scriveva all'auditore Girolamo Ghinucci: «Mi par di vedere rinnovare il mondo, e da una estrema miseria Italia cominciare a tornare in grandissima felicità.»[435] E così a tutti. In nome del Giberti e del Papa, Domenico Sauli genovese, [302] andò a Milano per fare addirittura la proposta d'una lega italiana colla Francia, a fine di liberare la patria comune.[436] Poco dopo partirono le proposte definitive del Papa alla Francia. E queste erano: Milano resterebbe al Duca, cui gli Svizzeri darebbero aiuto; Napoli e Sicilia verrebbero libere in mano del Papa, che potrebbe disporne. La Francia darebbe 50,000 ducati al mese sino a guerra finita, anticipando subito due mesi, e manderebbe a sue spese 600 lance, 6,000 fanti, con la necessaria artiglieria, e 10 galee o più, secondo gli eventi. Per maggior prova di sicurtà e leale amicizia, una principessa francese andrebbe sposa al duca di Milano. Così si sarebbe fermata un'alleanza perpetua tra la Francia e l'Italia, la quale, appena liberata dagl'imperiali, avrebbe dovuto mandare a sue spese 1,000 lance e 12,000 fanti, per liberare il Re, ed essere in ogni caso pronta a difesa della Francia, che prometteva da parte sua uguale aiuto. Tutto sarebbe stato pronto a cominciare la guerra di qua dalle Alpi, quando la Reggente avesse inviato i primi danari, e dato alle sue genti ordine di mettersi in cammino.[437] Il Giberti, che più di tutti s'era acceso, sollecitava con ogni opera queste trattative, ma faceva nello stesso tempo vive premure ai potentati italiani, perchè, senza neppure aspettare gli aiuti francesi, si desse cominciamento all'impresa.
Intanto la Francia, che a tutta possa spingeva l'Italia, [303] non dava in conclusione altro che parole. Essa trattava con la Spagna per liberare il Re, e quindi la sua politica poteva da un momento all'altro mutarsi. Gl'Italiani poi, non solo diffidavano dei Francesi, ma diffidavano anche di loro stessi, nessuno eccettuato, e però ciascuno voleva tenersi aperta un'uscita pel caso, che gli altri si tirassero indietro. E quindi la maggior parte di loro cercaron subito dare un qualche cenno più o meno indiretto della trama a Carlo V o ai suoi rappresentanti, per potere all'occorrenza dichiarare d'essergli stati sempre amici fedeli. Continuavano tuttavia con ardore le pratiche iniziate per l'impresa, deliberati a profittarne, quando le cose riuscissero, come allora si diceva, ad votum. Tale era pur troppo la politica del tempo. Carlo V e i suoi si conducevano, come vedremo, con la stessa mala fede. I Veneziani approvavano l'impresa, ma dicevano di rimettersene a ciò che farebbe il Papa. Questi, che aveva primo cominciato a stringere i segreti accordi, faceva in pari tempo dire all'Imperatore, che stesse attento ai suoi capitani in Italia.[438] Il duca di Milano, che aveva accolto con favore i suggerimenti della Francia, ne rendeva, per mezzo del suo segretario Morone, consapevole il Vicerè, che consigliava di continuare la pratica, per vedere dove la fosse per condurre.[439] Intanto lo stesso Morone continuava a trattare per ottener dall'Imperatore l'investitura del Ducato allo Sforza.
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E finalmente arrivò il genovese Domenico Sauli, portando da Roma la proposta concreta della lega italiana contro gl'imperiali. L'occasione pareva allora singolarmente propizia. Francesco I aveva chiesto d'essere mandato nella Spagna, per parlare con Carlo V, ed il Vicerè ve lo aveva condotto all'insaputa del Borbone e del Pescara, che s'erano vivamente opposti, perchè volevano invece tenerlo in Italia, e cavarne profitto. Il Pescara sopra tutti n'era rimasto irritato contro il Vicerè, e nell'ira lo accusava d'essersi mostrato vile a Pavia, avendo più volte gridato: Noi siamo perduti! Aggiungeva d'esser pronto a provarglielo con la spada in mano.[440] E pareva che fosse irritato anche contro l'Imperatore, che si diceva avesse consentito al Vicerè. Per queste ragioni il Sauli trovò grande ascolto, quando fece al Morone la proposta della lega, ed espose, in nome del Papa e del Datario, l'idea d'offrire al Pescara, che sapevano irritato e scontento, il regno di Napoli, se entrava deliberatamente nell'impresa, assumendone la direzione militare.[441] Il segretario dello Sforza parve subito come invasato dalla proposta, e da quel momento fu il maneggiatore principale della congiura, il grande agitatore della politica italiana, senza per questo smetter di sollecitare dall'Imperatore l'investitura del Ducato pel suo signore. Anch'egli, anzi egli più di ogni altro, cercò di tenersi sempre aperta una via alla ritirata, la quale poteva da un momento all'altro divenire necessaria. E lo fece in un modo affatto proprio del suo strano carattere, del suo singolare ingegno, della sua audacia, di quella mala fede, che era grande in lui ed in tutti i politici del secolo. Così ne nacque una specie di tenebroso dramma, che restò per lungo tempo inesplicabile, ed anche oggi, dopo tante nuove ricerche e documenti venuti alla luce, non riesce interamente chiaro.
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Il Morone era nato solo un anno dopo del Machiavelli; aveva studiato le lettere latine, le lettere greche e la giurisprudenza. Entrato poi negli uffici politici ed amministrativi, servì come segretario, cancelliere o simili, molti e diversi padroni. E fece per questa via rapido cammino, perchè all'ingegno s'aggiungeva in lui, non solo una singolare audacia ed intraprendenza, ma anche una grandissima accortezza nei raggiri diplomatici, talchè fu subito tenuto una delle prime teste politiche d'Italia. Nel 1499, quando Lodovico Sforza fuggì nel Tirolo, il Morone, che era suo segretario, formulò i patti della resa, e sebbene non venissero accettati dai Francesi invasori della Lombardia, noi lo troviamo subito dopo al loro servigio. Più tardi fu promotore della scelta di Massimiliano, figlio di Lodovico, a duca di Milano, servendolo fedelmente e con coraggio, fino a che quel giovane principe, stanco delle molte traversie, accettò l'esilio perpetuo in Francia. E dopo aver corso altre non poche vicende, quando in Italia risorse la fortuna degl'imperiali, s'adoperò moltissimo a far proclamare duca di Milano, il secondo figlio di Lodovico, Francesco Sforza. Di questo era adesso segretario, e nel nome di lui aveva trattato per la investitura del Ducato, che fu dall'imperatore offerta prima a condizioni inaccettabili, modificate poi ed accettate. Nello stesso tempo pigliava il Morone parte attivissima alla congiura, adoperandosi col Papa per la lega italo-francese contro l'Impero. Assunse sopra di sè il carico di guadagnare il Pescara, iniziando tutte le pratiche con tanto ardore, mostrandosi talmente persuaso di poter riuscire, e continuando con una così febbrile attività, da essere lungamente tenuto come il vero autore d'un disegno, che era stato invece concepito a Roma.
Il Pescara, giudicato allora il primo capitano d'Europa, era uomo ambiziosissimo e senza scrupoli, al che si aggiungeva ora, come dicemmo, l'essere egli irritato per la [306] partenza di Francesco I, e per credersi non apprezzato abbastanza dall'Imperatore. Sebbene di origine spagnuola, e nemico del nome italiano, era pur nato in Italia: non pareva quindi che potesse essere addirittura indifferente alle sorti della sua patria. E la promessa d'un gran regno sembrava certo tal cosa da poter guadagnare l'animo di un uomo siffatto. Il Morone che aveva una fede grandissima nella sua propria capacità, nella propria eloquenza, non dubitava perciò di dover riuscire a fargli assumere un'impresa che gli offriva il modo di vendicare sè stesso, liberando la terra ove era nato, facendo la sua fortuna, acquistando gloria immortale. Si presentò dunque a lui, e dopo aver chiesta ed ottenuta la parola di soldato d'onore, che in ogni caso avrebbe serbato il segreto, gli rivelò il disegno dei collegati, e gli fece la grande offerta. Gli ricordò lo scontento universale e l'oppressione dell'Italia, che invocava un liberatore; gli dipinse con vivaci colori la gloria dell'impresa, la felicità di un regno, la santità di una guerra desiderata dal popolo, aiutata dalla Francia, benedetta dal Papa. Ricorse agli esempî della storia antica e della moderna.[442] [307] Con altra forma, dovettero essere le idee stesse che si trovavano già nella esortazione del Principe.
Ma chi lo ascoltava era un soldato, su cui non potevano nulla l'eloquenza e le ricordanze storiche o patriottiche, il quale guardava solo al presente, al reale, al suo interesse personale. Il Pescara sapeva che valore avevano le armi imperiali, e quanto deboli erano quelle degl'Italiani, sempre discordi, sempre diffidenti gli uni degli altri, e sapeva anco qual certezza c'era da avere negli aiuti promessi dalla Francia, che per liberare il suo Re, poteva da un momento all'altro mutare politica, piegandosi ad ogni patto. Oltre di ciò, egli era già ammalato d'una malattia, che doveva in breve condurlo alla tomba. Non poteva quindi accettar cambiali a lunga scadenza. Ma non era neppure uomo da respingere senz'altro le troppo lusinghiere proposte, che il Morone gli faceva, in nome del Papa e degli altri potentati. In sostanza, o l'impresa diveniva veramente tale da poter riuscire, ed egli allora avrebbe di certo accettato l'offerta, o in nessun modo sarebbe apparso sperabile il condurla a buon termine, ed anche in questo caso a lui sarebbe convenuto far mostra per ora di entrar nella trama, se non altro per conoscerla e trarne sicuro vantaggio, rivelandola all'Imperatore. Intanto poteva dagli alleati cavar danari, che era la cosa di cui più urgentemente aveva bisogno pel suo esercito privo di tutto. Giurato adunque il segreto, e saputo di che si trattava, non accettò nè ricusò d'assumere la direzione dell'impresa; [308] ma ne dimostrò subito le gravi difficoltà, e dichiarò che voleva prima esser sicuro di non violare le leggi cui era tenuto, come soldato d'onore, come vassallo dell'Imperatore. Avrebbe fatto studiare il caso da persone competenti, lo stesso facessero lo Sforza ed il Papa, in termini generali ben inteso, senza nomi di persone, perchè non trasparisse ad anima viva il geloso segreto. Le risposte del Papa e dello Sforza non si fecero molto aspettare, quantunque la troppo ingenua domanda avesse tutta l'apparenza d'un pretesto. Legami verso la patria i generali d'allora non ne avevano, e meno di tutti poteva averli verso la Spagna o l'Impero il Pescara, che era nato a Napoli. Non restavano quindi che i doveri di vassallo, ai quali solamente egli aveva accennato. Ma gli fu subito osservato, che il Napoletano era feudo della Chiesa, e che ai possessi nella Spagna egli poteva, volendo, rinunziare fin d'ora per l'acquisto d'un regno. A lui non si proponeva in fatti nulla di straordinariamente insolito, secondo le idee di quel tempo. Non era il Borbone passato dalla Francia a servizio dell'Impero? Non aveva fatto lo stesso il principe d'Orange, e non era Pietro Navarro passato per dispetto dalla Spagna alla Francia? Se costoro furono dai posteri chiamati traditori della patria, essi continuavano allora ad esser tenuti fra i capitani più stimati e più rispettati, meritevoli di biasimo solamente per avere abbandonato il proprio signore.[443] Il [309] Pescara non era certo uomo da pretendere d'esser più scrupoloso degli altri, e quando avesse voluto mutar bandiera, non gli sarebbero mancate ragioni o pretesti, massime poi essendo istigato dal Papa.
Le trattative andarono perciò innanzi attivissime; ma la Francia prometteva sempre, senza mai muoversi.[444] Il Pescara faceva con insistenza continue domande di danari, [310] che bisognava dargli, e intanto, con generale maraviglia, si sentiva che scendevano dalle Alpi altri Lanzichenecchi. Da per tutto si andava inoltre ripetendo che l'Imperatore era già consapevole della congiura. In fatti d'ogni cosa lo aveva con lettere continue ragguagliato il Pescara, sollecitandolo a conchiudere subito accordi con la Francia, perchè in Italia tutti gli erano nemici, tutti desideravano cacciarne l'esercito imperiale: il nome tedesco e spagnuolo era universalmente odiato.[445] Dalle lettere del Giberti si vede in fatti assai chiaro, come a Roma già si sapesse che la congiura non era più un segreto per nessuno, e si sospettasse che non solo il Pescara, ma anche il Morone tradisse.[446] Questi, appena saputo che si era gravemente ammalato il suo Duca, dichiarò al Pescara, che avrebbe dato il Ducato in balìa dell'Imperatore, piuttosto che vedervi tornare Massimiliano Sforza, mostratosi inettissimo a governare. E non solo lo aveva detto; ma, sebbene i Veneziani ed il Papa, coi quali allora cospirava, si fossero dichiarati contrarissimi, aveva subito apparecchiato ogni cosa, per porre in atto il suo pensiero, quando fosse veramente seguìta la morte del Duca.[447] Ma nessuno aveva mai fatto assegnamento sulla [311] buona fede del Pescara o del Morone; s'era calcolato solo sul loro egoismo, sulla loro ambizione. Si riteneva che, quando la congiura fosse stata per riuscire, vi avevano ambedue troppo da guadagnare, per volerla abbandonare; si era anche convintissimi che avrebbero tradito, e si sarebbero subito rivolti all'Imperatore, quando appena quella probabilità fosse cominciata a venir meno. E quindi ciò che metteva adesso pensiero e sconfortava grandemente era l'arrivo dei Lanzichenecchi, la mancanza di ogni aiuto dalla Francia, la nessuna vicina speranza di averne.
Non mancavano neppure diffidenze tra il Pescara ed il Morone. Questi sapeva d'essere odiatissimo dagli Spagnuoli, e sopra tutti dal de Leyva, che aveva minacciato d'ucciderlo, quando lo avesse avuto nelle mani. Conosceva poi assai bene il Pescara, e aveva detto al Guicciardini: «Non essere uomo in Italia nè di maggior malignità, nè di minor fede.»[448] E da ogni lato lo avvertivano ora, che stesse in guardia, altrimenti avrebbe fatto una misera fine nelle mani di quel tristo. Al quale egli stesso riferì le voci che correvano, aggiungendo però: «Io ho fede in V. S. come in Dio.»[449] In fatti il Pescara stesso, nelle lettere che scriveva a Carlo V, rivelando la congiura, le offerte, i discorsi fattigli dal Morone, aggiungeva di tenersi ben sicuro di poterlo «condurre dove voleva.»[450] Il vero è che giocavano ambedue un doppio giuoco, e n'erano consapevoli del pari. Il capitano imperiale aveva lasciato capire, che non [312] avrebbe esitato a fare davvero, quando avesse potuto esser sicuro della corona promessagli; ma non s'era mai illuso fino a credere che questa sicurezza vi potesse esser davvero. Il Morone invece, come succede spesso ai più furbi, s'era molto illuso, non però quanto s'è voluto supporre da alcuni scrittori. Egli non era affatto cieco alle difficoltà cui s'andava incontro, e sapeva bene che avrebbe messo a rischio la propria testa, se troppo scopriva il Pescara. Pure gli dava qualche sicurtà il sapere quali ambiziosi desideri nel fondo del suo animo questi nascondesse. E da un altro lato gli aveva pure fatto ben capire che, quando l'impresa fosse stata per fallire, anch'egli sarebbe stato pronto a gettarsi con tutte le sue forze a servizio dell'Imperatore. Per tutte queste ragioni adunque, invitato dal Pescara ad andare a conferire con lui, che si trovava ammalato nel castello di Novara, v'andò col de Leyva, sebbene tutti lo avvertissero che correva alla sua estrema rovina.[451]
Il 13 ottobre ebbe un primo abboccamento, il 15 un secondo,[452] uscendo dal quale fu fatto prigioniero e menato nel castello di Pavia, dove il 24 venne il Pescara col de Leyva e l'abate di Nazaria ad esaminarlo. C'era poco da chiedere e poco da rispondere, perchè il Pescara già sapeva tutto, e lo sapeva dal Morone stesso. Questi, non ostante, scrisse di sua mano la propria confessione. [313] Ed in essa, dopo aver protestato contro la ingiusta violenza che subiva, contro la fede tradita, diceva al generale di Carlo V, che non poteva rivelar nulla, che già non gli avesse detto e ripetuto più volte. Esponeva tuttavia la storia della congiura, ricordando l'offerta del regno di Napoli, le trattative per la investitura di Milano allo Sforza, che aveva dichiarato d'accettarla, continuando nel tempo stesso gli accordi per la guerra nazionale contro l'Imperatore.[453] Quest'ultima dichiarazione fu il pretesto, di cui il Pescara si valse per andar subito a Milano, ed impadronirsi della Lombardia.
Ognuno s'aspettava ora di sentire da un momento all'altro già messo a morte il Morone, quando, con maraviglia universale, il Pescara pubblicò un decreto del 27 ottobre, col quale dichiarava di volerlo tenere presso di sè prigioniero, ed ordinava che non si toccassero punto le proprietà di lui, lasciandole per adesso alla moglie ed ai figli, usando loro ogni riguardo.[454] Sentendosi poi vicino alla morte, che lo colpì in fatti il 3 dicembre 1525, nella età di soli trentasei anni, fece testamento, raccomandando all'Imperatore, non solo la vita, ma anche la libertà del Morone, ed ogni benefizio che gli si potesse fare, «perchè altrimenti mi riputerei essere caricato.»[455] [314] L'abate di Nazaria ed il marchese del Vasto, dimostrando anch'essi una singolare premura, scrissero subito al prigioniero, per avvertirlo che il Pescara lo aveva raccomandato a Carlo V, ed aggiungevano assicurazioni della loro buona disposizione. Lo stesso de Leyva, che non gli era stato mai benevolo, scriveva da Milano il 25 marzo 1526: «Si farà maniera che V. S. resterà contenta. Sicchè de novo la torno a pregare, che stia de bon animo, che farò per lei tanto quanto vorrei si facesse per me stesso, e me li raccomando.»[456] Il Morone tuttavia restò per ora in carcere, a disposizione del conestabile di Borbone, che assunse il comando dell'esercito imperiale, e lo tenne come ostaggio, a fin di cavarne danari, dei quali era anch'egli in una estrema necessità. Ma dopo avere avuto da lui parecchie migliaia di ducati, con promessa di altri fino a 20,000, firmò il dì 1º gennaio 1527 un decreto col quale, pure rimproverandogli la congiura, ed accusandolo di pecunia indebitamente estorta in suo privato vantaggio, n'esaltava l'ingegno, il coraggio, l'esperienza, i servigi altra volta resi all'Imperatore. E concludeva poi che, per questi suoi meriti, pei danari recentemente dati in momenti di estremo bisogno, per la volontà dichiarata di volersi di nuovo rendere utile all'Impero, lo liberava e gli faceva grazia generale di tutte le sue colpe.[457] Ma, quello che è ancora più, lo [315] nominava poco dopo commissario generale nell'esercito. Ed in questo ufficio noi lo troviamo sotto le mura di Roma, quando il Borbone morì. Seguìto che fu poi il sacco della Città eterna, e trovandosi Clemente VII chiuso in Castel Sant'Angelo, il Morone ebbe parte principalissima nelle trattative allora fatte per liberarlo. Aiutato dal suo ingegno, dalla sua attività, dalla sua grande esperienza, salì sempre a maggior grado; fu come la mente che dirigeva gl'imperiali nello strazio che fecero dell'Italia, ed era presso l'esercito che assediava Firenze, il giorno 15 dicembre 1529, che fu l'ultimo della sua vita.[458]
Tutto questo finì, com'era naturale, col lasciare mille dubbî, mille incertezze sul suo carattere e sul vero significato della congiura; incertezze e dubbî che crebbero assai più, quando si cominciò a voler vedere un gran patriotta in un uomo che aveva mirato solo e sempre a farsi strada nel mondo, che aveva mutato parte ogni volta che lo richiedeva il proprio interesse, cui solo obbediva. Facendone un patriotta, rimangono assolutamente inesplicabili la sua condotta e quella anche del Pescara, del de Leyva, del Borbone. In fatti, come mai il Morone, avvertito da tanti, sapendo con certezza che il Pescara era ormai in perfetto accordo coll'Imperatore, si sarebbe andato a mettere nelle mani di lui? Ed il Pescara, perchè lo avrebbe salvato e raccomandato? Ammettere in questo scrupoli di coscienza sarebbe assurdo. Non ne ebbe mai, e non c'era ragione d'averne allora, se non ne aveva avuti prima. Anche più impossibile sarebbe immaginare scrupoli o altro simile sentimento, [316] per ispiegare la condotta del de Leyva, del Borbone, dello stesso Carlo V, i quali non avevano promesso nulla, e non dovevano usare riguardi ad un cospiratore. Al patriottismo del Morone non credettero mai i contemporanei che lo conobbero, neppure quelli stessi che lo avevano inviato alla congiura. Il Guicciardini, nella sua Storia d'Italia, dichiara di non aver capito la cecità con cui esso s'era andato a mettere nelle mani del Pescara, del quale conosceva bene la crudeltà e la mala fede. Nelle sue Legazioni, però, appena che lo seppe in prigione, scrisse a Roma: «Io temo che con le sue girandole riuscirà presto a consigliare ed a dirigere gl'imperiali a danno degli alleati.»[459] E così fu.
Ma se i contemporanei dovevano giudicar solo dalla conoscenza che avevano del Morone, i documenti pubblicati ai nostri giorni ci pongono in grado di vedere anche meglio come le cose veramente andarono. Il Morone, che aveva servito molti padroni ed era prontissimo a servirne altri, pensava a farsi sempre più potente, servendo il duca di Milano, quando venne da Roma l'idea della lega e l'offerta del regno di Napoli al Pescara. La lega e la guerra corrispondevano ad un vero interesse nazionale, ad un bisogno che, se non era fortemente sentito, era pure assai generalmente inteso dagl'Italiani. Se il Pescara si faceva davvero promotore dell'impresa, si poteva sperare di riuscire a buon fine, e, riuscendo, egli ed il Morone sarebbero divenuti potentissimi. La proposta fu dunque fatta ed accettata con la intesa tacita e vicendevole, che non potendosi riuscire al fine voluto, si sarebbero ambedue rivolti a favorire l'Imperatore. Di ciò, come abbiam visto, il Morone dette prova coi fatti, quando pareva che il suo Duca morisse. Il Pescara, che si era pure avventurato abbastanza, si pose anche subito al sicuro, [317] rivelando ogni cosa all'Imperatore. Aveva continuato ad avere od a fingere d'aver parte nella trama, cavando intanto dai collegati i danari che gli occorrevano a sostenere l'esercito, e così andando innanzi, s'era sempre più persuaso che il Morone poteva, nelle mani sue e degl'imperiali, riuscire un ottimo strumento a conquistare l'Italia, appena che la vanità della congiura fosse apparsa evidente anche a lui. Questi, in ogni caso, era anche, come si vide poi col fatto, l'uomo più adatto ad indicare le persone da cui si potevano in Italia estorcere danari, dei quali gl'imperiali avevano un bisogno così grande ed urgente, che la mancanza di essi li pose più di una volta sul punto di vedere sbandati i loro eserciti. Era poi egli stesso così ricco da poter dare anche del suo, come fece più tardi col Borbone. Così fu che, quando il Pescara lo ebbe nelle mani, iniziò il processo più per forma e per cavarne danaro, per avere un qualunque pretesto ad impadronirsi della Lombardia, che per la speranza di poter nulla apprendere di nuovo. La benignità inaspettata e le raccomandazioni insolite furono certo promosse dal desiderio che si adoperasse a profitto degli imperiali un uomo il quale si era dichiarato pronto a servirli, e poteva veramente riuscir loro di grande utilità.
Questa congiura, che fu detta del Morone, prova che l'idea di rendere l'Italia indipendente colle proprie forze, era allora nel pensiero di molti, e poteva anche essere effettuata, quando vi fosse stata sincera unione fra gl'Italiani, ed un uomo valoroso e grande l'avesse deliberatamente sostenuta colle armi. Se l'Italia, in fatti, era debole, i suoi nemici erano spesso in guerra fra di loro, e disordinati per modo che più d'una volta si trovarono sul punto d'andare a rovina, senza quasi essere combattuti da altri. Ma l'uomo necessario non sorgeva, e quando si veniva alla prova dei fatti, ognuno voleva operare a suo vantaggio esclusivo: così tutto andava a rifascio. Questo concetto d'indipendenza nazionale, di cui pur tanto si parlò [318] dai tempi di Giulio II in poi, era allora vagheggiato dagl'Italiani più per entusiasmo letterario, e per sostenere interessi locali o personali, che per bisogno generale e fortemente sentito d'una patria comune. Non si poteva quindi, in nessun caso, arrivare a grandi e durevoli resultati. Lo stesso Machiavelli, fino a che restò segretario della Repubblica fiorentina, non riuscì mai a vederlo chiaramente, dimostrandosi anch'esso pronto a sacrificar tutto agl'interessi del suo piccolo Comune. Uscito però d'ufficio, egli fu ben presto il solo che comprendesse e sentisse fortemente l'idea nazionale, esponendola senza incertezze o secondi fini, con sublime eloquenza cercando convincerne gli altri. Ma perciò appunto dovette d'allora in poi passar la sua vita d'illusione in illusione, di speranza in speranza, vedendo un dopo l'altro svanire i sogni dai quali era sempre dominato. Nulla però fa credere che egli si fosse un momento solo illuso sulla condotta del Morone, quantunque la congiura si direbbe qualche volta ispirata dal Principe e dai Discorsi. A lui dovette apparir chiaro, che nessuno di coloro i quali vi presero parte, aveva pur l'ombra di quel forte e sincero patriottismo, che egli sapeva essere più di ogni altra cosa necessario a porre in atto la grande idea.
[319]
L'esercito imperiale s'avanza in Lombardia. — Il Guicciardini Presidente della Romagna, poi Luogotenente al campo. — Il Machiavelli rientra negli affari. — Sua gita a Roma. — È inviato presso il Guicciardini a Faenza. — Sua gita a Venezia. — Corrispondenza col Guicciardini. — È nominato Cancelliere dei Procuratori delle Mura. — Attende ai lavori per le fortificazioni della Città.
L'esercito imperiale, padrone ormai del ducato di Milano, comandato dal conestabile di Borbone, che aveva con sè il Morone, s'apparecchiava baldanzoso ad andare oltre, e nuovi avvenimenti sempre più funesti all'Italia erano inevitabili. A questi era rivolta adesso l'attenzione dei politici italiani, che tutti in un modo o nell'altro vi pigliavano parte. Anche il Machiavelli fu ricondotto ora in mezzo agli affari, e più volte mandato al campo degli alleati, dove trovò il Guicciardini luogotenente generale del Papa. Ambedue fecero prova di tutta la loro energia, di tutto il loro ingegno, dimostrando invano le migliori qualità del loro carattere. Il Machiavelli però era già innanzi cogli anni e vicino alla morte, in condizione sempre subordinata, a servizio d'uno Stato dipendente dall'autorità del Papa; poteva quindi far poco altro che mostrare la sua buona volontà, il suo ardente patriottismo, il suo dolore per le sorti infelici della patria. Il Guicciardini era invece nel vigore delle forze, investito sempre di altissimi uffici, e questo fu anzi il periodo più importante della sua vita politica. Egli aveva in Roma un suo rappresentante nella persona di messer Cesare Colombo, cui scriveva lettere continue, perchè ne riferisse al Papa ed ai cardinali. Esse ci danno un ritratto fedele degli avvenimenti del tempo, e sono [320] una sicura testimonianza della sua grande intelligenza politica, delle sue qualità di vero uomo di Stato.
Mandato governatore nell'Emilia, s'era fatto molto lodare per la energia e prontezza dimostrate durante la guerra. Nel 1524 fu perciò nominato Presidente della Romagna, con incarico di pacificare quel paese lacerato dalle fazioni, insanguinato da continui delitti. E voleva subito usare severità contro i colpevoli, per venir poi alla clemenza. Ma quando ebbe a Forlì fatta eseguire la prima condanna capitale, pronunziata contro uno «imbrattato nelle ribalderie insino agli occhi,» dovette avvedersi d'andare incontro a difficoltà più gravi assai che non pensava.[460] I ribaldi ricorrevano al Papa per protezione, si facevano raccomandare, ed ottenevano salvocondotti. Ciò faceva subito crescere i delitti, e indeboliva l'autorità del Presidente, che ne restava irritato e sgomento.[461] Un Bastiano Orsello, che aveva ammazzato l'avo, ed era accusato d'aver commesso in un tumulto sedici o diciotto omicidi, oltre infinite rapine, trovava anch'esso protezione in Giovanni dei Medici e nel Papa.[462] E mentre il Guicciardini si lamentava d'uno, facevasi grazia ad un altro, tanto che egli esclamava sdegnato: «Meglio far grazia a tutti gli assassini, invitandoli a far peggio! È stato per Dio! un bel ghiribizzo. Si sono visti girare liberamente omicidi, che nelle piazze di Forlì avevano giocato alla palla colle teste degli uccisi!»[463] Pure egli, profittando delle più gravi cure che assediavano il Papa, andò innanzi per modo, che alla fine dell'anno potè annunziare di aver pacificato la Romagna.[464]
Ed allora la sua attenzione si rivolse agli avvenimenti [321] che seguivano fuori di quella provincia, dando giudizi e consigli così giusti, così pratici, che paiono qualche volta addirittura profetici. Poco prima della battaglia di Pavia, egli scriveva che, a suo giudizio, vincevano gl'imperiali.[465]
E quando la previsione s'era avverata, aggiungeva: «Ormai tutto riuscirà a nostro svantaggio. Gl'Italiani non hanno forze per resistere, ed il capitolare sarà la nostra servitù.[466] Questo sarebbe il tempo di audaci disegni, e io loderei chi pigliasse un partito nel quale la speranza fosse uguale al pericolo.[467] È vano sperare nei Francesi, che non pensano mai al domani, e saranno pronti a tutto per liberare il loro Re. Capisco che ora ogni buon cervello si smarrisce; ma chi si avvede che stando fermo gli viene addosso la rovina, deve preferire i più gravi pericoli alla morte sicura.»[468] E quando venne notizia della cattura del Morone, nel quale egli non ebbe mai fiducia, scriveva: «Ormai gl'imperiali non aspettano più. Forse vorranno subito rendersi padroni del Milanese, il che può loro riuscire per la debolezza del Duca, e per qualche nuova girandola del Morone. Noi non abbiamo nulla da sperare, perchè essi si spingeranno ancora più innanzi ad occupare le terre della Chiesa, o a mutare lo Stato di Firenze, o a qualche cosa anche peggiore, quando ne vedessino l'occasione. Cesare vuol farsi signore d'Italia, e non potrà mai essere amico di chi deve opporglisi. È vano sperare in un accordo colla Francia, che ora è prostrata, perchè esso sarebbe sempre a nostro danno. Nessun accordo riuscirebbe stabile, senza la liberazione del Re, il quale poi non osserverebbe i patti che fossero a suo carico. Il vero è che Cesare farà i fatti suoi, mentre gli altri stanno addormentati, e così prevarrà contro tutti, [322] non per maggior forza, ma fatali omnium ignavia.»[469] Queste parole sembrano preveder chiaramente l'avanzarsi degl'imperiali fino al sacco di Roma ed all'assedio di Firenze. Nè dalla sua opinione si rimosse il Guicciardini, quando seppe che un messo dell'Imperatore faceva proposte d'accordo, e che il Papa trattava. «L'Imperatore,» egli scriveva, «vuole abbattere la Francia e i Veneziani, deve quindi assicurarsi prima del Papa, e lo farà appena ultimata la faccenda di Milano. Egli sarà in ogni caso l'arbitro d'Italia. Il Papa avrà di principe solamente il nome, e verrà per ora tenuto a bada con proposte che finiranno in sogni.[470] Ma pur troppo io temo che si appiglierà al partito più da poco. A chi ha paura della guerra bisogna mostrare i pericoli della pace. La troppa prudenza è ora imprudenza, nè si possono più prendere imprese misurate. È necessario correre alle armi, per fuggire una pace che ci rende schiavi.»[471] Ed anche questo s'avverò. La guerra divenne inevitabile, ed il Guicciardini fu chiamato a Roma, per essere prima consultato e poi mandato al campo come Luogotenente generale. Egli allora affidò il governo della Romagna a suo fratello Iacopo, cui lasciò scritte lunge e minute istruzioni, le quali sono un'altra prova della sua attitudine a governare.[472]
È questo il tempo in cui finalmente ricomparisce sulla scena politica il Machiavelli. Noi lo troviamo col suo solito carattere, combattuto sempre dalla fortuna, in uffici modestissimi, esaltato da un vivo entusiasmo a favore della patria italiana, che invano cerca salvare, dominato, trascinato da' suoi eterni ideali. Questi ideali, che assai spesso lo fecero apparire visionario e fantastico ai suoi contemporanei, paiono a noi poco meno che sublimi [323] e profetici, perchè sono più vicini al nostro che al suo tempo, e dimostrano più una profonda visione dell'avvenire, che una conoscenza pratica del presente. La quale conoscenza era invece la dote principale del Guicciardini, che perciò ebbe maggiore fortuna e potenza. Più freddo ed impassibile calcolatore, sembra qualche volta ripetere al suo grande contemporaneo le parole di Dante a Farinata degli Uberti:
E' par che voi veggiate, se ben odo,
Dinanzi quel che il tempo seco adduce,
E nel presente tenete altro modo,[473]
Il Machiavelli stesso più di una volta si accorse della contradizione in cui si trovava, quando voleva a forza supporre i suoi contemporanei, il suo paese, de' quali pur vedeva i difetti, troppo migliori che non erano, e capaci di grandi, eroiche risoluzioni. Allora scoraggiato s'abbandonava un tratto al suo spirito satirico, mordace, cinico, che scoppiava improvviso, irresistibile. Ma poi tornava da capo a' suoi ideali, nei quali ebbe fino alla morte una fede incrollabile.
Ai primi del 1525, quando non era anche ingrossata la marea delle nuove calamità, egli meditava dolorosamente sugli avvenimenti che seguivano alla giornata, e finiva l'ottavo libro delle sue Storie, che arriva alla morte di Lorenzo il Magnifico. Voleva egli stesso presentarle al Papa, cui le aveva dedicate, e cercare così di ricevere qualche nuovo sussidio a continuarle. Ne tenne per lettera parola al Vettori, che lo incoraggiò sempre assai poco. Pure il dì 8 marzo gli scrisse da Roma, che il Papa gli aveva chiesto notizia delle Storie, e che egli aveva risposto d'averne letto una parte, e giudicarle tali da soddisfare; sconsigliava però il Machiavelli dall'andare in persona a presentarle, non parendogli [324] opportuno, rispetto ai tempi che correvano. Ma il Papa invece aveva soggiunto: doveva venire, e sono certo che i suoi libri debbono piacere ed essere letti volentieri. Pure il Vettori, sempre freddo, concludeva la sua lettera col dire: è necessario tuttavia non illudersi, perchè, venendo, c'è sempre il caso di restare colle mani vuote, tali sono ora i tempi.[474] Il Machiavelli, dopo aver molto esitato, decise d'andare, e trovò non solo il Papa ben disposto, ma anche Filippo Strozzi e Iacopo Salviati pronti ad aiutarlo assai più efficacemente del Vettori, sempre largo di sole parole. Il Salviati s'era già prima adoperato a fargli avere qualche incarico; ma non era riuscito, perchè al Papa non piacque la proposta.[475] Filippo Strozzi fu invece più fortunato. Per mezzo di Francesco del Vero potè far sapere al Machiavelli già ripartito da Roma, che Sua Santità era pronta a concedergli un nuovo sussidio, per fargli continuare le Storie.[476] Il sussidio in fatti venne poi concesso, e fu di altri cento ducati.[477]
[325]
La ragione per la quale il Machiavelli, non ostante le buone disposizioni del Papa, era ripartito da Roma senza nulla concludere a proprio vantaggio, prima anche d'esser sicuro del sussidio per le Storie, è tale che fa molto onore al suo carattere. Arrivato colà dopo la battaglia di Pavia, quando gli animi di tutti gl'Italiani erano sospesi per l'evidente pericolo di vedere da un momento all'altro l'esercito imperiale avanzarsi minaccioso, egli quasi istantaneamente perdette il pensiero de' suoi personali interessi, e ne abbandonò la cura agli amici. Al Papa ragionò invece dei provvedimenti più necessarî a prendersi nelle presenti condizioni, dei modi di fortificare Firenze contro qualche improvviso assalto. A lui, ai cardinali, a quanti potè vedere di coloro che frequentavano la Corte, espose con ardore la sua vecchia idea della milizia nazionale, cercando persuadere ad ognuno, come unico rimedio efficace sarebbe ora dar le armi al popolo, chiamandolo alla difesa della patria minacciata dagli stranieri. E con tanto calore, con tanta eloquenza ne parlò, che gli parve finalmente d'esser riuscito a convincerne il Papa ed alcuni di coloro che gli erano vicini. Nel giugno di quell'anno fu in fatti mandato al Guicciardini in Romagna, con un Breve di Clemente VII che lo chiamava dilectum filium Nicolaum Macchiavellum,[478] per esporgli il suo disegno, e cercare d'effettuarlo colà, dove il popolo era assai armigero. Iacopo Salviati e lo Schonberg ne parlarono al Colombo, invitandolo a scriverne anch'egli subito al Guicciardini. E questi, che era forse la testa più fredda e pratica che avesse allora l'Italia, gli rispondeva da Faenza il 15 giugno 1525: «Ho visto quel che dicono circa la venuta del Machiavelli. Aspetterò il suo arrivo, per intender prima il disegno suo, e dar poi il mio avviso; [326] perchè è cosa da considerarla bene, e così direte anche a loro. Intanto chiedete a che fine mira il Papa con questa proposta; chè se ne spera rimedio ai pericoli presenti, è provvisione che non può essere a tempo.»[479]
Il 19 scriveva, che il Machiavelli era arrivato ed aveva esposto il disegno dell'Ordinanza. «Certo, se questa cosa potesse condursi al fine desiderato, sarebbe una delle più utili e più laudate opere che Sua Beatitudine potesse fare. Ed a me non farebbe paura dar le armi al popolo, se però fosse d'altra sorte che è questo, perchè allora con pochi buoni ordini e con severità si provvederebbe a tutto. Ma la Romagna, lacerata da nimicizie crudeli, è divisa in due grandi fazioni, dette ancora dei Guelfi e dei Ghibellini, le quali s'appoggiano una alla Francia, l'altra all'Impero. La Chiesa non ci ha veri amici, e però quando si trovasse in guerra con Cesare, le sarebbe di grandissimo pericolo avere armato gli amici di lui, sperando valersene a proprio vantaggio. Questa impresa dovrebbe esser fondata sull'amore del popolo, che in Romagna manca del tutto alla Chiesa. Qui non son sicuri nè della roba, nè della vita, e guardano perciò sempre ai principi stranieri, dai quali in tutta la provincia dipendono. Lo sperare poi di comporre l'Ordinanza, come vorrebbe il Machiavelli, d'uomini non legati a nessuna delle due fazioni, sarebbe lo stesso che non voler trovare alcuno. Pure, se deve in ogni modo tentarsi l'impresa, io mi ci metterò con ogni mia forza, e così dovrebbe fare Sua Santità, perchè una volta che fosse iniziata, bisognerebbe tenerne più conto che di qualunque altra cosa.» Aggiungeva poi che l'idea d'addossare, come voleva il Papa, la spesa alle già troppo esauste Comunità, era pericolosissima, e sarebbe riuscita solo ad irritarle, sin dal principio, contro una istituzione [327] cui bisognava invece affezionarle.[480] Il 23 giugno tornava ad esprimere i suoi dubbi, invitando il Colombo a far leggere la lettera prima allo Schonberg ed al Salviati, riferendo i giudizî e le opinioni loro; poi al Papa, notando attentamente «li moti e parole sue.»[481] Mentre però egli era così sospeso pel dubbio di vedere il Papa gettarsi, senza riflessione e senza energia, in una impresa assai incerta, già in questo ogni entusiasmo s'era spento come fuoco di paglia, specialmente quando sentì che bisognava spendere. Non pensò più neppure a rispondere. Laonde il Machiavelli, avendo invano aspettato lettere fino al 26 luglio, persuaso ormai che nè il Guicciardini, nè il Papa osavano dar le armi al popolo, e non volendo invano perdere il suo tempo, se ne tornò a Firenze, dichiarando tuttavia che sarebbe stato sempre pronto ad ogni loro cenno.[482] Fino alla morte egli non perdette mai la sua fede nell'Ordinanza.
Da Firenze scrisse più volte al Guicciardini, senza per qualche tempo tornare sull'argomento. Ragionavano fra loro d'affari privati e di facezie, colle quali cercavano una distrazione dalle miserie in cui l'Italia si trovava, e dai maggiori pericoli che la minacciavano. Non potevano però fare che di tanto in tanto non parlassero anche di questi pericoli, con animo assai addolorato. Il 17 agosto il Machiavelli accennava al matrimonio proposto tra una delle figlie del Guicciardini ed un ricco fiorentino; poi si rallegrava molto che all'amico fosse piaciuta la sua Mandragola, tanto da volerla far rappresentare a Faenza nel carnevale prossimo, e prometteva d'assistere alla rappresentazione. Gli mandava una medicina, dalla quale diceva d'avere molte volte ricevuto grande benefizio, [328] massime quando aveva troppo lavorato.[483] Aggiungeva che forse andrebbe presto a Venezia, nel qual caso si sarebbe, ritornando, fermato a Faenza per rivedere gli amici.
Il 19 agosto, in fatti, dai Consoli dell'Arte della lana, e da quelli che i Fiorentini avevano in Romania, chiamati anche Provveditori di Levante, fu mandato a Venezia per un affare d'assai poco momento. Alcuni mercanti fiorentini, tornando dall'Oriente, con molto danaro, sopra un brigantino veneto, arrivati che furono in un porto di quella repubblica, trovarono il brigantino padroneggiato da un G. B. Donati, che accompagnava l'oratore turco. Questo Donati li chiamò, e dopo aver loro «fatto sopportare molte cose indegne, non che altro di essere riferite, gli sforzò finalmente a riscattarsi con 1500 ducati d'oro.»[484] Di ciò si chiedeva [329] dai Consoli risarcimento alla Serenissima Repubblica, essendo il Donati cittadino veneto. E di questa commissione che finì subito, abbiamo solo la credenziale, la istruzione dei Consoli al Machiavelli, e la lettera, in cui è l'esposizione del fatto,[485] senza che altro se ne sappia. Invece sappiamo che allora appunto si sparse per Firenze la voce, ch'egli avesse a Venezia tentato la sorte, vincendo al lotto da due a tre mila ducati. Così gli scriveva Filippo de' Nerli, il quale aggiungeva la notizia, che il Machiavelli era stato imborsato fra i cittadini abili agli ufficî politici, avendo gli Accoppiatori chiuso un occhio sulle difficoltà che si presentavano; e ciò era riuscito, perchè era stato raccomandato da donne a lui benevole.[486] Su di che il Nerli andava celiando, con un linguaggio e con allusioni che per noi sono ora poco facili ad intendere. Si capisce che dagli amici e dagli Accoppiatori era stato veramente favorito, non avendo essi tenuto conto della voce diffusa dagli avversarî, che egli non avesse tutte le condizioni richieste dalle leggi per l'ammissione agli ufficî politici.[487] Quanto alla pretesa vincita al lotto, o fu cosa d'assai poco momento, o addirittura una favola, perchè non se ne trova nessun altro riscontro, e due o tre mila ducati erano a quel tempo tale somma da far mutare condizione al Machiavelli, che non ebbe mai questa fortuna. Neppure il Canossa, allora ambasciatore a Venezia, che lo vide in quei pochi giorni due volte, dando di lui notizia al Vettori, accennò punto alla pretesa vincita. Scriveva solamente, che avevano fra loro [330] parlato delle cose pubbliche, delle quali, concludeva, non v'era da dir altro, se non che «ce ne andiamo in servitù, o per dir meglio la compriamo. Tutti lo conoscono e nessuno vi rimedia.»[488]
Tornato a Firenze senza, a quanto pare, aver per via potuto vedere il Guicciardini, che era andato ad Imola, il Machiavelli trovò ammalato il figlio Bernardo,[489] e ricevè lettera dall'altro figlio Lodovico, giovane impetuosissimo, che era assai spesso in dispute e risse sanguinose, che prese più tardi parte assai viva alla cacciata dei Medici, e morì, con la bandiera in mano, combattendo sotto le mura di Firenze assediata dagl'Imperiali.[490] Ora si trovava per affari commerciali in Adrianopoli, di dove moveva aspro lamento contro un prete, che non voleva lasciare una chiesa di patronato dei Machiavelli, non lungi da Sant'Andrea in Percussina. E minacciava di venire a farsi giustizia colle proprie mani, quando il padre non avesse trovato modo di rimediarvi subito. «Non vedo,» egli concludeva, «a che si aspetti tanto. Questo mi pare un modo di cavarci due occhi noi, per cavarne uno al compagno.»[491]
A tutte queste piccole noie s'aggiungevano i pensieri sempre più gravi per le pubbliche faccende. Il Morone era prigione, il Pescara s'avanzava verso Milano, il Papa si trovava al solito senza consiglio e senza risoluzione. Le lettere del Guicciardini e del Machiavelli sembravano ondeggiare fra la disperazione ed un cinico sorriso, che spesso era invece un sorriso disperato. In una, che è senza data, il Machiavelli mandava spiegazioni intorno [331] al significato di qualche motto fiorentino nella Mandragola. Prometteva di comporre le canzonette da cantarsi fra un atto e l'altro; di far andare a Faenza la Barbera, la ben nota cantatrice, insieme co' suoi cantori.[492] In un'altra, senza data del pari, e firmata: Niccolò Machiavelli, istorico, comico e tragico, cominciava col parlare a lungo del matrimonio, che tanto stava a cuore al Guicciardini; poi a un tratto s'interrompeva, scrivendo: «Il Morone ne andò preso, e il ducato di Milano è spacciato; e come costui ha aspettato il cappello, tutti gli altri principi l'aspetteranno,[493] nè ci è più rimedio: Sic datum desuper. — Veggo d'Alagna tornar lo fiordaliso, e nel Vicario suo, ecc. — Nosti versus, coetera per te ipsum lege.»[494] E poi, mutando da capo bruscamente: «Facciamo una volta un lieto carnesciale, e ordinate alla Barbera un alloggiamento tra quelli frati, che se non impazzano, io non ne voglio danaio, e raccomandatemi alla Maliscotta, e avvisate a che porto è la commedia, e quando disegnate farla. Io ebbi quell'augumento infino in cento ducati per l'Istoria. Comincio ora a scrivere di nuovo, e mi [332] sfogo accusando i principi, che hanno fatto ogni cosa per condurci qui.»[495]
E così continuavano. Il 19 dicembre il Machiavelli tornava sull'affare del matrimonio, e cercando la via a farlo concludere, dava consigli circa il modo di cavar danari dal Papa, per aumentar la dote della fanciulla. Ma il Guicciardini, più orgoglioso e pratico, esitava a parlare di queste cose a Clemente VII, quando erano così gravi le condizioni in cui versavano lo Stato della Chiesa e l'Italia. Allora era morto il Pescara, ed i potentati italiani parevano di nuovo disposti ad addormentarsi, il che rendeva assai maggiore il pericolo in cui tutti versavano. Il Machiavelli concludeva quella stessa lettera, dicendo: Ognuno si crede ora rassicurato, «e parendogli aver tempo, si dà tempo al nemico. E concludo in fine, che dalla banda di qua non si sia per far mai cosa onorevole e gagliarda da campare o morire giustificato, tanta paura veggo in questi cittadini, e tanto male volti a chi fia per inghiottire.»[496] A che il Guicciardini rispondeva il 26, cominciando col parlar nuovamente della commedia, «perchè non mi pare delle meno importanti cose abbiamo alle mani, e almanco è pratica che è in potestà nostra, in modo che non si getta via il tempo a pensarvi, e la ricreazione è più necessaria che mai in tante turbolenze.» Quanto alle cose pubbliche, non sapeva che si dire, vedendo come tutti biasimavano la opinione che solo a lui pareva buona. «Si conosceranno i mali della pace, quando sarà passata l'opportunità di fare la guerra. Noi soli vogliamo aspettare in mezzo alla via il cattivo tempo che viene, e non potremo dire che ci sia stata tolta la signoria, ma che turpiter elapsa sit de manibus.»[497]
[333]
Pare che allora non solamente il Guicciardini ed il Machiavelli, non sapendo dove posare il capo, cercassero distrarsi colle commedie; ma che molti in Italia, pensassero, in questi anni veramente terribili, a distrarsi colle feste. A Firenze, in fatti, durante il carnevale del 1526, la Compagnia della Cazzuola rappresentava la Mandragola in casa di Bernardino Giordano, con uno scenario dipinto da Andrea del Sarto e da Bastiano da San Gallo, il quale, per la sua perizia in questi lavori, era chiamato Aristotele. Poco dopo, nell'orto di Iacopo Fornaciai, presso la porta San Frediano, a bella posta spianato, con lo scenario dipinto dallo stesso Aristotele, fu rappresentata la Clizia.[498] Si fecero in questa occasione grandissime feste e conviti a nobili, a borghesi e popolani, tanto che se ne parlò per tutta Italia. E dobbiam credere che il Machiavelli vi si abbandonasse non meno degli altri, perchè Filippo dei Nerli,[499] che solo in apparenza gli era amico, dopo essersene con lui rallegrato, scrivendone agli altri, se ne mostrava invece assai scandalezzato. A Venezia, nel medesimo tempo, due private Compagnie [334] facevano recitare, una la Mandragola, l'altra i Menecmi di Plauto, i quali ultimi riuscirono al paragone freddissimi, tanto che i promotori della rappresentazione invitarono gli attori della Mandragola a ripeterla in casa loro.[500] Ed il Machiavelli ebbe dai mercanti fiorentini colà residenti, premuroso invito di mandar qualche altro suo lavoro, per farlo recitare nel prossimo maggio. Ma la rappresentazione apparecchiata in Romagna pel carnevale di quell'anno, non sembra che avesse altrimenti effetto,[501] perchè egli non potè andare a Faenza [335] come aveva promesso, trovandosi occupatissimo in Firenze, o in gite per affari urgenti. Il Guicciardini era anch'esso in moto continuo, e nel gennaio dovè recarsi in fretta a Roma. La notizia improvvisa d'un accordo seguìto tra la Francia e la Spagna, per la liberazione del Re, sebbene non se ne conoscessero ancora i termini precisi, teneva gli animi più che mai sospesi, ed era quindi necessario apparecchiarsi agli eventi.
Di ciò le lettere dei due amici cominciavano ora a parlare con sempre maggiore insistenza. Il Guicciardini, come già vedemmo, aveva da un pezzo affermato che l'Imperatore avrebbe liberato il Re, e che questi poi non avrebbe mantenuto i patti. Il Machiavelli, invece, s'era su di ciò sempre illuso, credendo che il Re non sarebbe stato liberato, e che in ogni caso avrebbe mantenuto i patti. Anche quando s'era sparsa per tutto la notizia dell'accordo, egli durava una gran fatica a non perseverare nella stessa sua erronea opinione. Tanto era di ciò convinto che, quando giunse la nuova che il Re era stato effettivamente liberato, e che si attribuiva questa deliberazione all'accortezza del Papa, egli dette sfogo al suo malumore con l'epigramma che finiva:
E quinci avvien che 'l matto
Carlo re de' Romani e 'l Vicerè
Per non vedere hanno lasciato il Re.[502]
E poco prima, quando la nuova della liberazione non era ancor giunta in Firenze, ma si sapeva che si trattava già degli accordi, egli ne aveva scritto prima a Filippo Strozzi, e subito dopo, il 14 marzo, al Guicciardini, dicendogli che aveva il capo pieno di ghiribizzi [336] per quest'accordo, e ripeteva ancora che o il Re non sarebbe libero, o manterrebbe i patti. «È vero che così lascerebbe rovinar l'Italia, e potrebbe anche perdere il regno; ma avendo esso, come voi dite, il cervello francese, questo spauracchio non è per muoverlo come muoverebbe un altro. Libero poi o non libero che egli sia, l'Italia avrà guerra. E per noi non vi sono che due vie: o abbandonarsi a discrezione del vincitore, dandogli danari, o armarsi. Il primo partito non basta, perchè il nemico ci leverebbe i danari e poi la vita; non resta dunque che l'armarsi.» E qui si abbandonava ad un'altra di quelle ardite idee, tutte sue proprie. «Io dico una cosa che vi parrà pazza, metterò un disegno innanzi, che vi parrà o temerario o ridicolo; nondimeno questi tempi richieggono deliberazioni audaci, inusitate e strane. E sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, come i popoli sono varî e sciocchi; nondimeno, così fatti come sono, dicono molte volte che si fa quello che si dovrebbe fare. Pochi dì fa si diceva per Firenze, che il signor Giovanni de' Medici rizzava una bandiera di ventura, per far guerra dove gli venisse meglio. Questa voce mi destò l'animo a pensare, che il popolo dicesse quello che si dovrebbe fare. Ciascuno credo che pensi, che fra gl'italiani non ci sia capo a chi i soldati vadano più volentieri dietro, nè di chi gli Spagnuoli più dubitino e stimino più. Ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, impetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran partiti. Puossi adunque, ingrossandolo segretamente, fargli rizzare questa bandiera, mettendogli sotto quanti cavalli e quanti fanti si potesse più.» «Questo ben presto potrebbe aggirare il cervello agli Spagnuoli, e far mutare i disegni loro, coi quali hanno forse pensato a rovinar la Toscana e la Chiesa, senza trovare ostacolo. Potrebbe anche far mutare animo al Re, che vedrebbe d'aver da fare con genti vive. E legatevi al dito questo, che se il Re [337] non è mosso con cose vive e con forze, osserverà l'accordo o vi lascerà nelle peste, perchè essendogli voi stati troppe volte contro, o rimasti a vedere, non vorrà che gli intervenga ora lo stesso.»[503]
Filippo Strozzi mostrò al Papa la lettera che aveva ricevuta dal Machiavelli, e gli parlò ancora della proposta fatta in quella diretta al Guicciardini. Ma erano pensieri troppo audaci, troppo patriottici per farli accettare da Clemente VII, che si smarriva al solo sentirne parlare. Disse che ben presto il Re sarebbe libero ed osserverebbe i patti, il che lascerebbe l'Italia in balìa dell'Imperatore. La proposta d'armare Giovanni de' Medici non gli pareva accettabile, perchè sarebbe lo stesso che dichiarar guerra aperta all'Imperatore. In fatti senza danari Giovanni de' Medici non poteva formare un esercito, e se glieli dava il Papa, sarebbe stato subito responsabile dell'impresa.[504] Così, come nulla s'era fatto dell'Ordinanza, nulla si fece ora del nuovo disegno del Machiavelli.
Questi si volse perciò tutto a fortificare le mura di Firenze, di che aveva in Roma tenuto lungo ragionamento col Papa, «il quale raccomandò che si facessero opere così gagliarde da mettere nel popolo animo di poter resistere contro ogni assalto. Voleva che si costruisse addirittura dalla parte di San Miniato, un nuovo cerchio di mura; ma ciò era impossibile, a cagione di quel colle. Per includerlo dentro le nuove mura, sarebbe stato necessario allargarsi troppo e quindi indebolirsi. Se invece si deliberava di lasciarlo fuori, bisognava restringersi tanto da lasciar fuori anche un intero quartiere della Città. E se questo quartiere si demoliva, era una [338] grande rovina; se si abbandonava, era come darlo al nemico, che subito vi si sarebbe fortificato.[505] Il Machiavelli perciò, dopo una visita accuratissima fatta alle mura, insieme con l'ingegnere Pietro Navarro, scrisse una minuta e precisa relazione, nella quale, proponendo tutti i lavori necessarî, insisteva sempre più sul concetto di fortificare solo le mura esistenti con nuove torri, fortilizî, fossati ed altre opere.[506] Il 17 maggio scriveva al Guicciardini ancora in Roma, dicendogli che aveva il capo così «pieno di baluardi» che non vi entrava altro. Gli aggiungeva che a Firenze s'era fatta la legge con cui veniva istituito il nuovo magistrato, per provvedere alle fortificazioni; e che se la cosa andava innanzi, come pareva certo, egli, Machiavelli, sarebbe stato il nuovo cancelliere. Faceva premure che il Papa cominciasse da parte sua a dare gli ordini pel denaro necessario a cominciare i lavori. Accennando poi alle notizie venute di Francia sulla nuova attitudine presa dal Re, a quelle venute di Roma sui pericoli cui s'era trovato esposto il Papa, ed a quelle finalmente venute in Lombardia sui tumulti seguìti nell'esercito imperiale, concludeva che da esse si vedeva chiaro «quanto facile sarebbe stato cavar d'Italia questi ribaldi. Per amor di Dio non si perda questa occasione. Ricordatevi che cattivi consiglieri e peggiori ministri avevano tratto non il Re, ma il Papa come in prigione, di dove è appena fuori. L'Imperatore adesso, vedendosi mancare sotto il Re, farà profferte che dovrebbero trovar le orecchie vostre turate. Non si può più pensare di rimettersi al tempo ed alla fortuna, perchè ingannano. Bisogna operare. A voi non occorre dire [339] altro. Liberate diuturna cura Italiam. Extirpate has immanes belluas, quae hominis praeter faciem et vocem nihil habent.[507]». Il Guicciardini gli rispondeva d'essere pienamente d'accordo con lui, e che le cose erano ormai tanto chiare, che sperava bene si provvederebbe una volta con animo deliberato. Pure non fu così. Il Papa, nelle piccole e grandi cose, era sempre in preda alla stessa incertezza, la quale fece sì che anche l'opera di fortificare le mura fiorentine non arrivasse ad alcuna conclusione, ostinandosi egli sino all'ultimo nel suo disegno poco pratico e da tutti condannato.
La nuova Provvisione che istituiva in Firenze i Cinque Procuratori delle Mura, fu scritta dallo stesso Machiavelli, e venne approvata nel Consiglio dei Cento, il 9 maggio 1526. Il 18 furono eletti i Procuratori, che lo scelsero loro Cancelliere e Provveditore;[508] ed egli facendosi aiutare da un suo figlio e da Daniello Bicci, che teneva i conti e le scritture,[509] incominciò subito a scrivere lettere, a dare ordini per mettere mano ai lavori. Fu ordinato ai Podestà di mandare uomini a cavare fossati; fu scritto al Papa, perchè desse danaro, non essendo ora possibile aggravare i cittadini con nuovi carichi. Lo pregavano ancora che sollecitasse la venuta d'Antonio da San Gallo, inviato già in Lombardia a studiare le fortificazioni colà, non essendo prudente consiglio il metter mano ai lavori prima che gl'ingegneri si fossero messi [340] d'accordo sul disegno dei baluardi da costruire.[510] Ma questo appunto fu quello che riuscì impossibile, perchè il Papa tornava sempre alla sua strana idea d'allargare la cerchia delle mura, per modo che circondassero tutta la collina di San Miniato, e pretendeva che l'aumento del prezzo de' nuovi terreni, i quali verrebbero così inclusi nella cinta, dovesse far guadagnare 80,000 ducati. Il Machiavelli fu per perderne la pazienza, e tre lettere ne scrisse il giorno 2 giugno al Guicciardini, concludendo: «tutto questo è una favola, nè il Papa sa quello che si dice.»[511] Caldamente pregava che lo rimovesse da tanta ostinazione, altrimenti si sarebbe, egli affermava, indebolita la Città, e spesa invano gran somma di danaro. In conclusione s'andò per le lunghe, senza far lavori d'importanza. E quando si doveva finalmente venire a qualche cosa di più concreto, di più utile, i nemici erano già tanto innanzi, che il Machiavelli dovette ripetutamente correre al campo, dove era il Guicciardini, lasciando quindi e ripigliando più volte i lavori.[512] Ormai ogni speranza stava nel trovare il modo di deviar da Firenze la minacciosa bufera, la quale si avanzava rapidamente, senza che si fosse in condizioni da poter resistere con energia.
[341]
Assalto dei Colonna in Roma. — Tregua del Papa coll'Imperatore. — Il Guicciardini e il Machiavelli al campo. — Cremona s'arrende alla Lega. — Ordine al Guicciardini di ritirare il campo di qua dal Po. — Gl'imperiali s'avanzano verso Bologna. — Vani tentativi d'accordo tra il Papa e gl'imperiali. — Il Machiavelli torna a Firenze. — Tumulto di Firenze. — Sacco di Roma. — Cacciata dei Medici, e ricostituzione della repubblica fiorentina.
L'Imperatore riteneva adesso che, spingendo innanzi l'esercito, potesse facilmente divenire arbitro dell'Italia. Ma egli mancava assolutamente di danaro, ed il paese, quantunque debole e diviso, gli era tutto nimico. Francesco I, uscito dalla prigione, e deliberato a non mantenere i patti, aveva a Cognac (22 maggio 1526) stretto col Papa, con Firenze, Venezia e Milano una lega, che fu detta santa, e che era in sostanza diretta contro l'Impero. A Carlo V importava quindi moltissimo separarne il Papa, o renderlo almeno temporaneamente neutrale. E però, quando il cardinal Colonna, che era più soldato che prelato, e nimicissimo di Clemente VII, si offerse d'impadronirsi della persona di lui, fu mandato a Roma don Ugo di Moncada, con incarico di tentar prima una tregua, e non riuscendogli, dire al Colonna che facesse pure quello che voleva. In fatti don Ugo non concluse nulla, essendo giunta la notizia delle strettezze in cui era l'esercito imperiale, e partì quindi sdegnato, il 20 giugno, lasciando mano libera al Colonna, che non mise tempo in mezzo. Alla testa di 800 cavalieri, 3,000 fanti ed alcune poche artiglierie tirate da buoi, irruppe nella Città Eterna con tale impeto, che Clemente VII ebbe appena il tempo di fuggire con la sua guardia svizzera, e rinchiudersi in [342] Castel Sant'Angelo. Il Vaticano, San Pietro, le case dei cardinali andarono a sacco, ed in poche ore fu fatta una preda di 300,000 ducati. Era già un pessimo esempio dato agl'imperiali, che s'avanzavano dalla Lombardia; ma il Cardinale voleva andar oltre ancora, e metter le mani sulla persona stessa del Papa. Laonde questi si rivolse spaventato al Moncada, che seguiva il piccolo esercito tumultuario, ed il Moncada si fece subito mediatore, dettando le condizioni della pace, che furono: tregua di quattro mesi coll'Imperatore, il naviglio del Papa ritirato da Genova e i soldati dalla Lombardia, amnistiati i Colonna. Il Cardinale si ritirò allora co' suoi a Grottaferrata, ed eran tutti pieni di sdegno, chiamandosi traditi. Il Papa accettò i patti impostigli dalla forza, con animo però, alla prima occasione, di non rispettarli. E don Ugo lo sapeva bene; ma per ora gli bastava guadagnar tempo, dopo averlo spaventato. Se ne andò quindi a Napoli, menando come ostaggio Filippo Strozzi parente dei Medici. In questo medesimo tempo Clemente VII ebbe a sopportare anche un'altra umiliazione. Sotto pretesto d'assicurare le spalle al suo esercito in Lombardia, egli aveva mandato alcune sue genti, con una moltitudine raccogliticcia di Fiorentini, a mutare il governo in Siena. Ma furono subito messi dai Senesi in una fuga precipitosa e vergognosa, senza avere neppur tentato di combattere.
E per colmo di sventura, tutte queste notizie, con l'ordine di ritirarsi di qua dal Po, arrivarono al campo pontificio nel momento appunto in cui, dopo molte traversie, s'aveva la prima volta qualche speranza di migliore fortuna. Le cose erano dapprima cominciate colà assai male. I Veneziani, comandati dal duca d'Urbino, non passarono l'Adda; gli Svizzeri aspettati non venivano; ed invece i Lanzichenecchi ingrossavano nel Tirolo, sotto il comando del Frundsberg, protestante, che diceva di volere andare in Roma ad impiccare il Papa, ed impegnava le proprie terre, per poter pagare i soldati imperiali. [343] Un tumulto seguìto a Milano contro gli Spagnuoli fu subito represso, senza che gli alleati, i quali avrebbero facilmente potuto mandar 20,000 uomini per sostenerlo, osassero far nulla. Venivano finalmente in aiuto molti Svizzeri alla spicciolata, sebbene non vi fosse un regolare contratto coi Cantoni; ma neppur questo induceva il duca d'Urbino ad un'azione risoluta. Egli voleva il comando generale di tutto l'esercito; si lamentava sempre d'ogni cosa, e non decideva mai niente. Dopo aver fatto le viste d'andare a Milano, dove tutti lo spingevano, s'era invece fermato, mandando ad assediar Cremona, il che aveva messo l'esercito nella impossibilità d'inviare aiuti al Doria, che bloccava Genova, e dichiarava di poterla prendere, se gli alleati andavano subito a stringerla dalla parte di terra.
Il Guicciardini si trovava allora al campo, luogotenente del Papa, e non cessava mai di scrivere a Roma per dargli animo; s'adoperava a tenere in ordine l'esercito, a spronare il Duca, a spingerlo innanzi, a farlo operare; ma tutto era vano.[513] Quando credeva d'esser finalmente riuscito a decidere l'inerte capitano d'andare a Milano, lo vide invece fermarsi per l'inutile assedio di Cremona. Quando aveva sperato che il Papa non pensasse più che alla guerra, arrivava invece la notizia, che si trattavano accordi. «Che carico,» egli esclamava allora, «che vergogna sarebbe smarrirsi alle prime difficoltà, ora che l'esercito non è rotto, non sono seguiti disordini, e siamo sulle terre del nemico!»[514] In questo [344] mezzo appunto giungeva al campo Niccolò Machiavelli, mandato dai Fiorentini, che vivevano assai perplessi per la loro città, ad esaminare e riferire come procedevano le cose. Per via aveva ricevuto lettere del Vettori, con le quali era stato ragguagliato del vergognoso fatto di Siena. «Credo,» così questi gli aveva scritto, «che altra volta sia accaduto che un esercito fugga alle grida; ma che fugga dieci miglia, non essendovi alcuno che lo insegua, questo non credo si sia mai letto nè veduto. Ormai tutto va a rovina. Quando vedo come vanno male le cose a Milano, a Cremona, a Genova; come è andata male questa impresa di Siena, io penso che con simile disdetta non riusciremo neppure a sforzare un forno.»[515]
Pare che in questi estremi momenti il Machiavelli fantasticasse ancora d'una possibile resistenza del popolo in armi, e raccomandasse di nuovo la sua Ordinanza. In fatti troviamo che Roberto Acciaioli, oratore del Papa e dei Fiorentini in Francia, scriveva, il 7 agosto 1526, [345] al Guicciardini: «Ho caro che il Machiavelli habbi dato ordine a disciplinare le fanterie. Volesse Iddio che fusse messo in atto quello che egli ha in idea; ma dubito che non sia come la Repubblica di Platone. E però me pareria fussi meglio che se ne tornassi a Firenze, a fare l'offizio suo di fortificar le mura, perchè corrono tempi da averne bisogno.»[516] Il 10 settembre egli veniva dal Guicciardini spedito al campo di Cremona, perchè vedesse coi propri occhi lo stato delle cose, e facesse intendere al Pesaro, provveditore veneto, e al duca d'Urbino, che se non credevano di potere, in cinque o sei giorni, prendere quella città, era meglio abbandonare addirittura l'impresa, per correre in aiuto del Doria a Genova e, potendo, assalire anche il nemico a Milano.[517] Ma al Machiavelli non fu possibile concludere nulla. Il provveditore Pesaro, in fatti, scriveva che il dì 11 settembre il Duca s'era dimostrato assai contrario a correre in aiuto del Doria, e che il 13, presente il Machiavelli, avendo adunato i suoi capitani, per consultarli, «s'il doveva levarsi de l'impresa, et atender a quella di Zenova,» tutti s'eran dichiarati contrarî. Affermavano esser necessario pigliar prima Cremona, dopo di che sarebbe stato assai facile mandar gente a prendere Genova.[518] Ed il Machiavelli perciò, dopo avere di là scritto [346] più lettere al Guicciardini,[519] ripartiva subito per ritornarsene a Firenze, dove riferì come nel campo nessuno volesse abbandonare l'impresa di Cremona, che pareva veramente vicina al suo termine. In fatti la città poco dopo s'arrese.
Allora l'esercito fu libero. Esso componevasi di 20,000 Italiani e 13,000 Svizzeri, senza tener conto di altri 3500 che s'aspettavano ancora dalle Alpi. Questi erano però gl'iscritti, quelli cioè che si pagavano, non i presenti, e molti ogni giorno disertavano o si sbandavano. Ma i nemici erano in numero minore, e privi di tutto. Qualche cosa dunque si poteva certamente operare. Invece arrivò, come fulmine a ciel sereno, la notizia della tregua, e l'ordine al Guicciardini di ritirare le genti del Papa di qua dal Po. «Piuttosto,» egli scriveva allora al Datario, «abbandonerei l'Italia, che vivere a Roma nel modo che dovrà Nostro Signore, se va per la via che mi dite, Tu ne cede malis, sed contra audacior ito.[520] Deve dunque il cardinal Colonna con mille comandati aver tanta forza da ridurci in sì misera condizione, e quasi dar legge al mondo?»[521] Ormai però non c'era rimedio, e [347] bisognava obbedire. Per conto del Papa restava in armi solo Giovanni de' Medici, con una condotta di 4000 fanti, e l'ordine segreto di continuare la guerra, sotto colore d'essere a soldo della Francia. Per colmo di sventura, questo valoroso soldato era scontentissimo del modo in cui veniva trattato, e minacciava di passare al nemico, se non gli davano uno Stato, come tante volte avevano promesso. «Ed è uomo capacissimo di farlo,» scriveva il Guicciardini da Piacenza. Al duca d'Urbino non parve vero d'abbandonar subito il campo, per andarsene a trovar la moglie. Intanto i Lanzichenecchi, già riuniti in Bolzano, arrivavano a 10 o 12 mila, ed aumentavano ogni giorno, pronti a scendere in Italia.[522]
Il Machiavelli, tornato a Firenze, dopo che ebbe riferito a voce, espose anche in una sua relazione scritta lo stato vero delle cose. S'era, secondo lui, commessa una serie d'errori, cominciando dallo sperar troppo nella sollevazione di Milano, subito repressa dagl'imperiali. L'impresa di Cremona era stata condotta troppo debolmente, il che aveva fatto perdere tempo e reputazione. Il Papa non aveva voluto ricorrere alla nomina di nuovi cardinali per far danaro, nè aveva saputo trovarlo altrimenti. Se n'era rimasto a Roma in modo che ne andò preso come un bimbo, «il che ha siffattamente avviluppata la matassa, che nessuno può ravviarla, avendo egli anche ritirato dal campo le sue genti e messer Francesco Guicciardini, che solo correggeva gl'infiniti disordini. Ora sono più capitani discordi fra loro, per modo che, mancando chi li guidi, fia una zolfa di cani, dal che segue una stracurataggine di faccende grandissima.»[523] [348] Egli avrebbe desiderato che si fosse venuto a qualche partito audace e disperato, ma non aveva mai trovato ascolto. Da una lettera di Filippo Strozzi (Roma, 26 agosto 1526) apprendiamo in fatti che il Machiavelli aveva, in una sua, proposto che s'andassero ad assalire gl'Imperiali nel regno di Napoli; ma che il Papa, dopo averla letta con attenzione, concluse che la risoluzione del detto non gli piaceva.[524]
L'armata di Spagna muoveva intanto dal porto di Cartagena, sotto il comando del Lannoy vicerè di Napoli, per andare a combattere il Doria; ed il Frundsberg a novembre era già nel Bresciano, con più di 12 mila Lanzichenecchi. Tuttavia il Doria, con l'aiuto delle navi francesi, comandate da Pietro Navarro, era sul mare in condizioni da poter respingere il nemico. Nè sarebbe stato difficile ricacciare nei monti i Lanzichenecchi, separati ancora dagli altri imperiali, senza artiglierie, senza danari e senza vettovaglie. Ma nessuno andò ad affrontarli, sebbene il duca d'Urbino con Giovanni de' Medici avesse 1600 cavalli e 19,000 fanti. I Tedeschi, dopo essersi lentamente avanzati, si trovarono nel Mantovano, in mezzo alle paludi, circondati dai nemici; e neppur questo potè indurre il Duca ad assalirli. Tutto dimostrava che la servitù d'Italia non si poteva ormai evitare. Pure le condizioni degli imperiali erano tali, che c'era da vederli sbandarsi senza assalirli, se in quel momento non veniva ad essi un aiuto inaspettato. Il duca di Ferrara, che possedeva le migliori artiglierie allora conosciute, era in una posizione geograficamente così vantaggiosa, da poter [349] esso solo decidere l'esito della guerra. Ed il Papa appunto allora lo aveva scioccamente offeso, respinto, irritato. Egli mandò quindi ai Tedeschi danari con alcune delle sue artiglierie, le quali arrivarono nel momento del maggiore bisogno. Giovanni dei Medici, stanco dell'ozio forzato, cominciò il 25 novembre una scaramuccia contro gl'imperiali, e secondo il suo solito, s'avanzò arditamente, nulla sapendo delle artiglierie arrivate al nemico; sicchè la seconda palla che esse tirarono, lo ferì in una gamba per modo che dopo cinque giorni ne morì. E così mancava al Papa il solo capitano che allora potesse e volesse con animo deliberato fare la guerra.
La tregua intanto si poteva dire già finita, essendosi di fatto venuto di nuovo alle mani. Ed il Machiavelli tornava in fretta al campo, per esporre al Luogotenente le misere condizioni di Firenze, e dirgli che in niun modo essa avrebbe senza aiuti potuto resistere al nemico, quando fosse venuto ad assalirla.[525] Ma il Guicciardini dovette rispondergli, che i soldati della Lega si trovavano talmente sparsi, che in caso d'urgenza egli non avrebbe potuto condurre in aiuto della Città più di 6 o 7 mila fanti del Papa. S'apparecchiassero perciò come meglio potevano, e se credevano di dover tentare accordi, era meglio trattar direttamente col Vicerè, dal quale tutti gli altri dipendevano, perchè esso rappresentava l'Imperatore. Ed il Machiavelli, dopo aver mandato per lettera[526] queste notizie, tornava daccapo a Firenze.
Da Milano uscivano intanto continui drappelli di Tedeschi e di Spagnuoli, che andavano a raggiungere i Lanzichenecchi. V'andò anche il Borbone, dopo aver prima minacciato il Morone per cavarne nuovo danaro, nominandolo poi suo consigliere, vedendo che si prestava efficacemente [350] a tutto; quando vi trovava il suo interesse. Gl'imperiali erano arrivati al numero di 30,000, ed avendo ricevuto una seconda volta danari e munizioni dal duca di Ferrara, lasciavano Piacenza, avviandosi verso Bologna. Ed il Papa non si decideva ancora nè alla pace nè alla guerra. I Fiorentini promettevano di dargli fino a 150,000 ducati, se riusciva a fare un accordo stabile, per salvar tutti dal pericolo imminente. Ma egli ora trattava cogl'imperiali, ed ora faceva assalire le loro genti nel Napoletano, per venire poi di nuovo ad accordi, che dovevano essere da capo violati. L'Imperatore, come sin da un anno aveva preveduto e scritto il Guicciardini, voleva addormentarlo, per averne occasione a farsi padrone d'Italia. E però il suo esercito s'avanzava sempre dal settentrione, sebbene assai lentamente e fra mille ostacoli, per mancanza di danaro, per disordini continui nel campo, per la cattiva stagione. E fra poco doveva, in tale stato, affrontare anche la difficoltà di traversare le nevi dell'Appennino. Il Guicciardini era a Parma, donde scriveva e riscriveva, che nulla poteva indurre il duca d'Urbino ad assalire il nemico: o tradiva o aveva una gran paura; forse era vera l'una cosa e l'altra.[527] Nel febbraio lo raggiunse di nuovo in gran fretta il Machiavelli,[528] mandato per la terza volta da [351] Firenze a dirgli, che negli accordi non si poteva più sperare, che la Città non poteva in nessun modo resistere, e chiedeva di non essere abbandonata al nemico. Il Guicciardini lo condusse dal Duca a Casal Maggiore, per vedere se in due riuscivano a farlo muovere una volta. Ma ogni preghiera fu vana. Egli non voleva nè affrontare, nè precedere il nemico: solo a distanza lo seguiva.[529] Tutto induce a credere che non fosse allora trattenuto unicamente dalla paura, come molti dicevano e credevano; ma forse anche da segrete istruzioni dei Veneziani, ai quali pare che non dispiacesse vedere il Papa umiliato, piuttosto che divenuto per qualche vittoria potente e pericoloso. Certo è che il Guicciardini aveva pienissima ragione di scrivere: «Qui non si fa altro che prevedere e ritenere per certi tutti i possibili pericoli nostri e tutti i possibili disegni del nemico, il quale non arriverebbe a pensarne la metà, quando pure potesse leggere nella nostra mente.»[530] Assicurava tuttavia al Machiavelli che, quando gl'imperiali fossero venuti in Toscana, egli li avrebbe preceduti con le genti del Papa, per salvare Firenze, anche se il Duca si fosse ostinato a rimaner sempre alla coda.[531] Ed il Machiavelli mandava queste notizie agli Otto, scrivendo ripetutamente da Parma, che non si poteva in nessun modo prevedere quello che i nemici erano per fare, non sembrando che [352] lo sapessero essi stessi. Facile sarebbe stato metterli in rotta, se però i disordini della Lega e la inerzia del duca d'Urbino non continuassero a mandar tutto a rovina. Nel marzo scriveva da Bologna, dove si trovava col Guicciardini, che gl'imperiali erano colà presso alle mura; avevano avuto la seconda volta aiuto dal duca di Ferrara, fatalmente divenuto arbitro della guerra, e parevano decisi a venire in Toscana.[532] Essi intanto domandavano vettovaglie, e volevano entrare in quella città; ma il Guicciardini fece chiudere le porte, senza altro rispondere, ed invano minacciarono e tentarono di ricorrere alla forza.
Il Luogotenente era adesso molto impensierito, non solo del pericolo in cui si trovava il Papa, ma di quello che pareva più vicino ancora alla città di Firenze. E per indurre il Duca a soccorrerla in tempo, aveva preso su di sè la grave responsabilità di cedergli la terra di San Leo, che i Fiorentini gli avevano sempre fatta sperare, senza mai dargliela.[533] Per fortuna l'imminente pericolo sembrava ora allontanarsi, giacchè gl'imperiali accennavano a pigliar direttamente la via di Roma, e il disordine andava sempre crescendo fra di loro. Verso la metà di marzo in fatti vi fu nel campo un vero e proprio tumulto, che durò alcuni giorni. Il Borbone si dovette nascondere, per salvarsi dall'ira de' soldati. Il Frundsberg volle invece affrontarla, e si provò il 16 ad arringare i suoi Lanzichenecchi; ma gli risposero con le punte delle alabarde sul viso, gridando ferocemente che volevano subito le paghe. Ed a questo atto d'indisciplina, lo sdegno del valoroso capitano fu tale che ne ebbe un colpo d'apoplessia. Sedutosi sopra un tamburo, venne soccorso dai suoi, che poterono condurlo a Ferrara; ma non andò molto che [353] cessò di vivere. E neppure in tale momento il duca d'Urbino seppe decidersi ad assalire il nemico.
Intanto arrivava la notizia d'una nuova tregua conclusa a Roma fra il Vicerè ed il Papa. Questi doveva reintegrare i Colonna; ritirare le armi che aveva fatte avanzare nel Napoletano; lasciare il Reame a Carlo V, Milano allo Sforza, e dare 60,000 ducati al Borbone, che si sarebbe col suo esercito ritirato dallo Stato della Chiesa e dall'Italia, se Francia e Venezia accettavano i patti. Lo sdegno del popolo romano, allora già in armi, fu grandissimo; ma Clemente VII, che non poteva più sostenere le enormi spese, ed era avarissimo, non appena il 25 marzo fu firmato l'accordo dal Vicerè, licenziò buona parte de' soldati in Roma, facendo un'economia di 30,000 ducati il mese. Così la Città restava senza potersi difendere, ed il Borbone, che aveva l'ordine segreto d'andare innanzi, scrisse subito al Vicerè, che i 60,000 ducati erano pochi pel suo esercito; non poteva quindi accettare la tregua, ed era vano presumere che egli o altri potesse ora fermare i soldati. Il 31 marzo in fatti passò il Reno presso Bologna, ed andò oltre.
Il Guicciardini non sapeva più che dire o che fare, ed a confonderlo sempre più, il Morone mandava a dire, che se gli dava subito 3000 ducati, dei quali avea bisogno per liberare un suo figlio, che era in ostaggio, avrebbe tradito gl'imperiali, lasciandoli in grandissima confusione.[534] Ma il Luogotenente non rispose neppure, [354] troppo bene conoscendo l'uomo. E sempre più rattristato, scriveva a Roma, che il pensare, come facevano colà, alla tregua e non alla difesa, era un funesto errore. «Non so se la necessità ci farà infine uscire dall'incertezza. Li inimici vogliono da Nostro Signore e da noi tutto quello che abbiamo, nè pensano solo al temporale; ma ruinano le chiese, profanano i sacramenti, mettono eresie nella fede di Cristo. Alle quali cose, se non pensa chi può e deve sforzarsi di portarvi rimedio, credo sia colpevole della medesima infamia ed offesa a Dio.»[535] Nè molto diversamente scriveva a Firenze il Machiavelli, il quale, annunziando che il Papa voleva far pagare dai Fiorentini i 60,000 ducati promessi agl'imperiali, aggiungeva: «Bisogna pure trovarli e far quest'ultimo sforzo per salvare la patria. O si fa davvero la tregua, e serviranno a pigliar tempo, a ritardare almeno la rovina, o non si fa la tregua, e serviranno a far guerra.»[536] Ormai però già si sapeva che il Borbone non accettava. Egli anzi, rispondendo che i danari promessi erano pochi, non aveva neppur detto qual somma maggiore volesse. Un suo uomo, è vero, mandato a Firenze, dove espressamente venne anche il Vicerè, s'accordò per 150,000 ducati, promettendo che l'esercito avrebbe cominciato a ritirarsi appena pagati i primi 80,000. Ma neppure a ciò il Borbone dichiarava di consentire; e però il Machiavelli, finalmente affatto disilluso, scriveva che adesso era meglio pensare alla guerra e non occuparsi d'altro.[537] «Quale [355] accordo volete voi sperare da nemici che, quando ancora i monti li separano da voi, e le nostre genti sono in piedi, vi domandano 100,000 ducati fra tre giorni, ed altri 50,000 fra dieci? Arrivati che saranno costà, vi chiederanno tutto il mobile vostro. Non vi è altro rimedio che sgannarli, e quando ciò s'abbia a fare, è meglio sgannarli con queste alpi che con coteste mura.»[538]
Sebbene le nevi e i monti tenessero ancora fermo l'esercito, e si continuasse a parlare d'accordi e di somme sempre maggiori per poterli concludere, pure il Machiavelli che, non avendo ormai altro da sperare o da fare a Bologna, era partito per Firenze, scriveva il 16 aprile da Forlì al Vettori: «Se il Borbone va innanzi, bisogna pensare alla guerra affatto, senza avere più un pelo che pensi alla pace. Se non muove, bisogna concludere addirittura la pace, senza pensare alla guerra. Dovendola però fare, non si deve più claudicare, ma farla all'impazzata, perchè spesso la disperazione trova dei rimedî che la elezione non ha saputo trovare. Io amo messer Francesco Guicciardini, amo la patria mia, e vi dico, per quella esperienza che mi hanno dato sessanta anni di vita, che io non credo mai si travagliassero i più difficili articoli che questi, dove la pace è necessaria e la guerra non si può abbandonare, e si ha alle mani un principe, che a fatica può supplire alla pace sola o alla guerra sola.» Da Brisighella scrisse il 18 allo stesso un'altra lettera, più incerta che mai, e poi venne a Firenze, dove la sua opera poteva essere utile e la famiglia lo aspettava con grandissima ansietà. La moglie ed i figli, in gran paura dei Lanzichenecchi e degli Spagnuoli, già avevano in parte sgomberato la villa; ed egli aveva promesso di raggiungerli in tempo, quando vi fosse stato davvero vicino pericolo. «Saluta Mona Marietta,» così il 2 aprile aveva concluso da Forlì una sua affettuosa lettera al figlio [356] Guido, «e dille che io sono stato quasi per partirmi di dì in dì, e così sto, e non ebbi mai tanta voglia di essere a Firenze, quanto ora; ma io non posso altrimenti. Solo dirai che per cosa che la senta, stia di buona voglia, che io sarò costì prima che venga travaglio alcuno.»[539] Ed il figlio, ancora giovanetto, rispondeva il 17, dicendo che erano tutti lietissimi della promessa. Li avvertisse però subito se venivano i Lanzichenecchi, perchè si fosse in tempo a portar via ogni cosa dalla villa.[540] Questa lettera in grossi caratteri, quasi infantili, fu gelosamente serbata dal padre, e così arrivò sino a noi. Egli, secondo la promessa fatta, fu subito tra i suoi.
A Firenze i cittadini s'erano dimostrati pronti ad ogni sacrifizio, per evitare il pericolo che loro sovrastava. Avevano in fretta raccolto e spedito i primi 80,000 ducati promessi dal Papa al Borbone; fondevano gli ori e gli argenti delle chiese, per mandare il resto. Ma i loro messi seppero per via che non erano neppur ora accettati i patti, e furono a mala pena in tempo a mettere in salvo il danaro, riportandolo a Firenze. Non v'era dunque, come il Machiavelli aveva già detto, da pensare ad altro che a difendersi. In città si trovavano solo alcuni pochi soldati, ed il lavoro delle fortificazioni, sebbene fosse stato a più riprese da lui sollecitato, si poteva dire a mala pena iniziato. Il popolo era scontentissimo del cardinal Passerini, che non voleva consigli e non faceva nulla. «Tutto il male,» scriveva il Guicciardini, venuto ora anch'egli a Firenze, «procede dalla ignoranza di questo castrone, il quale si consuma in favole, e stracura le cose importanti. Non vuole che gli altri le faccino, ed egli non sa far nulla. Pensa solo a guardare la casa dei Medici ed il Palazzo; abbandona lo Stato, e non vede la rovina che si tira dietro. Oh Dio! che crudeltà è vedere [357] tanto disordine.»[541] Era riuscito a condurre l'esercito della Lega presso Firenze, il che aveva contribuito a far sì che gl'imperiali si decidessero a continuare il loro cammino verso Roma. Ma anche quell'esercito, che doveva essere amico, saccheggiava il contado, e quindi il malumore dei Fiorentini cresceva sempre più. Bastò in fatti una rissa seguita il 26 aprile fra un cittadino ed un soldato, per far nascere un tumulto generale, nel quale il popolo si levò a chiedere le armi. Il caso volle, che allora appunto il Passerini, salito a cavallo coi cardinali Ridolfi, Cibo e Ippolito de' Medici, si movesse per andare incontro al duca d'Urbino, il quale, insieme coi Provveditori veneti e col Luogotenente, aveva preso alloggiamento in una villa a poche miglia dalla Città. Il Cardinal Passerini volle far mostra di sprezzare il tumulto, e quindi, senza neppur chiedere che scopo e che gravità avesse, continuò il suo cammino. Tutto ciò fece credere alla moltitudine, che i Medici con i loro rappresentanti se ne andassero via; ed il Palazzo fu subito invaso al grido di popolo e libertà. Accorsero molti autorevoli cittadini, ma il disordine divenne subito assai grande: vi furono ingiurie ed anche qualche colpo di pugnale. Finalmente si concluse col dichiarare decaduto il governo dei Medici e ripristinata la repubblica.
Il Cardinale allora, avvertito dell'accaduto, tornò in fretta con alcuni archibusieri del Duca, i quali occuparono gli sbocchi della Piazza. Il Palazzo fu subito chiuso da quelli che vi si trovavano dentro; ma la guardia medicea, che s'era prima nascosta, uscì fuori adesso, e puntò le picche alla porta per sforzarla. Pareva che dovesse seguirne addirittura una rivoluzione sanguinosa; ma i cittadini rinchiusi colà, non facevano altro che tirar dalle finestre qualche tegolo, il quale cadeva lontano, senza recar [358] danno a nessuno. Iacopo Nardi racconta, che allora mostrò come si potevano disfare i parapetti dei ballatoi, facendo cadere le pietre sui soldati. E così in fatti li costrinsero ad allontanarsi.[542] Da una parte e dall'altra si aveva però assai poca voglia di combatter davvero; si cercava quindi una via per farla subito finita. Non era possibile difendere il Palazzo senz'armi, e non era facile di fuori sforzarlo in breve tempo. Sarebbe poi stato inevitabile, nel prenderlo, fare strage dei cittadini ivi rinchiusi, il che avrebbe di certo indignato tutta la Città. Francesco Guicciardini, il cui fratello gonfaloniere trovavasi ivi rinchiuso, e Federigo da Bozzolo vennero allora a portare una promessa scritta d'amnistia generale; e così tutto finì con la elezione d'una nuova Signoria. Certamente, se le cose del Papa non fossero andate subito a rovina, egli avrebbe fatto aspra vendetta in Firenze; ma ora aveva ben altro da pensare.[543]
L'esercito imperiale continuò il suo cammino verso Roma, e quello della Lega lo seguiva, come sempre, a rispettosa distanza. Il duca d'Urbino dette l'ordine della partenza, facendo dai suoi attraversare la Città, e tutti restarono maravigliati di vedere tanti armati e così bene in ordine, incapaci d'affrontare il nemico, buoni solo a devastare le terre e le case degli amici. Il Guicciardini assai di mal animo dovette anch'egli continuare il doloroso e vergognoso cammino. A Castello della Pieve ebbe il dì 8 di maggio l'infausta nuova, che i nemici, dopo poche ore di combattimento, erano entrati nella Città [359] Eterna, la quale già ne andava a sacco. Il Papa s'era chiuso in Castel S. Angelo, ed il Duca, invece di raggiungere il nemico, s'era diretto a Perugia per mutare colà il Governo. Invano il Luogotenente faceva ogni opera, per indurlo almeno ora ad un ultimo sforzo, invano scriveva al Passerini, perchè da Firenze mandassero genti a tentar di liberare il Papa con qualche colpo ardito. «Sta il meschino chiuso in Castello, senza altra speranza che il vostro aiuto, e lo sollecita con parole che muoverebbero le pietre. Ma da voi non s'ha neppure una risposta. Iddio non mi aiuti se non vorrei prima esser morto, che veder tale crudeltà. Voi pensate tanto al Palazzo ed alla Piazza costà, che dimenticate il resto. Nondimeno se si perde il Papa, tutto ciò vi tornerà, a nulla, perchè si perderà con esso l'anima di cotesto corpo.»[544] Poco dopo avvertiva però, che ormai non v'era più nulla da sperare: il Papa si sarebbe in qualche modo accordato coi nemici, e questi sarebbero inevitabilmente venuti addosso a Firenze.[545]
La nuova della presa e del sacco di Roma, e quindi il pericolo d'una guerra in Toscana furono noti a Firenze il giorno 11 maggio. Il pensiero di tutti fu allora di disfarsi al più presto del cardinal Passerini, dal cui governo nulla si poteva sperare di buono. Il tumulto divenne subito generale, pigliandovi parte i più reputati cittadini, e perfino Filippo Strozzi, parente dei Medici, tornato appena a Firenze. Il Passerini, convintosi che non v'era adesso nulla da fare, se ne andò via con Ippolito [360] ed Alessandro dei Medici. Il 16 maggio venne ripristinata la repubblica, e si deliberò poi con grandissima fretta di convocare pel 20 dello stesso mese il Consiglio degli Ottanta ed il Consiglio Maggiore, con incarico di nominare un Gonfaloniere annuale e rieleggibile. Le stanze che erano state costruite nella sala del Consiglio Maggiore, per alloggiarvi la guardia dei Medici, furono demolite dai più nobili giovani fiorentini, i quali vollero, colle proprie mani, tirar le barelle in cui si portaron via le pietre e i calcinacci. Il primo di giugno, Niccolò Capponi, eletto Gonfaloniere, entrò in ufficio con la nuova Signoria. Furono eletti anche i nuovi Otto di Balìa, e vennero soppressi gli Otto di Pratica, ricostituendo invece, come al tempo del Soderini, i Dieci della Guerra. Ognuno pareva contento della conquistata libertà; ma non v'era tempo da perdere; bisognava apparecchiarsi alla difesa, perchè l'esercito di Carlo V, dopo avere devastato Roma, si sarebbe di certo, nel suo ritorno, mosso verso Firenze. Il Papa, in un modo o nell'altro, si sarebbe accordato coll'Imperatore, ed ambedue avrebbero voluto far le loro vendette contro la risorta repubblica. Il de Leyva già da un pezzo aveva promesso ai suoi soldati di condurli «a misurar colle loro picche i broccati di Firenze»; ed essi eran sempre più avidi di preda. Si cominciarono quindi a discutere i provvedimenti per armare tutti i cittadini validi a difendere la patria; per trovar buoni capitani; per fortificare le mura, non secondo le proposte fantastiche, già vagheggiate dal Papa, ma secondo quelle degli uomini competenti. E fu poco dopo approvato il disegno di Michelangelo Buonarroti, «lodato anche dal giudizio delle persone militari.»[546] L'ardore dei cittadini s'infiammava di giorno in giorno sempre più, e si vedeva che questa volta essi eran davvero [361] pronti ad uno sforzo estremo. Ma tutto ciò incomincia un nuovo dramma, del quale noi non dobbiamo qui occuparci, perchè l'assedio e l'eroica difesa di Firenze escono dai confini della presente storia.
Il Machiavelli inviato al campo presso Roma. — Suo ritorno a Firenze. — Nuove calamità e nuovi dolori. — Malattia e morte. — Testamento. — Preteso sogno del Machiavelli.
Che cosa era intanto avvenuto del Machiavelli, il Provisor murorum, che con grande ardore, sebbene con iscarso profitto, s'era adoperato a fortificar le mura della sua nativa città, e che, per salvarla dall'assalto e dal saccheggio dei soldati imperiali, aveva corso più volte l'Italia? Nei primi di maggio egli era stato, in compagnia di Francesco Bandini, rimandato presso il Guicciardini, che si trovava allora nello Stato della Chiesa, e sempre più s'avvicinava a Roma, sperando invano di far qualche cosa per salvare almeno la persona del Papa. Dovevano i messi fiorentini informarsi dello stato delle cose, e chiedere, in nome del Passerini e del Governo, se qualche cosa si poteva fare per venire in aiuto di Sua Santità. In sostanza però non c'era allora a Firenze nè voglia nè modo di far nulla. Il Guicciardini li mandò subito a Civitavecchia, dove trova vasi Andrea Doria ammiraglio delle navi pontificie, affinchè gli esponessero quali erano i disegni possibili per liberare il Papa, e gli chiedessero se poteva dare aiuto ad attuarli. Dovevano in ogni caso sollecitarlo a mandare le vettovaglie già promesse all'esercito, che, per la mancanza di esse, minacciava sbandarsi d'ora in ora. Il 22 maggio il Machiavelli ed il Bandini scrissero, che il Doria non voleva adoperar le sue navi nè a prender vettovaglie [362] nè ad altro, dovendo tenerle a disposizione del Papa, cui potevano occorrere da un momento all'altro, quando gli riuscisse evadere dal castello. Offriva solo un brigantino o una galea, di cui potevano valersi per tornarsene a Livorno. Lodava in genere il disegno d'un improvviso assalto, meditato dal Guicciardini per liberare il Papa; ma sembrava prestar poca o nessuna fede alla riuscita.[547] E questa è l'ultima lettera che abbiamo di mano del Machiavelli. Con la rivoluzione ed il mutamento di governo seguiti a Firenze, cessò di fatto ogni suo ufficio, ed egli s'affrettò a tornarsene in patria, ove dovette ben presto seguirlo anche il Guicciardini.
L'uno e l'altro di questi due grandi Italiani sentivano d'essere ora ridotti in tristissime condizioni. Il Guicciardini, avversario del governo popolare, legato indissolubilmente al destino del Papa e dei Medici, dopo averli con grande intelligenza e fedeltà serviti, trovava la Città in balìa de' suoi nemici; gli fu quindi necessario andarsene ben presto in volontario esilio, tenendosi fortunato se non gli confiscavano i beni. Ma questa sua infelice condizione aveva almeno il vantaggio di essere chiara e decisa: non gli restava altro che sperare ed aspettare il ritorno dei Medici, coi quali solamente poteva risorgere la sua fortuna. Ben diversa, ben più triste era invece la condizione in cui si trovava il Machiavelli. Repubblicano di buona fede, egli era caduto in disgrazia con la rovina della libertà. Dopo molte sventure e grandi strettezze, era stato finalmente adoperato dai Medici in assai modesti ufficî, quando essi, d'accordo in ciò con tutta la cittadinanza, erano animati dal comune desiderio di salvare la patria dagli stranieri. A questo nobile fine egli, sentendosi come ringiovanito, aveva speso tutta l'attività, tutta l'energia de' suoi ultimi anni, sebbene fossero già presso ai sessanta, e la sua salute fosse divenuta assai mal ferma. Di [363] giorno, di notte, col freddo, col caldo, fra le armi dei nemici, esposto a continui pericoli, non aveva avuto mai posa. Ad un tratto, tornando ora a Firenze, doveva involontariamente, ma fatalmente apparire come un nemico della libertà che tanto aveva amata, e della indipendenza della Città cui aveva dedicato tutte le sue forze. Egli in fatti tornava adesso come un servitore dei tiranni già caduti e cacciati. Che cosa poteva mai sperare? Non v'è dunque da maravigliarsi di ciò che più tardi raccontò nelle sue lettere il Busini, che cioè il Machiavelli, tornando a Firenze insieme con Piero Carnesecchi e con una sorella di costui, fu sentito più volte dolorosamente sospirare.[548] Di certo non sospirava per rammarico della ricuperata libertà che, come dice lo stesso Busini, egli «amava straordinarissimamente,» ma pel dolore invece di doverne essere tenuto nemico. Ora bisognava fortificare le mura, armare i cittadini, e per mezzo dei liberi ordini animarli agli eroici sacrifizî in difesa della patria. Questo il Machiavelli aveva sempre sperato, sempre insegnato, sempre voluto; e da questo doveva ora restare lontano, di questo doveva inevitabilmente apparire nemico!
In fatti, non appena fu arrivato a Firenze, trovò che, tutti s'occupavano a riordinar la Repubblica, ad apparecchiar la difesa della Città; ma nessuno pensava a lui, ognuno anzi lo guardava con diffidenza, e quasi lo fuggiva. Gli amici dei Medici andavano la più parte in esilio, o si nascondevano; quelli che avevano saputo voltar faccia in tempo, per farsi credere ardenti fautori del nuovo governo, più degli altri cercavano di evitarlo, perchè egli faceva ricordare il loro passato, non essendo uomo nato [364] a fare il tribuno, mutando clamorosamente abito e modi. Nè i veri repubblicani potevano certo guardar di buon occhio colui che aveva accettato di servir fedelmente i Medici, sia pure a difesa della Città. Tutto ciò lo afflisse profondamente; ma il dolore divenne anche più acuto, quando ebbe una prova visibile e tangibile dello stato vero in cui egli si trovava ora in Firenze, di fronte ai suoi concittadini. Il 10 giugno, essendo stati aboliti gli Otto di Pratica, e ristabiliti invece i Dieci della Guerra, il segretario Niccolò Michelozzi, rimasto sempre fido strumento dei Medici, fu dimesso, e doveva essere sostituito da un altro. Il Machiavelli aveva assai onorevolmente tenuto quell'ufficio al tempo del Soderini, aveva recentemente provveduto alla fortificazione delle mura; era quindi naturale il supporre che si pensasse anche a lui. Ma con un'altra deliberazione dello stesso 10 giugno, venne nominato a quel posto un tal Francesco Tarugi, senza che dell'antico compagno di Marcello Adriani e del Soderini alcuno mostrasse pur di ricordarsi.[549] Ciò dovette riconfermargli, che ormai tutto era per lui finito, che nessuna speranza, nessuna illusione più era possibile. Non poter servire la patria in pericolo, non poter difendere la libertà, le quali tanto aveva amate, per le quali tanto aveva sofferto, fu questo il dolore a cui non potè sopravvivere Niccolò Machiavelli.
Se un tal dolore fu la sola causa immediata della sua morte, è impossibile dirlo. Certo è che dopo pochi giorni, il 20 giugno, egli, che già da lungo tempo soffriva nella digestione, si sentì assai male. Par che prendesse allora la sua solita medicina, la quale questa volta non gli avrebbe giovato punto; venne anzi assalito da fierissimi dolori colici, e ben presto si trovò in fin di vita. La moglie, i figli, gli amici furono subito intorno al suo [365] letto. Il giorno preciso della morte non è conosciuto, ma dovette essere poco prima del 22 giugno 1527; giacchè, come fu osservato già dal Mordenti,[550] il Libro dei Morti in Archivio dice che in quel giorno il Machiavelli fu sepolto in Santa Croce.[551] Una breve lettera, attribuita al figlio Piero e molte volte ristampata,[552] lo dice morto il 22, ed aggiunge che «si lasciò confessare le sue peccata da un frate Matteo, che gli ha tenuto compagnia fino a morte.» La lettera non è però autografa, e sulla sua autenticità il Tommasini (II, 902 e seg.) ha giustamente sollevato gravi dubbi.[553] Sembra tuttavia vero che, morendo, il Machiavelli volesse assistenza religiosa. E non deve recar nessuna maraviglia se, dopo aver detto tanto male dei papi, dei preti e dei frati, si lasciasse confessare. Era quello che facevano allora tutti in Italia. Egli del resto aveva parlato molto della corruzione del clero, dei mali che la Chiesa aveva recati all'Italia; non aveva però mai impugnato i dommi della religione, non gli aveva anzi neppure discussi.
Nel 1522 il Machiavelli aveva fatto il suo secondo testamento,[554] e con esso lasciava eredi i quattro figli maschi, Bernardo, Lodovico, Guido e Piero; alla figlia Bartolommea o Baccia, che sposò poi Giovanni padre di [366] Giuliano dei Ricci, lasciava gli alimenti, ai quali ella aveva diritto per legge. Non sappiamo se riuscisse a costituirle, sul Monte delle Fanciulle, una piccola dote, come nel testamento stesso diceva di voler fare. Verso la moglie Marietta adoperava parole di stima e di affetto sinceri, inalterati, nominandola amministratrice e tutrice dei figli minorenni.
Non ostante però la morte cristiana e l'affezione da lui dimostrata sino all'ultimo alla moglie, ai figli, non mancarono, com'era da aspettarsi, aneddoti più o meno malevoli, inventati allora e dopo dai detrattori, i quali neppure nell'agonia vollero lasciarlo in pace. Il Giovio, ne' suoi Elogia, affermò che il Machiavelli era morto celiando, per abuso d'una medicina con la quale si credeva al sicuro dalle malattie. Il Busini, che gli fu anch'egli sempre avverso, scrivendo al Varchi nel 1549, diceva che morì in parte di naturale malattia, in parte pel dolore di vedere, che all'ufficio cui egli aspirava e credeva di avere diritto, veniva eletto Donato Giannotti. Ma ciò, come abbiam visto, non è vero, perchè fu nominato invece il Tarugi, il quale morì poco dopo, ed ebbe a successore il Giannotti nell'ottobre dello stesso anno, quando cioè da più mesi anche il Machiavelli aveva cessato di vivere. Il Busini aggiunse, che questi appena s'ammalò prese le sue solite pillole, e sentendosi molto aggravare, «raccontò quel tanto celebrato sogno a Filippo (Strozzi), a Francesco del Nero ed a Iacopo Nardi e ad altri; e così si morì malissimo contento, burlando.»[555] Non dice qual fosse questo celebrato sogno, che più tardi venne da molti ripetuto, ma che non ci è riuscito di trovar narrato da nessuno dei contemporanei. Il Ricci, biasimando aspramente le parole con cui il Giovio sembra alludere a celie ed a poco rispetto dal Machiavelli mostrato alla Divinità nell'ora [367] estrema, afferma che in tutto ciò non v'è ombra di vero, essendo tutte invenzioni malevole e calunniose. La medicina presa era blandissima. Il Machiavelli suo avo era morto cristianamente, circondato dagli amici e dai parenti. La Marietta, i loro figli, tra i quali la Baccia, madre dello stesso Ricci, non avevano mai fatto cenno di queste false dicerie.[556] E in verità il Machiavelli era assai innanzi cogli anni; s'era recentemente [368] esposto a tutte le intemperie, viaggiando di giorno e di notte, col caldo e col freddo; era tornato a Firenze, dopo aver traversato la campagna di Roma, il cui clima è sempre più o meno insidioso; l'animo suo era stato da un pezzo lacerato da continui dolori morali, divenuti negli ultimi giorni ancora più crudeli. Tutto questo è più che sufficiente a dar ragione della sua morte, senza che vi sia bisogno di strane spiegazioni, e rende impossibile credere che egli potesse avere alcuna voglia di celiare accanto al confessore, in mezzo alla moglie ed ai proprî figli, che abbandonava per sempre.
Pure il sogno, che gli amici ed i parenti vicini ignoravano, i lontani e sopra tutti i posteri lo raccontarono. Secondo questi, il Machiavelli vide, dormendo, una moltitudine di genti affamate e misere. Chiese chi erano, e gli fu risposto: i beati del Paradiso. Dopo che questi furono scomparsi, si presentò una moltitudine di uomini gravi, i quali ragionavan di politica, ed in mezzo a loro vide illustri filosofi greci e romani: erano i dannati alle pene eterne dell'Inferno. Interrogato allora con chi avrebbe egli preferito d'andare, rispose subito: — Piuttosto nell'Inferno a ragionare di Stato coi grandi spiriti, che in Paradiso, fra quella marmaglia che ho visto prima. — È difficile dire chi sia stato il primo a narrare, ad inventare questo sogno. Il Bayle che ne parla lungamente nel suo Dizionario, cita solo autori assai posteriori al Machiavelli, uno dei quali è il gesuita Binet (1569-1639).[557] [369] Le lettere del Busini però dimostrano chiaro che già assai prima se n'era discorso. Ma più che un sogno, esso apparisce una parodia abbastanza fedele dello spirito pagano e mordace del Machiavelli. Nel principio del quarto Atto della Mandragola, Callimaco, disperato del suo amore poco onesto, dice a sè stesso: «Dall'altro canto il peggio che te ne va, è morire ed andare in Inferno. E' son morti tanti degli altri, e sono in Inferno tanti uomini da bene. Hatti tu a vergognare d'andarvi tu?» Queste espressioni e molte altre simili, che si trovano nelle Storie, nei Discorsi ed altrove, specialmente quando l'autore mette a confronto le religioni pagane col Cristianesimo, poterono dare origine alla invenzione del sogno. Si può anche supporre che in tempi meno infelici, egli medesimo lo avesse, celiando, narrato, non però mai nel momento della morte. Francesco Otomano, che è il più antico autore citato dal Bayle, scriveva nel 1580, dicendo solamente di aver letto nell'opera d'un altro avversario del Machiavelli, come questi, in certo luogo delle sue opere, dichiarasse che dopo la morte avrebbe preferito andare nell'Inferno piuttosto che nel Paradiso, dove avrebbe trovato solo miseri monaci ed apostoli, quando invece nell'Inferno sarebbe stato in compagnia di cardinali, papi, principi e re.[558] Questo conferma, secondo noi, che il sogno [370] fu immaginato cavandolo in parte dalle opere stesse del Machiavelli e dallo spirito che domina in esse, per condannare alcune sue opinioni, giudicate poco cristiane.
Come abbiamo già detto egli fu sepolto in Santa Croce, nella sua cappella gentilizia, che coll'andar del tempo venne abbandonata ad una compagnia religiosa, la quale v'innalzò un altare e vi seppellì alla rinfusa i proprî fratelli, senza che alcuno ne movesse lamento.[559] La famiglia si estinse ben presto; giacchè dei figli del Machiavelli solo Bernardo ebbe discendenti maschi, uno dei quali, Niccolò, fu canonico, e l'altro, Alessandro, morì nel 1597,[560] lasciando una femmina di nove anni, per [371] nome Ippolita, che andò nei Ricci. La cappella gentilizia, come si può creder facilmente, cadde allora in sempre maggiore abbandono, tanto che si perdette perfino la memoria del luogo preciso dov'era. Il nome del Machiavelli, per le ragioni che già abbiamo altrove lungamente esposte, finì coll'essere poco curato, spesso anzi aborrito fra i suoi stessi concittadini. Nel secolo XVIII la sua fama cominciò invece a risorgere, come si vide per le molte edizioni delle Opere, che rapidamente si seguirono.[561] Nel 1760 furono a Lucca pubblicati alcuni suoi scritti inediti, e nel 1767 il proposto Ferdinando Fossi pubblicò in Firenze un volume di legazioni anch'esse inedite. Finalmente nel 1782 venne in luce la grande edizione fiorentina di tutte le Opere, in sei volumi in quarto, la quale per quei tempi era veramente degna del grande italiano.[562] Fu dedicata a lord Cowper,[563] che [372] insieme col granduca Pietro Leopoldo l'aveva efficacemente promossa. Quel nobile Inglese ebbe quasi cittadinanza in Firenze, dove favorì sempre con ardore i buoni studî, e fu grande ammiratore del Machiavelli. Nel 1787 egli volle, insieme con lo stesso Granduca, essere operoso e largo fautore anche dell'idea proposta da Alberto Rimbotti, d'iniziare una pubblica sottoscrizione, per inalzare in Santa Croce un monumento a Niccolò Machiavelli. Innocenzo Spinazzi, scultore non privo di merito per quei tempi di decadenza dell'arte, lo condusse a termine, ed il dottor Ferroni vi pose la semplice e bella iscrizione:
TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM
NICOLAUS MACHIAVELLI
OBIT ANNO A P. V.[564] MDXXVII
[373]
Il Machiavelli, come abbiam visto, è assai strettamente legato ai suoi tempi. Il concetto che di lui ci formiamo, risulta perciò, in parte non piccola, dal concetto che ci formiamo del secolo in cui egli visse. Nacque in un tempo nel quale la corruzione politica era generale in tutta Europa, ma in Italia più che altrove, perchè maggiore era in essa il numero di coloro che pigliavano parte alla vita pubblica. Questa corruzione faceva quindi più largamente sentire la sua malefica azione in tutta quanta la società italiana. La nostra maggiore cultura rendeva anche meno scusabili i vizî e le colpe d'una politica non più dominata dalle passioni istintive e cieche del Medio Evo, ma conseguenza di calcolo e di astuzia raffinata, crudele e senza scrupoli. Le istituzioni del Medio Evo andavano fra di noi tutte a rapida rovina, lasciando ogni individuo della civile comunanza come abbandonato a sè stesso. In Francia, in Inghilterra, nella Spagna, invece, il feudalismo formava ancora la base su cui s'innalzava il potere sovrano delle grandi monarchie, che avevano quindi più ferme tradizioni, e seguivano una politica la quale, se non era meno corrotta nei mezzi che adoperava, riusciva di certo più determinata e costante, sopra tutto più nazionale, nei fini che si proponeva. La corruzione italiana apparve però ai posteri assai più profonda, più generale che veramente non era, perchè diffusa sopra tutto negli ordini superiori della società, fra gli uomini politici e i letterati, dei quali quasi esclusivamente si occupano le storie. Negli ordini inferiori la virtù e la morale avevano ancora salde e profonde radici, sebbene [374] di essi poco o punto si parli. Questo apparisce ben chiaro nella letteratura popolare, nelle corrispondenze familiari, nella vita di non pochi oscuri personaggi. In una gran parte d'Italia il popolo era in fatti assai più culto e gentile che al di là delle Alpi, e minore era il numero dei delitti. Dei nostri politici molti diffidavano, tutti anzi stavano in guardia contro di loro; non troviamo però che si diffidasse dei nostri mercanti o banchieri, ed in ogni parte d'Europa si chiedevano medici, segretarî, educatori italiani.
A questa diversa morale, che v'era far due parti della società, s'aggiungeva negli ordini superiori di essa, un conflitto nel concetto stesso che gl'Italiani s'erano formato della vita. La morale cristiana, teoricamente almeno, dominava sempre nelle private relazioni, era da tutti riconosciuta indiscutibile; ma veniva poi abbandonata nella vita pubblica, nella quale pareva che avesse perduto affatto ogni valore così teorico come pratico. La buona fede, la lealtà, la bontà cristiana avrebbero, si diceva, menato a certa rovina il principe, il governo che avessero voluto prenderle davvero a regola costante di condotta politica. Questo era ciò che istintivamente sentivano e pensavano allora tutti, ma gl'Italiani ne avevano fatto una teoria, che apertamente proclamavano. La contradizione che v'era nell'accettare questa doppia norma, appariva di certo anche ad essi visibile; ma nessuno pareva che si curasse molto di cercare un modo di sopprimerla, ricostituendo l'armonia interiore. La coscienza si sentiva quindi dolorosamente divisa e lacerata, come tirata in due opposte direzioni, in fondo all'una delle quali si trovava il Paradiso, in fondo all'altra l'Inferno. E si concludeva spesso col dire, che bisognava pure decidersi ad «amare più la salute della patria che la salvezza dell'anima»
Un tale stato di cose doveva avere le sue inevitabili e gravi conseguenze nella vita e nella letteratura. Lo [375] scetticismo di fatti invase gli animi; s'indebolì il sentimento religioso; si cercò di esaminare il mondo e la realtà quali allora erano o sembravano essere, senza occuparsi d'altro. Crebbe sempre più l'ammirazione per gli antichi Greci e Romani, i quali riconducevano appunto allo studio della realtà e della natura, senza pensiero alcuno dell'oltre-tomba, e non solo riconoscevano le necessità della politica, ma ponevano accanto agli Dei coloro che ad esse obbedivano per salvare la patria, non lasciandosi mai fermare dagli scrupoli della morale cristiana. La pittura, la scultura si dettero anch'esse allo studio dell'antico, della natura, della forma, della bellezza esteriore e sensibile; cercaron di essere pagane in una società cristiana. Se non che in esse la forma greco-romana venne lentamente, inconsapevolmente ravvivata da uno spirito nuovo e ne nacque quell'arte del Rinascimento, che è una creazione tutta italiana, quasi una prima conciliazione intellettuale del Cristianesimo col Paganesimo, dello spirito colla natura, del cielo colla terra. Ma nella condotta pratica della vita non era facile il riuscire a trovare una simile conciliazione. Ed in vero una parte non piccola della nostra letteratura, la novella e la commedia soprattutto, che con grande fedeltà ritraggono i costumi ed i tempi, ci rendono immagine del disordine interiore, che travagliava l'animo e l'intelletto italiano. Lo spirito nazionale lottava duramente in mezzo ad una trasformazione politica, sociale ed intellettuale. Sarebbe stato necessario trovar la base d'una morale naturale e razionale, che, rispettando le condizioni reali, pratiche della vita, non si trovasse in contrasto con i precetti della religione rivelata; conquistare la indipendenza della ragione o della coscienza, senza distruggere la santità della fede. Ma quando l'Italia, dibattendosi ancora in questa lotta, vedeva già incominciare a sorgere sull'orizzonte una nuova luce intellettuale, che poteva far sperare un migliore avvenire di civiltà e di moralità, l'Europa le piombò addosso e la soffocò, accusandola [376] poi d'aver lasciato compiere ad altri l'opera da essa gloriosamente iniziata.
Senza aver ricevuto una grande cultura classica, il Machiavelli cominciò subito ad ammirare anch'egli, sopra ogni altra cosa, l'antichità pagana, massime i Romani. Colla loro storia e letteratura si formò in fatti il suo spirito. La natura lo aveva dotato d'una straordinaria chiarezza ed acutezza di mente; d'un gusto squisito per la eleganza della forma; d'una fantasia vivacissima, che, senza renderlo veramente poeta, pur lo dominava di continuo; d'uno spirito mordace e satirico, che vedeva il lato comico delle vicende umane, e dava maggior forza all'atticismo pungente di quei sarcasmi, che gli procurarono tanti nemici e detrattori. La sua indole non era, come da molti fu creduto, cattiva, nè di lui si potè mai citare una sola azione malvagia. Ma i suoi costumi erano molto liberi, sebbene assai meno di quanto apparirebbe dal linguaggio che, secondo l'uso di quei tempi, egli usava nelle lettere e nelle commedie. Alla moglie, ai figli restò sempre affezionato in tutta la vita, fino alla morte. Viveva però tutto nell'intelletto, lì era la fonte vera della sua grandezza. Fra le doti della sua mente, quella che sopra ogni altra predominava e per la quale di gran lunga superava i contemporanei, era una singolare facoltà di ritrovar le vere cagioni dei fatti storici e sociali. Non fu mai un paziente indagatore di minuti particolari, e non ebbe neppure quel genio speculativo che si leva a considerazioni metafisiche, astratte sulla natura dell'uomo, dalle quali sembrava anzi rifuggire. Ma nessuno poteva al pari di lui ricercare, scoprire le origini e le conseguenze d'una rivoluzione politica o d'una trasformazione sociale; nessuno al pari di lui vedeva le qualità che determinano la natura d'un popolo o d'uno Stato: nessuno poteva come lui esporre quale era il carattere vero, non tanto di questo o di quel sovrano o capitano in particolare, quanto del sovrano, del capitano, [377] dell'aristocrazia, del popolo in generale. Su di ciò si fondava la sua scienza politica, in ciò si manifestava la straordinaria originalità della sua mente.
E queste medesime qualità eran quelle che lo spingevano irresistibilmente a vivere in mezzo agli affari, fra i quali trovava materia continua alle proprie osservazioni e riflessioni. Ma negli affari il Machiavelli non potè mai avere grande fortuna, perchè, non ostante le molte e rare attitudini che aveva per essi, non possedeva abbastanza quello spirito pratico, che fa conoscere subito il carattere personale degli uomini, e trovare come per istinto il modo di condurli e dominarli. In ciò era anzi superato da molti de' suoi contemporanei, specialmente dal Guicciardini. Entrato nella cancelleria della Repubblica, egli non fu in sul principio altro che un segretario eccellente. La cura assidua da lui posta nei doveri d'ufficio, la sua attività febbrile, la tendenza a meditare e proporre sempre nuovi disegni, gli fecero guadagnare la fiducia del Soderini, che lo adoperò subito in affari di maggior momento; ma egli restò sempre un subordinato.
Il fatto che decise l'indirizzo de' suoi studî e della sua mente, che gli aprì la via già dalla natura a lui predestinata nella scienza, ed incominciò la sua vera educazione politica, fu la legazione al Valentino. Si persuase allora che un avventuriero di pessimo carattere morale, capace d'ogni più malvagia azione, poteva avere grandi qualità come uomo di Stato e come capitano. Percorrendo una via sanguinosa di tradimenti, il Duca riuscì in fatti ad estirpare i più tristi tiranni della Romagna, e vi fondò un governo che ricondusse l'ordine, la quiete, una pronta, sebbene spesso sanguinosa, amministrazione della giustizia in mezzo a quelle fiere popolazioni, che si sentirono subito sollevate, incominciarono a prosperare, e si affezionarono al nuovo signore. Se questi fosse stato più buono o men tristo, se avesse esitato, la sua pietà, pensò il Machiavelli, sarebbe stata crudele; e l'immagine del [378] Valentino gli apparve come la vivente personificazione dell'enigma che travagliava il secolo, e cominciò a spiegargliene il significato. Cominciò a veder chiaro, che la politica ha fini e mezzi suoi proprî, i quali non son quelli della morale individuale; che le virtù e la bontà privata possono qualche volta fermare a mezzo l'uomo di Stato, rendendolo incerto, senza farlo riescire nè buono nè tristo, che era il peggio di tutto, secondo il Machiavelli. Non bisogna mai esitare, egli diceva, ma entrare risolutamente in quelle vie che la natura delle cose dimostra necessarie. Esse saranno sempre scusate, quando conducono al fine desiderato e necessario, alla formazione, cioè, alla grandezza e forza dello Stato. Colui che in ciò riesce, anche per vie malvagie, potrà certo, come privato cittadino, essere biasimato; ma meriterà pure, come principe, gloria immortale. Se invece manda a rovina lo Stato, sia pure per la bontà del suo animo che lo fa esitare, sarà sempre come principe inetto, condannato. Tale è il vero significato della massima del Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.
Queste idee non lo abbandonarono più in tutta quanta la vita, e furono la base su cui cominciò a costruire le sue dottrine politiche. Ma tornato a Firenze, gli affari incalzanti non gli lasciavano tempo a meditare o scrivere libri. Le sue varie legazioni gli dettero occasione di esaminare l'ordinamento politico e militare della Francia e della Germania che egli ritrasse mirabilmente ne' suoi dispacci, nelle sue relazioni. Imparò così a conoscere gl'immensi vantaggi che vengono alla forza d'una nazione, al benessere universale dalla formazione d'un grande Stato, di un esercito forte. Questo esame che potè fare degli ordinamenti militari in varî paesi, massime la Svizzera e la Germania; l'esperienza avuta nelle guerre d'Italia, sopra tutto di Pisa; lo studio indefesso che fece nella storia degli eserciti greci e romani, gl'insegnarono a deplorare i soldati mercenarî, i capitani [379] di ventura, e sorse così innanzi alla sua mente l'ideale d'un popolo armato e libero. Di qui ebbe origine il concetto della sua Ordinanza, intorno alla quale fece tanti studî, e spese invano tante fatiche. Ma queste idee, che s'andavano via via formando nella sua mente, vi restavano come frammenti staccati, non si potevano coordinare in un sistema scientifico, finchè egli era costretto a girar di continuo pel territorio fiorentino o anche fuori, a scrivere nel suo ufficio lettere infinite per affari, spesso di assai piccola importanza. Si provò per distrazione a comporre alcuni versi, ad abbozzare qualche commedia; ma erano lavori che restavano assai spesso interrotti, per mancanza di tempo e di quiete. Pure le sue osservazioni sociali e politiche sugli uomini e sugli affari, continuavano sempre, e crescevano d'importanza, massime quando la Repubblica si trovò in momenti difficili, tra pericoli che d'ora in ora ne minacciavano l'esistenza. Egli la servì fino all'ultimo con fedeltà, con disinteresse grandissimi, e fece di tutto per impedirne la caduta, che fu inevitabile. Così dopo quattordici anni d'indefesso lavoro, dopo aver compiuto molte legazioni, dopo aver maneggiato grandi somme di danaro per l'ordinamento delle milizie e le spese della guerra, si trovò finalmente senza ufficio, povero come prima.
La caduta della Repubblica fu di certo pel Machiavelli una grande sventura, perchè lo cacciò dagli affari e lo ridusse nelle più gravi strettezze economiche; ma fu da un altro lato una grande fortuna, perchè gli fece scrivere quelle opere che lo resero immortale. Se egli fosse rimasto sempre nella cancelleria, noi non avremmo di lui avuto altro che le legazioni. Tornato invece alla vita privata, cominciò a raccogliere le proprie idee, ad ordinarle, ed il suo orizzonte intellettuale s'andò subito grandemente allargando. I Medici, divenuti allora potentissimi in Roma ed in Firenze, gli rendevano impossibile sperare il pronto risorgimento del governo popolare nella [380] sua Città, ed egli si rivolse quindi a meditare sulla costituzione di un forte Stato italiano. Così potè concepire il suo sistema scientifico, il quale ebbe un doppio carattere, teorico e pratico ad un tempo. Esso pone in fatti le basi di una nuova scienza politica, della quale il Machiavelli fa continua applicazione all'Italia del suo tempo, cercando i modi pratici, per ordinarla in nazione, riconducendola a vera grandezza. Questo doppio concetto fu da lui esposto nel Principe, nei Discorsi, nell'Arte della Guerra; si trova più o meno, sotto forma diversa, in tutte quante le sue opere. Duplice è anche la base scientifica del sistema, perchè si fonda sulla esperienza e sulla storia, la seconda venendo di continuo a riconfermare le conclusioni della prima. Anche nelle Storie, che furono l'ultima delle opere letterarie del Machiavelli, noi lo troviamo animato sempre dallo stesso concetto politico, da cui lo vedemmo dominato del pari in mezzo agli affari, che prima glielo ispirarono, e da cui fu accompagnato sino alla morte. In esse a lui parve di vedere i grandi avvenimenti cagionati sempre dalla volontà, dall'audacia e prudenza di qualche gran principe o uomo di Stato. E si persuase sempre più, che la rovina d'Italia fu conseguenza inevitabile delle sue divisioni, le quali aprirono di nuovo la via alle invasioni straniere, provocate, secondo lui, sopra tutto dall'ambizione dei Papi. L'Italia, egli concluse costantemente, non sarà mai felice, grande, libera davvero, se non sarà unita, il che può esser solo l'opera di un principe riformatore. E questo principe, che gli era apparso la prima volta sotto le forme del Valentino, come una volontà sicura e intelligente, che ordina e disordina, fa e disfà i popoli a suo arbitrio, divenne più tardi nella sua mente un uomo che operava quasi come una forza della natura, perdeva quindi il suo carattere personale, e con esso ogni valore morale. Pel Machiavelli l'uomo di Stato si fonde e confonde con quella che è l'opera sua [381] propria, dalla quale e dal fine che con essa consegue, deve essere giudicato. È un individuo, la cui individualità si dilegua nella moltitudine che rappresenta, nell'opera che è chiamato a compiere.
Così fu concepito e scritto il Principe. Esso ci espone la difficile impresa del riordinamento politico di una nazione in genere, dell'Italia in ispecie, personificandola in un uomo, nel quale la coscienza individuale, morale è destinata, temporaneamente almeno, a scomparire. È forza rimuovere ogni ostacolo al compimento della grande impresa, senza lasciarsi fermare da nessuna considerazione di onesto o disonesto. Questa che fu la via per la quale s'andò formando nella mente del Machiavelli il concetto dell'organismo politico e nazionale dello Stato, fu anche la via per la quale lo Stato stesso s'andò storicamente formando nella realtà. Ciò dà un grandissimo valore al concetto fondamentale del suo libro, e ci spiega il fascino singolare che esso esercitò sulla mente dei pensatori e dei politici, non ostante le critiche e le calunnie con cui fu continuamente assalito. Il metodo dal Machiavelli seguìto lo costrinse ad esaminare con la medesima impassibilità il principe buono ed il principe scellerato, dando all'uno ed all'altro consigli adatti a raggiungere i loro intenti, consigli che esso ricavò da uno studio continuo di tutto ciò che nella storia antica e nella moderna aveva veduto avvenire. Il caso di coscienza che a noi si presenta inevitabile, sembra che non si presenti mai a lui. Egli non domandò a sè stesso, se la immoralità dei mezzi adoperati poteva, anche ottenendo temporaneamente il desiderato fine, distruggere le basi stesse della società che si voleva fondare, e rendere a lungo andare impossibile ogni buono, forte e sicuro governo. Nè domandò se come v'è una morale privata, vi sia anche una morale sociale e politica, che imponga del pari limiti da non doversi in nessun caso oltrepassare, dando alla condotta dell'uomo di Stato una norma che, pur essendo [382] diversa, secondo i tempi e le condizioni sociali, sia regolata anch'essa da principî sacrosanti. Questo è il lato debole, fallace della sua dottrina; quello che ci allontana da lui, ci fa qualche volta orrore, ed è stato la sorgente continua delle accuse e delle calunnie. Ma quando il Machiavelli, dopo la sua analisi, la sua crudele vivisezione, viene alla conclusione finale e pratica dell'opera, allora solamente se ne vede chiaro lo scopo, e se ne possono misurare i pregi e i difetti. Si trattava di costituire l'unità della patria, liberandola dallo straniero; questo avrebbe dovuto essere la mira costante, universale degl'Italiani. Ma nelle condizioni in cui l'Italia e l'Europa si trovavano, non era sperabile conseguire un tal fine, senza ricorrere ai mezzi poco morali di cui la politica di quei tempi si valeva, e che soli sembravano allora possibili. Incalzato da un tal pensiero, dominato dal suo soggetto, il Machiavelli non si fermò a distinguere lo scopo scientifico, generale e permanente dell'opera, dallo scopo pratico e immediato, dai mezzi transitori, che potevano in quel momento sembrare o anche essere necessarî a conseguirlo. Concludeva perciò, generalizzando, che la santità del fine giustifica i mezzi. E ripeteva nuovamente, che l'uomo politico deve tutto osare, pur di riuscire, anche con la violenza, col ferro e col sangue, a redimere la patria, a costituire lo Stato. Spetterà poi al popolo dare alla patria redenta la libertà, difenderla colle armi, consolidarla con la virtù.
Questo secondo concetto è l'argomento dei Discorsi. Essi infatti cominciano con quella che è l'idea fondamentale del Principe; ma si fermano poi a dimostrare come il popolo debba impadronirsi del governo, una volta fondato colla forza, per farlo prosperare con gli ordini liberi. Inesauribile è qui la infinita varietà delle osservazioni giuste, profonde, pratiche, con le quali viene iniziata e svolta la nuova scienza dello Stato. In tutte le letterature difficilmente si troverebbero pagine che, anche da [383] lontano, possano paragonarsi a quelle con cui i Discorsi esaltano l'amore della libertà, la devozione alla patria, il sacrifizio di ogni interesse privato al pubblico bene. In esse e nella esortazione del Principe il patriottismo del Machiavelli si manifesta con un entusiasmo ed una eloquenza che sono insuperabili davvero. Il carattere dello scrittore s'innalza allora dinanzi ai nostri occhi, la sua figura sembra illuminarsi di luce improvvisa; ed egli assume addirittura eroiche proporzioni, quando ci ricordiamo, che questo patriottismo non solo ispirò la sua mente, ma guidò anche la condotta della sua vita.
Il popolo, egli osservò inoltre, a voler essere libero veramente, deve essere armato, e questo lo spinse a scrivere l'Arte della Guerra. Il lungo studio fatto sul diverso ordinamento degli eserciti nazionali e stranieri, antichi e moderni lo condusse al concetto della sua Ordinanza, e gli fece dichiarare altamente, che la forza vera degli eserciti sta nella virtù pubblica e privata, non meno che nella bontà degli ordinamenti militari. L'educare gl'Italiani alle armi, ad esser sempre pronti a dare la vita e tutto alla patria, sarà, egli conclude, il solo efficace principio del risorgimento nazionale. Ed anche in quest'opera esalta la virtù con un calore, con una convinzione, che gl'ispira una eloquenza, che non era di parole solamente. Ed in verità, come noi più volte abbiam visto, gli anni migliori del Machiavelli, tutte le sue forze, la sua costante, irrefrenabile attività, vennero, ogni volta che se ne presentò l'occasione, dedicati a porre in atto le idee che furono poi esposte nell'Arte della Guerra. Quando noi lo vediamo predicare la necessità di armare il popolo, di educarlo a morire per la patria, e con indomita persistenza convincere di ciò il Soderini e la repubblica di Firenze, come si può non ammirarlo? Ma egli non si fermò a questo, che nella sventura e sotto le persecuzioni dei Medici, ricominciò da capo la stessa propaganda fra i giovani degli Orti Oricellari. [384] Più tardi ancora, dimentico di sè, de' suoi privati interessi, dell'età avanzata, della mal ferma salute, cercò di convertire alla sua fede patriottica lo stesso Clemente VII. Offrendosi pronto ad iniziare, vecchio com'era, l'opera generosa in quei giorni funesti, nei quali gli eserciti di Carlo V s'avanzavano a danno di Roma, di Firenze, dell'Italia tutta, finiva coll'infondere una momentanea scintilla di entusiasmo nell'animo stesso, sempre incerto e vacillante di quel papa. Allora è forza riconoscere che v'è davvero in lui una grande, una nobile passione, che lo redime, lo rialza, lo pone al di sopra di tutti i suoi contemporanei: un amore vero, ardente, irresistibile della libertà e della patria, un'ammirazione sincera della virtù. Così la fronte di colui che, con tanta ostinazione, ci fu sempre descritto come la personificazione del male, dell'inganno, si circonda a un tratto d'un'aureola luminosa ed inaspettata.
Tale è il processo che seguì la mente del Machiavelli nelle varie sue opere. Separandole, non se ne può vedere l'intima connessione; si smarrisce il loro scopo, e si dà luogo alle più strane interpretazioni e calunnie. Riunendole, non solo se ne comprende assai meglio tutto il grande valore; ma si vede anche quale fu la via che il pensiero nazionale, individuandosi in lui, tenne per cercar di uscire dalle dolorose contradizioni in cui si travagliava. L'Italia era divenuta incapace d'una riforma religiosa, quale seguì in Germania ed in Inghilterra. Invece di slanciarsi verso Dio, come già le aveva predicato il Savonarola; invece di cercar forza in un nuovo concetto della fede, quale fu predicato da Martino Lutero, si volse all'idea dello Stato e della patria, che solo col sacrifizio di tutti al bene comune si possono solidamente costituire. Pareva che questa fosse l'unica via allora possibile fra noi ad una vera redenzione nazionale. L'unità della patria risorta avrebbe reso necessaria, inevitabile la ricostituzione della morale, riacceso la fede nella virtù pubblica e privata, [385] fatto trovar modo di santificare di nuovo lo scopo della vita. Questo concetto, che noi troviamo vagamente e debolmente sentito da moltissimi dei nostri più grandi scrittori e statisti in quel tempo, fu il pensiero dominatore del Machiavelli, l'ideale a cui sacrificò la sua vita intera. Ma la decadenza nazionale era divenuta inevitabile, gli avvenimenti incalzavano inesorabili, ed egli morì dinanzi allo spettacolo dell'Italia che andava in rovina, invasa dagli stranieri. Il suo grande pensiero rimase perciò un sogno, ed egli fu quindi l'uomo meno compreso e più calunniato che la storia conosca. Oggi che il popolo italiano ha incominciato a redimersi politicamente, che la patria si è costituita secondo la profezia del Machiavelli, il cui sogno divenne una realtà, è venuto il momento in cui può essergli finalmente resa giustizia.
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DOCUMENTI
DUE LETTERE DI LODOVICO MACHIAVELLI A NICCOLÒ SUO PADRE.
† Ihs, addì xiiij d'agosto 1525
Honorando padre etc. Al passato vi s'è ischrito abastantia. E questa per dirvi chome di un chonto che io ò chon Charlo Machiavegli non l'à mai voluto saldare; per che io penso andare a fare e' fatti mia. E per l'altra mia vi schrissi chome m'era restato di tutta la somma panni sette 1⁄2; e' quali panni, per essere un pocho ischarsi, gli arei finiti meglio qui che in Pera. E per esermi Charlo Machiavegli poco amicho, insieme chon uno Giovanbatista Nasini e co Nicolaio Lachi andavano a botea di quegli che e' sapevano che gli volevano, e dicevangli che io nonn'avevo se none panni di rifiuto. E se Charlo si fusi portato chome s'avea a portare uno uomo da bene, io gli arei ogi finiti, dove io sono istato forzato a mandargli in Pera a Giovani Vernacci. Anchora non gli bastò farmi quella inguria, che e' me ne fece una altra. Per che io volevo partire quindici giorni fa, e andare in chonpagnia delle robe; e volevo, innanzi che io mi partissi, saldare detto chonto chon esso secho; e che e' mi dessi infino a ducati cento ventitrè che io [390] ò avere da llui, per fare e' chasi mia; e mai c'è stato ordine che lui l'abi voluto saldare. E chosì restai indrieto, e qui istarò per infino a che partirà giente per in Pera; e ogni giorno che io ci starò, gli domanderò se e' vole saldare chon esso mecho. Se none, chome io sarò in Pera, io vi do la fede mi', che la prima faccienda che io farò sarà questa, che io me n'andrò al Balio, e bisognerà, se chrepassi, che e' venga lassù, o che egli ordini che io sia pagato. E farogli quelo onore che e' merita. Per aviso.
A Roma o a Firenze che voi siate, priegovi che all'auta di questa mi schriviate quelo che è seguito de' chasi vostri; che mi pare un gran miracholo, che da diciannove di magio in qua nonn'abi mai auto nuove de' chasi vostri, o da nessuno di chasa; chè pure c'è venuto di moltissime lettere di chostà. Per aviso.
Anchora vi priego che se di quel tristo di quel prete, se voi nonn'avete fatto nulla, che alla auta di questa voi vegiate che in qualche parte io sia vendichato di tante ingurie quante e' m'à fate. E se e' vi ramenta bene voi mi schrivesti che io atendessi a fare bene in Levante, e voi atenderesti a stare bene a Roma, e quando questo vi riescha, che le ingurie si potrebono vendichare. E io vi dicho, che di tanta roba quanta io avevo che non era possibile fare meglio. Non so già come voi v'arete fato voi, che istimo a chomparatione di me, che voi l'abiate fatta molto meglio. Sì che pensate se io ò animo di vendicharmi. Ma sa' mi male che le vendette che noi potremo fare chon quattro parole, e mostrare chome egli è un tristo, e per questa via chavallo di quella chiesa, vogliamo serbarci a farlo chon nostro danno, e chavare dua occhi a noi per chavarne uno al chonpagnio. E in voi istà ogni chosa. E medesimamente in sulle vostre parole, sapete che io m'ebi a ingozare quella di Cecho de' Bardi. Ma più non voglio ragionar di questo; ma bastivi che se io nonn'ò altre nuove, io sarò prima a Sant'Andrea che a Firenze, e gastigerò questo tristo. Più non ne ragionerò, chè tanto l'ò schritto, che mi dovete avere inteso. E farò più presto che voi non chredete, perchè sarò chostì innanzi che passi mezo gennaio, se Idio mi presta sanità. Non altro per questa. Rachomandatemi a mona Marietta; e ditegli che per nonn'avere tempo non gli ò ischritto; el [391] simile a Bernardo. Salutate quelli fanciugli per mia parte, e del chontinovo a voi mi rachomando. Iddio di male vi guardi.
Vostro Lodovico Machiavegli
inn Andrinopoli.
Honorando padre Nicholò Machiavegli,
in Firenze.
† Xhs, addì xxij di mago 1527
Honorando padre etc. L'alultima (sic) mia fu di Pera. Dipoi, non vi s'è schritto per nonn'essere ochorso. Al presente, per dirvi, chome dua gorni fa arrivai qui inn'Anchona, e ieri ebi una gran febre. Siamo qui stallati e achonfinati rispetto al morbo. Vorrei subito, per questo fante ch'à esere di ritorno, mi dicessi s'e' mia chavagli sono venduti e se à chonperatori per le mani: perchè qua mi truovo 7 chavagli. E avendo chonperatori del chavallo grande, vi richordo mi chosta ducati 110, e per mancho non lo date. E subito date per detto fante aviso, che non baderà niente chostì: e noi di qua non partiremo se detto fante non torna. Non sarò più lungo per nonn'avere tenpo, e anche non mi sentire tropo bene, chè siamo passati da Rauga in trenta ore, dove chadevano di peste li uomini morti per la strada. E per questo rispetto ò gran paura. Che Idio m'aiuti. A voi senpre mi rachomando. Idio di male senpre vi guardi. Rachomandatemi a mona Marietta, e dite che pregi Idio per me; e salutate tutta la brigata.
Vostro Lodovico Machiavegli
fuora d'Anchona.
Al molto suo honorato padre
Nicholò Machiavegli, in
Firenze.
[392]
CINQUE LETTERE DI NICCOLÒ MACHIAVELLI AL NIPOTE GIOVANNI VERNACCI IN PERA.
Carissimo Giovanni. Io ti scrissi circa un mese fa, et dixiti quanto mi occorreva, et in particulari la cagione perchè non ti havevo scripto per lo addreto. Credo la harai hauta, però non la repricherò altrimenti.
Ho dipoi hauta una littera tua de' dì 26 di maggio, alla quale non mi occorre che dirti altro, se non che noi siamo tuti sani: et la Marietta fecie una bambina, la quale si morì in capo di 3 dì. Et la Marietta sta bene.
Io [ti] scripsi per altra come Lorenzo Machiavegli non si teneva satisfacto di te, et in particulare delli advisi, perchè diceva lo havevi advisato di rado et sospeso, da non cavare delle tue lettere nessuna cosa certa. Confortoti per tanto ad scrivere ad quelli con chi tu hai ad fare, in modo chiaro, che quando eglino hanno una tua lettera, e' paia loro essere costì, in modo scriva loro particolarmente le cose. Et quanto al mandarti altro, mi ha detto che, se non sbriga cotesta faccienda in tucto et se ne reduce al netto, che non vuole intraprendere altro.
Egli è venuto costà uno Neri del Benino, cognato di Giovanni Machiavegli, al quale Giovanni ha dato panni: et però non ci è ordine che facessi con altri. Et Filippo li vuole vendere in su la mostra.
Attendi ad stare sano, et bada alle facciende, chè so che se tu starai sano et farai tuo debito, che non ti è per mancare cosa alcuna. Io sto bene del corpo, ma di tucte l'altre cose male. Et non mi resta altra speranza che Idio che mi aiuti, et in fino ad qui non mi ha adbandonato ad facto.
[393]
Raccomandami alla memoria del consolo Iuliano Lapi mille volte, et digli che io sono vivo. Et non mi resta altro. Christo ti guardi.
Addì 4 di agosto 1513.
Niccolò Machiavegli, in Firenze.
Domino Giovanni di Francesco
Vernacci, in Levante.
Carissimo Giovanni. Io ho dua tue lettere in questo ultimo, per le quali mi commecti vegga di ritrarre quelli danari della monaca dal Monte, ad che, come prima si potrà, attenderò, perchè se non passa l'ottava di Pasqua, non posso attendere, per non si potere andare a munisteri. Attenderovvi poi, et del seguito te ne darò notitia.
Io vedrò con Lorenzo et con altri, se io ti potrò indirizzare faccienda alcuna, et potendosi, lo intenderai.
Egli è uno artefice ricchissimo, che ha una sua figliuola un poco zoppa, ma bella per altro, buona et d'assai, et secondo li altri artefici è di buone genti, perchè ha li ufitii.[569] Io ho pensato che quando e' ti desse dumila fiorini contanti di suggello, et promectesseti aprirti una bottega d'arte di lana, et farviti compagno et governatore, per adventura sarebbe el bisogno tuo, pigliandola per moglie, perchè io crederei che ti svanzassi 1500 fiorini, et che con quelli et con lo aiuto del suocero tu potessi farti honore et bene. Io ne ho ragionato così al largo, et mi è parso scrivertene adciò che tu ci pensi, et per [394] il primo me ne advisi, et parendoti me ne dia commissione. Christo ti guardi.
In Firenze, addì 20 d'aprile 1514.
Niccolò Machiavegli.
Potrebbesi fare che tu stessi due o tre anni ad menarla, se tu volessi stare qualche tempo di costà.
Dno Giovanni di Fran.co Vernacci,
in Pera.
Carissimo Giovanni. Come altra volta t'ho scripto, io non voglio che tu ti maravigli se io non ti scrivo, o se io sono stato pigro ad risponderti, perchè questo non nasce perchè io ti habbia sdimenticato et che io non ti stimi, come io soglio, perchè io ti stimo più; perchè degli huomini si fa stima quanto e' vagliono, et havendo tu facto pruova d'huomo da bene et di valente, conviene che io ti ami più che io non solevo, et habbine non che altro vanagloria, havendoti io allevato, et essendo la casa mia principio di quello bene che tu hai et che tu se' per havere. Ma sendomi io riducto a stare in villa per le adversità che io ho haute et ho, sto qualche volta uno mese che io non mi ricordo di me; sì che se io strachuro el risponderti non è maraviglia.
Io ho haute tucte le tua lettere; et piacemi intendere che tu l'abbi facto et facci bene, nè potrei averne maggiore piacere. Et quando tu sarai expedito et che tu torni, la casa mia sarà sempre al tuo piacere, come è stata per il passato, anchora che povera et sgratiata.
[395]
Bernardo et Lodovico si fanno huomini, et spero dare alla tornata tua ricapito ad qualche uno di loro per tuo mezzo.
La Marietta et tucta la brigata sta bene. Et vorrebbe la Marietta le portassi alla tua tornata una pezza di ciambellotto tanè, et agora da Dommasco, grosso et sottile. Et dice che l'anno ad rilucere, che quelle che tu mandasti altra volta non furno buone. Xpo ti guardi.
A dì 8 di giugno 1517.
Niccolò Machiavegli, in Villa.
Domino Giovanni di Francesco
Vernacci, in Pera.
In Pera.
Carissimo Giovanni. Io mi maraviglo che tu mi dica per l'ultima tua non havere hauto mie lettere; perchè 4 mesi sono ti scripsi et ti feci scrivere ad Lodovico et Bernardo, che ti chiesono non so che favole; et dectonsi le lettere ad Alberto Canigiani.
Come io ti dixi per quella, se l'havessi hauta, tu non ti hai da maraviglare se io ti ho scripto di rado, perchè poi tu ti partisti, io ho havuto infiniti travagli, et di qualità che mi hanno condotto in termine che io posso fare poco bene ad altri, et mancho ad me. Pur non di meno, come per quella ti dixi, la casa et ciò che mi resta è al tuo piacere, perchè fuori de' miei figluoli, io non ho huomo che io stimo quanto te.
Io credo che le cose tue sieno migliorate assai in questa stanza che tu hai facta costì; et quando le si trovassino nel termine ho inteso, io ti consiglerei ad piglare donna, et ad piglare una per la quale tu adcresceresti al parentado meco: et è bella et ha buona dota, et è da bene. Perhò vorrei che, [396] havendo ad soprastare costì, o tu mi scrivessi o tu me lo facesti dire ad Alberto Canigiani, che opinione è la tua; et havendo animo ad torne, mi alluminassi in qualche modo dello essere tuo.
Noi siamo sani et raccomandianci tucti ad te. Christo ti guardi.
A' dì 5 di giennaio 1517.
Niccolò Machiavegli, in Firenze.
Domino Giovanni di Francesco
Vernacci, in Pera.
In Pera.
Carissimo Giovanni. Forse 20 dì fa ti scripsi dua lettere d'uno medesimo tenore, et le detti a dua persone ad ciò ne havessi almeno una: dipoi ho la tua tenuta a dì 4 di novembre. Et duolmi infino ad l'anima che tu non habbi haute mie lettere, perchè sei mesi sono ti scripsi et feciti scrivere una lettera per ciaschuno ad questi fanciulli; et ad ciò che tu ne possa havere qualcuna, farò anche una copia di questa.
Come per più mia ti ho detto, la sorte, poi che tu partisti, mi ha facto el peggio ha possuto; dimodochè io sono ridotto in termine da potere fare poco bene ad me, et meno ad altri. Et se io sono strascurato nel risponderti, io sono diventato così innell'altre cose: pure, come io mi sia, et io et la casa siamo ad tuo piacere, come sono stato sempre.
Gran mercè di 'l caviale Et la Marietta dice che alla tornata tua li porti una pezza di giambellotto tanè.
Per altra ti scrissi, che quando le cose tue fussin miglorate, in nel modo che io intendo et che io mi persuado, io ti conforterei ad piglare donna; et quando ti volgessi ad quello, ci è al presente qualche cosa per le mani che tu non potresti [397] fare meglo; sichè io harei caro che sopra questa parte mi rispondessi qualche cosa.
Noi stiamo tucti sani, et io son tuo.
A dì 25 di genaio 1517.
Tuo
Niccolò Machiavegli,
in Firenze.
Dno Giovanni di Francesco
Vernacci, in Pera.
In Pera.
Lettera di Marietta Machiavelli al marito Niccolò. Firenze, di data incerta.[573]
a nome di dio a dì 24
Carisimo Nicholo mio. Voi mi dilegate, ma non n'avete ragone, chè più rigollo arei se voi fusi qui. Voi che sapete bene chome io sto lieta quando voi no siete quagù; e tato più ora che m'è stato deto chostasù è sì gra' morbo; pesate chome io sto choteta, che e' non trovo riposo nè di nè note: questo è la letiza ch'i' ò de biabino. Però vi prego mi madiate letere u poco più speso che voi no fate, chè non ò aute se non tre. Non vi maraviglate se io non v'ò scricto, perchè e' non potouto, ch'ò auto la febre in sino a ora: no sono adirata. Per ora e babino sta bene, somigla voi, è biaco chome la neve, ma gl'à e capo che pare 'l veluto nero, ed è peloso chome voi: e da che somiglia voi, parmi bello; ed è visto che pare che sia stato un ano al mondo; e aperse li ochi che non era nato, e mese a romore tuta la casa. Na la babina si sete male. Ricordovi e tornare. Non altro. Idio sia co voi, e guardivi.
[398]
Nadovi farseto e dua camice e due fazoleti e uno scugtoio, che vi ci cucio[574] queste cose.
Vostra Marietta
in fireze.
Spettabili viro Nicholo di mess. Bernardo
Machiavelli, in Roma.
DUE LETTERE DI GIOVANNI VERNACCI ALLO ZIO NICCOLÒ MACHIAVELLI.
† Iesus. Addì xxxi d'ottobre 1517
Honorando in luogo di carissimo padre, doppo le debite rachomandazioni salute infinite etc. Al pasato abastanza; e dipoi non tengho vostra, chè per la ghrazia d'Iddio e de' mia buon portamenti, e' fa più d'uno anno che di vostro non n'ò auto uno verso, che veramente mi dispiace, perchè posso giudichare di me più non avete richordo chome di charo nipote, di che ne sto di mala voglia. Ma da altra banda la fede assai che tengho in voi, più ch'un buon figlio al padre, quella mi fa isperare che se voi avete perso la penna e 'l foglio allo ischrivermi, non abiate perso l'amore che tanto tenpo m'avete portato, non da vostro nipote anzi da charo e buon figliuolo: che a Dio piaccia di chosì sia, e dipoi mi chonceda ghrazia che voi mi visitiate con dua versi per darmi alquanto di chonsolazione, e' quali atendo con ghrandissimo disiderio, per intendere di vostro buono essere e di tutta vostra brighata, che Iddio ne facia degni.
[399]
E' s'è mandato a questi giorni un pocho di chaviale chostì a Alberto Chanigiani, solo per richonoscere e' parenti e li amici, che mi paiano avere persi. Del quale chaviale vi se ne fa parte, che s'è ordinato al detto Alberto ve ne mandi libre venti; el quale accetterete e vi ghoderete per mio amore, in questa chuaresima. E non ghuardate a la qualità del debole presente, anzi l'acettate per atto di magiore volontà e generosità che io vorei mostrare verso di voi. Per aviso vi sia.
Al presente la fo a l'usato, e sono di qua con pocho utile; e bramo in brevità di tenpo venire sin costì, di che istimo sarà presto, che Iddio me ne chonceda ghrazia.
Io non so che altro mi vi dire, salvo che a voi per infinite volte mi rachomando, e dipoi a la vostra m.ª Manetta, a la quale non ischrivo, perchè le faciate parte di questa chol darle per mia parte infinite salute, e alsì al Brena[576] e Lodovico e Ghuido e alli altri che per nome non so; e' quali tutti insieme chon voi Iddio sempre di mal ghuardi.
Per vostro
Giovanni Vernaccia proprio in Pera.
Tenuta sino addì jº di novembre, nè altro achade, salvo richordarvi e pregharvi di nuovo che mi faciate 4 versi, che n'arò piacere. Valete.
Spectabili viro domino Nicholo
Machiavelli, in Firenze.
† Yhs. Addì viij di maggo 1521
Honorando in luogho di padre, rachomandazione e salute infinite, etc. Addì iiij di febraio 1520 fu mia ultima. Dipoi ò la vostra de' dì xv di febraio vista chon piacere. Apresso risposta.
[400]
E' s'è inteso ricevesti la prochura, ma dite non à servito a e' denari del Monte, e la forma in che modo bisognia detta prochura, s'è ricevuta in detta vostra; e s'è fatto detta prochura formalmente chome n'ordinate, e per mano di nostro chancelliere; e vi si manda in questa, acò posiate promutare detti denari di Montte in chi a voi piacerà, a chagone s'abia lo intero de le paghe: sì che fatene chome di chosa vostra, che Iddio di ben mandi.
De' lascio di mona Vaga dite mi tocha fiorini 266. 13. 4, denari 7 per cento larghi, e fiorini 632 1⁄2, che sono dipositati in Badia a mia istanzia. E chosì dite si resta avere certti denari da' Tenpi, e non dite chuantti. E chosì intendo che certa mia partte è in mano de l'iseghutori del testamentto: di che vorei che a l'auta di chesta faciate d'aver tutto, e chosi li denari che sono in Badia, chome li altri, e ne fate chome se vostri fusino; che tutto terò per benisimo fatto. Chuanto a Piero Venturi, s'è inteso lo tenete contentto chol darlli l'entrata del podere; e dite à auto tutto, salvo le venciglie, che bene avete fatto: e anderete chosì facendo sino al mio ritorno. E a quell'ora ò speranza del tutto valermi.
El chaviale s'intese lo ricevesti, eseghuitene chuanto vi s'è ordinato, che sta benisimo. Per chuesta non achade dirvi altro, salvo che fra XV gorni arò sentenzia fra 'l Biliotto e me, e de prima ne verò al fermo, che Iddio me ne chonceda ghrazia. E basta. A voi di chontinovo mi rachomando. Abiatemi per ischusato se so' brieve per chuesta, che n'è chausa ò preso ieri una medicina che m'à sturbato. Iddio voi e noi di male sempre ghuardi.
Per vostro
Giovanni di Frº Vernaci
in Pera.
Spectabili viro domino Nicholo
Machiavelli, in Firenzze.
[401]
Lettera di alcuni cittadini fiorentini a Niccolò Machiavelli, relativa alla sua commissione a Genova. Firenze, 8 aprile 1518.[578]
A nome di Dio, addì viii d'aprile 1518
Carissimo. Abbiano ricievuto dua vostre de' dì 26 e 30 passato. Apresso, al bisogno.
Per una, inteso alla giunta vostra de lo brieve dello pontefice, e altre lettere presentasti allo signore ghovernatore per li chasi di Davit Lomelino, e le grate hoferte vi fecie. Le quali, tuto racholto, possono fare pocho bene per avere esso Davitte salvocondotto da esso ghovernatore, con tempo di giorni 3 alla disdetta, e non avere esso Davitte beni. Sia con Dio. Di più s'è inteso dello essere suto a parlamento con esso Davitte e con Iacopo Cienturioni suo cogniato, e non si dubita punto abiate manchato di dire quello era di bisognio a tale chauxa; e non avevi possuto chavare altra chonchruxione, se non che Davitte e Iacopo detto vi avevono dato uno partito di volere paghare il tutto in tanta robbia a fiorini cinque di grossi il cento, posto qui a tute sua spese: con questo patto che chi à 'vere ducati cento ricieva in 4 anni per 0⁄4 per ducati, ec.; e sechondo ricievessi la robia, li chreditori dare panni gharbi o di Samartino, o chi non avessi panni, tafettà, per quello pregio vagliono per tenpo l'anno.[579] Questo, a chi non intendessi [402] più holtre, sarebbe uno paghamento di sogni e da fare molte confusioni. Pertanto noi proquratori tutti d'achordo questo modo per nulla acieptiamo; e, nonostante conosciamo e' sia con ghrave danno delli chreditori, siano contenti che, volendo esso Davitte darci tanta robia a ciasquno delli sua chreditori di qui quanto elli debbe, e paghalla in 4 anni ciasquno anno per 0⁄4, e mettella fiorini cinque di grossi il cento a tutte spese d'esso Davitte, spacciata qui della doana; siano contenti si faccia, e lo doverebbe fare; e di chosì vi piaccia fare opera che stimiano per voi non abbia a manchare; dichiarando che la robbia sia buona delle di Fiandra.
Quando questo modo non potessi condure, vedete d'apuntare a danari. E non si potendo avere lo intero, si achordi per li 2⁄3; e non possendo meglio, si pigli soldi XII per lira o sì soldi XI, almeno soldi X per lira, cioè la metà di quello dovessi a ciasquno qui in tenpo d'anni 4, chome è detto d'avere ogni anno la 4ª parte, e di questo avere buona siqurtà, possendo, dello intero; e quando non si possa meglio, avendo dato intenzione di ducati 1600 d'oro, lo doverete tirare a ducati II mila di tale siqurtà. E in questo bisognia faciate ogni hopera che tali siqurtà sieno buone. E ci parrebbe per meglio, possendo, faciessi d'avere l'obrigho delli Spinoli di qui, cioè di Charlo e Giorgio Spinoli di qui o d'altri, che promettessi che fussi, stante qui, più presto de' nostri che altri; e quelli fussino buoni e sofizienti per tale siqurtà. E avendo a pigliare siqurtà chosì, bisognia sieno bonissimi. E vorremo fussino hobrighati in forma chamera. E questo è, almancho sarebbe, il desiderio nostro. Non manchate della hopera e solecitudine che la fede s'à in voi. E quello Iacopo Cienturioni solo non è a proposito, chè è falito rachoncio. Pare ve ne consigliate con quello Fabara, amico delli Neri, e altri di chi avessi a essere siqurtà, che sieno buoni e sofizienti. Quando voi non vedessi modo d'achordare con esso Davitte, circha il modo detto, dite a Davitte per ultimo, lo fareno dipigniere per ladro fugitivo a Roma, e per tuti lochi di qua dove potreno; e farassi scomunichare, e tanti altri modi strasordinari, che lui non sarà siquro della persona in nessuna parte....[580] Non ci sarà ghrave spendere di strasordinario ducati mille, e fare.... [403] perchè lui chosì s'è ghovernato, che non riputiano questo falimento.... spesso latrocino. A Nicholò non s'à a fare.... lungho sermone, che.... farà in tutto quello potrà. Solo s'à richordare, avendo apuntare.... le chose chiare, perchè non si può stare di pari con tale nazione. E perchè non si può in ogni chauxa chosì a punto prociedere, vi si dice che in pocho di chosa non ghuardiate, per ultimare questa benedetta chauxa, che Iddio cie ne conducha a buono fine. Quando vegiate di non potere achordare, fateli ronpere il salvocondotto, e qui tornate più presto potete.
In chaxo abbiate a pigliare siqurtà per conpto d'esso Davitte, abiate righuardo d'avere persona sia di buona qualità, e ne pigliate parere con quello Fabara e con Stefano Salvagho e altri, e in buono modo; e spedite più presto potete.
Sendo sino qui scritto, s'à vostra de' dì....[581] e con la medesima sostanza. Perciò non schade altro. Christo vi ghuardi.
Per
Quando elli seghuissi achordo, e Davitte domandi più una chosa che altro per suo discharicho, noi li manderemo la ratifichazione autenticha per mano di notario in buona forma; e chosì prometete. E non achordando, fate levare esso salvocondotto. Desideràno, il signore Ghovernatore li facia intendere chome non è per soportallo in chotesto domino, e ch'elli è per hoperalli in chontrario a quanto potrà, per eserne di chosì richiesto dalla Santità di Nostro Signore e da questa Signoria e dallo signor Ducha, chome bene saperete dimostrare.
Spectabili viro Nicholo Machiavelli,
in Genova.
[404]
Lettera di Luigi Alamanni a Piero suo padre. Roma, 7 gennaio 1518.[582]
Magnifice vir et pater honorande. Per due vostre, l'una de' xxviij et l'altra de' xxxj di dicembre, intendo quanto mi scrivete circa le commessioni datemi prima che io partissi, le quali ho attentamente notate, et riconosco quasi il medesimo che mi desti per ricordo; secondo il quale mi sono appunto governato in ogni mia cosa. Io ho parlato al papa, poi che vi scripsi, una altra volta, et sommi ingegnato di exprimere appunto i vostri concepti, et di achomodare proprie le parole formali. Et egli generalmente mi rispose molto humanamente, et ricordommi gli oblighi che ha con epso voi; et aggiunse mille altre amorevoli parole che sarebbono hora lunghe ad scriverle. Io per allhora non mi strinsi ad particulare alcuno di richiederlo, ma subito me ne andai ad monsignor de' Medici, et dixigli le buone offerte di N. S., et appresso, lo animo vostro; soggiugnendo che havevo commessione di non tentare cosa alcuna senza il consiglio et aiuto di S. Signoria Reverendissima. Egli allhora mi rispose che ad volere obtenere da N. S. cosa alcuna, bisognavano duoi rispetti, l'uno di non chiedere per hora danari contanti, o cosa di che si possa fare danari; l'altra di mettergli cosa innanzi che si possa conchiudere in sul facto: perchè, correndo tempo in mezo, o la ochasione fuggie o le cose si raffreddono. Et così mi rispose apertamente et molto amichevolmente. Intendendo questo, cominciai ad ricercare se si potessino trovare assegnamenti alcuni che facessino per noi; et andai ad trovare il Generale di Valembrosa, et sotto spezie di vicitazione, lo examinai. Et truovo ultimamente che non ha maneggio nessuno di danari col papa, che non sia assegnato in mille luoghi; et così ho in più luoghi ricerco et facto ricercare, [405] et per tucto truovo il medesimo. Onde, veggendo questo, et d'altra parte intendendo che il papa va fuori ad caccia questa septimana inverso Palo et Civita, non mi è paruto da indugiare ad risolversi, et maxime che starà fino alla Candellaia. Sono andato ad Medici, et hollo ricerco di quello canonicato che per l'altra vi scripsi. Egli acceptò prima il memoriale della dimanda, et examinolla se si poteva concedere; dipoi mi ha chiesta una supplicatione, et hammi promesso fra duoi giorni farla segnare dal papa; et egli, come arcivescovo, darà poi il consenso. Spero di obtenerla ad quindici soldi per lira. La quale cosa, quando obtenuta sia, non sarà da stimare pichola: nè è stimata poca da messer Ricciardo Melanesi, huomo intendentissimo, et che mi ha facto il memoriale prima et di poi la supplicatione.
Se ho detto troppo lungamente, habbiate pazienza, chè l'ò facto perchè sappiate ogni cosa. Ho detto ad messer Piero Ardinghelli quanto voi ne scrivete di Lodovico. Dicemi che ha havuto una lettera di poi da Lodovico, dove di nuovo gli replica il medesimo circa il tornare. Ho facte ad tucti le rachomandationi come mi scrivete. Frate Andrea ancora è qui in Roma, ma no l'ò adoperato in questo caso, nè lui nè alcuno altro; perchè il cardinale de' Medici mostra di vedermi tanto volentieri, et farmi tante buone offerte, che non ho giudicato havere bisogno di alcuno mezo. Altro non mi achade per hora da scrivervi. Ad voi tucti mi rachomando, el subito che sarò spedito, sarò di ritorno. Pure scrivetemi ancora qualche volta, et non mi dimenticate. Stasera, per mano di messer Piero Ardinghelli, scrivo ad Lodovico ad Milano. Christo vi guardi.
In Roma, il dì vij di gennaio MDxviij.
Vostro figliuolo
Luigi.
Magnifico viro et patri honorando
domino Petro Alamanno
equiti dignissimo.
Florentiae.
[406]
DUE LETTERE DI GIOVAMBATTISTA BRACCI AL MACHIAVELLI, RELATIVE ALLA COMMISSIONE IN LUCCA.
† Al nome di Dio addì xiiij d'aghosto 1520
Nicholò honorando. Il fante che voi ne mandasti venne ieri a xxij hore, e servì assai bene: e vi prometto, per la fed'è fra noi, che noi seravamo a chorte per richiedere Monsignore reverendissimo, e per farli intendere dove le chose restavono; et la vostra littera fu mandata là. E visto quello che voi scrivete, ci ritraemo da parlarli. E chonsiderato questo vostro scrivere, non vi possiamo se non chomendare. Chonoscho bene che quanto al vedere lo stato de' Micheli e i libri e l'altre chose neciessarie, che non è vostra professione, e che bisognierebbe o uno ragioniere o uno stilato. Io ò fatto leggiere a questi creditori, e non so quello che loro si determineranno. Noi abiamo il credito nostro sotto nome di Bartolomeo Ciennami e di Buonaventura Micheli. Sapiamo che sono stilati, e che loro intendeno benissimo quello che inporta questa chosa. E chonsiderato a tutte le parti, ci risolviamo che loro sieno quelli che intenderanno benissimo. E questi altri creditori ciaschuno vi debbe avere chi intenderà e che potrà fare il medesimo. Siamo di parere che voi dobiate di nuovo rimostrare e a Bartolomeo e a Buonaventura la fede che s'à in loro; e che voi dobiate parlare a' Bernardini o a chi pare loro che sanno quello che sempre ànno promesso, e che utimamente rimostrorono, che se [407] Michele sì[584].... sichuro, che tutto sarebbe asset[t]ato; e che questi loro modi non anno in sè quella realità che si doverebbe, dicho de' deti Bernardini; e che sono chose molte brutte, che nel principio de' meriti della chausa e del venire a' chalchuli, e' mettino in chanpo le doti che Giovanni Ghuinigi dette alle figliuole e alla nipote, e quello che Michele aveva speso molto; che sono chose tutte non istimate nulla, che questo vi pare uno termine da non volere osservare quello ched è suto promesso. Che se vogliono fare uno achordo sanza tante girandole, che sarà fatto loro piaciere. E quando reggiate che sieno girandole, voi potrete ritornare alla Signoria, e protestare e narrar loro chome quando fu il chaso di Michele, che i detti Bernardini e quelli che avevono notizia, rimostrorono che non ci sarebbe se non un pocho di disordine, e che questo suo disordine nascieva d'avere giuchato e fatto oblighi; e che quando la Signoria ritrovassi la verità, e che i creditori del giuocho fussino messi da parte, che sarebbe fatto il dovere; e che sempre fu dato questa intenzione e per il loro inbasciadore e per tutti; e che dopo questo volsono si mandassi chostì; poi chiesono la sichurtà di Michele, e chonciessa quella, sono usciti adesso chon dire che se n'è andato in Fiandra: e che chominciato a vedere il chalchulo, che mettono innanzi de' debiti sua le dote che Giovanni Ghuinigi dette alle nipote e sue figliuole, e quello che Michele era debitore a' libri vechi di Giovanni, depoi che n'è qua, che sono chose fuori d'ogni onestà; e che questo è uno volere torre ai creditori i libri per questa via; e che bisogna che le Signorie loro sieno quelli che rimedino; e che, quando non rimedieranno, si spera non ci abi a manchare de' modi; e che voi protestate ec.; e che ve ne vegniate. Questo mi pare il vero modo. Et se pure a Bartolomeo e Buonaventura paressi che voi faciessi altro, poi siete stato tanto, 4 dì più o mancho non dia noia. Ma, per mio parere, io non so chonoscere migliore spediente, e non credo che sia a proposito che voi perdiate più tempo. E quando e' vi paia da protestar loro con simili dischorsi, in voi si rimette. Egli è vero che io non vorrei aver a dar brigha al Chardinale; tutta volta e' si farà quello richorderete. E se [408] si potessi ridurre la chosa a uno achordo, sanza avere a venire a tanti meriti, sendo la somma pichola, non si si ghuarderebbe. E so che per Bartolomeo e Buonaventura si farà quello che potranno. E Valentino, che è costì anchora, potrà pensare al fatto suo. E altro non saprei che dirmi sopra di ciò.
A Bartolomeo ordino vi paghi i ducati 10 e lire 5 del fante. E vi mando una che io scrivo loro. Legietela e datela, e sugiellatela o date aperta, che poco 'porta.
Vostro Giovambatista Bracci
in Firenze.
Spectabili viro D. Niccolò Machiavelli,
in Lucha.
† Al nome di Dio, addì vij di settembre 1520
Io ho la vostra de' 5. Et avete a intendere, che questa settimana siamo stati a Monsignore R.mo e alla nostra Signoria; et aviamo mostro le vostre lettere, quello che ci è suto scripto da chotesti merchanti omini da bene, et quello che senpre ci è suto fatto intendere, che saremo achordati. E insomma a ciaschuno è parso strano che noi siamo tratati per questo verso. E per al presente s'è determinato che lla Signoria scriva nel modo vedrete, che vi si manda chon questa la chopia. Monsignore R.mo scrive circha a questo effetto, raportandosi alla lettera della Signoria, e alquanto più modestamente. E' ci è suto fatto questa choncrusione, che quando chostì non sarà provisto a quello che richiede il debito e la giustizia, che penseranno tutti quelli modi che parrà loro, perchè non s'abbi a perdere. E' vi si manda chon queste tutto. Userete ora quelli termini che vi parranno neciessari, perchè l'effetto ne seghui; che non possiamo credere che, ateso li omini da bene che sono chostì e che sono informati, che non ci abbino a provedere. E circha alla parte del farne rimessione in 3 di chotesti ciptadini, [409] omini da bene, o di dar loro alturità, noi abiamo il credito nostro sotto Bartolomeo Ciennami e Buonaventura Micheli, Iacopo Doffi, sotto nome di Stefano Spada, e ci siamo fidati di loro; e a loro diciamo che siamo chontenti che faccino tutto quello che pare loro; che sendoci fidati e fidandoci di loro d'ogni nostra cosa, ci possiamo fidare di questo. Questo medesimo à scripto Iachopo, et non achade altre prochure. E la posta nostra e quella di Iachopo sono i 2⁄3 di quello che sono debitori di Fiorentini. Avete di chostà il Raugico e il Messinese e tanto numero de creditori, che passono la somma, e non bisogna tante prochure, che in fatto ciaschuno è chontento. Solo bisogna che la si pensi bene. Voi vivamente avete a ritornare alla Signoria, presentare le lettere, e rimostrare a quella quello che bisogna; e per la soprichazione che voi desti, si narrò il tutto. E rimostrate che sempre è suto promesso, che i veri creditori saranno paghati.
Il ghonfalonieri Giovanpagholo fa quello che promisse al Chardinale, e quello che à sempre detto. Ora si truova in luogho da potere fare che lla giustizia abi i' luogho suo. Però a voi si lascierà determinare; e veggendo di non fare frutto, protestate chome vi pare, e venitevene. Nè altro. Vostro sono. Idio vi [guardi].
Per Vostro Giovanbatista Bracci
in Firenze.
Spettabili viro d. Nicholò Machiavelli,
in Luccha.
Lettera di Bernardo Machiavelli a Niccolò suo padre in Lucca. — Firenze, 30 luglio 1520.[586]
† Yhs. Addì 30 di luglio 1520
Carissimo padre, salute, rachomandatione ec. Questa per dirvi chome noi siano sani, et chosì isperiamo di voi.
[410]
Noi non v'abbiamo ischritto prima, perchè 'l tempo non n'à lacciato fare le cholte. El vino che voi ci mandasti a dire che noi vendessimo, noi l'abbiano allochato a rendere vino per vino.
La Madalena à fatto una banbina, e àgli posto nome Oretta. La vi manda cento salute. Mona Marietta vi richorda che voi tornite presto, e che voi gl'arecate qualche cosa. E chosì io e Lodovicho e gli altri di chasa.
Altro non achade dirvi. Christo di male vi guardi. Fatta in fretta, al lume di lucerna. Io avo una pèna che non mi rendeva.
Vostro Bernardo Machiavegli
in Firenze.
Domino Nicholo di messer Bernardo
Machiavegli, in Lucha.
In Lucha.
Lettera di Filippo de' Nerli a Niccolò Machiavelli in Lucca. Firenze, 1 agosto 1520.[587]
Carissimo Niccolò. Io ho una vostra, la quale, la prima cosa, dice le bugie; perchè dite d'essere breve, et poi è dua facce piene di scripto da banda a banda.
La causa perchè non s'è prima risposto, ne è suto causa, perchè la lettera mi trovò fuori di questa terra; et venni con la donna di Lorenzo sino presso a Lucca a tre migla, con animo di venirvi afrontare: poi pensai, quando ero al Bagno, che a volere tornare da Lucca, per fare ritorno a Firenze, si rallungava la via ben sedici migla, che fanno più di 20 per ritorno; tanto che io giudicai che non fussi da comperare tanto disagio la vostra presentia. Tornato qui, trovai la vostra lettera con la inclusa al Sibilia; e perchè, com'è detto, si soprastette per la absentia mia, gli parrà proprio haverla havuta per staffetta. Con Zanobi comunicai la vostra, et ne facemo quel iudicio che [411] delle cose vostre si fa sempre, per arrecarvi voi queste cose in cazzelleria. Eravamo lui et io in animo questo giorno rispondervi a comune; ma lui ha havuto figliuolo maschio, et per questo io non li ho voluto dare noia. Potrete voi, nello scrivere in qua, rallegrarcene seco, perchè lui ne ha preso piacere singulare: perchè tanti più ci nasce maschi, tanti più provigionati hareno contro al Turco. Voi non pensate a queste cose. Le 'mportono più che voi non credete: ricordatelo, et advertitene cotesti signori Lucchesi, che attendino a ch....re assai, per fare fanterie, che saranno loro a proposito quanto e' fossi e' torrioni.
Con Gherardo ho riscorso tutto quello ne dite. Io stimo che questa vostra stanzia di costà habia a essere l'ultimo vostro tuffo. Voi sapete quanto poca gratia voi havevi; et liora che si è rimasto a' concorrenti e rivali libero il campo, io lascio giudicarlo a voi. Vorrete a otta rimediarvi ch'e' rimedi fieno più scarsi che 'l fistolo. Andate, andate.
Co' poeti e con le muse si parlò della lingua molto a lungho: a questo s'è pensato, per rassettarvi il gusto, come voi tornate, di darvi qualche buono preceptore. Erasi pensato al Sernigi, ma poi che lui non c'è, fanno pensiero che usiate a vostro ritorno con Gualtieri Panciatichi; e per vostra letione usiate ogni giorno leggere dua volte la sua epistola dell'entrata del pontefice in patria. Et così pensono havervi a rassettare l'orecchie.
Filippo, Giovanni, il Guidetto e questi amici di meriggio tutti si raccomandano a voi, e per loro parte non altro a dirvi. È vero che G.mo desiderrebbe che voi lo raccomandassi a cotesto contadino che voi dite, che a voi di costà fu di tanto conforto, posto che a lui fussi di danno. Et fu tanto liberale che mi commisse vi scrivessi che donerebbe cento ducati a chi lo dessi in mano a uno de' rettori di questa Signoria. Quando questo vi paressi partito honorevole et che facessi per voi, in voi sta la eletione del prenderlo.
Voi harete inteso come Francesco Vettori è ito a San Leo e Montefeltro, a piglare il possesso per questa Signoria di quella provincia. Voi vi date a 'ntendere che qua si badi a baie. Noi vi parremo, a vostro ritorno, più belli che mai.
Ricordovi come a vostro ritorno io ho procacciatovi uno alloggiamento a Pistoia, perchè non vi fia Ruberto, che oggi ha finato in quella terra la sua dittatura. Quando sarete alla porta, [412] domandate della casa del Zinzi, e, se llo volete appellare per nome propio, di Bastiano di Possente. Sarete ricevuto da lui, per amore della Riccia e mio e per le vostre buone qualità, molto amorevolmente. Non li manchate.
Donato del Corno si duole molto di voi; et dubito, quando tornerete, che io harò a essere tra voi albitro. A ogni modo, ch'i' so quel che mi so, e sento quel ch'i mi sento, et lui fa quel che si faccia, ella va mal quant'ella può.
Truovo, in questo che io sono stato fuori, che si può un po' con più licentia, che è proposto a' magistrati, così fuori come drento, fare qualcosetta di suo mano. Truovo che le donne possono con più licentia essere p..., volendo; così, chi volessi d'huomini o leggere il Troiano, o attendere ad altro, farlo anche più securamente; chi volessi non credere, o portare più un abito che un altro straordinario, e sic de singulis, con più sicurtà fare tutto. Perchè Dio ha tirato a sè Piero delli Alberti, che se andò in Santa †, con tanta acqua, che parve bene che volessi dare il suo resto, così morto, dando tanto disagio a chi l'acompagnò: che fu la vigilia di S. Iacopo. E' non mi occorre altro per ora che raccomandarvi a voi. Non più. Vale.
Di Firenze, addì primo d'agosto 1520.
Vostro Filippo de' Nerli.
Spectabili viro Niccolò Machiavelli
come fratello carissimo,
in Lucca.
A Lucca.
M. Niccolò mio. Io non ho voluto rispondere alla lettera vostra venuta insie[me al vostro lib]ro dell'Arte Militare, se prima [413] non ho letto il libro e considerato bene, per dirvene come.... l'opinion mia, e non fare come molti, i quali ancora che siano più savi di me,[pur]e in questo io non gli approvo, che nel lodare una cosa seguitano l'opinione de' più e non la loro propria. In modo che, essendo i più degl'huomini ignoranti, molte volte, giudicando secondo quelli, giudicano male. Io adunque, per seguitare la mia consuetudine, ho visto diligentemente el libro vostro, il quale quanto più l'ho considerato, tanto più mi piace, parendomi che al perfettissimo modo di guerreggiare antico habbiate aggiunto tutto quello che è di buono nel guerreggiar moderno, e fatto una composizione di esercito invincibile. A questa mia opinione si è aggiunto, per le guerre che sono al presente, qualche poco di sperienza, havendo visto che tutti i disordini che sono nati o nascono hoggi nelli eserciti franzesi o in quelli di Cesare o della Chiesa o del Turco, non per altro advengono, se non per mancare degl'ordini che sono descritti nel libro vostro. Ringraziovi adunque molto che, per la comune utilità degl'Italiani, habbiate mandato fuora questo libro, il quale per li tempi che verranno, sarà almanco, se non opererà altro, buono testimonio che in Italia non è mancato a' tempi nostri chi habbia conosciuto quale è il vero modo di militare. E non poco obbligo vi ho che subito me lo habbiate mandato, per essere il primo in Roma a vedere tanto bella opera, simile veramente e degna dello ingegno, esperienza e prudenza vostra, cui conforto a pensare e comporre continuamente qualche cosa, et ornar la patria nostra co 'l vostro ingegno. State sano e ricordatevi che tra le prime cose che io desidero, è far qualche cosa che vi piaccia.
In Roma, addì vj di septembre MDxxj.
Io. Card.is de Salviatis.
Spectabili viro Domino Nic.º De Machiavellis,
Amico Cari.mo Florentie.
[414]
Magnifice orator. Voi vorresti sapere per questa vostra lettera de 21, quello ch'io creda habbia mosso Spagna a fare questa tregua con Francia, non vi parendo che ci sia dentro il suo da nessun verso, in modo che, giudicando da l'un canto el Re savio, da l'altro parendovi habbi fatto errore, sete forzato a credere che ci sia sotto qualche cosa grande, che voi per ora, nè altri non intende. E veramente il vostro discorso non potrebbe essere nè più trito nè più prudente; nè credo in questa materia si possa dire altro. Pure per parer vivo e per ubbidirvi, dirò quello mi occorre. A me pare, che questa dubitatione vostra pro maiori parte sia fondata su la prudenza di Spagna. A che io rispondo, non poter negare che quel Re non sia savio; non di meno a me è egli parso più astuto e fortunato che savio. Io non voglio repetere l'altre sue cose, ma verrò a questa impresa [415] ultimamente fatta contro a Francia in Italia, avanti che Inghilterra fussi scoperto, nella quale impresa a me parse e pare, non ostante che l'habbi hauto il fine contrario, che mettessi senza necessità a pericolo tutti li Stati suoi, il che fu sempre partito temerario in ogni huomo. Dico sanza necessità, perchè lui haveva visto per i segni dell'anno dinanzi, doppo tante ingiurie che 'l Papa haveva fatto a Francia, di assaltarli li amici, voluto farli ribellare Genova, e così doppo tante provocazioni, che lui proprio haveva fatte a Francia, di mandare le genti sue con quelle della Chiesa a' danni dei suoi raccomandati; nondimeno sendo Francia vittorioso, havendo fugato el Papa, spogliatolo di tutti e' suoi eserciti, possendo cacciarlo di Roma, e Spagna da Napoli, non lo havere volsuto fare; ma havere volto l'animo allo accordo, donde Spagna non poteva temere di Francia: nè viene ad esser savia la ragione si allegassi per lui, che lo facessi per assicurarsi del Regno, veggendo Francia non vi havere volto l'animo, per essere stracco e pieno di rispetti, e quali era per haverli sempre, perchè sempre il Papa non doveva volere che Napoli ritornassi a Francia, e sempre Francia doveva havere rispetto al Papa et timore della unione dell'altre potenze: il che sempre era per tenerlo indietro.
A chi dicessi Spagna dubitava che, non si unendo lui con el Papa a fare guerra a Francia, el Papa non si unissi per sdegno con Francia a fare guerra con lui, sendo il Papa huomo rotto et indiavolato come era, e però fu costretto pigliare simil partito; risponderei che Francia sempre sarebbe più presto convenuto in quelli tempi con Spagna che con el Papa, quando havessi potuto convenire o con l'uno o con l'altro, sì perchè la vittoria era più certa, e non ci si haveva a menare armi, sì perchè all'hora Francia si teneva sommamente ingiuriato dal Papa e non da Spagna, e per valersi di quella ingiuria, e sadisfare alla Chiesa del Concilio, sempre harebbe abbandonato il Papa; di modo che a me pare, che in quelli tempi Spagna havessi potuto essere o mediatore d'una ferma pace, o compositore d'uno accordo securo per lui. Non di meno e' lasciò indietro tutti questi partiti, e prese la guerra, per la quale poteva temere che con una giornata ne andassino tutti li Stati suoi, come e' temè quando e' la perdè a Ravenna, che [416] subito doppo la nuova della rotta ordinò di mandare Consalvo a Napoli, che era come per lui perduto quel Regno, e lo Stato di Castiglia gli tremava sotto; nè doveva mai credere che e' Svizzeri lo vendicassino et assicurassino, e li rendessino la reputatione persa, come avvenne; talchè se voi considerate tutti maneggi di quelle cose, vedrete in Spagna astuzia e buona fortuna più tosto che sapere e prudenza: e come e' si vede in uno grande simile errore, si può presumere che ne facci mille. Nè crederrò mai che sotto questo partito hora da lui preso, ci possa essere altro che quello che si vede, perchè io non beo paesi, nè voglio in queste cose mi muova veruna autorità sanza ragione. Pertanto concludo, che possa avere errato, quando sieno veri discorsi vostri, et intesala male e conclusala peggio.
Ma lasciamo questa parte e facciamolo prudente, e discorriamo questo partito come d'uno savio. Parmi che a volere fare tale presupposto e rettamente ritrovare la verità della cosa, bisognassi sapere se questa tregua è suta fatta doppo la morte del Pontefice et assuntione del nuovo o prima, perchè forse si farebbe qualche differenza. Ma poi che io non lo so, presupporrò, che la sia fatta prima. Se io ne domandassi adunque quello che voi vorresti che Spagna havessi fatto, trovandosi ne' termini si trovava, mi risponderesti quello che mi scrivete, ciò è che lui havessi in tutto fatto pace con Francia, restituitogli la Lombardia, per obligarselo e per torli cagione di condurre arme in Italia, et per tal via assicurarsene. Al che io rispondo, che a discorrere questa cosa bene si ha notare, che Spagna fece quella impresa contro a Francia per la speranza che haveva di batterlo, faccendo nel Papa in Inghilterra e nello Imperadore più fondamento che non ha poi in fatto veduto da farvi, perchè dal Papa e' presuppose trarne danari assai. Credette che lo Imperadore facessi una offesa gagliarda verso Borgogna, e che Inghilterra, sendo giovane e danaroso, e ragionevolmente cupido di gloria, qualunche volta e' fussi imbarcato, havessi a venire potentissimo, talmente che Francia, et in Italia e a casa, havessi a pigliare le conditioni da lui, delle quali cose non glie n'è riuscita ver'una, perchè dal Papa ha tratto danari nel principio e a stento, e in questo ultimo non solo non li dava danari, ma ogni dì cercava di farlo rovinare, e teneva pratiche contro di lui; da lo Imperadore non è uscito altro che le gite [417] di mre[590] di Gursa e sparlamenti e sdegni: da Inghilterra, gente debole incompatibile con la sua. Di modo che se non fussi lo aquisto di Navarra, che fu fatto innanzi che Francia fussi in campagna, e' rimaneva l'uno e l'altro di quelli exerciti vituperato, ancora che non ne habbino riportato se non vergogna, perchè l'uno non è uscito mai dalle macchie di Fonterabi, l'altro si ritirò in Pampalona, e con fatica la difese; di modo che, trovandosi Spagna stracco in mezzo di questa confusione d'amici, da' quali non che potessi sperare meglio, anzi temere ogni dì peggio, perchè tutti tenevano ogni dì strette pratiche d'accordo con Francia, e veggendo dall'altra parte Francia reggere alla spesa, per accordato co' Vinitiani, e sperare ne' Svizzeri, ha giudicato sia meglio prevenire con il Re, in quel modo ha possuto, che stare in tanta incertitudine e confusione, et in una spesa a lui insopportabile, perchè io ho inteso di buono luogo, che chi è in Spagna scrive quivi non esser danari nè ordine da haverne, e che l'esercito suo ci à solum di comandati, e' quali anche cominciavono a non lo ubbidire. E credo che disegno suo sia suto con questa tregua o fare conoscere a' collegati l'errore loro, e farli più pronti alla guerra, havendo promessa la ratificazione, ecc., o levarsi la guerra da casa e da tanta spesa e pericolo: se a tempo nuovo Pampalona havessi spuntato, e' perdeva la Castiglia in ogni modo. E quanto alle cose d'Italia, potrebbe Spagna, forse più che il ragionevole, fondare in su le sue genti; ma non credo già che facci fondamento nè in su Svizzeri, nè in su 'l Papa, nè su lo 'mperadore più che bisogni, e che pensi che qua il mangiare insegni bere a lui e agl'altri Italiani. E credo che non habbi fatto più stretto accordo con Francia di darli il Ducato, e sì per non lo havere trovato seco, sì etiam per non lo havere giudicato util partito per lui: per che io dubito che Francia non lo havessi fatto, per non si fidare nè di lui nè delle sue armi, perchè havrebbe creduto che Spagna no 'l facessi per accordarsi seco, ma per guastarli li accordi con gl'altri.
Quanto a Spagna, io non ci veggio nella pace per lui, per hora, alcuna utilità, perchè Francia diventava in Italia in ogni [418] modo possente, in qualunque modo e' scuressi in Lombardia. E se per aquistarla li fussino bastate le armi spagnuole, a tenerla li bisognava mandarci le sua, e grossamente, le quali potevano dare i medesimi sospetti a li Italiani et a Spagna, che daranno quelle che venissero ad aquistarla per forza; e della fede e degl'obblighi non si tiene hoggi conto, talchè Spagna per questa ragione non ci vedeva sicurtà, e dall'altra parte ci vedeva questa perdita, perchè o e' faceva questa pace con Francia, con el consenso de' confederati, o no: volendola fare con el consenso, e' la giudicava impossibile per non si potere accordare Papa e Francia e Vinitiani et Imperadore. Havendola dunque a fare contro al consenso loro, ci vedeva per lui una perdita manifesta, perchè si sarebbe accostato a un Re, facendolo potente, che ogni volta che n'havesse hauto occasione, si sarebbe più ricordato delle ingiurie vecchie, che de' benefizii nuovi, e inritatosi contro tutti e' potenti Italiani e fuora, perchè, essendo stato lui solo il provocatore di tutti contro a Francia, e avendoli poi lasciati, sarebbe suta troppo grande ingiuria. Donde di questa pace fatta come voi vorresti, e' vedeva surgere la grandezza del Re di Francia certa, lo sdegno de' confederati contro di lui certo, e la fede di Francia dubbia, in su la quale sola bisognava si riposassi, perchè havendo fatto Francia potente e li altri sdegnosi, li bisognava stare seco, e li huomini savi non si rimettono mai, se non per necessità, a discrezione d'altri. Donde io concludo, che gl'habbi fatto più sicuro partito fare tregua, perchè con essa e' dimostra a' collegati l'errore loro; fa che non si possano dolere, dando loro tempo a ratificarla; levasi la guerra di casa; mette in disputa et in garbuglio di nuovo le cose d'Italia, dove e' vede che è materia ancora da disfare et osso da rodere. E, come io dissi di sopra, spera che 'l mangiare insegni bere ad ogn'uno, et ha a credere che al Papa, a lo Imperadore et a Svizzeri non piaccia la grandezza de' Vinitiani e Francia in Italia, e se non fieno bastanti a tenerli che non occupi la Lombardia, giudica che sieno bastanti seco a tenerli che non passino più oltre, e crede che 'l Papa per questo se li habbi a gittare in grembo, perchè e' può presumere che 'l Papa non possa convenire con i Vinitiani, nè con suoi adherenti rispetto alle cose di Romagna. E così con questa tregua e' vede la vittoria di Francia dubbia, non si ha da fidare di [419] lui, e non ha dubitare della alienazione de' confederati, perchè o lo 'mperadore et Inghilterra la ratificheranno, o no: se la ratificano, e' penseranno come questa tregua habbi da giovare a tutti, se non la ratificano, e' dovrebbono diventare più pronti alla guerra, e con altre forze che l'anno passato, assaltare Francia, et in ogn'uno di questi casi Spagna ci ha l'intento suo. Dico di nuovo, adunque, el fine di Spagna essere stato questo: o costringere l'Imperadore et Inghilterra a fare guerra daddovero, o con la reputatione loro, con altri mezzi che con l'armi, posar le cose a suo vantaggio; et in ogn'altro partito vedeva pericolo, o seguitando la guerra o facendo la pace, e però prese una via di mezo, di che ne potessi nascere o guerra o pace.
Se voi havete notato e' consigli e progressi di questo cattolico Re, voi vi maraviglierete meno di questa tregua. Questo Re, come voi sapete, da poca e debole fortuna è venuto a questa grandezza, e ha hauto sempre a combattere con Stati nuovi e sudditi dubbii, e uno dei modi con che li Stati nuovi si tengono, e li animi dubbii o si fermano o si tengono sospesi e inresoluti, è dare di sè grande espettazione, tenendo sempre gl'huomini sollevati con l'animo nel considerare che fine habbino ad havere e' partiti e l'imprese nuove. Questa necessità questo Re l'ha conosciuta e usatala bene; di qui sono nati li assalti d'Affrica, la divisione del Reame, e tutte queste altre imprese varie, e senza vederne il fine, perchè il fine suo non è tanto quello o questo, o quella vittoria, quanto è darsi reputatione ne' popoli, e tenerli sospesi colla multiplicità delle faccende. E però lui fu sempre animoso datore di principii, a' quali e' dà poi quel fine che li mette innanzi la sorte, e che la necessità l'insegna: et insino a qui e' non si è possuto dolere nè della sorte nè dello animo. Provo questa mia opinione con la divisione fece con Francia del Regno di Napoli, della quale doveva credere certo ne havessi a nascere guerra intra lui e Francia, senza saperne el fine a mille miglia, nè poteva credere averlo a rompere in Puglia, in Calavria et al Garigliano. Ma a lui bastò cominciare, per darsi quella riputazione, sperando o con fortuna o con arte andare avanti, e sempre, mentre viverà, ne andrà di travaglio in travaglio, senza considerare altrimenti il fine.
[420]
Tutte le sopradette cose io le ho discorse presupponendo la vita di Giulio; ma quando egli havesse inteso la morte dell'uno e la vita dell'altro, credo harebbe fatto quel medesimo, perchè se in Julio non poteva confidare, per essere instabile, rotto, furioso e misero, in questo e' non può sperare straordinariamente, per esser savio. E se Spagna ha prudenza, non l'ha muovere gl'interessi contratti in minoribus, perchè all'hora egli ubbidiva, hora comanda; giocava quel d'altri, ora giuoca il suo; faceva per lui la guerra, hora fa la pace; e debbe credere Spagna, che la Santità di N. S. non voglia mescolare inter Christianos nè sua danari nè sua armi, nisi coactus, e credo che ognuno harà rispetto a sforzarlo.
Io so che questa lettera vi ha a parere uno pesce pastinaca, nè del sapore vi credevi. Scusimi lo essere io alieno con l'animo da tutte queste pratiche, come ne fa fede lo essermi ridutto in villa, e discosto da ogni viso humano, e per non sapere le cose che vanno atorno, in modo che io ho a discorrere al buio, et ho fondato tutto in su li avvisi mi date voi. Però vi prego, mi habbiate per scusato; e raccomandatemi costà a ognuno, e in spezie a Paolo vostro, quando non sia ancora partito.
Florentia, die 29 aprilis 1513.
V.º Compare
N. M.
Lettera di Francesco Guicciardini al Machiavelli. Modena, 18 maggio 1521.[591]
Non havendo, Machiavello carissimo, nè tempo nè cervello da consiglarvi; neanche sendo solito a fare tale officio sanza el ducato, non voglio mancarvi di aiuto, acciò che, almanco colla reputatione, possiate conducere le vostre ardue imprese. Però vi mando a posta el presente balestriere, al quale ho [421] imposto che venga con somma celerità, per essere cosa importantissima; in modo ne viene che la camicia non gli toccha le anche. Nè dubito che, tra el correre et quello che dirà lui alli astanti, si crederrà per tucti voi essere gran personaggio, et el maneggio vostro di altro che di frati. Et perchè la qualità del piego grosso faccia fede a l'hoste, vi ho messo certi avvisi venuti da Tunich, de' quali vi potrete valere, o mostrandoli o tenendoli in mano, secondo che giudicherete più expediente.
Scripsi hieri a messer Gismondo, voi esser persona rarissima. Mi ha risposto, pregando lo avisi in che consista questa vostra rarità. Non mi è parso replicarli, perchè stia più sospeso, et habbia causa di observarvi tucto. Valetevi, mentre che è il tempo, di questa reputatione. Non enim semper pauperes habebitis vobiscum. Avisate quando sarete expedito da quelli frati, tra' quali se mettessi la discordia, o almanco lasciassi tal seme che fussi per pullulare a qualche tempo, sarebbe la più egregia opera che mai facesti. Non la stimo però molto difficile, attesa la ambitione et malignità loro. Avisatemi, potendo venire.
In Modena, a dì 18 di maggio 1521.
Vester Franciscus de Guicciardinis
Gubernator.
Al [M] Ni[ccolò] Machiavelli
nuntio fiorentino ec., in
Carpi.
Scritto di N. Machiavelli sul modo di ricostituire l'Ordinanza.[592]
Volendo V. S. intendere tucti l'interessi et ordini della Ordinanza, io non mi curerò d'essere un poco diffuso per satisfarle meglio et ripeterle quello, o in tucto o in maggior parte, che ad bocca le dissi. Io lascerò indreto el disputare se questo [422] ordine è utile o no, et se fa per lo Stato vostro come per un altro, perchè voglio lasciare questa parte ad altri. Dirò solo, quando e' si volle ordinare, quello che fu iudicato necessario fare, et quello che io iudico bisogni fare hora, volendolo riadsummere.
Quando si disegnò ordinare questo Stato all'armi, et instruire huomini per militare ad piè, si indicò fussi bene distinguerlo con le bandiere, et terminare le bandiere con e' termini del paese, et non con el numero delli huomini, et per questo si ordinò di collocare in ogni potesteria una bandiera, et sotto quella scrivere quelli pochi o quelli assai, secondo el numero delli huomini che si trovassino in tale potesteria. Ordinossi che la bandiera si havessi ad dare ad uno che habitassi nel castello dove faceva residenza el podestà, il che si fece sì perchè la bandiera fussi dove un cittadino stessi con el segno publico, sì etiam per levare le gare che tralle castella era per nascere, qualunque volta in una podesteria fussi più d'uno castello. Ordinoronsi connestaboli che stessino in su e' luoghi, che comandassino li huomini descripti sotto dette bandiere, dando ad qualcuno in governo più o meno bandiere, secondo le commodità del paese, et dovevogli la state ragunare sotto le bandiere, et tenerli nelli ordini una volta el mese, et el verno ogni dua mesi una volta. Havevono di stipendio e' connestaboli 9 ducati d'oro per paga, in 4 page l'anno, et havevono dua ducati el mese da tucte quelle potesterie che governavano, che ciascuna concorreva a decti dua ducati per rata. Et haveva ogni conestabole un cancelliere habitante nel luogo, dove stava el connestabole, el quale teneva le listre di decti huomini, et haveva uno fiorino el mese, el quale li era pagato da tucte quelle potesterie che governava el conestabole.
Disputossi se gli era meglio tenerne scripti pochi o tenerne assai. Conclusesi fussi meglio ordinarne assai, perchè li assai servirono ad riputatione, et in loro era el piccolo numero et el buono, el quale non si poteva trarre de' pochi, et la spesa non era d'uno poco di più che d'arme et di qualche connestabole più.[593] [423] Et sempre mai fu indicato che 'l tenerne assai scripti fussi bene et non male, et ad volersene valere fussi necessario haverne assai. Et intra l'altre ragioni ci è questa: tucti e' paesi o la maggior parte dove sono li scripti, sono paesi di confini;[594] per tanto li huomini scripti havevono ad difendere el paese che gli habitavono o quello d'altri. Nel primo caso si giudicava tucti gli scripti di quelli luoghi essere buoni et potervisi adoperare, et quanti più vene fussi scripti tanto meglio fussi;[595] ma nel secondo caso, quando e' si havessi ad ire ad difendere la casa d'altri, allhora non levare tucti li scripti, ma torre quelli che fussino più cappati et più apti, et el resto lasciare ad casa, e' quali servissino per rispecto in ogni bisogno che fussi per nascere. Et però si ordinò, che ogni conestabole di tucti gli scripti sua facessi tre cappate, el primo terzo de' migliori, l'altro de' secondi meglio, el terzo del restante. Et quando havevono ad levare fanti, toglièno di quello meglio, et così havendo el numero grosso, si valièno di quello havèno di bisogno, et facilmente, tanto che infino ad hoggi se ne era ordinato 55 bandiere, et tucta via si pensava di adcrescere el numero; in modo che per la experienza ne ho vista, se io havessi ad dire e' difecti della Ordinanza passata, io direi solo questi due cioè: che fussino li scripti stati pochi et non bene armati. Et chi dice di ridurla ad poco numero, dice di volere dare briga ad sè et ad altri sanza fructo.
Le ragioni che[596] costoro che la vogliono ridurre ad minor numero son queste: et prima e' dicono che, togliendone meno, e' si può torre quelli che vengono volentieri, puossi fare con minore spesa, possonsi meglio satisfare, possonsi torre e' migliori, et aggravonsi meno e' paesi, nonne scrivendo tanti; nè credo che possino allegare altre ragioni che queste. Ad che io rispondo, et prima quanto al venire volentieri: se voi volessi torre chi al tucto non può o non vuole venire, che la sarebbe una pazia; et [424] così se voi volessi scrivere solamente quelli che vogliono venire, voi non adgiugneresti ad 2 mila in tucto el paese vostro. Et però bisogna cappare quelli che altri vuole; di poi ad farli stare contenti, non bisogna nè tucti preghi nè tucta forza, ma quella autorità et reverentia che ha ad havere el principe nè subditi sua; di che ne nascie che coloro che, essendo domandati se volessino essere soldati, direbbono di no, sendo richiesti, vengono sauza recusare; in modo che ad levarli poi per ire alle factioni, quelli che sono lasciati indreto l'hanno per male; donde io concludo, che tanta volontà troverrete voi in trentamila che in sei mila. Ma quanto alla spesa, et a poterli meglio satisfare, non ci è altra spesa che di qualche connestabole più et delle armi, la quale spesa è molto piccola, perchè un connestabole costa quanto uno huomo d'arme, et dell'armi basta dare loro solamente lance, che è una favola mantenerle loro, perchè l'altre armi si possono tenerle in munitioni, et darle loro a tempi, et metterle loro in conto. Et se voi disegnassi pagarli, stando ad casa, o fare loro exentione, nel primo caso, ciò che voi disegnassi di dare, etiam ad uno numero piccolo, sarebbe gittato via et spesa grave, perchè la intera paga non saresti per dare loro; dando loro tre o 4 ducati l'anno per uno, questo sarebbe spesa grossa ad voi, et ad loro sì poca, che non li farebbe nè più ubbidienti nè più amorevoli nè più fermi ad casa. Quanto al farli exenti, come voi entrate qui, voi fate confusione, perchè li scripti nel distrecto non potete voi fare exenti, per li capituli havete co' distrectuali; se voi facessi exenti quelli del contado et non quelli del distrecto, farebbe disordine; et però bisogna pensare ad altro benifitio che ad pagarli, o ad exentione. Et se pure l'exentione si hanno ad fare, riserbarle quando, con qualche opera virtuosa, e' se l'havessino guadagnata: alhora gli altri harebbono patienza. Et poi sempre fa bene tenere l'uomini in speranza, et havere che promettere loro, quando e' si ha bisogno di loro. Et così concludo che, per spendere meno o per satisfarli meglio, non bisogna torne meno; et le satisfactioni che si ha ad fare loro, è farli riguardare da' rectori et da' magistrati di Firenze, che non sieno assassinati. Quanto ad poterli torre migliori, togliendone minore numero, dico che o voi vorrete torre ad punto quelli che sono stati soldati, et in questo caso voi non vene varrete: perchè come e' sentiranno sonare un [425] tamburo, egli anderanno via, et così voi crederesti havere 6 mila fanti, et voi nonne haresti nessuno: o voi vorrete torre di quelli che ad occhio vi paiono più apti; in questo caso, quando voi vedessi tucte l'Ordinanze vostre, voi non saperresti quale vi lasciare, sendo tucti giovani et di buona presenza, et crederesti torre e' migliori et voi torresti e' più cattivi. Et altrimenti questa electione de' migliori non si può fare, perchè el fante si iudica o dalla presenza o dall'opere: altra misura non ci è. Quanto allo aggravare meno e' paesi, io dico che questo non adgrava e' paesi, anzi li rileva, et per conto della securtà et per conto della unione, per le ragioni ch'io vi dixi ad bocca; nè può dare graveza ad chi ha descripti in casa, non sene togliendo più che uno huomo per casa, et lasciando indreto quelli che sono soli, il che si può fare per essere el paese vostro copiosissimo di huomini.
DUE SONETTI DI NICCOLÒ MACHIAVELLI.[597]
Costor uissuti sono vn mese o piue
a noce a fichi a faue a carne seccha,
tal ch'ella fia malitia et non cileccha
el far sì lunga stanza costá sue.
[426]
Come 'l bue fiesolano quarda a l'angúe
Arno, assetato, e' mocci se ne leccha;
così fanno ei de l'uoua che ha la treccha,
e col becchaio del castrone e del bue.
Ma, per non fare afamar le marmegge,
Noi farèn motto drieto a daniello,[599]
che forse già u'è qualcosa che legge;
Perchè, mangando sol pane et coltello,
fatti habián becchi che paion d'acegge,
et a pena tegnán gl'occhj a sportello.
[427]
Dite ad quel mio fratello
che uenga ad trïonfar con esso noj
l'ocha ch'havemo gouedí da uoi.
Al fin del guoco poj,
Messér Bernardo mio, uoi comperrete
Paperi et oche, et non ne mangerete.
Io ho, Guliano, in gamba, vn paio di geti
et sei tratti di fune in su le spalle;
l'antre fatighe mia ui uo contalle
poi che così si trattano e' poetj.
Menon pidochj questi parietj,
grossi et paffuti che paion farfalle;
né maj fu tanto puzo in Roncisualle,
né lá in Sardignia tra quegli arboretj,
Quanto è nel mio più delicato ostello;
con un romor che par proprio che 'n terra
fulmini Gove tutto Mongibello.
L'un si scatena et quell'altro si sferra,
Combattono uscj, toppe et chiauistelli;
Quel'altro grida: — Troppo alto da terra! —
[428]
Quel che mi fa più guerra
è che dormendo, presso alla aurora,
io cominca' a sentir: — Pro eis ora!
Hor uadino in buon'hora,
pur che la tua pietá uer me si uolga
che al padre et al bisauo el nome tolga.
finis
Lettera di Francesco Vettori al Machiavelli. Roma, 8 marzo 1524/25.[601]
Compare mio caro. Io non vi saprei consiglare, se voi dovete venire col libro o no, perchè e' tempi sono contrarii a leggere et donare; et da altra parte el papa, la prima sera giunsi, poi che io li hebbi parlato di qualchosa mi achadeva, mi domandò, per sè medesimo, di voi, et dixemi se havevi finito la Historia, e se l'havevo veduto. Et dicendo io, haverne veduto parte, et che havevi facto insino alla morte di Lorenzo, et che era choxa da satisfare, et che voi volevi venire a portargnene, ma io, rispecto a' tempi, ve n'havevo dissuaso; mi dixe: — E' doveva venire, et credo certo ch'e' libri suoi habbino a piacere et essere lecti volentieri. — Queste sono le proprie parole m'ha decto: in su le quali non vorrei pigiassi fiducia al venire, et poi vi trovassi con le mani vote, il che per le mostre d'animo nelle quali si truova il papa, vi potrebbe intervenire. Pure non ho voluto manchare di scrivervi quanto mi ha decto. Rachomandatemi a Francesco del Nero, et diteli che vo[rrei] scrivessi al suo Berlinghieri qui, che non solo mi pagassi denari per suo ordine, ma mi facessi piacere [429] d'ogni altra choxa lo ricercassi. Et choxì mi rachomandate a Donato del Corno. Iddio vi guardi.
In Roma, a' dì 8 di marzo 1524.
Francesco Vectori.
Al mi[o ca]ro Compare Nicolò
di messer [Bernardo] Machiavelli,
in Firenze.
Breve di Clemente VII a Francesco Guicciardini.[602]
Francisco Guicciardino,
Dilecte fili. Haec temporum et rerum perturbatio, quae tanta est quantam non alias fere extitisse credimus, cogit nos inopes quotidiani ordinatique rimedii, ad consilia confugere inusitatiora, quae tamen praeclara et salutaria fore non dubitamus, si rem bene susceptam ad optatum exitum poterimus perducere; cumque in eiusmodi nostro consilio exequendo multum in fide et virtute tua acquiescamus, mittimus ad te dilectum filium. Nicolaum Malchiavellum civem florentinum, cum quo omnia nobis tractata communicata examinataque sunt, qui ad te deferat teque plene instruat, et quid nos designaverimus quemve finem spectemus faciat certiorem. Hunc ergo diligentissime audies, et fidem ei summam habebis; ac si tu, qui in re presenti es, [430] cognoveris et iudicaris facilem fore rem, et ad eum exitum ad quem per nos intenta est profuturam, statim nos de omni tua opinione ac sententia certiores facies; si vero quominus expedite et plane perfici possit aliqua tibi obstare et impedimento esse videbuntur, de omnibus cures, ut sciamus ut quod expedire et in rem esse visum nobis fuerit, possimus continuo deliberare. Res magna est, ut iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius Italiae ac prope universae christianitatis reposita. Sed opus esse arbitramur non solum ordine et diligentia singulari, sed nostrorum etiam populorum studio atque amore. Quamobrem tu cui plurimum credimus quique praesens perspecta habere omnia potes, re bene ab ipso Nicolao intellecta, statim nos per litteras secretiores edocebis, quid tibi de re tota videatur. In quo et diligentiam a te querimus et celeritatem.
Datum Romae, etc. Die vj junii MDXXV. Anno secundo.
Lettera di Francesco del Nero a Niccolò Machiavelli. Firenze, 27 luglio 1525.[603]
Spectabilis vir et cogniato salutem. Io hebbi una vostra da Roma, ad la quale feci risposta. Dipoi ne ho havuto una altra da Faenza, sopra il gran sapere del frate, il che Francesco Vectori non credeva; nè mai lo harebbe creduto, se non che gli fu monstro una lettera del magnifico Presidente che referiva il medeximo. Il Conte ne ha facto ricordo etc.
Philippo Strozzi mi scrive havere parlato ad la Santità di Nostro Signore, sopra ad lo augumento della vostra provixione, et truovala benissimo disposta. Onde ricorda che, quando prima siate in Firenze, gli scriviate un motto, ricordandoli la faccenda vostra; et Filippo mostrerà il capitolo a Sua Beatitudine, [431] et opererà che qui ne venga la commissione. Sichè le felicità vostre multiplicano. Ancora io vi serbo uno pippione da cavarne ducati cento d'oro l'anno. Se ritornerete a Roma però, desidero sapere quando credete partire di costì, et per che volta; ad ciò vi giri sotto lo vano mondo. Donato attende a portarvi polli; ma per essere una di quelle cichale dal Ponte Vechio, non si può tenere non mostri le vostre lettere, tale che ne è capitata una in mano al Conte, et è quella honorevole lettera gli scrivesti un mexe fa, cioè la seconda da Faentia etc. Nec plura. Ad voi mi raccomando.
In Firenze, addì XXVII di luglio 1525.
Vostro Francesco del Nero.
[Spectabi]li viro Niccolò Machiavelli....
honorando, in Faenza.
Lettera di Monsignor Ludovico Canossa a Francesco Vettori. Venezia, 15 settembre 1525.[604]
Magnifico messer Francesco. Al giongere che fece il vostro Malchiavello in questa terra, vene da me et portòmi la lettra vostra. Io lo vidi tanto voluntera quanto io solio vedere tuti li amici vostri, et li offersi ogni opera mia, et el pregai che se ne valesse. Io non lo vidi più: penso che non li reusisse de la sorte che voi me li havevati depinto, et che contento del iuditio suo, non volesse fare altra prova di me. Ogi è ritornato, et ame dito volere partire domatina verso voi: et certo mi doglio de non l'havere potuto più godere et meglio cognoscere. Holi dito delle cose publiche quanto io ne so, atiò ve lo dica; bemchè tuto è niente, o forsa tropo; et vedo che se ne andiamo in servitù, o per dire meglio che la compriamo: et [432] ognuno lo cognosce et niuno li remedia, parendo a ciascuno non si potere aiutare se non con il megio di Franza; et tale megio non vedo como lo possiamo sperare mentere che il Re è presone. Dico sperare, attenta la natura de' Francesi, et li modi che vedo che in questa pratica usano; che quando fusseno de altra sorte, modi non mancarebeno. Bem credo che quando N. S. et voi Signori volesti unirve con questo Stato a defensione comune, che essi starebbeno saldi; ma più presto che stare soli, temo assai che non se acompagnano con lo imperatore. Delle cose mie particulare non so che vi dire; se non che molto io desidero di condurmi in casa mia, essendo risoluto de non potere fare qua più di quello che se è fato; consistendo la difficultà in quelli che mi li feceno venire: de li quali pocho o niente sono io restato inganato, dico, poi che io vidi il Re andare in Spagna. Volio anche dirvi como questi Signori fariano ogni cosa a loro posibile, atiò che il ducato de Milano non andasse in le mani de lo imperatore o del fratello; ma soli non ardiscono de assalire il remedio. Voi altri Signori che li haveti tanto interesse quanto essi, li dovereti pensare. Et se una volta li Spagnoli entrano in posesione de quello Stato, alcuno non ardirà a scoprirsi, perchè vederano la impresa difficile et la spesa longa. Et se il Duca more, male se li po' remediare, che non vi intrino; perchè essi sono in fati, et nui non habbiamo anchora pensato quello che vogliamo fare. Anci mi pare che siamo resoluti di non fare nulla, ma stare a descretione. Ma non voglio più scrivere. Io sono intrato, non volendo in una baia che non finirebbe hozi. Stati sano et servetive di me.
In Venezia, alli 15 de setembre 1525.
El vostro fratello
Luc.º Canossa.
Al Magnifico Messer Francesco
Vettori come honorando fratello,
ec., in Firenze.
[433]
Lettera di Filippo de' Nerli a Francesco del Nero. Modena, 1 marzo 1525.[605]
Spectabilis vir tanquam frater honorande. Alla lettera vostra de' ventuno del passato non mi occorre fare altra risposta, se non farvi intendere come il mandato de Dati di Bologna, che venne qui ad fare el pagamento che voi sapete, harà potuto vedere quello che io habbi facto per lui, et quanto la lettera vostra gli habbi giovato; alla relatione del quale in tutto mene rimetto.
Essendo el Machia ad voi parente et amico, et ad me amicissimo, non posso fare che con questa occasione che voi mi havete data di scrivervi non mi condolga con voi di quello che ogni dì mi viene di lui agli orecchi, che a questi dì et in questo carnovale ne ho havuto tante querele, che più non mene toccha di tutti e' malefitii di questa città; et se non fussi che queste gran cose, quasi incredibile, che sono ite atorno in questi dì, in questa povera provincia, hanno dato materia di parlare d'altro che di chiacchiere, sono certo che non si parlerebbe d'altro che di lui, considerato un padre di famiglia di quella qualità andare alla staffa, che non voglio dire di chi, et ha facto una commedia che vi è su di belle cose, secondo che io intendo. Hora mai, Francesco mio, noi ce ne rimarreno nella fossa. Et non prima o pure io vi voglio preghare, che dove voi potete rimediare a queste cose lo facciate, sanza allegarne me altrimenti; et lo pregherrete per mia parte, che sia contento di rispondere ad una mia lettera, mandandomi con epsa la commedia che si recitò a l'orto del Fornacaio. Et per hora non mi occorre altro. Raccomandatemi a' dua mia compari honorandi, co' quali so che siate spesso, quali sono Francesco Vettori et Philippo Strozzi, et similmente al Machia et a Donato [434] infinite volte, et io ad voi mi raccomando ed offero, per quanto posso et vaglio, che Christo sano et felice conservi.
Di Modona, addì primo di marzo MDXXV.
Uti frater
Philippus de Nerlis gubernator.
Spectabili viro Francesco Del Nero
uti fratri carissimo, Florentie.
Minute di lettere, patenti ed ordini scritti dal Machiavelli, come cancelliere dei Cinque Procuratori delle mura.[606]
Yhs Maria
Al nome di Dio et della gloriosa Vergine Maria et di Santo Giovanni Batista advocato et protectore della nostra città. In questo libro si scriveranno le copie di tucte le lectere che gli spectabili procuratori delle mura della città di Firenze scriverranno in qualunque luogo et a qualunque persona. I quali spectabili conservatori presono l'uficio loro adì.... d'aprile[607] 1526, [435] et debbono stare in oficio uno anno, da cominciare decto dì et da finire come segue: i nomi de' quali sono questi:
M.D.XXVI
A dì 24 d'aprile.
Scripsono a Giuliano loro ingegnere a Roma
nella infrascritta sentenza:
Che si era vista la sua lettera, et come in prima facie il suo disegno ci spaventava per la grandeza sua; nondimeno ci pensereno, et, havendo a mandare al papa il disegno della città et del paese, che allhora con quello si scriverrebbe più appieno la opinione nostra.
[436]
Scripsono decto dì a Galeotto de Medici oratore a Roma nella infrascritta sentenza:
Che ci piaceva la provisione haveva fatta il papa di mandare Antonio da Sangallo in Lombardia: et come Baccio Bigio sarà tornato si ordinerà che si faccia il disegno, et si manderà subito col parere nostro ancora. Et perciò si lascerà indietro pensare per hora al quartiere di Santo Spirito, et pensereno solo al di qua d'Arno, et ci risolviamo cominciarci alla Porta alla Giustitia et al Canto del Prato, o vero alla Porticciola delle Mulina. Non ci pare da toccare Sangallo, perchè havendo a muovere quivi il letto di Mugnone, et per questo offendere qualchuno, non ci pare da farlo hora, per non dare che dire ad alcuno; ma, cominciata che fia la opera, non si harà rispecto, et chi fia tocco harà patienza. Et come questa medesima ragione ci teneva ad non pensare per hora a' danari; ma che ci pareva da spendere di quegli per hora che il dipositario ha in mano, et di quelli che il papa volessi in questo principio sborsarsi, come ne ha oferto etc.
A dì primo di giugno.
A Galeotto de Medici oratore a Roma.
Avanti hieri ricevemo la vostra de' 28 del passato, responsiva alla nostra de' 24.[609] Commendiamo in prima assai la diligenza vostra, et ci piace che a Nostro Signore sodisfaccino i rispetti habbiamo nel cominciare questa opera, sanza dare disagio ad alcuno, per non la fare odiosa prima che la sia per experienza cognosciuta et intesa. Vero è che noi non possiamo darle altro principio che ordinare la materia infino a tanto che noi non siamo resoluti della forma che hanno ad havere questi [437] baluardi, et del modo del collocargli; il che non ci pare potere fare se prima non ci sono tutti questi ingegneri et altri con chi noi voglamo consiglarci. Et benchè il signore Vitello venisse hieri in Firenze, et che ci si aspetti fra duoi giorni Baccio Bigio, è necessario anchora che venga Antonio da Sangallo, del quale non habbiamo adviso alcuno. Et da poi che per commissione di Nostro Signore egli è ito veggiendo le terre fortificate di Lombardia, giudichiamo essere necessitati ad aspettarlo, perchè altrimenti questa sua gita non ci porterebbe alcuna utilità. Però con reverenza ricorderete a Nostro Signore che lo solleciti. Et qui il R.mo legato ha scritto a Bologna a quello governatore che, intendendo dove e' si truovi, lo solleciti allo expedirsi. Et gli rispetti che si hanno ad havere nel murare al Prato o alla Giustitia, alle parti del di là d'Arno et a' riscontri de' monti, secondo che prudentemente ricorda Nostro Signore, si haranno tutti. Et così non siamo per mancare in qualunque cosa di diligenza, quando non ci manchi il modo a farlo; perchè il depositario ci ha facto qualche difficultà in pagare una piccola somma gli habbiamo infino a qui tracta, et crediamo per lo advenire sia per farla maggiore, allegando non havere danari per questo conto. Pertanto ci pare necessario che Nostro Signore ordini che noi ce ne possiamo valere. Et volendo la Sua Santità aiutarci d'alcuna cosa, sarebbe approposito hora, et farebbe molti buoni effecti. Et siamo ogni dì più di opinione che non sia bene toccare in questo principio le borse de' cittadini con nuova graveza. Perciò farete bene intendere questa parte alla Sua Santità. Et quanto al modello de' monti che Sua Santità desidera, come per altra si dixe, quando Baccio Bigio ci fia, non si perderà tempo, acciò il più presto si può se gli possa mandare, nè per noi si manchi di alcuna diligenza in tucto quello si debbe. Et perchè siamo di parere che, fatta la ricolta, si comincino i fossi per tucto di qua d'Arno, ciò è dalla parte de' tre quartieri, habbiamo scritto a tutti i podestà del nostro contado, che scrivino, popolo per popolo, quanti huomini fanno da 18 ad 50 anni, et che ne mandino nota particulare. Et si è anticipato, acciò ch'eglino habbiano tempo a fare questa descriptione appunto, et che noi possiamo, fornita la ricolta, entrare in simile opera gaglardamente.
[438]
A dì primo di giugno.
A tutti i podestà del contado di Firenze.
Perchè noi voglamo per buona cagione havere notitia degli huomini che fa tucta cotesta tua potesteria, desideriamo che il più presto puoi, usando quanta diligenza ti è possibile, ci mandi una nota di tucti quelli che vi sono da i diciotto a' cinquanta anni; et terrai questo ordine. Manderai o per i sindachi o per i rectori de' popoli, et insieme con i tuoi messi farai fare a ciascuno, popolo per popolo, la sua listra. Et vedrai nel farla che si notino i lavoratori di terra da quegli che fanno l'altre arti; nè lascierai indietro pigionali o altri habitanti in detti popoli: et riductogli tucti in un quaderno con questa distintione, ce lo manderai. Di nuovo ti ricordiamo la diligenza, acciò che noi ci possiamo tenere sodisfacti della opera tua.
Tenute et mandate a' dì 6.[610]
Patente. Dicta die. Per Giovanfrancesco da Sangallo et Baccio Bigio.
Noi procuratori delle mura della città di Firenze a qualunque vedrà queste nostre patenti lettere facciamo intendere, come ostensore di esse sarà Giovanfrancesco da Sangallo ingegnere et architectore nostro. Al quale havendo commesso ritragga il sito della città di Firenze con il paese circunstante, discosto da essa città circa due migla, voliamo et comandiamo a qualunque in decti luoghi habitante, presti a decto Giovanfrancesco, quanto si appartiene a tale opera, ogni aiuto et favore, lasciandolo passare per ciascuno luogo sanza farli oppositione, [439] et darli impedimento alcuno. La quale cosa farete per quanto stimate la gratia, et la nostra indegnatione temete. Presentibus post duos menses minime valituris. Vale etc.
Oratori Florentino Rome, Ghaleocto de Medicis.
Die viij iunii.
Essendo venuto el S.or Vitello in Firenze, come per l'ultima nostra vi scrivemo, et non potendo molto soprastare, ci parve da pigliare consiglio da lui come ci havamo ad ghovernare in questo principio, circa questa nostra muraglia, non obstante che non ci fussi Baccio Bigio nè Antonio da Sanghallo; et andamo parte di noi con lui veggiendo questa parte del Prato Ognissanti, perchè stavamo in dubio se noi cominciavamo dalla Porticciola della Mulina o dal Canto del Prato. Donde che havendo decto Signore in più giorni examinato tutto, si è resoluto che sia bene cominciare in sul canto, allegando che quello baluardo, posto in quello luogho, difenderà le mulina, la bocha d'Arno et la Porta al Prato: il che non potrebbe fare quello che si cominciasse alla Porticciola. Disputossi dipoi se questo baluardo si faceva tondo (come haveva disegnato il conte Pietro Navarra) o vero affacciato. Parveli da farlo affacciato, alleghando che non potendo e' baluardi defendere se medesimi, ma havendo bisogno di esser difesi dalli altri fianchi, ne seguita che quando e' sono tondi, li altri fianchi ne guardono solo uno puncto; ma quando sono affacciati, possono tutte le faccie esser guardate. Disputamo dipoi s'egli era da farlo con le cannoniere da basso et da alto scoperte, secondo il disegno di quelli che si sono facti a Piacenza, o s'egli era da fare coperte quelle di sotto, con palcho o volta che facessi piano a quelle artiglierie che havessino ad trarre di sopra. Parve a decto Signore che si faccia con l'artiglierie da basso coperte, parendoli quelli di Lombardia troppo grandi, et in quello luogho troppo sconcio, et non necessarii, affermando che, quando l'artiglierie coperte [440] hanno quelli sfogatoi che possono havere, queste stanno meglio.
Disegnossi pertanto sopra decto Canto del Prato uno baluardo affacciato, che abraccia una torre, che è in su decto canto; il quale ha le sua maggior faccie lunghe l'una lxxta braccia et le minori circa xx. Et disegnamo che le mura che sono dalla parte di verso la porta, sieno grosse braccia viij, et quelle che sono di verso le mulina, per non potere esser battute, sieno braccia vj. Et dalle mura del baluardo alla torre che rimane drento, sono per tutto quelli spatii che voi potrete vedere per il disegno vi mandiamo con questa. Ha da basso iiij cannoniere, due per fianco; et disegniamo che le sieno alte dal piano del fosso braccia iiij, et che da decto piano le sua mura alte braccia xviij. Et che si gittino archi da[612] la torre al muro nuovo; et sopra quegli archi si faccia un palco che habbia di parapetto due braccia, tanto che l'artiglerie che fieno di sotto hanno di sfogatoio tutto quello spatio, delle xviij braccia che sono alte le mura, che non sarà dal parapetto et dal palco mangiato. Al quale sfogatoio si aggiugne la rarità del palco, et le aperture che si faranno di verso la città, per potere entrare in detto baluardo. Gl'anguli di questo baluardo, come voi vedete, vengono acuti, et noi sappiamo bene che questi anguli sono più deboli che i recti et che gli ottusi: nondimeno si sono fatti così, perchè a volergli fare ottusi ci bisognava entrare in maggiore largheza, et così fatti ci paiono assai forti per havere, quelli duoi maxime che possono essere battuti, dieci braccia di sodo. La torre che resta di mezo disegniamo abbassarla infino al piano del palco, acciò che lo spatio delle artiglerie che hanno a trarre di sopra sia largo. Questo è in effecto come, secondo il consiglo del signore Vitello, ci parrebbe da farlo, di che vi se ne manda il disegno, acciò possiate mostrare tucto a nostro Signore, et intendere la opinione di Sua Santità.
Et perchè ci parve,[613] poi che noi eravamo in quello luogho, examinare el modo di fortificare dalle Mulina alla Porta al Prato, mandiamo el disegno di tutta decta fortificatione, per il quale vedrete come si disegna abracciare la Porta al Prato [441] con uno baluardo chiuso, che non habbia uscita, et la Porta solo serva ad entrare in quello; et per uscire della città si facci una porta di nuovo allato a decto baluardo di verso el Canto del Prato. Disegnasi quella torretta che è nel mezo, infra la Porta et il Canto, bucarla dalla parte di drento, et aprirla um poco da ogni fianco, tanto che duoi vi si possino con li archobusi maneggiare. Disegnasi fasciare le Mulina con uno muro, secondo vedrete in sul disegno, facendo um poco di ricepto fra 'l muro vechio et il nuovo, che tiri artiglierie per li fossi. Pare anchora da fare una piactaforma in mezo, tra le Mulina et il Canto, che giri da ogni banda per il fosso. Disegnasi fare il fosso largo 30 braccia, seguitando el consiglio di Pietro Navarra, che danna i fossi di maggior largheza. Vero è che al signor Vitello pare che ad canto a' fossi sì faccia una via largha almeno x braccia; et che la terra si ha ad cavare del fosso, quella cioè che non si metterà dentro alle mura, per far terrapieno, si metta di là da questa via, et se ne faccia uno argine alto 3 braccia da decta via, il quale argine si spargha in modo verso li campi, che non facci grotta et parapetto alli inimici. Questa via disse esser necessaria per poter girare le mura di fuora, per dare adiuto, et più spatio al fosso; et sempre, respecto all'argine, si potrà da quelli di dentro usare. Et tutte queste cose così disegnate, per farsi hora e ad tempo, sono distribuite in modo che le risponderanno bene a tutte quelle cose che di là d'Arno si edificassino. Questo è tutto quello che si è col signor Vitello ragionato. Farete intendere tutto a N. Signore, adciò che Sua Santità ne dica la sua opinione.
Ricevemo hieri la vostra de' iiij del presente, et quanto al danaio che importa più d'ogni altra cosa, noi vi habbiamo a dire questo: come, considerato li tempi che si apparecchiano et le spese che potrieno sopravenire, noi siamo di quelli che se questa opera si havessi ad cominciare, che consiglieremo che la si soprasedesse, pensando che non fussi bene acchozare muraglia et guerra; ma da poi che la è con tanta demonstratione et expectatione, noi non possiamo consigliare che la si lasci indrieto. Et parrebbeci che questo si potessi fare sanza torre assegnamento di importanza alla guerra, entrando in imprese che si spendessi poco et si facessi demonstratione assai. Questo baluardo che si è disegnato in sul Canto del Prato, non [442] ascenderebbe alla spesa di cinquemila ducati; li quali non si hanno ad spendere tutti ad un tratto, ma in iij o in iiij mesi che penerà ad fornirsi; in modo che, cominciando ad murare questo, et dall'altra parte, facta la ricolta, tenere due o tremila contadini intorno alle mura ad cavare li fossi (come si potrà sanza spesa fare), sarà la demonstratione grande et la spesa poca, nè tanta che l'habbia ad impedire le altre nostre necessità. Hora, piacendo a N. S. questo modo, conviene che S. Santità ordini qui che di quelli tanti danari che habbiamo di bisogno, noi ne siamo provisti, perchè di qualunque luogo e' si habbino ad trarre, o dalla Parte[614] o d'altrove, noi habbiamo bisogno della auctorità sua; maximamente perchè circa 1600 ducati, che avanzavono alla Parte, più settimane sono, pervennono alle mani del depositario, dal quale non si potrebbono sanza la auctorità di quella trarre. Infine, se noi sareno provisti, noi usereno quanta sollecitudine sapreno et potreno maggiore. Ma quando, respecto alli tempi, non si possa, ce ne rapportereno a l'iudicio et prudentia di Sua Santità. Non essendo anchora venuto Baccio Bigio, per avanzare tempo sopra 'l disegno che desidera N. S., habbiamo imposto a Giovanfrancesco da San Ghallo cominci ad levarlo; et venuto Baccio, li accozeremo insieme et acciò che 'l sia più perfecto et possa meglio satisfare.[615]
A dì ij di giennaio 1526.
Perchè ci occorre havere bisogno di ......[616] huomini usi a maneggiare la terra, t'imponiamo che con quanta diligentia puoi gli provvegga, et sotto uno capo che gli conduca ce li mandi, et con tale presteza che sieno rapresentati venerdì proximo, [443] che sareno adì 4 del presente, alla porta a San Giorgio, ad uno nostro commissario: il che fa' che non manchi per quanto stimi la gratia nostra. Et fa' loro intendere che saranno qui pagati da noi giorno per giorno, secondo l'opere di questi tempi. Et farai che portino il terzo vangha, il terzo zappa, et il terzo pala. Oltre a di questo comanderai a tutti i tuoi subditi, che ci conduchino fra 3 dì da hoggi, pure alla porta a San Giorgio, una soma di stipa per casa; la quale ancora sarà pagata da noi giusto prezo. Bene vale.[617]
A dì 21 di gennaio 1526.
Per ordinare et deliberare alcuna cosa che concerne al bene di questa città, voliamo che subito ricevuta la presente, raguni i capi di cotesta tua podesteria, et facci fare loro uno sindaco, huomo prudente, et quello, il più presto potrai, manderai qui con tue lettere al magistrato nostro. Fa' quanto t'imponiamo, usando grande et buona diligenza. Vale.[618]
Abbati Cortusii. Dicta die (26 gennaio 1526/27).
Perchè noi intendiamo come voi havete propinquo al munistero vostro, o vero nella selva di Treggiaia, uno bosco di scope grande da taglarsi, però voliamo che subito vi facciate mettere, et da voi et da lo aiuto di questo tavolaccino presente apportatore, quanti taglatori potete, perchè habbiamo necessità di quella stipa, et vi sarà da noi giusto prezo sodisfacta.[619]
[444]
Lettera di Iacopo Fornaciaio al Machiavelli. Firenze, 5 agosto 1526.[620]
Carissimo Nicholò, a voi de chontinovo mi rachomando etc. Questa per dare risposta a una vostra, per la quale intendo chome avete venduto el chavalo, e dove ò avere e danari; e somi istati pagati, che tutto istà bene. Anchora per detta intendo chome la Barbera no' v'à mai ischritto, e ch'aresti disiderio intendere chome istà. Di che, subito ebi la vostra, andai a trovare detta Barbera; e di già v'aveva ischritto, e chredo l'abiate auta: e no' potei fare che io no' li dicessi una charta di vilania: i' modo me rispose che si maravigiava di me, e che non aveva uomo che la istimasi più, e che più le potesi chomandare; ma bene che la vi faceva qualche bischencha, per vedere se voi le volete bene. E arebe disiderio voi fusi più presto a Firenze, perchè gli pare, quando voi ci siete, dormir cho gi occi vostri. Ora voi la chonocete megio di me. Non so se s'è da chredegli ongni chosa. E a me si ischusò cho dire non ese istata a Firenze; che di questo so che la dice el vero, perchè io mandai più volte per lei, e subito fu tornata vene a l'orto, perchè v'avevo una romana (sic). E a' mi detto vi schriverà ongni settimana, po' che la vede che voi le vedete volentieri. E pregòmi istrettamente che io ve la rachomandasi, e pregasi non avesi istista con eso lei. Io salutai Rafaelo Chorbinegli per vostra parte, e lui mi dise che se io vi ischrivevo, che si rachomandava a voi, e ch'è tutto vostro. Se io posso [445] qua chosa alchuna, chomandatemi, che voi no' mi potresti fare e magior piacere. Idio vi guardi.
A' dì 5 d'agosto 1526.
Vostro Jacopo di Filipo
Fornaciaio, in Firenze.
Spectabili viro Nicholò Maciavegli,
in chanpo de la Lega.
LETTERE DI ROBERTO ACCIAIUOLI,[622] AMBASCIATORE DI CLEMENTE VII E DELLA REPUBBLICA FIORENTINA IN FRANCIA.
R.me Domine. Io scrivo un poco largo a' Signori Octo, perchè io penso ch'allo arrivar di questa sia scoperta la Lega per tucto, et publicata; et per animarli, accenno dove ci troviamo, quando non ci aiutiamo, perch'io so certo ch'el disegno di Cesare è di andare a Roma et lì fermarsi uno anno o dua, et deporre el Papa et ridurre Toscana in Ducato, et darlo all'Arciduca,[624] et spacciare Ferrara et Mantova, et darli a sua amici, et dipoi spacciare e Vinitiani. Questi ragionamenti hebbe col Re più volte, confortandolo [446] a non s'impacciar delle cose d'Italia, per apartenersi a lui; sicchè non è da dormire, et maxime havendo questo favore et questo appoggio, che vengon tanto di buona voglia quanto è possibile, et io mi trovo qui con gran favore, per haver ferma fede ch'el Papa vadia con animo sincero et stietto verso di loro, et dachè si ha a far la guerra, è bene farla da homini dabene, et in modo che possiamo vincere et non restare a discretione di questi lupi. Alla Ciptà è naturale questa compagnia, et ne possiamo sperare più sicurtà che dalli altri. Vostra Signoria conforti el Papa che, trovandosi horamai scoperto, s'appoggi tucto di qua, perch'io so che ci troverà tal riscontro et tale sicurtà che potrà godersi el suo pontificato et salvare noi.
Costoro ci hanno hoggi domandati, l'Anglico, el Veneto[625] et me, se volendosi partire el Vicerè hora che era excluso dell'acordo per venire in Italia, ci pareva che li dovessi dare licentia, et se ci pareva che si ordinassi a' passi che li corrieri et le lettere non fussin più lasciate passare d'Hispagna in Italia, et così e converso. Habbiamo resposto con molta ragione, non esser per modo alchuno da lasciare venire el Vicerè in Italia, nè che lettere o corrieri vadino a torno, et così ci hanno promesso di fare. Racomando a Vostra Signoria R.ma Que bene valeat.
In Angolem. die XVII junii MDXXVI.
Magnifici Domini Obser.mi.... Io credo che la tardità delle provisioni che si dovevan mandar di qua in favor dell'impresa, haranno non solamente facto danno alle cose di Lombardia, et causato più lungheza di guerra, ma facto anchora dubitare Nostro Signore et le Signorie Vostre di qualche vacillamento dell'animo et mente di questa Maestà Christianissima, perchè qualunque non vede le vere cause, ragionevolmente ne debba dubitare, et pensarne qualche mysterio [447] diverso dalla verità. Nondimeno io non ho mai visto segno nessuno da farmi mutare di opinione, che tengo dell'animo sincero et fermo di sua Maestà in questa impresa. Et sebene ogni giorno el Vinitiano et io habbiamo importunato et solicitato et monstro li disordini che poteva fare tanta lunghezza, nondimeno, havendo conosciuto le vere cagione, ci siamo più doluti delli sua ministri et executori della sua commissione, che delle deliberatione di Sua Maestà et delli Signori del Consiglio, le quali si son facte in tempo, che, se l'exequtione havessino acompagnate, non si saria soportato questo danno et disagio. Ma havendo trovato le cose del regno al suo ritorno d'Hispagna, et maxime delle gente d'arme, in disordine, et volendo di 4000 lance cassarne una parte, consumorono molti giorni, per non si resolvere bene chi dovessino cassare, chè per non discontentare nessuno diminuirno poi la tertia parte a tucte le compagnie. Et di poi, facta la deputatione de capitani per Italia, et ordinato e quartieri, et spacciatili di Corte, e thesorieri che havevon la cura et a Lione et altrove di pagarli con mala contentezza del Re li hanno stratiati tre settimane. Di che havendo noi hauto notitia dopo qualche giorno da Lione, ce ne siamo forte risentiti et doluti, et al Re è dispiaciuto assai, et subito et per più mandati li ha facti solicitare et expedire, et insino non ci siamo assicurati che habbino hauto el quartiere, non habbiamo cessato d'importunare. Et però Vostre Signorie non si mararaviglino della lunghezza, nè suspectino di mala voluntà; ma l'atribuischino alla propria natura loro et modi di far le faccende, che son quelli che li hanno più volte facti ruinare. Perchè l'animo del Re è tanto inclinato al fare dal canto suo ogni possibile conato et spesa, quanto dir si possa, per vincere questa impresa. Et appresso a Svizeri non ha lasciato indrieto alchuna spetie di favore, per convertirli al venire in benefitio della Lega, come l'avanti lo arrivar di questa Vostre Signorie haranno inteso, perch'io sono avisato da messer capino,[627] che si partiva alli XXVI con 8300 Svizeri, et credo anchora che buona parte delle lance franzese a quel tempo medesimo saranno in Astigiano....
[448]
.... Il Re ha qualche aviso, ch'el Principe d'Orange debba passare per la Savoia con una banda di Alamanni, per venire in Italia, et però col Duca ha facto gran querela et protestatione, che non dia passo alli nimici sua, et ordinato al Marchese di Saluzo, che oltre alli 4 mila fanti, che farà a spese comun della Lega, ne faccia ancor 11 mila per suo conto proprio, acciò possa oporsi, bisognando, a decto Principe, dove vedessi di poterseli fare incontro.
Dipoi scripto el disopra, ho parlato alla Maestà del Re, et mi ha decto haver questa mattina scripto al Marchese di Saluzo, che parendoli di haver bisogno di più gente d'arme, che li manderà anchora 200 o 300 lance; et perch'io lo ho confortato al mandarle, credo che questo dì le ordineranno. Et così per tucti e segni si vede Sua Maestà infocata grandemente in questa impresa. Et a noi hanno facto più volte intendere, che noi ricordiano et pensiamo quello che sia per benefitio comune, ch'el Re non è per denegare alchuna cosa.
Nè per la presente occorrendo altro, a Vostre Signorie mi racomando. Que bene valeant.
Ex Ambusa. Die XXXI julii 1526.
Magnifico Signor Luogotenente. Io mandai di qua Barranino corriere, alli XXXI passato, et nel plico di Vostra Signoria erano le lettere di Roma aperte, acciò quella vedessi tucto che di qua si scriveva, et risuggellate, le mandassi subito con le altre lettere di Firentie; et alli XXIII havevo spacciato el Targa col medesimo ordine, li quali spacci reputando salvi, non replicherò altrimenti. Ho di poi di Vostra Signoria una de XVIII, et intendo per epsa e disegni vostri, i quali si mostron farsi più per necessità che per volontà. Dio ce ne adiuti, che quando el [449] castello[630] si perda, come di già ce n'è qualche aviso esser seguito, veggo siamo inviluppati in una guerra da consumarci et forse ruinarci. Noi di qua non restiamo d'importunare questi signori, che ne hanno bisogno, non perchè si truovino freddi o mal disposti a questa impresa, ma per haver un modo di negotiare et di exequire da far disperare ogni homo che ha a far con loro, et poco si può havere honore, respecto alla difficultà che ci è nel redurre a fine quello che lor medesimi voglion fare; et poichè hanno dato l'expeditione, son di poi dalli lor ministri stratiati un mese, el che ha causato questa lor lunghezza dell'armata et gente d'arme, le quale troviamo pure che hanno cominciato a marciare col Marchese di Saluzzo; et pensiamo che se non tucte, almanco la sua persona con una parte, possa trovarsi di costà alli X di questo, perchè el Re lo ha forte solicitato da molti giorni in qua, et noi, sendo lontani, non possiamo misurare e passi sua.
Vidi una di Vostra Signoria, per la quale si mostrava che quella era contenta concorrere alli IIII mila fanti, et perchè una parte ne haveva di qua da' monti, et a causa non havessi a perder tempo, el Re li ha mandato di qua li denari per pagarli; et inoltre, parendoli haver bisogno di più somma di fanti, ne facci d'avantaggio dua mila a suo proprie spese. Li IIII mila vanno a comune spese della Lega, et come è decto, el Re li ha mandato e denari, et riterrà la parte et rata del Papa et della Signoria in su la seconda paga de XXXX mila D. El resto di decta paga, perchè di già ne ha ordinato XXV mila, si faranno di contanti; et però saria bene, allo arrivare di decto Marchese, quando non venga in campo così presto, mandare a rivedere se ha el pieno di decte fanterie, et quanto porta apunto decta spesa, et che io ne havessi notitia, acciò si possa fare el conto quello vi si spende, et ritrarre el resto in su la paga de XXXX mila. Et Vostre Signorie di costà, quello che dovevon pagare al decto Marchese, per la lor portione di decti iiii mila fanti, li potranno voltare dove harebbono a voltare li XXXX mila, per riempire quella somma. Et noi qua volentieri habbiamo consentito questo modo, per haver a risquoter da loro quel meno.
[450]
Al conte Pietro Navarra si è mandato el breve del Capitano Generale di tucta l'armata di mare della Lega, che così si è giudicato el meglio, per farli tanto più presto uscire all'impresa di Genova, che molto el Re desiderava se li dessi questo titulo. Et però siamo restati che Vostra Signoria lo avisi di quanto sia necessario, qualunque volta habbi commodo di mandar le lettere, et occurrendo al decto conte Pietro, quando sarà intorno a Genova, habbi bisogno che per terra si mandi qualche gente, per stringerli da più bande, Vostre Signorie liene potranno ordinare o di quelli del Marchese di Saluzo o dell'altre. Et lui ha commissione di governarsi secondo parerà a voi altri Signori del campo.
La sera che io spacciai l'ultimo corriere, arrivò qui el secretario Sanga,[631] mandato da Nostro Signore per solicitare queste lunghe provisione, et poi andare in Angliterra; ha trovato el medesimo, cioè animo prompto et sincero del Re et di tucti questi del governo, ma lunghi, confusi, irresoluti et con malissimo governo in le cose lor proprie, nonchè in le nostre. Et perchè Sua Sanctità vorrebbe esser soccorsa di maggior contribuitione in questa guerra, et maxime per cominciare ad assaltare el Regno di Napoli, per divertire ecc., non veggo conrespondino a molte offerte ne hanno facto. Pur quando Nostro Signore conceda lor certe decime che domandone, credo concorreranno alla spesa del Regno, nè altro siamo per trar de' casi loro, per trovarsi el regno molto exhausto et agravato da molte spese.
Sarà con questa una copia di lettera di Domenico Canigiani di Granata, la quale monstra che le cose di Cesare non sono spente, ma si vogliono adiutare per ogni canto. Et quando el Vicerè venga, le cose del Papa si troveranno in mal termine, se in Lombardia voi non vincete, perchè non mi pare basti stare in capitale a dove siamo condocti con la lunghezza della guerra.
Ho caro el Machiavello habbi dato ordine a disciplinare la fanteria, che volessi Dio fussi exequtato quello che lui ha in concepto; ma dubito che non sia come la Republica di Platone, che non fu possibile mai trovar chi in facto la mettessi o ne facessi una secondo che lui dispose. Et però mi pareria fussi [451] meglio tornassi a Firentie a far l'offitio suo, per fortificare le mura, perchè corron tempi di haverne haver bisogno, et facci solicitare quella opera, se vuol che Gerozo[632] sia contento di lui. Racomandomi a Vostra Signoria et a lui.
Ex Ambuosa. Augusti vij[633] M.D.XXVI.
Magnifico Signor Locotenente. Io scripsi avantheri a Vostra Signoria, sotto lettere del Vinitiano, et non feci passare el corriere di costì, per torli meno quel tempo. Lo spaccio non conteneva altro che assicurare el Papa del buono animo del Re in questa impresa, et accertar Sua Beatitudine che Sua Maestà non vuole risparmiare la vita propria per la sua conservatione, et che quella non ha nessun pensiero nè altri in questa Corte di voler per sè lo stato di Melano, et va con tanta sincerità et fede quanto noi sapiamo desiderare, et così prego Vostra Signoria che confidi et si renda certa. Et ultra hoc, Sua Maestà è contenta contribuire XX mila D. el mese di più che li XXXXmila, perchè Sua Sanctità si possa aiutare; ma vorria bene che servissino all'impresa di Napoli, et di già ce li ha ordinati la prima paga, che sono a posta mia. Sichè non vi precipitate per li suspecti entrativi per la tardità delle gente d'arme, che io vi assicuro che si trovavono in tal disordine quando tornò d'Hispagna, che male potevano esser più presto, et ogni giorno lo veggiamo più riscaldare; et tucti confessono esser necessario che la curino come lor caso proprio.
[452]
Questo giorno in Consiglio, havendo aviso della mala resolutione della Dieta de Svizeri, habbiamo ordinato che Sua Maestà scriva alli sua in Svizeri, che favorregino la levata loro, et operino che quelli ha mandato messer Capino non sieno revocati, et che in Grigioni di nuovo scriva tenghino el passo alli Lanzchnet, et facci tucti quelli favori et aiuti come fussi sua particularità; el che ha facto et dove può far bene non manca in parte alchuna, et spesso ci fa dire che noi divisiamo et pensiamo quello possa fare in favore della impresa, che non lascerà indrieto alchun nostro ricordo. Et perchè el rimettere li XX mila D. a Roma non si può fare senza gran damno, ce li paga a Lione con 2000 di vantaggio, acciò prendiamo la cura di farli tenere a Roma.
Habbiamo apuntato questo dì con li Signori del Consiglio, che la paga de XXXX mila cominci alli XV di luglio, che più avanti non li habbiamo potuti tirare, nè siamo voluti stare duri, per haver condocto Sua Maestà a XX mila più el mese, et perchè non si sono cominciati a spender tucti avanti questo tempo: et mi hanno promesso che s'el Papa concede loro le decime, tucto quello ne trarranno lo vogliono per le spese d'Italia.
El Re ci ha facto dire che noi scriviamo a Vostra Signoria et al Proveditor veneto, ch'è advertito ch'el campo della Lega è un bel campo, et ben governato, et grande abondantia: ma ch'è necessario Vostre Signorie lo tenghino insieme et lo rassegnino spesso, perchè ha notitia certa, che l'imperiali hanno in disegno di non lo combattere per hora, ma che tucti e lor pensieri son volti a sviare li vostri soldati, et quelli che cominceranno a tirare dal canto loro, adoperar per mezani et instrumenti ad sviarne delli altri, et come havessino voto di molte compagnie, improvisamente darvi uno assalto. Però dice che vigiliate ogni loro andamento, et che pensiate tucti li progressi loro essere con artificio et inganno, et ne sta con grandissima gelosia.
Sua Maestà et questi Signori del Consiglio si maravigliono che noi habbiamo li avisi de' progressi tanto di raro, et se ne son doluti questo dì con noi, dicendo, sendo questa cosa tanto importante al Re, noi vorremo pure saper più spesso quello che segue, perchè ci è pure l'interesse del Re, et fa la spesa che [453] voi vedete, et non solamente desideriamo sapere le factione, ma li disegni et pensieri che si fanno nel procedere della guerra. Et però el Vinitiano et io habbiamo consertato, che sia necessario dare al Re notitia di tucto, et che ogni dua dì almeno facciate correre la posta insino a Lucerna, et che tegnate uno homo vostro a Coyra et uno a Lucerna, insino dove sono le poste venete, che basteria ogni stradiotto con poco soldo a chi s'indirizassino le lettere prima a Coyra, et da questo fussin indiricte a quel di Lucerna, che le mandassi per le poste regie in Corte.
Conforta Sua Maestà che s'intratenga el duca Francesco, et da che è perso el castello, ha molto caro el Duca non sia acordato con loro.
Monsignor d'Autrec, parlando questa sera con Sua Signoria, mi ha commesso che io scriva a Vostra Signoria, et li ricordi che ha da fare con soldati vincitori, periti nella guerra et sagaci al possibile, et che quella proceda passo passo, et examini bene che cuore hanno e sua soldati, che voluntà, se son disposti ad assaltare l'inimico, se si amano et conoscono l'un l'altro, se fanno l'arte del soldo per honore o per leggierezza, et secondo li trova, secondo li metta ne' periculi; vegga che li capitani non faccino l'arte per mercantia, et più presto cerchi di guadagnare un miglio el dì, che dieci, purechè possi assicurarsi in sul guadagnato, et non si havere a ritirare. Et sendo Sua Signoria l'homo ch'è, et del paese et delle cose d'Italia molto instructo, mi è parso non pretermettere tale offitio.
Molti sarien d'opinione, et maxime li homini di guerra, che hora che è perso el Castello, arrivate fussin le lance franzese, si facessi la guerra più con li cavalli che con la fanteria, et si recassino li campi in su loro forte, et si travagliassino loro le vectovaglie el più si potessi, et che bastassi tenerli impegnati intorno a Melano, et che col meglio della fanteria si andassi alla volta del Regno, perchè si diminuirebbe la spesa, et consequenter si potria più in durarla, et mandarvi ad ogni modo 3000 Svizzeri infra loro.
El Sanga è partito questa sera per Angliterra, et domane o l'altro sarà qui el Batoniense[636] per quella Maestà, per tractare ecc.
[454]
Crederrei, non havendo a sforzare più el castello, nè l'Hispagnoli volendo uscire in campagna, ma starsi drento, si potessi fare senza levare più Svizzeri, che porton con loro spesa infinita; et bastassino quelli havete, perchè li troppi, mutinando loro come sogliono dal decto al facto, vi potrien rovinare; et questo rispiarmio vi faria soportare la guerra più tempo.
Ex Ambuosa. Augusti XIII M.D.XXVI.
Reverendissime Domine ac Magnifice Vir. .... Di poi tucti questi ragionamenti Monsignor d'Aultrech mi disse, per parte del Re et di tucti loro, che la Sanctità di Nostro Signore pensassi a questo accordo del Duca di Ferrara, perchè importava el tucto, et conoscevon bene ch'el non haver hauto et non haver un capo di reputatione rovinerebbe questa impresa, perchè lor sapevon certo che li capitani del Papa non eron d'accordo, et si trovavon in gran contentione, et l'inimici se ne trovavon lieti, et procedevono le cose con poca reputatione, et che di tucto questo male era causa non haver capo che sia stimato da tucti, et che le cose del Papa eron ridocte in termine, che l'honor di Sua Sanctità non consisteva nè in Modena nè in Reggio, ma liene andava tucto lo Stato della Chiesa et di Firentie, et che quando vinca, sarà più honorato et più glorioso, che fussi mai pontefice; nè lo havere un poco abassato el grado suo per vincere, li sarà imputato se non a prudentia et a maggior laude. Et che per questo lor col Re insieme sarieno d'opinione, che Sua Sanctità non indugiassi più et si lasciassi un poco ingannare,[639] perchè sarà causa d'intronare et confondere l'inimici sua et assicurarsi la victoria in mano. Et quando Sua Beatitudine stia pure dura, pensi ch'el Duca non sia per star suspeso, [455] ma o secreto o palese farà tal guerra che ruinerà tutti li disegni della Lega. Et con tanta instantia ne parlorno tutti, che si vede temono grandemente et de danari et delle forze sua, et dicono che, accordandosi Sua Sanctità a fare composition con lui et farlo capo generale, unisce tucta Italia, et se ne può servire et all'impresa del Regno et a quella di Lombardia dove meglio li paressi, et expressamente dicono questo caso non essere bene inteso.
Havendo anchora parlato a Madama[640] con l'homo del Duca di Melano, Sua Excellentia mi tirò da parte et mi dixe: provedete al vostro campo, che noi intendiamo che sono in gran divisione et ne potria succedere qualche gran disordine, et di poi ch'el Re l'ha inteso, ne stiamo di malissima voglia et con gran paura, et di tucto è causa el non haver accordato el Duca di Ferrara. Io li dixi non era restato dal Papa, che con suo dishonore si reduceva a contentarlo. Resposemi: faccisi che accordo si vuole, el Papa non può haverci vergogna, perchè l'importa tanto che la necessità lo excuserà, et se vincereno, el Duca li sarà o voglia o no vasallo, et perdendo li sarà patrone: pregate el Papa che per l'amor di Dio si lasci ingannare, et serri li occhi, et faccilo suo amico, et non risparmi a niente, che ogni pacto è ben fare per vincere questa guerra, che se ne porta et Sua Sanctità et Italia et Francia et ogni altra cosa....
Ex Ambuosa. Augusti XXIII — Tenuta alli XXV.[641]
Reverendissime Domine ac Magnifice Vir etc. Fu l'ultima mia delli VIII, et la mandai a Lione con ordine si mandassi per mano del Marchese di Saluzo in campo, non sendo anchora assicurato s'el camino di Saona sia aperto, come credo doverrà essere [456] in breve. Ordinai per quello spaccio a Lione, che per via di Svizzeri fussin mandati in campo mille D., che restavono in su Salviati, della seconda paga, et 3387, che mi hanno costor dati qui per resto della prima, che per un disordine d'una cedola, eron sopratenuti da chi li haveva in mano, per non li pagar dua volte: nè resposi per quella alle de XV, XVIII, et XXX, per non haver hauto tempo; et di poi comparson le de XX, et se la memoria non mi inganna, responderò per la presente a quelle parte che sarà necessario. Ma avanti che parli di decte lettere, seguiterò di significare a Vostre Signorie quello che per l'ultime harrei decto, s'el tempo non mi fussi mancato.
E si truova qui in corte uno Spagnolo di Burgos, homo a casa sua di bon conto et ricco et molto pratico et svegliato in le cose del mondo, et che già in le sublevatione delle comunità d'Hispagna, molto si travagliò contro l'Imperatore, et anchora oggi tiene el medesimo veneno in corpo. Trovasi qui per certe robe li furon già tolte, et è drieto alla recuperatione di che ne ha hauto le sententie, ma per la exequtione li pare essere soprafacto et stratiato. Questo tale ha gran familiarità antiqua col Secretario veneto, per esser suto alloggiato in Hispagna in casa sua, et ne ha buona notitia, col quale sendosi assai doluto, non potere havere expeditione del suo negotio, li ha più volte decto: s'el Re mi facessi expedire, io sarei huomo per poter fare anchora io a Sua Maestà qualche servitio, et tale che non li pareria haver perso el benefitio mi facessi, et havendoli più volte accennato d'haver qualche notitia d'importantia per conto della Lega, è parso al Secretario di restringerlo più avanti et trarne qualche costructo, et havendoli promesso che, se vuole più particularmente allargar l'animo suo, farà opera insieme con meco di farlo expedire. Et tandem per ridursi in brevità, ha facto far sacramento al Vinitiano di non conferire se non al Re proprio et a Rubertet et a me quanto li dirà. Et così li ha aperto saper con certa et sicura notitia, che la Maestà Cesarea dà voce di preparare l'armata, per mandare el Vicerè in Italia con VIII mila fanti, ma re vera la prepara per la persona sua, per dar qui a Natale, una volta et non prima, per non poter se non a tal tempo esser in ordine. Et disegna di menare XVIII mila fanti et 2000 cavalli utili, et [457] menare con seco Madama Leonora[644] et darla a Borbona col ducato di Melano, et de dua figlioli del Re menare seco el Delphino, per non lesciarli ambodua in Spagna, et in un tempo medesimo far passar l'arciduca con un'altra banda, sperando che l'exercito di Melano si mantenga et conservi insino a quel tempo, et disegna et pensa subito allo arrivar suo venire verso Roma, et forzare el Papa, et farlo calare alle voglie sua, et così la Toscana tucta, et di lì venire in Lombardia, et con l'exercito vi ha, et con l'Arciduca ridurre e Vinitiani ad ogni accordo et compositione vorrà Sua Maestà; et composto le cose d'Italia secondo lo arbitrio suo, el che spera li sarà facile per questa via, entrare dipoi in Francia con tucto quello exercito victorioso et apto ad ogni grande intrapresa, et sfogarsi con questa Maestà di tucte le iniurie et offese facteli da quella. Et per condurre tale effecto, ha provisto in Fiandra, per quel tempo, 160 D. all'Arciduca; et per la sua passata fa tucte le provisione di danari che può, et spera dal Re di Portogallo valersi di qualche somma. Et la dilatione insino a Natale è per non poter prima essere in ordine, et perchè, sendo nel core del verno, el Re non possa offenderlo in Hispagna. La notitia di queste pratiche, questo Spagnolo monstra di trarla dall'oratore di Cesare che è qui, in casa del quale lui si torna, et per havere decto oratore obligo particulare con lui, per conto di servitio di danari, et per essere epso homo molto sagace et advertito, li trahe di corpo tucto quello che ha di Spagna, et quello che di là scrive.
Hauto che habbiamo questa notitia, ne andamo avanthieri dal Re, et postoli in secreto tucto questo ritracto, et dectoli la qualità dello Spagnolo, et donde ne trahe questi disegni, et ad che fine et con che sperantia si allarga, et che promette, quando sia expedito, di far molti altri servitii et ritracti d'Hispagna, Sua Maestà subito monstrò conoscere la persona per haverli parlato del caso suo, et ci dixe: questa cosa non è senza fondamento, perchè dal mio ambassatore sono avisato per le lettere hebbi a questi giorni, che molti erono di opinione che l'Imperatore volessi passare in Italia per di qua a martio, et [458] che queste provisione de navilii raccoglieva, non era per altro, nè io per non lo scriver per certo, lo credevo nè vi adgiustavo fede; ma vedendo di presente un tal riscontro, lo voglio credere et pensare che sia vero. Et però circa el caso dello Spagnolo, ordinate facci motto a Rubertet, che harà in mano la sua expeditione; ma acciò ce ne serviamo in altri servitii, li dite che stia sicuro, che quando ci vorrà dare dell'altre notitie, non solo harà la sua expeditione, ma li renderò tal premio che si terrà contento di me. Et quanto alla passata dell'Imperatore, io credo sia per farlo, ma noi anchora non ci stareno. Però fate intendere et scrivete al Papa et alla Signoria, che io son deliberato, se l'Imperatore piglia un tal partito, di venire anchora io in Italia con XXX mila fanti, et non lasciare un paggio in Francia, che possa cavalcare armato, che io non lo meni, che mi voglio sgannare ad ogni modo con lui: et in questo molto copiosamente ne parlò di venire al sicuro, all'incontro di lui. Et di poi subiunse: ma quando el Papa et la Signoria, venendo io in Italia et vincendo, havessin sospecto della grandezza et forze mia, io lascerò el venire in Italia, et entrerrò in Spagna con una tal banda che vi ho decto. Et però scrivete che divisino et consultino intra tanto che viene questo tempo, quel che par loro ch'io facci, quando l'Imperatore vengha in Italia, et qual partito di questi dua debbo pigliare, perchè voglio ne deliberi el Papa et la Signoria, et parendo lor meglio io venga in Italia, io verrò, parendo meglio io entri in Hispagna, io vi entrerrò con tante forze che lo farò voltare l'animo a casa sua.
Però Sua Sanctità ne responda in questa parte lo animo suo, perchè quando pure in tal disegno andassi avanti, io credo che Sua Maestà non mancherà di prendere un de dua partiti; ma non lo sentendo riscaldare, non credo già sia per far molta impresa di qua insino a tempo nuovo. Credo bene, venuta sarà l'intimatione, romperà la guerra; ma non sarà se non guerra guerriabile da tener in traveglio tucte le marcie, et dar pure et spesa et suspitione all'Imperatore. Et di poi hieri questi signori del Consiglio mi hanno afermato ch'el Re ha commisso loro, che quando l'Imperatore pure passassi in Italia, facci d'havere un fondo di danari da potere fare una tale impresa, et vadin disegnando li assegnamenti donde trarli.
[459]
Respondendo alla lettera de' XV, dico che ho parlato al Re del far venire el signor Rentio,[645] et Sua Maestà lo aprova molto; ma non crede già venga senza haver conditione o qualche carica et grado, perchè, venendo costì nudo et col nome solo, come huomo del Re, non crede vogli venire, nondimeno ha mandato per lui, che si trova a Parigi, et sarà qui intra 4 o 6 giorni; ma credo si andrà pensando a darli qualche altro loco da non far men proficto che venir costì, come di sotto si dirà.
Quanto all'impresa del Regno, dico ch'el Re la vorria fare ad ogni modo; ma del mettere costì XXXX mila D. a un tracto, non ci veggo disegno, per haverne rimessi XX mila, che sono a Lione in man nostre per questo conto, et di mano in mano vi metteranno el resto, quando si facci per la lor portione. Ma insino non se li è dato principio, et veduto chi ne debba essere capo, et con che ordine, et la cosa in essere, non pare si possino gravare di tanto sborso, perchè so che hanno delle difficoltà a far per hora danari, et si son tracti a questi dì molte somme di mano, che hanno mandato 40 mila D., tra Svizeri et Grigioni, per le pensione, 40 mila per la nuova armata, et a noi le paghe del campo, et XX mila rimessi costì, et hora la tertia paga; et in su le marcie intratengono molti fanti et spese, che ne son gravati molto. Però bisogna fare e conti et disegni in modo possino riuscire, et da altro canto scrivendo Vostre Signorie le necessità in che si trova el Papa, et la penuria et difficultà che ha di sostenere la guerra di Lombardia, non so come si possa concorrere o far nuova impresa verso el Reame, perchè sendo per cadere di quella che è la principale, el tentare nuove et maggiori spese mi pare si contradica, non potendo metter la sua portione. Adeo che volendo fare decta impresa, non conosco si possa fare se non per mano del Re, la più parte col darli decto Regno per un suo figliolo, el che non ho anchora tentato a mio modo, per non haver saputo discernere per le vostre lettere dove più inclinassi Nostro Signore, o darli lo stato di Melano o quel del Regno, non volendo, come è ragione, habbi se non un de dua. Perchè io sarei suto d'opinione, che più presto se li dessi quel del Regno che [460] quel di Lombardia, et le ragioni che mi muovono son molte. Prima mi pare gran dishonore di Nostro Signore, lo haver facto una impresa tanto honorevole, per conservare el Duca in quello stato, et unitosi per tale effecto con le prime potentie del mondo, et in termini di tre mesi abandonarsi et mutare animo; dipoi, havendo la Excellentia del Duca soportato octo mesi l'obsidione, con tanti stenti et disagi, per servare la fede a Sua Sanctità, non veggo senza denigrare el nome suo et senza imputatione d'ingratitudine, possa non solo abandonarlo, ma consentire venga in altri lo stato et le fatiche sua. Movemi anchora che, quamprimum l'Hinghilese si sarà accorto ch'el Christianissimo habbi facto impresa per insignorirsi di quello stato, non entrerrà nella Lega, et se vi sarà entrato, per tenersi ingannato si rivolterà subito, et di amico diventerà inimico, et potria con l'Imperatore insieme dar tanto da fare al Re di qua, che con le difese facessino l'Hispagnoli in Italia, non ne potria seguire lo effecto che si disegnerebbe, et ci troverremo in peggior termine che prima.
Nè oltre a questo io mi posso persuadere che, quando bene hoggi el Re movessi le forze sua per cacciare l'Hispagnoli di Lombardia, potessi fare altri effecti che si facci hoggi l'exercito che vi si trova di presente. Ultra hoc è da credere, che subito venissi in notitia di costà, lo stato di Lombardia essersi concesso al Re, el Duca di Melano se ne andria da l'Hispagnoli, et con loro capitolerebbe el meglio potessi, quando bene per vendicarsi conoscessi non li volessino dare lo stato, et con lui tucti e Ghibellini s'accorderebbono con l'Hispagnoli, et quel medesimo farieno e Guelphi, per tenersi malcontenti dei Franzesi, come di già buona parte di loro hanno cominciato ad accordarsi con Borbon.
Le ragion che mi portono al concedere più presto el regno di Napoli, sono che, conoscendosi la guerra di Lombardia non si possere ultimare se non per via di diversione in decto Regno, et el Papa non potere concorrere alla parte sua, et non potersi movere e populi et baroni, senza un capo di reputatione, et senza vedersi in chi debba cadere el Regno, però essere necessario eleggere Sua Maestà per principe, o un suo figliolo el quale havessi a dar el capo et soportare la più parte delle spese. Dipoi, havendo da desiderare che li stranieri [461] non habbino più che fare in Italia, el modo mi pare el metter lì un principe, che habbi col tempo a diventare italiano, el che è forza succeda per la distantia del paese di qua, et la intersecatione delli stati si trovono in quel mezzo, e quali lo aiuterebbono conservare, ma non lo comporterebbono sublevare più alto ch'el grado suo. Ultra hoc mi par per l'Italiani più sicuro che l'altro partito, non potendo di qua mandarvi più forze si havessino, senza consenso delli altri Italiani. Et quanto alla facilità della impresa, mi vi pare poca differentia, per la mutatione de' baroni, et per non vi haver guardie o gente d'arme, et in questo modo non si perde amici, non si offende el Duca, nè se li manca di fede, nè l'Inghilese ne ha da tener conto, potendo el Papa dare el suo a chi vuole, et fassi la guerra in casa de l'inimico suo. Et in questa opinione so che li Vinitiani più presto concorrono che in l'altra: et però, havendo anchora qualche odore che l'animo del Re più volentieri inclina a questo, per parerli meno offender la Lega, per la promessa data al Duca, et per potersi excusare di havere acceptato un presente da chi ne è patrone, mi sono resoluto intra dua giorni toccarne fondo, parendomi ch'el tempo ci porti et ci consumi....
D'Ambuosa. Die xj ..... M.D.XXVI.
.... Dua giorni sono ci furon lettere d'Hispagna come li oratori confederati havevon facto la requisitione a Cesare per la restitutione de figlioli del Re, come dicono e capituli, et ricercola (sic) dovessi entrare in la Lega etc. Sua Maestà Cesarea havea resposto non volere entrarvi, per essere facta contro di lui, et prima voler soportare che tucto l'imperio suo ruini pietra sopra pietra, che essere facto andar per forza; ma quando si habbi a far pace universale, sarà trovata tanto ardente a farla contro [462] l'infedeli et contro li heretici, quanto nessun altro. Dipoi l'altro giorno feciono chiamare in Consiglio l'orator franzese, et li usurno molto benigne parole humane, et li domandorno, se haveva el mandato da poter concordare con quella Maestà Cesarea la restitutione de figlioli, che havendolo, troverrebbe tal riscontro in Sua Maestà, ch'el Christianissimo si contenterà delle conditione et pacti da che non li era parso di observare la capitulation di Madrit. L'orator del Christianissimo respose, che loro respondevon molto ambiguamente alla proposition facta dalli confederati, et che lui havea commissione di non tractare con Cesare alchuna cosa senza li oratori confederati et senza che prima acceptassi lo entrare nella Lega; et però era necessario respondere prima a quella parte, et quando sarà entrata in la Lega con li capituli contenuti, potrà far venire el mandato per tractar de particulari de figlioli del Re. Et haria voluto decto ambasciatore, ch'el Nuntio et el Vinitiano insieme con lui havessino pronuntiato la guerra offensiva all'Imperatore, come dicono li capituli; ma loro non lo hanno voluto fare, et hanno facto un grande errore, et costoro molto se ne dolgono, et hanno ragione; et io ho paura che non sia causa di fare ritardare el mover guerra di qua. Parmi che quello oratore sia proceduto con gran fede et prudentia, et così costoro, che subito ci hanno conferito le lettere, et non voglion respondere se non quanto resolveren con loro di comunicato parere, per responder conforme ciaschuno alli sua oratori. Però Vostra Signoria non dubiti della fede di costoro, che per tucti e segni veggo vanno a buon camino, nè consiste el mal nostro et loro, se non nella longura et tardità, et nel non voler pensieri. Ho lettere dal Nuntio d'Hispagna sopra questo, ma son tanto nude che è una vergogna.
Quanto al romper di qua, dua giorni sono, importunando noi el Re, mi disse che sicuramente io scrivessi al Papa, ch'era deliberato di presente romper di qua la guerra; et in nostra presentia commisse a Lautrec, che ha il governo di Ghienna, et a Monsignor di Vendome, che ha quel di Piccardia, che subito commettessin alli loro substituti in quelle provincie, che facessin ritirar li mercanti loro, et facessin cavalcare le gente d'arme in sul territorio dell'Imperatore, et romper la guerra, la quale non sarà da uscire in campagna, ma da tenere in travaglio [463] et spesa quelle provincie di Cesare, et da conoscere ch'el Christianissimo lo tien per inimico.
Dell'armata d'Hispagna intendiamo che si va solicitando, et Domenico Canigiani mi scrive, che debba essere per tucto questo mese almeno in ordine. Ma l'orator franzese la mette più tarda, et monstra che va lentamente o per falta di danari o per altra causa, una volta alli XXX el Vicerè era anchora in corte. Altro non ho che dire. Bene vale.
Da Bles. Die XXIIII Septembris M.D.XXVI.
.... Quanto alla pace che propone la Maestà Cesarea, per non parerli honorevole entrare in una Lega dove non sia nominata principale, siamo rimasi questa Maestà Christianissima et el Venitiano et io, che pongasi qual nome si voglia, non si debba recusare lo accordo, quando vogli le conditione honeste et sicure, perchè ciaschuno ha l'intentione tanto inclinata alla pace quanto saprà pensare Sua Maestà, nè si è venuto alla guerra, se non per venire alla pace, et per la sua sicurtà; nè è nessuno che vogli dall'Imperatore, se non la sua salute propria et la restitutione de figlioli del Re con taglia ragionevole. Et a causa che Vostra Signoria possa certificare quella Maestà del buono animo del Papa et delli altri, quella li può far fede che io ho el potere et mandato di concludere pace et fare accordo con Sua Maestà, per la parte di Nostro Signore, et questo medesimo ha qui el Vinitiano; et che quando Sua Maestà Cesarea comincerà a mostrare lo animo et apetito suo essere di venire effectualmente ad compositione, troverrà in Sua Sanctità et li altri tanto riscontro che se contenterà. Et pertanto insieme con li altri o di comunicato consiglio et parere, perchè senza scientia di tucti non si debba praticare alchuna cosa, Vostre Signorie possono di nuovo parlare alla Maestà Cesarea, [464] et ritornare in su li ragionamenti che ha proposto della pace, et cominciare ad intendere l'animo di Sua Maestà, et restringere el negotio in qualche forma di capitulatione, et mandarla qui; et quando si vegga domandi honeste conventione, in pochi giorni si potria concludere, perchè quando bisognassi, per honorarne Sua Maestà, concluderla, li potremo substituire el potere che habbiamo, in Vostra Signoria et nel Vinitiano. Saremo bene d'opinione che, sendo li confederati della sorte che sono, et intra loro Nostro Signore, capo di tucti e Christiani, per honore di Sua Sanctità, non si tractassi in casa l'inimici, et per essere el cammino di Roma lungo, et perder men tempo, potrebbe Sua Maestà mandare qui l'intentione sua al suo ambassatore, et con epsa el potere di tractare et concludere. Però Vostra Signoria con li altri insieme si certifichino della mente sua, et trovandola purgata di simulatione, la tirino avanti senza perdere tempo, che a Nostro Signore non potrà fare cosa più grata.
Più giorni sono ci furono di varii luoghi avisi securissimi et certi, ch'el Turcho si trovava in persona di qua dal Savo[650] con 200 mila huomini in campagna, et per el Danubio grandissimo numero di navilii non molto grandi, ma pieni di gente et munitione, et andava continue acquistando paese, et ch'el re d'Ungheria havea messo insieme 40 mila huomini de sua, et xx mila Boemi, et andava all'incontro di loro. Dipoi quattro giorni sono, per via di Svizeri, ci son nuove certe et con riscontro di più luoghi di Alamagna, che l'exercito unghero era suto disfacto, et morto XXX mila persone, et la persona del Re annegata in un fiume, nel fuggire, et la Regina essersi fuggita verso Vienna, et li Turchi venire alla volta di Buda, dove eron presso LX miglia, adeo che quel reame si può dire ruinato et perduto, et Dio vogli el fuoco non venga più avanti. Lo Ill.mo Arciduca, con una banda di Alemanni, che haveva preparato per mandare in Italia, havea mutato fantasia, et era andato verso Vienna, per tenere quelli popoli confortati et fermi. Quando non fussi mai altra cosa che dovessi movere quella Maestà Cesarea a pensare alla pace, questo caso miserabile lo doverria movere, perchè l'honore di Sua Maestà per el titulo che tiene, et per essere Christiano, pare che ne lo [465] stringa. Dipoi la vendetta del suo cognato et el periculo dello Stato suo d'Austria lo debba non meno movere che l'altre cose, et a causa lo possi fare più volentieri, questa Maestà Christianissima ha chiamato l'oratore di Sua Maestà Cesarea, et in presentia nostra con molte parole benigne et humane, qual si conviene a l'uno et l'altro principe, si è doluto di questo accidente miserando, et confortatolo che scriva a Sua Maestà Cesarea, che sia contenta per el bene della Christianità, voltare la mente alla pace, et risparmiare el sangue de Christiani, per servarlo contro all'infedeli; et che si offera parato per tale effecto a far pace, non per paura, ma per zelo della religione christiana, con le honeste conditione saprà domandare; et quando la vogli fare, si offera andare in persona con quella banda di gente che vorrà Sua Maestà; et non la volendo, se n'excuserà con tucto el mondo, et sarà la colpa imputata a quella di haver lasciato perder tanto miseramente la fede di Christo; però non haver voluto mancare di scaricarne la sua conscientia, et offerirli la pace per far questo bene. Noi replicamo et offerimo el medesimo, in nome del Papa et della Signoria, el Vinitiano et io, et se li dette licentia spacciassi una posta per tale effecto.
In Lombardia si va drieto alla expugnation di Cremona, dove si trova el Duca d'Urbino con XIIII mila fanti, gente d'arme et 3000 guastatori et artiglierie et instrumenti assai, per minare muraglie; ma tucta la forza è nelle zappe, per raguagliare le trincee dell'inimici, e quali si aiutono valorosamente; ma s'intende non possono defenderla, per esser pochi, et molti malati, et ne stiamo con optima sperantia in brevi di haverne la fine. Quando sarà expedita quella impresa, si manderà X mila fanti a Genova per terra, perchè per mare si può male sforzare; et a Melano si faranno dua campi, et si tiene che, vinta l'impresa di Cremona, non sono per tenersi in Melano, ma ritirarsi a Pavia et Alexandria, per expectare el soccorso di Alamagna, che horamai non può venire; et in Melano patono di molte cose necessarie, et vi sono gran numero di Spagnoli malati, per continue guardie et fatiche, et a questi giorni si è facto una scaramuccia, dove è suto ferito el Marchese del Guasto, et morti molti dell'inimici, et li nostri si sono in modo fortificati nel campo, che son più forti che li di drento....
Da Bles. Die XXVIII Septembris M.D.XXVI.
[466]
Magnifico Signor Locotenente. L'ultima mia fu alli 24 passato, et li significai per epsa quanto ci havevo per la notitia di Vostra Signoria, et la resolutione del Sanga, et la resposta della intimatione facta per li oratori confederati da la Maestà Cesarea. Dipoi comparson le de X et XIII di Vostra Signoria, con el disegno di Cremona et la lettera del Machiavello,[653] che di tucto ne ho facto quel capitale che è suto necessario, et conferito et monstro alla Maestà del Re, che ne prese gran piacere, et molto vi passò su tempo per un pezzo.
È di poi venuta la miserabil novella dello inganno et tradimento de Colomnesi verso la persona di Nostro Signore, et della rapina et sacrilegio delle cose sacre, et rubamento di San Pietro, a quibus Gothi et Vandali abstinuerunt. Questo caso ha facto maravigliare ogn'homo et restare stupido di tanta sceleratezza et iniquità, perchè vi si vede acompagnate tante diaboliche intentione, che si debba presumere et tener per certo, che li lor tristi pensieri erono di non perdonare alla vita di Nostro Signore. Arrivato la nuova et narrato el caso alla Maestà del Re, restò stupefacto et attonito, et monstrò tanto risentirsene quanto meritava un tal caso; et subito entramo in Consiglio, dove si divisò tucto quello si dovessi fare....
Da Busansi. Die III octobris 1526.
.... Lunedì mattina, che fu el primo del presente, comparson le lettere, una de XX di messer Iacopo, contenente la causa [467] della venuta di Langes, et un'altra del signor Datario con la miserabil nuova dello impudente tradimento dei signori Columnesi, el quale ha hauto in sè tucte le qualità si posson pensare per uno inganno scelerato, perchè sendo machinato con la perversa intentione di non perdonare alla vita di Nostro Signore, come si debba pensare, sendo accompagnato con la rapina delle robe di Palazzo et di tanti signori innocentissimi, con sacrilegio et rubamento delle cose sacre et con lo spoglio delle reliquie de martyri, si può dire che habbino adempiuto tucti e gradi di una nephanda et scelerata iniquità. Non replicherò quanto io restassi attonito et smarrito in su tal nova, per non saperlo exprimere; ma lecto le lettere, et trovandosi el Re levato da Ciambort et venuto la sera a Busansi, X leghe lontano da Bles, dove ero per ordine del Gran Cancelliere; et ha vendo a diciferare molte carte, et dubitando che qualche altro aviso non ne fussi dato al Re avanti al mio, presi partito, in mentre diciferavo et che spacciavo con la nuova del caso in Angliterra, mandare messer Lorentio Toscano, che è quel servitore di Nostro Signore, che sanno Vostre Signorie, alla Corte, in poste, per fare al Re noto tale iniquità et iniuria facta contro la persona di Nostro Signore et delle cose sacre. Et però sendo lui arrivato et trovato Sua Maestà a caccia, li expose per mia parte la perfidia et impietà del cardinale Columna et altri di casa sua, infame per tucti li seculi; et exaggerando et agravando efficacemente el caso, come si conveniva, mosse Sua Maestà grandemente, in su la prima expositione, come da lui Vostre Signorie per una sua potranno vedere. Di poi hiermattina arrivai qui a mezzo giorno, et trovai Sua Maestà mi expectava con desiderio; et intromesso da quella, li replicai di nuovo el contenuto della lettera, con quelle più impressive parole che potessi, per farli conoscere la iniquità del caso. Sua Maestà monstrò havere preso in lo animo suo grandissima perturbatione et maraviglia, et dixe: questo è un terribile et uno strano caso, che li Turchi in Ungheria non hanno facto altanto; e Colomnesi tanto nobil casa, sotto la fede et sotto una capitulatione facta pochi giorni avanti, hanno facto una tanta iniquità contro a un Papa et contro le cose sacre. Io vi prometto, che io non la posso soportare, et sono per riconoscere questa iniuria essere suta facta tanto contro di me, quanto [468] contro la persona del Papa, perchè mi si apartiene vendicarla come confederato et come christiano, havendo offeso el Capo de Christiani, sotto la fede et le cose sacre; però andiamo in Consiglio et pensereno quello sia da fare per la sicurtà del Papa et della impresa di Lombardia, la quale dubito se non si provede presto, non vi segua qualche confusione o separatione de campi.
Io replicai che tucto quello si havessi a fare era necessario fare con prestezza et celerità; et subiungendo, dixi: Syre, el Papa fa noto a Vostra Maestà, che non è per uscire della sua voluntà, nè movere un passo senza el consenso di quella; et quanto Vostra Maestà voglia prendere el patrocinio suo et della sede apostolica, come son consueti li antiqui sua, li fo fede che Sua Beatitudine observerà et non observerà, secondo consiglierà la Maestà Vostra, la quale in su tale occasione non debba perdonare a cosa alchuna, per confermare la fede che tiene Sua Sanctità et tucta la Corte di Roma in la Maestà Vostra: quella, et per conoscere la Chiesa di Dio, per la invasione de Turchi, et per la heresi lutherana, et per la iniquità et perversa natura dell'Imperatore andare in ruina, non spera in altro defensore che la Casa di Francia; et però Sua Sanctità ha messo in mano a Vostra Maestà et la guerra et la pace: se vuol continuar la guerra, è necessario prenderla di sorte che si habbi a vincere, perchè noi possiamo vedere per li casi occorsi per man de Colomnesi, dove tenda l'Imperatore; quando anchora parerà a Vostra Maestà di venire a pace universale, come desidera Sua Sanctità, Vostra Maestà la tracti et concluda in quel modo li pare, perchè è tanta la fede ha el Papa in quella, che sa certo Vostra Maestà non volere altro che la conservatione della Chiesa et di Sua Sanctità et della libertà d'Italia; et perchè Sua Sanctità ha preso non minor travaglio et dispiacere della perdita d'Ungheria che della iniuria et ignominia factali da Colomnesi, si è desposta quando sia aprovato da Vostra Maestà, di venire in Francia et in Hispagna et Angliterra in persona, per suplicare a tucti li principi la unione de Christiani et la impresa contro l'infedeli. Sua Maestà et li altri del Consiglio udirno attentamente questo ragionamento, et epsa respose: questa ultima parte è da pensarla bene, perchè si metterebbe assai tempo ad far venire tanto [469] viaggio Sua Sanctità, et forse poi verrebbe in vano; pur venendo l'homo suo che manda, potren tucto divisare; ma per hora pensiamo alla guerra, et che disordine non segua in Lombardia. Et mi domandorno: come credete voi che resti el campo, se le gente del Papa son sute revocate, che ordine et che commissione vi si è dato pel Papa? Io li dixi, che per quanto potevo comprehendere per le lettere del Datario, Sua Sanctità havea ordinato ch'el suo Locotenente con li altri condottieri della Chiesa si ritirassino a Piacentia, ma lasciassino una scelta de migliori in campo, che si nascondessino parte sotto le compagnie del signor Giovanni condottiere di Vostra Maestà, et parte sotto el Marchese di Saluzo, et parte sotto e Vinitiani, in modo che io credevo che lo exercito non si diminuirebbe tanto che facessi debolezza, et maxime hora che le gente di Cremona potevon ritornare in campo. Piacque a Sua Maestà questo disegno et ordine dato; et trovandoci in su tali ragionamenti, sopragiunse el Vinitiano da Bles, con un corri ero che havea portato la nuova dell'hauta di Cremona, che decte tanto conforto a Sua Maestà et a tucti li altri che fu maraviglia....
Die IIII Octobris M.D.XXVI.
Hiermattina ce n'andamo[658] a trovar Sua Maestà, la qual subito inteso lo arrivar nostro, ne venne fuor della camera dove messer Paulo,[659] factoli la prima reverentia, li presentò el Breve di Nostro Signore, et di poi, havendo prima excusato la tardità del suo comparire, respecto alla turbatione del mare grosso, che lo havea sopratenuto molti giorni, li expose ordinatamente la causa della sua venuta; et havendo prima narrato la iniquità et iniuria de Colomnesi et Don Ugo contro la [470] persona di Sua Sanctità, contro la sede apostolica et contro le cose sacre di S. Pietro, et con grande efficacia exposto non solo el facto horrendo et nephando, sed etiam le arrogante parole et minaccie de delinquenti contro a Sua Beatitudine, et exaggerando el caso con molti particulari che non ci eran noti, entrò in excusare molto accomodatamente et con molte ragione el partito preso da Sua Sanctità, in haver consentito la tregua, monstrando la necessità haver indocto quella, per salvar la persona sua, et per fuggire el sacco di Roma, et levare l'arme di mano all'inimici; et fece con molti argumenti capace Sua Maestà, che questa suspensione d'arme di quattro mesi, non era per fare alteratione alchuna, nè dare impedimento, nè nocumento alla impresa, perchè quando Sua Maestà voglia continuare la guerra, come pensava volessi fare, che havea dato tal ordine et commissione nel campo, che questo caso non interromperebbe nessun disegno, perchè, se bene li capi si revocassino, vi restavono sotto el signor Giovanni tucti li sua fanti et molti altri cavalli et homini d'arme: et quando, nel continuar la guerra in nome di Sua Maestà et della Signoria di Venetia, quella si contenti che Sua Sanctità non observi la tregua, come cosa facta per forza et violentemente, che sarà contenta di observarla et non observarla secondo parerà a Sua Maestà, purchè li aiuti et favori di quella si monstrin di sorte presti et gagliardi che Sua Beatitudine si possa rendere sicura di non havere a star più a discretione dell'inimici; el che, quando quella vedrà et conoscerà Sua Maestà volerla vendicare, et riguadagnare l'honore della persona sua et della sede apostolica, Sua Sanctità sarà contenta al romper la tregua, et scoprirsi di nuovo, et impegnare sè medesima per non mancare del debito et honor suo. Ma quando Sua Maestà havessi in animo di aprovare la tregua per qualche suo commodo, et la trovassi utile per el comune proficto, lo haver Sua Sanctità facto la tregua senza participatione, li faceva men dishonore, che se la havessi saputa; et quando anchora Sua Maestà havessi l'animo inclinato alla pace universale, questo partito ne porgeva gran facilità, per possere intra questo tempo con più reposo et più agio praticarla.
.... Havendo Sua Maestà udito messer Paulo attentamente, li respose che alla Sanctità Sua non poteva esser imputata alchuna [471] vergogna o dishonore del caso successo, perch'el tradimento usatoli lo excusava et defendeva, et che l'ingiuria si dovea ben vendicare, et che tucti li principi eron tenuti di aiutarlo et favorirlo, et che per quanto si expectava a Sua Maestà, non era per mancharli nè abandonarlo; et a questo non si obligava nè a poco nè a molto, nè li prometteva più uno particulare che un altro; ma li voleva ben promettere tucto quello che potrà fare, farlo di buona voglia; et in quanto alla tregua, che sapeva bene la prudentia et experientia di Sua Sanctità esser tale, che quello havea facto era suto pensato con buoni respecti et buone consideratione, et che poi la cosa era qui, Sua Maestà el primo dì che li fu noto el caso, havea facto de[li]beratione di continuar la guerra, et havea ordinato et provisto tucto quello che da Langes et da me li era suto narrato; el che pensava per hora dovessi bastare et alla sicurtà di Sua Beatitudine et alla continuatione della guerra in Lombardia; et quando quella voglia mover la guerra nel Reame, lo potrà consultare allo arrivar del signor Renzo, al quale ha dato commissione non esca della voluntà di Sua Sanctità; et tanto più li pareva ch'el Papa potessi rihavere l'animo et andar pensando di vendicarsi, quanto di poi la sua partita da Roma, Cremona si era guadagnata, et li campi di Lombardia fermi et rigiuntosi insieme; et Genova, andandovi gente per terra, come credeva, sperarsi anchora di guadagnarla. Dipoi l'armata d'Hispagna non essere ad ordine a mezzo novembre, come per una carovella mandata a posta, per spiare l'apparato di Cesare, havea nuovamente hauto notitia. A tucte queste apparentie di bene, et cagione da fare ripigliare vigore a Sua Sanctità, si aggiugneva che Sua Maestà dixe che come hieri havea hauto lettere d'Angliterra dal suo ambassatore, che quel Re Serenissimo si era forte perturbato et risentito del sinixtro accidente di Nostro Signore, et havea decto volerlo subvenire per hora di XXV o 30 mila D., et aiutarlo et favorirlo caldamente, el che, quando facessi, credeva che si ridurrebbe l'Imperatore a quello che sarà ragionevole....
Da Orliens. Die XVIII ..... M.D.XXVI.
[472]
.... Li dua disordini et incovenienti mi scrive Vostra Signoria esser sopragiunti, mi pare si possino facilmente reparare, perchè quanto expecta alla revocatione de Svizeri del canton di Berna, più giorni sono el Re ne havea hauto notitia, et subito ne scripse alli sua a Berna, che vi dovessino provedere, et ne fece quella diligentia ne ricorda Vostra Signoria, et parlandone hieri in Consiglio, tucti mi dissono, ch'era suto errore lasciare andare avanti el corriere, perchè ogni dì ne accadrà di questi casi, et che, secretamente o in viaggio o come si potessi, si vorria farli prendere et penderli o nasconderli in galea, perchè simili revocatione nascono da Lutherani in quel Cantone che è diviso, e quali non vorrebbono andassino per la difesa del Papa. Et però el Re ha facto scrivere che Sua Maestà li manda non per defendere el Papa, ma perchè l'Imperatore non si facci patron di Roma, et non doventi grande in modo possa insignorirsi di tucta Italia; et sotto questo colore andranno più volentieri che per aiutare el Papa, et maxime e' Lutherani che sono in quelle compagnie: et però ricorda che di costà si tenga el medesimo colore.
Toccante al caso del signor Giovanni,[662] io ho confortato et pregato el Re, che vogli mandarne Giovanni della Stufa expedito et satisfacto presto, perchè Vostra Signoria mi scrivea ch'el decto signor Giovanni si voleva partire di campo per esser crucciato col Papa, respecto alla differentia del Conte Guido,[663] perchè haria voluto, al partirsi di campo, tucta la compagnia de fanti havea el decto Conte Guido, et perchè anchora vorria dal Papa maggiore provisione che non li dà, era entrato in colera et desperatione, et si voleva partire, nè Sua Sanctità, trovandosi exhausta et senza danari, lo poteva contentare, nè maneggiarlo, [473] per non haver tanta fede o auctorità sopra di lui, che potessi disporlo alle voglie sua, per la sua fiera et stemperata natura, et però non ci restare altri che Sua Maestà, che lo possi piegare o rattenere, per esserli gran servitore et molto deliberato a non uscire della voluntà di quella. Sua Maestà ha monstro conoscere benissimo la natura sua et la ha ripresa in modo che, quando pur si partissi, non credo si facessi imputatione a Nostro Signore, ma bene si faria perdita grande, per restar l'exercito nostro come una conigliera senza lui. Et veramente el Re lo tiene per tale quale è, et mirabilmente lo loda, et s'el signor Giovanni ha patientia ad sapere comportare la lungheza di costoro, è per trarne non solamente la pensione, sed etiam qualche Stato et recompensa del servitio suo. Ha ordinato Sua Maestà pagarli 3000 D. per hora, et di tempo in tempo le sua pensione; et Giovanni se ne torna expedito con li decti 3000, et credo el Signore doverrà contentarsi per hora di questo, et restare in campo, come li scrive el Re, che molto li pareria strana la sua partita, et se la fortuna non ha deliberato di ruinare Italia, et lui et li altri doverrien pensare di fare el debito loro, che non so se nasce da mal governo o dalla mala sorte nostra, che ogni dì ci surgon nuovi rampolli di scandali et disordini, et non pare che le cose si possino indirizare a buon camino, et che non ci sia intelligentia della mente l'un dell'altro, nè li capitani di mare sanno quello voglino fare quelli di terra, nè quelli di terra che debbino fare quelli di mare. Da ogni banda s'intende Genova non potere sostenersi, nè mancare da altro che dal non mandare a romper le strade per terra, nè per anchora s'intende farsi in campo alchuna resolutione, et così si consuma el tempo et li denari, et l'inimici che vivono di sogni, si fanno gloriosi per la nostra dapocaggine et per la confusione di noi medesimi.
El signor Giovanni domanda al Re dua cose per Giovanni Della Stufa, l'una la subventione de danari, la quale si è expedita come di sopra si dice; l'altra, che Sua Signoria vorrebe la condocta in sino alla somma di VI mila fanti della Lega; et perchè el Re molto confida nel suo valore et virtù, et si persuade, come è vero, che lui non facci mercantia del soldo, et che tenga l'intera quantità che li è pagata, però vuole che sia compiaciuto, pensando che, havendo una testa gagliarda, sotto [474] di lui sia per fare ogni dì qualche factione fructuosa et honore vole, et a tal causa scrive et commette al signor Marchese di Saluzo et al proveditore Vinitiano, che oltre alli 4000 fanti ch'el Papa li paga, se liene dia insino alla somma di VI mila, a comune spese; et a me ha commisso io ne scriva el medesimo a Vostra Signoria, acciò s'intenda con li sopradecti di sorte che ne segua tale effecto, perchè molto iudica importare alla Lega el tener contento el signor Giovanni.
Et però io per sua parte fo noto a Vostra Signoria questa sua intentione, la qual credo, senza accrescimento di spesa a Nostro Signore, si possa mettere ad effecto col diminuire la compagnia del Conte Guido, non sendo necessario a tener a guardia delle terre di Piacentia et altri luoghi però molta gente, non sendo l'inimici tanti che possino uscire delle mura, non che assaltare altri. Et quando la Signoria vorrà concorrere a questa parte del suo accrescimento, che non è molto, si farà una testa da sostenere ogni gran piena, et saria pure necessario, andandone a tucti l'ultimo resto et l'ultima ruina di tucto el mondo, spendere el nostro et metter le arme in mano ad chi sappi et voglia defenderci, et ad chi le sappi adoperare, et lasciare le spetieltà et favori da canto, che è pur gran cosa rimettere lo Stato suo in soldati che faccino mercantia del soldo, et in gente che non sappin far quell'arte, et se li dia loro condocta, per far loro quello honore et non perchè sappin far l'arte....
Lettera di Guido Machiavelli a suo padre Niccolò. Firenze, 17 aprile 1527.[664]
Ihs
Honorando Padre, salute etc. Per dare risposta alla vostra dei ij d'aprile, per la quale intendiamo voi esser sano, che Idio ne sia laudato, et a lui piaccia mantenervi.
[475]
Non vi si scripse di Totto, per non l'avere ancora riscoso; ma intendiamo dal balio, non esser ancora guarito degli ochi; ma dice, va tutta via migliorando; sì che statene di buona voglia. El mulectino non s'è ancora mandato in Monte Pugliano, per non esser l'erbe ancora rimesse; ma comunche il tempo si ferma, vi si manderà a ugni modo.
Per lectera vostra a mona Marietta intendemo chome havete compero così bella catena alla Baccina, che non fa mai altro che pensare a questa bella catenuza, et pregare Idio per voi, et che vi faccia tornare presto.
A' lanziginec non vi pensiamo più, perchè ci avete promesso di volere esser con esso noi, se nulla fussi. Sì che mona Marietta non à più pensiero.
Vi priegiamo ci scriviate quando i nimici facessino pensiero di venire a' danni nostri, perchè habiamo ancora di molte cose in villa: vino et olio; benchè habiamo condocto quagiù dell'olio venti o venti tre barili; et èvi le lecta. Le qua' cose ci scrivesti, sapessimo dal Sagrino, se lui le voleva in casa, il che lui l'à acceptate. Ve ne priegamo, perchè a condurre tante bazice a Santo Cassiano, bisognia dua over tre dì di tempo.
Noi siamo tutti sani, et io mi sento benissimo, et comincierò questa Pasqua, quanto Baccio sia guarito, a sonare et cantare et fare contra punto a tre. Et se l'uno et l'altro istarà sano, spero tra un mese potere fare sanza lui: ch'a Dio piaccia. Della gramatica io entro oggi a' participii; et àmmi lecto ser Luca quasi il primo di Ovidio Metamorphoseos: el quale vi voglio, comunche voi siate tornato, dire tutto a mente. Mona Marietta si raccomanda a voi, et vi manda 2 camicie, 2 sciugatoi, 2 berrettini, 3 paia di calcetti, et 4 fazoletti. Et vi prega torniate presto, et noi tutti insieme. Christo vi guardi, et in prosperità vi mantenga.
Di Firenze, a' dì 17 d'aprile MDXXVII.
Vostro Guido Machiavelli, in Firenze.
Al suo honorando padre Niccolò
Machiaveglij in Furlì.
In Furlì.
[476]
Documenti relativi alle elezioni di Francesco Tarugi e di Donato Giannotti all'ufficio di primo segretario dei Dieci.
Prefati Domini [Decem] etc. deliberorno, et per lor solenne partito elessono a servire in cancelleria del magistrato loro per lor primo secretario, et in luogo di messer Francesco Tarugi da Montepulciano predefunto, messer Donato di Lionardo Giannotti, cittadino fiorentino, con provisione et salario di fiorini cento larghi d'oro in oro netti, per ciascuno anno; con questo, che detta provisione et salario s'intenda essere cominciata et cominci a' dì 23 di settembre proxime passato, el quale dì cominciò a servire in detto luogo. Et così seguiti etc.
Lorenzo di Phylippozo Gualterotti proveditore ec....
················
Messer Francesco Tarugi[667] da Montepulciano condotto a servire in cancelleria del magistrato loro con provisione di fiorini [477] 200 larghi d'oro in oro netti per ciascuno anno: fiorini 33 d'oro, lire 2. 6. 8 piccioli; sono per suo servito di mesi dua cominciati a' dì x di giugno passato, et finiti per tutto dì 9 d'agosto, el quale dì partì per a Montepulciano, dove morì fra dua giorni. In tutto, alla sopradetta ragione et per detto tempo come di sopra, fiorini 33 d'oro, lire 2. 6. 8 piccioli.
Messer Donato di Lionardo Giannotti, condotto da' prefati Signori X a servire in cancelleria del magistrato loro, in luogo del sopra detto messer Francesco, con provisione di fiorini cento larghi d'oro in oro netti per ciascuno anno: fiorini 21 d'oro, lire 2. 14. 5 piccioli; sono per suo servito alla sopradetta ragione, da' dì 23 di settembre passato, el quale dì fu condocto, a tutto dì 9 del presente. In tutto fiorini 21 d'oro, lire 2. 14. 5 piccioli.
[479]
Come ho già detto, io non sono stato in tempo a valermi dell'opera recentemente pubblicata dal signor Martin Hobohm sul Machiavelli quale scrittore di cose militari, ed istitutore dell'Ordinanza o Milizia fiorentina. Lasciando ora da parte ogni disputa su particolari questioni, io non credo di dover mutare il giudizio generale che ho dato sull'argomento. Trattandosi però di materia speciale e quasi tecnica, sulla quale dovetti richiedere e spesso ho riportato le autorevoli opinioni di ufficiali superiori d'esercito, italiani o stranieri, potrebbe sembrare strano il non dir nulla della opinione di chi più ampiamente di tutti, e con maggiore diligenza, ha trattato il medesimo soggetto. Esporrò quindi brevemente il giudizio dato dall'autore.
La sua opera, scritta dapprima in una forma assai più sommaria, fu premiata dalla Facoltà filosofica di Berlino. Ampliata più tardi, venne pubblicata nel corrente anno (1913) in due grossi volumi.[668] Il primo si occupa dell'Ordinanza, il secondo dell'Arte della Guerra e degli altri scritti militari del Machiavelli. Tutto ciò in relazione con la storia dell'arte e della scienza militare nel Rinascimento, dando continuo ragguaglio delle guerre combattute in Italia a quel tempo. Sotto un certo aspetto l'opera può dirsi un ampio Saggio della Storia militare nei secoli XV e XVI.
L'esame dell'Ordinanza, fin dalla sua origine, e nelle sue varie vicende, è minutissimo. L'autore ne espone il carattere, la formazione, i difetti: spiega le ragioni del nessun resultato pratico che essa ottenne, e doveva, secondo lui, ottenere quando fu messa alla prova. Riconosce che il concetto d'affidare al popolo in arme la difesa dello Stato, in un tempo in cui le compagnie [480] di ventura infestavano l'Italia, fu degno del patriottismo e del genio del Machiavelli. Ma sebbene questi avesse visto, esaminato vari eserciti; sebbene a lui fosse stata affidata la costituzione dell'Ordinanza, egli non era uomo di guerra, non aveva preso parte nè ad una battaglia, nè ad una scaramuccia, non aveva comandato nè un esercito, nè una compagnia. E sebbene anche nei suoi scritti militari apparisca l'originalità del suo genio, essi sono pur sempre il resultato non d'una vera esperienza di guerra, ma del genio e del dilettantismo dell'autore. Nel momento della prova la sua Milizia doveva perciò fare bancarotta (II, 147). È la parola di cui si serve l'autore.
Nel secondo volume, quantunque esso abbia un carattere più generale, si ritorna a parlar dell'Ordinanza, specialmente a proposito di coloro che vollero vedere nel Machiavelli un precursore del servizio militare obbligatorio prussiano. E dimostra quanto da esso differisse l'Ordinanza, la quale, assai diversamente costituita, chiamava sotto le armi una parte sola dei cittadini. Ciò era, dice l'autore, assai pericoloso, perchè dava a questa parte una forza militare e politica preponderante. Se il pericolo non si manifestò, poteva da un momento all'altro manifestarsi. Ma qui potrebbe osservarsi che l'Hobohm non ha tenuto gran conto di un fatto che attenuava allora non poco la gravità del pericolo accennato. La fanteria, che costituiva la parte principalissima e sostanziale dell'Ordinanza, si reclutava nel Contado, nel Distretto, evitando, per quanto era possibile, le grandi città. Ora nei Comuni italiani gli abitanti della campagna erano affatto esclusi dal partecipare alla vita politica, che era confinata quasi esclusivamente nella Città dominante. Nei Consigli, nelle magistrature politiche della Repubblica entravano infatti i soli Fiorentini, anzi una parte sola di essi, i veri e propri cittadini, quelli che avevano, come allora si diceva, gli onori. Il pericolo perciò era assai minore che non sarebbe stato nelle società moderne. Esso infatti non si manifestò mai. Pericoloso pei Fiorentini sarebbe stato invece il dare le armi ad Arezzo, a Pistoia, a Pisa, ad altre città del dominio, pronte sempre a ribellarsi, sempre lacerate dalle fazioni come la stessa Firenze. Questo però non toglie che la vera attuazione del servizio militare obbligatorio non vi era possibile. Esso suppone la costituzione [481] unitaria dello Stato moderno, la quale allora non esisteva.
Non è da credere però che queste considerazioni siano interamente sfuggite a tutti coloro che videro nel Machiavelli un precursore del servizio militare obbligatorio. Essi osservarono la sua persistente avversione alle Compagnie di ventura, la sua ammirazione pei paesi della Svizzera e della Germania, là dove il popolo si esercitava alle armi, ed era pronto alla difesa della patria. Questo egli ammirava anche presso gli antichi Romani, ed era l'esempio che raccomandava a Firenze, all'Italia. In tal senso generico si è potuto vedere qualche somiglianza fra l'Ordinanza, il servizio militare obbligatorio e gli eserciti nazionali, senza che sia possibile negare le molte differenze osservate dall'Hobohm.
Naturalmente là dove la costituzione del Comune presentava ostacoli insuperabili, bisognava deviare, ricorrere a dei ripieghi. Ma è pur vero che il Machiavelli era talmente innamorato del suo concetto fondamentale, che anche così alterato gli pareva perfetto. E quando l'Ordinanza non dette alla prova i resultati che egli se ne aspettava, non volle mai credere che ciò dipendesse dalla poca disciplina, dallo scarso esercizio nell'uso delle armi, da alcun suo intrinseco difetto, ma piuttosto dal non averla saputa attuare nel modo preciso che da lui era stato consigliato.
Il pensiero dominante del Machiavelli, osserva l'Hobohm, era che è necessario sopra tutto avere un forte Stato, e che, per averlo, occorre un forte esercito nazionale. Un tale concetto rispondeva ad un bisogno reale del suo tempo e fa un grande onore al suo patriottismo ed al suo ingegno. Ma egli era un uomo politico e non un uomo di guerra, Staatsmann aber kein Soldat (II, 147). L'arte della guerra era per lui un complemento di quella dello Stato, ed applicava ad essa lo stesso metodo, senza avere la necessaria esperienza militare. Di qui i suoi errori nella teoria e nella pratica.
Egli voleva riformare la scienza militare, valendosi della propria esperienza e di ciò che avevano fatto gli antichi, specialmente i Romani, che erano il suo perenne modello. Ma la sua esperienza militare era poco sicura, ed anche la sua conoscenza degli ordinamenti militari romani era spesso incerta, [482] perchè non sempre riusciva a distinguere con precisione il loro diverso carattere nei diversi periodi della loro storia. Non è quindi da maravigliarsi che, sebbene facesse spesso osservazioni vere e profonde, le sue teorie militari non abbiano lasciato un germe fecondo per l'avvenire, nè siano riuscite a fondare una vera e propria scienza. Egli riconobbe che nel Rinascimento la natura degli eserciti era profondamente mutata da ciò che era stata nel Medio Evo; riconobbe la nuova importanza che in essi aveva assunto la fanteria. Non riconobbe però tutta l'importanza che doveva avere nell'avvenire la polvere da sparo, e le inevitabili conseguenze che doveva portare nella formazione degli eserciti, nella costruzione delle fortezze. Ma con tutto ciò l'Hobohm dichiara ripetutamente che, fra i molti scrittori di cose militari al suo tempo, il Machiavelli fu quello che dimostrò maggiore genio: Am Geist der Grösste (II, 30). Giunto alla fine della sua opera, l'autore, ritornando a parlare dell'Ordinanza, ripete che essa fu un sogno, che non poteva, come il Machiavelli sperava, salvare la patria dalla rovina; ma fu un sogno che lo rese degno della gloria che circonda il suo nome, In magnis voluisse sat est. E queste sono le parole con cui l'opera finisce.
Io non ho qui inteso di far altro che accennare sommariamente il giudizio generale dell'autore. Venire ai più minuti particolari non sarebbe stato opportuno in questa semplice nota.
[483]
Alcune osservazioni sulla Storia d'Italia di F. Guicciardini.
Noi abbiamo assai spesso incontrato il Guicciardini, e ci siamo continuamente giovati della sua Storia d'Italia; ma non ne abbiamo potuto fare un'analisi minuta, perchè ci avrebbe portato troppo in lungo, e perchè l'opera fu scritta assai dopo la morte del Machiavelli. Crediamo però di dover qui prendere in esame le osservazioni fatte dal professore Leopoldo Ranke, per l'importanza che viene ad esse dal nome illustre di chi le fece, e perchè in parte si riferiscono a fatti che noi narrammo, seguendo l'autorità del Guicciardini.
L'insigne storico di Berlino le pubblicò l'anno 1824, nella sua opera giovanile: Zur Kritik neuerer Geschichtschreiber. Allora non erano ancora venute alla luce le Opere inedite del Guicciardini. Ma se, in Italia e fuori, molti credettero di potere da queste cavar nuovo argomento a dimostrare il gran valore della Storia d'Italia, il professore Ranke invece credette trovarvi nuova conferma alle sue critiche, le quali perciò ribadiva l'anno 1874, nella seconda edizione del suo scritto, che egli riproduceva inalterato nella sostanza.
Due sono le principali accuse che in esso si muovono al Guicciardini. Quanto ai fatti di cui non fu parte o testimone oculare, egli, secondo il professore Ranke, copia largamente da altri, senza mai citarli, a segno tale che può non di rado chiamarsi plagiario. Quanto poi ai fatti di cui fu parte o testimone, spesso li narra con negligenza, continuando a copiare da altri; spesso invece li altera a disegno, per attribuire a sè stesso una parte maggiore assai e più onorevole di quella che vi ebbe veramente. Anzi qui appunto le Opere inedite confermerebbero l'accusa fatta dal professore Ranke, perchè, secondo lui, il Guicciardini raccontò nelle sue lettere e nelle legazioni alcuni avvenimenti in un modo assai diverso da ciò che fece poi nella Storia.
[484]
Cominciamo da un fatto che c'importa particolarmente, perchè è fra quelli che abbiamo narrati anche noi. Discorrendo del primo tumulto seguìto a Firenze l'anno 1527, il Guicciardini dice nella Storia, che egli fu autore dell'accordo concluso fra i cittadini assediati in Palazzo e i rappresentanti dei Medici e della Lega. Federigo da Bozzolo era uscito di là, dopo essere stato assai mal ricevuto dai cittadini, ed era perciò deciso a consigliare ai cardinali Passerini, Cibo e Ridolfi di procedere colle armi, essendosi persuaso, che non era punto difficile sforzare il Palazzo. Ma il Guicciardini lo dissuase, facendogli considerare come ciò avrebbe portato un grande spargimento di sangue, cosa che al Papa stesso sarebbe dispiaciuta. Così tornò con Federigo in Palazzo, e riuscirono a concludere un accordo scritto e firmato. Di tutto ciò egli fu prima assai lodato; ma venne poi invece da ambedue le parti accusato. Il popolo disse che il Guicciardini, dimostrando a coloro che erano chiusi in Palazzo il pericolo maggiore che non era, gli aveva, in benefizio dei Medici, indotti a cedere senza necessità. Il cardinal Passerini lo accusò invece di aver pensato più alla vita dei cittadini colà rinchiusi, e massime al fratello gonfaloniere, che all'autorità dei Medici, il cui governo poteva quel giorno essere per sempre assicurato colle armi (Storia d'Italia, vol. IX, lib. XVIII, pagg. 42-44). Ora, osserva qui il professore Ranke, nulla dicono di tutto ciò gli altri storici contemporanei, i quali danno al Guicciardini la parte assai più modesta che veramente gli spetta. I Cardinali e Federigo da Bozzolo furono quelli che vollero evitare l'uso della forza e lo spargimento di sangue. Il Guicciardini fu, come uomo di legge, chiamato solo a mettere in carta i termini dell'accordo. La sua enfatica narrazione è falsa, e viene smentita dall'Apologia dei Cappucci, scritta da Iacopo Pitti (Archivio Storico Italiano, vol. IV, parte II, anno 1843), e dal racconto che, poche ore dopo l'accaduto, il Guicciardini stesso ne faceva al Datario.
Ma quanto al Pitti, che nel 1527 aveva soli otto anni, esso fu un fautore dei Medici e del partito democratico, nemico perciò del Guicciardini, che era degli ottimati, e scrisse quando questi erano caduti in disgrazia del granduca Cosimo, che favoriva allora i democratici. L'Apologia dei Cappucci specialmente fu scritta a difesa dei democratici contro gli ottimati, [485] massime contro il Guicciardini, che aveva perduto ogni favore, e verso di lui essa scaglia accuse d'ogni sorta, alcune delle quali sono così esagerate e goffe, che non mette neppur conto lo smentirle.
Che cosa scrisse poi il Guicciardini al Datario? In una lettera del 26 aprile 1527 (Opere inedite, vol. V, pag. 421), dopo aver narrato il tumulto, dice che il Governo sarebbe stato spacciato, se i tumultuanti, invece di chiudersi in Palazzo, avessero posto mano alle armi. Poi aggiunge, che egli e Federigo da Bozzolo andarono in Palazzo a trattare coi cittadini, «e si fece tanto che, avuto fede che fussi perdonato loro, furono contenti uscirsi di Palazzo, il quale in fatto non potevano difendere; ma mi parse che il posarla con questo modo dolce fussi beneficio della Città e dello Stato, il quale può stare più sicuro del popolo che prima, perchè si è mostrato più da poco che forse non si credeva.» Questa narrazione adunque conferma al Datario che egli, il Guicciardini, credette preferibile l'accordo, e ne fu autore; tace solamente che dovette prima persuadere di ciò Federigo da Bozzolo, a tal fine dicendogli che al Papa stesso sarebbe dispiaciuto lo spargimento di sangue. Ora se si pensa che al Papa invece dispiacque assai l'accordo, e si sarebbe, secondo afferma il Nardi, vendicato aspramente contro i Fiorentini che s'erano sollevati, se non ne fosse allora stato impedito dal sacco di Roma (Storia di Firenze, vol. II, pag. 139-41), si capirà come il Guicciardini non potesse avere nessuna ragione di far conoscere a Roma tutta la parte da lui avuta nel concludere l'accordo, e che il silenzio della sua lettera su questo punto è spiegabilissimo.
Nè si può dire che gli altri storici lo smentiscano, quando, riconoscendo la gran parte che egli ebbe nell'indurre all'accordo, tacciono i particolari di un colloquio che non potevano conoscere, perchè ebbe luogo fra lui e Federigo solamente, ed egli non poteva allora aver voglia di propalarlo. Il Nardi dice che i Cardinali temevano il tumulto, che gli assediati vedevano di non poter resistere, e quindi prestarono orecchio ai ragionamenti dell'accordo, il quale fu concluso, quando vennero in Palazzo prima Federigo da Bozzolo, poi il Guicciardini, che promisero totale oblivione (Storia, vol. II, pagg. 137-39). Il Vettori dice, che il cardinal Ridolfi ed il Guicciardini, volendo [486] evitar l'uso della forza, mandarono in Palazzo Federigo da Bozzolo. Non essendo questi riuscito a nulla, vi tornò col Guicciardini, e conclusero l'accordo. Dopo di che egli, Vettori, fece la scritta della convenzione, la quale fu firmata dai Cardinali, dal duca d'Urbino e da messer Federigo. Questo prova che è falsa invece la narrazione del Pitti, accettata dal Ranke, la quale dice che la scritta fu fatta dal Guicciardini come uomo di legge. Il Nerli accenna il fatto assai brevemente; il Varchi scrisse assai più tardi per commissione dei Medici, e seguì il Pitti. Noi non neghiamo che, nella sua Storia d'Italia, il Guicciardini abbia qualche volta lodato un po' troppo se stesso, e che anche in questo caso adoperi un linguaggio che non è molto modesto. Ci sembra chiaro però che la sua narrazione del tumulto seguito nell'aprile 1527, non è smentita nè dagli altri storici, nè dalla sua lettera, e che non ha nulla d'inverosimile.
Ma v'ha di più. Il racconto dello storico Francesco Guicciardini è sicuramente confermato dal fratello Luigi, quegli appunto che era gonfaloniere di Firenze, e si trovava allora in Palazzo Vecchio, e poteva perciò sapere con certezza come erano andate le cose. Nel principio del secondo libro del suo Sacco di Roma, a pag. 146 (Firenze, Barbèra, 1867), che per qualche tempo fu creduto scritto da Francesco Guicciardini, egli ci dà la stessa narrazione del fatto, il che basterebbe a togliere ogni dubbio, come fu osservato da O. Waltz (Historische Zeitschrift, N. F. Bd. XLII, pagg. 207-16). E si può aggiungere che il 29 aprile 1527, gli Otto di Pratica scrivevano all'Oratore fiorentino in Venezia, «perchè ne sappi il vero appunto», che da principio, quando i fanti si mossero verso il Palazzo, si temettero gravi disordini, «di qualità che debbono di gratia che il Sig. Federico de Bozoli et messer Francesco Guicciardini s'intromettessino di operare che si perdonassi a tutti quelli che erano in Palazzo». (V. Agostino Rossi, Francesco Guicciardini e il Governo fiorentino dal 1527 al 1540. Vol. I, pagg. 16-17. Bologna, Zanichelli, 1896).
Veniamo ora ad un altro fatto, a proposito del quale il professore Ranke ripete le stesse accuse. Nel 1521 i Francesi assalirono Reggio d'Emilia, dove il Guicciardini era governatore. Di ciò egli parla a lungo nella Storia, esaltando la propria [487] condotta. Il generale Lescut, egli scrive, si presentò una volta alle mura con 400 uomini d'arme, dicendo di voler parlare col governatore, che fu subito ad una delle porte. Il generale si dolse che nelle terre del Papa s'accogliessero i fuorusciti francesi, ed il governatore rispose esser peggio che i Francesi vi entrassero armati senza permesso. In questo mezzo alcuni soldati tentarono d'entrare per un'altra porta, che a caso era aperta, ed i Reggiani si opposero, facendo fuoco. Allargatosi il tumulto, tirarono anche contro quelli che accompagnavano il generale, ferendone qualcuno, e avrebbero tirato contro il generale stesso, se non avessero temuto di colpire il governatore che gli era vicino. I Francesi si dettero alla fuga, ed il generale ne fu sgomento; ma il Guicciardini lo ricoverò in luogo sicuro, facendogli animo, e poi lo rimandò libero. Questo egli fece, perchè aveva dato la sua parola al Lescut, e perchè aveva allora ordine dal Papa di non offendere in nulla il re di Francia.
Ora, osserva qui il Ranke nuovamente, poco dopo seguìto il fatto, il Guicciardini lo narrava in una lettera al cardinal dei Medici in modo assai diverso (Opere inedite, vol. VII, pag. 281). Nella lettera non parla nè della fuga dei Francesi, nè dello sgomento del generale, nè della generosità propria nel salvarlo. Perchè mai il Guicciardini, cui non dispiaceva certo lodare sè stesso, doveva allora tacere quello che più gli faceva onore? Abbiamo dunque un'altra invenzione dello storico mal fido, smentita dalle sue stesse parole. — Se non che anche qui la Storia spiega ampiamente il silenzio della lettera. La condotta del Guicciardini nel liberare il generale Lescut fu assai biasimata, perchè si credette allora che se egli lo avesse invece ritenuto, lo Stato di Milano si sarebbe ribellato contro i Francesi. Questa speranza, egli dice, era assai mal fondata, giacchè i Francesi che si dettero alla fuga erano pochi, ed a piccola distanza trovarono Federigo da Bozzolo con mille fanti, in modo che subito si fermarono e si riordinarono (Storia d'Italia, vol. VII, lib. XIV, pagg. 14-16). Tutto ciò dimostra chiarissimo che egli aveva avuto una ragione per non insistere molto presso il cardinale de' Medici, sulla facilità con cui avrebbe potuto ritenere il generale. Salvo però lo sgomento di questo nel vedersi abbandonato dai suoi, e l'essere stato prima messo in [488] salvo e poi liberato dal Guicciardini, tutto il resto del racconto è nella lettera identico a quello della Storia: la resistenza fatta dai cittadini: i colpi tirati anche contro quelli che accompagnavano il generale, due dei quali morirono subito, un terzo poco dopo. Abbiamo dunque nella lettera un'altra omissione d'un particolare narrato nella Storia. Si possono fare supposizioni più o meno giustificate, ma non si può dire che la narrazione della Storia sia dimostrata falsa dalla lettera, specialmente se si pensa che il silenzio da questa serbato sopra un particolare del fatto è assai facilmente spiegato da quella.
Il professore Ranke esamina inoltre quali sono le fonti di cui il Guicciardini si valse. Questa è una ricerca importantissima, che sola può condurre ad una vera critica della Storia d'Italia. È necessario però farla compiuta, ritrovare cioè, per quanto è possibile, tutte queste fonti; giudicarne il valore intrinseco e comparativo; vedere fino a che punto ed in che modo il Guicciardini se ne valse. Ma per arrivare a ciò con sicurezza, bisognerebbe esaminare i manoscritti originali dell'autore. Da questo esame e da un paragone accurato della Storia con le legazioni e le lettere pubblicate nelle Opere inedite, risultano chiari il valore intrinseco, le molte ricerche, la grande accuratezza del Guicciardini. Sotto questo aspetto noi crediamo anzi che egli resterà sempre il primo storico del suo tempo. Ma se il professore Ranke ebbe qui il merito di avere iniziato lo studio delle fonti, egli lo cominciò quando le Opere inedite non erano pubblicate, e quando non era facile, forse non era possibile, vedere i manoscritti originali. Le sue indagini potevano quindi indicare una nuova strada, ma non essere condotte al compimento desiderato. Egli si avvide che una delle fonti del Guicciardini era la storia di Galeazzo Capra, chiamato Capella (Commentarii de rebus gestis pro restitutione Ducis Mediolanensis). Questi era stato segretario del Morone e di Francesco II Sforza; aveva visto molti documenti, aveva avuto pratica di molti uomini; poteva quindi conoscere assai bene i fatti che narrava: la sua storia, che va dal 1521 al 1530, ebbe dal 1531 al 1542 undici edizioni latine; fu subito tradotta in italiano, in tedesco e spagnuolo. Il Guicciardini di certo se ne valse assai spesso dal quattordicesimo libro [489] della sua Storia in poi. Ma il dare troppa importanza ad un tal fatto, e credere, come fa il professore Ranke, plagiario il Guicciardini, perchè non cita la fonte di cui si vale, è, secondo noi, assai ingiusto, non solo perchè così si esagera l'uso che questi fece del Capella, ma anche perchè così non si tiene alcun conto del costume generalissimo in quei tempi, di non citare gli autori di cui si profittava. Che cosa si dovrebbe dire allora del Machiavelli e di tutti gli storici del Cinquecento, che facevano lo stesso anche più largamente? Non resterebbe salva la fama di un solo di essi. Il professore Ranke fa grandi elogi del Nardi; eppure nessuno ha copiato come lui, che riportò nella sua Storia di Firenze tutto intiero il Diario del Buonaccorsi, una sola volta citandolo e rendendogli giustizia, senza però dire che lo aveva addirittura copiato. Allora non si usava di rifar quello che si giudicava già fatto da altri abbastanza bene, e le storie di quel tempo non hanno mai una nota, mentre le nostre ne son piene.
Se si tien giusto conto di un uso così generale, si dovrà riconoscere che è eccessivamente severo il fermarsi con insistenza a provare certe somiglianze secondarie, per muoverne accusa al Guicciardini. Parlando della breccia, che nella notte precedente alla battaglia di Pavia, gl'imperiali aprirono nel muro del parco in cui erano alloggiati i Francesi, il Guicciardini dice che essa fu aperta con muratori ed eziandio con aiuto di soldati, che gettarono in terra sessanta braccia di muro. Questa frase medesima trovasi nel Capella: Per fabros lapidarios, militum etiam auxilio, sexaginta muri passus tanto silentio prostravit. Ciò pare al professore Ranke una prova che il Guicciardini copiava e copiava ciecamente, perchè il muro, egli osserva, fu abbattuto più con arieti che per opera di muratori, cosa che il Guicciardini doveva certamente sapere. Se dunque copia anche gli errori, quando si tratta di fatti che a lui dovevano essere notissimi, che cosa dobbiamo pensare dei fatti che personalmente non poteva conoscere? — A questo si può rispondere che il Guicciardini sarebbe stato di certo più esatto, se avesse detto guastatori e soldati, invece di muratori e soldati. Ma in un tempo in cui la scrupolosa esattezza moderna era ignota, errori come questi se ne trovano a migliaia negli storici più autorevoli, sia che raccolgano da altri le notizie, [490] sia che scrivano per conoscenza propria. Il loro pregio non stava certo in una minuta esattezza, ma nella intelligenza e riproduzione vera dei fatti e dei particolari più sostanziali.
Il professore Ranke credette dapprima, che per gli avvenimenti di Firenze, massime per la venuta di Carlo VIII ed i successivi mutamenti nella Città, il Guicciardini si fosse valso dell'opera De bello italico di Bernardo Rucellai, dalla quale avrebbe preso anche la risposta data da Pier Capponi a Carlo VIII, alterandola però e rendendola meno verosimile. Nella seconda edizione del suo scritto, si è però avvisto che le parole: «Voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane», si ritrovavano già nella Storia Fiorentina del Guicciardini, che fu da lui scritta assai prima, cioè nel 1509. Quindi riconosce implicitamente, che le sue osservazioni hanno in questo punto perduto una parte almeno del loro valore. Egli ripete tuttavia che nella Storia d'Italia il Guicciardini si valse non poco del Rucellai; ma gli esempi che adduce son tali che provano invece quanto tenue dovette essere questa pretesa imitazione, se pure vi fu. Certe espressioni, certi giudizi sulla venuta di Carlo VIII, sulla politica di Lorenzo dei Medici e simili, si ritrovano in tutti quanti gli storici fiorentini di quel tempo, sono quasi tradizionali, e sarebbe molto difficile dire chi fu veramente il primo a pronunziarli. La verità è che il Guicciardini si valse di molti più autori che non suppone il professore Ranke. E questo si può adesso provare con certezza, come con pari certezza si può dimostrare che si valse anche di un numero infinito di documenti originali, dei quali fece uno studio accuratissimo, paziente, indefesso, il che è pur negato dall'illustre critico tedesco.
Nell'archivio di casa Guicciardini si trovano non solo più manoscritti della Storia, copiata, corretta e ricorretta moltissime volte, con lunghe cancellature e rifacimenti, ma anche quattro volumi di Memorie Storiche. Queste contengono i materiali con cui fu scritta la Storia, e da essi si vede chiaramente il modo tenuto nel comporla. Il fondamento principale della narrazione, così pel Guicciardini, come pel Machiavelli e per molti altri degli storici fiorentini più autorevoli di quel tempo, quando narravano fatti contemporanei, erano le lettere [491] degli ambasciatori e dei commissarî[669] alla Signoria ed ai Dieci. Di esse si trovano nelle Memorie Storiche del Guicciardini estratti infiniti, che sono ricopiati e distribuiti da lui per materie e per ordine di tempo, aggiungendovi in margine continui appunti cavati dalle narrazioni degli avvenimenti stessi, fatte da altri storici. Frequentissimi sono i sunti cavati dal Capella, dal Mocenigo, dal Giovio, dal Bartolini Salimbeni,[670] da Scipione Vegio,[671] da Girolamo Borgia[672] e da molti altri. [492] Vi sono poi altrove copiati lunghi brani di cronache; lunghi estratti dal Giovio, da Pandolfo Collenuccio, da un libro di Alessandro Nasi, che incomincia dalla battaglia di Fornuovo, e da altri coltissimi: vi sono copie di trattati, di discorsi, di capitoli d'accordi, ed ancora qualche documento originale. Per un così lungo e paziente lavoro il Guicciardini si valse evidentemente di più segretari, lavorando moltissimo egli stesso. E solo un esame accurato di questi manoscritti preziosi darà modo di fare una critica definitiva della Storia d'Italia. Un tale esame potrebbe giovare del pari a mettere in chiaro alcuni fatti storici ancora dubbi, trovandosi nelle Memorie estratti di molte lettere di ambasciatori, che ora sono perdute.
Il professore Ranke dà giustamente un gran valore ai discorsi che si leggono nella Storia del Guicciardini; ma anche in essi crede di poter trovare nuova dimostrazione di poca veracità. C'è un discorso tenuto dal gonfaloniere Soderini nel Consiglio Maggiore, quando accennò ai pericoli in cui era la Repubblica, ed al probabile ritorno dei Medici. Il Nerli, che si trovava presente quando parlò il Gonfaloniere, dice che il Guicciardini riferì elegantemente il discorso nella sua Storia. Ma il professore Ranke crede che il Nerli si sia espresso in questo modo, perchè non poteva dire: fedelmente. Infatti, egli osserva, il Nerli, parlando del discorso, dice che in esso il Soderini rese conto della sua amministrazione, ed aggiunse che allora si moveva guerra alla sua persona con lo scopo di mutare il governo, e che perciò egli era pronto a dimettersi solamente quando così volesse il popolo. Lo stesso dicono il Nardi ed altri. Invece, secondo il discorso che ci è dato nella Storia, il Soderini non rese conto dell'amministrazione, ma insistè assai sui pericoli minacciati dal probabile ritorno dei Medici. Il Guicciardini, così conclude il professore Ranke, voleva aprirsi la via a parlare di questo ritorno, e lo fece col discorso del gonfaloniere. Pensò quindi assai meno alla fedeltà storica, che alla composizione ed alla eleganza letteraria, ed il discorso riuscì infatti più elegante che veridico. — Ma le cose stanno altrimenti. [493] La verità è che il Soderini fece allora due discorsi. Nel primo, detto dopo la congiura di Prinzivalle della Stufa, e riferito dal Nardi (Storia, vol. II, pag. 17), rese conto della sua amministrazione. Nel secondo, che fu pronunziato più tardi ed è riportato dal Guicciardini, parlò del minacciato ritorno dei Medici. Alcuni cronisti del tempo ricordano l'uno e l'altro discorso, e sulla loro scorta il Capponi, nella sua Storia della Repubblica fiorentina (vol. II, pagg. 306 e 307), li accenna distintamente; altri riportano solo uno dei due. Il Nerli ricorda il secondo, ma nel periodo stesso in cui ne parla, accenna a qualche cosa che fu detta nel primo. Il Guicciardini, che scriveva allora la storia d'Italia e non di Firenze, non si occupa del primo, ma riferisce minutamente il secondo discorso, che aveva una importanza più generale, ed in esso fa dire al Soderini solo quello che veramente disse in quella occasione. È quindi più esatto e fedele del Nerli, che però gli tributava la lode meritata.
Nel libro VIII della sua Storia (vol. IV, pag. 45), il Guicciardini ci dà un altro discorso, fatto dall'ambasciatore veneto Antonio Giustinian nel 1509, e dice di averlo fedelmente tradotto dall'originale latino. Il professore Ranke sostiene che questo discorso non può essere altro che una composizione letteraria di tempi posteriori, perchè la commissione del Giustinian non ebbe effetto, e la lettera credenziale della Repubblica veneta, scritta con un linguaggio assai più dignitoso di quello attribuito al Giustinian, si ritrovò più tardi presso i discendenti di questo. — È vero che la commissione non potè essere eseguita, perchè l'ambasciatore non fu ricevuto: ma il discorso è certamente del tempo, e fu allora creduto da molti autentico, sebbene sia da ritenerlo, come dice il Ranke, composizione letteraria di altri e non del Giustinian.[673] Una copia se ne trova nelle Carte del Machiavelli, e da essa si vede che il Guicciardini lo tradusse davvero fedelmente. Il Ricci lo copiò nel suo Priorista e ne difese l'autenticità contro gli scrittori veneti che, per patriottismo, secondo lui, la mettevano in dubbio. L'ambasciatore fiorentino a Roma ne mandò copia alla Signoria con lettera del 7 luglio 1509. Ad esso abbastanza chiaramente [494] allude il Machiavelli nei suoi Discorsi (Lib. III, cap. 3). Fu stampato a Napoli prima ancora che il Guicciardini lo traducesse.[674] Questi adunque s'ingannò insieme col Machiavelli, col Ricci e con altri molti del suo tempo.
Il nipote del Guicciardini, che ne pubblicò la Storia, disse ciò che egli poteva saper dai manoscritti dello zio, quando affermò che questi aveva con molta cura esaminato i documenti. Il professore Ranke non vuol credergli, ed a convalidare il suo dubbio ricorda quello che il Guicciardini stesso dice d'un trattato, che avrebbe dovuto assai ben conoscere, il trattato cioè che fu fatto nel 1512 dai Fiorentini col Cardona. Esso fu pubblicato dal Fabroni nella Vita di Leone X, e non risponde punto a quanto ne dice il Guicciardini. Secondo lui, Firenze sarebbe entrata nella Lega, ed in una alleanza offensiva e difensiva con la Spagna. Ora, prosegue il Ranke, il trattato non parla della Lega, nè di un'alleanza incondizionata col re di Spagna; dice solo che i Fiorentini si obbligarono per tre anni e sei mesi a difendere il Napoletano. Non dice che si obbligarono a pagare al Vicerè le somme promesse a lui dai Medici, come afferma il Guicciardini. Ed anche ciò che questi aggiunge delle 200 lance napoletane date in servizio dei Fiorentini, e della restituzione fatta ai Medici dei loro beni, è vero solamente in parte. Il Guicciardini ci ha dunque, secondo il professore Ranke, dato un trattato immaginario, che se corrisponde a ciò che realmente avvenne, non è però esatto quanto alle condizioni assai più onorevoli che i Fiorentini avevano stipulate, e che non furono poi rispettate. Ma nella Storia d'Italia si leggono due cose ben distinte, che il professore Ranke riunisce in una, dal che nasce confusione. I Fiorentini, così dice la Storia, entrarono nella Lega e si obbligarono a pagare, secondo le promesse fatte dai Medici, quarantamila ducati al Re dei Romani, ottantamila al Vicerè per l'esercito, e ventimila per lui, in tutto centoquarantamila ducati. [495] Queste somme furon di fatto pagate, e di esse parlano molti altri scrittori, fra cui anche il Vettori, il quale aggiunge che erano state promesse e votate dai Fiorentini prima della presa di Prato. Fecero oltre a questo, prosegue il Guicciardini, lega col re d'Aragona, con obbligazione reciproca (e questo è il trattato riportato dal Fabroni) di un certo numero di genti d'arme a difesa degli Stati, e che i Fiorentini conducessero ai loro stipendi 200 uomini d'arme dei sudditi di quel re, la quale condotta, benchè non si esprimesse, era disegnata pel marchese delle Palude (Storia d'Italia, vol. V, lib. XI, pag. 63-64). Ora se è certo che i 140,000 ducati furono pagati, è certo pure che l'entrata di Firenze nella Lega era conseguenza implicita e necessaria del ritorno dei Medici. E se si distingue, come fa il Guicciardini, tutto ciò dal trattato fatto poi col Vicerè il 12 settembre, si vedrà che anche qui la Storia è nel vero.
Il professore Ranke adduce ancora altri esempî di quelle che chiama false narrazioni del Guicciardini. La gelosia nata fra Alessandro VI, Cesare e Giovanni Borgia, a cagione di Lucrezia figlia del primo e sorella degli altri due, difficilmente si troverà, esso dice, narrata prima del Guicciardini: la fonte di questi suoi racconti sono gli epigrammi del Pontano e del Sannazzaro, alcuni accenni nelle lettere di Pietro Martire, ed un libello riportato dal Burcardo nel suo Diario. Ma Pietro Martire cadde in molti errori, nè si può dare autorità di fonti storiche ai libelli ed agli epigrammi. A tutto ciò si può rispondere che, dopo i lavori del Gregorovius, dopo i molti documenti pubblicati recentemente sui Borgia, quest'accusa non è più sostenibile. Il Guicciardini affermava quello che era stato prima di lui detto e creduto da moltissimi cronisti, da moltissimi ambasciatori italiani, le cui lettere egli consultava di continuo. Fra gli estratti di lettere e documenti che sono nelle Memorie ne troviamo sotto l'anno 1497 alcuni Ex Archivio, poi altri Ex Marcello, cioè da carte che erano presso il segretario Marcello Virgilio. Fra questi ultimi leggiamo: Giugno. La morte di Candia facta per ordine del fratello, per invidia et per la sorella (Memorie Istoriche, vol. I. Le pagine non sono regolarmente numerate). Abbiamo citato un solo esempio: ma assai grande è il numero degli appunti relativi ai Borgia, ed essi provano ad esuberanza, che se si possono ancora aver [496] dubbi sopra molti fatti attribuiti ai Borgia, non si può certo supporre che il Guicciardini li avesse inventati o cavati solo da epigrammi e da libelli. Egli, per esempio, s'ingannò di certo nel credere che il Papa morisse dopo avere in una cena preso per sbaglio il veleno che aveva apparecchiato per un altro. I Dispacci da noi pubblicati di A. Giustinian dimostrano che il racconto è falso, e che il Papa morì invece di febbre romana. Ma anche a questo racconto del veleno credettero allora molti: lo diè per certissimo il Giovio, e nella sua Storia dei Papi vi crede lo stesso professore Ranke, il quale si dimostra tanto benevolo al Giovio, quanto è avverso al Guicciardini, che pure è assai più fedele e credibile narratore.
Il professore Ranke, venendo all'ordine generale della Storia del Guicciardini, osserva giustamente che essa segue ancora troppo la vecchia forma degli Annali. Ogni anno l'autore ricomincia da capo, ed interrompe perciò di continuo il racconto di tutti quei fatti che, principiati in un anno, finiscono nei successivi. Un tal difetto diviene assai grave, abbracciando egli una vasta serie di avvenimenti, i quali spesso rimangono tutti troncati a mezzo, per essere poi tutti ripigliati da capo. Ben è vero che il Guicciardini suole respingere alla fine di ogni anno i fatti secondari, occupandosi innanzi tutto dei principali, il che dà un certo ordine alla narrazione. E i discorsi che spesso introduce, aiutano anch'essi non poco a spiegare, ordinare e collegare fra loro gli avvenimenti. A queste giuste osservazioni del Ranke si potrebbe anche aggiungere, che la divisione in libri e capitoli non è fatta per anni o per mesi, ma assai più secondo la natura degli avvenimenti, il che aiuta non poco la connessione logica e la chiarezza. È necessario inoltre ricordare che, ad eccezione del Machiavelli, nessuno s'era allora liberato affatto dalla forma annalistica, sebbene tutti cercassero di abbandonarla. Nella sua Storia Fiorentina, che abbraccia un assai minor numero di fatti, il Guicciardini era molto meglio riuscito ad ottenere una distribuzione meno meccanica e più razionale; ma la Storia d'Italia doveva narrare una serie di avvenimenti ben più vasta, ben più intricata. La difficoltà di trovare in essi un filo conduttore, un ordine logico è tale, che neppure oggi si riesce a vincerla, e nel secolo XVI [497] doveva essere addirittura insuperabile. Il cadere più o meno nella forma annalistica diveniva quindi inevitabile.
Ma come mai, domanda finalmente il professore Ranke, questa Storia con tanti difetti potè avere una così grande fortuna? L'ardire, egli dice, con cui il Guicciardini parla dei papi, e svela senza adulazione i disegni e le ambizioni dei principi, fu una prima causa di ciò. Ed anche questo è verissimo. Ma il parlare liberamente dei papi e dei principi è una lode che spetta a molti dei nostri storici e cronisti dei secoli XV e XVI. Era un pregio che nasceva non tanto dalla indipendenza del carattere di chi scriveva, quanto dal bisogno assai generale allora di esaminare i fatti, descriverli quali erano, cercarne, esporne le cagioni obiettivamente. Questo bisogno era nel Guicciardini maggiore che in altri del suo tempo, quantunque la vanità personale o la parte politica qualche volta gli facessero velo, come pur troppo segue all'umana natura. In sostanza però a noi par certo che come dipintore della realtà vera dei fatti storici, come espositore delle loro vere e prossime cagioni, delle vere e prossime conseguenze, egli è il primo storico in un secolo che pur n'ebbe tanti e così eminenti.
Non vi fu mai un tempo, continua il professore Ranke assai giustamente, in cui si pigliasse una parte così viva, così generale alla vita pubblica, e tanto vi si pensasse, come allora si faceva in Italia, specialmente in Firenze. Da ciò ne seguì che ogni storia particolare veniva collegata cogli avvenimenti più generali, e prendeva perciò una maggiore importanza. Un tal pregio apparisce chiaro soprattutto nei discorsi, che il Guicciardini pose nella sua Storia d'Italia. Per comprender chiaramente il valore di essa, bisogna ricordarsi che le storie italiane di quel tempo sono tutte più o meno provinciali, questa sola è davvero generale. L'autore si è finalmente liberato da ogni concetto locale, e narra i fatti d'Italia più distesamente dei fiorentini. Egli non fu mai nè municipale, nè clericale, nè legato agl'interessi ecclesiastici in modo da perdere la indipendenza del proprio spirito. Una sola di queste qualità avrebbe limitato il suo intelletto; avendole ambedue, noi troviamo in lui quella forma generale ed indipendente di giudicare gli avvenimenti, che divenne propria dello storico moderno soltanto nel secolo XVIII, ma che era stata già iniziata dal Guicciardini [498] nel secolo XVI. La sua opera sarà perciò sempre giudicata una delle più grandi produzioni storiche che noi possediamo.
Queste considerazioni, che il professore Ranke aveva appena accennate nella prima edizione del suo lavoro, e svolge alquanto più nella seconda, rendono piena giustizia al Guicciardini, e ne determinano l'ingegno ed il valore con una penetrazioue ed una originalità degne veramente del grande critico tedesco. Questi crede però sempre, che i pregi da lui accennati si ritrovino solo nei discorsi, non già nella narrazione, nella quale non si può, secondo lui, sperare d'aver mai la verità obbiettiva dei fatti. «Nur darf man nicht in dem Buche den objectiven Thatbestand der Ereignisse in den Händen zu haben glauben» (a pag. *57 della 2ª edizione). Noi abbiamo invece cercato di provare che questa verità vi si trova, e che le accuse d'inesattezza fatte al Guicciardini assai di rado sono pienamente giustificate. Non ostante però le nostre osservazioni, ci è pur forza conchiudere che, se il professore Ranke fu in questo suo lavoro giovanile troppo avverso al Guicciardini, fu anche il primo ad indicare la vera via che bisognava tenere, per fare una critica sicura della Storia d'Italia, e che le poche considerazioni generali con cui egli conchiude, sono ammirabili davvero. Se avesse potuto vedere i manoscritti del grande storico italiano, ci avrebbe certo dato di lui un giudizio diverso, una critica compiuta e definitiva. Per ora ci resta solo a far voti che qualcuno intraprenda una nuova edizione della Storia, riscontrandola sui manoscritti, e con l'aiuto di essi ne ricerchi le fonti, e la giudichi, non con la eccessiva severità dell'illustre professore Ranke, ma pur seguendo il metodo da lui indicato.[675]
[499]
Accademia Coronaria, esperimento letterario poetico fatto nel Duomo di Firenze, I, 183.
Accademia Platonica. Fondata da Cosimo de' Medici, I, 42, 107. Breve storia di essa ed esposizione delle sue dottrine, 165 e seg. Principali accademici, 170 e seg. Le sue dottrine si spargono anche fuori d'Italia, 182. Le riunioni degli Orti Oricellari non furono un rinnovamento o una continuazione d'essa, III, 47 e seg.
Accademia Romana, fondata da Pomponio Leto, I, 142; III, 142.
Accademie varie italiane, ricordate, III, 142.
Acciaiuoli Angelo. Due sue lettere a Piero di Cosimo de' Medici, ricordate, III, 278.
Acciaiuoli Donato, traduttore dell'Historia di Leonardo Aretino, III, 200.
Acciaiuoli Giovanni, ambasciatore a Roma; brano di una sua lettera ai Dieci, II, 62.
Acciaiuoli Roberto. Ambasciatore a Consalvo, I, 486, 492. Sua lettera al M., ricordata, 509. Brano di una sua lettera al M., 559. Oratore in Francia, II, 133, 529, 531, 536. Altre sue lettere al M., ricordate, 133; e testo d'una di esse, 538. Sue lettere ai Dieci di balìa, ricordate, 151. Consiglio da lui dato a Clemente VII circa il governo di Firenze, III, 297. Lettere del Guicciardini a lui, ricordate, 344 e seg. Di nuovo oratore in Francia, e altre sue lettere a vari, 445 e seg.
Adimari Andrea, commissario nella montagna di Pistoia, I, 598.
[500]
Adimari Duccio, confinato, II, 555.
Adriani Marcello Virgilio. Ricordato a proposito dei primi studi del M., I, 301 e seg., 312. Sua elezione in cancelliere della Repubblica, 307. Brevi notizie della sua vita e dei suoi studi, 308, 309. Di una sua orazione latina per l'elezione di Paolo Vitelli in capitano generale della Repubblica, 315. Ricordato, 376. Sua lettera al M., 398, 586-87. Ricordato in lettere al M., 540, 541, 556, 571, 572. Compare al primo figliuolo del M., 606. A sua istigazione il M. scrive il lavoro intitolato Le Maschere, 477; III, 147. Conserva il suo ufficio nella cancelleria dopo il ritorno de' Medici, II, 188, 190. Ricordato, 539; III, 495.
Adriano VI (Cardinale Adriano d'Utrecht). Brevi cenni del suo papato, III, 128, 129. Ricordato, 135. Fa imprigionare il Cardinal Soderini, 137. Muore, 294.
Adriano (Cardinale). Piglia parte a una congiura contro Leone X, III, 21.
Agnadello (Battaglia di), II, 109.
Alamanni, famiglia, amicissimi de' Medici, III, 46.
Alamanni Lodovico. È in Roma; lettera del M. a lui ricordata, III, 37, 173. È a Milano, 405.
Alamanni Luigi di Piero, il poeta. Uno dei più assidui frequentatori degli Orti Oricellari, III, 46, 47. È in Roma; sua lettera al padre, 404. A lui e a Zanobi Buondelmonti dedica il M. la sua Vita di Castruccio, 67. Interlocutore nell'Arte della guerra del M., 75, 106. Si esalta contro il governo dei Medici, 130; e cospira per uccidere il cardinal Giulio, 135. Scopertasi la congiura, si pone in salvo con la fuga, 136.
Alamanni Luigi di Tommaso. Congiura contro i Medici, ed è preso e decapitato, III, 136.
Alamanni Piero. Oratore a Napoli; sua lettera citata, I, 241. Oratore a Milano; sue lettere a Piero de' Medici, 243, 519. Lettera di Luigi suo figliuolo a lui, III, 404.
Albany (Duca d'), III, 298.
Alberti Leon Battista, I, 172, 184. Della sua opera La cura della famiglia, 185. Erroneamente attribuitogli il disegno del Palazzo degli Orti Oricellari, III, 44.
Alberti Niccolò, capitano e commissario d'Arezzo; sua lettera alla Signoria, II, 62, 509.
Alberti Piero. Ricordo della sua sepoltura, III, 412.
[501]
Albizzi, famiglia. Emuli de' Medici, I, 40 e seg. Notizie di essi nella Storia e a proposito della Storia del M., III, 244 e seg., 253, 257 e seg.
Albizzi Antonfrancesco. S'adopra a rimettere i Medici in Firenze, II, 175; e conduce Giuliano in casa sua, 180, 551-52. Ricordato, 569, 590.
Albizzi Giovanni, I, 532.
Albizzi Luca. Commissario in campo contro Pisa; brani e sunti di sue lettere, I, 341 e seg. Minacciato dai soldati del campo, 344. Ricordato, 556. Commissario d'Arezzo, 383.
Albizzi Rinaldo. Si tocca delle sue Commissioni, I, 197. Si parla di lui nella Storia del M., e a proposito di essa, III, 259 e seg., 272.
Albret (d') Carlotta. Sposa il Valentino, I, 269.
Alègre (d') Ivo, capitano di Francia, I, 340, 346; II, 161, 162. Muore, 162.
Alessandro VI, papa. — Ved. Borgia Roderigo cardinale — Sua elezione, I, 230, 234; e suoi primi atti, 234 e seg. Suo malanimo contro il Re di Napoli, 244; e sua politica mentre Carlo VIII sta per calare in Italia, ivi e seg., 249-50. Celebra una messa a cui assiste il re Carlo, 254. Sborsa una taglia ai Francesi per riavere Giulia Farnese e Adriana Orsini cadute nelle lor mani, 253-54. Entra in una lega contro Carlo VIII, 256. Fa guerra agli Orsini, 258 e seg. Come senta la morte del Duca di Gandia suo figlio, 261. Fa lega col Re di Francia, e con qual fine, 269. Nomina a un tratto dodici cardinali, 275. Entra in un segreto accordo tra Francia e Spagna, 276. Della sua condotta col Savonarola, 282 e seg. Di un suo colloquio con un agente del re Federigo di Napoli, 537. Colloqui del M. col Cardinale di Rouen intorno a lui ed al Valentino, 352 e seg. S'appropria le sostanze del cardinale Battista Ferrari defunto, 381. Sua esultanza per l'occupazione di Camerino fatta dal Valentino, ivi. Cerca amicarsi i Fiorentini, 386. Ciò che facesse in Roma, dalla ribellione degli Orsini al Valentino alla loro cattura e morte, 411 e seg. Fa ogni opera per cattivarsi l'amicizia de' Veneziani, 413. S'impazientisce dei lenti progressi del Valentino in Romagna, 414. Simulati dissensi tra lui e il Valentino, 432-33. S'adopera con ogni mezzo a far denari, 433 e seg. Sua politica tra Francia e Spagna, 437-38. Sua malattia e morte, e sepoltura, 438 e seg.; e della voce sparsasi di veleno, 442. [502] Si accenna a un suo strattagemma per impadronirsi dei Baglioni di Perugia, 479. Brani di lettere di Agostino Vespucci al M. relative a lui, 558 e seg. Ricordato, II, 329; e dal M. nel suo Principe, 381, 383, 386, 392, 601, 609, 610, 617 e seg. Giudizio che fa di lui Cristina di Svezia, 437, 601, 617. Ricordati i suoi mezzi di far danari in confronto con Leone X, III, 36. Ricordato, 491. Delle notizie relative ad esso e agli altri Borgia nella Storia del Guicciardini, 495.
Alexis. Sua commedia intitolata Mandragorizomene, ricordata, III, 147.
Alfieri Vittorio, difensore del M., II, 447.
Alfonso I d'Aragona, re di Napoli, I, 75. Gli eruditi alla sua corte, 153 e seg. Della sua liberazione dalle mani del Duca di Milano, narrata dal M., III, 269.
Alfonso II d'Aragona, re di Napoli. — Ved. Aragona (d') Alfonso.
Alfonso I d'Este, duca di Ferrara. Sposa Lucrezia Borgia, I, 380. Notizie di lui e della sua corte, II, 33. Si dichiara contro Venezia dopo la battaglia di Vailà, 109. Sua celebre artiglieria ricordata, ivi; III, 84, 348. Si trova alla battaglia di Ravenna, II, 161. Promessa fattagli da Leone X di restituirgli Modena e Reggio, III, 17, 18. Assediato dai soldati della Chiesa, 28. Ricordato nell'Arte della guerra del M., 117. Ricupera quasi tutto il suo stato toltogli da Leone X, 127-28. Manda aiuti di denari e d'armi agl'Imperiali di Carlo V, 348 e seg. Ricordato in lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 445, 454.
Alidosi Francesco, cardinale, legato di Giulio II in Bologna. Abbandona quella città ai Francesi, II, 143. Delle voci corse circa le sue relazioni col Papa, 144. Ucciso dal Duca d'Urbino, 145.
Alighieri Dante. Paragone tra lui e il Petrarca, I, 82 e seg. Del suo libro De Monarchia, II, 236 e seg. Ricordato dal M. nel Principe, 371, 372, 388: e nel Dialogo sulla lingua, III, 182-83, 185, 186, 191; e nella Storia, 230.
Altoviti Bardo, III, 278.
Altoviti Iacopo, III, 403.
Alviano Bartolommeo, I, 259. Si teme voglia tentare un'impresa nell'Italia centrale, 478, 616, 621 e seg. I suoi disegni si restringono in Toscana, 484 e seg. S'avanza, 489 e seg.; e relativa lettera dei Dieci a Antonio Giacomini, 624. Rotto dai Fiorentini, 491-92, 626. È al soldo di Venezia contro l'Imperatore; suoi fatti d'arme, II, 70 e seg. Fatto prigione alla battaglia d'Agnadello, [503] 108-9. Rotto da Raimondo di Cardona, III, 9. Rompe gli Svizzeri a Malignano, 13.
Amboise (d') Carlo, signore di Chaumont. Viene di Francia in aiuto del Valentino, I, 386; si ritira, 404. Mandato dal Re di Francia in aiuto di Giulio II, 501. Comanda la gente del Re nella guerra contro il Papa, II, 125, 131, 142. Muore, 142.
Amboise (d') Giorgio, arcivescovo di Rouen, I, 336. Cardinale e governatore di Milano per Luigi XII, 339, 340. Come debbano comportarsi seco il M. e Francesco della Casa inviati al Re di Francia, 348. Suoi colloqui col M., 352, 465. Sdegnato coi Veneziani, 458. Muore, II, 125. Ricordato dal M. nel Principe, 379.
Ambrogini Angelo. — Ved. Poliziano.
Amico Gaspare. Critica di alcuni luoghi della sua Vita di N. M., I, 466-67; II, 114, 147; III, 38, 132-33. Ricordata la detta Vita, II, 495.
Ammirato Scipione. Errori da lui riscontrati nella Storia del M., e giudizio che fa di quell'opera, III, 278, 279.
Ancona, III, 391.
Andrea (frate), III, 405.
Anghiari. Assediata dalle genti del Valentino, I, 564. Della battaglia ivi presso seguita tra le genti dei Fiorentini e quelle di Filippo Maria Visconti, narrata dal M. e da altri storici, III, 270-71.
Anghiari (d') Baldaccio, I, 41; III, 272.
Anna, sorella d'Enrico VIII re d'Inghilterra e moglie di Luigi XII re di Francia, III, 10.
Antinori Amerigo, commissario di Castrocaro; lettera dei Dieci a lui, I, 449, 602.
Appiano (d') Iacopo IV. — Ved. Iacopo IV.
Aragona (d') Alfonso I, re di Napoli. — Ved. Alfonso I d'Aragona.
Aragona (d') Alfonso, figlio di Ferdinando I re di Napoli, I, 78, 208. Dà per moglie una sua figliuola a Giuffrè Borgia, 246. Succede al padre nel regno, 249; che poi rinunzia, 255.
Aragona (d') Beatrice, I, 244.
Aragona (d') Eleonora, moglie del duca Ercole d'Este, I, 244.
Aragona (d') don Federigo, principe d'Altamura, I, 246. Va contro i Francesi nella loro venuta in Italia, ed è respinto, 250. Succede a Ferdinando II suo zio nel regno di Napoli, 257. — Ved. Federigo d'Aragona, re di Napoli.
Aragona (d') Ferdinando, duca di Calabria figlio di Alfonso II re di [504] Napoli. Sue fazioni di guerra nella venuta dei Francesi in Italia, I, 250, 252, 255. Succede al padre nel regno, 255. Rientra in Napoli, e muore, 257.
Aragona (d') Ferdinando I, re di Napoli. — Ved. Ferdinando I.
Aragona (d') Isabella, moglie di Giovan Galeazzo Sforza, I, 229, 244, 249.
Aragona (d') Sancia. Si accenna al suo matrimonio con Giuffrè Borgia, I, 246. Ricordata a proposito dell'uccisione del Duca di Gandia, 263. Esiliata da Roma, 273. Assiste in Roma il Duca di Bisceglie suo fratello, ferito, ivi. Amata dal Valentino e dal cardinale Ippolito d'Este, 418.
Aragonesi, famiglia. S'estingue il loro dominio in Napoli, I, 363.
Arbitrio, tassa, I, 426.
Ardinghelli Piero. Sue Lettere citate, I, 403, 408. Commissario al Borgo a San Sepolcro; lettera dei Dieci a lui, 594. Segretario di Leone X; sua lettera ostile al M., II, 370. Dubita il M. ch'e' si faccia onore co' Medici del suo libro del Principe, 374. Ricordato, 558, 563; III, 405.
Aretino Carlo. — Ved. Marsuppini.
Aretino Leonardo. — Ved. Bruni.
Arezzo. Cade in mano delle genti del Valentino, I, 366, 367. Ricuperata dai Fiorentini, 370, 371. Ricordata, III, 480.
Arezzo (d') Paolo, mandatario del Papa al Re di Francia, III, 469.
Ariosto Lodovico. Accenno al suo Orlando Furioso, I, 225. Notizie di lui e delle sue opere, e di nuovo dell'Orlando, II, 33, 37 e seg. Opere più recenti intorno a lui, ricordate, 43 e seg. Le sue commedie son recitate innanzi a Leone X, III, 32; che gli accorda il suo favore, a parole ma non in fatti, 33. Il M. legge con grande ammirazione il suo Orlando, 37. Governatore in Garfagnana, 136. Delle sue Commedie, 142 e seg.; e di nuovo dell'Orlando, 144. Ricordate le sue ottave in confronto con quelle del M., 180. Una delle sue Commedie ricordata dal M. nel Dialogo sulla lingua, 188.
Ariosto Niccolò, padre di Lodovico, II, 37.
Ariosto Virginio, figlio di Lodovico. Sue Memorie, ricordate, II, 40.
Aristotele. Del paragone fatto tra lui e il M., II, 278 e seg. Ricordato a proposito del libro del Principe, 394, 398, 399.
Aristotele. — Ved. Sangallo (da) Bastiano.
Arlia C. Citato a proposito d'una farsa attribuita al M., III, 167.
Armellini (Cardinale). Debito lasciato con lui da Leone X, III, 36.
[505]
Arno, Vani tentativi dei Fiorentini per deviarne il corso da Pisa, I, 468 e seg., 609 e seg.
Artaud. Sua opera intorno al M., ricordata. II, 203, 272, 494; III, 198.
Arte della Lana (Consoli dell'). Commissioni da essi date al M., III, 124, 125, 328.
Arti belle nel secolo di Leone X, anzi di Giulio II, II, 2 e seg. Principali opere sulla storia di esse, ricordate, 31 e seg.
Arti maggiori e minori di Firenze. Accenni ad esse nella Storia e a proposito della Storia del M., III, 234, 244, 247, 253-54, 258, 259, 265.
Ascoli (d') Enoch, raccoglitore di codici per Niccolò V, I, 126.
Aubigny (Monsignore d'), I, 249, 252, 524.
Auch (Cardinale d'), II, 530.
Austria (di) Eleonora, sorella di Carlo V, III, 457.
Baccio Bigio. Si attende e sollecita la sua venuta a Firenze per conto della fortificazione delle mura, III, 436 e seg., 442.
Bacone da Verulamio, fautore del M., II, 446.
Baglioni, signori di Perugia. Avversati dagli Oddi, I, 157. Fuggono da Perugia, 408. Ricordati dal M. nel Principe, II, 609.
Baglioni Gentile. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384.
Baglioni Giovan Paolo. Occupa Arezzo per il Valentino, I, 366. Entra in una lega contro di lui, 384. Fugge da Perugia, 408; e va verso Lucca, 411. Notizie della sua condotta al soldo dei Fiorentini, 450, 465, 468. Scaduta la condotta non pare disposto a rinnovarla, 478. Lettera dei Dieci a lui, 616. È mandato a indagare l'animo suo il M., 479. Notizie precedenti di lui e della sua signoria in Perugia, 480 e seg. Si rifiuta di servire i Fiorentini, 482, 483. Si arrende a Giulio II, e relativo accenno nei Discorsi del M., 497; II, 309. Ricordato, I, 568, 623, 624. È al soldo de' Veneziani, II, 124, 556. Spodestato della signoria di Perugia e decapitato, III, 24.
Baglioni Grifone, I, 480, 481.
Baglioni Guido. Si ricorda una sua risposta ad Alessandro VI, I, 479.
Baglioni Malatesta e Orazio. Tornano in Perugia, III, 128. Cercano mutare il governo in Siena, 134. Il cardinal Giulio de' Medici gli conduce ai suoi stipendi, ivi.
Baglioni Orazio. — Ved. Baglioni Malatesta.
Baglioni Ridolfo, I, 480.
[506]
Baldelli Gio. Battista. Suo Elogio del M. cit., I, 297; II, 414, 494; III, 370.
Balìa creata in Firenze al ritorno de' Medici, II, 182-3, 208.
Bandinelli Baccio. Dà opera agli apparati per la venuta di Leone X in Firenze, III, 16. Gli è commessa dal Papa una copia del gruppo del Laocoonte, 17.
Bandini Bernardo, uno della congiura de' Pazzi, III, 282, 283.
Bandini Francesco. Di una sua commissione presso il Guicciardini in campo, III, 361.
Baraballo, verseggiatore alla corte di Leone X, III, 30, 31.
Barbadori Niccolò, III, 261, 262.
Bàrbera, commediante. Ricordata in lettere del M. al Guicciardini, III, 331, 334, 335; e in altra lettera al M., 344, 444.
Bardella, corsaro genovese, II, 92, 95.
Bardi Cecco, III, 390.
Bardi Mariotto, III, 403.
Bargagli contessa Caterina. Possiede una filza di lettere di vari al M., e la mette a disposizione dell'Autore, II, 62, 509, 510; III, 340.
Barlacchia o Barlacchi, sottoscrizione autografa del M. nel manoscritto, pure autografo, della Commedia in versi a lui attribuita, III, 168; e notizie di questo nome, ivi.
Barsizza Guiniforte, I, 153.
Barthélemy Saint-Hilaire. Dei suoi giudizi sul M., II, 434.
Bartolini Giovan Battista. Commissario nel campo dei Fiorentini contro Pisa, I, 341, 343. Lettera dei Dieci a lui, II, 508.
Bartolini Salimbeni Gherardo. La sua Cronichetta sopra le ultime azioni di Lorenzo Duca d'Urbino è una delle fonti del Guicciardini, III, 491.
Baschi (de' ) Perrone, I, 251, 524.
Basilio (don), abate di Camaldoli. Fa testa ai Veneziani nel Casentino, I, 316. Guarda i dintorni di Firenze dalle incursioni del Valentino, 359.
Baumgarten H. Suoi giudizi intorno al Principe del M., II, 487 e seg.
Bayeux (Cardinale di). Aderisce al Concilio di Pisa contro Giulio II, ed è privato delle sue dignità e benefizi, II, 149.
Bayle, III, 368, 369.
Beaucaire (Etienne de Vesc, siniscalco di), I, 239, 244.
Beaumont. Mandato dal Re di Francia in aiuto dei Fiorentini contro Pisa, I, 340, 342, 343. Come debbano comportarsi con lui gli ambasciatori fiorentini mandati al Re di Francia, 348.
[507]
Beccadelli Antonio detto Il Panormita, I, 75, 148. È alla corte d'Alfonso I di Napoli; e del suo Hermaphroditus, 154, 155. Ricordato dal M. nel Principe, II, 388.
Becchi Gentile, oratore in Francia; che cosa pensi e scriva della prossima venuta di Carlo VIII in Italia, I, 242.
Becchi Ricciardo, oratore a Roma; estratti di sue lettere fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 491.
Bellacci Pandolfo. A lui indirizza il Buonaccorsi una copia manoscritta del Principe del M., II, 415, 420.
Bembo Pietro, II, 35, 36. Segretario di Leone X, 206; III, 3; e uno de' migliori letterati della sua corte, 32.
Benivieni Girolamo, III, 131.
Bentivoglio, famiglia. Rientrano in Bologna, II, 143.
Bentivoglio Annibale. È al soldo de' Fiorentini, I, 627.
Bentivoglio Ercole. Al soldo dei Fiorentini contro Pisa, I, 599; combatte i tentativi di deviare l'Arno presso quella città, 469. Di una sua lettera al M., relativa al suo primo Decennale, 476. Lettera dei Dieci a lui, 486, 620. Dà una rotta all'Alviano, 491, 492, 627; e propone d'assaltar Pisa, 492. Nominato capitano generale, 493.
Bentivoglio Ermes. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384.
Bentivoglio Giovanni. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384. Non è incluso nei capitoli dell'accordo tra il Valentino e i suoi collegati, 394. Cacciato di Bologna, 500, 501.
Bernardi G. Pubblica le lettere del Guicciardini, luogotenente del Papa, al card. G. B. Giberti, III, 343.
Bernardini, mercanti lucchesi, III, 406, 407.
Berni Francesco. Suo capitolo contro l'elezione d'Adriano VI, citato, III, 129.
Bessarione (Cardinale), I, 125, 167.
Bibbiena (da) Bernardo (Dovizi). Sue lettere al cardinal Giovanni de' Medici, ricordate, II, 157. Segretario del Cardinale, viene da Prato a Firenze, 180; sua lettera a Piero suo fratello, 550. Creato cardinale, 221. Ricordato ed elogio fattone da Francesco Vettori, 560. Vede alcune lettere del M., 574. Poche altre parole intorno a lui, e della sua morte, III, 3. Ricordata la sua nomina a cardinale, 5. Fa illuminar Roma alla falsa nuova d'una vittoria contro i Francesi, 14. Della sua commedia La Calandria, 32, 144.
Bibbiena (da) Guglielmo, II, 549.
Bibbiena (da) Piero (Dovizi). Lettere a lui del cardinal Giovanni e [508] di Giuliano de' Medici, II, 177, 549, 182, 552, 197, 553, 555; di Bernardo suo fratello, 550.
Biblioteca Barberiniana. Vi sono manoscritti del M., III, 371.
Biblioteca Medicea, già dei Frati di San Marco, trasportata in Roma poi ricondotta a Firenze, III, 2.
Biblioteca Mediceo-Laurenziana, I, 103; III, 2.
Biblioteca Quiriniana di Brescia. Lettera autografa del M., ivi esistente, III, 396.
Biblioteca reale di Parma. Lettera originale del M. ivi esistente, III, 42.
Biblioteca Strozziana di Firenze. Vi sono manoscritti del M., III, 371.
Biblioteca Vaticana. Aperta al pubblico da Sisto V, I, 146. Manoscritti di opere del M. che vi si conservano, III, 182.
Biliotti Pandolfo, confinato, II, 555.
Binet Stefano. Suo racconto del preteso sogno avuto dal M. in punto di morte, III, 368.
Bini (Banco dei). Debito lasciato con essi da Leone X, III, 36.
Biondo Flavio, I, 134. Di una sua lettera a Leonardo Aretino intorno alla lingua, III, 189. Principale iniziatore della critica storica, 201, 202; e citazione di alcune monografie intorno ad esso, ivi. Da lui imita e traduce il M. il primo libro delle Storie, 207 e seg., 216; e raffronti tra i due storici, 221 e seg. Esemplare a stampa delle sue Storie postillato da Donato Giannotti, ricordato, 221. Di lui si vale il M. anche in altri libri delle Storie, 233, 266, 269, 270, 271.
Bisceglie (duca di) Alfonso. Sposa Lucrezia Borgia, I, 267. Fatto uccidere dal Valentino, 272 e seg.
Blado. Stampa per primo i Discorsi e il Principe del M., II, 420.
Boccaccio, I, 95. Di lui parla il M. nel Dialogo sulla lingua, III, 182, 185.
Boccalini Trajano. Come parli del M. nei suoi Ragguagli di Parnaso, II, 446.
Bodino Giovanni, avversario del M. nel suo libro De Republica, II, 431.
Boiardo Matteo Maria e il suo Orlando Innamorato, I, 222 e seg.; II, 34.
Bollmann. Di un suo scritto in difesa del Machiavellismo, II, 450.
Bologna. Si dà a Giulio II, I, 501. V'entrano i Bentivoglio e i Francesi, II, 143-44. Assalita dalle genti del Papa e dei confederati, è soccorsa dai Francesi, 158. Ricordata dal M. nel Principe, 381, 618. Vi si stipula un trattato tra Leone X e Francesco I, III, 15 e seg.
[509]
Bologna (da) Mancino, I, 623.
Bonciani Carlino, ucciso, I, 584.
Bonciani Ubertino, confinato, II, 555.
Bonifazio VIII, II, 236.
Borbone (Conestabile di). III, 27. Disertore della Francia, è nell'esercito di Carlo V, 297. Non vorrebbe che il Re di Francia, prigioniero, si abboccasse con l'Imperatore, 304. Giudizi dei contemporanei e dei posteri circa la sua defezione, 308. Ha il comando dell'esercito imperiale; accenni alla sua condotta e ai suoi rapporti con Girolamo Morone, 314 e seg., 319, 349, 353. Voce che Carlo V voglia dargli in moglie una sua sorella, 457. Ricordato, 460. Accenni al suo avanzarsi verso Roma, 352 e seg. Ricordata la sua morte, 315.
Borgia Angiola, II, 34.
Borgia Cesare. Ottiene l'arcivescovado di Valenza, I, 235, 238. Accompagna Carlo VIII nel suo viaggio a Napoli, 254. Dell'uccisione del Duca di Gandia suo fratello, 261, 262. Va a Napoli a incoronare re Federico d'Aragona, 266; e vorrebbe sposare Carlotta figlia di lui, ivi. Spoglia l'abito ecclesiastico, 267. Suo viaggio in Francia, ivi. Ottiene il ducato di Valentinois, ivi, 268. — Ved. Valentino (Duca).
Borgia Giovanni, duca di Gandia, figlio d'Alessandro VI, I, 235, 238, 239. Della sua uccisione, 260 e seg., 525; III, 491. Delle notizie relative ad esso e agli altri Borgia nella Storia del Guicciardini, 495.
Borgia Giovanni, figlio di Alessandro VI. Due brevi relativi alla sua legittimazione, ricordati, I, 264.
Borgia Giovanni, nipote d'Alessandro VI, vescovo di Monreale. Nominato cardinale, I, 235. Sua morte, 436. Ricordata una sua legazione a Perugia, 480.
Borgia Girolamo, autore citato dal Guicciardini nei materiali per la sua Storia, III, 491.
Borgia Giuffrè, I, 235, 238. Si tocca del suo matrimonio con una figliuola del Re di Napoli, I, 246.
Borgia Lucrezia. Fanciulla, sta in casa di Adriana Orsini, I, 234, 236. Si tocca della sua cultura e del suo carattere, ivi, 237. Promessa sposa a vari spagnuoli, si marita a Giovanni Sforza signore di Pesaro, 237; poi è separata da lui, 264. Partorisce un figlio illegittimo, ivi. Sposa don Alfonso duca di Bisceglie, 267; che le è [510] poi ucciso, e come si comporti in tale occasione, 272, 273. Va sposa al duca Alfonso d'Este, 379 e seg. Notizie di lei in Ferrara, II, 34 e seg. Delle notizie relative a lei e agli altri Borgia nella Storia del Guicciardini, III, 495.
Borgia Roderigo, cardinale. Eletto papa, prende il nome d'Alessandro VI, I, 231. Carattere e qualità di lui, e sua vita prima d'esser papa, ivi e seg. — Ved. Alessandro VI.
Borgognoni A. Citato a proposito della Mandragola del M., III, 148.
Boscoli Pietro Paolo e Capponi Agostino. Della loro congiura contro i Medici, II, 194, 195. Sunto della narrazione della loro morte scritta da Luca della Robbia, ivi. Due lettere di Giuliano de' Medici intorno a detta congiura, 197, 198, 553 e seg. Sentenza contro di loro citata, 556.
Bossi Donato, grammatico, II, 564.
Bozzolo (da) Federigo. Aiuta Francesco Maria della Rovere a ricuperare il ducato d'Urbino, III, 18. Mediatore in un accordo tra i Medici e il popolo sollevato in Firenze, secondo la narrazione del Guicciardini, 358, 484 e seg. passim.
Bracci o Braccesi Alessandro. Ambasciatore in Roma; sua lettera ai Dieci relativa all'uccisione del Duca di Gandia, I, 262, 525. Altre sue lettere, ricordate, 262 e seg. È uno dei segretari della Signoria, e gli succede il M., 307. Di nuovo oratore al Papa, 386, 579. Estratti di sue lettere fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 491.
Bracci Giovambattista. Due sue lettere al M., III, 64, 406 e seg.
Braccio da Montone, III, 88, 219.
Bracciolini Poggio, I, 107. Traduttore di Diodoro Siculo, 125, 535; II, 578. Della sua opera De varietate fortunae, I, 140. Del suo libro De infelicitate principum, II, 246. Ricordato dal M. nel Principe, 388. Si ragiona di lui come storico, III, 200 e seg. Sua Storia, ricordata, 205, 271.
Bramante, architetto, II, 29; III, 34.
Brancacci Giuliano. Ricordato in lettere di Francesco Vettori al M., II, 559 e seg.
Brescia. Tolta ai Francesi da Giulio II e da' suoi confederati, II, 158. Ricuperata e posta a sacco dai Francesi, 159. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, 323. Presa da Francesco I, III, 14. Lettera autografa del M. nella sua Biblioteca Quiriniana, 396.
Brevio Giovanni. Traduttore d'Isocrate, I, 534. A lui viene attribuita la Novella di Belfagor del M., III, 198.
[511]
Briçonnet Guglielmo, signore de la Touraine e vescovo di San Malò, I, 239, 244. Nominato cardinale, 254. Aderisce al concilio di Pisa contro Giulio II, II, 147, 150. Privato delle sue dignità e benefizi, 149; poi rintegrato, 206.
Broncone (Compagnia del), in Firenze, II, 184.
Bruni Leonardo d'Arezzo, I, 98, 106, 116, 117. Sua traduzione della Politica d'Aristotele, ricordata, II, 285, 393. Ricordato a proposito del Dialogo sulla lingua del M., III, 189. Si ragiona di lui come storico, 200 e seg. Ricordata la sua Storia, 205, 207, 230; di cui si vale il M.; e luoghi di raffronto tra i due storici, citati, 251, 253. Dove termini la detta Storia, 272.
Bruto Michele. Accenno alla sua Storia a proposito di quella del M., III, 279.
Buonaccorsi Biagio. Si lega d'intima amicizia col M., I, 313. Dell'opinione che vorrebbe attribuire il suo Diario al M., 317. Sue lettere al M., oratore a Forlì, 325, 536 e seg. Notizie di lui e dei suoi scritti; e di nuovo del suo Diario falsamente attribuito al M., 325; qual Diario è tutto ricopiato dal Nardi nella sua Storia, 327; II, 183; III, 489. Altri suoi scritti ricordati intorno alla guerra pisana, I, 342. Sue lettere al M., ambasciatore in Francia, 355, 555. Una riflessione a proposito delle sue lettere al M., 387, 388. Sue lettere al M., ambasciatore al Valentino, 398, 400, 405, 573 e seg., 581 e seg.; 587 e seg.: e a Roma, 456, 463, 604 e seg.; 629 e seg. La sua moglie visita quella del M., 584, 606, 608. Sua relazione sui tentativi per deviare il corso dell'Arno a Pisa, ricordata, 469. Di nuovo ricordato in lettere al M., 572, 578. Pressato a recarsi in Francia non vuole andarvi, 585, 586; e se ne libera, 588. Compare al primo figliuolo del M., 606. Altre sue lettere al M., citate, II, 121, 134. Privato d'ogni ufficio al ritorno de' Medici in Firenze, 191. Di sua mano è ritenuta una copia del Principe del M., 415, 416; e brano della lettera con cui la indirizza a Pandolfo Bellacci, ivi, 420. Ricordato in altra lettera al M., 500. Altre sue lettere al M., 502, 504, 523, 524, 539. Di nuovo ricordato il suo Diario, III, 199. Ricordati alcuni suoi estratti di lettere, 286.
Buonarroti Michelangelo. Porta denari al M., I, 630, 633. Delle sue opere d'arte, II, 15 e seg., 22, 27 e seg. Sue qualità morali, 31. Porta altri denari al M., 504. Adoprato da Leone X in opere non di suo genio, III, 33. Come si rompa un braccio alla sua statua [512] del David, 358. Suo progetto di fortificazioni di Firenze, ricordato, 360.
Buondelmonti Rosso, I, 556.
Buondelmonti Zanobi. A lui ed a Cosimo Rucellai dedica il M. i suoi Discorsi, II, 286; III, 49. Uno dei più assidui frequentatori degli Orti Oricellari, III, 46. Ricordato, 410. Il M. dedica a lui ed a Luigi Alamanni la sua Vita di Castruccio, 67, e sua relativa lettera al M., ricordata, ivi, 74. Uno degli interlocutori dell'Arte della Guerra, 75. Si esalta contro il governo dei Medici, 130. Sua proposta di riforma del governo, ricordata, 131, 133. Cospira per uccidere il cardinal Giulio, 135; e scopertasi la congiura, si pone in salvo con la fuga, 136.
Buonvicini fra Domenico da Pescia, discepolo del Savonarola, I, 286 e seg.
Burchiello, III, 182.
Burckhardt Iacopo. Si ricordano e lodano alcune sue opere, II, 5, 12, 80.
Burd Arturo. Sua introduzione al libro del Principe, ricordata, II, 279, 377, 385, 392, 393; III, 95. Altro suo scritto sull'Arte della Guerra, III, 95.
Busini Gio. Battista. Di una sua lettera a proposito del Principe del M., II, 422: e di una sua opinione circa l'Asino d'oro dello stesso autore, III, 176. Di una sua lettera al Varchi relativa alla morte del M., 363, 366, 369.
Caen (Balì di), al campo dei Fiorentini contro Pisa, I, 431.
Caffini Giuliano, vicario di Scarperia; lettera dei Dieci a lui, I, 563.
Calco Bartolommeo, segretario di Lodovico il Moro, I, 519, 520.
Caldes Pietro o Pierotto, cameriere d'Alessandro VI, ucciso dal Valentino, I, 274.
Callisto III, I, 65, 76.
Cambi Giovanni. Sue Istorie, ricordate, III, 199.
Cambray (Lega di) contro i Veneziani. Se ne veggono i germi nei dispacci d'Antonio Giustinian e del M. oratori a Roma, fino dall'elezione di Giulio II, I, 452, 458. Conclusa, II, 107.
Cambray (Trattato di) tra il Re di Spagna l'Imperatore e Francesco I, III, 15.
[513]
Camerino (Stato di). Occupato dal Valentino, I, 381. Ricuperato da Giovan Maria da Varano, 385; III, 128.
Cammelli Tommaso, detto Il Pistoia, e la sua poesia popolare, I, 220, 335.
Campanella Tommaso, avversario del M., II, 433.
Canacci Giovanni, II, 530.
Canello U. A. Parla molto del M. nella sua Storia della letteratura italiana, II, 495.
Canestrini Giuseppe. Dei suoi Scritti inediti di N. M., I, 327, 330; II, 52; e dei suoi Documenti sulla Milizia fiorentina, I, 507; II, 52; III, 434.
Canigiani Alberto, III, 395, 396, 399.
Canigiani Antonio. — Ved. Martelli Braccio.
Canigiani Domenico, oratore in Spagna, III, 450, 463.
Canossa Lodovico, vescovo di Tricarico, nunzio del Papa presso Francesco I, III, 11. Nunzio a Venezia, 302, 329; sua lettera a Francesco Vettori, 431.
Capella. — Ved. Capra Galeazzo.
Capitani di Parte Guelfa di Firenze, III, 442.
Capo (Da) Capino, inviato del Papa al Re di Francia, III, 447.
Capponi Agostino. — Ved. Boscoli Pietro Paolo.
Capponi Gino. S'adopra a cacciare Piero Soderini e a rimettere i Medici in Firenze, II, 176.
Capponi Gino di Neri. Suoi Ricordi allegati nel trattato del Reggimento di Firenze del Guicciardini, II, 261. Sua narrazione del Tumulto dei Ciompi, ricordata, III, 199, 251; di cui si vale il M. nella sua Storia, 241; e luoghi di raffronto indicati, 248.
Capponi marchese Gino. Suoi giudizi sul M. nella sua Storia della Repubblica di Firenze, I, x; II, 317, 361; III, 279.
Capponi Neri di Gino, III, 246. Dei Commentari e d'un altro scritto di lui si vale il M. nella sua Storia, 269 e seg. Ricordato, 275.
Capponi Niccolò. Commissario generale nel campo contro Pisa, II, 95. Si duole che il M. non gli scriva, 503. Ricordato in una lettera al M. 521. Gonfaloniere, III, 360, 476.
Capponi Piero, oratore in Francia, I, 242. Si accenna alle sue relazioni con Piero de' Medici, 243, 244. Straccia i capitoli proposti da Carlo VIII, 253. Suo giudizio d'Alessandro VI, 282. Interlocutore nel dialogo del Reggimento di Firenze del Guicciardini, II, 259, 261. Il ritratto di lui, scritto dal M. ricordato, III, 288. Passo a lui relativo nella Storia del Guicciardini, 490.
[514]
Capra Galeazzo detto Capella. I suoi Commentarii de rebus gestis pro restitutione Ducis Mediolanensis sono una fonte della Storia del Guicciardini, III, 489, 491.
Capua (Cardinale di), I, 560.
Carafulla, II, 206.
Cardona (da) Raimondo, vicerè di Napoli. Capitano generale della Lega Santa contro Luigi XII, II, 149, 158. Viene col Cardinale de' Medici contro Firenze, e che cosa domandi, 169. Arriva a Prato, 172; e lo prende e pone a sacco, ivi, 173. Crescono le sue pretese contro la Repubblica, 175. Si adopera per pacificare i Medici con Piero Soderini, 550. Entrato in Firenze è menato in Consiglio e fatto sedere nel luogo del Gonfaloniere, 181. Dei suoi accordi con la Repubblica, a proposito del relativo passo nella Storia del Guicciardini, III, 494. Lascia Firenze e Prato, II, 184. Occupa Parma e Piacenza, III, 8; ed altre sue fazioni di guerra, 9, 12. Va verso Napoli, 13.
Carducci Baldassarre. Ambasciatore a Raimondo di Cardona; sua lettera citata, II, 169. Oratore al campo del Cardona e del Cardinale de' Medici, 550.
Carli Plinio. Suoi lavori sul M. citati, III, 287.
Carlo I d'Angiò e suoi successori nel regno di Napoli, I, 74.
Carlo (Arciduca). Fa alleanza con Francesco I re di Francia, III, 11; che gli promette in moglie la figliuola, 14. Succede al trono di Spagna dopo la morte di Ferdinando d'Aragona, ivi. Entra nel trattato di Cambray, 15. Gara tra esso e Francesco I per la successione all'Impero, 24. Suo trattato d'accordo con Leone X, ricordato, ivi. Eletto imperatore. — Ved. Carlo V.
Carlo V, imperatore. — Ved. Carlo Arciduca. — Gli è dedicato da Agostino Nifo il suo libro De regnandi peritia, II, 417. Studia il Principe del M., 427; e sua ammirazione per esso, 436, 443. Eletto all'Impero, III, 24. Accordo da lui firmato con Leone X, 25, 27. Suo esercito contro Francesco I in Italia, 27. S'insignorisce di Milano, 28. Ricordato, 110. Sua strapotenza dopo la vittoria di Pavia, 299; e suoi accordi con gli avversari, 300. Delle pratiche d'una lega italiana con la Francia contro di lui, 301 e seg., e relative lettere del Marchese di Pescara a lui, ricordate; e brani d'alcune di esse, 306 e seg. Giudizi del Guicciardini circa i suoi disegni ed imprese, 321; e circa i possibili accordi tra lui e il Re di Francia, 335; e delle voci di questi accordi, ivi e seg. Ricordato [515] in lettera del M. al Guicciardini, 338. Cerca accordarsi col Papa, 341; e sua tregua con esso, 342, 346. Progressi e stato del suo esercito, 350. Sua nuova tregua col Papa, 353. Ricordato in lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 445 e seg. passim. Disegni che gli si attribuiscono contro Francesco I e i suoi collegati, 456 e seg. Si accenna a pratiche di pace tra i collegati e lui, 463 e seg.
Carlo VIII, re di Francia. Che cosa pensi e scriva poco innanzi alla sua venuta in Italia un ambasciatore veneto in Francia, I, 240; e che cosa pensino e scrivano di quella venuta gli oratori fiorentini a Napoli, 241; in Francia, ivi, 242; a Milano, 243, 519; a Venezia, 243. Che cosa ne pensi e scriva il Re di Napoli, 244 e seg. Sua venuta in Italia, 249 e seg.; e in Firenze, e suoi accordi colla Repubblica, 252. Entra in Roma e in Napoli, 253, 254. Torna in Francia, 256. Muore, 258, 286. Si fa umile innanzi al Savonarola, ambasciatore dei Fiorentini a lui, 277, 278. Ricordato dal M. nel Principe, II, 387, 617; e nei Frammenti storici, III, 287. Del racconto della sua venuta in Italia nella Storia del Guicciardini, 490.
Carmagnola Francesco. Ricordato nell'Arte della guerra del M., III, 97.
Carnesecchi Pierantonio, commissario in Maremma, I, 485, 486, 490; e lettere scrittegli dai Dieci, 618, 622.
Carnesecchi Piero, III, 363.
Carpi. Vi va ambasciatore il M. a un Capitolo generale dei Minori, III, 124.
Carraresi, signori di Padova, I, 51, 54.
Carvaial Bernardino, cardinale di S. Croce. Mandato dal Papa all'imperatore Massimiliano, II, 53.
Casavecchia (da) Filippo. Sue lettere al M., II, 106, 500, 520. Vede per il primo il Principe del M., 270, 373; che con lui ragiona d'indirizzare quel libro a Giuliano de' Medici, 374. Va a Roma e parla di ciò con Francesco Vettori, 375. Ricordato nelle lettere del Vettori al M., 529, 560 e seg.
Cascina. Presa dai Fiorentini, I, 327.
Casentino. Si accenna a un tumulto ivi successo, I, 630.
Castellani Ciango. Lascia le ragioni del patronato di una pieve ai Machiavelli, I, 531.
Castello (da) Cerbone, I, 332.
Castiglione (da) Baldassarre. Accenno al suo Cortigiano, I, 228. Gli è [516] attribuita una Relazione scritta da Raffaello da Urbino, III, 35. Nunzio del Papa all'Imperatore; lettera di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia a lui, 463.
Castiglione (da) Bastiano. Uno dei capi della milizia fiorentina ideata dal M., I, 629, 632.
Castrocaro (di) Feragano, II, 514, 515.
Catasto (Legge del) in Firenze, I, 39; III, 260.
Catucci Lorenzo. Di una sua domanda per ottenere il beneficio dello stato, I, 319.
Cavalcanti Bartolommeo, traduttore di Polibio, I, 534.
Cavalcanti Giovanni, accademico platonico. Esposizione di un suo commento ad un passo del Simposio, I, 174. Delle sue Istorie Fiorentine, e della loro pubblicazione; e come e quanto se ne valga il M. nella sua Storia, III, 254 e seg., 269. Raffronti tra i due storici, 257 e seg. Dove terminino le sue Storie, 272.
Cavalcanti Luca, I, 628.
Cavour (Cammillo di). Si cita un suo giudizio di paragone tra il M. e il Guicciardini, II, 360.
Cazzuola (Compagnia della) in Firenze, III, 168, 333.
Cei Francesco, I, 558.
Cenami Bartolommeo e Micheli Buonaventura, lucchesi. Sotto loro nome alcuni mercanti fiorentini hanno un credito con Michele Guinigi di Lucca, III, 406 e seg.
Centurioni Iacopo, mercante genovese, III, 401, 402.
Ceri (da) Renzo (Lorenzo Orsini), I, 623. Mandato dal Cardinal Soderini a mutare il governo in Siena, III, 134; torna indietro, 135. Si tratta di condurlo agli stipendi della Lega contro Carlo V, 459, 471.
Cerignola, III, 108.
Cerretani Bartolommeo. Suo giudizio sul M., I, 387. Sua Storia ms. citata, II, 60 e seg. Ricordato, 122.
Certaldo (Vicario di). Lettera dei Procuratori delle mura di Firenze a lui, ricordata, III, 438.
Certosa (Abate della) presso Firenze. Gli è ordinato dai Procuratori delle mura di Firenze di far tagliare stipa in un suo bosco, III, 443.
Cervia, terra dei Veneziani, agognata da Leone X, III, 4.
Cesari Antonio. Raffronti della sua traduzione dell'Andria di Terenzio con la traduzione del M., III, 171.
Cesena, II, 163. Ricordata dal M. nel Principe, 382, 608.
[517]
Cesena (Vescovo di). Fatto imprigionare da Alessandro VI, I, 416.
Châteaubriand (Contessa di), sorella di Odetto di Foix, III, 27.
Châtillon, II, 153. Riman ferito in un tumulto successo in Pisa, 155.
Chaumont (Signore di). — Ved. Amboise (d') Carlo.
Chiala Valentino, ufficiale nell'esercito italiano, consultato e citato dall'autore di quest'opera intorno all'Arte della guerra del M., III, 78 e seg. pass.
Chiusi (Vescovo di). Muore, I, 417.
Christ Gio. Federico. Si ricorda e cita un suo scritto De Nicolao Machiavelli libri tres, II, 85, 414, 425, 431.
Ciacchi Iacopo, I, 633.
Cibo Franceschetto, I, 71, 72. Sposa Maddalena di Lorenzo de' Medici, ivi, 189. Vende due suoi feudi a Gentile Virginio Orsini, 235, 236.
Cibo Innocenzo. Creato cardinale, III, 5, Ricordato, 32, 357, 484.
Citerna (da) Agnolo. Lettera dei Nove della Milizia a lui, II, 507.
Clemente, gesuita spagnuolo. Sua opera contro il M., ricordata, II, 426.
Clemente VII. — Ved. Medici Giulio, cardinale. — Ricordato, II, 417, 422. Non si offende della libertà con cui il M. giudica i Papi nelle sue Storie, III, 213. Sua elezione, e suo carattere e qualità, 294, 296. Manda a governare Firenze in nome dei Medici il Cardinal Passerini, 297. Esita a scoprirsi tra Francia e Spagna, 298, 300. Accetta e promuove una proposta di una lega italiana con la Francia contro Carlo V, 301 e seg. Sua prigionia in Castel Sant'Angelo ricordata, 315. Il Guicciardini prevede quello che gli avverrà nella lotta con l'Imperatore, 322. Accorda un sussidio al M. per continuare le Storie, 324. Persuaso dal M., pensa all'istituzione d'una milizia nazionale nei suoi Stati, 325, 326; e manda perciò il M. a F. Guicciardini con un suo breve, ivi, 429; poi abbandona l'impresa, 327. Ricordato, 331. Respinge una proposta del M. di armare Giovanni delle Bande nere contro ogni possibile assalto degl'Imperiali, 337. Tratta col M. di fortificar le mura di Firenze, e come intenda fortificarle, ivi e seg.; e relative lettere dei Procuratori delle mura all'oratore fiorentino presso di lui, 434 e seg. Insulto dei Colonnesi contro di lui, 341, 466, 467, 469. Lettere di Roberto Acciaiuoli, suo oratore in Francia, a vari, 445 e seg. Respinge, poi conclude per forza, una tregua coll'Imperatore, 341, 342, 346, 470. Non sa decidersi nè alla pace nè alla guerra, 350. Nuova tregua tra lui e l'Imperatore, 353. Chiuso in Castel Sant'Angelo, 359 e seg.
[518]
Cognac (Lega di), III, 341. Suo esercito, 346. Notizie di essa nelle lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 447 e seg. passim.
Colle (da) ser Antonio, I, 574.
Collenuccio Pandolfo. La sua Storia è una delle fonti del Guicciardini, III, 492.
Colleone Bartolommeo. Vita di lui, ricordata, III, 279.
Colombino, I, 469, 609.
Colombo Cesare, corrispondente in Roma di Francesco Guicciardini presidente in Romagna, III, 319, 325, 327.
Colombo Cristoforo, II, 32.
Colonna famiglia, ricordata dal M. nel Principe, II, 386, 618.
Colonna (Cardinale), nimicissimo di Clemente VII; assalto da lui fatto in Roma, III, 341, 466, 467, 469. Si ritira a Grottaferrata, 342. Ricordato, 346.
Colonna Egidio. Esposizione delle sue dottrine politiche, II, 234. Ricordato dal M. nel Principe, 388.
Colonna Fabrizio. Uno dei comandanti le genti del papa contro i Francesi, II, 142. È alla battaglia di Ravenna, II, 161. Fatto prigioniero, 162. Interlocutore nell'Arte della guerra del M., III, 75; dove espone le dottrine dell'Autore, 87 e seg. pass., 114 e seg.
Colonna Marcantonio. Condotto al soldo dei Fiorentini, I, 468. Vuole alloggiare in Maremma, 612. Vuol venire in Firenze, 615. Ricordato, 623. Si trova a combattere e rompere le genti dell'Alviano, 491, 626. Sposa una nipote di Giulio II, 495. Mandato dai Fiorentini in aiuto al Papa, 500. È nel campo dei Fiorentini contro Pisa, II, 97. D'ordine di Giulio II, tenta di far sollevare Genova contro i Francesi, 125. Non accetta la rafferma della sua condotta co' Fiorentini, 527, 533. Si leva la voce essersi acconciato con la Chiesa, 528, 533; e delle sue imprese contro Genova, 530, 534 e seg. Ricordato, 532. Uno dei comandanti le genti del Papa contro i Francesi, 142. Uno dei comandanti della Lega Santa, 158. È alla guardia di Ravenna, 160.
Colonna Muzio, II, 535.
Colonna Prospero, II, 148. Uno dei comandanti della Lega Santa, 158. Comandante la cavalleria nell'esercito della lega contro Francesco I, III, 12. È proposto al M. di acconciarsi con lui per segretario, 123. È al servizio degli Spagnuoli, ivi.
Commedia dell'Arte e Commedia erudita in Italia, che cosa fossero e come nascessero, III, 139 e seg.
[519]
Commines (de) Filippo, Delle sue Memorie, e giudizi intorno ad esso, I, 244, 251. Suo giudizio intorno agli uomini del suo tempo e intorno alle corti italiane, nella sua venuta con Carlo VIII, ivi. Ambasciatore del Re a Venezia, 256.
Compagnie di ventura, III, 79, 86, 88.
Concilio o Conciliabolo di Pisa, adunato a istanza del Re di Francia, II, 146 e seg., 154. Trasferito a Milano, 155. Disdetto dal Re, 221; III, 9.
Concilio Lateranense, indetto da Giulio II contro il Conciliabolo di Pisa, II, 147, 154, 192; III, 9.
Consalvo di Cordova, I, 259, 260. Gli è mandato oratore dai Fiorentini Roberto Acciaiuoli, 486. Manda gente a Piombino per sicurezza di quel signore, ivi, 620, 621. Manda gente a difendere Pisa da un assalto dei Fiorentini, 493. Va incontro al Re di Spagna che viene in Italia, e sue proteste d'amicizia ai Fiorentini, 634. Venuto in diffidenza del Re Cattolico vive ritirato in patria, II, 54. Ricordato nell'Arte della guerra, III, 97; e nel Capitolo della ingratitudine del M., 178.
Consiglio degli Ottanta, I, 280, 281; III, 360.
Consiglio dei Dugento, III, 58, 59, 60.
Consiglio dei Settanta, I, 46; II, 212.
Consiglio Maggiore, I, 279, 281. Il M. vorrebbe ristabilirlo, III, 57, 59, 60. Ristabilito, 360.
Constabili Beltrando, ambasciatore ferrarese in Roma. Sua lettera al Duca di Ferrara, I, 600. Annunzia la morte di Alessandro VI, 443.
Contarini Zaccaria, ambasciatore veneto in Francia; si accenna a un suo ragguaglio sulle condizioni di quel regno, poco innanzi alla venuta di Carlo VIII in Italia, I, 240.
Coppola Francesco, conte di Sarno, I, 77.
Corbinegli Raffaello, III, 444.
Cordova (di) Consalvo. — Ved. Consalvo.
Corella Pietro, conestabile al soldo della Repubblica; sua lettera al M., II, 516.
Coriglia o Coreglia (da) don Michele o Micheletto. Uccide il duca di Bisceglie, I, 274. Mandato dal Valentino contro i congiurati della Magione, 384, 385. È spagnuolo e non veneto, 384. Altra uccisione da lui commessa, 436, 600. Dopo la morte d'Alessandro VI, fa bottino dei suoi denari e robe pel Valentino, 440. Condotto prigione a Firenze, 460. Eletto bargello del contado e comandante [520] la nuova Milizia fiorentina, 509 e seg., 515; II, 51. Licenziato e perchè, 61. Ucciso, 62. Brano di una lettera a lui relativa, e di nuovo della sua nazionalità, ivi, 509; e pagamento di denari fattogli dai Fiorentini, 509. Sue lettere al M., ivi, 515. Quando entrasse al servizio della Repubblica, ivi. Ricordato, 508.
Corio Bernardino, III, 280.
Corneto (da) Adriano, cardinale, I, 438-39, 442.
Corsini Albertaccio. Lettera del M. a lui, ricordata, I, 582. Eletto degli Otto, 593.
Corsini Antonio, II, 514, 515.
Corsini Gherardo di Bertoldo, III, 411. Uno dei cinque Procuratori delle mura di Firenze, III, 435.
Corsini Luigi, II, 526.
Corsini Marietta. Si accenna al suo matrimonio col M., e si difende da quanto fu ingiustamente scritto contro di lei, I, 387. Si duole dell'assenza del marito, 396, 574, 593. Ricordata in lettere di Biagio Buonaccorsi al M., 574, 576, 584, 586, 594. Lettere del M. a lei ricordate, 586, 589. Dà alla luce il primo figliuolo, e sta in gran passione per l'assenza del marito, 605, 606, 608. Ricordata in altre lettere del Buonaccorsi al M., 629, 630; II, 525, 526. Mandata a salutare da Lodovico suo figliuolo, III, 390, 391. Di una sua lettera al marito, 40, 324; e testo di essa lettera, 397; e del suo affetto di moglie e di madre, 41. Ricordata in lettera del marito 392, 395, 396; e in lettere a lui, 399, 410. Fa premure al marito perchè torni da Lucca, 67. Di nuovo delle ingiuste accuse lanciate contro di lei, 197. Sta con i figliuoli in gran paura dell'arrivo dei Lanzichenecchi contro Firenze; il marito manda a rassicurarla, 355, 475. Nuove di lei mandate dal figliuolo Guido al M., 475. Ricordata a proposito del testamento e della morte del M., 366, 367.
Corsini Piero, commissario in campo contro Pisa, muore, I, 546.
Cortona (Cardinale di). — Ved. Passerini Silvio.
Cortona (da) Francesco, II, 524.
Cosenza (Cardinale di). Aderisce al concilio di Pisa contro Giulio II, II, 147, 150; ed è privato delle sue dignità e benefizi, 149.
Cowper (Lord). Promuove e gli è dedicata un'edizione delle Opere del M., III, 371-72.
Cremona, assediata e presa dall'esercito della lega contro Carlo V, III, 343 e seg. passim., 465, 466, 469, 471.
[521]
Criaco (messer), I, 597, 619.
Criaco (di messer) Bernardino, I, 597.
Crisolora Emanuele, I, 99, 100, 104, 106.
Cristianesimo e Paganesimo formano, secondo i neoplatonici, una sola cosa col Platonismo, I, 175, 176, 177; II, 196.
Cristina, regina di Svezia. Sue annotazioni al Principe del M., II, 436, 437, 593 e seg.
Crivellucci Amedeo. Si cita un suo lavoro Del governo popolare in Firenze secondo il Guicciardini, II, 290.
Crociata contro il Turco, propugnata da Pio II, I, 66, 67, 68.
Cromwell Tommaso. Studia il Principe del M., 427, 428.
Cusano Niccola, I, 145.
D'Ancona Alessandro. Citato a proposito della Calandra del Bibbiena, III, 145.
Da Diacceto Francesco il Nero, uno dei più assidui frequentatori degli Orti Oricellari, III, 46.
Da Diacceto Francesco il Pagonazzo, uno dei più assidui frequentatori degli Orti Oricelliiri, III, 47; e altre notizie di lui, ivi, 48.
Da Diacceto Iacopo. Si esalta contro il governo de' Medici, III, 130; e cospira per uccidere il cardinal Giulio, 135. Decapitato, 136.
Da Diacceto Zanobi. III, 46.
Da Filicaia Antonio, commissario in campo contro Pisa, II, 96.
Da Filicaia Berto, vicario di Pescia; lettera dei Nove della Milizia a lui, II, 506.
Daguet Alessandro. Sua memoria Machiavel et les Suisses, ricordata, II, 66.
D'Aquino (san Tommaso). Esposizione delle sue dottrine politiche, II, 237. Ricordato a proposito del Principe del M., 394.
Da Uzzano Niccolò, III, 257. D'un suo colloquio intorno a Cosimo de' Medici, nelle Storie del Cavalcanti e del M., 261.
D'Avalos Ferdinando, marchese di Pescara. Prigione dei Francesi alla battaglia di Ravenna, II, 162. Ricordato, III, 27, 297. Sua eroica condotta alla battaglia di Pavia, 298 e seg. Sue ire contro il Vicerè di Napoli, 304. Gli è offerto il regno di Napoli, con la direzione di un'impresa italiana contro l'Imperatore, ivi, 305 e seg., 316 e seg. Sue lettere all'Imperatore, ricordate, e brani d'alcune [522] di esse, 306 e seg. Notizia della sua morte, e particola del suo testamento relativa a Girolamo Morone, 313.
Da Vinci Leonardo, II, 11 e seg., 18 e seg., 22, 31; III, 346.
Decima, imposta. Sua istituzione in Firenze, I, 281.
Decima scalata, I, 365.
De Grassi Paride. Suo Diario cit., III, 16.
De Gubernatis Angelo. Citato a proposito della Mandragola del M., III, 147.
De Langres, capitano francese spedito in aiuto de' Fiorentini ad Arezzo, I, 371.
De la Tour d'Auvergne Maddalena, moglie di Lorenzo de' Medici, III, 22. Sua morte, 23.
Del Bello, famiglia, di Firenzuola, II, 511.
Del Bello Achille, II, 511.
Del Bello Francesco, II, 514.
Del Bene, compagnia di banco, II, 571, 574.
Del Bene Piero, amico privato del Valentino, inviato a lui dai Fiorentini, I, 358. Ricordato, II, 566, 571, 573, 574.
Del Bene Tommaso, II, 502.
Del Benino Filippo, II, 574.
Del Benino Neri, III, 392.
Del Caccia Alessandro, III, 350.
Del Corno Donato. Notizie di lui nel carteggio del M. con Francesco Vettori, II, 216, 217, 563-573 passim; III, 429, 431, 433; e in una lettera di Filippo de' Nerli al M., III, 412.
De Leyva Antonio. È alla battaglia di Pavia, III, 297 e seg. Suoi rapporti con Girolamo Morone, 311 e seg. Ricordato, 315, 360.
Del Fiesco Gianluigi, I, 634; II, 528.
Della Casa Francesco. Oratore in Francia poco innanzi alla venuta di Carlo VIII in Italia, che cosa ne pensi e scriva, I, 241. Commissario nel campo contro Pisa, 345. Di nuovo oratore in Francia col M., 347; e sunto delle istruzioni date loro, 348. Scarso salario assegnatogli, 349. S'ammala, 351. Ricordato in lettera di Biagio Buonaccorsi al M., 557.
Della Golfaia Giorgio, II, 513.
Della Mirandola Antonio Maria, I, 526.
Della Mirandola Giovanfrancesco, I, 637.
Della Mirandola Giovanni. — Ved. Pico.
Della Mirandola Lodovico, I, 637.
[523]
Della Palla Giovan Battista. Alcune notizie intorno a lui, III, 47. Interlocutore nell'Arte della guerra del M., 75. Congiura contro i Medici, 134, 135. Di una sua lettera al M., relativa alla Mandragola, 148.
Della Porta fra Bartolommeo, II, 10, 21, 22, 31.
Della Robbia Luca Della sua Recitazione del caso di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi, II, 195 e seg.
Della Rovere Francesco Maria. Gli è tolta dal Valentino Sinigaglia, I, 405. Duca d'Urbino, II, 109; comanda le genti di Giulio II contro i Veneziani, ivi; poi contro i Francesi, 126, 141. Sconfitto, 144. Uccide il cardinale Francesco Alidosi, 145; ed è privato d'ufficio dal Papa e sottoposto a un giudizio, ivi; poi assoluto, 148. A lui dedica Polidoro Vergilio il suo libro De Prodigiis, 458. Della guerra mossagli da Leon X, per cui perde lo stato, III, 17 e seg.; che poi ricupera dopo la morte del Papa, 127-28. Sua libreria ricordata, 19. Cerca mutare il governo in Siena, 134. Il cardinal Giulio de' Medici lo conduce ai suoi stipendi, ivi. Capitano dei Veneziani nella lega contro l'Imperatore, 342 e seg.
Della Rovere Giovanni, I, 250, 405; III, 465.
Della Rovere Giuliano, cardinale. Torna a Roma dopo la morte d'Alessandro VI, I, 445. Eletto papa. — Ved. Giulio II.
Della Sassetta Ranieri, soldato di ventura, nemico dei Fiorentini, I, 329, 485, 545. Viene in Firenze al ritorno de' Medici, II, 182.
Della Stufa Giovanni, III, 472, 473.
Della Stufa Luigi e Martelli Ugolino, oratori in Francia; brano di una loro lettera al M., I, 399.
Della Stufa Prinzivalle. Congiura contro la vita del gonfaloniere Soderini, II, 137.
Della Valle ser Antonio. Uno dei coadiutori nella cancelleria dei Dieci, I, 538, 540, 576, 577, 593. Fa un modello d'un «ponte levatoio sopr'Arno», II, 505. Sua lettera al M., 533. Ricordato, III, 286.
Del Morello ser Filippo, II, 526.
Del Nero Bernardo, interlocutore nel dialogo del Reggimento di Firenze del Guicciardini, II, 259 e seg.
Del Nero Francesco. Sua lettera al M., II, 120, 525. Ricordato, 524, 580. Notizie intorno ad esso e alla sua parentela col M., 525, 526. Uno degli Ufficiali dello Studio da' quali ebbe il M. la commissione di scrivere le Storie, III, 120. Lettera del M. a lui intorno a detta commissione, ivi. Lettera di lui al M., 324, 430. Lettera di Filippo de' Nerli a lui relativa al M., 333, 433. Ricordato, 366, 428.
[524]
Del Nero Niccolò. Designato oratore al Re di Spagna, I, 632.
Del Nero Piero, I, 584, 635, 637.
Del Papa Antonio di Zanobi, trombetto di don Michele da Coreglia, II, 508.
Del Pugliese Francesco, II, 526.
Del Sarto Andrea. Dà opera agli apparati per la venuta di Leone X in Firenze, III, 16. Dipinge uno scenario per la Mandragola del M., 333.
Del Seppia Miniato, II, 509.
Del Tovaglia Masino, II, 502.
Del Verrocchio Andrea, II, 11.
Derôme. Suo giudizio intorno al M., II, 428.
De Sanctis Francesco. Come discorra del M. nella sua Storia della letteratura italiana, e critica dei suoi giudizi, II, 482 e seg.
De Scruciatis o Scruciato Giulio, napoletano. Il M. scrive in suo favore, I, 354; e altre notizie di lui, ivi.
De Spiritibus Andrea. Fatto imprigionare da Alessandro VI, I, 416:
D'Este, famiglia, I, 159.
D'Este Alfonso. — Ved. Alfonso I d'Este.
D'Este Beatrice, moglie di Lodovico il Moro, I, 230.
D'Este Eleonora. — Ved. Aragona (d') Eleonora.
D'Este Ercole. — Ved. Ercole d'Este.
D'Este Ferrante, II, 34, 35.
D'Este Giulio, II, 35.
D'Este Ippolito, cardinale. Fugge da Roma, I, 418. Fa trarre gli occhi a don Giulio suo fratello, II, 34, 35.
Deti Ormannozzo, II, 550.
De Vesc Etienne. — Ved. Beaucaire.
Diaccetino (Il), uno dei principali frequentatori degli Orti Oricellari, III, 47.
Diamante (Compagnia del), II, 187.
Dieci di balìa. Della loro cancelleria, I, 306, 540, 583. Loro balìa e loro abusi, 318. Se ne sospende la elezione, poi si rieleggono, 319, 334, 353, 356. Loro lettere a Paolo Vitelli, 542; ai Commissari fiorentini presso di lui, 543, 546; a un Vicario di Scarperia, 563; ad Antonio Giacomini, 564 e seg.; a Pier Soderini, 569; a Piero Ardinghelli commissario al Borgo San Sepolcro, 594; ai Commissari nel campo contro Pisa, 596, 599; al Commissario di Castrocaro, 602; ad Antonio Giacomini, e a Tommaso Tosinghi [525] commissario contro Pisa, 609 e seg.; a Giampaolo Baglioni, 616; al Capitano di Livorno, 617; a Pierantonio Carnesecchi commissario in Maremma, 618, 622; ad Ercole Bentivoglio governatore nel campo contro Pisa, 620; ad Antonio Giacomini commissario contro Pisa, 624; a Giovambatista Bartolini, II, 508. Sono loro sostituiti gli Otto di pratica, 209; III, 58. Ristabiliti, 360, 364. Deliberazione con cui eleggono Donato Giannotti in loro segretario, 476; e loro stanziamenti di salario a favore d'esso Giannotti e di Francesco Tarugi suo predecessore, 477.
Dijon (Balì di), I, 566.
Dioscoride. Sua opera Ars medica tradotta da Marcello Adriani, I, 309.
Doffi Iacopo. Sunto del rapporto di una sua legazione all'Imperatore, I, 631, 632. Ricordato, III, 409.
Donati G. B., veneto. Sopruso da lui fatto ad alcuni mercanti fiorentini in mare, III, 328.
Donati Onesta d'Amerigo, nella Novella di Belfagor del M., III, 195.
Doni Antonfrancesco, ricordato a proposito della Novella di Belfagor del M., III, 198.
Doria Andrea, I, 405. Ammiraglio delle navi pontificie, III, 343, 345, 348, 361. A lui va con un'ambasciata il M., 361.
D'Ovidio Francesco. Sua opinione intorno al Dialogo sulla lingua del M., III, 184.
Dovizi Bernardo e Piero. — Ved. Bibbiena (da) Bernardo e Piero.
Dschem. — Ved. Gemme.
Dubois Pietro, II, 236.
Dubreton Jean. Della sua opera La disgrâce de Nicolas Machiavel, III, VI e seg.
Duca d'Atene. Ricordato nelle Considerazioni del Guicciardini sui Discorsi del M., II, 356. Vi si ferma a lungo il M. nelle sue Storie, e perchè, III, 235 e seg., 244, 245.
Duplessis, signore di Courçon, inviato di Luigi XII al campo dei Fiorentini contro Pisa, I, 346.
Durero Alberto, III, 113.
Elba. Vi va il Valentino sopra le navi del Papa, I, 361.
Ellinger Giorgio. Sua opera intorno al M. ricordata, II, 278, 287, 317, 377. Di nuovo ricordato a proposito del Principe del M., 410-11.
[526]
Elna (Cardinale d'). — Ved. Loris Francesco.
Enrico III, re di Francia, II, 425. Alla sua morte ha indosso il libro del Principe del M., 428-29.
Enrico IV, re di Francia. Alla sua morte ha indosso il libro del Principe del M., II, 429.
Enrico VII, re d'Inghilterra, I, 637.
Enrico VIII, re d'Inghilterra. Considerazioni intorno ad esso nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, II, 224, 229, 231; III, 416 e seg. Sua lega con l'Imperatore, indi col re di Francia e col Papa, ricordata, III, 9. Rinnuova l'alleanza col Re di Francia, 11. Ricordato in lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 450, 453, 460, 461, 471.
Ercole d'Este, duca di Ferrara. Mediatore di pace tra Firenze, Pisa e Venezia, I, 317.
Eruditi italiani. Fonti per la storia di essi nel secolo XV, I, 94. Dei loro scritti politici, II, 245.
Eugenio IV, I, 63.
Ezzelino da Romano, II, 329.
Faccenda Matteo, II, 513, 514.
Faenza. Presa dai Veneziani, I, 457. Ricordata dal M. nel Principe, II, 381.
Farnese (Cardinale), I, 601.
Farnese Giulia. Dei suoi amori col cardinale Roderigo Borgia poi Alessandro VI, I, 234, 236, 238, 253, 264.
Fazio Bartolommeo, I, 154, 156.
Federigo d'Aragona, re di Napoli. Sua incoronazione, I, 266. Si rifiuta di dare una sua figlia in moglie a Cesare Borgia, ivi, 268. Di un colloquio d'un suo agente con papa Alessandro VI, 537. Perde lo Stato; sua morte ed estinzione della sua casa, 363.
Federigo II, re di Prussia. Di un suo libro contro il Principe del M., II, 437, di cui poi segue le dottrine nella sua politica, 438; e ragioni di tale contradizione, 439 e seg.
Feltre (da) Vittorino, I, 160, 161.
Ferdinando il Cattolico, re di Spagna. Entra in una lega contro Carlo VIII, I, 256. È atteso a Piombino, 632; e ambasciatori che disegnano mandargli i Fiorentini, ivi, 633. Ancora della sua venuta [527] in Italia, 636. Accenni alla sua politica dopo la morte d'Isabella sua moglie, II, 54. Ricordato, 57. I Fiorentini si obbligano di pagargli cinquantamila ducati, 94. Entra nella lega di Cambray, 107 e seg. Manda genti in Puglia, 503. Voci di un accordo tra esso e il Papa contro la Francia, 531; che poi si effettua, 148-49. Ricordato, 156. Suo esercito in Italia, 158 e seg. Sua tregua col Re di Francia, 220; e giudizi e considerazioni su lui e su detta tregua nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, 223 e seg.; III, 414. Considerazioni e giudizi intorno a lui e al suo governo nella Relazione di Spagna del Guicciardini, II, 249 e seg. Ricordato a proposito dei Discorsi del M., 329; e nel suo libro del Principe, 387, 393, 400, 601, e a proposito del Principe, 425. Sua lega con l'Imperatore e col Papa, ricordata, III, 11. Ricordo della sua morte, 14.
Ferdinando I d'Aragona, re di Napoli, I, 76. Si accenna alle sue lettere politiche, come documento di lingua, 206. Si spaventa dell'elezione d'Alessandro VI, 234. Odiato dal Papa, e perchè, ivi, 235. Brani e sunti di sue lettere, relative alla prossima venuta di Carlo VIII in Italia, 244 e seg. Muore, 249. Ricordato a proposito dei Discorsi del M., II, 329.
Ferdinando II d'Aragona, re di Napoli. — Ved. Aragona (d') Ferdinando.
Fermo, ricordata dal M. nel Principe, II, 385.
Fermo (da) Oliverotto. Imprigionato e fatto strangolare dal Valentino, I, 406, 407. Di lui parla il M. nel Principe specialmente a proposito del suo tradimento per impadronirsi di Fermo, 407; II, 385, 612.
Ferrara. Sotto gli Estensi nel secolo XVI l'arti e le lettere vi fioriscono, I, 158, 159. Le lettere in essa e la sua corte al principio del secolo XVI, II, 33 e seg. Ricordata a proposito del Principe del M., 367. Leone X agogna alla sua signoria, III, 23. Il Teatro in essa nel secolo XV, 142. Ricordati i suoi scrittori nel Dialogo sulla lingua del M., 188.
Ferrara (Duca di). — Ved. Ercole d'Este e Alfonso I d'Este.
Ferrari Battista, cardinale e datario apostolico. Sua morte, I, 381.
Ferrari Giuseppe. Citato a proposito del Principe del M., II, 418.
Ferroni (dottor) autore dell'iscrizione per il monumento a M. in Santa Croce, III, 372.
Feuerlin Emilio. Di un suo scritto sul M., II, 479.
[528]
Ficino Marsilio, I, 168 e seg. Esame delle sue opere e delle sue dottrine, 177 e seg.; che si spargono anche fuori d'Italia, 182. Una sua nipote sposa Biagio Buonaccorsi, 326.
Filelfo Francesco, I, 111. Ricercato da Niccolò V per la traduzione d'Omero, 125, 152. Cenni della sua vita e delle sue opere, 148 e seg. Porta da Costantinopoli in Italia la Politica d'Aristotele, II, 285.
Filippo II, re di Spagna, II, 425.
Filippo il Bello, re di Francia, II, 234, 235.
Filonardi Ennio, nunzio apostolico in Isvizzera; lettera di Clemente VII a lui ricordata, III, 301.
Fiorentini. Si ribellano a Piero de' Medici, e loro accordi con Carlo VIII, I, 252, 253, 257. Loro guerra con Pisa ribellata, ved. Pisani. Loro trattato e relazioni con Luigi XII re di Francia, 337, 339 e seg. Mandano oratori al Re di Francia, 347. Loro provvedimenti contro il Valentino in Toscana, e condotta che stipulano con lui, 358 e seg. Loro nuovo trattato col Re di Francia, 365. Richiesti d'aiuti dai congiurati contro il Valentino, si rifiutano, 386. Richiesti, mandano un oratore al Papa, e il M. al Valentino, ivi, 387. Chiedono e ottengono dal Valentino un salvacondotto pei loro mercanti, 389, 392. Richiesti d'alleanza dal Valentino, temporeggiano, 391 e seg., 429. Loro provvedimenti contro i Borgia, 449 e seg., 595; e contro l'ingrandirsi dei Veneziani, 448 e seg. Negano un salvacondotto al Valentino, 456. Sono in pericolo dopo la rotta dei Francesi al Garigliano, 464. Inclusi in una tregua tra Francia e Spagna, 466. Condotte di capitani da essi fatte, 468. Dei loro inutili tentativi di deviare il fiume Arno da Pisa, 468 e seg., 609 e seg. Loro apparecchi per difendersi dall'Alviano e da altri nemici, 484 e seg., 488 e seg. Danno una rotta all'Alviano, 491-92. Assaltano Pisa e son respinti, 493. Richiesti d'aiuti da Giulio II, 496; glieli mandano, e altri favori prestatigli nell'impresa di Bologna, 500. Loro incertezze tra Francia e Impero nella passata di Massimiliano I in Italia, II, 60 e seg. Non pagano nulla dei denari che voleva da essi l'Imperatore, 73. Si obbligano di pagare grandi somme di denari ai Re di Francia e di Spagna, 94. Fanno un trattato coll'Imperatore, 114. Il Re di Francia vuole che si dichiarino per una parte nella guerra tra lui e il Papa, 126 e seg. Negano il passo a gente del Papa che voleva andare all'impresa di Genova contro il Re di Francia, 533. Loro lega coi Senesi, 141. Si temporeggiano tra il Re di Francia ed il Papa, in [529] occasione del Concilio di Pisa, 146 e seg. Interdetti dal Papa, 148. Deliberano d'imporre una tassa sui preti, 151-52. Sospeso l'interdetto contro di loro, 154. Cercano di mantenersi neutrali tra il Re di Francia ed il Papa, 157. Ritiratisi i Francesi dopo la battaglia di Ravenna, si trovano a mal partito, 164. Si accingono a resistere a Raimondo di Cardona e al Cardinale de' Medici, 170 e seg.; e dei loro accordi con essi, 178; e del passo relativo a detti accordi nella Storia del Guicciardini, III, 494. Si rallegrano dell'elezione di Leone X, II, 193; e gli mandano una solenne ambasceria, 206. Ricordati nei Discorsi del M., 309, 316, 323, 334; e nel Principe, 390, 400, 617. Mandano genti nell'esercito della lega contro Francesco I, III, 12. Spesa che incontrano per la guerra fatta da Leone X al Duca d'Urbino, e come siano compensati, 19, 20. Hanno gente nell'esercito del Papa collegato con Carlo V, 27; ma a malincuore combattono contro la Francia, ivi. Perdono San Leo e il piviere di Sestino, stati loro dati da Leone X, 128. Ricordati i loro scrittori nel Dialogo sulla lingua del M., 184 e seg. Debbono pagare centomila ducati all'Imperatore, 300. Entrano in una lega contro Carlo V, 341. Loro preoccupazioni per i progressi degl'Imperiali, 344 e seg. Loro promessa di denari a Clemente VII ove concluda un accordo stabile con Carlo V, 350. Lettere di Roberto Acciaiuoli loro oratore in Francia, 445. Raccolgono denari da mandare al Borbone, 356. Si sollevano contro il cardinal Passerini ed i Medici, ivi, 357; e li cacciano, 359.
Fiorentino prof. Francesco. Di un suo scritto Del Principe del Machiavelli e di un libro di Agostino Nifo, II, 418.
Fiorini Vittorio. Sua prefazione ai primi tre libri delle Storie Fiorentine del M., citata, III, 206, 287.
Firenze, sotto il governo delle Arti maggiori e minori, I, 37; e ai tempi di Cosimo e di Lorenzo de' Medici, 40, 43, 44. Paragone tra la sua storia e quella di Venezia, 48. Gli Eruditi in essa nel secolo XV e delle loro riunioni, 94 e seg. Nomi di Segretari della Repubblica, 100. Del suo pubblico Studio, e dell'insegnamento in esso del greco, 104, 105. Paragone tra gli ambasciatori suoi e quelli di Venezia, 240. Della riforma del suo governo per opera principalmente del Savonarola, 278 e seg. Nuove riforme nel suo governo, 375 e seg. Necessità e difficoltà di raccogliervi denari, e nuove imposte che si deliberano, 424 e seg.; e di un Discorso [530] scritto dal M. in quell'occasione, 426 e seg. Come si trovi dopo il sacco di Prato, II, 175. Mutazione del suo governo dopo la cacciata del Soderini, 178; e riforme al ritorno dei Medici, 181 e seg., 553; e loro governo, 206 e seg. Si parla di un Discorso del Guicciardini circa il riordinarne e rafforzarne il governo, 253; e di un altro circa le condizioni dei partiti nella città e il modo di assicurarvi lo stato dei Medici, 257. Altre idee sul suo governo nel Reggimento di Firenze del Guicciardini, 258 e seg. Ricordato il suo governo repubblicano nei Discorsi del M., 307, 324: e nelle Considerazioni del Guicciardini su di essi, 355. Ricordata a proposito del Principe del M., 387. Feste che vi si fanno per la venuta di Leone X, III, 15; e per il matrimonio di Lorenzo duca d'Urbino, ricordate, 22. Ancora dei Discorsi del Guicciardini circa il suo governo, 51; e del Discorso del M. sopra il riformare il suo Stato, ecc., 55. Ben governata dal cardinal Giulio de' Medici, 129. Altra proposta del M. per riformarne il governo, 130, 131. Ricordata nel Dialogo sulla lingua del M., 184. Del paragone tra le nimicizie che furono in essa e in Roma tra il popolo ed i nobili, fatto dal M. nelle Storie e nei Discorsi, 242, 243. Viene a governarla il cardinale Passerini, 296. Si provvede di fortificarne le mura; e disegni e progetti relativi, 337 e seg., 356, 434 e seg. Il Guicciardini pensa di difenderla da ogni possibile assalto degl'Imperiali, 351. Tumulti che vi accadono, 357; si esamina un passo della Storia del Guicciardini relativo al primo di essi, 484. Vi è di nuovo proclamata la repubblica, 360; e di nuovo si pensa a rafforzarla e difenderla, ivi.
Firenze (Capitano del Popolo di). Abolito, I, 376. Ricordata la sua istituzione, III, 233.
Firenze (Potestà di). Abolito, I, 376. Ricordata la sua istituzione, III, 233.
Flaminio, poeta, ricordato, II, 458.
Florido, segretario dei brevi d'Alessandro VI. È carcerato e muore, I, 266.
Fogliani Giovanni, I, 407. Ricordato dal M. nel Principe, II, 385, 611.
Foix (di) Gastone. Comandante l'esercito francese nella guerra contro Giulio II, II, 143. Governatore di Milano, 150, 153, 156. Sue fazioni militari, 157 e seg. Sua morte, 162.
Foix (di) Odetto, signore di Lautrech, II, 153, 155. Governatore di Milano per Francesco I, aiuta Francesco Maria della Rovere a ricuperare [531] il suo Stato, III, 18. Ha il comando dell'esercito francese in Italia contro Carlo V, 27. Conferisce con Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 453, 454. Il Re di Francia gli commette di rompere la guerra all'Imperatore, 462.
Folchi Giovanni. Compromesso nella congiura del Boscoli e del Capponi contro i Medici, II, 198; e imprigionato, ivi, 554, 555. A lui indirizza il M. il suo Capitolo dell'Ingratitudine, III, 177.
Forlì. I Fiorentini pensano d'impadronirsene, I, 448. Vi entra Antonio degli Ordelaffi, e successivi rapporti dei Fiorentini coi Forlivesi, ivi, 603. S'arrende ai Francesi, II, 163. Notizie intorno ad essa durante la presidenza del Guicciardini in Romagna, III, 320, 321.
Fornaciaio. — Ved. Iacopo di Filippo.
Fornuovo (Battaglia di), I, 256. Nell'anniversario di essa Isabella Gonzaga fa celebrare un ufficio per le anime dei «valorosi» che «persero la vita per salvare Italia», 383. Un libro che comincia dalla narrazione di essa, ricordato, III, 492.
Fortebracci Niccolò, III, 267.
Foscari Francesco, I, 55.
Foscari Iacopo, I, 55.
Foscolo Ugo. Esalta il M., II, 449.
Fossi Ferdinando, editore d'opere inedite del M., III, 371.
Francesco I, re di Francia. Succede a Luigi XII, III, 10. Suoi disegni e alleanze, suo esercito e sue imprese in Italia, ivi e seg. Suo trattato con Leone X in Bologna, 15 e seg. Gara tra esso e Carlo V per la successione all'Impero, 24. Il Papa vuol fermare con lui un accordo, che non riesce, ivi. Condizione del suo esercito paragonato a quello di Carlo V, 27. Torna in Italia, 297. È sconfitto alla battaglia di Pavia, e vi riman prigioniero, 298, 299; di una sua lettera alla madre, 299. Chiede di abboccarsi con Carlo V, 304. Delle voci d'accordo tra Francia e Spagna, per la sua liberazione, 335 e seg. Ricordato in una lettera del M. al Guicciardini, 338. Sua lega col Papa e con altri stati italiani, 341. Lettere di Roberto Acciaiuoli oratore presso di lui, 445 e seg. Si accenna a pratiche di pace tra lui, i suoi collegati e Carlo V, 463 e seg.
Francesi. Della loro venuta in Italia con Carlo VIII, I, 239 e seg. Come attenuti da essi i patti giurati ai Fiorentini da Carlo VIII, 257; e da Luigi XII, 337, 339, 340 e seg. Accenni alle guerre tra essi e gli Spagnuoli nel napoletano, 257, 258, 361, 363, 432, 437, 438, 464, 466, 495. Passaggio di un loro esercito per la Toscana, [532] 361. Loro aiuti ai Fiorentini, 370, 371, 565, 566. Ve ne sono nell'esercito dell'Imperatore all'assedio di Padova, II, 113. Loro imprese contro Giulio II e la Lega Santa, 141 e seg. Vincono alla battaglia di Ravenna, 160 e seg.; poi inseguiti si ritirano, 163. Ricordati dal M. nel Principe, 379, 381, 610. Battuti dagli Svizzeri, poi dalle genti del Re d'Inghilterra e dell'Imperatore, III, 9. Vincono alla battaglia di Marignano, 12. Condizioni del loro esercito in confronto di quello di Carlo V, 27. Ricordati dal M. nell'Arte della guerra, 97, 109. Ancora della guerra tra essi e gli Spagnuoli, 297; dai quali sono disfatti alla battaglia di Pavia, 298. Delle pratiche di una lega tra essi e l'Italia contro Carlo V, 301 e seg. Non danno aiuti che di parole, 309, 311; e come li giudichi il Guicciardini, 321. Si esamina un passo della Storia del Guicciardini relativo a un assalto da essi dato a Reggio d'Emilia, 486.
Francia. Si accenna alle sue condizioni innanzi alla venuta di Carlo VIII in Italia, I, 240-41. Ricordata, 502. Dei Ritratti delle cose di quel paese, del M., II, 86 e seg. Ricordata dal M. nei Discorsi, 306, 316, 318, 321, 329; e nelle Considerazioni del Guicciardini su di essi, 359, 360; e nel Principe del M., 383, 399, 400, 404, 601, 602, 603, 608; e nell'Arte della guerra, III, 91, 92.
Franck A. Suo giudizio intorno al M., II, 452.
Franco Matteo, I, 219.
Fregoso Ottaviano. Ricordato dal M. nei suoi Discorsi, II, 322; e in una lettera di Pier Soderini, 528. Doge di Genova, s'accorda di nascosto colla Francia contro Leone X, III, 12.
Frundsberg, capitano di Lanzichenecchi nell'esercito di Carlo V. Sua eroica condotta alla battaglia di Pavia, III, 299. Vuol andare a Roma contro Clemente VII, 342. È nel bresciano, 348. Della sua morte, 352.
Fulvio Andrea, antiquario, III, 35.
Gabrielli Pietro, I, 605.
Gaddi (Banco dei). Debito lasciato con essi da Leone X, III, 36.
Gaddi (Monsignor). Gli è dedicata un'edizione del Principe del M., II, 419, 420.
Gambacorti Piero, I, 545. Del processo fattogli in Firenze, 333.
[533]
Gargani Gargano. Sua edizione della Novella di Belfagor del M., ricordata, III, 198.
Garigliano (Rotta del), I, 464.
Gaspary A. Suo articolo sugli ultimi critici del M., II, 487. Crede all'autenticità del Dialogo sulla lingua del M., III, 184, 188.
Gaza Teodoro, I, 125, 167.
Gelli Giovan Battista. Della sua commedia La Sporta, composta su abbozzi e frammenti del M., III, 171; e della imitazione del M., in altre sue Commedie, ivi, 172.
Gemme (Dschem), fratello di Baiazet sultano di Costantinopoli. Sua venuta e dimora in Roma, I, 71, 72, 239. Di un'anticipazione di denari chiesta da Alessandro VI al Sultano per la sua custodia, 250. Accompagna Carlo VIII nel suo viaggio a Napoli, dove muore, 254; e delle cagioni della sua morte, ivi.
Genova, I, 634. Aiuta i Pisani nella guerra contro Firenze, II, 95. Ricordata nei Discorsi del M., 316, 322. «Sospesa e sollevata» dopo la morte di Gianluigi del Fiesco, 528. Giulio II vuol farla ribellare al Re di Francia, 125, 530, 533 e seg. Viaggio fattovi dal M., III, 43, 401. Accenni all'impresa disegnata contro di essa dalla lega contro Carlo V, 450, 465, 471, 473.
Gentile Alberigo. Scrive favorevolmente del M., II, 447.
Gentile Giovanni. Sua opera Delle commedie di A. Grazzini detto il Lasca, cit., III, 167.
Gentillet Innocenzo. Di un suo libro contro il M., II, 430.
Gerber Adolph. Sua opera sul M., ricordata o citata, III, v, 416.
Germania. Vi trovano gran favore le dottrine professate dal Ficino e dai platonici di Firenze, I, 182. Ricordata, 502; II, 236; III, 481. Degli scritti del M. intorno ad essa, II, 76 e seg. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, 306; e nel Principe, 404, 616. Vi si comincia a studiare e ammirare il M., 451. Ricordata dal M. nel suo Asino d'oro, III, 174.
Gervinus. Suoi studi sugli storici fiorentini, citati a proposito della questione se il M. sapesse di greco, I, 303; e a proposito dei suoi Ritratti delle cose d'Alemagna e di Francia, II, 77, 81. Del suo saggio sul M., 469 e seg.; III, 207. Come parli delle Storie del Cavalcanti per il confronto fattone con quelle del M., 255.
Gesuiti, II, 341. Guerra da essi fatta alle Opere del M., 423 e seg.
Gherardi Francesco. Commissario in campo contro Pisa, I, 546.
Ghinucci Girolamo. Lettera di Clemente VII a lui, ricordata, III, 301.
[534]
Giacomini Tebalducci Antonio. Commissario in Valdichiana, I, 367. Vi si porta animosamente, 370. Lettere dei Dieci a lui, ivi, 564 e seg. Uno dei commissari di guerra nel campo contro Pisa, 430. Lettere dei Dieci a lui e al suo collega, 596, 599. Richiamato, 432. È di nuovo commissario contro Pisa, 468. Combatte il tentativo di deviare l'Arno presso quella città, 469; e lettera dei Dieci a lui, relativa alla detta impresa, 609. Chiede e ottiene licenza di tornarsene a Firenze, 470. Richiamato in ufficio, 490. Deciso di venire a giornata coll'Alviano, e relativa lettera dei Dieci a lui, 491, 624. Rompe l'Alviano, e relativa sua lettera ai Dieci, 491-92, 626. Ingiustamente incolpato di un assalto dato a Pisa, rinunzia l'ufficio, 494. Ingratitudine della Repubblica verso di lui; encomiato dal M. e da Iacopo Nardi, ivi, II, 105. Ricordato a proposito di Michele da Coriglia eletto comandante della milizia fiorentina, I, 511. Ricordato in una lettera di don Michele da Coriglia, II, 514. Suo ritratto scritto dal M., ricordato, III, 288.
Giacomino (di) Lorenzo, I, 578.
Giampieri Innocenzio. Primo a smentire quanto fu ingiustamente scritto contro la moglie del M., I, 388; III, 197.
Gianfigliazzi, famiglia. In una loro villa a Marignolle alloggia Leone X, III, 15.
Gianfigliazzi Iacopo, II, 561, 564, 569.
Gianni Astorre, III, 260.
Giannotti Donato. Sue teorie politiche, II, 256. Ricordato, 324; III, 57. Postilla un esemplare delle Storie di Flavio Biondo, 221. Si accenna alla sua elezione in segretario dei Dieci, 364, 366; e documenti relativi a detta elezione, e al suo salario, 476, 477.
Giberti Giovan Matteo. Uno dei consiglieri di Clemente VII, III, 295. Come si adopri per una lega italiana con la Francia contro l'Imperatore, 301. Sua lettera a Lodovico Canossa, inviato di Francia a Venezia, ricordata, 302. Sunto d'altra sua lettera a Domenico Sauli, 310. Lettere di Francesco Guicciardini, luogotenente del Papa, a lui, ricordate, 343; e lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 454, 455, 466, 469.
Giliberto (don) spagnuolo, conestabile al servizio dei Fiorentini, II, 506.
Ginguené. Ricordato tra i critici del M., II, 456.
Gioda Carlo. Del suo libro Machiavelli e le sue opere, II, 271, 272, 495.
Giordano Bernardino, III, 333.
[535]
Giorgi Marino, ambasciatore veneto a Roma. Come parli di Leon X, in una sua Relazione, III, 2, 4, 31. Suo giudizio di Lorenzo de' Medici nipote del Papa, 5; e del cardinal Giulio, ivi. Gli è data dal Papa la falsa nuova della disfatta dei Veneziani e Francesi a Marignano, 14; ed egli dà al Papa la nuova vera della loro vittoria, ivi.
Giovanna II, regina di Napoli, III, 88, 219.
Giovanni da Parigi, II, 236.
Giovio Paolo. Suo elogio del M. cit., I, 301, 302; III, 148. Sparla della morte del M., ed è confutato da Giuliano de' Ricci, III, 366 e seg. Le sue Storie sono una delle fonti del Guicciardini, 492. Sue Storie di nuovo ricordate, III, 496.
Girolami Giovanni, II, 128, 558-59.
Girolami Raffaello, ambasciatore eletto a Roma, I, 608. Sua ambasceria in Spagna, ricordata; e dell'Istruzione fattagli in tale occasione dal M., II, 74. Uno dei cinque Procuratori delle mura di Firenze, III, 435.
Giulio II. — Ved. Della Rovere Giuliano, cardinale. — Sua elezione, suo carattere, suoi propositi, I, 446, 451 e seg. Legazione del M. a lui, 449 e seg. Sua condotta col Valentino, 454, 455, 456, 458. Dichiara volersi opporre alle conquiste dei Veneziani in Romagna, 458. Accenni alle sue imprese di Perugia e di Bologna, 495 e seg., 634, 636; e accenno alla resa di Perugia nei Discorsi del M., II, 309. Torna in trionfo a Roma, I, 501. Da lui e non da Leone X è da intitolarsi il suo secolo, II, 1 e seg. Che cosa pensi e faccia mentre l'Imperatore sta per passare in Italia, 57 e seg. Conclude la lega di Cambray, 93, 107. Pubblica una bolla di scomunica contro i Veneziani, 108. Riavute le terre di Romagna si rivolge contro i Francesi, 111, 124; assolvendo i Veneziani, 124. Guerra tra esso e i Francesi, ivi e seg., 141 e seg., 530, 534. Ricordato, 533. Fugge a Ravenna, 143-44. I Bolognesi atterrano la sua statua, opera di Michelangelo, ivi. Voci circa alle sue relazioni col cardinale Francesco Alidosi, ivi. Concilio di Pisa indetto contro di lui, 146 e seg.; e sua relativa lettera ai Fiorentini, 546. Nomina alcuni cardinali, 147. Intima un Concilio in Laterano, ivi. Si ammala ed è creduto morto, 148. Interdice Pisa e Firenze, 148. Conclude una lega con Venezia e la Spagna contro la Francia, ivi. Sospende l'interdetto lanciato contro i Fiorentini, 153-54. Si scoraggia dopo la battaglia di Ravenna vinta dai Francesi, poi [536] riprende animo, 163. Ricupera Bologna ed altre città e terre dalle mani dei Francesi, 164. Lettera del cardinale Giovanni de' Medici a lui, 173, 548. Fa lega coll'Imperatore, 192. Muore, ivi. Ricordato dal M. nel Principe, 610, 618, 619; e in una lettera del M. al Vettori, III, 415, 420. Spesa della sua mensa, III, 31. Ricordato, 34, 36, 301.
Giunti. Stampano opere del M., II, 414, 419; III, 197.
Giustinian Antonio, oratore veneto a Roma. Suoi Dispacci ricordati. I, XXII, 381, 382; III, 496. Paragone tra esso e il M., I, 411-12. Sunto di alcuni suoi dispacci, ivi e seg., 433 e seg., 439 e seg. Scruta l'animo di Giulio II «circa l'avanzarsi dei Veneziani» in Romagna, 451-52. Un'osservazione generale intorno ai suoi dispacci e a quelli degli oratori suoi contemporanei, 460. Ambasciatore all'imperatore Massimiliano, e della orazione da lui preparata per tale occasione, II, 110; tradotta poi dal Guicciardini nella sua Storia, ivi; III, 493.
Gonzaga, signori di Mantova, nel secolo XV, I, 161.
Gonzaga Giovanfrancesco, marchese di Mantova, I, 161. I Fiorentini cercano di assoldarlo, 485.
Gonzaga Isabella. Sue lettere al marito, ricordate, I, 380, 382. Sua lettera al Valentino dopo il fatto di Sinigaglia, ricordata, 408.
Graf Arturo. Suo scritto sulla Mandragola del M., ricordato, III, 146.
Gravina (Duca di) degli Orsini. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384. Imprigionato, 406; e fatto uccidere dal Valentino, 410.
Gravina Pietro, II, 418.
Grazzini A., detto il Lasca. D'una sua farsa attribuita al M., III, 167.
Greco. Del suo insegnamento e coltura in Firenze e in Italia nel secolo XV, I, 105. Grimaldi Luciano, signore di Monaco. Il M. conclude con lui un trattato a nome della Repubblica, II, 141.
Guadagni Bernardo, III, 264, 268.
Gualterotti Francesco. Oratore a Milano; sua risposta a Lodovico il Moro, I, 336, 339. Oratore in Francia, 348, 350. Ricordato, 509. Destinato oratore al Re di Spagna, a Napoli, 632, 633.
Guarino Veronese. Gli è affidata la traduzione di Strabone, I, 125. Difende il Panormita, 155. Porta l'erudizione a Ferrara; e cenni della sua vita e delle sue opere, 160; II, 33. Sue traduzioni di un Discorso d'Isocrate, e di una delle Vite di Plutarco, ricordate, 580, 587.
Gubbio (da) fra Bozio. Sue opere contro il M., ricordate, II, 425.
[537]
Guglielmo il Conquistatore, II, 347.
Guglielmo di Nogaret, II, 236.
Guicciardini. Notizie di alcuni di quella famiglia dai Ricordi autobiografici di Francesco, II, 45 e seg. E notizie di alcuni manoscritti del loro Archivio, III, 490.
Guicciardini Bongianni. Alcune sue osservazioni sui discorsi del M., II, 588 e seg.
Guicciardini conte Francesco. Permette all'autore di esaminare i manoscritti del Guicciardini, III, 498.
Guicciardini Francesco. Esalta il Savonarola a proposito della istituzione del Consiglio Maggiore, I, 279. Elogio della sua Storia Fiorentina, I, 378. Brevi notizie di lui tratte dai suoi Ricordi autobiografici; e di nuovo della sua Storia Fiorentina, II, 45 e seg. Ambasciatore in Ispagna, 157. Attenua a vantaggio dei Medici gli orrori del sacco di Prato, 174. È sempre in Ispagna al ritorno de' Medici in Firenze, 180. Nelle sue opere politiche è definita e descritta la nuova scienza politica sorta tra il cadere del XV e il cominciare del XVI secolo, 247, 248. Esame della sua prima legazione in Ispagna, 248; e della sua Relazione di Spagna, 249. In che differisca come uomo politico dal M., 251, 259. I Medici rientrati in Firenze gli confermano la legazione in Ispagna; ed egli accetta e scrive a tutti loro, in particolare a Leone X, 252. Della sua mutabilità e dei suoi Discorsi politici, ivi e seg. Suo trattato Del Reggimento di Firenze, 258 e seg. Dei suoi Ricordi politici e civili, 264 e seg.; e quanto in essi imiti dal M., ivi. Citazione di alcuni recenti scritti intorno a lui, 268. Nuovi confronti tra lui e il M., 324; e sue Considerazioni sui Discorsi del M., 350 e seg. Suo dispregio per il popolo, 356, 358. Dell'opinione che n'ebbero, come uomo politico, il Cavour e Gino Capponi, 360-61. Ricordato a proposito del Principe, 416. Come parli di Leone X nella sua Storia, III, 9. Suo parere circa la forma del governo di Firenze, ricordato, 23. Altri suoi giudizi su Leone X, 25. Governatore di Reggio pel Papa, manda denari al Morone, 27. Altro suo giudizio su Leone X, 29. Niente debbono a Leone X le sue opere, 32. Ancora dei suoi Discorsi politici rispetto ai consigli dati ai Medici, diversi da quelli del M., 51, 61. Parla con lode dell'Ordinanza fiorentina, 59. Della sua corrispondenza col M., ambasciatore a Carpi, 125 e seg.; e testo di una sua lettera, 420. Difende Parma per la Sede pontificia, 128. Di nuovo della sua [538] Storia Fiorentina, 204, 206, 285. Paragone tra i Discorsi messi in bocca da lui e dal M. ai personaggi delle loro Storie, 238. Lettera del M. a lui, ricordata, 266. Di alcuni suoi giudizi nella Storia Fiorentina, diversi da quelli del M., relativamente alla morte d'Iacopo Piccinino, 277, e alla battaglia della Molinella, 279. Paragone delle Storie Fiorentine del M. con la sua Storia d'Italia, 291 e seg.; e osservazioni sulla medesima a proposito della critica fattane dal prof. Ranke, 483 e seg. Suoi Ricordi autobiografici, e sua Storia d'Italia, di nuovo citati, 291, 295, 303. Suoi giudizi sul Conestabile di Borbone, 309; e su Girolamo Morone, 316, 321. Sue eminenti qualità, 319. Suo governo dell'Emilia, ricordato, 320. Sua presidenza in Romagna; estratti del suo carteggio, ivi e seg. Luogotenente generale del Papa in campo contro gl'Imperiali, 322 e seg. Lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia a lui, e lettere di lui all'Acciaiuoli ricordate, 448 e seg., 461, 466, 472. Nuovo raffronto tra lui e il M., 323. Gli è mandato il M., col disegno d'istituzione d'una milizia nazionale, 325; e che cosa egli pensi e scriva intorno a ciò, ivi, 326. Sua corrispondenza col M. tornato a Firenze, 327 e seg. Accenni al matrimonio di una sua figliuola, 327, 331, 332. Vuol far rappresentare a Faenza la Mandragola del M., 327, 331; ma tale rappresentazione non ha luogo, 334. Sua opinione circa ai possibili accordi tra il Re di Francia e l'Imperatore; e lettera del M. a lui su tal proposito, 335. Sunto di lettere del M. a lui circa le fortificazioni delle mura di Firenze, 338, 340. Seguono le notizie della sua luogotenenza in campo contro gl'Imperiali; sue lettere ricordate, e brani e sunti di esse, 343 e seg. Brani di lettere di Filippo de' Nerli a lui, 350. Conduce l'esercito della lega presso Firenze, poi riparte con esso; sunti di altre sue lettere, 356 e seg. Mediatore di un accordo fra i Medici e il popolo sollevato, 358. Chiede aiuto a Firenze per il Papa chiuso in Castel Sant'Angelo, 359; e spera di far qualcosa per liberarlo, 361. Torna in Firenze e poi va in volontario esilio, 362. Notizie e osservazioni circa le fonti della sua Storia, e i materiali da lui raccolti per essa, 488 e seg. Sua Storia fiorentina, di nuovo ricordata, 498.
Guicciardini Iacopo. Sue lettere al fratello Francesco in Spagna, ricordate, II, 159, 161, 163, 171, 172, 173, 178. Succede al fratello nel governo della Romagna, III, 322.
Guicciardini Luigi, gonfaloniere nel Tumulto de' Ciompi, III, 248.
[539]
Guicciardini Luigi. Di una lettera del M. a lui, II, 117, 119. Opinione che ad esso alluda il M. nell'Asino d'oro, III, 176. A lui indirizza il M. il suo Capitolo dell'Ambizione, 179. Uno dei cinque Procuratori delle mura di Firenze, 435. Sua narrazione del Sacco di Roma, citata, III, 486.
Guicciardini Piero, I, 589. Commissario dei Fiorentini in Mugello, 500. Ricordato, 509. Eletto oratore all'imperatore Massimiliano, si oppone all'invio di quell'ambasciata, II, 63. Inviato all'Imperatore, 114. Sua lettera al figliuolo Francesco, ricordata, 162. I suoi figliuoli vanno a trovare Giuliano de' Medici tornato in Firenze, 180. Altra sua lettera al figliuolo Francesco, ricordata, 191. Interlocutore nel dialogo del Reggimento di Firenze del Guicciardini, 259. Estratti di sue lettere fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 488.
Guidotti A., oratore a Roma; brano di una sua lettera agli Otto di balìa, I, 246.
Guidotti Lionardo, affine del M., ricordato in lettere di Biagio Buonaccorsi a lui, I, 573, 575, 576, 577, 585, 587, 591.
Guidotti Vincenzo. Sue lettere ricordate, II, 552.
Guinigi Giovanni di Lucca, III, 407.
Guinigi Michele di Lucca. Di un suo debito con alcuni mercanti fiorentini; e ambasciata del M. a Lucca nell'interesse di detti mercanti, III, 63, 64, 407.
Gurgense (Cardinale). — Ved. Lang Matteo.
Heidenheimer H. Di un suo scritto sul M., II, 75, 90.
Hillebrand Carlo. Parla del M. nei suoi Studi storici e letterari, II, 472. Suo giudizio intorno alla Commedia in versi attribuita al M., III, 168, 169.
Hobohm Martin. Delle sue critiche al M. come scrittore di cose militari e come istitutore dell'Ordinanza o milizia fiorentina, III, 118, 479 e seg.
Iacopo di Filippo, fornaciaio. Nel suo orto presso la porta San Frediano si rappresenta la Clizia del M., III, 333, 344, 433. Sua lettera al M., 344, 444.
[540]
Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino. È a' servigi della Repubblica; missione del M. presso di lui, I, 317. Sue genti d'arme, ricordate, 545. Gli è tolto lo stato dal Valentino, 363. Gli è rimandato il M., 467. Sembra volersi unire all'Alviano e agli altri nemici dei Fiorentini, 485, 486; e relative lettere di questi al loro commissario in Maremma, e al governatore Ercole Bentivoglio, 618 e seg. Sua politica coi Fiorentini e con Pandolfo Petrucci, 620. Ricordato in una lettera al M., 632.
Imbault, capitano francese. Ricupera ai Fiorentini le terre dell'Aretino, I, 371; e dei relativi patti da esso stabiliti con Vitellozzo Vitelli, ivi, 567.
Imola. Si ribella al Valentino, I, 454. S'arrende ai Francesi II, 163.
Inghilterra, II, 330, 345. In quella corte si studia il Principe del M., 427.
Inghilterra (Re d'). — Ved. Enrico VII e Enrico VIII.
Innocenzo VIII, I, 70. Muore, 230. Ricordato, II, 329.
Innocenzo IX, avverso al M., II, 425.
Isabella, regina di Spagna, II, 54, 57, 220. Considerazioni del Guicciardini intorno alla sua politica, 250. Ricordata a proposito dei Discorsi del M., 330.
Italia. Sguardo alla sua condizione civile e politica durante il Rinascimento in confronto con quella del Medio evo, I, 1 e seg. Paragone tra la sua condizione politica e sociale e quella del resto d'Europa nel secolo XV, 80. Da essa si propaga l'erudizione in tutta Europa, 146. Sue condizioni politiche alla fine del secolo XV, 229 e seg. In attesa della venuta di Carlo VIII tutto il suo lavoro letterario dà luogo al lavoro diplomatico, 240. La Chiesa e il suo potere temporale sono d'ostacolo alla sua unione, II, 296. Ricordata nei Discorsi del M., ivi, 302, 303, 306, 307, 315, 322, 329; e nelle Considerazioni del Guicciardini su di essi, 359, 360. Ricordata a proposito del Principe, e nel Principe del M., 365, 379, 387, 400, 404, 405, 406, 409, 600, 601, 617, 618. Condizioni generali del suo Teatro nell'epoca del Rinascimento, III, 138 e seg. Delle pratiche di una lega nazionale per la sua indipendenza dagli stranieri, che a nulla approdano, e perchè, 301 e seg., 317.
Italiani, ricordati dal M. nel Principe, II, 379, 406; e nel Dialogo sulla lingua, III, 185 e seg. Ricordate le loro milizie nell'Arte della guerra, III, 115.
[541]
Jähns Max, ufficiale nell'esercito prussiano, autore di due scritti sul M., consultato e citato dall'autore di quest'opera, III, 78 e seg. passim, 338.
Knies Carlo. Suo lavoro intorno al patriottismo del M., ricordato, II, 77, 274; e giudizio d'altro suo lavoro intorno al valore economico delle Opere del M., 401.
Lachi Niccolò, III, 389.
La Fontaine. Sue imitazioni della Mandragola e della Novella di Belfagor, ricordate, III, 198.
Lampugnani Giannandrea, I, 35.
Landino Cristoforo, I, 171. Esposizione di un suo commento a un luogo del Simposio di Platone, 176. Aiuta il Risorgimento della letteratura italiana, 184.
Landucci Luca. Sua Cronica ricordata, III, 16.
Lang Matteo, vescovo di Gurk, cancelliere di Massimiliano imperatore, detto il Cardinale Gurgense, II, 68. Sua elezione al cardinalato, 147. Rappresentante dell'Imperatore in Italia, 164. Fa lega col Papa per l'Imperatore, 191.
Lannoy (Visconte di), vicerè di Napoli, III, 297, 348, 353, 446.
Lanzichenecchi, III, 299, 310, 311, 342, 452. Sono in Bolzano pronti a scendere in Italia, 347. Sono nel bresciano, 348; e loro successivi progressi, ivi, 349. Insorgono contro il loro comandante per le paghe, 352. La moglie e i figliuoli del M. stanno in gran timore della loro venuta contro Firenze; il M. manda a rassicurarli, 355, 475.
Laocoonte (Gruppo del), scoperto in Roma, e richiesto da Francesco I a Leone X, III, 17.
Lapi Giuliano. Mandato al campo di Pisa, I, 469, 610, 612, 615. Ricordato in una lettera al M., 634. Console dei Fiorentini in Pera, III, 393.
Lasca (Il). — Ved. Grazzini A.
[542]
Lascari Giovanni, traduttore di Polibio, I, 534; II, 577.
Lasinio Fausto. Sua opinione circa la Novella di Belfagor del M., III, 198.
La Trémoille, I, 370, 566. Fa ritirare gli Svizzeri da Milano, III, 9.
Lautrec (Signore di). — Ved. Foix (di) Odetto.
Lecky Guglielmo E. H. Di alcuni concetti della sua History of European Morals identici ad altri dei Discorsi del M., II, 298.
Lega Santa, II, 148, 149. Suo esercito e suoi comandanti, 157 e seg.
Lenzi Francesco, III, 403.
Lenzi Lorenzo, oratore in Francia, I, 348, 350.
Leo Enrico. Sua traduzione delle Lettere del M., ricordata, II, 212, 280, 427, 461; e suo giudizio intorno al libro del Principe ed al suo Autore, 461 e seg. Come parli dell'epistola della Descrizione della peste attribuita al M., III, 194.
Leone X. — Ved. Medici Giovanni, cardinale. — Il secolo che ha nome da lui dovrebbe averlo da Giulio II, II, 3. Sua elezione e consacrazione, 193. Vuole che si usi indulgenza nel fatto della congiura del Boscoli e del Capponi, 199. I Fiorentini gli mandano una solenne ambasceria, 206. Sunto delle istruzioni che dà a Lorenzo suo nipote per governare in Firenze, 207. Fa pace con Luigi XII re di Francia, 221. Segue con tutti i potentati una politica di mala fede, ivi; e di un recente giudizio intorno alla sua politica, 222. Giudizi e considerazioni su lui nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, 222; III, 415 e seg. Si tocca dei suoi disegni di creare Stati pei suoi parenti, II, 366. Ricordato, 416, 422, 558. Vede alcune lettere del M., 574. Ricordato, 595, 619. La sua politica e la sua corte, III, 1 e seg. Sue virtù e suoi difetti, 1; e suo ritratto fisico, 2. Sua inferiorità di fronte a Lorenzo de' Medici suo padre, 3. Vuol godersi la vita, e suo bisogno di aver danari, ivi, 4. Desidera vivamente di far grandi i suoi parenti, 4. Adopera molto gli altri ma vuol fare a suo modo, 6. Presume di moderare la politica generale d'Europa, e perchè non vi riesca, ivi. La sua politica è funesta all'Italia; e di nuovo di un recente giudizio intorno ad essa, 7, 8. Aderisce alla lega tra Enrico VIII e l'Imperatore, 8; poi fa lega anche con Luigi XII re di Francia e s'imparenta con esso, 9. Tratta in segreto altri accordi, ivi. Sue indiscrete domande a Francesco I di Francia, 11. Sua confederazione coll'Imperatore, il Re di Spagna e Massimiliano Sforza, ivi. Liete e poi tristi novelle che riceve della battaglia [543] di Marignano, 13, 14. Passa da Firenze nel recarsi a Bologna e nel tornare; e feste che gli si fanno, 15, 16. Del trattato concluso tra esso e il Re di Francia in Bologna, 17. Disdice l'accordo con l'Imperatore, ivi; poi cerca riavvicinarsegli, 18. Guerra da esso fatta al Duca d'Urbino, 18 e seg. Congiura d'alcuni Cardinali contro di lui, 20, 21. Nomina un gran numero di Cardinali, e somma di danari che ne ricava, 21. Conclude il matrimonio di Lorenzo suo nipote con una parente del Re di Francia, 22. S'impadronisce di Perugia, 24. Come si comporti nella gara di successione all'Impero tra Carlo V e Francesco I, ivi. Vorrebbe fare alleanza con Francesco, poi fa un accordo con Carlo già eletto Imperatore, 25, 27; e delle ragioni che poterono indurlo a tale accordo, 25. Fa gran festa dell'acquisto di Milano per Carlo V, 28. Si ricorda la sua morte; e ancora del suo carattere, e delle sue qualità e abitudini, ivi e seg., 404. Ama singolarmente e incoraggia la Commedia, 31. Tra i letterati favorisce più i mediocri che i sommi, 32. Favorisce i grandi artisti, in special modo Raffaello, 33 e seg. Gran cumulo di debiti che lascia alla sua morte, 36. Citazione di opere consultabili intorno a lui, ivi. Interviene, invitato, negli Orti Oricellari, 48. Ricordato a proposito del Discorso del M. intorno al riformare lo Stato di Firenze, 54 e seg. Sulla bolla relativa allo Studio di Firenze, ricordata, 120. Si accenna ai mutamenti politici avvenuti per la sua morte, 127. Ricordato in paragone con Clemente VII, 294, 301.
Leopardi Giacomo. Ricordato a proposito dei Detti memorabili del M., III, 73.
Lescut, generale francese, III, 487.
Leto Pomponio, I, 142; III, 142.
Lettenhove (Barone di). Della sua pubblicazione delle Lettere e negoziazioni del Commines, I, 244.
Letteratura italiana. Suo risorgimento, I, 183 e seg.
Lioni Roberto, III, 279.
Lippomani, patrizi veneti, amici della famiglia de' Medici, II, 550.
Lipsio Giusto, difensore del M., II, 445.
Lisbona (Cardinale di), I, 560.
Lisio G. Sua opera sul Principe del M., citata. III, 414-15.
Livorno. Lettera dei Dieci a quel Capitano circa le condizioni di detta terra, I, 617.
Lombardia. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, II, 307; e nel [544] Principe, 600; e nel Dialogo sulla lingua, III, 185. Ricordate le sue fortificazioni a proposito di quelle che si disegnavano fare in Firenze, 436, 437, 439.
Lomellino David di Genova. Ha debito con alcuni mercanti fiorentini, III, 401 e seg.
Loredano Pietro, I, 53.
Lorena (di) Renato, I, 75, 77.
Loris Francesco, vescovo d'Elna e cardinale, I, 456, 601.
Lucca. Le genti dei Fiorentini fanno scorrerie in quel territorio, I, 468, 598. Ricordato il suo governo repubblicano nei Discorsi del M., II, 307, 316. Vi va commissario per cause private il M., e vi scrive un Sommario o relazione del suo governo, III, 63 e seg.; e la Vita del Castracani, 66 e seg. Guerra dei Fiorentini contro di essa, ricordata, 260.
Lucchesi. Aiutano Pisa nella guerra contro Firenze, I, 468, 598; II, 93, 96.
Lucchesini, gesuita. Suo scritto contro il M., ricordato, II, 426.
Luigi XI, re di Francia, II, 329.
Luigi XII, re di Francia. Succede a Carlo VIII, I, 258. Diritti da lui vantati in Italia, ivi, 314. Sua impresa di Milano, 269, 336 e seg., 537, 541, 545. Si obbliga ad aiutare i Fiorentini a risottometter Pisa, e relativi patti tra lui e la Repubblica, 337, 339. Mali portamenti delle sue genti in quell'impresa, 340 e seg., se ne conduole coi Fiorentini, 345; poi si sdegna con loro 346; che gli mandano per ambasciatori Francesco della Casa e il M., 347 e seg. I Fiorentini raccolgono denari da mandarsi a lui, 358. Suo nuovo trattato con la Repubblica, 365. Aiuti da esso mandati ai Fiorentini, 370 e seg., 565, 566. Accenni alle sue relazioni col Valentino, 391 e seg., 397, 404, 411, 412, 429, 432, 438, 444, 445, 450. Altri ambasciatori mandatigli dai Fiorentini, 585 e seg. Altra legazione del M. a lui, 464 e seg. Manda aiuti a Giulio II per l'impresa di Bologna, 501, 634, 636. Ricordato, 637. Antagonismo tra lui e Massimiliano imperatore, II, 55 e seg. Con lui si alleano i Veneziani, 58, 60; ai quali manda soccorsi nella venuta dell'Imperatore, 60. Promette di nuovo ai Fiorentini di risottomettere loro Pisa, ma non attiene la promessa, 91. Protesta contro il guasto dato alle terre dei Pisani dai Fiorentini, 93; i quali si obbligano a pagargli centomila ducati, 94. Entra nella lega di Cambray, 107; e suoi acquisti nel territorio veneto, 109. [545] Torna in Francia, 113. Contro di lui si rivolge Giulio II, 111, 124 e seg., 531, 534. Legazione del M. a lui, 127 e seg. Raduna un concilio, 128, 129; da cui ha licenza di muover guerra al Papa, 141; e cenni di questa guerra, ivi e seg. Procura che si aduni un Concilio in Pisa contro il Papa, 146, 147, 152. Lega del Papa con Venezia e Spagna contro di lui, 148. Suo esercito in Italia contro il Papa e i confederati, 157 e seg. Sua tregua col Re di Spagna, 220; e giudizi e considerazioni su lui e su detta tregua nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, 223 e seg.; III, 414 e seg. Fa pace col Papa e disdice il Conciliabolo, 221. Ricordato dal M. nei Discorsi, 322; e nel Principe, 379, 381, 387, 600. Sue leghe coi Veneziani e poi col Papa, ricordate, III, 8, 9. Si accenna al suo matrimonio con la sorella del Re d'Inghilterra, e alla sua morte, 10.
Lusco Antonio, I, 99, 124.
Lutero Martino. Con lui ha termine l'età del Rinascimento, I, 1. Ricordata la sua Riforma, III, 8.
Lutoslawski W. Una sua opera in cui si parla del M., ricordata, II, 280, 378.
Macaulay. Suo Saggio sul M., citato, II, 328. Si discorre di detto Saggio, 464 e seg. Grande ammiratore della Mandragola; e dei suoi giudizi intorno ad essa, III, 147, 159 e seg. Suoi giudizi su altre Commedie del M., 165, 169, e sull'epistola della Descrizione della peste attribuita a lui, 194.
Machon Luigi. Sua Apologia del M., ricordata, II, 428.
Machiavelli famiglia. Notizie di essa, I, 295 e seg. Di un suo diritto di patronato sostenuto in iscritto dal M., 300. Di un altro suo giuspatronato, 531. Un ramo di essa possiede beni a Sant'Angelo in Bibbione, II, 363. Loro patronato di una chiesa presso Sant'Andrea in Percussina, ricordato, III, 330. Della loro cappella gentilizia nella chiesa di Santa Croce, 370. Come e quando si estingua, ivi.
Machiavelli Alessandro di Bernardo, nipote di N., II, 362; III, 370.
Machiavelli Bartolommea o Baccia, figliuola di N., moglie di Giovanni e madre di Giuliano dei Ricci, I, 296. Alcune notizie intorno ad essa, III, 38, 40, 41, 365. Ricordata, 367, 475.
Machiavelli Batista, compare al primo figliuolo di N., I, 606.
[546]
Machiavelli Bernardo, padre di N. Si ricordano alcune notizie della sua famiglia da lui scritte, I, 297. Brevi notizie di lui, del suo patrimonio, della moglie e dei figli, ivi, 298. Si combatte l'opinione che nascesse illegittimo, II, 122. Sepolto in S. Croce, III, 370. Sonetto indirizzatogli dal figliuolo N., 425.
Machiavelli Bernardo, figliuolo di N., II, 362. Alcune notizie intorno ad esso, III, 38, 39. Ricordato, 391. Sua lettera al padre in Lucca, 67, 409. Ricordato, 183. Ammalato, 330. Erede del padre, coi suoi fratelli, 365. Ricordato, 367. Altre notizie di lui, 370, 395. Ricordato, 399.
Machiavelli Buoninsegna, I, 531.
Machiavelli Carlo. Di un suo debito con Lodovico figliuolo di N., III, 389.
Machiavelli Filippo, I, 531; II, 560, 563; III, 392.
Machiavelli Francesco Maria. In lui si estingue un ramo della famiglia, I, 297.
Machiavelli Ginevra, sorella di N., I, 299.
Machiavelli Giovanni, II, 560, 563; III, 392.
Machiavelli Guido, figliuolo di N. Alcune notizie intorno ad esso, III, 39. Brano di lettera del padre a lui, e sua risposta al padre, 356, 474. Erede del padre, coi suoi fratelli, 365. Ricordato, 367.
Machiavelli Ippolita, moglie di Pier Francesco de' Ricci. In lei si estingue la famiglia del M., I, 296; II, 362; III, 371.
Machiavelli Lodovico, figliuolo di N. Ricordato in una lettera a suo padre, II, 526. Altre notizie intorno ad esso, III, 38, 39, 40. Due lettere di lui al padre da Adrianopoli e da Ancona, 389, 391; ed altra da Adrianopoli, ricordata, 332. Erede del padre, coi suoi fratelli, 365. Ricordato, 395, 399, 410.
Machiavelli Lorenzino di Lorenzo di Ristoro, III, 371.
Machiavelli Lorenzo, I, 295, 296; III, 392, 393.
Machiavelli Marietta. — Vedi Corsini Marietta.
Machiavelli Niccolò. Giudizi diversi e contradittorii intorno ad esso, I, XIII e seg. Nuovi materiali storici che aiutano a meglio conoscerne la vita ed i tempi, XVIII. Numero stragrande delle sue lettere d'ufficio inedite, XV, 323, 338. Perchè e come si faccia in quest'opera «uno studio assai lungo» intorno ai suoi tempi, XIX. Importanza delle sue legazioni e delle sue lettere d'ufficio e che uso se ne faccia nell'opera, XX-XXII. Si accenna a un paragone tra esso e Antonio Giustinian, oratore veneto, XXII. Edizione dei [547] suoi scritti citata, ed altra tenuta a riscontro in quest'opera, XXIII, 298. Notizia di alcuni volumi di lettere, erroneamente credute di lui, esistenti in Inghilterra, xxiv. Sua lettera dove parla delle prediche del Savonarola, ricordata, 293. I suoi primi anni sono avvolti nelle tenebre, 294; e diversità in ciò tra lui e il Guicciardini, 295. Prime cose che si trovino scritte da lui, 300; sua traduzione di un brano della Historia di Vittore Vitense; e lettera di mano sua relativa ad affari di famiglia, 299, 527, 531. Della sua cultura in genere, e specialmente se egli sapesse di greco, 301 e seg., 533. Di un suo scritto perduto, intitolato Le Maschere, 305, 477. Succede ad Alessandro Braccesi nella seconda Cancelleria del Comune e vi rimane capo, 307-8; suo stipendio, 308. Delle sue qualità fisiche e morali; e notizie intorno ai suoi ritratti, 310. Si lega d'intima amicizia con Biagio Buonaccorsi, 313. Dell'opinione che vorrebbe attribuire a lui il Diario del Buonaccorsi, 317, 325. Suo molto daffare nella Cancelleria, 317. Mandato a Pontedera presso Iacopo d'Appiano, ivi. Sua legazione a Caterina Sforza a Forlì, 320 e seg. Lettere di Biagio Buonaccorsi a lui, 325, 536 e seg. Brani di sue lettere d'ufficio, durante la guerra di Pisa, 327 e seg. Dei suoi Scritti inediti pubblicati da G. Canestrini, 330. Di una lettera, scritta di sua mano, che parla della cattura di Paolo Vitelli, 333, 551 e seg. È di sua mano anche il processo fatto in Firenze a Piero Gambacorti, 333. Del suo Discorso al Magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa, 334. Destinato oratore a G. G. Trivulzio, non vi va altrimenti, 338. Segretario dei commissari fiorentini in campo contro Pisa, 341 e seg. Si parla delle lettere che compongono questa commissione, e si notano quelle scritte di sua mano, 345. Sua prima legazione in Francia insieme con Francesco della Casa, 347 e seg.; e sunto delle istruzioni date loro, 348. Scarso salario assegnatogli, 349. Firma col compagno le lettere, ma le scrive tutte di sua mano; e brani e sunti d'alcune di esse, 351 e seg. Riman solo nella legazione, che si fa subito più importante, 351. Parla in latino e in francese col Cardinale di Rouen, e dei suoi colloqui con esso intorno al Valentino ed al Papa, 352 e seg. Sunto delle due ultime lettere di questa legazione, 354; grandi elogi che ne riscuote in Firenze; lettera di B. Buonaccorsi a lui, 355, 555. Suo ritorno in Firenze, ivi. Inviato due volte a Pistoia; e relativi documenti stati male allogati tra le sue Opere, 357. Sua grande attività, e numero grandissimo [548] delle sue lettere in occasione della venuta del Valentino in Toscana, 358 e seg. Si citano alcune delle molte lettere scritte da lui nel dominio, nel passaggio dei Francesi per la Toscana (1501), 362. Inviato a Siena ed a Cascina; e destinato a recarsi a Bologna, non pare vi vada altrimenti, 364. Rinviato a Pistoia a sedarvi le discordie; scrive una breve relazione di quei fatti, 365. Relazione del suo primo colloquio col Valentino, 368; e suo ritorno a Firenze, 369. Accompagna il De Langres al campo francese in Valdichiana, 371. Ritorna due volte ad Arezzo, 372. Si esamina il suo scritto Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, ivi. L'elezione del gonfaloniere Soderini è un fatto importante nella sua vita, 379. Sua legazione al Valentino in Romagna; accetta la commissione di mala voglia, 386. Vorrebbe essere in Firenze quando il Soderini piglia l'ufficio di gonfaloniere, 579. Si accenna al suo matrimonio con la Marietta Corsini, e ai suoi sentimenti per essa e per la famiglia, 387. Sunto dell'istruzione datagli nella legazione al Valentino, 389. Come e perchè cresca in lui l'ammirazione pel Valentino, 390. Sua partenza e arrivo in Imola alla presenza del Duca, 391. Sue conferenze con esso, e sue lettere, ricordate, ivi e seg. È scontento e vorrebbe tornarsene, ma a Firenze non si vuol parlare di richiamarlo, 395 e seg., 578, 579, 582, 586, 592. S'indagano le cagioni della sua scontentezza, 395 e seg. Falso ch'ei consigliasse e guidasse le azioni del Valentino, 399. Lettere di amici a lui durante questa legazione, 570 e seg. Chiede d'avere le Vite di Plutarco, 400, 576. Segue il Valentino a Forlì, 403; a Sinigaglia, 406; a Perugia, 408; ad Assisi, 409; a Castel della Pieve, ivi. Parte per tornare a Firenze, ivi. Frammento di una sua lettera in cui epiloga tutti i fatti di quell'impresa del Valentino, ricordato, 410. Scrive a Firenze troppo di rado, 581, 593. Nuovo paragone tra esso e Antonio Giustinian oratore veneto a Roma, 411. Non s'illude nel giudicare il Valentino ed il Papa, 419; e vero concetto che si forma del Duca, 420 e seg. Della sua Descrizione dei fatti di Romagna, e in quanto e perchè essa diversifichi dalla relativa legazione, 421 e seg. Di un suo Discorso sopra il provvedere danaro, ec., 426 e seg. Mandato a Siena, 429. Delle sue lettere di ufficio per difendere la Repubblica da ogni possibile assalto dei Borgia, ivi, 594; e di altre ai commissari in campo contro Pisa, 430, 431. Di una sua copia d'una lettera del Valentino, e di una sua gita, [549] erroneamente supposta, a Roma, 435. Sue lettere d'ufficio dirette a impedire l'ingrandirsi dei Veneziani, ricordate, 448, 449. Sua legazione a Roma; sunto dell'istruzione, e brani e sunti delle sue lettere, 449 e seg. L'elezione di Giulio II muta lo scopo della sua legazione, 451; la cui importanza viene dal trovarsi egli di nuovo in presenza del Valentino, 453. Come debba spiegarsi l'indifferenza e il disprezzo con cui ora scrive del Valentino, ivi, 459, 462. Lettere di B. Buonaccorsi a lui, 456, 604 e seg. Gli nasce il primo figliuolo, 605. Prevede quello che accadrà ai Veneziani per l'impresa in Romagna, 457. Chiede denari ai Dieci; e stanziamento a suo favore, 458. A Firenze è biasimato di far sempre troppo gran caso del Duca, 459. Nuovo confronto tra le lettere sue e quelle dell'Oratore veneto; e da che dipendano in esse certe somiglianze, 460. Il Cardinale Soderini si separa malvolentieri da lui e lo trattiene in Roma, 463. Parte con una lettera del Cardinale piena di elogi, ivi. Di una sua lettera privata scritta in quella legazione, ivi. Sua seconda legazione in Francia, 479; e istruzioni dategli, ivi. Torna, 466. Si accenna a un'altra presunta ma non vera gita di lui in Francia, ivi. Mandato a Piombino, 467. Ha gran potere sul gonfaloniere Soderini, ivi. Caldeggia col Gonfaloniere il progetto di deviare l'Arno da Pisa; e scrive perciò un gran numero di lettere, 468 e seg. Del suo Decennale primo, e della prima edizione di esso, 472 e seg. Sua legazione a Giampaolo Baglioni a Perugia, 479 e seg. Si accenna alla sua legazione al Marchese di Mantova, 485. Pier Soderini vorrebbe mandarlo oratore a Consalvo, 486. Sua nuova legazione a Siena presso Pandolfo Petrucci, ivi e seg. Mandato ai campo di Pisa, 493. Attende ai provvedimenti necessari per dare un assalto a quella città, ivi. Esalta la virtù di Antonio Giacomini, 494. Per l'infelice esito dell'assalto di Pisa, rivolge l'animo all'istituzione di una milizia fiorentina, 495, 498. Sua legazione presso Giulio II, 495 e seg.; che riesce una delle meno importanti, e perchè, 497 e seg. Ancora del suo disegno d'istituire una milizia, e di quanto operi per attuarlo, nel che si rivela il suo patriottismo, 501 e seg. Si ricorda il suo libro dell'Arte della guerra, 504; e una sua novella che si legge tra quelle di Matteo Bandello, ivi. Sua scrittura relativa all'istituzione della milizia, 506, 513, 637 e seg. Cancelliere dei Nove della milizia, 514. Lettere di Agostino Vespucci a lui, 557, 560, 571. Altre lettere del Buonaccorsi a lui, 629 e seg.
[550]
Sull'animo e l'ingegno di lui non ebbero mai un'azione visibile le arti belle, II, 3; ma un'azione almeno indiretta ve l'ebbero, 4. Attende all'ordinamento della milizia; e gran numero di lettere da lui scritte per tale effetto, ricordate, 51-52. Lettere a lui di Alessandro Nasi, 499; di Filippo da Casavecchia, 500; di Biagio Buonaccorsi, 502, 504. Sue lettere autografe scritte come cancelliere dei Nove e dei Dieci, ricordate, 506 e seg. Inviato a Siena, 53; a Piombino, e richiamato, ivi. Filza di lettere di vari a lui, ricordata, 62, 509, 510. Lettere a lui di don Michele Coreglia, 510; e di Pietro Corella conestabile, 516. Sua legazione all'Imperatore, 64 e seg. Sue osservazioni sugli Svizzeri e i Tedeschi, fatte in detta legazione, 65. Brano di una sua lettera mancante in tutte le edizioni, 73. Quanto durò quella legazione, e del salario e altre spese pagategli per essa, ivi, 74. Si parla della sua Istruzione a Raffaello Girolami ambasciatore in Spagna, 74; e dei suoi scritti sulla Germania, 76 e seg.; e dei Ritratti delle cose di Francia, 86 e seg. Raccoglie fanti nel territorio fiorentino e va al campo di Pisa, 92 e seg. Va a Piombino per trattare la resa dei Pisani; si corregge un errore circa il numero degli ambasciatori pisani ivi convenuti, 97 e seg. Torna a Firenze e ritorna al campo, 101. È a Pistoia, 102; a Cascina, 103; a Mezzana, ivi. Lettera di Lattanzio Tedaldi a lui, ricordata, 104. Per la resa di Pisa cresce la sua riputazione; lettere di elogio ad esso, ricordate, 105. Lettere di Filippo Casavecchia, e di Alamanno Salviati, 106, 520, 522. Sua legazione a Mantova, all'Imperatore, 115 e seg.; e suo ritorno a Firenze, 119. Del suo Decennale secondo, 117. Di una sua lettera a Luigi Guicciardini, ivi, 119. Di una sua lite di famiglia, 120. Altre lettere di Biagio Buonaccorsi e di Francesco del Nero a lui, 523 e seg. Piglia possesso dell'eredità paterna, 120. Di una deposizione fatta contro di lui ai Conservatori di legge, 121. È a Sansavino, 123; e in Valdinievole, ivi. Lettere del gonfaloniere Soderini, di Francesco Vettori e di un altro amico a lui, 527, 529, 531. Sua terza legazione in Francia, 126 e seg. Una osservazione a proposito delle lettere scritte in questa legazione, 129. Lettere di Antonio della Valle, di Roberto Acciaiuoli e di B. Buonaccorsi a lui, 533 e seg. Suo ritorno a Firenze, 133; durata della sua assenza, e stipendio da lui riscosso per questa legazione, ivi. Si occupa d'ordinare una milizia a cavallo, e conseguenti sue gite nel dominio della Repubblica, 140. Mandato a [551] Siena, ivi; atto con cui disdice una tregua a quel Comune, 543. Mandato a Luciano Grimaldi, 141; incontro ai Cardinali che si recavano al Concilio di Pisa contro Giulio II, indi a Milano; e sua nuova legazione in Francia, 149 e seg. Ritorna a Pisa, per il Concilio, 151; e quello che vi faccia, 154, 155. Fa il suo primo testamento, 166. Di un suo Consulto per l'elezione del comandante delle fanterie, ivi. Fa leve d'uomini per l'Ordinanza a cavallo, 167; e scrive la provvisione per la sua istituzione, ivi. Si reca in vari luoghi del dominio per provvedere alla difesa della Repubblica, 168 e seg. Va a casa di Francesco Vettori a impetrarne asilo per il gonfaloniere Soderini, 176. Suo giudizio sul governo del Soderini, 177-78. Spera di conservare il suo ufficio acconciandosi coi Medici, 185-86. Sunto di una sua lettera forse all'Alfonsina Orsini, 186; e di un'altra al Cardinale Giovanni, 188; e di un suo scritto pubblicato col titolo Ricordo ai Palleschi, 189; e giudizio di questi tre scritti, ivi. Privato d'ogni ufficio e confinato, 191. Rende i conti della sua amministrazione, ivi. Come si trovi compromesso nella congiura del Boscoli e del Capponi contro i Medici, 194, 197, 198; bando contro di lui, 198, 556. È imprigionato e messo alla tortura, poi liberato come innocente, 198-99, 554; sunto di alcune sue lettere in proposito. 199. Continua a desiderare e sperare di essere adoperato dai Medici, 200. Che debba pensarsi di tre sonetti scritti da lui in quei giorni e indirizzati a Giuliano de' Medici, ivi e seg. Solleva l'animo a delle speranze; ma non è cercato dai Medici, 210. Sue strettezze economiche e suo stato d'animo in questo tempo, 210 e seg. Sua corrispondenza epistolare con Francesco Vettori; grande importanza d'essa, e suoi argomenti principali, II, 212 e seg., 557 e seg.; III, 414; argomenti privati, II, 214 e seg.; considerazioni e discussioni sugli avvenimenti politici, 220 e seg., e particolarmente sulla tregua tra Spagna e Francia, 223; e sugli Svizzeri, 226 e seg. È convinto che l'alleanza francese sia necessaria all'Italia, 229. Sovraccaricato d'imposte, 219. Col fine di giovargli, il Vettori fa vedere due sue lettere al Papa, ma senza pro, 232, 574. In che differisca, come uomo politico, dal Guicciardini, 251, 258. Quanto imiti da lui il Guicciardini nei suoi Ricordi politici e civili, 265. In che anno scrivesse il Principe: e della data della lettera in cui parla di questa sua opera a Francesco Vettori, 270 e seg. Contemporaneamente pone mano ai Discorsi cui attende per lungo tempo, e li lascia [552] incompiuti, 271, 272. Si combatte e prova falsa l'opinione che il Principe e i Discorsi non abbiano relazione tra loro, 271. In questi suoi scritti politici segue una via diversa da quella tenuta dal Guicciardini, 272-73. Del suo paganesimo in politica, 276. Conserva sempre sentimenti repubblicani, 277. Del paragone da alcuni fatto tra lui ed Aristotele, 278 e seg. Esposizione dei suoi Discorsi, 285 e seg.; nei quali copia Polibio, 289, 471. Ancora sulla questione s'egli sapesse di greco, 289, 471, 575 e seg. Avverso al dominio temporale della Chiesa, e perchè, 295 e seg. Errore il supporlo nemico o indifferente alla virtù e alla libertà, 299. Non giudica il valore morale delle azioni individuali, ma il loro effetto come azioni politiche, 311. Della sua sentenza circa il ricondurre le istituzioni e i governi ai loro principii, 317. Brevi accenni a quella parte dei Discorsi che tratta dell'arte della guerra, 321. Critica dei Discorsi, 323 e seg.; ed esame delle Considerazioni del Guicciardini sui medesimi, 350 e seg. Si accenna all'opinione che di lui ebbero il Cavour e Gino Capponi in confronto col Guicciardini, 360-61. Notizie della sua villa a Sant'Andrea in Percussina presso San Casciano; e come quivi e non in altra villa scrivesse il Principe e i Discorsi, 362-63. Come si formasse l'idea del Principe, 363 e seg.; di cui il Valentino gli apparisce il tipo più definito, 364. Occasione prossima che lo indusse a scriverlo, 366; e come per essa gli accrescesse il desiderio e la speranza di essere adoperato dai Medici, 368 e seg. passim. Brano ed estratto di una sua lettera a Francesco Vettori che si collega con quell'opera, 369. Brani ed estratti di altra sua lettera al Vettori, ove descrive la sua vita in villa e gli parla di nuovo del Principe, 371 e seg. A chi si proponga d'indirizzario, 373 e seg. Esposizione e critica del Principe, 378 e seg. Si combatte l'opinione d'uno scrittore ch'egli avesse idee originali in economia politica, 401. Lui vivente non furono dati alle stampe nè i Discorsi nè il Principe, 414. Prime edizioni e manoscritti del Principe, 414 e seg. Agostino Nifo plagiario del suo libro del Principe, 417 e seg. Detrattori di lui e del suo libro del Principe, 420 e seg. Bruciato in effigie per opera dei Gesuiti, 423. Messe all'Indice le sue Opere, 424; si cerca poi farne un'edizione purgata, e come non riesca, ivi. A che si riduce la critica dei suoi avversari, 426. Le edizioni e traduzioni del Principe si moltiplicano, 427. Entrano in lizza contro di lui i protestanti, 430; e anche i re e i loro ministri divengono [553] suoi nemici, 435. Annotazioni di Cristina di Svezia al suo Principe, 436, 437, 593 e seg. Di uno scritto di Federigo di Prussia contro il Principe, ch'egli poi segue nella sua politica, 437 e seg. Ammirato e seguito da Napoleone I, 443. Spregiato dal Principe di Metternich, 444. Suoi difensori, 445 e seg. Detrattori e difensori di lui cadono in un medesimo errore, 448. Diviene per molti un idolo quando incominciano in Italia le aspirazioni nazionali, ivi, 449. Comincia ad essere studiato e ammirato anche in Germania, 449. Lavori di tedeschi intorno a lui, ivi e seg.; e difetti della loro critica, 452 e seg. Si comincia a metterlo in relazione coi suoi tempi; ma non è ancora giudicato rettamente, e perchè, 455, 456. Primi tentativi di un esame scientifico delle sue Opere, in ispecie dei Discorsi e del Principe, 456 e seg. Considerazioni e giudizi di L. Ranke intorno a lui ed al Principe, 456 e seg. Traduzione delle sue Lettere, fatta da E. Leo, ricordata; e suo giudizio intorno al Principe, opposto a quello del Ranke, 462 e seg. Si combatte l'opinione d'alcuni che l'ultimo capitolo del Principe sia una giunta fattavi da lui più tardi, 462. Esame degli studi intorno ad esso: del Macaulay, 464 e seg.; del Gervinus, 476 e seg.; dello Zambelli, 469 e seg.; e di altri, 475 e seg. Perchè dopo tanti studi non si sia arrivati a un giudizio definitivo intorno ad esso, 493. Recenti tentativi di biografie, 494. Lavori più recenti intorno ad esso, ricordati, ivi, 495. Sua lettera a Francesco del Nero, e della sua parentela con esso, 525, 526. Si epiloga la disputa intorno all'ipotesi ch'egli conoscesse il greco, ec., 575 e seg. Si ricorda il dialogo Dell'ira a lui attribuito, 576. Sua Vita di Castruccio Castracani, ricordata, 577. Sua Arte della guerra, ricordata, 588. Giudizio del Wicquefort e di un traduttore francese del Principe intorno a quel libro, 593 e seg.
Di alcuni lavori intorno al M. venuti recentemente alla luce, III, V e seg. Dell'opinione che si rappresentasse la sua Mandragola dinanzi a Leone X in Firenze, 17. Suo parere circa il governo di Firenze, ricordato, 23. S'illude sperando nelle aspirazioni ambiziose di Leone X, 27. Nulla debbono a Leone X le sue Opere, 32. Suoi Decennali, ricordati, 37. Sua lettera a Lodovico Alamanni, ricordata, ivi. Legge con grande ammirazione il poema dell'Ariosto, ivi. Suo poema dell'Asino, ricordato, ivi. Di nuovo della sua vita in villa, ivi e seg.; e della sua famiglia, 38 e seg. Due lettere di Lodovico suo figliuolo a lui, 389, 391. Suo secondo testamento, [554] ricordato, 40. Di una lettera della moglie a lui, ivi; e testo di essa lettera, 397. Saggio della sua corrispondenza epistolare con Giovanni Vernacci suo nipote, 39, 41 e seg.; e testo di alcune di esse lettere, 392 e seg., 398 e seg. Di una sua gita e commissione a Genova, 43, 401. Viene di tanto in tanto a Firenze dalla villa, 43. Introdotto negli Orti Oricellari, e in casa dei Medici, 48. Ancora della sua lettera creduta scritta all'Alfonsina Orsini, 49. Delle sue letture negli Orti Oricellari, ivi. Il cardinal Giulio de' Medici lo incita a scrivere sul modo di riformare il governo di Firenze, 51, 54; e di questo suo Discorso, 54 e seg., 119; dove non esiste contradizione col libro del Principe, 54. Sua commissione a Lucca, 93. Del suo Sommario delle cose di Lucca, 64 e seg. Lettere di Giovambattista Bracci a lui, 406 e seg. Lettere a lui del cardinal Giulio de' Medici e di amici, ricordate, 67; e lettere di Bernardo suo figliuolo e di Filippo de' Nerli, 409, 410. Esposizione e critica della sua Vita di Castruccio, 67 e seg. Si accenna alla sua teoria della superiorità dei fanti sui cavalli nelle guerre, 71, 79, 80. Della sua Arte della guerra: critica ed esposizione di essa, 75 e seg.; e della sua prima edizione, 76. Lettera del cardinale Salviati a lui a proposito di detta opera, ivi, 412. Descrizione d'un codice contenente lunghi frammenti autografi dell'Arte della guerra, 76. Di nuovo ricordati il suo Principe e i Discorsi in relazione coll'Arte della guerra, 77, 93, 99, 102, 118, 119. Due persone consultate dall'autore del presente libro intorno all'Arte della guerra, 78 e seg. passim. Ha poca fede nelle armi da fuoco e ragione di ciò, 82, 84. Nell'Arte della guerra imita e copia dal libro De re militari di Vegezio, 90 e seg., 94, 95, 98, 104, 105; e fa uso frequentissimo di Frontino, 94, 95, 107: e altre fonti di cui si vale, 94, 95. Condotto dagli Ufficiali dello Studio a scrivere le Storie, 120 e seg.; sua lettera a Francesco del Nero intorno a detta commissione, 120; e deliberazione della condotta e stanziamenti di salari, 121, 122. Piero Soderini gli propone di lasciar Firenze e acconciarsi per segretario con Prospero Colonna, 122-23; ma egli non accetta, 123. Della sua commissione al Capitolo dei frati Minori a Carpi, 124 e seg.; e relativa sua corrispondenza col Guicciardini, 125 e seg., 420. Torna a Firenze e attende alla Storia e ad altri lavori, 127. Ancora dei suoi discorsi negli Orti Oricellari, 130. Di un'altra sua proposta per la riforma del governo in Firenze, 131, 132; e nuovo scritto sulla milizia cittadina, 132, 421. Non cade in sospetto per [555] la congiura ordita contro il Cardinale de' Medici, che continua ad essergli benevolo, 137. Si ritira di nuovo in villa, dove attende alla Storia e ad altri lavori, ivi. Notizie storiche e bibliografiche relative alla sua Mandragola, 146: esposizione ed esame critico di essa, 149 e seg.; e, a proposito d'essa, di nuovo del Principe e di altre opere, 157-58. Della Clizia, 163 e seg. Della Commedia in prosa, 166; e della Commedia in versi, 167 e seg. Descrizione della peste, ec., attribuita a lui, ricordata, 168. Dell'Andria, traduzione di quella di Terenzio, 170. Dei suoi abbozzi o frammenti di un'altra commedia La Sporta, 171. Del suo poema L'Asino d'oro, 173 e seg.; dei Canti carnascialeschi, e d'altre poesie minori, 180 e seg. Di un suo Sonetto inedito; e ancora di uno dei suoi Sonetti a Giuliano de' Medici; e testo di essi, 181, 182, 425. Del Dialogo sulla lingua, 182 e seg. Della Descrizione della peste, e del Dialogo dell'Ira attribuiti a lui, 191, 194. Della sua Novella di Belfagor, 195. Di altri scritti minori, 198. L'arte storica al suo tempo, 199 e seg. Sua Vita di Castruccio, ricordata, 204. Fine e limiti che si propone nello scrivere le Storie, ivi. «Vero fondatore della storia politica e civile», 205. Divide le Storie in otto libri; e frammenti di un libro nono, ricordati, 206 e seg. Esposizione e critica del primo libro, 207 e seg. Di nuovo si ricordano il Principe e i Discorsi, 210, 215. Giudica severamente i papi, donde si trae motivo a ribattere l'accusa datagli d'astuzia e di falsità, 212 e seg. Epilogo del primo libro delle Storie, 220; e brani di esso messi a riscontro con le Storie di Flavio Biondo, 221 e seg. Esposizione e critica del libro secondo delle Storie, 230 e seg. Di nuovo ricordata la sua Vita di Castruccio, 236. Si ferma a lungo sul Duca d'Atene, e perchè, ivi e seg. Paragone tra i Discorsi di lui e del Guicciardini messi in bocca ai personaggi delle loro Storie, 238. Epilogo del secondo libro delle Storie, 240. Esposizione e critica del libro terzo, 241 e seg.; del quale è un episodio principalissimo il Tumulto dei Ciompi, ivi. A ogni libro delle Storie premette delle considerazioni generali, 242. Opportunità di paragonare l'introduzione al terzo libro delle Storie con un luogo dei Discorsi, 243. Esposizione e critica del quarto libro delle Storie, 254 e seg.; e degli ultimi quattro libri, 266 e seg. Sua lettera al Guicciardini a proposito delle Storie, ricordata, 266. Come e perchè esageri e sbagli nel narrare la battaglia d'Anghiari, 270-71; e i fatti di Francesco Sforza, 274; e la battaglia della Molinella, 279; e della sua narrazione delle congiure nei due ultimi [556] libri, 276 e seg. Di nuovo ricordati i Discorsi, 281, 282. Suo giudizio di Lorenzo il Magnifico e confronto con quello datone dal Guicciardini, 284-85. Dei suoi Frammenti Storici ed Estratti di lettere ai Dieci, 285 e seg. Sue Nature d'uomini fiorentini, ricordate, 288. Della sua Bozza delle Storie, 289; e alcuni suoi raffronti con esse, ivi. Paragone delle sue Storie con la Storia d'Italia del Guicciardini, 290 e seg. Di nuovo ricordato il suo Principe, 300. Dell'idea ch'egli ebbe dell'indipendenza italiana, a proposito della congiura del Morone, 318. Si trova col Guicciardini al campo degli alleati contro Carlo V, 319. Ancora de' suoi ideali, e un altro raffronto tra lui e il Guicciardini, 322-23. Finisce l'ottavo libro delle Storie, 323. Lettera di Francesco Vettori a lui, 323-24, 428. Va a Roma a presentare le Storie al Papa, e ne ottiene un sussidio per continuarle, 324. Lettera di Francesco del Nero a lui, e lettere di lui ricordate, 324, 430. Persuade al Papa l'istituzione della milizia nazionale, 325, 326; ed è perciò inviato presso il Guicciardini in Romagna con un breve apostolico, 325, 429. Ricordato a proposito di questa milizia, 450. Torna a Firenze, 327. Sua corrispondenza col Guicciardini, ivi e seg.; che vuol rappresentare la sua Mandragola a Faenza, 327, 331; ma la rappresentazione non ha luogo, 334. Di una medicina da lui usata e falsamente creduta causa della sua morte, 327, 328. Di una sua commissione a Venezia, 328, 431. Imborsato fra i cittadini abili agli uffici politici, 329. Di una sua pretesa vincita a Venezia, ivi. Ritorna a Firenze, 330. Si rimette a scrivere le Storie, 331. Si rappresentano le sue Commedie in Firenze, 333. Come scriva a lui e di lui Filippo de' Nerli, 333, 350, 351, 433. Sua opinione circa i possibili accordi tra il Re di Francia e l'Imperatore, 335; e sue lettere intorno a ciò a Filippo Strozzi e al Guicciardini, ivi, 336. Si occupa del disegno di fortificar le mura di Firenze, ed è cancelliere dei Procuratori a ciò eletti, 337 e seg.; e sue relative lettere d'ufficio, e brani e sunti di lettere al Guicciardini, 338 e seg., 434 e seg. Lettera di un potestà di Montespertoli a lui, ricordata, 340. Sua gita al campo della lega presso il Guicciardini, 344, da cui è inviato a Cremona, 345; e sua lettera di là, ricordata, ivi, 466. Lettera d'Iacopo fornaciaio, e lettere d'altri a lui, ricordate, 344, 444. Torna a Firenze, e della sua relazione, stampata come lettera ad un amico, 347, 348. Sua nuova gita al campo, e sua lettera da Modena, citata, 349. Nuovo ritorno a Firenze, ivi. Ritorna al campo la terza volta, 350. Scrive [557] da Parma e da Bologna e d'altrove a Firenze, 351, 352; e sunti di alcune lettere, 354, 355. Brano di una lettera al figlio Guido, 355, 356; e lettera alla moglie, ricordata, ivi, 474. Ritorna a Firenze, 356. Sua nuova commissione al campo presso Roma, e sunto dell'ultima lettera di mano sua, 361. Ritorna a Firenze, 362. Condizione sua nella nuova repubblica; è trascurato e se ne addolora, ivi e seg. Si ammala e muore, 364-65. Del suo testamento, 365. Vari racconti della sua morte, 366 e seg. Sue Storie e Discorsi, di nuovo citati, 369. Sepolto in Santa Croce; e del monumento ivi erettogli, 370, 372. Notizie di edizioni delle sue opere nel secolo XVIII, 371. Sguardo riassuntivo ai suoi tempi, alla sua vita e alle Opere, alle sue qualità e intendimenti, 373 e seg. Critiche recenti al M. come scrittore di cose militari e come istitutore della milizia fiorentina, 479 e seg.
Machiavelli Niccolò d'Alessandro, I, 296.
Machiavelli Niccolò di Bernardo, nipote del M. Apparecchia un'edizione dell'Opere di lui, che non ha poi effetto, II, 424. Altre notizie intorno a lui, III, 370.
Machiavelli Piero, figliuolo di N. Alcune notizie intorno ad esso, III, 38, 39. Sua lettera intorno alla morte del padre, ricordata, 365, 367. Erede del padre, coi suoi fratelli, 365. Ricordato, 367.
Machiavelli Primerana, sorella di N., III, 41.
Machiavelli Ristoro. Di uno suo quaderno di ricordanze di famiglia, I, 296.
Machiavelli Totto, I, 299. Sunto di una sua lettera al fratello N., 349. Ricordato in lettere di Biagio Buonaccorsi al M., 556, 608. Accordo da lui concluso con N., circa l'eredità paterna, ricordato, II, 120, 210. Ricordato, 525; III, 475.
Macinghi negli Strozzi Alessandra. Sue Lettere a stampa, ricordate, II, 30.
Macun I. Suo discorso intorno al M., ricordato, III, 198.
Magione presso Perugia. Vi si congiura contro il Valentino, I, 384. Ricordata dal M. nel Principe, II, 381.
Magliana, villa di Leone X presso Roma, III, 28, 31.
Malatesta Sigismondo Pandolfo, signore di Rimini, I, 157.
Mancini Pasquale Stanislao. Del suo libro intitolato Prelezioni con un Saggio sul Machiavelli, II, 453 e seg.
Manente (Maestro), II, 563, 567.
Manetti Giannozzo, I, 119, 154.
Manfredi Astorre. Gli è tolto lo stato e la vita dal Valentino, I, 275.
[558]
Mangabotti Andrea da Barberino in Val d'Elsa, e i suoi Reali di Francia e gli altri poemi cavallereschi, I, 210.
Mannelli Giovanni. Sua lettera al M., ricordata, III, 334.
Mannelli Luigi, II, 502.
Mantova. Illustrata nel secolo XV dalla dimora di Vittorino da Feltre, I, 161.
Mantova (Marchese di), III, 44 5. — Ved. anche Gonzaga Giovanfrancesco.
Marciano (da) conte Rinuccio. Capitano generale dei Fiorentini nella guerra contro Pisa; rotta da lui toccata, I, 314. Sue pretese, 316, 318.
Mariano (fra), buffone di Leone X, III, 29, 32.
Marignano (Battaglia di), III, 12. Ricordata a proposito dell'Arte della guerra del M., 84.
Marignolle presso Firenze. Vi alloggia Leone X, in una villa del Gianfigliazzi, III, 15.
Marsili Luigi, agostiniano, I, 96.
Marsuppini Andrea, II, 554.
Marsuppini Carlo d'Arezzo, I, 118.
Marsuppini Cristoforo, accademico platonico, I, 176.
Martelli Braccio e Canigiani Antonio, commissari dei Fiorentini, mandati ad impadronirsi di Paolo e Vitellozzo Vitelli, I, 331.
Martelli Ugolino. — Ved. Della Stufa Luigi.
Martellini Antonio, III, 403.
Martesana (Canale della) in Milano, I, 34.
Martini.... prete, II, 554.
Martino V, I, 60, 62.
Maruffi fra Silvestro, I, 289, 290.
Marzi D. Sua opera La Cancelleria della Repubblica fiorentina, citata, I, 307; II, 123.
Marzocco, insegna della Repubblica fiorentina, I, 253.
Masaccio, II, 9.
Massimiliano I, imperatore. Entra in una lega contro Carlo VIII, I, 256. Sua inutile venuta in Italia a favore dei Pisani, 258, 282. Chiede denari ai Fiorentini, ma non li ottiene, 365. Voci di una sua nuova passata in Italia, 629 e seg.; II, 53, 54, 503. Condizioni politiche dei suoi stati, e suo antagonismo con la Francia, 55 e seg. Sue qualità fisiche e morali, 56 e seg., 69, 85. È di nuovo in via per l'Italia, 59. Di nuovo chiede denari ai Fiorentini, 60, 62, 70. Legazione di Francesco Vettori e del M. presso di lui; e [559] notizie della sua impresa, 61 e seg., 68 e seg. Torna in Germania, 70. Tregua tra esso e i Veneziani, 72. Entra nella lega di Cambray, 107. Molte terre imperiali del dominio Veneto son pronte a rendersi a lui, 112. Torna in Italia, e sue imprese, 113 e seg. Gli è inviato il M.; e suo trattato coi Fiorentini, 115. Si unisce ai Francesi contro i Veneziani e il Papa, 125. Voci di accordi tra esso ed il Papa, 530-31. Aderisce al Concilio di Pisa, contro Giulio II, 147; e sua relativa lettera ai Fiorentini, 547. Minaccia di richiamare, poi richiama, le sue genti dall'esercito del Re di Francia, 160, 163. Fa lega col Papa, 192. Considerazioni e giudizi intorno ad esso nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, 224 e seg.; III, 416 e seg. Sua lega con Enrico VIII d'Inghilterra, ricordata, III, 8; poi col Re di Spagna e il Duca di Milano, 11. Difende Verona contro Francesco I, 15. Entra nel trattato di Cambray, ivi. Muore, 24. Ricordato l'assedio da lui posto a Padova, 112.
Masuccio Salernitano. Di lui e del suo Novellino, I, 207.
Matteo (frate). Confessa e assiste il M. in punto di morte, III, 365.
Matter. Come giudichi il M., nel suo libro Histoire des doctrines morales et politiques des trois derniers siècles, II, 451.
Mazzei Lapo. Sue lettere a stampa ricordate, II, 30.
Medici famiglia, I, 38 e seg. La Lega Santa delibera di rimetterli in Firenze, II, 165; e lettere e notizie relative al loro ritorno, 177 e seg., 549 e seg. Del loro governo in Firenze, 184, 205 e seg.; e scritti del Guicciardini ad esso relativi, 258 e seg. Ricordati a proposito del Principe e nel Principe del M., 368, 373, 405, 420, 422. In che relazione fossero con loro i frequentatori degli Orti Oricellari, III, 44 e seg., 130. Del predominio ch'essi ottennero in Firenze con Cosimo il vecchio, nelle Storie del M., 254 e seg., 275. Di nuovo cacciati di Firenze, 359, 363.
Medici Alessandro. Gli è assegnata una pensione da Carlo V, III, 25. Sua origine, 296. Mandato da Clemente VII a Firenze, 297; è poi costretto ad uscirne, 360.
Medici Caterina. Introduce in Francia il Principe del M., II, 428. Abita in Roma nel Palazzo a Sant'Eustachio detto poi da lei Palazzo Madama, III, 2. Della sua nascita, 23.
Medici Clarice di Piero di Lorenzo. Del suo matrimonio con Filippo Strozzi, II, 136. Va a trovare Giuliano de' Medici al suo ritorno in Firenze, 552. Di una lettera del M. forse a lei indirizzata, II, 186, III, 49.
[560]
Medici Contessina, II, 552.
Medici Cosimo, il vecchio, I, 40, 43; II, 593; III, 55, 56, 255. Fondatore della Biblioteca medicea, I, 102. Restauratore dell'Accademia platonica, 168. Come parli di lui nelle sue Storie il M., III, 261 e seg., 268, 275, 276.
Medici Galeotto, oratore a Roma; lettere scrittegli dai Procuratori delle mura di Firenze e lettere sue ad essi, ricordate, III, 436, 439.
Medici Giovanni di Bicci, I, 39. Ricordato nella Storia e a proposito della Storia del M., III, 257, 259.
Medici Giovanni di Pierfrancesco, I, 322.
Medici Giovanni, cardinale. Consigli datigli da Lorenzo suo padre, al suo partire per Roma, I, 72, 189. Si spaventa dell'elezione d'Alessandro VI, 231, 234. Capo della sua famiglia dopo la morte di Piero de' Medici; sue qualità e suo contegno, II, 135, 179. Conclude il matrimonio tra Filippo Strozzi e Clarice di Piero de' Medici, 136. Legato di Perugia, poi di Bologna, 149, 158. Prigione dei Francesi alla battaglia di Ravenna, 162, 163; liberato, 163. Sue pratiche per tornare in Firenze, 165. Viene con Raimondo di Cardona contro Firenze, 170, 172. Sua lettera al Papa, intorno al sacco di Prato, 173, 548. È in corrispondenza coi primari cittadini di Firenze, 175. Sua lettera a Piero da Bibbiena relativa al suo ritorno in Firenze, 177, 549. Sue modeste domande agli oratori inviatigli dai Fiorentini, 178. Accolto in Firenze a gran festa, 182. Altra sua lettera a Piero da Bibbiena, ivi, 552. Lettera e altro scritto indirizzatogli dal M., 188, 189. Ricordato in lettere di Francesco Vettori al M., 558, 559. Ancora del suo carattere e qualità, 192-93. Ricordato, 590. Eletto papa. — Ved. Leone X.
Medici Giovanni delle Bande nere, I, 504; III, 296, 298, 320. Disegno del M. di armarlo a difesa della Toscana e della Chiesa contro l'Imperatore, 336, 337. Uno de' capitani della lega contro Carlo V, 347, 348, 469, 470. È crucciato, e vuol partirsi; e domande che fa al Re di Francia, 347, 472, 473. Sua morte, 349.
Medici Giovenco, potestà di Prato; lettera dei Nove della Milizia a lui, II, 508.
Medici Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, II, 501. Della sua uccisione nella congiura de' Pazzi, narrata dal M., III, 282, 283. È ricordata a questo proposito una recente apertura della sua tomba, 283.
Medici Giuliano di Lorenzo il Magnifico. Segue il campo dei Veneziani contro Firenze, I, 316. È in Arezzo, 367. Sue pratiche per [561] tornare in Firenze, II, 165. Sua lettera a Piero da Bibbiena, relativa al suo ritorno in Firenze, 177, 549. Si tratta di dargli in moglie una nipote di Pier Soderini, 180, 550. Carattere e qualità sue, 180. Suo ritorno in Firenze, ivi, 551, 552. Interviene in Consiglio alle prime riforme del governo, 181. Due sue lettere a Piero da Bibbiena intorno alla congiura del Boscoli e del Capponi, 197, 553, 555. Di tre sonetti indirizzati a lui dal M., 200 e seg. Capitano e Gonfaloniere della Chiesa, 206-7. Sposa Filiberta di Savoia e diviene duca di Nemours, ivi. Rifiuta il ducato d'Urbino, 207. Fantastica grandi disegni, 209. Si parla di formare per lui uno stato di Parma e Piacenza ec., 366 e seg.; III, 5; e questo disegno ebbe di mira il M. nello scrivere il Principe, II, 369, 370; III, 5; che però pensa di indirizzare a lui, II, 373, 374. Muore prima di ricevere quell'offerta, 375. Ricordato, 420, 541; e in lettere di Francesco Vettori al M., 558, 562, 563, 570, 571. Ancora della sua morte, III, 5. Comandante l'esercito dei Fiorentini e del Papa contro Francesco I, 12. Suo monumento in San Lorenzo di Firenze, ricordato, 33. Insussistenza delle pretese intime relazioni del M. con lui, 49. Sua noncuranza per Firenze e sue mire ambiziose al di fuori, ricordate, 52. Ricordato, 62. Ancora di uno dei Sonetti indirizzatigli dal M., e nuova edizione di esso, 181, 182, 427.
Medici Giulio, II, 175, 179. Arcivescovo di Firenze, poi cardinale, 206. Sue mire ambiziose, 209. Ricordato in lettere di Francesco Vettori al M., 558, 559, 570, 571, 572. Voce che debba andare legato in Francia, 562-63. Vede alcune lettere del M., 574. Altre notizie di lui e sue qualità, III, 5, 22, 23. Viene al governo di Firenze, 23. Voci di un accordo tra esso e Francesco Maria Sforza, 24. Ottiene una pensione sul vescovado di Toledo, 25. Conscio di tutti i segreti del Papa; sue rivelazioni al Guicciardini, 26. Alla sua iniziativa si devono i monumenti a Lorenzo e Giuliano de' Medici scolpiti da Michelangiolo, 33. Si fa intercessore di Luigi Alamanni presso il Papa, 404, 405. Comincia a dimostrare benevolenza al M., 49; e lo incita a scrivere sul modo di riformare il governo di Firenze, 51, 54, 57, 62; e suoi sentimenti veri e finti verso la Repubblica, 55. Vuole avvicinare a sè il M., 63. Scrive a Lucca in favore di alcuni mercanti fiorentini, 408. Sua lettera al M. a Lucca, ricordata, 67. Desidera di leggere l'Arte della guerra del M., 76. A lui in parte è da attribuirsi l'incarico dato al M. di [562] scrivere le Storie, 120, 206. Fa dare al M. la commissione di recarsi al Capitolo dei frati Minori in Carpi, 124. Aspira al papato dopo la morte di Leone X, 128; indi propone il Cardinale di Utrecht, ivi. Del suo prudente governo in Firenze, 129. Mostra di pensare a riordinar la Repubblica, 131; e gli son presentate varie proposte per la riforma, ivi; e uno scritto del M. per ricostituire l'Ordinanza, 132. Qual fosse il vero suo animo 133 e seg. Della congiura ordita contro di lui, 134 e seg. Eletto Papa. — Ved. Clemente VII.
Medici Ippolito, II, 180. Sua origine, III, 296. Mandato da Clemente VII a Firenze, 297. Uno dei cinque Procuratori delle mura, 435. Si solleva il popolo contro il suo governo, 357; e di nuovo, egli abbandona Firenze, 359.
Medici Lorenzo, il Magnifico, I, 43, 44, 172. Si parla delle sue Lettere, 188; e delle sue Poesie, 192 e seg., e per incidenza del suo matrimonio con Clarice Orsini, 193. Delle Lettere di Luigi Pulci a lui, 217. Muore, 230. Gli è negata l'assoluzione dal Savonarola, 277. Si spenge il suo ramo di famiglia, III, 54. Ricordato il suo governo, 55 e seg. Ricordati i suoi Canti Carnascialeschi, in confronto con quelli del M., 180. Ricordato a proposito della Congiura dei Pazzi narrata dal M., 282, 283; e ricordata a questo proposito una recente apertura della sua tomba, 283. Giudizi dati di lui dal M. e dal Guicciardini nelle loro Storie, 284, 285, 490.
Medici Lorenzo di Piero, II, 180. Si tratta di dargli in moglie una figliuola di Gianvittorio Soderini, 193; ma il matrimonio non ha effetto, 206. Suo governo in Firenze, 207 e seg.; e relative istruzioni dategli da Leone X, 207. Ricordato, 366. A lui dedica il M. il suo Principe, dopo la morte di Giuliano de' Medici, 375, 376; III, 19. Ricordato a proposito di quella dedica, II, 420, 421, 423. Ricordato in lettere di Francesco Vettori al M., 570 e seg. pass.; e nella prefazione a una traduzione francese del Principe, 595, 596. Leone X disegna di formare per lui uno stato di Modena e Parma, III, 4, 5. Giudizio dato di lui da un ambasciatore veneto in Roma, 5. Capitano del Papa e dei Fiorentini nell'esercito della lega contro Francesco I, 12. Fa guerra al Duca d'Urbino, e succede in quello stato, 18 e seg. Suo matrimonio, ultime notizie di lui e sua morte, 22, 23. Suo monumento in San Lorenzo di Firenze, ricordato, 33. Insussistenza delle pretese intime relazioni del M. con lui, 49. Sua noncuranza per Firenze e sue mire ambiziose [563] al di fuori, ricordate, 52. È uno dei primi Otto di Pratica, 58. Ricordato, 62. Ricordata la sua impresa contro Urbino in un Capitolo del M., 180.
Medici Lorenzo di Pierfrancesco, I, 567.
Medici Maddalena, figlia di Lorenzo il Magnifico, I, 71, 189. Le è concessa da Leone X l'esazione delle indulgenze in molte parti della Germania, III, 26.
Medici Piero di Cosimo, II, 501. Di lui e della congiura tramatagli contro, nelle Storie del M., III, 277. Errore di fatto, relativo a lui, nelle dette Storie, 278.
Medici Piero di Lorenzo, I, 230. Sua condotta politica mentre Carlo VIII sta per calare in Italia, I, 235, 242, 243, 244, 246, 249, 521. Sue lettere all'oratore fiorentino a Napoli, citate, 246, 251. Firenze gli si ribella; sua fuga, 252. Segue il campo dei Veneziani contro Firenze, 316. Pratiche dei Veneziani per rimetterlo in Firenze, con l'aiuto di Paolo Vitelli, 332, 548 e seg. Il Valentino vorrebbe rimetterlo in Firenze, 360. È in Arezzo, 367, 370. Giunge in Firenze la notizia della sua morte, 464. Ricordato, II, 121, 122, 135, 541 e seg.
Medici Salvestro, I, 38. Ricordato nella Storia e a proposito della Storia del M., III, 247, 253, 257, 264.
Medici Vieri, I, 38; III, 254.
Medin A. Citato a proposito della Mandragola del M., III, 148.
Mercanzia (Corte della), in Firenze, riformata, I, 376.
Metternich (Principe di). Parla con grande disprezzo del M. nelle sue Memorie, II, 444; ma in fatto riconosce vera la dottrina fondamentale del suo libro del Principe, 445.
Meyncke (dott.) Due suoi articoli relativi al M., ricordati, II, 582.
Michele di Lando nella Storia del M. e in altre Storie, III, 250 e seg.
Micheli, mercanti lucchesi, III, 406 e seg.
Micheli Bonaventura — Ved. Cenami Bartolommeo.
Michelozzi Niccolò, cancelliere degli Otto di Pratica. Di lui sono tre volumi di lettere credute del M., I, XXVI. Succede al M. al ritorno de' Medici in Firenze, II, 191, 207. Cassato dall'ufficio alla nuova cacciata de' Medici, III, 364.
Michiel (Cardinale). Muore, e la sua casa è svaligiata d'ordine d'Alessandro VI, I, 433. Di nuovo ricordata la sua morte, 463.
Milanesi (Gaetano). Sua opinione sull'origine della voce Marzocco, I, 253. — Ved. anche Passerini (Luigi).
[564]
Milanesi Ricciardo, III, 405.
Milano sotto i Visconti, I, 27 e seg.; sotto gli Sforza, 30 e seg. Condizioni de' suoi studi sotto Filippo Maria Visconti, 148. Non ha «un valore suo proprio nella storia dell'erudizione», 153. V'è trasferito il Concilio di Pisa contro Giulio II, II, 155; ch'è poi disdetto dal Re di Francia, 221. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, 305, 322; e nel Principe, 617. Si ribella a Massimiliano Sforza, III, 8. V'entra vittorioso Francesco I, 13. Presa dagli Imperiali di Carlo V, 28. Accenni all'impresa che disegnano farne Francesco I e i suoi alleati, 343 e seg. pass., 453, 465.
Milano (Duomo di), I, 28.
Milano (Ospedale maggiore di), I, 34.
Milizia fiorentina. — Ved. Ordinanza e Nove d'Ordinanza.
Miniati Dino, uno dei cinque Procuratori delle mura di Firenze, III, 435.
Minio Marco, ambasciatore veneto a Roma; suo giudizio su Leone X, III, 2.
Mino da Siena, II, 573.
Mocenigo (Andrea). La sua Storia è una delle fonti di quella del Guicciardini, III, 491.
Mocenigo Tommaso, I, 53.
Modena. — Ved. Parma. — Acquistata per denari da Leone X, III, 10; che poi s'obbliga di renderla al Duca di Ferrara, 17; ma non la rende, 18, 128. V'è governatore per Clemente VII Filippo de' Nerli, 350.
Mohl Roberto. Suo lavoro sul M., ricordato, II, 282, 349, 402, 414, 426, 441, 442. Si esamina detto lavoro, 477 e seg.
Molinella (Battaglia della), tra la gente dei Veneziani e dei Fiorentini, come narrata dal M., III, 279.
Molza. Uno dei migliori letterati della corte di Leone X, III, 32.
Monaci prof. Ernesto. Permette all'autore di valersi di un suo esemplare del Principe, postillato, II, 437, 593. Esamina e giudica la scrittura di due Sonetti del M., III, 182.
Moncada (di) don Ugo, I, 385. Tratta e conclude un accordo tra Clemente VII e Carlo V, III, 341, 342.
Mondaini G. Citato a proposito della Mandragola del M., III, 148.
Montano Niccola, I, 35; III, 280.
Montecuccoli (Raimondo), ricordato a proposito dell'Arte della guerra del M., III, 83.
[565]
Monte di Pietà in Firenze, sua istituzione, I, 281.
Montefeltro, III, 411.
Montefeltro (da) Federico, duca d'Urbino, I, 162. Della sua biblioteca, 163; III, 19.
Montefeltro (da) Giovanna, I, 405.
Montefeltro (da) Guidobaldo, duca d'Urbino, capitano delle genti d'Alessandro VI contro gli Orsini, I, 259. Fatto prigione, ivi. Chiede ed ottiene un salvacondotto da Paolo Vitelli, 316. Gli è tolto lo stato dal Valentino, 367. Lo ricupera, 385. Costretto a rilasciarlo al Valentino, 403. Ammette alla sua presenza il Valentino, che gli si scusa, 461-62. Comanda le genti di Giulio II, 497. Ricordato dal M. nei suoi Discorsi, II, 322.
Montepulciano, II, 141.
Montesecco (da) Giovambatista, III, 281.
Montespertoli, castello redato dai Machiavelli, I, 295 e seg.
Morandi. Suo lavoro Lorenzo il Magnifico, Leonardo da Vinci e la prima grammatica italiana, citato, III, 186 e seg.
Moratini Bartolommeo, II, 514.
Mordenti Francesco. Suo Diario di Niccolò Machiavelli, ricordato, II, 495.
Morelli Lodovico. Compare al primo figliuolo del M., I, 606. Ricordato, 608.
Moreni Domenico. È il primo a notare che il M. si valse del Cavalcanti nelle sue Storie, III, 255.
Moro Tommaso. Della sua opera l'Utopia, e raffronto col Principe del M., II, 409 e seg.
Morone Andrea da Brescia, istrione alla corte di Leone X, III, 29.
Morone Antonio, III, 353.
Morone Giovanni, III, 353.
Morone Girolamo, segretario del Duca di Milano, II, 221; III, 8. Va in cerca d'aiuti a difesa del suo Signore, ivi. Scampa dalle mani dei Francesi dopo la battaglia di Marignano, 13. È a Trento presso Francesco Maria Sforza e gli son mandati denari da Francesco Guicciardini, 27. Suo Esame e Documenti concernenti la sua Vita, ricordati, 303 e seg. Tratta con Carlo V per l'investitura del ducato di Milano allo Sforza, 303. Maneggiatore principale, ma non sincero, d'una lega italiana contro Carlo V, ivi e seg. Accenni alla sua vita precedente, alla sua cultura, al suo ingegno, ecc., 305. Sue Lettere e Orazioni latine, citate, 307. Fatto prigioniero dagl'Imperiali, 312, 330; e della sua confessione ed Esame, 313. Della sua [566] liberazione e altre notizie relative, e della sua morte, ivi e seg., 349, 353; e giudizio di lui e della sua congiura, 315 e seg., 319, 320. Ricordato, 488.
Mulina in Firenze. — Ved. Porticciola delle mulina.
Müller Giovanni (Regiomontanus), I, 145.
Mundi Teodoro. Suo libro sul M., ricordato, II, 78, 82, 84, 479, 494. Sue osservazioni sulla Mandragola, citate, III, 163.
Musachino, I, 627.
Naldi Dionigi, I, 358.
Napoleone I, ammiratore del M., II, 443.
Napoli sotto gli Angioini, I, 73; sotto Alfonso e Ferdinando d'Aragona, 75. Gli eruditi a quella corte nel secolo XV, 153 e seg. Occupata dai Francesi, 254; si solleva contro di essi, 256; e accenni alle guerre tra Francesi e Spagnuoli di quel regno, 257, 258, 361, 363, 432, 437, 438, 463, 464. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, II, 305, 307. Leone X vorrebbe dare quel regno a Giuliano de' Medici, 366; III, 5, 10, 11. Ricordato quel regno nel Principe, II, 601, 617; e nella Novella di Belfagor, III, 196. Offerta di quel regno fatta al Marchese di Pescara, 304, 306, 308. Ricordati i suoi scrittori nel Dialogo sulla lingua, 188. Accenni all'impresa di quel regno che intendeva fare il Re di Francia e i suoi collegati contro l'Imperatore, 451, 459 e seg., 471.
Nardi Bernardo. Della sua congiura contro i Medici in Prato, e come la narri il M., III, 279.
Nardi Iacopo. Nella sua Storia di Firenze è riportato quasi per intero il Diario del Buonaccorsi, I, 327; II, 183; III, 489. Gli sono affidati dalla Repubblica i conti da farsi coi Pisani dopo la resa di quella città, II, 104. Si ricordano alcuni suoi versi composti dopo il ritorno de' Medici nel 1512, 184. Frequentatore degli Orti Oricellari, III, 47, 49. Loda il governo del cardinal Giulio de' Medici in Firenze, 129, 133; ma accusa lui di simulazione, 133. Ricordato a proposito della difesa del palagio della Signoria in una sollevazione contro i Medici, 358; e ricordata la sua Storia a proposito di quella sollevazione, 485. Ricordato a proposito della morte del M., 366. Citazione d'un altro passo della sua Storia, 492.
Nasi Alessandro. Oratore in Francia, I, 583 e seg. Commissario a Cascina; sua lettera al M., II, 499; altra sua lettera ricordata, 503. [567] Di nuovo oratore al Re di Francia, 94, 124, 528, 535. Ricordato, 565. Ad un suo libro attinge il Guicciardini per la sua Storia, III, 492.
Nasi Bernardo, I, 633.
Nasi Giovambatista, II, 559.
Nasini Giovambatista, III, 389.
Navarro Pietro. Uno dei comandanti l'esercito della Lega Santa contro il Re di Francia, II, 158, 161. Dei carri falcati di sua invenzione, 159, 160. Accusato di tradimento, 161. Fatto prigione alla battaglia di Ravenna, 162. Disertore della Spagna, comanda parte dell'esercito di Francesco I di Francia, III, 11. Ricordato, 110, 308. Visita col M. le mura di Firenze, 338, 439, 441. Comandante le navi francesi contro gl'Imperiali, 348, 450.
Nazaria (Abate di), III, 312, 314.
Nelli Bartolommea, madre del M., I, 298. Sua pietà e cultura, ivi. Sua morte, 299.
Nelli Francesco, II, 526. Lettera di Piero Machiavelli a lui, ricordata, III, 365.
Nemours (Duca di), II, 160.
Nerli Filippo, lo storico. Partigiano de' Medici; suo giudizio dei gonfaloniere Soderini, II, 177. Frequentatore degli Orti Oricellari, III, 47, 133. Sua lettera al M., 67, 410; ed altra, ricordata, 76. Si mantiene fedele al Medici; suoi Commentari citati a proposito delle proposte di riforma del governo presentate al cardinale Giulio de' Medici, 133; e a proposito della congiura contro il Cardinale, 486. Ricordato, 136. Parla della recita della Clizia del M. in una sua lettera ricordata, 163. Il M. gl'indirizza il suo Capitolo dell'Occasione, 176. Sue lettere al M., ricordate, 329, 333. Ostenta amicizia col M., ma in fatto non gli è benevolo, 333. Della data d'una sua lettera a Francesco del Nero, relativa al M., e testo di essa, ivi, 433. Governatore per il Papa in Modena; suo copialettere ricordato, dove parla anche del M., 350. Loda un passo della Storia del Guicciardini nei suoi Commentari, 492, 493.
Neroni Dietisalvi, II, 501; III, 279.
Niccoli Niccolò, e i suoi codici, I, 100.
Niccolini A., oratore a Milano; estratti di sue lettere fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 491.
Niccolò V, I, 64. La sua è l'età dell'oro per gli eruditi in Roma, 124. Gran biblioteca di codici da lui raccolti, 126. Trasforma Roma in una città monumentale, 127.
[568]
Nifo Agostino. Del suo libro De regnandi peritia, cattiva imitazione del Principe del M., II, 417.
Nitti Francesco. Suo libro intorno al M., ricordato; e critica d'alcuni luoghi di esso, I, 300, 333, 435, 463, 466, 552. Ricordato, II, 495.
Nobili Lodovico, II, 554.
Nogaret (di) Guglielmo, II, 236.
Nourrisson. Si cita il suo libro sul M., II, 418, 424.
Novara (Battaglia di), ricordata, III, 84.
Nove d'Ordinanza e Milizia. Loro istituzione, I, 514. Loro lettere, II, 506 e seg. Ricordo di una loro elezione, 524. Cassati, 190. — Ved. anche Ordinanza e Milizia.
Novellino (Il). — Ved. Masuccio Salernitano.
Nuto (ser), bargello in Firenze. Della sua uccisione narrata dal M. e da altri storici, III, 251.
Oddi famiglia, capi della fazione avversa ai Baglioni in Perugia, I, 157, 479.
Olgiati Girolamo, I, 35; III, 280, 281.
Orange (Principe d'), III, 308, 448.
Orco (d') Ramiro. — Ved. Ramiro.
Ordelaffi Antonio. Entra in Forlì, I, 449; e i Fiorentini lo invitano a recarsi in Firenze, ivi, 602.
Ordinanza a cavallo in Firenze, II, 140. Sunto della provvisione che la istituisce, II, 167.
Ordinanza e Milizia fiorentina, ideata dal M., e sua istituzione, I, 495, 498, 501 e seg., 629, 630. Relazione del M. su di essa, 637 e seg. Elezione dei suoi Nove Ufficiali, 514. Il M. provvede al suo ordinamento; gran numero di lettere da lui scritte per tal effetto, ricordate, II, 51. Lettera al M. relativa ad essa, 516. È in campo contro Pisa, 94 e seg. Eccessiva fiducia che vi pongono i Fiorentini, 106. È alla guardia di Prato contro l'esercito del Cardona, 172; e vi fa mala prova, restandovi quasi distrutta, ivi, 173. Sciolta al ritorno de' Medici, 184, 190, 191. Ricostituita, e relativa provvisione ricordata, III, 58, 59. Ne parla con lode il Guicciardini, 59. Ricordata a proposito dell'Arte della guerra del M., 81, 84; e nell'Arte della guerra, 91, 96 e seg. passim., 117. Il M. cerca [569] persuadere il cardinale Giulio de' Medici a riordinarla, 132. Di nuovo raccomandata dal M., 344; e suo nuovo scritto sulla medesima, ivi, 421. — Ved. anche Nove d'Ordinanza e Milizia.
Ordinanza e Milizia nazionale, proposta dal M. a Clemente VII; e del disegno d'istituirla in Romagna, III, 325 e seg.; e relativo breve del Papa, 429.
Orlandi Giovanni, II, 509.
Orlandini Piero, II, 554.
Orsello Bastiano di Forlì, III, 320.
Orsini, famiglia. Guerra tra essi e Alessandro VI, I, 258 e seg. Loro congiura e lega contro il Valentino, 384; e loro accordo con esso, 392, 393. Entrano per lui in Sinigaglia, 406. Alcuni di essi fatti morire dal Valentino e dal Papa, 410 e seg.; i superstiti si mettono sulla difesa, 418; cercano d'impadronirsi del Valentino, 445, 446. Ricordati, I, 478; e dal M. nel Principe, II, 381, 386, 609, 612, 618.
Orsini Adriana, I, 234, 236, 238, 253.
Orsini Alfonsina. Sunto di una lettera del M. che si crede a lei indirizzata, II, 186; e ancora di questa lettera, III, 49. Si oppone al matrimonio di Lorenzo suo figliuolo con una figliuola di Gianvittorio Soderini, II, 206.
Orsini Bartolommea, moglie di Bartolommeo d'Alviano, I, 259.
Orsini (Cardinale). È di mezzo in un trattato tra Vitellozzo Vitelli e i Francesi sotto Arezzo, I, 370, 567. Imprigionato da Alessandro VI, 410, 416. Svaligiatane la casa, e cacciati i suoi parenti, 416. Come si andasse da se medesimo «intrappolando», 415. Sua morte, e inutili preghiere fatte al Papa per salvarlo, 417.
Orsini Clarice, moglie di Lorenzo de' Medici, I, 193.
Orsini Frangiotto. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384.
Orsini Gentile Virginio. Compra due feudi di Franceschetto Cibo, I, 236, 246. Prigione degli Spagnuoli, e sua morte, 258.
Orsini Giovan Giordano. Sposa una figliuola di Giulio II, I, 495.
Orsini Lorenzo. — Ved. Ceri (da) Renzo.
Orsini Niccolò, conte di Pitigliano. È al soldo dei Veneziani, II, 108. Muore, 124.
Orsini Paolo. Entra in una lega contro il Valentino, I, 384. Tratta e firma con lui un accordo in nome proprio e degli altri collegati, 393. Imprigionato, 406; e fatto uccidere dal Valentino, 410.
Orti Oricellari di Firenze, e dei convegni letterari che vi si tennero, III, 44 e seg.; che non furono, come alcuni credono, un rinnovamento [570] dell'Accademia platonica, 47. V'interviene invitato, Leone X, 48. V'è introdotto il M., e delle letture che vi fa, ivi e seg., 118, 130. Vi si suppongono dall'autore tenuti i dialoghi dell'Arte della guerra, 75, 87. Vi si cospira contro i Medici, 135 e seg.; e sono chiusi dopo questa congiura, 137. Della opinione poco probabile, che vi si recitasse la Mandragola del M. dinanzi a Leone X, 149.
Osorio, vescovo portoghese, detrattore del M., II, 423.
Otomano Francesco. Brano di una sua Epistola, riferito a proposito della morte del M., III, 370.
Otto di guardia e balìa di Firenze. Minacciati dalle donne di mal affare, II, 135. Sono loro deferite le cause di stato, 208. Sentenza da essi pronunziata contro Filippo Strozzi, 539. Loro bando contro il M., 556. Ricordati, III, 58, 360.
Otto di Pratica, sostituiti ai Dieci della guerra, II, 209, 217; III, 58. Primi registri delle loro lettere, ricordati, 58. Lettera di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia a loro, 446. Soppressi, 360, 364.
Otto Santi, III, 246.
Padova. Perduta poi ricuperata dai Veneziani, II, 112, 113. Dell'assedio postovi dall'imperatore Massimiliano, 113, 522; III, 112, 113.
Padova (da) Marsilio, e del suo libro Defensor pacis, II, 238 e seg.
Paganesimo. — Ved. Cristianesimo.
Palazzo Madama in Roma, III, 2.
Palmieri Matteo. Suoi Ricordi citati, I, 39.
Panciatichi Gualtieri, III, 411.
Pandolfini Agnolo. Del suo Governo della famiglia, I, 185, 186. Ambasciatore a Milano, 243.
Pandolfini Francesco. Oratore fiorentino presso Luigi XII, II, 91, 535; e presso Gastone di Foix, e sua lettera citata, 150. Brani d'altre sue lettere, 153; e altre lettere ricordate, 159, 163.
Pandoni (de') Porcellio, I, 154.
Panormita. — Ved. Beccadelli Antonio.
Paolo II, I, 68. Infamato dal Platina nelle sue Vite de' Papi, ivi, 144. Ricordato, III, 278.
Paolo IV. Mette all'Indice le opere del M., II, 424.
Papato. Sguardo alla sua storia nel secolo XV, I, 60.
Parenti Piero. Sua storia ms. citata, I, 440, 441; II, 60 e seg.
[571]
Parigi (Parlamento di). Ricordato nei Discorsi del M., II, 318, 321.
Parma, difesa dal Guicciardini, ivi governatore per il Papa, III, 128.
Parma e Modena. Leone X disegna di formarne con Piacenza e Reggio uno stato per Lorenzo o per Giuliano de' Medici, II, 366 e seg.; III, 4, 11, 52, 54.
Parma e Piacenza. Occupate da Raimondo di Cardona, III, 8; e da lui date a Leone X, 9, 11. Francesco I disegna d'impadronirsene, 13; e gli sono poi cedute dal Papa, 17. Il Papa agogna a riaverle, 23; e gli sono promesse da Carlo V, 25. Occupate da Carlo V, 28.
Parrano (da) Paolo, al soldo dei Fiorentini, I, 610, 626.
Pascal. Gli è attribuita un'apologia del M., II, 428.
Pasquino (Statua di), in Roma, III, 128, 129.
Passerini Luigi e Milanesi Gaetano. Della loro edizione delle Opere del M.; e osservazioni intorno ad alcuni luoghi di essa, I, XIV, XVIII, XXIII, XXIV, 297, 298, 299, 302, 307, 334, 342, 345, 357, 358, 384, 399, 410, 434, 465; II, 65, 68 e seg., 101, 102, 103, 123, 363; III, 38, 62, 67, 76, 285, 286, 289, 334.
Passerini Silvio, cardinale di Cortona. Mandato a governare Firenze da Clemente VII, III, 137, 296. Lettera di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia a lui, 445. Il popolo insorge contro di lui e contro i Medici; poi si accorda, 356, 357, 484; poi insorge di nuovo, ed egli abbandona Firenze, 359.
Pavia (Battaglia di), III, 84. Brevi notizie di essa, 298, 299. Previstone l'esito dal Guicciardini, 321. Ricordata a proposito di un passo della Storia del Guicciardini, 489.
Pavia (Certosa di), I, 28.
Pavia (Università di), I, 28.
Pazzi Alessandro. Suo discorso intorno alla riforma del governo di Firenze, ricordato, III, 61, 131. Sua orazione latina, ricordata, 133.
Pazzi Antonio, oratore a Roma; estratti di sue lettere, fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 491.
Pazzi (Congiura dei), I, 45, 69. Della narrazione fattane dal M. nelle sue Storie, III, 281 e seg.
Pazzi Cosimo, arcivescovo di Firenze, II, 206, 590.
Pazzi Francesco, II, 501. Traditore e uccisore di Giuliano de' Medici; come ne parli il M. nelle Storie, III, 282, 283.
Pazzi Francesco, vescovo d'Arezzo. Suo ritratto scritto dal M., ricordato, III, 288.
[572]
Pazzi Guglielmo. Commissario nella guerra contro Pisa, I, 314. Commissario di guerra ad Arezzo, 366.
Pazzi Iacopo, III, 283.
Pazzi Piero, I, 101; oratore a Roma, II, 110.
Pazzi Poldo, II, 552.
Pepi Francesco. Oratore a Giulio II, I, 501. Ricordato nei Frammenti storici del M., III, 287. Suo ritratto scritto dal M., ricordato, 288.
Périès M. Sua Histoire de Machiavel, ricordata, II, 194.
Perugia. L'arte vi fiorisce in mezzo al più gran disordine civile, I, 157. È in arme per opporsi all'entrata del Valentino, 568. Abbandonata dai Baglioni, 408. Vi va oratore il M., e sue tristi condizioni in quel tempo, 479. Si arrende a Giulio II, e relativo accenno nei Discorsi del M., 497; II, 309. Leone X agogna alla sua signoria, III, 23; e l'ottiene, 24. Vi ritornano i Baglioni, 128.
Peruzzi Baldassarre. Dipinge le scene per la recitazione della Calandria del Bibbiena, III, 32.
Pesaro, III, 128.
Pescara (Marchese di). — Ved. D'Avalos Ferdinando.
Petrarca, I, 82 e seg. Con lui comincia il Rinascimento, I, 91. Allegato dal M. nel Principe, II, 407; e nel Dialogo sulla lingua, III, 182, 185.
Petrucci famiglia, ricordata dal M. nel Capitolo dell'Ambizione, III, 179.
Petrucci Alfonso, cardinale, capo di una congiura contro Leone X, III, 20; per cui è giustiziato, 21.
Petrucci Antonello, I, 77, 78.
Petrucci Borghese. Gli è tolto lo stato di Siena, III, 20.
Petrucci Pandolfo. Gli è inviato il M., I, 364. Entra in una lega contro il Valentino, 384. Il Valentino va per cacciarlo da Siena, 409. Esce di Siena con un salvacondotto, ma è inseguito e scampa per miracolo, 411. Aiutato a rientrare in Siena, 429. Politica tenuta con esso da Iacopo IV signore di Piombino, 486, 620. Della legazione del M. a lui, 486 e seg. S'offre di fare alleanza coi Fiorentini; e che uomo egli fosse, 487. Ricordato a proposito di una lega tra Firenze e Siena, II, 141. Cerca distorre Giulio II dal muovere le armi contro i Fiorentini, 152. Ricordato dal M. nel Principe, 402. Fautore del ritorno de' Medici in Firenze, III, 20.
Petrucci Raffaello. Posto a governare in Siena da Leone X, III, 20. Il cardinal Soderini cerca cacciarnelo, 134.
[573]
Piacenza. Ricordate certe sue fortificazioni a proposito di altre che si disegnava farne in Firenze, III, 439. Ved. Parma e Modena e Parma e Piacenza.
Pianosa, presa dal Valentino, I, 361.
Piccinino Iacopo, I, 33. Confronto tra le Storie del M. e del Guicciardini dove parlano della sua morte, III, 276, 277.
Piccinino Niccolò, III, 267, 270.
Piccolomini Enea Silvio. — Ved. Pio II.
Piccolomini prof. Enea. Sua lettera intorno alla questione se il M. conoscesse la lingua greca, I, 304, 533; e di nuovo ricordato a tal proposito, II, 575 e seg.
Piccolomini Paolo. Pubblica i versi di Iacopo da Diacceto, III, 136.
Pico della Mirandola Giovanni, I, 182, 277.
Pierotto. — Ved. Caldes Pietro.
Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, promuove un'edizione dell'Opere del M., III, 372.
Pilli Girolamo, commissario in Lunigiana, I, 598, 623.
Pintor Fortunato. Suo articolo sul Barlacchia, citato, III, 168, 170.
Pinzon Sebastiano, segretario del cardinale Battista Ferrari, e forse suo avvelenatore; succede nella maggior parte dei suoi benefizi, I, 381.
Pio II (Enea Silvio Piccolomini), I, 66, 67, 115, 136, 158, 163. Si ricorda una traduzione di Diodoro Siculo a lui dedicata, II, 578. Suo compendio delle Storie di Flavio Biondo, ricordato, III, 207.
Pio III. Sua elezione, I, 445; e sua morte, 446.
Piombino. Dell'impresa del Valentino contro quella città, I, 360, 361, 363. Fanti spagnuoli mandativi da Consalvo contro i Fiorentini, 485, 620. V'è aspettato il Re di Spagna, 631.
Pisani. Si ribellano ai Fiorentini, I, 252. Occupano la fortezza della città ceduta loro dai Francesi, 257. Notizie della guerra tra essi e i Fiorentini, 282, 313 e seg., 326 e seg., 337 e seg., 365, 430, 467 e seg., 478, 479, 490 e seg., 536, 538, 541 e seg., 596 e seg., 609 e seg.; II, 91 e seg., 261, 503, 505; e notizie della resa, 98 e seg. Interdetti da Giulio II, 148. Ricordati nei Discorsi del M., 309, 316; e nel Principe, 400. Di nuovo ricordata la loro guerra coi Fiorentini, III, 111, 112.
Pistoia. Vi accadono dei tumulti, I, 356, 556; il M. è più volte spedito a sedarli, 357, 364; e ne scrive una relazione, 365. Ricordata nei Discorsi del M., II, 309, 316; e nel Principe, 390, 400.
[574]
Pistoia (Il). — Ved. Cammelli Tommaso.
Pitigliano (di) conte Lodovico, condotto al soldo dei Fiorentini, I, 623.
Pitti Iacopo. Sua Storia Fiorentina allegata a proposito del governo di Giulio de' Medici in Firenze, III, 134. Alcune osservazioni critiche sulla sua Apologia dei Cappucci, 484.
Pitti Leonardo di Piero, II, 211.
Pitti Luca, III, 275, 278.
Platina. — Ved. Sacchi Bartolommeo.
Plauto. Paragone fra esso e Terenzio, a proposito del teatro italiano nel Rinascimento, III, 141 e seg.; e raffronto della Clizia del M. con la sua Casina, 163 e seg.
Pletone Giorgio Gemisto, I, 107. Fondatore del neoplatonismo, 166. Combattuto dagli aristotelici, 167.
Poemi cavallereschi, I, 208 e seg.
Poesia volgare. Due generi d'essa nel Trecento; e suo risorgimento alla fine del secolo XV, I, 190.
Polibio, copiato dal M. nei Discorsi, II, 289.
Polidori Filippo Luigi. Di alcuni suoi giudizi sulla Commedia in prosa del M. e sulla Commedia in versi a lui attribuita, III, 167, 168, 169. Si combattono i suoi dubbi sull'autenticità del Dialogo sulla lingua del M., 182.
Politi Catarino, detrattore del M., 423.
Politica (Scienza). — Ved. Scrittori politici.
Poliziano Angelo. Brevi notizie della sua vita e delle sue opere, I, 172, 195 e seg. Sepolto in San Marco, 277. Traduttore di Erodiano, II, 586. Ricordate le sue ottave in confronto con quelle del M., III, 180.
Polo Reginaldo, cardinale, grande avversario del M.; come parli del suo libro del Principe, II, 421; e delle sue Opere in genere, 423.
Pontano Giovanni Gioviano, I, 77, 156. Della sua vita e delle opere, in specie delle poesie, 202 e seg. Brani e sunti di sue lettere, 244 e seg. Ricordato il suo libro De Principe, II, 245, e l'altro De Fortuna, 572. Ricordato dal M. nel Principe, 388.
Poppi (Vicario di). Lettera dei Procuratori delle mura di Firenze a lui, ricordata, III, 438.
Porcari Stefano, I, 304.
Porfirogenito. Suoi Excerpta d'autori greci, ricordati, II, 583 e seg.
Possente (di) Bastiano, detto Il Zinzi, III, 412.
Posserino, detrattore del M., II, 424.
[575]
Prato. Provvedimenti per difenderla dagli Spagnuoli condotti da Raimondo di Cardona, II, 172. Assediata e messa a sacco, ivi, 173, 174, 184, 548. Si vendono in Firenze le spoglie sanguinose di quei terrazzani, 182. Della congiura orditavi da Bernardo Nardi, relativamente alla narrazione fattane dal M., III, 280.
Procuratori delle mura di Firenze, III, 339. Lettere, patenti ecc., scritte dal M. loro cancelliere, 434 e seg.
Pucci Lorenzo, datario di Giulio II. Mandato dal Papa a invitare i Fiorentini alla lega contro i Francesi, II, 164. Creato cardinale (dei Santi Quattro), III, 5. Debito lasciato con esso da Leone X, 36.
Puglia (di) fra Francesco, I, 286.
Pulci Luigi e il suo Morgante maggiore, I, 223; II, 33, 34. Delle sue Lettere a Lorenzo il Magnifico, I, 217.
Pulci Raffaello, I, 558, 561.
Puliga (da) ser Francesco, I, 558.
Querno Camillo, poeta istrione alla corte di Leone X, III, 30.
Quirini Vincenzo, ambasciatore veneto presso l'Imperatore; sua relazione citata, II, 67, 79, 82, 86.
Radicchi Filippo, commissario in Lunigiana, I, 542.
Ragusa. Vi è la peste, III, 391.
Rajna Pio. Suo giudizio intorno al Dialogo sulla lingua del M., III, 182, 184.
Ramazzotto, capo di bande, I, 359; II, 182.
Ramiro d'Orco. Amministra la giustizia per il Valentino in Romagna, I, 403. Fatto prigione, poi ucciso, 404. Ricordato dal M. in alcune sue lettere e nel Principe, II, 369, 382, 383, 608.
Rangoni di Modena, eredi di un ramo del Machiavelli, I, 297.
Rangoni conte Guido, III, 472, 474.
Ranke Leopoldo. Della sua critica della Storia d'Italia del Guicciardini, I, 378; III, 292, 483 e seg.; e delle sue considerazioni sulle opere e il carattere del M., II, 279, 365, 393, 457 e seg.
Rappresentazioni sacre in Italia. Cenni storici intorno ad esse, III, 139 e seg.
[576]
Raumer, critico del M., II, 451.
Ravenna, posseduta dai Veneziani e agognata da Leone X, III, 4.
Ravenna (Battaglia di), II, 160 e seg. Ricordata a proposito dell'Arte della guerra del M., III, 83, 84; e nell'Arte della guerra, 97.
Reggio. Leone X s'obbliga di renderla al Duca di Ferrara, III, 17. Ricordata, 128. Si esamina un passo della Storia del Guicciardini relativo a un assalto datole dai Francesi, 486. — Ved. Parma e Modena.
Regiomontanus. — Ved. Müller Giovanni.
Rehberg A. W. Di un suo lavoro sul M., II, 455.
Reuchlin Giovanni, I, 145, 182.
Riario (Cardinale). Piglia parte a una congiura contro Leone X; e, scoperto, come si salvi, III, 20, 21; ricordate le sue esequie, 36.
Riario Girolamo, I, 69, 70.
Riario Ottaviano. Della sua condotta al soldo dei Fiorentini, I, 321, 323.
Riario Pietro, I, 69.
Ribadeneira, gesuita. Sue opere contro il M., ricordate, II, 425.
Ricasoli (da) Antonio, II, 551.
Ricasoli (Banco dei). Debito lasciatovi da Leone X, III, 36.
Ricci famiglia. Si accenna alle carte del M., passate in essa dopo la morte di lui, I, XVIII. Loro discordie con gli Albizzi, ricordate, III, 257.
Ricci Bernardo, I, 571. Destinato oratore in Francia, 572, 574; e all'Imperatore, 632.
Ricci Cassandra, II, 362.
Ricci Daniello, III, 339.
Ricci Giovanni, marito della Baccia figlia del M., I, 296; III, 365.
Ricci Giuliano. Figlio di una figliuola del M., I, 296. Suo Priorista ms., ricordato, ivi; II, 199, 201, 217; e Codice Ricci dove egli raccoglie notizie e carte intorno al M., pur ricordato, I, 297, 299, 302, 303, 478. Apparecchia un'edizione delle Opere del M., che non ha poi effetto, II, 424. Passi del suo Priorista relativi a una Commedia del M. intitolata Le Maschere, III, 147, e ad altra intitolata La Sporta, 171; al suo Dialogo sulla lingua; 183; alla morte del M., 367; e alla sua cappella gentilizia in Santa Croce, 370.
Ricci Pierfrancesco. Ha in moglie l'ultima discendente della famiglia del M., I, 296: II, 362.
Riccia (La), II, 569; III, 412.
Richelieu. Dà incarico di scrivere un'apologia del M., II, 428.
[577]
Ridolfi A. Come difenda il M. nel suo libro Pensieri ec. sul Principe, II, 449.
Ridolfi (Cardinale), III, 357, 484.
Ridolfi Giovambattista. Commissario in campo contro Pisa, I, 341, 342. Commissario generale in Romagna; sunto di lettere del M. a lui, 448. Ricordato, 509, 603. Potestà di Montepulciano; sunto d'una sua lettera, II, 168. Gonfaloniere di giustizia, 181. Oratore a Milano; estratti di sue lettere fatti dal Guicciardini, ricordati, III, 491.
Ridolfi Giovanni. Brano d'una lettera del M. a lui, I, 432. Commissario generale in Cascina; e brano d'altra lettera del M., 510. Ricordato, 593. Oratore in Francia, II, 94.
Ridolfi Luigi. Gli è data in moglie una figliuola di Gianvittorio Soderini, II, 206.
Riforma religiosa ai primi del secolo XVI, I, 1; II, 273 e seg.; III, 6, 8, 25, 29, 34.
Rimbotti Alberto, iniziatore d'una sottoscrizione per un monumento al M., III, 372.
Rimini, I, 157. Ricordata dal M. nel Principe, II, 381.
Rinascimento I, XXVI. Comincia col Petrarca e finisce con Martino Lutero e la Riforma; sguardo generale a quella età, 1 seg. La sua letteratura diventa subito nazionale in Italia, 201 e seg. Riassunto della sua storia e considerazioni intorno ad esso, 226 e seg.; II, 30 e seg.
Rinuccini Alamanno, I, 172.
Roma. Sguardo alla sua storia fino al Concilio di Costanza, I, 59, e per tutto il secolo XV, 60; sotto Martino V, 62; sotto Eugenio IV, 63; sotto Niccolò V, 64; sotto Callisto III, 65: sotto Pio II, 66; sotto Paolo II, 68; sotto Sisto IV, 69; sotto Innocenzo VIII, 71. Gli Eruditi in essa nel secolo XV, 123 e seg. Opere monumentali che vi restaura o inalza Niccolò V, 127. Di un sarcofago ivi scoperto, 146. Suo stato alla morte d'Innocenzo VIII, 235; e ai primi tempi d'Alessandro VI, 237. Vi è arsa viva una donna in Campo di Fiore, 558. Ricordata dal M. nei suoi Discorsi, II, 307; e nel Principe, 609. Illuminata alla falsa nuova di una vittoria, III, 14. Assalto fattovi dal Cardinale Colonna, 341. È senza difesa, 353; e accenno al sacco datole dagl'Imperiali, 358, 359.
Roma (Chiesa e Corte di). Ragioni allegate dal M. nei Discorsi per provare la contrarietà sua al benessere d'Italia, II, 295. Come ne [578] parli il Guicciardini nelle Considerazioni sui Discorsi del M., 359. Ricordata la sua potenza nel Principe del M., 617 e seg.
Romagna. Imprese fattevi dal Valentino, I, 270 e seg.; e della Descrizione fattane dal M., 421 e seg. Ricordata dal M. nei Discorsi, II, 307, 326; e a proposito del Principe e nel Principe, 367, 369, 382 e seg., 390; e nel Dialogo sulla lingua, III, 185. Della presidenza tenutavi dal Guicciardini per il Papa, 320 e seg.: e delle sue tristi condizioni in quel tempo, 326. Dell'idea d'ordinarvi una milizia nazionale secondo il disegno del M., ivi, 327.
Romolo (di) ser Andrea, uno dei coadiutori nella Cancelleria de' Dieci, I, 577.
Rondinelli fra Giuliano, I, 287.
Rossi Agostino. Sua opera sul Guicciardini, citata, III, 486.
Rossi Roberto, I, 103.
Rouen e Roano (Cardinale arcivescovo di). — Ved. Amboise (d') Giorgio.
Rousseau. Suo giudizio del M., e del suo Principe, II, 447.
Rovaio (frate) dei Minori. Commissione data dai Consoli dell'Arte della lana al M., relativa ad esso, III, 124.
Rovezzano (da) Benedetto. D'un monumento da lui eretto nella chiesa del Carmine in Firenze, III, 137.
Rubertet, ministro di Luigi XII, II, 125. Suoi colloqui col M., oratore in Francia, 130, 131. Ricordato ed elogiato in lettere al M., 534, 536. Di nuovo ricordato in lettere di un oratore in Francia, III, 458.
Rucellai Bernardo. I suoi figliuoli si adoperano a cacciar Pier Soderini e rimettere i Medici in Firenze II, 176. Ricordato, 569. Compratore del terreno che poi si chiamò gli Orti Oricellari, III, 44, 45. Della sua opera De bello italico, ricordata a proposito della Storia del Guicciardini, 490.
Rucellai Bernardo di Cosimo detto Cosimino. A lui e a Zanobi Buondelmonti dedica i suoi Discorsi il M., II, 286; III, 49. Inizia «in modo regolare» i convegni degli Orti Oricellari, III, 45. Di lui parla il M. nell'Arte della guerra; dove è tra gl'interlocutori, 49, 75, 87, 91, 102, 103. Della data della sua morte, 75, 87.
Rucellai Cosimo di Bernardo, III, 45.
Rucellai Cosimo o Cosimino. — Ved. Rucellai Bernardo di Cosimo.
Rucellai Giovanni di Bernardo, II, 551, 558; III, 32. Uno de' migliori letterati della corte di Leone X, III, 32. Altre notizie di lui e delle sue opere, 45, 50, 139.
[579]
Rucellai Palla, III, 45.
Rucellai Piero, III, 45.
Ruffini Bartolommeo. Brano di una sua lettera al M., I, 400. Ricordato, 635.
Ruota, magistrato di Firenze; sua istituzione, I, 376.
Sacchi Bartolommeo, detto Il Platina, I, 143.
Sadoleto Giovanni, segretario di Leone X, II, 206; III, 3; è uno dei migliori letterati della sua corte, 32.
Salutati Coluccio, I, 97. Corregge e raffazzona una versione latina d'un opuscolo di Plutarco, 305, 534; II, 576, 578.
Saluzzo (Marchese di). Uno de' capitani della lega contro Carlo V, III, 448, 449, 455, 469, 474.
Salvadori Giulio. Copia per l'autore due sonetti del M., e ne esamina e giudica la scrittura, III, 182.
Salvago Stefano, genovese, III, 403.
Salviati Alamanno. Il M. gli dedica il suo Decennale primo, I, 472. Brano di una sua lettera al M., 592. Ricordato, 632, 635. Eletto oratore all'imperatore Massimiliano, II, 63. Commissario in campo contro Pisa, 97, 103. Ricordato, 520. Capitano di Pisa; sua lettera al M., 522.
Salviati (Cardinale). Debito lasciato con lui da Leone X, III, 36. Sua lettera al M., 76, 412. Lettere d'Iacopo suo padre a lui, relative al M., ricordate, 324.
Salviati Iacopo. Sua lettera al M., oratore al Valentino, I, 580, 582, 585; a cui succede in detta legazione, 409. Lettera del M. a lui, ricordata, 582. Destinato oratore al Re di Spagna, a Napoli, 633. Ambasciatore ai Medici in Prato, II, 549, 551. Oratore a Leone X, 206. Tenuto lontano da Firenze, e perchè, 207. Gli è accordato di tornare, ivi. Consiglia Lorenzo de' Medici circa il governo in Firenze, 209; indi Clemente VII, III, 297. Si adopra presso il Papa a favore del M., 324, 325, 327. Due lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia a lui, 454, 455, 466, 469.
San Casciano (Comune di). Vi ha i suoi beni Bernardo Machiavelli, I, 296; e notizie della villa che poi passò in N. suo figliuolo, II, 362 e seg.
San Domenico, ricordato nei Discorsi del M., II, 318, 595.
[580]
San Francesco, ricordato nei Discorsi del M., II, 318, 595.
Sanga Gio. Battista. Sua lettera a un ambasciatore francese in Venezia, III, 309. Mandatario del Papa al Re di Francia e poi al Re d'Inghilterra, 450, 453, 466.
San Gallo (da) Antonio. Si ricorda il modo trovato da lui e da Giuliano per trasportare il David di Michelangelo, II, 16. È nel campo dei Fiorentini contro Pisa, 95, 503. Dà opera agli apparati per la venuta di Leone X in Firenze, III, 16. Va in Lombardia a visitare le fortificazioni di quelle terre; e se ne attende e sollecita la venuta in Firenze per fortificarne le mura, 339, 436, 439.
San Gallo (da) Bastiano, detto Aristotele. Dipinge scenari per la rappresentazione delle commedie del M., III, 333.
San Gallo (da) Giovanfrancesco, ingegnere e architetto. Patente a suo favore perchè possa ritrarre «il sito della città di Firenze con il paese circostante» ec., III, 438. Ricordata questa sua commissione, 442.
San Gallo (da) Giuliano. Si ricorda il modo trovato da lui e da Antonio per trasportare il David di Michelangelo, II, 16. È a Roma; sunto di una lettera scrittagli dai Procuratori delle mura di Firenze, III, 435.
San Giovanni (Vicario di). Lettera dei Procuratori delle mura di Firenze a lui, ricordata, III, 438.
San Leo (Rôcca di), nel ducato d'Urbino, I, 383. Data da Leone X ai Fiorentini, III, 19, 411; poi ricuperata dal Duca d'Urbino, 128, 352.
San Lodovico re di Francia (Chiesa di) in Roma. Di una solenne funzione fattavi, I, 561.
San Malò (Vescovo e Cardinale di). — Ved. Briçonnet Guglielmo.
San Miniato (Vicario di). Lettera dei Procuratori delle mura di Firenze a lui, ricordata, III, 438.
Sano (ser), II, 558, 561, 564.
San Piero in Grado, II, 95.
San Piero in Mercato (Pieve di), giuspadronato dei Machiavelli, I, 531.
San Pietro (Chiesa di) in Roma. Accenno alla storia della sua costruzione, III, 33.
San Savino (da) Antonio. Mandato dal Valentino ad amministrare la giustizia nel ducato d'Urbino, I, 403.
Sanseverino (Cardinale). Aderisce al Concilio di Pisa contro Giulio II, II, 149, 150. Reintegrato nelle sue dignità e benefizi, 206.
[581]
Sanseverino Giovanfrancesco, conte di Chiazzo, I, 521.
Sansovino Francesco. Sua raccolta di Novelle, ricordata, III, 198.
Sansovino Iacopo. Dà opera agli apparati per la venuta di Leone X in Firenze, III, 16.
Santa Croce (Cardinale di). Aderisce al Concilio di Pisa contro Giulio II, II, 147, 150. Privato delle sue dignità e benefizi, 149. Celebra la messa solenne per l'apertura del Concilio, 154. Il M. cerca indurlo a trasferire il Concilio in Francia o in Germania, 155. Reintegrato nelle sue dignità e benefizi, 206.
Santa Croce (Chiesa di), in Firenze. Vi è sepolto e vi ha un monumento il M., III, 370, 372.
Santa Croce (da) Iacopo. Aiuta Alessandro VI a impadronirsi del cardinale Orsini, I, 416. Imprigionato e morto, 434, 600.
Santa Maria della Fagna (Chiesa di), giuspadronato dei Machiavelli, I, 300.
Santa Maria Novella (Convento di). Vi alloggia Leone X nella sua venuta in Firenze, III, 16.
Sant'Andrea in Percussina. Notizie della villa del M. in detto luogo, II, 362 e seg., 532. Si ricorda una chiesa di patronato dei Machiavelli ivi presso, III, 330, 390.
Sant'Angelo a Bibbione. Dell'erronea tradizione che in una villa in quel luogo il M. scrivesse il Principe, II, 363.
Sant'Eustachio (Palazzo a), poi Palazzo Madama in Roma, III, 2.
Santini Emilio. Sua opera su Leonardo Bruni, citata, III, 118, 203.
Santi Quattro (Cardinale dei). — Ved. Pucci Lorenzo.
San Tommaso d'Aquino. Esposizione delle sue dottrine politiche, II, 234.
Sanudo Marino. Della sua opera De adventu Karoli regis Francorum in Italiam; e dei suoi Diarii, I, 250; III, 288.
Sauli (Cardinale). Piglia parte a una congiura contro Leone X, III, 21.
Sauli Domenico. Tratta una lega italiana con la Francia contro Carlo V, III, 301, 304. Sunto d'una lettera di Giovan Matteo Giberti a lui, 310.
Savelli Iacopo. È al soldo dei Fiorentini nel campo contro Pisa, I, 491, 626; II, 96. Proposto dal M. per capitano dell'Ordinanza fiorentina, 166, 167.
Savelli Luca. È al soldo dei Fiorentini, I, 598. È alla guardia di Prato all'appressarsi di Raimondo da Cardona, II, 172. Fatto prigione dagli Spagnuoli con un suo figliuolo, 173, 548.
Savoia (di) Bona, I, 229.
Savoia (di) Filiberta. Sposa a Giuliano de' Medici, II, 207; III, 9.
[582]
Savoia (di) Luisa, reggente il trono di Francia, III, 299. Profferte che fa al Duca di Milano, ai Veneziani ed al Papa contro gl'Imperiali in Italia, 300. Conferisce con Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 455.
Savoia (Duca di), III, 448.
Savonarola Girolamo. Succinta storia della sua vita in Firenze, I, 276 e seg. Della riforma del governo da esso consigliata, 277 e seg. Qual fosse veramente la base del suo potere e come riuscisse al Papa e ai partiti avversi d'opprimerlo, 283 e seg. Lettera del M. intorno alle sue prediche, ricordata, 293. Del suo Reggimento del governo della città di Firenze, II, 244. Ricordato il governo fondato in Firenze al suo tempo, III, 57. Ricordato nei Frammenti storici del M., 287.
Sbaraglino, I, 577.
Scala Bartolommeo, segretario della Repubblica, I, 307.
Scali Giorgio, III, 253, 264.
Scaramuccia (di) Lazzero, I, 597.
Scarperia (Vicario di). Lettera dei Procuratori delle mura di Firenze a lui, ricordata, III, 438.
Schirren C. Un suo discorso sul M. citato, II, 292.
Schlegel Federigo. Come giudichi il M., II, 451.
Schomberg Niccolò, fidatissimo del cardinal Giulio de' Medici; che cosa risponda all'autore di un'orazione in lode della libertà di Firenze, III, 133. Consigliere di Clemente VII; sue qualità, 297. Ricordato, 325, 327.
Schwegler. Si cita la sua Römische Geschichte, dove parla dei Discorsi del M., II, 293.
Scolano Giorgio, I, 167.
Scrittori politici del medio evo, II, 233 e seg. Citazione di scrittori moderni che ne parlano, 242.
Scrittori politici del secolo XV, II, 242 e seg.
Scruciato. — Ved. De Scruciatis.
Segni Antonio, torturato e morto, II, 183.
Sernigi Cristofano, II, 557; III, 411.
Serragli Francesco, I, 609. Imprigionato, II, 554; e confinato, 555.
Serristori Antonio, II, 362.
Serristori Luigi, erede dei beni del M., II, 362.
Sestino (Piviere di), nel ducato d'Urbino, dato da Leone X ai Fiorentini, III, 19. Ricuperato dal Duca d'Urbino, 128.
Settembrini Francesco, ricordato a proposito del Principe del M., e del libro De regnandi peritia di Agostino Nifo, II, 418.
[583]
Sforza, famiglia. Paragone tra essi e i Visconti, I, 30, 34. Ricordati, II, 329.
Sforza Ascanio, cardinale. Ricordato in alcuni colloqui tra il Duca di Milano e l'oratore fiorentino presso di lui, I, 521, 522. Su lui cadono i sospetti dell'uccisione del Duca di Gandia, 262. Chiamato dal Duca suo fratello a Milano, 537. Fugge col Duca in Germania, 337. Cade in mano dei Francesi, poi è rimesso in libertà, 339, 445. Aspira di succedere al fratello nel governo di Milano, 484.
Sforza Attendolo Muzio, I, 32. Ricordato dal M. nell'Arte della guerra, III, 88.
Sforza Batista, figlia d'Alessandro signore di Pesaro, I, 153.
Sforza Caterina. Si accenna alla sua eroica difesa d'Imola e di Forlì, I, 281. Ambasceria del M. presso di lei, e brevi notizie della sua vita, 330 e seg. Si parla d'un suo ritratto, 336, 555. Ricordata, 619.
Sforza Francesco, I, 31, 33, 44. Ricordato dal M. nei Discorsi, II, 322; nel Principe, 608; nell'Arte della guerra, III, 88. Come ne parli il M. nelle Storie, 219, 267, 272, 273, 274, 277, 278.
Sforza Francesco Maria, figlio di Lodovico il Moro. Voci di un segreto accordo tra esso e Leone X, III, 24. Carlo V e Leone X patteggiano di dargli Milano, 25. Sue pratiche con la Francia, col Papa e con l'Imperatore per ottenere libero il ducato di Milano, 300 e seg. passim. Entra nella lega di Cognac contro Carlo V, 341; e successive notizie di lui, 453, 460, 461. Ricordato, 305, 488.
Sforza Galeazzo Maria, I, 35, 153. Della congiura ordita contro di lui narrata dal M., III, 280.
Sforza Giovan Galeazzo, I, 229. Sua morte, 251.
Sforza Giovanni, signore di Pesaro. Sposa Lucrezia Borgia, I, 237. Separato a forza da lei, 264; a che ne attribuisca la ragione, 276. Gli è tolto lo stato dal Valentino, 265.
Sforza Ippolita, figlia di Francesco I, 34, 153; e moglie d'Alfonso II d'Aragona, 208.
Sforza Lodovico detto il Moro. Dipinta la sua mutabilità in una lettera di Lorenzo de' Medici, I, 189. Usurpa il ducato di Milano al nipote, 229. Pensa di chiamare i Francesi in Italia, 230; e suoi relativi maneggi e disegni, 236, 240, 241 e seg., 251. Come giudicato dagli oratori fiorentini, 251 e seg. Suoi colloqui con un oratore fiorentino, 519. Piglia l'investitura del ducato di Milano, 251. Sunto di una sua lettera ai Veneziani che lo invitavano a una lega contro Carlo VIII, 255. Entra nella lega, 256. S'accorda [584] da solo con i Francesi, 257. Perde lo Stato; lo ricupera e perde di nuovo, 269 e seg. Fatto prigione, e sua morte, 271. Aiuta segretamente i Fiorentini nella guerra contro Pisa, 314, 316. Si accenna ai suoi apparecchi per opporsi ai Francesi, 537, 541. Si crede arbitro delle cose d'Italia; e di nuovo della perdita del suo Stato, e della sua prigionia e morte, 335 e seg.
Sforza Massimiliano. Si delibera dalla Lega Santa di rimetterlo in Milano, II, 165. Prende possesso del Ducato, 192; dove regna più di nome che di fatto, III, 8. Gli si ribella Milano, ivi. Fa lega con l'Imperatore, il Re di Spagna ed il Papa, 11. Si ritira in Francia, 13, 305. Non vuole il Morone ch'egli ritorni al governo di Milano, 310.
Siena, I, 409, 411. Vi va due volte oratore il M., 429; II, 53; e di nuovo a disdire una tregua, 140; e testo dell'atto relativo, 543. Lega tra essa e Firenze, 141. Ricordato il suo governo repubblicano nei Discorsi del M., 307, 316. Respinge alcune genti mandate da Clemente VII per mutarvi il governo, III, 342, 344.
Signorelli Luca, II, 10.
Signoria di Firenze. Della sua Cancelleria, I, 306, 540, 583. Dirige le cose della guerra in mancanza dei Dieci di balìa, 319.
Silib Rodolfo, II, 78.
Simonetta Cicco, segretario di Francesco Sforza, I, 34, 153. Ricordata la sua morte, 229.
Simonetta Giovanni, storiografo di Francesco Sforza, I, 34, 153. Di lui si vale il M. nelle sue Storie, III, 266, 269, 273.
Sinigaglia. Occupata dal Valentino, I, 405; e posta a sacco, 406. Ricordata dal M. nel Principe, II, 381.
Sion (Vescovo di), II, 125; fatto cardinale, 147.
Sismondi famiglia pisana. Va esule dopo la resa di quella città a' Fiorentini, II, 105.
Sisto IV, I, 68; II, 329.
Sisto V. Fa un sunto del Principe del M., II, 429.
Soderini famiglia. Confinati, II, 183. Tornano dal confine, 206. Ricordati in lettere del M. al Vettori, 374; e di questi al M., 376. Tramano una congiura contro i Medici, III, 123, 124, 130, 131, 134. Dichiarati ribelli, 136.
Soderini Francesco, vescovo di Volterra. Oratore al Valentino, I, 367, 369, 564; e in Francia, 583 e seg. Tratta in Roma i principali negozi della Repubblica; e da lui dipende il M. oratore colà, 450. [585] Malvolentieri si separa dal M. e ne fa grandi elogi, 463. Brano di una sua lettera circa il disegno della Repubblica di deviare l'Arno da Pisa, 472. Lettere del M. a lui, e di lui al M. e a Piero Soderini, relative all'istituzione della Milizia fiorentina, ricordate, 508, 515. Ricordata la sua affezione al M., 575. Ricordato in lettere di B. Buonaccorsi al M., 606, 607, 629 e seg. Gli è fatto carico di svolgere i Fiorentini dall'amicizia del Re di Francia, II, 536. Manda ad avvertire il fratello Piero che corre pericolo della vita, 183. Avverso all'elezione di Leone X, e come guadagnato alla sua parte, 193. Ricordato, 526, 562. Piglia parte a una congiura contro il Papa, III, 20; e, scoperto, come si salvi, 21. Aspira al papato dopo la morte di Leone X, 128. S'adopra a cacciare di Siena Raffaello Petrucci, 134. Chiuso in Castel Sant'Angelo, 137. Aiuta in conclave l'elezione di Clemente VII, 294.
Soderini Gianvittorio. Oratore a Roma, I, 386, 436, 579. Designato oratore al Re di Spagna, 632. Inviato all'Imperatore, II, 114, 164. Confinato, 183. Il cardinale Giovanni de' Medici promette di liberarlo e di dare una figliuola di lui in moglie a Lorenzo suo nipote, 193; ma il matrimonio non ha effetto, 206; e la sua figliuola è data in moglie a Luigi Ridolfi, ivi. Ricordato, 525, 526.
Soderini Giovanbattista, I, 584, 589, 635; II, 526. A lui indirizza il M. il suo Capitolo di Fortuna, III, 177.
Soderini Niccolò, III, 278.
Soderini Paolantonio. Oratore fiorentino a Venezia; sue lettere ricordate, I, 243, 252. Capo di un partito per la riforma del governo dopo la cacciata di Piero de' Medici, 279. Commissario in campo contro Pisa, 546. Interlocutore nel dialogo del Reggimento di Firenze del Guicciardini, II, 259.
Soderini Piero. Spedito a Milano per affrettare gli aiuti francesi contro il Valentino, I, 367. Commissario ad Arezzo, 371. Eletto gonfaloniere a vita, 377, 378; lettera dei Dieci che gli partecipa la nomina, 569. Quando entrasse in ufficio, 387. Il M. vorrebbe trovarsi a quella cerimonia, 580. Suoi primi atti, 582 e seg. Sua lettera al M. presso il Valentino, ricordata, 398. Giudica necessaria la permanenza del M. in quella legazione, ivi, 579, 580; e non vuol richiamarlo, 586, 592. Come si adoperi in raccogliere il denaro necessario alla Repubblica, 424 e seg. Si ricorda la sua moglie, 425. Si tocca del suo governo, e del potere che ha su lui il M., 467. Propugna un progetto di deviare l'Arno da Pisa, 468, [586] 471. Fa vincere nei Consigli il partito di assaltar Pisa, 492. Respinto l'assalto, scade la sua autorità, 494. Persuaso dal M. a istituire la Milizia fiorentina, 505; e lettere scrittegli intorno a ciò dal Cardinale Soderini suo fratello a istanza del M., ricordate, 508. Ricordato, 570, 573, 575, 617, 618, 635. Il suo governo dà un grande impulso alle arti, II, 4. Amico di Francia contro l'Imperatore, 60; un partito comincia a formarsi contro di lui, 61, 64. Si coniano fiorini col suo ritratto, ma egli li fa ritirare, 61. Gli è raccomandata una causa del M., 526. Sue lettere al M., 527, 529. Ricordato, 538. Crescono i suoi avversari, 134-35. Rende conto della sua amministrazione, 137. Congiura ordita contro di lui, ivi, 138. Fa votare una legge a difesa della libertà, 138. Abbandonato dagli uomini più autorevoli, come cerchi destreggiarsi, 165, 166. Si accinge a resistere all'esercito condotto dal Cardona e dal Cardinale de' Medici: e di un suo relativo discorso nel Consiglio maggiore, 169 e seg. È deposto, e sua partenza da Firenze, 176, 549, 550. Vari giudizi sul suo governo, 177. Trattative per dare in moglie a Giuliano de' Medici una sua nipote, 180, 550. Confinato, 183. Viene a patti coi Medici, 185. Difeso pubblicamente dal M. in uno suo scritto, 186. Dell'epigramma del M. contro di lui, 201. Si stabilisce in Roma, 206. Raccomanda Firenze al Papa, ivi. Ricordato dal M. nei suoi Discorsi, 304; e in lettere di Francesco Vettori al M., 376, 562. Si accenna alla sua morte. III, 20. Di una sua lettera al M., da Ragusa, 122; e della proposta che gli fa di acconciarsi per segretario con Prospero Colonna, 123. Trama contro i Medici, ivi, 130. Confiscatigli i beni e dannata la sua memoria, 137. Di un monumento nel Carmine di Firenze nel coro eretto dalla sua famiglia, ivi. Ricordato, 364. Di due discorsi da lui fatti nel suo gonfalonierato, secondo il Guicciardini e altri storici, 492.
Soderini Tommaso, ambasciatore a Luigi XII, in Milano, I, 339.
Solerti A. Citato a proposito della Calandra del Bibbiena, III, 145.
Soriano Antonio, ambasciatore veneto in Roma; come parli di Leone X nella sua Relazione, III, 7.
Sostegni Roberto, III, 278.
Spada Stefano, III, 409.
Spagna, I, 502. Vi va ambasciatore Francesco Guicciardini, II, 157, 248: e della sua Relazione di quel regno, 249. Ricordata dal M. nei Discorsi, 306, 330; e nel Principe, 379, 404.
Spagna (Re di). — Ved. Ferdinando il Cattolico.
[587]
Spagnuoli. Accenni alle guerre tra essi e i Francesi nel regno di Napoli, I, 257, 258, 361, 363, 432, 437, 438, 464, 466, 495. Ricordati, 260, 261. Loro ingerenza nella guerra di Pisa a danno dei Fiorentini, 464, 465, 466, 486, 492, 493, 494. Ricordati, II, 55. Sono nell'esercito dell'Imperatore all'assedio di Padova, 113; nell'esercito di Giulio II contro Bologna, 141. Rotti dai Francesi alla battaglia di Ravenna, 157 e seg. Prendono e pongono a sacco Prato, 173. Giudizio che fa di loro il Guicciardini, 249. Ricordati dal M. nel Principe, 383, 407. Rotti coi loro alleati a Marignano, III, 12. Ricordati dal M. nell'Arte della guerra, 97, 100, 108, 110, 116. Ancora della guerra tra essi e i Francesi, 297; che sono disfatti alla battaglia di Pavia, 298.
Spinazzi Innocenzo, scultore del monumento al M. in Santa Croce, III, 372.
Spinelli Lorenzo, commissario in Val di Nievole, I, 598.
Spinoli Carlo e Giorgio, mercanti genovesi, III, 402.
Stampa (Arte della), I, 144.
Stampace (Torre di), in Pisa, presa dai Fiorentini, I, 328, 333, 334.
Stati moderni nazionali; della loro costituzione, II, 274 e seg. Argomento principale dei Discorsi, 312 e seg.; e del Principe, 363 e seg., 378 e seg.
Stefani Marchionne. Della sua Istoria Fiorentina, ricordata, III, 201; di cui si vale il M. nel secondo libro delle sue Storie, III, 241 e seg.; e luoghi di raffronto indicati, 246, 248, 251.
Sterpeto (Conte di), I, 627.
Stradi Domenico, I, 594.
Strozzi (Banco degli). Sta per fallire per il debito lasciatovi da Leone X, III, 36.
Strozzi Carlo di Niccolò, III, 403.
Strozzi Daniele, II, 554.
Strozzi Ercole, poeta ferrarese, ucciso, II, 36. Ricordato, 38.
Strozzi Filippo. Traduttore di Polibio, I, 534. Sposa Clarice de' Medici, e della condanna da lui incontrata perciò, II, 122, 136; e testo di essa condanna, 539. Rivela al gonfaloniere Soderini una congiura ordita contro di lui, 137. Ricordato, 580, 591. Fa compagnia a Lorenzo duca d'Urbino negli ultimi tempi della sua vita, III, 23. Di una sua lettera al fratello Lorenzo, relativa al M., 49. È autore della Commedia in versi attribuita al M., 168, 170. Ottiene da Clemente VII un sussidio al M., 324, 430. Lettere del [588] M. a lui, e di lui al M., ricordate, circa i possibili accordi tra Carlo V e Francesco I, 335, 336, 337. Ostaggio in un accordo tra il Papa e l'Imperatore, 342. Partecipa alla rivolta contro il cardinale Passerini ed i Medici in Firenze, 359. Ricordato, 366, 433.
Strozzi Lorenzo. Di una lettera di Filippo suo fratello a lui, III, 49. Introduce il M. in casa dei Medici, ivi, 75. Il M. gli dedica la sua Arte della guerra, 75, 86. Di lui sembra l'epistola della Descrizione della peste attribuita al M., 191, 192.
Strozzi Matteo, eletto oratore a Roma, I, 608.
Strozzi Palla, I, 101, 103.
Studio di Firenze, I, 104.
Studio di Firenze e Pisa (Ufficiali dello). Deliberazione con cui conducono il M. a scrivere le Storie, III, 121; e stanziamenti che gli fanno del suo salario, ivi.
Svizzera, I, 502. Osservazioni e scritti del M. intorno ad essa, II, 65 e seg., 76 e seg., 306, 387; e osservazioni ec. di un oratore veneto presso l'Imperatore, 67, 82.
Svizzeri. Loro trattative di andare al soldo di Giulio II; si muovono per venire e repentinamente tornano indietro, II, 124, 126, 502, 528, 535. Scendono in Italia per far guerra ai Francesi, 157; poi si ritirano, ivi. Ritornano in aiuto de' confederati contro la Francia, 163. Considerazioni e giudizi intorno ad essi nella corrispondenza del M. con Francesco Vettori, 226 e seg. Ricordati dal M. nel Principe, 387, 407. Danno una disfatta ai Francesi, III, 8, 9; poi si ritirano a Milano, 9. Tornano in Italia contro i Francesi, 12. Sconfitti alla battaglia di Marignano, ripassano le Alpi, 13. Fanno perpetua alleanza con Francesco I, 15. Tornano in Italia e si uniscono agl'Imperiali di Carlo V, 28. Loro fanterie ricordate, 79, 81, 84, 96, 97, 101, 104, 107, 110, 116. Rotti alla battaglia di Pavia, 299. Vengono alla spicciolata nell'esercito della lega contro l'Imperatore, 343; quanti siano, 346; e altre notizie circa la condotta che voleva farne la Lega, 447, 452 e seg. passim, 472.
Tanzini Reginaldo. Sua prefazione alle Opere del M., ricordata, III, 371.
Tarugi Francesco. Eletto segretario dei Dieci della guerra, III, 364, 366: e documenti e notizie relative alla sua elezione e al salario, 476; e data della sua morte, 477.
[589]
Tassi Francesco. Sua prefazione alle Opere del M., ricordata, III, 371.
Teatro. Sue condizioni in Italia all'epoca del Rinascimento, III, 138 e seg.; e opere intorno ad esso, citate, 146.
Tedaldi Lattanzio. Sua lettera al M., ricordata, II, 104.
Tedeschi, II, 65, 113; III, 96, 97, 102.
Tempi, famiglia, III, 400.
Terenzio. Breve paragone tra esso e Plauto, a proposito del teatro italiano nel Rinascimento, III, 141 e seg. L'Andria del M. è una traduzione della sua, 170.
Terranuova (da) Agostino, III, 286.
Thomson Ninian. Sua traduzione in inglese di scritti del M., ricordata, II, 419.
Tombara Giovanni. Suo scritto Intorno alla Clizia di N. M., III, 166.
Tommasini Oreste. Sua opera sul M. citata a vari propositi, I, 300, 476, 509; II, 122, 123, 129, 168, 169, 204, 276, 289, 365, 416, 419, 420, 495; III, v, 148, 162, 183, 184, 243, 249, 250, 252, 335, 343, 348, 365, 414, 426, 429, 435, 444.
Torello Barbara, II, 36.
Tornabuoni Lucrezia. Brano di una sua lettera a Piero de' Medici suo marito, I, 193. Ricordata, 217.
Torre Giuseppe, I, 475.
Tortello Giovanni, bibliotecario di Niccolò V, I, 126.
Toscanelli Paolo, I, 122.
Toscani. Della loro lingua e dei loro scrittori, III, 185 e seg.
Toscano Lorenzo, III, 309, 467.
Toscano Matteo. Suo giudizio del M., a proposito del Principe, II, 421.
Tosinghi Ceccotto, II, 554.
Tosinghi Pier Francesco, uno dei commissari nel campo de' Fiorentini contro Pisa, I, 333. Eletto oratore al Re di Francia, 352. Di nuovo commissario in campo contro Pisa; lettere dei Dieci a lui e al compagno, 596, 599.
Tosinghi Tommaso, commissario di guerra nel campo contro Pisa, I, 430; e di nuovo, 470 e seg. Lettere dei Dieci a lui, 610 e seg. Richiamato, 472.
Trani (Cardinale di), 1, 601.
Trapezunzio Giorgio, I, 125, 154, 167.
Traversari Ambrogio, I, 102. Traduttore di Diogene Laerzio, 534, 535; II, 578, 580.
[590]
Treggiaia, selva dell'abate di Certosa; s'ordina dai Procuratori delle mura di Firenze di tagliarvi della stipa, III, 443.
Trendelenburg Adolfo. Giudizio di un suo libro sul M., II, 442.
Tréverret. Sua opera dove parla del M., ricordata, II, 495.
Triantafillis prof. C. Dei suoi scritti diretti a provare che il M. conoscesse il greco, I, 303 e seg., 533; II, 289, 377, 385, 407, 575 e seg. Sue Ricerche sulla Vita di C. Castracani del M., ricordate, III, 73.
Trissino Giangiorgio, III, 32. Frequenta gli Orti Oricellari di Firenze, 47, 184. Sue tragedie ricordate, 47, 139.
Trivulzio Giangiacomo, I, 250, 255, 256. Comandante l'esercito francese contro il Duca di Milano, I, 336 e seg. Gli è destinato oratore il M., ma la legazione non ha effetto, 338. Comandante l'esercito francese contro Giulio II, II, 143. È alla battaglia di Marignano, III, 13. Allontanato dal campo, 27.
Trivulzio Teodoro, raccomandato dal Re di Francia per una condotta ai Fiorentini, II, 538.
Troches o Troccio, strumento degli assassinii dei Borgia, fatto poi uccidere dal Valentino, I, 434 e seg., 600. 601.
Tucci Agnolo, I, 607.
Tumulto de' Ciompi, episodio principalissimo nel terzo libro delle Storie del M., III, 241, 247 e seg.
Turchi, I, 537, 541; II, 227. Notizia di una disfatta data da essi al Re d'Ungheria, III, 464.
Turchia, II, 602.
Uguccioni Giovanni, II, 526-27.
Umbria. Sue triste condizioni al tempo della legazione del M. a Perugia, I, 478 e seg.
Ungheria (Re di). Notizie di una disfatta datagli dai Turchi, III, 464.
Urbino (Duca di). — Ved. Montefeltro (da) Federico e Guidobaldo, e Della Rovere Francesco Maria.
Urbino(Ducato d'). Arti e lettere vi son coltivate e protette da Federico di Montefeltro, I, 162. Occupato dal Valentino, 367; gli si ribella, 384. Ricuperato da Guidobaldo da Montefeltro, 385; ch'è poi costretto a rilasciarlo al Valentino, 403. Passa in Francesco Maria della Rovere, II, 109. Ricordato dal M. nel Principe, 381. [591] Francesco Maria della Rovere è costretto a cederlo a Lorenzo de' Medici, III, 19; poi lo ricupera, 128.
Urbino (da) Raffaello Sanzio, II, 21 e seg., 31. Ricordata la sua pittura del Sonatore di violino, III, 30; e la scena dipinta per la rappresentazione della Calandria del Cardinal Bibbiena, 32. Singolarmente amato e protetto da Leone X; e gran numero delle sue opere in Roma sotto di lui, 34. Di una sua pianta di Roma antica, attribuita ad altri poi a lui rivendicata, 35.
Utrecht (d') Adriano, cardinale. — Ved. Adriano VI.
Valdichiana. Vi va commissario Antonio Giacomini, I, 367. Interamente occupata dalle genti del Valentino, ivi.
Valentino (Duca). — Ved. Borgia Cesare. — Sposa Carlotta d'Albret, sorella del Re di Navarra, I, 269. Sue imprese in Romagna, 270, 271; e suo trionfale ingresso in Roma, 271. Fa uccidere il Duca di Bisceglie, 273. Uccide Pietro Caldes cameriere del Papa, 274. Prosegue le sue imprese in Romagna, 275. Fa uccidere Astorre Manfredi, ivi. Nominato duca di Romagna; e come allora si componeva e dovea allargarsi il suo stato, 276. Colloqui del M. col Cardinale di Rouen intorno a lui ed al Papa, 352, 353. Entra in Toscana e condotta da esso stipulata coi Fiorentini, 358 e seg. Della sua impresa contro Piombino, 360, 361. Passa nell'Elba; e chiamato dai Francesi alla guerra del napoletano, va a Roma, 361, 362. S'abbandona ad ogni eccesso nel saccheggio di Capua, 363. S'impadronisce di Piombino, ivi. Si accenna alle sue pratiche coi Pisani contro i Fiorentini, 366. Occupa Arezzo, ivi. S'impadronisce d'Urbino, 367. Quello che trattasse col M. e con Francesco Soderini oratori fiorentini, 368. Le sue genti lasciano Arezzo, 370. S'impadronisce di Camerino, 381. Titoli che assume, 382. Gli è vietato dalla Francia di avanzarsi contro Bologna e la Toscana, ivi. Congiura e lega dei suoi capitani contro di lui, 383. Manda parte dell'esercito contro di loro, 384; fazioni tra le due parti, 385. Riceve aiuti di Francia, 386. Cerca amicarsi i Fiorentini e chiede gli mandino un oratore, ivi. Gli è mandato il M., ivi e seg.; e suoi colloqui con esso, toccanti l'alleanza ch'egli desidera fare coi Fiorentini e sue contemporanee relazioni con Francia, 390 e seg., 397, 404, 410, 411, 412, 429, 432, 438, 444, 445, 450, 590. Tratta [592] e stipula un accordo con gli Orsini e i loro collegati, 393, 394, 403. Torna signore d'Urbino, 403. Va a Forlì e lo segue il M., ivi. Gli aiuti venuti di Francia lo abbandonano, ma egli prosegue le sue imprese, 404. Entra in Sinigaglia, 406. Fa prigioni gli Orsini, Vitellozzo e Oliverotto da Fermo, ivi. Continua a instare presso il M. per fermare un'alleanza con Firenze, 407. Fa strangolare Vitellozzo e Oliverotto, ivi. S'impadronisce di Perugia, 408. Va contro Pandolfo Petrucci, 409; cui accorda un salvacondotto per uscire di Siena; poi lo fa inseguire per averlo morto o vivo, 411. Fa strangolare il Duca di Gravina e Paolo Orsini, 410. Va verso Roma, chiamatovi dal Papa durante quella impresa contro gli Orsini e gli altri ribelli, ec., ivi, 412, 413. Atrocità da lui commesse per via nel suo ritorno a Roma, 418. Entra in Roma, 419. Concetto che di lui si forma il M., ivi e seg. Apparecchi dei Fiorentini contro di lui, e concetto ch'essi ne hanno, 429 e seg., 595. Simulati dissensi tra lui ed il Papa, 433. Fa prendere e uccidere il Troches, 434 e seg., 600, 601. Per la guerra tra Francia e Spagna nel Reame non può continuare le sue imprese, 438. Si ammala, 439. Denari e gioie raccolte per lui in Vaticano, appena morto Alessandro VI, 440. È in fin di vita, 444. Mègliora e parte da Roma, ivi. Perde gran parte dello Stato, 445. Torna a Roma; cercato a morte dagli Orsini, si salva in Castel Sant'Angelo, ivi, 446. Con lui tratta il cardinale Giuliano della Rovere per la sua elezione al papato, 447. Come si governino i Fiorentini con lui dopo l'entrata d'Antonio degli Ordelaffi in Forlì, 449, 602, 603. Come debba spiegarsi che il M. parli con dispregio e indifferenza di lui dopo la sua caduta, 453, 459, 462. Gli si ribella Imola, 454. Sue minaccie contro i Fiorentini, ivi, 457. Si apparecchia ad andare a difendere i suoi possessi in Romagna contro i Veneziani, 455. Sua irresolutezza, 456. Gli è negato un salvacondotto dai Fiorentini, 456, 604. Parte per Ostia con le sue genti, 457. Preso per ordine del Papa, 458; e ricondotto a Roma, 460. Sono svaligiate le sue genti, ivi. Accenni a fatti successivi relativi ad esso, ivi, 461. Si presenta e scusa umilmente a Guidobaldo duca d'Urbino, 461, 462. Ricordato, 562 e seg.; e dal M. nel Decennale primo, 473; e nei suoi Discorsi, II, 326. Apparisce alla mente del M. come il tipo più definito del Principe, 364; e come questi ne ragioni in una sua lettera al Vettori, 369; e in quel libro, 380 e seg., 387, 390, 397, 596, 608 e seg., 618. Accenni alle [593] qualità del suo governo in Romagna, 382; III, 377. Ricordato, III, 491. Delle notizie relative ad esso e agli altri Borgia nella Storia del Guicciardini, III, 495.
Valla Lorenzo, I, 76, 113, 115. Gli è affidata da Niccolò V la traduzione di Tucidide e di Erodoto, 125. Cenni della sua vita e delle sue opere, 127. È alla corte d'Alfonso I di Napoli, 154, 155, 156.
Vallombrosa (Generale di), III, 404.
Valori Bartolommeo. Si adopera a cacciare Pier Soderini e rimettere i Medici in Firenze, II, 176. Accompagna il Soderini a Siena, 177. Ricordato, 591.
Valori Niccolò. Sue lettere al M., I, 398, 570, 578, 579. Ambasciatore in Francia, 464, 606; è mandato presso di lui il M., 464 e seg. Suoi uffici a favore del M., 582, 590. Oratore al campo di Raimondo da Cardona e del Cardinale de' Medici, II, 550, 552. Compromesso nella congiura del Boscoli e del Capponi contro i Medici, II, 198; e imprigionato, ivi, 554, 555.
Vannucci Atto. Iscrizione da lui dettata per la villa del M., II, 362.
Varano (da) Giovan Maria, unico superstite della sua famiglia ricupera lo stato di Camerino, I, 385; poi n'è cacciato, III, 128.
Varano (da) Giulio Cesare. Fatto prigioniero dal Valentino, I, 381; e ucciso con la moglie e i figliuoli, 385.
Varano (da) Sigismondo. Occupa lo stato di Camerino, III, 128.
Varchi Benedetto. Non è punto benevolo al M., II, 422. Di una lettera del Busini a lui circa la morte del M., III, 366. Sua Storia citata, 486.
Vasto (Marchese del), III, 311, 465.
Vegio Scipione. Un suo lavoro col titolo Ephemerides è una delle fonti della Storia del Guicciardini, III, 491.
Venafro (da) Antonio, consigliere e segretario di Pandolfo Petrucci, I, 384, 487, e come tale lodato dal M. nel Principe, II, 402.
Venezia. Paragone tra la sua storia e quella di Firenze; e costituzione del suo governo aristocratico, I, 48. Signora de' mari si volge alle conquiste di terraferma, 50 e seg. Suo stato e condizioni sotto il dogato di Francesco Foscari, 53; dopo il quale comincia a decadere, 56. Sguardo alla sua storia fino alla lega di Cambray, ivi e seg. Paragone tra i suoi ambasciatori e i fiorentini, 240. Ricordata in una lettera al M., II, 532. Come ne parli il M. nei suoi Discorsi, 307. Ricordata nel Principe, 387, 600; nell'Asino d'Oro, III, 174. Vi si recita la Mandragola del M., 149. Ricordati i suoi [594] scrittori nel Dialogo sulla lingua, 188. Vi va con una commissione il M., 328. Vi si recita la Mandragola del M., e i Menecmi di Plauto, 334.
Veneziani. Che cosa pensino della prossima venuta di Carlo VIII in Italia, I, 243. Entrano in una lega contro di lui, 256. Aiutano i Pisani ribellatisi, e loro fazioni di guerra contro i Fiorentini, 314 e seg. Si fa pace tra essi e i Fiorentini, 317. Loro pratiche per rimettere Pietro de' Medici in Firenze, 332, 548 e seg. Fanno lega con Luigi XII per la conquista del ducato di Milano, 336. Il papa cerca di cattivarsene l'amicizia, 413. Si accenna ai loro apparecchi di difesa contro al Turco, e per aiutare il Re di Francia nell'impresa di Milano, 541. Dopo la morte d'Alessandro VI, s'avanzano in Romagna, e loro progressi, 448, 452, 454, 457, 458, 603, 604. Che cosa facciano e pensino nelle prime imprese di Giulio II contro Perugia e Bologna, 496, 499; e voci che spargono intorno alla venuta dell'Imperatore in Italia, 631. Fanno alleanza con la Francia, II, 58, 59; da cui ricevono soccorsi nella passata dell'Imperatore in Italia, 60. Fatti d'arme tra le loro genti e quelle dell'Imperatore, 70. Fanno tregua con lui, 72. Ricordati, 502. Scomunicati dal Papa; e rotti ad Agnadello, 108. Loro umiliazione, 109, 110. Riprendono animo e riacquistano parte del loro territorio, 110 e seg. Una loro flotta viene disfatta, 123. Danno il comando del loro esercito a Gian Paolo Baglioni, 124. Assoluti dal Papa, si uniscono con lui contro la Francia, ivi. Entrano in lega col Papa contro la Francia, 151, 530; e delle loro mosse, 533, 534. Ricordati dal M. nel Principe, 381, 400, 600, 617, 618. Loro lega col Re di Francia, ricordata, III, 8; e rinnovazione di essa, 11. È loro ceduta Verona dall'Imperatore, 15. Ricordati dal M. nell'Arte della guerra, 92, 117; e nelle Storie, 219. Non si curano della oltrapotenza di Carlo V in Italia, 300. Proposte fatte loro da Luisa di Savoia reggente in Francia contro gl'Imperiali in Italia, 301; che cosa rispondano, 303. Entrano in una lega con Francesco I contro Carlo V, 341; e il Duca d'Urbino è loro capitano, 342 e seg. Desiderano, come sembra, l'umiliazione di Clemente VII, 351. Ricordati in lettere di Roberto Acciaiuoli oratore in Francia, 445 e seg. passim.
Venturi Luigi, I, 582.
Venturi Piero, III, 400.
Vergilio Polidoro. Suo libro De Prodigiis, ricordato, II, 458.
[595]
Vernaccia Giovanni, nipote del M. Della sua corrispondenza epistolare con lo zio, II, 199; III, 39, 41 e seg.; e testo d'alcune loro lettere, 392 e seg., 398 e seg. Ricordato, 389.
Verona. Descrizione fattane dal M. in una sua lettera, ricordata, II, 116. Difesa dall'imperatore Massimiliano contro Francesco I, III, 14; e da lui ceduta ai Veneziani, 15.
Verrucola. I Dieci raccomandano ai loro Commissari in campo contro Pisa di espugnarla, I, 600.
Vespucci Agostino, uno dei coadiutori del M. nella Cancelleria dei Dieci, I, 342. Dà alle stampe il Decennale primo del M., 475. Vuol entrare al servizio dei Nove della Milizia, 515. Sue lettere al M., 557 e seg., 571. Ricordato, 607. Brano d'altra sua lettera al M., II, 105.
Vespucci ser Antonio, I, 584; II, 554.
Vespucci Guidantonio, capo di un partito per la riforma del governo dopo la cacciata di Piero de' Medici, I, 279.
Vespucci Piero, commissario fiorentino nel campo contro Pisa, I, 345.
Vettori Francesco, Oratore all'imperatore Massimiliano, II, 61 e seg. Suo Viaggio in Alemagna, citato, 80. Sua lettera al M., 529. Inviato ai Cardinali scismatici che si recavano al Concilio di Pisa, 153. Raccoglie e arringa il Consiglio per far deporre il gonfaloniere Soderini, 176; poi lo accompagna a Siena, 177. Suo giudizio sul governo di lui, ivi; e sul governo de' Medici tornati in Firenze, 183. Persecuzioni che soffre, ivi. Gli scrive il M., 199. Oratore a Roma, 206. Sua corrispondenza epistolare col M., II, 213 e seg., 557 e seg.; III, 414. Giudizio erroneo di Enrico Leo intorno ad esso, 212, 463. Sue qualità, e vita che fa in Roma, 213 e seg., 557 e seg. Cerca di guadagnare il favore de' Medici per sè e per gli amici tra cui il M., 213. Invita e pressa il M. a recarsi a Roma, 216 e seg. Scrive a Firenze in raccomandazione del M. sovraccaricato d'imposte, 219. Per giovare al M. fa vedere al Papa alcune sue lettere, ma senza pro, 232. Altri brani ed estratti di lettere del M. a lui, 369 e seg. Il M. gli chiede consiglio intorno al dedicare a Giuliano de' Medici il suo Principe, 375; e com'egli si comporti su tal proposito, ivi, 562. Gli piace il Principe «oltre a modo,» 375, 416, 567. Suoi giudizi su Leone X nel Sommario della Storia d'Italia, III, 1, 2, 4, 10. Ambasciatore in Francia, 22, 25. Altre sue notizie e giudizi su Leone X, 22, 25, 28, 29. Suo giudizio sul Borbone, 309. Va a San Leo e a Montefeltro a pigliarne il possesso per la Repubblica. 411. Consiglio da lui dato a Clemente [596] VII circa il governo di Firenze, 297. Sconsiglia il M. dal recarsi a Roma per presentare al papa le Storie; e sua relativa lettera, 323, 324, 428. Ricordato, 430. Lettera di Lodovico Canossa a lui, relativa al M., 329, 431. Ricordato, 433. Sunto di altre sue lettere al M., 344; e di lettere del M. a lui, 355. Altre citazioni del suo Sommario, 485, 486, 495.
Vettori Paolo. S'adopra a cacciare Pier Soderini e a rimettere i Medici in Firenze, II, 176, 183. Ambasciatore ai Medici in Prato, 177, 549, 551. In casa sua si riduce in salvo Pier Soderini, 549. Fa sedere Raimondo da Cardona in Consiglio nel luogo del Gonfaloniere, 181. È voce che debba andare governatore di uno Stato per Giuliano dei Medici, 369, 371. Ricordato, 572; III, 420.
Vico, nel Pisano, viene in mano dei Fiorentini, I, 599.
Vico Giovambattista, II, 288, 333.
Villani Giovanni. Come si valga della sua Cronica il M. nelle Storie, III, 230 e seg.
Visconti. Paragone tra essi e gli Sforza, I, 30, 34. Ricordati, II, 329; III, 218, 219.
Visconti Bernabò, I, 27.
Visconti Bianca, I, 29.
Visconti Carlo, I, 35.
Visconti Filippo Maria, I, 29, 54, 148; III, 219. Notizie di lui nelle Storie e a proposito delle Storie del M., 257, 268, 269.
Visconti Giovan Galeazzo, I, 27; III, 219, 254.
Visconti Giovan Maria, I, 29.
Vitelli famiglia, I, 478, 616; II, 609.
Vitelli Paolo. Sua elezione in capitano generale dell'esercito fiorentino contro Pisa, I, 309, 315. Primi sospetti destatisi nei Fiorentini sulla sua fede, 316. Ottiene un aumento di paga, 318. Occupa Cascina, 327. Lettere dei Dieci di balìa ad esso, 542; e ai Commissari fiorentini presso di lui, 543, 546. Stando sotto Pisa fa ritirare le sue genti; e crescono nei Fiorentini i sospetti contro di lui, 328. Altre voci a suo carico, 330. Della sua cattura e decapitazione, e della sua vera o presunta reità, 331 e seg., 551 e seg. Sua lettera a Cerbone Cerboni per avvisarlo della sua cattura, 547. Pratiche dei Veneziani con lui per rimettere Piero de' Medici in Firenze, 332, 548 e seg.
Vitelli Vitello. Viene in Firenze, III, 437; e si trova coi Procuratori delle mura per conto delle fortificazioni, 439 e seg.
[597]
Vitelli Vitellozzo. È al soldo de' Fiorentini, I, 315, 328. Si cerca di imprigionarlo, ma egli fugge, 331. Occupa Arezzo per il Valentino, 366, 368. Viene a patti coll'Imbault capitano francese spedito in aiuto dei Fiorentini, 370, 567. Entra in una lega contro il Valentino, 384. Il Valentino sparla di lui col M., 392, 403. Entra nell'accordo fatto dagli altri collegati col Valentino, ivi. Entra in Sinigaglia, 406. Imprigionato e fatto strangolare dal Valentino, ivi, 407. Ricordato, 562, 567.
Vittore Vitense. Traduzione di un brano della sua Historia, ec. fatta dal M. ricordata, I, 299: testo di essa traduzione, 527.
Volgare italiano. Scaduto per opera degli eruditi, ricominciato a usare e coltivare coi platonici, I, 183, 184.
Waltz O. Si cita un suo articolo a proposito della Storia d'Italia del Guicciardini, III, 486.
Wicquefort. Suo giudizio intorno al Principe del M., II, 593.
Wolsey (Cardinale). Aspira al papato dopo la morte di Leone X, III, 128. Deve recarsi in Francia oratore del Re d'Inghilterra, 453.
Ximenes (Cardinale), governatore della Spagna, III, 14.
Zagonara (Rotta di), nelle Storie del Cavalcanti, e del M., III, 258.
Zambelli Andrea. Sue Considerazioni sul libro del Principe, ricordate, I, 79; II, 330, 449; e critica di esse, 475.
Zefi Francesco. Traduttore di Polibio, I, 534, 535; II, 289, 295, 577, e altre notizie a lui relative, 578, 579, 584.
Zinzi (Il). — Ved. Possente (di) Bastiano.
Zitolo (Il), soldato dei Fiorentini, I, 626.
[599]
Avvertenza | Pag. V | |
LIBRO SECONDO | ||
Cap. | ||
VI | Leone X, la sua politica e la sua Corte | 1 |
VII | Il Machiavelli e la sua famiglia in villa. — I suoi figli. — Corrispondenza col nipote Giovanni Vernacci. — Viaggio a Genova. — Gli Orti Oricellari. — Discorsi del Guicciardini. — Il Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze. — Commissione a Lucca. — Sommario delle cose di Lucca. — Vita di Castruccio Castracani | 37 |
VIII | L'Arte della Guerra | 75 |
IX | Il Machiavelli ha la commissione di scrivere le Storie. — Il Soderini cerca dissuaderlo dall'accettare. — Gita a Carpi e corrispondenza col Guicciardini. — Papa Adriano VI. — Nuove proposte di riforme in Firenze. — Congiura contro i Medici e condanna dei congiurati | 119 |
X | Condizioni generali del teatro in Italia. — Le Sacre Rappresentazioni, la Commedia dell'arte e la Commedia erudita. — Le Commedie dell'Ariosto. — La Calandra del cardinal Bibbiena. — Le Commedie del Machiavelli: La Mandragola, La Clizia, la Commedia in prosa, la Commedia in versi, la traduzione dell'Andria | 138 |
[600] | ||
XI | L'Asino d'Oro. — I Capitoli ed altre poesie minori. — Il Dialogo sulla lingua. — La Descrizione della Peste. — Il Dialogo dell'ira e dei modi di curarla. — La Novella di Belfagor arcidiavolo. — Altri scritti minori | 173 |
XII | Le Istorie fiorentine. — Il primo libro o la introduzione generale | 199 |
XIII | Le Istorie fiorentine. — I libri II, III e IV, o la Storia interna di Firenze sino al trionfo dei Medici | 230 |
XIV | Le Istorie fiorentine. — I libri V e VI, il trionfo dei Medici e le guerre d'Italia. — I libri VII e VIII, Lorenzo dei Medici e le congiure. — I Frammenti storici. — Gli Estratti di lettere ai Dieci di Balìa. — La prima bozza delle Istorie | 266 |
XV | Morte di Adriano VI. — Elezione di Clemente VII. — Battaglia di Pavia. — Congiura del Morone | 294 |
XVI | L'esercito imperiale s'avanza in Lombardia. — Il Guicciardini Presidente della Romagna, poi Luogotenente al campo. — Il Machiavelli rientra negli affari. — Sua gita a Roma. — È inviato presso il Guicciardini a Faenza. — Sua gita a Venezia. — Corrispondenza col Guicciardini. — È nominato Cancelliere dei Procuratori delle Mura. — Attende ai lavori per le fortificazioni della Città | 319 |
XVII | Assalto dei Colonna in Roma. — Tregua del Papa coll'Imperatore. — Il Guicciardini e il Machiavelli al campo. — Cremona s'arrende alla Lega. — Ordine al Guicciardini di ritirare il campo di qua dal Po. — Gl'imperiali s'avanzano verso Bologna. — Vani tentativi d'accordo tra il Papa e gl'imperiali. — Il Machiavelli torna a Firenze. — Tumulto di Firenze. — Sacco di Roma. — Cacciata dei Medici, e ricostituzione della repubblica fiorentina | 341 |
XVIII | Il Machiavelli inviato al campo presso Roma. — Suo ritorno a Firenze. — Nuove calamità e nuovi dolori. — Malattia e morte. — Testamento. — Preteso sogno del Machiavelli | 361 |
Conclusione | 373 | |
[601] | ||
APPENDICE DI DOCUMENTI | ||
Doc. | ||
I | Due lettere di Lodovico Machiavelli a Niccolò suo padre | 389 |
1. Adrianopoli, 14 agosto 1525 | ivi | |
2. Ancona, 22 maggio 1527 | 391 | |
II | Cinque lettere di Niccolò Machiavelli al nipote Giovanni Vernacci in Pera | 392 |
1. Firenze, 4 agosto 1513 | ivi | |
2. Firenze, 20 aprile 1514 | 393 | |
3. Di Villa, 8 giugno 1517 | 394 | |
4. Firenze, 5 gennaio 1517/18 | 395 | |
5. Firenze, 25 gennaio 1517/18 | 396 | |
III | Lettera di Marietta Machiavelli al marito Niccolò. — Firenze, di data incerta | 397 |
IV | Due lettere di Giovanni Vernacci allo zio Niccolò Machiavelli | 398 |
1. Da Pera, 31 ottobre 1517 | ivi | |
2. Da Pera, 8 maggio 1521 | 399 | |
V | Lettera di alcuni cittadini fiorentini a Niccolò Machiavelli, relativa alla sua commissione a Genova. — Firenze, 8 aprile 1518 | 401 |
VI | Lettera di Luigi Alamanni a Piero suo padre. — Roma, 7 gennaio 1518 | 404 |
VII | Due lettere di Giovambattista Bracci al Machiavelli, relative alla commissione in Lucca | 406 |
1. Da Firenze, 14 agosto 1520 | ivi | |
2. Da Firenze, 7 settembre 1520 | 408 | |
VIII | Lettera di Bernardo Machiavelli a Niccolò suo padre in Lucca. — Firenze, 30 luglio 1520 | 409 |
IX | Lettera di Filippo de' Nerli a Niccolò Machiavelli in Lucca. — Firenze, 1 agosto 1520 | 410 |
X | 1. Lettera del cardinale Salviati a Niccolò Machiavelli. — 6 settembre 1521 | 412 |
2. Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori. — 29 aprile 1513 | 414 | |
XI | Lettera di Francesco Guicciardini al Machiavelli. — Modena, 18 maggio 1521 | 420 |
[602] | ||
XII | Scritto di N. Machiavelli sul modo di ricostituire l'Ordinanza | 421 |
XIII | Due sonetti di Niccolò Machiavelli | 425 |
1. Niccolò Machiavelli ad M. Bernardo suo padre. — In villa a S. Casciano | ivi | |
2. Nicolo Machiavellj a Mgº Giuliano de' Medici, quando esso Nicolo era in prigione, nel 1512 | 427 | |
XIV | Lettera di Francesco Vettori al Machiavelli. — Roma, 8 marzo 1524/25 | 428 |
XV | Breve di Clemente VII a Francesco Guicciardini | 429 |
XVI | Lettera di Francesco del Nero a Niccolò Machiavelli. — Firenze, 27 luglio 1525 | 430 |
XVII | Lettera di Monsignor Ludovico Canossa a Francesco Vettori. — Venezia, 15 settembre 1525 | 431 |
XVIII | Lettera di Filippo de' Nerli a Francesco del Nero. — Modena, 1 marzo 1525 | 433 |
XIX | Minute di lettere, patenti ed ordini scritti dal Machiavelli, come Cancelliere dei Cinque Procuratori delle mura | 434 |
1. MDXXVI, a dì 24 d'aprile. A Giuliano ingegnere a Roma | 435 | |
2. A dì detto, a Galeotto de Medici oratore a Roma | 436 | |
3. A dì primo di giugno, a Galeotto de Medici oratore a Roma | ivi | |
4. A dì detto, a tutti i Podestà del contado di Firenze | 438 | |
5. Patente per Giovanfrancesco da Sangallo e Baccio Bigio | ivi | |
6. A Galeotto de Medici, oratore in Roma. 7 giugno 1526 | 439 | |
7. A dì 2 di gennaio 1526/27 (Circolare) | 442 | |
8. A dì 21 di gennaio 1526/27 (Circolare) | 443 | |
9. Abbati Cortusii. Dicta die (26 gennaio 1526/27) | ivi | |
XX | Lettera di Iacopo Fornaciaio al Machiavelli. — Firenze, 5 agosto 1526 | 444 |
[603] | ||
XXI | Lettere di Roberto Acciaiuoli, ambasciatore di Clemente VII e della Repubblica fiorentina in Francia (anno 1526) | 445 |
1. Al Cardinale di Cortona | ivi | |
2. Ai Signori Otto di Pratica in Firenze | 446 | |
3. Al Magnifico Luogotenente del Papa, Messer Francesco Guicciardini, in Campo | 448 | |
4. Al Signor Luogotenente del Papa, Messer Francesco Guicciardini, in Campo | 451 | |
5. Al R.mo Datario ed a Messer Iacopo Salviati in Roma | 454 | |
6. Al R.mo Datario ed a Messer Iacopo Salviati in Roma | 455 | |
7. A Messer Francesco Guicciardini, Luogotenente del Papa. In Campo | 461 | |
8. A M. Baldassarre da Castiglione, nuntio del Papa appresso Cesare. In Corte dell'Imperatore | 463 | |
9. Al Signor Luogotenente del Papa, Messer Francesco Guicciardini, in Campo | 466 | |
10. Al R.mo Datario ed a Messer Iacopo Salviati, a Roma | ivi | |
11. Al R.mo Datario ed a Messer Iacopo Salviati, a Roma | 469 | |
12. A Messer Francesco Guicciardini, Luogotenente del Papa. A Piacenza | 472 | |
XXII | Lettera di Guido Machiavelli a suo padre Niccolò. — Firenze, 17 aprile 1527 | 474 |
XXIII | Documenti relativi alle elezioni di Francesco Tarugi e di Donato Giannotti all'ufficio di primo segretario dei Dieci | 476 |
1. A' dì 25 d'octobre 1527 | ivi | |
2. Die VIIII decembris MDXXVII, Salarii di Ministri del Magistrato | ivi | |
Nota al Capitolo VIII del Libro II | 479 | |
Nota al Capitolo XIV del Libro II. Alcune osservazioni sulla Storia d'Italia di F. Guicciardini | 483 | |
Indice dei nomi e delle materie | 499 |
1. Niccolò Machiavelli. Die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke in 16 und 17 Jahrhundert, mit 147 Faksimiles und zahlreichen Auszugen. Eine kritisch-bibliographische Untersuchung, von Adolf Gerber (Terza parte). Gotha, F. A. Perthes, 1913.
2. Paris, Mercure de France, 1913.
3. Sommario della Storia d'Italia, nell'Archivio Stor. It., Append., vol. VI, pag. 297.
4. Vettori, Sommario, pag. 322.
5. Albèri, Relazioni degli Ambasciatori veneti, serie 2ª, vol. III. Relazione di Marin Giorgi, pag. 56.
6. Albèri, Relazioni, ecc., vol. cit. Relazione di Marco Minio, pag. 63.
7. Chiamato poi Palazzo Madama, perchè abitato da Caterina dei Medici, prima che andasse in Francia. Ora è residenza del Senato italiano.
8. Riportata nel 1521 a Firenze, fu il nucleo principale della Laurenziana.
9. Albèri, Relazione già citata di Marin Giorgi, pag. 52.
10. Albèri, Relazione citata, pag. 51.
11. Vettori, Sommario, pag. 322.
12. Albèri, Relazione citata, pag. 51.
13. Albèri, Relazione citata, pag. 45. Marin Giorgi scrisse questa Relazione nel 1517.
14. Albèri, Relazione già citata, del Giorgi, pag. 51-52.
15. Albèri, Relazioni, già citate, del Giorgi, pag. 52, e di Marco Minio, pag. 65.
16. Abbiamo altrove notato (vol. II, pag. 222, nota 1), che il Nitti, nel libro Leone X e la sua politica, cercò con molto acume di difendere la condotta del Papa dall'accusa d'essere stato guidato quasi sempre da interessi personali e di famiglia, come è opinione di molti moderni, e, quello che è più, come fu anche di quasi tutti i contemporanei. Questi, in fatti, non solo spiegavano sempre con fini personali la politica di Leone X, ma quando lo volevano indurre a seguire un qualunque partito, non tralasciavano mai di proporgli qualche cosa a vantaggio suo personale e dei parenti. Mettendo però da parte le molte esagerazioni, che il Nitti giustamente corregge, osserveremo che egli stesso deve concludere col riconoscere come questi fini personali erano pure così potenti nell'animo del Papa, da non potere qualche volta egli medesimo avere «chiara consapevolezza,» per sapere se era veramente guidato da essi o dal bisogno di «assicurare l'indipendenza della Santa Sede,» come pretendeva. Vedi pag. 63.
17. Albèri, Relazioni degli Ambasciatori veneti, serie 2ª, vol. III. Relazione di Antonio Soriano, pag. 290.
18. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom, vol. VIII, pag. 23; De Leva, Storia di Carlo V, vol. I, pag. 163.
19. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VI, pag. 31; De Leva, Storia di Carlo V, vol. I, pag. 175 e seg.
20. Guicciardini, vol. cit., pag. 20-31.
21. Vettori, Sommario, pag. 303.
22. Vettori, op. cit., pag. 303.
23. De Leva, Storia di Carlo V, vol. I, cap. VI; Mignet, Rivalitè de François I et de Charles-Quint (Paris, Didier, 1875), vol. I, cap. I.
24. Vedi i Documenti riguardanti Giuliano de' Medici e il Pontefice Leone X, nell'Arch. stor. it., Appendice, vol. I, p. 310.
25. De Leva, Storia di Carlo V, vol. I, pag. 207; Mignet, Rivalité, etc., vol. I, pag. 64.
26. «E si dize questo ezercito fa el, non è per esser contro Franza, ma per aver mior partido.» Marin Sanuto nel De Leva, Storia, ecc., vol. I, pag. 208, nota. Vedi anche Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, vol. II, pag. 319 e seg..; Francesco Vettori, Sommario, pag. 308.
In questo momento Ottaviano Fregoso, doge di Genova, che pur era amicissimo del Papa, da cui era stato beneficato, s'accordò di nascosto colla Francia, prima ingannandolo e poi scrivendogli una lunga lettera, nella quale diceva, che sarebbe a lui stato difficilissimo scusarsi, scrivendo ad uomini privati od a principi che misurassero le cose degli Stati secondo i rispetti privati; ma che era perfino superfluo scusarsi, scrivendo ad un principe savissimo, che sapeva meglio d'ogni altro quel che era lecito per salvare o anche per accrescere lo Stato. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VI, pag. 57.
27. De Leva, Storia di Carlo V, vol. I, pag. 214.
28. Albèri, Relazione già citata del Giorgi, pag. 44-45.
29. Mignet, Rivalité, etc., vol. I, cap. I.
30. Ora Porta Romana.
31. Ne parla fra gli altri la Cronica di Luca d'Antonio di Luca Landucci speziale, che il signor Del Badia dell'Archivio di Stato, ha pubblicata in Firenze, Sansoni, 1883. Essa contiene una minuta descrizione delle feste.
32. Vasari, Vite, ecc., ediz. Le Monnier (Vita di Andrea del Sarto), vol. VIII, pag. 267.
33. «Erant variae structurae similes illis quae videntur in Urbe Roma, videlicet obeliscus sicut in Vaticano, columna sicut in Campo Martio, et huiusmodi usque ad Sanctam Mariam Novellam.» Diario di Paride De Grassis. Questo ed altri brani del Diario furono pubblicati dal Roscoe nella sua Vita di Leone X.
34. Vasari, op. cit., vol. VIII, pag. 267.
35. Si affermò ripetutamente che in queste feste fiorentine fu rappresentata la Mandragola del Machiavelli dinanzi al Papa. Ma di ciò non troviamo notizia nei cronisti contemporanei, e, come vedremo, vi sono documenti che non rendono la cosa credibile.
36. Mignet, Rivalité, etc., pag. 103-4; Gregorovius, Geschichte, etc., vol. VIII, pag. 192.
37. Gregorovius, op. cit., vol. VIII, pag. 191.
38. Mignet, op. cit., vol. I, pag. 103-4; Gregorovius, op. cit., vol. VIII, pag. 192; Vettori, Sommario, ecc., pag. 315.
39. Vettori, Sommario, pag. 319.
40. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, vol. II, pag. 324-26; Vettori, Sommario, pag. 319-22.
41. Creighton, IV, pag. 244 e seg.
42. Gregorovius, Geschickte, etc., vol. VIII, pag. 214; Capponi, Storia, ecc., vol. II, pag. 326; M. Brosch, Geschichte des Kirchen Staates, vol. I, pag. 50. — Il Gregorovius dice che i cardinali eletti furono 39, ma forse vi unisce gli altri otto, che erano stati creati prima. Il Vettori dice che i cardinali creati da Leone X, in tutto il suo pontificato, furono 42, «e trasse danari da parte di quelli che nominò e da quelli che condannò.» Sommario, pag. 339.
43. Vettori, Sommario, pag. 527.
44. Vettori, Sommario, pag. 328. Un brano, senza data, di lettera del Machiavelli, indicato col numero XV, nel vol. VIII, pag. 39, delle Opere, dice che Lorenzo aveva empito di grande speranza tutta la Città, lodandone perciò altamente i modi civili e le altre buone qualità.
45. Guicciardini, Opere inedite, vol. II, pag. 325; Machiavelli, Opere, vol. IV, pag. 105; Capponi, Storia, ecc., vol. II, pag. 328.
46. Capponi, Storia, ecc., vol. II, pag. 329-32. Vedi anche i documenti da lui pubblicati nell'Appendice allo stesso volume, pag. 535-46.
47. Capponi, Storia, ecc., vol. II, pag. 329-32.
48. Vettori, Sommario, pag. 334-35.
49. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VI, pag. 216-17.
50. Guicciardini, op. cit., vol. VII, pag. 5.
51. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VII, pag. 40-67; Vettori, Sommario, pag. 334-35; Gregorovius, Geschichte, etc., vol. VIII, pag. 261-65; Mignet, Rivalité, etc., vol. I, pag. 287 e seg.; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, cap. II.
52. Vettori, Sommario, pag. 336-40.
53. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VII, pag. 71.
54. Gregorovius, Geschichte, etc., vol. VIII, pag. 264 e seg.
55. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana (1ª edizione), vol. II, pagine 36-37; Tiraboschi, Storia della letteratura italiana (Firenze, 1812), tomo VII, pag. 15-17. Vedi in fine del volume stesso: Fr. Arsilli Senogalliensis, De Poetis urbanis ad Paulum Jovium.
56. Reumont, Geschichte der Stadt Rom, vol. III, parte II, pag. 131-32.
57. Albèri, Relazione già citata di Marin Giorgi, pag. 56-57. Lo stesso ripetono altri contemporanei.
58. Reumont, Geschichte der Stadt Rom, vol. III, pag. 133-34. La festa è minutamente descritta in una lettera assai nota dell'ambasciatore di Ferrara. Vedi anche E. Muntz, Raphael, sa vie, son œuvre et son temps, pagine 421-22: Paris, Hachette, 1881.
59. Ariosto, Satira IV, versi 154 e seg. nelle Opere Minori (ediz. Le Monnier), vol. I, pag. 184 e seg.
60. Di lui scrisse il Calcagnimi
Nunc Romam in Roma querit, reperitque Raphael.
Querere magni hominis, sed reperire Dei est.
61. Molto si è scritto su di ciò. Vedi E. Muntz, Raphael, etc., cap. XII, pag. 426 e segg.; e R. Lanciani, La pianta e i disegni archeologici di Raffaello Sanzio, nei Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, seduta del 25 novembre 1894.
62. Gregorovius, Geschichte, etc., vol. VIII, pag. 260-62. Per la vita di questo papa, oltre le opere ben note del Fabroni, del Roscoe, del Ranke, del Gregorovius e del Reumont, possono adesso riscontrarsi anche Muntz, Raphael; Brosch, Geschichte des Kirchen Staates, che incomincia il suo primo volume con un breve ragguaglio della vita di Leone X; Creighton, History of the Papacy. vol. V. — Pastor, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters. Vol. 4. Freiburg i/B. 1906.
63. Opere, vol. VIII, lettera XLVI.
64. Questa data si trova nel Passerini (Opere (P. M.), vol. I, pag. L), in molti altri scrittori, ed è confermata nel Libro III dell'Età (a c. 10t, S. Spirito, gonfalone Nicchio) che è nell'Archivio delle Tratte in Firenze.
65. Il Passerini dice 14 dicembre 1514, senza citar documenti. Nel breve cenno biografico di Piero, che fu scritto dal fratello Guido, trovasi nelle Carte del Machiavelli (Cassetta V, n. 188) e fu pubblicato dall'Amico in fine della sua Vita di N. Machiavelli, si legge, invece, che Piero nacque il 4 settembre 1514, dum sol oriebatur. Questa data è poi confermata dagli epitaffi, che per detto Piero scrisse il medesimo Guido (Cassetta V, n. 170 e seg.).
66. Di lui si ha uno scritto indirizzato al Duca Cosimo de' Medici, Per cacciare di Toscana Francesi e Spagnuoli, e per istituire una armata toscana, 1560. Lo pubblicò il D'Amico dal codice di Giuliano de' Ricci, in appendice alla sua biografia del Machiavelli, e più recentemente fu ripubblicato, in Firenze, Bemporad, 1894.
67. Nella sopra citata cassetta V sono vari altri scritti di Guido: sermoni, traduzioni, commedie, ecc.
68. Fu condannato in contumacia, con sentenza degli Otto, il 22 novembre, ad un anno d'esilio, a tre miglia da Firenze, e ad una multa di 150 lire. Così dice l'Amico, pag. 613. Noi però non abbiamo potuto ritrovare in Archivio la sentenza originale, non avendone egli dato la citazione precisa. Dopo tre anni nel 1536, ottenne grazia (Tommasini I, 219).
69. Trovasi, con un'altra del 22 maggio 1527, nelle Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 46 e 22. Vedi Appendice, doc. I. Poco ci deve correre dalla nascita di Bernardo a quella di Lodovico, perchè si trovano squittinati nello stesso tempo, pel gonfalone del Nicchio. (Reg. orig. dello squittinio del 1524, a c. 12). Il dì 8 giugno 1517, il Machiavelli scriveva al nipote Giovanni Vernacci: «Bernardo et Lodovico si fanno huomini.» Vedi Appendice, doc. II.
70. Queste condanne si trovano anch'esse ricordate dall'Amico a pag. 614. Abbiamo trovato in Archivio solo la prima, in data 11 maggio 1525. Sta fra i partiti degli Otto (maggio e agosto 1525 a c. 6t). Lodovico è in essa condannato in due fiorini d'oro, per aver bastonato un notaio.
71. Di questo fatto parlano gli storici dell'assedio.
72. Questa lettera fu la prima volta pubblicata dal signor Innocenzo Giampieri nel volume Monumenti del Giardino Puccini (Pistoia, 1845), a pag. 288, e poi in una Strenna Poliantea (Firenze, Stamperia granducale, 1846), a p. 43. Venne anche ripubblicata dall'Amico e dal Mordenti, ma sempre assai scorrettamente. Tutti vi pongono la data 1524, a torto interpretando così lo scritto originale, che dice solo: a dì 24. Si può solo congetturare che sia stata scritta nel 1506. Allora il Machiavelli era nella seconda sua legazione a Roma, e sebbene, avendo dovuto seguire papa Giulio II, non apparisca che si fermasse mai in quella città, pure le lettere si mandavano a Roma, dov'egli era accreditato. Il suo continuo viaggiare allora spiegherebbe anche la scarsità delle sue lettere alla famiglia, di che tanto si doleva la Marietta. La bambina, di cui ella scriveva, era la Bartolommea; il bimbo deve essere Lodovico. Nel 1503, quando il Machiavelli andò nella prima sua legazione a Roma, non aveva che un figlio solo. Nè si può supporre che la lettera sia del 1527, perchè, sebbene allora andasse per qualche giorno presso Roma ed a Civitavecchia, non ebbe, che si sappia, in quell'anno un figlio, nè la Bartolommea era una bimba. E per le stesse ragioni non si può neppure supporre che sia del 1525, quando il Machiavelli fece, come vedremo, un'altra breve gita a Roma. Diamo in Appendice, doc. III, la lettera nella sua vera forma.
73. Vedi in Appendice, doc. II, la lettera del 4 agosto 1513, il cui originale è nella Biblioteca reale di Parma. Una copia di essa ci fu gentilmente mandata da quel bibliotecario, cui ne rendiamo grazie.
74. Vedi in Appendice, doc. II, lettera del 20 aprile 1514, ed Opere, voi. Vili, lettera (17 agosto 1515) XLII, pag. 150.
75. Opere, vol. VIII, pag. 151, lettere (19 novembre 1515, e 15 febbraio 1515), XLIII, XLIV.
76. Vedi in Appendice, doc. II, le lettere del 5 e 25 gennaio 1518.
77. Opere, vol. VIII, lettera XLV, pag. 152.
78. Vedi Appendice, doc. IV. L'originale di questa lettera trovasi nell'Archivio Bargagli.
79. Vedi la lettera del 15 aprile 1520, che fu pubblicata la prima volta dal prof. A. D'Ancona, ed è la LV, a pag. 1194, nell'edizione delle Opere, fatta a Firenze, Usigli, 1857. Vedi anche in Appendice, doc. IV, la lettera del Vernacci, in data 8 maggio 1521.
80. Vedi Appendice, doc. V.
81. Vedi nelle Curiosità storico-artistiche fiorentine del conte Luigi Passerini (Prima Serie: Firenze, Jouhaud, 1866) quella intitolata: Degli Orti Oricellari. L'autore osserva che il terreno, su cui fu costruito il palazzo, essendo stato comperato nel 1482, nel quale anno L. B. Alberti era già morto, non potè questi essere stato, come fu detto da molti, l'architetto adoperato dal Rucellai.
82. Pur troppo tutto ciò è ora mutato. Il Palazzo, con una piccolissima parte degli Orti, fu recentemente venduto alla famiglia Ginori; ma le collezioni d'arte andarono disperse. Tutto il resto degli Orti fu venduto ad un appaltatore, e sebbene una parte di essi sia stata dichiarata monumento nazionale, sul resto gli alberi cadono e si costruiscono villini.
83. Nardi, Storia, vol. II, pag. 85-6; Nerli, Commentari, pag. 138; Passerini, Genealogia della famiglia Rucellai: Firenze, Cellini, 1861.
84. Vedi in Appendice, doc. VI, una lettera di Luigi Alamanni, fratello minore di Lodovico più sopra menzionato, al padre, scritta da Roma con la data 7 gennaio 1518. Essa prova come allora gli Alamanni fossero tuttavia amicissimi de' Medici.
85. Morì nel 1522, e Benedetto Varchi ne scrisse la vita, che fa pubblicata insieme con i tre libri d'amore di F. da Diacceto, a Venezia, Giolito, 1561.
86. Fra le molte carte del Varchi, che contengono gli abbozzi e gli spogli da lui fatti per le sue Storie, si trova notato che questo Diacceto «non apparteneva cosa alcuna a Francesco, perchè originalmente non erano d'una medesima famiglia. Gli fu bene sempre amicissimo et scolare, et eziandio, mentre che leggeva greco, l'udiva.» Biblioteca Nazionale di Firenze, 9, F. 11. Della lezione avuta nello Studio fanno cenno il Nardi ed altri. Il Nerli ed il Nardi danno parecchie notizie intorno a quelli che frequentavano allora gli Orti.
87. Vedi, a questo proposito, il libro di B. Morsolin, G. G. Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI: Vicenza, 1878.
88. Archivio fiorentino, Carte Strozzi-Uguccioni, filza 108, a c. 40t. Dobbiamo la comunicazione di questa lettera al prof. L. A. Ferrai, ed a lui ne rendiamo grazie. Filippo Strozzi, amico del Machiavelli, era stato discepolo di Marcello Adriani, ed era parente dei Medici, avendo sposato Clarice figlia di Piero di Lorenzo de' Medici e di Alfonsina Orsini. Questo fatto può forse spiegarci, come mai il Machiavelli, sin dal 1512, quando non conosceva ancora personalmente i Medici, avesse loro indirizzato alcuni suoi scritti (Vedi vol. II, pag. 186 e segg. di quest'opera). E la lettera ad una signora, che molti supposero indirizzata all'Alfonsina (vol. II, pag. 186, nota 1), potrebbe forse con maggiore probabilità essere stata indirizzata a Clarice dei Medici, moglie di Filippo. Quella di Filippo, qui sopra citata, ha la data di Roma, 17 marzo 1519. Rimane però incerto se l'indicazione dell'anno sia secondo lo stile romano o fiorentino.
89. Nardi, Storia, vol. II. pag. 86.
90. Volume II di quest'opera, pag. 252 e segg.
91. Il primo di questi discorsi, che è terzo nelle Opere inedite (vol. II, pag. 262 e seg.), porta la data del 27 agosto, e vi si legge inoltre, di mano del Guicciardini: «In Spagna l'anno 1512, et ero presso alla fine, quando ebbi nuova che i Medici erano entrati in Firenze.» Il secondo vien dopo, ed è perciò quarto nelle Opere inedite (vol. II, pag. 316 e seg.). Sono preceduti da altri due, che si riferiscono ad avvenimenti del 1495, e possono ritenersi come esercizî letterari. Di questi il Guicciardini ne scrisse molti, spesso con intendimento di valersene poi nelle sue Storie, come di fatti qualche volta fece.
92. Guicciardini, Opere inedite, vol. II, pag. 329.
93. Opere inedite, vol. II, Discorso quinto, pag. 325 e segg.
94. Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze, fatto ad istanza di papa Leone X. Nelle Opere, vol. IV, pag. 105 e segg. Sebbene le stampe dicano che il discorso fu fatto ad istanza di papa Leone X, pure, leggendolo, si vede chiaro che il Machiavelli non fu interrogato direttamente dal Papa, cui pur lo diresse, ma dal Cardinale.
95. Opere, vol. IV, pag. 112-13.
96. Questa provvisione trovasi nell'Archivio fiorentino, Balìe, (1512- 26), n. 58; e secondo l'antico ordinamento: Cl. II, dist. 18, n. 19; a c. 157t. Incomincia dicendo che il Gonfaloniere ed i Signori di Firenze giudicano essere bene di «provvedere in modo che lo Stato suo (la repubblica) si habbi lunghissimo tempo a conservare, e da qualunque insulto, massime repentino, rendere totalmente sicuro. Il che pensano potere facilmente seguire ogni volta che delle gente sue proprie sia bene armata et ordinata, et non tenti a ricercare et adoperare l'arme et gente externe et mercenarie.» Si ristabilisce quindi l'Ordinanza, deliberando la iscrizione sotto le bandiere di diecimila uomini a piedi del contado e distretto, ed affidandone la direzione al «magistrato degli spectabili X di Balìa, et non veghiando tale magistrato, al magistrato degli spectabili Octo di Pratica.» Questo si diceva, perchè allora s'era già deliberato di sopprimere i Dieci e sostituirvi gli Otto di Pratica, che di fatto entrarono in ufficio il 10 giugno di quell'anno. Le lettere dei Dieci Uniscono a dì 9 di giugno 1514, e i primi due volumi di quelle degli Otto di Pratica (n. 28 e 29 secondo la nuova classificazione, e secondo l'antica: Cl. X, dist. 5, n. 49 e 50) hanno questo titolo che è lo stesso in ambedue: «Alter ex libris litterarum intra Dominium scriptarum per magn.cos Octoviros Pratice Reip. Flo.ne, in ceptus die xma iunii MDXIIII, qua die incepit officium dicti Octoviratus, et est primus magistratus,» ecc. Lorenzo dei Medici, nipote del Papa, fu di questi primi Otto. I due volumi citati vanno dal 1514 al 1516, e si compiono a vicenda. La prima lettera è del 13 giugno 1514. La provvisione sopra citata fu solo in parte e di mala voglia eseguita; l'Ordinanza venne nel fatto sempre trascurata dai Medici.
Vogliamo qui ricordare, che anche il Guicciardini, nei discorsi qui sopra menzionati, parla dell'Ordinanza con lode, e la vuole aumentata e rafforzata. Opere inedite, vol. II, Discorso terzo, pag. 264.
97. Opere, vol. IV, pag. 117.
98. Opere, vol. IV, pag. 121-22.
99. Discorso terzo nelle Opere inedite, vol. II, pag. 262 e seg.
100. Il discorso del Pazzi fu scritto nel 1522 e trovasi pubblicato nell'Archivio Stor. It., vol. I, pag. 420 e seg. L'autore chiama la forma di governo proposta dal Machiavelli «insolita a quella città e stravagante» (pag. 429).
101. In fine del discorso il Machiavelli sembra addirittura rimettere il Papa alle informazioni che gli darà a voce il Cardinale. Egli dice in fatti che, se non si provvede a tempo, le condizioni in cui Firenze si trova, possono da un momento all'altro, esporre i Medici a mille pericoli inaspettati, e già li tengono fra mille fastidî insopportabili a qualunque uomo: «Dei quali fastidî vi farà fede la Reverendissima Signoria del Cardinale, sendo stato in questi mesi passati in Firenze.» Opere, vol. IV, pag. 122. Questa ci sembra un'altra prova che l'invito venne per mezzo del Cardinale, il quale del resto, anche secondo gli storici del tempo, fu quegli che interrogò i cittadini, lasciando intendere che lo faceva d'accordo col Papa.
102. Più documenti relativi a questo affare si trovano nelle Carte del Machiavelli, Cassetta I, n. 60, e vennero pubblicati nelle Opere (P. M.), vol. VI, pag. 267-276. Essi sono: una petizione dei mercanti fiorentini alla Signoria di Lucca, senza data; una seconda petizione degli stessi, con la data.... Settembre 1520; un ricordo a Niccolò Machiavelli, di mano ignota, che lo ragguaglia particolarmente di tutto l'affare; una nota di cose che bisogna avere conto e chiarezza sopra le partite di Michele Ghinigi: finalmente la deliberazione del Consiglio generale di Lucca. Tutti questi documenti, salvo il terzo, si trovano scritti di mano del Machiavelli. Aggiungiamo in Appendice, doc. VII, due lettere di G. B. Bracci, scritte al Machiavelli, in data del 14 agosto e del 7 settembre 1520, sullo stesso argomento, perchè compiono la serie dei documenti su questo affare. Alcuni altri documenti ha ora pubblicati il Tommasini. Vol. II, doc. XV.
103. Opere, vol. IV, pag. 124-133.
104. Qui si può notare un primo errore, giacchè erano 90 e non 72, e coi supplenti, cui accenna anche il Machiavelli, formavano un Consiglio di 120. Così almeno dice lo Statuto del 1446, che era allora sempre in vigore.
105. Qui le stampe dicono un Potestà fiorentino, ma è certo un errore, invece di Potestà forestiero. Da tutti gli ufficî che in Lucca si dovevano dare ad un forestiero, erano sempre esclusi i Fiorentini e i loro sudditi.
106. Questa lettera fu due volte pubblicata, in due forme diverse, nelle Opere (P. M.). Nel vol. I, pag. LXXXVIII, la stampa è abbastanza corretta, tranne la data, Ex Florentia, ultima iunii MDXXX, che è errata. Invece nel vol. VI, a pag. 210, è corretta la data, Ex Palatio fiorentino (l'originale però dice, Ex Florentia) ultima iulii MDXX, ma la lettera poi ha parecchi errori. E così pure è detto erroneamente, che essa si trova nelle Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 51, quando si trova al n. 41, com'è ricordato nel vol. I.
107. Diamo in Appendice, doc. VIII, una lettera del 30 luglio, scritta da Bernardo Machiavelli al padre in Lucca, e nel doc. IX una allo stesso di Filippo de' Nerli, in data 1º agosto 1520. Diverse altre del medesimo tempo furono pubblicate nelle Opere (P. M.).
108. La lettera del Buondelmonti trovasi fra le Carte del Machiavelli, cass. V, n. 43, e fu pubblicata nelle Opere (P. M.). vol. I, pag. LXXXVII.
109. Opere, vol. II, pag. 413.
110. Ibidem, vol. II, pag. 414.
111. Per la vita di Castruccio si possono fra gli altri consultare la biografia latina, scritta da Niccolò Tegrimi, stampata la prima volta a Mantova per M. Dominicum Rocociolam 1496, ristampata a Parigi nel 1546, e poi nel 1742 a Lucca insieme con la versione italiana; Le attioni di Castruccio Castracane degli Antelminélli, signore di Lucca, etc.: Roma, presso gli eredi Gigliucci; Pignotti, Storia della Toscana, libro III, in fine. Il signor F. L. Polidori pubblicò un Esame critico della vita di Castruccio Castracani, nella sua edizione delle Opere minori del Machiavelli (Firenze, Le Monnier, 1852), pag. 33 e segg. In questo esame egli si fermò principalmente a notare gli errori storici che si trovano nel lavoro del Machiavelli, cosa cominciata a fare assai prima anche da altri.
Era stato già da molti osservato, che in questo lavoro del Machiavelli si trovavano imitazioni dall'antico. Crediamo però che il prof. C. Triantafillis sia stato il primo a dimostrare come la narrazione fosse in gran parte imitata dalla Vita d'Agatocle, narrata da Diodoro Siculo. Vedi Sulla vita di Castruccio Castracani scritta da Niccolò Machiavelli, ricerche di C. Triantafillis. Questo lavoro, pubblicato nell'Archivio Veneto, tomo X, parte I, anno 1875, venne poi ripubblicato in opuscolo a parte: Venezia, tipografia del Commercio, 1875.
112. Il Menagio, nella Biblioteca del Fabricio, aveva affermato che i detti memorabili dal Machiavelli attribuiti a Castruccio erano presi dagli Apoftegmi di Plutarco; ma il prof. Triantafillis ne trovò undici evidentemente copiati dalla Vita d'Aristippo di Diogene Laerzio, autore (è bene notarlo) già tradotto dal Traversari nel secolo XV. Giacomo Leopardi, nei Pensieri, vol. VII, p. 310, osserva che questi detti erano tutti o quasi tutti gli stessissimi «che il Laerzio, ecc., riferiscono di filosofi antichi, mutati solo i nomi.»
113. Discorsi, libro II, cap. XIII, pag. 222. «Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione che fa fare a Ciro contro il re di Armenia, è piena di fraude, e come con inganno e non con forza gli fa occupare il suo regno.»
114. Vedi la lettera nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. LXXXVII.
115. Nella sua Genealogia e Storia della famiglia Rucellai (Firenze, Cellini, 1861), il Passerini lo dice nato nel 1495, morto circa il 1520. Nelle Curiosità storico-artistiche, invece, lo dice, così a pag. 69, come a pag. 71, morto nel 1519.
116. Opere (P. M.), vol. I, pag. LXXXVI. Certo le parole De re militari potrebbero accennare anche al libro di Vegezio, che ha questo titolo appunto. Ma il menzionarlo insieme con la Vita di Castruccio fa credere che si tratti dell'Arte della guerra; nè sarebbe presumibile, che, per vedere l'opera di Vegezio, il cardinal de' Medici avesse bisogno di ricorrere al Machiavelli.
117. Fu qualche volta supposto a torto, che quest'edizione sia identica a quella del 1529. L'una e l'altra erano nella Palatina e son ora nella Nazionale di Firenze. Infine della prima si legge: «Impresso in Firenze per li Heredi di Philippo di Giunta, nelli anni del Signore MDXXI a dì XVI d'agosto. Leone X pontefice.» Vedi Il Quarto Centenario di Niccolò Machiavelli. Il 21 settembre 1521, il Cardinale Salviati gli scriveva, ringraziandolo d'avergliene mandata una copia, la prima che fosse giunta a Roma. Vedi Appendice, doc. x.
Il Codice 1451, Cl. VIII, nella Biblioteca Nazionale di Firenze, contiene lunghi frammenti autografi dell'Arte della Guerra. Par che fossero 183 carte, ma ne mancano parecchie, e quelle che restano non sono in ordine. Vanno dal n. 7 al 16, dal 97 al 110, dal 113 al 154, dal 161 al 166, dal 169 al 183. La prima carta n. 7, comincia: «Cosimo. Basterebbe quando io fossi certo, che la occasione.» La carta 176 contiene la fine dell'opera. Le carte dal n. 177 al 183 contengono le tavole, precedute dall'avvertenza esplicativa al lettore. Seguono due carte doppie, non numerate, che contengono aggiunte e correzioni dell'autore. In mezzo a questi frammenti si trova un foglio staccato, certo del tempo, ma non autografo del Machiavelli, che contiene l'alfabeto greco con spiegazioni in latino. Sembra che, avendo bisogno, per indicare la disposizione delle varie parti d'un esercito, di molti e diversi segni, senza i quali non avrebbe potuto formare le sue tavole, e non bastandogli le lettere latine, il Machiavelli ricorresse ad un amico, per avere l'alfabeto greco, che non conosceva abbastanza. E l'amico gli mandò, scritto di sua mano, l'alfabeto, aggiungendo spiegazioni sulle vocali, le consonanti, i dittonghi, ecc. Tale almeno sembra a noi la sola spiegazione plausibile del trovarsi questo foglio, scritto da un'altra mano, ma dello stesso tempo, tra gli autografi dell'Arte della Guerra, nella quale in fatti l'autore si vale più volte delle lettere greche.
118. Due persone vennero più specialmente da noi consultate: una di queste fu il signor Max Jähns, noto scrittore di cose militari, maggiore di Stato Maggiore nell'esercito prussiano, autore dell'opera: Geschichte des Kriegswesens von der Urzeit bis zur Renaissance, il quale aveva già nel 1876 pubblicato un suo discorso intitolato: Machiavelli und der Gedanke der allgemeinen Wehrpflicht (nella Kölnische Zeitung dell'agosto 1877, n. 108, 110, 112 e 115). A lui rivolgemmo, per mezzo del nostro amico prof. Karl Hillebrand, alcune domande. E la sua cortesia fu grande davvero, giacchè egli ci rispose amplissimamente con uno scritto intitolato: Machiavelli als militärischer Techniker, pubblicato poi nel n. XIII (24 marzo 1881) del giornale, Die Grenzboten für Politik, Literatur und Kunst, che si stampa a Lipsia. Noi professiamo qui al dotto e cortese straniero tutta la nostra più profonda riconoscenza. — Ci rivolgemmo poi ripetutamente al maggiore di Stato Maggiore (ora generale) nell'esercito italiano, signor Valentino Chiala; e dare un'idea della sua cortesia nel rispondere alle continue domande che, durante due anni, gli facemmo, non è assolutamente possibile. Diremo solo, che senza i suoi autorevoli, sempre pronti e cortesi consigli, ci saremmo più volte smarriti nell'esaminar l'Arte della Guerra del Machiavelli. Per grande fortuna della nostra patria, gli ufficiali dell'esercito italiano, come è noto a tutti, uniscono alle qualità più virili dell'animo la più squisita gentilezza e cortesia.
Nel rivolgerci, senza personalmente conoscerli, ai due dotti e cortesi maggiori di Stato Maggiore, l'uno straniero e l'altro italiano, non sapevamo punto che erano del pari ammiratori dell'Arte della Guerra del Machiavelli, e la tenevano in altissima stima, anche giudicandola come lavoro tecnico e militare. Non avendo il maggiore Chiala pubblicato le osservazioni, che espose a noi nelle sue lettere, citeremo alcuni brani di esse, intitolandole: Osservazioni del maggiore Chiala. Speriamo di non offendere la sua modestia, che in lui è pari alla dottrina.
119. Il maggiore Jähns, scrive: «Wenn man diese Sätze liest, so glaubt man einen Theoretiker aus unsern eignen Tagen zu hören.» Jähns, Machiavelli als militärischer Techniker, nel fascicolo più sopra citato, Die Grenzboten, pag. 555. L'autore allude a ciò che il Machiavelli scrisse della cavalleria nei Discorsi (lib. II, cap. XVIII; Opere, vol. III, pag. 244), e nell'Arte della Guerra (lib. II; Opere, vol. IV, pag. 239).
120. Nel suo discorso, Machiavelli und der Gedanke der allgemeinen Wehrpflicht, più sopra citato, il maggiore Jähns comincia col pregare l'uditorio di sospender l'orrore morale che desta il nome del Machiavelli, giacche «nicht von der sittlichen Haltung des Mannes will ich reden, sondern ich will ihn bezeichnen als den ersten modernen Menschen, dem der Gedanke der allgemeinen Wehrpflicht zum Gegenstände wissenschaftlicher Erwägung wurde.» E poi aggiunge, che il merito attribuito al Machiavelli come fondatore della scienza politica, gli si può attribuire del pari nelle cose militari. «Dies gilt auch von den militär-politischen Ideen Machiavelli's. Sie zeichnen ihn als einen die Zeitgenossen hoch überragenden Geist, welcher die schweren Gebrechen des damaligen Kriegswesens erkannte, und die Mittel angab, sie zu heilen.» Vedi il principio del discorso nella Kölnische Zeitung.
121. Discorsi, lib. II, cap. XVII.
122. Su di ciò il maggiore Chiala insiste molto nelle sue Osservazioni.
123. Il maggiore Jähns, a proposito del poco conto che il Machiavelli faceva dell'artiglieria, osserva: «Diese Nichtachtung war nach dem Erfolge von Ravenna ein Anachronismus.» Machiavelli als militärischer Techniker, nel citato fascicolo del giornale, Die Grenzboten, etc., pag. 556. Il maggiore Chiala crede che nella battaglia di Ravenna le artiglierie non avessero fatto ancora gran prova, e sarebbe quindi più indulgente verso il Machiavelli. Aggiunge però che, dopo la battaglia di Marignano, l'errore era assai meno scusabile.
124. Il maggiore Chiala così scriveva: «Leggendo i sette libri dell'Arte della Guerra non è possibile negare che di tutto ciò che ha relazione alla parte immutabile dell'arte, il Machiavelli discorre con tanta lucidezza, con tanta assennatezza, che anche colui il quale abbia poca conoscenza delle condizioni dell'arte stessa a que' tempi, è condotto ad ammettere in lui, non soltanto una mente superiore, ma altresì una pratica non superficiale delle cose della guerra. — Certo nessuno scrittore solamente teorico ha mai scritto così.» Ed altrove: «Il libro dell'Arte della Guerra mi sembra davvero un portento, non solo per que' tempi, ma anche considerato assolutamente.»
125. Tale è la opinione espressa ripetutamente dal maggior Jähns, il quale conchiude il suo saggio, Machiavelli als militärischer Techniker, con un pensiero non molto diverso da quello, da noi già citato, che si trova nel principio della sua lettura sul Machiavelli: «Alles in Allem genommen, erkennt man, dass Machiavelli, der durch seine begeisterte Verkündigung des Gedankens der allgemeinen Wehrpflicht, als ein wahrhaft prophetischer Geist und als einer der wichtigsten Denker auf dem Gebiete des militärischen Verfassungslebens erscheint, auch das Wesen der kriegerischen Technik in einer für seine Zeit ganz ungewöhnlichen Deutlichkeit durchschaute, und es ist ein neuer, ich möchte sagen, psycologischer Beweis für die nahe Verwandschaft von Kriegskunst und Staatskunst, dass der Begründer des modernen Staatsrecht zugleich der erste moderne militärische Klassiker ist.» Prima della pubblicazione di questo scritto, il maggiore Chiala ripetutamente mi aveva esposto lo stesso concetto, concludendo: «Come nella parte politica ed organica delle milizie, le vedute del Machiavelli furono ispirate ai veri principi dell'arte della guerra, così anche nel campo tecnico per lui più difficile.»
126. Opere, vol. IV, pag. 187.
127. Opere, vol. IV, pag. 196-7.
128. Opere, vol. IV, pag. 202-4.
129. Ibidem, vol. IV, pag. 204.
130. Opere, vol. IV, pag. 209. «Omnes nationes quae vicinae sunt soli, nimio calore siccatas, amplius quidem sapere, sed minus habere, sanguinis dicunt, ac propterea constantiam ac fiduciam cominus non habere pugnandi, quia metuunt vulnera, qui se exiguum sanguinem habere noverunt. Contra, septentrionales populi remoti a solis ardoribus, inconsultiores quidem, sed tamen, largo sanguine redundantes, sunt ad bella promtissimi, etc.» Flavii Vegetii Renati Comitis De re militari libri quinque. Ex recensione Nicolai Schwebelii. Argentorati, ex typographia Societatis Bipontinae, 1806. Lib. I, cap. II, pag. 5-6.
131. Opere, vol. IV, pag. 209-10.
132. Opere, vol. IV, pag. 218. Ecco le parole di Vegezio: «Sit ergo adolescens, Martio operi deputandus, vigilantibus oculis, erecta cervice, lato pectore, humeris musculosis, valentibus brachiis, digitis longioribus, ventre modicus, exilior cruribus, suris et pedibus non superflua carne distentis, sed nervorum duritia collectis.» F. Vegetii, op. cit., lib. I, cap. VI, pag. 9. Anche le parole del Machiavelli, che, nel brano qui sopra riportato, accennano alle qualità morali del soldato, sono imitate dallo stesso autore. Qui ed altrove egli lo ricorda, come sempre, indirettamente, senza mai nominarlo. Nel cap. VII, Vegezio continua: «Iuventus enim, cui defensio provinciarum, cui bellorum committenda fortuna est, et genere, si copia suppetat, et moribus debet excellere. Honestas enim idoneum militem reddit. Verecundia dum prohibet fugere, facit esse victorem. Quid enim prodest si exerceatur ignavus? si pluribus stipendiis moretur in castris? Nunquam exercitus profecit, tempore cuius [belli] in probandis tironibus claudicarit electio.» È il concetto, e spesso anche son le parole medesime adoperate dal Machiavelli.
133. Opere, vol. IV, pag. 212-16.
134. Il concetto politico ed il concetto militare del Machiavelli, come abbiam detto, s'immedesimano sempre e ne formano uno solo, il secondo essendo conseguenza logica del primo. L'esercito popolare, nazionale porta di necessità la preponderanza della fanteria. Anche le trasformazioni militari sono nella storia conseguenza delle trasformazioni sociali e politiche. Vedi a questo proposito: L. Blanch, Della scienza militare, considerata ne' suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale. Discorsi nove: Napoli, Porcelli, 1831.
135. Che, oltre Livio, Cesare ed i soliti autori noti al Machiavelli, questi si fosse valso nell'Arte della Guerra principalmente di Vegezio, era stato già da molti osservato. Il primo però, che io sappia, il quale notò l'uso frequentissimo che, nella stessa opera, il Machiavelli fece di Frontino, è stato il signor Burd. Dopo il suo pregevole lavoro, da noi più volte citato, nel quale cercò le fonti antiche del Principe, ne ha fatto un altro simile sull'Arte della Guerra: The literary sources of Machiavelli's «Arte della Guerra» together with some illustrative diagrams. È uno studio assai pregevole, nel quale sono messe in luce moltissime imitazioni da autori greci e latini, che erano rimaste finora inosservate. Citiamo, fra molte altre, non poche imitazioni da Polibio. In fine del lavoro sono aggiunte alcune tavole, che danno chiara e precisa idea dell'ordinamento militare proposto dal Machiavelli, correggendo le inesattezze che si trovano in quelle stampate nelle edizioni delle Opere. Questo lavoro sarebbe utilissimo anche per una nuova edizione dell'Arte della Guerra. Il signor Burd, con una cortesia, di cui non sapremmo abbastanza ringraziarlo, volle permetterci di farne uso, inviandoci dall'Inghilterra il manoscritto. Nel ringraziarlo, noi facemmo voti che, a benefizio degli studiosi, le sue nuove ricerche venissero ben presto date alla luce. E più tardi, d'accordo col collega O. Tommasini, ci riuscì di farle pubblicare, tradotte in italiano, col titolo, Le Fonti letterarie di Machiavelli nell'«Arte della Guerra», fra le Memorie della classe di scienze morali storiche e filologiche, vol. IV, Parte I. Seduta del 21 maggio 1896.
136. Arte della Guerra, lib. II, nelle Opere, vol. IV, pag. 231. Qui, si è valso di Polibio, che descrive a lungo la falange greca (XVIII, 12-16). Nella pagina precedente (230), in cui parla delle armi dei Romani, si valse di Polibio e forse anche, come suppone il Burd, di Giuseppe Flavio. È singolare poi, come osserva lo stesso signor Burd, che mentre il Machiavelli ha certamente preso la descrizione dello scudo da Polibio, di cui ripete le parole, ponga la spada (gladius hispaniensis) del legionario, non a destra come dice Polibio, e come usava generalmente, a cagione dello scudo; ma a sinistra, come dice Giuseppe Flavio (Bell. Jud., III, 55), e come i monumenti provano che usava a suo tempo.
137. Fra le altre cose, dice di non ricordare che, nella battaglia di Pydna (168 a. C.) fra L. Emilio Paolo e Perseo, figlio di Filippo V re di Macedonia, si parli di scudo. Ma da Livio (XLIV, 36-43), che il Machiavelli ben conosceva, apparisce che coloro i quali portavano la sarissa, avevano anche uno scudo leggiero, il che vien confermato da Plutarco (Aem. Pau., 16-23), che il Machiavelli pur conosceva. Ed è però che, come diciamo nel testo, più di un moderno trovò difficile capire in che modo si potessero adoperare insieme lo scudo e la lunghissima sarissa.
138. Arte della Guerra, lib. II, pag. 230-39. Le osservazioni sulla cavalleria, che si trovano a pag. 239, son fra quelle che al maggiore Jähns sembrano tali, che potrebbero essere scritte da un tattico moderno.
139. Se si paragona Vegezio, lib. I, cap. IX-XVIII, pag. 12, 13, 14, 19, con l'Arte della Guerra del Machiavelli, lib. II, pag. 243-45, si vedrà chiaramente l'imitazione e spesso anche la traduzione.
140. Arte della Guerra, pag. 246.
141. Il Machiavelli allude generalmente alla legione descritta da Vegezio (lib. II, cap. VI) ed anche a quella descritta da Polibio, non a quella di Servio Tullio che, assai più agile e meglio ordinata, non superava di molto i 3000 fanti.
142. Arte della Guerra, lib. II, pag. 250-1.
143. Arte della Guerra, lib. II, pag. 257.
144. Questo notano tutti gli storici dell'arte della guerra, e questo osserva anche Luigi Napoleone Bonaparte nella sua opera: Du présent, du passé et de l'avenir de l'artillerie, vol. I, pag. 83.
145. «Machiavelli nimmt also die Legionartaktik der Römer zum Vorbilde. Aber trotzdem bleibt auch seine Schlachtordnung mehr auf die Defensive als auf den Angriff angerichtet; denn selbst dieser grosse Geist vermag sich nicht ganz frei zu machen von dem Banne der mittelalterlichen Tradition, welche dem Fussvolke unbedingt die inferiore Stellung gegenüber der Reiterei zuwies. Er vermag das römische Vorbild nicht zu erreichen.» Jähns, Machiavelli als militärischer Techniker, pag. 554. La medesima contradizione è più volte notata dal maggiore Chiala.
146. «Si paragonino» osserva il maggiore Chiala, «le formazioni del Machiavelli con quelle adottate dagli Svizzeri, e non si durerà fatica a trovare che le prime vincono immensamente di leggerezza e di frazionabilità le seconde. Assai primitiva doveva essere l'ordinanza svizzera, che pur era l'ordinanza classica di quel tempo, per procedere in grossi quadrati pieni di circa 10,000 uomini l'uno: l'ordinanza del Machiavelli quanto non è più leggiera, frazionata, mobile!»
147. «Si potrebbe osservare che, se non fosse intervenuto questo nuovo elemento delle armi da fuoco, l'arte della guerra si sarebbe svolta in modo da tendere alla imitazione del modello proposto dal Machiavelli. — È certo che dalla falange svizzera si sarebbe venuto a poco a poco a formazioni più leggere, più elastiche, più articolate, sempre più modellate sul tipo della legione, un quid simile appunto a ciò che propose il Machiavelli.» Osservazioni del maggiore Chiala.
148. Arte della Guerra. lib. II, pag. 271.
149. Arte della Guerra, lib. II, pag. 273.
150. Ibidem, lib. II, pag. 274.
151. Arte della guerra, lib. III, pag. 280. Qui c'è qualche confusione ed inesattezza. L'autore non distingue la composizione della legione quale era ai tempi di Servio Tullio, da quella che più tardi fu divisa in coorti, e però, come abbiam detto, riunisce in uno ordinamenti di tempi diversissimi. La prima, divisa in manipoli, era composta di più di 3000 fanti, cioè 1200 Astati, 1200 Principi e 800 Triarî, cui s'aggiungevano i Rorari e gli Accensi, di cui il Machiavelli, non parla. Non è vero che i Principi fossero in numero minore. È vero però, che erano disposti in modo da poter ricevere gli Astati, quando questi retrocedevano, e da potere gli uni e gli altri essere ricevuti dai Triarî, minori di numero, e disposti in ordine assai più rado. Il Machiavelli qualche volta sembra parlare di questa legione, qualche altra di quella che trova descritta da Vegezio o da Livio o da Polibio, senza mai distinguere.
152. Anche qui è continuamente imitato Vegezio. Si riscontri l'Arte della Guerra, paragonando le pag. 278, 279, 281, 282 e 283 con Vegezio, De re militari, ediz. citata, pag. 21, 22, 31, 33, 35, 87, 88, 89.
153. Arte della Guerra, lib. III, pag. 294.
154. Arte della Guerra, lib. III, pag. 293-301.
155. Si paragoni l'Arte della Guerra, pag. 319, 321, 322, 324, 326, 353, 356, con Frontino, Stratagematicon, II, III, § 17; II, IV, 17; II, VII, 1, 2, 3, 5; II, X, 1: II, I, 1; I, V, 27, ed I, V, 3; I, V, 16. Anche nel sesto e settimo libro dell'Arte della Guerra, continuo è l'uso che il Machiavelli fa di Frontino. Qualche volta ricorda senz'altro i fatti citati da Frontino, adoperando quasi le stesse parole; altra volta invece formula prima regole generali, e si vale poi, a conferma di esse, degli esempî addotti dallo stesso autore. A pag. 319 parla dei carri falcati (falcatae quadrigae) descritti da Livio (XXXVII, 41) e da Vegezio (III, 24). Poi dice in quali modi si può ad essi resistere, adducendo a conferma l'esempio di Silla contro Archelao, quale si trova in Frontino (II, III, 17). Lo stesso fa in moltissimi altri simili casi.
156. Arte della Guerra, lib. IV, pag. 314.
157. Ibidem, lib. IV, pag. 316.
158. Ibidem, lib. IV, pag. 332.
159. Arte della Guerra, lib. VI, pag. 360.
160. Ibidem, lib. VI, pag. 380; Vegezio, lib. II, cap. IV.
161. Arte della Guerra, lib. VI, pag. 380.
162. Arte della Guerra, lib. VI, pag. 376.
163. Ibidem, lib. VI, pag. 380.
164. «Kuhn und scharfsinnig sind seine fortificatorischen Ideen.» Così dice il maggiore Jähns nel più volte citato suo scritto: V. Die Grenzboten, a pag. 556.
165. «D'après Machiavelli qui dans son Art de la Guerre nous a donnè des renseignements applicables à une époque un peu antérieure à celle où il écrit, le mur doit être aussi haut que possible, etc.» Louis Napoléon Bonaparte, Du présent, du passé et de l'avenir de l'artillerie, vol. II, pag. 106.
166. Arte della Guerra, lib. VII, pag. 398.
167. Nardi, Storia di Firenze, vol. I, pag. 225 e 362.
168. Storia d'Italia, lib. VIII, cap. IV.
169. Vedi nell'Appendice al vol. II di quest'opera, il doc. VI, a pag. 520.
170. Arte della Guerra, lib. VII, pag. 394-5.
171. Ibidem, lib. VII, pag. 401.
172. Ecco come giudica queste idee il maggiore Jähns, in fine dello scritto sopra citato: «Machiavellis Vorschläge ähneln in mancher Beziehung denjenigen, welche Dürer zur Verstärkung vorhandener alter Stadtbefestigungen macht; wahrscheinlich hatten beide ihr Vorbild in Padua, dessen vergebliche Belagerung im Jahre 1509 durch Kaiser Maximilian so grosses Aufsehen gemacht hatte; denn diese Stadt war in einer Weise remparirt, welche der von Machiavelli empfohlenen sehr nahe kommt. Wie einsichtig und klardenkend übrigens Machiavelli in Dingen der Befestigunskunst war, lehrt sein Protokoll über die Besichtigung der Fortificationen von Florenz durch Navarro, und sein Schreiben an Guicciardini über denselben Gegenstand (1526). Merkwürdig erscheint es, dass er bereits mit Entschiedenheit die Forderung eines Rayongesetzes ausspricht und zwar eines viel strengem als es irgend eine neuere Verordnung gethan hat. — Bis zu einer Meile Entfernung von der Festung darf weder Manerwerk aufgeführt, noch auch das Feld bestellt werden.»
173. Arte della Guerra, lib. VII, pag. 413-14.
174. Ibidem, lib. VII, pag. 415.
175. Arte della Guerra. lib. VII, pag. 416.
176. Arte della Guerra, lib. VII, pag. 418-19.
177. Arte della Guerra, lib. VII, pag. 419-23.
Avevo già liberato per la stampa questo foglio, quando mi pervenne notizia della pubblicazione di una nuova opera sul Machiavelli come scrittore di cose militari. — Martin Hobohm, Machiavellis Renaissance der Kriegskunst: Berlin, Karl Curtius, 1913. Vol. due. — Mi duole assai di non essere stato in tempo, per poterne tener conto in questo capitolo.
178. Prezziner, Storia del Pubblico Studio, ecc., vol. I, pag. 201-2, doc. XII.
179. È una lettera del Machiavelli al Del Nero, che si trova nell'Archivio fiorentino, e fu pubblicata la prima volta dal prof. Corazzini nella sua Miscellanea di cose inedite o rare, pag. 114: Firenze, 1853. Venne poi data più compiutamente nelle Opere del Machiavelli (Firenze, Usigli, 1857) a pag. 1198. La riproduciamo qui sotto:
«Spectabilis vir,
«La sustanza della condotta sia questa. Sia condotto per anni, ecc., con salario ogni anno, ecc., con obbligo che debba e sia tenuto scrivere gli annali ovvero la istoria delle cose fatte dallo Stato e città di Firenze, da quello tempo gli parrà più conveniente, et in quella lingua o latina o toscana, che a lui parrà.
«Nicholaus Machiavelli.
«Honorando cognato Francisco del Nero.»
180. La deliberazione degli ufficiali fu pubblicata nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. LXXXIX. La riproduciamo qui sotto, aggiungendovi gli appunti delle prime rate che furono pagate al Machiavelli, le quali si trovano notate anch'esse nel Libro degli stipendiati per lo Studio, dal 1514 al 1521, che si conserva nell'Archivio fiorentino.
«Die viij mensis novembris M. D. xx. Conduxerunt Niccholaum de Machiavellis civem florentinum ad serviendum dicto eorum officio, et inter alia ad componendum annalia et cronacas florent. et alia faciendum, que et prout dictis dominis officialibus fuerit expediens pro tempore et termino duorum annorum initiatorum die prima presentis mensis novembris, uno scilicet firmo, altero vero ad beneplacitum dictorum dominorum officialium, cum salario quolibet anno florenorum centum, ad rationem librarum quatuor pro quolibet floreno solvendorum de quatuor mensibus in quatuor menses cum taxis obligationibus et aliis consuetis» (a c. 104).
················
«Die xiij junii M. D. xxj» (a c. 144).
················
«Item infrascriptis eourum ministris servientibus tam Florentie quam Pisis, pro dictis quatuor mensibus initiatis et finitis ut supra [initiat, die prima mensis novembris proxime preteriti (a c. 144t-145)].»
················
«Niccholao domini Bernardi de Machiavellis, fi. 33. 6. 8» (a c. 145t).
················
«Item infrascriptis eorum ministris, etc., c. s., pro dictis quatuor mensibus initiatis ut supra [die prima mensis martii prox, preteriti (a c. 145t)]» (a c. 146t).
«Niccholao, etc., c. s.»
················
Nell'Archivio pisano, dove andarono poi parecchie carte dello Studio fiorentino, mancano i Libri dello Studio degli anni 1521-25; ma in un registro d'entrata e uscita dello stesso, per l'anno 1526, a c. 24t, si legge:
«Ad li ministri (dello Studio fiorentino e pisano):
«A Francesco Del Nero fior, ottantaquattro di suggello. 84»
«A Niccolò Machiavelli fior, centosettantacinque di suggello 175»
Mancano anche i registri successivi fino al 1544. Queste notizie, le quali provano che il sussidio fu per più anni continuato, le dobbiamo al signor Tanfani Centofanti direttore dell'Archivio pisano.
Il Tommasini (App. doc. X, pag. 1069 e segg.) ha pubblicato alcuni altri documenti, dai quali risulta che poco prima (il 25 giugno 1519) era stato nominato insegnante a Pisa Agostino Nifo da Sessa, quello stesso che aveva commesso il plagio del Principe, di che abbiamo parlato nel vol. II (pag. 417 e segg.).
181. Ciò si argomenta dalla lettera con cui il Machiavelli rispose, la XLI nelle Opere, vol. VIII, pag. 147, la quale è però scritta in un modo assai poco intelligibile, e fu scorrettamente pubblicata. Essa incomincia: «Una vostra lettera mi si presenta in pappafico.» Il che io credo voglia dire: in gergo, quasi in maschera. Il Ricci dice che la copiò da un originale annotato, quasi indeciferabile, ma non dice se questo originale era autografo, nè di chi siano le note, che non valgono certo a rendere più chiaro il testo, essendo più che altro sentenze generali, cavate dagli scritti del Machiavelli. Vedi le note riprodotte nel Tommasini, I, 632.
182. Questa lettera è nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. LXXXIX. L'originale trovasi nello Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 40.
183. Opere, vol. VII, pag. 439-41.
184. Opere (P. M.), vol. VI, pag. 215-16.
185. Vedi la lettera del Machiavelli al cardinale dei Medici, nelle Opere, voi. VII, pag. 445-49.
186. Le parole in corsivo mancano in tutte le edizioni delle Opere, dove sono indicate con puntolini. Una nota avverte che il manoscritto originale dovette esser venuto in mano di persona timorata, che cancellò in questa lettera e nella seguente, le parole più licenziose o poco rispettose alla religione. Esse si ritrovano però nella copia del Codice Ricci.
187. Opere, vol. VIII, pag. 155-6.
188. Il Guicciardini mandò in fatti il secondo fante, con una lettera del 18 maggio 1521, la quale trovasi nelle Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 111. Vedi Appendice, doc. XI.
189. Opere, vol. VIII, pag. 156-9, lettera XLIX. Diamo qui sotto le parole che furono soppresse nelle stampe dove sono indicate con puntolini.
predicatore; —
insegnassi loro la via d'andare a casa il diavolo; —
pazzo che il Ponzo, più versuto (furbo) che fra Girolamo, più ipocrito che frate Alberto; —
tristo: —
mantello della religione; —
pestando i fanghi di S. Francesco; —
scandalo; —
alle zoccolate; —
questi frati dicono che quando uno è confermato in grazia, il diavolo non ha più potenzia di tentarlo. Così io non ho paura che questi frati mi appicchino la ippocrisia, perchè io credo essere assai ben confermato; —
nè credo mai quel che io dico; —
fra tante bugie. —
190. Allude a ciò che dice Plutarco nella Vita di Lisandro.
191. Lettera del 18 maggio 1521, Opere, vol. VIII, pag. 159-61.
192. Berni, Casa, ecc., Opere Burlesche: Londra, 1723, vol. I, pag. 77.
193. Gregorovius, Geschichte, vol. VIII, pag. 392 e segg.; De Leva, Storia di Carlo V, lib. II, cap. 3; Ranke, Die Römischen Päpste, lib. I, cap. III; Reumont, Geschichte der Stadt Rom, lib. VIII, parte II; Constantin Ritter von Höfler, Papst Adrian VI (1522- 1523): Wien, Braumüller, 1880.
194. Nardi, Storia, vol. II, pag. 73-5
195. Nardi, Storia di Firenze, vol. II, pag. 74-75.
196. Vedi il Discorso dei Pazzi nell'Arch. stor. it., vol. I, pag. 420 e seg.
197. Questa seconda proposta di riforma, fatta dal Machiavelli, fu prima pubblicata da A. D'Ancona, insieme con un altro scritto sull'Ordinanza, nel suo opuscolo per nozze Cavalieri-Zabban, 16 ottobre 1872, col titolo: Due scritture inedite di Niccolò Machiavelli: Pisa, Nistri, 1872. La ripubblicò poi l'Amico nella sua Vita del Machiavelli, pag. 550 e segg. L'originale trovasi nelle Carte del Machiavelli, cassetta I, n. 79.
198. Questo scritto autografo si trova nelle Carte del Machiavelli, cassetta I, n. 63. Vedi Appendice, doc. XII. Ne fu pubblicato un brano dal signor Amico nella sua Vita di N. Machiavelli, a pag. 269. Egli lo crede un abbozzo di lettera scritta al cardinal Soderini, quando fu la prima volta istituita l'Ordinanza. Leggendolo con attenzione, si vede però che non è una lettera, ma una proposta indirizzata al cardinal de' Medici, per ricostituire l'Ordinanza.
199. Filippo de' Nerli, Commentarî, pag. 137-8.
200. Nardi, vol. II, pag. 83-4. Di tutto ciò parla minutamente anche Iacopo Pitti, nella sua Storia fiorentina, lib. II, pag. 122. (Arch. stor. it., vol. I). Dice che era apparecchiata la Provvisione per la riforma, ed a pag. 124 la riepiloga, dando un sunto di quella stessa che era stata scritta dal Machiavelli, il che ci conferma che questi ne aveva ricevuto commissione dal Cardinale.
201. Nardi, Storia, vol. II, pag. 85; Capponi, Storia della repubblica di Firenze, vol. II, pag. 336; Pitti, Storia fiorentina, pag. 125.
202. «Ma non riuscendo l'impresa del signor Renzo..., si trovarono poi Zanobi e Luigi implicati in quella congiura, senza poterla eseguire, e dubitando, essendosene troppo allargati, che ella non si scoprisse; però amendue erano tanto più di quelli che assai sollecitavano il cardinale de' Medici, perchè si mettessero in esecuzione i disegni di sopra narrati, e que' vani parlamenti, che andavano attorno per la nuova riforma del governo, parendo loro, se tale effetto seguiva, d'assicurarsi de' pericoli che portavano scoprendosi la loro congiura, la quale male si poteva più mandare ad effetto.» Nerli. Commentarî, pag. 138.
203. Nardi, Storia, vol. II, pag. 89.
204. Furono pubblicati da Paolo Piccolomini nel Giornale Storico della letteratura italiana, 1902, vol. XXXIX, pag. 327 e segg.
205. Et mortuus non posset damnari, dice la sentenza. Vedi i Documenti su questa congiura pubblicati nel Giornale Storico degli Archivi Toscani, vol. III, pag. 123 e segg.: Firenze, Vieusseux. La sentenza relativa a Piero Soderini trovasi a pag. 133-4. Egli morì e fu sepolto in Roma. Nel coro della chiesa del Carmine a Firenze, che era stato costruito dalla sua famiglia, si vede un monumento fatto da Benedetto da Rovezzano, che il Soderini avrebbe, così almeno si dice, destinato a sè stesso.
206. A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, vol. II, pag. 456 n. ed altrove, 2ª edizione: Torino, Loescher, 1891; A. Solerti, La rappresentazione della Calandria a Lione nel 1548, nella Raccolta di Studi critici dedicata ad Alessandro d'Ancona, Torino, Loescher, 1901.
207. Vedi il prologo della Calandra nel Teatro italiano antico, vol. I, pag. 195-7: Milano, Società tipografica dei Classici italiani.
208. Vedi A. D'Ancona, Origini del teatro in Italia; Ruth, Geschichte der italienischen Poesie (Leipzig, 1847, volumi due), opera che ha vero merito, ed è poco citata, ma spesso saccheggiata; Karl Hillebrand, Études historiques et littéraires: Paris, Franck, 1878. Vedi anche L'imitazione classica nella Commedia italiana del secolo XVI, del dott. Vincenzo De Amicis, negli Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa (vol. II: Pisa, Nistri, 1873); Arturo Graf, Studî drammatici (Torino, Loescher, 1878), nei quali discorre anche della Mandragola. Molte notizie si trovano nell'opera del Klein, Geschichte des Drama's, che nel vol. IV (Leipzig, 1866) comincia a trattare del teatro italiano. Essa è però così diffusa e confusa, e (per non parlare della forma stranissima) unisce a notizie utili tanto materiale eterogeneo, che riesce difficile valersene con profitto. Vedi anche i due ultimi volumi (Londra, 1881) dell'opera del Symonds, Renaissance in Italy.
209. Vedi Atto I, sc. I. Il comico Alexis scrisse una commedia intitolata: Mandragorizomene, la donna che fa uso della mandragora. I cinque frammenti che ne restano, non danno però modo di conoscerne il soggetto e l'intreccio, benchè si veda che trattavasi di fatti amorosi. Gli antichi ed i moderni han sempre attribuito virtù miracolosa alla mandragora, che, appunto pel suo potere magico in casi d'amore, era dai Greci chiamata radice circea, e greco è il nome stesso, mandragora. Apollodoro (lib. III, cap. XV) riferisce una favola, in cui ne è dimostrata la virtù in casi d'amore, ma essa non ha relazione con la commedia del Machiavelli, il quale apprese le virtù della mandragora o mandragola dalle superstizioni popolari, orali e scritte, che correvano allora e corrono anche oggi fra i popoli latini e germanici.
Il prof. De Gubernatis, prima nella sua Storia del teatro drammatico italiano (parte IV, cap. I, Milano, Hoepli, 1883) e poi nelle sue lezioni di letteratura (nel volume che ha per titolo Niccolò Machiavelli: Frascati, 1907, a pag. 175 e segg.) ha esposto l'ipotesi che il titolo ed il concetto della Mandragola siano stati suggeriti dalla Mandragorizomene del comico Alexis, commedia della quale, lo abbiamo già detto, ci restano solo alcuni frammenti. Come nella commedia, ora perduta, delle Maschere, noi sappiamo, che il Machiavelli, per consiglio di Marcello Virgilio Adriani, imitò Aristofane, così nella Mandragola, secondo il De Gubernatis, per consiglio dello stesso Adriani, avrebbe imitato Alexis. Se non che della imitazione nelle Maschere ci dette esplicita notizia Giuliano de' Ricci, della imitazione nella Mandragola nessuno degli antichi parlò mai. Primo a parlarne fu il De Gubernatis, ma la sua ipotesi non venne, che io sappia, accettata da nessuno; alcuni la respinsero esplicitamente. Egli fu confortato ad esporla dall'avere trovato nei Mss. dell'Adriani ricordato il nome dell'Alexis. Ma ciò è troppo poco per poter dimostrare che l'Adriani conobbe la commedia greca e che ne parlò al Machiavelli. Il De Gubernatis ha esaminato i pochi frammenti che ci restano della Mandragorizomene e, sebbene non bastino a dare un'idea nè del soggetto, nè dell'intreccio, ha creduto di scorgervi qualche vaga somiglianza con alcuni brani della Mandragola. Tutto questo a noi par troppo poco per trarne qualche conclusione sicura. Non crediamo provato che il Machiavelli avesse notizia della commedia greca e che da essa prendesse il titolo della sua Mandragola, parola allora di uso comune in Italia. Questa è la ragione per la quale non possiamo accettare la ipotesi, con diligenza e persistenza, sostenuta dal prof. De Gubernatis.
210. Su quella data si è recentemente disputato dal Borgognoni (Domenica letteraria, anno 1882, n.º 46), dal Medin (ibid., n.º 43 e nel Giornale storico della letteratura italiana, II) e da U. G. Mondolfo (nello stesso Giornale, XXIX, pag. 115). Anche G. Mondaini si è occupato della questione in un suo scritto Il Machiavelli comico, pubblicato nel fasc. LXXXVIII del Pensiero Italiano di Milano (marzo 1898). Egli crede col Medin che la commedia sia stata scritta nel 1513. Anche il Tommasini, nel vol. II del suo libro, si è molto occupato di questa questione. In conclusione riman confermato che la Mandragola non può essere stata scritta prima del 1513, nè dopo dell'aprile 1520. Ma l'anno preciso non risulta chiaramente dimostrato.
211. ... «in Nicia praesertim comoedia, in qua adeo iucunde vel in tristibus risum excitavit, ut illi ipsi ex persona scite expressa, in scaenam inducti cives, quanquam praealte commorderentur, totam inustae notae iniuriam, civili lenitate pertulerint: actamque Florentiae, ex ea miri leporis fama, Leo pontifex, instaurato ludo, ut Urbi ea voluptas communicaretur, cum toto scenae cultu, ipsisque histrionibus Romam acciverit.» Elogia doctorum virorum, authore Paulo Jovio. LXXVII. Nicolaus Macciavellus: Antverpiae, apud I. Bellerum, 1557.
212. Questa lettera trovasi fra le carte del Machiavelli, e fu pubblicata nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. LXXXIX. In essa, fra le altre cose, il Della Palla scrive da Roma al Machiavelli, che trovò il Papa molto ben disposto verso di lui, e favorevole a fargli aver qualche commissione per iscrivere o altro. Questo Battista Della Palla, ora così nelle buone grazie del Papa, è lo stesso che poi cospirò contro i Medici.
213. Un esemplare di questa edizione trovasi nella Marciana di Venezia, CXXXIII, B 8-48010. Esso non ha data, ma è legato con un'altra commedia chiamata Aristippia, che è del medesimo sesto, caratteri, carta, divisione delle parole, numerazione, ecc., ed ha la data di Roma 1524, nel mese di agosto. Perciò anche l'edizione della Mandragola fu dal Gamba e da altri giudicata del 1524. Il titolo è: Comedia | facetissima | intitolata | Mandragola | et recitata in Firenze. Questa edizione romana fa supporre l'esistenza di qualche edizione fiorentina più antica. Nella Biblioteca Nazionale di Firenze trovasi infatti un esemplare di altra edizione antica, in-8, tra i libri della Magliabechiana (K. 7. 58). Esso è mancante delle carte 1 e 4, ed è descritto nel Catalogo del Fossi (vol. III, col. 105), il quale, esaminando la carta, in cui si vede un giglio, crede che l'edizione sia fiorentina. Il Brunet la dice della fine del secolo XV o dei primi del XVI, e conchiude: «Elle doit être la première de l'ouvrage.» Del secolo XV, in ogni caso, non può essere.
214. Opere, vol. V, pag. 72. Queste parole dimostrano chiaro, che egli scriveva, quando era già fuori d'ufficio.
215. Opere, vol. V, pag. 73.
216. Atto III, scena III.
217. Atto III, scena XI.
218. Atto IV, scena I.
219. Atto IV, scena VI.
220. Macaulay's, Essays (ediz. Tauchnitz), vol. I, pag. 86.
221. «But old Nicias is the glory of the piece. We cannot call to mind anything that resembles him. The follies which Molière ridicules are those of affectation, not those of fatuity. Coxcombs and pedants, not absolute simpletons are his game. Shakspeare has indeed a vast assortment of fools; but the precise species of which we speak is not, if we remember right, to be found there.... Cloten is an arrogant fool, Osiric a foppish fool, Ajax a savage fool; but Nicias is, as Thersites says of Patroclus, a fool positive.» Macaulay, Essays, vol. I, pag. 87.
222. Queste parole non sono piaciute al Tommasini, che domanda: dove è mai la vivisezione? Il Machiavelli, egli dice, ha fatto «piuttosto una fotografia di quelle che più scontentano la vanità umana» (II, 402). — Descrivere una madre che persuade la figlia a commettere l'adulterio, un frate che bonariamente prima lo incoraggia, dicendo che con esso s'acquista un'anima a messer Domeneddio, e poi lo benedice, non si può chiamare fotografia della natura umana, specialmente se si considera che tutto ciò avviene in mezzo al sorriso e all'indifferenza. Somiglia piuttosto a quel così detto verismo, che della natura umana descrive un lato solo. Ed è la ragione per la quale ho adoperato la parola vivisezione, ed ho aggiunto che nell'arte si vuole la realtà intera. Tutto questo non toglie che in altre parti, sotto altri aspetti, la commedia resti un capolavoro di verità. Nè in ciò v'è contradizione alcuna.
223. Oltre gli autori più sopra menzionati, fa sulla Mandragola alcune giuste osservazioni anche il signor Teodoro Mundt, nel paragrafo XIV (Die Mandragola oder Komödie und Kirche) del suo libro sul Machiavelli, da noi già altrove citato.
224. Come vedremo a suo luogo, parlano di questa recita il Vasari nelle Vite dei Pittori, ed il Nerli in una sua lettera.
225. Nella prima scena del primo atto, Cleandro dice: «Quando dodici anni sono, nel 1494.» Opere, vol. V, pag. 139.
226. Questo è anche il giudizio del Macaulay's, Essays, vol. I, pag. 88.
227. In fatti la quarta scena del quarto atto è quasi letteralmente tradotta dalla seconda del terzo della Casina. La quinta è in parte tradotta anch'essa dalla terza del terzo atto della Casina, e così la sesta dalla quarta, la settima dalla quinta. Anche il soliloquio, nella scena ottava del quarto atto della Clizia, è imitato dalla prima scena dell'atto quarto della Casina. Il Machiavelli ha aggiunto di suo l'intero primo atto, il secondo, salvo l'ultima scena, e le quattro ultime scene dell'atto quinto. Tutto il resto è, più o meno, imitato o tradotto da Plauto. Merita di essere qui ricordato un lavoro di G. Tombara, Intorno alla Clizia di Niccolo Machiavelli: Rovigo, 1895. L'autore fa un diligente esame della commedia, di ciò che è in essa d'imitato o di originale. Ma io non so vedervi l'alto concetto filosofico che egli vi trova, e che, in ogni caso, alla commedia come commedia, riescirebbe, anche secondo lui, più di danno che di vantaggio.
228. Anch'io su di ciò m'ingannai. Fu l'Arlia che, primo, dimostrò essere il Lasca l'autore della Commedia. V. Una farsa del Lasca attribuita al Machiavelli, nel Bibliofilo, 1886, pag. 74. Il Polidori ne aveva già messo in dubbio l'autenticità, senza però addurne ragioni, aggiungendo anzi non esservi in essa cosa «per la quale non potesse aggiudicarsi al commediografo fiorentino.» V. anche Gentile, Delle Commedie di A. Grazzini, detto il Lasca, a pag. 49. Pisa, Nistri, 1896. Estr. dagli Annali della Scuola Norm. Sup. di Pisa, 1896. Questo lavoro, pubblicato, quando già era stampata la seconda edizione del presente volume, mi pervenne assai tardi, e da esso ebbi notizia del breve articolo dell'Arlia. Corressi così, come meglio potei, l'errore, nelle sole copie non ancora messe in vendita.
229. Il Polidori ricorda che questo Barlacchia o Barlacchi era un pubblico banditore in Firenze, e suppone (cosa poco probabile) che il Machiavelli ne assumesse il nome, quasi a dire di se stesso, che nelle commedie egli era un pubblico banditore dei vizi de' suoi concittadini. Vedi la citata prefazione alle Opere Minori del Machiavelli, pag. XIII; la nota in fine della commedia, a pag. 586, e la descrizione del codice strozziano, a pag. 415 dello stesso volume. Il prof. Hillebrand, invece, dice che la parola recensui qui significa rividi, e Barlacchia, secondo lui, vuol dire solo imbecille, tale essendo infatti l'uso volgare della parola barlacchio o barbalacchio, ed il Machiavelli avrebbe per semplice capriccio assunto un tal nome (Hillebrand, Études, etc., pag. 352, nota 1). Ma questa è un'altra ipotesi. Discorrendo delle feste e rappresentazioni fatte dalla Compagnia della Cazzuola in Firenze, il Vasari ricorda il Barlacchi come uno dei piacevoli uomini di quel tempo. Vite, ecc., vol. XII, pag. 16. Il Barlacchia in fatti era uno spirito bizzarro, che fu tra coloro che recitarono a Lione la Calandra del Bibbiena. Dalle più recenti ricerche risulta che la Commedia in versi è dello Strozzi. Il Pintor in un notevole articolo, che citiamo a pag. 170 sostiene che le parole Ego Barlacchia recensui sono scritte scherzosamente dal Machiavelli, come per dire che quella Commedia fu recitata dal Barlacchia, sebbene però non vi sia nessuna prova che la Commedia sia stata veramente recitata da lui o da altri.
230. Atto I, scena V.
231. Atto II, scena V.
232. «The latter we can scarcely believe to be genuine. Neither its merits, nor its defects remind us of the reputed author.» Macaulay's, Essays, vol. I, pag. 88.
233. V. nel Giornale storico della letteratura italiana, vol. XXXIX, 1º semestre del 1902, pag. 103, l'articolo del prof. Pintor Ego Barlachia recensui. Egli, ricorda a questo proposito le ricerche di A. Salza, di P. Terrieri e di V. Rossi, che fu il primo a supporre che la Commedia in versi fosse dello Strozzi.
234. Diamo qualche esempio. Panfilo (Atto I, scena V), parlando di Cremete, che prima gli negava ed ora vuol dargli la figlia, s'è insospettito e dice: Aliquid monstri alunt. Il Machiavelli traduce alla lettera: Nutriscono qualche mostro, il che non si capisce. Il Cesari traduce assai meglio: Qualche diavoleria ci deve esser sotto. Più oltre si parla di Miside, la quale laborat e dolore, il che vuol dire in quel luogo, che essa ha le doglie del parto, ed il Machiavelli traduce semplicemente: la muore di dolore. Il servo Davo (Atto II, scena III) consiglia a Panfilo di fingere co' suoi di voler sempre la ragazza, perchè così avrà modo di continuare lo sue cattive pratiche. Se invece dichiara di non volerla, essi per distorlo dalle male pratiche, gli cercheranno un'altra sposa e gliela troveranno, sebbene egli sia povero, perchè la cercheranno senza dote. Certo è, così dice Davo, che Cremete non ti darà la sua figlia, e tu avrai modo di continuar le tue pratiche: nec tu ea causa minueris — Haec quae facis. Il Machiavelli traduce: Nè tu per questa cagione ti rimarrai di non fare quello che tu fai, il che è assai men chiaro della traduzione del Cesari: non fia bisogno che voi vi leviate dalla vostra pratica. Quanto poi al dire, così continua il servo, che non ne troveranno altra, perchè nessuno darebbe moglie ad uno che è nella tua condizione, questo si smentisce facilmente, perchè tuo padre te la darà povera, piuttosto che lasciarti continuare in una vita contraria al buon costume. Nam quod tu speras, propulsabo facile: uxorem his moribus — Dabit nemo. Inopem inveniet potius quam te corrumpi sinat. Il Machiavelli traduce: E facilmente si confuta quello che tu temi, perchè nessuno darà moglie a cotesti costumi: ei la darà piuttosto ad un povero. Qui c'è inesattezza ed oscurità. Non si capisce facilmente che cosa significhi: dar moglie a cotesti costumi. Le altre parole non traducono l'originale. Il Cesari traduce: Imperocchè quanto alla vostra speranza di dire: nessuno darebbe moglie a un mio pari, ve la getto a terra con un soffio. Vostro padre ve ne troverebbe una senza dote, piuttosto che lasciarvi andare a male così. V'è certo affettazione, ma anche maggiore chiarezza e precisione.
235. Moreni, Annali della tipografia del Torrentino, pag. 19 (Firenze, Francesco Daddi, 1819), e così pure altri scrittori.
236. V. Il Priorista, Quartiere S. Spirito, a carte 160t.
237. «Il suggetto de la commedia è un caso simile alla Clizia del Machiavelli.» Prologo all'Errore.
238. Opere, vol. VII, lettera XLVI, pag. 152.
239. Opere, vol. V, Asino d'Oro, cap. IV, pag. 397.
240. Asino d'Oro, cap. V.
241. Il La Fontaine nella sua favola, Les Compagnons d'Ulysse, ed il Fénélon nel suo dialogo, Ulysse et Gryllus, hanno del pari imitato Plutarco, indotti forse dall'esempio del Machiavelli e del Gelli. Nel La Fontaine non figura il porcello, ma un lupo, un leone, un orso; nel Fénélon, come nel Machiavelli ed in Plutarco, è il porcello che non vuol tornare uomo.
242. Busini, Lettere, pag. 243.
243. Opere, vol. V, pag. 419.
244. L'epigramma greco trovasi nell'Anthologia Planudea, IV, 275. L'imitazione di Ausonio, In simulacrum Occasionis et Poenitentiae, contiene, come ci fu fatto notare dal prof. Piccolomini, alcuni particolari, che mancano nell'originale e sono nel Machiavelli, il che mette fuori d'ogni dubbio che questi ha imitato Ausonio. — La Penitenza, di cui parla il Machiavelli, egli diceva, manca nell'epigramma greco e trovasi nel latino, che del resto è quasi tradotto nell'italiano. Il Poliziano aveva già confrontato l'epigramma greco con quello d'Ausonio, notandone le concordanze e le differenze. Miscell., cap. XLIX, pag. 265, ediz. di Basilea, 1553. Vedi anche Jacobs, Anthol. Gr., vol. VIII, pag. 145 e seg.
245. Opere, vol. V, pag. 425.
246. Opere, vol. V, pag. 427.
247. Opere, vol. V, pag. 427-432.
248. Opere, vol. V, pag. 433.
249. Opere, vol. V, pag. 438.
250. Opere, vol. V, pag. 456.
251. L'epigramma XII, 78, dell'Anthologia Palatina.
252. Recentemente il Tommasini (II, 824) ha pubblicato un nuovo epigramma del Machiavelli, il quale, come giustamente osserva egli stesso, non aggiunge nulla alla sua fama poetica.
253. Diamo in Appendice (doc. XIII) questo sonetto, e quello, ben noto, a Giuliano de' Medici, Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti, che trovasi nel medesimo codice vaticano, con alcune varianti che meritano di essere conosciute. Dobbiamo la copia dell'uno e dell'altro alla cortesia del valente giovane signor Giulio Salvadori, che li trovò nel vol. III del Codice miscellaneo vaticano 5225, a pag. 673 e pag. 674. Si trovano insieme con molti Capitoli di Cinquecentisti, fra i quali ve ne sono anche del Machiavelli, scritti però da mano più recente che i due sonetti, i quali, sono su carta più rozza e bruna, che si distingue perciò dagli altri fogli ond'è composto il volume. Dopo aver paragonato la scrittura dei due sonetti all'autografo del Machiavelli, il signor Salvadori giudicò che essa vi somiglia assai, ma non è autografa. È però certo, egli dice, del Cinquecento. Questa fu pure l'opinione del professor Monaci dell'Università di Roma, quando venne, a mia preghiera, consultato dal signor Salvadori. Il trovarsi poi nella Vaticana, fra altri scritti del Machiavelli, una copia così antica del sonetto a Giuliano de' Medici, ci sembra che venga a convalidare tutto quello che abbiamo già detto (vol. II, pag. 202 e segg.) su di esso e sulla sua autenticità.
254. Rajna, La data del «Dialogo intorno alla lingua» di N. Machiavelli nei Rendiconti dell'Accad. dei Lincei, seduta del 19 marzo 1893. Lavoro eccellente come sono generalmente tutti quelli del Rajna.
255. Vedi la più volte citata Prefazione Polidori, a pag. XIV e XV.
256. Codice Ricci, Palatino, 815 (già 21, 2, 692), pag. 819.
257. Al Tommasini (I, pag. 100) non parve possibile che il Machiavelli fosse autore di questo Dialogo, che egli giudicava irreverente verso Dante, scritto «da pedantuccio uggioso, che con insufficienti ragioni gli si volle attribuire.» Ma più riesamino la questione, e più io sono costretto a persistere nel mio primo giudizio, che del resto è stato recentemente avvalorato da scrittori, che son pure autorevolissimi nella filologia e nella storia della lingua. Il compianto e benemerito Gaspary, nella sua bella Storia della letteratura italiana (II, 536) attribuisce il Dialogo al Machiavelli, e lo chiama höchst originelle. Il professore Rajna se ne occupò a lungo, nella Memoria qui sopra citata. In essa egli afferma che il contenuto del Dialogo è «tale davvero da rivelarci una mente così poderosa e originale, che il pensiero correrebbe al Machiavelli, quand'anche non fossimo assolutamente costretti a non uscir di Firenze.» La stessa opinione fu, in modo egualmente esplicito, manifestata dal professore F. D'Ovidio.
258. Nella prima edizione io credetti possibile supporre che il Dialogo fosse stato scritto anche prima del 1512. Il Gaspary dimostrò invece che non poteva essere anteriore al 1513, ed il Rajna, continuando la stessa ricerca, dimostrò con valide ragioni e con logica stringente, che quasi certamente il Dialogo fu scritto nell'autunno del 1514; certo non più tardi del 1516, nè prima del 1514.
— Recentemente, nel suo secondo volume (pag. 349 e segg.), il Tommasini modificò alquanto la sua prima opinione, senza però abbandonarla del tutto, senza cioè accettare come interamente provata l'autenticità del Dialogo.
259. Opere, vol. V, pag. 3-21.
260. Le stampe dicono huis, ma il cod. Ricci dice huy.
261. Nelle precedenti edizioni io avevo qui, in nota, osservato che c'era una certa somiglianza tra questo riassumere, per mezzo degli scrittori antichi, la lingua imbastardita, corrotta, ed il restaurare le istituzioni corrotte, riconducendole ai loro principii, di che il Machiavelli parlò spesso ne' suoi scritti politici.
Il sen. Morandi, in un suo recente lavoro, osservò che il Machiavelli, nel luogo citato, parla di lingue addirittura trasformate (divenute un'altra cosa) come il greco e latino. E trovò che io ero caduto in un grosso errore, che egli combattè vivacemente. (Morandi, Lorenzo il Magnifico, Leonardo da Vinci e la prima grammatica italiana, pagg. 105 e segg. Città di Castello, Lapi, 1908). Il Machiavelli, secondo lui, confutava in anticipazione la dottrina del Bembo, il quale sosteneva la lingua essere formata dagli scrittori, il che era contrario alla dottrina sostenuta da lui, che la diceva fiorentina, ed affermava che essa trovava la sua sorgente nel popolo di Firenze. Aggiungeva che con quella nota io veniva a dar ragione al Bembo contro il Machiavelli.
La dottrina del Machiavelli io l'ho esposta nel testo assai chiaramente, e non ho nulla da mutare. Nè ho inteso in nessun modo combatterla nella fugace osservazione fatta in una nota. Siccome però il Morandi ha ragione quando dice che, nel luogo citato, il Machiavelli accenna a lingue affatto decadute o morte come il greco ed il latino, così, per non generare equivoco, ho soppresso la nota incriminata. Mi sia lecito però osservare che, quando si dicesse che ai tempi del Beccaria e del Filangieri la lingua italiana era infranciosata e decaduta, e venne coll'aiuto e l'esempio dei buoni scrittori riassunta e rimessa nella buona via dal Parini, dal Foscolo, da altri, non direbbe un'eresia e non sarebbe perciò sostenitore della dottrina del Bembo contro quella del Machiavelli.
262. Qui c'è qualche divergenza da quello che dice nell'Arte della Guerra (Opere, vol. IV, pag. 282-3), che fu scritta dopo. Ma sarebbe strano vedere in ciò (come fa il Polidori) un'altra ragione per negare che il Machiavelli sia autore del Dialogo.
263. Questo modo di ricordar l'Ariosto, come notò il Gaspary, dimostra che allora non era anche pubblicato l'Orlando Furioso, che il Machiavelli, nel dicembre 1517, aveva letto ed ammirato (Lettera 17 dicembre 1517, a L. Alamanni).
264. Opere, vol. V, pag. 19.
265. Opere, vol. V, pag. 21.
266. Debbo qui riconoscere che, indotto dall'autorità del Bartoli e di altri storici della letteratura, anche io detti, nella prima edizione di quest'opera (vol. I, pag. 123-4), troppa importanza alla lettera dell'Aretino al Biondo, sulla questione della lingua. Di ciò mi son dovuto convincere dopo che, per le osservazioni giuste e cortesi del prof. F. C. Pellegrini, rilessi la lettera dell'Aretino insieme con quella del Biondo, quasi affatto dimenticata, e recentemente ripubblicata dal signor Mignini nel Propugnatore di Bologna (gennaio-aprile 1890). In sostanza i due eruditi discorrono, senza un criterio filologico determinato, sulle differenze che corrono fra il latino letterario ed il volgare. L'Aretino, esagerando molto, fa del volgare una lingua identica all'italiano, e affatto diversa dal latino letterario. Il Biondo, sebbene esageri, invece, nel voler troppo attenuare le differenze che pur riconosce fra il latino letterario ed il latino volgare, è assai più vicino al vero, vedendo nel secondo una semplice alterazione o corruzione del primo. Egli dà invece un'eccessiva importanza alle invasioni germaniche nella formazione della lingua italiana, ma la fa pure, in parte almeno, derivare dal latino volgare. Il vero è che ambedue discutono non dell'origine dell'italiano, ma principalmente, anzi quasi esclusivamente, della differenza che passa fra le due forme del latino. Dal modo però in cui una tal questione si risolve, deriva naturalmente anche la soluzione dell'altra. Ma essi non hanno nessun'idea precisa di ciò che forma il carattere essenziale d'una lingua; e qui appunto si vede assai chiara la enorme superiorità dell'ingegno divinatore del Machiavelli.
267. Vedi vol. II, pag. 75 di quest'opera.
268. Opere, vol. V, pag. 36.
269. Il Codice che contiene l'autografo, è quello più volte citato da noi, e descritto nell'opuscolo, Quarto Centenario, ecc., sotto il titolo: Libro degli autografi machiavelliani della Magliabechiana. Era indicato fra i Magliabechiani col numero 1451, fra gli Strozziani col numero 366. Ora è conservato fra i codici più rari e preziosi della Biblioteca Nazionale di Firenze, e contiene otto diversi manoscritti, sei dei quali autografi del Machiavelli. Fra questi è la Descrizione della peste, in un quaderno di 16 carte. Nella prima è scritto: Epistola fatta per la peste. E subito dopo: hanc epistolam agit laurentius Philippi stroci, cives florentinus, qui colebant plateam strociorum apud forum, et est multa plurcha, quia fecit illam Cum magna diligentia et studio temporis et laboris, et ob id laudo illam Cum amiratione ob elegantiam illius, et doctrinam magniam, ò rem inauditam et amirabilem, quod est ista, et testor Deum et homines bonos. — A tergo della carta 5ª trovasi ripetuto il principio della stessa dichiarazione, più in breve, ma con un linguaggio non meno strano e scorretto: Questa Pistola compose Laurentius Philippi Strozi cives florentinus, que colebat plateam strocioram apud forum, et est plurca. Segue la Descrizione della peste, di mano del Machiavelli, preceduta da una introduzione, pubblicata già dal Polidori e da altri, la quale è scritta da una terza mano. Dopo la Descrizione si leggono queste parole, della mano stessa di chi scriveva in così strana latinità: Copiata allibro grande nero di Lorenzo alla fine (qui seguono alcuni segni poco intelligibili, che sembrerebbero indicare il numero della carta), et così mi disse. Vedi Opere Minori di N. Machiavelli, pubblicate da L. E. Polidori, nota alla pag. 415: Firenze, Le Monnier, 1852.
270. Opere, vol. V, pag. 36. Questa è quasi tutta l'introduzione, quale trovasi nella Descrizione scritta di mano del Machiavelli. Più lunga e non meno intricata è l'altra, che, come già dissi, si legge trascritta separatamente, di mano diversa, nello stesso Codice.
271. Opere, vol. V, pag. 46-47. Il prof. L. A. Ferrai osservò che lo stile della Vita di Filippo Strozzi, scritta dal fratello Lorenzo, «ha qualche somiglianza con lo stile gonfio e prolisso» della Descrizione (Giornale storico della lett. italiana, vol. I, pag. 12 e seg.).
272. Opere, vol. V, pag. 45.
273. «Of this last composition, the strongest external evidence would scarcely induce us to believe him guilty. Nothing was ever written more detestable in matter and manner. The narrations, the reflections, the jokes, the lamentations are all the very worst of their respective kinds.... A foolish school-boy might write such a piece, and, after he had written it, think it much finer than the incomparable introduction of the Decameron. But that a shrewd statesman, whose earliest works are characterised by manliness of thought and language, should at near sixty years of age, descend to such puerility, is utterly inconceivable.» Macaulay's, Essays, vol. I, pag. 89. Con tali parole il Macaulay dimostra un criterio ed un gusto letterario ben più sicuri di quelli del Leo, il quale si fonda invece sulla Descrizione della peste, per denigrare il carattere morale del Machiavelli: «Wie leicht Machiavelli mit dem Tode umspringt, und wie er alles, was anderen schrecklich ist, mit der grössten Anmuth zu verhöhnen weiss sicht man recht gut aus der satyrischen Erzählung einer fingirten Heirath, während der Pest im Jahr 1527 in Florenz; es enthält diese Erzählung zugleich in jeder Zeile Beweise wie Machiavelli zu einer Zeit, wo ihn überall Unglück umgab, und kaum vier Wochen vor seinem eignem Tode (also nicht mehr bei jungen Jahren) seine Phantasie noch voll Bilder weiblicher Schönheit und sinnlicher Verhältnisse zu Weibern hatte.» Vedi la prefazione più volte citata, dal Leo premessa alla sua traduzione tedesca delle lettere del Machiavelli, pag. XIV, in nota.
274. In quest'opera, vol. I, pag. 303 n., e Appendice allo stesso volume, doc. V, pag. 533 e segg.; vol. II, Appendice, doc. XXII, pag. 575 e segg.
275. Opere Minori: Firenze, Le Monnier, 1852, pag. 626.
276. Opere, vol. V, pag. 22 e seg.
277. Vedi, fra gli altri, Innocenzio Giampieri, Niccolò Machiavelli e Marietta Corsini, nel volume intitolato: Monumenti del Giardino Puccini, a pag. 275-90: Pistoia, tipografia Cino, 1845.
278. Sopra una copia dell'edizione dei Giunti, il Magliabechi scrisse di sua mano: «Questa novella di Niccolò Machiavelli si trova fra quelle del Brevio, come anche nella seconda parte della Libreria del Doni, e nel terzo canto del Tristarello, poema eroicomico sciocchissimo, e tra le novelle raccolte dal Sansovino. Nell'originale del Machiavelli che mi fu donato dalla cortesia del signor Benvenuti, ci sono alcune varie lezioni bellissime.» Una imitazione in terza rima, fatta dal Fagiuoli, fu pubblicata l'anno 1851 nel giornale L'Arte (Firenze, Tip. Mariani). Il signor G. Gargani ripubblicò la novella dall'autografo (Firenze, Dotti, 1869), in trenta esemplari numerati, ed otto distinti col nome della persona cui furono dati. La sua prefazione contiene varie utili notizie.
279. Classe VII, n. 335.
280. L'Artaud, Machiavelli, son génie et ses erreurs, vol. II, pag. 94, fu il primo, che io sappia, a notare che questa novella trovasi nei Quaranta Visiri, i quali egli lesse tradotti dal Gauthier. Anche il prof. Fausto Lasinio, da me consultato, crede che la novella sia venuta in Italia per mezzo dei Quaranta Visiri.
281. Prof. I. Macun, Niccolò Machiavelli als Dichter, Historiker und Staatsmann. È un discorso pubblicato in occasione del terzo centenario del Ginnasio di Graz. Nella nota 2 a pag. 11, l'autore dice: «Merkwürdig ist diese Novelle für die Südslaven, dadurch dass sie dort im Volke selbst landläufig ist.» L'autore domanda: come mai la novella è arrivata in questi luoghi? Possiamo rispondere, che l'origine orientale di essa rende facile la spiegazione del fatto. Il prof. Pitrè ne dà una redazione siciliana col titolo: Lu diavulu zuppiddu, nel volume Fiabe, Novelle e Racconti. Palermo, 1895.
282. Opere, vol. V, pag. 51.
283. Opere, vol. V, pag. 57.
284. Ibidem, pag. 61.
285. Ne abbiamo accennato qualche cosa nella Introduzione di quest'opera, vol. I, pag. 117 e segg.
286. «Nominumepie denique asperitas, vix cuiuscumque elegantiae patiens.» Leonardo Aretino, Istoria fiorentina tradotta in volgare da Donato Acciaioli col testo a fronte, vol. I, pag. 51 e 52: Firenze, Le Monnier (in tre volumi) 1856, 1858 e 1860.
287. V., oltre il Voigt, anche Flavio Biondo sein Leben und seine Werke. Inaugural Dissertation von Alfred Masius (Leipzig, Teubner, 1879); P. Buchholz, Die Quellen der Historiarum Decades des Flavius Blondus, Inaugural Dissertation (Naumburg, Sieling, 1881). Anche il signor A. Wilmanns ha pubblicato notizie importanti sullo stesso autore V. Göttingische gelehrten Anzeigen del 1879.
288. L. Aretino, Istoria, vol. I, pag. 52.
289. L. Aretino, op. cit., vol. I, pag. 54.
290. Di ciò non sembra esser persuaso il signor E. Santini, il cui pregevole lavoro (pubblicato nel vol. XXII degli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, 1910) abbiamo già più sopra citato e di cui più d'una osservazione abbiamo accettata.
291. Perchè si abbia un'idea del modo in cui trascura i fatti interni, ecco come accenna alla rivoluzione importantissima, conosciuta col nome di Tumulto dei Ciompi: «Quieta ab externis bellis civitate, pax in dissensiones domesticas versa est. Nam civiles discordiae e vestigio Civitatem invasere: quae pestis omni externo bello perniciosior est; inde enim et rerumpublicarum interitus et urbium seguitur eversio.» Nè altro dice. Poggii, Historia Florentina, pag. 78: Venetiis, Hertz, 1715.
292. Vol. II di quest'opera, pag. 49 e seg.
293. Proemio alle Istorie Fiorentine. Opere, vol. I, pag. CLI.
294. Su di ciò fa giuste osservazioni il comm. Fiorini nella sua edizione dei primi tre libri delle Istorie Fiorentine (Firenze, Sansoni, 1907). Nelle molte note al testo egli riesamina con diligenza le fonti di cui il Machiavelli si è valso.
295. «Machiavelli hat in diesem ersten Abschnitte, der gleichsam eine Einleitung in die fiorentini sehe Specialgeschichte bildet, die Epochen der italienischen Geschichte bis zum XV Jahrhundert hin so geschieden, dass seitdem keiner seine Spur verlassen konnte, ohne sogleich Mangel an Einsicht in die Sache zu verrathen.» Così si esprime il Gervinus, Historische Schriften, pag. 165.
296. Blondi Flavii forlivensis, Historiarum ab inclinatione Romanorum libri XXXI: Basileae, ex officina Frobeniana, 1531. Quanto al nome di questo scrittore, che alcuni chiamano Biondo Flavio, altri invece Flavio Biondo, si possono, nel lavoro più sopra citato del Masius, vedere le ragioni per le quali vennero in uso le due forme.
Debbo qui osservare, che della storia di Flavio Biondo venne da papa Pio II fatto un compendio, il quale fu poi anche tradotto in italiano: Abreviatio Pii II Pont. max. supra Decades Biondi ab inclinatione imperii usque ad tempora Joannis vicesimi tertii Pont. maxi: Venetiis per Thomam Alexandrinum, anno salutis MCCCCLXXXIIII, IIII kalendas iulii. Le historie del Biondo da la declination de l'imperio di Roma insino al tempo suo (che vi corsero circa mille anni), ridotte in compendio da Papa Pio, e tradotte per Lucio Fauno in buona lingua volgare, vol. I: Venezia, 1543; vol. II: Venezia, per Michel Tromezino, 1550. Questa è l'edizione che trovasi nella Biblioteca Nazionale di Firenze.
Ci venne naturalmente il dubbio, che di tal compendio, a risparmio di tempo e fatica, si fosse valso il Machiavelli nel riassumere la narrazione del Biondo; ma, dopo un attento esame, ci siam dovuti persuadere che egli si valse invece dell'originale. Molte espressioni e qualche volta interi periodi che si trovano nell'opera del Biondo, e sono scomparsi nel compendio fatto da Pio II, ricompariscono nel Machiavelli, il che distrugge ogni dubbio. Dall'originale perciò noi citeremo alcuni dei brani imitati.
297. Per non porre a piè di pagina note troppo lunghe, riportiamo, in fine del capitolo, alcuni brani del Machiavelli e del Biondo, che servono a provare quello che qui si afferma nel testo.
298. Vedi i brani che riportiamo in fine del capitolo.
299. Opere, vol. I, pag. 7. Qualche volta anche le più semplici frasi di questo primo libro ricordano il Biondo: «Sed iam ad barbarorum regem, qui primus Romam et Italiam possedit, revertamur.» Blondi Flavii, Historiarum, etc., pag. 31.
300. Il Biondo (pag. 34), dopo aver detto che Teodorico restaurò i monumenti e le istituzioni dei Romani, aggiunge: «Prohibuit autem edicto, et curam impendit attentiorem, ne quis Romanus aut paterna origine Italus, nedum militaret, sed arma domi haberet.» Questo periodo, alterato, ma pure in parte riprodotto dal Machiavelli, non lo abbiam trovato nel compendio di Pio II.
301. Opere, vol. I, pag. 8-9.
302. Opere, vol. I, pag. 9-11.
303. Opere, vol. I, pag. 18.
304. Opere, vol. I, pag. 25.
305. Opere, vol. I, pag. 27-28.
306. Ibidem, pag. 28.
307. Opere, vol. I, pag. 31.
308. Ibidem, pag. 37.
309. Opere, vol. I, pag. 39.
310. Ibidem, pag. 40.
311. Opere, vol. I, pag. 49.
312. Filippo Maria Visconti.
313. Opere, vol. I, pag. 59-69.
314. Delle opere del Biondo (Basilea, 1531) si trova la copia, di cui ci siamo valsi, nella biblioteca dell'Istituto di Studî Superiori in Firenze. Essa fu già di Donato Giannotti, che la postillò di sua mano, il che è un'altra prova del gran pregio in cui erano allora meritamente tenuti gli scritti storici del Biondo.
315. Opere, vol. I, pag. 63.
316. Opere, vol. I, pag. 66-68; Villani, Cronica, lib. V, cap. 38 e 39. Qui è identico nei due scrittori ancora l'elenco delle famiglie guelfe e ghibelline.
317. Opere, vol. I, pag. 69; Villani, Cronica, lib. VI, cap. 29.
318. Opere, vol. I, pag. 76; Villani, Cronica, lib. VII, cap. 16 e 17.
319. Opere, vol. I, pag. 77 e 78; Villani, Cronica, lib. VII, cap. 79.
320. Opere, vol. I, pag. 79-86; Villani, Cronica, lib. VII, cap. 8, 12, 26, 38, 39.
321. Abbandonando così il proposito, espresso nel Proemio, di fermarsi ai soli fatti interni della Città.
322. Di ciò abbiamo parlato più a lungo nel nostro libro: I primi due secoli della Storia di Firenze, vol. due: Firenze, Sansoni, 1905. Vedi cap. 3 e 4, e la nota 2 a pag. 188 e seg.
323. Pare che, sebbene qui il Machiavelli avesse dinanzi a sè quasi unicamente il Villani, pure continuasse di tanto in tanto a gettar qualche sguardo anche alla storia di Flavio Biondo. Parlando in fatti della nuova costituzione fiorentina, egli dice: «Con questi ordini militari e civili fondarono i fiorentini la loro libertà. Nè si potrebbe pensare quanto di autorità e forze in poco tempo Firenze si acquistasse; e non solamente capo di Toscana divenne, ma in tra le prime città d'Italia era numerata, e sarebbe a qualunque grandezza salita, se le spesse e nuove divisioni non l'avessero afflitta.» Opere, vol. I, pag. 70. E Flavio Biondo, a pag. 299, dopo avere esposta la riforma, osserva: «Crevitque mirum in modum, sub ea libertate populi fiorentini, simul cum potentatu audacia, adeo ut finitimos Hetruriae populos contraria sentientes, aut foederibus sibi coniungere, aut viribus domare coeperit.»
324. Opere, vol. I, pag. 78.
325. Opere, vol. I, pag. 79.
326. Ibidem, pag. 84.
327. Opere, vol. I, pag. 118-120.
328. Opere, vol. I, pag. 121 e seg.; Villani, Cronica, vol. IV, lib. XII, cap. 15; 16, 17, 18.
329. Opere, vol. I, pag. 129.
330. Ibidem, pag. 137.
331. Secondo ciò che dice nel Proemio, il secondo libro avrebbe dovuto arrivare invece fino al 1375.
332. Per comprendere bene tutta questa introduzione, nella quale sono alcuni periodi alquanto oscuri, sarà opportuno paragonarla con ciò che il Machiavelli scrisse alla fine del capitolo II, nel libro I dei Discorsi. Opere, vol. III, pag. 18 e 19.
Il Tommasini (II, 516) biasima l'espressione da me adoperata (pag. 240) di latini e germanici, come un gergo, egli dice, estraneo al secolo XVI. Si sopprima pure l'espressione, rimarrà il fatto, che io ho notato. Ed il fatto è che il Machiavelli, con grandissimo acume, mise in luce le vicende della continua lotta, che ebbe luogo in Firenze tra nobili e popolo. Ma quando paragonò questa lotta con quella che ebbe luogo a Roma fra i patrizî e la plebe, non osservò che la nobiltà dei Comuni italiani era feudale, di origine germanica, assai diversa dal patriziato romano, e che perciò le conseguenze della lotta dovevano essere diverse. Nel dire ciò io non ho inteso biasimare quello che poco prima avevo lodato, come pare al Tommasini (II, 519, nota 1).
333. Opere, vol. I, pag. 141.
334. Opere, vol. I, pag. 146-151.
335. Ibidem, pag. 151.
336. Ibidem, pag. 153. Abbiamo già notato che queste parole, in altra occasione, ricordate anche dal Guicciardini, furono la prima volta adoperate da Neri di Gino Capponi. Quanto agli Otto Santi, lo Stefani non ne discorre; li ricorda però il Nardi, Storia, vol. I, pag. 7.
Il Machiavelli, fino a questo punto, si vale delle Istorie Fiorentine di Marchionne di Coppo Stefani, pubblicate nelle Delizie degli Eruditi Toscani del Padre Ildefonso di San Luigi, vol. VII e seg. Per vedere come e quanto se ne sia valso, si paragonino i luoghi seguenti: Machiavelli, Opere, vol. I, pag. 141-2 e Stefani, rubrica 662; M., pag. 143, e S., rubr. 665; M., pag. 144 e S., rubr. 674 e 695; M., pag. 145, e S., rubr. 725 e 726; M., pag. 151, e S., rubr. 732 (qui però lo Stefani accenna a molte riforme non ricordate dal Machiavelli); M., pag. 152 e S., rubr. 751; M., pag. 153, e S., rubr. 751, 760, 761.
337. Opere, vol. I, pag. 158.
338. Tumulto dei Ciompi narrato da Gino Capponi, e pubblicato nelle Cronichette antiche di vari scrittori: Firenze, Domenico Maria Manni, 1733 (da pag. 219 a 249 del volume). Si paragonino il Machiavelli, Opere, vol. I, pagine 156 e 157 col Capponi, pag. 220; M., pag. 158, e C., pag. 221; M., pag. 159, e C., pag. 221, 223 e 225; M., pag. 160, e C., pag. 223, 224; M., pag. 160, e C., pagina 233; M., pag. 170, e C., pag. 234, 235, 236 e 238; M., pagina 171, e C., pag. 237, 239 e 240; M., pag. 172, e C., pag. 243; M., pag. 173, e C., pag. 244 e 245; M., pag. 174, e C., pag. 246; M., pag. 175, e C., pag. 246. Arrivato al gonfalonierato di Michele di Lando, finisce lo scritto del Capponi, ed il Machiavelli torna a Marchionne di Coppo Stefani. Vedi M., pag. 177, e S., rubrica, 804; M., pag. 178, e 179, S., rubrica, 805.
339. Opere, vol. I, pag. 161-163.
340. Il Tommasini (II, 524, nota 2) nega assolutamente che in questo discorso vi sia nulla di pagano, nulla che ricordi Sallustio. Non c'è, egli dice, neppure un inciso che si possa dire imitato o tradotto. Che il discorso del Machiavelli ricordi Sallustio è un'osservazione già fatta da altri altre volte. Il Ranalli (Ammaestramenti di letteratura, vol. III, pag. 345 e segg., Firenze, Le Monnier, 1862) riproduce i due discorsi l'uno accanto all'altro, osservando che «leggendo il Machiavelli.... si sente.... che si recò alla memoria la feroce orazione che in Sallustio volge Catilina, ecc.». E quasi per rispondere anticipatamente alla osservazione del Tommasini aggiunge: «diresti che tutto quel furore d'eloquenza turbolenta gli si travasasse nella mente, e tuttavia nessun vestigio d'imitazione si scorge». E quanto allo spirito pagano che io ho trovato nel discorso, si faccia attenzione alle parole: «nè coscienza, nè infamia vi debbe sbigottire»; ed a quelle che seguono poco dopo: «e della coscienza noi non dobbiamo tener conto, perchè dove è, come è in noi, la paura della fame e della carcere, non può nè debbe quella dell'inferno capere.» Esse ricordano quelle già tante volte ripetute nel Rinascimento — che bisogna preferire la salute della patria alla salvezza dell'anima. — E così le une come le altre non sono certo espressione di spirito cristiano. Senza ammettere il rivivere dello spirito pagano nel Rinascimento, non è possibile farsi un'idea chiara di quell'epoca. Ma questo è ben diverso dal «rivendere il Machiavelli per idoleggiatore del Paganesimo, come se tornare al Politeismo fosse possibile» (Tommasini, II, 704).
341. Opere, vol. I, pag. 165-7.
342. Opere, vol. I, pag. 173-4.
343. Ne parlano Marchionne di Coppo Stefani nella rubrica 795, e l'Aretino in principio del lib. IX. Per altre notizie intorno al Tumulto dei Ciompi, si legga il bel lavoro pubblicato con questo titolo dal prof. Carlo Falletti Fossati nel vol. I delle Pubblicazioni del R. Istituto di Studi Superiori in Firenze (Sezione di Filosofia e Filologia): Firenze, Successori Le Monnier, 1875. Una 2ª ediz. ne fu pubblicata a Siena, nel 1882. Nel cap. IV, § III, l'autore narra il fatto di ser Nuto, secondo autentiche relazioni edite e inedite, e viene alle medesime nostre conclusioni. Vedi anche Corazzini, I Ciompi, Cronache e Documenti: Firenze, Sansoni, 1888.
344. Il Tommasini (II, 255, e nota 3; 257 e nota 5) non approva ciò che io dico del ritratto che il Machiavelli ci ha lasciato di Michele di Lando, e meno ancora approva l'allusione al Valentino. Il Machiavelli afferma che Michele di Lando, per evitare gli eccessi di una rivoluzione, e dare in qualche modo sfogo all'ira dal popolo, lo spinse a trucidare ser Nuto bargello, e indirettamente lo loda di avere così evitato un male maggiore. Ora nessuno dei cronisti o storici contemporanei (come lo stesso Tommasini ne conviene) attribuisce questo atto a Michele. Esso, può ben dirsi, è pura invenzione del Machiavelli; e somiglia molto a ciò che egli disse del Valentino quando fece ammazzare Ramiro d'Orco. Il Machiavelli, che spesso è insuperabile nell'indagare lo spirito e le leggi della storia, non è sempre sicuro nell'affermazione dei fatti particolari e minuti, come, a cominciare dall'Ammirato, fu più volte osservato e provato coi documenti, come più volte abbiamo avuto occasione di provare anche noi.
345. Opere, vol. I, pag. 177-8.
346. Vedi a questo proposito ciò che di lui dice il Fossati Falletti nel lavoro più sopra citato.
347. Abbiamo più sopra citato le rubriche.
348. Vedi Machiavelli, pag. 180, e Aretino, edizione italiana, pag. 478; M., pag. 182, e A., pag. 484, 489 e 490; M., pag. 183, e A., pag. 490; M., pag. 184, e A., pag. 491; M., pag. 186, e A., pag. 491; M., pag. 188 e 189, e A., pag. 506; M., pag. 192, e A., pag. 566. Qui il Machiavelli si è qualche volta valso anche di altri storici, e lo accenna egli stesso a pag. 193. Fra questi storici bisogna porre la Cronica di Piero Minerbetti, che va dal 1385 al 1409.
349. Opere, vol. I, pag. 191.
350. Esse promettono d'arrivare fino al 1450, ma in realtà si fermano al 1440. Più tardi, in un altro lavoro, che l'editore chiama la Seconda Storia, il Cavalcanti narrò gli avvenimenti seguiti dal 1440 al 1447. Egli era un uomo credulo e fantastico, esaltato dalla filosofia platonica, di poco ingegno, e cattivo scrittore. Grande ammiratore di Cosimo dei Medici, che pur qualche volta biasima, il Cavalcanti scrisse le sue Istorie fiorentine in prigione, dove fu chiuso per non aver pagato le imposte. La sua opera venne pubblicata da Filippo Polidori in due volumi, con appendice di documenti: Firenze, Tipografia all'insegna di Dante, 1838 e 1839.
Il Gervinus nei suoi Historische Schriften, dopo aver paragonato le storie manoscritte del Cavalcanti, con quelle a stampa del Machiavelli, rimproverò gl'Italiani di non aver ancora pubblicato le prime, quando pur perdevano il loro tempo a studiare e pubblicare manoscritti letterarî, da cui potevano cavar solo frasi e parole per la Crusca. Il rimprovero non era del tutto immeritato, ma l'illustre storico tedesco avrebbe dovuto anche osservare più cose, di cui tacque. Egli, che era stato in Firenze e che pubblicava il suo lavoro nel 1833 in Germania, doveva ricordarsi che già molto prima di lui il canonico Domenico Moreni, in una Lettera bibliografica al canonico Carlo Ciocchi (Firenze, Ciardetti, 1803, a pag. 12 e 13), aveva raccomandato la pubblicazione delle Istorie del Cavalcanti, delle quali parlò poi nella sua Bibliografia storico-ragionata della Toscana, pubblicandone nel 1821 la parte più importante, in un volume in-8º, intitolato: Della carcere, dell'ingiusto esilio e del trionfale ritorno di Cosimo Padre della Patria, tratto dall'Istoria fiorentina manoscritta di Giovanni Cavalcanti: Firenze, Magheri, 1821. E nella prefazione a questo volume (pag. XXVII-XXVIII), lo stesso Moreni sin d'allora notava quello che il Gervinus credeva essere stato il primo a scoprire: «Questa istoria, sebbene in fatto di lingua, come abbiam veduto, la sia difettosa, servì, e ciò non è stato da chicchessia avvertito, di norma e di scorta al Machiavelli per la sua storia, siccome può ciascuno facilmente osservare da sè medesimo, purchè il voglia, senza che noi ne arrechiamo di sì fatta nostra osservazione riscontro o esempio alcuno.»
La Seconda Storia è la meno importante e la peggio scritta. Il Polidori ne pubblicò la parte principale in forma di libro aggiunto. In appendice dette ancora alcuni brani di un'altra opera del Cavalcanti, la quale tratta di politica o piuttosto di morale, e non ha valore. Questa Seconda Storia fu scritta fuori di carcere, come l'autore ricorda sin da principio. E dopo tutto quello che abbiam detto, dobbiamo ora aggiungere, che i rimproveri del Gervinus non furono inutili, perchè spinsero anch'essi il Polidori a pubblicare in Firenze una buona e compiuta edizione delle Istorie del Cavalcanti.
351. Opere, vol. I, pag. 203-6.
352. Vedi Opere, vol. I, pag. 206 e 209, e Cavalcanti, Storie, vol. I, pag. 6.
353. Cavalcanti, Istorie Fiorentine, vol. I, pag. 59-64.
354. Ammirato, Storie, lib. XVIII in fine.
355. Opere, vol. I, pag. 211.
356. Ibidem, pag. 211-212.
357. Ecco infatti il discorso del Cavalcanti: «Ora saziatevi, lupi famelici, i quali sareste crepati se questa città si fosse un poco riposata. Voi sempre andate cercando nuove guerre, innecessarie cagioni e abominevoli ingiurie: voi incominciaste insino alla guerra del Re, non avendo riguardo nè alle sue ragioni, nè ai benefizî de' suoi passati. Ora saziatevi di noi, pascetevi di queste misere carni; altro non ci avete lasciato da vivere con le nostre famiglie. «Voi cercate sempre guerra, e poi come voi le governate, voi stessi vel vedete.... A chi ricorrete? Quale aiuto vi scamperà dalle forze de' vostri nimici? Con quale arme difenderete la vostra ingrata superbia? I regi di Puglia non ci sono, se non questa madonna Giovannella, la quale avete piuttosto fatta sottomettere a sì barbara gente, che porre silenzio a un sì vile saccomanno.... Chi fia ora il vostro soccorso? Papa Martino, che tanto sfacciatamente sofferivate che i vostri figliuoli così piccolo pregio lo stimassino? Non sapete voi che le loro canzoni dicevano: Papa Martino non vale un quattrino, e Braccio valente che vince ogni gente? Voi non credevate mai di persona aver bisogno. Del lione si legge che una volta gli abbisognò il topo. Ove correrete per il vostro scampo? Ora pigliate le guerre, e fate i Dieci, e dite che fanno terrore al nemico; or fate queste vostre pensate, pazze e non considerate con nulla ragione, ecc.». Cavalcanti, vol. I, lib. II, cap. 21, pag. 65-67.
358. Opere, vol. I, pag. 215. Per dare un altro esempio dello scrivere del Cavalcanti, citiamo il primo periodo del suo discorso: «Molto mi rallegro e grandissimo conforto m'è, signori militi e spettabili cittadini, vedervi in questo tempio, in così magnifica rotondità di circolo in verso di me riguardanti ed attenti, per aumentare il bene e l'onore della nostra Repubblica.» Cavalcanti, Storie fiorentine, vol. I, lib. III, pag. 74. Il discorso continua sino alla pag. 90 sempre allo stesso modo.
359. Opere, vol. I, pag. 215-17; Cavalcanti, vol. I, lib. III, cap. 3 e 5.
360. Opere, pag. 224; Cavalcanti, lib. IV, cap. 8 e 9; lib. V, cap. 1.
361. Opere, vol. I, pag. 225; Cavalcanti, vol. I, lib. V, cap. 3, 4 e 5.
Ecco come il Cavalcanti (cap. 3) incomincia a parlar della morte di Giovanni de' Medici: «Due topi, uno nero e uno bianco, avendo rose le barbe di quel pomo che alimentato aveva l'ottimo cittadino Giovanni de' Medici, cominciò forte a piegare le sue cime verso la dura terra. Per questa cotale infermità conobbe Giovanni che la vita sua voleva gli umori umidi e frigidi all'acqua riducere, e il suo fiato all'aria tramischiare, le carni alla terra rendere, e così il caldo, con le cose secche, al fuoco restituire.» Il Polidori crede che i due topi, bianco e nero, significhino il giorno e la notte, cioè il tempo omai trascorso, o forse anche il piacere ed il dolore.
362. Opere, vol. I, pag. 235. Nel Cavalcanti il discorso, invece, è fatto non dai Seravezzesi, ma dalla plebe fiorentina, e comincia: «Noi sapevamo che lupo non partorì agnello; e però di costui non dovevamo noi pensare che, essendo di sì vituperosa gente disceso, ch'e' fosse di disguagliante natura dai suoi genitori, e sanguinario, ecc.» Cavalcanti, lib. VI, cap. 11.
363. Opere, vol. I, pag. 236-7; Cavalcanti, lib. VI, cap. 13 e 14. Secondo il Machiavelli i due commissarî andarono contemporaneamente al campo, e pare che così fosse. Secondo il Cavalcanti invece l'Albizzi fu mandato a sostituire il Gianni. Tutto quello che il Cavalcanti dice poi contro quest'ultimo, e che il Machiavelli copia, si può affermare che è per lo meno assai esagerato. Vedi Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, vol. I, pag. 496 e segg., e le Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, pubblicate dalla Deputazione di Storia Patria, in tre volumi: Firenze, 1867, 1869, 1873.
364. Il Machiavelli, parlando di questa visita del Barbadori all'Uzzano, dice che «lo andò a trovare a casa, dove tutto pensoso in un suo studio dimorava.» Opere, vol. I, pag. 244. Il Cavalcanti dice che «Niccolò era da umana compagnia tutto solo nel suo scrittoio, e gravissime confusioni se li ravviluppavano per la mente.... Della mano aveva fatto piumaccio dal mento alla guancia, ecc.» Vol. I, lib. VII, cap. 6, pag. 380.
365. Opere, vol. I, pag. 244-48. Ecco come il discorso comincia nel Cavalcanti: «Niccolò, Niccolò Barbadori, volesse Dio che ragionevolmente tu fossi chiamato Barba argenti! perocchè significherebbe uomo antico e veterano, nei quali si trova vero giudicio e ottima prudenza.» Vol. I, lib. VII, cap. 8, pag. 382.
366. Anche qui il Machiavelli imita il Cavalcanti, il quale scrive: «noi non siamo nè d'animo nè di volere l'uno quello che l'altro» (lib. VII, cap. 8, pag. 383); e poi accenna anch'egli alle molte discordie fiorentine, nelle quali i nobili ebbero sempre la peggio.
367. «Che colpa o che cagione si può opporre a quest'uomo, che il popolo stia queto al suo disfacimento? ecc.» Cavalcanti, vol. I, pag. 386.
368. «Anderanne tutto buono, e tornerà tutto di diversi modi; perocchè fia costretto da necessarie cagioni mutare natura e costumi, per la iniquità del suo cacciamento, passando ogni giusto modo di vivere politico. E non tanto per lui, quanto che e' fia indotto dagli stimoli degli uomini malvagi; perocchè ne anderà libero, e tornerà obbligato a ciascuno dell'arrabbiata setta, ai quali, pel beneficio che avrà ricevuto da loro, in averlo richiamato nella patria, fia costretto da necessità grata a promettere, o ad operare che le coloro iniquità abbiano compimento.» Cavalcanti, vol. I, lib. VII, cap. 8, pag. 386.
369. Opere, vol. I, pag. 248. Il Cavalcanti dice: «E' non erano sì tosto tratti gli uffizi principali, che per la Città si teneva conto quanti ve n'era dell'una parte e quanti dell'altra.... E' non era mai tratta di Signori, che tutta la Città non istesse sollevata, ecc.» vol. I, pag. 494. «E non era caso innanzi ad alcuno officio, per giusto od ingiusto, o per utile o dannificio, che da' cittadini in gara non fusse messo: e così la poverella città era governata.» Ibidem, pag. 495.
370. Opere, vol. I, pag. 248; Cavalcanti, vol. I, lib. IX, cap. 3.
371. Lo stessissimo pensiero trovasi nel Cavalcanti, vol. I, pag. 503.
372. E nel Cavalcanti: «Noi con segreto modo ci forniremo di fanti, avvisandoti che tutti gli antichi del reggimento t'adorano a giunte mani. Egli hanno sotto le mantella l'armi prese, per difendere la giustizia.» vol. I, pag. 504. «Non dubitare di nulla e massimamente della plebe, perocchè dove non è capo, ogni moltitudine è perduta.... Piglia l'esempio da messer Giorgio Scali.» Ibidem, pag. 505. «Ancora, le ricchezze non fieno a lato a cui le possa spendere; però ch'elle gli fieno negate, quando lo avrete nella vostra forza.... Tu ne sarai glorificato da tutta la Città; gli scrittori ti glorificheranno di gloria e di fama.» Ibidem, pag. 506.
373. Opere, vol. I, pag. 253-60; Cavalcanti, vol. I, lib. IX, cap. 23, 24, 25 e 28; lib. X, cap. 1, 2, 3, 4, 5 e 19.
374. Nel Machiavelli (Opere, vol. I, pag. 259) l'Albizzi dice: «Ma io più di me stesso che di alcuno mi dolgo, poi che io credetti, che voi che eri stato cacciato dalla patria vostra, poteste tener me nella mia.» E nel Cavalcanti (vol. I, pag. 608): «Io mi dolgo bene di me medesimo di fidarmi, sotto le tante promesse, di cui è stato insufficiente ad aiutare sè medesimo, conciossia cosa che chi è impotente per sè, mai non fia potente per altrui.»
375. Opere, vol. VIII, pag. 165, lettera LIII.
376. Opere, vol. II, pag. 1-4.
377. Il Machiavelli dice che lo Sforza ed il Fortebracci andarono a guerreggiare nello Stato della Chiesa, per proprio conto, non sapendo vivere senza far guerra; ma la verità è che furono in segreto mandati da Filippo Maria Visconti. Parla (Opere, vol. II, pag. 5), fra le altre cose, d'un accordo seguito tra lo Sforza ed il Fortebracci, per opera del Visconti, che non fu mai paciere, ma suscitatore di guerre fra di loro. Dice che lo Sforza, per mostrar disprezzo al Papa, scriveva le sue lettere con la data: Ex Girifalco nostro firmiano, invitis Petro et Paulo (Opere, vol. II, pag. 5); ma queste parole non si trovano, che io sappia, in nessun documento, nè sono ricordate da altri storici. Il Rubieri osserva giustamente che, se anche fossero state adoperate dallo Sforza, ciò poteva avvenire solo più tardi di quel che suppone il Machiavelli, perchè negli anni 1433-35 lo Sforza non aveva nessuna ragione d'essere scontento del Papa. E. Rubieri, Francesco I Sforza, Narrazione storica: Firenze, Success. Le Monnier, 1879, volumi due. Vol. I, pag. 225, nota 2, e pag. 342, nota 2.
378. Opere, vol. II, pag. 8; Cavalcanti, lib. X, cap. 21-25.
379. Opere, vol. II, pag. 9; Cavalcanti, lib. X, cap. 20.
380. Ricordiamo qui le opere di cui il Machiavelli si vale per tali guerre. Iohannis Simonetae, Historia de rebus gestis Francisci Primi Sfortiae vicecomitis Mediolanensium ducis, pubblicato in Muratori, Rerum italicarum Scriptores, vol. XXI; la storia di Flavio Biondo, che, per le guerre fatte nello Stato della Chiesa in questi anni, è la fonte più autorevole (Deca III, cap. 5 e 6); i Commentarî di Neri di Gino Capponi (1419-1456), in Muratori, Rerum italicarum Scriptores, vol. XVIII; la Cacciata del Conte di Poppi dello stesso Capponi, nel medesimo volume del Muratori.
381. Ecco come incominciò, secondo il Cavalcanti, il discorso del Duca: «O serenissimi re, o mansuetissimi signori, o illustrissimi cavalieri, voi non siete presi, anzi siete stati pigliatori del nostro amore, ecc.» Vol. II, lib. IX, cap. 5, pag. 11.
382. Opere, vol. II, pag. 11.
383. Ibidem, pag. 11 e seg.; Flavio Biondo, Deca III, lib. VII, pag. 503 e seg.
384. Si paragonino le parole con cui il Machiavelli (Opere, vol. II, pag. 37-40) narra le accoglienze fatte al Capponi nel Senato veneto, con la narrazione che dello stesso fatto ci dà il Capponi nei suoi Commentarî (Muratori, Rer. ital., vol. XVIII, col. 188-89). Anche dalla descrizione delle varie strade che poteva prendere lo Sforza, si vede che il Machiavelli segue il Capponi. Poco più oltre il Capponi (col. 190, D) parla della rotta data dallo Sforza al Piccinini presso Brescia, e narra che questi fuggì attraverso il campo, facendosi portare da uno Schiavone. Ed il Machiavelli (vol. II, pag. 44), per rendere il racconto più fantastico, dice che il Piccinini aveva un servitore tedesco assai robusto, cui persuase di metterlo in un sacco, e, come se portasse arnesi di guerra, menarlo attraverso il campo nemico, che era senza guardia, e così salvarlo. Il Tedesco, «levatoselo in spalla, vestito come saccomanno, passò per tutto il campo senza alcuno impedimento, tanto che salvo alle sue genti lo condusse.»
385. Deca IV, lib. I, pag. 563 e seg.
386. Opere, vol. II, pag. 65-66.
387. Capponi, Commentari, col. 1195.
388. Biondo, ecc., nell'unico libro della Deca IV.
389. Poggii, Historia florentina, lib. VII, pag. 349: Venetiis, 1715. Vedi anche Gino Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, vol. II, pag. 23 e nota 1.
390. In quest'ultima parte del lib. V (Opere, vol. II, pag. 60 e seg.), il Machiavelli si vale non solo dei Commentarî del Capponi (Vedi Commentari, col. 1194, C, D); ma anche della Cacciata del Conte di Poppi, scritta dallo stesso, e pubblicata dal Muratori dopo dei Commentari. In essa (Muratori, vol. XVIII, col. 1220) si trova il discorso fra il conte di Poppi ed il Capponi, riferito pure dal Machiavelli (Opere, vol. II, pag. 69). Colla battaglia d'Anghiari finisce la storia di L. Aretino. Il Cavalcanti senza narrare la battaglia d'Anghiari, salta alla morte dell'Albizzi. I fatti intermedi si trovano, in parte solamente, narrati da lui nei frammenti a stampa di quella che il Polidori chiamò Seconda Storia.
391. Opere, vol. II, pag. 81-3.
392. Cavalcanti, vol. II, pag. 161; Opere, vol. II, pag. 82-84.
393. Storia fiorentina, nel volume III delle Opere inedite, pag. 8.
394. Historia de rebus gestis Fr. Sfortiae, etc., in Muratori, volume XXI, pag. 485, 598 e seg.
395. Varî sono gli errori in cui cade. Dice, per esempio (Opere, vol. II, pag. 98) che il duca di Savoia combatteva pel duca d'Orléans, mentre combatteva per proprio conto; che lo Sforza voleva passare l'Adda per assalire il Bresciano, e pone Brescia e Caravaggio sulle opposte rive del fiume (pag. 99), mentre sono ambedue sulla sinistra. E così non Pandolfo, come dice il Machiavelli, ma Gismondo Malatesta era capitano dei Veneziani.
396. Opere, vol. II, pag. 103-6.
397. Opere, vol. II, pag. 147.
398. Opere, vol. II, pag 148-55.
399. Opere, vol. II, pag. 158.
400. Guicciardini, Storia fiorentina, pag. 17 e seg.
401. Opere, vol. II, pag. 177.
402. Le due lettere originali si ritrovano nel Fabroni, Vita Laurentii Medicis Magnifici, vol. II, pag. 36. Se si paragonano con quelle che ci dà il Machiavelli (Opere, vol. II, pag. 173 e seg.), si vedrà chiaro che qualche espressione è riprodotta con fedeltà, ma che il resto è sostanzialmente alterato.
403. L'Ammirato aveva certo qualche ragione di parlare così; ma egli esagerava assai, perchè non comprendeva e non riconosceva il valore storico del Machiavelli: lodandone lo stile, ne biasimava il resto, perfino la lingua. Vedi ciò che dice nei Ritratti, pubblicati nel secondo volume dei suoi Opuscoli. Ecco intanto quello che scrive di lui nelle sue Storie, libro XXIII, vol. V, pag. 169 (Firenze, Batelli, 1846-49): «Egli fa morto il duca Francesco dopo il gonfalonierato di Niccolò Soderini, e vuol che Piero de' Medici sia vivo dopo la morte di papa Pagolo. Attribuisce a Luca Pitti quello che è di Roberto Sostegni, nomina Bardo Altoviti per gonfaloniere di giustizia dopo Ruberto Lioni, che non vi fu mai. Insomma scambia gli anni, muta i nomi, altera i fatti, confonde le cause, accresce, aggiunge, toglie, diminuisce e fa tutto quello che gli torna in fantasia, senza freno o ritegno di legge alcuna, e quel che più pare noioso è che, in molti luoghi, pare che egli voglia ciò fare più tosto artatamente, che perchè ei prenda errore o non sappia quelle cose essere andate altrimenti, forse perchè così facendo lo scrivere più bello o men secco ne divenisse.» Gino Capponi nella sua Storia della Repubblica di Firenze (vol. II, pagina 88, nota 2, ed altrove) riconosce ancor egli che l'Ammirato ha ragione, ed aggiunge che il Bruto, vissuto cento anni dopo del Machiavelli, dice che lo seguiva solamente quando non poteva farne a meno, perchè troppo spesso lo trovò inesatto.
404. Opere, vol. II, pag. 178.
405. Ecco quel che dice l'Ammirato, vol. V, lib. XXII, pag. 178: «Combattessi con incredibil valore da amendue le parti infino a notte scura, con morte dall'una parte e dall'altra di trecento uomini d'arme e di quattrocento corpi di cavalli, se a chi scrisse la Vita del Coglione (Bartolommeo Colleoni) si deve prestar fede. Lo scrittore delle cose ferraresi dice di mille persone. Alcune memorie che sono presso di me fanno menzione di ottocento, la miglior parte de' Veneziani. Il Machiavelli, schernendo, come egli suol far, quella milizia, dice che non vi morì niuno. Dal Sabellico, senza esprimere il numero, è chiamata quella battaglia molto sanguinosa.»
406. Storia fiorentina, pag. 22.
407. Opere, vol. II, pag 187-8.
408. Opere, vol. II, pag. 198-203.
409. Così afferma l'Ammirato, e così si deduce anche dalla narrazione del Machiavelli. Vedi Capponi, Storia, ecc., vol. II, pag. 113, nota 1.
410. Storia fiorentina, pag. 42.
411. Opere, vol. II, pag. 214. A questo proposito aveva già nei Discorsi fatta la stessa osservazione: «Perchè dell'animo nelle cose grandi, senza aver fatto esperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa certa.» Discorsi, lib, III, cap. 6, nelle Opere, vol. III, pag. 331.
412. Opere, vol. II, pag. 214-15.
413. Il giorno 2 ottobre 1895, nella Sagrestia nuova di S. Lorenzo, venne aperta la tomba di Lorenzo e di Giuliano di Piero de' Medici, i cui scheletri furono trovati in due casse separate. Quello di Giuliano, assai meglio conservato, mostrava sul cranio e sopra una delle tibie, le tracce visibilissime delle pugnalate. Quello di Lorenzo era in frantumi, ma il cranio era ben conservato, e si vedeva la bocca molto sporgente, quale apparisce negli antichi ritratti. Io mi trovai presente con parecchi altri, che fecero tutti le medesime osservazioni.
414. Opere, vol. cit., pag. 216. Il Poliziano, De pactiana coniuratione, dice: «Fuerunt et qui crederent templum corruere.»
415. Opere, vol. II, pag. 216 e 219.
416. Ibidem, pag. 220.
417. Ibidem, pag. 273-4.
418. Vedi il capitolo IX della sua Storia fiorentina.
419. Opere, vol. I, pag. 277 e seg. A pag. 340 comincia l'Estratto di lettere ai Dieci di Balìa.
Gli editori delle Opere (P. M.) hanno pubblicato dal Codice Ricci e dai Manoscritti Palatini una serie di nuovi Estratti di lettere ai Dieci, com'essi li chiamano. Ma, senza tema di errare, può dirsi, almeno per quanto risguarda il Machiavelli, che questa è una pubblicazione assai poco utile. I primi due Estratti (Opere (P. M.), vol. II, pag. 156-160 e 160-166), dopo quelli già pubblicati nell'edizione fiorentina del 1843 ed in altre, sono veramente autografi, e vanno dal 1494 al 1495. Ma a che giova il pubblicare informi e scarsissimi brani di lettere, o appunti non meno informi, quando per questi medesimi anni abbiamo i Frammenti, i quali con nuove notizie corressero ed ampliarono molto i primi estratti? Seguono altri due Estratti (Ibidem, pag. 166-7 e 167-82), che risguardano gli anni 1495 e 96. Questi non sono di mano del Machiavelli, ma di Agostino di Terranuova, nè sono ricavati da lettere ai Dieci, ed apparecchiati per le Storie, ma sono appunti fatti nella Cancelleria, per lettere già scritte o da scriversi. Il Machiavelli non c'entra per nulla, o c'entra solo perchè questi appunti furono trovati fra le sue carte. Ne facevano allora come ne fanno oggi tutti gli ufficiali delle Cancellerie, ed a lui potevano servire forse per ricercare in archivio le lettere scritte dai o ai Dieci. Lo stesso può dirsi degli Estratti che seguono (Ibidem, pag. 172-189), i quali risguardano gli anni 1496-97, e sono alternativamente di mano di Biagio Buonaccorsi, di Andrea della Valle e di altri. Il Machiavelli scrisse di sua mano, sull'esterno dei quadernetti, gli anni e i mesi cui si riferiscono tali appunti, il che prova solo che gli aveva raccolti per servirsene al medesimo scopo. Seguono (Ibidem, pag. 190-95) ancora altri appunti, che si trovano nel Codice Ricci, dove sono intitolati: Memorie appartenenti a Istorie del 1495, scritte di mano di N. Machiavelli. Essi furono ricavati da Consulte o Pratiche della Repubblica; sono sommarî, quasi indici dei processi verbali delle discussioni, e servirono a scrivere i Frammenti per l'anno 1495, che abbiamo già a stampa. Più oltre (pag. 195-213) gli stessi editori ci dànno nuovi appunti di Cancelleria, scritti di mano del Buonaccorsi e di Agostino della Valle, per gli anni 1497-98, di cui si occupano i Frammenti e gli Estratti a stampa.
Finalmente (Ibidem, pag. 213-17) troviamo alcuni appunti di mano del Machiavelli, che si riferiscono al 1503, al quale anno non arrivano nè le Storie, nè i Frammenti, nè gli Estratti già pubblicati. Sono assai scarni ed aridi, raccolti per una parte della storia che non fu mai cominciata a scrivere, e quindi possono valere come continuazione di ciò che si aveva già a stampa. Segue di nuovo (Ibidem, pag. 217-281) una lunga serie d'appunti presi dal Codice Ricci, i quali vanno dalla morte di Cosimo nel 1464 all'anno 1501. Le Storie arrivano all'anno 1492, i Frammenti al 1498, gli Estratti già pubblicati al 1499. Bastava quindi aggiungere a questi anche le poche pagine che accennano a fatti seguìti negli anni 1500 e 1501 o ad altri non ricordati altrove.
Dei primi Estratti pubblicati, si è occupato il signor Plinio Carli (Giornale Stor. della Lett. Italiana, anno 1907, vol. I, pagg. 354 e segg.) paragonandoli col Cod. Riccardiano 3627, che egli ritiene autografo, e dandone le varianti. Se ne è occupato anche il commendator Fiorini, il quale, forse non a torto, suppone che siano cavati, in parte almeno, da qualche cronista. (Nella prefazione alla edizione delle Istorie, pag. X).
Il Carli ha pubblicato ancora un assai diligente lavoro (Contributo agli studi sul testo delle Storie fiorentine di N. Machiavelli), nel quale esamina i manoscritti e la prima edizione. In esso ha raccolto un materiale assai utile per una futura edizione delle Storie (Memorie della R. Accademia dei Lincei, Cl. di Scienze Morali, Serie V, vol. 14, fasc. 1, anno 1909).
420. Opere, vol. II, pag. 312.
421. Ibidem, pag. 350. Qui allude al Savonarola. Il dì 7 aprile seguì il fatto del fallito esperimento del fuoco; il dì 8 venne assalito il Convento di S. Marco, ed il Savonarola fu messo in carcere coi suoi due compagni, Fra Domenico e Fra Salvestro; poi cominciò il processo, che finì colla condanna a morte.
422. Opere, vol. II, pag. 353 e 361.
423. Ecco com'essi incominciano: «Così morì Piero Capponi. — Costui (Antonio Giacomini) in sua puerizia. — Furono eletti oratori mess. Francesco de' Pazzi vescovo d'Arezzo e mess. Francesco Pepi iureconsulto. — Ebbe Francesco Pepi questo fine indegno.» — Il ritratto del Capponi è già introdotto in uno dei Frammenti, sebbene in forma alquanto meno corretta. Forse lo ricopiò a parte per ripulirlo e limarlo di nuovo.
424. Questi frammenti di bozze (dei libri II, IV, VI e VII), sono pubblicati nel vol. II delle Opere (P. M.), col titolo: Frammenti autografi delle Istorie fiorentine. Il signor Passerini credette in sul principio d'avere scoperto una parte dell'autografo definitivo dell'opera; ma avvertito dell'errore in cui era caduto, pubblicò prima le storie, poi le bozze, senza istituire confronti di sorta; e così queste riescono assai poco utili, quando potevano giovare a porre in nota alcune varianti, ed a fare, col confronto, vedere in che modo il Machiavelli correggeva e migliorava il suo stile. Citiamo qualche esempio, ponendo in corsivo le parole mutate o trasposte, senza tener conto delle diversità di ortografia, che nelle Storie varia secondo gli editori.
Bozze (Opere (P. M.), vol. II, pag. 1): «Mediante il quale si edificavano di nuovo e d'ogni tempo assai terre e città.»
Storie (Opere, vol. I, pag. 62): «Mediante il quale di nuovo e d'ogni tempo assai terre e città si edificavano.»
Bozze (Opere (P. M.), vol. II, pag. 1): «Perchè, oltre allo essere cagione questo ordine, che nuove terre si edificassero, rendevano il paese vinto al vincitore più sicuro, e riempitosi di abitatori i luoghi vôti, si mantenevano nelle province li uomini ben distribuiti.»
Storie (Opere, vol. I, pag. 62): «Rendeva il paese vinto al vincitore più sicuro, riempiva di abitatori i luoghi vuoti, e nelle province gli uomini bene distribuiti manteneva.»
Bozze (Opere (P. M.), vol. II, pag. 1): «Perchè questo ordine solo è quello che fa gl'imperii più securi, e che le province, come è detto, mantiene copiosamente abitate, per essere gli abitatori di quelle meglio distribuiti.»
Storie (Opere, vol. I, pag. 62): «Perchè quest'ordine solo è quello che fa gl'imperii più sicuri, e i paesi, come è detto, mantiene copiosamente abitati.»
Bozze (Opere (P. M.), vol. II, pag. 5): «Era nella famiglia dei Donati una donna vedova, ricca e nobilissima, la quale aveva una figliuola di bellissimo aspetto, e disegnava in fra sè di darla per moglie a messer Buondelmonte, cavaliere giovane e della famiglia de' Buondelmonti capo.»
Storie (Opere, vol. I, pag. 66): «..... una donna vedova e ricca, la quale aveva una figliuola di bellissimo aspetto. Aveva costei in tra sè disegnato a messer Buondelmonte cavaliere giovane e della famiglia de' Buondelmonti capo maritarla.» Poco più basso parlando della stessa giovane, muta la parola formosità in bellezza, che è assai più semplice.
Bozze (Opere (P. M.), vol. II, pag. 30): «Noi siamo certi, Magnifici Signori, che le nostre parole saranno stimate assai da le Signorie vostre.... Questo vostro commissario non ha d'uomo altro che la presenzia, nè di Fiorentino altro che la lingua e lo abito.... Stuprò le donne, viziò le vergini et trassele dalle braccia delle madri.»
Storie (Opere, pag. 234 e 235): «Noi siamo certi, Magnifici Signori, che le nostre parole troveranno fede e compassione appresso le Signorie vostre.... Questo vostro commissario non ha d'uomo altro che la presenza, nè di Fiorentino altro che il nome.... Stuprò le donne, viziò le vergini, et trattele dalle braccia delle madri, le fece preda de' suoi soldati.»
425. L'illustre storico L. Ranke ha espresso una diversa opinione. Vedi le nostre Osservazioni sul Guicciardini, in fine dell'Appendice.
426. Vedi ancora, in fine dell'Appendice, le nostre Osservazioni sul Guicciardini, già citate.
427. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VIII, lib. XVI, pag. 79.
428. Guicciardini, Storia d'Italia, loc. cit., pag. 79-85; Ranke, History of the Popes (trad. dal tedesco): London, Bohn, vol. I, pag. 80-81. Qui il Ranke va d'accordo col Guicciardini, che descrive mirabilmente il carattere di Clemente VII; Gregorovius, Geschichte, etc., vol. VIII, pag. 413 e seg.; Creighton, History of the Papacy, vol. V, cap. VIII; Capponi, Storia, vol. II, pag. 344; Vettori, Sommario della Storia d'Italia, pag. 381.
429. Vettori, Sommario, pag. 349-50.
430. Il De Leva parla di 8,000, il Mignet di 10,000, il Gregorovius di 12,000 morti. Il Guicciardini dice essere stata opinione generale, che morirono, tra di ferro e affogati nel Ticino, più di 8,000 Francesi.
431. «Madame, pour vous faire savoir comment se porte le reste de mon infortune, de toutes choses ne m'est demeuré qui l'honneur et la vie, qui est saulve.» Queste furono le precise parole scritte dal Re. Papiers d'État du cardinal Granvelle, vol. I, pag. 250; Aimé Champollion-Figeac, Captivité du roi François I, pag. 129. Vedi anche Mignet, Rivalité, etc., vol. II, pag. 68; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, pag. 242. La tradizione alterò alquanto le parole dette dal Re, facendo dire invece: «tutto è perduto fuorchè l'onore.»
432. «Sie ist das grossartigste Schlachtenbild des XVI Jahrhunderts. Eine weltgeschichtliche Katastrophe hat sich darin vereinigt,» Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom, vol. VIII, pag. 434; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, cap. IV; Mignet, Rivalité, etc., vol. II, cap. VII. Questo lavoro francese tien troppo poco conto delle pubblicazioni italiane, e specialmente dell'opera del De Leva, assai coscienziosa e fatta con ricerche veramente originali.
433. Guicciardini, Storia d'Italia, lib. XIV, vol. VII, pag. 4-5.
434. Lettera del dì 1º luglio 1525 a Ennio Filonardi, nunzio nella Svizzera, nelle Lettere ai Principi, vol. II, a c. 80t: Venezia, Ziletti, 1575.
435. Lettera del 10 luglio 1525 a Guido Guiducci, nelle Lettere ai Principi, vol. II, a c. 86.
436. Vedi l'Esame del Morone nei Ricordi inediti di Girolamo Morone, pubblicati dal conte Tullio Dandolo: Milano, 1855, pag. 152-4.
437. Lettera del Giberti al Canossa, inviato di Francia a Venezia, in data del dì 8 luglio. Il Giberti dice che queste proposte sarebbero partite per la Francia il giorno seguente. Lettere ai Principi, vol. II, a c. 85. Sono in fatti le stesse proposte che si leggono nelle Recheste mandate ad fare in Franza per N. S., nei Documenti concernenti la vita di Girolamo Morone, pubblicati da Giuseppe Müller nella Miscellanea di Storia Italiana della R. Deputazione di Storia patria in Torino, vol. III, pag. 436-37: Torino, 1865.
438. Il Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VIII, lib. XVI, pag. 56, dice che il Papa, sempre pieno di sospetti e di ansietà, «non per scoprire la pratica, ma per prepararsi qualche rifugio, se la cosa non succedesse, avvertì sotto specie di attenzione Cesare, che tenesse ben contenti i suoi capitani.» Questi avvisi furono dati in un Memoriale mandato d'ordine del papa Clemente VII a monsignor Farnese. Vedi Papiers d'État du cardinal Granvelle, vol. I, pag. 295; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, pag. 287.
439. Così afferma anche il Morone nel suo Esame. Dandolo, Ricordi, ecc., pag. 152.
440. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VIII, lib. XVI, pag. 52.
441. Esame del Morone. Dandolo, Ricordi, ecc., pag. 152-9.
442. Ecco come il Pescara stesso scriveva in una delle sue lettere all'Imperatore: «Y dende algunos dias vyno Hieronimo Moron a hablarme por grandes arodeos y ultimamente dezirme que sy yo le prometia la fe de le tener secreto, que el me dyria y descubriria grandes cosas. Yo le dixe qua le ternia secreto, y le dj la fe. Descubriome el mal contentamyento de toda Italia, y come toda ella disponya y determynava salyr de sugecyon, y de Francia abya grande correspondencia y requyrymyentos, y que sy yo querya sentirme de como me avyan tratado, y de la forma con que procuravan y abyan syempre procurado abaxarme, y acordarme que abia nacydo Italiano, y que glorya podia ganar en ser el libertador de la propria patria, que en my mano era ser la cabeça y el capytan de toda esta empresa, y que el creya, que todos concorreryan en darme el reyno de Napoles, y que abia tan grandes cosas y tan grandes cymyentos, que yo veria que era razon de venyr cuello y que podria byen salyr lo que se desiñava.» — Lettera del 30 luglio 1526, duplicata di una del 25, nei già citati Documenti che concernono la vita pubblica di Girolamo Morone, raccolti ed editi da Giuseppe Müller, pag. 358 e seg. Questo, come dicemmo, è il III volume della Miscellanea pubblicata dalla R. Deputazione di Storia patria di Torino. Il vol. II contiene le Lettere ed Orazioni latine di Girolamo Morone, edite da Domenico Promis e Giuseppe Müller. V. anche C. Gioda, Girolamo Morone e i suoi tempi: Torino, Paravia, 1887.
443. A questo proposito si può utilmente consultare un lavoro pubblicato dal signor Ch. Paillard nella Revue Historique, IIIe année, tome VIII (sept.-déc. 1878), pag. 297-367: Documents relatifs aux projets d'évasion de François Ier, prisonnier à Madrid, ainsi qu'à la situation intérieure de la France en 1525, en 1542 et en 1544. L'autore osserva a pag. 316, che quantunque grandissimi fossero i torti fatti da Francesco I e dalla Reggente al conestabile di Borbone, essi non giustificavano un tradimento che minacciò non solo l'autorità regia, ma anche il paese. «Toutefois on se tromperait singulièrement, si l'on pensait que Bourbon ait été jugé par les contemporains comme il l'a été par la postérité, si l'on supposait que lui-même ait senti sur sa tête ce poids inéluctable de honte, de mépris, de réprobation et de haine, dont aujourd'hui tout traître a pleinement conscience.... À cette époque, l'idée de patrie, aujourd'hui si puissante et pour ainsi dire souvraine, existait à peine, ou du moins était fort obscurcie par l'idée féodale encore dominante.... Sismondi a sur ce point un mot tout-à-fait topique: Les lettres des plus grands seigneurs de cette époque, où il est question du connêtable, ne laissent pas, dit-il, entrevoir de blâme.» In Italia dove le tradizioni feudali avevano assai minor forza, e specialmente a Firenze, dove l'idea della patria s'era colla repubblica svolta assai più, gli storici giudicavano il Borbone con maggiore severità; pure anch'essi parlano generalmente del tradimento fatto al suo signore, non alla Francia. Il Vettori, narrata la morte del Borbone sotto le mura di Roma, aggiunge: «Uomo a cui, per il tradimento aveva fatto al suo signore, non conveniva sì onorevole morte.» Sommario della Storia d'Italia, pag. 379. Il Guicciardini (vol. VIII, lib. XVI, pag. 72) dice che, nella Spagna, sebbene il Borbone fosse da Carlo V ricevuto con grande onore e come cognato, pure i nobili della Corte «l'abborrivano come persona infame, nominandolo traditore del proprio re.»
444. Il 5 ottobre G. Battista Sanga scriveva all'ambasciatore francese in Venezia: «Parturient montes, nascetur ridiculus mus. Che ben mi pare poter cominciare così, già che quella resolutione, che tanti dì fa Franzesi hanno annunziato, come l'advento del Messia, di voler mandare in Italia, si è alla fine trovata esser manco assai di quello che mandarono ad offrire per mezzo di Lorenzo Toscano. Et crederò che non tengano tutti Italiani per bestie, che, sotto semplice speranza della fede loro, habbiano a darseli in mano ligati, perchè facciano migliori le condizioni loro con Cesare, al qual segno con molta ragione si può sospettare che vadano, essendo così pubblica alla Corte questa offerta, come se non fusse proprio ad altro effetto, che ad impaurir Cesare.» Lettere ai Principi, vol. II, pag. 94t.
445. Vedi le lettere del Pescara a Carlo V nel vol. III della citata Miscellanea di storia italiana.
446. Il datario Gilberti, in una lettera del 19 settembre 1525, scriveva al Sauli: essere il Papa stato avvisato da più parti, che il Morone ed il Pescara tradivano, ed accennarsi da molti alle pratiche fatte dagli alleati, esponendone i più minuti particolari, dal che si vedeva che tutto ormai era noto. Ciò dava naturalmente grandissimo sospetto. Nondimeno il Gilberti fidava o almeno mostrava di fidar sempre nel Pescara e più ancora nel Morone, non volendo credere che essi conoscessero così poco l'immenso vantaggio che poteva venir loro dalla buona riuscita della congiura. Lettere ai Principi, vol. II, a c. 91 e 92.
447. Lo dice egli stesso nel suo Esame, pag. 175-77, e chiarissimamente lo dice anche il Pescara nelle sue lettere a Carlo V. Vedi la lettera 8 settembre 1525, citata più sotto.
448. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VIII, lib. XVI, pag. 67.
449. Miscellanea citata, vol. III, pag. 407, lettera del 5 settembre 1525; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, pag. 295.
450. Nella lettera del dì 8 settembre 1525, il Pescara scriveva all'Imperatore: «Tengo por fe, que si el Duque muere, que Geronimo Moron harà ultimo de potencia en servicio de V. M., pero en esto trova ruyn todo lo posible: es verdad que muestra enteramente fiar de mj, y siempre lo traygo a lo que quiero.» Miscellanea, ecc., vol. III, pag. 422-23.
451. Guicciardini, Storia d'Italia, vol. VIII, lib. XVI, pag. 66-67; De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, pag. 295-96.
452. Il Guicciardini (op. cit., pag. 67) e moltissimi altri storici affermarono che, durante il colloquio tra il Pescara ed il Morone, Antonio de Leyva stava ad ascoltare dietro un arazzo, dove il Marchese lo aveva fatto nascondere. Il De Leva (Storia, vol. II, pag. 297). secondo noi a ragione, non presta fede a questo racconto, perchè non ne trova fatta menzione nè nel Rapporto di Rosso dall'Olmo, 17 ottobre 1525, in Marin Sanuto; nè nella Cronica del Grumello. Non c'erano in fatti allora più segreti da scoprire, tutto era noto così al de Leyva come al Pescara.
453. Esame del Morone.
454. Vedi il decreto nel Dandolo, Ricordi, ecc., pag. 201-2.
455. «Item vi lascio Hieronimo Morone quale è in preggione, et voglio che si supplichi la Cesarea Maestà istantemente per la vita sua et ogni altro benefitio che gli potrà fare, et che non voglia che quello che ho discoperto in benefitio di S. M. habbia ad essere per condannatione del suddetto, dato il caso che lui non avesse fatta quella opera che doveva fare. In questo S. M. me voglia compiacere, perchè altrimenti me reputerei essere caricato.» Dandolo, Ricordi, pag. 202. Che cosa sia quella opera che doveva fare non ci è possibile indovinare con certezza: si allude forse a qualcuna delle promesse fatte dal Morone al Pescara, nei giorni in cui cospirava, o quando era in carcere. Egli aveva, fra le altre cose, promesso gran somma di danari per riscattarsi, e non potè poi subito darli tutti.
456. Vedi la lettera in Dandolo, Ricordi. ecc., pag. 204.
457. Privilegium, gratia et restitutio clarissimi com. H. Moroni, in Dandolo, Ricordi, ecc., pag. 209 e seg.: «Ut negari non possit eum ipsum non mediocrem partem habuisse in victoriis quibus S. C. M. Italiam potitus est.... Animadvertentes praeterea eiusdem comits H. Moroni praecipuas animi dotes, ingenii acumen, longum rerum arduarum et grandium usum, animi fortitudinem et inviolabilem erga eos principes fidem, quibus aliquando servitutem suam obtulit et dicavit.... Accessit praeterea ut in praesentibus rei pecuniariae necessitatibus, et in tanto sustinendorum exercituum oneri, cum nihil sit magis necessarium pecuniae, eaeque consumptus sint ingentes et fere intollerabiles, is ipse comes Hieronimus de notabili pecuniarum quantitate nobis subvenit et subventurus est, etc.»
458. Oltre le varie opere da noi citate può consultarsi anche una diligente monografia sul Morone, pubblicata dal signor G. E. Saltini dell'Archivio di Firenze nell'Archivio storico italiano, serie III, vol. VIII, parte I, pag. 59-126, anno 1868.
459. Guicciardini, Opere inedite, vol. VIII, pag. 331, lettera del 23 ottobre 1525, da Faenza.
460. Opere inedite, vol. VIII, pag. 28, lettera 1º giugno 1524.
461. Ibidem, pag. 66 e seg., lettera 12 luglio.
462. Ibidem, pag. 66 e 100, lettere del 12 luglio e 7 settembre.
463. Ibidem, pag. 121 e 123, lettere da Forlì, 7 ed 8 ottobre.
464. Ibidem, pag. 126 e 153, lettere 12 ottobre e 28 novembre.
465. Opere inedite, vol. VIII, pag. 171, lettera 19 gennaio 1525.
466. Ibidem, pag. 201, lettera da Forlì, 25 marzo 1525.
467. Ibidem, pag. 246, lettera da Ravenna, 28 maggio 1525.
468. Ibidem, pag. 257, lettera da Faenza, 15 giugno 1525.
469. Opere inedite, vol. VIII, pag. 321, lettera 23 ottobre 1525.
470. Ibidem, pag. 360, lettera 11 dicembre 1525.
471. Ibidem, pag. 366, lettera 24 dicembre.
472. Ibidem, pag. 393 e seg.
473. Inferno, canto X, versi 97-99.
474. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 34. Lettera del dì 8 marzo 1524/5. Appendice, doc. XIV.
475. Lettere del 3 e del 17 maggio 1525, scritte dal Salviati al figlio cardinale. La prima gli annunzia la proposta di farlo accompagnare nella Spagna dal Machiavelli, la seconda dice: «Di Niccolò Machiavelli bisogna farne fuora, perchè veggo che il Papa ci va adagio.» Desjardins, Négociations diplomatiques, vol. II, pag. 840-41.
476. Lettera di Francesco del Nero in data 27 luglio 1525. Trovasi nelle Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 45. Vedi Appendice, doc. XVI. Incomincia: «Io ebbi una vostra da Roma, ad la quale feci risposta.» Ciò conferma questa gita, finora poco avvertita, del Machiavelli colà, come del resto apparisce anche da altre lettere che abbiamo citate. Quella però senza data, di cui parlammo a pag. 40 di questo volume, non potrebbe, come alcuni supposero, ritenersi scritta ora dalla Marietta, perchè, come già osservammo, si parla in essa d'un figlio nato da pochi giorni, e d'una figlia ancora bambina. La Marietta inoltre sembra alludere ad una lunga assenza del Machiavelli, che invece si trattenne ora poco tempo in Roma.
477. Opere, vol. VIII, pag. 177-81, lettera del Machiavelli al Guicciardini, senza data.
478. V. Appendice, doc. XV.
479. Opere inedite, vol. VIII, pag. 263.
480. Opere inedite, vol. VIII, pag. 266, lettera CXXX della Presidenza della Romagna, seconda con la data di Faenza, 19 giugno 1525.
481. Ibidem, pag. 270, lettera CXXXI, del 23 giugno.
482. Ibidem, pag. 287, lettera CXXXIX, del 26 luglio.
483. Opere, vol. VIII, pag. 167, lettera LVII. È bene conoscere questa medicina, che al Machiavelli, com'esso scrive, sgravava lo stomaco e la testa, perchè s'è da alcuni preteso che l'averne abusato fosse poi stato causa della sua morte. Egli inviava al Guicciardini venticinque pillole con la ricetta. Eccola:
Aloe patico | dram. | 1 1⁄2 |
Carman. deos | » | 1 |
Mirra eletta | » | 0 1⁄2 |
Bettonica | » | 0 1⁄2 |
Pimpinella | » | 0 1⁄2 |
Bolo armenico | » | 0 1⁄2 |
L'Artaud, che si prese la cura di farla esaminare e far comporre le pillole, trovò che sono innocentissime e valgono solo ad aiutare la digestione. Il Machiavelli soleva appena prenderne due per volta. Le parole Carman. deos., che troviamo nelle stampe, non avrebbero però alcun significato. Son forse un errore invece di Cardam. Dios., Cardamomum Dioscoridis. L'aloe è la sola medicina di qualche efficacia, e potrebbe recar danno in alcuni casi, quando però fosse presa in gran quantità. Supporre che il Machiavelli morisse per abuso di queste pillole non è quindi possibile. Vedasi Artaud, Machiavel, son génie et ses erreurs, vol. II, nota alla pag. 200.
484. Opere, vol. VII, pag. 454.
485. Opere, vol. VII, pag. 450-55; Opere (P. M.), vol. VI, pagine 220-224.
486. Ibidem, vol. VIII, pag. 171, lettera LVIII, da Firenze, 6 settembre 1525.
487. Era la voce, alla quale abbiamo altrove già accennato, la quale pretendeva, che suo padre fosse bastardo e che ciò dovesse impedire a lui d'essere eletto agli uffici. E forse questa fu anche la ragione che fece credere al Ranke, che il Machiavelli non era cittadino.
488. Lettera del 15 settembre 1525. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 12. Appendice, doc. XVII.
489. Opere, vol. VIII, pag. 174, lettera LIX, senza data.
490. Ne parlano il Varchi (vol. II, pag. 332) e l'Ammirato (vol. VI, pag. 150).
491. È la lettera già altrove citata, del 14 agosto 1525. Vedila in Appendice, doc. I.
492. Opere, vol. VIII, pag. 174, lettera LIX. Le canzonette di cui qui si parla, non si trovano in fatti nelle antiche edizioni, ma furono pubblicate assai più tardi. Due di esse, quelle cioè alla fine del I e del III atto, sono le stesse che si leggono alla fine del I e del IV atto della Clizia.
493. Cioè, tutti gli altri nostri principi, aspettando inerti, finiranno allo stesso modo.
494.
Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso
E nel Vicario suo Cristo esser catto.
(Dante, Purg., XX, 86, 87).
Qui si allude, com'è noto, alla prigionia di Bonifazio VIII. Ciò che a questo Papa fecero allora i Colonna in Anagni (Alagna), ricorda davvero la condotta che più tardi essi tennero, come vedremo fra poco, verso Clemente VII in Roma.
495. Opere, vol. VIII, pag. 177, lettera LX, senza data, ma scritta alla fine del novembre o ai primi del dicembre 1525.
496. Ibidem, pag. 181, lettera LXI.
497. Ibidem, pag. 183, lettera LXII.
498. Vasari, Vita dei Pittori, edizione Le Monnier, vol. XI, pag. 204; nella Vita di Aristotele da San Gallo, e vol. XII, pag. 16; Vita di Giovan Francesco Rustici.
499. In una sua lettera al Machiavelli, scritta in data di Modena, 22 febbraio 1525 (1526) e pubblicata nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. XCI, si rallegrava con lui, gli faceva mostra di grande affetto, e lo chiamava Carissimo et come fratello honorando. In un'altra, scritta a Francesco del Nero, il 1º di marzo dello stesso anno, si dimostrava invece assai scandalezzato delle feste cui s'era abbandonato il Machiavelli, e lo biasimava. Vedi Appendice, documento XVIII. Il Nerli era Governatore a Modena, e dal suo copia-lettere, che trovasi in quell'Archivio, si vede che, scrivendo ufficialmente, datava le sue lettere, secondo lo stile comune, che era allora seguìto in tutta l'Emilia, cominciando cioè l'anno dal 1º gennaio. Noi credemmo perciò che così avesse fatto anche nella lettera qui sopra citata. Ma questa è privata, scritta da un Fiorentino ad un altro Fiorentino, e segue quindi lo stile della loro città, ab incarnatione (25 marzo), come aveva giustamente notato il Passerini.
500. Vedi la lettera di Giovanni Mannelli al Machiavelli in data di Venezia, 28 febbraio 1525 (1526) nelle Opere (P. M.), vol. I, pag. XC. Anche in questa lettera si segue lo stile fiorentino, e ne abbiamo la conferma nei Diarî di Marin Sanuto, il quale dice che il 5 febbraio 1525 (cioè 1526, giacchè a Venezia l'anno cominciava il 1º marzo): «Fo etiam fato una comedia a S. Aponal, in chà Moresini.... et fo una de Plauto di do Fratelli, non molto bella, la quel compète a hore 4 de note.» V. i Diarî a stampa, vol. XL, col. 785. E qui dobbiamo aggiungere che la recita della Mandragola, la quale, a pag. 149 di questo volume, ponemmo il 13 febbraio 1523, ebbe, secondo il Sanuto, realmente luogo in quel giorno, «a li Crosechieri,» ma nell'anno 1521, stile veneto, che risponde al 1522 stile comune (vol. XXXII, col. 458). «Fo ricitata,» egli dice, «un'altra comedia in prosa.... di uno certo vechio dotor fiorentino, che havea una moglie et non potea far fioli etc. Vi fu assaissima gente con intermedi di Zuan Polo et altri bufoni.» Ma non si potè recitare il quinto atto, «tanto era il gran numero de le persone.» Lo stesso Sanuto nota poco dopo (col. 466) che il giorno 16 di quel mese «Fo di novo ai Croseschieri recitata la comedia dil Fiorentino, non compita l'altro giorno. Io non vi fui per....»
501. Il 3 gennaio 1525/6 egli scriveva: «Io verrò in ogni modo, nè mi può impedire altro che una malattia, che Iddio mi guardi, e verrò, passato questo mese, ed a quel tempo che voi mi scriverete.» Aggiungeva che la Barbera era trattenuta da certi innamorati, ma che egli sperava, non ostante, poterla mandare. Opere, vol. VIII, pag. 185, lettera LXIII. Dopo questa lettera vien quella del 15 marzo, in cui si legge, senza più parlar della commedia: «la Barbera si trova costì: dove voi gli possiate far piacere, io ve la raccomando, perchè la mi dà molto più da pensare che l'Imperatore.» Il Guicciardini era allora già in Roma, come apparisce dalle sue Opere inedite. La Barbera probabilmente era andata colà a fare altre recite ed a cercare avventure.
502. Fu pubblicato dal Tommasini, prima in un volume per nozze, poi nella sua opera sul Machiavelli (II, 824).
503. Opere, vol. VIII, pag. 188 e seg., lettera LXIV, del 15 marzo 1525/26.
504. Ibidem, pag. 193, lettera LXV, di Filippo Strozzi, da Roma, ultimo di marzo 1526.
505. Opere, vol. VIII, pag. 199, lettera LXVII, a Francesco Guicciardini, da Firenze, 4 aprile 1526.
506. Ibidem, vol. IV, pag. 459-68. Questa relazione è lodata anche dal Maggiore Jähns, nell'articolo sul Machiavelli già da noi più volte citato.
507. Opere, vol. VIII, pag. 201, lettera LXVIII, del 17 maggio 1526.
508. Nell'Archivio Fiorentino trovansi la minuta autografa, che fu pubblicata nelle Opere, (P. M.), vol. VI, pag. 360, ed un'altra, poco diversa, d'altra mano. Vi si trova anche la nomina dei Cinque Procuratori; mancano però i loro Atti, e quindi non si conosce la data della elezione del Machiavelli. V'è solo un quadernetto con alcune lettere della cancelleria, le quali vanno sino al 26 febbraio 1527. Le prime undici sono di mano del Machiavelli, le altre (circa trenta) no. Vedi Appendice, doc. XIX.
509. Opere, vol. VIII, pag. 202, lettera LXVIII.
510. Appendice, doc. XIX. Opere, vol. VIII, pag. 197, lettera LXVI. È una lettera d'ufficio scritta all'ambasciatore fiorentino in Roma, e trovasi stampata anche nel vol. IV delle stesse Opere, pag. 467.
511. Opere, vol. VIII, pag. 203-7, lettere LXX, LXXI, LXXII, del 2 giugno 1526.
512. Nel più volte citato codice Bargagli trovasi una lettera del 15 gennaio 1526/7, scritta dal podestà di Montespertoli al Machiavelli, provisor murorum, che aveva allora chiesto 25 o 30 uomini per cavare fossi.
513. V. nell'Archivio storico lombardo, S. III, Anno 23 (1896), volume V a pag. 245 e segg., le lettere scritte da Francesco Guicciardini, luogotenente generale del Papa, al Cardinale G. B. Giberti (luglio 1526). Esse furono però assai scorrettamente pubblicate dal Sig. G. Bernardi. Il Tommasini, che primo le aveva esaminate nell'Archivio Vaticano, e ne aveva dato notizia all'Accademia dei Lincei, le ripubblicò correttamente (Vol. II, Appendice, pag. 1194 e segg.).
514. Luogotenenza generale per il Papa Clemente VII, parte I, lettera del 31 luglio 1526, nelle Opere inedite, vol. IV, pag. 145.
515. Opere, vol. VIII, pag. 207-215. Lettere LXXIII e LXXIV, scritte dal Vettori il 5 e 7 agosto 1526. Altre lettere ancora ricevette il Machiavelli da Firenze al campo, fra le quali, come per tener sempre a noi presenti le singolari contraddizioni del suo carattere, ne troviamo una di quel Iacopo Fornaciaio che aveva fatto rappresentare la Clizia nel suo giardino. Questo Iacopo gli parlava della Barbera, della quale pare che il Machiavelli s'occupasse anche in momenti come questi, aggiungendo che essa gli scriverebbe ogni settimana, dimostrando egli così grande premura per lei. Vedi Appendice, documento XX.
Nell'Archivio Fiorentino si trovano, in uno stesso foglio (V. Guasti, Carte strozziane, I, 585) due lettere attribuite al Machiavelli, non però autografe. La prima, che manca della fine, ed è quindi senza firma e senza data, fu pubblicata nelle Opere, vol. VII, p. 215, e ripubblicate da altri, anche dal Tommasini che la riscontrò sul codice. L'altra lettera invece manca del principio, non della fine. Ha la data 3 luglio 1526, e fu pubblicata la prima volta nella già citata Miscellanea del Corazzini (Firenze, 1853), e poi nell'edizione delle Opere colla data di Firenze, Usigli, 1857. Danno anche notizie importanti sull'andamento della guerra.
516. Copialettere di R. Acciaiuoli e c. 122t. Si trova nella Biblioteca di Parma, e potemmo esaminarlo per cortesia del bibliotecario E. Alvisi, che ce ne dette notizia. Esso ha molta importanza pel tempo cui si riferisce, e perchè dà compimento alla Legazione di R. Acciaiuoli, pubblicata dal Desjardins. Ne diamo qualche saggio in Appendice, doc. XXI. Altre lettere dello stesso, che noi non credemmo di pubblicare, furono invece pubblicate dal Tommasini (II, Appendice, pag. 1159 e segg.).
517. Opere, vol. VII, pag. 456. V. la Istruzione di F. Guicciardini al Machiavelli, nelle Opere inedite del Guicciardini, vol. IV, pag. 340, lettera del 9 settembre 1526.
518. Le due lettere si trovano pubblicate nel vol. XLII dei Diarî del Sanuto. La prima nella col. 616: Di campo, di Lambrà, del Proveditor veneto, dì 12, hore 3. La seconda nella col. 628: Del ditto Proveditor, general Pexaro, venuta questa matina, data sotto Cremona, a dì 13, hore 4.
519. Il 15 settembre 1526, il Guicciardini incominciava così una sua lettera a Roberto Acciaiuoli: «Scrissi a V. S. a' 13 del presente; gli mandai una lettera del Machiavello del campo di Cremona, uno disegno di quelle trincee, fatto non per mano di Lionardo da Vinci, ecc.» Opere inedite, vol. IV, pag. 367. Dubitai che quel non fosse un errore di stampa, Leonardo da Vinci essendo morto sin dal 1519: ma così non è, perchè il non trovasi anche nell'autografo che riscontrai. Forse il Guicciardini parlava in senso ironico, per dire: un disegno fatto alla peggio, da tutt'altra mano che quella del gran Leonardo.
520. Eneide, VI, 95. Nelle Opere inedite, vol. IV, pag. 395, è per errore stampato: audacior oro. Virgilio dice audentior ito, in qualche manoscritto si legge anche audacior ito.
521. Opere inedite, vol. IV, pag. 393 e 397, lettere del 24 e 26 settembre 1526.
522. Opere inedite, vol. IV, lettere del 2 ottobre 1526, pag. 411 e 413; lettera del 19 ottobre, pag. 458; lettera del 7 novembre, pag. 511; lettera del 9 novembre, pag. 520.
523. Questa relazione è, come lettera ad un amico, stampata nell'epistolario del Machiavelli, Opere, vol. VIII, pag. 215-19. Ma il suo contenuto, la sua forma, e l'essersene, come avvertono gli editori stessi, trovato l'autografo senza data, senza indirizzo, senza firma, tra le carte della Segreteria Vecchia di Firenze, ci persuadono che non è una lettera privata, ma una relazione scritta d'ufficio.
524. Questa lettera fu pubblicata dal Tommasini (II, Appendice, pag. 1245).
525. Opere, vol. VII, pag. 459-61. Istruzione degli Otto di Pratica al Machiavelli.
526. Ibidem, pag. 464, lettera da Modena, 2 dicembre 1526.
527. Opere inedite, vol. V, Luogotenenza generale, parte II, lettere del dicembre 1526, del gennaio e febbraio 1527.
528. Opere, vol. VIII, pag. 231, lettera da Forlì, 16 aprile 1527.
Nell'Archivio di Stato in Modena (Registri ducali, partimento I) si trova, come già notammo, il copialettere di Filippo de' Nerli, allora governatore di Modena per il Papa. In queste lettere si parla spesso del Machiavelli, e più d'una volta vi trasparisce la poca simpatia che il Nerli aveva per lui, che qualche volta chiama il Machia. Il 7 ottobre 1525, scrivendo al Guicciardini, dice: «Il Camurana, che presentò la lettera, harà suplito faccendo intender a Vostra Signoria, che più stimo un minimo cenno di quella, che quanto havessi potuto scrivere Alexandro del Caccia, et maxime essendosi mescolata in su la lettera la auctorità del Machia.» E il 31 ottobre 1526 scriveva allo stesso: «Al Machiavello si manderà la sua (lettera), che V. S. ha mandata aperta, per la prima istaffetta che passerà, che occorrendomi scrivere anche a me in compagnia di questa, non voglio che le sua cantafavole faccino tediare la istaffetta.» Da queste lettere apparisce che il Machiavelli viaggiava allora infaticabilmente di giorno, di notte, solo o accompagnato da scorte armate, fra i due eserciti nemici.
529. Opere inedite, vol. V, pag. 203, lettera del 7 febbraio 1527.
530. Ibidem, pag. 217 e 227, lettere del 9 e del 15 febbraio.
531. Ibidem, pag. 203, lettera del 7 febbraio.
532. Opere, vol. VII, pag. 471 e seg.
533. Opere inedite, vol. V, pag. 242 e seg., lettera del 20 febbraio 1527.
534. Il Morone non era riuscito a pagare tutti i 20,000 ducati della taglia promessa. Quando fu liberato, doveva darne ancora 6000, pei quali aveva lasciato in ostaggio suo figlio Antonio. Più tardi, trovandosi l'esercito imperiale in grandi strettezze, egli potè dare 3000 ducati, per avere i quali dal duca di Ferrara, dovette dargli in ostaggio il figlio Giovanni. Per questi ed altri servigi da lui resi agl'Imperiali, il Borbone liberò Antonio, e sciolse il padre dall'obbligo di dare gli altri 3000 ducati, cui era tenuto secondo la promessa. Restava però sempre in ostaggio l'altro figlio Giovanni, per la somma appunto che il Morone voleva ora con inganno cavare dal Guicciardini. Vedi Dandolo, Ricordi, pag. 226-7; Opere inedite, vol. V, pag. 363, lettera del 26 marzo. Nella Storia d'Italia (volume IX, lib. XVIII, cap. I, pag. 25) il Guicciardini parla anche di altre pratiche fatte allora dal Morone con persone della Lega «simulatamente e con fraude.»
535. Opere inedite, vol. V, pag. 415, lettera del 19 aprile 1527.
536. Opere, vol. VII, pag. 489, lettera da Bologna, 23 marzo 1527.
537. Ibidem, pag. 496, lettera da Bologna, 30 marzo 1527.
538. Opere, vol. VII, pag. 498, lettera da Bologna, 2 aprile 1527.
539. Opere, vol. VIII, pag. 226, lettera LXXX.
540. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 21. Appendice, doc. XXII.
541. Opere inedite, vol. V, pag. 428, lettera del 29 aprile 1527, da Firenze.
542. Una di queste pietre cadde sul Davide di Michelangiolo, e ne ruppe il braccio sinistro in tre pezzi, che poi furono rimessi.
543. Nardi, Storia, vol. II, pag. 133 e seg.; Nerli, Commentarî, pag. 148; Varchi, Storia, vol. I, pag. 130 e seg.; Guicciardini, Storia d'Italia, vol. IX, lib. XVIII, pag. 41 e seg.; Opere inedite, vol. V, pag. 423 e seg. Nella Miscellanea fiorentina di J. del Badia, N. 9, pag. 32 e segg., anno 1886, il Fiorini pubblicò una lettera di Iacopo Nardi sulla mutazione dello Stato nel 1527.
544. Opere inedite, vol. IX: La prigionia di Clemente VII e la caduta della Repubblica fiorentina, pag. 10, lettera del 18 maggio 1527. — Per la vita del Guicciardini in questi tempi è utile consultare l'opera di A. Rossi, Francesco Guicciardini e il Governo fiorentino dal 1527 al 1540, vol. due: Bologna, Zanichelli, 1896-99. Un nuovo libro ha pubblicato recentemente anche E. Zannoni, La Vita pubblica di F. Guicciardini: Bologna, Zanichelli, 1896.
545. Opere inedite, lettere del 21 e 26 maggio.
546. Nardi, Storia di Firenze, vol. II, pag. 161.
547. Opere, vol. VII, pag. 509.
548. Ecco le parole del Busini: «Dice mess. Piero Carnesecchi, che venne seco da Roma con una sua sorella, che l'udì molte volte sospirare, avendo inteso come la Città era libera. Credo che si dolessi de' modi suoi, perchè in fatti amava la libertà e straordinarissimamente; ma si doleva avere impacciatosi con papa Chimenti.» Lettere, pag. 84-85 (lettera IX).
549. Vedi Appendice, doc. XXIII. Da esso apparisce come Donato Giannotti fu nominato segretario solo nell'ottobre del 1527.
550. Mordenti, Diario di Niccolò Machiavelli: Firenze, 1880, pag. 577.
551. Libro dei Morti (della Grascia) dal 1457 al 1506, n. 5, a c. 289t. Sotto l'anno 1500 si legge: «Messer Bernardo Machiavegli riposto in Santa Croce, a dì 10 di detto (maggio 1500).» E nel Libro dei Morti (o dei Becchini) Medici e Speziali, n. 249, segnato G, a c. 128, sotto la data 22 giugno 1527: «Niccolò di.... Machiavelli, a dì 22 riposto in Santa Croce.» Questi due libri sono nell'Archivio fiorentino.
552. Opere, vol. I, pag. CXXIX.
553. La lettera manoscritta trovasi nelle Carte del Machiavelli (Cassetta I, n. 84). È indirizzata a Francesco Nelli, ed ha la sola data dell'anno. Anche il compianto cav. Gherardi, direttore dell'Archivio fiorentino, dubitò della sua autenticità.
554. I due testamenti si trovano nelle Opere, vol. I, pag. CXXXIII-VIII e CXXXIX-XLIV.
555. Busini, Lettere, Lettera IX, pag. 84-85.
556. Ecco quello che scrive il Ricci, a pag. 193 del più volte citato Codice (fra i Mss. rari della Nazionale di Firenze, 5, I, 16).
«Giuliano de' Ricci a chi legge:
«Il Giovio nelli elogii, sotto alla imagine del Machiavello, tassandolo di maligno et di poco religioso, dice che egli si morì per avere preso una medicina a sua fantasia, mediante la quale, scherzando egli pazzamente con la Divinità, si condusse alla morte. Et poichè io veggo la ricetta di queste pillole tanto da lui celebrate, mi vo immaginando che in quelli tempi si potesse spargere qualche falso romore di questa cosa, perchè in verità egli morì cristianamente nel suo letto, visitato da tutti gli amici, in braccio della moglie et de' figliuoli, et io che li sono nipote non ho mai inteso dire nè da madonna Marietta de' Corsini sua moglie, nè da madonna Baccia mia madre et sua figliola, nè da messer Bernardo et messer Guido et messer Piero suoi figlioli et miei zii, tal cosa, et la ho per una vanità. Et la compositione di quelle pillole è tale che non merita di essere da scrittore maledico et falso, come è il Giovio, fattoci un commento sopra, che, pigliandole, si voglia scherzare con la religione, o trattare con esse di farsi immortale, poichè gli ingredienti in essa sono tutti di droghe et semplici ordinarii et communissimi a tutti li medici et a tutti gli speziali.» Le parole del Giovio nell'elogio del Machiavelli sono queste: «Fuit exinde semper inops uti irrisor et atheos, fatoque functus est, quum accepto temere pharmaco, quo se adversus morbos praemuniret, vitae suae iocabundus illusisset, paulo antequam Florentia Caesarianis subacta armis, Mediceos veteres dominos recipere cogeretur.» È certo però che, avendo il Machiavelli presa invano la solita medicina, molti credettero, sebbene non vero, che essa fosse stata la causa del male. Anche la citata lettera attribuita al figlio Pietro dice infatti: «È morto il dì 22 di questo mese Niccolò Machiavelli nostro padre di dolori di ventre, cagionati da un medicamento preso il dì 20.» È notevole poi che nè il Ricci, nè il Giovio alludano esplicitamente al sogno.
557. Stefano Binet di Digione (Du Salut d'Origène, a pag. 359: Paris, 1629), racconta il sogno, senza citare alcuna autorità. Ecco le sue parole, riportate dal Bayle (2ª ediz.): «On arrive à ce détestable poinct d'honneur, où arriva Machiavel sur la fin de sa vie: car il eut cette illusion peu devant que rendre son esprit. Il vit un tas de pauvres gens, comme coquins, deschirez, affamez, contrefaits, fort mal en ordre et en assez petit nombre; on luy dit que c'estoient ceux de Paradis, desquels il estoit escrit: Beati pauperes, quoniam ipsorum est regnum coelorum. Ceux-ci estans retirez, on fit paroistre un nombre innombrable de personnages pleins de gravité et de majesté: on les voyoit comme un Sénat, où on traitoit d'affaires d'Estat, et fort serieuses: il entrevit Platon, Seneque, Plutarque, Tacite, et d'autres de cette qualité. Il demanda qui estoient ces messieurs-là si venerables; on lui dit que c'estoient les damnez, et que c'estoient des ames reprouvées du Ciel: Sapientia hujus soeculi inimica est Dei. Cela estant passé, on luy demanda desquels il vouloit estre. Il respondit qu'il aimoit beaucoup mieux estre en Enfer avec ces grands esprits, pour deviser avec eux des affaires d'Estat, que d'estre avec cette vermine de ces belistres qu'on luy avoit fait voir. Et à tant il mourut, et alla voir comme vont les affaires d'Estat de l'autre monde.»
558. «Volphius nuper Augustae mortuus, in suis Commentariis in Tusculanas, quos anno superiore mihi donavit, Machiavellum scelerum, impietatum et flagitiorum omnium magistrum appellat, ac testatur illum quodam loco scripsisse: sibi multo optabilius esse post mortem ad inferos et diabolos detrudi quam in coelum ascendere. Nam hic nullos reperturum nisi mendiculos et misellos quosdam monachos, heremitas, apostolos; illic victurum se cum cardinalibus, cum papis, regibus et principibus.» Epistola Francisci Hotomani, 28 decembre 1580, n. 99 in Francisci et Joanis Hotomanorum, Epistolae: Amstelodami, 1700. Vedi anche il Baldelli nel suo Elogio del Machiavelli, nota 16. L'opera del Volfio, citata dall'Otomano è assai rara. Ne discorre il Blondheim nella Rivista, Modern Language Notes (Marzo, 1909, pag. 73 e seg.). Egli osserva che il sogno è ricordato nel Folengo prima della morte del Machiavelli.
559. Di ciò parla il Ricci nel suo Priorista (Quartiere S. Spirito a c. 160). Egli dice, che la cappella trovavasi nella «parete del muro che guarda verso tramontana, accanto alla porta che dicevasi de' Guardi.» Racconta poi che un religioso della Chiesa di Santa Croce, andò dal canonico Niccolò, figlio di Bernardo di Niccolò Machiavelli, e gli fece sapere come molti non appartenenti alla famiglia, venissero allora sepolti alla rinfusa, nella cappella de' Machiavelli, il che non pareva nè decoroso, nè conveniente: sarebbe perciò stato opportuno porvi riparo, e restaurarla. Ma il canonico rispose: «Deh! lasciateli fare, perchè mio padre era amico della conversazione, e quanti più morti andranno a trattenerlo, tanto maggior piacere ne harà.»
560. Nel Priorista, Ricci, Quartiere S. Spirito, a c. 273t si trova notato, che Bernardo di Niccolò Machiavelli aveva nel 1581 «più di 70 anni, era quasi vicino alli 80.» Il canonico Niccolò, figlio di questo Bernardo, morì il 10 giugno 1597 d'una resipola, ed il fratello di lui, Alessandro, morì pure nel 1597, lasciando Ippolita di nove anni. Così si estinse la famiglia. Nello stesso anno morì Lorenzino di Lorenzo di Ristoro Machiavelli. Con lui s'estinse un altro ramo della famiglia. Ne rimaneva un terzo, che finì anch'esso nel principio del secolo XVIII.
561. Aia, 1726; Londra (Parigi), 1768; Venezia, 1769; Londra, 1772.
562. Questa edizione è preceduta da una dotta prefazione di Reginaldo Tanzini. Gli editori non avevano potuto far uso della biblioteca Strozzi, nella quale erano altri manoscritti del Machiavelli. Ben presto però si estinse il ramo degli Strozzi, che li possedeva, ed il Granduca acquistò i codici più preziosi. Fu poi scoperto nella Barberiniana di Roma un codice che conteneva altri scritti inediti del Machiavelli. Si fece perciò nel 1796 una seconda edizione delle Opere, in otto volumi, la quale doveva contenere molte legazioni e lettere ancora inedite. Ma essa rimase incompiuta, mancandovi appunto il carteggio diplomatico e privato, e fu condotta con molta fretta, tanto che nel libro secondo dei Discorsi v'è una lacuna, la quale va dalla metà del capitolo XXX agli ultimi periodi del XXXIII. Vedi la prefazione di Francesco Tassi all'edizione delle Opere: Italia, 1813 (Firenze, 1826).
563. Giorgio Nassau Clavering, terzo conte Cowper, nato nel 1738, si fermò assai giovane a Firenze, e nel 1775 sposò Anna Gore, figlia d'un gentiluomo inglese del Lincolnshire, assai amata dal Granduca. Ad eccezione di sir Horace Mann, nessun Inglese fu in Firenze popolare quanto lord Cowper. Nel 1768 venne nominato accademico della Crusca. Egli corrispose alle molte prove di benevolenza, con pari affetto a Firenze, generosamente favorendo opere utili al decoro della Città. V. Reumont, Geschichte Toscana's: Gotha, Perthes, 1876-7, vol. II, pagg. 360-1.
564. A partu Virginis. Allora era stato già abbandonato lo stile fiorentino, che cominciava l'anno ab incarnatione.
565. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 46.
566. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 22.
567. Biblioteca reale di Parma. Autografa.
568. Questa lettera trovavasi fra i Mss. della biblioteca che fu già di sir Thomas Phillipps, che poi appartenne al rev. E. Fenwick in Cheltenham, più tardi andò dispersa. È autografa, ed era segnata col numero 11,017.
569. Sebbene di semplici artigiani, la famiglia aveva gli uffizî, cioè i suoi membri potevano occupare gli uffizî politici della repubblica.
570. L'autografo di questa lettera trovasi nell'Archivio di Stato in Firenze, fra le carte dell'acquisto Salari, fatto nel 1874. Essa fu in parte pubblicata nelle Opere, cioè tutto il primo paragrafo sino a maraviglia, ed il secondo periodo del secondo paragrafo da et quando a sgratiata. Nella parte già stampata si trovano però diversi errori, che abbiamo corretti.
571. Carte del Machiavelli, cassetta I, n. 59. Autografa. Di questa lettera fu nelle Opere del Machiavelli pubblicata una sola parte, cioè il secondo paragrafo, da Come io a quanto te.
572. Biblioteca Quiriniana di Brescia. Autografa.
573. Biblioteca Laurenziana. Cod. Tempi, num. 2 (già 57), a c. 165. Autografa.
574. L'originale ha: uiciqco.
575. Archivio Bargagli.
576. Forse, Bernardo.
577. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 14.
578. Archivio Bargagli. Pubblichiamo questa lettera, che non ha molta importanza, principalmente perchè ci fa conoscere la commissione a Genova e lo scopo che ebbe.
579. Si propone cioè di pagare in quattro anni, un quarto per anno, e dare robbia invece di danaro. Inoltre, appena ricevuta la robbia, i creditori dovevano mandare panni garbi o di S. Martino o altri simili, al prezzo corrente in quell'anno, e per una somma equivalente alla robbia ricevuta. Si estingueva così un credito, aprendone un altro, e però la proposta è chiamata un pagamento di sogni, e non viene accettata.
580. Qui ed in appresso lacune per essere rotta la carta.
581. Lasciata in bianco la data.
582. Archivio Bargagli.
583. Archivio Bargagli. Pubblichiamo queste due lettere del Bracci, perchè fanno meglio conoscere lo scopo della commissione a Lucca, e compiono la serie dei documenti intorno ad essa dati in luce nelle Opere (P. M).
584. Lacuna per essere rotta la carta.
585. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 38.
586. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 37.
587. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 42.
588. Laurenziana, Mes. Ashburnham, 639, c. 154.
589. Questa lettera, che riproduciamo dallo stesso Ms. Ashb., a c. 152 e segg., è già data nelle stampe (Opere, vol. VIII, pagg. 46-55), secondo una minuta, che si trova nel Codice Ricci, nella quale mancano la fine, la data e la firma. In questa copia Ashb., che è del secolo XVII, non sempre correttissima, sono notevoli varianti così di forma come di sostanza. Il codice Ashb. manca del principio, che è nelle stampe, da «Io, nel mezzo di tutte le mie felicità» sino a «me ne scusi la preallegata cagione,» il senso del quale è invece riferito, succintamente e solo in parte, in fine della lettera che noi pubblichiamo. Del resto, in questa nuova forma, essa ha tutto l'aspetto di un documento compiuto; nè le importanti variazioni che vi si trovano, in confronto dell'altra, che sembra essere la minuta, possono attribuirsi a errori o a capricci del copista. Laonde io credo di poter concludere, che il Cod. Ashb. ci dà la lettera quale, rifacendo la prima minuta, fu spedita dal Machiavelli al Vettori. Questa fu anche l'opinione dei miei amici, prof. C. Paoli e A. Gherardi, che consultai in proposito.
Il Tommasini (III, 86 nota 1) pubblicò più tardi le semplici varianti, che così pose in maggiore evidenza.
590. Il cod. ha chiaramente m.ra, ma il senso richiede questa correzione. M.re di Gursa è il noto Cardinale Gurgense.
591. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 111.
592. Carte del Machiavelli, cassetta I, n. 63. Autografo.
593. In margine si trova notato: — più volontarii, minore spesa: — megliore — manco incommodarà al paese. Ma queste note marginali si riferiscono più sotto, al periodo che comincia: «Et prima e' dicono che togliendone meno,» ecc.
594. In margine: — di' perchè cagione non sene era ordinate ad Pistoia.
595. In margine: — Come e' si pagavano.
596. Sottintendi: allegano.
597. Codice miscellaneo vaticano 5225, a f. 673 e 674. Non sono autografi, ma, come abbiamo già detto, la scrittura è certo del secolo XVI, forse della prima metà. Solo il primo dei due sonetti è inedito, ma il secondo ha notabili varianti, che segniamo in nota. Riproduciamo fedelmente la grafia del Codice.
598. Non è facile la interpretazione di questo sonetto, che in alcuni punti, specialmente nella prima terzina, riesce oscurissimo. Il Machiavelli scrive al padre Bernardo in villa, che gli aveva mandato un'oca, e pare anche raccomandato gli altri figli, specialmente uno di essi, perchè tutti menavano lassù una vita assai stentata.
Costoro, così comincia il sonetto, sono vissuti costà un mese e più, a noce, fichi, fave e carne secca, talchè sarebbe danno vero e non beffa (malitia et non cilecca) il farvi più lunga dimora.
Come il bue fiesolano assetato guarda Arno all'ingiù (a l'angúe), e per non potervi bere si lecca i mocci, così costoro fanno con l'uova, che vende la contadina (la trecca), col castrone e col bue del beccaio.
Ma (e qui cresce l'oscurità) perchè non si continui a vivere costà solo di carne salata (per non fare afamar le marmegge: le marmegge sono vermi che nascono sulla carne salata, ed esse affamerebbero se altri mangiasse tutta la carne secca, di cui si parla nel secondo verso del Sonetto), io farò motto a Daniello, il quale forse già legge qualche raccomandazione mandatagli a favore di mio fratello (Faren motto drieto a Daniello, che forse già v'è qualcosa che legge. Non sappiamo chi sia questo Daniello, nè è facile indovinare il significato delle parole: già v'è qualcosa che legge. Abbiamo dato una interpretazione probabile, ma non sicura).
Mangiando poco altro che pane (pane et coltello), abbiamo fatto per la fame visi lunghi come becchi di beccacce (becchi che paion d'accegge), ed appena teniamo gli occhi semiaperti (a sportello).
Dite a quel mio fratello, che intanto venga a godersi l'oca che giovedì avemmo da voi.
Alla fine del gioco poi, messer Bernardo mio, se si va innanzi così, voi comprerete paperi ed oche, e non ne mangerete.
599. Il prof. Salvadori, cui dobbiamo questo Sonetto, non potè interpetrare nel codice la parola daniello, il che riuscì poi al Tommasini (I, 509-10) la cui lezione perciò accettiamo. E così pure nel quarto verso accettiamo da lui il sì invece di più come lesse il Salvadori.
600. Notiamo le varianti della lezione Aiazzi (Vedi vol. II, pag. 203, nota 1 di quest'opera). Verso 2 fune: corda. 3 antre fatighe mia ui no: altre miserie mie non vo'. 4 poi che: perchè. e': i. 5 menon: menan. questi: queste. 7 mai fu: fu mai. 8 né lá in: né in. tra: fra. 9 quanto è: come. piú: sì. 10 par proprio: proprio par. 11 tutto: e tutto. 12 si scatena: s'incatena, quell': l'. sferra: disferra. 13 Con batter toppe chiavi, e chiavistelli. 14 Grida un altro che troppo alto è da terra. 15 fa: fe'. 16 è: fu. 17 Cantando sentii dire: per voi s'ora. 18 uadino: vadano, buon'hora: malora. 19 la tua: vostra. voglia: volga. 20 Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia. Facciamo notare specialmente la variante vadino in buon'ora, invece di vadano in mal'ora, perchè attenua, senza distruggerla, la cattiva impressione prodotta in noi dalla lezione Rosini.
601. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 34. Il Vettori, anche scrivendo da Roma, seguiva nella data delle sue lettere lo stile fiorentino.
602. Questo è il Breve cui accenna il Guicciardini nella sua lettera 6 giugno 1525, ed a cui accenniamo noi a pag. 325. Nella seconda edizione lo pubblicammo in fine dei documenti, perchè ne avemmo notizia quando essi erano già stampati. Ci fu comunicato dal Dr. E. Alvisi che lo credeva inedito, e tale lo credemmo anche noi. Il Tommasini (II, 787), dopo averne avuto copia direttamente dall'Archivio Vaticano, s'accorse che era stato già pubblicato dal Balan (Monumenta saeculi XV) con qualche inesattezza e lo ripubblicò più corretto (doc. XXIV, pag. 1150). Lo ripubblichiamo anche noi, perchè ci pare importante. Trovasi nell'Archivio Vaticano: Clementi VII Brevia ad Principes per Sadaletum exarata.
603. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 45.
604. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 12.
605. L'autografo è nei Mss. Magliabechiani II, 3, 432.
606. Si trovano in un quaderno (o frammento di quaderno) di sedici carte, nell'Archivio di Stato in Firenze. Pubblichiamo, salvo qualche cosa di nessun momento, tutto ciò che è scritto di mano del Machiavelli, indicando in nota, dove sono brani d'altra mano. Questi documenti compiono le pubblicazioni degli scritti militari del Machiavelli, fatte dal Canestrini.
607. Manca la data del giorno. Qui e nella lettera che segue il Machiavelli deve essere incorso in errore, scrivendo aprile invece di maggio. Ciò vien confermato dalla lettera del primo di giugno, e dalla provvisione pubblicata nelle Opere (P. M.), vol. VI, pag. 360, che istituiva il magistrato dei Cinque Procuratori delle mura, e fu vinta nel Consiglio del Cento il 9 maggio 1526. I Procuratori furono eletti il 19. È possibile che la confusione nelle date sia seguita perchè essi cominciarono, anche prima della elezione definitiva, ad esercitare in qualche modo il loro ufficio. Il Tommasini (II, 848, nota 3) respinge questa ipotesi, perchè dice che il Machiavelli doveva assai bene conoscere la data, il che è vero. Non è ugualmente vero, che perciò l'errore avrebbe dovuto essere non una svista, ma una falsità. Non c'era nessuna ragione al mondo per commettere una falsità. Io mi sono indotto a supporre una svista, non solamente per le ragioni che ho addotte; ma anche perchè, nelle moltissime lettere autografe, d'ufficio, che ho esaminate nell'Archivio fiorentino, ho più di una volta riscontrato simili sviste del Machiavelli. In sostanza erano minute di lettere, che poi venivano copiate in forme definitive, e la svista poteva esser corretta.
608. Spazio bianco.
609. Di qui si confermerebbe che la prima e la seconda lettera furono scritte il 24 maggio, e non il 24 aprile.
610. Questo verso è d'altra mano. Segue un'altra lettera circolare, quasi identica alla precedente, scritta dal Machiavelli, in data del 6 giugno, ed indirizzata ai vicari di Certaldo, Scarperia, San Miniato, San Giovanni e Poppi.
611. Il principio e la fine di questa lettera sono d'altra mano. Indicheremo in nota la parte che è scritta dal Machiavelli.
612. Qui comincia la mano del Machiavelli.
613. Qui, sino alla fine della lettera, cessa la mano del Machiavelli.
614. I Capitani di Parte Guelfa.
615. Qui segue, scritta di mano del Machiavelli, una nota di 18 potesterie col rispettivo numero di uomini (50, 60 o 150) da richiedersi ad esse con la circolare che pubblichiamo.
616. Spazio bianco, che doveva essere riempito nelle varie copie di questa circolare, col numero d'uomini che toccavano a ciascuna delle potesterie, secondo la nota, cui abbiamo più sopra accennato.
617. Segue, sempre di mano del Machiavelli, una nota di 24 potesterie o vicariati, dove bisognava chiedere marraiuoli e stipa; poi una nota di 31 potesterie, cui doveva essere indirizzata la circolare del 21 gennaio, che diamo qui sotto.
618. Seguono, sotto la data 26 gennaio, i nomi di tre tavolaccini, cui si doveva dar patente «ad comandare bestie per levare stipa, a fare tagliare stipa etc.»
619. Qui cessa la mano del Machiavelli. Seguono altre lettere ed ordini simili ai precedenti, non scritti però da lui.
620. Archivio Bargagli. Questa lettera da me pubblicata nella prima edizione del terzo volume (1882, doc. XVIII), venne poi dall'Alvisi, al pari di qualche altro documento, ripubblicata l'anno seguente nella sua edizione (1883) delle Lettere familiari del Machiavelli. Il Tommasini (II, 386, nota 2) credette invece che io l'avessi presa dall'Alvisi.
621. Dal già citato copialettere, che trovasi nel R. Archivio di Parma.
622. Nato nel 1467, s'era dato alla vita ecclesiastica, che abbandonò poi per la politica. Ebbe molte ambascerie, specialmente in Francia, dove, sebbene laico, era adesso nunzio del Papa. I suoi dispacci venivano diretti a Roma, a Firenze, spesso anche al Guicciardini, luogotenente del Papa.
623. A c. 10-10t.
624. Arciduca Ferdinando d'Austria.
625. Gli ambasciatori d'Inghilterra e di Venezia.
626. A cc. 16t-18.
627. Capino da Capo, gentiluomo mantovano, altro inviato del Papa.
628. A cc. 121-122t.
629. In margine è scritto: Mandato per currieri apposta. Augusti VI
630. Il Castello di Milano.
631. Giovanbattista Sanga, mandatario del Papa a Francesco I.
632. Sembra un nome convenzionale, per alludere a Clemente VII.
633. In margine è scritto: VI Agosto, come abbiamo più sopra accennato; e deve esser la vera data, giacchè da un'altra nota marginale, in alcune parti poco intelligibile, si capisce chiaro che la lettera fu spedita il VI Agosto.
634. A cc. 136-137.
635. In margine: Augusti 13.
636. Tommaso Wolsey cardinale ed arcivescovo di York, noto in Italia col nome di Eboracense. Nel 1518 ebbe da Leone X le chiese unite di Bath e Wels. Cardella, Memorie storiche dei Cardinali, ecc. IV, 10.
637. A cc. 161t-162.
638. In margine è scritto: Augusti XXIII.
639. Chiuda gli occhi, finga di non vedere nè capire.
640. Luisa di Savoia, madre di Francesco I.
641. In margine è scritto: «Andarono alli XXVI, dirette al Marchese di Saluzzo, che le mandassi in campo, a hore X.»
642. A cc. 185-188.
643. In margine: Septembris xi.
644. La Principessa Eleonora d'Austria, sorella dell'Imperatore.
645. Il capitano Renzo da Ceri.
646. A cc. 206-206t.
647. In margine: Septembris 24.
648. A c. 213t.
649. In margine: Septembris 28.
650. Fiume Sava, che va nel Danubio.
651. A cc. 219t-220.
652. In margine: Octobris III.
653. V. pag. 345 e nota 1, in questo volume.
654. A cc. 220-221t.
655. In margine è scritto: Octobris IIII. Portò Pier Porco corriere.
656. A cc. 237t-239.
657. In margine: Octobris 18, tenuta a XX.
658. L'Acciaiuoli e Messer Paolo d'Arezzo.
659. Paolo d'Arezzo, mandatario del Papa.
660. A cc. 204t-242.
661. In margine: Octobris 24.
662. Giovanni de' Medici.
663. Guido Rangone, altro capitano del Papa.
664. Carte del Machiavelli, cassetta V, n. 21.
665. Archivio di Stato in Firenze. X di Balia. Stanziamenti e Condotte dal 1527 al 1529 (Classe XII, Dist. ii, 79) a c. 5t.
666. Ivi a c. 74t.
667. Il partito dell'elezione di Francesco Tarugi non si conosce, ma verisimilmente dovette essere del tenore stesso di quello preso pel Giannotti; la sua data si rileva dal presente stanziamento di salario. La nuova Signoria, col gonfaloniere Capponi, entrò in ufficio il primo di giugno, ed il Tarugi fu segretario per brevissimo tempo.
668. Martin Hobohm, Machiavellis Renaissance der Kriegskunst; Berlin, Karl Curtius, 1913. I due volumi hanno anche, ciascuno di essi, un titolo speciale. Il primo: Machiavellis florentinisches Staatsheer; il secondo: Machiavellis Kriegskunst.
669. Nelle Memorie storiche abbiamo trovato lettere o estratti da lettere di M. A. Niccolini oratore a Milano (1492), di Piero Guicciardini oratore a Milano (1493), dei Commissarî in Pisa (1494), di G. B. Ridolfi oratore a Milano (1495), di Antonio dei Pazzi oratore a Roma (1497), del Becchi oratore a Roma (1496), del Bracci oratore a Roma (1497). Questi estratti si trovano nel principio del volume I; ma continuano poi per tutti i quattro volumi. Alcuni sono autografi del Guicciardini, moltissimi invece copiati d'altra mano.
670. È nelle Memorie Storiche indicato semplicemente così: Bartol. Gherardo Bartolini Salimbeni era cognato del Guicciardini, cui indirizzò, in forma di lettera, la sua Cronichetta sopra le ultime azioni di Lorenzo de' Medici duca d'Urbino, pubblicata poi nel 1786 dal Padre Ildefonso, nell'Appendice al vol. XXIII delle Delizie degli Eruditi toscani.
671. Scipio Vegius autore dell'Ephemerides, lavoro che si trova manoscritto nell'Ambrosiana. Nelle Memorie Storiche è indicato semplicemente così: Scipio.
672. Questo autore, che nelle Memorie Storiche è chiamato El Borgia, deve essere Girolamo Borgia nato in Sirisio di Basilicata, l'anno 1475. Il signor Camillo Minieri Riccio, nelle sue Biografie degli Accademici Alfonsini, detti poi Pontaniani (1442-1543), pubblicate nell'Italia Reale, e più tardi in venti esemplari a parte, lo dice (a pag. 235 e segg.) parente di papa Alessandro VI, intimo di Giovanni Borgia duca di Gandia. Aggiunge che quando questi fu fatto nel 1497 uccidere dal fratello Cesare, Girolamo Borgia dovette fuggire e nascondersi, «per essere a lui palesi tutti i segreti del defunto.» Fu autore di molte opere in verso ed in prosa, fra le quali una Historia Aragonensium, in venti libri, che «rimase manoscritta, ed andò poi perduta. La sola prefazione del libro XIX fu salvata e si conservava da Gio. Vincenzo Meola, come costui lo attesta nella nota XIII, pag. 48 alle lettere di Onorato Fascitelli (Napoli, 1776).» Noi argomentiamo che questo Girolamo Borgia sia l'autore citato dal Guicciardini, perchè non ne conosciamo altri dello stesso nome in quel tempo, e perchè le citazioni e gli estratti che ne abbiamo trovati nelle Memorie, si riferiscono principalmente a fatti seguiti ai Borgia nel Napoletano.
673. Vedi pagg. 110 e segg. del vol. II di quest'opera.
674. Vedi la mia prefazione ai Dispacci di A. Giustinian; la recensione che di essi fece G. E. Saltini, con nuovi documenti, nell'Archivio Storico Italiano, terza serie, vol. XXVI, anno 1877: e specialmente quel che dico nelle già citate pagg. 110 e segg. del vol. II di quest'opera.
675. Debbo qui ringraziare il conte Francesco Guicciardini, che assai gentilmente mi permise di esaminare i manoscritti del suo illustre antenato. E come ho già altrove ringraziato i miei amici prof. Cesare Paoli e cav. A. Gherardi (pur troppo ora defunti), così debbo anche esprimere la mia gratitudine al già Sopraintendente degli Archivi Toscani, C. Guasti, a T. Gar, e B. Cecchetti Sopraintendenti degli Archivi Veneti, tutti successivamente scomparsi.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
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