The Project Gutenberg EBook of Cronaca di Fra Salimbene parmigiano vol. II
(of 2), by Salimbene de Adam

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Title: Cronaca di Fra Salimbene parmigiano vol. II (of 2)

Author: Salimbene de Adam

Translator: Carlo Cantarelli

Release Date: February 2, 2020 [EBook #61305]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONACA DI FRA SALIMBENE, VOL 2 ***




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CRONACA
DI
FRA SALIMBENE VOLUME II


CRONACA
DI
FRA SALIMBENE PARMIGIANO

DELL'ORDINE DEI MINORI

VOLGARIZZATA DA
CARLO CANTARELLI

SULL'EDIZIONE UNICA DEL 1857
CORREDATA DI NOTE E DI UN AMPIO
INDICE PER MATERIE

Vol. Secondo

PARMA
LUIGI BATTEI EDITORE
1882


Il traduttore si riserva il diritto della proprietà letteraria



INDICE


[3]

CRONACA DI FRA SALIMBENE DI ADAMO PARMIGIANO DELL'ORDINE DE' MINORI

a. 1266

L'anno del Signore 1266, Re Carlo passò il ponte di Ceprano[1] col suo esercito per andare contro Manfredi Principe, di Puglia e Sicilia, figlio dell'Imperatore deposto Federico II; poi Re Carlo coll'esercito passò il ponte di S. Germano[2], ed entrò di forza in S. Germano; agli 11 di Febbraio prese Capua, poscia sconfisse Manfredi e l'esercito di lui presso Benevento. Il qual Manfredi cadde morto con tremila de' suoi, tra cui il Conte Galvano, Annibale nipote del Cardinale Riccardo, Enrico Marchese di Scipione, nipote di Uberto Pallavicini, e molti altri Baroni; e Manfredi fu sepolto appiè del ponte di Benevento[3], un venerdì 26 Febbraio. Fu [4] anche presa la moglie di Manfredi con due suoi figliuoli e con tutto il tesoro in Manfredonia. (Questa città la fabbricò Manfredi, e le impose il proprio nome; e fu fondata in vece di un'altra città, che si chiamava Siponto, a due miglia di distanza; e, se il Principe viveva pochi anni ancora, sarebbe diventata una delle più cospicue città del mondo. È tutta murata in giro, come dicono, ed ha un porto sicurissimo; è alle radici del monte Gargano; la strada principale è già abitata; sono già poste le fondamenta delle case nelle altre strade, che sono larghissime, e aggiungono molto alla bellezza della città. Ma Re Carlo l'ha tanto in uggia, che non la vuol nemmeno sentir nominare, anzi vuole che si chiami Siponto nuova). Nella stessa battaglia restò prigioniero anche il Conte Giordano e Pietro Asino di Fiorenza, e molti altri rimasero morti sul campo. Il Principe Manfredi però ebbe alcune buone qualità, di cui ho parlato a sufficienza nel lavoro che feci intorno a Gregorio X. E ciò ridico perchè lo storiografo deve essere imparziale, sicchè d'una persona non dica soltanto il male, e ne tacia il bene. I Cortigiani principali di Manfredi furono: Il Conte Galvano Lancia, che era il primo della Corte, e più d'ogni altro influente; era Piemontese ed aveva attinenza di parentela col Marchese Lancia; il Conte Giordano e il Conte Bartolomeo ambedue Piemontesi; il Conte di Caserta di Puglia, che tradì Manfredi, di cui, credo, aveva in moglie una sorella; il Conte di Acerra della Puglia di Terra di Lavoro; Giovanni da Procida, potente e grande nella Corte di Manfredi, ed è in voce d'aver egli propinato il veleno a Re Corrado, ad istanza del fratello Manfredi; Manfredo Maletta, che vive tuttora, Conte Ciamberlano, potentissimo alla Corte di Manfredi, ricchissimo, e da Manfredi stesso prediletto. Questo Maletta avendo potuto sfuggire alla strage che si fece dell'esercito del suo Signore, si ricoverò a Venezia, [5] e vi abitò finchè Pietro d'Aragona invase il Regno dalla parte di Messina contro Re Carlo, fratello del Re di Francia S. Lodovico di buona memoria. Ed ora il prenominato Ciamberlano è uno dei grandi e prediletti nella Corte di Pietro d'Aragona. Egli sa dove stanno nascosti molti tesori. È valentissimo e perfetto compositore di canti e canzonette, e per suonare strumenti musicali è stimato non aver pari al mondo. È regnicolo, cioè oriondo del Regno. E qui è da notare che Re Carlo fece uccidere molti, or l'uno or l'altro, che si spacciavano per Manfredi. Imperocchè non manca mai chi, a cagione di lucro, s'infinge per Manfredi; sia pur anche che si esponga al pericolo della morte. L'anno stesso poi 1266, Brescia, che era sotto la Signoria del Marchese Uberto Pallavicini, si ribellò al Marchese, ed i Bresciani che erano dentro la città, e quelli che ne erano fuorusciti, fecero tra loro pace e concordia, e si rappacificarono anche coi Milanesi e coi Bergamaschi, in Febbraio. L'anno stesso, i Modenesi fuorusciti occuparono il castello di Monte Valerio[4], per tradigione di Ugolino da Guiglia, un nobile del contado di Modena, che fattosi d'improvviso traditore e nemico, di amico e fedele che era dei Modenesi della città, cioè degli Aigoni, che parteggiavano per la Chiesa, e ribellatosi a quelli che in molte maniere l'onoravano, lo consegnò ai fuorusciti, cioè ai Gorzano e a quelli di parte loro; i quali occupando il detto castello molestavano in diversi modi la diocesi di Modena. Perciò, i predetti Modenesi della città, colla milizia dei Reggiani, e forte numero di popolani ed alcuni Parmigiani si posero a campo virilmente e potentemente attorno al castello; ed ivi durando tutto il mese, fu tanta la fame e la sete a cui furono ridotti quei del castello per la moltitudine degli uomini e degli [6] animali, che non vi si poteva più vivere; e inoltre vi si era fatto un insoffribile fetore, sicchè dopo aver perduto per forza, ai 3 di luglio, lo steccato, già ridotti agli estremi, avuto affidamento del rispetto alle persone, abbandonarono, ai 4 di Luglio stesso, il castello. Allora il prenominato traditore Ugolino di Guilia, mentre malato morto si trasportava via dal castello, fatto segno alle grida e all'ira del popolo, fu crudelmente ucciso in mezzo al campo; ed il castello fu completamente distrutto. L'anno stesso, ai 3 di Settembre, si rappacificarono tra loro la fazione di quei di Sesso che era fuori, e la fazione dei Roberti, che eran dentro. E a Reggio fu Podestà Bonacorso de' Bellincioni da Firenze, che fu tanto benefico ai poveri, quanto severo coi nobili. E i nobili ne lo cacciarono, perchè sosteneva i diritti del Comune, e faceva buona giustizia...... Lo stesso anno, i Guelfi Fiorentini ritornarono in Firenze, e ne espulsero i Ghibellini. Lo stesso anno, Re Carlo assediò Poggibonsi[5], e vi era stato dintorno a campo lungo tempo, quando l'ebbe per accordi; ed ivi morì sua moglie l'anno seguente. L'anno 1266, una grande moltitudine di Saraceni passando lo stretto venne in Ispagna, e si unirono a quelli che già vi erano, e, volendo riconquistare quella parte di Spagna che avevano perduta, fecero immensa strage di cristiani. Ma in fine, serratisi insieme i cristiani del paese, e aggiuntivisi molti crociati da diverse parti, riportarono, quantunque con gravi perdite, vittoria sui Saraceni.

a. 1267

L'anno del Signore 1267, indizione 10ª, Re Carlo in Toscana strinse di lungo assedio il castello di Poggibonsi, ove erasi chiuso un forte nucleo di nobili avversi alla Chiesa; finalmente venne con loro ad accordi e se ne andarono. Fu pure conchiusa pace e concordia tra i [7] Cremonesi di dentro la città e i fuorusciti, per mediazione del Legato del Papa. E Uberto Pallavicino perdette la Signoria di Cremona e di altre città, nelle quali aveva signoreggiato, e se ne tornò a' suoi castelli di Ghisaleggio e Landasio nella diocesi di Piacenza. E il Pallavicino stesso restava meravigliato che un prete solo, e colle sole blandizie delle sue parole, l'avesse potuto espellere da' suoi dominii; e perciò era solito dire:

Cum verbis blandis et factis saepe nefandis

Amentem prudens fallere saepe solet.

Con opra rea, ma con parole molli,

L'accorto spesso sa gabbare i folli.

E se lo meritò bene il Pallavicino di perdere la Signoria di Cremona, perchè temendo di perderla se i devoti che si flagellavano fossero andati a Cremona, fece piantare le forche lungo il Po....... Così lo stesso anno uscì di Cremona, con quei di parte sua, Bosio di Dovara e fu assediato nella Rocchetta[6]. Questi due iniqui Signori spadroneggiarono molti anni in Cremona. Questo stesso anno, verso la festa del beato Francesco, Corradino figlio di Corrado, che era figlio di Federico Imperatore deposto, venne dall'Alemagna per andare in Puglia a ricuperare contro Re Carlo la Terra degli avi suoi; e molti Toscani e Lombardi si associarono a lui, e per via non incontrò alcun ostacolo sino al giorno della battaglia. Perciò l'esercito dei Cremonesi di dentro la città, per timore di Corradino e dei Veronesi, sciolse l'assedio della Rocchetta. Questo Corradino era giovine di lettere, e parlava benissimo latino: e lo stesso anno, in ottobre, andò a Verona con numerosissima milizia tedesca. Così l'anno stesso, [8] in Luglio, di notte, furtivamente, Giacomino da Palù ascese ed entrò sul sasso di Bismantova, ove fu ucciso Turco da Bismantova. Dai Reggiani e Parmigiani fu pure quell'anno, in Agosto, cinta d'assedio Crovara, ed i Reggiani vi avevano tre trabucchi, i Parmigiani uno. E Crovara[7] si arrese a patti, e Bismantova pure fece la sua dedizione, e diede ostaggi al Comune di Reggio, per sigurtà che non gli avrebbero per lo innanzi recata offesa. Così pure in Dicembre, ai nove, fu riconquistato il castello di Reggiolo, occupato dai Cremonesi, che l'avevano avuto da quei di Sesso, che lo possedevano per ragion di conquista; e fu dalle mani dei Cremonesi riscattato a prezzo di tremila lire reggiane, oltre le spese per ambasciate, militi e fanti, che andarono a servizio dei Cremonesi.

a. 1268

L'anno 1268, indizione 11ª, i Parmigiani cinsero di assedio Borgo S. Donnino coll'aiuto de' Modenesi, Cremonesi, Piacentini e Reggiani; e se ne ritirarono dopo esservi stati lungo tempo attorno, e aver distrutto nel contado alberi, biade, vigne e case. E allora i Parmigiani si rappaciarono con que' loro concittadini che soggiornavano in Borgo S. Donnino. Quell'anno infermò Papa Clemente IV, il giorno di S. Cecilia, e otto giorni dopo, cioè la vigilia di S. Andrea, morì. L'anno stesso, Corradino passò presso la Rocchetta e vicino a Brescia; poi tornò alla Rocchetta di Bosio, passò l'Adda e pel Ticino si recò a Pavia, ove si fermò molti giorni; poscia si portò a Pisa, traversando le Terre del Marchese del Carretto, e per mare. Il suo esercito arrivò più tardo a Pisa passando per il territorio dei Fieschi. E lo stesso anno si accostò a Roma marciando attraverso la Toscana, a malgrado dei Guelfi del paese, e raccolse uomini [9] su quel di Lucca. Così nello stesso millesimo, la vigilia del beato Bartolomeo, s'azzuffò l'esercito di Corradino coll'esercito di Re Carlo, il quale ne trionfò; e dalla parte di Corradino molti cadendo furon morti. Vi fu grande strage, e molti si diedero a fuga, e molti altri Baroni e cavalieri rimasero prigioni. Lo stesso Corradino col Duca d'Austria e moltissimi altri fu fatto prigioniero e condotto nelle carceri di Palestrina. Ed Enrico fratello del Re di Castiglia, che era allora Senatore di Roma, fu parimente preso in questa battaglia con Galvagno Lanza. Il quale, insieme a molti altri Pugliesi traditori, fu ucciso con due suoi figli presso Roma. E l'anno stesso Modenesi e Reggiani presero Brandola[8].... E, il dì di S. Luca Evangelista, la moglie di Re Carlo venne a Reggio con numerosissimo seguito di fanti, di cavalieri e balestrieri. E, non un mese dopo, arrivò a Reggio il Conte di Fiandra in compagnia di sua moglie, che era figlia di Re Carlo, con una moltitudine di gente, che tutti andavano in Puglia dopo la sconfitta di Corradino e de' suoi, nella quale battaglia rimase prigioniero Corrado di Antiochia, nipote dell'Imperatore, che era evaso dalla prigione del Re per opera di Giacomo di Napoleone e compagni, che erano nell'accampamento dei Saraceni. E quella sconfitta avvenne nei campi Palentini, presso il fiume[9] della Marca, vicino ad Albi[10]. E lo stesso anno, dopo tre mesi, fece a Corradino medesimo, al duca d'Austria nel regno di Puglia, e al Conte Gerardo da Pisa..... fece loro presso Napoli mozzar la testa. Morì anche quell'anno, ai 28 Novembre, Papa Clemente IV, nativo della Provenza. Questo Papa Clemente, [10] che ebbe moglie e figli, prima fu avvocato di grande rinomanza e consigliere del Re di Francia: dipoi, morta la moglie, per merito di vita buona e di rara scienza, fu fatto Vescovo di Puy[11], poscia Arcivescovo di Narbonne; in seguito, Vescovo e Cardinale della Sabina; finalmente, mandato da Papa Urbano IV in Inghilterra, come Legato per la riformazione della pace, fu, in sua assenza, dai Cardinali eletto Papa, a Perugia, e si diede tanto alle veglie, ai digiuni, alle preghiere e ad altre buone opere, che si crede che Iddio pe' meriti di lui abbia liberato la Chiesa dai gravi disordini, che a quei tempi l'affliggevano. Egli, quando Corradino nipote dell'Imperatore Federico, s'accingeva a battere Re Carlo, a cui il Papa aveva dato il Regno di Sicilia, mentre molti disperavano delle sorti di Carlo, sia perchè l'esercito di Corradino era grosso, sia perchè la Sicilia s'era ribellata a Carlo stesso, predisse in un pubblico sermone...... che Corradino come fumo si dissiperebbe, e Carlo entrerebbe in Puglia siccome inconscia vittima. E l'evento gli fece ragione; poichè Corradino, dopo presa la fuga, fu fatto prigioniero, e n'ebbe tronco il capo; e il suo nome, in pochi giorni, svanì come fumo. Questo Papa canonizzò anche a Viterbo, nella chiesa dei frati Predicatori, una Edwige duchessa di Polonia, vedova di ammirabile santità, la quale, tra gli altri suoi miracoli, essendosi differita di molti anni la sua canonizzazione......... La qual cosa saputasi da un ebreo, si fece subito battezzare con tutta la sua famiglia. Lo stesso anno, ai 5 di Dicembre, Manfredo dei Roberti, eletto Vescovo di Verona chiuse i suoi giorni; e, nello stesso mese, morì Pietro da Vico, Prefetto di Roma. E lo stesso anno 1268, il Soldano di Babilonia, devastata l'Armenia, occupò Antiochia, una delle più cospicue [11] città del mondo, e, presi ed uccisi uomini e donne, la ridusse una solitudine, e....... per la maggior parte li uccise; e questo avvenne ai 16 di Maggio, vigilia dell'Ascensione. Così pure nel millesimo sussegnato, cioè 1268, Corradino, nipote del fu Imperatore Federico, sprezzando la scomunica del Papa, levando le armi contro Carlo, fatto dalla Chiesa Re di Sicilia, aggiunti ai Tedeschi, che aveva, molti Lombardi e Toscani, arrivò a Roma, dove, accolto solennemente, alla imperiale, si associò il Senatore di Roma Enrico, fratello del Re di Castiglia e molti Romani, e s'avviò contro Carlo in Puglia; ma dopo un'aspra battaglia campale, Corradino, co' suoi che voltavan le spalle, fu fatto prigioniero, e da Carlo con due nobili decapitato.

a. 1269

L'anno 1269, indizione 12ª, a mezzo Aprile, cadde una abbondantissima neve, che durò, in pianura, due giorni e due notti: e cominciò a nevicare a mezzanotte tra Sabato e Domenica, nè cessò che sino a verso sera. La notte successiva si ebbe forte brina, l'altra ancora, brina fortissima, che distrusse tutte le vigne. E in quell'anno fu dai Reggiani distrutto il castello di Pizegolo[12], come anche Toano[13] fu distrutto e raso al suolo. Questo fu un anno di venti furiosissimi; e, nel mese di Luglio i Cremonesi andarono a campeggiare attorno alla Rocchetta di Bosio da Dovaria, che venne a soggezione del Comune di Cremona; e, a norma de' patti sanciti tra le parti belligeranti, la Rocchetta fu smantellata. Così pure Lucera de' Saraceni in Puglia si arrese a Re Carlo. E nello stesso anno, in Settembre, duecento fanti montanari con cavalleria e fanteria della diocesi di Modena, si recarono, per l'interesse del Comune, nel [12] Frignano contro Guidino Montecucoli, fratello di Bonacorso, per riedificare un castello in servizio dei Serafinelli della stessa Terra del Frignano[14]; e ne restaron morti e prigionieri di fanti e di cavalieri. E allora accorse il Conte Maginardo con numeroso corpo di militi di Bologna e della diocesi in aiuto del suddetto Guidino; e si combattè una accanita battaglia, e furono presi, impiccati e morti quasi tutti quelli della diocesi di Reggio, e vi morì con un suo segretario, Guido di Mandra, che era, pel Comune, Capitano di quelli della diocesi di Reggio. Lo stesso anno, la rocca di Bardi[15], nel mese di Novembre, si arrese al Comune di Piacenza; e i Parmigiani distrussero sino alle fondamenta la muraglia di cinta di Borgo S. Donnino, spianarono le fossa del castello, e mandarono comandando ai Borghigiani di abbandonare il castello, e fabbricando case, si facessero un borgo lungo la strada verso Parma. Quell'anno stesso il Marchese Uberto Pallavicini, guercio, vecchio e invecchiato nel mal fare, morì in montagna nell'amarezza dell'anima e nel dolore, senza confessione e senza penitenza, e senza dare alcuna soddisfazione alla Chiesa. E i frati Minori furono là, volendo tentare di convertirlo a Dio, almeno in punto di morte...... A cui disse frate Gerardino di S. Giovanni in Persiceto, lettore di teologia nel convento dei frati Minori di Parma: Il Savio ne' Proverbii 6º dice: Corri, affrettati, risveglia il tuo amico: Ed io adempiei a questo precetto della Scrittura, o Signore, recandomi da voi per la salute dell'anima vostra, ch'io voglio conquistare al cielo........ E il Pallavicino, rispose: Non ho rimorso in coscienza di tener nulla che sia d'altri. A cui frate Gerardino replicò; [13] Chi nasconde le sue colpe non sarà indirizzato; chi se ne confesserà e le abbandonerà, riceverà misericordia. Ma frate Gerardino riconoscendo che s'affannava invano, disse: Ho fatto quel che toccava a me ecc. e l'abbandonò alla pertinacia di lui....... Penso che frate Gerardino fosse mandato al Pallavicino o dai Parmigiani, o da qualche Legato per richiamarlo alla legge della Chiesa. Perocchè quando Papa Clemente passò da Piacenza, come privato, per andar a ricevere l'investitura del papato, disse ad alcune persone: A nome mio, dopo ch'io sia partito di quì, dite a quel Signore che tiene la Signoria di Cremona, che se vuol essere amico di Dio e della Chiesa e lasciar vivere la gente in pace, io porrò opera acciocchè il Papa gli faccia buona e festosa accoglienza, e gli usi misericordia........ I Parmigiani però del Pallavicino se ne sono vendicati ancor vivo, smantellandogli le castella, e devastando le Terre che aveva occupato....... Signoreggiò vent'anni in Cremona; che se altrettanti avesse servito a Dio, n'avrebbe avuto in mercede il regno eterno. Iddio gli perdoni i molti danni, che ha fatto ai Parmigiani, ai Cremonesi, ai Piacentini e a molte altre città Lombarde; ma neppur esso se la passò impunemente........... Nello stesso anno, si tenne un Capitolo generale in Assisi, essendo tutt'ora Ministro Generale frate Bonaventura; nè vi era Papa, perchè i Cardinali non avevano ancora potuto accordarsi. In questo tempo i Bolognesi si recarono a Primaro, e vi eressero un castello contro i Veneziani. (Primaro è una località su quel di Ravenna, dove il Po che rade Argenta, entra in mare). E corsero i Veneziani contro i Bolognesi con grosso esercito, con navi, baliste, màngani e trabucchi e con ogni maniera d'argomenti da guerra; e fecero alto alla sponda opposta del Po, e tentarono un vigoroso attacco al castello de' Bolognesi, e vi fu grosso combattimento. I Veneziani battevano la [14] torre de' Bolognesi con màngani e trabucchi; ma i Bolognesi difesero virilmente il loro castello, sicchè i Veneti abbandonarono l'impresa. Ed i Bolognesi stettero quivi a oste, credo, due o tre anni, e ne morirono trecento, o cinquecento, per la malaria del mare, e per la moltitudine delle zanzare, delle pulci, delle mosche e dei tafani. E frate Pellegrino del Polesine Bolognese, dell'Ordine de' frati Minori, andò e compose in accordo Veneti e Bolognesi. I Bolognesi distrussero il castello che avevano fatto, e quindi partirono, donando molto legname del castello sfatto ai frati Minori di Ravenna. E siccome io abitava allora a Ravenna, mi pare che la distruzione di quel castello da parte dei Bolognesi, e la loro partenza da Primaro accadessero quando Corradino fu sbaragliato da Carlo, cioè nel 1268. (Ed innumerevoli stormi di quegli uccelli, che nelle vigne devastano le uve, e che dal volgo si chiamano tordi, passarono nell'autunno di quell'anno, sicchè ogni sera dopo cena sino al crepuscolo della notte, e per molti giorni, appena si poteva liberamente vedere il cielo. Ed erano talora due, tre strati l'uno sopra l'altro, e coprivano l'estensione di tre o quattro miglia. E, poco dopo, altri stormi d'uccelli dello stesso genere sopravvenivano volando, stormeggiando, e gracidando in suono che parea di lamento. E questo ripetevasi per molti giorni, verso sera, discendendo dai monti alle valli, e tutto il cielo ingombravano. Ed io con altri frati ogni sera usciva a vedere, a osservare, a empirmi di meraviglia, e volendo stare all'aperto, all'aperto non si era, perchè quegli uccelli velavano tutto il cielo. E dico cosa vera, da me veduta; nè l'avrei creduta a chi me l'avesse contata). La cagione poi, per cui i Bolognesi andarono a Primaro e fabbricarono ivi un castello è questa. I Veneziani sono uomini avari, tenaci e superstiziosi, e vorrebbero assoggettare a sè tutto il mondo, se fosse possibile; e trattano ruvidamente [15] i mercanti che vanno ai loro mercati, e vendono caro, e fan pagare molti pedaggi in più luoghi del loro territorio, per una stessa persona e per un sol viaggio. E se qualche mercante porta colà le sue merci a vendere, non può riportarnele, anzi è costretto a vendere, voglia non voglia; e se una nave carica, che non sia delle loro, per qualche avaria si ricoveri nei loro porti, non può uscirne, se prima non ha venduto le merci a loro; e dicono che fu per volere di Dio che quella nave riparò in un loro porto; al che nulla si può contraddire. Nel tempo in cui Roglerio di Bagnacavallo dominava a Ravenna, sopravvennero i Veneziani, e costruirono un castello allo sbocco delle valli, e sulla riva del Po pel naviglio che va da Ravenna al Po dalla parte di S. Alberto, e promisero ai Ravennati, che i Veneti avrebbero tenuto il castello per cinquant'anni e che annualmente, per tale concessione, avrebbero pagato alla cittadinanza di Ravenna, cioè al Comune, cinquecento lire della moneta Ravennate; e pagavano puntualmente, come io ho veduto. Ma i Veneziani in questo affare vi ebbero cinque furberie, o malizie. La prima fu che mentre questa concessione doveva durare, come s'è detto, cinquanta anni e non più, ora si maneggiano a perpetuarla; nè solamente lo dicono, ma lo mostrano a fatti; perchè mentre prima avevano edificato il castello di legname, ora lo fanno di muraglia. La seconda è che da questa stazione intercettano la via alle navi Lombarde, che non possono trar nulla nè dalle Romagne, nè dalla Marca d'Ancona; da' quali paesi potrebbero esportare frumento, vino, olio, pesce, carne, sale, fichi, uova, formaggi, frutta, ed ogni sorta di vettovaglie, se i Veneziani non l'impedissero. Terza, perchè girano per ogni verso facendo incetta in queste due provincie d'ogni sorta di vettovaglie, e, perchè prima di loro non ne facciano raccolta, prevengono i Bolognesi, ai quali per la molta popolazione e [16] per la fame degli abitanti delle città e delle campagne, urge necessità di avere abbondanza di tali provvigioni. Per la qual cosa, nessuna meraviglia se i Bolognesi si sono levati ad alzare un castello contro i Veneziani, a cagione dei quali dovrebbero accendersi di sdegno ed insorgere anche tutti i Lombardi, e condurre un esercito e far guerra ai Veneziani per i danni che loro apportano. Quarta, perchè nel porto di Santa Maria di Ravenna hanno sempre all'àncora una galea armata, affinchè di lì nessuno possa uscire con vittovaglie, chiudendo ogni sbocco ai Ravennati, ai Bolognesi, ai Lombardi. Il che non era punto nei patti della concessione. Quinto, perchè tengono sempre in Ravenna, a spese del Comune, un console, che chiamano Vicedomino, coll'ufficio di sorvegliare con sollecitudine, con somma diligenza e oculatezza, che i Ravennati non tramino alcun che in danno dei Veneziani, nè ordiscano nulla contro l'attuale stato di cose; il che pure non era fra' patti. E i Veneziani denominarono quel castello Marcamò, volendo dire il mare chiamò, stante che dal castello si ode il suono delle onde quando il mare è agitato, e si sollevano i cavalloni. Domandai al Conte Roglerio di Bagnacavallo se l'avesse fatto fare egli quel castello; e mi rispose: Fratello, io non l'ho fatto fare, se non nel senso che l'ho lasciato costruire, essendochè quando si fece, io aveva tanta autorità in Ravenna da poter impedire che si facesse. Ma per tre motivi lasciai fare: 1º perchè io aveva per moglie una veneziana; 2º perchè in quel tempo i miei nemici erano fuori di Ravenna; 3º perchè me ne veniva vantaggio, pagando i Veneziani ai Ravennati cinquecento lire annue. D'altronde noi non ne risentiamo danno di sorta, perchè Ravenna ha tanta abbondanza di vettovaglie, che sarebbe stoltezza volerne di più. Di fatto una larga scodella piena colma di sale a Ravenna costa un piccolo denaro; all'osteria si pagano altrettanto dodici [17] ova cotte e condite; quando è la stagione delle anitre selvatiche, se voglio, posso comprarne una grassissima per quattro piccoli denari; e talvolta ho visto che, se taluno s'incaricava di pelarne dieci, gliene davano cinque di mercede. La stessa soperchiarìa usano i Mantovani a Governolo[16]. (Una volta era della Contessa Matilde, come era anche la città di Mantova): perchè quivi non si accetta pedaggio dalle navi, che passano pel Po, ma le costringono a navigare per dieci miglia sino a Mantova. E dopo che ivi hanno fatto vedere le merci, scaricandole e ricaricandole e pagando il pedaggio, li fanno (sic) ritornare al Po per lo stesso canale naviglio, sendochè altra via non avrebbero aperta, se non ritornando a Governolo. Per la qual cosa sdegnati i Cremonesi fecero quella Tagliata, di cui più sopra a suo luogo abbiamo parlato, discorrendo cioè dell'anno in cui fu fatta, la quale molto giovò ai Mantovani, e danneggiò i Reggiani, avendo loro distrutto campi, vigne e ville. Questa Tagliata sino a Primaro[17] impaludò larga zona di terreni, distrusse e sommerse molte ville, e dove prima si aveva abbondanza di frumento e di vino, ora si ha copia di pesci di diverse specie.

a. 1270

L'anno 1270, indizione 13.ª, nel mese d'Aprile, Domenica delle olive, arrivò a Reggio l'Imperatore di Costantinopoli che era in viaggio per oltremare; e, il giorno stesso, nel convento dei frati Minori, creò cavaliere Giacomino di Roteglia[18], che poi pel 1.º di Maggio bandì una gran corte, per trovarsi alla quale tutti i cavalieri e quasi tutti i giovani gentiluomini di Reggio vestirono a nuovo, e poi fecero doni dei loro vestiarii. Lo stesso [18] anno, ai 27 di Giugno, Giovedì, mancò ai vivi Bonifazio da Foiano, Arciprete della Chiesa maggiore di Reggio, uomo di lettere e fratello germano di Guglielmo Vescovo di Reggio, ed era stato anche Arciprete di Campigliola. Morì a S. Salvatore ove dimorava, e fu sepolto nella Chiesa maggiore. L'anno stesso, in Agosto, furono smantellati i fortilizi, le castella e le case degli aderenti al partito di quei di Sesso della diocesi di Reggio, e, nel mese di Settembre, furono mandati a confino essi e ventiquattro loro amici, appartenenti anch'eglino alla diocesi di Reggio, con ingiunzione di stare al di là di Bologna, di Tortona e di Verona. Così, in Settembre fu anche morto Arverio, fratello di Bonacorso da Palù, con due figli ed altre persone, da Giacomino da Palù; il quale Giacomino da Palù, a più riprese, fece strage di molti del suo casato; cioè uccise il padre di suo genero, Alberto Caro, ed il genero, che aveva nome Zanone, e il figlio della propria figlia, bambino ancor lattante, battendolo contro terra, e Arverio, che era suo fratello consanguineo, e un altro ancora del suo casato. Così, nel millesimo sussegnato 1270, non vi era nè Papa, nè Imperatore; e il Re di Francia Lodovico il cristianissimo, non rattenuto dal pensiero delle fatiche e delle spese, che altra volta aveva fatto oltre mare, di nuovo imprese il viaggio con due figli, il Re di Navarra, e moltissimi Baroni e Prelati della Chiesa per liberare Terra Santa. Ma per redimere più agevolmente Terra Santa deliberarono di assoggettare prima alla potestà dei cristiani il Regno di Tunisi, che, trovandosi a mezza via, impediva di non poco il viaggio a quelli che passavano per andar oltre mare. Ma dopo che con un pronto e forte colpo di mano ebbero occupato il porto e Cartagine, che è presso Tunisi, nell'esercito de' Cristiani cominciò a infuriare la malattia, che quell'anno infieriva lungo le coste di quel mare; e mietè, prima, la vita d'un figlio del Re, poi quella del Legato del Papa, Cardinale [19] Albanese, in seguito quella del Re stesso cristianissimo, Lodovico, e di molti Conti e Baroni e semplici soldati. Come poi abbia chiusi i suoi giorni il Re prenominato.... Nella sua malattia non cessando mai di lodare Iddio, talvolta alle lodi intercalava questa preghiera: Fammi, o Signore, tener in non cale la prospera sorte del mondo, e non paventare l'avversa. Pregava anche per il popolo che aveva tratto seco, dicendo: Santifica e custodisci, o Signore; il tuo popolo. E in sul punto di esalare l'ultimo respiro, alzò gli occhi al cielo e disse: Entrerò in casa tua, adorerò nel santo tempio tuo, e confesserò il tuo nome, o Signore. Pronunziate queste parole, s'addormentò nel Signore. E in mezzo al turbamento d'animo dell'esercito dei cristiani, e alla festa che ne facevano i Saraceni, ecco che con numerose squadre di milizia arrivò Carlo Re di Sicilia, a sollecitare il quale, vivo ancora il Re di Francia, era venuto suo fratello; il cui arrivo molta esultanza suscitò negli animi dei cristiani, e molta trepidazione nei Saraceni. E quantunque, a quanto appariva, fossero di numero superiori ai cristiani, pure mancava loro l'ardimento di provocarli a generale battaglia; ma con loro arti recavano ai cristiani molte molestie; delle quali questa fu una. Quella regione è molto sabbiosa, e, in tempo di siccità, sommamente polverosa; laonde i Saraceni appostarono molte migliaia d'uomini sopra un monte vicino ai cristiani, e quando soffiava il vento nella direzione dei cristiani, smovevano la sabbia, e se ne sollevavano nubi e nembi d'un polverìo, che era molestissimo ai cristiani. Ma finalmente, per pioggia caduta, cessò la polvere, e i cristiani, appostate le macchine e tutti gli argomenti guerreschi, s'apparecchiavano ad oppugnare Tunisi da mare e da terra; il che incutendo timore ai Saraceni, vennero a patti coi cristiani. Tra i quali patti è fama che i principali fossero i seguenti: che tutti i cristiani prigionieri [20] in quel Regno si lasciassero in libertà; che nei monasteri fabbricati nelle città di quel Regno ad onore del nome di Cristo, si potesse liberamente predicare il Vangelo dai frati Minori e Predicatori, od altri che fossero; che liberamente si potesse battezzare chi il desiderasse; che, pagate le spese della crociata al Re, la Tunisia fosse tributaria al Re di Sicilia. E molti altri patti furono convenuti, che quì sarebbe troppo lungo annoverare. E mentre per l'arrivo di Odoardo Re d'Inghilterra, in compagnia di una moltitudine di Frisoni ed altri pellegrini, era cresciuto di tanto il numero dei combattenti cristiani, che si giudicava arrivassero a 200000, e si sperava che bastassero non solo a redimere Terra Santa, ma anche a soggiogare tutti i Saraceni, sì numeroso esercito, per le peccata de' cristiani, si disperse senza aver apportato alcun notevole vantaggio. Perocchè il Legato, che avrebbe dovuto dirigerli, fu rapito da morte; Terra Santa, a cui doveano avviarsi, mancava del governatore dei pellegrini; il Patriarca, che fu delegato per Terra Santa, era morto; la Sede Apostolica che a tutti doveva sopravvedere e provvedere, era vacante; e il Re di Navarra, che era partito malato dall'Africa, giunto in Sicilia, soccombette alla sua malattia.

a. 1271

L'anno del Signore 1271, indizione 14.ª, l'ultimo di Marzo, arrivò di passaggio a Reggio, Filippo Re di Francia con suo fratello e col suo esercito, ed ebbe ospitalità nel palazzo di Guglielmo da Fogliano, che allora era Vescovo di Reggio. Il qual Re andava in Francia colla salma di suo padre Lodovico Re di Francia, che trasportava dall'Africa, dove era morto a Cartagine presso Tunisi. E lo trasportava in un'urna chiusovi con aromi; ed in un'altra urna portava la salma di Tristano suo fratello e figlio del Re predetto, che era morto parimente a Cartagine con molti altri Baroni, che s'eran mossi per redimere oltre mare la Terra Santa. E dopo otto giorni [21] passò pure da Reggio il Conte di Fiandra colla sua gente e la sua milizia. In quell'anno fu enorme carestia di biade; tanto che in Maggio e Giugno lo staio di fava si vendeva sei soldi imperiali; lo staio di melica, tre, quattro soldi imperiali; lo staio di spelta costava due soldi e mezzo imperiali sul pubblico mercato, e in contratti privati dieci soldi reggiani; lo staio del frumento si pagava venti soldi imperiali in pubblico; ed in privato, otto soldi imperiali. E lo stesso anno i Cremonesi andarono a oste contro il castello di Malgrate[19], e vi stettero fino a tanto che lo ebbero a patti, e lo diroccarono e rasero al suolo. Lo stesso anno fu anche devastato il territorio di Crema sino alle fossa della città, in Giugno, dai Milanesi. Ed era allora Podestà di Milano Roberto da Tripoli, cittadino Reggiano, dei Roberti. In quell'anno fu costituita in Bologna una compagnia, che si chiamava della giustizia; ed era numerosa assai e composta dei migliori popolani di quella città; e mandò ottocento dei suoi armati ai confini del territorio Bolognese per la sicurezza della città. Nello stesso anno, Deto dei Cancellieri di Pistoia fu sei mesi Podestà di Reggio, da San Pietro al 1º. di Gennaio; e il detto Podestà andò ad assediare il castello di Corvara, ai 22 di Luglio, con fanteria e cavalleria del quartiere di Castello e di S. Nazzaro. Vi concorse anche un quartiere della città di Parma. E il Comune di Reggio mandò tre trabucchi, e tre quei di Parma. Il Comune di Mantova, in aiuto del Comune di Reggio, pel detto assedio, inviò venticinque balestrieri; quel di Castiglione di Toscana anch'esso mandò a servigio del Comune di Reggio un manipolo di balestrieri. E vi stettero a oste i detti quartieri di Castello e di S. Nazzaro diciasette giorni; poi vi andarono i fanti ed i cavalli del quartiere di S. Pietro e di S. Lorenzo per [22] ventitrè giorni. Poscia vi ritornarono quelli del quartiere di Castello e di S. Nazzaro per undici giorni; ed ebbero, per capitolazione, tanto il castello che la Terra di Corvara; e il castello lo atterrarono, la Terra la devastarono a volontà del Comune di Reggio; e quelli che erano dentro il castello ebbero affidamento per le persone e le robe loro; e stettero ai bandi e alle condanne del Comune di Reggio, che s'impossessò del castello ai 19 Settembre, giorno di Sabato. E Giacomino da Palù, per la restituzione di quella Terra, toccò quattrocento lire imperiali. Nell'Agosto di quell'anno i Bolognesi corsero a oste sulla diocesi di Modena, e cinsero di assedio Savignano[20] e Montombraro[21]; stantechè fra i Comuni di Bologna e di Modena vi era una convenzione, per la quale i Modenesi non potevano avere alcun castello alla destra del Panaro, e perciò i Bolognesi distrussero que' due castelli.... E, per questi sei mesi, si pagò lo staio del frumento otto soldi imperiali e più; lo staio di spelta, otto grossi; una libbra grossa di carne di maiale, 14, 15, 16, 17, 18 imperiali; una libbra grossa d'olio d'ulivo, due soldi imperiali; quattordici fichi secchi, un reggiano; dodici o tredici mandorle, un reggiano; uno staio di farro, 12 o 13 grossi. Ed ogni altra sorta di vettovaglie fu quell'anno scarsissima. Ed in quest'anno, allorchè si trasportava in Francia la salma di S. Lodovico Re di Francia, per intercessione di lui, che è come dire per amore di lui, operò Iddio molti miracoli.... Nella città di Reggio, quando eravi di passaggio il corpo di S. Lodovico, Giacomo degli Alucii alzò preghiere a Dio, acciocchè per amore del Santo lo esaudisse; e il Signore rese miracoloso il suo Santo, il quale sanò per miracolo [23] una gamba a Giacomo degli Alucii. A Parma, che è la mia città, quella cioè di cui sono nativo, guarì una fanciulla di un cancro, che aveva in un braccio. E, nel 1274, maestro Rolando Taverna Parmigiano, Vescovo di Spoleto, cui Papa Martino IV mandò in Francia a raccogliere e scrivere i miracoli di S. Lodovico Re di Francia, perchè lo voleva canonizzare e inscrivere nell'Albo dei Santi, reduce dalla Francia, dove era andato per la preaccennata commissione, disse a me in Reggio, dove io allora abitava, che aveva raccolti e notati settantaquattro miracoli, diligentemente provati con testimonianze attendibili ed autorevoli.

a. 1272

L'anno 1272, indizione 15ª, fu creato Papa Gregorio X, che prima si chiamava Tedaldo Visconti di Piacenza. E per discordia de' Cardinali la cristianità era stata senza Papa tre anni, nove mesi e ventun giorni. E lo stesso anno, ai 14 di Marzo, lunedì, morì Enzo figlio del fu Federico Imperatore, che era nelle carceri di Bologna; ed ebbe sepoltura nel convento de' frati Predicatori; e il Comune di Bologna lo fece imbalsamare, e tutta la città gli rese solenni onori funebri alla sepoltura. Considera ora le opere di Dio. Questo Re Enzo fu figlio illeggittimo dell'Imperatore Federico; eppure ebbe tanti onori in morte sulla sua tomba. Chè per lui fu un onore morire ed esser sepolto in Bologna; essere dai Bolognesi stato fatto imbalsamare; essere ricevuto nel convento loro dai frati Predicatori, ed ivi essere messo a dormire l'eterno sonno con S. Domenico. Mentre Corrado, figlio legittimo dello stesso Imperatore, mancò di questi onori non solo, ma quando si trasportava a Palermo, ove sono le tombe dei Redi Sicilia, dai Messinesi ne furono gettate le ossa nel mar di Messina, e buttato pasto ai pesci....... perchè aveva fatto danno e sfregio ai Messinesi, come aveva fatto il padre di lui.... Nel medesimo anno, nel suddetto mese di Marzo, [24] morì il Cardinale Ottaviano; e i frati Minori di Reggio comprarono alcune case presso al loro convento, e il Comune incaricò periti stimatori, che calcolassero il valore di prezzo di quelle case da comprarsi in buona fede, e il Consiglio tutto concordò. E così ampliarono il loro convento e aprirono una strada nuova che s'allineava direttamente colla casa di Arduino de' Tacoli, che va alla chiesa di S. Giacomo, dove abitano i frati dell'Ordine di Pietro peccatore di S. Maria in Porto di Ravenna; del qual Ordine è Santa Fenicola di Parma. E nello stesso anno, in Aprile, i Bolognesi co' loro amici s'accordarono e tennero un Consiglio generale, ed un Consiglio de' popolani, ed arringarono e statuirono di voler andare a oste col loro carroccio sulla diocesi di Modena, per torre al Comune e alla città di Modena tutta quella parte di diocesi che avevano alla destra del Panaro. Ed i Bolognesi fecero incidere a lettere su d'una pietra, che il Comune di Bologna era deliberato di andare a quella impresa. E la pietra fu murata nel palazzo del Comune di Bologna, sicchè il Podestà e il Capitano del popolo di Bologna, quando erano in palazzo, la avevano sott'occhi ogni giorno. E i Bolognesi quotidianamente premevano il detto Podestà e Capitano ad armare a tal fine l'esercito, avendo il Comune deliberato in proposito, e avendo il Podestà e il Capitano giurato di eseguire la deliberazione. Inoltre i Bolognesi inviarono ai Parmigiani alcuni loro ambasciatori, i quali nel palazzo del Comune di Parma perorarono domandando e pregando da parte dei loro concittadini, che ai Parmigiani piacesse di non immischiarsi nelle vertenze del territorio Modenese posto tra la Secchia e Bologna; come essi non s'intrometterebbero in quanto accadesse tra la Secchia e Parma; che era quanto dire: Prendetevi la signoria della città e diocesi di Reggio sino alla Secchia, che noi faremo altrettanto della città e diocesi di Modena sino alla [25] Secchia stessa. E fu risposto che non era uso de' Parmigiani far danno ai loro vicini quando non avevano colpa. E li rimandarono inesauditi, nè vollero prestare il loro assenso alle proposte de' Bolognesi, e mantennero sino ad oggi pace e amicizia co' loro vicini Reggiani e Modenesi. Nè la città e Comune di Modena volle cedere ai Bolognesi quella parte di diocesi e territorio, che era sulla destra del Panaro, anzi cercarono di aiuto i loro amici per difendersi contro i Bolognesi. E in aiuto dei Modenesi accorsero da Cremona cento cavalieri con tre cavalli ciascuno, da Parma due mila uomini di fanteria e mille di cavalleria. Accorse pure il Marchese d'Este da Ferrara, e dalla città di Reggio molta cavalleria, oltre i maggiorenti e più potenti e più nobili della città, non a spese del Comune, ma per conto ed onore proprio. E i Bolognesi trassero fuori e condussero nella piazza del Comune di Bologna il loro carroccio; ma quando giunse il momento pe' Bolognesi di formare il loro esercito, la fazione di quelli dei Geremei di Bologna non volle prendere l'armi contro i Modenesi, e stavano anzi pronti ed in armi alle loro case; e se gli altri Bolognesi si fossero mossi contro i Modenesi, la fazione di quei de' Geremei aveva progetti e accordi di far entrare in Bologna il Marchese d'Este con tutta sua gente, e i Parmigiani, i Cremonesi, i Reggiani e i Modenesi, che erano in Modena, e molti Toscani e Romagnoli, ed espellere da Bologna tutti quelli del partito de' Lambertazzi. Quindi i Bolognesi si ristettero dall'andare sopra Modena. Lo stesso anno, all'ultimo di Maggio, uscì di vita Gerardo da Tripoli, e fu sepolto il 1º di Giugno, mercoledì, vigilia dell'Ascensione, nel monastero di S. Prospero di Reggio. E durante la Podesteria del predetto Podestà, cioè Triverio dei Rustici, cittadino di Gubbio[22], si [26] ebbe gran carestia d'ogni sorta di vettovaglie, tale che uno staio di frumento costava 8, 9, 10 soldi imperiali; uno staio di spelta si vendeva quattro soldi imperiali, e 13 e 14 grossi; uno staio di melica 12, 13, 15, 16 grossi; uno staio di fava 15, 18, 20 grossi; uno di ceci 8, 9 soldi imperiali; una libbra grossa di carne di maiale 18, 20, 22 imperiali; una libbra d'olio d'ulivo, 22 soldi imperiali; e un peso di cacio 8, 9 soldi imperiali; uno staio di fagiuoli, 20 grossi, e 7 soldi imperiali. E d'ogni altra specie di vettovaglie, per tutto il detto tempo, vi fu massima penuria; e durò due anni. Nello stesso millesimo, in Luglio, Guglielmo Luigini fu nominato Abbate del monastero di S. Prospero di Reggio, confermato dal Legato, che era a Piacenza, ed insediato nell'ufficio ai 13 di Luglio, mercoledì. E per quel giorno il detto Abbate fece imbandire un sontuoso banchetto, a cui furono invitati i Chierici, i Religiosi e i migliori cittadini di Reggio. E nel 30 Luglio, sabato, morì Bonifazio di Canossa, e fu sepolto in S. Leonardo della città di Reggio. Ai venti di Maggio dello stesso anno, arrivò a Reggio Odoardo Re d'Inghilterra, che era di ritorno colla moglie da' paesi d'oltremare, e fu ospitato nel palazzo del Vescovo; e, il giorno appresso, si rimise in viaggio alla volta del suo paese. Lo stesso anno cominciò la fabbrica del palazzo nuovo del Comune di Reggio, sul trivio di quei di Sesso e di altre casamenta, che erano di Ugo Speciale, e d'altre casamenta ancora prospettanti sullo stesso trivio; e morì nell'anno stesso Guido Gaio de' Roberti, che fu sepolto nella chiesa dei frati Minori.

a. 1273

L'anno 1273, indizione 1ª, il dì 27 Settembre, cioè nella festa dei SSi Cosma e Damiano, giunse a Reggio Papa Gregorio X co' suoi Cardinali, e ricevette ospitalità nel monastero di S. Prospero; e, il giorno seguente, mosse per Parma, affrettato dal bisogno di [27] andare a Lione per tenervi Concilio. Questo Gregorio, di santissima religione, era compassionevole dei poveri, largo e benigno sopra ogni altro uomo, molto misericordioso e mansueto. Egli, quando era Arcidiacono di Liegi, e, per divozione, era in viaggio per oltremare, trovandosi di alloggio nel palazzo di Viterbo, fu dai Cardinali proclamato Papa. Egli fece una nomina di Cardinali lodatissima, per avere eletto personaggi insigni e valenti. Al terz'anno del suo pontificato, per aiuto di Terra Santa, cui voleva visitare in persona, celebrò uno straordinario Concilio a Lione, che si aperse il 1º di Maggio; al quale intervennero anche ambasciatori straordinari dei Greci e dei Tartari. Dei Greci, che promettevano di ritornare all'unità della Chiesa, e a provarlo confessarono che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo, e cantarono solennemente il Simbolo in seno al Concilio. Dei Tartari, che battezzati nel corso del Concilio, ritornarono al loro paese. Il numero de' Prelati presenti al Concilio fu di 500 Vescovi, 60 Abbati, e circa 1000 altri Prelati. Questo Papa nel Concilio diede molte ed utili disposizioni relative ai soccorsi per Terra Santa, alla elezione de' Sommi Pontefici, e allo stato della Chiesa universale. Durante il Concilio, gli elettori degli Imperatori elessero il Conte Rodolfo di Lamagna Imperatore dei Romani. Allora Rodolfo Re dei Romani e Re dei Franchi insieme a molti Baroni presero la croce per andare in soccorso di Terra Santa. Questo Papa aveva una rara esperienza delle cose secolari; nè studiava a guadagni, ma a soccorrere i poveri. Morì e fu sepolto ad Arezzo. Cominciò l'anno 1272, e, dal giorno della sua elezione, tenne la Sede Apostolica quattro anni e dieci giorni; ed il papato restò vacante dieci giorni.

a. 1274

L'anno 1274, indizione 2.ª, fu celebrato a Lione da Gregorio X un Concilio generale nel quale soppresse l'Ordine dei Saccati, e la congregazione, o piuttosto la [28] dispersione di quei villani e ribaldi, che si dicono e non sono apostoli, ma sono anzi una sinagoga di Satana, e l'avanguardia dell'Anticristo, del quale Ordine fu fondatore Gherardino Segalello in Parma, che in mille modi folleggiò, come ricordo d'aver già detto e veduto, e fece folleggiare tanti altri; ma si avverò in lui ciò che Davide già da tempo lontano aveva predetto nel salmo 57º: Al nulla si ridurranno, come acqua che scorre: tende il suo arco sino a che siano annientati. Quest'arco teso fu Papa Gregorio X, che nel Concilio generale di Lione soppresse quelle Religioni di mendicanti, che di recente erano state istituite, cioè quella dei Saccati, e di quei ribaldi che chiamavano sè stessi apostoli, volendo egli dare esecuzione alla Decretale di Innocenzo III, fatta in Concilio generale, che dice: Acciochè la troppa diversità delle Religioni non induca grave confusione nella Chiesa di Dio, abbiamo assolutamente proibito che nessuno istituisca una Religione nuova; e chiunque voglia darsi ad una Religione, si volga ad una di quelle, che sono già approvate. Nel millesimo preindicato, la città di Bologna fu in preda ad un grave conflitto intestino, e in parte fu messa a fuoco. E il partito imperiale di detta città, quello cioè dei Lambertazzi, fu spogliato e scacciato nella festa di S. Giovanni Battista. Nel qual anno, un sabato, 2 Giugno, sul mattino, i Bolognesi partigiani dell'Impero, per timore che arrivassero rinforzi a quelli del partito della Chiesa contro gli imperiali stessi, senza violenza e senza colpo ferire se la svignarono da Bologna, e si ricoverarono a Faenza. La quale, nell'anno stesso, dai Bolognesi, che erano ancora in Bologna, cioè da quelli di parte della Chiesa, fu stretta d'assedio, e ad aiutarli concorse anche una certa quantità di pedoni, cavalieri e balestrieri di Modena, Reggio, Parma e Cremona, e fu tutt'all'intorno devastata e distrutta. Le quali cose, io, che allora abitava a Faenza, ho vedute e riconosciute.

[29]

a. 1275

L'anno 1275, indizione 3ª, ai 24 del mese d'Aprile, la cavalleria di Bologna con Nicoluzzo da Balugano di Jesi, Podestà di Bologna, e con Malatesta di Vircolo, cittadino di Rimini, Capitano del popolo di Bologna, fecero una cavalcata contro i Faentini e contro i Bolognesi fuorusciti, che erano a Faenza. E giunti alla porta della città di Faenza, i Faentini e i Bolognesi fuorusciti fecero una cavalcata vicino ad alcuni castelli occupati dai Bolognesi; e ritornando a Faenza si trovarono di fronte alla cavalleria di Bologna, e, sovrastando in pericolo, coraggiosamente li assalirono, e, quando piacque a Dio, la milizia di Bologna fu messa in piena rotta e fuga, e parte ne furon morti, parte prigioni, parte mortalmente feriti. Questo scontro avvenne vicino al ponte di S. Procolo, che dista da Faenza due o tre brevi miglia. L'anno stesso, ai tredici Giugno, giovedì, i Bolognesi, invocato l'aiuto de' Lombardi, formarono un esercito contro i Faentini e i Forlivesi per annientarli. E, in aiuto dei Bolognesi di parte della Chiesa, accorse una certa quantità di cavalleria e di balestrieri di Ferrara, e Modenesi, e Reggiani, e Parmigiani, e si accamparono al ponte di S. Procolo ne' pressi di Faenza, a distanza di due, come è detto più sopra, o al più tre brevi miglia. Nel quale esercito vi era un'infinita quantità di fanti e di cavalli. E avendo essi un giorno, per devastare l'agro Faentino, passato il ponte, Guido Conte di Montefeltro, Capitano di guerra de' Faentini e Forlivesi e Bolognesi fuorusciti, mandò dicendo al Malatesta, capitano de' Bolognesi, che voleva battaglia. Nè questi la rifiutò. Quindi immediatamente il Conte Guido uscì di Faenza con tutta la sua gente, e designò le schiere, che dovevano battersi; e il Malatesta designò le sue. Fatta dall'uno e dall'altro Capitano la designazione delle proprie squadre, il Conte Guido urtò poderosamente contro i Bolognesi, e debellandoli, inseguendoli, uccidendo e facendo prigionieri, li ridusse [30] al nulla. Poscia, disperse, malconciate, passate a fil di spada le milizie, il Conte Guido si volse contro la caterva de' popolani, che erano oltre quattromila, e stavano ancora compatti nell'accampamento a guardia del vessillo e del carroccio, e senza colpo ferire si arresero prigionieri del Conte, il quale, a trionfo della vittoria, li trasse entro Faenza e chiuse in carcere. E così i Faentini corsero sul luogo, nel quale l'esercito era stato a campo, e vi trovarono e presero intatte tutte le vettovaglie, i padiglioni, le tende, i carri ed ogni sorta di salmerie occorrenti ad un esercito. E in quel combattimento perirono molti cavalieri nobili e potenti, cioè Nicolò de' Bazalerii, Arriguccio de' Galluzzi di Bologna, e tra fanti e cavalieri Bolognesi ben 3325. Così pure di Reggio fu morto Giovanni Rossello de' Roberti, allora Capitano della cavalleria Reggiana, e Princivallo di Minozzo, e Guido Briga figlio del fu Bernardo di Corrado; i quali furono trasportati a Reggio ciascuno in una sua arca; e i primi due, cioè Giovanni Rossello e Princivallo, furono sepolti in due tombe separate nel convento dei frati Predicatori, dopo essere stati esposti su due distinti feretri nella chiesa di S. Barnaba fuori Porta S. Pietro. E tutta la città uscì fuori ad incontrarli, e fu un sabato, 15 Giugno. Guido Briga, poi arrivò in un'arca più giorni dopo, e fu sepolto alla chiesa de' frati Minori. Fu morto anche Nicolò del fu Filippo Vescovo, che era giudice col Podestà di Bologna in quell'esercito; ma sul campo non fu possibile rinvenirne il cadavere. Questa vittoria dei Faentini, e strage dei Bolognesi, accadde nel giorno di S. Antonio dell'Ordine de' Minori; e perciò i Bolognesi non vogliono nemmeno udirlo più nominare in Bologna. Anche l'anno avanti, i Bolognesi stanchi dell'assedio di Faenza, la vigilia di S. Francesco l'abbandonarono; e così per S. Francesco evitarono mali, per [31] S. Antonio hanno acquistato beni (sic). L'anno stesso 1275 cominciò per la fiera di S. Maurizio a piovere dirottamente, e prima di Natale si rovesciò dal cielo per più giorni tale diluvio d'acque, che portò vaste innondazioni, a i fiumi traboccarono ed uscirono dai loro alvei spandendosi per la diocesi di Reggio; e tutto l'inverno fu piovoso. E, in quell'anno e nel successivo, s'ebbero in pianura piogge e diluvii, e, ai monti, nevi oltre misura copiose; e in alcuni punti di montagna furono alte sin cinque braccia, e in altri sino a sei braccia; e tanta neve durò più mesi nell'anno predetto e nel seguente. Vi fu anche ai monti grande morìa di maiali e d'altro bestiame, per mancanza di nutrizione. Non avevano nulla da somministrar loro a pasto, e cuocevano fieno e lo trituravano per pascere i maiali. In quell'anno, ai 5 di Dicembre, festa di S. Nicolò, giunse a Reggio, reduce da Lione, Gregorio X con sua Corte e suoi Cardinali, e fu ospitato nel palazzo del Vescovo di Reggio. Il giorno dopo partì per Roma; ma poi ad Arezzo infermò, e vi stette molti giorni infermo.

a. 1276

L'anno 1276, indizione 4ª, ai 10 di Gennaio, festa di S. Paolo, primo eremita, Papa Gregorio X morì ad Arezzo, città della Toscana. Questo Papa fu molto zelante delle cose divine, e molto aveva in animo di fare; ma la morte prematura gli tolse di mandare a compimento i suoi progetti. Egli depose un Vescovo, che aveva domandato licenza di non intervenire al Concilio, perchè sospettò che volesse rimanere a casa per avarizia, cioè per risparmiare le spese...... Così pure biasimò e vituperò frate Pietro dei Fulconi di Reggio, e lo allontanò da sè, mentre prima dimorava seco a Corte, perchè accumulava tesori. Tolse il cappello rosso al Cardinale Riccardo, perchè parve che avesse conferita una prebenda con simonia. E, fin prima che fosse Papa, furono composti alcuni versi, ch'egli poi credeva che alludessero a sè, [32] e che per sè fossero stati profeticamente scritti, ne' quali è detto:

Sanctus parebit, et Christi scita tenebit.

Angelicae vitae; vobis pavor, o Giezitae[23].

D'angelico costume un santo austero

Verrà del Cristo a custodire il Vero.

Vi corra un gelo al cor, tremate, audaci

Di Simon mago miseri seguaci.

Ma riportiamo per ordine tutti i versi, giacchè questo Papa li riferiva a sè stesso. Questi sono alcuni versi, che furono destinati ad alcuni Cardinali, e anche ad un certo Capitolo provinciale dei frati Predicatori, parecchi mesi prima che Papa Gregorio X fosse eletto, come un sacerdote del detto Ordine, frate degno di fede, disse a me, e mi diede i versi. Ed io, quasi tre mesi prima della elezione di Gregorio X, vidi que' versi nel loro testo originale:

Quarto Clementi, dum tertius annus agetur

Papa sacer genti justorum substituetur,

Ac domo Christi succedet sanctior isti,

Patris de coelis servus bonus, atque fidelis.

Huic salvandarum zelus vehemens animarum

Et quod honoretur Deus a cunctis et ametur.

Currus et auriga Christi populis erit iste;

Nam sua non quaeret, sed quae tua sunt,

bone Christe.

[33]

Gazas terrenas spernet, discrimine plenas,

Conformis Christo, mundo dum vivet in isto.

Hunc Deus ornabit, et mire clarificabit,

Sanctificabit, magnificabit, glorificabit,

Mundum pacabit, et Ierusalem renovabit.

Fructus terra dabit, Deus orbem laetificabit

Sed prius horribile quiddam parebit in yle

(Idest): in mundo.

Clementi alius sacer succedet et almus,

Cui procuratrix Theotocon ejus amatrix,

Et defensatrix, semperque benigna educatrix.

En circa mille bis centum septuaginta

Tetraque: tunc ille velut annorum quadraginta,

Sanctus parebit, et Christi scita tenebit,

Angelicae vitae; vobis pavor, o Giezitae.

Christe, tuum pulcrum tunc nobis, sancte, sepulcrum

Reddes subiectis, Agarenis inde reiectis.

Nunc male captivi, tunc convertentur Achivi.

Cardinibus multam, pones, altissime, mulctam.

Tres Deus orantes, quam saepius et vigilantes,

Quod sic praestetur, clare docuisse videtur.

Dopo Clemente volgerà 'l terz'anno,

E di Clemente quarto avrà lo scanno

Pastor novel di sacro spiro ardente,

Voto e desio della cristiana gente.

Alma che vien dal ciel d'amore accesa,

Niun più santo di lui vedrà la Chiesa.

Dell'uom la perfezion, di Dio la gloria

Saran sua cura sol, virtude e storia.

Cocchio e cocchier del popolo di Cristo,

Brama al regno di Lui sol fare acquisto.

[34]

L'oro disprezza, che a virtù fa guerra;

Tesoreggia pel ciel sopra la terra.

In lui magnificenza, in lui splendore

Iddio raduna, e ne fa santo il cuore.

Per lui fia pura dell'altar la face;

Lieto il mondo per lui composto in pace.

Colmo di frutti avrà la terra il seno,

Colmo di gioie il cor, lieto, sereno.

Ma prima il sol vedrà prodigio strano

Che di Clemente il successor sovrano.

Cui la Madre di Dio, Vergine pura,

Guida darà, difesa, amore e cura.

Ecco il dugensettantaquattro arriva

Aggiunto al mille; e sapïenza viva

D'angelico costume, un santo austero

Verrà del Cristo a custodire il Vero.

Vi corra un gelo al cor, tremate, audaci

Di Simon mago miseri seguaci.

Il gran Sepolcro a liberar di Cristo

Ei viene, e vola al glorïoso acquisto.

E, lo schiavo d'error e di sofisma

Acheo converso, sparirà lo scisma.

Guizzanti strideran le tue saette

Sui Porporati, altissime vendette.

Par che squarciasse del futuro il velo

A preghi e veglie di tre santi il cielo.

[35]

E questa scrittura noi la vediamo letteralmente verificata. A Papa Clemente IV succedette Gregorio X; e fu buon uomo, giusto, retto e timorato di Dio; e prima che a Clemente succedesse un altro Papa apparve al mondo un'orribile cosa; e fu che i cristiani, per discordia tra' Cardinali, stettero senza Papa tre anni, nove mesi e ventun giorni; e perciò restavano stupefatti di tanto lunga vacanza della Sede Apostolica. Laonde Gregorio X appena fatto Papa, fissò norme opportune per l'elezione del Sommo Pontefice. Il detto poi ne' versi:

En circa mille biscentum septuaginta

Tetraque, tunc ille velut annorum quadraginta

è chiaro e facilissimo a intendersi, perchè si verificò alla lettera. Nel 1274 celebrò un Concilio generale a Lione, in cui si mostrò veramente santo, perchè stabilì ottime regole da osservarsi; e credeva fermamente di attenersi agli insegnamenti di Cristo, se fosse vissuto; ma per la malizia altrui, fu dalla morte tolto di mezzo, come Giosia Re di Giuda, quando appunto era più necessario....... Quel che segue poi negli altri versi

Angelicae vitae; pavor vobis, o Giezitae

s'è già detto come perseguitò vivamente i simoniaci. Quel che vien dopo:

Christe, tuum pulcrum, tunc nobis, sancte, sepulcrum

Reddes subiectis, Agarenis inde reiectis.

si può spiegare adempiuto in questo modo: Egli visitò una volta personalmente Terra Santa, e s'era proposto di visitarla di nuovo per redimere il Santo Sepolcro. Ma contro la volontà di Dio nulla si può. Ond'è che il Signore disse Luca 21.º: E Gerusalemme sarà calpestata dai Gentili, finchè i tempi dei Gentili siano compiuti. [36] Ond'è che è detto, Apocalisse 11.º: Ed essi calcheranno la Città Santa lo spazio di quarantadue mesi. L'Abbate Gioachimo intese questo numero così: quarantadue mesi sono le quarantadue generazioni, che pone Mattia, chè tali si dichiararono nel nuovo testamento, perchè secondo S. Luca III: E Gesù Cristo cominciava ad esser come di trent'anni, quando fu batezzato da Giovanni. Poni dunque quarantadue generazioni da Cristo sino ai giorni nostri, assegnando trent'anni a ciascuna generazione, e si completeranno in 1260 anni, (tempo in cui cominciò la divozione dei flagellanti). Il qual numero è designato in più luoghi, come nell'apocalisse 11.º: Ed io darò a' miei due testimonii di profetizzare: e profetizzeranno 1260 giorni, vestiti di sacchi. E più innanzi Apocalisse 12.º: E la donna fuggì nel deserto, dove ha luogo apparecchiato da Dio, acciocchè sia quivi nudrita 1260 giorni. E tanto qui che più su, pel giorno si intende l'anno....... Quindi non appare essere volere di Dio, che il Sepolcro di Cristo, una volta glorioso, sia ora liberato. Ma se fosse dipeso dalla volontà di Gregorio X sarebbe stato liberato, se la morte non gli avesse tronca l'impresa in mano, stantechè a questo fine andò oltremare, rinnovò l'Impero, celebrò il Concilio...... Io credo in vero (non so se m'inganni) che per queste due cose che il Papa tentò di fare, Iddio lo togliesse di mezzo, non volendo che sorga più alcun Imperatore dopo Federico II, di cui è detto ancora: In lui sarà finito l'Impero, perchè sebbene sia per avere successori, dalla suprema Sede Romana non ne avranno il titolo. Non pare poi che sia volere di Dio che il Santo Sepolcro sia liberato, perchè molti che hanno voluto provarvisi, hanno provato invano. E perciò a questo riguardo la Chiesa può esclamare con Isaia 49.º: Io mi sono affaticato a vuoto: invano, ed indarno ho consumato la mia forza; ma pur certo la mia ragione è appo il Signore, e l'opera [37] mia appo l'Iddio mio. Quanto segue poi in quei versi.

Nunc male captivi, tunc convertentur Achivi.

cioè i Greci; così si può spiegare. I Greci intervennero al Concilio di Lione celebrato da Gregorio X e promisero di ritornare all'unità della Chiesa romana....... Riguardo poi alla conversione de' Greci e de' Giudei ecc, leggi nel libro dell'Abbate Gioachimo, chè la sua esposizione è bellissima, piacevole, e piena di verità......

L'anno del Signore 1276, indizione 4.ª, ai 21 di Gennaio festa di S Agnese, fu eletto Papa frate Pietro dell'Ordine dei Predicatori, Borgognone, della città di Tarantasia, il quale essendo Arcivescovo di Lione, fu fatto Cardinale da Papa Gregorio X, che fregiò del cappello stesso anche frate Bonaventura Ministro Generale dell'Ordine de' Minori, maestro Pietro Spagnuolo, e due altri. Del collegio de' Cardinali dunque era stato il primo, e fu chiamato Innocenzo V, che morì l'anno stesso, in cui fu fatto Papa, cioè ai 22 di Giugno. E l'anno stesso, un martedì, sul finir di Giugno, vigilia di S. Giovanni Battista, si rovesciò un diluvio strabocchevole d'acque; tantochè il Crostolo gonfiò in modo che, da Rivalta[24] sino a Bagnolo[25], tutto il territorio era allagato, e molte persone perirono annegate; e le biade furono travolte da luogo a luogo, e ruinarono i ponti dei torrenti, le case furono rese crollanti, o atterrate dall'inondazione, le biade sommerse, le ghiaie che erano sulle strade trasportate su' campi o ne' fossati, sicchè diluvio tale non fu mai più veduto, nè i vecchi ricordavano che mai l'eguale in antico fosse avvenuto. E il Crostolo gonfiò e si espanse talmente presso il [38] borgo di S. Stefano e d'Ognissanti fuori porta, che la corrente delle acque invase la strada d'Ognissanti in Reggio, e dell'acqua che veniva dal Crostolo ne furon piene le case dell'una parte e dell'altra del borgo predetto, e tutta la strada era coperta di detta acqua, sicchè una barca poteva navigarvi. Anche tutto l'Ospedale di Santa Caterina ne era pieno e l'Ospedale di S. Geminiano parimente, e la strada pareva un canale naviglio; e il detto Ospedale di S. Geminiano ne riportò gravi danni in biade ed altre cose, asportate dall'inondazione. Anche la strada della Modolena[26] pareva un canale naviglio; e le acque della Modolena[27] si congiunsero con quelle del Crostolo; e que' torrenti scorrevano per case e per campi, che pareva un mare. Anche molto bestiame annegò, cioè tutte le pecore dell'Ospedale di S. Pietro in Vincoli di Modolena, e molti altri animali. Nè udita fu mai nè veduta altrettale inondazione, nè i vecchi ne avevano memoria. E tanto diluvio si scatenò per tutto il mondo, e le pioggie durarono tutta la state e l'autunno, sicchè non si potè seminare; e nella Villa di Crostolo[28], presso Masenzatico, le case s'empirono d'acqua del fiume; e la pioggia persistette quattordici mesi. Lo stesso anno morì Papa Innocenzo V, ai 22 di Giugno, e fu eletto, agli 11 di Luglio, Ottobono Fieschi, nipote di Papa Innocenzo IV, e si chiamò Adriano V, che morì il mese dopo, ai 17 d'Agosto, e fu sepolto nella chiesa de' frati Minori a Viterbo; e, nel successivo 17 Settembre, fu eletto Papa maestro Pietro Spagnuolo, che assunse il nome di Giovanni XXI, e restò in sede otto mesi e un giorno. E nello stesso anno si [39] ebbero pioggie dirotte e diluvii, sicchè i campagnoli non poterono seminare; cosa non mai più udita dai vecchi.

a. 1277

L'anno 1277, indizione 5.ª, ai 21 di Gennaio, giorno di Santa Agnese, giovedì, Napoleone cittadino Milanese, Anziano perpetuo del popolo della città di Milano, fu ignomininsamente rimosso da quell'anzianato, fatto prigioniero con sei o sette di casa sua da' fuorusciti milanesi, e da' Comaschi e lo ritengono tuttora prigione in Como, ossia ne' castelli Comaschi, e precisamente nel castello di Bardello[29]; e sono state fatte tre gabbie, in cui sono chiusi, cioè, come si dice, due per gabbia. E la presura era avvenuta in un borgo della diocesi di Milano, che si chiama Desio[30]. E i contadini di quel borgo uccisero allora Francesco della Torre, ed alcuni altri di quei della Torre, e amici loro. E Cassone figlio di Napoleone, udito di questa cosa in un certo castello ove si trovava, corse con quattrocento armati a cavallo sopra Milano, ed entrò in città co' suoi, e trovò che casa sua e quelle de' suoi erano poste a ruba e a sacco; e le porte della città erano chiuse, e il popolo di Milano affollatissimo e armato nel Broletto, e quivi Cassone s'impegnò in una mischia e uccise molti; ma quando s'accorse che non trovava gran seguito, uscì fuori coi suoi armati, e s'accostò a Lodi, la quale non lasciandolo entrare, si trattenne ne' sobborghi, e il giorno dopo andò a Crema co' suoi armati. E l'Arcivescovo di Milano in una con tutti quelli del partito di dentro, fecero l'ingresso in città con vivissima festa ed esultanza; e il popolo milanese elesse questo stesso Arcivescovo a suo Signore: e assecondando il desiderio dell'Arcivescovo nominarono Simone, Capitano della città per un anno; [40] Guglielmo Pusterla, Podestà dei mercanti; e Riccardo conte di Langosco[31], Podestà della città. E, ai 21 del mese di Maggio, morì Papa Giovanni XXI dopo un Papato di otto mesi e un giorno. E, lo stesso anno, un Lunedì 7 Luglio, morì Ugolino da Fogliano, e il giorno dopo fu sepolto alla chiesa di S. Spirito di Reggio. E quello fu un anno in cui uno staio di fava seminata ne fruttò diciotto, venti, anche venticinque; e perciò più ancora di quello del proverbio: Fava de zenaro, lo mozo per lo staro; cioè quando si semina fava in Gennaio, prolifica tanto che se ne ha un moggio da uno staio: questa è sperienza e tradizione degli agricoltori. Lo stesso anno e millesimo, un esercito Reggiano andò a oste a Bismantova[32]; e quelli di Bismantova si arresero all'obbedienza del Podestà di Reggio, nel mese d'Agosto. Nello stesso mese, Guastalla, cioè il territorio di Guastalla, fu occupato dai nemici; ma immantinente fu riconquistato dall'altro partito, cioè da quelli di parte della Chiesa; e tutti quelli che l'avevano occupato restarono, o morti, o prigionieri. In quell'anno fuvvi grande morìa, e moltissime malattie d'uomini, di donne e di ragazzi per quasi tutto il mondo, ma principalmente nel regno d'Italia e in Lombardia; e le pioggie furono sì continue e grosse, che non si poterono raccogliere le meliche, nè seccarle, nè si potè seminare. L'anno stesso, Mastino della Scala, che ebbe la Signoria di Verona dopo Ezzelino da Romano, fu morto da quattro assassini Veronesi. Ma Alberto della Scala suo fratello germano, e che succedette a Mastino nella Signoria di Verona, vendicò pienamente il fratello facendo uccidere i malfattori..... In quell'anno si ebbe anche gravissima [41] carestia, e in alcuni casi fu venduto uno staio di frumento 9 soldi imperiali, e 20 soldi reggiani; uno staio di fava 17, 18, 19 grossi; uno staio di melica 13, 14, 15 grossi; una libbra grossa d'olio d'ulivo 21 imperiali, e sin anche 22 e due soldi imperiali. Fu anche in quell'anno che, coll'assenso del Consiglio generale di Cremona, nel mese di Novembre e di Dicembre, si cominciò ad otturare il cavo Tagliata. E fu eletto Papa, verso il giorno di S. Andrea, il Cardinale Giovanni Gaetani, che assunse il nome di Nicolò III. Egli da Cardinale era il governatore, e protettore e censore dell'Ordine de' Minori, e dopo che fu Papa, commentò la loro Regola, e chiarì alcune cose che parevano non facili ad intendersi. Ed è notabile che tutti i Cardinali governatori, protettori e censori dell'Ordine del beato Francesco, furono poi fatti Papi, come Gregorio IX, Alessandro IV e Nicolò III; e ciò credo io, mercè la grazia di Dio, l'aiuto del beato Francesco e la bontà della vita loro. Del resto, quello che ha da venire sallo Iddio. Ora il Cardinale dell'Ordine de' frati Minori è Matteo Rossi, e ne lo assegnò, anzi ne lo impose, Papa Nicolò, perchè è suo parente; ma i frati avevano eletto Girolamo, che era stato Ministro Generale del loro Ordine, ed ora è Cardinal prete del titolo di Santa Potenziana (ma dopo fu fatto Vescovo di Palestrina; e frate Bencivenni è stato fatto Vescovo di Albano. Questi fu dell'Ordine dei Minori, lettore di teologia, bello, buono, onesto uomo, e amico intimo di Nicolò III, che lo creò anche Cardinale, perchè talvolta abitò con lui, e amava affettuosamente l'Ordine, a cui apparteneva).

a. 1278

L'anno 1278, indizione 6.ª, fu impedito dai Cremonesi che si interrasse il cavo Tagliata, quando il Comune di Reggio, a chiuderlo, vi aveva già spese duemila lire imperiali e più, senza tener conto della prestazione d'opera [42] ed altre spese da parte degli abitanti della diocesi di Reggio. Ed il Comune di Reggio ne ebbe grave danno e beffa; perchè il Marchese Cavalcabò cogli altri Cremonesi della città di Cremona negarono al Comune di Reggio la promessa indennità delle spese fatte per la detta chiusura, e la distrussero; promessa che era stata fatta ad Azzone di Manfredi, che allora era Podestà di Cremona, e al Comune di Reggio, dal Consiglio generale e dal Comune di Cremona stessa. In quell'anno uno staio di frumento costava 8, 9, 10 soldi imperiali; uno staio di spelta 14 grossi, e 5 soldi imperiali; e uno staio di melica 14 grossi e 5 soldi imperiali. E lo stesso anno, in Maggio, fu smantellata, diroccata e incendiata Gonzaga[33], ossia il castello di Gonzaga, dai Mantovani. E allora era Signore di Mantova Pinamonte, il quale tenne molt'anni quella Signoria, e di tale opera di distruzione era solito vantarsene, e andava dicendo: «Ho fatto la tale cosa, durante la mia Signoria, ho fatto la tale altra, nè finora me ne capitò disgrazia, anzi ogni cosa mi va a seconda dei voti»; ma queste vanterie non erano da uomo sensato...... E nota che nel millesimo sussegnato si trattò la prima volta di creare un Capitano del popolo di Reggio; e fu fatto, a sei mesi, Ugolino Rossi, cioè il figlio del fu Giacomo di Bernardo Rossi di Parma, per cura di Guglielmo Fogliani, Vescovo di Reggio, che ebbe dal Comune facoltà di eleggerlo. E lo stesso anno fu presa Lodi da Cassone della Torre di Milano. Nello stesso millesimo ed anno, Giliolo da Marano di Parma, Giudice, fu eletto, a sei mesi, Podestà di Reggio, cioè dal 1º Luglio al 1º Gennaio. E lo stesso anno, sotto la reggenza del detto Podestà, quelli di Bismantova ruppero il patto di obbedienza al Podestà e al Comune di Reggio. E il sunnominato Ugolino [43] Rossi, Capitano del popolo di Reggio, assunse per primo l'ufficio della Capitaneria, ed ebbe sede la prima volta nella casa di un Guido Gaio de' Roberti. In quell'anno fu preso anche dai Cremonesi il castello di Fornovo[34]; e dal Patriarca d'Aquileia e dai Torriani si presero a forza molte Terre in quel di Milano, e furono fatti innumerevoli prigionieri. A Bologna si concordò la pace per interposizione di frate Latino, nipote di Papa Nicolò III, e Cardinale Legato in Lombardia ed in Toscana.

a. 1279

L'anno 1279, indizione 7ª, nella diocesi di Reggio fu preso un lupo[35], che divorava i ragazzi. E nello stesso anno, nel mese di Febbraio, Tommasino di Gorzano e quei di Banzola di soppiatto occuparono Bismantova, e ne portarono via roba, vettovaglie e tutto quanto vi si trovava; e nello stesso mese i prenominati invasori consegnarono ogni cosa nelle mani di un milite del Podestà di Reggio pel Comune, che ne pagò mille lire reggiane. Nel mese di Maggio poi morì Aimerico da Palù in Parma, e fu sepolto nel convento de' frati Minori, e dai Parmigiani si ebbe distinte dimostrazioni d'onore tanto alla morte, quanto sulla tomba. E lo stesso anno, nel mese di Febbraio, o sul principio di Marzo, fu segnata la pace tra i Torriani e quei di Lodi da una parte, e i Milanesi dall'altra. E, nel mese d'Aprile, a Reggio furono giurate e contratte parentele tra quei di Fogliano e Antonio de' Roberti, tra Giacomino di Rodiglia e Guido da Tripoli, e tra Guido di Bibianello e Guglielmo di Canossa. E poscia, in Aprile o in Maggio, quei di Bismantova rioccuparono Pietra Bismantova; e un certo numero di fanti e di cavalli da Bologna e da Parma con balestrieri di Modena andò a oste colà, e vi stettero [44] quindici giorni; finchè quelli di Bismantova restituirono a patti quella Terra al Comune di Reggio, e si ritirarono. (Nel soprassegnato millesimo due Re co' loro eserciti si azzuffarono e n'ebbero aspra ed accanita battaglia, cioè Rodolfo Re de' Romani, che coll'assenso di Gregorio X era stato eletto al seggio d'Imperatore, e il Re di Boemia; urtarono dunque l'uno contro l'altro, e Re Rodolfo ne riportò la vittoria e uccise il Re di Boemia; e l'uno e l'altro erano buoni amici dell'Ordine de' frati Minori). Lo stesso anno, nella festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, cioè il 1º Maggio, un fortissimo terremoto scosse la Marca d'Ancona, sicchè due parti di Camerino[36] subissarono, e molte vittime si ebbero a deplorare: Fabriano, Matelica, Cagli, S. Severino e Cingoli, tutti questi castelli ruinarono, e parimente Nocera, Foligno, Spello[37], e in breve tutti i castelli, che sono tra que' monti ne furono assai malconci. Così tre monti tra i quali eranvi artificialmente formati due laghi e costrutto un castello si riunirono; e i laghi e il fiume, che col rigurgito delle acque li formava, ed il castello restarono sepolti. In Romagna e sui monti tra Firenze e Bologna ruinarono castelli ed ogni sorta di edifici con innumerevoli vittime sotto le ruine; e tanto timore invase l'animo di tutti, che da quelle parti nessuno s'attentava più di stare in casa, neppure il Legato Cardinale Latino. Nella Marca d'Ancona e altrove si rappacificarono molte discordie per timore e per l'aspettazione di imminente pericolo. Fu fatta anche pace tra i Bolognesi e i Romagnoli per mediazione del Cardinale Latino dell'Ordine dei Predicatori. Così nello stesso anno, verso il giorno d'Ognissanti, fu la città di Parma [45] interdetta dagli uffici ecclesiastici, per cagione di due donne, che in quella città furono bruciate vive per eretiche (delle quali una si chiamava Alina, l'altra era una sua seguace) e per cagione de' frati Predicatori e del Cardinale Latino. Come pure verso Natale furono di nuovo espulsi da Bologna quelli che vi erano rientrati per la fatta concordia, cioè i Lambertazzi, perchè pretendevano un trattamento pari a quello dei partigiani della Chiesa. (Parimente nel suddetto millesimo fu ucciso Francesco Cavatrutta di Parma per intrighi e sollecitazioni di un certo capo di assassini, che si chiamava Cecco Tosco di Firenze. Accorse dunque alla chiamata di costui Guglielmo Bestiario de' Lambertini di Bologna con alcuni malfattori, e lo ferì di spada nel palazzo del Comune di Bologna, e lo dilacerarono a brandellini, e lo gettarono giù dal palazzo come vile carname. Allora era Podestà di Bologna Guglielmo Putagio di Parma, e frate Ghifredo Pagani di Parma era Guardiano de' frati Minori di Bologna). Nello stesso millesimo si videro anche le imposture di miracoli di un certo Alberto, che stava a Cremona e che era stato un portatore e ad un tempo un tracannatore di vino, non che un peccatore; dopo la cui morte, come se ne faceva correr voce, operò molti miracoli a Cremona, a Parma e a Reggio. In Reggio alla chiesa di S. Giorgio, e del beato Giovanni Battista; a Parma nella chiesa di S. Pietro, che è presso la piazza nuova, ove avevano la loro stazione, tutti i brentori di Parma ossia i tracannatori di vino; e beato chi li poteva toccare, o dare loro qualche cosa del proprio; altrettanto facevano le donne. Ed univano compagnie per le parrocchie, ed uscivano per le vie, e per le piazze, per andare processionalmente alla chiesa di S. Pietro, ove si veneravano reliquie di quell'Alberto; e cantando portavano croci e gonfaloni, e facevano offerte di porpore, sciamiti, broccati, [46] baldacchini[38] e molti denari; che poi i brentori si dividevano tra di loro e tenevano per sè. La qual cosa vedendo i parrochi si affrettarono a far dipingere le immagini di quell'Alberto nelle loro chiese, perchè crescesse il numero e il pregio delle offerte. E non solo in quel tempo si faceva dipingere l'immagine di lui nelle chiese, ma anche sui muri, sotto i porticati delle città, delle campagne e de' castelli. Il che è contrario alle leggi ecclesiastiche, le quali proibiscono di venerare le reliquie di chi non è stato dalla Chiesa riconosciuto e ascritto all'albo dei Santi; nè si può dipingere l'immagine di alcuno come di Santo, se prima non ne sia pubblicata la canonizzazione. Laonde i Vescovi, che permettono tali abusi nelle loro diocesi, meriterebbero d'essere rimossi dal loro ufficio, cioè meriterebbero d'essere spogliati della loro dignità episcopale......... E chiunque avesse mancato d'intervenire a queste solennità, si riguardava come un eretico che le avesse in odio. E i secolari andavan dicendo a chiara e viva voce ai frati Minori ed ai Predicatori: Voi credete che non possano far miracoli che i vostri Santi; ma siete pure in inganno; ed ora lo si vede da questo. Ma Iddio sbugiardò presto l'accusa infame, apposta a' suoi servi ed amici, mettendo in chiaro la menzogna di coloro, che li avevano accusati, e castigando i calunniatori degli innocenti. Di fatto, arrivato un tale da Cremona, che diceva d'aver portato una reliquia di questo S. Alberto, cioè il dito mignolo del piede destro, accorsero affollati i Parmigiani, uomini, donne, ragazzi, ragazze, vecchi, giovani, chierici, secolari, e tutti i Religiosi, e con processione lunga, infinita, portarono quel dito alla chiesa matrice, che è quella della Vergine gloriosa; e [47] collocato quel dito sull'altare maggiore, s'accostò Anselmo Sanvitali, Canonico della cattedrale, e, a volte, Vicario del Vescovo, e lo baciò. Ma sentito odore, cioè fetore d'aglio, e dettolo agli altri preti, s'accorsero anch'essi e riconobbero che erano stati gabbati, poichè non trovarono che fosse nulla fuorchè uno spicchio di aglio; e così restarono canzonati i Parmigiani e beffati, i quali folleggiarono in vanità e diventarono vani. In Cremona, nella chiesa ove era sepolto quell'Alberto, i Cremonesi volevano dimostrare che Dio per mezzo di lui operava miracoli; e perciò da Pavia e da altre città Lombarde molti infermi vi si facevano condurre per liberarsi dalle loro infermità. Accorsero anche da Pavia a Cremona molte nobili donne e donzelle, alcune per divozione, altre per isperanza di guarigione........ e perciò di gran lunga sbaglia il peccatore, o il malato, che abbandona i Santi conosciuti a prova, e si rivolge ad invocare l'aiuto di chi non può essere esaudito...... Nota però e considera che come i Cremonesi, i Parmigiani, e i Reggiani folleggiarono per Alberto brentore, anche i Padovani avevano folleggiato prima per un certo Antonio, che era un pellegrino, e i Ferraresi per un certo Armanno Pungilupo.............. Iddio realmente ascolta anche le invocazioni del beato Francesco, del beato Antonio, di S. Domenico e de' figli loro, ai quali debbono dare ascolto i peccatori. Ma la venerazione di tali nuovi Santi nasceva da molteplici cause: da parte de' malati, per ricuperare la sanità; da parte de' curiosi, per vedere novità; da parte dei preti, per invidia che hanno de' moderni Religiosi; da parte dei Vescovi e dei Canonici, pel lucro che ne ritraggono, come è palese nel Vescovo e ne' Canonici di Ferrara, che guadagnarono molto per la divozione di Armanno Pungilupo; e finalmente da parte di coloro che vagavano fuori delle loro città, come partigiani dell'Impero, i quali [48] speravano, in occasione de' prodigi operati da questi nuovi Santi, di rappacificarsi coi loro concittadini, essere rimessi in possesso de' loro averi, e di finirla d'andare vagolanti pel mondo. Nel millesimo sussegnato, cioè 1279, indizione 7ª, fu rotta la pace di Milano, perchè il Marchese di Monferrato ingannò e tradì i Torriani, come fece divulgare per la Lombardia il Patriarca, che era uno de' Torriani. Però ebbe luogo la pace de' Bolognesi, che nel mese di Settembre rientrarono in Bologna; e fu fatta una tregua e una pace tra' Bresciani e i Mantovani. E, l'anno stesso, i frati Predicatori di Parma fuggirono e si ricoverarono a Reggio, perchè i Parmigiani si sollevarono contro di loro, a cagione di una donna, cui essi avevano fatta arrostire come una gazzera. Perciò i Parmigiani furono scomunicati da frate Latino Cardinale e Legato del Papa, che era a Firenze, e che apparteneva all'Ordine dei Predicatori. E un venerdì, 22 Dicembre, fu rotta la pace tra i Bolognesi della città e i fuorusciti. Vi fu guerra civile, e molti ne rimasero morti, e una quasi innumerevole quantità di case, che appartenevano a quelli del partito dei Lambertazzi, furono incendiate e diroccate dal partito avverso; laonde per timore di peggio i Lambertazzi uscirono dalla città.

a. 1280

L'anno 1280, indizione 8ª, uno staio di seme di canapa si vendeva 16, sino a 20 soldi imperiali. E in quell'anno i Parmigiani incominciarono a fare i cavi per murarvi le fondamenta di un castello presso a Cadeo sulla strada pubblica[39], e nel mese di Marzo scavarono le fossa di quel castello nella contrada di Cella, e lo chiamarono il castello della Croce. E i Mantovani fecero un ponte nella contrada che si chiama Brazzolo[40]. [49] E nel mese di Agosto, nell'ottava dell'Assunzione della beata Maria Vergine, morì Papa Nicolò III. E i partigiani dell'Impero, di Faenza e di molte altre Terre della Romagna, uscirono dalle loro città. Il Conte di Romagna, che era Podestà di Bologna, cominciò allora a parteggiare per gli anzidetti Bolognesi. Nello stesso anno firmossi una pace fra quelli di Padova e di Verona, e la fazione imperiale lasciò Bologna; nel Settembre la parte imperiale uscì di Vercelli. Nello stesso anno insorse discordia tra Guglielmo Vescovo di Reggio, i preti della città e della diocesi di Reggio stessa da una parte, e Dego Capitano del popolo e il popolo di Reggio dall'altra, a cagione delle decime, parendo che i preti volessero esigere troppo dal popolo e dalla città. Perciò il Capitano con ventiquattro difensori delle ragioni del popolo statuirono leggi contro i laici collettori delle dette decime; e per cagione di quelle leggi il Vescovo scomunicò il Capitano, i ventiquattro Avvocati e tutto il Consiglio generale del popolo, e oltracciò pubblicò l'interdetto su tutta la città. D'onde il popolo in furore elesse altri venticinque popolani, tra' quali sette Giudici (e ne' predetti ventiquattro, ce n'erano già quattro di Giudici) e presero gravissime deliberazioni contro il clero: 1º che nessuno dovesse pagare decima di sorta nè dare consiglio, aiuto o favore ai preti, nè con loro trovarsi commensali, nè prendere servigio in casa loro, nè abitare in loro appartamenti, nè prendere da loro mezzadrie, nè dar loro da bere nè da mangiare (e molte altre pene ognuna delle quali per sè gravissima), nè macinare, nè cuocer pane nel forno per loro, nè radere la barba, nè prestare a loro ministero di sorta; arrogando a sè stessi, i preaccennati sapienti, autorità di dire, stabilire, ordinare a loro talento ed arbitrio checchè loro piacesse riguardo al clero. La quale autorità fu poi loro confermata dal Consiglio generale del popolo; [50] e tutte le suddette ordinanze furono approvate ed osservate tanto dal popolo in ogni singolo individuo, quanto dal corpo della milizia e da tutti i buoni uomini. E in quell'occasione molti mugnai furono condannati a pagare cinquanta lire reggiane a testa, perchè contro le dette ordinanze macinarono al di là del termine fissato in mulini di chierici, e molte altre persone toccarono multe. Nello stesso anno, cioè 1280, Tebaldello, verso la festa del beato Martino Vescovo, a tradimento pose Faenza in mano a quelli che erano del partito della Chiesa, cioè in mano ai Bolognesi e ai Manfredi di Faenza, ed espulse i suoi; e colse il momento, in cui la massima parte de' suoi erano all'assedio di un castello. Lo stesso anno i Parmigiani restituirono ai Cremonesi il carroccio, che tolsero loro quando fugarono da Vittoria l'Imperatore Federico II; ed i Cremonesi ne ricambiarono i Parmigiani restituendo il carroccio, che avevano loro tolto in altra occasione; e questi scambi furono eseguiti con reciproche onorificenze, in mezzo all'allegria, ed all'esultanza d'ambe le parti, la vigilia della natività della beata Vergine Maria, che era una Domenica. E le due città accorsero in aiuto di Lodi con fanteria e cavalleria contro i Milanesi e il Marchese di Monferrato, che per distruggerla s'era mosso con tutti gli altri Lombardi. Fu anche allora che nel mese di Novembre Faenza fu presa dai Ravennati e da venticinque soldati Reggiani, che erano ad Imola pel Comune di Reggio a servigio de' Bolognesi, e da alcuni militi del Conte, e dai Bolognesi stessi, che dopo accorsero colà, e dopo loro tutta la milizia de' Parmigiani e de' Reggiani, che corse sino ad Imola. E molti Bolognesi furon morti, molti prigionieri, tra' quali se ne contarono quarantacinque che erano dei più valenti. E fu uno de' grandi e potenti di Faenza che pose la sua città in mano ai Bolognesi, e si chiamava Tebaldello de' Zambrasi. Questi, ch'io ho [51] veduto e conosciuto, e fu un guerriero valoroso come un secondo Jefte, non era un figlio legittimo; pure un fratello di lui, frate Zambrasino dell'Ordine de' Gaudenti, gli assegnò mezza l'eredità paterna, perchè riconosceva in lui un uomo intraprendente, e perchè dei Zambrasi nessuno più sopravviveva tranne loro due; e giacchè c'era da esserne ricchi ambedue, divise in parti eguali il patrimonio del padre, e innalzò il fratello a grandezza di stato. E quando i Bolognesi della città, quelli cioè che si dicevano partigiani della Chiesa, fecero il loro ingresso in Faenza, mezza Faenza era all'assedio di un castello coi Bolognesi fuorusciti; e Tebaldello aveva spiato tempo opportuno a fare sua ribalderia. In quell'anno il ponte di Brazzolo, fatto fare dai Mantovani, fu distrutto dalla violenza delle correnti d'acque diluviali, che furono tali da asportare inferiormente, come dicevasi, quel ponte. Allora fu anche conchiusa una concordia tra il Vescovo di Reggio e i suoi preti da una parte, e il Capitano del popolo, il popolo stesso, ed il Comune di Reggio dall'altra, riguardo alle decime, nel senso che nessuno dovesse essere costretto a pagarle, se non secondo la propria coscienza; e molti altri patti furono convenuti in quella concordia. L'anno stesso Sinigallia fu a tradimento data in Signoria al Conte Guido di Montefeltro, il quale, come ne correva voce, condannò a morte, e fece uccidere in quella città 1500 persone.

a. 1281

L'anno 1281, indizione 9.ª, Cassone della Torre di Milano fu morto in battaglia con molti altri Lodigiani dai Milanesi, come anche restò morto sul campo il Podestà di Lodi nello stesso combattimento, ed era Scurtapelliccia de' Porta, Parmigiano e consanguineo di Obizzo Vescovo di Parma. Nello stesso millesimo ed anno fu eletto Papa Martino IV d'origine francese. Fu eletto alla cattedra di S. Pietro in Febbraio, e preso dal Collegio de' Cardinali: prima si chiamava Simone. Era [52] stato Tesoriere della chiesa di S. Martino di Tours, amico de' frati Minori, de' quali teneva sempre alcuni alla sua Corte, e da loro si confessava. A questi frati diede anche un ampio privilegio di confessare e predicare, e promise di fare loro ancora più ampie concessioni. Questi spedì più volte forze armate contro Forlì, ma il partito della Chiesa si ebbe la peggio, restandone i militi debellati, fugati, prigioni e morti, tra' quali cadde anche Tebaldello, due volte traditore della sua patria, e restò sommerso insieme al suo cavallo nella fossa della città di Forlì. Morì allora di parte della Chiesa anche il Conte Taddeo e Comacio fratello di Anselmo de' Corradini di Ravenna, e morirono molti altri. Della parte contraria vi lasciarono la vita Guido degli Acarisii di Faenza, e molti altri sì di Bologna che d'altronde, ben degni d'essere ricordati.

a. 1282

L'anno 1282, indizione 10ª, si sviluppò una sì folta quantità di bruchi da frutti, che a' giorni nostri nessuno ne ricorda l'eguale, e sbrucarono tutti i frutteti, fiori e fronde, e le piante parevano come sogliono essere d'inverno, mentre a primavera erano fronzute e fiorite benissimo; e quando que' bruchi non trovarono più di che pascersi sulle piante fruttifere, fecero passaggio a quelle dei salici, e anche quelle rodevano; risparmiarono soltanto le fronde de' noci, e credo fosse per la loro amarezza. In seguito cominciarono a cadere a terra grossi e grassi, e strisciavano pe' campi e per le strade, e finalmente morivano; nè quelli erano bruchi da orto, ma d'altra specie. Lo stesso anno infierì gran carestia di biade, cioè di frumento, di spelta, di melica, di fava, di legumi d'ogni specie. Lo stesso anno fu anche levato, nel giorno de' beati apostoli Filippo e Giacomo, l'interdetto ai Parmigiani, loro imposto per cagione de' frati Predicatori, che avevano fatto bruciare per eretica una donna di nome Alina. E spontaneamente erano usciti tutti i frati Predicatori da Parma colla croce e in processione, [53] perchè alcuni stolti s'erano avventati fin dentro il loro convento, e ne avevano ferito alcuni; ma quei mascalzoni, che avevano portato offesa ai frati Predicatori, furono gravemente puniti dai Parmigiani. Quell'anno molte persone fecero tra loro concordia nella città di Reggio; i Parmigiani e i Cremonesi con loro compagnie andarono a devastare le biade di quei di Soncino, perchè Boso di Dovaria aveva in quel castello la sua residenza, e sperava di entrare in Cremona, se l'avesse potuto; ma non gli fu permesso. Quell'anno il Marchese di Monferrato andò e si mise a campo nella diocesi di Lodi ad una coi Milanesi, Pavesi e loro carroccio, e per dir breve e sbrigarmi presto, con tutte le città di parte sua, cioè Vercellesi, Novaresi, Alessandrini, Comaschi e con tutti gli altri suoi amici, e andava dicendo che voleva ridonare la pace alla Lombardia. Ma quelli che parteggiavano per la Chiesa non gli prestarono fede, e unanimi gli si opposero, e si prepararono a resistenza e a guerra contro di lui. E subito in prima linea i Cremonesi uscirono contro tanta oste, e mandarono pregando i Parmigiani che senza indugio accorressero col loro carroccio a difendere Cremona; e subito andarono. E quando si sperò che la battaglia fosse vicina, Parmigiani e Cremonesi chiamarono ad accorrere i loro amici, cioè Ferraresi, Bolognesi, Modenesi, Reggiani, Bresciani e Piacentini, i quali prontissimi volarono al campo. E Capitano e condottiero di tutti questi fu Lodovico Conte di S. Bonifacio di Verona, che allora era Podestà di Parma. Ma il Marchese prenominato sentissi il tremore in corpo sul punto d'azzuffarsi con loro, e di soppiatto si allontanò, e ritornarono tutti dell'una e dell'altra parte alle loro città senza essersi misurati coll'armi. E mentre erano ancora tutti in Cremona, prima di separarsi, tutti quelli del partito della Chiesa fecero magnifiche onoranze ai Parmigiani, e sopratutti i Bolognesi, che sono sempre nobili [54] cavalieri e gentiluomini, fecero un torneo attorno al Carroccio de' Parmigiani per ingraziarseli e mostrarsi loro amici. Perocchè i Parmigiani erano ben voluti da Papa Martino IV, che un tempo aveva studiato leggi in Parma, alla scuola di Uberto da Bobbio, ed erano nelle buone grazie della Corte Romana e di Re Carlo, perchè erano sempre pronti a correre in aiuto della Chiesa. Oltracciò avevano alla Corte un Cardinale oriondo di Parma, ossia di una villa della diocesi di Parma, che si chiama Gainago[41]. (In questa villa io frate Salimbene ho avuto molti possedimenti). Questi aveva attinenze di parentela con maestro Alberto da Parma, che fu sant'uomo, ed uno dei sette Notai della Corte, in grazia del quale, e inoltre per ragione dalla sua abilità nelle lettere, della sua bontà, onestà e intraprendenza, Papa Nicolò III lo fece Cardinale, e si chiamava Gerardo Albo.[42] Papa Martino IV mandò costui in Sicilia a richiamare i Siciliani all'obbedienza della Chiesa quando si ribellarono a Re Carlo, e a Palermo uccisero tutti i Francesi, uomini e donne, e i bambini li battevano a morte contro le pietre, e alle gravide apersero il ventre. Ed un certo Giudice francese, nell'atto di uscire di casa per sedare il popolo tumultuante, fu pregato da un savio cittadino di non immischiarsi fra il popolo, ma anzi se la svignasse per una finestra appartata, e salvasse sua vita. S'appigliò [55] al consiglio, e andò ad un certo castello per mettersi al sicuro. Ma scorto, lo inseguirono i Palermitani, s'impossessarono del castello, e tratto il Giudice sulla piazza di Palermo lo fecero a brani. I Messinesi però non incrudelirono tanto contro i francesi, ma li spogliarono dell'armi e dell'avere, e li inviarono a Carlo loro Signore, che in quei giorni era tornato indietro per non perdere Napoli, e perchè Pietro d'Aragona aveva invaso da quella parte la Sicilia, e aveva per alleati il Re di Castiglia e il Paleologo. Questo Pietro Re d'Aragona aveva moglie una figlia del Principe Manfredi; e il Principe Manfredi, cui Carlo aveva tolta la vita, era figlio del fu Imperatore Federico 2.º. Il Paleologo poi era un tale che teneva a Costantinopoli la Signoria dei Greci dopo aver ucciso il figlio di Vattaccio, precedente Signore de' Greci stessi, per potere su loro signoreggiare; e temeva che Re Carlo e Papa Martino IV volessero invadere Costantinopoli. Ma papa Martino IV voleva prima sbrigarsi di Forlì, che teneva occupata tutto la Romagna. E la Romagna era una piccola Provincia, ma ricca, fertile e popolosa, tra la Marca d'Ancona e la città di Bologna. E la Chiesa Romana la ebbe in dono da Rodolfo eletto Imperatore a' tempi di Gregorio X; stantechè spesso, i Romani Pontefici, quando si fanno le elezioni degli Imperatori, procurano di raspar qualche lembo di territorio da aggregare al loro dominio temporale. Nè agli Imperatori di recente eletti conviene negare quello che loro è domandato: sia per ragione di cortesia e liberalità, che in sul principio dell'impero vogliono mostrare verso la Chiesa; sia perchè considerano come un dono loro fatto tutto quello che acquistano diventando Imperatori; e poi perchè ripugna loro mostrarsi meno che liberali prima di aver in capo la corona; finalmente per non esporsi al danno e alla vergogna d'una ripulsa. Ora per una parte Rodolfo, eletto Imperatore in Allemagna, è in pace; e per l'altra la Chiesa pare non curarsi di [56] coronarlo. Perciò il Papa inviò il prenominato Cardinale ai Siciliani; i quali risposero che di buon grado volevano obbedire ai comandi della Chiesa, ma che respingevano come esorbitante la dominazione Francese. Per questa cagione i Francesi erano sulle mosse coll'armata e coll'esercito numerosissimo per soccorrere Re Carlo. Quello che ne nascerà, lo vedranno i superstiti. In quell'anno Papa Martino abitò in Orvieto; poscia passò a Montefiascone. Parimente nel medesimo anno, in concistoro, alla presenza del Papa e de' Cardinali, furono letti dispacci che annunziavano come il Paleologo in Costantinopoli avesse creato un Papa Greco e Cardinali Greci. I Perugini l'anno stesso si posero sull'armi per correre a devastare Foligno; ma il Papa mandò loro intimando che desistessero, altrimenti li scomunicherebbe: (sappi che Foligno era dell'orto di S. Pietro). I Perugini però non se ne trattennero; corsero e devastarono tutta quella Diocesi sino alle fossa della città, e furono scomunicati. Ma perciò sdegnati fecero fantocci di paglia rappresentanti Papa e Cardinali, li trascinarono ad ignominia per le strade della città, e poi sino ad un certo monte, sulla vetta del quale fecero del Papa vestito di rosso un falò, ed altrettanto de' Cardinali, battezzando i fantocci per rappresentanti quale dell'uno, quale dell'altro Cardinale. E noto che i Perugini credevano in buona fede d'aver ragione di battere i Folignati e sterminarli, perchè essendosi una volta battuti gli uni contro gli altri, Perugini e Folignati, questi scatenarono contro quelli tanta furia di strage, e tanta vergogna e avvilimento inflisse Iddio in quella battaglia ai Perugini, che una vecchietta di Foligno con un bastoncello di cannuccia bastò a far andare in carcere dieci de' Perugini; e altrettanto poterono fare altre donne, senza che a quei di Perugia restasse tanto di ardire nel cuore da tener testa neppure a singole donniciuole. Nel sussegnato millesimo, verso S. [57] Martino, un certo uomo di Soncino, che si chiamava Rossi degli Infonditi, diede a tradimento quella terra ai Cremonesi, che ora sono dentro la città, cioè al partito della Chiesa, e, per tale tradigione del castello di Soncino, si ebbe premio quattrocento lire imperiali. Parimente lo stesso anno, a fin di maggio, per quattro o cinque giorni si ebbe tanto caldo che sarebbe parso eccessivo anche pel Luglio; e i contadini dicevano che nocque assai al frumento; poichè è detto nel libro di Giobbe 37.º: Il frumento desidera le nubi: massimamente quando è in fiore e in granitura. E non vi fu invero piena annata di raccolta di frumento; ma di quelle biade, che i contadini chiamano minute, l'anno fu ubertosissimo, cioè di panico, di miglio, di melica, di fagiuoli e di rape; anche la vendemmia fu abbondante; ma la grandine devastò le vigne in più luoghi. Così nella state dello stesso anno si udirono terribili e orribili tuoni, che parevano quasi visibili e palpabili, così che molti un giorno, verso sera, per terrore caddero a terra, e nella notte seguente i tuoni si rinnovarono spaventevoli. Nel predetto millesimo fu anche celebrato un Capitolo generale de' frati dell'ordine dei Minori in Allemagna a Strasbourg, sotto il ministro Generale frate Buonagrazia. Allora il Conte Lodovico di S. Bonifazio di Verona fu Podestà di Reggio dal 1.º Luglio al 1.º di Gennaio. E in Parma, nel dì dell'Assunzione della Beata Maria Vergine, fu fatta una nobilissima corte, che durò quasi un mese, e furono creati due cavalieri del casato dei Rossi, cioè Guglielmino e Ugolino, fratelli germani, figli del fu Giacomo di Bernardo di Rolando Rossi. E nella festa del Beato Michele e del beato Francesco, in Ferrara fu fatta altra nobilissima corte, perchè Azzone figlio del Marchese d'Este fu fatto cavaliere, e prese per moglie una figlia di Gentile, figlio di Bertoldo Orsini, e fratello del fu Papa Nicolò III romano. Nello stesso anno e nella stessa stagione, anno [58] 2.º del pontificato di Papa Martino, arrivò Pietro, fratello del Re di Francia e Conte d'Artois, con grosso esercito di Francesi, che andavano a soccorso di Carlo Re di Sicilia contro Pietro Re d'Aragona; e il giorno di S. Ilarione Abbate creò a Reggio tre cavalieri, due de' Fogliani, cioè Bartolino e Simone, e Rondanello de' Taccoli; e subito ripartì lo stesso giorno, perchè s'affrettava a soccorrere Carlo, e prima voleva anche fare visita a Papa Martino. Nella seguente Domenica poi, 25 ottobre, si rappacificarono quelli degli Strufi cogli Orsi e Salustri, nel convento de' frati Minori di Reggio, per interposizione di frate Giovannino de' Lupicini, lettore de' frati Minori a Reggio; ed erano presenti molti uomini e donne, giovanetti e donzelle, vecchi e ragazzi. In questi tempi viveva a Parma un pover uomo, che faceva il ciabattino, puro, semplice, timorato di Dio, cortese, cioè di urbane maniere, ed illetterato; ma aveva un intelletto tanto illuminato da intendere le scritture di quelli, che predissero il futuro, cioè dell'Abbate Gioachimo, di Merlino, di Metodio, della Sibilla, di Isaia, Geremia, Osea, Daniele, dell'Apocalisse, non che di Michele Scoto, che fu astrologo di Federico II. Imperatore. E molte cose ho udito da lui, che poscia avvennero; p. e. che Papa Nicolò III doveva morire in Agosto, e che il successore sarebbe stato Papa Martino, e molte altre cose, che stiamo aspettando che accadano, se vivremo, giacchè:

Ratio praeteriti scire futura focit.

Quel che già fu, ciò che avverrà ne insegna.

Quest'uomo, oltre al nome proprio, che è maestro Benvenuto, comunemente si chiama Asdente, cioè, per ironia, senza denti, perchè anzi ha denti grossi, e non allineati regolarmente, e la favella ha intricata; tuttavia intende e si fa intendere bene. Sta in Co' di Ponte a Parma, presso la fossa della città, e presso il [59] pozzo, lungo la strada che va a Borgo 8. Donnino. Parimente nell'anno sussegnato, cioè 1282, Papa Martino IV spedì un esercito in Romagna, composto di Francesi, Lombardi, Toscani, e Romagnoli, e fece cingere d'assedio più mesi Meldola, che non si potè prendere, ma però vi forono molte vittime dell'una e dell'altra parte; e Papa Martino vi spese molte migliaia di fiorini d'oro. Così pure nel millesimo suddetto fu stabilito il duello che doveva farsi a Bordeaux tra Re Carlo e Re Pietro d'Aragona, come diremo più innanzi.

a. 1283

L'anno del Signore 1283, Lodovico Conte di S. Bonifacio di Verona, scaduto della Podesteria di Reggio, fermò sua stanza nella medesima città, vicino alla chiesa di S. Giacomo e al convento dei frati Minori, in casa di Bernardo da Gesso. E lo stesso anno 1283, da Lendinara[43] venne a Reggio presso di lui sua figlia Mabilia, bellissima donzella, e nella stessa casa di Bernardo da Gesso[44] ove abitava il detto Conte, e nello stesso giorno che arrivò presso il padre, ella si maritò con Savino Torriani Milanese, ricchissimo e potentissimo; e subito dopo gli sponsali assistette alla messa della beata Vergine nel convento de' frati Minori; ed, oltre i Reggiani, vi aveva un corteo di molti cavalieri di Parma e di Modena, e il fior delle donne di Reggio; e, subito dopo la messa ebbero imbandita una refezione. E l'imbandigione in quella casa e nel convento di S. Giacomo non fu parca. Questo avvenne nel suddetto millesimo ed anno, il venerdì precedente la Domenica di Settuagesima, ai 12 di Febbraio; e il sabato successivo, la mattina per tempissimo, si posero in viaggio per Parma; ed ivi lo sposo e la sposa abitano presso il Battistero. Il sunnominato Conte era figlio di [60] Rizzardo, uomo saggio, prode cavaliere, valoroso in armi, e dotto nell'arte della guerra. E quando Parma si ribellò a Federico II, l'anno 1247, fa il primo ad accorrere in aiuto de' Parmigiani, e, passando pel territorio di Guastalla, entrò in Parma con molti armati. Il resto come abbiamo detto più sopra. Questo Conte Lodovico ebbe moglie una tedesca, d'onde gli nacque la figlia prenominata, e tre figli, che sono giovanetti bellissimi, cortesi ed istruiti, il primo de' quali si chiama Vinciguerra. E nello stesso anno e millesimo, l'ottava di Pasqua, che cadde nel giorno di S. Marco Evangelista, il suddetto Conte, la sera, era agli estremi della vita; e in morte e nel testamento affidò e raccomandò i suoi figli alle cure di Obizzo Marchese d'Este, che li accolse affettuosamente e li trattò come figli suoi, sebbene prima il Marchese non si trovasse in buoni accordi col Conte. (E la cagione della discordia tra loro era stata la città di Mantova, di cui ciascuno di loro ambiva la Signoria; ma sfuggì di mano all'uno e all'altro, e la ebbe Pinamonte). E il predetto Marchese rimise i figli del detto Conte in possesso di tutti i beni, che il padre loro aveva in Lendinara. E la notte seguente al dì di S. Marco morì, assistito dai frati Minori, dai quali si era confessato, e regolò ottimamente le cose dell'anima sua. E la cittadinanza di Reggio pensò ad onorare degnamente la salma di lui; e fece a larga mano le spese del funerale, come a nobile personaggio conveniva, che era stato loro Podestà e che si trovava espulso da' suoi possedimenti come partigiano della Chiesa. Alle sue esequie intervennero tutti i Religiosi di Reggio e molte Religiose, tutta la cittadinanza Reggiana, e molti foresi; e i più nobili Reggiani ne portarono il feretro al convento de' frati Minori, ove fu sepolto. Il suo corpo era vestito di scarlatto, con una bella pelliccia di vaio e un bel manto, e così adorno fu deposto, il lunedì successivo alla festa di S. Marco, in [61] un magnifico Mausoleo, che il Comune di Reggio a proprie spese gli fece erigere; ed ebbe la spada cinta a' fianchi, al tallone gli speroni d'oro, una gran borsa appesa alla cintura di seta, alle mani i guanti, al capo una bellissima cappellina scarlatta, orlata di pelle di vaio, ed una clamide pure scarlatta e ornata di pelliccio di vaio. Il detto Conte lasciò al convento de' frati Minori il suo destriero e le sue armi. Sulla tomba sta quest'epitafio:

Cum tua maiestas Lodoyce quae clara potestas
Urbis Veronae comes inclyte sub regione
Hac fait inclusa Libitine morsibus usa
Aprilis quina restabat lux peregrina
Ast octogeni tres anni mille duceni

Requietorio
Di Lodovico inclito Conte di Verona
Che compiuta la Podesteria di Reggio
Il primo di Gennaio
E la vita
Il cinque d'Aprile 1283
In quest'urna
Se ne chiusero le ceneri
E gli splendori della grandezza

Fu pure questo Conte uomo onesto e santo; e d'onestà n'aveva tanta che, passeggiando per città, non alzava mai gli occhi verso alcuna donna, sicchè le donne, ed anche le bellissime signore ne facevano le meraviglie .... E il Conte d'Artois, Pietro, fratello del Re di Francia, passando da Reggio, e avendo udito che era un sant'uomo, e che aveva il nome del padre suo, cioè Lodovico, e che si trovava fuori de' suoi possedimenti a cagione del parteggiare per la Chiesa, gli volle fare visita, lo abbracciò e lo baciò. Quel Pietro fratello del Re di Francia si compiaceva di fare visita a tutti que' santi uomini, di cui aveva udito parlare, onde mandò anche cercando, per vederlo, frate Giovanni da Carpinete dell'Ordine [62] de frati Minori. (Questi era entrato nell'Ordine prima del gran terremoto del 1222). Nell'anniversario poi della morte del Conte Lodovico la moglie di lui mandò a Reggio pel convento de' frati Minori, ove era sepolto suo marito, un bel paliotto da altare di sciamito e porpora. E l'anima di lui per la misericordia di Dio riposi in pace, e così sia. In questo 1283 si deplorò una grandissima morìa di bovini in tutta la Lombardia, Romagna e Italia, e nell'anno successivo grande mortalità d'uomini. E di fatto presso Salins[45] in Borgogna, in un convento di frati Minori vi erano ventidue frati, veduti da un certo frate Francese che dimorava in Grecia e passava per andare a Parigi; d'onde ritornando poi indietro lo stesso anno, nè trovò morti undici, cioè la metà di quanti erano. Udii questo dalle labbra di lui a Reggio. Anche in altre parti del mondo dominò in quell'anno grande mortalità; e in breve questa è regola generale, che ogni volta che accade morìa di bovini, subito l'anno dopo sussegue mortalità d'uomini. L'anno già detto 1283 Bernardo Lanfredo di Lucca fu Podestà di Reggio per sei mesi, dal 1.º Luglio sino al 1.º Gennaio; al tempo del quale, perchè era troppo debole, si commisero molti omicidi ed altri delitti nella città e nel territorio di Reggio, tanto che i nemici di un tale in città con una scala entrarono nella casa per una finestra, e lo uccisero in letto. Così questo Podestà, a cagione della sua non curanza e debolezza nell'applicazione delle leggi, fu del numero di quelli, di cui il Signore dice per bocca d'Isaia 3.º Io farò che de' giovinetti saranno lor principi. Alla lettera costui non era giovinetto d'età, ma di negligenza nel far giustizia. A lui successe Barnaba Pallastrelli di Piacenza, che non la perdonò a nessuno, e tolse di mezzo molti ladri e malfattori. Molti ne condannò a morte, e se ne eseguì la sentenza, [63] durante la sua Podesteria, sicchè i Reggiani per la severa applicazione della giustizia dissero che era un distruttore della loro città. Ma molto maggior danno apportò il suo antecessore colla sua negligenza e rilassatezza, per la quale nella città di Reggio si accesero molte nimistà e guerre, che durano tuttora e saranno cause della ruina di Reggio, se Dio non provvede altrimenti.... Tuttavia il primo, che era Lucchese e rilassato, se lo vollero i Parmigiani per loro Capitano; e il secondo, di Piacenza, che era stato severo e rigido, se lo presero i Modenesi; e a tempo della sua Podesteria Modena fu ruinata, come diremo sotto la rubrica dell'anno 1284. Nell'anno 1283 il Numero d'oro e l'indizione coincidevano nel numero 11; e ai due d'Aprile, che era luna piena, la stella lucidissima, che si chiama Venere, pareva entrata nel cerchio della luna nuova; e di notte, dopo mattutino, un'altra splendissima stella, che si chiama Giove, pareva, verso il sud, occupare la branca superiore dello Scorpione. Così, nello stesso anno, Forlì ritornò all'obbedienza della chiesa, la qual città da molti anni le era ribelle, e Papa Martino IV ogni anno le mandava contro un grosso esercito di Francesi, e di diverse altre genti. (E davano il guasto alle vigne, alle biade, alle piante pomifere, agli oliveti, ai fichi, ai mandorli, alle melagrane, alle case, agli animali, alle botti, ai dolii, e ad ogni cosa nata ne' campi. Questa città avrebbe francata dai Bolognesi, che l'avevano occupata, tutta la Romagna, se non vi si fosse intromessa la Chiesa, che prese le armi contro Forlì. La causa poi, per cui la Chiesa vi si intromise, fu che il Papa aveva domandata in dono la Romagna a Rodolfo quando fu eletto Imperatore, e Rodolfo gli aveva concesso di occuparla) E, in più anni, vi spese per insignorirsene molte migliaia di fiorini d'oro, anzi molte some di monete d'oro. Stantechè Papa Martino s'aveva fatto pertinace proposito [64] d'averla di violenza, se non poteva di accordo. E così avvenne, perchè, come suol dirsi, il lavoro costante vince tutto. E venuta che fu quella città all'obbedienza della Chiesa, ne furono spianate le fosse, smantellate le porte, atterrate case e palazzi, e rasi al suolo i più cospicui edifici. I principali cittadini di quella città ne uscirono, e andarono a ricoverarsi in nascosi ricettacoli per lasciar sbollire gli sdegni. Ma il Conte Guido di Montefeltro, che era Capitano e condottiero de' Forlivesi e del partito imperiale, venne ad accordi colla Chiesa, e andò a confino per alcun tempo a Chioggia. Poscia fu mandato in Lombardia, ed abitò ad Asti distintamente ricolmo d'onori, perchè era ben voluto da tutti per la sua precedente probità, per le molte vittorie riportate, e per la saviezza e sottomissione, colla quale ora obbediva alla Chiesa. Inoltre egli era uomo nobile, sensato, prudente, costumato, liberale, cortese, largo, cavaliere valoroso e prode nell'armi, e dotto nell'arte militare. Prediligeva l'Ordine de' frati Minori, non solo perchè vi aveva alcuni parenti, ma anche perchè il beato Francesco lo aveva salvato miracolosamente da molti pericoli, e liberato da' ceppi e dal carcere del Malatesta. Nulla ostante da alcuni sciocchi di frati Minori ebbe più volte a soffrire gravissime ingiurie. Egli in Asti ebbe una conveniente compagnia e famiglia, e molte persone non cessavano di darsi premura di offrigli aiuto e servigio. Queste cose accaddero tra il tempo in cui i Re sogliono cominciare le guerre, e la festa del beato Giovanni Battista; ed ivi era Legato del Papa Bernardo di Provenza Cardinale della Corte romana. Lo stesso anno Re Carlo da Napoli recossi a Bordeaux, credendo di scontrarsi in duello con Pietro Re d'Aragona. Questi due Re dovevano aver secoloro soli cento cavallieri per ciascuno, come avevano convenuto con giuramento. Ma quella prova d'armi non ebbe luogo, perchè il Re d'Aragona la declinò. [65] E quello scontro si doveva fare per cagione della Sicilia, in cui Pietro Re d'Aragona aveva posto piede, e l'aveva occupata con un esercito; poichè Papa Nicolò III gliel'aveva data, in odio di Re Carlo, coll'assenso di alcuni Cardinali, che allora erano alla Corte, e d'altronde lo stesso Pietro Re d'Aragona credeva d'avervi diritto, come genero del Principe Manfredi. Ma Carlo, fratello del Re di Francia, avevala avuta prima da Papa Urbano IV per aver soccorsa la Chiesa contro Manfredi, figlio di Federico Imperatore deposto. Nello stesso millesimo morì Guglielmo Fogliani Vescovo di Reggio, e provvide male all'anima sua, essendochè fu uomo avaro, illetterato e quasi un laico: fu pastore ed idolo come dice Zaccaria 11.º ecc. Voleva vivere splendidamente, cioè avere ciascun giorno per sè tavola lautissima; e spesso imbandiva sontuosi banchetti ai ricchi ed ai parenti; ma per i poveri ebbe insensibili le viscere della pietà, nè collocò a marito le zitelle povere; fu uomo grossolano, cioè ebete e rude; trovò pochi che parlassero bene di lui. Meglio per lui se fosse stato porcaio, o se avesse avuta la lebbra, che fare il Vescovo. Nulla diede mai ai religiosi, nè ai frati Minori, nè ai Predicatori, nè ad altri poveri; e i poveri Religiosi, che assistettero alle sue esequie, non ebbero nemmeno di che mangiare per quel giorno a spese prelevate dal patrimonio di lui o dalla mensa vescovile. Io fui presente al funerale e alla sepoltura, e so che un cane cacò sulla tomba di lui tosto che egli fu sepolto. Fu collocato nella parte inferiore della chiesa maggiore, ove si mettono quelli del popolo (ma veramente meritava d'esser sepolto in una fogna). Egli in vita conturbò molte persone che godevano la loro pace. Fu Vescovo di Reggio quarant'anni, meno un mese, morì in Agosto il giorno di S. Agostino, e fu sepolto la Domenica dopo, giorno della decollazione di S. Giovanni Battista. Parimente nel detto millesimo quelli di Bibbiano, che è una villa [66] della diocesi di Reggio a case sparse, accordatisi insieme fecero nella villa stessa un borgo; e i frati Minori di Parma fabbricarono un bel refettorio nel prato di S. Ercolano, ove si trova il loro convento, e dove anticamente i Parmigiani facevano il mercato, e poi dopo, verso quaresima, correvano torneamenti. Nello stesso anno i Parmigiani fecero un ponte di pietre sul torrente Parma, a capo della contrada che si chiama Galera[46], dalla casa degli Umiliati alla casa dei Predicatori, e murarono la città dalla parte de' monti, vicino al torrente Parma e all'Ospedale di S. Francesco[47]. Così negli anni precedenti i Parmigiani avevano fatto molti miglioramenti alla città loro; avevano compiuto il Battistero in tutta la parte superiore, tirandolo su sino al comignolo; e sarebbe stato terminato molto tempo prima se Ezzelino da Romano, che signoreggiava a Verona, non avesse frapposto ostacoli[48]; poichè quel Battistero si costruiva tutto di marmi di Verona; fecero scolpire i colossali leoni e le colonne, a ornamento della porta principale del duomo, sulla piazza del Battistero e dell'episcopio; fecero anche tre ampie, belle e magnifiche [67] vie; una, dalla chiesa di S. Cristina sino al palazzo del Comune; una seconda, dalla piazza nuova, ove il Podestà tiene a concione il popolo, sino alla chiesa di S Tommaso Apostolo; la terza, dalla piazza del Comune sino alla chiesa di S. Paolo; e su tutte queste vie a destra e a sinistra sorsero belle case e palazzi. Fecero anche il palazzo del Capitano, assai bello, presso il palazzo vecchio, che era stato fatto da Torello da Strada, Pavese e Podestà di Parma; sotto la cui Podesteria fu anche cominciato il castello di Torello sulla strada che va a Borgo S. Donnino. Ma siccome quelli di Borgo S. Donnino si sottomisero all'obbedienza del Comune di Parma, i Parmigiani desistettero dall'opera intrapresa e non compirono il castello, che avevano progettato di costruire. Così nell'anno sussegnato ampliarono la piazza nuova del Comune comprando tutte le case attorno alla piazza; e si proponevano di erigere un altro palazzo con botteghe a comodo del pubblico sull'area, ove in antico sorgeva il bellissimo palazzo dei Pagani, ch'io ho visto co' miei occhi, e poi fu palazzo di Manfredo da Scipione[49], più bello ancora; e finalmente vi si costruì il macello de' beccai; poi il Comune lo comprò per sè colle casamenta che vi erano attigue[50] e colla torre di Rufino Vernazzi, che era dalla parte di S. Pietro. Avevano anche aperto negli anni anteriori un canale naviglio, ma poco utile. Discendeva giù per un vecchio alveo sino alla Villa del Cardinale Gerardo Albo, che fu anche una volta Villa mia, perchè io vi aveva estesi possedimenti, e che si chiama Gainago; e nella parte inferiore di detta Villa svoltava, perchè non andasse come prima a Colorno, ma portasse le barche a [68] Frassinara[51]; ma sia che andasse a Colorno, sia che a Frassinara, era sempre un naviglio di poco conto. E certamente saprei cavarlo meglio io un naviglio utile ai Parmigiani se avessi pieno e libero potere. Nello stesso anno scavarono un lungo fossato lungo la strada che va a Brescello, dall'ospedale sino a Sorbolo[52], nel quale immisero il Gambalone, perchè colle sue acque inondava tutti i campi al di sotto della strada, sicchè non potevano servire nè all'agricoltura, nè agli agricoltori. Quell'anno morì frate Bonagrazia, Ministro Generale dell'Ordine de' Minori, in Provenza ad Avignone, la vigilia del beato Francesco, giorno di Domenica, e fu sepolto nella chiesa de' frati Minori, davanti all'altare maggiore, e alla sua morte si trovò presente frate Vitale, Ministro Provinciale di Bologna, che ricevette incarico di benedire, da parte del morente, tutti i frati della Provincia di Bologna, e di assolverli da tutti i loro peccati. E fu fatto. Fu Ministro Generale quattr'anni, e si differì la convocazione del Capitolo generale sino alla Pentecoste del 1285 perchè, come era stato deliberato nel Capitolo generale precedente, si doveva celebrare a Milano. Nel 1283 si trovò il corpo della beata Maria Maddalena tutto intero, tranne una gamba, in Provenza nel castello di S. Massimino (S. Massimino fu uno dei settantadue discepoli, de' quali si parla in Luca 10.º; e fu Arcivescovo di Aix, che è la città in cui è il sepolcro di quel Conte, la cui figlia fu moglie del Re di Francia S. Lodovico, che andò oltremare in soccorso di Terra Santa l'anno 1248; la qual città è distante quindici miglia da Marsiglia, ed io vi soggiornai l'anno che il Re andò oltre mare, perchè io era addetto a quel convento). E, quando fu trovato il corpo della beata Maria Maddalena, [69] a stento si poteva leggere l'iscrizione con una lente, stante l'antichità della scrittura. E piacque a Re Carlo (che era Conte di Provenza e quell'anno andava a Bordeaux per quel duello, che era stato convenuto ed ordinato con Pietro Re d'Aragona) che il corpo della beata Maria Maddalena fosse esposto al pubblico, e fosse esaltato ed onorato, e se ne celebrasse una festa solenne. Così si fece. Da allora in poi cessarono le contese, le opposizioni, i cavilli, gli abusi e gli inganni che avevano luogo per cagione del corpo della beata Maria Maddalena. Perocchè quelli di Sinigaglia dicono di possederlo essi, e que' di Vezelay anch'eglino pretendono di possederlo, e ne avevano una leggenda che ne parlava. Ma è chiaro che in tre luoghi non può essere il corpo di una donna. (Per causa congenere ardenti contese vi sono anche a Ravenna per il corpo di S. Apollinare, perchè quei di Chiassi, che fu una volta città, sostengono di possederlo, quei di Ravenna parimente pretendono di averlo, stando di fatto che un Arcivescovo di Ravenna trasportò il corpo di S. Appollinare da Chiassi a Ravenna, per timore che gli Agareni[53] lo involassero, come ho letto più volte nel pontificale di Ravenna, e reverentemente lo collocò nella chiesa di S. Martino, presso la chiesa di S. Salvatore, che una volta fu chiesa dei Greci; ma che da Ravenna sia poi stato di nuovo asportato non si trova scritto in nessun luogo). Il corpo dunque della Beata Maria Maddalena è veramente nel castello di S. Massimino, come quello di S. Marta sua sorella è a Tarascon. Il fratello poi di loro, Lazzaro, [70] fu Vescovo di Marsiglia. E la spelonca di S. Maria Maddalena, nella quale essa fece penitenza trent'anni, dista da Marsiglia quindici miglia, e vi ho dormito dentro una notte, immediatamente dopo la sua festa; ed è al fianco di un monte altissimo, roccioso, e tanto vasta è quella spelonca, che a mio avviso, se ricordo bene, possono starvi dentro mille persone. Vi sono tre altari, ed un zampillo d'acqua come quello della fontana di Siloe, e una bellissima strada vi conduce; e fuori e vicino all'ingresso della spelonca vi è una chiesa, alla quale è addetto un sacerdote. Al di sopra di quello speco l'altezza del monte è ancora tanta, quanta è quella del Battistero di Parma; e lo speco è tanto elevato sulla pianura di quel territorio che tre volte la torre degli Asinelli di Bologna, a mio avviso e se ricordo bene, non potrebbe arrivarvi, sicchè gli alberi di alto fusto che sono al piano, guardati da quel punto sembrano ortiche, o salvia del Caspio. E siccome quella regione, o contrada, è ancora al tutto disabitata e deserta, le donne e le nobili signore di Marsiglia, quando per divozione si recano colà, fanno condurre dietro sè asini carichi di pane, di vino, di torte, di pesci e di quali altre vivande desiderano. Sulla strada però, a cinque miglia dalla spelonca, vi è un monastero delle Albe, che hanno molte deferenze pei frati Minori, e di buon grado li veggono, li accolgono, servono loro con ogni attenzione il bisognevole, ed offrono un'agiata ospitalità. A riprova poi dell'invenzione del vero corpo della Maddalena concorre un miracolo che a que' giorni fece il Signore mercè di lei, a dimostrare che quello ne era il vero corpo. Ed eccolo. Camminando in quel tempo un giovane beccaio per una strada, incontrò un suo conoscente, che gli domandò d'onde venisse. Ed egli rispose: Torno dal castello di S. Massimino, ove di recente è stato scoperto il corpo della beata Maria Maddalena, [71] della quale ho baciato una tibia. A cui disse. No, non avrai baciato una tibia di lei, ma quella di un'asina, o di un asino, che i chierici a guadagno mostreranno ai semplici. Ed essendosi perciò acceso alterco acre tra loro, l'incredulo non divoto della Maddalena appioppò diversi colpi di spada al divoto, nè, la mercè di Maddalena, gli produsse ferita di sorta. Il divoto della Maddalena, a sua volta aggiustò un sol fendente al non devoto, e non bisognò il secondo, chè subito perdette la vita e ritrovò la morte. Dolentissimo poi il difensore della Maddalena d'aver ucciso un uomo (e l'aveva fatto a propria difesa, e malgrado, e fortuitamente) e temendo di essere preso dai parenti dell'ucciso, si ricoverò ad Arles, e poscia a S. Egidio, per essere quivi sicuro e lasciar sbollire gli sdegni. Ma il padre dell'ucciso spillando dieci lire ad un traditore, fece imprigionare l'uccisore del figlio, già condannato nel capo. Ma la notte precedente il giorno, in cui doveva essere impiccato, a lui che vegliava apparve in carcere la Maddalena, e gli disse: Non temere, o divoto mio, e difensore zelante della mia gloria, che non morirai. Io ti assisterò al momento opportuno in modo che tutti quelli che vedranno, ne rimarrano esterrefatti, e scioglieranno inni di grazie al Signore, che opera miracoli, e a me di lui serva. Ma quando sarai liberato, riconosci da me questo beneficio a te conferito, ed a vantaggio dell'anima tua, abbine gratitudini a Dio tuo liberatore. Ciò detto, la Maddalena sparve lasciandolo consolato. L'indomani fu appeso alla forca senza riportarne nè guasti al corpo, nè dolore all'anima. Ma poscia a poco, ecco d'improvviso, a vista di tutti gli spettatori calare dal cielo a rattissimo volo una colomba candida come la neve, e posare sul patibolo, sciogliere il capestro dal collo dell'impiccato devoto alla Maddalena, e deporlo in terra illeso. Ma gli ufficiali pubblici e i giustizieri, [72] per insistenza de' parenti dell'ucciso, volendolo di nuovo appendere, per opera de' beccai si evase, de' quali era ivi adunata gran caterva armata di spade e di bastoni. (Tanto s'adoperavano perchè era stato collega ed amico, ed anche perchè avevano ammirato il prodigio chiaro e stupendo). Avendo poi raccontato a tutti che aveva commesso quell'omicidio suo malgrado, e per ragione di difesa sua e dell'onore della Maddalena, e che essa gli aveva già promesso in carcere che al momento opportuno lo avrebbe liberato, ne ebbero consolazione e cantarono lodi a Dio e alla beata Maria Maddalena liberatrice del devoto di lei. Il Conte di Provenza, udito parlare di questi fatti, volle vedere quell'uomo, e udirseli raccontare dalla bocca di lui, e tenerlo in Corte finchè campasse; ma egli rispose che se vi fosse chi lo facesse anche padrone di tutto il mondo, non vorrebbe finir la sua vita altrove che in servizio della Maddalena, nel castello di S. Massimino, ove il corpo di lei era stato di recente scoperto, cioè nel 1283. E così fece. E nello stesso anno, nel mese di Giugno, dovevano battersi a duello Re Carlo, e Pietro Re d'Aragona. Titoli di Re Carlo, che fu Re di Gerusalemme e Sicilia, Duca di Puglia, Principe di Capua, Senatore dell'Alma Città, Principe dell'Acaia, d'Anjou[54], di Provenza, Conte di Forcalquier[55] e di Tonnerre[56]. Avendo Pietro Re d'Aragona inviato con sue lettere credenziali il Prefetto di Marsiglia a Re Carlo, allo scopo di trattare e concludere un matrimonio tra un figlio di detto Pietro e una figlia d'un figlio del predetto Re Carlo; pochi giorni dopo quelle trattative di matrimonio, del quale lo stesso Pietro si diceva desiderosissimo, [73] secondo che ne assicurava quel prefetto, e secondo che egli stesso esprimeva nelle sue lettere credenziali, e dopo molte altre amichevoli dimostrazioni da parte di Pietro stesso fatte allo stesso Re Carlo per mezzo del preaccennato Prefetto, Pietro Re d'Aragona spogliò Re Carlo del Regno di Sicilia con una frode, che si copriva sotto le apparenze di trattative di pace e parentela tra loro. E avendo Pietro Re d'Aragona già allestito navi e quanto occorre a guerra per navigare alla volta della Sicilia, il Re di Francia mandò a lui una straordinaria ambasciata e messi speciali, a significargli che non andasse punto contro suo figlio Re Carlo, nè ponesse piede sul regno di lui, perchè se mai facesse ingiuria a Re Carlo, o all'erede di Re Carlo, la reputerebbe fatta alla propria persona. E Pietro con cortesia e benignità rispose agli ambasciatori che egli non aveva per nulla intenzione di fare ingiuria a Re Carlo, nè all'erede di Re Carlo; ma desiderava di andar oltremare contro gli infedeli Saraceni, e che tutto quel di territorio potesse conquistare, lo assegnerebbe a quel proprio figlio che prendesse moglie la figlia del figlio di Re Carlo. Ricercò per di più al Sommo Pontefice la decima delle terre dello Stato della Chiesa in aiuto di quell'impresa, che voleva compiere oltremare contro i Saraceni, ad esaltazione e gloria della fede cristiana; e pregollo altresì di voler prendere sotto la propria custodia e tutela il suo regno di Aragona. Quando poi Re Carlo ebbe notizie che Pietro con quel tessuto di menzogna era riuscito a por piede in Sicilia, per mezzo di messi speciali e per lettere gli impose di ritirarsi dal suo regno, e per nessun pretesto lo occupasse. Ma Pietro, fidente nelle proprie forze e nelle popolazioni della Sicilia, rispose che non sgombrerebbe mai dal Regno di Sicilia, finchè potesse tenerlo in suo dominio. Udita tale risposta, Re Carlo, che allora era in Puglia, adunò un [74] esercito innumerevole di fanti e di cavalli, e per mare con immenso naviglio mosse contro di lui. Ma i Cavalieri più saggi, che accompagnavano l'uno e l'altro Re, ad evitare che tanta moltitudine d'uomini fosse condotta a strage, proposero che tra Re Pietro e Re Carlo si facesse un duello. E furono eletti sei probi e prudenti Cavalieri dall'una e dall'altra parte, che dovevano ordinare e disporre in che luogo, in che modo, con quali formalità, in che tempo e come s'avesse a fare il duello. I quali tutti concordemente deliberarono e statuirono per lo meglio che si dovesse fare a Bordeaux, città della Guascogna, sotto la Podestà e il dominio del Re d'Inghilterra, e definitivamente fissarono che l'uno e l'altro, Re Carlo e Re Pietro d'Aragona eleggessero que' cento de' loro migliori Cavalieri che volessero, e con loro i Re medesimi in persona si dovessero trovare al 1.º di Giugno 1283 indizione 11ª nel luogo prestabilito; e che nel medesimo luogo e città si dovesse preparare un campo tutt'intorno chiuso, sicchè nessuno potesse entrare, tranne i detti Re e loro Cavalieri. Le quali cose tutte Re Carlo e Re Pietro giurarono sul santo Vangelo di Dio di osservare appuntino e che al dì prefisso, nel preindicato luogo anderebbero coi duecento cavalieri, salvo impedimento di salute, e che tra loro personalmente si batterebbero. Così pure sul Vangelo di Dio giurarono che chi non si trovasse al convegno nel giorno e nel luogo prestabilito, si dovesse per tutta la di lui vita chiamare non Re, ma mentitore, traditore, e mancatore della fede data, e che del resto non potesse avere nè conseguire onore alcuno al mondo; e se da persona ne fosse interrogato, non lo dovesse negare, ma dappertutto e a tutti e singoli l'avesse da confessare. Il serenissimo Re Carlo, illustre protettore e scudo della sacrosanta madre Chiesa romana e della fede cristiana, secondo le convenzioni e i patti preaccennati, al tempo prefisso, presente [75] Giovanni di Grillo Cavaliere siniscalco dell'illustre Re d'Inghilterra, e presenti moltissimi altri Giudici e Ufficiali del detto Re d'Inghilterra, di lui Luogotenenti in Guascogna, e specialmente nella città di Bordeaux, si presentò in questa città al giorno prefisso, con i suoi cento Cavalieri per battersi personalmente in duello, e aspettò Re Pietro da mattina a sera. Ma Re Pietro, quantunque da più persone degne di fede fosse stato veduto sano di corpo il giorno precedente, e tanto vicino alla città di Bordeaux, che, se avesse voluto, avrebbe potuto trovarvisi, tuttavia non vi andò, non comparve; nè esso, nè altri per lui ne fece scuse di nessuna sorta. Dovendo dunque il detto Pietro d'Aragona, giusta le ragioni e le convenzioni sopra allegate, essere spogliato e privato d'ogni onore reale, e passar sempre la vita sua nell'ignominia, il Legato, per mandato del Sommo Pontefice, conferì il Regno d'Aragona all'illustre Re di Francia pel figlio di lui. Il Re di Francia lo accettò, e inviò sua gente ad occuparlo dalla parte della Navarra, e ordinò di fare subito una leva generale nella Catalogna. Il Re Carlo va in Francia, e deve trovarsi ad un abboccamento col Re d'Allemagna. Il Re di Francia e il Re d'Inghilterra inviano loro gente in aiuto del Re di Castiglia contro i di lui figli ribelli; in aiuto del quale andò Boise Re de' Mori con 10000 soldati, e ricuperò già molte terre; e si è fatto accordo che i nepoti del Re di Francia abbiano da avere il regno dopo la morte dello stesso Re di Castiglia. Il Re di Portogallo e dell'Algarvia scrisse al Re di Francia e al Re d'Inghilterra, e inviò a loro messi speciali per significare che era dolente della fatuità di Pietro suo cognato, e che era pronto a fare ciò che volessero. Il Re d'Inghilterra negò al figlio del detto Pietro la sua figlia che gli aveva promessa moglie; e il Re di Maiorica mandò una solenne ambasciata e lettere per avvisare che non voleva immischiarsi negli affari di suo fratello. E si crede per fermo [76] che si firmassero patti secreti tra lui e il Re di Francia a Moissac[57], ai 27 di Giugno, indizione 11.ª. E nota che quando i due detti Re giurarono di fare quel duello, Papa Martino IV s'interpose per consiglio e assenso de' suoi Cardinali, e proibì che si facesse; ma la sua opposizione non approdò a distorne l'ostinato animo di Carlo, se pure Pietro d'Aragona si fosse prestato a farlo. Tuttavia non mancano coloro che scusano Pietro Re d'Aragona d'essersi sottratto al convenuto duello, e sostengono che non presentossi, perchè il Re di Francia stava pronto con un esercito vicino al luogo del combattimento per soccorrere al bisogno suo zio Re Carlo. E vi fu chi disse che Re Pietro sotto mentite spoglie di mercante andò fino presso al luogo fissato pel combattimento per non infrangere il giuramento, e ne fece rogare atto pubblico: e che poi se ne sottrasse per timore che il Re di Francia accorresse in aiuto di Carlo. Nell'anno sussegnato s'incendiò il convento dei frati Predicatori in Verona, e ne furono danneggiati assai, essendone bruciati i libri, e fusi i calici. Lo stesso infortunio toccò ai frati Minori presso Lione, dopo Natale, la sera di S. Stefano, quando colà risedeva Papa Innocenzo IV co' suoi Cardinali. In quell'ora frate Pietro di Belleville, un vecchietto, studiava la predica che doveva fare l'indomani; ed essendosi addormentato, s'accese il fuoco; e se, svegliatosi, avesse gridato, avrebbe avuto soccorso, ma invece s'affrettò alla cucina per una secchia d'acqua, volendo all'insaputa di tutti estinguerlo; ma quando tornò, il fuoco era tanto dilatato, che ne bruciò il dormitorio e tutti i libri. Ed in quell'anno io mi trovai là con frate Giovanni da Parma Ministro Generale, cui il Papa voleva mandare in Grecia. E nel detto millesimo 1283, abitando io nel convento di Seggio, il dì d'Ognissanti, dopo mattutino, [77] uscendo di chiesa entrai nel chiostro, ed ivi stetti all'aperto sul prato; e pioveva dall'alto una pioggia copiosa, e più alto ancora io vedeva contemporaneamente un cielo sereno, lucidissimo e trapunto di stelle. Questa cosa l'ho vista anche un'altra volta l'anno dopo, ma di giorno, e non potei vedere le stelle.

a. 1284

L'anno 1284, indizione 12., il 27 di Febbraio, si udirono terribili tuoni, quali sogliono udirsi il giorno di S. Gervaso e Protaso, e Giovanni e Paolo piovve e grandinò. L'anno stesso i Parmigiani costruirono un bel ponte di pietra sul torrente Parma, dove era ab antico un ponte di legname, che si diceva di donna Egidia[58]. E fu donna Egidia da Palù, che aveva anticamente fatto costruire quel ponte di legno, quando il Comune di Parma assegnò a Bonacorso da Palù una porta della città, da difendere, ed era allora vassallo del Comune di Parma, perchè occupava quella porta, e dal Comune avevala avuta. Ma in seguito per le accese ire dei partiti, e per rottura tra la Chiesa e l'Impero, i Parmigiani in odio al partito imperiale ruinarono quella porta sino alle fondamenta. Parimente in quest'anno si cominciò in Parma un nuovo e bel campanile tra la Chiesa maggiore e la canonica[59], dove prima era il vecchio. In detto anno vi fu anche abbondanza di frumento; di vino se n'ebbe poco a confronto dell'anno anteriore, ma buono; d'ogni sorta frutti ve ne fu gran copia... fu misericordia di Dio, giacchè gli anni precedenti, a cagione de' bruchi da frutti, le piante non ne portarono a maturità.... Nello stesso millesimo molti fatti accaddero non veramente degni di storia, ma che però non debbono passare al tutto sotto silenzio. In assenza di Re Carlo, il figlio di lui, al quale aveva affidato il Regno di Puglia, andò [78] e commise battaglia navale coll'armata di Pietro d'Aragona, e la sua armata fu rotta, ed egli stesso prigioniero; nè vi era presente il Re d'Aragona, ma l'Ammiraglio di lui colle sue navi. Arrivato poi Re Carlo a Napoli, pochi giorni dopo la cattura del figlio, convocata un'adunanza, proclamò suo figlio uno stolto, pazzo, insensato, e che aveva operato senza senno, commettendo battaglia senza il suo consiglio, e perciò non voleva prendersi pensiero di lui, come non fosse mai nato. E lo diseredò, gli tolse il Principato e lo assegnò al figlio del figlio prigioniero. E a dimostrare allegrezza, e far scomparire ogni segno di lutto, ed esaltare la promozione del nipote, fece in città co' suoi cavalieri un torneo; e così si finse sereno e senza rabbia. Tuttavia in processo di tempo si trovò in brutte acque, a tale che, quanto a denari, ne cercò a' suoi amici per le città Lombarde; ed anche i Parmigiani per amichevole soccorso gli diedero due migliaia di fiorini d'oro, cioè mille lire imperiali. E credo che anche altre città gli stendessero la mano soccorrevole. Questi due Re, cioè Carlo e Pietro d'Aragona, gravi e reciproche insidie si tramavano a cagione del possesso del Regno di Sicilia; ma la loro fine sta ancora sepolta nell'avvenire. Ora, che scriviamo queste cose volge l'anno 1284, settembre, giorno dell'esaltazione della santa Croce; e chi ama il Re d'Aragona dice di lui ogni bene; e chi ama Re Carlo dice ogni bene di Re Carlo. In questo stesso anno, la città di Modena si divise in due fazioni; e cagione di tale scissura furono alcuni omicidii commessi maliziosamente, turpemente e vergognosamente senza che i loro autori ne toccassero la dovuta pena, cioè senza applicazione della legge. E quelli da Rosa, ossia di Sassuolo andarono fuori di città con quelli di Savignano e co' Grassoni e loro aderenti, tanto popolani che militari; ed occuparono Sassuolo, Savignano[60], [79] Monbaranzone[61], e in breve, occuparono tutta la zona di territorio al di sopra della strada Emilia. Fortificarono Sassuolo, inchiudendo nella cerchia dei fortilizii tutte le case del paese, e cavarono fosse d'ogni intorno; e scorrazzavano per la diocesi di Modena, devastando, incendiando e rapinando, perchè quelli della città non li volevano lasciar rientrare. E mandaron dicendo ai Parmigiani che accettassero le chiavi de' loro castelli e delle fortezze che avevano, e fossero loro Signori. Quelli poi che erano in città licenziarono il loro Podestà, Pallastrelli di Piacenza, pagandogliene il salario, e crearono Podestà un Pistoiese, e posero a ruina le case e i palazzi dei fuorusciti. E quando i Parmigiani mandarono i loro ambasciatori a Modena per rappacificare tra loro i due partiti, mentre gli ambasciatori andavano per la città pregando di fare quanto era necessario per la pacificazione, i Modenesi stavano per le vie sull'armi alle porte delle case loro, e digrignavano i denti contro gli ambasciatori Parmigiani, e andavano ripetendo: Che si fa? Gettiamoci sopra di loro, dilaceriamoli, perchè son essi che ruinano la città nostra. E così calunniavano chi non aveva colpa; stantechè per contrario i Parmigiani molte volte hanno sguainate le spade a favore di Modena contro i Bolognesi. Gli ambasciatori inviati dai Parmigiani a Modena erano: Il Capitano del popolo Egidio Milleduci, che è maestro di leggi, ed altri non pochi, che riferirono al ritorno queste scene ai Parmigiani nel palazzo, in pieno Consiglio generale. Ed i Parmigiani ridevano all'udir queste cose, nè vi fu persona che proferisse sinistre parole contro i Modenesi. Poichè sapevano tutti di non aver inferto alcun danno a Modena, e sapevano anche che la causa della ruina di [80] Modena era il tizzone della discordia ardente tra i Boschetti e quelli di Savignano. E i maggiorenti che erano in Modena, e che furono e ne sono i capitani, erano i Rangoni, i Boschetti e i Guidi. E al principio di questo dissidio i Modenesi di dentro la città fecero grande allestimento d'armi e di tutte le cose che a guerra sono necessarie; e approntarono carri carichi di vettovaglie, di baliste e d'armi, e condussero numerose squadre contro i Modenesi fuorusciti, sperando di avvilupparli; e con questo apparato corsero sopra Sassuolo, e cominciò un combattimento con quelli di Sassuolo. (Sassuolo è un castello a dieci miglia da Modena sulla Secchia). Ma i Modenesi fuorusciti si trovavano a Savignano. Tostochè Manfredino di Sassuolo seppe che i suoi erano alle prese coi nemici, e che virilmente si battevano aspettando soccorso, coll'eccitamento nell'animo disse a quelli di sua parte: Se vi è chi sia mio amico, si unisca a me, ed ora ne faccia prova, e combattiamo oggi per noi e pei nostri amici. Lo seguirono allora tutti quelli che erano atti a portare le armi, giovani e vecchi, eccetto quelli che erano necessari a tenere guardia a Savignano; ed irruppero poderosamente contro i Modenesi di dentro la città, e li sconfissero, molti ne passarono a fil di spada, e molti ne fecero prigionieri, e fecero bottino di tutte le vettovaglie e del materiale da guerra. È vero però che i vinti, quand'ebbero veduto la fierezza dell'assalto e l'audacia de' loro nemici concittadini, si diedero a fuggire gettando via le armi e i vestiari e quanto portarono, pensando solo a salvarsi. Sapute i Parmigiani queste cose, mandarono con grande apparato ai Reggiani otto ambasciatori, persone che tutte erano state più volte insignite dell'ufficio di Podestà di città cospicue, a pregarli di non far pazzie, come i Modenesi, e non rovinare la patria; e si fermarono a Reggio non pochi giorni, ed io li ho veduti, ed ho loro fatto visita, perchè in quel [81] tempo io era addetto al convento di Reggio. (Gli ambasciatori Parmigiani erano: Matteo da Correggio, Bonacorso di Montecchio, Rolando Putagio, Rolando degli Adegherii, Ugolino Rossi, Egidiolo di Marano, e due popolani, i cui nomi non ricordo). Ai quali i Reggiani risposero che avessero pur eglino cura e sollecitudine di custodire la loro Parma, ch'essi s'adoprerebbero a custodire la città propria, a ciò non cadesse a ruina. E i Reggiani diedero risposta di questo tenore, perchè tanto in Parma che in Reggio regnava una certa ambizione e gelosia, quasi volessero dire: O medico, cura te stesso. In Reggio, oltre il partito imperiale, già da lungo tempo espulso, vagante ed errante in esilio, s'erano formati due partiti tra quelli che tenevano per la Chiesa, dei quali uno si diceva il superiore, e l'altro l'inferiore. Del partito superiore della città di Reggio erano principali personaggi e Capitani: Azzone Manfredi, Antonio Roberti, Tomasino suo figlio, e Matteo Fogliani co' suoi seguaci. Del partito inferiore erano capi: Rolandino di Canossa, Francesco Fogliani, il suo fratello Prevosto di Carpineti co' suoi aderenti, Guido da Albareto, Ezzelino suo figlio, ed un altro Rolando, Abbate di Canossa, Scarabello, Manfredino di Guercio, Ugo di Corrado, Corradino suo figlio, Giacomino de' Panzeri, Tomasino suo figlio, Bartolomeo dei Panzeri, Zaccaria suo figlio, Guglielmo de' Lupicini Abbate di S. Prospero (che fece pace coi Bajardi e si rimase nel suo monastero) e Garsendonio de Lupicini (costui poi disertò, abbandonando il partito, e fece adesione a Matteo Fogliani, e s'imparentò con lui, accettando una figlia per moglie al proprio figliuolo Ugolino), finalmente Guido de' Lupicini, e più altri. In Parma poi vi era questa divisione: Obizzo Sanvitali Vescovo di Parma coi di lui seguaci era capo dell'una parte; dell'altra parte era Ugo Sossi germano consanguineo di lui, essendo figli di due sorelle, ed ambidue [82] nipoti di Papa Innocenzo IV. Per Ugo Rossi tenevano quelli da Correggio e molti altri notabili Parmigiani. Queste sono pompe ed ambizioni da lasciarsi in disparte e degne dello sprezzo degli uomini sennati, perchè l'Apostolo dice... Frattanto accortisi i Reggiani d'aver data risposta di poco garbo agli ambasciatori Parmigiani, pentiti, e costretti da necessità, elessero alcuni proprii ambasciatori, li inviarono ai Parmigiani e dai Parmigiani ottennero tutto quello che vollero, e li fecero giurare sull'anima propria di non venir meno a quello che domandavano, cioè se l'un partito di Reggio malignamente espellesse l'altro, i Parmigiani aiuterebbero sempre chi fosse stato iniquamente espulso, e molte altre cose si pattuirono utili a mantenere in città la concordia. Gli ambasciatori mandati dai Reggiani ai Parmigiani erano: Rolandino di Canossa, Guido da Tripoli, ed un Giudice, Pietro di Albinea, che fu l'oratore dell'ambasciata. Questi avendo, nel loro albergo in borgo di S. Cristina, udito parlare di Asdente, profeta de' Parmigiani, lo mandarono a chiamare per consultarlo intorno alle sorti della loro città; e gli imposero sulla sua coscienza di non tacer nulla di quello che Dio stava loro preparando per l'avvenire. Ed egli rispose che se si conservassero in pace sino a Natale, sfuggirebbero all'ira di Dio; diversamente berrebbero tutto il calice dell'ira divina, come l'avevano ingollato i Modenesi. Essi risposero che si sarebbero mantenuti in pace; che anzi, per raffermare la pace e l'amicizia, si disponevano a stringere tra loro vincoli di parentela per mezzo di matrimonii. Ai quali egli di ripiglio soggiunse che queste cose si facevano da loro con mala fede, e che sotto il velo della pace si nascondeva il veleno. Se ne ritornarono pertanto gli ambasciatori, e non si parlò più in seguito di matrimonii; studiarono vieppiù a fabbricare materiale da guerra, che a mantenere una scambievole amicizia; [83] e si verificò di loro quello che Michele Scoto disse in que' suoi versi, ne' quali vaticinava il futuro:

Et Regii partes insimul mala verba tenebunt.

In Reggio ogni fazion rotta ha la fede,

Le lingue arrota, si dilania e fiede.

In questi giorni si strinsero con vincoli di amore e di amicizia in una forte alleanza le città di Piacenza, Parma, Cremona, Reggio, Modena, Bologna, Ferrara e Brescia, che tutte parteggiavano per la Chiesa. I partigiani dell'Impero già da lungo tempo esulavano dalle loro città, e andavan vagando pel mondo senza speranza di rimpatriare, per quanto dipendeva dal partito della Chiesa; Mantova poi era della fazione contraria per impulso di Pinamonte, che la signoreggiava. Le suddette città adunque conoscendo tutti i danni, che avevano incolto i Modenesi, elessero dal proprio seno un certo numero di cospicui ambasciatori, e li mandarono a Reggio, perchè ivi convocassero una grande assemblea allo scopo di ripristinare in Modena la pace, se ve ne fosse modo. Ma non lo poterono, quantunque vi si adoprassero attorno molti giorni, e vi fossero convenuti i rappresentanti delle due parti di Modena, cioè quei di dentro, e quei di fuori. Finalmente gli ambasciatori con chiusero, deliberarono e decretarono che non si recherebbe a nessuna delle due parti nè consiglio, nè soccorso, nè aiuto, nè favore, sia perchè non vollero per loro bene e per la pace consentire alle proposte fatte, sia perchè non si poteva far danno a nessuna delle due parti dei Modenesi senza offendere il partito degli alleati, sendochè tutti stavano per la Chiesa, ed anche per non alimentare in quei di Reggio e d'altre città la speranza di ricevere aiuti, se talora in eguale maniera folleggiassero. Allora i Modenesi vedendosi abbandonati a se stessi da tutti quegli amici loro, in cui confidavano, [84] mandarono a Firenze e alle altre città della Toscana per indurle a raccorre soldati, e a formare e mandare un esercito potente a farla finita, e che l'una parte l'altra esterminasse e disperdesse. Così stanno le cose oggi, ottava della Natività della beata Vergine. Come finirà, sallo Iddio; se camperemo, vedremo. Allora i Reggiani licenziarono il loro Podestà Tobia Rangoni di Modena, che andasse pe' fatti suoi, e se ne tornasse a Modena sua città, datogli prima quel salario che ad onore e decoro gli era dovuto. E per tre motivi ebbero a licenziarlo: Perchè era nuovo nel ministero dell'amministrare (non aveva mai avuto altra Podesteria che questa) e contro alcuni procedeva con acrimonia e ingiustizia; e per lievissimo fallo multava, o cacciava in carcere; la qual cosa spiacque ai Reggiani.... Perchè era balbuziente, tanto che provocava a riso chi l'ascoltava, e quando in consiglio voleva dire: Avete udito (propositam) la proposta? Diceva: audivistis propoltam? E lo deridevano come scilinguato; ma invece era balbuziente. Però meritano più di essere derisi quelli, che eleggono alle magistrature uomini di quella fatta, i quali non hanno valore di sorta: il che è segno che i simili godono che vi siano dei loro simili, lasciandosi guidare dall'interesse privato più che dal bene pubblico.... Finalmente perchè poneva in opera ogni mezzo per provocare discordie in Reggio e trascinare i Reggiani a parteggiare per la sua fazione, cioè quella dei Modenesi, che erano dentro Modena. Le quali cose considerando, i Reggiani lo deposero dall'ufficio, lasciandogli facoltà di tornare tra' suoi, ed elessero Podestà quello che era lor Capitano, aumentadogli il salario, per avere in avvenire un uomo che fosse saggio ed intraprendente, dal cui diritto operare e dalla cui fedeltà si crede salvata la città di Reggio.... Egli era oriondo di Città di Castello. In questi giorni Obizzo Vescovo di Parma convitò in casa sua il profeta de' Parmigiani, [85] che si chiamava Asdente, e lo interrogò minutamente intorno a cose che stavano ancora nascoste nel fitto velo del futuro. Il quale rispose, a udita di molte persone, che fra breve i Reggiani e i Parmigiani soffrirebbero molte tribolazioni; e parimente vaticinò intorno alla morte di Martino 4.º Sommo Pontefice, delle quali cose determinò e specificò i tempi, ch'io non voglio riportare; e che a Martino dovevano succedere tre Papi tra loro divisi e nemici, de' quali uno sarebbe stato legittimo, gli altri eletti illegittimamente; predisse anche la ruina di Modena prima che avvenisse. E questo profeta altro non è che un uomo che ha l'intelletto illuminato ad intendere i detti di Merlino, della Sibilla, dell'Abbate Gioachimo e di tutti quelli che lessero nel futuro; ed è uomo cortese, umile, famigliare, senza sussiego, senza superbia, nè annunzia mai cosa con affermazione assoluta; ma dice sempre: Così pare a me; così intendo io il tal libro. E quando taluno leggendo in sua presenza, salta qualche tratto, subito se ne accorge, e dice: Tu mi fai inganno, tu hai ommesso qualche cosa. E molti da diverse parti del mondo vanno ad interrogarlo. Egli aveva predetto ben tre mesi prima dell'evento il disastro de' Pisani; e un certo Pisano venne da Pisa a Parma per un suo scopo ad interrogarlo, dopo due battaglie già combattute coi Genovesi. Perocchè i Pisani e i Genovesi tre volte si sono battuti in battaglia navale; la prima nel 1283, e due volte nel 1284, e ne' primi due combattimenti, tra morti e prigionieri si calcolano messi fuori di linea 6000, tra' quali il Conte Facio fu condotto prigione a Genova, e molti altri notabili. E, mentre tra loro in mare ferveva ancora la battaglia, un tal Genovese montò su una nave Pisana e si caricò di lastre d'argento; ma avendo l'armatura di ferro, ed essendo carico di lastre e volendo di nuovo risalire sulla sua nave non potè raggiungerla e cadde e colò a fondo, come una pietra, col [86] ferro e coll'argento, e fors'anche colle sue scelleratezze. Tutti questi particolari li ho uditi dal lettore di Ravenna che era un Genovese, e veniva allora allora di Genova. E nota miracolo, e pensa: I Pisani sono stati sbaragliati e fatti prigionieri dai Genovesi nel tempo, nel luogo, nel mese, nel giorno, in cui essi avevano catturato i Prelati a' tempi di Papa Gregorio IX di buona memoria; e giudica se è vero ciò che il signore disse in Zaccaria 2.º: Chi tocca voi, tocca la pupilla dell'occhio mio. Nota che i Parmigiani, uno de' quali mi son io, dicono che la vendetta sino a trent'anni è ancora in tempo. E dicono vero. Ve ne ha un esempio lampante in S. Brizio, a cui dopo trent'anni di episcopato toccò la pena vindice delle moltiplici afflizioni inferte a S. Martino, per cui ne soffrì moltiplici tormenti. Leggi la vita di S. Brizio, e vedrai se non è come ti dico. Così l'anno 1284 ripensando i Pisani al danno inferto loro dai Genovesi, e volendosene vendicare, costruirono sull'Arno molte navi e galee e attrezzi di marina; e, allestita la squadra, deliberarono e pubblicarono ordinanza che dei Pisani dai venti a' sessant'anni nessuno vi fosse esente dal servire in guerra. E corsero tutta la marina Genovese distruggendo, incendiando, uccidendo, catturando, e rapinando: e devastarono tutto quel tratto di litorale che da Genova si stende sino alla Provenza, passando davanti a tutte le città marittime, cioè Noli, Albenga, Savona, e Ventimiglia in cerca de' Genovesi per dar loro battaglia. I Genovesi anch'essi avevan fatta ordinanza che nessuno dei loro dai diciotto ai settant'anni rimanesse a casa, ma dovesse co' suoi concittadini impugnare la spada; e così correvano il mare dando la caccia ai Pisani. Finalmente s'incontrarono fra il Capo Corso e la Gorgona[62], legarono insieme colle catene le galee, [87] come è loro costume nelle battaglie navali, ed ivi si batterono con tanta strage d'ambe le parti, che pareva averne compassione anche il cielo e conturbarsene. Molti dell'una parte e dell'altra eran morti e molte navi colate a fondo. E già i Pisani avevano avuto il sopravvento, quando giunse ai Genovesi un rinforzo di galee, e di nuovo si lanciarono sui Pisani già stanchi; ma pur tuttavia gli uni e gli altri continuarono la zuffa con accanimento. Finalmente i Pisani, riconoscendosi vinti, si arresero ai Genovesi, i quali uccisero i feriti, e mandarono gli altri alle prigioni. Ma anche chi vinse non potè menarne gran vanto, poichè la battaglia fu deplorevolmente sanguinosa pei vinti e pei vincitori. E furono tante le lagrime ed i sospiri in Genova e in Pisa, che mai non ne furono altrettanti in quelle città dalla loro fondazione sino a noi. E chi senza piangere e senza contristarsi può narrare il furore, con cui quelle due nobilissime città, d'onde veniva agli Italiani ogni sorta di ben di Dio, si laceravano per sola vanità, e ambizione, e vana gloria di supremazia, come, se il mare non fosse ampio abbastanza ai naviganti? Quindi invalse l'usanza di dire:

Iniuriam latam sibi nunquam vindicat apte,

Qui ruit in peius, quo dedecoratur aperte.

Male al danno appien provvede

Chi da folle se lo incoglie;

Ma se al peggio volge il piede

Danno ed onta ne raccoglie.

Questa battaglia fu combattuta ai 13 d'Agosto, Domenica, [88] festa dei SS. Ippolito e Cassiano[63]. Io non ho voluto segnare quì il numero dei morti e dei prigionieri dell'una e dell'altra parte, perchè si racconta in diverse maniere. Però l'Arcivescovo di Pisa ne fissava un numero preciso in una lettera all'Arcivescovo di Bologna, numero ch'io non voglio notare, perchè aspetto da Pisa alcuni frati Minori, che me ne daranno la cifra accertata. E nota che questa battaglia tra Pisani e Genovesi fu pronosticata e segnalata molto prima che si combattesse, giacchè nella villa di S. Ruffino[64] della diocesi di Parma, alcune donne, che di notte purgavano il lino, videro due grandi astri in cielo, che andavano l'uno contro l'altro all'assalto, e più volte si ritirarono, e più volte di nuovo ritornarono al cozzo. Nell'anno sussegnato, dopo la battaglia tra Pisani e Genovesi, molte donne Pisane, belle, nobili, ricche e di potenti famiglie, unite ora a trenta, ora a quaranta insieme, da Pisa a piedi si recavano a Genova per cercare e fare visita ai prigionieri di loro famiglie; tra quali chi vi aveva il marito, chi il figlio, il fratello, il consanguineo, cui Iddio non aveva balzati nel seno della misericordia di coloro che li avevano fatti prigionieri (Salmo 105.º). E quando quelle donne domandavano ai custodi delle carceri di vedere i proprii parenti, si sentivano rispondere: Ieri ne sono morti trenta, oggi quaranta, e li abbiamo gettati in mare, e di questo ne tocca ogni giorno ai Pisani. E quelle donne udendosi dire tali cose de' loro cari, e non potendoli rivedere, angustiate dalle strette del cuore cadevano a terra, e per la piena dell'affanno e del dolore appena potevano respirare; e poi, ripreso fiato, colle unghie si laceravano la faccia, si scarmigliavano i [89] capelli, e ad alte e gemebonde grida piangevano fino a che loro restavano lagrime da versare. Imperocchè i Pisani morivano in carcere d'inedia, di fame, di penuria, di miseria, di dolore e di tristezza, poichè: Ebbero dominio su di loro quelli che li odiavano, i loro nemici eran quelli che li tormentavano, ed erano caduti sotto le loro mani. (Salmo 105º). Nè i Pisani erano giudicati degni de' sepolcri de' padri loro, e perciò li privavano di sepoltura.... E quando le dette donne Pisane arrivavano di ritorno a casa, trovavano morti altri, che alla partenza avevano lasciati sani. Iddio in quell'anno percosse la città di Pisa con una pestilenza, che trasse assai di cittadini al sepolcro... nè vi era casa, in cui non si trovasse un morto.... Toccò Iddio i Pisani colla spada del suo furore perchè da lungo tempo erano diventati ribelli alla Chiesa, e perchè avevano catturato in mare i prelati che andavano al concilio convocato da Papa Gregorio IX di buona memoria.... Quattr'anni io ho abitato nel convento di Pisa dell'Ordine de' frati Minori, ben quarant'anni fa, e perciò mi contristano le sventure de' Pisani, e ne ho compassione: e Dio me lo vede nel cuore. E, quando io abitava colà, fu per tre anni loro Podestà Bonacorso da Palù, cui i Pisani fecero loro Ammiraglio, e lo misero alla testa di quella loro armata, che condussero sulle loro galee sino alle bocche del porto di Genova. (Ed i Pisani oltre le galee vecchie che possedevano, ne costruirono cento di nuove per trasportare quell'esercito, e l'Imperatore in servizio e aiuto dei Pisani, ne mandò di sue cinquanta in completo assetto di guerra, le quali, trovandomi io sul porto di Pisa, ho vedute io arrivare dal Regno.) Ed i Pisani, giunti colla loro armata vicino al porto di Genova lanciarono contro la città per millanteria, per fasto ed a sempiterna memoria, un nembo di saette che portavano l'acuta punta non di ferro, ma d'argento. Essi per tanto vedendo [90] che i Genovesi non uscivano a battaglia, risolcarono il mare devastando e incendiando tutto quanto si parava loro innanzi lungo il litorale de' Genovesi. E nota che come è naturale l'odio tra l'uomo e il serpente, il cane e il lupo, il cavallo e il grifone, così cova un lungo odio tra Pisani e Genovesi, Pisani e Lucchesi, Pisani e Fiorentini. Tra Pisani e Genovesi per cagione della supremazia sul mare, volendo per una certa ambizione, ciascuno parere da più dell'altro; e allora i monti si innalzano, ma le pianure non si abbassano.... Tra Lucchesi e Pisani cova odio, discordia e malevolenza, non solo perchè quelle due città sono di territorio confinanti, ma anche perchè i Pisani appresero dieci castelli del Vescovo di Lucca, e li tennero lungo tempo, per cui furono anche scomunicati, e persistettero lungo tempo nella loro pertinacia (quelle castella erano sui monti). Tra Fiorentini poi e Pisani cova odio, perchè quando i Fiorentini andavano a Pisa per comperare merci, i Pisani facevano loro pagare troppo grave dazio d'uscita alle porte. Avuta dunque notizia i Fiorentini e i Lucchesi, che erano legati tra loro d'interessi e di amicizia, del gran colpo inferto dai Genovesi ai Pisani, giudicarono quello un momento favorevole, e ordinarono un esercito contro i Pisani nell'anno preindicato, in Dicembre, poco prima di Natale, e con loro dovevano trovarsi quei di Prato e di Corneto per avviluppare i restanti Pisani, e se fosse possibile, ridurli a completa ruina, e farli sparire dalla faccia della terra. La qual cosa risaputasi dai Pisani, se ne impensierirono altamente, riconoscendo che su di loro si adempieva quel detto del Deuteronomio 28.º: E voi resterete poca gente, là dove per addietro sarete stati come le stelle del cielo in moltitudine. Onde i Pisani atterriti si volsero a pregare Iddio.... Avendo dunque sciolte al cielo le preghiere, s'avverò la scrittura che dice: È necessario che intervenga [91] l'aiuto di Dio quando manca quello degli uomini. E sorse loro in mente il buon consiglio di mandare le chiavi della loro Pisa a Papa Martino perchè li difendesse dai loro nemici; il quale di buon grado li accolse tra le sue braccia, e represse i nemici insorgenti.... Isaia 60º: Ed i figliuoli di quelli che ti affliggevano verranno a te inchinandosi; e tutti quelli che ti dispettavano si prostreranno alle piante de' tuoi piedi. Ciò che ho udito, ho scritto; oggi le cose sono così; non si sa come anderà poi a finire; chi camperà vedrà l'esito degli eventi. Tutto il mondo è in perturbazione e volto al sinistro; siamo sulla fine del 1284. Nel millesimo suindicato corse voce che Federico 2º, già Imperatore, vivesse ancora in Allemagna; e che avesse sèguito di una immensa moltitudine di Tedeschi, ai quali largamente faceva le spese. E acquistò tanta consistenza e diffusione questa voce che molte città Lombarde spedirono messi speciali a vedere e constatare, se effettivamente ancora vivesse, o se fosse una fiaba. Anche il Marchese d'Este ne mandò uno per conto proprio. Anche alcuni Gioachimiti prestarono qualche fede alla voce corsa e credettero non impossibile la sopravvivenza di Federico, perchè la Sibilla dice: «Essa chiuderà gli occhi di morte ascosa, cioè la gallina gallicana, e sorviverà e suonerà fama a dire in mezzo ai popoli, vive e non vive, essendo superstite uno dei polli, o uno de' polli dei polli.» Anche Merlino dice di lui: «Due volte quinquagennario sarà trattato blandamente.» Il qual passo i Gioachimiti lo interpretavano così: Due volte cinquanta fanno cento; quasi sostenendo che avesse cent'anni. Ma non ne fu nulla. Col tempo si provò che era un ciurmadore, un gabbamondo, che tali cose fingeva a guadagno; e così tanto egli che i suoi seguaci sfumarono. Parimente nello stesso anno suonò altra fama. Dissero testimoni veridici, cioè frati Minori e Predicatori che da poco erano arrivati d'oltremare, che [92] tra Tartari e Saraceni era per avvenire una gran novità. Dicevano dunque che il figlio del defunto Re dei Tartari era insorto a combattere lo zio regnante, che aveva fatta adesione ai Saraceni; e l'aveva ucciso, e con lui aveva fatta strage di una grande moltitudine di Saraceni. Inoltre mandò comando al Soldano di Babilonia di fuggire in Egitto; altrimenti se l'avrà tra le mani, lo ucciderà, quando arriverà ai paese di lui, ove si è proposto di andare sollecitamente; perocchè, come si dice, vuol essere in Gerusalemme il Sabato Santo; e se vedrà discendere fuoco dal cielo, come asseriscono i cristiani, minaccia di uccidere tutti gli Agareni che potrà incontrare. E già prima di cominciare la predetta guerra alleato coi Georgiani e cogli altri cristiani, a cui aveva fatta adesione, fece coniare moneta, sovra un lato della quale vedevasi il Sepolcro, e sull'altro stava scritto: In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Pose anche sulle armi e sugli stendardi la croce, e nel nome del Crocifisso menò duplice strage, cioè dei Saraceni e dei Tartari avversi a lui. Giunto ciò a conoscenza del Soldano di Babilonia e degli Agareni di lui sudditi, che si affrettavano a portare soccorso ai Tartari, si ritirarono, velocemente fuggendo, per non perire anch'essi coi cristiani nemici. E qui finisce l'istoria. In questo stesso millesimo, i Modenesi di dentro la città, presso Montale[65], il giorno 19 Settembre, il Martedì prima delle Tempora, di nuovo si azzuffarono coi Modenesi fuorusciti, che abitavano a Sassuolo, e si battagliò aspramente dall'una e dall'altra parte con grande strage. Però i Modenesi, che abitavano in Sassuolo furono vittoriosi anche in questo combattimento, che accadde in Martedì, presso Montale, come li erano stati nel primo, che avvenne un lunedì, al principio delle ostilità; e in questi due scontri tra morti sul campo e [93] prigionieri ve ne furono ben cinquecento; e parte caddero di spada, altri furon tradotti ai ceppi in carcere, ed ivi trattenuti. In quel tempo i Modenesi di dentro la città ebbero un tale che si spacciava per astrologo ed indovino, a cui davano dieci denari grossi d'argento al giorno, e ogni notte tre grosse candele Genovesi di purgatissima cera, e, interrogando il futuro, prometteva ai Modenesi che, se una terza volta si cimentassero a combattimento, ne riporterebbero vittoria. A cui i Modenesi risposero: Noi non vogliamo misurarci coi nostri nemici nè in Lunedì, nè in Martedì, perchè in questi due giorni siamo stati vinti: designane un giorno diverso per combattere, e sappi che se questa volta non riporteremo la vittoria, che ne prometti, ti caveremo l'altro occhio che ti resta. (Giacchè era guercio, e un barattiere, un gabbamondo, come provò l'evento). Temendo egli dunque di non indovinare, se ne portò via tutto quello che s'era guadagnato, e all'insaputa di tutti... se la svignò per la sua strada. Allora quei di Sassuolo cominciarono a far loro le beffe, come a gente che: Ha sacrificato ai demonii, e non a Dio; a Dii, i quali essi non avevano conosciuto, Dii nuovi, venuti di prossimo e a cui i loro padri non avevano prestato culto. (Deuteronomio 32º). E i Parmigiani, udendo quanti disastri avevano colpito i Modenesi, mandarono dodici ambasciatori, per desiderio di ricomporli a concordia. Ma fu opera vana. Non prestarono fede a loro e non vollero ascoltarli.... Ma tutto questo accadde perchè si avverasse la profezia di Merlino profeta Inglese. Perocchè Merlino compose versi, ne' quali presagiva con verità l'avvenire delle città Lombarde, Toscane, Romagnole e della Marca, versi ch'io credo degni d'essere qui riportati, e che cominciano così:

Incominciano i versi di Merlino

[94]

Venient in mundo —

— et duo erunt sine fine utundo.

Gravia tum dura —

— multa sunt inde futura.

In Lombardia —

— tunc errabit phylosophia.

Superbia regnabit —

— cum ventis tota volabit.

Ipsa Toscana —

— dicetur a gentibus vana.

Peregrinando ibit —

— diffusa, peccando peribit.

Romandiola —

— sub iugo teneatur a stola,

Quæ in perpensum —

— tallionem reddet immensum.

Marchia anchonitana —

— sub Ecclesia stabit romana,

Quæ semper lanam —

— evellet sibi cotidianam.

Apulia vero —

— tota erit plena veneno.

Multi morientur —

— et Reges pro auro delentur.

Marchia delusa —

— plorabit in sanguine fusa;

Et diu plorabit —

— sub dura potestate durabit.

Francia durabit —

— et pluribus praeponderabit;

Et cum defecerit —

— effusio sanguinis erit.

Alamannia imperabit —

— zizaniam mundi fugabit,

Qui retinet gentes —

— Imperium non diligentes.

Provincia sola —

— diu stabit sub arida stola,

[95]

Quæ revelata —

— dicetur et accumulata.

Ab Hispanianis multus —

— erit sanguis in terra diffusus

Lombardos natos —

— volens sibi fore ligatos.

Ecclesia plorabit —

— cum superbia tanta regnabit;

Et non providebit, —

— in dura servitute manebit.

Florentia florebit —

— immundo tota lucebit

Lilium depictum —

— in campis erit a Senis devictum;

Sed convalescet —

— Lilii cum victoria crescet.

Inepte peccando —

— semper vivet dissimulando.

Mediolanum —

— sibi turrim firmabit in vanum;

Aquila videbit —

— turrim ipsam totam delebit.

Adducet gentes —

— de longe et sunt venientes,

Quæ dabunt duram —

— delinquentibus in vano iacturam.

Parma patietur —

— multo languore repletur;

In malum recidet —

— quam medicus sanare non valet;

Sed relevatur —

— unguento coronae sanatur.

Quod erit antiquum —

— per exemplum præbet iniquum.

Mutina perversa —

— tota erit in fine demersa.

Volens dominari —

— potentioribus æquiparari.

[96]

Regium, regina —

— civitas, erit ipsa supina,

Et non providebit —

— in dissensione multa manebit.

In ipsa Cremona —

— sibi nidum aquiret corona,

E tamdiu stabit —

— ut aquila ipsa volabit

Pace decepta, —

— a sponso accepta,

Et re pensata, —

— Lombardia erit cremata.

Ferraria testatur —

— quod mala subire paratur

Propter peccata,

— quæ diu erunt in ea patrata:

In servitute stabit, —

— donec peccare cessabit,

Et ejiciat illum —

— qui peccatum committit indignum.

Mantua pugnabit, —

— in fine terga Veronæ dabit;

Fugabit serpentes —

— eam sub cauda tenentes.

Bononia regnabit —

— cum integra longe durabit,

Fjiciet unam —

— ad mane partem ituram.

In brevi veniendo —

— per intrinsecam ejiciendo,

Quae non revertetur, —

— donec tota sordibus lavetur.

Faventia oppressa —

— multotiens erit obsessa;

Indicat scriptura —

— quod mala sunt in ea futura,

Et tamen favet, —

— quod in ea pars Bononiæ cadet;

[97]

Quæ dabit dorsum, —

— semper eundo deorsum.

Gravia quam plura —

— sustinebit Imola dura,

Quæ re pensata —

— cito erit a languore sanata.

Verranno e due saran che in infinito

Il mondo emungeran di lito in lito.

Duri travagli e piaghe e un mar di mali

Scosso allor pioverà sovra i mortali.

Sillogizzando allor filosofia

Errante annebbierà la Lombardia.

Regnerà la superbia, e in suo talento,

Sull'ale, vuota, volerà del vento.

Anche sull'Arno la gentil Toscana

Dalle genti sarà chiamata vana;

Pellegrinando affogherà dispersa

Nel vano mar del suo peccato immersa.

Sulla Romagna regneran le stole,

Che taglia le imporran d'immensa mole.

La Chiesa avrà la Marca Anconitana,

Qual pecora, da cui trarre la lana.

Dal monte al mar l'Apula terra eletta

Tutta sarà d'atro veleno infetta.

Molti dì morte assaggieran lo strale;

Farà sfumare i re compro pugnale.

La Marca illusa, ogni speranza persa,

Cadrà nel pianto e nel suo sangue immersa.

E lungo il pianto fia, lungo il lamento

Sotto un Signor ch'ogni pietade ha spento.

Salda colonna erta starà la Francia:

Sul capo a molti agiterà la lancia;

Ma, se la destra un dì stanca le langue,

Suoi fiumi e mari avrà tinti di sangue.

La gran Lamagna imperierà superba,

Disvellerà dal mondo ogni mal erba;

Dal mondo ove s'annida e si nutrica

[98]

Gente all'Impero asprissima nemica.

Sulla Provenza segregata e sola

Suo regno a lungo avrà l'arida stola;

Che sotto d'ogni ciel sarà chiamata

Insiem la rivelata e accumulata.

Di sangue esausta a pien la Spagna fia

Per conquistare a sè la Lombardia.

Lungo la Chiesa emetterà lamento

Perchè superbia alza tant'ala al vento;

Ma provvedere al mal non sa, non cura:

E geme in servitù spietata e dura.

Fiorenza in fiore a tutto il mondo splende.

Siena sul campo il giglio a terra stende;

Ma il giglio poi risorgerà fiorente

Quando vittoria avrà piena e ridente.

E in ogni inettudine peccando

Viverà sempre mai dissimulando.

Alza Milano invan torre superba;

L'aquila viene e la pareggia all'erba.

Viene, e da lunge folte schiere adduce;

Fa de' ribelli aspra vendetta e truce.

Parma patisce e langue; e poi nel male

Ricade e niuno a risanarla vale;

Ma si rileva, e a lei vigore dona

L'unguento sanator della corona.

Quei che valean per i vetusti tempi

Innanzi or reca disadatti esempi.

Modena fatta in sua ragion perversa

In un mare di guai sarà sommersa.

Gonfiando il core a dominare aspira

Ed a salir tra que' che in alto mira.

Reggio cadrà, cadrà pur essa a terra

E senza freno avrà continua guerra.

Sull'argine del Po dentro Cremona

Suo nido comporrà l'alta Corona,

E a lungo in sen l'avrà l'ospite suolo.

Sinchè i vanni aprirà l'aquila al volo.

Rotta la data fè, rotta la tregua

[99]

Ferma da giuro che 'l dubbiar dilegua,

Lo sposo, a studio frodolento, insano,

A foco e fiamma osa mandar Milano.

Ferrara a sopportar s'appresta il lutto,

Di lunghe colpe sue condegno frutto.

Serva sarà fin che il peccare dura

E scacci il peccator dalle sue mura.

Mantova pugnerà d'ardore piena

Ed a Verona in fin mostra la schiena.

Costringerà la serpe a via fuggire,

La serpe che la stringe tra le spire.

Bologna in auge avrà sua signoria

Finchè concorde ed incorrotta sia;

Ma caccierà gran schiera di sua gente,

Errante in pianto e duol verso l'oriente;

Che presto tornerà coll'ira in petto,

A sbandeggiar chi resta al patrio tetto,

E più non torneran senza paura,

Se mondi non saran di lor sozzura.

Faenza oppressa e d'ogni parte vinta

Molte fiate sarà d'assedio cinta.

Indica la scrittura e chiaro rende

Che futuro di guai nembo l'attende.

Pur favoreggia in un'iniqua guerra

Chi i fuorusciti Bolognesi atterra,

Che fuggiranno in duol cupo profondo,

Precipitando sempre in sino al fondo,

Imola colpirà lunga sventura;

E il ripensarvi sol l'assenna e cura.

Vi fu anche nello stesso millesimo un Notaio Reggiano, di nome Giovanni Malvezzo, cioè avente un brutto vezzo, il quale volendo consigliare i suoi concittadini di non folleggiare come i Modenesi, compose i seguenti versi:

Mutina, quid speras —

— dum tecum jurgia quæras?

Nil, nisi te superas. —

— Vis mala ferre? Feras.

[100]

Tu te persequeris, —

— quasi desperata teneris

Te furiosa feris; —

— digna perire, peris

Cur, rea, te prodis, —

— cur destruis, uris et odis?

Cur tua, totque fodis —

— viscera rupta modis?

Hic satis, ac alibi, —

— poteris quasi mortua scribi.

Gens inimica sibi, —

— Mutina, parce tibi.

Cerne tuas aedes, —

— incendia, bellaque, cædes,

Tu, milesque pedes —

— tristis ubique sedes.

Mutina, te recole, —

— nimia iam languida mole,

Et te cum prole —

— flente perire dole.

Sit tibi, sit sedis —

— paritas laris, urbis et æedis

Sit tibi; si credis, —

— ad bona prima redis.

Desinat armorum —

— furor et discursus equorum,

Sub strepitu quorum

— fit sine pace forum.

Suscipe doctrinas, —

— et quas tibi do medicinas;

Et quas pono minas, —

— me posuisse sinas.

Si prece, sive minis, —

— non flecteris, aut medicinis,

Ecce tuus finis, —

— præda, ruina, cinis.

Gens regina lege —

— qua vivit Mutina lege;

[101]

Te cum pace tege; —

— te sine parte rege.

Hæc aliena vide, —

— discrimina, schisma recide:

De te confide —

— non trepidanda fide

Proxima es: harum —

— rerum sit cura tuarum,

Exemplum quarum —

— non tibi credo parum.

Modena cieca, fra torbid'ire

Speri tu forse di rifiorire?

Speranze vane. Tu cerchi guai.

Cerca ed avrai.

Te stessa struggi; morta è la speme:

Un furibondo destin ti preme.

Perir sei degna. Sentenza data.

Tu se' spacciata.

Contro te stessa perchè t'affanni?

Perchè ti struggi? Perchè t'inganni?

Perchè le carni tanto ti sbrani

In modi strani?

Modena folle! basti: Deh! cessa.

L'albo de' morti tra' suoi t'ha messa.

Di te, che d'astio su te ribocchi,

Pietà ti tocchi.

Ve' quanti incendi! Che guerre e stragi!

Ve' la ruina de' tuoi palagi.

Vedi dispersi fanti e cavalli,

Armi e timballi.

Modena, pensa. Lasciar tuoi nati

Sotto la mole de' tuoi peccati

Teco perire, non ti rampogna?

Non hai vergogna?

[102]

Cittade e tetto, l'ara e la mensa

Vi sia comune. Modena, pensa.

E, se la prisca gloria ti piace,

Componti in pace.

Cessin dell'armi lampi e furori

E scalpitio di corridori;

brilli la gioia, regni l'amore

In ogni cuore.

Ascolta il verbo, fa tuo 'l consiglio

Di chi vuol trarti da reo periglio;

E, se talora minaccia suona,

Me lo perdona.

Se chi minaccia, se chi ti prega,

Favella a rupe che non si piega,

Ecco il destino, che a te si serba:

Ruina acerba.

Reggio gentile, guarda l'esempio.

Modena scissa di sè fa scempio.

Pace fraterna ti sia muraglia,

Scudo e zagaglia.

Quest'è l'esempio. Pensa, fa senno,

Guerre intestine troncar si denno;

E poi confida. Vivi secura

Fra le tue mura.

Sei sulla china: ferma, t'arretra.

Pensa a te stessa; la scena è tetra,

E fosca luce d'intorno spande.

L'esempio è grande.

Si noti che il senso di questi versi s'incontra anche nelle parole di Salomone. Proverbii 24.º: Io passai presso al campo del pigro, e presso alla vigna dell'uomo scemo di senno ecc. Lo stesso anno Guglielmo Marchese di Monferrato maritò sua figlia col figlio del Paleologo defunto, che risiede nella città di Costantinopoli, Signore dei Greci; e le assegnò in dote il Regno di Tessalonica, cui la famiglia del Marchese di Monferrato aveva ricevuto ab antico, cioè ai tempi dell'Imperatore Federico I., quando [103] Manuele Imperatore Costantinopolitano fece invito al Marchese stesso di mandargli uno dei suoi figli, al quale voleva impalmare una propria figlia; e così fu fatto e gli diede in moglie donna Maria, e in dote il Regno di Tessalonica che da quel tempo e per tal modo passò ai Marchesi di Monferrato. Ma il detto Marchese, causa la dominazione dei Greci, non ritraendo alcun utile da quel Regno lo assegnò in dote a quella sua figlia che maritò l'anno 1284 col figlio del Paleologo. E il figlio del Paleologo diede allo suocero molte migliaia di bizantini[66]. Inoltre gli promise che in tutta sua vita gli speserebbe in Lombardia cinquecento soldati per la guerra. Allora il Marchese, fidente in tale aiuto, andò e prese Tortona, e molti uccise, molti incarcerò cittadini e soldati che eran venuti d'altronde. Al Vescovo poi, che era nativo di quella città, il Marchese disse: Ditemi, o Vescovo, questi Tortonesi sono vostri sudditi, e sotto la vostra Signoria? No, Signore, rispose il Vescovo. E allora il Marchese ripigliò: Perchè dunque vi cuoce tanto l'animo che si diano a me? Perchè, rispose il Vescovo, io sono stato eletto pastore, rettore e custode del popolo di questa città, e voi combattete in un campo nemico al partito della Chiesa. Allora il Marchese soggiunse: Se vorrete essere amico mio, io sarò amico vostro; altrimenti scatenerò le fiamme del mio furore sopra di voi. Manderò dunque un esercito con tre Capitani a' vostri castelli, e voi anderete seco loro, e v'adoprerete in modo che i Castellani consegnino a me la signoria de' castelli, che hanno in custodia. E il Vescovo di rimando: Signore, curerò fedelmente che le castella vi siano consegnate. Giunti ai castelli, il Vescovo chiamò i Castellani, e con premura li sollecitò a porre le loro castella sotto la Signoria del Marchese. Ma i Castellani, quasi [104] tutti per una bocca, risposero al Vescovo a udita dei Capitani: O Vescovo, sappiate che le castella, che difendiamo ad onore della santa Chiesa romana, noi non le daremo no in mano di chi non cessa mai di opprimere il partito della Chiesa, nè le consegneremo neppure a voi, sino a tanto che voi non sarete libero padrone di voi stesso. Così risposero tutti i Castellani dei castelli, ai quali fu condotto il Vescovo. Il che udendo i Capitani presero la via per ricondurre il Vescovo al Marchese. Ma a mezzo della strada, lasciato in disparte il Vescovo, buccinavano tra loro di ucciderlo. La qual cosa il Vescovo per conghiettura indovinando, disse loro: quant'è a me, eccomi nelle vostre mani: fatemi secondo che vi parrà buono e diritto. Ma pur sappiate per certo, che se voi mi fate morire, voi mettete del sangue innocente addosso a voi, ed a questa città ed a' suoi abitanti. Geremia 26.º. E aggiunse, parlando con uno de' Capitani, che era suo consanguineo: Sappi che una volta fosti mio soggetto ed io ti poteva far danno, ma l'occhio mio ti perdonò. Ciò udito, quell'insano subito con un coltello, o con un'alabarda, trapassò d'un colpo il corpo del Vescovo, dicendo: Del resto non sarò più sotto la tua Signoria. Il secondo Capitano perforò il cranio del Vescovo colla spada. Il terzo Capitano lo ferì pure di spada all'omero; e così il Vescovo morì per le spade degli iniqui. Il Marchese udendo che il Vescovo era stato morto, mandonne a raccogliere la salma, e invitando tutti i Religiosi e i Chierici, che erano in Tortona, gli fece dare onorifica sepoltura; ed egli stesso in persona, ad onoranza del Vescovo, volle essere uno di quelli che portavano il feretro, per argomento che il Vescovo non era stato ucciso per ordine suo. I Castellani poi preaccennati fecero buona difesa ai castelli consegnati alla loro fede, nè li posero mai nelle mani del Marchese; il quale abitava in Tortona, e allestiva un esercito per muovere a tempo opportuno guerra [105] ai Milanesi. La qual cosa risaputa dalle milizie che erano in Sassuolo, corsero al Marchese, a cui si può applicare quello che per comando del Signore disse Elia ad Acab. 3. dei Re 21.º. Uccideste per soprappiù e v'impadroniste ecc. Le cose oggi stanno così; nessuno può indovinarne la fine: chi camperà, vedrà lo scioglimento del nodo. Lo stesso anno i Parmigiani facevano venire del sale da Cervia, ossia dalla Romagna, per loro uso; e i Modenesi che erano dentro la città, irruppero sopra i bifolchi presso Bazzano, e tolsero loro e carri, e sale e buoi in odio ai Parmigiani,[67] perchè pareva a que' Modenesi che prima che si scatenasse quella guerra e distruzione della città per la malizia de' loro concittadini fuorusciti, i Parmigiani avrebbero potuto impedire che tanti mali piombassero poi a loro sul capo. Ed attribuivano questo principalmente a Matteo da Correggio e a Guido di lui fratello, che nella Podesteria erano succeduti a Giacomo da Enzola, morto prima della scadenza del proprio ufficio. Ed usarono i Modenesi quella soperchieria anche perchè quel carico di sale deviava dalla strada sua diritta e naturale, ove si pagava il pedaggio; finalmente operarono quella cattura in odio di quelli di Sassuolo, che avevano permesso ai Parmigiani di passare per le terre da loro occupate senza pagamento di pedaggio, come lo avrebbero pagato, se il messo si fosse presentato a loro quando i bifolchi erano arrivati col sale a Bazzano; ma per una certa stolidità andando tra nemici, e sviando dagli amici entrò nella città di Modena. Onde il savio ne' proverbii 26.º dice: Chi si taglia i piedi ne bee l'ingiuria; così avviene a chi manda a far de' messaggi per uno stolto... ne hai esempio in [106] Gerardo dei Rozzi di Parma, che spacciava se stesso per astrologo e indovino. Quando i Parmigiani fuorusciti, che parteggiavano per l'Impero, presero Colorno, e vi entrarono il giorno di S. Domenico, e gli ebbero domandato se l'anderebbe bene per loro, egli rispose che ottimamente, perchè vi erano entrati sotto il segno dello scorpione. Eppure pochi giorni dopo sopravvennero i Parmigiani del partito della Chiesa, e li espulsero tutti, e alcuni ne uccisero, e Colorno riconquistarono; e lo scorpione non salvò punto quelli che vi erano entrati prima. Nello stesso anno mangiai per la prima volta, nel giorno di S. Chiara, i ravioli senza involucro di pasta; e questo lo dico per mostrare quanto s'è raffinata la ghiottoneria degli uomini per i commestibili, a confronto di quella degli uomini primitivi, i quali erano contenti de' cibi semplici, che loro imbandiva la madre natura, de' quali dice Ovidio nel 1.º libro delle Metamorfosi:

Contentique cibis, nullo cogente, creatis,

Arbuteos foetus, montanaque fraga legebant,

Cornaque, et in duris haerentia mora rubetis

Et quae deciderant patula Iovis arbore glandes.

E contento del cibo che s'avea,

Senza sudarlo, da natura amica,

Corniòle, corbezzole cogliea

Fragole ognor dalla pendice aprica,

E l'atra mora che tra spin pendea

Dell'aspra rosa nella selva antica,

E quella che dall'albero di Giove

Edula ghianda maturando piove.

Nella state dello stesso anno molti farfalloni svolazzavano per gli orti, e deposero loro uova sulle foglie de' cavoli, d'onde poi si schiusero bruchi, che rosero le ortaglie. E specialmente i cavoli si chiamano olera. Olus ab alendo fu detto, perchè l'uomo si alimentò ex oleribus [107] (erbaggi mangerecci) prima di cominciar a mangiare biade e carni. Così dice Isidoro (Etimologie 12.º). Si ebbero anche in alcune parti del mondo forti terremoti; sicchè quando frate Roglerio dell'Ordine de' frati Minori, Lodigiano, che era stato compagno del Visitatore della Provincia di Bologna, ritornava dalla Corte, dove era stato con un Cardinale, e passava per Taurenno ove s'era proposto di albergare, gli abitanti di quel luogo gli dissero: Padre Santo, in questo paese si fa sentire sovente il terremoto; e in quell'istante, eccoti subito una violentissima scossa. E il frate sclamò: Colui che guarda la terra e la fa traballare, che tocca i monti e fumano. Salmo 103.º. Detto ciò il frate si guardò indietro e vide una casa coperta di paglia, e disse che la notte voleva dormire in quella, perchè, soggiunse, se vado a dormire in altra, forse gli embrici, o le tegole cadranno sopra di me, se la casa ruina, e vi morrò. La qual cosa udendo e vedendo alcune donne del paese, portarono i loro letti in quella capanna per dormire con sicurezza accanto ai frati. Il che avendo scorto un certo vecchio, disse ai frati; Avete fatto cosa, che non dovevate fare, perchè dovete sempre essere preparati alla morte... a cui di rimando il frate: Il beato Girolamo dice: È prudenza temere di tutto ciò che può sopravvenirne, e l'Ecclesiastico 18.º: Il saggio teme di tutto. Questo l'ho udito io da frate Roglerio, che fu compagno di frate Benvenuto, nostro Visitatore della Provincia di Bologna. Così nel millesimo sussegnato, nel giorno di S. Tomaso Apostolo, che fu in Giovedì, e la notte successiva, verso l'ora di mattutino, si videro lampeggiamenti e si udirono tuoni fragorosissimi, cose insolite a vedersi e a udirsi in quella stagione. E allora a Venezia le acque montarono ad allagare la città, tanto che, come dicono i più vecchi, eguale allagamento non fu mai visto dalla fondazione della città ai giorni nostri; [108] poichè quella città è fondata nelle acque, e si sommersero barche e perirono persone; e le mercerie, che non erano nei solai delle case, s'avariarono. Eguale disastro soffrì Chioggia, che anch'essa è nelle lagune, ove si fa il sale. E Bernardo, Cardinale Legato della Chiesa romana, che abitava a Bologna, diceva che tale infortunio aveva incolto i Veneziani, perchè non volevano soccorrere Re Carlo contro Pietro Re d'Aragona, quantunque fosse desiderio di Papa Martino. Parimente in que' due giorni, cioè il Venerdì e il Sabato, si verificò quel detto profetico di Zaccaria 14º: In quel giorno non vi sarà luce, ma freddo e gelo; cosa che spesso verso Natale avviene. Così pure la vigilia di Natale, che fu in Domenica, mentre recitavamo mattutino, la luna si ecclissò totalmente; come disse il Signore in Matteo 24º. Il sole scurerà, (il che si rinnoverà l'anno venturo, come alcuni asseriscono) la luna non darà il suo splendore. La qual cosa ho veduto più volte dopo che sono entrato nell'Ordine de' frati Minori.... Quindi ho avuto campo a moltiplicare queste osservazioni, perchè talvolta scura il sole, tal altra la luna, e poi accadono terremoti; e alcuni che debbono predicare non hanno così alla mano le cognizioni intorno a questa materia; e restano confusi. Ricordo che io abitava nel convento di Pisa, sono bene quarant'anni e più, che si sentì terremoto nel giorno successivo a quel di Natale, cioè la notte di S. Stefano, e frate Chiaro di Fiorenza dell'Ordine de' frati Minori, uno de' più celebrati chierici del mondo, predicò due volte al popolo nella chiesa arcivescovile; e la prima piacque, la seconda non piacque. E non per altro spiacque, se non perchè prese un argomento stesso per tuttadue le prediche. Nella qual cosa, da parte sua, mostrò abilità straordinaria, perchè disse cose sempre nuove; ma il volgo maligno e semplicione, che non sa regole, pensò che avesse ridetto il discorso della prima [109] volta, perchè versava su lo stesso tema; sicchè il predicatore mietè vergogna da cosa onde gliene doveva venire onore. Or ecco il tema che s'era proposto, Aggeo 2º: Fra poco io scrollerò il cielo, e la terra, e il mare e l'asciutto. Nota che il terremoto suol formarsi nei monti cavernosi, ne' quali è imprigionato un vento, che volendo sprigionarsi, e non avendo spiraglio all'uscita, squarcia la terra, che trema, e quindi si sente il terremoto. Ne abbiamo immagine in una castagna non castrata, che salta via violentemente dal fuoco e detona, e mette spavento a chi è seduto attorno al focolare.... Nel sussegnato millesimo, cioè 1284, il giorno di Natale e di S. Stefano, tutta la giornata e tutta la notte si rovesciò un subisso di neve, la quale pel troppo peso atterrò o franse le piante da frutta, come mandorli e melogranati; e si ebbe anche uno smisurato freddo.... Lo stesso anno Giacomo Colonna, Cardinale della Chiesa romana, e nipote di Papa Nicolò 3º, mandò cercando frate Giovanni da Parma, che era stato Generale, e spontaneamente e con grande sua consolazione dimorava nel romitaggio di Grecio (dove il beato Francesco talvolta nel giorno di Natale raffigurò il presepio di Betlemme col Bambino) volendolo vedere e parlare seco in famigliarità, come intimo suo amico; e si videro, e n'ebbero molta consolazione ambidue, e parlarono alla dimestica di cose divine.... Ora è tempo di continuare il resto. Lo stesso anno morì frate Marco, che fu compagno di frate Giovanni da Parma, quand'era Ministro Generale, e di altri Ministri, come di frate Crescenzio, e di frate Bonaventura; del quale Marco mi pare non doversene più parlare, avendone detto abbastanza più indietro. Altro compagno di frate Giovanni da Parma, quand'era Ministro Generale, fu frate Andrea di Bologna, uomo onesto, mite, grazioso, famigliare, religioso, e divoto a Dio. Era anche buono scrittore, e nel Capitolo di [110] Siena dettò quella lettera, che S. Lodovico ricevette a tempo della prima crociata, lettera che gli piacque moltissimo, per la liberalità e la cortesia di frate Giovanni da Parma Ministro Generale. Fu anche frate Andrea Ministro della provincia d'oltremare, cioè di Terra Santa, o Terra di promissione (... Si vergogni adunque Federico 2º, il quale, sia che volesse scherzare, sia che volesse dire da senno, insultando a Dio diceva che se Iddio avesse veduto il Regno ch'esso aveva in Sicilia in Calabria e in Puglia, non avrebbe tanto lodato la Terra di promissione). Pertanto frate Andrea morì lodatamente in pace, quand'era Penitenziere alla Corte del Papa. Terzo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Gualterio, oriondo d'Inghilterra, e vero Inglese; buon cantore, gracile, alto di statura, bello, di santa e onesta vita, di buoni costumi e letterato; era stato scolare di frate Giovanni da Parma quando, prima di diventare Ministro Generale, era lettore a Napoli. Così frate Gualterio fu mandato addetto alla Corte, ma pose ogni opera sua per essere liberato da quel servigio, amando meglio di essere afflitto col popolo di Dio che godere la giocondità del peccato temporale, e reputando maggior ricchezza l'umiltà di Cristo, che il tesoro degli Egiziani.... Tuttavia ho udito che questo frate Gualterio fu poi suo malgrado fatto Vescovo, non so dove. Fu mio amico. E nota che tutti i compagni di frate Giovanni da Parma sono stati miei intimi amici e famigliari. Quarto compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Bonagiunta della Marca d'Ancona, di Fabriano, buon Custode e uomo di lettere, buon cantore, predicatore, scrittore, calvo, di statura mezzana e di faccia somigliante a S. Paolo. Quando era novizzo del convento di Fano, l'anno 1238, giovanetto ancora, abitava meco. Fu il primo e l'ultimo Vescovo di Recanati. Quinto compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Giovanni di Ravenna, grosso, [111] corpulento e bruno, buon uomo e di vita onesta. Non ho mai veduto uomo che più di lui mangiasse avidamente le lasagne condite col formaggio. Fu Guardiano del convento di Napoli, quando frate Giovanni da Parma vi fu lettore, prima d'essere Ministro Generale. Sesto compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Anselmo Rabuino Lombardo, d'Asti, grosso, bruno, e aveva l'aria da Prelato, di vita onesta e santa; nel secolo era stato Giudice; fu Ministro della provincia di Terra di Lavoro e poi della Marca Trivigiana. Amò molto frate Giovanni da Parma, ed accogliendo favorevolmente i voti dei Ministri Lombardi e dei Custodi a Lione, pose opera e fece sì che frate Giovanni da Parma fosse eletto Ministro Generale. Frate Anselmo Rabuino era conosciuto dal sommo Pontefice Innocenzo IV. Io abitava nel convento di Pisa, e frate Anselmo, che era Ministro della provincia di Terra di Lavoro, mi scrisse di andare con mio fratello Guido di Adamo ad abitare nella sua provincia; ma non ci fu permesso dai frati del convento di Pisa, perchè ci vedevano volentieri con loro. Settimo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Bartolomeo Guiscolo di Parma, illustre oratore e passionatissimo Gioachimita, cortese uomo e liberale, nel secolo maestro di grammatica, e nell'Ordine uomo onesto e santo. Sapeva scrivere, miniare e predicare, come ne ho detto abbastanza più addietro. Ottavo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Guidolino Gennari di Parma, che fu uomo di lettere e buon cantore; cantava benissimo nel canto melodico, cioè nel canto rotto, e nel canto fermo aveva più arte che voce, la quale aveva debole; fu buon compositore, buono e bello scrittore, e buon correttore alla mensa nel convento di Bologna. Conosceva benissimo la Bibbia, e fu di vita onesta e santa, sicchè era ben voluto dai frati. Morì a Bologna e fu sepolto nel convento dei frati Minori, e riposi in [112] pace. Nono compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Giacomino da Berceto, di vita onesta e santa, valente predicatore, e di gran forza di voce; fu Guardiano del convento di Rimini. Decimo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Giacomo degli Assandri di Mantova, uomo onesto e santo, ottimo consigliere e interprete delle Decretali. Fu qualche tempo Ministro in Schiavonia, regione che si chiama anche Dalmazia. Undecimo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Drudo, Ministro della provincia di Borgogna, lettore di teologia, che ogni giorno voleva predicare ai frati intorno alle influenze divine, come ho udito, quando mi trovai seco in Borgogna. Questi fu nobil uomo e bello, di vita onesta e santissima oltre ogni credere, e fu divoto a Dio in modo meraviglioso, e al disopra dell'umano giudizio. Frate Giovanni da Parma se lo condusse seco, quando Papa Innocenzo IV di buona memoria lo inviò ai Greci per indurli ad unità di fede colla Chiesa romana. Duodecimo compagno di frate Giovanni da Parma fu frate Bonaventura da Iseo, e lo fu quando frate Giovanni andò mandato dal Papa ai Greci. Era frate Bonaventura vecchio di convento e di età, saggio, intraprendente, sagacissimo, di onesta e santa vita, e ben voluto da Ezzelino da Romano; tuttavia si dava oltremisura l'aria da barone, quantunque, secondo la fama, fosse figlio di un'ostessa. Era stato anche Ministro di vecchia data nell'Ordine; poichè fu Ministro nella provincia di Provenza; Ministro nella provincia di Genova, in quella di Bologna, e in quella della Marca Trivigiana. Compose un volume di Sermoni intorno alle feste, e alle Tempora; condusse vita laudabile, e l'anima sua riposi in pace. Sappi però che frate Giovanni da Parma, quand'era Ministro Generale, non li ebbe tutti contemporaneamente questi compagni; e li conduceva seco or gli uni, ora gli altri, quando voleva andare attorno per [113] visitare l'Ordine, perchè non potendo que' suoi compagni reggere alla fatica ch'egli durava, gli fu giocoforza averne molti. E molte altre virtù ebbero in sè i suddetti dodici compagni, che per brevità io tacqui. Ora parliamo di frate Ugo Provenzale, grande ed intimo amico di frate Giovanni da Parma. Egli fu uno dei più illustri chierici del mondo, e tenacissimo Gioachimita, e di vita onesta e santissima oltre al credibile, come ho veduto io co' miei occhi; ma siccome di lui ho già parlato più sopra abbastanza, mi pare che qui si debba tacerne. Egli, quando a Dio piacque, morì a Marsiglia, dopo aver compiuta una lunga serie di opere buone; e fu sepolto in un'arca di pietra nella chiesa dei Prati Minori di Marsiglia stessa; e Iddio lo illustrò con miracoli. E accanto a lui, in un'altra urna di pietra, è sepolta sua sorella Donolina, cui parimente Iddio fece per miracoli insigne. Costei non entrò mai in alcuna Religione, ma visse sempre in mezzo al secolo castamente e religiosamente. Elesse suo sposo il figlio di Dio, ed ebbe speciale devozione al beato Francesco, del cui cordone andava cinta, per segno dell'acceso amore che aveva a lui; e quasi tutto il giorno lo passava in preghiere nella chiesa dei frati minori. Nessuno sparlava di lei; nessuno sospettava d'alcuna opera sua cattiva; tutti la tenevano in reverenza, uomini, donne, Religiosi, secolari, per la sua segnalata santità. Ottenne da Dio la grazia peculiare di essere rapita in estasi, come i frati Minori videro le mille volte nella loro chiesa; e, se le alzavano un braccio, lo teneva irrigidito in quella posizione da mattina a sera perchè era tutta assorta in Dio. La qual cosa tutta Marsiglia sapeva, e s'era divulgata anche per altre città. Si erano fatte di lei seguaci ottanta nobili donne di Marsiglia, di condizione, quali mediocre, quali illustre, per salvare col suo esempio l'anima loro, delle quali ella era maestra e donna. E giacchè dalla mia penna è caduto il nome [114] di Marsiglia e della Provenza, non credo fuor di luogo scriverne quello che me ne ricorda, degno di essere saputo. In Marsiglia nacque un fanciullo il giorno di San Benedetto, e Benedetto fu chiamato, il quale, slattato che fu, fu poi mandato un giorno di S. Benedetto a imparar lettere; dopo che fu grandicello, e che sapea di lettere, nel giorno di San Benedetto entrò nell'Ordine dei monaci neri; e in processo di tempo, il giorno di San Benedetto fu fatto sacrista; poscia, con intervallo di più anni, nel giorno di San Benedetto, i monaci, per bontà della vita e dei costumi di lui, lo elessero Abbate; e così di grado in grado elevandosi, i canonici di Marsiglia nel giorno di S. Benedetto lo crearono loro Vescovo, e ne tenne la dignità laudabilmente; poscia nel giorno di San Benedetto entrò nell'Ordine del beato Francesco, nel quale umilmente e lodevolmente passò dieci anni; e nel giorno di San Benedetto vide l'ultimo suo giorno, e fu sepolto nella Chiesa dei frati Minori di Marsiglia in un'arca di pietra, e Iddio lo illustrò con miracoli. Questi fu veramente uomo venerabile, benedetto di grazia e di nome. Sia benedetto un tal Vescovo, che bene cominciò e terminò bene; e per opera sua i frati Minori di Marsiglia ebbero molti buoni libri, perchè volle piuttosto umiliarsi coi miti di cuore, che dividere le spoglie coi superbi, Proverbi 16.º. Parliamo ora di frate Rolando Pavese. Costui, benchè da molti sprezzato, fu uomo santo ed umile sacerdote, predicatore, di molte preghiere, e di molto merito presso Dio; la qual cosa che già bene conoscevano, in più maniere la riconobbero i frati; ma basterà dirne una. Un secolare si accostò una sera al Guardiano del convento dei Frati Minori, in cui abitava questo frate Rolando, e gli disse: Padre, mi raccomando a Dio, e a voi; e vi prego di raccomandarmi alle orazioni dei vostri frati, che mi liberino dagli importuni e perversi uomini 2.ª ai Tessalonicesi; 3º; perchè ho nimicizie capitali, e [115] nimici pieni di veleno, i quali, mi si dice che stanotte vogliano entrare di forza in casa mia, e ammazzarmi. Il Guardiano premurosamente lo raccomandò ai frati, pregandoli di fare per amor di Dio un'opera di pietà, ed essi con premura la fecero. All'indomani tornò quel secolare, e in Capitolo riferì al solo Guardiano le cose, che nella notte gli erano accadute, e disse: Sia ringraziato Cristo, sia ringraziato l'amico. E aggiunse: Sappiate, Reverendo Padre, che que' nemici, che cercavano la vita mia, con spade e con bastoni la notte passata irruppero in casa mia per uccidermi; ma ivi comparve un certo frate Minore ch'io riconoscerei benissimo, se il vedessi, che ne li scacciò, come si scacciano le mosche e le zanzare col ventaglio, quando si vogliono far fuggire. Udite queste cose, il Guardiano fu preso da meraviglia e in una da allegrezza, e gli rispose: Sta quì meco alla porta del Capitolo, e quando quel tal frate passerà, indicamelo ma in modo che nessuno scorga. E già era suonato il primo segnale del vespro; ed ecco che al secondo tocco della campana, il Guardiano domandava al secolare: È questi? No rispondeva; e questa domanda fu ripetuta per ciascuno che passava. Finalmente al passare di frate Rolando, a cui quel secolare non aveva mai parlato, disse al Guardiano: Questi è quel frate, per cui buona opera e aiuto, Iddio stanotte mi ha liberato. Il Ministro Generale, credendo di fargli cosa piacevole e grata, mandò questo frate Rolando al convento di Alverno, e stettevi in gran consolazione finchè gli piacque. Il convento di Alverno poi è nella provincia di Toscana, nella diocesi d'Arezzo, sull'Apennino, dove il Serafino apparve al beato Francesco, e a similitudine di quelle di nostro Signor Gesù Cristo, gli impresse le stimmate. Passai una volta da questo convento, reduce da Assisi, dove io era andato per divozione; e il sacrista mi fece vedere un grosso pezzo del legno della croce del Signore, che frate [116] Mansueto aveva ricevuto dal Re di Francia S. Lodovico di buona memoria, quando fu inviato a lui come nunzio da papa Alessandro IV. Trovandomi poi nel convento di Alverne, visitai tutti i luoghi di divozione che vi sono, e nella Domenica celebrai la messa conventuale, e, dopo il vangelo, predicai al popolo, che vi era adunato, uomini donne, e dopo pranzo andai a Santa Maria di Bagno ove il mio compagno frate Giacomino Savini di Piacenza aveva predicato; poscia andammo a Meldola, poi a Forlì, d'onde a Faenza, dove abitavamo. E nota che quando fui ad Alverno, frate Lotario, che molto tempo prima era stato mio Custode a Pisa, viveva ancora, ed abitava colà vecchio e malato. Credo che quel convento sarebbe stato abbandonato, come mi disse, se non fosse stato per riguardo di lui. Osservai che quando quei frati fanno la commemorazione del beato Francesco nel mattutino dicono sempre quell'antifona, che incomincia: O Martyr desiderio: O Martire di desiderio; e ne' vespri: Coelorum candor: O candore de' cieli. In queste due antifone si fa menzione dell'apparizione serafica, e sempre nel cominciarle a dire, i frati curvano le ginocchia. Passiamo ora a discorrere qualche cosa di frate Nicola da Montefeltro, che fu molti anni Ministro in Ungheria, poscia in Schiavonia, ossia Dalmazia, e abitò anche molti anni, sino alla sua morte, come semplice frate, nel convento di Bologna. Egli fu uomo umile più che qualunque altro io abbia veduto al mondo... reputava se stesso una nullità, e una nullità voleva essere tenuto dagli altri... sicchè se taluno gli faceva segno di riverenza, tosto prostrato a terra baciavagli i piedi, se poteva... Egli quando suonava la campanella del refettorio, era il primo ad arrivare a versar l'acqua del lavacro alle mani dei frati. Quando arrivavano frati forestieri era il primo che si presentava a lavar loro i piedi: e quantunque all'apparenza fosse poco atto a tali uffici, perchè era [117] corpulento e vecchio, la carità, l'umiltà, la santità, la cortesia, la liberalità e l'alacrità lo rendevano destro, piacente e adatto.... Morì, e fu sepolto onorificamente nella chiesa dei frati Minori di Bologna. Nessuno miracolo fece Iddio per lui dopo la sua morte, perchè pregò Iddio di non farne; come anche il santissimo frate Egidio di Perugia pregò Iddio che dopo la sua morte non facesse miracoli per lui... (Frate Egidio sepolto in un'arca di pietra nella Chiesa de' frati Minori a Perugia fu... computandovi il beato Francesco, la cui vita scrisse frate Leone, che fu uno dei tre speciali compagni del beato Francesco). Ma frate Nicola operò tre miracoli in vita sua, cioè li operò Iddio a gloria di lui, ben degni di ricordo. Il primo fu che avendo il Guardiano di un convento comandato ad un frate giovane chierico suddiacono, di far di cucina per amore di Dio, cioè la minestra pei frati, fino a che ritornasse il cuciniere, che era assente, ed avendo egli umilmente obbedito, ebbe la disgrazia che gli cadde il breviario nel paiuolo, e s'inzuppò tutto. Ed essendo il libro perciò sformato, e il frate piangendone e gridando e dicendo d'avere avuto quel libro a prestito, per cui ne provava maggiore angoscia, frate Nicola, udito di questo fatto e volendolo consolare, gli disse: Vedi, o figlio, non piangere; dammi il libro in prestito, che ne ho bisogno un momento per recitare le Ore. Appartatosi poscia frate Nicola e sciolta una preghiera a Dio, Iddio ritornò il libro alla primiera nitidezza, tanto che nessun guasto ne appariva. La qual cosa considerando quel frate, che prima piangeva per il guasto del libro, consolatosene, restò altamente meravigliato, e benedisse Iddio. Altra volta per mezzo di frate Nicola fece Iddio il seguente miracolo. Una certa donna di Bologna, che aveva un figlio coperto di fistole, sognò che se frate Nicola facesse il segno della croce sul figlio di lei, all'istante ne sarebbe liberato. Quella donna essendo molto divota ai frati Minori andò [118] col figlio al Guardiano, e gli raccontò il sogno. Era allora Guardiano frate Andrea da Bologna, (che fu il secondo compagno di frate Giovanni da Parma, quand'era Ministro Generale, e di cui ho già fatto menzione) il quale adunati tutti i sacerdoti del convento di Bologna tranne frate Nicola, raccontò loro quello che la donna aveva veduto in sogno, e che stava tuttora alla porta del convento in aspettazione della grazia. E frate Andrea disse a que' sacerdoti: Ma noi non potremo indurre frate Nicola a far questa cosa, se non lo inganniamo con uno stratagemma. Laonde andate voi tutti a quella donna, e conducete vosco anche frate Nicola, ed io arriverò ultimo; e al mio arrivo mi direte che quella donna vuole una grazia dai frati, cioè che ciascun sacerdote faccia il segno della croce sopra il figlio di lei; ed io subito la contenterò; e dopo di me, direte a frate Nicola che faccia altrettanto. Fece adunque frate Andrea il segno della croce sul fanciullo; ma non se ne vide effetto, perchè la grazia era ad altri riservata. La madre del fanciullo allora, e tutti gli altri sacerdoti pregarono frate Nicola che per amor di Dio facesse il segno della croce su quel fanciullo; ma egli si rifiutò ricisamente e disse: lo faccia la Marchesina di lui madre, che io ne sono affatto indegno. Ma frate Andrea, Guardiano, gli comandò in virtù di salutare obbedienza, che messa da banda ogni scusa, senza indugio segnasse colla forma della croce il fanciullo. E dopo averlo fatto, tosto il fanciullo fu sanato, e subito la madre, a vista dei frati, ne tolse le fasciature e le pezzuole. I frati poi ne ringraziarono Dio, e ne tennero scolpito nell'animo loro la memoria. Altra volta fece Iddio per mezzo di frate Nicola uno strepitoso miracolo. Era un giovane nel convento di Bologna, che si chiamava frate Guido figlio di Massaria. Costui quando dormiva, russava sì forte, che nessuno poteva aver quiete in una casa dove egli fosse: e, quel che sorpassava [119] tutto, non solo disturbava orribilmente chi dormiva, ma anche chi vegliava. Perciò i frati lo mandarono a dormire in un angolo del convento destinato per le legne e per la paglia; ma neppur così poterono i frati impedire che non risuonasse per tutto il convento quel maledetto russare. Allora si convocò un'adunanza di tutti i sacerdoti e dei discreti del convento di Bologna in camera di frate Giovanni da Parma, che era Ministro Generale, e gli dissero che quel giovane, a cagione di grave vizio organico che aveva, doveva essere mandato fuori dall'Ordine; ed io pure era presente. E fu giudizio e deliberazione comune che si dovesse ritornare alla madre di lui, perchè essa, che conosceva il difetto di suo figlio, aveva ingannato l'Ordine. Ma per disposizione divina non fu rimandato immediatamente, poichè Iddio voleva fare un miracolo per frate Nicola. Considerando pertanto frate Nicola che quel giovane doveva essere mandato fuori dell'Ordine per un difetto di natura, non per sua colpa, ogni giorno chiamavalo sull'alba a servirgli messa; e, dopo la messa, il giovine di dietro all'altare, per ordine di frate Nicola, s'inginocchiava sperandone qualche grazia. Frate Nicola poi colle mani ne toccava la faccia e il naso, volendogli, la Dio mercè, restituire il dono della salute, e gli ordinava di non rivelare quel segreto a persona. Ed ecco che subito fu quel giovine guarito benissimo, e, dopo, dormiva quieto e pacifico come un ghiro, senza disturbo alcuno dei frati. Si trasferì poscia nella provincia romana; diventò sacerdote, confessore, predicatore, ossequiente e utile ai frati e riconoscente dei beneficî che Dio aveva a lui conferiti mercè dei meriti e delle preghiere di frate Nicola, che sia benedetto ne' secoli de' secoli, e così sia. Ora passiamo a frate Bertoldo di Lamagna. Costui fu sacerdote e predicatore dell'Ordine dei Minori, di onesta e santa vita, come a religioso si addice; fece l'esposizione dell'Apocalisse, della quale non ho copiato [120] che la parte che riguarda i sette Vescovi dell'Asia, i quali sul principio dell'Apocalissi sono raffigurati sotto il nome di Angeli, e lo feci allo scopo di accertarmi che quelli non erano stati Angeli, e perchè io aveva l'esposizione dell'Apocalissi dell'Abbate Gioachimo, la quale io pregiava sopra tutte le altre. Compose anche un grosso volume di sermoni per le feste di tutto l'anno e per le domeniche; de' quali copiai due soli, perchè vi si parlava dell'Anticristo con molta aggiustatezza. Il primo cominciava così: Ecce positus est hic in ruinam; cioè: Ecco che questi è posto per ruina. L'altro: Ascendente Jesu in naviculam, secuti sunt eum discipuli eius; cioè: Ascendendo Gesù sulla navicella, i discepoli di lui lo seguirono, ne' quali è trattato ampiamente dell'Anticristo, e del tremendo giudizio. E avverti che frate Bertoldo ricevette da Dio il dono speciale della predicazione; e tutti quelli che lo ascoltarono, dicono che dagli Apostoli a noi non fu mai uno pari a lui, che predicasse in lingua tedesca. Una gran moltitudine d'uomini e donne lo seguiva, talora sessanta o cento mila; e talora una gran moltitudine di gente da molte città convenuta per ascoltare le salutifere e melliflue parole che suonavano dalle labbra di lui.... Quando egli voleva predicare montava su di un palco a mo' di battifredo (cioè una torre di legno a foggia di campanile, di cui si serviva come di pulpito, all'aperto nelle campagne) sulla punta alta del quale, coloro che ne congegnavano insieme le parti, collocavano una banderuola perchè dalla direzione del vento che spirava, il popolo conoscesse da che parte dovesse mettersi per udir meglio. E, maraviglia! si udiva ed intendeva tanto da chi era vicino, come da chi era lontano a lui; nè, quand'egli predicava, vi era alcuno che s'alzasse e partisse se prima la predica non fosse finita. E quando parlava del giudizio tremendo, tremavano tutti, come giunchi nell'acqua, e lo pregavano per [121] amor di Dio di non parlare di quell'argomento, perchè a udirlo atterriva e faceva inorridire. Dovendo un dì frate Bertoldo predicare in un certo luogo, avvenne che un bifolco pregò il padrone di permettergli di andare ad ascoltarlo. A cui il padrone rispose: anderò io alla predica, e tu anderai ai campi co' buoi ad arare.... Ma avendo il bifolco un altro giorno cominciato ad arare la mattina per tempissimo nel campo, maraviglia! ecco che subito udì la voce di frate Bertoldo che predicava, sebbene in quel giorno fosse lontano ben trenta miglia. Allora il bifolco tolse di sul collo il giogo a' buoi, perchè pascolassero, ed egli standosene seduto ascoltava la predica. E quì furono operati tre miracoli in uno: Primo, perchè udì la predica e la intese, quantunque fosse distante ben di trenta miglia al predicatore; secondo, perchè imparò tutta la predica, e se la suggellò ben salda nella memoria; terzo, perchè, finita la predica, arò tanta terra quanto ne soleva arare in giornate, in cui non sospendeva mai il lavoro. Avendo poi il bifolco interrogato il padrone intorno alla predica, ed esso non sapendola ripetere, gliela ripetè egli tutta per filo e per segno aggiungendo che l'aveva udita e imparata di sul campo. Perciò il padrone, riconosciutavi l'opera di un miracolo, diede piena facoltà al bifolco di andare liberamente, ogni volta che lo desiderasse, alla predica di frate Bertoldo, per quanto urgente fosse il lavoro che avesse da fare. Era poi consuetudine di questo frate, che andava predicando ora in una, ora in altra città, di prestabilire il tempo e il luogo delle sue prediche, affinchè il popolo che vi affluiva potesse trovare sufficienza di vettovaglie. Una volta, certa nobil donna accesa d'ardente desiderio di udire frate Bertoldo a predicare, sei anni continui, per città e castella, con alcune sue compagne... seco lui potè avere un colloquio secreto e famigliare. Finiti i sei anni e i denari che aveva, la vigilia dell'Assunzione [122] della beata Vergine non avendo di che mangiare nè essa, nè le sue compagne, andò da frate Bertoldo, e gli espose schietto e netto lo stato di miseria in cui versava. Frate Bertoldo, udito tutto, la mandò a nome suo da un banchiere a dirgli che le desse pel vitto ed altre spese tanto denaro, quanto ne poteva meritare un giorno di Indulgenza, per ottenere la quale ella aveva seguito sei anni frate Bertoldo. Il banchiere sorrise e disse: Come posso io calcolare il valore di un giorno di indulgenza meritata da voi seguendo le peregrinazioni di frate Bertoldo? A cui essa rispose; Mi ha detto che da una parte mettiate denari nel piattello della bilancia, ed io soffierò sull'altro piattello; l'equilibrio vi darà, la misura del valore dell'indulgenza da me acquistata. Pose dunque il banchiere monete a larga mano, e ne empì il piattello della bilancia; essa soffiò sull'altro, e subito quel soffio mostrossi preponderante, e le monete furono sollevate come si fossero cambiate in lievi piume. La qual cosa considerando, il banchiere ne fu pieno di meraviglia; e più e più volte rimise monete sulla bilancia; ma il soffio della donna non potè essere mai vinto dal peso loro, perchè lo Spirito Santo per mezzo di lei spirava sì forte che il piattello, su cui soffiava la donna, non potè mai essere equilibrato dall'altro delle monete. La qual cosa vedendo sì il banchiere che la nobil donna e le altre di lei compagne, meravigliati volarono difilato a frate Bertoldo e gli raccontarono per punto le cose accadute; e il banchiere aggiunse: Io sono pronto a restituire l'altrui, e per amor di Dio a distribuire il mio ai poveri, e a diventare, come desidero, un buon uomo, perchè oggi ho veramente veduto miracoli. Perciò frate Bertoldo gli impose di dare a larga mano vettovaglie a quella donna e alle compagne di lei, per cagione di cui tanto prodigio aveva veduto. Il che subito e di buonissimo grado fece a lode di nostro [123] Signor Gesù Cristo, a cui è onore e gloria ne' secoli de' secoli, e così sia. Una volta, passando frate Bertoldo verso sera col suo compagno laico per una strada, incappò nei bravi di un Castellano, che lo presero, lo condussero al castello, lo incatenarono, e quella notte lo tennero con siffatta ospitalità. Ma quel Castellano aveva tanto gravemente angariati i suoi concittadini, che nel palazzo del Comune avevano già dipinto il modo di punizione che gli si doveva infliggere, se mai avvenisse che potessero ghermirlo, cioè la forca. All'indomani per tempissimo si presentò il carnefice al Castellano suo signore, e gli disse: Che vuole si faccia la signoria vostra di quei frati, che ieri sera sono stati condotti qui? A cui il Castellano rispose: Spicciali; che era come dire: Impiccali.... Tale era quel Castellano, tali i suoi bravi, che alcuni svaligiavano, altri ammazzavano, altri menavano al castello e incarceravano, e teneanli sinchè per denaro si riscattassero, altri li uccidevano issofatto. Ora frate Bertoldo dormiva, e il suo compagno, un frate laico, vegliava recitando il mattutino, e aveva udita la sentenza di morte dal Castellano lanciata sul loro capo, giacchè tra lui e loro non era che una semplice parete. Allora il laico cominciò a chiamare, più volte gridando, frate Bertoldo. E il Castellano udendo pronunciare il nome di frate Bertoldo, si diede a pensare se mai per caso fosse quel famoso predicatore, di cui si dicevano mirabilia; e incontanente richiamato il carnefice, gli comandò di non toccar que' frati, anzi di condurli al suo cospetto. Condotti alla presenza del signore del castello, furono domandati di lor nome. E il laico rispose: Il mio nome è questo, e lo disse. Il mio compagno si chiama frate Bertoldo, quel famoso, graziosissimo predicatore, per cui mezzo Iddio opera tanti miracoli. Udito ciò, il Castellano si prostrò subito a' piedi di frate Bertoldo, lo abbracciò e lo baciò. Inoltre lo pregò per amor [124] di Dio di fare una predica per udirla, poichè da tanto tempo aveva desiderio di ascoltare da lui la parola della salute. E frate Bertoldo annuì a patto che in una col signore del castello si adunassero ad ascoltare la predica tutti que' bravi che vi avevano. E il Castellano promise di farlo volentieri. Mentre dunque egli faceva chiamare i suoi bravi, e frate Bertoldo s'era messo in disparte a pregare, si avvicinò a lui il compagno e gli disse: Sappiate, frate Bertoldo, che da questo signore è stata posta sulla nostra testa sentenza di morte. Laonde se mai inspiratamente avete predicato altre volte delle pene dell'inferno e della gloria del paradiso, or qui risurga la vostra valentia, che ora ne fa vieppiù bisogno. Udendo frate Bertoldo questa cosa, si diede tutto a pregare Iddio; e poi presentatosi a quell'uditorio, parlò così infiammatamente, e così spiegò la parola della salute, che tutti ne furono commossi al pianto. E prima di partire li confessò tutti, ordinò a tutti di abbandonare quel castello, di restituire il mal tolto, e di perseverare in far penitenza per tutta loro vita, se volevano acquistarsi il gaudio eterno. Il Castellano poi, prostrato a' piedi di frate Bertoldo, piangendo dirottamente, lo pregò di riceverlo per amor di Dio nell'ordine del beato Francesco; e lo accolse colla speranza di ottenerne poi grazia dal Ministro. Voleva anche seguire subito frate Bertoldo, ma questi glielo proibì, temendo del furore del popolo, che era stato tormentato, e nulla sapeva della conversione di lui. Arrivato frate Bertoldo alla città, il popolo volle udirlo a predicare, e tutti si adunarono nel greto di un fiume, ove dalla parte del pulpito pendevano dalla forca alcuni ladroni. (Tu che leggi queste cose, mettiti davanti agli occhi, come tipo, la ghiaia del fiume Reno presso Bologna). Ma il Castellano suaccennato, dopo la partenza di frate Bertoldo, infiammato d'amor di Dio, e vinto dal desiderio di riudirlo dimenticò tutte le soperchierie [125] inferte alla città, e andato da solo al luogo, in cui si predicava, fu subito riconosciuto e preso e condotto alla forca; giacchè fu da tutti rincorso e tutti gridavan alto: s'impicchi, s'impicchi, e turpemente muoia questo pessimo nostro nemico.... Frate Bertoldo, che vide il popolo correre e lasciare la predica, fu preso da meraviglia e disse: Non mi avvenne mai che nessuno partisse dalla mia predica, se non dopo finita, e dopo ricevutane la benedizione. Allora una delle persone che erano ancora sedute al posto rispose: Padre, non ve ne maravigliate, perchè fu preso il tale Castellano, che era pessimo nostro nemico, e lo trascinano alla forca. Udendo questo, frate Bertoldo fu preso da tremore, e disse: Sappiate ch'io ho confessato lui e tutti i suoi satelliti, e che li ho assolti e mandati a far penitenza, ed io aveva anche ammesso il Castellano all'Ordine del beato Francesco, ed ora veniva qui per udire la predica; corriamo dunque tutti e liberiamolo. Si diedero tutti a correre velocemente, ma arrivati sol luogo del patibolo, eravi già su penzolone e spirante. Ad un cenno di frate Bertoldo fu deposto, e trovarongli attorno al collo una carta scritta a caratteri d'oro che diceva: Sapienza 4.º: Maturato egli in breve tempo compiè una lunga carriera: conciossiachè era cara a Dio l'anima di lui; per questo egli si affrettò di trarlo di messo all'iniquità. Allora frate Bertoldo mandò chiamando i frati Minori del convento della città, pregandoli di portare una croce, un feretro, e un abito da frate e accorressero a vedere e udire le mirabili opere del Signore. Così fu fatto; e riferì loro tutto intero il caso. Trasportarono il corpo di lui, e gli diedero onorifica sepoltura nel convento de' frati Minori, lodando il Signore che opera tali miracoli.... L'anno 1284, indizione 12.ª, millesimo che abbiamo già più sopra cominciato, settantadue di quelli che si chiamano apostoli, [126] e non li sono, tra' quali ve n'erano di giovani e di vecchi, viaggiavano per la publica strada, passando per Modena e per Reggio, diretti a Parma per vedere frate Gherardino Segalello, che era stato il loro istitutore, mettere nelle mani di lui ogni loro avere, essere da lui benedetti, e con licenza di lui viaggiare pel mondo. Ed egli condusseli entro una chiesa vicino a Parma, li spogliò tutti, li rivestì, li ammise all'Ordine degli apostoli, li benedisse, e poi li lasciò liberi dì andare dove volessero. Papa Gregorio X da Piacenza, in pieno Concilio a Lione, interdisse loro di aggregarsi nuovi proseliti e di moltiplicarsi; pure vestono ancora quel loro abito e vanno girovagando e folleggiando pel mondo; nè hanno il timore di Dio, nè reverenza per l'uomo, cioè pel Sommo Vicario di Gesù Cristo, e credono di essere in istato di salvezza, mentre non obbediscono alla Chiesa romana. Parimente lo stesso anno, pochi giorni dopo le predette cose, arrivarono per la stessa strada pubblica, dodici donzelle avvolte in mantelli attorno alle scapole, che dicevano di essere sorelle apostolesse degli uomini preaccennati, e andavano a Parma a visitare Gherardino Segalello per lo stesso preindicato scopo. Questi uomini, che dicono di essere, ma non sono apostoli, e sono invece ribaldi e uomini grossolani e bestiali, conducendo secoloro queste donne, credevano di fare ciò che l'Apostolo disse ai Corinzi 9.º: Non abbiamo noi podestà di menare attorno una donna sorella? Nello stesso millesimo Papa Martino IV mandò lettere di comando di predicare la crociata contro Pietro d'Aragona, che aveva occupato la Sicilia; e metteva innanzi quattro ragioni, per le quali voleva che si predicasse una crociata contro di lui. La prima, perchè aveva occupata una Terra della Chiesa, e contro la volontà della Chiesa tenevala, nè s'induceva ad abbandonarla. La seconda, per aiutare e favorire Re Carlo, a cui la Chiesa [127] aveva data quella Terra. La terza, perchè colà si moltiplicavano gli eretici, nè gli inquisitori dell'eresia potevano andarvi, a cagione degli ufficiali che vi teneva Pietro d'Aragona. La quarta, perchè l'esercito di Pietro d'Aragona che stanziava in Sicilia, impediva di soccorrere Terra Santa, che di là ab antico traeva abbondanza di vettovaglie e d'armi e d'armati. Ma la crociata non si predicò, perchè dopo breve tempo avvenne la morte di Re Carlo e del Sommo Pontefice romano.

a. 1285

Di fatto l'anno seguente, cioè 1285, indizione 13.º il giorno subito dopo l'Epifania, ed era Domenica, Re Carlo morì presso Foggia, fu portato a Napoli, ed ivi sepolto[68]. E noto che, dopo parecchi anni di regno, morì il giorno compleanno della sua incoronazione. Egli fu ottimo guerriero, e lavò l'onta di que' Francesi, che erano andati oltremare con Re Lodovico il Santo. Lasciò dopo sè molti eredi legittimi, figli e nipoti, e della sua morte una santa donna n'aveva avuta chiara visione. Una donna di Barletta, nello stesso anno 1285, ebbe una visione mostratale da Dio, della quale parlandone ai frati Minori, di cui era dovota, disse: Ho veduto in una visione notturna uno che stava davanti a me e diceva: Prima che avvenga, sappi sin d'ora che, entro un anno, per volere di Dio, quattro notabilissimi personaggi entreranno nel regno della morte, ove è la sede assegnata ad ogni vivente Giobbe 3.º: E il primo sarà Re Carlo; il secondo, Papa Martino; il terzo, Filippo Re di Francia; il quarto, Pietro d'Aragona. E gli eventi s'argomentarono di provarlo; conciossiachè ogni cosa [128] succedette giusta la predizione. Questa donna, quando morì Re Carlo, ebbe un'altra visione, e raccontandola ai frati Minori, disse: Parevami d'essere in un ampio e bellissimo giardino, ove vidi un gigantesco e terribile drago, dal cui cospetto io spaventata fuggiva con quanta lena di correre io aveva. Ma il drago di corsa velocissima m'inseguiva, gridando e pregandomi con voce umana di aspettarlo, chè mi voleva parlare. Avendo io udito quella voce che suonava umana, mi soffermai, volendo udire che cosa dicesse; e voltami a lui, gli dico: Chi siete voi, e che volete dirmi? E in risposta disse: Io sono Re Carlo, che abitava in questo bellissimo Giardino, d'onde Pietro d'Aragona con un frusto di carne ora mi scaccia. E alludeva alla moglie di Pietro d'Aragona, per cagion della quale occupò contro Re Carlo il Regno di Sicilia. E che la moglie venga significata col nome di Carne, si ha in Giobbe 1º.... Dopo poi che i frati Minori ebbero saputo della morte di Re Carlo, riconobbero che quella donna aveva veduta una visione vera. Nello stesso millesimo, dopo la morte di Re Carlo, si vide un'ecclisse di luna, ai 4 di Marzo, nell'ora in cui cantavamo il mattutino, cioè nella Domenica di lætare Jerusalem (allegrati, Gerusalemme); nella quale Domenica il Sommo Pontefice dà la Rosa. Questa Rosa è d'oro e contiene entro di se musco e balsamo; in che si rappresenta la Trinità delle sostanze di Cristo.... Il musco, che trasuda dal liocorno, e colla sua essenza aromatica conforta lo spirito, significa il corpo di Cristo...... Il balsamo, che è caldo e odorifero, denota l'anima di Cristo..... L'oro...... raffigura la divinità..... Il Papa dona questa Rosa al Prefetto di Roma. Il Papa dunque dando la Rosa viene a significare le accennate sostanze e spiega il mistero. Parimente il Doge di Venezia co' suoi Veneziani, nel giorno dell'Ascensione del Signore, sposa il mare [129] coll'anello d'oro; parte per festa ed allegria; parte mosso da una specie di antica idolatria, per la quale i Veneziani sacrificano a Nettuno; parte, per indicare che i Veneziani hanno il dominio del mare. Poi i pescatori, a cui piace, chè d'altronde non vi sono forzati, si cavan nudi, e colla bocca piena di olio, che poi mandan fuori, si buttano nel profondo del mare a ripescare l'anello; e chi lo può trovare, senza contrasto, è suo.... Nel millesimo stesso sussegnato, la Pasqua cadde ai 25 di Marzo, cioè il giorno dell'Annunciazione della Beata Vergine, la qual coincidenza alcuni credevano infausta; il che si aspetta che accada di nuovo fra dieci anni, cioè nel 1295. E nello stesso anno, il giorno della Pasqua di Risurrezione, Papa Martino IV fece un solenne pontificale; e poi nel Mercordì fra l'ottava, nel qual giorno si cantò alla messa l'introito Venite, benedicti (Venite, o Benedetti), chiuse la sua carriera mortale; e volle essere sepolto ad Assisi nella chiesa del beato Francesco, perchè era amico intimo dell'Ordine de' frati Minori. E immediatamente, dopo l'ottava di Pasqua, ai 2 d'Aprile, ebbe successore Giacomo Savelli Romano, che era del novero del Collegio de' Cardinali, anzi ne era l'anziano, vecchio, carico d'anni, malazzato, affetto di podagra e di chiragra; e prese nome Onorio IV. Dopo che fu fatto Papa, andò subito a Roma, e richiamò i Cardinali, sparsi in Legazioni per le varie provincie, a fine di trattare con loro della pacificazione del mondo. Era stato lasciato esecutore del testamento di Papa Martino IV; e mandò al figlio di Re Carlo, che era in Sicilia prigioniero di Pietro d'Aragona, un ingente tesoro in grazia di amicizia; e incoronò Carlo, nipote di Re Carlo; e si spera che farà molto bene, come si dice, e come pare che egli stesso assicuri....

Delle insidie e della callidità del diavolo, che colla sua finezza tenta di trarre in inganno i servi di Dio.

[130]

Dopo l'assunzione dì Onorio al papato, un certo religioso riconobbe d'essere stato deluso. Vivente ancora Papa Martino, al religioso preaccennato frequentemente appariva il diavolo, e gli prometteva il Papato per subito dopo la morte del Papa d'allora. Ma il frate, come raccontò ad un suo amico, col quale ebbe un colloquio confidenziale intorno a questa cosa, pareva che non si curasse del Papato, se non in quanto desiderava, diventando Papa, di poter rappacificare il mondo. Ma l'amico tanto intimo, a cui svelava il secreto dell'anima, gli disse che a lui pareva impossibile, stante che egli non era persona eminente, nè di gran conto, e perchè i Cardinali, a cui spetta l'elezione, non avevano di lui nessuna conoscenza; ma egli rispondeva che quell'elezione non è opera umana.... In seguito morì il Papa, e fu creato Papa altri, non egli; quindi se ne rimase frustrato nella ricevuta promessa, ed ingannato.... Il religioso preaccennato, a cui tali cose accaddero, era un frate Minore, di cui taccio il nome a fine di bene.... Tutte queste prenarrate cose, quando quarantacinque anni fa, io abitava nel convento di Pisa, le seppi da frate Riccardo, il quale, quando avvennero, dimorava nel convento di Pisa, ed ammaestrano ad aversi buona guardia dalle insidie del diavolo.... Visse un sant'uomo, frate Minore, nativo d'Imola, di nome Benintendi, sublimato all'Ordine del sacerdozio. Egli aveva abitato meco più anni nel convento di Ravenna; era gradito confessore, ogni notte faceva trecento genuflessioni, e digiunò ogni giorno tutto il tempo di vita sua. Una volta fu condotta a questo frate una donna invasa dal diavolo..... Ad uno scongiuro il diavolo se ne volò via confuso e deluso con grida di pianto e di dolore, e la donna, ringraziandone Iddio, ne fu completamente liberata..... quindi il beato Francesco, quando il suo compagno fu una notte bastonato dai demonii alla Corte di un Cardinale, [131] si narra che gli dicesse: I diavoli sono i gastaldi del nostro Signore, destinati a tenere gli uomini in guardia di sè stessi. Anzi io penso ch'egli abbia permesso a suoi gastaldi di irrompere sopra di noi, perchè questa nostra dimora nella Corte de' magnati, non fa buon esempio al popolo. Nella diocesi di Parma, sul monte Bardone, vi è un castello, che si chiama Berceto, trenta miglia distante da Parma. Era di quel paese un certo chierico, di nome Guglielmo, che dimorava a Parma. E quando una volta la moglie di un tal Ghidini fabbroferraio, che era figlia di un certo Pieco abitante nel Borgo delle asse, fu ossessa dal diavolo, quel chierico andò a lei, e cominciò a scongiurare il diavolo, comandandogli di uscire da quella donna: e il demonio rispose: Uscirò sì da lei, ma io ti ordirò tale una tela, per la quale tu non potrai più molestarmi, nè costringermi ad uscire da' miei abitacoli. Perchè sappi già sin d'ora che io farò che tu sia ucciso tra breve, e che tu altri ucciderai. E l'evento avverò la minaccia. Pochi mesi dopo, in Parma stessa, ebbe egli ad altercare in un cortile con un Arduino di Chiavari, e si accapigliarono; ma un forte urtò contro un altro forte, ed ambedue soccombettero. Il fatto me l'ha raccontato chi era presente, e vide quando l'un l'altro si uccisero; e quale dalle labbra di lui la ho udita, tale fedelmente ve la trascrivo. E fu frate Giacomino de' Tortelli, che vide e me lo narrò, che ora è frate Minore; e la donna che prima era ossessa dal demonio, ne fu pienamente libera, ed è in Parma nel monastero dell'Ordine di S. Chiara. Il Ghidini suo marito entrò nell'Ordine de' frati Minori; e, convertitosi a mal in cuore, e datosi a vita non sua, rivolse l'animo al passato, e uscì dal convento durante il noviziato, e vive nel secolo, acciocchè chi è ingiusto sielo ancora più: e chi è contaminato contaminisi vieppiù ecc. Apocalissi 22.º. Del resto Arduino di Chiavari era uomo di [132] lettere, bello, robusto, battagliero, e aveva fatto quello stesso giorno suoi bagagli per partire all'indomani da Parma, e ritornare alla terra nativa. La terra, d'ond'era nativo, si chiama Chiavari, in riva al mare, nella diocesi di Genova, presso Lavagna, dove abitavano i frati Minori. Ed io mi vi son trovato più volte. Ed ivi presso si ha abbondanza di buon vino di vernaccia; e il vino di quella terra è generoso e delizioso tanto, che possono qui trovar loro luogo i versi fatti per quel liquore da un certo Trutanno, che disse:

Vinum de vite —

— det nobis gaudia vitæ.

Si duo sunt vina, —

— mihi de meliore propina.

Non prosunt vina —

— nisi fiat repetitio trina.

Dum quartum poto,

— succedunt gaudia voto.

Ad potum quintum, —

— mens vadit in laberyntum.

Sexta potationum —

— me cogit abire supinum

Se il vin di grappoli — Il sen m'innonda,

Sento rinascermi — vita gioconda.

Se hai vin, che è lacrima — D'uve diverse,

Dei più gradevole — Vo' me ne verse.

Se non ripetesi — Tre volte a prova,

Tre volte il bevere, — Il ber non giova.

Se un quarto calice — Ne bacio e ingollo,

Mi grilla il giolito — Sin nel midollo.

Se un'altra ciotola — M'empie i desiri,

Mi danno il dondolo — I capogiri.

Se il sesto tónfano — Nel sen n'imbotto,

Supin mi corico; — Sono arcicotto.

..... Di otto pericoli, che si notano dall'Apostolo, e [133] di esempi di pericoli..... Hai l'esempio di S.ª Chiara, che in Ispagna liberò i sommersi in un fiume.... Parimente quello del beato Francesco, tuffato da' ladroni nelle nevi, una volta che viaggiando per una selva, cantava in francese lodi a Dio, come accenna il responsorio: mentre a corpo seminudo; e come disse il beato Francesco stesso: Se il diavolo può avere tra mani un pelo d'un uomo, tosto lo fa crescere in una trave; e come disse il Ministro Generale frate Bonaventura, una volta che predicava ai frati in Bologna, ove io mi trovava in persona: Consentire alle suggestioni e alle tentazioni del demonio, è tanto, quanto precipitarsi dalla guglia di un'altissima torre, e, giunti a mezzo, volersi appigliare ad un palo o ad una stanga, per non ruinare a fondo....... Erano a studio in Bologna tre scolari e amici Toscani, i quali avevano tra loro stabilito di entrare insieme nell'Ordine de' frati Minori. E sperando senza dubbio di entrare nell'Ordine del beato Francesco, come avevano deliberato, convennero nella proposta di andare uno di loro in Toscana per denari, onde potersi vestire e fare le altre spese, volute dalla convenienza di chi lascia il mondo, ed entra novizzo in una Religione... Passato Casalecchio[69] e arrivato al ponte del Reno sulla via che va a Crespellano[70], il diavolo gli diede uno spintone, e lo precipitò nel fiume, e ve lo sommerse e annegò; e dopo tempo ne fu trovato il cadavere nel Polesine, e non fu creduto degno di sepoltura. (Il Polesine è la terra, in cui frate Pellegrino di Bologna aveva le sue possessioni. Frate Pellegrino poi è uomo tutto dato alle cose dello spirito, e letterato, che non beve mai che acqua, e abborre dal vino; e fu due volte Ministro nell'Ordine de' frati Minori, cioè nella provincia [134] di Grecia e nella provincia di Genova). Ma non vedendosi ritornare il primo compagno, perchè nol poteva, essendo stato annegato dal demonio, piacque ai due rimasti a Bologna, che l'un di loro andasse in Toscana per il medesimo scopo del primo, ed anche per far ricerche dell'amico smarrito; ma arrivato al luogo sopradetto, e proceduto pochi passi avanti, il diavolo lanciò dal tetto di una piccola chiesa sul capo di questo scolare, una grossa pietra che gliene franse il cranio, e cadde subito morto, e fu quivi sepolto presso la stessa chiesa. Ma non ritornando neppure il secondo, perchè nol poteva, il terzo entrò nell'Ordine senza sapere quale caso avesse incolto i compagni. Questi è frate Pietro di Cori[71], dalla cui bocca ho saputo la storia che scrivo; il quale mentre era ancora nel noviziato di Bologna, fu compagno di un frate sacerdote, che andava a confessare nel Polesine. E trovandosi quel frate, che era sacerdote, occupato in chiesa a confessare, ed il novizzo fuori, a chiacchierare con quelli del contado, sopravvenne un indemoniato, che pareva crudele e terribile. A cui frate Pietro disse: Io riconoscerò che veramente hai il demonio in corpo, se saprai parlar meco in latino, e se mi dirai che avvenne di tre scolari, che erano compagni, e come ordinò ciascun di loro i fatti suoi. Allora il demonio cominciò a parlare, e parlava un sì corretto latino, che frate Pietro se ne meravigliò altissimamente, a udire un uomo rozzo e campagnuolo parlare così, e in quel modo argomentare. Ed insistendo sul fare inchiesta dei tre compagni, disse che egli stesso n'aveva uccisi due, come più sopra è detto. E ricercatolo del terzo compagno, rispose: Non so che sia avvenuto del terzo perchè fuggì e si allontanò da me; Ma potrà fuggirmi, non sfuggirmi, poichè io lo circuirò e ridurrò a tale porto, che chiunque [135] ne abbia udito parlare ne avrà il tintinnio in ambe le orecchie. Interrogò dunque frate Pietro gli abitanti di quella terra, se il demonio avesse detto il vero del cadavere dello scolare ivi rinvenuto, ed attestarono che era vero punto per punto quanto il diavolo esponeva. Avendo poi fatto cercare accuratamente dell'altro compagno riseppe essere egualmente vero. E tanto basti. Crebbe costui nell'Ordine de' frati Minori, diventò uomo di molta letteratura, peritissimo nel diritto canonico, buono di leggere tutta la Bibbia in lingua francese; e passando giorno sopra giorno, ed anno sopra anno accumulandosi, fu eletto Ministro nella provincia di Genova, in Sicilia, e in Toscana sette anni. Fu uomo sempre pieno di sospetti, che insultava facilmente e copriva di vituperi le persone per poterle tenere a stecco. Esaltava cui voleva, cui voleva umiliava; uomo di più faccie, astuto, malizioso, volpe scaltrita, ipocrita vile ed abbietto; uomo pestifero e maledetto, odiato terribilmente da Papa Alessandro IV; e detestato a morte. Era figlio di un Sacerdote della diocesi del predetto Papa, quando questi era ancora ne' gradi minori della gerarchia. Fu mio Ministro e Custode, quand'io era in Toscana; e, dopo che ne partii, commise tante turpitudini ed enormità, che non sono da raccontare, per cui fu dai frati condegnamente castigato. Più volte uscì dall'Ordine, e terminò malamente la sua vita, a ragione de' suoi meriti. Quindi si mostrano vere anche le cose che predisse di lui il demonio... Pertanto tutte queste cose ho narrato avendone porta occasione quel frate che fu ingannato dal demonio, a cui compariva e prometteva il papato; cose che possono tornare utili a conoscere le finezze e le malizie del diavolo. ... Ora ritorniamo alla storia profana, e continuiamo ciò che resta a dirsi. L'anno 1285, indizione 13.ª, millesimo che incominciammo già più addietro, tutto il mese di marzo fu tanta la molestia delle pulci, e ne fu tanta [136] l'abbondanza da parere, ed essere anche troppe per piena estate. E perciò mi tornano a mente que' versi soliti a dirsi:

In x finita —

— tria sunt animalia dira:

Sunt pulices fortes, —

— cimices, culicumque cohortes;

Sed pulices saltu —

— fugiunt, culicesque volatu;

Et cimices pravi —

— nequeunt foetore necari etc.

Tre v'hanno insetti a nomi in X cadenti:

Pulci, zanzare e cimici fetenti.

La pulce fugge a salti e ti canzona;

Va la zanzara a volo, e 'l flauto suona;

La cimice se schiacci uggiosa e lenta,

Col vindice fetor a te s'avventa; ecc.

Nello stesso millesimo ai 7 di Marzo, Sabato, verso sera, si udirono orribili tuoni e spaventosi, e si videro lampi, quasi incendii del cielo, e tosto imperversò una grossissima grandine, che distrusse le ortaglie e gli alberi da frutta, come i mandorli, i melagrani, e i fichi primaticci, ossia i fioroni.... Così anche a Milano si celebrò un Capitolo generale dell'Ordine de' frati Minori, nel giorno di Pentecoste, che fu ai 13 di Maggio. E furono dimessi molti Ministri, e fu modificato il nostro Statuto, a cui quà fu aggiunto, là tolto; e frate Pietro, Ministro della Guascogna, che era maestro con cattedra, fu Vicario in quel Capitolo, come se fosse stato Ministro Generale, perchè frate Buonagrazia, ultimo Ministro Generale era morto. Per la elezione del Ministro Generale però ottenne la maggioranza dei voti e fu creato frate Arlotto da Prato di Toscana, maestro con cattedra, che faceva lezioni a Parigi. Parimente in quell'anno fu celebrato un Capitolo [137] generale dell'Ordine de' frati Predicatori a Bologna; e siccome anch'essi erano acefali, fu eletto frate Munione spagnuolo Maestro dell'Ordine de' frati Predicatori. E sappi che quelli, che noi frati Minori chiamiamo Ministri Generali, essi li chiamano Maestri Maggiori, che comandano agli altri.... E tutto sta bene, perchè vi è differenza di nomi, ma in sostanza tutto riguarda e converge a Dio.... Sappi anche che i frati Predicatori ebbero più Maestri transalpini che cisalpini; e la ragione forse è questa che il loro fondatore, cioè San Domenico, fu un ultramontano. Noi per contrario ne abbiamo avuto più di Italiani che di transalpini. E questo per tre ragioni: Primo, perchè il beato Francesco è Italiano; secondo, perchè è sempre maggiore il numero dei votanti Italiani; terzo perchè sanno più di governo. E gli Italiani temono che se i francesi avessero il predominio nel governo dell'Ordine, si rilasserebbe il rigore della Religione. Avverti che eglino si lamentano se abbiamo maestri di cattedra, dottorati a Parigi. Noi di rincontro ci adoperiamo ad ogni potere per non aver Ministri Generali Francesi per le ragioni addotte più sopra.... Nota, che ad un certo frate de' Predicatori, tutto dedicatosi alle cose dello spirito, fu rivelato in una visione che i Predicatori avrebbero avuto tanti Maestri Generali, quante sono lettere in questa parola: Dirigimur (siamo diretti) che sono nove; ed a verificarsi completamente non restano più che due lettere, cioè u ed r. Poichè prendi la prima lettera, ed hai Domenico; prendi la seconda, ed avrai Jordanum (Giordano); prendi la terza, ed avrai Raimondo; la quarta, ed hai Ioannem (Giovanni); la quinta, ed hai Gumberto; la sesta, ed hai di nuovo Ioannem (Giovanni); prendi la settima, ed hai Munione che ora governa l'Ordine. Esempio quasi identico reca il beato Gregorio nel Dialogo libro 3º.... E nota che l'Abbate Gioachimo, a cui Iddio rivelò il futuro, disse [138] che l'Ordine dei Predicatori doveva patire coll'Ordine de' Chierici; e che l'Ordine de' Minori doveva durare fino alla fine. Nello stesso millesimo preindicato, nel quale si sono celebrati que' due Capitoli generali, il Marchese Guglielmo di Monferrato coll'aiuto dei Torriani di Milano e con altri amici condusse un grosso esercito contro i Milanesi che erano dentro la città. Anche i Modenesi avevano tra loro accesa discordia, e più volte diedero di piglio alle armi. I Tartari invasero tutta l'Ungheria e devastarono tutto con ogni maniera di stragi, d'incendi e di rapine; e in quella invasione uccisero tutti i frati d'un convento di Predicatori, tranne due rannicchiati in un nascondiglio. Finalmente i Tartari fecero pace col Re d'Ungheria, a cui il Re dei Tartari mandò una lettera di questo tenore: «Davide Giovanni Re di Tarso e dell'isola orientale e delle genti, che vi abitano, al Re degli Ungheri (invia) la sua grazia e quella del suo popolo, grazia cui il Dio Trino ed Uno ecc. Come piacque al Signore il nostro cuore si è elevato al di sopra di tutto ciò che si dice uomo terreno, e il nostro trono si è alzato sopra il collo dei ribelli, sicchè i Re della terra adorano la cintura de' nostri lombi, tranne il Re di Francia cui D.... in un dialogo chiama il fedele e il cattolico, e mi disse: Non stendere la mano sopra di lui; la nostra spada divorerà i nemici del crocefisso, e i nostri cavalli e li nostri asini manicheranno i resti di loro; i piedi de' nostri dromedarii e de' nostri camelli non sono più bifidi per la rigidezza che contrassero; moviamo i nostri accampamenti in inverno; sia pace a tutti; mandino a noi vino in ricambio di balsamo, frumento invece di oro puro, poichè stiamo pellegrinando lungi dalle nostre sedi, chiamati da una stella, che ne guida. Nostra cura è di riportare alle loro Terre[72] il Signor nostro Baldassare [139] e i nostri cognati Gaspare e Melchiorre». Mentre si spargeva sangue in tutte queste battaglie, mi tornavano a mente le parole di nostro Signor Gesù Cristo ai discepoli, Matteo 23.º.... Così nell'anno stesso sussegnato, il Re di Francia, dopo la morte di Re Carlo suo zio, condusse un grosso innumerevole esercito in Ispagna contro Pietro di Aragona, chè lo voleva annientare. Così sono le cose oggi, giorno di S. Sisto 1285; se ne ignora la fine perchè gli eventi di una guerra sono sempre incerti.... Parimenti lo stesso anno i Modenesi fuorusciti combatterono un'asprissima battaglia contro i Modenesi di dentro la città, e da ambo le parti si pugnò accanitamente, e molti caddero feriti sul campo, molti ne furono morti, e molti rimasero prigionieri. Lo stesso anno tornarono ad azzuffarsi presso Gorzano, e si rinnovò la strage dell'altra volta, poichè vi fu grande carneficina da ambo le parti, e molti popolani e cavallieri vi trovarono l'ultimo giorno di vita. Tuttavia i Modenesi di dentro la città si vantavano d'aver avuto il sopravvento in tutte e due le battaglie, e quindi dalla vittoria pigliando audacia, andarono ad incendiare Balugola[73], che è un borgo del Modenese in montagna. Parimente nello stesso anno di comune accordo la fanteria e la cavalleria della città di Modena andò al castello di Rubiera, che è sulla strada publica, nella diocesi di Reggio, e quelli di Sassuolo fecero altrettanto; però non avvenne tra loro fusione, se ne stettero a campo separati. E vi andò il Podestà di Reggio con dodici ambasciatori Reggiani, e vi ritrovarono anche frati Minori e Predicatori, e si fece lo scambio e il rilascio dei prigionieri, che in tutto tra l'una e l'altra parte erano 400. E questo fu fatto la vigilia di S. Pietro in Vincoli, ultimo del mese [140] di Luglio; ma già sin da molto tempo prima ne erano intervenute lunghe trattative. Tuttavia perdurò fra loro una guerra vigorosa e sanguinosa, e de' Modenesi tra della parte di que' di dentro, e di quella di fuori, che abitavano a Sassuolo, ne furono morti 1500; i più notabili de' quali sono: Matteo Montecucoli[74], Guglielmino di Monteveglio[75], Ponzio Provenzale, Capitano delle milizie dei Modenesi della città, Gherardo Rangone, Gherardino Boschetti, Giovanni da Rosa, l'Arciprete di Bazoara de' Presuli, Rainiero dei Denti di Balugola, Raimonduccio Grassoni, Nordulo da Livizzano[76], Nevo da Levizzano, Gigliolo de' Poltronieri, Bartolomeo di Campiglio[77], Tomaso di Lovoleto[78], Ardizzone di Lovoleto, Neri di Leccaterra (questi fu valentissimo nel rotare la spada e vibrare la lancia), Carentano dei Carentani, il Modenese de' Ricci, Zaccaria di Tripino, Francesco di Spezzano[79], Tommaso di Spezzano. Qui si chiude il catalogo de' notabili Modenesi uccisi a tempo di quella accanita guerra che tra loro stoltamente si fecero. Ci pensino eglino! Ora è a dire alcunchè de' Genovesi. Tiene la Signorìa di Genova Uberto Spinola, e nel 1285, agli 8 di Giugno, con cento galee filò pel porto di Pisa per forzarlo, ed impadronirsene; e i Lucchesi colle loro milizie corsero contro i Pisani a Ripafratta[80], ove è un castello de' Pisani presso il Serchio, e diedero il guasto all'agro Pisano, mettendo a fuoco le case, le vigne, le biade. E l'anno precedente Genovesi e Pisani due volte [141] avevano tra loro cozzato in battaglia navale, ed i Pisani furono sconfitti, a tale che di Pisani tra morti e prigionieri 10,000 furon messi fuori di combattimento; di Genovesi solo 200. E nota che il sunnominato Uberto tenne di forza la Signoria di Genova dodici anni, e contrastando all'ambizione de' Grimaldi, che parteggiavano per la Chiesa. Parimente l'anno prenotato, Papa Onorio IV mandò ordinando ai Lucchesi che avevano stretto d'assedio Ripafratta, castello dei Pisani sul Serchio, di cessare dalla guerra contro Pisa; e inoltre scomunicò tutti quelli, che avevano ostilmente impugnate le armi contro i Pisani, perchè questi ora si sono annidati sotto lo scudo e la protezione della Chiesa, essendo che dove abbondò il peccato, sovrabbonderà anche la grazia, dice l'Apostolo ai Romani 5.º. Nello stesso anno cominciarono le fondamenta della chiesa dei frati Minori di Reggio; e frate Giglino di Corrado da Reggio ne pose, il venerdì dell'ottava di Pentecoste, 18 di Maggio, la prima pietra nel pilastro anteriore lungo la via, che è vicina alla casa della Chiesa di S. Giacomo. Quell'anno fu anche molto piovoso, e non passava giorno senza pioggia, e i contadini n'erano di mal umore, perchè non potevano fare i loro lavori; e ne accagionavano i frati Minori, perchè gettando le fondamenta della loro Chiesa, avevano dissotterrate le ossa dei morti. E quell'anno non portò piena raccolta, perchè il frumento in qualche luogo fu distrutto parte dalla grandine, parte da altre calamità. La state poi non fu ristorata da nessuna pioggia, e s'ebbe grande siccità, anzi aridità; nè vi fu abbondanza d'ortaglie perchè gli orti non erano irrigui, nè si ottenne dal cielo beneficio di pioggia. Si ebbe carestia di zucche e di minuti[81], di vino, di olio, di rape, di castagne e di [142] molte altre specie di frutta. L'anno stesso vi fu un eclisse di sole, verso sera, un lunedì 4 Giugno, ma fu un eclisse parziale, ristretto, e veduto da pochi, perchè il cielo in quel giorno era nebuloso. Di questi eclissi di sole, di luna, e di stelle, sappi ch'io ne ho veduto spesse volte, dopo che sono entrato nell'Ordine dei frati Minori; ed avvengono non solo perchè Iddio lo predisse, dicendo Luca 23ª.... ma anche perchè portendono, ossia dimostrano, qualche cosa che ha da accadere. Però tra gli altri eclissi di sole, che si sono veduti a miei giorni, il più notevole fu quello del 1239, di cui ho parlato quanto basta più indietro; e di luna, il più maraviglioso fu quello che si vide il primo anno del pontificato di Gregorio X, in Maggio, verso l'ora del mattutino, quando apparve nella luna il segno della Croce, e che in quella notte durò a lungo, e fu veduto da molti in varie parti del mondo. Questo segno nella luna poi comparve ancora l'anno 1272, indizione 15ª. Poi tra gli altri prodigi di stelle, massimo fu quello che si fece vedere a tutto il mondo ai tempi di Papa Urbano IV. L'anno in cui morì apparve in cielo una stella cometa, a modo di fiaccola, verso la festa di S. Apollinare, e continuò a mostrarsi sino alla morte del Papa; della quale apparizione parimente ho scritto più sopra alla rubrica dell'anno 1264.... Le comete i latini le chiamano con parola che significa crinite, perchè mandano uno sprazzo di luce, che somiglia ad una chioma svolazzante; e gli Stoici ne annoverano più di trenta, i cui nomi ed effetti alcuni astrologi [143] notarono. Dei più cospicui lavori pubblici compiuti dai Parmigiani par bene parlarne ora. Nel millesimo sussegnato i Parmigiani cominciarono un grandioso palazzo e bello sulla piazza nuova, e fecero costruire la porta di S. Benedetto, e cominciarono il ponte di pietra sull'Enza, torrente che interseca la pubblica strada, che va da Parma a Reggio, a cinque miglia da Parma; e fecero fare una grossa campana per la torre del Comune, essendosi rotta quella che v'era prima; e siccome per mancanza di metallo non si formarono le anse, od orecchie, e perciò non si poteva legare ed appendere, fu dallo stesso maestro fusa una seconda volta, ma non era sonora per qualche difetto, che, pur si crede, debba avere. Onde i Parmigiani mandarono a Pisa in cerca di un valente maestro, che loro gettasse una buona campana. E il maestro da Pisa venne a Parma sfarzosamente vestito, come un gran Barone; ed alloggiò nel convento dei frati Predicatori, ove fece la campana con quella maggiore e migliore diligenza, che ebbe e potè, avendo ricevuto metallo nuovo ed in gran quantità, come volle; e ne disegnò una forma bellissima... inoltre la gettò sulle fondamenta della chiesa de' Predicatori, che era già fondata, perchè temeva che il metallo sfuggisse dalla forma per di sotto. Ma nulla giovarono tante diligenze, e la campana fusa non fu trovata buona, nè quanto alla forma, nè quanto alla sonorità. E così Iddio punì l'orgoglio de' Parmigiani, che volevano avere una campana che si udisse sino a Reggio e a Borgo S. Donnino, ma appena si sentiva per Parma. E i Parmigiani spesero in quell'anno a fare e rifare una campana mille lire imperiali, nè poterono averla buona. Nel convento poi dei frati Predicatori in Parma non abitavano allora che quattro frati per custodire il locale. Poichè i frati Predicatori fuggirono da Parma per cagione di una donna che si chiamava Alina, che l'avevano que' frati fatta bruciare [144] viva per eretica; nè erano ancora ivi tornati ad abitare, stantechè a ritornare volevano esserne onorificamente pregati; ma i Parmigiani si curavan poco di loro, perchè riguardo ai Religiosi sono sempre duri e poco ossequenti. Parimente, nello stesso millesimo, i Parmigiani costruirono una grossa muraglia lungo il torrente Parma, ad oriente della chiesa di S. Maria del Tempio[82], a partire dal ponte di donna Egidia verso il ponte di pietra, sul quale decorre la strada publica, ed ove si vendono le mercerie. Così in quell'anno eressero due torri in riva al Taro, l'una sulla destra, l'altra sulla sinistra di quel torrente, là dove esso mette foce in Po; e stesero una catena di ferro tra l'una e l'altra torre, acciocchè nessuno potesse in quel luogo entrare nè uscire per acqua con merci senza il placito dei Parmigiani. Altrettanto fecero sull'Enza, dove presso Enzano sbocca in Po; altrettanto sulla Parma, presso Colorno, ovvero Copermio. In quell'anno nella villa di Poviglio, che è nella diocesi di Parma, nel breve giro di tre mesi morirono ottanta uomini; e questa è regola generale, ossia una sperienza provata, che quante volte vi è morìa di bovini, altrettante l'anno successivo sopravviene mortalità di uomini. Infierì anche in Roma una micidiale pestilenza, sicchè sotto Papa Onorio IV, di soli mitrati tra Abbati e Vescovi, dalla Pasqua sino all'Assunzione della beata Vergine, ne morirono ventiquattro. E nello stesso anno i Parmigiani deliberarono di fare un ponte di pietra sul Taro, che è distante da Parma cinque miglia, sulla strada pubblica, che va a Borgo S. Donnino. Inoltre costruirono una torre nel castello di Grondola[83], che hanno sull'Apennino a tre miglia da [145] Pontremoli. Ma per isvolgere meglio questo argomento delle opere fatte dai Parmigiani, è necessario rifarci indietro, e nominare anche quelle che furono compiute prima che noi fossimo nati.

a. 1196

L'anno dunque dell'Incarnazione del Signore 1196 fu cominciato il battistero di Parma; e mio padre, come ho saputo da lui stesso, collocovvi la pietra fondamentale per memoria e ricordo ai posteri. Tra il battistero e casa mia non vi era spazio in mezzo. E mio padre si chiamava Guido di Adamo, ed io figlio suo frate Salimbene dell'Ordine de' frati Minori.

a. 1199

L'anno 1199 que' di Borgo S. Donnino fecero stormo co' carrocci contro i Piacentini e i Milanesi e quelli che tenevano da parte loro, e furono sconfitti i Borghigiani.

a. 1207

L'anno 1207 furono fatte le pile del ponte di pietra sul torrente Parma, e nevicò strabocchevolmente e si chiama la neve di S. Agata, perchè fioccò in quel giorno, e i nati dopo d'allora la ricordano e ne parlano come di cosa straordinaria, chè arrivò all'altezza della statura d'un uomo. E fu quell'anno stesso che il beato Francesco fondò l'Ordine de' frati Minori, regnando Papa Innocenzo III, nel decimo anno del suo pontificato, e visse nell'Ordine stesso venti anni interi.

a. 1210

L'anno 1210 furono scavate le fossa di santa Croce di Parma, e l'Imperatore Ottone venne a Parma.

a. 1211

L'anno 1211 fu coniata la prima moneta dei piccoli denari di Parma, e si incominciò la fabbrica della casa della Religion Vecchia di Parma.

a. 1213

L'anno 1213 i Cremonesi, da soli, rapirono il carroccio ai Milanesi.

a. 1215

L'anno 1215 Roberto di Manfredo di Pio, Modenese, fu Podestà di Parma, e i Parmigiani e i Cremonesi assediarono Castelnovo de' Piacentini.

a. 1216

L'anno 1216 gelò il Po.

[146]

a. 1217

L'anno 1217 si raccolse un esercito a Zibello[84].

a. 1221

L'anno 1221 Torello Strada di Pavia fu Podestà di Parma; e allora si cominciò a fabbricare il palazzo nuovo del Comune di Parma.

a. 1222

L'anno 1222 fu Podestà di Parma Enrico degli Avvocati di Cremona; e quest'anno sul principio della sua Podesteria si ebbe, per Natale, uno spaventevole terremoto, che spesso è rammemorato da chi sopravvisse, od è nato dopo.

a. 1224

L'anno 1224 fu Podestà di Parma Manfredo Cornazzani, e morì Obizzo Vescovo di Parma, oriondo di Lavagna, e zio di Papa Innocenzo IV.

a. 1226

L'anno 1226 venne a Parma Federico Imperatore.

a. 1227

L'anno 1227 Torello Strada, di Pavia fu di nuovo Podestà di Parma. E allora si cominciò a costruire il castello così detto di Torello[85] contro Borgo S. Donnino, perchè i Borghigiani non volevano stare all'obbedienza de' Parmigiani; ma siccome poi i Borghigiani si sottomisero al Comune di Parma, perciò i Parmigiani desistettero dalla costruzione del castello. Questo per ora sia detto de' lavori pubblici e delle gesta dei Parmigiani. Altrove forse diremo d'altro, se si presenterà [147] occasione di parlarne, e se mi parrà opportuno. Si continui dunque il millesimo cominciato. L'anno pertanto suindicato, cioè 1285, Manfredo Torta degli Alberghetti di Faenza morì nella villa di Sezaria a cinque miglia da Faenza; e fu ucciso in una con suo figlio da' suoi consanguinei, mentre reduce da Ravenna era a pranzo con loro. E lo stesso anno i nipoti del conte Taddeo di Buonconte insorsero contro Malatesta di Rimini, e lo percossero, e volevano ucciderlo a Cesena presso la casa degli Eremitani, per aiuto de' quali potè evadersi, perchè la loro porta era aperta. Così in quell'anno fu deliberato dai Reggiani, in pieno Consiglio, che i pescivendoli non potessero vendere pesce a cominciare dal principio di quaresima sin dopo Pasqua, sotto comminatoria e pena di venticinque lire di bonini; la quale deliberazione fu appuntino eseguita. La cagione poi di questa deliberazione fu che quando i cavallieri, o i giudici domandavano ad un pescivendolo: Quanto vale questo pesce? esso richiestone due o tre volte, sdegnava di rispondere, anzi si voltava da altra parte, e chiacchierava col compare dicendogli: Compare, poni quà, spingi là il cesto, o il cavagno. D'onde quel de' Proverbii XXIX: Il servo non si corregge con parole: benchè intenda, però non risponderà.... Oltre ciò volevano di una piccola tinca, o anguilla tre o quattro grossi. Ma i pescatori e i pescivendoli vedendo che quello era stato stabilito contro loro si eseguiva con fermezza e con rigore, e che ne avevan danno, poichè tutti i loro pesci furono numerati e posti in vivai da starvi sino a dopo Pasqua, andarono ai frati Minori scongiurandoli di supplicare il Podestà, il Capitano e gli Anziani e tutto il Consiglio di voler ritirare quella legge, e promettevano di vendere il loro pesce, a chi voleva comprarne, a prezzo ragionevole e discreto, con cortesia e a buon mercato. Ma non pertanto fu disdetta la deliberazione presa, secondo la [148] parola detta dall'Apostolo per Esaù nella lettera agli Ebrei 12.ª Imperciocchè non trovò luogo di pentimento benchè richiedesse quello con lagrime. Ed i Reggiani minacciavano di fare altrettanto ai beccai, se per Pasqua non vendessero le carni al macello con cortesia e a prezzo ragionevole. Il che udendo buccinare i beccai, si regolarono secondo che insegna la Sapienza ne' Proverbii XIX: Percuoti lo schernitore, e il semplice ne diventerà avveduto ecc. Gherardo Varoli, Giudice, fu il primo a denunziare in Consiglio la malizia dei pescivendoli, e la sua denunzia fece prendere quella deliberazione.... Parimente nel millesimo soprassegnato, cioè 1285 quei di Sassuolo catturarono 800 donne di quelli che erano dentro Modena, uscite alle vigne a vendemmiare, e le condussero a Sassuolo in prigione. Il che avvenne un martedì, 4 Settembre; ma presto furono prosciolte, perchè i Modenesi della città ne catturarono similmente di quelle dei Sassuolesi. Furono anche presi il 21 Settembre, giorno di S. Matteo Apostolo, ventiquattro di quei di Sassuolo dai Modenesi della città che erano a Rubiera, e li sorpresero nella villa di Corticella[86], ad un miglio e mezzo da Rubiera; tra cui furono i principali: Burigardo, che era maestro della milizia di Sassuolo, prode dell'armi e dotto nell'arte militare, (questi era di Gap, che è piccola città della Provenza. Fu questi che aveva consigliato di catturare le dette donne e mandarle in carcere; e lo stesso mese fu anch'egli preso e condotto nelle prigioni di Modena). Un altro de' più cospicui fu il Conte Lesnardo di Crema; tutti gli altri erano Francesi, meno uno di Modena. E nota che, come dissero poscia i Modenesi di dentro la città, se Burigardo, quando in principio corse in aiuto di quei di Sassuolo, avesse fatto un colpo di mano ardito sopra la città, [149] eglino erano deliberati di svignarsela e abbandonare Modena; tanto il timore era diventato loro consigliere e padrone. Ma Iddio meglio dispose ne' suoi decreti; perchè ai 7 di Ottobre fu firmato un compromesso tra i Modenesi fuorusciti e quelli di dentro la città. E Guido di Correggio e Matteo suo fratello furono i principali autori di quella pacificazione, e de' patti convenuti; anche Mastino Sanvitali di Parma molto s'adoperò a fine che i Modenesi si riamicassero; e Frate Pietro da Collecchio di Parma, dell'Ordine de' frati Minori e lettore nel convento di Modena, egualmente e fedelmente se ne curò, recandosi con insistenza dai sunnominati personaggi, e correndo e ricorrendo da Modena a Sassuolo e viceversa, rapportando, come loro nunzio, quanto avevano detto le parti. Però era intendimento tanto di quei della città di Modena, come di quelli di Sassuolo, che in ogni modo un componimento si conchiudesse. Perocchè la miseria e la povertà avevano già vinto gli uni e gli altri ed erano vincolati a grossi debiti, e le loro casse erano al verde; e le avevano esauste i Toscani, i Francesi, i Romagnuoli e molte altre genti cogli stipendi che ricevevano. Anch'io frate Salimbene di Parma dell'Ordine de' frati Minori, accompagnai in occasione di quelle trattative frate Pietro da Collecchio, e andai a Sassuolo da Manfredino e pregai lui, non meno che gli altri maggiorenti de' fuorusciti Modenesi, a non respingere, per quanto dipendeva da loro, le proposte di pace.... I quali risposero con cortesia e benignità che in ogni modo volevano la pace co' loro concittadini, e che erano dell'animo disposti ad accettare le proposte di coloro che s'erano intromessi in quell'affare, quantunque paressero loro gravi, e realmente le fossero. A que' giorni andai a Carpi per festeggiare ivi il giorno del beato Francesco. Arrivando là vi trovai i messi secreti del Marchese d'Este adunati nella chiesa plebana, e nell'ora stessa giunsero da Parma [150] Guido da Correggio e Matteo suo fratello; e tosto tennero tra loro consiglio intorno al trattato di pace. E perchè i pensieri pigliano forza e maturità dai consigli, intanto di notte.... interloquirono, e stabilirono un progetto, cui nessuno a Carpi conobbe, tranne l'Arciprete della Chiesa plebana. E la mattina per tempissimo i messi del Marchese partirono per Ferrara, e Guido e Matteo andarono a Modena, e cominciarono a trattare della pace. Pochi giorni dopo poi, i prenominati due fratelli, si recarono a Parma, e pregarono il Podestà, il Capitano e tutto il Consiglio a volersi intromettere in quella pacificazione de' Modenesi, perchè la volevan pur fare colla loro annuenza; e il Capitano, il Podestà e tutto il Consiglio acconsentirono. Allora Guido prese a prestito dai Parmigiani mille lire, ed altrettante ne prese dai Reggiani Matteo, per pagare lo stipendio ai soldati che erano in Modena e licenziarli, per trattare la pace con maggiore speranza di riescita. Queste trattative però si strascicarono per molti giorni, perchè le passioni erano molto accese e la matassa assai intricata. E mandarono a Reggio Burigardo, che era in ceppi a Modena, e il Conte Lesnardo con alcuni altri, e vi furono ritenuti prigioni nel palazzo del Comune. Poscia Guido da Correggio andò e prese Burigardo e lo condusse a Correggio, che è una villa nella diocesi di Reggio, ed ivi gli fece gli onori; poi lo condusse a Castelnuovo[87], nella diocesi di Parma, dove sì egli che suo fratello Matteo da Correggio hanno loro possedimenti, ed ivi lo onorò magnificamente banchettando e servendo squisite imbandigioni. E Burigardo disse a Guido: Se mi ti dessi anche in mano per ischiavo, io non ricambierei condegnamente la tua gentilezza. E aggiunse: Voi mi liberaste dal carcere di [151] Modena, o Guido, e mi sottraeste dalle unghie de' miei nemici, e di quelli che mi tendevano insidie, e tramavano alla mia vita. Perciò ogni volta che avesse da insorgere guerra contro di voi, per tutta la mia vita mi troverete sulla breccia in vostro aiuto, in vostro servizio. Di che Guido gli rese grazie, lo lasciò andar libero in pace, anzi lo accompagnò sino a luogo sicuro. E Burigardo andò a Sassuolo, e da quelli di Sassuolo fu accolto e veduto festosamente e onorificamente, come fosse arrivato un Angelo del cielo. E nota che Burigardo non mancò di reverenza verso Dio; e fugli devoto a segno che aveva sempre in sua Corte un proprio cappellano che ciascun giorno diceva messa e celebrava i divini uffici per lui. Quando fu a Reggio mandò regalando ai frati Minori un grosso doppiero da accendersi, in onore del corpo del Signore, al momento della elevazione nella messa. Ma quando Burigardo fu ritornato a Sassuolo, allora si disperò della pace; e que' di Sassuolo incominciarono a rifortificare il loro castello. Però Matteo da Correggio nel Consiglio de' Modenesi parlò assai caldamente in favore di quei di Sassuolo, e perorò splendidamente producendo allegazioni in favor loro; e si mostrò vivamente sdegnato co' Modenesi, perchè non volevano dare l'amplesso della pace ai loro concittadini fuorusciti, e perchè essi due fratelli dovettero stare occupati, per le trattative di quella pace, dal giorno del beato Francesco sino al giorno di Santa Lucia. Inoltre i Modenesi avevano eletto Guido a loro Podestà per l'anno seguente, il quale aveva anche ordinato che fossero diroccati tutti i castelli e le fortezze che erano nella diocesi di Modena, come era stato convenuto nel trattato di pace. Partissi adunque Matteo da Modena focosamente sdegnato per le cagioni suesposte, dicendo che porterebbe la sua dimora tra quelli di Sassuolo, dacchè per loro bene i Modenesi non volevano ascoltarlo. Anche [152] Guido suo fratello fece altrettanto, minacciando di associarsi ad Obizzo vescovo di Parma, che teneva le parti di quei di Sassuolo, e combattere per tutta vita sua contro i Modenesi, finchè non fosse ristabilita la pace in Modena..... Il che ponderando i Modenesi, riconobbero d'aver operato male, perchè avevano già seminate le campagne, e avevano edificate case per la diocesi; ma se perdurava la guerra non c'era lume di speranza di raccoglierne il frutto; laonde mandaron dicendo che volevano in ogni modo rappacificarsi coi loro concittadini..... Così stanno le cose oggi, poco prima di Natale. Vedremo come va a finire. Però della pace de' Lombardi confido poco; perchè quando penso alle loro pacificazioni, mi par di vedere quel gioco che fanno i ragazzi, quando l'uno pone le sue mani sulle ginocchia, e l'altro vi soprapone le sue, e quando l'uno vuol essere vincitore trae rapidamente le mani che ha sotto e le porta sopra a quelle del compagno battendole d'un colpo forte, e così si dà l'aria del vincitore. Ma spesso di vincitore lo vediamo vinto; donde nacque il detto:

Ratio præteriti scire futura facit

Quello che fu, quel che verrà ne insegna.

È provato ciò che diciamo. Ho visto a' miei giorni che i Parmigiani, che erano in Borgo S. Donnino, di parte imperiale, pregarono i loro concittadini, che erano in Parma, di ammetterli al bacio della pace; e si fece. Ma rientrati in città volevano trattare alla pari con quelli, che parteggiavano per la Chiesa; e perciò, moltiplicatesi le discordie dall'una e dall'altra parte, di nuovo furono espulsi.... Altrettanto accadde ai Bolognesi, Modenesi, Reggiani; altrettanto ai Cremonesi. Quando quelli, che tenevano in Cremona le parti dell'Impero, [153] ebbero accolto festevolmente ed onorificamente i loro concittadini fuorusciti, questi dopo un mese, con frode maligna, resero loro male per bene, onde il partito della Chiesa espulse e cacciò in fuga l'altro partito..... Dunque l'Imperatore Federico seminò in Italia queste fazioni, queste divisioni, queste maledizioni, che durano ancora; nè si possono spegnere gli odii, nè cancellarsi per la pravità degli uomini e la malizia del diavolo..... Ma Federico è passato di questa vita, e sebbene avesse in sè qualche seme di buono, ebbe anche assai di pravo e di perverso, come si palesa dal fatto seguente. Essendo stato un tempo scomunicato da Papa Gregorio IX, ed essendo arrivato ad una terra nella quale si trovava il Patriarca di Aquileia (era bell'uomo e zio di Santa Elisabetta Langravia), Bertoldo, persona ch'io ho veduta e conosciuta, mandò a dire al Patriarca che andasse a messa coll'Imperatore. Ma il Patriarca, che sapeva già di questo sin prima di vedere il messo dell'Imperatore, per dar colore al diniego, aveva fatto chiamare il barbiere, poi fece imbandire la mensa, si assise e cominciò a pranzare; e mandò a dire all'Imperatore che non poteva andare a messa, perchè era languido, ed era a tavola per rifocillarsi. Il quale di nuovo gli mandò dicendo che, messo da banda ogni pretesto, si recasse a lui. Ed egli, volendo togliersi d'attorno quella vessazione, umilmente accondiscese, e andato, assistette alla messa con lui. Quindi si legge che l'Imperatore Costantino dicesse: «Chi tenta perpetrare ciò che è male, si studia di cattivarsi i buoni.» Quindi Giovanni e Paolo dissero di Giuliano apostata: «Dopo che Giuliano è stato ributtato dal cospetto di Dio, tenta di trarre anche gli altri a morte.» Ciò avvenne nella Marca Trivigiana a Vicenza, il giorno di Pentecoste. Altre pravità del fu Imperatore Federico più sopra ho notate. Anche in altra cronaca più breve ne ho parlato, ma non di tutte, che [154] erano moltissime. Tuttavia si sappia che non fu tanto crudele, quanto Ezzelino da Romano, che signoreggiò a lungo la Marca Trivigiana; si sappia anche che fu a volte uomo sollazzevole, ma ebbe molti detrattori, e insidiatori, che ne cercavano la vita, e volevano ucciderlo, specialmente in Puglia, in Sicilia e in tutto il Regno. Inoltre in quell'anno 1285 i Modenesi fuorusciti cinsero d'assedio il castello di Magreda[88] nella diocesi di Modena, che essendo debole e mal munito, e difeso da pochi uomini, fu preso agevolmente. Allora Neri di Leccaterra, di cui ho parlato più su nel catalogo dei Modenesi, entrato nella chiesa della beata Vergine, che era nel castello, vi pose fuoco per incendiarla, dicendo: Ora pensaci tu, o Santa Maria, a difenderti, se il puoi. Ma, appena profferite queste parole, a malizia ed ingiuria, tosto una lancia da altri vibrata trapassò la corazza di lui, gli si infisse nel cuore, e cadde subito morto. E siccome è accertato che non l'avevano vibrata i suoi, si crede che sia stato colpito da Mercurio; sia perchè questi fu solito farsi ultore delle ingiurie recate alla beata Vergine; sia perchè uccise con una lancia anche Giuliano Apostata nella guerra coi Persiani. E quel Neri era assai lodato vibratore di lancia, e di lancia avea ucciso molti..... Nello stesso anno la Corte romana, cioè Papa Onorio IV co' suoi Cardinali, tenne la sua residenza a Tivoli; ove infierì una peste micidiale tanto che, di soli foresi, ne morirono 2000. Ed i frati Minori spesso avevano nella loro chiesa quattro funerali al giorno; e vi fu un vecchietto transalpino, eletto Vescovo, venuto per la sua consacrazione, che morì egli e venticinque della sua famiglia. Udii dire questo dal Ministro della Touraine, ossia di S. Martino, che vi era..... E nota, come anche altrove mi ricorda d'aver [155] detto, che questa è la regola generale e provata che, ogni volta che vi è morìa di bovini, nell'anno susseguente capita morìa d'uomini. Così anche dopo una fame avviene similmente che sussegue morìa d'uomini. Nello stesso anno frate Vitale, Ministro di Bologna, morì in Settembre presso Bologna, ed era stato Ministro 15 o 16 anni, e fu uomo di poco valore, in quanto riguarda gli atti esterni. Dopo la cui morte congregatisi i frati nel convento di Bologna, cioè i Guardiani, i Custodi, i Lettori ed alcuni Discreti, a cui era devoluta la elezione, nel mese di Ottobre nominarono Ministro frate Bartolomeo da Bologna, che era stato conventato maestro a Parigi. E mandarono frate Filippo Boschetti di Modena a Parigi al Ministro Generale, frate Arlotto, per la conferma del Provinciale eletto. E così fece. Parimente in questo stesso anno morì in Ispagna a Girona[89] Filippo Re di Francia, ove era andato con un grosso esercito contro Pietro Re d'Aragona. (Ne morirono molti anche dell'esercito del Re, non colpiti dal nemico, ma dal volere di Dio, al cui cenno ogni cosa nasce e muore. Questi era figlio di S. Lodovico). La salma di Re Filippo fu trasportata e sepolta a Parigi; e gli successe Filippo figlio suo. E nota, che ora i Re di Francia si chiamano tutti o col nome di Lodovico, o col nome di Filippo. Nota eziandio, che in poco tempo il partito della Chiesa fu colpito di gravissimi danni ed infortunii durissimi; primo, perchè in battaglia navale restò prigioniero il figlio di Carlo in mano delle genti di Pietro d'Aragona, ed è tenuto in carcere in Sicilia; secondo, perchè Re Carlo morì poco dopo la cattura di suo figlio; terzo, perchè [156] Papa Martino IV nello stesso anno passò fra il numero dei più; quarto, perchè lo stesso avvenne del Re di Francia. E tutto questo accadde in quasi un sol anno, cioè nel 1285; nel quale anno stesso Papa Onorio IV mandò ordinando di riscuotere le decime di tre anni di tutte le Chiese, e che si pagassero e dessero al figlio di Re Carlo per liberare la Sicilia dalla Signoria, dalla podestà e dalla schiavitù di Pietro d'Aragona, che la occupava contro il beneplacito della Chiesa. Quest'anno cadde anche la torre del castello di Bibbianello. È Bibbianello un castello della fu Contessa Matilde, nella diocesi di Reggio, sulle colline, ove s'innalzano quattro castelli vicini gli uni agli altri; e l'uno dista dall'altro quanto è la gittata d'una balista. E il primo si chiama Montevecchio; il secondo Bibbianello, in cui abita Guido di Canossa con Bonifazio suo fratello; il terzo si chiama Monte-Luncilo, nel quale non è che la chiesa di S. Leonardo; il quarto si chiama Mongiovanni, ove abita un sacerdote vecchio, vecchissimo, carico d'anni che ha nome Gherardo e fa molto di bene; nessun altro vi è tranne le persone di suo servigio, ed è addetto alla Chiesa di S. Nicolò. E nota che questi quattro castelli in antico furono comodamente abitati da cavallieri e donne, e vi ebbero torri e palazzi, che ora sono diroccati, e i resti dei caseggiati e le fondamenta sono lasciati in abbandono. Ci pensino i padroni! I quali si sono assottigliati di famiglia, e sono bersagliati da tribolazioni e da dolori. Lo stesso anno, verso il giorno di S.ª Lucia, morì di improvviso, senza precedente malattia, nel suo letto, Barnaba, che si soprannomava della Regina, oriondo di Reggio. Egli fu mio molto amico, ed era il divertimento de' chierici, canonici, prelati, cavallieri, baroni, e di tutti quelli che cercavano di divertirsi in sentirlo parlare, essendo che parlava benissimo francese, toscano, lombardo e molte altre lingue, e sapeva contraffare i fanciulli quando [157] parlano coi fanciulli, le donne quando in famigliare discorso cinguettano de' fatti loro con altre donne loro comari; e così era destro a contraffare i predicatori antichi, imitando quelli che predicavano al tempo dell'allelluia, allorchè si arrogavano di far miracoli, come a que' giorni ho visto io co' miei occhi. Eglino furono frate Giovanni da Vicenza dell'Ordine de' Predicatori, che faceva miracoli a Parma; frate Giacomino da Parma che li faceva a Reggio, e perciò si diceva da Reggio, ed era dell'Ordine de' Predicatori; frate Ghirardo di Modena, dell'Ordine de' Minori, che girava quà e là per l'Italia e predicava benissimo in Milano; e molti altri, ch'io vidi e conobbi, la cui memoria sia con Dio, e così sia. Così nello stesso anno morì maestro Rolando da Parma, il cui padre era chiamato maestro Taverna, bell'uomo e cortese, e bravissimo sartore, che faceva gli abiti dei nobili. Questo maestro Rolando andò a Parigi assai povero, ove studiò per molti anni molte scienze e diventò un illustre chierico e letterato, e si fece denaroso, ricco e rinomatissimo. Quando poi Papa Nicolò III creò una serie di Cardinali, fra cui c'era anche Gerardo Albo di Gainago (che è una villa della diocesi di Parma) assunse questo maestro Rolando al vescovado di Spoleto. Papa Martino IV poi lo tolse da Spoleto e lo mandò in Francia a raccogliere nota de' Miracoli di S. Lodovico Re di Francia di buona memoria, che voleva canonizzarlo e ascriverlo all'albo dei Santi. Al quale ufficio soddisfece ottimamente; e quando, reduce dalla Francia lo vidi a Reggio, mi disse che portava al Papa la storia di settantaquattro miracoli, che Dio, per amore del Re suo servo ed amico, aveva operati sopra diversi malati, miracoli tutti provati per mezzo di attendibili testimoni, e diligentemente registrati da notai, e con tutte le più legali forme autenticati. E quando Papa Martino vide queste cose ne fu lietissimo; poichè egli stesso, prima di essere Pontefice romano, [158] era stato collettore dei miracoli del Re di Francia, ma dopo che fu Papa, sostituì a se stesso maestro Rolando. Perciò il Papa lo retribuì del lavoro fatto, dandogli un Vescovado più cospicuo in Francia, del quale, prevenuto dalla morte, non ricevette l'investitura; e morì anche il Papa lo stesso anno, e non potè, come stava in cima a' suoi desiderii, canonizzare S. Lodovico Re di Francia di buona memoria. Forse questa canonizzazione è riserbata per altro Papa. Questo maestro Rolando Vescovo di Spoleto fece in Parma alcune opere per qualche riguardo degne di ricordo. Nella Chiesa di S. Sepolcro, dove stanno i frati di S.ª Fenicola, eresse a sue spese una bellissima cappella sorretta da colonne di marmo, rasente la strada, e la dotò convenientemente a celebrarvisi, come voleva, ne' tempi e ne' giorni permessi, una messa da morti per le anime di suo padre, di sua madre e de' suoi parenti, che ivi sono sepolti. Come pure vicino alla Chiesa maggiore, che è della Vergine gloriosa, e vicino all'ingresso di S. Giovanni Evangelista, ove abitano i monaci, comperò le casamenta del fu Gerardo da Correggio (padre di Guido e di Matteo) e fece alzare alte muraglie per fabbricarvi un palazzo; e di dietro a queste comperò le case de' Boveri, e vi fece fare muraglie e pometi, e appartamenti a diversi piani per abitarvi e riposare quando andasse a Parma. Così pregato dai frati Umiliati del Paullo[90], che abitano presso a Parma fuori porta S. Benedetto, volle comprare il convento e le terre, che essi ivi avevano, come egli ha contato a me, e dar loro mille lire imperiali, per passarvi la state, e per ritirarvisi quando fosse che gli piacesse; ma siccome volevano duecento lire imperiali più di quante egli ne [159] voleva dare, si sciolsero le trattative del contratto, perchè chi munge con troppa veemenza ne trae il sangue, come è detto ne' Proverbii 10.º. Così presso Gainago comprò ampie possessioni cioè tutta la villa di Sinzanese[91] (che una volta fu di Tomaso di Ugo Armario, e poi di Antonino de' Buzzoli, da cui le comprò) e le diede a certi frati oltramontani, che sono dell'Ordine della Chartreuse, e si assomigliano ai frati Predicatori nell'abito nero, come ho veduto io co' miei occhi quando venuti a Parma per prendere possesso personalmente del tenimento loro donato, nel giorno dell'Assunzione della beata Vergine vennero a sentir messa alla Chiesa de' Frati Minori. E nota che Rolando Taverna, di cui abbiamo più sopra parlato, fu sempre duro e burbero, e non mai famigliare e umano verso i Religiosi di Parma, e nulla loro legò neppure in morte. E tutti i Parmigiani, chierici, laici, uomini, donne, nobili e popolani hanno comunemente questa qualità e questa maledizione nelle ossa, di essere poco devoti, e duri e crudi coi Religiosi e cogli altri servi di Dio, siano dei loro, siano forestieri. Il che sembra essere pessimo segno dell'ira di Dio sul loro capo.... Ed in Ezechiele 16.º... che sta bene e si può applicare ai Parmigiani per la durezza e nessuna loro misericordia verso i poveri servi di Dio... e perciò io frate Salimbene Parmigiano sono stato già quarantott'anni nell'Ordine de' frati Minori, ma non volli mai abitare in mezzo ai Parmigiani per la niuna loro devozione, che in apparenza e di fatto non hanno verso i servi di Dio. E non si curano di far loro alcun bene, quantunque lo potrebbero e saprebbero fare benissimo, se n'avessero voglia, perchè cogli istrioni, co' giullari e coi mimi largheggiano, e ai cavallieri, che si dicono della [160] Corte, a l'ho visto io co' miei occhi, fecero talvolta di magnifici regali. Certo è che, se vi fosse in Francia una Città grande come è Parma in Lombardia, vi potrebbero abitare e vivere con decoro ben cento frati Minori con abbondanza di tutto quello che occorre. Però nel sussegnato millesimo Gerardo Albo, Cardinale della Corte romana, che è di Parma, fece una limosina ai frati Minori di Parma, regalando al convento venti lire imperiali, e altrettanto ai frati, che si recarono a lui come nunzii nella Corte, alla quale si trovava; i quali erano anch'essi Parmigiani, cioè frate Ghirardino Rangone e frate Francesco Torniglio; ciascuno de' quali ricevette dieci lire imperiali, e quindici ne mandò a Guglielmo Rangone di Parma, in grazia di frate Ghirardino, che era figlio di lui. Anzi il Cardinale mandò invitando Guglielmo Rangone ad andare e star seco in Corte; e accettò e in quella Corte si elevò a rara grandezza. Il suddetto Cardinale fece anche fabbricare a sue spese un bello e buono dormitorio per le donne della Religione Vecchia di Parma, perchè in quel monastero aveva una sua sorella. Parimente donò cento lire imperiali alla Chiesa matrice di Parma, che è della beata Vergine gloriosa, perchè vi si facesse una buona campana, e fu gettata buona, anzi ottima e sonora. Così ai frati Predicatori largì duecento lire imperiali perchè si fabbricassero la loro Chiesa; e la fabbricano ora che sono ritornati dalla loro schiavitù di Babilonia, già riconciliati coi Parmigiani, che li avevano costretti a fuggire per cagione del rosolamento di donna Alina; schiavitù di Babilonia che per loro ha durato molti anni. In questo stesso millesimo, la vigilia di San Martino Pietro d'Aragona morì di morte naturale, ed il guardiano de' frati Minori lo confessò, e fu sepolto a Villafranca[92] nel convento [161] de' frati Minori. E furono inviati messi a Papa Onorio IV supplicandolo di frapporsi e mettere in concordia i figli di Pietro d'Aragona coi figli del Re di Francia, i quali si dice che siano consanguinei; e il duca d'Austria, che aveva moglie una sorella di Pietro d'Aragona vi si pose in mezzo paciere. Questo Pietro Re d'Aragona fu uomo magnanimo, forte guerriero, e dotto nell'arte militare, audace e assai intraprendente, come lo dimostra chiaro l'impresa del Regno di Sicilia, nella quale ardì por piede contro il volere e le armi di Re Carlo e Papa Martino. La sua arditezza appare chiaramente anche da altro fatto, che ora narrerò. Tra la Provenza e la Spagna s'erge un monte altissimo, che dagli abitanti di quella regione, si chiama monte Canigoso, e che in nostra lingua si chiamerebbe Caliginoso. Questo monte è la prima terra che appare ai naviganti che arrivano, ed è l'ultima a scomparire a quei che partono; e dopo questa non possono più vederne altra. Su questo monte non abitò mai uomo; nè figlio d'uomo osò mai salirvi su per la smisurata altezza e per la fatica e la difficoltà della salita: alle pendici però del monte vi sono abitanti. Or dunque essendosi proposto Pietro d'Aragona di salirvi sopra per vedere e toccar con mano che cosa vi fosse sulla vetta del monte, chiamati due cavalli eri suoi intimi amici, cui amava intrinsecamente, espose loro ciò che s'avea proposto di fare; i quali se ne rallegrarono, e promisero che non solo serberebbero il secreto, ma che inoltre non si dividerebbero mai da lui. Preso adunque vitto ed armi all'uopo, lasciati i cavalli alle falde del monte, dove erano abitanti, cominciarono a salire grado grado a piedi: e montati già molto in alto, cominciarono a udire terribili e paurosi tuoni, e guizzavano lampi e saette, e imperversava grandine e bufera. Di che spaventati caddero a terra come esanimi, non tanto per l'orrore del presente, quanto per il timore del futuro. Ma Pietro, che era più robusto di corpo e più forte di animo, e che voleva dare [162] adempimento al desiderio del suo cuore, li confortava a non ismarrirsi di coraggio tra quelle tempeste e quei dolori, dicendo che alla fin fine anche quel travaglio frutterebbe loro onore e gloria; e dava loro mangiare, e mangiava con loro, e dopo la fatica concedeva riposo, e di nuovo li inanimava a salire da bravi con lui. E questo fu detto e fatto più volte. Finalmente que' due compagni di Pietro cominciarono a venir meno, sicchè, per la eccessiva stanchezza, e il cammino e lo spavento de' tuoni, appena potevano respirare. Allora Pietro li pregò di fermarsi e aspettarlo sino alla sera del giorno seguente, e se a quel tempo non fosse di ritorno a loro, scendessero pure, e andassero dove loro gradisse. Salì dunque Pietro solo con gran fatica, e giunto alla vetta, vi trovò un lago, nel quale gettando una pietruzza, ne saltò fuori un drago orribile e gigantesco, che cominciò a svolazzare per l'aria, e l'aria diventò tenebrosa e scura per l'alito che mandava. Dopo di che Pietro cominciò la discesa, e ai compagni riferì, espose e narrò quanto aveva veduto e fatto; e lungo la discesa comandò loro di ripetere, a chi loro piacesse, queste cose. Mi pare che questo fatto di Pietro d'Aragona si possa annoverare tra le meraviglie del genere di quelle d'Alessandro, il quale, per acquistarsi gloria, volle misurarsi in molte e tremende imprese. Di Re Carlo è da sapere che fu uomo magnanimo, prode dell'armi e dotto nell'arte militare, e che per acquistarsi fama si esponeva a molti pericoli, il che si fece palese in fatti all'evidenza provati. E prima di tutto, quando uccise Manfredi, Principe del Regno di Sicilia e figlio del fu Imperatore Federico. Poi quando uccise Corradino, che era figlio del suddetto fu Imperatore Federico; e parimente si acquistò fama in molti altri combattimenti. Egli avendo un giorno udito che un certo cavalliere della Campania, tra Roma e Terra di Lavoro, vinceva tutti in singolare certame, sì Francesi che Lombardi, comandò al Principe suo figlio di sfidarlo, e divolgare [163] la fama che un nuovo cavalliere era pronto a misurarsi col cavalliere della Campania. Il che avendo udito il figlio suo, come meglio seppe e potè, tentò distorre il padre dal proposito, dicendo che quel cavalliere era fortissimo, robusto e destro nel combattimento, e poi perchè vi è sempre un eccelso al disopra dell'eccelso, ecc. Ecclesiaste 5. Il padre non volle piegarsi alla preghiera, nè dare ascolto al figlio, e fissò il giorno al duello. E nel dì prefisso trovandosi tutti e due pronti al posto e all'armi, dopo il terzo suonar della tromba, cominciarono a corrersi incontro ed urtarsi, e l'un forte contro l'altro forte tanto fortemente cozzò, che tutti ne ebbero meraviglia, nè caddero di cavallo, e nemmeno si scossero sulla sella del loro destriero; e l'uno calò al volto dell'altro tale fendente, che le spade, dell'uno che colpiva e dell'altro che parava, si fransero dalla punta all'elsa. Volle poi Re Carlo misurarsi colla clava, e a sua scelta ne sostenne il primo colpo. Ma il cavalliere della Campania fu sopra lui come nibbio sopra un uccelletto, e come sparviero sopra un'anitrella, e tenendo la clava a due mani, calò si fiero un colpo sul capo di lui, che se avesse colto in pieno, senza dubbio ne sarebbe caduto esanime. Ma il colpo scivolò dal capo all'omero e lungo il busto, e battè in pieno sulla sella tanto potentemente, che il cavallo piegò le ginocchia, e Carlo ne restò stordito con due coste rotte. Il Principe suo figlio lo condusse alla tenda, e gli altri cavallieri, spogliatolo dell'armi, riconobbero che era Re Carlo, e restarono meravigliati. La qual cosa risaputasi dal cavalliere della Campania, si lasciò vincere dal timore, inforcò la sella del suo cavallo, e si diede alla fuga, e stettesi nascosto per buon tempo nella Marca d'Ancona. E Carlo, dopo rinvenuto, chè il colpo l'aveva come fatto uscire di sè, domandò al figlio se quel cavalliere l'aspettasse tuttavia sul terreno, perchè voleva alla sua volta [164] fare il suo colpo. Ma il figlio rispose: Statevene pure in tranquillo, chè i medici dicono che avete due costole rotte. Tanto fece e sostenne Re Carlo per onore della Francia; poichè non voleva che nessun Lombardo avesse fama di gagliardia maggiore di quella de' Francesi. E noto che questi quattro, di cui si è parlato, furono robusti cacciatori al cospetto di Dio.... Papa Martino volle pertinacemente soggiogare la Romagna, e ottenne il suo intento, e per acquistarla molti perirono di spada e molti ci spesero tesori. Re Carlo condusse l'esercito contro il Principe Manfredi e contro Corradino, e vinse; Pietro Re d'Aragona guerreggiò ed occupò il Regno di Sicilia contro Carlo, e invase la Puglia. Il Re di Francia poi, per vendicare lo zio Carlo, gettò in Ispagna un grosso esercito di Francesi contro Pietro d'Aragona; e tuttavia nel breve giro d'un solo anno passarono tutti nel novero dei più.... Ma Primasso nel trattato Della vita del mondo, disse benissimo:

Heu! Heu! mundi vita,

Quare me delectas ita?

Cum non possis mecum stare.

Quid me cogis te amare?

Ahi vita! Ahi vita! perchè mai cotanto

Il tuo m'alletta lusinghiero incanto!

Perchè mi leghi a te d'amor si forte,

Se teco vien necessità di morte?

Nel millesimo sopraddetto, cioè nel 1285, gli eredi di Ghiberto da Gente figli e nepoti, furono dai Parmigiani totalmente espulsi dalla villa di Campeggine. E causa di questa loro espulsione fu non solo un vecchio odio contro il padre loro, cioè contro Ghiberto da Gente, ma un odio recente contro i figli. Perocchè dell'odio paterno si può dire quel che si legge in Ezechiele 18º. Delle colpe di Ghiberto [165] da Gente, per le quali i Parmigiani lo presero a odiare, ne fu detto più sopra abbastanza largamente, ma se ne tacquero alcune, che ora si debbono trarre in luce. Essendochè quand'egli teneva la signoria di Parma, avendo Papa Innocenzo IV, che allora aveva residenza a Napoli, mandato invitando Bertolino Tavernieri di andare da lui, perchè aveva Elena di lui nipote per moglie, e perchè lo voleva fare Podestà di Napoli; e Bertolino avendone chiesta licenza a Ghiberto da Gente, e questi avendogliela concessa, gliela ritolse dopochè con enorme spesa aveva già fatti gli apprestamenti pel viaggio; e oltracciò lo confinò a Noceto, dove aveva i suoi possedimenti, e vi passò molti giorni e molte notti con animo sempre agitato e in timore e in aspettazione di insidie da parte de' suoi nemici; e massimamente del Pallavicini, che lo odiava, e teneva allora la Signorìa di Cremona. E quando di notte udiva romori, e ne udiva di frequente, usciva ai campi col suo destriero, e tutta notte, in veglia, stava aspettando all'aperto, come pronto a fuggire. Vedendo poi Bertolino che Ghiberto da Gente non gli perdonava, nè lo riammetteva in Parma, come gli aveva promesso, ruppe il confino, e andò a Papa Innocenzo IV, che lo aveva invitato; e lo fece Podestà di Napoli, e durante la Podesteria di lui, il pontefice morì, e fu sepolto in Duomo. Ed Alessandro IV fu eletto Papa per arti del Podestà Bertolino, il quale rattenne i Cardinali dall'uscire dalla città fino a che non avessero eletto il Papa. E Papa Alessandro non fu ingrato al ricevuto beneficio, anzi provvide del suo tesoro a Bertolino finchè visse; e l'anima sua per la misericordia di Dio riposi in pace, perchè fu uomo cortese, valoroso, potente, ed intimo mio amico. Ma Ghiberto da Gente fece devastare le possessioni di lui e diroccarne i palazzi, perchè era uscito di confino, ed era andato al Papa, che lo aveva invitato. La qual cosa da parte di Ghiberto fu non solo una bestialità, ma [166] anche una pazzia, perchè quando il superiore comanda, e l'inferiore contraddice, questi non ha diritto di essere obbedito.... Di Bertolino non rimasero discendenti, nè di Giacomo suo fratello, che morì dopo lui, e lasciò le sue ricchezze ai Templarii; e così il casato di Bertolino Tavernieri di Parma, che ai tempi di Federico Imperatore era stato un nobilissimo barone, si è spento completamente, e a lui si attaglia a capello quel detto: Tesoreggia e non sa perchè.... Quando Ghiberto da Gente dominava in Parma, il Pallavicino dominava in Cremona. E quando talora parlava in famigliarità col Pallavicino, questi gli diceva: Ah! Dio, e non avrò io mai la signoria di Parma? e, in così dire, gettava violentemente contro terra la spada, a dimostrare che per questa cosa montava in ira. Ma Ghiberto da Gente non gli voleva cedere la Signoria di Parma, anzi voleva tenersela stretta, perchè ne traeva non solo onore, ma anche un grosso emolumento. Tuttavia volle usar grazia al Pallavicino di lasciarlo entrare in Parma con 500 armati, coi quali, quasi pavoneggiandosene, cavalcò più volte per città, ma i Parmigiani tenevano gli archi tesi, quasi volessero lanciar saette contro alcuno, e così spaventarli a ciò si partissero da Parma. E Ghiberto da Gente godeva che se ne partissero, perchè temeva, se fossero rimasti a lungo in città, che gliene rapissero la Signoria. Un dì avvenne che dovendo passare il Pallavicino co' suoi armati per la via di Cò di Ponte, dove abitano i Marchesi Lupi, uno di questi comandò al suo servo che sotto il portico, che correva lungo la strada, gli lavasse i piedi in una conca, volendo dimostrare al pubblico che si curava tanto del Pallavicino, quanto della coda di una capra. Abitavano una volta tanto i Marchesi Lupi che i Pallavicini in una villa, che si chiama Soragna, nella diocesi di Parma, a cinque miglia a settentrione di Borgo S. Donnino; e questa vicinanza d'abitazione dava origine a molte gare vivacissime. [167] Il Pallavicino pertanto non potè avere mai, siccome desiderava, la Signoria di Parma, e Ghiberto da Gente che aveala, col tempo la perdette. Ghiberto da Gente adunque, oltre le preaccennate colpe, aveva anche queste, onde fu fortemente in odio ai Parmigiani.... Meglio operò Guido da Polenta, che abitava a Ravenna, il quale si prese buona vendetta, ma non volle sorpassare la misura. Di fatto quand'egli era ancor fanciullo, e l'Imperatore teneva in carcere, come ostaggio, il padre di lui, Guido Malabocca, fratello del Conte Ruggero di Bagnacavallo, s'adoperò perchè l'Imperatore gli mozzasse, o facesse mozzare, il capo; ed egli, fatto adulto, rese la pariglia a Guido Malabocca. Ma andando poi, dopo alcun tempo a Bagnacavallo con molti armati, ed incontrando lungo la via, in compagnia di pochi, il Conte Ruggero, e consigliandolo i suoi compagni di viaggio di sbarazzarsi compiutamente anche del Conte Ruggiero stesso, per togliersi d'intorno ogni timore, egli rispose: Abbiam fatto abbastanza; ci basti quanto abbiamo fatto; di male se ne può sempre fare; ma fatto che sia, non si può più rimediare. E così lo lasciò andare libero... Del nuovo odio poi degli eredi di Ghiberto da Gente si può dir questo. È da sapere che ebbe un figlio di nome Pino. Costui colle sue male opere provocò in mille maniere i Parmigiani contro gli eredi di suo padre. Anzitutto invase contro i Parmigiani Guastalla e la prese e volle tenerla occupata; poi prese moglie e la fece poscia uccidere; d'onde per divina sentenza molti guai piovvero sul suo capo. Costei voleva sposarla il padre di lui, quando esiliato dai Parmigiani dimorava in Ancona; ma Pinotto solleticato dalla cupidigia delle ricchezze, o dall'avvenenza di quella donna, precorrendo al padre, gliela surrepì, e se la tolse per se. Essa aveva nome Beatrice, era una Pugliese che abitava in Ancona, aveva tesori, era bellissima, vivace, sollazzevole, liberale, cortese e molto [168] esperta nel gioco degli scacchi e dei dadi. Abitava con Pino suo marito a Bibbianello (che una volta era castello della Contessa Matilde) e di frequente veniva con altre donne al convento dei frati Minori di Monfalcone per fare una gita, e per conversare coi frati. Ed io allora appunto ivi abitava; e mi disse parlando meco confidenzialmente, che la volevano uccidere, e indovinai chi poteva essere che tramava insidie alla sua vita; e gliene espressi le mie vivissime doglianze, e le suggerii di confessarsi, e di vivere sempre in grazia di Dio, per essere ad ogni momento preparata alla morte.... In quel tempo Pino partì da Bibbianello molto sdegnato contro Guido suo consanguineo, come ho veduto io coi miei occhi; condusse seco la moglie sua a Correggio, che è una villa della diocesi di Reggio, ove da un suo scudiero di nome Martinello, la fece soffocare con un piumaccio, e fu sepolta nella stessa villa; e di lei rimasero tre ragazze che sono una bellezza. E, siccome è scritto che Dio non permette che resti invendicato... e perciò sono da dire alcune cose intorno alle sventure che colpirono il marito di lei. Prima di tutto, venne in odio non solo ai Parmigiani, ma anche ai consanguinei ed ai nepoti; in secondo luogo, fu preso dagli assassini di Sassuolo, i quali per riscatto gli tolsero i cavalli e duecento lire imperiali; terzo, avendo voluto svaligiare, per una sua vendetta, un tale che viaggiava per la strada pubblica di Parma, i Parmigiani mandarono alla villa di Campeggine, ove aveva le sue possessioni, e fecero arare tutti i suoi seminati, e le già nate seminagioni, e coprirle di terra, e distruggere 14, o 20 sue case che aveva in Campeggine stesso; quarto, dopo la morte della prima moglie, cui fece uccidere, prese una cert'altra donna, che per molti impedimenti da ambe le parti, sua moglie non poteva essere (questa aveva nome Beatrice, come la prima, leggiadrissima, figlia di Bonacorso da Palli; e la [169] sposò vedova del primo marito Atto da Sesso); quinto ed ultimo, imprigionò di nuovo alcuni uomini, cui una volta teneva tra ceppi in carcere, e li aveva prosciolti; nè volle che per danaro si riscattassero, quantunque non gli avessero mai fatta offesa, e non avessero verso lui obbligo alcuno non soddisfatto. Essendo stato dai Parmigiani cacciato in bando, e non desistendo dal mal oprare, diede ragione ai Parmigiani di espellere dalla villa di Campeggine non meno lui che tutti gli eredi di Ghiberto da Gente. Questo Pinotto fu chiamato anche Giacomino, e fu uomo bello e magnanimo, audace, franco, e a uso dei Parmigiani, superbo. Egli aveva due sorelle, una, moglie a Gherardo figlio di Bernardo di Rolando Bossi, di nome Aica; l'altra, di nome Mabilia, che era di natura altiera e disdegnosa, moglie a Guido di Correggio; e, quando cominciò a malare dell'ultima malattia, di cui morì, d'improvviso perdette la parola; e di lei rimasero diverse figlie e due figli. Lombardino poi, fratello di costoro, ebbe moglie un'avvenentissima Pavese, di nome Aldessona, da cui gli nacquero figli e figlie; e Lombardino fu il primogenito di Ghiberto da Gente, che a grande onore lo fece creare cavalliere quando aveva ancora la signoria di Parma. Chiunque poteva, in quel tempo, lo regalava a larga mano, e chi regalava credeva d'aver ricevuto grazia singolare, se Ghiberto non sdegnava di accettare. Altrettanto fu di Giacomo Tavernieri quando fu fatto cavalliere, al tempo in cui suo padre Bertolo era in fiore a Parma alla testa del partito imperiale. Nel millesimo sussegnato vi fu anche estesa malattia e morìa di gatti, i quali colti dal morbo diventavano come lebbrosi e scabbiosi, e poi morivano. Così pure nello stesso millesimo, nel mese di Novembre[93], il giorno di San [170] Calisto, verso oriente, sull'albeggiare, apparvero due stelle come congiunte, e così ogni notte si mostrarono per molti giorni, sinchè verso il dì d'Ognissanti cominciarono a disgiungersi ed allontanarsi l'una dall'altra. E allora si stava appunto trattando per la pacificazione de' Modenesi, la quale era cosa molto intricata, perchè il progetto che si presentava non gradiva ai Modenesi della città; e i Modenesi che erano in Sassuolo ne erano soddisfattissimi, riconoscendo che i giudici di quel arbitrato erano loro favorevoli. Gli arbitri poi erano Guido da Correggio e Matteo suo fratello germano. Nello stesso millesimo Papa Onorio IV, prima del Natale, creò un Cardinale, che era di sua famiglia, per supplire alla vacanza lasciata dal Cardinale Vescovo di Frascati, morto in quell'anno. Questo novello Cardinale era stato Arcivescovo di Monreale in Sicilia. Così in quell'anno Gherardino da Enzola fu condannato dai Parmigiani a pagare mille lire parmensi, e le pagò puntualmente; e la cagione della condanna fu questa. Suo padre Giacomo da Enzola fu Podestà di Modena, ed ivi malatosi, morto e sepolto nella chiesa maggiore, fu ad onore dipinto sulla tomba a cavallo, da cavalliere. E siccome fu a tempo della sua podesteria che avvennero que' misfatti e quegli omicidii, che furono il principio della successiva discordia e guerra in Modena, quella cioè che s'accese tra le diverse fazioni Modenesi, e non ne era stata presa vendetta e giustizia... i Modenesi provocati, sdegnati, turbati, e accesi d'ira, considerando i guai che loro ne erano derivati, cavarono gli occhi al ritratto del Podestà, e cacarono sulla tomba di lui; in seguito poi mandarono a Parma due ambasciatori, uomini del popolo, uno de' quali nel Consiglio degli anziani di Parma pronunciò molti oltraggi ed ingiurie contro Giacomo da Enzola, padre dell'or defunto Gherardino. Provocato adunque Gherardino da Enzola dal linguaggio di quell'ambasciatore, fece quel che dice la [171] scrittura, Ecclesiaste I.: Sino a tempo opportuno porterà pazienza. Di fatto, quando quell'ambasciatore, che aveva profferite parole d'oltraggio contro suo padre, fu in viaggio per ritornare a Modena, Gherardino lo seguì con alcuni giovani audaci sulla strada, e, in quel della diocesi di Seggio, lo ferì gravemente e tanto sconciamente che ne restò sformato, non però ucciso; e quindi i Parmigiani lo condannarono ad una multa di mille lire parmensi. Ho detto tutte queste cose per dimostrare che i Parmigiani operarono saviamente a far giustizia, e aveva operato male chi non l'aveva fatta in Modena. E noto che questo Giacomo da Enzola prese moglie una vedova di Padova, detta Marchesina, trovatagli da Matteo da Correggio, quand'era Podestà di Padova. Da questa donna Giacomo ebbe in dote una somma ingente, cui diede a mutuo, e co' frutti ne comprò campi, vigne ed estese possessioni nella villa di Poviglio[94], e diventò ricco e grande assai. In Parma poi comprò la mia casa, che era presso il battistero[95], e gli fu quasi regalata, cioè la ebbe per vilissimo prezzo, secondo la stima che ne faceva mio padre, e che veramente era da farsene. Giacomo fu dappoi fatto cavalliere sulla porta del battistero che guarda verso la piazza, e andò a Modena ad assumere la Podesteria, a cui era stato eletto dai Modenesi; e prima di finire la sua Reggenza, finì la vita, e morì d'una malattia di gola, che i Greci chiamano apoplessia. Si confessò da frate Giacomino da Porto di Modena, e con lui aggiustò le cose dell'anima. Lasciò ai frati Minori di Parma dieci lire imperiali, e altrettante ai frati Minori di Modena per l'anima sua e per il mal tolto, [172] e l'anima sua per la misericodia di Dio risposi in pace.... Di lui rimase una figlia di nome Aica, che ebbe per primo marito Gherardino degli Arcili; di cui rimasta vedova, sposò Ezzelino figlio del fu Aimerico da Palù; da cui le nacquero figli e figlie. Il fratello poi della prenominata Aica, e figlio di Giacomo da Enzola ha nome Gherardino; giovane largo, liberale, cortese, e che vive onorificamente. L'avolo di Giacomo si chiamava Guidolino da Enzola, uomo di mezzana statura, ricco, grande e molto di chiesa, ed io l'ho veduto le mille volte. Egli si divise dagli altri da Enzola, che abitavano nella strada di S. Cristina, e venne ad abitare presso il duomo, ove ogni dì assisteva ad una messa e a tutto l'ufficio diurno e notturno nelle ore in cui si recitava. E quando non era occupato nell'assistenza dell'ufficio divino, sedeva co' suoi vicini sotto un portico publico presso il palazzo del Vescovo, e parlava con loro di Dio, oppure stava ascoltando chi ne parlava. Non tollerava che alcun ragazzo lanciasse sassi contro il battistero, o contro il duomo, e portasse guasto alle sculture e alle pitture. E quando lo vedeva, se ne irritava, gli correva dietro, e raggiuntolo, lo batteva a colpi di correggiuolo, come se ne fosse ivi destinato a guardia, mentre lo faceva soltanto per zelo e amore di Dio, quasi ripetesse quel detto profetico.... E il sunnominato, oltre al giardino, la torre e il palazzo ove abitava, aveva anche molte altre case, un forno ed una cantina; e una volta la settimana, sulla pubblica via, presso casa sua, come ho veduto io più volte co' miei occhi, faceva una limosina generale a tutti i poveri della città, che si presentavano, consistente in pane, fave cotte e vino. Egli fu molto amico e uno dei principali benefattori dell'Ordine de' frati Minori. Ebbe da sua moglie (che era sorella di Gherardo da Correggio, detto anche dai Denti, padre di Matteo e di Guido) due figli, cui, come ho [173] veduto io co' miei occhi, giunti all'età virile, fece cavallieri egli stesso; e l'uno aveva nome Matteo, e l'altro Ugo, e tuttadue furono miei speciali amici. Questi due fratelli, allorchè Parma si ribellò all'Imperatore furono dall'Imperatore presi e tenuti in carcere; e, in seguito, furono sepolti nel convento de' frati Minori di Parma. Da Matteo poi, che ebbe moglie Richeldina, sorella di Bernardino Cornazzani, nacquero tre figli, cioè Bernardo da Enzola, che fu cavalliere e valoroso personaggio, e Podestà di Perugia quando colà aveva residenza Papa Clemente IV. (Questi fu mio amico e me lo dimostrò a fatti, perchè quando io fui a Perugia, ed egli vi era Podestà, mandò subito cercandomi, e mi affidò una missione alla Corte del Papa. Egli mori troppo presto, come gli altri suoi fratelli, ma lasciò figli). Secondogenito di Matteo, figlio di Guidolino da Enzola, fu Giacomo, Podestà di Modena, di cui s'è parlato abbastanza più su. Il terzogenito fu Guido, che ebbe moglie una figlia di Albertino dei Turcli di Ferrara, d'onde gli nacquero più figli, uno de' quali si chiama Turclo, bandito dai Parmigiani come uomo pestifero e maledetto; sendochè a molti altri misfatti, di cui era macchiato, aggiunse anche quello d'aver ucciso crudelissimamente di lancia, mentre sedeva a mensa e secolui pranzava, l'Abbate del monastero di Brescello senza che questi alcuna colpa avesse.... Da Ugo poi, figlio di Guidolino da Enzola, ammogliato con Luchesia del Monastero, cioè di San Marco, discesero due figli, di cui uno di nome Guglielmo, e l'altro Matteo, e due figlie, una che diventò moglie di Giacomino dei Panzeri di Reggio, che non ebbe figli; l'altra si maritò con Bonacorso di Montiglio[96], dalla quale ebbe molti figli. Dopo queste cose, irritata Luchesia contro i figli, prese per marito Ghirardino figlio di Lanfranco da Pisa di Modena, la [174] quale poi gli morì senza aver avuto da essa alcuna prole. Così Guidolino da Enzola, avolo di tutti i sunnominati, ebbe una figlia, Richeldina, donna lasciva e mondana, presa per moglie da Giacomino di Beneceto[97], dalla quale gli nacquero due figli, Arpo e Pietro. Giacomino degli Arpi fu bel cavalliere e ricchissimo di possessioni, case e tesori; ma consumò e dissipò tutto in banchetti, istrioni e cortigianerie, sicchè i figli suoi, come a me lo contava piangendo Arpo uno di loro, non avevano di che mangiare se non andavano accattandone dagli altri. Così Arpo di Beneceto, fratello germano del predetto Giacomino, entrò nell'Ordine de' frati Minori con Bernardo Bafoli, quasi subito dopo che a Parma si cominciarono a conoscere i detti frati. Ma Bernardo Bafoli era un cavalliere ricchissimo, famoso e di gran reputazione in Parma, magnanimo, prode guerriero e dotto nell'arte militare. Questi sul principio del suo noviziato nell'Ordine dimostrò un vivissimo fervore nell'adempiere coll'opera il detto apostolico che sta scritto nella 13ª agli Ebrei: Usciamo dunque con Gesù fuori della porta portando il suo vitupero. Di fatto, all'insaputa de' frati fece montare su d'un cavallo un suo uomo, e da un altro si fece legare alla coda del cavallo stesso, e comandò che lo sferzassero camminando per la pubblica via della città, e a tutta gola gridassero: Dalli al ladro, dalli al ladro. Ed essendo arrivati al portico di S. Pietro, dove i militi, secondo l'uso, stanno a sedere in ora di riposo e si divertono, credendo essi che fosse veramente un ladro, cui bastonassero per i di lui misfatti, cominciarono anch'essi a gridare: Dalli al ladro, dalli al ladro. Allora Bernardo, sollevata la faccia, disse loro: In verità, avete detto bene dalli al ladro, perchè sino ad ora son vissuto come un ladrone contro Dio altissimo, e contro [175] l'anima mia; e perciò sono ben degno di essere sferzato. E, ciò detto, comandò a' suoi uomini di continuare il cammino e le sferzate sino a fuori di porta. Ma quelli che stavano a sedere sotto il portico quando ebbero conosciuto che era Bernardo Bafoli, se ne dolsero, e tocchi nel cuore dissero: Oggi abbiam veduto miracolo; benedetto Dio che umilia e che esalta, e fa misericordia a cui egli vuole, ed indura chi egli vuole ai Romani 9º. (Questa fu alla lettera un'ispirazione, un cambiamento operato dalla destra di Dio, perchè molti animati ed eccitati da questo esempio abbandonarono il secolo. Allora Bernardo Vizio, associato ad alcuni altri, fondò la religione de' frati di Martorano. Fu allora che si istituì in Parma una religione nuova, cioè di quelli che si chiamavano i militi di Gesù Cristo, nella quale non si ammettevano tranne quelli che prima fossero stati militari; e que' frati si assomigliavano a quegli altri, che ora dai contadini si chiamano Gaudenti, salvo che quelli si chiamavano militi di Gesù Cristo, questi militi di santa Maria. Quelli erano soltanto in Parma, questi si sono già moltiplicati in molte città; ma siccome di queste istituzioni ho già parlato più sopra, non occorre più parlarne. Parimente in quel tempo (cioè quando Bernardo Bafoli si fece sferzare per la pubblica via in Parma) vi erano due fratelli germani, che si fecero frati Minori, de' quali uno aveva nome frate Illuminato, l'altro frate Berardo. Questi due fratelli, che avevano fatto gli usurai, restituirono le usure ed il mal tolto, e per amore di Dio fornirono di vestiario duecento poveri, ed elargirono ai frati Minori duecento lire imperiali, perchè si fabbricassero il convento[98], che allora si stava già costruendo di nuovo nel prato del Comune, ove si teneva in antico la fiera, e dove in quaresima i Parmigiani si [176] esercitavano nell'armi cogli scudi. Anche frate Illuminato mosso da amore di Dio, ad esempio di frate, Bernardo Bafoli, si fece sferzare per le strade della città). Di Bernardo Bafoli poi è da sapere che ebbe una figlia di nome Bernardina, saggia, prudente, santa e devota a Dio, che è Badessa del monastero dell'Ordine di santa Chiara in Parma. Così pure è da sapere che Egidio Bafoli, padre del prenominato Bernardo, quando Costantinopoli fu presa dai latini, gagliardamente ne abbattè una porta con uno di quegli spadoni fatti a quest'uso, come io ho saputo da frate Gherardo Rangone, che era presente e vide. E allora riconobbero i Greci che s'era adempita quella profezia, che stava sculta sulla porta stessa. Perocchè molte profezie ivi si trovano scolpite, sia sulle porte, sia sulle colonne delle porte, le quali non si intendono che quando si sono avverate. Bernardo Bafoli poi, quand'era frate Minore, e nel tempo in cui i Parmigiani erano andati coll'Imperatore a campeggiare contro i Milanesi, accorse un giorno ad un incendio sviluppatosi nel borgo di santa Cristina, e stando colla scure in mano sul comignolo di una casa incendiata, divideva e gettava a destra e a sinistra i legnami per isolare l'incendio. E questo fece a vista di tutti, e tutti lo commendavano dell'opera sua accorta e vigorosa, e giustamente di generazione in generazione ne riceverà onore sempiterno, poichè questa sua buona azione sarà ricordata per molti anni avvenire. Poscia andò alla Terra Santa, ove terminò lodatamente i suoi giorni nell'Ordine del beato Francesco, che è l'Ordine dei frati Minori; e l'anima sua per la misericordia di Dio riposi in pace, chè bene cominciò e bene terminò. Queste cose dette di sopra ho voluto notare, perchè attinenti a persone che per la più parte vidi e conobbi, ed, in breve tempo, di questa vita passarono all'altra....... Se altre più cose avvenissero nel millesimo sussegnato cioè nel 1285, degne di memoria, non ricordo; di queste [177] ho parlato con fedeltà e con verità, perchè le ho vedute co' miei occhi. Basta di quest'anno; or passiamo al successivo.

a. 1286

L'anno del Signore 1286, indizione 14ª avvenne quanto segue. Quest'anno fece un inverno straordinario, e fallirono tutti i proverbi degli antichi, meno uno che dice: Febbraio breve è il più greve (sottintendi: dei mesi dell'anno). Questo proverbio si verificò in quest'anno più che in ogni altro di vita mia; sendochè in questo Febbraio sette volte Iddio diede la neve a misura della lana, e come cenere dissipò la nebbia, e si ebbe freddo intensissimo e gelo......... E si formarono molti semi di ascessi tanto negli uomini che nelle galline, che col tempo si svilupparono. Di fatto in Cremona, Piacenza, Parma, Reggio e in molte altre città e diocesi d'Italia vi fu grande morìa d'uomini e di galline; ed in Cremona ad una sola donna in breve tempo ne morirono quarantotto. Ed un medico aperse il cadavere di quelle galline e trovò l'ascesso nel cuore, trovò cioè una certa vescichetta alla punta del cuore di ciascuna gallina; aperse anche il cadavere d'un uomo, e sul cuore trovò una simile vescichetta. In quei giorni nel mese di Maggio, maestro Giovannino fisico, che abitava a stipendio in Venezia, scrisse ai Reggiani suoi concittadini una lettera, colla quale li consigliava a non mangiare erbaggi, nè uova, nè carni di galline per tutto Maggio. D'onde avvenne che una gallina si vendeva a soli cinque piccoli denari. Tuttavia alcune donne sagaci davano da mangiare alle galline la marrobia pesta, o triturata e mista ad acqua e farro, o farina, e per benefico effetto di tale antidoto le galline si liberavano del morbo e si salvavano. Ritorniamo al principio dell'inverno che fu bello e dolce sino al giorno della Purificazione; nel qual giorno piovve a dirotto, e così non potè aver luogo il proverbio degli antichi, nè si potè ridire quello della Cantica 2º.... [178] E a primavera le piante fiorirono benissimo, ma sopravenne una brina, che in molti luoghi distrusse in gran parte i fiori de' mandorli e d'altri frutti, e le gemme delle viti; e così andò perduta la speranza delle frutta. Tuttavia l'annata fu ricca di prodotti, e si raccolse molto frumento, vino, olio, e copia d'ogni cosa, e vi fu piena raccolta, tranne che Iddio pareva sdegnato cogli ortolani; poichè, per mancanza di pioggia sulla terra, ebbero scarsezza d'erbaggi; ma dell'asciutto s'allegravano molto i fabbricatori del sale, e dei mattoni, che servono alle opere murarie. E nota che non piovve nè in tutto Marzo, nè in Aprile, eccetto che il giorno di S. Giorgio cadde una pioggerellina simile a rugiada, che si ripetè poi in Maggio il giorno di S. Michele; poi Iddio si fece benigno, piovve e la terra portò i suoi frutti. Nell'anno sunnotato fu ucciso Guido da Bibbianello e Bonifacio suo fratello, sui primi d'Aprile, ai 5, cioè il Venerdì dopo la Domenica di Passione, (il qual giorno nel calendario si scrive: ultimo della luna di Pasqua) sul far della sera. Andava Guido da Reggio a Bibbianello con sua cognata Giovannina, moglie di suo fratello Bonifacio, che, solo, li seguiva a tre miglia di distanza, e questi tre senza alcuna compagnia, e inermi, non avevano seco che alcuni ronzinetti. E gli uccisori loro furono: Primo, Scarabello di Canossa, che gittò giù da cavallo Guido, e stesolo a terra, gli assestò un colpo di lancia, nè bisognò il secondo; il secondo a percuoterlo fu Azzolino fratello dell'Abbate di Canossa, figlio di Guido da Albareto[99], che gli mozzò il capo. Gli altri furono Ghibertino da Modolena[100], Guerzo di Cortogno[101], e parecchi altri a piedi e a cavallo, che gli vibrarono molti colpi aprendogli piaga sopra piaga. Giovannina la [179] rimisero a cavallo, d'onde s'era precipitata per stendersi come scudo sopra Guido, colla fede e colla speranza che in grazia di lei lo risparmierebbero (stantechè era loro parente); e camminò tutto quel giorno vagando sola e gemendo nell'amarezza del suo cuore, e giunse a Bibbianello, che era una volta castello della contessa Matilde, e diffuse sinistre voci e piene di spavento. E, quanti le udirono, con alte grida piansero finchè vennero loro meno le lagrime. E le salme dei due fratelli giacquero tutta la notte in quella vasta solitudine. Ma alcuni dicono che Manfredino figlio di Guercio da Assaiuto, che dimora nella villa di Coviolo[102], avendo udite queste cose, mosso a pietà, andò con alcuni uomini e un carro, raccolse i cadaveri di quei due, li mise l'uno accanto all'altro, e li depose nella chiesa de' Templarii, che è a mezzo della via, che va a Bibbianello. All'indomani poi da Bibbianello andarono uomini e portarono le salme degli uccisi a seppellire colle vesti e l'armi loro nelle tombe della famiglia, al convento de' frati Minori di Monfalcone; ed era Sabbato, giorno in cui si cantava alla messa, in vece dell'epistola, quel di Geremia 18º che dice: Saranno le mogli loro senza prole e vedove ecc. E siccome Rolandino di Canossa era fratello consanguineo di Scarabello fu denunziato e accusato al Podestà; poichè Scarabello era stato altra volta bandito da Reggio, e quindi se fosse stato citato non sarebbe andato, nè sarebbe comparso. Il Podestà di Reggio adunque, Bonifacio Marchese Lupi di Parma, mandò per Rolandino, che si presentò a lui con una caterva d'armati. Ma il Podestà avendo riconosciuto, in quanto riguardava a questo fatto, la innocenza di lui, lo lasciò andare in pace senza punizione di sorta. Poscia fu denunziato ed accusato Guido da Albareto, [180] che comparve, fu sostenuto in carcere dieci giorni e per una volta solo sottoposto a miti tormenti, e poi prosciolto. E mentre si sottoponeva a' tormenti Guido da Albareto, i Reggiani credettero che si sommovesse una guerra intestina per tre ragioni: 1º per cagione di quei due fratelli uccisi; 2º per cagione del grande personaggio che era sottoposto ai tormenti; 3º per cagione dei partiti che tra loro si rodevano in Reggio. (Due fazioni erano in Reggio; l'una che si chiamava Superiore, l'altra Inferiore. Ambedue si professavano, ed erano, partigiane della Chiesa; poichè il partito imperiale, già da molti anni espulso, andava errando pel mondo. Col tempo poi questa discordia de' Reggiani, sedò alquanto, e cominciarono le due parti a coabitare in città senza reciproco timore). Il Podestà quando si cominciò a sottoporre a tormenti Guido, lo pregò di sopportarli con pazienza per amor suo e per amore di Dio, specialmente perchè di mal in cuore lo faceva tormentare; ma gli era necessità il farlo, sia per ragione d'ufficio da parte sua, sia per ragione di colpa e di pena imposta a Guido. Il quale riconoscendo che il Podestà faceva questo per onore dell'uno e dell'altro, sostenne con pazienza quanto prima gli sarebbe parso acerbo e crudo, e dopo, riconosciutane la ragione, gli parve mite la pena. E disse al Podestà: Se questo calice non può passare da me senza che io beva, si faccia la tua volontà. Però vi fu chi disse che il sunnominato Guido, per denaro sborsato, non fosse sottoposto a' tormenti, giacchè al danaro tutto cede........ Perocchè Rolando Abbate di Canossa, che è figlio di lui, spillò cento lire imperiali a Guido di Correggio, e altrettante al Podestà di Reggio, in grazia de' quali schivò i tormenti. E quando corse voce che si doveva tormentare, il Podestà non permise che vi fosse persona presente, tranne egli e Guido da Correggio; e lo fece sedere sopra un pesatoio da farina per qualche tempo, e intanto [181] parlava con lui famigliarmente delle cose che erano accadute. E smontato da tale aculeo, e in una camera messosi a letto, mandò a chiamare Giacomo da Palù, e gli narrò le sofferenze patite fra tormenti. Dopo, discese dal palazzo, andò a casa di Rolandino da Canossa, che stava vicino alla piazza, ed ivi passavasi il tempo sollazzevolmente mangiando e bevendo, e giocondamente vivendo. Ma quando discese dal palazzo del Comune si fece sorreggere da due uomini a destra e a sinistra, per far credere che era stato gravemente offeso dai tormenti del Podestà. Ma il Signore dice in Luca 12º: Nulla è così coperto che non si riveli..... È da sapere che Guido di Bibbianello fu uomo nobile, giacchè per linea paterna discendeva da quei di Canossa (laonde quelli che lo uccisero erano suoi parenti), per linea materna era di Parma, ed i figli di Ghiberto da Gente erano suoi germani consanguinei. Così ebbe per moglie Giovanna figlia di Guido di Monte (ed era nipote del fu Guglielmo Fogliani vescovo di Reggio); e Giovannino da Rodeglia[103] aveva per moglie una sorella germana di lui, laonde si dicevano, ed erano cognati, essendo mariti di due sorelle. Questo Guido da Bibbianello fu inoltre bell'uomo, letterato, di raro ingegno, forte memoria, fluente facondia, stringente eloquenza, vivace, giocondo, largo, liberale, molto socievole e sollazzevole, benevolo, e uno de' precipui benefattori de' frati Minori; sendochè i frati Minori avevano nel territorio appartenente a lui un convento, nel bosco che è a piedi di Monfalcone, ove come è detto più sopra, è stato sepolto con suo fratello nelle tombe de' suoi avi; e l'anima sua, se è possibile, per la misericordia di Dio riposi in pace, e così sia. In suo vivente mi si mostrò sempre amico, come anche di mio fratello frate Guido di Adamo, che morì anche [182] esso nel convento di Monfalcone, e vi fu sepolto. Tuttavia Guido da Bibbianello da' suoi malevoli era giudicato maligno, e gli attribuivano molte azioni malvagie, che fosse cioè maldicente e detrattore dei servi di Dio..... E tale è l'abitudine degli uomini carnali, di denigrare la fama dei servi di Dio, e credono di trovare una scusa de' loro peccati col far credere d'aver compagni nel mal fare anche uomini santi. Così gli si attribuiva d'essere solito dire che se era destinato alla vita eterna, la avrebbe, per quanto peccasse, e se fosse destinato alle eterne pene avrebbe dovuto sobbarcarvisi, per quanto operasse dirittamente. E, a provarlo, adduceva quel passo della Scrittura di Luca 22º: Il figlio dell'uomo va dov'è prestabilito. E fu una stoltezza, perchè, quantunque io ed altri frati amici suoi gli dicessimo di guardarsene, tenea poco conto del nostro avviso, e non voleva udirne, e rispondeva: La Scrittura dice, Ecclesiastico 19º: Chi crede subito, è di cuor leggiero, e sarà considerato dappoco. A cui, essendo egli dotto della Bibbia, io soggiungeva: È scritto ne' Proverbii che il Savio dice 28º: Beato l'uomo, che è sempre in timore ecc. Ma, come ho già detto, non voleva ascoltarne; anzi scoteva il capo, quasi a disprezzo di ciò che gli si diceva. Al già detto aggiunsi: È scritto ne' Proverbii 22º: La via dello stolto è diritta al suo parere. Insistendo io pertanto in questi concetti, e dicendo: Io ti ho espresso il mio pensiero, rispose: Le parole sono molte, ma molte sono quelle che nelle dispute sono vuote...... che è nella provincia della Siria; secondo, perchè non gli fu data soddisfazione nella Corte del Papa nè riguardo alle sue petizioni, nè riguardo al suo compagno della Provenza; terzo, perchè quand'era in viaggio per andare al ministro Generale, che era a Parigi, prima di arrivarvi, per voci che ne correvano e per annunzi ricevutine, seppe della morte del Generale; quindi ritornò alla Corte, e [183] non sappiamo che cosa abbia fatto. Avevano inoltre a quel tempo i Cardinali un tal Papa, che era podagroso, di poca dottrina, un vero romano, avaro e meschino, Giacomo Savelli, e si chiamava Onorio IV. Egli non solo non fu promotore di Religioni nuove, ma si studiò in ogni maniera di ridurre al nulla le già iniziate e prosperanti, poichè per denaro avuto da alcuni prelati di chiese, s'era fitto nell'animo il pensiero e il proposito di fare ingiuria e oltraggio ad Ordini illustri, come all'ordine de' frati Minori e de' Predicatori..... Ma Iddio lo tolse di mezzo, e prevenuto dalla morte non ebbe tempo di effettuare quanto covava in petto..... Avrebbe apportato grave impedimento alla salute delle anime questo Papa Onorio, se avesse potuto condurre ad effetto quello che andava maturando nella sua mente. Riguardo ai Tartari vedi più sopra. E se alcuno ricerchi perchè le cose che riguardano i Tartari io non le abbia aggruppate insieme, rispondo d'aver fatto così perchè accadevano successivamente, ed io successivamente le registrava ogni qual volta mi venivano riferite..... Nel millesimo soprannotato, nella diocesi di Bologna avvenne che un giovane ricco, che aveva ancora superstiti il padre e la madre, avendo preso moglie, la prima sera del matrimonio, prima ancora d'aver tocca la moglie, diede ospitalità a tre ribaldi, di quelli che dicono di essere apostoli e non sono, i quali persuasero a quel giovane di non accoppiarsi colla moglie..... e questa astinenza insinuavano per far eglino prima del giovine marito...... Allora il giovane si riconobbe ingannato da que' ribaldi, li fece prendere e ne sporse querela al Podestà, che li fece impiccare...... Questa cosa adunque avendola saputa Obizzo Sanvitali, Vescovo di Parma, che lungo tempo li aveva favoriti per riguardo di Ghirardino Segalello, loro istitutore, li espulse da Parma e da tutta la sua diocesi, conoscendo che sono [184] vili truffatori, ribaldi, gabbamondo e seduttori della peggior risma...... Quel Ghirardino Segalello, che fu loro istitutore, ora è ridotto a tanta demenza, che va vestito da istrione, e fattosi giullare e mimo va facendo pazzie pe' viali e per le piazze; poichè ha il cuore in vanità...... nè ha timore di Dio...... Di lui e de' suoi seguaci ho parlato più sopra diffusamente. Nel millesimo sussegnato morì in Reggio un certo Bresciano, che prima insegnava a leggere ai ragazzi il salterio, e simulava di esser povero, e andava mendicando, e talvolta suonando e cantando per avere più larga limosina. A costui il diavolo aveva messo in testa, che doveva sopravvenire una desolante carestia; e perciò biscottava i pezzi di pane, che accattava, e li riponeva in serbo, per provvedere in tempo un rimedio a quella fame, che, com'è detto, il diavolo gli aveva inchiodato in capo che dovesse arrivare. Ma come fu detto di quel ricco del Vangelo..... così accadde a questo infelice. Perocchè una sera malò più gravemente del solito, ed, essendo solo in casa, aveva chiusa con diligenza la porta con una sbarra, e quella notte fu strozzato dal diavolo, e malamente e disonestamente trattato. L'indomani non facendosi vedere, gli uomini del vicinato, le donne, i ragazzi in folla adunati atterrarono a forza la porta, e lo videro giacente morto in terra, e vi trovarono farina in sacchi già fetida dentro una cassa, e due altre casse di tozzi di pane biscottato; e si constatò che aveva in Reggio due case, in due diverse parrocchie, di cui andò in possesso il Comune di Reggio; e così si verificò quello che volgarmente si dice: Ciò che non riceve Cristo, lo piglia il fisco. Perciò i ragazzi lo spogliarono nudo questo infelicissimo, e gli legarono i piedi con vincigli attorcigliati, e così nudo lo trascinarono per tutta la città, per le strade e per le piazze, scherno e ludibrio di tutti. E, quel che è singolare, si fu che non furono [185] sobillati da nessuno a farlo, e che nessuno li rimproverò, come d'aver fatta una mala cosa. Ed essendo arrivati all'ospedale di Sant'Antonio stanchi di tedio e di fatica, vollero legare quello sconciato cadavere alla coda del carro di un bifolco, che per caso conduceva il carro co' buoi per quella via; ma il contadino facendo opposizione, ecco che subito i ragazzi gli si scagliarono addosso, e lo percossero gravemente. E allora il bifolco lasciò fare ai ragazzi quella ribalderia. Uscirono pertanto di città per la porta di S. Stefano, e lo gettarono giù dal ponte nella ghiaia del Crostolo, fiume o torrente che sia; e scendendo giù nell'alveo attorno al cadavere, gli gettarono addosso una gran caterva di pietre, sclamando ad alte grida: Scendano con te nell'inferno la tua fame e la tua avarizia insieme colla tua miseria, e vi stiano in eterno e più oltre. E nota che i ragazzi sono generosi ed i vecchi tenaci. Perciò anche Marziale Coco disse:

Miramur juvenes largos, vetulosque tenaces;

Illis cum multum, his breve restet iter.

È un fatto in vero sovra ogni altro strano

Che scialacqui il garzon lunge da morte,

E ammassi poi con appetito insano

Chi già del cimiter bussa alle porte.

Parimente nel detto millesimo avvenne un gran turbamento nel monastero di S. Prospero di Reggio, in occasione delle guerre. In quel tempo era diciasettesimo Abbate del monastero Guglielmo de' Lupicini, buon uomo, per quanto a religione ed onestà, ma per quanto riguarda agli affari mondani, semplice, rustico ed avaro. Trattava anche male a vitto i suoi monaci, e perciò li ebbe poi avversi. Perocchè Bonifacio, figlio di Gherardo di Boiardo da Rubiera, di intesa con alcuni monaci, che non se la [186] intendevano bene coll'Abbate, perchè li trattava male a vitto, la prima volta occupò il monastero nel giorno di Pentecoste, all'ora del pranzo, lo spogliò, portò via quello che volle, e si ritirò. L'Abbate si diede alla fuga e andò al convento de' frati Minori, ove si fermò tutto quel giorno e la notte seguente; e poscia passò in casa di un suo fratello germano, che si chiama Sinibaldo, e vi ospitò alcuni giorni coll'animo sospeso e il cuor pauroso. La seconda volta il prenominato Bonifacio, al tempo della mietitura, occupò le cascine del monastero, cioè la Migliarina[104] ed altre cascine; poi si prese di forza Fossole[105], assediò, prese e mise a fuoco la Casamatta, ed ivi uccise un uomo, che difendeva i suoi bovini e non glieli voleva dare; un altro ne ferirono gravemente, e lasciatolo tutto piaghe, se n'andaron via che era semivivo. E nota che queste cose erano state predette all'Abbate prima che avvenissero; ma per quella sua semplicità ed avarizia, non volle prevenirle e guardarsene, poichè le saette previste feriscono meno..... Ma gli amici dell'Abbate vedendo che era pigro a premunirsi, spontanei accorsero, non richiesti da lui, ed erano quaranta buoni Reggiani, che fecero la guardia al monastero di S. Prospero tutta la notte precedente il giorno di Pentecoste. Ma arrivata l'ora del pranzo, non li ringraziò nemmeno della guardia che avevan fatta tutta la notte, non li invitò a pranzo, e lasciò che andassero a pranzare alle proprie case. Ed egli andò al suo palazzo con alcuni suoi scudieri e donzelli per pranzare. Ed ecco che mentre sedeva a mensa, e credeva tutto tranquillo, d'improvviso udì il rintocco della campana della torre, che era suonata dai monaci di lui avversarii....... Allora i secolari nemici dell'Abbate, sbucando prontamente dai nascondigli, irruppero nel monastero, volendo creare un [187] nuovo Abbate; e l'Abbate, per aiuto della misericordia di Dio, si precipitò da un'angusto solaio, che chiamavano ambulatorio, poi traversò le fosse, e arrivò, come s'è già detto, al convento de' frati Minori, spaventato e tremante come un giunco nell'acqua corrente. Ivi tutti gli amici, che venivano a visitarlo, lo rimproveravano acremente, e lo caricavano di oltraggiosi rimbrotti, rinfacciandogli che tali cose lo avevano incolto a cagione della sua rusticità ed avarizia. Ed egli tutto sopportava con pazienza, perchè si riconosceva colpevole. Ma nel mese precedente, cioè nel Maggio, prima che all'Abbate tali cose avvenissero...... e le persone, che hanno attinenza col detto Ordine de' Cisterciensi si astengono da ogni contatto cogli stessi frati Minori, e come fossero scomunicati, non assistono ai loro divini uffici, nè alle loro predicazioni; e questo è di scandalo universale, ed una grave jattura per la Chiesa; le quali cose però da molti savi e prudenti uomini si riconoscono promosse da fomite d'invidia e di odio[106]. Avendo dunque noi sempre prediletto e favorito in modo speciale il predetto Ordine Cisterciense, ordiniamo a tutti voi in generale, e a ciascuno in particolare, sotto stretto comando, di andare in vece nostra ai singoli conventi e monasteri del detto Ordine esistenti nel distretto della vostra giurisdizione, e di avvisare gli Abbati, le abbazie e i conventi loro, e di supplicarli da parte nostra di revocare provvidamente ed effettivamente entro un mese, a contare dal giorno in cui riceveranno i presenti ordini, i loro Statuti così improvvidamente pubblicati e promulgati con iscandalo della Chiesa..... E, se non obbediscono, abbiamo deliberato e decretato che nessuno, Duca, Marchese, Conte, Nobiluomo, od altri chichessia, [188] suddito del nostro Impero possa dare all'Ordine Cisterciense nulla de' suoi beni, nè mobili, nè immobili, nè trasferire in loro proprietà gli accennati beni con alcun titolo di alienazione senza il nostro espresso assenso....... le possessioni, delle quali l'Ordine stesso abbonda; e se altrimenti sarà fatto..... comandando a tutti voi in generale, e a ciascuno di voi in particolare di revocarle per autorità della Maestà imperiale..... La causa poi, onde i frati dell'Ordine Cisterciense si sollevarono contro i frati Minori, per cui fu emanata contro di loro una legge sì dura, come poi in seguito ho saputo, fu questa. Uscì dal nostro Ordine, ed entrò in quello dei Cisterciensi un frate Minore, il quale si comportò tanto bene che arrivò a diventare Abbate di un cospicuo monastero. I frati Minori per una certa gara d'emulazione, che in ordine a questa cosa non era secondo il consiglio della saggezza, temendo che altri, seguendo l'esempio di quel frate, abbandonassero il loro Ordine, lo presero e lo ricondussero al loro convento, e lo nutrirono col pane della tribolazione e coll'acqua del dolore. La qual cosa risaputa, i Cisterciensi s'irritarono acerbamente e si sdegnarono contro i frati Minori, e questo per cinque motivi: primo, perchè punirono chi non meritava di essere punito; secondo, perchè non dipendeva più dall'Ordine nostro; terzo, perchè lo presero vestito dell'abito monacale; quarto, perchè nell'Ordine loro era stato elevato ad un'alta prelatura, quella di Abbate; quinto ed ultimo, perchè si diportava tanto bene nell'Ordine loro per vita, per saviezza, e buoni costumi, che era loro ben accetto ed in grazia di tutti. Ma Rodolfo, che è stato legittimamente eletto Imperatore, e che ama di cuore, e di fatto promuove l'Ordine de' frati Minori, per amore di Dio e del beato Francesco, saputo che i Cisterciensi avevano preso contro loro una deliberazione tanto dura, se ne sdegnò, e scrisse a loro riguardo la lettera surriportata..... [189] Questo Re Rodolfo fu veramente quel buon vicino, di cui dice il Savio ne' Proverbii 23º: Il vicino di loro è forte. Ma i Cisterciensi, conosciuta la predetta lettera, revocarono e annullarono subito la deliberazione presa, e ordinarono che i frati Minori fossero ricevuti nelle loro case con famigliarità, amorevolezza, cortesia e benignità, non solo per declinare da se stessi il danno, a cui potevano andare incontro, come aveva minacciato chi aveva scritta la lettera, ma eziandio per obbedire a sì potente Signore, secondo il detto dell'Apostolo ai Romani 13º: Ogni persona sia sottoposta alle potestà superiori. Riguardo poi alla deferenza dell'Imperatore Rodolfo verso i frati Minori, cerca più indietro, e troverai che cedette loro il suo palazzo, che aveva nella città di Reggio, perchè vi edificassero il loro convento, e che promise di far loro in seguito maggiori elargizioni. Simile controversia incontrò frate Buonagrazia, quando era ministro provinciale a Bologna, contro il monastero di Nonantola[107], che è nel territorio di Modena. Un certo frate Guidolino, Ferrarese, uscì dell'Ordine de' frati Minori, ed entrò in quello di S. Benedetto dei Monaci Neri, ove nel monastero di Nonantola si comportò tanto bene e tanto lodatamente, che s'acquistò la benevolenza di tutti, e lo elessero Abbate del nominato monastero. Per cagione di che sostennero tra loro i frati Minori e que' monaci Benedettini una fiammante controversia al cospetto di Giovanni Gaetani (che allora era governatore de' frati Minori, e poscia fu Papa Nicolò III) e, dopo vivissimo dibattito, i frati Minori ottennero che non fosse fatto Abbate. E quei monaci spesero 10000 lire imperiali per riuscire ed averlo Abbate. Ma non potendo averlo, e vedendo che s'affannavano invano, non elessero nessun altro Abbate, e lo fecero lui signore dell'abbazia, [190] come se Abbate fosse canonicamente. Questo dimostri quanto l'amavano que' monaci. Ma egli fece come l'antico Giuseppe, che a' suoi fratelli non volle rendere male per male, pur potendolo e non mancandogliene occasione; che anzi si tolse premura di far loro del bene, adempiendo quel detto dell'Apostolo ai Romani 13º: Non rendere a nessuno male per male, ed anche: Non lasciarti vincere dal male, ma col bene vinci il male. Suona a proposito anche quello dell'Ecclesiastico 10º: Non aver memoria dell'ingiuria, che t'ha fatto il prossimo; il che appuntino faceva questo frate Guidolino. E vedeva tanto volentieri e accoglieva i frati Minori nel monastero di Nonantola, come fossero angeli di Dio, e pregò i suoi confrati di averne sempre due nel monastero a spese del monastero stesso, come scrivani a copiare e moltiplicare gli originali degli scrittori, de' quali originali colà vi era gran dovizia. Questo frate Guidolino fu mio intimo amico, quando coabitavamo nel convento di Ravenna. E nota che i frati Minori da Papa Nicolò IV, che era pur esso dell'Ordine de' Minori, si ebbero un privilegio, pel quale nessuno che uscisse dal loro Ordine potesse in perpetuo essere promosso ad alcuna prelatura di altro Ordine.

a. 1287

L'anno 1287, indizione 15ª, i frati Predicatori ritornarono ad abitare in Parma, d'onde erano partiti spontanei per cagione di una donna eretica, di nome Alina, cui essi avevano fatta bruciare. E ritornarono il giorno della Cattedra di S. Pietro; ed uscirono per andar loro incontro colle trombe e cogli stendali alcuni Parmigiani ed i Religiosi, che li accolsero e accompagnarono in città con onorificenza. Nello stesso millesimo, dopo che i Lupicini ed i Boiardi s'erano già rappacificati, furono uccisi due monaci del monastero di S. Prospero di Reggio, e furono que' monaci, che avevano già tempo tradito l'Abbate e il monastero di S. Prospero. Poscia, a breve [191] distanza di tempo, a vendetta di que' due monaci, ne fu ucciso un altro del monastero stesso, che, delegato come suo procuratore dall'Abbate, andava alla Corte con un cert'altro sacerdote. Questo monaco era figlio di Gifredo de' Muti di Reggio, frate Gaudente; e disse a chi lo feriva; Chi siete voi? Ed i feritori risposero: Noi siamo i procuratori di que' due monaci, che pochi giorni fa sono stati uccisi, ed abbiamo mandato di rendere pan per focaccia. E feritolo, fuggirono lasciandolo mezzo morto. Fu portato a casa de' suoi parenti, fece la sua confessione, e s'addormentò nel Signore; e pochi giorni dopo, la madre di questo monaco malatasi di tristezza, morì anch'essa. Così nello stesso millesimo i Reggiani per carnevale non fecero baldoria, secondo il costume delle altre città cristiane, che in tal tempo folleggiano e fan pazzie, ma se ne restarono senza chiasso, come se fossero morti i loro. Ma in quaresima, che è tempo dedicato a Dio, cominciarono a folleggiare, mentre sarebbe stato tempo prezioso per la salute delle anime, tempo di fare elemosine, e di attendere alle opere di pietà..... tempo di confessarsi, di ascoltare le prediche; di visitare le chiese, di pregare, di digiunare, e di piangere...... In quaresima adunque non si diedero i Reggiani alle opere di pietà, nè si curarono delle sante cose preaccennate, ma corsero dietro a vanità, e invanirono..... Di fatto molti di loro presero a prestito vesti dalle donne, e vestiti, da donne, cominciarono loro giochi, e andavano per la città attorno in torneamenti; e per avere vieppiù apparenza di donne, con biacca imbellettavano le maschere, che si mettevano al volto, non curandosi delle pene a ciò comminate...... Guai a que' miseri cristiani che tentano di convertire il tempo consacrato al culto ecclesiastico in tempo di dissolutezza e vaniloquio...... Certamente Cristo, nostro Dio, c'insegnò a digiunare in quaresima...... [192] e siccome decretarono i Venerabili Padri Pontefici romani...... ma alcuni infelici cristiani nelle città Lombarde nè digiunano, nè si confessano de' loro peccati. E perchè in tal tempo non possono trovar carni in beccheria, mangiano in secreto carni di galline e di capponi, e, dopo, tutto il giorno se ne stanno sdraiati su stuoie, sotto i porticati, e nelle piazze, giocano a zare, a' dadi, e a trottolino, e bestemmiano il nome del Signore e della beata Vergine madre di Lui; e que' tali si danno a credere che possano mutare i tempi e le leggi, e che venga il giorno di poter vivere in libera libidine. Nota che l'Apostolo specificò alcuni segni de' malvagi cristiani, che vivranno circa i tempi dell'Anticristo, i quali segni si riscontrano in quelle persone che a' dì nostri s'infangano nel peccato senza verecondia...... Ma non giovò ai Reggiani. Videro sì i guai de' Modenesi loro vicini, ma non si diedero pensiero di guardarsene; che anzi posero i semi di tutti que' mali, che poi piombarono su di loro, di cui già parlammo, ed anche in seguito parleremo. In fatto alcuni anni prima del corrente millesimo alcuni mugnai di Reggio, con una certa astuzia e malizia domandarono ed ebbero dai frati Minori alcune tonache usate e vecchie, che dicevano di voler porre sotto il meccanismo del purgatore per ridurle all'apparenza e alla mondizie di nuove; ma se ne valsero poi a vestirsi nel carnevale in abito di frati Minori, e dopo il tramonto del sole ballarono cantando sulla pubblica strada. E queste pazzie facevano per suggestione del diavolo, che voleva si calunniassero gli innocenti, e che, da chi passava, fossero creduti realmente frati Minori quelli che le dette cose facevano, e così diventasse uno scandalo e un disonore pe' frati...... Il che di fatto si avverò poi ne' mugnai, che tali cose facevano. Perocchè il Podestà di Reggio d'allora, saputo di ciò, irritossi assai per l'amore che nutriva pe' frati Minori, e, come [193] era suo dovere, li punì severamente, imponendo loro multe in denaro, e bando perpetuo dalla città, perchè altri non osasse più in seguito ripetere quelle scene...... Nel detto anno, cioè 1287, ai tre d'Aprile, Giovedì Santo, morì Papa Onorio IV, e il giorno dopo, Venerdì Santo, fu sepolto. Egli fu uomo podagroso; prima si chiamava Giacomo Savelli, romano, eletto dal novero de' Cardinali, e resse il pontificato due anni. Creò un solo Cardinale, cui mandò in Germania con missione di condurre di là Rodolfo eletto Imperatore, volendolo, come comunemente si credeva, incoronare; ma il Papa morì, e Rodolfo restossi senza la corona dell'Impero. Laonde appare chiaro che Iddio non voglia che più sorga alcuno a reggere come Imperatore la pubblica cosa, come è stato detto di Federico II da quelli che con ispirito profetico predicono il futuro: «In lui morrà anche l'Impero, perchè sebbene possa avere successori, saranno privi del titolo d'Imperatori da parte del supremo potere dell'autorità romana». Fuvvi un'altra cagione ancora della morte di Papa Onorio IV. Perocchè volle far gravare la sua mano sull'Ordine de' frati Minori e Predicatori, togliendo loro la facoltà di confessare e di predicare, per eccitamento di alcuni prelati oltramontani, che spesero a questo scopo 100,000 lire della moneta di Tours. E Matteo Rossi, che era il Cardinale protettore, governatore e censore dell'Ordine de' Minori, venne ai frati piangendo e disse: Frati miei, io ho insistito quanto ho potuto per stornare il sommo Pontefice da' suoi propositi, ma non ho potuto smoverlo dal malo divisamento che ha fitto in cuor suo contro di voi...... E siccome è impossibile che le preghiere dei molti non sieno esaudite...... quando Papa Onorio l'indomani, Giovedì Santo, avrebbe pronunciata la sentenza, ecco che Iddio lo colpì la sera innanzi e lo tolse di vita...... Ed io abitava nel convento de' frati Minori di Montefalcone. [194] Lo stesso anno Nicolò Fogliani prese Carpineti[108] e Pacilo[109], (due castelli della diocesi di Reggio), e vi pose di stanza a guardia suoi armati, in servizio di Monaco di Canossa, i cui fratelli l'anno antecedente erano stati uccisi, cioè Guido di Bibbianello e Bonifacio di lui fratello. A vendicare adunque i suoi fratelli, Monaco di Canossa, che aveva signoria a Bibbianello, con molti uomini d'armi andò, e, facendo violenza ai custodi delle porte della città, entrò in Reggio. E in quel giorno ebbe suo principio una sanguinosa zuffa nella città di Reggio, ed ebbe per effetto che il Podestà che era Cremonese, e il Capitano che era di Parma, discesero dai loro Palazzi, e il dì seguente, ricevuto loro salario, partirono ritornando alle loro città. Frattanto Matteo Fogliani, Guido da Tripoli e Monaco di Bibbianello si spartirono gli uffici principali della Signoria. E Monaco di Bibbianello andò in persona ad appiccare il fuoco alla casa di Rolandino da Canossa, e l'incendiò e la fece smantellare sino alle fondamenta; e mentre queste devastazioni si compievano, inanimava i suoi armati, dicendo: Venite a me con sicurezza, e non temete, che io sono fatato ed invulnerabile. E questo diceva per tenere alto il coraggio de' suoi, e renderli pronti ad osare. Quivi fu ucciso un popolano, che era bello e buon uomo, amico mio e dei frati Minori, del partito di Rolandino, ed in quel giorno era di guardia alla casa di lui. Questi esercitava in Reggio l'arte del cimatore, e si chiamava Ugolino da Canossa. Questo accadde il Mercoledì dell'ottava di Pasqua, nel qual giorno cantammo nella messa Venite, benedicti: Venite, o benedetti; ed io abitava nel convento di Montefalcone; e quel giorno andai a Reggio, [195] entrai in città, e vidi tutto co' miei occhi, perchè tutta la giornata, mentre queste cose si facevano, io girai attorno per la città. E le follie, che i Reggiani fecero nella quaresima, si convertirono in pianti ed in querimonie, perchè fatte in tal tempo presagivano male...... E l'Arciprete della chiesa maggiore, che si chiama Enzo Uberto, ed un certo eremita andavano predicando a pieno uditorio che quelle baldorie, che si facevano dai Reggiani nella quaresima, erano un buon segno. Ma frate Benvenuto dell'Ordine dei Minori predicava il contrario, cioè che presagivano male, come poi provò e dimostrò il fatto. Questo frate Benvenuto era del Modenese, lettore di teologia, predicatore buono, ornato e gradito al clero e al popolo; sapeva di greco e di latino; fu interprete molto abile e sottilissimo del testo bibblico; e ovunque correva lezione storpia corresse, e diede un testo, che è il più corretto che oggi si trovi al mondo; fu correttore alla mensa in Parigi si trovò compagno di molti che diventarono poi sommi Pontefici, cioè Papa Adriano, Papa Gregorio X oriondo di Piacenza; e tuttavia amò meglio restare umile cogli umili, che por piede nelle Corti de' grandi; e tale è tornato al suo Ordine, nel quale talvolta, quando torna il suo giorno, secondo l'uso dell'Ordine stesso, lava anche le scodelle. Uomo di molto studio e di acuto ingegno, e dottissimo, di memoria facilissima, che ha molti e buoni libri, che si procurò con grande fatica copiandoseli e facendosene copiare, quando era a studio in Parigi. Umile, socievole, benigno, onesto, di vita santa; di edificante conversare, e da tutti tenuto in distinta considerazione. Questi dunque, in quanto all'applicazione che se ne può fare al caso presente, che riguarda i Reggiani, mi pare prefigurato in Michea, il quale consigliò il Re Acabbo di non ingaggiare battaglia in Ramoth di Galaad contro i Siri. E Sedecia figlio di Canaan, che si fece le corna di [196] ferro e disse al Re: Con queste soffierai sulla Siria, finchè tu l'abbia annientata, prefigurò coloro, che adulavano i Reggiani, quando in quaresima folleggiavano.... Quel giorno dunque, in cui accaddero le dette cose ai reggiani, incontrai l'Arciprete della chiesa maggiore della città di Reggio, presso la chiesa di San Pietro, ove era stato canonico, ed era profondamente melanconico e quasi inebetito; e presemi per mano, come per dar segno di conoscermi e d'aver meco dimestichezza, poichè io aveva abitato a Reggio sei anni. E gli domandai come stesse; e mi rispose che stava come in un mulino rotto. Allora, siccome costui era stato uno degli adulatori dei Reggiani quando matteggiavano in quaresima, fui sul punto di dirgli quello che disse Michea ad un tale nella storia preaccennata: Vedrai ecc. cioè saprai e conoscerai che cosa sta nella camera del letto, quando nella camera del letto ti ritirerai. Il profeta volle significare che colui, al quale parlava, conoscerebbe piena la verità, quando la tribulazione gli acuisse l'intelletto. Ma stando lì lì per dirgli questa cosa, il mio animo e la mia lingua gliela vollero risparmiare, memori di quel che dice la Scrittura: Non irridere un uomo che si trova nel dolore.... Parimente il giorno stesso, in cui ebbero cominciamento le cose già dette dei Reggiani, Monaco di Canossa, ossia di Bibbianello, andò in persona alle carceri del Comune, e co' suoi uomini d'armi ruppe e le aprì, liberando tutti i prigionieri dalla miseria, e dalle catene, e dalle tenebre, e dall'ombra di morte, e infrangendo i loro ceppi li lasciò andare in libertà. E vi si trovavano alcuni condannati a bando perpetuo dal Comune, tra' quali taluno era già da lungo tempo carcerato, ai quali parve rinascesse una luce nuova, e ne provarono massimo gaudio e tripudio, ne resero grazie a Monaco, e si offersero sempre pronti ad amarlo e servirlo in sempiterno. Quel giorno stesso nella città di Reggio [197] Giacomino dei Panzeri e suo figlio Tomasino assalirono coraggiosamente la fazione loro avversa, come leoni che balzano sopra la preda, parati a penetrare anche attraverso un muro di ferro. Ed a Tomasino fu ucciso sotto il cavallo mentre assaliva i nemici al trivio de' Roberti. Giacomino poi essendosi recato alla porta di S. Nazzaro, non per uscire e partirsene ma per comandare che la porta si abbandonasse aperta, mentre ne ritornava verso casa sua urtò in una moltitudine di armati, ai quali non potendo tener testa, gli fu giocoforza uscire di città; sendochè i Lupicini si staccarono dal partito di Rolandino in occasione di un parentado recente contrattosi tra lui e Matteo Fogliani, avendo Garsendonio accettata come sposa una figlia di Matteo per suo figlio Ugolino; ed altri ancora del partito di Rolandino di Canossa e di Giacomino de' Panzeri non erano dell'animo inclinati a menar le mani; alcuni altri poi se n'erano usciti di città, e se ne stavano nelle loro castella. Allora furono messe a ruba e a sacco le case di alcuni, e ne fu portato via ogni bene, frumento, vino e tutti i mobili; e i giorni successivi furono rase al suolo le case di Giacomino, di Bartolomeo e di Buonacorso de' Panzeri, di Alberto degli Indusiati, di Ugo di Corrado, di Rolandino di Canossa e di Manfredino del Guercio. Come pure il giorno di quella sommossa, dopo nona, molti malfattori e ribaldi andarono correndo al convento de' frati Minori per entrarvi e far bottino degli oggetti che vi erano stati depositati. Di che accortisi i frati suonarono a stormo la campana più grossa; e subito, ecco presente Guido da Tripoli, armato sul destriero, e lo vidi io co' miei occhi, e menò loro colpi di clava, e li cacciò tutti in fuga. Egli mi guardò e disse: Ohe! frati, e non avete voi di buoni randelli da bastonar cotestoro, che non vi rubino? A cui io risposi che a noi non lice bastonare nessuno.... Allora intesi che aveva detto vero Isaia nel 9º: Perchè [198] ogni saccheggiamento di saccheggiatori è con istrepito e tumulto. In que' giorni Rolandino di Canossa, Francesco Fogliani, suo fratello il Prevosto di Carpineti, Giacomino dei Panzeri, suo figlio Tomasino e molti altri con loro dello stesso partito, andarono a Parma, e fecero apprestare vessilli, banderuole e macchine da guerra per correre ai castelli che hanno nella diocesi di Reggio, e battere i loro avversarii, cioè i Reggiani che stanno dentro la città. E un giorno quei di Gesso fecero una scorreria contro quelli di Roncolo[110], e rapirono loro dai pascoli i buoi e le vacche; la qual cosa vedendo quelli di Roncolo portarono in sicuro su quel della diocesi di Parma le robe loro, e abbandonarono vuote e deserte le case e la villa.... Quelli poi delle Castella fabbricarono case e trasportarono ogni lor cosa alle falde del colle su cui è Bibbianello, e parte anche sulla vetta. Altrettanto fecero quei di Cauresana[111], di Farneto, di Corniano e di Plazzola intorno intorno a monte Lucio, nella sua più alta parte; così anche quelli di Oliveto; e quelli di Bibbiano si munirono di fortilizii per timore di una vicina guerra. Quelli di Caviano costruirono case intorno alla chiesa plebana, vi cavarono all'ingiro le fossa e le riempirono d'acqua per essere al coperto dalla furia del devastatore. Così sono oggi le cose. La fine sarà quella che sarà, perchè sono sempre incerti gli eventi delle guerre, e la spada ora atterra l'uno, ora atterra l'altro. Ma i Modenesi risapendo di tutti questi guai dei Reggiani, ne furono in forte apprensione e vollero espellere di nuovo que' loro concittadini, che erano tornati da Sassuolo, e coi quali avevano da poco tempo fatta pace. I quali risposero di essere disposti ad obbedire e andare a confino, e piegarsi a' loro comandi, e fare tutto quanto volessero. Laonde i Modenesi vinti da tanta docilità risparmiarono ai loro [199] concittadini, che erano tornati da Sassuolo, sì grave danno e non li costrinsero ad uscire di città; ma raffermarono più saldamente la pace e la primiera concordia, e si imbandirono scambievoli banchetti, e si contrassero fra le loro famiglie maritaggi, e consolidarono i loro rapporti di amicizia coi vincoli delle affinità. Lo stesso anno un certo maestro Pisano, che era a Parma per fondere campane, fece anche quella del Comune di Parma, grossa, bella e buona; e deve farne un'altra pel duomo a spese del Cardinale oriondo di Gainago. E l'anno antecedente ne aveva fusa un'altra pel Comune, ma, all'atto del gettarla, per insufficienza di metallo riuscì mancante degli orecchioni; e quindi non potendo servire a nulla fu ridotta a pezzi. Un cert'altro maestro Pisano anch'esso ne aveva fatta prima ancora un'altra, ma non era sonora, e di lontano non si udiva. Questa essendo stata sospesa alquanto alta da terra ad un castello di legno presso il palazzo dell'Imperatore, che in Parma è all'Arena, cadde da quella specie di battifredo a terra, e non offese nessuno, tranne che ad un giovane portò via la parte anteriore di un piede, col quale aveva dato un calcio al padre, ma non impunemente, come il giusto giudizio di Dio lo dimostrò con tale disgrazia.... Dacchè adunque abbiamo fatta menzione de' lavori pubblici de' Parmigiani, sta bene che ne facciamo pieno racconto di alcuno per meglio ricordarne le origini; e per farlo meglio è d'uopo ritornare alquanto indietro (Vedi più su dei lavori publici dei Parmigiani). Così nel susseguente millesimo, il Mercordì dell'ottava di Pentecoste, che era ai 28 di Maggio, i Reggiani, fanti e cavalli, uscirono armati dalla città per battersi con quelli di Gesso e si misero a campo sul Campora, un torrente che ha le sue scaturigini presso Canossa, e va a metter foce nel Crostolo. Allora quei di Gesso uscirono anch'eglino col proponimento di presentare battaglia, e andavano provocando al combattimento [200] i Reggiani della città. Stavano l'une squadre di fronte alle altre a mezzo miglio d'intervallo, e dall'una parte e dall'altra si mandavano avanti quelli che si chiamano spie od esploratori, per conoscere la moltitudine degli armati, o la debolezza del nemico; e così durarono tutta la giornata, finchè stanchi di noia, retrocedettero lo stesso giorno senza essersi scontrati. Ma nel seguente sabato delle Tempora, cioè l'ultimo di Maggio, festa di S. Petronilla, que' di Gesso andarono a battere contro la chiesa plebana di Caviano, attorno alla quale uomini e donne s'erano ritirati e trincerati. E quel luogo era assai ben munito a cagione della torre, della chiesa, e della fossa che lo cingevano, e per il numero d'uomini, di pietre, di baliste ed altre diverse macchine guerresche. Allora si accostò Guido di Albareto, che era uno dei condottieri di quei di Gesso, e tenne un'allocuzione a quei della Terra, dicendo: Provegga ciascuno di voi all'anima propria, e arrendetevi a noi, e andatevene liberi in pace senza dannaggio di sorta; che se resistete, sappiate che sarete presi di forza, e senza misericordia appesi alle forche. In quel punto, irritato da tale linguaggio, uno di quelli che erano sulla torre, lanciò dall'alto una pietra, che andò a colpire sulla testa il cavallo di Guido, il quale orribilmente rotando intorno a se stesso, quasi stramazzò. Allora cominciò l'attacco tra quelli di dentro il castello, e quei di fuori; e quel giorno dentro il fortilizio della plebana non erano presenti che quaranta uomini, che ferirono quindici nemici, de' quali nella ritirata morirono tre e furono sepolti. Ma quei di fuori riconoscendo che non potevano espugnare le munimenta di quella Chiesa plebana, si sbandarono per la villa di Caviano a far bottino di oche, di galline, di capponi, di galli, di porcelli, di agnelli, e di quanto vi era e loro piacque. Di fatto quella villa era boscosa e ricca d'ogni ben di Dio, e gli abitanti vivevano quasi a maniera dei [201] Sidonii, isolati e senza comunione con quelli delle Terre vicine; nè vi fu chi opponesse resistenza, nè aprisse bocca a gridare. In quella notte posero a fuoco cinquantatrè case della villa di Caviano tra buone e in mal essere; e tutte indifferentemente l'avrebbero bruciate, se non avessero smesso per le istanze e le preghiere dei frati Minori, che si opposero a quei malandrini. La quale devastazione scorta quelli di Bibbiano, spillarono cento lire imperiali a quelli di Gesso, e concordarono seco loro una tregua d'un anno, per poter lavorare sicuri i loro campi e raccoglierne le messi. Questa tregua si pattuì mercè di donna Beatrice, vedova, sorella di Guglielmo Rangone di Parma. Allora Egidiolo di Montecchio cominciò a porsi in mezzo per concordare una tregua tra quei della villa di Caviano e quelli di Gesso; e la mediazione di lui era molto promettente, perchè sua moglie era nata da quei di Canossa, sorella della madre dell'Abbate, e Monaco di Bibbianello era nipote della moglie di Egidiolo come nato da un consanguineo di lei. Questo Egidiolo era uomo soave, pacifico e dolce; e tutto il tempo di queste lotte tra Reggiani e quei di Gesso, molto si affannò correndo ora a Gesso, ora di là ritornando ai nostri; ma da questo suo adoperarsi non ne raccolse che calunnie e maldicenze. A questi giorni era Podestà dei Modenesi Rolando degli Adegherii di Parma, che chiamò a sè quelli che erano tornati da Sassuolo, e co' quali i Modenesi della città s'erano pacificati, e con modi cortesi li persuase di uscire dalla città, perchè non li incogliesse disastro; specialmente che conosceva addentro l'umore de' Modenesi, e sapeva di un soccorso, che aspettavano dai Reggiani. E furono in tutto obbedienti e partirono. Subito dopo arrivarono da Reggio un duecento soldati, che entrarono tutti in Modena, e fu da loro senza contrasto occupata. A quei giorni si ripetè molte volte a Reggio la voce che i Parmigiani erano in discordia tra loro, che [202] tutte le parti eran sull'armi, e si aveva speranza che Parma fosse dai Parmigiani distrutta. E ognuno parlava a seconda del proprio desiderio; e molti sembravano godere della distruzione di Parma, secondo che è scritto nei Treni 1... perocchè è gran sollievo per gli infelici trovar compagni nella miseria. Ma la Beata Vergine, che in Parma ha culto e onore, sembra tenere sotto la sua cura e protezione speciale quella città. In quel tempo era a Parma Capitano di un partito Obizzo Sanvitali Vescovo della città, e dell'altro partito Guido da Correggio. Quelli poi, che erano stati espulsi da Reggio, si chiamavano di Gesso, dal nome di un castello ove abitavano, il cui Capitano in capo era Rolandino di Canossa, uomo bello, nobile, cortese, liberale e che aveva avute in Italia molte Podesterie. Sua madre era una Piemontese, nobil donna e santissima. E questo Rolandino, di cui parliamo, usò una singolarissima cortesia, che è ben degna di essere raccontata. Avendo tregua quei di Gesso con quelli di Albinea, che è una Terra del Vescovo di Reggio, un certo tale di Albinea si presentò a lui lamentando che uno di quelli di Gesso gli aveva rapiti i buoi. E subito glieli fece restituire, dicendo: Vuoi d'altro? E quel tale soggiunse: Vorrei che quell'uomo, che sta nel vostro paese mi restituisse anche il mio vestito. E Rolandino invitando quell'uomo a restituire, e non volendovisi esso prestare, Rolandino stesso si cavò il soprabito, ossia la guarnacca, gliela diede e disse: Credo che tu sia così ben ripagato del tuo abito; vattene in pace. La qual cosa avendo veduto quel contadino che aveva portato via l'abito all'uomo d'Albinea, arrossì e prostrandosi a piedi di Rolandino, confessò sua colpa e ridiede l'abito all'uomo derubato. Or sappi che i capi condottieri di quei di Gesso furono: Rolandino di Canossa, Guido di Albareto co' suoi figli, cioè Azzolino e l'Abbate di Canossa, che si chiama Rolando; poi Guglielmino Scarabello [203] e Bonifacio, fratello dell'Abbate di S. Prospero, Reggiano soltanto per madre; inoltre il Prevosto di Carpineti e suo fratello Francesco Fogliani co' suoi figli; Giacomino de' Panzeri con Tomasino suo figlio; i quali due si batterono da leoni nell'occasione della cacciata del loro partito da Reggio; Bartolomeo dei Panzeri con Zaccaria suo figlio; Ugo di Corrado con Corradino suo figlio; Manfredino di Guerzo co' suoi figli; Enrico di Gherro un buon banchiere; e un tal bastardo bell'uomo e valoroso, che qualche volta fu Podestà di quei di Gesso, (ed anche Enrico fu loro Podestà); e Ro... poscia Cremona cominciò ad eleggersi Podestà uno di Cremona. L'altra turba poi che formava le schiere di quei di Gesso erano, o mercenarii, o assassini, o ribaldi. E si noti che Corradino, figlio di Ugo di Corrado, fu dai ribaldi fatto Capitano e Podestà loro. Notisi inoltre che i Lupicini al momento dell'espulsione od uscita dalla città, abbandonarono il loro partito, e restarono in città; e si ascrissero al partito di Matteo Fogliani, la cui figlia la accettò Garsendonio per moglie di Ugolino suo figlio. E sappi che allora quei di Dallo, in servizio e favore di Matteo Fogliani, stettero molti giorni a campo intorno a Bismantova, perchè Guido di Albareto con alcuni altri s'erano ritirati su quella roccia per isfuggire illesi di fronte al nemico. Dopo, gli assedianti annoiati, levarono il campo, e quei di Bismantova discesero e partirono. Di Guido d'Albareto poi è da sapere che, come disse a me suo figlio l'Abbate di Canossa parlando meco un giorno con famigliarità presso la porta di Gesso cinque anni prima che gli accadesse quella disgrazia, da cui fu tormentato in occasione della morte di Guido di Bibianello, interrogò un indovino, che prediceva il futuro, e sapeva dire quello che accadrebbe a questo o a quello, affinchè gli predicesse quali eventi aspettavano il padre di lui; e gli mostrò un libro nel quale stava scritto: «Cadrà nelle mani d'un giudice.» E così fu di fatto, [204] come abbiam narrato più sopra. Laonde è chiaro, che non solo i profeti preveggono l'avvenire, ma lo preveggono talvolta anche i demonii e gli uomini peccatori, e tanto meglio i giusti, come diremo, se ci basterà la vita a parlare del seguente millesimo. Nell'anno sussegnato, un Sabato 17 Maggio, all'ora del pranzo, fu ucciso Pinotto figlio di Ghiberto da Gente, nella villa di Campegine, da' suoi nipoti, figli di Lombardino da Gente, de' quali uno aveva nome Ghibertino e l'altro Guglielmino; e fu ucciso per una contesa che avevano tra loro per un mulino, anzi per cosa da meno, cioè una pezza o stretta lingua di terra, che era di dietro ad un molino. Ma già sin da anni addietro aveva avuto a litigare anche con Lombardino padre di costoro; e per ciò andarono con alcuni malfattori ed assassini, che gli furon sopra con armi e con randelli e l'uccisero.... E qui osserva un triplice giudizio di Dio. Primo, che tutti quelli che sapevano della premeditata uccisione della moglie di Pinotto, cioè di Beatrice di Puglia, e vi acconsentirono, in breve giro di tempo furono uccisi anche essi, e primo fu Pinotto; secondo, Guido di Bibbianello (il quale porse occasione a Pinotto di farlo uccidere, perchè volle dormire con lei; ma ella si ricusò di consumare l'adulterio, non solo per non commettere una turpitudine, ma anche perchè Pinotto e Guido erano fratelli consanguinei). Terzo, fu un certo Martinello, che una notte la soffocò con un piumino in Correggio. Il secondo giudizio è che quel Martinello, uccisore della moglie di Pinotto per mandato avutone da Pinotto stesso, ebbe poi anche mano nella uccisione di Pinotto; e Martinello poi, ferito all'assedio di Moncaulo[112], tornato a casa morì per non aver saputo guardarsi dalla propria moglie. Terzo giudizio di Dio e miracoloso si è che se [205] per caso gli uccisori di Pinotto fossero state persone estranee alla famiglia, i nipoti stessi, che lo hanno fatto uccidere, per l'onore di casa loro e secondo l'uso e la vanità della gloria mondana, lo avrebbero vendicato. Parimente, nel Venerdì precedente, il Consiglio Municipale di Parma deliberò di compiere il castello di Navone, presso Reggio, sulla pubblica strada, vicino alla borgata di Cadèo. Lo stesso anno, ai 16 di Giugno, quelli di Gesso andarono contro quei di Querciola[113], coi quali erano federati e avevano fatto tregua, volendo da loro trarre preda e prigioni, mentre i giorni precedenti ne avevano ucciso parecchi, e avevano fatto bottino di animali, e condotti via dei prigionieri. Essendo dunque, dopo aver fatta tregua con loro, di nuovo contro di loro ritornati, con intenzione di predare, ai 16 di Giugno, come è detto, arrivarono i militi Reggiani della città con a capo Pocapenna di Canossa e si accamparono fra Gesso e Querciola, ma non videro che le spalle de' nemici fuggenti, secondo quel detto.... Poichè i Reggiani stavano in armi contro loro da una parte, e quei di Querciola dall'altra, e ne fecero centotrè prigionieri; e la più parte furono condotti a Reggio legati ad una sola fune, e posti a ceppi sotto buona guardia nelle carceri del Comune. Quei di Querciola però se ne ritennero alcuni a risarcimento dei danni loro inferti da quei di Gesso. (Querciola è una villa di Matteo Fogliani). Non vi fecero però prigionieri che uomini assoldati, mentre i maggiorenti di Gesso se ne stavano in casa protetti dal castello; i quali poi, udita la cattura dei loro soldati, gridarono dicendo: Guai a noi; perocchè non fu tanta esultanza ieri e ieri l'altro: Guai a noi! chi ne libererà dalle mani di cotesti sublimi Dei, (Re 1º). La sera susseguente quelli di Reggio innalzarono una fiaccola ardente sulla vetta della torre del Comune a segno di contento [206] e di letizia per allegrare l'animo de' loro amici, che erano in Bibbianello e ne' castelli vicini; i quali fecero altrettanto innalzando fiaccole accese, come fanno i contadini in tempo di quaresima, quando fanno illuminazione alle loro casette e capanne. Così pure fecero quelli della plebana di Caviano alzando una fiaccola accesa sulla punta del loro campanile. All'indomani Monaco di Bibbianello mandò gente d'armi a bruciare le case che erano attorno a Canossa[114] per vendicare l'incendio della villa di Caviano, operato da quei di Gesso. Tre giorni dopo, cioè la festa di S. Gervaso e Protaso, corsero i Reggiani sopra il castello di Mozzadella[115] e distrussero le case, e tagliarono le vigne, che vi erano attorno; e con loro vi erano quelli di Bibbianello, delle Quattro Castella, di Bibbiano e di Caviano, e fu fatto un gran guasto di vigne. Ma quelli del castello di Gesso ferirono molti degli assalitori cogli archi e colle saette, e lo stesso giorno i Reggiani se ne tornarono a casa, a numero completo, intatti; i feriti furono di quelli delle Quattro Castella e di altre ville. Nel detto anno, l'ultimo di Giugno, que' di Sassuolo, licenziati da quelli di Modena, che li accompagnarono sino ai confini, ritornarono alla loro città, e ritornarono in pace e coll'annuenza dei Modenesi della città; e morì il Vescovo di Modena, che [207] era di Milano, e si chiamava Ardicione, già vecchio e carico d'anni; e vi fu in Modena viva agitazione, che durò parecchi giorni per l'elezione di un nuovo Vescovo. Finalmente fu eletto frate Filippo Boschetti di Modena, che era de' Minori. Dal partito contrario ne fu parimente eletto uno, cioè Guido de' Guidi Arciprete di Cittanova, dotto nel diritto canonico, ma aveva la vista lesa, ed era fratello di frate Bonifacio de' Guidi, anch'esso frate Minore. Finalmente la vinse frate Filippo e fu consacrato Vescovo di Modena. E nota che a' miei tempi molti frati Minori e Predicatori furono insigniti delle Prelature Vescovili, ma più in grazia de' parentadi e de' consanguinei, che in grazia dell'Ordine a cui appartenevano. Poichè i Canonici delle Cattedrali e delle Chiese madri di ciascuna città non amano avere a loro superiori dei Religiosi, benchè sappiano che splendono per dottrina e per costumatezza, d'onde avviene che que' canonici temono di essere rimproverati delle loro lascivie e carnalità..... E de' frati Minori e Predicatori l'Abbate Gioachimo dice nell'esposizione di Geremia: «Questi due Ordini semplici ed umili sorgeranno in mezzo alla Chiesa, e allora aspramente sgrideranno e redarguiranno la meretrice di Babilonia....» (Nota che per la meretrice di Babilonia si può intendere ogni anima peccatrice). Di questi due Ordini disse anche l'Abbate Gioachimo: «Mi pare che uno raccolga indifferentemente ogni sorta grappoli, incorporando alla Chiesa chierici e laici; e che l'altro scelga soltanto le primizie dei chierici». Ma di questo basti; e la penna ripigli la narrazione dei fasti dei Reggiani, a cui ora è rivolto specialmente il nostro intendimento, almeno per quanto ha attinenza colla presente guerra, la quale nel sussegnato millesimo e nel seguente, di molto scosse, turbò e afflisse la città di Reggio. A questi giorni del sunnotato anno, cioè 1287, in Luglio, evasero dal carcere del Comune di Reggio ventotto prigionieri; [208] per cui fu incarcerato Scalfino, figlio di Guido degli Indusiati, e sottoposto a tormenti, perchè i Reggiani erano persuasi che avesse fatto avere ai carcerati una lima per aiuto ad evadere. E, dopo altri tormenti, posero sotto le piante de' piedi di lui un fornello con pruni accesi, e con un manticello soffiavano perchè i pruni fossero più vivi e ardenti a tormentare. E mentre stava ivi a sedere co' piedi sopra il fuoco, fecero venire suo padre, perchè vedesse il figlio tra quel martirio. Oltracciò Guido fu condannato in trecento lire della moneta di Bologna, che pagata, lo lasciarono andare in libertà. A questi dì alcuni ebbero pensiero di fare una tradigione del castello di Reggiolo a danno della città di Reggio, e a beneficio di quei di Gesso, ma la frode fu scoperta dai Reggiani la Dio mercè: Il quale dissipa i pensieri dei malvagi, che non possan compiere i disegni che avevano cominciati; e di quelli che erano alla custodia del castello di Reggiolo, ne fuggirono dieci, che dovevano esserne i traditori. Però dai Reggiani fu preso il nipote di Corrado di Canino da Palù, cioè un figlio d'una sorella di lui, e si chiamava Corradino del Bondeno, e fu più e più volte sottoposto a gravi tormenti. Poscia fu appeso per le braccia al palazzo del Comune, poi mozzato del capo, tratto a coda di cavallo a suggello di derisione, di vergogna e di obbrobrio sempiterno, e finalmente bruciato. Dopo di che tutti i Canini, che sono della famiglia dei Palù, furon posti al bando perpetuo del Comune di Reggio con tutti i loro eredi. E noto che quei di Gesso, se veniva lor fatto di avere in mano Reggiolo, speravano che Veronesi, Mantovani e quei di Sesso accorressero, sorprendessero la città di Reggio, e ne scacciassero l'altro partito che ora ne tiene la Signoria. E Corrado Canino era designato Podestà di Reggio per tre anni. Ma l'iniquità ha mentito a sè stessa, come era ben giusto, perchè due mesi prima Corrado aveva fatto uccidere l'Arciprete [209] Fagioli di Fornovo[116] Parmense, ed un suo nipote (figlio di Alessandra sorella di Rolandino di Canossa) che si chiamava Carotto, ed era fratello di Bonifacio, il quale era balbuziente, che aveva cioè la lingua non sciolta. E mentre aveva perpetrato tutti questi delitti, i Reggiani, a cui fu ingrato, tolleravano che abitasse in Reggio nella chiesa di S. Nicolò, che è del monastero delle Fontanelle[117] nell'agro Parmigiano, quantunque Guglielmo Fogliani Vescovo di Reggio, e poscia i frati Gaudenti, se la volessero in seguito appropriare. Si diceva che anche il Vescovo di Parma avesse dato dugento lire a quei di Gesso, come aiuto ad impadronirsi di Reggiolo, e che, quando quelli di Sassuolo furono prosciolti dai Modenesi, mandò dugento uomini di cavalleria, e duecento di fanteria in loro aiuto (ma siccome i Reggiani corsero prontamente in aiuto de' Modenesi, quei quattrocento non poterono compiere il loro disegno, perchè temevano che fosse loro impedita la ritirata per Reggio) dei quali poi si valsero quelli di Gesso per mettere a ruba e a fuoco Caviano, come abbiamo più sopra narrato. E sappi che al principio di questa guerra quelli di Gesso furono audacissimi, bruciando, distruggendo, catturando quelli del partito avverso. Ma poi cominciarono ad accasciarsi, perchè i Reggiani ogni momento salivano a loro con numerosa gente, e ne esportavano le biade, incendiando le case, tagliando le vigne di Rolandino, che davano il vino della vernaccia, e disertarono la vigna di Guido d'Albareto, e ne misero la casa a fuoco. Questa casa aveva molti alloggi e più palchi; vi era la loggia, la sala del palazzo, molte camere da letto, cucine, stalle, cantine, forno, quartieri pe' militi di guardia, mulini e parecchi nascondigli, e, tutto, la [210] fiamma vorace annientò. Lo stesso anno vi fu un immenso sviluppo di zanzare, al monte, nelle paludi e al piano, dal principio di Luglio sino al giorno di S. Maria Maddalena; ed erano molestissime per l'importunità e la punzecchiatura. E noto che quest'anno ritardò di molto la maturazione delle biade, tanto che gli agricoltori e i mietitori non si sbrigarono della raccolta che verso S. Maria Maddalena, e quel che pe' Giudei fu annunziato come una benedizione, cioè: La trebbiatura delle messi toccherà la vendemmia, e la vendemmia si sovrapporrà alla seminagione, Levitico I, i cristiani se lo attribuivano a castigo. Parimente nel detto anno il figlio del Re d'Aragona, che era figlio[118] del fu Imperatore Federico II vinse i francesi, che sotto Re Carlo avevano fatto le campagne di Puglia e di Sicilia, e s'impossessò di tutto il Regno. Nello stesso anno la grossa e bella campana del Comune di Parma si ruppe per imperizia del campanaro a suonarla. Così pure lo stesso anno ebbero convegno in Parma gli ambasciatori di Bologna, Modena, Reggio, Brescia, Piacenza e Cremona per trattare e deliberare intorno ad una concordia e ad una pace delle città Lombarde, affinchè ognuna potesse godere quiete sicura e vivere tranquillamente, senza lasciarsi sopraffare da nemici a cagione delle loro dissensioni.... Nello stesso anno fu celebrato a Montpellier un Capitolo generale de' frati Minori, e fu creato Ministro generale Matteo di Acquasparta, Toscano, della valle di Spoleto. Ed in questo generale Capitolo non furono presi buoni provvedimenti, secondo il modo di vedere degli Italiani [211] e secondo la consuetudine degli altri Capitoli generali. Fu ivi Vicario frate Pietro di Fallengaria[119], che fu poi mandato lettore alla Corte, essendo maestro dottorato. Similmente a questi giorni sorse un'infocata discordia nella Romagna per ire di partiti; e nello stesso anno e mese, quattordici di quei ribaldi che erano in Gesso si proposero di andar a spogliare il convento dei frati Minori di Montefalcone. Il che saputosi da Giacomino dei Panzeri e da Bonifacio di Canossa, fratello dell'Abbate di S. Prospero di Reggio, li minacciarono, e per timore se ne rattennero e decamparono dalla loro stoltezza. Parimente nello stesso anno, e in quegli stessi giorni, i popolani di Bologna presero gravi deliberazioni contro i loro Cavallieri, e contro tutti i nobili della città, cioè che qualunque Cavalliere o nobile offendesse alcuno appartenente ad una compagnia d'uomini del popolo, così se ne devastassero le ville, le case di città e di campagna, i campi e le piante, che de' loro beni non restasse pietra sopra pietra. Ed in queste punizioni incapparono per primi i figli di Nicolò dei Bazelerii, che dal popolo furono completamente in ogni loro cosa devastati. D'onde venne che tutti i Cavallieri di Bologna, per l'impeto del popolo furente, già temono di abitare in città; e, a guisa dei Francesi[120], dimorano nelle Ville sui loro possedimenti; e perciò i popolani, che abitano in città, a guisa dei Francesi anch'essi, possono chiamarsi borghesi. Ma i popolani debbono temere che piova su loro l'ira di Dio, perchè operano contro la divina Scrittura, che dice, Levitico 19.º: Rendi giusto giudizio al tuo prossimo ecc. non far vendetta e non serbare odio a que' del tuo popolo. [212] Così per opera de' popolani e de' contadini il mondo si distrugge, e si conserva per opera de' Cavallieri e dei nobili. E Pateclo nel libro de' Tristi disse: Et quando de sola fit tomera ecc. Quando la suola diventa tomaio ecc. E vuol significare che ogni cosa diviene grave a sopportarsi, quando chi deve star di sotto monta sopra. La qual cosa il Signore minaccia di fare anche per punizione dei peccati, (Deuteronomio 28.º): Il forestiere che sarà nel mezzo di te sarà innalzato ben alto sopra di te ecc. e tutte queste maledizioni verranno sopra di te ecc. Ma poscia è da temere che non avvenga il rovescio della medaglia, perchè in giorno di fortuna, si mutano le corna della luna. Richiàmati a memoria l'esempio de' beccai di Cremona, de' quali uno aveva un grosso cane, che tollerò con pazienza molte molestie infertegli da un ringhioso bottolo d'un altro beccaio; ma siccome quel cagnotto non voleva smettere il solito disturbare, perciò fu sommerso e annegato in Po. E così sono molti a questo mondo, che, se vivessero in pace, nessuno li toccherebbe; ma andando studiatamente in cerca di brighe, le trovano poi... ma di ciò basti e riparliamo dei Reggiani. A questi giorni dell'anno sunnotato, cioè 1287, quelli di Gesso stretti da neccessità, perchè incalzati da' nemici, si serrarono nella rocca, e subito arrivarono i Reggiani della città coi loro alleati a cingerli d'assedio, e li tennero stretti quasi quindici giorni. E allora vennero ambasciatori da Bologna e da Parma per pacificare tra loro quei di Gesso assediati nella rocca, e quelli di Reggio che li assediavano. E così col pretesto di trattare la pace fu levato l'assedio e quelli di Gesso uscirono dalla rocca; ma pace non si fece. Anzi quelli di Gesso operarono peggio di prima, depredarono, distrussero le ville della diocesi di Reggio, fecero prigionieri e li sottoposero a studiati e inconsueti tormenti per indurli a riscattarsene per denaro. E coloro che tali cose facevano erano assassini [213] di Bergamo, di Milano, della Liguria, che quelli di Gesso avevano assoldati.... E avendo una volta pigliato un poveretto, che non aveva loro recato punto offesa, anzi avrebbe loro fatto servigio, se avesse saputo come, lo legarono, lo trassero a Gesso, e gli dissero: Imponi a te stesso la taglia: Che era quanto dire: Di' tu quanto ne puoi dare. Ma avendo risposto che nulla poteva dare, gli martellarono la bocca con un sasso, e gli caddero sei denti, ed un settimo crollante stava per cadere. E altrettanto fecero a più altri. Ad alcuni gettarono al collo una corda a nodo corsoio, e strinsero tanto che gliene schizzarono fuori gli occhi dalle occhiaie posandosi sulle guancie; ad altri legavano soltanto il pollice della mano destra, o della sinistra, e li appendevano in modo che non toccassero terra; altri ancora sospendevano legati per i testicoli; a chi stringevano con fune soltanto il mignolo d'un piede, pel quale si sosteneva sospeso tutto il corpo; a chi legavano le mani a tergo, e li facevano sedere, e sotto i piedi mettevano un fornello di pruni accesi, che con un soffietto facevano diventare più vivamente ardenti; a chi legavano il pollice del piede destro con una funicella legata ad un dente, poi lo punzecchiavano nella schiena perchè cavasse a se stesso il dente; uno ne aveva legate le mani colle tibie presso alle calcagna (come agli agnelli destinati vittime, o al macello) e così un giorno intero senza mangiare e senza bere lo lasciavano sospeso ad una pertica; un altro era sfregato con un legno durissimo agli stinchi, finchè se ne vedevano scoperte le ossa; era insomma a vedere, e anche solo a udire, una miseria e una pietà indicibile. E quando i maggiorenti di Gesso li rimproveravano di fare quelle orribili crudeltà su uomini cristiani, si irritavano quegli assassini, e li invitavano imperativamente a ritirarsi, se non volevano essi stessi un simile trattamento. Quindi per necessità, volere o non volere, permettevano quegli orrori. Molte altre guise di [214] tormenti escogitavano ed applicavano, che per brevità non descrivo.... Entrarono dunque nella Bocchetta quei di Gesso il 1.º d'Agosto, giorno di S. Pietro in Vincoli, e vi stettero assediati sino al giorno dei SS. Martiri Ippolito e Cassiano, giorno in cui ne uscirono. Ed un giovine, che vi si trovava, disse a me che dentro vi erano 300 uomini e 240 cavalli. Fuori poi all'ingiro per l'assedio si noveravano 3000 uomini, computandovi i Reggiani e gli amici loro, che in diversi gruppi erano collocati quà e là pei monti attorno alla Rocchetta, come riserva. E se i Reggiani li avessero presi per fame (e prenderli si poteva, se non l'avessero impedito i Parmigiani e i Bolognesi coll'intromettersi pacieri) senza dubbio la guerra era finita, perchè i capitali loro nemici erano chiusi nella Bocchetta, e al di fuori i Reggiani avevano mangani e trabucchi, i cui urti gli assediati non avrebbero potuto sostenere. La Rocchetta poi è ad un miglio da Sassuolo, e a dieci miglia da Reggio. Questa è una valle chiusa attorno da monti, nel cui mezzo sorge un monticolo, sul quale è costrutta la rocchetta, che si chiama anche con altro nome Tiniberga per la seguente ragione. Alcuni Bergamaschi dei maggiorenti della città, per un omicidio da loro perpetrato, furono banditi dalla città loro e cacciati a perpetuo confino, senza speranza di più rimpatriare. Ed essendo andati a Reggio, chiesero al Comune di Reggio un luogo in cui poter abitare sicuri. I Reggiani permisero loro di girare attorno pel territorio Reggiano, e, ove trovassero un luogo non abitato da altri e a loro opportuno, ivi erigessero una loro fortezza e vi abitassero; e così costruirono la Rocchetta, che da loro fu denominata Tiniberga. Questa ora appartiene a Bernardo da Gesso. In questi giorni e nel susseguente millesimo i Bolognesi posero a confino molti dei loro Cavalieri o li mandarono a dimora in varie città. E ciò fecero i popolani, perchè cominciarono a dominare [215] sopra i Cavallieri. E nota che la divina Scrittura giudica pessima la signoria di certi ordini di persone, come sarebbero le donne, i ragazzi, i servi, gli stolti, i nemici, e le persone di bassa sfera, delle quali dice: Nulla di più aspro d'una persona d'umile condizione, quando sale ad alto grado. E Pateclo, nel libro dei Tristi, disse: Et cativo homo podhesta de terra ecc. D'ogni specie di queste Signorie cercane esempi più sopra. In questi giorni Monaco di Bibbianello, che è di Canossa, catturò Bernardo di Guglielmo, diacono della Chiesa di S. Antonino delle Quattro Castella, che spontaneamente e prontamente, senza costrizione di tormenti, come dicevano coloro che lo catturarono, confessò d'avere avuto il proposito di tradire Bibbianello e darlo a quelli di Gesso. E tosto gli segarono le canne della gola, e lo portarono in giro per il castello, morto... nudo; poscia lo precipitarono giù dal castello come un vile cadavere, e fu sepolto colla sola camicia nella Chiesa di S. Antonino. Cantando io messa in Bibbianello il giorno di S. Giovanni Battista, costui cantò alla messa il Vangelo; e lo stesso anno, il giorno dopo la Decollazione di S. Giovanni Battista, giorno di Sabato, fu scannato. Alla sorella di lui, di nome Berta, tagliarono la lingua, e la espulsero dalle Quattro Castella con comando di non ritornarvi. Essendochè attribuivano a lei, come anche alla concubina di lui, o amante o meretrice che fosse, la colpa di rivelare certi colpevoli segreti tra quelli di Gesso ed alcuni infami traditori delle Quattro Castella. Questo diacono era vecchio ed aveva la sua concubina... e finalmente non seppe e non volle confessarsi. Chi lo uccise si chiama Martinello, un famigerato assassino malfattore, che Monaco di Bibbianello teneva seco nella rocca. Parimente nell'anno precedente, dagli assassini di Monaco di Bibbianello fu ucciso Peregrino arciprete della Chiesa plebana di Caviano, a cui attribuivano la colpa di non essere sincero partigiano [216] di Monaco, e lo accagionavano di molte altre cose non meritevoli di essere ricordate. E furono quattro quelli che l'assassinarono: Raimondello, Giacopello, Acorto e Ferarello. Questi quattro una sera cenarono con lui, e la notte mentre egli dormiva nel proprio letto, colle spade l'uccisero, e lo bistrattarono così brutalmente ed oscenamente che pareva un mostro orribile. Ma non fu tarda la vendetta di Dio a raggiungere gli assassini di questo prete. Non passò un anno che Raimondello restò morto da quei di Gesso; anche Giacopello incappò nelle mani di quelli di Gesso, che gli schiantarono due denti, e appena se la potè svignare. Acorto e Ferarello li colpì Iddio ne' loro letti. Parimenti nel millesimo sussegnato, quando il Podestà di Bologna e i cittadini Bolognesi trassero dalla clausura quelli della Rocchetta, condussero secoloro a Bologna Rolandino di Canossa, lo posero tra ceppi e sotto custodia per avere una malleverìa che si farebbe la pace, e ve lo tennero a lungo; fecero altrettanto a Bartolomeo dei Panzeri, una volta giudice, cittadino Reggiano, e al Prevosto di Carpineti, che era figlio d'Alberto Fogliati e fratello di F.... Così nello stesso anno tutti quelli dell'antico partito di Federico Imperatore, che tanto tempo erano stati esuli dalle loro città e girovaganti, mulinarono di impadronirsi di qualche città, in cui abitare senza vergogna o senza tristezza, pronti a pigliarsi vendetta de' loro nemici, se non volessero vivere in pace con loro. Ed a ciò meditare li aveva indotti una necessità durissima, perchè... cioè quelli che parteggiavano per la Chiesa in niun modo volevano loro aprire le viscere della misericordia, accoglierli pacificamente e riammetterli nelle loro città. Perciò macchinarono di tentare ciò che abbiamo accennato più sopra; e Rolandino di Canossa con quelli di Gesso aveva giurato a quelli di Sesso che per tutta sua vita non entrerebbe in Reggio, se non vi entrasse di pieno accordo con loro, come conveniva. [217] Si adunarono dunque quelli dell'antico partito imperiale, cioè di Cremona, di Parma, di Reggio, di Modena, di Bologna, e tirarono seco quei di Gesso e di Sassuolo, e avevano in loro aiuto da Verona e da Mantova cinquecento cavallieri, e duecento tedeschi. E ai 7 di Settembre, Sabbato, sull'ora del mattutino, Tomasino di Sassuolo, con alcuni altri, entrò in Modena per l'alveo del canale, e per porta Bazoaria, e cominciò a scorrazzare qua e là, e a dire gridando che sua era la città e de' suoi Cavallieri, e vi piantò sue bandiere e sue insegne: Ma la iniquità mentì a se stessa, la Dio mercè, che dissipa i propositi dei malvagi, sicchè non possono adempiere le cominciate imprese. Giobbe 5.º. Diffatto avevano già posto mano all'uccisione dei fanciulli, la cui innocenza Iddio immantinente in due maniere vendicò: primo, aprendo ai fanciulli le porte del paradiso, così che intanto che da altri ricevevano la morte, da lui erano assunti alla vita del cielo; secondo, non permettendo loro di impossessarsi della città, la quale indubbiamente sarebbe stata occupata, se si fosse aperta la porta, non potutasi così subito aprire, perchè era ferma in alto da una sbarra di ferro. Non fu dunque abbastanza accorto Tomasino di Sassuolo, gridando troppo presto: Nostra è la città, prima che fosse aperta la porta. Così pure non erano ancora arrivati ad aiuto i duecento tedeschi, che giunsero dopo; e i cinquecento che erano venuti da Verona e da Mantova con altra moltitudine, aspettavano di fuori, volendo entrare in città sol quando fosse libero il passo a chi era per entrare. Ma siccome entrare non potevano, posero fuoco alla porta, affinchè bruciate le imposte, fosse tolto ogni ostacolo. Ma anche allora incontrarono due impedimenti: primo, che soffiava un vento gagliardo e loro contrario, sicchè avventandosi le fiamme verso loro, li costringeva ad allontanarsi; secondo, perchè la fornace di bragia che era sull'ingresso [218] dopo bruciate le porte, non permise loro di introdursi. E gridando alcuni: Al fuoco, al fuoco, svegliarono i cittadini, che dato di piglio alle armi, e combattendo virilmente, fiaccarono i nemici, li respinsero, a punta di spada li fugarono, e li inseguirono sino a Sassuolo... permisero loro di entrare... cominciarono a cercare studiosamente i traditori. E presero Grassone de' Grassoni... e lo impiccarono alla porta Bazoaria; e in quei giorni, nella suddetta occasione, trentanove persone furono appese al patibolo, tra le quali, come si diceva, alcune erano innocenti. Era allora Podestà di Modena Bernardino di Ravenna, figlio di Guido da Polenta e di... da Fontana, e di Samaritana Alberghetti di Faenza. In quel tempo Matteo da Correggio andò a Modena, e nel palazzo del Comune, in pieno Consiglio, rimproverò acremente il Podestà, dicendo: Di certo, Voi, o Podestà, addossate una grave responsabilità a noi e a questa città; responsabilità, per cui ne bisognerà tremare per tutta nostra vita, a cagione della precipitata vendetta... che avete fatta.... Detto ciò, ognuno se ne tornò a casa propria. Parimente nel detto anno, agli 8 di Settembre, giorno della Natività della Beata vergine, verso l'ora di Vespro, quelli di Gesso, in tempo di tregua pattuita con quelli di Bibbiano e delle Quattro Castella, i quali avevano già spillato il denaro convenuto, ripiegarono indietro e non attennero la fede data, ma s'avventarono sopra questi, come ho visto io co' miei occhi, e rapirono e condussero via dai pascoli dieci paia di buoi, una giovenca, quattro ragazzi, ed uccisero un uomo. Ma quelli dello Quattro Castella, cioè di Bibbianello... A questi giorni si celebrò un Capitolo provinciale per la provincia di Bologna presso Ferrara, al quale intervenne anche il Ministro Generale frate Matteo di Acquasparta. Era allora Ministro provinciale di Bologna frate Bartolomeo di Bologna, riputatissimo maestro dottorato. [219] E per celebrare solennemente il detto Capitolo fece le spese il Marchese d'Este, e ne onorò la mensa a pranzo. E la Marchesa sua moglie, che era malata, morì; e come essa aveva vivamente desiderato, fu onorificamente sepolta dai frati del Capitolo nel convento dei frati Minori. La sua anima per la misericordia di Dio riposi in pace, perchè in vita e in morte fece molti benefizii ai frati Minori. Parimente nello stesso anno, in settembre, ai dieci, nell'ottava della Natività della beata Vergine, morì a Parma Salvino Torriani di Milano, e fu sepolto al convento de' frati Minori di Parma, nel sepolcreto dei frati. Volle essere sepolto senza pompe funebri, e così fu fatto. Fu genero del Conte di S. Bonifacio di Verona, che aveva moglie una figlia di lui. Era straricco. Si confessò divotamente dai frati Minori. Aveva fatto un bellissimo testamento, nel quale molto aveva legato per la sua anima ai poveri di Cristo; specialmente ai frati Minori, ai Predicatori e ad altri Religiosi sì di Milano che d'altri paesi. Ma Guido da Correggio l'adulterò con abrasioni e mutamenti, e l'anima sua Iddio la depenni dal libro della vita, se non restituisce quanto, a frode e a malizia, ha tolto ai poveri di Cristo, perchè fece graffio alla volontà di un buon uomo, che aveva steso un testamento bellissimo per la salute dell'anima sua. E questo Guido da Correggio, cittadino di Parma, non aveva con lui attinenze di parentela, era a lui estraneo affatto, anzi nemico. E siccome dice Iddio che, chi si umilia sarà esaltato, perciò quel Salvino, che si umiliò coi miti di cuore scegliendo... ora presso la porta... nell'atrio dei Minori è tumulato il suo corpo in un ricco e bellissimo mausoleo; e la sua anima per la misericordia di Dio riposi in pace. Nel detto anno, in settembre, i Parmigiani cominciarono a murare un ponte di pietra detto dei Salarii, sul torrente Parma, sino alla via, che va a S. Cecilia; e murarono anche la porta di borgo Sant'Egidio, [220] che conduce a S. Lazzaro, che è sulla strada pubblica. Similmente la porta del prato di S. Ercolano, per la quale si va al borgo, che si chiama di Bologna. E a clausura della fossa vi fecero un muro in testa, presso il naviglio e il molino, perchè le fosse più a lungo tenessero l'acqua. E a questi giorni vi era in Parma ardente discordia fra il Vescovo Obizzo Sanvitali e Guido da Correggio. Eglino erano i due Capitani dei partiti, che erano in quel tempo nella città; nè erano stati fatti Capitani dai cittadini di Parma, ossia eletti, ma da sè stessi si erano arrogata la supremazia; e l'uno e l'altro credeva di operare secondo ragione e a vantaggio della città. E le persone d'allora, secondochè parteggiavano, parlavano anche, lodavano, biasimavano chi l'uno, chi l'altro. Ma il beato Agostino dice che poco è da curarsi dei giudizii degli uomini; e la ragione che ne dà è questa; non ti può infamare un oltraggio, ne ti può coronare una adulazione. Parimente nel sunnominato millesimo, la vigilia di San Giovanni Battista... l'armata di Pietro... Re d'Aragona colò a fondo, al di là di Napoli,[121] molte navi Francesi. E molti plebei, ossia popolani, e Cavallieri, e nobili, e baroni, che erano reliquie dell'esercito di Re Carlo, n'ebbero cavati gli occhi. E fu cosa veramente degna e giusta... perocchè sono superbissimi stoltissimi, e uomini quasi... maledetti, che sprezzano tutte le nazioni del mondo, e specialmente gli Inglesi ed i Lombardi, e per Lombardi intendono tutti gli Italiani e i Cisalpini, mentre son dessi che veramente meritano di essere disprezzati, e che realmente li sono da tutti. Ai quali può applicarsi a capello quel che per canzonatura dicesi di Trutanno:

Dum Trutannus in m pateram tenet et sedet ad pir (sic)? Regem Capadocum — credit habero cocum.

[221]

(Forse vuol dire) Quando Trutanno ha in mano il bicchiere, e sta seduto ad un buon fuoco si leva in tanta superbia da credere che il Re di Capadocia sia il suo cuoco.

Perocchè dopo aver ben bevuto i Francesi si danno da credere di poter vincere e balloccarsi tra mano tutto il mondo. Ma s'ingannano.... I Francesi adunque portano altissima la cresta. E affliggevano i regnicoli, i Toscani, i Lombardi, che dimoravano nel regno di Puglia, e loro rapivano... gratuitamente, cioè senza pagare... frumento... e carni, capponi, oche, galline, e quanto può servire a vittovaglia. E non si limitavano a non pagare le derrate, o le grascie comperate, ma per sopraccarico percuotevano e ferivano chi loro vendeva. Questo eccesso si mostrò chiaro nel fatto che sono per narrare. Un Parmigiano aveva una bellissima moglie, la quale domandando ad un Francese il prezzo delle oche, che a lui aveva vendute, non solo egli si rifiutò di dare il danaro patteggiato... ma per giunta la percosse con un colpo tanto grave che non vi fu bisogno del secondo, e a scherno le domandò se volesse null'altro da lui. Questa cosa seppe il marito, e ne fremette sì.... Morì anche nel detto millesimo il Re dei Saraceni di Tunisi; e, in odio di Re Carlo, elessero loro Re un figlio del fu Pietro Re d'Aragona. Il quale accettò... ed assunse la Signoria di loro. E questo Re d'Aragona era figlio d'una figlia di Manfredi, Principe di Puglia, il quale poi era figlio del fu Federico Imperatore spodestato...

Fine della Cronaca.


[223]

FRAMMENTI DI UN LIBRO INTITOLATO Il Prelato

SCRITTO DA FRA SALIMBENE

AGGIUNTI ALLA CRONACA DELLO STESSO AUTORE

[225]

ALCUNI FRAMMENTI

Incomincia il libro, che ha per titolo Il Prelato, a cui fare mi porse occasione frate Elia: e contiene molte buone ed utili cose.

Parimente nel suddetto millesimo, cioè 1238, indizione 11.ª io frate Salimbene di Adamo, parmigiano, vestii l'abito dell'Ordine de' Minori, il giorno 4 di Febbraio, festa di S. Gilberto, e fui ammesso la sera della vigilia di S. Agata dal Ministro Generale frate Elia nel convento di Parma, d'onde egli stava per muovere alla volta dell'Imperatore in Cremona, mandatovi da Papa Gregorio IX; essendo che frate Elia era intimo amico dell'uno e dell'altro, e perciò opportuno mediatore tra loro. E in vero, secondochè dice il beato Gregorio «quando si manda come oratore una persona che spiace a chi si manda, si sdegna l'animo di chi la riceve e si volge al peggio». E, quando fui ricevuto, eravi presente [226] frate Gherardo da Modena, che pregò perchè fossi accolto, e fu esaudito. Era allora Podestà di Parma Gherardo da Correggio, detto dai Denti perchè aveva i denti grossi; e venne in persona al convento dei frati Minori con alcuni Cavallieri per fare visita a frate Elia Ministro Generale, il quale aveva stanza in quella parte del convento ove è il refettorio degli ospiti o forestieri, e lo trovò seduto accanto a buon fuoco, sopra un sedile coperto con un cuscino di piume, e teneva in capo un cappello all'armena; e, come ho veduto io co' miei occhi, quando entrò il podestà e lo salutò, egli nè si alzò in piedi, nè si mosse punto. La qual cosa fu giudicata una grossolana villania, poichè Iddio stesso dice nella divina Scrittura, Levitico 19.º: Lèvati su davanti al canuto, ed onora l'aspetto del vecchio. Parimenti dice l'Ecclesiastico 3.º: Quanto più sei collocato in alto, tanto più in ogni cosa umiliati, e troverai grazia al cospetto del Signore. Anche l'Apostolo ai Romani 13.º dice: Rendete adunque a ciascuno il debito... l'onore a chi dovete onore. E di nuovo l'Ecclesiastico 41.º. Imperocchè non è bene di arrossire per qualunque cosa, e non tutte le cose ben fatte piacciono a tutti... Vergognati di tacere con quelli che ti salutano. Frate Elia però adempì un altro luogo della scrittura, che dice, Proverbi 26.º: Chi dà gloria allo stolto fa come chi gittasse una pietra preziosa in una mora di sassi. [227] Uno dei genitori di frate Elia, cioè il padre, era di Castello dei Britti[122] nella diocesi di Bologna, e la madre di Assisi, e nel secolo questo frate[123] aveva nome Bombarone, faceva il materassaio, o insegnava in Assisi a leggere il Salterio ai ragazzi. Entrato nell'Ordine de' Minori, ricevette il nome di Elia e diventò due volte Ministro Generale. Godeva i favori dell'Imperatore e del Papa, ma col tempo Iddio lo umiliò a seconda della sentenza: Questo umilia, quello esalta... non così accadde a frate Elia; anzi siccome non ebbe riconoscenza pei favori ricevuti, fu destituito in modo che non fu mai più riammesso nel suo grado; la qual cosa egli non aveva mai potuto darsi a credere.... Questo poi avvenne nell'anno successivo, come diremo, quando fu deposto da Papa Gregorio IX in un Capitolo generale; e bene se lo meritò per le brutte colpe che aveva. E prima di tutto parliamo della sua villania verso Gherardo da Correggio, che essendo nobil uomo ed insignito di sublime dignità, [228] poichè era Podestà di Parma, ed essendosi recato a lui per fargli visita e rendergli onore, egli avrebbe dovuto alzarsi in piedi per far onore anche a sè stesso. Imperocchè l'onore non è solamente di colui, a cui si dispensa, ma eziandio, e più, di colui che lo dispensa. Frate Elia non considerò l'atto suo sotto questo aspetto, e quindi commise villania. Perciò Pateclo di tali persone dice nel libro dei Tristi:

Cativo hom podhesta de terra

E povero superbo ki vol guerra.

E senescalco kintrol desco me serra.

E villan ki fi messo a cavallo.

Et homo ke zeloso andar a ballo.

E l'intronar de testa quando fallo.

E aver hom ki in honor aventura

E tutti quanti de solazo no cura.

Quel Gherardo da Correggio era alto di statura, di giuste proporzioni di membra, tenea più del macilento che del pingue, Cavalliere robusto e dotto nell'arte della guerra. Io lo ho veduto due volte Podestà di Parma; la prima, quando entrai nell'Ordine; poi, quando la città di Parma si ribellò al deposto Imperatore Federico II. Egli fu amico intimo e speciale di mio fratello Guido di Adamo, frate dell'Ordine de' Minori, ed era padre di Guido e di Matteo da Correggio, che tutti e due ebbero l'onore di molte podesterie. Uno di loro, cioè Guido, fu ardente guerriero [229] e dotto nell'armi, ed ebbe moglie Mabilia di Giberto da Gente, di cui generò figli e figlie. L'altro, cioè Matteo, fu Cavalliere di senno, nè ebbe figli, tranne uno illeggittimo. Quando io entrai nell'Ordine dei frati Minori, Tancredi Pallavicino, Abbate del convento di S. Giovanni di Parma, uomo di cortesia e liberalità distinta, di onorata fama e di vita onesta e santa, mandò a frate Elia Ministro Generale, perchè avesse da imbandire la cena per sè e pei frati, un regalo di capponi, portati da un contadino penzoloni, davanti e di dietro, da una pertica che aveva sulle spalle. Era un Giovedì, ed era presente il Podestà ed io pure in abito ancora da secolare, e vidi tutto questo, e la sera dopo cena fui ammesso all'Ordine. Io aveva già lautamente pranzato in casa mia; eppure i frati mi condussero nell'infermeria e mi vollero servire un'ottima cena. Ma in seguito mi alimentarono di cavoli per tutta vita mia, quantunque da secolare io non avessi mai mangiato cavoli, anzi mi movevano tanta ripugnanza, che non avrei nemmeno mangiate carni che fossero state cotte con cavoli; e in seguito ebbi poi sempre in mente il detto tante volte ripetuto:

Milvus ait pullo.

Dum portaretur ab illo:

Cum pi pi faris,

Non te tenet ungula talis.

[230]

Ad un pulcin, che seco a voi traea

Stretto tra l'ugne, uno sparvier dicea:

Il pipilar che fai spettra ogni cosa,

Ma l'ugna che ti tien non è pietosa.

E Giobbe 6.º dice: Le cose che l'anima mia avrebbe ricusato pur di toccare, sono ora i miei dolorosi cibi. Inoltre frate Elia aveva il costume di parlare parabolicamente; ed una volta, interrogato da Gherardo Podestà di Parma, ove andasse ed a che fare, rispose: Il Papa, che mi ha incaricato di questa missione, è per me contemporaneamente una forza di attrazione e di repulsione. Quasi volesse dire che passava da un amico ad un altro amico, e questa maniera di esprimersi fu giudicata dagli uditori ingegnosissima.... La seconda colpa di Elia fu di aver ricevuto nell'Ordine molte persone inutili. Io abitai due anni nel convento di Siena e vi trovai venticinque frati laici: ne abitai quattro in quello di Pisa, e ve n'erano trenta. E forse per molte ragioni Iddio permise queste ammissioni.... La quarta ragione si è che Dio lo aveva rivelato all'Abbate Gioachino. Onde, parlando egli di due Ordini futuri, dice: «Parmi vedere che l'Ordine de' Minori accolga senza distinzione ogni sorta di frutti della terra, e incorporerà nella Chiesa chierici e laici; e l'altro dia precipuamente la preferenza ai chierici». Se poi vi sia alcuno che voglia sapere qual colpa vi fu da parte di frate Elia nel [231] ricevere i laici nell'Ordine, se lo fece perchè Iddio aveva così decretato, rispondo che:

Quidquid agant homines, —

intentio judicat omnes

Null'opra in colpa all'uom giammai s'appone,

Se fatta sia con buona intenzione.

La passione di Cristo fu certamente cosa buona, anzi ottima, perchè per essa noi siamo stati redenti e siamo salvi; ma fu cattiva pei Giudei, i quali lo fecero patire, e poi non vollero credere in Cristo, che aveva patito. Così, se frate Elia riceveva nell'Ordine una moltitudine di laici per poter meglio con loro padroneggiare, o per averne le mani piene di denaro da loro contribuito, io sostengo che appunto per questo era veramente meritevole d'essere deposto. Perciò dice la sapienza nei Proverbi 17.º: L'empio prende il presente dal seno per pervertire le vie del giudizio. Egli se lo saprà. Terza colpa di frate Elia fu il promuovere uomini indegni alle Prelature dell'Ordine. A Guardiani, Custodi, Ministri promoveva dei laici, il che era fuor d'ogni ragione, non mancando nell'Ordine buona messe di chierici. Ed io a' miei giorni ho avuto per Custode un laico, e laici parecchi Guardiani. Non ho mai avuto un laico per Ministro, ma ne ho veduto parecchi in altre provincie. Nè è da meravigliare se li nominava, perchè l'Ecclesiastico nel 13.º dice: [232] Tutte le bestie fan società colle loro simili, così ogni uomo si unirà col suo simile. Che se alcuno obbietti l'articolo della nostra Regola che dice: I Ministri stessi, se sono preti ecc. io gli farò osservare che il citato articolo fu inserito per quel tempo in cui l'Ordine scarseggiava di Sacerdoti e d'uomini di nome e di lettere, quali ora abbiamo, e quali vi furono ai tempi di frate Elia. Quarta colpa di frate Elia fu non aver dato all'Ordine leggi generali tendenti a conservare la Regola e a servire di norma per il regime uniforme dell'Ordine stesso. Nè leggi generali di tale natura furono mai emanate, durante il governo di tre Ministri Generali, cioè del beato Francesco, di Giovanni Parenti e di Elia, che due volte, a nostro danno, fu Ministro. Imperocchè sotto il suo governo molti frati laici in Toscana portavano la chierica, come ho veduto co' miei occhi, quantunque non conoscessero nemmeno una lettera dell'alfabeto; alcuni dimoravano in città, accanto alle Chiese dei frati, chiusi in romitaggi, ma che avevano finestre, per cui mezzo tenevano colloquii colle donne; e i laici non erano utili nè a confessare, nè a dare buoni consigli. E questo l'ho veduto a Pistoia ed altrove. Così pure alcuni se ne stavano soli, cioè senza compagno, negli ospedali; e questo l'ho veduto a Siena, dove un frate Martino Spagnuolo, laico, vecchio e di bassa statura, serviva ai malati nell'ospedale, e tutto il giorno, [233] quando gli piaceva, se ne andava da solo gironi per la città; ed altri li ho veduti in tal modo girare il mondo. Ho veduto anche chi portava sempre la barba lunga, a uso degli armeni e dei greci, che lasciano crescere la barba senza mai raderla, nè avevano il cingolo. Altri si cingevano di una corda comune, con entro un'anima intorno alla quale i fili erano in vaghe e varie guise attorcigliati; e beato chi se la poteva comprare più bella. Sarebbe troppo lungo il noverare tante altre cose da me osservate, che erano ben lungi dal conferire onestà al vestiario. I laici erano fin anche mandati ai Capitoli per rappresentare i voti dei semplici fraticelli; e tanti altri laici, a cui per grado non spettava, a torme popolavano i Capitoli. Ed io, in un Capitolo provinciale convocato a Siena, ho visto ben trecento frati, la più parte laici, che ivi null'altro facevano che mangiare e dormire. E nella provincia di Toscana, quando io vi dimorava, che di tre provincie fu unita in una sola, erano tanti i laici, quanti i chierici, anzi di laici ve ne erano quattro di più. Ah! Elia, Elia! tu hai moltiplicato la gente, ma non hai accresciuta l'allegrezza, Isaia 9.º. Anderei troppo per le lunghe s'io volessi sciorinare tutte le grossolanità e gli abusi, che ho veduto, e forse me ne verrebbe meno il tempo e la carta, e annoierei i lettori senza alcun loro insegnamento. Se qualche frate laico vedeva od udiva un frate ancor giovinetto [234] parlare latino, ne lo rimprocciava dicendogli: Ah! meschinello, vuoi tu abbandonare la santa semplicità per far pompa del tuo sapere? Ai quali di ripicco io rispondeva: «La santa semplicità giova solo a sè stessa, e quanto per merito di vita è utile a edificazione della congregazione dei fedeli, altrettanto è nociva se non sa confutare i nemici della Chiesa». È vero che chi è asino vorrebbe che ogni cosa fosse dell'asino, secondo che fu scritto.... A quei tempi si arrivò al punto che i laici precedevano i sacerdoti; e in qualche romitorio, ove tutti, tranne un sacerdote e uno scolare, erano laici, volevano che anche il sacerdote, il giorno che gli toccasse, facesse da cucina. Ed una volta accadde che il sacerdote fosse cuciniere in giorno di domenica, ed entrato in cucina e sbarrato bene l'uscio, cominciasse, come meglio sapeva, a cuocere gli ortaggi. Ma passarono alcuni Francesi secolari, che con insistenza domandavano una messa, nè vi era chi la dicesse. Corsero perciò in fretta i laici alla porta della cucina e bussarono perchè il sacerdote uscisse a dire la messa. Ma egli rispose: Andate, andate voi a cantare la messa, chè io faccio in cucina quel servizio che non volete far voi. Di che arrossirono grandemente e riconobbero la loro nullaggine. Ed era veramente una miseranda stoltezza non mostrare reverenza a quel sacerdote, che doveva poi essere giudice delle loro coscienze. Perciò [235] in processo di tempo sono stati ridotti a pochissimi, ed ora la loro ammissione è quasi al tutto proibita, perchè non ebbero nessuna riconoscenza per l'onore loro conferito, e perchè l'Ordine dei Minori non ha bisogno di tanta caterva di laici... che sempre tendevano insidie a noi. Ed io ricordo che in un Capitolo, tenutosi nel convento di Pisa, fu proposto di deliberare che quando si ammetteva un chierico si ammettesse contemporaneamente anche un laico; ma la proposta nè fu deliberata, nè ammessa alla discussione; chè sarebbe stata gravissima sconvenienza. Tuttavia quando entrai nell'Ordine dei Minori vi trovai molti uomini insigni per santità, per coltura letteraria e per ispirito di preghiera, di devozione e di contemplazione. E questo soltanto di buono ebbe frate Elia che promosse nell'Ordine dei Minori gli studi teologici. L'Ordine, quando io vi entrai, era stato fondato da trent'anni, e vidi il frate, che primo si era associato al beato Francesco, ed altri di que' primi. A Parma lasciai lettore di teologia frate Sansone, Inglese; ed a Fano, quando vi fui novizzo della Provincia d'Ancona, al cui governo sedevano due Ministri, ebbi lettore frate Umile di Milano. Ora che scrivo corre l'anno 1283, dopo la Natività della Vergine gloriosa, giorno di San Gorgone martire, e sta al governo della Chiesa Romana Papa Martino IV... la qual cosa accadde l'anno seguente quando fu deposto frate Elia, e fu [236] scritta una lunga serie di costituzioni. Quinta colpa di frate Elia fu di non aver mai voluto visitare il nostro Ordine; ma dimorava sempre o ad Assisi, o in un luogo che si era fatto fabbricare elegantissimo, ameno e deliziosissimo nella diocesi d'Arezzo, luogo che si chiama anche oggidì Cella di Cortona.... Sesta colpa di frate Elia fu di tormentare e gettare il vilipendio sui Ministri provinciali sino a che si riscattassero dalle sue persecuzioni, o spillando a lui danaro, o inviando regali. E quell'infelice accettava regali contro quel che dice la Scrittura nel Deuteronomio 16.º: Non aver riguardo alla persona, e non prender presenti; perciocchè il presente accieca gli occhi de' savi, e sovverte le parole de' giusti. E ne diede esempio Alberto Balzolano giudice di Faenza, che cambiò la sua sentenza dopo che ebbe saputo che un contadino gli aveva regalato un maiale.... Di più il sunnominato Elia teneva tanto a bacchetta i Ministri provinciali, che tremavano al suo cospetto, come giunchi scossi dalla corrente, o come allodola inseguita dallo sparviere, che vola a ghermirla. Nè è da farne le meraviglie; chè egli era figlio di Belial, e nessuno gli poteva parlare. Infatti nessuno osava dire a lui la verità, redarguendo i fatti di lui e le male opere, tranne che frate Agostino di Recanati e frate Bonavventura di Iseo. Con facilità vilipendeva i Ministri che erano calunniati da suoi cagnotti, [237] certi frati laici maligni, intrattabili e pieni di veleno, che erano sparsi per le Provincie dell'Ordine.... Li deponeva dall'ufficio loro anche innocenti, li privava di libri, li sospendeva dalla predicazione e dalla confessione e da ogni atto del loro legittimo ministero. Inoltre dava loro un lungo cappuccio e li mandava dall'oriente all'occidente, cioè dalla Sicilia o dalla Puglia in Ispagna o in Inghilterra, o viceversa. Così depose dall'ufficio frate Alberto Parmigiano, Ministro provinciale di Bologna, uomo santissimo, e per lettera, comandò a frate Gherardo da Modena di surrogare il Ministro deposto, e condurlo ad Assisi col cappuccio della probazione. Ma frate Gherardo, che era uomo mitissimo, nulla disse di tanto a quel Ministro; solamente lo pregò di seguirlo perchè lo voleva accompagnare a visitar la sede del beato padre Francesco. Andarono dunque ambedue vestiti ad un modo sino ad Assisi, e quando frate Gherardo fu all'anticamera di frate Elia tirò fuori due capparoni di probazione, e ne indossò egli uno, e l'altro lo diede al predetto Ministro di Bologna e disse: Mettitelo, o padre, e aspetta qui sino a che io ritorni. Presentatosi intanto frate Gherardo ad Elia, e prostratosi a piedi di lui, disse: Ho obbedito a voi, ed ho condotto qui il Ministro di Bologna in capparone; ed è quì fuori che attende, pronto a fare ciò che a voi piacerà di comandare. All'udir queste parole, si [238] dissipò ad Elia ogni nebbia di sdegno che gli ingombrava l'animo, e si calmò quel suo spirito gonfio contro di lui.... Introdotto poi frate Alberto, gli restituì il grado, di cui l'aveva spogliato, e per giunta gli fece, mercè frate Gherardo, molte concessioni a favore della Provincia. Per questa dunque e per altre simili cose del pessimo che era frate Elia, covavano nell'animo de' Ministri provinciali molti propositi di vendette. Ma aspettavano tempo ed opportunità di poter rispondere allo stesso secondo la sua follia: chè talora non gli paresse d'esser savio. Proverbi 26.º.... Era infatti Elia un pessimo, a cui possono benissimo applicarsi le cose dette da Daniele a proposito di Nabuccodonosor: Egli uccideva chi egli voleva, ed altresì lasciava in vita chi egli voleva; egli innalzava chi gli piaceva ed altresì abbassava chi gli piaceva. Come anche paion fatti a posta per lui que' versi che citai più sopra:

Asperius nihil est humili, cum surgit in altum

Nulla di più aspro d'una persona di umile condizione

quando sale ad alto grado.

Era durissimo il vivere sotto il suo governo.... Le tre mentovate cose si facevano coi Ministri provinciali ai tempi di frate Elia; si calunniavano; violenti giudizii sopra di loro cadevano; e si pervertiva [239] nelle loro Provincie il senso della giustizia... La terza colpa è manifesta, perchè come ho veduto io co' miei occhi, Elia metteva a stanza in ogni Provincia un visitatore, che vi rimaneva tutto l'anno, e girava attorno per la Provincia stessa come ne fosse stato Ministro, e soggiornava col suo compagno in ogni convento quindici giorni, ed anche un mese, or più, or meno, a suo grado. E le Provincie erano meno estese d'oggi; e chiunque aveva il ticchio di accusare il suo Ministro potevalo fare, chè egli davagli retta; e qual fosse cosa che un Ministro avesse ordinato nella propria Provincia, il visitatore potevala abrogare, o mutare, aggiungendovi o sopprimendone a suo talento. Onde avveniva che il cuore de' figli degli uomini si empiva di malizia e di disprezzo in sua vita. Ecclesiastico 9.º. Tuttavia i Ministri buoni perseveravano in loro virtù, seguendo il detto.... Ma Elia mandava visitatori, che erano piuttosto esattori che correttori dei costumi, e sollecitavano Provincie e Ministri a pagare tributi e mandare regali e, se alcuno non dava loro nulla in bocca, bandivano contro a lui la guerra. Michea 3.º. Di che avvenne che i Ministri provinciali del suo tempo fecero gettare a loro spese, in Assisi, per la chiesa del beato Francesco, una grossa campana, bella e sonora, da me veduta, ed altre cinque simili a quella, onde tutta la vallata echeggiava di dilettevolissima armonia. [240] Così anche, quando io, durante il mio noviziato, dimorava a Fano, arrivarono due frati che portavano a schiena d'asino un grosso pesce salato avvolto in istuoie, ed io l'ho veduto, che era un regalo del Ministro d'Ungheria a frate Elia.... Parimente in quel tempo per sollecitazioni del Ministro della stessa Provincia, il Re d'Ungheria mandò un'ampia tazza d'oro ad Assisi per teca e ad onore del capo del beato Francesco. Ma lungo il viaggio, essendo una sera stata deposta a custodirla nella sacristia del convento di Siena, alcuni frati, per leggerezza d'animo, e per certa loro vanità, con quella bevettero del più generoso che avevano, per potersi vantare d'aver bevuto in una coppa del Re d'Ungheria. Ma il Guardiano del convento di Siena di nome Giovannetto, e di patria d'Assisi, zelantissimo della giustizia e della onestà, risaputo il fatto, ordinò al refettoriere, anch'esso di nome Giovannetto, e nativo di Belfort, di porre, al pranzo del dì seguente, davanti a ciascuno di quelli, che avevano bevuto con quella coppa, una piccola olla nera e tinta, di quelle che volgarmente si chiamano pignatte, colla quale, volere o non volere, furono costretti a bevere, affinchè quando venisse loro il prurito di vantarsi d'aver bevuto con una tazza del Re d'Ungheria, tornasse loro a memoria che per quella colpa avevano poi dovuto bere in una pignatta sporca.... Finalmente l'Ordine [241] de' frati Minori mosse reclami a Papa Gregorio IX, contro le moltiplici vessazioni del pessimo Ministro Generale frate Elia; ed il Papa porse ascolto alle grida dell'Ordine del Beato Francesco, e depose quel pessimo di Elia.... i Ministri e i Custodi dell'Ordine per ispirazione divina elessero Ministro Generale dell'Ordine quel buon uomo di Alberto da Pisa, ed il Papa stesso raffermò la elezione, affinchè la fosse più presto finita, e tosto s'accordarono secondo la sentenza....... E avverti che dice: I figli di Giuda e i figli d'Israele, perchè nell'Ordine dei frati Minori si debbino adunare in uno solo e generale Capitolo i Cisalpini e i Transalpini e nominare senza intrighi, e senza scissure, uno solo e comune Ministro Generale... Tanto accadde al pessimo Ministro Elia, cui Papa Gregorio IX depose dall'Ufficio, come quello che spegneva la vitalità dell'Ordine del beato Francesco, e voleva tenersene il governo contro il placito de' Ministri provinciali e dei Custodi, a cui, secondo la Regola, spetta l'elezione. E qui è da avvisare che il frequente cambiar di Prelati giova per tre ragioni alla conservazione delle congregazioni religiose. La prima è, perchè non diventino insolenti, restando a lungo al governo, come si verifica negli Abbati dell'Ordine di San Benedetto, i quali eleggendosi a vita, e non essendo mai sostituiti, vilipendono i loro dipendenti e li stimano quanto la quinta rota [242] del carro» che non esiste; e gli Abbati coi secolari mangiano buone carni, mentre i monachelli nel refettorio vivono di legumi; e arrecano ai loro soggetti tanti altri disagi, e usano tanti sgarbi, che non dovrebbero farsi, mentre essi vogliono vivere lautamente e colla più ampia libertà........ Di cortesia ne hai uno splendido esempio in un Re d'Inghilterra, che trovandosi in un bosco coi suoi soldati accanto ad una sorgente, e, volendo pranzare, gli fu porto uno di que' vasi da vino che in Toscana si chiamano fiasconi e in Lombardia bottacci; ed avendo chiesto se vi fosse altro vino, ed avutone in risposta che no, disse: Ve ne sarà a sufficienza per tutti; e versò dentro la vasca dell'acqua il vino del fiascone, dicendo: Questa sarà bevanda comune per noi tutti. E fu giudicata somma cortesia.... Così non fanno que' Prelati che pranzando alla mensa comune co' loro dipendenti, sotto i loro occhi mangiano pane bianchissimo, e bevono vino generoso e squisitissimo senza farne loro minima parte, la qual cosa è tenuta come assai villana; e così pure fanno d'ogni altra cosa servita.... E così vi sono Prelati che bevono vino ottimo sotto gli occhi de' loro soggetti senza loro offrirne; e sì che ne berrebbero tanto volontieri quanto i superiori loro, giacchè tutte le gole sono sorelle. Certamente que' cotali non sono Inglesi, i quali al contrario usano dire: Voi dovete bere tanto, quanto [243] ho bevuto io...... e gli Inglesi credono usare cortesia, perchè bevono volontieri, e altrettanto volontieri offrono da bere agli altri. Ma i Prelati de' nostri tempi, che sono Lombardi, avidamente cercano per sè quello che la gola appetisce, e agli altri non vogliono darne; la qual cosa è il colmo della scortesia...... Dunque i Prelati, secondo l'esempio di Cristo hanno da servire i loro dipendenti. Il che a ragione si usa nell'Ordine di Pietro il peccatore a Ravenna, nel quale nei giorni di digiuno i Prelati servono la colazione ai loro soggetti a imitazione e memoria dell'esempio di Cristo..... Colui che presiede all'Ordine di Pietro il peccatore sta a Ravenna in S. Maria in Porto; e allo stesso Ordine appartiene anche Santa Fenicola nella diocesi di Parma, come pure molti altri conventi in più parti del mondo..... Secondo, per uso di lingua, come fanno i Pugliesi, i Siciliani ed i Romani, che danno del Tu all'Imperatore e al Sommo Pontefice, e tuttavia gli danno anche del signore, e dicono: Tu Messere. Terzo per ragione di età; poichè può convenire benissimo che si dia del Tu ad un garzoncello, che è fanciullo ancora giovinetto; ma i Lombardi danno del Voi non solamente ad un fanciullo solo, ma anche ad una sola gallina, ad un solo merlo, e fin anche ad un sol pezzo di legno..... Di S. Nicolò fu detto che in tutto e per tutto serbava sempre la stessa [244] umiltà e gravità di costumi; il che è veramente singolare, stantechè gli onori sogliono far mutare tenore di vita. Onde Pateclo nel libro de' Tristi disse:

Si me noia homo, ki desdigna

L'altra gente, per onor ke l'infia

Di S. Tomaso Arcivescovo di Cantorbery sta bene sapere che divenne tutt'altr'uomo da quel di prima dopochè fu fatto suo malgrado Arcivescovo; e si macerò le carni con cilicio e digiuni. Difatto non solo indossava per camicia un cilizio, ma di cilizio vestiva anche le coscie sino alle ginocchia. Occultava poi la sua santità tanto studiosamente, che, salve sempre le esigenze della onestà, sia nel decoro degli abiti, sia in ogni altra cosa che è d'uso comune della vita, non discordava dalle foggie dell'uso generale. Ogni giorno ginocchioni faceva l'abluzione ai piedi di tredici poverelli, serviva loro una refezione, e, date loro quattro monete d'argento, li licenziava..... Questo si può applicare a Re Artaldo, che credeva di poter porre limiti alla libertà della Chiesa, come è detto nella leggenda. Ma il Re tentava di piegarlo al suo volere, a danno della Chiesa, pretendendo che confermasse le consuetudini de' suoi predecessori contro la libertà della Chiesa. Ma il beato Tomaso queste cose non lasciò correre, e perciò n'ebbe il martirio.... Nell'Ordine dei Minori io ho avuto Ministro un frate Aldobrando [245] del castello di Fiagnano[124] nella diocesi di Imola, del quale, frate Albertino da Verona (Autore del sermone «Forse la memoria») scherzando diceva che aveva avuto qualche brutta idea contro Dio. Aveva egli un capo deforme, fatto a foggia dell'elmo degli antichi, e aveva molti peli sulla fronte. E quando nell'ottava dell'Epifania gli toccava d'intonare l'antifona Caput draconis (la testa del dragone) i frati si mettevano a ridere ed egli se ne conturbava ed arrossiva: A me poi tornava sempre a mente quel detto di Seneca: Qual anima pensi tu che viva dentro di chi ha un faccia tanto brutta?..... E questo accadde a Guglielmo Fogliani, che fu eletto Vescovo di Reggio quando in mezzo alle discordie cittadine fu eletto anche Guizzolo degli Albiconi, e l'anno 1253 gli fu necessità rifugiarsi a Mantova, a cagione delle contese tra il partito imperiale e il partito della Chiesa. Altrettanto capitò a Matteo di Pio Canonico della chiesa di Modena e Prevosto della chiesa di Ganaceto[125], che tanto armeggiò per diventare Vescovo di Modena, e vi riuscì; eppure era un gobbo sconciamente curvo. E per cagione di lui si sollevarono i partiti; e la fazione imperiale, a cui egli apparteneva, fu espulsa da Modena, e andò esulando, [246] come la ho veduta io, per le Romagne, a Ravenna, a Faenza, a Forlì, quando ardeva più infuocata la guerra...... così nel mio Ordine, che è quello del beato Francesco e de' frati Minori, ho conosciuto alcuni lettori molto dotti e santi, che pur tuttavia avevano certe debolezze, per cui altri li giudicavano teste leggere. Imperocchè si balloccavano volontieri col gatto, o col cagnolino, o con qualche uccelletto; ma non a modo del beato Francesco che pure si trastullava con un fagiano, o una cicala, e si dilettava nel Signore..... Sappi che nel pontificale di Ravenna ho letto molte volte che un Arcivescovo di Ravenna era diventato tanto vecchio da essere rimbambinito, e parlava come un bimbo. Ed essendo per arrivare a Ravenna l'Imperatore Carlo Magno, e dovendo l'Arcivescovo pranzare con lui, i preti della curia lo pregarono che per mostrarsi ben educato e dare buon concetto di sè si guardasse dal fare e dal dire insulsaggini. Ed egli rispose: Dite bene, figlioli miei, dite bene; ed io me ne guarderò. Ma sedendo poi a tavola, a fianco dell'Imperatore, l'Arcivescovo battè colla mano alla dimestica sulla spalla dell'Imperatore, dicendogli: Pappa, pappa, Imperatore. E domandando l'Imperatore ai presenti che cosa dicesse, gli risposero che per vecchiaia rifatto bambino, lo invitava con quel parlare da fanciullo a mangiare. Allora l'Imperatore con volto giulivo lo abbracciò, dicendo: Ecco tu sei un vero [247] Israelita senza malizia.... E noi vediamo che a nostri giorni in Italia le città, cambiano i Capitani e i Podestà loro due volte all'anno, e amministrano a rigore la giustizia, e il loro governo è buono. Essendochè quando li insediano giurano di osservare gli statuti dettati dai savii della città, a cui arrivano. Inoltre hanno a fianco giudici e savii, che si regolano a norma de' loro maggiori e governano a seconda de' loro consigli..... La settima colpa di frate Elia fu lo scialarsela in una vita sfoggiata di splendore, di delizie e di fasto. Di rado andava altrove che alla Corte di Papa Gregorio IX o di Federico II, de quali era amico intimo; o a Santa Maria della Porzioncella[126], (dove il Beato Francesco fondò l'Ordine dei frati Minori e dove morì); o al convento d'Assisi, ove si conserva alla venerazione dei credenti il corpo del beato padre Francesco; o al convento di Cella di Cortona[127], [248] luogo bellissimo e deliziosissimo, fatto fabbricare da lui con bell'arte nella diocesi di Arezzo; e di consueto era o colà, o nel convento d'Assisi. E aveva palafreni grassi e ben quartati, e andava sempre a cavallo, anche per passare da una chiesa all'altra sol mezzo miglio distante, contravvenendo alla Regola, che prescrive ai frati Minori di non servirsi mai di cavalcatura, tranne che per una ben dimostrata necessità, e per malattia. Così pure per donzelli, come usano i Vescovi, aveva garzoncelli secolari, vestiti di indumenti variopinti, che in ogni cosa gli erano pronti a servirlo. Di rado poi in convento sedeva alla mensa comune cogli altri frati, ma quasi sempre solo, in disparte, nel suo appartamento..... ed era cosa a mio parere villanissima avvegnacchè

Nullius sine sotio —

jucunda fit possessio.

Niuna cosa dolce sia

Senza cara compagnia.

Aveva anche nel convento di Assisi, suo cuoco particolare, frate Bartolomeo di Padova, ch'io ho veduto e conosciuto, e che faceva una cucina delicatissima. Costui restò inseparabilmente al servizio di lui, sin che la morte incolse frate Elia. Altrettanto fecero gli altri, che componevano la sua famiglia. Ebbe frate Elia una sua particolare famiglia di dodici o [249] quattordici frati, che teneva sempre seco nel convento di Cella di Cortona, e non vestirono mai l'abito regolare; dopo la morte del loro malo pastore, o meglio seduttore, riconosciutisi delusi nelle loro speranze, ritornarono nell'Ordine. Tra costoro aveva Elia un certo Giovanni, che dicevano di Lodi, frate laico, duro, aspro, tormentatore, un vero boia, che a cenni di Elia disciplinava senza misericordia i frati..... Ottava colpa di frate Elia fu di voler tenere il Generalato dell'Ordine sino colla violenza, e per non lasciarselo isfuggire di mano, mise in opera molte astuzie. La prima era quella di cambiare di frequente i Ministri provinciali, affinchè, poste salde radici nel loro ufficio, non sorgessero più arditamente contro di lui; poi nominava Ministri que' frati che aveva amici; finalmente non convocava mai Capitoli generali, ma solamente parziali, cioè di soli Ministri cisalpini, e non chiamava i Ministri transalpini per timore che lo deponessero. Ma quando piacque a Dio, da cui ogni bene dipende, congregati insieme e questi e quelli, lo destituirono...... E allo scopo di ottener quell'adunanza di tutti i Ministri in Capitolo generale a fine di deporre Elia, s'adoperò frate Arnolfo Inglese, dell'Ordine de' Minori, uomo santo e letterato, acceso di zelo per l'incremento dell'Ordine; e frate Arnolfo era allora penitenziere alla Corte di Papa Gregorio IX. Nona colpa di frate Elia fu che quando seppe di quella [250] convocazione di Ministri contro di lui, mandò per tutta Italia ordinando a tutti i frati laici più nerboruti, e creduti suoi fautori, di non mancare di intervenire al Capitolo generale, sperando che lo avrebbero sostenuto coi randelli. La qual cosa risaputasi da frate Arnolfo indusse Papa Gregorio IX a decretare che non fossero ammessi al Capitolo generale che que' frati, che sono designati dalla Regola co' loro compagni e coi Discreti, e fece annullare tutte le lettere di obbedienza inviate da Elia ai laici. E il Papa stesso intervenne al Capitolo, e ascoltò i voti dei frati, che volevano deposto Elia, ed eletto a successore di lui nel Generalato frate Alberto da Pisa. In quel Capitolo fu anche deliberata una moltitudine di ordinanze generali; ma erano slegate, e in processo di tempo le coordinò poi il Ministro Generale frate Bonaventura, che poco vi aggiunse di suo, e appena le ritoccò in alcuni punti. In quell'anno, dopo il Capitolo generale, vi fu un ecclissi di sole, da me veduto, di cui parlerò più sotto a suo luogo. Frate Elia, quand'era ancora Ministro Generale, saputo che si stava per convocare un Capitolo universale contro di sè, mandò ordinando a tutti i conventi che ogni giorno i frati nella congregazione capitolare, dopo la preghiera Pretiosa recitassero con lettura chiara, alternandosi fra loro, come a coro, i versetti del Salmo: Qui regis Isral, intende ecc. O pastore d'Israel porgi gli [251] orecchi ecc. (salmo 80º); essendo che sotto l'allegoria della vigna pare voglia indicare l'Ordine..... E in poche parole pare che tutto il salmo alluda all'Ordine e alla Religione del Beato Francesco; ed è composto di tanti versetti, quanti sono gli anni che il beato Francesco visse nell'Ordine, cioè venti. E il versetto che dice: Exterminavit eam aper de silva, et singularis ferus depastus est eam. I cinghiali l'hanno guastata e le fiere detta campagna l'hanno pascolata, si riferisce fuor di dubbio ad un cattivo Ministro Generale dell'Ordine, quale fu Elia, distruttore, esterminatore e ruina dell'Ordine dei Minori; perchè nessuno, fuorchè Elia è stato nell'Ordine cattivo Ministro...... ma restò deluso, perchè si diede a credere di poter tenere sempre in sue mani il governo dei frati, come fa il Papa di Roma fin che vive. Quell'altro versetto poi dei salmo, che dice: Fiat manus tua super virum dexterae tuae, et super filium hominis, quem confirmasti tibi: Sia la tua mano sopra l'uomo della tua destra, e sopra il figliuol dell'uomo, che tu ti avevi fortificato, allude al buon Generale, quali tutti furono, ad eccezione di Elia. Recitammo dunque il salmo ogni giorno prima del Capitolo generale un mese intero, cosa che non ho mai visto fare nè prima, nè dopo. Nè troverei sconvenienza il farlo prima d'ogni Capitolo generale, massime dopo la morte di un Ministro Generale.... [252] Decima colpa di frate Elia fu il non sopportare nè con umiltà, nè rassegnato, la sua deposizione. Ma fece piena adesione a Federico II Imperatore, già scomunicato da Papa Gregorio IX, con lui cavalcava, con lui dimorava cogli abiti dell'Ordine insieme ad alcuni frati suoi domestici. Il che ridondava a sfregio del Papa, a scandalo della Chiesa e a vergogna del suo Ordine; specialmente che l'Imperatore era già stato scomunicato, e a quei giorni stringeva d'assedio Faenza e Ravenna, e quel miserabile era sempre in mezzo all'esercito dell'Imperatore, e dava a lui consigli, e prestava favore. Ai contadini specialmente ed agli altri secolari porse sì cattivo esempio..... E i contadini, i ragazzi e le ragazze di Toscana ogni volta che incontravano per via frati Minori, e li ho uditi centinaia di volte, cantavano:

Hor attorna fratt Helia,

Ke pres'ha la mala via;

e se ne rattristavano i buoni frati, e se ne sdegnavano a morte a udir tali cose...... Onde Papa Gregorio, provocato, lo scomunicò. Undecima colpa di frate Elia fu l'infamia di cui si coperse occupandosi di Alchimia. Di fatto, quando sapeva che nell'Ordine vi era qualche frate, che nel secolo aveva studiato di quella scienza, o ciurmeria, lo mandava a chiamare e tenevaselo presso di sè [253] nel palazzo Gregoriano (Papa Gregorio IX s'era fatto fabbricare nel convento de' frati Minori d'Assisi un magnifico alloggio, non meno per lustro della casa del beato Francesco che per sua abitazione quando andava ad Assisi). In quell'appartamento adunque vi erano camere e molti luoghi secreti, ne' quali Elia albergava que' frati e molte altre persone, ove pareva quasi si andasse a consultare la Pitonessa. Incolpi sè stesso: egli ci pensi. Dodicesima colpa di frate Elia fu che dopo la sua deposizione, e dopo che si mostrò andare vagando coll'Imperatore, un giorno si presentò ad un convento di Minori, e, raccoltili in Capitolo, cominciò a voler provare la sua innocenza, e l'ingiustizia della sua deposizione da parte dei frati; e cominciò dicendo..... Dopo di che continuò il suo dire, come volle e piacque a lui, sempre lodando sè e denigrando l'Ordine. Ma poi trovò chi rispose a quanto aveva detto..... E chi con tanta franchezza rispose a frate Elia fu frate Bonaventura da Forlì, da cui io l'ho saputo. Rivoltosi allora frate Elia a lui, disse: Chi ti ha ammesso all'Ordine? A cui frate Bonaventura di rimando: Non tu, no, che hai abbandonato l'Ordine, e vai vagando pel mondo, e perciò i contadini ti cantano sul viso:

Hor attorna fratt Helia,

Ke pres'ha la mala via;

Vattene pur dunque, frate mosca.... All'udir [254] queste cose frate Elia s'ammutolì e partissene confuso. Tredicesima colpa di frate Elia fu di non aver mai voluto riconciliarsi coll'Ordine, e rimase sino alla morte nella sua ostinazione. E quando frate Giovanni da Parma Ministro Generale mandò a lui il suo amico frate Gherardo da Modena, che era uno de' frati primitivi, a pregarlo che per amore di Dio e del beato Francesco, pel bene dell'anima propria, e per dare buon esempio, ritornasse in seno alla Religione, cui era stato addetto, rispose: Frate Gherardo, ho udito dire tanto bene di quel venerabile frate Giovanni da Parma che non mi rifiuterei di prostrarmi a suoi piedi e confessare le mie colpe, fidente nella sua benignità, ma temo assai che que' Ministri provinciali, che sono stati offesi da me, mi tendano insidia, mi caccino tra ceppi in carcere, e mi alimentino di poca acqua e pan muffato. Inoltre, avendo io offeso anche la Corte romana, so che il Cardinale governatore dell'Ordine vorrebbe intromettersi nell'affare del castigo da infliggermi; nè io voglio perdere la protezione che ho dell'Imperatore. Nulla ostante frate Gherardo da Modena stette tutto un giorno intero nel convento di Cella di Cortona in colloquio famigliare con frate Elia, e s'adoperò ad ogni potere per vincerlo e convertire lui e i frati domestici di lui, e indurli ad essere ossequenti alle discipline dell'Ordine.... Ma si ingegnò invano, perchè Elia pei detti motivi non [255] volle piegarsi...... Quel frate Gherardo però passò colà tutta la notte successiva senza poter dormire, e, come poscia narrò, gli era paruto di aver udito tutta notte svolazzare demonii per la casa e pel convento come pipistrelli, e li udiva emettere grida, che gli fecero correr per le ossa tremore e terrore: M'è venuto uno spavento ed un tremito, che ha spaventate tutte le mie ossa, ed uno spirito è passato davanti a me, che mi ha fatto arricciare i peli della mia carne, dice Giobbe 4.º. Finalmente, sorto il sole e dato un saluto, in fretta si partì col suo compagno, e riferì al suo Generale tutto per ordine, quanto aveva veduto e udito. In processo di tempo frate Elia morì scomunicato, come già era, da Papa Gregorio IX; se abbia avuto l'assoluzione e se abbia provveduto bene all'anima sua, ora se lo saprà. Ei ci pensi...... Dopo tempo, giacchè a qualsivoglia affare v'è tempo e modo, come dice l'Ecclesiaste 8.º, un Custode fece disseppellire il corpo di frate Elia e gettare in una fogna..... Se vi è chi desideri sapere a chi ne' lineamenti del volto si assomigliasse frate Elia, gli dico che si assomigliava in tutto a frate Ugo di Reggio, cognominato Pocapaglia, nel secolo, maestro di grammatica; destrissimo a dar la beffa, parlatore prontissimo, e nell'Ordine ottimo e facondissimo predicatore, che confutava vittoriosamente i calunniatori dell'Ordine, e colla parola e coll'esempio [256] li riduceva al silenzio. Ed un maestro Guido Bonatti di Forlì, che si spacciava per filosofo e astrologo, e gettava il fango sulle predicazioni dei frati, fu da lui sifattamente confuso al cospetto di tutta l'Università e del popolo di Forlì, che per tutto il tempo che frate Ugo soggiornò in quelle parti, non solo non osò più fiatare, ma nè manco farsi vedere. Quest'Ugo aveva sempre in pronto tanti adagi, tante sentenze, tante favole, tanto copiosa messe d'esempi, e stavano sì bene sulle sue labbra, perchè li applicava sempre a proposito, ed era tanto facondo, colto e graziosissimo parlatore che tutti con gran diletto pendevano dalle sue labbra. I Ministri e i Prelati dell'Ordine però non lo vedevano di buon occhio, perchè parlava sempre allegoricamente, e con proverbii e con esempi li confondeva. Ma egli non si dava pensiero di loro, protetto che si credeva dalla santità della sua vita. E basti di frate Elia. Perchè fu già mio proponimento di favellare di tutti i Ministri Generali dell'Ordine del beato Francesco quando ne avessi tempo opportuno; ma di Elia, che fu uno di loro, e quello appunto che mi ricevette nell'Ordine, e che offre vasto campo all'istoria, ho voluto sbrigarmene prima d'ogni altro per aver agio di continuare più spigliatamente l'istoria incominciata, dopo di essermi alleggerito del gran fardello ch'egli da solo mi dava da portare...... Innocenzo 3.º mandò [257] legati a Filippo Re di Francia per indurlo ad invadere la Terra degli Albigesi e distruggerli, il quale li prese tutti e li fece abbruciare. Questo Papa l'anno 1215, diciottesimo del suo pontificato, convocò un solenne concilio, a cui concorsero Prelati da tutte le parti del mondo. Ed io ho letto il discorso, che egli vi pronunciò, e cominciava: Desiderio desideravi hoc Pascha ecc. ed ho letto anche tutte le deliberazioni, che vi si presero, tra le quali fu decretato che non si potesse più fondare alcuna congregazione di frati mendicanti. Ma tale decreto, per non curanza dei Prelati, non fu osservato, anzi, chi vuole, si mette il cappuccio, e va mendicando, e si gloria di avere istituita una nuova Religione. Da ciò nasce confusione nel mondo, e i secolari ne sono gravati, e le limosine non bastano oramai più nemmeno per quelli, che operando colla parola e colla dottrina, stabilì il Signore che avessero a vivere del Vangelo; ed i secolari ignoranti, che non hanno lume di discernimento, legano nelle loro tavole testamentarie tanto ad una donnicciuola che vive sola in un romitaggio, quanto ad una congregazione di trenta sacerdoti, che quasi ogni giorno dicono messa pe' vivi e pe' morti. Provegga Iddio; e muti in meglio quello che non va bene. Non parlo di tante altre ordinanze per non seccare e per schivare le lungherie. Finalmente Innocenzo l'anno 1209 coronò Ottone IV Imperatore, e lo fece [258] sacramentare di rispettar tutti i diritti della Chiesa. Ma esso, lo stesso dì, ruppe il giuramento e fece depredare i romei; onde il Papa lo scomunicò e lo depose dall'Impero. Deposto Ottone, fu eletto Federico figlio di Enrico, e fu coronato Imperatore. Egli pubblicò buone leggi contro gli eretici ed a favore delle libertà della Chiesa. Questi sopra tutti gli altri Imperatori rifulse per gloria e per ricchezze; ma in sua superbia ne abusò. Imperocchè tiranneggiò la Chiesa, imprigionò due cardinali, fece trarre in carcere anche i Prelati, che Gregorio IX aveva convocati a Concilio, e quindi ne fu scomunicato. Finalmente, morto Gregorio per abbattimento di tante tribolazioni, Innocenzo IV Genovese, convocato un Concilio a Lione, lo depose dall'Impero; e la sede dell'Impero, dopo la deposizione e la morte di lui, rimane tuttora vacante. Si avvisa che quanto riguarda Federico, Papa Gregorio e Innocenzo IV, è stato detto qui fuori d'ordine cronologico in riepilogo anticipato...... Uguccione oriondo di Toscana, pisano, fu Vescovo di Ferrara. Compose un libro delle Origini, e compose alcuni altri opuscoli utilissimi, che corrono per le mani di molti, ed io li ho veduti e letti più volte. Resse l'episcopato virilmente, degnamente ed onoratamente sino a che chiuse la sua lodata vita. Volò al cielo l'ultimo giorno d'Aprile del 1210, dopo 20 anni di episcopato, meno un giorno. [259] Il 1º Giugno 1211 fu insediato nella cattedra Nicolò Vescovo di Reggio. Egli fu nominato Vescovo e quasi uomo d'armi; godeva dei favori dell'Imperatore Federico e della Corte romana; era di Padova, della nobile stirpe dei Maltraversi, bell'uomo, splendido, cortese e fece ampliare l'episcopio di Reggio, Usò tante deferenze ai frati Minori che volle sin loro dare per abitazione la canonica della chiesa matrice, sede Vescovile; ed i canonici di quel tempo l'acconsentirono, e per amore dei frati Minori s'accontentarono d'andar ad abitare nelle case annesse alle cappelle della città. Ma i Minori per umiltà non vollero dare tanto disagio ai canonici, e non accettarono. Il dispensiere di questo Vescovo fu accusato presso il suo padrone di non dare ai frati Minori la limosina di pane da lui stabilita. Perciò chiamollo a sè, e lo rimproverò, dicendogli; Figlio, non dice forse l'Ecclesiastico 4.º: Non defraudare la limosina al povero? Ma sapendo il Vescovo, per sentenza di Salomone ne' proverbii 29.º che Il servo non si corregge con parole; benchè intenda, non però risponderà, lo cacciò in una angustissima e cieca prigione, e lo nutrì del pane del dolore e dell'acqua dell'amarezza. Poscia lo licenziò; e Iddio lo benedica. Giacchè sapeva bene il Vescovo che la genìa dei servi non si emenda che col supplizio, come disse un certo tiranno a quelli che erano incaricati di servire gli alimenti a S. Ippolito. [260] Sia benedetto, dice Pateclo di Monferrato, che perdonò a tutti tranne che agli scudieri, miserissimi uomini, i quali dopochè nelle Corti dei Grandi sono stati elevati a nobilissimi uffici, diventano spilorci per mostrarsi buoni custodi e massai della roba dei padroni loro, e rubano ai poveri e alla buona gente quanto poi regalano alle loro puttane: e talora accade che le mogli e le figlie dei padroni diventano le amanti dei servitori, dei dispensieri e dei fattori, perchè delle robe di casa non possono mai godere che per mezzo loro. Miserrimi che sono tali padroni! che custodiscono con più religione i prodotti delle loro terre che il proprio onore e l'illibatezza delle mogli e delle figlie loro. Tuttociò ha osservato il mio occhio, e ne ha avuto le prove. Nicolò adunque Vescovo di Reggio fu uomo valente e di molte cose esperto, e sapeva essere chierico coi chierici, religioso coi religiosi, soldato coi soldati e barone coi baroni.


[261]

INDICE GENERALE DELLE MATERIE CONTENUTE NELLA CRONACA
DI FRA SALIMBENE

[263]

Indice Generale

A

B

C

D

E

F

G

I

J

L

M

N

O

P

Q

R

S

T

U

V

Z

Fine del secondo ed ultimo volume.


[371]

ERRATA-CORRIGE

    Errori Correzioni
 
Pag. 12 Mangiardo Maginardo
» 23 Tebaldo Tedaldo
» 66 S. Stefano S. Ercolano
» 77 nebbe n'ebbe
» 78 ragona Aragona
» 81 Baiardi Boiardi
» 131 Piero Pieco
» 140 Liccaterra Leccaterra
» 148 Leonardo Lesnardo
» 169 reliata altiera
» 210 Reggio, Piacenza Reggio, Brescia, Piacenza
» 308 sesta linea v. I. 43 v. II. 204.

INDICE

CRONACA
a. 1266   a. 1267   a. 1268   a. 1269   a. 1270   a. 1271   a. 1272   a. 1273   a. 1274   a. 1275   a. 1276   a. 1277   a. 1278   a. 1279   a. 1280   a. 1281   a. 1282   a. 1283   a. 1284   a. 1285   a. 1196   a. 1199   a. 1207   a. 1210   a. 1211   a. 1213   a. 1215   a. 1216   a. 1217   a. 1221   a. 1222   a. 1224   a. 1226   a. 1227   a. 1286   a. 1287  
FRAMMENTI
INDICE GENERALE


NOTE:

1.  Sul Liri a cento ventidue chilometri da Roma sulla ferrovia Roma-Napoli.

2.  Sul Rapido a 150 chilometri da Roma stilla ferrovia Roma-Napoli, a piedi di Montecassino.

3.  La battaglia fu combattuta sul fiume Calore nei pressi di Benevento, quasi sullo stesso campo, ove i Romani ed Annibale ebbero ad incontrarsi a battaglia.

4.  Sul Panaro a monte dell'Emilia.

5.  A 26 chilometri da Siena sulla ferrovia Empoli-Siena.

6.  Era sulla destra dell'Oglio a poche miglia da Piadena a Sud di Canneto.

7.  Crevara, Corvara, o Crovara a venti miglia Sud di Reggio sulla destra dell'Enza.

8.  Quindici miglia al Sud di Modena presso Paullo.

9.  Il fiume di quella Marca o circoscrizione territoriale è il Salto, che entra nel Velino a Rieti; col Velino e col Turano nella Nera presso Terni, e tutti nel Tevere presso Orte.

10.  Villaggio distante tre miglia al Fùcino, ventuno ad Aquila, otto a Tagliacozzo.

11.  Città capoluogo del dipartimento dell'Alta Loira.

12.  Tra l'Appennino a circa venti miglia al Sud di Reggio. Non ne resta più segno.

13.  Tra l'Appennino a circa venti miglia Sud di Reggio; esso era vicino al non più esistente Pizegolo.

14.  Il Frignano era un territorio sull'Appennino alla sinistra del Panaro, di cui il capoluogo ora è Pavullo.

15.  Sull'alto dell'Appennino, a sinistra del Ceno e Sud-Est di Piacenza.

16.  A Sud-Est di Mantova presso lo sbocco del Mincio in Po; sicchè lo barche dal Po doveano salire il Mincio sino a Mantova.

17.  Siede alla sinistra del Po detto di Primaro, a due miglia dall'Adriatico.

18.  Sulla sinistra della Secchia a circa trenta chilometri Sud-Sud-Est di Reggio.

19.  Di rimpetto a Lecco sulla sponda opposta del lago.

20.  Alla destra del Panaro, 12 miglia circa Sud-Est di Modena.

21.  Sull'Appennino non lungo alle scaturigini della Camoggia, a venti miglia Sud-Est di Modena.

22.  Sull'Appennino, alla sinistra del Tevere e a Nord-Est di Perugia.

23.  Giezitae: Giezi era un servo del Profeta Eliseo, che si fece pagare pel miracolo che il Profeta operò ridonando salute al Re Naaman, del quale il Profeta stesso aveva rifiutate le offerte. Perciò Giezi è ritenuto dagli espositori della Bibbia come persona che faceva mercato delle cose sacre; mercanti che ebbero poi nome da Simon mago.

24.  A tre miglia Sud di Reggio.

25.  Sette miglia circa Nord-Est di Reggio.

26.  Villa sull'Emilia a pochi chilometri Ovest di Reggio.

27.  Torrentello che scende dall'Appennino ad Ovest di Reggio.

28.  Villa di Crostolo: pochi chilometri a Nord di Reggio; così detta perchè posta a cavaliere dell'antico alveo, che aveva il Crostolo quando attraversava la città di Reggio.

29.  Tra la punta Nord del lago di Varese e il lago Maggiore.

30.  Due chilometri circa Nord-Ovest di Monza.

31.  Sulla sinistra del Sesia a Sud-Est a pochi chilometri da Vercelli.

32.  A venti miglia Sud di Reggio. Era fortissimo castello sulla vetta isolata d'un monte. Non resta più vestigio di castello, ma solo un nudo smisurato sasso chiamato Pietra Bismantova.

33.  A Sud di Mantova alla destra del Po.

34.  Sulla strada Bergamo Crema alla destra del Serio, diciasette miglia da Bergamo.

35.  Il testo dice lupus muzus: Ma non mi è venuto fatto di poter rinvenire se per quel muzus si voglia indicare una specie particolare di lupi, o una qualità speciale di quell'individuo.

36.  Camerino, Fabriano, Matelica, Cagli, S. Severino, Cingoli ad Ovest di Ancona nelle vallate del Metauro, dell'Esino, del Chienti, del Potenza.

37.  Spello a due miglia Nord di Foligno.

38.  Il baldacchino era una stoffa operaia che si confezionava a Babilonia, ora Bagdad, e che nel medio evo si chiamava Baldacco. Come da Arras è venuto arazzo, da Reims la renza, da Dovay il doagio ecc.

39.  Sull'Emilia tra Parma e Reggio a sette circa chilometri alla destra dell'Enza.

40.  A sei miglia Nord-Est di Cremona.

41.  Al Nord di Parma, distante circa 10 chilometri dalla città.

42.  Questo Cardinale Gerardo che il Salimbene chiama Albo, gli scrittori posteriori di storie parmensi lo chiamano Gerardo Bianchi. Ma non parrebbe che la significazione identica delle due parole dovesse essere, trattandosi di nome proprio, ragion sufficiente a commutare l'uno nell'altro. Tuttavia si possono scusare per ciò, che questi ne avranno probabilmente preso il cognome da un marmo del Battistero di Parma, dova il padre di lui è detto Albertus Blanchus. Questo marmo per quanto si può arguire dalle foggie architettoniche e figurative di cui è ornato il nicchione in cui è murato, sarebbe stato scritto e posto un secolo dopo il Salimbene. E quindi è facile a credersi che la commutazione dell'Albus in Blanchus sia stata opera del tempo, in cui la lingua non aveva ancora norme base.

43.  Lendinara: Ad Ovest e vicin di Rovigo sull'Adigetto.

44.  Gesso: Era castello al Sud di Reggio e alla sinistra del Tresinaro, appiè dell'Appennino.

45.  Salins: Ad Ovest di Neufchatel, sulla strada Ginevra-Besançon.

46.  Galera; Nome del dialetto di que' tempi, che è stato formato da alterazioni subite dal latino glarea, ghiaia. Diffatti quel ponte è anch'oggi in capo a piazza, detta della Ghiaia; ma ha cambiato nome prendendo quello di Ponte Verde dal colore de' parapetti.

47.  Da un rogito in originale di Gerardo Alberto Notaio imperiale, pubblicato il 15 Febbraio 1238, si apprende che presso Parma e presso il canale Naviglio Taro sorgeva una casa e una chiesa di S. Francesco, i cui amministratorì vendettero terre e case poste in Basilicanova a certo Sopramoggio. Questa casa Salimbene la chiama Ospedale di S. Francesco. Ora non esiste più nulla. Ma l'Ospedale sarà stato sicuramente fuso coll'Ospedale detto allora della Misericordia, e poscia Ospedale maggiore, che aveva sede in Borgo Taschieri. E tale fusione sarà stata fatta, quando la Città volle fusi in uno solo, cioè in quello fondato da Rodolfo Tanzi, tutti gli altri ospizi, sia della città, che della campagna; e vi era l'Ospedale di F. Barattino; di S. Bartolomeo di Strada Botta, fuori porta Stradella; di S. Lazzaro de' Lebbrosi, in S. Lazzaro; di S. Francesco, tra Fragnano e la città di Parma, circa nelle vicinanze dell'attuale Porta V. Emanuele.

48.  Proibì di trarre i marmi dalle cave veronesi.

49.  Pochi chilometri al Sud di Borgo S. Donnino.

50.  Ed ora, parte è piazza della Steccata, parte area su cui s'innalza il magnifico tempio omonimo della detta piazza.

51.  A 9 circa chilometri Nord-Est di Parma.

52.  A dodici circa chilometri Nord-Est di Parma sulla sinistra dell'Enza.

53.  Agareni: Popolo dell'Arabia. Alcuni credono che siano discendenti da Ismaele figlio di Agar. Altri li crede così detti da Agarena loro città, posta nell'Arabia Felice, memorabile per un lungo e vano assedio, di cui la strinse l'Imperatore Traiano. Con questo nome si chiamò pure una setta di cristiani, che nella metà del secolo 7. abbracciarono l'Islamismo. Onde Agareni, e Saraceni suonava in quel tempo una stessa gente.

54.  Anjou: Antica provincia della Francia formata dai moderni dipartimenti Maina e Loira, Sarta, Mayenna, Indra e Loira.

55.  Forcalquier; è nel dipartimento Basse Alpi alla destra della Duranza.

56.  Tonnerre; è sulla destra dell'Armançon nel dipartimento Yonne.

57.  Moissac: Giace sul Tarn, dipartimento Tarn e Garonna.

58.  Ora si chiama ponte Caprazucca.

59.  La canonica, o residenza dei canonici, era sull'area dell'attuale seminario.

60.  Sulla destra del Panaro a monte dell'Emilia 18 chilometri da Modena.

61.  A sud di Sassuolo su un colle distante circe 10 chilometri da Sassuolo stesso.

62.  Questa battaglia segna il principio della decadenza di Pisa, o si chiama della Meloria, da uno scoglio piuttosto che isolotto dello stesso nome, si trovarono di fronte l'Ammiraglio Pisano Benedetto Buzzaccherini, dice G. Villani, e l'ammiraglio Genovese Uberto Doria; (Il Roncioni nelle sue Istorie Pisane dice invece che l'Ammiraglio de' primi fosse Ugolino Gherardeschi, quel de' secondi Roberto Doria.) Settanta galee Pisane dice G. Villani, ottantacinque dice Roncioni; cento trenta galee Genovesi secondo Villani, cento quarantaquattro, secondo Rondoni. Il Cronista Firentino dice, che morti, che prigionieri, sedicimila uomini perduti dai Pisani e quaranta galee loro prese, oltre le andate a picco; l'Istorico Pisano unisce le perdite d'uomini di questa battaglia con quelle d'altre battaglie, e in tutto fa somma di novemila; e di galee scrive di ventotto catturate e ventuna colate a fondo; d'onde si scorge che cerca di attenuare il disastro di Pisa.

63.  Il Roncioni nelle sue Storie Pisane dice che la battaglia fa combattuta il 6 Agosto, giorno di S. Sisto.

64.  S. Ruffino: Giace sulla destra della Baganza a dieci chilom. Sud di Parma.

65.  Ad Ovest di Modena, e a pochi chilometri dalla città.

66.  Bizantini: Moneta dell'Impero Greco di que' tempi, così dette da Bisanzio.

67.  Si noti che, per una convenzione tra Parma e Modena, il sale che proveniva dalla Romagnola per uso de' Parmigiani, passando per il territorio di Modena, doveva essere esente dal pagamento del pedaggio o dazio di transito.

68.  Giovanni Villani dice: «Passò di questa vita il dì 7 Gennaio 1284; e fu recato il suo corpo a Napoli, ove, dopo il grande lamento fatto di sua morte, fu seppellito all'Arcivescovado di Napoli con grande onore». Tuttavia deve essere più attendibile la testimonianza del Salimbene, scrittore contemporaneo al fatto, e che anzi aveva tra mani la compilazione di questa Cronaca l'anno stesso in cui la detta morte avvenne.

69.  Sud-ovest di Bologna, pochi chilometri distante dalla città.

70.  Ovest di Bologna a pochi chilometri distante.

71.  A Sud-Est di Velletri e distante circa quindici chilometri.

72.  Forse, tombe degli avi loro, a cui voleva trasportare le salme delle persone nominate, morte in battaglia, dicendo il testo; deportare ad propria.

73.  Di poco più in su di Vignola, alla sinistra del Panaro. Era un castello, di cui resta qualche vestigio in alcune case che ne ritengono ancora il nome.

74.  Villaggio al Sud di Modena sull'Apennino a cavaliere della strada che per Paullo va in Toscana.

75.  A monte dell'Emilia e destra del Panaro, che una volta apparteneva a Modena.

76.  Pieno sud di Modena e pieno Ovest di Vignola.

77.  Vicinissimo a Vignola a sud.

78.  La famiglia Lovoleto prese nome dal bosco omonimo (Lupoletum) stanza di lupi, che ora chiamasi della Saliceta, o di S. Felice, a nord di Modena, sinistra del Panaro, vicino al Finale.

79.  Al sud di Modena e di poco sopra Sassuolo.

80.  Ripafratta: Castello sul tronco di ferrovia Lucca-Pisa.

81.  Minuti dice il testo latino. Minuto, parola antiquata, anzi ora fuor d'uso, presso gli scrittori italiani del secolo decimoquarto, è usata a significare una minestra composta di varie specie d'erbe mangereccie, ossia ortaggi. A' tempi del Salimbene, anteriore d'un secolo ai preaccennati scrittori, in quel suo latino medioevale, si usava invece a significare le stesse varie specie d'ortaglie, di cui si componeva quella minestra. Di questa parola, ora fuor d'uso, resta tuttavia nella lingua parlata di qualche parte d'Italia un suo derivato, che non ha perduto il senso antico, cioè, minutina che serve ad indicare un'insalata di varie specie d'erbucce.

82.  S. Maria del Tempio, ovvero Chiesa dei Templarii, era quella che, sino alla recente soppressione delle Corporazioni religiose, è stata chiesa dei Cappuccini.

83.  Grondola: Castello tra il Verde e la Magriola, o piccola Magra, poco dopo la cresta dell'Apennino per chi corre lo stradale Parma — Spezia.

84.  Il 13 d'ottobre 1217 i Milanesi cavalcarono sul Parmigiano, e accostandosi a Zibello per urtare contro Cremona, i Parmigiani capitanati da Zangaro Sanvitali corsero anch'essi su Zibello e vi fu combattuta un'aspra e sanguinosa battaglia, che non ebbe successo decisivo. Nell'anno 1218 di nuovo i Parmigiani coi Cremonesi si scontrarono sullo stesso campo di battaglia. Se però questo combattimento del 1218 non sia quello stesso del 1217, perchè dovendo essere accaduto sulla fine dell'anno, o sul principio dell'altro, chi lo riferisce al primo, chi al secondo. L'anno 1219 nuovo scontro e sanguinoso combattimento tra Milanesi, Parmigiani e Cremonesi ne' pressi del ridetto Castello. L'anno 1221 cozzarono ancora gli uni contro gli altri, Milanesi, Parmigiani e Cremonesi a Zibello: ma in questa giornata i Milanesi e loro alleati rotti, lasciarono molti morti sul campo, e molti prigionieri nelle mani de' Parmigiani e loro confederati.

85.  Castel Torello si costruì sul torrente Parola presso Borgo S. Donnino, e si comandò di andarlo ad abitare a coloro, che abitavano dove fu già il castello di Rivo Sanguinaro. L'uno e l'altro de' castelli sorgevano sull'Emilia alla sinistra del Taro, sulle via maestra che va a Borgo S. Donnino.

86.  Corticella è al sud-ovest di Rubiera.

87.  Ora conosciuto col nome di Castelnovo di Sotto a Nord di Reggio ed a distanza di 15 chilometri.

88.  A sud-ovest di Modena poco distante a Sassuolo.

89.  Alcuni dicono che questo Filippo chiamato l'ardito morisse a Perpignano; ma io tengo a credere al Cronista Salimbene, il quale col mezzo de' frati del suo Ordine, che erano su tutti i punti della Spagna, poteva avere sicura contezza del fatto.

90.  È un piccolissimo tratto di terreno una volta paludoso, che ora da palude per alterazione di parola si dice Paullo, ed è subito fuori di Porta San Michele della città di Parma, a sinistra di chi esce.

91.  Villa a nord di Parma alla destra del torrente Parma a distanza di circa dieci chilometri dalla città.

92.  Villafranca de Panades, già Villanova, sul mare a mezza via circa tra Barcellona e Tarragona.

93.  Il testo dice Novembre: ma deve essere errore di autografo o di copista, che l'ha scritto invece di ottobre; 1. perchè S. Calisto è in ottobre: 2. perchè il dì d'Ognissanti è il primo di Novembre, quindi se San Calisto volesse porsi in Novembre, tra S. Calisto e Ognissanti, si dovrebbe andare indietro e non avanti.

94.  Distante 18 chilometri da Reggio a Nord.

95.  In altro luogo dice che casa sua toccava il battistero, e più avanti nota che suo padre, dalla finestra di casa propria, faceva conversazione col Vescovo, che pure stava ad una finestra dell'Episcopio; quindi la casa di Salimbene si trovava sull'area dell'attuale palazzo dei Marchesi Rosa.

96.  Dista 12 miglia al sud-ovest da Casale.

97.  Dista quattro chilometri ad oriente di Parma.

98.  Ora quel convento e quella chiesa è ridotto ad uso di carceri, dette di S. Francesco.

99.  Villa distante circa 5 chilometri a Nord di Modena.

100.  Al sud di Reggio in quel di Castelnovo de' monti vicino all'Enza.

101.  Villa a pochi chilometri da Reggio sull'Emilia ad ovest della città.

102.  Villa distante 8 chilometri circa al Sud di Reggio, e alla sinistra del Crostolo.

103.  Dista circa 24 chilometri al Sud di Reggio sulla sinistra della Secchia.

104.  Dista 16 miglia circa al Nord di Modena, poco al di sotto di Carpi.

105.  Dista 13 miglia circa al Nord di Modena, tre miglia al di sotto di Carpi.

106.  Quì s'intende che il testo manca di qualche cosa, senza che l'editore ne abbia dato avviso colla solita punteggiatura sulla linea.

107.  Dista 5 miglia a Nord-Est da Modena alla destra del Panaro.

108.  A Sud di Reggio sulla destra delle scaturigini del Tresinaro.

109.  Ora non ne resta che il nome nella Cronaca, nè si conosce ove sorgesse quest'antico castello.

110.  Giace in colle a 15 chilometri circa al Sud di Reggio.

111.  Cauresana, Farneto, Corniano, Piazzola erano nei dintorni di Bibbianello.

112.  Al Sud di Reggio, appartiene a quel groppo di colli, tra cui scaturisce il Crostolo.

113.  Sui colli a circa 30 chilometri a pieno sud di Reggio presso le scaturigini del Tresinaro.

114.  Questa celebre Rocca, che sorgeva, e di cui restano ancora pochi avanzi, sui colli reggiani, distante circa venti chilometri al sud-ovest di Reggio, fu eretta, secondo il Luchino, l'anno 931 da Atto, Azzo o Azzone, detto anche Alberto e Albertazzo, che la munì di triplice muraglia, contro cui hanno urtato più volte invano poderose forze, tra le quali anche quelle di Berengario II Re d'Italia. Ma la celebrità di Canossa è principalmente dovuta alla gloriosa figlia di Beatrice di Lorena e di Bonifacio, Duca, o Marchese di Toscana, che era figlio di un figlio del fondatore della rocca stessa, è dovuta cioè alla Contessa Matilde; la quale con più che principesca magnificenza vi ospitò il trionfante frate Gregorio VII, l'umiliato Imperatore Enrico, Adelaide marchesana di Susa, il Marchese Azzone fondatore della casa d'Este e di quella di Brunswich e molti altri Principi e Prelati. E grandi cose videro quelle mura, alti consigli s'agitarono in quel recinto; sicchè Donizone, monaco che a quei tempi viveva nel convento colà esistente, e scrittore delle gesta di Matilde, maravigliato, non potè rattenersi dall'esclamare che la sua Canossa era diventata una nuova Reina.

115.  Sul Crostolo al sud di Reggio e circa dieci chilometri distante.

116.  A Sud-Ovest di Parma a piedi dell'Appennino sulla destra del Taro.

117.  A Nord-Ovest di Parma sulla destra dello Stirone e presso la sua foce in Taro.

118.  Figlio dell'Imperatore Federico II. Quì la parola figlio è da intendere nel senso di discendente. Questo figlio di Pietro d'Aragona era Giacomo, secondogenito, nato dalla moglie di Pietro, Costanza, la quale era figlia di Manfredi, figlio di Federico II; e quindi Giacomo non era figlio, ma pronipote di Federico II. Le vittorie sui Francesi riportate da Giacomo d'Aragona, furono merito di Ruggeri di Loria, e Lauria, così detto dalla sua città nativa in Basilicata, che fa il più grande ammiraglio del secolo XIII, e più valente che tanti d'altri tempi.

119.  Probabilmente Fallegaria, ora Fallegara al sud di Reggio, in quel di Scandiano.

120.  Usava in Francia che i patrizii, i Baroni, i nobili vivevano nelle loro castella di campagna; ed i commercianti, gli artigiani ed altri professionisti dimoravano nei Borghi o città, e perciò erano chiamati i Borghesi, e costituivano quello stato, classe di cittadini che si diceva la Borghesia.

121.  Nelle acque di Castellamare di Stabia.

122.  Castel de' Britti, a monte dell'Emilia, distante, circa, 10 chilometri e ad oriente di Bologna, sulla destra dell'Idice. Questo Castello ha avuto qualche parte nella storia bolognese del Medio Evo.

123.  Frate Elia nacque a Beviglio, sobborgo di Assisi; e nella lunetta posta sopra l'architrave del refettorio maggiore del convento di Assisi vi è un'antichissima pittura, ove egli è rappresentato con altri compagni in atto di venerare il P. S. Francesco, e sotto la figura di frate Elia è scritto in antico gotico: F. Elias a Bevilio.

124.  Sui colli alla destra del Sillaro che va al Po di Primaro.

125.  A circa 10 chilometri al Nord di Modena.

126.  Distante circa tre miglia da Assisi sulla ferrovia Perugia-Foligno; chiamata Porzioncella perchè era una piccola porzione dei beni di un convento di frati Benedettini, su cui sorgeva la chiesa di S. Maria degli Angeli.

127.  Il convento denominato Le Celle, abitato nel secolo 13º da frati dell'Ordine de' Minori, ed ove il Ministro Generale frate Elia s'era fabbricata una magnifica residenza, esiste tuttora in vicinanza di Cortona. Prima della soppressione delle Corporazioni religiose era convento di Cappuccini, ed è oggi proprietà privata venduta dal Demanio ad uno de' frati soppressi, e molti ex frati vi coabitano sotto la tutela della legge di libera associazione.

128.  Si noti che nel testo latino ora è scritto Roglerius, ora Rogerius.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 371 (Errata Corrige) sono state riportate nel testo.

Per comodità di consultazione un indice è stato generato e posto a fine volume.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






End of the Project Gutenberg EBook of Cronaca di Fra Salimbene parmigiano
vol. II (of 2), by Salimbene de Adam

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