*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 60945 *** BIBLIOTECA UNIVERSALE NOVELLE BRIANZUOLE DI CESARE CANTÙ LA MADONNA D'IMBEVERA — LA BATTAGLIA DI VERDERIO IL CASTELLO DI BRIVIO LA SETAJUOLA — AGNESE, O LA VEGLIA DI STALLA MILANO EDOARDO SONZOGNO, EDITORE 14. — Via Pasquirolo, — 14. 1883. CESARE CANTÙ — È un lavoro nè lieve, nè facile, rifare la mia _Storia universale_; ma tant'è; sono contento di essermivi accinto: mi spiaceva di lasciare al mondo un libro mio, che fosse rimasto indietro del tempo. Queste oneste parole ci rivolgeva Cesare Cantù pochi giorni sono. E davanti a quel vecchio di 76 anni, nel quale non sai se sia più robusta la fede o la tempra, si provava un sentimento di ammirazione per lui, e di vergogna per noi, di tanto più giovani, e che ci abbandoniamo sovente alla stanchezza e allo sconforto. Eppure quanti ostacoli non pose mai la calunnia sulla sua via! Ma egli ormai non si cura più della malignità invidiosa: «I miei nemici, dice, avrebbero voluto che mi fossi occupato di loro, ed avessi consumato il mio tempo nella sterile polemica; io invece lavoro.» E fu il lavoro la sua vendetta: vendetta generosa e feconda, perchè arricchì le lettere italiane di romanzi, di poesie, di storie, di opere educative che gli stranieri c'invidiano e traducono in lor lingua. In una modesta casetta poco discosta dall'Adda rapida ed azzurra che si allarga in lago davanti a Brivio, prosperosa borgata sorrisa dal verde dei monti e dal vivo aere brianzuolo, nacque Cesare Cantù nell'8 dicembre 1807. Sulla casetta oggi si vede un medaglione di marmo col suo ritratto e l'iscrizione: «L'effigie di Cesare Cantù — sulla casa dove nacque — i compatrioti posero lui vivo — il 16 settembre 1883.» Umile era la condizione della famiglia: la sventura aggravò quell'umiltà. Morì il padre, Celso Cantù, lasciando la vedova e dieci figliuoli; il maggiore di tutti era Cesare che aveva ventidue anni. Il giovane animoso sentì il grave còmpito, e lo adempì con coscienza: egli provvedeva a tutti, essendo professore prima a Sondrio, poi a Como, indi a Milano nel ginnasio di Sant'Alessandro. Aveva già pubblicato il poema _Algiso_ o _La lega lombarda_, dedicato «alla lombarda gioventù cui stringe l'amore del loco natìo,» ristampato nel 1876 quando si festeggiò il VII centenario di Legnano. A quel libro tenne dietro la _Storia di Como_: e nello stesso tempo in un sermone poetico flagellava i cittadini comensi, che decretavano una lapide alla Pasta cantatrice, mentre lasciavano senza l'onore di un ricordo il Volta, scopritore della pila. Ma maggior fama gli venne dallo splendido commento ai _Promessi Sposi_, intitolato _La Lombardia nel secolo XVII_, dedicato «a voi giovani lombardi che, pieni di speranza, voi stessi le speranze alimentate della patria.» Paride Zajotti, arnese tristissimo di politiche inquisizioni, esclamò nel leggerlo: «Il Cantù fa due passi verso la gloria e tre verso la galera.» Cantù appartenne a quella corona di giovani eletti, come Cattaneo e Giuseppe Ferrari, che stavano intorno al venerando Gian Domenico Romagnosi, a cui l'Austria aveva persino negato il permesso d'insegnare legge privatamente. Il maestro aveva scelto Cantù come fidatissimo intermedio con un nucleo di generosi che cospiravano per la patria, e che avevano pregato il filosofo di Salsomaggiore di preparare in anticipazione gli statuti dell'Italia nuova. La mattina dell'11 novembre 1833 gli sbirri austriaci invadono la casa di Cantù, perquisiscono tutte le sue carte, e trascinano con loro in prigione il giovane professore. La carcere d'allora non somigliava alle facili d'oggi, dalle quali si vien fuori «martiri» e deputati; ma era inasprita dai giudici stranieri, che con torture morali cercavano di costringere i patrioti a rivelazioni; e lasciava travedere in fondo il fosco profilo dello Spielberg o della forca. Cantù vi stette un anno: non isvelò sillaba di quanto sapeva; e quando uscì di là, il 14 ottobre dell'anno appresso, ebbe la consolazione che Romagnosi l'abbracciasse dicendogli: «Non temetti un istante della tua fermezza.» Che fece in carcere? Gli sbirri non gli lasciavano nè carte, nè penne, nè libri: egli trovò modo in quella solitudine di farsi dell'inchiostro col fumo della candela, penne cogli steccadenti: e su carte stracce scrisse il romanzo _Margherita Pusterla_ (uno dei quattro degni di formare il ciclo del romanzo storico italiano), dedicato a chi ha amato, ha sofferto, ha pianto. L'Austria aveva tolto al Cantù la facoltà di insegnare, che è quanto dire di guadagnarsi il pane. Per fortuna incontrò il Pomba, che aveva in animo di pubblicare una _Storia Universale_. Lo scrittore lo intese: e invece di una compilazione, sulla quale il Pomba contava, ebbe un'opera vigorosa, potente, scritta con erudizione e con cuore, perchè vi ha impresso il carattere proprio. L'editore vi guadagnò le ricchezze, l'autore tanto da vivere indipendente. Con entusiasmo Cantù descrisse la rivoluzione delle Cinque Giornate: e fu tra i giornalisti più operosi nel periodo dal marzo all'ottobre di quell'anno. Nella _Guardia Nazionale_ raccomandava di prepararsi alle difese contro lo straniero: nell'_Eco della Borsa_ in un articolo intitolato _Il Prestito_ esortava i cittadini a provvedere l'erario esausto coll'offrire quanto era in loro potere: e un contemporaneo ci informa che «niuno fu sordo, specialmente nelle classi meno agiate,» e vecchi, e giovanette, e fidanzate si privavano dei vezzi d'oro e delle memorie più care per arricchire il pubblico erario. Di questi tempi sono le pagine del _Carlambrogio da Montevecchia_, nelle quali, secondo l'avvertenza stampata nella prima edizione, «un uomo estranio a influenze di governo e a turbolenze di fazioni, avrebbe cercato di coltivare il buon senso del popolo, insinuarvi quelle idee di ordine e di saviezza che valgono sotto qualsiasi regime, ma che sono più importanti nella presente libertà.» Tornati gli Austriaci, fu arrestato e proscritto, dalla Svizzera tornò dopo l'amnistia alla sua Milano, seconda patria. Qui lavorava, meritandosi le parole del Brofferio: «Mentre noi qui facciamo sucide gazzette, voi continuate a far buoni libri» (lettera 18 febbrajo 1855). Ed erano le monografie del Parini e del Beccaria, e cominciava la _Storia degli Italiani_, cui tennero dietro tante altre numerose opere. Son viete ormai le accuse che gli furono mosse di aver caldeggiato la federazione italiana coll'arciduca Massimiliano; noi avemmo fra mani rapporti della Polizia austriaca di quei tempi, firmati da uomini dei quali oggi per pietà taciamo i nomi notissimi, che facevano proibire i libri del Cantù, perchè «miravano a mettere in discredito ed in disprezzo i sovrani di casa d'Austria, in favore della causa dei popoli oppressi della penisola» (testuale). Inoltre il Cantù stesso, quando ebbe contezza di quelle dicerie, scrisse direttamente all'arciduca Massimiliano perchè le smentisse: e quegli gli fece rispondere non badasse a siffatte voci che erano _fandonie_ e _calunnie_. E siccome il Cantù insisteva, così l'arciduca gli rispose ancora di non sapere nè poter conoscere chi fosse l'autore di quella diceria che di nuovo qualifica per calunniosa. Questi documenti smentiscono i supposti accordi, fan ridicole le accuse. Ma il tempo galantuomo ha cominciato a fare un po' di giustizia anche per lui, se il governo ricusa di adoperarlo; nel marzo 1883 una commissione di cittadini venuti da diverse parti d'Italia, gli offerse una medaglia d'oro, frutto d'una sottoscrizione internazionale, e si inaugurò la sua effigie in marmo nell'Archivio di Stato di Milano e a Brivio. Così si avverava il voto che Cantù esprimeva nel centenario del Muratori: «Amiamo gli uomini che lavorano per la patria e per l'umanità. Compatiamo ai difetti delle loro qualità, concediamo loro alcune di quelle piccole compiacenze, che da vivi valgono ben più che i monumenti da morti, lasciamo balenare ai loro occhi qualche raggio di quella gloria che non accende la sua face se non alle tede sepolcrali.» NOVELLE BRIANZUOLE LA MADONNA D'IMBEVERA L'esame dei luoghi e alcuni storici riscontri convincono che, sedici o diciotto secoli fa, quel tratto della Brianza che chiamasi il Pian d'Erba e le bassure circostanti erano occupate da un lago, chiamato l'Eupili, il quale, alimentato dagli scoli delle montagne, per la Valmadrera doveva comunicare con quello di Lecco e coll'Adda; e versavasi pel Lambro, di cui basta osservare il letto per accertarsi come un tempo corresse più ricco di acque. A foggia d'isole o penisole qui e qua sporgevansi in asciutto alcuni dossi, sui quali erano fabbricati villaggi e casali, i cui abitatori campavano pescando nei luoghi, dove i loro discendenti oggi fendono colla marra le gratissime glebe. Quando e come questo lago sparisse, mal si potrebbe dire: nè qual violenta crisi abbia sollevato il suolo così, da interrompere la comunicazione con quello di Lecco, e sprofondatolo in alcune parti per modo che, ivi raccogliendosi le acque dapprima diffuse, venissero a formarsi i laghetti di Pusiano, di Annone, di Alserio, lasciando in secco il restante. Chi dalle effimere fatture dell'uomo, somiglianti alla crisalide che il baco sospende al ramo e che domani la pioggia scarmiglierà, si compiace voltare lo sguardo alle meraviglie della natura e leggerne sulla faccia della terra gli stupendi rivolgimenti, troverà ad ogni passo le prove di questo fatto; ma verun cenno non ne fu conservato nè dalla storia nè dalla tradizione. Invasioni di feroci stranieri, muta pressura di superbi dominatori, tenevano allora l'uomo avvilito e minor di sè, tanto occupato dalla nequizia dell'ora presente, che non pensava nè a rivangare il passato, nè a provvedere alla memoria degli avvenire. Disperso o ristretto l'Eupili, la parte più elevata di quel che già era letto del lago si convertì presto in campagne, la cui cultura diede essere ed occupazione ai grossi villaggi, onde oggi quel piano è distinto: le bassure rimasero paludi, ove, qualvolta la stagione corresse piovosa, l'acqua tornava a riprendere il suo dominio, siccome una cattiva consuetudine che a volta a volta rifiglia colà d'onde fu male sbarbicata. Sempre poi non verdeggiavano che di cannucce e di càrice ingrata, ove la nuda ghiara non ingombrasse così, da dar luogo appena ad ispidi vètrici e ad ingrate scope. Pochi di quei luoghi durano tuttavia in sì abbietta apparenza: altri, a memoria de' più giovani, furono ridotti a pioppeti, a prati, a colti; più assai nel secolo passato sentirono il risorgere dell'industria, che, al favore della pace e di più avveduti e liberali ordinamenti, smorbava l'aria, guadagnava i campi, preparava nuovo sostentamento alla generazione futura, la quale, cresciuta di numero e d'agiatezza, avrebbe lodato i faticosi parenti; — lodati col fatto, mentre il cuore neppur li ricordava, forse la lingua li oltraggiava. Però, sul finire del secolo XVI, quando le guerre passate, la prepotenza delle classi privilegiate e lo sconsigliato ed inopportuno affaccendarsi d'una disamata dominazione diradavano la gente col diminuire od impacciare i mezzi di sostentamento, la maggior parte di quel piano giaceva incolta, occupata da boscaglie, rotta da guazzatoi ed acquitrini; sicchè invece della strada che ora lo fende, mettendo dalle falde del Monte di Brianza alle deliziose alture di Erba, allora, un sentiero vicinale serpeggiava scabro e dirotto per mezzo al bosco che occupa il pendìo settentrionale della collina, la quale, alzandosi da Rovagnate verso il Lambro, divide l'alta Brianza dal Pian d'Erba. Pochi assai percorrevano allora quella via: giacchè, oltre le più scarse relazioni da paese a paese, il generale disagio delle strade, singolarmente nei terreni montuosi, svogliava dal viaggiare. Onde è in proverbio che chi dovesse (poniam caso) da Como giungere a Milano, assestava i domestici affari, indi avviatosi, com'era giunto a mezzo il cammino, rimandava un messaggio a casa per assicurare che, la Dio mercè, gli era riuscita prospera l'andata. Esagerazioni che però ritraggono da un fondo di vero, e che formano bizzarro contrasto colla rapidità onde oggi non solo travalichiamo a ruote correnti le alpi più elevate, ma solchiamo, a dispetto di venti e di correntie, rapidissimi fiumi e l'immensità dell'oceano. Oltre però la disagevolezza delle strade, era il viaggiare reso mal sicuro dai lupi che spesseggiavano, e più da quella belva che ha nome l'uomo, della quale non è la peggiore qualvolta la forza accoppiata alla ragione non sia temperata colla giustizia e colla benevolenza. Masnade di ladri, accampando a baldanza per le foreste e per le lande, non solo davano fiera avventura al solitario passaggiero, ma aggredivano e depredavano casali e borgate. Con costoro se la passavano d'intelligenza gli ostieri: onde il viandante, il quale vedendo imbrunire, aveva sollecitato il passo per ricoverare alla locanda, e raggiuntala, ringraziava il suo angelo che l'avesse ridotto in salvo, nel maggior cheto della notte si trovava assalito e sovente scannato nel letto. Birri e campagnuoli uscivano contro costoro: quadriglie di soldati acquartieravansi di distanza in distanza: ma non è ben chiaro se maggior danno recassero i protettori o i masnadieri, la forza legale o la perseguitata. Tutto ciò, sebbene poco abbia a fare col racconto di che intendo trattenervi, sia detto per giunta al panegirico di quel buon tempo antico, che tanti rimpiangono continuamente. E non è ancor tutto. Conviene aggiungere i feudatari, che, tiranneggiando ciascuno nel suo stato, esteso poco più d'un miglio, imponevano ad arbitrio taglie, servizi, pedaggi, e sotto l'ombra di quella forza brutale che aveva acquistato il nome di diritto, esercitavano le angherie e le prepotenze dei ladroni insieme e della soldatesca. Uno di siffatti dominava, appunto in quei tempi, nel castello di Barzago, terra di felice posizione, seduta in poggio sulla cresta di quel giogo, che come sopra accennai, diviso per un piccolo valico dal Monte di Brianza, estendesi da Rovagnate al Lambro, dominando da un lato l'alta Brianza, dall'altro il Pian d'Erba. Don Alfonso Isacchi aveva nome quel signore, ma tra i paesani erasi co' suoi modi guadagnato il soprannome di Orso di Barzago. Colleroso, vendicativo, indifferente ai patimenti altrui, il rispetto all'umanità neppur di nome conosceva: le leggi paragonava alle reti, dove il tordo s'impiglia, la volpe o il falco le squarciano, e innanzi. La religione non disprezzava già, ma, separandola dal costume, l'aveva ridotta a quella che ne veste le sembianze, benchè ne sia pessima nemica, la superstizione: talchè, se la coscienza avrebbe potuto richiamarlo od arrestarlo sulla carriera delle violenze, esso la addormentava con pratiche devote cui sapeva conciliare collo sfogo de' suoi laidi e prepotenti capricci. Chi entrasse nei suo castello, al vedere uccellacci confitti sulle imposte, pelli di lepri, teschi di lupi spenzolati alle pareti, falchi starnazzanti sulle grucce e fischi e panie e tagliuole in ogni lato, e cani sciolti o al guinzaglio che abbajavano, squittivano, scodinzolavano, e intorno campari, canattieri, guardaboschi, s'avvisava quanto egli fosse appassionato per la caccia. A ben peggiori segni se ne accorgevano i paesani, che spesso miravano folate d'uccelli, moltiplicati dalla disastrosa impunità, calarsi a beccare i grani dai solchi appena sementati; od una furia di levrieri sbrancare ed uccidere il domestico pollame; ovvero uno stuolo di cacciatori a piedi, a cavallo, spingersi in mezzo al miglio ed al frumento già spigato, e poco dopo ritornare, mostrando in trionfo quaglie o beccacce al povero contadino, che lagrimava perduto o decimato il sostentamento della sua famigliuola per l'insano divertimento dei padroni. E guai a lui se si fosse arrischiato a sturbare i selvatici! più guai se avesse ardito ucciderne qualcuno! Don Alfonso avrebbe saputo perdonare ad un ladro, ad un micidiale, non a chi ne avesse scemato d'un capo solo la selvaggina. I contadini adunque dovevano soffrire e trangugiare, senza che credessero tampoco tesoreggiare meriti colla pazienza; giacchè erano stati educati a considerare l'oppressione una necessità inevitabile, come la grandine, come il morire; e che Dio, concedendo ai grandi d'intendere le ragioni che hanno per soperchiare il povero, avesse fatto anche troppo concedendo al povero la forza di tollerarli. Alle cacce di don Alfonso era riservato il bosco, che dalla vetta di Barzago, discende a bacio della collina, e che allora distendevasi anche per buona parte del piano, oggi coltivato. Lo chiamavano e lo chiamano ancora il bosco d'Imbevera; foltissimo di roveri e orni e castani, tra i quali non solo moltiplicavano, come in parco chiuso, gli uccelli e i quadrupedi onde oggi pure si fa caccia, ma bestie ancora, la cui razza è fra noi o scemata o scomparsa. Lo tagliava, come dicemmo, la strada, e là, appunto ove in questa metteva capo una non migliore che scendeva da Barzago, era alzato un devoto tabernacolo della Madonna. Poichè, oltre le croci piantate a ciascun crocicchio, e le molte che, indicando il luogo ove alcuno fu assassinato, crescevano lo spavento al viaggiatore già pauroso, di distanza in distanza si solevano dipingere immagini sacre, affinchè la religione fosse di alcun freno a coloro, che nessun altro ne conoscevano. E però chi, alla frequenza di quelle ponendo mente, esclama, _Quanto erano buoni i nostri maggiori_, direbbe più retto, _Quanto erano cattivi_; od almeno, _quanto erano infelici_. Spuntava il settimo giorno di settembre del 1590, e rompeva il silenzio di quel bosco un via vai, un latrare di bracchi, un pestìo di cavalli, uno stridire di falchi, un chiacchierare ed affaccendarsi di cacciatori, che in frotta venivano intorno a don Alfonso. Egli seguiva a cavallo, discorrendo, fra un signore e una dama di freschissima apparenza, tutti con falchi e balestre e panie e gli altri arnesi adatti alla caccia, quale facevasi in tempi che il fucile, non ancora perfezionato, s'adoperava poco più che ad ammazzare gli uomini. La signorina, lieta di gioventù e novella sposa, dando libero corso ad un'indole gioviale, stata sin allora repressa fra le austerità della monastica educazione, volgevasi via via a richiedere don Alfonso or delle cacce, or delle terre che nel discendere l'erta, scoprivano a man mano nella pianura sottoposta e sugli alti clivi rilucenti al sole mattutino, e pareva tripudiasse di incontrare tutto il creato in armonia colla felicità ond'ella si sentiva inondata. Ma sopra pensieri camminava il giovane suo sposo; e se ella con un sorriso pieno di dolcezza insieme e di vivacità lo confortava a rallegrarsi, — Com'è possibile (rispondeva), Emilia mia? Questi luoghi tu sai quanta sventura mi rammentino. Ma lei, don Alfonso, ben deve lei aver a mente la grave disgrazia qui occorsa a mia madre. — Oh... sì... certo... N'ho inteso parlare, rispondeva il feudatario, aggrottando vieppiù le fosche sopracciglia. — E dove accadde veramente il fatto? insisteva don Alessandro, che così nomavasi il giovane signore. — Là... abbasso... Ma non so bene... Deve essere stato presso alla Madonnina d'Imbevera, ripigliava don Alfonso. — E non si seppe mai il vero di questo caso atroce? — Mai, replicava don Alfonso facendo spallucce e vibrando in faccia all'altro lo sguardo acuto di una vipera in atto di assalire, quasi avesse voluto spiargli in fondo del cuore. Non gli sembrò vedervi sospetto nè malizia; onde rassicurato continuava: — E come sarebbe potuto scoprirsi? Questi contorni erano pieni di malandrini e di banditi. Non è vero, guardacaccia? E il guardacaccia facevasi più presso confermando. — Se ce n'era, illustrissimi! e con tanto di pelo sulla coscienza. Il Caino di Pusiano, il Raspagno di Garbagnate, lo Spazzacampagne di Broncio, altri ed altri cani, che avrebbero assalito anche un frate. — Capisce? soggiungeva don Alfonso. Ma ci abbiamo trovato riparo; e da poi che occhieggiano intorno questi gatti (accennava con sorriso i suoi uomini), di simili sorci è scemata la razza, ed ella deve starsene senza paura. — Ma dica... voleva ripigliare il giovane, ben altro che soddisfatto di quelle risposte. L'Orso però, cui tali domande non parevano dar troppo per lo genio, lentò il freno al cavallo, toccandolo d'una gagliarda spronata, e dietro a lui tutti gli altri. Se non che avendo esso liberato contra d'un uccello il suo falcone, questo riuscì a strappare la lunga annodatagli al piede, e datosi a libero volo, dopo ampie ruote fu veduto posarsi sul comignolo d'una bettola, che sorgeva rasente la strada del bosco. Era una povera casipola, colla parete a tramontana rivestita di edera, mentre a quella di mezzodì stava dinanzi un piccolo ma ben disposto orticello, da cui presso al muro sorgeva una vite novella, destinata, crescendo, a contornare co' suoi pampani una finestra, adorna con pensili ciocche di garofani vivaci. Verso quella si drizzò dunque la comitiva per ricuperare il falco, richiamandolo e procurando calmarne lo spavento colle note voci e col mostrargli l'esca. Come s'intese dirigersi colà la cavalcata, fu un sottosopra nella tranquilla osteria. Un giovinotto, che affaccendavasi per la casa, corse a rintanarsi in una botte sdogata: la madre, che stava rigovernando le stoviglie, tutta spaurita gittò in là il ceneracciolo e l'asperella: l'oste, confuso, impacciato, svolgendosi le maniche rimboccate della camicia e traendosi di capo, si fece sulla soglia, incontro alla comitiva. — Illustrissimo!.... quale onore!... e strisciava i piedi, e faceva profusi inchini a don Alfonso. Ma questi non gli badava come se non fosse: e i servitori ad un suo cenno entrati nella casipola, senza un riguardo al mondo cacciandosi per le camere e su pel tetto, riebbero al fine l'uccello fuggiasco, non prima però che questo, lanciatosi di nuovo a volo per la cucina, mandasse a frantumi gli orci, i bicchieri, i piatti che capitarongli sotto l'ala. L'oste non proferiva parola di lamento, e appena osava dare una timida occhiata alla moglie. Don Alfonso, dopo che s'ebbe in pugno il falcone, l'accarezzò, lo battè, gli parlò a lungo: poi volgevasi già per andarsene senza far motto al vinajo, quando soccorrendogli un pensier nuovo, disse al guardacaccia: — Poichè opportunamente siamo capitati qua, date a costui la preda che avete a lato. E tu (soggiungeva all'oste) la cocerai, e preparerai vino in abbondanza, chè fra tre o quattro ore saremo qui. Oggi si fa colazione nel bosco. — E se mancherà un'ala me la pagherai salata, soggiungeva la guardia, coll'arroganza propria dei ministri d'un cattivo padrone, nel mentre consegnava all'oste la selvaggina. Toccarono, e via. L'oste, per cui quell'arrivo era un sinistro augurio, com'è sempre quello d'un tristo signore, quando li vide voltare esclamò, rimettendosi la sua berretta: — Sia ringraziato Iddio! — E i poveri morti, aggiunse la donna sua segnandosi: e raccogliendo il fiato, chiamò, — Cipriano, Cipriano! vieni fuori. E Cipriano, quel giovinotto lor figliuolo che se la era fumata, comparve fuor, nettandosi dei ragnateli, mentre la madre, raccogliendo i cocci delle rotte stoviglie, raccontava l'accaduto colla fredda rassegnazione, ond'altri racconta una febbre effimera avuta jeri; ed il padre, dando mano alla selvaggina lasciatagli, esclamava: — Non ha torto il sindaco quando dice che certa gente sono come le lumache; dove passano, lasciano il segno. — Eh; soggiungeva il garzone, possiamo segnarci col gomito se non è stato che questo. Io mi era immaginato... Perchè, bisogna che vi confessi che l'altro giorno s'ammazzò una lepre... — Ammazzar una lepre! gridava il padre, sospendendo di scorticare una delle tre che, tiepide ancora, gli avevano lasciate da cucinare. — Ammazzar una lepre! ripetea la madre giungendo le mani. Ma ho da sentire anche di queste? Non sai gli ordini? E gli ordini si devono rispettare, chè lo dice continuamente anche il signor vicario. — Il signor vicario? ripigliava il giovane dimenando il capo. Oh! quanto pagherei a dare un'occhiata anche io sul messale, e vedere se comanda sempre solamente a noi d'obbedire, e mai... Qui interrompendosi come avesse detto uno sproposito, ripigliava: — Or ora mi fate uscire in un'eresia. Sta bene: il signor vicario è quell'uomo che è, e sa ben lui quel che si dice. Però, a vedere! sin che quella lepre, entrata nell'orto, non fece che scompigliare i quadri e mangiare i cavoli, mi venivano i sudori: pure mandavo giù. Ma vi è lì quel piede di vite, portato due anni fa a mia sorella Brigita dal giardiniere del suo padrone di filanda; gli è d'una qualità così rara, e poi alla Brigita è caro come un occhio, perchè chi sa quali memorie vi ha congiunto! Ebbene, io lo piantai nell'orto; lo governai con tanta premura; gemmò, crebbe: ed ecco quella maledetta lepre a rosicchiarlo. M'avrebbe fatto minor dispetto se m'avesse roso le dita a me. — Non hai tutti i torti, parlava il padre: ma ti doveva bastare di scacciarla col malanno che Dio le mandasse. — Dite giusto, rispondeva Cipriano: poteva bastare: e se ho proprio a contarvela, schietto come al confessore, io m'accontentai di spaventarla. Ma quella, scappando, sguisciò fra le gambe di Cecchino del Forno; ed egli, visto il bello, gliene diede sul capo una, che non fu bisogno la seconda. Volle il diavolo che fosse lì poco lontano quella schiuma del guardacaccia. Gridando corpo e sangue, ci corse dietro: ma sì! guarda la gamba. Non ci ha conosciuti, e dovette contentarsi di urlarmi dietro: — Non dubitare che verrà il tuo sabato. — Quando la cosa sta come la conti, diceva la donna, fa bisogno di mettersi in paura? Se alcuno te ne parla, si dice: Gnornò; non sono mica stato io, si dice: l'è stato il tal dei tali, e buona notte. — Che? come? saltava su il giovane inalberandosi. Io accusar il mio camerata per salvar me? Da che mondo è mondo non s'è ancora inteso che un brianzuolo n'abbia fatto di coteste. Ed io voglio portare il mio cappello fuor degli occhi, io; mi capite? E mentre il padre sentenziava novamente che non poteva dargli torto, egli seguitava brontolando fra i denti, sinchè riprendeva: — È però della maledetta! L'Orso di Barzago, perchè è lui, ogni po' di bizzarria che gli monti, a far battere noi poveri villani od anche peggio, l'ha come bever un uovo; e per noi ha da esser peccato mortale se ammazziamo uno straccio di lepratto che ci fa del male. Che? non siamo cristiani ancora noi? non ci ha fatti anche noi il Signore. E la sua santa legge v'è solamente per i pitocchi? Sì, che Domenedio avrà paura di lui perchè è l'Orso. — Oh per amor del cielo! l'interrompeva la donna: parla con rispetto di lui. Non vedi quanto male ci potrebbe fare? Eppure ci lascia vivere. Chi poi lo dice così cattivo sono male lingue: e guarda mo' con che devozione sta in chiesa, ed ogni sabato non fa accendere la lampada alla Madonnina d'Imbevera? e... — Sì, sì, esclamava Cipriano; ogni ladrone ha la sua devozione. Ma come egli sia buono, addomandarlo al mugnajo di Santa Maria Hoe, il quale, perchè aveva la donna bella ma anche savia, fu conciato che Dio vel dica. Addomandarlo a Mariantonia del filatoio, che era una ragazza chetina come l'olio, ed ora sapete anche voi quel che n'è. Addomandarlo a Carlandrea del Gobbo, che, per non avergli voluto cedere il suo camperello, n'ebbe prima tante bastonate quante può portarne un somaro, poi a rinforzo d'angherie è ridotto miserabile come Giobbe. E neppur un mese fa Lionardo di Rosina avendo, nel passare, spaurato un merlo che stava per dare nel calappio, il guardacaccia non lo fece ruzzolar giù pei ronchi come una pallottola, gridandogli dietro, spero che non tornerai più su? Oh quel guardacaccia! Il Signore ne scampi i cani. L'altro dì.... Chi sa fin quando Cipriano toccava innanzi, sciorinando questa litania delle insolenze che, come più recenti, gli correvano prime alla lingua, e che possono essere un'altra dimostrazione del quanto sia grande la pazienza di chi soffre. Ma gli ruppe le parole in bocca, sua madre tutta scandolezzata, dicendo: — Ma sicchè? ma sicchè? Dov'hai tu la coscienza a parlar così senza rispetto dei padroni? Bada che Domenedio ti castigherà. Non è vero che egli ha fatto gli uomini parte per comandare, parte per obbedire? Bene; i potenti si chiamano così perchè hanno avuto da lui la potenza di comandare, e il nostro dovere è di fare la loro volontà senza cercar più che tanto. Che capo sei tu! vorres'tu disfare quel che ha fatto il Signore? — Tua madre non ha torto, soggiungeva il padre. Non l'hai inteso delle cento volte che il destino di noi straccioni è mangiar pane e guai? e il diritto di quei che comandano è far quello che possono? Le idee di diritto e di dovere non dovevano essersi ben identificate nel capo di Cipriano: compatitelo, avea poca barba ancora al mento. Laonde crollava il capo a guisa di chi si conosce rimproverato piuttosto dalla prudenza che dalla coscienza, poi dopo alquanto saltava su: — Però, se fosse toccato a me a dar regola al mondo, indovinate mo cosa avrei voluto? Che quelli che lavorano stessero bene e di sopra degli altri; e gli oziosi facessero crocette. Ah! ah! E sbellica vasi dalle risa all'averne detto una cosa strampalata. Il padre rideva anch'esso, esclamando: — Si può sentire di peggio? Persino la madre serenavasi alquanto, poi, ripresa la sua devota ipocondria, continuava: — Che discorsi senza sugo! Se tu avessi un poco di timor di Dio, avresti anche il timor degli uomini, ti cuciresti la bocca, e certe cose non le diresti manco per baja. Ma già fin da ragazzo eri un capetto, con certe idee per la testa, che sicuro non le avevi imparate da me: e non ti pareva giusto nemmeno quando, a scuola o alla dottrina, ti picchiavano. Ora però sei all'età della discrezione, e dovresti aver acquistato un poco di viver del mondo, e sapere che i padroni, come le streghe, è meglio non nominarli nè in bene nè in male. Se tu facessi così, non avresti avuto paura adesso adesso quando capitò qui il signore: perchè a chi va per la sua strada non importa che i padroni siano buoni o siano cattivi. — Ed io (soggiungeva Cipriano) sono forse andato io a cercarlo? non sono anzi scappato quando mi vide il guardacaccia? e questo non fu forse per prudenza? Perchè, del resto all'occasione so anch'io cacciarmi le mosche dal naso. E se poco fa mi rimpiattai, fu per rispetto al padrone; che se il guardacaccia vedendomi mi riconosceva per quel dell'altro giorno, e m'indicava a don Alfonso, io poteva aver preparato l'atto di contrizione. Alla fine lo so anch'io che i padroni sono padroni, ma con quella canaglia de' suoi uomini l'è un pezzo che la bolle; e badino a quel che fanno, perchè se mi ci tireranno per i capelli, non sono poi di sasso, e darò un piè nella secchia, e farò vedere... — Ah, orsù, l'interrompea la madre; finiamola, che è lunga. Lasciali stare, e nessuno verrà a disturbarti. Che se anche te ne fanno fare qualcuna, manda giù e non volere tentar Dio. Hai ventiquattro anni finiti, ed è ormai tempo di lasciare le bizzarrie. Via, discantati; dà mano a tuo padre a spennare e sbuzzare que' selvatici; sbaccella que' fagiuoli; va a raccogliere due pesche, e monta su la pianta, da non presentargliene ammaccate. Il giovane faceva; ma somigliante all'organista che tasteggia sottovoce nel tono in cui ha sonato dianzi e deve sonare ancora fra poco, tale seguitava egli con tronchi motti, sinchè tornava su: — Mia sorella, la quale a dir che mi vuol bene è poco, ne avrebbe detto delle belle quando avessi lasciato massacrare la sua vite. Bravo Cipriano! avrebbe detto la Brigita. Bel conto fai delle mie raccomandazioni, avrebbe detto.... Ma.... adesso che mi vien in cuore; domani non è il giorno della Madonna di settembre? — Certo sì, rispondeva la madre; e farai bene a santificarne la vigilia con qualche mortificazione, almeno della lingua. — E non è oggi che deve tornare la Brigita dalla filanda? — Sì bene! esclamarono ad una i genitori. — E se la intoppasse in costoro, che sono pel bosco a caccia? — È vero, replicò il padre battendo l'anca. — O signor benedetto! esclamò la madre giungendo le mani: e sospesero le faccende per guardarsi uno in faccia all'altro. — Bisogna raccomandarla alla Madonna d'Imbevera, che la scampi d'ogni cattivo incontro, aggiungeva dopo un pezzetto la donna. — Raccomandarla va bene (rispose Cipriano), ma il Signore dice: _Ajùtati che ti ajuterò_. — E così? che s'ha da fare? domandò essa. — Che s'ha da fare? replicò il padre, e tacquero. Non ci pensò molto Cipriano e — Niente! lasciate far a me; le anderò incontro. — E poi? soggiunsero i parenti. — E poi, e poi, sarà quel che sarà. Quante paure! Quando vado a fin di bene, mi sento un cuor di leone. — Ma! fa quel che il Signore t'inspira. In quanto si dice un _amen_, egli levò il cappello disotto una seggiola; tolse di dietro l'uscio un saporito randello, non senza cacciare, per ogni buon fine, nel taschino dei calzoni un buon coltellaccio da serrare, poichè del coltello e del rosario non andava mai sprovvisto un galantuomo di quei tempi. E mentre la madre, fattasi sulla porta, e vedendo volentieri infatti quel coraggio che dianzi aveva con parole disapprovato, gli augurava che il Signore gli tenesse la sua santa mano in capo, egli si metteva la via tra le gambe allegramente. Passò avanti al tabernacolo d'Imbevera, dove, men rozzamente dell'ordinario, stava dipinto a guazzo l'immagine di Colei che, madre di Dio e nostra, ci inspira confidenza di volgerci, colla sua intercessione, ad esporre al Signore i nostri bisogni. Era effigiata in atto di schiacciare il serpente: di sopra si leggevano le parole della Genesi _Conteram caput tuum_[1]; sugli stipiti erano foggiati due nastri azzurri, che sorreggevano stinchi da morto incrociati; al piede un ceppo riceveva il soldo che vi offeriva in limosina il viandante o devoto o pauroso. E devoto o pauroso, non era chi le passasse dinanzi senza far di cappello, e ripetere almeno tre volte la salutazione angelica. Singolarmente i contadini del contorno l'avevano in gran venerazione, ricordando una quantità di miracoli, come essi li chiamavano, impetrati per mezzo di essa, e dei quali rendevano testimonianza grucce, bende, cenci che spenzolavano, bizzarro ornamento, attorno all'effigie invocata. Le vecchie poi sapevano che, per virtù di questa, erano impedite le streghe dal congregarsi, come a loro memoria facevano, la notte d'ogni sabato a celebrare su per quei noci la tregenda. Le fanciulle venivano ad esporvi una preghiera, il cui oggetto non ardivano confessare e spiegare a sè stesse; gli uomini vi facevano l'invocazione che a ciascuno dettava il proprio momentaneo interesse: talchè spesso nel medesimo istante vi si trovavano inginocchiati un contadino ad implorare la pioggia ed un viaggiatore il bel tempo, nè l'uno nè l'altro ricordandosi di quel precetto, _Chiedete il regno de' cieli, il resto verrà in aggiunta_. Cipriano, in men tempo che noi ne consumammo a descriverla, recitò al tabernacolo la sua preghiera di cuore, offrì un soldo pei poveri morti, e tirò innanzi cantacchiando. Non erano molti anni che colà era stata dipinta quella immagine, e l'origine di essa si congiunge alla storia dei signori che qui sopra trovammo intesi alla caccia pel bosco: storia di sangue e di atrocità, come sono troppe fra le avventure ricordate di quei tempi. Le inimicizie tra i signori Isacchi di Barzago e i conti Sirtori di Sirtori, de' quali era il nominato don Alessandro, rimontavano sino ai tempi quando sul suolo d'Italia, destinato a bevere il sangue di tutte le nazioni, versavano il loro Spagnuoli e Francesi per disputarsi il possesso della Lombardia, ceduta dai suoi antichi padroni o piuttosto a loro rapita. I nobili lombardi parteggiavano chi per questi chi per quelli; secondo pareva loro che la lontananza dei primi o le promesse dei secondi, sempre larghe e sempre bugiarde, meglio potessero salvare l'indipendenza del paese, la quale trovavasi in gran punto, e di cui queste fraterne dissensioni non fecero che accelerare la ruina. Allora le gare mandarono a fascio ogni sociale armonia; tornò il diritto della forza, e ciascun potente mascherandosi col nome d'una fazione, e così dichiarando guerra e sostenendola a visiera alzata, esercitava gli odii e le vendette private. Qualche volta al castello d'un barone presentavasi un araldo, ed affiggeva alla porta un cartello che diceva: — Io tale de' tali, da oggi innanzi sarò tuo nemico a morte, e nocerò il più che mi sarà possibile a te, ai sudditi, agli attenenti tuoi, nella persona e nell'avere. Talvolta chi riceveva tali disfide o chi le mandava era una corporazione, una comunità: e da quel punto credevasi legittimata qualunque scelleratezza, come in guerra rotta. Gli Isacchi stavano coi Francesi, mentre i Sirtori favorivano gli Imperiali, e più volte si erano recati gravi danni, od almeno ne avevano recato agli innocenti terrieri, che, destino antico, scontavano coi propri guai i delirii dei padroni. Ma quelli di Barzago, fiancheggiati da una più grossa fazione, prevalevano nelle parti di Brianza; e don Giberto avo che fu del feudatario presente, a capo di forte banda teneva in soggezione gli avversari e in danno e sgomento tutti. Però alla fine gli Spagnuoli prevalsero: il paese fu sgombro dai Francesi, e i loro fautori rimasero sbattuti, quanto rizzarono il capo gli altri. A governo della Lombardia fu destinato il duca d'Alba, severo, inflessibile, che senza guardar più in fronte a nobili che a plebei, faceva pagare col sangue ogni violazione degli ordini suoi. E che tale dovesse riuscire lo mostrò da' bei primi giorni del suo reggimento, quando non avendogli un gentiluomo milanese fatto di berretta mentre cavalcava per la trionfata città, egli senz'altro lo mandò a morte. Il Sirtori, cieco per furor di parte e per sete di vendetta, si giovò dell'opportunità per dipingere don Giberto come ostinato ribelle, e senza molta fatica ottenne dal governatore uno di quei decreti eccessivi, soliti emanarsi nell'ebbrezza dei trionfi, col quale si bandiva la taglia di dugento scudi d'oro sul capo di don Giberto. Questi, che mai non aveva dimesso le armi, e conservavasi a capo d'un pugno di bravacci risoluti, quando intese la sentenza, sorrise, e battendo la mano sulla fondina delle pistole, esclamò: — Chi mi vorrà morto avrà a fare con queste. Calcolava egli sulla forza aperta, non sul tradimento. La tentazione della taglia vinse uno tra i suoi affidati, che lo scannò, ed ottenne l'oro ed il disprezzo, — mercede perpetua dei traditori. Il capo reciso dell'Isacchi, chiuso in gabbia di ferro, venne sospeso ad una pianta lungo la via che fendeva il bosco, dal quale soleva egli sbucare alla devastazione, all'incesto, all'assassinio, acciocchè ivi rimanesse a perpetuo spavento. L'infamia e la pena de' genitori, secondo la giustizia d'allora, ricadevano anche sui figliuoli e sui parenti: onde non occorre vi dica quanto la famiglia Isacchi restasse di tanto oltraggio irritata. Ogni colpa, nè a torto, veniva attribuita al Sirtori, e il desiderio di vendetta con questo esacerbava le antiche inimicizie, quanto più era represso dallo stato politico d'allora. Poichè il duca governatore aveva bandito che cessasse ogni dissensione tra famiglie e famiglie, nè i privati esercitassero più la cieca ragione di guerra, che si erano usurpata fra i passati scompigli. Costretti dunque a ricorrere alle vie legali, gli Isacchi umiliarono alla corte di Madrid le discolpe di don Giberto. Qualche valente appoggio e l'essere morto il duca di Alba fecero trovare colà ascolto favorevole ai loro richiami, e dopo cinque anni arrivò uno spaccio, che dichiarando innocente don Giberto, cassava il bando contro lui pronunziato. Gli Isacchi dovettero allora rinnovare le rimostranze alla corte facendole conoscere come l'assolto fosse già stato ucciso. E la corte, dopo non so quanti mesi, rescrisse che il padre era stato male ammazzato, riabilitò il figliuolo di esso ai titoli ed agli onori di prima, e gli rese i beni, che come roba di rubello, erano stati condannati a rimanere incolti; altro dei mezzi onde quel governo faceva prosperare l'agricoltura e crescere il buonmercato. La testa dell'ucciso fu dunque levata di colà; e nel luogo dov'era stata sospesa, il figliuolo di lui, in memoria ed in espiazione, fece erigere un tabernacolo; il tabernacolo appunto d'Imbevera. Quella depravata religione, che pretesseva alle scelleratezze il nome di Dio, anche nella scelta dell'effigie da rappresentarsi fece all'Isacchi preferire quella che alla sua idea ricordava una vendetta; cioè la più pura delle donne che schiaccia il capo dell'antico avversario, col motto della _Genesi_ sopra accennato che sonasse, non la promessa del riscatto, ma una minaccia di sangue. Imperocchè, sebbene astretto a rodere il freno, l'Isacchi era ben lontano dall'avere dimentica la ingiuria del nemico. Avvezzo in quegli anni a vedere, secondo la sorte delle battaglie e gl'intrighi dei gabinetti, succedersi governi a governi, sperò lunga pezza che altri padroni caccerebbero questi, e tornerebbe il tempo d'esercitare micidiali rappresaglie a suon di trombe e a vessilli spiegati, il che fra i cristiani chiamavasi vendicarsi nobilmente. Ma gli Spagnuoli si erano qui seduti per non levarsi che dopo un secolo e mezzo, e conservavano un ordine, qualunque si fosse. All'Isacchi parve allora più prudente consiglio l'amicarsi i nuovi dominatori, come ottenne col militare sotto le bandiere degli Spagnuoli, quando coi torrenti di sangue procuravano spegnere nelle Fiandre le dissensioni religiose, ed al contrario vi fecondavano il germoglio della libertà. Giovandosi poi delle strettezze di quel governo, che padrone delle miniere americane, pativa continua necessità di denaro, comperò in feudo per cinquantamila ducati il comune di Barzago, dove erano le sue possessioni avite, col diritto d'imporre tasse, imprigionare, torturare, appiccare, e tutto quello che chiamasi far giustizia. E poichè la minacciosa fiacchezza delle leggi di allora lasciava il modo di sostituire alle spade i pugnali, al clamoroso attacco le insidie, alle sfide il veleno, colse egli ogni occasione di nuocere ai signori di Sirtori, e quanto gli bastò la vita, gravi danni ad essi recò; non però tanti che satollassero l'odio e la rabbia mortale che loro portava. Trasmise adunque l'omicida voglia al figliuol suo Alfonso. Non appena fu questi tornato dalla corte di Madrid, ove l'educazione ricevuta in uno dei più rinomati collegi gesuitici aveva perfezionata vivendo secondo il costume dei nobili, come paggio fra gli ozii orgogliosi e dissoluti delle anticamere, e coll'esempio di quei cupi, inesorabili, devoti monarchi, suo padre lo tratteneva sovente col racconto di quel fatto, gli mostrava il teschio dell'ucciso, che con irosa venerazione serbava nella propria camera; e massimamente ogniqualvolta avvenisse loro di trovarsi nel bosco d'Imbevera, più al vivo dipingendogli quell'atrocità, gl'inculcava il sacro dovere che l'onore impone ai nobili di vendicare i parenti; più volte avevano insieme ruminato il modo di ridurlo ad effetto, e quanto sarebbe decoroso alla casa e a loro di consumare la vendetta colà appunto ove sorgeva il monumento dell'oltraggio. Venuto poi in caso di morte, il padre chiamò a sè don Alfonso, e togliendosi di collo un medaglione d'oro su cui era improntata la madonna, — Vedi tu (gli disse) questa santa effigie? La portava di continuo in petto la buona memoria di don Giberto mio padre. Pensa se la serbai preziosa! Ed ora, sul punto di abbandonarla colla vita, a te la lascio, Alfonso mio; ma con essa ti lascio un dovere sacrosanto, di vendicare colui al quale dapprima appartenne. Di quante inimicizie esercitò la nostra famiglia, sempre, grazie a Dio, n'è uscita con onore, nè alcuno si potè mai vantare d'averle usato un sopruso che non ne patisse il centuplo di danno. Tu non degenerare dai padri tuoi; ma serba intatta questa gloria, figliuol mio. Poss'io morire consolato di tale fiducia? Quando il figliuolo tra i singhiozzi glielo ebbe promesso, tutto egli rasserenossi, e poco dopo spirò. Lui sventurato se migliori sentimenti non concepì avanti di presentarsi al giudizio, ove i debiti nostri saranno rimessi secondo gli avremo rimessi noi ai nostri offensori! Nel giovinetto Alfonso rimasero pertanto associate le idee di religione e di vendetta, l'effigie della Madre della misericordia, le sacre parole, gli affettuosi ricordi di un agonizzante, colla promessa d'un assassinio. Se tanto ancora non fosse bastato, rinasprì le ire il matrimonio che il signor Sirtori, padre di don Alessandro, strinse con una ricca dama dei conti Perego, sulla quale, o, a dir meglio, sulle ricchezze, sui titoli, sulle parentele della quale aveva messo gli occhi don Alfonso. Per questa rivalità stavano l'uno in sospetto dell'altro, nè andavano in volta per Milano se non con buona scorta d'amici e un codazzo di bravi. Accadde (e fu il giorno della Pentecoste) che don Alfonso, con una dozzina de' suoi appoggiati, entrò in Duomo, nel mentre quel Carlo Borromeo che operò ogni poter suo per sostituire in mano dei nostri patrizii il rosario alla spada, faceva un'omelia sopra quel testo, _Se alcuno ti percuote la guancia destra, e tu porgigli anche la sinistra_. L'Isacchi, avanzatosi in mezzo alla devota ciurmaglia, che gli dava il passo, si fermò accanto ai panconi, su cui stava seduto il Sirtori cogli aderenti suoi. Questi e quelli cominciarono, come si dice, a rizzar il pelo e guardarsi a squarciasacco: uno fra' seguaci dell'Isacchi, fosse caso o prurigine d'aizzare, striscia col gomito e scompone il collare al più vicino fra quegli altri: costui si rivolta con un mal piglio; con un peggiore lo fissa l'altro: comincia un brontolar sordo, fra il quale una voce abbastanza chiara proruppe: — Qui c'è alcuno che vuol farsi mettere in gabbia. Voleva secondo l'espressione del nostro volgo, indicare in prigione: ma quella parola gabbia ravvivò in don Alfonso l'idea del supplizio dell'avo, gli sonò come un insulto insieme e come una minaccia; la credette senz'altro proferita dal Sirtori. In quell'impeto, dimentico del dove si trovasse, caccia mano allo stocco; i suoi l'imitano: nè gli avversari dormono, ma balzati in piedi, avvoltolate al braccio le cappe, sguainati i ferri, rizzate le panche a modo di barricata, di qua e di là si comincia a far sangue: — a far sangue in chiesa! mentre si spiegava il Vangelo! E l'affare diveniva serio di più in più, se il governatore duca d'Albuquerque, ivi presente, non fosse accorso cogli alabardieri a por fine alla sacrilega zuffa, ed intimare a don Alfonso che uscisse dalla chiesa. Al domani i cacciatori di novità lessero affissa sui cantoni di Milano una grida, nella quale si diceva qualmente _insoffribile_ era divenuta _l'irreverentia d'alchune persone etiam qualificate_, che portando _l'abominatione nella casa del Signore, non altrimenti che nelle pubbliche et più licentiose piazze, senza timore delle vendette divine, et quasi anzi avessero a godervi maggiore franchigia_, ardivano _cicalare, passeggiar in lungo ed in largo, amoreggiare, sollevar clamori et perfino metter mano alle armi_. Di questi eccessi disgustata, l'eccellenza del duca governatore, _intenta all'onor di Dio, et salue le giurisditioni del foro ecclesiastico, non che le pene prestabilite per la costituzione di N. S. Pio V. contro li profanatori delle chiese, ordina e vuole che nessuno da hoggi inante ardisca con parole licenziose, atti inhonesti, contentioni e risse_ turbare la devozione in tempo dei divini uffizi. Ed ai contravventori, _sotto qualunque pretesto si mantellassero_, vuole sia inflitta la pena di cinquanta scudi e cinque tratti di corda, _et più allo arbitrio della medema Eccellenza sua_. Chi fa colpa a quel governo perchè, dopo buttate fuori spaventose gride, non curasse più che tanto di mandarle ad effetto, non avrebbe una riprova in cotesta; poichè in una cronaca trovo notato che dalle pene ivi minacciate fu poco di poi colpito un pizzicaruolo, perchè disturbò la devozione della gente affollata a sentir messa in Santo Stefano col correre tra quella a cercare ansiosamente un chirurgo affinchè tosto uscisse a medicare un fruttajuolo, il quale sul Verzajo, aveva tocche due coltellate da un macellaro. Benchè da queste pene potesse don Alfonso tenersi sicuro pei riguardi dovuti ad un'illustre famiglia, come provocatore avrebbe potuto essere ricercato; laonde per cansare ogni disturbo, abbandonò la città e si ritrasse nel palazzotto di Barzago, ed ivi trovò opportuno fermare sua stanza. Si mise attorno una mano di bravacci, disposti a fare ogni suo cenno e peggio, e così indipendente esercitava le sue volontà. Nei primi giorni che fu uscito di Milano, invelenite le vecchie piaghe colla recente, scese dal castello nel bosco di sanguinose rimembranze, e venuto al tabernacolo d'Imbevera, vi si inginocchiò e fece una scellerata preghiera, ove prometteva alla Madonna, se, col patrocinio di essa arrivasse a sterminare la razza di colui per cui colpa gli fu l'avo trucidato, le innalzerebbe nel luogo medesimo un tempio sontuoso, ove d'ogni parte accorrerebbe gente a tributarle onori ed oblazioni. Pochi anni dopo, il conte Sirtori morì giovane freschissimo, di una malattia così bisbetica che i medici di campagna la giudicarono causata da acquetta, sebbene quelli di città inclinassero piuttosto a crederla effetto di stregamento. Ancora in gramaglie era la vedova di lui, quando rivenendo, non so d'onde, alle sue terre in Sirtori pel cammino del bosco, coll'unico suo figlioletto, e sorpresa da un turbine, essendosi riparata sotto un gran noce che faceva ombrello al tabernacolo d'Imbevera, fu assalita da alcuni sicari, i quali uccisero i lettighieri suoi ed un servo che la scortava: un altro servo, col favore del bujo, riuscì a trafugare il fanciullo, che era appunto il nostro don Alessandro; la dama non fu trovata più nè viva nè morta. Fatto misterioso anche questo, non meno del precedente. Era in quel tempo sindaco di Barzago un benedetto omicciuolo, che per le cento lire di suo stipendio credevasi in dovere di tutelare i diritti del comune fin contro del feudatario, e che, ignorante affatto del vivere del mondo, mai non si era avvezzo a quella che, e in quei tempi ed in altri, era la prima e somma delle virtù, cioè chiudere coi padroni un occhio, e se occorra tutt'e due, chinare il capo, e dire di sì. Costui, avendo osato commentare quell'avvenimento e soggiungere che la non gli pareva farina netta, la sera seguente si trovò appoggiato un fiacco di mazzate, non sapeva da chi; solo ricordava che gli avevano detto essere queste un tientamente per lui e per gli altri villani, di non frugare troppo nel sacco de' padroni. Circostanza minuta, che però non volli lasciarla nella penna, affinchè i lettori miei abbiano occasione di comprendere a loro pro, come con una certa razza di gente, sia un torto l'aver ragione. A don Alessandro, che poteva contare allora fra gli otto e i dieci anni, non restava che una confusa rimembranza di quel fatto; un temporale, un'aggressione, qualcuno che lo levò sotto il braccio, e turandogli la bocca, lo recò lontano, sotto un diluvio d'acqua, erano idee che gli soccorrevano alla rinfusa. Ricondotto poi a casa sua, si sovveniva gli erano state fatte molte interrogazioni, cui mal sapeva rispondere; e come tra quelle udiva sovente esclamare: Ah! non se ne può dubitare: ma è un cane troppo grosso. Più oltre non lo ajutava la sua memoria, nè gli altri fatti per noi riferiti erano ad esso conosciuti. Perocchè, non avendo qui alcun prossimo parente, e d'altra parte bramando allontanarlo dal pericolo troppo vicino, lo chiamò presso di sè uno zio, monaco del più rinomato convento di Padova. Su quella Università fu messo a studio, dove gli avevano insegnato il latino, il greco, e far versi, e quelle altre istituzioni così importanti al viver bene. Egli le apprendeva e se ne faceva onore; poi, come fanno tutti, le disimparava via via che a qualche cosa nuova era applicato. Per altro in quell'educazione più sciolta egli acquistò idee meno servili: nessuno rammentandogliene, dimenticò le nimistà ereditarie in sua famiglia: il ricordo d'una grave sventura patita in fanciullezza, i soprusi che più d'una volta avea dovuti tollerare dai camerata, orgogliosi nella protezione de' nobili uomini di colà, avevano giovato a formargli, o, dirò più bene, a conservargli un animo, quale da bambini sortiamo, tutto aperto alla compassione per chi patisce, al dispetto per chi soperchia, a quei dolci sentimenti che non istrappa se non una lunga serie di torti, fattici — dirò dalla fortuna per non offendere gli uomini. Non istà qui tutta la virtù, lo so; ma ne è gran parte e gran segno. I tutori suoi, bramosi di ravviare al più presto la casa, lo richiamarono che appena finiva i vent'anni e gli avevano predisposta una moglie, nella cui scelta, sebbene avessero consultato tutt'altre convenienze che quelle che importano acciocchè due conjugi sieno un all'altro sostegno, consolazione, conforto; dovea però, per una vera fortuna, riuscire quel meglio che potesse desiderarsi, accoppiando ricchezze, beltà, squisito intendimento e quella soavità di carattere che tanto contribuisce alla felicità propria ed all'altrui. Questa era donna Emilia che conosciamo; colla quale erasi egli congiunto da poco più d'un mese: nè tra le beatitudini della luna di miele aveva egli cercato notizie de' casi antichi di sua famiglia. Ove bene gli avess'egli conosciuti, sarebbesi dato a credere che tant'anni trascorsi, ed il cessare, non che le offese, ma quasi l'esistenza d'una delle parti, dovesse avervi posto sopra una pietra. La gioventù è confidente perchè buona, e perciò spesso o facilmente ciurmata. Come saprebbe essa immaginare e la diuturna e sottile atrocità, di cui pur troppo è capace il vendicativo? come nè tampoco supporre la natura di certi spiriti, de' quali è un privilegio l'esecrare le persone senza conoscerle, è un dogma il voler male a quelli che fecero male? Pertanto, venuto don Alessandro alla campagna colla nuova sposa, eragli sorto in animo il desiderio di visitare i luoghi di quelle prime dolorose ricordanze, versare una lagrima sulla zolla ove sua madre avea versato il sangue. Una sera a don Alfonso si presenta il guardacaccia. Quest'era un bresciano, pezzo d'uomo alto e membruto, fin dalla prima gioventù manesco, accattabrighe, coltellatore, che sbandito dal suo paese con dieci o dodici omicidii sull'anima, e una grossa taglia sul capo, era entrato già da molti anni a' servigi di don Alfonso, al quale faceva, secondo le occorrenze, da cacciatore, da bravo, da mezzano, da spia, da boja. Questo arnese si presenta dunque al padrone, e gli riferisce come domattina il signor Sirtori passerà da quelle parti per condursi nel bosco d'Imbevera non sapeva a che fare. Tripudiò a tale notizia il feudatario, non altrimenti di un bracco allorchè, vedendo il padrone pigliar fucile e carniera, s'accorge che deve uscire alla caccia. Tolto al tedio iracondo dalla fiducia di una imminente vendetta, quella notte non seppe l'Isacchi trovar requie; entrava, usciva senza ragione: stette lungo tempo passeggiando sopra un terrazzo; ma sebbene avesse in prospetto la pacifica amenità del Pian d'Erba illuminato dalla luna, la quale dava un luccicare d'argento alle tranquille acque dei laghetti non vi poneva egli mente; e colle braccia incrociate al petto e lo sguardo a terra, trascorreva pensoso, di tempo in tempo applaudiva a sè stesso, poi dava ordini, poi interrogava, poi tornava a starsi solo: — tanto irrequieto l'avea reso il veder presso al compimento un disegno anni ed anni meditato. Prima dell'alba fu in piedi, e comandato che tutto fosse lesto per la caccia, si rinchiuse nella propria camera; rimossa la tappezzeria, che mascherava un usciuolo a fior di muro, lo aperse; entrò in un gabinetto, e trattasi di seno una piccola chiave, fece con quella scattare un lucchetto che teneva il catenaccio d'una ribalta ferrata; aprì questa, e con attenzione cansando la soglia, fattosi qualche passo innanzi, gettò dentro un pane, che risonò sopra un pavimento profondo, e gridò giù: — Te' miserabile. Oggi ti darò compagnia. Ribattè la botola, inanellò il paletto, tese ancora il parato e venuto in camera, gettassi sopra un inginocchiatojo, che stava nel vicoletto del letto, e fra il crocefisso e la piletta dell'acqua santa alzò il raso nero che velava un teschio posato sopra un bacile d'argento, e fissatolo un tratto come uomo meditabondo, cavò dal petto il medaglione d'oro, paterna memoria, che portava sospeso ad una catenella, ove era infilata insieme la chiavetta testè adoperata. Baciò l'effigie scolpita sulla medaglia, e recatasela fra le mani giunte così pregò: — Beata vergine patrona mia! se mai esaudiste le preghiere di me povero peccatore, oggi ascoltatemi benigna. Datemi grazia di far buona caccia, sicchè io renda giustizia al mio progenitore, e liberi la promessa data al moribondo mio padre. Pur troppo mi posso rimproverare d'aver recato offese a voi ed al vostro divin Figliuolo. Ma se oggi mi propiziate quel Dio che punisce la colpa dei padri fino alla terza generazione, voglio rimettermi a vita esemplare; se fui sempre divoto al vostro nome diverrò più ancora, e comincerò l'emendazione mia collo sciogliere il voto che già vi feci e che ora rinnovo. Sì, madre misericordiosissima, aiutatemi oggi e se dovessi imporre un pedaggio, se dovessi assaltar alla strada per trovarne il denaro, innalzerò un ricco tempio sopra la benedetta vostra immagine d'Imbevera. Ribaciò l'effigie, se la tornò in seno; preso quindi dal ginocchiatojo un uffiziuolo, ne sciolse le borchie d'argento, e volle tentare un modo d'oracolo, che egli soleva ne' casi importanti, cioè aprirlo alla ventura; e dalle prime parole che gliene cadessero all'occhio argomentare del come gli succederebbe il suo pensiero. Gli occorsero quelle d'un salmo penitenziale: _Dominus de cœlo in terram adspexit, ut audiret gemitus compeditorum, ut solveret filios interemptorum_[2]; e, come sogliono i passionati oltraggiosi, ricordando le offese ricevute, non le recate, riconobbe il suo avo in quell'incatenato, sè nel figlio dell'ucciso di cui qui si accenna; parvegli la profezia che più quadrasse colla domanda fatta in pensiero. Onde con effusione baciata una Madonnina sul frontispizio del libretto, sorse pieno di confidenza. Sotto alla casacca di velluto affibbiossi un leggiero corsaletto di maglie d'acciajo flessibili; alla gorgiera, increspata a cannoncini e fortemente insaldata, pose un rinforzo metallico; si legò alla cintola un eletto pugnale; calzò usatti da caccia; sul capo un caschetto senza piume, e scese. Tutto era a ordine. Monta un destro ginnetto spagnuolo, toglie sul guanto imbottito della sinistra il falcone, e tra un suono di corni, uno squittire e scodinzolare di bracchi e di segugi, si avvia. Stavano in quella discorrendola il signor curato e il sindaco del paese; l'uno in nicchio a tre venti e spolverina, l'altro in maniche di camicia e gambe nude. Di quest'ultimo parmi aver già toccato; l'altro, don Amadio, passava per un dei valenti se ce n'era là intorno, famoso per gran pratica dei quaderni teologici e de' casisti, e per una salva di testi che aveva sempre alla bocca. Nelle congregazioni plebane, ove, secondo i decreti del Concilio di Trento, osservati perchè ancor recenti, accoglievasi spesso il clero per decidere casi di coscienza, don Amadio era sempre lui che dava il tratto alla bilancia; e dopo aver lasciato un poco diguazzarsi i reverendi suoi confratelli pel si e pel no, egli buttava fuori il suo oracolo, che troncando il nodo, li metteva tutti bravamente in sacco. Pel suo credito era stato anche fatto vicario foraneo, dignità di qualche conto allora, quando le curie emanavano da sè decreti ed encicliche, senza bisogno del regio visto; e tenevano tribunali, giudizi, prigioni. Vero è bene che il nostro curato non voleva sciuparsi con troppe brighe che lo distraessero dai prediletti suoi studi; e men voglioso di fare che di lasciar fare, anche nella parrocchia, dopo che le domeniche aveva pascolato le sue pecorelle con prediconi, distesi secondo tutti i precetti della retorica che era il suo forte, lasciava poi ad esse la cura di metterne in pratica gl'insegnamenti; se nol facevano, colpa loro; la sua coscienza era tranquillata. Uomo specchiato del resto, riverente ai signori, e sopratutto amante della pace e di quelle cose che si chiamano il buon ordine e il tranquillo vivere. Sorseggiato la cioccolata, se la passeggiava egli giù giù, digerendo all'aria aperta, colle mani alle reni una nell'altra e fra le due la tabacchiera, mentre il sindaco sbocconcellando un tozzo di pan mescolo asciutto, colla zappa sulla spalla dirizzavasi ai campi, si veniva con lui rammaricando d'una nuova tassa, imposta dal feudatario, contro le antiche consuetudini, e detta del bollino, perchè faceva pagare a' vinai il bollo che metteva sulle mezzette del vino a minuto. Il sere ascoltava quel rancore del sindaco, poi dando fuori in uno scroscio di riso che gli faceva traballare la pancia, tra l'offrirgli una presa di tabacco, gli diceva: — Eccoti alle solite antifone. Ma cotesto non è un cercar le noje col lanternino? Che importa a te s'egli mette una tassa nuova? Quando toccasse a te a pagarla, vorrei dire: ma chi ha da fare ci pensi. Sai tu che se' curioso? Se tu cavassi frutto dalle mie prediche, non ti prenderesti ne tante scese di capo. Bada a me, bada a me, che la so più lunga. Lascia andar l'acqua in giù, e lega l'asino dove vuole il padrone. Il mondo non è sempre andato di questo passo? Che? Vuoi tu ora ristampare il mondo? — Sarà bene (soggiungeva il sindaco), sarà bene, perchè vossignoria legge tante storie, e deve saperlo: ma però codeste angherie una volta non si soffrivano, e quando godevamo la nostra libertà... — Zitto là, l'interruppe don Amadio. Che cosa mi vai accattare qua il tempo che Berta filava? Ora è così, e così lascia stare, e dà mente a me, se non vuoi farti avere in tasca. Ecco me; io sono pure qualche cosa, e Domenedio, per sua grazia, non mi ha fatto una zucca. Eppure sto coi frati, e così me la campo d'amore e d'accordo con tutto il mondo. Oh questa è curiosa! Che i padroni operano da padroni sono forse cose che le si facciano da jeri? Che? Le dita della mano sono forse tutte eguali? Ti ricorda piuttosto che egli è l'illustrissimo don Alfonso, e tu sei Isidoro pover'uomo. — Ma galantuomo, dava su il sindaco: e toccandosi la sua gabbanella di frustagno. — Vede, signor vicario? su questi stracci non c'è una macchia nè di sangue nè di lacrime; mentre sul broccato di qualchedun altro... Egli s'interruppe all'udire degli abbai ed uno scalpitare fragoroso, e poco stante vide don Alfonso svoltare la cantonata, onde, facendogli tanto di berretta, mogio mogio tirò di lungo. Ma il curato, scoprendo una larga tonsura, con profondi saluti si avvicinò a riverire il feudatario. Cortesissimamente questi ricambiò, e — Ci onorerebbe vostra riverenza di sua compagnia alla caccia? Al nostro curato sarebbe parso di mancare ai convenevoli se coi superiori avesse parlato nel tono stesso che faceva colla marmaglia, e però, qualvolta gli occorresse di ragionare con essi, vestendo un tutt'altro uomo, lasciava da banda il favellare piano e alla ambrosiana, per isfoderare un gergo concettoso, fiorettato, e, come si dice, in punta di forchetta: nel che quella generazione, come sanno perfino i barbieri, poneva il paragone dell'ingegno e dell'eloquenza. A quell'invito adunque — Oh illustrissimo (rispondeva), mercè i raggi che il sole della sua cortesia diffonde sulla valle de' meriti miei, pajonmi le tenebre mie più chiare che non sono. Ma i canoni che, come vossignoria, m'insegna, debbono essere la nostra stella polare, mi diniegano d'accettare un favore, esibitomi così cortese e graziosamente. _A venationibus, aucupiis, tabernis, choreis, ludibusque abstineant_[3]. — Bene, bene, replicava l'altro. Domani però si ricordi che, al solito, la posata è disposta per lei. — Sarà un aggiungere un nuovo al cumulo degli obblighi che tengo scritti nell'archivio della memoria, rispondeva con nuove riverenze don Amadio, e guardandogli dietro mentre procedeva, esclamava: — Che buon signore! Il qual buon signore s'avviò per la strada che doveva tenere don Alessandro, mostrando esservi portato dal caso. Veniva questi a cavallo colla sposa, messo anch'egli in mezzo a quattro galuppi, senza cui, in virtù della pace dominante, non sarebbe andato attorno un gentiluomo, fosse pure di quei buoni. Come distinse l'altra comitiva, chiese egli da' suoi uomini chi fossero. Questi non glielo celarono, e lasciarongli intendere esservi poco da fidarsi. Il giovane fece loro riflettere come l'Isacchi non conducesse che poca gente da caccia, senz'armi di offesa; e come d'altra parte si trovassero a tal punto, ove il mostrarsi insospettiti non gioverebbe allo scampo, e potrebbe far nascere di fatto il pericolo. Seguitò dunque la via, solo raccomandando ai seguaci di tenersi all'erta, e non perderlo mai d'occhio per qual fosse ragione. Don Alfonso, come prima scòrse il Sirtori, brillò in modo, che il guardacaccia disse sommessamente ai camerata: — Ha l'occhio d'un astore quando ha veduto la starna. Venuti poi vicini, il feudatario si fece incontro all'altro, tutto amichevole e manieroso e — Qual buon vento conduce da queste bande il mio padrone e la gentilissima sua damina? — Anzi il suo debole servitore rispose il giovane, e vie più rassicurato dal cortese accoglimento, gli espose la ragione del pellegrinaggio. — Oh non si dirà mai, replicò l'Isacchi, che una tal coppia abbia onorato di sua presenza la mia giurisdizione senza aggradire l'ospitalità che può nel suo castello, offerire un romito campagnuolo. E perchè don Alessandro se ne scusava, allegando il bisogno d'essere al più presto di ritorno, — Già, già (soggiungeva quegli con un ostentato sorriso), due sposi novelli si fanno rincrescere di passare una nottata sotto altro baldacchino. Certo però non vorranno farmi rifiuto di quel che posso offrir loro, una partita di caccia. Qui il mio guardiano ha notato la pesta di un porco selvatico e, se c'è, lo vogliamo scovare. La caccia era passione così universale dei ricchi, l'esibizione vestiva tale aspetto di sincerità, che sarebbe parso un fallo a don Alessandro di non tenere l'invito. Presto dunque furono loro presentati spuntoni, balestre, falchi de' meglio addestrati, e si misero alla caccia, finchè capitarono alla bettola di Cipriano, dove, se vi ricorda, gli abbiamo lasciati. Dalla quale mentre si partivano, don Alfonso misurò d'un occhio scrutatore i bravi di don Alessandro, i quali, col non discostarsi mai dal costui fianco, pareva gli guastassero il disegno: poi chinatosi all'orecchio del guardacaccia, gli susurrò: — Sarà tua cura avvinazzare gli uomini di costui. Il bravaccio rispose inchinandosi: poi tornati al corso, riuscirono anch'essi vicino alla Madonnina d'Imbevera: — Ecco appunto il posto della mia disgrazia. Nel rimirare questi luoghi, vengo trovando nella mente certe idee smarrite, come quando si raffigura un amico della prima fanciullezza. Quel tabernacolo, oh lo riconosco. Guarda, Emilia. Qui era appoggiata la lettiga, giusto al piè di quella grand'albera. Veniva un'acqua a secchi. Io, per non udire, per non vedere i tuoni, i baleni quasi continui, acquattavo il capo in grembo a mia madre; ed ella, povera mamma! mi accarezzava, mi confortava. Quando a un tratto si odono delle moschettate, un dàgli, dàgli, un allarme: sporgiamo il capo: ecco venire incontro... che guardature! Folti ciuffi, cascando dalla fronte, velavano ad essi tutta la faccia, che rischiarata ad ogni tanto dai lampi, somigliava veramente a quella di demonii. Parmi tuttora avergli sugli occhi, e forse, vedendoli, li ravviserei. Il guardacaccia (e sapeva ben lui il perchè) voltava a dar degli ordini: donn'Emilia, compatendo allo sposo, non teneva gli occhi asciutti: il feudatario, bramoso di metter fine a quel discorso, — Oh via! (esclamò) la sua tenerezza le fa onore, ma ora siamo a divertirci. Bando alle melanconie. All'erta: lanciate i cani. Diede fiato al corno, spronò, imboscossi, e dietro a lui si sparpagliarono tutti per la boscaglia. In qual modo don Alfonso intendesse cogliere la preda, alla quale già vi siete accorti che mirava veramente, lo sapreste già, o lettori, se v'avessi detto come, fra le altre disposizioni date quella mattina, chiamò a sè il guardacaccia, ed ordinogli che mandasse tre bravi, conosciuti alla prova delle imprese rilevanti, cioè delle più scellerate, e — Si collochino (diceva) colà al lembo della collina, sullo stradello che dai mulini conduce alla Madonnina, rimpiattati dietro la macchia, e non si muovano. Tu ti terrai al fianco. Troveremo qualche ingegno di separare colui dalla sua brigata, e trarlo a quella parte. Quando io griderò A noi, essi balzino fuori: se v'è qualche servo, lo freddino: l'importanza è di assicurarsi del padrone: se lo cogliamo vivo, tanto meglio; e portarlo senza più in castello. A questo comando, dato colla freddezza onde un ricco d'oggidì comanderebbe al cocchiere d'aggiogar i cavalli, con altrettanta freddezza il guardacaccia rispose: — Illustrissimo, ho inteso. E poi ch'ebbero accordato ogni cosa fra loro, e il padrone gli accennò che se n'andasse, quegli stette fermo guatandolo. L'intese don Alfonso, e ripigliò: — Avrete una lauta mancia. — Grazie, illustrissimo, ripetè inchinandosi l'altro in cui andavano del pari la fierezza e l'ingordigia. Però... per regolarmi cogli uomini... qualche cosa di preciso... — Questo, e la paga d'un anno, rispose il feudatario, gettandogli una doppia nel cappello. E l'altro strisciando gran riverenze, — Illustrissimo, mille grazie; perchè ella vede, i vizii sono molti. — Non dubitare; fa che la cosa riesca a disegno. — Illustrissimo, sarà servito da par suo. I tre ben armati presero dunque il posto indicato, ed ivi dietro un veprajo stavano, chiacchierando, celiando, sbadigliando, ad aspettare la vittima. Non sapevano quale, non lo cercavano: basta che colui che li pagava lo aveva ordinato. Indifferenza che ci pare orribile vedendola in uno o due individui, e non ci tocca allorchè la troviamo in quattro o seicentomila combattenti, che aspettano un fiato di tromba, un batter di cassa per correre a scannarsi un l'altro, senza conoscersi, senza cercare il perchè, senza sapere altro se non che furono comandati. L'Orso di Barzago intanto non avea la mira che a separar il giovane dalla compagnia; ma per la fedeltà dei servi poco sperando riuscirvi per allora, traccheggiava confidando ottenere il suo desiderio quando, coll'occasione della merenda, avesse ridotti questi ubbriachi. La fortuna però parve mandar tempo al proposito suo; poichè, essendosi la signora voluta mettere un tratto a riposare, don Alessandro, lasciando con essa i bravi, si lanciò sulle tracce d'una lepre insieme col feudatario, non seguito anch'esso che dal guardacaccia, il quale destramente li traeva verso il luogo dell'agguato. Già ne erano lontani non più che tre tiri di fucili, don Alessandro seguitando colla sicurezza e coll'ardore della gioventù, l'altro palpitando nel pensiero dell'imminente espiazione; quando repente odono di mezzo alle piante un gagnolare, un insultarsi, un gridìo. Don Alessandro si arrestò insospettito fissando gli sguardi in faccia all'Orso, poi diede volta verso il luogo nel quale aveva lasciato la sposa, temendo non le fosse accaduto alcun sinistro. Intanto il feudatario, ben accorgendosi di dove uscissero que' gridi, sebbene non ne indovinasse il motivo, sbuffando d'ira spronò verso là donde veniva lo schiamazzo. Cagione di questo era stato, che, mentre i bravi, o come da noi si diceva, i _buli_ rimanevano appostando la vittima, secondo v'ho narrato, un'altra di genere diverso vi rintoppò; la Brigita ostina, che, scortata dall'amorevole Cipriano, tornava a casa. Era delle belle contadine che possono vedersi con un par d'occhi: sul fiore dei venti anni, una ricca capellatura nerissima raccolta in trecce contornava un viso gioviale e pienotto, dove le rose che costantemente vi dipingeva la sanità erano in quell'ora avvivate dal calore del mezzogiorno e dal camminare; come il contento di ritornare fra' suoi cresceva l'allegrezza d'un cuor pacifico e buono. In vestire lindo e semplice, poco diverso da quello che si usa tuttavia fra le Brianzuole, con corsetto e sottanello di filaticcio e grembiule di vergato, sul braccio ignudo recavasi un paniere dov'erano riposti i pochi arnesi che seco aveva portati alla filanda. La cortesia del fratello non era tanto incivilita da alleviarla di quel peso; non gli cascò tampoco in mente: ma in quella vece, camminandole innanzi per l'angusto sentiero, tutto affetto egli la veniva interrogando dietro via dei casi suoi e quei della famiglia e dei conoscenti, poi con aria d'ingenua intelligenza voltandosi a fare l'occhiolino, domandò: — E col giardiniere, di' su, come va? Ella, divenendo ancor più incarnata, e con un sorriso di modesta bontà, non gli fece altra risposta, se non di interrogarlo: — E la mia vite? — Oh la tua vite! se tu sapessi che pericolo ha corso! È salva per miracolo. Così Cipriano, il quale tolse di qui occasione di raccontarle la grande avventura della lepre, dello spavento, e in conseguenza del perchè le fosse venuto incontro. — Ma sta col cuor quieto (egli seguitava) che il rumore della caccia si sente là abbasso, molto lontano di qui. Così discorrendola, i due buoni fratelli inciampicarono senza accorgersi fra i bravi, appostati alla macchia. Uno dei quali, come gli avvisò, — Ohe! ohe! (cominciò) guarda, camerata; vanno anche delle fiere domestiche per questo bosco. — Che bella pollastra! gridò il secondo balzando in piedi. — Ah, ah! questo villano non si può dire che sia di cattiva bocca, soggiungeva il Guercio, sgangherando la bocca ad un riso sguajato. Cipriano in quel momento avrebbe veduto più volentieri il diavolo. Gittò un'occhiata all'intorno: non v'era anima da sperarne ajuto; talchè, visto che era il caso di bere o d'affogare, si voltò loro con una cera brava, gridando: — Però?... m'avete mai visto?... avete forse ad avere qualche cosa? ed altre parole, che uno dice più fiero, quando ha più paura. Ma coloro non erano musi da ristarsi per parole, e cogli sfacciati modi dei bravacci, s'accostavano alla ragazza, la quale, diventata di mille colori e trasudando, s'avvinghiava al braccio del fratello gridando: — Ajutami, Cipriano; ajutami. Questi, poichè vide a nulla giovar le parole, montandogli il sangue al capo, cacciò fuori tanto d'occhi, e soffiando come una gatta quando sente la canizza, cominciò a girare a mulinello il suo bastone, mentre coll'altra mano brancò il coltellaccio gridando: — Indietro, o malandrini, o vi mando tutti al Creatore. — Oh, oh! costui fa di buono, ripigliò il Guercio: ma come è così, neppur noi non si farà da baja. E se gli volsero incontro. Lo stradello correva stretto e insaccato fra due cigli assiepati di vepri, talchè non riusciva difficile a Cipriano lo schermirsi da tutti e tre, mentre alla sorella diceva: — Fuggi, scappa. Essa però ben comprendeva che il discostarsi non sarebbe che peggio; onde si teneva poco dietro di lui, che arretrando si difendeva. Sbucarono così sul piazzuolo che girava davanti alla Madonnina. Coll'ansietà onde il fantolino, inseguito da un ringhioso cagnaccio, ricovera al grembo della madre, la Brigita corse al tabernacolo, prostrandosi ginocchioni. Colà pure tentò ripararsi Cipriano; ma non appena fu al largo, un di coloro gli tolse l'avvantaggio, sicchè egli rimase framezzato. Non intendevano già ammazzarlo; non n'erano comandati: e s'erano messi a quella baruffa piuttosto per chiasso che altrimenti. Ma quando ne toccarono alcune saporite dal randello di quel gagliardo, che non sapeva prendere da celia gl'insulti tentati verso la sua buona sorella, non l'ebbero più da riso, e pieni di mal talento giurarono fargliela pagare. Batti dunque ch'io ti batto, uno contro tre. Cipriano si trovava nelle male peste. Anche l'asilo del luogo sacro, ove la Brigita erasi ridotta, secondo le idee di que' tristi proteggeva contro la violenza bensì, non contro la lascivia. Onde, nel mentre che due tenevano ciascuno per un braccio agguantato il fratello, il Guercio, che era fra essi il più laido d'animo come di figura, saltò verso la fanciulla a molestarla con parole scomposte e scomposti atti. La meschina, accoccolatasi, raggricchiata, stretta stretta alla parete della Madonnina, colle braccia incrociate sul seno e la faccia tra quelle appiattata come poteva, gridava: — O Signore! ajuto! Cipriano... o Cipriano, soccorrimi!... Caro voi, lasciatemi stare... Vi prego, per vostra madre, per vostra sorella... No, no... per carità... sono una povera ragazza, abbiatemi compassione... state quieto... Oh! cara Madonna!... Oh anime del purgatorio!... vi dirò il rosario tutti i lunedì finchè campo... No, no... ajuto, ajuto! E Cipriano vedeva. Indarno procurava sviticchiarsi da coloro: pestava i piedi, imperversava, gagnolava, stiacciava come una civetta in collera, stralunava gli occhi al cielo, urlava — Sta cheto, mostaccio da forca. Se ti posso arrivare! Guarda che t'ammazzo... e non poteva farne altro. Anzi i buli, mescendo giuraddii e sghignazzi, gli facevano tratto tratto sentire come pesassero le loro minacce. A questi strilli, a quel diavolezzo, accorse dapprima la canatteria che l'accrebbe, poi cacciatori da diverse bande, infine don Alfonso istesso. L'apparir suo nulla di bene prometteva a Cipriano: pure v'ha dei momenti, in cui è di consolazione anche un disastro, purchè ci tolga all'affannoso presente. Di fatti, appena il padrone comparve, i buli, tanto umili coi superiori quanto erano prepotenti cogli inferiori, lasciarono i due martiri, e cavate le berrette, si ritrassero insieme, coll'abjezione che nasce dall'abitudine della servilità. Cipriano, riposte anch'egli le sue armi e trattosi il cappello, stette ad occhi bassi, e per un istante si fece un silenzio cupo, siccome all'avvicinare del terremoto; finchè don Alfonso, flottando e con piglio quanto più si poteva severo, gridò a quei tre: — Così s'adempiono i miei ordini, canaglia? Animo, al posto, e me ne renderete ragione. Non pareva vero a Cipriano che l'Orso sgridasse i suoi uomini per una cattiva azione, e risorto da morte a vita, andava fra i denti raccapezzando un ringraziamento da recitargli. Ma come in chi abbia sorbite alcune stille di belladonna, alla dormigliosa vista si presentano gioconde figure, che a poco a poco si tramutano in mostruosi sembianti, alla guisa stessa il povero villano ebbe tutto a rimescolarsi, quando, alzati gli occhi, scorse il torvo cipiglio del feudatario, che col tono istesso di minaccia, gli parlò: — E quanto a te, mascalzone petulante, che ardisci opporre la forza alla mia livrea, l'avrai da fare con me. Cipriano intontito biascicava una risposta, una scusa, quando per trista giunta vide fissati sopra di sè i torti occhi del guardacaccia. Avrebbe allora voluto sobbissarsi, e voltava la faccia, stringevasi nelle spalle: ma invano; chè quegli, fattosi più dappresso e battendogli una palmata sulla spalla: — Olà! (gridò) non m'inganno: tu sei uno di quelli che l'altra settimana andava ammazzando lepri pel bosco. Indi con uno sgrigno satanico replicando la battuta: — Ora t'ho còlto (proseguiva) e il tuo salario, come t'ho promesso, ti verrà prima del sabato. Don Alfonso, già esacerbato dal colpo fallito, ora punto in parte così delicata, s'inviperì; e prorompendo in una salva d'improperii, che anche i nobili, negl'impeti loro, non isdegnano usurpare dalle bocche della plebaglia, da cui son tutto studio a discostarsi nel rimanente: — Come! (gridava) anche questo? violare la caccia bandita, ed ora resistere alla mia gente? Ah, questa passa il segno, e t'avvezzerò io. Intanto legatelo a codesto ramo, e dategli un pajo di strappate di corda, finchè nomini i compagni di sue ribalderie. Cipriano stava chiotto col capo basso, nella figura che sì spesso tocca, in questo bel mondo, all'offeso innocente davanti al potente oltraggiatore. Ma quando intese la parola di corda, si senti sdrucciolare un gelo per le reni, e — Signore... Illustrissimo... La badi a me.... Quanto alla sua livrea, da povero figliuolo, sono stati loro che mi assalirono, che maltrattarono mia sorella. Della lepre, le dirò la verità... Si... ma... è vero... c'è una vite... Questa qui è mia sorella... Tali e somiglianti parole ciarfogliava, affoltava il povero Cipriano, ma invanamente; chè l'impassibile crudeltà del barone sollecitava con uno sguardo i cacciatori, i quali, fatti manigoldi, si difilavano contro l'ostino. Come questi vide inutile la sommessione e il pregare, còlto il momento, spiccò un lancio, e ricoverossi in un batti baleno alla Madonnina, ove stava la Brigita pallida, tramortita, colle mani giunte e gli occhi supini, moltiplicando ave marie. Qui sentendosi sicure le spalle e protetto dal luogo sacrato. Cipriano, rifatto un cuor risoluto, calcossi in testa il cappello, ripigliò le armi sue plebee, ed in suon di rabbia, gridò: — Avanti chi gli basta il cuore. Trarlo di là non avrebbero osato gli uomini: ma i cani, poco impacciandosi degli asili, aizzati scagliavansegli addosso, e non erano pochi. Egli rotava senza riguardo un randello, e a chi toccavano, uomo o bestia, erano sue; onde un guaire, un ringhiare di cani, un fremere di bravi, lì tra gli ordini del padrone e la venerazione del sagrato; un bestemmiare ancor più sonoro di don Alfonso, che al vedere trattati a quel modo, non solo gli uomini, ma fin le sue bestie, dimenticando ogni rispetto, spronava il cavallo addosso al miserabile, giurando gliela farebbe scontare, se avesse dovuto strapparlo d'in su gli altari. In quella apparivano sullo spianato istesso don Alessandro e la sposa sua, accorsi al rumore. Gettarono uno sguardo su questa scena; ma ciò che più diede nell'occhio al Sirtori furono i tre scherani che, ritiratisi al cenno del padrone, postati dietro una fratta allo sbocco dello stradello sporgevano le luride facce, curiosi di vedere come finiva. La Brigita, rimasta coll'angoscia dell'agnella quando vede e sente il lupo vagolare ululando attorno al debole steccato che la protegge, appena avvisò la dama, balzò, ed a precipizio corse ad essa, gridandole colla concisione dello spavento: — Signora, la mi salvi; cara lei, mi salvi, per amor di Dio. Non sapeva ella chi costei fosse: ma il cuore delle donne è sempre così dischiuso alla compassione, che l'apparir di una viene riguardato dagli infelici come una consolazione, una sicurezza. Donn'Emilia in fatto, dipinta di pietà, scese di cavallo, e colla simpatia che tutti inchina alla gioventù ed alla bellezza, ma che le donne non ricusano mai a persone del loro sesso, presa fra le braccia la bella sbigottita, con parole e più cogli sguardi commosse il marito ad assumerne le difese. Veramente, allorchè si vedono in lotta il debole e il forte, non la carità cristiana, ma certo la prudenza umana insegna a pigliare la parte del secondo e giudicar reo e ribaldo il fiacco, se non altro perchè ardisce resistere. Ma la generosità della gioventù e la franchezza d'un'anima ben educata facevano don Alessandro inchinato alla parte del paziente; al che aggiungendosi il pregare della sposa e il sinistro concetto in che era tenuto il feudatario, non esitò a chiarirsi campione di que' meschini. Colla maggior creanza di modi, venuto adunque allato a don Alfonso: — È lecito sapere qual sia la colpa di quegli sciagurati? La collera aveva già invaso l'animo dell'Orso al trovarsi impedito nella giustizia, com'egli ed altri chiamavano la vendetta; onde, a guisa di sparviero che vede la colomba abbandonare il sicuro nido, egli vibrò l'occhio sulla fanciulla quando si scostò dall'asilo, nè punto badando al Sirtori, con un sogghigno ove mescevasi il pensiero atroce col pensiero lascivo: — Ah! ah! (disse) ci sei venuta da te stessa, eh? Animo, cacciatori; essa pure è complice; pigliatela, e portatela dritto in castello. Parve atto scortese e crudele al giovine cavaliero, prima il non rispondergli, ed ora il voler levare quella fanciulla dalle braccia d'una dama; onde, col morbido della voce mitigando un cotal poco la precisione delle parole, — Signore (esclamò) vorrei sperare che la cortesia e l'onestà di un cavaliero le fossero abbastanza conosciute. Misurollo quell'altro con bieca guardatura, e: — Conosco i miei doveri, nè occorre che altri venga a dar il tono in casa mia. Poi tornatosi ai cacciatori che esitavano. — Su via (intimò): a chi dico: obbedite. La Brigita ascondeva la faccia in seno alla dama, gridando: — No, no, per carità... per amor della Madonna... mi ajuti: pregherò il Signore per lei tutti i giorni... Poverina me! La mi ajuti, o piuttosto mi ammazzi. Cipriano, assediato nei suo asilo, non poteva che gridare, — la salvi, la salvi. — Salvala, diceva pure donn'Emilia, volgendosi al marito, bagnata di lagrime e resa più bella dalla pietà. Il Sirtori girò la briglia e, spinto il cavallo fra la donna e i rapitori, vibrando contro questi lo spuntone da caccia, intimò: — Indietro. Chi ha visto come il fuoco divampi al gettarvi dello spirito, pensi che altrettanto avvenisse di don Alfonso a quell'atto. L'odio represso fin là sotto la maschera della cortesia, ruppe nella collera più furibonda, e: — Che? gridava con parole ammezzate dal singhiozzo dell'ira. Chi è tanto audace da frammischiarsi nella mia giurisdizione? Sono miei vassalli: hanno violato le mie leggi; chi si oppone è sleale al re. Indietro. E difilatosi contro don Alessandro, gli pose la mano alla briglia del cavallo. Per quanto gravissimo fosse questo affronto secondo le idee d'allora, per quanto un cavaliero fosse dilicato nel punto d'onore ed anelasse l'occasione di mostrar valore ed ostentare maestria nel maneggio dell'armi, studio quasi unico dei nobili, pure la differenza di età, la situazione, l'ospitalità che ne riceveva contennero don Alessandro, che quanto più seppe pacato gli diceva di rimando: — Qualunque altro, ed in qualunque altro luogo si pentirebbe tardi d'avere intaccato la lealtà d'un par mio. Qui però, se ben vedo, non si tratta di giustizia; nè conosco legge o costumanza al mondo, che permetta di rapire una ragazza e di violare un luogo consacrato. No, finchè io sappia tenere un'arma in mano non permetterò mai che, dove io sono, si commettano soperchierie. — Soperchierie? sciamò l'altro nel colmo della furia. Anzi soperchieria fai tu, arrogante fanciullo, a pretendere ch'io ti renda ragione del mio operare. Tu hai smentite le mie parole come fossero quelle d'un villano: ti ricambio la mentita e ti chiamo codardo e sleale, e te lo sostegno con l'armi. Mettiti in parata; chè mi sento cuore di farti provare come ferisca questa punta, che da un pezzo ha sete del tuo sangue. Che il disegno dell'Isacchi fosse tutt'altro che di suscitare un alterco, abbastanza appare dalle precedenti disposizioni. Ma queste gli rimanevano scompigliate, sì dal trovarsi lontano dal posto dell'agguato, sì dall'avere intorno troppa gente per celare il fatto quanto fosse d'uopo alla impunità. L'ammazzare, insegna la legge di natura e di Dio, è sempre delitto: l'ammazzare in duello, insegna il mondo, è non solo lecito, ma lodato da quel punto d'onore, virtù di parata, che può associarsi a tutti i vizii e fin colla codardia. Don Alfonso dunque, vistosi presentare il destro di riuscire al suo intento con un duello, spinse la provocazione sino al punto di farlo nascere, sì perchè sitibondo più che mai di sangue in quell'impeto; sì perchè disprezzava un giovane, non ancor avvezzo ad affrontare la morte, i cui riguardi stessi interpretava per vigliaccheria. Anche a don Alessandro parve gli tornerebbe ormai a biasimo il ricusarsi: finì di determinarlo l'ultima frase, ove sonava una di quelle verità, che suo malgrado sfuggono all'uomo nella foga della passione. Onde balzar di cavallo, impugnare uno stilo abbindolato all'arcione, e mettersi in attitudine, fu un lampo. Altrettanto avea fatto il nemico: ma quel furore non gl'impedì che, nel brandire il pugnale, ne accostasse alla bocca il pome, imprimendovi colle labbra convulse un bacio sul nome di Maria, che v'era niellato: indi si venne ai fatti. Al primo vederli così inaspettatamente alle contese, le donne si misero fra loro, procurando attutirli: ma vista vana ogni opera, si raccolsero al tabernacolo, e quivi gettatesi ginocchioni, avvicendavano preghiere. L'occhio però, che alzavano supplichevole a quella che andavano chiamando cara Madonna, volgevasi ogni tratto per fermarsi sui due pugnali, terribile arma, che di sopra al capo dei due combattenti sfavillavano d'un lampo ferale. In entrambe le donne un solo era il voto, ma mentre la villana restava quasi fuor di sè ad uno spettacolo tanto insolito, sul volto di donna Emilia poteva, insieme all'angustia, notarsi una certa compiacenza al vedere il suo Alessandro mostrar coraggio e generosità, doti che sempre riescono gradite ad una dama, tanto più se le scorge in colui che è suo. Il seguito del feudatario erasi rannodato da una parte; rimpetto si erano collocati i bravi del Sirtori, che cogli sguardi cagneschi ricambiando i cagneschi sguardi degli altri, parevano dire, — Eccoci qua, per qualunque caso, a darvi buon conto di noi. Cipriano che, durante il diverbio, a guisa d'una macchina avea voltato la faccia e la bocca a qual dei due parlava, ora, colle spalle sempre volte al tabernacoletto, e rispondendo sopra pensiero alle orazioni delle preganti, non dispiccava mai l'occhio dai combattenti, e colle braccia e con tutta la persona ne secondava i colpi. Poco lontano il Guercio e due altri bravi ustolavano e adocchiavano con ansietà; e si dicevano tra loro: — Sta a vedere che il padrone risparmia a noi la fatica di fargli festa. — Mi pare piuttosto (soggiungeva il Guercio) che il giovane voglia risparmiare a noi la romanzina o peggio, che il padrone ci ha promesso. — Mi rincrescerebbe (aggiungeva il terzo) a restare senza salario. Infatti apparve ben tosto come il giovane sull'altro prevalesse. L'Isacchi era il toro inferocito, che assale ad occhi chiusi; l'altro, più freddo e cauto, colla sinistra dietro il fianco, la destra sporta, l'occhio fisso all'arma dell'inimico, mentre con quieta destrezza ne schivava o schermiva i colpi, pareva andar ritenuto per non trargli mortalmente, nudrendo ancora quella speranza che conserva un onest'uomo, strascinato contro voglia ad un tal passo, quella d'uscirne con nessuno o poco sangue. Don Alfonso, non aspirando che ad uccidere l'inimico, gli cacciò una puntata di sotto in su, ma l'altro fu lesto a dargli un mezzo riverso sopra il braccio destro, al tempo stesso che gli voltò una punta al petto, piegando ad arte lo stilo in modo di scalfirlo appena. Con meraviglia però incontrava un ostacolo, e s'avvide del giaco onde il feudatario aveva difeso il petto. Poco mancò che questo accidente non gli costasse la vita: perocchè il nemico, intento al proprio vantaggio, colse quell'istante per drizzargli alla testa una stoccata, che fece gelare di spavento le donne spettatrici. Se non che il Sirtori, stomacato di simile slealtà, e vistosi la morte a un pelo, fu pronto a togliersi la botta sul filo dritto del pugnale, e nel parare istesso, spinto innanzi il piè manco, gli pigliò il braccio per di fuori in guisa che d'un rovescio gli trafisse il collo. Barcollò, cadde l'Isacchi: ma nello stramazzare gridò _A noi_, che era la parola concertata per l'assalto. All'intenderla, il guardacaccia a sbalzi lanciossi contro don Alessandro, esclamando — Assassinio, Assassinio: i tre in agguato sbucarono, sebbene con impeto minore: anche gli altri cacciatori parvero mettersi sulle offese. Cipriano, cedendo a quel primo moto che nei caratteri aperti previene la riflessione, era balzato dal suo asilo, sventolando il cappello e gridando a tutta gola: — Evviva! è morto; morto l'Orso. Che l'ammazzare un altro, quant'è glorioso, altrettanto sia piacevole, nol credo: ben so che, al vedersi davanti un essere che dianzi pensava, parlava, operava, e che ora, per opera sua, trovavasi vicino a diventare un pezzo di materia, pastura di vermi, il nostro don Alessandro rimase qualche tempo in un'attonitaggine, che sarebbe potuta riescirgli funesta, giacchè lo lasciava esposto alla prima furia del guardacaccia. E questi gli si scagliava addosso; se non che Cipriano, pentitosi all'istante d'aver insultato un ucciso, e bramoso di riparare quella scappata, si precipitò attraverso ai passi dell'assalitore, mentre i buli del Sirtori tenevano testa agli altri, sinché il loro signore rinvenuto dallo stupore, gridò a coloro in tono di comando: — Abbasso le armi. Furono parole magiche. Il guardacaccia si arrestò, ed, o fosse l'abitudine di obbedire ai cenni signorili, o la simpatia naturale e sovente disastrosa che pruova l'uomo per un esito fortunato, o l'irresolutezza che ben egli avvertì nei camerati, i quali, vili come tutti gli arroganti, al mirar caduto colui che di sua ombra copriva le loro ribalderie, si mostravano più disposti a pensare ai casi propri che a vendicare gli altrui, alzò la bocca dello schioppo, guardò di traverso il ferito, scosse le spalle e gridatogli — Ben ti sta; n'hai fatte abbastanza, soggiunse ai compagni: — Seguitemi. L'occhio di don Alfonso, che sopra di lui stava fissato, come lo vide dar volta, prese il luccicar cristallino e disperato di chi sente lo schianto del ramo cui s'era ghermito dirupando da una balza. De' cacciatori, alcuni guardandosi in faccia e dicendo, — Qui la più sicura è andarsene fuori di ballo, col pretesto di correre chi pel chirurgo, chi pel prete, se la batterono per la campagna. Gli altri si drizzarono verso il castello col guardacaccia, che tra via discorrendola de' fatti loro, diceva: — Sapete che? Il morto in sepoltura e il vivo all'osteria. Qui bisogna cercare salvezza e pagnotta per noi. In palazzo c'è degli zecchini a pala. Nemmeno il diavolo non ci tiene dall'andarci, e far bottino del bello e del buono. Quell'ammazzasette non verrà certo ad insultarci là dentro: ad ogni caso, per fare il bizzarro con noi vogliono essere altre barbe che la sua. I servitori che sono lassù n'avranno di grazia a tenerci il sacco; se no, sapete come si fa. Quanto a cotesti villanzoni, anime di sambuco, da me ne fo stare un centinajo. Poi colle bolgie ben in assetto e i nostri tromboni sul braccio, ce n'infischiamo di mezzo mondo. Gli altri ad applaudire alle costui trasonerie; e fra tali smargiassate seguitavano la strada, concertando futuri delitti. Nel bosco frattanto, attorno a don Alfonso erasi fatto il solenne silenzio che succede presso a chi sta sull'orlo del sepolcro. Donn'Emilia aveva ammanniti dei pannolini per fasciare la ferita: il vincitore, proteso in sulle mani giunte e a capo chino, lo contemplava in atto e con parole di sentita compassione: Cipriano gli sorreggeva la vita perchè stesse meno a disagio: — quel Cipriano che testè aveva tremato al superbo cipiglio di lui, ora ne sorreggeva la cascante persona, alitandogli sulla fronte ed esclamando: — Poveretto; nel mentre che la Brigita col grembiule gli tergeva il gelato sudore, e venivagli dicendo: — Si ricordi del Signore: si raccomandi alla sua misericordia che è infinita: faccia l'atto di contrizione: risponda col cuore alla _Salve Regina_, che io reciterò. Oh soperchiatori! Ma don Alfonso, sentendosi venir meno la vita, accennò che lo portassero appiè del tabernacolo. Ivi, levando le mani e gli occhi ondeggianti nella vicina morte verso l'effigie divota, — Ho profanato (diceva con debole e stanca voce), ho profanato il vostro terreno colla violenza e col sangue... Perdonatemi! Era un richiamo delle antiche superstizioni, per cui più sentivasi rimorso dell'aver violato il sacro asilo, che non dell'assassinio tentato. E proseguiva: — Pure esaudite la mia ultima preghiera. Si diede a cercarsi il petto, il che fu dagli astanti creduto in sulle prime quell'atto macchinale per cui i moribondi sembrano volersi aggavignare alle fuggenti cose del mondo. Si vide poi che ne traeva una medaglia ed una chiave, appese ad una catenella: baciò la medaglia, e additandola, coll'anelante voce disse: — Questa offeritela alla Madonnina. Voltosi poi al Sirtori, e porgendogli la chiave, — Qui sotto... nel gabinetto dietro la tappezzeria della mia camera... vostra madre... Andate voi... voi stesso a liberarla. E dopo alquanto, stringendogli la mano, — Voi stesso, ripetè. Protese le membra, boccheggiò; travolse le pupille, nè più si mosse. Le donne diedero in un pianto: inginocchiati poi tutti recitarono il _De profundis_: indi i servi, recisi e rimondi dei rami, ne formarono una bara, sulla quale composto il defunto, si avviarono verso il castello. La Brigita e Cipriano, non sapendo finire di ringraziare la Madonna d'Imbevera e que' buoni signori, tornarono a casa con quel misto di gioja e di sgomento che succede ad un grave pericolo sfuggito, raccontando l'occorso, ma con tale ansietà e confusione che poco altro si comprendeva se non che l'Orso di Barzago era morto, morto come un santo. La notizia non tardò a spargersi pel comune. Stava il sindaco scegliendo le più mature pannocchie di grano turco dal suo camperello, quando arriva uno tutto trafelato e: — V'ho a dire una nuova che rimarrete. — Che cosa? è nato forse il vitello? domandò Isidoro. — Altro che! È morto il padrone, l'Orso. — Che? saltò su il sindaco, lasciando cascare gli spigoni e spalancando gli occhi. Morto il padrone? Oh voi mi canzonate. Se l'ho visto io sta mattina, sano come un pesce. — Tant'è: l'hanno ammazzato, rispondeva l'altro; e sono addietro che lo portano in su morto stecchito. Intanto sopraggiungevano altri a confermare la notizia; onde Isidoro, fatto tanto di cuore, pianta lì sacco e gonnella, ed: — Animo, figliuoli: qui bisogna correre, se mai fosse bisogno di noi. E toltosi in spalla il forcone, si avvia più che di passo giù verso il bosco, e dietro altri ed altri, di mano in mano che ne incontrava, col badile, con mazzapicchi, con vomeri, con quel che prima capitava sotto le mani. Ma non andarono troppo, che il sindaco fermossi in sui due piedi, ed: — Alto là, ragazzi. Don Alfonso non ha figliuoli, eh? — Sicuro di no, risposero ad una voce. — Dunque (replicò egli), noi ricuperiamo la libertà. — La libertà? — La libertà? ripeteano i villani, guardando un in viso dell'altro come chi ode una parola che non intende: e si stringevano intorno ad Isidoro. — Senza dubbio (seguitava egli), la libertà. Perchè, non avendo egli nè figliuoli nè cagnuoli, questo feudo ricasca al re, e noi torniamo ad essere liberi come eravamo prima dell'ottanta, cioè a non obbedire se non al re, che Dio conservi. Queste cose io le so ben io, perchè è un pezzo che maneggio gli affari della comunità, sebbene sotto colui pesassi per un quattrino. Ma è finita questa vita da cani: ed ora, che vantaggio, ragazzi! che allegria! Se vi avranno a dar la corda, se avranno ad ammazzarvi, saranno i ministri del re, non costui, e... — E non s'ha più a pagare? saltò su un padre di sei figliuoli, a cui l'esattore aveva portato via il pajuolo, perchè non si trovava un filippo da dare pel testatico. — Ma che idee! ripigliava Isidoro. Pagheremo sì; però i nostri bezzi non se li metterà in tasca costui, ma anderanno in Spagna, dove ci sono i dobloni d'oro tanto fatti. Vivano i nostri privilegi! viva la libertà! E scaraventava in aria il cappello; e gli altri facevano il somigliante, gridando: — Viva la libertà, senza conoscere tampoco che cosa la si fosse, come è il solito della moltitudine, e sovente di quelli che guidano la moltitudine, benchè si diano a intendere di saperla tanto più lunga del povero Isidoro, e quel che è più, senza avere la probità, il disinteresse e le rette intenzioni di quel galantuomo di Brianzuolo. A mezza l'erta incontrarono il convoglio. Il popolo si affollò intorno alla bara, quasi per accertarsi che veramente fosse morto, e vistolo proprio spacciato, se prima ne dissimulavano i veri delitti, ora ne mettevano fuori anche di falsi: que' timorati, che a dirne male mentr'era forte avrebber creduto offendere Dio, tiravano giù a refe doppio ora che Dio l'aveva raggiunto: quei che più lo avevano piaggiato potente, più sfoggiavano la bravura del vile insultandolo caduto; scene non nuove a chi si ricorda di vent'anni fa. I più dabbene gli recitavano dei suffragi; ed il signor vicario, ch'era pur dovuto accorrere se mai fosse bisogno del suo ministero, esclamava: — Intendete, figliuoli? imparate, _Vidi impium super exaltatum et elevatum super cedros Libani: transivi, et ecce non erat_[4]. Il popolo non capi niente; pure dissero con suffragio universale: — Ha ragione; questo si chiama un parlare! Già è un pezzo che la bolliva! L'ho sempre detto anche io che finirebbe così. Ma la calca fattasi intorno ritardava don Alessandro, cui le ultime parole del moribondo avevano messo pensate di che cuore. L'ansietà d'un contadino, quando in agosto invocò un pezzo e un pezzo la pioggia sull'inaridita campagna, e che vede finalmente sorgere delle nubi, ma insieme farsi un tempaccio cupo, un cielo nero, con certi lampi lunghi, continui, certo brontolar sordo del tuono, onde tremante aspetta se sarà acqua che ristori o grandine che finisca di desolare, è uno scarso confronto con quella di don Alessandro. Si trattava di sapere se vivesse ancora una madre, cui tant'anni egli aveva pianta per morta; se quello dev'essere il giorno più bello di sua vita, o se andasse a discoprire chi sa qual tremendo arcano, che inconsolabilmente lo desolasse. Non cessava dunque di gridare: — Avanti, avanti, figliuoli. E questi poggiavano verso Barzago, ingrossando più sempre come un torrente in suo cammino, perchè non le donne, non i vecchi, non i fanciulli rimasero in casa; e come, allorchè fu ucciso il lupo di cui tutti tremavano, tutti accorrono a vederlo, a toccarlo, così facevano là intorno una pressa, un sospingersi, un narrare, un minacciare. Giunti alla forca, la quale sorgeva non inoperosa, sulla spianata del castello, a furia la distrussero, perchè era costume (allora) de' sollevati d'abbattere ciò che loro dispiaceva del reggimento precedente, per dare al successivo la fatica di rifabbricarlo. Nel castello era già prima entrato il guardacaccia cogli altri: ove raccoltisi intorno i famigli, annunziata la fine del padrone, e parte colle buone, parte colle brusche trattili dal suo parere, si accingeva a frugare la casa per trovare il denaro. Ben presto intende da prima un sordo mormorio lontano, poi alte grida farsi più e più vicine; infine i villani tutti che ormai giungevano alla cima urlando: — Evviva! al castello! abbasso le torri! viva noi, morte ai padroni. Un popolo, non fosse che il popolo di Barzago, non fosse armato che di ciottoli e di bastoni, mette paura a musi troppo più bravi che i bravi di don Alfonso. I quali, trovandosi circondati, nè vedendo a che la cosa riuscirebbe, ma persuasi che l'audacia raddoppia gli uomini, levarono il ponte, calarono le saracinesche, poi, affacciati tra i merli, spianando i fucili, intimarono: — Indietro, marmaglia. E la marmaglia, che non se l'era aspettato, dava indietro. Ma il Sirtori, che a cavallo soprastava alla turba, fattosi innanzi ed alzata contro i bravi la mano ignuda in segno di pace: — Quieti (diceva), quieti. Non fate male ad alcuno, e, parola di gentiluomo, neppure a voi non vi sarà fatto male. Potrete andare dove vi piace; vi pagherò i salari scaduti: ma deh! lasciatemi entrare costà. Il fu vostro padrone, guardate, morendo mi diede questa chiave, e m'ingiunse che io stesso aprissi il gabinetto dietro la sua camera, e che colà sta rinchiusa mia madre, la contessa Perego. Forse voi altri ne sapete. Deh! vogliate al più presto lasciarmi vederla, salvarla. Non chiedo altro: non vi chiamerete certo scontenti di me. Queste e simili parole diceva egli in aspetto di tanta compassione, che a molti circostanti s'imbambolavano gli occhi. Il guardacaccia, partecipe dei delitti del padrone, si ricordava benissimo come, anni fa, nel bosco avesse rapita quella signora: sapeva d'averla portata in castello: ma quivi era scomparsa, nè quel che ne fosse avvenuto lo sapeva egli, nè l'aveva cercato, non essendo questo affar suo: la credeva da un pezzo morta e sepolta. — Ma se (pensava egli), se la è viva tuttora, ed il padrone la conservò tanto tempo per finezza di vendetta, possibile ch'egli sia stato debole a segno da sventare in un sol punto l'opera di tanti anni? — Dal quale ragionamento venne a indurre che, o questa fosse un'astuzia del signor Sirtori, o veramente il moribondo avesse affidata a questo la chiave, perchè sotto a quella stesse chiuso il tesoro che la popolare credenza supponeva essere riposto in ogni castello. Approfittò dunque della smania di don Alessandro per conchiudere una specie di capitolazione. — Ella vede come due e due quattro, che con questi uomini io posso tenere il castello per un mese: e intanto quell'altra se non è crepata, creperà. Pure, se tanto le preme d'entrare, io lascerò venire vossignoria co' suoi uomini nel cortile: quando sarà dentro, tratteremo più preciso; ma prima, sulla fede sua mi prometta di lasciare andare me ed i miei camerati con tutto quello che avremo indosso senza molestarci. Per quanto al signore paresse degradarsi scendendo a condizioni con siffatta genìa, pure, struggendosi di venirne a capo, non esitò a rispondere: — Sì, sì: prometto in faccia a Dio e a tutta questa brava gente. Allora fu abbassato il ponte. — I quattro bravi di don Alessandro precedettero: egli e la sposa, che mai non se gli parti dal fianco, tennero dietro a cavallo: ma fu impossibile impedire che alcuni dei galuppi più arditi, sguisciando fra le gambe dei cavalli, non entrassero nel cortile, e dietro a loro tutto il popolo. I bravi, tolti in mezzo, per quanto urtassero e minacciassero, poco profittavano tra la folla e agevolmente avrebbero potuto restare uccisi. Ma il sindaco, al quale troppo sarebbe dispiaciuto il non potere in tutte le forme pigliar possesso del castello a nome del comune, e che si ricordava in che modo taluno de' suoi predecessori si fosse comportato in caso di sollevazione, andava gridando: — In nome della legge, all'ordine. Se sarà da ammazzare, aspettate che vi sia comandato. — Il vicario, che, tanto contro sua natura, trovavasi strascinato in quel serra serra, a somiglianza d'un tordo presiccio che starnazza e ficca il capo fra le gretole della gabbia se mai possa distrigarsene, così lui, dimenticati i testi e le metafore, prendendo or questo or quello per la giubba, diceva: — State buono: state savio; altrimenti posso andare di mezzo anch'io che non ne ho nè colpa, nè peccato. Da tutto questo ajutati, i bravi si rannodarono, e, rotto il folto della calca, guadagnarono la portella del palazzo, liberarono i mastini di guardia, raccolsero altro servidorame, abbarrarono l'ingresso, e ripigliato il sopravvento, tornarono a scaraventare maledizioni e bestemmie, ad inarcar gli archibusi, a minacciare di mandar tutto a fuoco e sangue. Valse l'opera di don Alessandro, sicchè la gente tanto o quanto si ritrasse; il sindaco situò intorno alla porta una dozzina di suoi fidati, e allora il guardacaccia, tanto più coraggio mostrando (usanza di molti) quanto peggio la vedeva parata, e dell'ansietà del Sirtori valendosi per trovare e scampo e denaro, cominciò, quasi fosse lui il buono e il bello, a lamentarsi della promessa fallitagli, e alzar le pretensioni. — Ora che la va di picca, (gridava, battendo per terra il calcio del fucile) qui dentro non ci entrerà nè lei nè altro muso, finchè io sappia sparare una palla contro un temerario. Alle corte, per fare una parola sola, dia a me cotesta chiave. Io ho pratica della casa; andrò a vedere, a ricercare. Se no, la si tenga la sua curiosità, finchè glielo dico io. Il guardacaccia poneva tutta l'importanza del fatto nell'aversi in mano quella chiave: perchè (discorreva col pensiero) o sotto di essa vi è il marsupio, e avrò fatto una buona giornata: o v'è la donna, e son a cavallo; essa mi servirà di statico per ottenere quel che voglio. La raccomandazione però fatta da don Alfonso al Sirtori d'aprire egli stesso, tratteneva questo dal cederla, quantunque non potesse indovinarne il motivo. Si fece innanzi il sindaco, esibendosi, quale rappresentante del comune, di entrare egli stesso alla ricerca; ma l'altro aveva messo i piedi al muro: onde, non volendo far sangue, dal che, oltre il male del prossimo, poteva venirgli anche una persecuzione dalla giustizia, don Alessandro s'indusse a ceder la chiave al guardacaccia, che, sognando mucchi d'oro, s'avviò con essa. Non v'è entrato mai il capriccio, o lettori (poichè un uomo di mondo dee veder tutto, anche i delirii, anche le sciocchezze) di trovarvi là dove si cavano i numeri del lotto? Un ampio cortile pieno fitto di gente (plebe, s'intende, perchè questa è il predestinato zimbello degl'inganni) rimbomba dello schiamazzo di mille voci, che suonano ognuna diversamente, ma tutte sul motivo stesso, cioè i numeri giocati. Uno li ebbe dal tale, ammesso ai segreti della fortuna, l'altro li tirò da un sogno, chiaro come il sole; un terzo li almanaccò addosso al poverino che fu impiccato sta settimana; quella comare ha messo la polizzina nelle occhiaje d'un teschio, e la notte sognò fuoco: narrano, ascoltano, consultano: in volto a tutti leggi l'ansietà. Nè a torto. Si tratta che alcuni non hanno fatto colazione per serbar i cinquanta centesimi da mettervi su; si tratta che quest'altro picchiò sua moglie perchè, invece di dargli i quattrini, voleva con essi comprare una libbra di pan cruschetto da sfamare i puttini; si tratta che quella donnina è venuta ad una parziale transazione colla severità di sua virtù. E forse di lì ad un momento sentiranno gridare due, tre numeri, di quelli appunto scritti nel loro polizzino; e per trenta o quaranta scudi che di giovedì in giovedì buttarono a minuto nel bugiardo botteghino, andranno contenti come pasque, a riscuoterne tre, quattro, fors'anche venticinque, uno sopra l'altro, gridandosi fortunati e pagando da bere a tutti gli amici: già impromettono, già fanno i più begli assegnamenti su quei denari. Ma allorchè compajono sul palco quei signori, a far con tanta serietà un giuoco, con tanta onestà uno scrocco; quando l'innocenza mette la destra nel bossolo dell'illusione; più non s'intende uno zitto: cheti come pesci, tengono il respiro: le bocche, gli occhi stanno incantati verso il palco, verso l'urna, verso l'orfanello. Questa similitudine, che senza sconcio si sarebbe potuta ommettere o almeno scorciare, vaglia a farvi intendere quel che succedeva nel cortile del castello di Barzago. Al frastuono di prima era succeduto il curioso silenzio dell'aspettazione: fissi gli occhi, proteso il mento, levati sulle punte dei piedi, stavano i villici attenti alla porta per cui era entrato il guardacaccia, figurandosi ad ora ad ora vederlo ricomparire... con lui una donna; e qui la fantasia di ciascun sbizzarriva, immaginandola o pallida, estenuata come Lazzaro quatriduano, ovvero ancor bella, fresca, raggiante, per uno dei tanti miracoli, sparsi intorno dall'ignoranza, dai cantastorie e dai frati. Quando improvviso rompe quel silenzio un fragore, come di fulmine: tremò il castello: cento teste fecer civetta fra le spalle, cento bocche si spalancarono ad un ah di meraviglia, di sgomento: poi al grave odore di solfo, ai densi volumi di fumo che sbucavano da una finestra, le donne e i più timidi cominciarono ad esclamare: — Il diavolo, il diavolo! è venuto a portar via il padrone ed i suoi bravi. Tanto abituali e radicate erano queste ubbie, che non solo cacciarono il più de' circostanti in dirotta fuga, ma fecero impallidire gli stessi più sicuri: e quei bravi che le tante volte aveano sfidata a viso a viso la morte, ora dinanzi ad un potere invisibile presi da panico terrore, gettarono le armi gridando: — Perdono! misericordia! Nè meno sbalorditi rimasero il vicario, il sindaco, e, a malgrado del sangue generoso, anche don Alessandro. Questi però fu il primo a ripigliarsi, e tolta omai ogni resistenza, si mosse diviato per riconoscere l'accaduto. Il vulgo non dubitate che più varcasse la soglia, da che la idea del diavolo la custodiva. Il vicario, per poca volontà che se ne sentisse, non potè rifiutarsi all'invito fattogli di entrare scongiurando: e fioco siccome avesse veduto il lupo, trinciando benedizioni che l'una non aspettava l'altra, ripeteva esorcismi e _oremus_ cui donna Emilia rispondeva. Seguitavano i servitori, girando gli occhi pieni di sospetto, e colle armi inarcate quasi avessero intenzione d'ammazzare lo spirito maligno: dietro a tutti veniva il sindaco, con tremula voce dicendo come un giornalista: — Coraggio, innanzi. Così s'avviano alla camera di don Alfonso. Ogni cosa era ingombra di fumo: ma l'usciuolo dietro alla tappezzeria era aperto: passano nel gabinetto... che spettacolo! Il guardacaccia sfracellato giaceva in un lago di sangue, attraverso alla portella, il cui soliare era stato spezzato e scagliatogli incontro da una specie di macchina infernale sott'esso coperta, e a cui l'ingordo avea dato inavvedutamente lo scatto. Il giovane signore lanciossi dentro la portellina, e al lume delle fiaccole portategli dietro da due uomini, si calò per uno scaletto angusto, erto, disuguale, scalpellato nel macigno; mentre il sindaco distando in cima, veniva dicendo: — Non la abbia paura ad ogni modo siamo qui noi. È giù? Il Sirtori, disceso molti scaglioni, trovato alfine il pavimento, ecco vi scorge disteso qualche cosa di nero: — Dio, Dio! che palpiti al cuore d'un figlio! — Accosta il lume: è una donna. Non la conosce: ma le parole del moribondo, ma una voce interna non gli lasciano dubitare chi ella sia. Ma ohimè! non si muove, non sente, non risponde alle parole di lui, che va gridandole: — Madre, madre. Se la leva in dosso, e su. Pallido, sudato, coi capelli irti sulla fronte, rischiarato dietro dalle fiaccole, adombrato avanti dalla fumea non ben dissipata, quando ricomparve nel gabinetto recandosi sulle spalle quella infelice, che spenzolava come cosa morta, il sindaco diede indietro: il curato raddoppiò gli scongiuri: la sposa se gli gettò incontro, e sollevando il capo cascante della meschina, lo bagnava di lagrime dirotte. La posero a letto, la scaldarono, la soccorsero; non era morta. In quel corpo già estenuato da lunghi patimenti, il colpo rimbombato più fortemente nel sotterraneo, aveva sospesa non troncata la vita. L'impressione dell'aria e della luce, il calore, le assidue cure del figliuolo e della nuora, richiamarono i sensi smarriti: il cuore tornò a battere, il sangue a rifluire per le vene: tutta alfine si risentì, guardò intorno... Più non era la fetente oscurità, la desolata solitudine della sua tomba: rivedeva il sole, rivedeva visi umani, ed un giovane, che premendo il volto contro il volto di lei, andava ripetendo: — O madre, madre! sono Alessandro; sono il vostro figliuolo. Lettor mio, non fosti tu mai in prigione? Dunque non hai gustato qual gioja sia il tornare da quelle angustie alla libertà, all'aria aperta, all'uso del proprio volere; dagli ozii penosi all'opere; dall'incompassione, dalle beffe, dal sospetto, all'abbraccio de' suoi fidati, al colloquio sincero e spensierato, alla pietà, all'onore, al credere, all'esser creduto, al riconoscere ancora l'uomo e la sua dignità. Pure a questa consolazione generalmente non si arriva che dopo gustati, giorno per giorno, minuto per minuto, gli ineffabili spasimi della speranza. Ma per la signora Perego il balzare dall'eccesso delle angosce all'eccesso della gioja, era istantaneo. Addormentatasi in un terribile sogno, si svegliava al colmo della letizia. Da sì lungo tempo non vedeva altra luce che la fioca di un altissimo pertugio: da sì lungo tempo non udiva che qualche insulto scagliatole dall'Orso, insieme col pane: da sì lungo tempo non diceva altre parole, se non la preghiera che innalzava con fede a quel Dio, che sa tramutare in esultanza il dolore quando sembra più disperato. Ripreso quindi il vigore, essa potè narrare come dal bosco d'Imbevera fosse stata rapita a quel castello: i primi giorni fu tenuta in cortesia; ma perchè costantemente resistette a minacce e lusinghe dell'osceno che le aveva trucidato lo sposo, egli, convertito l'amore in odio mortale, ingiuriatala di mille scorni, l'aveva sepolta in quel sotterraneo, dove non sapea dir quanto tempo, giacchè nulla numerava la monotonia de' suoi giorni, ma certo anni ed anni era vissuta, desiderando, invocando la morte, nè da alcuna consolazione confortata, se non dall'avere, tra gli impeti della collera del feudatario, compreso come di mano gli fosse scampato almeno il diletto suo Alessandro. All'intenderla, il vicario impietosito, diceva: — Affè, vossignoria può cantare col redivivo Giona: _De ventre inferi clamavi, et exaudisti, Domine, vocem meam_[5]. Il figliuolo piangeva dirotto, ad ora ad ora esclamando, — O madre mia, mia cara madre, quanto patire! — Sì, rispondeva ella: sì, ho patito e quanto! Ma l'innocente che geme sotto la prepotenza ha un conforto inesauribile ove si volga al Signore. Io lo pregava di cuore; io pregava la beata Vergine dei dolori, che fu madre anch'essa, che essa pure ha perduto un figlio per l'iniquità degli uomini; pregavo non perchè finissero i miei tormenti, che nè tampoco lo speravo, ma per ottenere pazienza, ed allora sentivo mitigarmisi gli affanni. Più minuto osservando, si conobbe come il sotterraneo rispondesse appunto sotto al letto del feudatario, che conservando viva la sua vittima, avea voluto sorsi a sorsi assaporare la voluttà della vendetta. Tenere in catena il suo nemico; sapere quel che ad ogni istante egli patisce: contarne, sto per dire, i gemiti ad uno ad uno, e questo nemico non avere altra cagione d'abborrirlo se non le ingiurie recategli, è squisitezza di piacere che voi non conoscete, non conoscerete mai, anime umane, e che solo alle sue privilegiate riserba il demonio[6]. Sull'usciuolo di quel sepolcro era delineato il teschio racchiuso nella gabbia, affinchè l'aspetto di quello condisse la vendetta, che là entro se ne stillava. Il Sirtori, esaminando la soglia, fece notare gl'ingegni, disposti in modo che dovesse dare il volo alla polvere sott'essa adunata chi vi entrava senza le precauzioni, note forse soltanto a colui che l'avea preparata. Il sindaco, che, per fare il dover suo, osservava ogni cosa finamente, non sapeva intendervi, e diceva: — Questa, non si può dubitare, è una mina. Ma come qui? e perchè? — Era un colpo di riserva, rispose don Alessandro. — E per chi preparato?... addimandò la sposa, e impallidì. — Il Sirtori impallidì anch'esso, e guardandola tacque. Era quella, disposta pel caso d'una disgrazia, affine di trucidare chi tentasse di liberare la rinchiusa? o col disegno di condurre là il figliuolo, e quando la madre corresse nelle braccia di lui, spalancare una voragine di fuoco di mezzo ai loro amplessi? Chi può asserirlo? Molte, sottili, avviluppate sono le strade della perversità, più che l'uomo onesto non sappia indovinarle. Troppo però manifesto appariva il perchè tanto stesse a cuore a don Alfonso che il giovane aprisse egli medesimo, confidando così, almeno dopo morte, coronare la vendetta che aveva meditato per tutta la vita. L'ingordigia dell'oro aveva strascinato invece quel miserabile ad attirare sopra sè stesso il colpo che dall'innocenza sviava Colui, la cui mano, anche in questa vita, fa talvolta piegare a favore della giustizia la bilancia degli eventi, preponderante per l'ordinario a favore degli scellerati. Il curato pensò a seppellire i due morti, coi riti che non rifiuta la Chiesa, la quale, confidata nella misericordia di un Dio che per un sospiro condona una vita intera di scelleraggine, rimuove l'insulto dall'uomo che sta dinanzi al giudice vero. Il fatto andò tra il popolo, rimpastato in cento guise diverse, tutte qual più qual meno lontane dal vero: ma dove gran parte aveva il diavolo, che, dicevano, non avendo potuto ghermire il padrone perchè morto in luogo sacro, erasi portato in carne ed ossa il ribaldo servitore. Che se ne domandavano il vero al sindaco, egli raccontava di buona voglia, ma quando si veniva a quello scoppio, sul quale le sue congetture non si potevano chiarire abbastanza, rispondeva come un professore: — Cosa volete mai sapere voi altri ignoranti? Poichè non è a dire quanto il buon uomo andasse in gloria, sì per quella poca autorità che trovavasi avere ricuperato, sì perchè l'amor suo proprio era lusingato dal vedere come non fossero stati vani i suoi sospetti al tempo che avvenne l'aggressione della contessa madre, sospetti che lo avrebbero condotto alla scoperta del vero se non fosse stata quella bastonatura, di cui, ricordandosi, crollava ancora le spalle. — Già (diceva) a questo mondo chi pensa male pensa bene, e al figlio di mio padre non è così facile il mostrar bianco per nero. Basta! ha finito colui di rubarci, di farci battere ed ammazzare come fosse lui il re. Ora staremo da papi, e baronate di questa stampa non ne succederanno più, più. Così diceva colla sicurezza con cui la gente, al cadere d'un cattivo padrone, allo scapolare da un grosso fastidio, si promette mari e monti, e non s'accorge come l'unico bene che ne trarrà, sarà la breve gioja del tempo che corre fra il sorgere della speranza e il vederla delusa. Così il fantolino tripudia e si ringalluzza nel mentre che la balia sta allestendo le fasce da imprigionarlo di nuovo e più bene. Ma perchè turbare con sinistri presagi una di quelle consolazioni che arrivavano sì di rado? Lasciamoli dunque fare, e come avessero toccato il cielo col dito, scialarsi, dar nelle campane, coi falò annunziare il fausto evento a tutto il vicinato. Al domani i signori vollero tornare a vedere il luogo di antichi pericoli e di recenti. Cadeva il giorno sacro alla natività di Maria: un lietissimo sole, irradiando l'azzurra volta senza nubi e penetrando quasi furtivo tra le dense chiome dei castani, temperava nel bosco il più amabile rezzo, al mite soffio de' venticelli onde respira la stagione facendo passaggio dal polveroso agosto al mese della vendemmia, — bello da per tutto, più bello sul poggio della mia Brianza. Una folla di paesani trasse dietro alla lettiga ed ai cavalli da cui erano portati don Alessandro e le signore. V'accorsero molti che prima stavano riposti per isgomenti di quegli spauracchi; ragazze che non poteano salvarsi dai colui bracconi se non tenendosi rimpiattate, giovinotti bizzarri, che non sapendo chinarsi e mandar giù, erano dovuti rifuggirsi ne' paesi vicini: corsero quelli che jeri avevano mostrato coraggio: quei che s'eran schivati del pericolo corsero del pari ed anche meglio al trionfo. Non occorre dirvi che il sindaco, tutto raffusolato, si trovò là per conservare il buon ordine. Come la comitiva passò dalla bettola, Cipriano, la Brigita, padre e madre furono incontro ai signori con un mondo d'inchini e un tripudio di ringraziamenti. — Buon dì, signorie! (esclamava Cipriano) entrino e s'accomodino. Non gli aspettavo che loro. La merenda che jeri aveva ordinata quell'altro è bell'e pronta, ed io la servirò oggi di miglior cuore a loro, e insieme un balsamo d'un vinettino che salta agli occhi, e che il simile non bevono nemmeno a casa loro... Cioè... volevo dire... — Capisco, capisco, l'interruppe sorridendo don Alessandro. Ma la merenda e quanto può somministrarci la tua dispensa, portalo colà davanti alla cappelletta d'Imbevera, e dopo che avremo ringraziato la Madonna, la distribuirai a questa buona gente. Alla Madonna di fatto si condussero: il signor curato ribenedisse il terreno, disacrato dal sangue, e tutto il popolo vi si prostrò, rispondendo alle preghiere che con edificante pietà recitava donn'Emilia al cui fianco stavano inginocchiate la Brigita e la madre rediviva. Sorti poi, si sparsero a gruppi pel pianerottolo e nel bosco, a contare, a domandare a designare i luoghi. Di Cipriano non vi dico altro. Era divenuto due dita più alto; e mentre cocessero le vivande, sbracciavasi come un telegrafo, narrando il primo atto in cui era stato tanto personaggio: poi nell'udire il successo della storia, trasecolava; batteva l'anca, esclamando: — Oh!... se ci fossi stato io!... ma chi poteva indovinarlo? Come poi intese la fine del guardacaccia: — Che? (disse) anche lui? fanne e fanne, s'è dato la zappa sui piedi. Credeva lui che fosse arrivato il sabato mio: ma il sabato non arriva soltanto per noi poveretti. Il sindaco andava cercando sottilmente la verità del caso, per estendere esatta informazione a chi di dovere. Il signor vicario diceva: — Ecco: io come io, ho perduto un desinarello tutte le feste e de' bei straordinari, ma tanto tanto ne sono contento, perchè vedo contenti voi altri, che siete le mie pecorelle. E diciamola, che tanto è morto: avete cento sacchi di ragione. Peccato però che io non sia giunto in tempo, che, oltre il resto, gli avrei, _pulcriter, cum bonis modis,_ rammentato quel che tante volte m'aveva promesso, di voler qui fabbricare una chiesa e mettervi un cappellano. Oh! un cappellano _ad nutum_ del parroco _pro tempore_ di Barzago, sarebbe un ajuto di costa. — Ma la chiesa (soggiungeva il sindaco) non si potrebbe farla ugualmente? — _Cum quibus?_ domandava il curato, fregando tra loro i polpastrelli dell'indice e del pollice. E Isidoro, accarezzandosi colle dita stesse il labbro inferiore, guardando la terra e dimenando un pocolino il capo siccome un poeta che cerca la rima, replicava: — Vedo quel che vuol dire. Ma ecco, in paese siamo novecentocinquantatrè anime: se dessimo, puta caso, una lira per testa... — Ah, miserie, interrompeva il parroco. Non bastano manco per la sacrestia. — Oh, se consiste solamente in questo, io ne do quattro e patiscano gli eredi. Così, facendo saltare sulla palma della mano quattro berlinghe, parlava Cipriano, il quale calcolava sul maggior concorso che la devozione trarrebbe alla sua osteria. — Ed io (ripigliava il reverendo) raccomanderò le cosa caldamente dal pulpito. — No, no, interruppe la contessa madre, la quale era sopraggiunta in mezzo a tali discorsi. La grazia l'ho ricevuta specialmente io, ed io è ben giusto ne ringrazii la Madonna. La chiesa si farà, e voi, sindaco, poichè vi dimostrate così ben disposto, v'impegno per soprantendere al lavoro. Il sindaco che, al sentirsi diretta la parola da una dama, erasi allungato d'un palmo, faceva scappellate e inchini da settanta gradi, esclamando: — Troppo onore; tutta bontà dell'eccellenza sua. Qui il curato soggiungeva: — Anche il cappellano, illustrissima? Ma l'illustrissima non udì, credo, in grazia del baccano che faceva l'ostino, annunziando alla gente una tale risoluzione. Poi, secondo gli ordini, cominciò questi a servire vino e mangiari, e, tutto brio e ilarità, contava e ricontava fitto fitto la ventura, la quale (come pur troppo facilmente i lettori nostri ne converranno) nulla avea d'interessante se non l'esser vera. Anche suo padre davasi attorno tutto traffico, snocciolando sentenze, e dando ragione all'ultimo che avea parlato. La madre pure, la quale, vistone gli effetti, non sapeva disapprovare il coraggio di suo figliuolo, se dapprima credeva che la legge di Dio vietasse fino di conoscere i torti recati dai padroni, ora, adattando la sua morale all'esito delle cose, colla solita cera quaresimale veniva ripetendo: — Domenedio non distingue il raso dal frustagno: tardi o tosto egli arriva i cattivi, comunque abbiano nome. Tutto insomma era lieto di così schietta allegria, che fino i signori, ma sovratutto la vivace sposina, pareva si struggessero di mescolarsi alla turba festiva: se non ne fossero stati rattenuti dalle imprescindibili leggi del decoro. Sopra un rialto protetto da un noce annoso, che il vicario assomigliava al fico di Mambre, tenevansi dunque in disparte i due sposi e la madre, che, come succede nei rapidi passaggi dal male al bene, sentivasi impedito il cuore e la lingua, e don Amadio, al quale vi so dir io che tal compagnia serviva (per usare un modo suo) di manovella a montargli la macchina dell'ingegno e fargliene pronunziare delle squisite ed allambiccate. Stava con essi la Brigita, e tratto tratto anche Cipriano, poichè la gratitudine onde questi erano avvinti non lasciava temere che, abusando dell'affabilità, scemassero quella distinzione dei ceti che anche dai buoni credevasi la più importante molla del vivere sociale. Quivi godeano insieme riandando il passato, a quel modo che la mattina si rincorre un sogno pauroso della notte colla consolazione di sapere che non fu che un sogno. Così speso quel mezzodì e fattosi sera, tornarono i terrieri al paese, i signori al loro palazzo. Subito il contorno fu pieno di quell'impresa; alla città formò parecchi giorni il trattenimento de' crocchi e delle veglie. Erano allora moltissimi in Milano i gentiluomini, che, avendo per le politiche vicende perduta l'occasione d'uccidere i nemici della nazione, esercitavano i rimasugli del valore italiano con quelle vendette che la religione proibisce e l'onore comanda, mettendosi al caso d'accoppare o di farsi accoppare secondo le ragioni di un'arte, la quale (o m'inganno) non è la migliore che gl'Italiani insegnassero agli stranieri. Costoro dunque, contentissimi di trovare un caso sul quale sfoggiare le teoriche loro, si divertirono di rimbobolare il fatto del bosco d'Imbevera colle circostanze che meglio tornavano al proposito per farlo credere un vero e formale duello, contando per filo e per segno tutti i mandritti, i riversi, le parate, e via via come fossero stati presenti, sebben ognuno li narrasse diversamente; accordandosi poi tutti (e l'esito lo faceva chiarissimo) a renderne onore a don Alessandro. Il quale per tal guisa andò, così giovane, colmo di gloria, giacchè è gloria, come s'è avvisato di sopra, ammazzare uno secondo le forme. E Cesare Trombone, quel famigerato maestro d'armi che ognun sa, e che ancora aspetta una statua dai moderni spadaccini milanesi, predissegli che diverrebbe uno dei più famosi matadori. Ma come altre profezie di benevoli e di malevoli, così questa non tolse che il Sirtori conservasse cuor sincero e benevolo, rettitudine di anima, ingenuità di carattere. Quando si vide che e' non riusciva nulla meglio che un galantuomo, a malgrado di quella prima impresa rientrò nell'oscurità, e più non andò per le bocche degli uomini giacchè i virtuosi (salvo quei da teatro) pochi si curano di conoscerli, e quei pochi si astengono dal parlarne e più dal lodarli; credo per quel dogma di prudenza che insegna a non propalare i tesori che si possedono. L'autorità, se non fosse altro, per la relazione del sindaco Isidoro, venne in cognizione del caso, ma avrebbe avuto un bel da fare se ella avesse preteso impacciarsi di tutti gli ammazzamenti che succedevano. Era anche troppo che adoperasse la sua politica a conservare quella bellezza di pace al popolo contento, la sua giustizia a sterminare le streghe e gli eretici, che il Sant'Uffizio, raccomandando clemenza e misericordia, rimetteva al braccio laico da bruciare. Ond'è che di questo fatto, non essendovi chi ne sollecitasse l'esame, non si ricercò se fosse un caso d'onore od un assassinio; e morì sul tavolino d'un assessore, e fu sepolto in un archivio dove i sorci prevennero le ricerche degli eruditi. Ma il luogo ove s'è patita una sventura, corso un pericolo, è pur giocondo a rimirarsi a chi ne campò! Ho veduto più d'un navigante starsi delle mezz'ore fisso al mare, contemplando con certa quale compiacenza le onde, che per due o tre giorni di seguente, gli erano ruggite d'intorno. So di chi, uscito da un tristo luogo, dove gli toccò fare lunga e non ispontanea dimora, molte volte ritorna a guardare e considerare con un fremito involontario quelle mura, ove passò tanti giorni ansiosi, tante notti palpitanti, e tirare il flato, ed esclamare: — L'ho scampata bella. Anche la famiglia de' Sirtori trovandosi alla villeggiatura l'anno seguente, volle nel giorno stesso ritornare al bosco. I paesani, che n'avevano avuto sentore, trassero colà in folla, ricordevoli di quell'avvenimento e di quel rinfresco. Come discesero laggiù, la Brigita comparve innanzi ai signori tutta rimpulizzita: un fitto giro d'agoni d'argento attorno alla nuca, due grandi orecchini d'oro, una pettorina rossa impuntita di turchino, il vistoso bustino di broccato a fiori, tutto trinato a gale di nastri, due candide lattughe ove al gomito finivano le maniche, un grembiule di mussola bianca nuovo di bottega sopra una gonnella color di cielo, terminata in balza a gonfietti. Nel vederla così in fiocchi: — Oh, oh! che novità c'è, Brigita (chiese donn'Emilia). Tu sembri uscita da uno scatolino. La fanciulla fece ancor più vivo l'incarnato delle guance, e con garbo contadinesco presentandole una manciata di confetti: — Illustrissima, son di nozze. — Oggi (entrava a dire il curato) oggi l'ho detta in chiesa la seconda volta, e questo qua è il suo fidanzato. E additava un pezzo di giovinotto, vestito anche egli tutto nuovo d'impianto, con una cintura rossa in vita, e che, traendosi di capo la reticella, da cui spenzolava una gran nappa bianca e rossa, fece una strisciata di piedi, e non sapeva rispondere se non — Grazie, ai mi rallegro di quei signori. Gli era quel tal giardiniere del padrone della filanda, che, se vi ricorda, aveva anni fa, regalato alla Brigita, quel magliuolo di vite, pel cui guasto era avvenuto il lepricidio. — E anch'io (soggiungeva Cipriano) ci ho anch'io un poco di merito alle fortune di mia sorella, per avere tenuto in guardia quella vite; non è vero, Brigita? Basta: la vite ha portato frutto, e il bel primo grappolo mi prendo la libertà di presentarlo a loro illustrissimi. Qui, levandone i pampani sovrapposti, discoperse un paniere di pesche fragranti, sormontate da dorata moscadella. — Abbiam tutto per ricevuto, risposero i signori: poi donn'Emilia si trasse di capo uno spillone d'oro, che le dame portavano infisso nel volume delle trecce come d'argento l'usano tuttora le contadine; la contessa madre si sciolse uno smaniglio d'oro a filagrana; don Alessandro spiccò dalla giubba una dozzina di massicci bottoni d'argento (allora giudicavasi più decoroso il regalare così che non con denaro), e diedero ogni cosa alla Brigita, che fu un bel presente. Don Alessandro poi, voltosi a Cipriano e battendogli sulle spalle con quel fare d'amichevole protezione che i signori, senza derogare alla dignità, possono concedere ad esseri tanto a loro inferiori: — E tu (gli disse) possa tu non aver mai occasioni che giuste di metter fuori il tuo coltellaccio. — O per questo (replicava Cipriano, che non toccava coi piedi in terra al vedersi, là in faccia a tutto un mondo, trattato con tanta bontà da un nobile), oh per questo, illustrissimo, la stia sicuro. Perchè, non c'è risposta, noi Brianzuoli siamo fatti così: somigliamo ai cani da pastore; fedeli, sempre quieti, da bene finchè si lasciano stare; ma vien l'occasione? arruffano il pelo, cacciano fuori tanto d'occhi, e non temono affrontarsi, fosse bene coll'orso. I primi passi, com'era naturale, furono alla nuova chiesa. Se don Alfonso avesse potuto sciogliere lo scellerato suo voto, avrebbe forse eretto ed ornato uno splendido tempio, perchè laute sono le rimunerazioni onde il delitto mercanteggia la complicità che al Cielo domanda. La gratitudine, più modesta, non aveva edificato se non una angusta e disadorna chiesuola, che il sindaco mostrò parte a parte con una compiacenza da artista. Il signor vicario poi montò in una botte sfondata della cànova di Cipriano, che per quell'occasione erasi rinfronzita in modo da scusar di pulpito, e sopra il versetto _Sicut fluit cera a facie ignis, dispereant peccatores a facie Dei, et justi epulentur et delectentur in lætitia_[7] sfoderò un bravo panegirico; un panegirico sulle molle. Gli è ben vero che, quando i signori gliene presentavano le loro congratulazioni, egli asseriva che unicamente la cortesia di essi era la cifra che dava valore allo zero de' meriti di quello, e volse lasciare intendere d'averlo fatto a braccio; ma non è facile il persuadersene chi badi all'erudizione e all'ingegno che v'erano a pale. Accennò di fatto tutti i templi antichi, da quel di Serapido fino alla rotonda di Agrippa; recitò una sequenza di architetti i più famosi; con una delicatezza da stordire, encomiò i Sirtori e la signora Perego sotto al velo di Salomone e di Zorobabelle; conchiuse esortando i contadini ad elevare un mistico tempio, dove gli affetti fossero i muratori, che, colla calce della carità fraterna e la cazzuola della limosina, sopra il fondamento della fede ergessero le mura della speranza, tra cui le colonne della memoria coi capitelli della gratitudine sostenessero la cupola della devozione, sotto alla quale dalle campane della tradizione venissero congregati i popoli ad una festa, in cui fossero arazzi le preghiere, altari i cuori, lampade l'allegrezza comune, organi le gole cantanti, incensi... non mi ricordo più che cosa, giacchè il panegirico non fece mai gemere i torchi; ed è un peccato, perchè potea far testo. I paesani, più trasecolati da quel tòcco d'eloquenza quanto meno ne avevano compreso, sbucarono di chiesa non appena fu finito, e don Alessandro ordinò a Cipriano che mescesse ancora a tutti; il che non domandatemi se accrebbe l'allegria ed il frutto del sermone. Mi s'era dimenticato di dire come la medaglia d'oro che era stata pegno di vendetta, venne di fatto appesa in voto alla Madonna, e là rimase fin quando, trentasett'anni fa, i Francesi ci fecero, cogli ori della chiesa, pagare quella bellezza di libertà che ci venivano a regalare. Allora uno di questi contorni, spirito forte che s'era fin lasciato intendere a dire che i frati non erano se non tanti oziosi, d'ordine del Governo la levò via per cambiarla in tanti zecchini, e ve ne sostituì un'altra di similoro. E la medaglia e la libertà, come succede delle cose false, presero il verderame: quella passò tra le ciarpe di un ferravecchi, l'altra tornò in paradiso ad aspettare il _Dies iræ_. Tanto andò a genio quella sagra campestre, che i signori istituirono di tornarvi ogni anno. Cominciarono a menare alcun amico, e amici n'han sempre di molti i signori, massime d'autunno: qualche ricco che là intorno villeggiava, per curiosità, per passatempo volle vederla. I contadini rimangono in quel tempo disposti all'allegria dalle miti sere e dai ventilati mattini succedenti alle eterne giornate, sudate sotto la sferza della canicola, dal vedere indorato il granoturco e colorita la vendemmia. Se vi aggiungete le memorie della libertà ricuperata e, cosa non meno importante, della merenda goduta, facilmente intenderete perchè vi traevano volentieri, quando anche non vi dicessi che don Alessandro continuò a pagare a Cipriano due zecchini, perchè distribuisse quattro brente del buono. Con così poco i ricchi possono farsi voler bene! Morto poi quel signore, per non ismettere la buona usanza, gli accorrenti portarono con sè da merendare e da bere una volta, ovvero dei bravi quattrini, coi quali, mentre pagavano il fiasco a Cipriano, questi, già grave d'anni e padre di figli che avevano figli, coll'aria d'importanza propria dei suoi confratelli, diceva loro: — Ecco; finchè visse quel buon signore, si bagnava il becco con meglio che dell'acqua, e _gratis et amore Dei_, e questi erano tanti risparmiati. Ma dei signori buoni non se ne trova uno ad ogni uscio. Eh tu, Matteo, non puoi aver idea di quel diavolo a quattro; tu eri ancora a balia. Ma voi, Cosmo, che, poco su poco giù, siete del mio tempo, dovete serbarne memoria, eh? E trovava tutto il suo pascolo, quando, messo in mezzo da una ventina di villani, non meno vogliosi d'udire che esso di narrare, poteva ripetere punto per punto l'istoria, mostrar la vite, che ormai rinfronziva tutta la fronte della casetta, e di bei festoni attorniava le finestruole, e descrivere gli atti e le parole dell'Orso di Barzago che Dio gli abbia perdonato, e don Alessandro Sirtori che spendeva come un Cesare, e che aveva il cuore compassionevole quanto se fosse stato un pover'uomo. — E la cagione di questo sconquasso (aggiungeva con una stropicciatina di mani) chi è stato? Io, io persona prima. L'ho vista brutta, ma la paura non sapevo dove stesse di casa io. Eh! adesso sono da mettere fra gli scarti: ma allora ero un acciarino bresciano: poi un buon Brianzuolo, quando fa bisogno, non c'è a dire, muora Sansone e tutti i Filistei. Mancò poi anche Cipriano; mancarono quel Cosmo che se ne ricordava, e quel Matteo che non se ne ricordava: col valicar dei tempi, nuove disgrazie fecero perdere la memoria di quelle: e però, non fo per dire, ma bisogna chiamarsi obbligati a chi riempie queste importanti lacune della storia col tornare in luce fatti così istruttivi ed esemplari come veri. La concorrenza però non è mai venuta meno: anzi in un secolo che non crede nulla e si fa beffa di tutto, fin delle intenzioni, quando il Gioja si congratulava di vedere scemata l'affluenza al santuario di Caravaggio e ad altre sagre, chi lo crederebbe? alla Madonna d'Imbevera aumentò straordinariamente. Se domandaste il perchè, vi risponderemmo: — È la moda; ragione la sola che molti possano rendere delle loro azioni, e fin della loro guisa di pensare. Nè crediate vi si faccia una musica, una fiera, qualche cosa di fracasso; no: unico spettacolo è quello degli spettatori. La romita solitudine, onde sono per tutto l'anno circondati la povera chiesuola d'Imbevera e un casamento eretto là d'accosto, ogni otto di settembre si popola così rapidamente, così variamente, come si legge che un giorno solevano le selve al cenno delle fate. Chi drizza a quella volta, già da assai lontano ode una romba, simile al romoreggiare della marina. Ed ecco le strade, che d'ogni parte vi capitano, brulicare di gente, contadini, artigiani, mestieranti, soli, a coppie, a gruppi, a frotte. Giovinetti con cappelli di paglia artificiosamente trecciati a trafori, adorni con piume, specchietti, galanterie quali contenti del frustagno e del taglio all'antica, mentre gli altri vestono giubbe più moderne, colla cocca del fazzoletto affacciata alla tasca e con larghi pantaloni, invano e dal curato e dal fattore rinfacciati loro siccome indizio evidente d'insubordinatezza e d'irreligione; pigliansi al collo gli uni degli altri, a spintoni rompono la calca, od in ischiere arditamente festanti colla zampogna fanno risonare concerti, che sentono il sole e il vento della montagna. Le caute madri, tutte occhi a vigilare le ingenue fanciulle, quel giorno permettono che, per devozione, esse vadano a Imbevera. Tu scerni la Brianzuola alla snella corporatura, ai _baldanzosi fianchi_ che davano per la fantasia al mio Parini, ad un'aureola d'argento al capo: distingui la briosa Bergamasca al bustino cortissimo di vita, ai vezzini d'oro, ai cincinni della fronte, ad un agone a trafori infisso nelle trecce cascanti bizzarramente da una banda, a certi sguardi bricconi. E tutti ne' vari loro dialetti chiedono, cianciano, gridano, fanno fiera. Il garzone, che per la prima volta vi trae, interroga curioso un vecchio, che ci veniva prima del 96, quando vi comparivano indemoniati strillando, e buli che deponevano alla soglia della chiesa la omicida loro carabina; che si ricorda quando i Giacobini in nome della libertà proibirono quella sagra, e quando Russi e Cosacchi, tornandoci cattolici, l'ebbero ristabilita; c'è venuto coi Francesi repubblicani, coi Francesi imperiali, ed ora seguita da vent'anni a venirci con cotesti, sperando venire coi loro successori. Nel bosco e sul piazzuolo s'innalzano assiti e baracche, si spiegano tende, curvansi e intrecciansi i rami a pergole, a capricciosi frascati, si dispongono tavole, trespoli, sediuoli; è un mondo di gente, è un tremoto di faccende. Qui fierajuoli a sfoggiar mercanzia: là bettolieri a rosolare braciuole e friggere galletti: il buzzurro allessa e brucia le castagne primaticce: un gruppo di villani già mezzo brilli urlano a chi più i punti della mora, altri straziano costolette così guascotte, e le irrorano di acquavite, di vino, di mosto appena spremuto dall'uva non ben matura. La fanciulla compra un santino per la nonna devota: la nonna gingilli per ispassar il bambino quando il portano a mimmi; il becerume, bocca ed occhi spalancati, attende alle forze, o al bagattelliero che ha rimedii per tutti i mali e per altri ancora, o al cantambanco che sul cartellone dimostra vita e morte del famoso Pacino, l'incendio di Mosca e l'inondazione del Danubio; o a qualche Orfeo che, strimpellando la ribeca o raschiando un violino, attira le pietre. La chiesa, che fu già occasione della festa, è la meno che si visiti: in quella vece fitti, serrati, vanno come un'onda di su, di giù, per la spianata e pel bosco vicino. Così la pedonaglia. Ma quelli di maggior bussola non compajono se non nel basso del giorno, tanto più tardi quanto ciascuno è, o si crede da più. Monza, Milano, Como, Bergamo (e si v'è due passi) risentono ai corsi loro la mancanza della crema o della schiuma dei cittadini e dove sono? al bosco d'Imbevera. Zerbinotti che sbraveggiano su sbuffanti puledri, o trionfano in _tilbury_ eleganti: gran signori rimpettiti in comodi cocchi, con ambiziose mute, condotte a centinaja di zecchini dai pascoli dell'Holstein e dell'Olanda: fittajuoli che staccarono dalla benna e dall'aratro i robusti ronzinanti svizzeri, e rivestirono di nuova livrea il carrettiere: nobili scadenti, o sorgenti plebei, i quali noleggiarono ad alto prezzo un calesse, due rôzze e un vetturale, il quale cornando e schioccando fa rumore per quattro: particolaretti che coll'industria sperano quando che sia mutar in carrozza la timonella di cui ora mal s'accontentano: il granajuolo nella sedia o nel baroccio che lo porta il sabato ai mercati di Lecco o alle calende a Bergamo; tutti insomma qui piovono a darsi aria, a vedere, a farsi vedere. Gli alberghi più capaci della città appena basterebbero a tanto concorso, non che le meschine bettole del contorno, poco migliori di quella ove, ducencinquanta anni fa, vendeva vino il nostro Cipriano. Quindi vedi i cavalli affidati a ragazzi su pei prati; e da tutte le bande disposti in fila cocchi a centinaja, che dico? a migliaja: e tra quelli sparsi i pitocchi, che sporgono la mano o il bossolo, ostentando al passeggero piaghe, moncherini, una nidiata di puttelli, e strillando _Pietà, limosina._ — Concordanze sociali! Chi credesse che una sagra campestre dovesse far luogo a quella semplicità, che aggiunge tanto più allegria, quanto più la scioglie dagl'impacci, sarebbe troppo in inganno. Il lusso più ricercato, le più sontuose gale di vesti, di fronzoli, di gioje, sono di balzo trasportate dal corso delle città al bosco d'Imbevera. La signorina, venuta, già è un mese, a villeggiare qui poco lungi, fra il grosso bagaglio non si dimenticò di qualche bel capo o di un vestitino a posta per questo bel giorno: la fidanzata vi fa la prima comparsa coi vezzi donatile dallo sposo: quella sciarpa, quella cappottina furono rinnovate per farne spocchia alla Madonna di Imbevera. Belle dall'arguto pallore e dal fuoco raccolto degli occhi pensosi, meraviglia dei teatri e dei ridotti cittadini; forosette dalle gote rubiconde e piene come melerose, che nelle solenni processioni del villaggio sentonsi dire _Ve' com'è bella,_ qui compajono insieme: le prime appoggiate ad uno sposo fedele, beando di lusinghiero ritenuto sorriso il fedele milordino, che con membra e con andar femmineo sbircisce colla lente e susurra meditate cortesie; l'altre colle compagne, dando ascolto e risposta ai vivaci scherzi ed alle espressioni più clamorose quanto più cordiali, del bifolco e del bottegajo; finchè vanno queste a tracannare l'acquavite e la spumosa birra, l'altre a gustar la gramolata, il sorbetto e le paste sfoglie sotto ai padiglioni dell'effimero acquacedrajo. Chi di là gira lo sguardo, vede brulicare una folla di teste; cappelli da villano, da signore, da prete, da cittadino; brillanti colori e delicati; il sedan ed il velo crespo alternati colla stamina e col bambagello; fogge testè arrivate da Parigi presso a quelle da un anno abbandonate alle provinciali, all'altre che già discesero al contado, alle arcaiche, custodite dalle matrone in commemorazione de' tempi migliori. Qui le piume d'uccello di paradiso ondeggiano a canto al pennacchio del gendarme, la cui vista fa sguisciar via il tagliaborse, frena l'allegria d'un ubbriaco e le ominazioni di due baffuti, che battendo i tacchi, ragionavano della buona causa. Qui gli uomini creati dalla natura a consumare e godere, misti con quelli da essa destinati a sbracciarsi e stentare per la soddisfazione dei primi: contadini imbruniti e ingagliarditi dal sole e dalle fatiche sono riurtati sdegnosamente dal prediletto dalla fortuna, gonfio per dieci generazioni di antenati, al par di lui oziosi, il colore e le membra dilicate del quale fanno prova del sangue più gentile, cioè degli squisiti bocconi e del non far nulla. Qui un veterano della legion d'onore e dai mustacchi bruciacchiati dalla polvere d'Ulma e d'Austerlitz, e che sarebbe colonnello se le cose, dic'egli, fossero ite come dovevano, trovasi a fianco del coscritto che una sola notte passò in caserma fra gli stravizzi, il fumo e le facili beltà. Qui la schifiltosa mantenuta pavoneggiandosi raccomanda al suo ganzo che le sontuose trine da lui donatele non lasci mantrugiare dal contatto del ruvido guarnellino che la setajuola guadagnò di sacrosante fatiche. Quando poi, veduto ed ascoltato intorno il linguaggio de' ventagli, de' fazzoletti, delle lenti, lo sguardo ansioso di chi cerca, il dolente di chi troppo ha trovato, il confidente susurrio delle recenti spose, e l'inesorabile cicaleccio delle terribili madri che hanno tre fanciulle da maritare, tu volgi dall'altra parte ove sale il bosco, ecco per tutta la pendice una mobile decorazione di gruppi che disposti nel più pittoresco modo tra le fratte e i castani e sul molle tappeto del muschio, godono la merenda e lo spettacolo che l'onda della folla scendendo e poggiando cangia ad ogni batter d'occhi al loro piè. Deliziata a tale scena, la vispa zitella esclama, — Deh! com'è bello! nel mentre stesso che un'altra, coll'ingrata maestà del quarantesimo anno, ripete contraendo il labbro, — Al confronto d'anni fa: non c'è la metà gente, la metà lusso, la metà allegria. Così il giovane, cui l'età del primo amore dipinge tutto a color di rosa, trova qualcosa di gajo tale mescolanza del boschereccio collo scialoso, della naturalezza coll'eleganza, della franca giovialità campestre colla contegnosa della città; intanto che un altro, cui l'esperienza rese itterico lo sguardo, raggrinza il naso esclamando: — Pazzie! venirsi a pompeggiare in un bosco! V'è intanto chi si perde per la selva a cercare una pianta remota, dove, anni sono, in questo giorno istesso incise un nome, — il nome d'una fanciulla, con cui si erano giurati eterno inseparabile amore. La pianta crebbe, crebbe il nome con essa, ma l'amore svanì; ed egli appena ricordò l'amica perchè la rintoppò laggiù, contenta madre dei figliuoli d'un altro. Ancora v'ha chi, non logoro dai diletti cittadini a segno da non sentire l'incanto delle semplici bellezze naturali, guadagna le vette, e di là vagheggia il cielo che s'inazzurra sui poggi e sulle valli della Brianza: quel cielo che gli stranieri credono un'esagerazione quando lo vedono dipinto nelle tele dei gran maestri: e che in quell'ora, imporporandosi ai tremuli raggi del sole che declina, fa spiccare all'occhio ammirato la sommità dei colli e dei monti che formano cornice ad uno de' più graziosi paesaggi; mentre gli augelletti... Ma che ha qui a fare quest'arcadica descrizione? Che ha a fare? Ah! lo sa il mio cuore, che alla sconsolante realtà del presente procura sottrarsi col figurare come sa più al vivo quei luoghi di care memorie ed incolpate. O miei monti, o miei colli! Deh quando il sereno spirare del vostro orezzo pioverà ancora la pace sul mio solingo cammino? Quando l'alba mi troverà sulle vostre vette ad aspettarne il primo biancheggiare? Quando la sera accoglierà il saluto che manderò al patetico astro di Venere? Quando il sole mi vedrà, in gara col capriuolo, libero come l'aria che vi si respira, balzar di pendice in pendice, aspirare l'aroma del cisto e dello spigo selvatico e l'autunnale fragranza delle eriche fiorite; tuffarmi nei torrenti della luce ond'esso v'ammanta; esultare sentendomi al disopra dei tumulti dell'umanità e più vicino al tempio del Creatore? Quando, quando? — Ah forse mai più! Perdonate, lettori, se da voi mi son dilungato, come perdonereste al vetturino che vi guida in viaggio, e che s'arrestasse per abbracciare un bambino che gli ricorda il suo fanciulletto, ahimè! rapitogli dagli assassini. Sono con voi, se volete che tornando alla campestre festa, scrutando i cuori, cerchiamo tra quel nugolo di gente alcuni successori di don Alfonso, ma che, grazie alla crescente civiltà, sostituirono al ratto la seduzione, alla violenza il raggiro, alla legge sfidata la legge illusa, alla vendetta scoperta la denigrazione e il bacio di Giuda: od anche qualche imitatore di don Alessandro, col proposito, più generoso che prudente, di assumere la difesa del debole contro il soverchiatore, massimamente se questo non sia troppo grosso, nè l'affare importi pericolo. Potremmo anche o maligni rivelare alcune fortunette che la boscaglia e la folla mal coprì; o morali compiangere tante che vennero a perder l'innocenza per festeggiare un giorno in cui l'innocenza fu salvata; e i molti che gozzovigliano un dì per digiunare una settimana coll'affamata famigliuola, e che non abbandonano il tumultuoso stravizzo se non dopo che la ragione è sfumata a rinforzi di bicchieri, e che il vino o la gelosia fece cacciar a mano i coltelli; — solite appendici delle sagre, solite conseguenze delle devozioni clamorose, qui ed altrove, ai nostri tempi e a quelli dei nostri buoni vecchi. A tutto mette fine la sera. Al domani ecco il luogo spopolato; pochi operai intenti a riporre le trabacche, a sgomberare il lieto apparecchio; poi tutto ritorna nel silenzio. Fronde intrecciate, rami aggruppati o schiantati, l'erba calpesta, qualche tronco abbronzato dal fuoco, reliquie di cibi, sono tutto quello che rimane del tumulto di jeri, che si rinnoverà da qui ad un anno per terminare ancora nel modo istesso. Così nell'anno dei secoli passano le generazioni. Quella che oggi a calca si affanna su quest'ajuola del mondo, dimani sarà scomparsa; agli splendidi clamori che oggi ne rintronano, succeduto il silenzio; al tumulto delle futili importanze, la solitudine, il disinganno del sepolcro; gli edifizii che noi ci architettiamo, verranno levati come il padiglione d'una notte: altre generazioni succederanno poi a tripudiare e gemere, a compiangere ed esser compiante, a soffrire e far soffrire, sintantochè, giunta a sera la loro giornata, daranno luogo alle successive; — nulla più ne indicherà l'esistenza, nulla se non le ruine. 1834. LA BATTAGLIA DI VERDERIO PREGATE PER LI POVERI MORTI NELLA GRAN BATTAGLIA TRA FRANCESI E AUSTRO-RUSSI QUI COMBATTUTA IL 29 APRILE 1799. Quest'iscrizione, apposta a un crocione di legno, piantato nei campi a pochi passi da Verderio Superiore, io leggeva tornando da una vicina sagra, il giorno di santa Teresa del 1833, — la leggeva forse per la ventesima volta, eppure, come la prima fosse, mi commoveva d'intima melanconia il paragone fra questa _grande_ battaglia di poche migliaia d'uomini e i _gloriosi_ macelli di Wagram e di Jena; mi commoveva quell'indistinto ricordo di tanti infelici, quivi periti, lontan dalla patria, sconosciuti, incompianti; uccisi non sapendo da chi; combattendo senza conoscere il perchè. Dove il masnadiere scanna un viandante per derubarlo, si pianta un segnale; e il passeggero vi recita un suffragio pel mal capitato, nè sa frenare un moto di sdegno verso l'omicida. Qui furono trucidati tanti insieme, sul campo della irrazionale obbedienza che chiamano campo d'onore: — appena la religione benedisse la tomba de' prodi, e rimosse la bestemmia da chi ne fu cagione. Questi pensieri mi teneano fermo, col capo scoperto e le braccia sul petto incrociate, dinanzi a quella croce, allorchè un vecchio, al quale io non avevo fatto mente dapprima, interruppe il mio meditare, dicendomi: — Ell'era ancora _in mente Dei_ quando avvennero quei casi. Ma io, ho proprio vedut'io con quest'occhi ciò che ella legge. Ingordo sempre d'ascoltare racconti da coloro che ne furono testimonii, e coi quali par che si prenda non solo interesse, ma parte, pensate se lasciai cadere quelle parole. — Mi volsi anzi ad esso pregandolo a ripetermi quel ch'egli sapeva di tali avventure. Sebbene più verso i sessanta che i cinquant'anni, era florido e rubizzo, talchè non gli disdiceva il fucile che alle spalle recava: sedea sopra un paracarri rasente la via; ed io, postomegli di fronte, attento l'ascoltavo, mentre egli così prese a dire: — Io era giovane, ben giovane e saldo prima di quei tempi; e servivo da lacchè nella casa degl'illustrissimi padroni di quel palazzo e di questi poderi. Quando a un tratto mutano le cose: i Tedeschi, i quali (chi sa da quanti secoli?) qui se la gavazzavano in pace da padroni, sono costretti a fare fardello, ed arrivano i Francesi, i Giacobini. Sa lei che differenza corre tra 'l venerdì e il sabato grasso? in quello, ciascuno attento a' fatti suoi, serio, operoso: al domani una baldoria, un correr all'impazzata, a travestirsi, a saltabellare; e fin gli uomini più assennati pigliare un ramo non so se mi dica di pazzia. Faccia conto che nè più nè meno avvenisse in quell'occasione. Allora non più arciduca, non più imperatore; abbasso le aquile, cancellati gli stemmi: ognuno mette al cappello una coccarda a tre colori; bandiscono che siano liberi tutti, tutti eguali, il padrone al villano, il nobile all'artiero, il servo al suo signore; e feste, e falò, e sulle piazze, pe' sagrati, da per tutto piantare un albero, che voleva dire la libertà e non aveva radici; e attorno a quello cantare, ballonzare, far scene e arringherie, sinchè il capriccio di qualche caporale, in nome della libertà, non interrompesse la baldoria. Lor giovani, è inutile, non ne vedranno più di vicende simili; ed io, se campassi dugent'anni, non mi uscirà mai di memoria il trapestio di quel tempo. Io non aveva mai veduto nè sentito altrettanto: giovane del resto e perciò volonteroso delle novità, se in sulle prime mi parevano follie, non tardai a pigliarci gusto come gli altri; come gli altri mi lasciai inorpellare, e mi credetti divenuto un gran che. Capperi! non ero io cittadino? non potevo dar del tu alla signora contessa, e dir cittadino al signor marchese? I ricchi, ai quali, un giorno peggio dell'altro fioccavano addosso pesi, imposizioni, angherie, dovettero tirar i remi in barca e limitare le spese. I nuovi predicatori poi trovavano crudeltà che un uomo dovesse correre a prova de' cavalli innanzi alla carrozza dei padroni, a rischio spesso di farsi calpestare, sicuro di rovinare la salute: onde l'uffizio mio di lacchè cessò; ed io non trovando di prender servizio altrimenti, se volli strappare un boccone di pane, dovetti tornare in paese. Merito dell'eguaglianza. Anche qui tutto era mutato, tutto sossopra. I miei compagni con festa m'accolsero; ed io imitando quel che avevo visto giù a Milano, feci piantar l'albero della libertà nel nostro e nei paeselli vicini. Ma che sto a dirle? Certo lei avrà udito contar queste cose delle volte chi sa quante; e poi loro leggono i libri dove si trovano descritte per filo e per segno. — Si; è vero (gli soggiunsi io), ma se sapeste come ognuno le narra diversamente, secondo che con diversi occhi le ha vedute, non vi farebbe meraviglia ch'io senta tanta voglia d'udirle da voi novamente. Quanto ai libri, poveretto chi vorrà dai libri giudicare que' giorni! Onde, ve ne prego, seguitate, e ravviatemi un po' su quei giorni che parevano promettere un procelloso e vivace secolo ad una generazione, destinata invece a passarlo mogia e dormigliosa. Ditemi almeno quel che accadde a voi in particolare. — A me? oh io feci quel che fecero gli altri, e messami la giubba verde e la tracolla rossa, entrai guardia nazionale: soldati senza soldo, che stavamo a casa nostra per far guarnigione al paese, e per salvarlo se mai venissero nemici. Se questi si fossero affacciati, io non so quel che avremmo fatto: so bene che, quanto sia alla quiete e al tenere sgombro da malandrini, non c'è a che dire, mai non s'è inteso d'una prepotenza qui intorno pel corso di que' tre anni. Io però era sazio di quel trambusto irriposato: non mi parea trovar poi quella fratellanza che predicavano, quel ben volersi un l'altro; massimamente mi dispiaceva quel vedere malmenati i preti, e disturbate le chiese e i sacramenti, e ne prevedevo poco di bene. In fatto la primavera del 99... allora dicevano ad un altro modo, perchè erasi mutato tutto, e fin gli anni e i mesi e le settimane, ma da noi non vi si dava ascolto, e la domenica si faceva festa, e a Natale si mangiava il panatone, e a Pasqua le uova e confessarsi. La primavera, come dicevo, del 99, s'intendono di strane novità, prima bisbigliate all'orecchio de' più fidati, poi si divulgano; che è, che non è; si scrive come 'l quale i Francesi scappano, e tornano i Tedeschi con Russi e Cosacchi e che altre genti so io, a ristabilire i troni e la religione. Allora un farnetico di saper di novità, anche noi villani, avvezzi un tempo a lasciar fare ai padroni, senza curarcene più che tanto; un continuo domandarci. _E sicchè? abbiamo notizie?_ E secondo si udiva _Hanno battuto; Furono battuti; Vengono; Si ritirano,_ alcune facce si facevano tanto lunghe, altre ridenti e giulive: come quando il sole mostrasi attraverso ai nugoloni, che ad un tratto fa lucente questo prato, mentre quel poggio sta nell'ombra, poi di subito sparge sul poggio la luce, e lascia il prato nell'oscurità. I più però erano quelli, che, tutt'allegrezza, esclamavano: _Tornano i Tedeschi; vengono i castigamatti; i nostri buoni, i nostri cari padroni; non più contribuzioni non più Giacobini, non più andar soldato; e la roba nostra sarà nostra; e i figliuoli nostri torneranno a star in casa ad essere obbedienti, e lasciar comandare a chi tocca. E quel ch'è il cap'essenziale, la religione si rimetterà in onore; potremo ancora far le processioni e scampanare finchè ci piaccia._ Mentre da noi si discorreva, quegli altri venivano. A Lecco, sentiamo dire s'è data una battaglia, come quelle scritte sulle gazzette: poi i Francesi hanno fatto saltare il ponte, e si ritirano per difendere Trezzo e Vaprio e Cassano. I Russi sono di là dall'Adda; onde le nostre contrade possono dormire i loro sonni in pace. Quando improvviso arrivano novelle di mala sorte; che i Russi hanno a Brivio varcato il fiume e si difilano adosso a noi, e quel ch'è il peggio, sputano fuoco, rubano che che trovano, bastonano gli uomini, malmenano le povere donne: fanno scempio de' Giacobini come degli Aristocratici, di chi conservò la coda e i calzoni, come di chi va zuccone e colle brache a pantaloni. Allora, amici o no de' Tedeschi e de' Russi, ciascuno dà spesa al suo cervello per ascondere quella poca grazia di Dio: è un corri d'ogni banda a tramutar le bestie, a sotterrare i quattrini, a trafugare ogni miglioramento. Ma dove? se nessun luogo era sicuro, se da per tutto arrivavano a grappare quelle picche maledette? Io, come tutti gli altri miei commilitoni, voleva ella che facessimo i valent'uomini contro un esercito? Prima nostra cura fu dunque di nascondere, chi sa dove, le nostre divise verdi e le coccarde, che guai se ce le trovavano! poi star aspettando, e pregare Dio che la mandasse buona. Quanto a me, non avevo nè genti, nè parenti; onde, seppellito alla meglio quel che mi avanzava, posi tanto di stanga traverso alla porta della mia casuccia, solo per non parere men savio degli altri: chè del resto tanto sarebbe valso il lasciarla spalancata; poi... Già la carne non mi pesava; uscito da un abbaino d'in sul tetto, con questo schioppo ad armacollo, la diedi per le campagne. Il mio schioppo, qualora l'ebbi a lato, mi sentii sempre valere il doppio: de' campi, de' boschi, nessuno più pratico di me, onde speravo campare, intanto cominciano a sfilare Francesi buzzi buzzi, senza quell'aria di me ne infischio dell'altre volte; e dietro a loro picchetti di Barbetti e Cosacchi, con facce da posali li, su cavalli che correvano come il vento: erano soldati di Bagrazion, di Rosemberg, di Wukasowich, d'altri nomi che adopriamo ancora per ispauracchio de' ragazzi. Venire e far netto era tutt'uno; sicchè la gente, vedendo che, gialli o verdi, era assai salvar la pelle, chi potè fuggire non rimase; e senza mancar maglia, chi qua, chi là se la batterono ai monti, alle cascine più fuor di mano, per cansare la mala ventura. Quanti n'ho io scortati che i giorni innanzi stavano tant'alto, e mi voleano rimangiare quasi fosse tornato il tempo loro; e adesso scappavano da coloro che tanto aveano ribramati! Davvero io me ne sentiva la bocca amara, e avrei voluto dar loro almeno una mostacciata: pure morsi la lingua, feci servigi a chi potei, e me ne trovo contento, ancorchè essi poi m'abbiano pagato di sconoscente arroganza, non più ricordandosi di quei lumi di luna, quando mi dicevano: _Carlandrea, sono nelle vostre mani._ Riderà lei, signorino, se mi sentirà, così vecchio, ragionare d'amore? Ma i' ero giovane allora come può esser lei, fra i venticinque e i trenta, e non ero il diavolo; e se pur ella verrà vecchie, come le auguro, le piacerà tornare col pensiero ai freschi anni, ai primi amori, principalmente se incolpevoli. Ha dunque da sapere ch'io da un pezzo parlavo colla Rita, figliuola d'una terriera di qui: una bell'asta di donna, capelli neri come la pece, occhi vivi come d'un pesce, ed ella pure voleva bene a me... Sua madre era aristocratica. La pensi! i partiti anche tra noi villani! aristocratici anche tra noi, che guai se avessimo ardito confrontarci al più spiantato fra i nobili! Onde la non voleva dare sua figlia a me, perchè ero repubblicante, e portavo il cappello sulle ventitrè e mozzata la coda; e ripeteva ch'ero un ciuffo; che, con tante gerarchie per la testa, non farei buona compagnia alla sua Rita. Povera donna! Parlava per fin di bene; ma e alla Rita e a me pareva nol dicesse per altro, se non perchè la avrebbe volentieri maritata col figliuolo d'un fattore di Merate, che da un pezzo la puntava. Adesso però che il pericolo era venuto, si vide chi di noi le volesse maggior bene. Colui, gambe mie! pensò alla propria pelle, e gli altri pensino alla loro. Io, in mezzo alla disgrazia, tutto contento di poter aiutarle, portai in sicuro il bello e il buono che avevan, poi dissi loro: _Donne mie, non è tempo di star accanto al fuoco;_ e di notte le avviai sul Montorobio, ove le riposi in un capannotto: vi stessero finchè passava quella scroscia; al vivere ci pensavo io; le nottolate le facevo in sentinella. Intanto il paese era venuto pieno di coloro, e cominciavano a farne delle sue... ma è più bello dimenticarle. Che brutta cosa è la guerra! Ma lei, signorino, che sa di lettere; dica mo, non si potrebbe farne di manco della guerra? E accomodarsi come noi villani accomodiamo le nostre baruffe, dando un colpo al cerchio, uno alla botte, senza venire alle coltella? E quei che sono causa di tanti mali, può far Dio che godano pace, e che intendano salvar l'anima? Impacciato io gli rispondeva: — Voi vedete che la facevano con buona intenzione, per tornare il paese in quiete e in bene. Carlandrea s'attese un poco, poi tentennando il capo, ripigliò: — Appunto come se io, vedendo che il mio vicino sciupa il suo, gli entrassi in casa, e dessi mazzate su quel che rimase di buono, e appoggiandone a lui delle sonore, gli rompessi le braccia perchè non potesse più far del male. Io non potei non sorridere; ma quando l'informai che v'erano libri che trattavano dei diritti e dei modi da tenersi nel far la guerra, mi guardò con una ciera incredula, e soggiunse: — Probabilmente avranno per testo, _quinto non ammazzare_. Io m'accorsi che l'uomo era troppo vecchio, o forse troppo nuovo di sì fatte materie, sicchè si potesse sperare di vincerlo coi grandi argomenti dell'averlo detto altri e dell'essersi sempre fatto così: onde compatendo la sua caparbietà: — Eh! queste cose è un pezzo anch'io che le rimeno pel pensiero; ma per manco male non pizzichiamo questa corda; tanto più che il rimediare a tali sconci non dipende nè da voi nè da me; e coloro che li cagionano odono soltanto le vittorie ed i _Te Deum_. Poi ci ha di mezzo tanti altri garbugli, che la più sicura è portarseli in pace come la febbre, come la gragnuola. — Oh quelle (ripigliava Carlandrea), quelle vengono da Dio: ma coteste... Basta: la dice bene; lasciamola là. Come dunque le contavo o volevo contarle, un dì, per procacciar da vivere (pane, s'intende, o farina ed uova e qualche uccello che mi capitasse sotto al tiro) io m'era discostato alquanto, allorchè rivenendo, vedo — oh cosa mai vedo! Due di coloro, in giulecco verde, con certe bracacce larghe, legate ivi su d'una cintura rossa, berretto rosso al capo, gran barba: le picche aveano confitte in terra, ed un di loro batteva in malo modo la madre della mia Rita, mentre l'altro, lattosi contro di questa, voleva strapparle gli orecchini, torle il vezzo dal collo, e chi sa qual cosa di peggio. Pazienza, a rivederci! Senza sapere quel che mi facessi, spiano il fucile, nè stando a dirgli _guarda,_ traggo — lo ammazzo. Al tempo istesso, gridando a quanto me ne usciva dalla gola, mi difilo verso quell'altro. — Costui, come insieme udì il colpo, vide il camerata spacciato, e me in atto di volerlo sorbire, saltò su, e urlando _Urah, urah, Franciosi, Giacobini,_ traboccossi a rotta di collo giù per le pancate de' vigneti. Io gli feci volar dietro alcuni ciottoli, che tristo lui se lo coglievano: poi parendomi averne buon partito dal vedergli le spalle, tornai a confortare quelle povere donne. Ho fatto male, eh? Capisco anch'io: un uomo, sebben nemico, sebbene russo, l'ammazzarlo è un caso grosso. E chi sa? forse colui (che Dio gli abbia perdonato!) aveva moglie e figliuoli e padre e madre, che stavano ad aspettarlo, e che forse pregavano per lui nel momento ch'io lo spacciava. Ma d'altra parte che potevo io fare? solo contro due armati, non sarei bastato; e la violenza che facevano a quelle buone creature, mi parea giustificarmi. Io ne ho sentito rimorso, sallo Iddio; e a Dio ne ho domandato perdono e glielo domando ogni dì; e temo sempre che, in punto di morte m'abbia a tornare innanzi quel cadavere, quale io lo vidi dar i tratti e spirare. Quanto agli uomini, me n'han fatto far la penitenza la parte mia. Per allora, trassi di colà le donne più morte che vive, e le condussi giù verso l'Adda traverso ai boschi! Nel fuggire, quale spavento di vedersi tutti i momenti addosso a coloro! ogni foglia che stormisse, ogni stridir d'uccello, ogni frascheggiare di lucertola, _Sono loro, sono i Russi!_ Quante volte un albero parve un uomo, che le faceva gelare, ed invocare l'angelo custode! Ma quel che era vero, udivasi un continuo fucilare, un cannonamento, come il tuono d'agosto. _Gesù, Maria; abbiate compassione di tante povere anime!_ diceva la Rita. — _E de' poveri loro parenti_, soggiungeva la madre, perchè ben ci accorgevamo che si faceva battaglia. Di fatto abbiam saputo di poi che i Francesi, guidati da Serrurier, si ritiravano dinanzi agli Austro-Russi, finchè, ributtati in questa campagna appunto, fecero testa, combatterono come leoni; e sebbene assai minori di numero, la fecero pagar cara ai nemici, ed ammazzatone un buon dato, si gettarono nel palazzo che vede là, dell'illustrissima casa, e si difesero tanto da ottener un'onorevole capitolazione, che, invece del castellano, fu firmata dal fattore, mio compare, e se n'andarono. Io frattanto avea portate di là dall'Adda le donne, ove nessun male ebbero, altro che la paura. — Dopo che il paese fu smorbato, e le cose ripresero assetto, le rimisi in casa loro: tornai io pure nella mia stamberga, che trovai spazzata senza scopa; ed era un non parlar d'altro che dei rubamenti, delle violenze, della battaglia, de' morti, di mille casi stravaganti e atroci. La Rita e sua madre (benedette donne!), per quanto avess'io raccomandato di tacere, nol seppero; e per gratitudine cominciarono a dire: _Se non ci fosse stato quel figliuolo!_ e _L'abbiamo scampata bella!_ poi contarono il fatto ad un'amica, questa ad una parente, la parente a suo marito, e questi al suo vicino; e in pochi dì lo seppero il console e il comune; e dicevasi ch'io aveva accoppato un Russo; poi le male lingue (ve n'ha per tutto) aggiunsero due, e quattro, e che gli assalivo di tradimento, e che li svaligiavo. Gente che vuol male non ne manca a nessuno; ed io, nei tre anni percorsi, col fare il bizzarro, m'era fatto togliere in tasca da parecchi; e questi non tardarono a soffiar la cosa all'orecchio delle nuove autorità costituite. Sonavano certe campane, che non pareva un tempo da far credenza. Fior di galantuomini, signori de' primi, e preti e autorità si udiva che erano stati messi alle strette, e cacciati sa Dio fin dove e fin quando: onde gli amici mi dicevano, _Quest'aria non fa per te, Carlandrea;_ i nemici mi guardavano con certe ciere, che volevano dire, _Non isperare di levartela liscia._ Il fatto fu che, volendo essere uccello di bosco e non di gabbia, salutai la mia Rita e sua madre, che tanto più stavano in affanno, quanto si conoscevano causa del mio male: e imbracciato il mio fucile, mi immacchiai. Ma di scostarmi non mi dava l'animo. Stavo un giorno senza vedere il piccolo campanile del piccolo mio villaggio? parevo un pesce fuori dell'acqua; mi crepava il cuore, e bisognava tornassi. Spesso anche la sera volevo arrivare sino a casa della Rita. Il resto me lo facevo pei campi e pei boschi, e dormivo alla stella: al tempo dei lavori di campagna, m'esibivo a qualche contadino per ajutarlo di costa: ammazzavo qualche uccello, e tanto tiravo innanzi. Però quel vivere su per su, non dormir mai nel proprio letto, non trovarsi fra' suoi amici, non saper mai quel che si farebbe domani, e stare continuo col batticuore di esser côlto, e passare fin le domeniche senza messa; quel fare insomma la vita del ladro e del bandito, non era pane pe' miei denti. Cattive azioni, lo sa Dio, non ne ho mai commesse: ma intanto non potevo portar il mio cappello fuor degli occhi: m'accostava ad alcuno? Lo vedeva sbirciarmi con quell'aria adombrata, che fa tanto male a un galantuomo. Per istracco, io risolveva di farne dentro o fuora, e di andar io stesso a consegnarmi alla giustizia. — Finalmente che possono farmi? Narrerò come è passata la cosa; le donne mi serviran da testimonio: male in vita mia non ne ho fatto mai, nè avrei dato un buffetto al mio peggior nemico: quella fu difesa necessaria, ed anche il signor curato, quando spiega il Bellarmino, dice che non si può ammazzare, dice, se non per difendere sè stesso. Poco su poco giù, è stato il caso mio. Parlavo male? Non ci pensi però; che se io mi aspettava acqua, le furono tempeste. Andai a Merate a consegnarmi: esposi il fatto al signor cancelliere; e questi mi disse: _Voi siete reo d'omicidio proditorio; di più, siete conosciuto per giacobino; il quale ne ha dato prova questo fatto istesso:_ e quando io voleva rispondergli le mie brave ragioni, egli mi fece chiuder in carbonaja a contarle ai birri. Dio lo scampi dalla prigione, signorino! I disagi, le privazioni, le mortificazioni, i soprusi de' carcerieri già son un annesso e connesso, come il ribrezzo alla terzana. Pazienza anche, quel che è peggio di tutto, la noja del non far niente. Ma quel che non sapevo recarmi in pace fu il lasciarmi mesi e mesi, come fecero, senza, non che dar esito ai fatti miei, nè tampoco interrogarmi. Tante belle ragioni io m'era disposte sulla lingua a mio discarico: se il signor giudice dirà così, io risponderò così: se mi apporrà questo, io gli replicherò cotesto: son a cavallo; un lavacapo, e mi rimanderà. E ogni giorno credevo fosse quello d'ottenere udienza, e ogni toccar di catenaccio era un palpitare di speranza che venissero a interrogarmi: ma ogni dì passava un dì, ed io a rosicchiare le unghie; e la speranza con cui m'era svegliato, mi rodeva ancora il cuore nel raddormentarmi. Deh se allora mi pareva preziosa la libertà! deh come lo stridere dei sorci, mia unica compagnia, mi faceva ricordare quant'è delizioso il cantar del grillo e il pigolare dell'allodoletta all'aperta! Io pensava tra me e me: — Alla fine son io spazzatura di strada? non sono un uomo, un cristiano come loro? eppure non mi badano, più che alla terza gamba; e forse quei che mi dovrebbero giudicare se la passano in pace colla coscienza loro, senza un rimorso del male che cagionano, delle lagrime che scorrono per loro negligenza. Ecco bella maniera di mettermi in amore, se fosse vero che li odiavo! Fallerò, ma mi pare sia il modo di disamorare anche i loro benevoli. Che ne dice ella? Io sorrideva, e crollando il capo, ne dava una presa a Carlandrea, il quale mutando tono proseguiva: — Così passa un mese, passano due, passa l'intero inverno; quando tutt'in un subito si vede una strana mutazione; e i carcerieri, capisce lei? i carcerieri divenire mansueti come uomini. Che è! che fu? Ella sa bene che cos'era. Quegli altri avevano dovuto far fagotto un'altra volta: i Francesi tornavano: e un bel dì ci aprono i chiavacci, e _Andate in pace_. Ha veduto ella mai dei tordi scappar dalla ragna? Tal quale noi. Io saltava tant'alto: corsi senza voltarmi indietro giù pei sentieri, traverso ai campi: che siepi? che fossatelli? che frumento? Ah! riveder il suo paese è pur sempre gioconda cosa. Ma a chi esce da una prigione! a chi dal tanfo di quattro mura trovasi reso all'aria aperta, alla dolcezza di fare quel che vuole, d'andare dove vuole, all'onore di galantuomo, al parlar liberamente, al credere quel che v'è detto, all'essere creduto quel che si dice[8]. Volai dalla Rita. Poverina, se era stata dolorosa tutto quel tempo! Ma ora i crucci erano finiti: i Francesi tornavano, ma più quieti, più docili, più religiosi: un ordine, un'armonia da non dire; e i partiti trovavano il loro conto a mettere a monte gli odii, dopo essersi ciascuno alla sua volta fatto il più male che potevano; tutti avevano sofferto e fatto soffrire abbastanza per accorgersi che si fa tristi avanzi dal far male: beati quelli ch'erano divenuti savi dei danni altrui! La somma fu, che tra breve si fecero le nostre nozze, e io rizzai casa, badai ai fatti miei, e contento come un frate, tornai camparo dell'illustrissima casa, e ci sto da trentadue anni, e va pei trentatrè; e la conto, e mi è dolce il rammentare quante cose ho visto cambiarsi intorno a me. Vede là una vecchierella crogiolata sulla soglia di quell'uscio, con un bambino sulle ginocchia, e un altro che le fa chiasso ai piedi? È la vivace, la leggiadra Rita, coi figliuoli del nostro figliuolo. Ved'ella questa pianura di campagna, tutta piantata a gelsi, tutta ricca di grano turco? Io la vidi rasa come questa palma di mano, con terrapieni qua, e là fossati, con vestigia di fuochi, di spedali, di trabacche, e quel ch'è peggio, sparsa di sangue, di morti, di feriti, e gente ingorda che andava a frugarli per cavarne di tasca alcuni quattrini, e spogliarli di quei pochi cenci. Molti anni non passeranno, e nessuno più se ne ricorderà: più nessuno dirà un _requiem_ ai morti della battaglia di Verderio. Ma noi, noi ogni sera, quando di brigata si recita il rosario, preghiamo pei poverini, morti in quella; e insieme pei carcerati, per chi milita lontano da casa sua, per chi fa soffrire tanto agli uni e agli altri. Così mi raccontava l'ingenuo Brianzuolo, mentre io vagava per quelle campagne a far tesoro di sensazioni gioconde ed innocenti, cui potessi ripassare fra i disaggradevoli tumulti o le accidiose noncuranze della città. E ben m'avvenne di dover in breve, gemendo senza conforti e protestando senza fiducia, lento lento ricorrere su ciascun più minuto particolare di quelle memorie, di quei discorsi, di quella semplicità che m'avea procacciato la dolcezza così soave di scendere in un cuor buono, e ritrovarvi, per istinto di retto sentimento, quello a cui giunge a fatica la scienza meditabonda e presuntuosa. 1834. NOTA _La gioja della liberazione dal carcere fu dall'autore espressa in questo_ DITIRAMBO. Quante volte lo sognai Questo giorno avventurato, Poi svegliato — disperai Che dovesse più brillar! Vi saluto, o conscie stanze Di domestici contenti, D'incolpabili speranze, Di tranquillo meditar. Questa notte, nel mio letto, Rotti i sogni non mi fièno Dal fracasso, dall'aspetto D'esplorante carcerier: Nè sull'alba in suono atroce Chiavi e sbarre ripercosse, Ma de' miei la cara voce Desterammi a bei pensier. O mie carte, o libri amati, Dolce causa de' miei guai, Quanto mai — non v'ho bramati Fra l'inerzia che passò! Al colloquio non temuto Riederò d'un labbro amico; Ciò che dico fia creduto Ciò che ascolto crederò. Diletti a questo cor, Al vostro sen stringetemi: Ecco, son salvo ancor. Ditemi la parola Che tempera le lagrime, Che il lungo duol consola. E nostra madre ov'è? Misera, quanto piangere Dal dì che mi perdei Ristoro ai gravi affanni, Sua compiacenza e gaudio, Speme de' tuoi tardi anni, Nuovo a' suoi figli padre, Perdermi, e così perdermi... Deh quanto duolo, o madre! Ti sovvien quante volte, alle mie cure Benedicendo, dolcemente mesta, Il ciel (dicevi) sosterrà te pure? Ed io che rispondevo? Ah non è questa La terra dove sia compenso ai buoni; Terra al tristo benigna, al pio funesta Ma s'abbia il mondo i suoi venali doni; E a chi la viltà sua svelar non teme Tòrsi al brago volgar mai non perdoni. A meta più sublime ergiam la speme: Ad un premio maggior d'ogni desio; Lo sposo tuo lassù ci attende, e insieme Là canteremo unitamente a Dio. Quei detti oh sovente — ti corsero a mente Allor che il tradito — tuo figlio innocente Udisti rapito — coi ceppi sui piè. Piangesti, pregasti: ma il prego, ma i pianti Che il forte respinse, del Santo dei santi Ascesero al soglio, trovaron mercè. Son salvo! deh cessa le lunghe querele; Son salvo; abbia posa la tema crudele: Il figlio redento deh corri abbracciar: Coi pochi che fidi provò la sventura, Con questa risorta famiglia sicura D'un gaudio implorato deh vieni esultar! Voi piangete, o fratelli, o sorelle, Come il dì che fui svelto a' miei lari? Questo è pianto di gioja; ma quelle, Strida furon di duol, di terror. Io tacente, col volto dimesso, A me stesso, — a miei cari pensava. Là da canto — a' chi il pianto — inaccesso Di tumulto imputava il dolor. E partirmi, e lasciarvi, sicuro Di lasciarvi ai bisogni, all'ambascia, Nè veder su alcun giorno — futuro Del ritorno — la speme brillar! Se soffersi! L'udrete al loquace Focolar nelle placide sere. Abbian essi il perdon, noi la pace Qui raccolti al domestico altar. All'altare di Maria Qua concordi ad inneggiar Adjutrice e madre mia, S'io la debbo ringraziar! Quando l'ansia e lo sgomento Tenebravami il pansier: Quando sogni di spavento Fean di spine l'origlier: Dell'iniquo allor che il braccio M'addoppiava un vil rigor, Minacciando un ceppo, un laccio Con sogghigno insultator, Sollevai con fè la palma Alla madre di Gesù, E sentii conforto all'alma Di pacifica virtù. — Tanto duol sul capo mio Cumular, Maria perchè! _Avea colpa il figlio mio?_ _Pur soffrì tanto per te._ — E mia madre? Ahi trista! solo Vive al pianto i pigri dì. _Ancor io fui madre; e duolo_ _Pari al mio chi mai soffrì?_ — E ai fratelli, anzi miei figli, Chi più il pan dividerà? _Quel Signor che veste i gigli_ _L'orfanel non lascerà._ — Spunterà mai giorno lieto? Riederà la gioja al cor? _Non si sale all'Oliveto_ _Che pel calle del dolor._ A te s'alzarono Concordi i voti; Concordi or sorgono Gl'inni devoti, O madre, figlia, Sposa all'Eterno, Che a pro del passero Mitiga il verno. Me la tua grazia Salvò; ma quanti Ancor nel carcere Gemono in pianti! Quante t'innalzano Voci dogliose E suore italiche, E madri e spose! Ti piaccia accogliere Fausta que' lai. E poni un termine Ai fieri guai. Apri ai lor miseri L'orrenda stanza: Rendi alla patria Tanta speranza: Di quei che soffrono Tempra il martire, O madre, e mitiga Chi fa soffrire. 1834. IL CASTELLO DI BRIVIO Del gaudio nell'ore, Nei giorni — del duolo Mi torni — nel cuore, Paterno mio suolo. I. Tutto è festa nel castello di Brivio. Una fiamma divampante sul battuto della torre angolosa, dirada le tenebre della notte: cento barchette illuminate vogano al suo piede, gridando viva e riviva; viva e riviva echeggia più esultante nell'interno, ove dieci signori delle vicine terre nella sala d'arme, nell'altre minori i vassalli e gli scudieri, fra le spumanti tazze del vino orobio, alternano i brindisi a Oldrado barone del castello; Oldrado, il paventato caporione de' Guelfi qui intorno, che oggi, dalla torre che domina Gallusco e Villadadda, menò sposa Ermellina, figliuola del signor Colleone, ghibellino famoso. Oldrado compone il viso a quel più cortese che può un uomo cresciuto continuo sotto la corazza, fra gli amari gusti della prepotenza e della vendetta, guardando gli uomini non collo scontento di chi troppo li conobbe, ma col disprezzo di chi mai non curò di conoscerli; di chi non vide in quanti gli erano attorno che, od eguali da superare od inferiori da opprimere e sagrifieare a' suoi fastidii superbi; di chi mai non apprese la bellezza della virtù, la consolazione del far bene, l'ebbrezza dell'amare, dell'essere amato. Gradiva egli e ricambiava gli augurii; ma tra le rughe che l'orgoglio dapprima aveva tracciate, poi l'età rese stabili sul suo volto, lasciava trapelare l'impazienza d'una gioja che a lui pareva ingannevole e adulatrice; e colla sinistra ad ora ad ora impugnava spensieratamente il pomo dorato dello stilo, che mai dal suo fianco non dipartiva, lo stilo ministro di sue vendette. Fra le vezzose donne radunate a nozze spicca in tutta la leggiadria di sua giovane persona la biondissima Ermellina; e figurandosi in tutte un cuore ingenuo come il suo, con naturale cortesia risponde ai festivi mirallegro ed alle argute allusioni. Ma la sua gioja non è intera. Nata a liberi sensi e gentili, capace di conoscere e pregiare il bello, in quella cara età quando l'amore è un istinto, non un calcolo, quando si crede e si è creduti, ella vide il trovadore Tibaldo, d'età fiorito e di bellezza, venire dal patrio Merate nelle paterne sale di lei, rallegrando i lauti convivi colle gradite romanze: lo vide, conobbe lo splendore dell'ingegno di lui, la pietà del suo cuore, e poteva non amarlo? Oh quel giorno! — era un bel giorno sul mezzo del vivace ottobre, quand'egli, cogliendo una viola del pensiero, gliela presentò, e — Vi duri la memoria mia anche quando questo fiore sarà appassito. Non gli fece ella risposta che d'un sospiro. Ma in quella sopravvenne la indovina di Pontida, la vecchissima che dicea d'aver veduto, due secoli prima, giurarsi nella sua patria la Lega Lombarda e pronosticava dover vivere fino ad un infame tempo quando più niuno quella Lega ricorderebbe; l'indovina venerata e temuta, sfuggita ed implorata, creduta da chi santa, da chi maliarda. Ed — O garzoni (esclamò) voi finirete i vostri giorni l'uno all'altro abbracciati. Da quell'istante, il memore fiorellino, imitato coi biondi capelli della vezzoza, fregiò sempre il petto del damigello: da quell'istante fu il sogno d'Ermellina, fu l'oggetto d'ogni sua preghiera il potere un tempo chiamar suo Tibaldo, la delizia di svegliarsi carezzevole sul seno di lui, l'orgoglio di essere da tutti accennata come la donna del migliore di quanti, là intorno cantavano rime d'amore. Speranza ahi svelta in erba! E fra i tripudii d'oggi non le si toglie dalla mente il disperato dolore dell'amico, l'addio — parola sì dolce e sì lugubre — che le lacrimò per l'ultima volta. Che se, piena di quella cara immagine, essa leva lo sguardo al suo signore, scorge un irsuto guerriero, il cui nome ella imparò a paventar da bambina; mille volte lo udì esecrare da' domestici suoi, mille volte supplicò agli altari perchè nelle fraterne battaglie non le scannasse il padre, i congiunti. Ma dalle fraterne battaglie uscito vincitore, grave patto egli impose al vinto Colleone, di diroccare metà della torre che domina Callusco e Villadadda: e dargli sposa l'unica figliuola. Or come amarlo? Come cancellare dalla memoria un primo, un unico, un immacolato amore? Intanto va morendo il suono ed il luccicor della festa; Oldrado congeda la brigata: tutto ritorna al silenzio; solo l'aura notturna leva sulle ali e confonde un gemito ed una fievole armonia; è il gemito dell'Ermellina che rimpiange i sogni di sua giovinezza; è il lamento dell'amoroso Tibaldo. II. Corse un anno da quel giorno: e al nuovo maggio, sull'angoloso torrazzo di Brivio sventola, distinto di fasce bianche e vermiglie, lo stendardo del barone, che richiama alle fraterne battaglie. Papa Gregorio XI perdonava i peccati a chiunque assumesse le armi e la croce contra i signori Visconti di Milano; ed all'appello assecondando, i Guelfi della Martesana forbivano ogni arma, dalla lucente alabarda fino al coltello traditore. Grandi baldorie fiammeggiano sulle vette del Mombarro, del Montorobio, del Sanginesio, del Monteveggia; il campanone di Brianza tre dì e tre notti rintoccò; tre dì e tre notti squillò ad intervalli il corno dei torrioni di Brivio, dove al quarto son tutti radunati i guerrieri. Qui gli Annoni d'Imbersago, i Medici di Novate, i Riboldi di Besana, i Petroni di Cernusco, gli Ajroldi di Robbiate: qui i Capitanei di Hoe e di Mombello: qui coi loro vassalli Oldrado da Giovenzana e Guglielmo da Sirtori. Pagano Beretta guida i Cornaggi da Bernareggio: ai terrieri di Lecco accenna Cressone Crivello: prete Pietro va innanzi ai Corradi dei Licurzi, portando la croce, segno d'amore e di perdono, sotto la quale vanno a commettere odii e stragi. La fazione dei Melosi di Vimercate segue Obizzone da Bernareggio, il più largo posseditore della Martesana: l'abate di Civate mutò la cocolla e il pastorale nella lancia e nella corazza. Forti nella concordia dei voleri, che non avrebbero potuto? Ma, sciagurati! come il pugnale mal chiuso nella vagina taglia la mano che l'impugna, sciagurati! corrono per guadagnarsi il paradiso coll'ammazzare, col farsi ammazzare — e sono fratelli. Ma nel feroce tripudio della vendetta e della strage più vivamente Oldrado esultò: e la memoria d'antichi oltraggi, le guerresche abitudini, il furor di parte, l'amore della preda gli traspajono dalla fronte più del consueto corrugata. La guerresca ordinanza fuor del castello difilavasi, quand'egli scende dall'echeggiante scalone; scende affibbiandosi al giaco di maglia lo stilo del pome dorato, ministro di sue vendette: e ad Ermellina, che gli viene timidamente a fianco, rinnova una tante volte replicata querela perchè sì fredda esprimesse l'amor comandato. Oh! chi compera un'arpa, compera forse insieme la virtù di destarne le armonie divine? La bella, fra il dover amarlo e il sentire di non poterlo, guardava il signor suo colla calma della rassegnazione: non seppe reggere lo sguardo onde, traverso alla bruna visiera, egli la fiammeggiò, quando, già montato in arcione, le strinse la mano, e addio. Spronò il bajo corsiero, ed ultimo fece sonare colle ferrate zampe il ponte levatojo, che dietro lui si alzò. Procedevano i battaglieri tra' tuoi poggi ridenti, o mia terra natale; e qualche villanella, mal nascosta dietro ai penduli tralci, con desio cercava il noto cimiero del suo vago: l'agricoltore appoggiato alla marra, li guardava, pensoso ai campi ove porterebbero la ruina: e qualche vecchio, rivolto sull'utile pensiero del sepolcro, compassionava i tanti prodi, che forse tra un mese non sarebbero più, siccome l'erba che calpestavano passando. Ma essi in loro coraggio spensierato, venivano confusi, inordinati, vari d'arme e d'arnesi: e chi rassettavasi al petto la croce; chi a tempo incioccava la lancia sul palvese; chi riandava i compianti consigli d'una cara abbandonata; chi millantava sue passate venture: chi intonava quel carme di guerra usato dai Brianzuoli: Alla morte col sorriso Il crociato se ne va: Dalla pugna al paradiso Il crociato volerà. Su, destiamo i corpi e l'alme All'invito del Signor: Ci s'intreccino le palme Del martirio e del valor. III. Ben altre melodie quella sera stessa e la seguente scossero dolcemente l'aria sotto al castello di Brivio. Da una barchetta un maestrevole arpicordo accompagnava le canzoni del paese, le canzoni depositarie dei dolci e dei magnanimi sentimenti che di memorie nutricavano le speranze dei miei Brianzuoli, finch'essi non dimenticarono di avere una patria. Le quali, celebrando le prodezze e le cortesie, or rammemoravano la gentile Ferlinda contessa di Brivio, allorchè vedovata, d'ogni aver suo fece dono alla cattedrale di Bergamo per salute dell'anima: or imitavano il pianto penitente, onde, nella rocca di Lecco, Guido da Monforte scontava il sacrilego omicidio; or ripetevano all'indignata pietà i nomi e i fasti de' nobili Briantei, scannati dai Torriani. Ma il cantore cominciava sempre, sempre finiva con una romanza, soavemente melanconica, siccome la ricordanza dell'amica lontana. E diceva D'ottobre rorida Tacca la luna Sovra la limpida Crespa laguna; Tremulo zefiro Lambiva i fior; La luna e il zefiro Parver più lieti Quando, fra murmuri D'amor segreti, Cedesti a un trepido Bacio d'amor. Sorriser gli angeli Alla primiera Gioja d'ingenua Fede sincera, E il tuo congiunsero Col mio destin. D'allora, al giubilo, E al pianto insieme, Insieme al fremito Ed alla speme, La morte colgami A te vicin. Quel dì, chinandoti Sul letto mio, Tra 'l prego flebile, Tra 'l rotto addio, Senza i rimproveri D'un reo pensier, Sul fronte madido, Sui muti rai, Quando a me l'ultimo Bacio darai, Ripensa al trepido Bacio primier. Fra il sonno degli uomini e il silenzio della notte, saliva quell'armonia alla solinga stanza d'Ermellina, che conosceva la voce di Tibaldo; conosceva le arie, use a cercarle la via dei cuore quand'egli veniva rallegrando i paterni convivii; conosceva la romanza onde, al tempo dei dolci sospiri, le svelò primamente le sue timide speranze. L'accoglieva nelle cupide orecchie, e sola — quanti cari pensieri, quante memorie s'affollavano intorno all'accorata! e i desiderii, e il dovere, e il profetare bugiardo dell'indovina di Pontida, e i fulgidi occhi del Trovadore, e il severo piglio del signor suo, e l'aver potuto essere felice e il dover non appartenere a quello cui era appartenuta per tutte le sue speranze; tutti i suoi piaceri, tutti i suoi dolori — e piangeva, piangeva dirotto. Così un mese durò, così due, contenta e spossata della sua resistenza. Ma troppo rozzi erano que' battaglieri; troppo era lunga la lontananza: troppo lusinghevoli i Trovadori. Una volta Ermellina s'affacciò alle dipinte vetriate del balcone — guai, o fanciulle, al primo passo! — un'altra le aperse; poi vi dimorò alquanto: la sera seguente uscì sul verone al discoperto: che più? discese alla porticella di soccorso che riesce sul lago, e tolse dentro l'amoroso. — Sentenziatela voi, leggiadre donne, che per prova intendete amore. Da quella, che sere avventurate! Delizie sempre eguali e sempre diverse; cento cose a dire e cento volte replicare le stesse; e un'ebbrezza crescente più l'un dì che l'altro, e più l'un dì che l'altro indugiato il momento del distacco. Nè più fantasie di guerra o sventure di innamorati insegna il Trovatore alla laguna: ma dolcezze e festività e il giocondo spettacolo della bellezza, e i voluttuosi baci delle colombe, e i tripudii delle corti bandite e delle gare d'amore. Si perigliavano intanto i guerrieri di Brianza nelle fraterne battaglie: al biscione de' Visconti soccombeva la croce dei Guelfi, che, invano benedetti, andavano di rotta in rotta, di fuga in fuga: sicchè di là del lago di Brivio, diffusi per bande tra le gole della val San Martino, avventavansi ad ora ad ora nel ferro, e con inclite prove facevano a Barnabò amara la vittoria, se dovette comprarla col sangue d'Ambrogio suo figliuolo. Ma quei tumulti che fanno a Tibaldo, ad Ermellina? oh la gioja loro, oh i loro affanni non pendono dall'evento delle battaglie fraterne. La delirante esultanza del presente, e nulla più in là. Il silenzio, dio de' fortunati, copre le mutue delizie, a cui li conduce il cantar dell'usignuolo, da cui li diparte il pigolio dell'allodoletta. — Deh cedesse più tosto il sole l'imperio del cielo alla mite stella della sera! Deh l'aurora indorasse più tardi le vette dell'Albenza! Domani, amor mio, per quanto bene mi vuoi, torna più presto domani. IV. E al domani, come appena intese la barchetta fender le onde e soffermarsi, Ermellina scendeva e tra via via rassettandosi le biondissime chiome sulla fronte e la stola sul petto, che prelibando le delizie, saliva e scendeva più ansioso che mai. Apre lo sportello — ma che? Invece della morbida destra dell'amante, qual è questa che tanto aspra l'afferra? Invece del velluto della cilestre casacca, ha toccato una ferrea armatura: invece delle piume cascanti con vezzo dal roseo tòcco sulle fiorite guance di Tibaldo, fissa una negra celata; e attraverso la bruna visiera ha riconosciuto Oldrado. Il quale ghermitala, senza far motto la trae nel battello, e batte la voga. Essa, la costernata, assisa tacente in su la prora, non osava levare gli occhi sull'oltraggiato: e prima li teneva colle supine palme velati; poi, quasi cercando una consolazione in quell'universale abbandono, li girava intorno. Era una di quelle limpide sere, in cui tanto è soave solcare l'increspato zaffiro delle onde, soli con una sola che c'intenda e ci risponda. — Ma per Ermellina! La luna, dalla piena faccia versando i silenzi di sua luce sulla natura, mostrava all'afflitta sul poggio lontano la torre del palazzo, ove gioito aveva, fanciulla imprevidente d'un infausto avvenire: più da presso il campanile di Pontida, ove la vecchia indovina le aveva predetto che finirebbe i suoi giorni abbracciata all'amato giovinetto: ecco la portella ov'egli primamente le tese al collo le braccia. — Oh! tu almeno sei salvo, amor mio tu rimani a compiangere chi doveva vivere solo per te, chi per te muore. Povera Ermellina! In brevissimo tragitto prendono spiaggia al dosso della vicina isoletta. Oldrado trascina di barca la donna: pochi passi ed... ahi vista! su l'arena giaceva resupino Tibaldo: avea fisso in petto lo stile dal pome dorato, e le sue dita premevano sulle tiepide labbra una viola del pensiero, tessuta di biondi capelli. Mise un grido la disperata, cadde sovr'esso, confuse il suo coll'ultimo sospiro di lui; e neppur sentì il pugnale che, tratto dal cuore dell'amante, le fisse e rifisse nel suo l'adirato: poi la precipitò nelle onde, abbracciata al troppo diletto garzone. — Ahi, come s'adempiva il presagio dell'indovina di Pontida! I poverelli, usati venire dalla pietosa a mendicare il tozzo, più non la rimirarono, esilarata nel piacere del benefizio: invano l'attesero le forosette ad avvivare di sua presenza le baldanzose carole del giorno festivo o della vendemmia; i Francescani, che da Sabbioncello e da San Rocco venivano alla cerca, si videro mandar al convento larga limosina per celebrare suffragi, e l'ordine di non tornar più. V. E Oldrado? Le sentinelle più non alternano dagli spaldi l'allarme, più la saracinesca non si rialza all'entrata del castello. Per un pezzo corse voce ch'egli fosse andato colla vinta sua fazione in esigilo, ma quando Gian Galeazzo Visconti perdonò ai nemici, e, di salute affidati, tutti i Guelfi nostri risalutarono il sorriso de' tuoi colli festanti e l'olezzante sereno delle tue aurore incantatrici, o mia Brianza, Oldrado solo non ritornò. Variamente ne fu che dire per tutti i contorni, ma nessuno colse nel vero. Però la vecchia indovina, a chi la interrogava se ne sapesse, rispondeva col no misterioso di chi vuol far intendere che sa tutto: finchè, passati dieci anni e dieci giorni, essa raccontò la storia a pochi, e troncandola sulla fine, batteva del piede in un certo luogo del castello. E quella storia la ridissero poi gli uomini a chi chiedeva quali erano i padri nostri; la ridissero le vecchie alle fanciulle che domandavano quanto gran colpa fosse il bacio d'amore; e corse di bocca in bocca fino a un tempo di sbigottita noncuranza, quando nessuno più impedì che i colpi delle sciabole o la ruggine della pace consumassero foglio a foglio le nostre memorie. Ed io fanciullo coi fanciulli del mio villaggio, assumendo alcuno di que' nomi che erano allora la maraviglia delle città e dei tugurii, dei re e dei garzoncelli, sovente fingevo assalti e battaglie presso a quel castello, che pomposamente denominavamo Austerlitz, Barcellona o Smolensko. E tra quelle finte imprese, dove ci addestravamo agognando alle vere, m'arrestò talvolta il più annoso pescatore del paese, affine di raccontarmi i casi di Ermellina. Io l'ascoltava, deh come attento! ma quando soggiungeva certe fantasie, d'un pipistrello che ogni sera aliava intorno alla portella, di certe graffiature che, poc'anni fa, si discernevano sulle bruciacchiate pareti d'un camerotto disabitato; di due fiammelle che, fino a' suoi giorni si vedeano dal lago inseguirsi rasente i torrioni senza raggiungersi mai, — Buon vecchio (io gli chiedeva) perchè tutto questo fino ai dì vostri, ed ora non più? E mentr'egli rimaneva, mal predicendo di questi fanciulli, che, dopo venuta la Rivoluzione, nascono ad occhi aperti e non temono del demonio, io tornava sui trastulli, a strappare i vilucchi e il capelvenere dalle ingombre feritoje del castello, a racimolare le coccole selvatiche e l'uva turca sui dirotti muricci, e fingere innocenti battaglie su per le brecce, un tempo insanguinate dalle vere. Ora fa poc'anni, smurandosi colà, per _far bello_, col qual titolo il giorno d'oggi va distruggendo ogni memoria del jeri, fu dissotterrata una grossa lapida, impressa a rozzi caratteri, e sott'essa un guerriero. Il cadavere, al primo sentir dell'aria, si sfasciò, ma durarono i suoi arnesi di ferro e una negra celata e un giaco di maglia, nel cui mezzo dal lato sinistro era piantato uno stilo dal pome dorato. Ma chi si curò di sapere chi fosse? 1832. NOTA. È Brivio un borgo di antichissimo ricordo, posto sulla destra dell'Adda, dieci miglia di sotto di Lecco; e il suo nome (anzichè da _Bi ripa_, come vogliono i latinisti, raffrontando a _Bi-lacus_, Bellagio) ne pare derivato dalla radice celtica _briva_, ponte; da cui i gallici _Sumorabriva_ fra Auxerre e Troyes; _Durobriva_ e _Ourobriva_ in Bretagna; _Brivia Curretia_, Brives sulla Corrèze, ecc. Nel secolo IV è ricordato che san Simpliciano, succeduto a sant'Ambrogio nel vescovado di Milano, e che una antica tradizione farebbe dei Capitanei o Cattanei del prossimo villaggio di Beverate, venisse fin a Brivio a ricevere i corpi dei ss. martiri dell'Anaunia (Val di Non), Sisinio, Martirio ed Alessandro, ch'egli trasportò nella basilica milanese, denominata poi da esso santo vescovo. Il titolo di que' tre santi rimase alla chiesa prepositurale di Brivio. Doveva però questo borgo stare sulla riva sinistra dell'Adda, in quella che chiamavasi Val di San Martino, e che appartenne alla diocesi di Milano fino al 1746, quando fu ceduta alla diocesi di Bergamo. Forse allora sulla riva destra non sorgeva che il castello: il quale è un vastissimo quadrato, avente ai quattro angoli quattro torrioni rotondi. Apparteneva questo, avanti il mille, ai signori di Almenno; di poi passò ai signori di Lecco; e Attone, conte di Lecco, e Ferlinda, sua moglie, lo donarono al vescovo di Bergamo _pro remedio animæ suæ_, come appare da un diploma di Enrico I imperatore, dato nel 1015, e riferito dal Lupo, _Codex diplomaticus ecclesiae bergomensis_. Quel castello, assiso sul fiume che a Napoleone pareva il più strategico dell'alta Italia, acquistò importanza nelle guerre successive. A mezzo il secolo XIII vi si rifuggirono i nobili milanesi scacciati dalla plebe prevalente, la quale inviò ducento balestrieri, che demolirono la ròcca. Ancora conservano il nome la _Mura_, che doveva essere un posto avanzato sulla sinistra dell'Adda; e sulla destra la _Bastia_ e più lungi la _Rocchetta_; e quanto al ponte, doveva sporgersi di rimpetto al castello, sebbene nessuna orma di pile si trovi nel letto del fiume. Quando i soldati viscontei, perseguitando i Guelfi che, capitanati dal conte di Savoja e benedetti dal papa come crociati, si difendevano nella Valle San Martino, vollero varcare l'Adda nel 1373, vi fecero un ponte di legno, sul quale passò Ambrogio, figlio naturale di Barnabò Visconti, che da essi Guelfi venne ucciso presso di Caprino. _La parentela de burgensibus de Brippio_ trovasi noverata fra le guelfe cui Giovanni Galeazzo concedette perdonanza nel 1335. I Veneti, collegati con Francesco Sforza a danno dell'_Aurea Repubblica Ambrosiana_, nel 1445 presero il castello di Brivio, dove fabbricarono un ponte, e ristorarono il forte che poi resero al duca di Milano nella pace del 1454. Allora già cominciavansi le batterie a fuoco; laonde alle antiche fortificazioni s'aggiunse una torre angolosa sul fianco nord-est: e probabilmente allora fu fatta una gran diga, poco disotto, traverso al fiume non ancor navigabile, acciocchè le acque rifluissero nell'ampia fossa del castello. Nel 1527 v'era governatore don Giovanni Guasco, a nome di Carlo V. Questo imperatore, ne' continui suoi bisogni di denaro, infeudò quel castello al conte Girolamo Brebbia nella cui casa rimase fin testè. Divenuto il fiume confine tra il Veneto e il Milanese, tutte le abitazioni portaronsi sulla destra; ed è notevole la differenza di dialetto, di vestire, d'agricoltura, di consuetudini che oggi corre fra terre così vicine e di così continua comunicazione. Fin alle ultime vicende, una dogana (la Sostra) e un dazio esistevano sulle due rive, pei diritti dei due dominii. Nella peste del 1630 la terra restò desolata sì, che solo ne camparono tre famiglie, Mandelli, Lavelli De Capitanei e Canturj. Nuova vita diede al paese la grand'opera del naviglio di Paderno, che pose in comunicazione il lago di Como con Milano. Nel 1777 l'arciduca Ferdinando, il conte Firmian governatore ed altri magnati s'imbarcarono a Brivio, per passar essi primi sul nuovo canale fino a Trezzo. Allora Brivio divenne centro di tale navigazione, e vi si collocarono molte famiglie di barcajuoli e _paroni_, cioè guide, che conducono le navi cariche da Lecco fino a Trezzo. Nel triennio dopo il 1796, un grosso corpo di Francesi vi stanziò, ed essendo cessato il dominio veneto, si costruì un ponte di chiatte che congiungesse le due rive. Al ritornare degli Austro-Russi nel 1799, i Francesi disertarono questo posto, senz'altro che affogare tutte le barche; ma erra il Botta nel dar colpa a Serrurier di avervi lasciato un ponte di chiatte. Mentre si combatteva al ponte di Lecco, un corpo di Cosacchi delle bande di Wucassovich e Bagration, si presentò davanti al borgo, intimando, O barche, o cannoni. Di che sgomentati i terrazzani, e trovandosi abbandonati da' Francesi, rialzarono le barche e tragittarono i vincitori. Ne seguì il saccheggio, dopo il quale s'avviarono alla battaglia di Verderio. Dalle inondazioni cui la terra andava soggetta, ora la schermiscono le utilissime opere intraprese nell'Adda, mercè delle quali è agevolato il defluvio del lago di Como e la navigazione. Il castello, come in tempi pacifici avviene, fu vòlto a' servigi privati: camere, prigioni, manifatture; la fossa occupata da case ed orti; gli spalti da giardini. Ma nel 1846, volendosi allargar una piazza tra esso e il lago per uso del mercato, si stimò bene far la colmata colle pietre della fortezza medesima, togliendo così in gran parte il carattere pittoresco di questo borgo, e mascherandone la veduta con folte piante. Nella demolizione uscirono lapidi e rovine e frammenti curiosi, di cui qui non è luogo di ragionare. Il patrio castello ispirava all'autore la seguente romanza nel 1834: ALLA MELANCONIA Melanconia, dell'anima Nube soave e cara, Onde soffrir s'impara Dei casi all'alternar, Me del tuo latte al pascolo Traendo ancor fanciullo, Dall'ilare trastullo Volgevi al meditar. Di tortorella il gemito, L'aura che bacia il rio, Il suon d'un mesto addio Pareanmi il tuo sospir. Fiori spargeva e lagrime Degli avi miei sull'urna? Col vol d'aura notturna Io ti sentia venir. Dove quell'ermo vertice Lungi dal mondo tace, Chiesi, al tuo piè seguace, Pensieri e libertà: O dove il muschio e l'edera Sul mio castello erranti, L'ire, le laudi, i pianti Copron d'un'altra età. Spinto a lottar nel pelago, Soffrii, compiansi, amai; Ma de' tuoi miti rai Sempre ebbi vago il cor: Te dall'urbano turbine Cercai, te in cupa stanza, Fra sogni di speranza, Nell'ansia del terror. Con te fremei se l'empio Franger il dritto io scòrsi: Al pio calcato io porsi Per te l'amica man. Teco evocai d'Italia Le ceneri eloquenti, Cercando ai corsi eventi Gli eventi che saran. Giovin, ma stanco e naufrago Riedo al paterno lido: Teco all'ombrìa m'assido Che me fanciul coprì. Riede, col cor dall'odio, Straziato e dal dispetto, Ove a benigno affetto Tu m'educavi un dì. Melanconia, col placido Spettacol di natura, Le piaghe mie deh cura, Rendi me stesso a me; Tornami in pace agli uomini M'insegna oblio, perdono; Di' che follia non sono Onor, giustizia e fè. LA SETAJUOLA O virtuoso popolo, o santo, Che, dal diurno lavoro affranto, Mentre il briaco ozio profonde In gioje immonde Il caro prezzo del tuo sudore, Stai modulando preci d'amore; O generoso popolo, o pio, È teco Iddio. Oh, i tuoi dolori ti sien contati Quanto dal ricco sono ignorati; E tu perdona del ricco al volto Il riso stolto. C. DESTEFANI. Tra le rusticali faccende nessuna riesce così gioconda a vedere come quella del filare la seta. È una sollecitudine regolata, un vivacissimo movimento, una pulita attenzione; una fatica non sordida, e rallegrata dall'idea di un felice guadagno e del sostentamento che ne ricavano tante e tante famiglie e interi paesi; talchè rimane gradevolmente commossa l'anima di chiunque sia punto avvezzo a meditare su ciò che lo circonda, a compiacersi del buono, ancor più che del bello. Gran comitiva di donne, zitelle le più o fresche spose nel calore della stagione cocente, dinanzi al fuoco ed alle caldajuole fumanti stanno lavorando, chi a svolgere gli aurei fili dei bozzoli, chi ad inasparli, mentre altre vanno rattizzando la vampa, o sciacquattando la bacaccia, o levando il saggio sul provino; e chi a pesare, a rimondare, a distribuire. — Che pena! che noja! direbbe il cittadino, per cui è beatitudine l'ozio; e crederebbe che deve tra loro regnare un dispettoso silenzio, una pazienza irosa. Tutt'al contrario. La gioja più vivace signoreggia nella filanda: qui racconti, qui motti arguti, qui singolarmente allegre canzoni, mal frenate dal severo piglio del padrone, che nei lauti ozii e nelle pingui speranze di lucro, trova a ridire che le assidue lavoratrici si ricreino dallo stento, cantando con quella serenità che è prodotta dalla gioventù, dall'abitudine della fatica, dalla pace di chi nel poco si appaga, e credesi nato per lavorare. Molte di quelle donne vennero di lontano, abbandonando casa, parenti, conoscenti, amori, per mettersi qui alla soggezione, al calore, alla fatica: ma sanno che, per quel tempo, sollevano dalle spese le povere loro famiglie; sanno che alla fine riceveranno una ricompensa, scarsa se dovesse contarsi coll'occhio dell'uomo agiato, ma larga ai modesti desiderii; sanno che la recheran alle case, ove già calcolarono qual porzione darne alla madre pe' suoi bisogni, mentre coll'altra si rinnoveranno, questa un guarnellino, quella un grembiule, l'altra gli ori, l'altra la tela da ammannire le biancherie pel venturo carnevale, quando andrà sposa al giovane che le parla. Ma tra questa laboriosa allegria stavasi pensosa la Laurina nella filanda di ***. Maritata da pochi mesi, pure non aveva intorno quei guarnimenti, onde le pari sue amano rinfronzirsi anche nel disordine di quella fatica: ingegnavasi di parer gaja, ma l'animo non glielo consentiva; se rideva, il riso non le passava la gola; cominciava anche essa la canzone colle compagne, ma dopo il primo ritornello era ricaduta nel silenzio. Eppure soleva essere tutt'altra gli anni precedenti, quando ella era l'anima dell'operosa brigata: cara ai padroni perchè attenta, abile e destra; cara alle amiche perchè sincera, gaja, cuor contento. Adesso, non appena la campanella dà il segno del riposo, balza a scatto dal posto suo, non siede nei garruli crocchi ove le altre si aggruppano a far le comarelle, a contare lungamente le vicende proprie e le altrui, i semplici casi, le semplici riflessioni, e a saporar quel po' di pietanza che mandò loro la madre, condita dalla gioja e dall'appetito. La Laurina all'incontro toglie la sua scodella di minestra e se ne va; nè torna più se non quando le camerate già sono rimesse alla bacinella, tanto che i padroni l'ebbero più di una volta a rimproverare di negligenza. Ed ella rispose: — Hanno ragione; e gonfiandosele gli occhi, tacque, e ripigliò più solerte il lavoro, per rifarli di quel minuto che ha sciupato. — Ma dove va ella? Se tu ne richiedi il padrone, sorride, e ti domanda celiando se te ne importa forse perchè essa è belloccia. Disgustato, ti volgi alle compagne, e le ingenue esclamano: — Eh, povera tosa! ha pur dato la testa in un cattivo muro! mah! e ti lasciano più curioso di prima. Al tocco di domani appostiamola. Ecco, all'usato esce; infila un viottolo che sbocca alla borgatella qui vicinissima, e lungo la via essa pilucca dalle spinose fratte il lazzo prugnuolo e lo more, e se le mangia con pan di melica; — sgigliola pane risecchito e more e prugnuoli, nel mentre si reca in mano intatta una scodella di minestra, la cui tepida fragranza deve agguzzarlene il desiderio. Quella straducola riesce appunto alla sua povera casetta sulla soglia della quale sta un uomo, strambellato nel vestire e pien di lordume, dondolandosi sopra un piede, appoggiato allo stipite della portella con una mano alla cintola, l'altra nel giubbone, e fuma una pipa di corno, e guarda. Tutto annunzia in lui la disadattaggine e l'abitudine dell'ozio: scaruffati i capelli; sciamannata la giubba che slabbra da tutte le parti; grinzose le calze e a bracaloni; e dal suo occhio trapela quell'isvanita ilarità che sul volto improntar suole il turpe vizio dell'ubbriachezza. — Oh sei qui finalmente? grida egli incontro alla Laurina, come appena la vede spuntare. Ove diascolo ti sei badata fin adesso? È mezz'ora che è scoccato il botto, ed io ho una fame che la vedo. Dà qua. E così, brusco come rasperella, le toglie di mano la scodella, e si trangugia la minestra. La Laurina cortese quanto sa, scusasi con lui, e lo carezza, e — Vedi? non la mangio io per darla a te. — Oh sonate campane! vuol farsi merito d'una straccia di zuppa! Puh! bada a non sudare. Non è forse tuo dovere? soggiunge colui con un ghigno disvenevole. — Si (risponde la Laurina) ma con patto che ti comporti da bene. Sei stato al vinajo stamattina? — No. — Davvero no? — No... E poi, sì: ci sono stato: ho bevuto prima un calicino di acquavite, poi una mezzetta, e ho speso il mio santo. Voglio andarci quando mi gira, e so camminar senza falde, e tu non mi devi dottorare addosso, e se non ti piace, ricorri. Ecco, ci sono stato e ci sarei rimasto a bere a rigagno, se l'oste non avesse scritto sul banco: _Oggi non si fa credenza_. Ma non avevo più un becco d'un quattrino. E sicchè, quando me ne porterai tu? — Non te n'ho dato anche sabato? Che ne hai tu fatto? — Oh l'è garbata! mi bruciavano addosso, e gli ho bevuti su; e ti so dire che mi fecero pro. Volevi che murassi a secco? E dicendo sghignazza; e la Laurina a piangere, ed esso a berteggiarla. — O che? piagnucoli? Già tu le hai in tasca le lagrime, tu. Sta a vedere: o che le parole ammazzano? Piagnucoli perchè ti vedano cogli occhi rossi, e ti dicano: O sposina, cos'avete? e tu: L'è il mio Tita che fa il matto. Oh... e fiottando le misura un manrovescio, scagliando una dovizia di cancheri e di rabbia. Ma essa lo accarezza, e, dolce come una melappia, — Quando mi hai intesa mai nè tu nè alcuno a dir così? Se ti voglio bene il sai: quel che fo per te lo vedi. — Di belle cose vedo io: sì, di belle cose! Il passato non mel ricordo: il vino m'ha fatto andare la memoria in acqua. Ma io voglio il presente: capisci? il presente. Ho sete e l'acqua fa marcire i ponti. Voglio quattrini, perchè in fin dei fini ho da vivere anch'io; (e seguita quel gattiglioso con tono crescente) se udrai che avrò fatto qualche cattiva azione, la colpa di chi sarà? E se... — No no, caro mio: ti calma; non mi far disperare; te ne darò. Oggi è giovedì: doman l'altro mi pagheranno, e faremo metà per uno. Ma per amor di Dio sta buono; non far del male, non rubare, non contrar debiti, e ricordati del Signore. Me lo prometti? Quel ghiotto, sotto la mano della moglie ammansito come una fiera da colui che gli porge il cibo, la guarda con certi occhi rimbamboliti; e soggiunge: — Sì: starò quieto, farò bene. Ma tu vedi; le tue sono promesse di là da venire: e a me occorrerebbe ora qualche soldo. Guarda a rovesciarmi non ho il seme d'un bezzo. La Laurina si trae di tasca una mezza lira, e gliela mostra come si fa per mettere in sapore i fantolini, e — Te la darò per te: ma mi devi promettere una cosa. L'occhio di lui s'è fatto di fuoco al mirare quella moneta. — Sì, sì; ti prometto: che cosa vuoi? dammela tosto. — Promettimi (ella ripiglia) che oggi non andrai dal vinajo. Hai quella sottana che, già quindici giorni, ti hanno data a rattoppare. Lavora oggi a quella, domani ti pagano: hai que' denari, e poi anche questi. — Sì, dici vero, soggiunge colui, e sghignazzando le ciuffa la moneta, e si dà a ridere a scroscio, e beffarla, e saltabellare, e intonar una canzonaccia. In quella suona la campanella che richiama le filatore al lavoro: la Laurina, asciugandosi gli occhi e dimenando il capo, si avvia di gran passo là, dove certo il soprantendente la rimbrotterà di questo ritardo; e il marito suo gongolando si difila alla mèscita del vino, e accolto fra i _benvenuto_ di altri beoni che giocano alla mora, sbatte con trionfo la moneta sul deschetto dell'ostiere, e — Qua un orcioletto della vostra sciacquatura di bicchieri. Sin dalla fanciullezza cominciò quel tentennone a piacersi del far nulla; e in questa inclinazione lo secondò il cieco amore della madre. Suo babbo voleva avviarlo a lavorare la campagna come lui, ma non ne poteva trarre costrutto: e la madre gli diceva: — Non vedete com'è pochino? non ha quelle spallacce digrossate coll'ascia, quelle manacce che avete voi, da fare la talpa e zappare la terra. Avreste a volerlo accoppare il poverino. Il padre, per amor di pace, lo mise sotto un ferrajo: ma anche qui bisogna adoperar la schiena, e a colui il far nulla era una sanità. Dunque da capo a mutare; lo allogarono con un sartore; ma neppur questo basto non gli entrando, egli salava di spesso la bottega per andare a gironi, gingillar sulle piazze, foraggiare pei campi, tendere varchetti alle lepri, alleggerire i peschi e i tralci. Suo padre si rodeva il cuore, lo rimproverava, lo batteva perfino: ma la madre, — Poveraccio, tu se' magro spento! Mala cosa! ti rintisichiscono in quella bottega: hai bisogno d'un po' di svago. Tè; e gli dava un cinque soldi per andare a confortarsi alla bettola con un bicchierino (diceva ella) di quel che rimette in gamba. Appena pigliò pratica in quei brutti luoghi, Tita saltò la granata; giacchè il vizio è come la quartana: presto si piglia; ma a sradicarla ti voglio. Quindi ogni briciolino egli tornava a stuzzicare sua mamma per qualche soldo: ed essa gliene dava di quelli che ritraeva dal vender le uova e i pulcini; ma sì, non sarebbero bastati se le chiocce avessero fatto tre volte al giorno. Allora dunque che non poteva smungere nulla, il tristanzuolo ingrugnava che non si poteva avere bene di lui; stava sulle picche e sui dispetti, non voleva saperne di bottega e di obbedienza: se sua madre lo sollecitava d'andare a messa e a confessarsi, gli rispondeva altro se non — Datemi dei quattrini. Poi, vedete come si riesce da un primo passo in traverso; una volta si trovò scorbacchiato dai compagni che, sapendolo all'asciutto per fargli izza gli dicevano, — Ehi, Tita, non ci stai più al bicchierino? non vuoi fare una partita alle palle? una partita e un fiaschetto? Egli, entrato in casa di una vicina, le tolse un agone d'argento, di quelli che s'infilano nelle trecce, e ne ebbe quaranta soldi, che succiò coi camerati. La vicina, accortasi, ne levò rumore; la madre di Tita procurò parar via la cosa, e sarebbe riuscita a rimpaciarla se il segretario comunale non ne avesse avuto sentore; sicchè lo denunciò alla giustizia, e a Tita toccò la prigione. Capite? la prigione come a un ladro. Fortuna che, tra il perdono della vicina, tra le preghiere della madre e l'essere la prima volta, e il ricoprirlo come ubbriaco, ci fu messo una toppa, onde, pochi giorni apresso, il signor giudice il rilasciò dandogli una seria paternale, e il precetto di più non metter piede all'osteria. Venuto fuori, la lezione era stata di tal qualità, ch'egli parve aver messo giudizio, e babbo e mamma ne stavano consolati. Ma come la gramigna ricaccia se non è svelta dalle radici, così il vizio. Un giorno le vecchie praticacce di Tita stavano battendosi alla mora sulle pancacce dinanzi alla bettola. E vedendolo passare, — Ehi, Tita, vuoi fare il quarto? o sei ridotto al moccolino? C'è un vinetto da risuscitare un morto. Egli ci pensa, — E perchè no? finalmente trattasi di una volta. E se nol fo; costoro mi fan martire. Si giuoca; se ne fa portare una mezzetta, poi un'altra: quell'urlare villano dà buon bere. Il primo sorso sapeva d'amarognolo a Tita, ricordandosi la gabbia; ma pensava: — Tanto non è che un bicchiere: poi all'osteria proprio non ci vo. Al secondo colpo non fece così brutto ceffo: al terzo allappò la bocca dicendo — Come è buono! e in quattro e quattr'otto si trovò brillo e spensierato. La mattina, quando la balla fu smaltita, egli sentivasi scontento di sè; rinnovava mille bei propositi; ma alla bass'ora, per caso, tornò a passare di là, e guardare ustolando, e quegli oziosi ad invitarlo a giocare ai tresetti. Nicchiò sulle prime, ma quelli lo presero a berteggiare, e — Che? sei forse sul lastrico? non hai più gajo il taschino? Messo al punto, egli giocò e bevve. Altrettanto al domani: poi, bever fuori e bever dentro dell'osteria (pensava egli) non è tutt'uno? Entrò; alzò il gomito più del bisogno; tornò a casa tardi e colle traveggole. I genitori s'accorsero d'essere alla cantilena di prima; il padre dava nelle furie, ma la madre lo assonnò, e gli diceva: — Sapete che? diamogli moglie, e metterà giudizio. Quanti col torre moglie son diventati tutt'altri! Il padre, facendo spallucce, rispondeva: — Fate voi. La donna allora pose gli occhi sopra la Laurina; una buona ragazza; un angelo in carne. Aveva costei una nidiata di fratelli: onde i suoi, che erano povera gente, non vedevano quell'ora benedetta di darle il cristiano, pur che sia, per poter dire, — E una. Veramente quando la mamma di Tita ne fece la chiesta, il maritarla a una stirpaccia di così cattivo nome pesava non poco ai parenti di lei: ma la madre di Tita li confortava. — Sì; ha dato quello scappuccio. Eh! ognuno una volta o l'altra ha da scorrer la cavallina. E chi rompe la cavezza da giovane, riesce poi un uomo come si deve. Adesso, credetemi, ha messo testa; ha un buon mestiero per le mani: del suo cuore poi non vi dico altro. Chiedetene e domandatene a chi volete. Quelli in fatto cui domandavano, per paura di mormorare, non c'era bene che non ne dicessero, ed era fin troppo per contentare i genitori, il cui scopo astratto è sempre di dar marito alle ragazze. Alla sera dunque la madre domanda a Tita: — Prenderesti moglie? — Perchè no? risponde questi, immelensito dal vino Ma chi ho da togliere? — Ti piacerebbe la Laurina del Forno? — A me sì. Al domani Tita, rimpulizzito e colla gala smerlata e colla scatola del tabacco, siccome usano qui, andò a trovar la ragazza, e farle le paroline. Essa non ne sapeva nulla; ma visto i parenti usargli cortesie, gliene usò anch'essa, tanto che la madre di lei corse da quella del Tita a riferirle: — Ehi, la va coi fiocchi: il parentorio si farà: le è piaciuto. Ma quando la chiarirono che si trattava di sposarlo, Laurina diede fuori a piangere, e che non lo voleva perchè era un qua e un là, e perchè aveva rubato, e perchè bazzicava all'osteria, e perchè non aveva il timor di Dio. Sua madre le recitò una sequenza di ragioni, una più gagliarda dell'altra; e le mostrò la povertà della famiglia, i tanti fratelli; ma essa replicava: — Vedete? non son in qua tutto il di a dipanare seta? Lavorerò anche di più, tanto da fare le spese a me, e un poco anche a voi; ma per carità non mi affogate a questo modo. La madre s'ingrugnò: vennero le comari a darle della pazza pel capo: — Cosa vai a rimestare, scioccherella che tu sei? Avresti a far Gesù colle due mani. Magari quante lo vorrebbero: e tu non dovresti chiamartene degna. Credi che si trovi un'occasione ad ogni uscio? Hai già ventidue anni suonati: vuoi rimanerti a spulciare il gatto? o presumi scavizzolar un signore di carrozza? Se ne mischiò anche il signor curato, un buon uomo, di nulla più smanioso che di vedere i giovani e le ragazze accasati, e pieno di fiducia che quel sacramento rimetta il senno a chi l'ha smarrito. Insomma tante e tante gliene dissero, che la Laurina fu indotta a dare il sì, e l'affare si stiacciò. Andò sposa. Il bel primo giorno, bevi e ribevi, Tita fu messo in terra da una solenne imbriacatura. — Pazienza! sarà stata la compagnia, lo straordinario. Ma egli toccò via di quel passo; onde la Laurina fu chiara che il vizio era nelle ossa, nè le restava di che sperare. Tutto il dì a sbevazzare, tutte le sere a casa ubbriaco: non c'erano più padre e madre da dargli una sbrigliata: se prima al lavoro badava poco, ora niente, e non cercava che passar la giornata senza stracca: poi cominciò a vendere questa o quella masseriziuola della moglie. E lei? colla pazienza, colla dolcezza (povera fanciulla!) faceva di tutto per indurlo al bene. Avrebbe potuto andare dai suoi e dir loro, — Vedete mo? non ve l'avevo detto io? ma perchè crescere in cordoglio che già capiva che n'avevano? Taceva dunque e mandava giù; e se alcuno le domandasse: «Come va Laurina?»; e a Dio pregava, a Dio espandeva i suoi rancori, da Dio sperava l'ajuto. Eccovi la storia di quella setajuola. Passò, nel modo che v'ho detto, la stagione della filanda: i denari erano consumati in erba da quel goloso: ond'ella pensa con ansietà al figliuolo che aveva da nascere; per allestire a questo le fasce e i pannicelli, non poteva essa che ritagliare i vestimenti e le biancherie sue; ma tutto era niente, purchè il suo Tita non ne facesse qualcuna: qui batteva la sua continua paura. E perciò non lo perdeva mai d'occhi; lo tenea, quant'era possibile, in casa, li presso di sè, a dar qualche punto lasagnon lasagnone: ma il più del tempo a far nulla, mentre essa lavorava ad accannellare seta per buscare qualche soldo, che difficilmente poteva sottrarre alla colui avidità. Quando poi egli s'indugiava fuori, correva a cercarlo, massime alla sera, e ridurlo a casa. Se ne ricevesse dei rabbuffi, nol mi domandate, e anche peggio, perchè l'ubbriaco ha perduto il più bel dono di Dio, la ragione; e più non sa quello che si faccia. Ma un giorno fra gli altri, essendogli riuscito di trovare alcuni soldi ch'ella aveva riposti nel pagliericcio pei bisogni che prevedeva vicini, Tita, inchiodatosi nella taverna, si abbandonò al chiasso e a tracannare vino e vino; il cervello se n'era andato. La Laurina, visto farsi tardi, girò di bettola in bettola sulla traccia di lui; alla fine lo trovò che sciscinando ne diceva di tutti i colori, e attorno una fitta di bevoni, cotti al par di lui, a metterlo su e pigliare pasto delle pappolate che gli cascavano di bocca, e tenergli bordone con delle somiglianti. La buona moglie se gli mise allato, quanto dolce sapeva, a pregarlo, ad ammansirlo, a volerlo menar via. La gente guardava, e ne facevano scene. Tita un po' e un po' sopportolla, poi sentì pizzicarsi le mani, e balzato in piedi, rosso come lo sverzino, senza lasciar brutto nome che non lo dicesse, la acciuffò, e cominciò a picchiarla da forsennato. Batter la moglie! e in que' piedi! A quali orrori trascorre l'ubbriaco! Gli avventori e l'oste riuscirono a trargliela dalle mani; essa, tutta pesta e scarmigliata uscì, colui continuò un pezzo ancora le smanie da non si dire, poi, come succede quando la pentola pel troppo bollire trabocca, che spegne da sè la fiamma e calma il bollore, così quello sfogo fece rientrare in cervello il brutale; — Andrò (diceva) a domandarle scusa. È tanto buona! oh quest'oggi ho proprio passato i confini. Non ci voglio tornar più. Ma come nel lago, quando ci fu burrasca, sebbene il vento abbia dato luogo e le onde si vadano posando, pure tratto tratto un'altra buffata di aria le solleva di nuovo, così accadeva nell'animo di lui. Onde dopo quelle belle parole, ripigliava: — Ma lei, perchè la ha sempre d'arrangolare? perchè sempre mi corre tra' piedi? chi cerca trova. Non voglio padronanze. Le ho sonato un tientamente che deve durarle un pezzo... Infine però, povera creatura! la opera per il mio bene, e son io una bestia da legare. Basta! voglio metter giudizio. Questa Pasqua voglio fare davvero un buon bucato, e diventare un tutt'altro. No; Tita non sarà più Tita come c'è scritto in quell'esempio che la Laurina mi leggeva sul Catechismo. — Ma intanto, la mi lasci stare, se no, vuol sentir sonare più d'un doppio; e se sta volta fu acqua, un'altra saranno tempeste. Così berciando e barcollando fra la ragione e l'ebbrezza, fra le ispirazioni del suo buon angelo e le tirate del vizio inveterato, mosse verso casa dondolando come disvincolato. Vide la Laurina entrare tutta indolenzita. — Ecco (diceva egli tra sè) la poverina va in casa, e ci starà a piangere... e in grazia mia. Ma poco appresso la vede uscire: ha sul braccio il fazzoletto da capo, accosta l'uscio e se ne va. — Ah maligna! ah vipera! esclamava colui assaettato. Lo so: ella va dai parenti suoi a far una scena, a svesciare quel che è successo. Va dal curato a farmi chiamare... Aspetta a me! se mi fa questo, in fede mia, la fiacco di mazzate. E a stento contenendosi, grullo grullo la seguita di lontan via. La vede passare da casa sua, e non entrarvi; passar dalla casa parrocchiale, e non entrarvi. — Dove diamine va? Quattro passi fuor del villaggio sta un oratorio della Madonna addolorata, riverita con gran divozione dai paesani, e che impetra tante grazie a chi la prega di cuore. Verso quella si volse la Laurina; e come fu presso, si coperse il capo col fazzoletto, entrò, si fece sino alle balaustre, s'inginocchiò e pregò. Tita sulle orme di lei era giunto anch'esso; poi come vide ove capitava, il suo mal genio gli diceva: — Dà di volta, torna all'osteria, che t'aspettano a finir la partita; ma l'angelo buono gli suggeriva: — Entra tu pure in chiesa: osservala; prega anche tu. A questo diede ascolto: e v'entrò. Non c'era anima, essendo sulla sera e buiccio: vide la tribolata, col volto ascoso nel fazzoletto e curvo sulle mani giunte. Che piangesse ne davano segno i singhiozzi, che tratto tratto la scotevano; tratto tratto ancora si udivano alcune voci che pronunziava più forti, non credendosi ascoltata: — Cara Madonna dei dolori; datemi pazienza! — Non vogliate castigarlo: non sa quello che si faccia. — Perdonategli come gli perdono io. — Toccategli il cuore: — oh cara Madre del buon consiglio! fate che abbia a diventare un buon cristiano e timorato. Queste voci erano tramezzate da altre, che esso non capiva: saranno state quelle preghiere che impariamo da nostra madre quando siamo bambini; quel saluto a Maria che ripetiamo ogni giorno più volte, che forse neppur intendiamo, ma sappiamo che è una preghiera alla madre di Dio e madre nostra, affinchè preghi per noi Colui che sa tutti i nostri bisogni. Quando Tita racconta quest'avventura, dice che quelle parole dell'offesa sua moglie lo commossero più che non avessero mai fatto le prediche del signor curato, — e neppure (aggiungeva) neppur quelle dei missionari. E dovette essere proprio così: perchè tacente, mansuefatto, si avvicinò a lei, quasi temendo disturbarne la mesta devozione, le s'inginocchiò a fianco, e pregò. Quand'ella si accorse di lui, lo guardò con una meraviglia lieta e pacata, dicendo: — O Tita, anche tu? — Sì, rispose egli, perdonami Laurina; e prega il Signore che mi perdoni, come io ti prometto di cambiar vita. Recitarono insieme il rosario, poi s'avviarono a casa in pace e quiete, facendo proposito di condursi come ella desiderava. Propositi d'ubbriaco, direte voi che l'avete visto altre volte promettere e ricascare. Ma e la grazia del Signore non la valutate per nulla? Non valutate la fede con cui la Laurina aveva pregato? Ho il piacere di dirvi che Tita, secondo aveva promesso, non fu più Tita. Capì qual tesoro sia una moglie buona: capì che stomachevole vizio è quel dell'osteria, il quale oltre lo scapito dell'anima, vi fa tenere per amici i discoli e i beoni, ed oltraggiare quelli che più meritano rispetto ed amore: istupidisce la mente, logora il corpo, anticipa la vecchiaja disprezzata che fra i vilipendii e gli scherni trascina innanzi tempo a finire la vita, se pure si può chiamare vita quella vergognosa vegetazione. Tita cominciò a far l'uomo posato; e starsi in casa. Oh! la casa ha una tale attrattiva in sè, che chi la gusta da vero una volta, non se ne svia mai più. Tornò affezionato al mestiero, tornò alla parsimonia, tornò alla quiete: e temperante, e assennato, stette colla moglie al bene e al male che occorre nella vita: bene che tanto s'accresce, male che s'allevia tanto allorchè si divida con una buona compagna. Egli stesso confessa che se qualche volta (per usare la sua espressione) il diavolo lo tenta per tirarlo alle pratiche vecchie, non ha rimedio migliore che ricordarsi i pugni dati a sua moglie. La Laurina, lieta quanto si può dire, non rifina di ringraziare la Madonna. Alla nuova stagione, eccola ricomparire alla filanda con un bambino in collo: ricomparire festiva e vivace come quando era da marito, e discorrere e canterellare. Se mai v'accade di passare per quella borgatina, lì sul canto dello sdrucciolo a mancina, per cui dalla strada maestra s'esce ai campi, v'occorrerà alla vista una botteguccia raccoltina, nella quale una donna siede a girar un aspo, mentre un fantolino appena divezzato va baloccandosi sul pavimento coi ritagli di panno che cascano da una tavola, sulla quale un uomo assiduamente lavora, nel tempo che fa bordone alle allegre canzoni di una setajuola. Sono la Laurina, il marito suo e il loro bambino; un inferno mutato in paradiso per la prudente pazienza di una moglie virtuosa. AGNESE O LA VEGLIA DI STALLA Quando gennajo copre di nevi o di brine le campagne, e tutto ringhiaccia alla buffa del tramontano, e sugli ispidi stecchi degli alberi non si fa intendere più lo stormire dei passeri a folate e il crocitare dei corvi, sogliono i contadini temperar lo stridore della stagione facendo crocchio nelle stalle; e a quel tepore lavorando, discorrendo, pregando, dispensare i giorni melanconici e le interminabili serate. Le vecchie già vi si sono crogiolate, non appena al mezzodì si furono refiziate col povero desinare; e poichè alquanto ebbero adoperato la striglia contro il tale e il quale, volentieri si rifanno sui casi di loro gioventù, quando, a sentirle, il mondo camminava così diritto, così allegro, così onesto; rammemorano le persone con cui vissero, e che ora da un pezzo dormono tra i più; e come predicava il curato, antecessore dell'antecessore del presente; e come l'andava innanzi che capitasse il Buonaparte; e del tempo quando v'erano tuttora le streghe e le paure, che ciascuna di esse ha veduto, ha udito cogli occhi, cogli orecchi suoi proprii. L'una rammenta quel palazzotto poco discosto, ove guai che qualcuno si fosse arrischiato di dormire, perchè sulla mezzanotte, vi correva di su di giù la fantasima con grande fracasso di catene, dopo che il diavolo se n'era, corpo ed anima, portato via il padrone, il quale era così ingordo avaro, che in una gran carestia avendo ammassato di molto grano, eppoi essendone scaduto il prezzo, per disperato s'appiccò. — Io non so darmi pace (così dice la Simona, vecchia impresciuttita e rubizza) di certuni, che queste cose non le vogliono credere. E in castello? Al tempo dei tempi vi stava un cavaliero, che aveva una moglie delle belle che si potessero vedere con un par d'occhi. Ora, venuto geloso d'un bel paggetto, un giorno egli lo fece squartare, gli cavò il cuore, e bell'e fritto, quel cuore lo imbandì alla sua signora. Quando la signora se n'è accorta, si traboccò dalla finestra nella fossa. Il cavaliero poco dopo fece anche lui cattiva fine; e per questo, Iddio ci guardi dal commettere omicidi. Io stessa, non conto ciance, io stessa ho veduto, una volta come mille, un uccellaccio strano, che aveva la forma d'un ferro di lancia, aliare sulla sera attorno ai merli del castello, ed era l'anima di quel cattivo. — Ma (interrompe comar Giuditta, mentre sbracia il veggio) dopo che vi alloggiarono dentro i Giacobini, quell'uccellaccio non s'è lasciato più vedere, come non ci s'è più sentito in palazzo. — Uh! coloro, torna su la Simona: erano frammassoni, senza nè legge nè fede, che si ungevano gli stivali coll'olio santo, e giocavano alle palle colle teste dei preti. — L'avete visto voi anche questo? domanda un'ingenua ragazzetta, che, sopra un sediolino, sta tutt'orecchi a quei paurosi racconti. — No, risponde l'altra; ma lo dicevano tutti: e questo poi è frumento secco, che non andavano a messa neppure la festa. — E sì, la festa bisogna rispettarla, aggiunge biascicando le parole la sdentata Teresa. E voglio dirvi questa, che mi contò, deh quante volte, fra Spiridione buon'anima sua. Che, quando si fabbricò il loro convento, avevasi a portare un masso smisurato, da collocare per fondamento al campanile. Sicchè il padre guardiano, il quale era un sant'uomo, pregò i terrazzani che la domenica venissero con tutte le leve, i carri, i bovi a trasportarlo. Si trattava di un'opera in servizio di santa chiesa, eppure quei buoni villani risposero, — Riverenza no; e che sarebbero andati piuttosto il lunedì, prima che cominciasse la giornata. Sapete che? quando comparvero, il padre guardiano si fece loro incontro e disse: — Buona gente, ecco fatto: il Signore, per chiarire come gli sia gradita la devozione che avete al suo giorno, ha voluto far un miracolo; e mostrò loro... indovinereste? quel ceppo, che così massiccio com'era, di per sè erasi levato dal suo posto, e collocatosi dove aveva a stare, nè più nè manco. — E l'han creduto tutti? domandava la bambinuccia. — Mi fai giusto da ridere, ripiglia la vecchia. Non volevi che si credesse una cosa tanto straordinaria? Qui comar Giuditta entra dicendo: — E fu durante la fabbrica stessa, io credo, quando v'era quel converso, il quale faceva di sì spessi miracoli e sì strepitosi, che, per toglierlo dal rischio di levarsi in superbia, il padre priore gli intimò di non farne più senza sua permissione. Ora, mentre il converso stava guardando a murare, ecco si fiacca un palco, e un muratore casca giù fin dal tetto. — Ajuto, fra Vincenzo, gridò il meschino. — Ajuto, replicarono maestri e manovali. E fra Vincenzo tutto cuore avrebbe voluto fare su' due piedi un miracolo, ma n'avea la proibizione, onde stesa la mano, gli gridò: — Fermati, tanto che io corra a domandarne licenza. E corse; ma il miracolo era bell'e fatto, perchè colui si fermò a mezz'aria, come fosse stato in piana terra. — Eh, i frati! attacca un'altra sospirando. Del gran bene facevano i frati. Tutto il dì, tutto l'anno mai non facevano niente, per poter pregare anche per quelli che non pregano, e massime per noi villani, che, costretti a faticare il giorno intero, non ci avanza tempo da dare a Domenedio. — E i benefizi che compartivano, dite poco? (È la Simona che parla.) Mai non venivano alla cerca, che non regalassero o una coroncina, o un santino, od almeno non benedicessero il mal di madre, i figliuoli ammaliati, e scongiurassero i bruchi e le formiche. — E voi cosa davate loro? chiede quella tal ragazzina. — Oh, un poco di tutta quella grazia di Dio che si coglieva. Caspita! non erano state le loro preghiere che l'aveano salvata dalle brine e dalla gragnuola? Ma non si portava mai al convento una coppia di polli o qualche stajo di grano, che non ci ricambiassero or coll'insalata, or con le carote... Che sgrigno è cotesto? Chiacchierina! porta rispetto, chè di fame non moriva nessuno, e il Signore faceva andare sempre co' fiocchi la campagna: il melgone si comprava a otto lire il moggio, e la gente non era così spessa. E quando d'un figliuolo non si sapea che cosa farne, c'era dove collocarlo: e se il marito o la suocera ci facevano mandar giù degli stranguglioni, si aveva dove andar a vuotare il sacco e chiedere un parere. — Voi non dite male, no, Simona: così la Teresa. E vorrà forse essere per altro, ma quest'è un fatto che allora non si pativa tante malsanie. Confessate in verità vostra: vi ricorda che, da qui indietro, si parlasse tanto di catarri, di reumi, di tutti questi acciacchi che ora non si dice altro? — Quanto a questo, rompe il ghiaccio la Betta, che di tutte è la più sufficiente; ho sentito io soggetti che la sanno lunga, assicurare che la causa n'è l'innesto del vajuolo vaccino. Non parliamone nè anche di questo scandalo d'innestare una bestia, e una bestia di quella fatta, sopra i ragazzi, e peggio sulle bambine, che è forse per questo che non hanno ancora gli occhi rasciutti, e già le pajono così maliziose. È bensì vero che molti morivano, molti rimanevano conci nemmeno da vedere; però era uno spurgo necessario come tant'altri, e dopo si campava sani come acciajo. Ora hanno voluto andare contro a quello che veniva di lassù; non so che dire: tal sia di loro. Fra questi e simili discorsi fatto notte, sopraggiungono vispe, leste le più giovani, e dietro ad esse i garzoni, moscheggiando, barzellettando, soffiando sulle mani aggranchite ed esclamando: — Oh che freddo! Allora così al bujo, è un via vai, un passerajo di cento voci che una soverchia l'altra, una l'altra interrompe; onde se tu volessi trovarne il filo, oh va raccapezzare quel che si ciancia sur un mercato. Dispongono quindi i trespoli e gli scannelli, e cominciano ad acchiocciarsi, a quetarsi. E la Savina dopo aver allegramente contato quel che fece, quel che disse, quel che intese fuori per la giornata, piglia la rocca, e sbattendo il pennecchio del lino — Su via (dice) facciamola finita; è ora d'accendere il lume e lavorare, se ho da ammannire il corredo della biancheria per quando mi fo sposa. E, nel dire, stazzona col gomito un giovinotto che le sta a spalla. — La lingua batte ove duole il dente, n'è vero? scappa fuori una camerata invidiosetta. Oh, si sa bene che hai l'innamorato. — Ah ah! ride la Savina. Chi? io? ti par egli? sei pur la dabbene! Così fosse! Ma chi vuoi che mi musi? Ha da venir neve rossa. — Sì, sì, insiste l'altra. Non farmi la forestiera. Non ti ho forse io scorta jeri quando andavi per acqua, eh? Egli ti pedinava, e che paroline t'ha detto? Oh, se mi tocchi, squatterò io gli altarini. Scommettiamo... — Neanche un quattrin bucato, interrompe la Savina. Io non me ne ricordo niente. Sarà stato un caso... E poi... se anche fosse, c'è del male? Han fatto così anche le nostre madri, sicchè... — Adagio, adagio, salta la Teresa. Io so che le vostre madri avevano più giudizio di voi, farfarelle; e, non fo per dire, ma si era belle tanto e più che voi. Eppure si sposava quello che i parenti proponevano, delle volte senza nemmanco avergli parlato; si facevano le cose come andavano fatte; e non si cercava alla fine che di adempire le intenzioni di santa madre Chiesa. — Non c'era tanta premura d'andar a marito, aggiunge una pulzellona di cinquant'anni. Ma ora voi altre non avete appena i venti, e già vi puzza il fiato, e parlate d'amore, frasche! — Tempo passato perchè non ritorni, eh? ripiglia la giovane; sempre fu sole e nugolo, grano e loglio. Però, dico io, noi del male ne facciamo noi? — Questo non si può dire, piglia la parola comar Giuditta. Ma in tali faccende non si va mai cauti che basti, perchè il primo scappuccio, Dio sa dove porta. L'è giusto appunto come quando i puttini scivolano sul ghiaccio: presa una volta l'andata, vatti accatta dove si fermeranno. Ve l'ho ben raccontata, eh, la storia dell'Agnese? — No, no, replicano le giovani per una bocca. Contatela, comare: contate la storiella: e così al fosco, colle mani sotto al grembiule, se le stringono più da presso per ascoltarla. Essa comincia: — Era l'Agnese una fanciulla bella come un'immagine, tenera come latte spremuto, ma anche dabbene, che, chiedete e domandate, neppur le vicine poteano dir altro che lodi. Le era morta sua mamma mentre era ancora d'otto o nov'anni, ed essa appena cresciuta un poco, tirava innanzi la casa e la bottega con tanta capacità ed amore, che suo padre non sapeva finire di dirne, e le ripeteva: — Tu sarai la mia consolazione. Udirete che pezzo di consolazione. In que' tempi la devozione era molto più d'adesso: e la sera del giovedì santo si costumava una bella processione, dove i garzoni e le giovinette rappresentavano il mistero della Passione, coi Giudei, con Pilato e il Cireneo che ajutava nostro Signore, e le Marie che lo piangevano, e tutto. L'Agnese si vestiva da Maddalena, perchè l'aveva la più ricca treccia di capelli, che lasciava cascare sulle spalle; e quanti la vedevano esclamavano: — Oh la bella Maddalena! Viveva allora nello stesso villaggio un tal Sandro, un garzonotto così d'un vent'anni, non somigliante a questi tisicuzzi d'oggi, fatti di calza disfatta; ma un pezzo d'uomo, ben formato e ben fondato, con due bracciotti da vangar una vigna da sè a sè. In quella processione egli figurava da Giudeo, e toccandogli di stare a fianco della Maddalena per tener dietro colla lancia la folla, cominciò in quell'occasione adocchiare l'Agnese, ed essa lui. Poi, quando in appresso si scontravano per via, essa diventava rossa come una ciliegia, ed egli, passandole a lato, la pigiava un pocolino col gomito: pigiarla; che male c'era? Cominciarono poi a farsi un motto; esso le presentò qualche volta un garofano, e lei lo accettò. — Che male fo io? diceva tra sè. Venuta poi la state, qualche sera egli pigliava la sua brava zampogna, e su e giù sonandola girellone per la via dove l'Agnese stava di casa. Faceva caldo, ed essa, tanto per godere una boccata d'aria, si metteva un po' sul balcone. Quand'egli passava sotto la salutava colla mano. Sulle prime ella non mostrò di vedere, poi non stette al martello, e fece anch'essa altrettanto: alla fin dei conti che male c'è? Una sera egli la chiamò in basso tono, e — M'occorre di dirvi una parola. — Ditela pure, essa replicò. — Ma volete? qui così dalla strada? Fatevi abbasso. — Non posso, rispose ella; c'è il mio babbo. Al domani il babbo non c'era; ella discese a sportello, mise fuori la testa ed ascoltò. Ma il discorso non potè terminarsi quella sera, e al giorno appresso, poi l'altro, e l'altro, sempre egli aveva a ragionarle qualche cosa; e poi quando ella era dabbasso, non si ricordava più, e bisognava riportarsi al giorno seguente. Di tutto questo non aveva ella fatto confidenza se non ad una sua vicina, che si chiamava la Bia, una buona pastocchiona, di quelle che credono tutto bene, e che, invece di darle una lavata di capo come va, le diceva: — Gli è un dabben ragazzo, se fa per di buono, puoi aver trovato la tua fortuna, e ringraziare Iddio d'aver dato il capo in un buon muro. Guardati però dal far del male, perchè altrimenti il Signore castiga con de' guai grossi ma grossi. A questo modo tiravano innanzi i due innamorati; poi una sera parve che quello star lì in sulla soglia non fosse che un far bella inutilmente la piazza. Il padre non c'era; era andato alla fiera di Bergamo: ond'ella tolse dentro Sandro e chiusero la porta. Non aveano fatto che entrare quando si sente battere trafelato al picchietto della porta. — Oh signor Iddio! chi sarà mai? Scappate. — Non si può. — Nascondetevi. — Ma dove? All'Agnese non suggerì altro nascondiglio migliore che farlo rannicchiare alla meglio in una cassapanca, che teneva da piè del suo letto. Poi corse alla porta e domandò: — Chi è? — Chi vuol che sia? sono tuo padre. Essa tirò il catenaccio, e li sui due piedi inventò una di quelle fandonie che voi ragazze sapete così bene, per iscusare il ritardo e la confusione, che anche un orbo le avrebbe letto in viso. Ma suo padre, che le voleva un bene all'anima, ed avrebbe trovato per lei il latte di gallina... Ma ora che mi ricordo, bisogna che torni un passo indietro, e vi dica che, quando sua madre era grossa di lei, entrando una volta in casa, trovò accoccolata sul focolare una vecchia, brutta, magra, stenta, con una faccia grinza come pesche alide, che non prometteva niente di bene; abbrezzava tutta e batteva i denti come una gru. S'appose che quella doveva essere una strega; e dandosi a gridare a quanto gliene usciva dalla gola, tolse la scopa di dietro l'uscio e a colpi la cacciò. Non l'avesse mai fatto! Quella befana voltatasele contro con due occhi di basilisco, e facendole una croce sul ventre, rantolò: — Che quel che tu porti possa essere anch'egli scopato. Ora per seguitare... Ma dove sono restata?... Ah, mi rinvengo. Suo padre dunque, che avrebbe fatto per lei moneta falsa, la salutò tutto grazia, la trasse in camera, e quivi sedette sulla cassa appunto in cui era chiuso quell'altro: e le cominciò a narrare della fiera, d'un mondo di gente che ci aveva; Tirolesi con cinture di cuojo trapunte e cappellacci lunghi come ombrelli; Turchignotti col mammelucco e la barbaccia e le bracacce; d'un savojardo che mostrava la gran bestia; d'una zingara che contava la ventura; poi seguitava informandola del quanto avea comprato il sapone o i vomeri e le coltri di lana; e perchè fosse tornato un giorno prima, e d'altre cose di egual importanza. Ma l'Agnese, che avea tutt'altro per il capo, stava a cento miglia, e rispondeva sì o no a braccio, e come veniva veniva. Ond'egli le domandava: — Di' su, hai sonno eh? Anch'io. Via, cuocimi due bocconi da cena. Lesta lesta gli friggeva essa una coppia d'uova, e non vedeva la sant'ora di metterlo a dormire. Ma egli sarebbesi detto che faceva apposta a temporeggiarsi, contando, ripetendo, addomandando. Basta! quando Dio ha voluto, egli se n'andò. L'Agnese, che era stata come in croce, sente allargarsi il cuore; si chiude in camera, corre alla cassapanca, dà una voce all'amico.... e, non risponde. Che dorma? Gli alza un braccio, ricasca. Gesummaria! gli tocca la fronte... è fredda marmata. Che serve? era morto soffocato. Come allo sdrucciolare d'un ghiacciuolo per le reni, così la pelle s'accappona alle ragazze, intente al discorso di comare Giuditta, ed esclamano: — Morto? soffocato? O santa pazienza! Che se da prima avevano tenuto gli occhi desti, credendo che la storia dovesse riuscire al solito scioglimento, ora raddoppiando d'attenzione, socchiuse le bocche, sporgono i menti verso la narratrice che il bujo impedisce di vedere: e la Savina ritira la mano che col favore dell'oscurità, si era, senza accorgersi, lasciata stringere nella mano del giovinetto. Tanto un pochettino d'orrore giova a crescere l'interesse, sia in una panzana da veglia, sia in un racconto da album o da strenna. E la vecchia dello stesso tono proseguiva: — Quale restasse l'Agnese, voglio lasciarlo pensare a voi. Lì, sola, con un uomo morto; lei che prima sarebbe svenuta di paura a vederne uno anche di lontano: e questo uomo era il suo damo: era morto allor allora; morto in grazia di lei, e quel ch'è peggio, senza neppur confessarsi. Gridare non poteva: suo padre era lì muro a muro, baciava livide e assiderate quelle labbra, che vive non aveva baciato mai; e l'inondava di lagrime silenziose. Si provò di levarlo fuori; oh adesso! pesava il doppio di lei: appena che potesse muoverlo, e la cassa era fonda. Lo spruzzava d'acqua diaccia, gli dava ad annusare aceto, gli scaldava dei panni sul cuore: tutto incenso ai morti. Che farà? Se lo sa la gente, Dio ne liberi! chiamare suo padre? Cosa direbbe mai? aver tirato in casa un giovane, averlo ammazzato! Non le soccorrendo miglior partito, risolve di andare per ajuto alla Bia sua vicina; essa conosceva già quell'intrigo; le teneva anzi la corda. Piano piano adunque schiude l'uscio, sguiscia fuori: le ginocchia le si piegavano sotto, come avesse avuto tre mesi la quartana. Monta per la scaletta, e — Bia! Bia! domanda. — Che chiami, Agnese? caspitere! di quest'ora? — Zitta, e aprite per carità! Poi come fu dentro, piangendo, sbattezzandosi, le rivelò il caso. — Morto! Sandro! andava quella replicando, e spalancava gli occhi, torceva le mani, se le cacciava nei capelli. — Sarà forse solamente svenuto. — Magari! soggiungeva la fanciulla. Venite dunque per carità! per amor di Dio! venite, soccorretemi. La Bia si trasse a compassione, e andò da lei. Già suo marito non era pericolo che tornasse a casa, perchè era un ubbriacone, che non lasciava l'osteria se non quando ne lo cacciavano. Va dunque alla camera, osserva anch'essa, brancica, muove, solletica: — è proprio morto, morto stecchito. Tutto questo si faceva a chetichella in peduli spiegandosi a gesti, senza trar fiato, per timore che il padre non sentisse. Ma stracco del viaggio questi aveva attaccato, senza bisogno della nanna, e presto fu sentito russar della bella. Visto dunque inutile ogni tentativo, la Bia diceva all'altra, — Calmati; che vuoi? Quel ch'è fatto è fatto. Ora bisogna pensare a rabberciarla, non a fargli il pianto. Qui non c'è altro. Leviamolo fuori; portiamolo sulla strada e lasciamolo lì. Il primo che passa lo troverà, e dirà che cascò d'un accidente. — In istrada! gettar là così il mio povero Sandro? come un cane? ed è morto per me! Io no, io no. E se gli buttava sopra, e piangeva e singhiozzava, convulsa, spasimante replicando pure, — Io no, io no. Onde la Bia stringendosi nelle spalle, — Allora non so cosa dire: pensaci tu, e chi s'è visto s'è visto; e faceva viso d'andarsene. L'Agnese la richiamava, la rimboniva, tornavano a consultare, e la risoluzione era sempre la stessa: onde trovandosi tra l'uscio e il muro, anche l'Agnese dovette acconsentire. Fra tutte e due a stento lo cavarono fuori, e chete chete trascinatolo in sulla via, più lontano che poterono, rinvennero ciascuna a casa sua. Che notte per l'Agnese! Altro che le passate, quando, appena giù, dormiva per ore ed ore della grossa, senza un pensiero al mondo, oppure fra pensieri sereni, giulivi, sinchè svegliavasi col nome del suo Sandro sulla lingua. Ora, altro che dormire! se una pulce basta a tenerci sveglie, figuratevi, con questo posolo sul petto. Lì, presso quella cassapanca, con sugli occhi irremovibile quel cadavere, che smanie, che batticuore! Si gettava di qua di la pel letto: si copriva sotto le coltri: si tappava gli occhi, gli orecchi; ma sempre le pareva di vederlo; sentivasi ancora sotto le mani, sulle guance, alle labbra il tocco di quel gelo inanimato. — Ma chi sa? forse quello non fu che un male, uno svenimento passeggiero: si sarà riavuto, tornato a casa sua, e domani lo vedrà ancora. Che consolazione, rivederlo vivo!.... Ma.... che gli dirò? averlo gettato fuori a quel modo? E raddoppiava il pianto, come cresce la pioggia dopo che un lampo rischiarò per un momento l'oscurità. Poi aveva da venire la mattina: la voce si sarebbe sparsa: suo padre comparirebbe, e non poteva non accorgersi dello stato di lei. Cosa dirgli? come scusarsene? come contenersi con chi le racconterebbe la morte del povero Sandro? Di fatto la mattina buon'ora si sente un pissi pissi, un via vai per la strada, un visibilio di congetture; il padre si affaccia alla finestra e domanda: — Che novità c'è? — Non sapete? risponde uno che passava. Hanno trovato morto Sandro. — Cosa mi dite! ammazzato? — Mai più: non ha nessuna ferita, non gli hanno tolto i soldi; deve essere stato un colpo d'apoplessia. Povero giovane! e tirava innanzi. Il padre corse alla camera della figliuola. Che coltellata per lei allorchè sentì tirare il catenaccio! Sforzatasi a dissimulare, quando esso le contò l'occorso, si finse nuova di quel caso, ma non potè a lungo tenersi di non rompere in un pianto dirotto, e dare sfogo al crepacuore represso. A suo padre parve quel cordoglio fuori di misura, pure pensò fra sè e sè: — Bisogna che fosse un po' briciolata di lui, tanto più che, uscendo, intese dirsi dalla gente: — Porterà il bruno, eh, la vostra Agnese, che gli parlava! Ma l'Agnese, dopo una tale batosta, non è più quella. Non le dà il cuore di lasciarsi vedere attorno, onde in casa a piangere, a strillare. Se sta su, tutto le fa ricordare di lui: se si corica, non vi dico altro. Guai se un mobile scricchiola di notte! guai se ode sbatacchiare una finestra! guai se un cane ulula per la strada! Passano e passano giorni, ma il dolore non si disacerba. Suo padre, che la sente ogni tratto mettere singhiozzi da soffocare, le dice: — Ti compatisco: gli volevi bene, eh, a Sandro? perchè non me n'hai fatto motto, ma ora che vuoi crepargli dietro? Si dava ad intendere di consolarla, ed era come si scarificasse una piaga, fresca tuttavia e sanguinante: onde ella dava in nuovi scrosci di pianto, e diceva cose che nessuno la capiva. La gente vedendola così accorata, la lodava di fedeltà; alcune tolsero a confortarla, pensando più al ventre che al cuore, come fanno spesso le comari; molti ragazzi dicevano alle loro belle: — Badate mo l'Agnese. Quello si chiama voler bene. Ma voi, se io morissi, vi voltereste ad un altro; e chi n'ha avuto n'ha avuto; è vero? Unico ristoro le era la Bia. Con lei si cavava la voglia del piangere; con lei diceva quel che le passava in cuore, quel che doveva nascondere a tutti gli altri! con lei andava al camposanto a recitar il rosario per quella povera anima. Ma poi se la pigliava anche contro di essa, la riguardava come il solo testimonio del suo delitto; come un essere da cui dipendeva il renderla la più misera delle creature: e tremava che un giorno o l'altro potesse manifestarlo. E per quanto si sforzasse in vista di far la disinvolta e accarezzarla e tenerla colle belle belline, dentro se ne rodeva, e tutto quel che la Bia facesse, lo prendeva per traverso. La udiva cantare? le pareva insultasse al suo dolore. La vedeva parlacchiare con qualche altra? ne entrava in gelosia. Sentiva zufolarsi le orecchie? — Sarà la Bia che rinvescia tutto. Le parlava talvolta di quel povero figliuolo? — Lo fa a bella posta per rinfrescarmi il dolore. Se la Bia diceva, — Tienmi i ragazzi finchè io vada al mulino o a risciacquar il bucato, — Ecco (pensava ella) fin da serva la mi fa fare. Se le cercava un pugno di sale, — Due, rispondeva; ma fra i denti brontolava: — La si vuol far pagare perchè non soffi. In ogni occhio che la fissasse credeva leggere la sua accusa: — Certo colui o colei sa il caso mio; e chi può averglielo detto se non la Bia? Al vederla dunque le veniva verde il sangue; e perchè quando c'è una cosa nel cuore, è come la tosse, che non si può nasconderla, certi atti bisbetici, certe frasi piccose che le scappavano contro voglia, lasciarono alla Bia comprendere il vero. Così cominciarono a raffreddarsi, a gattigliare, e stare ciascuna sulla sua; e l'Agnese a odiare quell'altra come il mal di capo, e crescere così il suo pericolo immaginario. Più non si vedeva innanzi che fantasie paurose; non sognava che la giustizia; il pronostico fatto dalla strega a sua madre le ribolliva nel capo come vicino ad avverarsi, e tutto in grazia di chi? in grazia della Bia. E credeva vedere che costei andasse a darla fuori, a servir di testimonio, onde le pareva di non potere aver più bene al mondo finchè al mondo vi fosse colei. La morte di essa era il voto che mattina e sera faceva nelle sue orazioni: quando tornavano le solennità, vi si preparava colle novene, col digiunare; poi confessata e comunicata, inginocchiavasi sulla nuda terra, e storcendo le mani, e colle lacrime agli occhi, diceva: — Caro Signore! pei meriti della vostra passione, vi prego, vi scongiuro, fate morire la Bia. Ma la Bia, non s'insognava di morire. Anzi una volta, avendo ricevuto dall'Agnese non so che torto, la Bia che doveva avere mal desinato, ripicchiò; e qui botta e risposta, se ne dissero fino ai denti, e la donna si lasciò scappare di bocca che la dovesse badare a quel che diceva, perchè in fine de' fini stava da lei il mandarla col muso alla ferrata. Non l'avesse mai detto! L'Agnese se prima andava a spasso col cervello, allora, vi diede volta affatto. Quella notte la passò come sulle ortiche. Quando, spossata dal piangere si addormentò, che sogni! che paure! Cani rabbiosi che le saltavano adosso, un toro che la inseguiva perchè era tutta rossa di sangue: le pareva di scappare in camera, serrarsi dentro; ma ecco le finestre sbatacchiare benchè chiuse, e pel buco della toppa entrare un fantasma e succiarle il sangue di sotto le ugne dei piedi: essa lo affissava, e quello andava tutto a fuoco e fiamme, sporgeva gli occhi dalla livida faccia, come gli aveva veduti a Sandro in quella sera funesta e le diceva: — Son dannato in grazia tua. Essa faceva per gridare e non poteva, perchè sentivasi strozzare: toccavasi al collo, era il capestro che le aveva messo il boja. Stralunava gli occhi intorno: ecco lì tutta la gente del suo paese, tutte le sue camerate a vederla impiccare; ed una fra queste sporgersi su, e beffarda ghignarle in faccia: — era la Bia. Balzò dal letto atterrita, trambasciata: tutto quel giorno una orribile convulsione l'agitò; acciocchita dava al capo per tutti i muri: le pareva di avere il fuoco nella testa, e s'appoggiava agli stipiti dei camino, ai ferri, per sentire un momento di refrigerio: si buttava su quella cassapanca, e non piangeva più. Usci col secchio per andare attingere, poi quando fu fuori, non si ricordò più: e va e va... Avete sentito, ragazze, di certi che vanno in volta bell'e dormendo. Tal quale l'Agnese. E va e va, trovasi dinanzi al cimitero: è aperto il cancello; s'avanza. — Ove diamine andate? lo grida una vociaccia. Era il sepoltore che stava scavando una fossa. A quel suono risentitasi, ella diede uno strillo, guardò intorno, si rinvenne; e coi capelli irti come un pettine di lino, fuggì a rotta di collo, come se alcuno le corresse dietro. Quel giorno non mangiò, non parlò, non pregò. Sulla sera crebbe la tempesta. Tra il fosco e il chiaro, seduta coccolone, colle tempie fra le mani e le mani sui ginocchi, stette un pezzo a ruminare: poi come risoluta, balzò su a scatto di molla, ed esclamò; — Conviene che ella muoja! abbrancò un coltellaccio, salì dalla vicina, e cogliendola sola e sprovvista, glielo cacciò nella gola. — O Madonna santa! esclamano prese di ribrezzo le villane ascoltatrici, mentre comar Giuditta raccoglieva il fiato: e stringendosi l'una più presso dell'altra, le domandano ansiose: — E sicchè, e sicchè? — Sicchè (continua la vecchia) tardi tardi, secondo il solito, e secondo il solito ubbriaco, torna casa il marito della Bia, e trova questo spettacolo. Si pone a gridare, a chiamare accorr'uomo; traggono i casigliani, trae il vicinato, vedono, oh vedono la donna che dava i tratti in un lago di sangue. Chi può mai essere stato? Non i ladri, perchè non manca un bruscolo: nessuno ella aveva per nemico; non può apporsene che a suo marito. Egli solo andò in casa: era avvinazzato: l'avrà intesa arrangolare perchè entrò tardi, e le avrà dato. Il bargello, fondandosi sulla voce del popolo che è voce di Dio, mette senz'altro le mani su lui; presto presto, per dare un terribile esempio, si fa il processo sul luogo: lo interrogano, egli nega, lo mettono alla tortura. Voi non sapete, ragazze, cos'è la tortura, eh? perchè adesso non la si usa più. Ma al tempo mio, quando uno era sospettato d'un delitto, fosse come capo di ladri, o come strega, o bestemmiatore, o un di quelli che untavano per far venire la peste, lo pigliavano: il signor giudice gli domandava, — Sei stato tu? Se l'altro schiodava, dio con bene: se no, il signor giudice ordinava: — Mettetelo alla corda. Voi tutte avete visto il macello, quando il beccajo, dopo scannato il bue, lo tira su, legato per le gambe ad un verricello. Su quel fare immaginate la tortura. Il reo, ossia l'accusato ch'è tutt'uno, veniva legato colle mani dietro, così; con una corda incarrucolata l'alzavano, e a volta a volta davano delle buone strappate, come si fa col martino quando si conficcano i pali nell'argine; e lo facevano saltare dieci, venti volte, quante al signor giudice piacesse. Di ragione, se colui non voleva che le braccia restassero attaccate alla fune, conveniva che confessasse; e così si scoprivano i malfattori, poi s'impiccavano, si squartavano, s'inrotavano. Di questi esempii non passava, sto per dire, settimana, che non se ne udissero; e perciò delitti non ne succedevano. Ora tali usanze sono dismesse, e il far il ladro è divenuto una bazza. L'uomo della Bia fu dunque posto al tormento, e lì il signor giudice, — un fior di giudice, dalle cui unghie non era mai uscito alcuno savio; ma insieme una brava persona, pieno di pazienza e piacevolone che diceva barzellette fin nel condannare alla morte. Il signor giudice, come dicevo, prima lo esortò colle buone a dir la verità; poi, vedendo che negava, ordinò, — Tiratelo su. Nel suo seggiolone, appoggiato il gomito al tavolino e il mento alla mano, stava egli osservandolo, e con tutta pazienza aspettando che confessasse; ma quegli duro. Allora il signor giudice: — Ehi, dategli un pajo di strappatine. L'altro pianse, strillò, invocò il Signore, la Madonna, san Giuseppe, ma tenne saldo. Al vederlo così ostinato, sarebbe montata la stizza anche al santo Giobbe: ma il signor giudice colla solita calma, vòlto al manigoldo e facendogli d'occhio gli disse: — Ebbene, com'è così, calatelo giù. L'aguzzino, che capi il segno, calò l'accusato tanto vicino al pavimento che lo rasentava colla punta dei piedi. L'uomo che erasi sentito resuscitare da morte a vita in ascoltare quell'ordine, vedendosi ora così presso terra, che un poco più che si allungasse la toccherebbe, per raggiungerla stiravasi da sè medesimo di tutta forza e così per la speranza di finirli, accresceva nel più orribile modo i suoi tormenti. A vederlo sgambettare, il manigoldo schiattava dalle risa: l'istesso signor giudice turava la bocca, perchè non gli scappassero: in fin che l'altro, non potendo resistere a quel nuovo spasimo, domandò per amore, per misericordia che lo calassero affatto, e avrebbe detto ogni cosa. Di fatto confessò che era stato lui ad ammazzare sua moglie, perchè n'era sazio, perchè rantolava sempre, perchè voleva torne un'altra; insomma tutto quello che il signor giudice gli suggerì. Questi contento della buona uscita del suo processo, buttò fuori la sua brava sentenza con qualmente il reo fosse scopato e poi impiccato; e andò a desinare. La giustizia, cioè il boja, venne subito da Milano, con un carro a tiro a due, e suvvi ceppo, ruote, corde, tanaglie, un arsenale di roba da mestiero; e a vedere e non vedere, ebbe piantata la forca sulla piazza. Al domani tutto il paese, tutto il vicinato corsero in folla per vedere castigare lo scellerato uccisore di sua moglie; e il boja trattolo fuori di prigione, cominciava a scoparlo. Quand'ecco accorrere una ragazza scarmigliata, ansante, pallida, contraffatta, sfondando la folla e gridando come una indemoniata: — È innocente; non ne sa nulla. Tutti ravvisarono subito l'Agnese, e cominciò a levarsi un bisbiglio: perchè sebbene l'uomo della Bia si trovasse sempre aver bevuto davvantaggio, non si sapeva che avesse mai torto un capello a nessuno; onde molti avevano penato a crederlo capace di tanto eccesso prima che il signor giudice avesse proferita la sentenza. Proferita questa, fu un altro cantare, perchè la sarebbe grossa che avesse a sbagliare il giudice; e quando una cosa passò in giudicato, non se ne deve più dubitare. Ma allora udendo le parole dell'Agnese, cominciarono alzar la voce, e corsero dal signor giudice e gli raccontarono l'occorrente. Questi si trovò allora in un bel imbarazzo. Il processo era stato fatto in tutte le regole; in tutte le forme data la sentenza; e poi, si sa, a ciascuno piace esercitare la propria abilità. Perciò sulle prime egli procurò di buttar per matta la ragazza e che intanto la condanna si eseguisse; ma poi, sentendo il gridìo della gente, e massime le ragioni del signor curato, ordinò che si sospendesse l'esecuzione. E udendo il boja star di mal umore per aver fatto il viaggio per niente, gli disse: — Colpa tua, dovevi sbrigarti più lesto. Intanto la ragazza, e non fu bisogno di corda, spiattellò di punto in punto tutta la storia, dalla morte di Sandro in avanti: visitata la casa, si trovarono i panni sanguinati, si trovò il coltello. Figuratevi che dire ne fu per il paese! Vi basti che fino il giudice pareva quasi averle compassione e diceva che quanto a lui, non gli sarebbe importato niente anche a salvarla. Ma il bianco sul nero c'è per qualche cosa, e la legge canta: Chi ammazza muoja. Il marito della Bia lo tennero un poco in prigione per aver deposto il falso in giudizio, poi lo mandarono all'ospedale a guarir delle storpiature; ed il boja tornò a consolarsi, perchè il giuoco che doveva fare all'uomo lo fece all'Agnese. — Povera ragazza! esclamano le fanciulle asciugandosi gli occhi. — Povero suo padre! esclama un vecchio; e si fa attorno un silenzio meditabondo. Questo silenzio pare a comar Giuditta il miglior elogio che possa farsi al suo racconto, e però, dopo un pezzetto, ripiglia: — Guarda mo! quell'acqua cheta, quella ragazza così florida, così bella, chi l'avrebbe detto che aveva a finire così? E non è già questa una pastocchia, ma un caso vero, quanto è vero che le comete annunziano malanni. Il paese è qui dalle vostre parti, e mia madre aveva parlato con delle vecchie che erano vive quando questo è accaduto. Imparate dunque, o ragazze... — A non chiudere l'amoroso nella cassapanca, l'interrompe la Savina; e uno scroscio di risa universale tien dietro a quest'arguzia. Poi, come, avanti giorno, un passero che cominci a zirlare basta perchè sull'istante si sveglino tutti gli altri che dormivano, ed è uno stormire, un cinguettìo, un frascheggiare di mille uccelli, così, rotto l'incanto, si suscitano trenta voci discordi, che fitte fitte si succedono, s'intralciano, s'interrompono. E l'una dice; — Oh! di queste cose non ne succedono più; un'altra: — Ma che colpa n'aveva quella povera zitella? la terza: — Per uno scappuccio, alla forca! — Oh! soggiunge la morale Simona; ogni colpa è di sua madre, che maltrattò quella strega, e per questo bisogna guardare a chi si fa del male. — Sapete che? salta su la Betta, quella tal sufficiente: La vera ragione è che l'Agnese era nata sotto un cattivo pianeta. Comar Giuditta prova e riprova di ricondur il silenzio, la meditazione e tornar padrona della veglia per potere spacciar alquanto di quella morale onde son piene le fosse: ma chi arresterà la girandola dopo appiccata la scintilla? Cresce anche di più in più il bisbigliare, il chiaccolare, che è una sinagoga; finchè nel lucerniere si pianta il gancetto d'un lumuccio a mano, fioco siccome quello che si accende ai morti; e la Savina, non senza un'occhiata al suo giovinotto, con voce viva da passare il tetto, comincia a cantar allegramente _Mamma mia, non mi sgridate_: tutte le altre le si accordano; e lo spavento col quale la comare sperava d'aver fatto più frutto che un padre delle missioni, si dilegua in un vivace biscantare. Così la sinfonia che accompagnò al cimitero un soldato estinto, con flebile armonia da mettere l'angoscia nel cuore, non appena è gettata sul cadavere la terra, intuona una coraggiosa marciata, che dissipa la melanconica impressione, quasi sia troppo il continuare più di mezz'ora la compassione all'uomo, il cui mestiero è il patimento e la morte. 1834. FINE. NOTE: [1] Schiaccerà la tua testa. [2] Il Signore dal cielo in terra guardò, per udir i gemiti degli incatenati, per sciorre i figliuoli degli uccisi. [3] I sacerdoti si astengano da cacce, uccellagioni, taverne, danze e giuochi. [4] Vidi l'empio innalzato e sublimato più che i cedri del Libano; ripassai, ed ecco più non v'era. [5] Dall'inferno esclamai, e tu, Signore, ascoltasti la voce mia. [6] Per intendere queste e le precedenti allusioni, bisogna ricordare che questa novella ed altre delle seguenti furono scritte in prigione di Stato. [7] Come dileguasi la cera al fuoco, tal periscano i peccatori dalla faccia di Dio, ed i giusti banchettino ed esultino in allegrezza. _Salmo_ LXVII. [8] Vedi l'aggiunta dopo questa novella. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Novelle brianzuole, by Cesare Cantù *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 60945 ***