The Project Gutenberg EBook of Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III,
parte I, by Michele Amari

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Title: Storia dei musulmani di Sicilia, vol. III, parte I

Author: Michele Amari

Release Date: November 26, 2019 [EBook #60788]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEI MUSULMANI DI ***




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STORIA
DEI MUSULMANI
DI SICILIA. Volume Terzo — Parte Prima


STORIA
DEI
MUSULMANI
DI SICILIA

SCRITTA
DA MICHELE AMARI.

VOLUME TERZO
Parte Prima.

FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.

1868.


Proprietà letteraria.



INDICE


AVVERTENZA.

Facendomi a pubblicare questo mio IIIº volume dieci anni dopo il IIº e non presentandolo pur compiuto, debbo scolparmi di un ritardo che parrebbe tanto meno perdonabile, quanto egli è noto che da lungo tempo aveva io, in Parigi, raccolti i materiali tutti e abbozzata l’opera da un capo all’altro. In fatti, uscito il Iº volume nel 1854, lo segui il IIº nel 1858; e nello stesso anno erano già composte in caratteri da stampa 54 pagine del presente volume. Ma ritornato in Italia per causa de’ grandi avvenimenti del 1859, io non mi chiusi in uno scrittoio. Qualche ufficio pubblico esercitato, qualche altro lavoro dato alla luce, mi distoglieano sì fattamente dalla Storia dei Musulmani di Sicilia, che ho potuto appena, un po’ nel 1862 e un po’ dal 1865 in qua, scrivere il rimanente del quinto libro; il quale termina con l’assetto della dominazione normanna, e compone questa prima parte del IIIº volume. La seconda parte, ossia il sesto libro, toccherà le vicende dei Musulmani che mano mano si dileguarono dall’isola. Ho cagione di sperare che cotesta parte finale del volume e dell’opera sia presto compiuta; sì ch’io possa nel corso dell’anno vegnente dar opera alla traduzione de’ testi arabici, che stampai a Lipsia il 1857; i quali sono la fonte principale di queste istorie.

Nè sembri smentita la buona intenzione dal fatto che, dopo avere differito per dieci anni, io non voglia or aspettare una diecina di mesi per compiere il presente volume. Io ho richiesto l’editore di pubblicarne la prima parte senza altro indugio, perchè in oggi i libri invecchian presto: e già è uscito in Italia e oltremonti qualche lavoro su periodi istorici confinanti da un lato o da un altro con quello ch’io presi a trattare. Altri lavori so che si preparano. Ragion vuole che le mie fatiche, quali che si fossero, non rimangano inutili ad altrui; e che intanto ciascun s’abbia il merito delle idee proprie e delle proprie ricerche.

Non ostante il gran tratto che è corso dalla stampa alla pubblicazione de’ primi capitoli, io non dovrò che aggiugnere o mutar qualche parola nel testo o nelle note, a pagg. 25, 36, 55, 90; come si vedrà in un’errata alla fin del volume. Pochissimi altri luoghi sono stati già corretti rifacendo le pagine, 4, 5, 9, quando si pubblicò nella Nuova Antologia del maggio 1866 uno squarcio del primo capitolo, ed uno del sesto.

Firenze, aprile 1868.

M. Amari.

[1]

LIBRO QUINTO.

CAPITOLO I.

A un tempo con le cause che rodeano al di dentro lo stato musulmano in Sicilia, operarono le cause esteriori ond’ebbe la pinta. Oltre quella universale reazione dei Cristiani occidentali contro i settatori di Maometto, s’accese all’entrar dell’undecimo secolo un genio di libertà nelle popolazioni indigene e oltramontane mescolate da parecchi secoli nel nostro territorio e fatte il nuovo popolo italiano. Il qual movimento, come sempre accade, mutò aspetto secondo gli ostacoli locali: dove fece vendetta di assalti forastieri; dove aspirò alla emancipazione da reggimento straniero; dove portò ad opere ed ordini e in ultimo a forme di repubblica; sovente partecipò dell’uno e dell’altro, e più spesse furono le nimistadi scambievoli dei cittadini. Ma dalle guerre civili ne allontana per ora l’argomento nostro, e ne conduce alle due serie di fatti che prelusero al conquisto della Sicilia: cioè la guerra di Pisa e Genova contro i Musulmani, e la cacciata dei Bizantini dall’Italia meridionale.

I Pisani, fin dalla seconda metà del decimo secolo, compariscono nella storia liberi in mare e sudditi [2] in terra: qui reggeansi a nome del marchese di Toscana e dell’imperatore germanico, sovrano feudale; lì il commercio, necessariamente armato in mezzo ai Musulmani che solcavano d’ogni parte il Mediterraneo, portò i cittadini ad autonomia, non che non sospetta, gratissima ai signori della patria, i quali non avendo forze navali, volentieri ne accattavano da loro. Certamente i privati armatori si associarono; certamente deliberarono le imprese navali e provvidero ai mezzi, nella stessa guisa che avean fatto quand’era scopo principale il traffico; la preda si spartì come i guadagni; e la compagnia, qual che ne fosse il nome e la forma in quei primi tempi, diè nascimento al governo della repubblica. Aveano i Pisani combattuto la fazione del novecensettanta contro i Musulmani di Sicilia[1] e forse altre minori contro que’ d’Affrica e di Spagna, e avean già patito le vicende di lor nuova industria del mille e quattro, quando un’armata musulmana saccheggiò un quartiere della città.[2] Per farne [3] vendetta ed assicurare lor commercio, i Pisani metteano in mare il navilio che sconfisse i Siciliani a Reggio; alla quale impresa molto inopportunamente si è data sembianza di guerra religiosa, scrivendo che il dotto monaco francese Gerberto, salito al trono pontificale col nome di Silvestro secondo, bandì la crociata per liberare Gerusalemme, e che i Pisani a tal invito corsero alle navi e tagliarono in pezzi i primi Infedeli in cui s’imbattessero.[3] Il vero è che la potenza surta allora nel Tirreno dovea venire alle prese coi Musulmani, come gli antichi popoli che dettero nome a quel mare avean fatto coi Fenicii, predecessori dei Musulmani in Sicilia, Affrica, Sardegna, Baleari e Spagna. Uscì dai porti di Spagna il navilio che rinnovò [4] del mille undici l’assalto e il guasto sopra Pisa;[4] forse dagli stessi porti e per le medesime genti che a capo di pochi anni occuparono la Sardegna, infestaron Luni e soggiacquero alle forze unite di Pisa e Genova.

Mentre in Spagna tre usurpatori si contendeano il califato, e i governatori si prendean le province, trovossi a regger Denia un Abu-l-Geisc[5] Mogêhid-ibn-Abd-Allah, cristiano d’origine,[6] liberto della casa del celebre Almansor, indi soprannominato Amiri:[7] uomo intraprendente, valoroso, educato alle lettere e alle scienze coraniche in Cordova e mecenate dei dotti.[8] Appo il quale rifuggitosi da Cordova, con molta mano di partigiani, un Abu-Abd-Allah Mo’aiti, giurista chiarissimo per sapere e antica nobiltà, chè discendea [5] di schiatta collaterale agli Omeiadi, Mogêhid, non osando per anco aspirare al principato, volle mettere su quel regolo di sua fattura; gli prestò giuramento e rese onori da califo, di giumadi secondo del quattrocentocinque (dicembre 1014); ed a capo di cinque mesi, allestita l’armata, andò con Mo’aiti ad occupar le isole Baleari. Non guari dopo, rimandato il finto principe a Denia, Mogêhid con un migliaio di cavalli e centoventi navi tra picciole e grandi, fece prora per la Sardegna.[9]

Ormai gli autori arabi chiariscon erroneo il moderno racconto della dominazione musulmana in Sardegna e confermano i nostri antichi ricordi, da’ quali si scorgea travagliata sì quell’isola con depredazioni e guasti, ma non mai occupata innanzi il brevissimo regno di Mogêhid. È verosimile, anzi direi certo, che i Sardi, abbandonati dall’impero bizantino, dai re longobardi e dall’impero d’occidente, fin dall’ottavo secolo si reggessero per loro giudici o re, chè s’intitolavan l’uno e l’altro. Fiera gente, assecurata dalla [6] povertà, dal proprio valore e dai luoghi aspri e salvatici, scansò il giogo dei Musulmani; i quali fatto fardello (710, 752, 813, 816, 817, 935) dell’oro e argento, ma spaventati insieme dai frequenti naufragi e dalla resistenza degli isolani nelle scorrerie minori, li lasciarono tranquilli;[10] tenendoli uomini indomabili, avvezzi a star sempre con le armi allato,[11] da buscarsi appo di loro più colpi che preda. Gli annali musulmani ci narrano che dopo la strage fatta in Sardegna da Abd-er-Rahmân-ibn-Habîb (752) gli abitatori si sottomessero a tributo; onde per lungo tempo non furono molestati, anzi i Rûm ristorarono le cose dell’isola.[12] Erronea parmi la fazione [7] dei Musulmani di Spagna a Cagliari nel mille ed uno, che si legge in un compendio di storia pisana di tre secoli appresso.[13]

Sbarcato Mogêhid in Sardegna, ruppe gli isolani con molta strage, di rebi’ primo del quattrocentosei (18 ag. a 16 settem. 1015); uccise Maloto lor condottiero e fece grandissimo numero di prigioni, donne e fanciulli.[14] L’armata, com’e’ sembra, si mostrò, prima o dopo, su la costiera tra Genova e Pisa, approdando a Luni, cui saccheggiò forse e si ritrasse; ma bastò a provocare i Pisani già possenti in mare, e i Genovesi, i quali prosperando nel commercio dovean anco adoperarsi a cacciare il vicin nemico. Par si collegassero le due repubbliche nell’umile sembianza di compagnie di mercatanti, premurose d’ubbidire ai comandi del papa e dell’imperatore; e il papa ch’era Benedetto ottavo, partigiano favorito d’Arrigo secondo e vago di por mano nelle cose temporali, par [8] s’arrogasse di promulgare la guerra, e di negoziare con Moghêid. Nondimeno l’importanza dell’impresa stava tutta nelle forze, interesse e volontà dei Pisani e dei Genovesi; i quali andati a trovare il navilio musulmano in Sardegna, riportarono una prima vittoria nello stesso anno mille e quindici.[15] Mogêhid si sfogava con [9] atroci supplizii sopra i Cristiani di Sardegna,[16] innasprito forse dalla resistenza che facessero i Sardi qua e là per l’isola; e sapendo i grossi armamenti che s’apparecchiavano in Terraferma, diede opera a fabbricare una fortezza.[17] Intanto i suoi, scontenti del poco acquisto, sbigottiti dal clima malsano e dai travagli della guerra, mormoravano:[18] tardava alla più parte di tornare in patria, dove li chiamavano tutte le passioni della guerra civile. Talchè, di maggio millesedici, venuta grand’oste di Pisani e Genovesi, Mogêhid si deliberò a sgombrare.[19] Combattuto dagli Italiani mentre s’imbarcava, in su l’entrar di giugno,[20] fu sconfitto, e atrocemente straziati i suoi da una tempesta, che ruppe molte navi, altre spinse a terra, ove i naufraghi erano spacciati dai Cristiani.[21] Campò Mogêhid a Denia con le reliquie dell’armata, lasciando prigioni un fratello e il proprio figliuolo Alì che gli [10] succedette nel principato:[22] altri scrive il figliuolo e una moglie.[23] Con sì lieve fatica i nostri riebbero la Sardegna.[24]

E tosto voltarono le armi l’un contro l’altro: i Genovesi assalivano i Pisani; i quali, avutone l’avvantaggio, li cacciarono dall’isola.[25] Onde i mercatanti di Pisa cominciarono ad esercitare una clientela su quei giudici, o regoli, bisognosi di lor danaro e di loro forze navali; tennero fattorie; forse usurparono privilegi commerciali: nelle quali brighe ebbero sempre a gareggiare coi mercatanti genovesi.[26] Nel secolo ap- [11] presso, quando le due città si reggeano a comune e Genova adulta agguagliava la rivale, si contesero la Sardegna con le armi, con le pratiche appo quei regoli ed a corte di Federigo Barbarossa,[27] e poscia con falsare la storia, immaginandosi dai Pisani due concessioni papali (1016 e 1049) e due novelli conquisti del mille diciannove e mille quarantanove, sopra [12] Mogêhid che alfine fosse caduto in lor mani.[28] Da ricordi più genuini si ritrae che i Musulmani, dopo la fuga di Mogêhid a Denia (1016), non assalirono mai più la Sardegna.[29] Quei si tuffò tutto, scrive Ibn-el-Athîr, nelle guerre civili di Spagna;[30] molestò la contea di Barcellona; fu costretto alla pace, dicon anco a pagar tributo (1018), da una man di Normanni ausiliari della contessa Ermenseda, nella minorità di Berengario,[31] e morì nel millequarantaquattro.[32] Di certo, i corsali di Denia e delle Baleari lungo tempo infestarono le parti occidentali del Mediterraneo, poichè quel nome di Mugeto, supposto re d’Affrica, suonò terribile appo i Cristiani; chiunque combatteva gli Infedeli spagnuoli o affricani, si vantava d’aver preso o ammazzato il gran Saracino.[33]

[13]

Tolte così le favole che son debole fondamento alla gloria dai popoli, quella dei Pisani e Genovesi risplende nella liberazione della Sardegna; nel primo esempio dato in Ponente di grosse espedizioni contro i Musulmani; nell’acquistata signoria del bacino occidentale del Mediterraneo. Venuti loro a noia li armamenti navali di Moezz-ibn-Badîs,[34] i Pisani assaltarono l’Affrica il milletrentaquattro, presero Bona:[35] strepitosa vittoria che suonò oltremonti come trionfo della Cristianità sopra l’Islamismo, e probabil è vi abbiano partecipato i Genovesi e qualche nave provenzale.[36] Le due repubbliche italiane messero da [14] parte lor odii quand’occorrea domare il nemico comune: i Pisani uniti di nuovo ai Genovesi schierarono dinanzi Mehdia (1087) quattrocento navi italiane; e prima avean assalito soli Palermo (1062), poscia occuparono le Baleari (1113-4); per tutto il duodecimo secolo i navilii d’Italia, terrore dei Musulmani, apriron la via agli accordi commerciali e alla fondazione delle fattorie nelle città marittime d’Affrica e di Levante. Quella virtù cominciando ad operare, come si è notato, nei principii del secolo undecimo, diè incentivo ed aiuto al conquisto della Sicilia.

La rivoluzione di Puglia e Calabria contro i Bizantini fu capitanata e confiscata da poche famiglie novelle in Cristianità. Verso il settimo secolo, a’ primi albori della storia settentrionale, si scopre in Danimarca, Norvegia e Svezia una gente la cui lingua al par che la complessione dei corpi e gli ordini sociali attestavano l’origine germanica; se non che, sendo lor toccato in sorte un paese inculto e disabitato o quasi, non ebbero vassalli, e non trovando vitto in terra, lo cercarono in sul mare con la pesca e la pirateria. Per tali cagioni si mantenne tra essi l’uguaglianza civile perduta da’ lor fratelli nel conquisto delle province romane. Serbaron anco l’antica religione. Si reggeano in piccioli stati, sotto capi (iarls) di famiglie nobili per valore, eletti nelle adunanze (things), nelle quali gli uomini liberi, cioè tutti, deliberavano le pubbliche [15] faccende. Ma nell’ottavo secolo, i combattimenti e traffichi nel Baltico con altri Germani e con genti finniche e slave avean già condotto gli Scandinavi a migliorare lor costruzioni navali, lor armi, e le arti necessarie all’uno e all’altro: allor fecero più grosse imprese al di fuori, e seguì in casa l’accentramento sotto regoli (kong, konung ec.); s’apparecchiò quello dei piccioli nei maggiori reami, di Danimarca, Norvegia e Svezia. I quali rivolgimenti, al par che le spesse carestie in un paese presso che privo d’agricoltura, portavano all’emigrazione. Gli uomini più audaci e procaccianti facean compagnia; sceglieano apposta un capo sperimentato, re marittimo (soekongar) come il chiamavano; varavano frotte di barche, e sì usciano a lor wicking, noi diremmo pirateria, in cerca di bottino e di gloria: chè virtù si tenea presso di loro l’astuzia e valor nel rubare. I morti per naufragio o di spada sederanno in eterno allato d’Odin, nel Walhalla, a tracannare cervogia; i reduci faranno mostra della preda, canteranno lor geste, bevendo a cerchio nelle romorose brigate l’inverno. Orgoglio dunque, cupidigia, necessità, costumi, rigoglio di corpi e d’animi, uso alle fatiche del mare, non curanza della morte, moveano i Normanni (Northmen) o Dani[37] a lontane espedizioni fuori il Baltico.

Nelle quali desolarono (787-885) lungo la marina e le rive dei fiumi, le isole britanniche, la Germania [16] in su l’Oceano, i Paesi Bassi, e la Francia; infestarono anco la Spagna: Hastings, lor terribile eroe, pensando arricchirsi delle spoglie di Roma, s’imbattè in Luni (859), la saccheggiò;[38] ed egli o altri assaltò anco Pisa (860). Con lor lievi barche solean costeggiare, entrare nelle foci dei fiumi, risalire per ventine o centinaia di miglia dentro terra; afforzarsi nelle isole marittime o fluviali; smontati dar di piglio a quanti cavalli poteano, e temerarii innoltrarsi nelle province, taglieggiando, depredando, ardendo, ammazzando; più crudi nei monasteri, sapendoli più ricchi, o per vanto di calpestare il nume rivale d’Odin. Da Londra e Dublino ad Utrecht, Aquisgrana, Colonia, Coblentz, Treveri, Parigi, Tours, Bordeaux, e Tolosa; ed a Lisbona, a Siviglia, ad Arles, a Valenza sul Rodano, i Barbari addimesticati sentiron la mano dei Barbari freschi della Scandinavia: i quali dopo la rapina presero come gli altri a stanziare qua e là; conquistarono l’Inghilterra, e la perdettero; si posero alla foce della Loira e ne furon cacciati; si posero in su la Senna e v’allignarono.[39]

[17]

Un secolo era corso dall’esaltazione di Carlomagno, e restava appena a’ successori col titol di reame di Francia la regione che si stende dalla Loira alla Mosa, toltane a ponente la Bretagna, quando vennero a scemare il breve territorio gli Scandinavi che l’aveano già guasto, e saccheggiata Parigi (846), arsi i sobborghi (857), e strettala nuovamente d’assedio per dieci mesi (885-6). Avvenne nel medesimo tempo che Aroldo dalla bella chioma (Harald Haarfager) soggiogasse gli altri regoli di Norvegia, e facesse opera ad accentrare ed assestare il novello reame; onde molti uomini impazienti del giogo espatriarono o furon cacciati e incalzati per le isolette e pei mari, dove ripigliavano l’antico mestiere di loro schiatta. Ragunati in grande frotta, tentarono l’Inghilterra, tentarono la Fiandra, e alfine s’imboccarono nella Senna; ebbero di queto Rouen;[40] ne fecero pianta a guerra di conquisto; ruppero (898) un esercito francese che li assalì; occuparono cittadi e castella. Nelle quali fazioni ebber dapprima condottieri senza comando [18] politico;[41] poi s’innalzò sopra tutti per valore e civile prudenza Roll,[42] nobile corsaro norvegio, bandito per atto di rapina in patria. E già s’erano costoro in sedici anni assuefatti a vivere nelle nuove stanze coi vinti, quando i popoli e clero di tutto il reame, vedendo non potere spezzar quel flagello, costrinsero re Carlo il Semplice a stornarlo con la pace. Trattò la pace il vescovo di Rouen, amico per necessità dei Normanni; ed a Saint Clair sull’Epte (912) il re concedette a Roll e sua gente il paese che occupavano:[43] quei gli prestò omaggio feudale, diè e compì la promessa di farsi cristiano egli e’ suoi, e di sposare una figlia naturale del re. Ebbe titol di conte; poi s’addimandò duca; e il territorio, Normandia; il quale fu esteso da lui e dai successori, tra le discordie dei grandi vassalli coi re, e tra le guerre civili che portarono al trono i Capeti. I compagni d’arme di Roll, avuta ciascun sua parte del territorio e divenuti signori dell’antica popolazione, presero gusto alla vita di cavalieri francesi; mutarono il culto d’Odin nel cristianesimo; l’uguaglianza del wicking in gerarchia feudale; l’incerto frutto del saccheggio in perenne esercizio d’abusi baroneschi; dimenticarono la patria che li avea cacciati; ebbero figliuoli la più parte da donne del paese. E però alla seconda generazione parlarono il linguaggio della Francia settentrionale, fuorchè [19] nelle parti di Bayeux e di Coutances, dove, per essere sopravvenuti altri stuoli di Norvegia e Danimarca, si mantenne qualche anno di più il paganesimo, la favella scandinava oltre un secolo, e sempre un animo riottoso e contumace. Insieme con la religione e la lingua, la Francia diè ai nuovi conquistatori fogge, usanze, un po’ di cultura clericale, e tutti gli ordini della feudalità; se non che i baroni serbarono liberi spiriti in loro soggezione al duca, senza aggravar manco le infime classi. Il ducato fu più pericoloso vicino che nessun altro gran feudo, alla corona di Francia; l’odio nazionale arse per cinque o sei secoli tra gli abitatori dell’uno e dell’altro.[44] Tanto più che i Normanni, sì agevolmente gallicizzati al di fuori, non aveano perduta l’indole degli avi: insieme con gran valore, disciplina e sagacità militare, mostrarono saviezza nelle cose di stato ed economiche; ebbero sempre odorato fino del guadagno, mente astuta e man lesta a carpirlo, ira pronta raffrenata sol dall’interesse, amplessi e zuffe alternati fin tra fratelli, tra padri e figli nel partaggio degli acquisti; e con ciò un genio avventuroso, procacciante, migratorio, il quale all’entrar dell’undecimo secolo sfogò in pellegrinaggi al sepolcro di Cristo, ma non chiuse gli occhi per istrada essendoci da buscare. Qual cavaliere vivesse a disagio in casa, uscì a nuovo modo di wicking per terra, ai soldi d’altri stati; ed alla spicciolata fecero maravigliose [20] prove in Spagna e nell’impero bizantino; raccolti e rinforzati d’altre genti, conquistarono l’Inghilterra e l’Italia meridionale.

Al par che il wicking mutò forme in Normandia la saga che il solea celebrare,[45] della quale se fu tentata alcuna imitazione,[46] la poesia popolare francese la soverchiò sì tosto, che alla battaglia d’Hastings (1066) il menestrello di Guglielmo il Conquistatore appiccava la zuffa recitando la canzone d’Orlando, francese di lingua e d’argomento. Alla saga che andava in disuso con la favella e modi del vivere degli Scandinavi, era succeduta la cronica cristiana, da che Dudone di San Quintino, chierico piccardo, cominciò (994) a richiesta del secondo conte di Normandia e compiè sotto il terzo, in prosa latina tramezzata di versi, il racconto dei fasti di quel popolo e dinastia, seguendo la tradizione orale di Rodolfo conte d’Ivry.[47] Fu necessariamente la istoria di Dudone, pei tempi innanzi il trattato d’Epte, mescolala di vero e di romanzo scandinavo, difettosa molto in cronologia; pei tempi appresso, fu diario di corte con orpelli di leggenda monastica e frasi di rettorica latina: e sotto gli altri duchi, altri chierici la copiarono e continuarono chi in prosa latina, chi in [21] versi francesi, fino allo scorcio del duodecimo secolo.[48] Ma i principi normanni surti in Italia in questo mezzo, vollero auch’essi lor croniche ad imitazione della corte di Rouen, compilate su i racconti dei guerrieri che aveano compiuto que’ gloriosi fatti e riteneano le tradizioni de’ più antichi; onde raccontatori e scrittori vi posero ornamenti di discorso a foggia or cavalleresca or claustrale: e son queste le fonti principali di storia nel periodo che prendiamo a trattare.

Prima in ordine di tempo la Storia dei Normanni di Amato, campano e monaco di Monte Cassino, scritta tra il millesettantotto e l’ottantasei,[49] della quale corre per le mani degli eruditi da trent’anni in qua un’antica versione francese, interpolata di annotazioni e forse scorciata e infedele in qualche luogo.[50] Documento preziosissimo contuttociò; poichè [22] l’autore, italiano di nascita e di studii, ossequioso a Roberto Guiscardo e Riccardo principe di Capua, ma assai più devoto al monistero, è testimonio immediato per la seconda metà dell’undecimo secolo; attinge per la prima metà a doppia tradizione, cassinese e normanna; e, con monacale prudenza, pur va dicendo il vero. La dedica all’abate Desiderio e l’andamento tutto dell’opera, mostran che fu dono fatto dal Monastero ai due principi protettori, per rimeritarli di loro larghezza con la fama. Proprio scrittor di corte, Guglielmo detto Appulo, ai conforti di Ruggiero duca di Puglia e di papa Urbano secondo, compose in su la fine dell’undecimo secolo[51] una cronica in versi latini, che comincia dalle prime imprese de’ Normanni in Italia e finisce alla morte di Roberto Guiscardo: narrazione molto viva, diligente e verace, fuorchè qualche episodio accattato dai classici, dalle favole scandinave e da’ romanzi francesi;[52] e d’origine francese parmi l’autore.[53] Lo fu di certo il [23] monaco Goffredo Malaterra, il quale scrisse in prosa latina, a riscontro di quei fasti di casa Guiscarda, le geste di Ruggier di Sicilia, ritratte in parte dalla bocca del conte; e finisce, due anni avanti la costui morte, il millenovantotto. Malaterra avea letto le croniche di Normandia e qualche classico latino; avea meditato, egli o il conte Ruggiero, sull’indole degli uomini e vicende degli stati; onde da storico, anzi che cronista, tratta i primordii di casa di Hauteville in Italia, i particolari della guerra siciliana; nè parmi semplice quand’ei v’intreccia i miracoli dei Santi e delle spade normanne, quando dissimula il numero degli ausiliarii ed esagera quel dei nemici; quando salta a piè pari le imprese fallite o troppo scellerate. Dei delitti privati di Roberto e di Ruggiero, furti, rapine e agguati da masnadieri, truffe e violenze tra fratelli, il Malaterra è largo raccontatore al par che Guglielmo di Puglia; non tanto per libertà loro e grandezza d’animo dei principi, quanto per l’opinione di quelle compagnie di ventura passata nelle corti, dove si tenean vezzi guerrieri da vantarsene, e peccati veniali prodigalmente pagati alla Chiesa.[54] Tolto dunque l’orpello mitico nelle prime [24] imprese, un po’ di reticenza o di esagerazione qua e là nelle altre, gli scritti di Amato, Guglielmo e Malaterra ci trasmettono le tradizioni normanne per tre vie dirette, paralelle e non comunicanti. Un buon compendio che parmi anco palatino e torna al millecentoquarantasei, aggiugne qualche particolare, secondo tradizioni che il tempo e gli interessi andavano guastando.[55] Leone d’Ostia, compilando nei principii del duodecimo secolo la storia generale di Monte Cassino, copia spesso Amato e vi aggiugne altri fatti con doppia circospezione di monaco e cardinale. Lupo Protospatario, autor della fine dell’undecimo, ci aiuta da magro cronista, diligente e imparziale tra Greci e Normanni. Altri contemporanei italiani e d’oltremonti, che citerò a’ luoghi opportuni, raddrizzano talvolta le opinioni degli scrittori di parte normanna; e così anche [25] correggono qualche fatto per lo conquisto di Puglia i Bizantini, e per quel di Sicilia i Musulmani: frettolosi gli uni e gli altri e svogliati nel discorrere la caduta di lor dominazioni.

I primi Normanni capitati di qua dalle Alpi il millediciassette per le pratiche del principe di Salerno,[56] venturieri per bisogno, cupidigia o persecuzioni nel paese natio,[57] trovarono in Italia una gran voglia a scuotere il giogo degli imperatori d’Oriente. I quali, essendo rimasti signori per la seconda fiata della Calabria e della Puglia, le ressero a lor solito; lasciarono i Musulmani di Sicilia a correre e taglieggiare quelle province, non frenati da buone armi nè da prudenti accordi; e con ciò ripigliarono le antiche pretensioni su i principati di Benevento, Capua e Salerno. Indi que’ signori longobardi si voltavano ad ora ad ora agli imperatori d’Occidente; e i popoli della Puglia, maturi a novità per le condizioni generali dell’Italia, si sollevavano, chiamando in aiuto gli Infedeli di Sicilia.[58] Dopo Smagardo, patriotta mal noto (997-1000), sorgea Melo, nobil cittadino di Bari, di schiatta longobarda, del quale la balba storia dell’undecimo secolo narra le [26] sventure piuttosto che la virtù, passando sotto silenzio come egli suscitasse o rinnovasse la ribellione pugliese; come ordinasse tre guerre in dieci anni; come traesse a cospirar seco i principi longobardi, l’imperatore d’Occidente ed il papa:[59] Melo, il ribelle italiano, morto in Germania con onori da principe; uomo di maravigliosa costanza, operosità, arte politica e valore. Come città longobarda fatta capitale dei dominii bizantini in Italia, Bari parteggiava in due fazioni,[60] [27] onde la ribellione dapprima vi trionfò; poi la parte greca rimbaldanzì pei rinforzi di Costantinopoli, e fu ristorato il governo straniero (1011). Melo rifuggito alle corti longobarde che l’aiutavano sottomano,[61] s’abboccò a Capua co’ venturieri arrivati di Normandia, lor diè armi, cavalli e stipendio (1017), levò altre genti ne’ territorii di Salerno e Benevento,[62] e mosse con tutta l’oste contro i Greci.

Ruppeli in tre o più scontri (1017-19), tornando ai Normanni i primi onori del trionfo; ed era libera la Puglia, se non che novello capitano, mandato di Costantinopoli, tagliò a pezzi l’esercito dei ribelli sul funesto piano di Canne (ottobre 1019). Ritentò Melo la fortuna, con altra schiera di Normanni sopraccorsa da Salerno, ove in tre anni n’era venuto grande numero alla sfilata; e toccò la seconda strage presso Melfi. Indi i principi longobardi a tentennare; Melo a correr oltre le Alpi, chiedendo gli aiuti d’Arrigo imperatore, e, mentre si apprestavano, morì. Dato, compagno di ribellione e fratello della moglie, andò al supplizio (1021), venduto dal principe di Capua e dall’abate di Monte Cassino. I popoli tornarono al [28] giogo, resistendo alcun capo qua e là con aiuti dei Musulmani di Sicilia. I cinquecento Normanni che rimaneano de’ tremila passati in Italia, s’acconciarono agli stipendii di Salerno e di Monte Cassino, divisi in sei compagnie, due con l’abate e quattro col principe; qualche altro militò a Capua ed a Napoli.[63]

Non oscuri, non potenti, vissero per altri venti anni da soldati di ventura. Crebbero di riputazione nelle risse tra i piccioli stati, passando sovente dall’uno all’altro per avarizia ed arte di mantenerli tutti vivi ed infermi. Secondo i guadagni crebbero un po’ di numero, per gente di lor sangue che cercava fortuna oltre le Alpi e per uomini facinorosi arruolati nella Lombardia propria ed Italia inferiore, i quali prendeano i costumi ed apparavano la lingua dei Normanni. Sopra ogni altro si avvantaggiò di coteste compagnie il principe di Salerno, allargando suoi confini. Sopra ogni altro lor giovò il duca di Napoli, il quale ripreso lo stato mercè una compagnia, donolle il territorio ove fondarono Aversa (1029), e ’l condottiero Rainolfo funne chiamato console e poi conte. Arrigo secondo e Corrado il Salico, calando in questi tempi nei principati per mantenervi la precaria autorità dello impero occidentale sopra quella del bizantino, guardaron d’occhio benigno i Normanni come stranieri; [29] e Corrado investì solennemente Rainolfo della contea d’Aversa (1038), dandogli a mano il gonfalone imperiale attaccato in cima a una lancia.[64]

La compagnia normanna nella primitiva sua forma sembra squadron di cavalli, da venticinque ad ottanta, condotto da un capitano intraprenditore che assoldasse gli uomini e guadagnasse per sè, ovvero da capitano eletto che amministrasse il peculio sociale, cioè lo stipendio toccato in comune e il bottino. In battaglia par che le compagnie dessero comando temporaneo ad un capitano a scelta di tutti, per quel giorno colonnello, com’or diremmo, d’un reggimento.[65] Due reggimenti o bande erano in Italia verso il milletrentotto; delle quali la prima, di veterani e lor aderenti chiamati di Normandia, stanziati ad Aversa, fatti possidenti e però meno avventurosi, s’andava rassettando, a mo’ delle istituzioni patrie, sotto un colonnello perpetuo o si chiami conte privilegiato dall’imperatore; ma più ritenea del wicking che non avesse preso del feudo. L’altra, vero wicking, di giovani che tentavano la sorte, mescolati a più [30] numero d’Italiani, lasciò i soldi del principe di Salerno per seguire le insegne bizantine in Sicilia. Eran circa cinquecento cavalli, condotti da un capitano amministratore, il milanese Ardoino.[66]

Il savio cavaliere lombardo, ripassato co’ suoi il Faro dopo l’insulto di Maniace, gittò il dado a un gran disegno. La ribellione di Puglia male spenta con Melo,[67] si ridestò per opera del figliuolo Argiro, come prima le soldatesche bizantine sgomberavano il paese, traendo alla guerra di Sicilia: ma fe’ testa ai ribelli la fazione costantinopolitana, talchè Bari fu presa e ripresa; e infine Michele Doceano, tornato di Sicilia, ricominciò i supplizii nella capitale (nov. 1040). Argiro nondimeno rimase nella provincia, latitante o in arme.[68] Ardoino, giunto in questo medesimo tempo, praticò coi malcontenti; e non si fidando, come soldato ch’egli era, nelle forze tumultuarie, nè in Bari aperta ai Bizantini dalle fazioni e dal mare, divisò di piantar altra bandiera di rivoluzione a Melfi, addossato all’Apennino allo sbocco della maggior valle onde si valicava agli stati del Tirreno, nemici naturali di Costantinopoli; ma sopra tutti fece assegnamento su i Normanni. Andò pertanto ad Aversa ad esporre le condizioni delle cose; il fior degli eserciti greci avviluppato in Sicilia, i popoli della Puglia pronti a ripigliare le armi: «E perchè ti starai,» disse al conte Rainolfo, «contento a due spanne di terreno, come il [31] topo nella buca, quando puoi meco signoreggiare quei ricchi campi, cacciandone le femine vestite da soldati che li hanno in guardia?»[69] Ristretti i capi a consiglio, deliberano l’impresa; stipolano federazione con Ardoino, e ch’egli s’abbia metà degli acquisti. Aversa fornì trecento uomini sotto dodici capitani, che allora e poi si addimandarono conti, uguali tra loro in grado e con ugual diritto nel partaggio.[70]

All’entrar del millequarantuno Ardoino una notte conduce chetamente le compagnie a Melfi; si fa incontro ai cittadini che pigliavano l’arme, ed «Ecco, lor grida, vi reco la libertà che sospiraste. Io tengo parola: compite or la parte vostra ed accogliete come compagni e fratelli cotesti amici miei, mandati proprio da Dio per togliervi di servitù!»[71] Fermasi il patto che Melfi non abbia signor feudale; reciprocamente si giura lega e amistà.[72] La dimane [32] i Normanni corron predando a Venosa; il secondo dì ad Ascoli, poi a Lavello e per tutta la Puglia senza contrasto.[73] Tra le due bande e i Pugliesi che le seguirono, [33] sommavan già a tre migliaia d’uomini; settecento soli a cavallo e pochi tra essi vestiti di corazza.

A’ diciassette marzo, Doceano lor presentava la battaglia su le sponde dell’Olivento sotto Melfi, con la legione Obsequiana dell’Asia Minore e gli ausiliarii, russi: cinque o sei contr’uno ed assai meglio armati; ma furono sconfitti.[74] I Greci toccarono la seconda rotta ancorchè rinforzati di Traci e d’Italiani [34] a Montemaggiore su l’Ofanto, del mese di maggio; la terza, di settembre, a Montepeloso, dove i Normanni non riconobbero al certo il comune legnaggio nei Varangi, schierati contr’essi con genti greche e slave, sotto il catapano Boioanni. Si bilanciò la fortuna delle armi nel quarantadue, ripassato in Italia il fiero Maniace. Poi tornò per sempre ai Normanni.[75]

Tra coteste guerre, le due bande d’Aversa e di Sicilia stanziavano a Melfi, accomunate, com’ei sembra, e ridivise sotto dodici condottieri, i quali si reggeano a repubblica, e ciascuno s’acconciò un palagio e un quartiere nella città:[76] independenti l’un dall’altro e gelosi; ma gareggiarono sempre di virtù sul campo. Col danaro, le armi e i cavalli tolti ai nemici, e con promesse di maggiori acquisti, levaron cavalieri e fanti italiani nei principati longobardi e nella Lombardia propria;[77] incorporandoli, com’e’ parmi [35] chiaro, in lor compagnie anzichè formarne delle nuove. Ardoino disparve: morto nei primi scontri, o messo da canto e sbeffeggiato s’ei volle comandare; rimaso doge senza soldati dopo l’unione delle due bande.[78] Gli sostituirono innanzi la battaglia di Montepeloso (1041) Atenolfo, fratello del principe di Benevento, per guadagnar fede appo i popoli dei quali avean bisogno;[79] ed a capo di pochi mesi dettero lo scambio ad Atenolfo per le medesime cagioni, in persona di Argiro, il quale a quel precipizio de’ Greci era stato gridato duca di Italia a Bari (febbraio 1042), ed avea ripigliato virtuosamente le armi.[80] Argiro, [36] capo della rivoluzione, conveniva meno che ogni altro ai Normanni vogliosi non di liberare la Puglia, ma di sottentrare agli antichi signori. Donde all’assedio di Trani un condottiere per poco non l’uccise;[81] ed egli a dirittura praticò con la corte bizantina di riformare lo stato in Puglia;[82] tentò invano d’adescare i Normanni che uscissero d’Italia per acquistar nuove palme e nuovi tesori ai soldi dell’impero in Persia; e finì lor nemico mortale, duca di Puglia per doppia grazia dei popoli e dell’impero d’Oriente, cospirando col papa e l’imperatore tedesco allo sterminio dei Normanni.[83]

Ma gli astuti condottieri che s’erano scissi quando lor entrò in mezzo Argiro, ed alcuno era [37] passato al principe di Salerno,[84] tosto s’accorsero che nell’unione sola era da sperar salute e trionfo sugli Italiani. Rifanno pertanto la lega normanna; le prepongono, con titolo di conte di Puglia, Guglielmo Braccio di Ferro, primo tra loro per riputazione nell’armi e numero di aderenti; si associano il conte d’Aversa; e riconoscono signor feudale Guaimario principe di Salerno. Celebrossi il nuovo patto a Melfi, di settembre millequarantatrè, fatto insieme il partaggio della terra occupata per forza o per accordo, talchè il conte d’Aversa e i dodici condottieri, Guglielmo al par degli altri, ebbero ciascuno una grossa città, rimanendo Melfi in comune come capitale.[85] Ordinamento misto tra feudale e federale, che presto volse a pretta feudalità. I condottieri tennero da baroni, com’e’ sembra, ereditarii, le città assegnate, levando tributi, sforzando gli abitatori a servigi secondo le costumanze longobarde che trovavano nel paese non cancellate dalla dominazione bizantina; ed anzi che smettere gli abusi di quella, aggiunsero quanti ne ricordavano di casa loro in Normandia.[86] Sembianza feudale anche [38] ebbe l’omaggio al principe di Salerno; credo senz’obbligo di servigio militare, nè altro. Il nuovo conte di Puglia, elettivo, fu capitano a vita e magistrato federale, ma ebbe dritto di creare o almen di proporre novelli baroni pei territorii che mano mano s’acquistassero:[87] dimodochè il senato federale s’empiva di creature sue, ed a capo di trent’anni il terzo conte inghiottì e signor feudale e confederati, e regnò con titol di duca su la più parte dell’Italia meridionale.

La famiglia che si levò a tanta altezza veniva dal Cotentino, provincia normanna più che nessun’altra di Normandia.[88] Quivi nei principii dell’undecimo secolo tenne la picciola terra di Hauteville presso Marigny nella diocesi di Coutances,[89] un Tancredi, gentiluomo di nobiltà mezzana, di scarso avere, di gran forza e coraggio, non ignoto a corte dei duchi di Normandia, ma non congiunto loro, come poi si favoleggiò;[90] il quale fu padre di dodici [39] robusti figliuoli, educati secondo il secolo e paese, in cacce, armi, cavalli, pietà cristiana e morale da rubatori di strada. Fatti guerrier di ventura, tre dei maggiori, per nome Guglielmo, Drogone e Unfredo,[91] capitarono dopo varie vicende in Italia; militarono a Capua, indi a Salerno, e passarono con l’esercito di Maniace in Sicilia (1038); dove Guglielmo, preposto a un drappello o compagnia che fosse,[92] meritò il nome di [40] Braccio di Ferro. Rifulse al paro la sua virtù nella guerra di Puglia: co’ brividi della quartana addosso si gittava nella mischia a Montepeloso (1041) e ristorava la battaglia: prode tra i prodi, affabile e savio, spalleggiato da due fratelli conti anch’essi o capitani di compagnie, chi potea contendergli il primato nella repubblica militare di Melfi? Morto costui a capo di tre anni (1046), fu rifatto conte di Puglia Drogone, ch’ebbe primo l’investitura dallo imperatore Arrigo terzo (1047); e ucciso Drogone (1051), i Normanni gli surrogarono l’altro fratello Unfredo, sotto il quale repressero un gran tumulto di principi e popoli.[93]

Tumulto legittimo nel popolo che avea cercato libertà e pativa oltraggi novelli; tumulto suscitato anco dal papa e dagli imperatori d’Occidente e d’Oriente per interesse proprio, sotto la solita specie di ben pubblico, morale, giustizia, religione. I Normanni lor davano appicco. E veramente se mancassero attestati precisi della costoro insolenza e cupidità in Italia, si argomenterebbe dagli eventi contemporanei d’Inghilterra, dove gli ospiti normanni di Eduardo primo fecer tanto che provocarono i Sassoni alla ribellione.[94] Crederemo dunque agli scrittori tedeschi, italiani e [41] bizantini di quel tempo i soprusi che narrano delle bande stanziate in Puglia, mescolate d’oltramontani e Italiani, ai quali era sola patria il campo, sola virtù il disciplinato valore.[95] I nuovi sudditi, spogliati dai conti e oltraggiati dalle soldatesche, dettero ascolto ai tre potentati che inopinatamente stendean loro la mano. Costantinopoli, per estremo rimedio, richiamava gli esuli a Bari; facea duca d’Italia Argiro figliuol primogenito della rivoluzione; prometteva alla Puglia l’età dell’oro. L’imperatore germanico si apprestava a mandare soldati, sollecitato dal papa che in quella stagione era come suo castaldo in Italia. Più che ad ogni altro premea l’impresa alla corte di Roma, la quale sorgendo da due secoli di vergogne, a’ consigli d’Ildebrando monaco e cardinale prendeva a riformar i costumi del clero e le elezioni ecclesiastiche, per le [42] quali combattè Ildebrando papa: e con quelle nuove armi di castità e libertà ritentava gli acquisti nell’Italia meridionale. Leone nono, uom di religione e virtù private, condusse eserciti per liberare i popoli, com’ei diceva, dalla tirannide: a difendere i poveri cospirò coi due imperatori, con Argiro e coi Pugliesi tinti tuttavia del sangue di Drogone, che fu pugnalato alle spalle alla soglia del tempio. E tranquillava la coscienza con l’equivoco sacerdotale. «La morte d’alcun Normanno io non bramo, nè d’alcun uomo,» scrivea Leone pochi anni appresso a Costantino Monomaco, «ma voglio far pentire col terrore umano chi non paventa il giudizio di Dio.»[96]

Mentre i nemici si sfogavano senza unità di consiglio nè d’azione, i Normanni si rassodarono, si estesero nelle Calabrie sopra i Greci;[97] e vennero d’oltremonti i figliuoli di Tancredi per la seconda moglie Fredesenda, primo tra essi Roberto Guiscardo (1047); al quale il fratello Drogone non sapendo come provvedere, mandollo con un pugno d’uomini ai confini di Calabria; fe’ racconciare un ridotto di legname in cima a un [43] monte; lo chiamò Rocca di San Martino; disse lì al giovane di pigliar se potesse quanto scopriva con gli occhi; e volte le spalle se ne tornò in Puglia.[98] Cominciò Roberto il conquisto della Calabria da ladrone: rapire bestiame, saccheggiar ville, sequestrare le persone che paghin riscatto, ardere i cólti a chi ricusa la taglia, ammazzare cui difende la roba; tantochè un distretto si sobbarcava alla signoria feudale e i masnadieri passavano a un altro. Nel pessimo tirocinio, Roberto si fe’ gran capitano; si rimpannucciò con un matrimonio ed un tradimento; assoldò gente e se ne attirò molta più con promessa di bottino, con giustizia nel dividerlo, con quel suo sembiante marziale e risoluto, con piglio da buon compagno, e riputazione di smisurato coraggio, costanza, astuzia e profondità di consiglio. Un’oste di Calabresi per tal modo seguiva le fortune di Roberto quando papa Leone calò in arme a Civita sul Fortore, e i Normanni ragunarono tutte loro forze per difendersi. Affamati, ributtata dal papa ogni lor proposizione e preghiera, furono costretti a combattere (18 giugno 1053), capitanando Unfredo l’esercito e la prima schiera, Riccardo conte d’Aversa la seconda, e Roberto la terza, tutta di Calabresi. Gli Italiani del papa, senza capitano, fuggirono; i Tedeschi si fecero tagliare a pezzi; gli Italiani delle compagnie e que’ di Roberto trionfarono allato ai Normanni.[99]

[44]

Lasciata da canto la supposta concessione feudale del papa in questo tempo,[100] certo è che i vincitori il fecer prigione baciandogli i piedi, e che Leone benedisse lor vivi e loro morti, lagrimò, fece lunghe penitenze, dicon anche miracoli, e dopo dieci mesi tornò libero a Roma, rannodate con Argiro e coi due imperatori sue trame contro i Normanni;[101] ma la morte [45] le troncò (1054) e prevenne anco Stefano nono che parlava di ripigliare l’impresa (1058).[102] Unfredo intanto usando la vittoria di Civita, soggiogava il rimanente della Puglia; minacciava Bari e qualche altra città da non potersi espugnare di leggieri; il Guiscardo ripigliava l’opera in Calabria;[103] e con questo crescea la potenza di casa Hauteville, fatti conti Malgerio in Capitanata e Guglielmo in Principato, e venuti altri fratelli e aderenti.[104] Sperò Unfredo lasciare l’oficio in retaggio: in punto di morte, chiamato a sè Roberto, lo istituì tutore del figliuolo minore; raccomandò forse entrambi ai capi normanni; e quando ei spirò (1056) il Guiscardo fu promosso a conte di Puglia.[105] Il quale fe’ sentir la mano del masnadiere al pupillo ed ai compagni; represse duramente con forza e frode quei che si ricordavano dell’uguaglianza; e divenne di fatto signor feudale. Compose agevolmente una sembianza di dritto, prendendo titol novello e investitura dalla corte di Roma.

[46]

Già Ildebrando preludeva per bocca di Niccolò secondo alla guerra del sacerdozio contro l’impero, ordinando libera la elezione dei pontefici (1059); già l’idea guelfa lampeggiava nella mente del cardinale toscano e del papa savojardo vissuto a Firenze: la corte di Roma, volendo sciogliersi della soggezione ai Tedeschi, dovea farsi puntello delle forze, quali che si fossero, che trovava in Italia. Niccolò dunque, tenuto un concilio a Melfi sopra la disciplina ecclesiastica, vi compì faccenda più grave: abboccatosi con Roberto scomunicato, lo ribenedisse, l’investì della signoria di Puglia e Calabria, che le tenesse, con titol di duca, in feudo della Chiesa romana, giurassele fedeltà, le fornisse servigio militare al bisogno, e pagassele censo annuale di dodici denari a jugero su i terreni tenuti da lui medesimo o conceduti a’ Normanni fino a quel dì. Promise inoltre a Roberto l’investitura della Sicilia.[106] La corte di Roma non [47] aveva dunque posseduto Puglia, Calabria nè Sicilia, in fatto nè in carta, se non che nella falsa donazione di Costantino e nelle interpolazioni dei diplomi di Lodovico il Pio, Otone terzo ed Arrigo [48] secondo; ma avea nel clero dell’Italia meridionale fautori e clienti; avea nel popolo riputazione di liberatrice e santa, e spirava religioso terrore nei feroci venturieri d’oltremonti. La sostanza dunque fu, che il [49] gran censore della simonia diè in soccio a Roberto que’ suoi partigiani e un podere d’incerto padrone, per cavarne censo in buona moneta ogni anno, servigio di buone spade occorrendo, più i guadagni contingenti della sovranità feudale. Onesto o no tal baratto, la corte di Roma prestava forze vere in Terraferma; all’incontro nel patto aleatorio della Sicilia non mettea nulla del suo. Alla quale origine corrisposero i successi, poichè, conquistata l’isola, niuno domandonne l’investitura alla corte di Roma; anzi il papa risegnò parte dell’autorità ecclesiastica al principe che procacciasse un po’ di credito a San Pietro nell’isola bipartita tra Fozio e Maometto. Nello stesso modo che a Roberto e per gli stessi motivi, Niccolò secondo largì l’investitura d’Aversa al conte Riccardo; il quale poco appresso carpiva il principato di Capua (1062). Così la dominazione normanna mettea radici, rafforzata dalla parentela e comunanza d’interessi di Riccardo e Roberto; dal matrimonio di costui (1058) con una sorella del principe di Salerno, per la quale ripudiò con ippocriti cavilli Alverada, prima cagione di sua grandezza; e infine dall’acquisto della Calabria che Roberto e Ruggiero compirono nella state del millesessanta.

Ruggiero, ultimo figlio di Tancredi, passò in Italia verso il millecinquantasei, giovane di venticinque anni o in quel torno,[107] grande, ben complesso, di bell’aspetto, facil parola, coraggio a tutta prova, animo vago di [50] lode, ambizioso per tanti esempii di sua casa e nazione, turbolento, ma aperto e liberale, scevro dei vizii capitali di Roberto, suo pari forse in guerra, savio nelle cose di stato, senza quegli alti voli che sapea spiccare il Guiscardo. Il quale promosso a conte di Puglia, ricominciata dopo breve spazio l’impresa di Calabria, e fatta invano una punta infino a Reggio (1056), era tornato in Puglia, quando gli parve di tentar con poche forze nuovo colpo, tra quelle popolazioni spicciolate, discordi, disubbidienti all’impero bizantino: verghette agevoli a spezzare, poichè lor nojava di stringersi in fascio. Manda Ruggiero con sessanta cavalli (1057) sugli estremi gioghi meridionali dell’Apennino; e quegli compie da maestro l’usata fazione normanna, del piantarsi in un ridotto su le alture e dare il guasto giù nei piani: talchè tutta la val di Saline presso il Capo dell’Armi si sottomesse alla signoria feudale di Roberto. Con giovanil probità, Ruggiero gli consegnava il danaro rubato: con sagacità lo consigliava sopra un nuovo sforzo che s’apprestò contro Reggio; e andativi entrambi, Ruggiero con audaci scorrerie provvide l’esercito di vittuaglie; ma resistendo forte i cittadini e sopravvenuto l’inverno, l’assedio fu sciolto. Allora nacque discordia tra i fratelli, lagnandosi Ruggiero che Roberto per avarizia e invidia male assai lo rimeritasse; ond’ei s’accostò all’altro fratello Guglielmo conte di Principato, fatto anch’egli nimico di Roberto, al quale recarono molestia con depredazioni e scaramucce; poi rappattumati, Ruggiero tornava agli stipendii del duca con quaranta cavalli; e tosto non vedendogli [51] snocciolar moneta, se n’andava e ripigliava le scorrerie. A Melfi, il giovane incapricciatosi dei cavalli di un vicino, li avea rubati di notte con un di sua masnada per nome Blettiva, maestro di furti; e di lì a poco saputo di certi mercatanti che viaggiavano da Amalfi a Melfi, li appostò, spogliò e taglieggiò, e col danaro accrebbe la compagnia fino a cento uomini. Ma entrato l’anno millecinquantotto e straziata la Calabria dalle genti di Roberto, da una pestilenza e da orribil fame, le popolazioni sottomesse alla signoria normanna si levarono; trucidarono intere compagnie: onde Roberto si consigliava di tramutar di Puglia in Calabria, dal campo nemico al suo proprio, il lioncello ch’avea messo tal giubba in due anni. E gli interessi raccendeano subitamente l’amore fraterno: Roberto concedeva a Ruggiero la metà dei territorii acquistati e da acquistarsi nell’estrema Calabria. Fermata la sede a Mileto, Ruggiero, del millecinquantanove, soggiogò la più parte del paese; conciò male due vescovi, greci al certo, che gli vennero incontro armati in Val di Saline; balzò in Capitanata insieme con Roberto e fece cavar gli occhi a un altro Normanno che s’era ribellato contro il fratello Goffredo; tornò con Roberto in Calabria per far una scorreria fino a Reggio (1059) ed apprestaronsi a maggior guerra. E in vero, del millesessanta, Roberto, raccolto quasi un esercito e preso con seco Ruggiero, calò a Reggio nel mese di luglio, e dopo molti combattimenti, nei quali il giovane si segnalò come in tutta sua vita, i valorosi cittadini furon chiusi dentro le mura, piantate [52] le macchine a far la breccia; sì che Reggio esausta s’arrese a patti, riconoscendo signore il duca. Il quale mentre assestava la città, Ruggiero soggiogò le castella vicine, fuorchè Squillaci; e anch’essa, dopo qualche mese, aprì le porte.[108]

In venti anni così dalla ribellione d’Ardoino, le compagnie di Normanni e Italiani s’erano impadronite della vasta provincia bizantina. Salerno, che fu prima a chiamarle e sempre le favorì, divenuta era difatto lor tributaria, e i principi imparentati per forza con casa Hauteville. Non van contati i piccioli stati: Napoli mezza libera; Benevento carpita dal papa; Monte Cassino badia o feudo, non si sapeva; Amalfi presa e lasciata da Salerno. La casa di Aversa, congiunta per matrimonii con gli Hauteville e coi principi di Salerno, stava per dar di piglio al principato di Capua ed a Gaeta. Della dominazione lombarda rimaneva a Salerno appena il nome che sparve tra non guari (1077). Con ciò la compagnia, mutando ordini a poco a poco, da federazione ch’era di venturieri trapassava a nobiltà territoriale, vassalla la maggior parte di Roberto di Hauteville, la minore di Riccardo d’Aversa: e le due novelle dinastie, riconosciuta la sovranità feudale, prima di Salerno, poi degli imperatori germanici, le aveano disdette entrambe, acconciandosi in quella del papa. Garbuglio di dritto pubblico, se dritto si dovesse cercare in quel periodo, tra la fermentazione degli elementi onde poi s’aggranellò un reame, non conquistato da un popolo sopra un altro, [53] non riformato per movimento nazionale, nè religioso, nè sociale, ma per una rivoluzione mista di tutti que’ modi. I soldati mercenarii che fecero trionfare dopo mezzo secolo la ribellione di Melo, longobarda, latina ed aristocratica, usurparono la dominazione coi suoi frutti sopra i Bizantini e sopra gli abitatori ad un paro. Nella lunga e vana guerra, i venturieri furon costretti a mutar sovente i patti tra loro stessi, con le popolazioni soggiogate o confederate e coi principi vicini; e il duca di Puglia che s’innalzò tra quelle vicende, non venne a capo d’allargarsi in Calabria e quindi in Sicilia, senza la spada d’un altro condottiere; onde nacquero nuovi piati e andirivieni, finchè Roberto Guiscardo, correndo ad altre ambizioni, morì in Grecia (1085), e primeggiò in casa di Hauteville il conte Ruggiero signor della Sicilia. Infino a quel dì non vi ebbe dritto pubblico propiamente detto nell’Italia dal Garigliano a Trapani, se non che patti temporanei, i quali ben si assomiglierebbero a quei del wicking sotto gli Hastings e i Roll.

E come i compagni di Roll, così i Normanni d’Italia, in lor vita da masnadieri mostrarono splendidamente le virtù che fondano gli stati. Virtù di guerra, la quale s’apprese immantinenti agl’Italiani entrati nelle compagnie; poichè non istà nella forza e nel coraggio, comuni alla più parte degli uomini, ma negli ordini, nello esercizio, nella fidanza singolare e collettiva dei combattenti, nell’onor militare, nella tradizione delle vittorie. Prudenza civile adattata a quegli umili principii: attirar sotto lor bandiere forti Italiani; accomunarli d’interessi ai Normanni; trovare [54] partigiani nelle città; vezzeggiare ed arricchire il clero; divider opportunamente i furti; non sperperare la parte propria, ma ammontarla col capitale comperando nuovi uomini e nuove armi; tosare i sudditi senza lasciarli ignudi al tutto; azzuffarsi tra loro al partaggio e fin venire alle armi, ma rifar l’amistà e la fratellanza come se nulla fosse stato, quando i popoli si sollevano incoraggiati da quella discordia. Tali erano i condottieri normanni. Pieghevoli alle usanze del paese, fermatavi per sempre la dimora, e pochi di numero, non sembravano reggimento straniero: l’Italia meridionale godea sotto di loro la independenza e governo men molesto, da non meritar odio e molto meno disprezzo.

CAPITOLO II.

Arrivati quegli avventurosi uomini a Reggio, non si potea far che non agognassero al ben di Dio che si stendea sotto gli occhi loro di là dallo Stretto. Roberto lo vagheggiava tanto che ne avea già accattata dal papa la concessione eventuale;[109] Ruggiero, al dir del suo storiografo, ardea della brama di guadagnarvi meriti spirituali e temporali acquisti.[110] Nè si potea far che i Normanni non fossero chiamati in Sicilia da Musulmani cui costrignesse cieco furor di parte, da Cristiani levati a subita speranza del riscatto. [55] Primi dovean essere i Cristiani di Messina. Le sei miglia di mare che corrono tra le due rive dello stretto, se contrastano il passaggio qualche dì, lo rendono nel rimagnente dell’anno, agevole e comodo agli uomini, e sopratutto alle merci; donde gli è avvenuto da tanti secoli che l’estrema Calabria e i dintorni di Messina facciano come un sol paese per le relazioni commerciali, i parentadi, i costumi, le usanze, fin le passioni politiche degli abitatori: e n’abbiamo esempio nelle rivoluzioni del milleottocentoquarantotto e del milledugentottantadue. Non fu meno stretta al certo nel decimo secolo e prima metà dell’undecimo la fratellanza delle due popolazioni cristiane, l’una soggiogata e l’altra svaligiata ogni anno: gli stessi Musulmani, quand’e’ non correano a Reggio con la spada in alto, venian pacifici mercatanti o rifuggiti. Dopo le disposizioni degli animi, è da ricercare il numero. A legger Malaterra si direbbe Messina abitata da soli Musulmani nel millesessantuno; non facendosi parola di Cristiani di Sicilia pria che i Normanni fossero giunti alla valle che si stende tra l’Etna e la catena d’Apennino. Amato scrive più espresso che Roberto, entrato in Messina, la rifornì di suoi cavalieri trovandola abbandonata.[111] Ma ciò non va inteso in senso litterale, sendo inverosimile e direi quasi assurdo supporre che i Musulmani avessero cacciato ogni cristiano dalla città, il che mai non fecero nè in Sicilia nè altrove, nè loro condizioni sociali ed economiche il comportavano. È da ritenere pertanto che la popolazione di [56] Messina fosse notabilmente diminuita fin dal nono secolo,[112] sì che nel millesessantuno, sgombrata la piccola colonia musulmana, la città si trovasse, per modo di dire, spopolata. E con tale intendimento va esaminato il solo ricordo che abbiamo di pratiche tenute dai Cristiani di Messina coi Normanni.

In sul principio del decimottavo secolo, uscì alla luce nelle Miscellanee del Baluzio,[113] e fu ristampata dal Muratori[114] e da altri, una Breve istoria della Liberazione di Messina, lasciata tra mille altri documenti manoscritti da Andrea Duchesne, con annotazione che fosse copia d’antichissimo codice del Senato di Messina.[115] Spartivasi la Sicilia, al dir di quella cronica, in cinque principati che si stendessero lungo la costiera da Tindaro a Taormina, a Siracusa, a Trapani, a Palermo ed a Patti; e li reggean cinque Mori, nimici l’un dell’altro; dei quali il primo, Raxdis per nome, avea sede in Messina, dove i Cristiani, in virtù di [57] capitoli fermati al conquisto, godeano più alto stato che in niuna altra città dell’isola; serbando lor possessioni e culto e lo stemma della croce d’oro in campo rosso, conceduto già da Arcadio imperatore in merito di gloriosa gesta de’ Messinesi a Tessalonica. Ma sentendo aggravare ormai la mano degli Infedeli e vedendo affranti gli altri Siciliani da servaggio assai più duro, tre nobili uomini della città, Ansaldo di Patti, Niccolò Camulio e Iacopo Saccano, bramosi di liberare la patria, a dì sei d’agosto millesessanta, s’adunavano nell’isola di San Giacinto, come un tempo si chiamò il Braccio del Salvatore. La conchiusione fu d’offrire la Sicilia al conte Ruggiero e al duca Roberto che soggiornavano col papa a Mileto. I congiurati fan parte molto cautamente nella città; colgono il destro della festa in cui i Mori soleano chiudersi in lor case per dodici giorni; s’imbarcano travestiti in un legnetto, fingendo veleggiare per Trapani, ed approdano in Calabria. Sopraccorsi a Mileto, scansano di negoziare col papa; apron gli animi sì a Ruggiero esortandolo a venire in Sicilia; gli danno per arra il gonfalone d’Arcadio. Ruggiero consultò dell’impresa col papa e con sei cardinali; il papa, non perdendo mai di vista le cose di questo mondo, assentì, a condizione che si dividessero i beni della Sicilia in tre parti, la prima al clero, la seconda ai cavalieri, l’altra al principe. Allora il conte giura i patti, e che sarà in arme a Messina a capo d’una settimana. E al dì detto, cavalca con millesettecento uomini a Palmi, indi a Reggio: alfine, affidate le navi al fratello Goffredo, sbarcato ei con le genti a tre miglia da Messina, [58] gli vengono visti nell’isola di San Giacinto i cadaveri di dodici cristiani impiccati dai Mori per indizio della congiura. Muove Ruggiero all’assalto; i Cristiani di dentro piglian le armi, apron le porte, aiutano al macello degli Infedeli; egli entrato in città chiama i congiurati, rende loro il gonfalone vittorioso, ch’è riposto nella chiesa di San Niccolò; e il conquisto cominciato per virtù de’ cittadini di Messina si compie con la pattuita tripartizione delle terre. Così la cronica. Seguono due diplomi, l’un di re Ruggiero del millecentoventinove, l’altro di Guglielmo I del millecensessanta, nei quali leggonsi le larghe e vere franchigie municipali di Messina, interpolate bensì di favole che la fan capitale dell’isola sotto i Romani, i Greci e’ Saraceni.[116] Talchè il lettore, dopo lungo giro nella storia dello undecimo secolo, riesce in ultimo al gran campo di battaglia dove si travagliarono gli eruditi siciliani dal decimoquinto al decimottavo, a furia di paradossi e di falsi documenti. L’autore si vanta da sè medesimo contemporaneo; ma lo tradiscono gli intenti, le idee e la latinità del secol decimosesto.[117]

E in vero torna ai primi quarant’anni del secolo [59] seguente la copia più antica che abbiamo, quella cioè del Duchesne. Risalendo addietro, si rinviene in altre parole lo stesso racconto nella storia del Maurolico messinese, il quale non ne cita l’origine, nè par vi presti piena fede;[118] ed una ventina d’anni avanti Maurolico, si legge breve cenno della congiura nella storia del Fazzello, il quale par si riferisca a tradizione orale.[119] Dalla forma volgendoci alla sostanza e mettendo da canto la tripartizione legale dei beni, il soggiorno del papa a Mileto, il gonfalone d’Arcadio e il rimanente della macchina municipale, troviamo due fatti genuini, tolti da altre fonti che il Malaterra e l’Anonimo, e però inediti infino al tempo di Maurolico: cioè che un Goffredo fratel di Ruggiero, capitanasse le navi nella impresa di Messina,[120] e che la Sicilia Musulmana fosse allor tenuta da parecchi regoli discordi [60] e nemici.[121] Parmi si scopra a cotesti segni una primitiva e verace tradizione messinese, accresciuta e guasta dal duodecimo secolo in giù, a misura che crescea l’importanza ed ambizione della città; distesa in latino forse dal Maurolico stesso senza intento di frode; e in ultimo rabberciata da non so qual falsario, che interpolò anche il diploma del millecentoventinove, e si provò a ingannare il Duchesne. Della tradizione primitiva parmi si debba accettare i nomi dei tre congiurati o capi d’una congiura di pochi Messinesi, il viaggio loro a Mileto e le pratiche con Ruggiero; le quali sono taciute dai cronisti normanni, perchè i padroni le dimenticavano volentieri. E poteano dimenticarle, perchè non se ne vide effetto pubblico e flagrante come quello d’Ibn-Thimna. I Cristiani Messinesi vegliavano di certo sul nemico, svelavano le condizioni e andamenti di quello, ci rischiavan la vita non men che si fa con le armi alla mano; ma non arrivarono giammai a prendere le armi. E forse avvenne una o due volte che lo promettessero e non lo compissero, poichè le prime fazioni di guerra contro Messina sembrano fondate in su l’aspettativa di movimento qual che ei fosse dentro la città.

Sia per pratica di tal fatta, sia per esplorare soltanto [61] il terreno e tastare gli animi, s’arrischiavano i Normanni ad una correria nel settembre del millesessanta,[122] poco appresso l’occupazione di Reggio. Non uso a metter tempo in mezzo,[123] Ruggiero togliea seco da dugento cavalli;[124] traghettato il Faro, entrava nel porto di Messina discosto alquanto dalle mura in quella età. I Musulmani, all’insulto di sì picciol drappello, uscirono in furia. Il conte volendo combattere lungi dalle mura e far disordinare il nemico, s’infinse di fuggire a briglia sciolta: tornò d’un tratto alla carica, sbaragliò la schiera sparsa, la inseguì fino alle porte, uccidendo i più tardi; e presi i cavalli, armi, robe che lasciavano per via, rimbarcatosi prestamente, tornò a Reggio.[125] Indi mosse con Roberto alla volta di Puglia ove il duca avea da compier l’usurpazione sopra i capi Normanni e le città non sottomesse.[126] E [62] pur tra cosifatte brighe i due fratelli pensavano di portare la guerra in Sicilia alla nuova stagione; quando Ibn-Thimna affrettolli all’impresa; il quale perduta parte dello stato ch’aveva usurpato, spinto da timore, sete di vendetta ed inestinguibile ambizione, saputi i gloriosi fatti de’ Normanni, fors’anco le pratiche loro coi Cristiani di Sicilia, corse da Catania a chiamarli in aiuto contro i suoi nemici musulmani. Abboccatosi a Mileto con Ruggiero, e quindi a Reggio con lui e con Roberto che vennevi a posta,[127] Ibn-Thimna lor profferiva il partaggio dell’isola.[128] A che obiettando i Normanni non avere tante forze da combattere le possenti milizie musulmane della Sicilia, replicava esser quelle divise e discordi, avervi lui moltissimi partigiani,[129] rimanergli soldati e castella ubbidienti: tantochè i Normanni [63] acconsentivano, egli giurava la lega,[130] e dava un figliuolo in ostaggio a Roberto. Ruggiero s’apprestava allora ad andare in persona con sue genti d’arme; Roberto forniva i pochi cavalieri e i marinai ch’ei potè avere a Reggio, su i quali ponea Goffredo Ridelle, sperimentato uomo di guerra; e tornato prestamente in Puglia, chiamativi a consiglio suoi condottieri, n’ebbe altre forze,[131] in guisa che s’accozzò uno stuolo di cinque centinaia d’uomini[132] capitanati da Goffredo Ridelle e da Ruggiero, accompagnati da Ibn-Thimna come quegli che conosceva i luoghi e vi tenea pratiche e più se ne vantava.[133]

Negli ultimi di febbraio del millesessantuno, a vespro, sbarcarono i Normanni in su la lingua del Faro, presso i laghi.[134] Preser la via di Rametta; di che addatisi i Musulmani di Messina, uscì un drappello a far la scoperta. Cavalcando dunque Ruggiero la notte su per que’ monti, vide, all’incerto chiaror della luna, appressarsi un Musulmano: sguainata la spada, senza tor lancia e scudo che gli recava dietro il valletto, [64] spronò contro il nemico, gli diè d’un rovescio alla cintola, che lo tagliò netto in due pezzi, scrive il Malaterra con vezzo da romanzo. L’ucciso era fratello d’Ibn-Meklati già signor di Catania. Sbrigatisi da costoro, ma scoperti e perduta indi l’occasione d’un colpo di mano, scorsero predando bestiame nei territorii di Rametta e Milazzo, e al nuovo dì riduceansi a lor navi; cominciavano a imbarcare la preda, quando levossi un vento che li ritenne. A Messina intanto, ch’è presso a nove miglia, si notò la ritirata; si armarono cavalli e fanti, corsero al Faro per assalire i Normanni mentre fossero chi in terra chi in nave disordinati. Li trovarono al contrario stretti a schiera, preparati sì bene al combattimento che Ruggiero avea mandato Serlone, figliuol del fratello del medesimo nome, a girar di fianco con una torma di cavalli. Colti tra due schiere, i Musulmani furono rotti con molta uccisione: e i Normanni a incalzarli fino alla città, e s’apprestavan anco a darle assalto, quando trovaron le mura difese perfin dalle donne,[135] e uscì nuova gente con le fiaccole in mano a combatterli. A lor volta i vincitori erano circondati, ricacciati nelle alpestri coste dei monti ai quali s’appoggia la città. Raggiornando se ne strigarono con un impeto che lor aprì la via della pianura;[136] scesero al Braccio del Salvatore, senz’altra speranza ormai che d’imbarcarsi per Reggio. La tempesta infuriava. Per tre dì rimasero su quella lingua di terra,[137] intirizziti dal freddo; aspettandosi [65] che i Musulmani ingrossati di tutte le milizie dell’isola venissero a gittarli in mare; confortandosi con far voti al Cielo che se li cavasse di briga darebbero il bottino per riedificare una chiesa di Santo Andronico a Reggio.[138] Abbonacciato, come avviene sempre, il mare, scannavano i buoi predati, non volendo provarsi al tragetto con tali impedimenti; poi caricarono il carname ai conforti di Goffredo Ridelle che vergognava di tornare a casa e agli amici con le mani vote. Messisi, com’e’ pare, i Musulmani a inseguir loro barche, gli abitatori di Reggio ch’erano Cristiani e Saraceni, dice Amato, e di Saraceni si deve intendere i mercatanti e rifuggiti, per mostrar fede a Roberto novello signore della città, armarono navi, uscirono contro quei di Messina; dopo molto trar di saette, se ne tornarono con la peggio, uccisi nove uomini cristiani e presa una lor nave dal nemico.[139] Ibn-Thimna in questo mezzo s’era rifuggito ed afforzato in Catania.[140] Fallì dunque l’impresa fondata, come il mostrano i narrati fatti e que’ che narreremo, in su le pratiche d’Ibn-Thimna in Rametta e di Ruggiero in Messina; e compresero i Normanni che a rincorare lor partigiani infedeli o battezzati, fosse uopo di maggiori forze, e sopratutto navali.[141]

Roberto nei mesi di marzo e aprile convocava [66] di nuovo i condottieri con belle parole di vendicare la offesa di Dio, sterminare i Pagani della Sicilia, liberare i diletti fratelli in Cristo, e v’aggiunse più efficaci argomenti, doni e concessioni.[142] Accozzati per tal modo da mille cavalieri e mille fanti,[143] venne di Puglia in Calabria nei primi di maggio; postosi a un luogo presso la Catona, il quale s’addimandava Santa Maria del Faro,[144] ov’adunò barche da traghettare le genti; ma avea pochi legni da battaglia, tra dromoni e galee, troppo deboli a fronte dell’armata musulmana.[145] Nella quale si noveravano ventitrè tra corvette e dromoni ed uno o parecchi navigli grossi che chiamavan gatti, forniti di macchine da guerra;[146] chè Ibn-Hawwasci[147] risapendo i preparamenti di Roberto [67] e sollecitandolo ansiosamente quei di Messina, aveavi mandato da Palermo l’armata, oltre ottocento cavalieri e vettovaglia.[148] La vera difesa era l’armata. Poche milizie oltre quelle venute di Palermo potea fornire la colonia di Messina picciolissima e minore al certo della popolazione cristiana.[149] Rimasti dubbiosi alquanto di tentare il passaggio,[150] contro tal navilio, Roberto e Ruggiero montati su due velocissime galee, s’avvicinavano a Messina per esplorare: avvistati dai Musulmani e inseguiti, si dileguarono fuggendo dopo avere sopravveduta appieno la costiera;[151] e tornati al campo fermavano coi più esperti uomini di guerra, di portare un finto assalto di fianco. Adunarono l’oste; ogni uomo solennemente si confessò e comunicò; i due fratelli fecer voto di menar vita più che mai religiosa ed esemplare se arrivassero al conquisto della Sicilia; con gran fervore s’implorò l’aiuto divino.[152] Ruggiero andava alla fazione a malgrado di Roberto, il quale volle ritenerlo, dicono i cronisti, per fraterno amore, e alfine gli die’ dugentosettant’uomini in luogo di cencinquanta ch’ei n’avea tolti dapprima. Su tredici legni passarono a Reggio: indi la notte quetamente traghettato lo Stretto e sbarcati, s’appiattarono in un luogo detto le Calcare, a sei miglia per mezzogiorno da Messina, ove poi surse la Badia di Santa Maria di Roccamadore e [68] la terra di Tremestieri;[153] e Ruggiero rimandò le barche per troncare ogni speranza di ritirata, scrive con trito concetto il Malaterra; il vero è che lì svelavan l’agguato, e tornando in Calabria gli poteano riportare nuove forze. All’alba Ruggiero montato co’ suoi a cavallo s’avviava a Messina, quand’ecco un kâid che andava, come poi si riseppe, a pigliare il comando della città, con iscorta di trenta uomini d’arme e un convoglio di muli carichi di danaro. Svaligiati ed uccisi costoro, i Normanni avvistano lor proprie barche reduci da Reggio, le quali misero a terra altri censettanta cavalieri. Fu un abbracciarsi a vicenda un augurarsi certa la vittoria: e spronarono baldanzosi inver Messina.[154]

Ed ebberla senza combattere. Dalle navi, dalle mura, i difensori aveano scorto l’estranie armadure e i muli tolti al kaid; onde tennero già passato tutto l’esercito normanno, vana ormai la guardia del navilio in cui più s’affidavano e perduto ogni cosa;[155] tanto più che i Cristiani della città per pochi e disarmati ch’e’ fossero poteano levarsi al punto dell’assalto.[156] Percossi di subito terrore, i Musulmani d’ogni ordine, sesso ed età si danno a fuggire chi quà chi là, in barca, per la spiaggia, pei monti, per la selva, dice Amato; i Normanni sopravvenuti non hanno che ad uccidere i sezzai, spartirsi le donne, i bambini, [69] gli schiavi, la roba.[157] Tra gli altri correa su per l’erta un gentiluomo traendo seco l’unica sorella sua, bella giovinetta, gracile, educata tra gli agi nelle stanze della madre. I Cristiani incalzavano. Le mancava la lena; la paura allacciava le gambe: e il fratello a sorreggerla, a scongiurarla con lagrime che facesse animo. Ma rifinita stramazzò a terra e’ nemici eran presso: il guerriero anzi che lasciarla all’ignominia, alla schiavitù, all’apostasia, di propria mano la uccise.[158] Il creder vana ogni difesa facea cader le braccia ai più forti. Anco l’armata salpò non guari dopo, tornandosi a Palermo, perchè non osava riassaltare i nemici in città, nè rimanere in mezzo alle due rive tenute da quelli.[159] Ruggiero mandato aveva intanto al fratello le chiavi di Messina, invitandolo a prendere possessione della città.[160] E il duca ragunava in fretta quanti marinai e quanti legni piccoli e grandi si trovassero a Reggio;[161] chiamati alle armi cavalieri e fanti, rendea grazie a Dio della vittoria con gran fervore e dimostrazione d’umiltà cristiana. Comandò poi d’entrare in nave. Corservi [70] tutti con furiosa impazienza di gioia, sì che il vassallo non si ritenne dal passar dinanzi al suo signore, il signore non aspettò che lo seguissero i vassalli. Il mare sorridea lieto e tranquillo; nè tardarono a sbarcare in Messina.[162]

Roberto diede opera incontanente ad assicurare la chiave della Sicilia, sì agevolmente cadutagli in mano; onde sopravveduto il porto, le mura, le fortezze, le case, munì Messina di nuove difese, ordinovvi presidio di suoi cavalieri.[163] A capo d’otto dì, fatta la rassegna dei mille cavalli e mille fanti ch’avea seco, mosse con Ruggiero e Ibn-Thimna per la medesima via battuta da quelli pochi mesi innanzi. Precorreano sparsi i cavalleggieri predando; a volta a volta si raccoglieano, aspettavano i fanti e ripigliavano la marcia. Giunti alla formidabile fortezza di Rametta, lor uscì incontro il kâid a chiedere accordo: narrano i cronisti che in umil atto offrisse presenti, promettesse di obbedir a Roberto come a suo signore e giurasselo sul sacro libro di sua setta.[164] Forse ei [71] non fece che disdire l’autorità d’Ibn-Hawwasci e sottomettersi a Ibn-Thimna col quale pur avesse tenuto pratiche. Viltà o incostanza, l’esempio di Rametta incoraggiò Roberto a tirare innanzi per la costa dei monti che corrono lungo il Tirreno. Posò la prima giornata a Tripi,[165] la seconda a Frazzanò;[166] poi volgendo a mezzogiorno, valicati i gioghi, scese alla pianura di Maniace e piantovvi le tende. Quivi accorreano i Cristiani abitatori dei contorni con vettovaglie e presenti, scusandosi coi signori Musulmani che il facessero per salvar la vita e la roba da quei predoni. Roberto e Ruggiero raccolti benignamente i Cristiani, lor dettero sicurtà;[167] e dopo alquanti dì ripresero il cammino giù per la valle del Simeto, che par segnasse il confine tra gli stati d’Ibn-Thimna e d’Ibn-Hawwasci.

Primo intoppo lor fece la rocca di Centorbi, celebre nelle antiche istorie; le cui alte mura e profondi fossi fortemente eran difese da arcieri e frombolieri; [72] nè vollero ostinarvisi gli assedianti, portando la fama che Ibn-Hawwasci lor venisse alle spalle con gran gente. Passato il Simeto, trovate sgombre Paternò ed Emmelesio, grosse terre al dir d’Amato,[168] dalle quali e da ogni altro luogo dei dintorni i Musulmani si dileguavano e struggeansi come cera al fuoco, stette l’esercito a campo ben otto dì nella pianura di Paternò,[169] capitanato, continua il cronista, da Roberto e da Ibn-Thimna:[170] ond’è chiaro che non picciola parte fossero Musulmani; e ciò ne aiuta a comprendere i fatti. Ritraendo poi dagli esploratori d’Ibn-Thimna non essere nè vicino nè apparecchiato Ibn-Hawwasci, l’esercito, traghettato di nuovo il Simeto, espugnava con molta uccisione le grotte di San Felice, s’innoltrava infino ai mulini posti sotto Castrogiovanni in riva al Dittaino, dove piantava il campo.[171]

S’erano tra coteste fazioni raccolti intorno Castrogiovanni i Musulmani che sgombravano dalle assaltate province, i quali aveano ingrossato l’esercito d’Ibn-Hawwasci, sì che la tradizione normanna lo fece sommare, tra Siciliani ed Affricani, a quindicimila cavalli e centomila fanti; e lor attelò a fronte, per [73] maggior ornamento della leggenda, settecento cavalieri soli, tralasciando gli uomini d’arme, i pedoni, e quel ch’è più, le genti d’Ibn-Thimna.[172] A capo di pochi dì Ibn-Hawwasci veniva ad assalire i Normanni con l’esercito diviso in tre schiere. Roberto l’aspettò ordinatosi in due, vanguardia e battaglia; diè la prima a Ruggiero, capitanò l’altra egli stesso; arringò tutta l’oste: Non temessero di venire alle mani con tanta moltitudine, quando il Redentore avea detto: Se hai fede quanta n’entra in un grano di senapa e comandi alla montagna, la si muoverà:[173] la montagna che avean dinanzi non esser di pietra no, ma di brutture, d’eresia, d’iniquità; soffiasservi sopra invocando lo Spirito santo e si dissiperebbe, sendo Iddio con loro; si confessassero delle peccata, ricevessero il corpo e il [74] sangue di Cristo, impugnasser bene le lance e le spade, e non dubitassero della vittoria. Compiuti i sacri riti, rimontano a cavallo, s’alza il gonfalone, ogni guerriero fa il segno della croce e sprona innanzi; e ributtano i nemici; li scompigliano, li inseguono ammazzando infino ai ripari; e accalcandosi i fuggenti alle porte, molti son fatti prigioni in su l’orlo del fosso: i vincitori tornano addietro lasciando per tutta la campagna orrendi segni di strage. Le cronache v’intessono loro prodigi, l’una dice non ucciso nè ferito nella battaglia nessun cristiano, un’altra pochissimi, e dei Musulmani caduti diecimila: le quali frasi se non fossero da romanzo, farebbero tornare a Ibn-Thimna ed a’ suoi l’onor principale della giornata. Il vero è che la disciplina delle bande normanne e italiane, il coraggio, la sapienza dei capi, le forti armadure, gli animi infiammati di religione, d’onor militare e di cupidigia, ragguagliavano e sorpassavano l’avvantaggio del numero ch’aveano i Musulmani, ragunaticci senza fiducia nè consiglio. La preda fu tanta che qual cristiano avesse perduto un cavallo in battaglia ne guadagnò dieci nel partaggio. I prigionieri fatti schiavi si contarono con l’altro bestiame.[174]

Non essendo ormai impresa che non paresse da tentare contro così fatti nemici, Roberto si diè a strignere [75] la città. Il dì appresso la vittoria si poneano i Normanni in sul lago di Pergusa a mezzogiorno di Castrogiovanni, donde è men aspra la salita; al secondo giorno tramutarono il campo a Calascibetta, discosta due miglia a settentrione, dove fu diviso il bottino; indi scesero al piano detto delle Fontane,[175] rizzaron castella da quattro parti della città per chiudere tutti i passi; dettero il guasto alle messi ed agli alberi fruttiferi.[176] In una delle quali scorrerie Ruggiero con trecento giovani si spinse presso Girgenti, ardendo e depredando la campagna, e riportonne ricchissima preda che diè a dividere a Roberto.[177] Mentre il presidio di Castrogiovanni teneva il fermo contro ogni offesa, veniano al campo i kâid di parecchie rocche minori con danaro e presenti chiedendo la tregua, e Roberto l’accordava.[178] In ultimo giunsero i messaggi di Palermo con sontuosi doni, vesti lavorate a modo di Spagna, tele di lino, vasellame d’oro e d’argento, muli con selle ornate d’oro e ricchi morsi; e secondo costumanza saracena, scrive Amato, recaron anco in un sacco ottantamila tarì.[179] Ci si narra che Roberto “con [76] sottil trovato”[180] inviasse in Palermo, sotto specie di render grazie del dono, un esploratore; un diacono Pietro, che intendeva e parlava l’arabico, ma per comando del duca s’infinse d’ignorarlo affinchè non si guardassero di lui. Il quale andato alla capitale musulmana, l’emir tutto lieto d’essersi fatto amico Roberto, l’accolse onorevolmente, rimandollo con presenti, e quegli avea sì ben guardato e udito che riportò parergli la città decaduta e sbigottita, proprio un corpo senz’anima.[181]

Il blocco di Castrogiovanni si travagliava da un mese[182] e due n’erano scorsi dallo sbarco a Messina,[183] quando Roberto si deliberò alla ritirata, di mezzo luglio.[184] Onde non può credersi al Malaterra che ne fosse cagione l’inverno imminente. Poche le genti e scornate al certo in battaglia e per malattie, raccolte [77] le taglie e il bottino, Castrogiovanni inespugnabile, che altro restava ai Normanni se non che tornarsi in Terraferma, tener la via aperta a nuovo passaggio, nutrire la discordia per mezzo d’Ibn-Thimna e ordinar le popolazioni cristiane sì che li aiutassero almen di danari? Le popolazioni cristiane del Valdemone mostratesi un po’ ai Normanni nel campo di Maniace, trassero tanto più sotto Castrogiovanni ovvero nella ritirata, chiedendo al duca liberassele dal giogo, offrendogli danari e vettovaglie, dice il cronista, in tributo:[185] e qui par vero perchè non si può far che Roberto negli accordi con Ibn-Thimna non abbia stipulato almeno la cessione di una provincia. Sostò dunque a mezza via su la costiera settentrionale; bandì mercato com’era uopo a chi volesse vendere o barattare tanta preda di bestiame; di che molto si rallegrarono i guerrieri e s’invogliarono a soggiornare nel luogo circondato di popolazioni Cristiane. Quivi a tre miglia dal mare in territorio fertile e ameno, presso le antiche rovine di Alunzio o Calacta, chè ancor ne disputano gli eruditi,[186] Roberto fabbricò o ristorò in sito fortissimo un [78] castello al quale pose nome di San Marco, come la fortezza ond’avea principiato il conquisto delle Calabrie, sperando che il buon augurio e la protezione del santo evangelista gli portassero pari fortuna in Sicilia. Lasciovvi presidio sotto un Guglielmo de Male; e continuato il viaggio, fece venir la moglie in Messina,[187] rafforzò meglio la città d’uomini e vettovaglie; indi tornossi in Puglia e Ruggiero a Mileto in Calabria. Ibn-Thimna era ito intanto in Catania per continuare la infestagione sopra i nemici che gli rimanevano in Sicilia,[188] ch’è a dire gli abitatori delle odierne province di Caltanissetta e Girgenti. Le province di Catania e Siracusa ubbidivano a lui;[189] quella di Messina, che a gran pezza risponde al Val Demone, stava sotto la protezione dei Normanni, i quali a bella posta avean munito il castel di San Marco.[190] Le province di Palermo e Trapani avean fatto l’accordo, forse un patto di federazione con l’emir di Catania. In tali condizioni lasciava la Sicilia Roberto, capitano degli ausiliari cristiani d’Ibn-Thimna. Vedremo per brev’ora sottentrargli il fratello [79] Ruggiero, e poi farsi vero capitano dei conquistatori cristiani della Sicilia; e Roberto venir com’ausiliare in due sole fazioni di sì lunga guerra.

CAPITOLO III.

La sconfitta d’Ibn-Hawwasci sotto Castrogiovanni portò in Palermo un mutamento di stato analogo a quello che avea seguita, nel mille quaranta, la rotta d’Abd-Allah-ibn-Moezz.[191] Narravaci Amato l’ambasceria dei Palermitani, la tregua ch’egli chiama sommissione, stipulata con Roberto dalla capitale e da altre città e castella, e l’occupazione del Valdemone. E Ibn-el-Athîr scrive come il signore di Castrogiovanni, vinto dai Franchi, riparasse nella fortezza; come quelli cavalcando per l’isola s’impadronissero di varii luoghi; come non pochi sapienti e patriotti musulmani si rifuggissero in Affrica appo Moezz-ibn-Badîs, per chiedergli aiuti, esponendo la misera condizione di lor popolo, straziato dalla discordia e dalle armi straniere. Messe insieme le due tradizioni appare dunque l’usata vicenda delle guerre civili: l’opinione pubblica dannò i vinti; i partigiani loro nella capitale fuggirono o furono scacciati; nè è maraviglia che l’oratore di Roberto vi trovasse tanto scompiglio e squallore, nè che la parte dei nobili, amica d’Ibn-Thimna, mandasse a rallegrarsi coi Normanni, forse a trattare accordo [80] per dar tutti insieme la pinta a Ibn-Hawwasci. Nè scarseggiano tra i Musulmani dell’undecimo e duodecimo secolo cotesti esempi di lega coi Cristiani; chè oltre i raccontati fatti d’Akhal e d’Ibn-Thimna stesso in Sicilia, ne son piene le istorie della Spagna. Con men biasimo gli usciti di Palermo si rivolgeano adesso a Moezz-ibn-Badîs, sollecitandolo a portare le armi in Sicilia.

La dinastia zîrita, sopraffatta come dicemmo dagli Arabi d’oltre Nilo, avea perduta la terra, non il mare; le rimaneano nella munita penisola di Mehdia il navilio, un forte nodo di schiavi stanziali, e denaro da reggere alla guerra: quegli Arabi medesimi, rapaci e fieri quanto le belve, tornavano al par di esse inetti a durevole sforzo comune, inferiori alla virtù dell’ingegno che sapesse adoperarli agli intenti suoi. Fin dai primi impeti della irruzione, avea Moezz guadagnati alcuni capi di tribù con doni e parentadi, sposando ad essi le proprie figliuole; onde quei l’aiutarono alla ritirata da Kairewân a Mehdia, nel millecinquantasette. A capo di pochi anni, distrutto ogni industria agraria e cittadinesca nell’Affrica propria, fuorchè le cittadi marittime, consunto il bottino, quelle masnade, non sapendo altro mestiere, furono costrette a mendicare stipendio alle porte di Bugia, Tunis, Mehdia, Sfax, Kabes: fortezze inespugnabili, poi ch’essi non poteano chiudere il mare e ridurle per fame. Le quali città dettero ascolto ai barbarici condottieri, avendo a lor volta bisogno della terra pei commerci e sendo spinte l’una contro l’altra da quella forza dissolvente della società musulmana, [81] che abbiam notata in tutto il corso di queste istorie. In Bugia un ramo di zîriti, ribelle al ceppo della famiglia, agognava ad usurpar tutto lo stato; nelle altre città le fazioni o i governatori faceano opera a sciogliersi dalla ubbidienza; e da Mehdia il principe si sforzava a ripigliare l’autorità dove potesse. Le tribù masnadiere si messero dunque a combattere per l’uno o per l’altro, talvolta tra loro stesse; mescolaronsi nella briga i Berberi della campagna e le popolazioni delle città marittime: Arabi del primo conquisto, Berberi e avanzi d’altri antichi abitatori. La quale tenzone da pigmei, tanto più rabbiosa, durò ottant’anni, accompagnata dalla desolazione e dalla fame, ed aprì la via ai conquisti dei Normanni siciliani (1148) e degli Almohadi (1160).

Onde Moezz impotente contro i ribelli della costiera e tanto più contro gli Arabi, anzichè consumare le forze che gli rimaneano in vane imprese contro province perdute, volle tentare la fortuna in Sicilia con l’aiuto degli stessi nemici ch’egli avea in casa.[192] Allestì le navi, le fece salpare l’inverno del millesessantuno. Arrivate alla Pantelleria, una tempesta le disperse; ne affondò la più parte,[193] e sgomentando [82] i nemici d’Ibn-Thimna delusi nella speranza dell’aiuto, diè incentivo, com’e’ sembra, a nuova impresa di Ruggiero.

Il quale, nel dicembre, ripassato il Faro con dugencinquanta cavalieri, tagliava l’isola per lo mezzo, spingendosi fino a Girgenti, quasi fossevi aspettato; depredava il paese e tornava ratto addietro. Le popolazioni cristiane gli veniano incontro liete e disposte a dargli favore senza affidarsi troppo: ma quei di Traina, gente greca, l’accoglieano in città con grande allegrezza ed ossequio, tanto che ordinò la terra come ei volle, dice lo storiografo del conte[194] e l’Anonimo che Traina si sottomesse al suo dominio; ma scrivea questi ottant’anni dopo. Parrebbe piuttosto che i Troinesi, liberi di fatto dalla signoria musulmana, aspirando a ripigliare l’ordinamento [83] di municipio tributario[195] avessero data ospitalità al fortunato avventuriere cristiano, ascoltati i suoi consigli militari e, se si voglia, appiccata una pratica di confederazione, come la chiamarono e stipularono allora i Normanni con alcune città di Calabria, cioè che il condottiero s’obbligava a difendere il comune, e questo a riconoscerlo console e pagargli stipendio. E la condotta non sarebbe divenuta signoria feudale a Traina che dopo la guerra dell’anno seguente, così come accadde in quel torno a Geraci ed altri luoghi in Calabria, quando il console afforzò un castello dentro la terra, mutò lo stipendio in tributo, aggravandolo di soprusi feudali, e gli abitatori o piegarono il collo, o resistettero e furono soggiogati a pretto vassallaggio. Veramente non ci si narra che Ruggiero ponesse questa prima volta presidio in Traina. Passovvi le feste di Natale; poi, per avviso venutogli di Calabria, frettolosamente partissi.[196]

[84]

Era giunta in Calabria una donzella che schiudeva in terra il paradiso all’ambizioso giovane di trent’anni: Giuditta, figliuola del conte di Evreux, discendente dei duchi di Normandia. Par che Ruggiero, pochi anni innanzi, uscendo dal tetto paterno senz’altro retaggio che il cuore e la spada, si fosse invaghito della giovinetta reclusa nel Monastero di Saint-Evrault, e che dopo parecchi anni, il fratello materno di lei, Roberto di Grantemesnil, priore de’ Benedettini a Saint-Evrault, indi a Santa Eufemia in Calabria, avesse trattato il matrimonio della Giuditta con Ruggiero, ormai capitano di molta fama, signore di Mileto e sperava di più. La fidanzata venne con la sorella Emma, lasciando entrambe il chiostro, si dice anco il velo, per trovare mariti normanni in Italia. Sposatala a San Martino in Val di Saline, Ruggiero celebrava solennemente le nozze a Mileto, dissimulando sua povertà con sfarzo di vesti e di cavalli e strepito di stromenti musicali. Le dolcezze dell’amore non gli fecero scordare gli sperati acquisti. A capo di pochi giorni, racchetata la sposa che piangeva e volea ritenerlo, sopraccorse in Sicilia dove Ibn-Thimna lavorava per lui credendo far per sè stesso.[197]

[85]

Data la posta al musulmano che venissegli incontro da Catania, sbarcò a Messina con quanti uomini d’arme potè accozzare, e tentando nuova regione cavalcarono insieme alla volta di Petralia,[198] terra abitata da cristiani e musulmani. I quali, consultato insieme nell’imminente pericolo, e mossi forse gli uni dalla riputazione di Ruggiero e gli altri dalle pratiche d’Ibn-Thimna, deliberarono di rendere il castello e prestare obbedienza al conte. Munita la fortezza di cavalieri e di mercenarii, egli si volse a Traina, afforzolla in simil guisa, e tornossi in Calabria ad abbracciare la sposa ed attaccare briga col fratello.[199]

Ibn-Thimna proseguì l’opera in Sicilia con ridurre altre terre e infestare i contadi di quelle che ricusassero.[200] L’odiavano i Musulmani, ma più il temeano: quest’uomo che tra le prime guerre civili per poco non rinnalzò il trono dei Kelbiti; questi che rovinato al gioco d’una battaglia s’è venduto l’anima e pur s’è vendicato; il signore del Val di Noto, il compagno degli invincibili cavalieri di là dal mare, ai quali stendono le braccia i nostri vassalli, [86] ed essi nel cuor dell’isola ci sfidano dalle castella di Traina e di Petralia! Però approdarono sovente le pratiche del traditore. Il quale movea contro Entella, fortissima rocca a ponente di Corleone,[201] quand’ebbe un messaggio di Nichel, così Malaterra scrive il nome,[202] uom potente in que’ paesi, stretto d’antichi legami ad Ibn-Thimna, quando ubbidiva a costui la Sicilia. Pretendea Nichel disposti i notabili d’Entella a trattare la resa: venisse a parlamento a tal luogo, presso la rocca. Fidandosi nell’amica fortuna, Ibn-Thimna v’andò con poca mano d’armati, e trovò i terrazzani; quand’ecco uccisogli il cavallo d’un colpo di lancia; ei casca a terra, gli saltano addosso e l’ammazzano; così com’avvenne due secoli innanzi ad Eufemio, traditor della Sicilia cristiana. Il qual gastigo percosse di spavento i partigiani dei Normanni, e tanto rivoltò le cose, che i presidii di Petralia e di Traina si ritirarono a Messina, dove in fretta s’apprestarono alla difesa. È da riferire [87] la morte d’Ibn-Thimna ai primi di marzo del mille sessantadue.[203]

Caso tanto più grave, quanto Ruggiero stava per venire alle mani con Roberto. Il giovane, imbaldanzito per lo parentado, cominciò a lagnarsi altamente: aveano fatto insieme il conquisto di Calabria, pattuito a Scalea il partaggio del paese metà e metà, e il duca lo differiva da due anni; sopportò egli finchè fu scapolo, or si vergognava di far vivere poveramente sposa di sangue principesco; era tempo che il duca gli tenesse parola. Tai querele moveva a Roberto, sollecitava i nobili normanni a rincalzarle; e il fratello s’induriva tanto più al niego. Alfine Ruggiero s’accomiatò da lui forte crucciato, corse al suo castello, ragunovvi armati e denunziò la guerra se tra quaranta dì non gli fosse resa ragione.[204] Il duca mosse incontanente sopra Mileto nella primavera del sessantadue. Si combattè senza furore; e l’assedio andava in lungo per la imperfetta arte del tempo e soprattutto dei Normanni alle espugnazioni, quando sforzolli ad accordo un episodio che ricordava loro non potersi sfogare in guerre civili se voleano soggiogare l’Italia meridionale. Aveano già i terrazzani di Gerace in Calabria giurata fedeltà a Roberto, senza consegnargli la città; e perch’egli studiavasi a por [88] loro il freno in bocca fabbricando un castello, aveano innanzi l’ossidione di Mileto trattato di darsi a Ruggiero; il quale eludendo le poste del duca uscì una notte con cento cavalli e gittossi in Gerace, per trarne gente, com’e’ pare, e piombar sopra l’oste che minacciavalo in casa. Roberto, lasciata guardia nei due ridotti con che stringea Mileto, sopraccorre co’ suoi a Gerace; pria d’impacciarsi in un secondo assedio tenta sue arti: travestito entra nella città, va difilato a trovare un suo partigiano, per nome Basilio. E sedea a mensa con esso e la moglie, allorchè un famigliare lo riconosce; il popolo si leva a romore, trae alla casa, fa in pezzi l’ospite, impala la donna; già Roberto è minacciato da cento ferri, i cittadini più savii non bastano a rattenerli. L’animo suo e la pronta parola lo camparono da morte. Disse con impavida faccia agli infelloniti che pagherebbero caro il suo sangue; che i guerrieri suoi proprii e quelli di Ruggiero correrebbero insieme a spiantar la città; all’incontro se lasciasserlo andar via, concederebbe loro quanto fossero per domandare. Titubanti lo menarono in carcere. Ma Ruggiero che non si trovava quel dì in Gerace, torna a precipizio chiamato dai cavalieri del fratello; fa venire i notabili fuor le mura; prega e minaccia affinchè gli consegnino il Guiscardo per vendicarsi con le proprie sue mani: “mi giuraste fedeltà, lor dice, ubbiditemi in questo o saprò sforzarvi; pendon ormai dai miei cenni le genti di Roberto, stanche del reo signore; se di presente nol portate qui legato, ecco io comincio a far tagliar le viti e gli ulivi.” Condussero Roberto, fattogli pria giurare che mai non edificherebbe [89] castello in Gerace. I due fratelli s’abbracciarono, scrive Malaterra, come Giuseppe Giusto e Beniamino, piangendo di tenerezza tutti i guerrieri normanni. Ma Roberto, asciugate le lagrime, accomiatatosi da Ruggiero, trovò altre magagne; ci volle il biasimo universale de’ suoi, e il principio di nuove ostilità perch’ei venisse in Val di Crati a stipolare il partaggio della Calabria, abboccandosi col fratello sul ponte che indi si chiamò Guiscardo. Dopo l’accordo, Ruggiero levava tributo su i novelli dominii per fornire i suoi d’armi, vestimenta e cavalli. Aggravò la mano su Gerace; dove andato con l’oste, si metteva ad innalzare un castello fuor le mura; ed ai cittadini che allegavano la fede data da Roberto, rispondeva: “Egli giurò, non io:” e sforzavali a grossa taglia.[205]

Armati per tal modo trecento cavalieri nell’agosto o il settembre,[206] ripassava Ruggiero in Sicilia, menando seco la moglie, paurosa delle fatiche e rischi ai quali andava incontro, e non se li aspettava pur sì gravi. All’entrar dello stuolo in Traina, i cittadini fecero buon viso, assai tepidamente. Lor increbbero tosto quegli ospiti alloggiati per le case, pronti a far vezzi a loro mogli e figliuole. Con ciò Ruggiero [90] afforzava sempre più la città e andava osteggiando le vicine castella dei Musulmani. Sentendosi dunque nuovo giogo sul collo, i cittadini un dì ch’egli era uscito col grosso delle genti a depredare i dintorni di Nicosia, piglian le armi a stigazione d’un Plotino, dei primi del paese; assalgono il poco presidio; non però sì improvvisi che i Normanni non si accorgessero del movimento e non si preparassero; talchè infino a notte ributtarono il nemico. Questo allora, aspettandosi addosso Ruggiero, s’afforzava alla sua volta con serragli e fosso nella mezza città opposta alla collina che teneano i Normanni[207] ov’era il palagio del console, scrive una cronica,[208] dando argomento a supporre che così fatto titolo avesse preso Ruggiero in Traina, e nota, quasi a ricordare l’indipendenza del Municipio greco, che sorgesse dall’altra parte la torre della città. Ruggiero, chiamato per messaggi, sopravveniva in fretta; si metteva a combattere i sollevati: e intanto risaputo il fatto nelle vicinanze ch’abitavano i Musulmani, trassero alla città da cinquemila armati, proffersero aiuto a’ Greci e fu accettato. Ormai, circondati d’ogni banda, i Normanni pativan la fame; non potendo uscir grossi a predare senza grave pericolo dei rimagnenti, nè mandar piccole gualdane senza la certezza di vederle fatte a pezzi. Si stenuavano in vigilie, guardie, continue avvisaglie e brevi ma disperate sortite, in una delle quali poco [91] mancò non fosse spacciato lo stesso Ruggiero. Perchè vedendo balenare i suoi, spinse innanzi il cavallo, gli fu morto; si trovò avviluppato in un nodo di nemici che sel portavan di peso; se non che gli venne fatto di trarre la spada, la girò a cerchio, si fe’ larga piazza, restò solo; e sì fermo cuore serbò, che tolta la sella del destriero, lento e minaccioso ritraevasi.

Nondimeno s’aggravavano ogni dì più che l’altro le strettezze degli assediati; pativa il nobile al par del mercenario; la Giuditta stessa talvolta fu costretta a ingannar la fame bevendo acqua pura e lagrimando; a lei ed allo sposo non rimase che un sol mantello di che si copriano a vicenda, qual fosse più intirizzito. Contuttociò i guerrieri normanni resisteano risoluti, dissimulavano con lieto aspetto e motteggi. Aprì loro scampo inaspettato l’abbondanza in che viveano i nemici, provveduti a gara dalle altre città e spensierati per troppa fidanza; i quali nel rigore del verno, su quelle vette alte mille e cento metri sul livello del mare, stavano a mala guardia, e sovente si riscaldavan col vino. Di che addatisi i Normanni, finsero smetter anch’essi le scolte; ma più attenti spiarono il nemico. Una notte vistolo spreparato, Ruggiero fa impeto con tutti i suoi alla barrata; mena al taglio della spada gli ubriachi assonnati; occupa l’altra mezza città e la torre, e chi fu preso, chi fuggì; i Musulmani accampati nei dintorni non stettero ad aspettare. Impiccato allora per la gola Plotino, altri morti con altri supplizii, i vincitori trovavano gran copia di frumento, olio, vino e d’ogni cosa abbisognevole: con le fortificazioni e col terrore si assicuravano nella domata [92] città. Ruggiero andò solo in Terraferma a rifornirsi dei cavalli perduti nell’assedio: lasciò in Traina la sposa, che a dura scuola avea appreso a far le veci di capitano; la quale mantenne la disciplina nel presidio, girando i ripari ogni dì, vegliando su le guardie, confortando tutti con benigne parole e promesse, e rammentando i pericoli corsi insieme e che aleggiavano lì intorno; guai a chi li credesse dileguati.[209]

Tardo, al solito, e fugace balenò pure in questo tempo tra i Musulmani di Sicilia un raggio che mostrava la via della salvezza: accordarsi tra loro e con gli Zîriti d’Affrica; ubbidire a questi, anzichè piegare il collo al giogo cristiano. Morto Moezz l’ultimo d’agosto del sessantadue, il figliuolo Temîm che gli succedette, usò con migliore fortuna gli Arabi d’oltre Nilo, i quali per le condizioni già dette[210] porgeano orecchio ogni dì più che l’altro a’ principi Zîriti. Veggiam nel primo anno del suo regno, gli Arabi e le milizie di Temîm ridurre Sfax e Susa e rompere in sanguinosa battaglia l’esercito di Bugia, accozzato di Berberi delle tribù di Senhagia e Zenata ed Arabi [93] della tribù di Helâl.[211] È da supporre dunque che paresse in quel tempo mirabile consiglio nella corte di Mehdia ripigliare l’impresa di Sicilia, la quale prometteva a un tratto il merito della guerra sacra, l’acquisto dell’isola e l’allontanamento degli Arabi: di questi valorosi che aveano vinto, un contro dieci, gli eserciti Zîriti, guastato il paese e dato mano ai ribelli. Dai susseguenti fatti si vede che i Musulmani di Sicilia, rincorati dall’uccisione d’Ibn-Thimna, dalle divisioni de’ cristiani e dalla apparente ristorazione della potenza zîrida, ne implorassero in questo tempo od accettassero l’aiuto. Il quale invero, con tutte le novelle vittorie dei Normanni, arrestò i conquistatori per molti anni; nè tornò vano se non che per le discordie ripullulate nell’infelice terra, quando gli Affricani combattuti dal signor di Castrogiovanni e dalla turbolenta aristocrazia di Palermo, furono costretti a partirsi.

Lo stesso anno mille sessantatrè sbarcarono in Sicilia i feroci ausiliarii di Temîm, ritraendosi dagli annali musulmani ch’egli facesse l’impresa dopo la morte del padre, e dalle croniche cristiane che Ruggiero [94] reduce di Calabria si trovasse a fronte novella milizia venuta dall’Arabia e dell’Affrica per dar di piglio nella roba altrui, col pretesto di recar aiuto ai Siciliani; nella quale tradizione ognuno vede di quali Arabi dicessero i Normanni.[212] Mandava Temîm un esercito ed un’armata sotto il comando di due suoi figliuoli, Aiûb ed Alì; de’ quali il primo venne col grosso delle genti in Palermo, il secondo a Girgenti:[213] e par che l’uno col favor della cittadinanza della capitale e delle terre che ubbidivano a quella, da Mazara infino a Cefalù o Tusa, reggesse il paese a nome del padre; l’altro com’ausiliare d’Ibn-Hawwasci, tenesse presidio in Girgenti;[214] ed una schiera andò a rinforzare Castrogiovanni. Ma Ruggiero, tornato di Puglia e di Calabria, com’ape industre, scrive il Malaterra, onusto d’ogni cosa bisognevole ai suoi, s’affrettò a dispensar loro cavalli ed armi; e fatti riposare i cavalli alquanti dì, mosse alla volta di Castrogiovanni, [95] bramoso di provarsi coi cinquecento Arabi ed Africani giuntivi di fresco. Sostò a due miglia dalla città; con l’usato stratagemma e l’usato capitano di vanguardia Serlone, spiccò innanzi trenta militi, o vogliam dire un centinaio di cavalli, che provocassero il nemico; ed egli s’appiattò in una valle boscosa col resto delle genti. Scoperto il drappello di Serlone dall’alto di lor bastite, i Musulmani calavano grossi alla zuffa, incalzavano con tal furia che due soli cavalieri normanni pervennero salvi infino all’agguato, e gli altri, presi o scavalcati, mancavano, quando Ruggiero proruppe come leone ferito: dopo aspra battaglia sgarò i Musulmani, inseguilli più d’un miglio e tornossi a Traina; facendo tal giubbilo di quel po’ di preda e della sanguinosa vittoria contro forze uguali, da mostrarci quanto i Musulmani fossero imbaldanziti per lo nuovo aiuto e sgomentati i Cristiani.

Usando la riputazione della vittoria, Ruggiero cavalcava audacemente per l’isola, spintosi presso le sorgenti dell’Imera settentrionale a Caltavuturo, poscia per la valle dell’Imera meridionale fin sotto Castrogiovanni, donde i Musulmani non arrischiaronsi ad uscirgli incontro; e infine corse a Butera, in vista del mare affricano. D’ogni luogo riportò ricca preda; da Butera gran tratta d’armenti e di prigioni. Passando per la valle del Simeto, fermossi ad Anattor, e dopo breve giornata a San Felice,[215] e si ridusse a Traina; [96] perduti molti cavalli per la rapidità della arrisicata correria, il calor della stagione e la penuria d’acqua. Il che mostra esser già l’anno innoltrato almeno al maggio, e rimanda indietro all’aprile o al marzo il combattimento di Castrogiovanni testè raccontato.[216]

Intanto l’oste zîrita, unita alle milizie musulmane del paese,[217] movea di Palermo[218] sopra Traina, per calpestare gli Infedeli in lor nido. Trentamila cavalli e ventimila fanti, al dir di Malaterra (cioè del conte Ruggiero) veniano addosso a centotrentasei militi, che tornano a quattro o cinquecento combattenti: ma si scemi [97] pur di molto il numero de’ Musulmani, e s’aggiunga alla contraria parte qualche frotta dei cristiani di Sicilia ch’è da supporre accorsa ai combattimenti,[219] comparirà tuttavia prodigioso il valore normanno, e credibil solo alla generazione che ha vista l’impresa di Garibaldi in Sicilia. Valicando gli aspri contrafforti che spiccansi a mezzogiorno degli Appennini Siculi, l’oste musulmana era giunta alla giogaia di Capizzi,[220] paralella alla quale corre quella di Traina e la valle di mezzo è solcata dal fiumicello di Cerami che prende il nome da un castello fabbricato sovr’alte rupi su la sponda sinistra, ch’è a dire nel pendio occidentale di Traina, a sei miglia a ponente maestro di questa città. Entrava, il giugno del mille sessantatrè.[221] Ruggiero, avuta spia del nemico, deliberassi ad affrontarlo pria che venisse ad affamar lui in Traina: ond’uscito col piccolo stuolo normanno, si apprestò a contendere il passaggio della valle; e i Musulmani schieraronsi sul ciglione opposto. Pur non osando nè questi nè quello calar giù per lo primo, caduto il giorno, si tornarono gli uni agli alloggiamenti dietro il monte di Capizzi e l’altro a Traina. Le quali mosse ripeteano entrambi il secondo e il terzo dì. Al quarto, i Musulmani [98] vennero a porre il campo su i gioghi dove soleano presentar la battaglia. Addandosi di tal disposizione alla zuffa, i Normanni si confessano della peccata, chieggono l’assoluzione a’ sacerdoti, e muovono verso il nemico.

Ma saputo dagli esploratori che quello volgesse contro Cerami, allor soggetta o confederata di Ruggiero, e rinforzata di piccolo presidio normanno,[222] il conte vi manda Serlone con trenta lance, per difendere la fortezza tanto ch’ei giunga sopra gli assalitori con le cento che gli rimaneano. E Serlone entrò in Cerami pria del nemico, e quando questo s’appresentava,[223] senz’aspettare il conte, disserrate le porte, caricò con trentasei lance tutta la cavalleria musulmana, o, come e’ sembra, la sola vanguardia; sbaragliolla al primo scontro, la inseguì con molta uccisione; e trascorrendo fino al campo, fattovi un po’ di preda, si ridusse a Cerami ov’era sopravvenuto Ruggiero. Ristretti allora i capi a consiglio, avvisando altri di appiccare la battaglia lì lì, altri ch’e’ non fosse da sforzare la fortuna con prove troppo temerarie, Orsello di Baliol diè su la voce ai prudenti, disse aspramente a Ruggiero non seguirebbe mai più sua bandiera, se di presente non si combattesse: dalle quali parole confortato anzi il conte, proruppe anch’egli in rampogne contro i dubbiosi; e messo il partito, si trovò che nessuno avea paura. Intanto s’erano rattestati i Musulmani in lor campo; [99] ingrossati di nuova gente, comparvero più formidabili che prima, ordinati in due corpi e pronti alla zuffa. In due schiere spartironsi anco i Normanni, capitanata l’una da Serlone, Orsello e Arisgoto di Pozzuoli, l’altra dal conte. Al punto dello scontro, la prima schiera nemica, schivando la vanguardia normanna, giravale di fianco, spronava ad un colle e sperava occuparlo pria che vi giugnesse Ruggiero; il che le venne fallito. Orsello nell’una torma, Ruggiero nell’altra, inebriavano in questo i Normanni con sublimi parole di religione e d’onore; tanto che si tuffarono in quella moltitudine non più vista; disparvero tra le onde della cavalleria musulmana. Chi diè loro la vittoria? Racconta il Malaterra che un cavaliere possente e bello della persona, montato su destrier bianco, vestito di bianca armadura, armato d’una lancia con pennoncello bianco e croce vermiglia, entrasse il primo a rompere e stracciare lo stuolo musulmano là dov’era più fitto. Il cronista dice che raffigurarono proprio San Giorgio; sì che i Normanni piangendo di tenerezza lo seguirono nella mischia; lo smarrirono; e già avean vinto. Ma tanto spesso torna tal visione nelle guerre de’ Crociati, da parere fior di rettorica del cronista, anzichè allucinazione de’ combattenti. Al conte Ruggiero anco fu attribuito il favor celeste d’un pennoncello crociato che gli ornasse la lancia, dov’egli nè altro mortale non l’aveva attaccato. Più certamente il ferro della sua lancia squarciò una corazza di stupenda fattura[224] sul petto del kâid di [100] Palermo,[225] capitano dell’oste o della schiera, uom fortissimo il quale galoppando innanzi a’ suoi minacciava e imprecava a’ Normanni. Il valore, la disciplina, l’unita e ferma volontà, la viva fede, trionfarono dopo lunghissima tenzone sopra la moltitudine ragunaticcia d’Arabi prodi ma ladroni, schiavi africani, nobili siciliani sospettosi, plebe feroce nei tumulti e inetta nel campo. Diradossi la calca d’intorno ai Cristiani: come nubi squarciate dal vento, come stormo d’augelli se vi piombi il falcone, scrive Malaterra, si sbaragliò la cavalleria musulmana, lasciando quindicimila morti; ventimila rincalza l’Anonimo. I vincitori passavan la notte nel campo nemico riposandosi per le tende, si spartivano la preda; ma al nuovo dì, messisi a dar la caccia ai ventimila pedoni che s’erano riparati tra le rupi, fecero macello; e la più parte imprigionati mandarono a vendere in Calabria ed in Puglia, che fu il maggior lucro della vittoria. Così i cronisti, accumulando le inverosimiglianze in guisa da far credere ch’e’ favoleggino o dimentichino in que’ fatti le popolazioni cristiane di Sicilia; e per colmo della metafora ci narrano che Ruggiero tornasse in Troina per fuggire il puzzo dei cadaveri.[226] Quinci ei mandava [101] a papa Alessandro secondo un Meledio per ragguagliarlo della vittoria e presentargli quattro cameli. I quali il papa ricambiò con indulgenza plenaria al conte, ed a chiunque avesse combattuto o fosse per combattere in avvenire i Pagani di Sicilia; ed aggiunse una bandiera sotto la quale più sicuramente si compisse la santa gesta. Malaterra, nel raccontar questo fatto, si studia a dargli significato di mera pietà, senz’ombra d’omaggio feudale nel dono dei cameli, nè d’investitura in quello del gonfalone.[227]

Poco appresso la battaglia s’offriano a Ruggiero importuni ausiliarii ad una impresa sopra Palermo. I Pisani conducendo frequenti commerci nella città, [102] ebbero a risentirsi d’alcuna ingiuria;[228] e maggior colpa dei Musulmani di Sicilia fu che andavano le cose loro in rovina e fors’anco che Roberto Guiscardo, nella irrequieta attività della sua mente, avea pensato di usare contro la Sicilia le forze navali di Pisa, ed appiccata a questo effetto una pratica che poi si dileguò.[229] I mercatanti pisani allestivano lor navi pronte al pari al commercio e alla guerra: popol d’ogni ordine, com’attesta una iscrizione di quell’epoca, grandi, mezzani ed infimi entrarono nell’armata.[230] Fatto vela per la Sicilia, sursero in un porto della costiera settentrionale[231] donde [103] spacciaron oratori in Traina per invitare Ruggiero che cooperasse coi suoi cavalli. Rispose aspettasserlo un poco, dovendo dar sesto a certe sue faccende; ma que’ mercatanti, prosegue sprezzante il cronista, non sapendo come va fatta la guerra, non usi a sciupare il tempo senza guadagno, amarono meglio andar soli in Palermo. Il venti settembre del mille sessantatrè, i Pisani, assalito il porto, spezzata la catena che lo chiudea, preservi con sanguinoso combattimento sei navi cariche di merci;[232] e ributtati, com’ei sembra, dal porto, metteano a terra cavalli e fanti presso la foce dell’Oreto, respingeano i cittadini usciti a combattere; piantavan le tende in su la riva e scorreano a depredare le deliziose ville suburbane.[233] Arse poi cinque delle navi che avean predate, riportarono l’altra a Pisa, con tanto tesoro, che bastò a cominciare la fabbrica del Duomo, dove una iscrizione contemporanea attesta l’arrisicata fazione.[234]

Ruggiero intanto, volendo sostare nel sollìone e ristorare sua gente menomata dalla vittoria di [104] Cerami,[235] pensò di andare in Puglia, vettovagliata prima Traina. A questo effetto spingeasi con rara audacia nella valle dell’Imera settentrionale, correva il primo dì a Collesano, l’altro a Brucato,[236] il terzo infino a Cefalù: tornato a casa con abbondantissima preda, munì il castello, vi lasciò la moglie e i compagni, ai quali raccomandò di far buona guardia come se avessero sempre il nemico alle porte, non dilungandosi dalla città per niuna occasione propizia. Ito quindi in Terraferma a consultare con Roberto, n’ebbe cento militi non sappiamo a che patto, ai quali aggiunse cento de’ suoi: al rinfrescare della stagione, ritornato in Sicilia, irruppe nelle parti di Girgenti. Parve allora agli Arabi ed agli Affricani di vendicare la rotta di Cerami: un’eletta di settecento lor cavalli uscì cheta di Girgenti per appostar i Normanni al ritorno; si pose sopra un burrone in fondo al quale correa la strada. Frettoloso e guardingo cavalcava Ruggiero col grosso de’ suoi, mandate innanzi le some del bottino con una scorta d’armati; la quale come giunse all’agguato, assalita da forze superiori, sopraffatta dall’alto coi sassi, presa di subita paura voltò le spalle, perdè qualche uomo ed anelante si rifuggì ad una balza ch’era inaccessibile fuorchè da un viottolo aspro e stretto. Al romore accorreva Ruggiero a spron battuto con l’altra schiera; gridava a que’ della scorta venissero a ristorare la battaglia, ma gli fu forza [105] di salire egli stesso, chiamar ciascuno per nome, rinfacciare ch’ei non riconosceva i vincitori di quello stesso nemico tanto maggior di numero a Cerami. Rattestatili a stento, caricò, ruppe i Musulmani, ritolse la preda e si ritrasse a Traina; piangendo sì la morte di Gualtiero di Semoul, il più valoroso giovane della schiera, il quale fu trafitto spingendosi primo alla riscossa.[237] Un Malaterra musulmano racconterebbe, credo, altrimenti questa dubbia fazione, e più altre ne aggiungerebbe favorevoli ai suoi, le quali è forza supporre nello autunno, e sino allo scorcio dell’inverno, allorchè il Malaterra normanno ci rappresenta Roberto Guiscardo costernato dalle nuove che giugneano di Sicilia, risoluto a partecipare ne’ pericoli come avea fatto negli acquisti; ond’ei venne in aiuto a Ruggiero che i Saraceni travagliavano e strigneano con frequenti assalti.[238]

[106]

CAPITOLO IV.

Nella primavera dunque del millesessantaquattro Roberto adunò l’esercito in Puglia e in Calabria; al quale andato incontro Ruggiero a Cosenza, passarono insieme il Faro con cinquecento militi, non contando gli altri cavalli nè i fanti;[239] e tirarono dritto a Palermo, senza che i Musulmani osassero tagliar loro la strada. Posero il campo presso la città, in un colle infestato da tarantole,[240] il cui morso diceano cagionasse gravi e sconci sintomi nervosi e fin anco minacciasse la vita.[241] E sembran fole; poichè quell’insetto in oggi non nuoce; ed a supporre che particolari condizioni l’abbiano armato di veleno in altri tempi e luoghi non ci basta l’autorità delle cronache oltramontane, le quali sempre lo fanno ausiliare degli Infedeli contro i guerrieri cristiani del Settentrione, [107] sempre l’accagionano d’una pia impresa fallita.[242] Gittando su l’infausto luogo il nome di Monte delle Tarantole, che del resto non vi allignò,[243] tramutavansi i Normanni in migliori alloggiamenti; dai quali per ben tre mesi osteggiavano la città, ma n’erano sì gagliardamente ributtati, che sciolsero l’assedio senz’altro pro che di saccheggiare le campagne. In vece di rifar la strada verso levante, spingeansi per ben ottanta miglia a mezzogiorno; dove espugnavano Bugamo, castello o forse grossa terra a sei miglia da Girgenti,[244] e spianavano le case, e fatti schiavi gli abitatori, il duca Roberto, mandolli a popolare Scribla in Calabria, da lui poc’anzi desolata; cioè a coltivare come servi suoi i terreni dai quali avea cacciati gli antichi possessori. Solo fatto d’arme in questa impresa del sessantaquattro, ci racconta il Malaterra che passando i Normanni coi prigioni di Bugamo presso Girgenti, que’ cittadini uscirono alla riscossa, e furono respinti e inseguiti fino a lor mura.[245] Intanto Amato attesta che Roberto vedendo [108] non poter espugnare Palermo senza forze navali, si volse ad acquistare altre città marittime in Terraferma, ond’accozzarvi legni e marinai.[246] Il vero è che il duca non ristorò la fortuna delle armi cristiane in Sicilia. Il senno nè il valore non era venuto meno ai Normanni. Chi dunque diè l’avvantaggio all’islam tra il mille sessantatrè e il sessantotto, tra la battaglia di Cerami e il combattimento di Misilmeri?

Pochi cenni delle istorie musulmane, limitati su per giù allo stesso spazio di tempo senza date più precise, ci fan pure intendere la cagione, se li riscontriamo con le condizioni conosciute d’altronde. Tengasi a mente che delle tre grandi province o valli della Sicilia, come furon dette, distinte per la natura de’ luoghi non meno che pei mutamenti sociali ed etnologici che portò il conquisto musulmano, apparteneva a’ Normanni, con piccolo divario di confini, [109] il val Demone; il Val di Noto a’ Musulmani confederati loro; il Val di Mazara a’ Musulmani nemici, divisi in due Stati: di settentrione e mezzogiorno. Secondo l’odierna circoscrizione, diremo che sgombra da’ signori musulmani la provincia di Messina, ubbidiano quelle di Catania e di Siracusa ai successori d’Ibn-Thimna o regoli d’altra schiatta venuti su dopo la sua morte, e che si riducea la guerra nelle province di Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti; delle quali le due prime par ubbidissero alla repubblica di Palermo, le seconde a Ibn-Hawwasci. E già narrammo come l’una e l’altro, sentendosi l’acqua alla gola, accettavano il soccorso di Temîm; e come i costui figliuoli Aiûb ed Alì si poneano nelle città più importanti di ciascuno Stato: Palermo e Girgenti. Accordandosi l’ambizione di casa Zirita con la salute dei Musulmani di Sicilia e coll’onore dell’islam, ebbero gran seguito i due principi; alla cui riputazione non potea detrarre la battaglia di Cerami, più avventurata al certo pe’ Normanni che esiziale a’ Musulmani, nella quale d’altronde se avesse combattuto un figliuolo di Temîm che di qua dal Mediterraneo potean chiamare re d’Affrica e d’Arabia, i Normanni non l’avrebbero ignorato al certo, nè passato sotto silenzio. Che Aiûb governasse prosperamente la guerra, i casi della quale sono taciuti o dissimulati da’ cronisti normanni, e che gli venisse fatto per brev’ora di recarsi in mano l’autorità in tutta la Sicilia occidentale, si ritrae, s’io mal non m’appongo, dal seguente racconto che Ibn-el-Athîr copiò, ovvero compendiò, dagli scritti di autore [110] più antico e poselo tra il quattrocencinquantatrè e il quattrocensessantuno dell’egira (1061-1069).

Ibn-Hawwasci, secondo que’ ricordi, inviava da Castrogiovanni ricchi presenti ad Aiûb; volea fosse albergato nel suo proprio palazzo di Girgenti e l’onorava con ogni maniera d’ossequio. Ma poco durò l’amistade. Accorgendosi che i Girgentini ponessero troppo amore nell’ospite, il signor di Castrogiovanni per lettere comandava di cacciarlo: disubbidito, movea contro i Girgentini con l’oste. Ed essi uscirono sotto le bandiere di Aiûb e s’appiccava la zuffa, quando una freccia tirata, dicono, a caso, dirimea la lite uccidendo Ibn Hawwasci: onde Aiûb era gridato signore da ambo i lati, com’e’ sembra, del campo di battaglia. La discordia spenta per tal modo nel mezzodì, si raccendea poscia in Palermo; dove i cittadini, mal soffrendo gli schiavi stanziali di Temîm, vennero alle mani con quelli; e imperversò tanto la guerra civile, che Aiûb, veduto non poterne venire a capo, chiamava a sè il fratello Alì: montati su l’armata, ritornavano in Affrica. Seguitaronli molti notabili musulmani dell’isola; seguitolli la gente dell’armata siciliana; nè rimase chi potesse far testa a Normanni. Se ne sbrigano così gli annali; saltano a piè pari l’occupazione di Catania, l’espugnazione di Palermo, e toccano appena la resa di Girgenti e di Castrogiovanni, cioè l’ultimo compimento del conquisto normanno.[247] Cercando di porre qualche data nello spazio che abbiamo percorso, riferiremmo l’andata [111] di Aiûb in Girgenti all’anno sessantaquattro, quando la ritirata dell’esercito normanno da Palermo esaltò di certo il nome di Aiûb e lo scempio di Bugamo fece desiderare in que’ luoghi l’eroe musulmano della stagione. Sembra anco che i Normanni allor fossero corsi a mezzogiorno all’odor della guerra civile e per trame di fazioni che portarono alla chiamata di Aiûb. Questi poi sembra partito di Sicilia dopo l’infelice combattimento di Misilmeri, nel quale ei forse non si trovò;[248] ma la parte avversa gliene dovea pur gittare addosso la colpa. L’esilio, volontario o no, de’ cittadini che il seguirono, prova che la parte siciliana trionfò in Palermo, fors’anco in Girgenti, dove la morte d’Ibn-Hawwasci l’avea fatta andar giù. Palermo continuò o tornò a reggersi per la gema’, che fu poi costretta a rendere la città il millesettantadue. Lo Stato di Castrogiovanni e Girgenti cadde sotto nuova signoria, della quale diremo a suo luogo.

La vecchia tattica di casa Hauteville mirabilmente s’era riscontrata co’ tempi, lasciando consumare dassè quel rigoglio che una effimera concordia [112] avea dato a’ Musulmani nel millesessantaquattro. Roberto, dopo l’assedio di Palermo, attese in Puglia a soggiogare municipii italiani e condottieri normanni indocili al nuovo freno. Ruggiero non si spiccò dal fratello mai più; anzi gli diè mano in Terraferma quand’ei potè:[249] e in Sicilia si chiudea quasi nell’arme senza assalire altrimenti, fidandosi pur nell’indole dei Musulmani che presto avrebbero ripreso a lacerarsi tra loro. Nè ebbe ad aspettare gran pezza. Del millesessantasei, si fa innanzi, ben coperto, per un’altra quarantina di miglia; afforza di torri e bastioni Petralia, che gli aprì lo sbocco alla valle dell’Imera settentrionale e però a Termini ed a Palermo, e per più breve e facile cammino gli permise le scorrerie sopra quel di Castrogiovanni e di Girgenti. Fitto nel pensiero di conquistar la Sicilia, dice lo storiografo, Ruggiero non avea posa, non sentiva più la fatica; d’ogni stagione il vedevi alla testa de’ suoi, dì e notte a cavallo, senza risparmiare questi più che quell’altro, scorrea per ogni luogo, sì rapido che i nemici lo credeano presente da per tutto, e sempre, pur entro le città e le case loro, se lo sentivano addosso. Col senno temperava la ferocità leonina che sortì da natura; la fortuna giammai non l’abbandonò. Or allettando altrui co’ guiderdoni, or minacciando con parole e stringendo con assalti e guasti, si allargò a poco a poco intorno Petralia, tanto che assoggettò gran parte dell’isola; all’uso, aggiugne il Malaterra, de’ figliuoli di Tancredi, i quali cupidi d’acquisto non poteano sopportare ch’altri possedesse [113] terreno nè roba accanto a loro, nè avean pace finchè non li rendessero tributarii o del tutto non li spogliassero.[250]

A capo di tre anni, correndo il millesessantotto, sì aspra era divenuta la molestia ai Musulmani di Palermo, che ragunati a consiglio, scrive il Malaterra, deliberarono di tentare ad ogni costo la fortuna d’una battaglia. Saputo che Ruggiero cavalcasse alla volta della città con fortissimo stuolo, gli escono incontro a gran frotte; l’avvistano a Misilmeri, terra a nove miglia per levante. Ancorchè non si aspettasse tanta moltitudine, egli si preparò allo scontro fremendo di gioia. Ordinò le genti in una schiera. Le arringò sorridendo: “La fortuna amica sempre a’ Normanni condur loro tra’ piedi la preda tanto desiderata, risparmiar loro la fatica di più lungo cammino; anzi Iddio stesso porgea questo dono. Prendete, continuò, la roba degli Infedeli, indegni di possederla: ce la partiremo apostolicamente tra noi; ciascuno avrà quel che gli abbisogni. Nè temiate il numero de’ nemici tante volte sconfitti. Che s’or ubbidiscono a novello capitano, gli è pur della nazione, indole e religione loro. E sia mutato anco, il nostro Dio non muta. Quando a voi non venga meno la fede nè la ferma speranza, Ei vi concederà sempre vittoria.” Ruppero il nemico con sì grande strage, che il cronista la viene significando coll’antica metafora dell’esser mancato chi ritornasse a dar la notizia. Spartironsi allegramente il bottino. E trovando le gabbie de’ colombi messaggeri, loro attaccarono al collo schede intrise di sangue, [114] sì che in Palermo seppesi immediatamente la sconfitta.[251]

Avea principiato Roberto in questo tempo l’assedio di Bari, grossa città e ricca più che niun’altra dell’Italia meridionale, travagliata da due parti, le quali per vie contrarie aspiravano a libertà: chè l’una volea sottrarsi ad ogni patto alla dominazione bizantina affidandosi perfino a Normanni; l’altra capitanata da Argiro, aborrendo dal giogo feudale, ormai chiaro e manifesto, dei Normanni, amava meglio ubbidir di nome a Costantinopoli. Questa parte prevalendo in Bari, la tenea, sola in Italia, in fede dell’impero bizantino; e si schermì tanto dalle arti di Roberto, ch’egli deliberossi a far aperta violenza. Onde oppugnava la città con l’usato perseverante valore e con mezzi più potenti che fin allora non avessero adoperati i Normanni: macchine di varie maniere da batter le mura, e ridotti e ponti di barche; soprattutto forze navali, fornite in parte dal conte Ruggiero. Al quale par torni la gloria del fatto decisivo; poichè sendo la città stretta da ogni banda e affamata e sopravvenendo un’armatetta bizantina con genti e vittuaglie, le navi normanne che [115] la scopriron di notte e la intrapresero e distrusserla, ubbidivano a Ruggiero, come scrive il Malaterra; nè monta che tacciano il suo nome Amato e Guglielmo di Puglia, partigiani di case rivali. La città allora s’arrese a dì sedici aprile del settantuno, dopo tre anni e parecchi mesi d’assedio. Roberto usò umanamente co’ Baresi, rendendo loro i possessi occupati nel territorio e fermando con la città patto di confederazione, il che in vero significava porre un tributo. Poi dispensò armi a chi ne volle, anco al presidio bizantino fatto prigione, e se li tirò dietro a combattere in Sicilia con quante navi potè accozzare nel porto.[252]

Perocchè la vittoria di Bari promettea quella di Palermo; provatisi già felicemente i Normanni e lor sudditi italiani alle battaglie di mare, alle ossidioni, e cresciute le forze militari di due fratelli che ormai teneano il primato di lor gente in Italia. In vece delle squadre di scorridori con che aveano combattuto in Sicilia, i Normanni vi recavan ora un esercito ed un’armata. Oltre le genti assoldate,[253] chiamò Roberto alla impresa i condottieri o conti ch’ei già tirava alla condizione di grandi vassalli e i due confederati [116] ch’ei si proponeva d’ingoiare a suo comodo: Riccardo principe normanno di Capua[254] e Guaimario principe longobardo di Salerno, fratello della moglie.[255] Sembra che i principi abbiano fornita poca gente. De’ conti ricusò audacemente Pietro di Trani.[256] Ciò non di meno Roberto a capo di tre mesi era in punto; soggiornato il giugno e parte di luglio a Otranto, fece tagliare una roccia per imbarcare più agevolmente i cavalli e adunò le macchine, e le vittuaglie. Cinquantotto navi partivan indi per Reggio, dove il duca s’avviò con altri cavalli e fanti. Gli ultimi giorni di luglio o i primi d’agosto, passò il Faro con tutte le genti: Normanni, Pugliesi Calabresi e il presidio bizantino di Bari.[257]

Ruggiero che avea per tutta la state messe in punto anch’egli le sue forze, non prima saputo il passaggio di Roberto, si trovò a Catania in modo tanto sospetto, che il Malaterra, non osando narrarlo, nè dir bugia tonda, ci lascia nelle mani il bandolo della magagna, «Il duca, scrive egli, mandato innanzi il fratello in Sicilia, va a lui in Catania, fingendo di muovere contro Malta, quasi non si fidasse d’assalire Palermo; e pur si reca a Palermo confortato dal fratello.» Ma come e perchè Ruggiero fosse [117] corso a Catania, sede dei Musulmani ausiliari suoi da tanti anni, e chi signoreggiasse il paese dopo la uccisione d’Ibn-Thimna, lo tace qui e sempre lo storiografo del Conte.[258] Amato, che non vivea a corte di lui, dice che Ruggiero mosse contro Catania quando Roberto passava lo stretto; che la città gli si arrese a capo di quattro dì; ch’egli fece acconciare incontanente una chiesa intitolata a San Gregorio ed una fortezza, nella quale lasciò quaranta uomini di presidio a reprimere il mal volere de’ cittadini.[259] Donde noi possiamo scrivere ne’ posti lasciati in bianco dai due frati cronisti e dir che Ruggiero, usando gli antichi accordi con Ibn-Thimna, entrò da amico, forse con picciolo stuolo in Catania, dando voce d’una impresa sopra Malta, e che sopravvenuto Roberto con parte dell’armata, sempre per andar a Malta, insignorironsi della città, dopo breve resistenza o nessuna. Fatto il colpo, Roberto avvia l’esercito a Palermo per terra; egli, per fuggire il caldo, segue in una galea, accompagnato da dieci gatti e quaranta altre navi. Ruggiero, cammin facendo anch’egli alla volta di Palermo, va a sopravvedere sue genti e sue cose a Traina. Ripigliato indi il viaggio, non lungi da Palermo gli intervenne che precedendolo i suoi famigliari per apprestar le vivande, una gualdana di dugento musulmani rapirono ogni cosa ed uccisero la gente; ma furono non guari dopo svaligiati e tagliati a pezzi dalla schiera del Conte.[260]

[118]

Ci è occorso descrivere il sito di Palermo nel decimo secolo: nel centro il Cassaro, o città vecchia, bagnata, da maestrale a levante, dal porto che fendeasi in due lingue; la Khalesa, cittadella tra la lingua orientale e il mare; i borghi intorno il Cassaro da ogni altra banda.[261] I particolari dell’assedio che raccogliamo qua e là negli scritti di Amato, di Malaterra, di Guglielmo e dell’Anonimo e che tornan pure ad unico e chiaro disegno delle operazioni militari, non mostrano mutata la topografia nella seconda metà del secolo undecimo; se non che gli spaziosi borghi di libeccio, mezzodì e scirocco sembrano decaduti da lungo tempo e abbandonati del tutto all’appressarsi del nemico. Discosto circa un miglio a levante, al posto dove giugnea in quel tempo[262] la sponda destra dell’Oreto e la spiaggia del mare, sorgeva il castello, detto di Giovanni, dal nome forse d’alcun musulmano (Jahja) di che i Normanni fecero San Giovanni[263] e mutarono l’edifizio [119] in ospedale; onde le odierne fabbriche sovrapposte a ruderi di varie età si chiamano tuttavia San Giovanni dei Lebbrosi. Il qual castello, evidentemente posto a difendere da gualdane nemiche le ricche ville d’ambo i lati del fiume e gli approcci stessi della città, era stato probabilmente edificato o afforzato durante la guerra normanna; nè parmi inverosimile che alcun altro ne sorgesse in altri siti dell’agro palermitano dove poi si notarono chiese, monasteri o palagi de’ Normanni. Della popolazione palermitana in questo tempo ignoriamo il numero al tutto; ma dobbiamo supporla menomata di molto, fin dal decimo secolo, per le vicende politiche, massime le emigrazioni del millesessantuno e del sessantotto.[264] Il numero degli assedianti possiamo conghietturar solo dalla estensione del territorio sul quale dominavano gli Hauteville in Terraferma, da’ soliti loro armamenti in altre imprese contemporanee, dalla guardia che scortava Roberto entrato di accordo nella città e dal numero delle sue navi notato dianzi. Un otto o diecimila uomini, tra cavalli e fanti, parmi il maggiore sforzo che i Normanni abbian potuto condurre sotto le mura di Palermo.

Si avanzò primo Ruggiero dalla parte di levante per le falde de’ monti, il dì appresso il raccontato scontro; occupò un sontuoso palagio e le ville dei contorni; le saccheggiò; fece abbondante caccia di prigioni, i quali nulla sapeano del nuovo gioco, quando si videro cinti da un cerchio di cavalli e [120] stretti e presi e venduti.[265] La vanguardia apparecchiava per tal modo le stanze ai capi dell’oste: «Que’ dilettosi giardini, scrive Amato, irrigati d’acque, ricchi di frutta; dove albergarono con agi da principi, fino i cavalieri minori, proprio in un paradiso terrestre.» Appresentatosi quindi al Castel Giovanni, e uscitogli incontro il picciolo presidio,[266] uccidea quindici cavalieri musulmani, ne prendea prigioni trenta, e, insignoritosi del luogo, vi chiamava Roberto,[267] il quale indi sembra sbarcato lo stesso dì. Il quartier generale, come or si direbbe, fu posto in quel castello e ultimato il disegno di assedio. Rimasevi Roberto capitanando i Pugliesi e i Calabresi dell’oste; Ruggiero con le sue genti stanziò, com’e’ pare, dove or sorge la chiesa della Vittoria, a settecento metri dalla odierna porta Nuova, su lo stradone che mena a Morreale.[268] Talchè stando l’uno a ponente-libeccio [121] l’altro a scirocco-levante e comunicando insieme, investivano la città, per più d’un terzo del suo perimetro, dal lato meridionale. A greco l’armata chiudeva il porto. Le picciole forze navali che rimaneano a’ Palermitani[269] furonvi ricacciate, perdendo un gatto ed una galea.[270]

Del rimanente s’era la città apparecchiata bene alla difesa; onde i Musulmani, stretti ch’e’ furono nelle mura, per frequenti sortite, con varia fortuna sturbavano le opere degli assedianti,[271] con indefessa vigilanza si guardavano, con valore e ostinazione combatteano.[272] I particolari non ripeterò, perchè trovansi nella sola cronica ritmica di Guglielmo: luoghi [122] comuni che forse pareano corredo necessario delle Muse. Pur non passerò sotto silenzio un episodio narrato dall’Anonimo del duodecimo secolo: che lasciando spesso i Palermitani le porte della città aperte, quasi sfida ad entrare, egli avvenne che un terribile cavaliere musulmano tornando in città dopo avere uccisi parecchi Normanni, sostasse sotto la porta rivolgendo pur la faccia a’ nemici, quando un giovane guerriero, parente di casa Hauteville, adontato del piglio minaccevole, spronò contro costui. E trapassollo fuor fuora con la lancia. Ma richiusagli la porta dietro le spalle, senza stare un attimo in forse, spinge innanzi il cavallo in carriera disperata tra i Musulmani che il saettavano e gli davano addosso ed uscito illeso da un’altra porta, giugne tra’ suoi mentre il piagnean morto.[273] La quale avventura da Tavola Rotonda ci parrà meno inverosimile se la supponghiamo seguita nella Khalesa, piccolo ricinto con quattro porte che s’aprian tutte nel breve tratto dell’istmo.[274] Grandi combattimenti non seguirono infino all’inverno, studiandosi invano i nemici ad offendere la città.[275] Giugnean intanto aiuti d’Affrica, di forze navali, com’e’ pare, e non molte.[276] Già i principi della casa di Salerno, tediandosi d’una [123] impresa che lor propria non era, ritornavano in Terraferma, dove più lieto spettacolo che l’assedio di Palermo offriva papa Alessandro, consacrando la nuova basilica di Monte Cassino, il primo ottobre.[277] E Roberto impaziente chiedea rinforzi in Terraferma; tra gli altri, al rivale principe Riccardo, il quale gli promesse dugento lance capitanate dal figliuolo Giordano e sì avviolle, ma le richiamò pria che passassero il Faro. Si disperava tanto della vittoria, che Riccardo collegatosi con la famiglia de’ conti di Trani e con altri antichi nemici di Roberto, osò assalire le costui terre in Calabria ed in Puglia. Il Guiscardo non si spuntò per questo dal suo proponimento,[278] sapendo bene che egli avrebbe trionfato di tutti in Palermo.

«In quel medesimo tempo (così Amato), era gran carestia nella città, mancando le vittuaglie, che non si trovava da comperarne. Era altresì grande pestilenza e mortalità, per cagione de’ cadaveri insepolti; ingombra la città di feriti, d’infermi, d’uomini fiaccati dalla fame, la debile mano dei quali più volentieri stendeasi a chiedere la limosina che a combattere. E i maliziosi Normanni spezzavan del pane e lasciavanlo a piè delle mura.[279] I Saraceni a venti ed a trenta correano a prenderlo. E il secondo giorno que’ posero il pane un po’ più lungi dalla terra e gli altri a correre, a darvi di piglio, ad assicurarsi e più numero ne veniva. Il terzo dì poi i Normanni messero l’esca più lungi, e quando i Pagani vennero [124] fuori tutti, furon presi e tenuti schiavi o venduti in lontani paesi.»[280] Così il cronista, compiaciuto o indifferente, non so. Pur si commove al narrare come mancato il vino nel campo di Roberto, ancorchè vi abbondassero carni squisite, il duca e la moglie di acqua sola si dissetavano; il che, aggiugne, non potea fare specie a Roberto il cui paese non produce del vino; «ma considera, o lettore, la nobile sua donna, la quale, a casa il padre Guaimario, principe di Salerno, solea bere com’acqua fresca del vin chiaro e schietto!»[281]

Rincorò i Normanni il successo d’un combattimento navale provocato da’ Palermitani quand’ebbero gli aiuti d’Affrica, disperando tuttavia di snidare il nemico da’ posti occupati nella pianura. Avvistosi de’ preparamenti, Roberto apprestò anch’egli sue navi; nelle quali fece tendere intorno intorno le tolde de’ teli di feltro rosso da parare i sassi e le saette:[282] e quel colore potea tornar a mente a’ Normanni le imprese dei padri loro, i quali l’aveano reso terribile in sul mare, che la tradizione nazionale lo serba fin oggi nelle divise militari d’Inghilterra e di Danimarca. Ancorchè si possa tenere più numeroso il navilio normanno che il musulmano, par avesse disavvantaggio nella struttura non adatta alla guerra. Era questo d’altronde, dopo il fatto di Bari, il primo cimento navale dei dominatori normanni d’Italia; nè la memoria era spenta di quelle armate che infin [125] dal nono secolo uscirono dal porto di Palermo a desolare le spiagge meridionali della Penisola; nè non vedea Roberto che una sconfitta sul mare l’avrebbe costretto a levare l’assedio per la seconda volta. Donde ai suoi disse ch’era uopo vincere o morire: li fece confessar delle peccata e solennemente prendere l’eucaristia. Confortate di tal cibo, continua Guglielmo di Puglia, le fedeli turbe, Normanni, Calabresi, Baresi ed Argivi entrano in nave; nè basta a spaventarli il suono degli strumenti, il tonante grido di guerra de’ Musulmani. Si scontrano le armate: resistono i Siciliani e gli Affricani, finchè sforzati da un cenno divino, voltan le prore. Qual nave fu presa, qual sommersa; la più parte si rifugge nel porto, chiudelo con la catena, e questa spezzano i vincitori, e fan preda d’altri legni, a parecchi appiccan fuoco.[283] Altro non dice il cronista; ond’e’ si vede che l’armata normanna, superate le prime difese del porto, fu costretta a ritirarsi.

Minacciati tuttavia i Musulmani da quest’altra banda,[284] scemati per le spesse morti, affranti dalla fame, dalla pestilenza, dalle fatiche, Roberto non differì l’assalto generale. Aveva egli fatte costruire quattordici [126] scale[285] congegnate con artifizio che parve mirabile in quel tempo,[286] da innalzarsi a ragguaglio delle mura. Mandate nottetempo sette delle scale a Ruggiero, va egli stesso a trovarlo; concertano gli ordini dell’assalto, i segnali e ogni cosa.[287] Lo sforzo più grave fu affidato a Ruggiero contro la fortezza principale, cioè la città vecchia, da libeccio; onde passava a quella parte il grosso dello esercito di Roberto. A greco dovea minacciare, e non altro, il navilio. Roberto riserbossi uno stratagemma nel caso che fallisse Ruggiero: un colpo di mano su la Khalesa ch’avea mura più basse.

Presso a compiersi i cinque mesi d’assedio, il primo o un de’ primi giorni dell’anno millesettantadue, al far dell’alba,[288] il clamore che si levò nel campo di Ruggiero facea correre precipitosamente i Palermitani a quelle mura.[289] I fanti nemici s’avanzano ratti; con frombole ed archi tiravano ai difensori in su i merli, quando i cittadini, sortiti con grande impeto, spazzavano la turba nemica, inseguivano a piè ed a cavallo i fuggenti. Caricò allora la cavalleria normanna, ruppe a sua volta gli assediati, ricacciolli in città, stringendoli sì gagliardamente sino alla porta, [127] che già erano per entrare insieme alla rinfusa. Allo estremo pericolo, i Musulmani calan giù la saracinesca; serran fuori i loro fratelli, de’ quali i Normanni, sotto gli occhi loro, tra il grido e il compianto, fecero un macello.[290] E i Normanni a ripigliar l’assalto delle mura. Adducono la prima scala; già tocca a’ merli: chi salirà? Si guardavano l’un l’altro negli occhi. Un Archifredo subitamente fa il segno della croce e si slancia su pei gradini; due guerrieri il seguono, saltano sul muro, quand’ecco sfasciata e infranta la scala. Soli incontro a cento, andati in pezzi gli scudi loro, gittaronsi giù dalle mura, e sani e salvi rimasero, al dir di Amato. Gli altri ch’eran saliti per altre scale furon anco respinti. Allenarono i Normanni, si ritrassero.[291] Avvicinandosi già la sera, parea fallito l’assalto.

Ma alle eloquenti parole di Roberto, dice Guglielmo di Puglia e le mette in versi, ai conforti, crediam noi, di Ruggiero e secondo il disegno già ordinato col duca, ritornarono pur i Normanni a piè delle mura: e i cittadini traeano tutti al posto minacciato; sicuri di buttar giù ne’ fossi un altra volta gli assalitori, non poneano mente alla Khalesa dove quel dì non avea romoreggiato la battaglia. Quando Roberto, a un segno dato da Ruggiero, chetamente con trecento[292] uomini eletti arriva, tra gli alberi dei giardini, alla Khalesa. Corrono in fretta con le scale ad un muro difeso da poca gente; pria che venga aiuto [128] dalla città vecchia, sbarattano i difensori, saltan dentro, spezzano la porta; ond’entra Roberto col resto de’ suoi.[293] La quale stava dietro l’odierno convento della Gancia, sur una piazzetta cui è rimaso il titolo della Vittoria, al par che ad una chiesa ove la tradizione addita, nel primo altare a destra, gli avanzi della porta sforzata da Roberto ed un’immagine votiva.[294] Ma accorrendo lì i cittadini quando si [129] seppe entrato il nemico, seguì disperata zuffa insino a notte; rimase tutto coperto di cadaveri il suolo; rimaserne padroni i Normanni, rifuggendosi nella città vecchia i Musulmani che camparono alla strage. I Normanni intanto saccheggiavano le case, uccideano gli adulti, partivansi tra loro i fanciulli per venderli schiavi.[295] La notte stessa il conte recò rinforzi a Roberto, esposto nella Khalesa, con un pugno di gente, alla vendetta degli abitatori non vinti della città vecchia.[296] Furon indi messe guardie alle torri che fronteggiavano quelle mura superbe.[297] Parea che nuova battaglia fosse da combattere la dimane, e forse da ricominciare l’assedio.

[130]

La discordia de’ Palermitani abbreviò le fatiche a’ nemici. Nella lunga notte che questi passarono afforzandosi nelle mura della Khalesa, le fazioni della città vecchia disputavan tra loro se fosse da riprendere la battaglia. Vinse il partito avverso: la notte medesima mandò a dir a’ Normanni che la città fosse pronta a sottomettersi e dare ostaggi.[298] Ed aggiornando, due capitani che avean preso il reggimento della città in luogo del consiglio municipale, si appresentarono con altri notabili a Ruggiero per trattare i patti.[299] Fermati i quali, Ruggiero entrava nella città vecchia; guardigno, accompagnato da valorosi cavalieri, sopravvedeva i luoghi, mettea guardie ne’ posti più opportuni e ritornava a Roberto. Il quale al quarto dì, solennemente recossi al duomo, preceduto da mille cavalli, accompagnato dalla moglie, dal fratello, da’ fratelli della moglie e da altri baroni. Smontano alle soglie, umili, compunti, lagrimando di tenerezza. Sgomberati i simboli musulmani,[300] forniti i riti della nuova consecrazione, l’arcivescovo, il greco Nicodemo, che soleva uficiare nella povera chiesa di Santa Ciriaca, celebrò la messa [131] dinanzi a’ vincitori nell’antica chiesa, divenuta giâmi’ dell’islam, rifatta or cattedrale col titolo di Santa Maria: e dotolla Roberto di entrate e di sacri arredi.[301] Alcuno buon cristiano, scrive il buon Amato, vi udì la voce degli angioli che cantavano dolcissimi Osanna; e il tempio talvolta apparve illuminato della luce di Dio, mille volte più splendente che niun’altra del mondo.

I patti della resa variamente si leggono presso gli storiografi dei due rami sovrani di casa d’Hauteville. Guglielmo di Puglia verseggia che i Palermitani s’arresero, salva la vita, e che Roberto non solo l’accordò, ma anco promesse di non far loro alcun male ancorchè e’ fossero Pagani, e mantenne la parola, nè cacciò alcuno dalla città. Amato, robertista anch’egli, parla di resa a discrezione.[302] Il Malaterra, al contrario, afferma stipulato il patto che nessuno fosse sforzato a rinnegare la fede musulmana, nessuno aggravato con nuove e ingiuste leggi.[303] Più preciso l’Anonimo, contemporaneo di re Ruggiero, dice pattuite le medesime condizioni che si osservavano a’ giorni suoi.[304] Delle quali se non abbiamo il testo, [132] puossi tuttavia tenere per fermo che, oltre la tolleranza religiosa, i Musulmani di Palermo godessero la libertà e sicurezza delle persone, il mantenimento delle proprietà, i giudizii tra loro secondo leggi musulmane e da’ loro magistrati: nè egli è punto provato, nè probabile, che fossero sottoposti alla gezia. Ma di ciò più largamente a suo luogo.[305]

Ritornò per tal modo Palermo, dopo dugenquaranta anni, al nome cristiano, assai più splendida, vasta, popolosa, ricca, civile, ma bagnata di sangue e di lagrime; chè “il numero dei Saraceni che furono uccisi e di quei che furono presi e furono venduti, dice Amato, passò ogni esempio.” Poco appresso [133] Palermo, si diede a Roberto spontaneamente la città di Mazara, obbligandosi a pagare tributo.[306]

CAPITOLO V.

Impadronitisi della capitale musulmana, i Normanni che vedeano vinta, ancorchè non finita, la guerra, posero mano immediatamente al partaggio dell’isola. Roberto, intraprenditore principale dello armamento, condottiero dell’oste, e signor feudale, qual si tenea, degli Stati normanni di Terraferma, eccetto que’ di Capua ed Aversa, Roberto si prese Palermo, si tenne Messina e il Val Demone. Ruggiero ebbe dal Duca, assentendolo tutto l’esercito, gli altri paesi di Sicilia acquistati o da acquistarsi; del quale territorio a lui rimanesse una metà, e l’altra metà fosse suddivisa tra Serlone nipote di lui e di Roberto, e Arisgoto di Pozzuoli, uomo di schiatta longobarda, qual sembra al nome, imparentato con casa di Hauteville. Se le cose rispondessero ai nomi in quel periodo di formazione dell’Italia meridionale, si vedrebbe netto l’ordinamento politico della Sicilia: il Duca di Puglia sovrano feudale, con due [134] province serbate in demanio; il conte di Sicilia, gran vassallo, con altre province in demanio; e sotto di lui due principali suffeudatarii e poi tanti baroni minori dipendenti da costoro e altri direttamente dal conte, altri direttamente dal Duca. E tal al certo si proponea Roberto di costituire lo Stato; ma la virtù e fortuna di Ruggiero e de’ suoi successori guastarongli il disegno.[307]

Orribil nuova afflisse in questo tempo i vincitori. Serlone era stato ucciso a tradimento. Preposto, non sappiamo se durante l’assedio di Palermo o dopo l’espugnazione, alle milizie feudali di Cerami, per vegliare sul presidio di Castrogiovanni che rinforzato di aiuti affricani non tentasse qualche mal colpo, Serlone tenea spie presso i nemici; tra le altre un Ibrahim, de’ primi di Castrogiovanni, col quale sì intimo ei s’era fatto da giurarsi fratelli, dice il Malaterra, con bizzarro rito di [135] tirarsi l’un l’altro per l’orecchio. La quale usanza non troviamo appo i Musulmani. Una volta il fratello rapportatore manda dei presenti al fratello capitano, con avviso che il tal dì sette cavalieri arabi correrebbero il territorio di Cerami per boria di andare a far preda in casa sua. E Serlone, ridendosene, non s’apprestò altrimenti a chiamare le milizie feudali, anzi quel dì stesso uscì a caccia ne’ boschi di Cerami; quand’ecco un gridare accorr’uomo per lo contado, e i villani a fuggire dinanzi la gualdana annunziata da Ibrahim. Serlone a ciò si fa recare l’armadura; con quel pugno di gente ch’avea seco, sprona contro i ladroni a punirli di loro temerità. Precipitando su la via di Castrogiovanni, i Musulmani lo conducono all’agguato, ad otto miglia da Cerami, presso il confluente di due fiumicelli che scendendo l’un da Nicosia, l’altro da Cerami si gittano nel Simeto. Quivi l’aspettavano, secondo la tradizione normanna, settecento cavalli e tremila fanti, che mi paion troppi. Circondarono il drappello di Serlone, tagliandogli la strada del ritorno a Cerami. E il magnanimo, vedendo cadere già molti de’ suoi e non dubbia la morte, sprona a una rupe vicina, smonta, s’addossa alla roccia e disperatamente mena le mani di fronte e da’ lati. Si chiamò poi la Pietra di Serlone.[308] Cadde egli per cento ferite; perirono seco tutti i suoi, fuorchè [136] due lasciati per morti tra i cadaveri battezzati e i circoncisi. A Serlone strapparono il cuor dal petto: corse anco la voce tra i Normanni che que’ brutali, tagliato in pezzetti il cuor dell’eroe, avesserli mangiati a gara per superstizione d’infonder il suo valore ne’ vili petti loro. Mandarono poi in Affrica a Temîm la testa di Serlone, la quale confitta a un palo fu condotta in giro per le strade di Mehdia, con la grida “Ecco il gran campione de’ Normanni, or ch’egli manca, agevol cosa fia il racquisto della Sicilia.” Nè è a dir se cordoglio e furore destasse nell’esercito il caso di Serlone, quando lo si riseppe in Palermo. Ruggiero pianse amaramente il fedele e valorosissimo compagno delle sue vittorie. Roberto, che in vero non perdeva quanto lui, nel ripigliò dicendo, star bene i lamenti alle donne, agli uomini la vendetta.[309] Pur avendo altro da fare che porsi per un anno o due all’assedio di Castrogiovanni tanto che gli cadessero nelle mani gli uccisori del nipote, s’apparecchiò a ritornare in Puglia, aggiustato ben bene il morso ai Musulmani di Palermo.

Costruì o racconciò un castello alla bocca del porto: piccola fortezza, della quale ritenne il nome, e credo anco il sito, quello che s’addimandò fino al mille ottocento sessanta il Castellamare. Maggiore assegnamento fece Roberto sur una cittadella edificata nell’alto della terra, in quell’area ch’ora occupa il palagio reale aggiuntovi parte delle due piazze attigue [137] e tutto il quartier militare di San Giacomo. Quivi era nel nono secolo il palagio degli emiri, e nel decimo il Ma’skar, ossia stanza de soldati,[310] e par ne rimanessero in piè molte fabbriche e forse un muro di cinta, che fu racconcio a modo de’ vincitori: donde la nuova cittadella si addimandò volgarmente El-Halka, ossia “La Cerchia” e, negli scrittori latini e greci del tempo, è detta or Castello di sopra, or Palagio nuovo, e più spesso Galea, Galga, Galcula, Chalces, Xalces, e in ultimo Alga: che sono trascrizioni diverse del vocabolo arabico or ora notato. Il nome di Palagio o di Castello si estendea, com’ognun vede, a tutto il ricinto: un poligono ad angoli salienti e rientranti, lungo da cinquecento metri e largo da trecento; il quale a poco a poco s’empì di palazzine, portici, chiese e case di preti e cortigiani.[311] Ambo [138] le castella munì Roberto di pozzi e magazzini,[312] credo io fosse da grano per caso d’assedio; da prevedere al certo in mezzo a sì grossa cittadinanza musulmana, la quale non si potea tenere altrimenti che con la forza immediata e continua.[313] Racconta Amato, che sopravvedendo Roberto un dì i lavori della Halka, notò la chiesetta di Santa Maria, sparuta e sudicia che pareva un forno, in mezzo a tanti splendidi palagi de’Saraceni; ond’egli mettendo un sospiro, comandò fosse di presente demolita e nobilmente riedificata di pietre quadrate e di marmi, senza badare a [139] spesa.[314] Par sia questa la chiesa di Santa Maria della Grotta, che i ricordi ecclesiastici della Sicilia portano fondata da Roberto Guiscardo, con un monastero basiliano e con beni nel territorio di Mazara;[315] la stessa forse che si addimandò poi di Gerusalemme, cui l’antica struttura e l’ornamento di mosaici non camparono dalla distruzione a’ tempi del Fazello.[316]

Provvedute le castella d’uomini, d’armi e di vittuaglie,[317] Roberto lasciò a governare la città un suo cavaliere, con titol di emiro, conveniente a città musulmana; liberò i prigioni bizantini di Bari;[318] permesse al [140] fratello di pigliare a’ suoi soldi le genti dell’esercito che rimaner volessero a cercar ventura in Sicilia: e furono assai poche, ancorchè Ruggiero donando e promettendo le allettasse.[319] Pria di partire, il Guiscardo trovò modo di porre una taglia che non avea pattuita: chiamati a sè i principali della città, con faccia tosta lagnossi delle grandi spese sostenute nell’assedio, de’ molti cavalli perduti e di tante altre molestie, ch’e’ durava per causa de’ Palermitani; donde lor chiedea denari, e quei davano danari e preziose robe. Cariconne le navi; imbarcò le sue genti e i figliuoli de’ notabili della città presi in ostaggio, e andò via.[320] Sappiamo ch’ei recasse a Troja di Puglia delle porte di ferro e delle colonne co’ loro capitelli tolte in Palermo.[321] La stessa origine accusano parecchi doni di Roberto, i quali in oggi parrebbero raccolta d’antiquario o porzione da masnadiere, leggendosi appo Leon d’Ostia che il Guiscardo una volta presentasse al Monastero di Monte Cassino secento bizantini d’oro, duemila tarì affricani, tredici muli, tredici saraceni e un gran tappeto; e poi altra moneta di schifati, bizantini, tarì, michelati, soldi d’Amalfi, due cortine arabiche, e orcioli di cristallo, pallii, mantelli; e, con minutaglie così fatte, diplomi di concessione di terre e castella, delle decime su la pescagione in Taranto e fin decime [141] del lavoro di certi artigiani.[322] Delle quali larghezze le più sostanziose segnano le epoche di negoziazioni condotte dall’Abate di Monte Cassino con utile di Roberto; e quelle spoglie orientali evidentemente venivano di Palermo. E ben puossi immaginare qual immensa e bizzarra congerie di ricchezze portasse via l’oste di Roberto, e con che gioia i frati cantassero le lodi del pio vincitore, vero strumento della Provvidenza.

L’occupazione di Palermo affrettò la catastrofe di quei grandi feudatarii di Terraferma i quali, ricordando l’antica uguaglianza de’ condottieri, non sapeano capacitarsi come un titolo di duca ed una pergamena della cancelleria papale lor avesse dato un padrone e imposto l’obbligo del servigio militare e della contribuzione ne’ casi feudali. Roberto risolutamente affrontò i malcontenti, chiamando tutti i conti in Melfi, l’antica metropoli feudale; dove i soddisfatti convennero puntualmente a rallegrarsi secolui della vittoria. Ricusarono i tutori del conte di Trani, che aveano anco negata lor milizia all’impresa. Contro i quali mosse incontanente Roberto; prese, dopo breve assedio, Trani ed altre città e terre. La resistenza, ch’ei chiamava ribellione, rinacque poi più volte secondo i casi, le speranze o i dispetti. Gran romore si destò quando il duca, maritando una sua figliuola ad Ugo figlio del Marchese d’Este, richiese l’aiuto de’ vassalli per la dote, secondo le usanze feudali (1077). Sursero anco (1077-9) i figli [142] di Unfredo, nipoti e pupilli di Roberto spogliati da lui. Ma Roberto venne sempre a capo di que’ movimenti spicciolati e incomposti.

Ebbe anco a travagliarsi contro la dinastia normanna di Capua, avendo il principe Riccardo suscitati i suoi nemici mentr’egli assediava Palermo; e fu sino alla morte di Riccardo e nel regno del figliuolo Giordano, un alternare di ostilità, pratiche ed accordi, come tra due astuti che si conoscono, due forti che s’hanno riguardo, e due intraprenditori che fanno a metà purchè spoglino il terzo. Se non che Roberto seppe guadagnare più che il rivale. Pagò lo scotto la dinastia longobarda di Salerno. Perchè Gisulfo, cognato di Roberto, troppo fidandosi nel principe di Capua e nel papa, si trovò ad un tratto abbandonato e solo nel pericolo. Roberto si accordava con Riccardo, al quale diè aiuti alla impresa di Napoli (1078), che tornò vana per la virtù di quella repubblica. E in questo mezzo era scomparso l’antico principato longobardo di Salerno (1077). Sotto specie di difendere i dritti dell’umanità, il Guiscardo intercedeva appo Gisulfo a favore de’ tiranneggiati Amalfitani; non ascoltato, andava all’assedio di Salerno con grand’oste, dice Amato,[323] di Latini, Greci e Saraceni; dond’e’ si vede che il vincitore di Palermo non tardò ad usare le armi de’ novelli sudditi suoi. Ebbe Salerno dopo lungo assedio della città, poi della rôcca; dove preso Gisulfo, gli diè l’eletta di risegnare tutto lo Stato o andar a finir la vita prigione nella cittadella di Palermo: ed a persuaderlo meglio già [143] faceva apprestare i ceppi e la nave.[324] Talchè il principe Gisulfo, deposta la corona e spogliato d’ogni cosa, cercò asilo e lucro a corte di Gregorio settimo.

Fin da’ primi giorni dell’esaltazione (1073), Ildebrando avea tenute pratiche con Roberto, al quale ragion volea ch’egli si accostasse, mentre stava per gittar il dado nella gran lite delle investiture. Pur sia troppa alterezza e caparbietà del papa e ch’egli mal conoscesse Roberto e le condizioni del tempo, sia che Roberto pretendesse troppo anch’egli, andarono a voto le negoziazioni;[325] onde Gregorio, scomunicato il duca (1074), era corso a suscitare contro di lui Riccardo e lo sventurato Gisulfo; avea sollecitata anco la fida contessa Matilde a mandare grosso esercito, che unito a que’ di Capua e di Salerno schiantasse d’Italia la casa di Hauteville.[326] Lega più bella a immaginare che a mettere in opera; su la quale se Ildebrando fece assegnamento, e’ non vedea tanto lungi nelle cose politiche. Passato dunque in Italia Arrigo IV, egli accadde che mentre il papa superbamente oltraggiava l’imperatore a Canosa, Roberto [144] accordatosi con Riccardo, spogliò del tutto, com’accennammo, il principe di Salerno. E quindi appiccò pratiche con Arrigo stesso; minacciò Benevento che si tenea pel papa; mostrò a Gregorio in cento guise che delle cose del mondo ne sapesse molto più di lui. Onde Gregorio, tornando da’ sogni alla realità delle cose, venne ad abboccamento con Roberto (1080), lo ribenedisse, accettò l’omaggio pei territorii del duca, gli diè titolo di cavalier di San Pietro, dicon anco gli promettesse l’impero d’Occidente.

E favorillo alla occupazione dello impero Orientale, contro il quale Roberto si volgea; non conoscendo ostacoli che col senno e col valore non si potesser vincere. L’occupazione di Niceforo Botoniate avea tramutato dal trono di Costantinopoli in un monistero l’imperatore Michele Duca; si dicea mutilato il costui figliuolo Costantino, e la giovane sposa di lui, figlia di Roberto, chiusa in prigione. Spacciò egli dunque voler vendicare la figliuola e rimettere sul trono il suocero. Usò opportunamente lo sdegno acceso tra i guerrieri normanni alla prigionia della sua figliuola, che pareva onta nazionale; passò in Grecia con un esercito ed un’armata. Battuto dalla tempesta (1081); sconfitto in mare da’ Veneziani, tenne fermo tuttavia all’assedio di Durazzo; sbaragliò il novello imperatore bizantino, Alessio Comneno, che volle assalirlo nel suo campo; ed ebbe alfine Durazzo a tradimento (1082). Lasciando allora il figliuolo Boemondo a condurre innanzi la guerra in Grecia, ei tornò in Italia, dove i baroni levavano la testa; e lo minacciava anco lo imperatore Arrigo, il quale aiutato di [145] danari dal bizantino, com’ora portava l’interesse comune, era entrato in Roma (21 marzo 1084), s’era attirati o comperati molti potenti cittadini e già assediava Ildebrando in Castel Sant’Angelo. Il papa, vistosi abbandonato da’ cittadini e da parecchi cardinali, consumato l’oro e l’argento delle chiese, chiamò allora in aiuto il novello cavalier di San Pietro: e questi corse a gastigare l’imperatore d’Occidente, sì com’avea testè fatto di quel d’Oriente sotto Durazzo. Ma Arrigo sgombrò (maggio 1084) tre giorni innanzi l’arrivo dell’oste meridionale: seimila cavalli e trentamila pedoni, tra Normanni, Pugliesi, Calabresi e Saraceni di Sicilia, ansiosi tutti, direbbesi, di ristorar l’autorità del papa nella metropoli del mondo cattolico. Italiani contro Italiani e stranieri contro stranieri, veniano a lacerarsi tra le rovine gloriose di Roma per una delle mille quistioni che generò il papato e prima e allora e dopo; nè la civiltà del decimonono secolo v’ha trovato rimedio per anco, nè lo troverà finchè non estirpi il germe del male. I crociati cristiani e musulmani lasciarono in Roma vestigia che compariscono tuttavia. Entrato Roberto senza sangue, ma non senza fatica, surse un tumulto contro di lui; corsero i suoi all’armi; Roberto gridò qui il fuoco, e il fuoco fu appiccato a Roma ed aiutato dal vento consumò ogni cosa tra il Laterano e il Castello dove era ristretto il papa. Le soldatesche, seguendo le fiamme, davano addosso ai cittadini, ammazzavano, saccheggiavano, faceano violenza alle donne, perfino nei monasteri (29 maggio). Sforzati i Romani con la spada e la fiaccola di Roberto [146] ad accordarsi col papa, ed uscito Gregorio settimo dal castello, non osò questi rimanere nell’oltraggiata città: andossene col suo liberatore normanno a Salerno,[327] dove a capo d’un anno morì (maggio 1085). Gli tenne dietro Roberto; il quale dopo i fatti di Roma ritornato era in Grecia con nuovo esercito e armata raccolta in Puglia, Calabria e Sicilia;[328] avea riportata nelle acque di Corfù una splendida vittoria navale contro le armate di Costantinopoli e Venezia, e guerreggiava in Cefalonia, quando una febbre l’ammazzò (17 luglio 1085). Alla cui morte l’esercito e l’armata incontanente ritornavano in Italia. Pericolò lo stesso suo Stato in Puglia e Calabria, avendo Roberto lasciata la sovranità ducale al figliuolo Ruggiero, nato dalla principessa salernitana Sichelgaita; perilchè Boemondo, suo primogenito dalla prima moglie ipocritamente ripudiata, Boemondo prode quanto il padre, ma senza cervello, disputò la successione a Ruggiero; e la casa di Hauteville, forse la dominazione normanna in Italia avrebbe corso gravi pericoli se non fosse stato per l’altro Ruggiero conte di Sicilia e di Calabria, che si trovò primo della famiglia per armi, ricchezze e reputazione.[329]

[147]

CAPITOLO VI.

Mentre Roberto allargava e assodava il dominio nell’Italia meridionale, Ruggiero progredì a piccoli passi in Sicilia. Abbiam testè narrato com’ei raggranellasse a stento nell’esercito del fratello pochi venturieri o mercenarii; premendo ai più di ritornare in Terraferma, per dar sesto ai loro possedimenti feudali e partecipare, da amici o da avversarii, nelle brighe di Roberto. I dominii di Ruggiero in Calabria, provincia bizantina non usa alla feudalità, poco aiuto fornir poteano, d’uomini e di danaro. Que’ di Sicilia anco meno. All’entrar del millesettantadue, la Sicilia si partiva in tre zone paralelle; delle quali la prima, stendendosi da Messina a Palermo lungo il pendìo settentrionale degli Appennini siculi, apparteneva a Roberto;[330] la seconda, lungo il pendìo meridionale della stessa catena, ubbidiva a Ruggiero; e la terza, uguale in superficie alle altre due messe insieme, teneasi dai Musulmani; se nonchè Ruggiero vi occupava Catania e Mazara, alle estremità di levante e di ponente, ed all’incontro gli mancavano, ai due capi della propria sua zona, Taormina e Trapani, [148] validissime fortezze de’ Musulmani. Mal sicura dunque la provincia di Ruggiero, per quegli estesi confini che richiedeano presidii in ogni luogo; scarso il frutto che il signor ne potea cavare. Al che s’aggiunga che, accomunate indissolubilmente le sorti de’ due fratelli, era uopo talvolta a Ruggiero di combattere in Terraferma pel duca; sì come gli avvenne nel millesettantasette, quando Roberto lo richiese di assediare in Sanseverino il nipote Abelardo, fautore del Principe di Salerno.[331] Le condizioni della Calabria costringeano altresì Ruggiero a ritornarvi di frequente e dalle fazioni di Sicilia il distoglieano.[332]

La regione musulmana potea resistere lungamente. Vero egli è che fin dal millesessantadue la divisione del principato avea tolto di affrontare i Normanni con tutte le forze dell’isola; avea fatti trovare al nemico dove ausiliarii e dove lieti spettatori delle sue vittorie: e ben dice Ibn-Khaldûn[333] che gli occupatori di que’ piccioli Stati caddero nel fallo di affrontar il conte l’un dopo l’altro; e ch’egli aizzandoli in loro discordie, li soggiogò spicciolati e loro prese la Sicilia a fortezza a fortezza. Pur la divisione, mentre fiaccava irreparabilmente il corpo politico, infondea qua e là vigore morboso nelle membra: ciascuno di quegli occupatori s’afforzò d’armi e di castella, fidando in sè solo e in Allah. Al precipizio del suo vicino, o sorrise o punto sbigottì. Nè sbigottirono all’occupazione di Palermo; la quale avrebbe [149] dato vinta la guerra a’ Normanni, se la Sicilia avesse fatto unico Stato. Mazara sola si arrese con la capitale; le altre città o principati (che incerto è il distinguere le dominazioni surte e cadute in quel vortice di guerra nazionale e di guerra civile) continuarono a difendersi, sì come avean fatto per l’addietro, senza aiuti di Palermo.

Anzi l’occupazione di Catania or destava dal decenne letargo i Musulmani di Val di Noto, i quali, collegati con Ruggiero, aveano serbate intere le forze; ed or ne fecero bella prova, condotti da un Benarvet o Benavert.[334] Tacciono di costui gli annali arabi; tace il maggior poeta arabo della Sicilia, Ibn-Hamdîs, il quale visse appunto in quel tempo e ricordava pur sempre con orgoglio il valor de’ cavalieri siracusani: ma forse privata nimistà lo rese ingiusto contro l’ultimo eroe musulmano della Sicilia.[335] Talchè siam noi costretti a spillare le geste di Benavert per entro un’artifiziosa cronaca normanna, solo scritto contemporaneo che ci rimanga su quest’ultimo periodo della guerra siciliana. Similmente è forza che noi togliamo dalla medesima cronaca tutti gli altri fatti particolari. Il fatto generale è che la zona musulmana si trovò tutta in arme; sparsa di castella, donde i signori sfidavano i cavalli di Ruggiero e metteano in punto gualdane da insidiare e depredare la regione tenuta da lui. Ruggiero, capitano [150] di poche squadre mal adatte ad assedii, suppliva al numero col valore, la costanza, l’attività della mente e della persona; le quali virtù, afferma lo storiografo di corte, crebbero a tanti doppi, quand’egli pei nuovi patti fu certo d’affaticarsi oramai per sè medesimo, senza obbligo di partire gli acquisti con Roberto.[336]

Contuttociò volgea senz’altro evento il primo anno dall’occupazione di Palermo. Del millesettantatrè sappiam solo che Ruggiero afforzasse un castello a Mazara, per soggiogare gli abitatori di quelle pianure e un altro a Paternò, per infestare le falde dell’Etna.[337] Del millesettantaquattro ei munì di cavalieri, armi e vettovaglie la rôcca di Calascibetta, di faccia a Castrogiovanni, a fin di battere sì duramente il contado, che Castrogiovanni gli si arrendesse e cadessero con quella fortezza le speranze dei Musulmani tutti dell’isola.[338] Nè furono segnalati altrimenti i due anni appresso, che per due prospere fazioni de’ Musulmani e per la prontezza e valore con che Ruggiero seppe ripigliare l’avvantaggio in entrambe. Forse i Musulmani di Sicilia, incalzati dalla avversa fortuna, s’erano in questo tempo rivolti nuovamente agli aiuti d’Affrica, e casa Zirita li avea nuovamente ascoltati; poichè di giugno settantaquattro, l’armata di Temîm, girato intorno alla Sicilia, s’era improvvisamente gittata sopra Nicotra di Calabria; [151] fattivi prigioni e bottino, arsa la terra, resi i prigioni per riscatto, s’era ridotta in Affrica. Ritornava ne’ mari di Sicilia correndo il settantacinque; sbarcava le genti a Mazara, le quali assediavano per otto dì il castello con manifesto proposito di tenere la città, quando Ruggiero, chiamato per messaggi, v’accorse con forte mano d’armati, entrò di notte nel castello, e al nuovo dì, fatta una sortita, pugnò con gli Affricani nella piazza sotto il castello e con molta strage li respinse al mare e molti ne fece prigioni.[339]

Veggiamo dopo questa fazione travagliarsi più grossa la guerra d’ambo le parti. Benavert, surto com’e’ sembra nella riscossa del Val di Noto, comandava da Siracusa a tutta la provincia, ne raccogliea le forze di terra e di mare,[340] e in guisa le adoperava da tenere in rispetto lo stesso Ruggiero e meritar dallo storiografo normanno la lode di astutissimo, audace, esperto capitano, maestro d’inganni e di stratagemmi.[341] Il conte dalla sua parte aveva ordinato un nodo di milizia stanziale, capitanato da Giordano, figliuol suo non legittimo, bello ed aitante della persona, prode tra i prodi. Occorrendo adesso a Ruggiero di ritornare a Mileto in Calabria, ei pose luogotenente in Sicilia Ugo di Jersey, di nobilissima famiglia del Maine, marito d’una sua figliuola e feudatario, com’ei [152] pare, di Catania.[342] Al quale raccomandò che, stando sempre su la difesa, per niuna provocazione non uscisse a giornata contro Benavert. E quegli, bollente di gioventù e di militare ambizione, non curando il divieto, volle provarsi: andato a trovare in Traina Giordano che non era punto men ambizioso di lui, seco il tirò con gli stanziali. Ma Benavert, risaputi cotai preparamenti, guadagnò le mosse a’ due giovani normanni. Con forte stuolo andò a porsi in un bosco presso Catania che chiamavano il Mortelleto; mandò trenta cavalli a depredare insino alle mura della città, per trar fuori Ugo di Jersey. Il quale opponendo, com’ei credea, stratagemma a stratagemma, spinse contro i provocatori musulmani una vanguardia di trenta cavalli ed egli, con Giordano e il grosso delle genti, seguiva da lungi. Ma appostosi Benavert al disegno, lascia passar libera la vanguardia normanna; e quando è giunta la schiera d’Ugo, le piomba addosso. Il numero, allora, o la tattica de’ Musulmani riportò la vittoria. Valorosamente combattendo Ugo fu morto, con la più parte de suoi; Giordano si rifuggì a mala pena, con gli avanzi, in Catania; la vanguardia, tagliata fuori, cercò asilo nella fortezza normanna di Paternò. E Benavert recò a trionfo in Siracusa le prime spoglie de’ Normanni.

Ruggiero risaputo il caso, mosse alla volta di [153] Sicilia per fare strepitosa vendetta e assicurare i suoi che balenavano. Recate seco sì grosse forze che Benavert non osò affrontarlo all’aperto, nella state del millesettantasei, occupava dapprima una rôcca in sul monte Judica, il quale chiude a ponente la ubertosa e vasta Piana di Catania; demoliva la rôcca; mettea al taglio della spada tutti gli uomini; le donne e i bambini mandava a vendere in Calabria. Correndo poi le parti meridionali del Val di Noto, fece grandissima preda; bruciò le mèssi già segate; cagionò sì orribile guasto, che l’anno appresso la Sicilia fu desolata dalla fame,[343] aiutandola al certo i guasti [154] che feano i Musulmani nella provincia di Ruggiero, i quali, come di ragione, son taciuti dal Malaterra.

Non si ostinando pure a combattere Benavert nelle fortezze del Val di Noto, Ruggiero l’anno appresso, che fu il millesettantasette, del mese di maggio, assalì Trapani, a ponente della propria sua zona; Trablas, come scrive il Malaterra, notando fedelmente la pronunzia arabica che confondea l’antico nome di Drepanum con quello, più ovvio, di Tripoli. Andò con forze tanto insolite, che li chiamarono esercito e armata; armata della quale non allestì mai più bella il grande Alessandro, sclama qui Malaterra, sfogando la gioia del nuovo spettacolo in uno squarcio di versi. E così descrive il placido mare, i zeffiri amici, le spiegate vele, il sorriso dell’auretta e della fortuna, lo squillo delle trombe, il suono de’ liuti, il batter de’ tamburi; e da un’altra mano la cavalleria che corre per monti e valli capitanata da Ruggiero in persona, i mille pennoncelli delle lance, il luccicare degli elmi e degli scudi intarsiati d’oro, il nitrito de’ cavalli e l’eco che il ripercuote: orribil suono, orribile vista da far tremare i Musulmani entro le mura di Trabla. Strinsero la città per mare e per terra; piantaron gli alloggiamenti; ricacciarono malconci dentro le mura i cittadini usciti a combattere: e contuttociò l’assedio andava in lungo, quando un colpo di mano fece cader l’animo a’ Trapanesi. Fuor la città, scrive il Malaterra, [155] stendeasi in mare un promontorio ricco di pascoli,[344] dove soleano menare il bestiame, ridotto dalla campagna in città al principio dell’assedio. Di che addandosi Giordano, senza dir nulla al padre, una sera con cento soli combattenti si fece traghettare al promontorio; occultò la gente tra li scogli, finchè la dimane aperte le porte della città e uscito l’armento, ei salta dall’agguato, rapisce i buoi fin sotto le mura, li fa cacciare alle sue barche; e sopraccorsi i cittadini in arme, ferocemente li ributtò, ne fece strage, imbarcò la preda, e tornossene al campo. Malaterra, o il conte, moltiplicando, all’usanza loro, per quindici o per venti il numero de’ combattenti musulmani, ne fanno qui uscire diecimila contro Giordano, quanti forse non ne capiva il luogo, nè potean essere in Trapani. Il pericolo di nuovo assalto da quella banda e le vittuaglie che venian meno dopo tal preda, fecero calare i cittadini agli accordi: i quali par siano stati stipulati negli stessi termini che già ottennero i Musulmani di Palermo; leggendosi nella cronica che consegnarono il castello, riconobbero la signorìa del conte, e si confederarono, secondo il solito; il che ben sappiamo che significasse pagare tributo. Ruggiero acconciò le fortificazioni a modo suo, lasciovvi presidio ben provveduto, e si messe a battere la provincia, sparsa di forti rôcche ed ostinata a difendersi. In breve tempo, i Normanni vi sottomessero ben [156] dodici importanti castella. Le quali il conte distribuì in feudo ai suoi condottieri, con le terre dipendenti da ciascuno e licenziò l’esercito. Acquistò, non guari dopo, Castronovo, forte e grossa terra; chiamatovi da una mano di servi che s’erano ribellati al Signore musulmano, Beco, o forse Abu-Bekr, ed afforzati in una rupe che sovrastava al castello. Dove sopraccorso il conte da Vicari, con quanta gente potè raccogliere in fretta, i sollevati fecero i patti con lui, tirarono su con funi i suoi soldati: ed Abu-Bekr, vista inutile la resistenza, sgombrò; i terrazzani resero il castello a Ruggiero. Questi immantinente emancipava que’ servi, e largamente rimunerava un mugnaio, il quale, battuto dal crudel signore, avea macchinata la rivolta per vendicarsi.[345]

Crescea con gli acquisti la milizia feudale e la riputazione di Ruggiero sì prestamente, che l’anno appresso l’esercito si vide partito in quattro corpi, sotto Giordano, Otone, Arisgoto di Pozzuoli ed Elia Cartomi; dei quali è verosimile che il primo conducesse oltre i proprii vassalli gli stanziali del padre, Otone ed Arisgoto, italiani entrambi come suonavano ormai que’ nomi, capitanassero gli uomini di Calabria e di Sicilia, ed Elia i Musulmani sudditi de’ Normanni: sendo costui musulmano e forse rinnegato, sicchè quei di Castrogiovanni, cui cadde tra le mani a capo di pochi anni, lo misero a morte secondo lor legge, e gli agiografi cristiani di Sicilia l’han fatto martire e beato.[346] [157] L’armata accompagnava l’esercito. Il conte, non più costretto dalla pochezza delle forze a rubacchiare ed usare le occasioni, conducea la guerra a disegno. In primavera dunque si pose all’assedio di Taormina; la quale sorgendo su ripido monte, a cavaliere del mare, da prendersi per fame anzi che per battaglia, chiuse egli il mare con l’armata; circondò le radici del monte con ventidue torri collegate tra loro per una cintura di palizzate e siepi.[347] E poco mancò ch’egli non vi lasciasse la vita. Perocchè un giorno, andando in giro per la circonvallazione con piccola scorta d’armati e inerpicandosi discosto alquanto dai suoi per viottoli alpestri, una mano di Slavi, che sembrano schiavi o mercenarii de’ Musulmani, gli saltarono addosso da un mirteto dove s’erano ascosi. Più ratto di loro, un uom di Bretagna per nome Evisando, si gittava di mezzo tra i nemici e il conte; li rattenea nello stretto passo, dando e toccando colpi, tanto che, sopraccorsa la scorta, rotolò gli assalitori giù per que’ dirupi; mentre Evisando dalla fatica e dalle ferite spirava. Il conte onorò di splendidi [158] funerali e pie fondazioni la memoria di questo fedele, immolatosi per lui. Ma stretto e assicurato in tal modo l’assedio, Ruggiero con una eletta di fanti battea la costa settentrionale dell’Etna e la valle che la divide dagli Appennini e soggiogava tutti i Musulmani sparsi in que’ luoghi, infino a Traina. Ritornato allo assedio, vide comparire quattordici corvette affricane[348] alle quali mal avrebbe potuto resistere l’armata sua, scema di gente per la guardia della circonvallazione. Donde inviato un messaggio agli Affricani, gli risposero non venir con intendimenti ostili e veramente poco appresso partironsi; il che darebbe a credere che Roberto per avventura avesse stipulato accordo co’ principi Ziriti, per pratiche de’ Pisani o degli Amalfitani e che Ruggiero fosse compreso nella tregua, ovvero cogliesse or il destro di entrarvi anch’egli, come di certo il fece a capo di pochi anni.[349] E intanto per l’assidua vigilanza di Ruggiero e de’ capitani suoi fu [159] chiusa Taormina sì strettamente che, mancate le vittuaglie, la si arrese nell’agosto dopo cinque mesi di assedio.[350]

Posarono nel millesettantanove i Musulmani liberi della Sicilia meridionale, mercè i lor fratelli soggiogati della provincia palermitana, i quali attiravano sopra di sè le armi del Conte. A ventidue miglia da Palermo e un miglio e poco più a levante del comune di San Giuseppe li Mortilli, sorge scosceso monte, inaccessibile fuorchè da una via aspra e tortuosa: luogo pressochè disabitato al tempo nostro. Pure il nome topografico non dileguato, gli avanzi di spaziose cisterne e di qualche edifizio, i vasi d’argilla e le monete che sovente vi si ritrovano coltivando il suolo, mostrano quivi senza alcun dubbio il sito dell’antica Jeta o Jato, desolata non da Goti nè da Saraceni, ma dai monaci ai quali ne fe’ dono Guglielmo II, con quaranta o più villaggi de’ contorni. Territorio fertilissimo di circa cento miglia quadrate, abitato in oggi da diciassette o diciotto mila anime[351] il [160] quale per lo meno ne racchiudea da sessantamila, leggendosi nel Malaterra che Giato avesse tredicimila famiglie.[352] Forti nel numero e nella postura, que’ di Giato ricusarono il censo e il servigio; nè Ruggiero li potè spuntar con preghiere, nè con minacce. Raccolsero gli armenti nella spaziosa montagna, afforzaronla di muro e di ridotti là dove parea accessibile, e con vigilanti guardie si assicurarono; beffandosi della rabbia del conte Ruggiero. All’esempio si mosse Cinisi, terra di origine arabica, come pare dal nome, posta a venticinque miglia a ponente di Palermo; contro la quale andò Ruggiero co’ vassalli di Calabria, lasciando que’ di Sicilia a stringere Giato, o piuttosto ad infestarne il territorio da’ due lati confinanti con Corleone e Partinico. Egli poi sopravvedeva or l’una or l’altra oste e invano si affaticava, rifuggendo, per umanità, dignità o avarizia, dall’ardere le mèssi. Ma infine gittossi a quel partito, più degno di masnadiere che di capitano; e Giato e Cinisi calavano agli accordi.[353]

Ritardò le mosse militari, non gli acquisti, di Ruggiero in Sicilia, l’impresa orientale di Roberto, cui par che il fratello desse aiuti d’ogni maniera e [161] rendesse importanti servigi, ond’ei n’ebbe in merito la provincia del Valdemone. Perocchè del milleottantuno, il Conte, fatti venire d’ogni banda, scrive il Malaterra, valenti artefici,[354] con grandissima spesa murava dalle fondamenta le fortificazioni di Messina: baluardi e torri di mirabile altezza; le quali in breve tempo furono compiute, per la solerzia di Ruggiero che aveavi preposti appositi officiali e instava spesso in persona a’ lavori. Sappiamo inoltre che risguardando Messina come chiave della Sicilia e importantissima tra le città ch’egli possedea, la munì di forte e fedele presidio; la decorò di novella chiesa del titolo di San Niccolò, edificata a bella posta, largamente dotata e messa sotto la giurisdizione del vescovato che il Conte avea testè fondato in Traina.[355] I quali fatti, e le parole con che li espone il cronista di corte, dimostran Ruggiero in quel tempo signor di Messina, anzi che luogotenente di Roberto. E tal sembra l’anno appresso in tutta la provincia; ritraendosi che Giordano, nella tentata usurpazione del mille ottantadue, togliesse al padre due terre di Valdemone, Mistretta, cioè, e quel Castello di San Marco ch’era stata la prima fortezza munita da Roberto in Sicilia. Certa dunque ci torna, ancorchè non attestata da diplomi nè litteralmente affermata da scrittori, la cessione o vendita che dir si voglia del Valdemone; alla quale non è meraviglia che si venisse, quando Ruggiero tenea molti danari in serbo,[356] Roberto all’incontro con grandi [162] spese allestiva possente armata e metteva in piè un esercito. E forse fu principale patto loro l’armamento di Messina; premendo a Roberto di evitare il pericolo che un navilio bizantino venisse ad occupare lo Stretto, mentr’egli assaliva l’impero d’Oriente.

Passato Roberto di là dall’Adriatico, e soggiornando sovente Ruggiero in Puglia e in Calabria per aver cura delle faccende di lui, intervenne lo stesso anno mille ottantuno, che Benavert s’insignorisse di Catania. Il quale era divenuto molestissimo a’ Normanni tra cotesti loro preparamenti alla guerra d’oltremare; ed a lui facean capo tutti i Musulmani di Sicilia ribelli, come il Malaterra chiama coloro che la patria e la religione tuttavia difendeano contro i guerrier di ventura del Nort. Segue a dire il cronista che Benavert comperò con doni e promesse un Bencimino[357] che reggea Catania per Ruggiero; il qual nome per avventura sarebbe lo stesso di Ibn-Thimna e se ne potrebbe inferire che alcun figliuolo o parente di lui servisse tuttavia i Normanni. Una notte il traditore apriva la città a Benavert ed alle sue genti: con rabbia ed onta de’ Cristiani, con esultanza de’ Musulmani, si sparse per tutta l’isola essere tornata Catania in man del nemico. Moveano alla riscossa, Giordano, Roberto di Sordavalle ed Elia Cartomi, con centosessanta lance, che tornerebbero a settecento cavalli; ai quali Benavert uscì incontro, continua il Malaterra, con ventimila fanti e un forte nodo di cavalli: pose a destra i primi, stette [163] ei co’ secondi a sinistra un po’ addietro la linea; e con lieti auspicii appiccò la battaglia, poichè avendo la cavalleria cristiana caricati i fanti, non le venne fatto d’intaccarli al primo, nè al secondo, nè al terzo assalto. Audacemente allora i Normanni si serrano addosso a’ cavalli di Benavert, lasciandosi interi al fianco e al dosso i fanti nemici: ed ostinata e sanguinosa la zuffa si travagliò co’ cavalli, forse uguali e forse inferiori di numero, finchè i Musulmani, rotti, fuggironsi alla città e Benavert stesso a mala pena v’entrò, inseguito da Giordano fino alle porte. I fanti si sparpagliarono dopo la rotta dei cavalli, fuggendo o correndo all’impazzata addosso ai vincitori, sì che furono tagliati a pezzi. I Normanni posero l’assedio alla città; nella quale sendo scarso il presidio e ingrossando già la popolazione cristiana,[358] Benavert nottetempo se ne andò a Siracusa, dov’ei condusse il traditore, Bencimino, e in vece de’ promessi premii, gli diede la morte.[359]

Contenti di questa vittoria i Normanni stettero sempre in su la difesa infino al milleottantacinque, ordinati, credo, a contenere Benavert que’ medesimi stanziali che aveano sì virtuosamente ripigliata Catania. Ruggiero soggiornò in Terraferma, come richiedeano gli interessi di Roberto e suoi; nè ebbe a venire in Sicilia che per reprimere, del mille ottantadue, una rivolta del proprio figliuolo Giordano, luogotenente nell’isola. Il quale par abbia voluto prendere [164] le terre di Valdemone per sè stesso, e cominciò occupando i castelli di Mistretta e di San Marco, e tentando di por mano nel tesoro di Ruggiero, serbato in Traina a guardia d’uomini fidatissimi, da non spuntarsi con promesse nè con minacce. Indi fallì questo colpo; nè senza vergogna Giordano si ritrasse dal mal sentiero ov’avea messo il piede. Perchè Ruggiero, temendo che il figliuolo per disperazione non si gittasse a’ Musulmani, dapprima s’infinse prenderle per baie giovanili, ed aprì le braccia a quel valoroso; ma com’ei l’ebbe nelle sue forze con tutti i compagni e’ famigliari, cominciò una stretta inquisizione, fe’ accecare dodici che gli parvero gli istigatori del figlio, e rimandò poi libero Giordano, disonorato nel supplizio de’ complici, atterrito dalla minaccia di perdere il lume degli occhi per comando del proprio suo padre.[360] Allenava così la guerra, dalla parte de’ Normanni, perchè il nerbo delle loro forze pugnò in quel tempo con Roberto in Grecia; e dalla parte de’ Musulmani, perchè forze d’animo non restavano ai soggiogati, e i liberi par che al solito le spendessero in lor piccole gare. Che se pronti egli avesse visti a pigliare le armi i correligionarii suoi di Palermo, di Mazara o di Trapani; se disposti que’ di Castrogiovanni o di Girgenti a seguirlo ne’ territorii occupati dal nemico, non avrebbe il prode Benavert messe tutte le sue sorti al gioco d’una disperata fazione in Calabria.

Tentolla il milleottantacinque, quando la morte di Roberto Guiscardo avea gittato tanto scompiglio nell’Italia meridionale, quando si disputava la successione [165] al ducato tra suoi figli Boemondo e Ruggiero, quando il conte Ruggiero si adoperava in Terraferma all’esaltazione del secondo tra’ nipoti, il quale glie ne die’ in merito la metà delle terre di Calabria, riserbata già da Roberto. Benavert assaltò la Calabria, come uom che a null’altro agogni fuorchè vendicarsi o morire. Nell’agosto o nel settembre[361] approdò di notte[362] a Nicotra, vinto pria, com’e’ parrebbe, un combattimento navale e poi uno di cavalleria co’ Normanni:[363] distrusse quant’ei potè della città, rapinne quanto ei seppe, menò cattivi uomini e donne. Ritornando, sbarcò presso Reggio, dove saccheggiò le chiese di San Niccolò e di San Giorgio, spezzando le immagini, contaminando i vasi sacri e gli arredi. Irruppe alfine nel munistero di donne della Madre di Dio a Rocca d’Asino; depredollo e le suore menò negli harem di Siracusa.[364]

Inorridivano, bolliano di sdegno all’annunzio di tal sacrilegio le milizie cristiane; soprattutti Ruggiero che sperava utilità dalla vendetta e il destro di volgere a impresa nazionale e religiosa le armi pronte in Puglia alla guerra civile. “Spirandogli il Cielo maggior [166] ira che l’usata, scrive il monaco Malaterra, ei surse a vendicare l’ingiuria di Dio: cominciò il primo ottobre, fornì il venti maggio gli appresti dell’armata. A piè scalzi allora, andò in giro per le chiese, recitando litanie, mettendo sospiri e lamenti, dispensando larghe limosine ai poverelli: si commise indi a’ perigli del mare e drizzò le prore a Siracusa. “La mostra dell’armata, i riti di propiziazione da infiammare le moltitudini seguirono, com’egli è evidente, a Messina. Ruggiero, mandato Giordano co’ cavalli che l’aspettasse al Capo di Santa Croce,[365] là dove fu poscia edificata Agosta, salpò con l’armata; la qual senza remi nè vele (nota il Malaterra per dimostrare il miracolo, ma dimentica le correnti del mare) prosperamente navigò, sostando la prima notte a Taormina[366] la seconda a Lognina[367] presso Catania e la terza al Capo di Santa Croce. Dove trovato Giordano co’ cavalli e messa in punto ogni cosa, il conte mandò a riconoscere le condizioni del nemico un Filippo di Gregorio[368] patrizio. Il quale, in una barca montata da Siciliani, com’ei sembra, che al par di lui intendeano l’arabico e parlavano speditamente, aggirossi nel porto di Siracusa la notte, contò le navi di Benavert, le seppe disposte ad affrontare senza dimora i Cristiani e ritornò a Ruggiero. Era giorno di domenica. Il conte fa celebrare la messa [167] in quel deserto lido, confessare e comunicare la gente: la notte salpa per Siracusa e mandavi la cavalleria. Il venticinque maggio mille ottantasei, combatterono le due armate nel maggior porto, come quelle di Siracusa e d’Atene, quindici secoli innanzi. Benavert vedendo troppo travagliati i suoi dagli arcieri e sopratutto da’ balestrieri,[369] che li ferivano stando fuor del tiro delle saette loro, comandò l’arrembaggio: dritto ei vogò a dar d’urto alla nave di Ruggiero; spingendolo il demonio, scrive Malaterra, per accorciargli la vita. Perchè trovato duro riscontro, ferito gravemente di lanciotto per man d’un Lupino,[370] incalzato con la spada alla mano dal Conte, cercò scampo in altra nave, spiccò corto il salto, e annegò, tratto in fondo dalla grave armadura. La più parte delle navi musulmane allor fu presa; e la città cinta d’assedio, poichè Giordano, osservando questa volta rigorosamente il divieto del padre, non tentò d’occuparla d’un colpo di mano, al primo scompiglio gittatovi dal caso di Benavert. Dice l’Anonimo che Ruggiero, fatto pescare il cadavere dell’emir, mandasselo a Temîm in Affrica. Valorosamente poi si difesero i Musulmani di Siracusa dallo scorcio di maggio fino all’ottobre; e invano speraron placare il conte, rimandando liberi tutti i prigioni cristiani. Affaticati, scemati da’ tiri delle macchine, li ridusse la fame. Una notte, la moglie e il figliuolo di Benavert, coi notabili musulmani, si rifuggirono in Noto su due navi, trapassando velocissimamente [168] in mezzo all’armata nemica. La città s’arrese a patti.[371]

Il giusto orgoglio d’una impresa navale de’ nostri e la connessione del subietto, mi conducono or a toccare l’espugnazione di Mehdia, interrompendo il racconto della guerra siciliana. Scrive l’istoriografo di Ruggiero che, stando questi all’assedio di Siracusa, i Pisani per vendetta d’alcuna ingiuria, avessero osteggiata e occupata la capitale di Temîm, fuorchè il castello; e che, non fidandosi di prender questo, nè di tenere la città, avessero profferto lo splendido acquisto loro al conte Ruggiero, il quale ricusò, per mantener fede a Temîm, cui lo stringeva un accordo.[372] Lealtà necessaria, come ognun vede, a chi tuttavia s’affaticava sotto le mura di Siracusa e gli rimaneano a soggiogare nell’isola tante altre cittadi e province. Ma le genuine memorie nostrali e musulmane scoprono vieppiù la fallacia del cronista e provano che, se pur i Pisani richiesero il conte, fu sol di entrare nella lega quando si apparecchiavano gli armamenti.

Delle condizioni di casa zirita, delle fortificazioni [169] di Mehdia, ci è occorso dire più volte.[373] Il munitissimo porto era nido di pirati che tutto infestavano il Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, e assalivano talvolta le costiere e rapivano gli uomini al par che la roba, nè rispettavano al certo gli accordi che per avventura fermò con gli Ziriti or questo or quello Stato italiano.[374] Colma la misura, mossi i Pisani dalle querele di lor cittadini cattivi degli Infedeli, proposero lega a Genova, domandarono aiuti a tutti navigatori italiani e benedizioni al papa, che era allor lo scaltro abate Desiderio, o vogliam dire Vittore III; il quale, travagliandosi in dure strette, aiutò di quel che potea: conforti ed esortazioni. Con gli stessi elementi, gli stessi modi e gli stessi intenti, ma assai più larga e possente si rifacea così, dopo settant’anni, la lega che oppresse Mogehid nel millequindici. Apparecchiate lungamente[375] da Pisani, Genovesi, Amalfitani,[376] sommarono le navi italiane a tre o quattrocento, gli uomini, comprese al certo le ciurme, a trentamila;[377] e lor fu dato il ritrovo a Pantellaria. Dove i Musulmani, provatisi indarno a resistere, mandarono avvisi a Temîm per [170] dispacci attaccati al collo delle colombe: ma l’annunzio del pericolo nocque, più che non giovasse, nella città spreparata, nella corte pusillanime e discorde. Mentre quivi i Musulmani si bisticciano tra loro, il mare si ricopre delle italiane vele; i palischermi s’avanzano a branchi; sbarcan lesti i nostri nel borgo di Zawila a mezzodì, e nella penisola stessa di Mehdia a tramontana: per aspri combattimenti occupano il borgo, occupano la città fuorchè il cassaro[378] ossia palagio afforzato; bruciano l’armata musulmana entro il porto; appiccan fuoco alle case; fan prigioni, saccheggiano e furiosamente stringono il cassaro, dove s’era rifuggito Temîm. Era il sei agosto del mille ottantasette. Ma assalito invano il castello per parecchi giorni, Temîm chiedea la pace, a patto di sborsare trentamila, altri dice ottanta e altri centomila, dînar d’oro,[379] liberare i prigioni cristiani, smettere la pirateria contro Cristiani, e accordare franchigie doganali ai Pisani ed ai Genovesi.[380] E i collegati, conseguito l’intento, accettarono i patti, caricarono le navi d’oro, argento, pallii, arnesi di bronzo, prigioni cristiani da liberare o da rivendere, schiavi musulmani da recare al [171] mercato, e ciascuno se ne andò in quella che chiamava sua patria, a far mostra della preda, arricchire la chiesa più favorita; e poi riarmare la nave, ed arrotar l’azza e la spada contro un’altra città italiana. L’imbarbarita musa arabica dell’Affrica si fece a descrivere le calamità di Mehdia, cominciando a dire del gran numero de’ nostri, agguerriti e feroci, che assalirono improvvisamente un pugno di cittadini, avvezzi a molle vita più che alle armi; ma sventuratamente ci manca la più parte di questa lunga elegia. Intero abbiamo lo scritto d’un italiano, il quale provandosi nei principj del duodecimo secolo a cantare in una lingua ch’ei non parlava, le geste di una nazione la quale non vedea per anco la sua stella polare, dettò in versi latini un racconto preciso e fedele nella importanza de’ fatti, ma lo vestì di goffe metafore da romanzo, facendo allestir da’ cittadini di Pisa e di Genova mille navi in tre mesi, uccidere in Mehdia centomila Arabi, liberare centomila Cristiani e simili baie.[381]

[172]

Il cauto normanno avea occupata Girgenti, mentre i marinai italiani si apparecchiavano tuttavolta all’impresa di Mehdia. Sbrigatosi di Benavert nell’ottantasei, radunava a dì primo aprile dell’ottantasette le milizie feudali, volenterose e liete per la speranza d’acquisto; e sì conduceale all’assedio di Girgenti. Ubbidiva allora Girgenti con Castrogiovanni e con tutto il paese di mezzo, a un rampollo della sacra [173] schiatta di Alì, del ramo degli Edrisiti che aveano regnato un tempo nell’Affrica occidentale, e della casa de’ Beni-Hamûd, la quale tenne per poco il califato di Cordova (1015-1027) indi i principati di Malaga e di Algeziras (1035-1057), ma cacciata dalla Spagna, andò cercando fortuna qua e là. Par che un uomo di cotesta famiglia, passato in Sicilia, non sappiamo appunto in qual anno, abbia preso lo stato in quelle province, tra le guerre civili che si travagliarono coi figli di Temîm; portato in alto non da propria virtù, ma dal nome illustre e dalle pazze vicende dell’anarchia. Chamut il suo nome, qual si legge nel Malaterra e ben risponde alla voce che a nostro modo si trascrive Hamûd.[382] Il quale si rannicchiò tra sue rupi [174] inaccesse di Castrogiovanni, mentre la moglie e i figliuoli si trovavano in Girgenti, e i Normanni circondavano la città, batteano le mura con lor macchine; tanto che occuparonla a dì venticinque luglio del medesimo anno. Ruggiero v’acconciò fortissimo un castello, munito di torri, bastioni e fosso; lasciovvi buon presidio, e battendo la provincia, in breve ne ridusse undici castella: Platani, Muxaro, Guastanella, Sutera, Rahl, Bifara, Micolufa, Naro, Caltanissetta, Licata, Ravanusa; talchè occupava tutto il paese dalla foce del fiume Platani a quella del Salso ed a Caltanissetta, di che ei compose non guari dopo, con qualche aggiunta, la Diocesi di Girgenti, ed or vi risponde tutta intera la provincia di questo nome e parte della finitima di Caltanissetta. La moglie ed i figliuoli dell’Hamudita caduti in suo potere, tenne Ruggiero in sicura ed onorata custodia; pensando, così nota il Malaterra, che più agevolmente avrebbe tirato quel principe agli accordi, con serbare la sua famiglia illesa da tutt’oltraggio.[383]

[175]

E veramente, Ibn-Hamûd si vedea chiuso d’ogni banda in Castrogiovanni; occupata da’ Cristiani tutta l’isola, fuorchè Noto e Butera; potersi differire, non evitar la caduta; nè egli ambiva il martirio, nè i pericoli della guerra, nè pure i disagi di gloriosa povertà. Ruggiero fattosi un giorno con cento lance presso la rôcca, lo invitava ad abboccamento; egli scendea volentieri ed ascoltava senza raccapriccio i giri di parole che conduceano a due proposte: rendere Castrogiovanni e farsi cristiano. Dubbiò solo intorno il modo di compiere il tradimento e l’apostasia, senza rischio di lasciarci la pelle: alfine, trovato rimedio a questo, accomiatossi dal Conte, il quale se ne tornava tutto lieto a Girgenti. Nè andò guari che il normanno con fortissimo stuolo chetamente s’avviava alla volta di Castrogiovanni; nascondeasi in un luogo appostato già col musulmano; e questi, fatti montar in sella suoi cavalieri, traendosi dietro su i muli quanta altra gente potè, quasi a tentare impresa di gran momento, uscì di Castrogiovanni, li menò diritto all’agguato. E que’ fur tutti presi; egli accolto a braccia aperte. [176] Allor muovono i Cristiani alla volta della città; la quale priva de’ difensori più forti, si arrende a patti, e Ruggiero vi pone a suo modo castello e presidio. Ibn-Hamûd poi si battezzò, impetrato da’ teologi del Conte di ritenere la moglie ch’era sua parente ne’ gradi permessi dal Corano, vietati dalla disciplina cattolica. Ma non tenendosi sicuro de’ Musulmani in Sicilia, nè volendo che Ruggiero pur sospettasse di lui in caso di cospirazioni o tumulti, il cauto e vile Ibn-Hamûd chiese di soggiornare in Terraferma; ebbe da Ruggiero certi poderi presso Mileto e quivi lungamente visse vita irreprensibile, dice lo storiografo normanno.[384]

Ultima resistè con le armi la città di Butera; ultima s’arrese Noto. Fortissima l’una di sito, fertilissima di territorio, prosperò sotto la dominazione musulmana; incivilita al par che ricca, patria di un elegante poeta, il quale nella prima metà del secolo seguente ornò la corte di re Ruggiero in Palermo. Il conte Ruggiero movea con l’esercito all’assedio di Butera in su l’entrar d’aprile del mille ottantanove; la strignea [177] da tutti i lati; apprestava le macchine a battere il castello, quando ebbe avviso che papa Urbano secondo, venuto in Sicilia a trattare secolui gravissimo negozio, sostava alla corte in Traina. Donde Ruggiero, lasciata ai suoi capitani la cura della guerra, andava ad abboccarsi col papa; e quando questi partì, gli offria ricchi doni. Ritornato al campo sotto Butera, ebbela a patti; messe presidio nel castello e mandò in Calabria i più potenti cittadini. Nel febbraio del mille novantuno, stando egli a Mileto, veniano oratori di Noto a profferire la sottomissione; la quale egli accettò, francando la città di tributo per due anni e rimandò co’ legati il figliuolo Giordano, che occupasse il castello. La moglie e il figliuolo di Benavert si rifuggivano allora in Affrica.[385]

Insignoritisi per tal modo i Normanni dell’isola tutta, Ruggiero navigò lo stesso anno millenovantuno al conquisto di Malta, dalla quale cominciar volle, scrive il biografo, a soggiogare novelle province oltre il mare, per isfogar quella sua brama di acquisti e quel bisogno ch’egli sentia di muoversi, affaticarsi, guerreggiare. Mentre apparecchia la spedizione e chiamavi i suoi baroni, gli vien detto che Mainieri di Acerenza, richiesto da lui d’un abboccamento, avea risposto al messaggero: io nol rivedrò in viso che quando avrò da fargli [178] del male. Acceso d’ira a cotesta ingiuria, il conte ripassa incontanente in Terraferma; Pietro di Mortain lo segue entro otto dì con un esercito levato in Sicilia, pieno forse di Musulmani; col quale Ruggiero muove in fretta contro Acerenza, la stringe di assedio, sì che Mainieri scendea a chiedergli perdono, ed ei lo multava di mille soldi d’oro. Pria di ritornare in Sicilia, diè il guasto al territorio di Cosenza che avea disdetta la signorìa del favorito Duca di Puglia. Poi comanda ch’entro quindici dì si adunino le genti e le navi al Capo Scalambri[386] che difende da ponente il porto detto di Longobardo, la Caucana di Tolomeo e di Procopio, donde Belisario era passato al racquisto di Malta quattro secoli avanti di lui. Del mese di luglio andovvi il Conte, vigoroso e verde, che non gli pesavano i sessant’anni ed avea tolta testè la terza moglie. Pregandolo il figliuolo Giordano che gli concedesse di capitanare l’oste, forte ei se ne adirò; disse che essendo primo nel partaggio degli acquisti, primo entrar voleva anco ne’ rischi e ne’ travagli; e comandò al figliuolo che nell’assenza sua girasse la Sicilia con grosso stuolo, senza posare mai in città murata o castello. Di che l’ambizioso giovane piangea di rabbia. Ruggiero, fatto dar nelle trombe e negli strumenti di musica, de’ quali par avesse composta una banda con valenti suonatori, fatto salpare le ancore e scior le vele, approdò a Malta, al secondo giorno di navigazione: prima tra tutte la sua nave, primo egli a sbarcare co’ tredici cavalieri che soli avea seco: scaramucciando co’ Musulmani aspettò l’arrivo delle altre [179] navi, e con le genti dormì su la spiaggia. La dimane, sparge i cavalli per la campagna; muove contro la città col grosso dell’oste. Ma il Kaid e gli abitatori non usi alle armi, si affrettavano a venire a parlamento, si sforzavano a raggirarlo; nè potendo vincerlo d’astuzia più che di forza, pattuivano di liberare tutti i prigioni cristiani, consegnare armi, cavalli e tutt’arnesi di guerra, pagare incontanente una grossa taglia e indi tributo annuale, tenendo la città a nome del conte Ruggiero e prestandogli giuramento di fedeltà. Ruppero in lagrime i guerrieri cristiani, quando i prigioni sciolti da’ ceppi lor si fecero incontro, cantando il Kirie eleison, recando in mano le croci, qual di legno, qual di canna, come ciascuno avea potuto farsene; e gittavansi a’ piè di Ruggiero. Il quale li scompartì tra tutte le navi quando salparono per tornare in Sicilia, e temea non calassero al fondo per troppo peso; ma seguì il contrario effetto, così il Malaterra, chè il nuovo carico le rendea tanto leggiere da levarsi sul pelo delle acque un cubito più che all’andata. Cammin facendo, senz’altri miracoli, sbarcarono al Gozzo; la saccheggiarono, la assoggettarono al dominio di Ruggiero. Questi poi, toccata la terra di Sicilia, adunava i prigioni cristiani di Malta, loro accordava la libertà; offria terreni e strumenti di agricoltura ed esenzione perpetua dalle tasse ed angherie e che lor edificherebbe una città a bella posta, con nome di Villafranca, s’eglino rimanessero in Sicilia. Ma amaron meglio di ritornare ciascuno a casa sua. Per liberalità del conte, erano traghettati gratuitamente oltre il Faro; sì che andarono spargendo per [180] ogni luogo, il valore e la larghezza del liberatore.[387] Con questo atto di carità coronava Ruggiero il conquisto della Sicilia, compiuto a Malta in persona, com’egli in persona lo avea cominciato a Messina, trent’anni innanzi.

CAPITOLO VII.

Il vincitore, quasi antico e natural principe, resse l’isola tranquillamente ne’ dieci anni che seguirono, mentre pur la società dall’imo al sommo si rimescolava; mutandosi la popolazione, le proprietà, le condizioni civili, i costumi, le usanze, i magistrati le leggi, la religione. Sola rivolta de’ soggiogati fu quella di Pantalica: grossa città in quel tempo, fortissima per lo sito in una roccia tutta stagliata, bagnata dall’Anapo, abitata in età remotissima da un industre popolo, che incavò quasi un alveare di nicchie nella parete liscia del masso.[388] I Musulmani [181] di Pantalica nell’anno millenovantatrè dell’èra volgare, tumultuavano, ebbri di gioia, sentendo la morte del temuto signor feudale del luogo, Giordano, figliuolo del Conte. Questi, ch’era sopraccorso a Siracusa all’annunzio della malattia di Giordano e l’avea trovato estinto, celebrate appena le esequie, mosse contro i ribelli con gli stanziali della sua guardia; chiamò al servigio le milizie de’ baroni: superata la difficoltà de’ luoghi e l’ostinazione dei difensori, impiccò per la gola i caporioni; punì altri con varii tormenti; cavò la pazzia a questa città, conchiude, brutalmente, il Malaterra. Narrando, con ciò, come alla morte di Giordano i Cristiani che si trovavano in Siracusa avessero pianto amaramente per desiderio del prode giovane, e compassione del misero padre, e come i Musulmani del luogo non avessero saputo frenare le lacrime, ei nota, maligno, che furono lagrime di convulsione, non già d’amore.[389]

Matto dunque chi resiste, perfido e vile chi si acconcia: così alla corte normanna si ragionava. Il signore, operando più savio che non parlassero i cortigiani, non si affidò al solo terrore. Vedea quella generazione, decimata dalle guerre e dagli esilii, stanca de’ piccoli tiranni, non chieder altro che riposo e giustizia. E l’uno e l’altro ei le diè; e ne ottenne che i Musulmani, se non lo amarono, lo tennero necessario a loro prosperità; l’ubbidirono, [182] anzi lo secondarono, procacciando insieme col proprio l’utile di lui. Dell’incivilimento degli abitatori musulmani, latini e greci, ei raccolse una quantità di forza, che s’era sterilmente consumata per l’addietro. Ei trasse danari e soldati dai Musulmani più che dagli altri, perchè erano di gran lunga più numerosi e più industri, più compatti in lor ordine sociale, più ubbidienti al principe. Maneggiando tal forza, ei prevalse sugli altri feudatarii normanni. Con la fama ch’egli avea ben meritata d’uom di guerra e di Stato, savio, giusto, religioso, con la possanza della mente e dell’animo suo, tenne il primato nell’Italia a mezzogiorno del Tevere e contò tra i monarchi d’Europa.[390]

A lui si volsero tutti gli sguardi alla morte di Roberto; quando chi parteggiò per l’uno chi per l’altro figliuolo, ma ciascuno pensò veramente ai fatti suoi proprii, e dimostrossi, dice il Malaterra, la slealtà di molti Pugliesi.[391] Slealtà, nel costui linguaggio, significava impazienza del giogo normanno, chè giogo egli stesso il chiama; significava ricusare il tributo e il servigio che il duca, all’uso normanno,[392] richiedea dalle città, le quali un tempo elessero console il capo de’ condottieri; richiedea da’ condottieri che chiamarono [183] un compagno a capitanare tutte le forze in guerra.[393] Il vero è che cittadini longobardi o calabresi, e baroni normanni e italici, rivendicavano loro diritti usurpati da Roberto e usavano la discordia de’ costui figliuoli: donde Ruggiero, novello duca, dovea ad un tempo difendersi da Boemondo e domare le città e baroni ricalcitranti, adoperando armi della stessa tempra che le loro, inefficaci e mal fide.[394] Gli stese allor la mano il conte Ruggiero, il quale avea promesso, dicono, a Roberto di mantener quell’ordine di successione,[395] ed era partecipe dell’intento politico che lo dettò: mostrare, com’io penso, alla Puglia un principe di schiatta longobarda per via della madre, talchè i soggetti gli ubbidissero più volentieri, gli estranii di Benevento e Capua lo desiderassero. Si notò, in vero, la condiscendenza del novello duca verso i Longobardi.[396] Intanto i fatti rivelano il disegno, forse l’accordo, fermato tra’ due Ruggieri: che il Duca cedesse del tutto al Conte la Sicilia, le Calabrie e fors’anco lo favorisse nell’acquisto d’altri territori più settentrionali; e il Conte prestasse a lui le armi per costituire un sol principato di lì al Garigliano e al Tronto. Combacia con tal disegno il detto di Malaterra, che alla nascita di Simone (1093) successore immediato del [184] Conte, fu certo il futuro duca di Sicilia e di Calabria, per l’assentimento del duca Ruggiero di Puglia.[397] Dalle quali parole e’ sembra che siasi trattato, se pur non fermato con carte, di costituire in Ducato i dominii del Conte; il qual disegno verosimilmente tornò vano per difficoltà della corte papale. Per opera del conte Ruggiero fu esaltato (1085) al trono ducale il nipote; il quale gli diè per arra la metà delle castella di Calabria, riserbata a Roberto nel primo partaggio.[398] Per opera sua Boemondo, a capo di due anni, posò le armi con magro accordo; e furono oppressi i baroni che alzavan la testa.[399] Ma cadute in Sicilia le ultime città musulmane independenti, Ruggiero adoperò, senza tema di ferirsi da sè medesimo, uno strumento di guerra ch’egli avea sperimentato molto rispettivamente in Sicilia stessa,[400] e Roberto con men pericolo a Roma; e che, in mano de’ suoi successori, battè per un secolo e mezzo i paesi meridionali di Terraferma. Volendo il Duca ridurre la città di Cosenza, il conte Ruggiero, del millenovantuno, conduce a campo sotto quella città, insieme con le milizie feudali, parecchie migliaia di Saraceni di Sicilia; dispone l’assedio a suo modo; e quando i Cosentini voglion calare agli accordi, [185] lui chiaman arbitro. In merito del quale aiuto il Duca gli concedea mezza la città di Palermo. Egli, andatovi immantinenti, afforzato un castello nella sua parte di città, seppe sì bene ordinare l’amministrazione comune delle pubbliche entrate, o con tal durezza fiscale aggravare i cittadini, che il Duca incominciò a ritrarre dalla sua metà maggior frutto che pria non gli avesse reso l’intero.[401]

Molte altre migliaia di Musulmani veniano col Conte a Castrovillari, insieme con cavalli e fanti cristiani, a soccorrere il duca Ruggiero nella pericolosa ribellione di Guglielmo di Grantimesnil (1094): Musulmani, leggiamo, di Sicilia e di Puglia;[402] ond’e’ sembra che ne fossero stati tramutati in quella provincia, e allogati in alcun feudo del conte, sia a dirittura dalla Sicilia, sia dopo una sosta in Calabria.[403] Ventimila Saraceni, come è scritto in una cronica,[404] seguivano il Conte all’assedio d’Amalfi (1096) dove chiamollo il Duca, promettendogli una metà della terra se la espugnassero. Ma accadde una grande sventura, dice il monaco Malaterra: sparsa voce nel campo che papa Urbano avesse bandita la guerra de’ Luoghi Santi e che vi corresse tutta l’Europa, quell’ambizioso di [186] Boemondo, si fe’ attaccare una croce su le vestimenta; la gioventù per vaghezza di cose nuove gli corse dietro a gara; e lasciaron lì il Duca e il Conte, con sì poche forze che furono costretti a levare l’assedio.[405]

Crebbe tanto nel millenovantotto il numero dei Musulmani levati in Sicilia, che lo storiografo afferma non aver il Conte mai capitanato più grosso esercito. Quando furono posti gli alloggiamenti a San Marco di Calabria, pareano innumerevoli le brune tende dei Saraceni;[406] si vedean le colline coperte di lor buoi, pecore, capre, come se vi pascolassero insieme le greggi di Laban e di Giacobbe. Capua avea disdetta l’obbedienza al principe Riccardo, della casa normanna d’Aversa; il quale, non potendo osteggiarla con le sue proprie forze, avea chiesti aiuti al Duca, offrendogli omaggio feudale, e al Conte promettendo di procacciargli, non so in che guisa, l’acquisto di Napoli. Allettato dalla quale speranza, pregato caldamente dal Duca, Ruggiero aveva assentito. Condotte le sue genti, quasi tribù nomadi, in guisa che loro non mancasse mai pastura per le greggi, strinse Capua con molta arte di guerra; costruì per uso degli assedianti un ponte di legno sul Volturno; sopravvide ei medesimo assiduamente ogni fazione di guerra; [187] sì che la città alla fine sottometteasi.[407] Tanto cospicuo egli apparve in quest’assedio, che la leggenda monastica gli riferì un miracolo: fe’ calare un angelo sotto le sembianze di San Brunone, ad avvertirlo in sogno che Sergio, condottiero di dugento soldati greci del suo esercito, stesse per introdurre il nemico nel campo.[408]

Del rimanente le memorie ecclesiastiche narrano del conte Ruggiero, nella stessa impresa di Capua, un episodio per nulla edificante. Sant’Anselmo arcivescovo di Canterbury, fuggendo l’ira di Guglielmo II d’Inghilterra, venuto era in Italia per faccende non sappiam se della Chiesa o del mondo; e invitato, dice il suo discepolo Eadmero, dal duca di Puglia, soggiornava nel campo sotto Capua, quando capitovvi Urbano secondo. Il dotto arcivescovo, gareggiando di riputazione col papa e attirando a sè ogni maniera di gente devota o curiosa, non isdegnava i visitatori Musulmani, li adescava anzi con suoi camangiari;[409] e tanto con loro si addimesticò, che soleva andare a visitarli negli alloggiamenti loro, appartati da quelli de’ Cristiani; e v’era accolto con giubilo e benedizioni e i mansueti Infedeli non potendo tutti appressarsi, gli si prosternavano da lungi; a loro usanza, scrive Eadmero, baciavano le proprie [188] mani accennando d’inviare i baci al santo uomo. Insinuatosi per tal modo a discorsi più gravi, credette Anselmo che parecchi avrebbero rinnegato l’islam, se non avessero temuta la crudeltà del Conte, solito a punire severamente chi di loro si facesse Cristiano. «Perchè il Conte così operasse, nol voglio indagare e se la vegga egli con Dio» conchiude il frate inglese.[410] Nè potremmo noi indagarlo, senza sapere appunto se l’arcivescovo abbia ben comprese o fedelmente riferite le risposte, e se i Musulmani gli abbiano parlato da senno. Il racconto di Eadmero prova pure che l’aristocrazia ecclesiastica di quel tempo, sommessamente accusava il conte di troppa tolleranza e nessuna disposizione a seguire i pregiudizii religiosi, più tosto che l’utilità dello Stato. E che ben si apponessero, si scorge da quel dispetto del Malaterra contro Boemondo e’ suoi seguaci della Crociata. Non altrimenti pensavano i Musulmani, come si vede da un singolare racconto d’Ibn-el-Athîr.

Il quale, facendosi a dir della presa d’Antiochia, rintraccia, non senza acume, i primordii delle Crociate nell’occupazione di Toledo (1086) e altre città di Spagna pe’ Castigliani; nel conquisto normanno della Sicilia; negli assalti degli Italiani su la costiera d’Affrica.[411] La sintesi che il guidava nelle tenebre della storia occidentale, col solo barlume del nome de’ Franchi [189] e dell’impero, lo porta indi a supporre che un Baldovino, re dei Franchi, vago di conquisti, avesse invitato il conte Ruggiero a un’impresa in Affrica. Ma consultando co’ suoi ottimati, e vedendoli plaudire ciecamente a quel partito, Ruggiero con un atto molto laido e villano,[412] rispose che il loro consiglio non valea più che tanto. «Tralascio la molestia, ripigliò, tralascio la spesa del fornir a’ Franchi navi da trasporto e un grosso di soldati; ma non riflettete voi che, se tenessimo l’invito, saremmo sempre perdenti, anco vincendo? Vincendo, ecco stanziati i Franchi in Affrica, ecco rapito da loro alla Sicilia il commercio ch’essa vi fa: e per lo primo la ricca tratta de’ grani! Non vincendo, ecco Temîm, che visto venire i Franchi dalla Sicilia e quivi ritrarsi, ci chiama a ragione sleali, disdice il trattato: ed ecco tronche le relazioni nostre con l’Affrica, le quali a noi giova mantenere, finchè non possiamo mettere insieme tante forze da provarci noi soli al conquisto!» Chiamato indi l’oratore di Baldovino, gli rispondea Ruggiero non poter dare aiuto, sendo vincolato da trattati con l’Affrica; che se i Franchi bramavano di mercar lode combattendo contro i Musulmani, si volgessero più tosto alla liberazione dei Luoghi Santi.[413] A prima [190] vista quel cenno dei disegni su l’Affrica e quel nome di Baldovino, darebbero sospetto di un anacronismo del compilatore, che avesse scambiato il conte Ruggiero col re, e la prima con la seconda crociata. Ma sendo gli scrittori musulmani molto bene informati de’ costumi e imprese del re Ruggiero, più verosimile e’ mi sembra il supposto che la tradizione tornasse veramente a’ tempi del padre, e che i Musulmani contemporanei del re, senza fingere da capo a fondo la ripugnanza del conte e l’energia plebea con che l’esprimea, avesservi aggiunti i particolari ov’è detto dell’Affrica. Può darsi anco che la tradizione musulmana abbia confusi due rifiuti simili del vecchio conte: quello a’ Pisani ed a’ Genovesi che l’invitavano all’impresa di Mehdia[414] e quello a tutta l’Europa quando gridò la prima volta: Iddio lo vuole!

Comunque giudicasse il volgo dell’undecimo secolo la indifferenza religiosa di Ruggiero, il sacerdozio era disposto a perdonargli ogni cosa. Reggeano ormai la Chiesa gli adetti di alcune scuole vescovili di Francia e di Germania e sopratutto i monaci di pochi ordini potentissimi per riputazione di santità e dottrina, e non meno per ricchezze, parentele e séguito appo i grandi; com’era stato poc’anzi il monastero di Monte Cassino, com’erano tuttavia, prevalendo il genio ecclesiastico della Francia, quei di Fleury, del Bec e di Cluny: vivai di papi, prelati, ministri di Stato; centri di maneggi politici, [191] dove la potenza mondana era il fine, la religione il mezzo, e la corte di Roma il centro di gravità. Era nata cotesta scuola politica da un secolo in circa, mentre i laici, nobili e plebei, deliravano tra vani terrori, pasceansi di superstizioni; e i molti ignoranti del clero accoppiavano la credulità all’impostura. Scuola di savii che voleano usare l’altrui semplicità ad effetto grande e santo a prima vista: far comandare l’intelletto alla forza; guidare con unità di consiglio, nella via della Fede, della morale, del ben pubblico, quella società feudale eterogenea e disgregata che fermentava per tutta Europa. La quale scuola, trascinata dagli interessi, divenne setta; e, come disarmata, adoperò necessariamente l’ambito e le astuzie; preferì gli effetti alle teorie, accomodò la morale ai propri intenti, si insinuò nelle corti, trattò matrimonii, intavolò negoziati politici, promosse l’uno, rovinò l’altro, stese un paretaio da chiappare donazioni d’ogni maniera: lo Stato della contessa Matilde, come il bottino di Roberto Guiscardo.

I precursori de’ Gesuiti, nell’undecimo secolo, non erano uomini da accendersi d’intempestivo zelo contro Ruggiero, mentr’egli in Sicilia rifabbricava chiese, fondava monasteri e vescovadi, arricchiva il clero, lo adoperava nelle faccende civili; mentre in Terraferma ei veramente ereditava la potenza di Roberto. Urbano II, rampollo di Cluny, discepolo d’Ildebrando, salito alla cattedra di S. Pietro (settembre 1087) tra le minacce d’Arrigo IV e d’un antipapa, si mostrò osservantissimo verso il conte; ancorchè questi, [192] com’e’ parmi, ambisse più che il papa non voleva o non potea concedergli.[415] E prima Urbano andava appo lui in Sicilia (1089) per trattare, scrive il Malaterra, d’un accordo con la Chiesa Costantinopolitana;[416] ma piuttosto, credo io, de’ riti della Chiesa greca di Sicilia e di Calabria e in generale dell’ordinamento ecclesiastico nell’isola; o più che tutto questo, degli interessi della corte romana in Terraferma.[417] Il silenzio serbato dal cronista per parecchi anni su le cose della corte di Roma, fa supporre che Ruggiero non si lasciò menare dal papa, finchè ei non vide il destro di guadagnar potenza e splendore. Perchè il papa lo sollecitò (1095) a dar una sua figliuola a Corrado, figlio d’Arrigo IV, ribellatosi dal padre ed ajutato dalla Chiesa; il quale, per diffalta di danari, mal reggeasi contro la parte imperiale in Italia. Ma il cauto normanno, vedendo che si volea soprattutto la dote, non assentì di leggieri: il persuasero bensì i suoi ottimati, massime Roberto vescovo di Traina, il quale com’italiano, dice il Malaterra, ben sapea le condizioni delle cose nell’Italia di sopra e quale assegnamento far si potesse in Corrado.[418] E Roberto [193] o sapea poco, o ingannò il suo signore. Par che altri denari si sperassero dopo la dote: e forse Ruggiero ne diè allora in sussidio alla corte pontificale, come poscia nel 1100 quand’egli somministrava mille once d’oro a Pasquale II,[419] poichè Urbano con ogni maniera di ossequio cercò quasi la grazia di Ruggiero, non ostante l’avversione di lui alla Crociata. All’assedio di Capua (1098) arrivò il papa a pregarlo non esponesse la sua vita, tanto necessaria a Roma e all’Italia, perchè egli era il terrore de’ tristi.[420]

Ritornato il Conte dopo l’impresa di Capua a Salerno, Urbano l’andò a trovare per trattare secolui gravi negozii, pria ch’e’ ripartisse alla volta di Sicilia; e tanta premura ebbe di antivenire la sua visita, ch’ei lasciò aspettare gli Arcivescovi apparecchiati col clero a condurlo in processione alla chiesa di San Matteo. Il dì appresso egli accordava alla corona di Sicilia il privilegio dell’Apostolica Legazia, del quale diremo nel capitolo nono, trattando la costituzione dello Stato. Vuolsi qui notar solamente che il papa avea nominato Legato in Sicilia, senza saputa del Conte, quel Roberto vescovo di Traina, del quale si è fatta parola poc’anzi: e che Ruggiero mal soffriva l’atto della romana corte, fors’anco la persona di Roberto, e minacciava di non accettarlo: onde il papa, per gratificare colui che con tanto zelo avea servito alla fede cristiana, cassò la elezione e [194] istituì Legato perpetuo il Conte stesso e i suoi successori. Così il Malaterra.[421] Urbano nella bolla di concessione, ricorda con somiglianti parole, la grazia divina avere accordato trionfi ed onori alla saviezza di Ruggiero; il suo valore aver ampliata la santa Chiesa sopra i Saraceni; e la sua virtù essersi mostrata in molte guise devota all’apostolica sede. Pur non è chi non vegga come quel singolare privilegio fosse dovuto non meno ai meriti religiosi del conte, che alla sua potenza politica, al bisogno che avea il papa di lui, e al saldo proponimento con che seppe serbar interi i diritti del principato, o meglio direbbesi della società laica, ch’egli avea appresi da Cristiani di Calabria e di Sicilia seguaci della Chiesa greca; e poi li sostenne col coraggio di una religione virile, di un sano intelletto, liberatosi di molte ubbie settentrionali nei quarant’anni ch’egli avea praticato co’ Musulmani, co’ Bizantini e co’ gesuiti di quella età.

Su l’apice della fortuna, la morte il colse a dì ventidue giugno del millecentuno, nel settantesim’anno dell’età sua;[422] felice anco in questo, ch’ei vedeva assicurata la successione del dominio a’ suoi proprii figliuoli. Molte figliuole ebbe Ruggiero, maritate altre a feudatarii altre a principi: Busilla a Coloman re [195] d’Ungheria (1097);[423] Costanza a Corrado re d’Italia figliuolo d’imperatore (1093);[424] Matilde a Raimondo conte di Tolosa e di Provenza (1080);[425] Emma a Roberto conte, di Clermont, dopo che l’avea chiesta Filippo I di Francia per cupidigia della dote.[426] Ma dei maschi legittimi par che il solo Goffredo vivesse nel milleottantanove, quando, perduta la seconda moglie Eremberga, il conte sposava Adelasia; dava a una costei sorella Giordano, all’altra promettea Goffredo, fanciullo e infermiccio, tal che ebbe ad entrare piuttosto in un chiostro.[427] La morte di Giordano pertanto metteva in forse la successione, allorchè Adelaide partorì (1093) Simone[428] e quindi (1095) Ruggiero.[429] Trapassava [196] così il vecchio conte con la speranza di lasciare alla sua schiatta la Sicilia e la Calabria costituite in ducato; nè presagiva egli al certo che, a capo di trent’anni, vi sarebbe aggiunto il retaggio di Roberto Guiscardo, quel della casa d’Aversa, la repubblica di Napoli, la costiera d’Affrica e una corona reale.

Or diremo particolarmente di quest’Adelaide, il governo della quale e la sua gente stanziata in Sicilia rassodarono l’opera del fondatore. Secondo il Malaterra, ell’era figliuola d’un fratello di Bonifazio, famosissimo marchese degli Italiani.[430] Con le medesime parole è designata in certi versacci latini attribuiti al contemporaneo frate Maraldo;[431] l’Anonimo, contemporaneo del re Ruggiero, la chiama Adele marchesa, nata nelle parti di Lombardia del nobilissimo sangue di Carlomagno, educata con singolar cura e informata a nobili costumi;[432] e Odorico Vitale, della età stessa [197] dello Anonimo, la dice Adele, figliuola di Bonifazio ligure.[433] Donde il Pirro e il Muratori tennero verosimile che quel Bonifazio fosse il supposto marchese di Monferrato di tal nome:[434] e, s’e’ non toccarono il segno, se ne scostarono di poco, perocchè liguri e lombardi si chiamarono allora indistintamente gli abitatori di quella provincia. Veramente le vicende del Monferrato dal mezzo del duodecimo secolo in su, duravano oscurissime infino a questi dì nostri e favolose in parte le genealogie.[435] Rischiarò il campo, or son pochi anni, Giulio de Conti di San Quintino, mettendo da canto le moderne tradizioni locali e affidandosi a’ soli diplomi;[436] se non che la critica troppo meticolosa lo condusse al grave errore di far due famiglie diverse di una che compariva in carte diverse con nomi e condizioni pressocchè identiche. Ma è giudicato oramai cotesto errore. E due uomini eruditissimi nelle storie italiane del Medio evo, il nostro Cornelio De’ Simoni, dico, e Teodoro Wüstenfeld da Gottinga, hanno ricostruite felicemente le serie dinastiche e il diritto pubblico di quel paese, fondando l’edifizio su dotte e savie supposizioni, là dove mancano gli attestati positivi e seguendo il [198] metodo che adoperò il Muratori per illustrare la Marca contigua, la quale racchiudea Genova, Tortona e Milano. I lavori pubblicati dal De Simoni, e le lettere scrittemi dal Wüstenfeld forniscono le seguenti notizie su la famiglia dell’Adelaide madre di re Ruggiero.[437]

Misurando una ventina di miglia su la riviera di Ponente in guisa che Savona si ritrovi nel mezzo, e prendendo sulla sponda dritta del Po quel tratto che dal confluente del Tanaro risalisce fino a Verrua sopra Casal Monferrato, avremmo i due lati minori del trapezio, che al tempo di Otone primo, costituì una delle Marche d’Italia.[438] Reggeala Aleramo, conte e poi marchese, uom di legge salica; talchè potremmo supporlo di nazione franca e trovar qui l’origine della tradizione che in Sicilia il vantò nipote di Carlomagno. I discendenti di Aleramo, usurpata, com’accadeva allora in tutta Europa, la proprietà dell’ufficio di marchese, lo esercitarono in comune per parecchie generazioni: e da ciò, mi par nato per avventura, l’uso che nelle province settentrionali d’Italia si dia per urbanità il titolo della famiglia a tutti i figliuoli; mentre ne’ paesi meridionali, sì come oltremonti lo si riserba al primogenito. E veramente nei giudizii e negli atti di dominio di quella Marca anteriori al millecento, intervengono insieme parecchi marchesi: poi, nel duodecimo secolo, si veggono divisi [199] e suddivisi i territorii tra’ varii rami del ceppo aleramico e chiamati finalmente marchesati, ancorchè ormai tornassero a mere contee, le quali talvolta non oltrepassarono l’ordinario territorio giurisdizionale d’un visconte. Così nacquero i marchesati del Vasto, Incisa, Busca, del Carreto, del Bosco, Ponzone, Monferrato, Occimiano, Albenga, Ceva, Clavesana, Cortemiglia, Loreto.

Già a mezzo dell’undecimo secolo, separate le due parti estreme della Marca, veggiam tre fratelli, Otone, Manfredo e Anselmo, giurare insieme e con uguale titolo, un patto con Savona; la quale tendendo al reggimento municipale, svincolavasi come potea da’ Signori. Ma succeduto ad Otone il figliuolo Bonifazio detto del Vasto, e morti innanzi il 1079 Anselmo e Manfredo,[439] fratelli o figliuoli di Otone, Bonifazio accrebbe il territorio a scapito della Marca occidentale che abbracciava Torino, Asti ed altri luoghi. Disputando l’eredità di Adelaide di Susa a Corrado figliuolo di Arrigo IV, a Umberto di Savoja e al conte di Mombeliard, Bonifazio fu segno all’ira di Gregorio VII; parteggiò sempre per gli imperatori contro i papi; guerreggiò con cittadi che s’emancipavano; e imprigionato una volta, osteggiato dal proprio figliuolo per nome anch’egli Bonifazio, marchese d’Incisa, arrivò pure a scompartire un vasto dominio agli altri figliuoli. Non è meraviglia dunque che Malaterra il vanti famosissimo marchese d’Italia. Nè torna inverosimile [200] la nobile educazione data, secondo l’Anonimo, all’Adelaide, figliuola orfana di Manfredo. Un fratello di Adelaide per nome Arrigo, ricordato ne’ diplomi siciliani al par che nei piemontesi, ebbe poscia alto stato in Sicilia; e forse altri rampolli di Casa aleramica eran venuti quivi a combattere sotto le insegne de’ Normanni: di certo molti nobili uomini della Marca aleramica vi tennero feudi, siccome più largamente sarà detto nei capitoli che seguono.

CAPITOLO VIII.

Convien ora esporre le condizioni politiche e sociali che i Musulmani sortirono nel conquisto e con essi i precedenti e novelli abitatori dell’isola; alla quale investigazione spianò la strada il maestro del Diritto pubblico siciliano, il sagace e dotto Rosario Gregorio, nella «Introduzione» e nei primi libri delle “Considerazioni.” Dal suo tempo in qua le fonti di quel tratto di storia non sono cresciute gran fatto. Mancano tuttavia le antiche leggi, da qualche incerto brano all’infuori. Tace tuttavia la cronica della corte e del campo, da Malaterra all’abate di Telese; cioè tra la morte del conquistatore e la gioventù del secondo Ruggiero: pressochè un quarto di secolo, che racchiude la reggenza della contessa Adelaide e forse l’assetto delle nuove colonie. Pur si raccatta qualche cenno nei ricordi d’altre età o d’altri paesi; e un po’ di luce si prende dai diplomi pubblicati o inediti. In grazia poi degli strumenti di critica storica, [201] perfezionati nel corso di questo secolo, si cava miglior costrutto da’ materiali: talchè per tutti i versi dobbiamo a’ nostri tempi di potere più dirittamente giudicare e più liberamente scrivere, che non osasse il cauto prelato siciliano sotto i Borboni di Napoli, aizzati dalla rivoluzione francese. Or non sembri prosunzione se noi ci proviamo a correggere qualche parte del disegno che il Gregorio delineò, son or sessant’anni.

Il quale avendo lavorato principalmente su’ diplomi, e sendo noi costretti a far lo stesso, premettiamo alcune avvertenze intorno la diplomatica siciliana dell’undecimo e duodecimo secolo. In primo luogo è da eliminare un documento accolto alcuni anni addietro nell’Archivio di Napoli e presentato il 1845 al congresso degli Scienziati d’Italia: niente meno che un editto del vecchio conte Ruggiero, dato il quattrocensettantaquattro dell’egira (1081), promulgato in pien divano a Messina, per notificare ai presenti ed ai posteri la istituzione dei sette grandi uficii della Corona siciliana e il ceremoniale di corte. Il tempo, il luogo e il titolo dell’adunanza, la natura stessa e i termini dello statuto, ripugnan tanto ai fatti fondamentali della storia siciliana, da potersi rigettare quella scrittura senza pure guardarla. Per lo contrario, ad occhi pratici basterebbe guardarla senza badare al contenuto; scorgendosi una rozza mano moderna che si prova per la prima volta a imitare la scrittura arabica, o piuttosto una confusione di caratteri cufici, neskhi e affricani, or da carteggio plebeo, or da stile numismatico o monumentale; e un terzo forse de’ vocaboli, contraffatti [202] a ghirigori; e ne’ luoghi leggibili tanti errori d’ortografia, di grammatica o di lingua, quante parole. Ai quali segni e allo stile e tendenza dello scritto, ben si riconosce la fattura dell’ignorante e temerario abate Vella, del quale facemmo parola nel primo volume.[440]

Ancorchè non occorrano di tali brutture nelle carte siciliane pubblicate innanzi o dopo il Gregorio, egli è da usare con precauzione tutte quelle scritte originalmente in arabico o in greco; sendo la più parte pieni di errori i testi, e sbagliate o stranamente scontorte le versioni. Il qual vizio notai già particolarmente pei diplomi arabici.[441] Poco minor guasto [203] hanno patito i greci, presi a deciferare da ellenisti digiuni della erudizione storica della Sicilia, come il Lascari, ovvero da eruditi siciliani, come il Pasqualino ed altri, i quali non sapeano per bene la lingua, nè la paleografia greca de’ bassi tempi: e il peggio è che perdutesi molte delle pergamene, altro non ci avanza che le infelici traduzioni stampate dal Pirro, dal Mongitore e da alcun altro. Nè sfugge del tutto a tal biasimo, il diligentissimo Tardia;[442] nè quanti han dato alla luce alla spicciolata de’ diplomi greci nella prima metà del secolo che corre.[443] Con migliori auspicii Giuseppe Spata da Palermo n’ha pubblicati in questi ultimi tempi una sessantina.[444] Ed è ormai da sperare la collezione compiuta delle carte greche e arabiche dell’Archivio regio di Palermo, forse di [204] tutte quelle dell’isola; poichè il professor Salvatore Cusa va preparando il lavoro, e il Ministero della pubblica istruzione ha promesso di sovvenire alle spese della stampa. Userò io intanto le copie dei diplomi arabici serbati in Palermo, le quali debbo alla cortesia del Cusa; e le bastano già a mostrare il recente progresso degli studii orientali in Italia.[445] Oltre i materiali testè citati, v’ha qualche altro diploma greco del principato normanno di Sicilia e di Calabria nell’ampia ed accurata raccolta napoletana, data non è guari dal Trinchera.[446] Quanto ai diplomi latini dell’epoca stessa, pochi ne sono venuti alla luce dopo i tempi del Gregorio[447] e gran numero dorme tuttavia negli archivi pubblici o ecclesiastici dell’isola: del che mi duole, ma non temo sia per tonarne gran danno, poichè le memorie latine de’ principi normanni furono sempre studio prediletto in Sicilia e il Gregorio adoperò molto le inedite.

Allo scorcio dell’undecimo secolo rimaneano al certo nell’isola, non piccola parte della popolazione, gli antichi abitatori italici ed ellenici[448] ai quali par che accenni il Malaterra con le denominazioni di cristiani e cristiani greci;[449] e meglio li distingue l’Amato con quelle di cristiani e cattolici, che hanno appo lui [205] significato contrario all’odierno, designando la prima i popoli italici e oltramontani seguaci della Chiesa romana, e il vocabolo cattolici i Greci di lingua o di setta.[450] La scarsezza, in vero, dei ricordi, la somiglianza de’ nomi proprii tra i Bizantini e i Siciliani e tra questi e gli abitatori di Terraferma infino al Garigliano, la promiscuità di soggiorno delle genti diverse nelle medesime città e talvolta negli stessi villaggi, rendono difficile a confermare con altre prove la durata di quelle due schiatte; la quale sarebbe sempre da supporre, quand’anche non l’attestassero i cronisti. Pur si ritrovano indizii dell’origine, ne’ nomi di quelle poche centinaia di villani di Aci, Catania, Cefalù e di qualche terra in provincia di Palermo, de’ quali ci avanzano, per caso rarissimo, le platee, ossiano ruoli, distesi allo scorcio dell’undecimo secolo e nella prima metà del duodecimo. Quivi tra i molti Mohammed, Alì, Abd-Allah e altri nomi musulmani; tra i Basilii, Teodori, Nicola-ibn Leo, Nicola Nomothetis e simili di forma greca, occorrono de’ nomi più comuni in Italia: Pietri, Filippi, Gennari e de’ casali di conio latino, Campalla, Donas o Donus, Bambace, Diosallo, Subula, Lancias, Pitittu,[451] Zotico e Zotica,[452] Currucani,[453] Mesciti, Notari, Luce, La Luce e un Pietro Saputi. Cotesti servi della gleba non erano venuti di certo dalla [206] Terraferma co’ vincitori. Notisi inoltre che il nome patronimico, latino o greco, è accompagnato spesso da nome proprio arabico: Jéisc-ibn-Gelasia, Ahmed-ibn-Roma, o Romea, Jûsuf-ibn-Caru, Jusuf-ibn-Gennaro, Omar-ibn-Crisobolli, Mohammed-Gebasili, ’Isa-ibn-Giorgir, Abd-er-Rahman-ibn-Francu, Hosein-ibn-Sentir; e veggiam perfino de’ soprannomi, Alì-ibn Fartutto, Ali Strambo, Mohammed Pacione. Dond’e’ si argomenta che parecchi villani musulmani fossero d’origine greca e italica. La mescolanza delle schiatte comparisce anco da’ nomi di cittadini e villani in altri luoghi.[454]

Sappiam ora come si debba intendere l’affermazione d’Ugone Falcando che i villani di Sicilia fosser tutti Greci o Saraceni.[455] Corso un secolo dalla età dell’Amato e del Malaterra, s’era dileguata, parmi, la distinzione degli indigeni in cristiani e cattolici, ossiano italici e greci. Dileguata per lo scarso numero de’ primi e perchè l’ignoranza, i pregiudizi e l’orgoglio della dominazione portavano gli abitatori novelli, oltramontani e italiani di Terraferma, a chiamar tutti insieme Greci gli antichi abitatori che non fossero musulmani. E scarseggiavano gli indigeni d’origine italica, perchè la più parte, fatti musulmani, come già notammo,[456] contavano tra’ Saraceni. L’è verosimile poi che, tra i due segni apparenti della nazionalità greca, il rito cioè e la lingua, la comune degli uomini s’appigliasse piuttosto al rito; donde si [207] perdonava la lingua d’Omero a’ Greci uniti alla Chiesa di Roma, quei per esempio delle regioni dove il conte Ruggiero fondò i suoi monasteri basiliani: e lasciavasi l’ingrato nome di Greci a’ soli scismatici, e però ai contadini, i Pagani del linguaggio cristiano, che furono sempre sì tardi a seguire i mutamenti religiosi delle città. L’error popolare del duodecimo secolo ingenerò un altro errore appo gli eruditi, quando rinacquero in Europa gli studii storici, senza che si potesse approfondire per anco l’etnologia: nel qual tempo coincise appo i dotti italiani che l’amor patrio vaneggiasse in speculazioni puerili. Non è maraviglia se allora gli scrittori dell’isola si compiacquer tanto nel supposto d’una nazione siciliana, ben diversa da que’ Greci i quali era vezzo comune di vilipendere: nazione ortodossa, numerosa, civile, e cara a’ suoi liberatori, o, secondo altri, meri ausiliari, i Normanni.[457] Cadde con gli altri nell’errore il Gregorio; il quale, dando significato legale alle frasi ascetiche o rettoriche dell’undecimo secolo, e confondendo Roberto Guiscardo e il conte Ruggiero col pio Buglione dell’epopea, scrisse: avere i conquistatori accordata libertà civile e franchige a’ Cristiani siciliani.[458] Ma di ciò tratteremo più largamente a suo luogo.

I diplomi che ci avanzano, millesima parte di [208] que’ distrutti, rischiarano pur la distribuzione geografica delle schiatte, non solamente co’ nomi proprii, ma sì col mero fatto della lingua e delle note cronologiche; rispondendo l’una e le altre alla nazione preponderante nel luogo: il latino e l’èra volgare appo le genti italiane ovvero oltramontane; il greco e l’èra costantinopolitana per le greche; l’arabico e l’egira pei Musulmani. Confermano le scritture per tal modo la frequenza dei Greci nel Val Demone o meglio diremmo su la costiera orientale e di tramontana infino a Cefalù[459] e mostrano che se ne trovasse un po’ per [209] ogni luogo[460] e che nel corso del duodecimo secolo ingrossassero anco in Palermo, rifatta capitale.[461]

Brevemente dirò delle genti semitiche. Gli Ebrei, pochi e spregiati da’ seguaci delle due religioni che si fondavano in su i loro libri sacri, non comparvero nelle vicende del conquisto, nè della dominazione normanna; lasciarono bensì in Sicilia, dall’undecimo al decimo quinto secolo, molti ricordi dell’operosità loro industriale e commerciale, dello zelo scientifico e della furberia che spesso lo deturpò.[462] I Musulmani, tra i quali sono da noverare alcuni orientali di schiatte ariane,[463] i Berberi[464] e perfino degli indigeni di Sicilia, come ricordammo or ora, erano [210] sparsi per la più parte dell’isola. I ricordi storici e diplomatici, che troppo lungo sarebbe a citar qui, li mostrano frequentissimi in Val di Mazara, numerosi abbastanza in Val di Noto, radi in Val Demone,[465] e si sa che nella seconda metà del secolo XII furono cacciati con la forza dalle regioni interne della Sicilia. Non mi proverò adesso a suddividere le varie generazioni dei Musulmani nelle regioni dell’isola, perchè manca ogni attestato di scrittori, e i nomi proprii corrono per lo più senza soprannome etnico; oltrechè non ce ne avanzano che poche centinaia, spigolate in una trentina di carte arabiche, tra atti privati e platee di villani, e coteste carte si riferiscono a quattro soli territorii. Ci basterà di ritrovare tuttavia in que’ luoghi la mescolanza di schiatte, che notammo sotto la dominazione musulmana.[466]

Tra i cittadini di Palermo, possidenti e testimonii in atti pubblici, ci occorrono Arabi delle tribù del Jemen: Azd, Kinda, Lakhm, Ma’âfir, e di Medina, e dell’Hadhramaut; Arabi delle tribù modharite: Kais, [211] Koreisc, Temîm; e Berberi delle tribù di Howara, Lewata, Zegawa,[467] Zenata; non contando alcuni nomi etnici dubbii.[468] Una iscrizione sepolcrale del millesettantaquattro, ricorda inoltre un oriundo del Kairewân.[469] De’ nomi proprii, come Badîs e Tarakût, e gli etnici di Kotama e Howara, attestano che gente berbera vivesse in Cefalù; se non che i due primi sono villani nel contado, insieme con de’ Giodsami del Jemen, Barrani di Bokhara o d’Ispahan, Sciami di Siria, Burgi o Bergi forse di Spagna, Begiawi, ossia di Bugia e Righi, anco d’Affrica.[470] Oltre a quelli veggiamo in Cefalù musulmani del paese stesso: Corleone, Sciacca, Termini e Trapani. De’ pochissimi nomi che si possano determinare tra’ pochi che abbiamo de’ villani in Corleone, tornerebbero Ibn-Abi-Ifren e un Lewati alla schiatta berbera, Dsimari al Jemen, Barrani a Bokhara come innanzi dicemmo; e un Melfi potrebbe essere italiano della città di quel nome o anco di Amalfi: inoltre vi ha de’ Siciliani di Girgenti e di Giato.

[212]

Ma tra i numerosi villani del vescovo di Catania in quella città e in Aci, i nomi da potersi riconoscere, che in vero non son molti, darebbero il vantaggio alle schiatte affricane. Iften e Iknizi mi sembrano nomi proprii di Berberi; e tali di certo tre famiglie soprannominate Barbari e gli oriundi delle note tribù berbere di Bargawata, Meklata, Nefzawa, Mesrata, Agisa, Urdin e Werru;[471] ed affricani, ancorchè non sappiamo di quale schiatta, gli oriundi delle città di Barca, Bona, Tunis, Susa, Msila, Melila, Solûk, del Sâhel, ossia costiera, e dell’isoletta di Aragigun.[472] Tra gli schiavi è un Malati, oriundo com’e’ pare di Melitene. Sei nomi di schiatte arabiche scorgonsi nei villani, Mesudi, Hegiazi, Gafiki, ch’è ramo della tribù di Azd, e quei della tribù di Kais nominata di sopra e di Zogba testè passata d’Egitto in Affrica e una donna coreiscita ed una egiziana. Legiati si riferisce a una terra in Siria; Ainuni a villaggio presso Gerusalemme; Turungi al Taberistan, e Kirmani ad altra notissima provincia d’Asia. Un casato Castellani e un Fakri sembra vengano di Spagna, come di certo un Andalusi. Nabili, che ve n’ha parecchie famiglie, rimane di origine dubbia tra la Napoli italiana e quella d’Affrica. Nè mancano i siciliani: Medini e Sikilli che significano entrambi di Palermo, e di Aci e Catania stesse, di Cammarata, Sementara, Burkad, Ragusa, Sant’Anastasia, [213] Tawi, Trapani, Mismar,[473] Malta; un Bekkari che par si riferisca a Vicari[474] e un Sid-es-Sarkusi, schiavo. Il bel marmo sepolcrale del museo di Malta fa fede che nel duodecimo secolo stanziasse in quell’isola un’agiata famiglia, venuta com’e’ pare da Susa in Affrica e discendente della tribù modharita di Hodseil.[475] Son questi gli scarsi dati etnologici che m’è venuto fatto di mettere insieme, dopo molte ricerche.

Delle nuove schiatte, occorrono primi i Normanni. Questi in Sicilia allo scorcio dell’undecimo secolo, non erano gente venuta in frotte a stanziare nel paese occupato, come due secoli addietro il wicking di Roll in Normandia; non esercito ordinato che simmetricamente s’adagiasse in casa de’ vinti, come pochi anni innanzi i seguaci di Guglielmo in Inghilterra; fattovi re il duca, duchi i feudatarii e così via innalzandosi ciascun altro. Anzi il conquisto dell’isola britannica, contemporaneo alla guerra che si travagliava giù a duemila miglia verso mezzogiorno, escluderebbe il [214] supposto d’una grossa emigrazione dalla Normandia e da altre province della Francia settentrionale in Sicilia, se a noi fosse uopo ricorrere alle verosimiglianze, e non sapessimo appunto che le compagnie normanne di Puglia componeansi in parte di venturieri raccolti per tutta la penisola italiana[476] e che il conte Ruggiero, il quale n’avea del suo qualche drappello, racimolò a stento, dopo l’espugnazione di Palermo qualch’altro poco di gente nell’esercito di Roberto.[477] Le costui guerre civili, quella di Grecia e la discordia ch’ei lasciò per testamento ai figliuoli, riteneano poscia nelle province meridionali della Terraferma gli oltramontani quivi stanziati e vi attiravano i venturieri che tuttavia venissero alla sfilata di là dalle Alpi; finchè il vortice delle Crociate non li trasportò tutti in Levante.

Alle quali presunzioni rispondono i fatti. I ricordi storici d’ogni maniera non accennano ad emigrazioni francesi nell’Italia meridionale dopo il millesessanta, se non che di spicciolati, chierici e monaci piuttosto che guerrieri. I nomi francesi poi che veggiamo nei diplomi e nelle croniche di Sicilia sono di coloro che occupavano i più alti gradi della società: feudatarii, prelati e officiali pubblici;[478] ed erano, se non i soli, gran parte degli uomini di cotesto linguaggio dimoranti in Sicilia. Di popolazioni propriamente dette d’una [215] città, d’un villaggio o pur d’un quartiere, non rimane alcuna notizia in carte, monumenti nè tradizioni municipali; non ne rimane vestigia ne’ nomi topografici.[479] Che se più profonde si è creduto scoprirne nel dialetto siciliano, i vocaboli e le forme che si supponeano francesi vanno attribuiti la più parte alle popolazioni dell’Italia di sopra; e in ogni modo non arrivano al segno che toccherebbero, se la influenza delle case dominanti fosse stata rincalzata da un grosso di popolazione del medesimo linguaggio. A ciò si aggiunga che le famiglie francesi spariscono da’ ricordi della Sicilia con l’ultimo principe normanno che vi regnò. Nè l’è maraviglia, quand’esse veggonsi appena sotto il forte governo del secondo Ruggiero e poco sotto i successori. Che se allora alcun barone di quelle schiatte entra nelle brighe politiche, pure il favor della corte e il poter dello Stato, è disputato sempre tra italiani, musulmani, e qualche prelato oltramontano; ed egli avvien sempre che costoro si rimangano senza amici nel paese. Quello Stefano de’ conti di Perche, che [216] fu chiamato dalla regina per governare lo Stato nella fanciullezza di Guglielmo secondo, non trovò in Sicilia altri fautori che i Lombardi, de’ quali innanzi diremo. Due egregi ospiti della Sicilia nel duodecimo secolo, scrittori entrambi, chierici e francesi, il Falcando, cioè, che tanto amava il paese, e Pietro di Blois, che lo ingiuriò com’avventuriere deluso, non fanno motto di abitatori francesi dell’isola, nè d’antico baronaggio normanno; e il primo, in particolare, toccando i tumulti surti in Messina per cagione di Stefano, non ricorda altri francesi che i costui seguaci venuti di fresco e nota come i Latini della città stigassero contro quegli stranieri i Greci, che è a dire il grosso della popolazione messinese.[480] Accenna in vero, il Falcando, al parlar francese nella corte di Palermo; ma l’attestato suo non esclude l’uso di altre lingue, sia il greco, l’arabico o l’italiano; nè porta punto che il francese fosse parlato nella città e nelle province.[481] Cade così la prova principale che allegava il Gregorio nella favorita sua tesi delle origini normanne.[482] Nè regge meglio quella della liturgia gallicana seguita nelle chiese di Sicilia, perchè la proverebbe sol quello che [217] da nessuno si nega, cioè che il conte Ruggiero e molti suoi baroni fossero normanni e conducessero sacerdoti francesi per dir la messa all’usanza di casa loro.[483]

Gli è bene replicarlo: alla fine dell’undecimo secolo stanziavano in Sicilia parecchi feudatari e suffeudatari e parecchi prelati e frati, nati nella Francia settentrionale. Nella seconda metà del secolo duodecimo la corte assoldava compagnie di mercenarii oltramontani, verisimilmente francesi.[484] Non pochi chierici e frati venivan anco, mandati dalle sètte fratesche di Francia a far parte per la Chiesa romana e fortuna per sè medesimi nella corte di Palermo; a disputare il favor de’ principi, il reggimento dello Stato, i vescovadi, le abbadie e gli uffici pubblici a Italiani, Bizantini e Musulmani. Abbiam noi notata[485] la tendenza di coteste sètte e la forza, ch’era mezzo il raggiro, mezzo la dottrina di che s’avvantaggiavano que’ frati, sì come il guercio nella terra de’ ciechi. Del rimanente, surse tra loro qualche uomo erudito che promosse, secondo i tempi, l’incivilimento della nuova nazione: e francese fu il cronista del conte Ruggiero, [218] francese lo storico de’ due Guglielmi; talchè la Sicilia e l’Italia tutta debbono render merito alla schiatta scandinava ed alle altre della Francia settentrionale, per l’opera prestata nell’epoca normanna con l’ingegno non meno che con la spada. Ma popolazioni francesi propriamente dette non ebbe la Sicilia; le famiglie spicciolate s’estinsero entro un secolo, gli ecclesiastici in una generazione.

Basterebbe il fatto della lingua che fiorì in Sicilia in su lo scorcio del duodecimo secolo a provare la venuta di grosse colonie dalla Terraferma; poichè le antichissime popolazioni italiche dell’isola, dopo cinque secoli di dominazione bizantina e musulmana, nè avrebbero potuto parlare idioma sì vicino a que’ dell’Italia di mezzo, nè imporlo agli altri abitatori di favella greca e arabica. Molti indizii confermano tal supposto; ancorchè il biografo del conte Ruggiero dissimuli la partecipazione della schiatta italiana nel conquisto dell’isola, sì com’ei tace l’opera d’Ardoino nella sollevazione contro i Bizantini, e gli aiuti d’Ibn-Thimna al principio della guerra di Sicilia. Gli scrittori arabi espressamente affermano che Ruggiero fece stanziare nell’isola, insieme co’ Musulmani, i Franchi e i Rûm; che qui vuol dir chiaramente Francesi e Italiani.[486] Aggiungansi parecchie denominazioni etniche di luoghi: la torre Pisana e il vico degli Amalfitani in Palermo;[487] la rua de’ Fiorentini in Messina,[488] dove anco occorre [219] un Console di Amalfitani,[489] il poder del Genovese (Rab’ el Genuwi, Cultura Januensis) in provincia di Palermo,[490] il quartiere de’ Cosentini a Lentini,[491] e i nomi di una trentina di comuni in Sicilia che si riscontrano con identici o simili in Terraferma;[492] dal [220] qual confronto abbiamo esclusi, come troppo ovvii a tutte genti latine, i nomi di santi cristiani e le denominazioni composte con le voci casale, castello, castro, massa, monte, rocca, serra, torre, valle e simili; ed esclusi anco, per la difficoltà che avvi finora a ricercarli, i nomi di campagne, poderi, spiagge, acque. Ora si aggiungano i nomi etnici delle persone. Tra cinque canonici di Girgenti notati in un diploma del 1127, troviam un romano, un policastrino, un lucchese, un bresciano e un francese, oltre un genovese ed un di Bisignano, soscritti tra’ testimoni.[493] In un diploma dato il 1094 di Messina o di Patti, veggiamo [221] tra’ testimonii, con pochi nomi francesi e alcuno greco o arabico, Ildebrandus lombardus, Rogerius de Torceto Acquinus, Ugo de Putheolis, Gualterius de Canna; oltre i casati di Maledocto, Ruffo, Strato, Minoartino, Astari, Bonelli, Marchisi.[494] Un altro diploma del 1095 presenta tra’ testimonii, con qualche nome francese o dubbio, que’ di Arrigo fratello di Adelaide, Odone Bono marchese, Roberto Borello Aquino, Riccardo Bonnella, e Ruggiero Bonello.[495] L’onorato nome d’Alfieri si legge tra’ notabili della terra di San Marco, in un diploma del 1136.[496] Uno della Chiesa di Patti, dato il 1133, risguardante la composizione d’una lite surta tra i cittadini e il vescovo, ha tra’ testimonii un genovese, un parmigiano, un di Potenza e parecchi uomini di Patti, con nomi tutti di conio italico; e quel ch’è più, un atto inseritovi, che torna allo scorcio dell’undecimo secolo, attesta che il vescovo Ambrogio avesse allor bandita concessione di beni a qualunque uomo di linguaggio latino che venisse ad abitare il paese: il quale linguaggio latino che cosa significhi lo spiega il medesimo diploma del 1133, aggiugnendo che quello statuto d’Ambrogio era stato poc’anzi «esposto in volgare» ai cittadini che sostenean la lite.[497] Del resto non abbiamo, [222] nè sperar possiamo, ragguagli particolareggiati su le immigrazioni spicciolate dalla Terraferma in questa o quella città dell’isola; ancorchè le si debbano supporre numerose, e più dall’Italia di sopra che dalla inferiore. Il reggimento feudale che i Normanni istituiron quivi in alcune province e in altre rinnovarono, impediva le emigrazioni da terra a terra, non che oltre il mare.[498] Nell’Italia di sopra, al contrario, la feudalità si disfaceva appunto in quel tempo, senza che fossero per anco assettati i Comuni: donde i membri infermi dell’uno e dell’altro ordine sociale, agitati da mille rivolgimenti di indole identica e di apparenze diverse, volentieri tentavano la fortuna in paesi nuovi, e senza ostacolo vi si trasferivano.

Da ciò le grosse colonie che si addimandarono lombarde, su le quali non ci mancano buone testimonianze storiche. Ognun sa il vago significato ch’ebbe un tempo la denominazione di Lombardia, che gli stranieri estesero talvolta a tutta la penisola.[499] Ma perchè molti eruditi, e tra quelli il Gregorio, han supposto i Lombardi di Sicilia venuti dall’Italia meridionale non men che dalle sponde del Pò, debbo ricordare che tal confusione non fecero gli scrittori nostrali, nè gli stranieri, de’ tempi normanni. Pietro Diacono scrive [223] delle moltitudini di Lombardi e Longobardi che seguirono Pier l’Eremita[500] e il dottissimo arcivescovo di Tessalonica narra le avanìe che avean patite Pisani, Genovesi, Toscani, Longobardi e Lombardi, da Andronico Comneno.[501] Longobardi si chiamavano que’ dell’Italia meridionale, dove i Bizantini, ripigliata parte de’ Ducati, n’avean fatto un tema, detto Longobardia.[502] E così il Falcando pone i Longobardi e i Lombardi come genti affatto diverse; gli uni abitatori di province continentali, gli altri della Sicilia.[503] Il primo ricordo che ci rimanga di coteste colonie, oltre i nomi testè riferiti di Ildebrando e Ruggiero di Torceto da Acqui, (1094), torna alla metà del duodecimo secolo: preciso e importantissimo documento, per lo quale re Ruggiero dichiarava appartenere ai Lombardi di Santa Lucia le stesse franchige de’ Lombardi di Randazzo.[504] Da’ cronisti ritraggiamo poi che gli uomini di Butera, Piazza ed altre città di Lombardi, mossi da un Ruggiero Schiavo, nobil uomo del quale or si dirà, pigliavano le armi contro re Guglielmo primo e contro i Saraceni; che il re distrusse Piazza, e ruppe i Lombardi; e che, rifuggitosi lo Schiavo in Butera, Guglielmo ebbe alfine (1161) la città, pattuito che i ribelli Lombardi e [224] il loro condottiere andassero via di Sicilia.[505] A capo di alcuni anni, ripiglia il Falcando, agitati sempre da congiure e sedizioni, sospettavasi a corte essere rimasi molti traditori, ricchi e possenti, nelle città lombarde. Poi morto il re (1166) e promosso Stefano di Rotrou de’ conti di Perche a gran cancelliere, i Lombardi più caldamente che tutt’altre popolazioni di Sicilia parteggiarono per lui; e ingrossando la tempesta (1168) gli uomini di “Randazzo, Vicari, Capizzi, Nicosia, Maniaci ed altri Lombardi” gli proffersero un esercito di ventimila combattenti.[506] Il Fazzello aggiugne al novero delle colonie lombarde di questa età, Aidone e San Fratello:[507] e le contrade che s’addimandavano Lombardia in San Filippo d’Argirò e in Castrogiovanni, dànno argomento a supporre che parte almeno di quelle città, fosse stata occupata dalla medesima gente.[508] Altre popolazioni vennero dall’Italia di sopra in Corleone e Scopello, ne’ principii del secolo decimoterzo[509] e ben si potrebbe supporre, con un dotto tedesco, che i medesimi luoghi fossero stati una volta occupati dalle colonie lombarde del duodecimo secolo.[510] Checchè ne sia, nel decimoterzo [225] segnalossi quella schiatta in Sicilia per altissimi spiriti. Nicosia tra le prime gridava la repubblica dopo Palermo, Patti e Caltagirone, alla morte di re Corrado (1254); Piazza, Aidone e Castrogiovanni erano le ultime a deporre le armi in quel movimento.[511] Nel Vespro Siciliano i Lombardi di Corleone, scrive Saba Malaspina, seguirono primi la rivoluzione di Palermo.[512] E sì omogenee duravano quelle colonie, che tra i capi dei circoli nati ne’ primi impeti del Vespro, noi troviamo un Simone di Calatafimi, eletto capitan di popolo ne’ monti dei Lombardi.[513]

Vuolsi qui ricordare ciò che è detto in su la fine del capitolo precedente su la Marca aleramica e la nobil gente quinci venuta in Sicilia.[514] Non è ch’io pensi con alcuni scrittori, aver Arrigo e i suoi compatriotti seguita in Sicilia (1089) l’Adelaide, ultima moglie di Ruggiero; parendomi più verosimile, al contrario, che i parentadi del conte e de’ due suoi figli fossero stati consigliati dalla riputazione della casa Aleramica nell’esercito di Ruggiero; una parte del quale noi veggiamo capitanata (1078) da un Otone o Oddone,[515] nome frequente nell’Italia di sopra e in ispecie nella famiglia di que’ marchesi.[516] Arrigo sposò poi [226] una figliuola del conte; ei tenne le vaste contee di Butera e Paternò,[517] promosse la esaltazione del secondo Ruggiero alla dignità regia:[518] e potentissimo fu in Sicilia e nel Napoletano il conte Simone suo figliuolo;[519] il cui figlio illegittimo Ruggiero Schiavo si fe’ caporione dei Lombardi ribellati contro Guglielmo primo, sì come abbiamo accennato poc’anzi.[520] Da ciò ben puossi argomentare che cotesto ramo della casa aleramica abbia condotti in Sicilia molti suoi partigiani. Tra i nobili Siciliani del secolo decimoterzo occorrono anco gli Incisa, casato aleramide, per lo quale noteremo, a rafforzare l’indizio della parentela, che gli stessi nomi cristiani occorrono nel ramo piemontese e nel siciliano:[521] e par che un terzo ne sia fiorito anco in Puglia.[522]

[227]

Alle testimonianze scritte su coteste origini risponde la pertinace e viva testimonianza del linguaggio, notata già dal Fazello; il quale non ne richiese altra, e ben s’appose, per annoverare tra le città lombarde Aidone e Sanfratello.[523] Dieci anni or sono lo zelante signor Lionardo Vigo d’Acireale discorse di quei Lombardi, nella prefazione alla sua raccolta di “Canti popolari siciliani,”[524] e pubblicò alcune poesie e pochi vocaboli del dialetto loro. Ma in oggi i felici avvenimenti politici che stringono i legami e moltiplicano i commerci di tutti i popoli italiani, e i progrediti studii linguistici in Europa, ci danno abilità a cavare conseguenze assai più precise. Un dotto professore di sanscrito, nato nelle province piemontesi, ha notata la stretta parentela del dialetto monferrino con que’ di Piazza, Nicosia, Sanfratello e Aidone, nei quali comuni di Sicilia al dire del Vigo è ristretto oggi il parlare lombardo.[525] È da sperare che perfezionati vieppiù i metodi della linguistica, promosso lo studio de’ dialetti in Italia, esaminati in più larghe proporzioni i nomi proprii e topografici, e pubblicata, con ciò, maggior copia di antichi documenti, si arrivi a determinare esattamente i tempi e i luoghi della emigrazione di cui trattiamo; i quali rimarranno [228] vaghi per ora, cioè: gli ultimi venticinque anni dell’undecimo secolo e i primi venticinque del duodecimo; la Marca aleramica dalla quale moveano a mano a mano le colonie, e le regioni interiori della metà orientale dell’isola, dove, qua e là, venivano a stanziare, dileguandosi innanzi a loro le popolazioni de’ Greci e de’ Musulmani.

Primaria città di quelle regioni, anzi di tutta la montagna in Sicilia, Caltagirone, non fu mai noverata tra le colonie lombarde, non ne parla il dialetto, non ne dimostrò gli umori nel duodecimo secolo; eppure l’origine sua non sembra molto diversa. Su la quale mancano testimonianze di diplomi; nè possiamo aspettarcene dal Malaterra, nè dagli altri cronisti. Volgendoci pertanto alle prove indirette, occorre in primo luogo il patrimonio territoriale di Caltagirone, il quale avanza di gran lunga, sì per la ricchezza[526] e sì per l’antichità, que’ delle più grosse e potenti città dell’isola, risalendo per lo meno alla prima metà del duodecimo secolo.[527] Or coteste condizioni designano [229] un municipio nato nel conquisto o ne’ primordii del nuovo stato. E veramente la terza città dell’isola, per quantità di possessi stabili, contando Caltagirone ed escludendo Palermo e Messina, è Nicosia, città lombarda già nominata. E se altre colonie lombarde han pochi beni di tal sorta, agevolmente si ritrova la cagione: alcune feudali fin dal principio; Piazza distrutta da Guglielmo I; e poi le usurpazioni dei baroni al decimoquarto secolo, la continua vicenda di concessioni e riscatti sotto la dominazione spagnuola; i sùbiti guadagni o le perdite che ha portati il caso nella abolizione della feudalità e in fine le dilapidazioni di tutti i tempi.[528] Ma Palermo, Messina, Catania e la più parte delle altre grosse terre antiche, o non ebbero municipio in que’ primi tempi per le cagioni che a luogo proprio discorreremo, o serbarono scarsissimo patrimonio, prese da Ruggiero per battaglia o per avari accordi; se non che con l’andar del tempo, nato o ristorato il municipio, acquistò terreni per donazioni e coltivò que’ già lasciati ad usi comuni. Pertanto riman poco dubbio in qual tempo sorgesse Caltagirone. Ignoriamo solo la gente e il modo: se colonia di soldati ausiliari o di uomini spicciolati, allettati dalle franchigie.

Al primo dei quali supposti porterebbe l’antica tradizione locale che vuol fondata Caltagirone, verso il mille, da Genovesi sbarcati con l’armata a Camerina, arrischiatisi dentro terra; dove si mantennero, [230] dedicarono una chiesa a san Giorgio, rizzarono l’insegna della madre patria; e i loro nepoti aprivan poi le porte al conte Ruggiero,[529] e i figliuoli di quelli occupavano, regnando il figlio del conquistatore, l’inespugnabile rôcca di Judica.[530] Da’ quali racconti stralciando l’anno mille, l’armata di Camerina e le altre inverosimiglianze, si potrebbe ammettere che uomini di Savona, città principale della Marca aleramica nell’undecimo secolo, insieme con altri abitatori della riviera di Ponente (chè spesso chiamavansi tutti Genovesi e da Genova apprendeano a riscattarsi dai feudatarii) fossero venuti a militare sotto il Conte, poco appresso la espugnazione di Palermo e nelle guerre di Benavert; e che, stanziati in Caltagirone, cresciuti a mano a mano per nuovi coloni delle province natìe e per savia amministrazione della cosa pubblica, dato avessero in Sicilia un de’ primi esempi di libertà e prosperità municipale; e poi, venuti in voga gli stemmi e in fama i Genovesi, avessero levata la croce rossa in campo bianco, al par di Genova, studiando a vantarsi oriundi da quella. In vero il doppio nome che dà Edrisi (1154) a questo paese, Hisn-el-Genûn e Kala’t-el-Khinzâria, ossia «Castello de’ Genii» e [231] “Rocca della Cinghialeria,”[531] torna bene al caso di novella colonia venuta a porsi in luogo già abitato; e la si direbbe recente assai, vedendola per lo primo nella descrizione della diocesi di Siracusa data il mille censessantanove, quand’ella manca nella descrizione del millenovanta.[532] L’origine dopo il novanta converrebbe piuttosto a colonia industriale che militare, ma non ismentirebbe punto la mossa dalle vicinanze di Genova.

Son queste le notizie ch’io ho potuto mettere insieme su i mutamenti di popolazione cagionati dal conquisto. Si tenga a mente la rarità dei diplomi degli archivii regii e municipali della Sicilia, anteriori al decimo quarto secolo; e che i documenti genealogici delle famiglie siciliane non sono nè copiosi nè ordinati, da poter aiutare le presenti nostre ricerche. Dobbiam noi dunque contentarci di lontane conghietture su le colonie mosse dalle regioni centrali e meridionali della penisola. E in primo luogo che le città marittime dell’isola poco frequenti di popolo, sì com’erano [232] allora Messina e Patti, o scarse di popolazioni cristiane, come Palermo, Cefalù, Catania, Girgenti, Mazara, Trapani, si rifornirono, nel corso del duodecimo secolo, di uomini delle città marittime di Terraferma. Oltre Genova e le sue riviere, delle quali si è detto, ne vennero al certo da Pisa, Amalfi, Salerno, Bari ed altri porti dell’Adriatico. Alle medesime regioni son da riferire altre colonie che sembra siano passate a un tratto, come le lombarde, non già alla spicciolata e in lungo tempo; ed abbiano fatto stanza in luoghi abbandonati e desolati, non ingrossate città che fiorivano. Tali credo io gli abitatori di Mistretta e Caccamo, feudi della famiglia Bonello,[533] la quale comparisce in alto stato ne’ più antichi documenti normanni;[534] e fu potentissima alla metà del duodecimo secolo. Mistretta, la cui bella e forte schiatta primeggia tuttavia in Sicilia per ardita saviezza di condotte agrarie, va noverata tra le città più ricche di beni patrimoniali.[535] Caccamo rivendicò, ai tempi di Guglielmo il Buono, le franchige de’ Siciliani, contro novelli feudatarii francesi. Matteo Bonello, giovane di gran cuore, accarezzato da Majone per le parentele e il seguito ch’egli avea in Calabria, eroe popolare de’ Cristiani di Palermo, levò ne’ suoi feudi gente che potea dirsi un esercito, e trattò coi sollevati Lombardi dell’isola, ch’egli poi abbandonò, irresoluto e leggiero; non sapendo usar nemmeno l’omicidio di Majone e lasciandosi pigliar [233] come un fanciullo dai partigiani del re.[536] Dal nome dunque e da’ fatti, i Bonelli sembrano commilitoni di Ruggiero, non francesi però, nè lombardi, nè greci: e direbbersi piuttosto siciliani di schiatta italica, o calabresi. Ma nessun indizio abbiamo che uomini siciliani appartenessero al baronaggio; nè par cosa verosimile, poichè quegli antichi abitatori, ancorchè più numerosi che tutte le nuove schiatte, non poteano ne’ primi tempi levarsi a importanza politica, se non che in Messina o altre città del Valdemone. All’incontro sappiam che la popolazione cristiana di Palermo s’accrebbe di quella delle città marittime di Calabria e di Puglia:[537] e però a quelle province si dovrebbe riferire l’origine de’ Bonelli ed anco de’ loro vassalli di Mistretta e Caccamo.

CAPITOLO IX.

La condizione legale de’ vinti, non essendo descritta precisamente in croniche o leggi, si dee raccapezzare da’ cenni che ne facciano le une o le altre, e sopratutto dai diplomi: dond’è alquanto oscura questa parte fondamentale del diritto pubblico siciliano ne’ tempi normanni.

E in primo luogo non fu ignota, sì come pensava il Gregorio,[538] la schiavitù. Il Malaterra e l’Amato ci narrano di prigioni che i Normanni mandavano a [234] vendere in Terraferma;[539] anzi si ritrae che fosse questo de’ più belli e spediti guadagni de’ combattenti. Le Costituzioni inoltre del regno e le Assise dei re di Sicilia, mantengono espressamente la schiavitù.[540] Nè manca la cosa nè il nome nei diplomi, quando la platea arabo-greca degli uomini della chiesa di Catania, distesa nel 1094, dopo i villani, e pria de’ Giudei, dà i nomi di ventitrè Musulmani, ’abîd, che vuol dire in arabico schiavi, e propriamente schiavi negri.[541] Un diploma greco del secondo conte Ruggiero, dato il 1109, rinnovando le donazioni del padre in favor del monastero di san Barbaro di Demenna, gli assegna come schiavo (εὶς δουλίαν) un Leone figlio di Malacrino, co’ suoi discendenti.[542] Per un altro del febbraio 1134, del quale non abbiamo che la traduzione latina, lo stesso principe, già coronato re, concedendo largamente al monastero del Salvatore di Messina de’ poderi con pascoli, alberi e villani, tra agareni e cristiani, gli donava inoltre gran copia di animali e dieci servi.[543] Il testamento del prete Scholaro, vissuto alla fine dell’undecimo [235] e principio dei duodecimo secolo, fa menzione di schiavi e schiave ch’egli aveva comperati con la loro progenie.[544] Si potrebbero anche addurre, se fossero scevri d’ogni sospetto, due diplomi del 1098 e 1102 relativi alla Calabria, pei quali il conquistatore della Sicilia, concedeva a san Brunone ed al suo monastero presso Stilo, centoventi linee di servi e villani, avanzo d’un drappello di Greci traditori, ai quali ei perdonò la vita in grazia del sant’uomo.[545] Alla esaltazione di Guglielmo il Buono, la regina reggente emancipava molti schiavi.[546] Un diploma arabico del duodecimo secolo prova anco che le usanze commerciali permettessero all’uomo di vendersi schiavo; poichè, stipolando parecchi marinai musulmani di trasportare da Cefalù a Messina della moneta d’oro d’un sire Guglielmo, e dando ogni altro la sicurtà sui proprii beni, un pellegrino [236] Othman che nulla possedea, vendè sè stesso al banchiere, a patto di riscattarsi con la consegna della moneta.[547] Non vedendosi, contuttociò, frequenti gli schiavi nel XII secolo, viene alla mente di ognuno il supposto che i Musulmani presi nella guerra, scompartiti come l’altro bottino e venduti dai più, tenuti schiavi dai grandi possessori, fossero stati messi da tutti a lavorare il suolo.[548] Occorrono difatti, nei diplomi siciliani dell’XI e XII secolo, donazioni di villani senza terreno: sopra tutti è notevole un diploma del 1094 il quale rassomiglia alle odierne soscrizioni di beneficenza, poichè, fondato il novello Monastero di Patti, mentre il conte Ruggiero e i feudatarii maggiori lo dotavano di castella, terre e villani a centinaia, molti baroni o militi gli donavano chi uno chi due, chi parecchi villani sparsi in varie terre della Sicilia; e Guglielmo Malo Spatario aggiugnea perfino un giudeo.[549] Or cotesti uomini raccolti da tanti luoghi diversi per coltivare i poderi del vescovo, hanno sembianza di schiavi, anzichè servi della gleba. Similmente occorre un atto di vendita di quattro villani nelle campagne di Palermo per dugento tarì e un cavallo.[550] Il nome di villani sembra dato in cotesti casi per eufemismo cristiano e perchè realmente quegli infelici prestavano ne’ campi gli stessi servigi che [237] i villani, ancorch’ei fossero di condizione diversa. Si legge espressamente nelle Costituzioni che dei villani altri fosse tenuto per cagion di persona, altri per cagion di roba; onde questi si potea svincolar dal signore lasciandogli quanto tenesse di lui, quegli non poteva in alcun modo.[551] Ognun vede che questa ultima, se la non era perfetta schiavitù al tempo delle Costituzioni, era stata una volta. E l’era divenuta servitù della gleba senza legge, senz’atto del padrone, senza merito di alcuno, per mera necessità delle cose.

Que’ che comunemente nell’Europa feudale si diceano servi della gleba, sono denominati villani nei diplomi latini della Sicilia[552] e di parecchi luoghi di Puglia e di Calabria dall’undecimo secolo in giù.[553] Al quale vocabolo nelle carte greche di Sicilia risponde ordinariamente ῶαροίκοι[554] e nelle arabiche [238] Ahl-el-Gerâid, ovvero Rigiâl-el-Gerâid:[555] come noi diremmo gente, ovvero uomini de’ ruoli; e l’è vera traduzione arabica di adscriptitii e di ὲναῶόγραφοι. Talvolta è sostituita l’appellazione generica di uomini, (homines, ἄνθρωποι, rigiâl) che nel medio evo significava ogni maniera di vassalli.[556] Quando avvenìa che tra quelli non fosse alcun cristiano, si usava l’erronea appellazione etnica di agareni.[557] Nei diplomi greci occorre poi la voce latina villani trascritta senz’altro[558] e in uno di Calabria anco σιγιλλάτοι, cioè inscritti ne’ sigilli, ossia diplomi.[559] Negli arabici è adoperata con lo stesso significato una voce che han [239] creduta harsc o kharsc, e che io leggerei più tosto harithîn, ossia agricoltori.[560]

Parmi poi che la medesima classe e non altra sia designata con la voce rustici, in due diplomi latini del 1086 e 1114: il che è sì evidente nel primo, che gli stessi uomini chiamati in principio rustici si dicono in sul fine villani.[561] Non altrimenti suonava quella voce nel rimanente dell’Europa feudale.[562] Nelle Costituzioni, la voce rustici denota genericamente i villani, gli angarii, gli ascrittizi, i servi della gleba ed altre classi vili, come allor si pensava:[563] nè questa voce significò mai una classe superiore a’ villani e inferiore ai borghesi, come suppone il Gregorio, seguendo fallaci induzioni.[564] Nè meglio ei s’appose [240] quando considerò gli angarii come classe inferiore ai villani: che sarebbe stata cosa contraria alle consuetudini [241] generali della feudalità:[565] nè v’ha alcun motivo di supporla anomalia del dritto pubblico siciliano.[566]

[242]

La diversità, profonda in diritto, forse lieve in fatto e citata per incidenza nelle Costituzioni, onde si distingueano i villani obbligati per ragion della persona da que’ tenuti per cagion della roba, non è determinata da apposite denominazioni, fuorchè nei diplomi arabici o greco-arabici di Sicilia: pochissimi diplomi, perchè l’ignoranza, la trascuraggine e i furori civili ne distrussero la più parte. I diplomi latini, scritti per comodo de’ vincitori, guerrieri o preti, notano il numero de’ villani, i confini dei poderi e nulla più: perch’erano compendii delle concessioni, cautele di concessionarii, non curanti delle minuzie amministrative e legali, quando l’istinto della feudalità li portava a sciogliere ogni dubbio con la violenza. All’incontro, i diplomi greci ed arabici su le concessioni di persone o poderi, tornano ad estratti dei registri pubblici. Non poteva essere altrimenti per gli arabici, e l’è molto verosimile pei greci; perocchè l’idioma greco si parlava o intendea dalla più parte della popolazione al tempo del conquisto musulmano; e poscia i Musulmani non aveano al certo distrutti i catasti nè gli altri atti della pubblica amministrazione bizantina, scritti in greco; nè questo linguaggio era caduto in disuso allo scorcio dell’undecimo secolo, quando moltissimi Siciliani doveano parlarlo, o intenderlo, e i preti o i notai doveano averlo studiato bene o male.[567] Gli atti dunque arabici o greci, corretti col riscontro continuo de’ vassalli interessati, conteneano la guarentigia de’ diritti delle persone e robe loro. Nè l’è da maravigliare che si trovi in quelli soltanto [243] un’appellazione di classe ignota nelle fonti latine.

Cioè gli uomini del Maks, s’io ben leggo questa voce, in luogo di M..l..s, nei diplomi arabici del 1150, 1154, 1169 e 1183; l’ultimo de’ quali dà indizii che bastano a determinare la condizione. Richiamati alle terre dal demanio, come sempre si faceva, ancorchè con pochissimo frutto, gli uomini che se ne fossero allontanati per rifuggirsi nelle terre del monastero di Morreale, Guglielmo II, per quel diploma, rilasciò a’ frati gli uomini di Maks e que’ delle Mehallet, de’ quali tratteremo tantosto; ma ritenne rigorosamente i rigiâl-el-gerâid, ossia villani, quasi parte integrale della proprietà. Son diversi pertanto que’ del Maks, dagli uomini delle platee, ossia villani; perchè questi vengono eccettuati dalla concessione, e quelli vi sono compresi. Diversi anco per la denominazione loro attribuita in greco: ἐξώγραφοι, come noi diremmo “que’ fuori scritto;” il cui significato torna più evidente per l’opposizione al noto vocabolo ἐναῶόγραφοι “trascritti,” adscriptitii, cioè, i villani, i veri servi della gleba.[568] Maks ha in arabico lo stesso vago significato che appo noi taglia o balzello; vuol dir tassa illegale e vessatoria;[569] talchè “gente di Maks[244] tornerebbe litteralmente al taillables del linguaggio feudale francese; e parmi espressione appropriata a designare gli uomini passibili di balzelli, ancorchè non inscritti nelle fatali carte che li rendeano, essi e la progenie loro, materia di proprietà. Tornano dunque ai villani tenuti al signore per cagion di roba, come dicono le Costituzioni, ed alla classe superiore dei ceorls sassoni in Inghilterra. Il diploma del 1169 pone allo stesso grado degli uomini di Maks i Ghorebâ, che suona “stranieri;” e rispondono ai commendati, raccomandati, affidati, ospiti, che solea il feudatario ricettare, anzi adescare, nel proprio territorio per coltivarlo: uomini liberi, o supposti tali perchè era loro venuto fatto di sottrarsi alle persecuzioni del signore, i quali lavoravano per aver tetto e pane, o godeano i frutti delle terre pagando il signore con danari, derrate o giornate di lavoro in altri poderi.[570] Nè egli è inverosimile che molti musulmani, ed anco [245] cristiani, fossero nella medesima condizione con origine diversa, per esempio gli artigiani delle piccole terre, non fatti schiavi, nè dichiarati borghesi.

Il vincolo indissolubile dei villani tenuti per ragion personale, dimostravasi co’ ruoli, o platee, come chiamaronle, nelle quali scriveansi i nomi degli uomini conceduti dal principe, per lo più con lor poderi e beni mobili:[571] chè sendo nuova la signoria e nuovo l’ordinamento sociale, nuovi furon anco tutti i titoli di possedimento feudale. Par che la descrizione generale dei villani sia stata compiuta insieme col conquisto, e rilasciata nel millenovantatrè a ciascun signore la platea de’ suoi: e che cotesti ruoli si correggessero in ogni nuova concessione, sostituendo ai morti le vedove che rappresentavano la famiglia e aggiugnendo i novelli ammogliati che ne costituivano delle altre.[572] I principi normanni rispettarono scrupolosamente questa maniera di possesso; poichè nelle nuove concessioni di villani appartenenti al demanio si ponea sempre la clausola che s’intendessero esclusi [246] gli uomini iscritti nelle platee precedenti de’ feudatarii.[573] Illustra mirabilmente il diritto e il fatto, l’or citato diploma arabico di Guglielmo II a favor del monastero di Morreale. Come si scorge da questa e da cento altre carte del XII secolo, siciliane, calabresi e pugliesi, e come abbiam noi testè notato, i signori studiavansi a tenere i vassalli a dritto ed a torto, e quelli si rifuggivano quando il poteano, in altre terre.[574] È da supporre che i signori, abusando il potere, sovente ritenessero de’ villani non soggetti a vincolo personale; e che i soggetti pur tentassero di sciogliersi, quando la buona fortuna, massime la proprietà acquistata fuori il territorio del signore, lor dessero i mezzi di rivendicare in giudizio la libertà, o venire a componimento.[575]

Qualunque si fosse il vincolo, personale o reale, i rustici o villani di Sicilia ebbero persona legale[576] e libera proprietà fuor delle terre ch’e’ tenessero dal [247] signore:[577] i quali due diritti li rendeano di gran lunga superiori a’ servi della gleba di molti altri paesi. Inoltre soddisfacean essi a pesi e servigi determinati; la quale certezza veniva dal recente conquisto normanno e da’ diligenti ordini amministrativi de’ musulmani: ed anco rendea la condizione di quell’infima classe d’uomini assai migliore che nei paesi occupati dai barbari del settentrione; dove la remota origine della servitù della gleba, confuse i limiti d’ogni dritto e dovere, e il feudatario li allargò a sua posta. E sta bene quanto scrisse il Gregorio su le contribuzioni e i servigi dovuti da’ villani;[578] se non che si ritrae da’ diplomi che talvolta e’ non fossero obbligati a servigio personale di sorta, bensì a tributi di danaro e derrate, in tempi e in quantità fisse.[579] Questa anzi mi sembra la [248] condizione primitiva delle concessioni; e la si riscontra con l’autorevole testimonianza d’Ibn-Giobair, viaggiatore spagnuolo, il quale percorrendo la Sicilia settentrionale nell’inverno del millecentottantaquattro e ottantacinque, investigò con sollecitudine l’essere de’ suoi correligionarii. «Sendo ormai piena, scrive costui, la Sicilia di adoratori delle croci, i Musulmani dimorano insieme con essi nelle proprie possessioni e ville. I Cristiani dapprima li trattaron bene per fruire di lor opera e industria e posero sovr’essi un tributo che si paga in due stagioni dell’anno: nel qual modo si cacciaron di mezzo tra i Musulmani e la ricchezza, su la terra che lor venne tra i piè.... I cittadini musulmani, dice egli altrove, frequentissimi soggiornano in Palermo, in lor proprii quartieri, con lor moschee e mercati, e un cadi giudice di lor liti: ed avvene anco in altre città, oltre le campagne e i villaggi. Ma que’ di Palermo, la più parte, sdegnano i fratelli caduti nella dsimma degli Infedeli.» Cotesta voce ch’Ibn-Giobair replica in altro luogo accennando in generale ai Musulmani di Sicilia,[580] significa vassallaggio, quello propriamente [249] de’ Cristiani e Giudei sottoposti alla gezia ne’ paesi musulmani.[581] Ed appunto gezia si chiama il tributo di danaro dovuto da un villano musulmano nel diploma arabico del 1177 che ho citato poc’anzi e canone il tributo di grani.[582] Che se potesse argomentarsi la ragione generale di cotesti tributi dai soli due documenti nei quali n’è espressa la quantità, la si direbbe diversa secondo i luoghi; poichè dal diploma del 1095 torna a venti tarì, o robái, e da quello del 1177 a dieci.[583] Nè parlo io del tributo di frumento e d’orzo, il quale dovea necessariamente variare secondo la qualità ed estensione dei poderi. Il lavoro obbligatorio non è prescritto o almeno non è particolareggiato nelle carte più antiche, in alcuna delle quali i villani o uomini sono donati “per servire” o donati insieme con lor poderi, nè altro si aggiugne.[584] Parmi verosimile che i novelli signori, portando seco in Sicilia le usanze della feudalità continentale, abbiano talvolta, per necessità o condiscendenza, commutato in giorni di lavoro tutto il tributo di danaro e [250] grano o parte di esso, e talvolta aggiunto per abuso l’obbligo del lavoro, l’angaria come la si chiamava, e i munuscoli di vivande.[585]

Occorre nel solo diploma dianzi citato del 1183[586] l’appellazione di Ahl-el-Mehallêt, ossia «gente dei villaggi;” i quali entrano nella donazione a favor del monastero di Morreale, insieme con gli uomini di Maks; e da ciò si scorge ch’essi non fossero tenuti da vincolo personale. Il significato del nome risponde, non meno che la libera condizione, a’ Βουργισίοι e burgenses dei diplomi greci e latini; poichè mehalla, singolare di mehallêt, suona borgo o villaggio. Nè rechi maraviglia quella donazione di uomini liberi, nè quella iscrizione dei nomi loro in un ruolo; quando noi veggiamo accordato al vescovo di Cefalù il dominio di alcuni borghesi;[587] dichiarato per sentenza che alcuni borghesi appartenessero ad un feudatario di Calabria;[588] e pagato dai borghesi di Sinagra in Sicilia tributo annuale e compensi di lavoro obbligato.[589] Poichè i feudatari cavavano entrate dirette da questa classe di vassalli, ben s’intende ch’e’ ne volessero i ruoli. Si leggano nell’opera del Gregorio le condizioni de’ borghesi,[590] con l’avvertenza che tal nome si dava tanto [251] agli abitatori delle città quanto a que’ delle piccole terre, i quali il Gregorio chiama rustici erroneamente.[591]

Più grave menda del pubblicista siciliano fu il supporre legittime esazioni gli aggravi che i feudatarii faceano sopportare ai borghesi dal mezzo del duodecimo secolo in giù, e il farsi beffe del Falcando che ricordava fedelmente i diritti vantati da quelli, quando alcuni francesi, venuti a corte di Guglielmo II verso il 1169, si provarono ad usurpazioni. Narrato come il francese Giovanni di Lavardino pretendesse, all’uso del suo paese, la metà d’ogni entrata dai terrazzani di Caccamo, «costoro, prosegue lo storico, allegando la libertà de’ cittadini e borghesi di Sicilia, sosteneano non dovere tributi nè balzelli di sorta, ma occasionalmente, quando il signore si travagliasse in gran bisogno, l’offerta volontaria di quella somma che loro paresse: perocchè in Sicilia, dicean essi, nessuno soggiace a tributi e prestazioni annuali, fuorchè i Saraceni e i Greci, sendo i soli ai quali si adatti il nome di villani.» Poco appresso, come que’ richiami furono spregiati dal gran cancelliere, così dice il Falcando, che i costui nemici suscitarono l’odio pubblico, [252] opponendogli il disegno di assoggettare tutti i popoli di Sicilia a tributi e balzelli, all’uso della Francia che non ha liberi cittadini.»[592] Io non so in vero come il Gregorio non siasi accorto delle successive usurpazioni de’ feudatarii laici ed ecclesiastici a danno dei borghesi, nè com’egli venga dimenticando gli antichi esempii di franchige[593] per fare assegnamento su i moderni di soprusi.[594]

L’attestato positivo del Falcando, a fronte di qualche fatto contrario cavato dai diplomi, porterebbe anco alla conghiettura che la condizione dei borghesi non fosse stata la medesima in tutti i luoghi: la quale diversità si dovrebbe supporre d’altronde, perchè in varii modi furono occupate le terre, e varie schiatte v’ebbero stanza. E tra questo e le usurpazioni de’ feudatari le quali necessariamente succedeano in ragion diretta dalla forza loro e inversa dallo spirito e numero dei borghesi, ognun comprende la disuguaglianza delle condizioni che per avventura si fosse accumulata nella seconda metà del duodecimo secolo. Al certo i borghesi lombardi mantennero loro immunità meglio che i greci e i musulmani; que’ della città [253] meglio che que’ delle terre; e meglio che tutti, i Musulmani di Palermo, infino alla morte del re Guglielmo il Buono.

Su le condizioni degli abitatori delle città può seguirsi la esposizione del Gregorio, il quale accenna alle proprietà allodiali loro, alla diversa legge sotto la quale vissero secondo loro origine, e largamente descrive i pesi loro imposti, le gabelle, cioè, che poi si chiamarono antiche, su la consumazione di alcune derrate, su la produzione di altre, su i pedaggi e su l’uso di alcuni diritti dominicali; la tassa detta di marineria e i servigi personali, come la milizia in terra e in mare, gli alberghi militari, l’opera nelle pubbliche costruzioni: a che si aggiugneano le multe di giustizia e le collette ne’ quattro casi feudali, se pur erano fissate ne’ primi tempi del conquisto.[595] Bel quadro, lavorato a mosaico di frammenti siciliani e talvolta stranieri, ben aggiustati alle linee del disegno; ma v’ha sbaglio, com’io notava poc’anzi,[596] nell’atto di giustizia alla carlona che il Gregorio attribuisce ai conquistatori; cioè che abbiano sottoposti alla gezia tutti i Musulmani,[597] e liberati da quella tutti i Cristiani. Del primo assunto ei dà due sole prove: che i Normanni riscoteano la gezia sopra i Giudei, e che l’imperator Federigo il milledugentrentanove la fe’ pagare a due musulmani di Lucera. Ma appunto perchè [254] abbiam ricordi della gezia su i Giudei[598] e non su i Musulmani, dovea il Gregorio dubitare del proprio concetto. Non andava poi misurata la condizione dei Musulmani di Sicilia del duodecimo secolo, numerosi, liberi, ricchi e potenti, su quella d’un pugno di ribelli vinti, deportati a Lucera nel secolo tredicesimo. E quanto alla gezia de’ Cristiani, il Gregorio non si accorge che la fosse durata sotto il nome di dono o qualsivoglia altro, a carico de’ villani, ch’erano in gran parte Greci, ossia discendenti delle popolazioni greche e italiche ond’era popolata la Sicilia nel nono secolo;[599] e che camparono da quella gravezza, se pur tutti camparono, i borghesi. Il vero è che la gezia col suo odioso nome rimase addosso a’ soli Giudei, aborriti dai Cristiani, per lo meno, quant’erano da’ Musulmani. Ebbero i villani l’aggravio senza l’ingiuria. I borghesi di molte terre o di tutte, e di certo que’ di Palermo e delle città grosse, pagarono sotto forma [255] per lo più di gabelle. E veramente il contemporaneo musulmano che prestò le parole ad Ibn-el-Athîr, compendia gli effetti del conquisto in questa sentenza: che Ruggiero fece stanziare in Sicilia i Rûm e i Franchi insieme co’ Musulmani e che a nissuno lasciò bagno, nè canova, nè molino, nè forno.[600] E pur la maraviglia e la querimonia si rimangono a quelle complicate esazioni della feudalità, sì strane agli occhi dei Musulmani civili; nè l’autore tocca quell’enormità maggiore di tutte che sarebbe stata la gezia posta su i Credenti! Non voglio allegar qui uno scrittore della corte del re Ruggiero, il geografo Edrisi, il quale, come suol dirsi, prova troppo, scrivendo che il Conte, insignoritosi di tutta l’isola e fermatovi il seggio dell’impero suo, bandì giustizia ai popoli, concesse a ciascuno lo esercizio della propria credenza e legge, e diede piena sicurtà alle persone, robe, famiglie e discendenti.[601] Ma se Edrisi, non risguardando come uomini nè fratelli in Islam i servi della gleba, volle dir de’ soli cittadini coi quali egli usava nella capitale (1154), stan bene le sue parole, e le sono confermate poco appresso (1184) da Ibn-Giobair.[602] Non parmi inopportuno di aggiugnere alle ricordate conclusioni del Gregorio, che le carte ritrovate dopo lui, risguardanti passaggi di proprietà, provin tutte esserne stato esercitato liberissimamente il diritto [256] da’ Musulmani di Palermo, uomini e donne, sotto l’impero della legge musulmana e la giurisdizione del cadì.[603] Al ragguaglio de’ Musulmani compariscono i borghesi delle antiche schiatte cristiane, liberi possessori di proprietà allodiali.[604]

La cittadinanza greca di Sicilia alla fine dell’undecimo [257] secolo può personificarsi nel prete Scholaro del quale ci avanza il testamento: uomo, tra tutti i Siciliani, graditissimo al conquistatore per importanti servigi nell’azienda pubblica e nella famiglia. Di casato Graffeo, nacque costui o dimorò in Messina, dove possedette, insieme co’ suoi fratelli, de’ beni urbani e n’ebbe anco dei dotali; fu cappellano del palazzo del Conte a Reggio ed accrebbe a dismisura il patrimonio, comperando stabili, animali, villani e schiavi nei territorii di Messina, Palermo, Castrogiovanni, Traina, Maniace, Castello e di là dello Stretto a Reggio, Massa, Seminara, Nicotera, Briatico, Gerace, Cosenza e Rossano: in fine il conte Ruggiero volendo “rimeritarlo con piccol dono delle sue immense ed onestissime fatiche” per diploma del 1099 concedeva a lui “ed ai suoi successori sino alla fine del mondo” i territorii di Fragalà e di Ferla. Divisi i beni paterni co’ fratelli, e scompartita poscia tra i proprii figliuoli gran parte del suo avere, egli usò il rimanente a fondare non lungi da Messina un monastero; largamente dotollo di edifizii, poderi, arredi sacri comperati in Grecia, bellissime dipinture rifulgenti d’oro e trecento codici greci; e vi si fè monaco, prendendo il nome di Saba. Il suo testamento dato dal millecenquattordici, dal quale ricaviamo cotesti particolari, mostra ch’ei non fosse allora pervenuto ad estrema vecchiezza, poichè vivea tuttavia il padre suo. Un fratello avea fondato un altro cenobio e vi s’era chiuso. Sperava Saba che alcuno de’ suoi figliuoli seguisse l’esempio; poichè per fondazione lasciò a loro ed a qual dei congiunti e successori il volesse, il grado [258] di abate, ch’egli, senza tanta umiltà cristiana, ritenne in sua vita.[605]

Non pochi oltramontani venuti coi guerrieri di casa d’Hauteville vissero a quel tempo ne’ chiostri di Calabria, donde salirono ad alte dignità ecclesiastiche e civili; e pur nessun uomo di quelle schiatte, nè delle italiche, affaticatosi nella guerra e nei governi, finì la sua vita negli ozii del chiostro. Perchè dunque entrava quest’ubbia nella famiglia Graffeo, partigiana del conte, data agli affari mondani ed a’ grossi guadagni dei faccendieri che seguirono l’esercito conquistatore? Era, s’io mal non m’appongo, quella fiaccona che il cristianesimo portò nella gente greca in tutte le regioni e per tutto il corso del medio evo; la perfezione monastica sostituita alla virtù cittadina, e in ogni cosa preferito il martirio al combattimento. Il ricchissimo Graffeo, si sentia da meno [259] d’ogni piccolo feudatario francese o lombardo; si vedea messo da canto dopo la morte del suo signore; nè trovava altra via aperta alla fama ed all’autorità, che di farsi, co’ suoi propri danari, dignitario della Chiesa. Lo stesso genio di lui comparisce nell’universale de’ borghesi greci di Sicilia: alieni dalla milizia ancorchè, di certo, non tremassero loro le braccia quando pigliavano le armi; solerti e astuti ne’ privati guadagni, e tiepidi nelle cose pubbliche.

La ripugnanza dalla vita militare, in quell’età e in quel principato surto di fresco dalla guerra, fu cagione che i Greci di Sicilia rimanessero inferiori agli Oltramontani, agli Italiani di Terraferma e agli stessi Musulmani in una parte dell’ordine sociale, essenzialissima nel medio evo. Nessun di loro si vede investito di feudi; nessuno primeggia nella nobiltà del paese, ancorchè molti esercitassero uficii pubblici fin da’ primi tempi del conquisto normanno. Così nelle carte del tempo leggiam nomi di Greci strateghi o vicecomiti ch’erano uficiali dello Stato, di arconti e geronti, denominazioni d’ufici municipali di che discorreremo nel capitol che segue, dove direm anco del vocabolo arconte, attribuito, come titol d’onore, ai grandi uficiali della corte normanna. Se esso mai dinotò in Sicilia, oltre il magistrato, una particolare classe sociale, parmi sia stata quella dei possessori nel territorio, ossia la nobiltà municipale, sedente per antichissima usanza nel consiglio; onde la stessa parola indicava il ceto e l’uficio. Gran divario correa dunque tra questi gentiluomini terrazzani e i cavalieri dell’Italia o della Francia.

[260]

Ma tra i Musulmani, oltre gli sceikh, notabili municipali, gli hâkim e i cadi, giudici e gli ’âmil uficiali del governo, si vede fin dal principio della dominazione normanna e scomparisce a mezzo il decimoterzo secolo, insieme con la schiatta araba e berbera, il titolo di kâid; il quale, mi par che risponda talvolta a grado di nobiltà. Kâid significa propriamente “condottiero;” e come per ragione d’etimologia, così anco per forza dell’uso, porta ordinariamente autorità minore dell’emir ch’è “comandante.” Abbiamo notato altrove le parole di due croniche, secondo la prima delle quali il califfo fatemita Kâim, a reprimere una ribellione (975) mandava in Sicilia “un esercito e parecchi kâid;” e secondo l’altra il segretario di Stato d’un emir kelbita rovinò (1019) il suo signore aggravando il paese e maltrattando i kâid e gli sceikhi.[606] Esempio alquanto diverso abbiamo allo scorcio del decimo secolo, quand’era chiamato kâid quel Giawher, liberto siciliano che conquistò a’ Fatemiti tanta parte dell’Affrica occidentale e dell’Egitto.[607] Nel decimoterzo e decimoquarto ebbero il medesimo titolo, i condottieri di mercenarii cristiani in Tunis.[608] Nelle [261] traduzioni spagnuole di atti arabici del decimoquarto secolo occorre un alcade della dogana nell’Affrica settentrionale.[609] Ognun poi sa come lo stesso vocabolo in Ispagna significò castellano e, in ultimo, capo dell’autorità municipale.

Accostandoci vie più al caso nostro, è da ricordare come i regoli surti in Sicilia dopo la dinastia kelbita, non altrimenti negli annali arabici s’intitolassero che kâid;[610] ed anco Amato e il Malaterra chiamano cayt e arcadius, i varii capitani e castellani dell’isola e infine i due condottieri palermitani che trattarono la resa della capitale.[611] Di lì a venti anni compariscono dei kâid a capo lista dei vassalli del vescovo di Catania in Aci ed in Catania stessa:[612] e gli è da presumere che le medesime persone o i padri, avessero portato quel titolo fin dal principio della guerra; leggendosi che il Conte concedette al vescovo la città e i cittadini musulmani come stavano prima del conquisto, con diritto di richiamare le persone o i discendenti di coloro che, presa allor la fuga, aveano riparato in altri luoghi dell’isola.[613] [262] Leggiamo in data del 1123 il nome di un kâid che il feudatario di Pitirrana avea mandato in Palermo per sue faccende;[614] in data del 1132, di tre kâid i quali, con molti altri Musulmani e Cristiani, assistettero alla descrizione dei confini de’ poderi donati dal re Ruggiero al vescovo di Cefalù.[615] Ma dati da questo Ruggiero nuovi ordini al governo del reame, e cresciuta sotto i due Guglielmi la riputazione de’ cortigiani musulmani, spesseggiano nelle croniche latine e ne’ diplomi arabi, greci e latini, i kâid, καΐτοι e gaiti o cayti, or citati o soscritti come testimonii in atti pubblici, or esercenti pubblici ufici ed or celebri nei raggiri della corte. In cotesti scritti la voce kâid, talvolta evidentemente vuol dire condottieri di pretoriani;[616] più spesso torna a mero titolo di onorificenza dato ad oficiali della corte;[617] ma in molti altri casi [263] a noi sembra denominazione d’un ordine sociale. Che i titoli militari degenerino facilmente in nobiliari, ognun lo sa dalla voce dux e da tante altre che occorrono in tutti i paesi e in tutti i tempi. Similmente sembra grado di nobiltà, la qualità di kâid, data dal Falcando ad Abu-l-Kasim-ibn-Hammûd e al suo rivale Sedictus (Siddik?) ai tempi di Guglielmo il Buono[618] perocchè quello stesso Ibn-Hammûd, ricchissimo uomo della schiatta di Alì, è chiamato kâid dal contemporaneo Ibn-Giobair, e detto “il primo za’îm e signore dell’isola, un di que’ nobili ne’ quali la signoria scende ereditaria in linea di primogenitura.”[619] Potremmo noverar nella medesima classe [264] tutti i gaiti che compariscono senza livrea di corte nella seconda metà del duodecimo secolo; i quali se pur vogliano supporsi condottieri di milizie, nol furono di pretoriani, vedendosi sparsi per tutta l’isola[620] e tornerebbero quindi a capitani ereditarii, ossia a nobili; quando gli ordini delle tribù arabiche e gli usi del giund concordavano in questo coi costumi feudali dell’Europa, che il capo della famiglia vera o fittizia, conducesse in guerra le proprie genti. Nè altri esser [265] poteano che kâid nobili, i cinque regoli saraceni surti in arme ne’ monti del val di Mazara, dopo la morte di Guglielmo il Buono.[621] Certo egli è che avendo Roberto Guiscardo, e poi il conte Ruggiero, adoperate grosse schiere di musulmani siciliani, coteste milizie doveano obbedire a capitani di lor gente; e che i capitani, se pur non erano nobili di nascita, lo diveniano di fatto, secondo le idee del medio evo e un po’ di tutti i tempi. Io penso che i kâid in Sicilia ragunassero le milizie musulmane a un di presso come i baroni le feudali e costituissero nella prima metà del duodecimo secolo una vera nobiltà. Rimase questa in piè sino alla morte di Guglielmo II, ancorchè il numero delle milizie musulmane negli eserciti regii scemasse di molto e si amassero meglio i Musulmani stanziali de’ quali si è fatta parola, capitanati da kâid cristiani o convertiti in apparenza.[622] Ma or col pretesto di capitanare una compagnia pretoriana ed or senza alcuno, i paggi della corte, eunuchi la più parte addetti al servigio delle persone reali o ad ufici pubblici, presero a poco a poco quel titolo di nobiltà.[623] Il quale nello scompiglio politico ed amministrativo che precedette al regno di Federigo, divenne, com’e’ [266] parmi, titolo d’un uficio d’azienda, quella forse di beni demaniali, nella città e territorio di Palermo, tenuta prima da un de’ paggi di corte. Uficio d’azienda fu certo nella prima metà del secolo decimoterzo.[624] Ma proprio ne’ primi anni (1206) papa Innocenzo III avea scritto “al cadi con tutti i gaiti di Entella, Platani, Giato, Celso ed a tutti gli altri gaiti e Saraceni di Sicilia” augurando loro “di comprendere ed amare la verità ch’è Dio stesso;” lodandoli della fede serbata a Federigo re loro ed esortandoli a perseverare in quella.[625] Erano dunque i gaiti di quel tempo capi politici e militari nel bel centro del Val di Mazara.

Se bastin le cose qui dette a dimostrare che dopo il conquisto normanno non mancò un ordine di nobili tra i Musulmani di Sicilia, si ammirerà la felice intuizione che condusse il Gregorio a concluder lo stesso, ancorchè le due prove ch’ei ne allegava non reggessero punto nè poco. Perocch’egli, seguendo alcune incerte parole del Malaterra, suppose feudatario del conte Ruggiero lo sciagurato Ibn-Thimna che fu alleato di lui e di Roberto Guiscardo; e accettando [267] un anacronismo di Leone Affricano, suppose lasciato dal Conte il dominio d’un castello, al musulmano da lui chiamato Esseriph, rinomato scrittore di geografia; il quale non è altri che Edrisi, e visse nelle generazioni seguenti, poichè egli presentava il suo libro al re Ruggiero, ottant’anni appresso l’entrata del Conte in Palermo![626]

Dei fatti rassegnati in questo e nel capitolo precedente si ritrova la causa nelle vicende del conquisto. Il quale, messe da canto le operazioni spicciolate e la caduta delle ultime fortezze, va diviso in quattro periodi: cacciata dei Musulmani dalla punta settentrionale del Valdemone (1061); occupazione della zona settentrionale del Val di Mazara (1072); guerra di Benavert (1073-86) e sottomissione del Val di Noto (1086-9). Or nei primi due periodi e nell’ultimo fu sì rapido il trionfo, che il grosso della popolazione rimase là dov’era: nel Valdemone i Greci e altri antichi abitatori, e nelle altre province nominate, gli antichi abitatori cristiani o rinnegati e i Musulmani di sangue arabico o berbero. È da notar pure questo divario che nel primo periodo i vincitori lasciarono appena qualche debole presidio; ma nel secondo e nel quarto, sendo assai più numerosi e dividendo gli acquisti tra loro, stanziarono nel paese: e però il Valdemone estremo ebbe meno stranieri che il rimanente dell’isola. Ma combattuto a lungo il terzo periodo; nel [268] quale variò la fortuna più che nol confessi il Malaterra, e furono costretti i Normanni, a cercare nuovi ausiliari, ch’egli dissimula invano. In questo tempo parmi seguissero le maggiori perdite de’ vincitori, il condottiero de’ quali, alla fine dell’impresa, confessava essergli stato ucciso tanto numero di cavalieri che Dio solo e i Santi il sapeano.[627] In questo tempo veggiamo afforzata, come base di operazioni a sinistra della frontiera normanna, Paternò, il cui nome occorre nell’Italia di sopra, e la città, dopo la morte del conte Ruggiero, divenne feudo di Arrigo de’ marchesi Aleramidi.[628] Gli indizii su l’origine di Caltagirone, le prove su le popolazioni di Piazza, Nicosia ed altre città delle catene di monti che girano intorno all’Etna da tramontana a ponente, ci portano a credere cacciata o sterminata nel terzo periodo del conquisto gran parte dell’antica gente cristiana o musulmana di quella regione, e sottentrate a quella colonie di Terraferma, le quali poi crebbero per emigrazioni spicciolate, incominciando dagli ultimi anni del conte Ruggiero e continuando per tutta la reggenza di Adelaide e forse nei primi anni di governo del figliuolo che poi fu re. Il quale supposto si conferma riscontrando i nomi delle città principali della diocesi di Catania secondo il diploma del Conte, dato il 1091, con que’ che si leggono ne’ paragrafi di Edrisi (1154) [269] risguardanti la stessa regione; poichè mancano tra i primi Piazza, San Filippo d’Argirò, Aidone, colonie lombarde; le quali città al certo non sarebbero state messe da canto, se verso la fine della guerra le fossero state così grosse e importanti come le si veggono nel XII secolo.[629] E l’è appunto il caso di Caltagirone che notammo dianzi.[630]

Gli annali del conquisto ci conducono anco a supposti non privi di fondamento su l’origine delle condizioni personali. Abbiam noi narrato come le città principali s’arrendessero a patti, Catania, Palermo, Mazara, Trapani, Taormina, Siracusa, Castrogiovanni, Butera, Noto, Malta; fuorchè Messina dove i Musulmani furono sterminati applaudendo tutta la città; Traina pria confederata, poi soggiogata; Girgenti espugnata quando giovava ai vincitori la magnanimità. Che se veggiamo Catania data in feudo al vescovo e gli abitatori musulmani scritti nel ruolo de’ villani, incominciando da due kâid, è da ricordare che la fu ripresa per battaglia dopo che avea chiamato Benavert. Del rimanente non è verosimile che tutte le altre città musulmane ottenuti avessero i medesimi patti ch’ebbe Palermo potendo tuttavia difendersi: forse furono patti comuni, la libertà religiosa e il possesso de’ beni privati; variarono bensì [270] le condizioni de’ tributi e alcuni ordini pubblici. Il vincitore non era uomo da innovare senza perchè: ond’è da supporre in generale ch’ei mantenesse le consuetudini e, tra le altre, la nobiltà tra i Musulmani, come, tra i Greci, la uguaglianza sotto il potere assoluto.

Al contrario delle città, le terre aperte e i villaggi cadeano senza difesa in man del vincitore, quand’egli movea contro la capitale della provincia o poco appresso la riduzione di quella; nè era luogo a patti che per qualche importante castello. L’esempio di Bugamo ci mostra che in tali casi i condottieri normanni trattassero i prigioni come schiavi:[631] e quella necessaria conseguenza ch’era l’appropriazione de’ beni, si scorge da cento diplomi; tra i quali notevolissimo è un giudizio del millecentoventitrè, attestando il passaggio di proprietà di un mulino che due musulmani aveano comperato pria del conquisto e che indi appartenne al feudatario, signor loro.[632] I prigioni poi non venduti, rimaneano servi della gleba; non esclusi al certo i Cristiani che vivessero da coloni o da schiavi, poichè li veggiamo scritti al par che i Musulmani nelle platee de’ villani. Cotesta popolazione rurale presa insieme col suolo, evidentemente è la classe di villani tenuta al signore per cagion di persona. I tenuti per cagion della roba sembrano abitatori de’ luoghi che [271] s’arrendeano a patti, o uomini avventizii ricettati poscia nelle terre del signore. Il diritto di proprietà di che godeano i villani su i beni acquistati con la propria industria, soddisfatto che avessero a’ servigi debiti al signore, parmi consuetudine risultante dalle leggi musulmane sopra gli schiavi. In fine il grado di kâid serbato ad alcuni nobili, procedè manifestamente da patti stipulati nella resa delle castella, o da necessità più forte che i patti; cioè che volendo menare in guerra le genti, era forza anco di mantenere i capi ai quali solean esse ubbidire. E forse l’era ordine da non potersi smettere nè anco in pace, se volessi far vivere in sicurtà i popoli vicini, cristiani o musulmani, e guarentire efficacemente le persone e la roba.

CAPITOLO X.

All’origine della monarchia siciliana s’affaccia la quistione se i conti di Sicilia fossero stati vassalli dei duchi di Puglia. Le testimonianze si contraddicono. Il monaco inglese Eadmer, contemporaneo del conte Ruggiero, lo chiama uom del duca di Puglia; il Malaterra, suo famigliare, dice concedutagli la Sicilia in feudo da Roberto Guiscardo; Leone d’Ostia e Romualdo Salernitano, autori più moderni, scrissero le medesime cose.[633] Roberto poi e il figlio Ruggiero, [272] in alcuni diplomi s’intitolarono duchi di Puglia, o d’Italia, di Calabria e di Sicilia[634] e il conte Ruggiero disse talvolta Roberto suo signore.[635] All’incontro, la storia tutta dei tempi fa fede che il conte, nè i figliuoli giammai non prestarono omaggio nè servizio ai duchi di Puglia;[636] e v’ha dei diplomi ne’ quali il conte non chiama Roberto altrimenti che fratello; nè il costui figliuolo Ruggiero altrimenti che duca di Puglia e di Calabria.[637] Il Gregorio accettò quasi la soggezione;[638] il Palmieri negolla con ira;[639] degli altri scrittori taccio per brevità. Ma non può spiegare la contraddizione dei documenti, chi si ostini ad immaginare un Roberto Guiscardo, pio, felice, augusto, seduto sul trono degli avi, tra baroni ossequiosi, e inteso tranquillamente a reggere lo Stato con quelle che poco appresso furono chiamate le Assise di Gerusalemme.

Da’ cenni che noi abbiam fatti qua e là in questo quinto libro, l’eroe comparisce in ben altra sembianza [273] infino al milleottanta.[640] I baroni normanni, un tempo condottieri, lo teneano lor pari; le città lor soldato di ventura, cui per forza pagar dovessero una taglia: i papi stessi che gli avean dato animo con la ricognizione feudale e col titolo di duca, il più spesso tiravano a scacciarlo d’Italia. Il fratello Ruggiero, tenendo dapprima da lui il solo feudo di Mileto, cavalcò tra le sue masnade, capitano di ventura con una compagnia propria; ma nata una briga tra’ fratelli per guiderdoni non soddisfatti, vennero alle armi; Ruggiero passò al servizio di feudatari ostili, o fece patti con città ricalcitranti: alfine stipularono un partaggio di entrate in Calabria: piuttosto assegnamento fisso di stipendio, che vera concessione feudale. In Terraferma dunque occorrono tra due fratelli patti mutabili e temporanei; diversi secondo le forze che l’uno o l’altro contribuiva in ciascuna impresa.

Lo stesso apparisce in Sicilia, dove alla prima passata, Roberto, non concede terreno a Ruggiero; e questi, ritornato co’ suoi uomini d’arme, fa patto co’ trainesi e acquista parecchie castella senza partecipazione di Roberto.[641] La seconda impresa d’entrambi fallì. Nella terza seguì una vera concessione feudale com’abbiam detto;[642] ma a capo di pochi anni, apprestandosi la guerra di Grecia, mutavansi gli accordi del settantadue; poichè il conte signoreggiò [274] allora Messina e tutto il Valdemone.[643] La morte di Roberto, le necessità del figliuolo Ruggiero e la potenza e fama dello zio, fruttarono a questo l’altra metà della Calabria: cioè a dire che si rifece il patto per la seconda volta in quattordici anni; e sappiamo anco che si trattò di dare al conte Ruggiero il titolo di duca, ossia cancellare solennemente la dipendenza feudale che di fatto era ita.[644] Di fatto e anco di dritto, se risguardisi che Urbano II, sovrano feudale del duca di Puglia, nella famosa bolla del millenovantotto non fa menzione di costui, nè vanta signoria di sorta sul conte Ruggiero, nè su la Sicilia. La corte di Salerno ricordava, ciò non ostante, la concessione del settantadue, tanto più volentieri quanto erano scambiate le sorti de’ due rami di casa Hauteville: indi l’opinione di Eadmero e di Romualdo e i titoli de’ diplomi. Che se i cancellieri del conte nello stesso tempo ricordavano o trasandavano la dipendenza feudale dal fratello, ciò prova che la fosse rimasa nelle formole e ormai non ci si badasse. In ogni modo, non si può ammettere nel diritto pubblico siciliano una sovranità surta e scomparsa entro pochi anni, mentre l’edifizio de’ principati normanni non era nè compiuto nè assodato, ma lo si innalzava, demoliva e rifaceva ogni dì.

Chiarito questo e lasciato da canto il dubbio di qualsivoglia nesso feudale con Roma,[645] che mai ne fu [275] detto da senno infino alla prima metà del XIII secolo, si vedrà illimitata in teoria la potestà del conte Ruggiero in Sicilia. E la fu larghissima in fatto, ancorchè la Sicilia e la Calabria abbiano avuto in que’ primi tempi, come tutti gli stati feudali, loro parlamenti, così appunto chiamati, di ottimati laici ed ecclesiastici. Il Gregorio ha allegato in esempio «i principi, conti, baroni ed altri uomini di nota» convocati in Salerno, i quali decretavano la corona reale, al secondo Ruggiero (1129) «e i dignitarii, potenti ed onorandi uomini indi chiamati in Palermo (1130) da tutte le province e terre per assistere alla incoronazione; i quali tutti, insieme co’ popolani grandi e piccoli, messo il partito ed esaminatolo, concordi l’approvavano:[646]» ma cotesto ha sembianza di plebiscito meglio che di parlamento; e la nuova dominazione surse in condizioni politiche e sociali molto diverse da quelle tra le quali regnava il primo conte. È allegato nella medesima opera, più vicino al tempo e più opportuno, un Parlamento tenuto in Messina il 1113 dalla reggente contessa Adelaide, per faccende del vescovado di Squillaci; pur la sembra solenne cerimonia, più tosto che politica adunanza.[647] A cotesto esempio possiamo aggiugnere i privilegi della Chiesa di Palermo confermati il 1112 dalla contessa e dal suo figliuolo Ruggiero «ormai cavaliere e conte», sedenti nelle aule del castello della città, con l’arcivescovo Gualtiero e molti altri chierici, baroni e cavalieri.[648] Chiamato [276] il 1130 nel parlagio[649] della medesima reggia palermitana l’arcivescovo della città con molti altri vescovi e baroni, fermavasi la divisione delle decime di Termini tra l’arcivescovo e l’abate di Lipari.[650] Ma, quel che tronca ogni dubbio, un documento citato in altro luogo dal Gregorio e dimenticato poi nel trattare de’ parlamenti, prova che pretendendosi da’ vescovi le decime ecclesiastiche sulle entrate tutte dell’isola e negandole i Terrieri, come sono appellati genericamente i feudatarii nelle carte latine, greche ed arabiche de’ Normanni di Sicilia, il primo conte Ruggiero convocò gli uni e gli altri in Mazara e definì la contesa in questo modo: ch’ei medesimo pagasse la decima a’ vescovi su i beni proprii; che i Terrieri pagasserne due terzi, usando dassè l’altra terza parte al servigio delle cappelle di lor castelli; e che del rimanente e’ fossero giudicati dai sinodi per loro colpe spirituali e ne pagassero ammenda a tenor delle consuetudini vescovili.[651] Ancorchè promulgata come decisione del principe, cotesta legge mi par delle più gravi che mai fosse stata deliberata in Parlamento moderno d’Europa: e prova gli ordini costituzionali della Sicilia fin dal primo principio della monarchia.

[277]

Per distinguersi da’ conti di Terraferma, padroni di minore territorio e soggetti al duca di Puglia, Ruggiero prese talvolta il titolo di Gran Conte.[652] Ma i suoi successori immediati più volentieri s’intitolarono consoli; la quale classica denominazione venne in tanta voga a corte di Palermo entrando il duodecimo secolo, che cancellieri e cronisti, non solamente la usavano nel presente, ma anco riportavanla allo stesso conquistatore.[653] Per vero le tradizioni del consolato non s’erano mai dileguate nel mondo: e specialmente nell’Italia meridionale, i reggitori di Napoli, Gaeta, Amalfi, emancipati dal governo bizantino, s’erano chiamati duchi e consoli;[654] e console Rainolfo conte d’Aversa, che fu il primo feudatario normanno in Italia.[655] Dopo mezzo secolo, quando già quel titolo a Pisa, Genova, Asti, San Remo e senza dubbio in altre [278] città italiane, designava capi politici costituiti senza volontà d’imperatori nè di papi, assunserlo i principi della Sicilia, che aveano a noia di chiamarsi conti, ma non osavano prendere alcun altro dei titoli consueti nell’ordine feudale, o lo sdegnavano. Non succedean essi in Sicilia ai basilei bizantini ed ai califi fatemiti, gli uni e gli altri principi independenti e pontefici, per arrota? Ma non andò guari che, allargato il dominio, e’ smessero le appellazioni di conti e di consoli, per chiamarsi re.

Passando alle altre parti dell’ordinamento politico, seguiamo l’ordine de’ tempi con dir la prima cosa de’ municipii, poichè parte erano in piè innanzi il conquisto. Contuttociò il Gregorio li vide e non vide ne’ tempi normanni; e conchiuse che allora «ebbero le popolazioni siciliane quasi una forma di corpo municipale.[656]» Sapea pure il Gregorio che, nella prima metà del duodecimo secolo, Caltagirone possedette vasti fondi e comperonne dallo Stato;[657] che Nicosia, colonia lombarda, tenne la terra di Migeti; che ambo le città fornivano all’armata grande numero di marinai, e legname da costruzione;[658] che altre colonie lombarde furono soggette agli stessi pesi, contrassegno di proprietà.[659] Vedeasi in ciò la persona legale del comune. Vedeasi agli atti, perfino nelle terre feudali: gli uomini di Patti muover lite contro il vescovo; i lor procuratori accettare una [279] transazione;[660] quei di Cefalù proporre ordinariamente al vescovo feudatario tre persone per la scelta del bajulo.[661] Il Gregorio dunque si avviluppò in quel suo giro di parole, un poco per paura dell’assurdo e tirannico governo de’ Borboni in Sicilia, un poco per non aver bene studiata la materia e soprattutto perch’ei rabbrividiva a quel nome di comune, quasi ne fosse stata unica forma la repubblica italiana del medio evo, o quella di Francia che suonava sì tremenda nell’età sua.

Avendo toccato dei municipii, sì degli antichi abitatori cristiani e sì dei musulmani,[662] ne ricercheremo noi le vestigie durante la guerra e sotto la dominazione normanna. Avvertiamo intanto, a proposito dei municipii cristiani, avanzo dal tempo bizantino, che nella stessa Grecia gli ordini municipali rimasero o rinacquero, non ostante la dichiarazione di Leone il Sapiente, della quale s’è detto a suo luogo; che, dopo quella, le leggi bizantine riconobbero nelle città e nelle campagne alcune corporazioni di mestiere e associazioni d’interessi, le quali, se non abbracciavano l’universale de’ cittadini, aveano forme più democratiche dell’antico municipio e gittavan le basi del nuovo; e che al tempo della dominazione latina e poi della turca, vennero su nella Terraferma al par che nelle isole della Grecia, veri magistrati o rappresentanti municipali, di nomi diversi secondo i [280] luoghi, proesti, demogeronti, arconti, epitropi, i quali ufizi per certo non erano stati stampati di fresco nel XIII o nel XV secolo.[663] Nelle province bizantine della Terraferma d’Italia, le frequenti mutazioni di signoria avean dato occasione alle maggiori città di costituirsi in corpi politici, come si ritrae dagli esempii di Bari e di Salerno che cita lo stesso Gregorio[664] e dagli accordi che altre città fermavano coi capitani normanni:[665] e perfin si legge in un diploma greco dell’undecimo secolo, che villani dimoranti nelle terre d’un Monastero e d’un feudatario, pagassero tributo personale al comune di Geraci in Calabria.[666] La quale tendenza generale della schiatta greca, non solamente non trovò ostacoli in Sicilia, ma fu promossa dalla dominazione musulmana. Le città, sciolte da’ fastidii degli ufiziali bizantini e costrette a far dassè sotto il giogo degli Infedeli, aveano dovuto rinforzare lor ordini municipali nel IX e X secolo, per provvedere all’amministrazione della giustizia, soddisfare a lor obblighi verso i nuovi signori e difendersi civilmente dai soprusi.

Che se il nome delle città torna raro ed incerto nelle memorie della guerra, non ne maraviglierà chi conosca la tiepidezza de’ Greci in quel grande avvenimento e il laconismo delle croniche normanne [281] quand’esse non raccontino il valore e la pietà de’ protagonisti. Pertanto abbiam due soli ricordi: che que’ di Traina fermarono patti con Ruggiero e, quando sollevaronsi e l’assediarono nel suo palagio, aveano, al par delle città di Calabria, una torre afforzata in altra parte della terra; e che in Petralia i Cristiani e i Musulmani, tenuto consiglio, deliberavano di darsi al condottiero normanno.[667] Ma cotesti atti possono riferirsi tanto a magistrati costituiti, quanto al popolo che nei casi estremi ripigli l’esercizio di tutti i suoi diritti. Le carte delle generazioni seguenti ci danno assai più precise notizie sugli ufizii municipali.

Il sonante vocabolo Arcon comparisce in que’ diplomi, com’abbiam noi detto nel capitolo precedente, con due significati diversi, de’ quali il primo tornava genericamente a signore, e lo s’attribuì in particolare a’ grandi ufiziali dello Stato, a un dipresso come or si fa dell’eccellenza.[668] L’altro significato specificava un ufizio. Basilio Tricari, arconte di Demenna, è noverato (1090) tra i testimoni d’una donazione del conte Ruggiero a favore di quel monastero di [282] San Filippo.[669] Gli arconti di Galati, convocati dal feudatario (1116) assistono all’atto per lo quale ei donava un villano al monastero di Mueli.[670] Lo stratego di Demenna aduna (1136) i capi de’ monasteri, i sacerdoti e gli arconti della terra di San Marco per appurare un titolo di proprietà.[671] Mezzo secolo appresso (1182) son chiamati da’ giudici regii a somigliante effetto in San Marco, insieme co’ Buoni uomini e con gli Anziani, gli arconti di Naso, Fitalia, Mirto, San Marco ed un arconte di Traina.[672] Que’ di Capizzi, insieme con gli Anziani han carico (1168) di descrivere i limiti di un piccol podere che la regina vuol donare ad una chiesa.[673] In Oppido di Calabria, dove i Buoni uomini e gli Anziani aveano già (1138) assistito gli ufiziali dello Stato a determinare i diritti del feudatario, nata quistione il 1188 per alcuni poderi, era decisa dal Gran giudice di Calabria secondo l’avviso degli arconti.[674] Eran questi dunque assessori o giurati in cause civili. Nell’impero bizantino il vocabolo arconte avea seguito cammino diverso, e pur non troppo discosto. Serbando l’antica significazione di magistrato giudiziale, prese in particolare quella di presidente d’un tribunale [283] e talvolta di governatore di provincia; poichè questo presedeva ai giudizii: e indi l’arcontia comparisce tra le divisioni territoriali. Da un altra mano il mal vezzo dei titoli e la ripugnanza a tutta aristocrazia ereditaria, portarono la corte bizantina a chiamare arconti gli uomini cospicui per merito, ricchezza, o favore: anco il clero appellò arcontichia il corpo de’ suoi dignitarii; e, venuta la feudalità con le genti occidentali, s’appiccicò quella denominazione ai baroni. Si ritrae infine ch’essa era rimasa come occulta, chi sa per quanti secoli, nei corpi municipali; poichè squarciato il velo dell’amministrazione bizantina, nel conquisto de’ Latini e poi de’ Turchi, si veggono venire alla luce, insieme con le istituzioni comunali, gli arconti e le altre denominazioni che ci accadde citare poc’anzi; le quali in luoghi diversi denotavano ufizii identici o molto somiglianti.[675] A cotesti ufizi municipali, s’io mal non mi appongo, fu dato in alcune terre il titolo di arconti, per cagion di quella parte del podere giudiziale che tennero i municipii dell’antichità e la trasmisero a que’ del medio evo. L’ufizio municipale poi, sendo ereditario tra’ possessori, come nella curia romana, potea divenire [284] qua e là nelle province, denominazione volgare d’un ceto di gentiluomini; denominazione non legale, che pur insinuossi nell’aula di Costantinopoli. In Sicilia, come ognun vede, venne alla luce nel XII secolo l’ufizio municipale, e possiam anco dire l’appellazione di classe; la grande magistratura d’arconte non esistè; ma, tra gli altri orpelli che i principi normanni tolsero in prestito dalla corte bizantina, foggiarono questo titolo di arconti pei grandi ufiziali dello Stato, a suggestione, com’egli è manifesto, de’ valentuomini stranieri di schiatta greca, i quali nella prima metà del duodecimo secolo collaborarono col secondo Ruggiero all’assetto del reame.

L’ufizio di giurati nelle cause di confini e di proprietà rurali si vede anco esercitato in Sicilia dagli Anziani (Γέροντες), or soli, come (1142) a Traina, Cerami, San Filippo d’Argirò[676] e, quel ch’è più, nominati a mo’ di corporazione, come (1123) a Ciminna;[677] or insieme coi Buoni uomini, come (1095) a Rametta,[678] (1182) a San Marco, Naso, Fitalia, Mirto,[679] e (1183) a Centorbi[680] ed occorre anco il caso (1138) in Oppido [285] di Calabria;[681] or insieme con gli arconti come (1168) a Capizzi.[682] Quand’egli avvenia che soggiornassero Cristiani e Musulmani nella medesima terra o in quelle attorno un podere di cui fossero contesi i confini, si chiamavano gli anziani degli uni e degli altri, col titolo comune di sceikh ovvero di geronti, secondo la lingua del diploma. Così (1134) a Giattini e Mertu[683] e poscia (1172) a Misilmeri[684] e poco appresso (1183) a Vicari, Petralia, Caltavuturo, Polizzi, Ciminna, Cammarata, Cuscasin Michiken, Casba, Cassaro, Gurfa, Iali.[685] I geronti e il maestro de’ borghesi di Traina, i geronti, cristiani e musulmani di Gagliano, i geronti e gli uomini, (che di certo significa i «Buoni uomini») di Centorbi, eran chiamati (1142) al par che quelli di Castrogiovanni e di Adernò, cristiani e musulmani, a definire insieme con un protonotaro delegato dal re i confini di Regalbuto, pei quali disputava il feudatario [286] di Argira contro il vescovo di Messina.[686] Per un altro diploma (1149) gli sceikh musulmani e cristiani di Giato avean carico di assister lo stratego a designare su i luoghi una quantità di terreno donato dal re su i beni demaniali.[687] In parecchi atti pubblici, greci, inoltre, del XII e XIII secolo, si veggono de’ testimonii soscritti col medesimo titolo nelle terre di Mistretta, Naso, Mirto e nuovamente in San Marco e in Centorbi.[688]

Erano convocati dai giudici del re i Buoni uomini (Καλοὶ ἀνδρώποι), di San Marco (1109), que’ di Traina, Gagliano e Milga (1154) e insieme con gli Anziani, i Buoni uomini di Naso, Fitalia, Mirto e San Marco (1182) e infine, que’ di Centorbi (1183) per determinare i confini di territorii sui quali si contendea.[689] I Buoni uomini, di Ἀχάρων, ch’io credo torni ad Alcara di Val Demone, chiamati dal vescovo di Messina, lor signore, per far testimonianza [287] sul diritto di proprietà di certi pascoli tenuti da un monastero (1125), rispondeano aver essi medesimi conceduto quel fondo al monastero, in grazia di alcuni loro concittadini che vollero farsi frati.[690] Ottant’anni dopo, que’ di Nicosia, insieme con due commissarii del re «e con tutto il popolo» disponeano della chiesa del Salvatore, fondata un tempo dallo stesso municipio.[691] Nel primo caso tornano dunque i Buoni uomini ad assessori, o giurati: quello ufizio appunto che lor veggiamo esercitare nel IX o X secolo, secondo la Lex romana del manoscritto di Udine, la quale li mostra allo stesso tempo rappresentanti di comuni in giudizio ed esercenti altri atti [288] d’amministrazione.[692] Nel caso d’Alcara e di Nicosia evidentemente rappresentan essi il comune, come il nostro odierno Consiglio municipale. Tali appunto i Boni homines di Savona, secondo i diplomi latini del 1056, 1062, 1080, 1125 pubblicati dal San [289] Quintino.[693] Nè l’è maraviglia di trovar lo stesso nome ed ufizio in Sicilia, quando tanta parte delle nuove colonie venne dalla Marca aleramica; e d’altronde quella appellazione durava qua e là in tutta Italia, per esempio al principio dell’undecimo secolo in Benevento;[694] e lungo tempo appresso ricomparve nella repubblica fiorentina.

Pongo in ultimo, tra gli ufiziali dei comuni cristiani, i Maestri de’ borghesi, che il Gregorio notava in Collesano (1141) e in Traina (1142) e prendeane animo a confessare le «quasi forme» di municipio, aggiugnendo, senza prova nè indizio altro che il nome, che «il maestro dei borghesi intimava e dirigea come capo» il consiglio comunale.[695] Senza riandar l’antico significato militare del vocabolo Magister, nè il militare e civile che prese passando nell’impero bizantino, lo veggiamo noi nell’Europa, centrale e occidentale, per tutto il medio evo, rispondere a prefetto, o preposto ad una classe di impiegati o di cittadini,[696] e ci occorre in Messina nel duodecimo secolo il maestro degli Amalfitani;[697] ma non troviamo esempio da mostrare, certo nè verosimile, che Magister tanto valesse allora nel linguaggio legale di Sicilia, quanto [290] Major e che quest’ultima voce denotasse lo stesso ufizio in Sicilia che nella Francia settentrionale e nell’Inghilterra.[698] All’incontro, il solo documento dal quale intender si possa la natura dell’ufizio, lo mostra pari in grado agli anziani[699] e ci conduce a supporlo capo elettivo d’un consorzio di coloni i quali, stanziando in mezzo a popolo diverso di condizioni o di origine, avessero interessi lor proprii da curare; come le scholae del Medio evo, le corporazioni d’arti di tutti i tempi e, nei primi principii loro, le compagne di Genova e d’altre città italiane. Un piccol numero di borghesi italiani, ovvero oltramontani, stanziati in Collesano, feudo degli Avenel,[700] avrebbe potuto richiedere questa maniera di consolato, com’or si direbbe: [291] e lo stesso valga per Traina, prima possessione del conte Ruggiero, nella quale si veggono alla metà del XII secolo abitatori greci, italici e francesi.[701]

Di simili consorzii legalmente riconosciuti ci danno esempio le università, come allor chiamavansi, degli Israeliti in Sicilia. Senza argomentare dalle loro istituzioni congeneri in altri paesi, abbiamo del XV secolo i Capitoli concessi da re Alfonso alle università dei Giudei del regno di Sicilia;[702] abbiamo del secolo XIV memorie del loro Proto, de’ loro anziani e delle loro università in Mazara e in Messina:[703] e le medesime istituzioni risalgono senza dubbio al duodecimo secolo, quando il vescovo di Cefalù, possessore della Chiesa di Santa Lucia in Siracusa, concedeva in enfiteusi alla gemâ’ de’ Giudei in quella città un pezzo di terreno per ampliare lor cimitero.[704]

La voce gemâ’ usata in quello scritto arabico per designare la corporazione de’ Giudei di Siracusa, prova che così anco fossero chiamate in Sicilia le università de’ Musulmani, le quali, per lo grande numero e il soggiorno separato, tornavano spesso a [292] veri comuni. Gli è impossibile d’altronde immaginare il soggiorno di sì grosse popolazioni musulmane senza i loro magistrati municipali: e, se ciò non bastasse, noi potremmo allegare gli antique, ossia sceikh, de’ quali fa menzione Amato nella resa di Palermo;[705] gli accordi di Mazara e di tutte le altre città che sembrano fermati dalla gemâ’ di ciascuna; e, sotto il principato normanno, gli sceikh di Giattini, Misilmeri, Giato, Vicari e d’altre terre, chiamati geronti in greco, e incaricati come gli arconti, gli Anziani e i Buoni uomini, di determinare i confini delle possessioni rurali.[706]

Veramente e’ mi par di vedere sotto quelle denominazioni, che variano secondo le genti, unico uficio di rappresentanti dei municipii; salvo il divario che nascea, nell’ordinamento e ne’ limiti dell’autorità, dalle condizioni e consuetudini locali di ciascuna terra, di ciascuna gente e di ciascun consorzio; perocchè trattando del Medio evo erra sempre chi suppone uniformità. Anzi mi farebbe maraviglia a veder sì frequente quel titolo di anziani col medesimo significato in greco e in arabico, se l’autorità de’ padri di famiglia, e però dei vecchi, non occorresse nelle forme primitive d’ogni umano consorzio; e se non potessimo supporre con verosimiglianza che le municipalità cristiane di Sicilia si fossero spontaneamente riformate nel IX o X secolo, ad esempio delle musulmane, per provvedere ai bisogni [293] prodotti nella società loro dalla nuova dominazione.[707] E’ non occorre dimostrare che gli sceikh appartennero ai Musulmani; i geronti e gli arconti a’ Greci e credo io, agli altri antichi abitatori; e i Buoni uomini alle nuove colonie italiche. Evidente anco parmi che ciascuna gente ritenne o portò seco la propria forma di municipio; poichè il principato normanno non potea distruggere, nè fondare, nè pur modificare profondamente istituzioni di tal fatta. Gli arconti, come ho detto, sembrano in Sicilia anziani che ritenessero quel titolo, per antica consuetudine, come possessori; non altrimenti che i kaid, nobili e condottieri, entravano nelle faccende municipali come ogni altro notabile; ma nè i primi nè i secondi io tengo ufiziali esecutivi, come sarebbero podestà, sindaci, giurati, giunte municipali. Nè tali mi sembrano i maestri de’ borghesi, meri capi di consorzii minori. Necessario fatto egli era poi, e l’attestano i diplomi, che nelle terre abitate insieme da due o più genti diverse, ciascuna avesse i suoi proprii rappresentanti, come abbiamo visto a San Marco, Capizzi, Giattini e in molti altri luoghi.

Ho detto rappresentanti dei comuni per usar locuzione moderna ed esprimere un fatto simile nato da diritto diverso; poichè non è da supporre elezione popolare nè regia, in cotesti corpi municipali composti [294] di uomini privilegiati in virtù di antichissime consuetudini, gli uni delle città italiche o elleniche, gli altri della tribù nomade e de’ primi tempi dell’islam: possidenti, capi di alcune arti, scribi, chierici cristiani, giuristi musulmani ed altri notabili. I quali in che modi e tempi si ragunassero, e se nominassero delegati appositi per ciascun negozio, lo ignoriamo; nè abbiamo vestigie di magistrati incaricati ordinariamente del potere esecutivo del Municipio. Pure il diploma inedito di Nicosia che abbiam dato poc’anzi, solo e tardo com’esso è, gitta molta luce su l’ordinamento municipale de’ tempi normanni; dovendo supporsi che le costituzioni delle colonie lombarde fossero le più larghe dell’isola e che le tornassero al principio del duodecimo secolo, non già alla fanciullezza di Federigo secondo, nè al breve regno d’Arrigo. Or il diritto di proprietà è esercitato in quell’atto «da due commissari regii, da’ Buoni uomini e dal popolo» e tra i Buoni uomini sono soscritti due giudici giurati e due bajuli. Compariscono dunque due ordini di rappresentanti municipali, il Consiglio grande, cioè, dov’era chiamato tutto il popolo a suon di campana, come si usò in Sicilia fin sotto la dominazione spagnuola; e i Buoni uomini che par componessero un Consiglio ristretto, nel quale intervenivano i bajuli, oficiali amministrativi e giudici regii, istituiti da re Ruggiero in luogo de’ vicecomiti e strateghi dei primi tempi normanni: risulta poi evidente che la presidenza del gran Consiglio era affidata ad appositi delegati del principe. Possiamo dunque supporre con fondamento che tutti i corpi municipali [295] fossero stati convocati e preseduti da commissarii regii, per generale provvedimento promulgato fin dai principii della dominazione normanna; poichè sembra impossibile che Ruggiero avesse ristrette con tal freno le colonie lombarde e lasciate senza alcuno le terre greche o musulmane; e d’altronde si è visto,[708] senza eccezione chiamare dal feudatario i Buoni uomini di Alcara, e dai commissarii regii que’ di Nicosia, terra demaniale, per esercitare atti di dominio; e similmente da giudici regii o altri ufiziali gli sceikhi, anziani, arconti o Buoni uomini di tante altre terre, per far le veci di giurati in cause civili. Il consiglio generale poi, aperto a tutto il popolo, cioè a tutti i borghesi, sembra privilegio delle colonie lombarde; nè può ammettersi nelle altre città, se nol provino nuovi documenti. E i due giudici giurati di Nicosia soscritti nel diploma del 1204, sembrano veramente ufiziali esecutivi del municipio, come que’ di Messina, soscritti in una carta del 1172; ma non si potrà su questo solo indizio determinar la giurisdizione loro.[709] Nè potrassi definire precisamente quella degli stessi municipii; la quale se la ci torna oscura in oggi, fu dubbia e mutabile e diversa nell’undecimo [296] e duodecimo secolo, e sol ritraggiamo la personalità del municipio, la magistratura affidata a’ suoi rappresentanti e che fors’anco erano richiesti que’ notabili di cooperare nell’azienda dello Stato.[710]

L’istituzione de’ municipii è provata anco dalle franchige, le quali non furono mai disgiunte dall’ordinamento della società chiamata a goderle. Che il principe e i feudatarii, costretti a rifornire la Sicilia di coloni cristiani, li avessero invitati con ogni maniera di concessioni, si ritrae da testimonianze concordi. Ruggiero, liberati i prigioni di Malta, profferia di fabbricar loro a proprie spese un villaggio, là dove lor paresse; di fornire i capitali fissi bisognevoli a loro industrie e di francare la terra perpetuamente da gravezze ed angarie.[711] Similmente era accordato ai borghesi di Catania, Patti e Cefalù,[712] lo esercizio di diritti promiscui nelle terre del signore, la immunità da certe gravezze e impedimenti feudali, la guarentigia della libertà personale e, nella prima di quelle città, che Latini, Greci, Saraceni ed Ebrei fossero giudicati ciascuno secondo sua legge. Abbiamo noi accennato alle immunità delle colonie lombarde di Randazzo e di Santa Lucia:[713] i diritti e le buone consuetudini di Caltagirone, attestati da un diploma di Arrigo VI, tornavano parimenti ai tempi di [297] re Ruggiero[714] e son da supporre le une e le altre più antiche. Inoltre, dovendosi tener generale il bisogno di colonie cristiane, possiam noi dire che quasi tutta la Sicilia ottenne, in breve e di queto, franchigie municipali non dissimili da quelle che tante popolazioni italiane e straniere, nella stessa età, strapparon di mano ai feudatarii con ostinati sforzi e sanguinosi.

Or è da spiegare perchè il municipio non si vegga distintamente, pria dello scorcio del duodecimo secolo, nelle primarie città dell’isola, le quali pur godettero larghissime franchige personali e reali fin da’ primi anni della dominazione normanna.[715] Il difetto non va apposto a casi fortuiti che avessero distrutto ogni avanzo di loro carte nei frequenti disastri della diplomatica siciliana: ma più plausibile supposto e’ sembra che nessuna di quelle città abbia avuto municipio di momento in que’ primi tempi. Lasciate da canto Siracusa e Catania, soggette a feudatarii, diremo sol di Palermo e di Messina, tenute sempre in demanio e importanti sette secoli addietro, così come le son oggi.

Palermo che agguagliava o vincea per frequenza di abitatori ogni altra città d’Italia, racchiudea forse, verso il 1150, una diecina di università, come allor si chiamavano: Musulmani, Greci, Ebrei, Lombardi, Amalfitani, Genovesi, Baresi ed antichi abitatori [298] cristiani; e i Musulmani e qualche altra gente suddivisi, com’egli è verosimile, per quartieri, Cassaro, Khalesa, Halka, Schiavoni:[716] tra i quali corpi e’ non è possibile d’immaginare alcuna comunanza di vita municipale. Fu mestieri che si dissipassero i Musulmani, e che la lingua, i costumi e le violenze dei feudatari e poi de’ Tedeschi, accomunassero i cittadini cristiani, cioè che volgesse più d’un secolo, per mettere insieme quel grosso di borghesia, il cui municipio prevalse su tutte le università minori e rappresentò la cittadinanza della capitale che proteggea Federigo lo Svevo nella sua fanciullezza. Chi ricordava allora la gemâ’ musulmana o l’israelita, o i magistrati de piccoli consorzi cristiani, e chi ne serbava gli archivi?

Sembrano diverse a prima vista le condizioni di Messina, la città cristiana, la testa di ponte, direbbe un militare, per la quale i conquistatori soleano sboccare contro i Musulmani dell’isola. Ma secondo la testimonianza d’Amato, rincalzata da fatti anteriori, Messina, al primo assalto dei Normanni, era quasi vota d’abitatori battezzati.[717] Nè al certo valsero a ripopolarla in breve tratto le poche centinaia di uomini che vi facea passare di quando in quando il conte Ruggiero; nè gli stuoli più grossi che recovvi [299] tre fiate Roberto Guiscardo. Greci di Sicilia e di Calabria vi si raccolsero, com’e’ pare, a poco a poco, e genti italiche di varii paesi, finchè il tramestìo delle Crociate e le guerre marittime de’ Normanni non riempirono di navi il porto e non accelerarono la ristorazione della terra.[718] La diversità delle genti che l’abitavano, attestata dagli scrittori del duodecimo secolo,[719] portò necessariamente molti consorzii e ritardò, sì come in Palermo, la formazione del vero municipio.

Le conghietture alle quali io sono stato troppo spesso necessitato, provano la scarsezza de’ documenti e il poco zelo che s’è messo fin qui a rintracciarli. Or v’ha cagione di sperare che il generale movimento degli studii storici conduca gli eruditi ad approfondire la istituzione delle municipalità siciliane. Ce ne danno arra i lavori di Isidoro La Lumìa e di Ottone Hartwig, l’un de’ quali nella Storia di Guglielmo il Buono e l’altro nell’Introduzione alle consuetudini municipali della Sicilia, hanno toccato con dottrina, ancorchè di passaggio, questo grave argomento.

Della feudalità non tratteremo a lungo, sendo stati gli ordini di quella descritti largamente dal Gregorio,[720] e qualche minuzia che questi lasciò addietro, [300] spigolata con diligenza dal professore Diego Orlando.[721] La somma è che, istituita per lo primo allo scorcio dell’undecimo secolo, da un conquistatore che sapea comandare a’ suoi seguaci, la feudalità siciliana nacque ubbidiente e moderata; che il principe trasferì a ciascun barone, tanto o quanto determinati, que’ ch’egli credea suoi diritti su le cose e sulle persone; ch’e’ riserbossi il più delle volte la suprema giurisdizione criminale, e mantenne rigorosamente le regalie. Non men che il diritto costituito, raffrenava i baroni un contrappeso materiale: i molti beni ritenuti in demanio, i molti allodii lasciati agli antichi abitatori ed a’ Musulmani, e forse un po’ più tardi i fondi conceduti a’ municipii col peso del servigio navale, e fin dal principio l’accorta distribuzione de’ feudi.

Da’ pochi ricordi che abbiamo di questo gran fatto sociale, si ritrae che seguì negli ultimi tempi della guerra. Tra fortuna ed arte, il conte eliminò i grandi feudi divisati da Roberto;[722] cominciò poi concedendo piccole terre (1077); e quando il fratello fu morto, il nipote avvinto a lui da obblighi e speranze, e abbattuta l’ultima insegna musulmana in Sicilia (1091), allora «chiamati i suoi cavalieri e reso lor grazie, scrive il Malaterra, li rimeritò delle fatiche, qual con terreni e vasti possessi e qual con altri [301] premii.»[723] In quell’anno sembra in vero seguìta la gran lotteria feudale della Sicilia. Le platee de’ villani della Chiesa di Catania portan la clausola di tenere come cancellati quelli che fossero stati scritti per avventura nelle platee de’ baroni del millenovantatrè,[724] ch’è a dire due anni dopo l’epoca notata dal Malaterra; i quali due anni in vero non sembrano troppi per ispedire i diplomi con le descrizioni dei territorii e i ruoli de vassalli.

La breve lista che può accozzarsi dei feudatarii alla fine dell’undecimo secolo, basta a mostrare il fine politico al quale mirava il conte Ruggiero. Sappiam noi tenuto da un nobil uomo il val di Milazzo, vasto territorio ch’è da credere conceduto ai tempi di Roberto; sappiam tenute anco da nobili San Filippo d’Argirò, Geraci, Castronovo, Caccamo, Brucato, Carini, Partinico, piccole terre; tenute da principi del sangue o stretti congiunti della dinastia, Siracusa, Noto, Ragusa, Butera, Paternò,[725] Sciacca, grosse città[726] e da vescovi o prelati molte città e terre: e di certo i feudi ecclesiastici e i principeschi, messi insieme co’ paesi demaniali, presero tal parte dell’isola che passava di gran lunga il cumulo di tutti gli altri feudi. Da’ nomi topografici si argomenta anco che il conte abbia date ai piccoli condottieri [302] le terre minori della Sicilia settentrionale, occupata infino al mille ottanta o in quel torno, ed oltre a ciò grande numero di piccoli poderi sparsi per tutta l’isola,[727] e ch’egli abbia serbati alla propria casa, alle Chiese e al demanio i più vasti e ricchi paesi conquistati nell’ultimo decennio, nelle regioni del centro, di mezzodì e di levante; tra i quali la contea di Butera, conceduta al marchese Arrigo perch’egli era fratello d’Adelaide, se pure il conte non isposò la principessa aleramica perch’ella era sorella di Arrigo. La poca importanza dei feudi privati a riscontro degli altri, collima co’ ricordi del Malaterra intorno gli stanziali tenuti dal conte e i guiderdoni di beni mobili; sendo evidente che il capitano supremo dovette rimeritare con feudi, non già i mercenarii, ma i condottieri che lo seguirono col patto aleatorio di partire all’apostolica, com’egli avea promesso innanzi il combattimento di Misilmeri,[728] il bottino e gli acquisti stabili. Quanto fossero pericolosi que’ cavalieri intraprenditori, l’avea fatto sperimentare ei medesimo a Roberto; l’avean provato entrambi in Puglia e in Calabria, per tutta la loro vita.

Le concessioni alle Chiese mi conducono a trattare il capolavoro che fu di piantare in Sicilia, a comodo e sostegno del principato, quella pericolosa macchina del sacerdozio cattolico. Quanto fosse disposto il conte Ruggiero ad anteporre gl’interessi [303] politici alla pietà, lo sappiamo noi molto particolarmente[729] e ch’egli e Roberto e i loro predecessori, giocando co’ papi, fossero soliti a guadagnare più che a perdere. Vissuto per mezzo secolo in sì alto stato in Calabria o in Sicilia, e necessitato poscia a consultare i savii del paese intorno la ristorazione del cristianesimo nell’isola, Ruggiero non potè ignorare le dottrine canoniche di Costantinopoli, le quali attribuivano al principe una suprema giurisdizione su la Chiesa e l’autorità d’istituire sedi vescovili, nominare, tramutare e deporre vescovi, metropolitani e patriarchi.[730] Intanto la lite delle investiture che ferveva in Ponente, ammonìa Ruggiero del pericolo che corresse ogni principe in grembo della Chiesa latina. La sua casa stessa avea testè provata la nimistà d’Ildebrando. Evidentissimo, ciò non ostante, scorgeasi il bisogno di instaurare fortemente in Sicilia una Chiesa che convertisse i Musulmani al cristianesimo,[731] i Greci alla credenza latina, e assicurasse l’esercizio del patrio culto ai coloni di Terraferma, agli Oltramontani, ed ai Siciliani di schiatta italica: se no, un rivolgimento di fortuna avrebbe potuto di leggieri rendere l’isola agli antichi signori d’Affrica o di Costantinopoli. Scansò Ruggiero l’uno e l’altro pericolo, prendendo il partito d’istituire una Chiesa [304] cattolica apostolica e romana, dipendente da Roma il meno, e dal principe il più che si potesse. Ne venne egli a capo, perchè la ristaurazione ecclesiastica premea al papa non meno di lui, e pur dipendea da lui solo che aveva in mano i tesori da spendere in fabbriche e arredi e sì le entrate da dotare le chiese, i monasteri e i vescovadi. Par ch’egli abbia tentata la prova come prima Ildebrando accostossi a casa Hauteville; ritraendosi che il conte fondò nel 1081 il vescovato di Traina ed elesse il vescovo, non atteso alcun legato, nè chiesta licenza di sorta al papa, e che questi brontolando, ma senza rabbia, promise di consacrare l’eletto.[732] Morto Gregorio VII, venuto Urbano II a Traina e compiuto il conquisto, Ruggiero non tardò a fondare le altre sedi: assegnò i limiti alle diocesi ed elesse i vescovi, con decreti nei quali ei parla come chi eserciti diritto suo proprio; e cita per mero rispetto filiale gli accordi fatti verbalmente col papa, il quale poi sempre consacrò gli eletti.[733] Eccettuato l’arcivescovo di Palermo, anteriore [305] al conquisto, la cui diocesi pur sembra determinata dal conte Ruggiero, tutte le altre sedi debbono a lui la fondazione: Traina il 1081, com’abbiam detto, trasferita a Messina il 1096; Catania il 1091; Siracusa, Girgenti e Mazara il 1093, alle quali fu aggiunto il 1094 il monastero di Patti, dandosi all’Abate dignità e funzioni vescovili;[734] oltrechè il conte, per licenza del papa e, com’ei dice una volta, ad esempio del papa, sciolse parecchi monasteri dalla giurisdizione de’ vescovi.[735] Spicca vie più il diritto inaugurato da Ruggiero nell’esempio contrario di Lipari; la quale sendo stata abbandonata da’ Musulmani, e avendovi certi frati fondato un monastero e raccolti de’ coloni, papa Urbano die’ all’abate la giurisdizione vescovile, vantandosi padrone di quell’isoletta in virtù della falsa donazione di Costantino.[736] Ma anco in questo caso Ruggiero seppe stender la mano sopra l’Abate, con donargli Patti e non poche altre possessioni.[737] In vero ei messe un tesoro per comperare le regalie ecclesiastiche bizantine, le quali esercitò, com’abbiam detto, nella fondazione de’ vescovadi; anzi trascorse oltre a quelle, fattasi [306] anco dar dal papa l’autorità di scomunicare in certi casi.[738] Ruggiero vivea sicuro» della parola del papa, che tutto gli aveva assentito senza scrivere un rigo, quando Urbano, con apostolica ingenuità, mandava a fascio ogni cosa, nominando un legato appo di lui. Ma egli nol soffrì. Dopo la vittoria di Capua, si fece rendere, quasi a forza, una parte di que’ privilegi, nella notissima bolla del millenovantotto, quando Urbano avea da sperar molto e da temer qualcosa da lui.

Lo storiografo del conte, il quale narra quello scandalo schiettamente anzi che no,[739] riferisce pur tutta a pietà cristiana la fondazione de’ vescovati. «Impadronitosi, egli dice, della Sicilia intera, fuorchè Butera e Noto, Ruggiero non volle mostrarsi ingrato a Dio: cominciò a vivere devoto, ad amare i giudizii giusti, seguire il diritto, abbracciare la verità, frequentare le chiese, assistere al canto degli inni sacri, soddisfare al clero le decime d’ogni entrata sua, consolar le vedove, gli orfanelli e gli afflitti. Ei racconcia i templi per tutta l’isola; in molti luoghi dà del suo, perchè sieno edificati più presto. Innalza in Girgenti una Cattedra con infule pontificali; per suoi chirografi la dota a perpetuità di terreni, decime [307] e varie altre entrate che bastino a mantenere il pontefice e il clero; fornitala largamente, oltre a ciò, di ornamenti e arredi sacri: alla quale chiesa ei prepone ed ordina vescovo un certo Gerlando, di nazione allobrogo, uomo, come si dice, di molta carità e nelle ecclesiastiche discipline erudito.»[740] Era dunque del Delfinato, o savojardo, questo vescovo, del quale il Malaterra non volle affermare le virtù, come il facea pe’ francesi: Stefano da Rouen nominato a Mazara, Ruggiero provenzale a Siracusa, e un bretone Ansgerio, come si ritrae da’ documenti, a Catania. Il quale sendo abate di Sant’Eufemia in Calabria e ricusando di abbandonare i monaci, ed essi lui, Ruggiero trovò modo di vincerlo. «Gli concede perpetuamente, ripiglia il Malaterra, la città di Catania e sue dipendenze. Egli, trovando inculta la Chiesa, come quella che di fresco era stata strappata di gola al popolo infedele, la prima cosa die’ mano ai lavori di Marta, tanto che in breve provvide la Chiesa di quanto le abbisognasse; e poi, alternando con gli studii di Marta que’ di Maria, adunò non piccolo stuolo di monaci e, come buon pastore, con la parola e con l’esempio, li sottomise al giogo di regola rigorosa.»[741]

Marta, in vero, meglio che Maria inaugurò la Chiesa siciliana; meglio che la vita contemplativa, l’opera civile: la propaganda cattolica, necessario stromento di governo nelle condizioni della Sicilia, musulmana più che mezza, e bizantina quasi tutto il [308] resto; l’invito a coloni di Terraferma; il contrappeso alla feudalità laica. Ancorchè allo scorcio dell’undecimo secolo il periodo vescovile fosse quasi finito nell’Italia di sopra, par sia giovata la consuetudine di quella autorità ad attirare coloni ne’ feudi ecclesiastici della Sicilia con promessa di franchige, com’abbiamo notato dicendo di Catania e di Patti. E che la prova non fosse fallita, lo dimostra la concessione di Cefalù al vescovo, fatta il 1145 da re Ruggiero, insieme con una vera carta di franchige municipali. Ma il vescovo di Catania, l’abate di Patti, l’arcivescovo di Messina e gli altri vescovi e gli abati di monasteri liberi da giurisdizione vescovile, possedendo feudi da ragguagliarsi ai baroni e taluno a’ primarii del regno,[742] e dipendendo per molti rispetti dal re e per nessuno dall’aristocrazia militare, aggiugnean forza al principato di Ruggiero. Il quale, dovendo affidar loro sì vitali interessi dello Stato, chiamò alle sedi vescovili i suoi fidati, li fece entrare ne’ Consigli dello Stato[743]: ne’ quali rimasero pur troppo fino alla continua minorità di Guglielmo II. Le sette diocesi coincidono a un dipresso con le divisioni politiche nate tra i Musulmani verso la metà dell’undecimo secolo;[744] e le tornano esattamente [309] per numero e con poco divario per circoscrizione, alle province odierne dell’isola: dove il numero de’ vescovi è ormai triplicato per la vanità di alcuni municipii e la cieca devozione de’ Borboni di Napoli, i quali procacciarono la istituzione di otto sedi novelle in ventotto anni.[745] Ma tornando addietro all’XI secolo, è da notare come la diocesi di Palermo fu di gran lunga più piccola che ogni altra: un trapezio da Corleone a Vicari, foce del fiume Torto e Capo di Gallo. E ciò si comprende, poichè Palermo ubbidiva al duca di Puglia quando il conte Ruggiero costituì le finitime diocesi di Traina, Mazarae Girgenti.[746] Fors’anco non si stendea più oltre la giurisdizione politica della città innanzi il conquisto.

Su la circoscrizione territoriale dell’isola abbiam detto altrove ritrarsi sotto la dinastia fatemita l’ordinamento dell’isola in iklîm, i quali sembrano distretti militari.[747] Or si ritrovano gli iklîm sotto i Normanni. Non ne cerchiam noi la prova ne’ passi d’Edrisi dove si fa menzione di parecchi iklîm della Sicilia; perocchè il geografo di re Ruggiero usa quel [310] vocabolo genericamente; anzi, amando i giuochi di parole come ogni altro scrittore arabico de’ suoi tempi, loda l’ampiezza o la feracità dei territorii con dare talvolta allo stesso luogo le appellazioni di ’aml e di iklîm.[748] Ma quest’ultima voce occorre appunto in qualche diploma del XII secolo, estratto dai registri degli ufizi pubblici, che risalivano a’ principii della dominazione normanna.[749] Inoltre gli è da sapere che in quelle quattro circoscrizioni diocesane del conte Ruggiero nelle quali si leggono i nomi de luoghi,[750] scarsissimo n’è il numero al confronto di quello che dà Edrisi a capo di mezzo secolo, avvertendo pure ch’ei ricordi le città e terre principali e lasci addietro quelle di minor conto.[751] E per vero i diplomi ci ragguagliano di moltissimi villaggi taciuti dal geografo; talchè in qualche tratto di paese il numero cavato dai diplomi sta a quello di Edrisi, come il numero di Edrisi a quello della [311] circoscrizione ecclesiastica. Il divario poi che corre tra questa e la descrizione geografica or or citata, nasce in alcuni casi dalla fondazione di nuove colonie; ma il più delle volte evidentemente vien da ciò, che la cancelleria del Conte notava nelle diocesi i soli capoluoghi, invece delle terre sottoposte alla giurisdizione politica e militare di ciascuno, ch’era, a creder mio, l’iklîm. Così nella vasta diocesi di Catania, descritta il 1091, si notano solamente Aci, Paternò, Adernò, Sant’Anastasia, Centorbi e Castrogiovanni, ciascuna delle quali è assegnata «con tutte le appartenenze sue:» e si vede che le appartenenze di Castrogiovanni stendeansi da una parte sino ai confini di Traina e dall’altra sino al fiume Salso;[752] ond’eranvi comprese Caltanissetta e Pietraperzia, taciute qui, ma nominate ben da Edrisi, con questa particolarità ch’egli attribuisce a ciascuna parecchi iklîm. Darò anco in esempio la diocesi di Palermo, alla quale il primo attestato di circoscrizione (1122) attribuisce soltanto Palermo, Misilmeri, Corleone, Vicari e Termini;[753] ma al dire d’Edrisi erano cospicue nella medesima regione Trabia, Cefalà, Marineo, Godrano, Margana, Menzil Iusuf, Caccamo, Brucato, Raia, Prizzi, Pitirrana e Abragia, terre anteriori, la più parte, al conquisto;[754] e, una trentina d’anni dopo Edrisi, i diplomi ci mostrano nell’iklîm di Corleone quattro villaggi,[755] e tra Palermo e Termini [312] Ibn-Giobair vide il bel paesello di Kasr Sa’d,[756] le carte fanno ricordo di Ain-Liel[757] e di Rahl Esscia’rani.[758] Così anco nella diocesi di Mazara il diploma del conte Ruggiero ha dieci nomi[759] e sedici la geografia d’Edrisi. Si ritrae da’ diplomi inoltre che il territorio della città di Mazara prendea quasi tutto l’odierno circondario di tal nome e metà di quello d’Alcamo.[760] Vasto territorio anco sembra il val di Milazzo tenuto in feudo da Goffredo Borello ne’ primi tempi del conquisto.[761] Il conte Ruggiero ritenne dunque, chè altrimenti far non potea, gli iklîm de’ Musulmani, chiamandoli «appartenenze» del capoluogo;[762] i quali territorii, per la estensione loro, variavano tra il «mandamento» e il «circondario» della presente circoscrizione dell’Italia. Erano contadi, talvolta sì vasti, che alcuno, come Adernò, Paterno o Siracusa, divenne contea.

Pur se alcuni iklîm in Sicilia, come in altri [313] paesi musulmani, eccedeano le proporzioni ordinarie, non si veggono a’ tempi del conte Ruggiero grandi circoscrizioni civili o militari che ne comprendessero tanti da potersi chiamare province. Se Edrisi dice che Sciacca era divenuta la città primaria[763] degli iklîm d’intorno, in luogo di Caltabellotta la cui popolazione s’era quasi tutta tramutata in quella città marittima, questo sembra fatto economico non amministrativo: d’altronde torna alla metà del XII secolo. Sola eccezione mi pare il Val Demone, citato qual nome di regione da due scrittori cristiani contemporanei al conquisto,[764] e come tale anco usato nella geografia di Edrisi[765] e in molti diplomi della fine dell’undecimo e prima metà del duodecimo secolo;[766] ancorchè per noi s’ignori se allo scorcio dell’undecimo, rispondesse [314] all’antico nome un vero compartimento amministrativo. Io nol credo, perchè ne’ ricordi del conquistatore non rimane vestigio di altra autorità provinciale che i vescovi; perchè un ordinamento provinciale non è verosimile in quella prima applicazione della feudalità, dove i magistrati provinciali sarebbero stati i Conti; e perchè le province non avrebbero potuto differire, per numero nè per confini, dagli Stati musulmani distrutti. Pertanto rimanderei ai tempi di re Ruggiero la tripartizione in valli, o piuttosto la ristorazione di tal ordinamento, che si potrebbe riferire, sì come ho già detto, ai Musulmani.[767]

E tanto meno verosimile sarebbe un ordinamento di province sotto il primo Ruggiero, quanto risulta dalle croniche e da’ documenti ch’egli non ebbe mai capitale propriamente detta. Povero venturiere, si fece il primo nido in Mileto che sola possedea; levato a maggiori speranze in Sicilia, ne usurpò un altro in Traina; ma divenuto principe e potentato, alternò sempre tra Mileto e Traina quel che potrebbe chiamarsi il soggiorno suo, poche settimane, cioè, ch’ei posava in casa, correndo da impresa ad impresa, tra il Lilibeo e il Garigliano. Ei volle essere [315] sepolto in Mileto;[768] fece comporre le ossa del figliuolo Giordano in Traina;[769] e quivi tenea il tesoro, quivi per qualche tempo la famiglia, ritraendosi che una sua figliuola, andando sposa in Ungheria, entrò in nave a Termini e quindi a Palermo, donde fece vela per la Dalmazia.[770]

La triplice origine degli abitatori della Sicilia portò seco tre denominazioni di magistrati, che a nome del principe reggessero le terre demaniali e del barone le feudali; rendessero ragione e riscuotessero le entrate. E veramente occorrono in moltissime carte [316] del tempo i nomi di strateghi e vicecomiti; e due diplomi arabici del 1149 e 1154 danno entrambi il doppio titolo di ’Amil e Stratego di Giato ad un Abu Taib, il quale, insieme con gli sceikh cristiani e musulmani di Partinico, N»zh»r»d, Desisa e di Giato medesima, designava il sito e i confini di un terreno conceduto dal demanio regio.[771] Similmente in un atto notarile greco del 1156, appartenente a un comune dell’attuale provincia di Palermo, è citato un kâid Hosein, stratego.[772] Parve al Gregorio, se non certa, verosimil cosa che gli strateghi avessero avuta autorità maggiore e giurisdizione territoriale più vasta che i vicecomiti e che i primi fossero stati magistrati [317] criminali, i secondi civili e d’azienda.[773] Ma novelli documenti e que’ medesimi dati alla luce infino al secol passato, dimostrano la competenza civile e amministrativa degli strateghi.[774] Che se veggonsi ad un tempo nello stesso luogo lo stratego e il vicecomite, come a Stilo di Calabria e in Siracusa,[775] ciò non prova esclusivamente la differenza del grado; ma il doppio uficio ben adattasi a terra abitata da due genti diverse, sì come in Palermo sedeva il cadì e il magistrato cristiano, e in Giato lo stesso uomo era ’âmil e stratego. Il fondamento del diritto pubblico della Sicilia in quel tempo, cioè che ciascuna gente fosse giudicata secondo sua legge, richiedea che a ciascuna si desse il proprio magistrato; e la primitiva semplicità ed economia dell’amministrazione portava che il giudice fosse incaricato di ogni altra faccenda del principe o del barone. Lo stratego, governatore di provincia nel [318] IX secolo, era rimaso, com’io penso, supremo magistrato politico quando, caduta la dominazione bizantina, ciascuna città independente, tributaria o anche soggetta a’ Musulmani, si resse più o meno largamente da se medesima: e ciò non solo in Sicilia, ma avvenir dovea in varii luoghi della Calabria. Era dunque naturale che il conte normanno lasciasse il medesimo titolo al governatore ch’ei mandava nelle città greche e chiamasse vicecomite quello delle nuove colonie, come solean dirlo in casa loro.[776] Per la medesima ragione veggiamo l’’âmil nelle terre musulmane; se non ch’egli era privo di autorità giudiziaria, appartenendo questa ai cadi e agli hâkim.[777] Come portava lor civiltà superiore, ebbero i Musulmani, [319] oltre gli appositi magistrati, anco leggi, se non buone, almen certe e coordinate da sottile giurisprudenza; mentre il codice dell’umanità, la legge romana, facea capo qua e là nelle consuetudini delle città cristiane, traendo seco qualche innovazione bizantina e lottando contro le barbariche usanze dei Longobardi e de’ Franchi.[778] Per vizio comune alle legislazioni europee, riserbossi il principe gli appelli nelle cause civili, facendole decidere da ottimati delegati a volta a volta. Ritenne egli inoltre i giudizii capitali nella più parte de’ feudi.[779]

Or toccheremo delle entrate pubbliche nei primi tempi normanni; nella quale ricerca e’ convien adoprare con maggior cautela, e quasi con diffidenza, i ricordi dell’ultima metà del XII secolo; sendo, i fatti in materia di azienda, assai più mutabili che quelli discorsi fin qui, verbigrazia le condizioni sociali o i municipii, e mancando pertanto quella presunzione d’un’origine più antica, che sovente ci ha confortati a riferire a’ principii della dinastia gli ordini che si ritraeano in su la fine. Intraprendiamo ricerca di fatti ch’ebbero grande conseguenza nella storia dell’Italia meridionale, perocchè il conte Ruggiero negli ultimi venticinque anni dell’undecimo secolo, salì a tanta potenza mercè l’oro, non meno che il ferro. Quella ricchezza ond’ei fu rinomato in tutta Cristianità, non potea venir dal solo bottino; non dal frutto de’ possessi demaniali, necessariamente [320] scarso tra le fazioni di guerra e lo sconvolgimento sociale. E pur allora veggiamo il conte stipendiare grosse schiere di stanziali, largire doti regie a tante figliuole, porgere sussidii ai papi e, quel ch’era più grave, aiutar di danari il fratello nell’impresa di Grecia; e poi innalzare per ogni luogo chiese e monasteri. Donde venian cotesti tesori? E’ si direbbe che il conte avesse appresa l’alchimia dagli Arabi, o scoperto dassè il gran segreto: quel medesimo con che raddoppiossi d’un tratto il reddito della città di Palermo, come prima ei vi messe le mani.

La savia amministrazione, fondamento del gran segreto, sembra retaggio de’ tempi musulmani, ben usato dal vincitore. Avendo sotto gli occhi i ruderi, noi possiamo ricomporre in parte quell’antico edifizio. E prima scorgiamo un censimento universale di beni demaniali e feudali, chè gli uni e gli altri furono in origine la stessa cosa, possessi, cioè, dello Stato, de’ quali altri si concedeano in feudo, altri ricadeano al fisco e questo ne riconcedeva o ritenea. Provan cotesto censimento le platee de’ villani appartenenti a ciascun feudatario dell’isola, promulgate in Mazara, come già notammo, il 1093, che è a dir due anni dopo il compimento del conquisto;[780] poichè tanto valea concedere i villani, quanto la terra assegnata [321] a ciascun di loro, detta rab’ ne’ documenti arabici, e cultura ne’ latini.[781] Nè mancano, nell’undecimo secolo, le vestigie di un’antecedente descrizione de’ territorii; sapendosi essere stato il casale di Regalbuto concesso il 1090 alla chiesa di Messina «con tutto il suo contado ed appartenenze, secondo le antiche circoscrizioni de’ Saraceni.»[782] Più precise notizie ci danno di cosiffatta descrizione le carte del duodecimo secolo, dalle quali si scorge che quel censimento, s’ei non raffigurava, come i nostri d’oggidì, una selva di righi e colonnini terminati col reddito di ciascun podere in lire e centesimi, che son pur cifre d’approssimazione [322] e talvolta direbbonsi d’allontanamento, racchiudea, sì, la descrizione sommaria de’ confini noti a tutti in ciascun contado, la misura della superficie, il numero e i nomi de’ villani, e, alla grossa, la qualità del suolo.[783]

Le medesime carte ci fanno conoscere il titolo dell’ufizio che serbava cotesto censimento; ed era, in arabico, Diwân-el-Tahkîk-el-Ma’mûr, ossia «Ufizio di riscontro della tesoreria,» se non ci inganna l’analogia con gli ordinamenti dell’azienda pubblica, posti in Egitto da que’ medesimi califi Fatemiti che furon legislatori dell’azienda in Sicilia:[784] il quale ufizio in [323] latino barbaro fu detto Dohana de Secretis[785] per la medesima ragione che altrove fece chiamare segretarii [324] gli scrittori del carteggio ufiziale. L’origine musulmana è provata dalla denominazione dell’ufizio e da quella de suoi strumenti, i defetarii, de’ quali fa menzione il Falcando, e se n’ha riscontro ne’ documenti; ma si è molto disputato su quel ch’e’ contenessero e donde venisse quella voce.[786] Defêtir è plurale arabico di difter, e questo, mera trascrizione di διφθέρα «pelle» e «codice di cartapecora:»[787] un di que’ vocaboli che gli Arabi necessariamente tolsero in prestito da’ Greci, sia in Levante o sia in Sicilia, e andandosene dall’isola, ce li riconsegnarono storpiati a loro modo. I defetarii erano dunque i libri, i registri, degli ufizii d’azienda. Ancorchè non mi sia occorsa altra appellazione speciale che del difter-el-hodûd, ossia «registro de’ confini,»[788] egli è verosimile [325] che ve ne fossero stati di varie maniere, come appunto soleano averli i Musulmani, e che in una serie di que’ registri fossero pur notati i diritti dello Stato su ciascuna classe di abitatori in ogni terra; i quali diritti si riscuoteano dal Fisco quando la terra era ritenuta in demanio e si trasferivano ai baroni quando la si concedea. Possiam anco supporre con fondamento che non mancassero i catasti de’ beni allodiali.[789] L’ordinamento de’ catasti risultante dalle [326] carte del XII secolo fu ristorato forse e perfezionato ai tempi di re Ruggiero; ma questi di certo non imitollo dal “Doomsday book” di Guglielmo il Conquistatore, come si è immaginato:[790] l’ebbe in retaggio dal primo Conte, dal governo musulmano e fors’anco dal bizantino.

Par che il Conte abbia rivendicati al demanio tutti i possessi e i diritti usurpati da lunghissimo tempo; leggendosi nella concessione feudale della città di Catania (1092), esser data quella al vescovo «con tutte le sue appartenenze, possessioni ed entrate,.... sì come la teneano i Saraceni quando i Normanni passarono la prima volta in Sicilia»[791] e dati anco «i Saraceni che dimoravano in Catania a quel tempo, e i figliuoli dei Saraceni di Catania stessa e di Aci, nati in altre parti della Sicilia, dove i genitori si fossero rifuggiti per timore de’ Normanni.» L’interpretazione più ovvia di coteste parole farebbe risalire la rivendicazione a trent’anni innanzi (1061); se non che mal si comprende qual principio di gius pubblico o quale utilità avrebbe potuto suggerir termine così fatto al conquistatore. Avea forse Ibn-Thimna prestato omaggio feudale a Ruggiero o a Roberto [327] il sessantuno? Ovvero si pattuì quel termine nella dedizione di Catania ai Normanni? Il primo supposto parmi privo di fondamento; l’altro gratuito affatto e credo più plausibile un terzo: cioè che la passata alla quale si alludea, fosse quella della compagnia normanna che seguì la bandiera di Maniace il milletrentotto. Allora, occupata da Cristiani tutta la Sicilia orientale, moltissime famiglie emigrarono senza dubbio nelle regioni occidentali. A capo di due anni, lacerata la Sicilia dall’anarchia e surti i regoli, erano stati di certo occupati da questo e da quello i beneficii militari, parte principalissima dell’entrata pubblica e pomo della discordia nell’isola, come in tutt’altro Stato musulmano. Gli è verosimile dunque che il vincitore, potendolo fare con buon diritto, abbia messa la scure alla radice, in luogo di tollerare le concessioni de’ regoli ch’egli avea combattuti e vinti ad uno ad uno. Nè era da temere maggior odio per lo spogliamento degli ingiusti occupanti dopo cinquant’anni che dopo trenta; e molto minore difficoltà si sarebbe incontrata a scoprire i poderi notati nei registri dei diwân kelbiti della capitale, che a rintracciare la condizione del patrimonio militare al principio della guerra in ciascun centro di governo: Palermo, Castrogiovanni, Girgenti, Siracusa e Catania. D’altronde la rivendicazione si può con fondamento supporre estesa a tutta l’isola, perocchè la non toccava al certo le proprietà, ne’ luoghi dove per accordo o necessità rispettolle il vincitore.

De’ possedimenti demaniali fruiva il Conte, come ciascun feudatario de’ suoi proprii, riscotendo da’ villani [328] ed altri coloni il tributo in danari e grani, e il servigio d’opere manuali; e da’ borghesi delle terre e città le gabelle, tasse o guadagni di vendita privativa: dei quali pesi abbiam toccato nel trattar le condizioni del popolo e ci siamo riferiti al Gregorio.[792] E conviene rimanerci alle generalità; perchè le prove che dà il Gregorio non bastano in tutti i particolari. Egli argomentò il sistema de’ primi tempi normanni dalle liste di que’ che alla metà del XIII secolo si chiamavano diritti antichi, per opposizione ai nuovi ordinati da Federigo imperatore; ma non possiamo non supporre che grandissime innovazioni fossero seguite nella prima metà del XII secolo. Si affidò inoltre il Gregorio alla descrizione dei detti pesi per Andrea da Isernia, senza considerare che questo dotto giureconsulto del XIII secolo avesse lavorato su le memorie del Napoletano al par che della Sicilia. In fine ei fece assegnamento su certi documenti del XIII secolo, ne’ quali si noveravano le entrate pubbliche soggette a decima ecclesiastica; ma non s’accorse che il clero per lo meno esagerava i proprii diritti.[793] Occorrono quindi novelli studii su i documenti, stampati o no, per appurare ciascun capo di entrata pubblica ne’ tempi di cui si ragiona. Ma tutto [329] insieme si vede il fatto che dovea nascere, l’innesto della ragione feudale su la fiscalità musulmana: da una parte, nuovi diritti dominicali e angherie feudali; dall’altra alcune maniere di testatico, e da entrambe, gabelle di consumo e di produzione. Sappiamo, per testimonianze di contemporanei, recata in Sicilia da’ Normanni la privativa de’ bagni, de’ molini, de’ forni e delle canove.[794] I diritti di erbatico, legnatico e simili, nacquero dalla nuova forma della proprietà; i proventi giudiziali, dal potere politico attribuito a proprietarii privati. Continuò la capitazione su i Giudei, trovato musulmano. Scendeano da tempo più antico, modificate da’ Musulmani ed accresciute al certo da’ Normanni, le gabelle alla entrata o uscita delle merci, le tasse su i movimenti delle navi [330] mercantesche, i diritti su le industrie e i mestieri. Dalle denominazioni si può talvolta conghietturare l’origine; per esempio, la cabella bucherie sembra normanna tanto certamente, quanto il diritto di rahaba e quello di cangemia musulmani.[795] Non è poi da dimenticare [331] che coteste gravezze variavano forse da terra a terra in quantità e in qualità e che, se in teoria le appartenean tutte al principe, sì come i terreni non allodiali, pure ei non ne fruiva se non che ne’ paesi del demanio, ma nelle città e terre concedute le andavano a beneficio dei feudatarii. Il supposto del Gregorio che, per lo meno, quelli che or diciam diritti doganali si riscuotessero dal principe per ogni luogo[796] non mi pare avvalorato da alcun fatto, nè consentaneo al diritto pubblico de’ tempi.

Tributo generale bensì, la colletta, si poneva anco su i feudatarii ne’ noti quattro casi feudali; della quale ancorchè non abbiam ricordi al tempo del primo conte, la si dee supporre, quando e’ si ritrae che Roberto Guiscardo levolla in Terraferma e in Palermo[797] e poi i re normanni in tutta la Sicilia.[798] Generale anco il diritto di marineria, col quale si manteneva il navilio; se non che, com’e pare, i municipii vi contribuivano, più che i feudatarii, e ciò in compenso del servigio militare.[799] Ed ancorchè non risulti da alcun documento di quella età, credo fermamente sia da [332] aggiugnere alle sopradette e da tener principalissima entrata del conte Ruggiero, come la fu de’ successori, la tratta de’ grani. Sappiam noi dagli annali musulmani le spaventevoli carestie che patì l’Affrica propria in quella età,[800] sendo permanente la causa principale: gli Arabi ladroni d’Egitto i quali desolarono tutta la campagna e corserla in guisa da impedirvi per tanti secoli ogni maniera di coltivazione.[801] Sappiamo dal raccontato aneddoto del conte Ruggiero quanto assegnamento facesse il governo di Sicilia in sul traffico de’ grani con l’Affrica; il qual fatto non rimarrebbe men vero, se il racconto si riferisse alla prima metà del XII secolo, anzichè alla seconda dell’XI.[802] E veramente la reciproca pazienza degli Ziriti e della casa di Hauteville a mantenere la pace negli ultimi diciotto anni della sanguinosa lotta che il cristianesimo combatteva contro l’islamismo in Sicilia,[803] non si potrebbe credere, quand’anco si supponesse in ambo le parti inalterabile saviezza e freddo giudizio degli interessi politici; ma la parrà naturale e necessaria, supponendo che il conte Ruggiero mandasse a vendere i grani dell’azienda in Mehdia, in Tunis e nelle altre città della costiera, sì come fece il figliuolo Ruggiero quindici o venti anni dopo la morte di lui: e questo [333] commercio di grani aprì la via alle imprese del re sopra l’Affrica, e rese per due secoli i principi di Tunis tributarii a que’ di Sicilia, come si dirà nel libro seguente. Con ciò la tratta de’ grani comparisce fin dalla prima metà del XIII secolo ricchissimo capo d’entrata del tesoro siciliano e se ne scorge vestigia al principio del XII.[804] Tutte le ragioni conducono al supposto che il conte Ruggiero l’abbia istituita o forse continuata in ciascuna città marittima della Sicilia, come prima egli se ne insignorisse: ed è verosimile ch’ei v’abbia fatto doppio guadagno; cioè levare grossa contribuzione in denaro o in genere all’uscita de’ grani altrui, e intanto, aumentato così il prezzo della merce, mandar a vendere in altri paesi i grani ch’ei possedea, raccolti da’ canoni in derrata ne’ suoi proprii demanii o ritratti dalla medesima tassa d’uscita. Ammessa questa sorgente, non farà maraviglia l’inesauribile ricchezza del conquistatore.

Dopo i tributi verrebbero i servigi, ch’erano sì gran parte de’ pubblici pesi negli stati feudali; e possono dividersi in servigi di pace e di guerra. Dei primi, cioè le giornate di lavoro ne’ campi, i trasporti, l’opera manuale nelle edificazioni e simili fatiche, abbiam già toccato; nè occorre altro aggiugnere, sendo simili coteste obbligazioni nelle terre [334] demaniali e nelle feudali.[805] Il servigio militare di terra era prestato da’ baroni in Sicilia al par che in ogni altro stato feudale, come si legge nel Gregorio.[806] Notiamo tuttavia che i feudi ecclesiastici non andarono esenti per generalità dal servigio militare, sì com’ei dice; ma alcuni ne furono eccettuati e similmente alcune città. Inoltre i fatti narrati da noi provano come il Conte chiamasse talvolta alla guerra i Musulmani di Sicilia;[807] il quale esempio fu seguìto dai re suoi discendenti e dalla dinastia sveva. Verosimile egli è che i Musulmani facesser oste capitanati dai loro kâid,[808] nutriti a spese del principe durante l’impresa e gratificati col bottino. È da ricordare infine che il Conte ebbe schiere di stanziali stipendiati, e che i suoi successori ne tenner anco di Cristiani e di Musulmani.

Del navilio siciliano allo scorcio dell’undecimo secolo non avanza alcuna memoria. Si potrebbe anzi supporre, se non distrutto, decaduto di molto; ritraendosi che verso il millesessantotto la gente dell’armata, per cagion delle guerre civili, riparò in Affrica,[809] e che le forze navali operaron poco nella difesa di Palermo il 1071, ancorchè quello fosse stato sempre il gran porto militare de’ Musulmani di Sicilia.[810] Ciò nondimeno, s’egli è vero che a metter [335] su un navilio di guerra si richiegga tempo e spesa e grandissima cura, convien che il conte Ruggiero abbia adoperato a ristorare il navilio siciliano i buoni elementi del pugliese e del calabrese già messi alla prova negli assedii di Bari e di Palermo e usati da Roberto nella guerra di Grecia; e ch’ei gli abbia felicemente innestati con que’ del navilio musulmano. Perchè i Normanni di Sicilia rivaleggiaron in sul mare con le repubbliche marittime nella prima metà del XII secolo; e, fin dal 1113, l’Adelaide, vedova del Conte, andando in Ascalona per rimaritarsi a Baldovino re di Gerusalemme, era scortata da nove legni da guerra siciliani, due de’ quali portavano cinquecento uomini ciascuno; e gli altri rifulgean d’oro, argento, porpora, e i guerrieri di preziose vestimenta e ricche armadure, senza contare i tesori profusi nella galea dell’Adelaide, nè una schiera di arcieri saraceni splendidamente vestiti, ch’ella recava in dono allo sposo.[811] La mole de’ legni e il lusso, provano che la Sicilia avea già di nuovo un’armata possente.

Della quale noi possiamo figurarci la costituzione, rannodando le notizie che n’abbiamo ne’ tempi appresso, con quelle che si ritraggono ne’ tempi innanzi, del navilio bizantino e de’ musulmani.[812] Or del primo sappiam noi ch’era di due maniere, il regio cioè e il provinciale, ch’è a dire fornito e armato a carico delle città di certe province. Così leggiamo [336] nella Tattica dell’imperatore Leone.[813] Il tumulto di Rossano al quale noi accennammo, dimostra qual fastidio recasse ai popoli così fatto armamento:[814] e n’abbiamo anco riscontro da Ibn-Haukal, il noto viaggiatore del X secolo, il quale, descrivendo i paesi marittimi dell’Asia minore e le varie maniere di legni da guerra che vi armava l’impero bizantino, dice che la spesa era levata su i villaggi vicini al mare «a tanto per fumajolo, ossia tanto per casa.»[815] Ma come i Musulmani, venuti in sul Mediterraneo, necessariamente messer su forze navali, e necessariamente usarono gli ordini e gli uomini che le avevano mantenute appo i popoli vinti,[816] così veggiamo nelle armate loro i legni mandati dalle varie città. Un antico scrittore citato da Makrizi, ci narra che in Egitto, al tempo dei califi fatemiti, la più parte del navilio era fornita da’ governatori delle province e pagati gli stipendi dal “diwân dell’armamento navale” insieme con quelli de legni regii; e che inoltre ciascuna provincia avea la sua armatetta.[817] Sappiamo [337] da Ibn-Khaldûn che il navilio de’ califi omeiadi di Spagna, il quale arrivò talvolta a dugento legni, era raccolto da tutti i porti del reame, ciascun de’ quali forniva i suoi.[818] Ora in Sicilia ricomparisce una sembianza di cotesto ordinamento, insieme con l’armata che soggiogò la costiera d’Affrica e infestò le isole della Grecia (1123-54): la marineria dovuta dalle popolazioni lombarde;[819] i dugencinquanta marinai che [338] dovea fornire il Municipio di Caltagirone; i dugento novantasei richiesti a quel di Nicosia, che giace tra i monti come quell’altra città; i venti marinai dovuti dal vescovo di Patti.[820] Le galee delle varie città si veggono combattere contro il navilio angioino allo scorcio del decimoterzo secolo.[821] Quanta parte poi prendessero durante il duodecimo i Musulmani nelle armate di Sicilia, si vedrà nel libro seguente.

E quivi sarà discorso di que’ fatti d’incivilimento che riferir si potrebbero al tempo del primo conte, ancorch’e’ compariscano nei regni de’ suoi successori. Breve e sanguinoso, il periodo che abbiamo studiato in questo libro non lasciò campo alle arti della pace; non permesse di ricordar quelle che, per necessità dell’umana natura e della convivenza sociale, si esercitavano pure in mezzo alle stragi e alla distruzione. Pertanto abbiamo raccolti nel libro precedente[822] que’ bricioli di storia letteraria de’ Musulmani che riferir si poteano al tempo della guerra. Della storia letteraria de’ Cristiani di Sicilia altre reliquie non abbiamo che i codici, le immagini e le minuterìe del Prete Scholaro.[823] Le chiese e i monasteri che Roberto e Ruggiero edificarono, in luogo de’ sontuosi palagi [339] distrutti, sono state consumate dal tempo, come i loro diplomi in carta bombicina che fu mestieri di rinnovare entro mezzo secolo; o, se qualche pietra n’avanza, la non si riconosce tra le costruzioni eleganti di re Ruggiero e de’ Guglielmi. Ma abbiam citati a lor luogo i ricordi che ne fanno i cronisti o i documenti.

Ci è occorso altresì di rammentare le opere di fortificazione, che a’ vincitori premeano al men quanto gli edifizii ecclesiastici: la cittadella e il castel di Roberto in Palermo,[824] i baluardi di Ruggiero in Messina,[825] e quelli che si affrettò a costruire San Gerlando con le pietre de’ tempii agrigentini.[826] Edrisi fa un cenno della ristorazione di Marsala, mostrando non ignorare che la fosse surta su le rovine di Lilibeo e attestandoci una seconda distruzione seguìta nella guerra de’ Normanni o poco innanzi. «Marsa Alì, egli scrive, antica, anzi primitiva città, delle più notabili della Sicilia, era abbandonata, che ne rimaneano appena le vestigie, quando il conte Ruggiero primo la ripopolò e cinsela di mura. Indi la s’è riempita di case, mercati e magazzini.»[827]

Oltre le fortificazioni, sono da attribuire a’ primi tempi normanni alcune strade militari. Tale al certo fu quella ch’è chiamata «lo Stradale[828] francese di Castronovo» [340] in un diploma di Ruggiero, dato del 1096, secondo il quale i confini assegnati dal Conte alla diocesi di Messina risalgono lungo il Fiume Torto insino alla sorgente, e indi ripiegano sul detto stradale e di là al Monte di San Pietro e continuano verso Levante.[829] Par sia questa la medesima strada che da Palermo, com’attesta un diploma del 1132, menava a Vicari, Castronovo e Petralia;[830] continuava alla volta di Traina, dove la versione d’un diploma greco del 1094 ricorda una “via regia;” e forse, valicati i monti a Sant’Elia d’Ambola,[831] ripigliava essa il corso lungo la costiera settentrionale, poichè il medesimo nome di “via regia” ricomparisce il 1143 presso Patti,[832] e molto prima presso Milazzo.[833] Il predicato [341] di basilica, chè così dicea senza dubbio il testo, dato a cotesta strada nel diploma del 1094, la fa supporre bizantina: e sarebbe per avventura quella che tennero i Normanni addentrandosi nel cuor dell’isola e ch’essi prolungarono o racconciarono dopo Petralia o Castronovo, per farsene linea d’operazione sopra Palermo. Si potrebbe riferire anco ai tempi del primo conte l’altra via detta precisamente militare, in un diploma della Chiesa di Monreale del 1182, la quale par sia corsa ne’ dintorni della Ficuzza, tra Palermo e Corleone;[834] ma non si ritrae se mettesse capo nella via di Castronovo, che ne sarebbe stata discosta in linea retta una ventina di miglia a scirocco. Può solo argomentarsi che la qualità, o almeno l’origine di questa via militare, differisse da quella delle grandi vie del commercio interno, che menavano da Palermo a Mazara, da Palermo a Sciacca, ed altre nominate vie pubbliche o stradali nel medesimo diploma della Chiesa di Monreale,[835] le quali erano forse aperte molto tempo innanzi la guerra normanna.

[342]

Diciamo in ultimo della sola manifattura che ci possiamo aspettare dal novello principato, dopo le chiese e le opere militari. Si rinvengono in tutti i musei d’Europa tante monete battute dai re normanni di Sicilia ed anco dagli svevi, con leggende arabiche e formole musulmane, che si è supposto con fondamento essere incominciato così fatto conio ne’ primi anni della dominazione. Il Tychsen, che dissodò la numismatica orientale e inciampò sovente in quel novello terreno, pubblicò, sul disegno mandatogli di Sicilia, una moneta d’oro attribuita da lui a Roberto Guiscardo, da altri all’abate Vella; nella quale, se i caratteri non son mutati del tutto dopo tre o quattro copie del disegno, leggesi in sul diritto il nome di re Tancredi, e però torna alla coda anzichè alla testa della serie normanna.[836] L’Adler poi die’ fuori alcuni quartigli, o diciamo roba’i, o tarì d’oro, nei quali è chiarissimo il nome di Ruggiero e in alcuni il titolo di re; ma in altri parve all’Adler di veder la voce emîr, talchè potea cadere dubbio se al padre appartenessero ovvero al figliuolo, com’egli suppone dal tipo.[837] Seguillo il Castiglioni, aggiugnendo alla lezione di emir quella di Sicilia[838] e tiraronsi [343] dietro, riluttante, il Marsden.[839] Altra via batteva il principe di San Giorgio Spinelli quando, avute alle mani in Napoli ricchissime collezioni, compilò un’opera di gran mole, corredata di tavole e in molte parti degna di lode. Quel gentiluomo napoletano, molto erudito ma conoscitor mediocrissimo dell’arabico, riferì al gran Conte diciassette tarì d’oro che pesano un grammo o poco meno ed hanno da una faccia il simbolo musulmano, dall’altra il nome di Ruggiero, preceduto, come crede l’autore, dal titolo or di conte or di duca, e su i margini qualche residuo di leggenda, dove lo Spinelli rintracciava date di tempo e di luogo.[840] Coteste monete ha accettate il Mortillaro, con alcune correzioni che non risguardano il nome del principe.[841] Mi rincresce che il lavoro tutto dello Spinelli non dia guarentigia di quella erudizione e di quella sicurezza d’occhio in fatto di numismatica musulmana, che ci potrebbero indurre a prestar fede alla lezione di codeste diciassette monete; duolmi altresì non poter fare assegnamento su le figure incise, le quali, sia difetto delle monete [344] fruste o sia del disegno, bastano talvolta a conoscere erronea la lezione dello Spinelli, ma non aiutano punto a rifarla. Si aggiunga che, a giudicar dalle tavole, il titolo di duca letto dallo Spinelli in una moneta[842] somiglia perfettamente al vocabolo che in altra egli trascrive conte; e che, ammettendo il primo, si tornerebbe a Ruggiero duca di Puglia che fu signore pria di tutta la città di Palermo e poi della metà. Or a noi non piace andar così a tentoni. Aspetteremo che le collezioni le quali servirono allo Spinelli, cioè la sua propria e quelle di Fusco, Tafuri, Santangelo e Capialbi siano riviste da occhi più esperti; sì che le monete del XII secolo si scemano da quelle che per avventura avesse battute il primo conte. E in questo mezzo rimarrà in sospeso la piccola lite, se i roba’i siciliani fossero stati coniati senza interruzione da’ tempi dei califi fatemiti[843] a quelli di re Ruggiero e dei successori; e intanto rimarranno al primo conte di Sicilia le sole monete di rame con effigie e lettere latine, che a lui sogliono attribuirsi.[844]


SOMMARIO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL TERZO VOLUME

PARTE PRIMA.

LIBRO QUINTO.

Capitolo I.
 
an.
970-1011. Cagioni esteriori della caduta della dominazione musulmana in Sicilia. Movimento nazionale nella Terraferma italiana. Imprese navali dei Pisani contro i Musulmani Pag. 1
1015. Mogêhid usurpatore di Denia 4
» La Sardegna infestata precedentemente 5
» Mogêhid a Luni e in Sardegna 7
1016. È sconfitto e ricacciato in Spagna 9
» Contese de’ Pisani co’ Genovesi 10
1016-1114. Altre fazioni contro i Musulmani 13
» I Normanni 14
» Loro tradizioni 20
1078-1086. Croniche de’ Normanni d’Italia. Amato 21
» Guglielmo di Puglia 22
» Malaterra 23
» Leone d’Ostia e Lupo 24
» I Normanni a Salerno 25
1017-1021. Melo 26
» Compagnia Normanna 29
1040-1041. Argiro e Ardoino 30
» Battaglia dell’Olivento ed altre vicende 33
1043. Nuovo ordinamento della Compagnia 37
» La casa di Hauteville 38
1051. Rivolta contro i Normanni 40
1055-1058. Roberto Guiscardo 42
1059. Ruggiero. Espugnazione di Reggio 49
» Condizioni della Compagnia Normanna 52
 
Capitolo II.
 
1060. Disposizioni de’ Cristiani messinesi 55
» Supposta congiura 56
» Correria sopra Messina 61
» Ibn-Thimna 62
1061. Nuova fazione 63
» Presa Messina 66
» Rametta 70
» Tripi, Frazzanò, Maniace, Centorbi 71
» Paternò, Emmelesio, Sanfelice; battaglia di Castrogiovanni 72
» Scorreria a Girgenti. Tregua con Palermo 75
» Ritirata 76
» Castel di San Marco. Dominazioni diverse nelle province 78
 
Capitolo III.
 
» Rivolgimento in Palermo 79
» Condizioni degli Ziriti 80
» Aiuti di Mo’ezz 81
» Scorreria di Ruggiero sopra Girgenti 82
» Patti co’ Trainesi 83
1062. Ruggiero sposa Giuditta di Evreux 84
» Correrie in Sicilia. Morte d’Ibn-Thimna 85
» Brighe di Ruggiero con Roberto 87
» Rivolta di Traina 89
» Vittoria di Ruggiero 91
1063. Nuova spedizione affricana 92
» Scorrerie di Ruggiero 94
» Battaglia di Cerami 96
» Fazione de’ Pisani in Palermo 101
» Fazioni de’ Normanni a Collesano, Brucato, Cefalù. Combattimento presso Girgenti 105
 
Capitolo IV.
 
1064. Vano assedio di Palermo 106
» Bugamo presa: scontro presso Girgenti 107
1064-1068. Aiûb ed Ali, figliuoli di Temim, occupano la Sicilia occidentale 108
» Guerra civile; partenza degli Affricani ed emigrazione 110
1066. Ruggiero a Petralia 111
1068. Battaglia di Misilmeri 113
1068-1071. Assedio di Bari 114
» Armamento contro Palermo 115
» Presa Catania 116
» Assedio di Palermo 118
» Assalti 124
1072. Resa della città 130
» E di Mazara 133
 
Capitolo V.
 
» Distribuzione de’ conquisti ivi
» Morte di Serlone 134
» Roberto ordina il governo in Palermo 136
1072-1085. Ritorna in Terraferma. Suoi doni alla Badia di Montecassino 139
» Contrasta co’ suoi baroni 141
1072-1085. E co’ principi di Salerno e Capua 142
» Roberto e Gregorio VII 143
» Imprese di Grecia e di Roma 144
» Morte di Roberto 146
 
Capitolo VI.
 
1072. Condizioni de’ Normanni in Sicilia 147
» E dei Musulmani 148
» Benavert 149
1073-1075. Progressi lenti di Ruggiero 150
» Vittoria di Benavert 151
1076. Ruggiero dà il guasto al Val di Noto 153
1077. Prende Trapani ed altri paesi 154
1078. E Taormina 156
1079. Rivolta di Cinisi e Giato 159
1081. Ruggiero padrone di Messina 161
» Catania presa da Benavert e racquistata 162
1082. Rivolta di Giordano 163
1085. Scorreria di Benavert in Calabria 164
1086. Ruggiero prende Siracusa 165
1087. Impresa navale degli Italiani sopra Mehdia 168
» Ruggiero occupa Girgenti e la provincia 172
» Ibn Hammûd gli dà Castrogiovanni 173
1089-1091. Prese Butera e Noto. Urbano II a Traina 176
» Conquisto di Malta 177
 
Capitolo VII.
 
1093. Morte di Giordano e rivolta di Pantalica 180
1085-1093. Cresciuta potenza del conte Ruggiero 181
» Aiuta il nuovo duca di Puglia, il quale gli concede metà di Palermo 182
1091-1094. Imprese di Cosenza e Castrovillari 184
1096. Assedio di Amalfi. La prima Crociata 185
1098. Ruggiero assedia Capua co’ Musulmani 186
» E impedisce la loro conversione 187
» Aneddoto attribuitogli da Ibn-el-Athîr 188
» Scuola di monaci statisti 190
» Relazioni del conte con Urbano II 191
» Privilegio dell’Apostolica legazione 193
1101. Morte del conte 194
» Famiglia della contessa Adelaide 196
» La Marca aleramica 198
» Bonifazio del Vasto 199
 
Capitolo VIII.
 
» Condizioni dell’isola dopo il conquisto 200
» Diplomatica siciliana dell’XI e XII secolo. Falsa pergamena arabica dell’archivio di Napoli 201
1101. Diplomi arabici e greci 202
» Diplomi latini 204
» Varie schiatte. Antichi abitatori 206
» Distribuzione geografica delle nuove schiatte 207
» Ebrei 209
» Tribù arabe e berbere 210
» Normanni e altri Francesi 213
» Colonie della Terraferma italiana 218
» Lombardi 222
» Baroni aleramidi 225
» Dialetto de’ Lombardi di Sicilia 227
» Caltagirone 228
» Origini di altre città 231
» Della famiglia Bonello 232
 
Capitolo IX.
 
» Condizioni de’ vinti. Schiavi 233
» Villani 237
» Sinonimo di Rustici 238
» Due maniere di villani 242
» Domini di Maks 243
» Platee 245
» Doveri e diritti de’ villani 246
» Borghesi 250
» Non soggetti alla gezia 253
» Borghesi delle antiche schiatte 256
» Prete Scholaro 257
» I Greci non hanno titoli di nobiltà 259
» Musulmani. Kaid, titolo di nobiltà, d’Ufficio o meramente onorifico 260
» Origine di tutte queste condizioni 267
 
Capitolo X.
 
» Se il conte di Sicilia sia stato vassallo del duca di Puglia 271
» Costituzione politica 274
» Ruggiero prende il titolo di Gran Conte e poi di Console 277
» Istituzioni municipali messe in forse dal Gregorio 278
» Memorie delle municipalità cristiane nella guerra normanna 280
» E sotto il principato. Arconti 281
» Anziani 284
» Buoni Uomini 286
» Maestri de’ Borghesi 289
» Municipalità diverse nella stessa città. Anche de’ Giudei. Gema’ 291
» Forma generale de’ comuni siciliani 292
» Franchige 296
» Municipii di Palermo e di Messina 297
» Ricerche da farsi. Feudalità 299
» Feudi ecclesiastici 301
» Autorità di Ruggiero nella gerarchia 302
» Legazia apostolica 306
» Rifatte le diocesi dal principe ivi
» Circoscrizione territoriale politica. Iklîm 309
» Ufiziali del principe. ’Amil, Stratego e Vicecomite 315
» Magistrati giudiziali 318
» Entrate pubbliche 319
» Platee 320
» Diwâni 322
» Defetarii 324
» Rivendicazione de’ beni demaniali 326
» Dazii e gabelle 327
» Colletta; diritto di marineria; tratta de’ grani 331
» Servigio militare e navale 333
» Costituzione dell’armata 335
» Avanzi d’incivilimento. Chiese e fortezze 338
» Strade militari 339
» Monete del conte Ruggiero 342

Correzioni ed Aggiunte.

Pag. lin.
12 3 n. 5. della stessa opera dello stesso volume
25 » n. 1. volume volume. Contuttociò si vegga il De Meo, nell'_Apparato cronologico agli Annali del regno di Napoli_, Napoli, 1785, pag. 385, segg. ed una nota posta ne' _Regii Neapolitani archivii Monumenta_, vol. IV, pag. VI, nella quale è citato un diploma del 1008.
36 7 n. 2. potessero potessero. Si riscontri presso Trinchera, _Syllabus graecorum membranarum_, etc., Napoli, 1865, pag. 53, un diploma del 1054, nel quale Argiro s'intitola: _Magister Vestis et dux Italiae, Calabriae, Siciliae, Paphlagoniae_, etc.
48 27 n. al principio alla fine
56 11   e del milledugentottantadue del milledugentottantadue e del milleottocensessanta.
63 4 n. 5. aprile. Malaterra aprile. Edrîsi, nella descrizione della Sicilia, _Bibl. arabo-sicula_, testo pag. 26, fa cominciare il conquisto nel 463 dell'egira, cioè dal 26 gennaio 1061 al 15 gennaio 1062. Malaterra
75 5   discosta discosto
102 8 n. 2. dell'autore del traduttore
» 10 » 1603 1063
133 2   tributo. tributo annuale.
136 25   s'addimandò fino al 1860 s'addimanda ancora
169 1 n. 1. vol. II, p. 139, 367 vol. II, pag. 139, 355, segg. e 547
» 2 » vol. III, p. 80, 81 vol. III, pag. 80, 81, 158.
173 9-10 n. figliuolo o nipote nipote o bisnipote
181 4 » 612. 618.
206 8   Pacione. Dond'e' Pacione, Mohammed-Ibn-Coco. Dond'e'
219 3   Lentini e i nomi Lentini e Ragusa, e i nomi
» 2 n. 3. secolo. secolo. Per Ragusa si vegga Amico, _Dizionario topografico_, sotto quel nome.
220 12 n. Firenze. Firenze alle radici di Monte Morello ed un'altra presso Bagno a Ripoli. V'ha anco un _Paterno_ in provincia di Roma, presso Albano
305 5   1093, alle quali 1093 e Malta nello stesso tempo, com'e' pare, alle quali

NOTE:

1.  Si vegga il Libro IV, cap. VI, pag. 311, del vol. II.

2.  Chronicon Pisanum, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 101, e Breviarium pisanæ historiæ a p. 167; e Marangone, nell’Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 4, tutti nell’anno pisano 1005. Il Breviarium, compilato alla fine del XIII secolo, aggiugne che i Saraceni avevano minacciato Roma, fatto poco probabile, finto com’io credo per vantare i meriti dei Pisani appo la corte papale e rincalzare la supposta concessione della Sardegna. I compilatori pisani più moderni mano mano confusero la narrazione, ponendo questo assalto lo stesso anno della battaglia di Reggio, e proprio nell’assenza dell’armata; poi la scena si ravvivò con Mogêhid (Musetto), con la Chinzica eroina, con le esortazioni del Papa, le arringhe dei consoli pisani, i quali furono supposti con date, nomi e cognomi ec. Si veggano cotesti romanzi nel Sardo, Cronaca Pisana; e nel Roncioni, Storie Pisane, nell’Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 76, e parte I, pag. 49, 51, e si riscontri il Muratori, Annali d’Italia, 1005, il quale con sana critica rigetta tutti quegli episodii. Quanto all’origine arabica del nome Chinzica, supposta dal Muratori, mi accordo col Wenrich che la mette in forse. Rerum ab Arabibus ec., lib. I, cap. XIII, § 115. In ogni modo quella voce non ha che fare coll’avvenimento del 1004, poichè le carte pisane innanzi il mille fanno menzione d’un quartiere di tal nome. Si vegga l’avvertenza dei dotti editori del Roncioni, op. cit., pag. 63, nota 1.

3.  Quel che si sa della battaglia di Reggio è stato riferito da noi nel Libro IV, cap. VII, pag. 341, del vol. II. La supposizione della pia gesta dei Pisani è nata in questo modo. I Benedettini della congregazione di Saint Maur pubblicarono tra le epistole di Gerberto (Recueil des Historiens des Gaules, tomo X, pag. 426, nº. CVII) una del 999, indirizzata non si sa a chi e molto oscura, nella quale il Papa, lamentando Gerusalemme profanata dai Pagani, esorta lo sconosciuto cristiano: «Enitere ergo, miles Christi, esto signifer et compugnator, et quod armis nequis, consilii et opum auxilio subveni;» nelle quali parole in vero si trova l’idea immatura d’una crociata e la domanda di oblazioni per la santa impresa. I dotti editori aggiungono in nota che i Pisani subito si messero in mare e andarono a combattere. Si cita per questo, Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, III, 400, ma in fondo non si trova altra fonte che un moderno panegirico municipale dei più avventati, voglio dir le lunghissime note di Costantino Gaietani alle vite dei papi di Pandolfo Pisano, pubblicate a Roma il 1638, e ristampate dal Muratori nel detto volume. Torniamo dunque al Tronci e peggio, e si spezza il legame tra l’epistola di Gerberto del 999 e la battaglia di Reggio del 1005, si dilegua la crociata, e resta ai Pisani la industria, la civil prudenza, e la virtù di guerra navale.

4.  Chronicon Pisanum; e Marangone, II. cc., anno 1012.

5.  Ne’ Mss. d’Ibn-el-Athîr si legge erroneamente Abu-Hosein, per uno scambio di lettere e punti diacritici molto facile ad avvenire nelle copie. Abu-l-Geisc (Padre dell’esercito) significa il soldato per antonomasia.

6.  Rumi. Così il chiama Marrekosci, The history of the Almohades, testo arabico, pag. 52. Può significare schiavo greco o italiano, e, in Spagna, uom delle schiatte sottomesse dai Musulmani.

7.  Almansor si chiamava Ibn-abi-Amir.

8.  Dhobbi, Ms. della Soc. Asiat. di Parigi e Ibn-Bassâm, Ms. della Bibl. di Gotha, entrambi all’articolo Mogêhid. Debbo questi estratti alla cortesia, l’uno del Prof. Dozy di Leyda, e l’altro del Dottor Weil di Heidelberg. Ibn-el-Athîr dice che Mogêhid e il figliuolo Alì, suo successore, furono entrambi «uomini di dottrina, amicissimi e benefici verso i dotti, cui ricercavano nei paesi vicini e lontani.» Marrekosci fa le stesse lodi del solo figlio. La voce ch’essi usano (’ilm) è in generale, scienza, ma più specialmente il diritto con sue vaste ramificazioni. Dell’articolo di Dhobbi ho data una versione italiana nella Nuova Antologia di Firenze, maggio 1866, vol. II, p. 61. Si vegga anco Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, testo arabico, Parte II, nelle Notices et Extraits, tomo XVIII, p. 389, e Makkari, Analectes de l’histoire de l’Espagne, testo arabico stampato a Leyda, Vol. I, p. 280, 523, 524 e vol. II, 117, 129, 415, 433, 511, 526, dove sono narrati alcuni aneddoti, della generosità di Mogêhid verso illustri filologi.

9.  Ibn-el-Athir, ediz. Tornberg, tomo IX, p. 205, anno 407, nel cenno su i piccioli Stati che nacquero in Spagna. Ho data la traduzione italiana nella Nuova Antologia di Firenze, vol. II, p. 60, maggio 1866. Uno squarcio del testo si legge nella mia Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 271. Questo Capitolo con poche varianti è trascritto da Nowairi, Ms. di Parigi, A. F., 647, fog. 108 recto; il quale chiama Mo’aiti Abu-Mohammed-Abd-Allah. Quanto ai principii della signoria di Mogêhid a Denia, seguo piuttosto il racconto verosimile dell’annalista musulmano, che quello del Conde, Dominacion de los Arabes en España, cap. CIX, il quale del nome proprio Mogêhid, fece un titolo Mogêhid-ed-din “Guerrier della Fede:” ma ciò non si adatta alle usanze di Spagna in quel tempo. Marrekosci, loc. cit., dà appena il nome e pochissimi cenni di Mogêhid. Egli attribuisce al costui figlio Alì, successore suo nel principato di Denia e Majorca, il titolo di Mowaffek “Favorito (da Dio)” che Ibn-el-Athîr, Dhobbi, Nowairi e Conde danno a Mogêhid stesso, e ch’egli forse prese quando restò solo signore, dopo la morte di Mo’aiti.

10.  Si vegga il Libro I, cap. VII, e X, nel vol. I, pag. 170, 175, 227 e il Libro III, cap. VIII, vol. II, pag. 180. Le scorrerie dell’816, e 817, si ritraggono da Ibn-el-Athîr nella Bibl. Arabo-Sicula, pag. 221, 228, del testo. Entrambe mossero d’Affrica. Nella prima non pochi Musulmani, dopo aver fatto preda, si perdettero per fortuna di mare. Quegli andati alla seconda impresa «or vinsero, or furono vinti, e se ne tornarono.»

11.  Così leggiamo in Edrisi, autore del XII secolo, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, pag. 20 e 21, e presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 112. Il passo relativo ai Sardi, ch’è mutilato nella Geographia Nubiensis, seguita dal Di Gregorio, corre così: «Gli abitatori della Sardegna sono di origine Rûm-Afarika, berberizzati, nemici di ogni altro ramo della schiatta dei Rûm: uomini prodi e di saldo proponimento che non lascian mai l’armi.» L’appellazione Rûm, nota ai nostri lettori, qui significa evidentemente gente italiana. Gli Afarika erano le popolazioni cristiane dell’Affrica, di schiatta fenicia, come accennammo nel Libro I, cap. V, tomo I, pag. 105. Berberizzati non può qui significar altro che misti coi Berberi; e ci ricorda i notissimi Barbaricini dei tempi di San Gregorio in Sardegna.

12.  Ibn-el-Athîr sotto l’anno 92 (710-11) raccoglie la storia di tutte le scorrerie dei Musulmani in Sardegna, in unico capitolo, del quale io ho pubblicato il testo nella Biblioteca Arabo-Sicula. Quivi si legge a pag. 217 «L’anno 135 (752-3) osteggiò quest’isola Abd-er-Rahmân-ibn-Habib-ibn-abi-’Obeida-el-Fihri, il quale vi fe’ grande strage. Ma poi fermò pace con gli abitatori, a patto che pagassero la gezia; la quale fu riscossa e durò. Nè altri dopo Abd-er-Rahmân molestò quest’isola; talchè i Rûm ristorarono le cose di quella.» Accennato poi alla scorreria del 935 e in ultimo all’impresa di Mogêhid del 1016, avverte in fine: «nè fu mai più combattuta la Sardegna (dai Musulmani) dopo questo tempo.» In questo capitolo Ibn-el-Athîr dimentica le fazioni dell’816 e 817 ch’ei narra altrove come si è accennato. La menzione che si fa dei Giudici di Sardegna nell’865 (veggasi Muratori, Dissertat. Antiq. Ital. medii ævi, II, p. 1077, Diss. XXXII) si attaglia, come dicemmo, alla testimonianza d’Ibn-el-Athîr. Si vegga anco Manno, Storia di Sardegna, lib. VII, pag. 333 e seg. dell’ediz. di Capolago, 1840, vol. I, e Wenrich, Rerum ab Arabibus etc., lib. I, cap. XIII, § 112, 113. Questi due diligenti compilatori avrebbero smesso ogni dubbio, leggendo il citato capitolo d’Ibn-el-Athîr.

13.  Breviarum, ec., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, pag. 167, anno pisano 1002. Marangone nè l’altra cronica non ne fanno menzione, e la data mal si accorda con quella, sì precisa, degli autori arabi.

14.  Si riscontrino: Ibn-el-Athîr nei citati due capitoli del 92, e del 407, nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 218, e 271; Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, testo, nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 461, e nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XVII, parte I, pag. 36; Makkari, Mohammedan Dynasties in Spain, versione inglese del prof. Gayangos, tomo II, pag. 258; Conde, l. c.

15.  Si riscontrino: Ditmar, Chronicon, lib. VII, cap. 31, presso Pertz; Scriptores, tomo III, pag. 830; Marangone, nell’Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 4; Chronicon Pisanum e Breviarium presso Muratori, R. I. S., tomo VI, pag. 107, 167, sotto l’anno pisano 1016; e il poema di Lorenzo Vernese, presso Muratori, stesso volume, pag. 124, dove si accenna che Mugeto l’anno innanzi la sconfitta finale (cioè 1016, del conto comune) s’era dato alla fuga vedendo venire l’armata pisana. Le croniche pisane laconicamente portano che i Pisani e Genovesi, fatta guerra in Sardegna con Mugeto, il vinsero. Ditmar vescovo di Mersebourg, morto il 1018, scrisse in fin della sua cronica in luogo che risponde al 1016, come i Saraceni venuti con l’armata in Longobardia occupavano «Lunam civitatem;» cacciatone il vescovo s’impadronivano delle case e mogli de’ terrazzani; come papa Benedetto chiamava alle armi i rettori e difensori della Chiesa; come il grande navilio ch’egli adunò stringeva i Saraceni nel porto. Il re allor fugge in barchetta; i suoi assaliti da’ Cristiani, per tre dì hanno l’avvantaggio; poi sono rotti e passati a fil di spade; presa la regina e troncatole il capo, il papa vuol per sè la di lei corona d’oro gemmato, e manda all’imperatore mille libbre d’oro per parte del bottino. Ma il re saraceno facea dono al papa d’un sacco di castagne minacciando di tornare con altrettanti uomini; Benedetto gli rimandava il sacco pieno di miglio aggiungendo: tanti uomini e più troverai vestiti di corazze per accoglierti. E il cronista, come scandalezzato di così fatta risposta, conchiude: Iddio giudica gli uomini; e noi preghiamolo che allontani tal flagello da quel paese, e gli accordi la pace.

Or ognun vede che si tratti d’unico fatto, di cui Ditmar scrisse le novelle che correano in Germania, cioè l’insulto degli Infedeli sopra una città imperiale, e la vendetta che n’avean presa i sudditi dell’imperatore; e i cronisti pisani notarono quel che loro premea, cioè la vittoria del navilio italiano. E però il primo ristringe il fatto a Luni; i secondi lo pongono in Sardegna; ai quali dobbiam credere come meglio informati, ancorchè non contemporanei. Tanto più che Ditmar, con quella fuga del re, prigionia della moglie, e data del 1016, ci mostra aver confuso le fazioni di questo e del 1015, come or or si vedrà nei racconto della fuga secondo gli autori arabi. Da un’altra mano non si può supporre che Ditmar abbia sbagliato il nome della città e provincia assalita. Dunque i Musulmani al tempo dell’impresa di Sardegna fecero una scorreria a Luni, prima o dopo la vittoria sopra Malôt, credo piuttosto prima che dopo; i Pisani e Genovesi gli diedero una rotta navale nello stesso anno 1015 e un’altra nella state del 1016.

16.  Marangone e le altre Croniche Pisane, dicono «homines Sardos vivos in cruce murare.» Lo spiega Lorenzo Vernese, narrando che Mogêhid, nel fabbricare una sua fortezza, adoperava i Sardi da manovali, e poi li facea seppellir vivi dentro le mura.

17.  Marangone e Croniche Pisane. Dhobbi nella biografia citata di sopra dice che Mogêhid “occupò la maggior parte della Sardegna ed espugnò le fortezze.”

18.  Dhobbi, Conde.

19.  Conde e le Croniche Pisane.

20.  La data si ritrae da Ibn-el-Athîr, che nota Mogêhid scacciato dalla Sardegna in su la fine del quattrocentosei (8 giugno 1016). Lo stesso autore in altro luogo lo dice combattuto e sconfitto. Le croniche Pisane accennan solo alla fuga, ma Lorenzo Vernese afferma: «Rex fugisse (fugæ sese?) datur, multis jam marte peremptis; Barbarus abscessit, capto cum coniuge nato»

21.  Dhobbi, loc. cit. e Conde, il quale lo copia inesattamente.

22.  Ibn-el-Athîr.

23.  Lorenzo Vernese, il quale aggiunge un lungo racconto sul riscatto del figliuolo.

24.  Si riscontrino i due citati capitoli d’Ibn-el-Athîr, anni 92 e 407, nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 218 e 271; Dhobbi, l. c. il quale narra alcuni particolari della sconfitta con le parole di un testimonio oculare; Nowairi, Storia di Spagna, l. c.; Ibn-Khaldûn, loc. cit., il quale dice che i Cristiani «ripigliarono immantinenti la Sardegna;» Conde, Dominacion ec., parte II, cap. 110; Marangone nell’Archivio Storico, vol. cit., p. 4; e il Chronicon Pisanum, e il Breviarium ec. presso Muratori, Rerum Ital., tomo VI, pag. 107 e 167, sotto l’anno pisano 1017. Lorenzo Vernese, autore del XII secolo, nel poema su la impresa di Majorca del 1114, presso Muratori, Rer. Ital. S. VI, 124, racconta in versi la guerra di Sardegna come l’avea intesa da’ vecchi della sua città, e s’accorda bene con gli annalisti arabi. «Mugelus rex Baleæ et Dianæ» (Denia e le Baleari; gli altri Pisani, anche Marangone, lo suppongono Africano) occupa la Sardegna. Vengono i Pisani con l’armata ed egli fugge (probabilmente nelle parti occidentali dell’isola). Torna l’anno appresso nel regno Calaritano con suoi Mori e fabbrica una fortezza. Incrudelisce nei Cristiani. Assalito dalle armi di Pisa, fugge di nuovo lasciando prigioni il figlio e la moglie; e i principi dell’isola rimangon sudditi dei Pisani.

25.  Marangone, Chronicon Pisanum, e Breviarium ec., ll. cc.

26.  A tal concetto mi portano i pochi fatti che abbiamo della Storia di Sardegna nell’XI e XII secolo, i quali si leggono nel Manno, op. cit., lib. VII. Lorenzo Vernese nel luogo citato del suo poema scrive:

Erepti Sardi jugulis, tutique fuerunt;

Indeque tota manent Pisanis subdita regno.

Sardiniæ: docuere senet quæcumque retexo;

Quæsitis Sardis, non hæc tibi vera negabunt.

Le quali parole, con le testimonianze non richieste che allega il poeta, mostrano che nella prima metà del XII secolo i Pisani non pretendeano per anco la piena signoria della Sardegna, ma un protettorato con gli abusi che ne seguitano. D’altronde non si comprenderebbe in qual altro modo avrebbero potuto signoreggiare in Sardegna i nobili e mercatanti che non governavano per anco Pisa. E si veggono molto più antichi della fuga di Mogêhid, i giudici che Benvenuto da Imola, presso Muratori, Antiq. Ital. Medii Ævi, tomo I, p. 1089, secondo le idee del XIV secolo, supponeva istituiti dai Pisani. La concessione dell’isola per Benedetto VIII è invenzione del XIII secolo, quando la corte di Roma avea dato lo scandalo di infeudare a questo ed a quello la Sicilia e la Sardegna stessa; nè alcuno ha prodotto mai il testo di quel privilegio; nè lo si allegò mai nelle contese fra i Genovesi e i Pisani presso Federigo Barbarossa, le quali si leggono distintamente nella continuazione di Caffari, anno 1164, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 294, 295.

È da avvertire che il Saint Marc, Abrégé chronologique de l’histoire d’Italie, anni 1017 e 1021, tenendo per guida il Muratori, nega la concessione papale e la dominazione pisana, senza particolareggiare gli argomenti.

Il Manno (tomo I, p. 381, dell’edizione di Capolago) non osa troncare la difficoltà nè rigettare apertamente la narrazione riferita dal Gaietani nelle annotazioni alle vite dei Papi (Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, p. 401); il quale, nel 1638, affermava averla tolto da Lorenzo Bonincontro da San Miniato che scrisse, dice egli, più di dugent’anni addietro. Bonincontro o Gaietani, dava con nomi e cognomi, la divisione della Sardegna tra Pisani, Genovesi e Spagnuoli dopo la sconfitta e prigionia di Musetto. Basterebbe la menzione delli Spagnuoli, per dimostrarla fattura del XV secolo.

27.  Caffari, Annales Januenses; e continuazione presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, anni 1162 e 1164; Marangone nell’Archivio Storico Italiano, tomo VI, Parte II, p. 38, anno 1165. Su le guerre tra quelle due città si vegga Marangone, op. cit., p. 8 e segg., fin dal 1119 (1118). Si vegga anche il Manno, Storia di Sardegna, lib. VII.

28.  Cotesta falsa tradizione nacque nel XIII secolo, trovandosi nel Breviarium ec., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 167, anni 1017, 1020, 1050, non già nelle due croniche del XII secolo, cioè l’anonima del Muratori e quella di Marangone. I Genovesi a lor volta nella lite del 1164 affermavano audacemente dinanzi il Barbarossa che i lor maggiori avessero preso il Muzaito e il vescovo di Genova lo avesse mandato all’imperatore.

29.  Ibn-el-Athîr, capitolo dell’anno 92, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 218. Ibn-Khaldûn riferisce altre scorrerie degli Ziriti d’Affrica nel regno di Iehia-ibn-Temîm (1108 a 1116), Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 482, e Histoire des Berbères, versione di M. de Slane, tomo II, p. 25.

30.  Ibn-el-Athîr, ediz. Tornberg, tomo IX, p. 205, anno 407.

31.  Ademari Cabanensis Chr., nel Rec. des Hist. des Gaules, X, 156.

32.  Gayangos, The Moham. dynasties in Spain, tomo II, p. LXXXVIII. Dozy, Hist. des Musulmans d’Espagne, tomo IV, p. 290, 304, Cf. p. 21 della stessa opera e Dozy medesimo, Recherches, 2ª ediz. I, 245.

33.  Così nell’impresa del 1035 che si ritrae da Rodolfo Glabro e che or si narrerà. Si è veduto che i Genovesi nel 1164 davano lo stesso vanto ai lor maggiori. Le supposte imprese del 1019 e 1049 nella compilazione pisana del XIII secolo provano che durasse la terribile leggenda di Mogêhid. È da notare che, all’infuori del poeta Lorenzo Vernese, tutti supponeano Mugeto re d’Affrica. Quest’errore è durato fino al Manno. Il Wernich, Rerum ab Arabibus in Italia ec., lib. I, cap. XIII, § 113 a 119, rattoppa col supposto che Mogêhid fosse il principale dei regoli musulmani di Sardegna e che avesse chiesto aiuti in Affrica. Del resto ei segue la tradizione pisana; se non che riconosce l’identità del fatto di Luni e della prima vittoria dei Pisani e Genovesi.

34.  Si vegga il Libro IV, cap. VIII, pag. 364 del vol. II.

35.  Marangone, nell’Archivio Storico Italiano, vol. cit., p. 5, anno pisano 1035; Chronicon Pisanum, stesso anno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 108. Il Breviarium, nello stesso volume del Muratori, p. 167, finge la occupazione di Cartagine e le corone dei due re, di Bona e Cartagine, mandate in dono dai Pisani all’imperatore.

36.  Rodolfo Glabro, Historiarum, lib. I, cap. VII, nel Recueil des Historiens des Gaules ec., tomo X, p. 52, narra che i Saraceni d’Affrica perseguitavano i Cristiani per terra e per mare; che entrambi si accordarono di combattere giuste battaglie; che i Cristiani vinsero con grande strage, dicendosi anche ucciso il principe saraceno Motget; e che ragunate le preziose armadure nemiche del prezzo di parecchi talenti d’argento, le dettero per voto a Odilone abate di Cluny, il quale investì il valsente in arredi sacri e limosine. Rodolfo era contemporaneo e famigliare degli abati di Cluny; ma testa bislacca e gran contatore di favole. L’offerta votiva al monastero mi fece pensare dapprima a un’impresa di Provenzali, ma fattone parola al savio autore delle Invasions des Sarrazins en France, mi ha convinto che questa fazione, di certo navale, non potè compiersi se non che da armate italiane. Però suppongo il voto di qualche ausiliare provenzale ed una delle solite esagerazioni di Rodolfo Glabro. Si tratta probabilmente dell’assalto di Bona, e vi risponde la data, poichè Rodolfo non osservando l’ordine cronologico, pone questo fatto tra la morte di Roberto duca di Normandia (22 luglio 1035) e la ecclissi solare del 29 giugno 1033. Nelle Invasions des Sarrazins en France, p. 221, il dotto autore, M. Reinaud, accettò che Mogêhid fosse il condottiero dell’armata vinta; ma so ch’egli sarà per considerare il fatto altrimenti sulla nuova edizione che apparecchia.

37.  Par che la prima denominazione indicasse particolarmente gli uomini di Norvegia, e la seconda quei di Danimarca. Ma spesso si confondeano gli uni con gli altri. Come ognun sa, in Francia si chiamarono Normanni, e in Inghilterra Dani, tutti gli occupatori scandinavi.

38.  Questa impresa intessuta di moltissime favole si legge in Dudone di Saint Quentin, De Moribus Normannorum, cap. I, presso Duchesne, Historiæ Normannorum Scriptores, p. 64, 65; Guglielmo di Jumièges, Historia Normandiæ, lib. I, cap. X, XI, ib., p. 220, 221; Benoit, Chroniques des ducs de Normandie, in versi francesi, tomo I, p. 47 a 69; Wace, Roman du Rou, versi 472 a 732. Si vegga anche Muratori, Antiquitates Ital. Medii Ævi, tomo I, p. 25, e si riscontri la critica del fatto in Depping, Histoire des Expéditions maritimes des Normands, edizione del 1843, p. 140, segg.

39.  Non occorrendo citazioni distinte dei luoghi d’opere moderne dai quali ho cavati i primordii dei Normanni, indicherò quelle che mi sono riuscite più utili. Nel sentimento storico ho avuto a sicura guida la Conquête de l’Angleterre par les Normands, di Augustin Thierry, alla cui memoria debbo d’altronde amore, riverenza e gratitudine. Le minuzie dei fatti sono fornite in abbondanza dalla citata opera di Depping; e molte critiche avvertenze si rinvengono in Lappenberg, A history of England under the Norman kings, versione inglese con aggiunte del traduttore Benjamin Thorpe. Importanti e novelli fatti su la società primitiva degli Scandinavi si ritraggono dalla prefazione di Samuele Laing alla Heimskringla di Snorro Sturleson, versione inglese.

40.  Gli storici francesi pongono vagamente la data tra l’896 e l’898, non trovandola precisa nei cronisti, e dovendo tenere questa occupazione come diversa da quella che i cronisti riferiscono al 17 novembre 876, cioè avanti l’assedio di Parigi. Si riscontrino le opere citate di Depping, lib. III, cap. III; di Thierry, lib. II; e di Lappenberg, versione inglese, p. 7, segg. I cronisti normanni in prosa e in versi confusero le tradizioni, volendo dare a Roll, nello assedio di Parigi e nella prima occupazione di Rouen, la parte principale che di certo non v’ebbe.

41.  Al messaggero di Carlo il Semplice, che innanzi la battaglia dell’898 domandava il capo loro, i Normanni risposero: «Non n’abbiamo; siam tutti eguali».

42.  Hrôlfr, con le mutazioni eufoniche di Rolf, Roll, Rou.

43.  Rispondeva, secondo Depping, all’odierno dipartimento della Bassa Senna e parte di quello dell’Eure.

44.  Wace, Roman du Rou, passim. I Francesi vendicavansi con un calembourg, più antico al certo del XII secolo quando visse l’autore: Francheis dient ke Normandie Ço est la gent de North mendie, versi 119, 120.

45.  Si vegga il Libro IV della presente Storia, cap. X, p. 580 del secondo volume.

46.  Wace, op. cit., verso 2108, accenna le tradizioni ritmiche, le quali in sua fanciullezza avea inteso cantare a’ giullari (jugléors, oggi jongleurs).

47.  Dudonis super Congregationem Sancti Quintini decani, De Moribus Normannorum, presso Duchesne, Historiæ Normannorum Scriptores, p. 56 a 59. Si vegga la critica di Lappenberg, A history of England under the Norman Kings, versione del Thorpe, p. XX.

48.  Guglielmo di Jumièges (Wilelmus Gemmeticensis), detto Calculus (1137); Odorico Vitalis (1141); Wace di Jersey, Roman du Rou (1184), e molti altri che si veggano in Lappenberg, op. cit., p. XXI a XXVIII.

49.  L’Ystoire de li Normant et la Chronique de Robert Viscard par Aimé moine du Mont-Cassin, pubblicata da M. Champollion-Figeac, Paris, 1835. L’editore con molta sagacità ha provato irrefragabilmente il nome e nazionalità dell’autore e la data dell’opera. Prolégomènes, p. XXXIII, segg. M. Gauttier d’Arc aveva usato fino dal 1830 un MS. imperfetto di Amato nella Histoire des Conquêtes des Normands en Italie ec.

50.  Le interpolazioni che non cadono in dubbio furon messe tra parentesi dal dotto editore. Se ne può supporre delle altre, come parmi; ed anche qua e là qualche taglio, per esempio nell’infelice fine di Dato, lib. I, cap. XXV. Nella Cronica di Roberto Guiscardo, della quale abbiamo il testo latino, il traduttore frantende alcune frasi, fin dai primi righi, dove leggendo d’una dama nec minus facie quam vitæ integritate formosa, squadernò: belle de face et de touts membres entière. Similmente parmi che nella battaglia di Canne del 1019 Amato abbia messo il nome del luogo, là dove il traduttore scrive: et sont veues les lances estroites come les canes sont en lo lieu où il croissent.

51.  Urbano secondo, francese, fu papa dal 1088 al 1099; Ruggiero, figlio di Roberto Guiscardo, regnò in Puglia dal 1085 al 1111.

52.  L’incontro fortuito di Melo e dei Normanni al Monte Gargano mi pare episodio classico posto a capo del poema. I fendenti di Roberto Guiscardo alla battaglia di Civitella, vengono a dirittura dalla Tavola Rotonda. Lo stratagemma di Roberto, infintosi morto e messosi nella bara per occupare un castello in Calabria del quale non si dà il nome, è copia della fazione di Hastings a Luni, favola scandinava ripetuta da Dadone di San Quintino alla fine del X secolo (presso Duchesne, op. cit., p. 64, 65) e replicata nella saga di Aroldo il Severo, come accennammo nel Libro IV, cap. X, p. 385, 386 del secondo volume.

53.  Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, lib. IV, cap. III, § 8, si voltò con gran collera contro i Benedettini di Saint-Maur, i quali nella Histoire Littéraire de la France, tomo VIII, p. 488, ci rapivano questo Guglielmo di Puglia. Il signor Ruggiero Wilmans, tedesco, fa opera a rendercelo per varie ragioni accennate nella prefazione alla detta cronaca presso Pertz, Scriptores, tomo IX, p. 239, e più largamente discorse nell’Archivio Storico di Pertz, tomo X, p. 93, segg. Contuttociò Guglielmo, al nome ed alla parzialità sua contro i Longobardi, i Greci e gli abitatori della Puglia, mi sembra chierico venuto di Francia o nato in Italia in casa francese. Quel che parrebbe in bocca sua biasimo de’ Normanni, si trova a tanti doppii nel francese Malaterra, e suonava lode a usanza loro.

54.  Il Malaterra, lib. I, cap. XXV, nota che in Calabria una volta il conte Ruggiero con quaranta suoi fedeli masnadieri plurimum penuriarum passus est, sed latrocinio armigerorum suorum in multis sustentabatur; quod quidem ad ejus ignominiam non dicimus, sed ipso ita præcipiente, adhuc viliora et reprehensibiliora de ipso scripturi sumus, ut pluribus patescat quam laboriose et cum quanta angustia a profunda paupertate ad summum culmen divitiarum vel honoris attingerit. In fondo dunque il vecchio conte Ruggiero se ne vantava.

55.  Questa è la cronica che il Caruso pubblicò nella Bibliotheca Sicula, p. 827, segg., col titolo di Anonymi Historia Sicula; indi il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VIII, p. 740, segg., col titolo di Anonymi Vaticani Historia Sicula. La versione in antico francese che se ne trovava nello stesso MS. di Amato, è stata data alla luce da M. Champollion, op. cit., col titolo di Chronique de Robert Viscard. Non si può affatto assentire al dotto editor francese che l’autore sia Amato stesso. Se ne dee togliere in vero, come notava M. Champollion, tutta la parte che corre dal 1101 al 1283. Ma ciò che precede è compilazione scritta verso il 1146, come lo mostran le parole (presso Caruso, p. 856) Huic successit ille hominum maximus.... Rogerius.... rex Siciliæ, Tripolis Africæ.... le cui lodi l’autore, com’ei dice, non osava intraprendere. La continuazione comincia immediatamente dopo questo passo con le parole: Post mortem comitis Rogerii, prout confitetur in chronica, successit Rogerius ec.

Pongo la data del 1146, poichè vi si accenna il conquisto di Tripoli, non quel di Mehdia e di tutta la costiera che seguì il 1149. La diversità degli autori ch’io sostengo, è provata anche dalla incompatibilità di alcuni racconti, per esempio la diserzione di Ardoino, il tempo in cui Guglielmo Braccio di Ferro ebbe il comando di tutta la banda a Melfi ec.

56.  Si vegga il Libro IV, cap. VII, p. 343, segg., del secondo volume.

57.  Tale Gilberto Drengot, o Buatère, coi fratelli Rainolfo, Rodolfo, Anquetil ed Ormondo, su i quali si veggano: Amato, op. cit., lib. I, cap. XX; Rodolfo Glabro, Historiarum, lib. III, cap. I, nel Recueil des Historiens de la Gaule, tomo X, p. 25; e Guglielmo di Jumièges, lib. VII, cap. 30, presso Duchesne, Historiæ Normannorum Scriptores, p. 284. Gilberto aveva ucciso un Guglielmo Repostel che si vantava d’avergli sedotta una figliuola. I nomi son dati diversamente dai tre cronisti. Debbo avvertire che Amato qui dice regnante il duca Roberto di Normandia, onde il fatto andrebbe posposto al decennio 1026-35. Ma è da supporre sbagliato il nome anzichè il tempo.

58.  Si vegga il Libro IV, cap. VII, p. 340 e 342 del secondo volume.

59.  Secondo il biografo di Arrigo II, Acta Sanctorum, 14 luglio, p. 760, l’imperatore elesse Melo duca di Puglia, il quale morì a Bamberg. Lupo Protospatario, anno 1020, fa ricordo di Melo col titolo di duca di Puglia, che probabilmente gli era stato dato dai popoli o da’ suoi partigiani in Italia. Il monaco Ademaro della nobile casa di Chabanois, nella cronaca terminata verso il 1029, scrive che al tempo di Riccardo II duca di Normandia un Rodolfo con molti altri Normanni andavano armati a Roma, e, connivente papa Benedetto, assaltavano e guastavan la Puglia, vincean tre battaglie; poi sconfitti dai Russi e altri soldati dell’impero bizantino, molti n’erano condotti prigioni a Costantinopoli; e che per tre anni i Bizantini, per rancore o sospetto de’ Normanni, vietarono ai pellegrini occidentali il passaggio di Gerusalemme, senza dubbio per l’Italia meridionale. Nel Recueil des Historiens des Gaules, ec., tomo X, p. 156, Rodolfo Glabro, che scrisse verso il 1044, narra le prime imprese dei Normanni in Italia in questo modo: che il guerriero Rodolfo perseguitato da Riccardo di Normandia, andava a Roma; si appresentava a papa Benedetto; era confortato da lui a combattere i Greci nell’Italia meridionale; cominciava gli assalti; era rinforzato di innumerevoli Normanni vegnenti alla spicciolata con piacere del conte Riccardo; guadagnava due battaglie; ma dopo la terza, vedendo scemati i suoi, andava a chiedere aiuti all’imperatore ch’indi passò in Italia (1022). Dunque in Francia, una ventina d’anni dopo, si attribuiva al papa l’origine di questa guerra. Si vegga la storia di Glabro, lib. III, cap. I, nel Recueil des Historiens des Gaules ec., tomo X, p. 25, 26. Il guerriero Rodolfo è un de’ fratelli di Gilberto, di cui dicono Amato e Leone d’Ostia.

60.  I cronisti non dicono espressamente di due fazioni a Bari, se non che nella guerra del 1051 e nell’assedio del 1071, quando l’occuparono i Normanni. Ma i casi di Melo, seguito dai Baresi, poi abbandonato, costretto a fuggire, e la moglie e il figliuolo di lui mandati dai cittadini a Costantinopoli, mostrano incominciate fin dal principio del secolo quelle fazioni che pur erano inevitabili. La plebe doveva essere amica dei Bizantini, e i nobili nemici.

61.  Amato, lib. I, cap. XX, e Leone d’Ostia che lo copia, lib. II, cap. 37, dicono con molta brevità che i Normanni, invitati già a venire in Italia dal principe di Salerno, incontraron Melo a Capua, e che les coses necessaires de mengier el de boire lor furent données, de li seignor et bone gent de Ytalie. Il velo è molto trasparente. Guglielmo di Puglia, sia per render omaggio alle Muse, sia perchè la corte di Guiscardo dopo la iniqua occupazione di Salerno non amava a sentirsi ripetere che i principi di Salerno avessero chiamato i primi Normanni, esordisce dall’incontro fortuito dei pellegrini al santuario di Monte Gargano con uno straniero vestito di strane fogge, il quale scopre sè esser Melo, e agevolmente li persuade a far venire lor compatriotti ai suoi stipendii. Questo par di tutto punto un episodio poetico, contrario alla tradizione di Amato.

62.  Leon d’Ostia, lib. II, cap. 37.

63.  Si riscontrino: Amato, lib. I, cap. XXI, segg.; Guglielmo di Puglia, lib. I; Lupo Protospatario, anni 1017 a 1019; Annales Beneventani, 1017, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 178; Leone d’Ostia, lib,. II, cap. 37, 38. I cronisti non si accordano sul numero delle battaglie vinte dai Normanni, e Amato solo narra la seconda sconfitta. Il traduttore di Amato, non comprendendo bene il testo, nel cap. XXII, suppone che tremila Normanni fossero venuti di Salerno dopo la battaglia di Canne; ma parmi inverosimile, e da correggersi come ho fatto.

64.  Si riscontrino: Amato, lib. I, cap. XXIV, segg., e lib. II, cap. I a VII; Guglielmo di Puglia, lib. I; Lupo Protospatario, anno 1021, segg. Il Malaterra, tacendo le imprese dei Normanni prima della venuta di Guglielmo di Hauteville, spiega pur molto precisamente nel lib. I, cap. VI, l’indole delle compagnie normanne innanzi il 1040.

65.  Dopo la battaglia di Canne (1019) scrive Amato: Et de li Normant non remainstrent se non cinc cent et vj grant home de li Normant remainstrent, de liquel ij remainstrent avec Athenulfe ec., lib. I, cap. XXII. L’Imperatore Arrigo I, nel 1022, avea lasciato in un castello dei nipoti di Melo ventiquattro cavalieri normanni capitanati da un Trostaino. Amato, lib. I, cap. XXIX e XXXII. Nel 1040 i 300 Normanni venuti d’Aversa in aiuto d’Ardoino, ubbidivano come innanzi diremo a dodici condottieri uguali tra loro. Dunque nel primo caso una compagnia somma ad 80 cavalli, e nei due secondi a 25.

66.  Libro IV, cap. X, p. 380 e 389, segg., del secondo volume.

67.  Si ricordino le fazioni di Rayca accennate da noi nel Libro IV, cap. VII, p. 345 del secondo volume.

68.  Si veggano gli Annali di Bari, e Lupo Protospatario, anni 1039, 1040 e 1041, in Pertz, Scriptores, tomo V, p. 56, 57.

69.  Et vous i habitez comme la sorice qui est en lo pertus.... que sachiez que je vous menerai à homes feminines, c’est à homes comme fames, liquel demorent en moult riche et espaciouse terre. Amato, lib. II, cap. XVII, p. 43.

Cum terra sit utilitatis,

Fœmineis Græcis cur permittatur haberi?

Guglielmo di Puglia, lib. I.

70.  Amato: Et estut li conte (il conte) xij pare à liquel ec. Cap. XVIII, p. 43. Guglielmo di Puglia... comitatus nomen honoris Quo donantur erat.

71.  Amato, lib. II, cap. XIX, p. 44.

72.  Et quant il oïrent ensi parler Arduyne, se consentirent à lui et font sacrement de fidelité de chascune part de paiz se la terre non avoit autre seignor que ou à cui face tribut se clame tributaire. Et en ceste regne se clame terre de demainne et se a autre seignorie se clame colonie come sont en ceste regne la terre qui a autre seignorie. Et sanz lo roy estoit seignor Arduyne et en celle part se clament colone. Amato, lib. II, cap. XIX, p. 44, 45. Il passo che ho notato in caratteri tondi è guasto al certo, e ciò che segue è nota interpolata dal traduttore, spiegando a suo modo il diritto pubblico napoletano del XIII secolo; poichè Amato non potea scrivere nell’XI le voci regno e re. Leone d’Ostia tralascia questo importantissimo fatto, e però non possiamo ristabilire il testo d’Amato. Ma il significato necessariamente è che i Melfitani non ubbidissero a feudatario e non prestassero servigi feudali, nè pagassero tributo se non che allo stato: il che dopo il conquisto normanno si chiamò in Sicilia e in Puglia: stare in demanio.

73.  Gli avvenimenti che ristringo in questo paragrafo, dal ritorno di Ardoino in terraferma sino all’occupazione di Melfi, son tratti da Amato, lib. II, cap. XIV, segg.; Guglielmo di Puglia, lib. I, Aversam subito venit Hardoinus; Malaterra, lib. I, cap. VIII; Leone d’Ostia, lib. II, cap. LXVI; Cedreno, tomo II, p. 545 della edizione di Bonn; Annali (ossia anonimo) di Bari e Lupo Protospatario, anni 1040, 1041. Oltre le discrepanze di minor momento, se ne scorge una che occorre di notare. Amato, seguendolo Leone d’Ostia, dice che Ardoino dopo l’ingiuria di Maniace rimase al servigio bizantino, suscitò occultamente i Pugliesi, e andò ad Aversa pretestando un viaggio di devozione a Roma. Guglielmo di Puglia lo fa insultare e rivoltare a Reggio, e correr di lì dritto ad Aversa. Malaterra, con poco divario, reca l’ingiuria in Sicilia, l’aperta ribellione appena ripassato il Faro, e non parla punto degli aiuti d’Aversa. Nelle due tradizioni dunque, la prima d’Amato e Leone, la seconda di Guglielmo e Malaterra, si dà essenzialmente diverso il modo e tempo dell’ammutinamento di Ardoino con la banda normanna. Or covaron essi l’onta parecchi giorni, o parecchi mesi? Chiarironsi disertori nel novembre 1040 in Calabria, ovvero nei principii del 1041 a Melfi? Guglielmo di Puglia fin dà il numero di cinquanta soldati uccisi dai Normanni alla schiera bizantina mandata a inseguirli, quando lasciarono il campo a Reggio. Amato, all’incontro, particolareggia la dissimulazione di Ardoino: com’ei corruppe Doceano con molt’oro; come fu preposto al governo di parecchie terre in Puglia; come incominciò ad accarezzare e convitare i maggiori cittadini, a compiangere gli aggravii della dominazione greca, a promettere che farebbe opera a liberarli; come infine tolse commiato, sotto specie d’andare alle perdonanze a Roma, e andò ad Aversa.

Or dovendosi necessariamente tacciare di bugia l’una o l’altra tradizione, ammettendo anche la sincerità di chi la scrivea, le condizioni dei due cronisti e l’indole di loro opere accusano Guglielmo, anzi che Amato. Del Malaterra non parlo, il quale in questo periodo ripeteva un romanzo di casa Hauteville, tacea gli aiuti di Aversa, facea capitano dei Normanni Guglielmo Braccio di Ferro, che lo fu tre anni dopo. Quella fuga inoltre con le armi alla mano dal centro della Sicilia secondo Malaterra, e da Reggio secondo Guglielmo di Puglia, infino a Melfi, è molto men credibile che la prolungata simulazione dei Normanni e che il favor di Doceano ad Ardoino, non disertore ma guerriero ingiuriato ingiustamente da Maniace. Infine il fatto riferito da Lupo e dagli Annali Baresi, che Doceano tornava di Sicilia di novembre 1040 per domare i sollevati di Puglia, dà luogo al supposto che i Normanni passassero con le forze di Doceano e fossero da lui posti a presidio in qualche terra non lontana da Melfi. Qual maraviglia che a capo di cinquanta o sessant’anni questo cambiamento di guarnigione, com’or diremmo, si raffazzonò nelle brigate dei principi e nobili normanni alla foggia che ci rappresentano Guglielmo di Puglia, e Malaterra, esagerando il valore ed attenuando la perfidia della passata generazione?

Pertanto mi appiglio alla tradizione d’Amato e cancello quel che scrissi in contrario nel Libro IV, cap. X, p. 389 del secondo volume, seguendo Guglielmo e Malaterra e tutti gli istorici moderni che loro credettero, i quali non aveano sotto gli occhi Amato. Che se altri mi tacci di leggerezza per questo, mi spiacerà meno del ricusar testimonianza al vero una volta ch’io ne sia convinto.

74.  Gli Annali di Bari col privilegio del «si dice» fanno montare i Greci a 18,000 e portano poco più di 2000 i Normanni; Lupo Protospatario li dice 3000. Senza esitare accetto cotesti numeri anzichè quelli dei due cronisti normanni, cioè Guglielmo di Puglia che dà 700 cavalli e 500 fanti, e Malaterra che dice tondo 500 militi da una parte e 60,000 Greci dall’altra. Al par che nelle guerre di Sicilia, convien dividere per sei la cifra dell’esercito nemico, e moltiplicare per sei quella del Normanno, quando si legga il Malaterra.

Quanto alla data, la più parte degli storici, annalisti, compilatori ed eruditi editori, non esclusi il Muratori e il De Meo, han messo l’occupazione di Melfi e la prima battaglia nel 1040. Il riscontro con fatti vicini e di data certa nella storia bizantina, ci mostra che si debba seguire piuttosto gli Annali di Bari e il Protospatario, i quali scrivono 1041. Leone d’Ostia ne fa anche espresso attestato, dicendo occupata Melfi anno Dominicæ Nativitatis MLXI, quo videlicet anno dies paschalis Sabbati ipso die festivitatis Sancti Benedicti (21 marzo) venit: e in vero la Pasqua cadde il 22 marzo nel 1041, non già nel 1040. Il Chronicon Breve Northmannicum, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 871, porta anche nel 1041 la prima occupazione della Puglia pei Normanni capitanati da Ardoino, e in marzo e maggio 1042 (dalla Incarnazione, ossia 1041 del conto comune) le due prime vittorie sopra i Greci.

75.  Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXI, segg.; Guglielmo di Puglia, lib. I, Audito reditu Michælis, sino alla fine del Libro; Malaterra, cap. IX, X; Lupo Protospatario, ed Annali di Bari, anni 1041, 1042; Leone d’Ostia, lib. II, cap. LXVI. L’ordine degli avvenimenti è uguale in tutti; le date si trovan solo in Lupo e negli Annali di Bari. Contandosi da Lupo gli anni dell’èra volgare, talvolta al modo salernitano dal 25 dicembre (Vedi Pertz, Scriptores, tomo V, p. 51), ma più sovente col periodo costantinopolitano, cioè dal 1º settembre dell’anno precedente, il settembre 1042 risponde al nostro settembre 1041, e così fino a decembre. Che in questa epoca Lupo segua tal cronologia lo provano le esaltazioni degli imperatori di Costantinopoli, le quali noi possiamo riscontrare con le date di Cedreno e degli altri Bizantini.

76.  

Pro numero comitum bit sex statuere plateas,

Atque domus comitum totidem fabricantur in urbe.

Guglielmo di Puglia, Lib. I.

77.  Cedreno dice espressamente: Italiani delle province tra il Po e le Alpi; Amato: Et li Normant d’autre part non cessoient de querre li confin de principal pour home fort et soffisant de combatre ec. Lib. II, cap. XXIII, p. 50.

78.  Amato, ricordata l’occupazione di Melfi nel lib. II, cap. XIX, narra nel cap. XXX il partaggio dei conquisti al conte d’Aversa e dodici altri capi normanni dei quali dà i nomi ed i territorii assegnati a ciascuno, aggiugnendo: et (à) Arduyne secont lo sacrement donnerent sa part c’est la moitié de toutes choses si come fa la covenance; il qual fatto torna al 1043. Leone d’Ostia copia Amato nel lib. II, cap. 67, con le parole: Arduino autem juxta quod sibi juraverant parte sua contradita. I nomi dei dodici oltre il conte d’Aversa son tutti normanni. I territorii assegnati son quasi tutte città vescovili in un triangolo curvilineo dal Gargano a Frigento e di lì a Monopoli, nel quale spazio rimane in vero un’altra metà di luoghi importanti da potersi supporre assegnati ad Ardoino se si conoscesse che i Normanni li aveano occupati in quel tempo.

Ma l’illustre capo non è nominato da nessun altro cronista dopo il patto di Melfi; non da Amato nè da Leone dopo quel partaggio, nè alcuno dice che gli altri territorii di Puglia, caduti poi tutti in potere dei Normanni, fossero stati tolti sia ad Ardoino sia a feudatarii italiani della sua compagnia. Il modo più plausibile di spiegar cotesto silenzio mi par di supporre la immatura morte di Ardoino e la incorporazione de’ suoi nelle compagnie normanne. Guglielmo Braccio di Ferro che veniva di Sicilia con Ardoino, è il primo dei dodici nominati nel partaggio, e nello stesso anno fu creato conte di Puglia, come or si vedrà.

79.  Guglielmo di Puglia, Lib. I, appone questa scelta d’uno straniero a corruzione e invidia dei Normanni: Sed quia terrigenis, terreni semper honores, Invidiam pariunt ec.; ma Amato, italiano ancorchè monaco, dice: Et à ce qu’il donassent ferme cuer à li colone de la terre lo prince de Bonivent ec.

80.  Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII; Guglielmo di Puglia, lib. I, Nam reliqui Galli ec.; Lupo Protospatario anno 1042. Secondo Guglielmo, vi fu un principio di divisione tra i Normanni dopo la deposizione di Atenolfo, volendo alcuni ubbidire a Guaimario principe di Salerno, ed altri ad Argiro. Ei narra la esaltazione di Argiro in Bari, richiesto dal popolo, ricusante questa dignità innanzi i primarii cittadini che avea convocati nella chiesa di Sant’Apollinare, sforzato dal comun voto ed eletto principe. Sembra che il poeta voglia descrivere in qual modo fosse stato fatto duca di Puglia il cittadino al quale i Normanni aggiunsero l’autorità di capo o protettore di lor banda. Ad una elezione simultanea e comune dei Baresi e dei Normanni, ci sarebbero gravi difficoltà.

Lupo scrive: et mense februarii factus est Argyrus Barensis princeps et dux Italiæ; ma non dice da chi. Il certo è che Bari in questo tempo era ribelle, nè tornò all’ubbidienza dei Greci se non che il 1043.

81.  Amato, lib. II, cap. XXVII. Secondo il Protospatario questo assedio cominciò in agosto 1042, e durò un mese.

82.  Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII, XXVIII; Guglielmo di Puglia in fine del primo e in principio del secondo libro; Leone d’Ostia, lib. II, cap. 66; Lupo Protospatario, anni 1042, 1043 e 1046, nell’ultimo dei quali si nota che Argiro andò a Costantinopoli e quella corte richiamò a Bari tutti gli esuli. Non potendo dunque strappare la Puglia ai Normanni con la forza, gli imperatori d’Oriente cedeano ai voti dei popoli, salvo ad aggravar di nuovo la mano quando lo potessero.

83.  Si riscontrino: Amato, lib. II, cap. XXVII, segg.; Guglielmo di Puglia, lib. II dal principio; Lupo Protospatario, anni 1042 a 1053; Leone d’Ostia, lib. II, cap. 66.

84.  Guglielmo di Puglia, lib. I: Multa per hoc tempus sibi promittente Salerni, e segg.

85.  Amato, lib. II, cap. XXVIII a XXX; Leone d’Ostia, lib. II, cap. 66. Le tredici città assegnate, in Capitanata, Terra di Bari e Principato ulteriore, son oggi tutte vescovili, e metà l’era anche avanti l’XI secolo. Si ricordi ciò che avvertii su questo partaggio nella nota 2, p. 34.

86.  Così dovea seguire necessariamente, ancorchè poche vestigia rimangano di quel primo abbozzo della feudalità normanna. Di certo si vede che nei principii alcune terre furono soggiogate per forza o per accordi; altre, quasi confederate, ritennero governo municipale pagando soltanto un tributo o contribuzione federale, che forse rimase in comune per supplire al mantenimento dell’esercito. In fatti Guglielmo di Puglia, supponendo bene o male un partaggio avanti la occupazione di Melfi, scrive, lib. I:

...... undique terras

Divisere sibi ni sors inimica repugnet.

Singula proponunt loca quæ contingere sorte

Cuique duci debent et quæque tributa locorum.

Amato accenna in questo modo, lib. II, cap. XXVII, gli acquisti dei Normanni sotto la condotta di Argiro, cioè nel 1042: et toutes les cités d’eluec entor constreigneient qui estoient al lo commandement et à la rayson et statute que estoient; ensi alcun voluntairement se soumettoient et alcun de force et alcun paioient tribut de denaviers chascun an.

87.  Così le concessioni del conte Unfredo a’ fratelli germani Roberto, Maugerio e Guglielmo, e infine di Roberto a Ruggiero.

88.  Si vegga qui sopra, p. 18.

89.  Il luogo è determinato da Gauttier d’Arc, Histoire des conquêtes des Normands en Italie ec., Paris 1830, lib. I, cap. IV, p. 64, segg.

90.  Su le condizioni di Tancredi di Hauteville si riscontrino: Malaterra, lib. I, cap. IV e XL: Cronica di Roberto Guiscardo, traduzione francese, lib. I, cap. I, p. 263; e testo latino presso Caruso, p. 829; Cronica di San Massenzio, detta Chronicon Malleacense, nel Recueil des Historiens des Gaules etc., tomo XI, p. 644; Guglielmo di Malmesbury, lib. III, nella stessa raccolta, tomo IX, p. 187; Odorico Vitale, lib. V, presso Duchesne, Historiæ Normannorum Scriptores, p. 584.

La cronica di San Massenzio dice la famiglia poco nota e povera; Guglielmo di Malmesbury, Mediocri parentela ortus ec. Il Malaterra e la cronica di Roberto Guiscardo rincalzano la nobiltà di Tancredi: præclari admodum generis — genere nobilis.

La parentela coi duchi di Normandia, affermata per lo primo da sbadati compilatori del XIII e XIV secolo, non è ammessa ormai da alcun critico. Si vegga un’apposita dissertazione di E. F. Mooyer stampata a Minden nel 1830 in-4, secondo la quale il supposto si riduce a due fila debolissime, 1º che il padre di Tancredi fosse stato un dei figli di Riccardo I, dei quali non si conoscono i nomi; 2º ovvero che Muriel figliuola bastarda di esso Riccardo fosse la Moriella prima moglie di Tancredi. Questa opinione par che corresse a corte di Palermo nel 1140, perchè la cronica di Roberto Guiscardo scrive uxor nobilissima Muriella nomine.

Inaspettatamente ci verrebbe un lume dagli autori arabi, se potessimo fidarci a loro scrittura ed erudizione. Ibn-Kaldûn in due luoghi della storia (Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 484 e 497) dà il nome del primo conte di Sicilia, Rogiar-ibn-Tankred-ibn-Khaira, o secondo alcuni MSS. ibn-H»w»h, che par nome di donna e indicherebbe che la casa di Hauteville vantasse la nobiltà della madre di Tancredi. Supponendo maschile tal nome, com’anche si può, si leggerebbe Hugo, o anche Geir (chè la prima lettera mutando il punto diacritico suona kh, h, ovvero g), e sarebbero nomi usati in Norvegia e in Francia. Debbo questa conghiettura all’erudito orientalista norvegio signor Broch; il quale crede suscettivo quel vocabolo della terza lezione Haby (o forse Habwu) che rappresenterebbe, con errore facile a supporre, il nome del feudo Hauteville.

91.  Wilhelm, Drogo, Humfried, e secondo la pronunzia francese Guillaume, Dreux, Humfroy.

92.  Amato, Malaterra e Leone d’Ostia, lo dicono condottiero della compagnia; ma parmi errore volontario dei principi di casa Hauteville. Si vegga a questo proposito il Libro IV, cap. X della presente opera, volume secondo, p. 380, nota 3, e 389, nota 1.

93.  Si riscontrino Amato, Guglielmo di Puglia e gli altri contemporanei citati di sopra. M. Gauttier d’Arc, op. cit., lib. I, cap. V, p. 141, sostiene che Drogone ebbe da Arrigo III titol di duca; ma il passo ch’egli allega di Ermanno Contratto è dubbio, e il diploma a nome di Drogone per lo meno è erroneo, come dato il 1053. Drogone era stato pugnalato in agosto 1051.

94.  Si veggano le autorità citate da Augustin Thierry, Hist. de la Conquéte d’Angleterre, lib. III, anni 1048 a 1065.

95.  Si riscontri Ermanno Contratto presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 132: Indigentes bello premere, injustum dominatum invadere, hæredibus legitimis castella, prædia, villas, domus, uxores etiam quibus libuit vi auferre, res ecclesiasticas diripere ec. Arnolfo, Gesta episcoporum Mediolan., presso Pertz, Scriptores, tomo X, p. 10, 11, similmente dice i Normanni a poco a poco ingrossati in Puglia, divenuti più crudeli dei Greci e più feroci dei Saraceni. Anche ad Amato scappa di bocca qualche lagnanza quando si tratta di Monte Cassino, lib. II, cap. XLI. E lo stesso Guglielmo di Puglia, accennando alle pratiche con papa Leone, accerta che Argiro Veris commiscens fallacia mittit ec. Tralascio tante altre testimonianze, perchè superflue, ovvero sospette, come per esempio quella d’Anna Comnena.

Ferrari nostro, nella Histoire des Révolutions d’Italie, tomo I, p. 344, segg., crede calunniati i Normanni dall’umor di reazione unitaria che allor si scatenò contro la rivoluzione federale dei vescovi. Ancorchè io non osi, senza più lungo studio, negar nè accettare le nuove spiegazioni della storia patria che vien proponendo quell’alto ingegno, parmi pure di prestar fede alle precise affermazioni dei cronisti, che d’altronde si accordano con lo esempio di tutti i conquistatori o dominatori stranieri. Il fatto dei soprusi e quel della reazione non sono per altro incompatibili; e certo è che i Normanni, se servirono una rivoluzione italiana, la voltarono ad utile e comodo proprio.

96.  Epistola di Leone IX a Costantino Monomaco, presso Labbe, Concilia, tomo IX, p. 983. Il papa dice a chiare note voler recuperare il patrimonio della Chiesa romana, voler porre accordo tra i due imperatori che son le due braccia della Chiesa ec. Non occorrono citazioni per gli altri fatti che sono notissimi, e dei miei giudizii può giudicare il lettore senza altre autorità. Ho tolto il pretesto della difesa dei poveri da Amato, il quale, lib. III, cap. XVI, XVII, tra le rimostranze di Leone IX ai Normanni, scrive: Et quant cil de Bonivent oïrent tant de perfetion et de sanctitè de lo pape, chacerent lo prince et soumistrent soi à la fidelitè soe, eaux et la citè. Come ognun sa, Leone avea già scroccata Benevento al devoto Arrigo II, in cambio dei diritti su la Chiesa di Bamberg.

97.  Chronicon Breve Northmannicum, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 278, anni 1045 a 1052.

98.  Amato, lib. II, cap. XLV; e III, cap. VII. Si confronti con gli altri cronisti ch’è inutile citare partitamente. Secondo Malaterra il castello fu quel di Scrible in Val di Crati.

99.  Si confrontino: Amato, lib. III; Guglielmo di Puglia, lib. II; Lupo Protospatario, anno 1053; Malaterra, lib. I, cap. XII a XV; Leone d’Ostia, lib. II, cap. 84; Ermanno Contratto presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 132.

100.  Nè Amato, nè Guglielmo di Puglia, nè Leone d’Ostia, nè alcun altro cronista narrano questa concessione, fuorchè il Malaterra nel quale leggiamo: Quorum (Normannorum) legitimam benevolentiam Apostolicus gratanter suscipiens, de offensis indulgentiam et benedictionem contulit et omnem terram quam pervaserant et quam ulterius versus Calabriam et Siciliam lucrari possent, de Sancto Petro hæreditati feudo sibi et hæredibus suis possidendam concessit, circa annos 1052. È anacronismo col 1059, e sbaglio di nome di Leone IX con Niccolò II; o il conte Ruggiero, autor vero della tradizione, sapendo dai fratelli le proposizioni che fecero allora i Normanni e qualche vaga promessa del papa prigione, le costruiva dopo mezzo secolo, a disegno o per incerta memoria, in espresso atto d’investitura. Si avverta che Amato, lib. III, cap. XXXVI, fa menzione della profferta dei Normanni avanti la battaglia di ricevere l’investitura e pagar censo: come avrebbe dunque passato sotto silenzio che il papa prigione l’assentiva? Non fo caso qui della Cronica di Roberto Guiscardo, ch’è opera della metà del XII secolo. E mi par che la epistola di Leone IX che citerò nella nota seguente distrugga al tutto il racconto di Malaterra.

101.  Epistola di Leone IX a Costantino Monomaco presso Labbe, Concilia, tomo IX, p. 981, segg. Ancorchè non vi sia data, si dee porre tra il 18 giugno 1053 e il 19 aprile 1054, giorno della morte del papa; perchè la battaglia di Civita vi è indicata in modo non equivoco; nè si può ammettere l’opinione del Saint-Marc, Abrégé chronologique, tomo III, Parte I, p. 170, segg., che riferisce questo scritto al 1051, supponendo gratuitamente un’altra zuffa dei Normanni con soldatesche del papa. Tronca ogni dubbio Wiberto arcidiacono di Toul, il quale nell’agiografia di Leone IX, lib. II, cap. VI, presso i Bollandisti, 19 aprile, tomo II di quel mese, p. 663, inserisce uno squarcio della stessa epistola per narrare, com’egli dice, con le propie parole del papa, lo scontro di Civitatula. Aggiugne del suo i fatti che conosciamo dopo la battaglia: l’andata a Benevento e indi a Roma, fino alla morte di Leone. Amato, lib. III, cap. XXXIX, scrive: Et o la favor de li Normant torna à Rome à li X mois puis que avoit esté la bataille.

102.  Amato, lib. III, cap. XLVI e XLVII. Stefano IX esaltato il 2 agosto 1057, morì il 29 marzo 1058. Amato narra ch’egli avea gettato le mani sul tesoro di Monte Cassino, per far guerra ai Normanni.

103.  Guglielmo di Puglia, lib. II; Malaterra, lib. I, cap. XV. Da un altro canto Amato, lib. III, cap. XLII, segg., racconta le molestie che recavano nel principato di Salerno Unfredo, il fratello Guglielmo e Riccardo d’Aversa.

104.  Malaterra, l. c. Amato, che in questo periodo tocca più brevemente le cose di Puglia, accenna verso il 1054 la venuta di Malgerio, Goffredo, Guglielmo e Ruggiero fratelli del conte Unfredo. Questo Guglielmo era figliuolo di Tancredi per la seconda moglie Fredesenda.

105.  I contemporanei riferiscon questo fatto a pezzi; ciascuno il suo. Amato, lib. IV, cap. II, scrive che alla morte d’Unfredo: Robert son frere rechut l’onor de la conté et la cure de estre conte. Guglielmo di Puglia, lib. II, accenna l’oficio lasciato a Roberto come tutore del figliuolo coi versi: Rector terrarum sit eo moriente ec. Malaterra non parla di tutela, ma precisamente dice, lib. I, cap. XVIII, che Roberto susceptusque a patria primatibus, omnium dominus et comes in loco fratris efficitur.

106.  I due fatti della mutazione del titolo di conte in duca e dell’omaggio feudale a Roma si cavano da queste autorità:

Amato, lib. IV, cap. III, narrata la occupazione di Reggio, continua: Et pour ce Robert sailli en plus grand estat qu’il non se clame plus conte, més se clamoit duc. Non fa motto del concilio di Melfi nè dell’investitura.

Malaterra che attribuì, come dicemmo, p. 43 in nota, la concessione feudale a Leone IX in favor di Unfredo, non tocca nè punto nè poco l’abboccamento di Melfi, ma nel lib. I, cap. XXXV, dopo la occupazione di Reggio il 1060, aggiugne: Igitur Robertus Guiscardus, accepta urbe, diuturni sui desiderii compos effectus, cum triumphali gloria dux efficitur.

Lupo Protospatario confonde i due fatti nel 1056 scrivendo: Et Unfredo obiit et Robertus frater ejus factus est dux; sul qual passo notava l’erudito Camillo Pellegrino che anche Drogone e Unfredo s’erano intitolati in lor diplomi or comes or dux.

La Cronica di Roberto Wiscardo (Anonimo del Caruso e Anonimo Vaticano del Muratori) tace i patti di Melfi e l’assunzione al ducato, riferendosi come Malaterra alla concessione di Leone IX che limita e particolareggia così: Discrete ac subtiliter utilitati Sanctæ Ecclesiæ prævidens, totam Apuliam atque Calabriam a finibus Guarnerii usque ad Farum comiti Humfredo et suis successoribus, nequaquam coactus in aliquo sed sola spontanea voluntate et suorum consilio Cardinalium, regendas semperque possidendas permisit. Si confronti la traduzione francese nello stesso volume di Amato, pag. 275, 276.

Guglielmo di Puglia, lib. II, narrato il Concilio di Melfi, ripiglia:

Finita Synodo, multorum Papa rogatu

Robertum donat Nicolaus honore ducali.

Hic comitum solus concesso jure ducatus

Est Papa factus jurando jure fidelis;

Unde sibi Calaber concessus et Appulus omnis

Est, locus et Latio, patriæ dominatio gentis.

La Cronica breve normanna presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 278 (V) ha sotto il 1059:

Robertus Comes Apuliæ factus est Dux Apuliæ, Calabriæ et Siciliæ a papa Nicolao in civitate Melphis, et fecit ei homintum de omni terra.

Leone d’Ostia, lib. III, cap. 15 (ovvero 16), scostandosi questa volta da Amato, scrive: Eisdem quoque diebus et Richardo principatum capuanum et Robberto ducatum Apuliæ, Calabriæ atque Siciliæ (Nicolaus II) confirmavit cum sacramento; et fidelitate Romanæ Ecclesiæ ab eis primo recepta, nec non investitione census totius terræ ipsorum, singulis videlicet annis per singula boum paria denarios duodecim. Poscia torna alla tradizione di Amato e alla presa di Reggio, conchiudendo che Roberto ex tunc cæpit dux appellari. Dunque abbiamo quattro diverse tradizioni:

1ª Investitura di Leone IX ad Unfredo il 1053. La sostengono il cronista e il compilatore di parte siciliana. Il primo con oscurità studiata aggiugne le terre che si acquistassero alla volta di Calabria e di Sicilia. Il secondo, cinquant’anni dopo Malaterra, vi cancella la Sicilia e muta la concessione feudale in mera donazione.

2ª Investitura di Niccolò II a Roberto per la Puglia e Calabria, con titol di duca. Dal solo Guglielmo di Puglia, amico delle due dinastie normanne d’Aversa e di Puglia.

3ª Lo stesso aggiuntavi la Sicilia. In Leone d’Ostia e nel Chronicon Breve, entrambi dei principii del XII secolo. Leone era cardinale.

4ª Silenzio su l’investitura nei due contemporanei, Amato e Protospatario, i quali non ignorano il preso titolo di duca.

Dal silenzio degli uni e dalla discrepanza degli altri è da argomentare che la investitura non fosse stata mai promulgata nel paese. E veramente era tal atto d’usurpazione della potestà imperiale, tal preparamento di guerra contro l’impero, da occultarsi con ogni studio. Ma dell’atto non v’ha luogo a dubitare. Di tutti i ricordi che ne abbiamo, quel che più par s’avvicini al tenor dell’originale è l’obbligazione scritta di Roberto, copiata non sappiam quando nel Liber censuum della corte di Roma, pubblicata dal Baronio, Annales ecclesiastici, 1059, § 70, e data il 1059 stesso.

Ego Robertus Dei gratia et Sancti Petri Dux Apuliæ et Calabriæ et utroque subveniente futurus Siciliæ, ad confirmationem traditionis et ad recognitionem fidelitatis, de omni terra quam ego proprie sub dominio meo teneo et quam adhuc ulli Ultramuntanorum unquam concessi ut teneat, promitto me annualiter pro unoquoque jugo boum pensionem scilicet duodecim denarios papiensis monetæ persoluturum Beato Petro ec.

Quest’atto, tenuto forse segreto per molti anni, mi par genuino, e limita, come ognun vede, a poche terre in Puglia e in Calabria il novello tributo da pagarsi al papa.

Di più se ne scorge la natura della concessione della Sicilia, cioè di atto non compiuto, anzi di mera promessa. Guglielmo di Puglia tacque la promessa appunto perchè il signor della più parte della Sicilia, che non era mica Roberto ma Ruggiero, avea schivato l’investitura. Leone d’Ostia affermò la concessione della Sicilia e la ragguagliò a quella di Puglia e Calabria, perchè era cardinale e scrivea dopo quel terribile pontificato d’Ildebrando. Malaterra ne uscì con l’equivoco: alla volta di Calabria e di Sicilia, e con l’anacronismo del 1033. Del resto l’assentimento dei successori di Roberto, la ricusa dei successori di Ruggiero e i termini della Cronica di Roberto Wiscardo, compilazione storica della corte di re Ruggiero, provano la diversità del dritto riconosciuto al principio dell’undecimo secolo, di che riparleremo a suo luogo.

Quanto alla mutazione del titolo di Roberto, si è notato che i predecessori chiamaronsi talvolta duchi; prendendo, come ben riflette il Pellegrino, il titolo che la corte bizantina avea dato ad Argiro, luogotenente nella provincia ormai occupata dai Normanni. Forse Drogone e Unfredo bramavan così distinguersi dai conti subordinati al capo della federazione. In ogni modo è provato dalle testimonianze di Amato, Malaterra, Guglielmo di Puglia e Leone d’Ostia, che Roberto prese definitivamente il novello titolo all’occupazione di Cariati o di Reggio, cioè il 1059 o 1060; e in ogni modo dopo la concessione di Niccolò II. Ciò non esclude ch’egli richiedesse l’assentimento dei conti normanni, come suppongono a ragione gli storici napoletani e come si legge nell’Anonimo (Recueil des Historiens des Gaules ec., tomo X, p. 210); ma ormai chi gli potea ricusare il suffragio?

107.  Ruggiero alla sua morte (1101) avea 70 anni, al dir del Fazello che non cita autorità. V’hanno tradizioni diverse, delle quali tratterò a suo luogo.

108.  Malaterra, lib. I, cap. XIX, segg. Per la investitura del conte di Aversa si riscontri Leone d’Ostia, lib. III, cap. 15, (16). Per gli altri fatti i medesimi cronisti, Amato e Guglielmo di Puglia passim.

109.  Si vegga il Capitolo precedente, p. 46.

110.  Malaterra, lib. II, cap. I.

111.  Et que la cité estoit vacante des homes liquel i habitoient avant, il (Robèrt) la forni de ses cavaliers. Amato, lib. V, cap. XIX.

112.  Si vegga sopra il Libro II, cap. X, p. 426 del 1º volume, e si ricordino le guerre di Manuele Foca e di Maniace e la difesa di Catacalone.

113.  Tomo VI, p. 174, Parigi 1715. L’editore non dice altro su l’origine della cronica, se non d’esser tolta dai Mss. del Duchesne. Or si può domandare perchè il Baluzio non citò il codice di Messina; e perchè il Duchesne non avea prima stampata la cronica nella raccolta degli scrittori di cose Normanne? Sembra che l’uno e l’altro dubitassero della antichità di quel documento.

114.  Rerum Italic. Script. tomo VI, p. 614. Il Muratori nel breve avvertimento che pone innanzi a questo scritto, lo giudica contemporaneo «multam enim vetustatem sapit.» Ma parmi che i sospetti debbano cominciare dalla lingua e dallo stile.

115.  Ms. della Bibl. Imp. di Parigi segnato: Baluze, armoire 2, paquet 5, nº 2, al fog. 428, segg. Tutto il volume son copie di mano del Duchesne. Questi sotto il titolo della cronica notò: «Ex codice Ms. perantiquo Bibliothecæ Senatus Messanensis, summa fide transcripta». Ma egli, non essendo mai stato in Messina, avea copiato di certo sopra una copia, senza vedere il vantato testo antichissimo.

116.  Di Gregorio, nella Introduzione al dritto pubblico Siciliano toccando le consuetudini delle città, sagacemente notava essere il diploma del 1129, sospetto, ma non tutto. Della cronica ei tratta nelle Considerazioni su la Storia di Sicilia, lib. I, cap. II, e nota 47, e ben si appone che la copia pubblicata dal Baluzio fosse venuta da Messina. Se non che sbaglia il tempo. Sendo la copia di mano d’Andrea Duchesne che morì il 1640; non potea trovarsi, come suppone il Di Gregorio, tra i Mss. recati a Parigi dagli esuli Messinesi del 1675.

117.  Tra le idee moderne è da notarsi la diffidenza contro il papa che non era nata in Sicilia nell’XI secolo, ma fioriva pienamente dal XIII in poi. Nel linguaggio s’incontra la classica denominazione di città Mamertina e quella di Mori adoprata genericamente per dinotare i Musulmani.

118.  Rerum Sicanicarum compendium, lib. III. Quel grande ingegno, in suo stile breve ed un po’ frettoloso, fornito il racconto ripiglia «Alibi lego» ec. e dà senza citar nome d’autore, il racconto del Malaterra. Non dice qual de’ due gli sembri il vero o il più verosimile.

119.  De rebus Siculis, Deca II, lib. VII, cap. I. Il Fazello, ch’era pure stato in Messina ed avea frugato quelle Biblioteche, si riferisce a tradizione orale (ducta per manus fama) pei nomi dei congiurati. Non accenna l’origine della narrazione, e la intreccia, senza citazioni, con quella di Malaterra.

120.  Questo fatto si trova per lo primo nella Ystoire de li Normant pubblicata il 1835, se non che M. Gauttier d’Arc l’avea accennata fin dal 1830 nella sua compilazione, p. 219. Si avverta intanto che Amato parla qui e altrove (p. 148, 153, 159, 194) di un Goffredo Ridelle o Rindelle, mentre M. Gauttier d’Arc, l. c., seguito da M. Champollion (p. 342, nota) suppon che si tratti di un Goffredo fratello di Roberto e soprannominato Ridelle. Ma questa identità dei due Goffredi sembra supposta senza fondamento. Il Malaterra, lib. I, cap. IV, e quel ch’è più Amato stesso p. 94, dicono di Goffredo fratel di Ruggiero, senza far cenno del soprannome; e il Goffredo Rindelle quante fiate comparisce nella storia d’Amato, sembra piuttosto condottiero fidatissimo, che fratello di Roberto, il quale diffidava sopratutto dei fratelli.

121.  Il Malaterra non fa menzione che di due regoli. La divisione della Sicilia musulmana in quattro stati si seppe per lo primo dagli estratti di Nowairi pubblicati il 1790; e di tre stati si facea menzione negli estratti di Abulfeda e Scehab-ed-din-Omari, noti in Sicilia per opera di D’Amico nei principii del XVII secolo, cioè una cinquantina d’anni dopo la pubblicazione della Storia di Maurolico. Pertanto i cinque regoli mori e i confini che loro assegna la cronica si debbono riferire a tradizione genuina in fondo, corrotta nei particolari. Nulla si oppone a ciò che un Raxdis (Rascid) fosse stato governatore di Messina.

122.  Roberto andò all’assedio di Reggio quando si cominciava la mèsse, e se ne tornò a svernare in Puglia con Ruggiero dopo la scorreria in Sicilia. Malaterra, lib. I cap. XXXV; e lib. II, cap. II. Contando circa due mesi per l’assedio di Reggio si viene al settembre. La Breve istoria, facendo cominciar la congiura il 6 agosto, ci conduce alla stessa data.

123.  «Hæc secum animo revolvens, eorum ad quæ animum intendebat, non tardus executor,» scrive il Malaterra. La quale fretta si riscontra bene con la promessa di venire a Messina entro una settimana, che leggiamo nella Breve istoria. Questa, come ognun vede, confonde in uno solo i tre assalti di Ruggiero; il che è naturalissimo in una tradizione orale.

124.  Sessanta militi, scrive il Malaterra. Il numero si dee moltiplicare almeno per tre; poichè ogni cavaliere, nel medio evo avea seco ordinariamente due o più uomini armati e montati a cavallo.

125.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. I, e Anonimo, versione francese (Chronique de Robert Viscart), lib. I, cap. XIII, e testo presso il Caruso, Bibliotheca Sicula p. 837.

126.  Malaterra, lib. II, cap. II, il quale, per mancanza di ragguagli precisi o per dissimulazione, parla vagamente di faccende che dovesse compiere il duca in Puglia durante l’inverno 1060-1061. Noi le sappiamo da Amato, lib. IV, cap. III, e lib. V, cap. IV, VI, VII, ed anche un po’ da Guglielmo di Puglia, lib. II, «Morti tradendum ec.» Preso da Roberto il titolo di duca, e cominciato a mutare l’autorità di capo federale in signor feudale, cospirarono contr’esso Balalardo suo nipote, Gazolin de la Blace, Ami figlio d’un Gualtiero, e un Goffredo, sovvenuti di danari dall’imperatore bizantino, al quale prometteano rendere il paese. Roberto tornato da Reggio li oppresse con le armi; indi assediò ed ebbe a patti Troia, municipio bizantino. Amato pone appunto dopo la resa di Troia la pratica del duca con Ibn-Thimna.

127.  I cronisti arabi che citammo nel Libro IV, cap. XV, p. 552 del 2º volume affermano avere Ibn-Thimna condotta la pratica con Ruggiero a Mileto, nè parlan d’altri; Amato lib. V, cap. VIII, dice col solo Roberto a Reggio; Malaterra, lib. II, cap. III, IV, nella stessa città col solo Ruggiero. Parmi evidente che v’ebbero almeno due abboccamenti: Roberto non venne a Reggio che per ultimare la cosa con Ibn-Thimna; ma questi s’era rivolto dapprima a Ruggiero, il quale non soggiornava per certo a Reggio, città del fratello, tra il quale e lui i sospetti non posavano giammai. D’altronde il nome di Mileto dato dai soli Arabi è di moltissimo peso, accennando il fatto più notevole di lor tradizione, sì notevole che diè origine ad un errore retrospettivo che facea Mileto capitale del re franco Baldovino, conquistatore dell’Italia meridionale, cioè Otone II. Si vegga il Libro IV, cap. VI di questa istoria, vol. 2º, p. 328, nota 1. E Mileto appunto è nominata nella Breve istoria della liberazione di Messina che citammo poc’anzi.

128.  Tutta l’isola, dicono gli annalisti arabi.

129.  Annalisti arabi citati dianzi.

130.  Anonimo.

131.  Amato, lib. V, cap. VIII, IX, X, il quale fa supporre capitano di tutte le genti Goffredo Ridelle, ma lascia trasparire il comando indipendente di Ruggiero. Malaterra dà l’impresa come ordinata e capitanata dal solo Ruggiero.

132.  Censessanta militi, dice Malaterra, il solo che dia il numero. Al solito è da contare tre armati o più per ciascun milite.

133.  Amato.

134.  L’ultima settimana di carnovale del 1060, scrive il Malaterra, contando l’anno dal 25 marzo all’uso di Firenze, Puglia e Sicilia. Però torna al 1061 del conto comune ed agli ultimi di febbraio, sendo occorsa la Pasqua a’ 15 aprile. Malaterra chiama il luogo Praroli e Tre Laghi, e aggiugne che v’erano le tegolaie. Similmente l’Anonimo dice tre Laghi. È senza dubbio la punta del Faro, ond’errava il Fazzello supponendo lo sbarco a Furno o Furnari tra Tindaro e Milazzo, perchè gli parea di trovare la versione del nome topografico nel clibana tegularum del Malaterra.

135.  Malaterra.

136.  Amato.

137.  Amato e Malaterra.

138.  Malaterra.

139.  Amato.

140.  Anonymi Chronicon Siculum.

141.  La narrazione si cava da Amato, lib. V, cap. X; Malaterra, lib. II, cap. IV, V, VI, e Anonymi Chronicon Siculum, lib. I, cap. XIII, presso Caruso, op. cit., p. 837, e nella traduzione francese, p. 279. Come si vede dalle note precedenti, i particolari differiscono nei due primi cronisti, e scarseggiano nel terzo, ma non sono contraddittorii.

142.  Amato.

143.  Amato. Il Malaterra dice vagamente: «cum maximo exercitu

144.  Amato. Secondo il Malaterra il campo sarebbe stato a Reggio.

145.  Malaterra scrive Germundos et galeas. La prima di queste voci, che che ne disputi il Ducange, par lezione erronea di Dermudos che è alla sua volta corruzione di Dromone.

146.  Amato dà il numero, Malaterra le dominazioni «Cattos, Golafros et Dormundos;» se non che il primo aggiugne «lo artifice liquel se clamoit Gath.» La voce Gatto con lo stesso significato di nave, si trova anche nella Chronica Varia Pisana, presso Muratori, Rerum Italic., tomo VI, p. 112, e in Caffari, Annales Genuenses presso Muratori Rerum Ital. tomo VI, p. 254. Forse quella nota appellazione dell’ordegno di guerra passò alla nave che lo portava: parendomi meno naturale l’etimologia dall’arabico Kula’a, nome generico, nel significato che noi diamo a «legni» o «vele.» La voce Golafros, che altrove si legge (V. Ducange) Golabros e Golabos, e nella Chronica Varia Pisana presso Muratori, Rerum Italic., VI, 112. Garabi, è l’arabico nome di legno Ghorâb (corvo), donde la nostra voce «Corvetta.»

147.  Malaterra lo chiama Belcamuer, ch’è una delle tante lezioni in che i Mss. guastano il nome d’Ibn-Hawwasci; l’Amato scrive invece Sausane, e sembra corruzione di Simsam-ed-dawla. Forse i raccontatori normanni dai quali egli attinse i fatti, confondeano il capo dei Musulmani di Sicilia al 1061, con l’ultimo principe Kelbita di cui abbiam detto nel Libro IV, capitolo XII, p. 419 segg. del 2º volume, sembrando inverosimile che Ibn-Hawwasci avesse preso appunto il medesimo titolo.

148.  Amato.

149.  Si vegga il Libro IV, capitolo X, XI, p. 393, 396, del 2º volume.

150.  Malaterra.

151.  Amato.

152.  Malaterra.

153.  Il nome di Calcare si legge in Amato; un Ms. di Malaterra dice Trium Monasterium. E Tremestieri è corruzione di tal voce; Edrisi nel cenno su questo luogo ha «tre Chiese».

154.  Amato.

155.  Conf. Amato e Malaterra.

156.  Di questo non fanno parola i cronisti normanni: si veggano qui sopra le pag. 56 a 60.

157.  Amato.

158.  Malaterra.

159.  Conf. Amato e Malaterra.

160.  Malaterra dice mandate le chiavi; Amato, che significarono a Roberto la vittoria que de Dieu avoient reçue par Goffrède Ridelle, et lui prierent qu’il vinst prendre la cité. Il cronista scordava aver detto poco innanzi che la schiera passata in Sicilia fosse capitanata da Ruggiero, senza far motto di Goffredo Ridelle, il quale al più potrebbe supporsi condottiere dei 170 cavalieri che venner dopo. Coteste discrepanze mostrano la gelosia che s’era accesa verso la fine dell’XI secolo tra i Normanni di Puglia e di Sicilia, dei quali i primi metteano da canto a tutta possa Ruggiero, e i secondi Roberto.

161.  Diverse manière de navie et de mariniers.... et particulierement devissent aler les nez.

162.  Amato. La presa di Messina è narrata da Amato, libro V, capitolo XII a XVIII; e Malaterra, libro II, capitolo VIII a XII; ne fan cenno Leone d’Ostia, libro III, capitolo XVI, e XLV, e l’Anonimo, presso Caruso p. 837, e traduzione francese, libro I, capitolo XIV.

163.  Conf. Amato, libro V, capitolo XIX, e Malaterra, libro II, capitolo XIII. Il primo scrive qui le parole che Roberto trovò Messina vota di abitatori, le quali, com’abbiam detto, si debbono prendere in senso figurato, se pur è fedele la traduzione. Malaterra afferma che i due fratelli lasciassero in città la cavalleria, il che deve intendersi di parte, non del tutto.

164.  Conf. Amato, libro V, capitolo XX; Malaterra l. c., tra i quali è il solito divario che il primo riferisce la dedizione al solo Roberto, il secondo ad ambo i fratelli. La tradizione d’Amato è la più verosimile in questi principii della guerra siciliana. D’altronde non è provato da cosifatte testimonianze che i Musulmani di Rametta prestassero omaggio feudale. Non poteva esser altro che un accordo temporaneo e propriamente l’amân. Leone d’Ostia, libro III, capitolo XLV, dice fatta tributaria Rametta.

165.  Scabatripolis nel Malaterra. Scaba o Scava, voce della bassa latinità che suona fosso, è premessa evidentemente al nome di Trabilis che si legge in due diplomi latini del 1134 e 1408. Edrisi ha, per trasposizione dei punti diacritici nel testo arabico, B-r-b-l-s e Bub-l-s che va corretto T-r-b-l-s e risponde esattamente all’odierno comune di Tripi. Dall’itinerario del detto geografo, Biblioteca Arabo-Sicula p. 66, si vede che da Rametta a Monteforte correva (alla metà del XII secolo) una strada di 4 e da Monteforte a Tripi di 20 miglia. Amato tralascia questa prima stazione.

166.  Fraxinetum in Malaterra, Lo False in Amato; l’uno e l’altro si riconoscono agevolmente nel Fraynit d’un diploma del 1188, Frazzanò, come or si chiama; dal qual comune muove un sentiero che riesce a Maniace. Edrisi nota la strada da Tripi a Montalbano, e Galati, terra vicinissima a Frazzanò. La traduzione d’Amato confonde Lo False con la pianura di Maniace, che indica chiaramente senza nominarla: a lo piè de lo grant mount et menachant moult de Gilbert (corr. Gibel).

167.  Conf. Amato, libro V, capit. XXI; e Malaterra libro II, capit. XIV. I Cristiani di Val-Demone scrive Malaterra; più correttamente Amato quei qui estoient là entor, e parla dei Cristiani di tutto il Val-Demone quando i vincitori tornarono dall’assedio di Castrogiovanni a San Marco e Messina.

168.  Amato, lib. V, capitolo XXI e XXII. Malaterra, lib. II capitolo XV. Emmelesio, di cui si ignora il sito nè se ne trova cenno in altro scrittore cristiano o musulmano, è nominata da Amato.

169.  Malaterra, libro II, capitolo XVI.

170.  Amato, lib. V, capitolo XXII.

171.  Malaterra, libro II, capitolo XVI, Guedeta, dice il cronista, e aggiugne che significhi flumen paludis. Il nome arabico Wadi-el-tin il quale si trova scritto Lo dictaino in un privilegio del conte Ruggiero, dato il 1004 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1011, precisamente suona: il fiume del Fango. S’ignora il sito di queste grotte di San Felice, le quali potrebbero per avventura esser le «Quaranta Grotte» espugnate dai Musulmani nell’841, le quali sembran parimenti vicine a Castrogiovanni, abitate e difendevoli. Si vegga il nostro Libro II, capitolo V, pag. 310 del 1º volume.

172.  Malaterra, libro II, capitolo XVII, si contenta di dare ai Normanni 700 uomini, ed ai nemici 13,000; e l’Anonimo presso Caruso p. 838 e nella traduzione francese, libro I, capitolo XIV, copia tali cifre aggiugnendo che nell’una come nell’altra si comprendessero i fanti. Amato, libro V, capitolo XXIII, copiato da Leone d’Ostia, libro III, capitolo XLV, scocca l’iperbole dei 13,000 cavalli e 100,000 fanti Musulmani; ma lascia a Roberto i 1000 cavalli e 1000 fanti ch’avea rassegnati in Messina. È notevole che Ibn-Khaldûn, traduzione francese di M. Des Vergers, p. 183, trascrivendo quasi da Ibn-el-Athir il brevissimo cenno di questa battaglia, vi aggiugne che Ruggiero avesse 700 uomini: e potrebbe essere appunto la tradizione normanna, intesa in Palermo nel XII secolo da Ibn-Sceddâd, la cui compilazione ci manca. Per altro non sembra inverosimile che le mille lance noverate da Roberto a Messina, fossero ridotte dinanzi Castrogiovanni a 700, per malattie, morti e presidii, lasciati di certo per assicurare la ritirata sopra cento e più miglia da Castrogiovanni a Paternò, Maniace, Frazzanò e Messina. I 700 poi potrebbero essere i soli militi senza contarvi gli uomini d’arme di ciascuno. In ultimo la critica ci conduce a rigettare con le altre fole le schiere affricane dell’esercito. L’Affrica propria a quel tempo si travagliava nella irruzione degli Arabi d’oltre Nilo. E forse i narratori cristiani riportavano indietro al 1061, gli aiuti dei principi Ziriti del 1063, o contavano come «aiuti d’Affrica» qualche drappello di schiavi negri, di Berberi ec. al servigio dei Musulmani di Sicilia.

173.  S. Matteo, XVII. 20.

174.  Conf. Amato, libro V, capitolo XXIII; Malaterra, libro II, capitolo XVII; Anonimo presso Caruso p. 838 e nella traduzione francese, libro I, capitolo XIV, Leone d’Ostia, libro III, capitolo XLV, Fra Corrado presso Caruso, tomo I, p. 47. Ibn-al-Athir nella Biblioteca Arabo Sicula p. 276; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 25; Ibn-Khaldûn, traduzione di M. de Vergers, p. 183. I quali annalisti arabi fan cenno appena della sconfitta.

175.  Conf. Malaterra e l’Anonimo, l. c.

176.  Amato, l. c.

177.  Conf. Malaterra e l’Anonimo, l. c.

178.  O les bras ploies et la teste enclinée de toutes pars venent li Cayte et aportent domps et ferment pais avec lo duc et se soumetent à lui et lor cités. Amato, l. c. Questo fatto che non si legge punto in Malaterra, va ridotto ai termini di tregue chieste per una stagione ed accordate a prezzo. A creder pienamente il cronista, la Sicilia si sarebbe arresa a Roberto, nè allor si comprenderebbe perch’egli se ne tornasse in Calabria lasciando presidio appena a San Marco ed a Messina.

179.  C’est paille copertez à ovre d’Espaigne ec. Forse ricamati. In ogni modo mi sembra doversi intendere piuttosto lavorali a modo spagnuolo, che fabbricati proprio in Ispagna. La voce tarin indica al certo non il dirhem arabo, ma i tarì d’oro dei quali abbiamo fatto parola nel Libro IV, capitolo XIII, p. 439, del 2º volume; onde la somma tornerebbe a più di 300,000 lire italiane.

180.  Et lo duc pensa une grant soutillesce.

181.  Amato, libro V, capitolo XXIV, dicendo mandato il messaggio dallo amirail de Palerme. Secondo lo stesso autore, libro V, capitolo VIII, il ribelle che cacciò Ibn-Thimna di Palermo e se ne fece emiro, avea nome Belcho (Ibn-Hawwasci). Poi al capitolo XIII, chiama l’emir di Palermo, in maggio 1061, Sausane. Balchaot (Ibn-Hawwasci) ricomparisce alla testa dell’esercito a Castrogiovanni nel capitolo XXIII, e nel XXIV l’emir di Palermo non ha nome. Da un’altra mano Malaterra, com’abbiamo notato alla p. 66, dà emir di Palermo, in maggio 1061, Belcamuer, cioè lo stesso Ibn-Hawwasci.

182.  Malaterra, l. c.

183.  Amato, libro V, capitolo XXIII, narrato il principio dell’assedio di Castrogiovanni continua: «Et puis dui mois le victorious duc s’en torna a Messine.» E in vero dallo sbarco alla battaglia sotto Castrogiovanni era corso un mese incirca, come si argomenta dalla narrazione del Malaterra.

184.  Malaterra, l. c. Si ricordi che l’esercito si adunò su lo Stretto nei primi di maggio. Messina fu presa verso la metà dello stesso mese.

185.  Amato, libro V, capitolo XXV. È da notare che Malaterra fa menzione soltanto de’ Cristiani venuti al campo di Maniace; e Amato nel capitolo XXI accenna il medesimo fatto parlando dei soli Cristiani de’ contorni e della sicurtà lor conceduta da Roberto, poi nel capitolo XXV dice venuti al duca sotto Castrogiovanni, ovvero nella ritirata di lì a San Marco, quei del Val de Manne.... por estre aidié de lo duc et que desirroient de non estre subjette a li païen lui firent tribut de or et habondance de cose de vivre.

186.  Si veggano Fazzello, Cluverio, Amico Dizionario topografico ec. Sono state trovate a San Marco iscrizioni latine di Alunzio. Edrisi nella Bibl. Arabo-Sic., testo p. 32, e presso di Gregorio Rerum Arabicarum, p. 115, fa cenno delle antichità che si notavano in San Marco e ci descrive la importanza della città, centro d’industria agricola e navale.

187.  Amato, libro V, capitolo XXV. Ancorchè il cronista narri la fondazione del castel di San Marco dopo avere accennato nel capitolo XXIII il ritorno di Roberto a Messina, replica pure questo ritorno nel capitolo XXV, nè può rimaner dubbio che lo esercito si fosse fermato a San Marco durante la ritirata. Si conf. l’Anonimo presso Caruso, p. 838, e la traduzione francese, libro I, capitolo XIV, e Leone d’Ostia, libro III, capitolo XLV.

188.  Conf. Malaterra, libro II, capitolo XVIII; e Anonimo, l. c.

189.  «Mandato Bettumeno, in sua fidelitate, a Catania, che gli apparteneva ec.» scrive Malaterra, l. c. Con Catania andava di certo Siracusa, antico stato d’Ibn-Thimna, e i distretti.

190.  Amato, libro V, capitolo XXV, lo dice espressamente. Sembra mero patto di difesa da una parte e tributo dall’altra; patto fors’anco temporaneo senza indole nè forma di omaggio feudale.

191.  Veggasi il Libro IV, capitolo XII, p. 419, del 2º volume.

192.  Si vegga il nostro Lib. IV, cap. XV, p. 547, 548, del 2º volume. I fatti qui accennati si ritraggono da Ibn-el-Athir, testo, anni 442, 448, 453, 455, 457, tomo IX e X, della edizione di Tornberg; Baiân-el-Moghrib, testo, tomo I, p. 308 a 312; Nowairi, Storia d’Affrica, MS. arabo di Parigi, ancien fonds 702, fol. 39, verso a 42 verso; Tigiani, Rehela, traduzione di M. Alph. Rousseau, nel Journal Asiatique d’agosto 1852, p. 109, febbraio 1853, p. 185 segg.

193.  Ecco le parole d’Ibn-el-Athir, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 276, copiate con poco divario da Abulfeda, anno 484, Nowairi e Ibn-Abi-Dinâr, op. cit., p. 414, 447, 534. «Assediato in Castrogiovanni, Ibn-Hawwasci uscì a combattere; ma rotto dai Franchi si ritrasse nella fortezza: quelli cavalcarono per la Sicilia e s’impadronirono di molti luoghi. Allora lasciavan l’isola non pochi dotti e onesti uomini. Alcuni dei quali andarono appo Moezz-ibn-Badis esponendogli la condizione del paese, le discordie del popolo musulmano, il territorio in parte occupato dai Franchi; onde Moezz allestita una grossa armata e imbarcati fanti e munizioni, la fece salpare ch’era d’inverno. Alla Pantellaria, surta una tempesta, la più parte annegò; pochissimi si salvarono; la perdita del quale navilio indebolì molto Moezz, e rincorò gli Arabi sì che gli tolsero l’Affrica.» Sendo morto Moezz il 24 sciàban 454 (Bayan el Maghrib, tomo I, p. 308) ossia il 31 agosto 1062, la spedizione va posta nell’inverno precedente, cioè pochi mesi dopo la battaglia di Castrogiovanni della quale sappiamo la data dagli scrittori cristiani, sì che possiamo così correggere i musulmani citati di sopra a p. 74, i quali la pongono nel 444 (1053). Gli autori arabi, per effetto dell’anacronismo loro di otto anni, noverano questo naufragio tra le cause del facile conquisto degli Arabi d’oltre Nilo sopra l’Affrica, il quale era compiuto innanzi il 1061, come s’è notato in altro luogo.

194.  Cristiani vero provinciarum, sibi cum maxima lætitia occurrentes in multis obsecuti sunt. Malaterra. La designazione geografica è vaga quanto la misura dell’obbedienza, e l’una e l’altra torna al concetto ch’io esprimo nel testo. Si tenga anco a mente che provincia nella latinità del medio evo spesso ha il mero significato di campagna o contado.

195.  Veggasi il lib. III, cap. III. e lib. V, cap. XI, vol. II, pag. 255 e 397.

196.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XVIII, e l’Anonimo presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 838 e lib. I, cap. XV, della versione francese. Ho tolto dal primo il numero dei militi di Ruggiero. Il testo latino dell’anonimo ha 50, e la versione francese 200.

Il Fazzello, deca I, lib. X, cap. 1, scrive che il contado di Traina fosse popolato di cristiani, tenendo la città i Saraceni; che Ruggiero si fosse consigliato coi primi ed avesse ai conforti loro espugnata la città e fondata nei dintorni la badia di Sant’Elia, la quale addimandò d’Eubulo dal buon consiglio che gli venne in quel luogo. Ei cita in principio un privilegio greco del conte, senza indicarne la data; ma evidentemente gli è quello del 6602 (1094 dell’èra volgare) di cui Rocco Pirro, pag. 1011, dà una pessima versione latina, nella quale il nome è scritto De Ambula, nè si fa allusione a consiglio di sorta de’ Cristiani, nè a voto del conte, anzi questi non esercita altra liberalità che di concedere al Logoteta Giovanni il terreno per fondare un monastero. La citazione dunque del Fazzello va ristretta al fatto del contado abitato da cristiani, ed in questi limiti bene sta, occorrendo nomi greci e latini tra i villani donati dal conte al monastero. Il rimanente della tradizione non ha documento che il provi, nè se ne scorge vestigio nelle cronache. Donde sembra che il Fazzello l’abbia supposto dalla significazione ch’egli credea trovar nel nome d’Ambola, Embula, Eboli, e secondo lui Eubulo, e dal sapere vicine alcune popolazioni musulmane, come si vedrà nel seguito di questo capitolo. L’espressa testimonianza del Malaterra non permette così fatto supposto.

Nè ha origine contemporanea la favola (Pirro l. c.; De Ciocchis, Sacrae Regiae Visitationis, tom. II, p 642) che il Profeta Elia, comparso a Ruggiero, con una spada in mano, lo confortasse all’impresa.

197.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XIX, XX, il quale dà alla sposa il nome di Delicia; e l’Anonimo, l. c., che la chiama Iucta (Iudicta). I fatti anteriori all’arrivo di costei in Calabria si ricavano da Odorico Vitale e Guglielmo di Gembloux, citati da M. Gaultier d’Arc. Histoire des Conquétes des Normands en Italie ec., p. 228 segg. L’autore a p. 236 in nota, sostiene che la donzella uscendo del chiostro, mutò nome in Eremberga, supposta da altri seconda moglie di Ruggiero. Si vegga anche un estratto del trattato di Ducange su le famiglie normanne, in appendice all’Ystoire de li Normant, p. 354.

198.  In oggi due comuni distanti un miglio l’un dall’altro si addomandano Petralia Soprana, e Petralia Sottana. Secondo il D’Amico, Dizionario Topografico, questo è più recente; ma Edrisi dà una sola Petralia con la qualità di Hisn, ossia fortezza in pianura.

199.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XX; ed Anonimo, l. c.

200.  Malaterra, lib. II, cap. XX e XXII.

201.  Antulium presso Malaterra, con la variante Antelium e Antileon nell’Anonimo; la cronaca di fra Corrado, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, tom. I, p. 47, ha: «Antellæ quod castrum erat in Sicilia juxta Corleonum.» Però non è dubbia la identità con Entella, il cui nome si trova in altri ricordi da me citati nella Carte comparée de la Sicile ec., index topographique. Il Fazzello, deca I., lib. I, cap. 6, dà un cenno topografico su l’antica città e sul castello, dove si difesero ostinatamente gli ultimi Musulmani di Sicilia contro Federigo imperatore. Un dotto amico mio che visitava questo castello nel 1858, mi ha gentilmente comunicate le note e la pianta ch’egli abbozzò, dalle quali si vede la maravigliosa fortezza del sito, la estensione della città antica, provveduta di cisterne e fosse da grano, e la postura di quello che a ragione si crede il castello saracenico; gli avanzi del quale al par che quelli della città, scompariscono a poco a poco, rubati per adoperarli da materiali di costruzione ne’ paesi all’intorno. Il sito, a cavaliere del fiume Belici sinistro, è notato nella mia carta comparata.

202.  Nikl, o Nicl, che sarebbero soprannomi (stivale vecchio, ovvero ceppo, ritorta, guerriero valoroso), o Nakhli nome etnico.

203.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXII; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic., tomo II, p. 839 e nella traduzione francese lib. I, cap. XV; ed Epistola di fra Corrado, l. c. Il Malaterra narra l’uccisione d’Ibn-Thimna tra la dichiarazione di guerra di Ruggiero a Roberto e l’assedio di Mileto che seguì, al suo dire, al principio (25 marzo) dell’anno 1062. Con queste scorte ho fissata a un di presso la data.

204.  Malaterra, lib. II, cap. XXI; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sicula, tomo II, p. 838, 839, e lib. I, cap. XV della versione francese.

205.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXIII a XXVIII; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic., tom. II, p. 839 ad 841; e nella versione francese, lib. I, cap. XV, XVI. L’Anonimo suppone, con manifesto errore, l’imprigionamento di Roberto in Geraci di Sicilia; ed è questa tra le prove che la compilazione fu scritta nel secolo appresso e nell’isola.

206.  Malaterra. Forse si deve intendere di militi, o diremmo lance, ed accrescere il numero de’ cavalli a mille in circa. La data si ritrae da ciò che Ruggiero liberavasi da’ suoi nemici in Traina, nel cuor dell’inverno, dopo quattro mesi d’assedio. Vanno dedotte inoltre due o più settimane corse dall’arrivo al principio della sollevazione.

207.  Malaterra.

208.  L’Anonimo, il quale ancorchè compilasse da ottant’anni dopo il fatto, par abbia attinto ad altre memorie oltre quelle di Malaterra, e potea per avventura conoscere il titolo preso da Ruggiero in quei primi tempi del conquisto.

209.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXIX e XXXI; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic., tomo II, p. 841; e nella traduz. francese, lib. I, cap. XVI. Il nome di Plotino è scritto Glotino nel testo latino dell’Anonimo, e Porino o Polarino in quel di Malaterra. È da avvertire che, secondo il Malaterra, i Trainesi bevvero tanto in quel freddissimo inverno perchè la state soleano patire intollerabili calori per la vicinanza dell’Etna(!!) donde balnearum æstuationibus æstuari assueti etc. Mi par chiaro qui il significato di “avvezzi ad un caldo da stufa,” e che queste parole non attestino l’uso dei bagni a Traina nel 1062, ma piuttosto in Palermo verso la fine del secolo, quando scrivea Malaterra. La testimonianza di questo scrittore che le campagne di Traina fossero abitate anco da Musulmani, si conferma per un diploma del 1085 presso Di Chiara, Opuscoli ec., Palermo, 1855, in-8, pag. 167. I nomi dei villani conceduti alla Chiesa di Traina nei dintorni della città son tutti musulmani.

210.  Si vegga qui sopra la pag. 80.

211.  La morte di Moezz è recata nel 453 da Ibn-el-Athir, testo, anno 484, nella Biblioteca arabo-sicula, p. 277, e dal Nowairi, op. cit. fol. 40 recto. Ibn-es-Scerf, citato nel Baiân, p. 308, la riferisce al 453, ma Abu-s-Salt, ibid., porta la data del 24 sciaban 454; e Tigiani, l. c., conferma l’anno, al pari che Ibn-Abbâr, nell’Hollet-es-Siarâ, MS. della Società Asiatica di Parigi, fol. 108 verso. Mi attengo a questi tre ultimi scrittori, come autorevoli sopra ogni altro nelle cose dell’Affrica.

La condizione di Tamîm al principio del regno è così definita da Tigiani, MS. di Parigi, sup. 911 bis, fol. 135 recto, e trad. di Mr Rousseau: «E gli Arabi gli tolsero ogni cosa, non rimanendogli se non che il perimetro delle mura di Mehdia. Ma talvolta, confederandosi con alcuna tribù d’Arabi, trovò modo d’uscire in campo contro cui veniva ad assalirlo, e di assediare alcuna delle città ribellatesi da lui.»

212.  «Comperto quod Arabici et Africani, qui Arabia et Africa, quasi auxilium laturi Siciliensibus, causa lucrandi advenerant etc.» Malaterra. Gli Affricani son forse quegli schiavi ziriti dei quali fa menzione Ibn-el-Athîr.

213.  Ibn-el-Athîr, anno 484, testo, nella Biblioteca arabo-sicula, p. 277; e Nowairi, op. cit., p. 447, e presso Di Gregorio, p. 26. Entrambi recano il fatto, senz’altra data, dopo la esaltazione di Tamîm, e seguono a raccontare, con la transizione d’un indi, il passaggio d’Aiûb a Girgenti ed altri gravi successi infino al 461 (1068-69). L’indi mi par che qui valga dopo tre o quattro anni. Si avverta che il nome Aiûb è la forma arabica di Giobbe.

214.  Questi particolari si traggono dal seguito della storia. Credo venuta prima la schiera di Castrogiovanni per induzione della parola con che Malaterra incomincia il cap. XXXIII del lib. II. I limiti che ho immaginati alla regione in cui comandò Aiûb, sono da un canto lo stato di Girgenti tenuto da Ibn-Hawwasci, dall’altro il castel di San Marco che suppongo in man dei Normanni. A qual principe musulmano ubbidisse la parte dell’isola tra Licata e Taormina, non si può argomentare da alcun dato certo nè dubbio.

215.  Le fonti latine non danno alcun nome che si possa ridurre ad Anattor; e la variante di Malaterra, Avator, è da escludersi come quella che riporterebbe a Caltavuturo, terra troppo lontana. Ma la Geografia d’Edrisi nota, senza vocali, un A. n. t. r. N. s. t. ri sul Simeto, a mezzogiorno di Adernò. Come il sito accennato qui dal cronista giace poco lungi da San Felice, ove si narra che la gualdana riposò per avere perduti assai cavalli; e come noi troviamo nella impresa del 1061, San Felice vicina a quel tratto del Simeto (veggasi qui innanzi la pag. 72), così è probabilissima l’identità de’ due luoghi citati da Malaterra e da Edrisi.

216.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXII, e l’Anonimo presso Caruso, Bibl. sicula, tomo II, pag. 811, e nella traduzione francese, lib. I, cap. XVII.

Il Malaterra racconta questi fatti prima di notare, com’ei suole, il principio del nuovo anno, che, secondo il suo conto, correa dal 25 marzo. L’avvenimento più importante, cioè l’avvisaglia di Castrogiovanni, si dovrebbe dunque porre innanzi il 25 marzo 1063, ma le altre circostanze ci sforzano a differire la correría di Caltavuturo e Butera allo scorcio della primavera, quando in Sicilia si patisce talvolta il gran caldo e la siccità notati da Malaterra. Da un’altra mano gli avvenimenti che seguono non permettono di supporre cotesta scorrería in giugno o luglio. Non è superfluo avvertire che il Malaterra dà soltanto i nomi delle città e castella, e che son aggiunte da me le indicazioni del corso dei fiumi che i Normanni manifestamente seguirono.

217.  «Africani ergo et Arabici cum Siciliensibus plurimo exercitu congregati ut bellum comiti inferant etc.» — Sicilienses non può significare altro che Musulmani di Sicilia. Così anche nei cap. XVII e XXXIII dello stesso lib. II del Malaterra. Non accadde mai in alcuno Stato musulmano che si armassero gli dsimmi. Va errato dunque il Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, cap. XVIII, nel supporre, su la dubbia interpretazione d’una variante del Malaterra, che i Cristiani di Sicilia facessero parte dell’oste musulmana a Cerami.

218.  Si argomenta 1º dagli annali arabi che portano andato l’esercito in Palermo; e 2º dalla morte del kaid di Palermo nella giornata di Cerami.

219.  Tal supposto, molto probabile a priori, è rinforzato dal fatto che il bottino fu mandato al papa per un Meledio, di nome greco e però calabrese o siciliano. D’altronde è da considerare che i Musulmani non si sarebbero trattenuti per tre giorni in ordine di battaglia su l’altura opposta a Traina, se non avessero viste forze maggiori di quelle che la cronica normanna attribuisce al conte Ruggero.

220.  Ho posto il nome del paese il quale non si trova in Malaterra.

221.  Questa data non si legge nelle cronache. La deduco da quella precedente scorreria a Butera determinata approssimativamente nella nota 1 a pag. 96 e dalla impresa de’ Pisani in Palermo che seguì poco appresso.

222.  Serlone v’entrò con 30 militi e n’uscì con 36. Del resto Malaterra non parla nè punto nè poco degli abitatori di Cerami.

223.  Anonimo.

224.  «Et splendenti clamucio, quo pro lorica utimur (utuntur?) armatum... et clamucium quo indutus erat nullis armis poterat violari, nisi ab imo in superius impingendo, inter duo ferrea quæ per juncturas cumcatenata sunt, ingenio potius quam vi vitiaretur.» Così Malaterra, il quale par che avesse avuta sotto gli occhi l’armatura conservata forse dal conte Ruggiero. Il Ducange, Glossario, citando questo passo, suppone il vocabolo corruzione di Camicium, chemise de maille. E in vero la descrizione mostra un giaco di maglia orientale col petto e il dorso coperti di laminette a mo’ di squame, come se ne vede ne’ nostri musei.

225.  Arcadius. Di certo Kâid non Kâdi, come s’è supposto.

226.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXII; e l’Anonimo presso Caruso, Bibliotheca Sicula, tomo II, pag. 841-843 e nella traduz. francese, lib. I, cap. XVIII; e l’Epistola di Frà Corrado, presso Caruso, op. cit., tomo I, p. 48.

L’Anonimo ebbe sotto gli occhi di certo il Malaterra ed altre memorie; poichè riferisce alcuni particolari diversi. Il più importante è che Ruggiero avesse mandato Serlone a Cerami due giorni innanzi la grande battaglia; che il dimani dell’arrivo, Serlone fosse uscito a combattere; che Ruggiero fosse ito a trovarlo la sera col grosso della gente e che tutti insieme si fossero avanzati contro il nemico il dì seguente, verso le sette. Il racconto di Malaterra, al contrario, fa supporre avvenuti tutti i combattimenti in un sol giorno.

Forse questa battaglia fu ricordata da alcun cronista musulmano, i cui scritti non sono pervenuti infino a noi, poichè Soiutl nella biografia di Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abi-l-Berr (Biblioteca Arabo-Sicula, testo, cap. LXXVI, p. 672) riferisce il conquisto cristiano della Sicilia al 455 dell’egira (1063), la quale data non si trova negli altri ricordi musulmani.

227.  Malaterra, l. c. «Comes, Deo et S. Petro cujus patrocinio tantam victoriam se adeptum recognoscebat, de collato sibi beneficio non ingratum existens, in testimonium victoriæ suæ, per quendam suorum...... Apostolicus vero, plus de victoria..... mandat: vexillumque a Romana sede, Apostolica auctoritate consignatum; quo prœmio, de Beati Petri fisi præsidio, tutius in Saracenos debellaturi insurgerent

Questo è lo stendardo che il Giannone, lib. X, cap. II, dice mandato da Alessandro II al conte Ruggiero mentre accingeasi all’impresa di Sicilia. L’illustre storico napoletano, il quale cita qui il Baronio, anno 1066, n. 2, non si guardò questa volta dalle insidie del cardinale annalista.

228.  Malaterra.

229.  Argomento cotesta pratica dal confuso ed erroneo cenno che ne fa Amato, Ystoire de li Normant, lib. V, cap. XXVIII: Roberto, durante l’assedio di Bari (1068-1071), affinchè i Saraceni non potessero munirsi e provvedersi, domandò l’aiuto dei Pisani, i quali apprestate lor navi e compagnie di cavalieri e balestrieri, vennero dritto alla città, spezzarono la catena del porto, e messero a terra parte di loro forze: dopo la vittoria del duca in Puglia ebber da lui grandissimi doni, e se ne tornarono a Pisa. Ognun vede che il racconto di Amato, per vizio di copista o dell’autore, non regge. Si tratta al certo di Palermo, non di Bari dov’erano Greci e non Musulmani; e del fatto del 1063, non della espugnazione di Palermo del 1072, nella quale non compariscono i Pisani. Da ciò argomento una pratica di Roberto nel 1063 rimasta senza effetto, e scontraffatta nella traduzione francese che noi abbiamo. Non posso supporre che l’autore, vivente e adulto in quel tempo, abbia commesso un anacronismo di dieci anni e scambiato il nome della città; nè che i Pisani fossero venuti una seconda volta a spezzar le catene del porto di Palermo, senza che ne facciano parola i loro annali.

230.  Iscrizione del Duomo di Pisa nell’Archivio Storico Italiano, tom. VI. Parte II pag. 5.

231.  In portu vallis Deminæ, scrive Malaterra. Per antonomasia significherebbe Messina, ma il cronista suol sempre indicare quella famosa città col suo nome, nè è da supporre abbia usata in questo luogo solo una perifrasi. Secondo Edrisi, i porti del Valdemone su la costiera settentrionale erano cominciando di ponente: Caronia in sul confine di quella provincia, Oliveri e Milazzo; e in mezzo a’ due primi si ricorda la spiaggia di San Marco ove si costruivano navi. Nei novant’anni che corsero dal 1063 alla compilazione di Edrisi, non si scavarono di certo novelli porti, e forse non ne fu distrutto alcuno. Dunque dobbiamo ristringerci ai quattro nominati.

232.  Iscrizione del Duomo di Pisa.

233.  Iscrizione stessa, la quale accenna vagamente alla preda nelle campagne. Noi sappiamo da Ibn-Haukal che lungo l’Oreto giaceano gli orti di delizia dei Palermitani.

234.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXIV; Marangone, anno MLXIII, nell’Archivio Storico italiano, tomo VI, par. II, p. 5, 6; e la Chronica varia Pisana nel Muratori, Rerum Italic. Script., tomo VI, p. 167. La data precisa che dobbiamo al Marangone, è il giorno di Sant’Agapito, ossia il 20 settembre; ma stando all’ordine cronologico del Malaterra, risalirebbe agli ultimi di giugno o primi di luglio, poich’ei riferisce il fatto innanzi le scorrerie di Collesano, Brucato e Cefalù che seguirono, al dir suo, nei principii della state. Credo meriti maggior fede il Marangone, e sia da supporre qui men rigorosa la successione di fatti notata dal cronista normanno. Notisi che la iscrizione del duomo di Pisa porta qui l’anno comune in vece del pisano: Anno quo Christus de Virgine natus, ab illo Transierant Mille etc.

235.  Malaterra tace questa precipua cagione che apparisce dai fatti.

236.  Vecchio castello presso la spiaggia da Termini a Cefalù; nella prima metà del XII secolo era terra assai ricca e fortificata, come si scorge da Edrisi e da parecchi diplomi.

237.  Conf. Malaterra, lib. II, cap. XXXIV e XXXV; e l’Anonimo presso Caruso, Bibl. Sicula, tomo II, p. 843; e nella versione francese, lib. I, cap. XIX. Il testo di Malaterra ha il nome di Gualtiero de Simula (var. de Simila) l’Anonimo de Cullejo (var. de Simelio) e la versione da Similico.

238.  Lib. II, Cap. XXXVI.

239.  Malaterra, l. c. Senza ciò sarebbe falso il plurimo exercitu che leggiamo pochi righi innanzi il quingentis tantummodo militibus. Si vede sempre più chiaramente che per milite sia da intendere un cavaliere seguito da due o parecchi uomini d’arme.

240.  Tarentula, lycosa tarentula, aranea tarentula ec., abitatrice de’ luoghi aridi e inculti nella Spagna, Francia meridionale, Puglia ec., e vuolsi abbia preso il nome dalla città di Taranto e datolo alla danza tarantella.

241.  “Taranta quidem vermis est araneæ speciem habens, sed aculeum veneni feræ punctionis, omnesque quos punxerit multa venefica ventositate replet, in tantumque angustiatur ut ipsam ventositatem quæ per anum inhoneste crepitando emergit, nullo modo restinguere prævaleant et nisi clibanica vel alia quævis ferventior æstuatio citius adhibita fuerit, vitæ periculum incurrere dicuntur.” Malaterra, l. c. Secondo i cronisti delle Crociate il morso portava grande enfiagione e dolori; nè si potea curare se non col fuoco, con la triaca, o, secondo Alberto d’Aix, commettendo un certo peccato.

242.  Si vegga la ritirata dell’imperatore Lodovico, andato nell’867 contro il Sultano di Bari (Lib. II, cap. VIII, p. 377 del Iº volume.)

Alberto d’Aix, Gauthier e Vinisauf, citati da Michaud, Histoire des Croisades, tomo I, p. 297 della ediz. del 1825, raccontano somiglianti disastri de’ Crociati a Beirut, Sidone e Tiro nel 1099.

243.  Non rimane oggi, nè si trova in alcun diploma. Il buon Di Blasi, Storia di Sicilia, libro VII, cap. 8, si sforza a difendere l’onor dell’agro palermitano da questa grave accusa; e il Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, tomo II, p. 44 e 324, si fa beffe del Malaterra, non senza collera.

244.  Bugamo presso il Malaterra, Burgamo nella Epistola di fra Corrado, il quale aggiugne che a’ suoi tempi, cioè allo scorcio del XIII secolo, questa terra lontana sei miglia da Girgenti, si chiamasse Buagimo e appartenesse in feudo alla famiglia Montaperto. È in que’ dintorni l’odierno comune di Montaperto. Il soprannome d’uomo che passò al castello, sembra Abu-’l-Giami’, Abu-’l-Gema’, ovvero Abu-el-’Agemi.

245.  Malaterra, lib. II, cap. XXXVI, presso Caruso, Bibl. Sic., p. 195, Epistola di Fra Corrado nell’op. cit. p. 48. Si riscontri Lupo Protospatario, an. 1065, ediz. di Pertz, il quale dice che Roberto uccise molti Saraceni e riportò statichi di Palermo. Così i Normanni doveano raccontare il fatto ritornando in Puglia.

246.  Libro V, cap. XXVI, p. 150. Nel cap. XXVIII dello stesso lib., p. 164, è da leggere Palermo in vece di Bar, la quale lezione è confermata dal sommario dell’indice che non risponde al testo. Si vegga anco Bar, posta in luogo di Palermo, a p. 293.

Et quant lo duc sapientissime vit la disposition et lo siege de Palerme et que des terres voisines estoit aportee la marchandite, et se alcuns negassent la grace par terre, lui seroit aportee par mer, apareilla soi a prendre altre cite a ce que assemblast autre multitude de navie pour restreindre Palerme.... premerement asseia Otrante etc.

Roberto non s’era avvicinato a Palermo nel 1061 quand’ei venne la prima volta in Sicilia. Il passo che citiamo non si può riferire dunque che al suo ritorno in Calabria dopo l’assedio del 1064, come lo conferma la occupazione d’Otranto che segue immediata. Manca almeno un capitolo tra il XXV e il XXVI, il che non farà meraviglia a niuno che abbia letta attentamente questa traduzione francese di Amato.

247.  Ibn-el-Alhir sotto l’anno 481, nella Bibl. ar. sic., testo, p. 278; Nowairi, op. cit. p. 448, e presso il Di Gregorio, Rerum. Arab., p. 26.

248.  Il Malaterra porta l’anno di questo combattimento, e Ibn-el-Athir quello del ritorno d’Aiûb in Affrica, i quali coincidono in cinque mesi (31 ottobre 1068 principio del 461 dell’egira, a 24 marzo 1069 fine dell’an. 1068 dell’incarnazione). Sembra dunque che Aiûb fosse tuttavia in Sicilia e forse in Palermo al tempo del combattimento, e che a lui abbia fatta allusione il conte Ruggiero con le parole riferite dal Malaterra: Si ducem mutaverunt, ejusdem nationis, qualitatis et religionis est cujus et cæteri sunt.

Sembra da coteste parole che il nuovo duce non fosse stato vinto per anco da’ Normanni, il che ben s’adatterebbe ad Aiûb. Se poi non si vanta la sconfitta del re d’Affrica e d’Arabia, può spiegarsi in questo modo che Aiûb, quantunque emir de’ Palermitani in quel tempo, non si fosse trovato alla testa della gente che uscì a combattere.

249.  Malaterra, lib. II, cap. XXXVII e XXXIX.

250.  Malaterra, lib. II, cap. XXXVIII, XLI, XLIII.

251.  Cf. Malaterra, lib. II, cap. XLI e XLII presso Caruso, Bibl. Sic., p 197, L’Anonimo, presso Caruso, op. cit., p. 843, e nella traduzione francese, lib. I, cap. XX, p. 291, pone questa battaglia dopo lo scontro del 1063 che abbiamo riferito a p. 104. Manca forse qualche squarcio in cui si trattasse anco dell’assedio di Palermo del 1064.

Il Malaterra descrive con evidente meraviglia il modo che si teneva a mandare dispacci pe’ colombi. Chi voglia saperne più largamente, potrà consultare La Colombe Messagère di Michele Sabbâg, tradotto da S. de Sacy, Paris, 1805, in 8º; Reinaud, Extraits des auteurs arabes etc., relatifs aux Croisades, p. 150, Quatrémère, Hist. des Sultans Mamlouks; par Makrizi, tomo II, parte II, p. 115 e segg.

252.  Cf. Amato, lib. V, cap. XXVII, p. 159 a 164; Malaterra, lib. II, cap. 40, 43, presso Caruso, Bibl. Sic., tomo I, p. 198, 199; Guglielmo di Puglia, libro II e III, presso Caruso, op. cit., 112, p. 117, 118; Anonimo, presso Caruso, op. cit., p. 844, 845, e traduzione francese, lib. I. cap. XXII, p. 224; Lupo Protospatario, anni 1069, 1071; Romualdo Salernitano, anno 1070; Cronica Amalfitana, presso Muratori Antiq. Ital., tomo I, p. 213.

Seguo per la data del principiato assedio e della resa, Amato, la cui testimonianza conferma le correzioni cronologiche del Muratori, Annali.

253.  Non ne parlano qui i cronisti, ma si vede che Ruggiero ne prese a’suoi stipendii dopo la occupazione di Palermo.

254.  Amato, lib. VI, cap. XIII; lib. VII, cap. I e II.

255.  Amato, lib. VI, cap. XVI e XIX, parla dei principi che accompagnavano Roberto al cominciare dell’assedio e che, espugnata la città, egli andò alla Chiesa avec la moiller et ses frere et avec lo frere de la moiller et avec ses princes. Si tratta dunque de’ principi di Salerno; nè è possibile che andando in persona non avessero condotte soldatesche di sorta.

256.  Guglielmo di Puglia, lib. III, presso Caruso, Bibl. Sic.; p. 122. Amato, lib. VII, cap. II.

257.  Cf. Malaterra, Amato e Leone d’Ostia ne’ luoghi indicati qui appresso.

258.  Malaterra, lib. II, cap. XLV, p. 200.

259.  Amato, lib. VI, cap. XIV, pag. 178. Cf. Leone d’Ostia, lib. III, cap. XVI e XLV.

260.  Amato, lib. VI, cap. XV, pag. 178.

261.  Si vegga il vol. II, p. 68, 157, 189, 296 e segg.

262.  La foce d’Oreto ne’ principii del XII secolo s’apriva più discosto che in oggi dalla città, come il mostra il ponte dell’Ammiraglio, il quale rimane a levante dell’alveo attuale del fiume.

Il mare poi senza dubbio s’è ritirato in questo punto, come nell’antico porto (la Cala).

263.  «Castel Iehan mes maintenant se clame lo chaste Saint Iehan etc.» Questo torna senza alcun dubbio all’Ospizio de’ Lebbrosi, poi manicomio ed ora opificio di cuoia. La tradizione ricordava fino al XIV secolo, (Veggasi Anonymi Chronicon Siculum, presso Di Gregorio, Rerum aragonensium, tomo II, p. 124) che Roberto vi avesse fatto stanza durante l’assedio. Ne fa parola anco il Fazello, Deca Iª, lib. VIII, cap. I, allegando un diploma del 1209; ma questo è in vero del febbraio 1219 ed attesta soltanto quel che non è mai caduto in dubbio, cioè essere stato fondato l’ospizio da’ principi normanni della Sicilia. Si vegga presso Mongitore, Mans. S. Trin. Mon. hist., p. 21, e nella Historia Diplomatica Friderici II, tomo I, p. 590.

264.  Si veggano i Cap. III, e IV, di questo libro pagine 70, 110, del volume.

265.  Et quant li Sarrazin issoient virent novelle chevalerie et li Normant les orent atornoies et let prisrent et vendirent pour vils prison.

266.  Et clama li Sarrazin a combatre.

267.  Amato. Il palagio occupato alla prima giunta, par quello che nel XII secolo Ibn-Giobair chiama Kasr-Gia’far e gli scrittori cristiani Favara, di che ho fatta parola nel lib. IV, cap. VII, vol. II, p. 350. Fu villa di delizia del re Ruggiero, come innanzi era stata probabilmente degli emiri di Palermo; sia che parte degli edifizii loro fosse stata conservata da’ Normanni, o tutto rinnovato.

268.  Una chiesetta diroccata il 1598 quando si fabbricò in quel sito il noviziato de’ Minimi di San Francesco di Paola, si chiamava della Vittoria e vi si leggea questa iscrizione: «Roberto Panormi duce et Siciliæ Rogerio Comite imperantibus, Panormitani cives ob Victoriam habitam, hanc ædem B. Mariæ sub Victoriæ nomine sacrarunt. An. Dom. 1071.» (Inveges, Pal. nob. Er., 7, an. 1071, nº 9; Mongitore, Palermo Divoto di M. V., lib. I, cap. V; Giardina, Le antiche porte di Palermo, (Palermo, 1732) p. 11, 12).

La iscrizione data il 1071 è falsa senza alcun dubbio, come lo provano la latinità, le formole e il titolo di Panormitani Cives, che allor sarebbero stati i Musulmani. Pure questa iscrizione attesta infallibilmente un’antica tradizione, che non v’ha ragione di mettere in forse. Errarono poi gli eruditi Palermitani ponendo all’assedio da quel lato Roberto piuttosto che Ruggiero. Il titolo della Vittoria rimase alla Chiesa e al Convento de’ Paolotti, il quale fu occupato per lunghissimo tempo da uno o due squadroni di cavalleria, ed or v’ha stanza l’artiglieria.

È da ricordare che al tempo d’Ibn-Haukal (veggasi il nostro Libro IV, pag. 297, del II vol.) sorgea da quella parte il Me’sker, ricinto fortificato senza dubbio, che i Normanni appena entrati in Palermo, mutarono in cittadella, come sarà detto largamente alle pag. 137-138 di questo terzo volume. Si dee dunque supporre che il ricinto stesse tuttavia in piedi al tempo dell’assedio. Ma in qual modo allor fosse separato dalla città vecchia, e se compreso nell’àmbito delle sue mura, non si ritrae: e però non possiamo determinare se durante l’assedio il tenessero i Musulmani ovvero i Normanni. De’ quali due supposti credo più verosimile il primo, e che lo alloggiamento del conte Ruggiero fosse posto appunto rimpetto il Ma’skar, alla distanza di sei o settecento metri; poichè il Ma’skar par si stendesse fino all’odierno sito di Porta nuova o un po’ più alto.

269.  Si vegga qui innanzi la p. 110.

270.  Amato, il quale narra ciò al bel principio dell’assedio, senza poi far parola della battaglia navale dinanzi il porto, che fu combattuta alla fine. Non credo si possa riferire a questa la presura delle due sole navi che cita il cronista.

271.  Guglielmo di Puglia e l’Anonimo.

272.  Malaterra.

273.  Anonimo, testo latino e traduzione francese in parte.

274.  Si vegga il vol. II, p. 304.

275.  Malaterra.

276.  Di questi aiuti tace il Malaterra. Guglielmo ne parla precisamente innanzi la battaglia del porto. Amato ne fa menzione dopo la resa della città (Lib VII, cap. I, p. 103), quando ripiglia a raccontare le ostilità del principe Riccardo in Terraferma... venoient sur la cite de Palermo li Arabi et li Barbare et faisoient empediment a la victoriose bataille de lo duc Robert et pource il requist et chercha l’ajutoire de lo prince Richart etc.

277.  Muratori, Annali, 1071.

278.  Amato, l. c.

279.  Il traduttore francese saltò senza dubbio la voce mura.

280.  Amato, lib. VI, cap. XVII, p. 179.

281.  Id. id., cap. XVIII, p. 180.

282.  Guglielmo di Puglia.

283.  Guglielmo di Puglia.

284.  Nessuno de’ cronisti ha notata la importanza di questa diversione; Guglielmo, il solo d’altronde che narri il combattimento navale, ripiglia Dat validas animo ducis hæc victoria vires, e dice dell’assalto dalla parte di terra, senza notare nè far supporre il tempo scorso tra l’uno e l’altro. Il Malaterra fa menzione appena del navilio normanno, dicendo che si trovava dal lato di Roberto il giorno dell’assalto.

Ne conchiudo che la vittoria navale non fu piena nè splendida, ma utilissima, come quella che obbligava i Musulmani a difendersi anco nel porto, cioè, a dividere in tre le scarse loro forze, invece di opporle in due sole parti a Ruggiero ed a Roberto.

285.  Amato.

286.  Malaterra, Machinamentis itaque et scalis ad trascendendos muros artificiosissime compaginatis. Gli è vero che la più parte si ruppe o non servì all’opera. La grande altezza del muro richiedea si desse larga base a coteste scale e però le doveano essere montate su ruote.

287.  Amato.

288.  Amato dice en la nativite de Jshu Christ (Cap. XXII) e en l’aurore de jor (Cap. XVIII); l’Anonimo Barese, il 10 gennaio, e Romualdo Salernitano, di gennaio. Si noti la festa celebrata nella chiesetta della Vittoria alla Kalsa il 2 gennaio, della quale diremo or ora.

289.  Malaterra.

290.  Guglielmo.

291.  Amato.

292.  Malaterra.

293.  Amato, Cf. Guglielmo, Malaterra e l’Anonimo. La più parte dei compilatori siciliani ha fatto entrare nella Khalesa Ruggiero.

294.  Non fa mestieri notare che questa chiesa della Vittoria sia diversa da quella fuor la Porta Nuova di cui si è detto di sopra. Giace propriamente in un vicolo “chiamato oggi della Salvezza” il quale aprendosi tra la Chiesa della Gancia e il monastero della Pietà, mette capo al bastione dello Spasimo.

Le prime memorie in cui sia scritta la tradizione di questa Porta della Vittoria, tornano alla fine del XV secolo: dalle quali si scorge ch’eravi dipinta una Madonna molto celebre tra i devoti della città; che si ottenne dal governo il permesso di fabbricarvi una chiesa; che questa fu murata nel 1489; e che nel 1497, l’arcivescovo di Palermo, assentendegli il Senato della città, decretò di celebrarvi una festa annuale il 2 gennaio. Nel XVI secolo poi vi fu messa la seguente iscrizione latina, ch’è riferita del Giardina (Le Porte di Palermo, Palermo 1732, pag. 11) e che or si vede dipinta sur un’asse dopo il secondo altare a destra:

“Porta hæc, in quam Rogerius invictissimus Siciliæ comes irrumpens, aditura exercitui christiano ad urbem hanc Panormum ab iniqua Saracenorum servitute emancipandam patefecit, victoria cognomento ab eo devictorum hostium summo cum honore ob insignem reportatam victoriam, Deiparæ Virginis cultu victoris ejusdem principi ardenti ac pio desiderio consecrata est, quintilio mense dom. incarnationis MLXXI.”

Altra iscrizione poi attesta una novella ristorazione delle fabbriche seguita il 1701. Oggidì si veggono: 1º Gli avanzi d’una porta nel posto che ho indicato; 2º Una Madonna col Bambino e una bandiera, immagine ritoccata o ridipinta, il cui stile par non possa riferirsi all’XI secolo. Cotesta dipintura rappresenta senza dubbio la favola raccontata del P. Ottavio Gaetani, cioè che la Madonna comparve lassù a Ruggiero con la bandiera in mano, chiamandolo ad entrare in città. Quanto all’iscrizione di cui ho dato il tenore e ch’è opera di Antonio Veneziano, ognun vede che renda la tradizione qual correa presso gli eruditi nel XVI secolo; poichè vi è nominato Ruggiero in luogo di Roberto e messa la data di luglio 1071 in vece di gennaio 1072. Rimondata de’ miracoli e delle invenzioni degli eruditi, la tradizione torna al mero fatto che i Normanni entrarono da quella porta: e ciò sta benissimo col racconto de’ cronisti contemporanei. Quando poi vi fosse dipinta per la prima volta l’immagine della Madonna, e se fossevi stata fabbricata una cappella nell’XI secolo o nel XII, o dopo, non mi preme ora investigarlo, nè sarebbe agevol cosa. Si vegga il Giardina l. c; Mongitore, Palermo Devoto di Maria Vergine, I, 31 segg., 250 segg.; Inveges, Palermo Nobile, 1071; Di Marzo Ferro, Guida di Palermo, 1858, pag. 360-361. Debbo le notizie locali e il confronto del Mongitore, al dotto giovane, il professore Antonio Salinas, ch’io ne richiesi, non essendomi accaduto mai d’entrare in questa chiesetta della Vittoria.

295.  Amato.

296.  Anonimo.

297.  Amato. Et lo duc, a ceus qui sont remez liquel habitent en la cite a liquet avoit donne mort de li parent et fame il fist garder les tors. Mes pource que Palerme estoit faite plus grant qu elle non fu commende premerement dont de celle part estoit plus forte dont premerement avoit este commencie la cite se clamoit la antique Palerme. Il commencerent contre celle antique Palerme contrester cil de la cite. Et puiz quant la bataille penserent que il devoient faire et en celle nuit se esmurent o tout li ostage et manderent certains messages liquel doient dire coment la terre s’est rendue.

Le parole che ho lasciate in carattere tondo sono al certo sbagliate nella traduzione. Anzi nel primo periodo è saltato evidentemente qualche brano del testo latino, il quale dovea dire che Roberto aspettandosi l’assalto di coloro ec., fece guardar bene dai suoi le torri della Khalesa.

La voce “contre” va corretta di certo, entre, senza che il periodo non darebbe significato. Que’ della città (antica) non poteano contendere con la città antica.

298.  Si vegga la nota precedente con la correzione che ho fatta alla voce “contre.”

299.  Amato. Et puis quant il fut jor dui Cayte alerent devant loquel avoient l’ofice laquelle avoient li antique avec autres gentilhome liquel prierent lo conte ec.

Credo non si possa interpretare altrimenti di quel che io ho fatto. Gli antique sono senza alcun dubbio gli sceikh, i componenti la gemâ’, di che ho fatto parola nel Lib. IV, cap. XII, vol. II, p. 426, ossia i magistrati della repubblica. I due Kâid, ossia capitani, aveano dunque preso l’oficio della gemâ’, ch’era, nel presente caso, il governo politico. Il magistrato avea risegnato l’uficio, forse la notte stessa, forse con la spada alla gola, forse con spargimento di sangue. I due Kâid eran proprio i capi Palleschi dell’assedio di Firenze.

300.  Amato, o grand reverance plorant.

301.  Cf. Amato, Guglielmo, Malaterra e l’Anonimo. Si vegga il lib. IV, cap. V di quest’opera, vol. II, p. 301. Il nome di Nicodemo è aggiunto con buona autorità dal Pirro, Sicilia Sacra, p. 53 e segg.

302.  Que sans nulle autre condition ne convenance doie recevoir la cite a son commendement.

303.  Lib. II, cap. XLV.

304.  Presso Caruso, Bibl. Sic., p. 846, e traduz. franc, lib. I, cap. XXII, p. 295, sur certene loy et covenances qui encore sont gardees. Qui i dotti editori hanno aggiunto tra parentesi janvier 1072, epoca della resa. Va corretto, anno 1146, quando fu scritta quella parte di cronica com’io ho provato qui innanzi. Cap. I, p. 24.

305.  L’espugnazione di Palermo si ritrae da:

Amato, lib. VI, cap. XII a XXII.

Malaterra, lib. II, cap. XLIII, XLIV, XLV.

Guglielmo di Puglia, lib. III.

Anonimo presso Caruso, op. cit., e la traduzione francese, ll. cc.

Leone d’Ostia, lib. III, cap. XVI, e XLV.

Lupo Protospatario e Anonimo Barese, 1072, presso Pertz, dov’è la necessaria correzione januarii in luogo di junii.

Cronica della Cava, anni 1070, 1072.

Cronica Amalfitana, presso Muratori, Antiq. Ital., tomo I, p. 213.

Romualdo Salernitano, anni 1070 e 1073.

Cron. di Santa Sofia di Benevento, presso Muratori, Antiq. Ital., tomo I, p. 259.

Fra Corrado presso Caruso, Bibl. Sic., p. 48.

Per la data, ho seguìta col Muratori (Annali, 1072), la testimonianza dell’Anonimo barese, la quale si accorda con quella di Amato, che l’assedio cominciasse in agosto e durasse cinque mesi. Il Malaterra attribuisce la stessa data all’assedio e pone la resa nel 1071, poichè egli cominciava il nuovo anno a’ dì 25 marzo.

Il Fazello, Deca IIª, lib. VII, cap. I, contro le testimonianze contemporanee, senza allegare nè anco una tradizione, dice aperta la città da’ prigionieri cristiani. È proprio il caso della occupazione di Tunis successa a’ suoi tempi. D’altronde avendo fatta consegnar Messina da’ Cristiani, il Fazello non seppe negare un onore somigliante alla città di Palermo.

306.  Amato, lib. VI, cap. XXI, p. 182. Ibn-Khaldûn pone l’anno 464, (28 settembre 1071-15 settembre 1072), come fine della dominazione musulmana in Sicilia, notandovi la dedizione di Mazara, ed erroneamente quella di Trapani, Bibl. Arabo-Sicula, testo, cap. L, § 19, p. 497, 498.

307.  Dux eam (Palermo) in suam proprietatem retinens et vallem Deminæ, cæteramque omnem Siciliam adquisitam et suo adjutorio, ut promittebat, nec falso, adquirendam, fratri de se habendam concessit...... Nam et medietas totius Siciliæ, ex consensu Ducis et Comitis, suæ sorti (di Serlone) Arisgotique de Poteolis inter se dividenda cesserat, eo quod hic consanguineus eorum erat, uterque autem consilio et armis probissimi viri erant. — Malaterra, lib. II, cap. XLV, XLVI.

Dopo questo attestato d’un partigiano sì caldo del conte Ruggiero, d’un vero storiografo di corte (Quoniam ex ædicto principis tempus scribendi imminet. Lib. III, preambolo), non occorre esaminare quello di Amato, lib. VI, cap. XXI, il quale, seguìto da Leone d’Ostia, lib. II, cap. XVI, dice ritenuta da Roberto la sola metà di Palermo e del Valdemone e ceduto il rimanente dell’isola a Ruggiero. In ciò è un anacronismo dal 1072 al 1091, quando Ruggiero duca di Puglia cedette una metà di Palermo a Ruggiero di Sicilia suo zio. Contuttociò non ho esitato di scrivere su la testimonianza del solo Amato l’assentimento dell’esercito alla concessione in favor di Ruggiero. Et lo comanda que vieingue tout lo excercit et loa lo excercit qu’il lo devisse doner a lo frere. Et adont lo duc donna a son frere ec.

308.  Il sito, non indicato precisamente dai cronisti, è senza alcun dubbio quello che Edrisi chiama Hagiar-Serlu, “la Pietra di Serlone,” Bibl. Arabo-Sicula, testo p. 60, e presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 122. Io l’ho notato nella carta comparata della Sicilia.

Il Fazello, Deca Iª, lib. X, cap. I, e Deca IIª lib. VII, cap. I, sbaglia il sito e dà due forme diverse del nome di quella rupe a’ suoi tempi.

309.  Malaterra, lib. II, cap. XLVI; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic. p. 846, e nella traduzione francese, lib. I, cap. XXIII.

310.  Si vegga il lib. III, cap. IX, e il lib. IV, cap. V, di quest’opera, Vol. II, p. 180 e 297.

311.  Degli scrittori contemporanei, Amato, ossia il suo traduttore francese, dice una forte roche, Malaterra, castellum, Guglielmo di Puglia e l’Anonimo della metà del XII secolo, castrum.

Il Falcando, verso la fine dello stesso secolo, chiamava cotesta cittadella Palatium novum, descrivendone il muro, mira ex quadris lapidibus diligentia, miro labore constructum, exterius quidem spaciosis murorum anfractibus circumclusum etc. (presso Caruso, Bibl. Sic., p. 406), e altrove nomina una porta Galculæ, e dice serrate tutte le porte Galculæ, trattando senza il menomo dubbio della medesima cittadella (op. cit. p. 432 e 441).

L’altro Anonimo Siciliano (Muratori, Rer. Ital., tomo X, e Di Gregorio, Rerum Aragon., tomo II), narrando nel cap. IV, secondo le guaste tradizioni del XIV secolo, il conquisto di Palermo e la edificazione della cittadella, aggiugne qui locus dicitur hodie Galea (corr. Galca) in quo nunc est palatium. Il Pirro infine, (Sicilia Sacra, p. 293), citando un diploma del XII secolo ov’è nominata la porta Xalces, aggiugne che ai tempi suoi, cioè nella prima metà del XVII secolo, la regione dov’era stata innalzata la Porta Nuova si chiamava Xalces o Alga.

Nè mancano i diplomi. Uno dell’Arcivescovo di Palermo dato il 1132,(Tabularium regiae ac imperialis capellæ etc. Panormi, 1835, p. 7), chiama questo luogo castellum superius panormitanum; e il dotto editore, con la scorta del Fazello e dei diplomi, accenna il perimetro che movendo a mezzodì dal convento di San Giovanni degli Eremiti, passava a ponente per un giardino dove surse una chiesa di Sant’Andrea, indi a tramontana pel luogo detto il Papireto, ed a levante per la piazza del Palagio Reale il quale rimanea chiuso nel mezzo. Un contratto del 1167 (op. cit., p. 24) riguarda una casa quae est intus Chalca; un altro del 1258 (op cit., p. 68) concerne altro stabile situm in Galcam Panormi prope palacium Caseri; e fino al 1309 (op. cit., p. 94) sappiamo d’altra casa sita in Galca Panormi in ruga (rue, strada) Sanctæ Mariæ Magdalenæ de Galca. Così anche un diploma greco del 6662 (1153) presso Morso, Palermo antico, p. 334, dice della Porta Γάλκας ed il transunto siciliano a p. 342, della “porta di Xalcas”.

Senza il menomo dubbio, ancorchè manchi ogni documento arabico, il nome era El-Halka, trascritto nel modo che ciascun credea più conforme alla pronunzia; il quale vocabolo, passando per bocche non arabiche, perdè a poco a poco la prima lettera aspirata e si ridusse in ultimo ad Alga. Il Fazello, Deca Iª, lib. VIII, cap. I, ritrasse dalle antiche carte il sito, il nome, e fin anco il significato ch’ei dà esattamente, ancorchè trascriva a suo modo Yhalca ed applichi erroneamente questo medesimo nome alla Khalsa o Khalesa. Il Cascini e quindi il Morso, Palermo antico, p. 228, 230, con errore diverso, fecero derivare Chalca ec. dallo aggettivo arabico che significa alto.

312.  Guglielmo di Puglia e Amato.

313.  Verso il 1832 rispianandosi il suolo della Piazza del palazzo reale, furono scoperte tre o quattro fosse da grano spaziose molto e profonde, costruite in forma d’una pera.

314.  Lib. VI, cap. XXIII. — Ecco ora le autorità contemporanee risguardanti la costruzione dei due fortilizii dell’Halka e del mare.

Guglielmo di Puglia, lib. III.

Munia castrorum fecit robusta parari,

Tuta quibus contra Siculos sua turba maneret,

Addidit et puteos, alimentaque commoda castris.

Obsidibus sumptis aliquot, castris due paratis.

Malaterra, lib. II. cap. XLV. Amato, lib. VI, cap, XXIII; Anonimo Duo fortissima castra, alterum juxta mare, alterum in loco qui dicitur Galea (corr. Galca), presso Caruso, Bibl. Sic., p. 846. e nella traduzione francese, lib. I, cap. XXII. Amato e il Malaterra dicono d’una sola fortezza, senza dubbio l’Halka che era la più importante.

315.  Pirro, Sicilia Sacra, p. 69 e 1369.

Nel primo de’ citati luoghi il Pirro fa menzione anco della chiesa di San Pietro e Paolo accanto il Castellamare di Palermo, fabbricata per ordine di Roberto e compiuta il 6589 (1081) come l’attestava una iscrizione greca. Ecco dunque le due cappelle destinate a’ presidii delle due fortezze.

La citata concessione di beni nel territorio di Mazara fu fatta senza dubbio avanti il partaggio definitivo dell’isola, nella quale Mazara toccò al conte Ruggiero.

316.  Fazello, Deca Iª, lib. VIII, cap. I, e Deca IIª, lib. VII, cap. I.

La Cronaca Amalfitana, presso Muratori, Antiq. ital., tomo I, p. 214, e Romualdo Salernitano, anno 1076, dicono finita in quel torno da Roberto la chiesa di Santa Maria Vergine in Palermo.

317.  Amato, Malaterra, Guglielmo di Puglia, ll. cc.

318.  Guglielmo di Puglia, lib. III.

Reginam remeat Robertus victor ad urbem;

Nominis ejusdem quodam remanente Panormi

Milite, qui Siculis datur Amiratus haberi.

La voce amiratus qui non sembra posta per cattivo scherzo; perchè stanziata in Palermo la Corte normanna, il primo ministro e capitan generale ebbe appunto questo titolo come diremo a suo luogo.

319.  Malaterra, lib. III, cap. I.

320.  Amato, lib. VI, cap. XXIII, p. 184. Cf. Guglielmo di Puglia, lib. III.

321.  Chronic. Amalph., presso Muratori, Antiq. Ital., tomo I, p. 213. Romualdo Salernitano, anno 1071.

322.  Leone d’Ostia, lib. III, cap. LIII. Si confronti Amato, lib. VIII, cap. XXXV.

323.  Lib. VIII, cap. XIII.

324.  Questo fatto è riferito da Amato, lib. VIII, cap. XXIX.

325.  Le prime pratiche di Gregorio VII con Roberto si ritraggono da Amato, lib. VII, cap. IX; ancorchè il cronista, che ben potea saperlo, non dica il soggetto delle negoziazioni e le supponga spezzate per una quistione di cerimonia, il che non è niente verosimile. Il papa, dice Amato, andato a Benevento volea che Roberto venisse a trattare in città; il duca amava meglio discorrere all’aria aperta nel suo campo. Amato segna con molta precisione la data, dicendo che all’esaltazione d’Ildebrando, trovandosi Roberto gravemente infermo a Bari, si era sparsa in Roma la sua morte, onde il papa avea mandato a condolersene con la moglie e poi a rallegrarsi con lui della salute ricuperata e che indi si cominciò a negoziare (Libro VII, cap. VII, VIII).

326.  Amato, lib. VII, cap. X, XII, XIII.

327.  Si confronti particolarmente con le altre autorità contemporanee Landolfo, Histor. Mediol., edizione di Pertz. — Scriptor., tomo VIII, p. 100.

328.  Questo particolare è riferito da Malaterra, lib. III, cap. XXXIX.

329.  I fatti riportati senza speciale citazione dopo il ritorno di Roberto dalla Sicilia in Terraferma, si ritraggono da Malaterra, lib. III, Guglielmo di Puglia, lib. III, IV, V, Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., p. 846 e segg. Amato non arriva che alla morte di Riccardo principe di Capua. Si confronti per la Cronologia, Muratori, Annali, dal 1072 al 1085, e Gibbon, Decline and Fall, cap. LVI.

330.  Credo se ne debba eccettuare quel tratto di costiera che da Caronìa, confine occidentale del Valdemone, si stende al fiume detto di San Leonardo o di Termini che veggiamo confine orientale del territorio palermitano nel 1093. Perocchè i cronisti ci narrano che Roberto ritenne per sè il Valdemone e Palermo; nè egli è verosimile che Ruggiero abbia ceduto il territorio di Cefalù, e di tutta quella regione la quale, non appartenente al Val Demone nè a Palermo, egli avea corsa per molti anni, irrompendo nella costiera settentrionale per la valle dell’Imera.

331.  Malaterra, lib. III, cap. IV, V.

332.  Malaterra, lib. III, cap. X.

333.  Nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 497.

334.  Il Reiske, Annali di Abulfeda, tom. III, nota 260, credè trovare in questa corrotta lezione delle cronache cristiane il nome d’Ibn-el-Wardi; nel che l’ha seguito il Wenrich. Ma la correzione non mi pare niente certa.

335.  Si vegga il lib. IV, cap. XIV, pag. 526, 527 del secondo volume.

336.  Malaterra, lib. III, cap. I.

337.  Malaterra, lib. III, cap. I, scrive ad infestandam Catanam. Ritraendosi ch’egli avesse occupata Catania il 1071 e che la si tenesse per lui il 1076, parmi si debba intendere l’infestagione del contado.

338.  Malaterra, lib. III, cap. VII.

339.  Malaterra, lib. III, cap. VIII, IX. Si confronti l’Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 847; Fra Corrado, anno 1075; Lupo Protospatario, 1076, il quale dice preso a Mazara il nipote del re di Affrica con 150 navi: ma cotesta tradizione ripugna a quella più autorevole del Malaterra.

340.  Si vegga qui appresso la fazione marittima del 1085 sopra Nicotra.

341.  Malaterra, lib. III, cap. X, e XXX.

342.  Malaterra lo chiama Hugo de Gircaea praeclari generis a Cenomanensi provincia; l’Anonimo Hugo de Brachia, presso Caruso, Bibl. Sic. p. 847 e la trad. francese, pag. 298, Hugue de Brechie, e lo dice genero del Conte. Si confronti Ducange, Les familles normandes, nella edizione di Amato, per Champollion, pag. 357. Le parole dell’Anonimo quem dominum Cathaniae praefecerat, fan supporre Ugo feudatario di Catania.

343.  Malaterra, lib. III, cap. X; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 848; Fra Corrado, anno 1076.

Una tradizione locale, confrontata con una scrittura del XVI secolo, la quale non sappiamo se sia fondata esclusivamente sulla medesima tradizione, porterebbe a credere distrutta la fortezza di Judica o Zotica, dal popolo di Caltagirone, colonia genovese che avesse prestate sue forze al conte Ruggiero. Tratterò a suo luogo della probabile origine genovese di Caltagirone. La tradizione, in vero, e la citata scrittura del secolo XVI la quale è trascritta nel Ms. dei privilegii della città di Caltagirone, fog. 602, a 609, col titolo di Chronica Pheudorum Hamopetri, dicono occupata Judica dagli uomini di Caltagirone al tempo di re Ruggiero, dal quale s’erano ribellati que’ Musulmani; onde il re, non sapendo altrimenti domarli, promise il territorio a chi espugnasse la rôcca. I Caltagironesi vi riuscirono per tradimento di una loro concittadina, tenuta a forza dal signor musulmano; la quale ordinò coi propri fratelli di aprire una notte le porte del castello; talchè andativi gli armati di Caltagirone, entrarono, distrussero ogni cosa e s’ebbero dal re il territorio. Questo fatto, sotto il regno di Ruggiero il re, non può ammettersi; tanto più che il feudo di Judica e quello di Fatanasino che v’era congiunto, compariscono in un diploma del 1160, venduti dal fisco regio al Comune, non già donati. Più verosimile sarebbe che i Caltagironesi, per pratica della donna, avessero occupato il castello com’ausiliarii del Conte Ruggiero nel 1076, e che la tradizione avesse poi confuso il conte e il re dello stesso nome, e guasta la data al par che il titolo d’acquisto del territorio. Ma non registrerò al certo un fatto storico sopra simili supposti. Certo egli è che alla metà del XII secolo la rôcca era distrutta; poichè Edrisi non ne fa parola, mentr’egli pur nota il mensil, o diremmo noi villaggio, di Judica. Della fortezza rimasero spaziose cisterne e pochi ruderi; e l’asprezza del monte mostra il sito inespugnabile. Su queste condizioni topografiche e su le tradizioni, si vegga Amico, Dizionario topografico della Sicilia, articolo Judica: e Aprile, Cronologia Universale della Sicilia, pag. 64 segg., 91 seg. Ne fa cenno anche il Fazello, Deca I, lib. X, cap. II, trattando di Caltagirone.

344.  Ab hac eadem urbe strictior sinus terrae ab utroque latere mari urguente, longius in mare porrigitur, pascuis uberrimis abundans. Convien che il sito della città sia mutato alquanto, o piuttosto modificati gli anfratti della spiaggia, per alcuna delle note cagioni.

345.  Malaterra, lib. III, cap. XI, XII; Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 848.

346.  Elias Cartomensis (variante Crotomensis) presso il Malaterra, lib. III, cap. XVIII e XXX. Il nome cristiano fu dato al battesimo, se pur quello che leggiamo ne’ cronisti, non è alterazione di Alì, Eliâs, o Eliseo. L’altro nome, etnico o patronimico, non si può stabilire con certezza su la trascrizione latina. Cartami significherebbe oriundo di Cartama di Spagna, vedi Merâsid-el-Ittila’, tom. II, pag. 399, 400. Si potrebbe anco leggere secondo il Lob-el-Lobâb, pag. 205. Kardami, e Kirtimi o Kortomi (venditore di Zafferanone), o finalmente si potrebbe supporre un’alterazione più grave e ridurre il nome etnico a Kotami, ossia berbero della tribù di Kotama, ch’ebbe tanta parte nella fondazione della dinastia Fatemita e lasciò tante radici in Sicilia, come abbiamo accennato nel libro III, cap. I, V, VI, pag. 35 segg. 122, 157. etc. del II volume.

347.  Sepibus et siropibus claudens, Malaterra. Stropus non si trova con questo significato nel Dizionario di Ducange, ma bene il derivato Strupatura e Stropatura.

348.  Golafros nel Malaterra. Si vegga il Capitolo II di questo libro pag. 66, nota 5.

Debbo avvertire che nella edizione del Malaterra va corretta Temîm: la parola Tunicii, sì in questo luogo e sì nel lib. IV, cap. 3. Tunis non divenne capitale dell’Africa propria se non che dopo la caduta della dinastia zirita e dopo il conquisto del paese per gli Almohadi, nella seconda metà del XII secolo. Egli è evidente che un copista o forse il primo editore del Malaterra, ignorando questo nome di Temîm, principe zirita, credè buona lezione Tunisii che tanto somiglia a quell’altra nella scrittura. Se prova occorresse di questo, si potrebbe vedere il lib. IV, cap. 3 del Malaterra nella edizione del Caruso, dove è notata due volte la variante Thumin che si avvicina alla vera lezione e pur gli eruditi del XVI, XVII e XVIII secolo, la messero da parte come erronea, perchè lo Stato di Temîm si era fatto pur troppo celebre in Europa dal XIII secolo in poi, sotto il nome di Regno di Tunis.

349.  Si noti che Roberto, chiamato dagli Amalfitani, assediava Salerno in questo tempo; che i Pisani ebbero talvolta pratiche con Roberto; come racconta Amato, lib. V. cap. XXVIII, pag. 164, e che Ruggiero, chiamato il 1086 da’ Pisani e da’ Genovesi all’impresa di Mehdia, ricusò, allegando i patti ch’egli avea con gli Ziriti.

350.  Malaterra, lib. III, cap. XV a XVIII; Anonimo, presso Caruso. Bibl. Sic., pag. 853, il quale chiama il liberatore di Ruggiero, Casaldus con la variante Ansadus, Anraldus, e Cansaldus e nella traduzione francese, pagina 310, Ansalarde.

351.  I diplomi di concessione e la carta topografica dei poderi che ha data, ancorchè poco esattamente, Don Michele del Giudice (Lella) in appendice alla Descrizione del Real tempio ec. di Morreale, Palermo, 1702, in fol., ci abilitano a misurare sopra una buona carta il territorio continuo conceduto intorno a Giato; senza contare gli altri beni che la sciocca pietà di Guglielmo II largì in molti altri luoghi. Il detto territorio, posto la più parte in provincia di Palermo, torna a un triangolo curvilineo il cui vertice settentrionale sia posto a Giardinello, l’orientale tocchi i boschi di Ficuzza, ed un lato, inarcandosi verso mezzogiorno, venga a formare l’angolo di ponente, non lungi da Alcamo in provincia di Trapani. Or in quest’area sono adesso tre soli comuni: Piana de’ Greci, 7270, San Giuseppe li Mortilli, 6412, Camporeale, 3157. Le cagioni di questo gravissimo fatto dello spopolamento della Sicilia dall’XI al XVI secolo, toccate nella Notice che accompagna la mia Carte Comparée de la Sicile, Paris, 1859, saranno da noi trattate nel VI libro.

352.  Jacenses (l. Jatenses) natura montis quo habitabant, numerosa multitudine suorum fisi, erant enim usque ad tredecim millia familiarum. È probabile che in questo numero sia compresa la popolazione di molti villaggi tra quelli accennati poc’anzi nel testo. E però ho detto doversi ragionare gli abitatori di tutto il territorio per lo meno a 60,000.

353.  Malaterra, lib. III, cap. 20, 21, dove si legge: Statutum servitium et censum persolvere renuntiant. Malaterra non dice da chi fosse stata determinata la quantità del servigio e la somma del censo. Il nome Jacenses va corretto Jatenses. Un altro che va letto senza alcun dubbio Corleone, è stampato Cortitum con la variante Cornilium.

354.  Undecumque terrarum artificiosis cæmentariis conductis.

355.  Malaterra, lib. III, cap. XXXII.

356.  Malaterra, lib. III, cap. XXXVI dice de’ tesori del conte Ruggiero guardati strettamente a Troina del 1082.

357.  Il testo ha la variante Betchumne. Si veggano le strane lezioni del nome d’Ibn-Thimna nel lib. IV di questa istoria, cap. XV, pag. 552 del vol. II. La somiglianza della t con la c ne’ Mss. latini del XII e XIII secolo mi farebbe leggere volentieri Bentimino, ossia Ibn-Thimna.

358.  Il vescovado di Catania fu ristorato il 1091.

359.  Malaterra, lib. III. cap. XXX; Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 853, 854 e traduzione francese pag. 310, 311, dove Roberto di Sordavalle è detto de Quinteval.

360.  Malaterra, lib. III, cap. XXXVI.

361.  Notisi che il Conte Ruggiero cominciò il primo ottobre ad allestire l’armata che dovea vendicare questo atroce insulto. È da supporre ch’ei battesse il ferro mentre gli era caldo.

362.  Così il solo Anonimo.

363.  Si vegga lo squarcio di una Kasida d’Ibn-Hamdts, che ho riportato nel lib. IV, cap. XIV a pag. 532 del II volume. Quivi il poeta, contemporaneo e siracusano, si vanta de’ “nemici della fede percossi ne’ loro focolari, delle navi piene di leoni e lancianti nafta, che vengono a saccheggiare le città de’ Barbari, de’ guerrieri dalle luccicanti maglie di ferro, i quali se ne tornan con l’armadure squarciate dalle sciabole musulmane ec.” Cotesti particolari si adattano a capello alla fazione di cui trattiamo; nè alcun’altra ne ritroviamo negli annali del tempo, alla quale convengano.

364.  Malaterra, lib. IV, cap. 2.

365.  Resesalix nel Malaterra per errore al certo de’ Mss. dove si dovea trovare la trascrizione del nome Arabico Ras-es-saliba, ossia Capo della Crocifissa, che leggiamo in Edrisi.

366.  Turonem. Edrisi nella Bibl. Arabo-Sicula, testo, pag. 34, fa menzione del monte Tur o Taur a Taormina, celebre per le divozioni che vi si praticavano e pei miracoli.

367.  Il porto di Lognina è designato in Edrisi con lo stesso nome.

368.  Malaterra. Variante: di Giorgio.

369.  La superiorità de’ balestrieri cristiani è notata dal solo Anonimo.

370.  Così il Malaterra. L’Anonimo dà al Conte l’onore di aver ferito l’emiro.

371.  Conf. Malaterra, lib. IV, cap. I, II; Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 854, 855; Lupo Protospatario, anno 1088; Romualdo Salernitano, anno 1088, il quale dice che gli assediati per la fame arrivarono a mangiare i bambini. Ancorchè questi due cronisti pongano la dedizione di Siracusa nel 1088 e il Malaterra nel 1085, non è dubbia la data dell’ottobre 1086, poichè il Malaterra dice incominciati gli appresti del navilio cristiano nell’ottobre 1085, l’assedio nel maggio seguente e finito nell’ottobre. Una nota ms. contemporanea, citata dal Pagi, Annali di Baronio 1087, N. II, porta questo anno la occupazione di Siracusa per Ruggiero e il guasto d’Africa (Mehdia) pei Pisani. E ciò ben torna contando l’anno dal settembre all’agosto.

372.  Malaterra, lib. IV. cap. III.

Il primo errore, volontario o no, di questo autore o di chi gli dettava lo scritto, sta nella cronologia. Posto l’assedio di Siracusa nel 1086, i Pisani non gli poteano offrir allora la città di Mehdia, la quale fu presa nel 1087. Si trattava dunque della lega e de’ preparamenti alla spedizione.

373.  Veggansi i libri III, cap. VI; IV, cap. IX; V, cap. III, vol. II, p. 139-367; vol. III, pag. 80, 81.

374.  Si vegga la Introduzione ai Diplomi Arabi dell’Archivio fiorentino § XVI, pag. XXVI

375.  Ibn-el-Athir dice per quattro anni; Guido per tre mesi. Mi accosto anzi al primo che al secondo.

376.  Oltre i Pisani e i Genovesi, Guido cita un Pantaleo Amalfitanus, inter Graecos, Sipantus. Gli Arabi dicono Pisani, Genovesi e tutti gli altri Rûm ossia, qui, Italiani.

377.  Così tutti gli scrittori arabi.

378.  Guido.

379.  A un di presso 435,000, ovvero 1,160,000 o infine 1,450,000 di lire nostre. La prima cifra si legge in Ibn-el-Athir, la seconda in Nowairi e la terza in Ibn Khaldûn. E questa è la più verosimile, posto il poco valore dell’oro nell’Affrica propria nell’XI secolo, di che ho toccato nel lib. IV, cap. VIII, pag. 362 del Vol. II, ed anco nella Introduzione ai Diplomi arabi dell’Archivio fiorentino, § XII, pag. XVI e seguenti. Guido dice vagamente “prezzo infinito d’oro e di argento.”

380.  Questi due altri patti si leggono nel solo poema di Guido e mi sembrano verosimili. Non così l’ultimo che egli aggiugne, cioè di tenere come suoi signori i Pisani e i Genovesi, di riconoscere l’alto dominio del Papa e pagargli tributo annuale.

381.  Marangone, nell’Archivio storico italiano, tom. VI. parte II, pag. 6; Chronica Pisana, presso Muratori Rerum Italic., tom. VI, pag. 109 e 168; Caffaro, nello stesso vol. del Muratori, pag. 253: Anno 1088, In exercitu Africæ; Chronic. Mon. S. Sophiae Beneventi, presso Muratori, Antiq. Ital., tom. I, pag. 259; Chronica Fussenavæ Anno 1087, presso Muratori, Rer. Ital., tom. VII; Poesia latina di Guido, nel Bulletin de l’Académie de Bruxelles, tom. X, parte I. pag. 524 segg. ripubblicata da M. Du Méril, Poesies populaires latines de Moyen-âge, Paris, 1847, in-8, pag. 239 segg.; Chronica di Leone d’Ostia, continuata da Pietro Diacono, Lib. III, cap. 71, presso Muratori, Rer. Ital. tom. IV, la quale dà tutto il merito dell’impresa al papa e vi fa perire centomila Saraceni; Bernoldi, Cronic., presso Pertz, Script., tom. V, pag. 447. Si vegga un’altra autorità contemporanea citata dal Pagi, Annali del Baronio, anno 1087, N. II (§ VIII del Baronio.)

El-Bayân-el-Moghrib, testo arabico, edizione Dozy, tom I, pag. 309, 310; Ibn-el-Athir, anno 481.,ediz. Tornberg, tom. X, pag. 109, 110; Nowairi, nella Bibl. Arabo-Sicula, testo, pag. 434; Tigiani, nella Bibl. Arabo-Sicula, testo, pag. 390, 391 e traduzione francese di M. Rousseau nel Journal Asiatique di febbrajo 1853, pag. 72, leggendosi per manifesto errore del Ms. il riscatto di 1000 dinar; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduzione di M. De Slane, tom. II, pag. 24,; infine Ibn-Abi-Dinâr (El Kaireuani) testo, nella Bibl. Arabo-Sicula, pag. 530 e traduzione francese, pag. 146, dove i traduttori han letto Veneziani in luogo di Pisani. Secondo Ibn-el-Athir e Nowairi fu pattuita la restituzione dei prigioni Musulmani. Tigiani dice positivamente il contrario. I versi che ci rimangono dell’elegia arabica sono stati tradotti nella Nuova Antologia di Firenze, vol. II, fasc. V, pag. 62, maggio 1866.

La data esatta, che si legge nel Bayân, e ch’è seguita da Tigiani e da Ibn-Khaldûn, torna al 480 dell’egira (8 aprile 1087-26 marzo 1088). La conferma la ecclisse solare del 1 agosto 1087; poichè Abu-s-Salt, citato dal Tigiani, dice seguìto il caso di Mehdia immediatamente dopo la ecclisse totale del sole nella costellazione del Lione, sotto la quale erano state gittate le fondamenta di quella città. Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Abi-Dinâr riferiscono il fatto al 481. Marangone dà il giorno di San Sisto del 1088 (1087 dell’anno comune), e la cronica di Santa Sofia il 1089. Ricordisi che, se si dovesse credere al Malaterra, sarebbe stata presa Mehdia il 1086.

Su la citata poesia latina è da notare la esattezza de’ nomi geografici e di molti fatti che si ritraggono da fonti musulmane. Per esempio veggiamo Madia (Mehdia) mirabile e vasto porto e Sibilia (Zawila) città attigua a quella; Pantalorea (Pantellaria) Timimus (Temîm) gli Arrabites (Arabi) nemici di Temîm, macris equis insidentes, corporibus ductiles ec. In generale si può dire che, tagliando un paio di zeri nelle cifre numerali, la narrazione corra esattissima.

Si riscontri il Muratori, Annali, 1088, il quale, non avendo alle mani le memorie arabiche, nè il poema di Guido, cammina con troppo sospetto; suppone esagerata troppo la importanza del fatto; si adombra di quella espugnazione contemporanea di due città, Almadia e Siviglia (El-Mehdia e Zawila) la seconda delle quali gli pare la nota città di Spagna; e conchiude erroneamente “che lo sforzo de’ Pisani fu contro Tunisi.” A cotesto sbaglio lo condusse per avventura la lezione del Malaterra: urbem regiam regis Tunicii, dove, senza dubbio, è da leggere regis Temimi, sì come ho notato in questo medesimo capitolo pag. 158, nota 1.

382.  L’ha, sesta lettera dell’alfabeto arabico, fu resa per lo più, sino ad uno o due secoli addietro, con le lettere latine ch; e il dal, ottava lettera, più spesso con una t che con una d. L’Anonimo ha Hamus.

Sapendosi dalla storia che Chamut, fatto cristiano con tutta la famiglia, rimase sotto il dominio del conquistatore, possiamo ben identificare il casato con quello del Ruggiero Hamutus, già proprietario di certi beni che Federico II concedea nel 1216 alla chiesa di Palermo (Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 142) e dell’Ibu-Hamûd, ricchissimo signore che Ibn-Giobair vide in Sicilia nel 1185. Questo nobil uomo poteva esser figliuolo o nipote del regolo di Castrogiovanni. Sapendosi ch’ei portasse il soprannome d’Abul-I-Kâsim, sembra anco il Bulcassimus, celebre per brighe alla corte di Palermo, ne’ primordii del regno di Guglielmo il Buono; l’Abu-I-Kâsim al quale Ibn-Kalakis intitolava il suo Ez-Zahr-el-Basim; e l’Ibn-Abi-I-Kâsim, al quale Ibn-Zafer, venuto in Palermo, dedicava, una diecina di anni innanzi, l’Asalib-el-Gaiah, il Mosanni, il Dorer-el-Ghorer, e la seconda edizione del Solwân-el-Motha’, sì come io ho notato nella Introduzione al Solwân (Firenze, 1851) pag. XXIV a XXVII. Si avverta che il nome di Kâsim e il soprannome di Abu-I-Kâsim tornano assai frequenti tra i Beni-Hamûd. Le genealogie di costoro si rinvengono nel Ms. di Parigi, intitolato Ansâb-el-Arab, Supplem. Arabe, 467, fog. 90, verso, e in quello della stessa Biblioteca intitolato ’Omdet-et-Talib, Ancien Fonds, 636 fog. 93, verso e segg. nelle quali opere non si fa parola dei Beni-Hamûd di Sicilia. Della casa spagnuola di questo nome dicono tutte le istorie di Spagna e d’Affrica dell’XI secolo; per esempio Marrekosci, testo, pag. 30 segg., 43 segg.; il Bayân, tom. I, pag. 308; Ibn-Khaldûn, Storia de’ Berberi, traduzione francese, tom. II, p. 152 segg.; Dozy, Histoire des Musulmans d’Espagne, tom. III, p. 316 segg. e passim, tom. IV, p. 13 e segg.

Non merita alcuna fede il libro di Nicasio di Burgio, conte palatino XXIII, intitolato La Discendenza di Achmet, ec. Trapani 1786, in-fol., nel quale si sostiene che la famiglia Burgio discenda da questo Hamudita.

383.  Malaterra, lib. IV, cap. 5; Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 855; Fra Corrado, op. cit., pag. 48.

Il Malaterra pone questo fatto nel 1086; ma al certo sbaglia d’un anno, com’è manifesto dalla correzione che abbiam fatta alla sua testimonianza su la espugnazione di Siracusa e di Mehdia, qui innanzi pag. 168 e 172, in nota. Ibn-el-Athir, Abulfeda, Nowairi, Ibn-Abi-Dinâr, nella Bibl. Arabo-Sicula, pag. 278, 414, 448, 534 portan la data del 481 (1088-89).

I nomi delle castella prese nella provincia di Girgenti, sono tolti dal Malaterra, correggendo alcun evidente errore del testo. Rimane dubbio il suo Racel, che ho trascritto sicuramente Rahl (stazione), ma vi manca il nome che dee seguire per determinare quella appellazione generica, il qual nome io non saprei indovinare tra i moltissimi Rahl di quella provincia. Credo avere ben letto Ravanusa il Remise, (variante Remunisse) del testo, poichè Micolufa sorgea presso Ravanusa. Del resto Simone da Lentini, autore del XIV secolo, il quale copiò Malaterra, nel suo libro “La conquista di Sicilia” recentemente uscito alla luce (Collezione d’opere inedite o rare, Bologna, 1865, in-8) dà otto soli nomi degli undici, dicendo non avere ritrovati gli altri ne’ testi; ed un Ms. della stessa opera, appartenente alla Bibliothèque de l’Arsenal in Parigi (Ital. N. 68) ne dà sette soltanto: Platani, Musan, Guastanella, Catalanixetta, Bosolbi, Mocofe, Cyaxo “e li altri, aggiugne, non so chi si fussiru e nun si canuxirianu, ec.”

Intorno i nomi che non si trovano nella lista odierna de’ Comuni di Sicilia, si vegga il Dizionario Topografico del D’Amico e l’Indice che io ho messo in fine della Carte comparée de la Sicile, Notice.

384.  Malaterra, lib. IV, cap. 6; Anonimo, presso Caruso, Bibl. Sic., p. 855. Secondo Fra Corrado, op. cit., pag. 48, Castrogiovanni e Girgenti furono occupate nello stesso anno. Ma ciò non è detto precisamente da Malaterra; nè citato l’anno dell’avvenimento, il quale, secondo la serie dei fatti narrati dallo stesso cronista, tornerebbe al 1087, ovvero ai primi mesi del 1088. Gli Arabi pongono la resa di Castrogiovanni nel 484, tre anni dopo quella di Girgenti (1088-89) e le fanno cedere entrambe agli orrori della fame: Ibn-el-Athir, Abulfeda, Nowairi e Ibn-Abi-Dinar, nella Bibl. Arabo-Sicula, testo, p. 278, 414, 448, 534.

A Sciacca si crede, o almeno si credeva un tempo di possedere proprio il fonte battesimale nel quale fu reso cristiano il degenere nipote d’Alì. Si vegga una Memoria di Vincenzo Venuti, con corredo di diplomi che puzzano di falso, negli Opuscoli di Autori siciliani, Tom. VII, pag. 16. (Palermo, 1762).

385.  Malaterra lib. IV, cap. XII, XIII, XV; Anonimo presso Caruso, Bibl. Sicula, p. 855; Fra Corrado, op. cit., p. 48. Per la venuta di Urbano II in Sicilia e l’assedio di Butera, seguo la cronologia del Pagi, Annali di Baronio, 1089, § IX. Gli annalisti Musulmani, citati di sopra, differiscono dai cristiani; tacendo di Noto e Butera e ponendo ultima città occupata Castrogiovanni, ma concordano nel designare il 484 (22 febbraio 1091 a 11 febbrajo 1092) come l’anno in cui fu compiuto il conquisto normanno.

386.  Resacrambam, Malaterra.

387.  Malaterra, lib. IV, cap. XVI. Il tempo che durò la guerra di conquisto è confermato da Edrisi, il quale lo dice appunto trent’anni, contando dal 453 (26 genn. 1061 a 14 genn. 1062). Testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 26.

388.  Di questo sito han trattato Fazello, Deca 1, lib. 4, cap. I; Amico, Dizionario topografico, traduzione italiana, tom. II, Appendice, alla voce Pantalica; Massa, Sicilia in prospettiva, tom. II, pag. 126; Ferrara, Guida di Sicilia, pag. 151; Bourquelot, Voyage en Sicile, Paris, 1848, pag. 491 segg.

L’importanza di Pantalica nel 1093 si scorge dal diploma trascritto dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 618, dove il nome è scritto Pantegra, mentre si legge Pantargo in altro diploma del 1151, op. cit. p. 993; e l’Edrisi, testo, nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 56, 57 lo dà Bentarga. Ei chiama l’Anapo Nahr-Bentargha, ossia fiume di Pantalica.

389.  Malaterra, lib. IV, cap. XVIII; Cf. Anonymi Chronicon Siculum, presso il Caruso, pag. 856 e nella traduzione francese, p. 312. Ancorchè il testo del Malaterra porti questi fatti nel 1092, mi è parso di seguire più tosto la data notata dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. XI e 612, secondo una inscrizione sepolcrale oggi, a quanto e’ pare, perduta.

390.  Oltre che questo risulta chiaramente dai fatti, sel sapeano ben Ruggiero e i suoi contemporanei. «Comes ergo totius progeniei suæ sustentator, citra Romam versus Siciliam, sicuti maria ab undique cingunt, abundantia rerum et industria callentis, sapientis consilii præcellebat; unde et omnes sua negotia ad ipsum conferebant.» Malaterra lib. IV, cap. XXVI Cf. cap. XVII, XX ec.

391.  Lib. III, cap. XLI.

392.  Così espressamente nel lib. IV, cap. XXIV, trattando di quella ch’ei chiama ribellione d’Amalfi, del 1096.

393.  Si veggano i cap. I e V del presente libro, pag. 31, 37 segg. e 141 del volume.

394.  «Maxime quia Apuli, expeditionibus aliquo annorum curriculo desueti, corpus nullis plagis et diutinis laboribus fatigando, quin recreando sibi potius indulgere, quam expeditionibus iterum assuescendo, insudare nitebantur.» Malaterra lib. IV, cap. XXVI.

395.  Malaterra, lib. III, cap. XLI.

396.  Malaterra, lib. IV, cap. XXIV.

397.  

«Simon fonte, pictus fronte inunctione chrismatis,

Heredatur: solidatur Dux futurus Siculus:

Calabrenses suos enses sibi optant adjici:

Pater totum implet votum: Dux concessit fieri.»

Malaterra, lib. IV, cap. XIX.

398.  Malaterra, lib. III, cap. XLI. Sul primo partaggio si vegga il cap. I del presente libro, pag. 51 del volume.

399.  Malaterra, lib. IV, cap. IX segg.

400.  Si vegga il capitolo VI, pag. 156, dove si dice delle soldatesche capitanate da Elia Cartomi, le quali sembrano di certo musulmane.

401.  Malaterra, lib. IV, cap. XVII.

402.  Malaterra, lib. IV, cap. XXII.

403.  Si veggano i cap. IV e VI del presente libro, pag. 107, 176 del volume.

404.  Lupo Protospatario, anno 1096; Annales Cavenses, sotto lo stesso anno, presso Pertz, Scriptores, tom. III, pag. 190; Pietro Diacono, lib. IV, cap. XII; Romualdo Salernitano anno 1096. Alcuni compilatori hanno notato che, se i Musulmani fossero stati 20,000, si sarebbe continuato l’assedio. All’incontro è da considerare che il Conte e gli altri capitani cristiani non amavan di certo a rimanere in balìa de’ Musulmani, appunto in quella spaventevole eruzione di passioni religiose.

405.  Malaterra, lib. IV, cap. XXIV. Si confronti Guiberto Abate, Historia Hierosolim., lib. III, cap. I.

406.  Mi par che il Malaterra, col suo tentoria bitumine palliata, alluda soltanto al colore; siccome in un altro luogo (lib. III, cap. XIX), descrivendo la costruzione della Chiesa di Traina, ei dice: Parietes depinguntur diverso bitumine. Pure potrebbe significar tende di tele incatramate, poichè la voce bitumen si adoperava nella bassa latinità per designare ogni sorta di materia resinosa. Veggasi Ducange alla voce bituminare. Quanto al verbo palliare, credo che qui sia usato nel senso di colorare, non di addogare, dipingere a forma di pali, o strisce.

407.  Malaterra, lib. IV, cap. XXVI a XXVIII.

408.  Vita di San Brunone, negli Acta Sanctorum, ottobre, tomo III, pag. 662 segg., 719 segg. e il diploma del conte Ruggiero, dato il 1098; su l’autenticità del quale ho molti dubbii, non ostante i lunghissimi comenti degli eruditi editori. Cotesto diploma e parecchi altri relativi al Monastero di San Brunone si leggono ne’ Regii Neapolitani Archivii Monumenta, vol. V, ni 450, 466, 477, segg. 494, segg. 510; pag. 129, 171, 203, 204, 205, 208, 245, 246, 249, 278.

409.  «Et sumptis ab Anselmo corporalibus cibis, gratiosi revertebantur.»

410.  Eadmeri, Vita S. Anselmi, estratto, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, pag. 974, 975.

411.  «E (i Franchi) infestarono qua e là l’Affrica (propria) occupandone qualche luogo, che poi perdettero.» Mi par che queste parole accennino chiaramente ai fatti di Bona e Mehdia da noi testè raccontati (cap. I e VI, pag. 13 e 168, del presente volume) e forse ad altri che ignoriamo.

412.  Letteralmente sarebbe in latino: Femure sublato, pepedit crepito magno.

413.  Ibn-el-Athîri Chronicon, testo, anno 491 (1097-8), ediz. Tornberg, tomo X, pag. 185 segg. e nella mia Biblioteca Arabo Sicula, testo, pag. 278, 279. È da notare che lo stesso nome di Barduil (Baldovino) è dato dagli annali musulmani all’imperatore Ottone II (Veggasi il nostro lib. IV, cap. VII, pag. 328 del secondo volume). Sembrerebbe che, sotto uno dei primi Baldovini di Gerusalemme, fosse passata dai Cristiani a’ Musulmani qualche falsa tradizione su l’impero de’ Franchi, pervenuto in linea retta da Carlomagno alla casa di Bouillon.

414.  Si vegga il Capitolo precedente, pag. 168 di questo volume.

415.  Si noti che il Conte, conducendo i suoi Saraceni all’assedio di Capua, era corso fino a Benevento, alla quale città avea messa una taglia. Malaterra, lib. IV, cap. XXVI.

416.  Si vegga il Capitolo precedente, pag. 176.

417.  Ruggiero assediava Butera, come si è notato al luogo citato, nell’aprile del 1089. Il papa venne a trovarlo nella stessa primavera o nella state; e poi nel settembre fu celebrato il Concilio di Melfi, dove si proclamò la tregua di Dio, e il duca Ruggiero ebbe l’investitura dal papa.

418.  Malaterra, lib. IV, cap. XXIII, il quale dice del vescovo di Traina: nam Italus erat et illorum partium gnarus. Questa espressa testimonianza porta a correggere i luoghi di Pirro del Fazello e di tutti i compilatori, che credono fatto vescovo di Traina, e poi di Messina, Roberto di Grantemesnil fratello della prima moglie di Ruggiero, ch’era abate di Sant’Eufemia in Calabria fin dal 1062.

419.  Pandolfo Pisano presso Muratori Rerum Italic. Script., tom. III. parte I, p. 353.

420.  Malaterra, lib. IV, cap. XXVII.

421.  Op. cit., lib. IV, cap. XXIX.

422.  Lupo Protospatario e Romualdo Salernitano, entrambi sotto l’anno 1101. Il giorno è determinato dal registro mortuario cassinese, presso Caruso, Biblioth. Sicula, pag. 523. Lasciando da canto gli altri scrittori Arabi che vagamente dicono morto Ruggiero avanti il 494, ci basti ricordare Edrisi e Ibn-Khaldûn, i quali pongono la morte del conte precisamente in quell’anno, cioè dal 6 novembre 1100 al 26 ottobre 1101. Si veggano i due testi nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 26, 485 e 498, e la versione del secondo per M. de Vergers, pag. 183.

423.  Malaterra, lib. IV, cap. XXV.

424.  Si vegga qui innanzi, pag. 192.

425.  Malaterra, lib. III, cap. XXII.

426.  Id., lib. IV, cap. VIII.

427.  Id., lib. IV, cap. XIV, Cf. Anon. Chron. Sic., presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 856, e nella traduzione francese, p. 312. Su la figliuolanza del Conte Ruggiero, si vegga il Pirro, Chronologia Regum Siciliæ, pag. X segg., e Ducange, Familles Normandes, in Appendice ad Amato, pag. 354 segg. Il Pirro nel detto capitolo, pag. XI, novera anco tra i figliuoli del conte Ruggiero un Malgerio, il cui nome si cava da’ Diplomi della sua raccolta ed anco è soscritto in altri dell’Archivio di Napoli, due de’ quali dati il 1094 uno il 1098, uno il 1102 ed uno il 1096 pubblicati nel Regii Neapolitani Archivii Monumenta, vol. V, pag. 205, 208, 249, 278 e vol. VI, pag. 164. Il diploma del 1098 è stato pubblicato anco dai Bollandisti (Vita di San Brunone, ottobre, tomo III, pag. 662 segg.). Credo illegittimo questo Malgerio, perchè il Malaterra tace di lui, non essendo sforzalo dagli avvenimenti a nominarlo, e non pensandosi, forse, a lui in corte quando si trattava della successione.

428.  Malaterra, lib. IV, cap. XIX.

429.  Sapendosi con esattezza il giorno della morte dei re Ruggiero a dì 26 febbrajo 1154 e ch’egli avesse allora 58 anni, 2 mesi e 5 giorni, la sua nascita torna al 22 dicembre 1093. Su questa data si sono fatte molte controversie da chi voleva a forza far nascere il bambino dopo l’assedio di Capua, per le parole del Malaterra: ibi se impregnavit Comitissa Adelasia de comite Rogerio. Ma non si è riflettuto che questo Ruggiero è appunto il padre! I Bollandisti non avean dunque bisogno di supporre un’interpolazione del testo di Malaterra, per provar seguìto l’assedio di Capua il 1098, come il fanno nella vita di San Brunone, tom. III di ottobre, pag. 655 segg.

430.  Malaterra, lib. IV, cap. XIV.

431.  

Marchionis, Militonis,

Bonifacii itali,

Neptis ornat, quod exornat

Uxor Adelasia

Brutiorum Siculorum

Comitem Rogerium etc.

Questi versi latini di metro italiano, attribuiti a Maraldo, monaco di Calabria contemporaneo del primo conte Ruggiero, celebrano la nascita del costui figliuolo per nome anco Ruggiero e il battesimo datogli da San Brunone. Li pubblicò per lo primo il Bulini, nel Prospetto della Storia de’ Certosini, come ritraggo dagli Acta Santorum, mese d’ottobre, vol. III, pag. 656 segg. dove i dotti editori li ristamparono a proposito di San Brunone. Ma l’appellazione classica di Bruzii data a’ Calabresi odora di erudizione troppo più moderna. Inoltre i primi quattro versetti sembrano copiati dalla prosa del Malaterra che dinanzi citammo. Perciò non mi fido troppo all’attestato di frate Maraldo.

432.  Anonymi hist. sicula, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 856, e nella traduzione francese, pag. 312.

433.  Historia Ecclesiastica, lib. XIII, presso Duchesne, Histor. Norman. Scrip., pag 897.

434.  Pirro, Chronologia Regum Siciliæ, pag. XII e XIII; Muratori Annali d’Italia, an. 1090.

435.  Fin anco gli Autori dell’Art de verifier les Dates (ediz. del 1777 vol. III, pag. 630), e il diligentissimo Saint-Marc (Abregé de l’Histoire d’Italie, tom. II, pag. 1039) danno un Bonifazio I, Marchese di Monferrato dal 1060 al 1100.

436.  Osservazioni critiche sopra alcuni particolari delle Storie del Piemonte e della Liguria, tra le Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, Serie seconda, tomi XIII, XIV, XV.

437.  De’ Simoni, negli Atti della Società ligure di Storia Patria, vol. I, pag. 141, 142, 647, 648; e il medesimo, Lettera a M. Amari, nella Nuova Antologia, vol. III, pag. 193 segg. Firenze, settembre 1866.

438.  Si veggano più precisamente i confini, nella Nuova Antologia, l. c.

439.  Breve di Gregorio VII, del 3 novembre 1079, da Labbe, Concilia, presso San Quintino, op. cit. Memorie dell’Accademia di Torino, tom. XIII, p. 53.

440.  Introduzione, pag. X a XIII. Tra gli altri errori familiari all’impostore maltese replicati in questa pergamena, è la lettera aín aggiunta nel nome di Messina. Ecco intanto la storia del diploma.

L’Archivio di Napoli comperò questa ed altre pergamene da privati nel 1844, com’io ritraggo dall’erudito signor Giuseppe Del Giudice. Il professore Lettieri che sapea benino la grammatica arabica ma non avea tanta pratica della lingua e molto meno della paleografia, credè tener nelle mani un gioiello; onde, tutto lieto, lo presentò al Congresso, come si scorge dagli Atti della settima adunanza degli Scienziati italiani, Napoli, 1846, pag. 641. Quivi si legge che l’accademico signor De Ritis mise in forse l’autenticità del Diploma e che disputatone un poco, si passò ad altri argomenti e sollazzi. Il Congresso non s’era adunato di certo per giudicare cartapecore arabiche, nè trattar di cose letterarie. Mi sia lecito aggiugnere che, vivendo io allora in Parigi, informato della scoperta, dichiarai a priori falso cotesto documento; e che dopo il 1849, procacciatomi per favore del dottissimo Duca di Laynes, il fac-simile, che n’era stato inciso in rame, mi confermai nel giudizio e confermollo anco il mio maestro M. Reinaud. Morto intanto il Lettieri mentr’egli si apparecchiava a pubblicare la traduzione e il comento, rimasene il manoscritto ai suoi eredi; ma il diploma fu messo in mostra con una bella cornice nella sala dell’Archivio di Napoli, il cui Direttore, principe di Belmonte, nell’opera intitolata Legislazione positiva degli Archivii del Regno, Napoli, 1855, pag. 86, lo noverava tra “i più curiosi dell’Archivio” quantunque avvertisse “bisogna andar cauti e vedere se sia autentico.” Il fatto è che la cornice e il diploma sono rimasti per tanti anni e rimangono forse anch’oggi, esposti all’ammirazione del colto pubblico.

441.  Si vegga l’Introduzione, nel volume I della presente opera, pag. XXXIII, XXXIV.

442.  Su i diplomi di Sicilia venuti in luce innanzi il XIX secolo, si vegga il Gregorio, Introduzione al Diritto pubblico siciliano, pag. 33 segg.; 87 segg. della prima edizione, e in varii luoghi delle Considerazioni. Anco il Gregorio diffidò delle versioni de’ diplomi greci, come si scorge dalle Considerazioni, lib. I, cap. vj, nota 12.

443.  Si rinvengono, insieme con documenti d’altro idioma, nelle seguenti opere:

Morso (Salvatore), Palermo antico, 2ª ediz. Palermo, 1827, in-8.

Buscemi (Niccolò), nella Biblioteca Sacra per la Sicilia, ossia Giornale Lett. Scient. Ecclesiastico, Tom. I, II. Palermo, 1832, 1834.

Martorana (Carmelo), Risposta al Buscemi, nel Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia, Palermo, 1834, in-8.

Garofalo (Luigi), Tabularium Capellæ Collegiata in r. panormitano palatio, Panormi, 1835, in foglio.

Mortillaro (Vincenzo), Catalogo de’ Diplomi.... della Cattedrale di Palermo. Palermo, 1842, in-8.

» Elenco cronologico delle antiche pergamene della Magione Palermo, 1859, in-4.

» Opere, tomo IV. Palermo, 1848.

444.  Spata (Giuseppe), Le Pergamene greche esistenti nel grande Archivio di Palermo, tradotte ed illustrate, Palermo, 1861, in-8 (uscito il 1865).

» Sul cimelio diplomatico del Duomo di Monreale, Palermo, 1865, in-12.

445.  Avverto che per brevità saranno da me citati senz’altra qualificazione che di inediti, tutti i diplomi arabici di Sicilia de’ quali mi ha cortesemente mandate copie il Prof. Cusa.

446.  Trinchera, Syllabus membranarum, etc. Napoli, 1865, in-4.

447.  Ve n’ha alquanti nelle collezioni poc’anzi citate, a pag 203, nota 2.

Inoltre si vegga il Di Chiara, Opuscoli editi, inediti e rari sul Diritto pubblico eccl. della Sicilia, Palermo, 1855, in-8.

448.  Si vegga i nostri libri III, cap. xj, e IV, cap. xj, pag. 216, 217, 396 a 399 e 414 del vol. II.

449.  Malaterra, lib. IV, cap. xviij, xx, xxix.

450.  L’Ystoire de li Normant, lib. V, cap. xij, xxj, xxv; lib. VI, cap. xix. Si noti anco il titolo di Cristianissimo ch’ei dà a Roberto Guiscardo, nel lib. V, cap. xxv.

451.  Forma siciliana della voce appetito.

452.  Non è da confondere questo vocabolo col derivativo dalla terra di Giudica (Judica) che alcuni scrissero Zotica.

453.  Corre il cane. Sicil.

454.  Si veggano i diplomi citati qui appresso a pag. 208 per San Marco, Rametta, Librizzi, San Filippo di Fragalà.

455.  Presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 475.

456.  Lib. IV, cap. xj, a pag. 399 del secondo volume.

457.  Così gli ignoti autori della Breve istoria della liberatione di Messina, di cui abbiamo già detto nel lib. V, cap. II, pag. 56 di questo volume; il Fazzello con la sua fola de’ prigioni che aprirono la porta di Palermo, e tutti quanti. Il Martorana, Notizie, ec., lib II, cap. ij, pag. 43, accortosi di cotesto errore, corse ad un altro, supponendo spento il Cristianesimo in Sicilia: del che abbiamo trattato nel libro IV, cap. xj, pag. 414 del vol. II.

458.  Considerazioni, vol. I, Prefazione, pag. xx segg. lib. I, cap. ij, pag. 43-44.

459.  Non occorre citare le molte carte greche di Messina, nè le poche che si conoscono di Traina, quando abbiamo tante testimonianze dirette su quelle popolazioni. Ne fan fede per le altre i diplomi seguenti:

Rametta, 1096, traduzione dal greco, presso Gregorio, Considerazioni, tomo I, pag. xxvj delle note; ch’è sentenza con giudici e testimonii greci e alcuno forse latino: Giovanni Melo, Pietro Ricato, Niccolò Tisita, ec.

San Marco, 1110, testo greco, edito dal Buscemi nella Biblioteca Sacra, Palermo, 1832, vol. I, pag. 375 segg. donazione al Monastero di San Barbaro. La traduzione latina, con la data del 1097, fu pubblicata dal Martorana, nella sua Risposta al Buscemi, pag. 48, estratto dal Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia del 1831. Cf. Spata, Pergamene, pag. 215.

Librizzi, 1117, traduzione dal greco, presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, pag. lvj, lvij delle note, con nomi di frati, di Lipari e di Patti, alcuno dei quali francese e un Filippo arabo, monaco. V’ha dei nomi di notabili del paese, manifestamente greci e alcuno italico: come Niccolò di Filippo, Niceta Gallo, Niccolò Gala, Filippo Manca, Giovanni Gaitane, Andrea Police.

Monastero di San Filippo di Fragalà presso il Comune di Mirto, molti diplomi greci dati dal 1090 al 1145, pei quali furono donati a questo celebre monastero greco di Sicilia de’ villani, tra i cui nomi patronimici notansi; Bruno, Corte, Niccolò Faber, Claudus Stephanus, Galatano de Flavanu, Teodoro Accomodato, ec. presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1027, 102; ignorandosi pure se que’ vocaboli di Faber e Claudus fossero stati tradotti dal greco o si trovassero trascritti nel testo.

Ἀχάρων (Alcara li Fusi?) 1118 (?) greco, pubblicato non felicemente dal Buscemi, op. cit., pag. 365. Cf. Spata, op. cit., pag. 291.

Cefalù, 1131, traduzione latina dal greco, presso il Pirro, op. cit., pag. 799; e platea greco-arabica dei villani, citata poc’anzi a pag. 205.

Siracusa, 1104, diploma latino, nel quale si fa espressa menzione del clero greco e clero latino, presso Pirro, op. cit., pag. 619.

Aci e Catania, 1095, 1144, platee de’ villani arabo-greche, nell’Archivio della Cattedrale di Catania. Si vegga inoltre per Catania la carta di franchigia del 1168, presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. IV, nota 21, nella quale si legge: Latini, Græci, Judæi et Saraceni unusquisque juxta suam legem judicetur.

460.  Per esempio in Vicari, 1098, diploma greco in favore d’un monastero, al quale furono donati de’ villani di varii paesi, con nomi musulmani, greci e fors’anco italici: Niccolò figlio di Vitale, Basilio, Sabato, Goffredo, Ziero ec. Traduzione latina presso il Pirro, op. cit., pag. 295. Notinsi anco i nomi greci tramezzati a italiani e francesi di Vicari e Cammarata nel diploma del 1175, presso Gregorio, De supputandis, ec., pag. 55, ripubblicato da Spata, Pergamene, pag. 451 segg.

461.  Ricordisi l’arcivescovo greco che trovarono i Normanni entrando in Palermo. Quivi era nel 1138 un protopapa greco, secondo il diploma pubblicato nel Tabulario della Cappella Palatina a pag. 8. La stessa raccolta racchiude molte altre carte greche dal 1141 sino a tutto il secolo XIII. Lo stesso attestano non poche iscrizioni bilingui e trilingui.

462.  Di Giovanni, Ebraismo in Sicilia, passim; Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. j, pag. 7, 15; Zunz, Zur Geschichte und Literatur, Berlino, 1845, vol. I, pag. 487. Ognun sa che nel viaggio, vero o finto, di Beniamino da Tudela, compilato in ogni modo con ottime notizie verso il 1170, sono annoverati 200 giudei in Messina e 1500 in Palermo: traduzione inglese di Asher, Londra, 1840, pag. 159 segg. Si vegga intorno questo viaggio il Lelewel, Géographie du moyen-âge, tomo IV, pag. 37 segg.

Nella platea di Catania data del 1144, dopo gli schiavi, leggonsi i nomi di 25 famiglie di Giudei. Ve n’era anco (1120?) in Siracusa.

463.  Lib. III, cap. I, pag. 32 segg. del secondo volume.

464.  Cap. citato, pag. 35 segg. dello stesso volume.

465.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. j, pag. 5 segg. 10, 17.

In Girgenti la popolazione musulmana vincea tanto di numero la cristiana, che San Gerlando, il 1096, fece fabbricare un immenso castello a rifugio de’ suoi frati, e che il vescovo Gualtiero, il 1141, edificò novelle fortificazioni; usando per tre anni, come cava di pietre, i monumenti Agrigentini. Ch’ei non riposi in pace! Cronichetta de’ Vescovi di Girgenti, presso il Gregorio, op. cit., lib. I, cap. I, nota 14.

Si ricordino anco le varie narrazioni d’Ibn-Giobaîr, Journal Asiatique di dicembre 1845 e gennaio 1846, ed Archivio Storico Italiano, vol. IV, Appendice, N. 16, dove si dice delle popolazioni musulmane di tutti i villaggi tra Palermo e Trapani, della gelosia con che i Cristiani guardavano la ròcca di Monte San Giuliano, ec.

466.  Libro III, cap. I, pag. 32, segg. del 2º volume. I nomi etnici che seguono son cavati dai diplomi e riscontrati col Lobb-el-Lobâb, con Ibn-Kaisarani, Dsehebi, il Merasid-el-Ittilâ e le altre opere che citerò ne’ singoli casi.

467.  La copia del diploma ha Zagari, che non torna a nome etnico noto. Ritenendo la grande somiglianza della r col w nella scrittura affricana, leggo Zegawi; su la qual voce si vegga De Slane, traduz. francese d’Ibn-Khaldoun, Berbères, tomo IV, pag. 31.

468.  Hamdi, o Giamadi; Halbasi, o Giolaisi, ec. dove mancano le vocali e le trascrizioni greche. Altri non trovo affatto, come Arkhi, Baruki, Betresen (pitrusinu? ossia prezzemolo) ec.

469.  Inedita dell’Università di Palermo. Abu-Tâhir-Abd-er-Rahman-ibn-Abd-Allah-ibn-Zeidun-el-karawi.

470.  Righa è nome di tribù berbera e anco di luoghi in Affrica, De Slane, op. cit., tom. I, pag. 294. Si avverta che le stesse lettere, mutativi i punti diacritici, porterebbero Reba’i, che torna alla tribù arabica di Rebi’a, una di quelle che occuparono l’Affrica nell’XI secolo, venendo dall’Egitto: (De Slane, op. cit., tom. I, pag. 32); oppure a quella di Reb’a, ramo di Azd. (Ibn-Kaisarani, Homonyma, Leyda, 1865, pag. 194.)

471.  Su questi ultimi tre nomi si vegga De Slane, op. cit., tomo I, pag. 171, 282 e 285, e tomo III, 273, 279. Del resto, Verro potrebbe esser nome latino.

472.  Il testo arabico avrebbe Argiâknû, e la trascrizione greca dà ερτζυκνου. Aragigun è isoletta alla foce della Muluia, secondo Edrisi, Description de l’Afrique et de l’Espagne, Leyda, 1866, pag. 206 della traduzione.

473.  Mismar si chiamava la Penisola di Magnisi, tra Siracusa e Agosta. La trascrizione greca di questo nome, che portavano due famiglie di villani d’Aci, dà μεσίμερη. Se il copista greco avesse presa una w per una r, sbaglio assai frequente nei manoscritti affricani, sarebbe questo il notissimo casato de’ Ma-es-samâ «Acqua del Cielo.»

474.  Quantunque Edrisi scriva il nome di Vicari Biku, la voce Bekkara potea rappresentare questa o altra terra di Sicilia. Si vegga il nostro lib. II, cap. X, pag. 418 del primo volume, nota 3.

475.  Questa iscrizione, edita dapprima nelle Mines de l’Orient, tomo I, fu ripubblicata, sopra l’originale, da M. De Fresnel, nel Journal Asiatique di dicembre 1847, con una buona traduzione inglese di Farâs Schidiâk. La data è del 569 (1174), il nome della sepolta, Maimuna figlia di Hasan, figlio di Alì Hodseilita. Se non che dopo questo nome, la versione portava «an attendant of Ibn-es-Soosee.» Parendomi strana per più rispetti cotesta qualificazione, io domandai da Parigi al mio compagno di esilio Francesco Crispi, allora in Malta, un lucido di quelle parole e avutolo in dicembre 1853, non tardai a leggervi «soprannominato Ibn-es-Susi.»

476.  Si vegga il lib. V, cap. I, pag. 27, 28, 30, 34 di questo volume.

477.  Lib. V, cap. V, pag. 140 di questo volume.

478.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. I, note 25, 26 ec. È inutile citare i diplomi antichi che contengono nomi francesi. Noterò in vece che in uno del 1175, pubblicato dal Gregorio, De supputandis, ec., pag. 52 e segg., indi da Spata, Pergamene, ec., pag. 451 segg., traduzione latina del XIII secolo dall’arabico e dal greco, si leggono i nomi di Sir Bonom de Custasin, Sir Ricalinus de Calatabutur ec. In un diploma arabico inedito della Chiesa di Cefalù, serbato nell’Archivio di Palermo, si legge il nome di un Sir Gulielm, banchiere o non so che in Cefalù. Par che i francesi, nobili o no, nel XII secolo amassero in Sicilia di fregiarsi col titolo di Sire.

479.  Esaminati diligentemente i nomi di tutti i comuni attuali e de’ villaggi abbandonati, che sono pur molti, i quali io già pubblicava nel 1859 con la Carte Comparée de la Sicile, ne occorre pochi, di pochissima importanza e origine dubbia: Castelnormando si chiamava nel XVII secolo, al dire dell’Amico, Dizionario topografico, l’attuale Comune di Valledolmo, ma non ve n’ha notizie anteriori; Ciambra un villaggio presso Monreale; Merhela Gulielm (la stazione di Guglielmo) un luogo presso Monreale, che parrebbe stazione di caccia d’uno dei re di quel nome. Tralascio Francavilla, comune, e Monpileri villaggio distrutto su l’Etna, poichè Pila, Piliere sono nella nostra favella, come nella francese. Metto anco da canto i nomi composti con la voce burg,i quali possono riferirsi tanto al francese quanto all’italiano e all’arabico.

480.  Presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 477.

481.  Falcando presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 466. Lo sciocco Arrigo de’ principi di Navarra, fratello della Regina, era stigato da’ cortigiani a prender la somma degli affari in luogo di Stefano de’ conti di Perche. E schivando il peso superiore alle sue forze, allegava tra le altre cose: francorum se linguam ignorare, que maxime necessaria esset in CURIA. Si trattava dunque, non del paese, ma della corte; dove il principe fanciullo, bisnipote del conte Ruggiero, e discepolo di Pietro di Blois, parlava com’e’ pare il francese; e i cortigiani italiani ed arabi si adattavano. Si ricordi con ciò l’attestato di Ibn-Giobair, che lo stesso Guglielmo II parlasse l’arabico. Infine è da notare che delle lingue usate nella corte poliglotta di Palermo, la men difficile al Navarrese doveva esser quella della Francia.

482.  Considerazioni, lib. I, cap. I, nota 27.

483.  Cap. cit., nota 28.

484.  Strenuos bello milites Longobardos (del Napoletano) ac Transmontanos.... sibi largitionibus alliciens, dice il Falcando del ministro Majone, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 419. Poi ve n’ebbe degli Spagnuoli, op. cit., pag. 439 e sempre de’ Musulmani.

485.  In questo medesimo libro, cap. VII, pag. 191 del volume.

Sappiamo da Pietro di Blois (Epistolæ, nº 66), che dopo la morte di Guglielmo il Malo, l’Arcivescovo di Rouen mandò alla corte di Palermo trentasette giovani francesi dotti o di nobil sangue. Si veggano le epistole di San Tommaso di Canterbury e dell’abate di Cluni alla regina reggente in Sicilia e al ministro di lei Riccardo Palmer, nel cui epitaffio mi pare compendiata la biografia degli avventurieri di cui trattiamo:

Anglia me genuit, instruxit Gallia, fovit

Trinacris.

486.  Ibn-el-Athir, testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 278, Novairi nella stessa opera, pag. 448, e presso Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 26.

487.  Ugo Falcando presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 406-407.

488.  Diploma del 1193, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1288. La voce rua o ruga di certo non prova l’origine francese della popolazione. Oltrechè Messina era essenzialmente greca, leggiamo quella voce in un diploma del Barbarossa, il quale prometteva ai Genovesi rugam unam cum ecclesia, balneo, fundico et furno in ogni città che lo impero fosse per acquistare nel regno di Sicilia. Liber Jurium Reipub. Genuensis, tomo I, pag. 207, diploma del giugno 1162.

489.  Ravellus magister Amalphitanorum Messane, è soscritto in un diploma greco del 6680 (1172), traduzione latina presso Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. II, nota 32.

490.  Diploma arabico del Monastero di Monreale dato il 1182, e traduzione latina presso Del Giudice, Descrizione del Tempio.... di Morreale, pag. 12, in fine della divisa di Summini.

491.  Michele da Piazza, presso Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, pag. 77. La quale notizia si riferisce al XIV secolo.

492.  

Acquaviva (Caltanissetta). Acquaviva (Molise [due] Terra di Bari, Ascoli).
Altavilla (Palermo). Altavilla (Principato Ulteriore, id. Citeriore, Alessandria, Monferrato).
Bivona (Girgenti). Bibbona (Pisa).
Vicari (Palermo). Biccari (Capitanata).
Briga [S. Stefano di] (Messina). Briga (Novara, Cuneo).
Brolo (Messina). Brolpasino (Cremona). Si ricordi anco Broglio.
Burgio (Girgenti). Borgio (Genova).
Cammarata (Girgenti). Camerata (Bergamo, Ancona).
Caronia (Messina). Corona (Bergamo).
Castania (Messina). Castana (Pavia); Castano (Milano).
Chiaramonte (Siracusa). Chiaramonti (Sassari); Chiaromonte (Basilicata).
Cinisi (Palermo). Cinisello (Milano).
Corleone, anticamente Coriglione, (Palermo). Coreglia (Lucca, Genova); Corigliano (Calabria, Otranto).
Gagliano (Catania). Gagliano (Abruzzo, Otranto).
Geraci (Palermo). Gerace (Calabria).
Gravina (Catania). Gravina (Bari).
Gualtieri (Messina). Gualtieri (Reggio d’Emilia).
Mirabella (Catania). Mirabella (Principato); Mirabello (Cremona, Pavia, Alessandria, Monferrato, Milano, Molise).
Motta [due] (Messina, Catania). Motta (Calabria Ulteriore 1ª e 2ª, Cremona, Novara [due], Capitanata, Pavia, Milano) [due].
Novara (Messina). Novara (Novara) [Piemonte].
Palazzolo (Noto). Palazzolo (Terra di Lavoro, Milano, Brescia, Novara); Palazzuolo (Firenze).
Paternò (Catania). Paterno (Principato, Calabria, Ancona). Paderna (Alessandria). Padernello (Brescia). Paderno (Como, Cremona, Brescia, Milano). Paterno, villa e chiesa presso Firenze.
Pettineo (Messina). Pettinengo (Novara).
Piazza (Caltanissetta). Piazza (Massa e Carrara, Bergamo, Como). Piazzatorre (Bergamo). Piazzo (Torino, Bergamo [due]). Piazzolo (Bergamo).
Sala [Paruta] (Trapani). Sala [di Partinico] (Palermo). Sala, antico casale presso Sciacca. Sala (Como, Parma, Novara, Bologna, Alessandria [due], Como, Principato).
Sambuca (Girgenti). Sambuco (Firenze, Cuneo). Sambughetto (Novara).
Saponara (Messina). Saponara (Basilicata).
Scaletta (Messina). Scaletta (Cuneo).
Scopello [Tonnara di]. Scopello e Scopa (Novara).

493.  Presso Gregorio, Considerazioni. lib. I, cap. III, nota 46. Il Francese è di Limeuil, nel Dipartimento della Dordogne (Limoliensis). Ho detto bresciano un Herbertus Braosensis (Bressensis?).

494.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 771, 772. Tolceto era villa nel territorio dell’attuale comune di Nè, in provincia di Genova, come si vede dagli Atti della Società Ligure di Storia patria, vol. II, parte II, pag. 769. V’ha anco tra’ testimonii un Roberto di Sardevalle (o Surdavalle come si legge nel Malaterra, libro III, cap. XXX), il qual nome potrebbe tornare a Sordivolo in provincia di Novara. Guglielmo de Surdavalle è soscritto in un diploma del 1090, presso Spata, Pergamene, pag. 248.

495.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 76.

496.  Presso Spata, Pergamene, pag. 266.

497.  Presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. V, nota 3, pag. LI, LII.

498.  I diplomi siciliani e napoletani del XII secolo e le Costituzioni di Federigo imperatore, provvedono severamente affinchè non solo i servi della gleba e i villani, ma anco i borghesi, non si partano dalla terra del signore.

499.  Merûsid-el-Ittila’, testo, all’articolo Ankabord. Ma Edrisi, Géographie, trad, di Jaubert, vol. II, pag. 118, 120, 261, 262, ristringe i limiti dalla parte di mezzogiorno; e Abulfeda conosce già le divisioni politiche dell’Italia, Géographie, trad. di M. Reinaud, pag. 36, 37 ec.

500.  Presso Muratori, Rer. Ital. Script., tom. IV, pag. 498.

501.  Eustathii Metropolitae Thessalonicensis, De Capta Tessalonica, edizione di Bonn, pag. 415. Eustazio scrive λαμῶαρδικοί e λογγιθάρδοι.

502.  Pietro Diacono, presso Muratori, Rerum, Italicarum Scriptores, tom. IV, 518. Si vegga poi Costantino Porfirogenito, De Themathibus, p. 1462, e Muratori, Annali d’Italia, anno 1008.

503.  Presso Caruso, Bibl. Sic., de’ primi a p. 419, 444, 450, e de’ secondi a’ luoghi citati qui appresso. Si vegga anco Romualdo Salernitano, presso Caruso, op. cit., pag. 868.

504.  Presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. IV, nota 25. Il Gregorio non porta la data; ma la non può essere posteriore al 1153.

505.  Falcando e Romualdo Salernitano, presso Caruso, op. cit., pag. 440, 442, 443, 868.

506.  Falcando, presso Caruso, op. cit., p. 448, 462, 480, 481.

507.  Deca I, libro I, cap. VI, e libro X, cap. I e II, per Aidone; e per San Fratello, Deca I, libro IX, cap. IV, dove si legge et Longobardorum, ut ex incolarum idiomate colligitur, oppidum. E ciò conferma l’Amico, nel Dizionario topografico.

508.  Pirro, Sicilia Sacra, pag. 582, 588.

509.  Diploma dell’imperator Federigo, dato di Cremona il 20 febbraio 1248, (Historia Diplomatica Friderici II, tom. VI, p. 695) dal quale si vede che Corleone era stata conceduta molto innanzi a’ lombardi Oddone e Bonifacio de Camerano, e Scopello anche prima di Corleone.

510.  Questa opinione del dottissimo Tedoro Wüstenfeld, è sostenuta dal fatto che il nome di Scopello, non arabico al certo nè greco, si trova nella provincia di Novara in Piemonte e comparisce in Sicilia allo scorcio dell’XI secolo.

511.  Ho citate le sorgenti nella mia Storia del Vespro Siciliano, cap. II, edizione del 1866, vol. I. p. 18, 22.

512.  Continuazione di Saba Malaspina, presso Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, pag. 356.

513.  Op. cit., p. 358.

514.  Pag. 196 segg.

515.  Veggasi il cap. VI di questo Libro, p. 156 del volume.

516.  Si vegga l’albero genealogico pubblicato dal De’ Simoni, nella Nuova Antologia di Firenze, settembre 1866. Un Oddone Bono, marchese, è segnato tra’ testimoni nel citato diploma del 1095, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 76; e Bono, marchese, feudatario nelle vicinanze di Corleone, è nominato nello stesso diploma. Probabilmente un Oddone de’ marchesi di casa aleramica, soprannominato il Buono.

517.  Si scorge da’ diplomi del 1094, 1114 e 1136, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 75. 1177 e 1156, e del 1113, presso Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. V, nota 20.

518.  Alessandro Abate di Telese, Libro II e III, presso Caruso, Bibl. Sic., p. 266, 293.

519.  Alessandro Abate di Telese, loc. cit. Falcando, presso Caruso, op. cit., p. 413, 417, 418. Si vegga anche un diploma di questo conte Simone, dato il 1147, nel quale sono testimonii due di Piazza, presso Lünig, Cod. Ital. Dipl., tomo II, pag. 1639.

520.  Pagina 223.

521.  Bonifazio d’Incisa, cugino carnale di Arrigo e di Adelaide contessa di Sicilia, come si scorge dall’albero aleramide pubblicato dal De’ Simoni, Nuova Antologia, settembre 1866; e Arrigo d’Incisa nominato il 1186, presso Moriondi, Monumenta Aquensia, vol. II, p. 348. Arrigo d’Incisa combattente nella battaglia di Ponza, secondo Speciale citato da me nel Vespro Siciliano, cap. XVIII, tomo II, p. 160 dell’edizione 1866. Giovanni ed Aloisio d’Incisa, feudatarii al principio del XIV secolo, presso Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, pag. 468; e Simone d’Incisa nominato in documenti del 1309, 1317, 1319, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 97, 103, 109, 113.

522.  Un diploma del 1157, presso De Meo, Annali del Regno di Napoli, sotto quell’anno, è dato da “Albertus, Dei et Regis gratia Comes de Gravina, filius et heres Bonifacii, marchionis“. Debbo al dottissimo Teodoro Wüstenfeld, lodato di sopra, questa ed altre citazioni fatte sugli Aleramidi e molte altre che tralascio, come non necessarie al mio argomento.

523.  Si confronti ciò ch’egli dice di Nicosia e di Aidone e San Fratello ne’ luoghi citati di sopra.

524.  Catania 1857, in 8º. Si vegga la Prefazione, p. 47 e seg., e i canti di San Fratello e Piazza, p. 332 seg.

525.  Lettera indirizzatami dal professore Angelo De Gubernatis, pubblicata nel Politecnico di Milano, giugno 1867, pag. 609, segg.

526.  Secondo i quadri delle entrate e spese de’ Comuni italiani nel 1858, pubblicati il 1863 nella Rivista dei Comuni, Caltagirone possedea, tra fitti di terre e canoni, con una popolazione di

  24,417 anime, L. 313,558
Palermo 194,463 » » 236,215
Messina 103,324 » » 95,609
Catania 68,810 » » 38,523

Notisi esser compresi in cotesti patrimonii i beni urbani, che sono molto maggiori nelle grandi città che nelle piccole, e che non risalgono di certo all’XI e XII secolo.

527.  Un diploma di Guglielmo I, dato il 1 maggio 1160, attesta che i fedeli uomini di Calatagerun avessero comperate dal re Ruggiero e da Guglielmo stesso, le terre dette di Fatanasino e di Iudica per 40,000 tarì di Sicilia, Pergamena del Municipio di Caltagirone, della quale io ho una copia. È citato anco ne’ ricordi municipali un diploma del 1 settembre 1143, il quale, da quanto ne so, or è perduto.

528.  Secondo i quadri ch’io ho testè citati, vien dopo Caltagirone e Palermo, la città di Mistretta, con una popolazione di 10,638, ed un patrimonio territoriale di L. 102,926, e immediatamente dopo Messina, occorre Nicosia, popolazione 14,731, e patrimonio L. 89,783.

529.  Fazzello, Deca I, libro X, cap. 2; Amico, Dizionario topografico della Sicilia, alla voce Caltagirone; Aprile, Cronologia universale della Sicilia p. 64 seg., 91 seg. A rincalzare la tradizione, era citato un diploma che non si ritrova, e una lapide del campanile di San Giorgio, che più non esiste.

530.  Si vegga il cap. VI di questo libro, p. 153 del volume, nota 1. Debbo le notizie locali, le copie e fac-simile del diploma del 1160, e d’un altro del 1201 e quella della Cronica di Camopetro, al signor avv. La Rosa di Caltagirone, che mandolle nel 1847 in Parigi al barone Friddani, il quale le avea richieste per me.

531.  Testo, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 55, e presso Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 120.

Una montagna che sta di faccia a Caltagirone a tre o quattro miglia, si chiama tuttora Cansaria e l’è nominata Ganzaria, Chanzaria, e Cancheria, ne’ diplomi dal XIII al XV secolo. Lo scambio di Hisn in Kala’t non fa specie. La seconda parte del nome topografico, gerun, come la si legge nel diploma del 1160, senza la declinazione latina, esclude com’e’ parmi l’etimologia di girone o altro vocabolo nostrale, e porta piuttosto a credere che i coloni italiani venuti a porsi presso la Kala’t-el-Khinzarla, abbiano mantenuto il nome arabico di qualche antico castello, ritrovo de’ ginn (demonii) mutando la n in r. Può darsi anco che gli Arabi a lor volta, avessero trasformato in quel vocabolo qualche derivato di Gela, come Gelonum (castrum). Gela sorgea, com’e’ pare, a poche miglia di distanza.

532.  Pirro, Sicilia Sacra, p. 618 e 622, dove è stampato: Ecclesias Calatageronis et quae sunt in territorio ejusdem cum pertinentiis suis.

533.  L’Inveges, nella Carthago Sicula, non ne dà notizie degne di fede.

534.  Si veggano i diplomi del 1094 e 1095, citati poc’anzi a p. 221.

535.  Si vegga la nota a p. 220.

536.  Falcando, presso Caruso, Bibl. Sicula, p. 423 seg. infino a 442.

537.  Falcando, op. cit., p. 415, dice de’ Baresi frequenti in Palermo.

538.  Considerazioni, libro II, cap. vij, p. 165. Il professor Diego Orlando nell’opera intitolata Il Feudalismo in Sicilia, Palermo, 1847, in-8, cap. XIV, nota 43, pag. 282, ha dimostrato questo errore del Gregorio con alcune delle autorità ch’io verrò citando.

539.  Si veggano in questo stesso libro i cap. II, III, VI, p. 69, 74, 95, 100, 153, del presente volume, e soprattutto le narrazioni di Amato, citate nel nostro, cap. IV, pag. 119, 120, 121, 129, 132.

540.  Una legge attribuita a Guglielmo, Libro III, titolo xxxiv (Historia Diplomatica Friderici II, tomo IV, p. 142), prescrive che gli schiavi (servos et ancillas) fuggitivi fossero resi ai padroni loro o consegnati al bajulo; e un’altra di Federigo, libro III, titolo xxxvj, p. 143, li chiama mancipia, spiegando più particolarmente il detto provvedimento. Per una legge delle Assisae, nello stesso volume, p. 227, è vietato tra le altre cose che alcun giudeo o pagano (cioè musulmano), comperi servum christianum, o lo tenga sotto qualsivoglia pretesto. Si veggano anche i Fragmenta juris siculi, pubblicati dal Merkel, Commentatio, Halis, 1856, pag. 18, 20, 34.

541.  Diploma inedito della Chiesa di Catania.

542.  Il testo greco di questo diploma, serbato oggi nello Archivio regio di Palermo, è stato pubblicato dal sig. Spata, Pergamene, p. 215 seg.

543.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 976 e 1008.

544.  Diploma del 1114, presso Pirro, op. cit., p. 1004.

545.  Regii Neapolitani Archivii Monumenta, volume V, nº 497 e 510, p. 249, 278, i quali si leggono anco nella vita di S. Brunone, Acta Sanctorum, tomo III di ottobre, come abbiamo accennato nel cap. VII del presente libro, p. 487, nota 2 di questo volume.

Gli editori laici di Napoli non mettono in forse l’autenticità di cotesti diplomi; gli ecclesiastici di Anversa la sostengono con gran calore; ed io non avendo sotto gli occhi quelle scritture, non posso, così senz’altro esame, dichiararle false. Pure ho gravi sospetti. Il fatto principale è un sogno miracoloso, raccontato con troppi particolari; e lo scioglimento del nodo, una larghissima donazione al monastero di San Brunone. Oltre a ciò il primo di cotesti diplomi dà il titolo del conte Ruggiero con formole insolite, e il secondo è dato di giugno, Xª indizione 1102, in Mileto “nella camera dove giaceva infermo il conte,” quando si sa ch’egli era morto il 22 giugno IX indizione 1101. Quella stessa qualità mista di servi e villani, della quale non si conosce altro esempio, accresce i dubbii.

In ogni modo, i diplomi se non falsi, sono di certo anomali, scritti da cappellani del conte fuor dagli usi cancellereschi e non fanno grande autorità in una quistione di Dritto pubblico.

546.  Falcando, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 458.

547.  Diploma arabico, inedito e senza data, della Chiesa di Cefalù. Facendovisi menzione dei dinâr di Abd-el-Mumen e dei roba’i ducali di Sicilia, par che torni alla metà del XII secolo.

548.  Si vegga il cap. IV di questo libro, p. 107, del volume, intorno i prigioni di Bugamo.

549.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 771.

550.  Morso, Palermo Antico, documento nº VI, p. 344, diploma della prima metà del XII secolo.

551.  Constitutiones Regni ec., libro III, titolo ij, iij, p. 162, 163, e più esplicitamente nelle Assisae, stesso volume, p. 232, Rescriptum pro Clericis. Era vietato in generale ai vescovi di ordinare sacerdoti de’ villani, senza permesso dei Signore; ma si spiegava così, che il divieto fosse assoluto (tolto il caso di estremo bisogno) pei villani obbligati a servire, intuitu personæ, ut sunt adscriptitii et servi glebæ et alii hujusmodi, ma che i vincolati respectu tenimentorum vel aliquorum beneficiorum, poteano rinunziare a que’ beni e farsi chierici.

552.  Diplomi presso Pirro, Sicilia Sacra: del 1091, p. 521, del 1093, p. 695, del 1094, p. 771, del 1134, p. 976, oltre quelli citati di sopra e moltissimi altri. In uno del 1083, a p. 1016, si legge villicos.

553.  Diplomi, ne’ Regii Neapolitani Archivii Monumenta, tomo V: del 1087, p. 117; del 1092, p. 140; del 1126, p. 521 ec.

554.  Diplomi greci dell’archivio di Palermo, pubblicati dal sig. Spata, Pergamene, ec.: del 1101, p. 192; del 1112, p. 234; del 1116, p. 242; del 1136, p. 265; diploma del 1143, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, p. 14; e un altro arabo-greco del Monistero di Morreale, inedito, dato il 1151. La stessa voce occorre in parecchi diplomi greci del Napoletano, pubblicati dal Trinchera, Syllabus, ec. del 1130, a p. 139; del 1154, a p. 199, del 1165, a p. 219, risguardanti alcuni monasteri di Calabria.

555.  Diplomi arabi inediti del 1145 (Chiesa di Morreale); 1177? (Chiesa della Magione in Palermo); 1178 e 1183 (Chiesa di Morreale).

556.  Diplomi greci, presso Spata, Pergamene, ec., del 1099, rinnovato il 1114, p. 237; del 1101, p. 192; del 1116, p. 242; del 1123, p. 409. Occorre anco lo stesso nome generico in un diploma greco del 1098, pubblicato dal Buscemi, nella Biblioteca Sacra, vol. I, Palermo, 1832, in 8º, p. 212, la cui traduzione latina si ha dal Pirro, Sicilia Sacra, p. 293; e nel diploma arabo-greco del 1151, citato nella pag. prec., nota 4. E similmente nei diplomi greci del Napoletano, per esempio uno del 1145, presso Trinchera, Syllabus, p. 182, ed un altro dello stesso XII secolo, op. cit., p. 557. Non occorre citare i diplomi latini.

557.  Diploma greco-arabico inedito, del 1095, appartenente alla Chiesa di Catania, nel quale il ruolo dell’Ahl-Liagi (gente di Aci), è tradotto Πλάτια τῶν αγαρηνῶν τοῦ Γιάκιου (Ruolo degli agareni di Aci); ed un altro anche greco-arabico della medesima data, appartenente alla Chiesa di Palermo e contenente una donazione di uomini, buoi e terre, fattale dal conte Ruggiero, dove al vocabolo αγαρήνοι risponde anco l’arabico rigiâl, ed in una spedizione latina, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 76, il vocabolo villani. Il nome agareni occorre in molti diplomi latini.

558.  Si veggano le rubriche de’ diplomi del 1143 e 1149, presso Mortillaro, Tabulario della Cattedrale di Palermo, p. 23 e 30. Occorre tal voce sovente nei diplomi greci del Napoletano, pubblicati dal Trinchera, Syllabus: del 1136, p. 155 (relativo alla Sicilia); del 1145, p. 182, con la variante υελλάνοι; del 1188, p. 297 idem; ed un altro senza data, ma del XII secolo anch’esso, con lo errore υιλλάνη. Veggasi anche Ducange, Glossario greco, il quale alla voce Βελλάνος cita un diploma del conte Ruggiero.

559.  Presso Trinchera, Syllabus, p. 557, nº XVI dell’appendice.

560.  Diplomi arabici del 1150 e 1154, appartenenti alla cattedrale di Palermo, dei quali ho avuta copia dal professor Cusa, e il secondo fu pubblicato mediocremente dal Gregorio, De Supputandis, ec., p. 34 seg. e dal Caruso, nella Biblioteca Sacra, vol. II, Palermo, 1834, p. 46. Diploma arabico del 1169, appartenente alla stessa cattedrale di Palermo, del quale ho copia per cortesia del lodato prof. Cusa. In quest’ultima copia veggo la lezione Kh.. r.. sc in luogo di H.. r.. sc (lettere 7, 10, 13, in luogo delle 6, 10, 13, dell’alfabeto arabico). Non par verosimile che fosse stata adoperata una traduzione della voce rusticus (heresc significherebbe ruvidezza). Chi voglia vedere le conghietture del Gregorio e del Tychsen su questa e su la voce mils o mels del medesimo diploma, legga la nota a alla pag. 36 del De supputandis.

561.  Diploma latino del duca Ruggiero figlio di Roberto, dato di agosto 1086, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 74, 75; Diploma del vescovo di Catania, dato di settembre 1114, il quale rilasciava al monastero di Santa Maria in Josaphat di Paternò la decima sopra i rustici Saraceni, donati a quello dal conte Arrigo.

562.  Ducange, Gloss. lat.: Rustici, Coloni, Glebæ adscriptitii ec., Rustis.

563.  Secondo la Costituzione, libro III, titolo 60, era vietato di far giudice o notaio qui vilis conditionis sit, villanus aut angarius forsitan, filii clericorum spurii, aut modo quolibet naturales.

564.  Considerazioni, libro II, cap. vij, p. 168. Più evidentemente dimostrasi il significato generico della voce rustico nelle Assise del regno di Sicilia, pubblicate dal Merkel, Halis, 1856; dove a pag. 17, titolo III, si raccomanda a tutti i signori di usare umanamente co’ loro soggetti: cives, burgenses, rusticos, sive cujuscumque professionis homines; e non si fa motto di villani, angarii ec. Contro il suo solito, il Gregorio non cita alcun diploma in questa delicata investigazione; contentandosi di porre in nota parecchi luoghi delle Costituzioni, dove occorrono i vocaboli rustico e villano, nei quali luoghi ei credette ritrovare «le classi tutte in cui fu distribuita la nazione siciliana e quale differenza tra esse passasse». (Considerazioni, vol. II, p. 70. Nota 8 del cap. vij.)

Ma le Costituzioni, in primo luogo, promulgate in Melfi il 1231, non furono dettate esclusivamente per la Sicilia. Sendo comuni a tutte le province che ubbidivano a Federigo nell’Italia meridionale, ricordano varie denominazioni di classi inferiori che usavansi qua e là in luoghi usciti, qualche secolo o due secoli innanzi, da dominazioni molto diverse.

In secondo luogo, le Costituzioni non sono mica un codice sistematico e compiuto, nel quale tutti i diritti si trovino esposti in bell’ordine; ma bensì una raccolta di alcune leggi; confusa raccolta di leggi, di principi diversi, e tempi diversi dello stesso principe. Non vi sì può dunque supporre a priori, nè in fatto vi si nota, una tale precisione di linguaggio che le stesse cose sieno sempre designate con gli stessi vocaboli.

Or questo appunto presuppose il Gregorio, quand’ei conchiuse che in Sicilia i rustici fossero diversi dai villani; perchè gli uni erano nominati nelle leggi, libro I, titoli x, xxxiij; II, titolo iij; III, titolo xiiij e gli altri nelle leggi lib. II, xxxij; III, titoli ij, vj. Nè egli considerò che il titolo xxxij del libro II rassegnava per vero ogni classe di persone; onde se vi mancano i rustici, son da tenere designati dalle altre classi che vi si leggono, cioè angarii e villani; o, per dir meglio, che rustici significasse genericamente i villani, gli ascrittizii e i servi della gleba, più particolarmente nominati nei titoli ij e iij dello stesso lib. II. In vero non poteano essere trascurati i villani nella legge contro l’asportazione delle armi, lib. I, titolo x; nè i rustici trascurati nel novero delle classi ammesse alle testimonianze contro baroni, ovvero escluse, lib. II, titolo xxxij; oppure dimenticati nella legge che ammettea i villani alla successione ne’ beni tenuti in demanio, lib. II, titolo x.

Nè regge l’altro ragionamento dell’illustre pubblicista siciliano, che i rustici fossero diversi da’ villani, perchè le costituzioni stabilivano una composizione, come diceasi nelle leggi barbariche, per gli uni e non per gli altri: onde gli tornava che i villani non avessero persona, giuridicamente parlando. Perocchè composizione era il prezzo del sangue, maggiore secondo il grado, e favoriva quindi gli uomini in ragion diretta della altezza del grado loro; ma di ciò non tratta alcuna delle Costituzioni di Federigo. Queste al contrario ammettono la gradazione delle persone per aggravare la pena secondo l’altezza: onde il borghese dovea pagare più che il rustico, il milite più che il borghese, il barone che il milite, e il conte che il barone. La ragione stessa è seguita nel fissare la taglia per la cattura dei fuorusciti; dove sono nominati i rustici e non i villani: nè può presumersi che il legislatore abbia voluto assicurare l’impunità a’ banditi servi della gleba, sopprimendo la taglia per loro.

Io non so poi dove il Gregorio abbia letto che le testimonianze de’ villani fossero ammesse contro rustici e borghesi. La costituzione ch’egli cita non ne fa menzione, nè allude a questo; nè alcun’aura io ne trovo che prevegga il caso; ond’è probabile sia corso qualche errore di stampa, sia nel testo del Gregorio, sia nella nota.

Finalmente è da considerare che il Gregorio stesso, ponendo i rustici in condizione diversa dai villani, non era ben certo in che differissero dai borghesi; e, per dir pure qualcosa, proponeva il supposto che il medesimo ordine sociale si chiamasse dei borghesi nelle città e de’ rustici nelle campagne. Distinzione al tutto arbitraria; la quale in ogni modo non proverebbe la esistenza d’una classe di mezzo tra i borghesi e i villani.

Il professor Diego Orlando, fin dal 1847, dimostrava l’errore del Gregorio col mero confronto delle Costituzioni, nell’opera intitolata Il Feudalismo in Sicilia, Palermo, in-8, cap. XIV, nota 32, pag. 275.

Non tacerò che in due diplomi dello Archivio di Napoli, la voce rustico sembra perfetto sinonimo di borghese. Si leggono entrambi nel quinto volume dei Regii Neapolitani Archivii monumenta, (Napoli, 1857) sotto i numeri 477 e 494, pag. 203 e 245. Nel primo de’ quali, dato del 1091, si vieta di molestare il monastero di San Brunone presso Stilo, a chiunque, stratigoto o vicecomite, rusticus aut miles, servus aut liber: e nell’altro dato il 1098, accennando a certi richiami dei Veterani Squillacenses relativamente ai limiti del territorio conceduto a San Brunone, si conchiude che vedendo, rusticorum causam contra fratres nil juris obtinere, è data la decisione a favor del monastero. Ma questo solo esempio non varrebbe contro il ritratto delle Costituzioni. Quand’anco non cadessero su i primi documenti del monastero di San Brunone que’ gravi dubbi che abbiamo notati di sopra, si potrebbe supporre idiotismo locale quel significato della voce rustici, ovvero neologismo del cappellano del conte Ruggiero, uomo probabilmente straniero, che scrisse i diplomi, se autentici; o del monaco, anch’egli straniero, che li fabbricò dopo, se falsi.

565.  Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vij, pag. 167. Si veggano in Ducange, Glossar. lat., le voci Angaralis, Angarea, Angariae, Angariales, Angariarius, Angarii.

566.  Gli Angarii citati nelle Costituzioni, lib. II, titolo xxxij; III, x, ix; sono ragguagliati a’ villani. Ne’ diplomi napoletani si dice di angaria dovuta da villani (Trinchera, Syllabus, pag. 300, 334, 558, 559, dipl. 1188, 1198.) E nei siciliani si veggon chiese e monasteri liberati da prestazioni ed angarie (Spata, Pergamene greche, dipl. 1117, pag. 247; dipl. 1171, pag. 273, 275); ma non comparisce in Sicilia alcuna classe denominata angarii.

567.  Si vegga il lib. IV, cap. xj, pag. 398, 399 del secondo volume.

568.  Dei tre primi diplomi ho le copie mandatemi dal prof. Cusa; ed uno fu pubblicato, in parte e male, dal Gregorio, De supputandis, ec., pag. 34. Il quarto è stato stampato da M. Des Vergers, con traduzione francese e comento, nel Journal Asiatique, ottobre 1845, pag. 313 segg.; ed io ne detti una versione nell’Archivio Storico Italiano, tomo IV, appendice, pag. 49 segg. L’eruditissimo editore sbagliò supponendo ascrittizii gli uomini di cui si tratta; e sbagliai anch’io seguendolo in questa interpretazione e nella lezione Mils in luogo di Maks.

569.  Oltre la spiegazione che troviamo nel Kamûs, tradotta in parte nel Dizionario di Freytag, il significato della voce Maks si scorge nei seguenti testi arabi: The Travels of Ibn-Jubair, ediz. Wright, pag. 52, 53, 66; Ibn-el-Athiri, Chronicon, ediz. Tornberg, tomo XII, anno 604, pag. 183; Annales Regum Mauritaniæ, ediz. Tornberg, pag. 88; Makrizi, Mewâ’is, ediz. di Bulâk, tomo II, pag. 121; Abu-l-Mehâsin, Annales, ediz. Juynboll, tomo II, pag. 286. Si vegga anche Sacy, Memoires sur le droit de proprieté en Egypte, nelle Mémoires de l’Académie des Inscriptions, tomo V, pag. 64; lo stesso, Chrèstomathie Arabe, 2ª ediz., tomo I, pag. 172; tomo II, pag. 60, 84, 168; e Quatremère, Sultans Mamlouks, di Makrizi, tomo II, parte ij, pag. 97. In cotesti passi Maks talvolta significa contribuzioni indirette.

570.  Si veggano quelle diverse voci nel Ducange, Gloss. latino. Molti esempii forniscono di questa classe di uomini, i diplomi latini e greci del Napoletano; quelli, per esempio, degli anni 932, 975, 1054, 1080, 1082, 1096, nei Regii Neapolitani Archivii Monumenta, tomo I, pag. 63, 239; tomo V, pag. 8, 97, 114, 165; e presso Trinchera, Syllabus, diplomi del 1097, 1145, 11... pag. 81, 182 segg. 559, et passim. Gli stessi provvedimenti delle Costituzioni che richiamavano i fuggitivi dalle terre del demanio, e il citato diploma di Morreale del 1183, confermano la frequentissima fuga dei villani che andavano a stanziare, da commendati, in altri luoghi.

571.  Sono sì frequenti coteste concessioni de’ villani co’ beni loro, che non occorrerebbe quasi di citarne i testi. Per accennarne alcuno, noterò i diplomi greci del 1098, da Buscemi, nella Biblioteca Sacra, vol. I, Palermo, 1832, pag. 212; del 1101, 1112 e 1146, presso Spata, Pergamene, ec. pag. 192, 234, 242; del 1143, nel Tabulario della cappella Palatina di Palermo, pag. 14; del 1136, presso Trinchera, Syllabus, pag. 155; la traduzione latina d’un diploma greco del 1096, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 382, per lo quale il conte Ruggiero donava, con molti altri beni, al novello vescovo di Messina: in Oliverio villanos centum et terras et tenimenta quæ ibi habitantes prius tenebant.

572.  Diploma arabico-greco, inedito, del 20 febbraio 1095, appartenente alla chiesa di Catania, il quale contiene la platea dei villani di Aci. Si vegga anche in Trinchera, Syllabus, pag. 182, segg. il diploma, che contiene la dotazione del vescovado di Squillaci. Il conte Ruggiero concedea al vescovo tra le altre cose, di ricettare ne’ suoi poderi de’ villani estranei “purchè non fossero ne’ privilegi di lui, nè de’ suoi baroni.”

573.  Diploma del 1095, due del 1144 e due del 1145; tutti arabo-greci appartenenti alle chiese di Catania e di Morreale e all’Archivio regio di Palermo, citati di sopra.

574.  Si vegga la pagina 244, e si confronti il tit. III, lib. vij, delle Costituzioni ec.

575.  Il Gregorio pubblicò, Considerazioni, lib. II, cap. vij, nota 4, l’atto di riconoscimento di un villano di Collesano in data del 1279, scritto in latino. Uno simile ed assai più importante, scritto in arabico e com’io credo nel 1177 (v’ha l’’alama di Guglielmo il Buono e il riscontro del mese di Rebi 1º con agosto, perciò un de’ tre anni 1177-8-9) si conserva nel reale Archivio di Palermo. I figli di Musa Santagat, da Menzil Jusuf (Mezzojuso) confessano sè essere uomini di Gerâid dell’abate Tabat, e promettono di star sempre nella obbedienza della chiesa; e l’Abate loro perdona, pone sopr’essi la gezia di trenta rob’ai all’anno e il canone di 20 Modd di grano e 10 di orzo. Essi infine pregano l’Abate di permettere che soggiornino dovunque loro aggradi.

576.  Abbiamo dimostrato poco fa, pag. 239, che si debba anco intendere de’ villani ciò che il Gregorio dice de’ rustici.

577.  Costituzioni, lib. III, tit. X. Cf Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vij, pag. 167.

578.  Considerazioni, lib. II, cap. vj, pag. 140, 141, 142, e cap. vij, pag. 166-167.

579.  Un diploma del conte Ruggiero, dato, com’e’ pare, del 12 febbraio 1095, e scritto in greco, se non che i nomi degli uomini (rigiâi) sono in arabico, concedeva alla chiesa di Palermo settantacinque agareni, undici buoi, e dei poderi ne’ territori di Giato, Corleone e Limona; dovendo gli Agareni pagare alla chiesa, per doma, in inverno 750 tarì e altrettanti in agosto, con 150, mudd di frumento e 150 d’orzo. Ogni villano così dava in ogni anno 20 tarì, due salme di frumento e due d’orzo e nulla più. Si avverta che la spedizione latina del medesimo diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 76, non contiene i particolari delle prestazioni. Una pessima traduzione latina del testo greco, si legge presso il Mongitore, Bullae, ec. Panormitanæ Ecclesiæ, pag. 13, opera del gesuita Giustiniani da Scio, il quale, tra le altre cose, tradusse laudemium la frase λογοῦ δόματος. Pieno anco di errori il testo pubblicato dal Mortillaro, nel Tabulario della cattedrale di Palermo, pag. 8 segg.

Non cito qui il diploma del 1093, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 695, per il quale furono conceduti al vescovo di Girgenti 400 villani col casale, Cathal. in quo frumenta, etc., poichè il testo iui par sì corrotto da non potervi far assegnamento; nè ha chiarita quella dubbia lezione il Gaglio, negli Opuscoli di Autori siciliani, tom. IX.

La voce δόμα occorre anco in un diploma greco di Sicilia del 1192, presso Spata, Pergamene, pag. 306, e in tre diplomi greci della estrema Calabria del 1188, 1198 e 11.., presso Trinchera, Syllabus, pag. 300, 334 e 557, col significato di tributo principale, diverso dalle angarie e dagli altri pesi che sopportavano i villani: tributo personale, senza dubbio, poichè talvolta si pagava ad altro signore che quello del luogo ove attualmente soggiornasse il villano. Il sig. Spata ha tradotto vagamente esazione, e il sig. Trinchera, con troppa precisione, jus hospitii. Ma quella voce nel greco dei bassi tempi valea dono; come si scorge da’ luoghi del Nuovo Testamento, delle Basiliche e di altri scritti del medio evo, citati nel Thesaurus, edizione Hase, Parigi, 1833, tomo I, col. 1642. Non sarebbe stato vezzo nuovo di chiamar così un’odiosa imposizione.

580.  The Travels of Ibn-Jubair, testo edito dal Wright, pag. 328, 336, 344. Il testo di questo squarcio si vegga anco nel Journal Asiatique, dicembre 1845, p. 509, 520, 531; la versione francese ivi a p. 538 e in gennaio 1846 pag. 81, 202, e la versione italiana nell’Archivio Storico Italiano, vol IV, Appendice nº 16, pag. 34, 40, 46.

581.  Si vegga il lib. II, cap. 12, pag. 475 del 1º volume.

582.  Qui innanzi a pag. 246, nota 3, e il diploma del 1095 a pag. 247, nota 3.

583.  In questo atto del 1177 i tre villani venuti a riconoscere l’autorità del signore, sono tassati di trenta roba’i in ciascun anno solare, per gezie, 20 modd di frumento e 10 d’orzo.

La moneta d’oro detta in arabico roba’i e in greco e latino tarì, pesava poco più di un grammo, donde tornava in valor di metallo a tre franchi e mezzo in circa. Si vegga il lib. III, cap. xiij, pag. 457 a 460 del secondo volume.

584.  Veggansi tutti i diplomi latini e greci, nel Pirro Sicilia Sacra; Spata, Pergamene, ec. e gli inediti che è occorso di citare nel presente capitolo.

585.  Nel diploma greco del 1188, presso Trinchera, Syllabus, p. 300, i pesi de’ villani sono specificati: δόματα καὶ ᾶγγαρὶας καὶ καννίσκια, doni (ossia il tributo) angarie e regalucci; e lo stesso notasi con poco divario nei diplomi del 1198 e 11..., pag. 334, 557.

586.  Si vegga qui innanzi pag. 213.

587.  Diploma del 1150, di Lucia di Cammarata, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 801.

588.  Diploma del 1188, presso Trinchera, Syllabus, pag. 297.

589.  Diploma del 1262, presso Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vj, nota 19.

590.  Considerazioni, lib. II, cap. vj, pag. 135 segg.; cap. vij, pag. 169.

591.  Si vegga su la significazione del vocabolo rustici la pag. 239 del presente capitolo.

Borghesi eran detti i cittadini di Palermo, (Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vij, nota 10) di Morreale, (Gregorio, op. cit., lib. I, cap. iv, nota 19) del casale di Sinagra, (Gregorio, op. cit., lib. II, cap. vj, note 18, 19) di Siracusa, (Diploma del 1172, presso Spata, Pergamene, pag. 442) del territorio di Santa Maria in Cammarata, (Diploma del 1150 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 801) e di Oppido in Calabria (Diploma del 1188 presso Trinchera, Syllabus, pag. 297).

592.  Presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 475.

593.  Re Ruggiero vietava a’ bajuli di molestare gli abitatori Lombardi di Santa Lucia che avessero pagato il diritto di marineria, di esigere da loro angarie, ajutorii e fin anco l’erbatico per le loro greggi; e prescrivea fossero liberi come i Lombardi di Randazzo: presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. iv, nota 25. Nello stesso capitolo quarto sono particolareggiati gli antichi diritti del fisco, e non si trova alcuna tassa diretta su i borghesi se non la gezia ai Giudei. Nel cap. v, nota 4, è pubblicata una sentenza di magistrati del 1113 sugli abusi che commetteva il vescovo feudatario contro gli abitatori di Patti.

594.  Considerazioni, lib. II, cap. vj, vij, e in particolare la nota 19 del cap. vj, ch’è squarcio d’un diploma del 1262.

595.  Considerazioni, lib. I, cap. ij, iij, iv e v.

596.  Cap. VIII di questo libro, pag. 207 del volume.

597.  Considerazioni, lib. I, cap. iv, pag. 77. Quivi nella nota 22 il Gregorio allega una sua propria nota al Novairi, nella quale spiega che cosa fosse la gezia presso i Musulmani, e cita poi alcuni diplomi di Sicilia su la gezia che pagavano i Giudei, ed un luogo del registro di Federigo II imperatore, relativo a due musulmani di Lucera. E nulla più!

598.  Si veggano nelle Considerazioni, lib. I, cap. iv, note 18, 19, 20, 21, le citazioni su i diritti antichi, nelle quali occorre la sisia de’ Giudei e non mai dei Musulmani.

599.  Si riscontrino le Considerazioni, lib. I, cap. ij, pag. 44, e la nota 45 che non prova nulla. La voce gezia occorre una sola volta ne’ diplomi che io conosca relativi alla condizione delle persone, latini, greci e arabi: appunto nel diploma arabico ch’io credo del 1177, citato dianzi pag. 216 nota 3, per lo quale tre musulmani si riconosceano villani di un abate e questi loro imponea canone e gezia. I greci portano l’appellazione di σόμα, appunto come pei villani cristiani di Terraferma (pag. 250, nota 1). È degno di molta attenzione un diploma latino del Conte dato il 1091, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 521, per lo quale Ruggiero rammenta aver già donato al Monastero di Sant’Agata di Catania varii poderi e animali e quattro villani co’ loro figliuoli nella città di Messina, due de’ quali cristiani e due saraceni. Se pur non occorressero tanti nomi cristiani nelle platee di villani che ci rimangono, basterebbe questo sol diploma a mostrare che i Normanni non liberarono mica i loro correligionari dalla servitù della gleba.

600.  Ibn-el-Athîr, Annali, testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 278. È replicato questo luogo dal Nowairi, op. cit., pag. 448 e presso Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 26.

601.  Geografia, squarcio su la Sicilia, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, pag. 26.

602.  Si vegga qui sopra a pag. 248.

603.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. I, nota 11 e i seguenti diplomi, dei quali gli arabici inediti son citati secondo le copie che me ne ha mandate il professor Cusa.

XII secolo. Omar-ibn-Hosein-et-Tamimi vende un pezzo di terra al monastero di Bardhali (?). Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1132. Permuta di acque tra Abd-er-Rahman-el-Lewati ed Hosein-ibn-Ali-el — Kindi, squarcio arabico, presso Gregorio, De supputandis, p. 44.

1137. Ibn-Baruki vende una casa all’Arcivescovo di Messina. Diploma arabico della Cappella Palatina di Palermo, inedito.

1157. Il Gaito Abd-el-Malek vende degli stabili al vescovo di Girgenti. Diploma latino, Pirro, Sicilia Sacra, pag. 698.

1161. Abu-Bekr e Ahmed, conciatori di pelli, e altri vendono una casa in Palermo al prete Raoul. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1164. Sittelkiul, figlia del Kaid-Se’ûd e un figliuolo di lei, vendono alla figliuola d’un Giovanni Romeo una casa nel sobborgo di Palermo. Diploma greco, presso Trinchera, Syllabus, ec., pag. 218.

1176. Othman-ibn-Jusuf-el-Howari vende al prete Pietro ec. una casa in Palermo. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1180. Abu-l-Abbas-Ahmed-et-Tamimi e l’Haggi-Abu-l-Fadhl vendono un podere nel territorio di Palermo all’Arcivescovo Gualtiero Offamilio. Diploma arabico della Cattedrale di Palermo, inedito.

1183. Mes’ud-Koresci e un suo figlio vendono una casa in Palermo alla dama Margherita. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1190. Zeinab-bent-Abd-Allah-Ansari vende a Niccolò Askar una casa in Palermo. Diploma arabico della Cattedrale di Palermo. Gregorio, De supputandis, pag. 40.

1192. Hosein e Meimun suo figlio vendono al monastero del Cancelliere una loro casa in Palermo. Diploma greco, presso Trinchera, Syllabus, ec., pag. 315.

1193. Ibrahim-ibn-Mohammed-Koresci vende al cristiano Giulio una casa in Castrogiovanni. Diploma arabico dell’Archivio di Palermo, inedito.

1196. Costanza figliuola di Abu-l-Fadhl vende de’ beni urbani. Diploma greco, presso Morso, Palermo Antico, pag. 368.

604.  Oltre i diplomi, lo provano le Consuetudini di Palermo, citate dal Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. I, nota 11.

605.  Le notizie che do sul prete Scholaro son cavate dalle traduzioni latine di tre diplomi greci del 1099, 1114, e 1128 (o 1130) pubblicate dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1003 segg., e da’ comenti del Pirro; il quale argomenta il nome di famiglia da quello che porta in due altri diplomi del 1162 e 1184, Ula figlia del figliuolo primogenito del fondatore (op. cit., pag. 1009). Mi par che Scholaro non si debba tenere col Pirro nome proprio, ma soprannome tolto dalle σχόλαι, ossia guardie del corpo degli imperatori bizantini, nelle quali avesse incominciata la sua avventurosa vita il futuro abate Saba. Le traduzioni, come opera del celebre Costantino Lascari, meritano fiducia in questi diplomi, perchè non vi occorrono quelle parole tecniche di gius pubblico Siciliano che il dotto ellenico mal conoscea. Qualche difficoltà che occorre, come il titolo di re dato a Ruggiero II, il 1114 e il 1128 (pag. 1005), potrebbe nascere da errori sulla copia della versione, della quale il Pirro ebbe alle mani parecchi esemplari diversi l’un dall’altro.

Il diploma del primo conte Ruggiero attesta così i meriti del Prete Scholaro: Igitur, quoniam et tu prædictus Scholarius perfectam erga nos habuisti et optimam intentionem, promptitudinem et conscientiam; fidelissimus existens in omnibus rebus nostris, et summa exercens ministeria, et servitia nobis, restituere tibi voluimus parva munera pro tuis maximis et honestissimis ministeriis ac servitiis: pro quibus donamus, ec.

606.  Si vegga il lib. III, cap. ix, e lib. IV, cap. viij, pag. 187, nota 3, e pag. 353 nota 1, del 2º volume. I luoghi d’Ibn-el-Athîr e del Nowairi quivi citati si trovano nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 284 e 437.

607.  Si vegga il lib. IV, cap. iv, pag,. 282 segg. del 2º volume. Giawher è detto il kâid da Makrizi, Mewâ’iz, ediz. di Bulâk, tomo II, pag. 273, e nella Biblioteca Arabo-Sicula, pag. 669.

608.  Erano la più parte Spagnuoli e vi occorre anco de’ Genovesi e de’ Veneziani. Presentibus archaido Lodovico Alvares, archaido Andreuccio Cibo, conestabilibus stipendiariorum christianorum ec., leggesi nella traduzione contemporanea del trattato di commercio stipulato tra Pisa e Tunis il 1353, ch’io ho pubblicata nei Diplomi Arabi dell’Archivio fiorentino, pag. 308. Si vegga anco la Prefazione mia a quella raccolta, pag. xxij e xliv e nota 7 della pag. 175. Occorre il nome dell’Alcayt-Ferrau-Iove in un diploma del 1315, presso Capmany, Memorias historicas.... de Barcelona, Docum. XXXI, pag. 62.

609.  Diploma catalano del 1313, presso Capmany, Memorias historicas, ec. tomo IV, Docum. XXVI, art. 6, e Dipl. del 1323, Docum. XLII, art. 5, e 16.

610.  Lib. IV, cap. xij, pag. 420, 421 del 2º volume.

611.  Lib. V, cap. ij, iij, iv, pag. 68, 70, 75, 99, 130 del presente volume. Notisi che Amato, nel luogo citato da me alla pag. 75, con molta precisione chiama amirail il capo del governo musulmano in Palermo, mentre egli ha dato a’ condottieri e castellani il titolo di cayt.

612.  Platee greco-arabiche de’ vassalli del vescovo in Catania e in Aci, delle quali la seconda data del 1095 e la prima, rinnovata molti anni appresso, va riferita senza dubbio allo stesso tempo.

613.  Diploma latino del 9 dicembre 1092 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 522, 523.

614.  Diploma greco del 1123, presso Spata, Pergamene, ec., pag. 410.

615.  Diploma greco-latino del 1132, presso Spata, op. cit., pag. 426.

616.  Diploma arabo-greco del 1172, nel Tabulario, ec. della Cappella Palatina di Palermo, pag. 30 e seg. Quivi tra i testimonii della delimitazione di un podere, sono nominati Giovanni figlio dello ammiraglio Giorgio, Niccolò Logoteta, Abu Tâib e Mukhlûf, detti nel testo greco οι καΐτοι τῶν τοξότων e nella parafrasi arabica kaix degli Arcieri ed un γέρον καΐτος Chapzis (leggesi Hamza), il quale nell’arabico è detto sceikh e kâid senz’altro. Nel testo greco inoltre è data la qualità di kaid a un Niccolò che nell’arabico è detto Farrâse (gli editori lesser male Carasc) che significa propriamente cameriere, colui che bada a’ tappeti, ai letti, ec.

Così questo diploma cita dei kâid delle tre classi poste da noi, cioè i primi quattro condottieri, il quinto nobile, e il sesto cameriere di corte.

Ritornando alla prima classe, si rammenti che Ibn-Giobair fa menzione di una schiera di schiavi negri musulmani, i quali servivano Guglielmo II sotto un kâid della stessa lor gente: nel Journal Asiatique, dicembre 1815, pag, 509, e traduzione francese pag. 540; e nell’Archivio Storico Italiano Appendice al vol. IV, pag. 33.

617.  Kâid Barûn, direttore, diremmo noi, del Demanio; diploma dell’aprile 1150, mal pubblicato dal Caruso nella Biblioteca Sacra, ec. Palermo, 1834, pag. 28, del quale ho miglior copia per cortesia del professore Cusa. Pare sia lo stesso paggio (fatâ) Barun, il cui nome si legge in un frammento d’iscrizione monumentale nella casa del Municipio di Termini. Imâd-Eddin, nella Kharida (Biblioteca Arabo-Sicula, testo, pag. 581,) novera tra i poeti siciliani un Giâfar-ibn-Barûn.

Gaitus Ricon (?) domini regis Magister Camerarius et familiaris, e Gaytus Maranus, domini regis magister et familiaris, soscritti in un diploma del 1167, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 25.

Καΐτος Βονλκατάχ, uno degli Arconti della corte, diploma greco del 1168, presso Spata, op. cit., pag. 440.

Caitus Riccardus, capo dei Segreti, diploma di origine greca, dato il 1169, traduzione latina, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1017, e il medesimo in un diploma greco del 1183, presso Spata, op. cit., pag. 291.

Gaitus Martinus, già morto, camerario del re. Diploma latino del 1172, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 454.

Gaytus Johannes, camerario del re. Diploma latino-arabico del 1187, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 37, 38. Quivi è citato nel lesto latino il Gaytus Riccardus di cui si è detto poc’anzi, e lo si vede soscritto in arabico tra i testimonii col titolo di Kâid. Al contrario il Gaytus Giovanni è pria nominato e poi sottoscritto nel testo arabico Fatâ, cioè paggio della corte e Fatâ anco un Ammâr testimonio. Il Morso, il quale trascrisse e tradusse cotesto diploma, lesse erroneamente in luogo di Fatâ la voce Kata che non significa nulla, e identificò questa con Gaytus, cioè Kâid.

618.  Presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 463.

619.  Testo nel Journal Asiatique, dicembre 1845, pag. 552, e nella edizione di Wright, pag. 315; traduzione francese nel detto Journal, gennaio 1846, pag. 203; e traduzione italiana nell’Archivio Storico italiano, vol. IV, Appendice nº 16, pag. 46.

Lo stesso autore, edizione del Wright, pag. 146, denota con la voce Za’im il capo d’una tribù araba ch’ei vide cavalcare allato a Self-el-islam, fratello di Saladino, quando quegli entrava solennemente alla Mecca. Il Kamûs le dà lo stesso significato di capo d’una gente e signore; colui che ha dritto di parlare a nome della gente o se ne fa mallevadore. Mawerdi, scrittore di Baghdad al X secolo, chiama Zâim il capo supremo d’un esercito, testo, edizione Enger, pag. 67; e Makrizi, narrando la morte del Sultano mamluko Khalil che seguì allo scorcio del XIII secolo, gli mette in bocca le parole ch’ei non si tenesse principe, ma solo Za’im dell’esercito: Histoire des Sultans Mamlouks, traduzione di Quatrémère, tomo II, parte I, pag. 153. Si vegga anche il Lobb-el-Lobâb, pag. 108, 109 del Supplemento. Da ciò si ritrae come, non ostante i significati particolari presi in varie circostanze, questo vocabolo torni sempre a capo elettivo o ereditario, e di fatto si avvicini di molto al barone del medio evo cristiano.

620.  Gaytus Micheret de Jatino, testimonio in un diploma latino del 1133 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 774.

Gaitus Abdi Malach, venditor di un podere al Vescovo di Girgenti tra il 1157 e il 1171, presso Pirro; op. cit., pag. 698.

Gaitus Maimon e καϊτ ἀυδερραχμεν, de’ Saraceni di Siracusa; Gaitus Hamar, e Gaitus Brahim di que’ del vicino casale di Aguglia, testimonii in un diploma greco latino del 1172, presso Spata, Pergamene, ec., pag. 414.

Gaytus Ramun di Michiken.... Gaytus Humur dello stesso luogo, Gaytus Aly-el-Bonifati di Gurfa.... Gaytus Abdelguaiti, id... Gaytus Aly Petruliti di Yhale.... Gaytus Husein di Cassaro (in val di Mazara) testiinonii con altri molti, in un atto greco-arabico del 1175, del quale una traduzione latina del XIII secolo si legge presso Gregorio, De supputandis, etc., pag. 52 segg., e presso Spata, Pergamene, pag. 453. Alcun di costoro è intitolato anche Sceikh, come il Kâid Hamza, di cui nel diploma del 1172 citato qui innanzi, pag. 262 nota 3.

621.  Riccardo da San Germano, Chronicon, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 547, anno 1190.

622.  Si veggano i nomi di quattro kaid di Arcieri nel Diploma del 1172, citato di sopra e l’attestato d’Ibn-Giobair.

623.  Si veggano i molti Gayti citati dal Falcando presso Caruso, Bibl. Sicula, passim, e gli altri nomi cavati da’ diplomi che abbiam tutti citati a pag. 263. Leggiamo un Arabicus miles, soscritto da testimone in un diploma latino dei 1151 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 933. Probabilmente precedea l’iniziale del nome che non si potè leggere o fu saltata nella stampa. Il testimonio parmi un kâid che traduceva il suo titolo di nobiltà nel linguaggio latino del tempo.

624.  Diplomi dell’imperatore Federigo, dati il 16 dicembre 1239, 12 marzo e 15 aprile 1240, nella Historia diplomatica Friderici II, tomo V, pag. 596, 820, 902. Diploma del 1274, nel Tabularium ec. della Cappella Palatina di Palermo, pag. 82, segg.

Da questi si scorge che il gaito di Palermo fosse l’amministratore diretto dei beni demaniali nella città e territorio di Palermo, sotto l’autorità del Segreto della Provincia. Il diploma del 1274 mostra che quell’uficio non durò oltre il regno di Manfredi e ch’era annuale e forse dato in appalto.

625.  Innocentii III Epistolæ, Libro IX, ep. 158, edizione di Parigi 1791, in-fol. nei Diplomata Chartæ, etc. di Brequigny, Part. II, tomo I. Archadio et universis Gaietanis, etc. Si corregga Jati il nome topografico Jaci.

626.  Considerazioni, lib. I, cap. I, pag. 6, nota 40. Lo squarcio di Leone Affricano che indusse in errore il Gregorio, è dato da lui medesimo in nota, nel Rerum Arabicarum, pag. 238. Si vegga ciò che noi abbiam detto di quell’erudito musulmano nel lib. I, cap. X, pag. 236 del 1º volume.

627.  Diploma latino del 1091; presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 521.... et ego cum exercitibus militum meorum fortiter laboravi.... patiundo diversa pericula in terra et in mari et immensam famem et nimiam sitim ad invicem: numerus autem illorum meorum militum qui in acquisitione terre Sicilie mortui sunt, soli Deo et Sanctis ejus cognitus est; mihi vero, cum omnibus aliis hominibus incognitus.

628.  Si vegga un Diploma del 1114, presso Pirro, Sic. Sacra, pag. 1177.

629.  Il diploma si legge nel Pirro, Sicilia Sacra, pag. 520. Diremo nel capitolo seguente la ragione per la quale le terre di minor conto mancano nelle prime circoscrizioni delle Diocesi. Non facciamo il medesimo confronto per Randazzo, nè per le altre colonie lombarde della diocesi di Messina, perchè ci è sospetto d’interpolazione il primo documento, dato il 1082, che il Pirro pubblicò, op. cit., pag. 495, sopra una copia del XVI secolo.

630.  Cap. VIII, pag. 231 di questo volume.

631.  Si vegga il cap. IV di questo libro, pag. 107 del presente vol.

632.  Diploma greco, presso Spata, Pergamene, pag. 409 segg.

Ha sbagliato il signore Spata supponendo mariti entrambi della Moriella, normanna, come si argomenta dal nome, e signora del villaggio di Pitirrana, i due musulmani vassalli di lei, che avean già posseduto il molino. La voce ἄνθρωπος nel medio evo ebbe anche questo significato, e qui l’è evidente.

633.  Malaterra, libro II, cap. xlv; Leone d’Ostia, libro III, cap. xvj, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 201, 280. I luoghi di Eadmero e di Romualdo Salernitano sono trascritti dal Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. vij, note 16, 17. Non può allegarsi l’Amato nè pro nè contro, poichè il traduttore francese, accennando (libro VI, cap. xxj, pag. 182), al fatto stesso narrato dal Malaterra, dice che Roberto: donna... toute la Sycille, senza definire altrimenti la natura della concessione.

634.  Diplomi del 1082, 1091 e 1099, il primo dei quali ne’ Regii Neapolitani Archivii Monumenta, tomo V, pag. 97, e gli altri due presso Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, etc., pag. 68, 85; diploma del 1094, citato dal Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. vij, nota 19; diplomi di Roberto e del suo successore, dati il 1079, 1083, 1084, 1092, e suggelli di piombo, presso Buchon, Nouvelles Recherches sur la principauté française de Morée, volume II, parte I. Paris, 1843, pag. 360, 361.

635.  Diplomi del 1081 e 1094, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1016 e 771.

636.  Si vegga il Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. vij, pag. 151.

637.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 770, 842. Diplomi del 1091 e del 1093.

638.  Gregorio, loc. cit.

639.  Somma della Storia di Sicilia, cap. XIX, pag. 84, segg. del vol. II.

640.  Si vegga questo libro V, cap. j, iij, v, vij, pag. 28 segg., 43, a 54, 87 ad 89, 141 segg. 182, 183.

641.  Si vegga il cap. ij, di questo libro, pag. 77 segg., e il cap. iij, pag. 82 segg., 94 segg.

Roberto die’ soltanto 100 uomini d’arme nel 1068. Veggasi la p. 104.

642.  Cap. v, pag. 133.

643.  Cap. vj, pag. 161.

644.  Cap. viij, pag. 183, 184 segg.

645.  Si vegga a questo proposito il Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. vij, pag. 142.

646.  Op. cit., libro I, cap. vij, citando nelle note 17 e 18, il contemporaneo Abate di Telese.

647.  Loc. cit., nota 16, da un diploma.

648.  Diploma, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 80, 81.

649.  In Prolocutorio panormitani palatii. A fin di evitare la voce parlatorio, che mal suonerebbe, mi è parso di usare quella antica dizione fiorentina.

650.  Diploma presso Pirro, op. cit., pag. 84, 85. In questa carta l’arcivescovo Pietro, papalino de’ suoi tempi, non curando il plebiscito, chiama tuttavia duca il re Ruggiero.

651.  Diploma senza data, presso Pirro, op. cit., pag. 696, citato dal Gregorio, libro I, cap. vj, nota 7. Quivi la parola etiam (partem) va corretta tertiam; come risulta d’altronde da un diploma del 1142, presso Pirro, op. cit., pag. 698, nel quale re Ruggiero confermava il provvedimento del padre.

652.  Diploma del 1093, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1016, che mi sembra traduzione dal greco.

653.  Diploma del 1105, ed un altro senza data da riferirsi anco ai primi principii del XII secolo, citato in uno del 1133, presso Gregorio, Considerazioni, libro I, nota 30 al cap. ij, e nota 4 al cap. v. Squarcio di un diploma del 1108, e citazioni di altri, presso Pirro, Sicilia Sacra, Chronologia, pag. xiii.

I primi conti di Terraferma e il primo Ruggiero di Sicilia son intitolati sovente consoli nell’Anonimo, contemporaneo di re Ruggiero, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, pag. 834, 836, 843, 844, 854, 855, 856, e nella traduzione francese, edizione di Champollion, pag. 276, 277, 290, 312.

654.  Oltre i molti e notissimi attestati degli scrittori ch’e’ sarebbe superfluo a citare, veggansi i diplomi del 1028, 965 e 1036, ne’ Regii Neapolitani Archivii Monumenta, tomo IV, pag. 206, e tomo VI, p. 147, 150, ec. e le monete, presso San Giorgio Spinelli, Monete Cufiche, pag. 4, 140, 145, 146, 248.

655.  Guglielmo di Puglia, libro I.

........ Gallorum exercitus urbem

Condidit Aversam, Rannulfo consule tutus

656.  Considerazioni, libro II, cap. vij, pag. 174 segg.

657.  Si riscontri il cap. viij del presente libro, pag. 228.

658.  Presso Gregorio, Considerazioni, libro II, cap. iv, nota 15.

659.  Op. cit., libro I, cap. iv, nota 23.

660.  Op. cit., libro I, cap. v, nota 3.

661.  Op. cit., libro II, cap. vij, nota 23.

662.  Libro I, cap. ix, e libro II, cap. xij, pag. 208 segg. e 472 segg. del Iº vol., libro III, cap. i e iij, e libro IV, cap. xj, pag. 10 segg., 397 segg. del 2º volume.

663.  Questo argomento è trattato, con molta critica ed autorità di citazioni, dal Mortreuil, Histoire du Droit byzantin, Paris, 1843-6, volume III, pagg. 49, 75 ad 82.

664.  Considerazioni, libro II, cap. vij, nota 21.

665.  Si veggano i fatti di varie città dell’Italia Meridionale, ricordati nel presente libro, cap. i e ij, pagg. 31, 37, 38, 51, 52, 87 a 89.

666.  Diploma senza data, da riferirsi all’XI secolo, presso Trinchera, Syllabus, Appendice, pag. 557. I detti uomini pagavano εὶς τὸ πλεμικόν.

667.  Si vegga il cap. ij di questo nostro libro, pag. 82, 85, 90 del volume.

668.  Diplomi greci del 1094, 1105, 1136, 1182, 1168, 1171, 1217, 1225, presso Spata, Pergamene, pagg. 180, 188, 203, 266, 293, 437, 274, 309 e 312, 327 e 330; e diploma greco del 1140 nel Tabularium della Cappella Palatina di Palermo, pag. 28, col transunto arabico, nel quale cotesti Arconti della Corte son detti vizir, ch’era il nome arabico dell’ufizio. All’incontro è adoperato il mero titolo in tre diplomi arabici di Sicilia inediti del 1144 e 1145, poichè quivi il vocabolo ἄρχον è esattamente trascritto, non tradotto e, come voce straniera, prende al plurale la forma arâkinah, secondo le regole grammaticali. Non cito gli altri diplomi greci, ne’ quali l’emir degli emiri, primo ministro dei re di Sicilia, è intitolato Arconte degli Arconti.

669.  Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 247. Il Lascari in una traduzione latina quivi stampata a pag. 253, traduce lo stesso vocabolo dominus.

670.  Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 244.

671.  Diploma greco, op. cit., pag. 266.

672.  Diploma greco, op. cit., pag. 286, 288.

673.  Diploma greco, op. cit., pag. 438, 439. Nello stesso atto, pag. 437, sono nominati gli Arconti del Segreto, cioè i Direttori di Finanza della Corte.

674.  Diploma citato del 1188, presso Trinchera, Syllabus, pag. 297.

675.  Il Thesaurus di Henri Etienne, ediz. di Hase, etc. dà alla voce Ἄρχων i soli significati antichi; ma spiega Ἀρχοντία, etc., prefettura del basso impero. Il Glossario greco del Ducange cita invece il significato più moderno, cioè nobili e baroni ed anco l’Arconte degli Arconti di Costantino Porfirogenito. Ma le compilazioni di dritto alle quali si riferisce il Mortreuil, Histoire du Droit byzantin, vol. II, pag. 375 e 421, e vol. III, pag. 95, mostrano mantenuto nel X, XI e XII secolo il significato di supremo magistrato giudiziale. Nella stessa opera, vol. III, pag. 68, veggo che i corpi de’ dignitarii della Chiesa si chiamassero anco Ἀρχοντικία, e le citazioni delle pagg. 81-82 provano dato quel titolo ad alcun ufizio municipale.

676.  Traduzione d’un diploma greco, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 300. Vi si leggon anco i senes Noti e i senes Rosati; ma questi nomi topografici sembrano sbagliati, perchè Noto giace in altra regione e Rosato non si ritrova in altre carte.

677.  Γέρουσία. Diploma greco, presso Spata, Pergamene, pag. 410.

678.  Traduzione latina d’un diploma greco di novembre 1104, presso Gregorio, Considerazioni, libro I, cap. iij, nota 10. Quivi si fa cenno di sacerdoti, simul considentibus, con gli Anziani e poi di testimonianza di molti Buoni uomini. Ma il testo forse metteva questi insieme con gli Anziani e la traduzione, che il Gregorio confessa inesatta, alterò il senso.

679.  Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 285 segg.

680.  Idem, ibid., pag. 293 segg.

681.  Diploma greco del 1138, inserito in uno del 1188, presso Trinchera, Syllabus, pag. 297. I Buoni uomini e gli Anziani doveano determinare tutte le appartenenze d’un feudo recentemente conceduto: boschi, vigne, ec., fino a’ villani ed a’ borghesi.

682.  Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 438.

683.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 774. Invece di Catinae, si dee legger quivi Jatinae, della qual terra si tratta e non di Catania. Gli Anziani in questo diploma, scritto originariamente in latino, sono detti majores natu, traduzione literale di sceikh. L’altra terra nominata è Mertu, villaggio or distrutto in provincia di Palermo.

684.  Diploma greco-arabico, nel Tabularium della Cappella Palatina di Palermo, pag. 29.

685.  Traduzione latina del XIII secolo, dal greco e dallo arabico, pubblicata dal Gregorio, De Supputandis, pag. 34 e segg. e meglio dallo Spata, Pergamene, pag. 451 seg. È da notare che la traduzione dall’arabico ha il solo vocabolo senes che risponde a sceikh; ma nella traduzione dal greco si legge senes de regimine terrarum adiacentium. Dond’ei sembra che la voce γέροντες fosse seguita da qualche altra che la specificava o che il traduttore avesse aggiunto de regimine, per mostrare che si trattasse di Anziani e non di vecchi.

686.  Diploma greco del distrutto archivio Capitolare di Messina. Una copia procacciatane dal canonico Schiavo, serbasi nella Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. H. 4, fog. 321; dalla quale il Tardia e il Morso trasser quelle che si ritrovano nella stessa Biblioteca, Q. q. F. 143 e Q. q. E. 172, fog. 427. Avvene di più una traduzione latina, Q. q. G. 12, fog. 55. 56. E questa è la stessa, di cui die’ un pezzo il Gregorio, a proposito de’ maestri de’ borghesi, come or or diremo. Avvertasi che il Ms. è citato dal Gregorio con l’antico posto, Q. q. H. 15. Debbo la copia greca e latina di questi diplomi al dotto mio amico Isidoro La Lumia.

687.  Diploma arabico della cattedrale di Palermo e nuova spedizione del medesimo nel 1154, mai pubblicati dal Gregorio e poi dal professor Caruso nella Biblioteca Sacra, Palermo, 1834, vol. II, pag. 46 segg.

688.  Diplomi del 1122, 1217, 1223, 1224 e 1225. presso Spata, op. cit., pag. 256, 313, 314, 315, 317, 322, 323, 329, 330.

689.  Il primo è diploma greco, presso Spata, Pergamene, pag. 216; il secondo, squarcio di traduzione latina d’un diploma greco, presso Gregorio, Considerazioni, libro II, cap. II, nota 25; e gli ultimi due diplomi greci, presso Spata, op. cit., pag. 286, 293 segg. I nomi proprii mi sembrano mescolati greci e italici.

690.  Diploma greco, presso Spata, op. cit., pag. 261, ed a pag. 263, un transunto latino contemporaneo dove si legge la traduzione litterale Boni homines. Ancorchè l’editore non abbia avuta sotto gli occhi la pergamena originale, pure l’atto è da tenersi autentico, pei motivi ch’egli discorre nelle annotazioni. Ed ancorchè il testo greco sembri guasto in qualche luogo, pur non è in quello che ci importa; cioè dove i Buoni uomini dicono chiaramente: Noi abbiamo conceduti i beni. E noi significa il comune piuttosto che le persone, poichè erano trascorsi necessariamente moltissimi anni dalla concessione. De’ nomi proprii di cotesti Buoni uomini, laici o chierici, la più parte mi sembrano greci o latini e due soli oltramontani.

691.  Diploma d’ottobre 1204, del quale v’ha copia tra i Mss. della Biblioteca comunale di Palermo, Q. q. G. 12. fog 114, citato per la prima volta dal La Lumia, per provare la esistenza de’ giurati in quel tempo, quando il Gregorio li trovava per la prima volta dal 1222 al 1231. Si vegga l’opera di quel mio dotto amico, Storia della Sicilia sotto Guglielmo il Buono, Firenze, 1867, in 12º, pag. 200. Avuta copia di questo documento dallo stesso La Lumia, mi par di pubblicarlo, come quel che rivela la forma del municipio lombardo di Sicilia ai tempi normanni, ai quali va riferita manifestamente la istituzione.

In nomine Dei Eterni Salvatoris omnium, Jesu Christi, Amen. Anno felicis suæ Incarnationis Millesimo Ducentesimo quarto, mense octobris Nonæ Indictionis. — Quoniam acceptum est illi per quem salus venit in mundum, et interest opera civitatis haud minimum judicare, fundare Ecclesias, et fundatas pia sollicitudine promovere; inde est quod Nos Rogerius de Drusiana et Joseph de Ytalia, de regio mandato instituimus una cum cæteris Bonis hominibus, et universo populo Nicosino; cum in honore et titulo Salvatoris fundassemus Ecclesiam in montem appellatam Sancti Salvatoris in terra Nicosini, ut in eadem Ecclesia acceptum Deo et sollemnius serviatur quantum vestra interest, et licet laicis de Ecclesiis ordinare, eamdem Ecclesiam ad jurisdictionem transferimus Sanctæ Ecclesiæ Latinensis cum omnibus possessionibus, et cæteris bonis, quae ipsa hodie habet, et in futurum est, Deo propitio, habitura. Salvo jure Sanctæ Messanensis Ecclesiæ cui ipsa tenetur persolvere tarenum annuum pro incenso.

Ad hujus autem nostræ concessionis memoriam, et robur in perpetuum valiturum, per manus Magistri Johannis Rocté (?) presens scripta est pagina et subscriptarum personarum testimonio roborata. Anno, mense et Indictione præscriptis. Regnante Domino nostro serenissimo Rege Frederico, anno (Dei gratia) octavo.

Ex scripturis existentibus in Archivio Sanctissimæ Collegiata Capitularis Insignis Matris Ecclesia Sancti Patris Nicolai, Præcipui et Principalis Patroni hujus Urbis Nicosiæ, extracta est præsens copia — Collatione salva.

Notarius Dominus Petrus Franciscus Paulus de Gugliotta Archivarius.

692.  Si veggano gli articoli di cotesta antica compilazione di diritto, citati da Hegel, Storia della Costituzione de’ Municipii italiani, Appendice pag. 419 segg. della traduzione italiana.

693.  Nelle Memorie della R. Accademia delle Scienze in Torino, 2ª serie vol. XIII, pagg. 32, 50, 57, 99.

694.  Ducange, Glossario latino, ultima edizione, alla voce Boni homines.

695.  Considerazioni, lib. II, cap. vij, pag. 182, 183.

696.  Ducange, Glossario latino alla voce Magister, e Glossario greco, alla voce Μαγίστερ. Nella lunghissima lista, che prende sedici colonne dell’ultima edizione del glossario latino, una sola fiata questo vocabolo pare scambiato con major nei magistri communiae o magistri civium; ma l’esempio è posteriore al XII secolo.

697.  Si vegga la citazione che abbiamo fatta in questo medesimo libro cap. viij, pag. 219.

698.  Oltre il supposto del Gregorio, così pensa anco l’Hartwig, Codex Juris municipalis Siciliae, Parte I, Cassel, 1865, pagg. 40, 41. Al ragionamento del dotto giureconsulto alemanno io oppongo che i majores civium di Messina nel XII secolo e que’ di Palermo in tempo indeterminato, ch’egli cita, i quali tornano secondo me al XIV secolo, significano evidentemente i rappresentanti del municipio, Buoni uomini, Anziani, o comunque si chiamassero nelle due città primarie dell’isola, non già i capi del mnnicipio, sindaci o giurati. Perciò gli ufizi non sono meno diversi l’un dall’altro che i significati de’ due titoli.

699.  De’ due documenti citati dal Gregorio, de’ quali ho avuta testè la copia per favore del dotto mio amico Isidoro La Lumia, quel di Collesano non offre se non che una soscrizione in mezzo a molte altre di testimonii, dalla quale si può argomentare solamente che il maestro di borghesi fosse ammesso nelle grandi solennità a corte del feudatario di Collesano. L’altro è la sentenza della quale abbiamo fatta menzione testè a pag. 285. Da cotesto atto si ritrae che Ruggiero, maestro della Borghesia di Traina, e Meles figlio del maestro dei Borghesi, erano stati chiamati come assessori in un giudizio di confini, con molti altri anziani di quella città ed anziani e Buoni uomini di altre terre vicine. Ma questo Ruggiero è nominato dopo tre persone, il Cantore cioè del Capitolo, un Canonico ed un Roberto Galabeta. Non sembra egli dunque il capo del municipio. Il figlio è soscritto dopo altre sei persone.

700.  Nel diploma dianzi citato è soscritto, dopo Adelicia nipote di re Ruggiero, il figliuolo di lei Adamo Avenel.

701.  Nel diploma del 1142 citato dianzi, abbiamo i seguenti nomi degli Anziani di Traina, ch’io divido secondo che mi sembra la loro nazione: francesi signor Josfré (Jeoffroi) cantore (della cattedrale), signor Renò (Reinault?) canonico; italici Guglielmo Maleditto, Giovanni Longobardo, il monaco Filadelfo Oca; greci Roberto Galabeta, Riccardo Gambro, Giovanni Catrobarba, Notaio Leone Cutzaniti, Meles, figlio del maestro de’ Borghesi e altri. I francesi, come si vede anco da altri diplomi, richiedeano sempre il titolo di sieur, κύριος. Il maestro della borghesia avea per nome Ruggiero.

702.  Dati del 1421 e pubblicati da Orlando, Un Codice di Leggi e Diplomi Siciliani, Palermo, 1857, in-8, pag. 139 segg.

703.  Diplomi del 1340 e 1392, presso Pirro, Sicilia Sacra, pagg. 410, 849.

704.  Diploma inedito del Regio Archivio di Palermo, dato il 1140, scritto in lingua arabica con caratteri ebraici.

705.  Si vegga il passo di questo scrittore, nel presente nostro libro V, cap. iv, pag. 130 del volume.

706.  Si veggano le citazioni qui sopra a pag. 284 a 286.

707.  Quantunque cotesta mi sembri l’origine più probabile de’ geronti di Sicilia, non debbo tacere che i Boni homines della Terraferma italiana fossero anco detti nel medio evo Seniores civitatis. Veggasi la Lex romana del manoscritto di Udine citata poc’anzi a pag. 288, nota 1. Ma quella voce di origine romana non occorre sovente nella schiatta greca, se non che nella Sicilia del Medio evo.

708.  Qui sopra a pag. 286, 287.

709.  A buon diritto il La Lumia, Storia della Sicilia sotto Guglielmo il Buono, pag. 200, ha notati questi giurati di Nicosia del 1204, come ufiziali proprii del municipio. Ma parmi ch’egli erri ammettendo un «Capo municipale» di Centuripe su la fede della versione d’un diploma greco del 1183, presso Spata, Pergamene, pag. 293, dove ἐξουσιαστῆς è reso podestà. Potestà etimologicamente sta bene, ma non ha che fare col magistrato delle repubbliche italiane così chiamato, e probabilmente non accenna ad altro che al bajulo.

Il citato diploma del 1172 si legge presso il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ij, nota 32.

710.  Diploma del 1168, citato di sopra, presso Spata, Pergamene, pag. 438, 439.

711.  Malaterra, lib. IV, cap. xvj.

712.  Diploma latino del 1168, presso Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. iv, nota 4; diploma latino del 1133, op. cit., lib. I, cap. v, nota 4; diploma latino del 1145 presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 800.

713.  Si vegga il capitolo precedente, pag. 223, nota 5.

714.  Diploma del 1197, presso Aprile, Cronologia universale della Sicilia, pag. 109. A pag. 111 è un diploma analogo di Federigo, dato il 1210.

715.  Su i privilegi e consuetudini di Palermo e Messina, mi riferisco ai citati lavori del La Lumia, pag. 199, segg. e dell’Hartwig, op. cit. Di que’ di Catania abbiam fatta menzione poc’anzi.

716.  Ho detto de’ quartieri di Palermo nel cap. iv del presente libro, pag. 118 del volume, e in altri luoghi quivi citati. Si vegga anco per l’Halka il cap. v, pag. 137. Il quartiere detto ne’ diplomi latini Seralcadi, risponde a quello chiamato degli Schiavoni nel X secolo.

717.  Si vegga il cap. I, del presente libro, pag. 55, 56. La poca popolazione spiega il detto dell’Anonimo presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 837, che Roberto, presa la città, ordinolla a suo piacimento; se pur quel verbo non si riferisce al sistema di difesa, più che al governo civile.

718.  Ciò ha notato con molta sagacità l’Hartwig, Codex Juris munic. Siciliæ, pag. 14, e certissima io tengo la importanza della città verso la metà del XII secolo; non così al 1060, come par che supponga il signor Hartwig. Non occorre aggiugnere ch’io consento appieno con lui sul valore dei diplomi messinesi del XII secolo.

719.  Falcando, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, pag. 404, 405, 458, 469 e 477.

720.  Considerazioni, lib. I, cap. ij, v, vj.

721.  Il Feudalismo in Sicilia, Palermo, 1847, in-8.

722.  Non si può attribuire che a Roberto capitano del l’esercito, il disegno di che fa parola il Malaterra dopo la occupazione di Palermo, cioè dividere tra Serlone e Arisgoto di Pozzuoli metà della Sicilia, o metà di quel ch’era dato a Ruggiero.

723.  Lib. IV, cap. XV, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 235.

724.  Diploma arabo-greco, inedito, della Chiesa di Catania, dato il 1095.

725.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. ij, pag. 20, 21; e confrontisi il diploma del 1094, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 771. Si avverta che la Contea di Paternò fu conceduta al marchese Arrigo sotto la reggenza di Adelaide sua sorella.

726.  Si legga il diploma, presso Fazzello, Historia Sicula, Deca I, lib. vj cap. 5.

727.  Questo ultimo fatto è stato osservato sagacemente dal Gregorio, Considerazioni, lib. I. cap. ij, pag. 23.

728.  Utamur ea (praeda) dividentes Apostolico more, prout cuique opus est. Così lo fa parlare il Malaterra, lib. II, cap. xlij, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 197.

729.  Si vegga il cap. vij del presente libro, pag. 187, e 192.

730.  Mortreuil, Histoire du Droit byzantin, vol. I, pag. 297, vol. III, pagg. 58, 59.

731.  Il fatto ricordato da noi nel cap. vij di questo libro, pag. 187, 188, se pur lo s’abbia a credere, va ristretto alla conversione de’ Musulmani dell’esercito, o degli schiavi. Non occorre dimostrare la utilità di convertire al cristianesimo l’universale della popolazione musulmana, massime delle grandi città. E Ruggiero di certo lo comprendea.

732.  Si confronti l’epistola 24 del libro IX, di Gregorio VII, con le parole del Malaterra e con le date dei diplomi relativi alla Chiesa di Traina, riferiti dal Pirro, Sicilia Sacra, pag. 495. Si vegga anche Dichiara, Opuscoli, Palermo, 1855, in-8, pag. 134 segg.

733.  Proposui in Tragina construere episcopatum... tradidimus tibi gubernationem ejusdem episcopatus... Monasteria quoque habebis sub potestate. — Urbanus secundus mihi, ore suo sanctissimo et venerando, præcepit, nipote pater spiritualis... ecclesias ædificavi jussu summi Pontificis et Episcopos ibidem collocavi, ipso laudante et concedente et ipsos Episcopos consecrante. — Ecclesias ordinavi.... cui in Parochiam assigno quidquid infra fines subscriptos continetur. — Stephanus, cui in parochiam assigno e altre simili parole leggonsi nei diplomi del Conte, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 382, 520, 695, 842. Urbano II stesso, nella bolla per la quale conferma il vescovo di Siracusa, op. cit., pag. 618, dice del conte Ruggiero: Syracusanam itaque ecclesiam novissime restaurans.... Pontificem Syracusanæ elegit ecclesiæ.... a prodicto Rogerio concessa sunt infra hos terminos adjacentia, etc. Si riscontri del resto il Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. vij.

734.  Si vegga il Pirro, Sicilia Sacra, nella notizia di ciascun vescovato.

735.  Diploma del 1090, pel monastero di San Filippo di Fragalà; del 1092 per quel di Santa Maria di Mili; del 1093 per que’ di San Michele Arcangelo di Traina, di Sant’Angelo di Brolo e di San Pietro e Paolo d’Itala; del 1098 per quel di Santa Maria di Vicari, ec. presso Pirro, op. cit., pag. 1027, 1025, 1021, 1016, 1034, 294, ec.

736.  Bolla del 1091, presso Pirro, op. cit., pag. 952, data di Mileto e però, com’e’ sembra, scritta d’accordo con Ruggiero.

737.  Diploma del conte Ruggiero, dato il 1094, op. cit., pag. 771, 772. L’abate di Lipari e di Patti ebbe poi titolo di vescovo il 1131.

738.  Nel diploma di Ruggiero a favor del monastero d’Itala, citato poc’anzi, si legge che coloro che contravvenissero agli ordinamenti da lui dati per questo monistero, auctoritate apostolica nobis tributa, sint et esse debeant anathemisati, jussu et prætextu Domini Summi Pontificis Urbani et omnium successorum Patrum. E ciò oltre la sanzione dell’anatema che si solea porre nelle donazioni a chiese, la quale si legge in fine del medesimo diploma: che chiunque violasse la donazione sit et esse debeat maledictus a consubstantiali Trinitate, ec. Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1035.

739.  Malaterra, lib. IV, cap. xxix, presso Caruso, Bibl. Sicula, p. 247.

740.  Malaterra, lib. IV, cap. vij, op. cit., pag. 231.

741.  Malaterra, l. c.

742.  Per abbreviare, mi riferisco al Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. ij, nota 13 e 15, su le concessioni feudali ch’ebbero i prelati.

743.  Gregorio, op. cit., lib. I, cap. vj, pag. 130.

744.  Gli stati di Ibn-Menkut, Ibn-Hawasci, Ibn-Meklati e della repubblica di Palermo, e quello d’Ibn-Thimna, surto più tardi, rispondono, su per giù, alle diocesi di Mazara, Girgenti, Catania, Palermo e Siracusa. Il Val Demone che die’ le diocesi di Messina e di Patti, era distinto d’altronde per la popolazione cristiana. Si vegga il nostro libro IV, cap. xij e xv, pag. 420 e 549 del 2º volume.

745.  Le prime sei furono Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Girgenti, Mazara, già nominate, 7. Patti e Lipari vescovo (1131) 8. Archimandrita di Messina, 9. Cefalù (1145), 10. Morreale (1182), 11. Lipari sola (1399), 12. Nicosia (1816), 13. Caltagirone (1816), 14. Piazza (1817), 15. Noto (1844), 16. Trapani (1844), 17. Caltanissetta (1844), 18. Vescovo di rito greco in Palermo: senza contare il vescovo di Malta (1089), nè la giurisdizione eccezionale dell’Abate di Santa Lucia, nè la sede d’Acireale, decretata il 1844 e poi non istituita.

746.  Sendo stato quel di Palermo il solo vescovo che rimase in Sicilia poco innanzi il conquisto normanno, il conte Ruggiero fissò la diocesi per esclusione, descrivendo, tra il 1082 e il 1093, le tre che la circondavano. E però il primo atto che contenga la lista delle terre della diocesi palermitana scende fino al 1122.

747.  Lib. IV, cap. iv, pag. 274 segg. del 2º volume.

748.  Edrisi, testo, nella Biblioteca Arabo-Sicula, pagg. 32, 36, 37, 39, 40, 41, 42, 44, 50, 52, 55. Lo stesso autore parla degli iklîm nella descrizione d’altri paesi, per esempio dell’Affrica e della Spagna, come può vedersi nella traduzione francese de’ sigg. Dozy e De Goeje, a’ luoghi citati nel loro glossario sotto la voce iklîm.

’Aml, è governo, anche nel significato di territorio assegnato al governatore ’Amil.

749.  Un diploma arabico della Chiesa di Palermo, dato il 1149, presso Gregorio, De Supputandis, pag. 34, cita l’iklîm di Giato. Uno greco arabico, inedito, del Monastero di Morreale, dato di maggio 1151, cita que’ di Corleone e Sciacca; un altro, anche inedito e greco-arabico della cattedrale di Palermo, dato del 1169, cita quel di Termini.

750.  Sono le diocesi di Palermo, Mazara, Siracusa e Catania, presso Pirro, Sicilia Sacra, pagg. 82, 842, 618 e 520. Di quella di Girgenti, op. cit., pag. 695, abbiam solo i confini. Lasciamo addietro quella di Cefalù perchè la torna al XII secolo. E quella di Messina, op. cit., pag. 583, per sospetto che il testo sia stato alterato, come tanti altri diplomi messinesi.

751.  Testo, nella Bibl. Arabo-Sicula, pag. 27.

752.  Diploma del 1091, presso Pirro, op. cit., pag. 520.

753.  Bolla di Callisto II, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 82.

754.  Si confronti Edrisi con questi nomi e si vegga la Carte Comparée de la Sicile, etc., ch’io pubblicai a Parigi, insieme con M. Dufour, il 1859.

755.  Diploma del Monastero di Morreale, arabico latino, dato il 15 maggio 1182. La versione latina contemporanea si vegga presso del Giudice, Descrizione del real Tempio ec. di Morreale, appendice, pag. 8 segg. Lo stesso documento pone 42 tra villaggi e ville nel territorio di Giato, che appartenne alla diocesi di Mazara e poi a quella di Morreale.

756.  Journal Asiatique di gennaio 1840, pag. 73, e nell’Archivio Storico italiano, Appendice N. 46 (1847), pag. 30.

757.  Diploma arabico inedito della Cattedrale di Palermo, dato il 1169, citato nella Biblioteca Sacra per la Sicilia, vol. II, Palermo, 1834, pag. 45.

758.  Diplomi greco-arabici del 1143 e 1172, nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 13, 28.

759.  Diploma del 1093 presso Pirro, op. cit., pag. 842.

760.  Si vegga la citazione nel nostro lib. IV, vol. 2º, pag. 277, nota 3. Mutati in oggi i nomi ufiziali, chiamo circondario quel che nel 1858 dissi distretto.

761.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. ij, pag. 23 e nota 14, nella quale la citazione del Pirro si corregga: pag. 771.

762.  Si veggano le concessioni di Regalbuto e di Catania, a pag. 321, nota 2, e a pag. 326, nota 2.

763.  Literalmente Omm, ossia «madre», testo nella Bibl. Arabo-sicula, pag. 39, 40. L’autore parla del gran traffico che faceasi a Sciacca e dell’abbandono di Caltabellotta, ove non rimanea che il presidio del castello.

764.  Amato e Malaterra, citati nel cap. ij di questo lib. V, pag. 74 e 77.

765.  Op. cit., pag. 32. Quivi si dice esser Caronia il principio dell’iklîm di Demona. Non si tratta dunque di territorio di una città, come ne’ luoghi da noi citati poc’anzi, a pag. 310, nota 2.

766.  Son citati nel nostro lib. II, cap. xij, pagg. 469, 470 del Iº volume, che uscì alla luce il 1854. Or abbiamo i testi greci pubblicati dallo Spata, Pergamene, pag. 163 a 344, ne’ quali i due Monasteri di San Filippo e di San Barbaro son chiamati Τῶν δεμέννων, ἐν δεμέννοις e più spesso δεμέννων senz’altro e una volta (pag. 274) δαιμέννων, e il territorio di cotesti demenni è detto in un diploma del 1101 (pag. 191) χώρα, in uno del 1117 (pag. 245) διακρατήσις (equivalente d’iklîm in un diploma greco del 1151 presso Spata, Cimelio diplomatico di Morreale, pag. 60, del cui testo arabico io ho una copia) e finalmente, ne’ diplomi del 1182 e 1192 (pagg. 292, e 305) diviene Βαθεία, cieca traduzione di vallis che già prevalea nel latinismo volgare del paese.

Si noti che il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ij, non potè provare con certezza in qual tempo il vocabolo valle fosse divenuto denominazione amministrativa. D’altronde alcuna delle citazioni ch’ei fa nella nota 24 di quel capitolo, non tornano; e quelle fondate in sul Pirro han poco valore quando si riferiscono a traduzioni dal greco.

767.  Si vegga il nostro lib. II, cap. xij, pag. 465 segg. del 1º volume.

Il Malaterra, lib. II, cap. x, presso Caruso, Bibl. Sicula, pag. 208, fa menzione della provincia di Noto, durante la guerra del Conte e in particolare verso il 1076. Ma oltrechè questo fatto non implicherebbe che il Conte, insignoritosi dell’isola, avesse mantenuta quella provincia, la narrazione porta più tosto a credere che si trattasse del territorio della città, o forse del distretto o iklîm. Si vegga il cap. vj del presente nostro libro, pag. 153, del volume, dove abbiamo nominato il Val di Noto per indicare il luogo, non per attribuire all’XI secolo questa denominazione di geografia politica.

768.  Anonymi historia sicula, presso Caruso, Bibl. Sic., pag. 856.

769.  Malaterra, lib. IV, cap. xviij.

770.  Malaterra, lib. IV, cap. xxv. Il testo porta che del 1079 la principessa, accompagnata da un vescovo e da parecchi altri cortigiani, con una scorta di 500 lance, andò a Termini; ch’ella proseguì il viaggio per mare usque Pannoniam; e che indi, apparecchiatele navi e date le vele a’ venti, arrivò, per prospero viaggio, al porto d’Alba (Alba maris, Blandona, Biograd, Zara vecchia) appartenente al re d’Ungheria. Senza dubbio quell’«usque Pannoniam» è erroneo e va corretto usque Panormum, come si legge in una variante data dal Caruso, pag. 344 (Muratori, V, 599). Noi possiamo riconoscere in parte la strada che tenne il cortèo fino a Termini, e conchiudere che movea da Traina. I documenti che citeremo qui innanzi, pag. 340, nota 3, ci mostrano che nel 1094 una «strada regia» passava per Traina; che nel 1096 una «strada francese» dalla sorgente del fiume Torto, ossia da’ dintorni di Vicari, andava a Levante, cioè verso Traina; e che nel 1132 una strada correa da Palermo a Vicari, Castronovo, Petralia. Senza dubbio il corteo della sposa battè quello stradale militare. Perchè poi fosse ito a Termini piuttosto che a Palermo, si può ben ritrovare, senza il supposto che la strada del 1132 non fosse aperta il 1097. Palermo appartenne tutta a’ Duchi di Puglia, fino al 1091; quando ne fu ceduta una metà al conte Ruggiero. Or egli è verosimile, per non dir necessario, che, tra parenti così sospettosi, e non senza ragione, i patti della cessione vietassero l’entrata di nuove forze militari dell’uno o dell’altro nel territorio comune: e forza considerevolissima erano 300 militi, ossia circa 1000 cavalli. Sembra dunque che la scorta abbia lasciata la principessa alla frontiera del territorio proprio del Conte, ch’era Termini, e ch’ella, accompagnata da’ grandi della Corte, sia andata per mare nel gran porto di Palermo, dove si allestì l’armatetta che poi la recò nell’Adriatico.

771.  Diplomi arabici della Cattedrale di Palermo, il primo de’ quali fu citato e il secondo pubblicato dal Gregorio, De Supputandis, pag. 34, a 39. Tra gli altri errori, il Gregorio prese per nome proprio la trascrizione arabica della voce Stratego. Un po’ meno infelicemente, il professore Caruso ristampò l’uno e pubblicò l’altro nella Biblioteca Sacra, Tomo II, Palermo, 1834, pag. 46, segg., 55, segg. Io ne ho avute, per cortesia del professor Cusa, due buone copie cavate dall’originale. Alla fine del primo, in luogo dell’era barbara, che suppose il Gregorio e il Caruso copiò, va letto: «con la data di marzo». Questo Abu-Taib, figliuolo, come dicono i diplomi, dello sceikh Stefano, sembra di famiglia musulmana convertita e forse di quelle indigene che, dopo avere abbracciato I’islam, ritornarono al cristianesimo. Ei mi pare identico con l’Eugenio detto il Bello (Τοῦ καλοῦ e l’è traduzione letterale di Abu-Taib) segreto della corte, secondo un diploma del 1183, presso Spata, Pergamene, pag. 293; lo stesso che nella traduzione latina d’un diploma greco, presso Gregorio, De Supputandis, pag. 54 segg. e presso Spata, op. cit., pag. 452 segg. è detto Eugenio de Cales. La voce Biccari, a pag. 57 del Gregorio, e Biccaib, a pag. 454 dello Spata, va corretta Bittaib, ch’è il nome Abu-Taib, pronunziato volgarmente e messo al genitivo. Ho scritte le lettere N-zh-r-d come le veggo nelle copie, e le suppongo nome topografico, non casato sì come parve al Gregorio e al Caruso. Ma non trovo riscontro ne’ nomi topografici di quel contorno de’ quali sappiamo pur molti. La forma de’ caratteri, mutati i punti, mi fa pensare a Battelari, il quale luogo si vegga nella mia Carte Comparée de la Sicile, pag. 29.

772.  Presso Spata, Pergamene, pag. 434. Il nome del comune manca; ma il diploma appartenea al vescovato di Cefalù.

773.  Considerazioni, lib. I, cap. iij.

774.  Il Gregorio stesso, dopo avere sostenuto nel lib. I, la esclusiva competenza criminale, pubblicava nel lib. II, cap. ij, nota 32, la traduzione d’un diploma greco del 1172, dal quale risulta che in quell’anno medesimo e al tempo dell’arcivescovo Roberto (1090-1108), lo stratego di Messina esercitava giurisdizione civile. Si vegga d’altronde su la competenza di quel magistrato, l’Hartwig, Codex juris municipalis Siciliæ, Parte I, pag. 32 segg.

Inoltre lo stratego di Demenna esercitava giurisdizione civile, secondo un diploma greco del 1136, presso Spata, Pergamene, pag. 265; e così anco lo stratego di Centorbi, secondo un diploma del 1183. op. cit., pag. 293. Operano gli strateghi come agenti del Demanio regio in Giattini (così va letto, non Catinae, e sparisce indi lo stratego di Catania supposto dal Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. iij, nota 6) secondo un diploma latino del 1133, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 774; e in Siracusa secondo un diploma greco-latino del 1172, presso Spata, Pergamene, pag. 443, 444.

775.  Gregorio, op. cit., lib. I, cap. iij, nota 20. Nel Diploma del 1172, citato poc’anzi, è nominato, oltre lo stratego, anche il vicecomite di Siracusa.

776.  Intorno i vicecomiti in Italia si vegga Hegel, Storia de’ Municipi italiani, versione italiana, pagg. 128, 441, 473.

777.  Ibn-Giobair, nel Journal Asiatique, genn. 1846, pag. 80, e nell’Archivio Storico Italiano, Appendice, nº 16. pag. 32, dice del cadì di Palermo che giudicava le liti tra i Musulmani, sotto Guglielmo II. Il nome dell’uficio comparisce in un diploma greco, del 1143, presso Morso, Palermo antico, pag. 306; la giurisdizione poi nelle seguenti carte: 1123, greca, presso Spata, Pergamene, pag. 410; 1137, arabica inedita della Cappella palatina di Palermo; 1161, arabica inedita della Commenda della Magione di Palermo, oggi nel regio Archivio; 1202 latina, presso Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. vij, nota 7.

Si avverta che la prima e l’ultima mostrano funzioni di giudice e le due altre quel che noi chiamiamo pubblico ministero, a tutela delle donne e de’ minori. Molti altri contratti di vendita sono stipulati, come di ragione, dinanzi testimonii, senza intervento del cadi.

Il cadi di Lucera, dopo la deportazione dei Musulmani di Sicilia in Terraferma, è citato in un diploma dell’imperator Federigo, dato il 25 dicembre 1239, nella edizione Carcani, pag. 30, e nell’Historia Diplomatica Friderici II, tomo V, pag. 627-628.

Ibn Giobair, op. cit., pag. 87, e traduzione italiana, pag. 35, dice dello Hakim di Trapani, innanzi il quale era stata attestata l’apparizione della nuova luna, per determinare legalmente i giorni del digiuno di ramadhan. Il titolo di Hakim dato al primo magistrato di Malta, viene evidentemente da’ tempi musulmani, passando pei normanni.

778.  Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. iij; Hartwig, Codex Juris municipalis Siciliæ, Parte I.

779.  Gregorio, Considerazioni. lib. I, v e vj.

780.  Si vegga il capitolo precedente, pag. 245, nota 2. In fin del ruolo di Aci, quivi citato, ch’è dato di Messina il 6603 (1095) si dice che tutte le platee del paese del Conte e di quelli de’ suoi terrieri, erano state scrìtte in Mazara il 6601; e quindi si ordina che se alcuno degli Agareni notato nel presente ruolo si trovasse in quegli altri, ei fosse immediatamente reso dal vescovo di Catania a chi di dritto. Lo stesso si scorge dal preambolo di un ruolo arabo-greco dei villani di Catania, dato il 1144.

781.  La voce rab’, al plurale ribâ’ fu studiata da Mr. De Sacy e, con buone autorità, tradotta casa, nella Rélation de l’Egypte par Abdallatif, pag. 303, nota. Ma in cotesto significato la sembra idiotismo dell’Egitto. Il significato di podere, che ha evidentemente questa voce ne’ diplomi di Sicilia e nella geografia di Edrisi, ritrovasi anco in Azraki, Storia della Mecca, e l’è tolto probabilmente da scritture de’ primi tempi dell’islamismo. Senza citare tutti i diplomi arabici della Sicilia ne’ quali occorre questa voce, ricorderò quelli del 1149 e 1154, il primo de’ quali presso Gregorio, De Supputandis, pag. 34, e l’altro nella Biblioteca Sacra per la Sicilia, tom. II, pag. 46. Nelle traduzioni ufiziali di Sicilia del XII secolo, rab’ è reso in latino cultura, terræ laboratoriæ, al collettivo, e terræ senz’altro (diploma del 1182, testo arabico inedito; la traduzione latina pubblicata da Del Giudice, Descrizione del real tempio, ec. in una delle appendici, nella quale i luoghi ch’io cito si ritrovano a pagg. 10, 12 e 18) e altrove in greco τετραμέρως, che pare scambio con la voce rub’ «quarta parte» derivata dalla stessa radice (diploma del 1172, greco-arabo, nel Tabulario della Cappella palatina di Palermo, pag. 29, 30).

La voce cultura, determinata dalle parole ad duo paria bovium, si legge anco in un diploma latino del 1094, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 521. E risponde senza dubbio al rab’, il quale, come si scorge da’ citati diplomi del 1149 e 1154, si misurava a zeug, cioè paia di buoi, paricla, come scriveano latinamente nel medio evo: quella stessa misura di superficie della quale ci è occorso di trattare nel lib. I, cap. vj, e lib. IV, cap. viij, pag. 153 del 1º volume e 352, del 2º.

782.  Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 384, dove si legge: cum omni lenimento et pertinentiis suis, secundum anticas divisiones Saracenorum.

783.  Si veggano i diplomi arabici del 1149, 1174, 1172, e sopratutto quello del 1182, citati nelle note precedenti.

784.  Cotesto titolo ai trova ne’ diplomi arabici del 1149 e 1154, citati poc’anzi nella pag. 316, nota 1; in uno greco arabico del 1172, pubblicato nel Tabulario della Cappella Palatina di Palermo, pag. 30, 31; in uno arabico del 1182, inedito che apparteneva al Monastero de’ Benedettini di Morreale, ec.

Mettendo da parte la traduzione del Gregorio: «Duana veracis conservata a Deo» (De Supputandis, pag. 35) e quella del XIII. secolo «Doana Veritatis» (presso Gregorio, op. cit., pag. 57) la quale servì di guida all’illustre pubblicista e mediocrissimo arabizzante siciliano, noi diremo della versione «Bureau de vérification du domaine.» data da M. Noël Des Vergers (Journal Asiatique di ottobre 1845, p. 340) trascrivendo un brano del detto diploma del 1149 per comento a quello del 1182, ch’egli pubblicava. L’autorità di questo erudito francese, di cui abbiamo deplorata non è guari la morte, è di molto peso, perch’egli sapea per benino l’arabico; e molto meglio di lui e di noi tutti lo sa M. Caussin De Perceval, ch’egli consultò in quel suo studio sul diploma arabico di Morreale del 1182. Evidentemente que’ due dotti uomini dettero all’aggettivo passivo Ma’mûr il significato del sostantivo côlto, come appunto l’ha preso questa voce in italiano; e, trattandosi evidentemente di beni demaniali, lo tradussero domaine. Quanto all’articolo del sostantivo tahkik essi lo considerarono «appositivo», come dicono i grammatici. E così la traduzione starebbe benissimo: «Uficio della verificazione de’ côlti» o meglio «dell’appuramento degli Stabili,» perocchè la voce ma’mûr può applicarsi a qualsivoglia terreno reso profittevole dall’industria dell’uomo, con lavori agrarii o fabbriche.

Se non che i ragguagli dell’amministrazione pubblica d’Egitto nel medio evo, i quali m’è occorso di studiare, conducono a interpretazione diversa. E primo, nella Storia de’ Patriarchi d’Alessandria, opera del XIII secolo, Ms. arabico di Parigi, Ancien fonds 140, è citato, a pag. 400, il Diwan-el-Khazânat-el-Ma’mûrah, ossia “ufizio de’ forzieri,” ma’murah, e, pag. 407, il Beit-el-Mâl-el-Ma’mûr, ossia il Tesoro (col significato di cassa dello Stato) ma’mur; nei quali due casi quest’ultima voce, messa, sia al mascolino, sia, come plurale irregolare, al femminino, è evidentemente aggettivo passivo, come noi diremmo “ben fornito, pieno:” e si diceva a mo’ di formola parlando delle entrate pubbliche, nel pio supposto che le fossero sempre abbondanti, ovvero a mo’ d’invocazione ad Allah che sempre le accrescesse. Lo stesso Ms. de’ Patriarchi d’Alessandria, a pag. 224, dice del Diwân-et-Tahkîk senz’altro predicato e senza spiegar che maniera d’ufizio e’ fosse. Ma ben lo sappiamo da Makrizi, il quale nel Kitâb-el-Mewâ’iz (Descrizione dell’Egitto) testo arabico di Bulak, 1270 (1853) vol. I, dando ragguaglio de’ varii ufizi istituiti da’ califi fatemiti, dice, pag. 401 che il “carico del Diwan-et-Tahkîk era di tenere il riscontro a tutti gli altri diwani.” Tahkîk, dunque, va tradotto verificazione o riscontro; e ma’mûr torna a “regio, pubblico” e nulla più. Quell’ufizio in Palermo era la Tesoreria reale, la Controleria, come si disse un tempo con voce francese, e teneva in compendio, o forse in duplicato, i registri che noi conosciamo di tutti i beni pubblici, feudali o demaniali che fossero, e senza dubbio quelli di ogni altra entrata e di tutte le spese, de’ quali non ci è pervenuto alcun ragguaglio.

Avvertasi che nel citato diploma di Morreale del 1182, (Journal Asiatique d’ottobre 1845, pag. 318) il medesimo ufizio è detto brevemente Ed-Diwan-el-Ma’mûr ossia “l’ufizio ricco, pieno,” e però il regio Tesoro. Lo stesso si nota nel diploma del 1172, presso Gregorio, De Supputandis, pag. 56, e in un ruolo di villani arabo-greco e inedito della Chiesa di Catania, soscritto da re Ruggiero, del quale ho copia. In un diploma arabico inedito dell’opera della Magione di Palermo, dato il 1161, la cittadella dell’Halka in Palermo stessa è detta Kasr Ma’mur; e in un trattato di pace di Kelaûn col re di Sicilia, nella mia Biblioteca Arabo-sicula, pag. 349, gli ufizi delle gabelle del Sultano son chiamati Diwan Ma’mûr.

785.  Si leggano presso Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. iv, note 4, 5, 6 e 7 gli antichi esempii di questo titolo latino ai quali si aggiunga Doana Secretie, secondo il diploma del 1172, nel De Supputandis, pag. 56, il qual nome talvolta si compendiava, per antonomasia, nella sola voce doana, dogana, ec. Non occorre poi notare che questo vocabolo, usato con significato ristretto in Europa, sia prettamente l’arabico o meglio persiano diwân. Mentre in Sicilia lo si applicava, arabicamente, a tutto ufizio pubblico, gli Italiani di Terraferma lo ristrinsero a ciò che oggi diciamo dogana, perchè l’ufizio delle gabelle d’entrata delle merci era il solo, o il principale, col quale praticassero i nostri mercatanti negli Stati musulmani del Mediterraneo.

786.  Si riscontri il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. iv. nota 33, il quale non si accorse dell’origine greca, e pur si rise de’ suoi predecessori. Inoltre, ragionando esclusivamente su l’episodio del notaio Matteo, egli negò che i difter della corte siciliana contenessero i catasti; la qual cosa era provata ad evidenza dalle autorità ch’egli avea citate nella nota 4 del medesimo capitolo.

787.  Thesaurus di Errico Etienne, edizione Hase, alla voce διφθέρα.

788.  Nel diploma arabico del 544 (1449-50) in favore del Monistero di Santa Maria de Gurguro, oggi detto della Grazia, presso Palermo, si legge che i confini di certi poderetti assegnati a’ villani della detta Chiesa da un delegato del governo, erano stati registrati nel difter-el-hodûd del Diwan di Riscontro della Tesoreria. Questo diploma, citato dal Gregorio De Supputandis, pag. 38, nota a, fu poi pubblicato dal professor Caruso nella Biblioteca Sacra, vol. II, pag. 58. Un diploma del 1169, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1017, nel quale fu trascritto il sigillo (diploma) del conte Ruggiero a favor del Monastero di San Michele Arcangelo in Traina, aggiugne: Solam enim divisionem prædictam casalis Busceniæ in fine sigilli denotatam, quoniam totaliter literæ deletæ erant et non poterant clare legi, transcripsit ex quinternis magni secreti in quo (sic) continentur confines Siciliæ, ut certe habeas in futurum, etc. Prova anco il mio assunto il diploma di Morreale del 1182, del quale il testo è inedito, e la versione latina, contemporanea ed ufiziale, fu pubblicata da Del Giudice. Questa ha in fine: Has autem divisas predictas a deptariis nostris de saracenico in latinum transferri precipimus; mentre nel testo arabico si legge essere stato trascritto il diploma dai difter del Diwan-et-Tahkik-el-Ma’mûr. Si noti che un diploma arabo-greco del 1151, del quale la parte arabica è inedita e la greca è stata pubblicata dallo Spata, Cimelio del Monastero di Morreale, Palermo, 1865, in-12, pag. 59, segg. si contengono al paro i nomi de’ villani e i confini del podere. Similmente in un altro diploma arabico inedito di Morreale dato il 1178, per lo quale furon donati alla Chiesa di Morreale de’ poderi in Corleone e Calatrasi, il re ordinava al Diwan-et-Tahkik-el-Ma’mûr di cavare dai difter del diwano e dalle antiche giarâid (platee o ruoli) la descrizione de’ poderi e i nomi de’ villani.

789.  Un diploma arabico della Chiesa di Palermo fa supporre che i beni allodiali fossero anch’essi registrati nel catasto dello Ufizio di Riscontro della Tesoreria. Niccolò Askar, famiglio del Kasr-el-Ma’mûr (la cittadella regia, l’Halka) di Palermo comperava una casa di proprietà di Zeinab figlia di Abd-Allah-el-Ansari, posta nel Cassaro antico della città, presso la Bab-es-Sudân (Porta de’ Negri). Metto io da parte, perchè dubito delle lezioni del testo arabico, il nome del magistrato e il titolo del diwan che aveano autorizzata cotesta vendita, accertati che il danaro servisse a quella donna per riscattarsi dalle mani di certi stranieri Rûm che l’avean presa (se fossero stati i Lombardi?). E venendo al presente nostro argomento, noto che il passaggio di proprietà fu registrato nei difter del Diwan-el-Ma’mûr, come si legge in piè del diploma. L’atto di vendita è dato «il 7 settembre, corrispondente al mese arabico di scia’ban del 587» (1191) e la registrazione nell’uficio di riscontro del tesoro, il 10 ottobre (così io leggo) della IXª indizione.

Ognun vede che Ma’mûr, ne’ due luoghi citati, torna a regio precisamente, come abbiam detto poc’anzi, pag. 322. nota 2. Di questo diploma la più parte fu pubblicata, con molti errori, dal Gregorio, De Supputandis, pag. 40. seg. Ne ho avuta dal Prof. Cusa una buona copia, cavata dal testo originale.

Debbo intanto avvertire che gli atti più antichi di vendita, de’ quali abbiamo il testo arabico, non sembrano registrati all’ufizio di riscontro. Era dunque innovazione degli ultimi anni di Guglielmo II, ovvero formalità che solea trascurarsi, quando l’atto non capitava, come questo, nelle mani del pubblico ministero?

In ogni modo i defetir-el-hodûd, ossia quinterni magni Secreti, sembrano veri catasti dove fossero descritti i confini di ciascun podere, non già que’ del solo territorio di ciascun paese o iklîm.

790.  Con tal supposto il Gregorio comincia il citato cap. iv del lib. II, delle Considerazioni.

791.  Diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 522. Notisi che questo diploma è scritto originalmente in latino, onde il termine che occorre due volte, quando Northmanni primum transierunt in Siciliam, non può venir da errore di traduzione.

792.  Si vegga questo medesimo libro, cap. viij, pag. 247 segg., 253 segg. del presente volume.

793.  Si vegga il Gregorio, Considerazioni, lib. 1, cap. iv, e particolarmente la nota 21. Ma gli squarci di carte siciliane del XII, XIII e XIV secolo quivi trascritti, fanno sospettare qualche errore di copia. Ed errore o bugia dee sospettarsi nel diploma del 1274, dove descrivendo le decime solite a riscuotersi dalla cattedrale di Palermo su le gabelle antiche del fisco, si la salire la decima a ventidue tarì d’oro e grani due sopra ogni cento tarì entrati nelle casse regie. Sarebbe stata una bella decima: poco men che la quarta parte!

794.  Si vegga il capitolo precedente, pag. 255 nota 1. Mi par bene di spiegare qui perchè io renda con l’italiano “canova” il vocabolo arabico dokkân.

Che questo abbia avuto ed abbia tuttavia in Egitto ed Oriente il significato generico di bottega, si vede da’ dizionarii arabi, non esclusi que’ sì moderni di Bochtor e di Lane, nè i dizionarietti italiani ed arabici stampati a Bulâk. Si vede anco dagli autori che cita il Sacy (Chréstomathie arabe, tomo I, pag. 252, e traduzione di Abdallatif, pag. 303); dai proverbii arabi moderni (Freytag, I, 141); da Lane stesso (Modern Egyptians, cap. XIV) il quale dà perfino un disegno di dokkân del Cairo: e la torna sempre a stanza terrena dove si vendano commestibili e altre merci. Fu chiamato anche così lo studio de’ notai musulmani, secondo un luogo d’Ibn-Khaldûn, trascritto in nota da Sacy (Chréstom., tom. I, pag. 39, 41).

Contuttociò, nel caso nostro quella voce va tradotta “canova;” non parendo possibile che il conte Ruggiero e i suoi feudatarii abbian preso il monopolio di tutte le merci. Si deve intendere, a creder mio, delle grasce soltanto, e forse di quelle che si vendessero a minuto.

La nostra voce “canova” potrebbe per avventura venir dall’arabico e tornare ad hanût, ch’è dato come sinonimo di dokkân, ma si dice particolarmente delle botteghe dove si vende il vino. Secondo i lessicografi (Lane, Dizionario, vol. I, pag. 661, 1ª colonna) quella voce suonava in origine hânuwa. Or gli Italiani doveano pronunziarla “canova”, come kammâl, “camálo” e harrâka, carácca.

795.  Lasciando da canto la lista de’ diritti antichi secondo Andrea da Isernia, che si legge nella nota 18, del capitolo or citato delle Considerazioni, ed anco i diritti rilasciati e i soprusi vietati dal vescovo di Catania a favore di que’ cittadini nel 1168, come si legge in principio della nota 21, faremo qualche osservazione su i diritti antichi di Palermo, Messina, Girgenti, Sciacca e Licata, citati in diplomi del 1274, 1270, 1266, 1280, 1309.

Primi son ricordati in Palermo i diritti di Rahadina e di Rahaba; e le sembran voci arabiche, l’una delle quali alterata nella trascrizione (rahâin plurale vuol dir pegni) e l’altra significa piazza (Makrizi, Mewd’is, testo arabico tom. II, pag. 47, segg. nomina una cinquantina di luoghi del Cairo e Cairo vecchio così chiamati). Seguon le dogane della carne, del pesce, ec., che ognuno intende; la tintoria; il dazio de’ vasai, de’ sellai, della seta, del filetto del cotone, dell’orpello, la catena del porto; la tassa del fumo (così chiamavasi nel Basso impero una tassa personale scompartita per case, fuochi, come si disse poi in Sicilia) i bagni di Giawher, della Guidda e i mulini di Kalbi, Malfiteri, del Cadi, ec.

In Messina non troviamo altre denominazioni arabiche se non che la gabella del cafiso dell’olio (nota misura di Sicilia ed è il cafiz degli Arabi) e la gabella itriarum seu tinctorum; dove leggerei ac in luogo di seu, poichè itria in arabico vuol dire vermicelli o simili paste e in Sicilia dura la espressione di vermicelli di tria. V’ha inoltre la gesia de’ Giudei e alcuna delle denominazioni non arabiche notate in Palermo.

In Girgenti poi e nelle altre due città della stessa provincia nominate di sopra, oltre la gesia de’ Giudei e alcune altre tasse già accennate in Palermo e in Messina, scorgiamo quella su lo zucchero, sul sale e sul ferro e quella della cangemia. Di cotesta voce non credo sia stata rintracciata l’origine; nè potrebbesi, senza aver visti i nomi arabici trascritti in greco nelle platee de’ villani di Sicilia. In quelle mi è occorso il vocabolo Haggiâm “colui che mette le coppette e che esercita la bassa chirurgia” (secondo gli usi di Sicilia salassatore e barbiere;) il quale, trascritto esattamente χαγγέμη, ma pronunziato alla greca cangemi, è casato frequente in Palermo; dove rimanevano al principio di questo secolo alcuni farmacisti di tal nome e ve n’ha tuttavia. La gabella della Cangemia in Girgenti e Sciacca sembra dunque un dazio su i salassatori; la quale classe poteva essere numerosa poichè nel medio evo si facea molto uso delle coppette per cavar sangue.

S’abbia il detto fin qui come un saggio delle ricerche che si potrebbero fare sul sistema daziario ed anco su le industrie e i fatti economici in generale della Sicilia nell’XI e XII secolo: lievissimo saggio poichè l’è fondato principalmente su i pochi brani che die’ il Gregorio, dove d’altronde è dubbia la lezione di molte parole.

Non debbo tacere che il sig. Lodovico Bianchini trattò anche questo argomento nella sua Storia Economico-civile di Sicilia, Palermo, 1841, in-8, parte III, cap. i; ma egli non aggiunse gran cosa a ciò che si sapea dal Gregorio.

796.  Considerazioni, lib. I, cap. iv. Il Gregorio crede eccezioni quelle di Catania e di Patti, ch’ei cita nelle note 11 e 12; ma sembra appunto il contrario.

797.  Si vegga ciò che ne abbiamo raccontato in questo libro V, cap. v, pag. 140, 141, del presente volume.

798.  Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. v.

799.  Op. cit., lib. II, cap. iv.

800.  Tra le altre una nel 1098, alla quale accenna Ibn-el-Athîr, an. 491, testo, edizione del Tornberg, tomo X, pag. 191.

801.  Si vegga il nostro libro IV, cap. xv, pag. 548, del 2º volume, e il lib. V, cap. iii, pag. 80, di questo volume.

802.  Si vegga qui sopra il cap. vij, pag. 188, 189.

803.  Si veggano i fatti narrati nel cap. vj, di questo lib. V, p. 158, 168. L’ultimo fatto d’armi tra Ruggiero e gli Ziriti era stato combattuto il 1075, come si legge nello stesso cap. vj, pag. 451.

804.  Si ritrae che montava alla terza parte del grano esportato e che l’imperator Federigo la ridusse alla quinta. Diploma citato dal Gregorio, Considerazioni, lib. III, cap. vj, nota 31. Per un diploma greco del 1117, il secondo conte Ruggiero, tra le altre cose, accordò al console genovese in Messina la franchigia della estrazione delle merci infino a 60 tari. Traduzione latina presso Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. ix, nota 3. Questo, se non altro, prova l’uso dei dazii di esportazione e può riferirsi con molta verosimiglianza a quel su i grani.

805.  Se n’è detto nel cap. ix di questo libro, pag. 247. Si riscontri il Gregorio, Considerazioni, lib. I, cap. v.

806.  Considerazioni, lib. I, cap. ij.

807.  In questo lib. V, cap. vij, pag. 184, segg.

808.  Cap. ix, pag. 263, 265 di questo volume.

809.  Lib. V, cap. iv, pag. 110 e 111, di questo volume.

810.  Lib. V, cap. iv, pag. 124 del volume.

811.  Alberto d’Aix, Historia Hierosolymitana, lib. XIII, cap. xiij, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, pag. 921.

812.  Il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. iv, vede l’imitazione dall’inglese anco nella costituzione dell’armata siciliana del XII secolo.

813.  Leonis Tactica, cap. XIX. Si vegga anche la traduzione francese di Maizeroi, Paris, 1778, pag. 146. Occorrono cotesti navilii de’ varii temi, ossia province, in molti fatti delle istorie bizantine ch’e’ sarebbe lungo a citare.

814.  Lib. IV, cap. vj, pag. 313, del 2º volume.

815.  Ms. arabico di Parigi, Supplément arabe, 885, fog. 94 verso. Ho reso “villaggi” la voce dhia’ che significa propriamente: “podere demaniale, beneficio militare” (Si vegga il nostro lib. III, cap. j, pag. 22, del 2º volume). Ma la tassa sopra ogni fumo, così il testo, ossia casa, conduce al significato che do io. Abbiam testè fatta menzione della gabella detta del fumo in Sicilia nel XII secolo. Si vegga Ducange, Glossario latino, alla voce fumagium e simili, il Glossario greco alla voce καπνικὸν, e il Cedreno, edizione di Bonn, tomo II, pag. 831.

816.  Ibn-Khaldoun, Prolégomènes, traduzione francese del baron De Slane, parte II, pag. 39.

817.  Makrizi, Kitâb-el-Mewâ’iz, (Descrizione dell’Egitto) testo arabico, tomo I, pagg. 482 e 483.

818.  Ancorchè io risguardi M. De Slane come mio maestro in arabico, non posso accettare la traduzione ch’egli dà di questo passo, Prolégomènes, parte II, pag. 40. «Elle se composait de navires qu’on faisait venir de tous les royaumes où l’on construisait des bâtiments. Chaque navire était sous les ordres d’un marin portant le titre de caïd, qui s’occupait uniquement de ce qui concernait l’armement, les combattants et la guerre; un autre officier, appelé le raïs, faisait marcher le vaisseau, etc.»

Secondo il testo arabico, edizione di Parigi, parte II, pag. 35, e di Rulâk, pag. 123, io tradurrei. “L’armata (spagnuola) era raccolta da tutto il reame. Di ciascun paese dato alla navigazione veniva un’armatetta, capitanata da un kâid, uomo di mare che badava alle cose della guerra, alle armi ed ai combattenti e da un rais (pilota) che avea cura della navigazione, ec.”

La differenza tra le due versioni è che io intendo “province” della Spagna la voce che M. de Slane rende “royaumes” e che alla voce ostûl (στόλος) do il significato ordinario di armatetta, quando M. de Slane la traduce «navire». E veramente, la voce Mamlaka, il cui plurale è usato qui dallo autore, significa “reame” ed anco “parte d’un reame:” e in ogni modo, al tempo d’Ibn-Khaldûn, erano ben ridivenute reami quelle che furono mere province sotto gli Omeiadi. D’altronde non si comprenderebbe come il califo di Spagna armasse i suoi legni «in tutti i reami» del Mediterraneo e dell’Oceano, che erano tutti nemici; nè com’egli accozzasse un’armata di dugento vele, prendendo «una nave» da ciascun paese della Spagna dato alla navigazione. Aggiungo che Ibn-Khaldûn, in moltissimi luoghi delle sue opere, dà alla voce ostul il significato ordinario di “armata” e non di “una nave.” Così negli stessi Prolegomeni, parte II, pag. 37, del testo di Parigi e in altri squarci del medesimo autore, raccolti da me nella Bibl. Arabo-Sicula, pag. 486, 487, 488 ec.

819.  Si vegga qui sopra a pag. 278, note 2 e 3, e il cap. viij, a pag. 223, nota 5. Nel diploma per l’Archimandrita di Messina, dato il 1130, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 973, prima colonna, leggiamo di un podere conceduto all’Archimandrita, cum terris, preeminentiis et datium marinariorum qui cum eo habitant. L’è traduzione dal greco, nella quale non veggo se si tratti del dazio pe’ marinai dovuto dagli abitatori, o del dazio su i marinai che soggiornavano in quel territorio. Un diploma del 1197, op. cit., p. 1289 fa supporre il primo caso anzi che il secondo.

820.  Diplomi presso il Gregorio, Considerazioni, lib. II, cap. iv, nota 15.

821.  Si veggano i cap. X e XIII della mia Guerra del vespro Siciliano, dove sono ricordate nella battaglia del golfo di Napoli del 1287, le galee di Milazzo, Lipari, Trapani, Siracusa, Catania, Agosta, Taormina, Cefalù, Eraclea, Licata, Sciacca.

822.  Cap. xiij, pag. 428, segg. del 2º volume.

823.  Si vegga il cap. ix, del presente libro, pag. 257.

824.  Cap. v di questo medesimo libro, pagg. 136 a 139 del volume.

825.  Cap. vi, pag. 161.

826.  Cap. viij, pag. 210.

827.  Testo, nella Biblioteca Arabo-sicula, pag. 41. Rendo con la voce primitivo il vocabolo Azali, che significa propriamente «senza principio, eterno quanto al principio, ec.» ciò che parlando de’ popoli noi diciamo impropriamente «aborigene.»

828.  Mi si permetta questo vocabolo, che non è nella Crusca, ma nell’uso generale d’oggi, ed evita una anfibologia.

829.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 383. Quivi leggiamo ad magnam viam francigenam Castrinovi. Probabilmente l’è traduzione dal greco, portando l’anno costantinopolitano e leggendovisi la espressione Papæ veteris Romæ, che sa di bizantino. Tuttavia la lingua e lo stile la fanno supporre versione molto antica.

830.  Un diploma greco-latino del 1132, presso Spata, Pergamene, pag. 424, fa menzione di una strada che dal podere di Mutata (ignoro il sito) conduceva a Petralia, Castronovo, Vicari e Palermo. Ancorchè nel latino si legga soltanto via, e manchi in questo passo il testo greco, mi sembra che si tratti del medesimo stradale francese.

831.  Presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 1012.

832.  Diploma presso Pirro, op. cit., pag. 773.

833.  Diploma del 6594 (1086) XIIª indizione, pubblicato dal Sig. Piaggia, Nuovi studii su la città di Milazzo, Palermo 1866, in-8 grande, pag. 68, nota 6. Goffredo Burrello, feudatario di Milazzo, descrivendo in questo diploma i limiti del podere detto Bucello nel territorio di quella città, li fa correre usque ad viam quae vadit a Sancto Philippo in villam Milatii, deinde constringendo per viam viam ad aliam frangigenam quae conjungitur prope mare ante villam Milatii, deinde revertetur per eamdem viam frangigenam usque ad mare, etc. Non debbo tacere che questo documento, copiato dai Mss. della Biblioteca comunale di Palermo, e voltato già dal greco, come apparisce dall’èra costantinopolitana, fu alterato senza dubbio, sia nell’originale, sia nella traduzione. E veramente, oltrechè la XII indizione non torna nel 1086, noi troviamo il titolo di “Chiese messinese e trainese” e del “primo vescovo di esse Roberto”; ed egli è evidente che coteste parole non furono scritte nel detto anno, poichè allora non si potea dir che del Vescovato di Traina; sendo notissimo che il tramutamento della sede e la giunta di Chiesa messinese nella denominazione della diocesi, seguirono nel 1091. Ciò nondimeno non v’ha ragione di supporre inventata da qualche erudito del XVII o XVIII secolo la denominazione di via francese; e però io accetto questa testimonianza di un fatto materiale, la quale risalisce in qualunque modo al XII secolo.

834.  Diploma arabico-latino del 15, maggio 1182, di cui la parte latina fu pubblicata da Del Giudice, Descrizione del Tempio di Morreale, Appendice, pag. 8 segg. e il testo arabico è inedito. Il luogo ch’io cito si trova a p. 11, della Descrizione, in fin della divisa di Bufurera, dove si legge viam exercitus, e ciò risponde perfettamente al testo arabico: tarik-el-’askar.

835.  Del Giudice, op. cit., pag. 16, 19, 21, ec. Il diploma latino qui ha via pubblica, e l’arabico mehaggia e talvolta anche tarik, come sopra nella «Strada dell’esercito.»

836.  Tychsen, Introductio in rem nummariam, ec., pag. 146. Lo Spinelli, Monete Cufiche battute da Principi longobardi, normanni e svevi, Napoli, 1844, in-4, pag. 16 e 232, suppone, che il disegno di questa moneta fosse stato inventato dall’Abate Vella. Il Mortillaro, che avea ben riconosciuto (Opere, tomo III, pag. 339), appartener la moneta a re Tancredi, lo dimentica adesso (Medagliere arabo-siculo, pag. 35) per seguire il supposto dello Spinelli. E pure nel disegno che questi dà, Tavola II, nº 1 (io non ho sotto gli occhi quello di Tychsen) si legge benissimo el-Malik-Tan-rid.

837.  Adler, Museum Cuficum Borgianum, pag. 80, seg. ni lxiv a lxxv.

838.  Monete Cufiche, pag. 329, 330, nº cclxxix.

839.  The Oriental coins, tomo I, pag. 299, 300. nº cccviij.

840.  Monete Cufiche, ec., in-4, pag. 16 a 19, ni lxv a lxxij, lxxv, dcxlix a dclvij.

841.  Il Medagliere Arabo-Siculo della Biblioteca Comunale di Palermo, coordinato e illustrato dal Marchese Vincenzo Mortillaro, Palermo 1861, in-8, pag. 36-39. Io non so perchè il Mortillaro, pag. 36, nº 1, identifichi col nº lxvj, dello Spinelli la moneta che diè Adler, op. cit., al nº lxix; e, pentendosi d’averla già attribuita a re Ruggiero (Mortillaro, Opere, tomo III, pag. 405) accetti adesso la lezione dello Spinelli, che la rimanda al primo conte. Da quanto si può giudicare sopra disegni grossolani, Adler non lesse tutto, Mortillaro supplì male, e la lezione K*m*t, sostituita da Spinelli, non si raccapezza nella figura (tavola II, nº 2). Men dubbio mi sembra in questa e nelle seguenti, il nome di Ruggiero; ma questo conviene al figliuolo, come al padre, ed anche al Duca di Puglia dello stesso nome.

842.  N. lxxij, pag. 19, tavola II, nº 23, il quale si confronti col 24, ed anche col 4 ec.

843.  Si vegga il nostro Libro IV, cap. xiij, pagg. 456-8, del 2º volume.

844.  Paruta, presso il Burmanno, Thesaurus Antiquitatum Siciliae, ec. tomo VII, pag. 1223, e tomo VIII, tavola clxxxvj. Credo che i ni 3 e 4, di quella tavola, i quali hanno da una faccia il T in luogo del cavaliero armato, appartengano al secondo conte Ruggiero.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sia il Sommario sia le Correzioni e Aggiunte relativi alla Parte Prima, raggruppati in originale al termine della Parte Seconda, sono stati riportati a fine libro.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






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III, parte I, by Michele Amari

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trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
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electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg-tm work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg-tm work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at
www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
volunteers and employees are scattered throughout numerous
locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt
Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:

    Dr. Gregory B. Newby
    Chief Executive and Director
    [email protected]

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular
state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate

Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

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facility: www.gutenberg.org

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