The Project Gutenberg EBook of Storia di Milano vol. 2, by Pietro Verri

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Title: Storia di Milano vol. 2

Author: Pietro Verri

Release Date: October 15, 2019 [EBook #60498]

Language: Italian

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STORIA
DI MILANO TOMO II.


STORIA
DI MILANO

DEL CONTE

PIETRO VERRI

COLLA CONTINUAZIONE

TOMO II.

MILANO
PRESSO IL LIBRAIO ERNESTO OLIVA
Contrada de' Due Muri, N. 1044
1850


INDICE


[5]

CAPITOLO XI. Di Matteo I, di Galeazzo I e d'Azzone Visconti, signori di Milano.

La storia d'un paese repubblicano può paragonarsi ad una vasta pittura che rappresenti un grande ammasso di oggetti variati, sulla quale scorre lo sguardo, incerto talora quali delle figure meritano un'attenzione distinta; alcuni oggetti veggonsi appena illuminati, altri indicati appena in lontananza; e nella memoria non rimane poi se non un tutt'insieme. Laddove la storia d'un paese soggetto ad un principe si rassomiglia ad un quadro storiato, di cui le figure tutte servono al risalto del principale ritratto, che a sè chiama i primi sguardi dello spettatore, nella mente di cui rimangono le tracce distinte della fisionomia rappresentata e della disposizione del quadro. Mutata la forma tumultuosa ed instabile della nostra città; assoggettata questa alla signoria de' Visconti, i costumi, la felicità, la pace, la guerra, la povertà o la ricchezza diventarono dipendenti della buona o cattiva indole del sovrano, sul quale principalmente convien fissare lo sguardo. (1311) I Torriani vennero per sempre scacciati, siccome dissi, dalla città. Matteo Visconti collo sborso di quarantamila fiorini d'oro, l'anno 1311, nel mese di luglio, ottenne dal re dei Romani, Enrico di Lucemburgo, un diploma col quale lo creò vicario imperiale nella città e contado di Milano. Diciassette anni prima, Matteo istesso era stato creato vicario imperiale dall'augusto Adolfo, non di Milano soltanto, ma di tutta la Lombardia, come mero e misto imperio. Il re Enrico doveva abbandonare la Lombardia, ed inoltrarsi verso Roma, ove ricevette la corona imperiale. Egli aveva in animo di sottomettere il regno di Napoli, ma gli mancavano i danari; [6] non è quindi meraviglia che, volendo egli trar profitto dalla carica di vicario dell'Impero, la concedesse un uomo che gli dovea tutto, cioè Matteo Visconti. (1313) Passò poi quel buon imperatore nella Toscana, ove, a Buonconvento, morì il 24 agosto 1313. La controversa cagione della di lui morie non è un oggetto appartenente alla storia di Milano. L'arcivescovo di Milano era uno della casa della Torre, cioè Cassone della Torre; e doveva vivere esule dalla sua patria, seguendo il destino della sua famiglia. Egli dalla Francia, ove stavasene ricoverato presso del papa, si portò a Pavia, città che allora non era dominata dai Visconti, e l'anno 1314 da Pavia scrisse a Matteo Visconti una lettera che comincia così:[1] Cassonus etc. Viris utinam providis Mattheo Vicecomiti, vicario et rectori, sive capitaneo, potestati, sapientibus et antianis, consiliariis, consulibus, consilio, Communi civitatis Mediolani, et Galeatio, Luchino, etc.; indi espone i mali fatti ai possessi arcivescovili, e conclude:[2] ut ideo tu Mattheus Vicecomes, et ilii ut supra nominati, nisi vos emendavetis de praedictis, in perpetuum excomunicamus, anathematizamus, omnique commercio humano ac ecclesiastica sepultura atque sacris ordinibus privamus[3]. Pare che questo sia stato il primo annunzio degli anatemi che vennero scagliati dappoi. Matteo era un uomo acuto e pacato. Poco a poco stese la sua dominazione su Piacenza, Bergamo, Novara e qualche altra città. (1215) Pavia era una città forte, nemica di Milano quasi da trecento anni. Matteo Visconti fece comparire le sue armi sotto Pavia, le quali intrapresero dalla parte di Milano un finto attacco, a [7] rispingere il quale incautamente accorsero tutte le forze del presidio. Frattanto un altro corpo di militi di Matteo, assistito da' corrispondenti ch'erano nella città, entrò dall'opposta parte in Pavia, guidato da Stefano Visconti, uno dei figli di Matteo; e così Pavia diventò dei Visconti l'anno 1315, e si assicurò Matteo che da quella vicina e forte città l'arcivescovo Cassone della Torre non gli avrebbe più scritte di tai lettere. I Pavesi, un secolo e mezzo prima, avevano avuta gran parte nella rovina di Milano. Ne' meschini tuguri ove stavano appiattati i nostri maggiori a Noceto e Vigentino, risuonavano ancora i singulti degli avviliti cittadini, che temevano non incendiassero i Pavesi anche que' tristi ricoveri. Matteo Visconti risparmiò ogni danno possibile ai Pavesi, fabbricò un castello col quale assicurarsi quella signoria, e ne confidò il comando a Luchino suo figlio. Matteo non era punto atroce, e pensava alla stabile grandezza del suo casato. Le sue armi erano confidate a' suoi figli. Non sembra ch'egli fosse in conto alcuno uomo da guerreggiare; Marco Visconti comandava Alessandria e Tortona, Galeazzo comandava Piacenza, Luchino Pavia, e Lodrisio, cugino di Matteo, comandava Bergamo. I figli suoi avevano ardor militare e perizia; e l'estensione del dominio n'è la prova; poichè in breve furono assoggettate Piacenza, Bergamo, Lodi, Como, Cremona Alessandria, Tortona, Pavia, Vercelli e Novara; e così Matteo signoreggiava undici città, compresa Milano.

Non poteva piacere al papa la signoria de' Visconti per le ragioni che altrove ho indicate. Il papa, sebbene rifugiato nella Francia, sempre aveva in vista l'Italia. Dopo la morte di Enrico di Lucemburgo gli elettori nella Germania formarono due partiti, e furono incoronati re di Germania e de' Romani Federico d'Austria e Lodovico di Baviera. Il papa Clemente V aveva inalberata una pretensione, che fu poi cagione di una lunga guerra fra l'Impero ed il sacerdozio. Pretendeva quel papa che il giuramento che solevano gl'imperatori pronunziare nella incoronazione fatta dal sommo pontefice, fosse un giuramento di fedeltà e di vassallaggio. (1317) Questa opinione la sosteneva anche il [8] suo successore Giovanni XVII; e in conseguenza spedì, l'anno 1317, due frati nella Lombardia, i quali in di lui nome dichiararono invalide le elezioni di Federico e di Lodovico: pubblicarono vacante l'Impero, e comandarono che non ardisse alcuno di arrogarsi il titolo di vicario imperiale. La cosa era chiara che si aveva di mira Matteo Visconti, la di cui pieghevole politica non urtava mai, e secondava anzi i tempi. Matteo cessò di chiamarsi vicario imperiale, e assunse il titolo di signor generale di Milano e suo distretto[4]. Forse il papa e l'arcivescovo Cassone della Torre si aspettavano minore compiacenza; e quindi speravano un pretesto per venire ad un'aperta rottura. Matteo, da saggio, abbandonò una parola per non compromettere la dominazione. L'arcivescovo era esule; ma non sappiamo che potesse darsene colpa a Matteo; poichè forse non v'era atto di autorità che lo allontanasse dalla diocesi, in cui non si credeva però sicuro l'arcivescovo, sotto la signoria de' rivali della sua famiglia. Non vedendo quindi Cassone della Torre speranza alcuna di ritornare al possesso della sua sede arcivescovile, cercò del papa il patriarcato di Aquilea, e il papa glielo conferì. Poichè Matteo Visconti seppe essere vacante la sede metropolitana, maneggiò la cosa in modo, che gli ordinari passarono ad eleggere arcivescovo Giovanni Visconti, altro figlio di Matteo. Cassone della Torre era stato parimenti eletto dagli ordinari l'anno 1308, senza che il papa Clemente V vi facesse opposizione. Questo era il metodo delle elezioni praticato sempre nella nostra chiesa, prima che Urbano IV, di propria autorità, eleggesse l'arcivescovo Ottone Visconti, l'anno 1262. Con tutto ciò il papa non badò punto alla canonica elezione fatta dagli ordinari, e in Avignone consacrò arcivescovo di Milano certo frate francescano, per nome Aicardo. L'elezione che aveva fatta il papa dell'arcivescovo Ottone poteva comparire in qualche modo giustificata, attesa la discordia degli ordinari, che da più anni lasciavano sprovveduta dal pastore la chiesa milanese. Ma questa noncuranza d'una elezione regolare [9] e canonica non poteva comparire altrimenti che una ostilità. Matteo Visconti era cauto, moderato; ma non era pusillanime. Non permise mai che frate Aicardo ponesse il piede ne' suoi Stati.

Matteo Visconti aveva cinque figli: Galeazzo, Luchino, Marco, Stefano e Giovanni, creato arcivescovo. Sebbene Galeazzo, Luchino e Stefano abbiano mostrato valor militare in ogni occasione presentandosi ai nemici, Marco però li superava, e aveva i talenti d'un buon generale. Fu spedito dal padre a tentare la conquista di Genova; e l'impresa non riuscì, perchè il re Roberto di Napoli vi trasportò una flotta ed un'armata in soccorso. Non però abbandonò sì tosto quell'impresa Marco Visconti, che anzi, avendogli fatto intimare il re che sciogliesse tosto l'assedio, poichè altrimenti sarebbe venuto ad attaccarlo alle porte di Milano, Marco gli fece dire per risposta, che non occorreva andar tanto lontano, giacchè egli era pronto a riceverlo ivi alle porte di Genova[5]. Il re Roberto era collegato col papa; e, portatosi egli in Avignone, Matteo Visconti fu uno de' principali oggetti che si trattarono in tal conferenza. Egli veniva accusato[6] de pessimis criminibus, et de haeresi, licet non foret noxius[7]. Il cardinale Berengario, vescovo tusculano, fu destinato a formare il processo a Matteo Visconti, ed ivi in Avignone quel cardinale riferì in concistoro, che risultava dall'asserzione di testimonii degni di fede, essere Matteo Visconti gravemente diffamato come reo di sacrilegi, delitti ed eccessi. La fama di tali accuse giunse a Milano; e Matteo, per calmare la procella, cominciò a permettere che frate Aicardo fosse dal clero riconosciuto per arcivescovo; e così rinunziò al dritto acquistato da Giovanni suo figlio, già canonicamente eletto alla medesima sede. (1319) Oltre ciò, volendo dare un pubblico attestato insigne della sua divozione alla Chiesa, ricuperò il rinomatissimo tesoro di Monza che nei passati guai era stato depositato in pegno al tempo di Napo Torriano; e colle sue mani, la vigilia del [10] Natale dell'anno 1319, lo portò in Monza e lo depositò sull'altare di quella chiesa di San Giovanni. Questo tesoro consisteva in corone e calici d'oro gemmati; e convien dire che fosse veramente un tesoro, poichè veniva stimato allora ventiseimila fiorini d'oro[8]. Ma questa pieghevolezza di Matteo Visconti non bastò a concigliarli l'aderenza del papa, il quale voleva esclusi i Visconti dalla dominazione, assoggettato l'Impero, e dipendente l'Italia. Giovanni XXII spedì nella Lombardia ii cardinale Bertrando del Poggetto in qualità di legato[9], il quale dichiarò l'Impero vacante; nulla l'elezione di Lodovico il Bavaro; creò vicario imperiale il re Roberto di Napoli; comandò a tutto il clero di Lombardia di ubbidire al nuovo vicario imperiale; e finalmente intimò a Matteo Visconti di doversi presentare in Avignone al papa per rendergli conto dei delitti che gli erano imputati. L'affare era serio, perchè era già in marcia alla volta della Lombardia un'armata di francesi, comandata dal conte del Maine, in nome del nuovo vicario il re Roberto di Napoli. Matteo, richiamando Galeazzo da Piacenza, Marco da Genova, e Luchino da Pavia, radunò tutte le sue forze, le quali consistevano in cinquemila cavalli e quarantamila fanti[10]. Il comando venne affidato a Galeazzo e non a Marco, fors'anco perchè non si doveva decidere la questione colle armi. Marciò l'armata sino verso Sesia nel Piemonte, ove si trovò in faccia i nemici. Pose le sue tende Galeazzo, indi spedì al conte del Maine due botti d'argento, che si dicevano piene di generoso vino; facendogli dire ch'ei provava sommo rincrescimento nel vederselo nemico, sì per l'ossequio ch'ei professava alla casa di Francia, quanto per essere stato ei medesimo onorato del cingolo della milizia dal conte di Valois, di lui padre. I due eserciti non si offesero, anzi i Francesi dopo due giorni piegarono le tende, e, ripassate le Alpi, tornarono alla loro patria, lasciando la Lombardia come prima. Si credette da alcuni [11] che le due botti fossero ripiene di monete, e che Matteo con quelle armi si fosse difeso. Per quanto miti fossero i ripieghi di Matteo, il papa non voleva in conto alcuno nè tregua nè pace; anzi da lui si voleva annientato nell'Italia il potere nascente de' Visconti. Il papa spedì un breve in cui diceva che, quantunque Matteo Visconti avesse deposto il titolo di vicario imperiale, nondimeno aveva osato chiamarsi signore di Milano; e in pena di questo disprezzo della Santa Sede lo scomunicò. Ordinò che la scomunica si pubblicasse in tutte le chiese, e citò nuovamente Matteo a comparire in Avignone a dire le sue discolpe[11]. Il cardinale legato Bertrando del Poggetto, da Asti, ove si era domiciliato, spedì a Milano certo Ricano di Pietro, suo cappellano, incaricato di consegnare il breve. Ma appena era il cappellano disceso nell'albergo, si vide attorniato da un grosso numero di sgherri, i quali l'obbligarono a rimontare tosto a cavallo, e partirsene: di che se ne lagnò il cardinal legato in una sua enciclica: individuando che nemmeno si era voluto permettere che facesse abbeverare i cavalli, e il cappellano e i suoi seguaci dovettero lasciare a mezzo il loro pranzo, facendogli persino difficoltà dalla gran fretta di ripigliare il cappello, che aveva deposto, e scortandoli direttamente fuori dello Stato senza permetter loro di parlare con alcuno[12]. Se il cardinal legato trovava biasimevole Matteo, perchè si riparava da un colpo mortale da esso slanciatogli, doveva almeno non lagnarsi della moderazione istessa con cui se n'era riparato. (1320) Il cardinale Bertrando del Poggetto, il giorno 3 settembre 1320, nella chiesa de' Francescani in Asti, nuovamente scomunicò Matteo, e nuovamente lo citò a comparire in Avignone. Matteo cercava pure le vie d'un accomodamento; ma le condizioni che si proponevano erano inammissibili da un uomo che era sovrano, e talmente sovrano, che veniva considerato come un re della Lombardia, siccome dice il Villani[13]. Si voleva che rinunciasse al governo di Milano; [12] che riconoscesse per suo signore Roberto re di Napoli; e che i signori della Torre ritornassero alla loro patria[14]. Queste proposizioni non piacquero a Matteo nè alla città di Milano. Il papa continuava a citare Matteo Visconti; pubblicava incessantemente i monitorii, e in essi gli rinfacciava i delitti: i quali consistevano in esazioni fatte sul clero, giurisdizione esercitata sopra persone ecclesiastiche, autorità adoperata nelle elezioni de' superiori de' conventi. (1321) Poi nel 1321, il giorno 20 di febbraio, lo stesso papa Giovanni XXII, con sua bolla, pubblicata dal nostro conte Giulini[15], condannò Matteo a pagare diecimila marche d'argento; nuovamente lo scomunicò, e lo dichiarò decaduto da tutt'i beni, feudi, onori, ragioni, ec., e dice che così lo sentenziava:[16] Tum quia reatus sacrilegii cognitio et punitio ad ecclesiasticum forum spectat, tum etiam quia, vacante Imperio, sicut et nunc vacare dignoscitur, ad nos et apostolicam Sedem pertinet excedentium hujusmodi in Imperio existentium ausus comprimere, oppressionem tollere, ac lassis et oppressis justitiam ministrare. Poco dopo andò più avanti il papa; scomunicò anche i figli di Matteo, pose all'interdetto le città possedute dai Visconti, ordinò agli inquisitori di processarlo, e il breve comincia così:[17] Profanus hostis, et impius auctor immanis scelerum et culparum, Mathaeus Vicecomes de Mediolano, partium Lombardiae radibus populator, etc.[18] (1322). Gl'inquisitori citarono Matteo a doversi [13] presentare al loro tribunale il giorno 25 febbraio 1322 in una nominata chiesa, presso Alessandria. Vi comparve il di lui figlio Marco, con grande comitiva di cavalli e fanti e bandiere spiegate. Gl'inquisitori si trasportarono a Valenza, ove condannarono Matteo, come reo di venticinque delitti, molti de' quali consistevano in avere Matteo imposto carichi anche al clero, ed avere esercitata giurisdizione sopra i beni, i corpi e le persone ecclesiastiche. Se gli faceva delitto perchè avesse impedito che le chiese del milanese pagassero tassa al cardinale legato ed alla camera apostolica. Altro delitto se gl'imputava d'aver impedita l'emigrazione per la Crociata. Indi fra le sue colpe due se ne ricordano le quali meritano riflessione; cioè d'aver posto argine all'Inquisizione, e d'avere pregato per liberare l'infelice Mainfreda, che fu, malgrado le sue preghiere, bruciata viva, siccome narrai al capitolo nono. Concludeva la narrazione de' delitti, asserendo che Matteo negava la risurrezione de' corpi; aveva da' suoi progenitori ereditato il veleno dell'eresia, era collegato co' scismatici, sentiva male de' sacramenti, disprezzava l'autorità delle chiavi, e aveva fatto lega co' demonii, più volte da lui esecrabilmente invocati. Quindi si sentenziava Matteo Visconti eretico, i suoi beni mobili ed immobili confiscati; veniva privato del cingolo della milizia, dichiarato incapace di nessun ufficio pubblico, degradato da ogni dignità ed onore, e nominato perpetuamente infame, dando la facoltà a chiunque di arrestarlo. Inoltre i figli di Matteo, e persino i figli de' suoi figli vennero dichiarati incapaci perpetuamente di qualunque ufficio, di qualunque dignità e di qualunque onore. La sentenza è del giorno 14 marzo 1322, data nella chiesa di Santa Maria di Valenza, e la pronunziarono frate Aicardo, arcivescovo di Milano, frate Barnaba, frate Pasio da Vedano, frate Giordano da Montecucco, frate Onesto da Pavia, domenicani inquisitori, alla presenza del cardinale legato[19]. Il cardinal legato, in Asti, pubblicò una remissione plenaria, non solamente della pena, ma della colpa de' peccati, a [14] chiunque prendesse le armi, e marciasse sotto lo stendardo che ivi fece inalberare, alla distruzione di Matteo Visconti e de' fautori suoi:[20] Fecit portare vexillum sanctae Ecclesiae super solarium de domo; praedicatum fuit ibi, quilibet vir et mulier, qui vellet sequi dictum vexillum ad destruendum dictum Mathaeum et coadjutores ejus, liber et mundus sit tam a culpa, quam a poena[21]; e nella cronaca di Pietro Azario si legge che le maledizioni furono estese sino alla quarta generazione da quel cardinale legato:[22] Sententias excommunicationis proferendo, thesauris Ecclesiae apertis et undequaque stipendio perquisito contra praefatum dominum Mathaeum et sequaces, usque in quartum gradum suarum progeniarum[23].

In quale misero stato si ritrovasse, dopo tutto ciò, Matteo Visconti, è facile l'immaginarselo. Molti dei nobili, per la naturale invidia d'una nascente potenza, aderivano al legato. Altri tremavano per obbedire ad un eretico scomunicato; e il popolo tutto era inorridito per l'anatema e l'interdetto pronunziati sopra della città. Il Corio riferisce quell'epoca, ed io mi servirò delle parole di lui. I nobili adunque «di continuo interponevano littere al legato, ed in altro non havevano il pensiere se non excogitare in quale modo Matteo con li figlioli potessino rimovere dal governo dil milanese imperio. Mattheo da questa hora avante più non si volse intromettere de veruna cosa concernente al Stato suo, ma in tutto ne le mano de Galeazzo renuntiò il dominio, grandemente condolendosi de la lite quale contra [15] la Chiesia cognosceva moltiplicare, ed anche perchè non altramente da li cittadini milanesi se haveva a guardare come da pubblici e capitali inimici, inde tutto il pensiere suo puose, con devotione a visitare li templi, et ultimamente un giorno avante alo altare de la chiesia maggiore havendo facto convocare il clero, e pervenuti alla presenzia di quello con alta voce cominciò a dire Credo in Deum Patrem, e disse tutto lo symbolo, lo quale fornito, levando il capo, cridava che questa era la sua fede, la quale haveva tenuto tutto il tempo della vita sua, e che qualunque altra cosa gli era imposto, con falsitate lo accusavano, e da ciò ne fece conficere un pubblico instrumento[24]». Il Rainaldi confessa che in quei processi vi è stata della parzialità:[25] Certe fidei censores studio partium nimium commotos in percellendis sententia haereseos Gibillinis aliquibus constat[26]; e il papa Benedetto XII, diciannove anni dopo, con sua bolla del 7 maggio 1341, dichiarò e sentenziò iniqui e nulli i processi fatti nel 1322:[27] Processus, et sententias supradictas, ex certis causis legittimis atque justis repertis in eis, inique factos invenimus existere, atque nullos ipsos processus et sententias per archiepiscopum, Paxium, Jordanem, Honestum et Barnabam praefactos, et eorum quemlibet super praemissis, communiter vel divisim, contra Johannem et Luchinum praedictos (erano allora quei due figli di Matteo [16] signori tranquilli di dodici città) habitos atque latos, et quaecumque secuta sunt ex eisdem vel ob eos, de ipsorum Fratrum nostrorum consilio, et authoritate apostolica, inique facta ac nulla atque irritata declaramus[28]. Comunque fossero i processi, certo è che un séguito di tante angustie oppresse l'animo di Matteo, già indebolito anche dalla non più vegeta età di sessantadue anni; e dopo breve malattia, nella canonica di Crescenzago, tre miglia lontano da Milano, finì i suoi giorni il 24 di giugno dello stesso anno 1322, poco più di tre mesi dopo della sentenza. I figli tennero per alcuni giorni occulta la di lui morte; anzi si facevano entrare medici e cibi nella stanza, come se Matteo tuttora fosse vivo; e ciò si fece per aver modo almeno di salvare le di lui ceneri, e riporle certamente in luogo ove alcuno non potesse insultarle «per paura dil pontifice, che il cadavere non facesse remanere insepulto», dice il Corio. Qual carattere abbia fatto di Matteo il Fiamma, si è veduto nel capitolo precedente. La fisonomia di Matteo era piacevole: due begli occhi cerulei, vivaci, carnagione bianca, tratti del volto fini e gentili. Egli non si mostrò crudele giammai. Ebbe il raro talento di sopportare in pace la fortuna contraria, e il talento più raro ancora di non ubbriacarsi coi favori di lei. Nessuna prova egli diede mai di valor militare, e tutti i successi felici delle sue armi si debbono al coraggio ed al talento di Luchino, di Galeazzo, e sopra gli altri di Marco, suoi figli. Di quest'ultimo l'Azario dice:[29] qui omnes alios probitate excedebat[30], e si vede che credette di significare prodezza. Per altro in Matteo non si conosce alcuno di que' tratti sovrani che indicano le anime grandi, capaci d'innalzarsi al sublime. Egli si limitò sempre a pensieri proporzionali alla sua condizione presente, e preferì la prudenza all'eroismo. La grandezza della sua [17] casa singolarmente si deve a lui: ma piuttosto per una combinazione di circostante, che per un ardito progetto ch'ei ne avesse immaginato. Matteo è stato un buon uomo, un buon padre, un buon principe, accorto, giudizioso; ma non l'ho chiamato Matteo Magno, perchè quel titolo è consacrato per distinguere quelle anime vigorosamente energiche, le quali, slanciatesi oltre la sfera comune degli uomini, formano un'epoca della felicità, della coltura e dei progressi della ragione negli annali del genere umano.

Se la guerra contro di Matteo Visconti fosse stata mossa per motivi personali, colla di lui morte sarebbe terminata, ed avrebbe Milano nuovamente goduta la tranquillità; ma l'oggetto della ostilità era di opprimere una nascente potenza; e perciò Galeazzo I, al quale Matteo aveva rinunziato avanti di morire il governo dello Stato, si trovò esposto alle persecuzioni, più animose ancora di quelle che afflissero gli ultimi anni della vita di suo padre. Già vedemmo che Galeazzo, coll'inquietudine sua incautamente indisponendo i Milanesi, era stato cagione della perdita della signoria, del ritorno de' Torriani e dell'esilio a cui soggiacque la sua casa. La sperienza di venti anni che erano trascorsi, non aveva reso molto prudente Galeazzo; il quale, nell'anno medesimo in cui morì Matteo, perdette il dominio di Piacenza per un'inconsideratezza appena perdonabile nel primo bollore della gioventù. Il signor Vessuzio Lando era uno dei primari nobili di Piacenza, distinto per il valore, per i costumi e per le ricchezze; egli aveva in moglie la signora Bianchina Landi, bellissima giovine, che amava teneramente il suo sposo. Galeazzo credette, con poca accortezza, di renderla infedele, ed essa informò il caro sposo dell'insidie che se gli tessevano; e così il Lando, unitosi al cardinal legato Bertrando del Poggetto, occupò Piacenza a nome del papa. In quella sorpresa corse gran rischio d'essere preso il giovine Azzone, figlio di Galeazzo, il quale trovavasi in Piacenza, con Beatrice d'Este, di lui madre. Questa virtuosa donna lo salvò, sottraendolo con poca scorta, al primo avviso ch'ebbe della sorpresa; indi ebbe la fermezza di rimanere esposta al rischio [18] degl'insulti nel suo palazzo, acciocchè non si dubitasse della partenza d'Azzone, e frattanto egli profittasse del tempo per salvarsi; anzi andava ella gettando delle monete ai vincitori, e così fece perdere più lungo tempo. Ma quando s'avviddero poi che in nessun ripostiglio si trovava il giovine principe, troppo tardi s'accorsero del pietoso inganno della principessa madre, la virtù della quale venne rispettata dai nemici, i quali onorevolmente la scortarono fuori di Piacenza. Galeazzo I non aveva insomma le virtù di suo padre, e perciò, quantunque in Milano avesse un forte partito che lo sosteneva malgrado gli anatemi, fu egli costretto di fuggirsene il giorno 9 dicembre di quell'anno 1322; sebbene un mese dopo vi rientrò come privato, e prima del terminar di quell'anno, a grido generale del popolo, venne proclamato signore di Milano il giorno 29 dicembre. Ma il papa non lo lasciò tranquillo. Pubblicò una bolla per cui ordinò a tutto il clero di Milano che immediatamente uscisse dalla città, e non si accostasse a quella per lo spazio di tre miglia. Ognuno s'immaginerà qual turbamento doveva nel popolo cagionare questa novità, che toglieva la possibilità d'assistere ai sacri misteri, privava i moribondi del soccorso dei ministri dell'altare, ed esiliava dalla patria i cittadini nei quali stava comunemente collocata la maggiore confidenza e venerazione. Nè quivi pure ebbe confine la controversia. Fece il papa predicare nell'Inghilterra, nella Francia e nell'Italia un'indulgenza generalissima in beneficio di chiunque prendesse le armi contro de' Visconti; e così venne a formare una Crociata contro di essi, come si era fatto contro de' Saraceni. L'armata dei crocesignati già aveva occupato alcuni borghi del milanese. La comandava Raimondo di Cardona, nipote del cardinal legato Bertrando del Poggetto. Le cose de' Visconti andavano alla peggio. (1323) Il giorno 13 giugno 1323 l'esercito sacro s'impadronì dei sobborghi di Milano, e singolarmente quelli di porta Nuova, porta Renza e porta Comacina furono in preda alla licenza dei crocesignati, che, violando le donne, passando a fil di spada gli uomini e distruggendo colle fiamme [19] le case, portarono gli eccessi al colmo[31]. Nella città però essi non poterono entrare. La città era bloccata, e ci riferisce il Corio che i Fiorentini ch'erano nell'esercito pontificio, il giorno del loro santo protettore san Giovanni Battista, fecero correre il palio sotto le mura di Milano[32]; sorta d'insulto che talvolta si usava per dimostrare che non si temeva in verun conto dell'inimico, non credendosi in lui coraggio nemmeno di uscire per interrompere i giuochi degli assedianti. Talvolta ancora si usò di contare moneta sotto le mura nemiche, ponendo una preziosa officina, che non può sottrarsi con celerità, sotto gli occhi de' nemici, in segno di disprezzo. Tale era la condizione de' Visconti, che pareva inevitabile la totale loro rovina. Due cose però concorsero ad impedirla; il valore, l'attività, la condotta militare di Marco Visconti, e la riunione degli interessi di Lodovico il Bavaro con quei de' Visconti. Il papa dichiarava vacante l'impero; pretendeva di far egli frattanto l'ufficio dell'imperatore; creava vicario imperiale Roberto, re di Napoli. Lodovico di Baviera, che si considerava imperatore legittimo, non poteva preservare il regno italico e impedire l'intrusione di questo preteso vicario imperiale, se non soccorrendo i Visconti; poichè da solo non aveva forze bastanti per tentare l'impresa. Infatti Lodovico il Bavaro aveva spedito ai Visconti un corpo di truppe comandate dal conte di Mährenstädten. L'instancabile papa Giovanni XXII non bilanciò punto a scomunicare Lodovico di Baviera, incolpandogli fra le altre cose l'aiuto ch'egli aveva dato ai Visconti. Il Rainaldi, che ne pubblicò la bolla, così ridette:[33] Non deerant tamen Ludovico [20] plures rationes; quae ipsius gesta apud plerosque excusarent. Controversiam de Imperio cum Federico austriaco jam direptam ferro. Mediolanum vero defensum non ut Galeatio haeretico studeret, sed ut assereret, sibi Imperii jura, neque a Roberto Siciliae rege amplissimam Imperii provinciam nunquam forte recuperandam occupari pateretur. Non his tamen Johannes a meditato consilio revocatus est[34]. Lodovico venne così impegnato più che mai a sostenere i Visconti. L'armata dei Crociati aveva l'interno vizio d'un'armata combinata di drappelli di varii principi e di varie nazioni; basta il tempo per indebolirla colle gelosie, le rivalità e i sospetti. (1324) Nel giorno 28 di febbraio 1324 a Vaprio venne potentemente battuta. Il generale Raimondo di Cardona fu preso: egli era nipote, siccome dissi, del cardinal legato; Simone della Torre restò ucciso sul campo; Enrico di Fiandra se ne fuggì a piedi; molti rimasero sul campo; molti, fuggendo, s'affogarono nell'Adda; insomma la vittoria fu compita per i Visconti. Marco Visconti voleva profittare del momento, e marciare a sloggiare da Monza i crocesignati che vi avevano trovato ricovero. Ei conosceva che l'opinione decide nella guerra più che la forza fisica; che le battaglie non si vincono per aver ridotto l'inimico all'impossibilità di continuare la contesa, ma per lo spavento che gli si è potuto imprimere; e che, assalendo una armata nel punto in cui gli uomini sono sgomentati per una rotta, la vittoria è sicura. Così pensava Marco; ma il primogenito Galeazzo, forse perchè il progetto era del fratello, non lo volle secondare. I crocesignati in Monza si premunirono, ripresero animo, si prepararono una difesa contro di qualunque insulto; e Marco, deridendo Galeazzo, gli diceva poi: «Fratello, va a Monza che si vuol rendere». Otto mesi di blocco dovette spendere Galeazzo per averla. Infine poi, dopo di avere sofferti tutti i mali della fame e della libidine militare, Monza si rese il giorno 10 dicembre 1324; e così Galeazzo vide terminar la Crociata mossa contro di lui.

[21]

Mentre era Monza bloccata e abbandonata in preda alla violenza che usavano questi avanzi di un'armata collettizia, i canonici di San Giovanni di quel borgo avevano somma inquietudine che le rapine non si estendessero sopra del pregevolissimo tesoro della loro chiesa; il quale allora, siccome dissi, era valutato ventiseimila fiorini d'oro, oltre il pregio delle cose sacre antiche. Deputarono quindi quattro canonici del loro ceto, ai quali commisero di pensare a un sicuro nascondiglio, ed ivi riporlo. Fecero giurar loro un inviolabile secreto, da non rivelarsi se non in punto di morte. Poichè da essi fu eseguita la commissione, e il tesoro collocato, non si sapeva dove, il capitolo obbligò i quattro depositari del secreto a partirsene, e separatamente frattanto vivere altrove; acciocchè non potesse colle minacce, e fors'anco colle torture, costringersi alcun d'essi a parlare, e in potere di que' licenziosi non rimanesse alcun presso cui fosse il secreto. Pensare non si poteva più cautamente, eppure Monza perdette il tesoro. Uno de' quattro canonici, che aveva nome Aichino da Vercelli, stavasene in Piacenza, ove venne a morte, e palesò il secreto a frate Aicardo, arcivescovo di Milano. Da esso ne fu bentosto informato il vigilantissimo cardinale legato, Bertrando del Poggetto; il quale non perdè tempo, e incaricò Emerico, camerlingo di santa Chiesa, che trovavasi in Monza, di trasmettergli quel tesoro, siccome eseguì puntualmente, e indi fu trasportato in Avignone, dove dimorava il papa, d'onde, venti anni dopo, signoreggiando Luchino, venne restituito l'anno 1344. Io lascerò al chiarissimo signor canonico teologo don Antonio Francesco Frisi la cura di verificare se la restituzione siasi fatta senza alcuna perdita. Il valore dell'oro e delle gemme che oggidì ivi si mostrano, non giunge fors'anco a duemila fiorini d'oro. Egli, che con varie dissertazioni ba illustrate le antichità di Monza, ci renderà istrutti esattamente anche di ciò nella dissertazione che si è proposto di pubblicare sul tesoro di quella chiesa.

Poichè Galeazzo ebbe Monza in suo potere, e si vide liberato dalla Crociata, pensò tosto a rendere quei luogo munito in avvenire contro simili accidenti. Importava molto [22] il non avere alla distanza di sole dieci miglia da Milano un borgo facilmente prendibile, e nel quale i nemici, con molto numero d'armati, potessero sostenersi per alcuni mesi, siccome poco anzi era accaduto. (1325) Per tal motivo Galeazzo I, l'anno 1325, fabbricò un castello in Monza, di cui vedesi anche oggidì la torre rovinosa. Il modo col quale fece quel principe fabbricare quella torre ci prova sempre più quanto poco ei rassomigliasse al buon Matteo suo padre. Veggonsi anche al dì d'oggi le prigioni orrende, destinate a far soffrire l'umanità, calandovi gli uomini come entro un sepolcro per un buco della vôlta; ove discesi posavano sopra di un pavimento convesso e scabroso, tanto vicino alla vôlta da non potervisi reggere in piedi. Così egli aveva immaginato il modo di aggiugnere all'angustia, alla privazione della libertà, al timore dell'avvenire, al maligno alimento del cibo e dell'aria, anche il tormento di far succedere una positura dolorosa ad un'altra dolorosa. Galeazzo I questa unica memoria ci lasciò come sovrano, poichè la signoria di lui fu breve, e la cagione la troviamo nella domestica discordia. Marco, che col suo valore aveva conservato e difeso lo Stato, non poteva soffrire il fasto di Galeazzo I, a cui il padre aveva lasciata la signoria. La distanza che passa fra un sovrano ed un suddito, rendeva insopportabile a Marco la sua condizione. I principi cadetti delle due case sovrane, sono educati sin dalle fasce a venerare nel primogenito il venturo signore: ma a ciò non era disposto dall'educazione l'animo di Marco. La dominazione di Matteo Visconti, loro padre, fu tanto eventuale, precaria ed incerta, che nessun uomo, per illuminato ch'ei fosse, avrebbe potuto con ragione antivedere s'egli avrebbe finito come privato, siccome nacque, ovvero qual principe, siccome avvenne. Perciò la disparità fra i fratelli sopragiunse come un avvenimento impensato, il quale doveva eccitare la vampa delle passioni nei cadetti. Giovanni era di carattere mite, e la condizione sua d'ecclesiastico moderava l'invidia. Luchino aveva egli pure la prudenza di accomodarsi ai tempi. Stefano aveva moglie e figli. Marco era quello che più si mostrava intollerante. Egli s'era fatto conoscere e stimare [23] dagli stipendiati tedeschi, spediti da Lodovico il Bavaro, onde non gli fu cosa difficile l'indurre quell'eletto imperatore a venire nell'Italia, per celebrare le incoronazioni a Milano ed a Roma. Si pretende ch'egli trovasse il modo d'irritare l'animo di quell'augusto contro de' suoi fratelli, e contro di Galeazzo I singolarmente, supponendogli dei maneggi col papa Giovanni XXII, dal quale, siccome ho detto, Lodovico era stato maltrattato. (1327) Quello che sappiamo di certo si è che, nel giorno 17 di maggio dell'anno 1327, Lodovico il Bavaro entrò solennemente in Milano, accompagnato da quattromila cavalli. Egli e la regina Margherita, sua moglie, stavano sotto di un baldacchino. Andarono a prendere alloggio nel palazzo del Broletto vecchio, cioè dove oggidì trovasi la corte; e il giorno ultimo di maggio Lodovico fu incoronato in Sant'Ambrogio. Il giorno 5 di luglio, per ordine del nuovo re d'Italia, vennero arrestati Galeazzo, Luchino e Giovanni. Azzone, figlio di Galeazzo, ebbe la medesima sventura. Stefano Visconti, morì improvvisamente nella notte precedente. Gli arrestati vennero collocati nelle nuove carceri della torre di Monza, ove Galeazzo fu il primo a far prova dell'architettura che aveva così malamente raffinata. Il re ebbe dalla città il dono di cinquantamila fiorini d'oro, e partì da Milano alla volta di Roma il giorno 5 d'agosto, avendo nel suo séguito Marco Visconti. Questa serie di fatti, e quello che accadde dappoi, ci rendono verosimile l'opinione che Marco avesse parte della sciagura de' fratelli. Galeazzo lo credeva; e andava dicendo: «Marco ferisce sè medesimo;» e ciò risaputosi da Marco, in contraccambio diceva: «Galeazzo vuol esser solo, e solo si regga.» Sperava forse Marco di ottenere dal nuovo augusto la signoria di Milano; ma anche allora si dovette conoscere che nelle altercazioni domestiche è facile il recare danno ad altri; ma difficilissimo il trarne bene per noi. Lodovico formò un consiglio di ventiquattro cittadini, e vi pose a presedere suo luogotenente il conte Guglielmo Monforte. Così diede nuova forma al governo della città; mentre i tre fratelli ed un nipote giacevano nello squallore della torre di Monza, e Marco, confuso, negletto, [24] e forse disprezzato, languiva nella folla de' cortigiani che accompagnavano Lodovico a Roma. L'annientamento della sua famiglia di riverbero aveva abbassato Marco Visconti, il quale, non avendo più speranza alcuna di rialzarsi col favore di Lodovico, si rivolse a Castruccio Antelminelli, signore di Lucca, uomo potente e celebre nella storia di que' tempi, ed Amico de' Visconti; e col di lui mezzo ottenne dall'imperatore, debole e bisognoso di soccorso, la liberazione dei suoi congiunti, i quali erano in Monza custoditi da truppe bavaresi. Marco tentò poi di avere una sovranità sulla città di Pisa, ma gli andò il colpo a vuoto. Egli ritornossene a Milano, sempre impetuoso ed impaziente di non vedervisi sovrano; sintanto che, il giorno 8 di settembre dell'anno 1329, cadde da una delle finestre della corte ducale, alcuni dicono dopo di aver sofferta una morte violenta, e l'Azario dice:[35] de cujus morte certum ignoratur[36].

Si cerca come siasi fatta l'incoronazione di Lodovico in Milano, poichè trattavasi di consacrare uno scomunicato in una città posta all'interdetto. L'arcivescovo Aicardo era assente; e, come aderente al papa Giovanni XXII, non avrebbe mai osato di venire a Milano nel tempo in cui vi si trovava il re de' Romani Lodovico. Bonincontro Morigia, autore che allora vivea, ci dice[37], che Lodovico creò arcivescovo di Milano Guido Tarlati, vescovo di Arezzo, e che questi lo incoronò, assistendovi alcuni pochi vescovi, cioè Federico Maggi, vescovo di Brescia, Arrigo, vescovo di Trento e alcuni altri ben pochi, essendosi ritirati gli altri vescovi, per non concorrere a incoronare e riconoscere un principe che dal papa era scomunicato e non riconosciuto imperatore. Il Muratori non credette che Guido Tarlati facesse le funzioni d'arcivescovo[38]. Il conte Giulini è dell'opinione del Muratori. L'autorità di questi due eruditi uomini è presso me di gran peso; ma nè l'uno nè l'altro dicono la ragione del loro dissenso. Il Muratori s'accontenta d'asserire che [25] Bonincontro Morigia[39] a vero longe abest; il conte Giulini s'appoggia all'aulorità del Muratori. Io ingenuamente confesso che le asserzioni loro non mi persuadono abbastanza, per abbandonare il testimonio d'un autore contemporaneo; tanto più che, essendo sempre stato lontano della sua sede frate Aicardo, e dovendosi la consacrazione in Milano fare dall'arcivescovo, niente vi trovo d'incredibile se Lodovico, che aveva in Trento deposto il papa come eretico, e che in Roma ne fece creare un nuovo, altrettanto facesse in Milano creando un arcivescovo; sebbene in séguito quel posticcio metropolitano non abbia più nemmeno preteso di conservarsene il titolo.

Della improvvisa morte di Stefano Visconti (dal quale discesero Barnabò, Galeazzo II e i tre duchi Visconti, siccome vedremo) varie sono le opinioni degli autori; alcuni attribuendola a veleno, altri ad eccesso di vino; tutti però sono d'accordo nel riconoscerla improvvisa[40]. Il mausoleo di Stefano vedesi nella Chiesa di sant'Eustorgio, nella cappella di san Tommaso d'Aquino; lavoro il quale probabilmente si fece verso la metà del secolo decimoquarto. Poichè allora, oltre l'incertezza nella quale trovavasi la signoria de' Visconti, anche l'interdetto avrà impedito questi onori funebri; molto più a Stefano Visconti, scomunicato, perchè figlio di Matteo, quantunque egli non abbia mai avuto parte nel governo dello Stato e nelle dispute col papa. Quel mausoleo merita d'esser osservato, per avere idea della magnificenza de' Visconti in que' tempi; e in quella chiesa medesima merita più d'ogni altra cosa osservazione il nobilissimo deposito di marmo cui stanno le reliquie di san Pietro martire; opera che è delle prime e delle più antiche per servire d'epoca al risorgimento delle arti, e da cui si può conoscere quanto fossero già onorate e risorte verso la metà del suddetto secolo decimoquarto. Le figure e i bassorilievi sono di un'artista pisano, che travagliò con una maestria e grazia affatto insolita a' suoi tempi.

[26]

Galeazzo I fu liberato dal forno (che tal nome aveva l'orrido suo carcere di Monza) il giorno 25 di marzo 1328. Furono parimenti resi liberi Luchino, Giovanni ed Azzone. Egli per più di otto mesi aveva dovuto soffrire que' mali istessi che aveva immaginati per gli altri. S'incamminò nella Toscana per ricoverarsi presso dell'amico e benefattore Castruccio; ma nella prigionia aveva tanto sofferto, che in Pescia, nel contado di Luca, morì il giorno 6 d'agosto dell'anno 1328, all'età d'anni cinquantuno. Cinque anni durò la combattuta signoria di Galeazzo I; giacchè, dopo il principio di luglio del 1327, da che fu posto in carcere, nulla gli rimase più che fare nel governo. Il Corio ce lo descrive di statura mediocre, di bella carnagione, di faccia rotonda, e robusto della persona; ei lo qualifica liberale, magnifico coraggioso, prudente, e parco nel parlare, ma eloquente e colto nel poco che diceva. Il Corio sarebbe un cattivo giudice del colto ed eloquente modo di parlare. Galeazzo fece perdere lo Stato alla sua casa colla sua imprudente condotta vivendo suo padre. Perdette Piacenza per avere imprudentemente tentata la signora Bianchina Landi. Lasciò per più mesi in preda al saccheggio militare Monza, che avrebbe potuta liberare al momento, ascoltando un opportuno parere; tutto ciò dimostra che prudente era ben poco. Il carcere di Monza non lascia luogo a crederlo sensibile ed umano. Non sappiamo che egli abbia commesse crudeltà; ma nemmeno ebbe egli mai sicurezza bastante per commetterne; e forse per la sua gloria è un bene ch'ei non abbia mai posseduto senza contrasto il sommo potere; onde dobbiamo collocarlo nella classe numerosa ed oscura de' principi di nessuna fama. Ei venne tumulato in Lucca, ove il suo amico Castruccio ne fece celebrare la pompa con magnificenza.

Lodovico il Bavaro, entrato che fu in Roma, intese come nuovamente papa Giovanni XXII dalla Francia l'avesse scomunicato e dichiarato illegittimo cesare[41]. Quindi, vedendo [27] anche il popolo di Roma assai malcontento del papa, che stavasene in Avignone, sentenziò che il papa Giovanni (ch'ei non altrimenti nominava se non col suo primo nome, cioè Giacomo da Euse, e come altri dicono, d'Ossa) come scismatico, profano ed eretico, era cassato, rifiutato; e che non più alcuno dovesse riconoscerlo per pontefice. Poscia, il giorno 12 maggio 1328, radunatisi in San Pietro il clero e i capi di Roma, venne proclamato papa frate Pietro di Corvaria, che prese il nome di Nicolò V, e il popolo lo riconobbe come vero papa. Frate Nicolò da Fabriano allora recitò una solenne orazione, di cui il tema fu questo:[42] Reversus Petrus ad se dixit: venit Angelus Domini et liberavit nos de manu Herodis, et de omnibus factionibus Judaeorum. Questo Pietro di Corvaria era francescano, e i Francescani accusavano il papa XXII di avere delle opinioni sulla visione beatifica; il che anche venivagli rimproverato dai teologi di Parigi, censurando tre omelie da lui pubblicate. Il papa prima di morire ritrattò quelle sue private opinioni. Di Pietro di Corvaria ne scrivono bene alcuni, qualificandolo buono, pio e quasi contro sua voglia diventato antipapa[43]. Egli terminò poi i suoi giorni in Avignone in carcere, dopo di aver chiesto perdono a Giovanni papa. Ciò avvenne perchè Lodovico ogni giorno di più s'andava indebolendo; e la ragione era la medesima per cui la maggior parte de' re de' Romani dalla Germania entrarono fortissimi nell'Italia, e videro tutto da principio piegarsi; indi poco a poco svanirono le forze loro. Nelle diete de' principi di Germania molte volte si pensò a far cadere la dignità cesarea sopra di un principe che non avesse forze da opprimere. Eletto che egli era, secondo le leggi dell'Impero, ciascun sovrano della Germania era obbligato a scortare il nuovo augusto alla spedizione romana colle sue armi. Quindi il nuovo eletto scendeva le Alpi comandando [28] una rispettabile armata, e si trovava arbitro dell'Italia. S'innoltrava a Roma. L'armata cominciava a soffrire un clima infuocato. Le malattie, il tedio della spedizione, l'amore della patria, la mancanza de' viveri facevano che, un dopo l'altro, i principi prendessero congedo dal nuovo augusto, più sollecito degli Stati propri e de' propri sudditi, che d'altro pensiero. E quindi vediamo molti Cesari costretti a ricorrere ai maneggi, ai partiti, alle brighe per protrarre la loro dominazione e soggiornare più a lungo nell'Italia. Così dovette fare Lodovico, forzato, per non inimicarsi Castruccio, ad accordare la libertà ai Visconti; laonde (1320), per ottenere sessantamila fiorini d'oro, che gli erano necessari per pagare lo stipendio alle truppe tedesche che gli rimanevano, dovette vendere ad Azzone Visconti il vicariato imperiale; il che avvenne il giorno 15 di gennaio dell'anno 1329. Indi il falso papa Niccolò V creò cardinale della santa romana chiesa Giovanni Visconti, zio di Azzone, e lo costituì legato apostolico nella Lombardia, invece di Bertrando del Poggetto. Quasi tutto il clero e popolo di Milano si gettò dal partito di papa Niccolò; e molti frati, francescani singolarmente, declamando nelle prediche, annunziavano al popolo che Giovanni, ossia Giacomo da Euse, non era altrimenti pontefice, ma era anzi un eretico, uno scomunicato, un pessimo omicida; e che il solo vero e legittimo papa era il saggio, il pio, il virtuoso Niccolò V. Queste grida potevano sedurre la moltitudine, e piaceva ai Visconti che ella così fosse persuasa; ma gli uomini un poco informati non potevano dubitare che il legittimo papa era Giovanni XXII canonicamente eletto e riconosciuto, vivo e sano, focoso e imprudente bensì, ma non mai eretico, nè legittimamente deposto. L'affare però era serio per papa Giovanni, e tale ch'ei facilmente perdeva ogni influenza sull'Italia, se non piegava a tempo siccome fece, riconciliandosi coi Visconti, e liberando finalmente i Milanesi dagl'interdetti che da otto anni erano stati pronunziati. La data del breve è del giorno 15 settembre 1329, in Avignone[44]: [29] e il mediatore dì questa pace fu il marchese d'Este. L'imperatore Lodovico fremeva contro Azzone. Venne colle sue armi sotto Milano; ma egli era troppo indebolito, e nulla potè occupare. Il Fiamma ci ha trasmesso la cantilena che i Milanesi dalle mura ripetevano:[45] die et nocte clamabant in vituperium Bavari: O Gabrione, ebrione, bibe, bibe, hò, hò, Babii Babo[46]. Cosa volessero significare quelle voci ultime, e quel Gabrione non lo sappiamo. Egli è certo che non si parlava latino, anzi da più di cinquantanni s'era cominciato anche a scrivere volgare italiano, e probabilmente il Fiamma ha guastato il senso traducendolo nel suo barbaro latino. In quell'occasione è probabile che, uscendo i Milanesi dalla porta Ticinese, abbiano battuti gl'Imperiali; poichè le monache, le quali sino a quel tempo si chiamavano le signore bianche sotto il muro, cambiarono dappoi il nome, e si chiamarono Della Vittoria, denominazione che attualmente ancora conservano.

Azzone Visconti, unico figlio di Galeazzo I e di Beatrice d'Este, era diventato, siccome dissi, vicario imperiale, al prezzo di sessantamila fiorini d'oro. Ma poichè egli fu rappacificato col sommo pontefice (da cui non era conosciuto Lodovico per imperatore), il titolo di vicario eragli di nessun uso; perchè dato da chi non poteva più considerarsi da Azzone come munito della facoltà di concederlo. Perciò egli ottenne la signoria di Milano dal consiglio generale della città, il giorno 14 marzo 1330; e così si ritrovò sovrano e principe senza contrasto alcuno. Azzone veramente meritava d'essere il primo della sua patria; e già mentre signoreggiava Galeazzo I, di lui padre, s'era guadagnato un nome distinto nella milizia, avendo egli acquistato borgo San Donnino[47], aiutato il Bonacossi a battere i Bolognesi, ed assistito Castruccio Antelminelli a battere i Fiorentini. [30] Azzone in quest'incontro non dimenticò di far correre il palio sotto le mura di Firenze, per bilanciare il trattamento che i crocesegnati fiorentini avevano fatto, due anni prima, ai Milanesi. Allora fu che egli acquistò la stima e l'amicizia di Castruccio; il che poi fu cagione per cui egli e il padre e gli zii riacquistarono, siccome dissi, la libertà.

Appena si trovò Azzone alla testa d'uno Stato tranquillo, ch'ei pensò a circondare di mura la città. Le antiche di Massimiano Erculeo, cioè quelle che sono parallele al sotterraneo condotto delle acque e delle chiaviche, erano state demolite al tempo di Federico I. Le mura di Azzone si fabbricarono al luogo medesimo in cui si formò il terrapieno, ossia il fossato, nell'assedio di Barbarossa, e s'innalzarono nelle parti della città che ancora oggidì chiamansi Terraggio, con vocabolo che nasce dalla barbara latinità, per indicare un terrapieno, ossia un rialzamento di terra e di legna, ad oggetto di preservare i cittadini dalle incursioni e dagl'insulti dei nemici. Celebrò Azzone le sue nozze con Caterina di Savoia, figlia del conte Lodovico, e magnificamente le celebrò. Azzone stese la signoria sopra Bergamo, Vercelli, Vigevano, Treviglio, Pizzighettone, Pavia, Cremona e Borgo San Donnino; e ciò nei primi due anni del suo principato. Indi diventò signore di Como; prese Lecco; fabbricò il bel ponte sull'Adda, che anche oggidì vi si ammira; s'impadronì di Lodi e Crema. A lui premeva anche Piacenza, ma ella era posseduta dal papa, col quale non conveniva di urtare. Francesco Scotti ambiva d'avere Piacenza, ed Azzone non lo stornò dall'impresa. L'ebbe Francesco; e allora il Visconti si pose in campo, la tolse all'usurpatore del dominio pontificio; e così, colla rispettosa apparenza di vendicare la Santa Sede, riacquistò Piacenza, che Galeazzo I, suo padre, aveva imprudentemente perduta. Azzone ebbe pure Brescia in dominio; e mentre così andava dilatando lo Stato, più per dedizione e per accordi, che per violenza delle armi, egli introduceva nella città una pulizia ed un ordine sconosciuto nei tempi rozzi precedenti. Abbellì egli le strade, e sbratolle dalle sozzure; all'acque di pioggia, che prima le allagavano, diè sfogo con opportuno scolo [31] nelle cloache; dettò provvide e moderate leggi per la conservazione dell'ordine civile: tutto insomma fu rianimato dalla cura indefessa di quel buon principe.

La gloria e la felicità di Azzone erano un tormento atroce nell'animo di Lodovico, ossia Lodrisio Visconti, cugino in quarto grado del principe. Lodrisio era buon soldato; pareva che fosse trasfusa in lui l'anima orgogliosa e forte di Marco. Già vedemmo come Lodrisio fosse celato in sua casa da Matteo, nel giorno in cui scoppiò la sollevazione contro del re Enrico. Veduto pure abbiamo come Matteo gli avesse dato il comando di Bergamo. Morto che fu Matteo, nessun caso più si faceva di Lodrisio. Lo Scaligero, signore di Verona, aveva licenziata una di quelle compagnie militari che prendevano in quei tempi servizio indifferentemente; e che pronte erano ad uccidere e devastare dovunque, in favore di chi voleva più pagarle. Lodrisio assoldò questa truppa, per tentare il colpo di scacciare il cugino, e collocarsi sul trono. Entrò nel milanese e fece guasto largamente; e coll'improvvisa intrusione, sbigottì e sorprese. Ma Lodrisio aveva preso a combattere contro di un principe che era buon soldato e che era amatissimo da tutti i sudditi. Nobili, popolari, tutti a gara corsero intorno di Azzone; cercando quanti erano capaci di portare armi, di combattere volontari per lui. Lodrisio si era attendato a Parabiago, e la sua armata era composta di duemila e cinquecento militi, ciascuno de' quali aveva due altri combattenti a cavallo di suo séguito; in tutto settemila e cinquecento cavalli. Aveva di più un buon numero di fanti e di balestrieri; il che formava un corpo d'armata poderosa per quei tempi: uomini tutti veterani e di somma bravura nel mestiero delle armi. L'armata d'Azzone andò a raggiungere l'inimico, e talmente lo distrusse, che la giornata 21 febbraio 1339 è notata ancora ai tempi nostri nei calendari del paese, e se ne celebra la commemorazione. Dopo lunghissimo conflitto, in cui Luchino Visconti rimase ferito, più di tremila uomini e settecento cavalli restaron morti sul campo; duemila e cento cavalli furono presi; e fra i combattenti ben pochi furono quei che restarono illesi e senza ferita. Tanto ostinata fu [32] la battaglia in cui, per colmo della vittoria, Lodrisio istesso rimase prigioniero d'Azzone! Federico I poneva i prigionieri sulla torre contro Crema, gli faceva impiccare, o per clemenza, loro faceva cavar gli occhi. Federico II li conduceva nudi, legati a un palo, in trionfo, poi, trasportandoli nel regno di Napoli, li consegnava al carnefice. Azzone non incrudelì contro alcuno de' prigionieri; e Lodrisio istesso, che pure meritava la morte come un suddito ribelle, fu umanamente trasportato prigioniero a San Colombano. Questa battaglia famosa di Parabiago viene riferita da due nostri cronisti che allora vivevano; da Galvaneo Fiamma e da Bonincontro Morigia; i quali, per rendere più maraviglioso il loro racconto, asserirono d'essersi veduto da molti sant'Ambrogio che stara in alto, e con una sferza nelle mani andava combattendo per Azzone Visconti. La chiesa milanese però non adottò tal visione, e unicamente attribuì alla protezione del santo l'esito fortunato della vittoria[48]; anzi ora più nemmeno se ne celebra la messa. Al luogo della battaglia presso Parabiago s'innalzò una chiesa dedicata a sant'Ambrogio; la quale nel secolo passato fu distrutta, per edificare la più grandiosa che oggidì vi si osserva. Tutte le immagini di sant'Ambrogio che hanno la destra armata d'uno staffile, sono posteriori all'anno 1339, ossia all'epoca della battaglia di Parabiago. Si cominciò, sulla tradizione di questa visione, a rappresentare il saggio, prudente e mansuetissimo nostro pastore con volto furibondo, in atto di sferzare; e si è portata l'indecenza al segno di rappresentarlo sopra di un cavallo, a corsa sfrenata, colla mitra e piviale, e la mano armata di flagello in atto di fugare un esercito, e schiacciare co' piedi del cavallo i soldati caduti a terra. Il volgo poi favoleggiò e crede tuttavia che ciò significhi la guerra di sant'Ambrogio cogli Ariani; coi quali il santo pastore non adoperò mai altre armi che la tolleranza, la carità, l'esempio e le preghiere. Sarebbe cosa degna de' lumi di questo secolo, se nelle nuove [33] immagini ritornassimo ad imitare le antiche; togliendo la ferocia colla quale calunniamo il pio pastore. Nelle monete milanesi da me vedute, le prime che portano quest'iracondia da pedagogo, sono posteriori di quindici anni alla battaglia; e le mie di Azzone, di Luchino e di Giovanni hanno sant'Ambrogio in atto di benedire. Il conte Giulini ne riferisce una di Luchino collo staffile, ch'ei dice tratta dal museo di Brera[49]: ora non credo che vi si trovi quella moneta; almeno nel museo di Brera a me non è accaduto di riscontrarla. Come mai questo fatto d'armi si rendesse tanto celebre, e come nei giorni fausti siasi tanto distinto il 21 febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben più memorando, 29 di maggio, in cui l'anno 1176 venne totalmente battuto Federico I dai Milanesi; potrebbe essere il soggetto d'un discorso. Nel primo caso un ribelle che non aveva sovranità o Stati, fu sconfitto da un principe che dominava dieci città; nel secondo una povera città, che aveva sofferto i mali estremi, sconfisse un potentissimo imperatore che avea fatto tremare la Germania, l'Italia e la Polonia. Nel primo caso si combatte per ubbidire più ad Azzone che a Lodrisio; nel secondo si combattè per esser liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che meritasse celebrità assai maggiore la giornata 29 di maggio. Ma la fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrità. Ê vero che una nascente repubblica nel secolo duodecimo non aveva nè l'ambizione nè i mezzi che poteva avere un gran principe nel secolo decimoquarto, per tramandare ai posteri un'epoca gloriosa.

Le dieci città sulle quali dominava Azzone Visconti erano Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo, Brescia, Vigevano, Vercelli e Piacenza. Oltre le fabbriche pubbliche, delle mura, de' ponti, delle strade, questo principe rifabbricò ed ornò, in modo maraviglioso per que' tempi, il palazzo già innalzato dal di lui avo Matteo I, dove ora sta la regia ducal corte. Il Fiamma, autore allora vivente, ce ne dà una magnifica idea. V'era un gran numero di sale e di [34] stanze, tutte fregiate di assai pregevoli pitture. Il gran salone era sopra tutto ammirato per le pitture eccellenti; il fondo era d'un bellissimo azzurro; e le figure e l'architettura erano d'oro. Quel salone rappresentava il tempio della Gloria, cd è strana la riunione degli eroi che vi si vedevano dipinti; Ettore ed Attila; Carlomagno ed Enea; Ercole ed Azzone Visconti. La storia era poco conosciuta in quei tempi, e le idee della gloria e dell'eroismo non erano chiare. Queste pitture erano opera del famoso Giotto, che diede vita alla pittura, giacente da mille anni; e il Vasari ci attesta ch'ei da Firenze venne a Milano[50], e vi lasciò bellissime opere[51]. È anche probabile che vi lavorasse Andrino da Edesia, pavese, uno de' più antichi ristoratori della pittura che viveva in quel secolo[52]. Nè la sola pittura era premiata e promossa da questo buon principe, tanto più degno di stima, quanto che allora appena spuntava l'aurora delle belle arti. Egli invitò e protesse Giovanni Balducci, pisano, esimio scultore per quei tempi, di cui si può conoscere il valore nell'arca di marmo di San Pietro martire, poco fa da me ricordata[53]. Col mezzo di questi artisti, i primi del loro tempo, Azzone abbellì la sua corte, e insegnò ai nobili un genere di lusso colto ed utilissimo ai progressi delle belle arti. La torre di San Gottardo è il solo avanzo che ci rimane per avere un'idea del gusto dell'architettura di Azzone; ed è un pregevole monumento, singolarmente perchè erano i primi passi che si facevano dalla somma barbarie al nobile ed elegante modo di fabbricare. Anche un altro motivo rende quella torre degna d'osservazione; ed è che ivi Azzone fece collocare un orologio che batteva le ore: macchina allora affatto nuova e sorprendente, dalla quale prese nome la via delle ore, come anche in oggi viene chiamata. Anticamente eranvi le guardie per le strade, le quali colle clepsidre, ovvero cogli oriuoli a polvere, misurando il tempo, ad ogni ora [35] gridavano, avvisando i cittadini come ancora si suole nella Germania. Questa macchina ingegnosa, che batte tanti colpi sulla campana quante sono le ore, fu inventata da un monaco benedettino, inglese, per nome Wallingford, e posta ad uso pubblico in Londra l'anno 1325. Ma probabilmente allorchè Azzone la collocò sulla sua torre, ancora non ve n'era alcuna nell'Italia; poichè il famoso orologio che fece porre in Padova Giovanni Dondi, per cui la famiglia acquistò il sopranome Dondi Orologio, vi fu collocato cinque anni dopo morto Azzone, cioè l'anno 1344; e l'orologio in Bologna si conobbe dopo che era celebre quello di Padova. Così Azzone aveva rivolto il lusso e la magnificenza verso gli oggetti che tutti animavano il paese a illuminarsi, a risorgere, ed avanzarsi al buon gusto ed alla perfezione. Egli amava le curiosità, e aveva nella corte i serragli di fiere. Leoni, scimmie, babbuini, struzzi, ec., oggetti tanto allora più rari, quanto meno in quei tempi era la fratellanza e la sicurezza tra nazione e nazione. Aveva delle vaste uccelliere, coperte di rame, come si fa ancora presentemente, e queste popolate da uccelli rari e di paesi lontani. In mezzo al cortile v'era una magnifica peschiera, entro della quale dalle fauci di quattro leoni, scolpiti in marmo con nobile lavoro, sgorgava l'acqua limpidissima ed abbondante; e quest'acqua, la quale presentemente passa coperta sotto della regia ducal corte, l'aveva Azzone raccolta da due sorgenti ritrovate fuori di porta Comasina, nel luogo detto alla Fontana, e per canali sotterranei l'aveva condotta sino al suo palazzo. S'ingannano coloro che confondono quest'acquedotto col Seveso, colla Cantarana o col Nirone. Non so se presentemente potrebbe quell'acqua sgorgare, come prima, entro di una peschiera; poichè il suolo, colle ripetute demolizioni e fabbriche accadute in quel palazzo, si è notabilmente innalzato, come si vide l'anno 1779, allorquando si abbassò la strada che divide il Duomo dalla Corte, la quale si era alzata più di tre braccia da che venne fabbricato il Duomo. Il Fiamma ci racconta che in quella peschiera vi stavano diversi uccelli acquatici, e che eravi in piccolo formato, da un canto, il porto di Cartagine, con [36] figurine rappresentanti la guerra Punica. Ciò basta per dare una idea del gusto di quel buon principe, il quale terminò i suoi giorni il 16 di agosto dell'anno 1339, senza lasciare figli. Undici anni soli regnò quell'amabile signore, che gli autori contemporanei, tutti concordemente ci descrivono di bella figura, di nobile aspetto, grazioso, buono, giusto, e adorato da' suoi popoli; che rimasero inconsolabili, dovendo perdere un tanto caro protettore della patria, nell'età ancor fresca di trentasette anni. Più di tremila persone vestirono il lutto alla di lui morte. La figura di questo amato principe si vede nel di lui mausoleo, che trovasi presso del signor conte Carlo Anguissola, nobilissimo amatore delle belle arti e dell'antichità della patria. Azzone fu il primo che veramente fosse sovrano; e laddove nessuno dei Torriani, nè Ottone Visconti, nè Matteo I, nè Galeazzo I ardirono mai di porre il loro nome nella moneta; la quale anzi sempre fu coniata o col nome solo di Milano e di sant'Ambrogio, ovvero coll'aggiunta del nome del re de' Romani o dell'Imperatore; Azzone pose il suo nome e la biscia nelle monete milanesi. E in ciò è degna d'osservazione la gradazione tenuta; avendo io delle monete milanesi di Lodovico il Bavaro coniate sul modello di quelle di Enrico di Lucemburgo; indi una di Lodovico, la quale ha nel campo unicamente le due lettere A Z. Fu questo il primo tentativo di Azzone, in seguito a cui, trascurò poi interamente il nome imperiale, e sostituì il proprio, apponendovi lo stemma del suo casato.

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CAPITOLO XII. Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della città sino verso la metà del secolo XIV.

Il consiglio generale di Milano, nel giorno 17 agosto 1339, cioè nel giorno immediatamente dopo la morte di Azzone, che non lasciò figliuolanza, proclamò signori di Milano Luchino e Giovanni Visconti, zii paterni di Azzone, e i soli figli ancora viventi di Matteo I. Sebbene però a tutti due i fratelli fosse data la sovranità, e che gli atti pubblici per la maggior parte fossero in nome di entrambi, realmente però Luchino da solo disponeva d'ogni cosa. Giovanni era di placido e benigno carattere, e non volle mai contrastare col risoluto e qualche volta violento Luchino, il quale sapeva ben regolare lo Stato. I fatti mostrarono poi, quando Giovanni rimase a regnar solo, che nel partito da lui preso nessuna parte vi ebbero la debolezza o i vizi dell'animo; ma fu guidato dalla sola ragione e dalla virtù. Alle dieci città che lasciò Azzone, aggiunse Luchino Asti, Bobbio, Parma, Crema, Tortona, Novara ed Alessandria; e così divenne signore di diciasette città, la maggior parte sottomesse colle armi; il che gli rese nemici il conte di Savoia, il marchese di Monferrato, i signori Gonzaghi, i Genovesi ed altri Stati d'Italia, sbigottiti dalla forza preponderante collocata in così breve spazio di tempo nella casa Visconti; poichè ne' primi tre anni del suo governo Luchino estese a tale ampiezza lo Stato. Oltre al dominio del marchese d'Este, cui Luchino aveva mosso guerra, le di lui armi eransi innoltrate fino a Pisa, e costrinsero i Pisani a chiedere pace, pagando a Luchino centomila fiorini d'oro, ed obbligandosi a presentargli ogni anno un [38] palafreno con due falconi in segno d'omaggio[54]: ecco ciò che questo principe fece per l'ingrandimento del suo Stato. Molto fece egli ancora per mantenere e introdurre l'ordine sociale nel suo dominio. (1348) Ei preservò Milano dalla peste l'anno 1348. Egli non volle proteggere veruna fazione; e Guelfi e Ghibellini indistintamente erano difesi dalle stesse leggi, e ritrovavano egualmente giustizia. Le strade poi, che per l'addietro erano infestate da' ladri, divennero sicurissime; per ottener la qual cosa Luchino si appigliò ad un partito singolare. Prese egli al suo stipendio i masnadieri medesimi che vivevano in prima saccheggiando i passaggieri, e da costoro le fece custodire, il che mirabilmente si ottenne. Oltre i masnadieri, erano saccheggiati i viandanti da cento angherie che loro imponevano i feudatari nelle giurisdizioni de' quali conveniva loro di passare; il che sembra una prova di più delle antiche prepotenze de' nobili sopra de' popolari, delle quali si è superiormente trattato. Luchino promulgò provvide leggi, che ebbero per oggetto di preservare i poveri dall'oppressione, sollevare il popolo dai carichi, assoggettarvi i ricchi, e togliere ai nobili ogni mezzo d'esercitare impunemente estorsioni e violenze. La politica di Luchino dispensò la plebe dall'obbligo di servire nelle guerre; e, coll'apparenza d'un pietoso beneficio, allontanò così il popolo dal maneggio dell'armi, e piantò l'ordine e la sicurezza pubblica sotto di un'assoluta monarchia. Vegliava egli sulla esecuzione di tai regolamenti, ed era severamente punita la prepotenza di chiunque. Stabilì in Milano un supremo giudice che si nominò sgravatore, e nel latino di quella età exgravator: magistrato che si rese celebre in quei tempi per l'autorità, non meno che pel buon uso a cui l'impiegava. Questo sgravatore doveva sempre essere un forestiere, e non doveva avere nè moglie, nè figli, nè parenti in Milano. Anzi si portava la diffidenza al segno, che non era mai permesso allo sgravatore di andare a cibarsi in casa di alcuno, ma doveva sempre starsene solo in casa propria. Il [39] ministero dello sgravatore era di decidere sommariamente e senza appellazione le querele di coloro che si credessero indebitamente gravati da qualunque altro giudice, e invigilare sulla retta amministrazione della giustizia. Il sistema delle strade nel circondario delle dieci miglia dalla città, che continuò sino ai giorni nostri, era d'istituzione di Luchino. In conseguenza di tali regolamenti, col favore della sicurezza pubblica, s'introdusse il commercio e l'industria. S'incominciarono a piantare a quei tempi in Milano alcune fabbriche d'oro e di seta[55]. L'agricoltura si rianimò, e se ne cominciarono a conoscere i raffinamenti. Si perfezionò la coltura della vite, e si principiò a preparare un vino più delicato, che chiamavasi vernaccia. S'introdussero razze di cavalli e di cani. La popolazione s'andava accrescendo. I costumi s'ingentilivano; e il Fiamma, deplorando, con poco giudizio, questi cambiamenti, rimproverava ai Milanesi dei suoi giorni l'eleganza del vestire, la pompa degli ornamenti, la squisitezza delle mense e lo studio delle lingue forestiere: studio il quale fa conoscere che il commercio era già dilatato in paesi oltramontani.

Sin qui ho rappresentato in compendio le buone qualità di Luchino, ora l'imparzialità storica mi obbliga a dirne ancora i vizi. Francesco Pusterla, nobile ed onorato cittadino non solo, ma uno dei più amabili, più ricchi e più splendidi signori di Milano, aveva in moglie la signora Margherita Visconti, parente del sovrano, donna di esimia grazia e bellezza. Luchino pensò di sedurla, come aveva fatto a Piacenza colla signora Bianchina Landi il di lui fratello Galeazzo I; ma trovò la fedeltà istessa e lo stesso amore verso lo sposo anche nella virtuosa Margherita. La tela era già ordita per far soffrire a Luchino il destino medesimo di Galeazzo; se non che il cauto e sospettoso Luchino fu pronto a scoprirla e lacerarla. Tutto era disposto per discacciare con una rivoluzione questo principe dal suo trono, e si dubita che i di lui nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo fossero complici. Ma Luchino prese talmente le sue [40] misure, che Francesco Pusterla, fautor principale della congiura, appena ebbe tempo bastante di salvarsi colla fuga e di ricoverarsi presso del papa in Avignone. Fin qui si vede un vizio di questo principe; ma in seguito si manifesta un'iniquità bassa ed atroce. Non risparmiò spesa o cura Luchino per attorniare in Avignone istesso il Pusterla d'insidie e di consiglieri, i quali, con simulata amicizia, lo animassero a ritornare nell'Italia, persuadendogli che presso dei Pisani avrebbe trovato un sicurissimo asilo, e si sarebbe collocato più vicino alla patria per rientrarvi ad ogni opportunità. Furono tanto moltiplicati i consigli, e tanto apparenti le ragioni, che alla fine il Pusterla si arrese, s'imbarcò, e per mare si trasferì a Pisa; ove arrestato venne dai Pisani, che temevano le armi di Luchino, e a lui fu consegnato. Francesco Pusterla, trasportato a Milano, terminò la sua vita coll'ultimo supplicio. Un gran numero de' suoi amici diedero al popolo lo stesso spettacolo; e quello che rese ancora più crudele la tragedia, si fu che la nobile e virtuosa Margherita dovette, al paro degli altri, finire nelle mani del carnefice. Il luogo in cui si eseguì la carneficina fu al Broletto Nuovo, cioè alla piazza de' Mercanti, dalla parte ove alloggiava il podestà, ed ove vedesi la loggia di marmo delle scuole palatine collo sporto in fuori, da dove solennemente il giudice pronunziava le sentenze di morte. I nobili venivano ivi su quella piazza abbandonati all'esecuzione: all'incontro i plebei erano trasportati fuori di porta Vigentina al luogo del supplicio. L'industriosa sagacità adoperata da Luchino per cogliere nell'insidia il Pusterla, potrebbe essere una lode per uno sbirro o un bargello, ma è una macchia che disonora un sovrano. La crudeltà poi di far condannare all'orrore del supplicio una donna amata, in pena della sua virtù, è una macchia ancora più obbrobriosa e vile. Luchino esiliò dallo Stato i tre suoi nipoti, figli di Stefano, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo. La ragione di Stato forse giustificava un tal rigore, singolarmente dopo i sospetti di loro complicità nella congiura dell'infelice Pusterla. Pretendono alcuni che Galeazzo, il nipote, fosse anche troppo intimamente unito [41] alla signora Isabella Fieschi, moglie di Luchino, e che il bambino ch'ella partorì, ebbe il nome di Luchino Novello, per questa cagione insieme colla madre vedova passasse poi a Genova, e non entrasse mai nella serie de' nostri principi. Avrà avute quel sovrano le sue buone ragioni per tenersi lontani i nipoti; ma le insidie colle quali incessantemente li perseguitava nei paesi lontani, la miseria e la povertà nella quale gemevano sempre raminghi, sconosciuti ed erranti (ora nella Francia, ora nella Germania e persino nella Palestina, ove Galeazzo fu creato cavaliere del Santo Sepolcro), son prove d'un animo niente generoso, ma anzi vendicativo e crudele. Il Corio ci dice come Luchino «aveva obtenuto che 'l papa haveva declarato che Barnabò e Galeazzo suoi nepoti, per lui relegati ale confine come suspecti de la fede, violatori de la pace, perjuri e detestandi, non puotessino contrahere matrimonio, e morendo manchassino de ecclesiastica sepultura, ne che imperatori ne re con epsi potessino havere confederazione, dil che tri jurisperiti, difendendo li prenominati fratelli, si appellarono de tanta nephandissima declaratione alo imperatore[56]». E in fatti era cosa evidente che, volendosi dividere la signoria d'Azzone, i tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo avrebbero dovuto per giustizia possedere la porzione di Stefano, loro padre e fratello di Luchino e di Giovanni; e può darsi che l'ingiustizia che provavano, essendo esclusi nella divisione, fosse l'origine di questi guai. Gli avvenimenti sono lontani da noi, e non ci sono noti che per quel poco che alcuni ce ne hanno tramandato. L'indole di Barnabò e di Galeazzo era perversa, come dimostrarono poi; quindi Luchino avrà forse avute delle ragioni colle quali giustificarsi.

L'occasione della morte di Luchino la riferirò colle parole istesse di Pietro Azario.[57] Voverat autem praedicta [42] domina Elisabeth, ejus uxor, visitare ecclesiam Sancti Marci in Venetiis, ut dicebat. Cui itineri dominus Luchinus annuit. Et sociata multis proceribus utriusque sexus, iter arripuit, et tamquam imperatrix et cum maximis dispendiis et curia pubblicata, recepta fuit in Verona per dominum Mastinum. Complevitque iter suum, et dicitur etiam voluntatem suam complevisse circa coitum; et aliae sociae suae de majoribus Lombardiae fecerunt illud idem. Propterea multa scandala sequuta sunt. Sed quia amor et tussis nequeunt celari, nec aliquod tam occultum, quod non reveletur, quum ipsa rediisset, dominus Luchinus scivit et audivit de gestis. Sed tamquam sapiens curavit dare ordinem de vendicta. Et quia una die dixit, quod in brevi facturus erat in Mediolano majorem justitiam, quam umquam fecisset, cum pulchro igne, praedicta ejus uxor percepit quod ipsa erat in justitia; illa intellecta, propter commissa cum persona, non poterat se excusare a praedictis, sicuti alias excusaverat. Qualiter autem processissent negotia, ignoratur, nec scribitur. Sed dominus Luchinus vindictam illam facere non potuit propter defectum vitae[58]. (1349) [43] Così Luchino Visconti si trovò improvvisamente morto il giorno 24 di gennaio 1349, all'età di cinquantasette anni, dopo di avere signoreggiato nove anni ed alcuni mesi. L'Azario non dice che la moglie lo avesse avvelenato, ma con un verso conclude:

Nam nulli tacuisse nocet: nocet esse locutum.[59]

Ei ci descrive Luchino così:[60] Austerus homo visu et opere erat, parcus in promittendo, largus in attendendo. Sotto il principato di lui in Milano crebbe notabilmente la popolazione, la ricchezza e l'industria; e non poteva a meno che ciò non accadesse in una metropoli mantenuta in pace, situata in un fertilissimo terreno, sotto un sovrano che proteggeva e vegliava su i poveri e popolari, contenendo i potenti, che manteneva l'ordine pubblico e il facile corso alla giustizia: essendo la sede d'un principe che dominava diciassette città del contorno. Il carattere di Luchino è un misto di buone e di cattive qualità: cuore insensibile e mente illuminata per governare, unita a forza d'animo e valor personale, il che può formare un fausto principato, non mai un principe buono o grande; qualità generose, che hanno sempre per base un cuore buono. Le lacrime sparse alla morte d'Azzone erano un encomio per il principe trapassato, e un biasimo preventivo per quello che subentrava; simili desolazioni pubbliche si voglion sempre dividere per metà. Luchino in fatti fu sommamente temuto per la sua risolutezza, per la sua implacabile severità e per la sua profonda dissimulazione

Ostendebat de paucis curare et de multis curabat,[61]

dice l'Azario.

Giovanni Visconti, figlio di Matteo I, fino dall'anno 1317 era stato canonicamente eletto arcivescovo di Milano; ma [44] il papa, al quale dava non poco fastidio la rapida fortuna dei Visconti, di propria autorità nominò e consacrò un altro arcivescovo, e fu, siccome dissi, il francescano frate Aicardo; il quale visse sempre ramingo ed esule dalla sua chiesa, dove appena potè ricoverarsi un mese prima della sua morte, accaduta nel 1339. Allora di bel nuovo gli ordinari elessero per la seconda volta Giovanni Visconti. I tempi erano mutati, e quantunque Giovanni avesse accettata la dignità di cardinale della chiesa romana dall'antipapa Nicolò V (dignità ch'ei però aveva deposta al riconciliarsi che fecero i Visconti col papa), Clemente VI lo riconobbe e preconizzò arcivescovo l'anno 1342. Giovanni, il giorno 17 di agosto 1339, era già stato dichiarato signore di Milano dal consiglio generale, insieme col fratello Luchino; quindi, dopo la morte di questi, non v'ebbe bisogno di nuova elezione per dargli la signoria; onde egli, senza altra cerimonia, venne da ognuno obbedito. Si trova però un decreto memorabilissimo, fatto dal consiglio generale, verosimilmente in questo tempo; poichè, oltre al confermare il dominio all'arcivescovo Giovanni, il principato, che sino a quel giorno era stato elettivo, si stabilì ereditario. Tale decreto leggesi in un antico codice segnato A, che si conserva nell'archivio del reale castello, segnato n.º 1, pag. 11. Ecco le di lui parole:[62] Quod praefatus magnificus et excelsus dominus Johannes, filius quondam bonae memoriae domini Matthei de Vicecomitibus et post ejus domini Johannis decessum, eo modo, quilibet alius masculus descendens per lineam masculinam et ex legitimo matrimonio ex praefato quondam domino Matthaeo de Vicecomitibus sit et sint perpetuo [45] verus et legitimus et naturalis dominus, et veri et legitimi et naturales domini civitatis et totius districtus et dioecesis et jurisdictionis Mediolani. Questo decreto ivi è mancante e del principio e del fine. Forse vi erano delle condizioni colle quali veniva moderata la perpetua sovranità; anzi è assai probabile che il consiglio non volesse privarsi del prezioso diritto dell'elezione, senza una reciproca ricompensa che assicurasse la immutabile conservazione dei privilegi del consiglio medesimo. Ma questo archivio, stato custodito dai sovrani che in séguito signoreggiarono, non poteva essere un sicuro deposito di simile documento, in quella parte che avrà limitata la sovranità. Il consiglio, composto di cittadini che non erano stati nominati nei comizi generali, ma dal principe istesso, ovvero da un podestà che gli era subordinato, non poteva obbligare la città, la quale non era rappresentata dal consiglio, se non illegalmente. E quand'anche i consiglieri poi avessero una legittima rappresentanza, non potevano conferire ad altri, se non quanto era in dominio della città medesima. La suprema sovranità dell'Impero, per diritto, sussisteva; e la pace di Costanza l'aveva definita centosessantasei anni prima. Onde quest'atto non poteva confidare ai Visconti se non quella porzione della sovranità che, in vigore di quella pace, era rimasta alla città; cioè i tributi, l'elezione dei magistrati, la guerra e la pace; ma non mai toglierci l'appellazione all'imperatore, nè il vassallaggio stabilito nell'anzidetta pace.

Appena l'arcivescovo Giovanni rimase solo alla testa dello Stato, ognuno dovette conoscere che la passata sua non curanza del governo certamente non nasceva da mancanza di talento per governare, nè da indifferenza per la gloria, nè da insensibilità per il pubblico bene. Il virtuoso principe cominciò il suo regno col far la pace coi vicini; col conte di Savoia, coi Gonzaghi, col marchese di Monferrato e coi Genovesi, posti prima in armi per le invasioni che Luchino aveva fatte, dilatando lo Stato proprio a danno loro. Assicuratosi così d'un pacifico dominio, la natura e l'indole sua benefica lo portarono a terminare la miseria [46] degli esuli nipoti. Matteo, Barnabò e Galeazzo furono richiamati dall'esilio ed accolti come a principi si conveniva. Diede Regina della Scala in moglie a Barnabò, e Bianca di Savoia a Galeazzo; e festeggiò quelle nozze illustri con pompe ed allegrezze pubbliche; fra le quali vi furono dei tornei d'una nuova foggia, cioè colle selle alte, usanza che Barnabò aveva insegnata, seguendo la costumanza da lui imparata nella Francia. Oltre lo stato signorile e lieto al quale fece passare i nipoti, quel magnanimo arcivescovo si risovvenne di Lodrisio Visconti, che, dopo la battaglia di Parabiago, da più di dieci anni languiva in carcere, e lo rese libero. L'anima grande e generosa di Giovanni non dava luogo a quelle diffidenze e sospetti che dominavano nel cuore di Luchino. (1350) Appena un anno era passato da che Giovanni reggeva lo Stato, esteso sopra diciassette città, quale glielo aveva lasciato Luchino, che egli, senza umano sangue e senza pericolo, fece un insigne acquisto; e col mezzo di duecentomila fiorini d'oro sborsati a Giovanni Pepoli, comprò il dominio della città di Bologna l'anno 1350[63]. Prevedeva però il sovrano arcivescovo che questa importantissima addizione non poteva accadere senza forti contrasti, singolarmente per parte del papa, il quale, sebbene domiciliato in Avignone, sempre stava vigilante sull'Italia; e se tollerava che il Pepoli, piccolo principe, e che facilmente poteva superarsi, dominasse Bologna, non così tollerante doveva essere poi, passando quella a incorporarsi nella potente dominazione dei Visconti. In fatti Clemente VI mandò un ordine all'arcivescovo Giovanni, acciocchè, entro lo spazio di quaranta giorni, dovesse restituire Bologna alla Santa Sede; minacciando in caso di contumacia di volerlo scomunicare, insieme ai nipoti suoi quanti erano, e porre all'interdetto tutti i popoli del suo dominio[64]. (1351) Giovanni non si cambiò per questo, nè pensò di abbandonare Bologna; onde il giorno 21 di maggio dell'anno 1351 il papa scomunicò [47] l'arcivescovo e i tre nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo, e pose l'interdetto su tutte le diciotto città dei Visconti[65]. Il Corio ci racconta come «il pontefice, sdegnato contra di lui per la presa di Bologna, havendo questa città interdicta, li destinò uno legato, il quale con somma humanità dal Presule fu ricevuto. Duoppo li expuose per parte del summo sacerdote che a Santa Chiesia volesse restituire Bologna, e che anche dil suo dominio una cosa facesse, e che il spirituale o che il temporale solo administrasse: la qual cosa intendendo Giovanne respuose che la proxima domenica nel magiore templo de Milano li darebbe conveniente risposta, dove il deputato giorno convenendosi ogniuno, Giovanne con grande solennitate celebrò la messa, la quale essendo finita, in cospecto dil populo, il legato, secundo l'ordine dato un'altra volta replicò l'ambasciata dil pontefice, onde dappoi il magnanimo arcivescovo evaginò una lucente spada quale haveva a lato, e da la mano sinistra pigliò una croce dicendo: questa è il mio spirituale, e la spada voglio che sia il temporale per la difesa di tutto il mio imperio; e non con altra risposta il legato tornando al pontefice referì quanto da lo arcivescovo Giovanne haveva havuto». Siegue poscia il Corio medesimo a narrarci come, essendo il papa sempre più irritato ed animoso contro dell'arcivescovo Giovanni, lo citasse a comparire in Avignone; e che l'arcivescovo Giovanni, preparato già a comparirvi col séguito di dodicimila cavalli e seimila fanti, venisse poi dispensato dal papa istesso dall'intraprendere il viaggio, e si accomodasse in tal guisa pacificamente ogni cosa. Anche il Giovio e il Ripamonti raccontano questi fatti. Il Muratori ed il conte Giulini non prestano in ciò fede al Corio. Sono però gli autori d'accordo nell'asserire che la scomunica e l'interdetto vennero pubblicati, e che la riconciliazione si fece ben tosto, ritenendo il Visconti Bologna in qualità di Vicario della Santa Sede. Fra le mie monete patrie una ne ho d'oro, valore d'un gigliato, di Bologna, colla biscia Visconti, che credo battuta in questi tempi.

[48]

(1353) Bologna erasi acquistata senza pericolo e senza sangue; e senza sangue o pericolo l'accorto Giovanni acquistò un'altra non meno cospicua città, cioè Genova, l'anno 1353, ed ecco come. Erano i Genovesi impegnati sventuratamente a guerreggiare contro de' Veneziani, collegati col re Pietro di Aragona. Erano stati malamente battuti da quelle forze preponderanti i Genovesi. Le loro navi erano quasi distrutte; e Genova si trovava bloccata dalla parte del mare; e per terra ancora, dalla parte di ponente, custodita dagli Spagnuoli; per modo che non le rimaneva altra via per ottenere i viveri, che già mancavano, se non dalle terre possedute da Giovanni arcivescovo. Proibì questi che nè da Alessandria, nè da Tortona, nè da Piacenza, nè dalla Lunigiana, nè da veruna altra parte del suo Stato venisse portato alcun alimento ai Genovesi; e così, anzi che perire o cader nelle mani de' loro nemici, quei cittadini presero il solo partito che loro rimaneva offerendo a Giovanni la signoria della loro città. Quest'offerta venne accettata ben presto, e il nuovo principe, nel mese di ottobre del 1353, prendendo solennemente possesso di quella illustre città; v'introdusse al momento l'abbondanza e la gioia. Così aggiunse Giovanni al suo Stato la decimanona città, e diventò padrone di un porto di mare. Ciò fatto spedì quel principe a Venezia degli ambasciatori, acciocchè cessassero i Veneziani di offendere Genova, divenuta cosa sua. I Veneziani, i quali già dovevano vedere con sospetto la potenza preponderante del Visconti, non vollero ascoltare discorso di pace. (1334) Giovanni fece allestire una poderosa armata navale, la quale lasciò il porto di Genova, spiegando al vento del mare, per la prima volta, le insegne della vipera; e seppe così bene farsi rispettare, che bruciò Parenzo, città marittima dell'Istria soggette ai Veneziani, indi battè la flotta veneziana presso Modone, sulle costiere della Grecia[66]. Quando, ventisei anni prima, Giovanni Visconti trovavasi coi fratelli nel carcere orrendo di Monza, chi avrebbe mai potuto prevedere ch'ei dovesse un giorno rappresentare [49] sul teatro del mondo il personaggio che vi sostenne poi! Chi mai avrebbe potuto accostarsi all'orecchio di Matteo, mentre vivea da povero privato in Nogarola, e dirgli: Tu sarai sovrano, e da qui a quarant'anni i figli tuoi domineranno un principato che potrà nominarsi un regno: Bologna, Parma, Piacenza, Cremona, Crema, Bergamo, Brescia, Como, Milano, Lodi, Pavia, Vigevano, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Asti, Genova e Bobbio; dicianove città! L'Ente Supremo regge gli avvenimenti. Il saggio impara ad adorarne i decreti; si tiene modesto nella prospera, e fermo nell'avversa fortuna.

Se Azzone aveva invitato, siccome ho detto, i migliori artisti, e gli aveva condotti a Milano, Giovanni vi accolse e vi onorò sommamente il più dotto ed elegante letterato di quel secolo, Francesco Petrarca. Egli venne a Milano l'anno 1353 per vedere la città; e l'arcivescovo Giovanni, sensibile al merito, lo onorò tanto, che lo indusse a fissarvi la sua dimora. Il buon principe era magnifico e sociale. La corte era aperta agli uomini di merito, nazionali o forestieri. Egli amava la società della mensa; e tanto crebbe presso di lui la stima del Petrarca, che lo fece sedere nel suo consiglio, e lo spedì a Venezia suo ambasciatore all'occasione detta poc'anzi. Petrarca, nelle sue lettere si esprime che egli amava in Milano gli abitanti, le case, l'aria, i sassi, non che i conoscenti e gli amici. L'unica figlia sua la maritò in Milano a Francesco Borsano; e la tenerezza che egli aveva per quella e per il figlio adottivo Borsano, ch'egli poi istituì suo erede, gli rendevano caro questo soggiorno come una nuova sua patria. Scrivendo Petrarca della prepotente influenza del clima, oggetto sviluppato nel nostro secolo dall'immortale Carlo Secondat, ma non intentato dal Petrarca, ei così dice de' Milanesi:[67] Totam [50] praeterea Rheni vallem colonis ab Augusto missis habitatam invenio; verum haec sedium mutatio non patriam ad quam pergitur, sed pergentes immutat. Itaque et Galli in Asiam, Asiani, et Itali in Phrygiam profecti, Phryges, et post Troyae excidium in Italiam reversi, Itali iterum facti sunt. Sic nostri, in Galliam vel Germaniam traslati, naturam illarum partium imbiberunt moresque barbaricos, et Mediolanenses, a Gallis conditi atque olim Galli, nunc mitissimi hominum, nullum servant vestigium vetustatis; ita vis coelestis humana moderatur ingenia[68]. Petrarca aveva tanta passione per l'Italia, che potevasegli imputare a ragione la ingiustizia colla quale detestava i costumi oltramontani; dal che però ne risultava una lode esimia ai Milanesi. Egli alloggiava dicontro a Sant'Ambrogio; anzi nel suo testamento, pubblicato nelle opere sue, ordinò d'essere ivi tumulato, qualora fosse morto in Milano. Questo testamento lo fece in Padova l'anno 1370. Aveva Petrarca una piccola villa, poco discosta dalla città, nelle vicinanze della Certosa di Garignano; e quel casino solitario lo chiamava Linterno, col nome della villa di Scipione Africano; comunemente poscia acquistò nome l'Inferno, parola più nota della prima. Si dice che Giovanni Boccaccio, per amore del suo amico Petrarca, vivesse qualche tempo con lui in Milano, e al suo Linterno. Si dice ancora che, dopo la morte Giovanni arcivescovo, cadendo la signoria di Milano nelle mani de' tre figli di Stefano, Matteo, Barnabò e Galeazzo, Petrarca recitasse l'orazione inaugurale nella chiesa maggiore, ove celebravasi la funzione di consegnar loro il dominio; e che un impudente astrologo, ad alla voce gridando, lo interrompesse [51] asserendo che in quel momento i pianeti erano faustamente collocati; e non si doveva perderlo, per non avventurare la prosperità del nuovo governo. Si pretese anzi, che, essendosi consegnato il bastone del comando a Matteo fuori del tempo, da ciò ne accadesse poi il misero e presto suo fine. La credulità e l'ignoranza erano certamente grandi a quei tempi; e alcuni pochi uomini illuminati non bastavano a sgombrarla sì tosto dai popoli, che le avevano ereditate dalla lunga notte de' barbari secoli precedenti. Petrarca fu da' Visconti spedito ambasciatore al re di Francia Giovanni, ed all'imperatore Carlo IV, che trovavasi in Praga, e tanto venne considerato il di lui merito, ch'egli stesso fu trascelto all'onore di levare al sacro fonte il primogenito che nacque dalle nozze di Barnabò, e in quella occasione compose il Genethliacon Marci Mediolanensium principis, che così comincia:

Magne puer, dilecte Deo, titulisque parentum

Praefulgens, populis olim venerande superbis,

Sit modo vita comes, teneris sit spiritus annis;

Expectate diu nobis, patriaeque patrique,

Laete veni, vitaeque viam foelicibus astris

Ingredere, et rebus gaudens accede secundis;

Te Padus expectat dominum, etc.[69]

poi, dopo di aver descritti i fiumi del vasto di lui Stato, passa a fargli dono d'una coppa d'oro co' versi seguenti:[70]

Quum tamen egregius vivendo adoleverit infans,

Hanc habeat pateram, et roseo bibat ore jubeto:

[52]

Parva decent parvos: minimus sum, maximus ille,

Parva sed est aetas, lucis nova limina nuper

Attigit, et coelum trepido suspexit ocello;

Aetati, non fortunae, munuscula dantur

Apta suae, ludet, nitido mulcente metallo;

Spernet idem ex alto fuerit dum plenior aetas,

Et rutilam terre faecem sciet esse profundae.

At fortasse sibi tunc carmina nostra placebunt;

Perleget, et secum, sacro dum fonte levabar.

Tanto humilem excelsus genitor dignatus honore est[71].

Probabilmente Petrarca (che non poteva stare in Firenze, sua cara patria, immersa nelle fazioni), disingannato dai viaggi fatti nella Francia e nella Germania, non avrebbe mai più abbandonato il nostro paese, dove vivea ammirato da ognuno e distintamente onorato dai sovrani, e dove aveva stabilmente collocata la figlia, e creatasi una famiglia per adozione, se il disastro spietatissimo della pestilenza, che desolò Milano, non lo avesse costretto a rifugiarsi altrove.[72] Mediolanum, urbem Ligurum caput et metropolim, [53] dice egli, usque ad invidiam hactenus horum nesciam laborum, et coeli salubritate, et clementia, et populi frequentia gloriantem, sexagesimus primus annus et vacuam fecit et squallidam[73]. Galeazzo II molto si regolò col consiglio del Petrarca e nel formare la biblioteca, che radunò in Pavia, e nel piantarvi gli studi dell'Università. È celebre la distinzione che gli venne fatta in Milano, quando, nella pompa delle nozze di Violanta Visconti, Galeazzo II volle che Petrarca sedesse commensale, insieme collo sposo Lionetto, figlio di Edoardo III re d'Inghilterra.

Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano e di altre diciotto città, fra le quali Genova e Bologna, cessò di vivere il giorno 5 di ottobre dell'anno 1354, dell'età di sessantaquattro anni, dopo d'aver regnato sei anni appena; poichè il tempo in cui comparve ch'ei correggesse con Luchino non può contarsi, tanto poco s'immischiò egli allora negli affari dello Stato. Giovanni fu un principe umano, benefico, giusto, liberale, fermo e d'animo signorile, e merita un luogo fra i buoni principi vicino ad Azzone. Il tumulo di lui si vede nel coro della Metropolitana.

Milano, nei ventiquattr'anni nei quali regnarono Azzone, Luchino e Giovanni, i primi che apertamente si dichiararono sovrani, battendo moneta col loro nome, godette la pace, e provò alfine i beni dell'ordine sociale e della civile sicurezza. I Milanesi abbandonarono il mestiere dell'armi, e si rivolsero a più miti e più industriosi pensieri, alla mercatura cioè, alla coltivazione delle arti e delle terre. La popolazione e la ricchezza crebbero in proporzione, e qualche coltura appresero gl'ingegni, onde questi oggetti meritano dilucidazione.

La prima epoca del risorgimento dell'agricoltura milanese io la trovo nel blocco che Federico I pose intorno della città; allorquando fece devastare le piante e le campagne, ed atterrare i boschi che ci stavano intorno. Il bene è sempre [54] figlio del male. Liberati che fummo da quel nemico terribile, poichè la libertà civile fu cimentata colla lega lombarda, si dovettero ridurre a coltura i boschi incendiati; unico mezzo per cui i proprietari, ai quali non rimaneva più legna spontanea, non ricavassero qualche profitto dal loro fondo. Infatti verso quei tempi pensarono i Milanesi a promovere l'irrigazione, a fecondare i loro campi colle acque, e si scavarono il Tisinello e la Muzza; il primo verso l'anno 1179, e l'altra l'anno 1220[74]. Indi il Tisinello venne allungato sino a Milano verso la metà del secolo decimoterzo, cioè l'anno 1257; operazioni tutte le quali non ebbero allora per oggetto la navigazione, ma bensì la semplice irrigazione delle terre. Io ho per qualche tempo creduto che i Milanesi, ritornati dalle crociate, avessero portata dall'Egitto nella loro patria la coltura del riso, e che questi scavi di canali e questa diramazione di acqua sulle terre venissero fatti a tal fine. Ma ho poi dovuto essere convinto che la coltivazione del riso presso di noi è di molto posteriore a quelle opere pubbliche; e ne serve d'invincibile prova la tassa che il tribunale di Provvisione faceva delle droghe; e quella singolarmente che ha pubblicata l'esattissimo nostro conte Giulini[75], ove scorgesi che il giorno 18 aprile 1386 venne ordinato che gli speziali e i droghieri non possano vendere il riso più che a dodici imperiali la libbra. Questo decreto trovasi nell'archivio del tribunale di Provvisione, d'onde l'ha tratto il chiarissimo autore. Se il riso fosse stato, come oggidì, un prodotto della nostra agricoltura, non sarebbesi venduto dagli speziali droghieri. Il prezzo poi di un soldo per libbra (avuto ragguaglio alla moneta di quei tempi) lo mostra ancora con maggiore sicurezza, anche paragonandolo alla tassa del mele sottile e fino, che in quel medesimo decreto viene fissato ad un terzo meno del riso, cioè ad imperiali otto la libbra. Quest'irrigazione adunque serviva ai soli prati, e forse allora il clima di Milano era più salubre di [55] quello che ora non è; da che si è ogni anno sempre più dilatata l'irrigazione, ed introdotta singolarmente la coltura dei risi; e perciò il Petrarca, fra le qualità che rendevano allora pregevole Milano, vi pose coeli salubritate, come poco anzi si è veduto. La nostra agricoltura ci produceva, siccome ho già altrove indicato, varie sorta di grani, frumento, segale, miglio, seligine, orzo, scandella. La coltura parimenti del lino e delle viti è antichissimo presso di noi. I prati si andavano moltiplicando, perchè s'erano introdotte razze di cavalli, e il lusso aveva dilatato il bisogno di questi tanto utili e generosi animali. Se poi tanto grano si raccogliesse quanto occorreva al nutrimento del popolo, non è così facile il deciderlo; poichè in una concordia che si fece fra i nobili e i popolari, l'anno 1225, venne pattuito fra gli altri articoli, che il comune di Milano dovesse ogni anno far venire da paese estero de' grani, pel valore di seimila lire di terzoli. Il che non saprei se debbasi considerare come una forzata compiacenza de' nobili terrieri verso di un error popolare, come inclina a crederlo il nostro conte Giulini[76]; ovvero come una prudente precauzione, in tempi ne' quali questo commercio era vincolato. Parmi che se le terre fossero state bastantemente feraci di grano, si sarebbe dalla plebe domandata, non l'introduzione del grano estero, ma del più vicino e nazionale, per assicurare l'alimento alla città. Generalmente si mangiava in Milano pane di mistura; e l'anno 1355 vi era in tutta la città un forno solo che fabbricasse il pane bianco di puro frumento; pane che allora era di lusso; e questo forno privilegiato chiamavasi il prestino dei Rosti, ed era vicino alla piazza dei Mercanti[77]. È bensì vero che l'uso di servire con pane di frumento puro e bianco, nei pranzi d'invito, era anche un secolo prima conosciuto presso di noi; e ne fa prova una sentenza favorevole ai canonici di Varese, pronunziata l'anno 1248, in cui venne condannato un beneficiato a dar loro la domenica avanti [56] Natale un pranzo composto,[78] videlicet, panis frumentini boni et bene cocti et albi, et vini boni, et puri ad sufficentiam et capponorum, videlicet unum inter duos plenum, et carnium bovis et porci cum bonis piperatis, videlicet frustum unum, sive petiam bovis competentem et bonam inter duos; ed aliud frustum seu petiam porci cum bonis piperatis inter duos, et frustum, sive petiam unam carnis porcinae assatae, sive rostitae cum paniciis inter duos; et hec omnia ad sufficientiam, secundum quod decet, praestet singulis annis. La carta si conserva nell'archivio della collegiata di Varese, e l'ha pubblicata l'erudito nostro conte Giulini[79]. Verso la fine dei capitolo sesto ho ricordato un altro pranzo, preteso un secolo prima, da altri canonici, i quali chiedevano lombulos con panitio; ora si trattava cum panitii. Potevano forse essere pagnotelle più fine, di mero fiore di farina apprestate sul finir della mensa. La piperata si è veduta nominata in quella carta del 1148, si vede in questa del 1248, si usava ai tempi del Corio; e l'abbiamo anche oggidì scritta nella tariffa della mercanzia, col tributo di trentasei soldi e mezzo per ogni rubbio, sebbene ora non sappiamo più cosa ella si fosse. Io la crederei una salsa stimulante, e in cui entrava singolarmente il pepe, simile a quella che ora adoperiamo colla senape.

Il Fiamma, che viveva appunto ai tempi di Giovanni arcivescovo, ci lasciò un'idea della ricchezza e del lusso di quel tempo:[80] Nunc vero in praesanti aetati priscis [57] moribus superaddita sunt multa ad perniciem animarum irritamenta: nam vestis praetiosa, et ornatu superfluo circumtecta per totum; in ipsis vestibus, tam virorum quam mulierum, aurum, argentum, perlae inseruntur. Frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina peregrina, et de partibus ultramarinis bibuntur: cibaria omnia sunt sumptuosa: magistri coquinae in magno praetio habentur[81]. Lo stesso Fiamma ci attesta che in Milano al suo tempo eranvi delle manifatture assai perfette e stimate al di fuori, e fra le altre vi si lavoravano gli elmi, le corazze e tutte le armature di ferro,[82] speculorum claritatem excedentes. Soli enim fabri loricarum sunt plures centum, exceptis innumerabilibus subjectis operariis; e di queste nostre manifatture, dice quell'autore, che ne somministravano a tutta l'Italia non solo, ma se ne trasportavano per sino ai Tartari ed ai Saraceni. Questa manifattura, di cui troviamo la materia ne' monti vicini, si mantenne per molto tempo in Milano, e vediamo nell'estratto fatto poi, all'occasione del censo, dai libri delle gabelle dell'anno 1580, che si considerarono, dal ragionato dall'estimo Barnaba Pigliasco, da Milano trasportate agli esteri: armature di cavalli N. 100, a lire 55. 10, lire 5650; armature di fante N. 390, a lire 33. 15, lire 13,162. 10. Il Fiamma pure ci attesta che le nostre razze de' cavalli erano della maggiore altezza e forza; e tali dovevano appunto ricercarsi nel secolo in cui dovevano portare alla guerra gli uomini tutti coperti di ferro, e talvolta gli arnesi istessi del cavallo erano del metallo medesimo, per assicurarlo dalle ferite. De' cavalli nostri ne facevano [58] smercio assai nella Francia, a quanto ci attesta quell'autore contemporaneo; e tale era probabilmente il frutto dell'irrigazione estesa, e de' nostri prati. Oltre questi due articoli di commercio, erari già piantata l'industria del lanificio in Milano ai tempi di Luchino e di Giovanni Visconti; e il Fiamma dice de' nostri mercanti:[83] Ipsi enim mercatores discurrunt per Franciam, Flandriam, Angliam ementes lanam subtilem, ex qua in hac civitate texuntur panni subtiles in maxima quantitate, qui tinguntur omni genere tincturarum, qui per totam Italiam deferuntur. Quest'industria del lavoro de' pannilani, la quale crebbe dappoi e formò la ricchezza cospicua di Milano, era già presso di noi conosciuta anche prima del Fiamma, e poco dopo l'epoca di Federico I. Almeno in Como ed in Monza si lavoravano de' pannilani fino dal 1216; poichè nell'antico esemplare degli Statuti di Milano compilati in quell'anno, esemplare che ritrovasi nella biblioteca Ambrosiana, vedonsi tassati i pannilani di Como e di Monza a pagare quattro imperiali per ogni pezza, entrando in Milano. Anche delle tele di cotone e de' lini nostri se ne faceva spaccio, singolarmente in Levante, col mezzo dei Veneziani e de' Genovesi, ch'erano diventati assai ricchi e commercianti; avendo, i primi singolarmente, approfittato moltissimo col trasporto dei crocesignati, colla somministrazione de' viveri alle Crociate, allorchè prudentemente tranquilli, in mezzo alla fermentazione universale colsero l'occasione d'impratichirsi del mare e de' porti del Levante, onde si resero arbitri del commercio d'Europa coll'Asia; la qual ricchezza si sparse anche sopra di noi ed animò la nostra industria. Nè i soli cavalli, le armature, e i pannilani e i pannilini erano i capi del nostro commercio utile cogli esteri. Sino da' primi anni del secolo decimoquarto eranvi da noi degli artefici che fabbricavano anche drappi di seta; e Niccolò [59] Tegrimo, nella vita di Castruccio Antelminelli, ci narra che, avendo Castruccio ed Uguccione della Fagiuola occupato Lucca l'anno 1314, i fabbricatori di drappi di seta vennero a rifugiarsi in Milano[84]. La seta allora era sommamente cara; e un drappo di seta si valutava lire venti d'allora la libbra; e ognuno sa che la lira d'allora era quasi due terzi d'un fiorino d'oro, ossia gigliato, che correva per trentadue soldi; così che la libbra di seta costava dodici gigliati e mezzo. Facilmente pure ognuno comprende quanto maggior pregio in que' tempi dovesse aver l'oro, che nei secoli a noi più vicini è diventato assai più abbondante, per i paesi scoperti, per le nuove miniere scavate, e per la comunicazione del vasto commercio aperta fra tutti i popoli conosciuti della terra.

Della popolazione di Milano ce ne ha lasciato memoria Buonvicino da Ripa verso l'anno 1288. Quell'autore vivente dice che v'erano tredicimila porte di case, seimila pozzi, quattrocento forni per cuocere pane, e mille taverne di vino, cento cinquanta alberghi pei forestieri, tremila ruote da mulino, e seimila giumenti che portavano la farina nella città; in cui dice ch'eranvi ducentomila abitanti, fra i quali quarantamila atti alle armi; che si mangiavano ogni giorno in Milano mille e ducento moggia di farina; che entravano ogni anno nella città cinquantamila carri di legna, ducentomila carri di fieno e seimila carri di vino, e si consumavano di sale in Milano staia seimilacinquecento. Questa descrizione facilmente si conosce che non merita fede. Seimila giumenti impiegati a portare mille e ducento moggia di farina al giorno sono incompatibili, mentre un moggio lo porta sulle spalle un villano robusto. Quarantamila uomini atti alle armi sono pure una cosa sconnessa. La popolazione di ducentomila abitanti, suppongasi metà di uomini e metà di donne; dagli uomini si deducano i bambini, i fanciulli ed i vecchi; non rimarranno quarantamila uomini atti alle armi. Seimila carri di vino, suppongasi portar ciascuno dieci brente, saranno sessantamila [60] brente di vino che entravano in città per uso di ducentomila abitanti: ora centoventimila, quanti abitano in Milano, consumano più del quadruplo. Anche le staia seimila e cinquecento di sale sarebbero proporzionate alla popolazione di ventiseimila abitatori, e non mai di dugentomila. Poca e nessuna fede merita quella relazione fatta da un uomo che descrive diciotto laghi e sessanta fiumi abbondantissimi di pesci nel contorno di Milano. Abbenchè consideriamo ragionevolmente come scritti piuttosto a caso quei numeri, che per vera cognizione, difficile assai ad aversi in que' tempi, egli è però assai probabile che fosse numerosa la popolazione d'una città alla quale dovevano, come a residenza e a dominante, ricorrere, al tempo di Giovanni arcivescovo, i cittadini di diciotto città del contorno. Petrarca la qualificò, siccome vedemmo, populi frequentia gloriantem; e Pietro Azario, che viveva mentre la pestilenza del 1361 devastò Milano, asserisce che in Milano perirono per quella sciagura settantacinquemila abitatori; il che può verosimilmente farci credere ch'essi fossero più di centocinquantamila. Nè è difficile il concepire come una popolazione maggiore dell'attuale fosse contenuta entro di una città di un recinto più angusto di quanto ora lo sia: poichè sappiamo che tutte le case nobili e vaste sono state formate colla incorporazione di più e più case piccole; che molti monasteri e conventi e chiese sono piantate oggidì in luoghi che servivano allora all'abitazione del popolo; e che finalmente il lusso di abitare per pompa uno spazio vasto di luogo, e il conservare signorilmente un buon numero di stanze, al solo uso che siano trascorse da chi ci viene a visitare, prima che ci ritrovi, non era il lusso di quel secolo nè di questa popolata città. Nel principio del secolo decimoterzo v'erano in tutto in Milano tredici monasteri, sei di frati e sette di suore[85].

Il governo civile di que' tempi era una vera dominazione di un solo, con qualche apparenza di repubblica; poichè il consiglio degli ottocento, che poi a' tempi di Luchino diventò, [61] non saprei come, di novecento, di tempo in tempo si radunò, sino verso la fine del secolo decimoquarto. Ma le deliberazioni che si pretendevano, non erano altro che giuramenti di fedeltà, acclamazioni al nuovo signore, e convalidazioni del sistema monarchico. Questi consiglieri, che non erano a vita, ma bensì trascelti per rappresentare la città in occasioni passeggiere, non erano altrimenti nominati dal popolo; ma originariamente traevano la loro commissione dalla nomina del principe o del suo ministro; onde quel consiglio era, siccome anche di sopra ho accennato, una mera popolare illusione, che rappresentava una apparente libertà. Verso la metà del secolo decimoquarto si creò il vicario di provvisione, che presedeva ai dodici. Vicario significava lo stesso che vicegerente, ossia luogotenente; un ministro insomma che teneva il luogo e faceva le parti del sovrano. Quel tribunale nella sua origine non fu un dicastero civico, ma bensì fu un tribunale eletto dal sovrano; al quale era commessa la percezione e direzion de' tributi, la cura dell'abbondanza, e la vigilanza sopra i giudici della città, per modo che sembra fosse questo allora il solo dicastero che si radunava in Milano, e avesse riunite le separate cure che oggidì occupano il senato, il magistrato camerale e il tribunale di Provvisione medesimo[86]. Ora questo tribunale di Provvisione, poichè fu consolidata la signoria dei Visconti, eleggeva ei medesimo i novecento consiglieri, ogniqualvolta occorresse di avvalorare con questa formalità il volere del sovrano; di che ce ne serve di prova l'antico registro della città segnato num.º 1, ove, alla pag. 107, si legge:[87] MCCCLXXXVIII, die XXII Julii. Per dominos vicarium et XII Provixionum Comunis Mediolani et sindicos dicti Comunis electi fuerunt infrascripti cives Mediolani, qui sunt et esse intelliguntur consilium DCCCC Comunis Mediolani.

[62]

La politica de' nuovi principi tendeva ad allontanare, siccome dissi, il popolo dal mestiero della guerra, la quale sempre più si andava facendo, per mezzo di stipendiati forestieri. Così nacquero le compagnie di avventurieri, che si vendeano da' loro capi ora ad un principe, ora ad un'altro; e così pure alcuni capi di tali sgherri si resero formidabili ai sovrani medesimi, e giunsero ad acquistare per loro conto degli Stati, come fra gli altri avvenne alla casa Sforza. Conseguenza di un tal sistema era l'accrescimento de' tributi per aver mezzi onde stipendiare quegli estranei, ai quali si commetteva la difesa dello Stato. Oltre il catasto generale de' fondi (che si fece, siccome vedemmo, verso la metà del secolo decimoterzo, e sul quale s'incominciarono a ripartire i carichi pubblici, che prima si distribuivano per capitazione, ovvero sulla stima annua de' frutti raccolti) s'instituì la privativa della vendita del sale, di cui la più antica memoria che abbiamo ce la riferisce il Corio all'anno 1272. In un trattato fra il re Roberto di Napoli e i fuorusciti milanesi del partito de' Torriani, promise il re che egli non avrebbe guadagnato nella vendita del sale se non venti soldi papali per ogni moggio, e ciò per il sale comune; il bianco però e raffinato era libero a lui il venderlo come più gli fosse piaciuto. Questo trattato si fece l'anno 1312. Venti soldi papali del secolo decimoquarto valevano, secondo il calcolo del Muratori, ventiquattro paoli[88]. Il moggio è di staia settanta; e, ciò posto, la gabella si riduceva a cinque soldi de' nostri per ogni staio di sale; così che a un dipresso allora prometteva di venderlo al valore che oggidì corrisponderebbe a soldi quaranta per ogni staio. Per un trattato di commercio che si fece fra i Milanesi ed i Veneziani l'anno 1317, segnalo il giorno 30 d'agosto in Venezia, i Veneziani si obbligarono a dare a quegli il sal marino, e i milanesi si obbligarono a prenderlo tutto da essi, ed a non spanderlo nè sul Comasco nè sul Veneto. A noi rimase però la libertà di venderlo poi agli abitatori delle Alpi. Questo pregievole monumento ritrovasi in un [63] antico codice MS. presso del signor marchese Giovanni Corrado Olivera, signore venerabile per l'integrità e beneficenza, più ancora che per i luminosi titoli e la presidenza del senato. Sono già più di quattro secoli e mezzo da che prendiamo i sali da Venezia, e li vendiamo agli Svizzeri e Grigioni. Al tempo di Luchino, la gabella del sale della città di Milano e del contado gli fruttava tremila fiorini d'oro[89]; presentemente se ne ricava cinquanta volte altrettanto. È vero che l'oro allora aveva notabilmente più di valore che ora non ha, dopo l'abbondanza che ne hanno prodotte le nuove miniere e il commercio, siccome torno a ricordare. Non abbiamo notizie bastanti di quei tempi per indicare i positivi prezzi ai quali siasi venduto il sale alle gabelle. Sappiamo però dai registri civici esaminati dall'instancabile conte Giulini, che verso la fine del secolo decimoquarto si vendeva a soldi cinquanta lo staio; prezzo veramente gravoso, poichè il fiorino d'oro correva a soldi trentadue[90]. Il carico poi della macina alle porte di Milano erasi imposto sino dell'anno 1333, come ce ne fa fede una carta dell'archivio dello spedal maggiore, esaminata dal conte Giulini[91]. La gabella della Dovana eravi pure già verso la fine del medesimo secolo decimoquarto[92]; poichè vi è il decreto che dice:[93] cum etiam per datiarios Dovanae bestiarum grossarum et minutarum dicti vestri comitatus fiant diversimodae extorsiones: così faceva scrivere latino il signor di Milano l'anno 1381, dopo il lungo soggiorno fatto in questa città da Francesco Petrarca! Si vede che sino da quel tempo s'era introdotta l'usanza d'affittare le regalie, o, per dir meglio, la pace, la sicurezza e la libertà del popolo ad un impresario:[94] volumus bene quod incantatoribus [64] datiorum dicti nostri Comunis serventur eorum data[95]. Era riserbato al glorioso regno dell'augusta Maria Teresa di atterrare quest'obice, che divise i contributori dal principe per quattro secoli. Il carico Datium imbottaturae vini, cioè l'imbottato, eravi già anticamente, ma si pagava soltanto sul vino raccolto; indi l'anno 1392 vennero assoggettati a questo tributo anche i grani[96]. Chi ne cercasse più esatte prove, le troverebbe presso il conte Giulini[97]. Il carico poi sulle merci si andava proporzionatamente accrescendo; mentre laddove questo era tassato, nel principio del secolo decimoterzo, in proporzione del valore, a poco più dell'uno per cento, come si vede nella tariffa annessa agli statuti compilati nel 1216; nell'anno poi 1333 il carico era asceso a un soldo per ogni lira di valore, il che monta al cinque per cento, come leggesi nel codice MS, del nominato signor marchese Corrado Olivera, presidente onoratissimo del senato. Da un verosimile calcolo preso in massa, oggidì questo tributo corrisponde circa al sei per cento del valore. Oltre questi carichi, v'era la tassa de' cavalli, imposta verosimilmente l'anno 1315, per mantenere le paghe della cavalleria. V'erano le condanne pecuniarie de' delitti, emanazione ancora vigente delle leggi longobarde. V'erano altre antiche gabelle sulle case, su i forni, sopra i mulini, i macelli, i contratti, le misure, i pesi ed altre delle quali ho fatto menzione al capitolo ottavo.

La grandezza dell'arcivescovo e del clero milanese scomparve colla soggezione da Roma, e coll'erezione del principato. Non vi è memoria che, dopo la metà del secolo duodecimo, siansi mai chiamati i nostri ordinari,[98] sanctae mediolanensis ecclesiae cardinales, come facevano per lo passato. Essi però, sino dal secolo decimoterzo, portavano la porpora; e questa distinzione, che tuttavia conservano, è antica per lo meno cinque secoli. In que' tempi però assai liberamente vestivansi gli ecclesiastici, ed eran ben [65] lontani da quella edificante uniformità e modestia che ora gli distingue. Manfredo Occhibianchi, canonico di Sant'Ambrogio, fece un testamento il giorno 18 marzo, l'anno 1203, che si conserva nell'archivio di quella basilica, e di cui parla il conte Giulini[99], e lascia[100] manstrucam unam conilii, cohopertam de violato, et alias duas..... scilicet unam volpinam, cohopertam de scalfanio, et aliam de flanchitis, cohopertam de sagia bruna, et...... capellum meum grisum, cohopertum de sagia nigra, et cohopertorium meum, et scradam seu diproidam meam... cappam meam blavetam........ cappam meam de mantellato... quinque coclearia argenti, et mantellum meum foderatum de zendado..... vestitum violatum meum. Da ciò osserviamo che di tutte le vesti, nulla v'era di nero fuori del cappello, voce che di già si era inventata per dinotare quelle berrette che allora si ponevano sul capo; ma tutti i vestiti di quell'ecclesiastico erano di colore violato, ceruleo o bruno. La parola blavetam sembra nata dal teutonico blau ossia bleu, come noi Lombardi anche oggidì nominiamo quel colore, similmente ai Francesi. I cucchiai d'argento si vede che già erano in uso. Nè gli ecclesiastici si vestivano tampoco con colori modesti, poichè, l'anno 1211, l'arcivescovo Gherardo da Sessa fece un editto in cui leggesi:[101] Universis praeterea clericis interdicimus vestes rubeas, [66] vel diversi, coloris gialdas et virides[102]; la quale proibizione non bastò a togliere tale usanza degli ecclesiastici; poichè in un concilio provinciale tenutosi un secolo dopo di ciò, nuovamente si dovette stabilire che gli ecclesiastici non portassero[103] vestes virgulatas, seu de catabriato dimidiatas, vel listatas, vel frixis, vel maspilis argenteis, vel de metallo aliquo, e non dovessero portare cappucci a modo dei secolari,[104] ad modum laicorum capucia non habentes[105].

Nella guerra i militi erano tutti coperti di ferro, e, calata la visiera, non si potevano conoscere se non dal pennacchio o altra insegna. Filippone, conte di Langosco, poichè ebbe in suo potere il cimiero di Marco Visconti, si presentò co' suoi alle porte di Vercelli, le quali (credendolo Marco i Vercellesi) gli vennero aperte; e con tale astuzia se ne impadronì l'anno 1312. Nella più antica compilazione de' nostri Statuti, fatta, come ho detto, nel 1216, vi si legge la rubrica de' duelli. Si combatteva o in persona, ovvero un campione si batteva per altrui commissione. Si celebrava la messa in presenza de' due combattenti, si deponevano le armi presso dell'altare, il sacerdote le benediceva, indi venivano sigillate e venivano portate al luogo della lizza, ove sedeva il giudice. Ivi si presentavano i due combattenti coi loro patrocinatori. Interrogavano questi il giudice s'egli ivi risedesse affine di giudicare la lite col duello, e il giudice rispondeva che appunto ivi a tal fine si era collocato. Il patrocinatore del pretendente ad alta voce chiedeva la cosa per cui doveva farsi il duello; e ad alta voce il patrocinatore opposto lo negava. Indi s'accostavano i due combattenti al giudice; e ciascuno di essi con giuramento affermava essere vero e giusto ciò che dal suo patrocinatore erasi detto. Il giudice poi faceva che giurassero entrambi, che non si presentavano al cimento con alcuna forza d'erbe [67] di parole o di maleficio; il che fatto, davansi loro lo scudo e le armi. Questa cerimonia a un di presso così facevasi in tutta l'Europa in quel secolo. V'erano ancora altri giudizj di Dio; quello del ferro rovente da portarsi nella mano nuda non era permesso in Milano:[106] illud autem scire opportet quod ferventis ferri judicium in nostra civitate non admittitur, licet in quibusdam locis jurisdictionis dominis archiepiscopi secus obtineat; così nei nostri Statuti di quei tempi. Bensì era ammesso il giudizio di Dio coll'acqua fredda, e questo da noi non era punto crudele; poichè si prendeva un fanciullo, e con una fune, senza pericolo, si tuffava nell'acqua, e immergendosi il fanciullo, che tosto s'estraea, il reo era assoluto.

Finalmente vorrei poter dare un'idea della coltura nostra verso quell'età, ma le notizie non erano copiose in nessuna parte dell'Europa. Avemmo un medico che compose le pandette della medicina, dedicate al re di Napoli Roberto. Questi si chiamava Matteo Silvatico, milanese, che scrisse l'anno 1317. Quel libro si stampò a Venezia l'anno 1498. Un altro milanese ebbe nome presso dei giusperiti, cioè Signorollo Omodeo, le opere del quale non sono ignote ai forensi. Ma di bella letteratura non ne abbiamo vestigio alcuno. Uno dei più antichi poeti italiani fu Pietro da Bescapè, nostro milanese. Egli scrisse i suoi versi nell'anno 1264, nel quale pretese di tradurre in poesia la storia del Vecchio testamento. L'autore così comincia:

«Como Deo a facto lo mondo,

E como la terra fo lo homo formo.

Cum el descendè de cel in terra

In la Vergine Regal polzella,

E cum el sostenè passion

Per nostra grande salvation,

E cum verà el dì del ira

La o sarà la grande roina

[68]

Al peccator darà grameza

Lo justo avrà grande alegreza,

Ben è raxon ke l'omo intenda

De que traita sta legenda».

Il fine di questo canto, poema o diceria, qualunque si voglia chiamare, è ancora più rozzo del principio, e così termina:

«Petro de Bescapè, ke era un Fanton,

Si a facto sto sermon,

Si il compilò e si la scripto.

Ad onor de Ihu Xpo

In mille duxento sexanta quattro

Questo libro si fo facto,

Et de junio si era lo premier dì

Quando questo libro se finì,

Et era in seconda diction

In un venerdì abbassando lo sol».

L'antico manoscritto trovasi nella scelta libreria del signor conte Archinto. Non più felice del Bescapè fu il nostro frate Bonvicino da Ripa, i di cui poveri versi si trovano nella Biblioteca Ambrosiana, fra i quali vedesi che fino dall'anno 1291 si conoscevano quei versi che nei tempi a noi vicini si chiamarono Martelliani. Frate Bonvicino con tal metro compose le Zinquanta cortesie da Tavola, le quali così cominciano:

«Fra Bon Vexin da Riva, che sta in Borgo Legnano,

D'le cortexie da descho ne dixette primano:

D'le cortexie cinquanta che s'de osservare a descho

Fra Bon Vexin da Riva ne parla mo de frescho.»

Costoro scrissero prima che Francesco Petrarca dimorasse in Milano; ma certo Galliano scriveva l'anno 1391; e ne conservano l'antico MS. i monaci di Sant'Ambrogio. Costui non lesse mai le dolci e sensibili rime del Petrarca; nè [69] pose mai il piede nel suo Linterno; così questo rozzo scrittore terminò la sua cantilena:

«E se di chi l'ha facta alcun se lagna

Digli che sta alla Pietra Cagna

in Milano

E facta sotto l'anno MCCCLXXXX.uno

Indictione quarta decima

Per man d'uno

Che non decima denari

Perchè gli sono sì selvaggi e contrari

Che non se ponno domesticare

Ne stare con lui

A dirlo contra vui

El se giama dalla Terra che fronteggia Cantu».

Queste sono le sole reliquie che siano da quei tempi trapassate alla cognizione nostra; e ben a ragione il signor abate Paolo Frisi, che ci vantiamo d'aver per concittadino, e che mi onora colla sua amicizia, nell'Elogio del Cavalieri, sul proposito della venuta a Milano del Petrarca e dello stato delle lettere milanesi in que' tempi, così s'esprime: «I tempi dell'antica anarchia, le guerre intestine ed estere del principato, la fiera e bellicosa indole dei nostri principi, avevano lasciato appena qualche adito tranquillo e libero agli studi della pace... que' semi esotici non trovando il terreno bastantemente preparato a riceverli, non allignarono molto sotto del nuovo cielo. Non vi si videro spuntare per molto tempo che informi compilazioni, popolari leggende, storie non ragionate, prose snervate e languide, poesie che di poetico non avevano altro che il metro e la desinenza delle parole, ec.»

[70]

CAPITOLO XIII. Della signoria dei tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo Visconti.

Nella successione de' Visconti non si vede seguita una legge costante. Matteo I aveva quattro figli: dopo la di lui morte restò unico signore Galeazzo I, a cui successe Azzone di lui figlio. Pareva adunque il principato ereditarsi dal primogenito. Ma dopo di Azzone, morto senza figli, la signoria passò a' due fratelli Luchino e Giovanni, senza che i figli di Stefano vi avessero parte; i quali pure avrebbero dovuto possedere l'eredità paterna, se lo Stato fosse un bene divisibile. In fatti, morto Giovanni, i tre soli discendenti di Matteo riconosciuti legittimi, cioè Matteo, Barnabò e Galeazzo, figli di Stefano, diventarono padroni e si divisero lo Stato. Non vi erano in que' tempi idee chiare di gius pubblico. Il principato era un podere, non una dignità instituita per il bene dello Stato. Tutto il bene che un sovrano faceva al suo popolo non era considerato allora come il più sacro dovere adempiuto, ma bensì come un'accidentale beneficenza d'un animo generoso. Terminata che fu la vita di Giovanni, la divisione si fece di comune accordo fra i tre fratelli. A Matteo toccarono le città che s'inoltrano nell'Italia, a Barnabò la provincia che s'accosta a Venezia, ed a Galeazzo toccarono le terre che ora sono appartenenti al Piemonte. Milano e Genova rimasero indivise sotto la comune dominazione. Matteo così ebbe in sua separata porzione Bobbio, Lodi, Piacenza, Parma e Bologna. Barnabò ebbe Cremona, Crema, Bergamo e Brescia. Toccarono a Galeazzo Pavia, Alessandria, Tortona, Novara, Vigevano, Asti, Vercelli; e Como, che rimaneva come isolata, [71] fa pure assegnata a Galeazzo. Con tal modo altro non mancava se non la dissensione o diffidenza per distruggere una signoria ragguardevolissima. Ma nelle cose umane comunemente accade che nè si ottenga tutto il bene che ragionevolmente si poteva sperare, nè si soffrano tutt'i mali che con ragione si dovevano prevedere; e talvolta le più scomposte ed assurde organizzazioni di sistemi, le quali pareva che dovessero rovinare uno Stato, si sono ridotte ad effetto, senza che per ciò siane accaduto il danno che compariva inevitabile: poichè nell'esecuzione, gl'interessi degli uomini che vi si adoperano, essendo quelli d'evitare la rovina, rimediano e correggono l'imperfezione del sistema. Così lo Stato si conservò, crebbe anzi, come vedremo, e potè lusingarsi il successore de' tre fratelli d'essere dichiarato re d'Italia; e forse lo sarebbe stato, se la morte non troncava il filo della di lui ambizione.

Lodovico il Bavaro, ossia Lodovico V, quel contrastato imperatore, avea terminato i suoi giorni, ed era stato eletto legittimamente imperatore Carlo IV, marchese di Moravia, figlio di Giovanni re di Boemia, e di Elisabetta, che era figlia di Enrico di Lucemburgo. Carlo IV era riconosciuto e dai principi della Germania e dal papa e da tutta l'Europa, come vero re de' Romani. La di lui elezione era accaduta l'anno 1347, e in quel punto le dispute già da trentanni incominciate fra il sacerdozio e l'Impero erano terminate. Carlo IV se ne venne in Italia per ricevere le due corone del regno italico e dell'impero romano. I principi d'Italia, che temevano la potenza de' Visconti, non mancarono di profittare dell'occasione, e d'animare quell'augusto ad abbatterla, promettendogli ogni aiuto e vantaggio. Ma sia che a Carlo premesse maggiormente l'acquisto del denaro per sè medesimo, anzi che la difesa di quella autorità che per caso era annessa alla persona di lui; sia che l'esempio de' suoi antecessori l'avesse istrutto a non adoperare la forza delle armi ausiliarie, per non correre ei pure il pericolo di vedersi abbandonato da' suoi, prima di avere ridotti i progetti a fine; sia che le forze dei Visconti fossero tali da non lasciargli sperare un buon [72] esito; sia finalmente che il genio mite e rivolto alle lettere di quel re lo distogliesse da simile briga, certo è ch'egli allora si mostrò anzi amico dei Visconti. I fratelli Visconti mandarongli incontro i loro ambasciatori a Mantova, invitandolo a passare a Milano e ricevervi la corona; e il re accettò l'invito. Appena Carlo IV si trovò sulle terre dei Visconti, non dovette aver più pensiero alcuno; poichè ogni cosa eravi magnificamente preparata per alloggio, ristoro e trasporto di quell'augusto e di tutta la corte che veniva seco. I Visconti non risparmiarono nè spesa, nè attenzione. A Lodi se gli presentò Galeazzo, e, resogli omaggio, lo accompagnò con cinquecento militi alla vòlta di Milano. A Chiaravalle gli andò incontro Barnabò con altri militi, e fece dono al re di trenta superbi cavalli, coperti di velluto, di scarlatto e di drappi di seta, tutti in ricco e magnifico arnese. (1355) Entrò in Milano quel Cesare il giorno 4 di gennaio dell'anno 1355; e venne da tutto il popolo festosamente accolto con rumore di nacchere, cornamuse, tamburi e trombe, siccome allora era il costume. Venne splendidamente alloggiato nel palazzo ora della regia ducal corte, dove avevano presa dimora i suoi antecessori Enrico VII, che noi diciamo VI, suo avo materno, e il combattuto Lodovico V. Non vi è dimostrazione di rispetto e di benevolenza che i Visconti abbiano dimenticata. Protestarono di riconoscere la loro signoria dall'Impero: e l'imperatore, al quale regalarono duecentomila fiorini d'oro, dichiarò i tre fratelli vicari imperiali ne' loro Stati. Si fecero giostre, feste e corti bandite per onorare l'augusto ospite, fra le pompe che i Visconti immaginarono in quella occasione, una singolarmente fu significante; e fu quella di passare schierati sotto le finestre di corte, ove alloggiava l'imperatore, seimila uomini a cavallo, signorilmente equipaggiati, e diecimila fanti; e i Visconti dissero a quel monarca che quelle forze e le altre molte che tenevano nelle altre città del loro Stato, erano tutte pronte per servigio suo. Per que' tempi erano queste forze di molta considerazione. La cerimonia della incoronazione si celebrò in Sant'Ambrogio dall'arcivescovo Roberto Visconti, il [73] giorno 6 di gennaio: e in quell'occasione il re Carlo creò milite il figlio di Galeazzo, cioè Giovanni Galeazzo, bambino di due anni. Questo bambino fu poi il primo duca, e diventò un potentissimo principe, come vedremo. Alcuni giorni dopo partì il re Carlo, e s'incamminò alla vôlta di Roma. Pretende Matteo Villani che questo re non fosse stato nelle mani dei Visconti senza inquietudine. Sarebbe questa una prova della pusillanimità di quel principe, giacchè non potevano sperare alcun vantaggio i Visconti nè da un affronto, nè da un tradimento che gli facessero, allorchè era abbandonato nelle loro mani.

Prima che terminasse l'anno, il triumvirato fu tolto, e colla improvvisa morte di Matteo II lo Stato si divise in due sole parti fra Barnabò e Galeazzo II. Matteo II aveva molto vigor fisico e poca forza di mente. Dopo ch'egli ebbe in sua porzione Bologna, la perdette, per aver cercato di scemare lo stipendio a quei che potevano soli conservargliela. Matteo operava in modo da perdere la signoria, e trascinar seco in rovina anco i fratelli; poichè, diventato padrone, cercava di possedere per autorità e senza mistero quello che tutt'al più si carpisce industriosamente fra le tenebre. Egli giunse a minacciar la morte ad un cittadino ammogliato con una bellissima donna, perchè contrastava di cedergli i suoi diritti. Questi presentossi a Barnabò chiedendo giustizia, e dichiarandosi con molto impeto di esser pronto a morire, anzi che acconsentire a tanta infamia. Barnabò lo accolse con freddezza ed indifferenza; poichè, trattandosi del suo maggior fratello, a lui, disse, non toccava il correggerlo: poi concertato l'affare con Galeazzo II, vedendo che Matteo era incorreggibile nella scostumatezza, che già serpeggiavano nel popolo delle sorde e tronche voci, e che correvasi rischio, temporeggiando e lasciando moltiplicare gl'insulti, di vedere lo Stato in rivoluzione, per evitare il fatto de' Tarquini, divennero fratricidi come Romolo; almeno così ci racconta Matteo Villani[107]. Si dice altresì che a questo timore un altro vi si [74] accoppiasse per unire o indurre a tale estrema risoluzione i due cadetti Barnabò e Galeazzo, e fu che, trovandosi i tre fratelli insieme cavalcando, nell'osservare il fecondo e ridente paese del quale erano signori, uno de' cadetti dicesse che era pure la bella cosa l'esservi sovrani; e che incautamente allora al primogenito fuggisse di bocca, che bella cosa era l'esser solo; la quale risposta (non essendovi stato prima d'allora altro esempio di signoria promiscua veramente, meno poi di signoria divisa) doveva dar molto da temere ai due principi minori. Qualunque ne fosse la cagione, Matteo II morì il giorno 26 di settembre dell'anno 1355; e Barnabò e Galeazzo si divisero la di lui porzione. Anche Milano venne divisa: Barnabò ebbe la parte d'oriente e mezzodì; l'aquilone e l'occidente della città l'ebbe Galeazzo. V'ha chi pretende altresì che nessun altro motivo vi fosse stato per escludere dalla successione Luchino Novello, e farlo comparire illegittimo, fuori che le minacce e le brighe di Barnabò e Galeazzo, colle quali intimorissero la Fieschi, già colpevole della licenziosa peregrinazione non solo, quant'anche del veneficio, e la inducessero a dichiarare il figlio macchiato nella sua origine, e a contentarsi d'uscire illesa dalle loro mani; onde l'essere vivo il legittimo successore sempre più rendesse sospettosi e Barnabò e Galeazzo II. Fors'anco la divisione dello Stato mostra ch'essi piuttosto si divisero una preda. Non sono divisibili le sovranità passate per legittima successione.

Carlo IV, dopo di essere stato incoronato anche in Roma, se ne ritornò al suo paese; ma non per questo cessarono gli emuli principi d'Italia di eccitare per ogni modo l'animo di quell'augusto a deprimere i Visconti. (1356) I maneggi degli Estensi, dei Gonzaghi e del marchese di Monferrato indussero Marquardo, vescovo d'Ausburgo, il quale stavasene in Pisa col carattere di vicario imperiale, a citare i fratelli Visconti per il giorno 11 di ottobre 1356 a comparire dinanzi al suo tribunale e discolparsi d'aver conferite con arrogata facoltà le dignità ecclesiastiche, di aver tessute all'imperatore delle insidie a Pisa, e di aver [75] fatte chiudere le porte delle città, impedendovi l'ingresso al medesimo imperatore nel suo ritorno da Roma[108]. I due fratelli Visconti non pensarono nemmeno a questo viaggio. Il vescovo Marquardo radunò le forze degli emuli: e si pose alla testa di un corpo d'armati rispettabile, incamminandosi verso Milano. S'impadronì di varie città; poichè i Visconti o non avevano preveduta una tale invasione, ovvero avevano negligentate le difese. La stessa campagna di Milano venne esposta alle prede ed ai guasti de' nemici. Si postarono gl'imperiali ne' contorni di Casorate; e i due fratelli finalmente, radunate le loro forze, ne confidarono il comando al vecchio Lodrisio Visconti; a quel Lodrisio che, diciasette anni prima, colle armi alla mano, venne preso a Parabiago, allorchè cercava di togliere la sovranità ad Azzone. Il valore di Lodrisio e la sua perizia produssero la vittoria del giorno 14 di novembre l'anno 1356. I nemici vennero disfatti a Casorate; il vescovo Marquardo d'Ausburgo, loro comandante, rimase prigioniero, fu condotto decorosamente a Milano, e dai Visconti fu poi licenziato, onde ritornossene nella Germania. Lodrisio Visconti ricompensò per tal modo la vita che gli lasciò Azzone, e la libertà che gli diede Giovanni, principi illuminati, i quali conobbero che un generoso perdono ci affeziona più di qualunque altro beneficio un'anima nobilmente energica. I Visconti, signori quasi tutti assai valorosi, affrontarono intrepidamente i pericoli prima che reggessero lo Stato; seduti poi che erano sul trono, ben rare volte si esponevano; ma affidavano anzi ai loro figli o cugini ed altri estranei il comando. La sconfitta di Casorate però non tolse la speranza ai collegati, dai quali non si risparmiavano maneggi. Il papa non vedeva punto con indifferenza il gran potere de' Visconti, e soprattutto da che Bologna era un oggetto delle loro pretensioni; il che ottenendo essi, era aperta loro la strada a nuovi acquisti sulla Romagna. Ai Genovesi non era men gravosa questa estera dominazione sulla loro città, in prima libera, e già illustre per imprese marittime [76] e per ricchezza. Il papa, i Genovesi, gli Estensi, il marchese di Monferrato e i Gonzaghi facevano causa comune. Già Bologna, siccome accennai, si era staccata. Genova fece lo stesso; e il giorno 17 di novembre 1356 si dichiarò libera, e creossi un doge, che fu Simone Boccanegra. (1358) Dopo ciò, seguirono varii piccoli fatti d'armi sul Milanese; ma le cose de' fratelli Visconti non prendevano buona piega; onde furono costretti, cedendo Asti e Pavia al marchese di Monferrato, di cercare la pace, la quale fu stabilita il giorno 8 di giugno dell'anno 1358.

Non era piccol discapito per Barnabò e Galeazzo l'avere, ne' primi quattro anni del loro regno, perduto Bologna, Genova, Asti e Pavia. Questa ultima città singolarmente doveva premere a' due fratelli; poichè a venti miglia di Milano non potevano vedere, senza inquietudine, domiciliata una guarnigione di nemici. Ma nemmeno conveniva mancare apertamente alla fede d'una pace appena giurata, senza una superiorità di forze che ne imponesse alla opinione dei popoli. Le fazioni interne di Pavia fecero quasi spontaneamente nascere l'occasione, e Galeazzo Visconti la seppe cogliere. Il fatto ce lo riferisce l'Azario. Il marchese di Monferrato, nuovo signore di Pavia, non aveva forza d'armi bastante per esercitarvi una piena sovranità. La famiglia de' signori Beccaria era assai potente, e disponeva delle cose della città più che non ne potesse fare il marchese, nuovo sovrano. Egli cercò pure come abbassare i Beccaria, e toglier loro quel favore popolare che li faceva prevalere, e gli venne in pensiere che nessun altro avrebbe meglio potuto ottenergli quest'intento, fuori che frate Giacomo del Bussolari, agostiniano, predicatore rinomatissimo in Pavia, dietro del quale, come a santo uomo, correva ciecamente il popol tutto. Quai mezzi adoperasse il marchese per guadagnarsi questo frate Giacomo de' Bussolari non lo sappiamo: sappiamo bensì ch'egli lo guadagnò, e sì fattamente, che il frate fece passare il popolo pavese, dell'amore passionato che aveva, alla detestazione ed all'odio contro dei Beccaria, per modo che furono costretti a partire esuli dalla patria. Cominciò il frate, nelle sue prediche, a indicarli al [77] popolo, senza però palesemente nominarli:[109] O frumentarii, o viri sanguinum populi, non expectatis diem judicii? Andava costui esclamando, e persuadeva che la carezza del pane fosse cagionata dalla insaziabile avarizia de' fratelli Beccaria:[110] Ipse praedicando fertur propalasse occulta illorum de Beccaria, quae sibi narrata fuerant nomine poenitentiae, et praecipue de domino Castellino talia dixit, quod universum populum pellexit et animavit ad destructionem universorum de Beccaria, et eorum prolis, et progeniei, et amicorum suorum, et ad ruinam, et populationem eorumdem. Et tunc, sine ulla defensione praecedente, universas illorum ac sequacium domos, aedes et palatia dirui fecit, et asportari lapides, et vendi, praedicans quod quisque Papiensis ipsos lapides teneret sub pulvinari, et capite lecti, ad perpetuam memoriam male gestorum per ipsos de Beccaria[111]. Gli esuli Beccaria si rifugiarono a Milano presso Galeazzo, implorando soccorso. È assai probabile che da Galeazzo medesimo fossero stati animati i Beccaria, per attraversare le voglie del loro nuovo sovrano marchese di Monferrato. Galeazzo II spedì Luchino dal Verme, valoroso comandante, alla testa d'un conveniente numero di armati, con apparenza di proteggere gli oppressi e di porre l'ordine in una città vicina tumultuante, sotto un sovrano che non aveva forze bastanti per darle la pace. Fu così [78] bloccata quella città, in cui frate Giacomo comandava dispoticamente, creando e cassando a suo arbitrio i magistrati. A tal proposito io riferirò le stesse parole d'Azario:[112] Nam a carrocio, quo saepius vehebatur (et beatus ille qui poterat tangere id carrocium, pro vehendo palliis cohopertum!) caepit praedicare, et increpare quod homines, et mulieres debebant a laqueis mundanis declinare, nempe a vestibus luxuriosis et sumtuosis, ab argenteis, et gemmis praetiosis, et ornamentis...... et in exequutorem eligi fecit officialem, quem vidi incidendo maniconos guarnazonorum phrigio opere contextos, vel auro, et argento ornatos, et incidendo balthea si quid praetiosi inveniebat circa ea. Nè tale pure era il limite del potere di questo frate Giacomo de' Bussolari. Egli giunse al segno che[113] fecit publicam justitiam per capitis obtruncationem.... Venditis ergo praedictis auro, et argento, gemmis, adamantibus, et lapillis praetiosis usque in Venetiis, radunò una somma destinata a provvedere i viveri alla città. Ma non era facile l'introdurveli, e Luchino dal Verme vegliava intorno da ogni parte. Si cominciò a provare in Pavia la fame, e il frate scorreva per la città nel suo calessetto, gridando al popolo:[114] ne dubitaret de victualibus, quum sciret ipse, ita enim affirmabat, per [79] orationes.... se impetraturum ut manna similis datas Moysi in deserto defluxura esset ad sufficientiam. I Pavesi alla fine, ridotti alla estremità, si diedero a Galeazzo II, al quale avevano già ubbidito; e frate Giacomo de' Bussolari ebbe la cura di capitolare, e provvide a tutto per la città, e nessuna condizione ricercò per sè medesimo:[115] curaverat de aliis, non autem de se ipso, prout semper allegabat praedicando[116]. Il generale del suo Ordine pregò poscia Galeazzo II, dal quale ottenne il frate, che terminò i suoi giorni in carcere. Così Pavia ritornò in potere dei Visconti.

Non così facile riuscì ai Visconti il riavere Bologna; chè anzi, malgrado l'ostinazione e gli sforzi di Barnabò, questi non potè, sin che visse, averla in suo dominio. Una signoria divisa non è nel momento opportuno d'ingrandirsi. Fra Barnabò e Galeazzo II non trovavasi molta armonia; i vizi loro, la maniera di governare atrocemente, non disponevano i popoli a bramare il loro impero. I principi italiani, tanto più attivi e costanti, quanto più speravano di riuscire contro di uno Stato diviso, non risparmiarono arte e forza in ogni occasione; per modo che non v'è da maravigliarsi come sotto i due fratelli non s'ampliasse lo Stato, ma bensì come ei non cadesse in un totale discioglimento. (1360) Bologna era passata nelle mani del papa, e Barnabò vi spinse le sue armi l'anno 1360, ma senza frutto; poichè Innocenzo VI fece venire nell'Italia Lodovico re d'Ungheria, con buon numero di armati, in soccorso di Bologna, e Barnabò dovette ritirarsi. Quel sommo pontefice scomunicò Barnabò Visconti; e Urbano V, che fugli successore, confermò la scomunica con sua bolla[117]. I delitti che s'imputavano in quella bolla a Barnabò Visconti sono: ch'egli proteggesse gli eretici; ch'egli un giorno, avendo fatto chiamare avanti di sè l'arcivescovo, torvamente gli avesse comandato [80] di porsi in ginocchio, il che fattosi dal timido prelato, Barnabò gli dicesse:[118] Nescis, poltrone, quod ego sum papa et imperator ac dominus in omnibus terris meis; ch'egli sugli ecclesiastici esercitasse giurisdizione, obbligandoli a pagare i carichi, facendoli imprigionare, e condannandoli al supplizio, come gli altri cittadini, e che si arrogasse la collazione de' beneficii e l'amministrazione de' beni ecclesiastici. Questa era la settima volta in cui il papa prendeva a scomunicare ed interdire i signori o la città di Milano. Già vedemmo al capitolo quinto gli anatemi pronunziati, nel secolo undecimo, da Alessandro II, all'occasione di sottomettere la chiesa milanese alla giurisdizione di Roma. Vedemmo pure, al capitolo nono, l'interdetto pubblicato sopra Milano da Innocenzo III, l'anno 1216, per fargli abbandonare il partito di Ottone IV; e l'altro interdetto di Urbano IV, di cui ho fatta memoria al capitolo decimo, per abbassare i signori della Torre, nel 1262; poi le scomuniche pronunziate contro Matteo I Visconti, nell'anno 1321, allorchè la potenza di lui cominciava a dar gelosia a Giovanni XXII, di che trattossi al capitolo undecimo. Vedemmo pure come lo stesso sommo pontefice, non contento della scomunica e dell'interdetto sulla città, facesse pubblicare contro Galeazzo I una Crociata, e invadere il di lui Stato. Vedemmo nel capitolo precedente come il papa Clemente VI ponesse all'interdetto la città, e scomunicasse Giovanni Visconti, arcivescovo, e i tre suoi nipoti Matteo, Barnabò e Galeazzo II, perchè aveva l'arcivescovo comprato dal Pepoli il dominio di Bologna. Ora la scomunica cadde sopra Barnabò, il quale era stato già due altre volte anatematizzato di riverbero, come discendente da Matteo e nipote di Giovanni. Il papa, per mezzo d'un cardinal legato, faceva delle proposizioni di accomodamento a Barnabò. Bologna era stata comperata da Giovanni arcivescovo per ducentomila fiorini d'oro. Questo era il solo titolo che poteva Barnabò legittimamente allegare per sostenerne [81] il dominio; e il legato gli offeriva di sborsargli la metà di quella somma, cioè centomila fiorini d'oro, purchè egli abbandonasse le sue pretensioni sopra Bologna. Ma Barnabò non faceva altra risposta se non questa: Voglio Bologna. Nuove offerte faceva il legato, e Barnabò rispondeva sempre: Voglio Bologna. Per deludere tutte le arti d'un uomo colto, ingegnoso ed accorto, basta ch'egli abbia a trattare con un uomo ostinato, ignorante e feroce. Tali erano i dialoghi tra Barnabò ed il legato. Gli Annali Milanesi e' insegnano che[119] ipse dominus diebus suis scientificos laicos, clericos, et praelatos, ac quoslibet virtuosos viros odio habuit; et idiotas, crudeles, abjectos viros, infames et homicidas semper sublimavit[120]. Un principe di tal carattere poteva far tremare gli uomini di merito che avevano la sventura di trovarsi con lui, ma non poteva riuscire felicemente ne' suoi progetti. Le sue armi ritornarono verso del Bolognese l'anno 1361, e più d'una volta vennero malamente battute, senza ch'ei punto acquistasse.

Due fatti accaduti in quel tempo dimostrano qual principe fosse Barnabò, e qual rispetto egli avesse pel gius delle genti. Innocenzo VI gli spedì come nunzii due abati benedettini. Essi erano incaricati di trattar seco lui, per terminare la controversia di Bologna, ed avevano le bolle pontificie da presentargli. Ciò accadde nell'anno 1361. Barnabò stavasene nel castello di Marignano, rintanato colà per allontanarsi dalla ferocissima pestilenza che devastava Milano, abbandonata dai due fratelli al caso, e senza adoperare alcuna di quelle precauzioni colle quali Luchino loro zio, nell'anno 1348, cioè tredici anni prima, aveva saputo preservarla, abbenchè allora quella sciagura avesse desolata gran parte dell'Italia. Ivi attese i due nunzi, e concertò [82] la cosa per modo che il primo incontro con essi loro seguisse al ponte sotto cui scorre il fiume Lambro. Barnabò, scortato da una buona caterva d'armati su di quel ponte, ricevè i due nunzi, i quali se gl'inchinarono, e presentarongli le bolle consegnate loro dal papa. Barnabò seriamente si pose a leggerle, indi biecamente mirando i due ministri: «Scegliete, disse, una delle due, o mangiare o bere». I due nunzi, posti in mezzo agli armati, senza scampo, mirando il fiume che scorreva al disotto, costretti dopo replicate e impazienti istanze alla scelta, mostrarono che non piaceva loro di bere: «Ebbene, mangiate dunque», disse il feroce Barnabò; e furono costretti i due venerabili prelati a mangiare la pergamena tutta quanta, il cordoncino di seta e la bolla di piombo[121]. Con tale insulto atroce ardi Barnabò di violare non solamente la riverenza che si deve al sommo sacerdote, ma i doveri che reciprocamente uniscono i principi e le nazioni fra di loro; e persino le sacre leggi d'ospitalità, che impongono, anche agli stessi popoli agresti e selvaggi, di non abusare della condizione d'uno straniero ricoverato in casa nostra. (1363) Uno di questi due abati era Guglielmo da Grimoaldo di San Vittore di Marsiglia, il quale, pochi mesi dopo di quest'obbrobrio, venne creato sommo pontefice, e chiamossi Urbano V. È facile l'immaginarsi quai sentimenti dovesse poi avere Urbano V verso di Barnabò, da cui era stato insultato con tanta soperchieria. Egli, in fatti, con un breve dato di Avignone il giorno 3 di marzo dell'anno 1363, scomunicò solennemente Barnabò; lo dichiarò eretico, decaduto dall'ordine di cavaliere, spogliato d'ogni onore, diritto e privilegio; e comandò che alcuno non osasse più di trattare con lui[122]. Nel breve della scomunica vi eran queste parole:[123] Propterea destruet te Deus in finem, evellet te [83] et emigrabit te de tabernaculo tuo, et radicem tuam de terra viventium[124]. Inoltre, agli 11 di luglio dello stesso anno 1363, dal cardinale Egidio Alburnoz fece pubblicare la Crociata contro Barnabò, come già era stata pubblicata contro suo zio Galeazzo quarant'anni prima; e tale e tanto era in ciò l'impegno del papa, che (quantunque egli venisse istantemente sollecitato e da Pietro re di Cipro, e dal re di Francia medesimo, ad intimare una Crociata contro de' Saraceni, che sempre più si rendevano formidabili ai Cristiani del Levante), egli ricusò di farlo per allora; anzi si protestò ch'ei non avrebbe mai dato mano a Crociata alcuna, sin tanto che non avesse ottenuto esito felice quella giù intimata contro di Barnabò. (1364) Allora però questa Crociata non ebbe effetto; poichè la combinazione degli interessi dei principi gl'indusse ad accordar la pace l'anno 1364, in cui Barnabò cedette Bologna al papa, che s'obbligò a pagargliela cinquecentomila fiorini d'oro[125]. La perdita di Bologna e del Modanese fatta da' Visconti non fu una riparazione bastante al pontefice; poichè con nuova bolla dell'anno 1368, in data 30 maggio, lo stesso papa pubblicò una seconda Crociata contro di Barnabò[126], e fece che lo attaccassero con formidabile esercito l'imperatore, la regina di Napoli, il marchese di Monferrato, gli Estensi, i Gonzaghi, i Malatesti, i Carraresi, i Perugini e i Sanesi collegati insieme coi pontificii. Questo esercito collegato avrebbe svelta dalle radici la sovranità de' Visconti, se non avesse portato seco quel principio di lentore e debolezza, che sono inseparabili dalle armate combinate, ciascuna porzione delle quali, perchè dipendente da un distinto sovrano, si crede la prima di ogni altra, o almeno l'eguale, e si disperde nelle rivalità, che più la tengono occupata di quello non faccia la causa comune. Così potè Barnabò difendersi, e senza nuove perdite ottenere la pace, segnata il giorno 11 febbraio 1369. Nè la morte di Urbano V, che aveva [84] sofferto l'insulto personale, diede costante fine all'odio pontificio: parve anzi che nel successore Gregorio XI venisse trasfuso come un'eredità; poichè Gregorio, l'anno 1372, combinò una nuova lega fra i principi d'Italia, e vedendo che le armi non andavano prosperamente, scomunicò di bel nuovo Barnabò, e liberò i sudditi dal giuramento di fedeltà[127]; poi animò l'imperatore Carlo IV; il quale, con suo diploma dato in Praga il giorno 3 di agosto dello stesso anno 1372, privò i due fratelli Visconti Barnabò e Galeazzo del vicariato imperiale e d'ogni dignità, e Barnabò venne persino degradato dell'ordine equestre[128]. Alle forze degli alleati, per opera del cardinale di Bourge, legato pontificio, si unirono quelle del duca di Savoia; e sebbene nemmeno questa volta l'armata combinata giugnesse a fare conquista sulle terre di Barnabò, ella però potè devastarle, e porre a saccheggio e in rovina una parte del suo Stato. Così la rozza e feroce violazione del gius delle genti produsse a Barnabò delle inquietudini mortali durante il suo regno; e questo è il primo de' due fatti. L'altro fatto si vede originato dall'animo istesso di quel sovrano truce ed ignorante. Sino dall'anno 1362 s'era formata l'alleanza fra il papa, i Carraresi signori di Padova, gli Scaligeri signori di Verona, gli Estensi signori di Ferrara, e un Gonzaga signore di Reggio. Questi principi collegati, prima di commettere ostilità, spedirono i loro ministri a Barnabò, facendogli dire che essi avevano fatto lega col papa, ma unicamente in difesa dello Stato della Chiesa, non mai per invadere gli Stati altrui: onde, qualora il signor Barnabò avesse restituito i luoghi da lui occupati nel Bolognese e nella Romagna, essi non avrebbero mosse le armi contro di lui. Tale era la commissione di que' legati. A questo colto e nobile ufficio Barnabò corrispose nella più villana maniera. Ordinò che i legati venissero a corte; ivi non si degnò di lasciarsi vedere, ma volle che esponessero la loro ambasciata avanti di un notaro; e poichè ebbero [85] ciò eseguito, egli spedì una squadra d'armati e fece attorniare i legati de' principi; indi furono essi dalla forza obbligati a indossarsi alcune vesti bianche preparate apposta per esporli alla derisione della plebe. Vennero poscia costretti, in tal ridicolo arnese, di porsi a cavallo; e per due buone ore volle che in tal meschina e pazza forma rimanessero avanti la porta del palazzo di corte: indi li fece girare per la città, esposti al vilipendio ed alle fischiate della ciurmalia; e con tale infamia vennero scortati poi sino ai confini. Non è dunque da stupirsi che i principi italiani sempre gli fossero poi contrarii, e pronti a secondare contro di lui tutte le proposizioni del papa. Barnabò pensava come l'imperator Federico I, e sarebbe stato nato a proposito, se fosse stato suo contemporaneo e suo nemico. In mezzo alle guerre fra le quali visse, una volta sola Barnabò comparve in campo, e fu l'anno 1363, nel quale si portò sul Modanese alla testa de' suoi. Egli era intrepido, e fu ferito; ma questo non basta per essere un buon capitano: venne sempre battuto. Barnabò era violento, coraggioso e feroce; ma di poco ingegno. Per richiamare intorno di sè i militi sparsi nello Stato, e riparare le perdite che faceva, ei mandò loro ordine che immediatamente si portassero da lui nel Modanese sotto pena della vita. Da questo modo barbaro di comandare minacciando la morte, si deve concludere, o che Barnabò non aveva avuto il talento di scegliere i suoi militi e di formarli, poichè conveniva minacciar loro la morte per indurgli ad accostarsi al nemico, ovvero che Barnabò non aveva il talento di comandare la gente d'onore e sensibile alla gloria, la quale si aliena anzi trattata colle minacce e con viltà. Sempre in quella spedizione Barnabò fu battuto.

Se riguardiamo adunque Barnabò Visconti come principe e signore potente, dobbiamo confessare che egli non meritò stima alcuna, poichè la porzione sulla quale ei regnò venne diminuita colla perdita di Bologna, delle terre del Bolognese, della Romagna e del Modanese, ch'egli aveva ereditate dall'arcivescovo Giovanni. Egli con puerili e feroci insulti animò i suoi nemici, e non ebbe forze abbastanza per difenderlo. [86] Osserviamolo come legislatore del suo popolo e conservatore della felicità pubblica. Egli lasciò che la pestilenza desolasse Milano nel 1361, quella pestilenza alla quale ho attribuita la partenza del Petrarca, se pure anche l'indole del governo non isforzò del pari quell'uomo illuminato a tal partito. Quella sciagura distrusse più di settantamila abitatori di Milano, e fece nelle terre ancora strage molto maggiore. Dopo sì gran flagello, mentre Barnabò stava alla guerra nel Modanese, alcune compagnie d'uomini facinorosi devastavano la città, tormentata dalle violenze, e dalle rapine e da ogni genere di dissolutezza. Ritornato Barnabò per rimediare a simil disordine, pubblicò un editto in cui proibì che alcuno in Milano non potesse andar di notte per le strade, sotto pena del taglio d'un piede. Tanto ci attesta l'Azario, che allora viveva[129]. Un ammalato di notte non poteva più avere soccorso in virtù di tal legge feroce. Barnabò lasciò soffrire ai suoi popoli la carestia negli anni 1364 e 1365, senza trovare modo di soccorrere i suoi sudditi. Questa carestia nacque da un fenomeno fisico che riferirò poi.[130] Attendentes temporum sterilitates, et guerrarum discrimina, dicesi in un decreto di Barnabò dell'anno 1369, nel quale introdusse il costume di mettere alle gride i fondi per assicurare al compratore la proprietà[131]. L'anno 1372, con altro editto comandò Barnabò che nessuno ecclesiastico potesse allontanarsi dal luogo di suo domicilio, senza suo permesso. L'ordine poteva essere necessario, attese le scomuniche e l'assoluzione del giuramento di fedeltà dette di sopra; ma la pena d'essere subito gittati nel fuoco gli ecclesiastici contravventori, è orrenda. Il Corio ci assicura che Barnabò, dopo la pestilenza e la carestia e le perdite dello Stato, «se volse contra de li miseri sudditi che per quatro anni adietro havevano pigliato porci salvatici, et altre selvaticine, [87] onde a molti di loro faceva doppuo grande tormento cavare gli occhi et inde suspendere per la gola, de li quali si riferisce essere ascesi al numero de cento. Assai magiore summa, de le crudele e tyranice mano fugendo, li faceva proscrivere, d'inde gli pigliava ogni suo facultate, et a molti altri habitanti ne le ville, non havendo il modo di satisfare al fisco per le condemnatione, le case sue faceva brusare... due frati Minori, andandogli per reprendere de si inaudita extorsione, sensa alcuno riguardo gli fece brusare, incolpandoli de nuova heresia[132]». Amava Barnabò la caccia singolarmente dei cinghiali, e manteneva un grande numero di cani; come ciò facesse ce lo dice il Corio all'anno medesimo: «teneva cinque milia cani, e la magiore parte de quelli distribuiva ala custodia de li cittadini et anche a contadini, li quali niuno altro cane che quegli puotevano tenere. Questi due volte il mese erano tenuti a fare la mostra, onde trovandoli macri, in grande summa de pecunia erano condennati, e se grassi erano, incolpandoli dil troppo, similmente erano mulctati, se morivano gli pigliava il tutto, e li officiali o caneteri più che pretori de le terre erano temuti». Pietro Azario, che vivea in quei tempi, ci lasciò scritto che certo Antoniolo da Orta, ufficiale in Bergamo, venne accusato presso di Barnabò di avere esatte delle propine arbitrarie nello spedire certe licenze. L'accusatore era un solo, e Barnabò[133] sine alia determinatione et defentione praecedente, jussit unum suum domicellum cum litteris suis de praesenti ire, dirigendis Potestati Pergami, ut, visis praesentibus, dictum Antoniolum per gulam laqueo faceret suspendi [88] sub poena suspensionis ipsius potestatis. Qui Potestas, licet invite, dictum Antoniolum in palatio Pergami, nullo alio expectato nisi quod cum sacerdote confiteretur, suspendi fecit[134]. Se prestiamo fede agli Annali milanesi, Barnabò con un editto proibì che alcuno più non ardisse di chiamarsi Guelfo o Gibellino, sotto pena del taglio della lingua, e furono tagliate le lingue ad alcuni contravventori[135]. Fece bruciar vivi tre uomini ragguardevoli, imputati di tradimento[136]. Fece bruciare due monache del Bocchetto. Due altre monache di Orona miseramente ebbero sorte uguale. Fece crudelmente torturare Tommaso Brivio, vicario generale dell'arcivescovo, perchè aveva ricusato di degradare quelle infelici. Fece bruciare il prete Stefano da Ozena d'Incino, dopo di avergli fatto soffrire atroci tormenti. Fece impiccare l'abate di San Barnaba perchè aveva prese delle lepri[137]. Fece cavare un occhio ad un uomo, perchè trovato a passeggiare in una strada privata di Barnabò. Un povero contadino fu incontrato da Barnabò, e lo fece ammazzare dal suo canattiere, perchè egli aveva un cane. Un giovinetto raccontò d'avere sognato che uccideva un cinghiale, e per questo Barnabò gli fece cavare un occhio e tagliare una mano. Per un decreto di Barnabò nessun giusdicente poteva cominciare a ricever il soldo assegnatogli se prima non aveva fatto tagliar la testa a un uccisore di pernici. Giovanni Sordo e Antoniolo da Terzago, suoi cancellieri, furono chiusi in una gabbia di ferro con un feroce cinghiale. Il podestà di Milano Domenico Alessandrino, a forza di bastonate, fu obbligato a strappare la lingua ad un uomo colle sue proprie mani... Chiudasi l'atroce scena: chi ne bramasse più minute circostanze vegga il nostro diligente conte Giulini[138]. Io suppongo che [89] vi sia della esagerazione in questi fatti. Mi sento uomo; ed ho piacere di lusingarmi che un uomo simile a me non possa mai discendere in tale abisso di crudeltà. Credo esagerati i racconti di Nerone, di Caligola e di simili principi. Ma togliendo anche la esagerazione, sempre ne rimane abbastanza per detestarli. I popoli disgraziati che erano sudditi di un tal uomo, gemevano altresì sotto il peso di gravosissimi tributi. Il Corio ci dice che Barnabò ogni anno riceveva centomila fiorini d'oro pe' carichi ordinari, e sessantamila fiorini d'oro pei straordinari; in tutto incassava centosessantamila annui fiorini d'oro dal suo Stato. Egli possedeva Cremona, Bergamo, Brescia, Crema, Lodi, Parma e la metà di Milano, e questo carico contribuito da' suoi popoli allora riusciva insopportabile. Oggidì il solo Cremonese paga altrettanto senza che il popolo sia oppresso; il che sempre dimostra quanto ho detto al capitolo ottavo e ripetuto poi, cioè che il valore dell'oro, reso in questi tempi più abbondante, si è notabilmente diminuito.

Il fenomeno fisico di cui ho fatto cenno, quello cioè per cui l'anno 1364 venne una funesta carestia nello Stato, è per fortuna nostra così insolito nel Milanese, che le persone poco istrutte lo potrebbero collocare fra le favolose invenzioni immaginate per allettare colla meraviglia. Ma ve ne sono prove tali, che non ci lasciano luogo a dubitarne. Tre scrittori che allora vivevano, i quali, oscuramente celati, notavano gli avvenimenti de' loro tempi senza che [90] uno potesse avere cognizione dell'altro, ce lo hanno tramandato concordemente; e sono Pietro Azario, l'autore degli Annali milanesi, ed il cronista di Piacenza. Nell'anno 1364 comparvero nel mese di agosto de' nembi di locuste. Queste occupavano l'aria, come dense e vaste nubi, ed offuscavano il sole. Esse volavano con molta forza, e tutte si dirigevano dalla stessa parte nel volo. Scendevano poi su i campi, e, a vederle discendere, pareva che cadessero fiocchi di neve. L'Azario dice che questi animaletti erano verdi, e col capo e collo grossi. Nel terreno sul quale avevano posato, erbe, foglie, frutta, tutto rimaneva distrutto; e così questi eserciti funesti di locuste, passando da un campo all'altro, isterilirono le terre; e durò il flagello da agosto sino al mese di ottobre[139]. Un simile flagello si dice che l'avesse provato la Lombardia quattrocentonovantun'anni prima, cioè l'anno 873, e ce ne tramandò memoria Andrea Prete. Ma se a quell'autor solo si poteva contrastare un avvenimento maraviglioso, converrebbe rinunziare alla storia se dubitassimo della verità rapporto all'anno 1364. Questo fenomeno, stranissimo per noi, è conosciuto in altre regioni verso il Levante. Carlo XII, re di Svezia, nella Bessarabia ebbe moltissimo a soffrire per i nembi di locuste; e l'autore della storia Histoire militaire de Charle XII de Suède[140], ci narra un caso simile, ed eccone le parole: «Une horribile quantitè de sauterelles s'elevoit ordinairement tous les jours avant midi du còté de la mer, premiérement à petits flots, ensuite comme des nuages, à qui obscurcissoient l'air, et le rendeient si sombre, et si épais, que dans cette vaste plaine le soleil paroissoit s'être éclipsé. Cest insectes ne voloient point proche de terre, mais à peu près à la même hauteur que l'on voit voler les hirondelles, jusqu'à ce qu'ils eussent trouvé un champ sur lequel ils pussent se jetter. Nous en rencontrions souvent sur le [91] chemin, d'où ils se jettoient sur la même plaine où nous étions et sans craindre d'être foulés aux pieds des chevaux, ils s'elevoient de terre, et couvroient le corps et le visage à ne pas voir devant nous, jusqu'à ce que nous eussions passé l'endroit où ils s'arrêtoient. Partout où ces sauterelles se reposoient, elles y faisoient un dégât affreux, en broutant l'herbe jusqu'à la racine; ensorte qu'au lieu de cette belle verdure dont la champagne étoit auparavant tapissée, on n'y voyoit qu'une terre aride et sablonneuse». Questi insetti, col favore d'un vento gagliardo, attraversano persino il mare a volo; e in conseguenza della sterilità avvenuta nell'Asia, o di una prodigiosa moltiplicazione accaduta in quell'anno nella specie di quegl'insetti, o d'un vento straordinariamente violento, che gli abbia trasportati oltre i consueti loro confini, o alfine di qualche altra cagione che non posso conoscere, giunsero essi persino a noi l'anno 1364. Se questa devastazione fosse periodica, sarebbe da temersi da' nostri figli, che vivranno l'anno 1855. Ma tali avvenimenti o non hanno periodo, ovvero l'hanno così vasto, che oltrepassa la memoria.

Ritorniamo agli orrori di quel governo, e miriamo l'altra porzione dello Stato soggetta a Galeazzo II. Dopo che egli ebbe nuovamente in suo potere Pavia, ivi collocò la sua sede, lasciando che Barnabò alloggiasse in Milano. Galeazzo non ebbe tante brighe a sostenere colle armi, quante ne ebbe Barnabò; onde, abbandonando da principio ai ministri ogni cura dello Stato, egli null'altro ebbe in pensiero, che di apparentarsi con illustri matrimoni, celebrare regie pompe, e cercare la fama di protettore delle lettere. Le scuole di Pavia vennero da lui fomentate e promosse, e nell'anno 1362 sembra che venisse aperta quell'Università, la quale aveva maestri di leggi canoniche e civili, di medicina, fisica e logica. Radunò una biblioteca pregevole per quei tempi, anteriori quasi d'un secolo alla invenzione benefica della stampa. Per illustrare la sua famiglia, al figlio suo Gian Galeazzo (che non aveva più di sette anni) diede per moglie Isabella di Francia, figlia del re Giovanni, bambina essa pure di pochi anni; e la pompa di quest'illustri [92] sponsali costò ben cinquecentomila fiorini d'oro, cavati con ogni sorta di mezzi dai sudditi, senza eccezione alcuna; il che non bastò a togliere la sofferenza in ciascuno d'un aggravio enorme. Maritò sua figlia Violanta con Lionetto, figlio del re d'Inghilterra Edoardo III. Galeazzo aveva Bianca di Savoia per moglie; e così la casa Visconti, in meno di sessant'anni di tempo, dalla condizione nobile sì ma privata, passò a grandeggiare a segno d'avere le più strette parentele col re di Francia, col re d'Inghilterra e col duca di Savoia. Oltre a questi oggetti sproporzionati di spese, ei si volse a fabbricare senza riguardo. In Pavia si pose ad erigere un parco di più miglia, cinto di muro; ivi aveva le cacce, i giardini, le peschiere, che ricevevano l'acqua per un cavo ch'ei fece dal naviglio di Milano sino colà. Queste spese, e quest'abbandono degli affari pubblici, in tempi di pestilenza e di carestia, mentre una parte dello Stato soffriva le invasioni de' nemici, produssero danni così grandi che, malgrado l'opulenza e l'adulazione che a più giri attorniavano quel principe, ei si dovette alla fine riscuotere. Aprì gli occhi; e vide tutte le cariche venali occupate da vilissimi ministri; i popoli rovinati; le sue milizie mancanti di paghe; il suo erario vuoto; e i suoi pochi sudditi esausti e languenti. In quel momento fece quello che sogliono le anime da poco; dalla inerzia passò alla frenesia. Fece impiccare il suo direttore delle fabbriche in Milano. Fece impiccare il suo direttore delle fabbriche in Pavia. Il castellano di Voghera, per essere stato assente quando quegli afflitti abitanti scossero il giogo della oppressione, fu strascinato a coda d'asino, poi fu impiccato con un suo figlio. Sessanta stipendiati, perchè furono un poco lenti nell'eseguire una commissione, furono con una sola parola condannati tutti alle forche. Indotto a far loro grazia, se ne rammaricò poi, e fece porre in carcere Ambrosolo Crivello, suo cancelliere, e lo privò d'un anno di salario, perchè era stato sollecito nella spedizione della grazia. Questi fatti ci sono attestati da più autori contemporanei. L'Azario poi ci ha tramandato l'editto col quale quel principe ordinò a' suoi giudici qual carnificina dovessero far eseguire contro i rei [93] di Stato. Egli immaginò il modo per far soffrire atrocissimo strazio per quarantun giorni, riducendo un uomo sempre all'agonia senza lasciarlo morire. La natura freme, Busiri e Falaride non lasciarono altrettanto:[141] Intentio domini est quod de magistris preditoribus incipiatur paulatim. Prima die quinque bottas de curlo; secunda die reposetur; tertia die similiter quinque bottas de curlo; quarta die reposetur; quinta die similiter quinque bottas de curlo; sexta die reposetur; septima die similiter quinque bottas de curlo; octava die reposetur; nona die detur eis bibere acqua, acetum et calcina; decima die reposetur; undecima die similiter acqua, acetum et calcina; duodecima die reposetur; decima tertia die serpiantur eis duae corrigiae per spallas, et pergottentur; decima [94] quarta die reposetur; decima quinta die dessolentur de duobus pedibus, postea vadant super cicera; decima sexta die reposetur; decima septima die vadant super cicera; decima octava die reposetur; decima nona die ponantur super cavalletto; vigesima die reposetur; vigesima prima die ponantur super cavalletto; vigesima secunda die reposetur; vigesima tertia die extrahatur eis unus oculus de capite; vigesima quarta die reposetur; vigesima quinta die truncetur eis nasus; vigesima sexta die reposetur; vigesima septima die incidatur eis una manus; vigesima octava die reposetur; vigesima nona die incidatur alia manus; trigesima die reposetur; trigesima prima die incidatur pes unus; trigesima secunda die reposetur; trigesima tertia die incidatur alius pes; trigesima quarta die reposetur; trigesima quinta die incidatur sibi castronum; trigesima sexta die reposetur; trigesima septima die incidatur aliud castronum; trigesima octava die reposetur; trigesima nona die incidatur membrum; quadragesima die reposetur; quadragesima prima die intenaglientur super plaustro, et postea in rota ponantur. Pare impossibile che un sovrano abbia mai dato un comando tanto infernale; pare impossibile che alcun uomo, soffrendo questi martirii, potesse sopravvivere sino al quarantesimoprimo giorno! Eppure convien dire che crudelmente si andassero applicando i rimedii, per prolungare la vita e il tormento; poichè, ci attesta lo stesso autore, che[142] harum poenarum exequutio facta fuit in personas multorum anno 1372 et 1373[143]. Così pensarono i principi, così furono governati i popoli di quella città, in cui doveva l'immortale marchese Cesare Beccaria scrivere il libro dei Delitti e delle Pene; libro sacro all'umanità, alla ragione ed alla beneficenza. I principii dl sublime filosofia che l'hanno dettato; la calda e libera eloquenza collo quale ci annunziano; lo compassionevole sensibilità ai mali degl'infelici, assicurano all'illustre nostro [95] cittadino, ed all'amico e compagno de' miei studi una celebrità costante; la onorata tranquillità poi di cui gode, anzi lo stipendio e le cariche delle quali è stato decorato, serviranno agli esteri non solo, ma alla posterità, di vera dimostrazione della felicità e della gloria del governo sotto cui abbiamo la fortuna di vivere.

Sin qui Galeazzo II poteva esser sedotto da malvagi consiglieri; ma il fallo seguente lo mostra quale egli era, senza difesa. Aveva quel principe incorporato nel vastissimo suo parco di Pavia i poderi di molti, e fra gli altri d'un povero cittadino pavese che aveva nome Bertolino da Sisti. Questo povero uomo aveva una famiglia numerosa da alimentare; i figli soffrivano la fame e la miseria, mancando di quel fondo, che non gli era stato pagato. Egli si prostrò avanti del suo sovrano, implorando umilmente soccorso, e il pagamento della sua porzione di terra. Venne accolto da Galeazzo con amarissima derisione e vilipendio, e non potè ottenere compenso alcuno. Quel disperato padre di famiglia aspettò poi, nel parco istesso dove Galeazzo soleva cavalcare, il momento della vendetta, e, il giorno 24 di agosto dell'anno 1369, lo ferì, mentre passava a cavallo, in un fianco; ma la fascia cordonata di seta lo difese. Fu arrestato quel suddito; sempre colpevole, ma degno di commiserazione, e finì, dopo fieri tormenti, squartato dai cavalli[144]. Coloro che esclamano contro i costumi del nostro secolo, vedano se in tutta quanta l'Europa vi sia un angolo solo in cui gli uomini siano trattati come lo erano i nostri maggiori quattro secoli sono! A che attribuirne il cambiamento? All'ardimento che alcuni ebbero di pensare e cercare il vero, indipendentemente dalle opinioni ereditate; al progresso della ragione, all'accrescimento de' lumi; alla moltiplicazione de' libri; al genio della coltura; a quello spirito moderato e benefico di filosofia che ha dissipata la ferocia e il fanatismo, ed ha reso gli uomini benevoli ed umani, sotto di una santa e pura religione di concordia e di pace. Rendiamo umili azioni di grazie al Dator di ogni [96] bene, e guardiamoci da coloro che ardiscono d'insultare a que' felici mezzi co' quali si è operata la consolante rivoluzione. Galeazzo II aveva la bassezza di voler giuocare ai dadi co' sudditi che avessero denaro, e godeva di rovinarli. (1377) Quel principe fece un decreto l'anno 1377 che non ha esempio, a quanto mi è noto. Egli, con un foglio di carta, annullò, cassò, rivocò tutte le grazie e dispense che aveva sin allora concesse. Il decreto è del giorno 13 di ottobre,[145] Datum in castro nostro Zojoso, sito nel Pavese, ora chiamato Belgioioso, nel quale soleva passar qualche tempo quel principe. Che un successore revochi le grazie di un sovrano che l'ha preceduto, benchè sia cosa dura assai per chi la soffre, se ne trovano esempi, ma che un principe cancelli, così in un colpo solo, tutte le sue beneficenze, non so che sia mai accaduto altra volta[146].

Paragonando i due fratelli, pare che Barnabò avesse l'animo più forte, e Galeazzo fosse freddamente crudele. Il primo abbandonandosi ad una collera brutale, era capace di ogni eccesso; l'altro lo era sempre, con maligna tranquillità. Barnabò dava gl'impieghi a persone che li sapessero eseguire, e sapeva tenersele affezionate e fedeli; Galeazzo, per denaro, dava le cariche a' più inetti uomini. Barnabò era veridico e palesava i suoi sentimenti; Galeazzo non era definibile. Il primo incuteva spavento, l'altro diffidenza. Barnabò si fece scolpire in una statua equestre di marmo e la collocò sull'altar maggiore di San Giovanni in Conca. Essa ivi si vede, ma non più sull'altare. Galeazzo pazzamente fece distruggere le peschiere, le pitture del Giotto, e tutte le belle cose ordinate da Azzone nel palazzo di corte,[147] quae domus, diceva l'Azario, cum ornamentis et picturis et fontibus, hodie non fieret cum trecentis millibus florenis[148]. Galeazzo faceva alzare un gran muro con merita spesa; poi parendogli che stesse male, lo [97] faceva demolire. Faceva delle vôlte assai grandi in mezzo del verno, e diroccavano poi; e i mattoni, le travi, la calce si prendevano per suo cenno, ove trovavansi, senza parlare di pagamento. Galeazzo fabbricò il castello di Milano e quello di Pavia: Barnabò, quello di Trezzo. Nessuno di questi due atroci fratelli ebbero commensali, come solevano averne Azzone, Luchino e Giovanni. Costoro offendevano un numero sì grande di persone, che non era poi loro fattibile la scelta di alcuni fra' quali passare giocondamente le ore. Barnabò pagava esattamente i suoi stipendiati, e non permetteva che facessero estorsioni; Galeazzo trascurava di pagarli, e non badava alle loro angherie. Durante tale governo, i due successivi arcivescovi Guglielmo della Pusterla e Simone da Borsano non posero piede mai nella loro diocesi; sia che ciò nascesse per le dissensioni col papa; sia che, per godere le rendite dell'arcivescovato, i principi non volessero concederne a quei prelati il possesso; sia finalmente che la meschina vita che sotto a quel governo vi dovette passare l'arcivescovo Roberto Visconti, fatto porre in ginocchio per ascoltarsi il nescis, poltrone, di Barnabò, avesse fatto perdere il coraggio ai successori di presentarsi a vivere sotto quei terribili sovrani, animati anche contro degli ecclesiastici; i quali, con un editto di Barnabò, venivano obbligati a porsi in ginocchio tosto che l'incontravano per le strade, e, non solamente dovevano contribuire la porzione d'ogni tributo al paro di ciascun altro cittadino, ma dovevano portare il più delle tasse che quei sovrani arbitrariamente imponevano sul clero. (1378) Galeazzo II mori in Pavia il giorno 4 di agosto dell'anno 1378, dopo di aver regnato ventiquattro anni; e successe ne' suoi Stati Giovanni Galeazzo, di lui figlio, che portava nome il conte di Virtù, per un feudo che gli era stato dato nella Francia per dote della principessa Isabella.

Prima di terminare questo capitolo, credo di far cosa grata a' miei lettori, informandoli d'un curioso dialogo che ebbe Barnabò con un villano, da cui non venne conosciuto. Io lo tradurrò, perchè la storia della patria può interessare anche persone che non sappiano il latino. Ho dovuto [98] inserire anche troppi squarci, scritti in tal lingua, o per contestare l'autenticità dell'asserzione, o per non diventarne io medesimo responsale, ovvero per non annunziare colle mie parole, cose che mi sarebbe dispiaciuto di dover dire. Il dialogo si trova nella Cronaca di Azario[149], e consiglio ai curiosi lettori di vederlo nel suo originale; perchè, frammezzo a quella trascurata e rozza latinità, vi è certo lepore ingenuo, e una certa domestichezza di frasi che piacciono sommamente e dipingono il costume. Barnabò soggiornava parte dell'anno in Marignano: i contorni erano ancora pieni di boschi ed opportuni alla caccia, e questo era il motivo per cui Barnabò amava di trattenervisi. Egli a cavallo ben sovente si allontanava dalla comitiva, e s'innoltrava solo nel più interno dei boschi. Un giorno fra gli altri aveva smarrita ogni traccia, nè sapeva più donde uscirne per ritornare al suo albergo. La stagione era assai fredda; l'ora avanzata, e rigido il verno. Per caso Barnabò s'avvidde che taluno era in quel bosco. S'accostò; e riconobbe ch'era un povero contadino, assai lacero, che s'affaticava a tagliar legna. Ecco il dialogo che con lui tenne Barnabò: «Il cielo t'aiuti, galantuomo. — Villano: Ne ho bisogno. Con questo freddo ho potuto far poco. L'estate è ita male, potesse almeno andar meglio l'inverno! — Barnabò, scendendo dal suo cavallo affaticato: Amico, tu dici che la state è ita male; e come? L'annata è stata anzi felice; vi è stato abbondante raccolto di grano, vendemmia abbondante. E che l'è ito male? — Villano, mentre continua a tagliar la legna: Oh abbiamo di bel nuovo il diavolo per nostro padrone. Si sperava che, allorquando venne scacciato il signor Bruzio Visconti, il diavolo fosse morto, ma ne è comparso un altro peggiore ancora. Costui ci cava il pane di bocca. Noi poveri lodigiani lavoriamo come cani, e tutto il profitto colui ce lo carpisce. — Barnabò: Certamente, quel signore opera male assai.... Ti prego, guidami, amico, fuori del bosco; l'ora è tarda: la notte è vicina; e m'immagino [99] che tu ancora non avrai tempo da perdere, se brami ritornartene a casa tua. — Villano: Oh! per andare a casa non ho alcun pensiero. L'imbroglio, padron mio, sarà a ritrovarvi da cenare; e davvero ho gran paura che non ne faremo nulla; mia moglie e i miei figli gli ho lasciati a casa con poco pane. — Barnabò: Ebbene, conducimi fuori del bosco, e guadagnerai qualche cosa. — Villano: Tu mi vuoi distrarre dal mio lavoro.... saresti tu mai uno spirito infernale.... i cavalieri non vengono per questi boschi... Sia tu chiunque ti piaccia, pagami prima, e ti scorterò dove vuoi. — Barnabò: Ebbene, cosa vuoi ch'io ti dia? — Villano: Un grosso di Milano. — Barnabò: Fuori che saremo dal bosco ti darò il grosso, e ancora di più. — Villano: Oh sì domani! Tu sei a cavallo, e, fuori che tu sia dal bosco, prendi il galoppo, ed io rimango come un cavolo! Così fanno gli ufficiali di quel diabolico nostro padrone; vengono scalzi, e ruban poi tanto, che passeggiano come grandi signori a cavallo. Barnabò: Amico, poichè non mi vuoi credere, eccoti il pegno», e gli diede la fibbia d'argento che aveva alla cintura. Il villano se la gettò in seno nella camiscia, e cominciò a precedere per uscire dal bosco, ma stanco come era, camminava lentamente. «Barnabò: Galantuomo, monta in groppa sul mio cavallo. — Villano: Credi tu che quella rozza potrà reggere a due! Tu sei tanto grosso! — Barnabò: O, benissimo; porterà te e porterà me; tanto più che, a quanto dicesti, non hai mangiato troppo a pranzo. — Villano: Tu dici il vero.... proviamoci»; e qui si pose a sedere in groppa, e mentre così proseguivano attraverso del bosco, continuò Barnabò: «Amico, tu mi hai date delle cattive nuove del tuo padrone: e del signor Barnabò, che sta in Milano, che se ne dice? — Villano: Di lui se ne parla meglio. Benchè sia feroce, egli almeno fa osservare l'ordine; e s'egli non fosse, non avremmo osato nè io, nè gli altri poveri entrar nel bosco a tagliar legna, per timore degli assassini. Il signor Barnabò fa osservare esatta giustizia, e quando promette, mantiene. Ma quest'altro che sta in Lodi, fa tutto al contrario». E così, proseguendo il discorso, gli [100] riferì come un castellano gli aveva rubato un pezzo di terra ed alcuni pochi mobili; indi, usciti che furono dal bosco, disse il villano: «Signore, tenete la campagna da questa banda, la notte viene, fate presto, perchè altrimenti vi potrete trovare in mezzo d'una strada. — Barnabò: Amico, mi vorresti gabbare, e con questo bel modo portarmi via la fibbia». Tremava di freddo il villano, perchè a piedi almeno si riscaldava, e sedendo era, senza moto, esposto al rigore della stagione, e disse: «Per Dio! non mi ricordava nemmeno più della fibbia; prendetela, signore. Se mi volete dar qualche cosa per amor di Dio, fatelo; se non vi piace, il cielo vi aiuti, e andate colla vostra fibbia. Correrei pericolo d'essere impiccato, se questa fibbia si ritrovasse presso di me; si direbbe che l'avessi rubata. Tenetela. Credo bene che, se mi volete fare la carità, non vi mancano in tasca denari. — Barnabò: Amico, fa a modo mio; accompagnami ad un albergo e ti prometto un grosso, e di più un buon camino per riscaldarti, e poi anco di più una buona cena: e così domattina di buon'ora tornerai da tua moglie». Il villano si consolò pensando a questi beni, e come la mattina vegnente con quel grosso avrebbe potuto comprare dodici pagnotte e darle alla sua povera famiglia. Scese dalla groppa, e riprese il cammino, calpestando lo stoppie attraverso dei campi; e Barnabò cavalcava dietro lui. — Barnabò: «E dove anderemo noi ad albergare? — Villano: Andremo a Marignano: vi sono delle buone osterie; vi si può entrare giorno e notte, e alloggeremo bene, e noi ed il cavallo, che mi pare ne abbia bisogno. Barnabò: Dici bene. E da questo tuo Marignano siamo noi molto discosti? — Villano: Cosa ti preme? Se non vi giugneremo di giorno, vi giugneremo di notte. Non t'ho dett'io che ivi non si chiudono le porte? — Barnabò: Va dunque, sia come tu vuoi». Così proseguendo con tai discorsi il cammino, si videro da lontano comparire molte e grandi fiaccole, e Barnabò disse: «Vedi tu quei fanali e tante faci? — Villano: Le vedo. — Barnabò: E che vuol dir questo? — Villano: Vuol dire che vanno cercando il signor Barnabò, che tante volte s'innoltra nei [101] boschi per amore della caccia; vuole essere solo, si perde, e i suoi domestici poi vanno la sera facendo dei fuochi, acciocchè veda per dove possa ritornarsene. — Barnabò: S'ella è così, fanno bene: è segno che quei domestici hanno premura pel loro padrone». Discorrendo per tal modo s'andarono accostando a quei che portavano le faci; e tosto che questi videro Barnabò, scesero da cavallo; e salutato con riverenza quel sovrano (inclinatis capuciis, dice Azario), e rispettosamente attorniando lui e il villano, tutti giunsero a Marignano. Allora il povero villano s'avvide qual fosse l'uomo col quale aveva fatto il dialogo. Desiderava di essere già morto; tanto timore aveva dei tormenti che s'aspettava di dover patire nel castello di Marignano! Giunti che vi furono, il signor Barnabò, scoppiando dalle risa, raccontò a' suoi domestici tutta l'avventura; e ordinò che il villano, tal quale era, stracciato e sporco, fosse condotto in una sala, e se gli accendesse un gran fuoco. Poichè fu ben ristorato dal freddo, fu chiamato il povero villano a cena, e dovette sedere di contro al signor Barnabò. Essi due soli sedevano; e volle che il villano venisse in tutto servito come egli lo era. Il contadino non voleva tanti onori; tremava; e Barnabò: «Son galantuomo, mantengo la parola. Ti ho promesso un buon fuoco, e te l'ho dato. Ti ho promessa una cena, e te la mantengo. Ti ho promesso un grosso di Milano, e domattina l'avrai. — Villano: Ah! signore, misericordia! io ho parlato da stolido qual sono! sono un povero uomo, che vive nei boschi solitario, non so quello che convenga di parlare: per pietà, mi lasciate partire: per carità, perdonatemi». Il villano combatteva fra lo spavento e la fame, stimolata da' cibi insoliti; e la fame la vinse; mangiò bene assai. Poscia venne congedato dal principe e condotto in una bella stanza; lavato con un bagno tepido, posto a dormire sopra di un magnifico letto; e la vegnente mattina fu condotto avanti del signor Barnabò, che gli disse: «Ebbene, amico, coma bai passata la notte? — Villano: Come in paradiso; ma, con vostra buona grazia, vorrei andarmene. — Barnabò: Se così ti piace, vi consento»; indi rivolto [102] ad un suo cameriere: «Dagli un grosso»; e questi immediatamente lo consegnò al villano, poi Barnabò: «La mia promessa ora è compiuta; pure ti ho lasciato sperare qualche cosa di più; cercami quella grazia che brami. — Villano: Signore, basta che mi lasciate partire vivo e sano. — Barnabò: Questo lo accordo; chiedi qualche altra grazia. — Villano: Se mi faceste restituire il mio piccolo podere toltomi dal castellano....». Súbito fecegli dare lettere colle quali il villano riebbe il suo, e tranquillamente se ne ritornò allo stato di prima. L'Azario, che allora viveva e che ci ha tramandata la memoria di questa scena, non ci riferisce chi fosse il governatore di Lodi che era succeduto a Bruzio Visconti. Questo avvenimento ha tanta verosimiglianza, che lo credo veramente accaduto; e Barnabò, avendolo súbito raccontato ai suoi cortigiani, è naturale che venisse poi divulgato come una novella di quel tempo. Non avranno trascurato alcuni d'interrogarne il villano medesimo, e così potrà essersi ancora più esattamente risaputo. Il carattere di Barnabò mi pare che vi sia dipinto al vivo. Non permetteva egli che si commettessero vessazioni ed ingiustizie; amava la sicurezza e l'ordine; manteneva la parola data. Ma un buon principe non avrebbe impresso nel cuore dei sudditi uno spavento generale, a segno che, per qualche incauta parola, temessero d'essere condannati alla carnificina da lui medesimo, nel di lui palazzo. Nessun principe oggidì avrebbe piacere di far soffrire a quel meschino la barbara incertezza che lo tormentò per laute ore; e la prima parola gli annunzierebbe ilarità e pace. Poi lo sborso di un grosso, ossia il solo valore di dodici pagnotte, oggidì sembrerebbe affatto indecente. Il povero villano aveva dovuto lasciare la moglie ed i figli con poco pane; stanco e mal pasciuto, aveva camminato per ricondurre il sovrano senza sapere ch'ei fosse altro che un uomo; meritava adunque qualche cosa di più d'un grosso. Se il fatto fosse accaduto alla maestà dell'adorabile augusto Giuseppe II, o ad alcuno dei reali arciduchi, la sera medesima avrebbe la famiglia del villano avuto di che cenare; e invece di tremare, come avrà fatto, [103] avrebbe sparse lagrime di tenerezza, benedicendo la sovrana pietosa munificenza. Non bastava poi alla giustizia la restituzione del podere rubato dal castellano. Un principe buono non si sarebbe determinato a cosa alcuna colla esposizione di un solo. Avrebbe disposte le cose in modo d'essere esattamente informato del fatto, e d'ascoltare anche il castellano, per dargli campo a giustificarsi; indi, se egli aveva oppresso una povera famiglia, non bastava disfare il mal fatto. Voleva il ben pubblico che quel prepotente venisse contenuto per l'avvenire, e col suo esempio allontanasse i suoi pari dal meditare altrettanto. Nè avrebbe mancato un principe buono di prendere informazione sul governatore di Lodi e sugli ufficiali rapaci che l'attorniavano. Barnabò, anche in questa scena, manifesta un carattere duro, insensibile, atroce nei momenti istessi della giocondità, ed appare violento, e niente addottrinato nella scienza di governare.

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CAPITOLO XIV. Del conte di Virtù, e della erezione del ducato di Milano.

Per lo spazio di sette anni ancora, dopo la morte di Galeazzo II, continuò ad essere separato in due parti lo Stato de' Visconti, reggendo l'eredità del padre il conte di Virtù, e continuando a regnare Barnabò sulla sua porzione. Il Gazata nella sua Cronaca ci racconta che Barnabò aveva comprata la città di Reggio da Feltrino Gonzaga, collo sborso di cinquantamila fiorini d'oro; e che per diventar padrone di alcune rocche e castelli di quel distretto, egli s'impadronì di Francesco Fogliano; ed avutolo nelle sue mani, gli fece intimare che o doveva indurre Guido Fogliano, di lui fratello, a consegnare a Barnabò le fortezze che egli possedeva, ovvero questi sicuramente lo faceva impiccare, quantunque tra il Fogliano e Barnabò non vi fosse mai stata altercazione alcuna. Il povero Francesco Fogliano fece ogni sforzo per indurre colle sue lettere il fratello a riscattarlo. Guido credette che non si sarebbe mai imbrattato il Visconti con una così obbrobriosa macchia; ma s'ingannò, perchè Barnabò fece sospendere Francesco alle forche, sulle mura di Reggio, il giorno 7 dicembre 1372. Il conte di Virtù aveva questo terribile collega. Il conte era giovine di venticinque anni. Egli s'era più volte presentato al nemico con valore, allorquando i collegati invasero lo Stato; ma non aveva dato saggio nemmeno d'avere i talenti d'un buon comandante. Aveva egli stretti vincoli di sangue colla casa di Francia, colla casa di Savoia, colla casa d'Inghilterra: ma Barnabò non era meno appoggiato ad illustri e potenti parentele. Barnabò ebbe tanti figli, che (ommettendo i bambini ed i fanciulli periti) se ne contarono [105] trentadue, de' quali quindici legittimi, nati dalla signora Beatrice della Scala, da altri chiamata Regina della Scala. Barnabò aveva date le sue figlie in matrimonio a potenti signori. La casa d'Austria, la casa di Baviera, il re di Cipro, la casa di Wirtemberg, la casa di Turingia, i Gonzaghi avevano delle principesse figlie di Barnabò. La principessa che entrò nella gloriosissima casa d'Austria si chiamava Verde Visconti. Ella sposò il duca Leopoldo. Questo principe, giovine di quattordici anni, venne a Milano l'anno 1365, ed il giorno 23 di febbraio celebrò le sue nozze nel palazzo del signor Barnabò Visconti, presso San Giovanni in Conca. Barnabò diede in dote alla figlia centomila fiorini. Indi andarono gli sposi a Vienna; e da queste nozze discende l'augusto sovrano che ora, per nostra felicità, domina su questo Stato. Chi bramasse più minute notizie di queste memorabili nozze (per le quali il sangue de' Visconti, sublimato a più elavata condizione, e depurato colla virtù e colla beneficenza di quattro secoli, trovasi attualmente sul trono, dal quale i Milanesi ricevon legge) vegga il nostro conte Giulini, che ne ha pubblicati i monumenti sinora inediti.

A fronte d'uno zio terribile, stavasene circospetto ed attentissimo il conte di Virtù. Milano, siccome dissi, era divisa in due padroni: Galeazzo II possedeva il castello di Porta Giovia, cioè il castello che ancora in parte internamente sussiste; e Barnabò possedeva un altro castello alla torre di porta Romana, di cui veggonsi anco oggidì le vestigia dalla parte del naviglio. Il conte di Virtù stavasene in Pavia: era una volpe che adocchiava destramente il vecchio leone. Mostrava il giovine conte di Virtù d'essere timido, irresoluto, debole in ogni sua azione. Bramava d'imprimere nell'animo di Barnabò tale opinione, che, considerandolo egli giovane da nulla ed incapace d'intraprendere un colpo ardito, nemmeno pensasse a tenersi difeso; e tanto seppe dissimulare in ogni azione, anche domestica, tanto attento fu nel rappresentare il meschino personaggio propostosi, che ingannò supinamente lo zio, quantunque avesse giorno e notte al suo fianco Caterina Visconti, figlia [106] di Barnabò, da Galeazzo sposata, sebben cugina, dopo la morte di Isabella di Francia, sua prima moglie. Barnabò deriderà l'imbecillità del nipote, il quale ne' suoi editti ancora spirava umanità, beneficenza e moderazione, mentre l'altro continuava a spaventare i sudditi con inesorabile ferocia. Poteva comparire agli occhi dello zio un nuovo tratto di pusillanimità la cura che ebbe il conte di Virtù di procurarsi la grazia del nuovo augusto Venceslao, succeduto al defunto Carlo IV di lui padre. Ma in fatti egli solo venne da quel monarca confermato vicario imperiale l'anno 1380, senza che nel diploma venisse fatta menzione di Barnabò. Così nel silenzio andava il conte di Virtù preparando la mina che doveva scoppiare un giorno, e rovinando il collega, riunire la sovranità dello Stato sopra di lui solo. Barnabò, dal canto suo, senza accorgersi, somministrava sempre nuove armi al nipote contro di lui; poichè disponeva una nuova divisione dello Stato suo ne' cinque suoi figli legittimi, e già a ciascuno di essi aveva assegnato il governo nel distretto che gli aveva destinato in sovranità dopo di lui. Marco aveva la metà di Milano; Lodovico aveva Lodi e Cremona; Carlo aveva Parma, Crema e Borgo San Donino; Rodolfo aveva Bergamo, Soncino e la Ghiara d'Adda; Giovanni Mastino, ancora bambino, aveva finalmente Brescia colla Riviera e Valle Canonica. Questo avvenire non poteva essere caro ai popoli, che diventavano sudditi d'una piccola sovranità, e soggetti ad un principe debole. Così insensibilmente, e simulando debolezza ed incapacità, Gian Galeazzo lasciava maturare gli avvenimenti; e andava contrapponendo l'apparenza di un saggio principe a quella di un capriccioso e crudele despota. (1385) Giunse il momento, e fu il giorno memorando 6 di maggio dell'anno 1385; giorno in cui venne tolta a Barnabò ed a' suoi figli, per sempre, ogni sovranità, e concentrossi nel conte di Virtù ogni potere. Il caso è noto, ed è il seguente. Il conte fece intendere al signor Barnabò ch'egli pensava di portarsi alla Madonna del Monte presso Varese; che sarebbe venuto da Pavia a Milano, la mattina del 6 di maggio, ma non amando di entrare nella città, costeggiandola fuori dalle [107] mure, sarebbe andato a smontare nel suo castello a porta Giovia; e che sarebbe stata pure grande la sua consolazione se avesse potuto abbracciare uno zio che tanto onorava. Si sapeva che il conte voleva condurre la scorta di quattrocento lance. Un domestico del signor Barnabò non mancò di fargli osservare che quel corredo era troppo per portarsi ad un santuario e ad un borgo dello Stato, in tempo di pace. Questo domestico si chiamava Medicina, e cercò di persuadere al suo padrone di starsene cauto e non avventurarsi. Ma Barnabò disprezzava il nipote, e attribuì alla pusillanimità sua questa schiera d'armati. I due figli maggiori di Barnabò furono spediti incontro al conte due miglia fuori di porta Ticinese. Questi accolse co' maggiori segni di cordialità i suoi due cugini e cognati Rodolfo e Lodovico, i quali, dopo le accoglienze, con apparenza di onore, furono circondati dalle armi di cui erano comandanti Jacopo dal Verme, Ottone da Mandello e il marchese Giovanni Malaspina. S'incamminò il conte verso Milano, e giunto che fu avanti della porta Ticinese (che allora era ove oggidì sta il ponte del naviglio) prese la sinistra, e per la via che ora fiancheggia il canale, andò colla sua comitiva cavalcando, sin che alle ore sedici, ossia verso mezzo giorno, trovatisi vicino al ponte che da Sant'Ambrogio conduce a San Vittore, per esso videro scendere Barnabò a cavallo con uno o due domestici di seguito. Il conte, dopo i primi saluti, diede il segnale concertato; e Jacopo dal Verme il primo spronò il cavallo, e pose le mani adosso della persona del signor Barnabò, dicendogli: Siete prigioniere. Ben tosto Ottone da Mandello gli levò dalle mani la briglia; altri gli tagliò il cingolo; e così al momento Barnabò fu disarmato, togliendogli altri la spada, altri la bacchetta dalle mani. Contemporaneamente lo stesso venne fatto ai due suoi figli Rodolfo e Lodovico; e presto presto, in mezzo alle armi, vennero tradotti nel castello di porta Giovia, poco di là lontano. Barnabò venne cautamente trasportato poi al castello di Trezzo, ove anco oggidì vedesi la stanza, in cui sopravvisse sette mesi colla sua o moglie o amica Donnina de' Porri sin che morì avvelenato, a quanto [108] si dice. Tanto seppe simulare il conte! Egli aveva trentadue anni.

Appena il colpo era fatto, il conte, alla testa degli armati, entrò nella città, e senza veruna opposizione se ne impadronì, fra gli evviva della plebe, alla quale permise tosto di saccheggiare i palazzi di Barnabò e de' suoi figli, e la plebe di più saccheggiò le dogane e la gabella del sale, che era alla piazza de' Mercanti. Nella fortezza di porla Romana vi fu ritrovato tanto argento per caricarne sei carri, ed in oro vi si contarono settecentomila fiorini. Quindi si radunò un consiglio generale della città, il quale tosto conferì il dominio al conte di Virtù, e, dopo lui, a' suoi discendenti maschi legittimi, in quel modo a lui più fosse piaciuto[150]. Con tal decreto vennero esclusi i discendenti di Barnabò: e in quel giorno Giovanni Galeazzo Visconti, conte di Virtù, diventò sovrano di ventuna città, e sono Reggio, Parma, Piacenza, Cremona, Brescia, Lodi, Bergamo, Crema, Milano, Como, Vigevano, Pavia, Bobbio, Alessandria, Valenza, Novara, Tortona, Vercelli, Alba, Asti e Casale. Questo colpo, eseguito con tanto vigore, e preparato colla più cupa e simulata ipocrisia, conveniva in qualche modo farlo comparire onesto e suggerito dall'assoluta necessità; e a tal fine ordinò il conte che si formassero i processi contro di Barnabò. L'autore degli Annali milanesi ce ne ha trasmesso l'epilogo. Le atrocità che ivi si leggono imputate a Barnabò, sono enormi; e dopo una sanguinosa enumerazione di esse, vedesi incolpato Barnabò d'avere tese insidie alla vita del nipote; d'essere uno stregone, che colle fattucchierie avesse rese sterili le nozze del conte di Virtù; e che finalmente Gian Galeazzo fosse stato costretto a far prigionieri lo zio ed i cognati, perchè essi l'avevano in quel momento assalito a tradimento. Non saprei se sotto il governo di uomini di quell'indole vi fosse nelle magistrature un uomo virtuoso; ma se pur vi era, quello certamente non sarà stato trascelto per formare il processo. Barnabò era uomo feroce, violento, [109] coraggioso, franco, ma non dissimulato, nè capace di tradire o di insidiare. Egli era nemico di ogni arte e di ogni scienza, crudele, sanguinario, d'una religione inconseguente, poichè, insultando il papa, oltraggiando i vescovi, calpestando gli ecclesiastici, donava ai conventi generosamente i beni che rapacemente confiscava ai cittadini. Ma il conte era suo nipote; il conte era suo genero; giaceva le notti colla sua moglie Caterina Visconti, nel tempo in cui ordiva di togliere la sovranità alla di lei famiglia, mentre teneva prigione suo padre, lasciava errare raminghi e bisognosi i di lei fratelli, che pure avevano tanta ragione per succedere nella signoria di Barnabò, quanta ne aveva il conte per essere succeduto nella signoria a Galeazzo. Di tanti figli che aveva Barnabò, malgrado le potenti e illustri loro aderenze, non ve ne fu più alcuno che potesse comparir nemmeno a disputare la usurpata porzione del padre, trattone Estore che era figlio illegittimo, il quale potè fare ventisette anni dopo un momentaneo contrasto al duca Filippo Maria, come vedremo. La potenza acquistata in un istante dal conte di Virtù fiaccò l'animo de' suoi sudditi; l'ardimento della sua ambizione, spiegata come un improvviso lampo, unita alla profondissima simulazione, rese attoniti gli altri principi; giacchè gli oggetti più ne soprafanno, quanto più grandeggiano annebbiati. I popoli, oppressi dal duro e violento giogo sofferto, accolsero con allegrezza il cambiamento. La virtù e la giustizia non ebbero parte alcuna in questa rivoluzione, in cui si vide accadere un avvenimento di cui sono frequenti gli esempi; cioè che, posti due colleghi di egual condizione al governo, colui che avrà le passioni più spiegate, dovrà soccombere a colui che saprà coprire colla timidezza l'ambizione, siccome ancora accadde dell'impero del mondo fra Ottavio ed Antonio.

All'ambizione artificiosa del conte di Virtù erano poche ventuna città suddite. Egli pensava a nulla meno che al regno d'Italia: e i primi sguardi ch'egli gettò furono dalla parte del Veronese e del Padovano, per estendere sino all'Adriatico il suo Stato. Egli, siccome dissi, possedeva già [110] Crema, Bergamo e Brescia. Antonio della Scala era signore di Verona e di Vicenza. Francesco da Carrara era signore di Padova. Da gran tempo questi due piccoli sovrani avevano delle discordie, e si facevano delle reciproche ostilità. Il conte di Virtù, simulando zelo per la concordia e per il bene di que' due principi, entrò mediatore per accomodare le loro controversie; e mentre l'una parte e l'altra stavano facendo le loro proposizioni, il conte lusingò il Carrarese, signore di Padova, proponendogli un'alleanza invece del progettato accordo. L'alleanza avea per fine la distruzione dello Scaligero. Il piano era che il Carrara lo dovesse attaccare dalla parte di Vicenza, mentre il conte di Virtù farebbe lo stesso dalla parte di Brescia. L'esito non poteva essere dubbio, poichè Antonio della Scala, posto così di mezzo, non poteva avere scampo. Il frutto era grande, mentre s'offeriva a Francesco Carrara di lasciargli Vicenza, e il conte restava pago di prendere per sè Verona. Non poteva essere l'orecchio del Carrarese adescato da una proposizione più seducente di questa, e incautamente la accettò. La passione antica che aveva contro lo Scaligero, lo acciecò a segno di lusingarsi, che il conte (il quale aveva tradito suo zio, usurpata la sua sovranità, e, coll'apparenza di officiosa mediazione, proponeva un tradimento contro dello Scaligero) sarebbe stato un alleato fedele a lui, poichè fosse reso ancora più forte coll'acquisto del Veronese, e diventato confinante col Padovano! Appena concertata la cosa, il conte mediatore immediatamente pubblicò un manifesto diretto allo Scaligero, diffidandolo che tre giorni dopo quella data veniva a muovergli guerra. (1387) Fu invaso il Veronese dalla milizia del Visconti da una parte, e del Carrara dall'altra. Alcuni malcontenti veronesi, che avevano secreta corrispondenza con Antonio Bevilacqua, comandante delle truppe del conte, aprirono l'ingresso; e il Bevilacqua, fuoruscito veronese e nemico di Antonio della Scala, rese Verona suddita del conte di Virtù; alle armi di cui si sottomisero i borghi e le terre tutte del Veronese non solo, ma del Vicentino e la stessa città di Vicenza. Così terminò [111] la signoria degli Scaligeri l'anno 1387. La conquista fatta dal conte, della città di Vicenza, era una violazione dei patti. Contra di essa reclamava il signore di Padova Francesco da Carrara. Il conte rispondeva che egli teneva Vicenza, non come cosa spettante a lui, ma come l'eredità di Caterina sua moglie, figlia della regina Scaligera, moglie di Barnabò. Il Gatari, nella Storia di Padova[151], ci dice che il conte di Virtù, per maneggi secreti, corruppe i favoriti di Francesco da Carrara, e fece che gli consigliassero di alzar ben bene la voce, e declamare contro la perfidia del conte, facendogli sperare che, in tal modo, e il consiglio del conte e la di lui stessa moglie, l'avrebbero certamente indotto a consegnargli Vicenza, anzi che portare la patente macchia d'avere violata la fede; supponendosi a ciò indotti dalla lusinga che, intimorito, il Carrara non avrebbe osato di farne pubblica doglianza. Anche da tale insidia fu côlto quell'incauto principe; e il conte ebbe il pretesto di vendicare le ingiurie proferite da Francesco Carrara; e non solamente ritenne Vicenza, ma invase il Padovano, s'impadronì di Padova istessa, fece prigioniere l'infelice Francesco da Carrara, e trasportollo nella torre di Monza, ove terminò i suoi giorni. Io ho delle monete del conte di Virtù, signore di Padova, e sono già pubblicate altre monete del medesimo come signore di Verona, le quali monete vennero coniate probabilmente dalla zecca di Milano o nell'anno 1387, ovvero poco dopo. Da questi fatti compare chiaramente il carattere di Giovanni Galeazzo. Gli editti che pubblicava erano composti con frasi che indicavano religione, pietà, moderazione. S'invocava Dio; se gli rendeva omaggio di ogni prospero successo; si fabbricava il Duomo; si fondava la gran Certosa presso Pavia; ma la morale non era punto rispettata. Le animosità e le contese fra gli Scaligeri ed i Carraresi ebbero tal fine. E per lo più così accadde che i piccioli nemici combattono colla chimerica lusinga di soggiogare i loro emuli; e un terzo si presenta, il quale tranquillamente [112] profitta delle loro spoglie; giugnendo poi i rivali rovinati a conoscere, ma tardi, che assai miglior partito è quello di tollerarsi scambievolmente, e rimanere concordi ed uniti, per ottenere stabilità di fortuna, e tranquillo e decoroso godimento di essa.

Poichè per tal modo ebbe Gian Galeazzo estesi i suoi confini sino al mare Adriatico, rivolse le sue cure a dilatarli al lungo dell'Italia, al di là di Bologna, nella Romagna e nella Toscana. Egli conquistava per mezzo de' suoi generali. Prese colle armi Bologna. Molto si stese nella Romagna. Perugia, Spoleti, Nocera, Assisi furono da lui acquistate. Nella Toscana egli comprò Pisa collo sborso di ducentomila fiorini, e gliela vendette Gerardo Appiani, che era succeduto al padre in quel dominio. Egli acquistò Siena, che se gli rese per dedizione spontanea[152]. La repubblica di Firenze non poteva con tranquillità rimirarsi in tal modo cinta dai nuovi Stati del conte, la di cui ambizione non aveva limiti, e si venne alle ostilità. Nel loro manifesto i Fiorentini dissero:[153] Sed profecto nosmetipsos, vana fide delusi, decipiebamus, persuadentes nobis illum esse posse fidelem, qui tam infidelis extitit nepos et gener et frater, in patruum, socerum, atque fratres, cujusque toties, et nobis, et aliis, probata fides erat nihil habere constantiae, nisi solum in hoc ut fidem quam promiserat non servaret... Nos versa vice tyranno Lombardiae, qui se regem facere cupit, et inungere, bellum indicimus[154]. Stimolarono i Fiorentini il re di Francia, e non si sa con [113] quai mezzi l'indussero, malgrado gli stretti vincoli del sangue, a spedire per la Savoia, un corpo di diecimila francesi, comandati dal conte d'Armagnac. Sebbene il duca di Savoia fosse pure stretto parente del conte, che era figlio di Bianca di Savoia, pure lasciò libero il passo a queste truppe. Il comandante conte d'Armagnac era parente stretto di Carlo Visconti, figlio di Barnabò, che viveva miseramente ramingo colla sua moglie Beatrice d'Armagnac. L'armata francese si portò rapidamente sotto di Alessandria, città munita di valido presidio, comandato da quel Jacopo dal Verme che aveva fatto prigioniere Barnabò. I Francesi si presentarono con insulto, deridendo, provocando, ed invitando se avevano coraggio di venir fuori que' poltroni Lombardi. Si vide poi che è più facile l'oltraggiare che il vincere. Uscì Jacopo dal Verme il giorno 28 di luglio dell'anno 1391, e, per risposta, prese il conte di Armagnac prigioniere, e tutti que' francesi che non rimasero sul campo. Così terminossi quella spedizione; e il conte ben presto si accomodò colla Francia, facendole sperare di sottomettere colle sue armi Genova, e darla a quel re; il che poi non avvenne. Il conte per altro sembrava affezionatissimo ai Francesi. Ei si faceva pregio della contea di Virtù, che era un piccolo feudo della Francia nella Sciampagna, portatogli in dote dalla prima moglie Isabella, figlia del re di Francia Giovanni II. L'essere stato sino dalla fanciullezza unito con una amabile principessa di Francia, gli aveva lasciata quella propensione. Il conte, nell'anno 1387, maritò Valentina Visconti, l'unica sua figlia, a Luigi duca di Torrena e conte di Valois, fratello del re di Francia Carlo VI. Le sborsò quattrocentomila fiorini d'oro per sua dote, e le assegnò pure in dote Asti, e tutte le terre e castelli del Piemonte. Di più, volle riservare a lei ed a' suoi figli la ragione di succedere negli Stati suoi in mancanza di successori maschi legittimi e naturali; poichè allora non per anco ne aveva: di che erasene incolpata la stregoneria del signor Barnabò, come dissi. Questa riserva di successione fu poi cagione funestissima di miseria e rovina allo Stato, allorchè, centododici anni dopo, il re di Francia Lodovico XII [114] (che era salito sul trono dopo Carlo VIII, morto senza figli), venne a far valere le ragioni della sua ava paterna Valentina Visconti, per essere estinta la linea legittima di Matteo I Visconti. Se poi il conte di Virtù, che aveva ottenuta la sovranità, per sè e suoi successori maschi legittimi e naturali, dal consiglio generale due anni prima, avesse facoltà di trasferirla ai discendenti delle femmine; e se ciò fosse conforme alla pace di Costanza, all'eminente sovranità dell'Impero, di cui era vicario, ed al buon diritto, sarebbe facil cosa il deciderlo, qualora la questione si fosse trattata fra privati avanti un tribunale. Il conte dava una cosa non sua. Pure, questa incautissima eventuale sostituzione serve di una dolorosa epoca nella nostra storia, per le guerre, le invasioni, la scissione che poi ne avvenne del nostro paese.

Se i Fiorentini erano in armi, e se movevano altri principi contro di Giangaleazzo conte di Virtù, per porre argine alle conquiste ch'egli faceva nella Toscana, non avrebbero certamente i papi risparmiato dal canto loro di adoperare tutti i mezzi ch'erano in loro potere, contro di un principe invasore del loro Stato, e che occupava Bologna e le altre città che abbiamo accennate. Ma gl'interessi della Santa Sede erano turbati interamente. V'erano due, ciascuno de' quali pretendeva d'essere papa; e questo scisma, incominciato sin dall'anno in cui morì Galeazzo II, durò da un successore all'altro per lo spazio di ben quarant'anni. Alcuni paesi decisamente riconoscevano uno de' due papi per legittimo sommo pontefice. Lo scaltrito conte di Virtù non volle mai decidersi; ma adescò ed un papa e l'altro, lasciando sperare a ciascuno di volersi per esso determinare; e frattanto che i due competitori, con prodiga compiacenza, gareggiavano per guadagnarsi l'amicizia sua, egli andava togliendo alla Santa Sede lo Stato, ed operando ne' suoi dominii come s'ei fosse padrone di tutto, disponendo anche delle cose ecclesiastiche. La politica del conte era tale, che volle ottenere e da Urbano VI, che stava in Roma, e da Clemente VII, che risedeva in Avignone, la dispensa per contrarre le nozze con Caterina Visconti, sua [115] cugina, l'anno 1380; e ciò sotto pretesto di timorata coscienza, non essendo egli ben certo quale de'due papi fosse il vero. Con tal mezzo,[155] Omnes dignitates, dice l'Annalista piacentino[156], et beneficia ecclesiastica terrarum ipsius domini comitis, quae erant conferenda, dictus dominus comes ipse conferebat cui volebat, et dictus dominus papa dicta beneficia et dignitates confirmabat omnibus illis quos dictus dominus comes elegerat. Ciò nondimeno i principi minori d'Italia erano collegati contro del conte; e fra questi eravi il signore di Mantova Francesco Gonzaga, gli Stati del quale, come più vicini, erano ancora più degli altri in pericolo; sembrando inevitabile anche per lui il destino dei signori della Scala e de' signori di Carrara. L'armata del conte, spedita contro il Mantovano, era comandata da Jacopo dal Verme. I Fiorentini non potevano soccorrere il Gonzaga, perchè il conte altro corpo di truppe teneva contro Firenze. Il Po era coperto di navi con armati dall'una e dall'altra parte; ed il Gonzaga aveva fabbricato su di quel fiume un ponte, di legno bensì, ma tanto forte e munito, che il dal Verme non credè di attaccarlo. Sotto di questo ponte si ricoveravano le navi mantovane ogni volta che dalle nostre venivano minacciate di offesa, come frequentemente accadeva. (1397) Il dal Verme, che non poteva innoltrarsi senza essere padrone del fiume, per cui riceveva la vettovaglia, immaginò uno stratagemma, che fu poi imitato dal re di Svezia Carlo XII alla Duina, mentre guerreggiava nella Polonia. Fece disporre un buon numero di barche piccole, e le caricò di paglia e di legna da ardere. Aspettò un buon vento favorevole; vi accese il fuoco, e il vento, unito alla corrente, portarono le barche sotto del ponte, ed immersero quel presidio nel fumo anche prima che il fuoco lo distruggesse. Ebbe cura che le [116] barche fossero più larghe di quello che non erano i vani del ponte, per modo che, ivi giunte, vi rimanessero, e ne seguisse l'incendio, e così avvenne, dato che fu il fuoco alla paglia, e lasciate le macchine in poter del fiume. Nello stesso momento egli attaccò per terra la testa del ponte, talchè i Gonzaghi, sorpresi, e nemmeno potendo conoscere ove occorresse di portare soccorso, non s'avvidero del fatto se non dopo che fu rovinato il presidio ed il ponte, e perduta la difesa del Po. Jacopo dal Verme colse il momento della costernazione dei nemici, de' quali ben mille si erano sommersi col ponte, attaccò le navi de' Gonzaghi colle sue, e terminò questa battaglia navale colla presa di tutte le navi del nemico, il che accadde il giorno 14 di luglio dell'anno 1397. Pareva dopo ciò inevitabile la presa di Mantova e di tutto lo Stato del Gonzaga. Ma questi ricorse ad uno stratagemma men nobile e meno eroico, ma che lo sottrasse dall'imminente destino. Trovò un falsario che seppe esattamente contraffare una lettera di Giangaleazzo Visconti, e con questa lettera ordinò al dal Venne di ritirarsi dal Mantovano, come seguì. L'occasione passò, e il Gonzaga si sottrasse alla rovina[157]; poichè attaccò l'armata priva del suo generale, e nel momento in cui nessuna disposizione vi era per la difesa, ebbe il campo di batterla. Il mestiere di falsificare le lettere del principe convien credere che in que'tempi fosse in uso, poichè il conte di Virtù, l'anno 1393, fece a tal proposito un editto che decretava a que' falsari un'atrocissima pena:[158] Cum catena ferrea alligetur ad unam columnam, cum uno annulo ferreo revolvente se, et cum quo ipse homo revolvere se possit circumcirca ipsam columnam, longinqua catenus quatenus plus fieri poterit, ita ut mortem dolentiorem sustineat; ibidem tamen comburatur ita quod moriatur. [117] così leggesi in quel decreto, che pare scritto dallo stesso secretario che serviva Galeazzo, padre del conte.

Sino dall'anno 1380 il conte di Virtù aveva ottenuto, siccome dissi, dall'Imperatore Venceslao il diploma di vicario imperiale. Ma questa dignità personale poteva non essere data a' suoi figli, e la elezione d'un nuovo imperatore poteva farla perdere al conte medesimo, il quale non dimenticava i figli di Barnabò e le pretensioni che avrebbon potuto far valere, sì tosto che le circostanze loro fossero favorevoli. Per tal cagione egli cercò d'essere formalmente investito da quell'augusto come vassallo di tutti gli Stati che possedeva, onde per tal modo rimanesse la successione e la sovranità perpetua ne' suoi discendenti. La richiesta venne esaudita dall'imperatore Venceslao, col mezzo di centomila fiorini d'oro che ei ricevette dal conte. Gli Stati del conte vennero eretti in ducato, e il conte venne dichiarato duca di Milano, con un diploma segnato il giorno 2 di maggio dell'anno 1395; e con altro diploma posteriore l'imperatore dichiarò le venticinque città che intendeva comprese nel ducato concesso, cioè Arezzo, Reggio, Parma, Piacenza, Cremona, Lodi, Crema, Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Feliciano, Feltre, Belluno, Bassano, Bormio, Como, Milano, Novara, Alessandria, Tortona, Vercelli, Pontremoli, Bobbio e Sarzana. Oltre queste città lo stesso augusto investì il nuovo duca d'una distinta contea, transitoria pure a' suoi discendenti, nella quale si comprendevano Pavia, Valenza e Casale. Il diploma è del giorno 13 ottobre 1396. Così quell'augusto venne a staccar dall'Impero ventotto città, che formavano la maggior parte dell'antico regno italico; e il duca ne diventò legittimo sovrano. Altre città possedeva Giangaleazzo, non comprese in quel diploma; poichè, sebbene avesse ceduto Padova e dato in dote alla principessa Valentina Alba ed Asti, ancora Bologna, Pisa, Siena, Perugia, Nocera, Spoleti ed Assisi erano sue suddite; per lo che era egli sovrano di trentacinque città. La solenne funzione di rivestire delle insegne ducali il nuovo duca si celebrò in Milano sulla piazza di Sant'Ambrogio, il giorno 8 di settembre dell'anno 1395. In que' tempi non v'erano altri duchi [118] in questa parte d'Italia; quindi la funzione fu solennemente celebrata con infinito corso di forestieri, e come dice il Corio, «al spectaculo de tanta solemnitate vi concorse quase de tutte le natione de christiani, ed anche infedeli, in modo che ciaschuno diceva non più potere maggior cosa videre[159]». Io ho un esemplare manoscritto della orazione che recitò il vescovo di Novara in mezzo di quella pompa, sulla piazza di Sant'Ambrogio. Essa incomincia così:[160] Ecce testem populis dedi eum ducem, et praeceptorem gentibus. — Venerabiles patres, spectabilesque domini mei, plurimum merito venerandi, tota Mediolanensium patria potest a me condiligenter quaerere: — dic, quaeso, Novariensis episcope, quae sacrum moverunt caesareum animum nostrae comunitati ducatus exhibere fastigium? — Ad quam ego: — quadruplex rerum conditio; dirigens benignitas Regis aeternalis; prosequens conformitas actus parentatis; obsequens fidelitas domus Viperalis; congruens utilitas plebis generalis. Poi dopo s'impegna a provare con varii testi della Sacra Scrittura, che Giangaleazzo era stato dall'imperatore creato duca per volere di Dio; per inclinazione di quell'augusto, che, sull'esempio de' suoi maggiori, beneficava la casa Visconti, per rimunerazione della fedeltà colla quale i Visconti erano sempre stati affezionati all'imperatore, e per bene generale de' numerosi popoli che obbedivano a Giangaleazzo. Indi l'oratore passa alle lodi dell'Impero Venceslao, nel quale trova:[161] Celebris potentia validi vigoris; nobilis prosapia fulgidi [119] decorit; hilaris clementia placidi datoris; e continua a dimostrare queste asserzioni ritmiche, con fasi e modi singolarissimi. Poi, terminato l'encomio di Venceslao, passa a tessere quello del nuovo duca, e le sue lodi sono:[162] Generis propinquitas, multum radiosa; corporis formositas, multum speciosa; animi tranquillitas, valde virtuosa. L'oratore vescovo di Novara era Pietro di Candia, che poi diventò papa col nome di Alessandro V; e tale sermone fu allora ammirato da tutti come un capo d'opera della più nobile eloquenza. Eppure trentacinque anni prima Petrarca era domiciliato presso quella piazza medesima! Convien dunque dire che le eleganti adunanze che ivi aveva tenute, e quelle del suo Linterno, non avessero lasciato alcuna traccia[163]. Il Corio descrive i donativi magnifici che fece il duca di superbi vasi d'oro e d'argento, collane d'oro, drappi ricchissimi d'oro e seta, cavalli signorilmente bardati, ed altri generosi regali distribuiti ai convitati. Il grandioso pranzo lo diede il duca nell'antica corte dell'Arengo, ossia Broletto Vecchio, dove oggidì sta la regia ducal corte. Il Corio ce ne dà la descrizione, ed io la riferisco, perchè dà idea del costume di quei tempi. Si cominciò con presentare a ciascuno de' convitati «aqua a le mano, stillata con preciosi odori; e puoi seguitarono le imbandisone, tutte accompagnate con trombe ed altri diversi suoni; la prima delle quali fu, marzapani e pignocate dorate, con arme dil serenissimo imperatore e nuovo duca, in taze doro, con vino bianco; deinde pollastrelli con sapore pavonazzo, cioè uno per scotella e pane dorato; puoi porci dui grandi dorati e dui vitelli parimente dorati. Inde vi furono portati grandissimi piatelli dargento, e per caduno pecti dui de vitello; pezi quattro de castrato; pezi due de sensali. Capretti dui interi, pollastri quattro, capponi quattro, persutto uno, somata una, salzici dui, e sapore bianco per minestra, e vino greco. Doppo furono [120] portati altri piatelli di simile grandezza con pezi quatro de vitello a rosto; capreti dui interi; lepori dui intere; pizoni grossi sei; cunelli quattro. Puoi pavoni quattro, cotti et vestiti; orsi due dorati con sapore citrino. Doppo furono portati altri grandissimi piatelli dargento con faxani quatro per cadauno, vestiti; ed a quelli seguitavano conche grande di argento, con uno cervo intero dorato; daino uno similmente indorato, e caprioli dui con galantina. Puoi piatelli come di sopra con non puocho numero de qualie e pernice con sapore verde; puoi furono portate torte di carne dorate con pere cotte. Doppo fu dato acqua a le mano, facta con delicati odori, ali quale seguitava pignocate in forma de pessi, inargentate. Puoi pani inargentati, limoni syropati, inargenti in taze, pesce rostito con sapore rosso, in scutelle d'argento, pastelli de inguilli, inargentati. Puoi piatelli grandi de argento furono portati con lamprede e gallatina inargentata, trute grande con sapore nero, e sturioni dui, inargentati. Inde fu portato torte grande verde, inargentate, mandole fresche, vino legiero, malvasia, persiche e diversi confecti a varie fogie[164]». Pare che l'usanza fosse allora nei conviti pomposi di collocare nel centro della gran mensa de' pezzi enormi, come maiali, vitelli, orsi, cervi, daini, sturioni interi o dorati o inargentati, ovvero rivestiti colla loro pelle naturale e internamente arrostiti. Pare che queste masse non servissero ad altro che alla vista dei commensali durante il convito, e che quello finito si concedessero da depredare festosamente al popolo. Per cibo de' commensali si ponevano loro davanti, all'uso monastico, dei piatti minori. I sapori bianco, nero, rosso, verde, citrino e pavonazzo, pare che fossero salse di colori e gusti diversi. L'usanza di coprire con foglie d'oro e di argento i cibi anche oggi si conserva in alcune ciambelle di monache: gli speziali lo fanno altresì per diminuire la nausea alle cattive cose che presentano da inghiottire; e nella nostra plebe rimane ancora il proverbio di mangiare il pan d'oro per significare una vita signorile e deliziosa. In mezzo a questa [121] stomachevole abbondanza, degna di quel tempo, in cui si ammirava l'accennata eloquenza del vescovo di Novara, confesseremo che nella eleganza di servire con acque odorose per lavarsi, erano quegli uomini più colti e raffinati che ora non lo siamo noi.

L'ambizione di Giovanni Galeazzo non era sazia giammai, e voleva per ogni modo quel principe lasciare ai secoli venturi la fama di sè medesimo. Felici i suoi popoli s'egli avesse temuto la cattiva fama! Egli ordinò una compilazione degli statuti di Milano, la quale si pubblicò il giorno 13 di gennaio dell'anno 1396, ed è la medesima che venne stampata poi l'anno 1480, in Milano, da Paolo Suardi, con assai bella edizione. Egli fece immaginare la genealogia del suo casato; e questa fu compilata nella maniera più grossolanamente fastosa che dir si potesse. Si creò allora la cronaca de' conti di Angera, celebre presso di molti fra i nostri autori. Si riascese nulla meno che al troiano Enea, il nipote di cui, per nome Anglo, si fece fondatore d'Angleria, nome latino d'una rocca del distretto del lago Maggiore chiamata Angera. Da Anglo se ne fanno discendere molti re, molti eroi e finalmente Matteo Visconti. Appoggiati in questa genealogia i successori di Gian Galeazzo ambirono poi di aggiugnere al titolo di duca di Milano quello ancora di conte d'Angera e talvolta semplicemente Anglus; come fra gli altri ambì di fare Lodovico Sforza, che nella leggenda delle sue monete per questo si potrebbe credere un inglese. Anche il titolo distinto di conte di Pavia lo aggiunsero i successori, per essere quella una contea separatamente infeudata; e per lo più il principe ereditario chiamavasi conte di Pavia. Vi bisognava nulla meno che una ignoranza totale della storia, per ispacciare seriamente la impostura dei conti d'Angera. Eppure il duca fu contentissimo di quella adulazione; e la cronaca venne accolta con riverenza e con fede. La stessa ambizione della immortalità portò il duca a fabbricare la chiesa e la magnifica Certosa presso Pavia, dotandola signorilmente, in guisa che era uno de' più grandiosi e ricchi monasteri che avesse quest'ordine. Finalmente allo [122] scopo medesimo mirò colla fabbrica del Duomo di Milano, immaginato ed innalzato da lui. Allora non v'era in Roma la superba chiesa di San Pietro, nè in Londra quella di San Paolo; e il tempio che disegnò Gian Galeazzo ed innalzò in Milano, per que' tempi, era il più grande, il più ardito e il più magnifico del mondo, senza eccettuare Santa Sofia di Costantinopoli. Se la fabbrica siasi cominciata nell'anno 1386, ovvero nel 1387, è un soggetto di controversia nel quale non entrerò. Nemmeno entrerò io a trattare del gusto di questa immensa mole, tutta caricata di minutissimi lavori di marmo, con tanta prodigalità e capriccio, che costano secoli e tesori gli ornati, le balaustrate, le guglie e i terrazzi che la coprono, e non sono visibili se non agli uccelli, o a que' pochi che hanno la curiosità di salire centottanta braccia, quant'è l'altezza dell'ultima guglia, per rimirarle. Il duca volle fare questo tempio abbandonando la simmetria degli ordini eleganti di architettura, e seguendo il gusto di fabbricare della Germania. Io non saprei a tal proposito esprimermi tanto bene, quanto ha fatto nell'elogio del Cavalieri il nostro immortale abate Paolo Frisi: «Gli architetti fatti allora venire dalla Germania, avendo preferita la nativa loro maniera di fabbricare agli ottimi modelli che sino da quei tempi vedevansi nella Toscana, ci lasciarono nella gran fabbrica del nostro Duomo un monumento della rozza opulenza, piuttosto che del buon gusto. Anzi il nuovo modello, imponendo colla sua stessa grandiosità, e confondendo le idee della simmetria, dell'euritmia e del bello, servì piuttosto a ritardare fra di noi i progressi della maestosa e nobile architettura»; così egli. La lunghezza del Duomo è di braccia duecentoquarantanove e mezzo; la larghezza massima della croce è braccia centoquarantotto e un ottavo; e la larghezza della chiesa è braccia novantasette. Il nostro braccio è l'estensione di un piede e dieci pollici di Parigi, così che sei braccia si calcolano prossimamente undici piedi reali di Francia[165]. Questo grande edificio [123] è tutto di marmo bianco ed alquanto trasparente, che si cava da un monte del lago Maggiore, verso Domodossola. Il duca arricchì questa fabbrica di assai pingue patrimonio; ma per innalzare la immensa mole vi vollero generose e moltiplicate obblazioni; ed il Corio ci racconta che, essendo stato nell'anno 1390 pubblicato in Roma un Giubileo, «dove Lombardi per le continue guerre e turbazione non essendogli potuto andare, Bonifacio pontefice, ad intercessione [124] de Giovanne Galeazzo Vesconte, la concesse a Milano ne la medesima forma che era a Roma, cioè che ciaschuno nel dominio dil Vesconte sì anche non fusse contrito ne confesso, fusse absoluto di qualunque peccato... offerendo al primo Tempio due parte de le tre che avrebbino speso ne lo andare a Roma, de la cui oblatione due parte dovevano essere de la fabrica dil celeberrimo Tempio, e la tertia parte al pontefice: a questa indulgentia li ultimi dui mesi gli concorse innumerabile moltitudine de Lombardi[166]». Si è temuto questo passo del Corio, che asserisce avere il papa accordata l'assoluzione anche ai non pentiti; e per ciò nelle più recenti edizioni questo pezzo fu ommesso. Non vi è però motivo alcuno di temere sinistra impressione, dappoichè l'instancabile nostro conte Giulini ha pubblicata la bolla medesima di Bonifacio IX, che ritrovasi nell'archivio Panigaroli, nel registro A, pag. 169, in cui chiaramente si legge:[167] Vere penitentibus et confessis[168]. Il Corio si è ingannato attribuendo quella opinione al papa. Ma non credo io ch'egli poi siasi ingannato, asserendo che tale opinione comunemente sì facesse correre per adescare in gran numero i donatori. Infatti già vedemmo al capitolo undecimo, come il cardinal legato Bertrando del Poggetto, sessantanove anni prima, aveva [125] pubblicata la Crociata per la distruzione di Matteo I, promettendo a chi vi si arruolava assoluzione intera,[169] liber et mundus sit tam a culpa, quam a poena. Questa opinione erronea e funesta era dipoi andata serpeggiando per modo, che lo stesso Bonifacio IX, in un suo breve, scrisse a disinganno di chi si lasciava adescare:[170] Non veras, et praetensas facultates hujusmodi mendaciter simulant, cum etiam pro parva pecuniarum summula, non poenitentes, sed mala conscientia satagentes iniquitati suae quoddam mentitae absolutionis velamen praetendere, ab atrocibus delictis nulla vera contritione, nullaque debita praecedenti forma (ut verbis illorum utamur) absolvant, mala ablata, certa, et incerta, et nulla satisfactione praevia (quod omnibus saeculis absurdissimum est) remittant[171]. V'erano dunque pur troppo i comodissimi dottori, che, per carpire denaro, addormentavano gli uomini nel delitto; e non è difficile che questi venissero adoperati per innalzare il Duomo; nel quale il duca pensò di lasciare ai secoli un monumento eterno della sua grandezza. Da tali fatti si può concludere che allora non v'era idea di eloquenza; non si studiava la storia, cattivo era il gusto di architettura, e poco dissimile quello della mensa; e quel che è peggio di tutto ciò, correva una morale infame, per cui si credeva col denaro di cancellare qualunque iniquità, senza bisogno alcuno di pensare a diventar migliori. I lodatori de'tempi antichi, torno ancora a ripeterlo, non sanno la storia.

La vendita che aveva fatta l'imperator Venceslao di tutto [126] il regno longobardo, ossia italico, al nuovo duca, mosse i principi della Germania a formare un partito per deporre quel sovrano dal trono augusto, dal quale aveva staccata una parte così importante. Altri motivi di doglianza avevano ancora contro di lui. (1401) Quindi dichiararono imperatore Roberto conte Palatino di Baviera, e Venceslao deposto; il che avvenne l'anno 1401. Il papa, i Veneziani ed i Fiorentini animarono il nuovo Cesare a comparire nell'Italia, per rivendicare le terre staccate dall'Impero; e gli promisero tutti i soccorsi. Il nuovo imperatore, prima di venire, scrisse al duca la lettera seguente, che ci ha conservata il Corio:[172] Robertus de Bavaria, Dei gratia, Romanorum rex, et Rheni comes Palatinus. Tibi Johanni Galeaz, militi Mediolanensi, praecipiendo mandamus, quatenus omnes civitates, castra, terras, et loca Romano Imperio et ditioni nostrae spectantia, quae in Italia occupata indebite detines, Nobis, quibus Romani Imperii gubernatio, ex electione de nobis imperatore per Imperii electores canonice facta, ad me spectat et pertinet, restituere ac resignare debeas, alioquin ut sacri Imperii terrarum, et jurisdictionum invasorem, et nostrum hostem et rebellem diffidamus. A tale intimazione così rispose il duca:[173] Tibi Roberto de Bavaria [127] nos Johannes Galeaz Vicecomes, Dei et serenissimi domini Vincislai Romanorum et Bohemiae regis gratia, dux Mediolani, etc., ac Papiae et Virtutum comes. Per praesentes respondemus quod quascumque civitates, castra, terras et loca in Italia possidemus, et a prefato serenissimo domino Vinceslao, Romanorum rege, et sacri Imperii gubernacola canonice possidente, tenemus et possidemus, ipsasque a te, Imperii invasore atque praefacti domini Vincislai et nostri hoste manifesto, defendere prorsus intendimus, teque, ipsorum Imperii et dominii Vincislai regis atque Nostrum hostem manifestum, si nostrum territorium invadere praesumpseris, diffidamus[174]. L'effetto di queste bravate non fu altro, se non che il nuovo augusto Roberto passò le Alpi, e dal Tirolo venne sul Bresciano. L'armata del duca se gli affacciò; e il giorno 21 di ottobre dello stesso anno 1401, battè gl'imperiali per modo che condusse a Brescia un buon numero di prigionieri, due stendardi e più di mille cavalli; il che risulta dagli antichi registri della città sovra memorie contemporanee, consultate e pubblicate dal nostro conte Giulini[175]. Il conte Alberico di Cunio e di Barbiano ebbe gran parte dell'onore di questa vittoria[176]. Egli fu molto caro a Barnabò. Alberico fu istitutore della società militare di San Giorgio, che liberò l'Italia da masnadieri esteri. La virtù e il nome di questo illustre italiano vivono ne' nobilissimi suoi discendenti[177]. La presa di due [128] stendardi significava allora assai più che non farebbe in questo secolo, nel quale abbiamo moltiplicato le insegne, non saprei a qual altro uso, fuori di quello di attestare con maggior autenticità le proprie perdite quando vengon prese da' nemici, stipendiando a tal fine molti uomini inutili per la battaglia. L'apparizione del re Roberto fu momentanea, poichè dopo quell'incontro voltò strada, e per la via di Trento se ne ritornò nella Germania. (1402) A tale stato di prosperità era giunto Giovanni Galeazzo Visconti nell'anno 1402, che tutto si piegava sotto la potenza di lui. Altro più non gli restava se non di sottomettere Firenze, la quale era già cinta d'assedio dal conte Alberico; e fra poco la Toscana, la Romagna in buona parte, e la Lombardia non avrebbero avuto altro padrone fuori che lui. Così il Visconti aveva nuovamente radunato in un sol corpo l'antico dominio de' re longobardi, nè altro più gli mancava che il solo titolo di re. Il Corio ci attesta che il manto reale, il diadema, lo scettro erano già preparati dal duca; e per celebrare la funzione di farsi consacrare, aspettava soltanto l'avviso della resa di Firenze. I generali del duca erano i migliori di quei tempi: Jacopo dal Verme, Ottobuon Terzo, Facino Cane e il conte Alberico di Barbiano. Il duca contava il quarantanovesimo anno della età sua mentre aveva in faccia questa ridente e grandiosa scena; quando morì in Marignano, il giorno 5 di settembre dello stesso anno 1402; e così ogni cosa cambiò aspetto; e tutte le previdenze umane, e tutt'i lunghi fili tessuti per un avvenire sempre indipendente dagli uomini, rimasero troncati. Fu veramente magnifica e reale la pompa funebre che si celebrò in Milano per Giovanni Galeazzo I duca. Ne abbiamo la descrizione minuta[178]. Intervennero al funerale gli oratori di ciascuna delle città suddite; gl'inviati di tutti i principi esteri; e quaranta illustri consanguinei della agnazione Visconti. Le insegne di tutte le città e borghi principali del dominio, portate da duecentoquaranta uomini a cavallo; duemila uomini vestiti a bruno, con grosse torce [129] di cera; tutt'i vescovi sudditi; il feretro, portato dalle cariche di corte, sotto di un baldacchino di broccato d'oro, foderato d'armellini; le insegne ducali, portate dagli araldi, il tutto formò uno spettacolo maestoso.

Il carattere di Giangaleazzo si manifesta bastantemente dalle sue azioni. Sant'Antonio lo ha dipinto con odiosissimi colori. Il nostro Corio lo dice prudentissimo ed astuto, che sfuggiva il commercio degli uomini, pigro, timido nell'avversità, e audace nella prospera fortuna, simulato, vano ed infedele alle promesse. Io dirò che egli era ambizioso, senza elevazione d'animo, superstizioso, senza vera religione, mite, senza principio di virtù. Egli non ebbe l'atrocità del padre e dello zio, ma nemmeno ebbe la franchezza del carattere del secondo. Tutto in complesso, egli però fu men cattivo principe di quello ch'essi furono: dal che non risulta gran lode. Nel suo regno vi sono de' fatti grandi; ma nessuno ve n'ha di nobile e generosa indole. I sudditi dovettero sopportare pesantissimi aggravii, com'era necessario di fare per supplire alle grandiose spese che assorbivano le armate, le pompe, le compre di Stati e di titoli, e tutti i maneggi che prese il duca a trattare. Il nostro Annalista ci scrive:[179] Dux noster imposuit taleas, conventiones, et mutua intra dominium subditis suis ita magna et continua, quod ipsis oportebat per peregrina loca vagari, non valentes dicta onera sustinere, et fuit ululatus viduarum, et orfanorum, et aliorum singulorum, et maximus strepitus inferiorum, et immensae crudelitates. Et non valentes solvere detinebantur, et bona sua a stipendiariis usurpabantur[180]. Questi mali però in Milano si dovettero sopportar meno che altrove. [130] Una popolata capitale, che è patria del sovrano, in una recente signoria, sempre è rispettata. I clamori sarebbero troppo vicini all'orecchio del principe. Milano infatti, alcuni anni dopo, malgrado il disordine che dovette soffrire sotto il governo del secondo duca, era popolata, ricca ed animata colla industria. Allora in questa capitale colava il denaro che dovevano portarvi gli oratori delle trentaquattro città soggette al duca, quello che vi spendevano i ministri dei principi esteri, quello che vi consumava il duca per la sua corte e per le sue pompe, quello che si raccoglieva per fabbricare il Duomo dalla divozione de' cittadini delle altre città; e per conseguenza aveva mezzi grandi per i tributi. Certamente che il duca pose in opera tutti i ripieghi per radunare il denaro, e fra questi ricorse ad uno di que' metafisici ritrovati che, colla idea di tener celato il tributo, opprimono i popoli, più ancora di quello che non faccia un tributo sinceramente richiesto. L'Argellati ci ha pubblicata la legge monetaria, colla quale comandò quel principe che tutte le monete si dovessero spendere a maggior numero di lire; così che, da quel giorno in avanti, la moneta che correva per tre soldi, dovesse essere spesa ed accettata per quattro soldi; salvo però il pagamento de' tributi, che eccettuò e volle che venissero pagati a ragguaglio dell'antica moneta[181]. Con questa operazione quel sovrano defraudava i suoi creditori e stipendiati d'una quarta parte di quanto loro competeva. Ma tanti furono gli inconvenienti di questa indiretta operazione, che poco dopo la dovette rivocare, e restituire le monete al primiero loro corso; di che ne ha trovati i documenti il conte Giulini nell'archivio della città[182]. La superiorità che aveva il Visconti sopra degli altri principi confinanti si conosce dalle frasi che adoperava nelle lettere ch'egli scriveva; e ciò anche da principio, avanti che avesse tanto dilatato il suo dominio ed acquistata la dignità ducale. Il Corio[183] ci trascrive le lettere che Gian Galeazzo [131] scriveva ad Antonio della Scala, sovrano di Verona e di Vicenza, e le risposte che da quel principe riceveva. Allo Scaligero il Visconti scriveva nulla più che Vir Magnifice; ed esso, nella risposta al Visconti, Illustris et excelse Pater noster praeclarissime. Nel corpo della lettera il Visconti scriveva Nobilitati, vestrae, e nulla più; e lo Scaligero, Excelsa Paternitas vestra, ovvero Pater Excellentissime. Anche nel carteggio colla repubblica fiorentina si manifestava il superiore riguardo che avevasi per il Visconti. Egli scriveva Magnifici fratres carissimi; ed essi nelle risposte dicevano: Magnifice et Excelse Domine, frater et amice carissime; e nel corpo della lettera, Excellentia vestra.

Il duca Gian Galeazzo, malgrado la severa pietà che dimostrava sino alla ipocrisia, lasciò, morendo, un figlio naturale, nato da Agnese Mantegazza. Questi aveva nome Gabriello Visconti; e il padre, nel suo testamento, lo fece sovrano di Pisa e di Crema. Nel testamento medesimo, egli divise a suo arbitrio lo Stato; poichè al cadetto (de' due figli ch'ei lasciò, nati dalla duchessa Caterina, figlia di Barnabò), non solamente lasciò la contea di Pavia, che aveva ottenuta come un feudo separato, ma vi aggiunse Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno e Bassano; città tutte staccate dal ducato, il quale doveva pure, in virtù del diploma e colla legge de' feudi, passare interamente nel primogenito, che era Giovanni Maria. Il primogenito adunque rimase duca di Milano; il cadetto restò conte di Pavia; s'intitolò il primo: Johannes Maria Anglus, dux Mediolani, etc., comes Angleriae ac Bonomie, Pisarum, Senarum ac Perusii; e il secondogenito prese a chiamarsi: Philippus Maria, comes Papiae, et Veronae dominus.

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CAPITOLO XV. Del duca Giovanni Maria, e del terzo ed ultimo duca Visconti, Filippo Maria.

Dalla metà del secolo decimoquarto sino alla metà del secolo decimoquinto, per lo spazio di cento anni, la storia di Milano presenta come una figura colossale mal connessa, di cui ora si raccozzano ed ora cadono i pezzi; che però in nessuna parte mostra vaghezza ed eleganza, ma rappresenta una figura truce e deforme. Tale fu l'indole di que' tempi e di que' governi, nei quali della virtù appena si conosceva il nome; sotto a principi che considerarono gl'interessi loro, non solamente staccati, ma opposti a quelli del loro popolo, che opprimevano e saccheggiavano anzi che governarlo. Ad onta però dei vizi de' sovrani, Milano s'andò arricchendo; si animò l'agricoltura, si aumentò sempre la popolazione, l'industria si moltiplicò. Perchè la capitale d'un vasto Impero, collocata in mezzo d'una fertile pianura, e comandata da un sovrano (che, malgrado l'atrocità, predilige sempre i suoi concittadini), non può a meno che non cresca. Morto il duca Giovanni Galeazzo, cadde la gran mole dello Stato sotto il governo di due minori. Giovanni Maria, primogenito e nuovo duca, aveva appena quattordici anni, e dieci e non più ne aveva Filippo conte di Pavia, di lui fratello minore. Sarebbe stato difficile in que' tempi il conservare illesa la dominazione, quand'anche il ducato di Milano fosse stato un principato antico, consolidato dalla opinione de' popoli, e la duchessa vedova tutrice fosse stata d'animo bastantemente elevato ed energico per sostenere il peso del governo. Ma oltre i mali inseparabili dalla minorità, lo Stato era un recente aggregato di conquiste, di usurpazioni, di compre; e nessun [133] altro titolo v'era per convincere i popoli della legittimità della nuova dominazione, che la forza. Un diploma comprato da un debole e deposto imperatore, le male arti, le insidie e la più vergognosa mancanza di fede, questi erano i titoli che doveva far valere la vedova duchessa Caterina, donna avvilita d'animo; perchè, per lo spazio di ventidue anni, costretta a soffocare colla dissimulazione il rammarico della rovina di suo padre e de' suoi fratelli, oppressi da quello stesso uomo ch'ella vedeasi giacere al suo fianco la notte, e al quale doveva simulare stima ed affetto. L'orrore del suo misero stato aveva ridotta la vedova principessa affatto incapace di reggere alla testa di una tale sovranità; ed all'animo abbattuto dalla lunga ed uniforme sofferenza de' mali, s'aggiugneva un colpo d'apoplessia già sofferto, che la rendeva ancora più inetta agli affari. I due giovani principi non avevano alcun prossimo congiunto che potesse reggere lo Stato; non un Consiglio appoggiato alla costituzione. La loro rovina era inevitabile. La reggenza cominciò coll'unione di alcuni generali e di alcuni cortigiani, i quali pretesero di formare il Consiglio, presso cui stava la sovranità, sotto il nome del duca Giovanni Maria. Questa unione d'uomini potenti e mal assortiti, di cui ciascuno null'altro aveva per fine che la propria fortuna, e null'altro aspettava se non l'occasione per approfittarsi della gioventù d'un principe per il quale nessuno aveva alcuno zelo; questa unione, dico, colle interne rivalità, e col disordine ed interno scompigliamento, diede in certo qual modo il segnale ai sudditi d'essere giunto il momento opportuno per liberarsi dal giogo che era stato aggravato da Barnabò, da Galeazzo, e recentemente dal primo duca; la dispotica dominazione de' quali non era durata abbastanza per far dimenticare l'antica libertà, se pure è possibile che si dimentichi mai ogni qualvolta si soffre l'abuso del potere sovrano. I Rossi fecero ribellare Parma; Ugo Cavalcabò s'impadronì di Cremona; Giorgio Benzone si fece arbitro di Crema; Brescia se la prese a reggere Giovanni Bosone; Franchino Rusca s'eresse sovrano in Como; Giovanni da Vignate si pose a signoreggiare Lodi; e frattanto [134] i generali del morto duca, che avevano combattuto per lui, ma non sotto di lui, niente affezionati alla sua memoria, andavano saccheggiando lo Stato e occupandone le città per proprio loro conto; come fece Facino Cane, che si rese padrone di Piacenza, di Tortona, di Alessandria, di Novara e di altre terre. (1403) Le armi de' collegati scacciarono i Visconti dalla Romagna, e così Bologna, Perugia ed Assisi vennero cedute al papa il giorno 25 agosto nell'anno 1405. Siena anch'essa scosse il giogo; e poco dopo si dovettero cedere ai Veneziani Verona, Vicenza, Feltro, Belluno e Bassano l'anno 1404, frattanto che il marchese di Monferrato s'impadroniva di Casale e di Vercelli. In tale stato erano le cose, che, due anni dopo la morte del duca Giovanni Galeazzo (due anni appena dopo la real clamide disposta, la corona e lo scettro), i suoi figli tremavano, il primo rinchiuso in Milano colla duchessa sua madre nel palazzo di corte, custodito come un ostaggio in mezzo di una città che, divisa in partiti, tumultuava ogni giorno; e l'altro appiattato nel castello di Pavia e mal sicuro, perchè nella città più di lui potevano i Beccaria: ed ecco il fine di tanta ipocrisia, di tanti maneggi, di tanta simulazione, e di tante violazioni di fede!

Il duca Giovanni Maria, mentre stavasene occulto nel palazzo ducale, nel tempo che i suoi Stati erano ceduti, invasi, saccheggiati, ovvero oppressi senza di lui saputa in suo nome, s'annoiò della compagnia della vedova duchessa sua madre, fors'anco per qualche buon ricordo che ella li desse. Come la cosa andasse non lo sappiamo. La duchessa Caterina dovette staccarsi dal duca suo figlio, e si ritirò a Monza, per ivi passare il resto de' tristi giorni suoi, i quali ben presto terminarono il giorno 17 di ottobre dell'anno 1404. Questa morte si attribuì, non senza fondamento, allo stesso duca suo figlio; e le azioni della sua vita ci levano pur troppo l'inquietudine di essere o maligni o calunniosi nel sospettarlo. I consiglieri di quell'insensato duca non erano sazii mai della preda, e imponevano tributi, prestazioni e gabelle, per fare in ogni modo un buon saccheggio; ma non avendo assoldate truppe bastanti, [135] nè essendo ben organizzata la macchina politica, non sapevano con qual mezzo forzare i sudditi a pagare i tributi imposti, e allora ne immaginarono uno che prova l'indole di quel misero governo. (1406) «E l'anno sexto sopra MCCCC, dice il Corio, Giovanne Maria in Milano dominante, il dicinove di febraro, in uno giorno de Venere, ale XII ore, fu per parte del principe cridato che veruna persona non se odesse in iudicio per infine non fusse satisfacto ala solutione de le taglie imposte tanto in quello anno quanto dil preterito, e parimente che veruno notaro non celebrasse istrumento nel modo come scripto». Cospirava la fisica a rovina del popolo per una pestilenza che uccideva più di seicento persone al giorno[184]. L'interno disordine in Milano giunse a tal segno, che i generali saccheggiavano le case de' ricchi cittadini, facevano i corsari, depredando le mercanzie che navigavano sul Po, e persino, impadronitisi del castello di Milano, scaricavano l'artiglieria sopra della città, nella quale pure vi stava lo stesso duca. Bastano questi falli per concepire una idea precisa della minorità di quel principe; ed io mi credo lecito di trascurare una immensa serie di azioni cattive, uniformi e minute, che nulla ci insegnano di più, e inutilmente renderebbero sempre più meschino il racconto storico di que' tempi. Il duca Giovanni Maria era un impasto di stranissima ferocia. La crudeltà in lui sembra che nascesse non da vendetta nè da impetuose passioni, ma piuttosto da mancanza di riflessione; come si vede ne' fanciulli, che atrocemente incrudeliscono contro i più deboli e timidi animali, senza avvedersene, poichè, nulla pensando allo spasimo d'un vivente sensibile, unicamente si divertono nel fenomeno che producono, e si consolano della loro superiorità. Tale sembra che fosse il carattere di Giovanni Maria, il di cui sovrano piacere era quello di vedere sbranare gli uomini da robusti mastini, ch'egli nodriva per tale oggetto, nel tempo stesso in cui, timido ed imbecille, obbediva con sommessione a qualunque de' generali, i quali a vicenda comparendogli [136] davanti colla forza, lo soggiogavano e lo rendevano pupillo, anche dopo terminata che fu l'età minore: sorta di principato pessima sopra tutte le altre, poichè le tirannie si commettevano senza che il vero autore nemmeno compromettesse il suo nome. Giunto il duca all'età di vent'anni, il giorno 28 di gennaio dell'anno 1408 fece sbranare da' suoi cani Giovanni Pusterla, castellano di Monza, calunniandolo per la morte della duchessa Caterina. Questo innocente e nobile cittadino spirò satollando colle sue membra la fame di que' mastini nel luogo istesso ove, sessant'otto anni prima, aveva terminata la vita, con altro supplizio, Francesco Pusterla, regnando Luchino, siccome vedemmo. Fu consigliato il duca di scolparsi con tal sacrificio dall'accusa d'essere parricida. Bertolino del Maino spirò pure squarciato dai denti di quei mastini. Così cominciò il suo regno il duca Giovanni, terminata che fu la minorità! Il signor Carlo Malatesta, sovrano di alcune città, aveva a lui data in moglie Antonia Malatesta, sua nipote. Egli voleva pure illuminare il genero ed insegnargli i principii per governare lo Stato, e mostrarsi degno di comandare agli uomini; a tal fine, dovendo egli partirsene da Milano per reggere i propri Stati, lasciò al duca alcuni ricordi, i quali tuttora si conservano nell'archivio della città, e furono pubblicati dal benemerito nostro conte Giulini[185]. La sostanza di questo testamento politico si può epilogare nel modo seguente: «La crudeltà è sempre indecente, sempre odiosa, e non di rado funesta. I popoli debbono venerare nel sovrano l'immagine della Divinità, protettrice della innocenza, e placabile col pentimento. Si guardi il principe da coloro che cercano di rendergli sospetti i suoi congiunti o i privati suoi domestici; coloro sono suoi nemici. Risolva da sè il sovrano, ma negli affari ascolti prima l'opinione de' suoi consiglieri; così non accaderà una inconsiderata risoluzione. Meglio è perdonare che distruggere. I tributi s'impongano per vero bisogno, si ripartano con giustizia, si percepiscano con economia, e i cortigiani dieno l'esempio agli altri col pagarli. [137] Non s'intraprendano guerre senza necessità. Non largheggi il principe nel donare superfluamente. Sia inviolabile nel mantenere la parola data, e imparziale per la giustizia. Le cariche si dieno al merito, non mai al prezzo. Nella scelta de' ministri si esamini di quale riputazione godano, e se la vita loro sia proba; chi non è buon marito, buon padre, buon padrone in sua casa, non sarà mai buon consigliere del sovrano. Agli stipendiati si corrisponda fedelmente la paga. Le antiche leggi patrie sieno venerate ed obbedite. Ai ribelli riconciliati si tenga d'occhio, ai pertinaci si tolga il potere». Questo è il trasunto di tale memoria. S'ella fu destinata da Carlo Malatesta per illuminare il duca, non vi fu mai carta più inutile di questa. Se poi egli aveva null'altro in veduta che di lasciare una pubblica disapprovazione della condotta del nipote, non poteva scrivere meglio di così, perchè indicò appunto tutte le massime dalle quali si allontanava quel principe. Andrea Biglia, nel libro secondo della sua storia, ci descrive la barbarie di Giovanni Maria:[186] Genus illud nefandae necis quae canibus urgebatur, adversum plures intendit, tam ferme sanguinis sitiens, ut nullum fere diem per id tempus incruentum sineret[187]. (1409) Il Corio racconta che molti inermi popolari avendo gridato pace, pace, mentre il duca passava avanti della chiesa di Santo Stefano, ad istigazione di due perfidi suoi famigliari, ordinò quel principe alle sue guardie di scagliarsi colle armi in quella misera ed inerme compagnia, il che fu eseguito; e di quegli infelici «oltra a dugento ne occiseno: ed indi fece proclamare, che sotto pena de la forcha veruno più non nominasse pace ne guerra: anchora ordinò che gli sacerdoti ne la missa, in loco de pacem, dicessino tranquillitatem. Doppuoi essendo al prefato duca presentato avante uno figliuolo de Giovanne da Pusterla memorato, forse in età de XII anni, intervenne [138] questa meraviglia anzi miraculo, che, mettendo li cani addosso al fanciullo per squarciarlo, quello se gittò a terra chiamando al duca misericordia, il quale, più incrudelendo, se gli remisse uno ferocissimo cane, chiamato il guerzo, custodito per il Squarza Giramo, assai più che quello crudele contra il sangue humano, ed a suggestione dil quale lo principe molte persone per denti de suoi cani faceva lacerare. Questo cane adunque, per il canetero lassato, puoi che il fanciullo ebbe nasato, se fece a disparte. Ma il principe non per questo revocando la innata crudeltate, cominciò minaciar al Squarza che lo farebbe suspender per la gola; onde remettendo una crudelissima cagna per nome sibillina, parimente quella non volse molestar il fanciullo, che di continuo domandava perdono. Ma Giovanne Maria, più obstinato nel suo furore, comandò al malvagio canatero che scanasse lo innocente garzono, il che voluntiere exequendo, non ancora quegli cani volsino gustare dil suo sangue: ed in tal forma ne faceva morire, ed tanto in questa inaudita crudeltate se delectò, che sino la nocte andava per la cità con il Giramo, inventore de si inaudita sceleragine e favoreggiato da lui per tanto horrendo maleficio, caciando il sangue umano come li cazatori ne boschi le sevissime fere». Così il Corio[188], il quale nella sua gioventù avrà inteso questi atrocissimi fatti da' vecchi che n'erano stati dolenti spettatori. Il Biglia poi scriveva le cose de' suoi tempi, e poteva essere testimonio di veduta. Ho voluto narrar questi orrori colle parole altrui, per risparmiare a me stesso la pena di descrivere cose tanto crudeli, e per togliere ogni sospetto sulla verità dei fatti.

La condotta del duca Giovanni Maria era quella d'un vero pazzo furioso; poichè, nei mentre ch'egli insultava l'umanità, la giustizia, la natura istessa coi mastini, compagnia degna di un tal principe, egli sopportava che Facino Cane a suo pieno arbitro non solamente dominasse Alessandria, Tortona, Novara ed altre terre, ma disponesse [139] da sovrano, e in Milano ed in Pavia, ogni cosa a suo piacimento, per modo che il Biglia ci lasciò scritto:[189] Nec multo post Facinus Mediolanum advocatur, ut nihil jam illi ad utriusque dominium praeter nomen deesset, omnia uni parebant, omnia pro illius imperio statuebant, ne tanto quidem ad impensas juvenum relicto quod vitae satisfacerent[190]. Appena i due giovani principi avevano di che mangiare. Il duca aveva fatta colla città di Milano una convenzione, la quale si trova nell'archivio della città, e venne pubblicata dal conte Giulini[191]. In vigore di tal carta egli si sottopose in molta parte a que' limiti che presentemente fissa la costituzione della Gran Brettagna al sovrano, almeno per riguardo al tributo. Le regalie tutte le cedette alla città, alla quale diede in proprietà ogni sorta di carico non solo, ma persino gli stessi beni suoi allodiali; e ciò a condizione che la città gli sborsasse sedicimila fiorini al mese, ossia centonovantaduemila fiorini all'anno. Il primo duca aveva da tutto il suo Stato un milione e duecentomila fiorini all'anno[192]; ma ora non rimaneva a questo secondo duca se non Milano, e non era tenue quella somma per que' tempi. Nè questo fu pure il limite a cui si tenne il duca. Volle che la città diventasse, in certo modo, anche amministratrice dei centonovantaduemila fiorini; e stabilì che per la sua persona se gli sborsassero ogni mese duemilacinquecento fiorini, per mantenimento della sua corte, cavalli, tavola e vestito: del rimanente la città doveva pagare ottomila fiorini di stipendio per ogni mese a cinquecento lance, tremila fiorini al mese per lo stipendio di mille fanti, mille altri fiorini al mese per la guardia del corpo, [140] e millecinquecento fiorini al mese per soldo ai consiglieri ed ai giudici. Questo contratto (che dava esistenza morale al corpo politico, creandolo legittimo percettore del tributo, e un essere vivente interposto fra il sovrano ed il suo popolo, avendo un debito fisso col primo, ed un dritto e una giurisdizione sul secondo) poteva essere una nobilissima beneficenza verso della patria in tutt'altro principe; ma era una stolida imbecillità in quel Giovanni Maria, incapace di governare. Tutto era in combustione e in disordine:[193] Vulgus quidem, dice il Biglia, annonae copia delinitum; caeteri, quicunque bonorum civium loco essent intolerandis tributis gravabantur... Multi vel publica vel privata licentia interfecti. I mali pubblici, l'odio contro l'infame duca, il profondo disprezzo che si era egli meritato, giunsero finalmente al colmo. (1412) I due fratelli Andrea e Paolo Baggi, ai quali il sovrano aveva fatto ammazzare un fratello chiamato Giovanni; Giovanni della Pusterla, nipote dell'infelice castellano di Monza sbranato da' cani, e cugino dell'altro disgraziato fanciullo scannato; Francesco e Luchino del Maino, cui il duca aveva fatto decapitare due fratelli, e sbranare da' cani Bertolino, loro parente, si collegarono, e varii altri ad essi si unirono per togliere dal mondo quel mostro crudele, pazzo debole, imbecille ferocissimo; e il giorno 16 di maggio dell'anno 1412 lo colsero, non si sa bene se nella chiesa di San Gottardo, ovvero in una sala di corte mentre s'inviava alla chiesa, e lo lasciarono sul momento morto dalle ferite. Il duca Giovanni Maria così terminò la obbrobriosa sua vita, nell'età giovanile di ventiquattro anni non per anco compiuti, dopo di aver portato il nome di duca per quasi dieci anni. La universale detestazione contro di lui si manifestò con segni inusitati, poichè nemmeno si volle rendere al di lui cadavere il vano onore della pompa funebre: e una [141] donna della pubblica prostituzione fu la sola che diede un segno di pietà, gettandogli sopra un canestro di rose. L'infame Squarcia Giramo fu dalla plebe colto e strascinato per le strade, indi appeso per la gola alla sua casa.

Alcuni de' nostri scrittori hanno preteso di farci credere che il duca Giovanni Maria coltivasse le belle lettere; se ciò mai fosse, ridonderebbe un tal fatto piuttosto in disonore delle lettere che in lode di quell'anima perversa; perchè proverebbe che si può anche da un cuore insensibile gustare la venustà e la grazia del Petrarca, il che però sembra una contraddizione. So che la filosofia, le lettere, la musica, la pittura, le arti tutte hanno i loro ipocriti, come gli ha la virtù, come gli ha la religione; ma un giovine dissoluto che si diverte a far lacerare gli uomini dai cani, non è sulla strada d'alcuna ipocrisia.

Sarebbe un problema da esaminarsi tranquillamente da un uomo ragionevole e non ambizioso, se veramente Matteo Visconti abbia procurato un bene a sè stesso e alla sua casa innalzandosi al trono. Lo stesso Matteo I morì di rammarico per gl'interdetti e le scomuniche; Galeazzo I, suo figlio, cessò di vivere per i lunghi patimenti sofferti nel carcere; Stefano perì di veleno; Marco venne gettato da una finestra; Luchino fu avvelenato dalla moglie; Matteo II fu ucciso violentemente dai fratelli; Barnabò morì in carcere a Trezzo di veleno; Giovanni Maria fu trucidato. È una gran massa di sventure cotesta, accadute ad una famiglia in meno di cento anni! Nella condizione privata è ben difficile che ne accada altrettanto. Azzone e Giovanni furono i due soli principi felici, perchè sensibili, benefici e virtuosi, ma fu breve il loro regno. Egli è vero però che questo seguito di miseri casi nacque per i vizi di que' sovrani; quando nella serie di cinque secoli dell'augusta casa d'Austria non troveremo veruna traccia de' mali che in meno d'un secolo sopportarono i Visconti.

Il duca Giovanni Maria non lasciò figli:[194] Juvenem his [142] monitis imbuerunt, dice il Biglia, ut jam uxorem, si non repudiatam, certe pro dissociata haberet; nè della duchessa Antonia, figlia di Malatesta de' Malatesti, si è inteso più cosa alcuna. Filippo Maria era giunto all'età di vent'anni. Egli era il solo avanzo che rimanesse nella discendenza di Gian Galeazzo; ma se ne stava nascosto e pauroso nel castello di Pavia; solo spazio sicuro che gli restava sulla terra. Pavia, Milano e tutto il rimanente dello Stato era occupato da piccoli sovrani. Quasi ogni città si era creato un conte. Il più potente fra questi nuovi divisori del dominio era, siccome dissi, Facino Cane, al di cui stipendio viveva una schiera di militi dei migliori di quei tempi, avvezza a vincere sotto il comando di Facino. Egli in fatti era il padrone di Milano, di Pavia, di Alessandria, di Novara, di Tortona e di altre terre; e non gli mancava altro che il titolo di duca. Anzi vi è tutta l'apparenza di credere che lo sarebbe diventato, e colle armi avrebbe ricuperato per sè medesimo la successione del primo duca, poichè fu estinto Giovanni Maria, e nessun altro rimaneva che il timido Filippo Maria; ostacolo di mera opinione, facile a togliersi colla fede e colla morale di quel secolo d'orrore. Ma il potere supremo dispose altrimenti, e decretò che nel medesimo giorno 15 di maggio dell'anno 1412 Giovanni Maria morisse trucidato in Milano, e Facino Cane morisse in Pavia di natural malattia. Il momento era giunto al fine in cui i figli dell'oppresso Barnabò potessero far valere le loro ragioni. Non v'era forza che potesse far loro valida resistenza; e il governo civile di Milano era talmente sconnesso ed incerto, che nulla più doveva costare ad essi per impadronirsene che lo stendervi la mano. In fatti Estore Visconti, figlio naturale di Barnabò, nato da Beltramola dei Grassi, negli ultimi anni del regno del duca Giovanni Maria s'era impadronito di Monza; e pare che da colà aspettasse il momento per rendersi signore di Milano; e così fece spirato che fu il duca. Siccome poi l'origine sua poteva dar luogo a chi volesse trovare illegittima la sua dominazione, così Estore si associò Giovanni Carlo Visconti, discendente legittimo del signor Barnabò [143] perchè figlio di Carlo e di Beatrice d'Armagnac. Ebbero questi due (zio e nipote) un frate domenicano, chiamato Bartolommeo Caccia, che perorò e predicò tanto, che indusse il popolo di Milano a riconoscere Estore e Giovanni per sovrani; e tali durarono per un mese di tempo, cioè sino al giorno 16 di giugno dello stesso anno 1412. Questi apocrifi sovrani batterono moneta, in cui s'intitolarono bensì signori, ma non duchi di Milano; ed io ne ho nella mia raccolta. Tale era la situazione di Filippo Maria, che poteva assumere bensì il titolo di duca di Milano, ma non ne possedeva proprietà alcuna, e mancava d'ogni mezzo per deprimere gli usurpatori. Una sola via poteva aprirsegli per riascendere. Gli stipendiati di Facino Cane erano un corpo ragguardevole di bravi soldati, affezionatissimi al loro generale, e dopo la morte di esso alla di lui vedova Beatrice Tenda. Se il nuovo duca sposava questa vedova, da cui dipendevano alcune città e questo corpo di armati, era da sperarsi che quei militi, fedeli alla vedova, combattessero con impegno in favore del nuovo di lei marito. Tal consiglio provvidamente venne suggerito al duca Filippo Maria. Si entrò a trattar quest'affare; e quantunque la vedova Beatrice avesse l'età d'essere madre dello sposo che le veniva proposto, aderì all'offerta e sposò il giovine duca. Con tale atto si trovò il duca immediatamente padrone di Pavia, di Tortona, di Novara, di Alessandria e dei soldati di Facino. Il primo passo era quello di scacciare da Milano Estore Visconti. Quindi Filippo Maria, chiamati intorno di sè i fedeli stipendiati di Facino Cane, si incamminò da Pavia a Milano. Quei militi intrepidi riguardavano il duca come un figlio del loro amato padrone, e fecero sì bene, che Estore dovette abbandonare la città appunto il giorno 16 di giugno, siccome ho detto; e ritiratosi nel castello di Monza venne ivi assediato, e dopo alcuni mesi vi rimase ucciso da un colpo di spingarda che gli fracassò una gamba. Il cadavere di Estore Visconti si conserva incorrotto e visibile in un cortile di fianco alla chiesa di San Giovanni di Monza; e si riconosce la rottura della gamba. Appena fu padrone di Milano Filippo Maria, [144] terzo duca, girò per la città, e mostrò al popolo umanità ed accoglienza. Ma quanti potè avere dei complici della morte del duca Giovanni Maria, tanti morirono col supplicio, e taluni squartati, e le loro membra inchiodate alle porte della città, e le teste, conficcate in cima di lunghe aste, vennero piantate sul campanile della piazza de' Mercanti. Le case dei congiurati furono abbandonate al saccheggio; e così cominciò il suo regno il duca Filippo Maria. Fra i militi di Facino Cane vi era un soldato di fortuna, Francesco Carmagnola, uomo di grand'animo, che aveva i talenti di un buon generale, e che colla superiorità del suo merito aveva dato persino gelosia al suo antico padrone, che pure era grande uomo di guerra dei suoi tempi. Il duca non era fatto per comandare in persona: egli era timido, inerte, superstizioso, amante della solitudine. Egli fortunatamente ascoltò il consiglio di Beatrice sua moglie, e collocò nel Carmagnola il comando e la confidenza. Francesco Carmagnola fu dichiarato conte; innalzato, arricchito e beneficato dal duca. Il conte Francesco alloggiava in Milano nel palazzo in cui ora si radunano i Corpi civici. Premeva al duca di riacquistare Lodi, città distante appena venti miglia da Milano. Giovanni Vignate s'intitolava conte di Lodi, e ne era il padrone. Una tregua si era sottoscritta fra il duca e lui; quindi il Vignate, fidandosi al gius delle genti, senza alcun sospetto veniva qualche volta a Milano. (1416) Egli un dì non ebbe timore di porre piede nel castello in cui stavasene appiattato ed invisibile il duca; ed ivi, il giorno 19 di agosto dell'anno 1416, venne a tradimento arrestato, malgrado la tregua, e trasportato a Pavia, ove fu riposto in una gabbia di ferro. Contemporaneamente le truppe ducali sorpresero Lodi e fecero prigioniere Luigi Vignate, figlio del conte; il padre ed il figlio passarono nelle mani del carnefice; e con tal mezzo il duca s'impadronì di Lodi. Loterio Rusca, signore di Como, credette di fare un buon contratto cedendo al duca la sua sovranità per quindicimila fiorini d'oro. Crema ritornò in potere del duca, perchè il nipote del conte di Crema, Giorgio Benzone, tradì suo zio e v'introdusse le armi ducali.

[145]

Stavasene il duca Filippo Maria inaccessibile nel castello di Milano, senza che mai fosse veduto nella città. Le strade di Milano, le mura istesse diroccavano, e si lasciavano senza riparazioni. Quel principe credeva all'astrologia; e questa era forse anco la sola norma della sua morale e di tutte le sue azioni. Quando la luna era in congiunzione col sole, egli s'intanava in qualche angolo del castello più solitario, e non voleva mai dare risposta, nè permetteva nemmeno che alcuno la desse per lui. Aveva una macchina egregiamente lavorata; quest'opera di orologeria dinotava il movimento dei pianeti, e quest'era l'oggetto della più frequente osservazione del duca. Se taluno lo interpellava per aver i suoi ordini nel momento che egli credesse infausto, o taceva, ovvero rispondeva soltanto: aspetta un poco. Egli aveva i suoi astrologi, i quali erano i più cari di lui consiglieri, e quelli che influivano più d'ogni altro nel governo dello Stato. Le forze del duca Filippo Maria ci vengono descritte da Andrea Biglia. Il conte Francesco Carmagnola era alla testa degli stipendiati ducali. Settecento cavalieri formavano la guardia del corpo: il Biglia li chiamava familiares. Due squadroni, ciascuno di settecento cavalieri, formavano due corpi di lance spezzate, lanceas laceras. Aveva altra cavalleria comune, in tutto quattromila cavalli. D'infanteria egli aveva allo stipendio mille uomini scelti, tutti coperti di lucidissime armature, qui totis armis lucerent; e il rimanente dei fantaccini, ben corredati, ascendeva a più di quattromila uomini[195]. Tale armata si preparava a marciare contro del marchese di Monferrato; il quale, per evitare la guerra, cedette al duca Vigevano. (1418) Così il duca, da Beatrice Tenda, ottenne la ricuperata sovranità di Milano, Pavia, Lodi, Como, Vigevano, Alessandria, Tortona e Novara; e da queste otto città e dall'armata ebbe i mezzi per dilatare nuovamente i confini dello Stato, siccome fece. Doveva il duca venerare la sua benefattrice più della stessa sua madre. A lei doveva tutto, persino l'esistenza, che gli sarebbe sicuramente [146] stata levata, se non aveva il di lei soccorso. Essa con tutto ciò soffri il trattamento di essere (malgrado l'età sua e la sua virtù) dal marito incolpata d'avergli violata la fede per un giovine cavaliere, nominato Michele Orombello, che era al di lei servizio. Questo giovine era veramente di amabile aspetto e di pari maniere; e talvolta la duchessa passava qualche ora con minore noia, facendolo suonare il liuto. Volle il duca che venisse imprigionata in Binasco l'infelice Beatrice Tenda; e il non meno disgraziato cavaliere fu parimenti posto nei ferri. Si fecero soffrire ventiquattro strappate di corda alla duchessa, come ci narra il Corio[196]. Furono condannati e l'una e l'altro a perdere la testa sotto la scure; il che si eseguì in Binasco nell'infausta notte susseguente al giorno 13 di settembre dell'anno 1418. Il Corio ci attesta che, per liberarsi dagli strazi della tortura, la duchessa incolpasse sè medesima; ma poi, in presenza degli ecclesiastici che l'accompagnarono al patibolo, prima di sottoporvi il capo, chiamasse Iddio in testimonio dell'incolpabile sua innocenza. Ci dice il Biglia che il giovine Orombello, lusingato di potere sfuggire il supplicio calunniando la duchessa, preferisse la vita alla virtù, sebbene in fine perdesse e l'una e l'altra; e che la duchessa, avanti il patibolo, da donna forte e virtuosa, rimproverasse la vile colpa all'Orombello, e protestando la innocenza propria, chiamandone testimonio Iddio, piegasse il capo alla mannaia. Fosse il peso d'un troppo grande beneficio insopportabile all'anima del duca; fosse ambizione, per cui si sdegnasse d'aver per moglie una che non era di famiglia sovrana; fosse noia d'avere una compagna di una età matura; fosse l'amore ch'egli già nutriva per Agnese del Maino, colla quale visse poi sempre, ed a cui null'altro mancò se non il nome di moglie; fosse una trama di qualche abbietto favorito, a cui non tornava bene che il duca ascoltasse fedeli consigli; fosse perfine ciò prodotto da qualche astrologica predizione che promettesse al duca felicità da un tal colpo; qualunque ne fosse il motivo, tale fu la mercede che Filippo Maria seppe rendere ai beneficii [147] ricevuti da quella sventurata donna. Trema la mano nello scrivere tali abbominazioni!

La città di Piacenza era stata occupata da principio da Pacino Cane; poi se n'era preso il dominio Filippo Arcelli. Il fratello ed il figlio di questo signore caddero in potere del duca; il quale, memore di quanto col Fogliano aveva quarantasei anni prima fatto Barnabò, fece piantare a vista di Piacenza due forche, e fece intimare la resa a Filippo Arcelli, minacciandogli altrimenti di fare impiccare Bartolomeo e Giovanni, il fratello ed il figlio. Non credette Filippo che il duca volesse a tal segno disonorarsi, e ricusò di cedere la sovranità. Que' due illustri ed innocenti gentiluomini furono ben tosto impiccati, a vista della madre medesima, che da una finestra s'accorse dell'orribile sventura, e colle smanie accrebbe talmente l'intima desolazione del marito, che se ne uscì da Piacenza sconosciuto; e così quella città ritornò in potere del duca il giorno 13 di giugno dell'anno 1418. (1419) Bergamo era posseduta dai Malatesta; ma il conte Francesco Carmagnola la sorprese e la riacquistò al duca il giorno 24 di luglio l'anno 1419; il che vedutosi da Gabrino Fondulo, signore di Cremona, stimò di vendere al duca la sua sovranità per trentacinque mila fiorini, ossia ducati d'oro. Il marchese di Ferrara, Nicolò d'Este, cedette Parma al duca il giorno 28 di novembre l'anno 1420. Brescia da Pandolfo Malatesta fu ceduta al duca, il giorno 18 di marzo dell'anno 1421, per il prezzo di trentaquattromila fiorini d'oro. Tanto erano temute e fortunate le armi ducali sotto il comando dell'intrepido ed esperto conte Francesco Carmagnola, che portò questi l'assedio sotto di Genova; città che sessantotto anni prima si era data a Giovanni arcivescovo, e che, dopo tre anni essendosi sottratta, inutilmente era sempre stata adocchiata dal primo duca. Il valoroso conte la costrinse alla resa; e il giorno 2 di novembre dello stesso anno 1421 capitolò la città e riconobbe per suo signore il duca di Milano. Filippo Maria prescrisse da buon astrologo l'ora e il momento in cui dovevasi fare la funzione del possesso di Genova[197]. I [148] Genovesi però quattordici anni dopo scossero nuovamente il giogo dei Visconti. (Il signor don Carlo de' marchesi Triulzi, cavaliere di moltissima erudizione, ha nella sua collezione di monete di fiorini d'oro di Genova regnandovi il duca Filippo Maria, ed io ho delle monete d'argento pure di Genova col nome e collo stemma del medesimo duca). Poi dal duca d'Orleans ebbe il Visconti per cessione Asti: città che da suo padre era stata, come dote della principessa Valentina, ceduta al conte di Valois trentacinque anni prima. Fece il duca altri acquisti nella Romagna, cioè Forlì, Imola, Faenza. (1424) A tale stato di grandezza era giunto il duca Filippo Maria l'anno 1424, che possedeva venti città acquistate colle nozze della infelice duchessa, e colla fede e col valore del conte Francesco. Le città erano Milano, Como, Brescia, Bergamo, Lodi, Crema, Cremona, Piacenza, Parma, Faenza, Imola, Forlì, Pavia, Alessandria, Tortona, Genova, Asti, Vercelli, Novara e Vigevano, tutte acquistate nel breve spazio appena di dodici anni. Avrebbe il duca sottomesse ancora le altre quindici città che gli mancavano per ricuperare lo Stato di suo padre; avrebbe fors'anco esteso ancora più in là i confini; se, tenendosi inaccessibile, invisibile e sempre attorniato da uomini da nulla, fra i quali il primo era certo Zanino Riccio, non avesse tagliata a sè medesima la mano destra col diffidare del conte Carmagnola, dopo le non interrotte prove del di lui animo. La superiorità dei talenti del conte, e la franchezza colla quale suggeriva i buoni consigli al suo principe, facevano tremar di paura gli abbietti uomini che attorniavano il duca. S'avvedevano ben essi che quel generale non avrebbe mai fatto lega nè cogli astrologhi, nè coi parassiti che deludevano il sovrano. Formarono quindi il progetto di alienar l'animo del duca dal conte Carmagnola, e mentre il conte gli sottometteva le città, facevano malignamente risuonare all'orecchio di Filippo Maria l'amore dei soldati, la riverenza dei popoli sempre crescente verso del Carmagnola. Quindi ogni dì più rendevano timido il duca appiattato, invisibile ad ognuno, fuori che ad essi; a tal segno ch'ei non usciva dal castello di Milano, se non dalla parte solitaria dei campi; [149] per di là passando al castello di Abbiategrasso, ove parimenti stavasene solitario ed occultato. Basta il dire ch'egli non venne mai in Milano, se non quella prima volta che ho detto. Bloccato in tal maniera il duca, nulla ei più sapeva degli affari, di quanto volevano dirgliene quei vili intriganti cortigiani. Costoro a poco a poco fecero nascere il pensiero nel duca di collocare il conte stabilmente al governo di Genova, finchè gli tolse il comando dell'armata. Il conte da Genova andava scrivendo al duca, illuminandolo sul proposito degl'interessi del suo Stato, e lagnandosi dei torti. Ma le lettere nemmeno giugnevano al duca. Se ne avvidde il conte, e lasciando Genova si portò alle porte del castello d'Abbiategrasso, chiedendo umilmente di essere ascoltato; ma gli venne risposto che esponesse le sue occorrenze a Zanino Riccio. Il Carmagnola alzò la voce colla speranza di essere inteso dal duca, e protestò che quel principe era attorniato da traditori e malvagi cortigiani. Le guardie avevano militato sotto di lui; sebbene animate ad arrestarlo, non l'osarono. Il conte allora, rimontato sopra il veloce destriero, su cui erasi ivi improvvisamente portato, forse si pentirà, disse, in breve il duca di non avermi ascoltato; e spronò il cavallo e disparve da un luogo dove non era stato senza pericolo; quindi per vie sicure se ne andò a Venezia, ove offrì i suoi servigi a quella repubblica, da cui vennero accettati con somma onorificenza.

Le avventure del conte Carmagnola sono interessanti. Il momento in cui sconsigliatamente volle il duca disgustare quel benemerito generale, fu quello in cui la fortuna dello Stato si cambiò; e laddove sino a quell'ora sempre la vittoria, le conquiste o le dedizioni avevano contrassegnati gli anni del suo regno, da quel punto cominciò a contrassegnarli colle inquietudini, colle sconfitte, colle umiliazioni e colle perdite. Appena era partito il conte, che il duca stese la mano confiscatrice su tutti i poderi suoi, e si riprese su tutti i doni che gli aveva fatti. Tese varie insidie per averlo prigione; ma non gli riuscirono. Tentò il veleno, e certo Giovanni Liprandi, milanese, che aveva per moglie una Visconti, provossi a Treviso di avvelenare [150] il conte: il che verificato, perdè poi la testa a Venezia. A tali infami azioni s'abbassava il duca per consiglio di Zanino Riccio, e d'altri vigliacchi ed astrologi, pari a lui, mentre in vece con qualche onesto partito nulla sarebbe riuscito più facile che l'accomodarsi col Carmagnola, già affezionatissimo nel suo cuore ai Visconti, siccome accade sempre di esserlo, quando si sono fatti insigni beneficii, pei quali amiamo il beneficato come cosa nostra. Il conte, pagato con tanta ingratitudine, insidiato in così bassa ed atroce maniera, conobbe non rimanergli più altro partito che l'operare da nemico. Egli adunque consigliò ai Veneziani di legarsi coi Fiorentini. Temevano i primi di perdere Verona e Vicenza, occupate recentemente sotto l'infame governo dell'ultimo duca. I Fiorentini vedevano già nuovamente innoltrata nella Romagna quella sovranità dei Visconti, che ventiquattro anni prima aveva esposto all'estremo pericolo la loro repubblica; quindi si unirono coi Veneziani. (1426) Il re Alfonso di Napoli si unì colle due repubbliche; ed il conte Francesco Carmagnola, l'anno 1426, ricevette solennemente dalle mani del doge di Venezia lo stendardo di San Marco, e venne dalla repubblica dichiarato capitano generale dell'armata terrestre, coll'assegnamento, cospicuo per quei tempi, di dodicimila annui fiorini, ossia ducati d'oro. Ciò fatto, il Carmagnola si portò sul bresciano. Egli conosceva quel paese, poichè sei anni prima vi aveva guerreggiato per riacquistarlo al duca e scacciarne i Malatesti. Era celebre la battaglia ch'ei vinse l'anno 1420, il giorno 8 di ottobre; ora si trattava di acquistar Brescia ai Veneziani. Il conte ne scacciò l'armi del duca. Il comandante che Filippo Maria aveva posto alla testa delle sue armi invece del Carmagnola, era Guido Torello; uomo che non pareggiava i talenti del Carmagnola. Sotto del Torello combattevano Niccolò Piccinino e Francesco Sforza, uomini di merito; ma il primo di questi due si sdegnava d'essere sotto il comando d'un generale ch'egli non credeva superiore a sè stesso; l'altro era ancor giovine, focoso ed inesperto. Oltre ciò, passavano fra tutti e tre quelle rivalità [151] che, tendendo a farsi reciprocamente scomparire, rovinavano il sovrano e lo Stato, del quale ad essi era consegnata la difesa. Presa Brescia, era da temersi che la guerra non s'avanzasse nel centro del dominio; e perciò dovette il duca richiamare le truppe dalla Romagna, e abbandonare per sempre Forlì, Imola e Faenza, che appena da due anni erano sue. (1427) Il conte Francesco Carmagnola diede una sconfitta ai ducali il giorno 11 ottobre 1427. Quasi tutti i generali del duca, e quasi tutti i suoi soldati rimasero prigionieri. Oltre i già nominati erano nell'esercito ducale altri generali, cioè il conte di Cunio Alberico da Barbiano[198], Cristoforo Lavello, Carlo Malatesta ed Angelo della Pergola; uomini che tutti avevano buon nome nella guerra. Conseguenza ne venne che Bergamo passò in potere dei Veneziani l'anno 1428. Così Zanino Riccio fece perdere al duca ed a' suoi successori non solo Vicenza e Verona, che si dovevano ricuperare, ma Brescia e Bergamo, e quasi tutta le terra ferma che possedette poi ed attualmente possede la repubblica di Venezia. Se il conte Carmagnola fosse stato d'animo costante, il duca Filippo Maria sarebbe rimaso con Zanino Riccio; anzi sarebbe stato abbandonato ben presto da quell'istesso infingardo, che non amava se non la fortuna del duca. Già Filippo Maria aveva dovuto cedere al duca di Savoia Vercelli, per contentarlo e non soffrire invasione anche da quella parte. Il marchese di Monferrato, i Fiorentini, i Veneziani ben presto gli toglievano il restante [152] de' suoi Stati. Il Carmagnola, dopo la presa insigne della armata ducale, non aveva più contrasto: e Cremona, Crema, Lodi rimanevano, se lo voleva, in potere dei Veneziani. Ma quando vide il conte posto il duca a mal partito, cessò di far la guerra con vigore; anzi non servì più con buona fede i Veneziani. O foss'egli allontanato, per una ripugnanza dell'animo, dal portare così la distruzione ad un principe dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero fosse egli ancora nella fiducia che, umiliato il duca, venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi, o qualunque ne fosse il motivo, il conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare, disarmati bensì, ma liberi, al duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 ottobre 1427. Il duca in pochi giorni armò di nuovo e rimontò questi militi, ed è molto degno di osservazione questo fatto, cioè che due soli artefici di Milano in pochi giorni gli diedero le armature per quattromila cavalli e duemila fanti, sapendosi che in quei tempi gli uomini si coprivano tutti di ferro; il che prova quanto si è accennato al capitolo duodecimo sulla grandiosa manifattura d'usberghi, d'elmi e d'ogni lavoro di ferro che v'era in Milano. Anche i quattromila cavalli ben tosto li ritrovò il duca dalle razze del suo Stato; e così il Carmagnola poco dopo ebbe nuovamente di fronte quella stessa armata che aveva avuta inerme in suo potere. Il séguito delle sue imprese sempre più fece palese il suo animo poichè trascurò tutte le occasioni, e, lentamente progredendo, lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. (1432) Insomma giunse a tale evidenza la cattiva fede del conte Francesco Carmagnola, che venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia, il giorno 5 di maggio dell'anno 1432, come reo di alto tradimento. Tale fu il fine che fece il conte Francesco; uomo che non aveva i vincoli sacri della patria e della famiglia, i quali ammorzarono la vendetta [153] nell'animo di Coriolano; uomo che sarebbe un eroe, se non avesse macchiato l'ultimo atto della sua vita colla infedeltà.

Più ancora di quelle del Carmagnola interessano la storia di Milano le vicende di Francesco Sforza. Questi era romagnuolo. La di lui famiglia era di Cotignola. Il primo che s'era fatto qualche nome, era il di lui padre Giacomo Attendolo (tale era il vero di lui cognome); poichè, servendo questi sotto il comando del conte Alberico di Zagonara, da esso ebbe il soprannome Sforza, il quale passò nel di lui figlio Francesco, e divenne poi nome di casato. Francesco Sforza (che fu poi il quarto duca di Milano, e il più grand'uomo e il più gran principe del suo tempo) nacque in San Miniato il giorno 23 luglio dell'anno 1401, ed ebbe per madre Lucia Trezania. Niente ancora vi era d'illustre in lui, se non l'ardor militare, ed il nome che nella milizia si era fatto suo padre. Egli aveva ventiquattro anni, allorchè, sulla fama del valore da lui mostrato nel regno di Napoli, il duca lo invitò al suo stipendio, disgustato che ebbe il conte Carmagnola. Una delle prime imprese che Francesco Sforza ebbe in commissione dal duca, fu quella di soccorrere Genova, attaccata dai nemici; ma ne uscì con poca fortuna, poichè, innoltratosi imprudentemente e con inconsiderato impeto, fu malamente battuto e posto in fuga; per lo che il duca lo rilegò per due anni a Mortara, ove rimase privo di stipendio. Terminato il castigo, i cortigiani del duca, non saprei per qual motivo, cercarono di fargli entrare in grazia Francesco Sforza; e la cosa giunse a segno che, non avendo altri discendenti il duca, fuori che una figlia naturale chiamata Bianca Maria, pensò di darla a Francesco Sforza. Bianca Maria era nata da Agnese del Maino, colla quale viveva il duca come se fosse vera sua moglie. Quella donzella non aveva per anco finiti gli otto anni, allorchè il duca, l'anno 1432, il giorno 13 di febbraio, stabilì il contratto di nozze. Considerava in quel momento il duca di farsi per adozione un figlio, al quale passare il suo Stato, e quindi interessarlo a difenderlo: figlio tanto più caro, quanto più quel meschino [154] principe era lacerato nella solitudine da umori che Zanino Riccio e i suoi pari facevano nascere contro dei generali; i quali naturalmente non si saranno degnati mai di mostrare deferenza a quella feccia di uomini da cui era il duca attorniato. Cercavano, innalzando lo Sforza, di umiliare il Piccinino, il Torello e gli altri. Ma poichè lo Sforza fu innalzato, la di lui ombra dispiaceva a quei raggiratori, temendo forse un avvenire cattivo per essi. E perciò si posero colle arti consuete a gettare il veleno nell'animo del principe, loro schiavo, e a fargli nascere il pentimento e la diffidenza, a segno che il duca pose delle insidie persino alla vita del designato suo genero. Francesco Sforza se ne uscì dalle mani del duca, si ricoverò presso de' Fiorentini, nemici de' Visconti, e si pose al loro stipendio. Si collegarono i Fiorentini e i Veneziani a danno del duca, e il generale comandante delle armi collegate fu lo stesso Francesco Sforza. Anche il papa aveva acceduto alla lega. Io non descriverò, nemmeno questa volta, le minute azioni militari. Dirò soltanto che gli affari del duca piegavano assai male. Il duca era giunto all'età di cinquant'anni. Egli era mostruosamente pingue, e la sanità sua diventava inferma. La vita inerte che menava, ed i sospetti continui fra quali veniva tenuto dagli officiosi nemici che aveva intorno, affrettavano la di lui morte; egli s'accorgeva della propria decadenza. I generali di questo invisibile sovrano (che non si era mai presentato una sol volta in vita al nemico, che dava e toglieva il favore a norma de' pianeti non solo, il che sarebbe a caso, ma dei maligni interessi di quei poltroni che gli stavano intorno), cominciarono a fare un accordo fra di loro per dividersi la sovranità. Il Piccinino divisava d'avere per sè Piacenza; il Sanseverino, Novara; Luigi dal Verme, Tortona; il Fogliano, Alessandria; altri, altro distretto. Insomma il duca si trovò sotto di un cielo coperto da nubi procellose, che minacciavano da ogni parte. Il solo uomo capace di liberarlo nell'estrema angustia era Francesco Sforza. Rivolse i trattati a lui, e ben vedendo che troppo instabile appoggio sarebbe stato l'offerire al genero eletto il suo pentimento, gli offri la sovranità [155] del Cremonese e di Cremona sino da quel momento, pronte a dichiararlo conte e sovrano di essa, e a celebrare lo sposalizio di Bianca Maria. Accettò la proposizione Francesco Sforza, ma non si fidò di venire a Milano. (1441) Ma poichè consegnata gli venne la sovranità di Cremona, e poi ch'ivi fu sicuro, in Cremona stessa sposò Bianca Maria, il giorno 28 di ottobre dell'anno 1441. La sposa aveva diciassette anni, e lo sposo ne aveva quaranta. Il duca Filippo, sempre divorato da sospetti e dominato dall'astrologia, tornò a detestare lo Sforza a segno che fece uccidere da' suoi sicari Eusebio Caimo che aveva maneggiate le nozze di Bianca Maria; (1444) e quell'infelice cavaliere venne scannato in Duomo mentre pregava avanti l'altare di Santa Giulitta, il giorno 8 di aprile, l'anno 1444[199]. Tentò poi il duca di rapire colle armi Cremona, quantunque l'avesse data in dote a sua figlia; e buona parte di quel contado era già in potere delle sue armi. Il conte Sforza fu costretto d'impetrare l'aiuto de' Veneziani, i quali mandarono forze tali, che non solamente liberarono il Cremonese e lo restituirono al suo legittimo nuovo signore, ma tolsero al duca Treviglio, Caravaggio, Cassano ed altre terre, e si presentarono persino sotto le mure di Milano l'anno 1446. Il duca tremava nel suo castello di Milano, invocava persino con vili sommissioni la pietà del genero, e lo lusingava della eredità dello Stato. Francesco si mosse; lo difese: ma perdette Casalmaggiore, Soncino, Romanengo ed altre terre, che i Veneziani tolsero al conte, il quale loro non era stato fedele. Ogni minuta circostanza è interessante nel conte Sforza, che fu poi il quarto duca di Milano, non per testamento di Filippo Maria, ma per altre combinazioni, come vedremo più avanti, e fu lo stipite della seconda dinastia de' duchi di Milano.

Il Sassi[200] e l'Argellati[201] pretendono che il duca Filippo [156] Maria amasse e proteggesse le lettere. Il Decembrio, che tanto minutamente ha scritta la di lui vita, e che fu testimonio delle azioni di lui, ci assicura diversamente:[202] Humanitatis ac litterarum studiis imbutos neque contempsit, neque in honore praetioque habuit, magisque admiratus est eorum doctrinam, quam coluit[203]. Ci racconta lo stesso autore che Antonio Raudense aveva tradotte in italiano a Filippo Maria alcune vite degli uomini illustri, senza che il duca lo avesse mai nella sua grazia; sebbene quel traduttore gli rendesse intelligibili quei monumenti che il primo non poteva capire nella loro lingua originale. Francesco Barbula, poeta greco di qualche merito, rifugiatosi a Milano, non potè ottenere dal duca nemmeno il viatico per portarsi altrove. Ciriaco Anconitano, uomo di lettere, fu scacciato dalla corte del duca. Tutta la vita di quel principe ci dimostra ch'egli non era capace di sentire alcuna stima. Questa emozione non la provano se non le anime che la meritano.

Ci rimane un testimonio autentico della rozza imperizia di quel principe nelle monete battute durante il suo governo, nelle quali per lo più è scolpito il nome Filipus con due errori nel suo medesimo nome. Un altro solenne monumento ne abbiamo nella barbara poesia sotto la statua di Martino V, giacchè sotto di un principe colto non si sarebbero posti i versi seguenti:

Cerne, viator, ave, hic stat imago simillima papae

Qui bonus Ecclesiam Martinus in ordine quintus

Pastor alit tibi, Roma, etc...

Carminis est Bripius Joseph, ordinarius, auctor,

Doctor canonici juris, sacraeque magister.

Teologiae, etc.,[204]

[157] come più diffusamente può vedersi nel Duomo, ove in segno d'onore venne collocata sopra la barbara iscrizione la non meno barbara statua, di cui si legge:

... Ast hic praestantis imaginis auctor

De Tradate fuit Jacobinus, in arte profundus,

Nec Prasitele minor, sed major farier auxim.[205]

Non posso perdonare a taluno dei nostri autori storici, l'aver voluto paragonare ad Augusto il meschinissimo Filippo Maria, e farlo un protettore delle lettere e dei letterati. Egli era, convien dirlo, un principe da nulla. È vero che alcune epoche del regno di questo duca hanno un aspetto grandioso e brillante, nè sembrano volgari. Quando le truppe ducali sotto del Carmagnola fecero prigioniere il comandante istesso nemico, Lodovico Migliorati, fu questi condotto a Milano, indi accolto dal duca con magnifica generosità; e poi da lui rilasciato onorevolmente libero e colmo di regali. Più illustre riuscì il fatto seguente. Il duca aveva preso parte in favore dei Francesi, che disputavano agli Spagnuoli il regno di Napoli. Ei fece uscire dal porto di Genova una flotta in aiuto dei Francesi, o, come allora dicevasi, degli Angioini contro degli Aragonesi. La flotta genovese fece sì bene, che prese i due re di Navarra e di Aragona; e con essi rientrò nel porto di Genova, togliendo i competitori alla casa d'Angiò. Il duca ordinò che questi illustri prigionieri venissero scortati a Milano, e il giorno 15 di settembre dell'anno 1435 Filippo Maria fu per questo insolito caso visibile, ed ammise alla sua udienza nel castello di Milano Alfonso, re d'Aragona; indi, il giorno 23 dello stesso mese, fece lo stesso al re Giovanni di Navarra. I Genovesi, avendo acquistato [158] quei due preziosi pegni, si aspettavano un riscatto proporzionato; ma il duca, dopo tre mesi, nei quali e la corte e i più ricchi signori di Milano gareggiarono per onorare splendidamente i due monarchi, generosamente, il giorno 8 di ottobre dello stesso anno, li lasciò partire liberi. Tale atto fu tanto inaspettato e discaro ai Genovesi, che ben tosto si sottrassero dalla obbedienza del duca. Questi due fatti sembrano dinotare elevazione d'animo e generosità verso i vinti. Se mai però i consigli di Zanino Riccio, comprato da questi prigionieri, avessero cagionato tali determinazioni, si collocherebbero queste tranquillamente nella classe delle altre azioni volgari di Filippo Maria. Io credo anzi probabile che così accadesse; perchè un uomo ed anche un principe può bensì non avere nel corso della sua vita che una sola occasione per far cose grandi, ma non può in due sole occasioni mostrare l'anima grande; la quale, quando v'è, in ogni giorno, in ogni fatto dà indizio di sè medesima, abbellisce ogni azione, e persino nei vizii istessi porta un non so che di maestose e di sublime. Parmi probabile ancora che l'orrore della morte di Beatrice Tenda sia nato, piuttosto che da animo atroce, dalla solita docilità ai consigli di Zanino Riccio e de' suoi simili. Il pinguissimo solitario duca non era sanguinario nè violento; e quei manigoldi astuti che volevano regnare col nome del duca, dovevano togliergli dintorno una moglie saggia ed avveduta. La selvatichezza di questo principe giunse a tal segno, che sembra quasi incredibile. Egli invitò l'imperatore Sigismondo a ricevere la corona in Milano, dove, il giorno 23 di novembre dell'anno 1431, nella chiesa di Sant'Ambrogio fece la funzione l'arcivescovo Bartolomeo Capra. La cerimonia si eseguì tre ore prima dell'aurora, e non saprei per qual motivo non si celebrasse solennemente di giorno. Il duca destinò venti cortigiani a servire quell'augusto, e lo fece magnificamente trattare a spese sue per quasi un mese in cui dimorò in Milano; ma non visitò mai l'imperatore, nè volle giammai concedere che l'imperatore lo visitasse, siccome desiderava. Il duca s'era occultato nel castello di Abbiate, e fu invisibile al solito. [159] Nè ciò può attribuirsi a verun rancore politico, perchè anzi dell'imperatore istesso aveva il duca motivo di chiamarsi contento; mentre pochi anni prima, avendogli spedito Guarnerio Castiglione nell'Ungheria, per impetrare la conferma del diploma di Venceslao, venne esaudito; e con nuovo diploma, nella diocesi di Strigonia, in data del primo di luglio dell'anno 1426, Filippo Maria venne da quell'augusto riconosciuto duca e signore di tutto il paese concessogli già da Venceslao. Anzi nel tempo medesimo in cui Sigismondo era in Milano, aveva fatto marciare i suoi Ungheresi nel Friuli, per fare una diversione in favore del duca, ed ivi chiamare le forze dei Veneziani. È vero però che nella prima venuta fatta in Italia da Sigismondo, non v'era fra esso ed il duca buona corrispondenza; per lo che quell'augusto non s'arrischiò di entrare in Milano, sebbene avesse tenuta la strada di Bellinzona e di Como per discendere le Alpi. È celebre il fatto che allora accadde, e fu l'anno 1414, quando, portatosi l'imperatore a Cremona per abboccarsi col papa Giovanni XXIII, mentre Gabrino Fondulo era padrone di quel distretto, ascesero l'imperatore ed il papa sulla rinomata altissima torre di quella città, e Gabrino poscia si mostrò pentito di non averli gettati da quella sommità, non per altro, se non per la fama che ciò gli avrebbe dato nella storia. Fu più umana l'ambizione di Erostrato, poichè almeno non distrusse che un tempio, ma fu meno perniciosa quella di Gabrino Fondulo, poichè nulla più cagionò fuori che un desiderio. Il duca Filippo Maria fece, durante il suo governo, una operazione di Finanza, a mio parere assai bella, utile e semplice, e tale che fa maraviglia come siasi in quei tempi immaginata. Abolì un buon numero di minute gabelle, incomode a percepirsi, e rovinose per il popolo; svincolò i poveri, sopra dei quali cadevano singolarmente tai pesi; e per compensare il suo erario, senza apertamente imporre nuovo carico, accrebbe l'intrinseca bontà delle monete; e così lutti i tributi essendogli pagati colle nuove monete, venne a incassare tanto valore quanto bastò a compensargli le abolite gabelle. Il decreto è del giorno 24 [160] di ottobre dell'anno 1436, e ce lo ba pubblicato il conte Giulini[206]. Questa operazione ha qualche analogia coll'altra che quarantacinque anni prima aveva tentata il conte di Virtù, siccome nel capitolo precedente si è osservato; ma in questa non si fece ingiustizia ai creditori, nè si trattò d'una mera addizione sul tributo, ma bensì della sostituzione d'un modo semplice e meno gravoso di quello che contemporaneamente veniva abolito. Il Decembrio, che ci ha descritta la vita del duca Filippo Maria, ci racconta, come un tratto di sublime accortezza, che il duca mischiava ne' suoi consigli uomini buoni e cattivi.[207] In eligendis consultoribus, quos, consiliarios vocant, mira astutia utebatur: Nam viros probos et scientia praeclaros eligebat, hisque impuros quosdam, et vita turpes collegas dabat; ut nec illi justitia inniti, nec hi perfidia grassari possent, sed, continua inter eos dissensione, praesciret omnia[208]. Se il consiglio ducale fosse un parlamento formato dalla costituzione per porre un limite alla autorità del duca, allora certamente sarebbe stata accortezza l'organizzarlo in modo che la interna dissensione lo distraesse dal travagliare al suo fine: ma il consiglio era formato per obbedire al duca e servire agli interessi di lui, ed era ben infelice l'astuzia di comporlo in modo che, gli uni attraversando gli altri, diventasse inoperoso. Tristo colui che teme la virtù, e crede di doverla temperare col vizio!

Il regno di Filippo Maria durò per trentacinque anni di guerra quasi continua. Giammai i trattati di pace furono tanto insignificanti come allora; poichè il giorno dopo si violavano se conveniva, e la fede pubblica si considerò [161] una parola senza alcuna idea. Non bo voluto fare la storia di molte marziali vicende troppo uniformi, la minuta notizia delle quali sarebbe un peso inutilissimo alla memoria, poichè nessun lume somministrerebbe, o per meglio conoscere lo stato de' tempi, o per l'arte militare medesima. Avrei pur bramato di trovare qualche germe almeno di virtù in que' tempi; ma l'ho cercato invano. Le fisionomie degli uomini ch'ebbero parte negli affari pubblici, mi si presentarono tutte bieche ed odiose. La fede e la probità erano celate allora nell'oscurità di qualche famiglia, e nel magazzino dei negozianti. La virtù nasconde e copre la sua esistenza nell'asilo della privata fortuna per essere sicura contro i colpi del vizio, quand'egli è armato e trionfante come in que' tempi. Non può incolparsi a malignità di messer Niccolò Macchiavello s'egli ha dato per norma ai principi una pessima morale. Egli era un pittore che fedelmente ci rappresentava gli oggetti quali erano allora; la colpa sua è quella di non aver osato di esaminare la fallacia della politica che generalmente si praticava: io ne do la colpa alla mente, piuttosto che al cuore di quell'autore. Per vedere anche in piccolo la fede di que' tempi, aggiungo un fatto solo. Già dissi che il duca, l'anno 1419, aveva comprato da Gabrino Fondulo la città di Cremona, collo sborso di trentacinquemila ducati. Gabrino si era però riservato per sè Castelleone, luogo forte del Cremonese, ove tranquillamente da sei anni dimorava. Volle il duca possedere anche quella fortezza, la quale difficilmente avrebbe superata colle armi. Fu scelto Oldrado Lampugnano, amico di Gabrino, per tradirlo; e vi si prestò benissimo Oldrado. Si portò egli sul Cremonese con alcuni armati, mostrando commissione di visitare le terre del duca; e, fatto posa avanti Castelleone, spedì un uomo entro della fortezza, chiedendo un maniscalco per ferrare un cavallo, e frattanto lo incaricò di salutare il suo amico Gabrino, e dirgli che verrebbe ad abbracciarlo, se la fretta di proseguire il cammino non glielo vietasse. Gabrino Fondulo, disarmato e senza alcun sospetto, immediatamente uscì per salutare anche per un momento il creduto amico. Oldrado [162] Lampugnano lo arrestò e lo tradusse a Milano: la famiglia del Fondulo fu posta nei ferri; il suo tesoro, nel quale si trovò anche una prodigiosa quantità di perle, fu confiscato; e Gabrino fu decapitato in Milano il giorno 21 di febbraio del 1428. Due anni dopo Oldrado Lampugnano, che aveva sacrificato la virtù e l'onore per ottenere la grazia del duca, perdette anche quella, e rimase colla esecrazione di sè medesimo.

(1447) Il duca Filippo Maria morì il giorno 13 di agosto l'anno 1447, nel castello di Milano, dopo una settimana di malattia, nella quale non permise mai che alcun medico gli toccasse il polso. Egli morì con molta indifferenza. Corpulento sino alla deformità, da alcuni anni sentivasi opprimere dal peso proprio. La fortuna, da che aveva perduto il Carmagnola, eragli stata quasi sempre nemica; s'aggiungeva a questi mali la cecità, che da più mesi era in lui totale, sebbene simulasse di vedere:[209] Caecitatem sie erubuit, ut visum simularet, cubicularibus clamculum eum admonentibus, dice il Decembrio[210]: onde, sebbene non oltrepassasse il cinquantesimoquinto anno, era ridotto come un vecchio decrepito. Io non ho accennato ancora le seconde nozze contratte dal duca colla principessa Maria di Savoia; poichè ella non ottenne se non il nome di duchessa, e l'amica del duca fu sempre Agnese del Maino, madre di Bianca Maria; e si leggono in un antico messale che si conserva nella cospicua raccolta del signor don Carlo dei marchesi Trivulzi, le orazioni che allora si recitavano nella messa per quella compagna del duca, quasi ella fosse tale colla sanzione de' sacri riti[211]. Il duca, senza eredi, senza [163] prossimi parenti, così morì. Fu seppellito tumultuariamente nel Duomo. Se vivesse allora Zanino Riccio, nol so. L'erario del duca venne saccheggiato da' suoi famigliari, i quali si [164] divisero diciassettemila ducati d'oro. Francesco Sforza era nella Romagna, nè poteva allegare titolo alcuno per il dominio di Milano. Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolommeo Moroni furono i capi dei Milanesi che progettarono di ricusare la signoria d'un solo come una pessima pestilentia, dice il Corio; ed avevano ben ragione di così risguardarla, poichè avevano provato che in dodici principi, due soli erano stati buoni, Azzone e Giovanni arcivescovo, tollerabili quattro, cioè l'arcivescovo Ottone, Matteo I, Galeazzo I e Luchino; e gli ultimi sei che finalmente erano succeduti, non presentarono che i vizi e detestabili tirannie. La città adottò quel partito. Si demolì il castello di Milano, e molte città dello Stato imitarono quell'esempio, come vedremo nel seguito della storia. Così terminò la sovranità della casa Visconti e la discendenza di Matteo, la quale ebbe, senza interruzione, la signoria di Milano pel corso di centotrentasei anni, ed erano già trentaquattro anni da che grandeggiava per averla, quando l'ottenne.

Prima di terminar questo capitolo convien dare un'idea dello stato in cui trovossi Milano ne' tempi ultimi de' quali ho scritto. Le città possono talvolta crescere ed ingrandirsi anche sotto un odioso e viziato governo; purchè i vizi di quello direttamente non offendano i principii e le cagioni della prosperità del popolo. Non furono vessati i sudditi con eccessivi tributi sotto Filippo Maria; la proprietà dei cittadini non fu violata; le guerre si fecero al di fuori, e la città non ebbe a soffrirne; la pestilenza, che andava girando, e più d'una volta, non lungi da Milano, non vi penetrò. Crebbe quindi la popolazione; si ammassarono le ricchezze in questa capitale d'un vasto dominio; si rivolsero i cittadini all'industria del commercio; giacchè sotto di quel governo nessun uomo di mente poteva ambire altra carriera; e così Milano diventò una tanto poderosa città, sì [165] che nacque il proverbio poi, che conveniva distruggere Milano per rinvigorire l'Italia, come ci annunziò un autore imparziale:[212] Quid dicam de Mediolano, potentissima Italiae civitate, Galliaeque Cisalpinae metropoli; in qua tam multa, tamque diversa artificum genera, tantaque frequentia, ut inde vulgo sit natum proverbium, qui Italiam reficere velit, eum destruere Mediolanum debere[213]. Andrea Biglia, scrittore di quel tempo, ci dà idea della popolazione di Milano:[214] Nempe ut facile existiment posse in ea civitate super triginta hominum millia armari[215]; e non sarebbe esagerazione il supporre che il solo dieci per cento della popolazione fosse atto alla milizia. Immenso fu il popolo che uscì incontro a papa Martino V, che venne da Costanza a Milano nell'ottobre del 1418. Il duca Filippo ebbe l'onore di avere a suoi ospiti in Milano un papa, un imperatore e due re, e questi due ultimi suoi prigionieri. Lo stesso Biglia ci dà una prova, ancora più precisa, delle forze della città di Milano in quel tempo. L'anno 1427, il Carmagnola, alla testa delle armi venete, aveva angustiato lo Stato del duca, il quale pensava ai mezzi per la difesa. Ho già detto come due soli artefici in pochi giorni somministrarono le armature per quattromila cavalli e ottomila fanti; ora, appoggiato al Biglia, dirò che la città di Milano si esibì di mantenere stabilmente diecimila uomini a cavallo e diecimila uomini a piedi, con questa sola condizione che il duca lasciasse alla città medesima la percezione di tutte le gabelle, e tributi di Milano e suo distretto, e che i tributi delle altre città tutte egli liberamente li percepisse per arricchire sè stesso, [166] o chi più gli fosse piaciuto. Oggidì, quand'anche si volesse fare un massimo sforzo, non si troverebbe il modo di mantenere la metà di quest'armata; e oggidì tanto un cavaliere, quanto un fantaccino costano meno assai di quello che allor si pagavano. Il Biglia perciò aggiugne:[216] Mirum dictu hoc solos Mediolanenses ausos polliceri, quod Florentia ac Venetiae aegre hac aetate praestarent fecissentque: tanta est hoc tempore unius urbis gens, tanta domi et apud exteros negotiandi consuetudo. Il nostro commercio solo con Venezia era grandiosissimo in quel torno. Tutto il commercio colle Indie Orientali si faceva dagl'Italiani in quei tempi, anteriori alla scoperta del Capo di Buona Speranza. Venezia, Genova, Pisa, Firenze, Amalfi ed Ancona avevano l'impero de' mari, e quasi esse sole giravano non solamente il Mediterraneo, ma l'Oceano, e portavano le loro merci persino al Baltico; così che tutto il commercio dell'Europa era presso gl'Italiani. Le leggi amalfitane erano la base del gius marittimo. Venezia sola manteneva trentaseimila marinari[217]; numero sterminato per quel secolo, nel quale non s'intraprendevano viaggi di lungo corso, e la nautica non era ridotta alla perfezione attuale. Milano trasmetteva a Venezia i pannilani che da noi si fabbricavano, e riceveva da Venezia cotone, lana, drappi d'oro e di seta, droghe, legni da tingere, sapone, sali ed altre mercanzie. Queste mercanzie, che ricevevamo da Venezia, in gran parte le spedivamo alla Francia, agli Svizzeri ed all'Impero, unitamente alle armature ed altri lavori. Il nerbo principale della nostra industria consisteva nella fabbrica de' pannilani e degli usberghi, scudi, lance, ec. Abbiamo un prezioso documento su tal proposito che merita esame, e questo è lo scritto di Marino Sanuto, che il Muratori nostro maestro, ha tratto [167] dalla biblioteca Estense e dato in luce[218]. Il Sanuto scrisse le vite di alcuni dogi di Venezia, e riferisce l'aringa fatta nel gran consiglio dal doge Tommaso Mocenigo. Quello scrittore era posteriore di poco, ma asserì di avere trascritto i fatti, «dal libro dell'illustre messer Tommaso Mocenigo, doge di Venezia, d'alcuni aringhi fatti per dar risposta agli ambasciatori de' Fiorentini, che richiedevano di far lega colla signoria contro il duca Filippo Maria di Milano nel 1420». Il doge opinava che non convenisse ai Veneziani di rompere la pace col duca; ed in prova dimostrava l'utilità esimia che ridondava al commercio di Venezia dalla corrispondenza con Milano. Ser Francesco Foscari, procuratore, opinava l'opposto. Se vi è documento nella storia che meriti fede, certamente è questo; poichè l'occasione, il luogo, le persone ci debbono far credere che non avranno allegati che fatti costanti e sicuri. Asserì il doge che ogni anno da Milano si spedivano a Venezia quattro mila pezze di panno, del valore di trenta ducati ciascuna, e di più si spedivano novantamila ducati d'oro, così che la somma in tutto ascendeva a duecentodiecimila ducati. Ciò appartiene alla sola città; poichè Monza separatamente ivi è registrata pel valore di centoquarantaduemila ducati di roba e denari che spediva ogni anno a Venezia. Allora Milano e Monza, colla sola Venezia facevano la stessa parte del commercio che ora fanno Milano, il contado e le cinque città e provincie dello Stato; ed è notabile colla sola Venezia, poichè l'esteso commercio con Genova, colla Francia e colla Germania che allora avevamo, non entrava in quella somma. Dico la stessa parte, e dovrei dire molto più, se considerassi che il ducato allora era un pezzo di metallo assai più raro e più pregevole, come più volte ho ricordato. Questo basta per conoscere che verosimilmente v'era in Milano una popolazione di trecentomila abitanti; che v'erano sessanta fabbriche di lanificio; e che moltissima era tra noi l'industria e la ricchezza; come ci confermano tutti gli scritti posteriori, ricordando que' tempi della opulenza.

[168]

Non sarà forse discaro a' miei lettori ch'io aggiunga alcune osservazioni a quel bilancio del commercio fatto dal Sanuto. Da Venezia ci si trasmettevano i cotoni: il valore de' cotoni allora era otto volte maggiore che non lo è di presente: le strade del commercio oggidì sono aperte, e ciascuna nazione procura, per vendere presto, di contentarsi d'un minor guadagno; allora i pochi che lo possedevano erano arbitri del prezzo. Ho pure osservato che allora noi prendevamo appena la metà del cotone che adesso ci spediscono gli esteri; poichè le fabbriche delle bombagine e fustagni allora non esistevano presso di noi, e questa manifattura era de' Cremonesi. Questa odierna manifattura ci porterà più di settantamila gigliati per la vendita di trentamila pezze, che attualmente ne facciamo agli esteri. La seconda osservazione cade sul lanificio. La lana ce la vendevano i Veneziani allora più a buon mercato, cioè circa il sessanta per cento meno che non vale presentemente. È probabile che molte pecore si alimentassero su i nostri prati; e che la lana fina non ci venisse da Venezia. Lo stato intero di Milano spediva allora a Venezia cinquantamila pezze di panni. Ora le cose sono cambiate. Il lanificio, preso tutto insieme, costa allo Stato l'uscita di dugentocinquantamila zecchini ogni anno; i soli pannilani dobbiamo comprarli dagli esteri per settantamila gigliati. La terza osservazione risguarda la seta e suoi lavori; allora ne ricevevamo da Venezia di seta e drappi di oro pel valore cospicuo di ducati duecentocinquantamila; naturalmente una buona porzione si sarà rivenduta. Oggidì però l'articolo della seta, computato tutto, darà invece l'utilità d'un milione di ducati, ossia zecchini, ed è la principale ricchezza delle nostre terre. La quarta osservazione appartiene alle droghe; e per esempio di pepe e di cannella allora se ne introduceva assai più che non facciamo al dì d'oggi; e di questi capi allora nelle mense v'era maggiore consumo, e ciò oltre il commercio secondario che da noi se ne faceva col rivenderli. Oggidì consumiamo appena ottantamila libbre di pepe; il che ci fa pagare agli esteri ottomila ducati, ossia gigliati, ed allora ne compravano [169] per ducati trecentomila, cioè si spendeva allora in un anno per questo articolo quanto si spende appena in trentasei anni a' nostri giorni. Della cannella dico lo stesso; allora spendevasi il quadruplo in paragone de' tempi nostri, poichè ventimila libbre, che costano circa sedicimila zecchini, sono presso poco la quantità annua che oggidì ne consumiamo. In quinto luogo ho osservato che dello zucchero invece ne abbiamo notabilmente ampliato il consumo, giacchè allora seimila centinaia ne ricevevamo, ed ora ne consumiamo sedicimila centinaia. Il prezzo altresì dello zucchero è notabilmente scemato in paragone di quello ch'era allora, poichè seimila centinaia valevano ducati novantacinquemila, ed ora sedicimila centinaia si comprano con settantamila ducati. L'uso del mele era comune in quei tempi, e vi si è poi sostituito lo zucchero, dappoichè le navigazioni alle Indie Orientali, e le copiose piantagioni d'America l'hanno reso una droga più comune. Cade la sesta osservazione sul sapone, per acquistare il quale allora spendevasi ducentocinquantamila ducati, cioè il decuplo di quello che ora spendiamo, ricevendone dagli esteri non più di circa quarantamila rubbi: ma allora ne facevamo rivendita, e forse non v'erano alcune fabbriche nel paese che ora ne ha. L'ultima osservazione cade sopra un legno da tintura chiamato verzino, che allora era enormemente caro, e costava seicento volte più che ora non vale: ne ricevevamo allora migliaia quattro, valutate ducati centoventimila; ora ne riceviamo più di venti migliaia, le quali ci costano mille ducati d'oro; ma il Capo di buona Speranza non fu scoperto se non l'anno 1497 da Vasco de Gama, sotto il re Emanuele IV di Portogallo, e l'America non fu scoperta dal Colombo che l'anno 1491.

[170]

CAPITOLO XVI. Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a Francesco Sforza.

Prima ch'io narri gli avvenimenti della repubblica di Milano, vuolsi esaminare brevemente in quale stato trovavansi le potenze che avrebbero voluto signoreggiare sopra di noi. (1447) Colla morte del duca Filippo Maria era terminata la discendenza maschile di Giovanni Galeazzo Visconti, infeudata dall'imperatore Venceslao; e perciò il ducato (considerandolo come un podere) era devoluto all'imperatore. Se il destino delle città dipendesse dal solo diritto di proprietà ereditaria, l'imperatore solo, sulla base della pace di Costanza, avrebbe dovuto decidere di noi, o creando un nuovo duca, o nominando un vicario imperiale, ovvero, sotto quella denominazione che più gli fosse stata in grado, ponendo chi esercitasse la suprema dominazione dell'Impero su questa parte dell'Impero medesimo. Ma lo scettro imperiale era nelle deboli mani di Federico III, principe timido, indolente e minore della sua dignità; il quale nemmeno avrebbe potuto far valere le sue ragioni sull'Italia, oppresso, come egli era, dalle armate del re d'Ungheria. Il lungo regno di questo cesare lasciò dimenticato nel milanese il nome dell'Impero per più di quarant'anni dopo morto l'ultimo duca. La casa d'Orleans possedeva la città di Asti, portatale in dote dalla principessa Valentina, figlia del primo duca, conte di Virtù. V'era un piccolo presidio francese in quella città: ma la casa d'Orleans non regnava. Cinquantadue anni dopo ella ascese sul trono di Francia; e colle armi sostenne le sue pretensioni sul ducato di Milano, appunto come discendente dalla Valentina Visconti. Frattanto il re [171] di Francia Carlo VII, occupato nel combattere contro gli Inglesi, che avevano conquistate alcune province del suo regno, non aveva nè mezzi, nè pensiero di rivolgersi a questa parte d'Italia in favore di suo cugino. Il papa Niccolò V, di carattere sacerdotale, non conosceva l'ambizione; e l'antipapa Felice V e il non affatto disciolto concilio di Basilea occupavano interamente la corte di Roma. Il trono di Napoli era incerto e disputato. I Veneziani e il duca di Savoia avevano formato il progetto di profittare dell'occasione; ed erano e finitimi e potenti e sagaci. La vedova duchessa di Milano, Maria di Savoia, era in Milano, e cercava di guadagnare un partito al duca di Savoia, di lei padre. I Veneziani avevano in Milano i loro fautori, e colle immense ricchezze possedevano i mezzi di sostenerli e secondarli colle armi. Il conte Francesco Sforza pareva che nemmeno dovesse porre in vista le insussistenti pretensioni della moglie e del suo primogenito, esclusi per la investitura imperiale dalla successione nel ducato. La condizione del conte era anche più degradata di quella del duca d'Orleans, attesa la viziata origine della Bianca Maria. Egli possedeva Cremona, recatagli in dote; comandava un possente numero d'armati; aveva il nome più illustre di ogni altro nella milizia di quei tempi. Ma un romagnuolo, nato in Samminiato da Lucia Trezania, senza parenti illustri, e che non ebbe fra suoi antenati un nome degno di memoria, trattone suo padre (a cui il conte Alberico di Barbiano, sotto del quale militava, diede il soprannome Sforza), non pareva posto in condizione da disputare con alcuno la signoria di Milano, meno poi di prevalere. In questa situazione si trovò la città di Milano, quando, nel 1447, morì l'ultimo duca, ed ella intraprese a governarsi a modo di repubblica.

Appena aveva cessato di vivere Filippo Maria, che incominciarono a comparire nuove leggi e regolamenti sotto il nome dei capitani e difensori della libertà di Milano. Il primo proclama col quale annunziarono la loro dignità e il loro titolo, fu del giorno 14 agosto 1447, cioè il primo dopo la morte del duca. In esso questi capitani e difensori [172] della libertà di Milano confermano per sei mesi prossimi a venire il generoso Manfredo da Rivarolo dei conti di San Martino nella carica di podestà della città e ducato[219]. Questi nuovi magistrati però non pretesero di invadere tutta l'amministrazione della città; anzi lasciarono che i maestri delle entrate dirigessero le finanze e le possessioni che erano state del duca; e lasciarono pure che il tribunale di Provvisione regolasse la panizzazione, le adunanze civiche, l'annona e gli altri oggetti di sua pertinenza. I capitani e difensori, considerandosi investiti della autorità sovrana, riserbate al loro arbitrio le cose veramente di Stato, col dare, quand'occorreva, ordini al podestà, al capitano di giustizia, al tribunale di Provvisione, ec. pei casi straordinarii, lasciarono a ciascun magistrato la cura di provvedere, secondo i metodi consueti e regolari, a quanto soleva appartenere alla di lui giurisdizione[220]. [173] Questi capitani e difensori della libertà non avevano però ragione alcuna per comandare agli altri cittadini. S'erano immaginato un titolo, creata una carica, attribuita una autorità, addossata una rappresentanza tumultuariamente, per usurpazione e sorpresa, non mai per libera scelta della città. Se un virtuoso entusiasmo di gloria e di libertà avesse animati coloro ad ascendere alla pericolosa rappresentanza del sovrano, potevano, annientato ogni privato interesse, primeggiando il solo pubblico bene, andare cospiranti e unanimi, e adoperare così la forza pubblica col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come sperare che si accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città oppressa da una serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo resosi sovrano e la opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione delle parti di lui medesimo; nè era riserbato nemmeno ai più accorti il prevedere la poca solidità e durata di un tal sistema, manifestamente vacillante. Già nel capitolo antecedente nominai i fautori principali del governo repubblicano, cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era probabile che le altre città della Lombardia superassero il ribrezzo di farsi suddite di una città metropoli, governata a caso e senza una costituzione politica. Infatti due sole città, cioè Alessandria e Novara, si dichiararono di essere fedeli a Milano; le altre o progettarono di voler governarsi a modo di repubblica indipendente, o posero in deliberazione a qual principe sarebbe stato meglio di offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti: gli uni volevano Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia; altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di Ferrara; altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco Sforza. Il Corio, che ciò racconta, non fa menzione dell'ottavo partito, che sarebbe stato quello di reggersi da sè e collegarsi in una confederazione di città libere, o meglio ancora unirsi in una sola massa e formare un governo comune. Nè ciò pure terminava la serie dei mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, [174] occupavano i loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano gli innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno era più sicuro di possedere qualche cosa di proprio; la vita era in pericolo non meno di quello che lo erano le sostanze; il disordine era generale e uniforme; il che doveva accadere in una numerosa e ricca popolazione, rimasta priva del sistema politico, mentre con incerte mire tentava di accozzarne un nuovo. Il castello di Milano non poteva torreggiare sopra di una città che voleva essere libera e temeva un invasore; perciò con pubblico proclama si posero in vendita i materiali di quella rocca[221].

Il conte Francesco Sforza, appena ebbe l'annunzio della morte del duca, s'incamminò diligentemente verso Milano, abbandonando la Romagna, ove si trovava. I Veneziani erano nella circostanza la più favorevole per impadronirsi del milanese. Lodi, Piacenza ed altre città desideravano di vivere sotto la repubblica veneta. Francesco Sforza vedeva che i Veneziani erano i più potenti ad invadere e conquistare questo ducato, ch'egli aveva in mente di far suo, sebbene le circostanze non gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze dei Veneti già si trovavano nel milanese prima che il duca morisse. Il che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s'erano essi presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte di Brianza, così v'era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero l'imminente pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la morte di Filippo Maria, che la repubblica milanese dovette eleggere un comandante capace di opporsi alle forze venete e salvarla; e questa scelta cadde nel conte Francesco Sforza, dichiarato capitano delle nostre armate[222]. I denari dei Milanesi [175] erano necessari per mantenere un corpo numeroso di soldati, e ai Milanesi era necessario un gran capitano, la cui mente e valore, opportunamente dirigendo la forza, li preservassero dall'invasione dei Veneti. Questi bisogni vicendevolmente unirono da principio lo Sforza e i repubblicani nascenti, se pure il nome di repubblica poteva convenire a una illegale adunanza, che governava senza autorità e senza principii.

Una prova della incertezza di quel governo la leggiamo nel proclama che i capitani e difensori della libertà pubblicarono in data 21 settembre 1447. Per ordine di questi vennero pubblicamente consegnati alle fiamme i catastri che servivano alla distribuzione dei carichi, affine di rallegrare il popolo:[223] Capitanei et defensores libertatis [176] illustris et excelsae Comunitatis Mediolani. — Prudentes concives carissimi nostri. Posteaquam omnipotens Deus noster, per transmigrationem de praesenti saeculo illustrissimi bonae memoriae principis ac domini nostri domini Filippi Mariae gratiam libertatis nobis venditando condonavit quod retinere et conservare omnibus modis et firma scientia statuimus, deliberavimus comuni consensu in adurendis libris, extractibus, quaternis, filzis, et scripturis inventariorum, taxarum, talearum, focorum, buccarum, onerisque salis, et aliorum quorumvis onerum signum dare, quo populus et plebs intelligant se post hac futuros immunes et exemptos ab angariis et gravaminibus ejusmodi. Indegne bonam spem de statu ipsius libertatis et hujus nostre reipublicae percipientes, gaudeant gratulenturque et debitas gratias agant proinde ipsi omnipotenti Deo nostro. Nec minus animum firment et disponant velle, quod olim inviti et coacti fatiebant, nunc sponte atque perlibenter fatiere, in exponendis videlizet, videlizet et exhibendis, [177] juxta facultates, pecuniis, tum pro formando et conplendo thexauro gloriosissimi S. Ambrosii, patroni et protectoris nostri, tum pro expeditionibus genzium armigerarum Comunitatis praelibitae, quibus mediantibus non tantum libertatem nostram, ut caepta est, retinere conservareque valeamus, verum etiam rempublicam confirmares, locupletari, augere, et in dies melius ampliare atque dilatare, in confusionem eorum omnium qui satagunt huic inclitae Civitati omni conato suo, suisque omnibus insidiis aemulari. Volumus igitur quatenus, facta electione statim duorum ex vobis, ordinetis quod ii duo simul, cujus infra nominatis, inquirant et sibi exiberi faciant quoscumque libros, extractus, quaternos, filzas, et scripturas omnes inventariorum, taxarum, talearum, focorum, oneris salis, et aliorum onerum cujusvis generis, spetiei, ac materiei fuerint. Et his bene ac iterum revolutis visisque ac diligentissime examinatis, retinendo eos dumtaxat duibus videatur aliqua utilitas camerae prefatae Comunitatis, et territorio et singularium etiam aliquarum personarum, reliquos omnes ex predictis igni palam et pubblice cremandos dari et committi faciatis, quo veluti spectaculo populus ipse pariter et plebs, voluptatem inde assumentes peringentem, exaltare jubilareque possint, laudesque dare sancto memorato. Qui inclitam hanc urbem in felici et fausto statu semper servet atque tueatur.

Data Mediolani, die XXI septembris MCCCCXLVII.

Johannes de Mantegaxis — Stefanus de Gambaloytis — Cabriolus de Comite — Federicus de Comite — Johannes de Fossato — Francius de Figino — Johannes de Gluxiano — Jacobus de Cambiago Raphael. — A tergo Nobilibus et prudentibus concivibus carissimis nostris duodecim Provisionum excelsae comunitatis Mediolani. Registro civico A, foglio 47. — Si credette fondo bastante per le spese pubbliche la spontanea generosità di ciascun cittadino. Appena due settimane dopo si dovette pensare al rimedio; e fu quello che i medesimi capitani e difensori arbitrariamente tassassero i cittadini a un forzoso imprestito[224]. Si obbligarono poi i sudditi a notificare quanto [178] possedevano, sotto pena della confisca, invitando gli accusatori col premio; e ciò per formare nuovi catastri per ripartire i carichi[225]. Cercavano questi incerti capitani e difensori l'opinione favorevole del popolo con mezzi rovinosi, e vi rimediavano poi con ingiusti e odiosi ripieghi. Alcune delle leggi che proclamarono, poichè danno una precisa idea dello spirito di quel governo e della condizione di quei tempi, non sarà discaro al lettore ch'io qui trascriva. Nei primi momenti della inferma repubblica, incerti della loro autorità, privi di legale sanzione, in una città divisa in partiti, attorniata da città che non eranle amiche, coll'armata veneta che invadeva le sue terre, coi Savoiardi e Francesi, che minacciavano d'occuparlene dalla parte opposta, costretta a confidarsi al pericoloso partito di collocare nelle mani del conte Sforza il poter militare in così importante e seria situazione, pubblicarono un ordine il 18 ottobre 1447, rinnovando irremissibilmente la pena del fuoco ai pederasti:[226] Capitanei et defensores [179] libertatis illustris et excelsae communitatis Mediolani. Dilecte noster. Ad solidandum, angendum, ornandum hujus nostrae caeptae libertatis optabilem statum, non magis conveniens quam necessarium arbitramur virtutum coli decentiam, abbominari vitiorum sordes; ita n. et suscepti a Deo muneris grati videbimur, et accumulatiores ab ejus omnipotentia gratiarum sperare poterimus largitiones. Animadvertentes igitur quam foedissimum et detestandum, quam horrendum sit innominabile Sodomiae crimen, existimantesque quod impunitas incentivum parit, deliquendique etiam malos efficere deteriores solet deliberavimus, et mente nostra decreto stabili firmavimus hoc execrabile exitium nullatenus tollerare. Quamquam igitur ad detrahendos ab hoc scelestissimo [180] crimine qui in eo maculati sunt, ad faciendum ne de caetero in tale crimen incidant posse satis et debere sufficere videntur constituta per sanctissimas leges ac statuta hujus civitatis, quam ita vulgarissimam ignorare quidem non debent, ignis poena, ut tamen eorum infamis turpitudo reddatur prorsus inexcusabilis, volumus et tibi mandamus, quatenus, his receptis, patenter ac pubblice, voce praeconis, divulgari per solita hujus civitatis loca facias, quod amodo quisquis cujusvis status et conditionis existat, sive terrigena, sive forensis, aut stipendiarius vel provisionatus, et generalite, quisquis se ab eo penitus caveat et abstineat crimine, nec illud committere audeat quoquomodo; sciens et ex certo tenens, quod si dehinc illud incidisse comperietur, irremmissibili profecto, juxta legum sanctiones, punietur ignis poena. Tuque deinde ad investigandum et inquirendum de hujusmodi sceleratis et diligentiam omnem, studium et curam adhibeas, et contra quoscumque quos amodo id crimen perpetrasse comperies, debite procedas, eos; jure justitiaque mediante, puniendo. In qua quidem re, quo magis vigil magisque diligens fueris, eo magis honori debitoque servies et nostrae menti vehementissime complacebis. Et ut ab ejusmodi delictis malefactores se abstineant, volumus quod accusatoribus, seu denuntiatioribus ipsorum delictorum, cum bonis tamen inditiis, salis fiat pro qualibet vice, et teneantur secreti, de ducatis decem auri, ex et de bonis delinquentis, quam satisfactionem volumus per te et successores tuos fieri debere, omni exceptione et contradictione cessante. Scribimus etiam super hoc d, Bartolomeo Cacciae, capitaneo justitiae hujus civitatis, cumquo volumus habeas intelligentiam in fieri facendis proclamationibus praedictis. — Mediolani, die XVIII oct. 1447. — Gli uomini nei più pressanti disastri cercano l'aiuto della Divinità colla maggiore istanza, e a tal uopo credonsi di ottenerlo persino col sacrificio d'umane vittime. I Greci cercavano i venti col sangue d'Ifigenia; i Romani placavano il cielo seppellendo uomini vivi; i nostri, bruciando i peccatori. Le pazzie e le atrocità di un secolo si assomigliano alle pazzie e atrocità d'un altro, a meno che la cultura e la ragione, [181] diffondendosi largamente, non indeboliscano i germi del fanatismo inerente all'uomo; e questa coltura, questa filosofia, contro la quale ancora v'è chi declama, formano appunto l'unica superiorità dei tempi presenti. Oggidì un popolo che aspiri a diventar libero e combatta per sottrarsi dall'imminente giogo, non pubblicherà certo una legge per proibire ai barbieri di far la barba nei giorni festivi. Ha ben altro che fare chi si trova al timone della Repubblica fra la tempesta, che vegliare su di questi meschini e indifferenti oggetti; eppure allora si proclamò un bando cosiffatto:[227] Capitanei et defensores libertatis [182] illustris et excelsae civitatis Mediolani — Visa requisitione barbitonsorum inclitae Urbis hujus pro confirmatione cujusdam eorum statuti et ordinis tenoris infrascripti, [183] videlizet. Magnifici et excelsi domini hujus inclitae civitatis; barbitonsorus, tum recta conscientia ducti, tum praesertim a religiosis confessoribus et animarum suarum consultoribus admoniti, deliberant ad celebrandum festivos dies et vocandam ab opere temporibus illicitis cum vestrae magnificentiae licentia, et assensu, statutum ordinem et edictum quod est tenoris infrascripti. Reverenter ideo supplicantes ut, ad ipsum, quod quidem salutiferum et commendabile videtur, auctoritatem vestram interponentes, dignemini statutum hoc et ordinationem patentibus literis confermare, validare, servarique et excutioni mandari jubere, mandando etiam quibuslibet jusdicenti et offitialibus Mediolani, ad quos inde recursus habeatur, quatenus ad omnem requisitionem abatis Paratici dictorum barbitonsorum circa ipsius statuti observantiam et excutionem, praestent omne juvamen, auxilium et favorem opportunum. Item statuerunt et ordinarunt quod non liceat alicui magistro de dicta arte, habitanti in civitate vel suburgiis Mediolani, laborare, nec laborari facere de arte ipsa nec in apotecha seu domo habitationis suae nec extra, die aliquo festivo per sanctae matris ecclesiae tam Romane quam Ambrosianae istitutiones celebrari ordinato nec etiam in ipsorum festorum vigiliis ubi vigiliae institutae reperiantur nec diebus sabati post horam vigesimam quartam ipsius vigiliae vel sabati, sub poena librarum duarum nuperiorum qualibet vice qua fuerit contrafactum, eamdemque poenam incidat quilibet famulus seu laborator de dicta arte qui sine licentia et contra voluntatem magistri sui laboraret contrafatiendo praesenti statuto, talisque, famulus aut laborator de dicta arte non debeat nec possit de dicta arte aliqualiter laborare in civitate ipsa nec suburgiis nisi prius condemnationem ipsam solverit, et ante solutionem hujusmodi non debeat aliquis magister ipsius artis illi dare aliquod adjutorium nec aliquem favorem sub eadem poena, si tamen evenerit [184] quod ad horam vigesimam quartam dicti sabati aut vigiliae ut supra quispiam magister aut laborator inter manus aliquem haberet ante horam ipsam jam acceptum; eo casu tali prius accepto possit impune caeptam operam prosequi et finire, nec pro eo poenam incurrat; harumque omnium poenarum medietas applicetur fabricae majoris ecclesiae Mediolani et alterius medietati duae partes dentur Paratico ipsorum barbitonsorum et reliqua tertia pars accusatori qui talem contrafactionem denuntiaret. Possunt quoque abbas dictae artis et sui offitiales qui per tempora erunt, defitientibus in praemissis opportunis probationibus; pro habenda in hiis veritate artare quemlibet magistrum et laboratorem ad juramentum si et prout viderit expedire. Et considerata in hoc devota et laudabili dispositione dictorum barbitonsorum, vum statutum ipsum, quod etiam per spectabiles dominos consiliarios justitiae prefatae comunitatis diligenter examinari fecimus et honestum et ad observantiam orthodoxae fidei nostrae atque mandatorum ecclesiae videatur tendere, ipsorum requisitioni praedictorum benigne volentes annuere praesentium tenore, etiam ex certa scientia, statutum ipsum, quod in volumine etiam aliorum statutorum et ordinamentorum comunis Mediolani inseri et conscribi mandamus et volumus, gratum habentes, approbamus et confirmamus; mandantes propterea vicario et XII Provixionum ac aliis offitialibus antedictae comunitatis praesentibus et futuris, ad quos spectat et spectare possit et pro dicti statuti observatione recursum fuerit; quatenus ipsum statutum et ejus dispositionem inviolabiliter observare fatiant et ad omnem abatis Paratici ipsorum barbitonsorum requisitionem pro hujus statuti observantia et in contrafatientes debita executione omne prestent juvamen, auxilium et favorem opportunum, et hoc dummodo nichil exinde contra aliorum praefacte comunitatis statutorum et ordinamentorum dispositionem et in eorum detrimentum fiat vel sequatur. In quorum testimonium praesentes fieri registrarique jussimus, sigillique praefatae comunitatis munimine roborari. Dat. Mediolani, die sexto decimo aprilis MCCCCXLVII. Sign. Ambrosius. Il citato registro A, foglio 51, tergo.

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Anco un'altra legge ho riscontrata in quei tempi, la quale merita d'essere ricordata, perchè ci fa conoscere alcuni ripieghi politici, i quali volgarmente si credono d'invenzione di questi ultimi tempi, non erano punto sconosciuti negli Stati d'Italia alla metà del secolo decimoquinto, cioè le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai come sino dall'anno 1240 s'era posta in uso da noi la circolazione della carta in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero leggi assai opportune[228]; ora dall'editto del 9 gennaio 1448 verrà assicurato il lettore dell'antichità delle lotterie, ossia tontine, di quei tributi spontanei in somma ai quali si adescano i cittadini colla lusinga di arricchirli[229]. Colle note potrà il lettore dalla sorgente istessa conoscere [186] da quai principii fosse regolato quel governo, a qual grado fosse la coltura, a quale elevazione si trovasse la politica; nè sulla asserzione mera dello storico dovrà persuadersi della infelicità di quei tempi.

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Ora conviene ch'io ponga sott'occhio una fedele immagine del nuovo comandante delle armi milanesi Francesco Sforza. Sì tosto che il conte Francesco fu creato capitano generale della repubblica di Milano, e che l'armata di esso conte venne allo stipendio de' Milanesi, ei si trovò alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato e dai Veneziani, e da ogni altro pretendente. Se egli avesse rivoltata allora per assoggettare a sè il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e l'entusiasmo della nascente libertà de' popoli, non per anco stancati dai disordini dell'anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato fors'anco del tradimento che si faceva ai Milanesi, della illegalità delle pretensioni sue alla successione nel ducato; si doveva temere o la defezione o la svogliatezza. Il conte conosceva i tempi, gli uomini e gli affari. Egli era venerato come il più gran generale del suo tempo. Sapeva farsi adorare da' suoi soldati, che egli, con una prodigiosa memoria, soleva quasi tutti chiamare col loro nome. Nella azione si esponeva con mirabile indifferenza e intrepidezza, e con voce militare [188] animava nella mischia i combattenti. Padrone assoluto dei propri moti, sapeva celare le cose che gli dispiacevano con mirabile superiorità d'animo. Accortissimo conoscitore dei pensieri altrui, antivedeva le risoluzioni de' nemici, che lo trovavano preparato mentre s'immaginava di sorprenderlo. La reputazione dello Sforza era tale, che, venendo da' Veneziani attaccato un drappello de' suoi che egli aveva postati a Montebarro, vi giunse il conte Francesco nel punto in cui i nemici vincevano pienamente. Al solo avviso della inaspettata sua presenza si posero in fuga i vincitori; anzi innoltrandosi egli incautamente ad inseguirli, si trovò come attorniato e preso da essi; ma invece di farlo prigioniere, i nemici deposero le armi, e scopertisi il capo, riverentemente lo salutarono, «e qualunque poteva, con ogni reverentia li tochava la mano perchè lo riputavano patre de la militia ed ornamento di quella»; così il Corio. Sin dalla sua gioventù egli ispirava rispetto per la nobile e dignitosa figura, e più per la saviezza, prudenza, costumatezza ed eleganza nel parlare, onde l'istesso Filippo Maria[230] admirabatur enim magis atque magis guotidie tum illius prudentiam, facundiam egregiosque mores, tum formae praestantiam, vultus gestusque dignitatem[231]. Un fatto raccontatoci dallo storico Giovanni Simonetta, che viveva in que' tempi, mostra l'indole generosa del conte Francesco, e la singolare di lui prudenza nel fiore degli anni suoi. Sforza suo padre, mentre guerreggiava nell'Abruzzo, aveva affidato a Francesco un corpo. Ivi guerreggiavano i due partiti francesi e spagnuolo, ossia gli Angioini e gli Aragonesi. Si formò una trama segreta fra i soldati sottoposti a Francesco Sforza; e improvvisamente una gran parte di essi tradì la fede, e, abbandonando il giovine Francesco, passò al nemico. Francesco co' pochi rimastigli fedeli si ricoverò in luogo munito. Appena ottenuto [189] dal padre nuovo soccorso, si scagliò contro i nemici, e fece prigionieri tutti i traditori. Ne spedì la novella a Sforza di lui padre, chiedendo i suoi comandi sul trattamento da farsi a questi prigionieri. Sforza gli mandò il comando di farli, tutti quanti erano, impiccare. Al ricevere un tal riscontro rimase pensieroso il giovane Francesco, e dopo qualche taciturnità interpellò il messaggiero: «Dimmi, con quale aspetto parlò mio padre, che t'incaricò di quest'ordine?» Il messaggere rispose ch'egli era assai incollerito. «Non lo comanda adunque mio padre, disse Francesco: questo è l'impeto di un uomo sdegnato, e mio padre a quest'ora è pentito di aver detto così»: indi, fatti condurre alla sua presenza i prigionieri: «Poichè mio padre, diss'egli, vi perdona, io pure vi perdono. Siete liberi; se volete restare al nostro stipendio, vi accetto come prima; se volete partire, fatelo». La sorpresa di que' soldati, che si aspettavano il supplizio, fu tale che, lacrimando e singhiozzando, giurarono fede alle insegne sforzesche, e in ogni incontro poi se gli mostrarono affezionatissimi e valorosi. Quando Sforza intese il fatto, confessò che Francesco era stato più prudente di sè stesso[232]. Questo avvenimento ci fa risovvenire delle Forche Caudine: lo Sforza fu assai più avveduto che non si mostrò Ponzio. Francesco amava e venerava suo padre, e con ragione. Mentre appunto nel regno di Napoli Francesco stava alle mani coi nemici, vennegli il crudele annunzio che, poco discosto, Sforza suo padre, volendo soccorrere un suo paggio, erasi miseramente affogato nel fiume che stavano passando. Questa era la massima prova che potesse dare della padronanza di sè medesimo. Francesco, soffocando l'immenso dolore, e dirigendo la battaglia con mente e faccia serena, come fece[233]. Questi fatti bastano per darci idea di questo illustre italiano, che diventò poi nostro principe.

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Agnese del Maino s'era ricoverata nella rocca di Pavia, dove ella ebbe influenza bastante per rendere preponderante il partito di coloro che scelsero per loro principe il conte Francesco genero di lei. Se il conte avesse accettata questa sovranità mentre era allo stipendio de' Milanesi, senza l'assenso loro, avrebbe mancato al dovere. Pavia era, ed è una parte dello Stato di Milano vicina ed importante. Il conte Francesco però fece conoscere che, attesa l'antica avversione, non sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione di Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia, ovvero ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli da quella città munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato esposto alle invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi per quella navigazione. Insomma persuase che l'interesse di Milano era dover Pavia cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro principe. Per tal modo, coll'assenso dei Milanesi, il conte Francesco diventò signore di Pavia; e così due città principali del ducato, Cremona e Pavia, una per dote, l'altra per dedizione, furono del conte Francesco.

Non sì tosto ebbe il conte acquistata Pavia, che s'innoltrò colle sue armi sotto Piacenza, occupata da' Veneziani, e se ne impadronì il giorno 16 dicembre 1447. Così, appena trascorsi quattro mesi dalla morte del duca, il conte s'era già reso padrone del corso del Po; padronanza la quale indirettamente lo rendeva arbitro di Milano, che non ha altro sale per i bisogni della vita, se non di mare, che conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i [191] Francesi, che stavano al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona; ma vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte Francesco. Così, al terminare dell'anno in cui era morto Filippo Maria, il conte possedeva già una importante porzione del ducato.

I repubblicani, o, per nominarli con maggior proprietà, gli oligarchi milanesi conoscevano la loro situazione e il pericolo imminente di ricadere sotto la dominazione d'un uomo solo, cosa generalmente detestata; per ciò si rivolse secretamente a fare proposizioni di accomodamento coi Veneziani: anzi si progettò una confederazione fra le due repubbliche per la difesa reciproca della loro libertà e signorie, offerendo a' Veneziani il dominio di Lodi, oltre quei di Bergamo e Brescia, che le armi venete avevano già conquistato sotto il regno dell'ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per attraversare la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v'era più sicurezza se a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quanto meno ce lo saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San Marco e città provinciale e squallida; che non v'era più una sola notte tranquilla pe' Milanesi, se una così vergognosa cessione si facesse. La plebaglia, mossa da ciò, andava per le strade urlando: guerra, guerra contro de' Veneziani! e così vennero forzati gli usurpatori del governo, i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in disparte. Frattanto il conte Francesco, sempre vittorioso, con molti e piccoli fatti d'arme avendo fatto sloggiare i Veneti dalle rive del Po, stava risoluto di movere sotto Brescia, e toglierla ai Veneti, che da ventidue anni la possedevano per conquista fattane dal Carmagnola, siccome vedemmo nel capitolo precedente. Presa una volta Brescia, non potevano più i Veneziani conservare Bergamo nè Lodi, nè altra parte delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora cominciarono più che mai a temere, forse più de' nemici, il loro capitano generale; il quale se riusciva, come era probabile, di rendersi padrone [192] di Brescia, l'avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto di Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l'avrebbe costretta, non che a rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono adunque ordini al conte comandandogli che non altrimenti s'innoltrasse a Brescia, ma si portasse a Caravaggio e facesse sloggiare i Veneti da quel borgo. Il conte ubbidì. Nella sua armata eravi il Piccinino, generale emulo e nemico del conte: le operazioni militari o s'eseguirono lentamente, ovvero venivano attraversate: si lasciava penuriare il campo dello Sforza d'ogni sorta di foraggi e di viveri: l'armata veneziana che stavagli di fronte, era dodicimila e cinquecento cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi egli venne a una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poichè nei contorni di Mozzanica, venne il conte colto dai Veneziani talmente all'improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente; onde si pose a comandare e diresse l'azione mancandogli i bracciali. L'insidiosa emulazione fu quella che rese inoperosi i drappelli di osservazione che egli aveva postati verso del nemico, il quale perciò potè cadere con sorpresa sull'armata del conte. V'erano, siccome dissi, il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini, generale di cattivo animo. Il conte, mezzo disarmato, espose più volte sè stesso al più forte della mischia, riconducendo i fuggitivi all'attacco, animando colla voce e coll'esempio i soldati; insomma tanto gloriosa fu quella giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i Veneti, e tanto furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedargli per mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di trionfo le insegne di San Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro Cotta, che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano colle medesime, conducendo i più illustri prigionieri, fra i quali un Dandolo ed un Rangone.

Questa vittoria di Mozzanica dava sempre maggior motivo di temere lo Sforza; e il Piccinino, generale di credito, nemico del conte, cercava di accrescere il popolar timore, fors'anco sulla speranza di acquistare per sè medesimo [193] poi quella sovranità che ora faceva comparire esosa ed esecranda[234]. Giorgio Lampugnano era, fra i più accreditati Milanesi, quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da' principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravi, obbligandoci a [194] riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l'impresa di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s'erano presa; ma non lo vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d'ogni specie ritardati; le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della libertà, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione, perchè, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti si univano contro l'imminente fortuna del conte; il quale, posto in tale condizione, ascoltò le proposizioni della repubblica veneta, e segretamente stipulò un trattato per cui egli si obbligò a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila fiorini d'oro al mese, sin tanto ch'egli non si fosse impadronito di Milano. Poichè il trattato fu concluso, il conte lo pubblicò nel suo esercito. Sì tosto che i Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza e i Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini, cercando con modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi offrendo ogni soddisfazione, salva sempre la repubblica. Ma il conte aveva già presa palesemente la sua determinazione; e, senza mistero espose ad essi le ragioni ch'egli asseriva competere e a Bianca Maria, di lui moglie, e a sè medesimo e a' figli suoi, per la successione nel dominio di Filippo Maria, suo suocero: sè essere determinato a farle valere ad ogni costo. Che se i Milanesi, deposta la chimerica pretensione di erigersi in repubblica, di buon grado riconoscevano lui per [195] sovrano, egli avrebbe avuta cura della salvezza e felicità di ciascuno; che se all'incontro si fossero ostinati a sostenere una illusione di libertà, che, in sostanza, era una rovinosa oligarchia, doveano attribuire a loro stessi i mali che avrebbero sofferti, obbligandolo, suo malgrado, ad usare contro di essi la forza. Furono con tal risposta congedati i legali Giacomo Cusano, Giorgio Lampugnano e Pietro Cotta; e, mentre con tristezza s'incamminavano a recare questo poco favorevole riscontro alla loro patria, vennero dileggiati non solo, ma insultati e svaligiati dalla licenza militare di alcuni soldati sforzeschi. Intese ciò con isdegno il conte, e, prontamente rintracciati i malvagi soldati, convinti del delitto, immantinente furono impiccati; la roba al momento venne spedita ai legati, a' quali di più aggiunse il conte altri regali, per riparare quanto poteva il danno sofferto da essi. La nobile generosità del conte Francesco sorprese i legati.

I Veneziani spedirono le loro truppe a servire come ausiliarie al conte. La repubblica fiorentina, poichè vide svelato il mistero, e apertamente inalberate le pretensioni del conte, inviogli i suoi legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per tal modo sicuro dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a circondare sempre più Milano. Da Pavia spinse le forze al castello d'Abbiategrasso, e lo costrinse ben tosto alla resa. È memorabile il fatto che, mentre il conte Francesco conteneva i suoi, vietando loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura vennegli scoppiata un'archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il conte illeso, placidamente impedì che si facesse male a veruno. Fattosi padrone d'Abbiategrasso, prese a sviare l'acqua del Naviglio, e per tal modo rese inoperosi i mulini di Milano. S'innoltrò a Novara, e se ne impadronì[236]. I Tortonesi spontaneamente si diedero al [196] conte. Vigevano pure spontaneamente lo volle per suo sovrano, discacciando i Savoiardi che l'occupavano; Alessandria fece lo stesso; Parma si assoggettò. Mentre le cose erano a tal segno, i Milanesi scelsero per loro comandante Carlo Gonzaga[237]. Allora il Piccinino, che forse aveva adocchiata la signoria di Milano, vedendosi preferito il marchese Gonzaga, [197] anzi che servire sotto di lui, passò ad offrirsi al conte Francesco Sforza. Egli era stato sempre, siccome dissi, emulo non solo, ma nemico e atroce nemico del conte; ciò nondimeno il conte lo accettò per suo generale, e gli accordò un onorevole stipendio. Due uomini volgarmente zelanti, certo Barile e certo Frasco, andavano animando il conte perchè lo facesse uccidere, o per lo meno lo imprigionasse come irreconciliabile nemico, che, per necessità, simulava in quel momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli avrebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era abbandonato al suo potere. Infatti il Piccinino desertò poi con tremila cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di più alla di lui fama, e un contraposto sempre più glorioso pel conte Francesco.

Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per la libertà, s'erano cambiati ed erano diventati fautori del conte Sforza, o fosse ciò accaduto perchè l'esperienza gli avesse convinti della impossibilità di adattare stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virtù grandi del conte, e le speranze sotto la sovranità di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono; si conobbe la trama di aprirgli le porte della città, e si destinò di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficoltà consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poichè i magistrati non avevano forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta. Essi cercavano di procrastinare la partenza [198] per essere mal sicure le strade; ma Carlo Gonzaga seppe sì bene fingere, che, apprestata loro una buona scorta di armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove assicurogli che sarebbesi sborzata loro una conveniente somma di danaro per inoltrarsi nella Germania e fare la commissione. Adescati così, caddero nell'insidia. Usciti appena dalla città, furono costretti dai soldati del Gonzaga a passare a Monza, ove Giorgio Lampugnano venne subito decapitato, e la sua testa, portata a Milano, fu esposta al pubblico. Indi, a forza di torture, Teodoro Bosso in Monza fu costretto a nominare i complici, a' quali tutti fu troncata la testa alla piazza dei Mercanti, e furono Giacomo Bosso, Ambrogio Crivello, Giovanni Caimo, Marco Stampa, Giobbe Ombrello e Florio da Castelnovato. Vitaliano Burromeo, il di cui nome pure trovavasi fra i proscritti, potè uscire dalla città e salvarsi.

Oppressi per tal modo i primari del partito nobile, del quale poco si fidava il Gonzaga, e sollevata la plebe ad ambire il comando della repubblica, il disordine e lo scompiglio divennero generali nell'interno della città. Artigiani, giornalieri, plebaglia la più sfrenata arrogantemente cominciarono a disporre della vita e delle fortune altrui a loro piacimento. Giovanni da Ossona e Giovanni da Appiano si segnalarono colle tirannie, usurpandosi una dittatoria facoltà e il dominio della repubblica. Il Corio li chiama uomini iniquissimi e scellerati. Saccheggiare i granai de' proprietari delle terre; sforzare di notte con mano armata l'asilo delle private famiglie, rubando le gioie, gli argenti, e quanto v'era di meglio; costringere colla minaccia dell'oppressione i nobili agiati a manifestare e consegnare i denari che possedevano; quest'era la forma colla quale costoro percepivano il tributo col pretesto di mantenere l'armata a salvamento della repubblica. Si pubblicò pena di morte a chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si andava gridando che, piuttosto che a lui, si darebbero al turco o al diavolo. I cittadini ragionevoli non ardivano nemmeno di uscire dalle case loro sotto di un sì atroce governo. Per rimediare al disordine, Guarnerio Castiglione, Pietro Pusterla [199] e Galeotto Toscano formarono un triumvirato, e si posero alla testa della città. Chiusero in carcere l'Ossona e l'Appiano. La plebaglia liberò dal carcere costoro; indi a furore insurgendo contro i triumviri, Galeotto Toscano venne scannato sulla piazza del palazzo ducale; i due altri si sottrassero colla fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di merito. Le case de' migliori cittadini vennero saccheggiate: insomma la misera patria divenne orrendo teatro di sciagure.

In mezzo alle vicende e alle angustie della città stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la quale, cogliendo l'opportunità, sparse la speranza che il duca di Savoia, di lui padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. Infatti il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorchè vide comparire questo nuovo nemico al conte Sforza, abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occupò, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una città bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d'un assalto; ma l'inviato non potè parlare se non a quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranità. Il marchese Gonzaga, vedendo però le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva quasi tutte le città del contorno, l'ascendente del valor suo e della scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessità lo costringesse a perdere la carica di capitano dei Milanesi senza verun compenso. Trattò col conte Francesco; e fu convenuto ch'egli passerebbe allo stipendio del conte.

I Milanesi, attorniati dallo Sforza, già padrone di Cremona, Parma, Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de' borghi e terre ancora più vicine, vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non potendosi fidare sul Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di Savoia; in mezzo ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati, oppressi dai [200] propri magistrati, non avendo un uomo solo di qualche merito nelle cariche, usurpate da' più violenti, e da cui meno conosceva l'arte di reggere una città, e meno forse degli altri si curava della felicità della patria; in tale misero stato si pensò da alcuni a conciliare la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano: il che, sebbene recentemente si foss'ella collegata col conte, non mancò, del suo effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese, avendovi casa di negozio: costui venne incaricato d'invocare il senato veneto, amatore della libertà in favore della patria. Fu ammesso il Panigarola a trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo lo stato a cui erano ridotti i Milanesi, non per altro, se non perchè ricusavano essi un giogo ingiusto e illegale, e volevano reggersi da sè con una libera costituzione. Turpe cosa, diss'egli, che i Veneziani, illustri difensori della libertà, si colleghino con un usurpatore, per porre i ceppi agli italiani, loro confratelli. Assicurò che se la repubblica cessava di far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a questa nascente repubblica, dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero amalo e venerato i Veneziani come loro padri e dei tutelari; che da una generazione all'altra ne sarebbe passata ai secoli la divozione e la gratitudine. Il discorso del Panigarola commosse gli animi, ma più ancora erano commosse le menti del senato dalle lettere che andava scrivendo il nobil uomo Marcello, il quale, per commissione della repubblica, stava al fianco del conte. Testimonio della prudenza e del grand'animo del conte Sforza, ammiratore della imperturbabile fermezza di lui negli avvenimenti prosperi e avversi, vedendo la benevolenza somma che avevano per lui i soldati, non meno che i suoi sudditi, colpito continuamente dalla superiorità dei talenti suoi nel mestiere dell'armi, andava esso Marcello colle sue lettere intimorendo il senato, parendogli facil cosa che, poichè lo Sforza avesse acquistato Milano, pensasse poi a riunire le membra del ducato, e ricuperando Brescia, Vicenza e fors'anche Padova, ritornasse ad occupare quanto settantadue anni prima era soggetto al conte [201] di Virtù, primo duca. Queste circostanze produssero l'effetto che: primieramente, i Veneziani trascurarono di spedire i convenuti soccorsi al conte, e gli stipendiari loro, che servivano nell'armata di lui, cambiando costume, più non volevano concorrere od esporsi: indi, senz'altro abbandonarono il campo. Non faceva mestieri di tanto, perchè il conte s'avvedesse del cambiamento de' Veneziani; i quali, per mezzo di Pasquale Malipiero, fecergli noto avere la loro repubblica fatta la pace coi Milanesi. Le condizioni erano, che tutto lo spazio compreso fra l'Adda, il Ticino e il Po rimanesse della repubblica di Milano, trattane Pavia, che si sarebbe lasciata al conte; e il rimanente dello Stato posseduto dal duca Filippo Maria passasse al conte Francesco Sforza. I Veneziani poi, oltre Brescia, Bergamo e Crema, rimanevano padroni di Treviglio, Caravaggio, Rivolta e altre terre del ducato.

Un tal partito non poteva convenire al conte, giacchè la maggior parte del ducato e la capitale medesima venivagli sottratta, e se gli assegnava una sovranità di tante membra quasi staccate, estesa per lungo spazio, difficile a custodire. Si rivolse egli adunque ad accomodarsi col duca di Savoia, e colla cessione di alcune terre sull'Alessandrino e sul Novarese, si assicurò da quella parte. Indi, rivolgendosi ai Milanesi e Veneti, si pose a disputare con essi il ducato di Milano. Io non entrerò a descrivere i fatti d'arme; inutile materia per uno storico, a cui preme di conoscere lo spirito dei tempi, l'indole degli uomini, lo stato della società, e non di stendere i materiali per una tattica di poco profitto, atteso il cambiamento accaduto nella maniera di guerreggiare: basta dire che il conte Sforza in ogni parte si presentò abilissimo generale nel postare il suo campo, nel prevenire il nemico, nelle marce giudiziosamente condotte, nel cogliere il momento per attaccare, nel dirigere la battaglia, nel provvedere di tutto l'armata propria e impedire la sussistenza al nemico, nel conservare la militar disciplina, risparmiare quanto era possibile la miseria dei popoli, e nel tempo stesso conservarsi l'amore dei soldati, che giugneva sino all'entusiasmo. (1449) Con tai superiori [202] talenti, con virtù tale ei circondò sì bene la città di Milano, che in breve tempo si manifestò lo squallore della carestia. Egli non volle spargere il sangue de' cittadini, nè diroccare con macchine Milano; ma costringerla per la fame a darsi a lui. Insomma egli concepì quel progetto medesimo sopra Milano, che il grande Enrico IV fece poi con Parigi; e molta somiglianza troverebbesi fra l'uno e l'altro di questi grandi uomini, se venissero al paragone. Le traversie che l'uno e l'altro dovettero soffrire ne' primi anni; i pericoli della vita che corsero per le insidie delle corti, nelle quali dovevano regnare poi; l'umanità, la popolarità, il valore, la perizia militare dell'uno e dell'altro sono degne di confronto. A Francesco Sforza mancò un più grande teatro sul quale mostrarsi, e spettatori più illuminati. Enrico ebbe per campo il regno di Francia, e per testimonio un secolo più colto[238].

[203]

La carestia fece nascere un generale disordine. Non vi era più chi volesse ubbidire. Quei che si erano arrogate le magistrature e il comando della città, erano considerati come buffoni del popolo. Il consiglio generale era stato composto da essi, scegliendo maliziosamente ad arte uomini inetti o del partito. Per dare apparenza al popolo che si vegliava al bene della città, i rettori fecero radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria della Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in quel contorno: cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla spensierata condotta de' rettori e sulla dappoccaggine de' consiglieri. A misura che passavano i cittadini, si trattenevano; e cominciò a formarsi un'unione di popolari malcontenti. Ben tosto corse il grido per i quartieri della città, come vicino alla Scala vi fosse unione di malcontenti, e da ogni parte concorsero nuovi popolari, in modo che i rettori e consiglieri si trovavano assai inquieti. Laonde spedirono Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il popolo, e, colle buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe pena a salvarsi. Comparve il capitano di giustizia Domenico da Pesaro, scortato da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo i capestri; ma il popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de' malcontenti si creò due capi: Gasparo da Vimercato e il soprannominato Pietro Cotta. Altri signori spalleggiarono i malcontenti, come Giovanni Stampa, Francesco da Trivulzio, Cristoforo Pagano suddetto, Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso; vennero espulsi i [204] magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l'organizzazione civile; se ne formò una tumultuariamente. I primarii cittadini, il giorno seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano rimaner liberi e non ubbidire a verun principe. Altri, conoscendo l'impossibilità di formare una repubblica in mezzo a tanti e sì appassionati partiti, in una città nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano ad ammorzare le private mire, volevano un principe. Tutti però concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa; da altri il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo da Vimercato propose il conte Francese Sforza. Egli nel suo discorso fece vedere che la fame minacciava a giorni la morte; che nè il papa nè il re Alfonso nè il duca di Savoia avevano mezzi per salvarci al momento, come chiedeva l'urgente necessità; che non rimaneva altro partito da scegliere che o i Veneziani o il conte. Sudditi de' Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino d'una città secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe temuta la nostra prosperità. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico, nostro concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un padre saggio, provvido, amoroso, da cui sarebbe posto rimedio a' nostri mali. (1450) Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si spedì tosto ad avvisarlo[239]. Due mesi prima che la città si rendesse [205] allo Sforza, si pubblicò in Milano un proclama col premio di diecimila zecchini a chi avesse ammazzato il conte Sforza, o mortalmente ferito[241]. Così gl'imbecilli nostri [206] legislatori si mostravano insensibili alla virtù, ignoranti della ragion delle genti, indegni per ogni modo di comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in tanta disciplina le sue truppe che vietò loro di non offendere per niun modo le terre o le persone de' Milanesi, come si scorge dagli archivi di città[242]. Ma i nostri capitani e difensori, l'istesse armi che avean rivolte contro dello Sforza le adoperavano ancora verso altri. Leggesi ne' registri di città la taglia di duemila ducati d'oro a chi condurrà a Milano Antonio e Ugolino fratelli Crivelli, i quali avevan ceduta la fortezza di Pizzighettone al conte Sforza[243]. Leggesi la taglia di mille ducati a chi consegnerà Francesco Borro, che aveva ceduta allo Sforza la fortezza di Lodi.

Era circondata la città di Milano dai soldati dello Sforza, e custodita con tanta esattezza che egli era impossibile di vere alimento veruno. Un moggio di grano si vendeva a venti zecchini. S'eran vendute pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli asini, de' cani, de' gatti e persino de' sorci. Morivano sulle pubbliche strade alcuni cittadini di fame. In queste estremità, cioè tre giorni prima che Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori della libertà pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza pubblica[244].

[207]

Oltre il Corio, che minutamente descrive la desolazione di que' tempi, e la miseria di quel governo, anche il Decembrio [208] ce ne dà un'idea colle parole seguenti:[245] Mediolanensium res in deterius labi caepere. Nam duce destituti, dissidentibus inter se civibus, deteriora prioribus in dias pullulabant. Non pubblica munera a populo rite gubernari; non divites onera conferre; non jussa quisquam exsequi poterat; sed veluti tempestate disjecta classis, inundante pelago, inc inde ferebatur. Si qua in residuis militibus spes affulserat, Caroli Gonzagae ambitione turbabatur, qui ad populi dominatum improbe aspirans, longa suspicione cuncta detinebat. Qua ex desperatione et pavore squallebant omnia. [209] Conjurationes ad haec a quibusdam perpetratae majorem adhuc sollicitudinem singulis injecerant. Capti siquidem plerique nobilissimi Cives, et supplicio affecti sunt: Sed nec ullorum caede mali atrocitas leniri poterat... Boni praeterea, officiis exuti, nec sibi aut aliis prodesse utiles, silentio languebant; plebs vero, inter spem metunque conjecta, onus tolerabat, dominatus dumtaxat nomine exsultans[246]. Questo veramente è uno de' tratti più compassionevoli e umilianti della nostra storia: vorrei poterla nobilitare esponendola, ma lo storico consecrato all'augusta verità, benchè contro sua voglia, la scrive. Qual differenza mai fra Milano assediata dall'imperator Federico, e Milano bloccata da Francesco Sforza! Contro l'imperatore e contro tutt'i principi della Germania Milano si difende. Escono con valore i Milanesi dalle loro mura; si cimentano; piegano alfin traditi, soverchiati; e terminano con gloria, assicurando lo Stato della loro limitata libertà. Contro lo Sforza non v'è un tratto solo di vigore, non un lampo di civile prudenza. Uno spirito, ora cenobitico, ora insidiosamente timido e atroce, detta le leggi, dirige le azioni. Erano i nostri, tre secoli prima, agresti, rozzi, ma generosi, guerrieri e affezionati alla patria. I loro discendenti, degradati nella servitù di cattivi principi, sembrano un'altra nazione; e perciò il Secretario fiorentino ebbe a dire: «Per tanto dico che nessuno accidente (benchè grave e violento) potrebbe ridurre mai Milano o Napoli libere per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti, che volendosi ridurre Milano alla libertà non potette e non seppe mantenerla[247]». La città, colla mediazione di Gaspare da Vimercato, si rese a Francesco Sforza dopo trenta mesi e mezzo di anarchia, ossia d'un atroce disordine chiamato Repubblica. Le monete d'oro e d'argento battute in Milano [210] in que' tempi hanno da una parte sant'Ambrogio, e dall'altra la Croce e la lettera M, colla leggenda Comunitas Mediolani, e lo stemma della città. Francesco Sforza entrò in Milano il giorno 26 di febbraio del 1450[248]. Coloro che si lagnano de' tempi presenti, ed esaltano la felicità de' maggiori, torno a dirlo e lo dirò pure altra volta, non sanno la storia.

[211]

CAPITOLO XVII. Francesco I Sforza, duca di Milano.

Appena il conte ebbe notizia che per quasi unanime voto degli affamati cittadini milanesi egli veniva proclamato signor loro e duca, volle cogliere il momento e senza dimora alcuna entrare nella città; giacchè l'indugio non poteva essere di utilità se non ai Veneziani, ai quali fors'anco, per l'instabilità della moltitudine, avrebbero potuto ricorrere, qualora avesse egli tardato a soccorrerli di vittovaglia nella estremità della fame a cui erano ridotti. Postò egli adunque di contro alle schiere venete un corpo di armati valevole a contenerle, e immediatamente egli da Vimercato incamminossi a Milano alla testa d'un altro corpo di fedeli soldati, i quali, oltre le solite armi, vennero caricati sulle spalle e nelle tasche di quanto pane ciascuno poteva portare, con ordine di lasciarsi saccheggiare allegramente dalle affamate turbe milanesi. La strada da Vimercato a Milano era popolata da infinita turba, dice il Corio, singolarmente nelle dieci miglia vicine alla città. Fu uno spettacolo degno di un cuore sensibile quella pompa, nella quale non già primeggiava il fasto o l'alterigia d'un irritato vincitore, ma bensì l'affabile umanità di Francesco Sforza, che amichevolmente accoglieva le grida di allegrezza del popolo, nominava e salutava le conoscenze che aveva fatto sino da' suoi primi anni in questa quasi sua patria, ordinava ai valorosi soldati suoi di abbandonare ogni contegno militare e imponente, e fatti concittadini, di lasciarsi svaligiare dall'affamata moltitudine, che avidamente si satollava col loro pane; e fra le consolanti risa che faceva nascere l'inusitata mischia, fra le grida [212] gioiose de' popoli che andavano esclamando:[249] haec est dies quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea, andò accostandosi alla città e vi entrò per porta Nuova. Malgrado lo sterminato numero de' cittadini uscitogli incontro, dice il Corio, «benchè grande era stata la moltitudine che di fuori l'haveva salutato, molto maggiore era quella di dentro l'aspettava». Ognuno procurava di giungere a toccar la mano al conte nuovo duca; e tanta e tanto strettamente la moltitudine lo circondava, che il cavallo di lui parve portato sulle spalle de' cittadini. Andossene egli direttamente al Duomo per rendere alla Divinità il primo omaggio d'un avvenimento sì fausto per lui; ma non fu possibile ch'egli scendesse dal cavallo, e dovette così entrarvi e così orare: tanto era la immensità della turba e tanto era l'entusiasmo de' nuovi suoi sudditi! Dispose poscia il nuovo duca che da Pavia, da Cremona e da altri luoghi venisse portato quanto occorreva al vitto e ai comodi, e in tre giorni l'abbondanza comparve nella città. Tutto venne ordinato dal duca con paterna previdenza: pose al governo della città uomini probi e illuminati; intimò la pace, la sicurezza, il gaudio a ciascun milanese; distribuì ai poveri larghi soccorsi di frumento; poi tornò al campo contro i Veneziani, i quali si ritirarono a quartiere, e così fece egli pure de' suoi. Ricevette l'omaggio di Bellinzona, Como e Monza, suddite de' Milanesi. Spedì i suoi ministri alle corti estere per dar loro avviso della nuova sua condizione. L'imperatore Federico III e Carlo re di Francia ricusarono di trattarlo qual duca, perchè il primo non doveva riconoscere rivestito di quella dignità se non un discendente maschio legittimo de' Visconti investiti; e l'altro pretendeva dovuto il ducato ai discendenti della principessa Valentina. Gli altri principi lo riconobbero. Gli uomini più turbolenti e sediziosi, quei che avevano tiranneggiato il popolo nel tempo dell'interregno, vennero con umanità relegati nelle città vicine.

[213]

Non voleva il nuovo duca sgomentare i sudditi dominando sopra di essi con un potere illimitato, nè che essi lo considerassero come un dispotico conquistatore. Sarebbe stato troppo repentino il passaggio dalla licenza alla servitù, e questo violento cambiamento avrebbe potuto facilmente cagionar poi de' pentimenti e de' moti nel popolo, nel qual caso un principe vi perde sempre, quand'anche giunga colla forza a reprimere ed a punire. Ciò conosceva ottimamente il saggio duca; e perciò volle che alla nuova dominazione di lui servisse di base un contratto, e che i sudditi lo considerassero sovrano e non despota. Questa prudente politica diresse il solenne contratto di dedizione, celebrato il giorno 3 di marzo 1450, nella villa del conte Giovanni Corio in Vimercato, essendone rogato il notaio Damiano Marliano; in vigore del qual atto venne concordato che le gabelle sarebbero state moderato, riducendosi la macina a soldi 12, il dazio del vino a soldi 4, e stabilendosi che non s'imporrebbero in avvenire nuove gabelle, anzi si abolirebbe quella del fieno; che il nuovo duca avrebbe fatto residenza in Milano, almeno per due terze parti dell'anno; che i tribunali avrebbero sempre in Milano la loro sede; che il prezzo del sale sarebbe stato lire tre per ogni staio, che non si sarebbe imposto verun carico straordinario, eccetto quello di somministrar carri e guastatori per gli usi militari; che il solo podestà di Milano sarebbe stato forestiere, ma tutti gli altri uffici sarebbero confidati a' Milanesi; e alla vacanza di ogni carica la città avrebbe presentata la nomina di sei, fra i quali il duca avrebbe fatto la scelta, salvo però l'arbitrio a lui, in casi speciali, di scegliere anche altrimenti; che il duca avrebbe mantenuta la fede ai creditori di Filippo Maria; che si osserverebbero gli statuti civili e criminali e quei de' mercanti; che non si sarebbero impetrati privilegi dal papa nè dall'imperatore senza il beneplacito del duca; che i soldati a piedi, a cavallo, saccomanni, uomini d'armi sarebbero partiti dalla città, dovendo essa restare immune dall'alloggiamento militare, eccettuati i contestabili alle porte; il duca però in casi speciali potrà deviare da questa regola. Questi sono [214] i più importanti articoli del solenne contratto[250]: indi il nuovo duca fece il pubblico ingresso dalla porta Ticinese, il giorno 25 di marzo 1450[251]. Il nuovo duca era colla sua sposa Bianca Maria e col primogenito Galeazzo Maria. Un numero grande di matrone andarongli incontro pomposamente. Gli oratori delle città suddite, i nobili milanesi tutti sfoggiarono per rendere magnifico quell'ingresso. Erasi preparato un maestoso carro e un baldacchino; ma un tal fasto non piacque a Francesco Sforza, che amava la gloria e non le apparenze teatrali; e, ricusandolo, disse: ch'egli in quell'ingresso s'incamminava al tempio per rendere omaggio al padrone dell'universo, avanti del quale gli uomini sono tutti eguali. Cavalcò egli adunque. La folla immensa del popolo, i ricchi arredi de' nobili, la magnifica parata degli uomini d'armi che precedevano, tutti coperti d'usberghi lucidissimi, il lusso de' loro illustri condottieri, tutto ciò formò uno spettacolo sorprendente. La cerimonia si fece al Duomo, ove smontato, il duca si pose una candida sopraveste: indi colle solennità de' sacri riti la duchessa e il duca vennero ornati col manto ducale fra gli applausi e i viva del popolo. Poi dagli eletti di ciascun quartiere ricevette il giuramento di fedeltà. Essi a lui consegnarono lo scettro, la spada, il vessillo, il sigillo ducale e le chiavi della città. Fatto ciò, il duca fece proclamare conte di Pavia il primogenito Galeazzo. Terminossi per tal modo la funzione in Duomo, seguendosi il rito de' duchi antecessori. Indi per cinque giorni volle il duca che la città vivesse in [215] mezzo alle feste ed alle allegrie. Danze, giostre, tornei di varie sorta, musica, spettacoli teatrali, lautissimi pranzi, tutto venne così giudiziosamente distribuito e con tal previdenza ed ordine eseguito, che si mostrò il duca la delizia della buona società e l'anima dei divertimenti. Egli creò molti cavalieri, scegliendo quei che più meritavano quest'onore, e tutti li regalò nobilmente. Insomma Francesco Sforza, invincibile alla testa di un'armata, si mostrò il più giudizioso direttore delle feste, come si fece conoscere il principe più umano, giusto e benefico, reggendo in pace lo Stato.

Il papa Nicolò V, i Fiorentini, i Genovesi, i Lucchesi, gli Anconitani, i Sanesi, e varii altri Stati e principi d'Italia spedirono tosto i loro ministri per una onorevole ricognizione al nuovo duca. Il primo pensiero di questo principe fu di rialzare il castello di porta Giovia, demolito due anni prima, siccome dissi. Questa fortezza, fabbricata da Galeazzo II, era necessaria per la sicurezza del duca, il quale in una città piena di partiti, recentemente riscaldata dal nome di libertà, rendeva sempre pericolosa la residenza del nuovo principe, sprovveduto infatti di legali fondamenti per succedere nel ducato. Ma nemmeno conveniva alla prudente accortezza del nuovo signore di palesare la inquietudine sua, nè di lasciar conoscere al popolo apertamente una tale diffidenza; essendo cosa naturale alla moltitudine il non accorgersi delle forze proprie, se non pel timore altrui. Propose egli adunque alla città, come ostinandosi tuttavia i Veneziani nella guerra contro di lui e contro lo Stato, trovandosi Milano allora mal difesa dalle mura della circonvallazione, non convenendo di acquartierare l'armata nella città, resa esente dall'alloggio militare, non eravi modo alcuno di preservare la metropoli dai pericoli d'un assalto, se non ricoverando in luogo munito e forte un corpo di armati, in guisa da allontanare il nemico da simili tentativi. Propose quindi alla deliberazione della città medesima il determinare, se dovesse per tutela di lei riedificarsi il castello, assicurando nel tempo medesimo la città che vi sarebbe stato collocato per castellano [216] non mai altri che un nobile milanese per tutti i tempi avvenire. Questa moderazione di cercare l'assenso per una cosa ch'egli avrebbe potuto da sè medesimo fare immediatamente; le maniere umanissime e nobilissime del duca; tante virtù militari e civili riunite in questo grand'uomo impegnarono i primari cittadini ad ottenergli la pubblica acclamazione per rialzare la demolita fortezza. Si fecero le adunanze del popolo in ciascuna parrocchia per deliberare su tale inchiesta. La storia ci ha conservato un discorso tenuto in tale occasione da Giorgio Piatto allora celebre giureconsulto. Egli era nell'adunanza della parrocchia di San Giorgio al Palazzo[252]. Questi parlò così: «Se il virtuosissimo principe Francesco Sforza fosse immortale, come immortale ne sarà la sua gloria; io, il primo fra i cittadini milanesi, vorrei caricare sulle mie spalle le pietre e portarle al sito ove si propone d'innalzare il castello. Una fortezza sotto il felice governo d'un così provvido sovrano serve a ornamento della città, a tutela e sicurezza di ciascuno di noi. Ma, cittadini miei, verrà quel giorno in cui il nobilissimo duca Francesco piegherà sotto la universal condizione. I sovrani sono soggetti al destino dell'umanità; muoiono, e dopo un principe umano, benefico, provvido, siamo noi certi che vi succeda un altro principe erede di sue virtù? Una rocca inespugnabile, che, torreggiando sulle case nostre, può incendiarle e distruggerle, in potere di un malvagio principe, lo rende arbitro assoluto di noi, di tutto il nostro. Appiattato in quel forte, qual limite aver potranno le violenze, le estorsioni, la tirannia? Se innalziamo quella fortezza, noi imponiamo al collo dei nostri discendenti, come a tanti buoi, il giogo della servitù. I nostri figli malediranno un giorno noi, la nostra spensieratezza, la cecità nostra. Noi decretiamo la sciagura della patria, e rendiamo i nomi nostri esecrandi a nostri discendenti. Che bisogno ha mai Francesco Sforza di una fortezza? I nostri cuori, i nostri petti gli offrono una più [217] grande, più solida munizione di qualunque altra. Egli non ha bisogno di castelli per difendere la signoria. Infin che un solo di noi sarà in vita, combatterà contro chi tentasse di frastornarla. Cittadini miei, badatemi, parlo per me, parlo per ciascuno di voi; uniformatevi al mio suggerimento, e siate certi che per tal modo avremo sempre una delle due buone, o un principe retto o la libertà. I nostri nipoti ci benediranno, e vivranno lieti e felici, siccome lo siamo ora noi sotto il governo del clementissimo duca». così parlò Giorgio Piatto, e non persuase veruno. Egli era uno dei pochi cittadini che avrebbero potuto reggere lo Stato nel tempo della repubblica, e che giacquero oscuri e inoperosi. L'unanime consenso della città concluse di pregare il duca di voler riedificare il castello, quale internamente scorgesi anco oggidì, cioè un vasto edificio quadrato con quattro poderose torri, ossia torrioni agli angoli[253]; fortissimi ripari che, sostenendo grossi pezzi di artiglieria, possono far volare le palle al disopra della città. Questo rialzamento della fortezza costò più d'un milione di ducati, ossia di zecchini.

Il regno di Francesco Sforza fu breve, poichè durò sedici anni e non più. Egli non visse mai in pace, nè potè pienamente rivolger l'animo alla parte del legislatore ed alla riforma politica della nazione. Sarebbe troppo noioso il racconto delle minute azioni di queste guerre. Sopra tutto i Veneziani continuarono a muover le armi contro del nuovo duca. (1481) Pretendeva egli Bergamo e Brescia, possedute dai Visconti, e per solo diritto di conquista usurpate durante il dominio di Filippo Maria. Pretendeva Verona e Vicenza, come il retaggio della casa Scaligera, terminata nell'ava di sua moglie, cioè nella duchessa Caterina. Per lo contrario i Veneziani pretendevano di portare il loro confine all'Adda. Sedicimila cavalieri stavano in campo per la repubblica di Venezia, e diciottomila ne presentava all'opposto il duca Francesco. (1482) I Fiorentini erano collegati col duca, i Savoiardi colla repubblica [218] veneta. Le ostilità non cessarono ancora per quattro anni da quella parte. (1453) Finalmente, innoltrandosi i Turchi, padroni di Costantinopoli, verso la Grecia e verso la Dalmazia, i Veneziani ricorsero alla mediazione di papa Nicolò V, affine di ottenere la pace col duca, onde poter rivolgere tutte le forze in loro difesa contro del Turco; (1454) il duca piegossi ai paterni uffici del sommo sacerdote, e, coll'opera del nobil uomo Paolo Balbo, ai 9 d'aprile del 1454, fu sottoscritta la pace di Lodi, celebre per noi, poichè oltre le ragioni della casa della Scala, alle quali rinunziò il duca, cedette pure i suoi diritti sopra Brescia e sopra Bergamo, anzi abdicò dal ducato la città di Crema e suo territorio, trasferendone il dominio nella repubblica veneta, che la possedette dappoi. Alle guerre in séguito che il duca ebbe coi Savoiardi, si pose termine con una pace che fissò il fiume Sesia per limite ai due Stati. Le città che formarono lo Stato sotto il dominio del conte Francesco primo duca Sforza, e quarto duca di Milano, furono quindici, cioè Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Novara, Alessandria, Tortona, Valenza, Bobbio, Piacenza, Parma, Vigevano, Genova e Savona. Queste due ultime città le acquistò lo Sforza nel 1464 per la cessione che gliene fece Lodovico re di Francia; il che non bastando, colle armi sottomise Genova al suo potere. Come poi il re di Francia, Lodovico XI, avesse fatta questa cessione, dopo che il di lui padre Carlo VII aveva ricusato di riconoscerlo per duca, e come a questo segno pregiasse egli l'aiuto e l'amicizia dello Sforza, ce lo insegnano più autori. La Francia era immersa nella guerra civile; il re aveva collegati contro di lui il duca di Calabria, il duca di Borbone, il duca di Bretagna, il duca di Bari, il duca di Namur, i conti di Charolois, Dunois, Armagnac, Dammartin; e questa lega, formata contro del re cristianissimo, si qualificava la Lega del ben pubblico. Il re Luigi sommamente onorava Francesco Sforza, a tale che interamente si reggeva a norma dei consigli di lui. Il signor Gaillard, uno dei più accreditati scrittori francesi, dice a tal proposito. — Les talens politiques de Sforce égaloient ses [219] vertus guerrières. Louis XI, qui se connoissoit en hommes habiles, le consultoit comme un sage. Ce fut François Sforce qui lui traça le plan qu'il suivit pour dissiper la ligue du bien public: aussi Louis XI ne souffrit-il jamais que la maison d'Orléans, qu'il haïssot, troubiât Sforce dans la possession du Milanez[254]. Il Corio dice che «il re pregò Francesco Sforza, duca di Milano, che gli sporgesse adiuto»; per lo che il duca preparò un valido esercito, e lo spedì nella Francia sotto il comando di Galeazzo Maria, conte di Pavia, di lui primogenito. In quell'esercito servivano da generali Gaspare Vimercato, Giovanni Pallavicino, Pier Francesco Visconti e Donato da Milano. Il duca di Savoia accordò il passaggio a quest'armata; la quale dal Delfinato passò nel Lionese, s'impadronì di Pierancisa, vi pose comandante Vercellino Visconti, indi, passato il Rodano, postossi sul Borbonese e servì il re con tanta fermezza e valore che «Sforzeschi più che huomini erano extimati», dice il Corio, e vennero costretti i collegati a sottomettersi al re; per lo che quel monarca, l'anno 1466, mandò al duca una solenne ambasciata per ringraziarlo di tanto beneficio: sono parole del Corio. Per tai motivi il re di Francia cedette al duca tutti i diritti suoi sopra Genova e Savona.

Ma Genova, siccome dissi, fu di mestieri sottometterla colle armi comandate dallo stesso Gaspare Vimercato che introdusse lo Sforza in Milano e fu nella spedizione di Francia. I Genovesi, assoggettati, spedirono a Milano ventiquattro oratori, accompagnati da più di dugento loro cittadini, e il duca accolse onorevolmente l'omaggio loro, spesandoli e alloggiandoli signorilmente[255].

Nè soltanto co' Veneti, co' Savoiardi, colla Lega e co' Genovesi [220] fu costretto a guerreggiare per mezzo de' suoi generali il nuovo duca; ma ben anco nel regno di Napoli, come ausiliario di Renato d'Angiò, mantenne le sue schiere. Renato pretendeva quel regno come figlio adottivo della regina Giovanna II, ed aveva seduto sul trono di Napoli, come re, sintanto che il più fortunato di lui, Alfonso d'Aragona, ne lo scacciò, e si pose in suo luogo. Venne a Milano il re Renato, e lo accolsero il duca e la duchessa Bianca Maria colla dovuta magnificenza. Egli condusse una squadra di francesi, i quali si unirono cogli sforzeschi. Il padre della duchessa, diciotto anni prima aveva pure in Milano alloggiato il re Alfonso d'Aragona, rivale di lui; ma Alfonso vi dimorò come prigioniero, Renato come amico ed alleato. (1455) Le avventure poi del regno di Napoli terminarono facendo lo Sforza la pace col re Alfonso; e questa pace fu convalidata con due nodi di parentela. Alfonso duca di Calabria, nipote del re Alfonso e figlio di Ferdinando, sposò la principessa Ippolita, figlia del duca Francesco; e la principessa Leonora, figlia pure di Ferdinando, fu data in moglie a Sforza Maria, terzogenito del duca.

Frammezzo a' pensieri militari per difendere lo Stato, rivendicarne le usurpate membra, il duca Francesco non dimenticò mai le cure d'un padre benefico de' suoi popoli. Abbellì, ristorò e rese più vasto il palazzo ducale, fabbricato da Matteo I, ornato poscia da Azzone, rifabbricato da Galeazzo II, e cadente e quasi abbandonato allorchè il duca Francesco divenne signore di Milano; poichè Filippo Maria, come vedemmo, non mai vi alloggiò. Riedificò maestosamente il castello di porta Giovia, che tuttora è in piedi, sebbene cinto al di fuori di fortificazioni fattevi durante il governo della Spagna. (1456) Intraprese e condusse a fine la fabbrica dell'Ospedal maggiore, aperto indistintamente a sollievo dell'egra umanità, senza risguardo a patria nè a religione. Il turco, l'ebreo, il cattolico, l'acattolico, purchè siano ammalati e poveri, ivi trovano ricetto e assistenza. Intraprese infine e condusse pure al suo termine la grand'opera del canale, ossia Navilio, che da Trezzo conduce a Milano le acque dell'Adda. Il Decembrio così ci [221] assicura: —[256]Conversus deinde ad excolendam urbem, vicis arena latereque constratis, Arcem Portae Jovis; populi tumultu antea disjectam, e fundamentis erigi magnificentissime curavit. Curiam etiam priscorum Ducum, vetustate fatiscentem, non solam restituit, sed ampliavit, ornavitque. Acquaeductum quoque ex Abdua, defosso solo, per viginti milliaria deduci jussit, quo agri finitimi irrigarentur, populo que necessariae copiae suppeterent[257]. (1457) Questo canale, che chiamasi tra noi Naviglio della Martesana[258], fu progettato l'anno 1457. Bertola da Novate fu l'ingegnere cui Francesco Sforza trascelse per quest'opera: egli era nostro cittadino milanese. Fu condotto a termine l'anno 1460[259]. [222] «Le principali difficoltà del progetto erano di derivare un ramo perenne d'acqua dall'Adda in un luogo di corso assai rapido, di continuare per alcune miglia il nuovo cavo in una costa sassosa, e di attraversare con esso il torrente Molgora e il fiume Lambro[261]». Questo canale è sostenuto dapprincipio da un argine grandioso di pietra sino all'altezza di 40 braccia sopra il fondo dell'Adda. La lunghezza del canale è circa di 24 miglia. Il torrente Molgora vi passa sotto con un ponte di tre archi di pietra. Il Lambro vi sbocca dentro ad angolo retto, ed a foce aperta con tutte le piene, e si scarica dalla parte opposta. Il canale, quale fu fatto dal duca Francesco, era più ristretto di quello che ora noi lo veggiamo, e venne adattato a questa più comoda guisa l'anno 1573. Il naviglio sfogavasi per l'alveo [223] del torrente Seveso, nè entrava allora nella fossa della città, siccome per opera di Lionardo da Vinci si eseguì con somma maestria l'anno 1497, introducendovi sei sostegni, ossia conche, invenzione allora nuovissima, e per mezzo di cui le barche ebbero il passaggio dal nuovo canale all'antico[262]. Nondimeno, porzione dell'acqua cavata dall'Adda e condotta nel nuovo canale, entrava in Milano ad altri usi, come si prova da memorie conservate ne' registri della città[263]. Così nello spazio di sedici anni, in mezzo a guerre continue, malgrado la devastatrice pestilenza, la quale cominciò appunto colla di lui signoria l'anno 1450, e in Milano estinse trentamila abitatori, Francesco Sforza ci lasciò un canale navigabile, un grandioso e ricco spedale, due magnifiche fabbriche, il castello e la corte ducale, e le vie della città riattate.

Questi sono i pubblici monumenti che ci rimangono del nostro buon duca Francesco Sforza; ma la storia ci ha conservato de' tratti di lui che più intimamente ancora ci palesano la di lui anima. Il Corio ce lo rappresenta così: «Fu questo principe liberalissimo, pieno de humanitate, e mai veruno di mala voglia se partiva da lui; e singolarmente honorava li homini virtuosi e docti: contra gli homini semplici non exercitava alcuna inimicizia. Ma haveva [224] in summo hodio li versuti e maliciosi. In nissuno fu maggiore observantia di fede: amò sempre la justizia e fu amatore de la religione: Ebbe eloquenza naturale, e nulla extimava gli astrologhi». La figura del duca era sommamente dignitosa. Negli atteggiamenti era elegante e nobile senza studio alcuno. La statura era più grande della comune degli uomini, e guardandolo alla fisonomia sola del volto, ognuno ravvisava in lui un uomo nato per comandare. Non vi fu chi lo superasse, mentre fu giovine, nella robustezza, ovvero nella agilità. Fu pazientissimo d'ogni disagio, caldo, freddo, fame, sete: tutto sopportava con volto sereno. In faccia al nemico non palesò mai, non che timore, ma nemmeno inquietudine; nè mai si mostrò dolente per le ferite che riportò. Abitualmente visse sobrio in ogni cosa, moderato alla mensa, sempre semplice e frugale. Amava di pranzare in compagnia, ed oltre ai commensali, lasciava a moltissimi la libertà di visitarlo mentre era a mensa, ed ascoltava quanto ciascuno voleva esporgli con pazienza e bontà. Poco dormiva, ma quel poco non mai lo perdè, nè per animo turbato, nè per rumore alcuno: dormiva in mezzo a qualunque strepito. Egli era dotato di un ingegno penetrante e di una esimia prudenza, per modo che niente intraprendeva se prima diligentemente non l'avesse esaminato, ma poich'era deciso, con mirabile magnanimità e celerità incredibile l'eseguiva. Malgrado la scostumatezza di quei tempi egli fu sempre alieno dal disordine, nè si lasciò sedurre alla lascivia. La virtù signoreggiollo per modo, che negli avversi casi non s'avvilì giammai, e quanto più gli venne prospera la fortuna, tanto più modesto mostrossi ed incapace di usar contumelia ai nemici, anzi nel corso intero di sua vita non si vendicò mai[264]. Testimonio ne fu il conte Onofrio Anguissola, [225] piacentino, il quale, capo della sedizione di Piacenza, colle armi del duca fu preso. Il duca lo fece custodire bensì, come era necessario, ma la custodia fu il solo male ch'ei dovette soffrire. Il Simonetta diffusamente ci informa del suo militare talento e della mirabile provvisione di lui anche nei dubbi eventi della guerra, e de' ritrovati impensati e opportuni che venivangli in mente per superare le difficoltà, e della liberalità e beneficenza sua abituale e quasi organica e di temperamento. Umano e clemente fu sempre questo grand'uomo: pronto alla collera, tosto si conteneva, siccome è l'indole dei generosi, e colui al quale avesse fatto danno o con parole o altrimenti, non occorreva che chiedesse cosa alcuna, che il buon principe coi beneficii lo risarciva spontaneamente. Non amava i lodatori, e conosceva che questa è la maschera seducente colla [226] quale il vizio insidiosamente si accosta al soglio. Non vi era cosa più sicura che la fede e la parola di Francesco. Così ce lo descrive il citato Simonetta, che termina con queste parole:[266] Sed illud certe ausim affirmare, post Cajum Julium Caesarem neminem fere habuisse Italiam reperies, quem jure possis cum uno Francisco Sfortia conferre. Qui quidem, cum vicisset semper, et victus fuisset numquam, ita diem obiit ut omnibus de se non minus desiderium, quam fletum relinqueret[267].

Già da due anni era stato idropico il duca, e sebbene ei nell'aspetto sembrasse ristabilito, soffriva nelle gambe, le quali anche talora si gonfiavano. Egli tentò qualche rimedio per ridurle alla loro figura di prima; e v'è chi attribuisce a tal cagione la quasi improvvisa di lui morte, accaduta con due soli giorni di malattia. (1466) Il giorno 8 di marzo dell'anno 1466, all'età di sessantacinque anni, dopo sedici anni di signoria, morì il duca Francesco Sforza. Tutta la città rimase squallida e desolata a tale inaspettata disgrazia: «Stimando ogniuno, dice il Corio, non solo havere perduto uno duca, ma uno colendissimo patre». La duchessa Bianca Maria, sebben colpita da questo impensato fulmine, s'era addottrinata coll'esempio del marito ad affrontare e sostenere l'avversa fortuna. Il figlio primogenito, Galeazzo Maria, in quel punto era nella Francia. Se la duchessa si abbandonava al femminil dolore, la casa Sforza perdeva la sovranità, alla quale mancava la sanzione imperiale. Ella si mostrò degna di essere stata moglie amatissima di Francesco Sforza: compresse il dolore; pensò a salvare i figli. Con animo virile, la notte medesima, appena spirato il duca, convocò un consiglio dei primari signori milanesi. Con poche, ma gravi e accomodate parole raccomandò [227] loro l'ordine pubblico, la fede verso il sangue del duca. Scrisse immediatamente a tutti i principi d'Italia la perdita fatta, e richiese il favore di ciascun d'essi a pro del conte di Pavia, Galeazzo, suo primogenito. Poichè ebbe così adempiuti con magnanimità i doveri di sovrana e di madre, si pose ad eseguire quei di moglie, secondo l'usanza di que' tempi. Il cadavere del duca nel palazzo ducale si espose; e la vedova mai non si dipartì dal suo fianco, dando segni, come dice il Corio, d'incredibile amore. Il terzo giorno poi, ornato con tutte le insegne ducali, e cinto di quella spada la quale fortissimamente in tutte le victorie aveva usato[268], venne con magnifica pompa tumulato in Duomo.

Mentre l'imperatore Federico III venne di qua dall'Alpi, e si fece incoronare in Roma dal papa, egli non toccò nemmeno le terre soggette allo Sforza, non volendo pregiudicare alle ragioni dell'Impero col riconoscere per legittimo sovrano e duca l'usurpatore d'un feudo imperiale, ch'ei non aveva forze per difendere. Era questo un oggetto importante assai per la dominazione della casa sforzesca, di cui era mancato il sostegno e lo splendore. Galeazzo Maria, in marzo del 1466, allorchè morì suo padre, era, siccome già dissi, nella Francia, comandando nel Delfinato l'armata che il duca aveva allestita in soccorso del re contro la Lega. Appena ricevè l'avviso che spedigli la madre Bianca Maria, del cambiamento accaduto nella famiglia, confidò tosto il comando a Giovanni Scipione; e, travestitosi come un famigliare di Antonio da Piacenza mercatante, s'incamminò per la Savoia alla volta di Milano. Il giovine Galeazzo aveva ventidue anni; temeva le insidie del duca di Savoia, il quale sulla dominazione della casa Sforza pensava di ampliare il suo Stato. Se riusciva di acquistare Galeazzo Maria per ostaggio, potevasegli far comperare la libertà e il ducato con qualche notabile sacrificio. Malgrado il cambiamento del vestito e della condizione, convien credere che egli venisse riconosciuto, poichè, attorniato [228] da una turba di persone, appena ei potè ricoverarsi nell'asilo di una chiesa, ed ivi dovette starsene tre giorni interi; e la seguente notte poi, mercè la cura di un fedele suo domestico, potè sottrarsi colla fuga, e proseguendo il suo cammino per dirupi e balze non frequentate, potè finalmente ridursi in salvo. Pare impossibile che, malgrado il ritardo de' tre giorni dell'asilo, Galeazzo Maria fosse in Milano dodici giorni dopo la morte del duca: ma io credo che sino d'allora vi fossero stazioni regolate pel cambio de' cavalli; tanto più che non si sarebbero potuti altrimenti trasmettere sollecitamente gli avvisi dell'armata che era nel Delfinato. Il nuovo duca Galeazzo Maria fece la solenne entrata per porta Ticinese il giorno 20 di marzo del 1466. Tutto lo Stato di Francesco Sforza, composto di quindici città nominate disopra, passò al nuovo duca Galeazzo Maria Sforza. (1467) I sovrani lo riconobbero. Il duca di Savoia, poichè vide il duca Galeazzo assicurato sul trono, pensò a stringere non solamente amicizia, ma parentela con esso lui. (1468) Si conchiusero le nozze; e il duca Galeazzo Maria sposò la principessa Bona di Savoia, il giorno 6 di luglio dell'anno 1468. Una sorella della duchessa Bona era sul trono di Francia; e per tal guisa Galeazzo Maria Sforza, nato in Fermo nella Romagna, il di cui avo cinquant'anni prima era un avventuriere, divenne cognato del re di Francia.

[229]

CAPITOLO XVIII. Del governo del quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del duca Giovanni Galeazzo Maria, sesto duca.

Quando uno Stato, anche vasto, sia accozzato insieme con male arti, con sorprese, con insidie, con tradimento, al morire del sovrano cessa il timore ne' sudditi e ne' vicini; e per poco che il successore sia debole o mancante d'artificio, si scompone, siccome avvenne della signoria che radunò il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per lo contrario la dominazione s'acquisti col valore personale, e si innalzi colla generosità della virtù del sovrano, e siavi stato tempo bastante per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l'amore che l'eroismo fa nascere, ancora dopo spento l'eroe, l'ammirazione e l'affezione dei popoli aiutano il figlio, come parte viva di lui, e malgrado i difetti e la poca somiglianza che egli abbia col padre, lo coprono colla di lui gloria. Così accadde al nuovo duca Galeazzo Maria, il quale poco imitò il magnanimo suo padre. Uno de' primi fatti di Galeazzo lo svela. La duchessa Bianca Maria, di lui madre, si era sempre dimostrata ottima moglie, ottima madre, donna di senno, di cuore e di mente non comune. Il duca Francesco perciò l'aveva onorata ed amata sommamente. Galeazzo doveva doppiamente il ducato di Milano a lei, e per nascita, e per l'accorgimento col quale aveva dirette le cose alla morte del duca Francesco; giacchè, qualora non vi fosse stata alla testa della signoria una donna del merito di lei, difficilmente Galeazzo Sforza, assente, avrebbe trovata aperta la via del trono, dove potè placidamente collocarsi. La Bianca Maria co' saggi consigli e colla autorità regolava lo Stato unitamente [230] al duca, quasi come correggente[269]. L'ambizione, la seduzione di consiglieri malvagi fecero nascere la gelosia del comando; indi la visibile freddezza, finalmente la discordia palese tra il figlio ed una madre tanto benemerita. La vedova duchessa preferì la pace e il riposo ad ogni altra cosa, e divisò di portarsi a Cremona, città sua, perchè recata da lei in dote, siccome vedemmo; ed ivi, lontana dalle contese, passare il rimanente de' giorni suoi, non avendo ella allora che quarantadue anni. Abbandonò la corte burrascosa di Milano; ma a Marignano con breve malattia terminò di vivere il giorno 23 ottobre 1468; e il Corio a tal passo soggiugne: «se disse più de veneno che de naturale egritudine». Temeva il duca che, collocatasi a Cremona, ella potesse collegarsi co' Veneziani a danno di lui. Simili orrori non sogliono avere molti testimonii, e lo scrittore contemporaneo non può trasmettere ai posteri se non la pubblica opinione. Talvolta una maligna voglia di penetrare ne' misteri della politica segreta forma imputazioni calunniose alla fama altrui. Egli è però certo che tali nere vociferazioni non si spargono se non sopra di un principe di carattere non buono. Assolvasi Galeazzo dal parricidio, egli è sempre un ingrato verso di sua madre. Appena un anno dopo cessò di vivere Agnese del Maino, di lei madre ed ava del duca[270].

(1469-1470) Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal fine comandò che si lastricassero le vie di Milano: «il che non fu puoca gravezza, ma quasi intollerabile danno», dice il Corio[271]. Francesco di lui padre le fece riattare. Sarà stata una saggia provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tal riforme di lusso si fanno giudiziosamente e per gradi. (1471) La pompa del duca si palesò singolarmente nel maestoso viaggio ch'ei fece colla duchessa a Firenze l'anno 1471. Condusse egli un tal corredo, [231] che oggidì nessuno de' monarchi d'Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Corio ce la descrive minutamente; ed io la racconterò, perchè simili oggetti danno idea del modo di pensare di quei tempi. I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d'oro e d'argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta, ornata d'argento. Cinquanta corsieri con selle di drappo d'oro e stalle dorate; cento uomini di armi, ciascuno con tale magnificenza, come se fosse capitano; cinquecento soldati a piedi, scelti; cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi drappi di oro e d'argento; duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio de' cortigiani. Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed acciocchè non rimanesse nulla da bramare, v'erano persino cinquecento paia di cani da caccia, v'erano sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel memorando viaggio, che doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore, ed agli ospiti. Questa superba comitiva nell'accostarsi a Firenze venne accolta con somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della città si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie foggie uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani pulcelle, «cantando versi in laude de lo excellentissimo principe», dice il Corio. Indi, accostandosi alla città, ricevettero gli ossequi de' magistrati, finalmente gli accolse il senato, che presentò al duca le chiavi della città. Entrò il duca con una sorta di trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio di Cosimo. Non accadde altra cosa degna d'essere raccontata; basti osservare che non poteva verun altro monarca essere onorato di più di quello che [232] furono Galeazzo e la Bona in Firenze. Da Firenze passarono questi principi a Lucca; ore pure vennero accolti con somma pompa: anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta nelle mura della loro città, onde trasmettere ai tempi a venire memoria di questo magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a Milano. Oggidì, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo della milizia stabilmente stipendiata, non si curano più di abbagliare i popoli.

(1472) Poichè ritornò dal viaggio, il duca pensò a dare una moglie al di lui figlio primogenito Giovanni Galeazzo, bambino ancora di quattro anni. Questa fu Isabella d'Aragona, figlia del duca di Calabria Alfonso e d'Ippolita Sforza, conseguentemente germana cugina dello sposo. Queste nozze si pubblicarono l'anno 1472. Il duca era strettamente collegato col cardinale di San Sisto, nipote ed assoluto padrone di papa Sisto IV: l'oggetto della reciproca unione era la loro fortuna. Il duca doveva adoperarsi per fare papa il cardinale colla rinunzia dello zio. Il cardinale, asceso al sommo pontificato, doveva innalzare lo Sforza incoronandolo re d'Italia, ed aiutandolo a ricuperare tutte le città già possedute dal primo duca. I Veneziani non potevano essere contenti di un tal progetto che loro toglieva tutta la terra ferma. Malgrado lo studio di celare questa trama politica, convien credere ch'essi ne avessero qualche contezza. Il cardinale, ch'era stato magnificamente accolto in Milano, bramò di vedere Venezia; e quantunque cercasse di dissuadernelo il duca, egli volle insistere e passarvi. (1473) A tale proposito dice il Corio: «Da quello senato fu grandemente honorato, e per la intrinseca amicizia quale enteseno Veneziani avere lui con Galeazzo Sforza fu affirmato havergli dato il veneno; impero che in termine de puochi giorni, pervenuto a Roma, abbandonò la vita[272]». Io non sono mallevadore de' sospetti di quei tempi: bastano però per far conoscere qual fede e quanta umanità regnassero, se così si giudicava dei governi. (1474) [233] In mezzo ai sospetti di veleno, in mezzo alle asiatiche pompe, in mezzo ai gemiti de' popoli, oppressi dalla mole di tributi corrispondenti a quelle, l'anno 1474, il 15 marzo, venne a Milano il re d'Ungheria e di Boemia, Mattia I. Egli s'era reso padrone dell'Ungheria, scacciandone Casimiro, figlio del re di Polonia, e s'era impadronito della Boemia, scacciandone Giorgio Podiebrad. Egli era stato in pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia, e passava di ritorno a Milano. Galeazzo, che stipendiava cento cortigiani e cento camerieri, e pomposamente vestivagli, alloggiò l'ospite nel palazzo ducale colla magnificenza e profusione degna di lui. Mostrò a quel re il suo tesoro, valutato due milioni d'oro, oltre le gioie, le quali valevano circa un altro milione. Il re Mattia chiese un prestito dal duca: ed egli gli fe' consegnare diecimila ducati, ossia zecchini. Dopo lautissimo ed onorevolissimo trattamento prese commiato il re, e poi ch'egli fu nell'Ungheria, si lusingò il duca ch'egli avrebbegli concesso di comprarvi dei cavalli. (1475) A tal fine spedì nell'Ungheria Bernardino Missaglia, suo famigliare, con molta somma di denaro. Il re fece imprigionare il Missaglia, e tolsegli i denari confidategli dal duca; a stento finalmente gli permise di ritornarsene a Milano: così narra il Corio[273]. (1476) La fama della casa Sforza era giunta a segno, che persino il soldano d'Egitto spedì al duca ambasciatori; e questi vennero a Milano nell'ottobre del 1476, accolti, alloggiati, regalati splendidamente dal duca. Il duca Carlo di Borgogna tentava d'impadronirsi della Savoia. Nè alla Francia piaceva questo, nè al duca Galeazzo; una bellicosa e potente nazione vicina non conveniva; e Galeazzo aveva di più per moglie Bona, principessa di Savoia. Il duca Galeazzo si collegò col re di Francia, indi spinse l'armata contro de' Borghignoni; e felicemente [234] gli sforzeschi fecero ritirare i nemici fino alle Alpi. Il rigido inverno non permise di portare più oltre l'impresa; onde il duca Galeazzo ridusse a quartiere i soldati, aspettando la primavera per ripigliare la guerra e discacciare affatto dall'usurpato paese i Borgognoni, e ritornossene a Milano, ove di lì a poco morì.

Le circostanze della morte del duca Galeazzo Maria Sforza ci sono minutamente trasmesse dagli scrittori di quel tempo; e siccome sono feconde nelle loro conseguenze, io non le ometterò. Gli storici di quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri sinistri pe' quali credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il duca Galeazzo Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e questo è il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano il fuoco prese nella stanza in cui egli soleva abitare. Ciò inteso, Galeazzo quasi più non voleva riveder Milano; pure vi s'incamminò, e mentre da Abbiategrasso cavalcava verso la città, tre corvi lentamente passarongli sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto ribrezzo, che, poste le mani sull'arcione, rimase fermo; poi volle superarsi, e proseguendo venne a Milano. Così allora si pensava; e tali pusillanimità cadevano anche in uomini di coraggio militare, come era il duca. Conciossiachè l'uomo ardisce di affrontare un pericolo conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro potenze invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi della superiorità nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile sorgente d'inquietudini; per lei finalmente sappiamo che la nebbia impenetrabile entro cui sta celato il nostro avvenire, è un benefizio della Divinità; e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa ai decreti della Provvidenza, è il più saggio ed utile sentimento dell'uomo.

La vigilia di Natale, verso sera, il duca, secondo l'usanza, scese nella gran sala inferiore del castello, dove stava d'alloggio; ed a suono di trombe e con stupendissimo apparato vi scese colla duchessa Bona e co' suoi figli. I due [235] fratelli del duca, Filippo ed Ottaviano, portarono il così detto zocco e lo collocarono sul fuoco. Gli altri tre fratelli del duca erano assenti. Ascanio in Roma; e Lodovico e Sforza, duca di Bari, erano rilegati da Galeazzo nella Francia. Così si soleva in que' tempi radunare la famiglia al Natale. Il giorno vegnente poi nuovamente radunossi con varii cortigiani, e il duca in circolo parlò della casa Sforza; e noverando i fratelli suoi, i cugini, i figli in numero di dieciotto, tutti di età fresca, osservò che per secoli non sarebbe finita. Pranzò in pubblico. Il giorno poi di santo Stefano dal castello s'incamminò a cavallo con tutto il corteggio per ascoltare la messa nella chiesa collegiata di detto santo, ove, giunto, da tre nobili giovani venne con più pugnalate ucciso al momento. I congiurati furono Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. I due primi erano cortigiani del duca. Giovanni Andrea finse di volere far largo al duca; ed avventandosegli pel primo, lo ferì nel ventre, e gl'immerse nuovamente il coltello nella gola. Frattanto Girolamo lo trafisse alla mammella sinistra, poi nella gola, indi nelle tempie. Carlo, nel tempo stesso, nella schiena e nella spalla lo colpì con due ferite pure mortali. Il duca appena potè esclamare: Oh nostra Donna! e cadde all'istante là nella chiesa. Così terminò la sua vita il duca Giovanni Galeazzo il giorno 29 dicembre del 1476, dopo dieci anni di sovranità, all'età di trentadue anni. La serie di questa congiura è nota, e si è anche più conosciuta col dramma: la Congiura contro di Galeazzo Sforza; tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena di lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta la tirannia co' suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quando anche nasca da nobili principii; che interessa e sviluppa un'azione che è la sola della nostra storia posta sul teatro, e la presenta col costume de' tempi; tragedia che sgomenta le anime gracili, e scuote deliziosamente le energiche. La storia è adunque che in Milano eravi un uomo d'ingegno, erudito, eloquente e di sentimenti arditi, che aveva nome Cola [236] Montano: si dice ch'ei fosse bolognese[274]. Egli viveva col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla scuola di cui varii giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno, assai versato negli aneddoti, mi asserì che questo Colo Montano fosse stato dileggiato dal duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia c'insegna che Montano ne' suoi precetti sempre instillava nel cuore de' suoi nobili alunni l'odio contro la tirannia, la gloria delle azioni ardite, la immortalità che ottiene chi rompe i ferri alla patria, e la rende libera e felice. Egli animava gli alunni suoi a mostrare una virile fermezza, ad amare la vigorosa virtù, a cercar fama con fatti preclari. Poichè co' discorsi e cogli esempi della virtù romana ebbe trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari, egli coglieva l'occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti la scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un Tarquinio nel duca ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne' suoi magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici nemici. Confrontavali co' Cartaginesi, co' Greci, co' Metelli, co' Scipioni romani. Giunti al grado del fervore al quale cercò di ridarli, collocò alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coleoni, acciocchè imparassero a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a ravvisare le proprie loro forze[275]. Condotta la trama al suo termine, finalmente furono trascelti quei che egli giudicò più adattati; e furono appunto Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. Si pensò con un colpo ardito di liberare la patria, mostrando quanto sarebbe facile l'impresa, purchè i cittadini si ricordassero soltanto d'essere uomini. Avanti la [237] statua di sant'Ambrogio venne congiurata la morte del tiranno Galeazzo Maria, usurpatore del trono, oppressore della libertà che pur godevasi ventisei anni prima, nimico della patria, impoverita colle enormi gabelle ed insultata col lusso di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano, appena fatto il colpo, cadde poco lontano dal duca, ucciso da un domestico ducale. Girolamo Olgiato, che aveva ventitre anni, si sottrasse col favore della confusione, e ricoveratosi presso di un buon prete, aspettava di ascoltar per le vie della città gli applausi per l'ottenuta libertà, ed impaziente attendeva il momento per mostrarsi come liberatore della patria. Ma udendo invece gli urli e lo schiamazzo della plebe che ignominiosamente strascinava per le strade il cadavere del Lampugnano, s'avvide troppo tardi dell'error suo, perdè ogni lusinga, e venne imprigionato. Dal processo che se gli fece, si seppe la trama. Non mi è noto qual fosse il fine di Cola Montano. L'Olgiato morì nelle mani del carnefice con sommo coraggio. Il ferro che colui adoperava era poco tagliente; ma egli animò il carnefice, e lo s'intese pronunziare queste parole:[276] Stabit vetus memoria facti. Bruto, Cromwel, Olgiato hanno fatto a un dipresso la stessa azione. Il primo viene spacciato per un modello di virtù gentilesca: il secondo ha la celebrità di un atroce ambizioso: il terzo non ha nome nella storia. Le circostanze decidono della fama, singolarmente nelle azioni violente, le quali si biasimano, ovvero si lodano a misura del male, o del bene che produssero poi. Il Corio, che ci lasciò descritto il fatto, era testimonio di veduta; e come cameriere ducale, era nel séguito del suo sovrano, quando venne ucciso. Ei ci racconta i vizj del duca, anzi i suoi delitti. Galeazzo interpellò un povero prete che faceva l'astrologo, per sapere quanto tempo avrebbe regnato. Il prete diedegli in riscontro ch'ei non sarebbe giunto all'anno undecimo. Galeazzo lo condannò a morir di fame. [238] Egli per gelosia fece tagliare le mani a Pietro da Castello, calunniandolo come falsificatore di lettere. Egli fece inchiodare vivo entro di una cassa Pietro Drego, che così venne seppellito. Egli scherzava con un giovine veronese, suo favorito, e lo scherzo giunse a tale di farlo mutilare. Un contadino che aveva ucciso un lepre contro il divieto della caccia, venne costretto ad inghiottirlo crudo colla pelle, onde miseramente morì. Travaglino, barbiere del duca, soffrì quattro tratti di corda per di lui comando, e dopo continuò quel principe a farsi radere dal medesimo. Egli avea un orrendo piacere rimirando ne' sepolcri i cadaveri. Univa a tutte queste atrocità una sfrenata libidine, anzi una professione palese di scostumatezza, costringendo a prostituirsi anche a' suoi favoriti quelle che cedevano alle brame di lui. Avidissimo di smungere danaro ai sudditi, gli opprimeva colle gabelle, non mai bastanti alle profusioni del di lui fasto. Oltre la splendidissima corte, teneva il duca Galeazzo Maria duemila lance e quattromila fanti stabilmente al di lui soldo. Il Corio dice ch'egli amasse gli uomini probi e colti, e fosse sensibile alle belle arti: io non trovo che tali inclinazioni sieno combinabili colle antecedenti, e sicuramente nessun vestigio ne è rimasto del suo regno. Egli fu ben diverso dal buon Francesco di lui padre! I fratelli Baggi, Pusterla e del Maino aveano ucciso Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, in San Gottardo, e vennero applauditi. Il destino del Lampugnano e dell'Olgiato fu opposto. Credo che la gloria del duca Francesco, la prudenza della duchessa Bianca Maria, l'eccesso del fasto di Galeazzo, e la memoria delle miserie sofferte nell'interregno della repubblica sieno state le cagioni della diversità. Sì l'uno che l'altro attentato furono commessi nella chiesa; come nella chiesa, anzi nel più sacro momento del rito, un anno dopo a Firenze, Giuliano de' Medici ebbe il medesimo destino.

Il merito principale nell'aver conservata la città tranquilla in mezzo a tale scossa improvvisa, l'ebbe Francesco Simonetta, che si chiamava Cicho Simonetta. Egli era stato il primo ministro e l'amico del duca Francesco; [239] uomo di Stato e di molta virtù, e tale che, allorchè Gaspare Vimercato, a cui Francesco in parte doveva e Milano e Genova, ardì parlargliene svantaggiosamente, il duca freddamente risposegli: essere tanto necessario a lui ed allo Stato Cicho, che s'ei morisse, ne avrebbe fatto fabbricare uno di cera. La vedova duchessa Bona lasciò che Cicho disponesse ogni cosa. Egli si servì del conte Giovanni Borromeo per tenere in calma la città. Il Borromeo possedeva la fiducia di ognuno, e il Corio dice che questo perhumanissimo conte era tanto abituato alla buona fede, che il pretendere da lui cosa alcuna contro la ragione, o contro la virtù, sarebbe stato lo stesso che volere strappar dalle mani d'Ercole la clava, suo malgrado. Fu tumulato Galeazzo Maria coll'ordinaria pompa ducale. La vedova lo fe' vestire col manto d'oro; e fece chiudere nel sarcofago tre preziose gemme. Il figlio primogenito Giovanni Galeazzo venne proclamato duca, sebbene nell'età di sei anni. Simonetta abolì tutte le gabelle imposte recentemente. Confermò gli stipendiati. Fece compra di grano, e ne fece largizioni alla plebe, che penuriava; e ciò sotto nome della duchessa Bona, dichiarata tutrice del nuovo duca. Simonetta reggeva tutto come segretario di Stato.

V'erano due supremi consigli. Quello di Stato si radunava nel castello avanti al sovrano o la tutrice; quello di giustizia si radunava nella corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli del defunto duca, immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il fratello Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, come zii del duca, di prendere le redini del comando. Simonetta li destinò con onore a presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi così delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per ufficio alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e restò concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento ducati a ciascuno degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno un palazzo in Milano, e così uscissero dal castello. I fratelli del duca Galeazzo, zii del vivente, erano cinque, cioè Sforza, Filippo, Lodovico, Ascanio e Ottaviano.

[240]

(1477) Genova si ribellò. Dodicimila uomini vennero spediti per sottometterla. Se ne confidò il comando a Lodovico ed Ottaviano, fors'anco per allontanarli. L'impresa riuscì bene, poichè, malgrado la vigorosa resistenza de' Genovesi, gli sforzeschi se ne impadronirono; e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente omaggio al duca[277], ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza di tale vittoria. Simonetta teneva l'occhio sopra di essi. Venne imprigionato un confidente di questi due principi, da cui seppe le trame che ordivano contro lo Stato. I due fratelli pretesero che il loro confidente venisse liberato; e ciò non ottenendo, posero mani all'armi, e sollevarono più di seimila persone in Milano. La duchessa e Simonetta stavansene nel castello; e in esso, dalla parte esterna, fecero entrare tutte le genti d'armi vicino a Milano, il che bastò per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso perdono, e se ne fuggì; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, temendo di essere arrestato, si avventurò a passar l'Adda, e vi si affogò cadendo da cavallo, il che avvenne l'anno 1477. Egli aveva 18 anni; il di lui cadavere si ritrovò poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta fece formare un processo della sedizione, e risultò che gli zii del duca aveano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati, Sforza, duca di Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa ed Ascanio a Perugia.

Sforza, trovandosi nel regno di Napoli, mosse il re Ferdinando in favor suo e de' fratelli; e naturalmente la principessa Ippolita, sorella de' relegati, vi avrà contribuito. Il re Ferdinando di Napoli animò i Genovesi a sottrarsi e prendere il partito degli esuli fratelli; animò gli Svizzeri a fare delle incursioni nel milanese; Sforza, duca di Bari, malgrado la relegazione, da Napoli passò nel Genovesato, ed ivi morì. (1479) Il ducato di Bari dal re di Napoli venne infeudato a Lodovico Sforza, detto il Moro, il quale con ottomila combattenti da Genova s'innoltrò nel [241] milanese, ed occuponne tutta la porzione sino al Po. Ciò accadde l'anno 1479. Lodovico però faceva dovunque gridare: Viva il duca Giovanni Galeazzo, e protestava di aver mosse le armi in soccorso del nipote per liberarlo dalla tirannia del Simonetta e da' cattivi consiglieri. Il duca era fanciullo di dieci anni. La duchessa Bona era una bella principessa, e non per anco avea passata l'età della debolezza, ed era più donna che sovrana. Eravi alla corte certo Antonio Trassino, ferrarese, uomo di bassi natali, e stipendiato come scalco; giovane però di ornata ed elegante figura, al quale la duchessa senza riserva confidava tutto ciò che si faceva dal Simonetta e nel consiglio. Il Simonetta, sendosene avveduto, trascurava quell'indegno favorito; ma non osava di più. Trassino, che si vedeva rispettato da ognuno e dal solo Simonetta disprezzato, lo abborriva. Questo Trassino fu il mezzo per cui Lodovico segretamente si riconciliò colla duchessa. Improvvisamente Lodovico staccossi dal suo esercito, e comparve nel castello di Milano il giorno 7 di settembre 1479; il che sorprese il Simonetta. La duchessa e il duca lo accolsero come un cognato ed uno zio amico, e venne alloggiato nel castello. Cicho Simonetta venne accolto da Lodovico con apparente amicizia e stima, come un vecchio ministro benemerito; ma egli non si lasciò ingannare, e nel momento in cui potè abboccarsi colla duchessa, le disse: Signora, io perderò la testa e voi lo Stato. (1480) E infatti il giorno 30 di ottobre del 1480, a Pavia, gli venne troncata la testa all'età di settant'anni; al quale destino, sebbene ingiusto, si piegò colla costanza e magnanimità che doveva coronare la virtuosa di lui vita. Cicho era fratello di Giovanni Simonetta, autore della storia sforzesca, e in vita e in morte Cicho si mostrò degno di essere stato l'amico di Francesco Sforza. Si fecero allora i quattro versi seguenti:

Dum fidus servare volo patriamque ducemque,

[242]

Multorum insidiis proditus, interii.

Ille sed immensa celebrari laude meretur,

Qui mavult vita, quam caruisse fide.[278]

Come poi venisse abbandonato a così indegno destino un ministro tanto illibato ed illustre, ce lo dice il Corio; cioè per la fazione de' nemici, i quali giunsero a prendere le armi contra lo stesso Lodovico, avendo alla testa Federico marchese di Mantova, Guglielmo marchese di Monferrato, Giovanni Bentivoglio ed altri illustri personaggi, i quali obbligarono Lodovico a far imprigionare il Simonetta, che, malgrado la protezione e gli uffici di altri principi, venne abbandonato alla vendetta de' nemici che gli avea conciliati la passata fortuna, e fors'anco la stessa sua virtù.

Poco tardò a verificarsi il rimanente del vaticinio del Simonetta. (1481) Il favorito della duchessa Trassino, accecato, siccome avviene alle anime basse, dalla prospera fortuna, mancando ai riguardi ch'egli dovea verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e portò seco a Venezia un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si avvilì talmente, che rinunziò a Lodovico la tutela con un atto solenne[279], sperando con ciò di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il favorito: ma il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu d'impedirle l'uscita dello Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata. Così Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui la casa Sforza poi perdette lo Stato: i Francesi occuparono il ducato, gl'Imperiali gli scacciarono; e si formò un nuovo ordine di cose per tutta l'Italia, come in appresso vedremo. Le debolezze di una donna, e la bella figura di uno scalco fecero maggior rivoluzione nel destino d'Italia, di quello che non avrebbe fatto un gran monarca od un conquistatore.

(1482) L'Italia si pose in armi l'anno 1482, e per due anni ne sopportò i mali. Il re di Napoli Ferdinando e i Fiorentini erano collegati cogli Spagnuoli. I Veneziani, il Papa e i Genovesi erano riuniti nel contrario partito. Il Papa abbandonò poscia i Veneziani e si unì agli sforzeschi. Non nuoce punto l'ignoranza di questi minuti avvenimenti [243] guerreschi; anzi la scienza di essi è atta soltanto a caricare confusamente la memoria, a scapito degli avvenimenti degni della nostra attenzione. V'era in Milano un partito contrario a Lodovico il Moro; alcuni per compassione della duchessa Bona, altri per avversione al carattere ambizioso di Lodovico, altri per vendicare le ceneri del virtuoso Simonetta, altri infine per la naturale lusinga di viver meglio. (1485) Venne cospirato di togliere dal mondo Lodovico Sforza; e fu concertato che il giorno 7 di dicembre l'anno 1485, venendo egli, secondo il costume, alla chiesa di Sant'Ambrogio, quivi fosse trucidato. Il colpo andò a vuoto; atteso ch'egli vi fu bensì, ma entrovvi per una porta alla quale non eranvi le insidie. Se ciò non accadeva, egli spirava trafitto come il fratello, come il duca Giovanni Maria, come Giuliano, fratello di Lorenzo de' Medici. Non credo che i Gentili abusassero a tal segno de' sacri tempii.

(1489) Il duca di Bari, Lodovico il Moro, poichè Giovanni Galeazzo, suo nipote, duca di Milano, giunse all'età di venti anni nel 1489, pensò di accompagnarlo colla principessa Isabella di Aragona, a cui era già stato promesso dal defunto duca. Ermes Sforza e il conte Gian Francesco Sanseverino furono destinati ambasciatori alla corte di Napoli per tal solenne inchiesta. Il Calco ce ne rappresenta la pompa. Erano questi accompagnati da trentasei giovani nobili milanesi. Fra essi vi fu una gara maravigliosa nel cambiare vestiti magnifici; chi dieci, chi dodici e chi sedici domestici conduceva seco, nobilmente vestiti di seta, con gemme e perle all'armilla del braccio sinistro. L'usanza di queste armille, ossia braccialetti gemmati, costava assai; poichè i padroni ne avevano al loro braccio del valore di settemila fiorini d'oro, ossia zecchini. Il Calco dice che veramente sembravano tanti sovrani, e portavano collane pesantissime d'oro della grossezza di un pollice. Questa comitiva giunse a Napoli, ed era composta di circa quattrocento persone. Tutto ciò che mostra il costume dei rispettivi tempi, debbe aver luogo nella storia[280]. Perciò [244] riferirò il magnifico pranzo che si presentò in Tortona alla sposa, a guisa di un'accademia poetica. Ogni piatto era presentato da una persona vestita poeticamente, e l'abito era relativo alla cosa che presentava. Giasone compariva portando il velo d'oro rapito in Colco. Febo offeriva il vitello rapito dalla mandra di Admeto. Diana poneva sulla mensa Atteone trasformato in cervo; e come la dea avea cambiato un uomo in un animale, augurava che questi si trasformasse in un uomo nel seno d'Isabella. Orfeo presentò diversi uccelli, ch'ei diceva essergli volati intorno per l'armonia della sua cetra or ora, mentre sull'Appennino cantava le divine sue nozze. Atalanta portava il cignale caledonio, da tanti secoli custodito, offrendo volentieri a sì illustre principessa quel trionfo, riportato in faccia di tutta la gioventù della Grecia. Iride venne poi offrendo un pavone tolto dal carro di Giunone, e rammentò il destino di Argo. Ebe, figlia di Giove e ministra di néttare ed ambrosia tolta dalla cena de' Numi, porse i vini più pregiati. Apicio dagli Elisii portò i raffinamenti del gusto, formati di zucchero. I pastori d'Arcadia presentarono varie cose di latte, giuncate, ricotte, caci, ec. Vertuno e Pomona posero sulla mensa frutti rarissimi, e perchè era inverno. Poi le Najadi, dee dei fonti, portarono pesci. Glauco portò frutti e pesci marini. Il Po, l'Adda, Silvano offerirono i pesci dei fiumi e laghi maggiori. Terminata la mensa, proseguì uno spettacolo composto degli attori medesimi, allusivo alle nozze. I costumi erano allora, come si scorge, ingentiliti e quasi troppo ricercati e rimoti dalla natura. Però si conosce che generalmente doveva essere colta la nobiltà del paese, e sapere la favola e gustare la poesia. La maggior parte di questi personaggi presentò le vivande cantando versi appropriati. Ciò basti dal Calco. La sposa da Vigevano venne al castello di Abbiategrasso; d'onde sul canale detto Naviglio grande passò a Milano il giorno primo di febbraio del 1489, accompagnata dalla duchessa Bona, dal duca di Bari Lodovico, da don Fernando d'Este e da molti altri signori e matrone della più illustre nascita, e dagli oratori di quasi tutt'i principi d'Italia. Il giorno 2 febbraio [245] uscirono gli sposi dal castello in abito bianco; ed alle staffe eranvi il conte Giovanni Borromeo e Gianfrancesco Pallavicino, primari vassalli. Lodovico il Moro cavalcava in séguito alla testa dei principali ministri. Le vie erano tutte coperte dal castello al Duomo di parati magnifici. Così celebraronsi le nozze del sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza. Queste nozze ci fanno dubitare che allora forse Lodovico non avesse in mente il progetto di usurparsi il ducato di Milano.

Lodovico reggeva lo Stato come governatore a nome del duca, e nelle monete eravi da una parte l'immagine del duca: Johannes Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani Sextus, e dall'altra l'immagine di Lodovico colla leggenda: Ludovico Patruo gubernante. Ma questo governatore sotto varii pretesti rimosse dalle fortezze i castellani affezionati al duca, e sostituì uomini interamente dipendenti da esso Lodovico. (1491) Poi pensò ad ammogliarsi: e l'anno 1491, al 31 gennaio, condusse a Milano la sua sposa, la principessa Beatrice d'Este. Ella aveva diecisette anni, Ludovico contava il quarantesimo[281]. Si fecero pompe grandissime per queste nozze, e il Calco le descrive. Allora l'abito de' dottori collegiati era più allegro di quello che ora lo sia:[282] Purpureis vel coccineis togis fulgentes comparvero in quelle feste; e gli abiti delle matrone erano[283] falcatis infra ubera pectoribus, ac pallio, ritu gabino, dextro ab humero laevum in latus subducto. Avevano le matrone un lungo strascico, ed era pomposo, elegante e grave il loro vestito, in guisa che ballavano con graziosa lentezza:[284] Modicè et venuste, dice il Calco. Per questi sponsali si fecero pure magnifiche giostre: «ed il pretio de sì illustrata giostra per egregia virtute hebbe Galeazzo Sanseverino e Giberto Borromeo».

[246]

Poste a convivere insieme le due principesse, cioè la duchessa Isabella e la principessa Beatrice, duchessa di Bari, nacquero de' dissapori. Isabella, come moglie del duca regnante, pretendeva d'essere sola sovrana; e che Beatrice fosse considerata suddita. Isabella era figlia di un re. Beatrice, moglie del tutore del duca, considerava la duchessa come la pupilla. L'avo d'Isabella era Ferdinando nato da illegittima unione. Le meschine vicende della casa di Aragona nel regno di Napoli erano argomenti di cronologia contraposti all'illustre sangue estense[285]. (1492) Il fatto di tai domestici partiti fu che Lodovico il Moro si rese padrone dell'erario, e passò a disporre il tutto da sè. Promoveva alle cariche, faceva le grazie, appena lasciava al nipote il nome di duca. Il duca Giovanni Galeazzo e la duchessa Isabella scarsamente erano alimentati e penuriavano d'ogni cosa, sebbene fosse già feconda la duchessa d'un bambino, nato in febbraio 1491. Posta in tale angustia la Isabella, trovò modo di renderne informato Alfonso, di lei padre. Il re di Napoli spedì a Lodovico il Moro i suoi oratori, i quali, con somme lodi innalzando quanto come tutore aveva fatto, conclusero chiedendogli che abbandonasse il governo dello Stato al duca Giovanni Galeazzo, che già contava il vigesimo terzo anno dell'età sua. Lodovico trattò con onorificenza gli oratori del re Ferdinando, avo della duchessa; ma sul proposito di rinunziare al governo non diè risposta alcuna.

(1493) Dopo di ciò Lodovico il Moro attentamente osservava i movimenti del re di Napoli. Seppe che si allestiva un'armata contro di lui, e si preparava una flotta a cui [247] doveva comandare Alfonso, padre della duchessa, principe valoroso e prudente. A un tal nembo avrebbe potuto resistere Lodovico colle forze proprie, se avesse potuto fidarsi de' sudditi che governava. In ogni governo vi è sempre un buon numero di malcontenti, essendo le voglie de' popoli sempre maggiori del potere sovrano; e questi malcontenti avrebbero abbracciato il partito del loro sovrano, l'oppresso duca Giovanni Galeazzo, di cui la condizione moveva a pietà, sì tosto che si fosse avvicinata un'armata a sostenerlo. Conveniva suscitare un potente nemico all'aragonese re di Napoli, e distoglierlo così dal pensiero degli Stati altrui, per difendere il proprio. Carlo VIII, re cristianissimo, era nel bollore dell'età; aveva ventiquattro anni; amava le imprese grandi; era capace di riscaldarsi l'animo. Lodovico, che aveva vissuto alcuni anni nella Francia e conosceva la nazione, formò il progetto di far prendere le armi al re Carlo, per ricuperare il regno di Napoli. Spedigli come ambasciadore Carlo Barbiano, conte di Belgioioso, il quale lo animò a scacciare da Napoli gli usurpatori aragonesi, e rivendicando le ragioni della casa d'Angiò, unire quel regno alla corona di Francia. Il re aveva già in mente di frenare i Turchi, che minacciavano la cristianità; e nessun paese era a ciò più vantaggioso, quanto il napoletano. Oltre a ciò si rappresentò al re Carlo, che il denaro di Lodovico, le sue milizie erano agli ordini suoi, i desiderii de' Napoletani erano per lui; i principi d'Italia, il papa, i Fiorentini, i Veneziani, tutti avrebbero favorita la impresa. Così offerivasi a Carlo VIII di rinnovare nell'Italia la memoria di Carlo Magno. Già i Turchi minacciavano la Dalmazia e l'Ungheria. La gloria di salvare i regni cristiani era riserbata al primogenito fra i cristiani, il re di Francia. In tal guisa il conte di Belgioioso destramente persuase il re. Vinse colle maniere accorte e col denaro di Lodovico alcuni primari favoriti. L'impresa venne decisa, e il re, convocati gli Stati a Tours, pubblicò la guerra pel regno di Napoli; ed ivi anticipatamente distribuì i feudi di quel regno, e si appropriò il titolo di re di Gerusalemme e di Sicilia, oltre quello di re di Francia. Alcuni ministri [248] francesi, per comandare più liberamente colla lontananza del re, applaudirono. Vi era chi conosceva non essere facile l'impresa; essere il re Ferdinando avveduto; essere valoroso Alfonso di lui figlio; aver essi il fiore della milizia al loro stipendio; essere tuttora dubbioso qual partito prenderebbero il papa, i Fiorentini e i Veneziani; doversi temere l'imperatore Massimiliano e il re di Spagna Ferdinando, pronti forse ad invadere la Francia, se ella rimaneva sprovveduta.

Lodovico si adoperò per togliere le dissensioni fra Massimiliano imperatore e Carlo VIII. Senza di ciò poteva il re cristianissimo venir costretto a retrocedere per difendere la Francia. Massimiliano era animato contro il re Carlo, che gli aveva ripudiata la figlia, e tolta la sposa ed una provincia. Lodovico cominciò a dar timore a Massimiliano, che Carlo VIII in Roma non si facesse incoronar dal papa imperatore; giacchè quell'augusto non per anco avea fatta cotesta cerimonia. Indusse il re Carlo ad usare tutti gli ossequi all'imperatore. Finalmente Lodovico coll'imperator Massimiliano concluse di dargli in moglie la principessa Bianca Maria di lui nipote, figlia del duca Galeazzo. Concertò, coll'imperatore di essere egli dichiarato duca di Milano; e quattrocentomila fiorini d'oro, ossia zecchini, vennero pagati all'imperatore. Le nozze della Bianca Maria seguirono nel Duomo di Milano il giorno 1º dicembre 1493, avendo qua spediti i suoi procuratori Massimiliano. Così Lodovico liberò il re Carlo dal timore di una sorpresa dei cesarei. Colla Spagna pure segui l'accordo; per cui si cedettero a Ferdinando ed Isabella Perpignano e Roncilione. Assicuratosi per tal modo Carlo VIII la quiete interna, si dispose a passar le Alpi. Lodovico il Moro era un usurpatore, ma lo era grandiosamente. Egli si era sottratto alla morale, ed erasi scelta per giudice quella funesta ragion di Stato, che suol preferire i misfatti illustri alla oscura virtù. Arbitro fra l'imperatore e il re di Francia, dà una nipote per moglie al primo; fa passare il re nell'Italia. La scena ch'ei rappresentò sul teatro di Europa, è da monarca assai superiore alla condizione di un semplice duca [249] di Milano. Poichè il re Ferdinando di Napoli vide il fulmine che stavagli imminente, spedì a Lodovico il Moro Camillo Pandone, pregandolo acciocchè volesse allontanare il re Carlo dalla impresa, e promettendogli di essere pronto dal canto suo a guarentire a Lodovico tutto quello che più gli fosse piaciuto pel Milanese. Il conte Carlo di Belgioioso da Parigi volò in cinque soli giorni nella Lombardia[286], e a nome del re di Francia venne a proporre a Lodovico una perpetua confederazione, offerendogli anche il principato di Taranto. Ma il saggio conte, da ministro fedele, cercò di sconsigliare Lodovico, mostrandogli l'incertezza della impresa e il pericolo dell'Italia e suo, qualora mai riuscisse. Lodovico, accettando i consigli del conte e le offerte del re Ferdinando, avrebbe potuto gloriosamente usurpare il dominio; egli volle nondimeno persistere nel primo impegno. Perchè poi ricusasse quell'ottimo partito e preferisse una guerra pericolosa al godimento tranquillo dello Stato, non lo dice la storia. Forse egli non si fidò del re Ferdinando, nè dalle forzate offerte di lui; finchè, passato il timore, non dovesse nuovamente vederselo nemico. Forse egli ascoltò le personali passioni più che non si conviene ad un sovrano; e l'odio contro la casa di Aragona, o la benevolenza verso gli amabili francesi, presso i quali era vissuto, prevalsero ai sentimenti che doveva adottare come uomo di Stato. Il vero motivo non si sa: unicamente ci è noto che Lodovico promise al re Carlo di Francia cinquecento uomini d'armi, quattro navi, dodici galere, il suo erario e la sua persona. (1494) Inutilmente il papa Alessandro VI spedì emissari nella Francia per frastornare la venuta del re. Lodovico se ne avvide, ed animò il re Carlo a non differire, acciocchè i Napoletani, il papa ed Fiorentini non avessero tempo di radunare un'armata e disputargli i difficili passi degli Appennini. Il re Carlo VIII si [250] ritrovò in Asti il giorno 11 settembre 1494. Poi, il giorno 14 ottobre, nel castello di Pavia, venne magnificamente accolto da Lodovico il Moro. Ivi il re visitò il duca Giovanni Galeazzo, ammalato di consunzione, e non senza qualche suspecto, dice il Corio; l'infermo raccomandò alla pietà del re Francesco suo figlio e la duchessa sua moglie; e fra pochi giorni terminò la sua vita al 22 ottobre nella età di venticinque anni[287]. Il di lui figlio Francesco poi visse nella Francia e fu abate di Marmoutiers. Lodovico somministrò al re non poca somma di denaro. Corio dice della morte del duca, che parve ad ognuno «crudele cosa che non attingendo anche il vigesimo quinto anno di sua etate, come immaculato agnello, senza veruna causa fusse spinto dal numero de' viventi». Il re di Francia si mostrò sensibile a tal morte. Volle in Piacenza, ove lo seppe, onorare il defunto con funerali, e vestì gran numero di poveri col danaro suo; il che fu forse cagione onde fosse da Lodovico fatto trasportare in Milano e tumulare in Duomo colle cerimonie consuete l'infelice nipote, che fu il sesto duca di Milano, non perchè abbiavi comandato giammai, ma perchè ne portò il titolo; e le monete coniate ed i diplomi spediti furono in di lui nome e colla di lui effige.

[251]

CAPITOLO XIX. Di Lodovico il Moro, settimo duca di Milano, e della venuta del re di Francia Lodovico XII.

Lodovico aveva il diploma imperiale che lo dichiarava duca di Milano; ma lo teneva nascosto. Già vedemmo che l'imperatore Federigo non concesse mai il ducato di Milano nè a Francesco Sforza, nè a Galeazzo Maria. Giunto alla suprema dignità dell'Impero Massimiliano I, ei ne conferì il ducato non già al primogenito dell'ucciso Galeazzo, ma al tutore di esso, Lodovico il Moro. Il diploma venne spedito in Anversa il giorno 5 settembre 1494. In esso diploma dichiara quell'augusto che preferiva Lodovico, perchè esso fu generato da Francesco Sforza mentre possedeva il ducato; il che non poteva dirsi di Galeazzo. Pare che avrebbe dovuto l'estensore del diploma omettere questa cavillazione, superflua presso l'imperatore, che non riconosceva altri duchi di Milano, se non i nominati ne' cesarei diplomi. Con altro diploma 8 ottobre 1494, dato pure in Anversa, l'imperatore dichiara che Lodovico gli facesse istanza per ottenere l'investitura del ducato in favore di Giovanni Galeazzo; ma che l'imperatore Federigo, suo padre, ed egli lo aveano ricusato, perchè[288] praefactus Joannes Galeaz ipsum ducatum et comitatum a populo Mediolanensi recognovit, quod quidem fuit in maximum Imperii praejudicium; et quia est de consuetudine sacri Romani [252] Imperii neminem unquam investire de aliquo statu sibi subjecto, si eum de facto sibi usurpavit, vel ab alio recognoverit[289]. Lodovico, mentre in segreto possedeva questi diplomi imperiali, convocò nel castello i primari dello Stato; e notificando la morte seguita del duca Giovanni Galeazzo, propose loro d'acclamare per duca Francesco, bambino primogenito del defunto. Il presidente della camera, Antonio Landriano, vi si oppose, attesa l'età del fanciullo: e ricordando le inquietudini della minorità passata, lo stato d'Italia col re Carlo alla testa d'un'armata, i pericoli imminenti, propose che Lodovico medesimo fosse da riconoscersi duca, come quel solo che nelle procelle attuali poteva difendere lo Stato. Nessuno ardì di uniformarsi alla proposta di Lodovico; e il voto del Landriano venne secondato da tutti. Ben tosto, uscendo dal consiglio, lo proclamarono duca nel mentre appunto che nel Duomo, allo spettacolo dell'estinto Giovanni Galeazzo, esposto colla pompa funebre allo sguardo di ognuno, si versavano lagrime di compassione sul misero di lui fato. La vedova duchessa Isabella, coi poveri bambini suoi, stavasene in Pavia, rinchiusa entro una stanza, ricusando la luce del giorno, giacendo per tristezza sulla nuda terra, in mezzo a lugubri abbigliamenti, ivi inteso una tale proclamazione, che toglieva la sovranità anche ai meschini avanzi del giovane suo sposo, e poneva il colmo al trionfo della rivale duchessa Beatrice. (1495) Quando il popolo invidia la condizione de' signori grandi, ha egli sempre ragione? Due ministri imperiali vennero a Milano per conferire la dignità ducale a Lodovico; ed era appunto allora che si compieva il secolo in cui la stessa cerimonia erasi fatta per il primo duca. Il giorno 26 di maggio del 1495, alla porta del Duomo, con stupende cerimonie, dice il Corio, ornarono Lodovico del manto, berretta e scettro ducale, sopra un eminente trono. Giassone del Maino, celebre legista, pronunziò l'orazione; poscia si andò a Sant'Ambrogio; «d'unde in castello, dove furono celebrati li stupendi triumphi quanto a nostro secolo fussino d'altri»; così il Corio.

[253]

Stacchiamo lo sguardo, almen per poco, dai tristi avvenimenti della politica, e rimiriamo oggetti più ameni, cioè i progressi che la coltura fece presso di noi sotto il governo di Lodovico il Moro. Lodovico dapprincipio fabbricò il vastissimo claustro del Lazzaretto secondo l'uso di quei tempi; ma in appresso egli pose all'architettura per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura Leonardo da Vinci. Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di quest'ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesaro da Sesto, Bernardo Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali ebbe vita ed onore la scuola milanese. L'architettura era ne' primi anni sotto Lodovico resa elegante bensì, ma conservava capricciosi ornamenti, siccome scorgevasi nella facciata della casa de' signori conti Marliani[290]. Poi s'innalzò il magnifico tempio della Madonna di San Celso; si eresse la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbricò il chiostro, veramente nobile e grandioso, dell'imperial monastero di Sant'Ambrogio[291]; e così si esposero allo sguardo pubblico modelli di bella architettura. Lodovico grandiosamente stipendiava gli abili artisti e gli uomini d'ingegno; accordava loro piena immunità da ogni carico; animava i progressi della coltura. Demetrio Calcondita, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio Emilio erano fra noi gli illustri letterati protetti e [254] beneficati dal Moro. Bartolomeo Calco, segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del suo principe, instituì le scuole pubbliche, le quali sino ai giorni nostri ne portano il nome. Tommaso Grassi eresse e dottò altre scuole per gratuita istituzione della gioventù; e queste pure conservano il nome del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso Lodovico, instituì pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica, lingua greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva l'amicizia di Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria di lui. Non è dunque da meravigliarsi se di que' tempi le belle lettere venissero in fiore, e se da quella scuola uscissero poi Girolamo Morone, di cui accaderà in breve ch'io parli, Andrea Alciato e Girolamo Cardano. Scrivevano allora la storia patria Tristano Calco, memorabile per l'elegante suo stile latino, e per la molta accuratezza; Bernardino Corio, inelegante scrittore bensì, e creduto compilatore delle antiche favole, ma accurato e fedele espositore delle cose de' tempi più vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le belle arti ebbero vita e onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella età scriveva rime degne di leggersi[292]. Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti che ho esaminati. Il primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare assai robusto e poetico.

«Rotta è l'aspra catena e il fiero nodo

Che l'alma iniquamente già mi avvinse;

Rotto è il gruppo crudel che il cor mi strinse,

Onde mia sorte ne ringrazio e lodo.

Fuor del pensiero ho l'amoroso chiodo,

Che poco meno a morir mi sospinse;

E il volto che nel petto amor mi pinse,

Lì dentro è casso, e senza affanni or godo.

[255]

Ringrazio il cielo, il qual m'ha liberato

Dalla cieca prigion, piena d'orrore,

Dove gran tempo vissi disperato.

E quando a sè pur mi rivolgi amore,

Me leghi a un cuor che sia fedele e grato,

Ch'io servirò per fino all'ultim'ore».

L'altro sonetto seguente parmi assai leggiadro, e ci fa vedere che l'allegria e la sociabilità erano conosciute da que' nostri antenati. Anco un'altra osservazione sul costume ci si presenta; ed è che, usando allora le gentildonne abiti pesantissimi di broccato, non potevano altrimenti ballare vivacemente come ora si costuma; ma unicamente potevano moversi con graziosa lentezza, modice et venuste, siccome nel capitolo precedente vedemmo[293]: perciò Gaspare Visconti nel seguente sonetto, fra i pregi delle ballerine, annovera il mover lenti lenti i piedi. Ecco il sonetto:

«Io vidi belle, adorne e gentil dame

Al suon di soavissimi concenti

Co' loro amanti mover lenti lenti

I piedi snelli, accese in dolci brame.

E vidi mormorar sotto velame

Alcun degli amorosi suoi tormenti,

Dividersi, e tornare al suono intenti,

E cibar d'occhi l'avida sua fame;

Vidi stringer le mani, e lasciar l'orme

Dolcemente stampate in lor non poco,

E trovarsi in due cor desio conforme.

Nè mirar posso così lieto giuoco,

Ch'a pensier lieto alcun possa disporme

Senza colei che notte e giorno invoco».

[256]

D'un altro genere, men elevato sì, ma pregevole per la facilità, è il sonetto seguente ch'ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui veniva avvisato che una indiscreta vecchia non cessava d'infamarlo. Così rispose:

«Omai, Fregoso, io son come il cavallo

Che porta il tuon delle pannonie schiere,

O come quel qual usa il schioppettere,

Che al bombo del schioppetto ha fatto il callo.

Riprenda pur la plebe ogni mio fallo,

Che tanto fa il suo dir quanto il tacere,

Qual son l'opere mie, quale il volere,

Chi il vero intende, apertamente sallo.

Che diavol sarà poi con questa femmina,

La qual non altra cosa che zizania

Nel steril orto del rio volgo semina!

Sola sè stessa infin, non altri lania;

E quanto più suo pazzo error s'ingemina,

Tanto a chi sa, dimostra più sua insania.»

Dal fine d'un sonetto ch'egli scrisse alla Beatrice d'Este, si conosce qual ascendente quella principessa avesse sull'animo di Lodovico:

«Donna beata, e spirito pudico,

Deh, fa benigna a questa mia richiesta

La voglia del tuo sposo Lodovico.

Io so ben quel che dico:

Tanta è la tua virtù, che ciò che vuoi

Dello invitto suo cor disponer puoi[294]».

Di questo magnifico e generoso cavaliere aurato, Gaspare [257] Visconti, consigliere ducale, evvi pure un poema stampato per magistro Philippo Mantegatio dicto et Cassano, in la excellentissima cittade de Milano, nell'anno Mcccclxxxxv, a dì primo de aprile. Questo poema ha per titolo: Paulo e Daria amanti. Non v'è traccia che meriti di seguirne la lettura. Vi sono però alcune ottave passabili, come:

«Messer Luchino in segno di letizia

Fece ordinar un bel torneamento,

E de' compagni della sua milizia

Ne scelse appunto al numero duecento;

Ciascun de' quali ha forza e gran divizia;

Milanese ciascun, pien d'ardimento;

Che allor Milano al marzial negozio

Molto era intento e non marciava in ozio.

Giunto era il giorno al tornear proposto

Da Luchin di Milan, signor e padre,

Qual credo fosse a' quindici d'agosto.

Quando vennero in campo ambe le squadre

Ognun quanto più può, fa del disposto,

Con sopraveste e fogge alte e leggiadre,

All'uso pur di quel buon tempo prisco,

Ch'ogni ornamento suo pagava el fisco.

La compagnia d'Éstor tutta ross'era;

L'altra di Dario candida si vede,

Che de' Visconti la divisa vera

Bianca e rossa è, se al ver si presta fede, ec.

Canto II[295]».

Il Corio ci descrive l'urbanità, l'opulenza, il raffinamento e il lusso della corte di Lodovico, prima che sventuratamente promovesse l'invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre, tornei, occupavano l'ozio felice di que' tempi, ne' quali quel signore compariva il più rispettato principe [258] d'Italia. L'ambasciator veneto Ermolao Barbaro, spettatore di que' tornei, compose i seguenti versi conservatici dal Corio:

Cum modo constratos armato milite campos

Cerneret, expavit pax, Ludovice, tua.

Et mihi: surge inquit, circum sonat undique ferrum.

Me meus ejecta Conditor arma parat.

Te rogo per Veneti sanctissima jura Senatus,

Occurre ingenti, si potes, exitio.

Tunc ego: pone metum, Dea; te Lodovicus adorat.

Numine plus gaudet, quam Jovis, ille tuo.

Nec tu bella time, simulacra et ludrica sunt haec;

Misceri hoc tantum convenit arma loco.

I nunc, et coelo terras cote, Diva, relicto;

Sin minus, hic pro te sufficit, alta pete,

Sforciadasque tuos terra defende marique,

Et belli et pacis artibus egregios.[296]

Frutto di questa universale coltura promossa dal duca e dalla giudiziosa scelta ch'egli sapeva fare degli uomini [259] di merito, fu la riunione del canale della Martesana con l'altro antico cavato del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo decimosettimo, con sei sostegni superò la differenza del livello di circa tredici braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino all'Adda. «L'invenzione dei sostegni a gradino era appunto di quel tempo; e i primi modelli in questo genere si sono veduti nei navigli di Bologna e di Milano». Così dice il sullodato Paolo Frisi[297].

Il sistema del governo allora era questo. Lodovico aveva quattro segretari. Bartolomeo Calco era alla testa degli affari di Stato; egli apriva le lettere dei principi esteri; disponeva le risposte; dirigeva il carteggio co' ministri alle corti estere; trattava coi ministri forestieri residenti in Milano. Aveva sotto di sè varii cancellieri, uno per Francia, uno per Germania, uno per Venezia, e così dicendo. Il reverendo Jacopo Antiquario era segretario per le cose ecclesiastiche, per le spedizioni de' benefizii e cause dipendenti. Giovanni da Bellinzona era segretario per gli affari di giustizia, e singolarmente criminali. Giovanni Jacopo Terufio aveva gli affari della camera, e fissava la lista delle spese de' salariati ed altre costanti, spedendole ai Magistri delle entrate, ossia a quel corpo che oggidì chiamasi Magistrato, acciocchè ne facesse seguire alle scadenze i pagamenti. Questi quattro segretari avevano i loro dipartimenti nel castello, ordinaria residenza del duca[298]. Le [260] entrate del duca ascendevano, tutto compreso, a seicentomila annui zecchini[299]. Delle gioie da monarca che Lodovico il Moro possedeva, le quali diede in pegno per averne danari, quattro pezzi sol bastano per darcene idea. Da un manoscritto antico conservato nella grandiosa collezione del signor principe di Belgioioso d'Este[300], ciò ho rilevato. La carta si intitola: «Zoye impegnate che erino dell'illustrissimo signor Lodovico Sforza — El balasso chiamato el spino, estimato ducati venticinquemille. El rubino grosso con la insegna del caduceo, de carati 22, con una perla de carati 29, estimati ducati venticinquemille. La punta grossa di diamante, estimata ducati venticinquemille. La perla grossa pesa con l'oro den. 6, gra. 9, vale ducati diecimille». Il Corio ci descrive Lodovico Sforza come uomo di molto ingegno, d'aspetto veramente maestoso, di contegno nobile, e singolarmente pacato mai sempre, anche nelle occasioni nelle quali è più difficile il conservarsi tale. Le immagini che ci rimangono di lui, ci rappresentano appunto una fisonomia corrispondente, ed anche nel conio delle monete di allora si conosce la eleganza e maestria d'ogni bell'arte.

Ripigliamo il filo della storia. I Francesi, entrati nell'Italia sotto il loro re Carlo VIII, la trascorsero come un fulmine dalle Alpi sino al regno di Napoli, di cui quasi senza contrasto s'impadronirono. Nessun riguardo usarono [261] sulle terre del duca; anzi a Pontremoli uccisero varii del paese, ed alcuni degli stipendiati del duca. Cominciò allora, ma tardo, ad accorgersi Lodovico del vortice pericoloso in cui si era voluto immergere. Il duca d'Orleans in Asti non dissimulava punto d'essere quella l'occasione opportuna per far valere le ragioni della principessa Valentina, di lui ava, sul ducato di Milano. Il re Carlo si presenta a Firenze, e senza ostacolo se gli aprono le porte. Passa a Roma; indi, in tredici giorni, scaccia da Napoli e dal regno gli Aragonesi, ai quali appena erano rimaste alcune città marittime. Questo fatto veramente memorando e romanzesco, benchè verissimo, sbigottì tutti gli Stati d'Italia. Ma il tempo lasciò loro ripigliar animo. L'armata francese, insolentita per tanta fortuna, disprezzava troppo gli abitatori del paese. Non avevano limite alcuno le violenze di ogni genere. La rapina era senza nemmeno un velo di pudore. La virtù e la bellezza si credevano un prezzo giusto della conquista. Nessun asilo era sicuro contro della scostumatezza del vincitore. Il nome francese in pochi giorni divenne odioso a tutto il regno; ed il re Carlo trovossi mal sicuro e incerto di avere la comunicazione libera colla Francia. Il duca di Orleans mosse le sue genti dalla città di Asti verso Novara, e inaspettatamente la occupò, spiegandosi senza mistero di prendere egli per sè il milanese, come discendente dalla Valentina. Lodovico Sforza, costernato per tal rovescio, mal sicuro dei sudditi (presso i quali la morte dell'innocente duca Giovanni Galeazzo, la depressione della misera duchessa Isabella, il supplizio del Simonetta, l'usurpato dominio e la comperata investitura erano argomenti di avversione, malgrado le altre molte sue eccellenti qualità), Lodovico Sforza adunque in tal condizione si abbandonò d'animo a segno, che divisò di ricoverarsi in Aragona, ed ivi privatamente finire i giorni suoi, di che tenne discorso col ministro di Spagna residente in Milano. Ma Beatrice d'Este lo rianimò, s'intromise e lo costrinse a pensar da sovrano. Si formò una nuova lega fra il papa, i Veneziani e il duca di Milano. Sollecitamente riunirono le loro milizie per la comune salvezza dell'Italia. [262] Le forze si postarono verso gli Appennini, attraverso dei quali dovevano passare i Francesi. Il re immediatamente partì da Napoli, lasciando in quel regno varii presidii nelle fortezze, e conducendo seco circa quindicimila uomini. Il papa si ricoverò in Ancona. Passò il re dalla Romagna e dalla Toscana, e giunto fralle angustie de' monti a Val di Taro, ivi ritrovò circa dodicimila soldati della nuova lega. Per un araldo il re fece significare ai collegati di maravigliarsi, trovando impedito il passaggio, non cercando egli se non di ritornarsene in Francia, pagando col suo denaro i viveri. Risposero i collegati che non lo avrebbero permesso, se prima non si restituiva Novara, indebitamente sorpresa. Ritornò l'araldo dicendo, che il re intendeva di passare senza condizione veruna; e che in caso di rifiuto ei si sarebbe fatta la strada sopra i cadaveri degl'Italiani. Questi risposero al re Carlo, che non si sarebbe egli spianata la via così facilmente, come gli era accaduto a Napoli e che lo aspettavano alla prova. Seguì poscia un'azione sanguinosa da ambe le parti, in cui però nessuna ebbe compiuta vittoria. Il re non si aprì l'uscita, nè rimase oppresso. Conobbe però il re Carlo che l'impresa non era sì facile, quanto se l'era immaginato. Spedì un araldo chiedendo tregua per tre giorni, onde seppellire i cadaveri, e i collegati l'accordarono soltanto per un giorno e mezzo. In sì fatto labirinto trovavasi il re cristianissimo, donde ne uscì il giorno 8 di luglio del 1495, fingendo di attaccare l'armata della lega, e frattanto ponendosi in marcia per uno stretto mal custodito dalla parte della Trebbia, e così ritornossene nel suo regno con poca gloria: poichè il re aragonese di Napoli, il quale erasi ricoverato nell'isola d'Ischia, ben tosto ricomparve nella sua capitale, dove fu con applauso e festa ricevuto; ed i presidii francesi, mancando di soccorso, attorniati da un popolo nemico, dovettero un dopo l'altro abbassar le armi e rendersi. Lo storico Voltaire si è lasciato sedurre dall'amor nazionale a segno di essere ingiusto cogl'Italiani in raccontando questa spedizione del suo re; quasi che, effeminati, molli, degradati, non vi fosse più fra di noi nè coraggio nè valor militare. [263] Gli storici contemporanei d'Italia sono una manifesta prova dei traviamenti dell'autore francese nella decantata sua opera sulla storia generale; traviamenti che io appunto ho notati, perchè in moltissimi altri luoghi, riscontrandolo, hollo trovato tanto vero ed esatto, quanto elegante pensatore.

(1496) Il duca Lodovico, quantunque liberato dall'imminente pericolo, non avea peranco riacquistato quel robusto vigor d'animo, senza di cui non si preserva lo Stato negli eventi contrari. Fortunatamente la duchessa Beatrice potè far le sue veci. Si raccolsero i confederati a scacciare il duca d'Orleans da Novara. Ivi la Beatrice d'Este vedeva schierarsi gli armati al suo conspecto, dice il Corio. Novara ritornò al duca. I Francesi abbandonarono il paese. La pace venne sottoscritta. Così in un anno cominciò e finì la rapidissima spedizione di Carlo VIII, senza verun frutto pei Francesi, anzi con loro danno e con danno dell'Italia. Cessato appena il pericolo dei Francesi, nacquero le solite rivalità fra gli Stati d'Italia. I Fiorentini volevano assoggettar Pisa. I Pisani si offersero al duca Lodovico, il quale per non offendere i Fiorentini, non volle accettarli. I Pisani si esibirono ai Veneziani, e questi, sebbene formalmente non li accettassero, destramente posero in Pisa un presidio. Lodovico, signore di Genova, e dell'isola di Corsica, da Genova dipendente, non mirò con indifferenza tal fatto, per cui le forze marittime venete potevano acquistare nuovi appoggi nel mar Tirreno. Pisa era considerata città imperiale. Il duca spedì all'imperatore Massimiliano Marchesino Stanga, animandolo a passare nell'Italia e soccorrere Pisa. Poi, nell'anno medesimo 1496, egli e la duchessa Beatrice sua moglie per Bormio si portarono incontro a quell'augusto a Malsio, e seco lungamente concertarono la spedizione. Per lo che l'imperatore per la Valtelina sen venne a Como; indi a Meda venne accolto dal duca e dalla duchessa Beatrice con pompa conveniente. Ivi concorsero gli oratori di quasi tutt'i principi d'Italia. Perchè l'imperatore non volesse veder Milano non lo so. Egli per Abbiategrasso, Vigevano e Tortona passò a Genova, d'onde per mare passò [264] a Pisa, e festosamente vi fu accolto. Nessun altro frutto nacque da tale comparsa. L'imperatore ritornossene in Germania. Così il duca Lodovico fece comparire inutilmente nell'Italia il re di Francia prima, poi l'imperatore. (1497) Al cominciar dell'anno 1497 accadde al duca Lodovico Sforza la maggior disgrazia; e fu che li 2 di gennaio la duchessa Beatrice d'Este morì di parto, lasciandogli due figli, Massimiliano di cinque anni, e Francesco di quattro. La duchessa morì nell'età di 23 anni. Donna di animo virile; l'ascendente di cui reggeva la volontà del marito. Lodovico, dopo un caso sì funesto, non visse che in mezzo alle disgrazie, siccome vedremo, e non ne dimenticò mai la memoria. Vennero celebrate le solenni pompe funebri alla duchessa nella chiesa delle Grazie, dove fu tumulata: «et quivi fine al septimo giorno con la nocte, senza interposizione pur de un quarto d'hora, si celebrarono messe e divini officii, il che veramente fu cosa di non puocha admirazione», dice il Corio. Il mausoleo di marmo colla statua di lei costò più di quindici mila ducati d'oro. Quella statua giacente scorgesi oggidì nella chiesa della Certosa presso Pavia, a canto ad una simile del di lei marito Lodovico, come si è accennato più sopra. L'anno del lutto fu tristissimo per l'infelice vedovo duca, privato della cara amica, unica confidente e reggitrice de' suoi pensieri. L'uso sin d'allora era di stendere i parati neri su tutti gli addobbi di corte. Terminato appena l'anno, l'inaspettata morte del re di Francia Carlo VIII, che non lasciava figli maschi, fe' passar la corona sul capo del duca d'Orleans Lodovico XII, primo principe del sangue, discendente del re Carlo V. L'ava di Lodovico XII fu appunto la Valentina Visconti, figlia del primo duca di Milano Giovanni Galeazzo. Il re nuovo di Francia pretendeva que' diritti che non poteva allegare Carlo VIII, che da lei non discendeva; ed il nuovo re aveva chiaramente già palesata co' fatti la volontà di farli valere. Il re aveva trentasei anni; e come duca d'Orleans assumeva il titolo di duca di Milano.

I Veneziani, il papa Alessandro VI e il nuovo re di Francia Lodovico XII si collegarono. I Veneziani pretendevano [265] il Cremonese e la Gera d'Adda; per modo che i confini loro si stabilissero quaranta braccia lontani dalla sponda sinistra dell'Adda, rimanendo il fiume colle due sponde al ducato di Milano. Il papa pretendeva Imola, Forlì, Pesaro e Faenza, per formare uno Stato al duca di Valentinois Cesare Borgia, suo figlio. Il re di Francia pretendeva il regno di Napoli e il milanese. (1498) Si collegarono promettendosi vicendevole assistenza; ed il trattato si sottoscrisse in Blois il giorno 25 di marzo dell'anno 1498[301]. Il re di Francia aveva ottenuto dal papa Alessandro VI di ripudiare Giovanna, duchessa di Berrì, figlia di Luigi XI, re di Francia, che da ventitre anni eragli moglie; e così potè sposare la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, che gli recava la Bretagna in dote. Per tal benemerenza Cesare Borgia fu creato duca di Valentinois, e furongli promesse le città della Romagna, che possedevansi dai signori della Rovere. Soprastava un tal nembo sul capo del già abbattuto duca Lodovico, quando per parte del re di Francia gli venne fatta proposizione di lasciargli godere il ducato sin ch'ei fosse vissuto, e per due anni ancora lo godessero dopo sua morte i di lui figli, a condizione che frattanto egli sborsasse ducentomila ducati d'oro al re di Francia. V'era di più la condizione che qualora Lodovico XII non avesse figli, non si turbasse il dominio dei successori dello Sforza. L'affare venne proposto nel consiglio del duca. Il tesoriere ducale Landriano[302] altamente opinò, che mai non si dovesse accettare un tale progetto, poichè con ducentomila ducati ve n'era abbastanza, a parer suo, per far la guerra per ducent'anni al re di Francia. La bravata era senza fondamento; pure il duca vi si uniformò. Quando poscia ne venne in seguito la eversione totale dello Stato, un gentiluomo milanese, che nominavasi Simone Rigoni, affrontò l'adulatore [266] Landriano, per cui lo Stato e la patria erano in rovina, e lo uccise[303]. (1451) I francesi aveano un punto di appoggio di qua dalle Alpi nella città di Asti; ed ivi il re Lodovico XII fece passare un grosso esercito, e ne diede il comando a Gian Giacomo Trivulzio, valoroso soldato, illustre milanese, nemico personale del duca Lodovico Sforza, da cui gli erano stati confiscati i beni. Questo comandante aveva la cognizione del paese, un partito, una passione sua propria per abbattere il duca; avea servito già nella spedizione di Carlo VIII; era insomma il più opportuno generale che il re di Francia potesse scegliere a questa impresa. Il duca non poteva fidarsi nè delle forze proprie, nè della volontà dei sudditi, per le ragioni già accennate. I soccorsi da Napoli o da Firenze erano incerti e remoti. L'imperatore Massimiliano, nipote del duca, era di buona fede e impegnato per lui; ma il pericolo sovrastava a giorni. Il duca scelse il partito di abbandonare lo Stato e seco condurre nel Tirolo i figli, ricorrendo a quell'augusto. I Veneziani s'avanzavano dalla parte d'Oriente; dall'opposta s'innoltravano i Francesi sotto del Trivulzio: non v'era tempo a consigli. In quel punto venne presentata al duca una lista di quindici primari signori del paese che tramavano contro di lui, e tenevano segreta corrispondenza col nemico. I fatti erano avverati. Il duca non volle far male alcuno a coloro che avea beneficati ed amava. Prima di abbandonare Milano egli portossi dalla duchessa Isabella, le cedette il ducato di Bari, le chiese il di lei figlio Francesco per salvarlo e condurlo seco nella Germania; ma la duchessa no 'l consentì. Pensò Lodovico il Moro di confidare il castello di Milano ad un uomo di provata fede, giacchè dalla difesa di esso dipendeva la sovranità. Nel castello era riposto l'archivio ducale, vi erano tutte le preziose suppellettili della duchessa Beatrice e degli antecessori, valutate centocinquantamila ducati. V'era un presidio di duemila ottocento fanti, mille ottocento pezzi d'artiglieria, e abbondantissime [267] vittovaglie e munizioni da guerra. Lodovico divisò di affidarne il comando a Bernardino da Corte. Il cardinale Ascanio Sforza, fratello, e il Sanseverino l'avvertirono di non fidarsi di colui. (1499) Ma il duca non badò loro, e fattolo a sè chiamare, lo dichiarò castellano; indi, umanissimamente abbracciandolo, gli disse: Io vi confido la più preziosa fortezza del mio Stato, difendetela per soli tre mesi, e se dentro questo spazio non vi manderò soccorso, disponetene come giudicherete a proposito; il che accadde nel giorno memorabile 2 settembre 1499. Ciò fatto, il duca verso sera uscissene dal castello, e diè congedo ai molti signori ch'erano disposti ad accompagnarlo. Altra cura aveva nell'animo, suggerita dall'intimo del cuore, la quale non poteva essere che frastornata dai vani omaggi de' sudditi. Non poteva allontanarsi da Milano senza sentire che si allontanava dall'amata spoglia della Beatrice, a cui destinò l'ultima visita. Cavalcò alle Grazie; volle rivedere la tomba e l'effigie della perduta sposa. I sentimenti di natura si rinvigoriscono a proporzione che dileguansi le larve della fortuna. Non poteva staccarsene, e costretto pure a partirsene, più volte si rivolse a mirare il monumento della sua tenerezza e del dolor suo. Immediatamente di là s'incamminò a Como, d'onde pel lago passò nella Valtellina, indi per Morbegno, Sondrio, Tirano, Bormio, Bolzano e Brixen passò ad Inspruck, residenza dell'imperatore Massimiliano. Prima però d'imbarcarsi sul lago di Como, il duca, da una loggia in Como, si presentò al popolo, e fece da quel luogo pubblicamente noti i sentimenti suoi, dicendo: «Che la fortuna avversa l'aveva ridotto a quel duro passo di abbandonare lo Stato, senza ch'egli avesse luogo a rimproverarsi imprudenza o spiensieratezza alcuna. Che l'unico motivo di tale ingrato destino egli doveva riconoscerlo dalla perfidia di coloro ne' quali sventuratamente aveva riposta la più sincera fidanza. Egli confessava di essersi ingannato nella scelta, e di essersi con troppo buona fede lasciato sedurre da que' visi mascherati i quali attorniano i sovrani. Il male era fatto. In quel punto egli andava co' suoi figli a ricovrarsi presso dell'augusto Massimiliano; [268] giacchè s'egli avesse preteso in quel punto di opporsi alla prepotente armata de' Francesi invasori, avrebbe fatto versare il sangue umano senza probabilità veruna di preservare lo Stato dalla inevitabile occupazione. Ch'egli dall'imperatore si prometteva ogni soccorso, e pei stretti vincoli di sangue che lo univano a quel monarca, e per la giustizia della sua causa, che interessava l'Impero in favore di sè, come feudatario del medesimo. Che gli onori già concessigli dalla cesarea maestà erano una caparra del buon successo; sicchè sperava fra poco di rivedere la patria con una armata bastante a liberarla dall'usurpazione del re di Francia. Raccomandò ai sudditi di accomodarsi ai tempi, di non eccitare con intempestivo zelo la vendetta de' Francesi, onde al suo ritorno potessero accoglierlo come loro padre, giacchè egli li considerava tutti come suoi figli». La presenza di spirito di parlare in pubblico, e di parlarvi in tanto angustiosa occasione, e sì acconciamente, fanno conoscere che l'amore di Lodovico per le lettere e le belle arti non era una principesca vanità, ma sentimento di un uomo colto e d'ingegno. Mentre ancora stava il duca parlando dalla loggia ai Comaschi, erano già penetrati i Francesi nei sobborghi di Como, con animo di farlo prigioniero; ma per buona sorte avvisato, appena ebbe il tempo di balzare in una barca e recarsi a Bellagio.

Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni anni era esule dalla patria, entrò in Milano come generalissimo dell'armata francese il giorno 6 di settembre, quattro giorni dopo che il duca l'aveva abbandonata. Egli si portò solennemente al Duomo a ringraziare l'Arbitro delle cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni dopo l'armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San Francesco, a Sant'Ambrogio, all'Incoronata. La licenza militare de' giovani soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio pensò di contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci racconta che per un pane violentemente rapito, due soldati guasconi vennero tosto appiccati a due piante fuori della porta Ticinese; che un altro francese, per aver rubata una gallina, [269] venne immediatamente appeso; che al Pontevetro sul momento venne appeso un francese che aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo nè indugio, fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur Valgis, che aveva poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ciò serviva ad impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel regno di Napoli quattr'anni prima; e serviva pure a conciliare la benevolenza de' nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano, mentre una fortezza, quale era il castello, era presidiata validamente dagli sforzeschi, era un pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa uscita degli sforzeschi poteva essere funesta ai Francesi sparsi ne' conventi. Pensò dunque il Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte, castellano, giacchè la strada di un formale assedio doveva esser lunga, di evento dubbioso, di molto dispendio e diminuzione delle forze francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza nemmeno aspettare un apparente assedio cominciato, pattuì il prezzo del suo tradimento, e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio, il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella arrivasse all'orecchio dell'infelice duca mentre egli cavalcava fra i Grigioni prima di giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si eseguì e manifestò il giorno diecisette di settembre del 1499, cioè quattordici giorni dopo che Lodovico era già partito da Como, mi pare più verisimile la cronaca del Grumello che dice: «Et ritrovandosi epso Ludovico in la cita di Insprucho in sua camera, assentato sopra il suo lecto, parlando co' suoi gentilhomini di riacquistar el stato suo di Milano, hebe nuova del perduto castello suo di porta Giobia. Leggendo le lettere recepute, intendendo nuova pessima, stando sopra di sè, non parlando come fusse muto, alciando gli occhi al cielo, disse queste poche parole: Da Juda in qua non fu mai il maggior traditore de Bernardino Curzio; et per quello giorno non mosse altre parole[304]».

[270]

Resasi per tal modo l'armata francese padrona in un baleno del ducato di Milano, il re Lodovico XII immediatamente scese dalle Alpi; il 21 settembre fu a Vercelli, il 23 a Novara, il 26 a Vigevano, che egli eresse in marchesato e lo conferì al Trivulzio, che assunse il titolo di marchese di Vigevano, e vi battè moneta. Questo marchesato gli fu dal re dato in compenso dell'artiglieria del castello di Milano, che doveva essere per metà del Trivulzio. Lodovico XII entrò solennemente in Pavia il giorno 2 di ottobre, e il giorno 6 dello stesso mese fece il suo pomposo ingresso in Milano per porta Ticinese. Gli ambasciatori dei Veneziani, Fiorentini, Bolognesi, di Siena, di Pisa e di Genova conducevano seco loro un séguito di seicento cavalli, e andarono incontro al re. Il re aveva seco il duca di Savoia, il marchese di Monferrato, il cardinale di San Pietro in Vincola. Tutto il clero in abiti pontificali precedeva. Poi venivano i carriaggi, riccamente coperti, trenta del duca di Savoia, quarantadue del cardinale anzidetto, sessantaquattro del re. Moltissimi altri carriaggi, coperti d'oro e di seta, di altri distinti personaggi. Poi cento suonatori di trombe con altri musici. Quindi venivano i paggi, otto di Savoia, quattro del duca di Valentinois, dodici del re, magnificamente corredati, con arnesi d'argento anche sotto i piedi de' cavalli. Poi quattrocento fanti reali, in uniforme giallo e rosso, armati di picche. Poscia il capitano della guardia a cavallo, alla testa di mille e venti cavalieri, che avevano tutti uniforme verde e rosso, e sul petto ricamato l'Istrice, divisa che Lodovico aveva assunta. Questi mille e venti uomini a cavallo erano tutti di statura stragrande. Appresso venivano ducento gentiluomini a cavallo, armati e vestiti superbissimamente. Da ultimo veniva il re sopra di un bellissimo destriero. Il re era vestito di bianco, coi contorni di pelliccia, e portava in capo la berretta ducale di Milano. Egli marciava sotto di un baldacchino di broccato d'oro e bianco, preceduto dal generale Gian Giacomo Trivulzio col bastone dorato in mano. Il baldacchino era portato da otto dottori e fisici di collegio, vestiti di scarlatto, col bavero di pelli di vaio. [271] Giunto il re al ponte vicino alle colonne di San Lorenzo, dove era in allora la porta della città, ricevette le chiavi che gli presentò il contestabile di quella porta. Il contestabile s'inginocchiò; ed il re, toccandolo sopra le spalle collo scettro che avea nella destra, lo creò cavaliere. Il contestabile baciò lo scettro, e continuò il re il suo cammino processionalmente sino al Duomo. Seguivano il re i cardinali di Burges, San Pietro in Vincula e di Rohan, e gli ambasciatori di Napoli, Savoia, Estensi, Mantovani, e i disopra nominati. Il giorno seguente, cioè al 7 di ottobre, il re volle assistere ad una solenne messa dello Spirito Santo in Sant'Ambrogio; indi si pose a conversare co' nobili milanesi più da gentile signor forestiere, che da monarca. Lodovico XII allora viveva come farebbe un buon sovrano ai tempi nostri. Egli fu a godere di balli e pranzi presso molti de' nostri. Il giorno 15 ottobre fu ad una magnifica festa di ballo e cena da messer Francesco Bernardino Visconte in porta Romana. Il giorno 18, messer Francesco Trivulzio, commendatore di Sant'Antonio, gli diede un pranzo[305]. Il giorno 20, a nome della città di Milano, fugli imbandito un pranzo nella corte vicina al Duomo. Le pareti della gran sala erano coperte di drappo celeste, ricamato a gigli d'oro; vi si trovarono convitate quaranta damigelle[306]; v'intervennero molti ambasciatori, illustri personaggi e principi, fra i quali il duca di Valentinois e il duca di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, il cardinale Orsini. Una festa di ballo terminò quella giornata. Il re, sempre cortese ed affabile, accettò di levare al sacro fonte un bambino del conte Lodovico Borromeo; andò a visitare la contessa Bona Borromeo, partoriente, al di lei giardino fuori di porta Tosa; volle darle in dono una collana d'oro del prezzo di cinquecento ducati, e volle cenare da lei. Lodovico XII alloggiò nel castello, e si trattenne per tal modo in Milano ventisette [272] giorni, essendone partito il 3 di novembre del 1499[307].

Giunto a Vigevano, il re Lodovico, prima di ripassar le Alpi e rivedere il suo regno, volle piantare un nuovo sistema politico nel milanese. Quindi, in data del giorno 11 novembre 1499, in Vigevano, volle pubblicare un editto perpetuo[308]. Primieramente stabilisce che nella città di Milano risieda un governatore suo luogotenente, nobile, cospicuo e militare, da cui dipenda tutto ciò che concerne la guerra, e che abbia la plenaria podestà sulle città, borghi e terre, per la loro conservazione, come se fosse il re. Secondariamente stabilì che vi fosse un gran cancelliere forastiero e custode del sigillo, e nel tempo stesso presidente del senato. In terzo luogo che non vi fossero più due consigli, uno di Stato, l'altro di giustizia; ma un solo supremo consiglio col nome di Senato, sotto la presidenza dell'anzidetto gran cancelliere. Volle che i senatori fossero di professioni diverse, cioè due prelati, quattro militari, e il rimanente dottori, de' quali alcuni volle che fossero forestieri. Queste cariche furono dichiarate perpetue e indipendenti dal governatore; anzi stabilì il re che il solo senato dovesse giudicare de' casi ne' quali un senatore avesse meritato il congedo. Concesse al senato la facoltà di confermare o infirmare i decreti del re; di accordare ogni dispensa; e che tutte le grazie, donativi, privilegi o editti di giustizia e di polizia emanati dal trono, fossero di nessun valore, se non venivano interinati dal senato. Comandò che qualunque sentenza del senato si eseguisse, e che gli atti fossero in nome del re[309]. Al senato medesimo [273] affidò la scelta de' professori dell'università di Pavia. Finalmente creò due nuove cariche, un avvocato fiscale e un procurator fiscale. Nominò poi governatore e suo luogotenente Gian Giacomo Trivulzio, marchese di Vigevano e maresciallo di Francia; gran cancelliere il vescovo di Luçon, Pietro di Saverges; senatori, Antonio Trivulzio, vescovo di Como, Girolamo Pallavicino, vescovo di Novara; i militi Pietro Gallarate, Francesco Bernardino Visconte, conte Giberto Borromeo ed Erasmo Trivulzio; i dottori Claudio Leistel, consigliere del parlamento di Tolosa, Gian Francesco Marliano, Michele Riccio, Gian Francesco Corte, Gioffredo Caroli, consigliere del parlamento del Delfinato, Giovanni Stefano Castiglione, Girolamo Cusano, Antonio Caccia. L'avvocato fiscale fu Girolamo Morone, uomo di cui più volte avrò in seguito a far menzione; ed il procurator fiscale fu Giovanni Birago. Ciò fatto, il re ripassò le Alpi conducendo seco il conte Francesco Sforza, figlio dell'estinto duca, fanciullo di otto anni, il quale dappoi sempre visse in Francia tranquillamente ed agiatamente come un ricco gentiluomo, godendo l'abbazia di Marmontiers. La duchessa Isabella si staccò in tal guisa per sempre dal figlio; ed ella pure partissene da Milano, e visse a Bari nel regno di Napoli, seco conducendo le due figlie Bona ed Ippolita; la prima delle quali poi fu sposata da Sigismondo re di Polonia, l'anno 1518. Così terminò la discendenza dell'infelice sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza.

[274]

La condotta del re Lodovico XII non poteva essere più giudiziosa per rendersi affezionati i nuovi sudditi. Egli affidò la suprema autorità alle mani di un nazionale. Visse colla maggior affabilità, quasi da privato conversando. Stabilì un senato colle facoltà da me ricordate. Con tal sistema la forza militare rimase unicamente in potere del luogotenente, e così sciolta e pronta senza alcuna formalità alla difesa dello Stato. La vita e la libertà e le sostanze dei sudditi rimasero all'ombra di una moderata monarchia, dipendenti da quel senato, composto di molti senatori, di stato differente; per modo che non era da temersi che la violenza entrasse a prendere giammai il nome della giustizia. La pietà degli ecclesiastici, l'onore dei militari, l'accurata ponderatezza dei dottori, vicendevolmente doveano contenere i privati affetti. Il gran cancelliere, senza il sigillo del quale non valeva alcun decreto, poteva riferire nel senato, indipendentemente dal governatore, que' tentativi che per avventura il governatore proponesse a danno della civile libertà di alcuno, e così eluderli. Il governatore, non potendo da sè punire i senatori, dovea però vegliare sopra di essi, e col diretto carteggio alla corte dovea prevenire l'abuso che mai o il senato o gli individui di esso facessero della autorità. Per una provincia rimota, alla testa di cui si voglia porre un suddito, non pare possibile l'architettare un sistema più ragionevole di questo, e convien dire che tale ei fosse, se malgrado le variazioni che vi si fecero guastandolo, pure, anche sotto diverse dominazioni, si sostenne poi per secoli.

[275]

CAPITOLO XX. Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e governo del re di Francia Lodovico XII, fino alla lega di Cambrai.

(1500) Poichè il re Lodovico XII ebbe abbandonato Milano per ritornarsene nel suo regno, una porzione dell'armata francese s'incamminò verso della Romagna per togliere Imola e le altre città promesse al duca di Valentinois, dalle mani del conte Girolamo della Rovere. Il duca di Valentinois era figlio di Alessandro VI, il conte Girolamo era figlio di Sisto IV. È facile l'immaginarsi quai dovessero essere i costami di quei tempi, se tali esempi diedero anche i poscia graduati al sommo sacerdozio. Doveva quindi quel corpo di francesi innoltrarsi ad occupare il regno di Napoli. Divenne così meno imponente nella Lombardia la nuova forza conquistatrice. Il governatore maresciallo Trivulzio stabilì la sua residenza nella corte vicino al Duomo, avendovi una guardia di trecento tedeschi. Malgrado la severità della disciplina usata dal Trivulzio, siccome accennai, non era possibile il prevenire ogni disordine. Un francese pose violentemente le mani sopra di una contadina che portava il pane a cuocere al pubblico forno in Lardirago, terra lontana da Pavia cinque miglia. La contadina si difese robustamente. Il francese non voleva desistere. Accorse il di lei padre con un bastone. Il francese lo stese morto. Varii contadini si scagliarono sull'uccisore, che dovette soccombere. Un corpo di francesi postato nel contorno sopravenne; saccheggiò la terra, bruciò le case, impiccò varii. In Milano pure si cominciarono a vedere delle tumultuarie adunanze di malcontenti. La plebe in porta Ticinese si attruppò e gettò a terra i banchi ai quali si riscuotevano [276] le gabelle. Il governatore Trivulzio vi si recò; e dopo di avere inutilmente procurato che badassero alle di lui parole, diè mano alla spada, e, secondato da' suoi domestici, uccise alcuni e molti altri rimasero assai mal conci. L'affare non terminava così, se messer Francesco Bernardino Visconte, signore sommamente autorevole, non vi accorreva. Si abolirono alcune gabelle, venne sedato quel disordine; ma non perciò rimase quieta la città. Frate Girolamo Landriano, generale degli Umiliati, messer Leonardo Visconte, e messer Alessandro Crivello, proposto di San Pietro all'Olmo, animavano la plebe contro del nuovo governatore Trivulzio. Lodovico il Moro, accostatosi a Como, col favore dei cittadini v'era rientrato, ed eransi espulsi i Francesi. Ivi s'andavano radunando Tedeschi e Svizzeri allo stipendio sforzesco. Il giorno 27 di gennaio 1500 si cominciò a conoscere nella città un'inquietudine che minacciava la sedizione. Il Trivulzio pose dell'artiglieria sulla torre che allora sosteneva le campane del Duomo, e si premunì in corte; ma trovandosi ivi mal collocato, e nel centro di una città mal contenta, pensò di ricoverarsi nel castello. Il popolo violentemente se gli oppose; giacchè temevasi che, giuntovi, non adoperasse quell'artiglieria sulla città. Il Trivulzio parlò al popolo, lagnandosi di non essere profeta nella sua patria. Mostrò essere pazzia l'ostinarsi a voler essere piuttosto sudditi di un piccolo principe, ramingo, bisognoso, e che smunga i popoli colle gabelle, anzi che ubbidire ad un monarca generoso, potente, ricco.... Le grida insultanti del popolo non gli permisero di continuare il discorso, e non senza pericolo; sicchè appena gli riuscì di ricoverarsi nuovamente in corte. Poco dopo il popolo pose le barricate alle imboccature delle strade, e tutte le finestre ebbero provvisioni di sassi ed altre materie, per offendere i Francesi. Fra le lettere di Girolamo Morone una ve n'è del 4 marzo 1500, in cui, descrivendo a Girolamo Varadeo quest'incontro, dice del Trivulzio: che[310] in tanto prorupit iracundiam, ut prudentiam [277] omnem abjecisse videretur.... seroque cognovit humanitatem et mansuetudinem, saeviente populo, magis quam vim et arrogantiam proficere. Vi fu chi rimproverogli di aver tre faccie, come ne portava lo stemma[311]; fugli rinfacciato di essere egli ribelle al suo sovrano[312], subdolo, traditor della patria, e dovette soffrire tutto ciò da una moltitudine di seimila persone armate, il che si scorge nella citata lettera. A tale stato si ridussero gli affari dei Francesi poco dopo partito il re.

Frattanto Lodovico il Moro (che in Inspruck era stato accolto umanamente e con sensibilità dall'imperator Massimiliano) non avea omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno nella patria. Vero è che nell'avversa fortuna quel principe non seppe mostrare quel vigor d'animo e quella serenità di mente, che solo possono farci reggere fralle sventure e superarle. Egli da Inspruck spedì Ambrogio Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione In data a due, e per vie separate, acciocchè uno almeno potesse eseguirla. Voleva che a di lui nome animassero il Turco a passare nell'Italia ed aiutarlo a ricuperare Genova, promettendo di unirglisi per far la guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile questo partito, se il Corio non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali furono accompagnati que' due ministri[313]. Ma la protezione dell'imperatore procurò allo Sforza soccorsi più reali e solleciti; essendosi per ordine suo radunato un valente corpo di Svizzeri e di Tedeschi. Questi l'aspettavano ne' confini; e trovandosi, [278] siccome accennai, diminuite le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito all'impresa d'Imola sotto il comando dell'Allegre, riuscì facil cosa al duca di nuovamente presentarsi, e le inquietudini del popolo ne furono opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti svizzeri. All'accostarsi di questi, il Trivulzio abbandonò Milano. Il giorno 4 di febbraio 1500 il duca Lodovico rientrò in Milano per porta Nuova, cinque mesi e due giorni dopo che l'ebbe abbandonata. Tutti i corpi politici gli andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava verso la Scala, dove oggidì è il teatro, venne avvisato che i Francesi, padroni del castello, facevano una sortita; il che alquanto lo sconcertò. Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli proseguì l'intrapreso cammino al Duomo, d'onde passò ad alloggiare nella corte, su cui l'artiglieria del castello, sebbene operasse, non potè far danno, per esserne premuniti i tetti. Un giorno solo rimase Lodovico in Milano: egli passò a Pavia, lasciando al governo di Milano il cardinale Ascanio suo fratello.

Gli sforzeschi saccheggiarono le case del castellano traditore Bernardino Corte e de' Trivulzi[314]. Messer Erasmo Trivulzio si avventurò di presentarsi al duca, chiedendogli perdono. Il duca, inasprito dalle vicende, lo condannò ad esser chiuso nel forno di Monza, cioè nel carcere orrendo fabbricato e sofferto da Galeazzo I[315]. Ma il cardinale Ascanio, più saggio, persuase al duca di non usare la vendetta. Il tempo era quello che più che mai di acquistarsi gli animi colla benignità e col perdono.

Dee cagionar meraviglia il vedere come senza spargersi quasi sangue umano, ritornassero gli sforzeschi ad impadronirsi [279] di Milano, e ne scacciassero i Francesi. Vero è, com'è notato più sopra, che l'armata francese erasi indebolita per la spedizione dell'Allegre; vero pure è che sedicimila svizzeri e mille corazzieri tedeschi s'erano uniti allo stipendio del duca Lodovico; che non mancava il duca nè d'artiglieria, nè di corrispondenti munizioni: ma pure potevasi disporre colle truppe francesi un campo e disputare almeno l'ingresso nel milanese allo Sforza. Ciò non si fece per le rivalità consuete fra i primi generali e ministri. Gian Giacomo Trivulzio era, come si è detto, luogotenente del re e governatore. Ma i primari francesi, mal sofferendolo, attraversavanlo in ogni cosa. Il conte di Lignì, uomo di somma autorità nella guerra, disponeva le cose per modo che appena lasciava al Trivulzio il titolo di governatore. Il vescovo di Luçon, gran cancelliere e presidente del senato, bramava non meno dell'altro la rovina del Trivulzio. Si voleva che gli affari andassero male a segno che il re fosse costretto di togliere al Trivulzio la dignità. Di ciò scrive minutamente Girolamo Morone a Girolamo Varadeo, in data del 31 dicembre 1499[316]. Questo illustre nostro cittadino [280] Morone in seguito ebbe molta parte negli avvenimenti pubblici del Milanese e dell'Italia, come vedremo. Fu veramente uomo grande, di un giudizio esatto, di penetrante [281] ingegno, e tale che in ogni secolo, e presso qualunque nazione avrebbe potuto primeggiare; il che non si può dire di molti. Lodovico XII nel nuovo piano politico aveva creato un avvocato fiscale, il quale per ufficio avesse cura e tutela delle ragioni del principe, sì per gl'interessi camerali, che per la giurisdizione rispetto a' feudi, alla corte di Roma e ad ogni altra competenza. Questo avvocato del principe aveva la facoltà d'intervenire a qualunque adunanza in cui potesse avere interesse la giurisdizione sovrana; nè potevasi dai tribunali determinare, se prima su tai punti non avesse esposte le sue ragioni l'avvocato del re. A questa carica volle Lodovico XII promovere un nobile milanese che ne avesse il talento; e scelse il giovane Girolamo Morone, mosso dalla buona fama che correva di lui, senza ch'ei lo sognasse nemmeno. Tant'egli era alieno dal pensarlo, che vennegli l'annunzio per parte del re, mentre egli, ritirato in una villa, stavasene lontano dalla tumultuosa rivoluzione che cagionava nella città la venuta de' Francesi. Morone nelle sue lettere descrive il fatto. Egli eseguì assai bene il proprio ufficio finchè dominarono i Francesi. Partiti questi, [282] egli rimase in Milano senza inquietudine, perchè senza colpa. Il duca Lodovico lo chiamò, e lo accolse con somma cortesia. Gli propose di volerlo spedire a Roma ed a Napoli per ricercare soccorsi contro de' Francesi; e lo avvisò di prepararsi ad eseguire questa commissione. Il Morone ringraziò il duca dell'onore che voleva fargli; ma considerandosi ancora assai giovine ed imperito per affari di Stato, supplicò per essere dispensato da una commissione che difficilmente sarebbe riuscita con buon servigio del duca e con onore di lei. Il duca Lodovico graziosamente replicò che il senno del Moroni era virile se l'età era fresca, e che sperava sarebbe ottimamente riuscito. Il Moroni soggiunse al duca che nè il papa, nè il re di Napoli si sarebbero fidati di lui attesochè dai Francesi era stato beneficato, e che questo solo bastava a renderlo un negoziatore infelice. Nemmeno a ciò s'arrese il duca, replicando che la confidenza ch'egli mostrava di avere in esso lui, avrebbe convinti e il papa e il re per modo che avrebbero liberamente trattato seco. Vedendo il Morone deluso ogni sotterfugio, con sommessione dichiarò ch'egli avrebbe data la vita pel servigio del suo natural principe; ma che egli sentiva una ripugnanza invincibile a far cosa alcuna in danno de' Francesi, dai quali era stato favorito. Lodovico lodò la virtù del Morone, lo congedò, ma si conobbe che non ne rimase contento:[317] Profecto rationis efficacia victus, manum dedit; attamen, dum ne dimisit, eum mihi subiratum dignovi, quoniam, ut scis, principes quod volunt, nimium velle solent, et ut plurimum quod juvat magis, quam quod decet, cogitant[318]. Le lettere del nostro Moroni si trovano nella biblioteca del fu conte di Firmian, e meriterebbero di veder la luce, poichè sono l'opera di un uomo di Stato che ebbe fralle mani i principali affari d'Italia de' tempi suoi; e conseguentemente servono di molto aiuto per la storia.

[283]

Lodovico il Moro stette per due settimane a Pavia per ivi radunare le sue soldatesche, le quali s'andavano ogni dì aumentando, mercè gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e si ponevano allo stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle scorrerie che tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la custodia del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla città: avvenimento che cinquant'anni prima avea preveduto il buon Giorgio Piatto. Il duca, avendo più di sedicimila svizzeri, mille corazzieri tedeschi e molta cavalleria italiana, forz'era che tentasse qualche azione. Egli mancava di denaro, nè potea lungamente mantenere al suo stipendio quest'armata. I Francesi dell'Allegre da Imola ritornarono per unirsi ai compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo sotto il comando del duca della Tremouille; non v'era speranza pel Moro, se non nella rapidità di approfittare dell'occasione favorevole. Dispose adunque d'impadronirsi di Vigevano, e da Pavia partitosi ai 20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese padrone. Per animare i suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella città, e gli Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di que' cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d'oro, di che rimasero tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co' suoi si inoltrò verso Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e collocò le tende in faccia del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai prosperi eventi dello Sforza; gli sforzeschi per questi medesimi erano animosi. Francesco Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia, animava il duca a cogliere l'occasione e venire tosto a giornata, prima che un nuovo corpo di Svizzeri e il duca de la Tremouille rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre incerto e mancante di energia, rispondeva esser meglio il vincere temporeggiando, che tentare l'incerta fortuna di una battaglia; la qual massima non poteva essere più fuori di luogo che in bocca di un principe gli Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per liberarsene altro mezzo che una [284] momentanea armata, senza un erario con cui tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacchè il cardinale Ascanio, per raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli argenti delle chiese di Chiaravalle, del Duomo, di Sant'Eustorgio, di San Francesco e di San Marco. Ma il duca Lodovico non aveva ereditati i talenti militari del duca Francesco suo padre. Egli era un principe colto bensì, ma non un eroe; principe di vaste idee anzi che di grandi e solide, snervato dall'avversa fortuna, privato della duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto cimentarsi coll'armata francese; ma invece levò le tende e trasportò il suo campo sotto Novara, che era in poter de' Francesi sotto il comando del conte di Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise il sacco di Novara; il che era in que' tempi un diritto militare, allorchè per assalto e senza capitolazione veniva presa una città. Alcuni cittadini novaresi segretamente intrapresero a concertare col Moro per introdurlo nella città. Novara era assai ben munita, nè facil cosa era l'impadronirsene. La prima condizione che i cittadini vollero, fu quella di aver salve le cose loro. Il duca, contentissimo per sì inaspettato mezzo, che spianava ogni ostacolo, a tal condizione aderì, e così entrarono gli sforzeschi in Novara, sicchè a stento potè appena per la porta opposta correre a salvamento quel presidio. Ciò accadde il giorno 20 di marzo 1500. I soldati si posero a saccheggiare a norma della parola datane loro dal duca; ma egli nuovamente lo proibì; il che sempre più alienò da lui l'animo di quell'armata, composta di soldati che non aveano legame veruno col duca; gente collettizia, radunata allora allora per la speranza di far bottino, e che vedevasi delusa e quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e malgrado anche i loro diritti militari.

Mentre Lodovico Sforza stavasene co' suoi entro Novara, il di cui castello tuttavia era in mano dei Francesi, il ministro del re di Francia alla dieta del corpo elvetico, Antonio Brissey, maneggiava il colpo decisivo, per cui il suo re, senza contrasto, rimanesse duca di Milano. Gli scrittori sinora hanno rappresentata la prigionia del Moro come un tradimento [285] degli Svizzeri; ed hanno offeso con ciò, non solamente il carattere de' fedeli ed onorati Elvezii, ma la verità e il buon senso, che non permetterebbe mai di credere che sedicimila uomini si unissero per tradire chi li paga[319]. Le lettere del Morone ci svelano come seguisse il fatto[320]. Poichè fu Lodovico in Novara, i Francesi s'accrebbero; e molta gente venne dalla Svizzera sotto le loro bandiere. S'avvide allora il duca del male che avea fatto non ascoltando i consigli del Sanseverino; e, come dice il Morone[321]: Se ipsum arguere, propriamque vecordiam accusare non cessabat, nec quid consilii caperet satis intelligebat. Galeazzo Visconti era il ministro del duca alla dieta elvetica, ed ivi non cessava di animare quella sovranità a cogliere l'onorevole occasione di far la pace alla Lombardia. Solo che la dieta lo volesse, doveano cessare al momento le ostilità; giacchè le forze principali dei due eserciti consistevano negli Svizzeri, che avevano bensì la libertà di vendere i loro militari servigi alla potenza che più era in grado a ciascuno; ma conservavano sempre il carattere di sudditi della dieta, alla quale non avrebbero potuto mancare, se non sacrificando l'onore, la patria, i parenti e i loro poderi. Bastava un ordine supremo agli Svizzeri dei due eserciti, per cui si vietasse loro di combattere, che la sospensione d'armi era al momento fatta. Bastava spedire abili negoziatori che, a nome della sovranità elvetica frapponendosi, conciliassero la pace; e per necessità doveano l'una e l'altra parte piegarsi e ricevere in certo modo la legge. Il progetto era nobile, umano e grande. Fu aggradito. Si spedirono gli ordini sovrani per due corrieri alle due armate. Si trascelsero dodici deputati, i quali venissero a dar la pace. Assicurato di ciò il duca, si collocò in Novara. Ma il destrissimo Antonio Brissey corruppe il corriere che portava il decreto all'armata francese, per modo ch'ei si [286] appiattò in un villaggio per più giorni, mentre l'altro corriere spedito al Moro diligentemente accelerava il suo cammino. Così doveva accadere che gli Svizzeri sforzeschi ricevessero il comando di non combattere, ed i Francesi non lo ricevessero. Di ciò venne sollecitamente avvisato il Trivulzio. Qualche notizia ne ebbe anche il Moro, leggendosi nella cronaca del Grumello: «Essendo una sera Ludovico Sforcia in camera sua, in Novara, poco prima di essere preso, giocando a scacho con Fracasso Sanseverino; et essendo in epsa camera Almodoro, suo favorito astrologo, et Jo. Stephano Grimello co' suoi fratelli, giunse una spia a lui, quale li parlò in le orechie uno poco di tempo, che niuno intendere poteva. Giochando epso Ludovico Sforcia alzando gli occhi a lo Almodoro astrologo, disse queste parole: — Almodoro, Johane Jacobo Trivulcio ha dicto che, avanti passino giorni quindici, sero prigione del gallico re; che dicesi da voi? Dette risposta Almodoro che il Trivulcio non diceva vero, perchè non si ritrovava alcuno pianeto per il qual si potesse coniecturar tal cosa che sua Signoria havesse ad esser prigione, anzi victoriosissimo». Giunse agli Svizzeri sforzeschi il divieto sovrano che proibiva loro il battersi. L'armata francese, il giorno 4 di aprile, si pose in marcia e si collocò un miglio distante da Novara, in modo da impedire al duca ogni soccorso di viveri. I francesi gli presentarono la battaglia; e il duca non sapeva comprendere come ciò fosse, poichè, dal decreto recato agli Svizzeri suoi, vedevasi che un consimile ordine contemporaneamente si spediva agli Svizzeri nemici. Tentò varie strade per far notificare agli Svizzeri della Francia l'ordine dei loro sovrani, ma la vigilanza de' Francesi lo impedì. Non aveva provvisione di viveri in Novara; e forza era sloggiare i Francesi, per non perirvi di fame. Invano il duca chiese agli Svizzeri il loro aiuto, che no 'l potevano prestare senza fellonia. Essi soltanto si offersero a schierarsi bensì in ordine di battaglia, acciocchè egli co' Tedeschi e cogli Italiani che aveva staccato, si potesse, volendolo, aprirsi vigorosamente una strada e ricoverarsi in Milano, dove il cardinale Ascanio teneva cinto il castello con dodici mila [287] uomini, ed erano vicini nuovi soccorsi dell'imperatore. I Tedeschi e gl'Italiani, che il Moro seco aveva in Novara, erano ottomila uomini, picciolo corpo bensì a fronte della armata francese, ma bastante per una impetuosa incursione che lo ponesse in salvamento. Così venne stabilito. Ma usciti appena gli Svizzeri da Novara e trovatisi a fronte dei nemici, nemmeno sostennero quell'apparenza; ed improvvisamente piegando le loro bandiere e riponendole nel sacco, abbandonarono il posto; il che pose il tal disordine gli ottomila Tedeschi e Italiani, che, sorpresi, volsero le spalle, e, disordinatamente fuggendo, si ricovrarono di bel nuovo entro le mura di Novara, dove fu costretto di ricoverarsi frettolosamente il duca. Mancavano i viveri pel giorno seguente. La notte si trattò fra il Ligny e il duca, e si concertò una capitolazione. Il giorno vegnente, cioè il memorando giorno 10 aprile 1500, il Trivulzio la disdisse e dichiarò nulla, pretendendo che mancasse nel generale francese la facoltà di concertarla. Un onorato capitano albanese, che trovavasi nell'armata del duca, lo consigliò di montare sul di lui cavallo barbero, di prodigiosa fortezza e velocità, sul quale sicuramente si sarebbe portato a Milano; ma il duca, timido, avvilito, non seppe risolversi. Si rivolse invece a pregar gli Svizzeri che lo vestissero come uno de' loro fantaccini, acciocchè sconosciuto, potesse evitare la prigionia. Capitolarono gli Svizzeri sforzeschi co' nemici, ed ottennero di liberamente tornarsene al loro paese. Mentre uscivano da Novara gli Svizzeri, e con essi il duca travestito, un araldo a nome del duca uscì da Novara, e si portò dal generale Ligny per confermare la capitolazione. Sperava il Moro con tale astuzia di occupare frattanto i generali francesi e distorgli dal sospettare la fuga di lui. Lodovico, attorniato da sedicimila Svizzeri, era già fuori della città, e consolavasi credendosi in salvo, senza avere con veruna capitolazione abdicate le sue ragioni. Il cardinale di Rohan comandò all'armata francese di porsi in ordine di battaglia, acciocchè gli Svizzeri dovessero sfilare due a due attraverso. V'è chi crede che lo stesso comandante svizzero sforzesco avesse tradito il duca, avvisandone [288] il cardinale. La faccia dei sovrani è nota, e corre sulle loro monete. Il Moro venne scoperto, tanto più facilmente, quanto che egli per la statura eccedeva la comune, e pel fosco colore del volto ebbe per sopranome il Moro. Nella lettera il Moroni dice:[322] Infelix Ludovicus, qui non oris, non majestatis quam in vultu semper habuit, non proceritatis habitum mutare potuerat, licet vestes commutasset, agnitus apprehensusque fuit. Quel drappello di cavalleria sforzesca che trovavasi in Novara, còlto il momento in cui i Francesi ebbero preso il duca[323], facta statim eruptione, si salvò attraversando l'armata francese; il che mostra qual fosse il partito che avrebbe dovuto prendere il duca.

Appena fu il duca nelle mani de' Francesi, che, in quel medesimo umiliante arnese da fanticcino svizzero, fu condotto alla presenza del comandante Gian Giacomo Trivulzio. Pareva che la presenza di quel principe, già suo sovrano, ora suo prigioniero, dovesse eccitare nell'animo del Trivulzio, non già la collera, ma la compassione. La perduta sovranità, e l'abbiezione presente, la prigionia dovevano eccitar in un cuor generoso la brama di alleggerire i mali del suo avverso destino, non di aggravarli. Convien dire che non fosse mosso da questi principii l'animo del maresciallo Trivulzio, poichè duramente allora gli rinfacciò il bando che gli aveva dato. Passò il duca in custodia del duca de la Tremouille, il quale, rispettando la sventura di lui, lo provvide di abiti e di quanto conveniva alla di lui condizione[324]. Il giorno 17 aprile, che fu un venerdì [289] Santo, partì da Novara per la Francia, abbandonando per sempre l'Italia. Il duca de la Tremouille con trecento cavalli lo scortava. Passando per Asti, lo sventurato Lodovico dovette ascoltare mille ingiurie dal popolaccio affollato, che gli avrebbe fatto insulti anche maggiori, se la nobile generosità francese non l'avesse impedito. Arrossiva il disgraziato principe, cadevangli amare ed inutili lagrime, scoppiavagli il cuore, onde a Susa cadde in tal languore, che convenne sospendere per qualche giorno il cammino, che poi ripigliossi. Onde, passate le Alpi e condotto in Francia, fu dapprima collocato nella torre dei Gigli di San Giorgio nel Berry. Ivi potè corrompere poi i custodi, e, nascosto sotto il fieno d'un carro, usci dalla ròcca: ma, al suo solito, mancando pure di ardimento in quella occasione, si smarrì ne' boschi vicini, e fu nuovamente raggiunto. Quindi in più stretta custodia collocato nel castello di Loches, finì i suoi giorni nel 1508, ai 27 di maggio, nell'anno cinquantesimosettimo di sua vita. Principe a cui furono rimproverate le morti del duca Giovanni Galeazzo, e dell'onorato e venerato Cicho Simonetta; ma che nel rimanente fu un sovrano sincero, generoso, liberale, amico del merito, conoscitore dei talenti, promotore della coltura in ogni genere, tenero marito, padre affettuoso, principe capace di amicizia e di benevolenza, e tale insomma che probabilmente venne spinto dal predominio altrui a macchiarsi contro sua voglia. Come politico poi, o come militare, convien confessare ch'ei mancava intieramente di talento, e che non mostrò nemmeno di aver condotta alcuna. Fluttuante, incerto, pare che i soli casi momentanei determinassero le sue azioni, senza aver un costante principio; il che rese gli ultimi fatti suoi meschini agli occhi di ognuno. Così terminò lo splendore della casa Sforza, che durò cinquant'anni e non più; giacchè, come vedremo, assai breve e povera comparsa fecero dappoi i due figli di Lodovico, Massimiliano e Francesco, ch'ei lasciò ricoverati nella Germania presso dell'imperatore. Il cardinale Ascanio fu preso e condotto parimenti nella Francia. Gli stipendiati sforzeschi che rimanevano in Milano, si sbandarono. Sulla prigionia [290] del duca Lodovico si coniò la medaglia in cui, al rovescio della testa del maresciallo Trivulzio, leggesi[325]: Expugnata Alexandria, delecto exercitu, Ludovicum Sfortiam ducem expellit, reversam apud Novariam sternit, capit[326]. Il maresciallo Trivulzio aveva, siccome vedemmo, molti nemici. Il tumulto accaduto in Milano sotto il governo di lui doveva condurre il re Lodovico XII a confidare in altra mano la suprema dignità, siccome fece, dichiarando suo luogotenente e governatore il cardinale di Rohan, che si chiamava il cardinale d'Amboise. Nemmeno per tre mesi il Trivulzio durò governatore. Per pochi mesi pure tenne questa carica il cardinale, a cui fu successore, nell'anno medesimo 1500, il signore du Benin. Entrò in Milano il Trivulzio il giorno 15 aprile, e andossene ad alloggiare in sua casa[327], non più in corte. Il cardinale, il giorno 17 di [291] aprile, entrò come governatore. È facile l'immaginarci quale fosse l'inquietudine dei Milanesi in tale rivoluzione, disperando di più rivedere il loro natural principe, e temendo la vendetta de' Francesi, offesi nell'ultima rivoluzione. In fatti, il cardinale pretendeva dalla città ottocentomila scudi, ossia dodici mila marche d'oro, in rifacimento delle spese fattesi per ricuperare lo Stato. La pena fu poi ridotta a soli trecentomila scudi, e nemmeno di quest'ultima somma se ne portò tutto il carico, poichè, trattine centosettantamila scudi effettivamente pagati, mercè di un regalo di gioie del valore di ottomila scudi d'oro fatto alla regina Anna di Bretagna, moglie del re Lodovico XII, ella impetrò dal sovrano suo sposo il dono del rimanente.

Dalla presa del duca Lodovico sino al 1507, poco o nulla accadde nel milanese che meriti luogo nella storia, fuori che gli Svizzeri si resero padroni di Bellinzona, ed il re di Francia accondiscese a lasciarne loro il dominio. Negli anni 1502 e 1503 la pestilenza venne a Milano da Roma e fece strage. Quest'era la undicesima volta, dal nono secolo in poi, in cui Milano fu esposta a tal miseria; avendo io osservate memorie di pestilenza negli anni 883, 964, 1005, 1244, 1259, 1361, 1373, 1400, 1406 e 1485. Nel secolo XVI, del quale ora scrivo, più volte vi penetrò, come vedremo. (1507) L'anno 1507, il giorno 24 di maggio, Lodovico XII, per la seconda volta, venne in Milano. Egli si era impadronito di Genova, e fece il solenne ingresso, andandogli incontro, oltre il clero e i corpi pubblici, ducento giovani vestiti di drappo di seta celeste, ricamato in gigli d'oro. Il re entrò per porta Ticinese sotto diversi archi trionfali, essendo le vie tutte coperte di tela, magnificamente parate. Così erano le vie sino al castello, dove terminò l'entrata. Erano in seguito de' carri dorati, a foggia de' trionfi dei Romani antichi. Il re stava sotto a baldacchino di drappo d'oro, con corteggio immenso di principi, marchesi, conti, sei cardinali, e quattro altri ne vennero il giorno seguente, in tutto dieci cardinali. Il re visse in Milano coll'affabilità istessa dell'altra volta; andava ai pranzi, e fu da Galeazzo Visconti, da messer Antonio Maria Pallavicino; e sopra [292] ogni altro si ricorda il festino veramente magnifico che diede Gian Giacomo Trivulzio al re ed alla corte, in cui sedettero più di ducento gentiluomini, cinque cardinali e centoventi damigelle milanesi. Inoltre vi furono tavole imbandite per quattrocento arcieri reali, ed altrettanti domestici e cortigiani; onde più di mille convitati sedettero alle mense del Trivulzio: e ciò, essendo la stagione favorevole, seguì il 27 di maggio, sotto sale posticcie, piantate lungo il corso di porta Romana. Indi vi si ballò e s'ebbe il divertimento delle maschere. Al re singolarmente piacque una bellissima giovine, Caterina di San Celso, che cantava, suonava e ballava sorprendentemente, ed aveva somma grazia, ingegno e vanità di conquiste.

Fra i varii spettacoli che in quella occasione si videro, uno ve n'ebbe il quale minacciò di cagionare degli inconvenienti. Il giorno 14 giugno 1507 fu destinato ad una rappresentazione militare. Il giorno precedente cadeva la solennità del Corpus Domini, ed il re, con sette cardinali, col duca di Savoia, e i marchesi di Monferrato e Mantova, e una schiera di ministri esteri, aveva decorata la solita processione. La comparsa militare consisteva nel mostrare l'attacco di una fortezza. Erasi accomodato a foggia di una ròcca, a quest'oggetto, il palazzo dove soleva dimorare il governatore, ch'era Carlo, gran maestro d'Amboise, succeduto al cardinale di Rohan[328]. A difendere il forte, stavano esso governatore, il marchese di Mantova e il maresciallo Trivulzio, con cento uomini d'armi. L'attacco si faceva con forti bastoni, e tanto fu l'ardore, che alcuni vi rimasero morti, molti feriti; e la cosa era talmente impegnata, non volendo alcuna delle due parti cedere, che, per evitare una funesta scena, dovette il re in persona porsi di mezzo. Un mese e mezzo dimorò il re Lodovico questa seconda volta in Milano, d'onde partissene il giorno 11 luglio alla volta di Savona, per abboccarsi al re di Spagna, e concertar il matrimonio della sorella del duca di Nemours con quel [293] re. I Veneziani, vedendo che il re Lodovico XII si era con facilità impadronito di Genova, cominciarono a temere questo potentissimo vicino, che aveano incautamente invitato ed assistito. Mossero delle pratiche per animare l'imperator Massimiliano, il quale avea alla sua corte i due esuli principi Massimiliano e Francesco, figli del duca prigioniero. Non poteva il capo dell'Impero considerare mai come legittima invasione fatta dal re di Francia nel milanese. Il feudo non passava nelle femmine, e quindi era viziato il titolo su cui fondavasi il re. Veramente ancora più viziato era quello che poteva mostrare Francesco Sforza; poichè la Bianca Maria, nella sua origine, aveva una macchia, della quale era immune la Valentina. Ma appunto per questo, quell'augusto avea, con nuova investitura, costituito Lodovico secondogenito, acciocchè l'investitura mostrasse l'arbitrio cesareo nella scelta. Oltre poi l'augusta maestà dell'Impero, nel cuore di Massimiliano parlavano i moti del sangue in favore dei due giovani principi oppressi. (1508) Lusingato adunque Massimiliano del favore de' Veneziani, si presentò ai difficili passi dell'Adige per discendere dal Tirolo nella Lombardia; e, col pretesto di passar poi a Roma per farsi incoronare, scacciar prima i Francesi dal ducato di Milano. Ma trovò opposizione tale de' Veneziani, che dovette tornarsene. Egli mosse le armi contro i Veneti, ed essi occuparono le terre imperiali di Gorizia e Trieste. Questi furono gli ultimi motivi che determinarono la famosa lega di Cambrai l'anno 1509; lega in cui il papa, l'imperatore, il re di Francia, il re di Spagna e varii altri minori principi Gonzaghi, Estensi, ec., si unirono a danno della prepotente repubblica veneta lega, per cui Venezia fu nel punto di perire, e per cui ricevette un colpo siffatto, che più non le fu possibile riascendere alla primiera grandezza. Era meglio per Venezia l'avere per confinante un principe di forze moderate, come lo Sforza, ovvero un re di Francia? Sulla casa Sforza essa acquistò Brescia, Bergamo e Cremona. Il tempo cambia i principi, e le repubbliche immortali seguitano sempre la stessa politica. Un successore debole sul trono di Milano accresceva nuove [294] spoglie ai Veneti; Cremona, la Gera d'Adda terminarono in mano de' Veneti.... Quantunque, era forse un bene per Venezia l'accrescere tanto lo Stato suo? E se, invece di farsi delle città suddite, ella ne avesse fatte altrettante alleate e partecipi della veneta libertà, dando la cittadinanza veneta ai vinti, come i Romani.... forse rinasceva Roma nel seno dell'Adriatico. Mi si perdoni questa digressione. Facil cosa è giudicare dagli effetti, siccome fa lo storico; ma gli uomini di Stato, costretti ad antivedere, sono dalle apparenze sedotti facilmente. L'oggetto di questa unione si era che il papa togliesse alla repubblica le città marittime della Romagna; l'imperatore acquistasse Verona, Vicenza e Padova; il re di Francia riunisse al milanese Crema, Bergamo e Brescia. Gli altri principi tutti avevano concertata la porzione che lor dovea appartenere dello spoglio del Veneziani.

I Veneziani radunarono un esercito di sessantamila uomini; e ne confidarono il comando al conte Bartolomeo d'Alviano. Si presentarono i Veneti all'Adda. Di contro comparve il governatore di Milano, gran maestro Carlo d'Amboise, con una men forte armata. I Veneziani posero il fuoco a Treviglio; il loro comandante voleva prendere Lodi e Milano, od almeno tentarlo prima che giugnesse il re di Francia, il quale con nuovi armati passava le Alpi; ma i provveditori veneti no 'l permisero. (1509) Comparve Lodovico XII in Milano il giorno 1.º di maggio del 1509, e fu questa la terza volta. Vi dimorò otto giorni; indi co' suoi s'incamminò alla volta di Cassano. Egli avea al suo seguito da cento de' primi gentiluomini milanesi, che seco conducevano più di mille cavalli corredati con maravigliosa magnificenza; e questi combattevano a proprie spese senza stipendio; su di che il Prato: «al vedere quelle cavalcanti compagnie sì di francesi come di milanesi, con i saioni quasi tutti di broccato d'oro sopra le fulgenti armi, avendo il re, vestito di bianco, nel mezzo, era veramente uno obstupescere l'occhio del risguardante». Giunse il re a Cassano; si pose di fronte ai marcheseschi. I Veneziani erano vantaggiosamente accampati alla sinistra riva dell'Adda, e [295] scorreva avanti al lor campo. Voleva il re arditamente passare il fiume ed attaccarli, ma Giovan Giacomo Trivulzio lo sconsigliò da questo temerario partito a fronte di una numerosa armata, provveduta di molta artiglieria. Il re fece dei ponti, e su di essi passarono i Francesi; ciò accadde il 10 maggio 1509. V'erano il Trivulzio, La Palisse, il duca di Courbon. Il conte Bartolomeo d'Alviano voleva attaccare i Francesi al momento in cui stavano passando il fiume; e si lagnò de' provveditori veneti, che gli strappavano dalle mani la vittoria e lo esponevano poi alla rovina. Non permisero i provveditori che scendesse dal suo campo trincerato. Il re pose il suo accampamento sul fiume alle spalle e fece rompere i ponti, acciocchè i soldati sapessero che non rimaneva scampo alcuno colla fuga. I Veneziani si ritirarono verso Caravaggio. Il 14 maggio 1509 si posero in marcia i Francesi. I Veneziani avevano circa ventimila fanti e mille uomini d'armi. Fra i primi nell'attaccare furono i nostri milanesi. Il fatto seguì fra Agnadello e Mirabello. Rimasero sul campo sedicimila persone. Alcuni dissero persino ventimila. L'Alviano fu ferito. Ventitre pezzi di grossa artiglieria vennero in potere de' Francesi. Molti veneziani rimasero prigionieri. Il poco che rimase dell'armata marchesesca fuggì verso Brescia. Dopo questa insigne sconfitta d'Agnadello, del 14 maggio, i Francesi presero Caravaggio il 16; il giorno 18 maggio Bergamo si sottomise al re; e il giorno 23 maggio Brescia pure conobbe il re di Francia per suo signore. Crema nel mese istesso si sottomise. Tale fu l'impressione che fece la vittoria di Agnadello, che Verona, Vicenza e Padova portarono al re le chiavi, e il re le fece consegnare agli ambasciatori del re de' Romani, come città a lui appartenenti.

Dopo un così rapido corso di vittorie il re Lodovico XII, il giorno 1.º di luglio, entrò in Milano con una sorta di trionfo. Girò da San Dionigi dietro la fossa per entrare solennemente da porta Romana, che allora era al ponte; e da porta Romana al castello erano le case coperte di panni di razza, con li padiglioni sopra; come dice il Prato, che descrive la pompa essere stata tale, che ardiva paragonarla [296] ai trionfi de' Romani antichi. Vi erano quattro archi trionfali, e l'ultimo sulla piazza del castello, «il quale, fra gli altri belli, era bellissimo, d'altezza di più di cinquanta braccia, disopra avendo di rilievo la imagine del re, sopra un cavallo tutto messo a oro, di maravigliosa grandezza, con due giganti a canto, e tutte le commesse battaglie intagliate e dipinte, che era una bellezza a vedere, e più superba cosa saria stato, se la súbita venuta del re non avesse il mezzo dell'opera intercisa»; così il Prato. Il re era preceduto da carri dorati, e rappresentavano le città sottomesse, alla foggia de' trionfi romani. S'era preparato un magnifico carro trionfale, tutto dorato e condotto da quattro cavalli bianchi, coperti superbamente di ricamo, e scortato da ventiquattro pomposi custodi; ma il re non volle ascendervi e rimase a cavallo, corteggiato da gran numero di principi, conti e marchesi, ducento gentiluomini francesi, e molti gentiluomini milanesi sì superbamente vestiti che il domestico abito era semplice broccato; così il Prato. Il re poco dopo tornò in Francia[329].

Mentre i Francesi riunivano al ducato di Milano, Brescia, Bergamo e Como, l'imperatore possedeva Verona, Vicenza e Padova; e il papa s'era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza, Forlì, Rimini e Cesena. Ma, come accadde sempre alle forze collegate, che i separati interessi de' soci le scompongono ben tosto, così riuscì ai Veneziani di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il papa fece la pace co' Veneziani, ed ottenne la signoria delle città che aveva conquistate nella Romagna, con di più il patto che la repubblica non mai occupasse Ferrara. Così mancando il papa di fede alla Lega, questa cessò, e ciascuno si rivolse a provvedere a' casi suoi.

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CAPITOLO XXI. Lodovico XII, re di Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto Massimiliano Sforza, ottavo duca.

Dopo la vittoria di Agnadello, il re di Francia Lodovico XII aveva ottenuta dall'imperatore Massimiliano l'investitura del ducato di Milano collo sborso di centocinquantacinquemila scudi d'oro[330]. Così quell'augusto parve che sagrificasse i due suoi cugini germani, Massimiliano e Francesco Sforza, spogliandoli di quel diritto ch'ei medesimo aveva dato ad essi nell'investitura di Lodovico il Moro, loro padre. Ma se le circostanze momentanee consigliarono un tal partito, in forza della lega di Cambray, considerata per un mostro politico; cambiate queste, ben tosto gl'interessi di ciascun potentato ripigliarono il loro vigore; e nello Sforza preferì cesare un principe stretto parente e protetto da lui, ad un rivale formidabile, quale era il re di Francia. (1510) Il papa Giulio II, staccatosi dalla lega, unitosi co' Veneziani, teneva segrete pratiche cogli Svizzeri, a fine di scacciare dal Milanese i Francesi, o d'inquietarli per lo meno. Quella nazione bellicosa e confinante, cinta da montagne altissime, poteva con improvvise incursioni sorprendere, e, rispinta, ancora ricoverarsi fralle rupi native fuori da ogni pericolo di offesa. Dopo di avere gli Svizzeri occupata Bellinzona nella rivoluzione in cui Lodovico il Moro fu preso, resi padroni di quella rôcca, in addietro posseduta dai duchi di Milano, non solamente si videro arbitri di invadere la sottoposta pianura del Milanese, ma formarono disegno di occuparne una porzione. Il papa, che aveva già l'animo rivolto a Parma e Piacenza, città state sempre unite al ducato di Milano, a fine di staccarle ed appropriarsele come città comprese anticamente nell'esarcato di Ravenna, e nella [298] donazione che la contessa Matilde aveva fatta alla Santa Sede, adescò gli Svizzeri a staccare altresì dal ducato medesimo Lugano, Locarno e Mendrisio, tre distretti i più vicini alle Alpi. Animò i Grigioni ad acquistar Bormio e la Valtellina. Il principal motore presso gli Svizzeri fu Matteo Scheiner, uomo di nascita plebea, dapprincipio maestro di scuola, indi curato, poi canonico di Sion, piccola città del Vallese, uomo di una impetuosa eloquenza e di un carattere violento, ostinato ed appassionatamente nemico dei Francesi, fatto per le armate più che pel sacerdozio, il quale, per testimonianza di Varilas, sforzò col ferro alla mano il suo capitolo a nominarlo coadiutore; e fatto indi vescovo di Sion, rese celebre il suo nome per le imprese militari e per la somma influenza che ebbe presso gli Svizzeri, e conseguentemente negli affari di que' tempi, nei quali gli Svizzeri avevano moltissima parte; uomo perfine, che dal papa, per sempre più rendersi amici gli Svizzeri, fu creato cardinale, e dagli scrittori chiamasi il cardinale di Sion. Nel mese di settembre del 1510 gli Svizzeri fecero una incursione dal ponte della Tresa a Varese. I Francesi erano sparsi nei presidii di Brescia, Peschiera e altre fortezze, che ora sono dello Stato veneto. Cinquecento lance stavano a fronte dell'esercito veneziano. Altre cento lance francesi erano passate ausiliarie del duca di Ferrara, minacciato dal papa, il quale aveva accordato co' Veneziani ch'essi non gl'impedirebbero d'impadronirsi di quella città, togliendola agli Estensi. Il qual progetto non riuscì allora a Giulio II; ma ottantasette anni dopo, cioè nel 1597, Clemente VIII Aldobrandino lo ridusse a compimento. I Francesi non aveano quindi forze bastanti per impedire simili scorrerie degli Svizzeri; i quali, dopo di avere saccheggiate le terre, si ricoverarono prima dell'inverno sulle loro Alpi. (1511) Ma l'anno seguente, cioè 1511, sedicimila, secondo il Guicciardini, o venticinquemila Svizzeri, secondo il Prato, scesero dalle loro montagne, occuparono di bel nuovo Varese, s'innoltrarono a Gallarate, a Rho, e si presentarono fin sotto le mura di Milano il giorno 14 dicembre 1511. Ma non avendo costoro artiglieria, non passarono più oltre; anzi, [299] incamminatisi verso la loro patria, lasciarono devastate od arse le terre di Bresso, Affori, Niguarda, Cinisello, Desio, Barlassina, Meda ed altre. Queste incursioni rendevano sempre più deboli le intraprese de' Francesi contro i Veneziani e contro del papa, che già consideravasi come aperto nemico del re di Francia. Quai fossero i pensieri di papa Giulio II in quest'affare, si vede nel Guicciardini[331]. «Aveva il pontefice, dice egli, propostosi nell'animo, e in questo fermati ostinatamente tutti i pensieri suoi non solo di reintegrare la Chiesa di molti Stati, i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo, di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in Italia, movendolo la occulta ed antica inimicizia che avesse contro lui, o perchè il sospetto avuto tanti anni si fosse convertito in odio potentissimo, o la cupidità della gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore d'Italia dai barbari». I Francesi non aveano nell'Italia se non mille e trecento lance e ducento gentiluomini[332], parte a Brescia, parte a Bologna, parte a Faenza.

Il governatore di Milano e comandante delle armate francesi nell'Italia era il gran maestro Carlo d'Amboise di Chaumont, il quale, nel 1505, era succeduto al signore Du Benin; e questi aveva avuti due altri prima di lui, il maresciallo Trivulzio o il cardinale di Rohan. Questo quarto governatore morì di malattia in Coreggio il 10 marzo 1511, e venne trasportato solennemente in Milano il 31 di esso mese. Il Prato ci descrive quel corredo funebre. Due cavalli coperti di velluto nero, ricamato d'oro, portavano il sarcofago, similmente coperto, con sopra la collana d'oro di San Michele. Precedevano cinque cavalli coperti sino a terra di velluto nero. Sul primo eravi un paggio con in mano la lancia: sul secondo, altro paggio portando un bastone dorato; sul terzo, un simile con mazza dorata; sul quarto il paggio aveva sul capo l'elmo dorato, e nella mano lo stocco; il quinto cavallo era a sella vuota, collo stocco pendente dall'arcione, ed era condotto a mano. Veniva poi la cassa di [300] piombo, portata e coperta come ho scritto; seguitavanla i soldati e cortigiani, tutti in lutto con abiti sino a terra, e con certi cappucci in capo, con cui quasi elefanti mi sembravano, dice il Prato. Indi seguivano quattromila poveri, vestiti di nuovo, con torce nere in mano; poi quanti preti e frati v'erano in Milano, venivangli dietro con torce in mano. Il Duomo, ove la pompa finì, era tutto coperto di panni funebri, ed ornato di torce in sì gran numero, che una non era più di due braccia discosta dalle altre. Stavano alle porte alcuni che gettavano denaro ai poveri. La funzione fu magnifica. Il cadavere poi privatamente fa trasportato in Francia. Tali singolarità meritano luogo nella storia, perchè ci rappresentano i costumi ed il lusso dei tempi. L'onorare le ceneri de' trapassati sembra cosa quasi naturale all'uomo, poichè sino da' più rimoti secoli se ne scorgono lo tracce; e le nazioni selvagge eziandio ne hanno dato esempio; l'estinguere questo pietoso sentimento sarebbe difficilissimo e forse un cattivo progetto. Il limitare la profusione di tai pompe sembra conforme ad una saggia legislazione. Se questo affetto poi di preservare la spoglia e perpetuar la memoria delle persone che ci furono care, si rivolga in favor delle belle arti, animando la scultura, merita incoraggiamento e lode. Nel secolo XVI cominciò tra noi una severa e poca avveduta vigilanza contra siffatti monumenti, e se ciò non fosse stato, avremmo assai più ornati i nostri sacri templi di riconoscenti memorie dei cittadini e del progresso delle belle arti, che non abbiamo.

Poichè Giulio II ebbe mancato di fede al re di Francia, staccandosi dalla lega ed unendosi coi Veneziani, movendo gli Svizzeri, ed accostandosi agli Spagnuoli, alcuni cardinali, o partitanti della Francia, o malcontenti per la vita assai più militare che ecclesiastica del sommo pontefice, si radunarono in Pisa, ove si andava formando un concilio per deporlo, e dichiarar vacante la Santa Sede. In Pisa non si credendo eglino bastevolmente sicuri, passarono alcuni cardinali a Milano colla idea di quivi congregare il concilio. Come fossero accolti, lo scrive il Guicciardini[333]. «Ma a Milano [301] i cardinali, seguitandoli per tutto il dispregio e l'odio dei popoli, avrebbero avute le medesime o maggiori difficoltà; perchè il clero milanese, come se in quella città fossero entrati, non cardinali della chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne subitamente da sè stesso dal celebrare gli uffizi divini, e la moltitudine, quando apparivano in pubblico, gli malediceva, gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce, riputato autore di questa cosa». Il cardinale Santa Croce, spagnuolo, era uno dei primi autori di tale scisma. I nostri ecclesiastici, immediatamente dopo la loro venuta, cessarono di celebrare le sacre funzioni, considerando come soggetta all'interdetto la terra ove abitavano questi prelati. Il governo comandò loro di continuare nel solito ministero, ed il Prato ci avvisa che i monaci Benedettini, Cisterciensi e Lateranesi, per non aver voluto ubbidire, ebbero i militari posti ad alloggiare sulle loro terre. (1512) Il giorno 4 gennaio 1512 si radunò nel Duomo questo concilio. Il cardinale di Santa Croce cantò la messa pontificale: il cardinale Sanseverino ed un altro cardinal francese servivano da diacono e suddiacono; v'erano altri due cardinali assistenti, e ventisette colle mitre bianche in testa, altri vescovi, ed altri abbati. Trattossi di portare giudizio su papa Giulio; ed eravi per notaio, che scriveva gli atti del concilio, un messer Ambrogio Bolfraffo. Tenne varie sessioni questo concilio, ed in una del giorno 21 d'aprile venne dichiarato il sommo pontefice sospeso dalla sua dignità papale. Di tutto ciò fa menzione il Prato.

Nè già i pericoli che stavano d'intorno a Giulio II limitavansi a questa scarsa e dispregiata congregazione, già dal papa scomunicata e resa obbrobriosa o ridicola ai popoli. Il pericolo assai maggiore stava risposto nel valor militare del duca di Nemours Gastone di Foix, nipote per parte di madre del re Luigi XII, fatto governatore e capitano generale dopo la morte del gran maestro di Amboise. Questo giovine eroe, all'età di soli ventidue anni, mostrò i talenti di un gran generale. Dal Milanese vola a soccorrere Bologna, [302] assediata da don Pietro di Navarra e la sorprende prima ch'egli abbia nemmeno notizia ch'ei marciasse a quella vòlta; lo pone in fuga, batte la retroguardia di lui; rende libera Bologna. Coglie il momento di questa impresa il conte Luigi Avogadro, e, profittando della assenza dei Francesi, apre le porte di Brescia a' Veneziani, i quali occupano Bergamo e s'innoltrano sino al Mincio. Al momento parte Gastone dal Bolognese, si affronta al Mincio coi nemici, che gliene disputano il passo, e li disperde; si presenta a Bergamo e la prende; si presenta a Brescia, e se ne rende padrone; e tutta questa maravigliosa serie di fatti si eseguisce in pochi giorni. Il 29 febbraio prese Bergamo, il 1.º di marzo prese Brescia; al qual proposito il Guicciardini scrive[334]. «Fu celebrato per queste cose per tutta la Cristianità con somma gloria il nome di Fois che con la ferocia e celerità sua avesse in tempo di quindici dì costretto l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi dalle mura di Bologna, rotto alla campagna Giampagolo Baglione con parte delle genti dei Veneziani, ricuperata Brescia con tanta strage de' soldati e del popolo, di maniera che, per universale giudizio, si confermava non avere già parecchi secoli veduta Italia nelle opere militari una cosa somigliante».

Questa presa di Brescia servì di argomento al signor di Belloy per la tragedia che intitolò: Gaston et Bayard, nella quale l'Avogadro apparisce come un ribelle del suo legittimo sovrano e traditore della patria, e gl'italiani vi figurano miseramente il personaggio di gente senza virtù alcuna. I Bresciani da ottantatre anni vivevano sudditi della repubblica veneta: quando nel 1509, furono assoggettati alla forza dell'armi francesi. Il conte Avogadro tentò di liberare sè stesso e la patria da un giogo straniero, e riconsegnarsi al nativo suo principe. Il governo poi che i Francesi facevano della di lui patria, suggeriva di liberarla da quella infelicità[335]. Il grado di longitudine sotto cui siamo nati su questa sferoide, non dovrebbe cagionare [303] diversità di partiti: l'uomo virtuoso e dabbene è patriota de' suoi simili sparsi per ogni clima, ed è forestiere al suo vicino malvagio e vizioso. L'infelice conte Avogadro terminò miseramente i suoi giorni sul patibolo, ed i suoi figli, tradotti a Milano, per mano del carnefice finirono pure la vita. V'è chi incolpa Gastone di Foix di avere voluto contemplare la morte di questi infelici che avrebbero un nome glorioso, qualora avessero avuta la fortuna delle armi, e sarebbero stati coronati da quella gloria medesima che ottennero di que' tempi alcuni Francesi scacciando gl'Inglesi che avevano occupate le province della Francia. Il saccheggio di Brescia recò poi a Milano la pestilenza, che per due anni vi restò.

Dopo ch'ebbe di volo sottomesse le città di Bergamo e Brescia, il duca di Nemours Gastone di Foix passò per Milano; indi rapidamente marciò a Ravenna. È celebre la battaglia che vi si diè il 11 d'aprile, che in quell'anno fu il giorno di Pasqua, cioè quaranta giorni dopo la presa di Brescia; ed è notissima non meno la morte che vi trovò Gastone, dopo di avere riportata una compiuta vittoria; nè appartiene alla storia ch'io mi son limitato a scrivere, la precisa narrazione di tai fatti. Marc'Antonio Colonna comandava nella città di Ravenna; il vicerè di Napoli Pietro di Navarra aveva il comando degli Spagnuoli; sotto di lui serviva Fabrizio Colonna. I collegati pontificii erano millesettecento uomini di armi e quattordicimila fanti. Usarono allora i pontificii de' carri falcati[336]. I Francesi avevano, sotto il comando del duca di Nemours, il marchese di Ferrara e il cardinale Sanseverino. Oltre il duca di Foix, che vi fu ucciso, rimasero sul campo il signor d'Allegre con suo figlio, il signor Molard, sei capitani tedeschi, il capitano Maugiron, il barone di Grammont, e più di duecento gentiluomini di nascita distinta. Se tale sciagura non veniva a rovesciare tutt'i disegni de' Francesi, il papa Giulio II correva rischio grande di perdere lo Stato, e di ubbidire al sinodo tenutosi in Milano. Ma una giornata cambiò [304] totalmente l'aspetto degli affari, e il languente comando de' Francesi passò nelle mani del signor De la Palisse, che può essere collocato nella serie de' governatori di Milano, ed è il sesto. La spoglia del duca di Nemours venne trasportata a Milano e sospesa entro di un sarcofago di piombo fra una colonna e l'altra nel Duomo, siccome eranlo i duchi di Milano. La cassa venne coperta come lo erano le altre pure, con uno strato magnifico di broccato soprarizzo, dice il Prato: eranvi ricamati i gigli d'oro; pendeva la spada pontificia col fodero d'oro acquistata a Ravenna; v'erano collocati all'intorno il vessillo del papa e quindici altre bandiere prese in quella battaglia. Ma lo spirito feroce di partito e la superstizione non lasciarono tranquille le ceneri di questo giovine eroe; gli Svizzeri, i quali, come or ora vedremo, s'impadronirono in breve di Milano, entrati nel Duomo, sormontandosi l'un l'altro, scomposero, rovesciarono quel monumento, e le spoglie vennero disperse. Cambiatasi poi nuovamente la fortuna, e ritornati i Francesi, fu innalzato un mausoleo magnifico di marmo alla memoria di questo principe, e collocato nella chiesa delle monache di Santa Marta. Di questo mausoleo ora non ne rimane che la statua, sotto della quale si legge l'iscrizione seguente:

[305]

SIMVLACRVM GASTONIS FOXII
GALLICARVM COPIARVM DVCTORI
QVI IN RAVENNATE PRAELIO CECIDIT ANNO
MDXII
CVM IN AEDE MARTAE RESTITVENDA
EIVS TVMVLVS DIRVTVS SIT
HVIVSCE COENOBII VIRGINES
AD TANTI DVCIS IMMORTALITATEM
HOC IN LOCO COLLOCANDVM CVRAVERE
ANNO MDLXXIV[337]

I bassirilievi che adornavano la tomba, vennero, non saprei per qual destino, rotti e divisi; alcuni se ne veggono nella deliziosa villa di Castellazzo, altri sono presso alcuni privati. Sempre più si conosce che un buon libro è il solo monumento durevole, col quale un uomo sia sicuro di tramandare ai secoli venturi la memoria di sè medesimo: i marmi, gli edifizi, le pubbliche fondazioni, tutto si scompone e disperde; ma Orazio aveva ragione di scrivere, ch'egli s'innalzava un monumento co' versi suoi più durevole de' bronzi[338].

[306]

Dopo la battaglia di Ravenna, in cui si disse che rimanessero morti sul campo ottomila fanti e mille cavalieri pontificii, e prigionieri il vicerè di Napoli don Pietro di Navarra, il cardinale dei Medici, il marchese di Pescara, Fabrizio Colonna, il marchese di Padule, il figlio del principe di Melfi, don Giovanni Cardona ed altri; l'armata francese, sebbene vincitrice, si trovò totalmente rovinata, che il cavaliere Bayard, nella lettera citata, assicura[339] che in cento anni di tempo la Francia non poteva risarcire la perdita che aveva fatta. Dopo questa tal battaglia, il papa Giulio II sempre più si strinse co' Veneziani per discacciare i Francesi, i quali a nome del concilio avevano cercato di occupar la Romagna. L'interesse dei Veneziani consigliavali a dar mano alla rovina dei Francesi per ricuperare Brescia e il restante della terra-ferma, e collocar sul trono di Milano un principe da cui non dovessero temere invasione. Innoltrò il papa i suoi maneggi coll'imperatore Massimiliano per restituire il ducato di Milano a Massimiliano Sforza, cugino dell'imperatore medesimo. L'imperatore, con un proclama, richiamò alla patria tutti i Tedeschi che militavano nell'armata francese; e questi abbandonando i loro stipendi, resi poco sicuri, e sempre più s'indebolirono le forze comandate dal signor De la Palisse. Dall'attività di papa Giulio II gli Svizzeri, incessantemente animati, scesero questi nuovamente in Italia; e profittando della confusione e debolezza de' Francesi, occuparono i tre baliaggi di Lugano, Locarno e Mendrisio, i quali continuarono a possedere gli Svizzeri dappoi, come al presente. I Grigioni s'impadronirono di Chiavenna, Bormio e della Valtellina, attualmente possedute da essi. Il papa occupò Parma e Piacenza[340]. In questo stato di cose [307] il signor De la Palisse si ricoverò a Pavia, città forte, e abbandonò Milano. Il consiglio generale de' novecento si radunò per dare le ordinarie provvidenze alla città, e porre qualche riparo alla pestilenza che l'affliggeva. Gli Svizzeri, sotto il comando del cardinale di Sion, invadono lo Stato in nome della Santa Lega: occupano Cremona, indi Lodi: si unisce al cardinale svizzero il vescovo di Lodi Ottaviano Sforza, cugino di Massimiliano. Milano riconosce la Santa Lega il giorno 16 giugno: il giorno 20 giugno entra il vescovo di Lodi in Milano come luogotenente del duca Massimiliano. Il papa libera la città di Milano dall'interdetto, in cui la considerava incorsa per esservisi ricoverati i cardinali suoi nemici. L'assoluzione venne il giorno 6 di luglio, e quella fu l'ottava volta in cui Milano si trovò in siffatta circostanza[341]. I Francesi, non essendo numerosi a segno di custodire Pavia, l'abbandonarono, e per la fine del 1512 non ve ne rimasero se non ne' castelli di Milano e di Cremona.

Massimiliano Sforza dall'età di nove anni sino al vigesimoprimo era stato esule dalla patria e ricoverato sotto la protezione dell'imperator Massimiliano, suo cugino. Egli, scortato dal cardinale di Sion e dagli Svizzeri, entrò solennemente in Milano il giorno 29 dicembre 1512. L'ingresso si fece al solito da porta Ticinese con più di cento gentiluomini che lo precedevano, usciti ad incontrarlo con un abito uniforme, composto dei colori medesimi che il duca aveva scelti per sue livree, cioè pavonazzo, giallo e bianco. I gentiluomini però, oltre l'essere vestiti di seta, erano altresì ricamati d'oro; per lo che non si potevano confondere coi domestici del duca. Il duca cavalcava vestito di raso bianco trinato d'oro; portavangli il baldacchino i dottori di collegio. Cesare Sforza, fratello naturale del duca, portava immediatamente avanti di esso la spada ducale sguainata. Lo seguitavano il vescovo Valese cardinale di Sion, e i legati del re de' Romani, del re di Spagna e di altri sovrani. Non mancarono a tal funzione i soliti archi trionfali. Egli finalmente [308] andò a risedere nella corte ducale; giacchè il castello, nel quale solevano alloggiare i duchi, era in potere de' Francesi. Il potere ducale Massimiliano lo ricevette dagli Svizzeri; e, come dice Guicciardini[342]. «Il cardinale (Sedunense lo chiama il Guicciardini, ed è il vescovo di Sion), in nome pubblico degli Svizzeri gli pose in mano le chiavi ed esercitò quel dì, che fu degli ultimi di dicembre, tutti gli atti che dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro; il quale fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli per il desiderio ardentissimo di avere un principe proprio, e perchè speravano avesse a essere simile all'avolo o al padre, la memoria dell'uno dei quali per sue eccellentissime virtù era chiarissima in quello Stato, nell'altro il tedio degli imperi forestieri aveva convertito l'odio in benevolenza».

(1513) Giulio II, il primo motore degli avvenimenti dei tempi suoi, quel papa che, coll'usbergo sul petto e l'elmo in capo, diresse l'assedio della Mirandola, e vi entrò per la breccia, terminò la sua vita la notte dal 20 al 21 di febbraio del 1513. Questo colpo cambiò nuovamente le combinazioni politiche di Europa. I Veneziani, che tre anni prima, per ricuperare la terra ferma occupata da' Francesi, uniti coll'imperatore, avevano cedute al papa le città marittime della Romagna, ascoltarono le proposizioni che fece loro la Francia, la quale prometteva ad essi la terraferma, Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo e Crema, e con tali condizioni si collegarono con Lodovico XII nel trattato di Blois 13 marzo[343]. Con tale nuova confederazione si obbligavano i Veneziani ad assistere il re per ricuperare il Milanese; ed il re obbligavasi ad aiutare la repubblica per riacquistare le terre della Romagna perdute colla lega di Cambray[344]. Contro del papa si mossero parimenti gli Spagnuoli; ed il vicerè di Napoli s'impadronì di Parma e di Piacenza, sebbene per poco, costretto a restituirle al [309] papa[345]. Mentre si andava disponendo nella Francia una nuova invasione nel Milanese, a respingere la quale forza era rivolgere le spalle a' Veneziani collegati colla Francia, il duca Massimiliano Sforza si abbandonava alla molle lascivia, che appena si perdona ai principi sicuri nel loro Stato. Per festeggiare il soggiorno che la marchesa di Mantova faceva in corte col nostro duca, ad altro non pensava egli che a giuochi ed a pompe, quasi ch'ei fosse nel seno della pace. Fece fare, fra le altre cose, un torneamento; il che accadde il giorno 13 febbraio 1513, dimenticandosi che nel castello stavano i Francesi. Il duca vide, per le palle di cannone ch'essi gli fecero piovere sulla corte, che aveva inopportunamente scelto il tempo ed il luogo[346]. Questo principe non sembra che avesse alcuna energia nè elevazione d'animo; egli spensieratamente portava il titolo di duca, e in mezzo all'umiliazione propria ed alla miseria de' sudditi pensava a passar giocondamente il suo tempo. Donava feudi, donava regalie, regalava denaro, roba a tutti i suoi favoriti con profusione, in guisa che aveva sempre l'erario esausto. Donò a Girolamo Morone la contea di Lecco: la città di Vigevano al cardinale di Sion; Rivolta e la Ghiara d'Adda ad Oldrado Lampugnano. Coteste sue profusioni facevansi da esso lui, «come se nulla fossero» dice il Prato, il quale si esprime a tal proposito così: «ma poco delle dicte cose curandosi il duca nostro, facea, como dice il proverbio, manco roba, manco affanni; et solo attendeva a piaceri; unde essendo venuto a Milano la moglie del marchese di Mantova con alquante sue zitelle, o per meglio dire ministre di Venere, tanto piacere de conviti e de balli e de altri che io non scrivo, se prendeva assieme con lo effeminato vicerè di Spagna, che era una cosa a ogni sano judicio biasimevole, et non so se me dica una parola, tuttavia, essendo dicta da Salomone, nella Cantica, la posso dire anch'io».[347] Veh tibi terra cuius rex est puer; così [310] il Prato. Ma chi è fanciullo a ventun'anni, non è giunto mai a diventar uomo. Questa scioperatezza dovea ricadere a danno dei sudditi, ai quali forza era d'imporre maggiori aggravii; e non osandolo fare da sè, il duca Massimiliano, prima di accrescere la gabella del sale di trenta soldi ogni staio, ne impetrò dal papa il permesso; della qual supplica ho letta io stesso una copia scritta di quei tempi e conservata nella signorile raccolta dei manoscritti nell'insigne archivio Belgioioso d'Este, e dice così:[348] Beatissime Pater: — Manifesta est et satis nota apud S. V. immoderata nimium longe lateque dominandi ambitio, et aliena indebite usurpandi cupiditas Gallorum regis, adeo ut non modo principatum Mediolanensem, verum et universae Italiae subjugandae omnibus votis aspirare videatur; e conclude alla fine: quare ad B. V. confugere cogor pro re quae (sic) in evidentem totius Italiae commodum cedet et mihi et tam immensae pubblicae necessitati consulet; etiam supplicando quatenus, in praemissis opportune providendo, B. V. auctoritate Apostolica qua fungitur, motu proprio, ex certa scientia et de plenitudine potestatis etiam absolutae, licentiam potestatem et auctoritatem indulgere dignetur in universa ditione ducatus Mediolani imponendi praedictas additiones solidorum triginta pro stario salis etc.[349]. Nè ciò [311] bastando, delegò il duca Bernardino ed Enea Crivelli per esigere dai feudatarii uno straordinario tributo[350]. Vendè persino i due canali navigabili, il Naviglio grande e quello della Martesana alla città di Milano[351]. In un sol mese vendette tante regalie, che ne incassò dugentomila ducati; alienazioni tutte fatte in ragione del sette per cento[352]. Impose nuovi aggravi sopra le terre irrigate[353]. I sudditi, al paragone del governo francese, conobbero quanto avessero peggiorato sotto di questo sventato principe naturale. Lodovico XII, re di Francia, ne' tredici anni che signoreggiò nel Milanese non impose alcuna taglia nè tributo straordinario. Fu un buon principe, moderato nelle spese, popolare, amante dell'ordine e della giustizia. Egli piantò nel Milanese quel sistema di governo che durò sino a' tempi nostri. Questo monarca, prima di regnare, era dominato dall'amore; la gioventù, la grazia, la bellezza lo seducevano: poichè salì sul trono, seppe frenarsi, e nobilmente signoreggiare sopra di sè medesimo. Ei meritò dai posteri il glorioso nome di Padre del popolo. Il paragone colla spensierata condotta del duca Massimiliano era svantaggioso pel successore.

Non sarà discaro a' miei lettori, s'io sottopongo al loro sguardo lo specchio delle spese fisse che si facevano sotto il duca Massimiliano dall'erario ducale. Questo prezioso aneddoto, siccome molt'altri, fu da me tratto dall'insigne collezione poc'anzi ricordata[354].

[312]

Spese dello stato di Milano sotto il duca Massimiliano Sforza.
 
Pensioni agli Svizzeri ducati 100,000
Alle guardie de' castelli di Milano, Cremona, Novara, guardia della corte, e capitano di giustizia 72,000
Alla gente d'armi 74,600
Alla compagnia del Bregheto, computata la provvisione sua 3,000
Al signor Manfredo da Coreggio, per esso e cavalli cento 6,800
Alla casa ducale, computata la stalla 26,000
Spese delli cavallari 8,000
Agli oratori e famigli cavallanti 12,000
Alla munizione e lavoreri ducali 12,000
Alle guardie delle fortezze, oltre le dette disopra 6,000
Spese straordinarie 25,000
Officiali salariati 25,000
Vestiario del duca 30,000
Spese di sanità 4,000
Elemosine ducali 2,000
Staffieri del duca 660
Trombetti 540
Interessi passivi di debiti 10,000
Ristauri per guerra e peste 6,000
Lettere e bollettini di esenzione 2,000
Beneplacito del duca 5,000
A conto del signor duca di Bari 3,350
Legna e altro per la cancelleria ducale e camera 2,000
Al signor Giovanni e a Maddalena Lucrezia per suo vivere 1,700
Annuali ed obblazioni 500
  Ducati 438,150

Le rendite poi del duca a quel tempo veggonsi nel codice medesimo[355] ascendenti a scudi d'oro del sole 499,660, soldi 64, denari 8. Ora computati gli scudi del sole come erano, una mezza doppia, e i ducati in valore di un gigliato, apparisce che il duca aveva ogni anno una spesa eccedente di più di ventiquattromila ducati, quand'anche nelle spese di capriccio ei non avesse ecceduto.

[313]

I Francesi adunque, nel numero di dugento uomini d'armi e ventimila fanti, sotto il comando di Luigi De la Trémouille e del maresciallo Trivulzio, superate le Alpi, scesero verso lo stato di Milano. A tal nuova i Veneziani si accostarono e si resero padroni di Pizzighettone, di Martinengo e di Cremona. Molti fra i sudditi del duca, malcontenti del governo di un tal principe, bramavano di ritornare sotto il dominio del re Lodovico XII. Un tumulto popolare si eccitò in Pavia, un simile contemporaneamente comparve in Alessandria. Già queste due città non avevano aspettato l'arrivo dei Francesi per considerarsi suddite della Francia. Messer Sacramoro Visconti, che aveva il comando degli sforzeschi posti a bloccare il castello di Milano, lasciava segretamente che entrassero di notte le vettovaglie ai Francesi del presidio; il che scoperto, egli si ricoverò nella Francia, ed ebbe dal re la collana, pregevolissima allora, dell'ordine di San Michele. Insomma le cose andavano come forz'era pure che andassero sotto di un principe sfornito di mente e di cuore che lo innalzassero sugli uomini volgari, e lo mostrassero degno di comandare agli altri uomini. Gli Svizzeri però vollero sostenere questo duca, e con ciò conservarsi non solamente i baliaggi che avevano occupati, ma il dominio del Milanese, che realmente esercitavano già sotto il nome del duca Massimiliano. Si radunarono ne' contorni di Novara nel numero di diecimila, a quanto scrive il Guicciardini[356], o settemila, come scrive il Prato; e il giorno 6 di giugno del 1513 assalirono l'armata francese con tanto impeto e sì impensatamente, che, quasi per sorpresa, impadronitisi dell'artiglieria de' nemici, la rivoltarono contro dei Francesi medesimi; e questo arditissimo impeto sgomentò talmente i Francesi (i quali s'immaginarono essere sopraggiunta una nuova armata di patriotti svizzeri), che senza consiglio si abbandonarono alla fuga; e da un drappello di fantaccini, senza cavalleria, senza artiglieria, venne siffattamenie distrutto un corpo di armata, che si contarono rimasti sul campo ben diecimila de' Francesi, ed il rimanente con somma sollecitudine ripassò le Alpi. Così gli svizzeri [314] in quel luogo medesimo ove tredici anni prima erano stati accusati di aver tradito il padre, avendo a fronte lo stesso Trivulzio, in quello stesso luogo, e contro del generale medesimo, col loro valore mantennero lo Stato al figlio Massimiliano Sforza, ripararono l'onore delle loro armi e della fedeltà loro. Il Prato attribuisce quella sciagura de' Francesi al disprezzo che imprudentemente essi fecero de' loro nemici; non supponendo possibile ch'essi ardissero di provocar l'armata francese. Attribuisce però singolarmente allo sbigottimento che ebbe colla sorpresa il comandante supremo La Trémouille, il poco onore che in quella giornata si fecero le armi francesi; e il Trivulzio, costretto a fuggire cogli altri, andava ripetendo, a quanto il Prato scrive: «Noi fuggiamo et la victoria è nostra». Nella Francia La Trémouille vide, «non senza carico di vituperio», cassato il suo nome dalla lista dei stipendiati, «la qual cosa non avvenne al Trivulzio; ma sia come si voglia, la fuga fu vituperosa»[357]. Gli svizzeri raccolsero in quella giornata un prezioso bottino, avendo perduti i Francesi tutti i loro attrezzi. Dopo un tal fatto i Veneziani sgombrarono il paese; ritornarono le cose come se nulla fosse accaduto; e il duca, acceso d'una passione degna del suo animo, si recò a stanziare nei contorni di Pavia per vagheggiare una mugnaia che vi stava domiciliata[358].

La gloria delle armi francesi non poteva essere riparata nell'Italia con nuovo esercito, poichè gl'Inglesi, avendo allora appunto mossa la guerra a Lodovico XII, ei doveva adoperare le sue forze per impedire i progressi di trentamila Inglesi e ventitremila Tedeschi, i quali erano spediti nella Francia da Enrico VIII e Massimiliano Cesare collegati. Quindi i pochi Francesi che stavano al presidio dei castelli di Milano e di Cremona, esausti di munizioni e di viveri, oppressi da miserie, disperando soccorso, cedettero le fortezze ed uscirono, salve le persone e robe loro. Il castello di Milano per tal modo venne in potere dello Sforza il giorno 19 novembre 1513, e da quel giorno non rimase più dominazione alcuna nell'Italia al re Lodovico XII. [315] (1514) Ma lo Sforza altro di duca non conservò che il titolo; vivendo egli meschinamente come un ostaggio sotto la tutela degli Svizzeri, e sopra tutto del terribile Cardinale di Sion, il quale col nome del duca adoperava ogni mezzo per cavar danaro dai popoli, abbandonati ad un'anarchia militare; e così senza alcun memorabile avvenimento passò l'anno 1514. (1515) L'anno seguente 1515 incominciò colla morte del re Lodovico XII senza figli, e colla incoronazione di Francesco I, l'avo paterno del quale era zio paterno del defunto, anche egli discendente dalla principessa Valentina Visconti. Il nuovo re era nel ventesimo primo anno dell'età sua. Trovò la Francia in pace pel trattato seguito poco prima della morte di Lodovico XII. Il suo primo pensiero fu di ricuperare il milanese; ed a fine di radunare nell'erario quanto bastasse alla spedizione, pose, con esempio infausto, in vendita le cariche della giudicatura della Francia. Si collegò nuovamente co' Veneziani. Dichiarò reggente del governo la duchessa d'Angouleme sua madre; e si dispose a venire egli stesso alla testa della sua armata nel Milanese. Il duca prese al suo stipendio, in qualità di capitano delle genti d'armi, Prospero Colonna. E come tutto ciò che dà idea de' costumi di quei tempi deve aver luogo nella mia storia, così io non ometterò un magnifico convito che il Colonnese imbandì in quella occasione, e di cui ci lasciò memoria il Prato. Ciò seguì il giorno 20 di febbraio 1515. Il duca e i cortigiani furono invitati, ed inoltre trentasei damiselle milanesi, dice il Prato. Fabbricò apposta un superbo salone di legno, riccamente dorato e dipinto, e dagli architetti fu stimato cosa notandissima, come dice il nostro scrittore. Quattro ore durò la mensa. Si continuava il costume di servire in piatti separati ciascuno degli invitati. Ognuno avea una pernice, un fagiano, un pavone, un pesce, ec.; contemporaneamente dinanzi a ciascuno si riponeva una finta pernice, un fagiano, un pavone, un pesce finti, o di marzapane, o d'altra materia, dorati, inargentati, ec., e vi furono abbondanti e deliziose pastiglie ed acque odorose. In fine della cena comparve un finto gioielliere che recava collane, braccialetti [316] ed altri vezzi di gemme e d'oro; presentò le sue preziose merci alle damigelle, come se cercasse venderle; ed allora il Colonnese s'intromise quasi volesse rendersi mediatore dei contratti, e con generosa urbanità regalò ciascuno delle convitate senza far mostra di regalarle. Ciò veramente fu materia di non picciolo valore, e dice il Prato che venisse fatto al solo fine «per potere la sua amata senza biasimo d'infamia con le proprie mani presentare». Il che dimostra quanto venissero rispettate le damigelle e il costume. Cose siffatte sembrano romanzesche; ma contemplate saggiamente dimostrano una nazione ingentilita e generosa. La mattina vegnente ciascuna delle invitate ricevette un canestro inargentato con entro la colazione. Al duca fece egli recare venticinque carichi di selvaggiume.

Poco giovava alla difesa dello Stato la scelta di un magnifico e galante generale; conveniva avere un'armata; e gli Svizzeri s'impegnarono a difenderlo colla paga di trecentomila ducati. Comparvero in Milano dodici commissari per ricevere anticipatamente la promessa paga. Il duca pubblicò una imposizione per riscuotere dai sudditi questa eccessiva tassa. Sotto il regno di Lodovico XII non s'era mai pagato, se non i tributi costituzionali. Un'arbitraria tassazione, per tal modo dispoticamente comandata, commosse gli animi de' cittadini. L'editto si pubblicò il giorno 8 di giugno del 1515. Sembrò questa una vera oppressione. La città fece presentare le sue preghiere al cardinal di Sion, precipuo motore di simili risoluzioni; ma l'inflessibile prelato non diè orecchio a verun moderato partito. La città si pose in tumulto; alcuni Svizzeri furono uccisi; alcuni milanesi pure rimasero morti in una zuffa alla sala della piazza de' Mercanti. E come si avvicinavano i Francesi, ed il partito de' malcontenti con tale notizia si rianimava, così il duca fu costretto con nuovo proclama a disdire l'imposta taglia. Si entrò a trattare. La città di Milano comprò dal duca il Vicariato di provvisione, la giudicatura delle strade e quella delle vettovaglie collo sborso di cinquantamila ducati, di che stesero pubblico documento il giorno 11 di luglio 1515 i notai Stefano da Cremona e Paolo da Balsamo. [317] Da quel contratto ebbe origine poi la nomina che la città di Milano presentava al principe od al suo luogotenente, di alcuni cittadini, dai quali esso trasceglieva che gli era in grado alle accennate cariche, che cominciarono allora ad essere privativamente appoggiate ai così detti patrizi milanesi. Con questi cinquantamila ducati, cioè colla sesta parte soltanto della somma loro promessa, ritornarono i commissari svizzeri al loro paese. Nella dieta nazionale si pose in deliberazione, se meglio convenisse l'accettare le pensioni che offeriva con molta istanza il re Francesco, ovvero proseguire all'impegno di mantenere Massimiliano Sforza duca di Milano; ed il secondo prevalse, avendo gli Svizzeri profittato più de' Francesi nemici colla recente sconfitta data loro presso Novara, di quanto ne avrebbero ottenuto se fossero stati loro alleati. A ciò s'aggiunse poi la considerazione, che, fin tanto che Massimiliano Sforza rappresentava il personaggio di duca di Milano, non sarebbe mancata occasione e mezzo di costringere la città allo sborso della promessa paga, e di maggiori ancora. In pochi giorni quarantamila Svizzeri scesero dai loro monti, e si radunarono verso Novara. Il cardinale di Sion tanto dispoticamente e con tanta atrocità comandava in Milano, che, sospettando egli di Ottaviano Sforza, cugino del duca e vescovo di Lodi, che avesse delle pratiche co' nemici, nulla rispettando il carattere di consanguinità col sovrano, nè la persona del vescovo, crudelmente per mero sospetto lo fece torturare con quattordici tratti di corda; il che narrato viene dal Prato, e dalla cronaca manoscritta di Antonio Grumello, pavese[359]. Il Prato nota persino il giorno [318] in cui ciò avvenne, che fu il 21 di maggio 1515, e racconta che il vescovo spontaneamente veniva al castello per corteggiare il duca, quando quivi fu arrestato, rinchiuso nella ròcca, ed aspramente torturato a fine di chiarirsi se egli mai avesse tramato contro lo Stato. Dopo due settimane, non risultando dai processi altro che la innocenza del vescovo cugino del duca, fu il vescovo tradotto nella Germania, d'onde l'infelice prelato passò a Roma. Tali erano i costumi e le opinioni d'allora; tali i pensieri di un cardinale, di un vescovo di Sion, verso d'un figlio d'un sovrano, di un vescovo, di un innocente. Gli uomini presso a poco son sempre stati gli stessi; ma questo presso a poco è il vantaggio della generazione vivente. Invidii chi non sa la storia i tempi antichi. Benediciamo Dio, noi, di vivere in un secolo in cui le passioni e i vizi degli uomini sono (almeno in apparenta) meno atroci, e meno sfacciatamente insultano la virtù. Racconta il Prato che il duca Massimiliano, vedendo il duca di Bari Francesco (questi era fratello minore del duca, che regnò dopo lui; ed il titolo di duca di Bari alla casa Sforza era proprio del secondogenito) starsene pensieroso, appoggiato ad una finestra, improvvisamente se gli avventò dicendogli: «Monsignore, io so che voi mirate a farvi duca di Milano; ma cavatevelo dalla fantasia, che io vi prometto da leale signore che io vi farò morire». A tale minaccia, senza dubbio non meritata, rispose il fratello colla riverenza ch'ei doveva al suo signore; ma il duca, sospettoso, ingiusto, depresso, timido, violento, non meritava certo di essere sovrano.

[319]

CAPITOLO XXII. Di Francesco I, re di Francia, e suo governo nel ducato di Milano.

Il buon re di Francia Francesco I radunò un'armata formidabile, e si preparò a discendere egli stesso nell'Italia. Accrebbe sino a millecinquecento il corpo delle sue lance, numero per que' tempi esorbitante; allestì un imponente corredo d'artiglieria; prese al suo stipendio diecimila lanschinetti, seimila fanti della Gheldria; radunò diecimila Guasconi[360]: insomma, formò una terribile armata con quindicimila uomini d'armi, quarantamila fantaccini, tremila pioneri, ossia guastatori[361], e nell'esercito si contarono più di ottomila persone[362]. Il contestabile di Bourbon aveva il comando della vanguardia. Il re s'era riserbato il comando del corpo di battaglia; al duca d'Alençon aveva affidata la retroguardia; Lautrech, Navarra, Gian Giacomo Trivulzio, la Palisse, Chabanne, d'Aubignì, Bayard, d'Imbercourt, Montmorenci, i più illustri che militavano sotto le insegne di Francia, tutti gareggiavano per combattere sotto del giovine e coraggioso loro re. Reso istrutto il duca di tai preparativi, e di forze di gran lunga superiori alle sue, le quali senza dimora s'andavano innoltrando, mentre egli aveva alle spalle i Veneziani, combinati a di lui danno, affidò a Prospero Colonna dugento uomini d'armi e quarantamila Svizzeri. Non conveniva aspettare nella pianura della Lombardia un esercito fortissimo, animato dalla presenza del re; ed era sperabile l'arrestarlo colle forze affidate al Colonna. Quindi, da saggio comandante, ei s'innoltrò nelle difficili strette delle Alpi, nei contorni di Susa; ed ivi, impadronitosi de' luoghi eminenti, [320] si dispose a disputare con molto vantaggio il passo all'armata nemica. Egli era acquartierato a Villafranca, vivendo sicuro che i Francesi dovessero presentarsi a Susa. In fatti, due strade sole erano conosciute allora onde passare dal Delfinato nell'Italia; una pel monte di Ginevra, l'altra pel monte Cenis; e tutte due si univano a Susa. L'esercito francese, avvisato come in quelle angustie de' monti l'aspettassero i nemici, disperando di superarli, era in procinto di abbandonare l'impresa: ma il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, che già una volta aveva conquistato alla Francia il Milanese, ebbe il merito di farglielo acquistare anco in quella seconda occasione. Egli divisò una nuova strada affatto impensata; e, coll'aiuto di alcuni cacciatori nazionali, trovò il modo d'evitare il passo di Susa, e di guidare l'armata per Saluzzo. Così entrò in Italia l'armata francese: e Prospero Colonna, mal servito dagli esploratori, venne sorpreso e fatto prigioniero da que' Francesi ch'egli supponeva di là dai monti. Così, scesa nella pianura senza contrasto, si avvicinò l'armata francese quasi alla vista di Milano. Il duca si ricoverò nel castello. La città spedì i suoi deputati al re Francesco I, che gli accolse umanamente. La città di Milano non era disposta a ricevere presidio; ed il maresciallo Trivulzio, avendo procurato impensatamente d'introdurvene di porta Ticinese, la plebe si pose in armi. Il duca, consigliato da Girolamo Morone a giovarsi di quel movimento popolare, uscì con parte del presidio per sostenere il popolo; per lo che, conoscendo il Trivulzio che l'impresa non era tanto facile quanto l'aveva sperata, con qualche uccisione de' suoi, si ritirò all'armata ch'era accampata a Boffalora. Il duca, per sempre più animar la plebe, fece proclamare ch'egli voleva affidar le chiavi della città al suo popolo; che in avvenire voleva rendere immuni i cittadini da ogni aggravio, e che i pesi dello Stato dovevano portarli i ricchi e i nobili. Contemporaneamente vennero cacciati i nobili dalle magistrature municipali, e collocate persone le più accette alla plebe. L'odio ereditario contro de' nobili si manifestò con eccessi d'ogni sorte. La plebe, sensibile alle [321] prepotenze ed al fasto orgoglioso de' magnati, non ebbe limite, dappoi che venne sciolta ad agire, anzi animata. La roba, la vita de' nobili non rimase più sicura; e il duca, arbitrariamente, esigeva esorbitanti sussidii dai facoltosi, usando ridire spesse fiate: Essere meglio rovinare ch'essere rovinato. Così procurò egli d'impegnare in sua difesa il numero maggiore e i più determinati sudditi, come quelli che poco hanno da perdere.

Se dall'una parte questa imponente e vigorosa comparsa del re in Italia cagionava molta inquietudine al partito dello Sforza, non lasciava dall'altra di valutarsi il numero e la risolutezza degli Svizzeri, pronti a discendere, e l'animo de' popolani del paese che già s'era manifestato. Quindi in Gallarate s'erano introdotti da ambe le parti discorsi d'accomodamento[363]; anzi erasi al punto di stabilire la pace, collo sborso di grosse pensioni del re di Francia agli Svizzeri; e gli articoli principali che già sembravano accordati, erano: Che il Milanese fosse del re di Francia; che gli Svizzeri e i Grigioni restituissero al ducato le valli che avevano occupate, cioè Lugano, Mendrisio, Locarno, Valtellina, ec.; che il re assegnasse a Massimiliano Sforza il ducato di Nemours, ed un'annua pensione di dodicimila franchi; che gli concedesse una principessa del sangue reale in moglie, e gli desse la condotta di cinquanta lance al servigio della Francia[364]. Ma il cardinale di Sion troncò i discorsi di accomodamento. Egli condusse in Milano, il giorno 10 di settembre del 1515, un corpo di Svizzeri numeroso. Cotesto cardinale' compariva militarmente in habito de bruno seculare, come dice il Prato; e gli Svizzeri vennero eccitati a combattere colla grandiosa promessa di ottocentomila ducati d'oro, se vincevano. Della qual somma il ministro del re di Spagna, residente a Milano, ne promise dugentomila a nome del suo monarca, ed a nome del papa Leone X altri mila ne furono promessi; cosicchè al duca rimaneva il peso di quattrocento mila ducati. Gli [322] Svizzeri, gloriosi per la sconfitta data due anni prima a Novara ai Francesi sotto il comando De la Trémouille, si consideravano il terrore de' monarchi, e tenevansi la vittoria sicura. Il re, vedendo inevitabile il tentar la fortuna delle armi, avendo consumati i viveri de' contorni di Magenta, Corbetta e Boffalora, marciò coll'armata prima a Binasco, indi passò a Pavia; finalmente pose in settembre il suo campo a Marignano. Le scorrerie de' Francesi venivano sotto le mura della città, e, non solamente da quella parte che risguardava la loro armata, ma persino sulla strada di Monza, per lo che non eravi sicurezza nell'uscire da Milano.

Il giorno 14 di settembre 1515 divenne famoso nella storia per la battaglia di Marignano, da alcuni anche detta di San Donato. Il Prato ci racconta, come «venuta la chiarezza del dì, cominciarono essi (Svizzeri) ad uscire per porta Romana; et durò il loro passaggio sino alle ventidue ore, il che prova il loro numero, con animo tale, che non pareva già che a guerra, ma più presto a certi segni di vittoria andassero, et con essi era il cardinale». Il re di Francia aveva seco lui sei ambasciatori svizzeri, i quali stavano trattando della pace; per lo che l'attacco fu una vera sorpresa pei Francesi, e potrebbe chiamarsi anche un'insidia oltraggiosa al gius delle genti, se il corpo elvetico non fosse un aggregato di più distinte sovranità. I cantoni di Uri, Swit e Undervald, i quali privatamente possedevano Bellinzona e le province acquistate sul ducato di Milano, dovevano preferire il rischio della battaglia, anzi che cedere le loro conquiste: gli altri cantoni, dai quali non si cercava nella pace sagrifizio alcuno, non avendo che l'utilità delle pensioni della Francia promesse, dovevano preferire la pace ai pericoli di una giornata. In fatti, gli svizzeri di Berna, Soletta e Basilea ricusarono di marciare contro de' Francesi; ma, destramente ingannati coll'avviso che la vittoria era già decisa pe' loro compatriotti, essi, per non ritornare alle case loro colla vergogna di non aver partecipato alla gloria degli altri, e per non perdere la porzion loro del bottino, che già si tenevano [323] sicuro, sull'esempio di quanto era loro toccato a Novara col La Trémouille, si unirono e marciarono a San Donato. Il progetto era di vincere con impeto la prima resistenza de' Francesi: impadronirsi, come era seguíto a Novara, dell'artiglieria, e adoperarla contro del re. Guicciardini, Gaillard, Prato vanno concordi nella descrizione di quanto v'è di essenziale in questo fatto, che decise totalmente in favore del re, e che fu una delle più ostinate e sanguinose battaglie che si sieno date. Cominciò la mischia il giorno 14 settembre, due ore prima del tramontar del sole[365]. Durò ferocemente sino alle quattro ore della notte, non volendo nè cedere i Francesi, nè ritirarsi gli Svizzeri. Le tenebre si accrebbero al segno, che fu indispensabile il cessare, poichè non si distinguevano più gli amici dai nemici. Il re profittò di quell'intervallo, spedì ordine all'Alviano, comandante de' Veneti, acciocchè si presentasse tra Milano e San Donato. Passò il re il rimanente della notte, animando e disponendo i suoi, e giacque in riposo sopra un cannone. Al comparire dell'aurora, più accaniti che mai, ritornarono al loro impeto gli Svizzeri, ed i Francesi con fermezza lo sostennero e respinsero. Si sparse voce fra gli Svizzeri che l'Alviano marciava per coglierli alle spalle. Laonde, spossati dalla enorme fatica, disperando di superare i Francesi comandati dal loro re, vedendosi in pericolo di ritrovarsi fra due fuochi, piegarono alla vòlta di Milano. «Affermava il consentimento comune, dice il Guicciardini[366], di tutti gli uomini, non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce... Il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso, che dall'aiuto de' suoi... in maniera che il Triulzio, capitano che aveva vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia, non di uomini, ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto, erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche». Vi si contarono [324] sul campo più di quindicimila Svizzeri e seimila Francesi. Il Trivulzio vi corse pericolo: ei s'era impegnato fra le alabarde e le aste nemiche per salvare un suo alfiere, già circondato dagli Svizzeri; ebbe ferito il cavallo, il suo elmo privato de' pennacchi; era ridotto al punto di essere oppresso dal numero, se non veniva un drappello de' suoi, che lo trasse a salvamento. Il re ebbe il cavallo ferito, e nella persona ricevè molte contusioni, e vi combattè come ogni altro soldato: vi si distinsero il contestabile di Bourbon, il conte di San Pol. Il conte di Guise ricevette molte ferite; rimase sul campo Francesco di Bourbon, fratello del contestabile, che aveva il titolo di duca di Castellerand; vi rimasero morti parimenti Bertrando di Bourbon Carenci, un fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, il principe di Talmont, i conti di Sancerre, di Bussi, d'Amboise, di Roye ed altri[367]. Il cavaliere Bayard, quegli che aveva e meritava il titolo di cavaliere senza tema e senza macchia, in quella memorabile azione fece prodigi di valore, per modo che il re di Francia medesimo, Francesco I, dopo ottenuta la vittoria, volle ivi sul campo essere creato cavaliere per mano del valoroso Bayard. Gli Svizzeri mal conci, sopravissuti a quella carneficina, ritornarono a Milano; ed io li rappresenterò colle volgari, ma ingenue parole adoperate da un merciaio che allora aveva bottega aperta in Milano, e si chiamava Gian Marco Burigozzo: «Tanto che fu la rotta a questi poveri Sviceri, et se comenzorono a voltare, et vennero a Milano quelli pochi che erano avanzati, et tutti avevano bagnate le gambe, et questo era perchè il signor Giovan Jacopo, come astuto capitano, venendo gli Sviceri in campo su un certo prato, et lui li dette l'acqua, per modo che la fu una gran ruina a quelli poveri Svisceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati et homeni maltrattati, in modo che pareva che costoro fusseno stati in campo dieci anni, tutti polverenti dal mezzo in suso, et dal mezzo in giuxo bagnati, tanto che li homeni de Milano, vedento tanta [325] desgrazia, tutti si miseno sulle porte ovver botteghe, chi con pane et chi con vino, a letificar li cori di questi poveri homini, et questo facevano a honor di Dio, et per tutto questo dì non cesorno de venire poveri Sviceri, tutti malsani, et il più sano durava fatica a star su in piedi[368].

Dopo la battaglia di Marignano il duca si ricoverò nel castello di Milano con bastante presidio. Il cardinale di Sion prese seco il duca di Bari Francesco, e lo condusse alla corte imperiale, dove era stato educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che Massimiliano rimanesse in potere de' Francesi, che il cardinale odiava irreconciliabilmente. Gli avanzi di Marignano si ricoverarono nelle loro montagne svizzere, e così il Milanese rimase sgombrato ed aperto al dominio del re, tranne i castelli di Milano e di Cremona. Si vociferava non per tanto della disposizione di cinquanta altri mila Svizzeri a venire in soccorso del duca. Era recente la memoria di quanto aveva saputo fare Giulio II; e non era da fidarsi di Leone X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio. Un regolare assedio al castello di Milano, ben provveduto di viveri e di munizioni, portava molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica potevano annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti nella recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato che il re offerisse a Massimiliano Sforza i compensi che egli aveva saputo chiedere, purchè cedesse il castello di Milano, rinunziasse alle pretensioni sul ducato, [326] e riconoscesse il re Francesco per duca di Milano. Girolamo Morone, che stavasene nel castello col duca, fu mediatore di quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunciò al re di Francia il ducato di Milano, gli consegnò il castello, passò a terminar da privato i suoi giorni nella Francia con trentaseimila scudi di pensione, che assegnogli il re, il quale, oltre a ciò, s'obbligò di pagargli i debiti. Al Morone il re promise di farlo senatore e regio auditore. Il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto il castello ai Francesi; e non erano ancora compiuti i due anni da che n'erano usciti. E così terminò la sovranità di Massimiliano Sforza, il quale per poco più di tre anni rappresentò la figura dell'ottavo duca di Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard nella vita di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: «à juger de lui par sa conduite, il paroit que c'étoit un prince foible, fait pour être gouvernè. Nil politique, ni belliqueux, on ne l'avoit vu ni préparer sa defense par les intrigues du cabinet, ni commander les armées qui combattoient pour lui. Il sombloit que la querelle du Milanés lui fût étrangère. Mais il eut du moins le mérite d'avoir renoncé de lui même à un rang au quel il n'étoit point propre, et de ne l'avoir jamais regretté dans la suite». Egli passò nella Francia, dove sette anni prima era morto Lodovico suo padre; vi campò quindici anni, essendo poi morto a Parigi il giorno 10 di giugno del 1530. Il re Francesco I volle mantener la promessa data per Girolamo Morone, il quale forse s'aspettava d'essere fatto senatore del senato di Milano: ma il re temeva il talento di quest'uomo, e non doveva dimenticare che Francesco Sforza era salvo: perciò lo destinò a risedere nel parlamento della provincia di Bresse, la quale forma una porzione del regno di Francia fralla Borgogna, la Franca Contea, la Savoia e il Viennese: alla quale onorevole destinazione mostrò di ubbidire il Moroni, e fingendo d'incamminarsi al nuovo suo destino, strada facendo, sviò e ricoverossi nel Modonese[369].

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Nel tempo stesso in cui si assicurò il re di Massimiliano Sforza, e s'impadronì delle fortezze del Milanese, mosse colla maggiore sollecitudine i suoi maneggi per concertarsi col papa Leone X, detto prima il cardinal Giovanni de' Medici, che combattè a Ravenna contro dei Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice rassicurare alla sua casa in Firenze quella sovranità che effettivamente godeva, sebbene sotto apparenza di repubblica, e sempre per sè medesima precaria. Il re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema in cui si trovava. La città di Bologna, e per la sua grandezza e per la situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai più di quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi avevano mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella città, anche cogli ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati i pontificii, i quali l'assediavano. Il re si mostrò disposto ad abbandonare i Bentivogli, e guarentire Bologna alla Santa Sede. In compenso il papa doveva riconoscere il re come sovrano del ducato di Milano e restituirgli Parma e Piacenza, come due città dipendenti dal ducato. Così venne concertato ed il trattato venne sottoscritto in Viterbo il giorno 13 di ottobre 1515.

Quantunque i Francesi possedessero Milano sino dal giorno 17 settembre, il re, sin che non ebbe la dedizione del castello, volle risedere a Pavia ed in Milano dimorava il contestabile di Bourbon, luogotenente e governatore a nome del re. Resosi poi padrone del castello, il re fece la sua solenne entrata in Milano il giorno 11 d'ottobre 1515. Lo corteggiavano il duca di Savoia, il duca di Lorena, il marchese di Monferrato, il marchese di Saluzzo, e varii altri [328] signori, tutti partecipi della battaglia di San Donato. Alla porta Ticinese gli si presentarono i delegati della città, i quali gli offersero lo scettro ducale, la spada e le chiavi della città. Il re era a cavallo, vestito di ferro, con un manto di velluto celeste a gigli ricamati d'oro. Avanti se gli portava una spada sguainata; dodici gentiluomini milanesi lo fiancheggiavano. Dugento gentiluomini francesi, coperti di ferro e con ricchissimi manti, venivangli in séguito. Poi mille fantaccini tedeschi armati condotti dai loro capitani riccamente ornati, venivangli in seguito. Chiudeva la marcia un corpo di cavalleria. Giunti alla notizia dell'imperator Massimiliano questi avvenimenti, egli spedì a Milano un suo ambasciatore al re di Francia per interpellarlo con qual titolo egli occupasse il ducato di Milano. Il re indicogli la sua spada; giacchè non essendo egli discendente dell'ultimo investito, cioè Lodovico XII, non aveva alcun altro titolo da addurre fuori che l'essere discendente ei pure dalla Valentina, madre del di lui avo Giovanni conte d'Angoulème; il qual titolo non era adattato ai principii dell'Impero, nè alle leggi del feudo instituito da Venceslao, siccome transitorio nei soli discendenti maschi. Se l'interpellazione fatta da cesare aveva l'apparenza di un feciale spedito a intimare la guerra, la risposta del re aveva il significato della disposizione sua per difendersi. Il re, per rassodare sempre più la buona corrispondenza col pontefice, concertò d'abboccarsi con esso a Bologna; partì da Milano, dopo di esservi dimorato cinquantatre giorni, il 3 del mese di dicembre e il giorno 14 dello stesso mese e dello stesso anno 1515, in Bologna, col papa Leone X si stabilì il concordato famoso, per cui, abolita nella Francia la prammatica sanzione, venne spogliato il corpo della chiesa Gallicana de' suoi immemorabili possessi, e si regalarono il re e il papa vicendevolmente la roba altrui. Non mai per addietro gli ecclesiastici francesi avevano pagate a Roma le annate, ed il re donò al papa il dritto di farsele pagare. Le nomine ed elezioni de' vescovadi erano di competenza dei rispettivi capitoli delle cattedrali per diritto stabilito dai canoni conciliari; ed il papa invece donò al re di Francia queste nomine. Inutilmente i [329] parlamenti del regno fecero le loro rimostranze; inutilmente le fece il clero gallicano in corpo: poichè si volle ad ogni modo che il concordato fosse posto in esecuzione. (1516) Dopo ciò, ne' primi giorni di gennaio, il re partì dall'Italia, ove lasciava per la forza delle sue armi, per la fama della sua vittoria, e per i negoziati col papa e co' Veneziani una dominazione apparentemente sicura e tranquilla. Lasciò il duca di Bourbon suo governatore e luogotenente in Milano.

Frattanto però l'ostinatissimo cardinal di Sion moveva ogni mezzo alla corte imperiale per determinare cesare a scendere nell'Italia. Varii Milanesi, avversi alla dominazion francese, dimoravano negli Svizzeri, e procuravano di promovere gl'interessi della casa Sforza, tuttora intatti nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non aveva abdicato, come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione sua alla successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal re alla intimazione imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto a prendere il partito suggerito dal cardinale. Così appunto seguì, e nel 1516 l'imperatore Massimiliano scese in persona dal Trentino alla testa di sedicimila lanschinetti, quattordicimila Svizzeri, e un nerbo poderoso di cavalleria. Il maresciallo di Lautrec abbandonò Brescia, ch'ei teneva bloccata. I Francesi, vedendo l'imperatore che si accostava per impadronirsi di Milano, nè potendo difendere i borghi, presero il partito terribile di porvi il fuoco. Furano inceneriti i sobborghi di porta Romana, porta Tosa e porta Orientale. L'imperatore, il giorno 3 di aprile 1516, minacciò un assalto a Milano, ne intimò la resa, vantossi di voler rinnovare la memoria di Federico Barbarossa; ma il contestabile di Bourbon prese sì bene le sue misure temporeggiando, che l'imperatore, mancando di denaro, gli Svizzeri minacciarono di abbandonarlo. Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, informato di ciò e della inquietudine che ne provava l'imperatore, scrisse al colonnello Staffer, comandante degli Svizzeri imperiali, una lettera da cui risultava un concerto di tradire Massimiliano cesare e consegnarlo al contestabile; e questa carta venne confidata ad [330] uno, il quale appostatamente si lasciò prendere. Poiché ebbe letto un tal foglio, l'imperatore talmente gli prestò fede, che, sotto apparenza di andare a prender denaro a Trento, se ne partì; e la sua armata, mancando di comandante, e, ciò che per essa era ancora peggio, di danaro, si sbandò a saccheggiare Lodi e Sant'Angelo, e da' Francesi venne poi discacciata. Così terminò con poca gloria una impresa incominciata in guisa di doversene aspettare tutt'altro fine. Brescia fu da' Francesi tolta agl'imperiali. I Francesi operavano come ausiliari de' Veneziani; ma non ci fu modo di prendere Verona, difesa valorosamente da Marc'Antonio Colonna, degno nipote di Prospero. Lautrec la assediava. I Veneziani, collo sborso di centomila scudi, ottennero dall'imperatore che abbandonasse Verona; e fra l'imperatore, i Veneziani e i Francesi venne segnata la pace. Così i Veneziani riacquistarono la terra-ferma[370]. Si fece la pace fra il re e gli Svizzeri. Si accordò un perdono generale, acciocchè tutt'i Milanesi che avevano preso partito contro della Francia, ed erano esuli e confiscati, ritornassero pacificamente ne' loro diritti nella patria. Si impose una tassa straordinaria per pagare le somme promesse agli Svizzeri; ed il maresciallo Trivulzio obbligava i cittadini ricchi ad imprestar danaro al regio erario, carcerandoli se ricusavano. Tali conseguenze portava la mancanza di un catastro, sul quale ripartire i carichi delle terre. I nostri vecchi credevano che quella oscurità fosse un bene; quasi che meglio fosse un tributo arbitrariamente estorto colla forza militare, esercitata odiosamente sopra alcuni cittadini più accreditati, anzi che un proporzionato riparto sulle facoltà di ciascuno; e, quasi che la influenza che la difficoltà di riscuoterlo può avere onde evitarlo, sia paragonabile col disordine di tal forma di riscossione, inevitabile quando le urgenze pubbliche lo esigono.

Il principio del regno di Francesco I, poi che fu in pace, promise un ridente avvenire ai Milanesi, e il duca di Bourbon, [331] generoso e magnanimo principe, governatore e luogotenente del re, procurò di rendersi affezionati gli animi di questi nuovi sudditi e far loro dimenticare con un felice governo e i suoi naturali principi, e i mali sofferti. Il senato di Milano, «che tanto a dire quanto esso re» (dice il Prato), ordinò che venissero stimati i danni sofferti dai cittadini per le case incenerite ne' borghi, e sulla relazione degl'ingegneri commise ai tesorieri del re di risarcirli. Ma le angustie dell'erario non permisero che interamente fossero indennizzati. In oltre il contestabile di Bourbon donò alla città il dazio della macina, che si valutava allora diecinovemila ducati di annua entrata; e donò pure il dazio del vino minuto, d'annua rendita di settemila ducati. Nacque disparere fra i ventiquattro rettori della città. Alcuni proposero di abolire questi due aggravi, perchè venisse sollevato il popolo, e non si accumulasse denaro nella cassa pubblica, d'onde sovente, col titolo di prestito, i rettori medesimi lo sviavano per non più restituirlo, abolendo così il nome di un molesto aggravio. Tal proposizione era di pochi; i più si opponevano; la disputa era impegnata, ostentando l'uno e l'altro partito il nome di patria e di pubblico bene, siccome è l'uso. Nè accadde allora ciò che pure succede, cioè che, mentre due partiti cozzano e guerreggiano, entri una più scaltra o più potente persona di mezzo ad usurparsi la cosa disputata. Venne ordine in nome del re alla città di non disporre di tai regalie, intendendo il sovrano di conservare intiera la corona ducale. Invece però di que' due tributi il re assegnò diecimila ducati annui alla città, da convertirsi in opere di pubblico beneficio. L'ordine del re è in data del 7 luglio 1516, e contiene:[371] Christianissimus rex, animo revolvens [332] fidelitatem et integritatem quam cives Mediolanenses erga Suam Majestatem habuerunt, et damna intolerabilia, quae passi fuerunt, libere praedictae civitati donat atque concedit summam ducatorum decem milium annui et perpetui redditus, per manus receptoris civium recipiendos a mercaturae datiariis, quae quidem summa in commodum et utilitatem praedictae civitatis tantummodo et non aliter convertatur. Poi passa a stabilire che la metà di questa somma s'impieghi ogni anno per formare un canale sotto la direzione del vicario e dei Dodici di Provvisione; ducento annui ducati si lasciano da distribuire all'arbitrio del vicario e Dodici suddetti, e quattromila e ottocento si distribuiranno chiamando col vicario e Dodici anche quattro dottori di collegio de' fisici, quattro negozianti e quattro nobili deputati dello spedale. Ogni anno il ricettore renderà i suoi conti al magistrato camerale, chiamandovi il vicario ed i fiscali[372]. Era vicario di provvisione Bernardo Crivelli[373]. Gli architetti idraulici che s'impiegarono furono Bartolomeo della Valle e Benedetto Missaglia. Si cercò di fare un canale che ci rendesse comoda la navigazione col lago di Como. Primieramente si esaminò la valle di Malgrate, e risultò impossibile, perchè conveniva scavare un canale profondo trenta braccia per più d'un miglio, e ciò sotto il fondo del lago di Civate, e protraendo il canale sino al lago di Pusiano per imboccare il Lambro, che ne esce, conveniva sprofondare il Lambro cento braccia e dieci once. Perciò abbandonarono quella idea, e si rivolsero ad esaminare se meglio convenisse cominciare il canale sotto Airuno, e trovando che ivi dovevasi sprofondare centosessantadue braccia per attraversare quella costa, ne lasciarono pure anche tale idea. (1517) Poi, l'anno seguente, esso Missaglia con altri ingegneri, Giovanni Simone della Porta e Giovanni Balestrieri, si posero ad osservare la Valle del Seveso, che comincia a [333] Cavallasca, o passa per Lentate, e viene a Milano. Trovarono che per essa non era sperabile di condurre un canale per l'angustia e le alte rive che in più luoghi s'incontrano; e ciò quando anche vi fosse stato modo d'introdurvi le acque del lago di Como, cosa assai difficile e pel livello, e per le montagne frapposte; ed anche questo pensiero per tai motivi fu giudicato inutile. Visitarono una valle presso Chiasso, e non trovarono modo di aprirvi un emissario che ricevesse le acque del lago di Como. A Como presso a Sant'Agostino si argomentarono di potervi aprire un emissario, imboccando la valle del fiume Aperto e dell'Acqua Negra, ma calcolate le molti emergenti difficoltà, senza fare alcuna livellazione, riconobbero ineseguibile anche questo progetto. Tentarono poscia se da Porlezza a Menaggio si potessero unire i laghi di Lugano e di Como; la distanza è di sei miglia, ma conveniva discendere dal primo cento braccia per entrare nel lago di Como, e lo trovarono impossibile. La Tresa, emissario del lago di Lugano, che sfogasi nel lago Maggiore, fu trovata povera di acque e di caduta impetuosa, e giudicata perciò indomabile. Esaminarono a Porto ed a Cò di Lago se potessero estraersi le acque ed incanalarle per la Lura verso Seregno, d'indi poi a Milano; e ciò pure non trovarono espediente. Ritornarono a tentare di fare un emissario nell'Adda, visitarono se mai per Oggionno e Valmadrera si potesse incanalare l'acqua verso Rovagnate, ovvero nel Lambro; ma senza profitto, nè speranza, rinunciarono a quel partito. Ripigliarono l'esame sotto Airuno, e passata la costa, alta, come dissi, braccia centosessantadue, videro che si sarebbe potuto condurre un canale per Cernusco Lombardone, indi Usmate, poi ad Arcore: ma tutto con sommo dispendio. Questo fu il progresso per cui si determinarono il Missaglia e il della Valle a progettare per rendere navigabile l'Adda da Brivio a Trezzo. La città supplicò perchè s'impiegassero i cinquemila zecchini nel rendere navigabile l'Adda, invece di scavare di nuovo un emissario, e da ciò si prometteva abbondanza di calce, legna e carbone. Era riserbata quest'opera ai nostri giorni, mercè la protezione ed attività del passato governo.

[334]

Queste beneficenze del re animarono la città di Milano a spedire a Parigi alcuni deputati con una supplica al re in cui proposero alcuni stabilimenti. Essa distesamente vien riferita nel manoscritto del Prato. Io ne esporrò quanto vi è di più importante. Si chiedeva dalla città di Milano che il governatore e luogotenente non avesse nè direttamente nè indirettamente ingerenza alcuna nelle cose di giustizia tanto civile quanto criminale; che nessuna autorità egli avesse negli affari delle regalie, e nemmeno facoltà di proclamare editti; ciò che il re non volle accordare. Accordò egli bensì che nessun comandante militare potesse nelle città di presidio o nei castelli esercitare giurisdizione sopra i cittadini. Si conosce da quanto trovasi in quella supplica, che di que' giorni i questori, i quali dovevano giudicare delle questioni fra gl'impresari e il popolo, non erano di rado soci secreti degl'impresari medesimi; onde essendo costoro ad un tempo giudici e parte, non vi era più modo agli oppressi di trovare giustizia, su di che la città implorò la sovrana provvidenza. Essi poi, come ministri camerali, all'occasione di confische (le quali in quella età di frequente cambiamento di dominazione, col pretesto di fellonia non erano rare) occupavano indistintamente tutto il patrimonio e del reo e de' consanguinei che vivessero indivisi con lui, e quindi gl'innocenti si trovavano costretti a dispendiosissime liti, dalle quali erano prima rovinati che ottenessero la loro porzione devastata. Fa poi ribrezzo maggiore il conoscere da quella supplica quanto ingiusta e crudele fosse la procedura criminale esercitata in quell'epoca da coloro che avevano una carica di capitano di giustizia. Questo supremo giudice, assistito dal suo vicario e da quattro fiscali, procedeva[374] servato et non servato jure comuni. Vi fosse o non vi fosse il corpo del delitto, questo non arrestava la procedura. Il primo atto del processo era citare formalmente il tal cittadino, acciocchè si presentasse all'esame. In questo esame non di rado veniva il cittadino posto ai tormenti, e quindi[375] cum terrori [335] sit omnibus officium illud (dice il Prato), molti chiamati all'esame, per sottrarsi fuggivano, e poi si condannavano come contumaci anche gl'innocenti. Da questi aggravi chiesero i deputati che venisse liberata in avvenire la città; ed il re comandò al senato di proporre i rimedii. Se colle livellazioni fatte sulla pianura del ducato, alcuni uomini di quel secolo acquistarono diritto alla stima e riconoscenza de' loro nipoti e successori, i togati di quei tempi cominciarono a farci conoscere che quella loro arte cui definiscono:[376] ars boni et aequi, justi atque injusti scientia, è un'arte affatto staccata dal senso morale. Da quella carta istessa impariamo che allora più non si univa il consiglio dei novecento, ma era di centocinquanta il consiglio generale della città di Milano; e que'centocinquanla nobili rappresentavano veramente la loro patria, poichè da quella erano eletti a parlare e ad agire per essa. Il metodo della elezione era questo. Ogni parrocchia si radunava e nominava due sindaci. Tutti i sindaci poi di ogni porta si radunavano ed eleggevano quattro. Questi quattro eletti da ciascuna delle sei porte, ossia de' sei rioni o quartieri della città, si univano e formavano i ventiquattro elettori. Da questi poi nominavansi venticinque nobili per ciascuna porta, i quali formavano il consiglio della città, a cui era concessa la nomina dal vicario di provvisione, scelto dal collegio de' giureconsulti, la nomina de' due assessori, scelti pure dal collegio medesimo, e quella degli altri nobili per le giudicature della città e pel tribunale di provvisione. Essi tuttavia formavano la terna, e la scelta facevasi dal luogotenente e governatore dello Stato. Ma quella forma di elezione terminò due anni dopo; e per un fatto dispotico del governatore Lautrec, vennero da esso lui nominati sessanta nobili, ai quali commise di rappresentare il consiglio generale della città[377]; e così continuarono [336] dappoi i successori nel governo a nominare, senza opera della città, a misura che vacavano; ed il ceto dei sessanta decurioni (l'adunanza de' quali dicevasi la Cameretta), durò fino all'epoca della repubblica Cisalpina.

La plebe era superstiziosa e violenta oltremodo; e ne fecero la prova i monaci di San Simpliciano, i quali, nell'anno 1517, avendo scoperte alcune urne, ed esposti i corpi creduti di San Simpliciano, di San Martino, di San Siro ed altri santi; ed essendo per disgrazia caduta in que' dì una grandine dalla quale vennero flagellate e devastate le nostre campagne; col modo di ragionar volgare attribuendosi il fenomeno fisico allo sdegno dei santi, i quali bramassero riposo ed oscurità, anzi che luce e movimento; e traducendosi i Benedettini siccome rei di sacrilegio e di pubblica sciagura; non furono essi più sicuri non solamente nelle piazze e per le vie della città, ma nemmeno nel loro monastero; e dice il Prato ch'essi furono «sì sconciamente battuti, che tal fu di loro, che vi lasciò non solamente la cappa, ma et la forma di quella». Nè la supposta empietà di cavare dalla tomba i santi bastava a spiegare allora la cagion della grandine. La inquisizione non volle starsene oziosa; volle trovar delle streghe colpevoli di quel turbine, e volendolo efficacemente, se ne trovano sempre. Alcune infelici donnicciuole avevano dei segni, quai fossero non lo sappiamo; bastarono però a farle splendidamente gettar nel fuoco. Si ascolti il Prato: «Anche da li segni le quali, judicate dalla inquisizione per strie, furono in quelli medesimi dì a Ornago et a Lampugnano sul monte di Brianza a gran splendore arse». Convien dire che anche nel ceto ecclesiastico allora l'ignoranza fosse grande; e merita di essere riferito a tal proposito un fatto singolare che ci vien raccontato e dal Prato e dal Burigozzo. Un uomo sen venne a Milano grande, sottilissimo per l'estrema magrezza, che, andando scalzo, vestito di rozzo panno, a capo scoperto, non portando camicia, vivea con pane di miglio, erbaggi ed acqua, e dormiva sulla nuda terra. Costui, presentatosi alla curia arcivescovile, chiese il permesso di predicare; ma siccome egli era laico e non fregiato di alcun [337] ordine ecclesiastico, gli venne ciò negato. Malgrado ciò egli cominciò nel Duomo a parlare al popolo, e continuò per un mese a farlo ogni giorno con tanta grazia di lingua, che tutto Milano vi concorreva[378]. Egli prese un tal ascendente col favor del popolo, che nessuno poteva fargli contrasto; e nella chiesa del Duomo disponeva come se ne avesse titolo. Le costui prediche versavano singolarmente nel rimproverare la corruttela degli ecclesiastici; i quali, indifferenti per la religione, col di lei manto altro non bramavano se non ricchezza, autorità e comodi; non mai sazi di onori, di latifondi, di voluttà, nimici delle sante regole de' lori istitutori, alieni dalla carità, dallo studio de' libri sacri, dalla cura del bene altrui, dalla pazienza, dalla umiltà, dai travagli; cose tutte che pure sono di obbligo dello stato a cui sono sublimati, e quindi invece di animare i laici alla virtù col loro esempio, sono la cagione della corruttela universale de' costumi. Così con veemente eloquenza questo uomo laico cercava di scuotere gli ecclesiastici. I preti non si mossero; ma i frati non furono tanto pazienti; e que' di Sant'Angelo l'accusarono come sedizioso, fautore segreto de' nimici del re. Egli, interrogato dal maresciallo Trivulzio e dal presidente del senato, fu trovato un uomo semplice, pio, ed affatto diverso da quello che era stato rappresentato. Insensibilmente poi questo amor popolare, prodotto dalla eloquenza e dalla austerità, sempre imponente, della vita, svanì; ed il romito, dopo sei mesi, senza alcun romore, se ne partì. Era costui dell'età di trent'anni, toscano; aveva nome Girolamo; dotto assai nelle sacre pagine. Tutto ciò il Prato. Di costui il Burigozzo dice che era di Siena, di bella persona, e nobile: «era vestito de panno tanè, haveva le brazza discoperte et le gambe nude senza niente in testa, con la barba lunga, ed haveva dissopra un certo mantelletto a modo de sancto Giovanni Battista». Se mi si permette una conghiettura, parmi che questa straordinaria missione fosse un avviso salutare degli imminenti torbidi luttuosi che nacquero pochi mesi dopo nella Germania contro degli ecclesiastici, e che riuscirono, [338] come ognun sa, all'infausto dissidio dei protestanti e dei pretesi riformati.

Il contestabile duca di Bourbon, governatore e luogotenente del re, venne richiamato per uno di quegl'intrighi, i quali non son rari nelle corti, quando il monarca non giudichi co' suoi principii, ma si lasci indurre ad abbracciare i partiti che destramente gl'insinuano le persone che se gli accostano più da vicino. La duchessa di Angoulême aveva molto ascendente sull'animo del re suo figlio. Non minor potere aveva nel cuore di quel giovine e vivace sovrano la contessa di Chateau-Briant, che era nel fiore dell'età, il fiore della bellezza e della grazia; ed era amata dal re[379]. La duchessa favoriva il duca di Bourbon, senza ch'egli se ne avvedesse, per inclinazione naturale; la contessa bramava che si desse a Lautrec, di lei fratello germano, il comando nell'Italia delle armi francesi. Perciò nel 1517 egli venne a Milano governatore, e fu il settimo. Odetto di Foix, signore di Lautrec, maresciallo di Francia, era cugino e compagno d'armi del celebre Gastone di Foix. Alla battaglia di Ravenna egli fu de' pochi che non l'abbandonò, quando, per uno sconsigliato ardimento si scagliò incontro alla sua morte. Si battè, lo difese quanto un uomo solo lo poteva contro di una folla di armati. Lautrec gridava agli Spagnuoli, mentre combatteva, avvisandoli che Gastone era il fratello della regina loro. Ferito egli pure in più guise, giacque creduto morto a canto a Gastone. Riconosciuto poi ed assistito, ripigliò Lautrec il suo vigore, e sotto del contestabile continuò a dar saggi del suo valor militare. Le ferite che Lautrec aveva ricevute sul viso nella battaglia di Ravenna, l'avevano reso di aspetto truce e deforme, nè il di lui carattere contrastava colla fisonomia[380]. (1518) Lautrec, governatore di Milano, mal sofferiva il maresciallo Trivulzio, il quale viveva con una magnificenza [339] reale, ed era più considerato nella città, che non lo fosse Lautrec. Trivulzio era maresciallo, era stato governatore, aveva acquistato alla Francia il milanese, viveva indipendente. Il perchè venne accusato e indicato per sospetto, per essere egli il capo della potente fazione de' Guelfi, e per essersi fatto ascrivere alla naturalizzazione elvetica, e perchè il di lui nipote serviva i Veneti. Queste accuse del Lautrec vennero nell'animo del re malignamente rinforzate dalla contessa di Chateau-Briant, la favorita di quel monarca. Trivulzio, franco e sensibile, informato dell'attentato, al momento partì, e quantunque avesse ottant'anni, nel cuore dell'inverno, superate le Alpi, si presentò alla corte di Francia, dove però non potè avere udienza dal re. Questo rispettabile vecchio si fe' condurre in luogo per cui doveva passare il monarca; e poichè fu alla distanza di essere ascoltato, disse: «Sire, degnatevi di accordare un momento d'udienza ad un uomo che s'è trovato in diciotto battaglie al servigio vostro e dei vostri antenati». Il re, sorpreso, lo guarda, lo ravvisa, e passa oltre senza far motto. Tale fu la mercede di quarant'anni di servigi resi alla Francia. Trivulzio si ammalò gravemente. Il re gli fece fare delle scuse; ed il Trivulzio gli rispose che era sensibile alla bontà del re, ma che lo era stato pure ai rigori, ed il rimedio era tardo[381]. Frattanto il Lautrec profittò dell'assenza del Trivulzio per arrestare a Vigevano la vedova ed i figli del conte di Musocco, nuora e nipoti del Trivulzio. Il maresciallo fu sepolto a Bourg de Chartres, sotto Montlehery, dove aveva trovata la corte, e dove morì[382]. Burigozzo dice che ei morì il giorno 4 di dicembre del 1518. Nel vestibolo di San Nazaro Maggiore della nostra città avvi un tempio di assai grandiosa e nobile architettura, intorno al cui architrave veggonsi collocate in alto le tombe della famiglia Trivulzio; il qual edifizio credesi fatto fabbricare dal maresciallo, la tomba del quale sta nel mezzo, colle due sue mogli poste ai lati; e sta [340] scolpito:[383] QVI NVNQVAM QVIEVIT HIC QVIESCIT. TACE. Della sconoscenza ed ingratitudine del re Francesco I ne scrive anche il Prato; «havendo non una, ma due et tre volte, dic'egli, con tanta fatica et arte in bona parte dato il stato di Milano a Francesi, et hora ne ha pagato di sì meritevole guiderdone». Il Trivulzio fu un gran soldato, un signore magnifico, e d'animo reale. L'ambizione sua però fu rivolta più a soggiogare i nemici viventi, ed a vendicarsene, che a procacciarsi una fama generosa presso la posterità. Ei non temette la voce imparziale della storia. È tristo quel popolo che è dominato da un ambizioso che non la teme! Trivulzio, con la sua ambizione, rovinò la patria, scaccionne i naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie che l'afflissero per più di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla nostra riconoscenza.

Dell'atrocità di que' tempi, o degli effetti dell'ignoranza e delle torture può esserne pure chiara testimonianza il fatto orribile di Isabella da Lampugnano, la quale, il giorno 22 di luglio del 1519, sulla piazza del castello, fu arruotata viva ed abbruciata. Si credette che per sola crudeltà ella colle lusinghe si facesse venir in sua casa i bambini, e loro togliendo il sangue, gli salasse e divorasse poi. Si asserì che la cosa venisse a sapersi, perchè una gatta di lei fu osservata avere in bocca la mano d'un bambino: «Fu subito detenuta, dice il Prato, et stata per alcun tempo perseverante ne' tormenti horribili, negando sempre il vero, finalmente confessò il tutto». La logica non permette di credere che si commettano siffatti orrori per sola crudeltà e senza un fine. La cognizione del cuore umano nemmeno consente di crederne preferibilmente capace una donna, più sensibile alla compassione che non è l'uomo. La ragione e la sperienza ci dimostrano che questa è una prova di più, che coll'uso dei tormenti horribili, finalmente si costringe un innocente ad accusarsi di qualunque più chimerico delitto. Ci accaderà di trattarne più diffusamente, mi lusingo, in avanti, proseguendo la storia.

[341]

La condizione de' Milanesi era assai infelice sotto il duro e dispotico governo del maresciallo Lautrec: aggravi indiscreti, indiscretamente percepiti; patiboli, confische, proscrizioni; quest'era l'arte colla quale colui governava. Io non riferirò quanto ne scrivevano gl'Italiani di quel tempo, che potrebbe forse anco credersi dettato dallo spirito di partito nazionale. Brantome così parla nella vita di Lautrec. «On dit qu'avant qu'il fust chassé de Milan, venoient au roy plusieurs nouvelles et plaintes de luy, et qu'il estoit trop sévère et mal propre pour un tel gouvernement.... mais pour gouverner un état il n'y estoit bon. Madame de Chasteaubriant, soeur de mons. de Lautrec.... en rebatit tous les coups, et le remettoit tousjours en grace». E lo storico Gaillard, nella vita di Francesco I re di Francia, dice: «Le maréchal de Lautrec gouvernoit depuis lon tems le Milanés avec une rigueur bien contraire à la clemence de son maître. Les proscriptions avoient depeuplé Milan. Les bannis étoient en si grand nombre qu'on les voit jouer un rôle dans l'histoire, se rassembler, former des entreprises, et susciter beaucoup d'affaires aux François. On remarqua que la plus part de ces bannis étoient les plus riches citoyens da Milanés[384]». Fu ben diverso il regno di Lodovico XII da quello di Francesco I, non già per cattiva indole di quest'ultimo, ma perchè, sotto il nome suo spensieratamente lasciava in balía d'un favorito il destino dei sudditi. In quel torno morì il nostro celebre Bernardino Corio[385], d'anni sessanta, e fu l'anno 1519. Quattro anni prima lo storico Tristano Calco lo avea preceduto.

Fine del Tomo secondo.

[343]

INDICE DI QUESTO TOMO

CAPITOLO XI.
Di Matteo I, di Galeazzo I e d'Azzone Visconti, signori di Milano Pag. 5
 
CAPITOLO XII.
Di Luchino, di Giovanni arcivescovo, e dello stato della città sino verso la metà del secolo XIV 37
 
CAPITOLO XIII.
Della signoria dei tre fratelli Matteo, Barnabò e Galeazzo Visconti 70
 
CAPITOLO XIV.
Del conte di Virtù, e della erezione del ducato di Milano 104
 
CAPITOLO XV.
Del duca Giovanni Maria, e del terzo ed ultimo duca Visconti, Filippo Maria 132
 
CAPITOLO XVI.
Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a Francesco Sforza 170
 
CAPITOLO XVII.
Francesco I Sforza, duca di Milano 211
[344]
 
CAPITOLO XVIII.
Del governo del quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del duca Giovanni Galeazzo Maria, sesto duca 229
 
CAPITOLO XIX.
Di Lodovico il Moro, settimo duca di Milano, e della venuta del re di Francia Lodovico XII 251
 
CAPITOLO XX.
Breve ritorno del duca Sforza, fatto prigioniere; e governo del re di Francia Lodovico XII, fino alla lega di Cambrai 275
 
CAPITOLO XXI.
Lodovico XII, re di Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto Massimiliano Sforza, ottavo duca 297
 
CAPITOLO XXII.
Di Francesco I re di Francia, e suo governo nel ducato di Milano 319

NOTE:

1.  Cassone ecc. Agli uomini, così fossero prudenti! Matteo Visconti, vicario e rettore, o sia capitano, al podestà, ai sapienti ed anziani, ai consiglieri, ai consoli, al consiglio, al comune della città di Milano, e a Galeazzo, Luchino, ec.

2.  E per questo tu, Matteo Visconti, e voi altri come sopra nominati, se non vi emenderete delle predette cose, scomunichiamo in perpetuo, anatematizziamo, e priviamo di qualunque commercio umano, della ecclesiastica sepoltura e dei sacri ordini.

3.  Corio all'anno 1314.

4.  Flamma, Manipul. Fior., et Annales Mediolan. ad ann. 1317.

5.  Flamma, Manipul. Flor., ad annum. 1313.

6.  Di pessimi delitti e di eresia, benchè non fosse colpevole.

7.  Bonincontrus Morigia, lib. 3, cap. 2.

8.  Villani, Ughelli e Buonincontro Morigia.

9.  Raynaldus, ad an. 1317, n. 8.

10.  Bonincont. Morigia, lib. 2, cap. 27.

11.  Raynald., num. XI, ad annum. 1320.

12.  Idem, num. X, ad an. 1320.

13.  Lib. IX, cap. 108.

14.  Flamma, Manipul. flor.

15.  Tom. X, pag. 547.

16.  Tanto perchè il giudizio o la punizione del reato di sacrilegio spettano al foro ecclesiastico, quanto ancora perchè, nella vacanza dell'Imperio, come ancora al presente si riconosce vacante, a noi ed alla apostolica sede appartiene il reprimere l'ardire di questi facinorosi che nell'Imperio si trovano, il togliere di mezzo l'oppressione, e l'amministrare la giustizia agli offesi ed agli oppressi.

17.  Il profano ed empio autore di grandi sceleratezze e di delitti, Matteo Visconti di Milano, rabbioso devastatore delle parti della Lombardia, ec.

18.  Ughelli, Ital. Sacr., tom. IV.

19.  Ughelli, col. 206.

20.  Fece portare il vessillo della Chiesa sopra il tetto della casa, e colà fu proclamato che qualunque uomo o donna seguitare volesse quel vessillo, affine di distruggerò il detto Matteo e i di lui fautori, libero e mondo sarebbe tanto da colpa quanto da pena.

21.  Chronic. Astens., cap. 103.

22.  Pronunziando sentenza di scomunica, coi tesori della Chiesa aperti, e da qualunque parte arruolando soldati agli stipendi contra il predetto signor Matteo e i suoi seguaci e quelli della sua stirpe fino al quarto grado.

23.  Edizione in quarto. Milano, 1771, pag. 29.

24.  All'anno 1332.

25.  Certamente consta che i censori della fede, nel condannare per titolo di eresia alcuni Ghibellini, indotti furono oltremodo dallo spirito di partito.

26.  Raynald. ad annum 1341.

27.  Trovato abbiamo essere iniquamente fatti i processi e le sentenze suddette, per certe ragioni legittime e giuste che in essi abbiamo ravvisate, e col consiglio del fratelli nostri e coll'autorità apostolica, dichiariamo iniquamente fatti e nulli ed irriti gli stessi processi e i giudizi, fatti e pronunziati dai prefati arcivescovo, Pasio, Giordano, Onesto e Barnaba, e da ciascuno di essi intorno alle predette cose, in comunione o separatamente, contra i predetti Giovanni e Luchino (erano allora que' due figli di Matteo signori tranquilli di dodici città) e tutte le cose che sono seguite in forza di que' giudizi o per cagione di quelli.

28.  Ughelli, tom. IV, in Archiep. Mediol., ubi de Johanne Vicecomit.

29.  Che gli altri tutti in probità superava.

30.  Pag. 36.

31.  Bonincontr. Morigia, lib. III. cap. 21.

32.  All'anno 1323.

33.  Non mancavano tuttavia a Lodovico molti argomenti di ragione coi quali, presso il maggior numero delle persone, scusare si potessero le cose da esso fatte; la controversia con Federico austriaco intorno all'Imperio, già decisa colla spada: Milano poi difesa, non affine di assistere l'eretico Galeazzo, ma di rivendicare a sè stesso i diritti dell'Imperio, e di impedire che occupata fosse da Roberto re di Sicilia un'amplissima provincia dell'Imperio, che non mai forse si sarebbe ricuperata. Non però da que' motivi di ragione fu Giovanni rimosso dal meditato disegno.

34.  Raynald. ad ann. 1323, cap. 29 et 30.

35.  Intorno alla di cui morte nulla si sa di certo.

36.  Pag. 70.

37.  Lib. III, cap. 37.

38.  Anecdot., tom. II, pag. 301.

39.  Molto dal vero si allontana.

40.  Bonincontr. Morigia, R. I., tom. XII, col. 1750 D; — e la cronaca d'Azario, pag. 54.

41.  R. I., tom. X, col. 901 B. — Martene, Thesaur. nov. Anecdot., tom. II. — Cod. Italic. Lunig.

42.  Pietro tornato in sè, disse: Venne l'angelo del Signore, e ci liberò dalle mani di Erode e di tutte le fazioni de' giudei.

43.  Gio. Villani, Storia, lib. X, cap. 71. — Albertino Mussato, R. I., tom. X, col. 774 C.

44.  Med. Æv., tom. VI, col. 186.

45.  Giorno e notte gridavano a vitupero del Bavaro: O Gabrione, ebrione, bevi, bevi, ho, ho, Babii, Babo.

46.  R. I., tom. XII, col. 1001.

47.  Villani, cap. 289.

48.  Messale ambrosiano, stampato l'anno 1475 in Milano da Antonio Zarotto; e Breviario, stampato dal medesimo, l'anno 1490.

49.  Tom. X, pag. 482.

50.  Vita di Giotto, tom. I, pag. 95.

51.  Ivi, pag. 46.

52.  Lomazzi, Arte della pittura, pag. 35.

53.  Giulini, tom. X, pag. 332.

54.  Gio. Villani, lib. XII, cap. 37.

55.  Giulini, tom. X, pag. 410.

56.  All'anno 1348.

57.  Aveva la predetta signora Elisabetta, di lui moglie, fatto voto di visitare la chiesa di San Marco in Venezia, come essa diceva. Al quale viaggio acconsentì il signor Luchino. E, fatta una comitiva di molti grandi dell'uno e dell'altro sesso, si pose in cammino, e come una imperatrice, e con grandissime spese e corte bandita, fu ricevuta dal signor Mastino in Verona. E compiè il suo viaggio, e si narra che anche la sua volontà compiesse intorno a carnale congiungimento, e le altre di lei compagne delle primarie della Lombardia fecero la cosa stessa. Per questo nacquero di molti scandali. Ma perchè l'amore e la tosse non si possono nascondere, nè tanto è occulta alcuna cosa che non si riveli, tornata essendo la medesima, il signor Luchino seppe ed udì quello che avvenuto era. Pure, siccome sapiente, pensò a dare le disposizioni per la vendetta. E perchè disse un giorno, che in breve era per fare in Milano la giustizia più grande che mai fatta avesse, con bellissimo rogo, la predetta di lui moglie ben si avvide che essa era l'oggetto di quella giustizia. Essa altronde, che ben conosceva il commesso delitto con tale persona, scusare non potevasi delle cose predette, siccome altra volta erasi scusata. In qual modo andasse quella faccenda si ignora, nè viene agli scritti confidato. Ma il signor Luchino non potè compiere quella vendetta per essere egli stesso mancato di vita.

58.  Petri Azarii, Notarii Novariensis, Syncroni author. Chronicon... Mediolani, 1771, pag 93.

59.  

«Non nuoce aver taciuto, ma parlato».

60.  Uomo era austero nell'aspetto e nell'opere, parco nel promettere, largo nell'attendere.

61.  Mostrava prendersi cura di poche cose, ma di molte curavasi.

62.  Che il prefato magnifico ed eccelso signor Giovanni, figliuolo del fu signor Matteo de' Visconti di buona memoria, e dopo la morte di quel signor Giovanni, nello stesso modo, qualunque altro maschio discendente per linea mascolina e di legittimo matrimonio dal prefato fu signor Matteo de' Visconti, sia e sieno a perpetuità vero e legittimo e naturale padrone, e veri e legittimi e naturali padroni della città e di tutto il distretto e della diocesi e della giurisdizione di Milano.

63.  Matteo Villani, lib. I, all'anno 1350.

64.  Raynald. ad ann. 1330, n. VII.

65.  Matteo Villani, lib. I, all'anno 1351.

66.  Georg. Stellae Ann. Genuens., ad ann. 1354.

67.  Tutta poi trovo la valle del Reno abitata da coloni mandati da Augusto; questa mutazione però di sedi non cambia punto la patria alla quale si va, ma coloro che vanno. Adunque e i Galli andati nell'Asia, Asiani, e gli Italiani andati nella Frigia, Frigii, e questi, dopo l'eccidio di Troia tornati nell'Italia, di nuovo diventarono Italiani. Così i nostri, trasportati nella Gallia o nella Germania, s'imbevettero della natura di quelle parti e de' costumi barbarici, e i Milanesi, stabiliti dai Galli, e Galli una volta, ora come uomini dolcissimi, non serbano alcun vestigio della vetusta loro origine; così da forza celeste sono modificati gli umani ingegni.

68.  Francisci Petrarchae V. C. contra cujusdam Anonymi Galli calumnias, ad Ugutionem de Thienis Apologia, tom. II, pag. 1083.

69.  

«O caro al cielo, e per illustre schiatta

Venerato dai popoli superbi,

Almo fanciullo, a te dolce la vita,

E sia vivace nell'infanzia il brio!

Lieto t'innoltra, o lungamente atteso,

Dono alla patria, ai padri ed a noi tutti;

E di vita il cammino astri felici

T'additin certo tra secondi eventi!

Te il Po signore attende...»

70.  

«Ma all'egregio garzon, già grandicello,

Questa coppa si doni, e ad essa accosti

Le rosee labbra; a' piccioli conviene

Picciolo dono: minimo son io;

Ei massimo; ma ancor l'etade è scarsa;

Appena egli apre a nuova luce gli occhi,

E trepido lo sguardo al ciel rivolge.

All'età s'offron, non al grado, i doni.

Giuoco or farà del nitido metallo,

Che altero sprezzerà d'anni più grave,

Qualora ei sappia che lucente feccia

Dalle profonde viscere si tragge

D'alpestre terra; ma a lui forse grati

Saranno allor miei carmi, e, rileggendo,

Rammenterà ch'io lo levai dal fonte.

Tanto onor mi concesse il genitore».

71.  Francisci Petrarchae Florentini V. C. operum, tom. III, pag. 113.

72.  La città di Milano, capitale dei Liguri e metropoli, sin quasi all'invidia ignara tuttora di queste calamità, e per la salubrità e dolcezza dell'aere, e per la frequenza del popolo gloriosa, nell'anno sessantesimoprimo deserta rimase e squallida.

73.  De Rebus Senilibus Epistolar., lib. III, epist. I ad Johannem Bocatium.

74.  Benaglia, Del magistrato straordinario, cap. 12.

75.  Tom. XI, pag. 426.

76.  Tom. VII, pag. 392.

77.  Giulini, tom. XI, pag. 32.

78.  Cioè, di pane di frumento buono e ben cotto e bianco, e di vino buono e puro in quantità sufficiente; e di capponi, uno cioè intero per ogni due persone, e di carne di bue e di porco con buone salse di pepe, cioè un frammento o un pezzo di carne di bue, competente e buona per ogni due; ed un altro frammento o un pezzo di porco con buone salse di pepe per ogni due; ed un frammento o un pezzo di carne porcina fritta o arrostita col pane gratuggiato per ogni due; e tutte queste cose, secondo che è convenevole, appresti in ciascun anno a sufficienza.

79.  Tom. VIII, pag. 653.

80.  Ora però nell'età presente, agli antichi costumi molte cose si sono aggiunte, come irritamenti a danno delle anime; perciocchè le vesti preziose sono da ogni parte coperte di superflui ornamenti: nelle stesse vesti, tanto degli uomini, quanto delle donne, si inseriscono l'oro, l'argento, le perle. Larghissimi fregi si sovrappongono alle vesti. Bevonsi vini forastieri e delle parti oltramarine; tutte le vivande sono sontuose, ed in grandissimo prezzo si tengono i maestri dell'arte della cucina.

81.  R. I., tom. XII, col. 1034.

82.  Che il luccicare degli specchi superavano. Perciocchè i soli fabbri delle corazze montano a parecchie centinaia, senza contare innumerabili operai ad essi subordinati.

83.  Perciocchè gli stessi mercatanti scorrono la Francia, la Fiandra, l'Inghilterra, comperando lana fina, colla quale in questa città si tessono panni fini in grandissima quantità, che si tingono in qualunque sorta di colore e che si portano per tutta Italia.

84.  R. I., tom. XI, col. 1320.

85.  Giulini, tom. VII, pag. 65.

86.  Giulini, tom. XI, pag. 149, 167, 475, 497 e 502.

87.  MCCCLXXXVIII nel giorno XXII di luglio. Dai signori vicario e XII di Provvisione del comune di Milano, e dai sindaci del detto comune eletti furono gli infrascritti cittadini di Milano, che sono e s'intendono di essere il consiglio dei DCCCC del comune di Milano.

88.  Med. Æv. Dissert. 38, pag. 815.

89.  Signorol. Omodeus, Cons. XXII.

90.  Giulini, tom. XI, pag. 514.

91.  Il detto, tom. XI, pag. 119.

92.  Decreta antiqua, pag. 51.

93.  Siccome ancora si fanno estorsioni di diversi modi dai gabellieri della dogana delle bestie grosse e minute del detto vostro contado.

94.  Vogliamo bensì che agli impresari dei dazi del detto nostro comune si mantengano i loro patti.

95.  Decreta antiqua, pag. 50.

96.  Ibid., pag. 173.

97.  Giulini, tom. XI, pag. 118 e 557.

98.  Cardinali della santa chiesa milanese.

99.  Giulini, tom. VII, pag. 196.

100.  Una pelliccia di coniglio, coperta di violato, ed altre due... cioè una di volpe, coperta di scalfanio (specie di panno), ed altra di fianchetti, coperta di saglia bruna, e... il mio cappello grigio, coperto di saglia nera, ed il mio copertorio e la sorada o la mia veste doppia... la mia cappa turchina, la mia cappa di mantellato... cinque cucchiai d'argento, e il mio mantello foderato di zendado... il mio vestito violato.

Mastruca, come porta l'originale, è veramente pelliccia, e non solamente quella de' Sardi, come opina il Du Cange. Trovansi nei codici del medio evo altre vesti e pelliccie di fianchetti, fatte forse di pelle dei fianchi. Il mantellato era pure una specie di veste e di panno.

101.  A tutti poscia i cherici proibiamo le vesti rosse o di diverso colore, gialle e verdi.

102.  Sormani, Gloria de' santi milanesi, pag. 211.

103.  Vesti vergate, o bianche e nere per metà, o listate, o con fregi, o con bottoni d'argento o di alcun altro metallo.

104.  Non portanti cappucci alla maniera dei laici.

105.  Giulini tom. VIII, pag. 642 e 644.

106.  Conviene però sapere che il giudizio del ferro rovente nella città nostra non si ammette, sebbene altrimente si osserva in alcuni luoghi posti sotto la giurisdizione del signor arcivescovo.

107.  Lib. V, cap. 81.

108.  Raynald. ad annum 1356, num. 30.

109.  O monopolisti delle granaglie, o uomini nutriti del sangue del popolo, non aspettate il giorno del giudizio?

110.  Predicando egli, dicesi che propalasse i peccati occulti di quelli della famiglia Beccaria, che ad esso erano stati narrati nel sacramento della penitenza, e specialmente del signor Castellino disse tali cose, che tutto il popolo sedusse ed animò all'esterminio di tutti i Beccaria, e della prole e discendenza loro e de' loro amici, e alla ruina e al saccheggio delle loro case. Ed allora tosto, sena premettere alcun avviso, tutte le case, abitazioni e palagi di essi e dei seguaci loro fece atterrare, e portar via le pietre e venderle, promulgando che ciascun Pavese tenere dovesse quelle pietre sotto il capezzale e a capo del letto, a perpetua memoria, delle furfanterie commesse dai Beccaria.

111.  Petri Azarii Chronic., pag. 237.

112.  Perciocchè dal carroccio, nel quale spesso era portato (e beato colui che poteva toccare quel carroccio, coperto di panni per il di lui uso!) cominciò a predicare ed a sgridare gli uomini e le donne, perchè dovevano evitare i lacci mondani, cioè le vesti lussuriose e sontuose, le masserizie d'argento e le gemme preziose, e gli ornamenti... e per esecutore fece eleggere un ufficiale, che io vidi a tagliare le grandi maniche dello guarnaccie, tessute con lavoro frigio, od ornate d'oro e d'argento, e a tagliare le cinture, se qualche cosa preziosa intorno ad esse trovavasi.

113.  Fece pubblica giustizia col taglio della testa... Vendute avendo adunque le cose predette, l'oro, l'argento, le gemme, i diamanti e le pietre preziose fino a Venezia.

114.  Che non dubitasse della mancanza delle vettovaglie, sapendo esso (perciocchè così asseriva) per mezzo della orazione... che avrebbe impetrato che la manna simile a quella data a Mosè nel deserto, sarebbe caduta in sufficiente quantità.

115.  Erasi pigliata cura degli altri, non di si stesso, siccome sempre allegava nel predicare.

116.  Veggasi l'Azario, dalla pag. 235 sino alla pag. 241.

117.  Raynald. ad ann. 1362, num. 12.

118.  Non sai, poltrone, che io sono papa ed imperatore, e signore in tutte le mie terre.

119.  Esso signor Barnabò ai suoi giorni ebbe in odio gli uomini scienziati, laici, cherici e prelati, e qualunque uomo virtuoso; e sempre elevò sublimemente gli idioti, i crudeli, gli uomini vili, infami ed omicidi.

120.  Annal. Mediol., pag. 799.

121.  Annal. Mediol., cap. 147 in fine. — Gattari, Storia padovana, R. I., tom. XVII.

122.  Matteo Villani, lib. XI, cap. 41.

123.  Perciò il Signore ti distruggerà finalmente, ti svellerà e farà esule te dal tuo tabernacolo, e la progenie tua dalla terra dei viventi.

124.  Annal. Mediolanens., cap. 147 in fine.

125.  Raynald. ad ann. 1364, § 3.

126.  Idem, A. 1368, § 2.

127.  Raynald. ad ann. 1372, num. I.

128.  Codice A, MS., nell'archivio del R. castello di Milano.

129.  Azario, pag. 282.

130.  Considerando noi i tempi di sterilità e le calamità delle guerre.

131.  Decreta. Antiqu. Mediol. Docum., pag. 54.

132.  Corio all'anno 1374.

133.  Senza altra determinazione nè difesa antecedente, comandò che un suo famigliare partisse per espresso colle sue lettere, dirette al podestà di Bergamo, affinchè egli, quelle vedendo, facesse impiccare per la gola il detto Antoniolo, sotto pena di essere impiccato il podestà medesimo. Il quale podestà, sebbene di malavoglia, fece impiccare il detto Antoniolo nel palazzo di Bergamo, senza frapporre alcuna dilazione, se non finchè confessato si fosse al sacerdote.

134.  Azario, pag. 275.

135.  Annales Mediol., ad ann. 1366.

136.  Idem, ad ann. 1370.

137.  Ibidem, ad ann. 1381.

138.  Tom. XI, pag. 360 e 376. — Anche Matteo Villani nelle istorie R. I., tom. XIV, pag. 370, scrisse Come i Visconti fecione contro i prelati de Santa Chiesa. Avvenne in questi dì (cioè verso il maggio del 1357) che il papa mandò un valente prete in Lombardia a predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere la grazia di quell'uffizio, e la croce si bandiva e si predicava, come è detto, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza; il valente sacerdote se ne andò a Milano, e, ivi favoreggiato dal vescovo di Parma, cominciò sollecitamente a fare l'ufficio che commesso gli era dalla Santa Chiesa. Come metter Barnabò ebbe notizia di questo servigio, senza vietarglielo o ammonirlo che questo fosse contro alla sua volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro, tonda, a modo di una botte, con manichi da voltarla, dentro vi fece mettere il sacerdote, e accesovi sotto il fuoco, come si fa a un arrosto, e facendolo volgere, crudelmente il fece morire.

139.  L'Azario, pag. 310. — Annal. Mediol. R. I., tom. XVI, col. 740. — Chron. Placent., R. I., tom. eod., col. 510, E. — Veggasi anche la Cronaca di Bologna.

140.  Tom. IV, pag. 100.

141.  L'intenzione del signore è che dei capi traditori si incominci il castigo a poco a poco. Il primo dì, cinque tratti di curlo (probabilmente di corda); il secondo si riposi; il terzo dì, similmente cinque colpi di curlo; il quarto si riposi; il quinto giorno, similmente cinque colpi di curlo; il sesto si riposi; il settimo, similmente cinque colpi di curlo; l'ottavo si riposi; il nono si dia loro a bere acqua, aceto e calcina; il decimo si riposi; l'undecimo dì, similmente acqua, aceto e calcina; il duodecimo si riposi; il decimoterzo giorno si taglino due correggie di pelle sulle spalle, e si lasci sgocciolare sopra (forse acqua od olio bollente); il decimoquarto si riposi; il decimoquinto giorno si levi loro la pelle della pianta di ciascun piede, poi si facciano camminare sopra i ceci; il decimosesto si riposi; il decimosettimo camminino sopra i ceci; il decimottavo si riposi; il decimonono si pongano sopra il cavalletto; il vigesimo si riposi; il vigesimoprimo si pongano sul cavalletto; il vigesimosecondo si riposi; il vigesimoterzo giorno si tragga loro un occhio dal capo; il vigesimoquarto si riposi; il vigesimoquinto si tronchi loro il naso; il giorno vigesimosesto si riposi; il vigesimosettimo si recida loro una mano; il ventesimottavo si riposi; il ventesimonono si tagli loro l'altra mano; il trentesimo giorno si riposi; il trentesimoprimo si tagli loro un piede; il trentesimosecondo si riposi; il trentesimoterzo si tagli loro l'altro piede; il trentesimoquarto si riposi; il trentesimoquinto si recida loro un testicolo; il trentesimosesto giorno si riposi; il trentesimosettimo si recida loro l'altro testicolo; il trentottesimo si riposi; il dì trentesimonono si tagli loro il membro virile; il quarantesimo si riposi; il quarantesimoprimo siano attanagliati su di un carro, e poscia si pongano sulla ruota.

142.  L'esecuzione di quelle pene fu compiuta riguardo a molte persone negli anni 1372 e 1373.

143.  Petri Azarii Chronicon, pag. 301.

144.  Corio, all'anno 1369.

145.  Dato nel castello nostro Zoloso.

146.  Giulini, tom. XI, pag. 294.

147.  La quale casa (dice Azario), cogli ornamenti e le pitture e le fontane, oggi non si farebbe con trecentomila florini.

148.  Pag. 283.

149.  Pag. 269.

150.  Siton. Monum. Vicecomit., pag. 21.

151.  R. I., tom. XVII.

152.  Di questi tempi è un ducato d'oro di Siena colla biscia, che possedo nella mia collezione.

153.  Ma certamente con vana credenza noi stessi deludendo, ci ingannavamo, persuadendoci che quello potesse esser fedele, che stato era tanto sleale nepote e genero e fratello, verso lo zio, il suocero e i fratelli, e del quale tante volte ed a noi e ad altri era stato provato non avere la fede alcuna costanza, se non che in questo solo che le cose promesse mai non manteneva... Noi però, cambiando la sorte delle cose, dichiariamo la guerra al tiranno della Lombardia, che cerca di farsi re, e di farsi ungere come tale.

154.  Lettere de' principi, stampate in Venezia, 1374.

155.  Il detto signor conte, egli stesso a chi gli piaceva, conferiva tutte le dignità e i benefizi ecclesiastici dei paesi di dominio dello stesso signor conte che conferire dovevansi, e il detto signor papa confermava i detti benefizi e le dette dignità a tutti coloro che il detto signor conte aveva eletti.

156.  Ad annum 1381.

157.  Annal. Mediol. ad ann. 1398.

158.  Si leghi con catena di ferro ad una colonna, con un anello di ferro che giri all'intorno, e col quale possa girarsi all'intorno l'uomo medesimo, la quale catena sia quanto più potrà farsi lunga, cosicchè soffra una morte più dolorosa; colà tuttavia sia abbruciato in modo che muoia.

159.  Ad an. 1395 in fine.

160.  Ecco, testimonio ai popoli e precettore alle genti, io ho dato lo stesso duce. — Venerabili padri e spettabili signori miei, assai giustamente venerabili, tutta la patria dei Milanesi può domandarmi con eguale premura. — Di', te ne prego, o vescovo novarese, quali motivi indussero il sacro cesareo animo ad accordare al nostro comune l'onore sublime del ducato? — Alla quale io rispondo: — la quadruplice situazione delle cose; la provvida benignità del Re Eterno; la conformità cortese di un atto degno di un congiunto; la obbediente fedeltà della casa Viperea; la congruente utilità di tutta la plebe.

161.  Celebre potenza di valido vigore; nobile prosapia di fulgido decoro; ilare clemenza del placido donatore.

162.  La prosapia della famigia, molto raggiante; la bellezza del corpo, molto speciosa; la tranquillità dell'animo, assai virtuosa.

163.  L'orazione può leggersi nella biblioteca Ambrosiana, nel codice MS segnato B. N., pag. 116.

164.  Corio, all'anno 1395.

165.  Le misure che io assegno al Duomo sono diverse da quelle che si leggono presso gli autori. Io le ho fatte verificare. Il Morigia, il Lattuada e il Sormani danno la lunghezza di braccia 300, ed errano di cinquanta braccia. Il Morigia lo fa largo braccia 145; il Sormani 150; il Lattuada 151. Il Torri dà la lunghezza di braccia 260, ed erra di braccia 10 1⁄2. Il Bugati s'accosta più degli altri alla verità ed assegna lunghezza braccia 250, col piccolo errore di mezzo braccio; e larghezza braccia 130, la qual misura è prossimamente quella della croce, se si voglia ommettere lo sfondato delle cappelle. L'autore del Distinto ragguaglio dell'ottava maraviglia del mondo, ossia della gran metropolitana dell'Insubria, volgarmente detta il Duomo di Milano, malgrado l'ampollosità del frontispizio, fa la lunghezza minore della vera, fissandola a braccia 248, e la larghezza braccia 128, misura parimenti minore del vero. Nella pianta pubblicatasene coi funerali di Carlo VI augusto, risulta ancor più erronea la lunghezza stabilitavi di braccia 243; la quale comunemente, e per tradizione, si crede la vera misura, anche da chi ha ingerenza nella fabbrica del Duomo, sebbene manchi dal vero braccia quattro e mezzo. Questa nota può dare un'idea della poca esattezza dei nostri scrittori, e del tedio che ho dovuto soffrire per rintracciare il vero in quest'opera. Non sarà, credo, spiacevole ai lettori il paragone fra le misure del Duomo e quelle di San Paolo di Londra e di San Pietro di Roma. Le misure di San Paolo di Londra le ho estratte del The Foreigner's guide, or a necessary and instructive companion Both, for the Foreigner and native in Their Tour through the Cityes of London and Westminster — London — the fourth edition 1763, pag. 73. Le misure di San Pietro le ho ottenute da Roma, e sono fatte dall'attuale architetto di quella basilica, il signor Simonetti.

San Paolo è lungo 500 piedi d'Inghilterra, largo piedi 249; e la cupola è d'altezza piedi 340; alla sommità della quale evvi la croce di altri 10 piedi; onde l'altezza somma è piedi 350.

San Pietro è lungo 829 1⁄2 palmi romani; alla croce è largo palmi 615; e dal pavimento sino alla sommità della croce sopra il lanternino, è la somma altezza palmi 593.

Il piede inglese è once sei, punti uno, atomi otto e 4⁄5 d'atomo del braccio nostro. Il palmo romano è quattr'once, sei punti 33⁄100 d'un atomo del nostro braccio.

Ridotto il paragone a braccio milanese

  Altezza Lunghezza Larghezza
Duomo 180— 249 1⁄2 148 1⁄8
San Paolo 174— 236— 127 1⁄2
San Pietro 222 1⁄2 311 1⁄3 230 3⁄4

Il Duomo di Milano supera San Paolo di Londra nell'altezza e nella larghezza; ma è 42 braccia meno alto, 61 5⁄6 braccia meno lungo, e 82 5⁄8 braccia meno largo di San Pietro.

166.  Corio, all'anno 1391.

167.  A coloro che veramente saranno penitenti e che fatta avranno la loro confessione.

168.  Giulini, tom. XI, pag. 651.

169.  Libero e mondo sia tanto dalla colpa, quanto dalla pena.

170.  Mendacemente simulano queste facoltà non vere da essi pretese, mentre ancora per picciolissima somma di danaro (per servirci delle loro parole) non già i penitenti, ma coloro che il velo di una mentita assoluzione studiansi di apporre con trista coscienza alla loro iniquità, ed egualmente assolvono dagli atroci delitti senza alcuna vera contrizione, e non precedendo alcuna debita forma, o condonano le cose mal tolte, certe ed incerte, non esigendo (il che assurdissimo fu in tutti i secoli) alcuna previa soddisfazione.

171.  Raynald., ad ann. 1390, num. I.

172.  Roberto di Baviera, per la grazia di Dio re dei Romani e conte Palatino del Reno. A te, Giovanni Galeazzo, milite milanese, comandiamo in via di precetto, che tu debba restituire e riconsegnare a noi, cui spetta il governo dell'Imperio, per elezione canonicamente fatta nella persona nostra in imperatore dagli elettori dell'Imperio, tutte le città, i castelli, le terre e i luoghi appartenenti al Romano imperio ed alla nostra giurisdizione, che indebitamente occupati ritieni nell'Italia; altrmente ti diffidiamo come invasore delle terre e della giurisdizione del sacro Imperio, e nostro nemico e ribelle.

173.  A te, Roberto di Baviera, noi Giovanni Galeazzo Visconte, per la grazia di Dio, e del serenissimo signor Venceslao re dei Romani e di Boemia, duca di Milano, ec., e conto di Pavia e delle Virtù, colle presenti rispondiamo che qualunque città, castello, terra o luogo possediamo in Italia, lo riteniamo e lo possediamo per autorità del prefato serenissimo signor Venceslao re dei Romani, e canonicamente investito del governo del sacro Imperio, e tutti quei luoghi intendiamo certamente difendere contra di te, invasore dell'Imperio, e manifesto nemico del predetto signor Venceslao e di noi, e te, manifesto nemico dello stesso Imperio e del signor re Venceslao e nostro, diffidiamo, se mai tu presumesti di invadere il nostro territorio.

174.  Corio, all'anno 1401.

175.  Tom. XII, pag. 54.

176.  Briani, Storia d'Italia, tom. II, pag. 475, ediz. Venet. 1623. — Morigia, Storia dell'antichità di Milano, pag. 644, ediz. Venet. 1392.

177.  Veggasi il Poema del P. Enrico Barelli, De Alberico VII, in Milano presso Marelli, 1782.

178.  Rer. Ital., tom. XVI, colum. 1021 et sequ.

179.  Il nostro duca impose taglie, convenzioni e prestiti così grandi e continui ai sudditi suoi entro il suo dominio, che forzati erano essi ad andare vagando in terre straniere, capaci non essendo a sostenere quei pesi, e si udirono gli urli delle vedove e degli orfani e degli altri singoli, e grande strepito degli inferiori, ed immense crudeltà. E coloro che pagare non potevano, ritenevansi prigioni, e i loro beni usurpati erano dagli stipendiati.

180.  Annal. Mediol., ad ann. 1401.

181.  De Monet. Ital., tom. III, pag. 59.

182.  Giulini, tom. XI, pag. 521.

183.  All'anno 1387.

184.  Andrea Biglia, lib. 2, col. 29. — Corio, all'anno 1406.

185.  Tom. VII, pag. 612.

186.  Contra di molti adoperò quel genere di nefanda strage che si eseguiva aizzando ai cani, tanto sitibondo di sangue, che, senza spargerlo, non lasciava un solo giorno passare.

187.  R. I., tom. XIX, col. 32 E.

188.  All'anno 1409.

189.  E non molto dopo Facino viene chiamato a Milano, cosicchè nulla più ad esso mancava al dominio dell'una e dell'altra città se non che il solo nome; tutti obbedivano ad un solo, le cose tutte a norma del di lui comando stabilivano, non lasciandoci nè pure per le spese dei giovani quanto bastasse al sostentamento della vita.

190.  Rer. Ital., tom. XIX, col. 34 E., 33 A.

191.  Giulini, tom. XII, pag. 611.

192.  Corio, all'anno 1397.

193.  Il volgo veramente (dice il Biglia) allettato era dall'abbondanza delle vettovaglie; ma gli altri tutti che passare potevano per buoni cittadini, aggravati erano da tributi intollerabili... Molti uccisi furono per effetto di pubblica e di privata licenza.

194.  Al giovane diedero questi avvertimenti (dice il Biglia), che la moglie, se non pure repudiata, tenesse certamente come già da esso separata.

195.  Rer. Ital., tom. XIX, col. 44 e sequ.

196.  All'anno 1418.

197.  Decembrio, cap. 68; e Stella.

198.  Quest'Alberico aveva per suo avo l'altro del quale ai fece menzione alla pag. 127. Si era confederato col duca; e siccome con ciò egli esponeva le proprie terre della Romagna (come in fatti vennero poi conquistate dalle armi pontificie), così Filippo Maria gli diede la signoria e contea di Belgioioso col castello, pro aliquali rependio, come leggesi nel diploma. Per assicurarsi poi che i Barbiani non ricuperassero i loro Stati, il papa investì della contea di Lugo la casa d'Este, già dipendente pel marchesato di Ferrara. Chi ha considerata la concessione di Belgioioso come una beneficenza del duca Filippo Maria, non ha posto mente a questo fatto. Pur troppo è vero che il duca non beneficò mai costantemente un uomo di merito.

199.  Donato Bosso, all'anno 1444.

200.  De studiis Mediol., cap. VIII, pag. 34.

201.  Biblioth. Script. Mediol., ubi de Philippo Maria Vicecomite.

202.  Nè sprezzò egli, nè tenne in onore e in pregio gli uomini addottrinati negli studi delle lettere e delle scienze, e maggiormente ammirò, di quello che ei coltivasse la loro dottrina.

203.  Decembrio, cap. 42 et seg.

204.  Salve, o viaggiatore, vedi, qui sta l'imagine somigliantissima di quel papa Martino, quinto nelle serie, che, buon pastore per indole, resse la Chiesa a te Roma, ec... Autore di questo carme è Giuseppe Brivio, ordinario, dottore di gius canonico e maestro di sacra teologia, ec.

205.  Ma l'autore di questa insigne immagine fu Giacobino di Tradate, profondo nell'arte che io ardirei dire non minore, ma bensì maggiore di Prassitele.

206.  Tom. XII, pag. 438.

207.  Di mirabile furberia faceva uso nello scegliere i consultori che nominati sono consiglieri; perciocchè eleggeva uomini probi ed illustri per sapere; ed a questi dava per colleghi uomini scandalosi, affinchè nè quelli potessero appoggiarsi alla giustizia, nè questi sviluppare la loro perfidia, ma egli prevenuto fosse di tutto, per la continua discordia che tra di essi regnava.

208.  Decembrio, cap. 34.

209.  Tanto arrossì della sua cecità, che fingeva di vedere chiaro, avvertendolo segretamente i suoi camerieri.

210.  Cap. 36.

211.  Oratio super populum — Praetende, quaesumus, Domine, famulabus tuis Blanchae Mariae et Agneti dexteram coelestis auxilii ut te toto corde perquirant, et quod digni postulant, assequantur. Per etc... — Super Syndonem — Fac, quaesumus, Domine, famulas tuus Blancham Mariam et Agnetem toto corde semper ad te accurrere, et tibi subdita mente servire, tuamque misericordiam suppliciter implorare, et tuis jugiter beneficiis gratulari. Per etc... — Super Oblata — Propitiare, Domine, supplicationibus nostris et has oblationes famularumque tuarum Blanchae Mariae et Agnetis, quas tibi pro incolumitate earum offerimus, benignus assume, et ut nullum sit irritum votum, nullius vacua postulatio, praesta, quaesumus ut quod fideliter petimus, efficaciter consequamur. Per Dominum, etc... — Praefatio — Aeterne Deus, in te sperantium consolator, et subditorum tibi mentium custos, inclina aures misericordiae tuae ad praeces humilitatis nostrae, et famulabus tuis Blanchae Mariae et Agneti propitius adesse dignare. Veniat super eas spiritualis a te benedictionis ubertas, ut pietatis tuae repletae, muneribus in tua gratia, et in tuo nomine laete semper exultent. Per Christum, etc... — Post Comunionem — Da, quaesumus, Domine, famulabus tuis Blanchae Mariae et Agneti in tua fide, et sinceritate constantiam, ut in charitate divina firmatae, nullis tentationibus ab earum integritate evellantur. Per etc...

(Orazione sopra il popolo. — Stendi, o Signore, te ne preghiamo, la destra del celeste aiuto alle tue ancelle Bianca Maria ed Agnese, affinchè a te con tutto il loro cuore aderiscano ed ottengano quello che degnamente ricercano; per, ec. — Sopra la Sindone. — Fa, o Signore, te ne preghiamo, che le tue ancelle Bianca Maria ed Agnese sempre con tutto il cuore loro a te ricorrano e a te servano con mente devota, e la tua misericordia supplichevolmente implorino, e possano un giorno mostrarsi grate coi cuore ai tuoi benefizi; per, ec. — All'Offertorio. — Mostrati, o Signore, propizio alle nostre suppliche, e benigno ricevi queste obblazioni delle tue ancelle Bianca Maria ed Agnese, che a te offeriamo per la loro salvezza; ed affinchè irrito non sia alcun voto, nè vana la preghiera di alcuno, concedi, te ne preghiamo, che quello che fedelmente chiediamo, efficacemente possiamo ottenere; per il Signore, ec. — Prefazio. — Eterno Dio, consolatore di coloro che in te sperano, e custode delle menti a te devote, piega le orecchie della tua misericordia alle preghiere della nostra umiltà, e degna di mostrarti propizio alle tue ancelle Bianca Maria ed Agnese. Venga sopra di esse la dovizia della spirituale tua benedizione, affinchè, colmate dei doni della tua pietà, liete sempre esultino nella tua grazia e nel tuo nome; per Cristo, ec. — Dopo la comunione. — Accorda, o Signore, te ne preghiamo, alle ancelle tue Bianca Maria ed Agnese la costanza nella tua fede e nel sincero tuo servigio, affinchè, confermate esse nell'amore divino, smosse non sieno giammai per alcuna tentazione dall'integrità di que' proponimenti, per, ec.)

212.  Che dirò di Milano, potentissima città d'Italia e metropoli della Gallia Cisalpina, nella quale tanto numerosi sono, e tanto diversi i generi degli artefici, tanto grande è la frequenza del popolo, che di là ebbe origine il volgare proverbio: Chi volesse ricomporre l'Italia, dovrebbe distruggere Milano.

213.  Kloch, de Ærario, lib. 2, cap. 36, pag. 598. Norimbergae, 1671.

214.  Cosicchè facilmente si reputa che in quella città possano armarsi più di trentamila uomini.

215.  R. I., tom. XIX, pag. 105.

216.  Meraviglioso è a dirsi che quello i soli Milanesi osarono promettere, che a stento in que' tempi fornito o fatto avrebbono Firenze e Venezia. Sì grande è in questa età la popolazione di una città sola, sì grande la consuetudine di trafficare nel paese e nelle straniere regioni.

217.  Rer. Ital., tom. XXII, col. 939.

218.  Rer. Ital., tom. XXII, col. 956.

219.  Archivio di città, registro A, foglio 40.

220.  Nell'archivio di città al registro B leggonsi: 17 agosto 1447, ordine dei signori vicario e XII di Provvisione per adunare il consiglio dei novecento, onde prestino il giuramento i consiglieri che non aveano giurato. Foglio I, tergo. Altro dei medesimi vicario e XII, perchè niuno ardisca di rompere le conche sopra i navigli o lo steccato di Cusago, del 23 agosto 1447. Registro B, foglio 10, e sotto la data medesima, v'è altro editto de' suddetti sulla macina del grano, che proibisce a' mugnai la compra: pure il 24 agosto, altro simile editto del vicario e XII proibisce ai fornai di vendere a staio il pane di mistura; registro suddetto, foglio 2. Esso registro B è pieno di editti del tribunale di Provvisione, l'ultimo dei quali è al foglio 408, contenente una proibizione di ascendere sopra il tetto del Broletto, in data 10 febbraio 1450, sedici giorni prima che Francesco Sforza si rendesse padrone di Milano; dal che si conosce che la giurisdizione ordinaria del tribunale di Provvisione in quel tempo di repubblica, o anarchia che ella si fosse, rimase intatta e continuata. Lo stesso io trovo essere accaduto al magistrato Camerale, ossia ai Maestri delle entrate, che conservarono la loro giurisdizione; ed uno dei primi editti di quell'interregno è del 20 agosto 1447, col quale si comanda che ciascuno paghi il tributo sulle merci alle porte della città. Veggasi registro B, foglio 6. Altro del 22 detto per la propalazione dei beni del defunto duca. Veggasi registro B, foglio 8, tergo. Ne è pieno quel registro sino al giorno 7 gennaio 1450, in cui il magistrato Camerale ordinò che si pagasse il tributo della dogana, come dal citato registro al foglio 402.

221.  Registro civico B, foglio 14, tergo, ove leggesi questa grida del 30 agosto 1447 per la demolizione e vendita del castello e delle gioie del duca.

222.  Registro civico B, foglio 16, tergo, ove leggesi il proclama dei capitani e difensori della libertà, acciocchè ogni persona atta a portare le armi si presenti a servire sotto il comando del signor conte Francesco, capitano generale, in data 3 settembre 1447.

223.  I capitani e difensori della liberti dell'illustre ed eccelsa comunità di Milano. — Prudenti concittadini nostri carissimi. Poichè l'Onnipotente Iddio nostro, per il passaggio da questa ad altra vita dell'illustrisssimo principe e signor nostro Filippo Maria, di buona memoria, la grazia della libertà a noi liberalmente accordò, che noi stabilito abbiamo di ritenere e conservare in tutte le maniere e con fermo intendimento, di comune consenso abbiamo deliberato di abbruciare i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e le scritture dell'inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, delle bocche e dell'aggravio del sale e di qualsivoglia altro aggravio, e di dare così un segno per cui il popolo e la plebe intendano che quind'innanzi saranno immuni ed esenti da simili angherie e gravezze. E quindi concependo buona speranza dello stato della libertà medesima, e di questa nostra repubblica, si rallegrino e si congratulino, e le dovute grazie rendano per questo allo stesso Dio Onnipotente Signor nostro. Nè meno rafforzino l'animo loro, e dispongasi a volere in oggi spontaneamente e di buona voglia fare quello che altre volte loro malgrado e forzati facevano, cioè nel dar fuori, secondo le loro facoltà, il danaro, tanto per formare e compiere il tesoro del gloriosissimo sant'Ambrogio, patrono e protettore nostro, quanto per le spedizioni delle compagnie di armigeri della comunità predetta, per mezzo delle quali non solo la libertà nostra ritenere conservare possiamo, come è incominciata, ma ancora confermare, arricchire ed aumentare la repubblica, e sempre giornalmente in meglio ingrandirla e dilatarla, a confusione di tutti coloro i quali si studiano con ogni loro sforzo e con tutte le loro insidie di rivalizzare con questa inclita città. Vogliamo adunque che, fatta la elezione, a due dei vostri subito ordiniate che essi due insieme, dei quali si inseriranno più abbasso i nomi, ricerchino e si facciano consegnare tutti i libri, gli estratti, i quaderni, le filze e tutte le scritture degli inventari, delle tasse, delle taglie, dei fuochi, della gravezza del sale e di tutte le altre gravezze di qualunque genere, specie e materia esse fossero. E questi documenti, bene rivoltati una e due volte, e visti e diligentemente esaminati, con ritenere quelli soltanto nei quali si riconosca qualche utilità della camera della predetta comunità e del territorio, ed anche di alcune singole persone; tutti gli altri predetti documenti facciano palesemente e pubblicamente dare ed abbandonare al fuoco, perchè siano abbruciati, colla quale specie di spettacolo il popolo stesso parimente e la plebe pigliandone gratissimo piacere, possano esultare e giubilare e tributare lodi al santo rammemorato, il quale quest'inclita città in felice e fausto stato sempre conservi e difenda.

Data a Milano, il giorno XXI settembre MCCCCXLVII. — Giovanni dei MantegaziiStefano dei GambaloitiCabriolo del ConteFederico del ConteGiovanni di FossatoFrancio di FiginoGiovanni GiussanoGiacomo di Cambiago Rafaele. — Su la coperta. Ai nobili e prudenti cittadini carissimi nostri, i dodici delle Provvisioni dell'eccelsa comunità di Milano.

224.  Registro civico A, foglio 44, editto del 5 ottobre 1447.

225.  Registro delle gride dal 1447 al 1450, nell'archivio civico, volume B, foglio 142, 212 e altrove, come dalle gride 30 agosto 1448 e 21 gennaro 1449, nella seconda delle quali si ricorre a ripartire i carichi per focolare.

226.  I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa comunità di Milano. Diletto nostro. Affine di consolidare, aumentare, condecorare questo desiderabile stato della libertà che abbiamo ricevuta, reputiamo non tanto convenevole, quanto necessario, il coltivare il decoro delle virtù, l'abbominare le brutture dei vizi; perciocchè in questo modo e grati ci mostreremo a Dio del ricevuto donativo, e della di lui onnipotenza sperare potremo più liberale accumulamento di grazie. Riflettendo noi adunque quanto sporco e detestabile, quanto orrendo sia il delitto da non nominarsi della sodomia, e reputando che la impunità genera un incentivo, e i già infetti di quel vizio suole rendere peggiori, deliberammo e confermammo di nostro avviso con durevole decreto, di non volere più in alcun modo tollerare questo esecrabile e rovinoso eccesso. Sebbene adunque sembri che a ritrarre da questo sceleratissimo delitto coloro che macchiati ne sono, ed a fare che più in avvenire non cadano in simile delitto, bastare dovrebbe la pena del fuoco stabilita dalle leggi santissime e dagli statuti di questa città, che come cosa divulgatissima ignorare certamente non debbono; tuttavia, affinchè la loro infame turpitudine si renda totalmente inescusabile, vogliamo, e a te espressamente comandiamo, che, alla ricevuta delle presenti lettere, patentemente e pubblicamente colla voce del banditore tu faccia divulgare per i luoghi consueti di questa città: che quind'innanzi qualunque persona, di qualunque stato e condizione essa sia, o del territorio, o forestiera, o stipendiata, o godente alcuna provvigione, ed in generale chiunque sia, si guardi e si astenga totalmente da quel delitto, nè ardisca commetterlo in qualunque modo, sapendo e tenendo per certo che se si scoprirà che in quel delitto sia caduto, irremissibilmente sarà punito colla pena del fuoco, a tutto rigore di legge. E tu poscia dovrai adoperare ogni studio e diligenza e cura ad investigare e ricercare questi scelerati, e dovrai procedere contra qualunque tu scoprissi in avvenire avere commesso questo delitto: punendolo a tenore di diritto e col mezzo dello giustizia. Nella qual cosa quanto maggiormente sarai vigilante ed accurato, tanto più avrai servito al dovere ed all'onore, e meglio avrai secondato la nostra intenzione. Ed affinchè gl'inclinati al male da questi delitti si astengano, o vogliamo che agli accusatori o denunziatori di quegli stessi delitti, però con di buoni indizii, si accordi un premio per ciascuna volta, e si tengano segreti, il quale premio sarà di dieci ducati d'oro da levarsi su le facoltà del delinquente, la quale prestazione vogliamo che debba farsi da te e da' tuoi successori, rimossa qualunque eccezione e contraddizione. Scriviamo pure intorno a questo al signor Bartolommeo Caccia, capitano di giustizia di questa città, col quale vogliamo che tu proceda d'intelligenza nel fare eseguire le predette proclamazioni. — Milano, il giorno XVIII di ottobre, MCCCCXLVII.

227.  I capitani e difensori della libertà dell'illustre ed eccelsa città di Milano. — Veduta la richiesta dei barbieri di quest'inclita città, perchè sia confermato certo loro statuto ed ordine; la quale petizione è del tenore seguente: Magnifici ed eccelsi signori di quest'inclita città; i barbieri tanto guidati dalla retta coscienza, quanto ammoniti principalmente dai religiosi confessori e consultori delle loro animi, deliberarono di celebrare i giorni festivi, e di astenersi dalle opere nei tempi illeciti, proponendo, con licenza e consenso della vostra magnificenza, l'ordine stabilito e l'editto, che è dell'infrascritto tenore. Riverentemente adunque supplicano che ad esso, siccome salutifero e commendevole, come sembra, vi degniate d'interporre l'autorità vostra, e di confermare, convalidare e comandare che osservato sia e messo ad esecuzione, con lettere patenti questo statuto, e la relativa ordinazione, comandando altresì a qualunque giusdicente e agli ufficiali di Milano, ai quali in appresso si ricorresse, che a qualunque richiesta dell'abate del Paratico dei detti barbieri intorno all'osservanza ed all'esecuzione di quello statuto, prestino qualunque giovamento, aiuto e favore opportuno. Così adunque stabilirono ed ordinarono che lecito non sia ad alcun maestro della detta arte, abitante nella città o nei sobborghi di Milano, lavorare nè far lavorare di quell'arte, nè nella bottega o nella casa di sua abitazione, nè al di fuori, in alcun giorno festivo, ordinato da celebrarsi dalle istituzioni della Santa Madre Chiesa, tanto Romana, quanto Ambrosiana, e nè pure nelle vigilie di quelle feste, qualora le vigilie trovinsi stabilite nei giorni di sabbato dopo l'ora vigesimaquarta di quella vigilia o del sabbato, sotto pena di lire due delle nuovissime (il testo dice nuperiorum, ma forse dee leggersi imperialum), per ciascuna volta in cui si contrafacesse, e nella pena medesima incorra qualunque domestico o lavoratore della detta arte, il quale, senza licenza e contra la volontà del suo maestro, lavorasse in contravvenzione a questo statuto, e che tale domestico o lavoratore della detta arte non debba nè possa in alcun modo esercitare la detta arte nella città stessa e nei sobborghi, se prima non avrà pagata la stessa multa, ed avanti quel pagamento non debba alcun maestro della stessa arte accordargli alcun aiuto, nè alcun favore sotto la medesima pena; se però avvenisse che alle ore ventiquattro del detto sabbato o di una vigilia come sopra, alcun maestro o lavoratore avesse tra le mani alcuno già ricevuto nella bottega avanti quell'ora, in quel caso possa proseguire sopra quell'individuo che avesse da prima ricevuto impunemente l'opera sua e finirla senza incorrere in alcuna pena; e di tutte quelle pene la metà si applichi alla fabbrica della chiesa maggiore di Milano, e dell'altra metà due parti se ne dieno al Paratico degli stessi barbieri, e l'altra terza parte all'accusatore che denunziata avesse la contravvenzione. Possono altresì l'abate della detta arte ed i suoi ufficiali che saranno a quel tempo, mancando nelle premesse cose le opportune prove, affine di far emergere nelle medesime la verità, forzare qualunque maestro e lavoratore al giuramento, se e come sembrerà convenevole. E avendo noi considerata in questo la devota e lodevole disposizione dei detti barbieri, ed avendo considerato lo statuto stesso che ancora facemmo diligentemente esaminare degli spettabili signori consiglieri di giustizia della predetta comunità, e vedendo che la richiesta dei petenti sembra tendere a cosa onesta ed alla osservanza della fede ortodossa nostra e dei comandamenti della Chiesa, volendo annuire benignamente alla richiesta dei predetti, col tenore delle presenti, anche per certa scienza, quello statuto, che comandiamo e vogliamo sia inserito e scritto anche nel volume degli altri statuti ed ordini del comune di Milano, come grato a noi riconoscendo, approviamo e confermiamo, comandando per questo ai vicari e ai XII delle provvisioni, e agli altri ufficiali della predetta comunità presenti e futuri, ai quali spetta o potrà spettare che, qualora per l'osservanza del detto statuto ad essi si ricorresse, facciano inviolabilmente osservare lo statuto medesimo e le sue disposizioni, e a qualunque richiesta dell'abate del Paratico degli stessi barbieri, prestino qualunque giovamento, aiuto e favore opportuno per l'osservanza di questo statuto, e per la dovuta esecuzione verso i contravventori; e questo purchè nulla si faccia o avvenga in conseguenza contro la disposizione degli altri statuti ed ordini della predetta comunità e in detrimento dei medesimi. In fede di che abbiamo comandato che si facessero e si registrassero le lettere presenti, e si confermassero col munirle del sigillo della predetta comunità. Dato in Milano, il giorno decimosesto di aprile MCCCCXLVII. Sottoscritto — Ambrogio.

228.  Tomo I, pag. 234.

229.  1448 die martis nono Januarii. — Notitia sia a ciascuna persona como li illustri capitanei et difensori della illustre ed eccelsa nostra libertà vogliano dare via le borse de la ventura, le quale borse sono septe, della quale la prima harrà dentro ducati trecento contanti, la seconda ducati cento, la terza settantacinque, la quarta cinquanta, la quinta trenta, la sesta venticinque, la settima venti, e vogliono darle via a la ventura in questa forma, cioè: ciascuna persona de qual conditione, stato e grado voglia se sia, tanto forestiero come cittadino o contadino, et tanto clerico come layco, et maschi et femine, possono portare quelli ducati che loro parirà o uno o due, come loro vorranno al banco de Xphôro figliuolo di messere Stefano Taverna banchero, quale è stato lo inventore di questa cossa, el qual banco è per mezzo li ratti fuori del Broletto, lui ne farà nota nel suo libro fatto solo per questo, cioè a dì tale, la tal persona ha portati tanti ducati, uno o duy quelli che saranno, per volere guadagnare per ciascuno ducato una delle sopra scritte borse, secondo che Dio li darà buona ventura, e così farà nota de tutti quelli che portaranno infina alla prima domenica di febraro prossimo, quale è il dì deputato a dare via le borse, in quello dì serano domandati tutti quelli averanno messi li denari per guadagnare le borse, et si serà fatto tanti scritti per ciascuno quanti ducati haranno messo, li quali scritti haranno suso il nome loro, e questi tal scritti serano messi in una corba suso una baltresca la quale sara posta su la piazza di Sancto Ambrosio onde è usato stare el banco di frate Alberto, acciocchè ciascuno persona possa vedere mettere li scritti tutti in la corba, e vederli voltare tutti sotto sopra per lo dicto Xphôro thesaurario, deputato a questo, ovvero per persona fidata electa per li illustri capitanei, poi sarà tolto una altra corba, nella quale corba saranno messi altrettanti scritti bianchi senza scrittura alcuna, salvi che in quelli sara sette scritti, che l'uno harrà scritto suxo la borsa trecento, l'altro la borsa de li ducati cento, e l'altro de la borsa de' ducati settantacinque, l'altro la borsa de li ducati cinquanta, l'altro la borsa e li ducati trenta, l'altro la borsa de li ducati venticinque, e l'altro la borsa de li ducati venti. Et questi scritti serano voltati molto bene sotto sopra tutti cum quelli non serano scritti. Poi el dicto Xphôro ovvero li deputati per l'illustri capitanei stando di sopra la baltresca, vedando ogni persona, domanderà un qualche bono homo, metterà la corba ne la quale haverà dentro li scritti de li huomini che harranno messi li denari de la mane dritta, e l'altra corba ne la quale serano gli altretanti scritti bianchi, et quelli sette de le borse metterà da la mane sinistra. E poi quello bono homo torrà suso alla ventura duy scritti, cioè l'uno fora de una corba con una mane, e uno fora dell'altra corba cum l'altra mane, tutti duy li scritti ad un tratto, e drieto a questo bono homo seranno due altre fidate persone electe da li illustri capitanei e non suspecte a persona alcuna l'uno de la mane dritta, l'altro da la inane sinistra, li quali torranno quelli duy scritti quali quello bono homo harà tolto suxo ogniuno da la sua parte, e il lezeranno, odando ogni persona quelli tali scritti, verbi grazia l'uno scritto dirà Gioanni da Como, e l'altro nagotta, o vero bianco, quello tale Gioanni da Como per quello scritto serà fora di ventura da havere le borse, et serà infilzato, quello scritto che non avrà suxo nagotta, che sera bianco, sera scarpato; poi quello bono homo ne torrà suxo duy altri scritti in quella medesima forma, et quelli duy leveranno verbi gratia l'uno scritto dirà Antonio da Pavia, l'altro serà bianco, similmente sera facto de questi duy, cioè l'uno infilzato e l'altro scarpato. Et così andara quello bono homo tollendo suxo duy scritti per volta, tanto che torrà suso uno de li scritti de le borse; verbi gratia avrà tolto uno scritto che dirà Petro da Lecco farè, l'altro dirà lo borsa di trecento ducati, quello Petro da Lecco avrà guadagnato quella borsa de li ducati trecento, la qual borsa subito in presentia de tutti sarà data per lo dicto Xphôro Taverna al dicto Petro da Lecco. Poi quello bono homo anderà tolendo suxo le scritte a duy a duy in fino che saranno tolti fora tutti quelli sette scritti delle borse et a chi toccarà la ventura, si sarà date le borse, come è dicto de la prima.

E pertanto anche pare che a chi sia possibile da mettere uno ducato fuosse poco savio a non metterlo, peroche una persona ricca a mettere uno ducato o duy o dece poco li serà sebene no avesse la ventura, avendola tanto migliora una persona mezzana, el simile a una persona povera che in estremo non fusse miserabile seria piuttosto da mettere che li altri, perochè per uno ducato che metta serbandolo in capo dell'anno non se ne accorgerà, a tanto in za come in la li bisogna stentare et lavorare, et se per ventura Dio li presentasse la grazia che avesse una de quelle borse, massime la magiore, non stentereve mai più, si che chi è savio porterà dinari, avisando tutti che li denari che avanzeranno et che se haveranno saranno della comunità nostra, si che quelli che non avranno la ventura delle borse, potranno far rasone averne donati a la comunitate uno ducato, el quale se po appellare averlo donato a se medesimo.

Et se fosse alcuna persona che non intenda bene vada al banco del dicto Xphôro Taverna tesaurario a questo, che in breve gliel darà ad intendere a bocca. — Innocentius Cotta Prior — fu pubblicato questo avviso da Antonio di Areno tubatore. — Gride dal 1447 al 1450, volume B, foglio 65 tergo.

230.  Giornalmente sempre più ammirava tanto la di lui prudenza, la facondia e gli egregi costumi, quanto la bellezza della persona e la maestà del volto e del portamento.

231.  Simonetta, lib. 2, colonna 202. R. I. tom. XXI.

232.  Vedi Simonetta, Vita di Francesco Sforza, Rer. ital., tom. XXI, lib. I, col. 183.

233.  Il citato Simonetta, lib. I, col. 187, dice: Quo nuntio Franciscus gravissime affectus, dolorem immensum per summam constantiam supprimit, seque a lachrymis singultibusque continet. Sed quod maxime expediebat, suos a pugna, rejectis hostibus, revocat. (Dal quale avviso gravemente afflitto Francesco, con somma costanza l'immenso dolore comprime, e dalle lagrime e dai singhiozzi si rattiene. Ma i suoi soldati, il che era la cosa più importante, respinti essendo i nemici dalla pugna richiama.)

234.  Di quei disordini così parla il Decembrio: — [235]Interea Mediolanenses varie inter se fluctuabant. Quidam, victoria elati, Franciscum ad astra praecipuis laudibus ferebant; alii verbis dumtaxat libertatem praedicabant, veram impense onus curamque detrectabant. Erant quibus servitus libertate potior videretur esse... Quibus autem vivendi cum principe consuetudo inerat, quo in numero vir insignis Petrus Pusterla et alii fuere, Franciscum, veluti Philippi filium et afflictis rebus succurrere potentem, magnopere laudabant. E contra, quibus mercatorum familiaritas et usus aderat, quorum minima pars fuit, Venetos, ut divinos quosdam homines, praeponendos dictitabant. Nihil in medium consulebatur; sed, ut vulgo mos est, studia in contraria incerte scindebantur. Sic, confusis civium voluntatibus, plebs omnium ignorans, libertatis dumtaxat nomen sibi adsciverat, et nullo salubri consilio perducta, in optimum quemquam ferebatur, etc. — Rer. Italic. Script., tom. XX, column. 1040, cap. XXXV. Decemb. Vita Franc. Sfortiae.

235.  Intanto i Milanesi variamente nei loro avvisi ondeggiavano. Alcuni, gonfi per la vittoria, con grandissime lodi Francesco agli astri sollevavano; altri con parole soltanto la libertà proclamavano, ma qualunque peso e cura avevano sommamente a schifo. Eranvi di quelli ai quali la servitù migliore sembrava della libertà... Coloro poi che consueti erano a vivere famigliarmente col principe, nel di cui numero erano l'insigne uomo Pietro Pusterla ed altri, Francesco grandemente esaltavano, siccome figliuolo di Filippo, ii solo che soccorso prestare potesse in mezzo al disordine delle cose pubbliche. All'incontro coloro che famigliare consuetudine ed uso avevano coi mercadanti, i quali formavano la minima parte, andavano dicendo che i Veneti, come uomini in qualche modo divini, preferire dovevansi. Non si trattavano gli affari in adunato consiglio, ma come à costume del volgo, incerti i cittadini dividevansi in partiti gli uni agli altri contrari. Per tal modo, confuse essendo la volontà dei cittadini, la plebe, che tutto ignorava, il nome solo della libertà adottato aveva e non guidata da alcun salutare consiglio, portavasi contro qualunque ottimo, ec.

236.  Novariam, Parmam, Dertonam, Alexandriam, aliasque urbes ditioni suae subdit. — Decembr. Vita Franc. Sfortiae, Rer. Ital., tom. XX, column. 1041, cap. XXXVI.

(Alla sua giurisdizione assoggettò Novara, Parma, Tortona, Alessandria ed altre città).

237.  Il proclama è il seguente — 1448 dies XVI novembris. (1448, il giorno XVI novembre.) — Li illustri signori capitanei et difensori de la libertà de la illustre ed excelsa comunità di Milano. Considerate le summe et excelse virtute, probitate et magnanimitate et firma constantia d'animo, la experimentata et inconcussa fede et la longa experentia de le cose bellice et mestiero de arme, et lo braxado amore et admirabile devotione che porta et ha portato et demonstrato con admirabile opere et experientia infinite a questa illustre et excelsa comunità de Milano lo illustre et magnifico messere Carlo da Conzaga cavallero et marchese etc. degnamente l'anno constituto deputato, et electo capitano del popolo de questa illustre città, e de la libertate nostra gloriosa, acciocchè possa provvedere et ordinare tutte quelle cose che siano a salute, tutela e conservazione del dicto populo et de la sancta libertà nostra. Il perchè si ha facta publica crida per parte de li prefacti signori capitani per notitia et mandamento a ciascheduno de quale grado, stato et conditione voglia se sia in la dicta città et borghi in li lochi consueti debia obedire a li commandamenti del prefacto messere Carlo in tutte quelle cose che concernano il bene, l'honore, conservazione, tutella et augumento de la dicta comunità de Milano, et libertà, sotto pena pecuniaria et personale usque ad ultimum suplitium inclusive (fino all'ultimo supplizio inclusivamente), secondo si contiene ne la lettera del dicto capitaneo ad esso messere Carlo concessa per li prefati signori, ed ulterius (ed ulteriormente), sotto pena all'arbitrio de li prefacti signori capitanei a chi contrafarà a questa soa crida et intenzione — Joannes de Meltio prior — Raphael — Cridata ad scalus palatii et per loca solita civitatis per Bertolium de Forlivio trombettam, die Jovis 14 novembris, sono tubarum et pifferorum praemisso. (Giovanni di Melzo priore — Raffaele — Promulgata alle scale del palazzo, e per i soliti luoghi della città, da Bertolio da Forlì, trombetta, il giorno di giovedì 14 di novembre, premesso il suono delle trombe e dei pifferi.) Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 151 nell'archivio della città.

238.  In Milano le cose erano in cattivo stato. Non si può meglio conoscerle che dalle carte autentiche di quei tempi; e tale è la lettera di Giovanni Teruffino ai signori Rafaele e Barnaba Adorni, genovesi, che ritrovasi nell'archivio di città — Codice C, fogl. 69. — Essa così dice: Magnifici Majores honorandissimi. (Magnifici maggiori onorevolissimi.) — Quamvis altro di nuovo non me occorra, tamen acciò non vi maravigliate che niente scriva, scriverò poco da poi le altre lettere a voi scritte. Io non sono andato dalla excellentia del conte, tum perochè essa se lungo da qui, tum per la novitate de Francesco Piccinino occorse, ma avuto Maragnano, che spero con la gratia de Dio sera in fra pochi dì, delibero di andare a la excellentia sua, tam per lo compromesso de Zenovesi ad Galeotto, quam per altro, e sono certo che la disposizione sua sia eadem. Io desidero che si manda ad executione lo facto de Bosco, secundo che altra volta ne dicesti. Li facti di Milano breviter hanno questa conditione. Frumento ghe pochissimo et hanno vetato quelli signori che pane di frumento non se ne venda, perciocchè quello poco frumento lo quale gli è restato voleno per li soldati, ma non gli può bastare per dexe; di segale e di miglio hanno per tutto il mese che viene. Dapoi sette di che Francesco Piccinino e lo fratello andero a Milano non gli hanno dato dinari, eccetto che due mila ducati de molti promissi. Appropinquandosi apresso Milano la excellentia del conte come se bene, havuto Marliano, verosimile è che Milano non se tegnerà quindici dì per mancamento e de victuaglie, et de dinari, et de strame, e per infinita gente malcontenta. Dio governa la cosa in modo che questa nostra provincia habbia quiete. Bene valete — Dat. Papiae, die XXVIII aprilis 1449. — Vester famulus Teruffinus — a tergo: Magnificis Majoribus honorandis Domini Raphaeli et Barnabae Adornis et Petro Spinulae etc. (Dato in Pavia, il giorno XXVIII di aprile 1449. — Vostro servo Teruffino. Su la coperta: Ai magnifici maggiori onorevoli i signori Rafaele e Barnaba Adorni e Pietro Spinola, ec.)

239.  Sei giorni prima che Milano accogliesse Francesco Sforza, Gaspare Vimercato uscissene dalla città con apparenza di volersi abboccare con Pandolfo Malatesta, comandante delle truppe di Venezia, e probabilmente concertò in vece la dedizione al conte. Il passaporto che gli consegnò trovasi nel codice C, foglio 135 tergo, nell'archivio di città, e dice:[240] Per illustres dominos Capitaneos et defensores libertatis Illustris et Excelsae Comunitatis Mediolani concessa est licentia strenuo Gaspari de Vimercato exeundi hanc Civitatem cum famulis suis ad numerum usque octo, suisque valixiis, bulgis, rebus et bonis, et hoc tute, libere et impune, omnique reali et personali impedimento prorsus amoto, dummodo se non conferat ad partes hostiles, et vadat ad illustrem dominum Sigismundum Pandulphum de Malatestis Ariminensem ac illustrissimi dominii Venetorum, etc. Capitaneum Generalem. Ambrosius Prior — Antonius, MCCCCL, die XX februarii.

240.  Dagli illustri signori capitani e difensori della libertà della illustre ed eccelsa comunità di Milano viene conceduta licenza al valoroso Gasparo di Vimercato di uscire da questa città con i suoi domestici fino al numero di otto, e con sue valigie, bolge, cose e beni, e questo sicuramente, liberamente ed impunemente, rimosso qualunque impedimento reale e personale, purchè egli non si rechi alle parti dei nostri nemici, e vada dell'illustre signore Pandolfo dei Malatesta riminese, e capitano generale dell'illustrissimo dominio dei Veneti, ec. Ambrogio Priore. — Antonio, MCCCCL, il dì X febbraio.

241.  1449, die 27 mensis decembris. (1449, il dì 27 del mese di dicembre.) Al nome del Omnipotente et Eterno Dio et del gloriosissimo nostro patrone sancto Ambrosio deliberando li illustri signori capitanei et difensori della libertate che ciascuno quale metta la persona sua a pericolo per farne uno relevato servitio a tutta questa nostra patria, la quale è indegnamente afflicta da li nostri nemici, ne abbia merito e premio qual sia certo grande et honorevole, fanno noto a ciascuna persona di qualunque stato, grado et conditione se sia, che chi ammazzerà il perfido conte Francesco Sforza, overo ferirà mortalmente, guadagnerà ducati dece millia d'oro, e dece millia in possessione, quali instantemente gli serano numerati cotanti, et dati; et se quella persona sera rebelle o bandezata sarà cavata de ribellione et de bando, et restituiti il soy beni, et havere li dicti premii, et se quella persona sera squadrero o conductero de gente d'arme o di majore conditione, ultra li dicti premii, gli sera duplicata la conducta. Et sel serà soldato di menore conditione, ultra li dicti premii, gli sere duplicata la conducta ut supra. Et appresso a questo se la cadesse alcuno mandare ad executione alcuni de li sopradicti partiti et per quello venisse ad esser morto, serano dati li dicti premii a suoi filioli o a suoi heredi indubitatamente, li quali seranno sempre ben veduti et ben tractati da questa prefata comunitate. Et sel fosse persona alcuna quale dubitasse de conseguire li dicti premii, o venga, o manda uno suo fidato secretamente da li prefati signori capitanei, gli sera facta tal chiarezza et segurezza chel sera ben certo e securo de conseguire li dicti premii, rimossa ogni minima dubitazione — Petrus Prior — Cridata ad scalas palatii et super platea arenghi per Antonium de Arezio Tubetam, die sabbati 27 suprascripti mensis decembris, sono tubarum praemisso. (Pietro Priore. — Promulgata alle scale del palazzo, e sopra la piazza dell'arringa da Antonio di Arezzo trombetta, il giorno di sabbato 27 del soprascritto mese di dicembre, premesso il suono delle trombe.) Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 121, archivio civico.

242.  Vol. C, gride dal 1447 al 1450, foglio 107.

243.  Codice C, foglio 113.

244.  1450, die 23 febbruarii. (1450, il dì 23 febbraio.) — Se in ogni tempo debbe cadauno voglia essere chiamato fidele e devoto cristiano guardarse da fare contro li comandamenti del nostro Signore Dio, molto più è necessario emendare la vita nel tempo della tribulazione et afflictione per impetrare gratia et misericordia da la divina bontà. Intendando aduncha li illustri signori capitanei et deffensori de la libertà nostra prohibire quanto sia possibile, etiam mediante le pene et punitione temporale, la disonestà et detestabile vita de quelli tengano femine a soa posta, et etiandio alcuni quali non temendo il juditio divino, presumano biastemare Dio e la sua gloriosa Madre et li suoi sancti et sancte, li quali duy gravissimi peccati grandemente et pubblicamente si commettono in questa città et in li borghi soi, non senza evidentissimo pericolo de provocare majore ira de Dio contra de noi tutti, denno fare crida et bando che niuno de qualuncha stato, grado, o conditione voglia se sia dal majore al più minimo ardisca ne presuma in questa città borghi et jurisdictione soa tenire in casa sua ne fora de casa femine o sia concubina a soa posta per qualuncha modo se sia, imo cadauno l'havesse o tenesse fra tri dì proximi li debbia avere cazate da se, et esse femine et concubine debiano levarsi et aut spazare la città, aut redurse in loco honesto et tale se intenda che facciano bona, et correcta vita, sotto pena irremissibile de fiorini venticinque a cadun uomo quale sera trovato contrafare, tante volte da essere pagati, quante volte contrafarà, et a cadauna femina contrafaciente, da essere scovata pubblicamente per tutta la città, e poi reducta al publico loco, o cazata fora de la città. Et similmente niuno, come è dicto, ardisca o presuma biastemare Dio, ne la sua gloriosissima Madre, ni etiandio sancto Ambrosio, nostro protectore et patrone, ni alcuno sancto o sancta sotto pena irremissibile, ultra le altre imposte altre volte, de fiorini vinti per cadauna volta a chi contrafarà, et a chi non potrà pagare o non pagarà la dicta pena infra tre dì sotto pena di sguasi tri di corda, vollero ancora et chiarisseno li prefati signori capitanei che cadauno non solo possa, ma etiandio debba accusare qualunque contrafarà li predicti duy casi; accusando, guadagni il quarto della dicta pena pecuniaria, l'altro quarto sia delli poveri de Cristo et la mità sia della comunità, ma chi non accuserà, et sappia chi abbia contrafacto in tenire et biastemare come è dicto, cada in pena per cadauna volta de fiorini cinque et cadauno possa questi altri accusare et della pena si faccia come è dicto, di sopra. Ancora perchè li prefati signori hanno ordinato et comandato che niuno debba zugare a zugo de dadi, tavole et cartexelle, ne lassare zugare in casa sua sotto la pena che contengono le cride fatte sopra di ciò; Adesso chiariscono et volleno che cadauno non solo possa, ma sia obbligato ad accusare qualunca contrafarà, ed accusando guadagni il quarto della dicta pena pecuniaria et de li altri tri quarti se dispona et faccia come è dicto di sopra; ma non accusando et sappiando chi vi abbia contrafacto, cada in pena caduna volta del quarto quale devria guadagnare, et cadauno possa questi altri accusare et della pena se faccia ut supra — Ambrosius Prior — Marcolinus — Cridata ad scalas palatii et per loca solita civitatis per Matteum de Arezio tubetam, die lunae XXIII febbruarii suprascripti (Ambrogio Priore — Marcolino — Promulgata alle scale del palazzo, e per i luoghi soliti della città da Matteo di Arezzo trombetta, il giorno di lunedì XXIII di febbraio soprascritto.) — Gride dal 1447 al 1450, vol. C., foglio 136, archivio civico.

245.  Le cose dei Milanesi incominciarono ad andare al peggio. Perciocchè privi di duci, discordi essendo tra di loro i cittadini, giornalmente ripullulavano consigli peggiori dei primi. Non potevano le pubbliche gravezze del popolo convenevolmente governarsi; non potevano i ricchi sostenere i pesi; non poteva alcuno eseguire i comandi: ma come una flotta dispersa dalla procella, qua e là la plebe era portata dalle onde accavallate. Se alcun raggio di speranza splendeva tuttora nei soldati che rimanevano, turbato era dall'ambizione di Carlo Gonzaga, il quale dominio del popolo ingiustamente aspirando, tutte le cose con lungo sospettare intralciava. Per la qual cosa tutto era squallido per il timore e per la disperazione. Inoltre le congiure da alcuni tramate maggiori angustia ai singoli cagionata avevano. Conciossiachè presi furono ed al supplizio condotti molti nobilissimi cittadini. Ma nè pure colla morte loro raddolcire potevansi l'atrocità della sciagura... I buoni inoltre, privati degli uffizi, incapaci a recare giovamento a sè stessi e agli altri, languivano nel silenzio; la plebe poi, situata tra la speranza ed il timore, il peso tollerava, esultando per il nome solo di dominio.

246.  Vita Franc. Sfortiae, cap. XXXVII; Rer. Ital., tom. XX, col. 1041.

247.  Macchiavelli, sulla prima Deca di Tit. Liv., libr. I, cap. XVII, pag. 87.

248.  Nel fabbricar la casa de' signori Delfinoni vicino alla colonna di porta Nuova scavossi nel 1774 un sasso, su cui leggesi: Franciscus Sfortia Vicecomes, dux, et animo invictus et corpore, anno MCCCCL a IIII Calend. Martias hora XX dominio urbis Mediolani potitus. (Francesco Sforza Visconti, duca, invitto d'animo e di corpo, l'anno MCCCCL il giorno IV avanti le calende di marzo all'ora vigesima s'impadronì del dominio di Milano.)

249.  Questo è il giorno che il Signore ci ha dato; esultiamo e rallegriamoci in esso.

250.  All'archivio pubblico può esaminarsene da chi lo voglia l'originale.

251.  Osservando come tutti i solenni ingressi e dei duchi e dei governatori e degli arcivescovi si fecero sempre dalla porta Ticinese, mi sembra probabile che quest'usanza discenda sino dai tempi de' Longobardi, quando Pavia fu la capitale e la città regia; e forse l'arcivescovo, dopo d'essere stato riconosciuto dal sovrano o suo luogotenente in Pavia, di là spiccavasi per la pubblica cerimonia. Quando s'assoggettò la chiesa milanese a Roma, e l'elezione e consacrazione si trasferirono in Roma, tutto cambiossi, fuori che questa avvertenza non s'ebbe di farlo entrare per la porta Romana.

252.  In quei contorni trovasi una via che oggidì pure conserva il nome de' Piatti.

253.  I due soli però imminenti alla città furono perfezionati.

254.  Histoire de François I, roi de France, dit le grand roi et le père des lettres. Par M. Galliard de l'Accadémie des Inscriptions et Belles lettres. — A Paris, chez Saillant et Nyon, tome I, page 105.

255.  Alloggiarono nel palano altre volte del conte Carmagnola, ora detto il Broletto, in cui si radunano i corpi municipali.

256.  Rivolto essendosi quindi all'ornato pubblico della città, e con arena e mattoni riparate avendo le strade, volle con somma magnificenza che dai fondamenti si erigesse il castello della porta di Giove, atterrato da prima per popolare tumulto. La corte altresì dei primi duchi, già cadente per vecchiezza, non solo ristabilì, ampliò ed arricchì di ornamenti. Comandò ancora che, scavandosi il terreno, dall'Adda si derivasse per venti miglia un acquedotto, per mezzo del quale i campi vicini fossero irrigati, e al popolo non mancassero le derrate necessarie.

257.  Decembrius, Vita Franc. Sfortiae, cap. XL; Rer. Ital., tom. XX, colonn. 1046.

258.  Dalla provincia della Martesana, per cui passa, detta forse anco dal dio Marte.

259.  Veggasi il Benaglio, Relazione istorica del magistrato, che riferisce il decreto del duca Francesco, che è il seguente: — [260]Franciscus Sfortia Vicecomes, dux Mediolani etc. Papiae Angleriaeque comes ac Cremonae dominus. Cum pro beneplacitis nostris et subditorum nostrorum comoditate fieri debere ordinaverimus Navigium discensarum ex Abdua ad anc inclitam Civitatem nostram Mediolani, deputaverimusque nobilem virum Ruffinum de Prioris, aulicum nostrum praeclarissimum Commissarium, qui cum avisamentis ac partecipatione Bertolae de Novate, dilecti Civis nostri Mediolani, habeat omnia expedire et expediri facere quod ad dicti Navigii perfectionem attineat, eligendum duximus. Indi destina un tesoriere separato per quest'opera, a cui dalla ducal Camera debbasi sforzare illimitatamente qualunque somma. Dat. Mediolani, die primo julii 1457. (Date in Milano, il dì primo di luglio 1457.) Veggasi pure il Settala, Relazione sul navilio della Martesana, ediz. del 1603, pag. 59.

260.  Francesco Sforza Visconti, duca di Milano, ec., conte di Pavia e di Angera, e signore di Cremona. Siccome per il nostro buon piacere e per il comodo dei nostri sudditi avevamo ordinato che si dovesse fare un naviglio che discendesse dall'Adda fino a quest'inclita città nostra di Milano, ed avevamo deputato il nobile Ruffino dei Priori, nostro illustrissimo commissario di corte, che col consiglio e colla partecipazione di Bertola di Novate, diletto nostro cittadino milanese, debba spedire e fare tutto quello che appartiene alla perfezione del detto naviglio, abbiamo giudicato di dover eleggere, ec.

261.  Così Paolo Frisi, nel secondo tomo delle sue opere stampato in Milano dal Galeazzi 1783, pag. 465. L'immatura perdita che abbiamo fatto di qust'illustre nostro concittadino, mentre era nel pieno vigore della sua mente, ha privato noi e i posteri di maggiori ammaestramenti ch'egli ci avrebbe lasciati. Cessò di vivere il giorno 22 novembre 1784 per una cancrena procuratagli da un taglio, al quale sconsigliatamente venne sottoposto. Morì colla tranquillità d'un'anima virtuosa, e presentò all'avversa fortuna, come in vita così in morte, una virile costanza. L'uomo e l'autore in lui furono allo stesso livello. Il chiarissimo autore fece erigere a sue spese all'illustre matematico e filosofo Frisi, suo amico, un elegante monumento in marmo carrarese con iscrizione latina, nella chiesa di Sant'Alessandro de' cherici Reg. di San Paolo di questa città; valendosi a questo effetto dell'opera del celebre scultore Franchi. (Nota del Continuatore).

262.  Tutto ciò più esattamente può leggersi nell'opera del citato Frisi, libro terzo, capo terzo de' canali navigabili.

263.  Nei registri civici delle lettere ducali del secolo XV, foglio 223, leggesi la concessione fatta dal ducal magistrato il 10 decembre 1471 di una bocca d'acqua del naviglio della Martesana da estraersi vicino al Redefosso, in benificio dell'Ospedal grande e dei consorti Ghiringhelli, Bossi e Rebecchi, essendo commissario del naviglio l'ingegnere Pietro da Faino del Malpaga. Altre concessioni poi si trovano nei libri dell'ufficio Panigarola, registro E, foglio 265. Vedesi accordata di più l'acqua al convento de' frati di Santa Maria degli Angioli, l'anno 1468, per ducal concessione. Il che mostra come sin d'allora entrasse l'acqua del naviglio in Milano. Nell'ufficio degli statuti Panigarola trovasi pure il decreto di Bianca Maria, vedova duchessa e tutrice del duca Gio. Galeazzo, fatto il settembre 1467, che invita ad acquistare dalla ducal camera l'acqua del naviglio della Martesana.

264.  Simonetta, nella vita di Francesco Sforza, lib. XXXI, Rer. Ital., tom. XXI, col. 778, così dice:[265] Ea autem utebatur ingenii acrimonia, ac gravitate, prudentia, atque consilio, ut nihil neque in urbanis rebus iniret umquam quod minus fuisset diligentissime antea metitus, omnemque prospexisset eventum, et quod decreverat innata, quadam animi magnitudine et incredibili celeritate conficiebat. Mirum dictu est quam abstineret illecebris, humanisque voluptatibus, atque cupiditatibus: et quod rarissimum in aliis invenies, cum neque in rebus adversis, si qua iniquitate fortunae acciderunt, deprimebatur animo, ita ne secundis quidem efferebatur. Quin potius, sicuti in adversis non frangebatur, ita etiam in prospera fortuna modestissimus semper fuit; et alios ab omni contumelia injuriaque continebat. Et ne id quidem mirum, cum omnibus de se praestaret exemplum, qui cum maxime vinceret, ultione non utebatur.

265.  Era poi dotato di tale penetrazione d'ingegno, di tale gravità, prudenza e avvedutezza, che nulla intraprendeva giammai nelle cose tanto militari, quanto civili, che diligentissimamente, benchè fosse piccola cosa, non avesse da prima considerato, e tutto ne avesse pronosticato l'evento; quelle cose poi che determinato erasi di fare, compieva con una certa innata grandezza d'animo e con incredibile celerità. Mirabile è a dirsi quanto lontano si tenesse dalle seduzioni e dalle umane voluttà e cupidigie, a quello che rarissimo troverassi in altri siccome nelle avversità, se mai alcuna per iniquità di sorte ne incontrava, non perdevasi di spirito, così nè pure nelle prospere punto non insuperbivasi. Che anzi, siccome nelle cose avverse non si avviliva, così ancora nella prospera fortuna fu sempre modestissimo, e gli altri tratteneva da qualunque ingiuria o contumelia. Nè questo in vero è estrano, mentre a tutti egli stesso porgeva l'esempio, e avendo questo grandissima forza, d'uopo non era che facesse uso di gastighi.

266.  Ma oserei certamente affermare che, dopo Giulio Cesare, nissun uomo troverassi avere avuto l'Italia, che a buon diritto si potesse col solo Francesco Sforza paragonare. Il quale per verità, vinto avendo sempre, nè mai essendo stato vinto, finì i suoi giorni in modo che a tutti non meno lasciò un vivo desiderio, che un retaggio di lagrime.

267.  Rer. Italic. Script., tom. XXI, col. 779.

268.  Corio.

269.  Nella mia raccolta ho alcune monete di Milano che portano il nome d'entrambi.

270.  Francisci Cicerei Epistolar., vol. II, pag. 174, Mediol. 1782, stampa dell'Imp. Monast. di sant'Ambrogio.

271.  All'anno 1469.

272.  All'anno 1473.

273.  Gli scrittori oltramontani conservano una memoria favorevole del re Mattia I. È da essi risguardato come un principe generoso, guerriero, politico, religioso, amico delle belle arti, uomo colto; ed a lui si attribuisce la biblioteca di Buda, corredata dei migliori libri greci e latini. Il Corio però narra avvenimenti accaduti ai suoi tempi e pubblici.

274.  Di questo Cola Montano si trova nell'archivio pubblico un contratto ch'ei fece l'anno 1473 il 6 d'agosto, rogato dal notaro Antonio Zunico. Il contratto è con uno stampatore tedesco di Ratisbona chiamato Cristoforo, ed ha per oggetto una società per istampare. Si vede che Cola Montano era figlio di Giacomo, ed abitava sotto la parrocchia di San Rafaello; ma non si dice che fosse bolognese.

275.  La duchessa Bianca Maria prudentemente gli richiamò.

276.  Eterna vivrà la fama di sì gloriosa impresa.

277.  L'anno seguente si ribellarono di nuovo; poi un'altra volta nel 1488 si assoggettarono.

278.  

Mentre bramo salvar la patria e il duce,

Da scaltri traditor son tratto a morte.

Ma celebrar lui debbe immensa lode,

Che, per serbar la fe, sprezzò la vita.

279.  Rogato dai notai Francesco Bolla e Candido Porro.

280.  Vedi Apostolo Zeno, Dissertazioni Vossiane, vol. II, art. Bernardino Corio. (Il Continuatore).

281.  Queste nozze erano già state concertate undici anni prima, cioè nel 1480, mentre la sposa, figlia d'Ercole d'Este, aveva sei anni.

282.  Risplendenti di toghe purpuree e di scarlatto.

283.  Coi petti ritagliati al disotto delle mammelle, e col pallio alla maniera gabina, scendendo dall'omero destro al lato sinistro.

284.  Con moderazione e venustà.

285.  Il Corio dice: Lodovico Sforza, già inducto da Hercule Estense e da la mugliere, in tutto cominciò aspirare alo intero governo dil Stato; all'anno 1489. Rispetto poi alle rivalità dice, all'anno 1491, Quivi tra Isabella mogliere dil duca e Beatrice, per volere ciascuna de loro prevalere al altra tanto di loco et ornamento quanto in altra cosa, una tanta emulazione e sdegno cominciò tra ambe due, che finalmente, come sarà demostrato nella parte seguente, sono state causa de la totale eversione dil suo imperio.

286.  Il Corio lo attesta all'anno 1493; il che conferma quanto antecedentemente accennai sullo venuta di Galeazzo Maria dalla Francia a Milano, cioè che vi fossero stazioni regolate pel cambiamento de' cavalli.

287.  Antonio Grumello, nella cronaca MS. che ritrovasi presso il signor principe Alberigo di Belgioioso d'Este al foglio II, disse: Ritrovandosi il gallico re in la città de Pavia et intexo Jo. Galeaz. Sforzia, ducha di Milano, esser gravemente inferma di una febbre tossichata, vuolse sua maestà vederlo: et prelibato ducha umanamente salutando sua maestà, et re gallico confortandolo a la salute, et che sua maestà mai hera per mancharli. Vedendo Jo. Gz. Sfortia esser al fine di sua vita, ricomandato el suo unigenito figliolo Francesco Sfortia, conte di Pavia, al gallico re, pregando sua maestà lo voglia aceptare per suo figliolo et con humanissime parole fu acceptato da esso re gallico, et non dubitasse che mai hera per mancarli et mantenerlo in stato felicissimo.

288.  Il prefato Giovanni Galeazzo riconobbe dal popolo milanese il ducato stesso e la contea, il che tornò in grandissimo pregiudizio dell'Impero, e perchè è di consuetudine del sacro romano Impero di non mai investire alcuno di qualche Stato da esso dipendente, se questo egli usurpò col fatto, e da altri lo abbia riconosciuto.

289.  Il Corio gli dà per extensum all'anno 1494.

290.  Cambiata, l'anno 1783, per servire al monte di Santa Teresa, recentemente collocatovi. E qui vuolsi notare che gli scudi in bianco marmo rappresentanti i duchi di Milano, che servivano di ornato alla facciata di questa casa, furono preservati dal nostro storico, e collocati in ordine nel primo cortile della sua casa paterna, ivi dicontro. (Il Continuatore).

291.  La chiesa della Madonna di San Celso è veramente il primo monumento e il più antico di esatta architettura. La facciata dell'arcivescovado e il palazzo dell'arcivescovo si formarono dall'arcivescovo Guido Antonio Arcimboldi. Il claustro di Sant'Ambrogio si fabbricò dal cardinale Ascanio Sforza. Veggasi il Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, pag. 308. Due altre chiese si fabbricarono in que' tempi, cioè la Rosa e la Passione, meritevoli di essere osservate. Anche la cupola delle Grazie è di quei tempi, e si assomiglia alla prima maniera della casa Marliani.

292.  Vedi Raccolta milanese stampata presso Antonio Anelli 1756, 2 vol. in 4.º Nel primo volume, dal foglio 2 fino al 22, trovansi parecchi sonetti di messer Gaspare Visconti, con alcune notizie intorno all'autore. (Il Continuatore).

293.  Di questi broccati pesantissimi se ne veggono tuttora in un vecchio paramento che conservasi presso i Domenicani delle Grazie. La statua di Beatrice d'Este, che è nella Certosa di Pavia, ci mostra la ricchezza e il peso di quei vestiti di allora. L'immagine di Beatrice vedesi pure in un quadro della scuola di Lionardo a Sant'Ambrogio Ad nemus. Ella vi è in ginocchio coi due suoi figli Massimiliano e Francesco, e collo sposo Lodovico il Moro.

294.  Queste poesie furono da me copiate da un antico codice manoscritto originale dell'autore medesimo, il quale si custodisce fra molti altri manoscritti nella pregievolissima collezione del signor principe Alberico di Belgioioso d'Este. In esso leggonsi più centinaia di sonetti ad imitazione del Petrarca. Leggesi pure una commedia in ottava rima dello stesso Visconti; poesie, a dir vero, di poco valore.

295.  L'autore Gaspare Visconti mori all'età d'anni 38, il giorno 8 di marzo l'anno 1499. Vedi Argelati, Biblioth. Scriptor. Mediolan., tom. II, parte prima, col. 1604.

296.  

«Sparsi i campi al veder d'armi e d'armati,

Scossa, tremò tua pace, o Lodovico,

Sorgi, a me disse, tutt'intorno suona

Il ferro ostil, e me cacciata in bando:

L'armi dispon chi mi ripose in seggio.

Pei santissimi dritti ora te invoco

Del veneto senato, e me del sommo,

Se il puoi, periglio a liberar t'appresta.

Risposi allor: No, non temere, o Diva,

Lodovico t'adora, e del tuo Nume,

Più ancor di quel di Giove, egli gioisce.

Nè già guerre temer, che ne son queste

Sol le sembianze e i simulati giuochi:

Nè qui armeggiar, se non a pompa, lece.

Or dunque vanne, e abbandonando il cielo,

Orna la terra, o almen, poichè tue veci

Compier questi sol può, se in l'alte sedi

Ami recarti, in terra e in mar difendi

Gli Sforza fidi, in guerra e in pace egregi».

297.  Tomo II, delle Opere. Milano, presso Galeazzi 1783, pag. 468.

298.  Tutte queste notizie sono tratte dal vol. I, num. 17 della collezione illustre del signor principe Belgioioso d'Este. Quell'antico MS. contemporaneo dice di quest'ultimo segretario camerale: se faceva per esso secretario uno quaterneto de tutti li salariati, quale se faceva sottoscrivere da l'excelentia del duca, insieme con un rotulo, che se domandava la lista grande de li salariati, in la quale, per via de summario, era descripto tutta la spesa del Stato, la quale se mandava inclusa in una lettera ducale expedita per el dicto secretario alli magistri de le intrate ordinarie et thesaurero, commettendoli che facesseno fare la expeditione de li pagamenti secundo era annotato in esso quaterneto et lista alli tempi debiti et secundo l'ordine de la corte; e così si faceva.

299.  Il Prato asserisce che le entrate ducali ascendessero, nel 1499, a ducati ossia zecchini settecento ottantamila. Il Corio, all'anno 1492, dice seicentomila. Da un MS. gentilmente mostratomi dal chiarissimo signor presidente conte Carli, le ducali entrate allora erano zecchini 424,472; io mi sono attenuto al Corio, supponendo che il minor calcolo comprenda le sole entrate ordinarie. Paragonata poi l'estensione dello Stato d'allora, le opere grandiose che si intraprendevano, con seicentomila ducati, se ne dedurrà una nuova conferma di quello che in più luoghi ho indicato, cioè sul valore de' metalli nobili maggiore assai in que' tempi che non lo è ai giorni nostri. Un uomo con cent'once d'oro oggidì è meno ricco di quello che lo fosse allora uno che ne possedesse cinquanta.

300.  Vol. I, Miscellanea, num. 14.

301.  Oltre il Corio, veggasi Gaillard, Histoire de François Premier. — Edizione seconda di Parigi, presso Saillant et Nyron 1769, tom. I, pag. 137.

302.  Il tesoriere era allora il presidente della camera, e cotesto Landriano, che adulò il duca, fu il medesimo che nel consiglio ducale lo fece acclamare, ad esclusione del legittimo successore.

303.  Veggasi la Cronaca di Antonio Grumello pavese. MS. del signor principe di Belgioioso d'Este, foglio 19, tergo, e foglio 20.

304.  MS. di Antonio Grumello, pavese, presso il signor principe di Belgioioso, fogli 22 tergo.

305.  Dove oggidì stanno i Teatini.

306.  Quaranta damiselle milanesi, non già dell'inferiore: così il Prato.

307.  Giovanni Andrea da Prato è l'autore che io scelgo per guida, or che il Corio cessa di raccontare. Da esso Prato, che conservo manoscritto, ho tratti i minuti avvenimenti che ho creduto di non omettere, poichè mostrano il carattere di quel buon principe.

308.  Perpetuo edicto et inviolabili decreto... statuimus, ordinamus, et lege perpetuo valitura stabilimus.

(Con perpetuo editto e decreto inviolabile... stabiliamo, ordiniamo e vogliamo, con legge che debba valere in perpetuo.)

309.  Damus et concedimus per praesentes potestatem seu auctoritatem decreta nostra ducalia confirmandi, et infirmandi, dandi omnes quascumque dispensationes, Statutorum et ordinatorum confirmationes, ec. E rispetto alle concessioni del re medesimo dice: Nisi prius fuerint in dicto senatus nostro praesentatae, interitanae, et verificatae, nullius firmitatis, effectus vel momenti esse poterunt; easque, tam concessas quam concedendas, decerminus per praesentes irritas et inanes.

(Diamo e concediamo, colle presenti, podestà o sia autorità di confermare e di annullare i nostri decreti ducali, di concedere ogni qualunque dispensa, di confermare gli statuti e le ordinazioni, ec...... Se da prima non saranno nel detto senato nostro presentate, interinate e verificate, non potranno essere di alcuna forza, effetto e conseguenza; e colle presenti dichiariamo irrite e nulle, tanto le già concedute, come quelle che potessero concedersi.)

310.  Proruppe in ira così grande, che sembrava avere perduta tutta la prudenza... E tardi conobbe che, tumultuando il popolo, più vantaggiosa riesce l'umanità e la mansuetudine, che l'arroganza.

311.  Tres vultus Trivultio. — (Tre volti ha il Trivulzio).

312.  Egli era al servigio degli Aragonesi in Napoli, mentre essi minacciavano Lodovico Sforza: quando poi Carlo VIII conquistò quel regno, il Trivulzio si pose allo stipendio della Francia, e molta parte ebbe nell'aprire il varco al re nei passi di Fornuovo alla Val di Taro.

313.  Corio, all'anno 1499.

314.  Del Corte così scrive il Guicciardini al lib. IV, raccontando il prezzo ch'egli ottenne; ma con tanta infamia, e con tanto odio, eziandio appresso ai Francesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera pestifiera, e abominevole il suo commercio, e schernito per tutte dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla coscienza, potentissimo e certissimo flagello di chi fa male, passò non molto poi per dolore all'altra vita.

315.  Tom. II, pag. 22.

316.  Quod ad Rempublicam attinet, jam licet omnibus intueri quod in magno omnia ancipiti, seu potius praecipiti pendent. Sfortianos constat sexdecim milium peditum delectum ex Elvetiis fecisse, milla cataphractos ex Germania Burgandiaque contraxisse, tormenta aenea, machinas, pilas, pulveresque coemisse, atque comunis opinio est quod medio januario superatis Alpibus Gallos invadent, atque eos pellere aut profligare conabuntur. E contra comes Lignyaci, cujus in ire bellica auctoritas suprema est (licet proregie nomen Jo. Jacobo Trivultio datum sit) omnes cataphractos apud Comum cogit.... E continua a spiegare le disposizioni per la difesa che facevasi dai Francesi; cuius exitum utinam Mediolanenses (quae foret insolita eorum prudentia) expectarent! At plurimi sunt, maxime ex Gibellina factione, qui, more impatientes, jamjam civitatem scindere, amicos, affinesque unire, armaque capere non dubitant, quod dicant memoratum Trivultium statuisse capita ipsius Gibellinae factionis perdere, alios obsides in Galliam mittendo, alios proscribendo, alios in custodiis habendo; dicentes propterea se, armatos, vim vi repellere velle, hujusmodique armis non in regis perniciem aut damnum, sed tuitionem et salutem, si expediat, se usuros jactantes. Huic quasi seditioni fomentum non exiguum praestant memoratus Lignyaci comes et Lucionensis episcopus, Senatus Cancellarius et justitiae, ut ajunt, caput; qui ambo, ut sunt Trivultii aemuli, aegre ferunt quod apud eum remaneat illud nudum proregis nomen; sperantque hac ratione Regem coactum iri ut Trivultium deponat, cum intelliget, eo etiam solam sceptri imaginem retinente, seditionem extingui minime posse: iique ambo, quasi fatentes eam esse pravam et subdolam Trivultii mentem in Gibellinos, quam ipsi verentur, nec affirmantes longe alienam esse regis voluntatem, qui nullo discrimine omnes Gibellinos Guelfosque habet, non reprehendunt, sed quadam taciturnitate probant, Gibellinosque armari, ac stipari, seditionem in dies magis et magis augeri; quum et Trivultius et omnes fere Guelfi partes ejus secuti, non minus quam Gibellini, se muniant clientibus et armis, et vim nedum repellere, sed etiam inferre parent. Prosiegue antivedendo i mali, che ne nacquero in fatti, e conclude la lettera così: tunc, inquam, cognosceremus quanto subjectir populis salubrius sit contendendibus de imperio principibus, spectatores, quam auxiliatores esse.

(Per quello che spetta alla repubblica, si può ora da tutti riconoscere, che tutte le cose pendono in uno stato dubbioso o piuttosto precipitoso. Egli è certo che gli sforzeschi hanno arruolato sedicimila fanti tra gli Svizzeri raccolti, mille cavalli, grave armatura dalla Germania e dalla Borgogna, comperati cannoni di bronzo, macchine, palle polvere, e la comune opinione è che alla metà di gennaio, superate avendo le Alpi, assaliranno i Francesi, e si studieranno di cacciarli o di sconfiggerli. All'opposto il conte di Ligny, che ha il supremo comando nelle cose militari (benchè il nome di vice-re sia dato a Giovan Giacomo Trivulzio), tutti i suoi cavalli di pesante armatura riunisce presso Como...... Il di cui esito volesse il cielo che i Milanesi (il che sarebbe una prudenza in essi insolita), aspettassero! Ma moltissimi sono, massime della fazione ghibellina, che, impazienti di ritardo, non dubitano già a quest'ora di dividere la città, di riunire i loro amici e congiunti, e di pigliare le armi, perchè dicono che il memorato Trivulzio abbia stabilito di rovinare i capi della stessa fazione ghibellina, mandandone altri ostaggi in Francia, altri proscrivendo, altri ritenendo nelle prigioni; soggiungendo per questo che essi, armati, respingere vogliono la forza colla forza, e vantandosi che di queste armi si serviranno non già a discapito o danno del re, ma qualora occorra alla loro difesa e salvezza. A questa specie di sedizione prestano non piccolo fomento il già nominato conte di Ligny ed il vescovo di Luçon, cancelliere del senato, e capo, come dicono, della giustizia, i quali, essendo l'uno e l'altro emuli del Trivulzio, mal soffrono che presso di esso rimanga quel nome nudo di vicerè, e sperono che per questa ragione il re sarebbe forzato a deporre il Trivulzio, qualora venisse a sapere che, ritenendo la sola immagine dello scettro, la sedizione non potrebbe estinguersi, ad essi, quasi confessando ambidue essere quella intenzione trista e subdola del Trivulzio contra i Ghibellini, la cosa che essi temono, nè asserendo molto lontana da quello la volontà del re, che tutti i Ghibellini e i Guelfi riguarda senza alcuna differenza; non riprendono, ma anzi con un certo silenzio quelle mosse approvano, e che i Ghibellini si armino e si rafforzino, e che la sedizione giornalmente a maggior grado si accresca; mentre anche il Trivulzio e tutti quasi i Guelfi seguaci del di lui partito, non meno che i Ghibellini, si muniscono di partigiani e di armi, e non solo si preparano a respignere la forza, ma anche ad adoperarla....... Allora dissi, conosceremmo quanto più salutare sia ai popoli suggetti l'essere spettatori che non ausiliari dei principi che dell'imperio contendono).

317.  Vinto certamente dall'efficacia dell'argomento, prestò la mano; tuttavia, mentre mi congedò, conobbi che egli era quasi sdegnato; giacchè come tu sai, i principi quello che essi vogliono, sogliono volerlo di troppo, e ben sovente pongono mente piuttosto a quello che giova, che non a quello che conviene.

318.  Così nella lettera 28 febbraio 1500, a Giovannangelo Selvatico.

319.  Fra questi deve esser pure compreso l'illustre Guicciardini, lib. IV.

320.  Veggasi lettera 30 aprile 1500 a Girolamo Varadeo.

321.  Sè stesso non cessava di rimproverare, e di accusare la propria pusillanimità, nè ben sapeva a quale consiglio si appigliasse.

322.  L'infelice Lodovico, che non aveva potuto cangiare i lineamenti del viso, nè l'aspetto della maestà che sempre ebbe nel volto, nè la sua figura principesca, benchè le vesti mutate avesse, conosciuto fu e preso.

323.  Fatta all'istante un'irruzione.

324.  Gli presentò sei vestiti, due di stoffa d'oro, due d'argento, due di seta con altrettanti giubboni, e paia sei calze di scarlatto, e dodici camisce di renso, con scarpe e berrette similmente d'oro. Queste minuzie, riferite dal Prato, danno idea del vestire di quei tempi, e fors'anco della cura maggiore che si aveva per l'apparenza, che per la mondezza, non frequentemente allora cambiandosi le vesti che immediatamente ci toccano.

325.  Espugnata avendo Alessandria, distrutto l'esercito, caccia il duca Lodovico Sforza, e tornato presso Novara, lo sconfigge e lo fa prigioniero.

326.  Avendo io fatte molte ricerche, anni sono, sulle regalie alienate dai sovrani di questo Stato, o donate ai sudditi, ho osservato che al tempo del duca Filippo Maria si cominciò a staccarle, ed ho trovate cinque vendite e quattordici donazioni. Quel principe, non avendo eredi, cominciò a largheggiare. Poi, sotto Francesco I, fu il più gran colpo di distacco, contandosi sedici vendite, e ben quarantaquattro donazioni di regalie. Anche sotto Francesco s'introdusse il patto di abdicare in alcune vendite di regalie, la ragione fiscale di ricuperarle al prezzo medesimo. Le donazioni non furono mai tante poi, quanto sotto Francesco, che doveva rendere accetta la signoria, che mancava in lui di legittima ragione; ma sotto Lodovico il Moro in vece grandiose furono le vendite, delle quali ne ho contate settantaquattro. Tutto il secolo XVI fu più moderato. Non è da maravigliarsi che il duca Filippo Maria, ultimo di sua casa, donasse largamente regalie annesse alla sovranità o destinate a sostenerla. Oltre quelle che, pel terminare delle famiglie, nel corso di tre secoli saranno rientrate nel ducale patrimonio, ne rimanevano tuttora in mano di privati quattordici, dieci anni sono. Nè vi è pure da maravigliarsi se dieci anni fa rimanessero ben quarantaquattro donazioni di regalie fatte da Francesco Sforza, che voleva appoggiare la sua donazione alla benevolenza ed al consenso de' popoli.

327.  In porta Romana nella contrada della Ruga Bella.

328.  Questo palazzo era dove ora trovasi la casa del marchese Litta in porta Vercellina.

329.  Nella cinta del muro intorno alla chiesa di San Dionigi vi si pose una lapida con queste parole: Lodovicus, Galliarum rex et Mediolani dux, parta de Venetis victoria, hic equum ascendit, ut in urbe triumpharet. (Lodovico, re di Francia e duca di Milano, ottenuta avendo la vittoria su i Veneti, qui montò a cavallo onde nella città trionfasse.)

330.  Murat. Annali d'Italia, A. 1509. — Du-Mont, Corp. Diplomatique.

331.  Lib. IX.

332.  Guicciard., lib. X.

333.  Lib. X.

334.  Lib. X.

335.  Leggasi l'Apologia che ne ha fatta l'abate Francesco Murocchi nella tragedia intitolata: L'Avogadro.

336.  Lettera del Cavalier Bayard a Lorenzo Aleman, suo zio, stampata in fine della tragedia del signor Belloy citata.

337.  

SIMULACRO DI GASTONE DI FOIX
CONDOTTIERO DEGLI ESERCITI FRANCESI
CADUTO NELLA BATTAGLIA DI RAVENNA NELL'ANNO
MDXII
ESSENDO NELLA RESTAURAZIONE DELLA CHIESA DI S. MARTA
DISTRUTTA LA DI LUI TOMBA
LE VERGINI DI QUESTO MONASTERO
ALLA IMMORTALITÀ DI SÌ GRANDE CAPITANO,
IN QUESTO LUOGO LO FECERO COLLOCARE
NELL'ANNO MDLXXIV.

338.  Mathieu Skeiner, cardinal de Sion, le boute-feu de la Sainte Ligue, lui qui joua dans toutes ces guerres le véritable rôle de l'Alecto de Virgile; ce Prêtre sanguinaire eut la lâcheté de faire exhumer le Héros de la France, sous pretexte de l'absurde excommunication lancée contre les ennemis du pape. Les François et beaucoup d'Italiens, souhaitoient alors à Jules II et au cardinal Skeiner autant de droitur, de justice, d'honneur et de bonté, qu'en avoit eu le Prince, dont ils osoient ainsi damner l'ame et outrages les cendres. Belloy.

339.  Et vous assure que de cent ans le royaum de France ne recouvrera la perte qu'il a faite.

340.  Veggasi Guicciardini, lib. 4. — Muratori, Annali, all'anno 1512. — Istoria del dominio temporale della Chiesa sopra Parma e Piacenza, ediz. rom. pag. 122. — Du Mont, Code Diplomat., T. IV, P. I, pag. 137 e 173. — Angeli, Ist. di Parma, lib. V. — Alberti, Descriz. d'Ital., pag. 369.

341.  Siccome può vedersi nel tomo II, Cap. XIII.

342.  Lib. XI.

343.  Gaillard, Vie de François Premier, roi de France, tomo I, pag. 140.

344.  Guicciard., lib. XI.

345.  Guicciard., lib. XI.

346.  Prato.

347.  Misero il paese il cui re è un fanciullo!

348.  Beatissimo Padre. — Manifesta ed abbastanza nota è presso la Santità Vostra la smoderata ed eccessiva ambizione di dominare in lungo e in largo, e la cupidigia di usurpare indebitamente l'altrui del re de' Francesi, cosicchè non solo sembra aspirare con tutti i suoi desiderii al principato milanese, ma anche al soggiogamento di tutta l'Italia; (e conclude alfine) per la qual cosa io sono forzato di ricorrere alla Beatitudine Vostra, per cosa che caderà ad evidente vantaggio di tutta l'Italia, e a me provvederà in una così grande pubblica calamità; supplicando altresì affinchè, provvedendo alle premesse cose, la Beatitudine Vostra, coll'autorità apostolica della quale è investita, di moto proprio, per certa scienza e per pienezza della podestà anche assoluta, si degni di accordare licenza, podestà ed autorità di imporre in tutta la giurisdizione del ducato di Milano le predette aggiunte di trenta soldi per ogni staio di sale, ec.

349.  Miscellanea MS., vol. I, num. 9.

350.  Miscellan. vol. I, num. 3.

351.  Il contratto di questa vendita, fatto il giorno 11 luglio 1515, trovasi nell'Archivio Civico, e si scorge che il reddito del Naviglio grande si considerò di non più che annue lire 1200.

352.  Vedi Prato.

353.  Ibid.

354.  Miscellan., vol. I, num. 12.

355.  MS. Miscellanea, tom. I, num. 12.

356.  Lib. XI.

357.  Prato.

358.  Lo stesso Prato.

359.  Havuto nova Maximiliano Sforza ducha di Milano, ed il cardinale elveticho del preparato exercito gallico et del preparato esercito veneto (dopo morto Lodovico XII) per la impresa de lo imperio Mediolanense; facto suo consulto de resistere a tanto impeto unito contra esso imperio, il cardinale, per levar ogni suspecto qual haveva a lo epischopo laudense Sforzescho, qual gubernava lo imperio Mediolanense, fece prendere esso epischopo et condurlo prigione nel castello di porta Giobia, dove subito posto alla tortura li fu dato squassi quattordici di corda et altro non poteno havere da esso epischopo. M. S. Belgioioso, fol. 79, tergo, e 80.

360.  Gaillard, Vie de François Premier, tom. I, pag. 214.

361.  Idem, ibidem, pag. 224.

362.  Prato.

363.  Prato.

364.  Guicciard., lib. XII.

365.  Guicciard., lib. XII.

366.  Lib. XII.

367.  Veggasi Gaillard, tom. I, alle pag. 270, 274.

368.  Lib. I, f. 6. L'ingenuità di questa Cronaca appare dalla semplicità e barbarie medesima colla quale è scritta. L'autore era un merciaio, che, avendo bottega in Milano, si compiaceva di registrare gli avvenimenti del suo tempo. Corre manoscritta questa Cronaca di Gian Marco Burigozzo, e comprende gli avvenimenti nel 1500 al 1544. E curiosa la maniera colla quale termina: come vedrete nella Cronica de mio filiolo, imperciocchè per la morte che mi è sopragiunta non posso più scrivere. Queste parole verosimilmente vennero aggiunte dal figlio, il quale o non compose poscia la continuazione della Cronaca, ovvero se la compose ella non è giunta a mia notizia; di questa Cronaca mi accadrà più volle in séguito di servirmene.

369.  Hyeronimo Morono dette zanze al gallico re d'andar in la citate de Brixio senatore, secondo la mente dil re, et stato alquanti giorni in la città Mediolanense, fa significato ad esso Morono dovesse pigliar il cammino de la Gallia transalpina ed andar al suo offitio, dove esso Morono, charichato sei cariaggi de le sue tutte bone robe, pigliò il cammino di lo Apenino. Gionto appresso allo Apenino pigliò il cammino de le montagne de Genovese et poi di Modena, et in quella fece dimora per alquanti anni, et il gallico re fu piantato dal Morono. Cronaca di Antonio Crumello, pavese. MS. Belgioioso, fogl. 83, tergo.

370.  Veggasi Giovio, lib. VI, Storia. — Gaillard, Storia di Francesco I re di Francia, tom. I, cap. III. — Veggasi Prato.

371.  Il re cristianissimo, volgendo nell'animo la fedeltà e la integrità che i cittadini milanesi mostrarono verso sua maestà, e i danni intollerabili che essi sopportarono, liberamente dona e concede alla predetta città la somma di diecimila ducati di rendita annua e perpetua, esigibili per mano del ricevitore della città dai gabellieri delle mercatanzie, la quale somma sia convertita soltanto ad utilità della città predetta, e non altrimenti.

372.  Così nel libro di Carlo Pagano, stampato in Milano da Agostino Vimercato l'anno 1520, pag. 6.

373.  Vedi Pagano suddetto.

374.  Osservando e non osservando il diritto comune.

375.  Essendo quell'uffizio cagione a tutti di terrore.

376.  Arte del buono e del retto, e scienza del giusto e dell'ingiusto.

377.  Questo accadde per disposizione data il giorno primo di luglio del 1518, come scorgesi alla pag. 30 della relazione MS. che l'erudito ed esatto abate Lualdi, prefetto dell'Archivio della città, ha presentata l'anno 1784 al Consiglio Generale.

378.  Prato. — Burigozzo, lib. I, foglio 9 e 10.

379.  Une très-belle et honeste dame que le roy aimoit, et faisoit son mary cocu, di lei dice Brantome nel discorso sopra il maresciallo di Lautrec.

380.  Vedi Gaillard, tom. I, pag. 352.

381.  Così Gaillard, tom. I, pag. 360.

382.  Gaillard, tom. I, pag. 361.

383.  CHI MAI NON RIPOSÒ, QUI RIPOSA. TACI.

384.  Tom. II, pag. 202.

385.  È da vedersi Apostolo Zeno, nelle sue dissertazioni Vossiane, tomo II, sul merito della storia del Corio, da molti a torto disprezzata. Così pure Justi Vicecomitis pro Bernardino Corio Dissertatio. Giusto Visconte è il finto nome del P. Mazzucchelli C. R. Somasco, il cui elogio trovasi nel Giornale de' Letterati di Italia.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






End of the Project Gutenberg EBook of Storia di Milano vol. 2, by Pietro Verri

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