Project Gutenberg's Le Università italiane nel Medio Evo, by Ettore Coppi

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Title: Le Università italiane nel Medio Evo

Author: Ettore Coppi

Release Date: November 28, 2018 [EBook #58372]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

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LE UNIVERSITÀ ITALIANE NEL MEDIO EVO


LE
UNIVERSITÀ ITALIANE
NEL MEDIO EVO

DI

ETTORE COPPI

TERZA EDIZIONE

LOESCHER & SEEBER
Firenze
1886

TORINO ROMA
Ermanno Loescher Loescher e C.º


L'Autore si riserva tutti i diritti di proprietà letteraria e di traduzione dell'opera

Firenze. — Tipografia della Pia Casa di Patronato pei Minorenni
14 — Via Oricellari — 14.


[iii]

INDICE

AVVERTENZA Pag. VII

INTRODUZIONE — Origine delle università — Importanza degli studii relativi alle università — Gli storici delle università antiche — Opinione nostra sulla vera origine delle università — Il risorgimento della civiltà moderna — Influenza del Cristianesimo — Profonda ignoranza nei primi secoli del medio evo — La Chiesa e la civiltà — I monasteri conservano le tradizioni della coltura antica — Scuole ecclesiastiche — Primi segni dell'insegnamento laico — Le tradizioni giuridiche in Italia — La scuola di diritto fondata in Pavia dai re Longobardi — Capitolare di Lotario — Diffusione delle scuole laiche — La scuola medica di Salerno — Risorgimento del diritto romano — Irnerio e la sua scuola — Origini dell'università di Bologna — Fondazione delle altre università italiane — Federigo II e l'università di Napoli 1

Capitolo Primo — Costituzione delle università — Atti che precedevano la loro fondazione — Inviti ai professori e agli scolari — Editto ai sudditi — Riconoscimento sovrano — Le università causa di pubblica ricchezza — Frequenza degli scolari — Gradi di nobiltà dei dottori e degli scolari — Divisione delle università in nazioni — Ultramontani e Citramontani — Primato dell'università dei giuristi sopra quella degli artisti — Discordie cui dette luogo — Editto di Emanuele Filiberto — Iscrizione degli scolari stranieri nelle matricole universitarie — Fonti della legislazione scolastica medioevale — Mantenimento delle università e loro entrate ordinarie — Influenza ecclesiastica negli studii 106

[iv]

Capitolo Secondo — Persone che formavano l'università — Il Rettore — Origine di questo ufficio e sua importanza — Elezione del Rettore — Il Sindaco — Natura di questo ufficio e privilegi che vi erano annessi — I Consiglieri rappresentanti delle nazioni degli scolari — Il Notaro — Gli Attuari o Archivisti — Il Massaro o tesoriere — I Peziarii — Gli Stazionari — I Bidelli — I copisti e miniatori di libri 142

Capitolo Terzo — Privilegi universitarii — L'Autentica di Federigo I fondamento dei privilegi scolastici — Immunità concesse alla nazione tedesca — Giurisdizione civile e criminale concessa ai dottori sugli scolari — Privilegio della cittadinanza — Esenzione dal servizio militare — Esenzione dalle imposte e gabelle — Inviolabilità personale e degli averi — Banche di prestito per gli scolari — Abitazioni riserbate agli Scolari — Altri privilegi secondarii 165

Capitolo Quarto — Origine dei gradi accademici — Antichità della parola dottore e dell'uso della laurea — Qualità richieste per ottenere il grado di dottore — Gradi accademici minori — Il baccellierato — La licenza — Esperimenti che precedevano il conferimento della laurea — Solennità colla quale si festeggiava il giorno della laurea — Spese per ottenere il grado di dottore — Diverse specie di lauree — Privilegi e diritti propri del grado di dottore 187

Capitolo Quinto — I dottori ordinari e straordinari — Modo con cui si eleggevano gl'insegnanti nelle università del medio evo — I liberi docenti — Prime limitazioni alla libertà d'insegnamento — I dottori forestieri (forenses) e i cittadini — Nomina dei dottori fatta dalle università — Ingerenza dello Stato nella elezione dei dottori — Dei modi di retribuzione dei pubblici insegnanti — Offerte spontanee e «collectae» degli scolari — Parziale intervento dei Comuni nel mantenimento dei dottori — Esclusiva ingerenza dello Stato — Esempi più antichi di dottori stipendiati dal pubblico erario — Abolizione delle collette — Capitali anticipati ai dottori a titolo di retribuzione — Assegni straordinari oltre gli stipendi — Criteri di repartizione dei pubblici stipendi 215

[v]

Capitolo Sesto — Significato della parola «lettura» — Come si distinguevano le lezioni nelle antiche università — Lezioni mattutine, meridiane e pomeridiane — Ordinarie e straordinarie — Teoriche e pratiche — Di primo, secondo e terzo grado — Pubbliche e private — Obbligo dei dottori d'essere assidui alle lezioni e pene minacciate ai negligenti — Segreta sorveglianza dei bidelli — Inaugurazione delle scuole e vacanze — I concorrenti o antagonisti — I circoli, dispute e ripetizioni — Ordine delle dispute e persone che vi prendevano parte — Il pubblico insegnamento nel medio evo — Scelta di un buon insegnante — Numero delle cattedre — Carattere educativo della scienza — Insegnamento orale — Concorso degli scolari nell'insegnamento — I ripetitori 236

Capitolo Settimo — La vita scolastica nel medio evo — Importanza degli scolari nelle università italiane — Loro spirito turbolento — Esempi di vita licenziosa e di indisciplinatezza — Leggi repressive contro i disordini degli scolari — Le feste scolastiche — Avventure amorose degli scolari — Collegi pel mantenimento degli scolari poveri — Vesti speciali riserbate agli scolari e ai dottori — Discordie politiche nelle università — Rapporti fra gl'insegnanti e gli scolari nelle università antiche — Loro affetto reciproco — Vita e costumi dei dottori — Moltiplicità di uffici dei dottori — Loro avidità di guadagno — Carattere fiero e turbolento dei dottori — Discordie nelle scuole — I plagi — Facezie e motti di famosi insegnanti 269

Capitolo Ottavo — Causa della decadenza delle università italiane — Inimicizia fra le università — Numero soverchio di esse — Discordie nelle scuole — Caduta delle repubbliche e dei liberi ordinamenti universitarii — Trasformazione della cultura italiana al tempo dei Principati — I letterati e gli artisti alle Corti — Le accademie — Invenzione della stampa — Influenza dell'educazione ecclesiastica — Le università italiane dal secolo XVIII in poi 309

[vii]

AVVERTENZA

Pubblicando la terza edizione di questo libro, credo necessario, ad evitare probabili censure, di premettere una avvertenza per informare il lettore, dell'indole e dello scopo del lavoro.

La critica italiana e straniera in generale, ha fatto buon viso a questa monografia, più di quello che io stesso avrei pensato. Perciò mi trovo in obbligo di ringraziare tutti coloro che, apprezzando debitamente il valore di questa modesta pubblicazione e l'opportunità del momento in cui fu fatta, non hanno risparmiato elogi al libro e benevoli consigli ed esortazioni cortesi all'autore. Non debbo tacere però, che alcuni critici, mal giudicando delle mie intenzioni, hanno affermato che questo libro è troppo superficiale per i dotti. Fra gli altri, l'autorevole critico dell'Athenaeum Belge — gennaio 1881, — ha detto che questo lavoro «può riuscire opportuno per il gran pubblico, ricco come è di particolari interessanti; ma non per i dotti poichè vi difettano le idee generali.» Se avessi avuto il temerario proposito di scrivere per gli eruditi, i critici sarebbero nel vero e meriterei la loro [viii] censura. Ma poichè non ebbi mai la intenzione che alcuni mi hanno attribuito, e qual fosse lo scopo della mia pubblicazione, lo dichiarai in modo esplicito nell'avvertenza premessa alle altre due edizioni del libro, credo di non meritare la censura che mi venne fatta, per quanto in forma cortese, da alcuni critici italiani e stranieri. So bene, che per illustrare anche sommariamente il vasto tema delle origini, delle vicende e dell'ordinamento delle università medievali, e per dimostrare la influenza che esse ebbero come enti autonomi e come istituti scientifici, nella vita civile e politica del loro tempo e nell'incremento della coltura generale, non basterebbero molti volumi; nè la vita di un uomo, a scoprire ed ordinare tutti i documenti inediti, che abbondano negli Archivi e nelle Biblioteche, concernenti la storia delle università e delle tradizioni scolastiche italiane dei tempi di mezzo.

Credo perciò utile ripetere, ancora una volta, che lo scopo propostomi non fu di contribuire, con questo modesto lavoro al progresso della coltura storica; ma di offrire argomento e materia di lettura utile e piacevole ad un tempo, per quella gran parte di pubblico che desidera istruirsi, senza approfondir troppo gli studi e le ricerche sopra un dato argomento.

Questo libro — lo affermo io per primo, — deve in massima parte il favore di cui il pubblico italiano e straniero gli è stato cortese, alla scelta opportuna del momento in cui fu pubblicato e alla grande scarsezza di studi e di ricerche sul tema da me svolto.

Quando questo volume vide la luce, si preparavano già gli studi per la riforma universitaria in Italia e all'estero, e si chiedevano al passato ispirazioni e argomenti di confronto per ravvivare, nel vagheggiato [ix] riordinamento della istruzione superiore, istituzioni ed usi scolastici dimenticati, e conciliarli opportunamente coi bisogni e le peculiari tendenze della vita civile e scientifica delle nazioni moderne.

Ciò fu cagione che nelle discussioni parlamentari sul disegno di legge dell'on. Baccelli, il mio libro venisse spesso citato dal relatore on. Berio e dallo stesso ministro.[1] E il mio amor proprio di autore, è stato ancor più soddisfatto, al veder come scrittori ed eruditi di molto valore, abbiano in questi ultimi tempi ricorso alla mia monografia per attingere notizie prima ignorate.

Detto dell'indole e dello scopo del libro, è bene prevenire una obiezione che il colto lettore potrebbe rivolgermi. Avrei potuto, e (ne ebbi vivo e insistente il desiderio), accrescere la mole del libro con notizie e documenti nuovi da altri già pubblicati e con alcuni inediti che io posseggo. L'interesse della pubblicazione sarebbe stato certamente maggiore; ma preferii conservare al libro quell'impronta popolare e scevra di pretensione scientifica che volli dargli quando fu compilato, riserbandomi di far noti in altra occasione i resultati delle mie ricerche e dei miei nuovi studi.

Nondimeno, a profitto di qualche lettore che desiderasse approfondire queste indagini storiche col soccorso delle più recenti e stimate pubblicazioni, darò un rapido cenno delle principali fra queste.

[x]

Una delle più interessanti pubblicazioni, che illustra stupendamente un lato della vita scolastica medievale, da me troppo fugacemente svolto per difetto di spazio, è quella concernente la storia della Nazione tedesca nello Studio di Bologna della quale si fa parola nel capitolo III del mio libro. Di queste dotte ricerche è autore il chiarissimo dott. cav. Carlo Malagola direttore dell'archivio di Stato di Bologna. La monografia del dotto scrittore, porta il titolo: I libri della Nazione tedesca presso lo Studio Bolognese (Note storico-bibliografiche comunicate alla R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna dal socio Malagola.)[2]

Per conoscere la importanza dello scritto, ne riferirò il sommario:

I. I monumenti della nazione tedesca in Bologna — II. Cenni storici sulla Nazione — III. La raccolta dei suoi libri nella biblioteca Malvezzi de' Medici e le pratiche per la loro pubblicazione — IV. Serie in cui si divide la raccolta — V. Gli Statuti e privilegi — VI. Le matricole e i Sillabi — VII. Gli Annali — VIII. I libri degli Stemmi — IX. Gli scritti illustrativi della Nazione — X. I libri delle Nazioni Tedesche di Padova e di Siena — XI. Pregio della raccolta Malvezzi e considerazioni sul disegno della pubblicazione che sta compiendosi a spese dell'accademia delle scienze di Berlino.

Sullo stesso argomento è utile a consultarsi l'altra opera del chiarissimo Malagola — Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro — Bologna tip. Fava e Garagnani 1878 — Appendice XXIII.

Nello scritto del cav. Malagola sui Libri della Nazione [xi] Tedesca, si trova una accurata bibliografia, in cui sono citate tutte l'opere, opuscoli e documenti che si riferiscono alla vita e agli statuti degli scolari tedeschi nell'università di Bologna — Nella monografia, il dotto scrittore parlando degli storici delle università medievali, mi fa l'insigne onore di associare il mio nome a quello del Savigny: di questo attestato di stima io gli debbo pubbliche grazie; come pure di avermi fatto gentil dono dei suoi pregiati scritti.[3] Un altro egregio scrittore, ben noto per i suoi studi sulla storia del diritto, cita pure il mio libro.[4]

Sono anche interessanti a consultare le dotte pubblicazioni del ch. prof. Antonio Favaro di Padova che illustrano varii periodi di storia universitaria,[5] e specialmente le vicende di questa padovana. Il prof. Favaro, ha fatto ricerche speciali sulla Nazione Tedesca nello studio di Padova.

Un insigne erudito austriaco, il prof. A. Luschin [xii] von Ebengreuth, dell'università di Gratz, ha pubblicato due monografie sullo stesso tema, cioè:

1.º Osterreicher an italienischen Universitäten — (Wien, 1882).

2.º Nuovi documenti riguardanti la Nazione Tedesca nello studio di Bologna — Estratto dal fasc. 2-3, anno II, della terza serie degli Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna. (Modena, G. T. Vincenti e Nipoti, 1884).[6]

Di molte altre pubblicazioni potrei parlare, uscite nell'ultimo quinquiennio, di cui la storia dell'università può avvantaggiarsi; ma non voglio eccedere i limiti di questa breve prefazione. Del resto, il lettore erudito, non ha bisogno di speciali indicazioni bibliografiche per conoscere le opere recentemente pubblicate e trarne profitto per più accurati studi su questo interessante argomento.

Ettore Coppi.

[1]

INTRODUZIONE ORIGINE DELLE UNIVERSITÀ

Importanza degli studii relativi alle università — Gli storici delle università antiche — Opinione nostra sulla vera origine delle università — Il risorgimento della civiltà moderna — Influenza del Cristianesimo — Profonda ignoranza nei primi secoli del medio evo — La Chiesa e la civiltà — I monasteri conservano le tradizioni della cultura antica — Scuole ecclesiastiche — Primi segni dell'insegnamento laico — Le tradizioni giuridiche in Italia — La scuola di diritto fondata in Pavia dai re Longobardi — Capitolare di Lotario — Diffusione delle scuole laiche — La scuola medica di Salerno — Risorgimento del diritto romano — Irnerio e la sua scuola — Origini dell'università di Bologna — Fondazione delle altre università italiane — Federigo II e l'università di Napoli.

Nella storia del medio evo, tanto ricca di vicende e d'istituzioni, meritano di essere particolarmente studiate nelle loro origini e nei singolari ordinamenti, quelle grandi e potenti associazioni scientifiche che si chiamarono università, nelle quali si svolse e si formò la cultura moderna.

[2]

La grande importanza che ebbero le università nel medio evo non solo come istituti di pubblico insegnamento, ma anche come corporazioni autonome e privilegiate, non può adeguatamente comprendersi ed apprezzarsi se non si ritorna colla mente a quei tempi, evocando memorie, tradizioni ed usi sociali, che male si potrebbero giudicare coi criterii della civiltà moderna.

Nel medio evo l'istinto di difesa dette grande sviluppo allo spirito d'associazione, e come si costituirono e si moltiplicarono i vincoli di solidarietà in tutti gli ordini sociali; così anche la scienza trovò il mezzo di vincere gli ostacoli di inveterati pregiudizii e diffondersi lentamente nel mondo per opera dei primi suoi cultori, che riunitisi in un comune intento, fondarono numerose scuole senza l'ingerenza di nessuna autorità e per solo e spontaneo impulso della loro privata iniziativa.

Le nostre università nate in tempi di profonda agitazione sociale, ebbero un sentimento così profondo e tenace della loro indipendenza, che a stento si sottoponevano nell'atto della loro fondazione al riconoscimento delle due supreme autorità di quell'epoca, cioè il Papa e l'Imperatore, sebbene invocando questa pubblica sanzione per la loro legale esistenza, non vedessero per niente menomata la propria libertà, nè minacciata l'integrità dei loro Statuti e privilegi.

Le antiche università italiane per la forma della loro organica costituzione e per l'indole speciale delle leggi da cui erano governate, potevano dirsi tante piccole repubbliche in cui il potere supremo emanava dagli scolari i quali compilavano gli statuti, eleggevano gl'insegnanti, e amministravano per mezzo dei loro consiglieri gl'interessi della corporazione. Lo stesso Rettore che era il primo magistrato dell'università, dipendeva dagli scolari [3] i quali lo investivano del grado e della giurisdizione accademica.

Questa costituzione essenzialmente democratica e fondata sulla base del sistema rappresentativo, era tutta propria delle università italiane, le quali risentivano necessariamente delle condizioni politiche di quel tempo.

Essendo allora l'Italia divisa in piccoli Stati indipendenti, mancava un potere supremo che potesse imprimere unità d'indirizzo e far risentire la sua influenza negli ordinamenti scolastici, come avvenne in Francia, in Inghilterra, in Spagna e in generale in tutti quei paesi dove le tradizioni monarchiche furono più tenacemente conservate nell'indole e nelle abitudini nazionali.

In Francia, sebbene le università imitassero le italiane nelle basi fondamentali dei loro ordinamenti e della legislazione, gli scolari non ebbero mai l'esercizio della giurisdizione accademica, che fu esclusivamente affidata al Rettore ed ai Professori. Così pure deve dirsi dell'Inghilterra, della Spagna, e più tardi della Germania, le cui università presero a modello della loro costituzione quelle italiane.

Per svolgere degnamente il tema che noi abbiamo preso a trattare, sarebbe necessario consultare i nostri Archivi, e con pazienti indagini andare ricercando tutte le tradizioni e le memorie delle antiche università dall'epoca in cui ebbero origine fino ai tempi a noi recenti.

Chi con sapienza di storico, e diligente cura di erudito potesse raccogliere gli sparsi documenti di cui è tanto ricca l'Italia, e riordinarli pazientemente allo scopo di rintracciare in essi le intime vicende e il progressivo sviluppo delle università, si renderebbe benemerito della scienza illustrando un periodo di storia civile generalmente ignorato.

[4]

Fra le molte istituzioni che la civiltà moderna deve al medio evo, le università meritano un particolare studio non solo come istituti di scienza, ma ben anche come corporazioni; duplice qualità che per molto tempo hanno conservato, e che fu il segreto e principale elemento della loro potenza.

La storia delle università è ricca di singolari vicende e racchiude in sè un periodo di civiltà e un complesso di istituzioni, di leggi, di costumanze sociali, che eccitano la curiosità e l'interesse anche dei profani ai gravi studii dell'erudizione.

È questo un argomento che offre allo scrittore, il quale sappia svolgerlo con ampiezza di dottrina e con vivacità di stile, molti lati dilettevoli ed episodii attraenti, e mentre serve ad illustrare le vicende di istituzioni che ebbero tanta parte nella storia del risorgimento scientifico, richiama alla mente memorie ed usi in gran parte dimenticati.

La vita scolastica rappresenta uno dei lati più pittoreschi della società medioevale composta di elementi tanto svariati e multiformi, e ispirata da entusiasmi e da passioni tanto diverse da quelle dei tempi nostri.

Riportiamoci colla fantasia all'epoca in cui nelle città italiane accorrevano da tutte le parti d'Europa individui d'ogni età e d'ogni grado sociale, spesso accompagnati dalle loro famiglie, di nazionalità, di lingua e di abitudini differenti e uniti fra loro da un vincolo comune, che era il culto della scienza; sottoposti ad una speciale giurisdizione, favoriti d'innumerevoli immunità e privilegi, vaganti or qua or là, senza freno nè legge; fieri di un sentimento illimitato e profondo d'indipendenza, spesso turbolenti e rissosi; e avremo una vaga e lontana idea di ciò che fosse la vita scolastica nelle antiche università.

[5]

Fra quelle libere e nomadi colonie che popolavano allora le nostre città, venendo da lontani paesi e affrontando gravi pericoli per amore della scienza, e le moderne scolaresche, non vi è nulla di comune; ed è ciò appunto che rende più interessante e singolare lo studio di quel ceto di persone e dei loro usi e costumi.

Le università italiane, sia per la loro remota origine, sia per avere compilato prima di tutte le altre di Europa una completa e bene ordinata legislazione scolastica, tengono innegabilmente il primato nella storia dei moderni ordinamenti accademici.

L'esatta conoscenza della interna costituzione e delle leggi fondamentali delle antiche università è utile tanto agli studiosi di erudizione storica, che a tutti coloro i quali intendono risolvere con acume di critica e di dottrina, il grave problema della riforma universitaria che oggidì tiene occupati i legislatori di tutti i paesi civili. Infatti, se è vero come a suo luogo dimostreremo, che non si può studiare seriamente la questione scolastica senza procedere a confronti ed a ricerche comparative fra gli ordinamenti in vigore presso le diverse nazioni, bisogna concludere che la storia delle antiche università è il punto di partenza e la base necessaria di tali studii perchè i principii generali che tuttora sono in vigore nelle leggi relative all'insegnamento superiore, in gran parte dei paesi d'Europa, si trovano consacrati negli antichi statuti e nelle consuetudini delle università medioevali.

Salvo la differenza nei costumi e nel genere di vita, cambiato oggi affatto per le diverse condizioni politiche e sociali, la sostanza e lo spirito della legislazione scolastica, e le forme dell'organismo universitario medioevale sono tuttora conservati religiosamente presso quelle nazioni [6] che hanno saputo con felice armonia contemperare il buono degli ordinamenti antichi, coi bisogni e le tendenze della moderna civiltà[7].

La storia delle università può essere svolta sotto due diversi aspetti, cioè: o come semplice racconto delle vicende subìte da quei grandi centri di cultura dalle origini loro fino ad oggi, ovvero come esposizione descrittiva dei principali ordinamenti e delle leggi che formavano la base della loro costituzione, e delle costumanze e dei sistemi d'insegnamento che furono in vigore nel medio evo.

Di questi due diversi modi di scrivere sulle antiche università, noi abbiamo preferito il secondo, sembrandoci assai difficile anche il tentare di riassumere in breve racconto l'intera storia di tutte le università italiane. Oltre a ciò pensammo, che almeno parzialmente, scrissero molti autori, in specie italiani, delle vicende delle nostre università in relazione coi fatti politici e le condizioni sociali del tempo; mentre ben pochi hanno svolto tale argomento sotto un punto di vista generale, riassumendo cioè i principali caratteri degli antichi ordinamenti universitarii e i criterii fondamentali a cui si ispirarono.

Abbiamo svolto con qualche ampiezza il punto relativo alle origini delle università, perchè crediamo che questo periodo storico sia il più oscuro e il più degno di attenzione, mancandoci documenti che direttamente vi si [7] riferiscano; mentre questi abbondano nelle epoche successive, quando l'esistenza delle università come istituti d'insegnamento e corporazioni privilegiate, era già assicurata.

Consultando gran parte degli autori antichi e moderni che anche indirettamente scrissero delle università, abbiamo dovuto convincerci che relativamente all'origine e alla forma primitiva della loro costituzione, non si è peranco stabilita un'opinione storica sicura e ragionata[8].

[8]

Da ciò nasce la diversità e spesso la fallacia dei giudizii emessi dagli scrittori a proposito delle origini e della forma costitutiva delle antiche università.

I più antichi scrittori che abbiano trattato la storia generale delle università sono assai discordi nelle opinioni [9] e non hanno gran merito scientifico, essendo le loro opere assai scarse di dottrina e di buona critica.

Può dirsi, adunque, che fino al secolo nostro la letteratura storica sia rimasta sprovvista di buoni lavori sulle università.

Il primo che abbia trattato fra i moderni questo argomento con vero acume di critica e profondità di erudizione, fu il Savigny che dedicò alle nostre università uno dei più dotti capitoli della sua classica opera del Diritto Romano nel medio evo.

Altri scrittori hanno parlato nelle loro opere, ma però incidentalmente, delle università; e in questi ultimi tempi sono stati pubblicati alcuni documenti inediti molto utili per la cognizione degli antichi ordinamenti scolastici in Italia e fuori.

[10]

È certo che l'Italia è molto ricca di storici che trattano a lungo e con abbondanza di erudizione delle sue università, anzi può dirsi che non vi è università la quale, per piccola ed oscura che sia, non abbia avuto il suo storico ed annalista che ne ha preso a narrare le vicende.

Ma il soverchio numero dei lavori storici nelle nostre università, e l'esser quelli circoscritti dentro limiti determinati che impediscono allo scrittore di elevarsi a considerazioni generali sull'argomento, sono state forse le cause che hanno contribuito a ritardare il progresso di tali studii.

Chi prende a considerare a fondo il tema che ci occupa, si accorge che molte di quelle differenze che si riscontrano negli ordinamenti scolastici delle nostre università non sono che apparenti; perchè in fondo la loro costituzione organica è identica, come pure identiche sono le cause che hanno concorso al loro sviluppo. Ma chi esamina superficialmente tale argomento e prende a consultare gli storici senza procedere agli opportuni confronti, potrà in sulle prime trovarsi in grande imbarazzo, perchè le svariate vicende a cui sono andate soggette le nostre università, inducono a credere che siano diversi anche i principii e i criterii del loro ordinamento.

Invece non è così. Se si eccettua l'università di Napoli, che fu fondata da Federigo II con sistemi in gran parte differenti da quelli delle altre d'Italia, tutte le rimanenti erano regolate da comuni principii di legislazione.

Per conoscere adunque i criterii che dominavano nella costituzione delle antiche nostre università, bisogna procedere con un diligente studio comparativo per rilevare i punti di affinità e le sostanziali differenze del loro ordinamento.

[11]

Basta consultare gli storici nostri per convincerci che rimane ancora molto da illustrare su questo argomento; e che lo studioso deve supplire col proprio criterio e col buon senso alle frequenti inesattezze e alle esagerazioni che non reggono al rigore della critica moderna.

Vi sono alcuni, più apologisti che storici, nei quali prevalendo al sentimento del vero, l'amor di patria, vanno cercando le origini di una università, in tempi remotissimi; come il Ghirardacci che fa risalire l'atto di fondazione dello Studio bolognese fino all'imperatore Teodosio.

Altri attribuiscono a Carlomagno l'origine delle università; altri alla contessa Matilde o a qualche altro principe che si mostrò protettore dei letterati, degli artisti, e diè qualche impulso alla diffusione del sapere.

Quanto siano erronee tali opinioni, non occorre dimostrarlo. Come può chiamarsi Carlomagno fondatore di grandi istituti scientifici, quando ai suoi tempi i dotti erano sì scarsi di numero, che gli fu necessario, per favorire l'incremento del sapere e dar vita a nuove scuole, venire in Italia e condurre seco alcuni grammatici che passavano nella comune ignoranza per miracoli di dottrina?

Carlomagno fu certamente un gran principe che amò la scienza e i suoi cultori, e mostrò fra tutti i sovrani del suo tempo di conoscere l'importanza e l'efficacia della istruzione, alla quale dedicò gran parte della sua vita. Ma attribuire a lui la prima idea di quelle vaste corporazioni scientifiche, che ai suoi tempi non potevano concepirsi nonchè effettuarsi; fare risalire a lui l'origine di quei grandi istituti che furono una delle più splendide manifestazioni della civiltà che rifulse dopo il mille, quando già si erano propagate le scuole laiche, e il sapere [12] si era diffuso in tutte le classi sociali; parmi induzione così infondata, che meriti appena il conto di essere confutata.

Lo storico imparziale non può negare a Carlomagno il merito di avere introdotto nella società del suo tempo i germi di un risveglio intellettuale, nè alla contessa Matilde il vanto di aver protetto le scienze e di aver chiamato Irnerio alle scuole di Bologna; ma dal riconoscere l'influenza loro come pure quella di altri principi nello incremento del sapere, al dichiarare senz'altro che ad essi spetta l'onore di aver dato origine alle università, corre un abisso.

Anche Federigo I, quando colla concessione dei suoi privilegi conferì alle prime ed oscure associazioni scolastiche la personalità giuridica e l'uso di leggi proprie, se affrettò lo svolgimento di quei nascenti istituti scientifici che poi si chiamarono università, e ne consolidò l'ordinamento, non per questo può dirsi che esso ne fosse il fondatore, poichè egli non fece che riconoscere quello che già esisteva e sanzionare l'esistenza legale dei corpi già formati e che tacitamente si propagavano nella società col risorgimento della scienza.

L'opinione adunque che noi professiamo sulle origini delle università e che dimostreremo nel corso di questo primo capitolo, è la seguente: che cioè, le università, come tutte le più grandi istituzioni sociali, sono il frutto dell'opera lenta del tempo, che si formarono colla spontanea aggregazione delle prime scuole laiche che si erano moltiplicate, specialmente in Italia, dopo il mille, e che l'istinto di difesa e l'amore della scienza spinsero ad associarsi.

È necessario adunque, poichè lo svolgimento della università è simultaneo a quello della civiltà che ebbe origine [13] col medio evo, che noi accenniamo brevemente quali fossero le cause che influirono a far progredire la scienza, e come dalle oscure scuole ecclesiastiche le tradizioni classiche si tramandassero di generazione in generazione, finchè la società civile, rivendicando la sua indipendenza intellettuale, si sottrasse al secolare dominio della Chiesa.

All'irrompere dei barbari nelle provincie italiane, al confondersi dei popoli nativi con genti nuove per origine, per religione, lingua e consuetudini di vita, gli ultimi vincoli dell'affralita e corrotta società romana s'infransero e con essi andarono dispersi gli avanzi della civiltà antica.

A mitigare i rapporti fra i barbari invasori e il popol vinto, venne il Cristianesimo che svolse nell'uomo le più belle e feconde virtù morali affatto ignote agli antichi. La nuova fede, che parlava in nome di un Dio di pace, rivelò all'individuo la dignità di sè stesso e gli diè la coscienza delle proprie forze che costituisce il sentimento della umana personalità.

Il Cristianesimo aprì un largo campo allo sviluppo delle facoltà morali e intellettive, sostituendo ad una credenza che non si ispirava a nessun sentimento elevato, il concetto di un ente perfetto e soprannaturale.

Nell'ordine morale pose i principii dell'umana convivenza; proclamò la fratellanza e la carità; modificò il rigore primitivo dell'antico diritto e creò il gius delle genti, affatto sconosciuto ai popoli pagani.

Chi studia attentamente le vicende del Cristianesimo nei primi tempi della sua fondazione, vede che rappresenta una grande reazione dello spirito antico contro la vita sensuale pagana: è il misticismo più esaltato della nuova fede che fa guerra alle dottrine materialistiche professate nell'antica società. Il sentimento cristiano assorbiva [14] tutte le facoltà dell'uomo e le rivolgeva ad un fine unico; cioè Dio. Fuori della vita contemplativa, per i seguaci del dogma cristiano non v'era nulla che fosse degno di rispetto e di attenzione. Tutti i sentimenti, gli affetti, le passioni che nel mondo antico servivano alle svariate applicazioni della vita e alle produzioni della cultura, appena il Cristianesimo dominò le coscienze, furono rivolte esclusivamente a procacciarsi l'acquisto della pace eterna e del regno dei cieli.

Chi si faceva seguace della fede novella non poteva più guardare senza orrore gli avanzi della civiltà antica che ricordavano il culto del politeismo. Un tempio, una statua, un'opera d'arte, un libro, erano dai primi cristiani guardati con orrore e si stimava opera meritoria il distruggerli.

In questo primo periodo della storia del Cristianesimo si trova la più grande e profonda ignoranza in tutti gli ordini sociali; e fu ventura che non si disperdesse affatto ogni tradizione del sapere, poichè gli stessi ecclesiastici, tolte rarissime eccezioni, non sapevano leggere gli uffici divini; e, si racconta, che in alcuni concilii i vescovi e i prelati che v'intervennero, non poterono fare la propria firma per non sapere scrivere[9].

I contratti si stipulavano verbalmente, non trovandosi notari capaci di redigerli senza gravi errori.

Quasi tutti i principi adopravano un suggello per fare la propria firma, non sapendo adoperare la penna; e tutti i nobili non sapevano nè leggere nè scrivere, (dicono le cronache) perchè Baroni.

La conoscenza del canto fermo era tenuta in conto di merito letterario, e non si leggevano nelle poche scuole, [15] che erano rimaste accanto alle chiese, che le leggende dei santi e i salmi.

Un miracolo di sapere fu riputato in quel tempo il monaco Gerberto che fu precettore di Ottone III e poi divenne papa Silvestro II, il quale dai suoi contemporanei fu accusato per la sua grande dottrina, di aver tenute misteriose relazioni cogli spiriti infernali, onde alla sua morte si divulgò il detto «Homagium diabulo fecit et male finivit.»

Gli studii profani non solo erano considerati come inutile ornamento, ma tenuti in sospetto come pericolosi per la salute dell'anima; e se rimase qualche traccia di cultura, si deve ai padri della Chiesa, i quali disprezzando il volgare pregiudizio, conservarono il culto delle tradizioni classiche e spiegarono nelle scuole taluno dei più famosi autori antichi[10].

Ma questa totale separazione fra il dogma cristiano e la civiltà antica non poteva durare a lungo. Per vivere, anche rispettando in tutta la loro purezza i precetti della nuova fede, bisognava pure addattarsi ai bisogni e alle mutate condizioni dei tempi e rispettare le tradizioni ormai radicate da tanti secoli nella società romana.

[16]

Quando la Chiesa ebbe bisogno di diffondere gli insegnamenti del suo fondatore nelle moltitudini, non potè rinunziare totalmente ai benefizii degli studii profani. L'indole stessa del dogma richiede non poca cultura storica e molta acutezza di dialettica negli ecclesiastici, e i molti scismi e le frequenti eresie che allora combattevano i precetti della religione di Cristo, mettevano i papi nella necessità di istigare i vescovi ed i preti a confutare i sofismi e gli errori con altrettanto zelo e dottrina.

L'uso costante e universale della lingua latina adottata nel rito dalla Chiesa cattolica, agevolò ai chierici l'acquisto delle cognizioni e rese loro famigliari gli autori antichi che, nella società civile, per il formarsi delle lingue moderne, ormai non erano più intesi.

La stessa persecuzione, che la Chiesa, o meglio il fanatismo dei primi proseliti della nuova fede, inaugurò contro la civiltà pagana, contribuì a perpetuarne le tradizioni nella società. Infatti per combattere gli autori antichi come nemici del dogma, bisognava almeno grossolanamente studiarli e per preservarne le timorate coscienze dei fedeli, dovevano i preti prenderli sovente ad argomento delle loro invettive.

La vita monastica poi fu un'altra causa che contribuì a mantenere le tradizioni della cultura antica, e ad impedire la totale dispersione degli scrittori romani e greci.

In mezzo al disordine e alle turbolente agitazioni della società, non vi era altro scampo che indossare le vesti ecclesiastiche, nè asilo più inviolabile delle chiese e dei monasteri.

Fra il quinto ed il decimo secolo si propagarono in tutti i paesi d'Europa gli ordini monastici, e fu questo un grande benefizio per la società.

In Italia ebbero origine in quest'epoca i celebri monasteri [17] di Monte Cassino, di Nonantola, di S. Colombano, di Robbio ed altri, la cui regola imponeva a precetto il lavoro.

Sparsi quei religiosi per le campagne, fatte sterili e deserte dalle frequenti scorrerie delle orde barbariche, coltivavano colle proprie mani la terra, risvegliando nei popoli l'amore per l'agricoltura. Gli statuti dei Benedettini sono ispirati al più elevato sentimento di carità; prescrivendo ai monaci di sollevare gli infelici, venire in aiuto degli oppressi e dare asilo ai poveri e agli infermi. Accanto alle chiese ed ai conventi si fondarono spedali, case di rifugio, ospizii per gli orfani ed altri istituti di carità, nei quali i religiosi erano ad un tempo educatori e medici e passavano la loro vita fra le pratiche devote e gli uffici di pietà.

Fra gli obblighi della loro regola, i monaci avevano pur quello di copiare i libri sacri. Coll'andare del tempo s'introdusse l'uso nei monasteri di trascrivere gli autori profani, e così a poco a poco tutti quei preziosi avanzi dell'antica cultura, che giacevano ammassati senz'ordine nelle biblioteche dei conventi, furono coll'opera paziente di quei religiosi preservati dalle ingiurie del tempo e restituiti alla posterità.

Il monastero di Monte Cassino fu il più ricco di codici antichi specialmente di medicina e di filosofia[11].

Quando i conventi e le chiese edificarono gli ospedali e le case di rifugio per gli infermi, i monaci per necessità furono costretti ad acquistare qualche cognizione di medicina.

Nei primi secoli del medio evo questa scienza poteva dirsi affatto spenta nella società, poichè il fervore religioso, [18] da cui erano animate le moltitudini, aveva infusa negli animi di tutti la persuasione che a niente giovasse l'arte umana senza l'aiuto del cielo.

Il monastero di Monte Cassino fu il primo asilo della medicina che risorgeva in Occidente. Quei religiosi, non solo in ossequio alla loro regola professavano la medicina praticamente, ma cercavano eziandio di acquistare nozioni scientifiche; e la posterità deve alla loro diligenza se molte opere famose non sono andate disperse.

La medicina faceva parte degli studii ecclesiastici e vi furono molti monaci che scrissero anche dei libri su tale scienza[12].

Numerose scuole furono fondate accanto alle cattedrali e ai monasteri fra il quinto e il decimo secolo. In Roma nel secolo VI si trova fatta menzione di una scuola assai rinomata di scienze sacre[13].

Le scuole laiche se non cessarono affatto, come fra breve vedremo, rimasero scarse ed oscure. Minacciata la società da continue invasioni e stragi, al culto del sapere dovè preferirsi quello della forza, e i laici, che dovevano temere sempre per la vita e gli averi, lasciato ogni esercizio intellettuale, si dedicarono esclusivamente al maneggio delle armi, alle spedizioni di guerra e all'educazione cavalleresca.

Le scuole si diffondevano per opera dei vescovi anche nelle campagne. Ottone, vescovo di Vercelli, ordinando che nei villaggi si istruissero gratuitamente i fanciulli, [19] mostrava di apprezzare i benefizii del sapere e l'efficacia dell'insegnamento, dicendo: Ignorantia mater cunctorum errorum maxime a sacerdotibus Dei vitanda est qui docendi officium in populi susceperunt. Gesone, vescovo di Modena, dando nell'anno 796 all'arciprete Vettore la chiesa di S. Pietro in Siculo, gli ordinava di essere diligente in clericis congregandis, in Schola habenda, et pueris educandis[14].

I capitoli delle cattedrali avevano l'obbligo di mantenere una scuola. Il maestro si chiamava Primicerio, ovvero Scolasticus, Magister Scholarum o Gimnasta[15].

Da un passo di Giovanni Diacono (Vita Gregorii Magni) riferito dal Muratori, si rileva che i parroci, secondo un'antica consuetudine italiana, solevano istruire privatamente nelle loro case i giovani nelle cose ecclesiastiche[16].

Fra i papi più benemeriti dell'istruzione, deve ricordarsi Silvestro II, il quale ebbe cura di crescere il numero delle scuole e di raccogliere i codici antichi sparsi nelle diverse parti d'Italia, nonchè nei paesi stranieri[17].

S. Pier Damiano (Epist. XVII, lib. II) ricorda la scuola di Monte Cassino fra le più famose d'Italia ai suoi tempi.

Si citano nei documenti di quest'epoca anche le scuole di Arezzo e di Lucca[18].

Mentre l'insegnamento ecclesiastico, largamente alimentato dai fedeli e dotato dai pii fondatori, fioriva nei monasteri [20] e accanto alle chiese, richiamando la maggior parte della gioventù, non era affatto spento il sapere nel ceto dei laici. È questo uno dei più importanti argomenti della storia civile e letteraria prima del mille, perchè si tratta di vedere se la tradizione della cultura laica continuasse anche nei secoli della più fitta barbarie in Italia, ovvero rimanesse interrotta.

Esaminando attentamente tutti i lati della questione, ci pare di potere concludere in senso affermativo coll'autorità di molteplici fatti ed esempi, i quali dimostrano che non solo continuarono fra noi alcune traccie di sapere anche al di fuori della chiesa, ma che l'insegnamento laico non cessò giammai, sebbene osteggiato dalla concorrenza di quello ecclesiastico, gagliardamente organizzato dai canoni e dalle regole monastiche.

Se esaminiamo i documenti, che il benemerito Muratori e più tardi il Brunetti hanno pubblicato nelle loro opere, bisogna convincerci dell'esistenza di un insegnamento affatto laico in molte città d'Italia nel secolo VII ed VIII[19]. Certamente le scuole, dove si perpetuò la tradizione della cultura civile, non erano da paragonarsi a quelle mantenute dalle pingui congregazioni di Monte Cassino, della Novalesa, di Monte Soratte, di Casauria e di altri famosi monasteri: erano povere ed oscure associazioni, in cui un maestro privato, colla retribuzione di volontari stipendii, accoglieva intorno a sè un certo numero di giovani e li istruiva negli elementi delle lettere, della grammatica e della giurisprudenza.

Sebbene questo non fosse che un debole barlume di quello splendido risorgimento della civiltà che doveva [21] manifestarsi diversi secoli dopo, pure è certo che, per intendere come procedesse la cultura laica quando ogni traccia del sapere sembrava affatto spenta al di fuori della Chiesa, è mestieri insistere ancora sull'argomento.

Uno scrittore francese, assai autorevole, ha illustrato questo periodo di storia con alcuni pregevoli documenti, i quali stanno a confermare sempre più la esistenza di classi dotte prima del mille all'infuori del clero[20].

La continuità delle tradizioni romane si rivela nella società laica costantemente in tutte le manifestazioni della vita.

I primi verseggiatori si ispirano alla memoria della civiltà pagana e ai fasti di Roma e di Grecia; i cronisti parlano delle antiche vicende favoleggiando sulla prima origine delle città e facendo risalire all'epoca romana le cause degli avvenimenti contemporanei; le consuetudini mantengono il culto del diritto; e l'aspirazione politica di tutti gl'italiani è la restaurazione dell'impero di Occidente.

Le prime ed oscure scuole di grammatica, di cui si trova fatto parola nei documenti del secolo VIII e IX, non erano tali per certo da diffondere il gusto delle buone lettere. Gli autori classici allora si studiavano non per comprenderne il lato estetico, ma come testo grammaticale; e il sentimento del bello era così poco sviluppato in quei primi maestri, che non sapevano neppure fare una scelta dei migliori scrittori da proporli allo studio della gioventù[21].

Ma se queste rozze scuole poco giovarono al progresso [22] della cultura, furono però grandemente utili per conservare le tradizioni dell'insegnamento laico.

L'esistenza di persone erudite nella società laica è dimostrata da molti fatti.

Quando Carlomagno per spargere in Francia i primi germi del sapere, venne in Italia, scelse fra i dotti laici di quel tempo Paolo Diacono, lo storico dei longobardi, e Pietro da Pisa[22].

Verso il secolo X fu agli stipendii della chiesa di Novara un certo Gunzone, grammatico, il quale fu condotto da Ottone III in Germania per insegnare i primi elementi delle lettere, allora ignorate da quel popolo. Anche uno Stefano di Novara fu assai famoso grammatico per i suoi tempi, e andò egli pure in Germania ad istruire la gioventù.

Ambedue questi maestri, sebbene per titolo di onore fossero iscritti in patria nell'ordine del clero, furono laici e tennero per lungo tempo una scuola privata[23].

Oltre gli studii delle lettere e della grammatica, contribuì [23] assai a conservare le tradizioni della cultura romana nella società laica la scienza giuridica e l'uso delle leggi antiche giammai interrotto in Italia, come ormai è stato dimostrato ad evidenza dai più autorevoli scrittori della storia del diritto. E se altro argomento non vi fosse a spiegare, la continuità delle tradizioni giuridiche nel popolo italiano e la grande influenza delle leggi romane nella vita nazionale, basterebbe quel gran fatto di avere il vinto imposto al vincitore l'uso delle leggi e costrettolo a rinunziare alle sue consuetudini giuridiche per accettare quelle che avevano vigore in Italia.

Un'altra prova ancora della continuazione degli studii giuridici a traverso i secoli delle invasioni barbariche, ci viene offerta da una giusta riflessione del Quinet, il quale osserva che la profonda penetrazione dell'autorità che ebbero i nostri glossatori del secolo XI e XII, non si può attribuire che alla coscienza che essi ebbero di continuatori ed eredi delle tradizioni giuridiche romane, che tanto potè su di loro da farli seguaci del partito ghibellino, non per omaggio servile, ma per devozione ad un passato che non sapevano persuadersi estinto[24].

L'uso del diritto romano fu favorito da tutti quei principi che nutrirono idee di dominio universale, non solo perchè coerente alle loro mire di assoluto impero, ma anche perchè disponeva in favore di essi l'animo del popolo italiano, che era sempre trascinato dalla seducente speranza di vedere restaurato l'antico impero e ripristinata la civiltà romana.

Infatti Carlomagno, abolita l'esclusività della legislazione longobarda, riconobbe pubblicamente e sanzionò il diritto romano in Italia; Federigo I ricorse ai giureconsulti [24] bolognesi per giustificare le sue ambiziose mire; e Federigo II di Svevia, nella lotta col papato, estese l'uso delle leggi romane per contrapporle alle Decretali pontificie.

Ma anche indipendentemente dal favore che incontrò il diritto romano negli imperatori, lo studio di quello non fu mai interrotto. Ispirato ai principii di equità, il diritto fu il solo elemento della civiltà pagana che non trovò nemica la Chiesa. Il clero stesso, durante le invasioni dei barbari, si governava colle leggi del Digesto, e l'imperatore Lodovico Pio in una sua costituzione sanzionò questa consuetudine.

Nei documenti anteriori al secolo X, troviamo frequentemente ricordati i cultori del diritto sotto varii nomi (come magistri, jurisconsulti, legislatores, judices); il che dimostra che in Italia il numero dei giurisperiti non fu mai scarso.

Il re Lotario nell'anno 825 promulgò alcuni regolamenti sui feudi col consiglio dei giureconsulti di Milano, di Pavia, di Cremona, di Mantova, Verona, Treviso, Padova, Vicenza, Parma, Lucca e Pisa[25].

Nelle consuetudini delle repubbliche marittime si conservò l'uso del diritto romano come a Pisa, Genova, Venezia ed Amalfi[26], perchè quivi rimase più inalterato il sangue latino, e il commercio e la navigazione affrettarono l'indipendenza di quei popoli.

In molte città italiane i giureconsulti, che già incominciavano ad esercitare molta influenza nella società, si [25] riunirono in Collegi nei quali, in mancanza di tribunali ordinarii si amministrava la giustizia. I cultori del diritto, quando i rapporti fra vincitori e vinti si strinsero colla lunga convivenza e i legami di intimità e di parentela fra i barbari ed i romani, erano chiamati spesso a fare da arbitri nelle quistioni private e le sentenze da essi pronunziate erano inappellabili e si dicevano Lodi (lauda)[27].

Sotto il dominio dei longobardi le tradizioni giuridiche romane non si dispersero; anzi, a cagione dei frequenti contatti che la comune religione aveva stabilito fra essi e gl'italiani, dovevano in molti casi ricorrere alle leggi dei vinti e prendere da essi ad imprestito molti principii di giurisprudenza che nelle loro consuetudini nazionali erano del tutto sconosciuti.

La frequenza dei rapporti, formatisi fra il popolo longobardo e l'italiano durante i secoli della loro convivenza, influì certamente a dare impulso agli studii del diritto; e infatti i moderni storici attribuiscono ai re longobardi la fondazione della prima scuola giuridica nel medio evo.

Il Merkel, che fu il primo[28] a dimostrare l'esistenza di questa antichissima scuola in Pavia, esagerandone per un eccessivo orgoglio nazionale l'efficacia e i resultati scientifici, pretese sostenere che il risorgimento del diritto moderno deve attribuirsi esclusivamente alle opere dello spirito germanico. Il dotto prof. Capei[29], annunziando lo scritto del giureconsulto alemanno, ne correggeva con sana critica le conclusioni; e più recentemente alcuni insigni scrittori connazionali del Merkel lo confutavano. [26] Il Boretius[30] parlando della scuola giuridica di Pavia si ferma a dimostrare quanta parte di diritto romano si contenga nel commentario (Exposito) che riguarda quella scuola; il che basta per convincerci che la restaurazione degli studii giuridici non può essere attribuita ai longobardi. Il Ficker, che ha scritto una erudita opera sulla storia del diritto italiano, parlando di quel commentario dice che le cognizioni che vi si contengono di diritto romano gli sembrano troppo estese per poter sostenere che l'opera sia nata in una scuola giuridica longobarda.

Senza attribuire adunque nè ai longobardi nè ai romani il merito esclusivo della fondazione di questa scuola legale, che ebbe origine cento cinquanta anni prima di quella di Bologna, diremo che gli uni e gli altri concorsero a formarla.

La moltiplicità dei rapporti, che la lunga convivenza e la religione comune stabilì fra i due popoli, rese necessario, come abbiamo detto testè, la diffusione delle idee giuridiche e l'applicazione di buoni principii legislativi. I longobardi non potevano supplire col loro diritto imperfetto, e più consuetudinario che scritto, alle nuove esigenze sociali; e perciò invocarono in quest'opera di riforma legislativa il soccorso della giurisprudenza romana e crederono utile, per mantenerne le tradizioni, di fondare una scuola nella capitale del Regno.

Ma se ai longobardi si deve accordare il merito della fondazione di questo primo centro di studii giuridici che ebbe origine in Italia nel medio evo, non può negarsi che gl'italiani non portassero alla nascente scuola il concorso dei loro studii e delle cognizioni del diritto [27] romano che coltivarono, senza interruzione, con amore indefesso, come unica eredità dell'antica loro grandezza.

Quanto più ci avviciniamo al secolo decimo, si nota un maggiore risveglio intellettuale nella società laica.

Nell'anno 817 Lotario promulgava un suo capitolare che faceva precedere da alcune generali considerazioni sopra l'utilità di diffondere l'istruzione nei popoli, e a quest'uopo incaricava un certo Dungallo, di origine scozzese, di fondare scuole in molte città d'Italia[31].

Questo capitolare di Lotario fu il primo atto legislativo che sanzionò l'esistenza dell'insegnamento laico nel medio evo.

Lungi dall'attribuire alle scuole fondate da Lotario l'origine delle università, come taluno ha fatto[32], osserviamo però che il provvedimento di quel sovrano dimostra che egli non seguiva soltanto un suo desiderio e una sua opinione personale nell'ordinare che si stabilissero molti centri d'istruzione laica in Italia; ma che aveva interpretato un bisogno sociale che ormai cominciava a manifestarsi, cioè l'indipendenza intellettuale dei popoli dall'influenza ecclesiastica.

L'Italia ha preceduto tutti gli altri paesi in quest'opera di civiltà, e ciò facilmente si spiega quando si pensi quante tradizioni siano rimaste dell'antica cultura a perpetuare l'insegnamento laico anche nei secoli della più fitta barbarie[33].

[28]

L'aumento rapido di scuole laiche che si riscontra quanto più ci avviciniamo al secolo decimo, fu prodotto in gran parte da una riforma nella disciplina ecclesiastica, che si operò verso quest'epoca, per reprimere gli abusi del clero nell'esercizio delle professioni liberali, alle quali si era dedicato da lungo tempo e con soverchio zelo, più per avidità di guadagno che per compiere un ufficio di pietà. Fino dal 1139 il Concilio Lateranense interdisse ai monaci ed ai preti di applicarsi agli studii medici e legali, e tal divieto fu rinnovato da papa Alessandro III nel 1163 e venne confermato da Onorio III in una sua costituzione inserita nelle Decretali.

Non potendo togliere affatto questo abuso, gli altri papi si contentarono di porre alcuni limiti all'esercizio delle professioni liberali, come Innocenzo III, che permise agli ecclesiastici di dedicarsi all'arte medica ed anche alla chirurgia purchè non facessero le operazioni che richiedono il taglio ed il fuoco[34].

Verso il mille l'insegnamento laico aveva già preso un grande sviluppo in Italia. Nei documenti del tempo si trovano ricordati molti giureconsulti che insegnavano privatamente, e altri maestri di scienza, che avevano sostituito nelle scuole gli ecclesiastici.

Il cronista Landolfo attesta che verso il 1085 fiorivano già molte scuole in Roma, Parma, Pavia, Vercelli, Firenze, Ravenna e Milano, dove i buoni studii si erano [29] conservati sempre, egli dice «per ottimi precettori di filosofia e d'altre arti e per lo zelo degli arcivescovi, sicchè in divine ed umane lettere vi erano dotti preclari[35]

Fra i centri più famosi d'istruzione laica che si formarono col concorso di svariati elementi e coll'opera lenta del tempo, deve ricordarsi la scuola medica di Salerno che, sorta da umili origini, ben presto acquistò gran fama scientifica in tutta Europa.

L'importanza di questa scuola è tale, che le sue vicende non interessano soltanto la storia della medicina, ma hanno anche un'intima relazione coll'andamento e coi progressi della cultura generale di quell'epoca.

Sebbene la medicina, come è noto, fosse nei primi secoli del medio evo esercitata esclusivamente dagli ecclesiastici, tuttavia si trova fatto cenno in questi tempi di qualche medico laico. In Pistoia nell'anno 716 viveva un certo Guidoaldo, medico di molta fama e tenuto dai suoi contemporanei quasi in concetto di santo per le molte sue opere di pietà, impiegando, secondo quello che narra di lui la tradizione, tutti i suoi guadagni nella fondazione di chiese ed ospedali[36].

Tolto però qualche raro esempio, la medicina, fino all'epoca in cui ebbe origine la scuola di Salerno, fu esercitata dai religiosi ai quali era ordinato lo studio e l'esercizio di quell'arte come precetto monastico.

Se in questi secoli si trova qualche traccia di operosità scientifica nella medicina, devesi esclusivamente attribuire all'opra indefessa degli ecclesiastici che conservarono le tradizioni delle antiche scuole, preservando [30] con amoroso zelo le opere della cultura che senza di loro sarebbero andate irremissibilmente disperse.

Gli storici della medicina si diffondono a parlare dell'origine della scuola di Salerno, cercando se devesi attribuire il merito di aver contribuito al risorgimento della medicina in questo primo centro di studii agli Arabi, ovvero se bastassero le tradizioni greche e latine per conservare in Occidente le traccie della scienza medica durante il medio evo[37].

Gli argomenti addotti a dimostrare l'origine nazionale della scuola salernitana ci sembrano inconfutabili.

A conservare in Salerno le dottrine latine, e forse ancora a far sorgere la stessa scuola medica, contribuirono quegli antichi centri di studii grammaticali che perpetuarono tra noi le tradizioni dell'antica cultura e lo studio perenne dei classici. Da ciò sorge chiara la conseguenza, dice uno storico, che per l'Italia in generale e per la scuola di Salerno in particolare, sia un errore quello di andare a cercare nell'Oriente e nei libri degli Arabi, i fondamenti dei progressi scientifici, ma debbansi questi riguardare come autonomi e nazionali.

Gli arabi ebbero tutto quello che bisognava pel progresso delle scienze: materiali trasmessi dagli antichi, incoraggiamenti efficaci, cinque secoli di prosperità nelle armi e nel potere, giovinezza di vita politica e civile; eppure [31] essi riconsegnarono ai cristiani la medicina men bella e men ricca di quello che l'avevano ricevuta.

Il Puccinotti, nella sua storia della medicina, sostiene l'opinione che la scuola di Salerno fosse una diramazione del monastero di Monte Cassino, dove le tradizioni mediche ebbero maggior diffusione che negli altri centri di studii ecclesiastici. Altri storici a questa opinione ne oppongono un'altra assai più verosimile; che cioè la scuola salernitana abbia avuto origine autonoma, da una spontanea aggregazione colà formatasi dei primi cultori laici della scienza medica.

Ad emancipare gli studii e la pratica della medicina dal dominio degli ecclesiastici, contribuirono assai quegli ordini laicali di cavalieri Gerosolimitani, Ospitalieri e Templarii che, animati da uno spirito ardente di carità, dedicarono la loro vita ad opere pietose fondando numerosi cenobii ed ospedali nei quali le classi povere della società trovarono larga protezione e rifugio.

In queste benemerite associazioni insieme alla pratica dell'arte medica, esercitata per dovere della regola dai cavalieri collegiati, cominciarono a svilupparsi i primi germi di un progresso scientifico.

La prima notizia relativa a medici famosi in Salerno, risale, secondo l'attestazione di storici autorevoli, all'anno 984. Dopo il mille la fama della scuola salernitana era già assicurata e diffusa in tutta Europa, dalla quale vennero a studiarvi in gran numero, giovani di tutte le nazioni.

Nei primi tempi della sua esistenza, la scuola salernitana dovè risentire qualche danno dalla concorrenza dell'insegnamento degli ecclesiastici, i quali vedendosi sfuggire il primato che per tanti secoli avevano esercitato nella pratica e negli studii della medicina come in tutti [32] gli altri rami di scienza, si sforzavano di arrestare i progressi delle scuole laiche.

Ma ormai, l'emancipazione intellettuale dei laici era assicurata, e dopo poco tempo questi nuovi centri di cultura ottennero una assoluta prevalenza nelle antiche scuole ecclesiastiche, le quali se pure erano state benemerite del sapere per lo innanzi, conservando il culto delle tradizioni, ormai avevano fatto il loro tempo, e dovevano necessariamente cedere il campo delle ricerche scientifiche ai maestri laici.

Ad affrettare la completa emancipazione delle scuole laiche dall'influenza ecclesiastica, contribuì assai il divieto imposto dai papi e dai concilii ai ministri del culto di esercitare la medicina e la chirurgia; il che avvenne poco dopo il mille, come già vedemmo altrove.

Nei primi tempi della sua esistenza la scuola salernitana, rimase affatto estranea ad ogni influenza governativa.

Il primo atto sovrano relativo all'insegnamento ed all'esercizio della medicina risale all'anno 1140, in cui Ruggero I promulgò una legge speciale nella quale ordinò a tutti coloro che volessero dedicarsi alla pratica dell'arte medica di sottoporsi ad un esame alla presenza degli uffiziali della Corona.

Nella scuola di Salerno fu per la prima volta introdotto l'uso del conferimento dei gradi accademici che venne più tardi imitato anche dalle scuole giuridiche e dalle università.

Dai brevi cenni che abbiamo dati sulla scuola salernitana, si rileva come per antichità d'origine e per importanza scientifica essa possa dirsi il primo centro di cultura nazionale.

La prima forma di associazione scolastica avanti delle [33] università fu dunque, la Schola[38]. Questo nome corrisponde perfettamente all'indole speciale di questi primi istituti scientifici che contribuirono al risorgimento della cultura moderna, nei quali si riunirono per spontaneo moto i cultori del sapere, formandosi fra maestri e discepoli un durevole consorzio creato da uno scopo e da un vincolo comune che era l'amore della scienza.

Poco dopo il risorgimento della medicina in Salerno, cominciarono a manifestarsi nelle prime scuole giuridiche italiane i certi segni di un grande progresso negli studii del diritto.

Dopo il mille troviamo fatta menzione negli scrittori di una scuola di giurisprudenza in Ravenna ed in Bologna.

È certo che in quasi tutte le principali città d'Italia vivevano in quel tempo molti cultori del diritto, i quali si trovano assai di frequente ricordati nelle cronache e nei documenti dove si sottoscrivono coi nomi di jurisperiti, juriconsulti, causidici, legislatores, ecc.

Ciò dimostra che fino da quel tempo i rapporti giuridici si erano fatti più frequenti, e incominciava già quel segreto ed intimo svolgimento sociale che preparò il risorgimento dei Comuni.

Questi antichi cultori del diritto pare che esercitassero cumulativamente l'ufficio della pratica legale e dell'insegnamento. Questo periodo di storia è oscurissimo; e lo stesso Savigny, che ha saputo con tanta cura rintracciare le memorie di quel tempo, non ha potuto dare che cenni generici sulle condizioni delle scuole giuridiche prima di Irnerio.

[34]

Nell'opera di S. Pier Damiano, ricordata dal Savigny come unico documento in cui si fa parola della scuola di Ravenna, si trovano notizie assai importanti su questo primo centro di cultura giuridica[39].

Questo scrittore (n. 1006, m. 1072) parlando di Ravenna e dei giureconsulti che vivevano al suo tempo in quella città, dimostra con assai evidenza quali fossero le condizioni degli studii giuridici colà e come vi si trovasse già stabilito un centro d'insegnamento assai fiorente.

Questa scuola, stando alle stesse parole di Damiano, era costituita come quelle di grammatica, e però, dice il Savigny, assai lontana da quella indipendenza che gli scolari ebbero poscia in Bologna.

L'esistenza di una scuola giuridica a Ravenna verso il mille, sta a confermare quella antidottissima tradizione che si trova riferita anche dal giureconsulto Odofredo, per la quale si credeva che la prima sede dell'insegnamento giuridico fosse stata a Roma; di qui poi fosse passata a Ravenna, e da Ravenna a Bologna.

Senza entrare a discutere il valore storico di questa tradizione, che pure ha tutte le apparenze di verità, diremo soltanto che questo passaggio, che secondo gli scrittori del tempo avrebbe avuto luogo nelle scuole di legge da una città ad un'altra, deve essere invece interpretato come un progresso scientifico negli studii e nella pratica del diritto, non come un materiale trasferimento dei primi insegnanti in diversi luoghi. Perciò non è affatto inverosimile il ritenere che in Roma si conservassero più profonde le tradizioni giuridiche, quando si rifletta che in [35] quella città furono da Giustiniano fondate le scuole legali di Occidente[40], e che sotto il dominio dei longobardi e dei franchi, essendo stato lasciato al clero l'uso della legge romana, le traccie dell'antico diritto e qualche barlume di cultura legale, dovevano ben rimanere nella sede della religione cattolica anche nei tempi in cui nel rimanente d'Italia ogni tradizione scientifica del diritto sembrava dispersa.

Quanto alla scuola di Ravenna, le memorie raccolte dal Savigny forse non sono le sole che ci rimangono ad attestare dell'esistenza di quell'antico centro di studii che ebbe certamente, per i tempi in cui fioriva, una importanza scientifica assai rilevante.

Anche per l'attestazione di Damiano, di cui il Savigny ha parlato assai diffusamente, resulta che in Ravenna, ai suoi tempi, i giureconsulti dimostravano molta pratica dei testi e una singolare perizia nell'arte del perorare; il che accenna ad un progresso notevole nella cultura legale.

[36]

Le ragioni storiche che spiegano l'importanza che ebbe la scuola ravennate verso il mille, si rintracciano facilmente quando si pensi come Ravenna fosse la sede dell'Esarcato sotto i greci e più tardi il centro della Pentapoli. In questi due diversi periodi, le tradizioni del diritto romano si dovevano risvegliare e l'uso delle leggi diffondersi assai in quella città; prima per opera dei greci, nella cui lingua furono tradotte, com'è noto, le compilazioni di Giustiniano per l'uso dei popoli di Oriente, e poi per lo stabilirsi della Pentapoli, dove si svolsero i primi germi delle libertà politiche in Italia[41].

Della scuola bolognese prima d'Irnerio ben poco rimane che meriti lo studio degli eruditi. Nei passi degli scrittori citati dal Savigny e in molti altri che ci siamo dati cura di consultare, non esiste alcuna traccia di un insegnamento scientifico del diritto molto diffuso. Fra i primi maestri di quel tempo si ricorda Pepo o Pepone, il quale però non fece buona prova, essendo nella sua scienza di merito assai scarso come dice Odofredo (de scientia sua nullius nominis fuit)[42].

È certo che prima d'Irnerio, la scuola bolognese non ebbe gran numero di buoni insegnanti, e che in questo tempo Ravenna fu la sede e il centro più importante della cultura giuridica. Ciò rilevasi (anche se facessero difetto altre prove più concludenti), da diversi passi delle opere giuridiche e storiche di quel tempo, in cui si ricorda frequentemente la scuola ravennate, mentre di rado si fa parola di quella bolognese.

In fatto di precedenza nell'insegnamento del diritto [37] fra le città italiane, gli storici dovrebbero investigare quali fossero le condizioni degli studii giuridici anche in altre parti d'Italia; perchè è un fatto ormai provato, che il risorgimento della cultura legale si manifestò contemporaneamente, essendo conformi le condizioni sociali che lo promossero, come a suo luogo vedremo.

Forse nelle città marittime, che furono le prime ad acquistare indipendenza dedicandosi alle imprese commerciali e acquistando immense ricchezze nel trasporto dei crociati in Oriente, si risvegliò prima che altrove il culto dei buoni studii giuridici e l'uso delle leggi romane.

In Pisa, si trovano ricordati fino da tempi assai remoti, giureconsulti e giudici di molta fama, e in assai maggior numero che nelle altre città d'Italia.

Quando Lotario promulgò nell'825 la Costituzione sui Feudi, dice nel prologo che ciò fece «per laudamentum Sapientium Pisæ[43]

Prima del mille trovasi ricordato un collegio legale pisano dove si professava la legge romana[44].

Quel che ci induce a credere che in questo antico collegio non solo si studiasse la pratica della giurisprudenza, ma che vi fosse anche un insegnamento teorico, è il fatto che per la prima volta si trovano ricordati gli antichi giureconsulti pisani col titolo di dottori. Se infatti teniamo conto del significato speciale che ebbe nel medio evo questo titolo, attribuito esclusivamente nel linguaggio scolastico agli insegnanti, non è inverosimile il ritenere che trovandosi per la prima volta ricordati con questo nome i giureconsulti pisani, fossero questi i primi, [38] fra gli antichi cultori del diritto, che si dedicassero allo insegnamento teorico[45].

Un recente scritto di un professore pisano, contiene su questo argomento riflessioni assai ingegnose[46].

I primi professori di diritto che insegnarono in Bologna furono pisani, come Bulgaro, Uguccione e Bandino; il che sta a provare che in Pisa, dove essi avevano attinto il sapere, gli studii giuridici erano fin da' tempi remoti molto diffusi.

In Pisa, come nelle altre città marittime, dove il sangue latino si mantenne inalterato, non avendo potuto i barbari estendervi il loro dominio, la legge romana fu sempre professata, e non è quindi improbabile che colla pratica del diritto si conservasse anche nelle scuole qualche tradizione scientifica.

La famosa leggenda che riferiva il possesso del primo manoscritto delle Pandette ad una conquista fatta dai pisani nel secolo duodecimo, sta forse a confermare l'anteriorità delle scuole pisane nell'insegnamento del diritto. Ripetendo qui, ciò che testè dicemmo della scuola di Ravenna, noi crediamo che anche le tradizioni abbiano il loro valore storico e che da queste gli eruditi ne possano trarre profitto quando ne sappiano cogliere l'intimo significato.

Il possesso nei pisani del manoscritto delle Pandette, che la leggenda attribuisce alla conquista di Amalfi o alla donazione dell'imperatore Lotario, è di molto anteriore, a senso nostro, a quest'epoca; e probabilmente quell'antico manoscritto è l'opera di quei primi giureconsulti [39] che raccolte pazientemente le sparse traccie dei testi romani, le riordinarono in un sol corpo di leggi.

Molti argomenti stanno a confermare l'antico uso del diritto romano in Pisa.

Nel prologo del Costituto dell'uso, contenuto nella compilazione degli statuti pisani dell'illustre prof. Bonaini, si trova chiaramente espresso che la città di Pisa viveva già da molto tempo colla legge romana, e le antiche consuetudini non erano state mai dimenticate[47].

Anche nelle altre città marittime si trova conservato l'uso della legge romana e si fa menzione di giureconsulti in tutti i secoli[48].

Tutto quanto abbiamo detto fin qui, serve di preliminare per avviarci a discorrere con qualche maggiore diffusione di quel famoso giureconsulto che per comune attestazione de' suoi contemporanei e anche degli storici moderni, fu il primo restauratore degli studii giuridici nel medio evo; vogliam dire d'Irnerio.

Come cercheremo di dimostrare in seguito, questo giureconsulto ebbe certamente grandi meriti scientifici che gli procacciarono quella meritata celebrità che non gli è mai venuta meno col tempo, avendo saputo ridestare nella scuola bolognese, che prese nome da lui, lo spirito giuridico nazionale, richiamando gli studii del diritto alle fonti originali dei testi romani.

Però, per non cadere in esagerazioni che sono sempre dannose alla verità storica, bisogna premettere che quando Irnerio cominciò ad insegnare il diritto in Bologna, la cultura giuridica era già assai progredita in Italia per [40] l'influenza delle tradizioni conservate in quelli antichi collegi legali dove si formavano i giureconsulti che erano chiamati ad applicare le leggi come giudici od avvocati.

Non vi è nulla di più infondato e contrario all'esattezza storica, che l'attribuire all'opera di un uomo soltanto il progresso della civiltà e il risorgimento di una scienza.

Irnerio trovò i tempi favorevoli alle riforme da lui introdotte nello studio del diritto e le menti già disposte ad accogliere le dottrine da lui insegnate nella scuola di Bologna. Egli seppe comprendere lo spirito e le tendenze dell'epoca in cui visse, e in ciò ebbe comune il merito e lusinghiera la sorte come tutti i grandi riformatori di cui parla la storia. Parlando d'Irnerio, gli storici si fermano di preferenza sul nome di lui e ne vanno cercando l'origine e le trasformazioni che subì nel linguaggio comune, per stabilire specialmente se egli fosse italiano o tedesco.

Dopo gli studii più recenti sopra tale argomento del Savigny, del Grimm e di altri, la questione della nazionalità d'Irnerio pare definitivamente risoluta. Questo giureconsulto è ormai accertato che fu italiano e bolognese di nascita[49].

Il nome d'Irnerio scritto in tanti modi svariati, è certo d'origine longobarda[50]. Il nome straniero nulla prova però in favore di coloro che ritengono questo famoso legista [41] di nazionalità tedesca, perchè è noto che in quel tempo, assai recente alla lunga dominazione dei longobardi, molti italiani che rivestirono pubbliche cariche presero nome da loro, secondo le testimonianze del cronista Landolfo e dei documenti riferiti dal Muratori.

Irnerio dalle testimonianze del tempo si trova ricordato coi titoli di magister, dominus, causidicus, judex[51]; più spesso però con quest'ultimo nome; il che dimostra che l'opera sua era richiesta per l'interpretazione delle leggi, prima che egli si dedicasse all'insegnamento.

Dagli anni 1116 al 1118 i biografi d'Irnerio perdono affatto ogni memoria di lui come maestro di diritto. Il Savigny[52] è d'opinione che in questo periodo egli si trovasse al servizio di Enrico V in qualità di giudice, come vien ricordato nel documento relativo al placito tenuto nel 6 marzo 1116 in loco gubernulae dal suddetto imperatore, e nei placiti successivi (an. 1116 e 11 giugno 1118). Altri pensano invece che Irnerio non interrompesse mai l'insegnamento per dedicarsi esclusivamente ai pubblici uffici.

I placiti che teneva l'imperatore Enrico V, secondo la consuetudine dei re franchi, solevano adunarsi in diverse epoche dell'anno e ordinariamente al cominciare d'ogni stagione. Non è dunque inverosimile l'opinione, da qualche scrittore sostenuta, che Irnerio quando prestava i suoi servigi in qualità di giudice in questi placiti imperiali, non abbandonasse l'insegnamento. A confermare questa supposizione, sta il fatto che i placiti ricordati nei documenti a cui ebbe parte Irnerio, furono tenuti tutti in [42] primavera; il che dimostra che l'opera di questo giureconsulto era dall'imperatore Enrico richiesta in epoche determinate e ad intervalli separati.

Accettando tale opinione, si spiegherebbe (anche senza accusare d'incoerenza l'abate di Usperg come ha fatto il Savigny) perchè il nome d'Irnerio si trovi ricordato nel quadro generale che questo cronista fa del regno di Lotario (1125-1138).

È un punto assai oscuro nella vita d'Irnerio anche quello che si riferisce ai rapporti che esso ebbe con la contessa Matilde[53].

Molti storici seguendo una falsa tradizione, hanno ritenuto che esso intraprendesse l'insegnamento del diritto per incarico avuto da quella potente signora.

La critica moderna ha smentito con fondati argomenti tale opinione.

La contessa Matilde si valse dell'opera d'Irnerio come giudice nei placiti da lei adunati e lo consultò nei privati suoi interessi. Da ciò nacque fra loro una certa rispettosa intimità, dalla quale il giureconsulto potè forse ottenere eccitamenti ed aiuti, di che profittò nei suoi studii e nell'insegnamento alle scuole di Ravenna e di Bologna[54].

Dopo il Savigny, che ha raccolto nella sua storia del diritto romano nel medio evo, quel poco che è rimasto [43] negli scrittori contemporanei riguardo ad Irnerio ed alla sua scuola, sarebbe temerità tornare a trattare un tale argomento, molto più che dall'epoca in cui quel celebre giureconsulto scrisse la sua opera, ad oggi, non sono state trovate dagli eruditi nè carte, nè documenti che parlino del fondatore della scuola giuridica bolognese[55].

Piuttosto, dopo aver detto d'Irnerio quanto basta per illustrare alquanto i punti più oscuri della sua vita, porteremo le nostre ricerche sopra un argomento non meno interessante. Di quanti scrissero d'Irnerio, nessuno, ch'io sappia, si è fermato a parlare con qualche diffusione dell'importanza scientifica della scuola da lui fondata in Bologna e delle vere cagioni per le quali il nome di questo giureconsulto divenne famoso presso i suoi contemporanei ed i posteri.

Generalmente si attribuisce ad Irnerio il merito di essere stato il capo scuola dei glossatori; e per tal titolo, esclusivamente scientifico, si crede che esso abbia acquistato tanta reputazione nella storia.

Non è certamente da attribuirsi al solo caso se il nome d'Irnerio è rimasto tanto famoso fino ad oggi, e se la tradizione parla di lui come di un grande restauratore degli studii giuridici. A buon conto di quel Pepo o Pepone [44] che visse e insegnò in Bologna qualch'anno prima di lui, la fama suona assai mediocre e pare che nè per ingegno, nè per cognizioni superasse di gran lunga la schiera divenuta allora abbastanza numerosa, dei maestri e cultori di diritto suoi contemporanei.

L'influenza esercitata da Irnerio nello studio allora nascente delle leggi, non si limita soltanto all'essere egli stato il primo a fare colle glosse l'illustrazione ai testi sui quali cominciò ad insegnare nella scuola bolognese, dando allo studio del diritto il carattere e l'importanza di scienza indipendentemente dagli altri rami del sapere e applicando un sistema nuovo e bene ordinato di ricerche sui testi romani.

Irnerio fondando la scuola bolognese, ovvero illustrando col proprio nome quella che già esisteva, contribuì assai ad imprimere agli studii del diritto un nuovo e fecondo indirizzo e sopra tutto a dare un carattere esclusivamente nazionale all'insegnamento da lui inaugurato.

Perciò noi crediamo che per volere apprezzare adeguatamente l'importanza della scuola che prese nome da Irnerio, sia necessario vedere l'influenza da essa esercitata nella nascente cultura giuridica, sotto un duplice aspetto.

Irnerio coll'introdurre l'uso delle glosse nell'insegnamento del diritto, non fu soltanto il fondatore di un nuovo sistema scientifico; ma fu anche il vero restauratore dello spirito giuridico romano, dedicando le sue ricerche alla divulgazione dell'antico diritto e spogliandolo delle influenze lasciate dalle consuetudini e dalle leggi introdotte in Italia dai popoli conquistatori.

Parleremo prima dell'influenza scientifica della scuola d'Irnerio nello svolgimento del diritto, per venire poi a trattare del secondo punto cui abbiamo rivolto le nostre ricerche per illustrare questo periodo della storia del [45] nostro risorgimento giuridico, che ha un intimo nesso colle origini dell'università di Bologna di cui dovremo fra breve parlare.

La parte che ebbe Irnerio nel risorgimento della scienza giuridica non si può apprezzare convenientemente, se non si esaminano le condizioni del diritto in epoca anche di poco anteriore a quella in cui esso promosse in Bologna la riforma dei buoni studii.

Prima che Irnerio inaugurasse l'insegnamento delle leggi nella scuola bolognese, i giureconsulti che erano sparsi per l'Italia e che incominciavano già ad acquistare qualche importanza nella vita pubblica, o si erano istruiti da sè o avevano frequentato quelle prime ed oscure scuole laiche dove si spiegavano le nozioni della giurisprudenza insieme alla grammatica, alla rettorica e agli altri rami dello scibile assai limitato di quei tempi e compendiato in rozzi formulari.

Il diritto romano era allora conosciuto più per tradizione che per uso dei testi, poco diffusi ed oscuri per l'intelligenza comune. L'applicazione delle leggi promulgate dai popoli che si erano divisi il dominio d'Italia, era stata estesa pel corso di molti secoli alle provincie conquistate, e sebbene ai popoli nativi fosse permesso di vivere colla legge romana, tuttavia alle tradizioni dell'antico diritto, per quanto gelosamente conservate, si erano mescolati molti principii delle legislazioni barbariche a cagione della lunga convivenza e della lenta fusione che si era operata fra le genti che avevano occupato il nostro paese.

I giureconsulti anteriori alla scuola d'Irnerio avevano fatto i loro studii e acquistata la pratica dei giudizii nei quali erano chiamati a far parte anche ai tempi più remoti, piuttosto in quelle rozze compilazioni promulgate dai [46] popoli conquistatori, che alle vive fonti dei testi romani. Infatti Irnerio e poi i suoi successori, furono costretti a raccogliere pazientemente le traccie confuse dei testi e a riordinarle a profitto degli studiosi.

Irnerio coll'insegnamento giuridico da lui inaugurato nella scuola bolognese, dette allo studio del diritto il carattere e l'importanza di scienza indipendente, separandolo dagli altri rami del sapere confusamente riuniti nel Trivio e nel Quadrivio; rozzi sistemi enciclopedici che erano in uso in quei tempi.

Col sistema delle glosse, Irnerio richiamò lo studio del diritto alle sue fonti originali, spogliandolo delle influenze portatevi dalle consuetudini e dalle leggi barbariche che per molti secoli avevano avuto vigore in Italia.

L'uso delle glosse contribuì efficacemente al pronto riordinamento dei testi, confusamente sparsi, e a diffonderne lo studio nelle scuole, dove, prima d'Irnerio, non circolavano che pochi frammenti scorretti e mescolati colle rozze compilazioni dei popoli che fino allora si erano diviso il dominio d'Italia.

Soltanto quando si stabilisce un confronto fra le condizioni scientifiche dei tempi anche di poco anteriori a quelli in cui visse e fiorì Irnerio, con l'epoca nella quale venne fondata la scuola bolognese, si può conoscere quanto abbia contribuito quel grande restauratore dei buoni studii a far progredire le cognizioni giuridiche nel popolo italiano e ad affrettare il risorgimento del diritto.

Nondimeno vi sono alcuni storici che, male apprezzando i grandi meriti della scuola d'Irnerio, e dimenticando in quali condizioni di civiltà egli fosse vissuto, lo vanno accusando di molti difetti e giudicano quell'antico giureconsulto e la numerosa schiera dei glossatori suoi seguaci, coi criterii della critica moderna.

[47]

«I glossatori un tempo inalzati a cielo (dice uno scrittore contemporaneo) sono stati poi sottoposti ad una critica poco imparziale e disonesta, e addebitati d'ignoranza supina nella istoria, di poca perizia filologica, di stranezza nelle etimologie. A vero dire, alcuni di questi rimproveri hanno un certo fondamento di verità: ma prima di correre a condannare questi vetusti cultori della scienza giuridica risorta, bisogna far ragione dei tempi nei quali essi vivevano. E valga il vero, quando essi composero le loro opere, appena erano stati ripresi gli studii storici o letterari, e non potevano ancora dirsi dileguate le folte tenebre, che da secoli occupavano le menti. Dalle quali cose si raccoglie, che con sottilissimi sussidii di storia e di filologia, privi di tutte quelle fonti di ragioni scoperte in seguito, con la sola forza del loro ingegno, per i primi ed in brevissimo tempo interpretarono e conciliarono le migliaia di frammenti e di leggi sparsi nelle vaste compilazioni giustinianee, ne impararono meravigliosamente il disposto, tanto che non sfuggì loro neppure una fra le molte disposizioni, concordi comunque lontane le une dalle altre, ed emesse in occasioni disparatissime; ne rivelarono lo spirito e le adattarono ai nuovi bisogni. Oggi sarebbe senza dubbio argomento di riso, il far derivare, come da alcuni di essi fu fatto, la voce lapis dalle due laedens pedem o la voce argumentum da argute inventum, o il sostenere che la lex Caninia derivasse il suo nome da canis (cane) e la lex Falcidia da falx (falce), o l'asserire che Ulpiano e Giustiniano, l'uno posteriore di due, l'altro di cinque secoli a Gesù Cristo, lo precedessero» (Berriot Saint-Prix, Istoria del diritto romano, sez. II, cap. VI, art. 2)[56].

[48]

Però, dove meglio si conosce e si apprezza la grande influenza che esercitò Irnerio nel risorgimento del diritto moderno, è nel considerare come esso abbia saputo bene interpretare i bisogni intellettuali e le tendenze della cultura dei tempi in cui visse, inaugurando la completa emancipazione e assicurando il trionfo dello spirito giuridico romano sopra quello dei popoli conquistatori. Il che ci spiega la cagione per cui il nome d'Irnerio acquistò tanta fama presso i contemporanei e la sua scuola ben presto ottenne il primato sopra tutte le altre d'Italia.

La nuova scuola che sorgeva in Bologna fondata da Irnerio, come alcuni credono, ovvero illustrata dal suo nome e accresciuta col concorso della sua dottrina e del sistema scientifico da lui inaugurato nello studio del diritto romano, è indubitato che ebbe grande influenza nell'affrettare il risorgimento giuridico italiano assicurandone l'assoluta prevalenza sulle leggi e le consuetudini lasciate dalle diverse generazioni di barbari che si contrastarono per molti secoli il dominio dell'Italia.

Questa scuola d'Irnerio, che ben tosto primeggiò su tutte le altre italiane attirando colla sua fama un gran numero di studiosi da tutte le parti d'Europa, rappresenta non solo un centro nuovo di studii giuridici ispirati alle fonti originali dei testi romani; ma è la vera espressione di un alto concetto politico, che nel fervore della incipiente rivoluzione dei comuni, dominava allora le menti degl'italiani che si risvegliavano ad una nuova vita.

Irnerio richiamando gli studiosi del diritto alle fonti originali, secondava mirabilmente lo spirito dominante in quell'epoca nella coscienza del popolo italiano, affermando il principio d'indipendenza anche nella cultura giuridica.

Ebbe Irnerio, certamente come tutti i grandi riformatori, i tempi favorevoli che agevolarono assai la pronta [49] diffusione dei suoi metodi scientifici e le innovazioni da esso portate nello studio rinascente del diritto romano.

I grandi avvenimenti politici, che allora cominciavano a svolgersi in Italia, e soprattutto quella lenta trasformazione sociale operata dal risorgimento dei comuni, secondavano il rinnuovamento dello spirito giuridico nazionale, che affrettavasi colla fondazione della scuola bolognese, dove i testi romani formavano la base del nuovo insegnamento scientifico introdotto da Irnerio e propagato dai suoi seguaci.

La grande innovazione, che la scuola bolognese portò nella cultura giuridica moderna, era stata affrettata dai voti degl'italiani che per molti secoli, memori dell'antica grandezza, avevano conservato con religioso culto tutte le tradizioni romane e soprattutto l'uso della loro legge.

Lo spirito dell'antico diritto, dominò sempre nella coscienza degl'italiani, e quando i re conquistatori furono costretti per regolare i nuovi rapporti di convivenza col popolo vinto, a promulgare leggi scritte, doverono prestare un involontario omaggio alla sapienza giuridica romana, facendo quelle rozze compilazioni che ebbero nome Breviarii o Capitolari sulle traccie delle tradizioni e dei monumenti legislativi che rimanevano ad attestare l'antica grandezza italiana.

Chi esamina però attentamente il segreto svolgimento della cultura giuridica in questo periodo oscurissimo delle dominazioni barbariche, si accorge con quanta cura i popoli conquistatori cercassero di sottrarsi all'influenza del diritto romano nella compilazione delle loro leggi e nei modi di applicarle. In quelle rozze compilazioni fatte dai re legislatori longobardi e franchi, si avvertono molti indizi, che rivelano quell'indomito senso di orgoglio e di superiorità del vincitore sul vinto, che è di tutti i tempi [50] e molto più comune presso quei popoli che vennero in Italia privi di cultura e di ogni civil costumanza.

Quelle poderose schiere di nazioni armate quando posero le loro sedi fra noi, lasciarono ai vinti l'uso della legge romana non per atto di benigna concessione, ma perchè realmente avevano ripugnanza ad appropriarsi quei monumenti legislativi degni per loro di disprezzo, come ogni cosa che veniva dai romani, e forse anche per la ragione che non erano provvisti di sufficiente cultura per conoscerne il senso e valersene per regolare i loro rapporti giuridici.

Quando però più tardi ebbero occasione di compilare nuovi codici per l'uso delle loro nazioni, si accorsero i re conquistatori che non era possibile di fare a meno del diritto romano per desumere da quello i criterii giuridici e l'ordine legislativo, nonchè l'uso della lingua latina per essere intesi anche dai sudditi italiani.

Così le tradizioni romane cominciarono a far parte del patrimonio giuridico dei popoli conquistatori e ad informare le loro legislazioni.

Quella scuola di Pavia che abbiamo veduto sorgere fondata o almeno favorita dai re longobardi, ha un significato nella storia del diritto moderno che non è stato avvertito neppure dal Merkel, che fu il primo a dimostrarne l'esistenza e a scoprirne le traccie nei documenti del tempo[57].

L'avere favorito lo sviluppo di un centro di cultura giuridica nella sede del regno, dimostra nei longobardi l'intento segreto di riunire le sparse tradizioni e gli elementi del loro spirito giuridico nazionale per contrapporlo alla sempre crescente influenza del diritto romano.

[51]

La scuola di Pavia rappresenta già un primo notevole progresso del diritto romano, ed è il principio di quel segreto svolgimento giuridico che un secolo dopo doveva compiersi e perfezionarsi col nuovo sistema scientifico introdotto da Irnerio nello studio delle leggi[58].

I longobardi nella scuola di Pavia dovendo spargere i germi della scienza giuridica, furono costretti a cercare gl'insegnanti fra i romani, poichè ad essi soltanto erano confidate le scarse traccie del sapere in quell'epoca di generale ignoranza. Però, benchè dai documenti del tempo relativi a quella antica scuola, non si possa rilevare qual fosse la natura e la estensione delle nozioni giuridiche che venivano propagate da quei vetusti cultori del diritto, non è inverosimile il supporre che le tradizioni romane esercitassero molta influenza, nella sostanza dell'insegnamento, quantunque la scuola dovesse assumere il carattere nazionale dei fondatori longobardi.

Il vedere fondato da quei longobardi, sprezzatori perfino del nome romano, un centro di studii giuridici in cui necessariamente l'antico diritto professato per tradizione dal popolo vinto, doveva aver molta parte, ci dimostra quanto progresso avesse già fatto nella società medioevale la cultura giuridica. Compilando i barbari le loro prime leggi sull'esempio di quelle romane, avevano già confessata la superiorità degl'italiani; col fondare poi la scuola di Pavia riconoscendo il bisogno di dare ordine e forma di scienza alle loro scarse cognizioni di diritto, facevano un solenne omaggio alla civiltà del popolo conquistato e ne affrettavano involontariamente il risorgimento.

[52]

La scuola di Pavia, quantunque favorita dai re longobardi, non poteva però ridestare l'amore dei buoni studii, nè dare un notevole sviluppo alla cultura giuridica, perchè nel popolo che l'aveva fondata non vi erano gli elementi necessari per assicurarle durevole prosperità ed influenza scientifica; e negl'italiani non poteva certamente incontrare molto favore perchè tuttora oppressi sotto il peso della servitù, sarebbero stati incapaci di far trionfare palesemente il diritto romano, come avvenne più tardi, quando incominciò a ridestarsi potente il loro sentimento nazionale.

Perciò questo primo centro di studii giuridici ebbe poca importanza scientifica e lasciò assai deboli traccie della sua esistenza nella storia del diritto moderno; talchè, se un illustre erudito non ne avesse scoperte le prove dai documenti del tempo, nessuno avrebbe oggidì saputo che durante la dominazione dei longobardi ebbe origine una scuola teorica e pratica di giurisprudenza.

Ma se mancarono ai longobardi gli elementi necessari per creare un centro di cultura giuridica nel quale dominasse il loro spirito nazionale, come certamente n'ebbero l'intenzione quando fondarono o favorirono lo sviluppo della scuola di Pavia, non cessò per questo in Italia dall'epoca accennata in poi, quel lento progresso negli studii del diritto che fu già da noi avvertito anche nei secoli precedenti.

Il numero delle persone che si sottoscrivono nei pubblici atti col titolo di giudici (judices), giureconsulti (jurisconsulti) e legislatori (legislatores) cresce a dismisura dal mille in poi ed anche nelle poche traccie che rimangono degli studii di quei primi cultori del diritto, si avvertono manifesti segni di progresso, quantunque prevalesse allora la pratica delle leggi alla parte esclusivamente teorica che forma la base della scienza.

[53]

Dai frequenti giudicati che quei primi giureconsulti pronunziarono, e da qualche passo già a suo luogo riferito degli scrittori contemporanei, si rileva come le cognizioni giuridiche andassero gradatamente accrescendosi e incominciasse eziandio nei tribunali e nei collegi detti dei giudici e degli avvocati (collegia judicum et advocatorum) a farsi comune l'uso dei testi.

In questi antichi collegi dei primi cultori del diritto, si trova il germe da cui in seguito prese più ampio sviluppo l'insegnamento giuridico nelle scuole d'Italia.

Seguendo le dotte ricerche del Savigny, vedemmo quali traccie siano rimaste nella storia ad attestare della certa esistenza delle scuole di Ravenna, di Bologna, e anche di Pisa, secondo alcuni documenti recentemente scoperti.

Fino ad Irnerio però, pare assicurato che l'insegnamento del diritto fosse riunito nei collegi dei giureconsulti agli studii pratici delle leggi, in cui essi si addestravano per divenire giudici ed avvocati.

La pratica del giudicare e l'uso delle dispute nei tribunali, contribuì assai a mantener vive le tradizioni giuridiche in Italia, anche nei tempi in cui non si aveva nessuna cognizione teorica ben fondata del diritto. Forse fra quei giureconsulti, giudici ed avvocati, vi fu chi spontaneamente o per incarico avutone dal collegio, si dedicò all'insegnamento; e non è inverosimile neppure che nel seno dello stesso collegio si trovassero anche scuole speciali, per addestrare i più giovani agli studii teorici e pratici come nella scuola di Pavia a tempo dei longobardi.

Comunque sia di ciò, è ormai accertato che prima di Irnerio non vi fu un insegnamento giuridico indipendente ed esclusivamente ispirato ai testi romani, e quelle scarse cognizioni che si avevano allora del diritto, erano confuse colle traccie lasciate dalle leggi dei longobardi [54] e di altri conquistatori; e nelle scuole, allora, la giurisprudenza faceva parte del Trivio e del Quadrivio, in cui compendiavasi tutto il sapere di quel tempo; e lo stesso Irnerio, prima d'insegnare le leggi a Bologna, era stato maestro di grammatica a Ravenna.

Ci siamo adunque apposti al vero, quando abbiam detto che per conoscere ed apprezzare convenientemente la grande influenza esercitata da Irnerio nella scuola di Bologna, era necessario risalire ai tempi a lui anteriori, per vedere qual fosse lo stato della scienza e quale la dottrina dei giureconsulti suoi predecessori.

Venuto in Bologna Irnerio, già preceduto da molta fama come valente nel giudicare, e adoperato spesso in pubblici uffici, di che fanno fede le testimonianze contemporanee riferite dal Savigny, cominciò a tenere scuola di diritto ed insegnare pubblicamente, dedicando le sue cure soltanto a questo ramo di scienza.

Era la prima volta che gli studii della giurisprudenza si emancipavano dagli altri rami dello scibile, e Irnerio soltanto colla grande autorità, da lui acquistata nelle faccende di Stato, poteva effettuare una sì ardita innovazione nei sistemi didattici di quel tempo.

Irnerio, secondo che narra Odofredo, ritenuto anche dal Savigny come testimonianza autorevole, perchè vissuto nei tempi in cui la fama del primo restauratore degli studii giuridici era assai recente, conosceva tutte le parti dei libri giustinianei, eccettone alcune che studiò più tardi. Questa perfetta conoscenza dei testi romani gli assicurava un incontrastata superiorità scientifica sopra tutti i suoi contemporanei, i quali ben presto gli fecero omaggio, e lo ritennero il vero fondatore della scuola bolognese, essendo stato il primo ad inaugurare un ben ordinato sistema d'insegnamento.

[55]

Chi legge attentamente il passo di Odofredo relativo ad Irnerio, vede con quanto rispetto e riverenza parli di lui quel giureconsulto e suo successore nell'università di Bologna, e come in poche parole, rivolgendosi familiarmente ai suoi scolari, riassuma le vicende della vita scientifica del suo famoso antenato.

Coll'insegnamento inaugurato a Bologna da Irnerio, lo studio del diritto non solo si emancipava dagli altri rami dello scibile, assumendo il carattere di scienza indipendente, ma togliendo la base delle sue dottrine dalle vive fonti dei testi romani, per la prima volta ordinati ad uso delle scuole da quel giureconsulto, ridestava con legittimo senso d'orgoglio dei contemporanei, l'antico spirito giuridico nazionale che per tanti secoli era stato conservato dagl'italiani con religioso culto.

Il risorgimento del diritto romano che ebbe luogo nella scuola d'Irnerio, rappresenta non solo un progresso nello studio delle leggi, ma è una completa rinnovazione d'idee giuridiche; un trionfo della civiltà antica e una splendida affermazione del sentimento di nazionalità e del principio d'indipendenza del popolo italiano, che cominciava allora ad affrancarsi da una lunga ed opprimente dominazione.

Non si può adunque contrastare ad Irnerio che fu il primo a dar forma scientifica allo studio del diritto ed a creare un gran centro di cultura giuridica nazionale, quella fama che meritamente gli spetta.

Dopo quanto abbiamo detto fin qui, è superfluo il discutere l'opinione sostenuta da diversi scrittori anche moderni di storia del diritto[59], che attribuisce il merito della fondazione [56] della scuola bolognese alla contessa Matilde, la quale, secondo ciò che narra un'antica tradizione, avrebbe chiamato Irnerio in Bologna ad insegnare il diritto.

La contessa Matilde adoperò Irnerio come pure fecero altri principi di quel tempo, nei pubblici affari, essendo egli salito in molta fama fra i giureconsulti suoi contemporanei anche prima di venire da Ravenna a Bologna.

Nei documenti riportati dal Savigny, si trova ricordato il nome d'Irnerio bolognese (Warnerius de Bononia) fra quelli dei giurisperiti (causidici) intervenuti ad un placito (placitum) della contessa Matilde (in loco baviana)[60].

Il Muratori dice che Irnerio fu incaricato da quella potente signora di rivedere i testi di legge[61]. L'abate di Usperg nella sua cronaca attesta che Irnerio alle richieste della contessa Matilde rinnuovò lo studio dei libri delle leggi da lungo tempo negletti[62].

Tale opinione venne già confutata anche dal Sarti, il quale assai acutamente dimostrò che Matilde non poteva aver fondato una scuola in Bologna, non avendo mai avuto la signoria di quella città.

Però la protezione che trovò Irnerio nei sovrani e in alcuni dei più potenti signori d'Italia, i quali si valsero della sua dottrina per consultarlo nei più gravi affari di Stato, se non gli giovò direttamente per creare una scuola famosa di giurisprudenza, qual fu quella di Bologna, è certo che gli agevolò assai la via per acquistare in poco tempo tanta autorità e reputazione scientifica fra i giureconsulti suoi contemporanei.

Invitato spesso a dare il suo consiglio nei privati e [57] pubblici uffici, ebbe agio di addestrarsi nella pratica del diritto e di consultare i testi delle leggi romane, che poteva coll'influenza dei suoi potenti protettori, più facilmente di ogni altro rintracciare fra quei pochi codici, che erano scampati per caso alla generale dispersione di tutti gli avanzi delle opere dell'antica cultura.

Colla scuola fondata da Irnerio, può dirsi che avesse principio quella libertà d'insegnamento, che alla pari di tutte le grandi innovazioni sociali, fu l'effetto di un concorso simultaneo di fatti svariati che agirono potentemente a modificare le condizioni scientifiche di quel tempo e a preparare uno splendido risorgimento della cultura, senza l'intervento del potere politico, e per opera esclusiva di un moto spontaneo dell'operosità privata.

Lo spirito di associazione tanto sviluppato nel medio evo, aiutò la scienza a risorgere, additando ai suoi cultori i mezzi per acquistare autorità e potenza nella società di quel tempo per virtù propria e senza nessuno estraneo aiuto.

Al modo stesso che si ordinarono e presero forza coll'associarsi degli operai le corporazioni delle arti, e il comune si formò coll'aggregazione di tutti gli elementi dell'antica civiltà e colla partecipazione delle classi popolari al governo, così quei primi centri, dove si elaborarono i germi della cultura moderna, trovarono il segreto del loro rapido sviluppo nello spontaneo concorso di tutti i cultori del sapere alla formazione della scienza.

Queste tre grandi forme di associazione che prosperarono nel medio evo (cioè le arti, il comune e le università), aiutarono con svariate manifestazioni lo svolgimento della libertà moderna. Le arti consacrarono la libertà del lavoro, i comuni la libertà politica, le università la libertà d'insegnamento.

[58]

Dal momento che la cultura emancipata dal dominio della Chiesa, cominciò a diffondersi nelle scuole laiche, che in Italia divennero assai numerose intorno al mille, l'insegnamento pubblico fu esclusivamente professato da maestri privati i quali, raccolti intorno a sè alcuni studiosi, cominciarono a comunicar loro quelle scarse cognizioni che avevano acquistate coltivando qualche ramo di scienza. Chi era divenuto dotto (per quanto ciò potesse avverarsi nelle infelici condizioni intellettuali di quell'epoca) cominciò a non appagarsi più delle segrete ed intime soddisfazioni di solitarie ricerche, ma sentì vivamente il bisogno di manifestare ad altri ciò che aveva imparato; di fondare un centro di attività scientifica che prendesse nome da lui e propagasse la fama delle sue dottrine fra i contemporanei e gli assicurasse la riconoscenza dei posteri.

Così si formarono con lento progresso le prime scuole laiche; aggregazioni spontanee di più individui mossi gli uni dal desiderio disegnare, gli altri d'imparare; e dove la scienza che comunicavasi dal maestro al discepolo, non era un formulario di teoriche imposte e regolate dall'arbitrio di un potere qualsiasi, ma un ricambio fecondo d'idee e di cognizioni liberamente trasmesse e spontaneamente accettate.

La libertà d'insegnamento, adunque, come tutte le grandi manifestazioni della civiltà, ebbe origine dalle condizioni politiche e intellettuali in cui trovavasi la società di quel tempo, e da quel lento ma progressivo e costante sviluppo della cultura che incominciò ad introdurre il gusto del sapere e l'amore degli studii anche nel ceto dei laici, i quali avevano disconosciuto fino a quell'epoca i benefizii della scienza.

Dal secolo decimo in poi si videro sorgere per spontaneo [59] moto e senza l'intervento e il soccorso di nessuna autorità nè politica nè ecclesiastica, le scuole dove, i rapporti di convivenza, i metodi d'insegnamento, le retribuzioni, le consuetudini di vita, erano regolati dal principio della più assoluta libertà e senza nessuna estranea influenza.

Quando un di quei primi cultori del sapere aveva raccolto intorno a sè un numero sufficiente di studiosi che gli potessero assicurare un compenso adeguato all'opera che si era offerto di prestare in loro vantaggio, stabiliva con essi le condizioni fondamentali per assicurare l'esistenza dell'associazione scolastica che voleva fondare, e così per convenzione privata e senza alcuna solennità, si formava la nuova scuola che prosperava in breve o veniva a cessare, a seconda della fama che avevano saputo acquistarsi i maestri che v'insegnavano.

In questo modo, per spontaneo sviluppo della cultura diffusa in tutti gli ordini sociali per opera dell'iniziativa privata, l'Italia vide in poco tempo un rapido incremento nell'importanza scientifica e nel numero delle sue scuole, che si sparsero in quasi tutti i principali centri di popolazione, dove manifestavasi più vivo il bisogno d'istruirsi, essendo già penetrato nelle classi popolari il sentimento di libertà che doveva in breve trionfare colla rivoluzione dei comuni.

La libertà d'insegnamento non ebbe limite in questo primo periodo del risorgimento della nostra civiltà.

Per attestazione del giureconsulto Odofredo, che nelle sue opere si mostra assai bene informato delle condizioni scientifiche dei suoi tempi nelle scuole bolognesi, quando incominciò ad insegnarvi Irnerio, si facevano le lezioni pubblicamente senza l'ingerenza di nessuna autorità. Soltanto per le scienze sacre, sembra che i papi volessero [60] fare eccezione, per evitare il pericolo che penetrasse nelle scuole l'eresia. Infatti si trovano ricordate dal mille in poi alcune leggi di disciplina ecclesiastica che furono promulgate in varii concilii, dove si trattò di esercitare un'ingerenza nell'insegnamento. Nessuna speciale limitazione però si trova introdotta per l'istruzione laica.

Essendo stata la scuola di Salerno, come già abbiamo osservato, il primo centro autonomo e nazionale di studii laici, non è esatta l'asserzione di alcuni storici, i quali vorrebbero attribuire alle scuole giuridiche bolognesi il vanto di avere introdotto prima d'ogni altra, il principio della libertà nel pubblico insegnamento.

Anche prima d'Irnerio (cioè all'epoca che le scuole bolognesi non avevano ancora acquistata l'importanza scientifica che le rese dipoi tanto famose in Europa), vi erano in Salerno medici di molto merito che avevano raccolto intorno a sè un gran numero di scolari ed insegnavano pubblicamente e liberamente, senza l'intervento governativo.

Per il corso di circa due secoli (cioè dal 984 in cui trovansi ricordate le prime scuole mediche, al 1140, in cui Ruggiero I promulgò una legge per obbligare tutti coloro che si fossero dedicati alla medicina a sottoporsi prima ad un esame), la città di Salerno fu un centro autonomo di studii medici, estraneo a qualsiasi ingerenza ufficiale, e già provvisto di leggi proprie e di speciali ordinamenti.

La storia del libero insegnamento ha dunque origini assai più remote di quello che generalmente si creda, poichè è certo che quel sistema fu largamente applicato nella scuola di Salerno prima che in quella di Bologna[63].

[61]

Chi volesse poi indagare le svariatissime cause che concorsero alla diffusione della completa libertà d'insegnamento nelle scuole italiane, dovrebbe riassumere tutta la storia della nostra cultura, dai primi tempi in cui si operò l'emancipazione intellettuale della società civile, fino alla fondazione di quei grandi centri di studii dai quali poi ebbero origine le università.

La scienza si propagò per spontaneo impulso di quel prodigioso risorgimento intellettuale che fu la natural conseguenza della libertà proclamata dai comuni, e le prime scuole dove si andò svolgendo la cultura moderna, non poterono assumere forme e ordinamenti diversi da quelli [62] che avevano preso a base della loro esistenza le altre libere associazioni di quel tempo.

L'elemento prevalente del risorgimento della cultura italiana fu lo studio del diritto.

Dall'epoca che Irnerio cominciò ad insegnare in Bologna in poi, la cultura giuridica fece maravigliosi progressi, favorita dalle condizioni sociali in cui trovavasi allora l'Italia.

Quel risveglio intellettuale, di cui aveva dato segni manifesti il nostro paese fin da quando cominciò a diffondersi la cultura nelle prime scuole laiche, si propagò ben presto in tutte le classi sociali che avevano ormai col sentimento di libertà acquistata anche la coscienza del proprio valore intellettuale.

In questo splendido periodo del rinascimento, gl'italiani manifestarono singolari attitudini scientifiche e un ingegno così versatile che non vi fu ramo dello scibile ad essi ignoto; e l'ardore d'imparare divenne tanto comune a tutte le classi sociali, che le numerose scuole allora fondate, non bastarono ad appagare i desiderii degli studiosi e la maravigliosa operosità intellettuale.

Sopra tutte le scienze però, lo studio del diritto ebbe il primato per la grande diffusione e l'importanza sociale che gli venne per comune consenso attribuita.

Dopo che Irnerio dette un nuovo indirizzo scientifico alla cultura giuridica e appagò i voti di tanti secoli del popolo italiano, richiamando a base dell'insegnamento i testi romani, gli studii del diritto divennero più che un esercizio intellettivo e un lavoro scientifico, una vera necessità sociale.

Le nuove libertà consacrate col risorgere dei comuni, cambiarono affatto le condizioni politiche, morali e intellettuali della società di quel tempo.

Se al tempo della dominazione feudale bastavano le [63] consuetudini e poche leggi scritte a regolare i rapporti fra signore e vassallo, tenendo luogo del diritto l'arbitrio e la violenza, allorchè sopraggiunse la libertà comunale ad affrancare le classi popolari dall'antico servaggio, si modificarono profondamente le condizioni sociali, e con esse divenne necessario l'uso più esteso delle leggi e la maggior diffusione della cultura giuridica.

Il nuovo diritto che sorgeva con i comuni, risentì l'influenza del contrasto di svariati elementi che cooperarono in diversa misura a formare la nuova società.

La vita giuridica italiana, le cui tradizioni si collegano alle più remote epoche dell'antichità, ebbe forza di rivelarsi ed esercitare qualche autorità anche quando sembrava spento ogni germe di esistenza politica. Più tardi, e in tempi assai vicini a quelli della libertà comunale, si vedono raccolte le consuetudini feudali dai consoli milanesi. Quest'opera di legislazione relativa ad un regime politico contrario affatto all'indole nazionale, ci dimostra quanto grande fosse allora il bisogno negl'italiani di dare sviluppo alla loro attività giuridica, assoggettando ad ordinata azione i principii feudali, mentre in altri paesi sola ragione riconosciuta era la forza. Così, quel regime fondato sull'arbitrio e la violenza e che sembrava il più ribelle di tutti gli ordinamenti politici ad essere governato dai principii di diritto, ebbe dall'Italia il primo ed unico monumento di sua legislazione.

Il primo lavoro della giurisprudenza nel medio evo, fu la formazione di un diritto composto di molteplici elementi, parte ereditati dalle tradizioni antiche e parte creati dai nuovi bisogni. Questo grande rinnovamento giuridico si compì più sotto l'ispirazione della società vivente, che per sicura intelligenza dello nuove condizioni sociali dalle quali principalmente era prodotto.

[64]

La scuola d'Irnerio inaugurando un nuovo sistema scientifico, ispirato alle fonti originali del diritto romano, secondava mirabilmente i bisogni e le aspirazioni dei tempi. Le tradizioni giuridiche, i breviarii, le consuetudini, non bastavano più alla nuova cultura. Il grande mutamento sociale che era avvenuto principalmente in Italia verso il secolo undecimo, doveva per necessità promuovere gli studii del diritto ad eccitare l'attività legislativa della nazione.

Le città marittime che avevano attinto dal commercio prosperità e indipendenza, furono le prime a compilare leggi proprie ispirate ai nuovi bisogni, e adatte a regolare i rapporti e gli usi mercantili dei diversi paesi coi quali si erano messe in comunicazione.

Più tardi quando cominciarono le associazioni delle arti a proteggere il lavoro e ad alimentare le nascenti industrie, assicurando agli operai tutti i benefizii di una vita indipendente, e chiamandoli all'esercizio dei diritti civili e politici, si diffuse sempre più l'agiatezza in tutte le classi sociali, e colla cresciuta prosperità economica aumentarono anche i rapporti giuridici e quindi più frequente divenne anche l'uso delle leggi.

Questo rinnovamento sociale, sebbene con più lentezza, si manifestò anche nelle campagne, dove; abbattute le ultime traccie del feudalismo nei suoi centri più formidabili, che erano i castelli baronali, il nuovo popolo dei comuni fattosi sempre più ardito ed implacabile nei suoi antichi odii contro i signori, mosse loro guerra e li costrinse a viver vita comune nelle città, e ad iscrivere il loro nome nelle corporazioni delle arti: splendido trionfo riportato dall'operosa democrazia sulla superba schiatta dei suoi dominatori!

Distrutto il regime feudale, la proprietà delle terre [65] cominciò a frazionarsi e l'agricoltura, che fino allora era stata un'arte abietta e servile, affidata agli infimi vassalli, divenne industria operosa e feconda nelle mani dei liberi coloni che parteciparono ai frutti nati dal suolo da essi coltivato, e così ebbe origine il sistema della mezzadria. Dal frazionamento delle terre, e dai rapidi passaggi di proprietà crebbero assai i rapporti giuridici, e il diritto ricevè frequentissime applicazioni negl'interessi privati.

La nuova costituzione comunale poi, rendeva necessario lo studio della giurisprudenza in tutti gli ordini dei cittadini, essendo conferito il potere politico in egual misura nelle classi sociali.

Coloro che partecipavano al governo dovevano essere ad un tempo legislatori e giudici, e in tal qualità amministrare le cose del comune nei privati consigli, e difendere il loro operato nelle pubbliche assemblee. Quando poi si fosse presentato il bisogno, e l'utile della patria lo avesse richiesto, avevano l'obbligo di dedicarsi ad altri svariatissimi uffici nei quali era necessaria grande acutezza di mente e profonda esperienza degli affari.

Le nuove condizioni sociali risvegliavano naturalmente l'ambizione di prevalere nelle assemblee popolari e nei consigli delle corti, in tutti coloro che per svegliatezza d'ingegno e per speciali attitudini credevano di potere salire in rinomanza dedicandosi agli studii.

E poichè la giurisprudenza era allora il principale elemento della pubblica educazione e lo studio necessario per esercitare qualunque ufficio nella vita politica, così avveniva che tutti vi si dedicassero con ardore, e non appena era fondata una scuola, ben presto vi concorressero in gran numero studiosi di ogni età e di ogni condizione da tutte le parti d'Europa.

[66]

Per conoscere le cause che propagarono così rapidamente la fama della scuola bolognese, è necessario vedere brevemente in quale stato fosse la cultura giuridica negli altri paesi. Questo rapido cenno di confronto spiegherà ad evidenza la ragione di quel primato che esercitò per molto tempo l'Italia nello studio del diritto e l'importanza scientifica delle sue università.

Nel secolo undecimo il risveglio della vita comunale divenne generale in tutti i paesi d'Europa, ricorrendo dovunque le stesse cause promotrici di questa gagliarda insurrezione contro il feudalismo.

Dopo l'Italia, che fu la prima a dare il segno della riscossa, essendo le sue città divenute libere e potenti quando il regime feudale e l'organismo della vecchia società era ancora nel vigore della sua esistenza in tutta Europa, il movimento d'insurrezione dei comuni si propagò rapidamente dai paesi del nord a quelli del sud, e nel secolo XII la completa emancipazione delle classi popolari era assicurata.

Quelle stesse cause che ravvivarono lo studio del diritto in Italia, fecero sentire anche agli altri popoli l'urgente necessità di iniziare un riordinamento legislativo e promuovere l'incremento della cultura giuridica per regolare i nuovi rapporti creati dalle mutate condizioni sociali. Ma se in Italia vi erano già tutti gli elementi per facilitare il risorgimento degli studii del diritto, non poteva dirsi altrettanto degli altri paesi che si erano sempre governati colle leggi consuetudinarie, e mancavano affatto delle qualità e delle condizioni di civiltà, necessarie per una generale riforma nella loro cultura giuridica e nel sistema legislativo.

Qualche traccia di diritto romano venne conservata per tutto il medio evo, specialmente in Francia, e si ha [67] memoria anche di alcune opere scritte verso la metà del secolo undecimo, che provano la continuità degli studii giuridici e la cognizione degli antichi testi di legislazione romana[64].

In Inghilterra ancora trovansi alcune traccie di opere scientifiche sul diritto romano, come pure nei Paesi Bassi, in Spagna e in Portogallo. È da avvertire però che nelle scuole di diritto che ebbero origine all'estero contemporaneamente, o poco dopo a quella di Bologna, insegnarono giureconsulti italiani. In questo tempo si ricorda il legislatore Placentinus della scuola dei glossatori, il quale insegnava il diritto romano a Montpellier, e il giureconsulto Vacarius che fondava un centro di studii giuridici verso il 1149 ad Oxford in Inghilterra, scrivendo anche sul diritto romano un libro intitolato: Liber ex universo enucleato jure exceptus et pauperibus præsertim destinatus[65]. Gli studenti di teologia mossero aspra guerra al giureconsulto italiano, forse perchè ne temevano la concorrenza per la nascente università di Oxford, e fu perciò costretto a sospendere le sue lezioni[66].

Dopo Vacarius, in Inghilterra si insegnò il diritto romano unitamente al diritto canonico, e fu coltivato specialmente [68] dal clero, essendo ritenuto necessario quello studio per formare buoni canonisti.

Nelle Corti di giurisdizione ecclesiastica quando mancava l'autorità di Gregorio o di Clemente, si citava quella di Giustiniano[67].

In Germania non si ricorda nel medio evo alcuna opera scientifica. Il diritto allora non contava nessuna scuola e si acquistavano le cognizioni sulle leggi necessarie esclusivamente alla pratica. All'infuori dei Formularii e di alcune altre rozze compilazioni di diritto consuetudinarie, non si trova nei paesi della Germania nessuna traccia di cultura giuridica, nè verun centro autorevole di studii neppure ai tempi che sorgeva in Italia la scuola famosa d'Irnerio[68].

Da questi pochi cenni si rileva chiaramente che all'infuori dell'Italia, in nessun altro paese d'Europa il diritto romano poteva acquistare importanza di scienza e autorità di legge. Le condizioni necessarie allo sviluppo [69] degli studii giuridici mancavano altrove, e fu quindi per effetto del naturale andamento delle leggi di civiltà che ebbe origine in Italia la prima scuola di diritto, dove si ravvivarono le tradizioni antiche e si riordinò la cultura.

Se i tedeschi però scarseggiarono di attività scientifica nei tempi che precedevano il risorgimento giuridico in Italia, non appena si diffuse la fama della scuola bolognese, accorsero in gran numero colà e frequentarono con ardore gli studii del diritto.

Già abbiamo dimostrato come per le mutate condizioni sociali fosse divenuto indispensabile l'acquisto di una buona cultura giuridica a tutti quei paesi in cui era subentrato all'odioso regime feudale la vita agiata e feconda dei comuni.

Il diritto romano se era utile a ricostituire sulle basi dell'antica legislazione una nuova giurisprudenza, svariata nei suoi principii e nelle sue applicazioni e conforme ai bisogni ed alle tendenze della vita comunale, non era meno necessario ai principi di quel tempo per sostenere le idee di assoluto dominio e giustificare coi precetti di una antica legislazione e coi responsi di famosi giureconsulti la legittimità del potere da essi esercitato.

Federigo I, imperatore di Germania, che ebbe necessità più di tutti i suoi antecessori di consolidare il principio di sovranità, minacciato gravemente dai frequenti moti di ribellione che erano i segni precursori della prossima rivoluzione comunale, volle legittimare le sue ambiziose mire di dominio universale, ricorrendo all'autorità di quei primi giureconsulti italiani che in quel tempo avevano levato tanta fama di sè nella scuola di Bologna.

Il diritto romano col quale tornavano a rivivere le [70] tradizioni dell'antico impero, secondava le ambiziose aspirazioni di quel sovrano il quale, disconoscendo lo spirito dei suoi tempi e le mutate condizioni sociali, si ostinava a considerare come audaci insurrezioni di vassalli quei primi moti di libertà che iniziavano l'epoca di una grande trasformazione politica in tutta Europa.

Federigo si era accorto che il prestigio della sovranità andava scemando per l'insubordinazione dei signori feudali, che di mala voglia si assoggettavano a riconoscere la suprema autorità dell'impero, e per l'insolita audacia delle plebi che troppo spesso si levavano in armi e imponevano col numero la loro volontà alle sue soldatesche, già rese impotenti a frenare le frequenti insurrezioni.

Non potendo reprimere colla forza tali abusi, l'imperatore tedesco vide di buon'occhio propagarsi le cognizioni giuridiche per opera della scuola bolognese, ed esercitò tutta la sua autorità ed influenza ad incremento di questo primo centro di studii, dove l'antico diritto romano tornava a risorgere ed a consolidare il principio monarchico.

I continuatori della scuola d'Irnerio trovarono in Federigo larga protezione e manifesti segni di benevolenza, essendo rimessa ad essi per volontà dell'imperatore la decisione delle più gravi quistioni, e attribuita alla loro opinione in tutte le vertenze di Stato, una grande autorità.

È celebre il parere domandato da Federigo al collegio dei legisti bolognesi sulla legittimità dei diritti da lui vantati, come continuatore delle tradizioni dell'impero romano, sopra il governo delle città italiane. Furono chiamati a sostenitori di questa disputa i due più famosi giureconsulti di quel tempo, cioè Bulgaro e Martino, fra [71] i quali nacque un aperto antagonismo di opinioni nella soluzione di tale quesito[69].

Martino sostenne i diritti dell'impero, ma Bulgaro offrendo un bell'esempio di indipendenza e di virtù civile, contrastò a Federigo l'autorità che egli voleva esercitare nel governo delle città italiane, e fu il primo a discutere giuridicamente la libertà delle nascenti repubbliche; il che gli acquistò grande reputazione nel popolo e accrebbe la sua fama presso i contemporanei.

I giureconsulti però sostennero sempre il principio dell'autorità e il sistema della monarchia universale, più per intimo convincimento e per rispetto alle tradizioni del diritto romano, nello studio del quale era assorta la loro vita, che per fare omaggio a danno della libertà dei comuni colle idee dispotiche dell'imperatore Federigo.

Dedicatisi allo studio delle leggi e al riordinamento dei testi romani, quei primi cultori del diritto non seppero penetrare nello spirito dei tempi nè dividere le tendenze politiche dei loro contemporanei. Le cure assidue dell'insegnamento, i gravi ufficii che erano chiamati ad esercitare nelle corti, le speculazioni scientifiche, assorbivano tutta la loro attività. Il diritto romano era per essi oggetto di religiosa devozione; e avrebbero creduto di profanarlo se non avessero accettato le sue dottrine nella loro integrità, anche se contrastavano colle tendenze politiche e sociali dell'epoca e favorivano le mire dispotiche degli imperatori.

[72]

Al tempo in cui sorgevano le repubbliche, il principio monarchico non era del tutto spento nelle tradizioni del popolo e nella cultura nascente. Non debbono dunque rimproverarsi quei primi giureconsulti come fautori di dispotismo e avversarii delle libertà comunali, perchè non si può ad essi attribuire, parlando con storica esattezza, mancanza di patriottismo e di sentimento nazionale, quando queste virtù politiche potevano dirsi ancora sconosciute.

Nella storia della scuola bolognese debbono distinguersi due periodi. Il primo è quello relativo alla sua origine ed esistenza di centro di attività scientifica, di cui abbiamo già detto abbastanza dimostrando che il progresso della cultura giuridica che ebbe in quella scuola la sua prima sede, fu l'effetto spontaneo delle condizioni della società di quel tempo, e che non deve altrimenti a nessuna influenza governativa.

Il secondo periodo relativo all'ordinarsi della scuola a forma di corporazione privilegiata e indipendente, incomincia coll'imperatore Federigo, il quale accordò la sua protezione ai giureconsulti bolognesi e spesso li chiamò alla sua corte chiedendo i loro consigli nelle cose di Stato.

Fino ai tempi di Federigo la scuola bolognese ebbe un'esistenza esclusivamente scientifica; e la sua storia si confonde colle vicende del diritto romano, che trovò in essa un centro favorevole al suo risorgimento.

Ma quando quell'imperatore promulgò una autentica che sanzionò i privilegi degli scolari e accordò loro una speciale giurisdizione, allora la scuola bolognese, che fu la prima a risentire i vantaggi concessi dalla legge di Federigo, oltre il carattere d'istituto scientifico assunse la forma di corporazione legalmente riconosciuta e, secondo [73] il linguaggio giuridico, prese nome di università (universitas)[70].

Il documento legislativo che sanzionò e riconobbe l'esistenza legale della scuola bolognese come corporazione, è ricordato nella storia col nome di Autentica Habita e fu promulgato da Federigo nel novembre del 1158 alla Dieta di Roncaglia.

L'importanza di questa autentica, che trasformò l'interna costituzione della scuola bolognese, è generalmente riconosciuta dagli storici. Questo atto legislativo può dirsi il più antico dei documenti che si riferiscono all'ordinamento scolastico del medio evo, se si eccettuano alcune decisioni dei concilii aventi per scopo qualche riforma scientifica, che sono di data anteriore[71].

[74]

L'università di Bologna fu la prima a promulgare i suoi statuti, prendendo a base della costituzione scolastica e della giurisdizione privilegiata che accordò agli scolari ed ai professori, l'autentica imperiale.

Non trovandosi detto nel documento legislativo, promulgato dall'imperatore Federigo, che i privilegi ivi sanzionati venivano specialmente conferiti alla scuola di Bologna, alcuni storici hanno sollevato il dubbio che tale concessione fosse estesa anche a tutte le altre scuole allora esistenti.

Tale opinione però viene smentita dal fatto che Federigo [75] promulgò l'autentica, non in qualità d'imperatore tedesco, ma di re di Lombardia. Il che dimostra, che egli intendeva di attribuire i privilegi ad una scuola italiana e specialmente a quella di Bologna che era la più famosa in quel tempo e la più frequentata da scolari stranieri.

Aggiungasi, inoltre, che Federigo avendo speciali motivi di gratitudine verso i giureconsulti bolognesi, intese certamente colla concessione dei privilegi di favorire la loro scuola e non altre.

Nell'università di Parigi non vi era un centro di studii giuridici, e tanto meno in Germania si trovavano allora giureconsulti, che per la fama acquistata coll'insegnare, meritassero la concessione di speciali privilegi.

Rimane adunque evidentemente dimostrato che l'autentica di Federigo si riferisce esclusivamente alla scuola di Bologna[72].

I giureconsulti bolognesi conservarono gelosamente questa concessione imperiale, che rimase inalterata nelle sue consuetudini e posta come base fondamentale della nuova costituzione scolastica.

Il testo dell'autentica, inserito per espressa volontà dell'imperatore Federigo nelle compilazioni del diritto romano, dette luogo a numerosi commenti dei giureconsulti, i quali ne spiegarono il significato e ne facilitarono l'applicazione nella legislazione scolastica medioevale.

Sopra tutto, l'attenzione dei commentatori si fermò a determinare i limiti della giurisdizione attribuita ai professori ed ai vescovi della ricordata autentica.

Può dirsi adunque che per opera dei glossatori più autorevoli, come Odofredo, Azone, Accursio ed altri, si formasse una giurisprudenza interpretativa dell'autentica [76] di Federigo; talchè, quando le università compilarono i loro statuti, trovarono già preordinate le basi fondamentali e discussi i punti più oscuri della legislazione scolastica.

L'imperatore Federigo nel promulgare l'autentica, ebbe certo in mente la costituzione di Giustiniano, colla quale molti secoli prima era stato accordato al preside della provincia, ai vescovi ed ai professori della scuola di Berite il diritto di esercitare una certa sorveglianza disciplinare sopra gli scolari.

Ciò sta a confermare quel che dicemmo altrove, parlando delle scuole di giurisprudenza fondate da Giustiniano; che cioè le tradizioni scientifiche e legislative di questi primi collegi di studii legali furono conservate negli ordinamenti scolastici del medio evo, e forse l'unica traccia di cultura giuridica che rimase in Italia all'epoca delle dominazioni barbariche, fu una continuazione delle scuole fondate da Giustiniano in Roma, in Costantinopoli e in Berite.

Anche i glossatori commentando il passo della costituzione di Giustiniano relativo alla sorveglianza accademica concessa agli antichi cultori del diritto ed ai vescovi sugli scolari, e confrontandolo coll'autentica di Federigo, riconobbero che fra quei due documenti di legislazione scolastica esiste un nesso di tradizioni e un intimo rapporto di analogia.

Fu lungamente disputato, in base all'autentica di Federigo se la concessione dei privilegi scolastici potesse estendersi a tutte le università che ebbero origine in Italia dopo quella di Bologna; e venne concordemente sostenuta l'opinione negativa.

I giureconsulti bolognesi guidati da un sentimento egoistico, non riconobbero giammai alle altre università il [77] diritto di esercitare le franchigie e le immunità elargite dalla autentica imperiale, sostenendo indefessamente il principio di un assoluto esclusivismo, al quale non rinunziarono neppur quando i privilegi scolastici furono riconosciuti e sanzionati nelle altre università italiane, per espressa adesione della suprema autorità politica ed ecclesiastica.

Nelle opere di Odofredo, di Accursio e degli altri principali glossatori che insegnarono in Bologna, si trova dichiarato che il diritto di una speciale giurisdizione non poteva essere esercitato legalmente che nella loro università, e gli statuti promulgati, altrove dovevano annullarsi, perchè contenevano un indebita usurpazione dei privilegi scolastici ad essi soltanto attribuiti.

Nel primo periodo della costituzione delle università, la città di Bologna temendo una dannosa concorrenza, e andando contro allo spirito dei tempi favorevoli al massimo sviluppo della libertà d'insegnamento, pose in opera tutti i mezzi per impedire che sorgessero altri centri di studii in Italia. Questa tendenza egoistica spinta fino all'eccesso, invece di dare incremento all'università bolognese, le arrecò gravissimi danni come fra breve vedremo.

Il comune di Bologna, non solo riconobbe e sanzionò nei suoi statuti i privilegi che l'università aveva a sè esclusivamente attribuiti, interpretando in modo restrittivo il tenore dell'autentica imperiale; ma volle imporre eziandio ai professori ed agli scolari la condizione di non recarsi altrove, sottoponendoli a giuramento e minacciando gravi pene ai trasgressori[73].

[78]

La ragione di tale divieto, era, come è facile comprendere, di limitare a Bologna i benefizi dell'insegnamento universitario, [79] mettendo in opera ogni mezzo per impedire alle altre città italiane il modo di fondare nuove università, che facessero dannosa concorrenza a quella bolognese.

Quando però colla cresciuta diffusione del sapere, i cultori della scienza aumentarono in gran numero in tutta Italia, non bastarono le proibizioni del comune di Bologna a trattenere i professori e gli scolari in quella università, per recarsi in altre, dove erano chiamati con promessa di maggiori privilegi ed immunità.

Insistendo il comune nelle condizioni imposte ai professori ed agli studenti, questi ritennero lesi i loro diritti e l'integrità degli statuti universitarii, e dopo molte inutili rimostranze, riunitisi, fecero un generale accordo che se il comune non avesse abrogato quelle leggi violatrici della loro libertà, consacrata dalle consuetudini e sancita dall'autentica imperiale, avrebbero emigrato da Bologna.

Interpostosi il papa, che era allora Onorio III, dopo inutili tentativi di conciliazione, valendosi dell'autorità che gli concedeva il suo grado, dichiarò solennemente doversi considerare come nulle ed inefficaci le leggi promulgate dal comune di Bologna a danno della libertà individuale degli scolari e dei professori, e sciolse questi dal vincolo del giuramento prestato[74].

Il nome di Onorio III si trova spesso ricordato dagli storici in questo primo periodo della storia dell'università di Bologna, e sembra che egli fosse il primo ad esercitare i diritti di alta sorveglianza sugli ordinamenti scolastici, [80] e una giurisdizione disciplinare sugli scolari ed i professori.

Questo papa ed i suoi successori, dettero manifesti segni della loro protezione all'università di Bologna, e interponendo la loro suprema autorità nei frequenti contrasti che nascevano fra gli scolari ed il comune, impedirono che le discordie recassero grave detrimento alla prosperità delle scuole.

L'università, per quanto gelosamente custodisse le prerogative della sua indipendenza, accettò di buon grado che il papa esercitasse un'alta sorveglianza sugli studii, perchè la protezione del capo della Chiesa le arrecò sempre grandi vantaggi.

Infatti, dalle Decretali di Onorio III si rilevano molti esempi a conferma della speciale predilezione che quel pontefice aveva per l'università di Bologna. Nel 1200 proibiva l'insegnamento del diritto romano nell'università di Parigi, che era allora l'emula in fama scientifica di quella di Bologna, sotto il pretesto che quel diritto non era in vigore nella Francia; ma realmente allo scopo di evitare alle scuole giuridiche bolognesi, dalle quali dipendeva la grande rinomanza di quella università, una dannosa concorrenza[75].

Un altro atto d'ingerenza del papa, nella disciplina scolastica della università bolognese, fu quello di proibire con la bolla dal 28 giugno 1219 l'esercizio del pubblico insegnamento a chi non avesse dato saggio della sua dottrina con un esame, ed ottenuto l'opportuna autorizzazione[76].

[81]

Anche nel secolo successivo a quello di Onorio III, i papi ebbero una speciale predilezione per l'università di Bologna.

Nel 1328 avendo il comune di Perugia domandato a Giovanni XII il privilegio di Studio generale, quel papa prima di accondiscendere a tale richiesta, scrisse al legato di Lombardia perchè lo informasse, se dando la sua approvazione per fondare l'università di Perugia, quella di Bologna ne potesse risentire grave danno[77].

Un lato caratteristico della costituzione universitaria di Bologna era quello relativo alla nomina dei professori o dottori, come allora dicevasi.

Per espressa disposizione degli statuti, le primarie cattedre nell'università di Bologna erano riserbate ai cittadini, che fossero tali almeno da due generazioni. Così [82] all'egoismo municipale si univa l'egoismo di facoltà, per cui i dottori si obbligavano con giuramento a non promuovere altri bolognesi tranne i loro figli, fratelli e nipoti.

Da ciò ebbero origine quelle continue controversie e i frequenti conflitti che nel secolo XIII avvennero in Bologna tra l'università, le facoltà e il comune[78].

Alle altre cagioni d'interne discordie dell'università di Bologna, più tardi se ne aggiunse una nuova, cioè: la creazione dell'università delle arti (Universitas Artium).

Fino dal secolo XIII la scuola bolognese fu esclusivamente giuridica, sia per la grande importanza scientifica che ebbe in essa lo studio del diritto, dal quale trasse origine tutta la sua rinomanza in Italia ed all'estero, sia per la speciale costituzione colla quale si formò.

I giureconsulti orgogliosi di aver dato vita a quel gran centro di studii al quale accorrevano gli scolari di tutte le nazioni, non potevano tollerare il contatto dei cultori delle altre scienze che per contrapposto ai giuristi, erano allora conosciuti col nome generico di artisti. Perciò fu a questi ultimi contrastato per lungo tempo il diritto di insegnare, come pure l'esercizio dei privilegi scolastici; e anche quando la nuova corporazione (universitas) fu legalmente riconosciuta, non potè acquistare mai un'influenza pari a quella dei giureconsulti.

Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui, si comprende quanto lungamente dominasse nell'università di Bologna quello spirito egoistico che può dirsi il peccato d'origine della sua costituzione, e la causa principale della sua decadenza, come giustamente avverte il Savigny.

[83]

I gravi disordini che erano la conseguenza dei conflitti che turbavano il regolare andamento degli studii nell'università di Bologna, e il sorgere di altri centri non meno importanti di pubblico insegnamento, eccitarono frequenti emigrazioni di professori e scolari, che ordinatisi in colonie libere e nomadi, andarono cercando nelle nascenti università d'Italia, una più quieta dimora per i loro studii, e il godimento di più larghi privilegi ed immunità.

Queste emigrazioni dall'università di Bologna, se non dettero origine assolutamente, come alcuni storici ritengono, a molte università italiane, furono certo la causa diretta del loro rapido sviluppo ed accrescimento, verso la fine del secolo XIII.

Nell'anno 1222, gran parte degli scolari di Bologna si recarono insieme ai loro professori a Padova, per attendere più tranquillamente agli studii. Allora in Padova vi erano come in tutte le altre città principali d'Italia scuole in gran numero; ma di poca fama in confronto a quelle di Bologna.

Appena giunse la colonia degli scolari e dei dottori bolognesi, si formò la corporazione legalmente riconosciuta (universitas) e Padova da quel tempo ebbe la sua università[79].

Così pure nel 1321 un'altra emigrazione dall'università di Bologna, accrebbe lo Studio di Siena, che secondo recenti ricerche ebbe la sua origine nella seconda metà del secolo XIII[80].

[84]

Nell'anno 1204 alcuni professori accompagnati da un gran numero di scolari, lasciarono Bologna e si recarono a Vicenza dove fondarono uno studio che ebbe qualche rinomanza; ma non durò che cinque anni (1204-1209)[81].

Molte altre emigrazioni parziali ebbero luogo nel secolo XIII e nei successivi dall'università di Bologna; e può dirsi che questa contribuisse efficacemente alla diffusione ed all'incremento di tutte le altre università italiane.

Abolite le leggi, che in onta alla libertà dei corpi scolastici imponevano ai professori ed agli studenti di Bologna la residenza fissa in questa città, e accresciuti i centri di studii in tutta l'Italia, cominciò a stabilirsi fra questi una vivace concorrenza che contribuì assai al progresso della cultura e alla diffusione del sapere.

Tutte le città, comprese le più piccole, fecero a gara nel fondare la loro università sottoponendosi volontariamente a gravissime spese, pure di non restare prive di un centro di studii nel quale i cittadini potessero imparare, senza recarsi altrove ad acquistare i benefizi della scienza.

In questo generale movimento di libera concorrenza, i professori e gli scolari potevano agevolmente imporre leggi e dettare condizioni, trovando dovunque si recassero larghe concessioni di privilegi e d'immunità.

Le condizioni sociali di quel tempo erano favorevoli alla fondazione di nuovi centri di studii, perchè i più elevati uffici e i gradi più insigni erano riserbati ai cultori del sapere. Vi sono ben pochi periodi nella storia della civiltà che eguaglino il secolo decimoterzo nell'amore per la scienza e nel generale convincimento della sua utilità ed importanza sociale.

[85]

In quel tempo le città italiane ordinatesi a forma repubblicana, richiedevano negli uomini chiamati al governo speciali attitudini d'ingegno e un largo corredo di dottrina. E poichè la costituzione dei comuni era essenzialmente fondata sul principio della libera partecipazione di tutte le classi sociali al governo della cosa pubblica, era conseguenza necessaria dei nuovi ordinamenti politici, la pronta e universale diffusione del sapere, e specialmente della cultura giuridica e della pratica legislativa.

Chi volesse enumerare tutte le opere di legislazione che furono compilate in Italia al tempo delle repubbliche medioevali, si accingerebbe ad opera di grave difficoltà perchè non vi fu nessun borgo o paesello, per quanto piccolo ed oscuro, che non volesse formare i suoi statuti[82].

Si dissero nel medio evo Statuti, con parola generica, tutte le compilazioni legislative, tanto riguardanti la costituzione politica dei comuni, come l'ordinamento delle associazioni delle arti e delle università.

È facile immaginarsi quanto studio e ampio corredo di cultura e di esperienza legislativa si richiedesse a quei primi compilatori di statuti, i quali sulle traccie del diritto romano dovevano creare un sistema di legislazione e di giurisprudenza adatta ai nuovi bisogni sociali e ai mutati ordinamenti politici.

In poco più di un secolo, l'Italia trasformò i principii del diritto romano in quel sistema che fu detto di diritto [86] comune, in base al quale furono regolati i rapporti giuridici della nuova società.

I dottori che insegnarono nelle università italiane ebbero la parte principale in questa riforma scientifica e legislativa, dalla quale le nascenti repubbliche trassero i principii e le norme direttive della loro organica costituzione[83].

In queste speciali condizioni politiche in cui trovavasi allora l'Italia, sta la ragione principale di quel glorioso primato nello studio del diritto, che essa ebbe in tutto il medio evo.

Nella storia delle origini delle università, bisogna distinguere il periodo della loro primitiva costituzione da quello del riconoscimento legale.

Come già abbiamo detto dell'università bolognese, questi grandi corpi scientifici erano già sorti prima che i papi e i sovrani riconoscendo la loro grande importanza, ne assicurassero la esistenza legale.

Il riconoscimento, o l'atto di fondazione, non può dirsi adunque, parlando con storica esattezza, che stabilisca la vera origine delle università; perchè queste nacquero dallo spontaneo concorso dell'operosità privata, e non per volontà di un papa o di un imperatore, tolta qualche eccezione, come fra breve vedremo.

[87]

Quando alcuni storici adunque, vogliono cercare i documenti che attestino dell'origine delle università, fanno opera inutile e infruttuosa; perchè di questi primi corpi scientifici deve dirsi come dei Comuni e di tutte le altre grandi associazioni che sorsero nel medio evo; che cioè può assegnarsi con qualche fondamento l'epoca approssimativa in cui favorite da speciali condizioni di civiltà cominciarono a svolgersi e formarsi; ma non è possibile trovar nessun documento che dichiari con esattezza di data, il tempo preciso della loro fondazione.

A provare che il riconoscimento sovrano non ebbe nessun rapporto con l'origine e l'esistenza delle università, basta ricordare, che molte di queste non ebbero mai la sanzione del papa e dell'imperatore (supreme autorità di quel tempo), e nondimeno divennero famose come istituti di scienza e potenti come corporazioni. Fra le altre citeremo le principali che sono: Bologna e Padova in Italia, e Parigi all'estero[84].

Se il pubblico riconoscimento non contribuì direttamente a dare origine alle università, ebbe nondimeno molta influenza per consolidare i loro ordinamenti e accrescerne la prosperità scientifica. E ciò è tanto vero, che quasi tutte le università, riconoscendo il vantaggio della sanzione legale, chiesero in favore al papa o all'imperatore tale concessione che veniva agevolmente consentita in quanto rappresentava un omaggio spontaneo fatto dai corpi scolastici all'autorità politica ed ecclesiastica.

Tale riconoscimento legale, mentre non scemava affatto l'indipendenza delle università, nè ledeva i privilegi e le franchigie inerenti alla loro costituzione; conferiva assai a garantire l'integrità dei corpi scolatici ponendoli sotto [88] la protezione delle supreme autorità che li difendevano contro le turbolenze e le agitazioni che frequentemente minacciavano la loro esistenza.

Colla sanzione legale, ogni università acquistava il privilegio di chiamarsi Studio (Studium), col quale titolo si trovano sempre indicati nel linguaggio scolastico medioevale questi corpi scientifici.

Quando l'università comprendeva l'insegnamento di tutti i rami di scienza, si chiamava Studio generale (Studium generale).

Consultando le storie e gli statuti del tempo, si trova fatto cenno di molte università che per la loro breve esistenza, non lasciarono nelle vicende della civiltà, tradizioni e memorie che meritino una speciale considerazione per gli studiosi.

Quasi tutte le città italiane, spinte dall'emulazione, tentarono di fondare uno Studio. Questi centri d'insegnamento minori, non poterono lungamente sostenere la concorrenza delle principali università, e molti ebbero una vita brevissima.

Si ricordano fra le università minori, che ebbero origine fra il secolo XIII e XIV, le seguenti:

(Nell'Italia Settentrionale)

(Vercelli), la cui origine si fa risalire all'anno 1220[85]. Il più antico documento relativo a questa università è lo statuto del 1224. La Carta vercellese, che è una delle più complete costituzioni legislative delle università[86] non [89] è dunque l'atto di fondazione dello Studio vercellese come molti storici hanno creduto, perchè è di quattro anni posteriore allo statuto di cui abbiamo testè parlato.

Nel 1228 l'università di Vercelli si accrebbe di molti professori e scolari che erano emigrati da Padova a cagione delle discordie che tenevano agitata quella città. In tale occasione si recarono in Padova due inviati che stabilirono coi rettori dei francesi, degl'inglesi, dei normanni, dei provenzali, degli spagnuoli e catalani le condizioni del trasferimento dei dottori e degli scolari in Vercelli.

Lo Studio di Vercelli durò oltre a centoquattordici anni (1224-1338)[87].

(Chieri) Nel 1419 i professori dell'università di Torino per timore della peste che allora infieriva in quella città, chiesero al Duca di Savoia di trasferire lo Studio a Chieri. Essendo stato loro negato questo trasferimento, alcuni dottori non tollerando un divieto che riconoscevano come lesivo della loro indipendenza, lasciaron Torino, e si portarono ad insegnare a Chieri.

Nel 1429 il duca Amedeo, riconobbe l'esistenza legale del nuovo Studio.

(Savigliano) Nel 1434 i chieresi fecero domanda al duca Amedeo perchè fosse trasferito altrove il loro Studio. Le ragioni di questa risoluzione, nuova affatto nella storia delle università, sono ignote e lo stesso Vallauri, diligente ricercatore delle memorie che hanno relazione cogli [90] Studii del Piemonte, non ha saputo darne una ragionevole spiegazione.

Il papa Eugenio IV con sua bolla del 9 febbraio 1434 concesse al nuovo Studio di Savigliano i consueti privilegi.

Lo Studio di Savigliano durò appena due anni (1434-1436).

(Mondovì) Questo Studio deve la sua origine ad Emanuele Filiberto che ne ordinò la fondazione, con suo diploma del 1560. Nel 1561 il comune di Mondovì mandò a Roma un ambasciatore per ottenere l'approvazione del nuovo Studio dal papa Pio IV, che lo riconobbe con sua bolla del 22 settembre di quello stesso anno. Nel 1566 cessato in Torino l'assedio, a cagione del quale principalmente molti professori e scolari avevano emigrato a Chieri, questo Studio cessò e non rimasero in quella città che i collegi di giurisprudenza e di teologia.

(Milano) Nel 1447 il Senato di Milano decretò in questa città la fondazione di uno Studio. La causa di tale determinazione fu questa. Essendo morto senza prole legittima il duca Filippo Maria Visconti, il Senato milanese assunse il governo chiedendo l'alleanza di Pavia.

Essendosi i pavesi rifiutati, il Senato temendo che gli scolari di Milano che si trovavano in Pavia fossero molestati, credè utile di richiamarli in patria e di fondare uno Studio.

Pare però che questa università avesse una brevissima esistenza, perchè se ne trova appena qualche cenno nei cronisti del tempo[88].

(Novara) Gli statuti novaresi ricordano l'esistenza di [91] uno Studio in quella città verso il 1400. Dopo quest'epoca però se ne perde ogni memoria.[89]

(Pavia) Lo Studio di Pavia fu fondato da Galeazzo II, duca di Milano, il quale ne chiese all'imperatore Carlo IV il privilegio, e l'ottenne con Decreto del 13 aprile 1361. Sembra (stando a ciò che narrano gli storici) che Galeazzo si decidesse a fondare quello Studio, per aumentare il numero degli abitanti di Pavia che a quel tempo era divenuto assai scarso[90].

(Piacenza) Questo Studio ebbe origine nel secolo XIII. Nel 1398 lo stesso duca Gian Galeazzo che aveva fondato lo Studio di Pavia, accrebbe con grave danno di questa, di nuove cattedre l'università di Piacenza, e vi chiamò molti professori e scolari con promessa di immunità e privilegi[91].

(Modena) L'origine di questa università risale alla metà del secolo XII. I modenesi furono spinti a fondare uno Studio dall'esempio della vicina Bologna. Al principio del [92] secolo XIII questa università per cagione delle guerre, rimase abbandonata.

Nel 1225 il papa Onorio III con un suo breve al Vescovo di Modena, gli concedeva autorità di assolvere gli scolari che si fossero leggermente feriti tra loro[92].

Questo documento dimostra che fino da quel tempo esisteva uno Studio in Modena.

Nell'anno 1226 l'imperatore Federigo II concesse ai modenesi amplissimi privilegi[93].

Dopo svariate vicende, l'università modenese non potendo sostenere la concorrenza di Bologna e di Ferrara cessò affatto; talchè nel secolo XV non se ne trova fatta più parola.

(Reggio) Il più antico documento che ricordi l'esistenza di scuole pubbliche in Reggio, risale al 1188[94]. Verso la metà del secolo XIII si trovavano nella città di Reggio molte scuole di giurisprudenza, che eccitarono la gelosia dei bolognesi; i quali decisero di propria autorità che l'insegnamento del diritto doveva spettare esclusivamente ad essi e conseguentemente dichiararono i dottori di Reggio usurpatori dei loro diritti e privilegi.

Si conserva il documento della prima laurea conferita nello Studio di Reggio, che è certo una delle più antiche[95].

Anche lo Studio di Reggio, dopo svariate vicende nel secolo XV cessò affatto.

(Parma) In questa città troviamo ricordate scuole famose fino dal secolo XII; non può dirsi però che quell'università avesse origine prima del secolo XIV.

[93]

Nell'anno 1328 fu domandato dai parmensi a papa Giovanni XII il privilegio di Studio generale. Tal concessione non venne accordata a tutela dell'integrità dello Studio bolognese, dal quale emigravano sempre molti scolari e dottori ogni qualvolta si fondava una nuova università[96].

Fatto signore di Parma Niccolò d'Este, marchese di Ferrara, il comune si rivolse a lui pregandolo che intercedesse per la fondazione di uno Studio, che era stata sempre impedita per opera dei bolognesi protetti dal Papa.

Nel 1414 si costituì l'università di Parma che compilò i propri statuti, ma ebbe breve esistenza, perchè tornato signore di quella città il duca Filippo Maria Visconti, fu da questi ordinato che tutti i giovani parmensi dovessero recarsi allo Studio di Pavia.

Dopo inutili sforzi del comune di Parma per restaurare il suo Studio, venne finalmente a cessare per opera delle vicine università, che ne ottennero dal papa Sisto IV la definitiva soppressione.

(Perugia) Dello Studio di Perugia si trovano memorie e documenti fino dal secolo XIII. La più antica menzione di un professore di diritto e di alcuni maestri delle arti in Perugia è del 1276. Questa università venne elevata a Studio generale nel 1307 con bolla di Clemente V e nel 1318 Giovanni XXII le accordò il privilegio di conferire i gradi nel diritto civile ed economico. Nel 1355 l'imperatore Carlo IV ad istanza dei magistrati perugini, accordò a quello Studio tutti i privilegi delle università imperiali[97].

[94]

(Ferrara) Fino dal secolo XIII si ha memoria di uno Studio ferrarese.

Gli statuti dell'anno 1264 ricordano l'esistenza dell'università degli scolari (universitas scholarium).

Nell'anno 1391 il papa Bonifazio VIII concesse allo Studio di Ferrara i consueti privilegi e la facoltà di conferire i gradi accademici in tutte le scienze nominando cancelliere il vescovo della città.

L'università ferrarese acquistò nel secolo XIV e nei successivi molta importanza scientifica e fu popolata da scolari di ogni nazione, come: greci, fiamminghi, tedeschi, francesi, inglesi, spagnuoli, portoghesi.

Ferrara possedeva ancora i collegi dei giudici, degli avvocati, dei procuratori e dei notari, molto anteriori alla fondazione dello Studio. Aveva poi, come Bologna, Padova, Pisa e le altre città, dove risiedevano le principali università italiane, i collegi destinati al mantenimento degli scolari.

Nel secolo XV lo Studio ferrarese si accrebbe di molti scolari. Quando il giureconsulto Giovanni Nicoletti da Imola si recò a Ferrara, lo seguirono trecento studenti dell'università di Padova, e da Bologna ne vennero altri seicento per udire le sue lezioni[98].

[95]

(Cremona) Negli statuti di questa città si parla di scolari e professori. Il comune si obbligò di pagare i rettori scelti dagli studenti.

Pare dunque certo che all'epoca in cui furono compilati i detti statuti, esistesse in Cremona uno Studio (Secolo XV)[99].

Oltre le surricordate, si trova ancora qualche memoria [96] di università fondate fra il secolo XIV e XV in Macerata, Cividal del Friuli[100], Fermo[101], Genova[102] e Sassari[103].

Le quali come gli altri centri minori d'insegnamento ebbero una esistenza molto incerta e contrastata, essendo continuamente soggette a subire la concorrenza delle principali università.

(In Toscana)

(Firenze) Lo Studio fiorentino ebbe origine nel secolo XIV. La Repubblica ne deliberò la fondazione nel 1321, ma fu costituito regolarmente solo nel 1348[104]. Con bolla pontificia del 31 maggio 1349 lo Studio fiorentino ebbe il privilegio di conferire i gradi. L'imperatore Carlo IV con diploma del 2 gennaio 1364 lo dichiarò università imperiale coi privilegi annessi confermati poi da Leone X nel 1516[105].

Lo Studio fiorentino ebbe svariate vicende ora prospere, ora avverse, secondo lo stato della Repubblica che lo manteneva. La vicinanza dell'università pisana gli nocque assai.

Cosimo I ponendo ogni studio nel favorire l'incremento dell'università di Pisa, per affezionarsi questa provincia di recente annessa al granducato di Toscana, influì molto alla totale estinzione dello Studio di Firenze.

[97]

(Siena) Questa università ebbe origini assai antiche. Gli storici attestano che nel 1203 si trovavano in Siena molti dottori e scolari favoriti da privilegi; il che fa supporre che fino da quel tempo esistesse in Siena uno Studio. Nel 1249 fu iniziato un catalogo dei professori che insegnarono in quella città. Da questo documento si rileva che allorquando venne compilato, l'università senese esisteva già; ma le sue scuole non avevano in quel tempo maggiore importanza di quella delle altre città italiane. Lo Studio di Siena, acquistò molta importanza all'epoca dell'emigrazione dei dottori e degli scolari bolognesi avvenuta nell'anno 1321.

Nel 1357, l'imperatore Carlo IV, concesse all'università senese il privilegio di Studio generale, posto sotto la sorveglianza del vescovo. Nel 1590 gli scolari chiesero ed ottennero di emanciparsi dall'autorità ecclesiastica eleggendo un rettore del loro ceto. Questa elezione facevasi col concorso di tutte le autorità politiche della Repubblica e di una commissione composta di quarantatrè scolari[106].

(Lucca) Nel secolo XIV anche la città di Lucca volle fondare uno Studio.

L'imperatore Carlo IV concesse l'autorizzazione alla Repubblica di aprire lo Studio generale con scuole di diritto civile e canonico, di logica, filosofia, medicina, astrologia e arte notarile. Nel 1387 Urbano IV concesse i consueti privilegi[107].

Anche lo Studio lucchese ebbe breve esistenza, non potendo lungamente prosperare a causa della vicinanza [98] di quello di Pisa, che fu il maggior centro degli studii universitarii di Toscana.

(Arezzo) Anche questa città ebbe il suo Studio, secondo i documenti da noi consultati, che ne provano chiaramente l'esistenza.

Al principio del secolo XIII fioriva in Arezzo una scuola legale assai famosa.

Nel 1215, fra i dottori che insegnarono in questa scuola, si trova ricordato il celebre giureconsulto Rofredo di Benevento[108].

Gli statuti aretini contengono i privilegi che il Comune concedeva secondo gli usi del tempo ai dottori e agli scolari[109].

Nell'anno 1456 l'imperatore Federigo III accordò ad Arezzo il privilegio di Studio generale e investì i gonfalonieri del diritto di promuovere in suo nome ai gradi accademici[110].

(Pistoia) Da alcune memorie riferite dagli storici, e da qualche passo delle opere degli scrittori, si rileva che anche in Pistoia venne fondato per opera del Comune uno Studio.

Non si può precisare l'epoca in cui ebbe origine questa università pistoiese, la cui esistenza fu assai breve e precaria[111].

[99]

Il giureconsulto Dino di Mugello, che nel 1284 insegnava in Bologna, venne poco appresso chiamato a Pistoia a leggere il diritto civile per cinque anni. Il Comune gli assegnò un buono stipendio, et unam domum decentem et convenientem ad habitandam hinc ad dictum terminem[112].

Tolta questa notizia che proverebbe l'esistenza in Pistoia di una scuola legale assai fiorente nel secolo XIII, non abbiamo di questo Studio nessun'altra memoria degna di nota.

Oltre le città, che abbiamo ricordate, molte altre ancora promossero fra il secolo decimoterzo e il successivo la fondazione di nuove università. Consultando le cronache e le altre memorie del tempo, molte delle quali rimangono tuttora inedite e ignorate nei nostri archivi, si potrebbero riscontrare documenti importantissimi relativi alle antiche università.

In quel meraviglioso e fecondo risorgimento della cultura che ebbe luogo nel periodo surricordato, la fondazione di nuovi centri di studii fu alacremente promossa dalle repubbliche e favorita dalle condizioni sociali del tempo.

Per quanto numerosi fossero i cultori della scienza, pure, di fronte all'operosità intellettuale e al vivo desiderio d'imparare che era comune a tutte le classi della società, essi non potevano supplire alle molteplici richieste e alle cure svariate dell'insegnamento e dei pubblici uffici a cui erano chiamati.

Ben presto però, i maggiori centri universitarii assorbirono la vitalità scientifica delle università secondarie, [100] molte delle quali dopo una breve e precaria esistenza vennero ad estinguersi.

Fino dal secolo XV il primato di alcune università fu assicurato nelle diverse provincie d'Italia, e da quel tempo in quei principali centri di attività intellettuale insegnarono gli uomini più illustri in tutti i rami di scienza.

Nell'Italia settentrionale primeggiarono Torino e Padova; in Toscana, Pisa; nell'Italia meridionale, Roma e Napoli.

Sull'origine dell'università di Napoli dovremo intrattenerci alcun poco perchè avendo essa avuto principio per volontà di un principe e non per spontaneo impulso d'iniziativa privata come tutte le altre; e di più essendo stata ordinata sulle basi di una costituzione differente da quella di Bologna, merita una speciale attenzione.

L'imperatore Federigo II fu, come è noto, un principe molto dotto e assiduo cultore e promotore dei buoni studii. Ebbe la fortuna di avere avuto alla sua corte un consigliere al pari di lui amante della scienza e protettore degli studiosi, che fu il famoso Pier delle Vigne. Dalle opere che di lui tuttora rimangono, si rileva come alla corte di Federigo si partecipasse con fervore al risorgimento intellettuale che in quel secolo dava principio ad una nuova civiltà[113]. Anzi in Sicilia, prima che altrove, per opera principalmente di quel gran principe, i dotti trovarono protezione e stima, e la sua corte divenne un centro attivo di cultura nazionale.

[101]

Presso Federigo (che per intimo convincimento e per odio contro i papi, dei quali fu sempre implacabile nemico, professava il principio dell'assoluta tolleranza in materia di religione) convenivano tutte le persone di sentimenti liberali e fra questi molti arabi, ed ebrei che furono dall'imperatore incaricati di tradurre le opere di scienza orientale[114].

Ebbe Federigo il gran merito di aver protetto e favorito il progresso di tutte le scienze senza distinzione: sicchè mentre nel rimanente d'Italia era in tutte le scuole quasi esclusivamente coltivata la giurisprudenza, alla corte dell'imperatore svevo, si promuoveva eziandio con efficaci incoraggiamenti e con leggi savie la diffusione della medicina accrescendo di nuovi insegnamenti la già famosa scuola di Salerno; della filosofia traducendo i libri di Aristotile; delle matematiche proteggendo il primo algebrista cristiano Leonardo Fibonacci[115].

Pare anche che debba attribuirsi a Federigo la fondazione della prima accademia di scienze e lettere che abbia avuto origine in Europa[116].

Durante il regno di Federigo, l'università di Bologna era nel massimo suo splendore, ed essendo sotto la protezione dei papi, eccitava forse la gelosia dell'imperatore che concepì l'ardito pensiero di abolirla.

[102]

A tal'uopo intimò ai dottori e agli scolari di Bologna di recarsi a Napoli dove egli avrebbe accordato loro maggiori privilegi e più estese immunità[117].

Tale intimazione imperiale non ebbe però nessuno effetto, com'era da prevedersi, perchè l'università bolognese, fiera della sua indipendenza, e memore delle sue libere tradizioni, non aveva a temere nulla dalle minaccie di un sovrano per quanto potente come Federigo[118].

Riuscito infruttuoso questo tentativo, che forse fu l'effetto più d'un moto d'impeto inconsiderato, che di matura deliberazione, Federigo pensò che coi larghi mezzi di cui poteva disporre e coll'aiuto dei dotti che aveva alla sua corte, avrebbe potuto creare un centro di studii universitarii che riuscisse famoso per illustri insegnanti e per numeroso concorso di scolari al pari di Bologna.

Quale elevato concetto avesse l'imperatore Federigo [103] della scienza e della sua utilità intellettuale e morale, si desume dalle stesse sue parole[119].

«Vogliamo, egli dice, che nel nostro Stato sieno molti e diligenti uomini istruiti da una miniera di scienza e da un seminario di dottrina, i quali educati all'amore della rettitudine, obbediscano a Dio, che ogni cosa serve, e sieno cari a noi nell'adempimento dei loro doveri, e nell'ubbidire a quanto li comandi. Il perchè ordiniamo che nell'amenissima città di Napoli, s'insegni ogni arte e professione, e sieno in vigore gli studii, perchè coloro che hanno sete e fame di sapere trovino nel regno di che satollarsi, e non debbano cercare scienze presso straniere nazioni, nè accattarle pe' territorii altrui.»

Federigo chiamò all'università da lui fondata (1224) i professori più celebri con promessa di larga retribuzione e concesse agli scolari estesi privilegi perchè venissero in gran numero ad imparare[120].

Ordinò poi con liberale munificenza che fossero mantenuti a spese dello stato gli studenti poveri, affinchè, com'egli lasciò scritto con sapiente intendimento, le cognizioni non fossero riserbate a pochi, ma nelle differenti classi della società si diffondessero[121].

L'università di Napoli come ebbe diverse origini da tutte le altre d'Italia, così si ordinò sulle basi di una speciale costituzione, nella quale pur rispettandosi le forme comuni a tutte le associazioni scolastiche di quel tempo, [104] dominava la volontà e l'arbitrio del principe che ne aveva decretata la fondazione.

L'alta sorveglianza dello Studio di Napoli venne da Federigo affidata al Gran Cancelliere dello Stato escludendo il vescovo da qualunque ingerenza nel pubblico insegnamento; come era naturale avvenisse in un paese apertamente nemico della Corte di Roma.

L'esercizio della giurisdizione criminale venne conferito ad un altro magistrato detto Iustitiarius. La giurisdizione civile poteva essere cumulativamente esercitata dal suddetto ufficiale regio, dai professori e dal vescovo a scelta degli scolari[122].

Spettava al Gran Cancelliere il diritto di nominare i professori, di sorvegliare la disciplina scolastica e regolare i sistemi d'insegnamento, e la facoltà di promuovere e di conferire i gradi[123].

Al principio del secolo XIV il Gran Cancelliere ebbe facoltà di scegliere un luogotenente nella persona di un Rettore il cui ufficio era permanente e poteva anche insegnare.

Il Rettore scelto dagli studenti, come nelle altre università, non fu eletto in Napoli che nel secolo XVII, e ne troviamo il primo esempio negli statuti del 1610.

L'università di Napoli avendo avuto origini e ordinamenti diversi da quelli di tutte le altre d'Italia, non ebbe mai con queste nessuna comunicazione scientifica, e tanto il suo fondatore, Federigo II, che i successori di lui, favorirono questo spirito d'isolamento, ordinando con minaccia di gravi pene agli scolari del regno di non andare in altre università (presso straniere nazioni), come diceva lo stesso Federigo.

[105]

Quanto alla nomina dei professori, il consiglio universitario di Napoli provvedeva sempre per esame, essendo richiesto dagli ordinamenti che nessun dottore potesse insegnare senza aver dato pubblico saggio di sè. Le altre università per diritto di rappresaglia non riconoscevano le lauree ed i gradi accademici concessi a Napoli, e alla loro volta obbligavano quei dottori a sostenere un nuovo esperimento per acquistare il diritto d'insegnare nelle loro scuole.

Sebbene l'università di Napoli fosse protetta dal suo fondatore e dai successori Manfredi, Carlo I e Carlo II, e sostenuta colle finanze dello stato, non ebbe mai una grande influenza scientifica, nè una fama esclusivamente dovuta alla celebrità e alla dottrina dei professori che v'insegnarono, come Bologna, Padova, Pisa e gli altri principali centri di cultura nazionale che fiorirono dal secolo XIII in poi, nelle altre provincie d'Italia.

La causa di questa evidente inferiorità dello Studio di Napoli, in confronto agli altri che avevano avuto origine per lo spontaneo concorso dell'iniziativa privata, deve certamente attribuirsi al difetto d'indipendenza scientifica nella sua costituzione fondamentale, come saggiamente avverte il Savigny.

[106]

CAPITOLO PRIMO

Costituzione delle università — Atti che precedevano la loro fondazione — Inviti ai professori e agli scolari — Editto ai sudditi — Riconoscimento sovrano — Le università causa di pubblica ricchezza — Frequenza degli scolari — Gradi di nobiltà dei dottori e degli scolari — Divisione delle università in nazioni — Ultramontani e Citramontani — Primato dell'università dei giuristi sopra quella degli artisti — Discordie cui dette luogo — Editto di Emanuele Filiberto — Iscrizione degli scolari stranieri nelle matricole universitarie — Fonti della legislazione scolastica medioevale — Mantenimento delle università e loro entrate ordinarie — Influenza ecclesiastica negli studii.

Il periodo di civiltà che passò dal secolo XII al XVI fu il più favorevole allo sviluppo e all'incremento delle università italiane. In poco più di un secolo, l'Italia vide sorgere e formarsi questi grandi centri di attività scientifica che ben presto acquistarono celebrità in tutta l'Europa. Le nostre Repubbliche divenute ricche e potenti, facevano a gara per accogliere i dotti colmandoli d'onori e benefizi; e il culto del sapere, dapprima ristretto a pochi, divenne ben presto così generale e diffuso in tutte le classi sociali, che non solo le più grandi, ma anche le più umili ed oscure città aspiravano al vanto di fondare un proprio Studio.

[107]

Il carattere prevalente delle nostre università nel primo periodo della loro formazione, fu quello di libere colonie composte di maestri e scolari che facevano vita comune, dividevano le stesse sorti e partecipavano ai medesimi diritti e privilegi proprii della corporazione. Senza stabilire un limite alle loro escursioni, nè una dimora permanente, gli scolari emigravano insieme ai dottori in luoghi diversi e fissavano la loro residenza in quelle città che accordavano loro il godimento di più estese immunità e di più larghe franchigie.

La fondazione di una università era preceduta da certi atti e condizioni preliminari, delle quali brevemente parleremo.

Quando una città aveva stabilito di fondare uno Studio, era sua prima cura di richiamare nella nascente università un numeroso concorso di studiosi, e a tal'uopo cercava d'intraprendere accordi e trattative con alcuni dottori e scolari che si trovavano in qualche altra università e spediva attorno messi ed ambasciatori con lettere circolari, stipulando i relativi patti ed esponendo il numero e la qualità dei privilegi che intendeva di concedere. In questo modo si formarono, dopo Bologna, quasi tutte le università italiane.

Venuti i dottori e gli scolari a fondare la nuova università, il Comune promulgava un severissimo editto col quale intimava a tutti gli abitanti della città e territorio di frequentare il nuovo Studio sotto pena di gravi ammende[124].

[108]

Ogni Comune che aveva fondato un nuovo Studio, oltre i dottori che già avea acquistati, si dava cura di chiamarne altri per accrescere col loro nome la fama dell'università e il numero degli scolari. Vedremo, parlando dei dottori, come i più illustri fra essi avessero inviti simultanei e ripetute sollecitazioni da molte città le quali facevano a gara nel concedere loro i più estesi privilegi e tutte le immunità e gli onori che avessero domandato.

L'esistenza legale dell'università cominciava quando la sanzione sovrana le aveva impresso il carattere di pubblico istituto, e col mezzo di un decreto, se il riconoscimento veniva dall'imperatore, o di una bolla, se dal papa, aveva assunto il grado e preso il nome di Studio generale (Studium generale). La dimanda per ottenere questo titolo veniva fatta al papa o all'imperatore (ma più spesso al papa) dalla stessa università che si era fondata e a nome della città dove essa risiedeva. Conseguito il grado di Studio generale, la nuova università acquistava il pieno e legittimo uso delle franchigie e delle immunità scolastiche e la personalità giuridica.

Per dare un'idea esatta del modo col quale si formavano le università, recheremo in italiano la Carta di Vercelli, che è il documento più completo che ci rimanga [109] relativo all'organismo e alla costituzione originaria dei corpi scolastici del medio evo:

CONVENZIONE DELL'ANNO 1228

sull'università di Vercelli

(Carta Studii et scolarium commorantium in Studio vercellarum)

Nell'anno dell'incarnazione del Signore 1228, martedì, quattro del mese di aprile.

Queste sono le condizioni apposte confermate e promesse reciprocamente fra il signor Alberto de Bondonno e il signore Guglielmo de Ferrari ambasciatori e procuratori nominati dal Comune di Vercelli, dal signor Rinaldo Troti Podestà di Vercelli a nome dello stesso Comune per stabilire e confermare le infrascritte condizioni che già risultavano nell'atto stipulato dal Notaro Pietro do Englesho da una parte; e dall'altra dal signore Adamo de Canoco Rettore dei Francesi, Inglesi e Normanni, e da Maestro Rinaldo de Boxevilla e da maestro Enrico de Stancio in nome loro e in quello dell'università degli scolari e da Maestro Jacopo de Iporegia che si qualificò procuratore degli scolari italiani e da Guglielmo de Hostalio Vicario del signor Corrado nipote dell'Arcivescovo altro Procuratore degl'Italiani in nome loro e dell'università e da Goffredo Rettore dei provinciali, degli Spagnuoli e dei Catalani, e da Raimondo Guglielmo e Pellegrino di Marsiglia in nome loro e dell'università degli scolari; cioè che il Podestà di Vercelli a nome dello stesso Comune, darà agli scolari e alla loro corporazione (universitati) cinquecento[125] alloggi dei migliori della città e più ancora se saranno necessari in modo, che il fitto del migliore di tali alloggi non ecceda la somma di [110] nove o dieci lire di Pavia e la tassazione debba farsi per tutte le altre case prese a pigione, ad arbitrio di due scolari e due cittadini, e se nascesse discordia fra loro, si adisca il Vescovo o altro ecclesiastico del Capitolo di Vercelli a scelta del Comune o dei Rettori, cominciando a pagarsi il fitto a carnevale. Se poi si trovassero nello stesso tempo più alloggi adatti agli scolari, anche se fossero di un solo padrone, e avessero un solo ingresso, si dovranno considerare per alloggi separati ad arbitrio dei surricordati. Da questi cinquecento alloggi debbonsi eccettuare quelli situati nelle strade in cui sogliono dimorare i forestieri che vengono a Vercelli in occasione delle fiere, o per tutto l'anno.

Gli alloggi presi a fitto dai professori e dagli scolari saranno consegnati al Podestà o a chi ne fa le veci, e se per turbolenze o discordie, o per altre giuste o necessarie cagioni, ne fosse loro domandata prima la restituzione, dal Podestà o da un suo rappresentante saranno di tutto indennizzati prima che abbiano abbandonati gli alloggi. I quali debbano esser lasciati liberi dopo che ne fu fatta richiesta dagli scolari a loro arbitrio e col parere del Podestà, e accomodati ad uso di case di studio (ad opus studii) nel termine di otto giorni e se passa questo tempo, gli scolari possono, se vogliono, fare le spese necessarie per conto del padrone.

Di più hanno promesso i precitati Procuratori a nome del Comune di Vercelli che il Comune stesso darà in prestito agli scolari e alla loro corporazione danaro, fino alla somma di diecimila lire pavesi, coll'interesse di due danari fino a due anni, e di tre fino a sei anni, la qual somma a cura del Comune di Vercelli sarà depositata in quantità sufficiente agli usi degli scolari in luogo adatto e sicuro[126] come a Venezia, e sarà sborsata ad essi dietro pegno stipulato con atto pubblico; il qual pegno verrà restituito subito che gli scolari avranno preso alloggio in Vercelli, obbligandosi con mallevadoria idonea e col vincolo del giuramento, di restituire il danaro ricevuto e di non commettere frodi [111] di sorta. Il danaro restituito sarà versato nell'erario comunale di Vercelli e conservato per darlo in prestito agli scolari bisognosi cogli stessi patti e condizioni. Il frutto non verrà computato dal Comune di Vercelli in capitale, e la restituzione della somma verrà fatta dagli scolari a rate, cioè per un terzo o per la metà, potendosi anche rinnovare il prestito e la mallevadoria.

Il Comune di Vercelli non lascierà asportare le vettovaglie fuori della giurisdizione di Vercelli; ma le farà introdurre in città senza inganno e due volte per settimana farà fare un mercato col divieto che le dette vettovaglie siano vendute (ante tertiam) ai rivenditori eccetto per i quadrupedi e per il vino, e ciò sempre col giuramento e la fede del Podestà di cedere il mercato a speciali persone, cioè al conte Pietro di Massimo (Petro de Maximo), al conte Ottone di Biandrate (Comiti Ottoni de Blandrate), al conte Gozio di Biandrate (Comiti Gozio de Blandrate) e al conte Guidone di Biandrate (Comiti Guidoni de Blandrate). — Il Comune di Vercelli dovrà porre nei suoi magazzini cinquecento moggi di frumento e cinquecento moggi di segale (sicalis), secondo la misura di Vercelli, e dargli agli scolari soltanto, e non ad altri per il prezzo di acquisto, e ciò in tempo di carestia e dietro richiesta degli stessi scolari.

Inoltre, il Comune di Vercelli stabilirà un salario competente ad arbitrio di due scolari e di due cittadini; e in caso di discordia, ad arbitrio del Vescovo. Gli stipendi debbono stabilirsi prima della festa di tutti i Santi e pagarsi prima della festa di S. Tommaso apostolo, cioè ad un teologo, a tre professori di legge, a due decretisti e a due decretalisti, a due medici, a due dialettici e a due grammatici.

Gli scolari di Vercelli e del distretto non sono obbligati di dare nessun dono ai maestri (magistris vel dominis)[127].

[112]

I professori che debbono ricevere il salario dal Comune di Vercelli saranno eletti da quattro Rettori, cioè: dal Rettore dei Francesi, dal Rettore degl'Italiani, da quello dei Tedeschi e dei provinciali i quali con giuramento dovranno obbligarsi di scegliere i migliori insegnanti tanto della città che di fuori e sostituirne altri migliori fino al punto che crederanno di poterne tenere a stipendio. La scelta sarà fatta da tre e in caso di dissenso si aggiungerà ad essi un lettore provvisorio di teologia, il quale si obbligherà con giuramento di scegliere in buona fede il migliore di quelli sui quali è nata controversia fra i Rettori, assistendo alle elezioni che dovranno farsi nei primi quindici giorni del mese di aprile successivo.

Colui che sarà Podestà di Vercelli, dovrà spedire nei quindici giorni dopo avvenute le elezioni degl'insegnanti a spese del Comune di Vercelli ambasciatori giurati, i quali in buona fede e ad utilità dello Studio vercellese invitino i professori eletti ad assumere l'insegnamento.

Il Comune di Vercelli procurerà di conservare la pace nella città e nel distretto di Vercelli e di ciò prenderà cura il Podestà del Comune.

Nessuno scolare potrà dare in pegno agli altri scolari se non sarà stato a ciò obbligato dal Comune.

Se qualche scolare o un suo rappresentante sarà derubato nella città o nel distretto di Vercelli o in altro distretto, il Comune farà a suo favore tutto ciò che suol fare a vantaggio dei cittadini procurando in buona fede per mezzo di lettere o di ambasciatore che possa venire reintegrato nel suo avere.

Gli scolari o i loro rappresentanti non dovranno ricevere offesa alcuna nè saranno catturati per occasione di guerre discordie o turbolenze che potessero avvenire fra il Comune di Vercelli ed un'altra città o un principe o un castello; nel qual caso il Comune o licenzierà i detti scolari o li porrà in luogo sicuro.

[113]

Gli scolari saranno considerati in città e nel distretto alla pari dei cittadini. Anche nei pubblici giudizi gli scolari conserveranno i loro privilegi, eccetto il caso di espressa renunzia, o di commesso delitto pel quale il Comune di Vercelli si riserba piena giurisdizione.

Il Comune manterrà all'università degli scolari due bidelli che godranno dei loro stessi privilegi.

Manterrà pure due copisti (exemplatores)[128] i quali penseranno a provvedere agli scolari i libri (exemplancia) di ambedue i rami del diritto, e delle materie teologiche, ben corretti tanto nel testo che nei commenti (correcta tam in textu quam in gloxe).

Il pagamento di questi libri sarà fatto dagli scolari secondo la tassazione dei Rettori.

Se nascerà qualche discordia fra gli scolari, il Comune di Vercelli non favorirà nessuna delle parti; ma procurerà di restituire la tranquillità e la concordia.

Queste condizioni saranno osservate dal Comune per il termine di otto anni.

Gli scolari e i loro rappresentanti non pagheranno alcun pedaggio per venire a Vercelli.

I camarlinghi (massarios) del Comune incaricati di somministrare denaro agli scolari, non potranno eccedere il numero di due nè dovranno cambiarsi che una volta l'anno.

Il Potestà di Vercelli, e il Comune dovranno spedire a tutte le città d'Italia ed altrove come ad essi meglio piacerà, e far nota la fondazione dello Studio invitando gli scolari.

Questi patti saranno inseriti dal Comune, nello Statuto della città con giuramento preso dal Potestà di conservarli come gli altri Statuti, facendo giurare anche il suo successore e così di seguito fino ad otto anni, nel qual termine per nessuna cagione debbono essere estratti dagli Statuti di Vercelli. Questi patti saranno registrati in due pubblici atti della stessa forma e tenore.

[114]

I predetti Rettori e scolari in nome proprio e degli altri promisero ai Procuratori del Comune di Vercelli che in buona fede e senza frode si adopreranno perchè tutti gli scolari vengano a Vercelli, ed ivi prendano dimora occupando i cinquecento alloggi sopra ricordati, obbligandosi anche (senza però contrarre in questo alcuna responsabilità) di fare venire a Vercelli tutta l'intera scolaresca di Padova.

Gl'insegnanti, secondo i patti come pure gli scolari, non dovranno piatire (avocare) in nessuna causa nella città o nel distretto se non in favore degli scolari e per fatti ad essi relativi in presenza di delegati del principe e nel fôro ecclesiastico in presenza di ecclesiastici.

Gl'insegnanti, gli scolari e i Rettori, non prenderanno parte a nessuna adunanza o consiglio a danno della città di Vercelli, e se verranno a conoscenza che taluno o taluni abbiano congiurato contro l'onore e l'esistenza del Comune di Vercelli, dovranno in buona fede impedirlo, e fino a che potranno, darne notizia al Potestà.

Del pari si obbligarono di non prendere per nessuna cagione alcuna parte fra i cittadini di Vercelli o del distretto.

Così pure fu stabilito che ciascun Rettore sia investito di tanta autorità negli affari riguardanti gli scolari, come gli altri; nè questa autorità dovrà estendersi anche in caso di aumento nel numero degli scolari; e ciò venne convenuto in più atti del medesimo tenore.

Fatto in Padova in casa magistri Razinaldi et Petri de Boxevilla presentibus Domino Filippo de Carixio Canonico Taurinensi et Bono Iohanne de Bondonno et Martino Advocato Vercellensi.

Io Bono Giovanni Notaro Vercellese figlio del fu Manfredi (Negrix)[129] fui presente a tutti questi patti che ho registrato in questo Atto da me per incarico di ambe le parti scritto e fatto scrivere.

Io Bartolommeo (de Bazolis) Notaro Vercellese ho veduto, letto ed esaminato il precitato documento confrontandolo coll'originale, [115] che ho riscontrato regolare ed in perfetta forma senza cancellazioni, raschiature nè soppressione di lettere, nè aggiunte nè diminuzioni eccetto qualche sillaba o lettera che non cambia il senso, e tale l'ho confrontato e registrato e sottoscritto per incarico avutone dal signor Gasparrini Grassi Potestà di Vercelli.

L'importanza di questo documento fortunatamente conservato nella sua integrità, è tale che basterebbe di per sè solo a fare chiaramente comprendere il modo di ordinarsi e la forma primordiale della costituzione delle università italiane.

Dalla Carta Vercellese si rileva specialmente il lato più caratteristico delle università medioevali e il loro singolare ordinamento di colonie libere e nomadi che permetteva ad esse di passare, dietro invito e promessa di più estesi privilegi, da una città ad un'altra, senza contrarre mai impegni e obblighi che vincolassero la loro naturale indipendenza.

Le nostre Repubbliche nel fondare uno Studio, oltrechè al vanto di portar incremento alla scienza e di dare ospitalità ai dotti che venivano ad insegnarvi, aveano anche in mira di accrescere la loro prosperità materiale e il numero degli abitanti.

Quando in un Comune era scemata la popolazione o per guerre o per contagi, si pensava di riparare ai mali sofferti dando vita ad una università, nella quale per la fama degl'insegnanti e il godimento di larghe franchigie, venissero ad impararvi gli scolari da molte parti d'Italia e d'Europa. E infatti se si pensa che la maggior parte di quei che attendevano agli studii nel medio evo erano accompagnati dalle loro famiglie, deve conchiudersi che non lieve vantaggio ne dovevano risentire quelle città che potevano per la celebrità del loro Studio [116] dar ricetto a molte migliaia di scolari come Bologna, Padova ed altre ancora.

Racconta il cronista Villani, che per riparare ai danni della mortalità avvenuta in Firenze nella peste del 1348, la Repubblica pensò di fondare l'università, della quale esso narra l'origine in questo modo: «Rallentata la mortalità e assicurati alquanto i cittadini che avevano a governare il comune di Firenze, volendo attrarre gente alla nostra città e dilatarla in fama ed onore; e dare materia a' suoi cittadini scienziati e virtudiosi, con buono consiglio, il comune provvide e mise in opera che in Firenze fosse generale studio di catuna scienza, e in legge canonica e civile, e di teologia....[130]»

Altre università ancora vennero fondate col manifesto intendimento di accrescere il numero degli abitanti come quella di Pavia, e ciò attesta il cronista Azario[131].

Anche lo studio di Trevigi venne creato per accrescere il benessere materiale di quella città, e si trova accennata nel Decreto di fondazione (in augmentu et statu Civitis Travisii et hominum totius ejusdem districtus)[132].

Il numero degli scolari nel medio evo era proporzionato alla fama delle università la quale si fondava soprattutto sulla valentia ed il nome dei dottori che vi insegnavano.

Fra le università italiane quella di Bologna ebbe sempre il maggior concorso di scolari essendo famosa per lo studio del diritto in tutta Europa, come Salerno per la medicina. Non possiamo accertare come positive e fondate le cifre che ne hanno lasciate gli scrittori del tempo; ne può determinarsi con esattezza dai registri [117] antichi che ci rimangono, il vero numero degli scolari che frequentavano le università nel medio evo perchè erano esclusi dal ruolo comune i cittadini. Il computo che può farsi adunque non è che approssimativo.

Nel secolo XIII, al dire di Odofredo, in Bologna vi furono diecimila scolari e se dobbiamo prestar fede ad un cronista antico, nel secolo XIV giunsero fino a tredicimila[133].

Tutte le nazioni d'Europa erano rappresentate in quella celebre università. Oltre i citramontani che erano gli scolari appartenenti alle diverse provincie d'Italia, vi erano compresi sotto il nome di ultramontani: francesi, inglesi, portoghesi, provenzali, spagnuoli, tedeschi, polacchi, boemi e molti altri che si leggono in nota nell'ordine col quale sono registrati negli statuti bolognesi (lib. I, pag. 12 e 13)[134]. Anche fra i dottori ve ne furono molti d'origine straniera. L'università di Bologna dal secolo XII al XVI, ebbe professori francesi, tedeschi, aragonesi, belgi, bavaresi, spagnuoli, inglesi, polacchi, greci, irlandesi, e portoghesi[135].

Quanto al grado e alla dignità di cui erano rivestite le persone che frequentavano gli studii, deve osservarsi che per la speciale costituzione delle antiche università [118] e per le condizioni sociali del tempo, il culto della scienza era tanto diffuso e tenuto in onore il sapere, che l'insegnamento era considerato come il mezzo più sicuro per potere salire ai più elevati uffici sì nell'ordine civile, come nell'ecclesiastico. Dal Ruolo dei dottori dell'università di Bologna, si può rilevare la qualità e il grado delle persone che vi insegnarono nei varii secoli. Fra i dottori s'incontrano ricordati di frequente papi, cardinali, arcivescovi, vescovi, ambasciatori, ministri, arcidiaconi, avvocati di concistoro, canonici, cavalieri gaudenti, decani, giudici, podestà, segretari e consiglieri di principi e molti altri personaggi insigniti di alte dignità.[136]

Fra gli scolari non meno che fra gl'insegnanti, figurava nelle università del medio evo il fiore della nobiltà di tutta Europa e lo provano ad evidenza gli statuti e gli storici del tempo.

In Bologna, per un'antica consuetudine fedelmente osservata per molti secoli e riconosciuta dal Papa, il Rettore godeva del privilegio durante le sue funzioni di esser considerato superiore anche agli scolari cardinali: il che dimostra che fra gli scolari di quell'epoca v'erano persone rivestite di tale dignità.

Lo statuto dell'università di Firenze imponendo agli scolari l'obbligo di indossare una veste comune, dice che non sono eccettuati da questa disposizione neppure gli scolari nobili e non fa distinzione alcuna fra duca, principe, barone, conte o marchese, cardinale o vescovo od altro dignitario (etiam si esset Dux, Princeps, vel Baro, seu Comes aut Marchio,.... etiam si esset Cardinalis, vel Episcopus, vel alia dignitate fulgens[137]).

[119]

Mentre il Ficino insegnava in Firenze, scriveva ad alcuni principi tedeschi parole incoraggianti sul conto dei loro figliuoli che erano affidati alle sue cure ed erano posti sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico[138].

I nobili godevano nell'università di certe preferenze per cui andavano distinti dagli altri scolari.

A Bologna chi era nobile aveva diritto di occupare le prime panche nelle scuole. A questo privilegio però corrispondeva l'obbligo di pagare ai bidelli due lire per colletta invece di quattro soldi come gli altri scolari di nascita meno illustre. Anche a Padova i nobili in compenso di tal distinzione dovevano pagare uno scudo, mentre tutti gli altri non davano che otto soldi. Al privilegio dei nobili avevano diritto anche tutti quelli che erano insigniti di dignità ecclesiastica[139].

Sembra che queste preferenze in omaggio alla nascita e ai titoli di nobiltà, durassero per diversi secoli perchè troviamo che in Padova nel 1506 fu ordinato ai bidelli di distribuire le panche nelle scuole in ordine di merito degli uditori, riserbando cioè le prime ai principi e agli altri grandi personaggi, le seconde ai consiglieri dell'università, le rimanenti agli altri scolari ed al pubblico[140].

Nell'originaria costituzione delle università, gli scolari furono distinti in nazioni, ognuna delle quali era chiamata ad eleggere per turno i Rettori. Fino al secolo XIII le principali università italiane ebbero quattro Rettori, uno per i cisalpini e tre per i transalpini. Verso la metà di questo secolo le tre corporazioni dei transalpini e ultramontani si riunirono, formando una sola università con [120] un Rettore; e così de' quattro antichi Rettori non ne rimasero che due e l'università fu divisa in cisalpina e transalpina.

Dell'università cisalpina facevano parte tutti gl'italiani distinti secondo le diverse provincie alle quali appartenevano; della transalpina tutti gli stranieri dei paesi d'Europa. Sebbene gli stranieri dipendessero dall'università transalpina, nondimeno ogni nazione conservava sempre una certa autonomia nel trattare i proprii affari ed aveva i suoi speciali rappresentanti che erano i Consiglieri.

La nazionalità degli scolari si desumeva dal luogo della loro nascita. Gli statuti bolognesi prescrivevano che i Rettori nell'iscrivere uno scolare nei ruoli di una nazione, tenessero conto soltanto del luogo di nascita non del domicilio o della patria dei genitori, nè della volontà quantunque espressa dello scolare di appartenere ad una nazione diversa[141].

Le università che comprendevano un maggior numero di nazioni erano quelle di Bologna e di Padova. Bologna aveva trentacinque nazioni fra l'università cisalpina e transalpina; Padova ventidue.

Però mentre ogni nazione aveva comuni colle altre le consuetudini scolastiche e gli studii, soleva nella vita privata conservare la propria indipendenza, la lingua e le tradizioni patrie. Nelle stesse scuole era divisa una nazione dall'altra e occupava le panche ad essa destinate. Non possiamo affermare che quest'uso fosse comune in tutte le università italiane; gli storici e gli statuti ne fanno menzione[142].

[121]

I posti per gli scolari erano destinati dal professore e nessuno senza il suo permesso poteva occupare il luogo lasciato da un altro[143].

La divisione secondo le nazioni non fu la sola che dovettero subire nel loro svolgimento le università antiche. Nei primi secoli della loro formazione tutte le università e principalmente le italiane, dietro l'esempio di quella di Bologna, ripetevano la loro origine dai cultori del diritto che erano i più numerosi e i soli che per l'autentica di Federigo I fossero favoriti di privilegi e investiti di immunità e franchigie scolastiche. I cultori delle altre scienze non erano rappresentati che in piccola parte e aveano poca importanza nell'ordinamento universitario, e tutti i diritti che acquistarono in progresso di tempo non furono che effetto di spontanee concessioni, e di facoltà usurpate ai giuristi. Nei quali fu sempre tanto profondo il sentimento di superiorità, che il giureconsulto Odofredo in un passo delle sue opere spiega la parola antecessores colla quale solevano essere designati gli studiosi delle leggi, dicendo che così doveano chiamarsi perchè precedevano tutti gli altri non solo nella scienza ma anche nei costumi (.... quia excedunt alios in scientia et moribus). E quando dopo Bologna, cominciarono a fondarsi le altre università italiane, i dottori bolognesi sostenevano che ad essi soli spettavano i privilegi concessi dall'imperatore Federigo coll'autentica, di cui parlammo altrove, e non aveano diritto di parteciparne che i soli cultori del diritto.

Col crescere della civiltà e col diffondersi del sapere, [122] anche le altre scienze vennero acquistando nelle università quell'importanza che prima non aveano, e crebbe il numero dei loro cultori in guisa, che cominciò a manifestarsi in essi il bisogno di separarsi dai giuristi e creare leggi adatte all'indole dei propri studii e ordinamenti conformi. Il sentimento d'indipendenza che spingeva gli artisti (così eran chiamati i medici, i filosofi, i grammatici e gli studiosi delle scienze affini) a sottrarsi da quel grado d'inferiorità in cui li aveano posti i giuristi, cominciò a rivelarsi fino dal secolo XIII nell'università di Bologna e di Padova, e poi si estese a tutte le altre, e nei secoli successivi si mutò in aperta ribellione onde fu necessario formare due università separate con statuti e ordinamenti proprii che si dissero: università delle Leggi e università delle Arti.

Questa trasformazione però non avvenne che dopo lunghi contrasti e per effetto di parziali concessioni e corsero molti secoli prima che gli artisti potessero chiamarsi del tutto indipendenti dai cultori del diritto.

Alcuni cenni raccolti dagli storici serviranno a dimostrare come lentamente si operasse questo svolgimento, nelle antiche università e come molto tardi fosse vinto il pregiudizio dalla vantata superiorità della giurisprudenza sopra le altre scienze.

Un primo tentativo di autonomia gli artisti lo posero in opera in Bologna nel 1295, chiedendo ai magistrati la facoltà di nominare un Rettore che non dipendesse dai giuristi. Questa loro dimanda non ebbe però esito favorevole[144]. Tale diritto di eleggersi un Rettore non fu riconosciuto agli artisti che nel 1316[145].

[123]

In Padova gli artisti potevano nominare il Rettore ma sotto certe condizioni. Il nuovo Rettore nei tre giorni consecutivi alla sua elezione, doveva prestar giuramento ai Rettori dei legisti di fedelmente osservare gli statuti.

Quando mancava il Rettore degli artisti, questi dipendevano da quello dei giuristi. Gli artisti poi nelle controversie forensi dovevano ricorrere ai Rettori dei giuristi, seppure non preferissero di sottoporre le loro ragioni al Vescovo come autorità suprema dello Studio.

Ognuno che volesse ricevere la laurea nelle arti doveva prestar giuramento sugli statuti e pagare una tassa all'università dei giuristi[146].

L'università delle arti di Padova sembra che fosse obbligata per le consuetudini a pagare anche una pensione annua a quella dei giuristi, perchè il Colle racconta che un Bartolommeo da Mantova dottore in quello Studio fu il primo a stipulare la liberazione degli artisti dal tributo consueto[147]. In Ferrara nel 1507 nell'occasione che si eleggevano i Rettori di ambedue le università, fu sollevata l'antica quistione di precedenza fra i Rettori dei giuristi e quelli delle arti. Accesi gli animi, già mal disposti per vecchi rancori, delle parole si passò alle armi e tanto s'inasprirono le discordie nell'università che la città intera fu posta in scompiglio. Alfonso duca di Ferrara si interpose, e volendo conciliare le parti, sottopose il giudizio ai riformatori dello Studio di Bologna dove erano meglio conosciute ed osservate le antiche consuetudini scolastiche. Esso infatti scriveva ai riformatori perchè lo informassero esattamente dell'uso della loro università intorno alle quistioni di precedenza fra i giuristi e gli artisti.

[124]

I riformatori risposero così: «Desidera la vostra Excellentissima Signoria esser certificata de la consuetudine et modo se tiene in questa Città circa la precedentia de li Rettori Juristi, et Artisti de questo Studio: Gli respondemo inveterata et antiqua usanza esser sempre stata et mantenersi infino al presente senza controversia alchuna, che li Rectori Juristi in tutti li atti pubblici precedano ai Rettori de li Medici et Artisti et tale è lo ordine et la observantia usitata in questo Studio nelli tempi passati et presenti[148]

Ciò dimostra che nel secolo XVI era tuttora in vigore l'antico uso di far precedere i cultori del diritto a quello di tutte le altre scienze e accordar loro i primi onori e privilegi.

Nel 1535 nacquero nuove discordie in Ferrara per questa stessa cagione e il duca Ercole, che allora regnava, volle metter fine alla controversia, decretando l'assoluto e incontrastabile primato dei giuristi sugli artisti[149].

Le prime università italiane, nelle quali venne tolta la perenne occasione di discordie, che era la questione di precedenza fra i legisti e gli artisti, furono quelle del Piemonte. Salito al trono Emanuele Filiberto di Savoia, il quale oltre essere grande capitano era anche savio e prudente legislatore, conobbe quanto grave danno recassero al buon andamento degli studii e alla dignità della scienza quelle controversie che mettevano di frequente in [125] scompiglio le scuole e aveano origine in un riprovevole sentimento di vanità e di orgoglio. Con un suo editto del 15 giugno del 1575, proclamò adunque il principio, nuovo affatto negli usi scolastici del medio evo, che la preferenza fra i dottori si dovesse desumere dall'anzianità del grado senza far distinzione fra i giuristi e gli artisti.

L'editto dice così:

Emanuele Filiberto per gratia di Dio Duca di Savoja, Prencipe di Piemonte etc. A tutti nostri Ministri, Offitiali, Vassalli, Sudditi et particolarmente alli Governatori di nostre Provincie et Presidj salute.

Volendo noi evitare alle contese che sogliono nascere tra Dottori Legisti ed Artisti per conto della precedenza, in cotesti vostri governi et mandamenti.

Dichiariamo la mente nostra essere che facciate preceder sempre il Dottore più antiquo, tanto Artista come Legista indifferentemente, precedendo però l'anteriorità della data delle lettere del Dottorato di ciascuno, et ciò per modo di provisioni in fin che sarà da noi per generale ordinatione provisto, Commettendo alli sudetti Ministri, Offitiali, et Governatori respettivamente si come aspetterà, che habbiate di così far esseguire et alli Dottori di osservare intieramente la presente nostra dichiarazione per quanto stimano cara la gratia nostra che tale è la mente nostra.

Dat. in Torino alli 15 di Giugno MDLXXV.

Emmanuel Filibert[150].

Questo editto pare che non avesse tanto efficacia da togliere ogni cagione di contrasto anche nelle stesse università piemontesi, perchè un secolo dopo che esso venne promulgato, Carlo Emanuele II dovè con un suo Decreto [126] proclamare nuovamente l'assoluta uguaglianza fra i medici e i legisti[151].

Soltanto col progresso della civiltà riuscirono tutte le scienze ad acquistare uguale importanza e dignità nelle scuole e nella coscienza universale, che per tanti secoli avea preferito i giuristi ai cultori delle altre dottrine con manifesta ingiustizia e detrimento del sapere.

Ora veniamo a parlare delle matricole universitarie.

I soli scolari stranieri erano in forza dell'autentica di Federigo I iscritti nelle matricole universitarie e godevano insieme alle loro famiglie dei privilegi scolastici. I cittadini sebbene frequentassero in comune le scuole e attendessero come i forestieri agli studii, nondimeno erano esclusi dai registri accademici. Lo scopo dell'autentica imperiale, era manifestamente quello di favorire gli stranieri, perchè nel vincolo dell'associazione trovassero difesa ed appoggio, che pel diritto pubblico allora molto imperfetto, non avrebbero potuto invocare fuori della loro patria. Ogni scolare forestiero doveva dunque iscriversi nei ruoli universitarii per godere dei privilegi accordati dagli studenti e dalle consuetudini.

Lo scolare che voleva esser iscritto, palesava il proprio nome al Rettore dell'università, il luogo di nascita e la scienza che intendeva di studiare. Pagava inoltre una tassa che variava secondo l'università, ed era tenuto annualmente a prestare giuramento di fedeltà e di obbedienza al Rettore e agli statuti[152].

[127]

Ciascuna università fino dall'epoca della sua fondazione compilava le leggi che la dovevano governare. Il [128] primo monumento di legislazione scolastica fu l'autentica imperiale già ricordata, la quale pose le basi di quelle [129] prime associazioni scientifiche che esistevano di fatto, ma erano quasi ignorate perchè prive di protezione e di personalità civile.

[130]

Dopo questa autentica, fra le fonti della legislazione scolastica antica, debbonsi annoverare le consuetudini, il [131] diritto comune, i decreti dei concilii e le bolle papali. L'ingerenza ecclesiastica specialmente nei primi secoli [132] della formazione delle università fu molto estesa, come vedremo in seguito, e i pontefici di propria autorità, nonchè i concilii del secolo undecimo e duodecimo a ciò convocati, sancirono molte regole di disciplina scolastica.

Gli ordinamenti legislativi delle università del medio evo come tutte le raccolte di leggi civili e politiche di quell'epoca furono chiamati col nome generico di statuti (Statuta).

Fra tutte le università, quella di Bologna prima d'origine e d'importanza sulle altre d'Italia, ebbe gli statuti più perfetti e meglio ordinati; e anche quando sorsero altri centri di studii che la emularono in potenza e numero di scolari, essa portò sempre il vanto per le sue leggi e servì di modello a tutte le compilazioni statutarie del medio evo. Gli storici raccontano a prova della perfezione di questi statuti, come nel 1554 venissero dal papa, allora signore del territorio bolognese, estesi a legge generale[153].

I più celebri giureconsulti erano chiamati a compilare statuti universitari. La tradizione vuole che Bulgaro fosse il primo compilatore degli statuti dell'università di Bologna. In quei tempi non essendovi per anco luoghi destinati alle pubbliche lezioni, i dottori solevano insegnare nelle case, e Bulgaro pare che desse quivi i suoi responsi e facesse le prime collezioni degli statuti[154].

La nomina delle persone incaricate di prender parte alla compilazione degli statuti, spettava per un'antico privilegio, agli scolari i quali erano affatto indipendenti da ogni vigilanza degli altri membri della università.

I compilatori degli statuti si chiamavano Statutarii e Statutarium il luogo destinato a conservarli.

[133]

Tutte le compilazioni di leggi relative alle università del medio evo, prendevano a fondamento l'autentica di Federigo I e gli statuti di Bologna, salvo poi ad accrescere le disposizioni e introdurre i mutamenti reclamati dai tempi e dai luoghi. Gli statuti sogliono essere divisi in titoli e rubriche e riguardano l'ordinamento dell'università, l'elezione del Rettore e dei dottori; determinano il numero e la qualità delle persone che debbono far parte del corpo scolastico; le norme per conferire le promozioni e i gradi accademici; le immunità e i privilegi che si concedono agl'insegnanti e le pene minacciate a quei che avessero cospirato in qualunque maniera a danno dello Studio. Molti di questi statuti ci rimangono ancora ben conservati, e sono i più utili documenti da consultare per chi voglia acquistare vaste cognizioni sull'ordinamento e l'ufficio delle università antiche.

Però le più importanti fra queste università, solevano, secondo i bisogni e le mutate condizioni dei tempi, modificare sostanzialmente gli antichi statuti, e farne diverse edizioni, come Bologna, Padova, Ferrara e diverse altre.

Bologna nel corso del secolo XIII, introdusse importanti innovazioni nei suoi statuti universitarii. La prima compilazione fu fatta nel 1253 e nel 1289 furono aggiunte nuove modificazioni relative specialmente ai privilegi da conferirsi agli scolari e ai dottori fra i quali figura il celebre Taddeo fiorentino che illustrò le scuole mediche di quelle università[155].

Negli statuti bolognesi si trova stabilita la massima che le riforme generali da introdursi nelle leggi scolastiche non si potessero fare prima che fossero trascorsi venti [134] anni dall'epoca della loro compilazione: le riforme parziali invece avevan luogo ogni cinque[156].

Per le modificazioni da introdursi negli statuti, solevano esser consultati i più autorevoli giureconsulti e non di rado era richiesta dalle università anche l'approvazione del Papa. Gli scolari prendevano parte alla compilazione degli statuti o nominando persone di loro fiducia o intervenendo essi medesimi in base ad un privilegio che riconosceva in loro il diritto di partecipare alla formazione delle leggi e di concorrere all'elezione dei magistrati universitarii[157].

Dopo aver dato un cenno degli statuti e del modo col quale erano compilati, passiamo a vedere di quali mezzi disponessero i comuni per fondare e mantenere le università.

Finchè le scuole non furono che libere associazioni di dottori e scolari non era necessaria altra spesa che quella degli alloggi e dello stipendio per gl'insegnanti. Ogni dottore teneva scuola in casa propria o ne prendeva una in affitto, supplendo alla spesa colle oblazioni dei suoi uditori. Non di rado avveniva che un dottore cedeva ad un altro la scuola in compenso di una data somma, o trasmetteva la sua clientela agli eredi per testamento.

In questo primo periodo le scuole erano sparse in diversi luoghi, ed avevano il carattere di private aggregazioni.

[135]

Ma col progredire della scienza, crebbero di numero e d'importanza anche le scuole, e cominciò a manifestarsi il bisogno di un edifizio pubblico dove gli scolari potessero in comune ascoltare le lezioni e riunirsi a trattare gl'interessi dell'università. Le private oblazioni degli scolari, o collette (collectæ) come chiamavansi, non erano più sufficienti a mantenere le università e dovettero i comuni intervenire supplendo alle gravi spese colle annue rendite.

Non è senza interesse il conoscere quali fossero le entrate delle università, e di quali espedienti si giovassero i comuni per aumentarle.

L'università di Bologna per qualche secolo potè bastare al proprio mantenimento colle sole offerte degli scolari e colla tassa che pagavano all'atto dell'iscrizione, perchè erano allora numerosissimi gli uditori che frequentavano quello Studio.

Ma sorto lo scisma tra gli imperatori svevi e il papa, al quale Bologna si tenne fedele, furono richiamati gran parte degli scolari tedeschi e di partito imperiale, e questa fu una delle cagioni di spopolamento che subì quell'università. Alla quale emigrazione degli scolari tedeschi se ne aggiunsero altre quando si fondò l'università di Padova, di Ferrara, di Pavia; ed una notabilissima dell'anno 1321 in occasione della condanna a morte di uno scolare catalano che aveva rapito una fanciulla.

Scemato il numero degli scolari, e scarseggiando il denaro, per il mantenimento dell'università si dovette supplire con mezzi straordinarii. I sedici Riformatori dello Studio cominciarono ad assegnare una parte delle pubbliche entrate per stipendio ai dottori, e si aumentarono le gravezze e i balzelli destinando anche a benefizio dell'università l'intero provento della gabella del sale.

L'amministrazione di questi dazii chiamati gabella [136] grossa venne da Giulio II con sua bolla del 7 gennaio 1509 affidata e sei dottori dei collegi Canonico, Civile e Medico. A questi da Gregorio III nel 1579 ne furono aggiunti altri sei e così in tutto dodici da eleggersi quattro dal collegio Canonico, quattro dal Civile, e quattro dal Medico.

Le entrate ordinarie delle università erano le imposte, e parte dei dazii, fra i quali ve n'erano alcuni destinati esclusivamente a benefizio delle scuole. La gabella del sale è quella che più spesso troviamo ricordata dagli storici. In Padova fino dal 1351 fu destinata a profitto dello Studio la gabella dei carri (plaustorum) e dei bovi che si diceva (bovaticum).

Anche il clero concorse più volte al mantenimento delle università e ne abbiamo numerosi esempii.

Nel 1488 Alessandro VI con un suo breve, concesse all'università fiorentina la facoltà d'imporre cinquemila ducati sui beni ecclesiastici della città e territorio. Cessato questo provento e rimaste esauste le finanze della Repubblica per le spese di guerra, il clero generosamente si offrì perchè l'università non ne trovasse grave detrimento, di continuare spontaneamente a pagare la tassa imposta dal breve surricordato.

Il cronista Azario racconta che Galeazzo Visconti ricevuto il rescritto imperiale che accordava il privilegio di Studio generale all'università di Pavia, impose una taglia al clero di Novara perchè provvedesse i dottori dei letti e panni loro necessari[158].

I comuni solevano anche destinare a profitto delle università una somma annua. Per esempio Roma somministrava [137] 14,000 fiorini per lo stipendio dei dottori[159]; e Firenze 2,500 fiorini d'oro[160]. Anche Ferrara nel 1473 si assunse con atto solenne l'incarico di provvedere al mantenimento del proprio Studio[161].

Nel 1494 in Padova essendo scarse le entrate dell'università supplì del proprio il principe Carrarese[162]. Narra il Facciolati che in quella stessa città gli scolari per aver da stipendiare un buon dottore di leggi civili, proposero al Comune d'imporre una tassa sulle meretrici e la loro domanda venne accolta[163].

Era in uso ancora di chiamare a contribuire alle spese per il mantenimento delle università le città vicine che partecipavano ai benefizi dell'istruzione. Nel 1461 le città di Bergamo, Verona e Trevigi furono obbligate dalla Repubblica Veneta a somministrare una parte delle spese necessarie per lo Studio di Padova[164].

In più luoghi avremo occasione di far parola dell'influenza ecclesiastica nelle università medioevali; ma di un tale argomento tanto importante per conoscere il progressivo sviluppo di queste grandi associazioni scientifiche non abbiamo finora dato che pochi cenni. Prima che ci inoltriamo colle nostre ricerche ad esaminare la costituzione organica delle università, sarà utile fermarci alcun poco a vedere come l'ingerenza della Chiesa nelle cose scolastiche tanto estesa nei primi secoli, andasse man mano scemando colla cresciuta indipendenza delle nostre università, [138] e coll'emancipazione delle menti dal dominio del clero.

L'influenza della Chiesa nelle discipline scolastiche bisogna considerarla in due periodi distinti della civiltà. Nel primo periodo, quando il sapere era esclusivo privilegio dei chierici, l'ingerenza loro era assoluta perchè la società civile si asteneva di partecipare ai benefizi della cultura, e le poche scuole che allora esistevano, erano ecclesiastiche e facevano parte dei monasteri. Fino al secolo XII, in cui le nascenti università per i privilegi ottenuti dall'imperatore Federigo I alla Dieta di Roncaglia, affermarono la propria autonomia, le leggi scolastiche ebbero la loro sanzione dai papi e furono promulgate nei concilii di cui son rimasti celebri quelli di Rovan (1074), di Londra (1138) e di Laterano (1179).

Colla progredita diffusione del sapere, nacque nelle università un più profondo sentimento della propria indipendenza che si venne accrescendo colle larghe concessioni e coi privilegi concessi ai dottori e agli scolari. Affrancatesi da qualunque estranea ingerenza, le università poterono, come libere associazioni aventi personalità giuridica, impunemente affrontare le ire degli imperatori e gl'interdetti dei papi senza che la loro esistenza e libertà fosse per nulla compromessa.

Sebbene in questo secondo periodo di loro piena autonomia, le università per ottenere un legale riconoscimento all'atto della loro costituzione si rivolgessero al papa o all'imperatore, nondimeno questo atto esterno di ossequio non menomava la loro indipendenza, perchè anche avanti di essere investite di questa pubblica sanzione, esistevano di fatto e godevano di tutte le franchigie e privilegi.

Quando adunque si trova nelle storie fatto parola di bolle papali che eleggono dottori o conferiscono le insegne [139] dei gradi accademici, e quando si vede invocato di frequente l'intervento delle autorità ecclesiastiche per comporre discordie e decidere quistioni nelle università, non si deve intendere che queste dipendessero dal papa e che da lui soltanto acquistassero personalità e legale esistenza.

La Chiesa conservò sempre l'alta sorveglianza degli studii finchè il suo intervento fu ritenuto necessario a conservare l'integrità della fede e a preservare le scuole dalle perniciose influenze delle dottrine eretiche. Il papa fu considerato come suprema autorità scolastica e in tutte le università, il Vescovo come Cancelliere Apostolico ne faceva le veci, intervenendo nei consigli accademici, conferendo le lauree è partecipando coi Rettori ed i dottori alla giurisdizione scolastica così civile come criminale.

La partecipazione della chiesa al governo delle università e il loro grado di dipendenza dal potere sacerdotale, variava secondo i luoghi e le diverse costituzioni politiche.

Nell'università di Bologna l'influenza ecclesiastica fu sempre molto estesa perchè era sotto il dominio del papa.

In Napoli invece, essendo stato fondato lo Studio da Federigo II e accresciuto dai suoi successori, il clero non vi ebbe mai nessuna diretta ingerenza, e finchè regnarono gli Svevi non fu riconosciuta altra autorità scolastica che quella dell'imperatore, il quale conferiva i gradi, approvava gli ordinamenti e gli statuti, esercitava la giurisdizione accademica e provvedeva alla nomina dei dottori.

Le rimanenti università italiane risentirono, sebbene in grado diverso, l'influenza della Chiesa.

Brevi cenni relativi all'università di Bologna saranno sufficienti a dimostrare entro quali limiti e con quali mezzi la Chiesa esercitasse nei diversi secoli la sua sorveglianza nelle discipline scolastiche.

[140]

Fino dall'epoca della sua fondazione l'università bolognese fu protetta dal papa.

Onorio III, mentre si dimostrò caldo propugnatore della libertà d'insegnamento sciogliendo i dottori e gli scolari dal patto che quel comune avea loro imposto perchè non emigrassero altrove[165], cercò pur sempre di consolidare l'autorità della Chiesa e la supremazia del potere sacerdotale sui pubblici studii. E per mantenere una continua ingerenza sulle scuole, concesse larghi poteri all'arcidiacono. Il quale soleva essere un prelato, scelto dal papa come suo rappresentante nella città di Bologna e chiamato Cancellier Maggiore dello Studio, investito della facoltà di laureare in tutte le scienze; di assolvere dottori e scolari incorsi nella scomunica per aver percosso i chierici; di nominare in sua assenza un vicario, e di partecipare ad un emolumento sulle promozioni.

L'arcidiacono in Bologna, e il vescovo nelle altre università, partecipavano insieme al Rettore e ai dottori alla giurisdizione civile e criminale, ed era lasciata libertà alla parte di scegliere fra questi tre poteri, il proprio giudice.

L'autorità dell'arcidiacono in Bologna fu accresciuta dai papi che succedettero ad Onorio III, i quali liberarono tal dignitario dai vincoli delle leggi canoniche e in parte dagli oneri della gerarchia ecclesiastica[166]. Celestino V concesse all'arcidiacono, perchè la sua presenza fosse utile all'università, di riscuotere tutti i frutti delle parrocchie a lui sottoposte senza obbligo di residenza. Lo stesso privilegio venne dipoi conferito anche da Bonifazio VIII nel 1294 e da papa Benedetto nel 1341[167].

[141]

Un'autorità così estesa come quella dell'arcidiacono era mal conciliabile colla indipendenza di cui godeva l'università, e perciò frequenti discordie avvenivano fra il potere ecclesiastico che, in onta agli statuti e alle consuetudini, vantava diritti di precedenza, ed i Rettori che rappresentavano legalmente il supremo potere scolastico[168].

Nell'università di Padova il potere ecclesiastico esercitò la sua influenza in limiti assai più ristretti, perchè la repubblica di Venezia, dalla quale dipendeva, non soffriva che altre autorità s'ingerissero della vigilanza di quello Studio. Sebbene qualche volta si trovi ricordato fin al secolo XV il vescovo in luogo del Rettore e incaricato di sostituirlo nel grado scolastico; nel 1426 con lettere ducali fu tolto questo abuso.

Nel 1437 il Senato decretò ancora che le controversie che nascevano tra i collegi e che solevansi sottoporre alla decisione del vescovo, fossero in avvenire portate dinanzi al pretore della città eccetto quelle relative al collegio dei teologi[169].

Nel secolo successivo la storia di quell'università ci offre esempi assai più rilevanti di emancipazione dall'autorità ecclesiastica. Nel 1564 il Rettore dei giuristi a nome dei cisalpini scrisse all'imperatore Massimiliano perchè inducesse il Senato di Venezia di mandare agli scolari cisalpini che volevano prendere i gradi scolastici e la laurea, di non fare professione di fede cattolica come aveva prescritto il pontefice Pio IV. Di più per favorire gli stranieri non cattolici, si fondarono nuovi collegi universitarii, che per contrapporli a quelli già esistenti [142] nei quali aveva influenza il potere ecclesiastico, furono detti veneti (Collegia Veneta).

Da questi esempi e da molti altri che si potrebbero riferire, desumiamo che l'ingerenza della Chiesa nelle università non era mai uniforme, ma variava da una città ad un'altra secondo le diverse costituzioni politiche. Quando lo Stato cominciò a prender parte diretta all'ordinamento degli studii e a regolarne l'esercizio con leggi speciali, l'autorità ecclesiastica nelle scuole andò sempre scemando, finchè non rimase al clero che una parziale e limitata ingerenza negli studii di teologia e di diritto canonico.

CAPITOLO SECONDO

Persone che formavano l'università — Il Rettore — Origine di questo ufficio e sua importanza — Elezione del Rettore — Il Sindaco — Natura di questo ufficio e privilegi che vi erano annessi — I Consiglieri rappresentanti delle nazioni degli scolari — Il Notaro — Gli Attuari o Archivisti — Il Massaro o tesoriere — I Peziarii — Gli Stazionari — I Bidelli — I copisti e miniatori di libri.

Dopo aver parlato dell'origine e della costituzione delle università italiane del medio evo, è utile studiare quale fosse il numero e il grado delle persone di cui esse erano composte.

L'università poteva esser considerata sotto due aspetti: o come aggregato di individui che componevano la corporazione, o come istituto di pubblico insegnamento e centro di attività scientifica. Sotto il primo aspetto le università antiche rivestite di riconoscimento legale, godevano [143] di piena ed assoluta indipendenza e di personalità giuridica. Il carattere della corporazione (universitas) predomina nel medio evo ed è la forma peculiare che assunsero questi grandi corpi scolastici nel loro nascere.

Considerate come istituti di scienza, le università del medio evo erano le sedi esclusive del sapere e dell'operosità intellettuale di quel tempo. Bisogna distinguere adunque due classi di persone: quelle destinate a sorvegliare e dirigere gli interessi del corpo accademico, ad esercitare la giurisdizione scolastica e ad attendere al pubblico servizio; e quelle cui era affidato l'insegnamento e il progresso scientifico.

Considerati rapporto al loro grado e alla varietà delle loro funzioni, i membri delle università antiche possono distinguersi così:

L'istituto scientifico era composto dei professori (doctores legentes) e degli scolari: ai quali si univano anche gli scolari insegnanti, i baccellieri, i licenziati, i ripetitori come vedremo a suo luogo.

Ora intanto comincieremo a parlare delle persone che formavano il corpo scolastico, e prima delle altre, del Rettore che era il supremo grado dell'università. L'origine dei Rettori può dirsi contemporanea a quella della università. [144] A questo primo grado accademico fu data sempre grande importanza e si curò in ogni tempo di conservarne il prestigio perchè in esso si concentrava la potenza e il decoro di tutte l'università.

I Rettori, benchè trovassero nemici che tentarono talvolta di abolirne l'ufficio o menomarne la dignità, furono sempre conservati e restituiti nel loro grado.

La necessità del Rettore fu sempre riconosciuta. Richiesti i dottori, dice il Middendorpio[170], se possa esservi università senza Rettori, risposero che no, perchè il Rettore è capo dell'università, e se vien tolto, essa diviene acefala e deforme. E infatti tanta era la necessità di quello ufficio, che anche quando mancava il Rettore in una università erano chiamati a farne le veci o il sindaco o taluno dei consiglieri, o il preside dei collegi e talvolta anche il vescovo[171].

I dottori generalmente favorirono tale istituzione sebbene alcuni di loro, tra i quali Azone e Accursio, negassero agli scolari il diritto di eleggere a questa carica. Odofredo invece, e con lui molti altri, riconoscono legittima l'elezione dei Rettori fatta dagli scolari[172].

Il Rettore nel disimpegno delle sue funzioni, e quando era rivestito delle insegne del suo grado, si stimava superiore a qualunque altra dignità sia civile sia ecclesiastica; come pure agli scolari cardinali: privilegio che gli fu concesso da una bolla papale[173].

[145]

In antico l'ufficio di Rettore sembra che fosse occupato da un ecclesiastico. Il Savigny parlando dell'origine di questo grado, esclude affatto che per gli statuti bolognesi e di altre università ancora, fosse ritenuta necessaria la qualità di chierico (clericus) nel Rettore, e vuol dimostrare che tal voce avea in quel tempo e nel linguaggio scolastico, un significato uguale a quello di scolare. Ma non si può, a parer mio, conciliare questa versione in modo alcuno colle stesse parole degli statuti che adoperano sempre il nome di scolare (scholaris) nel suo vero e genuino significato. Esaminando poi il disposto di certi statuti oltre quello di Bologna, si rileva con tutta evidenza che nelle consuetudini accademiche era ritenuta necessaria la qualità di ecclesiastico secolare nella persona che doveva essere eletta al grado di Rettore in una università[174].

Una differenza sostanziale, relativamente all'ufficio e al modo d'elezione dei Rettori, si manifesta tra le antiche università italiane e le francesi. In Francia il Rettore era eletto dai dottori i quali gli conferivano la giurisdizione civile e penale da esercitarsi sugli scolari e le altre persone che facevano parte della corporazione.

In Italia invece il Rettore veniva nominato col libero suffragio dei soli scolari, nei quali risiedeva la facoltà d'investirlo del suo grado e di conferirgli l'esercizio dei supremi poteri.

Nella formazione delle prime università pare indubitato che si eleggessero più Rettori divisi per nazioni. In Bologna, Padova, Vercelli si trovano ricordati quattro diversi Rettori; uno per i citramontani e gli altri tre per [146] gli oltramontani. Verso la metà del secolo XII il numero dei Rettori venne limitato: e ne fu eletto uno per ciascuna delle due università.

Sembra che la prima fra le nostre università che ebbe quattro Rettori fosse Bologna come la più antica e frequentata. Dietro il suo esempio si ordinarono ancho le altre. Nell'università di Vicenza i quattro Rettori nel secolo decimoterzo erano: un inglese, un provenzale, un tedesco, e un cremonese.

In Vercelli ne troviamo uno per i francesi, uno per gli italiani, uno per i tedeschi, e un altro per i provenzali[175].

Nell'elezione del Rettore, come in qualunque altro atto dell'interna amministrazione delle antiche università, erano esclusi i cittadini; sia perchè ogni estranea ingerenza era contraria all'indole della primitiva loro costituzione; sia perchè ammettendo anche i cittadini a partecipare a queste elezioni, essi avrebbero potuto influire col numero sull'esito della nomina, e dar cagione a discordie e turbolenze[176].

In qualche università l'elezione del Rettore era divisa fra i professori e gli scolari come in quella di Roma. In Napoli fino al 1610, in cui furono promulgati nuovi statuti, il Rettore veniva scelto dal sovrano e dipendeva dal primo Cappellano del re che era incaricato di esercitare in suo nome l'alta sorveglianza sopra lo Studio. In seguito anche l'università di Napoli si uniformò alle altre, lasciando l'elezione del Rettore agli scolari.

Per procedere alla nomina del Rettore si teneva conto [147] dell'età, del grado di nobiltà e della fama della persona sulla quale doveva cadere la scelta. Gli statuti e le consuetudini scolastiche imponevano ancora di osservare che il Rettore fosse ben provveduto di patrimonio, perchè non avvenisse che esercitando il suo magistero dovesse cercarvi, anzichè una cagione di gloria, un lucro indecoroso.

Quando fu divisa l'università dei giuristi da quella delle arti, ognuna di esse ebbe il suo Rettore che prendeva nome da quella cui apparteneva. Per molto tempo però il Rettore delle arti fu considerato molto inferiore all'altro dei legisti, e da questo doveva essere sanzionata la sua elezione.

Ai Rettori come privilegio era concessa la facoltà d'insegnare, e in molte università si destinava loro una cattedra nominale, alla quale era assegnato anche un certo stipendio che serviva a compensare in parte le spese che occorrevano per mantenere il decoro del grado.

A Padova lo stipendio del Rettore era di 50 ducati e poi fu esteso a 100. Nell'università di Pisa fu pure assegnato nel 1473 uno stipendio di 40 fiorini che poi fu portato a 60 e in ultimo a 100[177]. Il nome del Rettore che godeva di questo privilegio, era iscritto in segno di onore nel Ruolo dei professori, e in primo luogo.

La funzione colla quale si eleggeva il Rettore era una delle più grandi ed imponenti solennità scolastiche del medio evo. Alcuni giorni innanzi la cerimonia, venivano invitati con gran pompa tutti i professori, il vescovo, il preside e tutti gli altri magistrati c dignitari della città. Il luogo destinato alla funzione era ordinariamente la cattedrale. All'ora fissata si muoveva il corteggio. Precedevano quattro trombettieri e altrettanti tamburi: poi [148] venivano i donzelli e dodici scolari che portavano i fasci dorati che erano un segno di dignità che ricordava i fasci di verghe dei magistrati romani. Venivano poi quelli che custodivano il sigillo e gli statuti dell'università portando il cappuccio del Rettore, e dietro un bidello collo scettro d'argento.

In mezzo al corteggio procedeva il nuovo Rettore vestito di una toga rossa con ornamenti d'oro e in sua compagnia stavano il sindaco, i consiglieri e gli altri ufficiali addetti all'università, vestiti essi pure colla toga e con tutti i distintivi del loro grado. In ultimo tutti gli scolari chiudevano il corteggio.

In chiesa si trovava il vescovo con tutti i magistrati municipali. Scambiatisi i saluti d'uso, ognuno si poneva al luogo che gli era stato destinato. Veniva allora letta da uno dei dottori una orazione in lode dell'università, dei magistrati e del nuovo Rettore. Finita l'orazione, un professore a ciò eletto, poneva il cappuccio al Rettore e gli consegnava il sigillo e gli statuti dell'università. Allora il Rettore rispondeva acconcie parole ringraziando dell'onore statogli conferito e promettendo di esercitare il suo magistero con prudenza e giustizia. Così aveva termine la cerimonia nella cattedrale.

Uscito il corteggio dalla chiesa, si dirigeva collo stesso ordine alla casa del Rettore passando per le vie principali della città tutte addobbate ed ornate in segno di festa. Poi si imbandivano le mense alle quali venivano invitati i primi dignitari così dell'ordine scolastico come del municipale[178].

[149]

Il rimanente del giorno era impiegato in giuochi e sollazzi pubblici con giostre, corse, tornei, ai quali prendeva parte l'intera città, e ai vincitori venivano distribuiti i premii dalle mani del Rettore.

Tanto le spese dei banchetti quanto quelle delle pubbliche feste erano tutte a carico del nuovo eletto.

Le onoranze fatte al Rettore non si limitavano soltanto all'occasione di questa solennità della sua nomina ed investitura. Anche durante l'esercizio del suo magistero, godeva di grandi privilegi come supremo rappresentante e capo dell'università.

In pubblico andava sempre accompagnato, e nelle solennità occupava il primo luogo fra tutte le altre autorità sì civili come ecclesiastiche. Quando dovea uscire poi dalla città per rappresentare lo Studio in qualche fausta occasione, andava vestito di tutte le insegne del grado e accompagnato dai dottori, dagli scolari e preceduto dai bidelli o nuncii con ricchi abiti.

Nell'università il potere del Rettore corrispondeva all'altezza del grado e alla nobiltà del suo ufficio. Egli era arbitro supremo in tutte le cause, avea piena e libera giurisdizione tanto civile quanto criminale sopra tutti i membri del corpo scolastico e presiedeva i pubblici esperimenti e le prove solenni nelle quali si conferivano i gradi e le promozioni accademiche. Inoltre aveva diritto di essere il primo a rivolgere le domande e formulare i quesiti nelle pubbliche dispute non solo agli scolari, ma anco ai professori. Esaminati i meriti degli insegnanti, spettava al Rettore di formare annualmente il ruolo o Rotolo. E questo potere era così illimitato, che anche quando lo Stato avocò a sè il diritto di nominare i professori, i Rettori tentarono di escludere le persone proposte per surrogarvene altre di loro scelta.

[150]

Avendo il Rettore la giurisdizione disciplinare sopra tutte le persone che facevan parte dell'università, poteva ammonire, imporre multe ed anche espellere dai collegi e dalle scuole; come vedremo parlando dei privilegi.

Il Rettore godeva anche di molti vantaggi pecuniarii sugli emolumenti dei collegi, e per l'assistenza alla promozione aveva diritto ad una doppia parte di ciò che percepivano i dottori.

Sebbene circondato di tanti onori e rivestito di grande autorità, l'ufficio di Rettore veniva spesse volte fuggito, non trovandosi persone sempre disposte ad accettarne gli obblighi e la grave responsabilità. Fu d'uopo quindi alle università aumentarne i privilegi e le concessioni oltre a quelle di cui abbiamo già fatto parola.

Verso la fine del secolo XV cominciò il Rettore a prendere il titolo di Magnifico (Rector Magnificus).

Molte università concessero ai loro Rettori di prendere la laurea senza spesa; privilegio che si estendeva anche ai loro successori. In Padova nel 1544, insieme alla laurea il Rettore veniva insignito del titolo di cavaliere, e l'università provvedeva del proprio a tutte le spese dell'investitura. Fu accordato anche a qualche Rettore dei più benemeriti di poter proporre una persona di sua scelta (socium) per ottenere la laurea senza spesa. Questo privilegio che aveva il suo fondamento sopra antiche concessioni, fu ristabilito nell'università di Padova con un decreto del Senato veneziano del 1568.

La morte del Rettore era cagione di pubblico lutto, e prendevano parte ai funerali tutti i magistrati della città, la curia, i collegi, gli ufficiali dell'università e gli scolari vestiti di nero.

Dopo il Rettore veniva per ordine di grado il Sindaco (Syndacus) che era incaricato di rappresentare in giudizio [151] l'università e far le veci del Rettore vacante. Perciò era chiamato anche Prorector o Vicerector e se ne trovano frequenti esempi nell'università di Padova e di Pisa.

Il Sindaco era eletto ogni anno dagli scolari ed era sottoposto alla giurisdizione comune. Questo grado è assai antico d'origine. In Bologna se ne trova fatta menzione fino dall'anno 1295[179].

Il Sindaco godeva di alcuni privilegi inerenti al suo ufficio.

Aveva in certe università il doppio voto nelle assemblee; e presiedeva nelle funzioni pubbliche i Decurioni della città[180].

In Padova gli fu concesso, oltre questi privilegi, quello di prendere la laurea «more nobilium» cioè senza esame nè spese[181]. Sino a tempi assai recenti il Sindaco di quell'università godeva di molti beneficii. Nel 1723 gli fu accordata facoltà di scegliere uno scolare (socium) da laurearsi senza indugio, e gratuitamente. Il Sindaco che prendeva la laurea, godeva una preferenza sugli altri promossi a questo grado, cioè di essere ammesso a pieni voti (ut nemine dissentiente) anche se avesse meritato di essere approvato soltanto a pluralità (pro majori parte)[182].

Mancando il Sindaco, erano eletti fra i membri dell'università, alcuni sostituti incaricati di rappresentarlo detti «Prosyndici,» ai quali pure, mentre occupavano questo grado, si concedevano diversi privilegi[183].

Ciascuna nazione che faceva parte dell'università, veniva [152] rappresentata dai suoi consiglieri, i quali formavano insieme al Rettore il consiglio accademico. I consiglieri (Consiliarii) prendevano parte al governo dell'università tutelando il decoro e gli interessi della nazione che li aveva eletti.

I consiglieri dei tedeschi godevano di qualche maggiore privilegio sugli altri. La nazione tedesca in Padova era la più favorita, e quei che vi appartenevano erano ammessi a prendere l'iscrizione come scolari presso i loro consiglieri[184]. Non è certo se nelle altre università godessero di ugual preferenza.

In mancanza del Sindaco era chiamato a surrogarlo un Consigliere tedesco.

Generalmente i Consiglieri della nazione tedesca erano rivestiti di una speciale giurisdizione sui loro connazionali, la quale escludeva anche quella del Rettore e dei magistrati ordinarii.

Quando il Consigliere dei tedeschi faceva le veci del Sindaco nell'università, godeva il privilegio di ottenere la laurea senza esame e senza spese cioè «more nobilium[185].» Oltre a questo gli fu concesso ancora di percepire durante l'assenza del Sindaco tutti gli emolumenti e diritti inerenti a quel grado[186].

I Consiglieri erano eletti dagli scolari della propria nazione. In Ferrara con un decreto del 1651 fu ordinato che per essere eletti a tale ufficio i candidati dovessero mostrare le loro matricole, e gli attestati di aver frequentato assiduamente le scuole[187].

[153]

Il Notaro era l'ufficiale rivestito di fede pubblica, incaricato di redigere e compilare tutti gli atti relativi all'università e ai membri che ne facevano parte.

V'era un solo Notaro, comune all'università dei giuristi e degli artisti. Quest'ufficiale era retribuito per ogni atto che redigeva, e godeva di più di un piccolo emolumento annuo.

In certe università gli erano affidate anche altre speciali attribuzioni. Così in Bologna era incaricato di tenere un registro di tutte le case da affittare nella città per comodo degli scolari[188]. Vi erano inoltre alcuni ufficiali incaricati di conservare tutti gli atti concernenti l'università e che potevano avere interesse per la sua storia. Questi Attuarii, o, come oggi direbbesi, Archivisti, conservavano nel tabulario (tabularium) i documenti universitarii per ordine di tempo e d'importanza. Ciascuna delle due università aveva il suo Attuario.

A questi ufficiali era affidato anche il sigillo dello Studio.

La nomina ad un tal grado era personale. Si trova soltanto un esempio in Padova di Attuario che prese per aiuto un suo nipote a patto che mentre viveva gli dovesse prestare l'opera gratuita; e dopo la sua morte avesse diritto di succedergli[189].

Gli Attuarii erano stipendiati dall'università alla quale prestavano il loro ufficio.

Il Massarius o tesoriere era un altro grado onorifico concesso in alcune università agli scolari, in altre ai dottori. Così per gli statuti del collegio di medicina dell'università [154] di Torino, questo ufficiale doveva essere scelto fra i dottori più giovani del collegio[190].

In Ferrara, invece, tal grado era riserbato a quelli scolari che avessero dato prove di maggiore assiduità e diligenza nello studio[191].

In Bologna il Massarius era scelto ogni anno dai negozianti della città[192].

Gli statuti dell'università di Bologna fanno parola di certi ufficiali detti Peziarii dalla voce Petia che significava una forma comune dei manoscritti adoprati nelle scuole.

I Peziarii erano incaricati di esercitare una rigorosa sorveglianza sul commercio librario di quel tempo. Erano eletti ogni anno insieme ai Sindaci dai Rettori e Consiglieri dello Studio. I Peziarii debbono essere, dice lo statuto bolognese, «sex boni viri de gremio nostrae universitatis providi et discreti qui sint clericali ordine insigniti[193].» Avanti di entrare in ufficio erano sottoposti al giuramento e distribuiti in parti uguali fra gli oltramontani e i citramontani.

[155]

Le condizioni per essere investiti di questo grado, erano le seguenti:

a) Appartenere all'università;

b) Essere insigniti d'ordine ecclesiastico;

c) Giurare di prestare fedelmente i proprii servigi all'università.

I Peziarii aveano l'obbligo di provvedere ai manoscritti errati; di sottoporre i copisti e gli Stazionari al giuramento; di denunziare al Rettore tutti i manoscritti scorretti.

Dovevano inoltre registrare in un pubblico catalogo le opere che credevano più utili ad essere studiate, e le meglio corrette.

Tutte le altre non comprese in questa nota, non potevano servire di testo per l'insegnamento pubblico.

Nei tempi di vacanza erano incaricati di esaminare minutamente tutti i manoscritti posseduti dagli Stazionari e riferirne al Rettore, che una volta al mese doveva sorvegliare la loro condotta.

Nelle altre università non si trovano ricordati i Peziarii, nè risulta chiaramente dagli statuti nè dalle memorie che ci rimangono, se vi fossero nemmeno altri ufficiali di diverso nome incaricati di esercitare analoghe attribuzioni. Forse in Bologna, dove gli scolari erano in maggior numero, fu necessario creare un tale ufficio di speciale sorveglianza sugli Stazionari e copisti, perchè i manoscritti che circolavano fra gli studiosi fossero ben corretti e non servissero a propagare errori nelle scuole.

Nelle università meno frequentate invece, essendo assai più limitato il numero dei manoscritti, e quindi più facile al Rettore di esaminarli senza l'aiuto di altre persone a ciò specialmente incaricate, l'ufficio dei Peziarii si sarebbe reso inutile.

[156]

Abbiamo ricordati testè gli Stazionari, senza dichiarare qual fosse il significato di un tal nome nel linguaggio delle antiche nostre università. Vediamo brevemente l'indole di quest'ufficio che avanti l'invenzione della stampa formava il centro di tutto il commercio librario nelle scuole medioevali.

Gli Stazionari (Stationari) erano incaricati dagli statuti universitarii di tenere presso di sè tutti i codici e i manoscritti che dovevano servire di testo per l'insegnamento, e darli in prestito, con un correspettivo fisso, ai dottori e agli scolari che ne facevano domanda[194].

Era imposto agli Stazionari di possedere manoscritti bene ordinati e corretti; di non venderli a nessuna scuola straniera nè eccedere il prezzo stabilito dagli statuti. Dovevano anche prestar giuramento, e dare cauzione che garantisse l'università dell'esatta osservanza dei doveri della loro professione. Gli statuti prescrivevano anche il numero delle opere che doveano tenere presso di sè gli Stazionari. Il catalogo che rimane ancora dell'università di Bologna, contiene centodiciassette di queste opere, ad ognuna delle quali viene assegnato un prezzo in proporzione della importanza e della diffusione che avevano nelle scuole. In generale il prezzo ascendeva a quattro denari per quaderno, o pecia[195].

Il privilegio di dare libri in prestito non era soltanto degli Stazionari.

Talvolta facevano loro concorrenza in questa industria [157] anche i bidelli, come pure i professori, sebbene più raramente[196].

Il commercio dei libri era ristretto fra i soli membri dell'università.

Nessuno poteva comprare libri fuorchè per uso proprio, o per dargli in prestito.

Anche agli scolari era rigorosamente vietato di trasportare i manoscritti fuori dell'università nella quale studiavano[197].

[158]

Gli statuti di Bologna vietavano agli Stazionari di domandare per i manoscritti che imprestavano un prezzo maggiore di quello stabilito nel catalogo, e di acquistare libri all'insaputa del proprietario[198].

Gli Stazionari godevano come tutti gli altri membri delle università i privilegi scolastici, fra cui l'esenzione dal servizio militare, e in qualche Studio anche di un piccolo assegno[199].

Le raccolte dei libri degli Stazionari erano riserbate al solo uso dei dottori e degli scolari e non potevano avervi accesso libero altro che i copisti incaricati di prendere gli esemplari. Lo statuto di Bologna dice che a nessun privato debbano esser dati in prestito i manoscritti, nè aiuto, nè consiglio o favore alcuno; nè possano i copisti o gli Stazionari tener discorso di ciò sotto pena di essere espulsi dall'università. Il ruolo degli espulsi era tenuto dal Notaro ed esposto pubblicamente.

In Bologna gli Stazionari erano obbligati a dare cento lire di cauzione.

Era loro imposto di tenere un registro esatto di tutti i pegni che ricevevano per imprestito di libri. In caso che lo scolare, cui era stato prestato il manoscritto, lo avesse perduto, dovea pagare dieci soldi bolognesi. Se lo scolare però asseriva di averlo restituito, si dovea stare al suo giuramento; se poi era stato consegnato ad altri, era chiamato a provvedervi il Rettore. Quando il manoscritto [159] smarrito di cui lo scolare aveva pagato l'ammenda, fosse stato trovato, gli doveva essere restituita la somma sborsata, detratto però quel tanto che aveva speso del suo lo Stazionario per recuperarlo[200].

Tutti quelli che conservavano i manoscritti dei copisti o degli Stazionari espulsi, erano sottoposti all'ammenda, ed in caso di recidiva essi pure soggiacevano alla espulsione dall'università. Ogni Stazionario doveva tenere perciò nella sua bottega un registro di tutti i copisti, correttori e legatori di libri che erano incorsi in quella pena[201].

Talvolta gli Stazionari prendevano un diverso nome. Così nella Carta dello Studio di Vercelli del 1228 gli ufficiali incaricati di conservare gli esemplari dei testi e di fornirgli ai copisti, sono chiamati (forse con frase più propria), exemplatores[202].

Al servizio interno delle università erano addetti i bidelli (Bidelli) che aveano l'incarico di assistere i professori durante le lezioni, e di vigilare al buon ordine nelle scuole. I bidelli non aveano stipendio fisso; ma erano mantenuti colle collette degli scolari. Ogni università aveva un bidello generale (Bidellus generalis) che era superiore agli altri e dirigeva il servizio.

L'uso introdotto di pagare i bidelli con volontarie oblazioni è spiegata dal Facciolati in questa maniera. In antico i soli dottori ordinarii erano remunerati con pubblico stipendio. Tutti gli altri venivano pagati dagli scolari, [160] e si erano assunti i bidelli l'incarico di riscuotere le loro offerte. Quando in seguito anche i professori straordinari furono ammessi alla partecipazione degli emolumenti concessi dal pubblico erario, i bidelli conservarono l'antica consuetudine e seguitarono a riscuotere per sè quel che prima andava a vantaggio dei professori[203].

I bidelli solevano fare tre collette all'anno.

I loro guadagni erano in proporzione del numero degli scolari, e anche di certe straordinarie attribuzioni che erano loro affidate.

Citeremo vari esempi. In Padova nell'anno 1575 fu permesso al bidello, non ostante lo Statuto, di farsi rilegatore di libri (et hoc stante ejus inopia et parvo numero Scholarium)[204].

Nel 1667 facendo spesso il Consigliere dei tedeschi le veci del Sindaco nell'università, il bidello di quella nazione dovendo prestare questo straordinario servigio fu ammesso a godere di una retribuzione di tre lire venete per ogni laurea[205].

Nell'università di Bologna poi fuvvi un bidello di nome Gallopesso Tarentino, il quale essendo di corpo deforme, ma piacevole per i suoi motti e bizzarrie, seppe così astutamente conciliarsi la simpatia degli scolari, che alla sua morte lasciò duemila lire bolognesi: somma molto rilevante per quei tempi[206].

Generalmente i bidelli erano eletti dall'università; ma per eccezione talvolta era permesso ai professori di nominarne uno di loro fiducia[207].

[161]

I doveri inerenti a questo ufficio, erano i seguenti:

a) Assistenza ai professori durante le lezioni e le dispute, in ogni tempo e in qualunque luogo;

b) Vigilanza pel buon ordine e la nettezza delle scuole;

c) Cura di distribuire i banchi durante le lezioni, assegnando i primi posti ai nobili e ai dignitari dello Studio;

d) Custodia dei libri che all'uscire dalle lezioni lasciavano gli scolari[208];

e) Vigilanza segreta sulla condotta dei professori[209].

Una delle professioni assai lucrose nel medio evo era quella dei copisti. Sebbene in quei tempi il commercio librario fosse quasi esclusivamente ristretto nelle scuole, nondimeno la necessità di fornire agli studiosi un numero rilevante di testi, e far circolare le lezioni dei professori, impiegava l'opera di molte persone. Le università ammettevano fra i membri della corporazione anche i copisti concedendo loro parte dei privilegi goduti dagli altri. Il loro numero era proporzionato a quello degli scolari che frequentavano lo Studio e alle speranze di guadagno che offriva quell'arte. La quale non era così semplice come oggidì; ma richiedeva uomini valenti e bene esercitati, poichè allora il possedere un bel libro e a caro prezzo era fra i dotti e i potenti un ambito onore.

I copisti dicevansi scribae e molti di essi, erano anche [162] esperti miniatori. Talvolta un copista veniva destinato ad un solo genere di lavori nell'arte sua. In Padova si ha memoria di un tale che era addetto soltanto a copiare i diplomi di laurea, e ornarli di miniature. E per assicurargli una conveniente retribuzione, l'università stabilì un prezzo fisso per ogni lavoro che gli veniva affidato[210].

Si conoscevano nel medio evo diversi generi di scrittura. Vi era la scrittura parigina (litera parisina), la bolognese (bononiensis), la beneventana (beneventana), l'inglese (anglicana), la lombarda (lombarda) e l'aretina (aretina). La scrittura distinguevasi anche in vecchia e nuova (litera nova et antiqua). I libri copiati con caratteri moderni erano di maggior valore.

Gli statuti, per evitare una dannosa concorrenza fra i copisti, proibivano agli scolari di somministrare lavoro ad un copista che avesse contratto un impegno precedente. Si faceva però eccezione per il caso che il lavoro intrapreso non occupasse un termine superiore a dieci giorni.

La dimensione di ogni manoscritto era determinata con due voci distinte, cioè Quaternus e Pecia o Petia.

Il quaderno era ordinariamente composto di sedici pagine, ma poteva variare secondo la grandezza della carta e del carattere.

La pecia era la misura che serviva a valutare il prezzo del manoscritto. Questa pecia era composta di sedici colonne, ognuna delle quali doveva contenere sessantadue linee, e ciascuna linea trentadue lettere.

Nel catalogo degli Stazionari dell'università di Bologna il nolo di ciascuna pecia non supera i diciotto soldi. [163] Troviamo, per esempio, tassato a diciotto soldi l'Apparato delle Decretali, il Digesto antico, i Decreti; diciassette soldi il testo del Codice e l'Inforziato, e l'Apparatus Dig. veteris; quindici l'Apparatus Inforziati. Dopo i libri di testo, diminuiva il prezzo del nolo fino a quattro denari. Fra le opere che godevano maggior credito e diffusione, troviamo ricordate: le Somme di Azone (soldi quindici); il libellus Rofredi in Jure civili (soldi quattordici); le letture di Odofredo (soldi dieci)[211].

L'arte di copiare era esercitata anche dalle donne. Nell'università di Bologna fra i copisti e miniatori si trovano ricordati molti toscani specialmente aretini, i quali avevano acquistato molta rinomanza nel colorire i libri e miniarli con fregi d'oro.

Ben presto divenne così generale e frequente l'uso di ornare i libri, che in certe scuole dovendo i professori trasportare i loro volumi avevano bisogno di un servo.

Odofredo parlando dei copisti del suo tempo dice che potevano esser chiamati veri pittori[212]. E lo stesso scrittore parla anche di un tale dei suoi tempi che mandato da suo padre a studiare a Parigi coll'assegno di cento lire, le spendeva tutte pazzamente per fare ornare e dipingere i suoi libri e nel comprarsi ciascun sabato una nuova calzatura[213].

[164]

Essendo i libri rari e costosi erano tenuti nelle disposizioni testamentarie fra gli oggetti di maggior valore, specialmente se erano quelli appartenuti a qualche dottore famoso e sui quali aveva fatte le sue lezioni.

Nel testamento del giureconsulto Francesco Accursio fra le altre disposizioni si trova la seguente: «Lascia a Francesco figliuolo di Dota sua figliuola e moglie di M. Diotalco da Lojano i suoi libri di leggi, la somma di Azone e il libello di Rofredo, intendendo però i libri di legge che erano a suo uso speciale, e eccettuando il Codice e Digesto paterno sopra i quali ordinariamente leggeva esso testatore, non volendo però che gli abbia se non quando comincerà a udire nelle scuole; nel qual caso gli lascia ancora lire quaranta per sette anni continui, per la spesa delle scuole, e in caso che detto Francesco sia licenziato in legge e riceva i libri, gli lascia i vestimenti nuovi di scarlatto con li varrj e lire quaranta per il banchetto[214]

[165]

CAPITOLO TERZO

Privilegi universitarii — L'Autentica di Federigo I fondamento dei privilegi scolastici — Immunità concesse alla nazione tedesca — Giurisdizione civile e criminale concessa ai dottori sugli scolari — Privilegio della cittadinanza — Esenzione dal servizio militare — Esenzione dalle imposte e gabelle — Inviolabilità personale e degli averi — Banche di prestito per gli scolari — Abitazioni riserbate agli scolari — Altri privilegi secondarii.

Coll'Autentica Habita promulgata da Federico I nella Dieta di Roncaglia nell'anno 1158, ebbero origine i privilegi scolastici delle persone che facevano parte delle università.

Prima di questa concessione imperiale le università non erano legalmente riconosciute, nè godevano di alcuna personalità civile.

La legislazione scolastica del medio evo si informò a questa autentica e gli statuti universitarii vi attinsero i loro principii e le fondamentali disposizioni.

Però è da avvertire che Federico sanzionando quella sua costituzione, intese di favorire l'università bolognese e specialmente la classe dei giureconsulti, i quali avevano dato un responso favorevole alle sue ambiziose aspirazioni di dominio universale.

I dottori bolognesi applicando soltanto a sè la concessione di quelle franchigie, vedevano di mal'occhio che le altre università, che cominciavano allora a propagarsi in Italia, ne partecipassero. Nel secolo XII fu sollevata la questione dai giureconsulti di Bologna in occasione che [166] Pillio loro compagno, ad onta del giuramento prestato si recò ad insegnare nello Studio di Modena. Di questa divergenza si trova fatta menzione nei Commentari di Odofredo, il quale parlando di quelli che secondo l'autentica doveano essere esclusi dall'uffizio di tutori, apertamente dichiara che a parer suo non vi dovessero esser compresi altro che i professori bolognesi[215]. Il libero esercizio di questi privilegi passò in seguito anche agli artisti i quali emancipatisi dalla dipendenza dell'università delle leggi, poterono compilare i propri statuti e creare magistrati di loro scelta.

Il godimento di questi privilegi non era però comune a tutte le persone che facevano parte dell'università: ve ne erano alcune che a rigore dell'autentica imperiale, testè ricordata, non erano ammessi a risentirne ugualmente i vantaggi. I forestieri (advenae forenses)[216] erano soltanto i privilegiati, e ragionevolmente, perchè dovendo essi abitare in una città, che non era la loro patria, per tutto il tempo necessario a compire gli studii, sarebbero stati esposti alle ingiurie e alle vendette dei cittadini se una legge speciale non li avesse protetti.

Lo statuto dell'università di Bologna specifica quali erano le persone ammesse al godimento dei privilegi universitarii secondo l'ordine del loro grado, cioè:

I matricolati — così chiamavansi tutti coloro che erano iscritti nella matricola universitaria.

I dottori che avevano prestato giuramento.

I notari, i bidelli generali e speciali, i famigli dei dottori giurati e degli scolari, i miniatori, i copisti, i legatori [167] di libri, i venditori di carta e in generale tutti coloro addetti al servizio dell'università e delle persone che ne facevano parte. Oltre ai già citati, godevano di tutti i privilegi gli scolari poveri che vivevano a spese altrui, e i ripetitori.

Ecco la rubrica dello Statuto bolognese:

Qui gaudere debeant privilegio
universitatis nostrae

(Lib. III, pag. 64).

Statuimus q. privilegiis nostrae universitatis gaudeant seu gaudere debeant matriculati, matriculatos autem inteligi volumus illos qui in matricula fuerint descripti secundum formam traditam in titulo de massariis. Item doctores duntaxat qui iuraverit Rectoribus secundum formam statutorum loquentium de juramento doctorum nec non notar, et bidelli generales ac etiam speciales et famuli scolarium et doctorum iuratorum. § Item miniatores, scriptores, ligatores librorum cartularii et omnes illi qui deputati fuerint quoquomodo ad servitia universitatis et singulorum de universitate. § Quod intelligimus si corporale subierint sacramentum secundum formam nostrorum praesentium statutorum.

§ Volumus etiam omnes scolares viventes sumptibus alienis in studio bononiensi ut sunt socii doctorum bonon. et scolarium bonon. repetitores et similes, gaudere debere omnibus privilegiis nostrae universitatis.

················

Per godere dei privilegi universitarii era necessario essere scolari, cioè iscritti regolarmente nelle matricole, e pagare una tassa annua prestando giuramento di obbedienza al Rettore ed agli statuti. Gli scolari del luogo dove risiedeva l'università non erano compresi nei registri perchè i diritti della cittadinanza accademica erano riserbati esclusivamente agli stranieri come testè abbiamo detto.

[168]

È assai malagevole perciò il desumere dai documenti, dal tempo e dagli scrittori, la cifra esatta degli scolari che frequentavano le università italiane nei tempi di mezzo.

Fra le nazioni comprese nelle università, era sopra di tutte privilegiata quella degli scolari tedeschi e ciò forse in omaggio all'autorità imperiale.

A differenza degli altri studenti, i tedeschi potevano prestare giuramento ai loro Procuratori e non al Rettore come prescrivevano gli statuti.

In Bologna la nazione tedesca aveva la facoltà esclusiva di eleggere il Rettore degli oltramontani.

In Padova dove i tedeschi erano in maggior numero, i privilegi erano anche più estesi. Gli scolari di quella nazione potevano iscriversi presso i loro consiglieri, ed uno di questi era chiamato a sostituire il sindaco dell'università quando era vacante quell'ufficio. Inoltre questi consiglieri disponevano di voto doppio nelle assemblee[217]. Nel 1609 nella stessa università i consiglieri tedeschi ottennero il privilegio di allontanarsi senza andar soggetti alla multa come quelli delle altre nazioni.

Allo scopo di proteggere gli scolari tedeschi, nel 1633 furono nominati due protettori, i quali, sebbene nati nella città, furono nondimeno investiti di tutti i privilegi come fossero stati stranieri[218].

[169]

Il numero esatto dei privilegi concessi ai membri che facevano parte delle università nel medio evo non può essere con certezza determinato.

In quei tempi di viva emulazione, tutte le città d'Italia allora costituite a repubblica, gareggiavano fra loro per fondare le università le quali non solo davano incremento alla scienza, ma accrescevano ancora la prosperità materiale e la diffusione della ricchezza pubblica.

Il sorgere di una università portava seco molte sorgenti di entrata e quanto più numerosi erano gli accorrenti, tanto maggiori erano i vantaggi e più lauti i guadagni. Tutte le città nei Decreti di fondazione dei loro Studi dichiaravano di conferire i privilegi e le immunità, nelle quali largheggiavano sempre per attirare a sè una gran moltitudine di dottori e di scolari.

Troppo lungo sarebbe lo andare enumerando tutti i singoli privilegi e le speciali franchigie che ognuna delle nostre antiche università nell'atto della sua costituzione e in seguito ancora, andava concedendo a favore di quelli che vi accorrevano per ragione di studio.

Chi volesse maggiori particolari, e più diffuse notizie su questo argomento, può rivolgersi ai numerosi storici [170] e cronisti che ne fanno parola; da cui noi ci siamo dati cura di riassumere i principali privilegi; e quelli sopratutto che abbiamo riscontrato essere stati comuni a tutte le università, e per antica consuetudine riconosciuti e sanzionati in tutti i loro statuti.

Il privilegio che può dirsi fondamentale nella costituzione organica delle università, e dal quale dipendeva in gran parte la loro autonomia, era la speciale giurisdizione affidata per l'autentica imperiale ai magistrati del corpo scolastico. Con questa concessione si riconosceva nella legale rappresentanza accademica del Rettore e dei professori la facoltà illimitata di poter decidere tanto nelle controversie civili, come giudicare nei delitti che per avventura fossero stati commessi dai membri che facevano parte dell'università, sì nel recinto delle scuole, come pure al di fuori.

La giurisdizione civile si mantenne per lungo tempo inalterata e non incontrò ostacoli nel suo esercizio: non così la criminale.

Verso la fine del secolo XII si trova ricordato nelle storie che essendosi abbandonati gli scolari ad atti di violenza, i professori che erano stati fino a quel tempo i loro giudici ordinari, si dichiararono incapaci di frenarne gli abusi, e abbandonarono l'esercizio del magistero penale. Nella metà del secolo decimoterzo i dottori ripresero l'uso della giurisdizione criminale; ma la loro autorità in questa materia non fu giammai pienamente riconosciuta; nè essi medesimi, a quel che sembra, si curavano di farla rispettare.

La ragione di questa ripugnanza ad esercitare l'ufficio di giudice criminale non è difficile a rintracciarsi. Dovendo i professori esercitare presso i loro scolari un prestigio e un'autorità tutta morale, non potevano senza [171] offesa al loro decoro assumere un potere che se non è sostenuto dalla forza, difficilmente si rispetta. Inoltre, essendo essi legati per vincoli di affetto agli scolari, facilmente dovevano essere inclinati nell'atto di giudicare più alla pietà che al giusto rigore, e ciò a grave danno della loro autorità e dell'efficacia della pena.

Il giureconsulto Odofredo, in un passo dei suoi Commenti al Digesto fa intravedere quali scarsi frutti recasse l'esercizio della giurisdizione criminale ai suoi tempi, ripristinato nell'università di Bologna e affidato ai professori[219].

Nelle storie si riscontrano esempi frequenti di inobbedienza ai professori; e più spesso ancora atti di spontanea rinunzia di questi a favore di magistrati ordinari della propria giurisdizione, e ciò specialmente nei delitti di maggiore gravità commessi dagli scolari.

Così avvenne in Bologna nel 1321 quando fu condannato uno scolaro catalano per aver rapito una fanciulla[220].

Nei casi più lievi non poteva il colpevole esser sottratto alla sua naturale giurisdizione e si concedeva ai pubblici ufficiali d'ingerirsi soltanto dei delitti di competenza del fôro scolastico, quando fosse decorso un termine stabilito dagli statuti. In Padova, per esempio, era disposto per legge fino dal 1262, che nelle risse avvenute fra scolari, il Podestà non avesse facoltà d'ingerirsene, se non nel caso che passati due giorni, non fossero state composte dal Rettore o dai dottori[221].

[172]

La giurisdizione scolastica dai professori passò in seguito al solo Rettore, al quale, come capo supremo dell'università, fu conferita l'autorità di giudicare. Questa giurisdizione della quale venne rivestito il Rettore, si estendeva sopra tutte le persone che formavano parte della corporazione, eccetto che sugli scolari tedeschi, che quasi universalmente godevano del privilegio di essere giudicati dai consiglieri della loro nazione.

I conflitti fra la giurisdizione scolastica e quella dei magistrati ordinari del luogo dove risiedeva l'università, erano assai frequenti. In Bologna, racconta il Ghirardacci, che il papa provvide ai contrasti che nascevano fra il comune e l'università nell'applicazione degli statuti, elevando quelli universitari a legge comune[222].

Anche i Rettori nell'esercizio della giurisdizione criminale incontrarono gravi ostacoli. Finchè eran chiamati a giudicare dei delitti minori e conseguentemente ad applicare pene miti, la loro autorità non si trovava compromessa; ma quando dovevano esporsi a pronunziare gravi pene contro persone addette all'università, non potevano giudicare colla stessa imparzialità dei magistrati ordinarii, ai quali lasciarono infine, come già nei secoli precedenti aveano fatto i dottori, l'esercizio dell'alta giurisdizione criminale.

Le pene ordinariamente applicate dai Rettore erano: l'ammenda e l'espulsione dall'università detta privatio. L'ammenda era in denaro e variava secondo la gravità del fallo commesso.

L'espulsione o privatio toglieva al condannato tutti i privilegi di cui era stato investito come membro del corpo universitario, nonchè la facoltà di frequentare le [173] scuole, d'insegnare e di ottenere gradi accademici. Se l'espulso era un ufficiale inferiore dello Studio, come un prestatore di libri o un copista, nessuno poteva più contrattare con lui sotto minaccia d'incorrere nella stessa pena.

Il modo con cui veniva esercitata la giurisdizione scolastica, variava a seconda delle università. Accenneremo le principali differenze.

In Bologna, nel secolo XIV, troviamo un tribunale misto di autorità scolastiche e cittadine per risolvere le controversie che si agitavano fra un membro dell'università e un estraneo. Quando però la questione verteva fra persone addette al corpo scolastico, doveva esser giudicata e risoluta dal solo Rettore[223].

La giurisdizione criminale del Rettore anche nell'università di Padova era limitata ai casi più lievi; come alla violazione degli statuti e dei regolamenti, e ai casi d'ingiurie fra gli scolari. Le pene minacciate in Bologna erano l'ammenda e l'espulsione dall'università.

I delitti rientravano nella giurisdizione dei magistrati municipali. I tedeschi soltanto godevano del privilegio di essere giudicati dai loro consiglieri anche quando il loro avversario era straniero all'università. Il Rettore degli artisti pare, per il disposto degli statuti, che avesse giurisdizione più estesa di quello dei giuristi, eccetto che sui delitti che erano seguiti da morte o da lesione grave. Il Savigny però è di opinione che questa disposizione sia errata[224].

Quanto alla giurisdizione civile il Rettore poteva giudicare in cause vertenti fra i membri dell'università. Gli [174] scolari nati nella città erano sottoposti ai loro magistrati ordinari. Poteva però il Rettore esercitare la sua giurisdizione quando una delle parti fosse stata straniera.

L'appello era subordinato al merito della causa. Per gli affari eccedenti un ducato, era permessa l'istanza della parte soccombente ai consiglieri dell'università. In seguito, quando il valore della causa avesse ecceduto le dieci lire, fu ammesso anche l'appello al podestà.

Nelle altre università la giurisdizione scolastica era più o meno estesa.

A Vercelli il Rettore esercitava soltanto la giurisdizione civile: la criminale era riservata totalmente ai magistrati della città[225].

A Roma gli scolari stranieri potevano scegliere per loro giudice o i professori o il cardinal vicario o il Rettore dell'università[226].

A Napoli era distinta la giurisdizione criminale dalla civile. La prima era riserbata soltanto ad un magistrato nominato dal re detto Giustiziere (Justitiarius). Le cause civili erano sottoposte invece o al giustiziere, o al professore, o all'arcivescovo a scelta delle parti[227].

Nell'università di Torino la giurisdizione criminale era esercitata dai magistrati municipali; ma i Rettori solevano prender parte al giudizio.

Tolte adunque differenze poco sostanziali e attinenti più che alla natura del privilegio, al modo col quale veniva esercitato nelle varie università, possiamo concludere che la giurisdizione privilegiata delle corporazioni scolastiche nel medio evo fu sempre riconosciuta e rispettata. [175] E anche quando i principi ebbero quasi esclusiva ingerenza e assoluto dominio nelle funzioni scolastiche, vollero che i membri delle università avessero per loro natural giudice il Rettore, al quale doveano esser deferite tutte le cause ad essi relative[228].

Un altro privilegio non meno esteso, era quello della cittadinanza che si conferiva alle persone che facevan parte dell'università, e sopra tutto ai dottori e agli scolari. Questa concessione ammetteva i membri della corporazione scolastica al godimento e alla partecipazione di tutti i diritti propri dei cittadini, escludendoli dagli oneri. In tutti gli statuti delle università s'incontra una rubrica speciale nella quale si fa parola di questo privilegio e delle condizioni alle quali n'era subordinato l'esercizio.

A Bologna gli scolari eran chiamati figli del popolo e posti sotto la comune protezione[229].

Il privilegio generalmente era limitato al tempo pel quale i dottori o gli scolari dimoravano nella città per ragione di studio.

Oltre le persone, erano favorite dal privilegio anche le cose e gli averi degli scolari che si ritenevano come appartenenti alla città[230].

[176]

Per essere ammessi alla cittadinanza in Bologna era necessario aver frequentate le università per il corso di dieci anni[231]. Nel 1386 essendo rimaste quasi deserte le scuole, il comune bolognese per attirarvi concorrenti promise di estendere il privilegio della cittadinanza a tutti i discendenti dei professori[232].

Fra le immunità solite a concedersi ai dottori e agli scolari si trova ricordata anche l'esenzione dal servizio militare.

Questo privilegio risale a tempi remoti. Nel 1264 già si trova negli statuti dell'università di Ferrara la rubrica: «De his qui non tenentur ire in exercitum» la quale dichiara esclusi dal servizio militare tutti i dottori di giurisprudenza di medicina e di arti[233].

Nel 1297 veniva in Bologna riconosciuto un tale privilegio non solo ai dottori ordinari legisti ma anche agli straordinari, come pure ai medici i quali anche recandosi alla guerra, erano tenuti soltanto a portare seco gli strumenti propri della loro professione[234].

Per agevolare il concorso degli studiosi nelle università era concessa anche l'esenzione dalle imposte e gabelle.

Tutti gli statuti riconoscono questo privilegio e lo sanzionano in apposita rubrica[235]. Per facilitare il trasporto dei loro averi si permetteva agli scolari e alle altre persone [177] ammesse al godimento delle franchigie e immunità, d'introdurre in città senza molestia alcuna di dazi nè di altre gravezze pubbliche, libri, masserizie, vesti od altro, tanto per uso proprio come delle loro famiglie[236].

In Padova si trova esteso questo privilegio anche ai generi alimentari (1474).

Nel secolo successivo (1551) fu accordata anche l'esenzione del vino: il quale avvenimento, narrano gli storici, fu celebrato dagli scolari con magnifiche feste in onore di Bacco[237].

Ma provvedendosi, come avverte il Facciolati, i dottori e gli scolari dei generi di prima necessità dai negozianti di Padova, siffatto privilegio riusciva illusorio; talchè ne furono fatte molte rimostranze al Comune. Il quale pensò allora di accordare alle persone che facevano parte dell'università la facoltà di alienare il diritto o per danaro, o di cederlo in cambio di prodotti alimentarii.[238].

Il privilegio d'esenzione dai pubblici dazi talvolta, in omaggio alla memoria di qualche insigne dottore, fu esteso anche ai suoi discendenti. Così avvenne nel 1322 in Bologna che, secondo l'Alidosi, in memoria di Accursio e figliuoli dottori famosissimi, concesse alla detta famiglia ogni esenzione dalle gabelle[239].

Anche nei tempi di carestia si aveva uno speciale riguardo [178] alle persone che dimoravano nella città per ragione di studio e alle loro famiglie, e il Comune non di rado si obbligava di fornire i generi alimentari agli scolari e ai dottori pel prezzo stesso di acquisto.

Le persone che facevano parte delle università erano considerate per diritto comune inviolabili insieme colle loro famiglie ed averi, ed avevano diritto di chiedere pronta riparazione ai magistrati per ogni offesa che avessero ricevuto, come pure di domandare l'ammenda del danno sofferto. Questo privilegio di inviolabilità si trova sanzionato in gran parte degli statuti universitarii; ed era favorevolmente accolto anche dall'opinione pubblica. Già vedemmo come in Bologna gli scolari fossero chiamati figli del popolo; il che dimostra quanto essi godessero la simpatia e l'affetto della cittadinanza. E nella dotta Bologna nel secolo decimoterzo, secondo quel che narra lo storico Ghirardacci, fu fatta una legge a favore degli scolari la quale disponeva: «che nessuno havesse ardire di chiamare infame colui, che desse opera alle leggi Civili od altra scienza, insegnando altrui o imparando: sotto pena di esilio da non rimettersi se non ad arbitrio dell'infamato, et vollero che questa legge havesse forza in perpetuo[240]

Carcerati una volta certi scolari per tumulti commessi, furono poi liberati senza alcuna pena volendo il Consiglio compiacere alle istanze dello Studio «da che si vede (dice il Ghirardacci già ricordato) quanto era stimato lo Studio e quale riverenza e amore altri portavano a scholari.»

Negli statuti di Bologna del 1289 si trovano alcune rubriche nelle quali si proclama la immunità degli scolari [179] e si accorda loro la più estesa protezione. In questi statuti si provvede specialmente agli scolari che aveano patito un furto: si aggravano le pene agli offensori delle persone addette all'università, e si promettono premii a quelli che facciano scoprire i feritori degli scolari[241]. Quando gli stranieri residenti in Bologna per ragione di studio fossero stati derubati o fatti segno a violenza per parte di qualche cittadino che non avesse potuto indennizzarli del danno sofferto, il Comune offriva di propria l'ammenda dovuta[242].

Anche la Repubblica fiorentina concedeva questa ammenda agli scolari che fossero stati danneggiati nell'avere o nella persona da qualche cittadino incapace di soddisfarli[243].

Ogni offesa recata a qualche persona appartenente all'università, era tenuta come uno sfregio fatto alla dignità del corpo, ed era incaricato il Rettore e gli altri magistrati di dimandarne pronta riparazione.

Nel 1580 essendo stati feriti in Padova alcuni scolari, l'università decretò che, tutti i consiglieri rappresentanti le diverse nazioni insieme al Rettore, si recassero dal prefetto della città, e tutti gli scolari dovessero chieder giustizia al Senato di Venezia da cui dipendeva lo Studio, per il patito insulto[244]. Altri esempi di questa natura si potrebbero citare a prova del sentimento di solidarietà che animava le persone che appartenevano alla corporazione scolastica.

Perfino per i debiti che contraevano gli scolari, si [180] aveva speciale riguardo alla loro condizione; e in molte università fra i patti favorevoli che si proponevano a quelli che si fossero iscritti nelle matricole, v'era pur quello di accordare loro protezione ed appoggio contro le ricerche dei creditori. Negli statuti di Padova si trova introdotta a quest'uopo una forma singolare di prescrizione per la quale scorsi otto giorni dalle pubbliche grida ogni scolare non poteva esser più molestato per debiti, nè perseguitato giudicialmente dai creditori. Simile protezione fu accordata anche in Ferrara nel 1504 dal duca Ercole agli scolari di quella università. L'editto così dispone: «Da hora inanzi se intenda avere pieno, libero, et sicuro salvaconducto, che per niuno debito non possa essere per alcun modo gravato nè molestato in lo avere o in persona, ma possa ciascuno, che venisse al prefato studio in dicta Città di Ferrara, per studiare in alcuna facultade, stare et inhabitare in la dicta Città de Ferrara e per tutto el Territorio de lo Stato nostro, et de quella partirse, cum tutte sue robbe, libri, panni, et beni liberamente senza alcuno impedimento reale o personale[245]

Un altro benefizio concesso esclusivamente ai dottori e agli scolari dagli statuti, e che può dirsi compreso nel privilegio dell'inviolabilità personale, di cui abbiamo fin'ora parlato, è quello che riguarda l'esenzione dal diritto di rappresaglia; forma di vendetta indiretta molto comune nei costumi del medio evo. Per riparare l'onta di una offesa ricevuta, s'invocava questo barbaro diritto sacrificando in luogo del vero offensore un innocente qualsiasi purchè a lui appartenesse per vincoli di parentela o di affetto. La rappresaglia non era soltanto esercitata nei [181] rapporti fra privato e privato per sfogare vendette e rancori personali, ma era accolta ancora nel diritto pubblico del tempo come un mezzo legittimo di guerreggiare[246].

È perciò che l'autentica di Federigo I considerato a quali pericoli sarebbero andati esposti gli scolari se non fossero stati protetti da una legge speciale, e posti in condizione privilegiata, stabilì che tutti quelli che per ragione di studio si recavano in paese straniero, non potessero essere perseguitati; prescrizione che fu dovunque osservata, e consacrata nelle consuetudini e tradizioni scolastiche[247].

Un uso comune nei luoghi dove risiedevano le università, era quello dei prestiti fatti agli scolari i quali trovavano il modo di provvedersi con un pegno e col benefizio di un tenue frutto, del danaro di cui avevano bisogno. In alcune città si trovano stabilite vere banche di prestiti a cura del Comune, e sotto l'osservanza di leggi speciali.[248]

[182]

Nella celebre Carta di Vercelli, il Comune si obbligò a dare in prestito agli scolari diecimila lire di Pavia per due anni col frutto di due danari per lira, e per i sei anni seguenti col censo di tre danari per lira. Questa somma dovea trasportarsi in qualche luogo sicuro come a Venezia, e con essa somministrare il bisognevole agli scolari ricevendo in cambio e in garanzia del prestito, i pegni. Per maggiore liberalità il Comune vercellese si obbligava ancora, quando gli scolari avessero mantenuto la promessa di venire a frequentare il suo Studio e avessero preso stanza nelle abitazioni ad essi destinate, di restituire i pegni, salvo che gli scolari offrissero una mallevadoria, o per giuramento promettessero di non abbandonare la città senza restituire il danaro. In Padova si era fondato pure un banco pubblico di prestiti con pegno, col frutto di sei danari per lira. La stima del pegno si faceva di arbitrio, di uno scolare e di un cittadino, il primo eletto dai Rettori, l'altro dal Podestà.

Era un'abitudine molto comune anche fra i professori di dare in prestito agli scolari con usura, e molti, come vedremo a suo luogo, somministravano danari per vincolare i debitori a frequentare le loro lezioni. I papi censuravano severamente questi illeciti guadagni e non assolvevano i dottori macchiati di questa colpa, se non a patto che restituissero il mal tolto o lo erogassero in opere di pietà[249].

[183]

In certe università, sull'esempio di Bologna, venivano scelti ogni anno alcuni mercanti che aveano la facoltà di prestare, dietro pegno, agli scolari. Questi prestatori doveano però giurare fedeltà ed obbedienza ai Rettori come addetti al corpo scolastico. Il pegno più comune consisteva nei libri, i quali essendo rari e costosi trovavano facilmente chi ne faceva acquisto.

Per attestato di benevolenza si concedeva agli scolari il riscatto dei loro pegni purchè prestassero mallevadoria come in Vercelli ed in Napoli[250] e anche senza garanzia nessuna e per atto di sola liberalità come promise il Comune di Siena nel 1321 a tutti coloro che fossero andati ad iscriversi nella sua università, destinando per tale riscatto la somma di seimila fiorini e promettendo inoltre di supplire alle spese del viaggio ed al trasporto dei loro bagagli.

Fra i patti che si stipulavano all'epoca della fondazione di una università fra gli scolari e il Comune, v'era pur quello col quale si obbligava la città di provvedere agli scolari abitazioni comode e a buon mercato. Nella Carta Vercellese, i Procuratori del Comune si obbligarono di destinare ad uso degli scolari cinquecento comode abitazioni delle migliori della città; la cui pigione era fissata a diciannove lire di Pavia e doveva stabilirsi di consenso da due scolari e da due cittadini, e in caso di discordia dal vescovo o suo vicario. In questi patti conclusi cogli scolari vennero però eccettuate le case che dovevano servire di abitazione ai forestieri in tempo di pubblico mercato.

Quando i dottori o gli scolari volevano licenziare la casa, dovevano rivolgersi al Podestà.

[184]

Così pure in Padova gli alloggi degli scolari erano destinati dal Comune a prezzo fisso e determinato.

A Napoli il prezzo delle case degli scolari era stabilito da una Commissione e non poteva superare la moneta di due once d'oro (pro quarum unciarum auri)[251].

In Bologna venivano ogni anno eletti quattro ufficiali destinati a fissare il valore delle pigioni, che erano detti tassatori e si sceglievano due fra i cittadini e due fra gli scolari. I locatori che dopo stabilito il prezzo con questi tassatori avessero violato i patti, erano sottoposti ad una ammenda. Lo statuto bolognese accordava pure agli scolari il diritto di rimanere per tre anni nella medesima casa. Quei proprietari che si fossero rifiutati di sottoporli alla tassa convenuta, non potevano più affittare i loro quartieri agli scolari. Il Notaro dell'università era incaricato di tenere presso di sè per comodo degli scolari un registro di tutti i quartieri da affittarsi.

Si trova anche stabilito dagli statuti che le case abitate da persone addette all'università non potessero essere atterrate dal Comune per tradimento o malefizio, com'era allora in uso, nè invase giammai dagli esecutori di giustizia per qualunque ragione.

Un altro privilegio concesso agli scolari del medio evo era quello di portare le armi a difesa della persona; ma a cagione dei gravi inconvenienti, cui dava luogo questa concessione, subì molte limitazioni e spesso venne anche per motivi di ordine pubblico, revocata. Questo privilegio in molti luoghi non si perdeva neppure coll'acquisto della cittadinanza, per la massima così frequentemente ammessa a favore degli scolari dagli statuti di quel tempo, [185] che cioè dovessero in tutto pareggiarsi ai cittadini senza risentirne le gravezze e gli oneri[252].

Negli statuti dell'università di Torino si trovano accordate agli scolari e alle altre persone che facevano parte dell'università alcuni privilegi molto singolari. Tutte le compagnie dei comici e ballerini che si recavano in quella città, erano obbligati a dare a ciascun sindaco otto biglietti per l'ingresso al teatro. Tutti i saltimbanchi e cerretani dovevano dare ad ogni sindaco ed ai bidelli otto vasi dei loro specifici; tutti i liquoristi un'ampolla di acquavite o una libbra di confetti; i fondachieri una libbra di confetti e i pasticcieri focaccia a ciascun sindaco nella vigilia dell'Epifania. Ognuno che avesse preso in appalto la gabella del tabacco era tenuto a regalarne un rublo e mezzo a ciascun sindaco, di cui due libbre spettavano al segretario ed una a ciascuno dei bidelli.

Gli ebrei erano obbligati a pagare per la prima neve venticinque scudi d'oro, dei quali una parte spendevasi dai legisti per celebrare la festa di santa Caterina, l'altra dagli artisti per la festa di San Francesco.

Inoltre i fondachieri della città di Torino dovevano regalare annualmente agli studenti cinquanta risme di carta ed i librai dodici. Questa carta si distribuiva fra i sindaci, i consiglieri, gli studenti, il segretario ed i bidelli[253].

Da tutto quanto abbiamo esposto intorno ai privilegi che gli statuti concedevano alle persone addette alle [186] università, è rimasto a sufficienza dimostrato che nel medio evo, vogliasi per spirito di emulazione o per amore alla scienza, gli studiosi ottennero così estesi privilegi ed immunità, e furono accolti con tanto favore e rispetto dovunque si recassero, che formarono un ceto separato ed ebbero perciò usi e costumi dissimili affatto dalle classi della società di quel tempo.

Gli statuti che largheggiavano tanto nelle concessioni a favore specialmente degli scolari, non prevedevano a quali disordini si andava incontro eccitando con franchigie ed immunità una gioventù già per indole sua baldanzosa e turbolenta; e infondendo negli animi la persuasione che bastasse essere iscritto fra gli scolari per abbandonarsi ad una vita licenziosa e commettere senza timore delle leggi qualunque sopruso e violenza. Di ciò parleremo più diffusamente quando entreremo a svolgere l'argomento della vita scolastica nelle nostre antiche università: ora intanto basti avvertire che insieme ai molti ed incontrastabili vantaggi della concessione di questi privilegi, vi erano pure inconvenienti assai gravi che le leggi del tempo non seppero o non vollero riparare.

Il che si spiega esaminando il carattere della vita pubblica del medio evo, e le speciali condizioni della scienza. Le università, lo abbiamo già osservato, erano nella loro originaria costituzione corporazioni per nulla dissimili tanto nella forma che nelle leggi colle quali si reggevano, alle molte altre associazioni di cui era composta la società di quel tempo. Come corporazioni, adunque, non potevano le università costituirsi se non in forza di privilegi, come le numerose arti cui era affidato lo sviluppo delle industrie e del commercio. Aggiungasi inoltre che la gara stimolava tutte le nostre città comprese anche le più umili ed oscure a fondare uno Studio, e ciò non [187] poteva ottenersi se non lusingando con promesse di larghe concessioni gli scolari e i dottori delle altre università.

Così il numero e l'importanza dei privilegi scolastici si venne sempre accrescendo, e tutti gli statuti si occuparono specialmente di questa parte della disciplina accademica. Noi abbiamo cercato, come dicemmo in principio entrando in questo argomento, di dare un concetto abbastanza esatto della natura di questi privilegi, accennando i più importanti e quelli specialmente che abbiamo riscontrato essere stati comuni a tutte le università. Di altre minori concessioni accennate dagli statuti e dagli scrittori, non vogliamo parlare per amore di brevità, sembrandoci che non sia necessario per avere una giusta cognizione dell'argomento di perderci in indagini minuziose e non di molto rilievo, alle quali si può supplire dal lettore, ricorrendo, quando gli piaccia, alle fonti originali che accennammo nel corso di questo capitolo.

CAPITOLO QUARTO

Origine dei gradi accademici — Antichità della parola dottore e dell'uso della laurea — Qualità richieste per ottenere il grado di dottore — Gradi accademici minori — Il baccellierato — La licenza — Esperimenti che precedevano il conferimento della laurea — Solennità colla quale si festeggiava il giorno della laurea — Spese per ottenere il grado di dottore — Diverse specie di lauree — Privilegi e diritti propri del grado di dottore.

Appena le università divennero corpi privilegiati e indipendenti, acquistarono la facoltà di conferire i gradi accademici e i diritti e le franchigie ad essi inerenti. È da notarsi che le università antiche, anche in questo [188] essenzialmente diverse dalle moderne, conferivano le insegne ed i gradi più per l'utile scientifico che per abilitare all'esercizio delle professioni.

Quando taluno veniva insignito del titolo di baccelliere, di licenziato o di dottore (nei quali tre titoli si riassumevano i gradi accademici di quel tempo), acquistava il diritto d'insegnare e poteva da quel momento partecipare a tutti i privilegi e alle franchigie scolastiche.

Bastava uno di questi tre titoli per acquistare la facoltà d'insegnare in una università; ma il pieno godimento di tutti i diritti accademici non si poteva conseguire se non si era ottenuto il grado di dottore e non si faceva parte di un collegio universitario. Adunque, quando taluno veniva chiamato dottore, s'intendeva nel vero senso della parola, di parlare di quello che insegnava o come allora dicevesi, leggeva (doctor legens): tutti gli altri erano per ironia chiamati (doctorelli) e, secondo l'opinione di molti scrittori, non potevano godere dei privilegi e delle immunità proprie di quel grado[254].

È molto incerta l'epoca in cui si cominciò a conferire il titolo e le insegne di dottore nelle università. Gli eruditi hanno fatto molte ricerche sopra questo argomento; ma non son giunti a provare con evidenza a qual tempo risalga l'origine di questo grado e in quali scuole venisse per la prima volta conferito.

Alcuni storici attribuiscono ad Irnerio l'uso di celebrare con solennità il conferimento del titolo e delle insegne, ma non vi sono documenti che confermino questa opinione. I segni dell'investitura del dottorato che erano la veste, il berretto, o l'anello, non è inverosimile che [189] fossero tolti dall'uso molto comune in quei tempi d'incoronare i poeti.

Il Villani, parlando di Dante, dice che fu seppellito a grande onore in abito di poeta.

La laurea è certamente anteriore al dottorato come grado accademico. Infatti l'imperatore Ottone III, scrivendo al monaco Gerberto che divenne poi papa Silvestro II, lo chiama «filosofo peritissimo e laureato nelle tre parti della filosofia[255]

Certo è che per non confondersi nell'origine del dottorato, è d'uopo distinguere due epoche diverse nella storia di questo titolo scolastico. Bisogna avvertire che prima assai della costituzione delle università, era conosciuto il nome di dottore; ma non prese il significato di ufficio e di grado accademico, se non quando si formarono le prime scuole universitarie e gl'insegnanti vennero rivestiti di privilegi e di giurisdizione sugli scolari. Fu necessario allora far distinzione fra chi insegnava nelle università e i maestri privati, e stabilire con un nome nuovo la differenza fra quei che coltivavano le scienze insegnando nelle pubbliche scuole, e quelli che si dedicavano alle arti ed alle professioni, e sebbene avessero facoltà di leggere in cattedra pure se ne astenevano. Cominciò allora la distinzione volgarissima nel linguaggio scolastico del medio evo fra dottore leggente (doctor legens) e dottore non leggente (doctor non legens).

Secondo il Sigonio quelli che modernamente son chiamati dottori, nel medio evo si dicevano giurisperiti o giudici: quelli invece che oggi diconsi professori si chiamavano allora dottori[256]. E questa distinzione è molto [190] esatta e dimostra che nel medio evo come oggidì si poneva gran differenza fra chi era investito di un semplice grado accademico e chi aveva facoltà di adempiere l'ufficio d'insegnante.

Nei primi secoli del rinascimento il nome di dottore, al dire del Muratori, ebbe un significato tanto esteso che poteva assumerlo anche chi esercitava un'arte manuale. Infatti si trovano ricordati «doctores librarii, doctores sagittarum, etc.[257]. Il Colle[258] in un documento del 1170, ha riscontrato che un miniatore aveva il titolo di dottore in Padova, dicendo il documento «che era un buono e bravo dottore, cioè nell'arte sua di miniare.»

Da questi esempi pare evidente che il significato originario di dottore fosse quello di persona esperta e provetta in qualche arte o scienza.

In seguito si attribuì il titolo di dottore soltanto a chi insegnava nelle scuole private, e fu adoperato un tal nome promiscuamente cogli altri molto in uso nei primi secoli del risorgimento del sapere, di judices, magistri, causidici e simili. Irnerio è chiamato nei documenti del tempo sempre judex, o magister e non dottore[259]. Osserva però il Sarti che un certo Valfredo contemporaneo d'Irnerio che viveva nel 1139, si trova indicato col nome di legum doctor[260].

Così pure alla battaglia della Meloria furono fatti prigionieri diciassette sapienti di governo che il cronista Foglietta chiama dottori[261].

[191]

È manifesto adunque che il titolo di dottore ha avuto significato differente secondo i tempi e lo stato della scienza. Infatti verso il secolo XII il nome di dottore diviene meno generico come abbiamo osservato desumendo questa opinione dai più autorevoli documenti del tempo, perchè si attribuisce non più a tutti quanti esercitavano un'arte o una professione; ma soltanto a quelli che avevano fondato una scuola ed insegnavano qualche scienza. E ciò può dimostrarsi anche osservando che col risorgere dello studio delle leggi che ben presto si propagò in tutte le nascenti università, assorbendo quasi tutto l'insegnamento di quei secoli, cominciarono a chiamarsi dottori esclusivamente i giureconsulti i quali erano in maggior numero nelle scuole ed insegnavano pubblicamente e con grandissimo concorso di discepoli la loro scienza. Infatti nel secolo decimoterzo il titolo di dottore nel senso d'insegnante era poco adoperato nel linguaggio comune ed esclusivamente attribuito ai cultori del diritto[262] e specialmente ai civilisti che erano sopra gli altri privilegiati.

La vera origine però del nome di dottore, nel senso che fu inteso nelle università, risale all'autentica famosa colla quale Federigo I concesse insieme alle altre franchigie agli scolari bolognesi il privilegio della giurisdizione e conferì agl'insegnanti, che erano chiamati ad esercitarla, la prerogativa e l'autorità di pubblici ufficiali.

Infatti dal trecento in poi non bastava, per avere il diritto di farsi chiamare dottori, lo avere ottenuta la facoltà d'insegnare in qualche università; perchè ciò poteva venire concesso per le consuetudini scolastiche anche ai semplici licenziati e baccellieri e perfino agli scolari.

Chi intendeva di aspirare al titolo di dottore, doveva [192] dunque oltre al diritto d'insegnare, avere ottenuto i gradi accademici e le insegne della laurea che erano il simbolo dell'autorità propria del grado di cui voleva essere investito. Superati gli esami e adempite tutte le formalità prescritte dagli statuti, il candidato entrava nel collegio dei dottori e da quel momento poteva esercitare tutti i diritti della giurisdizione scolastica e conferire ad altri il dottorato.

I giurisperiti che aspiravano all'esclusivo godimento dei privilegi universitari non volevano concedere ai cultori delle altre scienze la facoltà di prendere le insegne dottorali sdegnando di assumere con quelli un titolo comune. In progresso di tempo i giureconsulti permisero che anche gli artisti appartenenti ad altra università si chiamassero dottori, sicchè un tal grado tornò ad essere molto diffuso e ne furono investiti i medici che si chiamarono (doctores medicinae vel fixicae); i maestri di logica e di filosofia, i notari (doctores notariae) e perfino i grammatici (doctores grammaticae). Sembra però che gli artisti anche dopo avere assunto il nome di dottore fossero esclusi dal collegio[263].

La più antica laurea della quale è rimasta memoria e di cui si conserva tuttora il diploma originale, è dell'anno 1276, e fu conferita nello Studio di Reggio[264].

L'autorità di conferire le lauree risiedeva nel papa il [193] quale si faceva rappresentare dai vescovi che si chiamavano cancellieri apostolici. Negli atti più antichi dei magisteri è detto che si conferiscono i gradi accademici «ex inveterata consuetudine et romanorum Pontificum indulgentia[265]

Era comune nel medio evo l'uso di distinguere i dottori secondo la scienza che professavano. Niccola Boerio seguendo, com'egli dice, l'opinione generale, pone in primo luogo i teologi, nel secondo i giuristi, nel terzo i medici, nel quarto i filosofi e i professori delle arti. Fra i giurisperiti, esso afferma, sono da preferirsi i canonisti e fra questi i più anziani d'età e d'insegnamento a meno che non vi siano dei giovani che li superino in virtù e scienza e che siano investiti di qualche dignità. Imperciocchè, soggiunge il citato Boerio, i teologi trattano della divinità e delle cose divine, i canonisti del bene comune e anche di Dio, i legisti soltanto del bene comune e i medici del corpo umano. I giuristi poi sono superiori ai medici di tanto quanto l'animo al corpo, la giustizia all'infermità[266].

I dottori legisti per molto tempo sostennero di avere un diritto di preferenza sopra tutti gli altri. Odofredo spiega la ragione per la quale egli crede che i dottori giuristi debbano precedere gli altri nelle dignità e negli onori. I dottori di legge, egli dice: «vocantur antecessores quia professores legum debent ire ante alios et excedunt alios in scientia et moribus[267].» I legisti erano [194] chiamati anche «domini, o doctores nobilissimi,» poichè i dottori in diritto, dice il Middendorpio, non solo sono nobili, ma più nobili di tutti gli altri e amici dell'imperatore.

Il Sarti avverte che quando il titolo di maestro veniva posto innanzi il nome, come magister Petrus, significava la qualità di dottore di legge; quanto succedeva al nome stava a indicare un dottore delle arti come un filosofo, un medico, un grammatico[268].

Il conferimento della laurea era preceduto da altri due gradi accademici cioè il baccellierato e la licenza. Il baccellierato fu nei secoli posteriori alla fondazione delle università che prese il carattere di vero grado accademico: per lo innanzi, come giustamente avverte il Savigny, bastava per ottenerlo l'approvazione privata di un solo dottore senza la sanzione del collegio. Nell'università di Bologna si accordava il titolo di baccelliere a quelli scolari che avessero letto un'opera intera nelle lezioni straordinarie senza bisogno di nessun altro esperimento.

Si crede che il nome di baccelliere derivasse dalla parola (baccellus) che era una verghetta che stava a simboleggiare quel grado.

In seguito, il baccellierato divenne un vero grado accademico, quando cioè per ottenerlo si richiedeva un pubblico esperimento e l'approvazione del collegio dei dottori. I baccellieri erano obbligati come i dottori ad assistere alle dispute e alle argomentazioni scolastiche. Non potevano però fare altro che letture straordinarie perchè le ordinarie erano riserbate ai dottori e di preferenza ai cittadini. I baccellieri avevano anche il diritto di assistere alle lauree e argomentare insieme ai dottori [195] coi candidati. Quando un baccelliere era iscritto nel collegio dicevasi «baccalarius incorporatus.»

Questo grado era comune a tutte le scienze; ma il maggior favore lo incontrò nelle scuole di teologia dove i baccellieri avevano diversi nomi come: «biblici, sententiari, censori, formati, incorporati, ecc.[269]

La licenza che dicevasi ancora «examen, privata examinatio o licentia conventus,» era l'esperimento che precedeva la laurea. L'esame per ottenere la licenza dicevasi anche «rigorosum» perchè era quello nel quale si sperimentava la capacità del candidato che era chiamato a svolgere e a discutere la sua tesi in faccia al vescovo e ai dottori[270].

Avanti l'examen erano assegnati al candidato due testi (puncta assignata) uno di diritto canonico a chi voleva essere licenziato o laureato in quella scienza, e di diritto romano, o di ambedue. Il licenziando leggeva la sua tesi e contro di lui argomentavano i dottori. Se il candidato veniva approvato, riceveva il grado della licenza e prendeva il nome di «licentiatus.»

La licenza, in una parola, era un'approvazione privata, ma solenne che il collegio dei dottori conferiva al candidato dopo di averlo sottoposto ad un rigoroso esperimento. La laurea che seguiva la licenza, non rappresentava che la solennità e l'apparato esterno della cerimonia accademica che accompagnava il conferimento del grado, e non era indispensabile per acquistare il diritto d'insegnare e partecipare ai privilegi e alle franchigie universitarie. Infatti, molti per evitare le soverchie spese della cerimonia o per altre cagioni, lasciavano passare [196] molto tempo fra la licenza e laurea godendo nondimeno gli stessi diritti e le immunità dei dottori, eccetto quello di potere indossare la veste talare che era il segno del grado.

I collegi mettendo i licenziati a parte di tutti i privilegi propri dei dottori, solevano generalmente sottoporre il candidato al giuramento di non prendere la laurea in luogo diverso da quello dove gli era stata conferita la licenza sotto pena di esser dichiarato perpetuamente incapace di far parte del collegio[271].

La solennità che accompagnava la laurea dicevasi «conventus,» parola che stando all'originario suo significato denotava l'aggregazione del nuovo dottore al collegio universitario.

Troviamo usata frequentemente dagli scrittori del secolo XIII e XIV, la parola convento nello stesso senso, come pure l'altra di conventato che volea significare il dottore aggregato al collegio. Non è al tutto priva di fondamento l'opinione di certi scrittori che fanno risalire la voce «conventus» ad una origine monastica assai antica di conferire i gradi avanti che tale uso passasse nelle università.

È indubitato che le lauree mediche, per tacere delle altre, furono conferite nei monasteri molto prima che fossero accolte nelle comuni consuetudini scolastiche[272].

Molte erano e solenni le condizioni richieste per ottenere la laurea nelle università del medio evo.

Bisogna premettere a schiarimento di questo tema che allora gli esami annuali di promozione non si conoscevano. [197] La capacità degli scolari si misurava non già da sterili e fallaci prove, ma dall'esercizio fecondo delle ripetizioni e delle dispute e dall'assistenza alle lezioni pubbliche e private[273]. Gli esperimenti ai quali si sottoponevano allora gli scolari, erano diretti ad ottenere uno dei tre gradi accademici già da noi ricordati e a partecipare all'esercizio di tutti quei diritti e privilegi che ivi erano annessi.

Il candidato, che voleva presentarsi agli esami di laurea, doveva provare di aver frequentato l'università per un numero di anni determinato dagli statuti locali. A Bologna per gli antichi statuti erano necessari otto anni di studio per divenire civilisti; cinque per essere promossi in diritto canonico.

A Padova il candidato per ottenere la laurea in diritto civile doveva avere studiato gius romano per sei anni. Tre o quattro anni di studio di diritto canonico contavano per due o tre anni di diritto romano. Per esser promosso in diritto canonico, doveva provare di avere studiato sei anni in quella università, oppure due anni il diritto canonico e cinque il romano. Doveva inoltre il candidato a forma dei primi statuti aver fatto una ripetizione o una disputa, ovvero trenta lezioni pubbliche.

La dimora in una città per ragioni di studii talvolta si protraeva anche al di là del termine ordinario richiesto dagli statuti, e ciò quando gli scolari volevano partecipare [198] a qualche privilegio speciale. In Bologna, ad esempio, chi voleva essere ammesso al godimento del diritto di cittadinanza doveva aver frequentato per un decennio quella università[274].

Talvolta veniva richiesta una espressa dichiarazione dei dottori che attestasse della frequenza del candidato durante gli anni di studio. Ne abbiamo un esempio in Padova, dove nel 1636 fu ordinato che nessuno potesse divenire dottore se non avesse frequentato per cinque anni l'università provando ciò colla testimonianza di quattro professori.

Generalmente il candidato si poteva presentare ai collegi per ottenere la promozione in qualunque stagione dell'anno. S'incontra però qualche eccezione a quest'uso comune a tutte le università, nella storia di Padova dove si narra che nel 1654 il tempo per il conferimento dei gradi fu ristretto all'epoca delle vacanze: ma ben presto, essendosi verificati soverchi incomodi e danni per questa innovazione, si ritornò all'antica consuetudine[275].

Nella riforma dello Studio di Pisa si determinò il tempo delle lauree dal novembre al giugno, cioè per tutto l'anno scolastico.

Si faceva però eccezione quanto ai forestieri i quali potevano chiedere di essere promossi anche nelle vacanze[276].

Quando il candidato veniva sottoposto all'esame, si sceglieva dal collegio un numero determinato di dottori i quali erano incaricati di assistere all'esperimento e di conferire la laurea. Questi dottori si distinguevano in due [199] classi: ordinari e straordinari che si dicevano ancora numerarii e soprannumerari.

I dottori ordinari godevano di un emolumento fisso per ciascuna laurea alla quale assistevano; i dottori straordinari supplivano in caso di assenza o d'impedimento gli altri e in questo caso soltanto godevano della retribuzione fissata per gli ordinari.

I dottori ordinari erano generalmente in numero di dodici e venivano scelti fra i cittadini.

Prima cura del candidato avanti di esporsi all'esperimento era quello di scegliersi i Procuratori che la dovevano presentare al Priore del collegio dei dottori e assistere durante la cerimonia, e giurare se lo credevano idoneo di presentarsi alla laurea. Il numero dei promotori variava secondo le università, da due a quattro[277].

Era d'obbligo anche il deposito di una certa somma determinata diversamente dagli statuti e dalla consuetudine delle varie università. Questa cauzione era differente anche secondo le diverse scienze nelle quali il candidato voleva prendere la laurea. Ad esempio, per gli statuti dell'università di Torino del 1448, i candidati di chirurgia pagavano la metà di quelli di medicina e di filosofia[278].

Fatto il deposito, per ordine del Priore si convocava il collegio e il candidato si presentava accompagnato dai suoi Procuratori e veniva destinato il giorno e l'ora dell'esame [200] finale. Durante l'esame i promotori si sedevano presso il candidato, ma era loro rigorosamente proibito di suggerire le risposte[279]. Era pure vietato loro di ricevere denari o doni per l'assistenza agli esami[280].

Il candidato era obbligato di giurare tanto avanti la licenza che la laurea di avere studiato il tempo prescritto e di non recar danno giammai nè all'università nè agli scolari, e di obbedire al Rettore e agli statuti. Quando veniva ammesso nel collegio dei dottori era sottoposto ad un nuovo giuramento di fedeltà e di ubbidienza.

Negli statuti dell'università di Torino del 1448 troviamo un'ottima disposizione che non apparisce se fosse comune anche alle altre università, ed era la facoltà concessa al candidato di far dispensare dal voto l'esaminatore che avesse avuto ragionevoli motivi di credere a lui avverso: «Si laureandus — dice lo Statuto — habuerit aliquum doctorem suspectum ita ut timeat de ejus voto, teneatur hoc manifestare Priori ut suspendat illud a voto si suspicio erit legitima[281]

L'età per ricevere la laurea non è fissata dagli statuti. La prima laurea conferita a 17 anni fu quella di Cervalle figliuolo del celebre Accursio. A causa dell'età troppo giovanile nacquero lunghe dispute fra i dottori sulla legittimità e la convenienza di quella promozione. Chi faceva il corso ordinario degli studii non poteva però esser dottore prima di 20 anni.

Il giureconsulto Bartolo che entrò nell'università di Perugia a 14 anni non ne uscì dottore che a 21.

[201]

Il giureconsulto Ancarano enumera i requisiti per divenire dottore che sono i seguenti:

1º Età di anni 17 almeno.

2º Avere assistito per cinque anni alle lezioni di diritto o averlo insegnato (nemo enim repente fit summus).

3º Avere imparato o insegnato in libri e luoghi approvati (ubi jura incorrupte traducetur).

4º Essere migliore degli altri nei costumi.

5º Avere facondia.

6º Possedere sottigliezza nell'interpretare.

7º Avere superato l'esame e ricevuto le insegne del grado.

8º Avere avuto sette dottori all'esame.

9º Avere i dottori, sotto giuramento, attestato della sua idoneità.

10º Essere di nascita legittima (est enim civilis sapientia santissima res[282]).

La cerimonia colla quale si festeggiava la laurea era accompagnata da molta solennità. Il giorno convenuto il candidato recavasi al tempio maggiore della città dove per antico uso si conferivano le insegne elettorali, e quivi lo aspettavano il Vescovo, il Preside, il Rettore, il Priore del collegio e i dottori e i magistrati municipali.

Il Rettore dell'università doveva essere invitato alla cerimonia dello stesso laureando, il quale si recava ad invitarlo accompagnato da numerosa comitiva al luogo di sua abitazione e in segno di onore lo conduceva alla Cattedrale sopra un bel cavallo coperto di ricche gualdrappe ed altri ornamenti.

Le spese di questa solennità, ascendevano a somme cospicue perchè tutto l'apparato della chiesa dove si [202] faceva la cerimonia, lo sfarzo della comitiva, i ricchi doni che dovevano essere presentati ai principali dignitari che vi assistevano, nonchè il dispendio dei conviti e dei sollazzi coi quali si festeggiava la giornata, era tutto a carico del laureando. Queste spese in breve aumentarono a tal punto, che nel 1311 dovè intervenire il papa ordinando che il candidato non dovesse impiegare più di 500 lire per il lusso della promozione[283].

Venuto il candidato in chiesa e presentato al Collegio dai suoi promotori, cominciava a discutere la sua tesi dinanzi ai dottori che potevano muovergli difficoltà ed obiezioni.

La disputa per l'ordinario verteva sullo stesso argomento che era stato già svolto dal candidato nell'esame di licenza; e questo secondo esperimento non era che una semplice formalità. Negli statuti di Padova veniva disposto che il candidato potesse avere per oppositore anche un Baccelliere insieme al Rettore e a due dottori anziani e a due altri che proponevano due questioni variate onde, la cerimonia della laurea veniva chiamata anche variatio[284].

Finito l'esame, era consegnato a ciascuno dei dottori del collegio un biglietto, in cui da una parte era scritto (approbo) dall'altra (reprobo). Raccolti i voti dal Notaro, veniva poi dal Cancelliere pubblicato l'esito dell'esame.

Per avere un'idea della solennità colla quale solevano festeggiarsi le lauree nelle università del medio evo, odasi quel che racconta lo storico Gherarducci:

«Haveva il Consiglio di Bologna alli tre di febraro prossimo passato (si parla di una laurea dell'anno 1319) [203] in pubblica congregazione trattato di onorare Taddeo figliuolo di Romeo de Pepoli che si doveva adottorare, non solamente per essere suo cittadino e nobile, ma anco per riconoscere l'amore di Romeo che per lo bene comune della città si affaticava e parimente per inanimire gli altri cittadini e nobili allo studio delle lettere e delle altre virtù. Et se ben si desidera sapere a pieno, e non si trovi appunto quale honore gli facesse il Consiglio; nondimeno credere si può che fosse grande, perchè Romeo era il più ricco gentiluomo privato che havesse in quel tempo Italia. Egli a dì primo di maggio in Giovedì fece dottorare Taddeo il figliuolo e in ciò dimostrò tanta magnificenza, quanta giammai da cittadino privato fosse usata; perciocchè vestì a tutte sue spese in varie foggie e diversi colori tutte le compagnie della città di Bologna; le quali compagnie erano certe ragunanze di giovani che nelle armi e in altri lodati e virtuosi fatti si esercitavano sotto varj nomi, come la compagnia della Rosa, della Spada, della Fede, della Mano, della Croce e altre così fatte imprese.... Poi tenne corte bandita a tutto il popolo con tanta copia di vasi d'argento, che fu cosa maravigliosa e degna memoria, e fu però dalle arti della città e da molti cittadini presentato e honorato....[285]»

Le spese richieste per ottenere la laurea erano sempre superiori a quelle della licenza o dell'esame privato. A Bologna per la licenza si dovevano pagare sessanta lire, per la laurea ottanta. I dottori che presentavano il candidato percepivano ventiquattro lire: quelli che assistevano all'esame due lire, e una lira per la laurea. Lo arcidiacono riceveva dodici lire e mezzo per ciascun laureando.

[204]

Oltre le spese ordinarie, certi statuti di alcune università prescrivevano l'obbligo al candidato di provvedere le vesti a tutti quelli che dovevano assistere alla cerimonia, nonchè l'anello e i guanti per il vescovo e i dottori.

Queste spese non dipendevano dall'arbitrio dei candidati, ma erano regolate dalla prescrizioni del collegio. Nel 1393 narra il Colle, che il preside dello Studio di Padova informò il collegio dei dottori delle replicate lagnanze del vescovo e di tutti gli altri che assistevano alle promozioni perchè gli anelli che i laureandi solevano donare erano di troppo tenue valore e non d'oro come volevano gli statuti, e chiesta l'opinione del collegio, dopo varie dispute fu decretato che per lo avvenire qualunque laureando fosse obbligato a corrispondere gli anelli di oro al vescovo, al vicario, al preside e ai dottori dai quali doveva ricevere il magistero[286].

Quando il candidato per ristrettezza di averi non poteva sottoporsi alle spese della laurea, otteneva di addottorarsi gratuitamente. Negli statuti di Ferrara del 1467 si prescrive di promuovere ogni anno gratis et amore Dei due scolari l'uno ferrarese, l'altro forestiere, a patto però che avessero frequentato per cinque anni quell'università, e che da due o più testimoni, venisse dichiarato che erano incapaci di sopperire alle spese della promozione.

Si trovano esempi di lauree concesse gratuitamente [205] anche in altre università. Quei candidati che alla laurea non ottenevano tutti i voti si dicevano laureati (pro majori) e ciò doveva esser dichiarato nel diploma, che in tal caso aveva meno ornamenti e in vece di essere di carta pecora era di carta semplice. Talvolta però dietro una supplica del candidato si riempivano nel diploma i voti mancanti[287].

Vi erano poi quelli ammessi alla laurea in ricompensa di servigi prestati e questi erano chiamati comunemente dottori (more nobilium).

Nel 1590 i collegi dell'università di Padova volendo scemare le spese di laurea, stabilirono che ogni candidato, il quale volesse prendere le insegne solenni e con pubblico fasto, non potesse spendere più del triplo di quei che si laureavano privatamente[288].

Coll'andar del tempo venne meno lo splendore e il fasto che soleva accompagnare la cerimonia della laurea, perchè molti volendo evitare le soverchie spese che si richiedevano per ottenere le insegne, si contentarono del solo titolo di licenziati, che gli ammetteva al godimento di tutti i diritti e privilegi annessi al grado di dottore, eccetto quello di potere indossare la veste talare.

La pompa e la solennità delle lauree venne a scemare anche per un'altra cagione. Verso il secolo XV cominciò da alcuni sovrani ad accordarsi il grado di dottore anche a chi non avesse frequentato gli studii e subìto gli esami richiesti. Questi dottori che avevano acquistato il titolo per privilegio si dicevano doctores bollati o codicillari, ed erano tenuti in molto minore considerazione presso l'opinione pubblica. I giureconsulti di quel tempo consigliavano [206] i principi di andar molto cauti nel creare questi dottori onorari[289]. Il Concilio di Trento decretò invece che a questi dottori privilegiati non solo si dovessero conservare gli onori, ma che fossero preferiti anche agli altri. Pio V però con una sua bolla del 1568 ordinò che non si creassero più dottori bollati.

Alcuni ottenevano (ex gratia speciali) il grado di dottori coll'intercessione anche del vescovo. Il collegio dei Legisti di Padova però stabilì nel 1525 che quei che venivano riprovati in questo esame non potessero presentarsi che l'anno dipoi. Troviamo qualche esempio di dottori cui si concedeva a titolo di privilegio di poter concedere la laurea di propria autorità e fuori dei pubblici Studii: il che insieme alle cause già ricordate, contribuì molto ad avvilire agli occhi del pubblico il prestigio del grado accademico[290].

Il Petrarca così parla della cerimonia della laurea:

«Viene lo stolto giovine al tempio per ricevere le insegne di dottore, e i maestri lo inalzano o per affetto o per errore; egli si gonfia, il volgo stupisce: applaudono i congiunti e gli amici: ed esso ad un cenno sale la cattedra guardando dall'alto ogni cosa e mormorando un non so che di confuso. Allora quei barbassori lo portano a cielo quasi avesse detto cose divine: suonano le campane; squillano le trombe: si scambiano gli anelli e baci: e vien posto in capo al nuovo dottore il rotondo e magistrale berretto. Dopo ciò scende sapiente chi era salito [207] stolido. Maravigliosa metamorfosi invero e neanche conosciuta da Ovidio. Così si creano i dotti[291]

Ordinariamente la laurea ottenuta in una università era riconosciuta valida per insegnare in tutte le altre[292]. Soltanto Napoli faceva eccezione per rappresaglia, ed avendo quell'università ordinamenti diversi alle rimanenti d'Italia soleva sottoporre tutti i dottori stranieri, che volevano acquistare il diritto d'insegnare, ad un nuovo esperimento[293].

I dottori aveano la toga ornata d'oro e di raso, potevano assistere ai consigli dei principi e dei magistrati e partecipare al governo. Nelle pubbliche solennità occupavano i luoghi più distinti ed erano esenti, purchè insegnassero, dagli oneri comuni a tutti gli altri cittadini.

Tutti i privilegi però spettavano a quelli che esercitavano il magistero (doctores legentes) perchè quei che non professano l'insegnamento, secondo il citato scrittore, non potevano usufruirne[294].

I dottori nell'esercizio dei loro privilegi erano equiparati ai militari. La ragione per cui sono concessi tali privilegi ai soldati, dice il Socini, è la pubblica utilità alla quale essi molto conferiscono col proprio valore e perciò allettati dai privilegi sono spinti a combattere e a difendere la repubblica. Ma questa ragione, soggiunge lo scrittore, [208] vale anche per i dottori[295] i quali anzi debbono essere preferiti ai militari perchè costituiti in dignità.

I dottori oltre i privilegi che avevano comuni colle altre persone che facevano parte delle università, godevano di certi diritti tutti particolari al loro grado, dei quali diremo brevemente.

I dottori, per esempio, non potevano essere imprigionati per debiti civili, nè essere condannati al di là del loro avere[296]. Godevano inoltre, come i militari del benefizio del peculio quasi castrense[297], ed erano esenti dall'obbligo di ricevere in casa i soldati[298].

Fra tutti i dottori erano tenuti in gran pregio quelli [209] di legge e soprattutto i civilisti (civilisti)[299]. I giureconsulti più famosi portavano nomi grandiosi come: fonti delle leggi, idoli della giurisprudenza, padri del diritto. L'appellativo più comune col quale si designavano i dottori di legge era quello di «domini legum» forse ad imitazione dello stesso titolo assunto talora presso i franchi dai giudici che sedevano nella Corte del palazzo del re[300]. Giovanni Andrea fu chiamato arcidottore. Il giureconsulto Malambra fu conosciuto nelle scuole col nome di padre delle leggi e dottore di scienza profonda[301].

Lo studio delle leggi non era coltivato che dai nobili e dai più illustri cittadini[302]. Il podestà Marco Querini di Venezia in età avanzata si fece alunno del celebre Accorso, gli dette albergo nel suo palazzo e una larga provvisione perchè istruisse nelle leggi i suoi figliuoli[303].

Così pure il Doge Andrea Dandolo ascoltò le lezioni del Malambra o ottenne da lui la laurea dottorale[304].

Tutti i principi del tempo si tenevano onorati d'accogliere i dottori alla loro Corte, di consultarli nelle più [210] gravi quistioni e affidare ad essi le più gelose cure di Stato. Lo Spinelli, che era consigliere di Galeazzo Visconti signore di Milano, fu chiesto dalla regina Giovanna di Napoli la quale gli affidò il maneggio delle cose politiche e il governo dei suoi Stati. Bartolommeo Piacentini fu dimandato al Carrarese dal re di Ungheria. Iacopo Ruffini insegnò con molta lode a Parigi e fu dal re Filippo chiamato nobilissimo cavaliere[305].

L'importanza scientifica e la grande autorità che i più insigni dottori avevano nelle scuole, li faceva considerare come oracoli e spesso la loro opinione aveva forza di legge. È noto come nelle scuole medioevali corresse il dettato: «Chi non ha Azo non vada a Palazzo» il che significava che senza le opere di Azo non si poteva rendere giustizia.

Nelle opinioni discordanti era regola comune che dovesse prevalere quella sostenuta da Bartolo e qualche statuto prescriveva che niuno potesse iscriversi nel collegio dei giureconsulti se non ritenesse presso di sè i Commentari di quel giureconsulto[306].

I maggiori titoli di nobiltà e i più elevati gradi cavallereschi erano conferiti ai dottori. Carlo V soleva chiamare i giureconsulti cavalieri della legge. Nel 1530 questo imperatore con un suo editto estese ai dottori tutti i privilegi e i titoli onorifici che solevano concedere nei suoi Stati ai militari[307].

Il Malambra per i servigi che rese come consigliere alla Repubblica di Venezia fu insignito del grado di cavaliere e di conte palatino[308].

[211]

Così pure il giureconsulto Minucci conosciuto col nome di Antonio da Pratovecchio, fu eletto dall'imperatore, conte e consigliere del Sacro Romano Impero[309].

Narra l'Affò che il Ruffini, famoso giureconsulto del secolo decimoquarto, ritornato in Parma sua patria dopo avere insegnato per tre anni con molta lode nello studio di Padova, fu «adoperato qual grande e fedel consigliere del comune di Parma riguardo ai pubblici fatti, come pure da ogni particolare cittadino pei privati, e onorato in morte, seguita li 24 maggio 1321, coll'essere portato al sepolcro accompagnato da tutto il clero, da tutte le croci di Parma, e da tutto il popolo vestito a spese del Comune di una roba di scarlatto con sopra il vajo doppio, con grande quantità di torchi.... ardendosi poi la copiosa cera per una settimana nelle esequie che si andavano facendo con grande spesa a stimolo ad esempio dei buoni, e stando in quel tempo tutte le botteghe chiuse e intervenendo a tale onore il podestà, il capitano, il sindaco maggiore, il giudice delle Gabelle del Comune coi loro uffiziali[310]

Gli attestati di stima ed i riguardi di preferenza prodigati agli antichi dottori erano tali che alcuni scrittori del tempo giunsero sino a formulare regole e precetti per ben condursi verso di loro e mantenere il rispetto e la considerazione dovuta al loro grado. Compilando le massime che si trovano negli autori si potrebbe formare un curioso cerimoniale accademico del medio evo.

Per darne un esempio ricordiamo come Odofredo, parlando nei suoi Commentari dei titoli che gli scolari nello scrivere debbono dare ai loro maestri, dice che sebbene [212] ai suoi tempi fosse comune l'uso di chiamare i dottori col nome di reverendi, tuttavia il titolo che spetterebbe a coloro che sono investiti di tal grado sarebbe quello di illustri perchè così li suol chiamare anche lo stesso imperatore[311].

Tali segni di ossequio e di deferenza erano molto cari ai dottori e lo stesso Odofredo racconta che essendo stato una volta invitato Azone a pranzo da uno scolare illustre andò preceduto da un bidello e accompagnato da un certo numero di scolari dicendo che a lui non conveniva mostrarsi in pubblico se non con quel corteggio[312].

I riguardi dovuti ai dottori insegnanti erano così scrupolosamente osservati, che i giureconsulti del tempo si occuparono spesso nelle loro quistioni di questo argomento. Il Socini nelle sue opere parla di una disputa che si agitava nelle scuole all'epoca in cui esso insegnava, relativa ad un privilegio che le consuetudini aveano accordato ai dottori. Si domandava come quesito di giurisprudenza, se un dottore insegnante (doctor legens) avesse o no diritto di fare allontanare dalla sua bottega il fabbro che battendo il ferro pel suo mestiere disturbasse i suoi studii. Il Socini distingue se il fabbro abitasse presso le scuole ovvero in prossimità della casa del dottore. Nell'uno e nell'altro caso, dice il giureconsulto, il dottore ha sempre diritto di farlo allontanare perchè anche in [213] casa egli deve studiare e prepararsi alle lezioni. Ma di questo privilegio però, esso soggiunge, non possono godere quei dottori che non insegnano (non legentes)[313]. La stessa opinione è confermata da un altro valente giurista il quale dice che tal diritto non spetta ai dottori di scarso sapere (doctoribus indoctis)[314].

A dare maggiore dignità al titolo di dottore conferivano molti segni esterni d'onore. Oltre all'avere un abito distinto dagli altri cittadini, essi godevano di particolari diritti e privilegi propri del loro grado. Gli statuti di Bologna concedevano il permesso d'indossare vesti di colore scarlatto soltanto per accompagnare i funerali dei cavalieri e dei dottori di diritto civile[315].

Il giureconsulto Bartolo ottenne per privilegio di aggiungere al suo stemma quello dei re di Boemia cioè il leone rosso in piedi colle due code in campo d'oro[316].

Le nuove leggi della Repubblica di Genova disposero che gli avvocati e i medici potessero presentarsi col capo coperto a tutte le autorità eccetto il governatore e discorrere restando seduti[317].

Tutti gli statuti italiani compresi quelli della città che non ebbero una università propria, contengono speciali [214] rubriche nelle quali si riconoscono i privilegi delle persone dotte e degli esercenti le professioni e le arti liberali; il che dimostra in quale onore fosse tenuta la scienza e quanto si apprezzassero coloro che la coltivavano[318].

[215]

CAPITOLO QUINTO

I dottori ordinari e straordinari — Modo con cui si eleggevano gl'insegnanti nelle università del medio evo — Liberi docenti — Prime limitazioni alla libertà d'insegnamento — I dottori forestieri (forenses) e i cittadini — Nomina dei dottori fatta dalle università — Ingerenza dello Stato nella elezione dei dottori — Dei modi di retribuzione dei pubblici insegnanti — Offerte spontanee e «collectae» degli scolari — Parziale intervento dei Comuni nel mantenimento dei dottori — Esclusiva ingerenza dello Stato — Esempi più antichi di dottori stipendiati dal pubblico erario — Abolizione delle collette — Capitali anticipati ai dottori a titolo di retribuzione — Assegni straordinari oltre gli stipendi — Criteri di repartizione dei pubblici stipendi.

Il titolo di dottore attribuiva nel medio evo a chi ne era investito la qualità di pubblico insegnante.

Solo i dottori insegnanti godevano dei privilegi e dei diritti concessi dagli statuti universitarii. I dottori si dividevano in ordinari e straordinari. Alla prima categoria appartenevano tutti quelli addetti ad insegnare nelle scuole ordinarie; gli straordinari erano chiamati all'insegnamento pubblico delle università, trattando argomenti speciali di scienza. Alla classe degli insegnanti straordinari non appartenevano soltanto quelli insigniti della laurea, ma anche i licenziati, i baccellieri e gli stessi scolari.

L'insegnante era sotto l'immediata dipendenza del Rettore sebbene dividesse con questa suprema autorità molti poteri, fra i quali è da notarsi sopratutto la giurisdizione sì civile che criminale che esercitava insieme allo stesso Rettore e al Vescovo.

[216]

Quanto al modo di elezione dei dottori del medio evo e alle vicende che subì coi tempi, sono da osservarsi tre periodi ben distinti. Seguendo quest'ordine è facile vedere come l'insegnante che nei primi secoli della formazione delle università prestava l'opera propria agli scolari i quali lo retribuivano del proprio, si trasformasse a poco a poco in pubblico ufficiale eletto e mantenuto dallo stato.

Quando non si conoscevano che libere aggregazioni di maestri e di discepoli uniti dal solo vincolo della reciproca stima e dell'affetto, ed estranee ad ogni ingerenza del potere pubblico, chiunque si fosse sentito capace di insegnare, fondava una scuola in luogo privato e spesso nella propria casa, accogliendovi tutti quelli che avessero avuto vaghezza di imparare.

Sorta la scuola colle forme e gli ordinamenti delle altre associazioni, non risentì da principio nessuna influenza dell'autorità sociale che nel medio evo era quasi paralizzata dalla formidabile potenza dell'iniziativa privata.

Lo Stato allora si andava lentamente formando e l'attività individuale era nel suo pieno vigore. Le corporazioni scolastiche, dalle quali ebbero poi origine le università, non erano diverse per gli ordinamenti da tutte le altre numerose associazioni che abbondarono nel medio evo, e come il lavoro libero trovò protezione nei corpi delle arti, così la scienza risorse e si diffuse nel mondo per opera di quelle prime ed utili scuole.

In questo primo periodo, la libertà d'insegnamento non ebbe confine e il sapere si svolse senza nessuna limitazione nè regola prestabilita.

Il secondo periodo è quello in cui, le università già costituite, provvedevano alla scelta dei dottori, partecipando direttamente gli scolari alla loro elezione insieme al Rettore e agli altri insegnanti. Già fino da quest'epoca [217] si riscontra una sorveglianza abbastanza rigorosa dei poteri pubblici nella scelta dei dottori. La sconfinata libertà d'insegnare aveva spinto certi uomini audaci quanto inetti, a tenere scuola ostentando una dottrina che non possedevano con grave danno della scienza e dei suoi più autorevoli cultori. A questo inconveniente volle riparare il provvido papa Onorio III per l'università di Bologna, emanando una severa bolla del 1219 colla quale ordinava che non fossero ricevuti nelle scuole se non quelli che avessero dato sufficiente saggio della loro attitudine ad insegnare[319].

Così pure nell'università di Ferrara fu nell'anno 1443 rigorosamente prescritto che quei che volevano avere il diritto d'insegnare dovessero essere pubblicamente approvati[320].

Per essere eletti insegnanti specialmente nelle scuole ordinarie, bisognava aver conseguito la laurea.

Ogni anno si formava il Rotolo che era il catalogo officiale dove era scritto il nome dei dottori insegnanti. La nomina dei dottori che si faceva annualmente, era opera di tutto il corpo universitario e si diceva «fare la riforma.» Si chiamavano poi riformatori i cittadini che erano scelti ad invigilare su questa elezione; e il numero di essi variava secondo la università.

L'insegnamento era affidato di preferenza agli stranieri [218] perchè i cittadini non trascurassero i pubblici uffici del loro paese. Nel 1361 la Repubblica di Firenze ordinò con un suo decreto ai dottori cittadini di astenersi dall'insegnare in quello Studio per evitare il pericolo che nella loro elezione si avesse piuttosto riguardo ai vincoli di parentela che al vero merito[321].

In Perugia l'elezione dei dottori forestieri era riserbata ai magistrati che presiedevano allo Studio; gli scolari avevano però piena e libera scelta dei dottori perugini[322].

I dottori cittadini che erano ammessi ad insegnare venivano generalmente esclusi dallo stipendio perchè essi conservavano di pieno diritto tutti i privilegi della cittadinanza, aveano la protezione dei loro propri magistrati e potevano aspirare ai pubblici uffici come pure perorare le cause nel fôro.

I dottori stranieri (forenses) godevano del pubblico salario, ma non potevano discutere cause eccetto quelle che riguardavano gli scolari[323].

A rigore degli ordinamenti scolastici chi aveva ricevuto la laurea in una università non poteva insegnare in un'altra se non rinnuovava gli esperimenti oppure non supplicava il collegio ad accoglierlo per grazia senza bisogno di ripetere gli esami. I dottori dell'università [219] di Napoli che aveano usi e statuti diversi da quelli degli altri Studi d'Italia non erano riconosciuti neppure in via di grazia; ed essi alla lor volta per diritto di rappresaglia sottoponevano tutti gli stranieri che volevano insegnare in Napoli ad un nuovo esame[324].

I professori erano fissati per la durata di un anno e quando incontravano l'approvazione degli scolari, solevano essere riconfermati ed iscritti nel Rotolo, che si teneva continuamente esposto nell'università perchè fossero noti a tutti i nomi dei dottori insegnanti.

La scelta dei dottori, di merito insigne era fatta dall'università a loro insaputa. La nomina poi si partecipava all'eletto a nome dello Studio, del podestà e degli anziani. Chi era invitato doveva rispondere se accettava o no e in caso affermativo promettere d'insegnare l'intero anno alle ore solite e a forma degli statuti.

Talvolta in segno di maggior considerazione non si invitavano i dottori per lettera ma per mezzo di ambasciatori spediti a nome dell'università. Solevano poi andare ad incontrarli fuori della città gli altri insegnanti e gli scolari. Nel 1489 per ottenere Giovanni Campeggi, celebre giureconsulto che leggeva in Bologna, narrano gli storici che mosse da Padova lo stesso Rettore accompagnato da cinquanta scolari[325].

L'elezione di un dottore di gran fama era una delle più solenni cure dell'università e vi prendevano parte con grande impegno anche le autorità civili. In un decreto veneto del 1400 si ordina che siano procurati per l'università di Padova «famosi doctores et valentes,» e [220] parlandosi nello stesso decreto di Pietro d'Abano, si dice: «quem tamquam necessarissimum haberi volumus[326]

La nomina di un dottore in una università poteva anche decidere della venuta di numerosa e scelta scolaresca. Quando Bologna nel 1321 rimase deserta di scolari per la condanna di uno studente catalano, quei che tornarono in seguito a studiarvi posero per condizione al Comune il richiamo di Jacopo Belvisio dicendo che dietro di lui sarebbero venuti tutti gli scolari che erano in Perugia e molti altri ancora[327].

Ma ciò che dimostra quanto amore ed impegno ponessero non solo le università ma anche i comuni e l'intera cittadinanza nella scelta di buoni insegnanti, sono le numerose lettere e circolari che le Repubbliche si scambiavano frequentemente per invitare nuovi dottori e per pregare direttamente i magistrati del luogo dove essi insegnavano a cederli ad altre università in segno di amicizia e fratellanza. Chi è avvezzo a leggere nella storia delle città italiane le loro perpetue discordie e a deplorare le guerre fraterne del medio evo, deve provare maraviglia vedendo con quanta cortesia ed amorevolezza [221] trattassero fra loro città spesso nemiche e quanta solennità di modi e di linguaggio impiegassero nelle lettere che reciprocamente si inviavano nell'occasione della nomina di qualche insigne dottore[328].

[222]

Decretata la nomina di un dottore, gli veniva partecipata dagli ufficiali dello Studio coi quali il nuovo eletto si poneva in comunicazione e stabiliva i patti e le condizioni per le quali obbligavasi ad insegnare.

In questi accordi preliminari il dottore eletto esponeva le sue pretese riguardo allo stipendio ed affacciava i diritti di anzianità e di merito scientifico che giustificavano le sue domande.

L'elezione dei dottori nel medio evo si fondava adunque sul reciproco consenso e non era che un vero e proprio contratto di locazione d'opera.

I dottori di maggior fama quando erano chiamati ad insegnare in una università imponevano condizioni a loro piacere, essendo sicuri che sarebbero state accolte.

Un esempio ci dimostrerà ad evidenza come fra i dottori e i collegi universitarii si discutessero le condizioni dell'insegnamento.

Nel 1488 gli ufficiali dello Studio di Pisa chiesero all'università di Bologna un canonista che fosse molto abile nella sua scienza per insegnare a Pisa.

Interpellato uno dei più famosi, rispose agli ufficiali dello Studio pisano che volentieri si sarebbe recato colà [223] quando fosse potuto venire con «suo honore et comodo.» E poi così soggiungeva: «et inanzi che vegna a la conclusione del salario io ve notifico che è 30 anni che io ho lecto le lectioni ordinarie continuamente, cioè anni 20 in ragione canonica, et anni 10 in ragione civile come ne potria rendervene certo Mes. Bartholomeo Sozino che semo d'una casarola (?) et etate, et se ve notifico, che io qua ad presente ho lire 800 di Bolognini d'argento, e, perchè ne voglio lire 1000 non voglio leggere a Bologna, e perchè si è saputo a Padova della mia intentione, lo Rectore dello Studio di Padova cum certi Deputati mi hanno scritto che se io voglio andare leggere là, la mattina a ragione civile a concurrentia d'uno Mess. Iasone, me daranno lire 1800 di Bolognini e forse 2000. Lo quale Studio è degno Studio, secondo che io intendo, e ci è assai competente vivere. Ve notifico che quando venni a Pisa, quando si principiò lo Studio, fu promesso di fare exempti li Doctori e li Scolari; non si fè allora, e questo dico chè so che lo vivere lì è assai caro, et li affitti delle case sono excessivi, sicchè si spende assai denari, e ve notifico quando io venni a Pisa in vectura, de' libri et altre cose necessarie, et in fare translatione di Studio in altri luoghi per la peste, spesi più di ducati 100, et al presente ho il doppio delle cose. Per il che io concludo che io vorria volentieri leggere a Pisa, perchè mi piace quella terra e sopra tutto è conforme alla mia natura, dummodo che io leggessi cum honore.

«Io non so quello date a Mes. Bartholomeo Sozino et a li altri forestieri.... m'è detto date a Mes. Bartholomeo Sozino ducati 900 o da li doi anni ducati 1000. Quando io ne avessi li appresso veneria, dummodo ne avessi licentia da li miei Reggimenti, li quali spero di [224] ritrovar pronti a darmela, attento, come vi ho detto non voglio più leggere a Bologna etc.

«Ex Bononia di 7 Octob. 1488[329]

Quando si erano posti d'accordo gli uffiziali dello Studio col dottore sulla sua elezione o condotta, si iscriveva il suo nome nel Rotolo, e questa pubblicazione era come la conferma solenne della nomina.

Coll'ingerenza esclusiva dello Stato nell'elezione degli insegnanti nelle università, incomincia il terzo periodo. Fin da quando alle libere repubbliche che governarono l'Italia per quattro secoli, sopravvennero le signorie e i principati, cominciò l'autorità sovrana ad esercitare una diretta influenza nel pubblico insegnamento. La più gelosa prerogativa dei privilegi scolastici che era il diritto d'elezione dei dottori, non fu tolta alle università che nel secolo XVI sebbene alcuni principi anche per lo innanzi si fossero tacitamente arrogati questo potere nominando col pretesto di accrescere lo splendore e la fama delle università i dottori e retribuendoli del proprio. Così in Padova anche nei tempi in cui l'elezione dei dottori era sempre di pieno diritto degli scolari, i principi Carraresi chiamavano i più insigni da tutte le parti d'Italia e li stipendiavano tacitamente[330].

Quando lo Stato apertamente avocò a sè il privilegio di eleggere i professori e tolse agli scolari ogni ingerenza nella formazione del Rotolo, si manifestarono nelle università gravi turbolenze. In Padova nel 1560 allorchè il Senato veneziano decretò l'abolizione di questo privilegio, [225] tutta l'università si sollevò, e gli scolari prese le armi, gettarono le panche fuori delle scuole e impedirono a forza ai dottori di far lezione[331].

Dopo aver parlato del modo di elezione degli antichi dottori, passiamo a vedere come fossero retribuiti.

Gl'insegnanti delle università antiche mentre dapprima erano retribuiti con spontanee offerte dagli scolari ai quali prestavano l'opera loro, vennero in seguito ad essere considerati come ufficiali pubblici eletti e stipendiati dallo Stato. Perciò i modi e le forme di retribuzione nelle università del medio evo, si possono distinguere in tre separati periodi, cioè:

1º Quello delle libere e spontanee offerte degli scolari;

2º Quello del parziale intervento dei comuni nel concorrere alle spese del mantenimento dei pubblici insegnanti;

3º Quello infine dell'esclusiva ingerenza dello Stato.

Parleremo colla consueta brevità di ciascun periodo.

Quando per spontaneo svolgimento si formarono le università e divennero corpi privilegiati e indipendenti, l'insegnamento non aveva nessun carattere pubblico: era un servigio che i dottori prestavano agli scolari e che veniva da loro retribuito con libere offerte. Queste retribuzioni dicevansi collectae, la qual voce era generica e comprendeva ogni specie di pagamento. Per fissare queste collette per ordinario i dottori non contrattavano direttamente cogli scolari ma eleggevano due di loro che ne consultassero il volere e ricevessero la promessa dell'esatto pagamento a tempo debito[332].

[226]

Non di rado veniva anche fissata una somma per la quale tutti gli scolari si tenevano solidalmente obbligati, oppure si determinava la quantità del salario che ciascuno degli scolari era tenuto a soddisfare[333].

La scuola in questo primo periodo rappresentava una vera clientela tanto più lucrosa e ricercata quanto più grande era il numero degli alunni che la componevano; ed aveva sotto questo aspetto un valore venale; tanto è vero che s'incontrano frequenti esempi di dottori che lasciavano la loro scuola ad altri disponendone per testamento, ovvero cedendola per un prezzo convenuto nel contratto di vendita[334].

Con queste collette i più famosi dottori avendo moltissimi scolari iscritti alle loro lezioni, facevano molti guadagni.

Oltrechè nell'insegnamento, i dottori più insigni lucravano assai nel dare consigli e nell'esercizio delle relative professioni. Si racconta che il giureconsulto Baldo, consultato in tutta Italia per la gran fama che si era procacciata, ebbe agio di accumulare ragguardevoli somme.

Soltanto i consigli dati sulla materia delle sostituzioni dicesi gli fruttassero quindici mila scudi d'oro[335].

[227]

Cresciuto nelle università il numero delle cattedre, gli scolari non poterono più supplire interamente al mantenimento dei dottori e perciò invocarono il soccorso dei Comuni perchè concorressero alla retribuzione dei pubblici insegnanti. In questo secondo periodo si conservarono sempre le collette degli scolari; ma ad esse fu aggiunto in quasi tutte le università un contributo sull'erario pubblico per lo stipendio dei dottori. Questo sistema di retribuzione potrebbe chiamarsi misto perchè composto delle offerte private e degli assegnamenti del pubblico erario.

Alcuni dottori nei quali prevaleva alla cupidità dei guadagni l'amore della scienza, si adattavano ad insegnare in qualche famosa università anche senza stipendio, ovvero con una scarsa retribuzione[336] come Lapo da Castiglionvecchio, canonista fiorentino, il quale per quasi venti anni insegnò senza salario[337].

Anche quando a certi dottori fu assegnato uno stipendio fisso, questo non eccedè mai la somma di duecento lire annue: e ciò fino al secolo XIV perchè in seguito, come vedremo, gli assegni ai professori aumentarono assai, specialmente quando era loro vietato di ricevere offerte dagli scolari.

Ed eccoci al terzo periodo, sul quale ci fermeremo più lungamente, perchè in esso si manifesta il graduale intervento dello Stato nelle università e la mutazione dei [228] dottori da liberi docenti in pubblici ufficiali; carattere che tuttora vien loro conservato in molti paesi d'Europa.

Il primo ed il più antico esempio di stipendio pubblico si trova ricordato in Padova nel 1279[338]. In seguito Bologna concesse ad Altigrado, lettore di diritto canonico, un assegno di lire 150, ed a Dino, giureconsulto, di lire 100[339].

Lo stipendio dei dottori ordinari era in questi primi tempi assai tenue e farebbe maraviglia il vedere come fossero scarsamente ricompensati gl'insegnanti in quell'epoca, se non sapessimo che potevano supplire colle offerte degli scolari che ricevevano facendo lezioni straordinarie. Stando alle parole di Odofredo, pare che non sempre allo zelo dei dottori corrispondesse negli scolari la buona volontà di pagare.

Alla fine delle sue lezioni straordinarie questo giureconsulto trovandosi poco soddisfatto della generosità dei suoi uditori, fece il seguente avvertimento, che è anche un arguto rimprovero per l'avarizia degli scolari di quel tempo: «Et dico vobis quod in anno sequenti intendo docere, ordinarie bene et legaliter sicut umquam feci; extraordinarie non credo legere, quia scholares non sunt boni pagatores, quia volunt scire sed nolunt solvere nemo. Non habeo vobis plura dicere, eatis cum benedictione Domini.»

Ben presto però le università volendo che i professori ordinari attendessero con diligenza alle lezioni, vietarono loro, sotto minaccia di gravi pene, di riscuotere cosa alcuna e per qualunque titolo dagli scolari[340].

[229]

Erano eccettuati da questo divieto soltanto quei dottori che insegnavano privatamente, i quali, non riscuotendo uno stipendio, erano autorizzati a farsi pagare dagli scolari. Quando però anche questi dottori furono stipendiati, fu estesa ad essi pure la proibizione.

Leggendo gli statuti e i contratti fra i dottori e le università si incontrano frequentemente ricordati stipendi rilevanti[341]. Per non cadere in errore, bisogna avvertire che certe retribuzioni cospicue assegnate ai dottori, non rappresentavano già il salario, ma un compenso straordinario adeguato al tempo in cui insegnavano o alla difficoltà della scienza da loro professata.

Molte università, sperando di vincolare alcuni dottori a rimanere per lungo tempo in uno stesso luogo, anticipavano loro un capitale o in denaro o in beni stabili. Il giureconsulto Suzzara in un trattato fatto colla città di Modena si obbligò d'insegnare per tutta la vita in quello Studio col compenso del diritto di cittadinanza, e colla corresponsione di un capitale di lire 2250, di cui doveva impiegare una parte nell'acquisto di beni del territorio modenese.

Il canonista Galvano fu nel 1384 richiamato all'università di Bologna da Padova, dove insegnava con grandissimo concorso di scolari e gli venne assegnato oltre [230] lo stipendio una certa somma per mantenere allo Studio i suoi due figliuoli[342].

I dottori più insigni venivano investiti dagli imperatori e dai papi anche di vasti feudi e se ne trovano ricordati alcuni esempi nelle storie. Così il canonista Giovanni Andrea ottenne da papa Giovanni XII un feudo nel territorio di Ferrara[343].

Anche alcuni medici della scuola di Salerno ottennero simile investitura dall'imperatore Federigo II[344].

Cessate le collette, gli stipendi aumentarono, e chi aveva acquistato fama nell'insegnare veniva spesso retribuito con assegni straordinari. Il canonista Galvano da Bologna, ricordato più sopra, oltre lo stipendio, ottenne nel 1374 dal papa una somma di 240 ducati d'oro col patto però che ciò non servisse di esempio per l'avvenire agli altri dottori (ne trahatur ab aliis doctoribus forsitan in exemplum)[345].

Per gli assegni straordinari che solevano farsi ai dottori si aveva riguardo o a speciali condizioni di famiglia, [231] o alle spese incontrate nei viaggi[346] o alla grave età, o all'esercizio di uffici pubblici cui erano chiamati.

Così nel 1489 fu aumentato lo stipendio ad un dottore di Padova perchè potesse collocare in onesto stato le sorelle[347].

Riccardo Saliceti famoso dottore di legge bolognese, essendo stato spedito nel 1370 ambasciatore in Avignone al papa Gregorio XI, questi ordinò che durante la sua ambasceria seguitasse a godere del suo stipendio e che venisse rimborsato di tutte le spese del viaggio. Lo stesso papa volle poi che, oltre lo stipendio ordinario della sua lettura di gius civile, gli venissero pagati duecento fiorini d'oro all'anno anche senza fare lezione[348].

Dopo diversi anni d'insegnamento i dottori chiedevano che venisse loro aumentato lo stipendio. Giunti in età avanzata eran ammessi a godere di una retribuzione annua anche lasciando l'insegnamento e ritirandosi a vita privata[349].

[232]

Quando un dottore benemerito veniva a morte prima che terminasse l'anno scolastico, si soleva concedere ai suoi eredi il rimanente dello stipendio[350].

Le ragioni per cui si aumentavano gli stipendi erano svariatissime. Poteva ad esempio crescersi l'assegno ad un dottore col patto che durasse ad insegnare per un tempo determinato: ovvero perchè gli veniva contrapposto un antagonista di molta fama[351].

I dottori il cui merito non era conosciuto, si prendevano ad esperimento (per modum provisionis) ed erano chiamati ad insegnare con tenue stipendio. Provata la loro capacità, veniva confermata l'elezione, e fissato un assegno conveniente[352].

L'aumento di stipendio poteva farsi o alla scuola, o alla persona. Se veniva fatto alla scuola rimaneva costante, se alla persona variava secondo il merito dell'insegnante che veniva prescelto.

Lo stipendio che si concedeva ai professori era talvolta subordinato al numero degli scolari che avrebbero frequentato le sue lezioni. A Vicenza nel 1261 si trova un dottore di diritto canonico con provvisione di 500 lire con patto che avesse avuto almeno venti scolari. A Pavia il numero degli scolari doveva esser molto minore: bastavano sei almeno[353].

L'aumento di stipendio era tanto più frequente e considerevole quanto più un dottore andava acquistando nella pubblica stima.

A Pavia nel 1391 Baldo godeva l'assegno di 1200 fiorini; [233] nel 1492 Giasone ne aveva 2250; nel 1540 l'Alciato mille scudi; nel 1500 Decio duemila fiorini. Uno dei più lauti stipendi è quello di Pietro d'Abano, celebre medico, che aveva in Padova lire seimila all'anno[354].

Con decreto del Senato bolognese del 1549 fu stabilito per maggior decoro dell'università di eleggere quattro professori che si chiamassero Eminenti: uno per le leggi, uno per la medicina, un terzo per la filosofia e l'ultimo di lettere, purchè fossero famosi ed avessero letto per venti anni in uno dei maggiori Studi d'Italia, come a Padova, Pavia, Napoli, Pisa, Perugia o Torino. A questi lettori eminenti doveva essere assegnato uno stipendio maggiore che agli ordinari[355].

Nell'università di Bologna gli stipendi si pagavano ai dottori per quadrimestri o come dicevasi allora per quartironi[356].

In altre università invece era adottato il sistema delle rate mensili, come ad esempio in Piacenza, e ciò apparisce dal catalogo dei professori di quello Studio[357].

Talvolta avveniva che gli stipendi non fossero puntualmente pagati per insufficienza di danaro o per cattiva amministrazione del pubblico erario. Così avvenne nel 1486 nello Studio di Pisa dove, ai dottori delle arti non furono pagati gli stipendi di quell'anno, ond'essi se ne dolsero vivamente coi Rettori del comune fiorentino dal quale dipendeva allora l'università di Pisa.

«Più volte (dicevano nelle loro lettere i dottori pisani) ci siamo doluti quest'anno cum le M. V. della troppa [234] tardità de' pagamenti nostri, e non pare che il lamentare nostro sia exaudito. Veduto che siamo all'anno nuovo e del passato restiamo avere due terzi, parci essere tractati assai male, et hora mai noi che già solevamo essere pagati a' tempi debiti, habbiamo invidia ad ogni Collegio d'Italia, siccome ciascuno quantunque mal pagato sia meglio di noi pagato. Et più ci duole el nostro danno, che la vergogna nostra et vostra che non è mediocre. Noi viviamo delli stipendi nostri e siamo qua come sull'hosteria comprando ogni cosa e charissimo. Mutiamci oggi qui, domani a Prato e poi da Prato a Pisa[358] è sempre cum la borsa aperta per ubidire a' vostri comandamenti, molto più gagliardi al comandarci, che al premiare chi vi serve con tante spese ed affanni. Et veduto che il gridare non giova, habbiamo fra noi consultato di venire da parola a' fatti, et usare la ragione che per le vostre leggi possiamo lecitamente usare, cioè non di leggere se non siamo pagati[359]. Et così per questa mandatavi per nostro messo vi protestiamo che non leggeremo a questo principio di studio, se almeno non abbiamo la seconda paga del tempo francato. Non crediamo che vogliate patire questo disordine nello Studio vostro che ne seguirebbe scandalo grande; pure quando non ve ne curerete, la vergogna sia vostra.

«Nè temeremo essere appuntati facendo cosa a noi lecita per legge degli Statuti vostri. Piacciavi provvedere non solo al tempo presente, ma anche al futuro, [235] «acciò raffreddandosi le fatiche nostre tanto male premiate non si raffreddi tutto el Studio vostro. Mostrate averci cari come hanno mostrato li vostri antecessori. Aspettiamo risposta più di effetti che di parole. Bene valete Pisis XVII Octob. 1486[360]

Con questi brevi cenni non abbiamo inteso di dare che una idea generale degli svariatissimi sistemi di retribuzione adottati nelle antiche nostre università. L'indole di questo lavoro non ci consente di esaminarli singolarmente. Ci basta però lo avvertire che quando alle collette vennero sostituiti i pubblici stipendi, i criteri dominanti nella repartizione di essi furono i seguenti:

Questo sistema, che ci sembra il più razionale e il più conforme ai bisogni e all'efficacia del pubblico insegnamento, era comune, per quello che abbiamo potuto conoscere consultando gli storici e i cronisti del tempo, a tutte le università antiche e ne potremmo trovare la più ampia e sicura conferma in moltissimi esempi se quelli già citati non ci sembrassero sufficienti.

[236]

CAPITOLO SESTO

Significato della parola «lettura» — Come si distinguevano le lezioni nelle antiche università — Lezioni mattutine, meridiane e pomeridiane — Ordinarie e straordinarie — Teoriche e pratiche — Di primo secondo e terzo grado — Pubbliche e private — Obbligo dei dottori di essere assidui alle lezioni e pene minacciate ai negligenti — Segreta sorveglianza dei bidelli — Inaugurazione delle scuole e vacanze — I concorrenti o antagonisti — I circoli, dispute e ripetizioni — Ordine delle dispute e persone che vi prendevano parte — Il pubblico insegnamento nel medio evo — Scelta di un buono insegnante — Numero delle cattedre — Carattere educativo della scienza — Insegnamento orale — Concorso degli scolari nell'insegnamento — I ripetitori.

La parola lettura frequentemente adoperata nel linguaggio scolastico delle università antiche, ebbe origine dal metodo allora comune di chiosare e commentare gli autori e i testi di legge o di altre scienze che i dottori leggevano ad alta voce nelle scuole.

Per rendere più facile l'intelligenza di certe distinzioni ora passate fuori d'uso, classificheremo le letture o lezioni del medio evo in ordine al tempo, alla materia scientifica, al grado e al luogo.

In ordine al tempo le lezioni universitarie erano distinte in mattutine, meridiane e pomeridiane. Ciò dimostra che nelle antiche scuole quasi l'intero giorno era destinato all'insegnamento, e le lezioni delle università non avevano termine che alla sera. Però atteso la grande frequenza degli scolari e l'amore allo studio che era così diffuso e profondo, si soleva approfittare da molti dottori anche del poco tempo che rimaneva oltre le lezioni [237] ordinarie per dedicarlo a speciali studii: e si trovano ricordate di frequente certe lezioni che avevano principio avanti giorno dette perciò (antilucane) e altre dei giorni festivi (diebus festis), o fatte in tempo di vacanze (dierum vacantium).

Anche i dottori venivano distinti secondo l'ora che insegnavano in mattutini, meridiani, pomeridiani e vespertini.

Gli statuti bolognesi concedevano ai soli dottori d'insegnare nelle pubbliche scuole e nelle ore ordinarie che erano quelle del mattino. I licenziati avevano tal facoltà soltanto due volte per settimana, il dopo pranzo, ed in quelle ore nelle quali non leggeva qualche dottore stipendiato[361].

Vi era anche una classe di professori privilegiati e noti per merito insigne detti perciò «supraordinari» i quali potevano insegnare ad beneplacitum cioè nel tempo e nel modo che volevano[362].

Certe lezioni prendevano il nome dal giorno in cui solevano farsi. Così le quistioni del giureconsulto Pillio perchè esposte nel sabato erano dette sabbatinae; e son pure ricordate le venerdiali e le domenicali di Bartolomeo da Brescia.

In ordine alla materia scientifica le lezioni si dicevano ordinarie e straordinarie. Quale fosse la differenza che passava tra le une e le altre non è facile determinare.

Nei primi secoli della costituzione delle università le scuole ordinarie alle quali veniva assegnato un pubblico stipendio erano poche e ristrette soltanto ai rami d'insegnamento più necessari: tutte le altre si chiamavano straordinarie e in queste erano gli scolari che retribuivano [238] gl'insegnanti con spontanee offerte. In seguito anche alle straordinarie fu assegnato uno stipendio sul pubblico erario[363].

[239]

Le lezioni ordinarie della mattina erano le privilegiate in molte università; perchè erano le più frequentate insegnando in quelle ore i dottori più celebri. La fama di una scuola poteva dipendere anche dal merito del professore che vi insegnava. Infatti narra il Facciolati che nell'università di Padova la scuola ordinaria pomeridiana cominciò ad essere la preferita dal momento che vi cominciò a leggere diritto civile il giureconsulto Bartolommeo Sozzini[364].

Le lezioni ordinarie erano sempre le preferite in tutti i provvedimenti presi a favore dei pubblici Studii, considerandosi le straordinarie come un complemento non necessario alla conservazione delle università.

Nell'università delle arti e in specie nelle scuole di medicina, le lezioni si distinguevano anche in teoriche e pratiche e delle une come delle altre vi erano le ordinarie e le straordinarie.

Quanto al grado d'importanza le scuole si dividevano in primarie e secondarie. In qualche università si trovano ricordate anche le scuole «tertiae» cioè di terzo grado.

In Padova furono istituite queste scuole nel 1464 col fine che vi insegnassero i cittadini e avessero occasione di fare in esse le prime prove del loro ingegno. A queste scuole era assegnato un tenue stipendio che dapprima non era suscettibile di aumento. Ma nel 1655 il Senato veneto accordò ai Triumviri la facoltà di accrescerlo secondo il loro prudente arbitrio e le condizioni dei tempi. I professori delle scuole «tertiae,» detti perciò tertiarii, [240] doveano essere eletti dai presidi della città, dai questori, dal rettore dello Studio e dal decurione anziano.

Queste scuole rappresentano il primo grado d'insegnamento, dalle quali si poteva per merito ascendere alle superiori.

Anche nell'università di Torino gl'insegnanti erano divisi in tre classi. Alla prima appartenevano i dottori più famosi che avevano insegnato per dieci anni almeno in qualche università; alla seconda erano iscritti quelli che avevano insegnato per quattro anni; tutti gli altri erano di terzo grado e si dicevano straordinarii[365].

In ordine al luogo, le lezioni si dividevano in pubbliche e private.

Nei primi secoli della formazione delle università i dottori tenevano scuole in luoghi privati e frequentemente si ricordano nelle storie contratti di cessioni, per i quali col correspettivo di una somma convenuta, qualche dottore cedeva i propri scolari ad un altro.

Il giureconsulto Bulgaro, che fu uno dei primi dottori dello Studio bolognese, faceva scuola in casa propria, che fu detta perciò «Curia Bulgari» e la tradizione vuole che fosse in quel luogo dove è posto l'Archiginnasio[366].

Quando i dottori avevano un numeroso uditorio, facevano le loro lezioni o in qualche convento o nella sala del palazzo del Comune. Si narra da alcuni storici che alle lezioni di Azone in Bologna accorressero tanti scolari che egli fu costretto di leggere in pubblica piazza[367].

Quando ogni università ebbe tutte le scuole riunite in un solo edifizio (il che avvenne assai tardi) fu proibito ai [241] dottori di leggere in casa propria e specialmente in quelle ore nelle quali erano aperte le scuole pubbliche, affinchè l'insegnamento universitario non fosse danneggiato dalla concorrenza delle lezioni private.

Jacopo d'Arquà, dottore di medicina, provocò un decreto dal collegio degli artisti di Padova per proibire le lezioni private e la lettura facoltativa di certi libri di medicina agli scolari. Alcuni dottori volendo compiacere gli scolari, si riunivano nella notte in casa loro e leggevano quei libri che incontravano maggior gradimento. A questo abuso fu rimediato con un editto nel quale si prescrivevano i libri che dovevano essere interpretati nelle scuole[368]. Nel 1680 in Ferrara fu emanato il seguente editto che riguarda lo stesso argomento.

«D'ordine dell'Illustrissimi signori Giudice e Maestrato de' Savii e de' signori riformatori dello Studio, si proibisce ad ogni lettore dell'università di leggere lezioni private in casa la mattina e la sera dal punto che suona la campana dallo Studio fino all'ultima ora, che si legge nel medesimo, affinchè gli scuolari non siano sviati dal concorrere alle pubbliche lezioni e questo anche in ordine alle Costituzioni sotto pena alli contraventori della perdita dell'emolumento di quella terzaria nella quale contravverranno, rimanendovi tempo di potere esercitare questo lodevole impiego il quale servirà anche di merito mentre fatto nelle hore fuori di quelle destinate alle lezioni pubbliche diverrà sostenimento e non deteriorazione del medesimo Studio[369]

Con questa proibizione però la libertà d'insegnamento, non riceveva nessuna limitazione, essendo concesso ai [242] dottori di leggere in privato senza alcuna sorveglianza, purchè se ne astenessero nelle ore in cui erano aperte le pubbliche scuole; e ciò per prevenire una concorrenza che invece di favorire l'incremento degli studii li avrebbe danneggiati.

Alcuni fra i dottori che insegnavano nelle università, per procurarsi più lauto guadagno colle lezioni private, o per fuggir la fatica, abbandonavano talvolta le scuole o non le frequentavano con molta assiduità. A ciò provvidero gli statuti comminando pene severe a quei dottori che non avessero potuto giustificare le loro assenze. A Bologna ogni dottore che avesse lasciata la lezione era condannato a pagare due lire, e venti soldi in caso che avesse cominciata la lezione dopo l'ora stabilita. Gli scolari poi, che fossero arbitrariamente rimasti nelle scuole dopo finita la lezione, erano sottoposti all'ammenda di 10 soldi[370].

Anche le altre università sanzionarono pene pecuniarie contro i dottori trascurati e negligenti. In Padova durante l'anno scolastico era rigorosamente proibito a ciascun dottore di uscire dalla città, e quei professori, che avessero lasciate le lezioni o fossero arrivati più tardi dell'ora prescritta dagli statuti, erano condannati ad un'ammenda da detrarsi sul loro stipendio[371].

Negli ordinamenti dello studio di Siena del 1481 fu imposto ai dottori di leggere ogni giorno sotto la sorveglianza del Rettore, il quale in caso di loro assenza era tenuto a pagare lire 25 del proprio di ammenda; e lire 10 il dottore che trasgrediva, da ritenersi sul salario[372]. [243] Anche gli statuti dell'università di Napoli punivano quei dottori che mancavano alle lezioni, sottraendo un giorno dal loro stipendio. Così pure nelle riforme dello studio di Pisa si usò molta severità verso quei dottori, che mancavano ai loro doveri, imponendosi che quei che non fossero nelle scuole all'ora debita venissero appuntati dai bidelli, i quali senz'altro aspettare dovevano fare entrare in cattedra quelli presenti. Fu stabilito inoltre che non fossero ammessi impedimenti di sorta alcuna ai professori mancanti se non constassero da causa legittima[373].

Oltre le pene severe contro i dottori negligenti fu da molti statuti ordinata una rigorosa sorveglianza sulla loro condotta. I bidelli, come apparisce da' documenti, avevano un doppio obbligo: l'uno pubblico e manifesto ed era quello di annotare o, come dicevasi allora, appuntare i nomi di quei dottori che avessero lasciata la lezione o fossero arrivati più tardi dell'ora voluta dagli statuti[374]; l'altro segreto che consisteva nell'informare di [244] nascosto gli uffiziali che sopraintendevano allo Studio della condotta di ciascun dottore e della sua capacità, e della fama che godeva presso gli scolari.

Ecco uno di questi rapporti, fatto da un bidello dell'università di Pisa agli uffiziali di quello Studio, che risiedevano in Firenze.

«Magnifici et excellentissimi Domine, salutem. Solo questo, perchè mangiando il pane delle vostre Signorie mi pare dovere, quando accade alcuna cosa inonesta, a quelle darne aviso per potere detto pane mangiare senza stimolo e carico di coscienza. Sia noto alle Vostre Signorie come infra questi legisti si legge molte poche lezione, che appena arrivino alla metà del tempo debito, e come alle prime ordinarie da mattina manca del suo dovere M. Pier Filippo il quale debbe leggere ore due in voce et una in scriptis, e poi legge un'ora in voce. M. Lancellotto fa francamente suo debito et è simile M. Felino. M. Floriano non è maraviglia se non finisce le due ore in Cattedra perchè non potrebbe rogare un testamento per mancamento di testimoni[375] ha alla sua lezione tre o quattro scolari e non li passa. M. Bartolomeo Sozzini legge la mattina dopo le prime lezioni et ha una mezz'ora in scriptis et una mezza in voce, sicchè legge mezz'ora [245] e non più. M. Antonio Bolognetti legge alla medesima ora, un ora in voce. Gli Istitutori leggono mezzora e non giova con essi mie parole. M. Baldo entra alle venti ed ha un'ora in iscriptis ed un'ora in voce: gli altri fanno il dovere assai di presso e massime gli Artisti. Prego le Vostre Signorie provvegghino in forma che a me non abbia a nuocere, imperocchè quando ricordo qualche volta faccino il dovere, il minimo pedante che ci è minaccia di farmi cassare o darmi delle busse.... a dì 23 maggio in Pisa[376].

«Bartolomeo Pasquini.»

L'anno scolastico nelle università medioevali si estendeva ordinariamente a dieci mesi. Il tempo dell'apertura delle scuole variava secondo gli statuti. Generalmente l'inaugurazione degli studii si faceva nell'ottobre il giorno di S. Luca, coll'assistenza delle autorità e degli scolari, che si recavano solennemente a udir la messa nella Cattedrale.

Le vacanze annue di ciascuna università si possono calcolare in media a circa novanta. Ordinariamente le vacanze del carnevale (Baccanalia) e di Pasqua erano di quindici giorni; di Natale undici.

Quando in una settimana non ricorrevano altri giorni di festa, erano sospese le lezioni del giovedì.

Alla morte di un dottore si soleva fare vacanza perchè gli scolari e gli altri dottori potessero andare collegialmente dietro il corteggio in segno d'onore[377].

[246]

Per la morte di Azone in Bologna fu differita l'apertura delle scuole fino ad Ognissanti in segno di grande lutto per la perdita di tale insigne giureconsulto[378].

Erano talvolta gli scolari che di proprio arbitrio estendevano il termine delle vacanze. Vi sono singolari esempi di astuzie da loro adoprate per ottenere il desiderato intento. In Pisa era costume di togliere i libri ai dottori perchè non leggessero[379].

Il giureconsulto Giasone, giunto di poco allo studio di Pisa, avendo trovato mancanti i suoi libri e saputo che gli erano stati tolti dagli scolari vivamente se ne dolse, ma avendo poi conosciuto che tale era l'uso, e che non avevano voluto fare una offesa a lui personale, ma una semplice piacevolezza, scrisse agli ufficiali dello studio per scusare gli scolari da lui incolpati.

La lettera dice così:

«Magnifici Viri etc. Essendomi pervenuto a notitia come a V. S. era stato riferito, che per quella piacevolezza fecero a' giorni passati questi nostri scolari, desiderando le vacationi prout moris est, io mi era adeo turbato che proruppi in hujusmodi verba di volere incassare miei libri et partirmi dal vostro Studio: il che M. Domini mei, m'è dispiaciuto per più respecti et maxime perchè quelle forse me haranno notato di qualche [247] instabilità, ac etiam perchè m'è parso V. S. habino facto alcune dimostrationi forse ob id verso de predecti scolari, quo cessante non harebben facto. Però ho voluto significare a quelle quod a me similia verba numquam fuerunt prolata, maxime non me ne essendo suta data cagione, che in verità gli scolari predecti non si sono se non con piacevoli modi ingegnati secundum consuetudinem ut audio, in hoc vestro Studio.... Bene valete Pisis Die XII Feb. 1480[380]

A questi abusi degli scolari tento di riparare nel 1533 Alfonso d'Este per l'università di Ferrara emanando un severo editto nel quale oltre ad ammonire gli scolari — «discoli così terreri come forastieri quali hanno poco animo e intentione di voler studiare e imparar virtù di non disturbare le lezioni comanda ancora di non far ne operar per modo alcuno directo o indirecto che le vacazione del Carnevale ne altre vacazione, se habbino a far inanzi el tempo ordinato per gli Statuti del Studio questa Inclita Città.... sotto pena de la disgratia de la Excellentia Sua ed altre pene ad arbitrio di Sua Excellentia....[381]»

Anche in Pisa il Granduca Francesco III richiamava l'attenzione del Curatore dello Studio sull'abuso delle vacanze arbitrarie dicendo di volere che «si osservi ad unguem lo Statuto e che per il meno venghin letto 100 lezioni.»

La libertà d'insegnamento non avrebbe molto giovato ai progressi della cultura se non avesse trovato un potente stimolo al suo incremento nella concorrenza.

Gli antagonisti o concorrenti per espressa disposizione [248] degli statuti erano aggiunti ai dottori stipendiati coll'obbligo di insegnare gareggiando con loro nella scienza che professavano.

La concorrenza serviva agli uni e agli altri di reciproco stimolo, e mentre il pubblico insegnante dovea per sostenere validamente la gara cogli emuli, disimpegnare con alacrità ed amore i suoi obblighi, i concorrenti trovavano nella speranza di riuscire con lunghe fatiche e studii a lui superiori, un grande incitamento al culto del sapere[382].

Gli antagonisti gareggiavano nell'insegnamento coi dottori stipendiati nelle lezioni e nelle pubbliche dispute.

Pare che fosse in uso in certe università di dare più concorrenti ad un medesimo insegnante. Il giureconsulto Filippo Decio scriveva al notaro dello Studio di Pisa, lamentandosi di ciò con parole assai risentite.

«Quando io fui costì mi dolsi con voi et cum alcuni degli officiali, che io mi fussi dato due concorrenti a questa lectione che non era consueto e cussì scrissi: haria caro sapere se all'officio pervennero le mie lettere. Di poi viddi il rotolo dove haveva un solo concorrente. Io existimai che fussi stato per compiacere a me, quanto per il concorso di molti competitori che se impediverunt per concursum. Hora pure me è dicto che harò un terzo concorrente del che io non ne faria più motto agli officiali: bene haria caro d'essere da voi certificato. Io non faccio caso di due o tre concorrenti [249] della qualità di quelli cui potete dare a Pisa; e manco haria cum dui, che cum uno perchè, harebano a giostrare fra loro, e a me non mancherebano scholari, perchè sono tutti provecti et ho la più fiorita schola, che mai sia stata a Pisa di ragione Canonica. E novizi s'arebbano a dividere cum il terzo concurrente, sicchè meglio staria cum dui, che con uno, ma non ne faccio caso, e solo vorrei che non tutte le some si scaricassero sopra di me. Valete. Pisis, 22 novembris 1493[383]

In un'altra sua lettera del 1495 lo stesso Decio dice: «che ingiusto sarebbe che avendo lecto tutte le lectioni ordinarie in civile e in canonico, mattina e sera, e che avendo avuto la concurrentia de tutti e dottori de qualche merito e che essendo stato come un paragono dello Studio, non avesse maggior salario, e che questo per il tempo che ha lecto e delle prove che ha facte dovrebbe essere almeno di fiorini M.»

Nel 1479 il Senato veneto ordinò che due dottori di Padova non potessero essere concorrenti in una stessa scuola ordinaria. Nel 1588 questo decreto fu esteso anche alle scuole straordinarie[384].

[250]

Ai dottori di fama incontestata e di grave età non si solevano dare i concorrenti per liberarli dalle soverchie fatiche e dalle cure assidue che richiedeva lo insegnare in confronto degli emuli[385]. Ma nel concedere questo privilegio si aveva riguardo di non recar danno all'incremento degli studii; perciò se ne incontrano ben pochi esempi.

In Padova si trova fatto cenno di un dottore al quale fu concesso d'insegnare senza antagonista per indulgenza del principe (principis indulgentia)[386].

Racconta il Facciolati che un dottore degli artisti in Padova fu liberato dall'obbligo di avere un concorrente perchè riconosciuto superiore per merito scientifico a tutti gli altri che insegnavano in quello Studio. Ma dopo cinque anni gli scolari protestarono dicendo che un dottore senza antagonista si abbandonava facilmente alla pigrizia, e fu costretto ad accettare nuovamente un concorrente nell'insegnamento.

Questo spirito di emulazione fra i dottori del medio evo era tanto profondo che le gare non si limitavano soltanto alle giornaliere lezioni, ma erano destinati eziandio certi pubblici esperimenti nei quali gl'insegnanti dovevano disputare in confronto dei loro antagonisti, ovvero ripetere a profitto degli scolari le materie già trattate e svolgerle con maggiore ampiezza. Questi esperimenti erano comuni a tutte le università e gli statuti ne fanno menzione.

Tutti i dottori erano obbligati a prender parte a queste dispute scolastiche, e chi riusciva in esse vittorioso acquistava fama di dotto e poteva aspirare dopo questo tirocinio [251] alle cattedre di maggiore importanza. E tanto è vero che il prendere parte a questi pubblici esperimenti era occasione di rinomanza per i dotti, che si trovano ricordati negli statuti e nelle memorie universitarie, molti che accettavano d'insegnare col patto di avere un concorrente col quale potessero disputare. Altri ancora lasciavano una scuola per un'altra, dove potevano stare a fronte ad un valente antagonista.

Alle dispute più solenni che dovevano durare almeno tre ore, erano riserbati i giorni di vacanza. Il dottore che si era più distinto, superando i suoi competitori, soleva venire accompagnato a casa con gran pompa da tutto il corpo scolastico, insieme al rettore e colle insegne delle università.

Era così comune l'uso di disputare, che la maggior parte di quei che prendevano la laurea aveano già dato saggio del loro sapere in questi pubblici esperimenti. I disputanti erano sottoposti al giuramento di non tradire la fede pubblica in verun modo, nè con studiati artifizi, nè con inganni nascosti.

Anche il dottore prendeva parte alle dispute scolastiche e sorvegliava al buon andamento e all'ordine delle discussioni. Ciascun dottore una volta per settimana proponeva una tesi, alla quale soleva rispondere prima il Rettore, poi gli altri insegnanti.

Queste dispute, che si chiamavano anche Circoli, erano comuni tanto all'università dei giuristi come a quella degli artisti. Avevano luogo per l'ordinario di sera[387] (hora vigesima [252] tertia) ed erano obbligatorie per tutti sotto pena di ammenda.

Nei circoli si facevano le ripetizioni e le argomentazioni.

Per la ripetizione si prendeva ad esame un testo già spiegato nella scuola dal professore e se ne facevano tutte le possibili applicazioni ai casi pratici, sollevando dubbi e risolvendo le obiezioni che facevano gli scolari. Alle ripetizioni era destinato il tempo che correva dal principio dell'anno scolastico fino a tutto il carnevale.

Le argomentazioni eran sostenute dai dottori o dagli scolari o licenziati che aspiravano al pubblico insegnamento. Il tema della disputa era un punto di diritto per i giuristi od un quesito di scienza per gli artisti.

Le dispute nelle università risalgono a tempi assai remoti (ex antiqua consuetudine) come dicono gli statuti.

Anche i baccellieri dovevano assistere alle argomentazioni, e gli scolari aveano diritto di prendervi parte.

Le argomentazioni solevano durare dalla Quaresima alla Pentecoste e dovevano farsi ogni settimana nei giorni di vacanza, eccettuate le solennità.

Diversi giorni innanzi si esponeva pubblicamente il testo sul quale doveva farsi la ripetizione, o il soggetto che doveva dar luogo all'argomentazione.

A Padova i doveri dei dottori erano assai gravosi. Nelle dispute i concorrenti dovevano dal principio dell'anno fino a Pasqua argomentare l'un contro l'altro tutti i giorni e risolvere i dubbi sollevati dagli scolari[388]. Quest'uso venne dall'università degli artisti e fu nel 1474 adottato anche dai giuristi.

Le dispute quando erano sostenute da valenti dottori si prolungavano per lungo tempo con grande compiacenza [253] e profitto degli uditori. Nella vita di Baldo si racconta come questo insigne dottore disputasse in Bologna per cinque ore di seguito con Bartolo suo antico maestro riuscendo vittorioso.

Talvolta la disputa si protraeva fino a notte avanzata, come avvenne in Pisa, dove, racconta un bidello, in una sua relazione agli ufficiali di quello studio che «riscaldandosi e' giostranti nell'arme si fe' bujo e col torchio finì detta disputa[389]

L'indole dei Circoli e delle pubbliche dispute che avevano luogo in tutte le università, si trova ad evidenza dimostrata dal seguente documento[390]:

«CIRCOLI DISPUTATORII IN PIAZZA[391]

«Item — Che ciascuno Doctore sia tenuto intervenire ogni dì utile da sera a Circoli disputatorii in Piazza et deinde non partire se prima non sono finiti li prefati circoli, come si costuma nelli studj bene ordinati, [254] sotto la medesima pena, per infino ad Pasqua di Natale; dovendo uno per sera secondo l'ordine delle condotte scripte nel Ruotolo substenere per se, o uno scolaro, una o più conclusioni; et in specie per li Medici Philosophi et Artisti si observi come appresso cioè:

«L'ordine de' circuli de' Medici, Philosophi, ed Artisti sia questo — Che ciascuno Doctore conducto debba ogni sera utile intervenire e circularmente disputare in questo modo, che seguendo l'ordine del Ruotolo, uno de' detti Dottori debbi tenere conclusioni, et rispondere agli altri Dottori della sua facoltà li arguissero, ovvero fare tenere conclusioni a uno scolare sotto di lui, et quando lo scolare ponga conclusioni allora il detto Dottore sia tenuto rispondere almeno al suo concorrente adversario, et lui arguire dum modo non passi il numero di tre argomenti, ma possisi replicare come sia conveniente: et questo si observi per infino alle vacationi di carnasciale, pena ad qualunque non observerà lire 10 per volta da ritenersi del suo salario. Et acciocchè questo si observi s'intenda commisso alla guardia pubblica, e secreta et al bidello[392] et ad ciascuno in tutto, dovendo il bidello di ciò la rasegna ogni sera con quelli modi et conditioni, et exceptioni, che sono di sopra poste, a chi non leggesse ciascuno dì, et lo tempo ordinato: con questa declaratione, che quegli Dottori che hanno letto anni 25 o più non sieno obligati a delle disputationi et paragoni, ma sieno tenuti intervenire a detti circuli sotto la medesima pena, acciocchè per la loro presentia le cose procedino con buono, et laudabile modo....»

[255]

Oltre alle dispute vi erano le ripetizioni (repetitiones). Consistevano le ripetizioni nel dichiarare i testi già interpretati durante le lezioni, enumerandone e sciogliendone i dubbi, le difficoltà e le obiezioni[393].

Le ripetizioni e le dispute erano parte libere e parte obbligatorie. Avevano l'obbligo di disputare e di ripetere i dottori stipendiati per ordine di età. Ciò dimostra che le dispute e le ripetizioni erano considerate come un supplemento necessario delle lezioni ordinarie.

Negli statuti dell'università di Bologna era stabilito che le ripetizioni durassero dal principio dell'anno scolastico sino a carnevale; le dispute da carnevale sino a Pentecoste. Ogni settimana doveva tenersene una, nei giorni feriali, eccetto le maggiori solennità.

In Padova le dispute dovevano farsi tutti i giorni che si tenevano le lezioni ordinarie[394].

Il testo della ripetizione e il quesito della disputa doveva essere notificato più giorni avanti, e il completo sviluppo del tema prescelto che ordinariamente facevasi per iscritto, doveva consegnarsi entro un mese al bidello dell'università[395].

[256]

Spesso queste dispute davano occasione a scandali e risse perchè non erano osservate le regole ordinarie circa al modo e al diritto di precedenza dell'argomentare fra i dottori e gli scolari. Gli statuti di Padova prescrivevano che si procedesse secondo l'ordine d'iscrizione nel Ruolo degli insegnanti. Nel 1504 fu poi stabilito che primi ad interrogare dovessero essere i consiglieri delle diverse nazioni, poi gli scolari, conservato sempre l'ordine della matricola nella quale ciascuno era iscritto. La disputa si agitava fra i concorrenti delle diverse scuole[396].

Nel 1517 fu stabilito per lo studio di Pisa che la precedenza nelle dispute dovesse spettare al Rettore o al Vicerettore; e nel 1522 nella stessa università venne intimato ai dottori e agli scolari di non affiggere pubblicamente le conclusioni delle dispute senza permesso del Rettore e sotto pena di ammenda[397].

La scelta del maestro era l'atto più importante della vita scolastica nelle università antiche. Secondo i precetti di un famoso giureconsulto: «lo scolare che avesse volontà d'imparare, doveva scegliersi un dottore che intendesse chiaramente ciò che doveva insegnare, e lo spiegasse ai suoi uditori secondo la capacità che essi avevano d'intendere, imperocchè chi cerca nell'insegnare di elevarsi tanto alto e spiega cose che gli uditori non possono intendere non cerca il loro profitto ma vuole fare pompa del suo sapere. Il dottore poi, soggiunge il medesimo giureconsulto, deve possedere la comunicativa per trasmettere agli altri le sue cognizioni; ed essere di buoni e lodevoli costumi[398]

[257]

Il numero delle cattedre nelle università variava secondo il concorso degli scolari, il progredire delle scienze, e i mezzi pecuniarii di cui potevasi disporre per il mantenimento degl'insegnanti[399].

Tutte le scuole in cui s'insegnava senza intervallo dalla [258] mattina avanti l'alba[400] sino a sera inoltrata, erano sempre frequentate da molte centinaia di persone di ogni condizione ed età, che avide di sapere non curando spese e disagi erano partite da terre lontane per dedicarsi agli studii. E perchè anche il popolo potesse partecipare ai benefizii della scienza, si destinavano alcune cattedre dove si leggeva in volgare affinchè tutti potessero intendere[401].

Era allora comune convincimento che l'ufficio di insegnare non si dovesse solo limitare alla comunicazione delle idee, ma estendere eziandio all'incremento delle virtù morali e civili come le più salde basi della prosperità degli Stati e della felicità dei popoli.

Il giureconsulto Odofredo parlando come soleva in modo famigliare, ai suoi scolari, diceva: «essere lo studio una veemente applicazione dell'animo con intenzione d'imparare. Vi sono bensì (egli dice) alcuni che leggono il giorno intero ma non vi hanno il cuore, e questi studiano ma non con intenzione d'imparare.»

L'influenza educativa del sapere era ben conosciuta ed apprezzata nelle scuole del medio evo. In gran parte dei decreti di fondazione delle università se ne fa parola, ed era profonda nel sentimento universale la persuasione che ufficio della scienza fosse quello di rendere gli uomini più virtuosi.

Nel 12 agosto 1373 il popolo fiorentino desiderando [259] che fosse letta in pubblico la commedia di Dante ne fece istanza alla Repubblica[402].

«Quelli che nel professare le lettere, scriveva un segretario dalla Repubblica fiorentina[403], riuscirono sopra gli altri eccellenti, sempre furono presso di noi in grande stima, e furono da noi sempre allettati con premi, e ricoperti per quanto ci fu possibile di benefizi. Noi non siamo infatti di diverso sentimento da quei che pensano poter essere felici soltanto quelle repubbliche che sono governate da filosofi e da amici di questi, come convenghiamo pienamente nel parere di coloro i quali giudicano non potere ritrovarsi in chi presiede a un governo cosa più perniciosa e più degna di detestazione dell'ignoranza, ed abbiamo sperimentato già più volte quanto giovamento abbian recato alla nostra città gl'ingegni coltivati con buoni studii e con «nobili discipline.

«Ond'è che abbiamo sempre dappertutto cercato con grande diligenza e premura soggetti capaci d'istruire la nostra gioventù nelle lettere ed insieme ne' costumi [260] e non abbiamo mai mancato, quando ritrovati gli abbiamo, di accordar loro ogni onore e ricchi stipendi.

« . . . . . . . . . . . . . . . . . .»

I rapidi progressi fatti dalla scienza nel medio evo debbono attribuirsi quasi esclusivamente alle università le quali furono per molti secoli le sedi uniche del sapere e i soli centri dell'attività intellettuale.

Lo studio dei sistemi didattici del medio evo è adunque tanto più importante in quanto l'insegnamento pubblico rappresentava in quell'epoca il solo mezzo di comunicazione scientifica, ed era intimamente connesso colle vicende della cultura.

Era uso generale nelle antiche università d'insegnare oralmente, e gli statuti, come pure le consuetudini scolastiche, vietavano ai dottori di servirsi di appunti e note scritte, il che stimavasi indecoroso. Il Senato di Padova nel 1592 emanò un decreto col quale proibì le lezioni scritte ordinando ai professori d'insegnare senz'alcun soccorso di note e di ricordi scritti sotto pena di un'ammenda di venti ducati da detrarsi sul loro stipendio.

Anche l'opinione pubblica era contraria all'uso di insegnare con note scritte e solevansi comunemente designare quei dottori che tenevano quel sistema, col titolo dispregiativo di chartacei[404].

Era anche vietato così nelle lezioni pubbliche come nelle private l'uso di certi sommari o compendi nei quali si riepilogavano le lezioni e dicevansi volgarmente «puncta.»

[261]

Essendo la comunicazione orale delle idee il mezzo più usato per diffondere la scienza, l'esercizio della memoria fu tenuto in gran conto e l'arte del ritenere stimato invidiabile ornamento dei dotti. Una delle cause per cui un insegnante poteva acquistare rinomanza, era quella di aver dato saggio della propria memoria insegnando senza note scritte citando a mente testi di leggi e passi di autori.

In Padova, racconta il Facciolati, ottenne grande fama nel secolo XV un tal Pietro Francesco de' Tommasi, solo perchè aveva molta memoria, onde fu chiamato Petrus o Franciscus a memoria. Questo giureconsulto lasciò fra le sue opere anche un trattato sull'arte di ricordare, col titolo — Foenix Domin. Petri Ravennates memoriae magistri. — È narrato ancora dallo stesso storico che un dottore chiamato Palombo, che aveva insegnato con grande successo a Messina ed a Palermo, venne stipendiato a Padova; ma venutagli meno la memoria il primo giorno che fece lezione in quell'università, dovette abbandonare con grande vergogna la cattedra, e di cordoglio se ne morì[405].

Per aiutare la memoria era nel medio evo comune l'uso di ridurre in versi le scienze le più ribelli al linguaggio poetico, come la grammatica, la medicina ed anche la giurisprudenza, di che ci rimangono ancora molti esempi. Uno dei più curiosi ed antichi compendi poetici di medicina è quello che venne offerto dalla scuola di Salerno al re d'Inghilterra, dove sono registrati tutti i precetti dell'arte per conservare la salute.

Essendo nelle università l'insegnamento pubblico quasi esclusivamente orale, gli scolari dovevano prendere appunti alle lezioni. Vi erano poi quei tali alunni detti «socii» [262] che avevano più intimi rapporti coi loro maestri, i quali per debito di gratitudine si davano cura di annotare diligentemente tutto ciò che essi esponevano durante l'anno dalla cattedra divulgandone con amore le dottrine e i precetti nelle altre scuole.

Da queste lezioni scritte e raccolte dagli scolari, ebbero origine quei dotti e numerosi volumi, cui la scienza moderna va debitrice di gran parte dei suoi progressi perchè alla profondità della dottrina accoppiano l'utilità della pratica, nonchè una vasta e feconda suppellettile di erudizione storica.

Ed è sotto questo aspetto che i commenti e le glosse dei dottori medioevali vanno precipuamente studiati perchè molte di quelle notizie sullo stato morale, sociale e politico dei tempi di mezzo che indarno cerchiamo nei documenti originali, possiamo attingerle in quei volumi dove con linguaggio semplice e chiaro, benchè di rozza latinità, si richiamano alla mente fatti ed usi di quella epoca così ricca di vicende e di istituzioni.

Le lezioni nelle antiche nostre università non avevano nulla di quella gravità accademica che tanto nuoce all'efficacia dell'insegnamento e all'utile ricambio delle cognizioni; ma potevano dirsi vere conferenze scientifiche fatte in modo famigliare e senza ombra di burbanza cattedratica dove il maestro chiamava i suoi scolari a dividere i propri studii ed a partecipare alle proprie indagini nel vasto campo del sapere.

Il professore allora prendeva a trattare un argomento, sovente scelto col consenso degli scolari, e su quello faceva le sue lezioni le quali erano ad un tempo un mezzo efficace per dare pubblica prova del proprio ingegno e stimolare quello degli scolari.

Chi consulti quei dotti volumi, dove è compreso fedelmente [263] tutto quanto gli antichi dottori esponevano a viva voce dalla cattedra, potrà farsi un'idea chiarissima di ciò che fosse una pubblica lezione nelle università del medio evo. I numerosi commenti che i giureconsulti ci hanno lasciato dove è raccolta tanta sapienza ed acume d'interpretazione, non sono in gran parte che le illustrazioni orali del testo fatte nella scuola. Nè ci può sorprendere la vastità della materia che ognuno di quei dotti prendeva a svolgere annualmente ai suoi uditori, quando si pensi allo spirito d'emulazione che regnava fra gl'insegnanti.

Certamente nei commenti dei glossatori che fiorirono nei tempi di mezzo, non v'è l'ordine rigoroso e sistematico delle opere giuridiche moderne, ma a questo difetto supplisce: la semplicità d'eloquio, la rettitudine dei giudizi e delle opinioni, l'opportunità degli esempi e quel senso pratico che i dottori allora acquistavano coll'esperienza della vita pubblica e colla partecipazione ai più elevati uffici sociali.

La lezione non era soltanto un mezzo per diffondere le cognizioni ed i precetti della scienza, nè un magro commento sui testi e le dottrine degli scrittori. Il professore che teneva i suoi scolari in qualità di amici e confidenti, comunicava nella scuola le sue idee in modo tutto famigliare e dimesso volendo che tutti cooperassero seco alle ricerche scientifiche e partecipassero a' suoi lavori.

S'incontrano frequentemente nelle opere dei dotti di quel tempo, nelle quali sono raccolte le lezioni da loro esposte sulla cattedra, accanto alle glosse ed alle illustrazioni del testo, numerose digressioni delle quali si valevano per fare sfoggio della propria dottrina, ovvero sentenze morali che applicavano ai casi pratici allegando svariati esempi e richiamando spesso anche le memorie [264] della loro vita. Alcuni poi per rallegrare l'uditorio si compiacevano anche di narrare argute novellette e fra questi deve annoverarsi Odofredo il quale, benchè si esprima in rozzo latino al pari dei suoi contemporanei, pure ha uno stile così disinvolto e parla con tanta schiettezza delle cose e degli uomini del suo tempo, che è molto piacevole a leggersi.

Dalle opere di questo scrittore si desume con molta evidenza il vero carattere e la forma delle lezioni del medio evo. Quel continuo intercalare «or signori» che fa precedere ad ogni periodo, dimostra che i commenti alle Pandette che di lui ci sono rimasti, comprendono integralmente le lezioni da esso esposte all'università di Bologna. Quando deve esprimere un'opinione propria cerca di prevenire gli obietti colle parole: «or dicet mihi aliquid vestrum.... respondeo;» e questa è una prova che gli scolari solevano confutare i dottori nella scuola; il che viene narrato anche dallo stesso Odofredo e da altri autori. Pare però che l'uso d'interrompere i professori durante le lezioni fosse più raro nelle scuole ordinarie della mattina alle quali si attribuiva generalmente una maggiore importanza[406]. Così pure le lezioni di Rolandino[407] spesso si convertono in un dialogo tra il maestro e gli scolari e rammentano il carattere e l'uso dell'insegnamento adottato nelle nostre università del medioevo[408].

[265]

Abbiamo veduto come le scuole fossero divise nelle nostre università per gradi, secondo l'importanza dell'insegnamento e la fama dei professori. Ora, mentre le scuole di primo e secondo grado erano riserbate ai dottori, vi erano le terziariæ che si destinavano ai cittadini e agli scolari. Il carattere di queste scuole si trova ben determinato nell'università di Padova dove, al dire del Facciolati, furono quelle istituite come in via d'esperimento per coloro che si avviavano ad insegnare colla retribuzione di un tenue stipendio, che serviva ordinariamente per supplire alle spese della laurea. Anche in Bologna vi erano sei cattedre per i legisti e cinque per gli artisti, alle quali erano chiamati ogni anno gli scolari scelti in numero uguale fra gli ultramontani ed i citramontani. Di preferenza soleva accordarsi l'onore di una cattedra a quelli scolari che avessero dato saggio del loro ingegno e dottrina nelle pubbliche dispute. Lo stipendio assegnato a quei che occupavano tali cattedre era di lire cento bolognesi[409].

[266]

Quando le scuole destinate alle letture degli scolari rimanevano vacanti, gli stipendi andavano a profitto dei collegi in compenso delle lauree che si conferivano gratuitamente[410].

Gli scolari che si esponevano ad insegnare dovevano uniformarsi alle prescrizioni degli statuti. Chi voleva leggere un solo libro o titolo di un'opera, doveva aver frequentato l'università per cinque anni; chi voleva esporre l'opera intera, sei.

A proposito degli scolari insegnanti troviamo nello statuto bolognese una particolarità che merita attenzione perchè dimostra ad evidenza quanto ingegnoso fosse l'ordinamento scolastico nelle università medioevali.

Essendo divenuto assai comune l'uso fra i dottori di procacciarsi scolari con mezzi illeciti, lo statuto bolognese minacciò una pena pecuniaria a coloro che si fossero resi colpevoli di tale abuso, eccettuando però gli scolari insegnanti (lectores). Questi quando esordivano nel loro insegnamento potevano ricorrere anche alle preghiere per procacciarsi uditori.

«.... rogare (dice lo statuto con frase molto espressiva) tacite vel expresse re vel verbo, vel quocumque alio calore verborum» (Stat. bonon., lib. II, pag. 39).

Lo scolare insegnante poi era sottoposto al giuramento; ma era rilasciata al Rettore la facoltà di poterlo esimere da quest'obbligo. Doveva inoltre pagare una tassa che aumentava secondo l'importanza e la quantità della materia [267] che leggeva durante l'anno della cattedra. Da questa tassa erano esenti i figliuoli dei dottori.

Lo scolare che aveva esposto un'opera intera poteva aspirare senza bisogno d'altra prova al grado di baccelliere[411].

In alcune università per non far danno all'insegnamento ordinario, solevano destinarsi i giorni di vacanza per le lezioni degli scolari.

Negli statuti di Perugia si trova disposto che ogni anno potesse venire scelto dagli scolari un matricolato incaricato di leggere nei giorni festivi e stipendiato dal Comune coll'obbligo di prendere la laurea in quella università[412].

Anche nell'università di Torino gli scolari erano ammessi a partecipare all'insegnamento, però nei soli giorni di festa e di vacanza ed erano compresi fra i lettori straordinari[413].

Gli scolari avevano anche il diritto di partecipare insieme ai professori alla scelta delle materie da trattarsi nelle lezioni. Ogni insegnante era obbligato per gli statuti a mostrare al respettivo collegio descritta in pagine la serie degli argomenti che intendeva di svolgere durante l'anno scolastico. Questo sommario o programma dell'insegnamento dicevasi pagina. Sembra che i collegi solessero esaminare queste pagine secondo l'ordine di merito dei singoli dottori e l'importanza della scienza da essi [268] trattata. Infatti si narra che Guglielmo da Reggio movesse lagnanze in Padova al collegio delle arti perchè la sua pagina era stata letta dopo quella di Guglielmo da Tordova che stimava a sè inferiore perchè laureato due anni dopo di lui e perchè la materia da lui insegnata era di minore importanza che la sua[414].

Presentate le pagine ai collegi, gli scolari potevano interloquire sulla scelta dell'argomento da svolgere nelle lezioni e proporre anche aggiunte e modificazioni al programma. Era questo un altro notevole diritto conferito dagli statuti e dalle consuetudini universitarie agli scolari oltre a quello già ricordato di partecipare al pubblico insegnamento. Nel 1435 nacque in Padova una grande contesa fra gli scolari dell'università delle arti sulla scelta dei temi da trattarsi in quell'anno e sui libri di fisica di Aristotile da spiegare. Il Rettore per calmare gli animi dovè interporre la propria autorità e chiamare tutto il corpo scolastico per risolvere la controversia[415]. Un esempio anche più evidente del concorso degli scolari nella scelta degli argomenti scientifici ci viene offerto dagli statuti dell'università di Perugia[416].

In alcuni statuti si trova fatto cenno di ripetitori (ripetitores) ma non si può ben determinare quale ufficio avessero nell'insegnamento. A giudicarne dalle scarse memorie che ne rimangono parrebbe che questi «ripetitores» fossero privati docenti che tenevano un posto intermediario fra i dottori e gli scolari. In questo senso se ne trova fatta parola negli statuti di Arezzo. Anche a [269] Napoli son ricordati i ripetitori. A Bologna un tale ufficio si esercitava dagli scolari poveri che ripetevano privatamente le lezioni per mantenersi agli studii[417].

CAPITOLO SETTIMO

La vita scolastica nel medio evo — Importanza degli scolari nelle università italiane — Lo spirito turbolento — Esempi di vita licenziosa e di indisciplinatezza — Leggi repressive contro i disordini degli scolari — Le feste scolastiche — Avventure amorose degli scolari — Collegi pel mantenimento degli scolari poveri — Vesti speciali riserbate agli scolari e ai dottori — Discordie politiche nelle università — Rapporti fra gl'insegnanti e gli scolari nelle università antiche — Loro affetto reciproco — Vita e costumi dei dottori — Moltiplicità di uffici dei dottori — Loro gradi ed onori — Frequenti emigrazioni degl'insegnanti — Loro avidità di guadagno — Carattere fiero e turbolento dei dottori — Discordie nelle scuole — I plagi — Facezie e motti di famosi insegnanti.

Le università antiche erano frequentate da scolari e professori appartenenti a diverse nazioni e necessariamente di lingua, di abitudini e di costumi affatto difformi. Bene spesso venivano in loro compagnia anche le famiglie per evitare gl'incomodi di una troppo lunga separazione, e dividere insieme i pericoli del viaggio ai quali era esposto chi frequentava in quel tempo le pubbliche strade. Anche le famiglie erano ammesse al godimento di quei privilegi che gli statuti concedevano a chi faceva parte [270] dell'università, e dal momento che ponevano sede in una città erano considerate come facienti parte anch'esse della grande corporazione scolastica. L'emigrazione di una scolaresca da una ad altra università portava adunque un gran numero di persone estranee, oltre gli scolari, e si formavano tante colonie separate dette nazioni secondo il numero dei paesi stranieri (ultramontani) o delle diverse provincie d'Italia (citramontani) che rappresentavano.

Lo scolare del medio evo aveva un duplice vincolo di convivenza; quello cioè della scuola, che acquistava appena iscritto nelle matricole universitarie, e quello dei proprii connazionali coi quali manteneva i più intimi rapporti di fratellanza e di solidarietà.

Al contatto di gente di paesi diversi, il sentimento di nazionalità si affermava energicamente quanto maggiori e più frequenti erano le occasioni di avvicinarsi le quali erano molte, attesa la comunanza di vita che doveano mantenere per ragione degli studi, e la residenza obbligatoria in una medesima città.

Gli scolari si consideravano, lontani dalla loro patria, come i rappresentanti e i legittimi difensori dell'onore nazionale e frequentissime perciò erano le discordie che nascevano fra le diverse colonie specialmente straniere, per offese ricevute e che si credevano in diritto di vendicare. Questi tumulti dividevano le scuole e mettevano in scompiglio l'intera università perchè ai contendenti si univano i partigiani, che volendo assumere le difese dell'una o dell'altra parte aumentavano le turbolenze ed eccitavano i disordini.

I Rettori quando avvenivano queste sedizioni, cercavano di calmarle il più delle volte chiamando le parti con opportuni eccitamenti alla concordia e infliggendo pene severe ai più indisciplinati. Ma prolungandosi talvolta [271] queste discordie e sfogando spesso i dissidenti il loro rancore nelle scuole durante la lezioni, era necessario che i magistrati provvedessero in altra maniera, adoperando maggiore severità. Così narra il Facciolati che nel 1579 in Padova nacque discordia fra uno scolare francese e un tedesco, e tutta l'università si levò in armi. Esaurito ogni mezzo di conciliazione fu necessario che il Senato che soprintendeva allo Studio, ordinasse la chiusura di sette scuole dei giuristi, quattro dei medici, e una dei filosofi. Altri storici ancora narrano molti altri casi consimili di tumulti nati fra scolari di nazioni diverse, per le più lievi cagioni.

In Bologna alcuni scolari meglio forniti di averi pretendevano di godere i migliori quartieri, e quando venivano loro negati se ne impadronivano a forza cacciando i legittimi inquilini[418]. Nè ciò basta. Alcuni dei più audaci volendo disturbare le scuole mentre i dottori facevano lezione, vi si introducevano mascherati suscitando disordini e tumulti.

Quest'uso singolare si trova ricordato nell'università di Ferrara e rimane tuttora un Editto assai curioso del 1478, che proibiva lo entrare in maschera nelle pubbliche scuole.

L'Editto dice così: «Per parte dell'Illustrissimo Signor nostro Hercule Duca etc. se fa Commandamento ad ogni, e singole persone, cusì terriere, come forestiere de che condizione se siano, che da qui innanti non ardiscano, nè pressumano andare in Mascara alle Schole del Studio de questa Inclyta Città de Ferrara, ad impazare li Legenti, e li Doctori, o veramente le lectioni di Scholari alla pena de Ducati diese de oro da farsi [272] applicare alla Massaria Ducale, et de stare otto dì in prigione; notificando a cadauna persona che a tale Maschera serano levate le Maschere dal volto e menate in prigione e non usciranno se non pagheranno la pena[419]

Quest'uso di entrare in maschera nelle scuole durante le lezioni si trova anche nell'università di Padova, la quale sanzionò gravi pene sì pecuniarie che corporali ai contravventori e proibì pure per evitare scandali, che entrassero nel recinto dello Studio e nel luogo dove si facevano le lezioni, gli scolari o altre persone accompagnate da donne[420].

In Ferrara gli scolari sotto pretesto di festeggiare la nascita del primogenito del Duca Ercole che avea sposata la celebre Lucrezia Borgia, dettero fuoco in segno di gaudio alle panche delle scuole[421].

Nel 1584, sessanta scolari si riunirono in una casa presa a pigione a spese comuni, ed eletto un principe della società fra loro, ed altri col nome di ministri, tenevano le adunanze con grande apparato ribellandosi alla giurisdizione del Rettore e compromettendo colla loro vita licenziosa l'ordine pubblico e la tranquillità dei cittadini. Intervenuti i magistrati, ordinarono che questa illegale associazione si sciogliesse e così durò poco più di un mese[422].

I più futili pretesti servivano spesso di occasione a discordie e tumulti fra gli scolari. Nel 1532 gli scolari di legge di Padova chiesero al Senato che la campana [273] che annunziava il principio delle lezioni, non fosse concessa per l'uso degli artisti, e il Senato per evitare serii disordini dovette annuire a questa richiesta[423]. In Bologna nel 1321 nacque discordia fra gli scolari che vivevano a spese proprie e quelli che erano mantenuti agli studi e tanto si accesero gli animi che fu necessario l'intervento del Senato[424].

Nell'università di Pisa la festa della vigilia di Sant'Antonio, soleva celebrarsi dagli scolari con molta solennità, e poichè si pretendeva che i dottori si astenessero dal fare lezione, nascevano frequenti risse e discordie. Racconta il Fabroni che in questo giorno gli scolari solevano recarsi mascherati in Sapienza e giocavano cogli aranci, il che dicevasi, «fare alle aranciate.»

Nell'anno 1550 celebrandosi questa festa, gli scolari fecero tumulto per impedire ai dottori di far lezione, e l'università per quel giorno fu messa in scompiglio. Il Rettore scriveva a Cosimo I per informarlo del fatto in questa maniera: «Essendo cosa ordinaria che avanti la vigilia di S. Antonio sogliono i scolari fare una mascherata e venire in la Sapienza a fare alli aranci con li altri scolari e dottori per fare le aranciate, così questa mattina all'improvviso sendosi mascherati circa 25 o 30 scolari vennero in la Sapienza e giocando e scherzando tra loro fecero che i Signori Dottori soprassedessero dal leggere e così si dette vacanza.»

Cosimo che vedeva di mal'occhio questi esempi d'insubordinazione, rispondeva sdegnato: «Se li scolari attendessero come saria el debito loro alle lettere e alli [274] studj, e non come fanno alle baje e che almeno nel far le baie non offendessino le persone non ne nascerebbono di questi inconvenienti[425]

Per prevenire questi frequenti disordini nella Riforma dello Studio pisano fu disposto: «che lo Scholare che faccia tale strepito dopo che si sarà corretto la prima e seconda volta, si privi per quell'anno di Pisa come discolo e turbatore dello studio degli altri.» E perchè i dottori mantenessero la disciplina nelle scuole, furono minacciati della perdita del salario di due lezioni quando procurassero gli strepiti degli scolari[426].

Un fatto narrato dal Ghirardacci ci dimostra fino a qual grado d'insolenza giungessero certuni che col nome di scolari frequentavano le antiche università.

Un tale Freddo della nobile famiglia senese dei Tolomei venuto da Parigi a studiare in Bologna, si mostrava di natura così risoluto e violento che ben presto per cagion sua tutta l'università fu posta in disordine. Molti scolari per paura di lui si recarono a studiare altrove e quei che vollero resistergli ne riceverono gravissime offese. Riunitisi poi con lui alcuni malviventi, egli preso animo, incominciò a sfidare pubblicamente tutti gli scolari minacciandoli anche di morte. I Rettori, sospese per cagione di questi disordini le lezioni, ricorsero al Consiglio. Tentati invano accordi d'ogni maniera per riguardo alla famiglia cui apparteneva quell'insolente e avuto da lui per risposta che se più oltre gli ragionavano di ciò avrebbe fatto assai peggio, si riunirono tutti i magistrati della città insieme all'arcidiacono e ai Rettori e ordinarono a Freddo di lasciare Bologna entro [275] il termine di quattro giorni senza ritornarvi più per dieci anni, e trascorso il tempo assegnato fu stabilito che chiunque lo incontrasse potesse impunemente ucciderlo colla minaccia della morte a chi gli avesse dato ricetto[427].

Verificandosi tanti disordini per opera degli scolari malvagi, gli statuti cominciarono a vietare l'uso delle armi che avevano concesso per privilegio a tutte le persone che facevano parte delle università comminando pene severissime ai trasgressori a qualunque grado appartenessero. Questo divieto fu fatto osservare con molto rigore. Sorpreso in Padova uno scolare tedesco colle armi in dosso, venne sottoposto alla tortura sebbene fosse figliuolo del cancelliere Cesareo. Altri esempi di severa repressione del porto abusivo delle armi s'incontrano nelle storie dell'università di Padova. Nel 1565 fu carcerato perfino uno dei Rettori perchè aveva violato la legge, e nel 1580 avendo gli scolari fatto tumulto perchè fosse tolto il divieto, ne fu preso uno dei più audaci di nome Pietro Raimondo e condannato nel capo[428].

Anche in Bologna era proibito l'uso delle armi e per evitare disordini si punivano coll'ammenda di cinque lire gli scolari che frequentavano i giuochi d'azzardo[429]. Se però nel grande concorso delle persone che convenivano a studiare in una medesima città ve ne erano alcune, e fors'anche non poche, che dimentiche dei doveri del vivere onesto e civile e intolleranti di ogni freno si ribellavano all'autorità delle leggi e dei magistrati, non si deve concludere per questo che tutti gli scolari che frequentavano [276] le antiche università si assomigliassero nei cattivi costumi e nell'insolenza dei modi.

La vita licenziosa che taluni conducevano negli anni degli studi era in parte effetto dell'indole giovanile che è di per sè inclinata ai piaceri e al disordine, e derivava eziandio dai costumi del tempo e dalla generale corruzione. Nel medio evo, ognuno lo sa, mancando un potere supremo che sapesse dirigere e regolare gli svariati moti dell'attività individuale e frenare gli abusi, la società era sconvolta e non si aveva una idea chiara dell'uso legittimo della libertà. La grande varietà delle leggi e delle sanzioni penali, per le quali era lecito in un luogo o per lo meno tollerato ciò che in un altro veniva punito colla maggiore severità, facilitava i mezzi di scampo ai delinquenti e cresceva in essi la speranza d'impunità.

Certe classi sociali, come gli ecclesiastici, i nobili e gli studenti, godendo di speciali privilegi, per i quali venivano sottratti alla giurisdizione dei magistrati ordinari, aveano più frequenti le occasioni e i modi di ribellarsi alle leggi invocando sempre i diritti proprii della loro condizione col favore dei quali facilmente potevano eludere le ricerche della giustizia[430].

Ciò che rendeva molto variata e caratteristica la vita scolastica del medio evo era la frequenza delle feste che si celebravano in certe epoche dell'anno per cura degli [277] studenti contribuendo alle spese necessarie i professori e altre persone addette all'università.

Le feste scolastiche erano assai numerose.

Le occasioni per celebrare le feste non mancavano in quei secoli, e particolarmente agli scolari non faceva, allora, come sempre, difetto la fantasia per trovare qualche ragionevole pretesto di divertirsi.

L'elezione del Rettore vedemmo con quanto fasto e solennità fosse celebrata. Cavalcate, giostre, tornei, conviti, balli, rallegravano non solo l'università in quel giorno, ma la città intera, la quale prendeva parte a questa cerimonia come ad una pubblica festa.

Così pure le lauree degli scolari più ricchi erano festeggiate con grande apparato di conviti, di balli, e accompagnate da altri segni di gaudio e celebrate col concorso dei primi magistrati e di tutti gli studenti.

L'arrivo di qualche professore che fosse preceduto da molta fama soleva mettere in moto l'intera città. I Rettori, i Magistrati civili e tutto il corpo scolastico andavano incontro al nuovo venuto colle insegne dei respettivi gradi e lo accoglievano con molta solennità insieme a grande concorso di popolo festeggiante.

Ogni università poi oltre quelle citate, aveva le sue feste particolari tanto civili che religiose le quali variavano secondo gli usi e le consuetudini locali.

Per celebrare degnamente le feste, gli scolari erano autorizzati per un privilegio speciale a fare collette per la città, alle quali dovevano obbligarsi anche i dottori. In qualche università gl'insegnanti erano costretti a contribuire alle feste scolastiche per una somma determinata. Così in Padova i dottori dovevano annualmente pagare all'università cento ducati per espressa disposizione degli Statuti.

[278]

Oltre i dottori contribuivano a celebrare le solennità universitarie anche i cittadini con offerte spontanee.

Gli ebrei che erano in fama di gente danarosa, e che nel medio evo come vittime dei pregiudizi religiosi del tempo, non godevano di personalità civile, venivano aggravati pel consueto più di tutti gli altri. Una legge del 1571 ordinò che in Bologna gli ebrei dovessero pagare lire 104 e mezzo ai giuristi e 70 agli artisti a profitto delle feste del carnevale[431].

Il danaro raccolto veniva depositato in luogo sicuro e destinato a fare i ritratti e le statue di dottori più famosi come vedremo parlando fra breve dei rapporti che avevano gli antichi scolari coi loro maestri[432].

Un particolare di qualche interesse relativo ai costumi degli scolari del medio evo è quello che riguarda la loro vita e le avventure di amore. Il Boccaccio e gli altri novellieri, fedeli narratori degli usi di quel tempo, ricordano assai frequentemente gli scolari nei loro racconti. Nella novella settima della giornata ottava, il Boccaccio narra una cattiva burla che ricevè uno scolare fiorentino per nome Rinieri da una scaltra vedova alla quale avea chiesto amore, e della vendetta che egli ne prese. Omettendo il lungo racconto che la vivace fantasia del novelliere ha ordito con tanta evidenza, ricorderemo [279] l'avvertimento col quale, come morale della favola, lo scrittore insegna — che cosa sia lo schernire gli scolari. «Così dunque — dice il Boccacio — alla stolta giovane addivenne della sua beffe, non altrimenti con uno scolare credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto, non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda. E perciò guardatevi donne dal beffare gli scolari specialmente.»

Nell'opinione comune di quel tempo erano tenuti adunque gli scolari per audaci e molto scaltri in amore, nè le donne potevansi beffare impunemente di loro[433].

Le storie registrano frequenti ratti di fanciulle, operati da qualche scolare, e molte altre amorose avventure nelle quali gli autori spesso dovevano scontare gl'impeti sconsiderati dell'ardor giovanile con gravi pene e anche colla vita. Uno di questi casi, e dei più noti, perchè dette luogo a grandi e impensati rivolgimenti nell'università bolognese, avvenne nel 1321 ed è raccontato dal cronista Ghirardacci in questa maniera:

«Era venuto allo studio di Bologna un giovane di assai belle fattezze e grato aspetto, chiamato Giacomo da Valenza il quale (come il più delle volte avviene dei giovani, sendo assai più intento ai piaceri che agli studi) ritrovandosi un giorno ad una festa, che nel [280] tempio maggiore della città si celebrava, a caso gli venne fisso gli occhi in una damigella di bellissimo aspetto, chiamata Costanza, figliuola di Franceschino, o Chechino de Zagnoni, e nepote di Giovanni Andrea famosissimo dottore di legge, e di lei sì fieramente s'innamorò, che ne giorno ne notte ritrovava riposo al suo cuore, anzi vie più di hora in hora cresceva il dolore e questo perchè la giovine niente l'osservava, ma salda nella sua buona creanza ed honestà si mostrava aliena del tutto, da questi amorosi inciampi. Hora il giovane vedendosi a sì disperato passo, aperse il suo segreto disegno a certi suoi cari amici, et inanimato al fare quanto haveva pensato, egli un giorno, osservando che il padre non era in casa, arditamente entrò in casa della giovine, et a forza la trasse fuori conducendola in casa di un suo fedele amico, la qual rapina denunciata al padre, prese l'armi e accompagnato da molti de' suoi parenti, passò alla casa dove si ritrovava lo scolare con la giovane; ma il Valentino coraggiosamente difendendosi, e ributtando il padre della giovine adietro, tosto chiuse la porta della casa, e senza ritrovare contrasto, insieme con la giovine, per una porta di dietro, fuggendo si salvò. Questo misfatto generalmente spiacque a tutti e se ne fece querela presso il Pretore acciocchè un tanto disordine fusse castigato. Pose il Pretore le spie in ogni lato della Città, ne passò molto tempo che lo ritrovò, il quale posto prigione confessò liberamente il delitto. Il perchè subito fu sentenziato che la mattina seguente allo spuntar dell'aurora, dovesse esser decapitato e così fu fatto. Spiacque oltremodo a tutto lo Studio la morte del giovinetto amante, e tanto fu lo sdegno loro, che sotto giuramento determinarono partirsi da Bologna, [281] et acconcie le robbe loro, per la maggior parte insieme, con molti de' dottori passarono allo studio della Città di Siena, rimanendo gli altri nella Città come di prima.»

Nella grande moltitudine di scolari che frequentavano le antiche università, ve ne erano di quelli sprovvisti affatto di mezzi di fortuna, i quali spinti dal desiderio d'imparare, implorando il soccorso dei compagni e dei maestri, vivevano a pubbliche spese negli anni necessari a compiere i loro studii. Le storie ricordano alcuni esempi di uomini, diventati poi illustri, i quali negli anni della loro giovinezza vissero di elemosine per frequentare gli studii[434].

[282]

Per provvedere a questi scolari indigenti, vennero fondati in molte città numerosi collegi per opera di private elargizioni. In questi istituti potevano gli scolari che vi erano ammessi vivere agiatamente per tutto il tempo che frequentavano le università, essendo provveduti di tutto il necessario[435].

Questi collegi destinati al mantenimento degli scolari vennero fondati in epoche separate, ma ebbero origine quasi contemporaneamente alle università, e ben presto si propagarono tanto che la sola città di Padova n'ebbe ventisette, come può vedersi nel Facciolati[436], e Bologna quattordici dal secolo decimoterzo in poi[437].

I collegi erano ordinati a forma di corporazione ed aveano i loro statuti, e generalmente prendevano nome dal fondatore o dal suo luogo di nascita. Gli scolari poveri, scelti per espressa disposizione del testatore dagli [283] eredi, erano mantenuti nel collegio per tutto il tempo necessario a compiere gli studii e provveduti di vitto ed alloggio. Molti dei più insigni dottori erogarono il loro patrimonio a questo lodevole scopo; il che mostra quanto stretti fossero i vincoli di amicizia e fratellanza che intercedevano fra gl'insegnanti e gli scolari del medio evo[438].

Le autorità scolastiche fino dai primi tempi della fondazione delle università, ordinarono ai professori e agli studenti di portare un vestito differente dagli altri cittadini. Quanta cura si riponesse allora in questi segni esterni di ossequio e considerazione lo dimostrano le parole degli statuti, le severe pene minacciate e le gravi riprensioni che si trovano fatte a quei dottori, i quali riconoscendo la dignità del loro grado non andavano vestiti come prescrivevano le leggi e le consuetudini scolastiche.

Nel 1570 il Rettore dello Studio pisano riceveva dal segretario Taurelli che scriveva a nome del Granduca la seguente ammonizione:

«Con dispiacere non poco ho inteso il procedere di alcuni dottori e comparire in abito incivile non solamente per la città negoziando e procedendo indifferentemente in abito corto, ma ancora comparendo così in collegio, e negli atti pubblici; costume poco grave, e poco honorato alla professione di coloro che hanno a insegnare ad altri non solamente le lettere in cattedra, ma ancora li buoni costumi coll'esempio. Di che non [284] dubito che se li serenissimi nostri Signori avessero notizia parimente ne avrebbero dispiacere. Esorto pertanto la S. V. a provvederci con far loro intendere, che se non correggeranno tale errore saranno costretti non solamente con riprensioni.... ma ancora nelle occasioni sarà fatto loro qualche carico nè si potranno dolere d'altri che di sè stessi[439]

In quanto agli scolari, gli statuti impongono lo stesso obbligo di andar vestiti tutti ad un modo per essere riconosciuti dai cittadini e profittare dei diritti e privilegi propri della loro condizione.

Qualche statuto prescrivendo agli scolari un solo vestito volle rimediare ai dannosi effetti di un lusso eccessivo negli abiti dei quali alcuni dei più ricchi ambivano di fare sfoggio[440].

La veste di cui dovevano far uso gli scolari era di panno[441] di color nero. Quanto alla forma lo statuto bolognese così dispone: «........ quem pannum pro habitu superiori cappa tabardo vel gabano vel consimili veste consueta pro tunc longiore veste inferiore et clausa a lateribus, ac etiam fibulata seu maspillata anterius circa collum portare teneantur intra civitatem sub poena trium, lib. bonon. Rect. effectualiter exigenda[442]

Così pure lo statuto dell'università fiorentina prescrive che ogni scolare vesta «.... De una cappa vel gabbano ut statuta, omnes de uno eodemque colore panni, in quo panno non sit nec esse possit accia, vel tormentina, [285] sed totus de stame lanae nec plurium colorium variatis, cujus pretium non possit excedere aliquo modo summam XXII solidorum florenorum parvorum pro quolibet brachio, poena perjurii et librorum X florenorum parvorum cujuscumque qui pro majori pretio emet....»

Il panno inoltre, sempre secondo lo stesso statuto, deve essere di un braccio di larghezza e si chiama panno onesto o dell'onestà (pannum honestum et honestatis pannum appelatur).

Ogni scolare era obbligato di vestire nel medesimo modo a qualunque classe sociale appartenesse per nascita e grado.

Anche in altre università troviamo imposto il medesimo obbligo agli scolari e agli insegnanti. Il duca di Savoja con decreto del 1457 proibì ai dottori dello Studio di Torino di vestire in abito corto alla maniera dei laici e a chi non osservasse questo suo divieto minacciò la privazione degli onori e dei privilegi del collegio[443]. Fu soltanto nel secolo decimosettimo che quest'uso del vestire uniforme venne meno in quasi tutte le università, finchè sopravvenute nuove leggi, lo tolsero affatto essendo già mutati gli ordinamenti scolastici e le condizioni sociali che ne giustificano l'applicazione[444].

Ma per quanto le leggi si sforzassero per mantenere l'integrità e l'autonomia delle università, di allontanare da esse ogni influenza dei costumi del tempo, non poterono [286] farle rimanere affatto estranee alle vicende tumultuose che tenevano agitata in quei secoli la società.

Gli odii di parte tanto comuni in quell'epoca, facevano risentire i loro dannosi effetti anche nelle scuole. Nell'università di Bologna s'introdussero le stesse distinzioni di partito che alimentarono per molti secoli le discordie cittadine[445]. Il Sarti riferisce una nota tolta dai documenti del tempo in cui si trova registrato il nome dei giureconsulti bolognesi secondo il partito al quale aderivano; e lo stesso storico narra che nel 1274 essendo rimasto vincitore il partito de' Geremei molti dottori e scolari che appartenevano ai Lambertazzi furono costretti per evitare le persecuzioni degli avversari, di prendere un volontario esilio da Bologna[446]. Il Ghirardacci racconta pure che avendo una volta i dottori di legge supplicato il Senato di potere conferire la laurea dal sette di ottobre fino a Natale a sei dei migliori scolari dell'università, il Consiglio accondiscese a tale domanda «purché — dice lo storico — gli scolari fossero della parte della Chiesa e de' Geremei di Bologna e non havessero mai tenuto dalla parte dei Lambertazzi e non fossero figliuoli, fratelli o nipoti di detti dottori. Questa disposizione [287] dispiacque assai agli scolari i quali minacciarono di abbandonare l'università.

Tolta qualche rara eccezione però gli scolari che non avessero voluto aver contatto e contrarre relazioni di amicizia e di famigliarità coi cittadini potevano astenersene senza difficoltà e fare una vita a sè perchè tale era allora la costituzione delle università, che sia pel numero degli accorrenti sia per la loro privilegiata condizione, potevano gli studenti dimorare lungo tempo in un luogo senza estendere i loro rapporti al di fuori della scuola. La quale era tanto differente dagli usi moderni, che mentre oggidì essa non crea che vincoli momentanei e passeggieri di convivenza i quali si sciolgono appena terminati gli studi, allora invece rappresentava un centro fecondo di nobili emulazioni e di durevoli affetti.

Questo stato eccezionale di cose infondeva negli scolari che venivano a studio in Italia la convinzione di non avere nessuna potestà a loro superiore; il che è facile vedere quanta baldanza e audacia dovesse mettere in quegli animi resi già fieri e indomiti dall'età giovanile e dalla condizione privilegiatissima in cui si trovavano di fronte agli altri cittadini. Tra le classi sociali del medio evo il ceto degli scolari fu quello che specialmente in Italia oppose la più gagliarda e tenace resistenza contro gli sforzi e le seduzioni della tirannide, perchè di natura avvezzo a godere la massima indipendenza e i privilegi delle antiche libertà nei propri ordinamenti: il che deve essere ricordato come uno dei maggiori vanti delle nostre antiche istituzioni scolastiche.

Lo spirito repubblicano infatti lasciò le più profonde e durevoli traccie nelle scuole italiane dove anche quando i principi ebbero avocata a sè la suprema autorità e il diritto di conferire i privilegi e di eleggere gl'insegnanti [288] (che nei tempi della libertà apparteneva esclusivamente agli scolari) fu per molto tempo rifiutata obbedienza alla potestà sovrana, volendo le nostre università rivendicare a sè quelle attribuzioni che il dispotismo intendeva assorbire per distruggere colla libertà d'insegnamento le ultime traccie dell'autonomia popolare.

Dopo aver detto della vita degli scolari, parliamo brevemente dei rapporti che passavano fra essi e gl'insegnanti.

Lo scolare nel medio evo, cui era lasciato la libera scelta dei propri insegnanti, col seguire le loro lezioni, i precetti scientifici e le tradizioni della scuola, dimostrava la vera stima che di essi si era formata e l'alto concetto che ne aveva.

Scolari e professori rappresentavano come una grande famiglia perchè avevano comune tra loro lo scopo degli studi, l'amore della scienza il decoro del grado e le consuetudini della vita. Gli scolari sottostavano volontariamente alla giurisdizione dei propri insegnanti che erano i loro giudici naturali, ed obbedivano agli Statuti universitarii compilati col loro concorso. Dividevano con essi tutte le franchigie e i privilegi, cooperavano alla loro elezione, contribuivano ad assicurare la loro fama e a diffonderne il nome continuando con amoroso zelo e come oggetto di culto le tradizioni da essi lasciate. Non era adunque per l'uniformità delle abitudini e per semplice ossequio al merito scientifico degl'insegnanti che si formavano nelle università del medio evo fra gli scolari e professori quei vincoli di amicizia costante e di solidarietà di cui s'incontrano nella storia esempi assai frequenti; ma un vero ricambio di affetto, una stima sincera e profonda, un sentimento di gratitudine che spingeva gli uomini più sommi anche negli ultimi anni della vita, [289] a ricordare con compiacenza il nome dei loro antichi maestri e a pronunziarlo in mezzo ai propri scolari con venerazione od ossequio.

Di rado t'incontri in uno di quei dottori che nelle sue lezioni non ricordi frequentemente come dolce rimembranza degli anni giovanili gli uomini cui dovette i primi insegnamenti, citando con scrupolosa fedeltà le loro opere e le opinioni scientifiche udite alla scuola: cosa tanto più ammirabile in quei tempi ne' quali il plagio era assai comune e favorito dalla poca diffusione dei manoscritti e dalla facilità di distruggerli, sicchè era agevole assai lo appropriarsi le altrui idee e spacciarle come proprie singolarmente quando non erano state raccomandate alla posterità da nessun documento scritto ma espresse nella scuola oralmente[447].

Gli scolari solevano chiamare domini i loro professori e questi nominavano i loro discepoli coll'appellativo di socii che corrispondeva perfettamente al grado che tenevano di compagni e familiari dei loro maestri e al concorso che solevano prendere in comune con essi nella formazione della scienza.

Però devesi avvertire che non tutti i dottori solevano chiamarsi «domini» dagli scolari; ma quelli soltanto di cui si erano fatti volontariamente alunni seguendoli sempre dovunque si recassero e dividendo con loro le abitudini della vita ed i diritti e privilegi universitarii[448].

Quello che si diceva dominus meus era il precettore [290] favorito di cui si accettavano senza esitazione le opinioni scientifiche e le tradizioni perpetuandone il nome con amorosa sollecitudine. Era saggio e lodevole costume degli scolari di raccogliere le lezioni orali dei loro professori in volumi e diffonderle fra i dotti e nelle altre scuole, perchè se ne spargesse la fama e pervenissero ai posteri nella loro integrità.

Queste lezioni che formarono i numerosi commentarii che tuttora si conservano a testimonianza dell'operosità dei dottori del medio evo, erano chiare e semplici conferenze dove si trasmetteva la scienza agli uditori senza gravità nè burbanza cattedratica; ma con un libero e famigliare ricambio d'idee. Il professore soleva nelle sue lezioni comunicare agli scolari tutto quanto sapeva sopra un argomento evocando spesso anche reminiscenze della sua vita ed esponendo giudizi propri o facendo certe piacevoli osservazioni che suscitavano la più schietta ilarità. Certi detti arguti, che il più delle volte erano a carico degli altri dottori o antagonisti, facevano nascere turbolenze e rancori come fra breve vedremo, e gli scolari quando potevano sapere che qualcuno dei loro maestri prediletti era stato ingiuriato, volevano prenderne subito vendetta come avvenne una volta in Pavia, che avendo Lorenzo Valla pubblicato una sua invettiva contro il Bartolo, gli scolari andarono in cerca di lui e avutolo fra le mani erano pronti a sfogare la loro indignazione anche coi fatti e lasciarlo malconcio, se non sopravvenivano alcuni amici a salvarlo[449].

Tutto ciò dimostra quanto profondo fosse l'affetto degli scolari verso i loro maestri e quanto intimi i rapporti di convivenza e l'affinità d'idee e di sentimenti che regnava [291] fra loro. La scuola, come dicemmo, era un'immagine della famiglia, un consorzio di affetti e d'idee, dove gli scolari al dire del Villani, imparavano così dalle lezioni come dagli esempi de' loro maestri[450].

L'invidia che spesso nasceva fra i professori di una stessa università e dava luogo a gravi disordini e suscitava profondi rancori difficilmente soleva albergare negli animi dei maestri verso i loro antichi discepoli: tanto erano durevoli le memorie della scuola e sincero l'affetto che li univa per tutta la vita.

Si racconta che il giureconsulto Azone si recasse un dì sotto finta veste a udire le lezioni di Giovanni Bassiano suo antico maestro e chiestogli facoltà di interrogarlo, tanto dottamente lo confutasse, che quegli disceso dalla cattedra lo abbracciò e le condusse seco a pranzo[451].

Spesso ancora quei dotti intraprendevano un'opera col dire che era stata loro suggerita dagli scolari (a sociis)[452].

Si trova spesso indicata questa diretta e personale relazione fra un professore e i suoi scolari, negli scrittori e negli statuti colla parola auditorio che sta a significare appunto la clientela che ciascun insegnante si era formata[453].

Il giureconsulto Odofredo (in Cod. L. I. de S. Eccl.) dice: «docebo vos cum quadam cautela.... nec hoc doceatis [292] alios qui non sunt de auditorio meo, sed teneatis pro vobis.»

Questo passo dimostra ad evidenza il carattere speciale della scuola nel medio evo, e lo spirito egoistico che vi dominava.

Allorchè un dotto aveva acquistato un numero sufficiente di uditori, ad essi esclusivamente dedicava tutte le sue cure e i resultati dei suoi studii e delle sue ricerche scientifiche, essendo certo che a conservare le tradizioni della scuola da lui fondata e a tramandare il suo nome ai posteri sarebbero bastati quei discepoli che spontaneamente si erano fatti seguaci e continuatori delle sue dottrine.

Questi rapporti di intima convivenza fra professori e scolari si manifestavano in svariati modi nella vita universitaria del medio evo.

La scuola era allora un consorzio spontaneamente formato; una clientela che ciascun insegnante ambiva di creare coi suoi meriti personali e che gli arrecava lucro e fama in proporzione del numero degli uditori che riusciva ad acquistare.

Il carattere di clientela e di consorzio privato ed indipendente della scuola antica (auditorium) si rivela ad evidenza in certi fatti speciali ad essa relativi, di cui fanno parola gli storici.

Quando un dottore lasciava l'insegnamento non di rado trovava chi si offriva di acquistare mediante un prezzo stabilito la sua scuola. Rimane tuttora qualche contratto originale fra due dottori che per spontaneo accordo si trasmettevano reciprocamente la propria scuola[454].

Negli statuti dell'università di Arezzo del 1255 già [293] altra volta ricordati, si trova espressamente riconosciuto e sanzionato nei dottori il diritto di crearsi una scuola indipendente senza l'intervento di nessuna autorità. Gli stessi statuti poi a mantenere fra gl'insegnanti il reciproco rispetto e l'integrità della loro clientela scolastica, comminarono a chi avesse contravvenuto alle disposizioni di legge, diverse pene pecuniarie da applicarsi secondo i casi[455].

Questi rapporti d'intima convivenza fra i dottori e gli scolari, si rivelavano nei loro scritti e nelle consuetudini giornaliere della vita colle più sincere e cordiali manifestazioni di affetto.

Non di rado i dottori ad indicare i loro scolari che formavano quella particolare clientela di cui parlammo poc'anzi, li designavano col nome affettuoso di figli; e gli scolari alla lor volta chiamavano il loro insegnante favorito, di cui si erano fatti spontanei alunni, coll'appellativo di padre.

[294]

La distinzione fra questo insegnante prediletto e gli altri maestri ordinarii, si trova evidentemente specificata nelle opere del giureconsulto Baldo[456].

In certe novelle pubblicate nel secolo XVI[457], si racconta che il giureconsulto Francesco Accursio tornato dall'Inghilterra in Bologna, avendo trovati molti dei suoi antichi scolari già divenuti famosi in scienza e ricchi di molte possessioni, chiese (per scherzo certamente) che questi beni venissero a lui aggiudicati in forza della patria potestà, dicendo che i suoi scolari erano da lui sempre tenuti in luogo di figli.

Sebbene i dotti fossero adoperati nelle più gravi cure di Stato e chiamati ad assumere i più elevati ufficii, pure nessun'altro grado per quanto insigne ed ambito era da loro stimato più di quello di dottore insegnante (doctor legens). Per ottenere questo titolo ed esercitare il magistero lasciavano spesso onori e ricchezze per ritornare fra i loro discepoli e riprendere le interrotte abitudini della vita scolastica. Valga per tutti questo esempio:

[295]

«Essendo l'anno 1286 — racconta l'Alidosi — astretti gli Anconitani da Veneziani per acqua e da Fermani per terra, dimandarono aiuto a' Bolognesi i quali gli spedirono questo dottore (Ugolino di Guglielmo Gosio) per Capitano di molta fanteria e giunto a Puoi Castello lo prese: la qual cosa intesa da Veneziani e Fermani, lasciarono Ancona dove entrò esso Ugolino con le sue genti. Conoscendo gli Anconitani il benefizio ricevuto da lui, ne sapendo come ricompensarlo di tanto benefizio e del suo valore, conchiusero in consiglio di farlo signore della città, e ciò fattoglielo sapere disse che questo non poteva accettare perchè i suoi scolari ai quali leggeva si lamentariano e poi non lo farebbe senza ordine dei bolognesi ai quali scrisse e gli risposero che accettasse il dominio della città di Ancona, e vi facesse atti possessorii e governasse come Signore e poi la rinunciasse in pubblico consiglio: il che fece e da quello fu molto lodato e ringraziato, di dove si partì e con honorata compagnia e trionfo e gloria fu accompagnato a Bologna e i suoi scolari trionfanti andarono ad incontrarlo fino a Faenza[458]

Gli scolari cercavano di mostrare la loro riconoscenza verso i loro maestri con diversi segni di affetto. Per un antico uso in Bologna, al cadere della prima neve di ogni anno gli studenti facevano una colletta presso i dottori dell'università e i principali cittadini, destinando il raccolto a inalzare statue e a fare i ritratti dei più celebri professori. Una legge nella seconda metà del secolo XVI per moderare il soverchio zelo degli scolari, prescrisse che non potesse esser fatta la consueta colletta senza l'autorizzazione dell'università, e ad evitare discussioni, la [296] stessa legge stabilì che ogni anno non potesse farsi più di una statua o di un ritratto[459].

Anche in Padova, dove vigeva quest'uso, intervenne una legge a regolarne l'applicazione, e in ultimo per remuovere ogni inconveniente lo proibì affatto[460].

Era assai comune anche l'abitudine fra gli scolari di pubblicare epigrafi e poesie in lode de' professori de' quali avevano maggiore stima, e solevano affiggerle nell'università o distribuirsele fra loro[461].

Tutto ciò dimostra quanto intimi fossero i rapporti e le consuetudini della vita fra professori e scolari nel medio evo; quanto profondi i vincoli d'affetto da' quali erano uniti; e come da questa armonia ne dovesse risultare la grandezza delle antiche università e il progresso della scienza.

Ora parleremo della vita e dei costumi dei professori.

Spesso i dottori riunivano in sè i pregi e le attitudini più svariate. Non era raro, e lo abbiamo veduto in un esempio citato testè, che un insegnante impugnasse la spada e acquistasse fama di valoroso ed esperto capitano; che abbandonata la cattedra e le tranquille abitudini della vita scolastica prendesse col prestigio del nome e colla potenza della parola a sollevare gli animi dei suoi compatriotti contro chi attentasse alla loro libertà e indipendenza. Si racconta che Rolando Piazzola dopo avere insegnato in Padova sua patria, lasciata la scuola, impiegasse la sua eloquenza a far ribellare i suoi concittadini contro Arrigo VII che voleva ristabilire l'autorità imperiale[462].

[297]

La tradizione popolare ricorda anche il nome di un Francesco da Conselve, dottore assai famoso, il quale avendo udito, mentre militava con Federigo Barbarossa, che un tedesco andava dicendo che gl'italiani non erano valorosi in guerra, lo sfidò pubblicamente in faccia all'imperatore e a tutti i soldati e vintolo, per pietà gli fece grazia della vita[463].

Ma gli antichi dottori non avevano fama soltanto di capitani esperti e valorosi: erano anche abilissimi nelle arti politiche e nelle cure di Stato come consiglieri di principi, segretari di repubbliche, giudici, podestà, ambasciatori, legisti, compilatori di statuti; e molti di essi dopo avere insegnato con lode in qualche università erano chiamati alle più alte dignità ecclesiastiche[464].

Quando i più celebri insegnanti si recavano in qualche università oltrechè essere accompagnati da un numeroso stuolo di scolari che li seguivano dovunque, incontravano a metà della via i Rettori che venivano accompagnati dagli altri ufficiali dell'università a fare i dovuti omaggi e al loro arrivo nella città erano ricevuti con grandi feste e segni di gaudio da tutti gli scolari e i dottori, nonchè dai cittadini che prendevano parte alla solennità.

Passando il Filelfo nel 1429 da Bologna a Firenze, tutto il popolo andò ad incontrarlo e Cosimo de' Medici andò in persona a visitarlo più volte.

«Tutta la città (in questa occasione scriveva il Filelfo) [298] ha gli occhi rivolti a me, tutti mi amano, tutti mi onorano e mi lodano sommamente. Il mio nome è sulle labbra di tutti. Nè solo i più ragguardevoli cittadini, ma ancora le stesse matrone, quando m'incontrano per la città, mi cedono il passo, e mi rispettano in tal guisa, che ne ho io stesso rossore. I miei scolari sono circa a quattrocento ogni giorno, e forse più ancora, e questo per la più parte d'alto affare e dell'ordine senatorio[465]

Ed è notabile con quanto poco ritegno quei dotti manifestassero il desiderio di essere trattati convenientemente al loro grado e alla fama che aveano levato di sè, mostrando di avere sicura coscienza del proprio valore, e non volende ostentare una falsa modestia quando sapevano di avere meriti tali da trovare dovunque andassero liete accoglienze, cospicui assegni, privilegi ed onori. Perciò apertamente e senza reticenze esponevano il pensier loro e facevano le proprie lodi, essendo certi che qualunque domanda avessero fatta verrebbe senza indugio accolta ed esaudita.

Trovandosi il Baldo a Pisa, non volle sottomettersi come gli altri dottori all'orario che prescriveva l'ordine e il tempo delle lezioni e francamente scriveva a Lorenzo de' Medici: «prego la magnificentia vostra che essendo venuto ad onorare questo vostro Studio per questo non riceva vergogna, ecc....[466].» — E il Filelfo chiedendo allo stesso Lorenzo il permesso di ritornare in Firenze, dopochè ne fu esiliato per avere disonestamente e temerariamente parlato del Dominio veneto e del Ministro di quella Repubblica, come racconta il Fabroni[467], gli faceva [299] presentire i vantaggi del suo ritorno in quell'università dicendogli: «Sapete non potere in questa etate avere un'altro Philelpho.» E in un'altra sua lettera, aggiunse: «Voi sapete che in questa etate niun altro si può mettere a comparatione mecho in la mia facholtà.»

Talvolta la superbia di quei dotti toccava il colmo, e ciò si può dire di Accursio il quale, come vien narrato dal Sarti[468], interpretando ai suoi scolari una legge del testo romano la quale dice doversi rispettare la volontà del defunto quando impone all'erede di assumere il suo nome, purchè sia onesto, prese l'esempio da sè medesimo dicendo: «Instituo te haeredem si imponas tibi nomen meum, scilicet Accursius, quod est honestum nomen, quia accurit et succurit contra tenebras juris civilis.»

Per la costituzione organica delle università medioevali che si contendevano reciprocamente il primato della scienza e i migliori professori, gl'insegnanti di maggiore fama atteso le frequenti e reiterate sollecitazioni che ricevevano da molte città con promesse di larghe franchigie e più lauti assegni, volontariamente abbandonavano le antiche loro sedi per recarsi ad altre università ad onta dei patti e dei giuramenti coi quali si erano precedentemente vincolati. L'abitudine dei dottori di passare senza pretesti ragionevoli da una ad un'altra università era assai comune e recava danni non lievi al buon andamento degli studii. Una lettera scritta dai fiorentini ai bolognesi tratta appunto di quest'uso che si era fatto generale fra i dottori di quel tempo e ne fa loro un giusto rimprovero[469].

[300]

Chi volesse un esempio della frequenza di questi passaggi degli antichi dottori da un luogo a un'altro, può trovarlo nella vita del Suzzara, celebre giurista, ma d'ingegno bizzarro e d'animo mutabile se altri mai ve ne fu. Questo dottore obbligatosi nel 1260 con un contratto solenne, riferito anche dal Muratori, di chiamarsi cittadino di Modena e tenervi per tutta la vita scuola di leggi dopo breve tempo, violato il patto andò ad insegnare altrove. Infatti nel 1266 lo troviamo a Bologna; nel 1268 a Napoli; nel 1270 a Reggio; dove gli vennero assegnate in proprietà vaste possessioni purchè giurasse di porvi stabile dimora. Nel 1275 passò a Piacenza; un anno dopo a Ferrara, e nel 1279 a Bologna. Il celebre Baldo insegnò in Perugia sua patria per trentatrè anni; e sei ne passò a Firenze, tre in Bologna, uno a Pisa, tre a Padova, e dieci a Pavia dove morì nel 1400.

Un vizio molto comune nei dottori del medio evo era l'avidità del guadagno.

Giunti al punto di morte molti di questi dottori che si erano fatti ricchi o coi guadagni dell'usura o col patrocinio delle cause ingiuste, si pentivano e lasciavano disposto nei loro testamenti che il mal tolto fosse restituito a chi spettava per il bene dell'anima «ad summam animae suae securitatem[470]

Altre volte ricorrevano al papa per ottenere l'assoluzione per sè e i propri congiunti per aver dato illecitamente ad usura agli scolari. Nel Sarti si trova una lettera di Niccolò IV a Francesco figliuolo di Accursio colla [301] quale assolve tanto lui che suo padre, purchè promettesse di non incorrere più in quel peccato[471].

Alcuni di quei dottori che non potevano acquistare scolari per merito proprio, ricorrevano a persone influenti e talvolta anche ignobili e disoneste, per essere chiamati ad insegnare. Ciò si rileva da un passo del giureconsulto Piacentino il quale dopo aver fatto un elogio di sè per non aver mai interposto nessuna raccomandazione per acquistare scolari soggiunge: item non est eligendus doctor precibus laici, mercatoris, meretricis, cauponae[472].

Il sentimento d'emulazione tanto diffuso e potente nelle nostre antiche università, non sempre era onestamente interpretato fra i dottori, i quali pur troppo davano esempi frequentissimi di rivalità indecorose e di risentimenti personali.

Non potremmo oggi formarci coi nostri costumi molto miti in confronto di quelli del medio evo, un'idea esatta del carattere violento degli antichi dottori se non ricorressimo alle storie che ci forniscono esempi abbondanti in conferma di ciò.

Si racconta che, avendo il giureconsulto Piacentino confutato ironicamente un'opinione professata da Enrico di Baila, altro giurista insigne di quei tempi, fu da questi aggredito di notte in casa e potè per caso scampare colla fuga a certa morte.

Un esempio quasi consimile viene narrato dal Fabroni. Un certo Antonio Rosato maestro di logica nello studio di Pisa perseguitato continuamente e minacciato di morte da un suo competitore chiamato Giovanni di Biagio di [302] Pietra Santa, dovè ricorrere per aver salva la vita agli ufficiali dello Studio con questa lettera che è un curioso documento dove si veggon ritratti al vivo certi costumi dei tempi.

«Magnifici Domini. Credo che abbiate inteso come maestro Giovanni di Biagio di Pietra Santa hora fa un anno ferì un mio fratello di dua ferite acerbamente. Hora costui è stato qua circo otto dì, et oggi questo dì di S. Ambrogio nella scuola di S. Niccola corse armata mano per ammazzarmi, la qual cosa certamente gli riusciva se non fuggivo in campanile, perchè me ne andavo libero senz'arme, et maestro Luchino et maestro Masciani vi erano presenti et certi altri scuolari. Onde per questo non leggerò la mia lectione di logica, straordinaria per infino che voi non fate qualche determinazione di questo caso. Et per certo mi pare una cosa estranea che non l'avendo io offeso nè in fatti nè in parole mi abbia voluto uccidere. Valete Pisis 7. Dec. 1484[473]

Non era raro il caso che i dottori si competessero fra loro una stessa scuola, donde grandi contrasti ed inimicizie che mettevano a tumulto l'intera università. Gli uffiziali dello Studio pisano informati, racconta il Fabroni, che Francesco de Vercelli aveva tolta la scuola di Giasone a Francesco Pepi scrivevano nel 1 Decembre 1489 al Rettore dicendogli: «Ingegnatevi di far contento Mes. Francesco de Vercelli al cedere la squola di Mes. Jasone a M. Francesco Pepi che così ci pare conveniente avendo lui prima cominciato a usarla. Ci meravigliamo che nascano dispute per piccole cose[474]

[303]

Quando uno dei dottori veniva a contesa con un altro di maggior reputazione, per solito a consiglio di quest'ultimo era allontanato dall'università, per ordine del comune.

Così avvenne ad Oldrado Ponte mentre insegnava nello Studio senese dove, avendo per antagonista Iacopo Belvisio, fu da lui fatto cacciare dalla città e territorio con minaccia di gravi pene se vi fosse ritornato[475].

E lo stesso si racconta del giureconsulto Ugolino il quale dovè abbandonare l'università di Bologna dove insegnava insieme ad Accursio perchè questi lo fece esiliare avendo da lui ricevuto, secondo quello che dicono alcuni storici, grave offesa nell'onore[476].

Assai comuni nel medio evo erano i plagi quando le opere circolavano manoscritte e potevano facilmente sottrarsi da qualche astuto per usurpare il frutto delle altrui fatiche. Racconta il Villani che Dino del Garbo medico assai famoso avendo saputo che Torrigiano fiorentino morendo avea consegnato la sua opera a due frati perchè la portassero allo Studio di Bologna, li persuase a consegnargliela e senza manifestare ad alcuno l'avvenuto, incominciò a farne pubblica lettura acquistando grandissima riputazione. Ma uno dei suoi scolari introdottosi furtivamente in casa, riescì a scoprire che ogni giorno avanti di fare la sua lezione consultava tale libro che poi con grande cura riponeva, e riferito ciò ai compagni e ai dottori, Dino rimase svergognato e dovè abbandonare Bologna dove insegnava per recarsi all'università di Siena[477].

[304]

La maldicenza era vizio comune del tempo e adoperata da molti dottori per denigrare il nome e la fama dei loro emuli.

Ma taluno di questi linguacciuti dovè scontare con grave pena gli effetti della propria imprudenza. È singolare fra tutte l'avventura che capitò al giurista Nevizzano mentre insegnava in Torino, dove avendo scritto un'opera in dispregio delle donne, si attirò l'indignazione di tutto il sesso e la città intera gli manifestò il proprio risentimento costringendolo a comparire in pubblico in atto supplichevole e portando scritti in fronte in segno di ammenda questi versi:

Rusticus est vere qui turpia dicet de muliere

Nunc scimus vere quod omnes sumus de muliere[478].

Certe abitudini della vita privata di alcuni dottori come molto singolari, meritano di esser ricordate.

Si racconta che Giovanni da Bassano per eccessivo amore del giuoco giunse ad impegnare anche le proprie vesti. Guido di Suzzara era oltremodo vanitoso e amava di attirare gli sguardi altrui collo sfarzo e la ricchezza degli abiti, di che gli altri dottori gli facevano rimprovero dicendo non esser convenienti alla dignità dell'uomo di scienza vesti di seta listate a colori come soleva portare il Suzzara.

Narrasi pure come il giureconsulto Alberico fosse tanto amante della crapula, che una tal volta gli scolari spagnuoli ubriacatolo ben bene lo inducessero a farsi loro mallevadore e a consegnare i suoi scritti che gli servivano di testo per le lezioni.

[305]

Odofredo narra l'avventura in un modo così lepido e arguto, che riferiremo le sue stesse parole[479].

«Alcuni scolari invitarono a pranzo maestro Alberico, che assai volentieri mangiava e beveva in compagnia.

«Mentre maestro Alberico era a mensa cogli scolari, questi gli mescevano dell'ottimo vin rosso. Maestro Alberico allora disse: questo vino è troppo forte, mettetemi dell'acqua. Gli scolari gli davano vino bianco che sembrava acqua e ubriacatolo a dovere lo indussero a prestar loro mallevadoria e a consegnare i suoi scritti.»

Anche Accursio narra più brevemente lo stesso aneddoto.

Non sarà fuor di proposito per conoscere meglio il carattere dei dottori antichi che ci fermiamo a ricordare alcune facezie e motti che abbiamo raccolti dai cronisti del tempo, dai quali possiamo comprendere come vi fossero fra quelli anche uomini di spirito pronto ed arguto.

Chiamato il giureconsulto Azone insieme a Lotario Pisano dall'imperatore per un consiglio intorno ai limiti della giurisdizione imperiale, rispose franco contro di essa poichè gli parve che così volesse giustizia. Ma Lotario, più astuto, non volendo perdere la grazia sovrana rispose in favore e n'ebbe in dono un bel cavallo. Ogni volta che Azone raccontava questo fatto diceva: «qui dixi aequum amisi Equum[480]

[306]

È assai piacevole anche un aneddoto riferito dagli scrittori bolognesi intorno a Bulgaro. Avendo questo giureconsulto tolto in moglie una vedova di costumi assai dubbi, il giorno appresso al matrimonio si recò a far lezione secondo il consueto e postosi a commentare una legge nel codice già studiata, disse: «Rem non novam nec insolitam aggredimur.» Gli scolari che stavano sulle intese, appena udirono queste parole cominciarono a ridere e a fare schiamazzo battendo i libri sulle panche[481].

È assai scaltro il parere dato dal giureconsulto Pillio a certi clienti che aveano chiesto il suo patrocinio. Un passeggero era stato colpito da una pietra caduta da una casa in costruzione sebbene i muratori che attendevano al lavoro avvertissero chi passava di guardarsi dal pericolo. Il viandante mosse le sue doglianze in giustizia contro i muratori. Pillio non trovando altro mezzo per salvarli li consigliò che non rispondessero a qualunque domanda avesse loro diretta il giudice.

Il dolente vedendo che non rispondevano, preso da sdegno gridò: «Non facevano così quando mi cadde addosso la pietra.» A questa spontanea confessione convinto il giudice che i muratori non avean colpa, li rimandò liberi.

Buoncompagno fiorentino celebre grammatico si era attirato grande invidia fra i suoi concittadini i quali dicevano che v'erano molti che avrebbero potuto far più e meglio di lui nella sua scienza. Buoncompagno volendo schernirli, immaginò di scrivere sotto falso nome una splendida [307] orazione e d'invitare tutti i dottori dello Studio e l'intera cittadinanza in un dato giorno a una disputa che avrebbe avuto luogo nella cattedrale fra il finto grammatico e lui stesso. Grande fu la gioia dei nemici di Buoncompagno a udire tal nuova e il giorno convenuto intervennero tutti sperando di godere del suo scorno; ma sopraggiunto Buoncompagno spiegò che l'orazione tanto celebrata ed ammirata era scritta da lui e ringraziò i suoi avversarii di aver lodato una volta uno dei suoi scritti che tanto spesso per invidia solevano vituperare.

È degno di essere ricordata anche una piacevole astuzia adoperata da Accursio a danno di Odofredo suo competitore. Dovendo ambedue questi giureconsulti fare un lavoro sulla glossa, Accursio che temeva di non raggiungere l'altro, pensò di fingersi ammalato e per non destare sospetti durò molti giorni a chiamare il medico. Odofredo ingannato interruppe l'opera mentre Accursio lavorava alacremente e fu grande la sua sorpresa e lo sdegno quando seppe che con tale artifizio era stato ingannato[482].

Il Colle racconta che un tale Lodovico Cortusi, professore di giurisprudenza ecclesiastica in Padova, ordinò nel suo testamento che festosamente fossero celebrati i suoi funerali desiderando che in essi fosse del tutto bandito la mestizia e il cordoglio. Dispose perciò che il proprio cadavere dovesse essere portato trionfalmente accompagnato dal lieto suono di cinquanta svariati strumenti, coll'intervento di dodici fanciulle che vestite di abiti verdi modulassero allegre canzoni e in ricompensa assegnò loro una dote conveniente ad arbitrio degli eredi.

Volle inoltre che nessuno comparisse ai suoi funerali in abito nero per non funestare la giocondità del corteggio. [308] In fondo al suo testamento il Cortusi giustificò la bizzarria delle sue disposizioni dicendo, che avendo goduto in vita nobiltà di stirpe, agi, onori e gloria, doveva per dovere di gratitudine renderne le dovute grazie a Dio, poichè cambiava la vita terrestre con quella dell'eternità.

Nacque controversia fra i giurisperiti se dovevasi accordare validità o no a queste disposizioni; ma finalmente fu convenuto di eseguirle per rispetto alla volontà del testatore[483].

Ci potremmo diffondere anche di più nel racconto di queste piacevolezze le quali ci dimostrano come i secoli di cui parliamo non difettassero d'ingegni pronti ed arguti e di animi inclinati alle facezie ed agli scherzi. Se gli aneddoti che abbiamo narrato non accrescono importanza all'argomento, ci sembrarono utili per lo meno a dare varietà al racconto e a spiegare un lato della vita scolastica medioevale, rappresentando al vivo l'indole ed i costumi dei dotti di quel tempo.

[309]

CAPITOLO OTTAVO

Causa della decadenza delle università italiane — Inimicizia fra le università — Numero soverchio di esse — Discordie nelle scuole — Caduta delle repubbliche e dei liberi ordinamenti universitarii — Trasformazione della cultura italiana al tempo dei Principati — I letterati e gli artisti alle Corti — Le accademie — Invenzione della stampa — Influenza dell'educazione ecclesiastica — Le università italiane dal secolo XVIII in poi.

Abbiamo veduto fin qui quale fosse l'ordinamento delle antiche università e quali le cause del loro rapido incremento nei tempi di mezzo. Ora colla stessa brevità esamineremo le cagioni principali della loro decadenza.

Nelle stesse condizioni intellettuali e politiche della società medioevale debbonsi investigare le cause della grandezza e della decadenza delle nostre università. Alcune di queste cause risultarono dai difetti propri del loro intrinseco ordinamento e furono l'effetto di una lenta trasformazione sociale che corruppe l'indole e lo scopo della scienza; altre derivarono dalla maggior diffusione dei centri del sapere e dai nuovi mezzi scoperti per agevolare la comunicazione delle idee.

Fra le cause di decadenza che diremo intrinseche alla loro costituzione, deve annoverarsi la guerra incessante e sleale che le maggiori università facevano alle altre, per accrescere a loro danno la fama e lo splendore delle proprie scuole. Il principio della libera concorrenza che spontaneamente era sorto col progresso della cultura, troppo di frequente veniva conculcato nei rapporti che [310] le università più potenti mantenevano colle vicine, alle quali negavano il diritto di stipendiare dotti insegnanti e di avere numerosi scolari, gelose che quelle le emulassero nel dare incremento alla scienza e nell'accordare privilegi e protezione agli studiosi. Anche il papa e l'imperatore, favorivano le maggiori università nelle loro ambiziose mire a danno delle altre, e quella di Bologna sopratutto per la sua antichità e la sua fama, volle esercitare sempre un primato morale, secondata e protetta in ciò dai papi i quali ebbero molta influenza e autorità nel suo governo.

Le università, dice il Savigny, portavano con sè il germe della loro rovina; in quanto che lo splendore onde rifulgevano, dipendeva in gran parte da cause accidentali, personali e transitorie, le quali venendo a cessare, tosto che la dottrina di alcuni professori che avevano per qualche tempo rialzata la scuola, faceva luogo all'inettitudine dei successori, era giuocoforza che la scuola di bel nuovo precipitasse. Perocchè le università non avevano altro fondamento che in se stesse come quelle che erano affatto isolate, senza relazione alcuna colla indole e colla educazione del popolo e senza la base indispensabile di scuole scientifiche[484].

Altre cause poi conferivano a dare alle università uno stato incerto e precario che nuoceva alla loro durevole prosperità, e toglieva all'insegnamento gran parte della sua efficacia. I frequenti contagi, le guerre intestine, le discordie, le carestie, mettevano bene spesso le città nella dura condizione di dover chiudere il loro Studio, perchè l'erario era esausto e non vi erano altri mezzi per supplire al mantenimento delle pubbliche scuole. Anche le [311] maggiori università erano soggette a queste vicende, e ciò avveniva ordinariamente non solo per effetto di tumulti; ma anche per volontario allontanamento che taluno dei professori più famosi avesse fatto di una delle università per passare ad un'altra. Abbiamo veduto che nel secolo XIII queste emigrazioni di dottori e scolari erano frequentissime e che da quelle dello Studio di Bologna ebbero anche origine alcune università.

Se si consultano gli storici delle università minori troviamo che poche eran quelle dove si compiva interamente l'anno scolastico senza discordie o avvenimenti imprevisti che ne imponessero la chiusura o per lo meno la sospensione delle lezioni.

Il soverchio numero delle università che ebbero origine in Italia nel medio evo fu un'altra causa della loro decadenza. Infatti non era possibile che lo stuolo dei dotti e degli scolari, per quanto diffuso fosse allora l'amore per la scienza, bastasse a riempire tutti i centri di attività intellettuale che sorgevano in quasi tutte le città italiane. Quindi le università minori erano scarse di buoni insegnanti e di uditori non potendo sostenere per lungo tempo la concorrenza delle più potenti e ricche università quali erano Bologna, Padova, Pisa, Napoli, che oltre ad essere provviste di mezzi propri, trovavano, nel governo dal quale dipendevano, ampia sorgente di entrate e una valida protezione. È vero che le città minori supplivano alla scarsezza dei mezzi propri, largheggiando nella concessione dei privilegi ai dottori e agli scolari come ne accerta la famosa Carta Vercellese; ma ciò non bastava a dar loro tanta importanza agli occhi degli studiosi da abbandonare i maggiori studi per recarsi alle loro scuole. Taluno dei più famosi dottori insegnò per lungo tempo anche nelle minori università come si narra dal giureconsulto [312] Baldo che dimorò per trentatrè anni a Perugia; ma questo avveniva raramente e per ragioni speciali come l'amor di patria, e il desiderio di primeggiare e di non avere concorrenti nell'insegnamento. In generale chi aveva acquistato un nome illustre, ambiva di occupare una cattedra nelle maggiori università dove erano più grandi gli onori e più cospicui gli stipendi.

Per tutte queste ragioni, le università secondarie non potevano sostenere a lungo la concorrenza delle altre che fornite di grandi entrate e favorite di larga protezione dalle città in cui risiedevano, erano le più popolate di scolari e le meglio provviste di buoni insegnanti.

Assai prima che i Principati concentrassero per fine politico la vita scientifica della nazione nelle principali città dell'Italia, era cominciata a manifestarsi la decadenza delle università minori, e la lenta opera di assorbimento che su queste esercitavano le più famose.

Un'altra causa di decadenza comune a tutte le nostre università fu quello spirito di discordia che regnava nelle scuole ed eccitava continuamente l'odio fra gl'insegnanti e i tumulti fra gli scolari. Nel medio evo la società era turbata da profondi rancori e dalle ire partigiane, le quali pur troppo si comunicavano anche ai cultori della scienza, talchè le scuole si mutavano in veri centri di turbolenze, e in campi di battaglia dove non era lecito manifestare la propria opinione e primeggiare sugli altri, senza essere esposto ad oltraggi e a giornaliere persecuzioni. La convivenza con questi uomini irrequieti, e nei costumi riprovevoli, non poteva tornare molto gradita a chi voleva dedicarsi allo studio con animo tranquillo e pacato e rifuggiva dal contrasto di passioni violente che allora mettevano lo scompiglio nelle università ed eccitavano le discordie fra i dotti. Uno degli uomini che disprezzava [313] la vita scolastica dei suoi tempi e che non volle mai prender posto nelle scuole universitarie alle quali fu più volte chiamato con larghe promesse di onori e di ricompense pecuniarie[485] fu il Petrarca, che amando di vivere indipendente e volendo coltivare i suoi studi in pace, rispose sempre a quei che lo invitavano all'insegnamento che tale ufficio non era conforme alle sue abitudini e al suo modo di pensare e perciò vi rinunziava, essendosi procacciato sufficiente fama nel mondo senza imbrancarsi collo stuolo iracondo dei dotti suoi contemporanei. Quando ebbero origine col progresso della civiltà altri centri di vita scientifica oltre le università, molti seguirono l'esempio del Petrarca e si astennero dall'insegnare.

Oltre le cause di decadenza intrinseche all'ordinamento universitario del medio evo, abbiamo accennato che altre ancora, inerenti alle condizioni sociali del tempo cooperarono alla lenta trasformazione delle università italiane.

Quando alle repubbliche succedettero i Principati, e il dispotismo cominciò ad esercitare i suoi perniciosi effetti nella società, quei grandi centri di coltura nazionale perdettero a poco a poco la loro autonomia, e furono incorporati alle varie istituzioni dipendenti dallo Stato. La libertà d'insegnamento sempre sospetta e invisa ai tiranni, non venne immediatamente abolita perchè troppo astuta era la politica di quei principi, ma menomata con parziali [314] limitazioni e riserve, e ristretta dentro limiti determinati.

I primi atti d'influenza governativa sulle università furono esercitate dai principi collo scopo di sorvegliare l'andamento degli studii, di proteggere la scienza e i suoi cultori. I disordini che si manifestavano nelle scuole, e le frequenti turbolenze cui davano luogo le troppo vive emulazioni dei dotti, giustificavano in parte questa ingerenza, la quale veniva talvolta anche spontaneamente accettata dalle stesse università in cambio dell'alta protezione di un principe prodigo e liberale in favore degli studi che provvedesse al mantenimento delle scuole e allo stipendio degl'insegnanti. Così tacitamente i rispettivi principati si arrogarono il diritto di sorvegliare e dirigere le università che si trovavano nel loro territorio, di eleggervi ufficiali di propria scelta, di compilare e abrogare gli statuti, e di procedere alla nomina dei professori. E non solo lo Stato cominciò fin d'allora ad ingerirsi dell'ordinamento interno delle nostre università, ma ne limitò il numero largheggiando i principi della loro protezione colle università maggiori e con quelle specialmente che risiedevano nelle principali città del territorio. Infatti col sopraggiungere del secolo decimoquinto lo spirito di accentramento che è inerente all'indole dei governi dispotici, cominciò a manifestarsi palesemente anche nell'ordinamento degl'istituti scientifici di ogni provincia d'Italia. Nel luogo dove risiedeva il principe quasi ad ornamento della reggia, venivano fondate accademie, biblioteche ed altri centri di attività scientifica mentre nelle altre città deperivano gli studi, si chiudevano le scuole, e diminuiva il numero dei dotti che sedotti dalle lusinghe e dal fasto dei nuovi mecenati che andavano ad aumentare il numero dei loro cortigiani.

[315]

Quale fosse la vita delle corti italiane nel secolo decimoquinto si può rilevare dagli scrittori del tempo. I Medici di Firenze, i Visconti di Milano, gli Estensi di Modena, gli Scaligeri di Verona, i Malatesta della Marca, i Gonzaga di Mantova e tutti gli altri principi che dominavano in Italia, gareggiavano tra loro per proteggere le arti e le lettere, per avere ai loro stipendi gli uomini più illustri del secolo, per raccogliere i monumenti più rari e preziosi della coltura antica.

Il principe presiedeva i frequenti ritrovi dei dotti che vivevano nella sua corte, ascoltava con diletto le loro composizioni, suggeriva talvolta gli argomenti che dovevano trattare, manifestando sempre il desiderio che si perpetuassero nei poemi o nelle opere d'arte le gloriose gesta della propria famiglia, che se ne ricercassero le origini nei tempi eroici e favolosi della più remota antichità. I più grandi ingegni che per le mutate condizioni dei tempi dovevano adattarsi a vivere sotto la protezione di qualche potente, non poterono sfuggire all'influenza dei costumi corrotti delle corti e divennero anch'essi per necessità adulatori. Il Tasso e l'Ariosto posero a fondamento dei loro immortali poemi le gesta eroiche degli antenati di quei principi che li avevano stipendiati e ciò per compiacere alla vanità dei loro mecenati. La dottrina degli eruditi, la fantasia dei poeti e degli artisti erano al servizio di questi superbi e vanagloriosi, i quali mentre ostentavano un culto profondo per il sapere, facilmente confondevano colla turba degli altri cortigiani i dotti che vivevano presso di loro e amareggiavano spesso con rampogne e sarcasmi quel pane che dividevano con essi alla propria mensa.

Nondimeno per quanto le corti fossero corruttrici delle lettere e delle arti; per quanto i principi sotto pretesto [316] di favorire i dotti e il culto del sapere cercassero di piegare gli animi e le menti dei popoli alle loro ambiziose mire, e coprissero col fasto e la munificenza l'intento di dominare, è innegabile che dal secolo XV in poi si raccolsero all'ombra delle reggie i migliori ingegni del tempo, i quali trascurando le nobili gare dell'insegnamento che non procurava più gli antichi onori, si mettevano sotto la protezione dei potenti.

Molti di quei dotti che insegnavano nelle università erano ospiti dei principi e dividevano le cure della cattedra cogli uffici e le brighe del cortigiano, e dovevano necessariamente sacrificare l'indipendenza della ragione e le loro convinzioni scientifiche ai voleri dei loro mecenati.

Come nei secoli passati non si poteva aspirare ai più alti gradi sociali senza essersi guadagnata la pubblica stima professando l'insegnamento nelle università, così dal cinquecento in poi le corti divennero il centro principale della cultura italiana e la protezione dei principi fu avidamente cercata dai dotti come l'unico mezzo per acquistare fama, ricchezza ed onori.

Anche il sorgere delle accademie contribuì a scemare importanza scientifica alle università italiane.

Questi nuovi centri di cultura resero la scienza al pari della nobiltà un privilegio di casta, e un titolo d'onore riserbato a pochi. E mentre le male signorìe che nel cinquecento avevano invasa l'Italia distrussero la libertà civile e politica, le accademie spensero negli animi ogni nobile e virile ardimento e fecero aspra guerra all'indipendenza della ragione e alle libere indagini del vero.

In queste associazioni di letterati e di artisti si introdussero tutti i vizii e i corrotti costumi delle corti. Gli stessi misteriosi intrighi, le basse persecuzioni, le sterili [317] invidie che dominavano gli animi dei famigliari dei principi, erano proprie degli accademici che, cortigiani anch'essi, si adulavano a vicenda e coprivano la loro boriosa nullità con lodi esagerate e titoli pomposi.

Le accademie colle pastoie del pedantismo e colle velenose arti di una critica bugiarda, tolsero alle menti ogni originalità, e inaugurarono in Italia la servitù del pensiero.

La lingua nostra che nei secoli di Dante, del Petrarca, era tenuta in onore perchè parlata da un popolo libero, fu disprezzata dai dotti e lasciata al volgo. Le arti, perduta la spontaneità si corruppero per sforzo d'imitazione, e caddero nelle esorbitanze di una falsa scuola che segnò il principio della loro decadenza.

E ciò perchè le fonti vive della ispirazione che veniva ai letterati e agli artisti dal convivere col popolo, mancarono col sopraggiungere del dispotismo; perchè nelle scuole i dotti non poterono più far sentire la loro voce e comunicare le cognizioni alla gioventù senza che la sospettosa vigilanza del governo non imponesse limiti e condizioni all'insegnamento, perchè in una parola la cultura non era più l'espressione del pensiero nazionale; ma strumento di servitù e di corruzione.

E tanto erano mutati i tempi, che i più insigni italiani si tenevano a gloria di appartenere all'una o all'altra di queste accademie. Il Berni, il Molza, il Casa, il Firenzuola, si disputavano l'onore di sedere fra gli accademici. Il Panormita e il Pontano fondavano un'accademia in Napoli; quella di Ferrara doveva essere inaugurata da un discorso del Tasso sopra un sonetto del Casa; quella di Modena aveva nel suo seno il Castelvetro, il celebre competitore di Annibal Caro, e la Veneta eleggeva a suo cancelliere Bernardo Tasso.

[318]

La cura e lo zelo che posero i principi assistiti dai dotti del loro tempo nel raccogliere i monumenti della cultura classica che si trovavano sparsi in tutte le parti del mondo, favorì lo svolgimento del sapere al di fuori delle scuole, e così le università alle quali nei secoli precedenti era affidato tutto il movimento scientifico, si trovavano a dover competere colle corti nelle quali si adunavano le sparse traccie della civiltà romana e greca e offrivano il mezzo agli studiosi di erudirsi senza aiuto di maestri. I letterati più sommi del tempo erano distratti dalle cure dell'insegnamento a cagione dei frequenti viaggi che intraprendevano o spontaneamente o per commissione dei principi nelle più lontane regioni d'Europa e in cerca di codici e manoscritti.

In buon punto giunse l'invenzione della stampa perchè in tanta gara di resuscitare gli antichi avanzi della cultura classica, per quanto fossero moltiplicati i copisti e trovassero nell'esercizio di quest'arte larghi compensi, non si poteva supplire col paziente lavoro della mano alla straordinaria diffusione dei libri e alle numerose richieste che ne facevano gli studiosi. La stampa propagando le cognizioni con maravigliosa celerità, estese i benefizi della scienza rendendo possibile a tutti senza aiuto di maestri e con poche spese, l'acquisto del sapere.

Nei secoli precedenti le cognizioni scientifiche erano nel dominio delle università, le quali ne facevano un monopolio. L'insegnamento orale era il solo mezzo per comunicare le idee e non si poteva senza udire la viva voce di un professore divenire dotti. La stampa insieme alle Corti, alle Accademie distolse gran parte di quei che prima frequentavano le università, dall'accorrere alle lezioni, e chiedere l'investitura di gradi accademici poichè senza essere stato alle pubbliche scuole nè aver [319] conseguito il titolo di dottore ognuno poteva aspirare ai più alti gradi sociali e acquistar fama di sapiente.

Aggiungasi poi che gli stranieri i quali dapprima erano costretti, specialmente per lo studio delle leggi, a frequentare le nostre università, coll'invenzione della stampa e colla maggior diffusione dei libri, poterono senza allontanarsi dalla loro patria istruirsi nella giurisprudenza. Nel secolo decimosesto poi si moltiplicarono le scuole di diritto anche nelle università straniere, e così l'Italia venne a perdere il primato in questa scienza.

Se consultiamo gli storici troviamo infatti che le università italiane col secolo decimosesto cominciavano a scarseggiare di studenti forestieri e se alcuni ve ne rimasero fu perchè ve li attirava il nome di qualche famoso giureconsulto. Ma l'antico splendore di quei grandi corpi scientifici era ormai offuscato, e la loro decadenza dal cinquecento in poi divenne manifesta. Alla quale contribuì non poco lo avere i principi dovuto, per fine politico, scemare il numero delle immunità e privilegi di cui erano investiti gli scolari togliendo loro il godimento di quella autonomia che per lunghi secoli era stata loro concessa come un diritto inerente ai cultori della scienza.

La rapida trasformazione che subirono le nostre università di fronte a quelle straniere, e la più pronta decadenza, deve attribuirsi anche alla loro diversa indole e al differente organismo. Infatti le università italiane come associazione indipendenti, non sentirono mai l'influenza di alcun potere, e vissero sempre di vita propria. Invece le università degli altri paesi come ad esempio quelle di Francia, di Spagna, d'Inghilterra e più tardi quelle di Germania, ebbero più frequenti contatti collo Stato il quale esercitò sempre la sua sorveglianza sulle [320] pubbliche scuole e prese parte alla compilazione degli statuti e all'elezione degli ufficiali universitarii.

Lo spirito repubblicano che dominò in Italia nel medio evo, s'infuse negli ordinamenti e nella vita scolastica, la quale come vedemmo, aveva comune colla società di quel tempo, gli odii di parte, le vive emulazioni e il sentimento d'indipendenza. Sopraggiunti i principati, si estinsero in Italia le libertà municipali e le prime istituzioni che risentirono i dannosi effetti del dispotismo furono le università, e gli antichi ordinamenti scolastici cambiarono coi tempi nuovi, indole e scopo. Negli altri paesi invece dove l'autonomia dei Comuni non fu mai tanto estesa da escludere l'ingerenza dello Stato, le università se modificarono il loro organismo a seconda delle condizioni sociali e dei progressi della civiltà, ciò avvenne per l'opera lenta del tempo; mentre le italiane appena che soppraggiunse il dispotismo, dovettero subire un repentino cambiamento nella interna costituzione essendo state private ad un tratto della loro autonomia e di tutti quei privilegi che avevano tanto contribuito alla loro grandezza.

Ad affrettare la decadenza della civiltà e la corruzione nei costumi, contribuì non poco anche il predominio che, nel secolo decimosesto e più nei seguenti, presero gli ecclesiastici negli istituti di pubblica istruzione. Diffusi in poco tempo gli ordini monastici per tutta l'Italia venne ad essi esclusivamente affidata l'educazione dei giovani, i quali dovevano compiere sotto la loro direzione il tirocinio degli studii.

Anche le università risentirono i gravi danni dell'influenza ecclesiastica, perchè la censura e l'Inquisizione limitarono il campo alla scienza e molti rami d'insegnamento vennero aboliti sotto pretesto che erano contrari [321] ai dogmi e ai precetti del culto cattolico. Le scienze politiche che cominciavano a prender luogo nelle università straniere erano guardate con sospetto fra noi come nemiche della fede e contrarie al paterno regime. Ai vescovi fu affidato il supremo potere delle università e il diritto di sorvegliare l'andamento degli studii e conferire i gradi accademici.

Gl'insegnanti erano scelti nel numero di quei che avendo dato lunga prova di cieca obbedienza al potere, e di fede incorrotta, potevano offrire al principe e alla Chiesa certa garanzia che le dottrine esposte dalla cattedra e le opinioni da essi professate in privato non avrebbero insinuato nei giovani il germe di principii e massime avverse alle autorità civili ed ecclesiastiche.

Così le università come tutti gli altri istituti scolastici d'Italia furono sottoposte all'assoluto dominio dei governi dispotici e della Corte romana.

Nel secolo decimosettimo peggiorarono le condizioni degli studi in Italia anche perchè molti di quei principi che si erano fatti protettori delle arti e delle lettere sentirono indebolita la loro potenza per effetto delle straniere dominazioni. Nel regno di Napoli, nella Sicilia, e nello stato di Milano dove dominavano i governatori spagnuoli, le scuole non trovarono più nessuna protezione nel governo intento solo a spogliare i cittadini con enormi balzelli per conto di quei re che avevano mandato i loro eserciti in Italia come in terra di conquista.

Estinta la casa dei duchi d'Urbino passarono i loro dominii ai papi. Gli Estensi perduta Ferrara e ristretti ai ducati di Modena e di Reggio si videro mancare i mezzi per provvedere all'incremento delle lettere e delle arti ed emulare i loro predecessori. I duchi di Parma, e i Gonzaga impoveriti per le frequenti guerre ed invasioni [322] trascurarono le scuole e le accademie che avevano fondato. Soltanto i Medici e i duchi di Savoia seguitarono le tradizioni dei loro antenati e accrebbero nei loro stati i centri della cultura.

Le università toscane e le piemontesi furono le sole che dessero in questo periodo qualche segno di attività scientifica. Sotto il regno di Emanuele Filiberto fu trasferita in Torino la sede degli studii e a quell'università vennero chiamati gli uomini più dotti del tempo. Anche i successori di Emanuele Filiberto protessero le lettere e le scienze e conservarono per lungo tempo alla università torinese quei privilegi che aveva goduto come le altre d'Italia nel medio evo.

Ben poco rimane a dire delle università italiane nei secoli successivi. Tutta la loro importanza scientifica, già diminuita al sopraggiungere dei principati può dirsi che cessasse affatto quando a questi subentrarono nel dominio d'Italia le signorie straniere.

Finchè l'Italia fu governata da principi di origine nazionale, le nostre università sebbene andassero rapidamente decadendo per effetto del dispotismo che abolì la libertà d'insegnamento nelle scuole, e concentrò tutta l'attività scientifica nelle Corti e nelle Accademie, nondimeno conservarono qualche traccia degli antichi sistemi, e un certo uniforme andamento che ricordava in parte la loro origine e faceva sentire ancora l'influenza delle tradizioni e il vincolo comune della nazionalità.

Sopravvenute le dominazioni straniere, le università come tutti gli altri rami di pubblica amministrazione subirono una profonda modificazione nel loro intrinseco ordinamento e furono costituite sopra nuove basi e governate da diversi sistemi.

Quella stessa profonda e marcata divisione politica che [323] rese in poco tempo straniere l'una per l'altra le provincie italiane e parve che avesse infranto per sempre il comune vincolo della nostra nazionalità, portò anche una grande trasformazione nei sistemi scolastici, e le nostre università mutarono le antiche leggi e la originaria loro costituzione per accettare i nuovi ordinamenti imposti dallo straniero.

Infatti dal secolo decimottavo in poi le università italiane non ebbero più un carattere loro proprio, e bastarono pochi anni perchè fossero affatto dimenticate quelle gloriose tradizioni scientifiche che dettero per molti secoli alla patria nostra il primato nella cultura civile di tutti i popoli.

Fine.

NOTE:

1.  Sulla riforma universitaria proposta dall'on. Baccelli, scrissi tre articoli nella Rassegna di scienze sociali e politiche di Firenze — Anno I. — Fascic. 1º Aprile — 1º giugno — 1º luglio 1883. Nel primo di questi articoli, trattai specialmente dei punti di confronto fra l'ordinamento universitario medievale e il moderno.

2.  V. Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna — III Serie, vol. II. fascic. 2-3. Fu anche pubblicato in volume separato — Modena, Tip. G. T. Vincenti, 1884.

3.  «È ben noto oggimai, — dice il Malagola. — per ciò che ne scrissero il Savigny nella classica Storia del diritto romano, ed il Coppi nel libro intorno Le università italiane nel medio evo, come anche lo studio di Bologna si componesse per rispetto alle nazionalità degli studenti di due Università degli ultramontani e dei citramontani: e come l'una e l'altra si dividesse in parecchie Nazioni.» E più sotto, riferisce un intero passo del mio libro.

4.  ChiappelliFirenze e la scienza del diritto nel periodo del rinascimento — Berlino 1882 — Archivio giuridico, vol. 28, fasc. 6.

5.  V.i Galileo Galilei e lo Studio di Padova — Firenze — Successori Le Monnier, 1883. — Niccolò Copernico e l'Archivio Universitario di Padova — Roma 1877. — Intorno alla pubblicazione fatta dal Dott. Carlo Malagola di alcuni documenti relativi a Niccolò Copernico... Nota del prof. Antonio Favaro (Roma, 1878).

6.  Anche i sigg. prof. Favaro e Luschin von Ebengrenth, mi hanno favorito i loro scritti di cui debbo ringraziarli.

7.  Anche nel genere di vita e nelle consuetudini scolastiche, si trovano tuttora le traccie degli antichi usi in certe nazioni di Europa, specialmente in Germania e in Inghilterra, che nei loro ordinamenti sono rimaste fedeli alle tradizioni scolastiche medioevali, come vedremo a suo tempo.

8.  Mentre sono molto numerosi gli storici delle università italiane, ben pochi si sono occupati di ricercare le origini di queste grandi istituzioni scientifiche.

In questa nota ricorderemo, a risparmio di un indice bibliografico, le opere principali relative alla storia delle università da noi consultate per la compilazione di questo lavoro.

Meiners, Storia delle origini e progresso delle scuole superiori in Europa.

Middendorp, Academiarium celebrium.

Savigny, Storia del diritto romano nel medio evo (Traduzione del Bollati).

Sarti, De claris Archigymnasy Bononiensis Professoribus.

Tiraboschi, Storia della letteratura italiana.

Ghirardacci, Historie bolognesi.

Riccobonus, De Gymnasio Patavino.

Tomasini, Gymnasium Patavinum.

Papadopoli, Historia Gymnasi Patavini.

Facciolati, De Gymnasio Patavino Syntagmata XII.

Idem, Fasti Gymnasi Patavini.

Colle, Storia dello Studio di Padova.

Akermann, Regimen sanitatis Salerni.

Puccinotti, Storia della medicina.

De Renzi, Storia della Scuola di Salerno.

Fantuzzi, Scrittori bolognesi.

Sigonio, Historia Bononiensis.

Muratori, Antiquitates Italicae.

Savioli, Annali bolognesi.

Orlandi, Scrittori bolognesi.

Gimma, Storia dell'Italia letteraria.

Borsetti, Historia Ferrarensis Gymnasi.

Rufo, Historia Ferrarensis Gymnasi.

Fabroni, Historia Accademiae Pisanae.

Fabrucci, Historia Accademiae Pisanae.

Affò, Scrittori parmigiani.

Bettinelli, Risorgimento.

San Giorgio, Delle università di Milano e Pavia.

Vermiglioli, Biografie degli scrittori Perugini.

Dal Borgo, Origini dell'università di Pisa.

Idem, Diplomi pisani.

Mazzetti, Dottori bolognesi.

Prezziner, Storia dello Studio di Firenze.

Renazzi, Storia dell'università di Roma.

Origlia, Studio di Napoli.

Vallauri, Storia delle università piemontesi.

Tiraboschi, Biblioteca modenese.

Isnardi, Storia delle università di Genova.

Celesia, Studio di Genova.

Tola, Dello Studio di Sassari.

Spotorno, Storia letteraria della Liguria.

Taccoli, Memoria di Reggio.

Padelletti, Documenti per servire alla storia delle università italiane (Archivio Giuridico, vol. VI).

Guazzesi, Opere.

Brunetti, Codice diplomatico toscano.

Oltre gli autori citati e molti altri ancora di cui è ricca la nostra letteratura, possono portare molta luce sulla storia delle università e le costumanze scolastiche di quel tempo, quei numerosi scrittori di giurisprudenza che fiorirono nel secolo XIII e XIV i quali commentarono i testi delle leggi romane unendovi a schiarimento notizie importanti e considerazioni relative ai loro tempi.

Statuti

Statuti dello Studio bolognese (Liber Statutorum almi studi bonon., Editio 1515).

Aggiunte ai detti statuti edite dal Savigny, Storia del diritto romano nel medio evo, vol. III.

Statuti degli Artisti. Philosophiae ac medicinae scolarium bononiensis gymnasii statuta.... instaurata (An. 1609).

Statuti dello Studio di Padova (Vedi indicate le diverse edizioni nel Savigny, op. cit.; III, pag. 600).

Statuti dello Studio di Firenze (Archivio delle Riformagioni).

Carta Vercellese (Colle, Storia dello Studio di Padova. — Vallauri, Storia delle università degli studii del Piemonte).

Statuti dello Studio di Arezzo (Guazzesi, Opere. Pisa, 1766).

Statuti dello Studio di Ferrara (1467).

Molti degli statuti universitarii rimangono tuttora inediti nei nostri Archivi, dai quali si potrebbero rilevare notizie di gran rilievo sulla costituzione primitiva delle antiche università.

9.  Roberston, Introd. alla Vita di Carlo V.

10.  S. Agostino voleva che Virgilio facesse parte della prima educazione dei giovani, e S. Girolamo era studiosissimo di Cicerone che leggeva nelle scuole.

È noto che nel medio evo, Virgilio, per la tradizione popolare si riteneva come un mago. È utilissimo a leggersi il bel libro che ha scritto in proposito il prof. Comparetti. In quest'opera trovo narrato che la Chiesa aveva imposto ai monaci il dovere di tener separati gli scrittori pagani dai cristiani. Nei monasteri, quando si volea chiedere un autore pagano si faceva un segno che indicava il libro e poi un gesto a imitazione del cane perchè dicevasi «non a torto si deve paragonare un infedele a questo animale.»

11.  Tosti, Storia di Monte Cassino.

12.  Tosti, Storia di Monte Cassino.

13.  Il vescovo Roterio di Verona, nel secolo X, parlando della sua poca conoscenza degli studii, diceva che soltanto in Roma avrebbe potuto farsi ammaestrare (Bettinelli, Risorgimento, Opere, vol. III).

14.  Muratori, Dissert., 43.

15.  Tiraboschi, Biblioteca modenese, vol. I, pag. 42.

16.  Muratori, loc. cit.

17.  Bettinelli, Il Risorgimento, Opere, vol. III.

18.  Brunetti, Codice diplomatico toscano.

19.  Muratori, Antiq. M. Aevi. — Brunetti, Codice diplomatico toscano.

20.  Ozanam, Documents inedits pour servir à l'histoire littéraire de l'Italie depuis le VIIIme siècle, Paris, 1850.

21.  Comparetti, Virgilio nel medio evo.

22.  La Francia prima del mille era pressochè avvolta nella stessa ignoranza in cui si trovavano tutti gli altri paesi. I francesi erano chiamati dai romani «stultos, rusticos et indoctos velut bruta animalia» (Zanetti, Origini delle arti venete).

Anche dopo Carlomagno la Francia non aveva fatto grandi progressi nel sapere. Benedetto, monaco di Chiusi, nel 1028 scriveva: «in Francia est sapientia sed parum, nam in Longobardia ubi ego plus didici est fons sapientiae» (Muratori, Dissert., 44).

La civiltà inglese incominciò dopo il regno di Edoardo III, e quella della Germania più tardi ancora. Racconta il Petrarca (Lett. senili, lib. V, lett. I) che essendo nel 1471 in Alemagna, dovè penare molto, prima di trovare un poco d'inchiostro per scrivere; e quello che trovò era giallo come lo zafferano, perchè non era stato da lungo tempo adoperato.

23.  Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, tom. I, pag. 8.

24.  Quinet, Hist. des rivolutions de l'Italie.

25.  Sigonio, De Regno italico, tomo IV. — Dal Borgo, Orig. dell'univ. pisana, pag. 85.

26.  Bonaini, Statuti pisani, Prologo del costituto dell'uso, vol. II, pag. 813.

27.  Camera, Storia di Amalfi.

28.  Merkel, Die Geschichte des Longobarden Rechts. Berlin, 1850.

29.  Arch. storico, App., tomo IX.

30.  Liber legis Longobardorum Papiensis dictus (Monumenta Germanica historiae, tomo III).

31.  Le scuole dovevano fondarsi in Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona e Cividal del Friuli, alle quali tutte le città circonvicine dovevano mandare i loro giovani a studiare.

32.  Balbo, Sommario della Storia d'Italia, pag. 77.

33.  Giesebrecth, De literarum studiis apud Italos primis maedii aevi seculis. Berlin, 1845.

34.  Il giureconsulto Odofredo spiega in un modo assai arguto la cagione di questi divieti. Due teologi, egli dice, che non avevano pratica sufficiente per darsi all'arte medica, persuasero il Papa a proibirne l'esercizio e così fecero, sicut vulpes quae cum non posset gustare de cerasis caepit illa publice vituperare. — Sarti, De claris Archigymnas. Bonon. profess., P. I, pag. 123.

35.  Landolfo, Hist.Muratori, Rer. It. Script., tomo V.

36.  Repetti, Dizionario geografico della Toscana (art. Pistoia). — Brunetti, Cod. diplomat. toscano, tomo I.

37.  Il Savigny (St. del dir. rom., I, pag. 547) parlando della scuola di Salerno, dice di non potersene occupare lungamente, non essendovi notizie positive che la riguardino. Oggidì non può dirsi altrettanto dopo alcune dotte pubblicazioni moderne che hanno portata molta luce su questo primo centro di studii, tra le quali sono da ricordarsi: la Storia della medicina del prof. Puccinotti; e la Storia della Scuola di Salerno del De Renzi, da cui abbiamo tolto principalmente queste notizie.

38.  Secondo Ducange (Glossarium) dicesi Schola la riunione di più persone dirette a sostenere una disciplina uniforme.

39.  S. Petri Damiani, De parentelae gradibus. — Savigny, Storia del diritto romano, ecc., tomo II, pag. 15.

40.  Non è improbabile che le scuole fondate da Giustiniano contribuissero a perpetuare in Roma le traccie di un ben ordinato insegnamento giuridico anche nei secoli successivi. Lo stesso zelo che quell'imperatore pose nel compilare le leggi, lo adoperò a fondare le scuole legali nelle quali introdusse nuovi sistemi scientifici. Colla terza costituzione diretta ai professori delle due Rome come egli dice (cioè di Roma capitale dell'impero d'Occidente e di Costantinopoli capitale d'Oriente), e di Berito nella Siria, egli ordinò che il corso degli studii giuridici dovesse durare cinque anni, e distribuì le materie d'insegnamento per ciascun anno. Il privilegio d'insegnare volle che fosse limitato alle suddette città, perchè sotto la sua diretta influenza prosperassero le scuole da lui fondate.

Sancì poi speciali privilegi per i professori e gli esercenti le arti liberali, nonchè per gli scolari. Questo periodo nella storia dell'insegnamento giuridico è ben poco conosciuto e meriterebbe che gli storici ne formassero argomento di qualche studio speciale.

41.  Balbo, Sommario della Storia d'Italia.

42.  In L. Ius civile, VI, Dig. de just. et jure. — Fantuzzi, Scritt. bolognesi, tomo VI, pag. 368.

43.  Dal Borgo, Origini dell'università pisana.

44.  Idem.

45.  Dal Borgo, Diplomi pisani.

46.  Buonamici, Della scuola pisana del diritto romano, ecc. Pisa, anno 1870.

47.  Bonaini, Statuti pisani, vol. II, pag. 813.

48.  Vedi: Camera, Storia di Amalfi. — Giannone, Storia di Napoli. — Serra, Storia di Genova. — Darù, Storia di Venezia.

49.  Landulphus, Hist. Mediolanensis. — Muratori, Script., III, pag. 502 (Magister Garnerius de Bononia). — Muratori, Antiq., tomo IV, pag. 685 (Warnerius bononiensis).

50.  Il nome d'Irnerio si trova scritto così: Warnerius, Wernerius, Guarnerius, Gernerius, Garnerius, Hirnerius, Yrnerius e finalmente Jrnerius — (Savigny, op. cit.).

51.  Landulphus, Hist. Mediolanensis. — Muratori, Script., tomo III, pag. 502, e gli altri scrittori riferiti dal Savigny.

52.  Savigny, op. cit., vol. II, pag. 25.

53.  Fiorentini, Memorie della contessa Matilde.

54.  Tal quistione è assai antica. Il teologo Niusio, nelle sue dispute con Calisto, invocò l'autorità dell'università di Bologna sopra tale argomento e pubblicò nell'anno 1642 il parere di quel collegio legale in un suo scritto intitolato: Irnerius-Quaestiones de jurisconsulto illo historicae a iuris pont., et caes. collegiis Bononiensibus excussae.... citato anche dal Savigny nella bibliografia che precede la vita d'Irnerio.

55.  Fra gli studii moderni sopra Irnerio e la scuola bolognese, merita di esser ricordato un breve ma erudito scritto di Del Vecchio nel quale si riassume con molta esattezza tutto quanto è stato detto intorno a quel famoso giureconsulto e si esprime anche qualche idea nuova sulla vita di lui. Il Del Vecchio fece accurata ricerca negli archivi bolognesi di notizie e documenti relativi ad Irnerio; ma senza alcun resultato. La storia delle origini della scuola bolognese, bisogna adunque desumerla dai pochi documenti già pubblicati dal Sarti (De claris Archigymnas. Bonon. profess.) e dal Savigny.

56.  Doveri, Istituz. di diritto romano, Introd. pag. 127.

57.  Merkel, Die Geschichte des Longobarden-Rects.

58.  Questo punto di storia è assai bene svolto dal moderno scrittore prof. Ficker nella sua opera: Forschungen zur Reiches-und Rechtsgeschichte Italiens, 1868.

59.  Fra questi è da citarsi anche l'illustre Sclopis, il quale dice che «da Matilde la posterità dovrebbe riconoscere l'immenso beneficio della ragione civile.»

60.  Savigny, Storia del diritto ecc., vol. II, pag. 21.

61.  Dissertazione, XLIV.

62.  Sclopis, Storia della legislazione, vol. I, pag. 29.

63.  La scuola di Salerno, che contribuì tanto al risorgimento della scienza medica, ebbe però ordinamenti speciali ed a ragione il Savigny (op. cit., tomo I, pag. 547) dice che nella storia della costituzione delle scuole mediche che ebbero origine più tardi, essa non esercitò grande influenza, avendo quelle preso a modello le scuole teologiche e giuridiche, accanto alle quali vennero crescendo.

La scuola salernitana, nonostante, avendo per qualche secolo esercitata una grandissima autorità in Italia e fuori, per le dottrine mediche da essa diffuse, merita di essere ricordata come il centro più antico di cultura laica.

Prima assai che la fama della scuola bolognese richiamasse in Italia gli stranieri, in Salerno erano venuti a studiare medicina molti francesi e tedeschi, come attesta nella sua storia il De Renzi. Fu tanta la fama che procacciò a Salerno questa sua scuola, che la città venne chiamata (Civitas Hippocratica).

La ragione per cui la scuola salernitana ebbe speciali ordinamenti e si conservò anche dopo il costituirsi delle università, deve attribuirsi non solo all'avere essa avuto origine più antica di tutti gli altri centri di cultura, ma anche alla ripugnanza che ebbero i re angioini e gl'imperatori di Svevia a riformare gli ordinamenti sull'esempio delle altre scuole antiche.

Anche l'università di Napoli, come vedremo a suo luogo, ebbe una costituzione speciale rigorosamente conservata dall'imperatore Federigo II, che la fondò, e dai suoi successori.

64.  Crevier, Histoire de l'université de Paris. — Vaisette, Histoire de Languedoc. — Hallam, Storia dell'Europa nel medio evo, tomo V, pag. 193.

65.  Vedi le seguenti opere: Magister Vacarius primus juris romani in Anglia professor (Studiis C. C. F. Wenck. Lipsiae, 1820). — Hugo, St. del diritto romano dopo Giustiniano, pag. 155. — Savigny, op. cit., IV, pag. 348. — Hallam, Storia di Europa nel medio evo, V, pag. 194.

66.  Iohan, Salisburiensis apud Selden, pag. 1082. — Hallam, op. cit., V, pag. 194.

67.  Duck, De usu juris civilis.

Su questo punto molto oscuro della storia del diritto moderno, relativo all'introduzione del diritto romano nei diversi paesi d'Europa, può consultarsi con profitto un opuscolo del prof. Modderman, il quale risalendo ai tempi di Carlomagno fino ai due imperatori Federigo I e II, che fecero largo uso delle disposizioni del Corpus juri in contrapposto alle Decretali pontificie, dimostra come lo studio dell'antico diritto si diffondesse verso il mille in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, nei Paesi Bassi e più tardi in Germania.

Anche il Savigny (op. cit., IV), sebbene non abbia svolta in un opera speciale tale quistione, pure ha riferito notizie sufficienti per illustrare questo oscuro periodo di storia. — Modderman, Die Reception des Römischen Rechts. Iena, 1857.

68.  Modderman, op. cit. — Makeldey, Istit. di dir. rom., Introduzione, pag. 68.

69.  Oltre il giureconsulto Bulgaro, tra coloro che presero animosamente a sostenere i diritti delle città italiane contro l'imperatore, si ricorda anche il milanese Gerardo Testa. — Muratori, Scrip. Rer. Ital., vol. VII. In Cronic. Romuald. Salernit.

70.  La parola universitas nel significato legale esprime un'associazione di persone rivestita di capacità giuridica. La corporazione si trova indicata nei testi anche colle parole: corpus, collegium, ordo. — Istit. di dir. rom., Dig. lib. XLVII, lib. XXII.

71.  Ho creduto bene di riferire il testo dell'autentica non trovandosi riportata integralmente che da pochissimi storici:

«De scholaribus

«Nova Constitutio Friderici

«Habita quidem super hoc diligenti inquisitione Episcoporum, Abbatum, Ducum, omnium Iudicum, et aliorum Procerum sacri nostri Palatii examinatione, omnibus, qui causa studiorum peregrinantur, Scholaribus et maxime divinarum, atque sacrarum Legum professoribus, hoc nostrae pietatis beneficium indulgemus, ut ad loca, in quibus literarum exercentur studia, tam ipsi quam eorum nuncii, veniant, et in eis secure habitent.

«Dignum namque existimamus, ut cum omnes bona facientes, nostram laudem, et protectionem omnimodo mereantur: quorum scientia totus illuminatur mundus, et ad obediendum Deo, et nobis ejus ministris, vita subjectorum informatur; quadam speciali dilectione eos ab omni injuria defendamus. Quis enim eorum non misereatur, qui amore scientiae exules facti, de divitibus pauperes, semetipsos exinaniunt, vitam suam multis periculis exponunt, et a vilissimis saepe hominibus (quod graviter ferendum est) corporales injurias sine causa perferunt?

«Hac igitur generali, et in perpetuum valitura lege decerminus, ut nullus de cetero tam audax inveniatur, qui aliquam Scholaribus injuriam inferre praesumat, nec ob alterius cujuscumque provinciae delictum, sive debitum (quod aliquando ex perversa consuetudine factum audivimus) aliquod damnum eis inferat; scituris hujusmodi sacrae Constitutionis temeratoribus, et etiam ipsis locorum Rectoribus, qui hoc vindicare neglexerint, restitutionem rerum ablatarum ab omnibus exigendam in quadruplum: notaque infamiae eis, ipso jure irroganda, dignitate sua sa carituros in perpetuum.

«Verum tamen si litem eis quispiam super aliquo negotio movere voluerit: hujus rei optione data Scholaribus, eos coram domino, vel Magistro suo, vel ipsius civitatis Episcopo (quibus hanc jurisdictionem dedimus) conveniat. Qui vero ad alium judicem eos trahere tentaverit, etiamsi causa justissima fuerit, a tali conamine cadat.

«Hanc autem legem inter Imperiales Constitutiones, scilicet sub titulo, ne filius pro patre etc., inseri jussimus. Dat. apud. Roncalias, annos Domini 1158 mense Novemb.» — Cod., Lib. IV, Tit. XIII. — Ne filius pro patre etc.

72.  Savigny, op. cit., I.

73.  Ecco la formula del giuramento colla quale i professori si obbligavano ad insegnare esclusivamente nell'università di Bologna: «Millesimo, duecentesimo vigesimo. Die quinto intrante Februario. Indictione octava. In Sala Palat. Com. in qua Pot. consuevit cum Curia convenire. Presentibus Domino Beccaro, et Domino Ildebrandino Prendipartis, et aliis pluribus, Dominus Lambertiuus Azonis Gardini ad Sancta Dei Evangelia juravit secundum formam Statuti quod non leget de legibus extra Bon. vel ejus Districtum, et quod non erit in consilio, vel adjutorio ut Studium Bonon. auferatur, vel diminuatur.

«Ego Zacharias de Strata Majori Imperialis Aule, et nomine Com. Bon. Not. predictam paginam scripsi.»

(Sarti, App., vol. II, pag. 68).

Dai molti atti di giuramento che abbiamo consultati, dei quali alcuni ancora sono inediti negli archivi di Bologna, i patti imposti ai professori si possono riassumere così:

I. Ogni professore deve obbligarsi di non insegnare fuori di Bologna;

II. Di non appartenere a nessuna società dove si cerchi di arrecare danno all'università;

III. Di avvisare il Podestà di ogni atto contro l'integrità e il decoro dello studio;

IV. Di dar consigli ai Consoli e al Podestà quando ne venissero richiesti;

V. Di non eccitare mai gli scolari ad abbandonare l'università;

VI. Di procurare con ogni mezzo di dare incremento allo studio.

Negli statuti di Bologna del 1259, parte dei quali vennero pubblicati dal Savigny, si trova una rubrica speciale di questo tenore:

«Rubr. 8. Quod nemo faciat septam vel cospirationem pro studio transferendo de Civitate Bononiae ad alium locum.»

Lo stesso Ghirardacci (Historie bolognesi, cap. XXI) racconta che la pena minacciata a coloro che avessero violate le leggi del comune, era quella che si applicava ai traditori. I trasgressori erano esiliati e la loro effigie dipinta in segno d'infamia nel palazzo del Podestà. Era anche vietato agli scolari di portare i libri fuori di Bologna per timore che s'introducessero nelle altre scuole.

74.  Anche il papa Martino IV nel 1282 tornava a sciogliere i componenti l'università del giuramento prestato al comune, dichiarandolo lesivo dei loro diritti (Sarti, op. cit., vol. II, App.).

75.  Savigny, op. cit., I, pag. 643.

76.  Dal testo della bolla di Onorio III, che trascriviamo, si rileva come intendimento di quel papa, nel promulgarla fosse di accrescere la fama e lo splendore scientifico dell'università, che avrebbe potato venir meno coll'applicazione di un malinteso sistema di insegnamento.

«Honorius Servus Servorum
Dei

«Dilecto Filio Archidiacono Bononiensi salutem et Apostolicam Benedictionem.

«Cum saepe contingat, ut minus docti ad docendi regimen assumantur, propter quod et Doctorum honor minuatur, et profectus impediatur Scholarium valentium erudire, Nos eorundem utilitati et honori prospicere cupientes, auctoritate presentium duximus statuendum, ut nullus alterius in Civitate predicta ad docendi regimen assumatur, nisi a te obtenta licentia examinatione prehabita diligenti; tu denique contradictores, si qui fuerint vel rebelles per censuram Ecclesiasticam appellatione remota compescas.

«Datum Rom. IV Kal. Junii Pontificatus nostri, anno tertio.»

77.  Affò, Scrittori perugini. Vedi questo documento nel Discorso preliminare, pag. 26.

78.  Padelletti, Documenti inediti per servire alla storia delle università italiane, Arch. Giuridico, VI, pag. 102.

79.  Colle, Storia dello Studio di Padova. — Facciolati, Syntagmata XII e Hist. Gymnasi Patavini.

80.  Vedi Luciano Banchi, Alcuni documenti che concernono la venuta in Siena nell'anno 1321 dei lettori e degli scolari dello Studio bolognese (Giornale storico degli archivi toscani, anno V, 1861).

81.  Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, tomo V.

82.  Soltanto nella Toscana, dicesi si contassero più di cinquecento statuti. — Bonaini, Appunti per servire ad una bibliografia degli statuti italiani (Annali della università toscana, tomo II. Pisa, 1851). — Salvetti, Antiquitates Florentinae, etc. — Buonamici, Il Poliziano giureconsulto, pag. 35.

83.  Rimane ancora a farsi uno studio sugli statuti italiani diretto a dimostrare non solo la grande importanza che ebbero queste antiche compilazioni legislative nella storia del diritto, ma anche a far rilevare quanta influenza esercitassero nelle vicende della civiltà.

Molti principii di diritto moderno contenuti nei Codici oggi vigenti, si trovano consacrati nei nostri statuti (Istituzioni civili di F. Forti, lib. I, cap. III, pag. 37. — Villari, Le prime origini e le prime istituzioni della Repubblica fiorentina (Politecnico, anno 1866).)

84.  Savigny, op. cit., tomo I, pag. 666.

85.  Cibrario, Storia della monarchia di Savoia, tomo II, lib. IV, pag. 262.

86.  Questo importantissimo documento si trova nell'opera del Savigny, vol. III.

Prima di lui lo pubblicò il Colle (Storia dello Studio di Padova). Verrà anche da noi a suo luogo riferito essendo indispensabile per ben conoscere la forma primordiale della, costituzione universitaria.

87.  Vallauri, Storia delle università piemontesi.

88.  San Giorgio, Le università di Milano e di Pavia.

89.  Ecco la rubrica dello statuto che ricorda lo Studio di Novara: «Item statutum et ordinatum est, quod quilibet, undecumque sit, possit libere et secure, non obstantibus aliquibus repraesaliis, et contra cambiis datis, vel dandis, venire ad civitatem Novariae, ad studendum in qualibet scientia, et morari, et redire ipse et nuntii sui, dummodo non sit de liberis alicuius rebellis vel hostis communis Novariae» (Morbio, Storia dei Comuni, tom. II, pag. 80).

90.  Azzario, Cronaca milanese, pag. 291. — Corio, Storia di Milano. — San Giorgio, Op. cit.

91.  Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, tomo V, pag. 77. — Lo Studio di Piacenza ebbe dal papa il privilegio di Studio generale nel 1248. Questa università ebbe una celebre scuola di giurisprudenza dove insegnò il famoso Placentino che poi recatosi in Francia acquistò gran rinomanza a Montpellier. — Umberto Locati, De origine Placent., pag. 188.

92.  Tiraboschi, Bibliot. modenese, tomo I, pag. 52.

93.  Sarti, De claris prof. Gymnasii etc., tomo I, pag. 71.

94.  Taccoli, Memorie storiche di Reggio, P. III.

95.  Savigny, op. cit., tomo IV, App.

96.  Affò, Scrittori parmigiani.

97.  Bini Vincenzo, Memorie storiche della perugina università, 1816. Quest'opera è assai ricca di notizie, ma contiene molti giudizii erronei ed opinioni infondate. Anche il Savigny, parlando dell'università perugina (op. cit., I), è caduto in diversi errori, non avendo consultato altri documenti. — Vermiglioli, Bibliografia storica perugina 1823. Sull'università di Perugia vennero pubblicati recentemente tre documenti assai importanti, cioè: La matricola degli scolari e professori dell'anno 1339; L'ordinamento dello Studio nella prima metà del secolo XIV; e Gli statuti dell'università degli scolari, riformati nel 1457. — Padelletti, Documenti inediti per servire alla storia delle università italiane (Arch. Giur., vol. V, pag. 494; e vol. VI, pag. 97 e 111).

98.  Papadopoli, Hist. Gymn. Patavini, 1726, P. I, lib. III. — Sull'università di Ferrara hanno scritto: Borsetti, Hist. ferr. Gymnasi, 1735. — Rufo, Hist. ferr. Gymn., 1811. — Nel 1407 furono ordinati e corretti gli antichi statuti dell'università (Statuta univ. ferrar.). Gran parte delle disposizioni contenute in questi statuti sono state riferite dai sopraricordati storici.

99.  Negli statuti cremonesi vengono concessi ai dottori e agli scolari le immunità ed i privilegi di cui largheggiavano in quel tempo a loro favore tutte le città italiane:

(Statuta-mixta, Rubr. 441-442) «Item quod omnes scholares et doctores, qui requisiti fuerint per universitatem scholarium, possint venire Cremona libere et secure de quacumque civitate, provintia, villa, seu loco et castro in persona, libris, pannis, animalibus et aliis armis et rebus ad se spectantibus et eorum familiis.... et si quo casu dictis rectoribus, seu scholaribus venientibus ad civitatem Cremonae vel in Cremona aliquod damnum, seu injuria inferretur, Potestas et rectores seu alii officiales, qui pro temporibus fuerint Cremonae, teneantur breviter et summatim, sine strepitu et figura judicii, etiam cum semiplena probatione, vel sufficienti indicia, et sacramento doctoris, vel scholari facere emendari damnum, jniuram, seu robariam illatam et illata dictis scholaribus per terras, loca, villas et communia, ac singulares personas, in quorum territorio, praefato domino nostro subiecto iniuria, seu robaria factae fuerint. Et si quis fecerit insultum in aliquem scholarem vel contra aliquem dictae universitates, quod vicinia, in qua delictum commissum fuerit dictum malefactorem teneantur prosequi, et capere, et captum, seu captos detinere et praesentare Dno Potestati vel ejus judici. Et gaudeant beneficio civium, et pro civibus habeantur dicti scholares.»

100.  Tiraboschi, Storia della lett. it., ecc.

101.  Tiraboschi e Alidosi, Scrittori bolognesi, pag. 28.

102.  Celesia, Lo Studio di Genova.

103.  Tola, Lo Studio di Sassari.

104.  Del Migliore, Firenze illustrata, pag. 381.

105.  Prezziner, Delle Accademie fiorentine. — Nello Studio di Firenze fu conferita la prima laurea nella facoltà teologica il 9 dicembre 1359 per speciale concessione di papa Clemente VI (Villani, Cronache, lib. IX, cap. LVIII). Nell'Archivio delle Riformagioni si trovano gli statuti del 1387 relativi allo Studio di Firenze.

106.  Queste notizie le abbiamo tolte dalla memoria dell'egregio L. Banchi, più innanzi citata, e da diversi documenti che si conservano nell'Archivio di Stato di Siena.

107.  Tiraboschi, op. cit., tomo V, pag. 83. — Statuti di Lucca.

108.  Rofredi Beneventani, Opera omnia.

109.  Statuti di Arezzo (Privilegia scholarium).

110.  Guazzesi, Opere. Pisa 1766, tomo II, pag. 106-108. — Anche il Savigny parla dello Studio di Arezzo, citando spesso quelli statuti che contengono alcune particolarità degne di nota (Statuta an. 1215) estratti da un Codice membranaceo dell'Archivio della Canonica di Arezzo al num. 620.

111.  Ciò deduciamo dal non aver trovato nessuna memoria importante che si riferisca a questo Studio, nei documenti del tempo.

112.  Sarti, op. cit., vol. I, pag. 485. — Ciampi, Vita di Cino da Pistoia.

113.  Federigo fu chiamato da Dante «cherico grande,» cioè gran sapiente; essendo ritenuti i chierici fino a quel tempo soli depositarii della scienza.

Il cronista Villani (Ist. Fiorent., lib. VI, cap. I), sebbene di partito guelfo e nemico quindi all'imperatore, pur lo chiama: «savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte le cose.»

114.  Queste opere, furono per cura di Federigo diffuse nelle principali scuole d'Italia (Sarti, op. cit., I, pag. 489). — Encyclica Friderici qua libros mittit ad universitates (Huillard-Brèholles, Historia, vol. IV, pag. 384).

115.  Lo stesso Federigo attese allo studio delle matematiche. — Malaspina apud Muratori, Ber. Ist. Script., vol. VIII, pag. 788. — Libri, Hist. des sciences mathématiq. en Italie, tomo II, pag. 22, 27. Paris, 1838.

116.  L'Accademia Panormitana che pare avesse origine nel 1233. — Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, tomo I, pag. 87.

117.  Sarti, op. cit., P. II, pag. 36.

118.  Leggendo negli scrittori bolognesi questo episodio assai singolare di quella università si nota come l'intimazione di Federigo divenisse argomento di fieri motteggi e di sarcasmi nella città e fra gli scolari; il che sta a confermare quanto profondo fosse in essi il sentimento della propria indipendenza.

Il giureconsulto Odofredo parlando dell'interdizione dello Studio di Bologna per opera di Federigo, dice con fina ironia che tutto il danno dell'ira imperiale fu di aver ritardato di pochi giorni il principio delle lezioni (Odofredi, Opera).

Lo storico Ghirardacci così racconta il fatto:

«.... i Bolognesi trovandosi in disgrazia di Federigo furono da lui privi dello studio e comandò (ma indarno) che tutti gli scholari si partissero da Bologna e andassero a Napoli. Giudicò Federigo cotanto sdegnato, che fosse il maggior danno, e cosa di maggior dispiacere che a' Bolognesi si potesse fare il privarli dello studio e trasferirlo a Napoli....» (Hist. bolognesi, tomo I, pag. 142).

119.  Pètri de Vinea, Epistolae, lib. III, epist. X. — Del Vecchio, La legislazione di Federigo II, pag. 252.

120.  Iamsilla apud Muratori, Rer. It. Script., vol. VIII, pag. 496.

121.  A dimostrare quanto fosse d'idee liberali Federigo, e qual profondo sentimento della civiltà egli avesse, basterebbe consultare i suoi scritti in cui lampeggiano pensieri degni di un grande riformatore (Pètri de Vinea, Epistulae, lib. III, epist. XII).

122.  Origlia, Storia dello Studio di Napoli, tomo I, pag. 200 e seg.

123.  Signorelli, Cultura delle due Sicilie. — Savigny, op. cit., III.

124.  Eccone un esempio: «Nullus de Civitate Comitatu vel destrictu Florentiae qui velit studere in aliqua quacunque scientia, audeat vel presumat deinceps ire vel stare ad studendum in aliqua scientia ad aliud aliquod Studium quam in Civitate Florentiae et in Studio in Civitate Florentiae deinceps perpetuo, ordinato, et quicumque Civis Comitativus vel Districtualis dicte Civitatis Florentie ivisset vel esset citra montes ad aliquod aliud Studium seu Civitatem vel terram causa studendi teneatur et debeat redir ad Civitatem et Studium Civitatis Florentie hinc ad per totum mensem Decembris proxime futurum sub poena librarum mille florenorum parvorum....» (Prezziner, Storia dello Studio di Firenze, 87).

125.  Nel testo si lesse dapprima quinquaginta (50) in luogo di quingenta (500). I più recenti storici hanno corretto un tale errore (Vallauri, St. delle univ. piemontesi, vol. I, pag. 21, nota 1. — Savigny, III, pag. 258).

126.  Nel testo della Carta dice totum. Il Savigny scrive tutum, altrimenti il senso non sarebbe chiaro.

127.  Nel testo del documento si trovano sempre unite queste due parole che hanno un significato storico. Infatti dicevasi (magister) il professore in genere, (dominus) l'insegnante di cui lo scolaro aveva fatto la libera scelta.

Colle due parole dominus e socius, l'una relativa all'insegnante e l'altra allo scolare, si esprimeva quel vincolo di rispettosa famigliarità che si era formato nella vita scolastica medioevale fra maestri e discepoli.

128.  Dicevasi exemplator il copista e il depositario di libri corretti per uso delle scuole.

129.  Il Savigny legge Meguxii.

130.  Matteo Villani, Cronica, vol. I. cap. VIII.

131.  Azario, Cronica, pag. 291.

132.  Tiraboschi, St. della lett. italiana.

133.  Muratori, Script. Rer. Ital., tomo XVI.

134.  (Citramontani) Romani, Abrucium et Terra Laboris, Apulia et Calabria, Marchia Anchonitana inferior, Marchia Anchonitana superior, Sicilia, Fiorentini, Pisani et Lucani, Senenses, Ducatus (Spoletani), Ravennates, Veneti, Januenses, Mediolanenses, Tesalonici, Longobardi Celestini. (Utramontani) Gallia, Portugallia, Provincia, Anglia, Burgundia, Sabaudia, Vasconia et Alvernia, Bicturia, Turonenses, Castella, Aragonia, Catalonia, Navaria, Alemania, Ungaria, Polonia, Boemia, Flandrenses.

135.  Mazzetti, Repertorio de' professori bolognesi.

136.  Mazzetti, Repertorio de' professori bolognesi.

137.  Fabroni, Hist. Acad. PS., I, pag. 86.

138.  Prezziner, Storia dello Studio di Firenze.

139.  Savigny, Hist. du droit. rom. etc., III, pag. 218.

140.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 20.

141.  Stat. Bonon., lib. III, pag. 50.

142.  Rufo, Hist. Gymn. ferr.Facciolati, Fasti, P. II, pag. 12.

143.  «..... Nam scholare recedente non debet alius sibi locum vindicare sine licentia domini» (Accursio, lib. V, de off. mag. off., I, 31).

144.  Ghirardacci, Storia bolognese, pag. 329.

145.  Idem, pag. 329, 451, 554, 589.

146.  Facciolati, Syntagmata XII, Gymn. Patav.

147.  Colle, St. dello Studio di Padova, I, pag. 242.

148.  Rufo, Hist. Accad. ferrar., pag. 143.

149.  «..... Inveterata ac antiqua consuetudine, observata usque in hodiernum diem Gymnasi Almarum Civitatum Bononiae, Patavique, quod Rectores Juris torumin onnibus actis publicis praecedent Rectoribus Artistis ed quod semper primum locum obtineant» (Idem, pag. 186).

150.  Vallauri, Storia delle univers. piemont., II, Doc. XXVI.

151.  Questo Decreto è dell'anno 1661 (Vallauri, op. cit., Doc. XXVI).

152.  Per dare un saggio al lettore, delle matricole universitarie, riferiamo quella dello studio di Perugia dell'anno 1339, che per la molta importanza merita di essere trascritta nella sua integrità:

In nomini Domini amen. Anno eiusdem millesimo cccxxxiiij ind. sept. tempor. dni Benedicti. pp. xii die xxv monsis octubris.

Haec est matricula scolarium et universitatis scolarium et doctorum Studii perusini facta tempore sapientis viri domini Iacobi de Muscianis de Urbe rectoris scolarium dicte universitatis. Et scripta per me Franciscum Spenutii notarium infrascriptum et scribam publicum Universitatis predicte. Et de mandatu dicti Dni Rectoris posita inter assides Statuti et in Statuto Communis Perusii per me Franciscum notarium eiusdem. Actum in Civitate Perusii in Palatio Comunis et Populi Perusini, in quo moratur Dnus Capitaneus populi Perusii in audientia dicti Palatii praesentibus etc. (seguono i nomi dei testimoni).

Dnus Iacobus de Muscianis de Urbe Rector dictus.

Nomina Doctorum

Dnus Symon de Vicentia doctores iuris canonici
» Federicus de Sienis
» Arnaldus de Senis
» Archidiaconus Yspanus
 
» Iohannes de Pagliarensibus de Senis doctores iuris civilis
» Thomas de Azzoguidis de Bononia
» Pynus de Gosedinis de Bononia
 
Magister Gentilis de Fulgineo doctores in medicina
» Martinus de Montepolitiano
» Peronus de Bononia
» Franciscus de Bononia doctor in phylosophia
» Iohannes Theotonicus in loyca

Nomina scolarium

Scolares in Medicina

(Dal volume Miscellaneo «Atti del Consiglio Maggiore dal 1260 al 1415» Archivio Decemvirale).

153.  Savigny, Hist. du droit romain. etc., III, pag. 133.

154.  Sarti, P. I, pag. 34.

155.  Sarti, P. II, pag. 177.

156.  Stat. Bonon., lib. I, pag. 19-20.

157.  Quando fu decretato di compilare gli statuti per l'università fiorentina furono consultati gli scolari, i quali disposero che i detti statuti dovessero essere redatti per cura di nove dottori, presi dai tre collegi dei Canonisti, dei Legisti e dei Medici, e di sei scolari. Questi statuti nel 1473 vennero da Lorenzo de' Medici estesi all'università di Pisa (Fabroni, Hist. pis., I, pag. 76).

158.  Azario, Cron., pag. 415.

159.  Marini, Papiri diplomatici, Introd.

160.  Narra il Villani (lib. VII, cap. XC) che questa somma per i lamenti di molti malevoli cittadini fu ridotta a soli 1000 fiorini.

161.  Rufo, Hist. Ferrar. Gymn., lib. I, pag. 51.

162.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 48.

163.  Idem, Syntagmata XII.

164.  Idem, Fasti, P. II, pag. 13.

165.  Sarti, De Archygium. Bonon. profess., P. I.

166.  Vedine un esempio nel Tiraboschi, Bibliot. mod., I., pag. 52.

167.  Ghirardacci, Storie bolognesi, I, pag. 320.

168.  Ghirardacci, vol. II, pag. 424 e Sarti App. II, pag. 106.

169.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 80-81.

170.  Accademiarum celebrium, etc.

171.  In Padova se ne trova qualche esempio: ma dal 1426 in poi fu decretata la perpetua esclusione del vescovo dal grado di Rettore (Facciolati, Fasti).

172.  Odofredo dice: «per legem municipalem hujus civitatis scholares creant rectores.»

173.  Ghirardacci, Storie bolognesi, II, disp. 424.

174.  Vedi fra gli altri statuti quello dell'università di Perugia (Padelletti, Contributo alla Storia dello Studio perugino).

175.  Savigny, St. del dir. rom., ecc., III, pag. 203 e 224. — Tiraboschi, Stor. della letterat. italiana, tomo I, lib. IV, cap. III.

176.  Il Senato di Venezia fece espressa proibizione ai padovani e ai veneziani di prender parte all'elezione del Rettore nell'università di Padova (Facciolati, Fasti, II, pag. 81).

177.  Fabroni, Hist. Acad. pis., I, pag. 420, 421.

178.  Quando l'elezione di un nuovo Rettore incontrava il generale gradimento, esso veniva portato in trionfo sulle spalle degli scolari dalla cattedrale fino alla sua dimora. Vedine qualche esempio nel Facciolati, Fasti.

179.  Ghirardacci, Storia di Bologna, I, pag. 328.

180.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 31-44.

181.  Idem, P. II, pag. 231.

182.  Idem, P. II, pag. 242; P. III, pag. 69.

183.  Idem, P. II, pag. 69.

184.  Facciolati, P. II.

185.  Di questa specie di laurea vedremo parlando dei gradi accademici (cap. VIII).

186.  Facciolati, P. II, pag. 44-48.

187.  Rufo, Hist. Gymn. ferrar., pag. 293.

188.  Savigny, Hist. du droit. rom., III.

189.  Facciolati, Fasti, P. I. pag. 1; P. II, pag. 43, 51, 71, 203, 213.

190.  Vallauri, Storia delle università piemontesi.

191.  «Essendo antica costumanza — dice un Decreto del 1647 — delle Università delli Scholari di questo Studio, o siano di Legge o di Filosofia, o Medicina, di collocare l'onore e la preminenza di Tesoriere in uno dei loro compagni Studenti; gl'Illustrissimi Signori Giudice e Maestrato dei Savii e gl'Illustrissimi Signori Riformatori sono venuti in sentimento, acciocchè tale dignità si renda più conspicua e più stimata, che il soggetto da eleggersi Tesoriere abbia prima con qualche onorata azione dato pubblico saggio del suo virtuoso talento e del progresso delli suoi studj; essendo da tener per fermo, che ciò servirà di stimolo assai pungente alli Scholari, d'attendere con fervore alle intraprese professioni» (Rufo, op. cit., pag. 291).

192.  Stat. Bonon., lib. I, pag. 16.

193.  Stat. Bonon., lib. I, pag. 17.

194.  Il nome di Stazionari forse fu una derivazione dell'antica voce inglese «stationer» (librajo). Nel medio evo, si diceva comunemente «stazione» il luogo dove si faceva commercio di libri (Boccaccio, Vita di Dante).

195.  Vedi Sarti, P. II, Append., pag. 210, e Savigny IV. App.

196.  Savigny, Stor. del dir. rom. nel medio evo, III, pag. 413. — Odofredo che faceva scuola in casa, teneva per comodo de' suoi scolari una raccolta di libri che imprestava (Sarti, P. I, pag. 149).

197.  St. Bonon., lib. I, pag. 25. — L'università di Bologna proibiva agli scolari di portare libri fuori della città senza licenza e bolla, sotto pena di perdere i libri e di grave ammenda. (Ghirardacci, St. bolognese, lib. XXI, pag. 117).

Negli estratti degli statuti pubblicati dal Savigny (Storia del dir. rom., vol. III, pag. 250) si trovano specificati gli obblighi degli Stazionari.

De stationaribus tenentibus exempla
librorum vel apparatum

(Lib. 4, pag. 68).

«Ordinamus pro utilitate scolarium et studii quod stationarii exempla librorum et apparatuum tenentes non presumant vendere vel alio modo alienare ut portentur ad studium alterius civitatis vel terrae vel aliquid fraudolenter facere in laesionem civitatis seu studii bon. poena et banno centum lib. bon. cuilibet contrafacienti et pro qualibet vice. Et quilibet possit accusare et denunciare et habeat medietatem banni. Item quod ipsi stationarii tenantur habere exempla correcta et bene emendata bona fide et prout possibile melius erit et de eis scolaribus petentibus copiam facere et pro exemplatura id accipere quod hactenus pro tempore praeterito consueti sunt accipere et habere et non plus pro qualibet pecia cujuslibet lecturae antiquae editae et compilatae a septem annis retro sex denarios bon. parvorum ut pro quaelibet pecia cuiuslibet lecturae novae compilatae a septem annis citra et etiam compilando de caetere octo denarios parvos....»

198.  Sarti, P. II, pag. 224.

199.  Così in Modena allo Stazionario dell'università era stato assegnato un piccolo stipendio di quindici lire (Tiraboschi, Bibliot. mod., tom. I, pag. 55).

200.  Gli Stazionari aveano l'obbligo di dare i libri in prestito e non potevano venderli sotto pena di lire due bolognesi e più a piacere del potestà. Così dispongono gli statuti di Bologna (Sarti, P. II).

201.  Stat. Bonon., lib. I, pag. 27.

202.  Vedi Carta dello Studio di Vercelli. — Colle, Dello Studio di Padova.

203.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 41.

204.  Idem, Syntagm. XII, pag. 106.

205.  Idem, Fasti, P. II, pag. 57.

206.  Sarti, P. I, pag. 98.

207.  Così avvenne in Padova nel 1491 (Facciolati, Fasti, P. II, p. 63).

208.  Fra i dottori si agitò la questione se il bidello, che avea preso in custodia un libro, fosse tenuto a compensarne il proprietario in caso di furto. In questa disputa prese parte anche Bartolo.

209.  Di questo mezzo indecoroso si fa parola nel Fabroni, Hist. Acad. pis.; e riporteremo qualche documento a suo luogo, in conferma di ciò.

210.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 57.

211.  Sarti, Append., pag. 216.

212.  Idem, P. I, pag. 187: «Hodie scriptores non sunt scriptores sed pictores.»

213.  «Dixit Pater filio..... Vade Parisis, vel Bononian et mittam tibi annuatim centum libras. Iste quid facit? Ivit Parisiis et fecit libros suos babuinare de literis aureis..... ibat ad cerdonem et faciebat se calceari omni die Sabati» (Odofredo, Comm. de Senat. Cons. Maced.). — L'uso di formare libri di vasta mole e ornarli di fregi e figure non era soltanto in Italia. Il Merlaco scrittore inglese del secolo XII, narra di aver veduto certi scolari da lui chiamati bestiali (bestiales) i quali sedendo in scuola con molta gravità tenevano innanzi libri così sterminati da occupare due o tre tavole (Tiraboschi, St. della lett. it., P. I, vol. IV, pag. 52).

214.  Alidosi, Scrittori bolognesi, pag. 74.

215.  «Doctores Bononiae habent excusationem a tutelis non qui docent Mutinae vel Regii» (Tiraboschi, Bibliot. mod., vol. I).

216.  Stat. Bonon., lib. III, pag. 50 (rubr. de juramento scolarium).

217.  Facciolati, Fasti, Gymn. Patav.

218.  Il Tomasini (Gymnasium Patavinum) parla diffusamente degli estesi privilegi che godevano i tedeschi nella città di Padova. — Facciolati, Fasti Gymn. Patav., P. II, pag. 34, 44, 232. — Anche i principi aveano molta deferenza per gli scolari tedeschi. Il Ficino, al quale erano stati raccomandati alcuni figli di principi tedeschi venuti a studiare in Firenze, scrive che essi erano sotto la protezione del magnanimo Lorenzo de' Medici:

«Vos bono animo estote, et principibus vestris nomine nostro respondete, magnanimum Laurentium Mediceum, cui et ipsi clientes sumus adolescientium providentiam libentissime suscepisse» (Prezziner, St. dello Studio di Firenze). — Anche in Ferrara vi erano molti tedeschi «qui omne doctrinarum genus cum gloria in patriam clarissimum referrent» (Rufo, Hist. Gymn. Terrap.).

Le ragioni che muovevano le nostre università ad accordare tanti privilegi ai tedeschi erano: la frequenza dei rapporti che le città italiane avevano con quella nazione e la reverenza per l'autorità imperiale la quale risiedeva negli imperatori alemanni come continuatori della grandezza romana.

219.  Odofredo dice: «Voglia Dio che ciò non produca assai male perchè i delitti possono essere difficilmente puniti dai dottori» (Comm. ad Dig. vetus).

220.  Ghirardacci, Storia di Bologna.

221.  Colle, Storia dello Studio di Padova, pag. 85.

222.  Ghirardacci, Storia di Bologna, II, pag. 424.

223.  Ghirardacci, I, pag. 441.

224.  St. del dir. rom. medio evo, III, pag. 28, in nota.

225.  Vedi Carta vercellese. — Colle, St. dello Studio di Padova, vol. I.

226.  Marini, Papiri diplomat., Introd.

227.  Origlia, St. dello Studio di Napoli.

228.  Nell'anno 1559 avendo inteso Cosimo I come il Pretore della città di Pisa ritenesse di propria giurisdizione le cause attinenti per gli statuti al Rettore di quella università, mostrando di non apprezzarlo, ordinava che attendesse ad esercitare la sua giurisdizione senza invadere quella dei magistrati scolastici, e gli imponeva di rilasciare uno scolare che indebitamente aveva catturato e rimetterlo prontamente al Rettore (Vedi la lettera nel Fabroni, Hist. Accad. pis., II, pag. 9).

229.  Ghirardacci, St. di Bologna, lib. XIX, pag. 16.

230.  Vedi Stat. Bonon., rubr. 7. — Negli Stat. di Padova si dice: «Scolares computentur cives quantum ad comoda et non ad incomoda» (Rubr. 1237).

231.  Durante, Specimen Juris, lib. I, P. I.

232.  Colle, St. dello Studio di Padova, pag. 208.

233.  Rufo, Hist. Gymn. ferrar., pag. 12.

234.  Sarti, op. cit., P. I, pag. 445; P. II, pag. 105.

235.  Il privilegio era molto esteso e comprendeva l'esenzione da tutte le gravezze doganali come dazi, transiti, bollette, e gabelle (Rufo, op. cit.).

236.  Fabroni, Hist. Accad., P. I, pag. 417. — Facciolati, Fasti, II, pag. 10.

237.  Facciolati, op. cit., P. I, pag. 12.

238.  Idem, P. II, pag. 52.

239.  Alidosi, Dottori bolognesi, pag. 93. — Questo privilegio era concesso però ai soli scolari forestieri, cioè che non appartenevano alla città o territorio dove aveva sede l'università (Rufo, Hist. Gymn. ferrar. Editto del 1490).

240.  Ghirardacci, Storia di Bologna, I, pag. 121.

241.  Sarti, vol. II, pag. 222.

242.  Stat. Bonon., lib. IV, pag. 69-71.

243.  Prezziner, Storia dello Studio di Firenze.

244.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 10.

245.  Rufo, Accad. ferrar. hist.

246.  Vedi la definizione che ne da Bartolo nel Tract. Repraesaliorum.

247.  Uno dei rari esempi di violazione della libertà individuale degli scolari per rappresaglia, viene citato dal Tiraboschi (Biblioteca modenese, vol. I) il quale racconta che avendo Federigo II mosso guerra alla città di Parma, alcuni partigiani dell'impero in Modena fecero prigionieri tutti i parmensi che studiavano in quella città e gli mandarono come ostaggi all'imperatore. Tolta però qualche eccezione, il rispetto per gli scolari fu sempre grandissimo e tutti gli statuti gareggiavano nello accordare a questo ceto di persone larghe immunità. Lo statuto di Cremona, dove verso il secolo XIV ebbe origine uno Studio, prescrive che gli offensori degli scolari debbano giudicarsi in modo sommario e condannarsi anche per soli indizi al doppio delle pene comuni (Stat. Crem. Mixta, Rubr. 441, 442).

248.  Un singolar privilegio degli scolari si trova ricordato da un giureconsulto, ed era quello di poter revocare la promessa di un lascito fatta in punto di morte a qualche convento «Scholaris veniens ad mortem et habens pecuniam penes campsorem si facit eam promitti fratribus praedicatoribus et demum evasit mortem, poterit promissionem revocare» Rolandi a Valle Consiliorum, VIII, nº 10.

249.  Nel Sarti è riportata una bolla di Niccolò IV in proposito.

250.  Petri de Vineis, Epistolario, lib. III.

251.  Pètri de Vineis, Epist.

252.  Lo statuto di Cremona sancisce questo principio dandogli forza di legge.... «quod scholares habeantur pro civibus quantum ad commoda quantum vero ad incommoda non.....» Mixta (Rubr. 446).

253.  Vallauri, Storia dell'università degli studi del Piemonte, vol. II, pag. 109.

254.  Socini, Comment., pag. 37, num. 273.

255.  Bettinelli, Risorgimento, ecc., vol. IV, pag. 147.

256.  Sigonio, Hist. Bonon., lib. IV.

257.  Muratori, Dissert. antiq. ital. (Diss. XLIII).

258.  Storia dell'università di Padova, vol. I, pag. 47.

259.  Savigny, St. del dir. rom. nel medio evo, III, pag. 151.

260.  Sarti, P. I, pag. 29.

261.  Dal Borgo, Orig. dello Studio pisano, pag. 113.

262.  Sarti, P. I, pag. 42, 48.

263.  I notai, per esempio, si chiamavano dottori (Sarti, P. I, pag. 421), ma non erano iscritti nel collegio. — Ghirardacci, Storie bolognesi, tomo II, pag. 159. — Orlando, Scrittori bolognesi, pag. 311.

264.  Taccoli, Memorie di Reggio, P. I. — Savigny, St. del diritto romano nel medio evo, tomo IV, App. — Il Sarti ricorda però che si conferivano assai prima di quest'epoca le lauree non solo di legge, ma anche di medicina in Bologna (Sarti, P. I, pag. 433. — Colle, St. dell'università di Padova, II, pag. 109).

265.  Facciolati, Syntagmata, etc., pag. 3.

266.  Middendorpio, Accadem. celebr. — Il Colle dice che nell'università di Padova furono conferite le prime lauree di medicina contemporaneamente a quelle di legge cioè verso l'anno 1265 (Storia dell'università di Padova, II, pag. 109).

267.  Odofredo, Comment., II, P. VII.

268.  Sarti, P. I, pag. 52.

269.  Facciolati, Syntagmata, VII.

270.  Idem.

271.  Facciolati, Fasti, P. I, pag. 23. — Colle, St. dello Studio di Padova, I, pag. 103.

272.  Puccinotti, Storia della medicina, vol. II.

273.  Nell'ordinazioni emanate nel 1610 in Pisa si diceva: «nel collegio dei legisti doveranno avvertire che prima che si proponga alcuno alla recitazione dei punti, vada il dottore che lo propone esaminando la sufficienza dello scholare, e non lo trovando idoneo lo esorti a continuare quel più di tempo nello studio» (Fabroni, Hist. Accad. pis., II, pag. 487).

274.  Duranti, Specimen juris, lib. I, P. I.

275.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 49.

276.  Fabroni, Hist. Accad. pis., II, pag. 48.

277.  Talvolta fra i promotori si trovano compresi anche gli assenti ed i defunti. Il Facciolati è di parere che ciò si facesse per rendere onore ai dottori morti o lontani. Il Colle crede invece che si considerassero come vivi i dottori defunti finchè non fossero sostituiti da altri (Colle, St. dello Studio di Padova, I, pag. 105).

278.  Vallauri, St. delle univer. piemontesi.

279.  Facciolati, Fasti, II, pag. 50.

280.  Idem, P. II, pag. 54.

281.  Vallauri, St. delle univer. piemontesi.

282.  Middendorpio, Accademiar. celebr., I, pag. 111.

283.  Savigny, Hist. du droit rom. etc., III, pag. 146.

284.  Facciolati, Syntagmata etc., XII.

285.  Ghirardacci, Historie bolognesi.

286.  Colle, vol. I, pag. 106. — Negli statuti di Mondovì viene prescritto ad ogni laureando di pagare 28 scudi d'oro da dividersi fra i membri del collegio e di regalare inoltre un paio di guanti e due libbre di zucchero scelto al cancelliere, al rettore, al priore e ai promotori; un paio di guanti ed una libbra di zucchero al decano, al segretario e al bidello (Vallauri, St. delle univ. piemontesi).

287.  Facciolati, Fasti, P. II, tom. II, pag. 2.

288.  Facciolati, op. cit., P. II, pag. 27.

289.  «Imperocchè spesso non stanno contenti ad essere chiamati dottori, ma ne ambiscono anche gli uffici a danno dei veri sapienti» Così il Middendorpio, Accad. celebr., I, pag. 128.

290.  Colle, St. dello Studio di Padova, II, pag. 73.

291.  Petrarca, De vera sapientia, Dialogo I.

292.  Niccola IV fino dal 1292 concedeva a quei che erano stati laureati nello Studio di Bologna di potere insegnare dovunque «et sive velit legere sive non, in facultatibus prelibatis, pro doctore nihilominus habeatur» (Sarti, P. II, App., pag. 60).

293.  Origlia, St. dell'univ. di Napoli.

294.  Socinus, Comment., pag. 37, nº 27.

295.  Socinus, pag. 86, nº 67. Il titolo di dottore era compreso fra le prime onorificenze dello Stato (Authentica Habita. Cod. ne filius pro patre).

296.  Socini, op. cit., pag. 86.

297.  Idem, pag. 86, nº 57.

298.  Rolandi a Valle Consiliorum, etc., Cons. 66, nº 41.

Il giureconsulto Ancarano enumera i principali privilegi che al suo tempo erano conferiti ai dottori.

I. Quod ab omnibus oneribus et muneribus sint liberi.

II. Quod inviti ad judicium trahi vel exhiberi non debeant.

III. Quod habeant jurisdictionem in scholares.

IV. Praesides in literis suis ad doctores vocant illos non fratres sed patres alioqui punirentur arbitrarie.

V. Ingredientibus in Curiam non negatur accessus sed admittuntur etiam ad secreta judicum.

VI. Solius doctoris testimonio creditur super peritia studiosi.

VII. Vehiculis uti licet in Urbe presente Imperatore quod aliis non permittitur.

VIII. Quando 20 annos docuerint comparantur ducibus et Comitibus.

IX. Sunt executores contra exercentes ludos noxios.

X. Interpretationi doctorum creditur habeturque probabilis si Iuri scripto non repugnet (Middendorpio, Accadem. celebrium).

299.  Anche qualche dottore più famoso dell'università delle arti fu insignito di grandi onori. Il celebre medico T. Fiorentino che insegnava in Bologna ottenne per sè e pei suoi eredi l'esenzione dalle tasse e da tutti gli altri oneri della cittadinanza e molti altri privilegi. I suoi scolari furono equiparati nel godimento dei diritti universitari a quelli del diritto civile e canonico (Sarti, App., pag. 227).

300.  Sclopis, Dell'autorità giudiziaria, cap. VI, pag. 170.

301.  Colle, St. dell'univer. di Padova, I, pag. 55. — Il Saliceto fu chiamato monarca della scienza legale. Molti altri esempi si trovano nelle storie. Giovanni Andrea fu chiamato anche Stella del firmamento, Tromba del diritto e Padre delle leggi e dei canoni (Idem, II, pag. 31).

302.  Sarti, P. I, pag. 71.

303.  Colle, op. cit., pag. 46, vol. I.

304.  Idem, pag. 51.

305.  Sarti, pag. 103.

306.  Maccioni, Osservazioni sul diritto feudale di Ant. Minucci, p. 74.

307.  Rufo, Hist. ferrar. Gymn.

308.  Colle, op. cit., pag. 55.

309.  Pratovetere Ant., Epistolario (Epist. XV).

310.  Affò, Scrittori parmigiani.

311.  «.... quando scholaris est in terra sua et vult scribere doctori suo aliquid in salutatione sua scribit reverendo viro: licet benedicat: tamen non honorat doctorem suum sicut deberet: quia si est doctor deberet dicere illustri viro Bonon, docenti: quia imperator ipsos doctores illustres vocat» (Odofredi, Commen., II, P. IX).

312.  Odofredi in leg. edita actio Cod. de edendo (Sarti, P. I, pagina 59).

313.  Socini, Comm., pag. 37, nº 272.

314.  Rolandi a Valle Consiliorum. Consil., 66, n. 41: «Doctoribus indoctis non concepit privilegium vicinum fabrum obstrepentem a domo ejicere.»

315.  Sarti, pag. 370.

316.  Lancillotto, Vita di Bartolo, cap. XII. — Di questo privilegio ottenuto dai re di Boemia ne fa menzione lo stesso Bartolo (In extravag. alla voce Reges). Collo stesso decreto fu concesso a Bartolo anche il diritto proprio soltanto del principe, di legittimare bastardi.

317.  Leges novae Reip. Genuae, cap. I.

318.  Oltre la grande importanza scientifica che i dotti esercitavano nel medio evo erano rivestiti anche di autorità politica e sociale, essendo chiamati ai più alti uffici tanto civili che ecclesiastici. Per dare un'idea della moltiplicità degli uffici che esercitavano i dottori basta ricordare le numerose cariche pubbliche cui fu chiamato il giureconsulto Baldo, il quale oltre ad essere stato per tutta la sua vita insegnante in varie università e indefesso cultore della scienza, fu giudice, ambasciatore, avvocato, uno dei sapienti che avevano la vigilanza sulle scuole di diritto e incaricato dell'amministrazione militare. Fu anche vicario generale del Vescovo di Rodi, incaricato della riforma degli statuti di Pavia e negli ultimi anni della sua vita andò consigliere pontificio a Roma e chiesto in grazia da papa Urbano VI al comune di Perugia.

319.  La bolla di Onorio è riferita dal Sarti (vol. II, pag. 177).

320.  «Ne calamitas et pestis haec ulterius progrediatur decernunt quod nullus Scholaticus in disciplinam assumat, nec Ludum habeat nisi primo vel de se periculum fecerit cognitorem se esse bonarum Litterarum vel approbatum fuerit per Oflitiun XII Sapientium aptum esse ad Scholam aperiendam. Si quis contra auserit de Civitate ejiciatur ut pestifera Bellua» (Rufo, Hist. Gym. ferr., pag. 50).

321.  Prezziner, Storia dello Studio di Firenze.

322.  Padelletti, Contributo alla Storia dello Studio di Perugia.

323.  Alberigo da Rosate (De statutis quaest. 217. — Tract. univ. juris, tomo II), dice che lo statuto di Padova proibisce ai forensi, agli scolari e agli altri che non portano i pesi del Comune, l'arringare e il trattare e decidere cause in quel fôro, come pure è ordinato che i dottori e i maestri che percepiscono stipendio non possano patrocinare cause nel Palazzo se non in favore degli scolari.

324.  Savigny, Hist. du droit. rom. etc., vol. III.

325.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 59.

326.  Bettinelli, Risorgimento, ecc., Opere, III, pag. 185.

327.  Nel 1382 i fiorentini desiderando ardentemente che il giureconsulto Baldo andasse ad insegnare nel loro Studio scrivevano al comune di Perugia invocando la comune amicizia e fratellanza perchè persuadesse Baldo ad accondiscendere alle loro brame:

«.... quum elegerimus ad hoc munus egregium legem Doctorem et singularissimum Iuris interpretem Dom. Baldum Civem honorabilem Peruginum, fraternitatis vestrae rogamus affectum, quatenus eidem placeat non solum veniendi licentiam amore nostri cum benignitate concedere; sed etiam si forte socordi consilio non.... ipse suae curaret laudis honorem, placeat cum in dicta necessitate cogere quodque nostris votis satisfaciat persuadere» (Colle, St. dello Studio di Padova, II, pag. 180).

328.  Si possono consultare con profitto i documenti sopra Andrea Alciati lettore nello Studio di Bologna (Anni 1537-41) pubblicati da B. Podestà nell'Archivio giuridico.

Nel 1432 il Doge di Venezia chiedeva ai fiorentini per l'università di Padova con grandi istanze il Panormita, e i fiorentini gli rispondevano la seguente lettera:

«Duci Venetiarum

«Illustris atque Excelse Domine frater et amice carissime. Quia Orator vester cum magna instantia petivit a nobis, ut Abati Siculo ad legendum Florentie conducto licentiam preberemus se in Studio Paduano conducendi, scribere decrevimus rationes veras et urgentes, per quas hoc facere prohibemur.

«Res enim interdum parvae videntur, et tamen habent in se difficultatem magnam. Primo enim indigentia hujus hominis neque major, neque urgentior alicui est quam nobis ipsis. Quippe cum alium Doctorem nullum existimabilem habeamus, at totum Studii fundamentum ab hujus spe presentiaque dependeat, necessarium nobis esse studium claudere, si huic a nobis conducto, sub cujus fiducia stetimus, licentiam preberemus. Nec plane utilitatem, vel damnum, quod ex retentione vel dimissione illius viri pervenire nobis posset, sed verecundiam ponderamus. Non enim sine labe honoris preteriret, si hunc per totam Italiam publicatum mutare consilium, et civitate nostra vel spreta vel neglecta, ad alios transire permitteremus. Quid autem responderi posset scholaribus, qui jam frequentes et multi sub hac expectationes domos Florentie conduxerunt? Qui si frustrati essent, conqueri merito possent, et nostram vacillationem et inconstantiam deridere. Non insuper ea ratio movet, quod in tanta belli difficultate putarent homines hunc propter inopiam vel impotentiam esse dimissum, quod consonum esset infamiae quam de nobis inimici nostri quotidie divulgant. Cum igitur multo magis indigeamus quam alii, et contra honorem esset, illius dimissioni Celsitudinem vestram rogamus ut amicabiliter et fraterne suspiciat excusationem nostram. Dat. Florentie die XXVI Augusti 1432» (Fabroni, Vita Cosimi I, vol. II).

Quando il pontefice Urbano IV chiese al comune di Perugia il celebre Baldo per eleggerlo suo consigliere si adunarono tutti i magistrati della Repubblica con grande solennità e posero ai voti la proposta come nei più gravi affari di Stato (Vermiglioli, Biografie dei perugini, «Baldo» pag. 124).

329.  Fabroni, Hist. acad. pis., I, pag. 129.

330.  Colle, St. dello Studio di Padova, II, pag. 34.

331.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 110.

332.  Odofredo parlando di questo sistema che era in uso ai suoi tempi, accenna ad un'astuzia che aveano trovati i cattivi (mali) scolari per non pagare, ed era questa: di dire che non può contrarsi obbligazione col mezzo di procuratore «mali scolares nolunt solvere quia dicunt quod per procuratorem non quaeritur actio domino» (Comm. Seg. 79, Deg. ecc., verb. obblig.).

333.  Savigny, Hist. du droit rom. etc., III, pag. 183.

334.  Sarti, P. II, pag. 131.

335.  Pietro d'Abano, celebre medico di Padova, poneva ad altissimo prezzo l'opera sua. Per curare Onorio IV dicesi dimandasse cento fiorini d'oro al giorno (Colle, St. dell'univers. di Padova, II).

Il famoso Taddeo fiorentino ebbe dal papa in compenso della ottenuta guarigione la somma di diecimila ducati (Villani, Vite d'uomini illustri fiorentini, pag. 27).

336.  L'insegnare senza retribuzione era stimata cosa molto onorevole e veramente degna dei buoni cultori della scienza. Rofredo Beneventano (Ord. Indic., pag. 772) dice: «Scentia boni et aequi nummario pretio non est dehonestanda. Iter et veri philosophie pecuniam spernunt et mercenariam operam non exhibent...... sic ergo illud quod fecit doctos, ex liberalitate fecit unde sufficit si cui vel in paucis amici labore consulatur.»

337.  Colle, op. cit., II, pag. 70.

338.  Facciolati, Fasti, P. I, pag. 6.

339.  Sarti, P. I, pag. 233, 410, 411.

340.  Uno statuto modenese del 1321, comanda che niuno tra gli scolari cittadini sia tenuto a dare ai professori di Leggi e di Canoni dono alcuno benchè loro promesso (Muratori, Antiq. It., pag. 207). Così pure nel 1279 l'università di Padova assegnando ai professori un pubblico stipendio avea fatto lo stesso divieto, eccettuando soltanto le pigioni delle case dove i professori insegnavano, che doveano esser pagate dagli scolari (Facciolati, Fasti, P. I, pag. 6).

341.  Le storie citano numerosi esempi di stipendi cospicui. Parma promise al Fulgosio ed a Pietro d'Aricarano 1000 ducati d'oro purchè insegnassero in quella università (Bettinelli, Risorgimento, ecc., tom. III, pag. 184.)

342.  Radunatosi il Consiglio delli seicento ad istanza delli scholari richiamò Galvano bolognese che allora leggeva in Padova con grandissimo concorso di scolari da ogni parte, che venisse a leggere in Bologna; il quale ebbe la lettura ordinaria del Decreto col salario di 200 fiorini d'oro l'anno; e perchè egli si trovava avere due figliuoli che studiavano, il Senato di Bologna gli diede per tre anni cento fiorini d'oro; e morendo l'uno di loro in quel termine, il superstite ereditava la detta somma di danari (Ghirarducci, Storia bolognese, II, pag. 394). Il Sarti racconta pure che a Dino di Mugello che insegnava leggi in Pistoia, fu assegnato per cinque anni, oltre lo stipendio una casa ben fornita e decente per uso di abitazione.

343.  Colle, Storia dell'università di Padova, vol. II, pag. 27.

344.  De Renzi, Storia della Scuola di Salerno, vol. I.

345.  «Ex Bulla Greg. XI, die 3 aug. 1374.»

346.  Facciolati, P. II, pag. 83.

347.  In Padova fu anche concesso ad un dottore l'esenzione dai tributi comunali e l'aumento di stipendio perchè aveva dodici figliuoli. — (Idem, P. II, pag. 62; P. III, pag. 41).

348.  Fantuzzi, vol. VII, pag. 283. — Mazzetti, Mem. bolognesi, pag. 278.

349.  Nel 1636 un dottore di Medicina in Pisa fece istanza al Granduca di ritirarsi dall'insegnamento, allegando per scusa la sua tarda età. Il granduca rispose: «Stante il lungo e buon servizio congiunto colla mala sanità del supplicante, si contenta S. A. S. di licenziarlo dalla cattedra e carica di leggere, e che quest'anno conscguisca non di meno la provvisione come se avesse letto tutte tre le terzerie, e che per maggior recognizione del suo merito negli anni futuri da cominciare il di 1º di novembre 1636, mentre se li viverà se gli paghino scudi 200 l'anno» (Fabroni, Hist. Acad. pis., II, pag. 321).

350.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 105.

351.  Idem, P. II, pag. 81.

352.  Idem, P. II, pag. 67-89.

353.  Idem, Syntagmata XII.

354.  Colle, St. della univ. di Padova, II, pap. 133.

355.  Mazzetti, Mem. storiche della univ. di Bologna.

356.  Idem.

357.  Muratori, Scriptor. Rer. Italic., tomo XX, pap. 939.

358.  Nell'anno 1482 a causa di una pestilenza venne trasferito lo Studio da Pisa a Prato.

359.  I dottori pisani minacciavano argutamente quel che nel linguaggio moderno direbbesi uno sciopero.

360.  Fabroni, op. cit., I, pag. 39.

361.  Stat. bonon., lib. II, pag. 40.

362.  Facciolati, Fasti e Syntagmata, XII, etc.

363.  Savigny, Hist. du droit, tom. III, pag. 192. — La distinzione delle lezioni in ordinarie e straordinarie è molto antica (ordinariae, extraordinariae lecturae). Secondo alcuni dicevansi ordinarie quelle che tenevansi nelle pubbliche scuole, e straordinarie quelle che solevano farsi nelle private, cioè nelle abitazioni dei professori.

Ambedue queste opinioni sono false e il Savigny ne discute le ragioni colla scorta di esempi e documenti autorevoli.

A dimostrare la verità della nostra asserzione che cioè, per distinguere la diversa natura delle lezioni è necessario dividerle secondo l'importanza scientifica dell'insegnamento e la fama dei professori, potremmo recare molti esempi.

Riepilogando in brevi parole le ricerche da noi fatte su tale argomento, osserviamo che le lezioni ordinarie per consenso generale degli statuti e degli usi scolastici in vigore in tutte le università, erano tenute nelle ore mattutine, mentre le straordinarie solevano farsi di sera; onde lo storico Ghirardacci, citato anche dal Savigny, adopera le voci (lectio matutina e vespertina) come sinonimo di lezione ordinaria e straordinaria (Hist. bolognesi, t. I, pag. 444).

Di più le lezioni ordinarie erano quelle in cui si spiegavano i libri ordinari, cioè i libri di testo delle diverse scienze che formavano la base dell'insegnamento.

Nelle lezioni ordinarie occupavano le cattedre i dottori ordinari, cioè quelli di merito ormai insigne e di fama assicurata e provetti nell'insegnamento per lunga esperienza. Nelle lezioni straordinarie invece solevano insegnare cumulativamente anche i dottori poco noti per fama scientifica, i semplici licenziati, i baccellieri, e gli stessi scolari.

Tutto ciò dimostra che la distinzione tanto frequente nel linguaggio scolastico nel medio evo tra lezioni ordinarie e straordinarie, non sta ad indicare altro che un diverso grado d'importanza attribuita all'insegnamento, secondo la fama dei professori e l'utilità delle materie che si spiegavano nelle une o nelle altre scuole.

364.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 57. — Quanto all'importanza che aveva la scuola ordinaria del mattino nelle università può vedersi (Fabroni, Hist. Acad. pis., pag. 206).

365.  Atti dell'Accad. delle scienze di Torino, vol. XXIX.

366.  Sarti, P. I, pag. 34.

367.  Savioli, Annali di Bologna, tomo II, P. I, pag. 158.

368.  Tiraboschi, Storia della Lett. It., tomo V, pag. 66.

369.  Rufo, Hist. Ferrar. Gymn., pag. 314.

370.  Savigny, Hist. du droit rom. etc., III, pag. 184.

371.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 10, 19, 58.

372.  Documenti inediti pubblicati dal Puccinotti (Storia della medicina, vol. II).

373.  Fabroni, Hist. Acad. pis., II, pag. 482.

374.  Da una lettera scritta agli uffiziali dell'università di Pisa da un dottore di quella città, si rileva come i bidelli eseguissero rigorosamente il loro obbligo e quanta cura mettessero gl'insegnanti per giustificarsi di qualche loro assenza dalle scuole allo scopo di evitare una pena. La lettera dice così: «Magnifici Officiales. Lo primo di Maggio passato morì in casa mia uno scolare Ferrarese mio consorte, il quale era stato doi anni meco. Bisognoe sepelirlo la mattina seguente nel hora de la lectione; di che tra per essere e addolorato e occupato il dì de innanzi per lo caso non aveva studiato e non lessi quella mattina. Gli altri lessono mez'ora perchè ebbono honorare la sepoltura. Dissemi li Bidelli che sebbene apuntassino, fariano cum le S. V. la scusa mia, e che io non haria danno. Così mi tenevo non havesse seguire altro. Hora al pagamento de la seconda paga mi è stato ritenuto tre ducati. Maravigliome e dolgome come le S. V. essendo condannato a torto per le caxone predicte, le quali se possono verificare col testimonio de li Bidelli. Due altre fiate io sono stato appuntato al tempo di Ser Piero Cenini. E le apuntature sono state cancellate, e restituitomi il dinaio e le altre paghe, havendo sempre justificato l'innocentia mia; perchè in vero non vi può esser noto dai vostri Precessori io posso gloriarmi essere uno de li più diligenti, che habiati in questo Studio....» (Fabroni, Hist. Accad. pis., P. I, pag. 163).

375.  Avvertasi la malizia e la sottile ironia della frase.

376.  Fabroni, Hist. Acad., P. I, pag. 102.

377.  .... «Sabato 2 di marzo 1595 non si lesse ne ordinarj ne straordinarj perchè giovedì notte a ore 8 morì Pietro Angeli e si seppellì detto dì a ore 18 in circa. Si andò collegialmente da dottori e rettori dietro al corpo a S. Giovanni, non potendo in Duomo per l'incendio seguito giovedì notte 24 ottobre 1595. San Leonino orò in Firenze, Jacopo Mazzuni di Cesena fece l'orazione funerale sopra il corpo, e tutti i dottori e scolari portarono torcie bianche e la lezione si dette per letta (Fabroni, Hist. Acad. pis., II, pag. 431).

378.  Sarti, P. I, pag. 97.

379.  Fabroni, op. cit., I, pag. 255.

380.  Fabroni, op. cit., II, pag. 255.

381.  Idem, II, pag. 11.

382.  Un tale Andrea del Campo copista nello Studio di Pisa scriveva, parlando dell'utilità di questa concorrenza: «.... optimo consiglio fu el vostro a porre el Papi alla concurrentia de Iasone, perchè veggo si farà tal'uomo che quelli che ne potranno fare qualche conto per l'advenire; buono ed utile gli è stato questo sprone» (Fabroni, op. cit., I, pag. 225).

383.  Fabroni, op. cit., pag. 20.

384.  Il Baldo, dolendosi cogli uffiziali dello Studio di Pisa che gli avessero dato i concorrenti, dice in una sua lettera pubblicata dal Fabroni (I, pag. 188) «.... Io non credeva venire a questo Studio per lassare el riposo e cercare travagli e disturbi e avere a stare in pratiche maxime in questa mia senectute. È laudabile usanza nelli Studi d'Italia di tractare li doctori antichi, che non abbino concurrentie dispiacevoli, e andare per le pratiche, ma solo abbino il pensiero del leggere. Non credo che in Studio d'Italia sia doctore di qualche reputazione che abbia letto anni trentotto, come io, e non credo che sia doctore in Italia più dato alle pratiche e alle.... quanto questo che cerca la mia concurrentia et maxime perchè vede questa cosa esser da me aliena.»

385.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 102.

386.  Idem, P. II, pag. 15.

387.  Nell'università di Padova si facevano le dispute anche di mattina nella sala maggiore dello Studio (in schola magna). Quelle della sera che si dicevano vespertine, si facevano nelle scuole o nella Sala della Curia del Pretore (M. Facciolati, Fasti, P. II, pag. 20).

388.  Facciolati, Syntagmata XII, etc., pag. 62.

389.  Quanto all'utilità di queste dispute si parla in una relazione fatta nel 1490 agli uffiziali dello Studio di Pisa: «Avvisando V. S. che mai in questo Studio si fecero tante dispute pubbliche quanto si fanno dappoi che ci è questo singolarissimo Dottore Mess. Iasone nè tanto si dimostrarono mai li scolari fare tanto profitto. È quanto al presente..... cosa questa da fare accendere gli animi degli altri vostri che per adventura non sono così serventi allo studio.» (Fabroni, op. cit. I, pag. 225).

390.  Ordinamento del magistrato di Balìa di Siena etc. (Archivio delle Riformagioni di Siena. Tomo XXII, 1482, c. 88).

391.  Parrà strano che le dispute accademiche si facessero in pubblica piazza. Eppure non è questo il solo esempio che i dottori trattassero di argomenti scientifici in luogo aperto al pubblico anzichè nel recinto delle scuole. Si narra che ai tempi del giureconsulto Azo fu tanto il concorso degli uditori, che esso fu costretto a leggere in una piazza di Bologna.

392.  Questa segreta sorveglianza dei bidelli si trova anche in altre università, come già vedemmo.

393.  «.... Bartolus, Baldus, Paulus..., dum taxat vocationem diebus aliquam legem iterum interpretandum accipiebant, quam diffusius disputarent, ideoque Repetitiones dixerunt: et hodie omnes repetitionessunt» (Alciati, Or Bononiae habiti. — Savigny, op. cit., II, pag. 599).

394.  .... «ut ex antiqua consuetudine omnibus diebus, quibus ordinarie legitur, hora vigesima tertia, post principium studii usque ad vocationes Pascae Resurretionis, scolares omnes et doctores tam Medicinae quam Philosophiae, Ordinarii et Extraordinarii ad Circulus in apothecis consuetis convenire debeant....» (Facciolati, Syntagm. XII, pag. 62).

395.  Stat. bonon., Lib. II, pag. 36-38. — Odofredo, Proem. inedit., al Diz.

396.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 20.

397.  Fabroni, op. cit., I, pag. 100.

398.  Rofredi Beneventani, Ordin. judic. position., pag. 772: «Quod primo per Scholarem discere volentem quaerendus est Doctor talis, qui primo seipsum bene et clare intelligat, tunc enim potest clare docere, cum clare intelligit. Et qui verba sua secundum capacitatem et ingenium audientiam coaptare potest, tacenda non proferat, et dicenda ac addiscenda non sileat. Qui enim apices quaerit, et alta docet quae ab auditoribus non intelliguntur non eorum utilitatem sed sui ostentationem facit.

«.... Debet etiam talis esse doctor qui habet vim impressivam et aptam ut ea quae sapit recte docere possit.

«.... Quod talis eligendus sit Magister qui in se laudabilem vitam probis moribus monstrabit, et docendi peritiam dicendi interpetrandique facundiam et disserendi copiam se habere patefecerit nec sit in docendo plus pomposus quam utilis....»

Anche Odofredo (Proem. ined. ad Dig. vetus) parla così intorno alla scelta di un buon'insegnante: «Scholaris enim quemlibet debet audire et modum cujuslibet inspicere, et qui si plus placebit ille debet per eum eligi, et opinione propria non alterius, non praetio.... vel praecibus doctoris vel alterius.»

399.  Nel 1451 le cattedre di Bologna superavano il numero di 170. Niccolò V con la bolla del 1º agosto 1451 le ridusse a 44 coll'onorario di lire 500 o 600 al più per ciascuna, dichiarando però che fossero ammessi ad insegnare tutti i cittadini laureati che ne avessero fatto domanda e si rilasciasse ai Riformatori dello studio la facoltà di eleggere tanto i dottori cittadini come i forestieri e di assegnare gli stipendi. Clemente VII con la bolla del 22 gennaio 1523 assegnò ai dottori cittadini lo stipendio di lire 100 che Gregorio XIII portò fino a 200.

Dalla bolla di Niccolò V in poi le cattedre delle università di Bologna aumentarono sempre quasi fino a raggiungere la cifra antica. Dal 1579 al 1669 le cattedre erano giunte al numero di centosessantasei (Mazzetti, Mem. storiche dell'univ. bolognese, pag. 30).

400.  Si racconta che a Roma gli scolari per occupare i migliori posti alle lezioni di Pomponio Leto si recassero alle scuole a mezzanotte, e lo stesso Pomponio si partisse da casa avanti giorno rischiarandosi la via con una candela in mano (Renazzi, St. dell'univ. di Roma). — Nell'università di Padova vi era un bidello destinato ad accendere i lumi per le lezioni avanti l'alba (antilucone) (Facciolati, Syntagmata XII, etc.).

401.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 3.

402.  A dì 12 agosto 1373: «Per parte di molti cittadini di Firenze desiderosi tanto per sè medesimi, quanto per gli altri loro concittadini, ed anche pe' loro posteri di venire ammaestrati nel libro di Dante dal quale anche i non letterati possono imparare a fuggire il vizio e ad acquistar la virtù riverentemente vi supplichiamo di provvedere ad eleggere un uomo savio valente e ben versato nella dottrina di questo poema, il quale per un tempo non maggiore di un anno faccia lezione del libro che volgarmente chiamasi el Dante a quanti vorranno venire ad ascoltarlo in tutti i giorni feriali e per lezioni continuate come suol farsi, e con salario a piacer vostro non maggiore di cento fiorini d'oro.»

403.  Manni, Sigilli, tom. IV, png. 131.

404.  Rofredo di Benevento (Ord. judic., pag. 772) esalta i vantaggi dell'insegnamento orale dicendo che la viva voce ha qualche cosa di latente energia. «Viva enim vox multum imprimit quae habet nescio quid latentis energiae.»

405.  Fasti, P. II, pag. 84.

406.  Odofredo, Comment. leg. 2, de judiciis.

407.  Summa artis notariae D. Rolandini Roduphini, etc.

408.  Alla fine delle lezioni, o come oggi direbbesi, del corso scolastico, i professori solevano riepilogare le proprie impressioni e dare il loro giudizio sul profitto degli scolari e sui cambiamenti da adottare nell'insegnamento nell'anno avvenire.

Un esempio di questi riepiloghi ce lo dà Odofredo (ad L. fin. D. de Divortio).

«Or signori, nos incepimus et finivimus et mediavimus librum istum sicut scitis vos qui fuistis de auditorio isto, de quo agimus gratias Deo et B. Mariae Virgini Matris ipsius et omnibus sanctis ejus. Et est consuetudo diutius obtenta in civitate ista, quod cantatur missa quando liber finitur, et ad honorem Sancti Spiritus; et est bona consuetudo et ideo est tenenda. Sed quia moris est quod doctores in fine libri dicant aliqua de suo proposito, dicam vobis aliqua pauca tamen. Et dico vobis quod in anno sequenti intendo dovere ordinarie bene et legaliter sicut unquam feci, extraordinarie non credo legere, quia scholares non sunt boni pagatores qui nolunt scire sed nolunt solvere iuxta illud: scire volunt omnes, mercedem solvere nemo. Non habeo vobis plura dicere, eatis cum benedictione domini, tamen bene veniatis ad missam et rogo vos.»

409.  Stat. bon., lib. IV, pag. 75.

410.  Mazzetti, Memorie di Bologna. — In Padova spettava agli scolari la scelta dei libri strordinari, cioè del Digesto nuovo e dell'Inforziato; il Rettore sceglieva i libri ordinari. — Vedi Stat. di Padova pubblicati per cura Gloria, rubr. 1250.

411.  Ciò dimostra secondo il Savigny (St. del diritto rom., ecc., vol. I) che il titolo di baccelliere nelle università medioevali non era un vero titolo accademico come quello di licenziato e di dottore. Il baccellierato divenne titolo accademico quando i collegi dei dottori si assunsero la facoltà di conferirlo.

412.  Padelletti, Contributo alla Storia dello Studio di Perugia.

413.  Atti dell'Accad. delle Scienze di Torino, vol. XXIX.

414.  Colle, St. dell'univ. di Padova, vol. IV, pag. 36.

415.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 81.

416.  Padelletti, Contributo alla Storia dell'univers. di Perugia e Stat. perug., lib. III, rubr. 19.

417.  Savigny, Hist. du droit rom., etc., III, pag. 228.

418.  Sarti, Pref., P. XXIII.

419.  Rufo, Hist. Gimn. ferrar.

420.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 59.

421.  Rufo, op. cit., pag. 47.

422.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 25.

423.  Sarti, op. cit.

424.  «Id vero (dice saviamente il Facciolati, Fasti, P. II, pag. 47) nimis juvenile consilium visum est.»

425.  Fabroni, op. cit., P. II, pag. 47.

426.  Idem, pag. 483.

427.  Ghirardacci, Historie di Bologna, pag. 440.

428.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 17, 24.

429.  Stat. bonon., Lib. IV, pag. 53.

430.  Tra gli studenti del medio evo si trovano ricordati certi individui detti Goliardi che, seguendo il costume di quell'epoca, vagavano da una ad un'altra università menando vita licenziosa. — Molti di essi univano anche la qualità di chierici (Comparetti, Virgilio nel Medio Evo. — Bartoli, I precursori del rinascimento).

431.  Come fossero disprezzati gli ebrei nel medio evo non importa ricordarlo che è cosa troppo nota. Cito un esempio opportuno trattandosi di scolari. Quando l'antico Studio di Torino passò nel 1434 a Savigliano, fra i lamenti che l'università rivolse al Comune vi fu quello che gli ebrei avevano comune il macello con i cristiani. Ritornato lo studio nel 1436 in Torino, quel Comune per far posto agli scolari cacciò gli ebrei dalle case che abitavano (Vallauri, Storia dell'univ. piemont., I, pag. 33).

432.  Savigny, St. del dir. rom. nel medio evo, III, pag. 149.

433.  Un giureconsulto nei suoi Consigli legali sostiene l'impunità per quelli scolari che mantenessero disonesti rapporti colle fantesche che non avevano buon nome: il che è prova della vita licenziosa degli studenti. «Scholares accedentes ad mulierculas quae vulgo appellat fantesche et quae stant cum civibus et in domibus eorum inhoneste vivunt non possunt puniri licet sint liberae mulieres» (Rolandi a Valle, Consiliorum cons., 74, num. 17).

434.  Il famoso Pier delle Vigne che divenne consigliere dell'imperatore Federigo II, visse negli anni della sua giovinezza elemosinando in Bologna, per attendere agli studii in quella università.

Gli scolari poveri che vivevano a spese altrui, si trovano ricordati negli statuti, col nome di Socii doctorum vel scholarium. Questi scolari verisimilmente in compenso del nutrimento e dell'alloggio, si obbligavano a certi servigi. Forse essi si dedicavano di preferenza a fare da ripetitori (repetitores) agli altri scolari, ma di questo però non possiamo emettere un giudizio positivo.

È da notarsi come per render forse meno umiliante la posizione degli scolari mantenuti a spese altrui agli studii, gli statuti trovassero l'appellativo simpatico di socii (cioè, compagni dei dottori e degli scolari).

L'imperatore Federigo II nelle costituzioni fondamentali della università di Napoli, si obbligò di sovvenire gli scolari poveri. Ad onta di tutto ciò la posizione degli studenti mantenuti a spese pubbliche doveva essere alquanto umiliante; onde il giureconsulto Rofredo ammonisce gli scolari di non recarsi agli studii se non hanno tanto da mantenervisi decorosamente: «Necesse est scholaribus quod habeant ad studium vitae sustentationem ne egeant» (Rofredi, op. cit., pag. 772).

435.  Anche i principi largheggiavano in sussidii per mantenere i giovani poveri agli studii.

Il principe Ubertino di Padova mantenne a sue spese dodici scolari di quella città a studiare medicina a Parigi (Coll., Storia della università di Padova, II, pag. 173).

L'imperatore Massimiliano II promise a polacchi, purchè eleggessero re, Ernesto suo figlio, di mantenere allo Studio di Padova cento giovani della loro nazione.

Il conte di Savoja concesse un assegno di cento fiorini d'oro al figlio del cancelliere del principe di Asaja per mantenersi agli studii in Bologna (Cibrario, Econ. polit. del medio evo).

436.  Facciolati, Syntagmata, XII.

437.  Ecco i nomi dei collegi istituiti in Bologna dal 1257 fino al secolo XVII:

Collegio Avignonese (1257) Bresciano (1326) Reggiano (1362) Collegio di Spagna (1364) Gregoriano (1371) Ancarano (1414) Collegio Fieschi (1518) Collegio Vioes (1528) Collegio illirico ungarico (1537) Collegio Ferrerio (1541) Montalto (1586) Collegio Sinibaldi (1605) Collegio Palantieri (1610) Collegio Jacobs (1650).

438.  Nelle università francesi questi collegi avevano una vita autonoma ed assai maggiore importanza che in Italia (Savigny, St. del diritto romano nel medio evo, tomo I). In Parigi vi fu un collegio pel mantenimento degli scolari poveri italiani. Nel libro degli statuti di Modena del 1578, libro I, si trovano accennate molte particolarità sull'ordinamento di questo collegio scolastico fondato col concorso di molte città italiane.

439.  Fabroni, Hist. Acad. pis., II, pag. 16.

440.  Lo statuto di Bologna così dispone: «Damnosis scholarium sumptibus providere cupientes statuimus...., etc.»

441.  «.... Qui vulgariter vocatur panno de Statuto....»

442.  Stat. bonon., lib. III, pag. 52.

443.  Vallauri, St. delle univ. piemontesi.

444.  Nell'università di Pisa fu tolto quest'uso da Cosimo II, il quale abrogò gli antichi statuti in questa parte disponendo che gli scolari «possino vestire a loro modo in abito però modesto e civile come si conviene» (Fabroni, op. cit., II, pag. 19).

445.  Sarti, op. cit., P. I.

446.  Ghirardacci, Storie bolognesi I, pag. 328. — Il giureconsulto Minucci conosciuto nelle scuole col nome di Antonio da Pratovecchio, invitato dai fiorentini a leggere nel loro Studio, rispondeva di non potervi andare a causa delle discordie «Multis me instigantibus amicis ut Florentiam ad profittendum irem turbata omnia esse in Civitate respondabam» (Epist. XXII). Ma i fiorentini risposero che i lettori dell'università non avrebbero risentito alcun danno dalle discordie cittadine e di ciò convinto il Minucci accondiscese alle loro domande (Ant. de Pratoveteri, Epistolae, Ep. XII).

447.  Un esempio ne abbiamo nel Sarti (P. I, pag. 105).

448.  Rofredo Beneventano, dice (Ord. Indic., pag. 772) che gli scolari debbono riverenza ai loro maestri, ed hanno l'obbligo di assisterli quando sono poveri, di retribuirli, e di scusare e difendere le opinioni da essi manifestate.

449.  Mazzucchelli, Scrittori d'Italia, P. I, vol. II, pag. 464.

450.  Villani Filippo, Vite degli uomini illustri fiorentini.

451.  Sarti, P. I, pag. 92.

452.  Il giureconsulto Rodofredo nella prefazione di una sua opera scrive: «Ideo ego Rofredus Beneventanus juris civilis professor ad preces et instantias sociorum meorum in civitate scilicet civilissima Aretina, ausus sum hoc opus componere» (Sarti, P. I, pag. 125).

453.  Estratti dagli Statuti bolognesi (Savigny, op. cit., III, pag. 252, lib. III, pag. 63).

454.  Sarti, op. cit., P. II, pag. 131. — Savigny, op. cit., I, pag. 593.

455.  «Item ordinaverunt quod quilibet Magister debeat honorare alium omnibus modis quibus potest, et in Scolis et in conventibus et ubique, et quod nullus Magister det adiutorium vel exortamentum alicui ex Scolaribus ad faciendam vel dicendam iniuriam aliquam Magistris, et qui contra fecerit solvat pro poena quinque solidos.

«Item quod nullus Magister debeat recipere scolares alterius Magistri in scolis suis ultra quatuor vices invito illo cujus scolares fuerint, et si intraverint scolas alicuius per unam Ebdomadam, tunc dicantur scolares ejus et eos postea non recipiat. Quod si aliqui contra fecerint teneantur solvere illi cuius scolares fuerint decem solidos pro doctrina et tres solidos pro scolis, et rectori solvant pro banno quinque solidos» (Guazzesi, Opere. Pisa, 1766). — In queste disposizioni degli statuti aretini è da osservarsi la singolare distinzione fatta nel valor venale della scuola fra la scienza insegnata (doctrina) e la clientela (scolis).

456.  Baldi, in 2 fend. 26 cap. Vassallus: «.... et illam glossam multum notabat primus doctor meus Joan. Pagliarensis.» — Idem, in Cod. I, 49 par. I, de episcop., n. 5: «.... Sed recolendae memoriae pater et dominus do. Fede de Sen. dicit.... etc.» — Questi due passi del Baldo dimostrano esattamente la differenza sostanziale che correva nel linguaggio scolastico fra il semplice doctor e il dominus e pater.

457.  Libro di novelle e di bel parlar gentile (ed. in Firenze, 1572, Nov. 49); opera divenuta oggi assai rara. — Ecco il passo della novella che parla di Accursio: «Addomando io (disse Accursio) al comune di Bologna che le possessioni dei miei figliuoli siano a mia signoria, cioè dei miei scolari, li quali sono grandi maestri divenuti et hanno molto guadagnato poi che io mi partii da loro.» — In Bologna gli scolari, secondo lo storico Ghirardacci, si solevano chiamare comunemente figli del popolo (filios populi).

458.  Alidosi, Scrittori bolognesi, pag. 308.

459.  Savigny, Hist. du droit. rom., etc., III, pag. 149.

460.  Facciolati, Fasti, P. II, pag. 59.

461.  Alidosi, op. cit.

462.  Colle, St. dell'univ. di Padova, I, pag. 67.

463.  Sardeone, De antiq. Urb. Patav., lib. III.

464.  Baldo fu uno dei cinque sapienti (sapientes) che avevano la vigilanza sulle scuole di diritto; poi giudice, ambasciatore e incaricato dell'amministrazione militare. Fu incaricato della riforma degli statuti di Pavia, vicario generale del vescovo di Todi, e consigliere pontificio (Savigny, St. del dir. rom., etc., IV, pag. 234. — Vermiglioli, Biografie dei perugini, «Baldo» pag. 124).

465.  Fabroni, Vita Cosimi Med., II, pag. 69.

466.  Vermiglioli, Scrittori perugini.

467.  Fabroni, Vita Laurentii Med., II, pag. 75, 76 e Vita Cosimi, II, pag. 69.

468.  Sarti, P. I, pag. 136.

469.  Fabroni, Vita Cosimi I, vol. II, pag. 67. «Mos est fere omniun Medicorum et Juris consultorum qui per studi a publica ad legendum conducuntur, mutare frequenter propositum, et ut a pluribus ezpeti sua opera videatur, electiones alias super alias quaerere ac se ipsos es conducentes molestiis involvere....»

470.  Sarti, P. I, pag. 131.

471.  Sarti, App., pag. 96.

472.  Piacentini, Summa, Cod. IX, 8, ad leg. juliam, maj.

473.  Fabroni, Hist. Acad pis., I, cap. VII, P. II, pag. 303.

474.  Fabroni, op. cit., II, pag. 342.

475.  Colle, St. dello Studio di Padova, I, pag. 55.

476.  Diplovatac: In Hugolino.

477.  Villani Filippo, Vite d'uomini illustri fiorentini, pag. 32.

478.  Vallauri, Storia delle università piemontesi.

479.  Quidam scholares invitaverunt ad prandium dominum Albericum qui libentur concedebat et bibebat cum aliis.... Dum esset in mensa Dominus Alberi, cum scholaribus illis, illi scholares dabant ei optimum vinum rubeum. Dixit Dominus Alberi: Istum vinum est nimis fortis, immisceatis aquam. Ipsi scholares immiscebant aquam. Ipsi scholares immiscebant vinum album. Odofred. in leg. 6 Cod. de dolo II, XVI.

480.  Alidosi. Questo fatto vien narrato anche dallo stesso Azone, il quale benchè perdesse il premio, disse di insistere nella sua prima opinione «Licet ob hoc amiserim equum, sed non fuit aequum» (Azo, In sum Codic. tit. de iurisd.)

481.  Sarti, P. I, pag. 35.

482.  Muratori, Antiq. Maed. Aevi, I, pag. 1062.

483.  Colle, Storia dell'univ. di Padova, II, pag. 85. — In nota è trascritto il bizzarro testamento.

484.  Savigny, St. del diritto romano nel medio evo, vol. I, cap. XXI.

485.  Nel 1351 i fiorentini invitarono il Petrarca a onorare di sua presenza lo Studio di recente da loro fondato sottomettendosi, purchè accettasse l'insegnamento, a qualunque condizione egli avesse imposto. Ma il Petrarca rispose alla Repubblica rifiutando l'ufficio. (De Sade, Vita di F. Petrarca. — Tiraboschi, St. della Lett. Ital., tomo V, pag. 64).

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






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Ettore Coppi

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