The Project Gutenberg EBook of Il fiume Bianco e i Dénka, by Gianni Beltrame This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Il fiume Bianco e i Dénka Memorie Author: Gianni Beltrame Release Date: November 20, 2018 [EBook #58316] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL FIUME BIANCO E I DÉNKA *** Produced by Giovanni Fini, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
IL
FIUME BIANCO E I DÉNKA
MEMORIE
DEL
PROF. CAV. AB. G. BELTRAME
PUBBLICATE
PER CURA DEL R. ISTITUTO VENETO DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI
NELL'OCCASIONE
DEL
CONGRESSO INTERNAZIONALE GEOGRAFICO
IN VENEZIA
VERONA
STABILIMENTO TIP. DI G. CIVELLI
—
1881.
(Proprietà letteraria).
[5]
Io nol nego: fin dai vent'anni ho avuto la vocazione d'andarmene proprio in Africa; ed unico mio scopo era la conversione di quelle genti barbare e selvagge a religione e civiltà. Ma non posso negare altresì d'essere stato fin da giovinetto sempre vago del viaggiare, d'ogni cosa nuova, strana, lontana da ogni nostra abitudine. Passavo quindi molte ore del dì guardando avidamente la carta dell'Africa; rinfocolavo l'immaginazione colla lettura di molti viaggi di missionari e di altri viaggiatori; studiavo l'arabo giorno e notte; sognavo, facevo [6] calcoli su calcoli, castelli su castelli.... e dirò anche che covavo il desiderio di scrivere un giorno qualche cosa che almeno non fosse stata mai scritta; e to' che in parte ci sono riuscito. La Società Geografica Italiana fece stampare la mia grammatica, che adesso si ristampa col dizionario relativo della lingua dei Dénka parlata da più di venti tribù dell'Africa Centrale; e quindi un saggio di grammatica e un brevissimo vocabolario della lingua degli Akkà. Venne pure alla luce il mio viaggio nel Sènnaar e nello Sciangàllah; e a questi lavori — per quanto ne sò io — non venne fatto mal viso. Ora, per cura del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, vengono pubblicate le mie memorie sul fiume Bianco e sulle tribù dénka, nella fausta occasione del Congresso Internazionale Geografico in Venezia.
Nè voglio darmi a credere che molte cose non sieno state, o non sieno per essere giustamente censurate. Lo so che non è possibile scrivere un libro e mettersi così in relazione diretta con tante persone per [7] bene senza che vi si trovino cose degne di nota. Ma questo posso dire ch'io cercai sempre la verità. I miei giudizi e i miei apprezzamenti possono essere erronei, ma sono sinceri.
Spero quindi che anche questo povero mio lavoro non riuscirà discaro; e dico lo spero, perchè eziandio la lode delle persone, ammodo s'intende, è uno sprone per tutti, che fa sopportar con piacere il sacrificio e durar la fatica con tanto di cuore.
Verona, 30 aprile 1881.
G. Beltrame.
[9]
Il Provicario Apostolico dell'Africa Centrale Ignazio Knoblecher — Ultime sue parole in Koròsko ai Missionari veronesi — Le rive del fiume Bianco da Chartùm ai Scìluk — Le meraviglie di una foresta — Gli Arabi d'Abù-Zèt — I Baggàra-Selèm — Linguaggio mimico degli Arabi.
Mi recai per la seconda volta in Africa sullo scorcio del 1857 coi missionari Francesco Oliboni, Angelo Melotto, Alessandro Dal Bosco, Daniele Comboni, e con un artigiano, Isidoro Zili.
In Koròsko, piccolo e povero villaggio di Nubia fra il 22º e il 23º lat. N. sulla riva destra del Nilo, c'incontrammo col Provicario Apostolico Ignazio Knoblecher, il quale tornava in Europa per rimettersi in salute; ma invece moriva in Napoli nel mese, se non erro, di aprile dell'anno 1858.
A questo imperterrito Missionario, a cui mi legano tante care memorie, era dovuta l'origine della Missione dell'Africa Centrale che allora contava dieci anni; e a lui principalmente s'addiceva il merito [10] d'averla conservata e diffusa in mezzo a stenti, sofferenze, difficoltà e pericoli senza numero. Egli aveva lungamente lottato col terribile clima e sopportato con vera rassegnazione le febbri del Sudàn, a vincere le quali torna quasi sempre inutile il solfato e persino l'arseniato di chinina.
Mi suonano ancora all'orecchio le parole che mi diceva avanti di benedirci tutti e di lasciarci l'ultimo saluto. — «Caro don Giovanni, vi raccomando la Missione Italiana, di cui voi sarete il Presidente. Ho già disposta ed ordinata ogni cosa perchè siate bene accolto coi vostri fratelli nella Stazione di Santa Croce sul fiume Bianco (6°, 40′ lat. N.). Colà starete per qualche tempo, esplorerete il paese, noterete i costumi degli abitanti, ne studierete la lingua, e sceglierete quindi la posizione che a voi sembrerà più opportuna per fondarvi la vostra Missione. Vedete però di andar molto cauto prima di conferire il Battesimo, specialmente agli adulti. — Non so se noi ci rivedremo ancora. — Io mi sento sfinito e temo di dover presto morire.... se mai, a rivederci in cielo.»
[11]
Quattro volte percorsi in barca la via del fiume Bianco; due volte a ritroso della corrente, nella stagione secca, favorito dai venti del nord; e due volte a seconda, nella stagione delle piogge (charìf), allorquando spirano i venti del sud; e giunsi fin quasi al 4º grado di latitudine settentrionale.
Partendo da Chartùm, nello scendere il fiume Azzurro, a sinistra del quale è posta la città, i barcaiuoli a forza di remi possono a stento tenere scostata la barca da quella riva, contro cui fortemente la spinge il vento di tramontana: ma girata appena l'estrema punta della penisola del Sènnaar, ecco ch'essi depongono i remi, spiegan la vela, e intonano un canto monotono al loro profeta, mentre la barca sotto la carezza poderosa del vento procede innanzi superba verso il mezzodì.
Per un buon tratto, la curiosità del viaggiatore che per la prima volta veleggia sul fiume Bianco preparato a gustar cose nuove e mirabili, rimane alquanto delusa. Egli non vede che due sponde basse, piane e sabbiose, larghe dai 40 ai 50 passi, che rassomigliano a due grandi strade imperiali, macchiate qua e là da alcuni arbusti e fiancheggiate, ciascuna, da un lembo del fiume e da una foresta d'acacie; sicchè, trovandosi a una cert'ora in mezzo al fiume, presentansi a destra e a sinistra come tre lunghi nastri coi colori azzurro, bianco e verde, che pare non finiscano mai.
Presso a 40 miglia geografiche da Chartùm si [12] inalzano due piccoli monti, l'uno a destra del fiume chiamato Gèbel-Àule (monte primo) ed anche Giàr-en-Nèbi, dal nome di un gran Capo che abitava vicino; e l'altro a sinistra appellato Gèbel-Mòndara (monte specchio), perchè la sua testa, come dicono gli Arabi, è piatta e rotonda a foggia di uno specchietto di Trieste. Dopo alcune ore di cammino s'erge pure a sinistra Gèbel-Mùssa (il monte Mosè), ch'ebbe il nome, come Giàr-en-Nèbi, da un gran Capo, tutti e due tenuti in venerazione dagli Arabi Hossanìeh.
Quindi il fiume si divide in più bracci che par che spacchino la foresta, formando varie e graziose isolette ombreggiate, come le rive, da acacie, da mimose, da tamarindi e da altre piante.
Io volli internarmi nella foresta per osservarla da vicino; ed oh! quanto grande e potente è lo scheletro di quella generazione, i cui Nestori abbarbicati nel terreno primevo con tante radici serpentine e nodose inalzano il loro fusto ramoso, quasi a contendere lo spazio al cielo! e intorno ad essi cento piante serpeggianti s'avviticchiano, si arrampicano e danzano, per così dire, vagamente cadendo dalle loro cime in modo da lasciar qualche volta nel mezzo uno spazio vuoto e rotondo impenetrabile ai [13] raggi del sole, ove gran parte della notte trovan rifugio le gazzelle, i bufali, gli elefanti, il leone, il leopardo, la pantera, che s'appressano al fiume per dissetarsi; e sulle cui braccia erculee riposano tranquilli gli avoltòi rapaci e le aquile, i papagalli dalle verdi piume, le timide tortorelle, le cicogne nere, le galline faraone e una quantità d'altri svariati uccelli. — E il mattino! oh! come qui è bello il mattino! — La luce dei primi raggi del sole saluta ridente le cime degli alberi e le sprazza minutissima e le indora; si agglomera e si condensa intorno alle loro chiome eleganti; si arriccia e si velluta nelle foglie pubescenti e pelose; si acciglia e s'ottenebra fra i rami stipati; s'inceppa nelle reti delle piante parassite, e si nasconde fra i mille labirinti de' cespugli ramosi, dipingendo con la tavolozza più feconda e capricciosa i figli prediletti della flora africana. — S'ode frattanto qualche mugghìo lontano delle fiere che si addentrano nella foresta. — E lungo il fiume su quell'onda di foglie disegnata dalle cime degli alberi si veggono navigare le scimmie coi loro nati in seno, percorrendo grandi distanze senza discendere mai al suolo; e sotto quegli alberi, una quantità di gazzelle e d'altre antilopi di forme le più leggiadre brucano l'erba rugiadosa e saltellano festose nella libera e palesemente gaia loro vita; mentre stormi di grossi uccelli vanno e vengono fra l' una e l'altra riva del fiume; e qua e là gloterano le cicogne, e rotano in alto gli avoltòi [14] e le aquile intorno a centinaia di tortorelle che amoreggiano giulive tra le piante; e ovunque una infinità di volatili d'ogni specie. Tutto canta, tutto gruga, tutto chiocchiola, tutto pigola; per tutto si sente frullo d'ali, per tutto c'è vita e armonia. — Oh! quanto solenni, nel mattino, sono i primi fremiti della foresta che risente la vita! — Ma a misura che s'alza il sole, la delicatezza delle prime tinte svanisce in un immenso chiarore che ricopre come d'un bianco velo le bellezze di questa natura selvaggia, i quadrupedi si rintanano o si posano all'ombra d'alberi annosi, e tace il canto degli augelli fin verso sera. — «Allora una luce pallida dà alla foresta non so che di molle e di malinconico; c'è una specie di silenzio per l'occhio, una pace di linee e di colori, un riposo di tutte le cose, nel quale sembra che lo sguardo illanguidisca e l'immaginazione si culli;» finchè sotto gli ultimi raggi del sole che cade, le varie tinte de' colori di cui s'adornano le piante e il movimento de' volatili che cercano un luogo per riposarsi la notte, par che ridonino alla foresta la vita del mattino.... ma una vita che tosto muore, come l'ultima scintilla del lucignolo che sta per ispegnersi.
La foresta continua a fiancheggiare le rive del fiume e a presentar sempre nuove scene.
Mi tormenterei invano se volessi esprimere con parole le varie emozioni che provai viaggiando in un paese a me fino allora sconosciuto, di cui avevo letto [15] e avevo udito narrare mille cose bizzarre e stravaganti. Dirò solo che inoltrarsi in un tal paese e spaziare collo sguardo avidamente da ogni parte; trovare un pascolo continuo alla curiosità in tutto ciò che cade sott'occhio o giunge all'orecchio; gettare un oh!! di stupore a ogni tratto, e chiedere ogni momento a' barcaiuoli or questa or quella cosa; sentire che la mente a poco a poco si dilata e si rischiara; provarsi ad abbozzare un gruppo di gente che non si sa ancora a quale tribù appartenga e qual religione professi; sperare di veder presto la Croce di Cristo trionfar della loro barbarie traendo seco gloriosa la civiltà; e pensare di descrivere un giorno, o colla voce o colla stampa, tante cose a chi non le ha mai vedute o sentite... è davvero il più vivo e il più vario dei diletti umani.
Queste foreste, che accompagnano il fiume a destra e a sinistra, da Chartùm (15°, 37′) fin presso a machàdat-Abù-Zèt (13º lat. N.), non s'estendono in larghezza che circa due miglia geografiche, e in gran parte sono inondate dalle acque del fiume durante la stagione piovosa.
I primi abitanti che si trovano a sud di Chartùm lungo il Bàhr-el-Àbiad sono gli Arabi Hossanìeh, [16] e quindi i Baggàra a sinistra del fiume, e gli Abù-Ròf a destra tra il 10º e il 14º lat. N.
Questi, come quasi tutti gli Arabi del Sudàn qua e là dispersi tra il 10º e il 15º grado, dalle rive del Senegàl sino a quelle del fiume Azzurro, si dicono Arabi d'Abù-Zèt.
Ecco quanto ci racconta la tradizione presso tutte le tribù arabe da me visitate lunghesso i fiumi Bianco ed Azzurro, fatta eccezione degli Abù-Gerìt, o Zabàlat[1], e di qualche altra piccola tribù di colore giallognolo, la quale venne a stanziarsi nel Sudàn molto più tardi degli Arabi Abù-Zèt.
«In un'epoca posteriore all'egira, e forse allor quando Amùr s'impadroniva dell'Egitto, molte tribù arabe, sotto la condotta di Abù-Zèt e di altri suoi compagni, abbandonarono la penisola arabica, e traversato il mar Rosso, probabilmente a Bab-el-Màndeb, per una via ora sconosciuta arrivarono finalmente al fiume Bianco durante la stagione secca. Abù-Zèt, essendo le acque molto basse, camminava lungo il fiume per vedere se c'era un guado; e trovatolo, passò pel primo alla riva opposta tirando per l'orecchio una delle sue capre e cercando così di eccitare uomini ed animali a seguirlo; ma non vi riuscì; niuno s'attentò di traversare il fiume in quel punto a cui fu dato il nome, che tuttora conserva, [17] di guado della capra (machàdat-el-Àns). Abù-Zèt quindi ruppe il guado, poche ore dopo di cammino più a nord, in un luogo che presentava minori difficoltà, e tutti lo seguirono uomini ed armenti. Da quell'epoca il guado prese il nome di Abù-Zèt (machàdat-Abù-Zèt).»
Questi Arabi si diffusero poi per tutto il Sudàn. Le tribù arabe del Senegàl, di Bòrnu, dell'Uadày, del Dar-Fùr, gli Aulàd-Rascìd e i Salamàt, i Risekàt e i Benì-Aèlba, gli Aulàd-Òmar ed altri non traggono altra origine.
Gli Arabi poi che si stabilirono nel Kordofàn formarono le seguenti tribù:
I Kubabìsc, cioè pastori de' montoni, che compongono la tribù più importante del Kordofàn e che abitano il paese da Dòngolah fino a El-Obèid. Essi guidano le carovane e noleggiano i loro cammelli ai Giallàba (mercanti) pel trasporto dell'avorio, del tamarindo e specie della gomma. Oltre i montoni e i cammelli essi pascono capre in quantità.
I Benì-Geràr, tribù potente di cui la maggior parte abita il Dar-Fùr, gente guerriera e predatrice, temuta dagli stessi Kubabìsc, coi quali è spesso in guerra.
Gli Hababìn, tribù formidabile alleata coi Benì-Geràr.
I Megianìn e gli Aulàd-el-Bàhr stanziati sulle frontiere del Dar-Fùr.
Gli Hossanìeh (cavalieri), da hossàn == cavallo, [18] tribù assai povera, accampata, come dissi, a sud di Chartùm a sinistra del Bàhr-el-Àbiad.
I Baggàra (mandriani), da bàgar == bove, i quali sono numerosissimi e prendono diversi nomi, di Baggàra-Hauàsma, Baggàra-Risekàt, Baggàra-Selèm ecc. dal nome di qualche antico e celebre loro capo, o da qualche loro qualità speciale. Essi abitano a sud, sud-ovest degli Hossanìeh, ed io ebbi occasione di parlare più volte con loro, specialmente coi Baggàra-Selèm, dei quali posso dir qualche cosa, senza però ripetere quanto scrissi altrove degli Arabi nomadi in generale[2].
Questi Arabi commerciano coi Giallàba (mercanti) del Kordofàn, ai quali danno avorio, gomma, pezzi di tela di cotone (damùr), e ricevono vecchie piastre d'argento egiziane, che sono la moneta più ricercata presso gli Arabi.
I Baggàra-Selèm si servono dei bovi per trasportar carichi; posseggono poche capre e pochissimi cavalli che si procacciano dagli Arabi nomadi attendati tra i fiumi Dènder e Azzurro, intraprendendo così viaggi assai lunghi e pericolosi. In queste spedizioni [19] essi si uniscono in numero di trenta o quaranta; traversano il fiume Bianco col mezzo di una zattera, o a nuoto, un po' al sud delle montagne dei Dénka (giobàl-ed-Dénka), presso il 12º lat. N., e per una via affatto deserta, dopo tre giorni di cammino verso oriente, arrivano al monte Gùle, ove si riposano presso Arabi della stessa loro tribù; quindi dopo tre giorni ancora passano in barca, o a nuoto, il fiume Azzurro nelle vicinanze di Rosères, e circa al mezzodì del quarto giorno si trovano nel luogo destinato per la compera dei cavalli, il cui prezzo oscilla dalle sessanta alle centoquaranta piastre egiziane (dalle 15 alle 35 lire italiane).
Questi Arabi nutrono i loro cavalli d'erbe, di latte, e talvolta di burro o di dùrah (mais bianco), e se ne valgono per dar la caccia agli animali e ai Negri, occupazioni predilette ai Baggàra Selèm, i quali sono tanto codardi a piedi quanto sono arditi e temerari a cavallo.
Durante la stagione secca, essi abitano tutti presso il fiume, e i loro casotti si estendono da machàdat-Abù-Zèt verso il sud per circa sessanta miglia geografiche; ma cominciato il charìf (l'epoca delle piogge), pochi solamente rimangono sulle rive a custodia dei campi di dùrah e di sesàme; la maggior parte se ne allontana e va errando da un luogo all'altro in cerca di buoni pascoli pei loro bestiami, stando però sempre in guardia per non essere sorpresi ed assaliti dagli Hauàsma, i quali muniti di [20] una grossa veste di cotone fatta a maglia, che a guisa di corazza li difende dal collo fino alle anche, incuton loro gravi timori. Perciò i Baggàra-Selèm ricercano con premura aste guarnite di lunghi pezzi di ferro rotondi e puntuti, atti a penetrare le maglie degli Hauàsma.
Gli arabi Selèm nell'estate sono intesi alla caccia e alla preda. Essi spiano continuamente i Negri dénka che pascono i bestiami sull'altra riva del fiume; e quando possono congetturare che nessuno trovasi alla loro custodia, o non veggono che teneri giovinetti, allora quattro o cinque dei più arditi passano nuotando col cavallo il fiume, e due o tre s'avventano spietatamente addosso ai giovinetti e, afferratili pel collo, se li caricano sul cavallo e via; gli altri inseguono il bestiame che fugge impaurito verso il fiume, ove, non sapendo trovare altro modo allo scampo, si precipita e cerca di toccar l'altra riva.
Avviene però talvolta che i Dénka, fatti accorti del loro arrivo, s'imboscano per investire i Baggàra all'improvviso, e riescono a farli prigionieri. Allora questi vengono al più presto riscattati dai loro parenti.
Il riscatto di un Arabo prigioniero, sia ricco o povero, costa ai parenti trenta buoi; mentre i Dénka debbono darne dai quaranta ai cinquanta per liberare un figlio o una figlia di un Capo, e per qualunque altro Negro dai dieci ai venti, secondo la [21] sua condizione. I poveri che non posseggono bestiame non vengono riscattati, e rimangono proprietà degli Arabi.
Ciò non ostante, i Baggàra-Selèm e i Negri dénka fanno tra loro mercato, o, come lo chiamano gli Arabi, El-Sùk; e sì gli uni che gli altri si servono delle feluche dei Scìluk per tragittare il fiume e per trasportare le loro merci.
Presso i Selèm è adottata la circoncisione, la quale viene praticata sui figliuoli e sulle figliuole; ma essa è tenuta come opera meritoria, non come obbligazione assoluta.
Uomini e donne hanno i capelli intrecciati; queste però pongono uno studio maggiore nell'acconciarseli; e pezzetti d'ambra e di corallo, perline di vetro e cordoncini rossi si veggono qua e là pendenti dare miglior risalto al nero dei loro capelli, i quali pel vecchio strato di grasso che li ricopre perdono, osservati da vicino, la grazia ed eleganza che mostrano veduti di lontano.
Le donne, e specialmente le ragazze, fanno a gara di spalmarsi il corpo con unguenti odorosi, e tengono in molto pregio gli anelli d'oro che si pongono per ornamento alle pinne del naso.
Le donne, in generale, sono piccine, ma belle assai; esse amano oltremodo la danza, che viene regolata da battute di mano e dal suono di un tamburone.
Questi Arabi sono gelosissimi di tutto ciò che [22] succede nell'interno delle loro famiglie, delle quali essi non parlano mai. Per la qual cosa è ignota del tutto al viaggiatore l'intima loro vita.
Il latrocinio è il loro mestiere principale; essi fanno scorrerie nelle terre vicine dei Negri, raccolti in bande, a cavallo, armati, rubando quanto possono portare o trascinare, e ammazzando, per precauzione, quanti incontrano. Ci sono ladri speciali di biade, ladri di bestie bovine, ladri di fanciulli negri, ladri di mercato. Assaltano a cavallo per le strade, particolarmente le carovane; e in ciò sono artisti insuperabili. La loro bravura consiste più nella rapidità che nell'accortezza, più nel non lasciarsi raggiungere che nel non lasciarsi vedere. Passano, afferrano e dispaiono senza dar tempo alla gente di riconoscerli. Sono furti a volo, fulminei, giochi di prestidigitazione equestre. E in ciò sono maestri persino i giovinetti di otto anni. Bisogna dire adunque che l'istruzione, che questi ricevono in argomento nelle loro famiglie, sia incessante, premurosa, e che incominci assai per tempo. — Povere creature!!
Pare che i Selèm sieno venuti dal sud-ovest del Dar-Fùr da circa sessant'anni. La maggior parte di essi s'estese lungo la riva sinistra del fiume Bianco, e gli altri errarono per qualche tempo nella penisola del Sènnaar, e s'accamparono finalmente presso il monte Gùle.
[23]
La fisionomia dei Selèm, come quella di tutti gli Arabi, è di una mobilità sorprendente; «essi manifestano i loro pensieri coi più rapidi movimenti degli occhi e della bocca, e traducono le loro parole in gesti così caratteristici, per dar aiuto, chiarezza e forza ai loro discorsi, che difficilmente se ne riscontra un simile esempio presso altre nazioni.»
Di questi loro gesti esprimenti un'azione qualunque, anche senza il concorso della parola, si potrebbe comporre un dizionario abbastanza lungo; ma io qui m'accontento di esporre un brevissimo saggio, che basti a dare un'idea generale del linguaggio mimico da essi praticato.
Dirò adunque che presso gli Arabi del Sudàn:
1. L'azione del mangiare si esprime accostando al ventre la mano diritta aperta e avvicinandola poi subito alla bocca, raccogliendo le dita della mano stessa intorno al pollice nell'atto che si compie quest'ultimo movimento.
2. L'azione del bere, chiudendo le tre dita indice, medio e anulare della mano destra, e tenendo quindi levati il mignolo e il pollice, coll'unghia del quale si toccano e si ritoccano gl'incisivi della mascella inferiore.
3. L'azione del dormire, portando la palma ben distesa della mano diritta contro l'orecchio destro, e piegando un po' la testa da quella parte.
[24]
4. L'azione di montare a cavallo, mettendo la mano destra a cavalcioni sulla mano sinistra.
5. L'azione di mozzare il capo, strisciando rapidamente il dosso della mano diritta su pel collo dal di dietro in avanti.
6. L'azione dello sferzare, scotendo dinanzi a sè la mano destra bene aperta.
7. L'azione del colpire con lancia o spada, imitando i movimenti che si fanno impugnando queste armi nell'atto che si cerca d'offendere il nemico.
8. L'azione del pagare in piastre d'argento, stropicciando coll'indice il pollice della mano diritta, percotendo nello stesso tempo leggermente coll'unghia di questo la palma della mano sinistra.
9. L'atto di vedere e quello di udire, mettendo l'indice dell'una o dell'altra mano immediatamente sotto dell'occhio, o verso il meato uditorio.
10. L'azione di prendere qualche cosa, allontanando un poco la mano destra aperta e chiudendola nel mentre la si riavvicina al proprio corpo.
11. L'atto di comprendere, portando l'indice sulla fronte o sulla tempia.
12. L'atto di consentire, toccando con la mano diritta la fronte, e inchinando nello stesso tempo un po' il capo.
13. L'atto di rifiutare, scotendo la testa e la mano destra lestamente.
[25]
14 L'interrogazione è generalmente indicata dallo sguardo e dall'immobilità delle mani.
15. Che c'è? qual novità? che cosa bramate? — Tutto ciò si traduce aprendo bene gli occhi, tenendo la bocca mezzo aperta, ed alzando fino al petto le due mani, le quali talvolta si fan tremolare come indizio di curiosità impaziente; e talvolta si agita anche la testa da diritta a sinistra.
16. La negazione, appoggiando verticalmente la mano al petto e battendoselo colle dita, come i martelletti batton le corde di un pianoforte.
17. Il disprezzo, alzando la testa e lisciando la barba con le unghie della mano diritta bene spiegata.
18. La stima, ponendosi la mano destra lentamente sopra la testa.
19. L'amicizia, accarezzando ripetutamente con la mano diritta l'indice della mano sinistra.
20. L'inimicizia, intrecciando e staccando a più riprese l'indice dell'una con quello dell'altra mano.
21. L'ossequio verso di alcuno, avvicinando le mani al cuore e agitandole alcun poco.
22. L'abbondanza, collocando orizzontalmente la palma della mano presso la bocca e soffiandovi sopra.
23. La miseria, pigliando coll'indice e il pollice l'estrema parte superiore del vestito e scotendolo [26] mentre levasi e crollasi il capo. — Questo gesto esprime talora indifferenza.
24. Il difetto assoluto di denaro e di vitto, facendo scoppiettar l'unghia del pollice contro gli incisivi della mascella di sopra, con un movimento orizzontale della mano. Questo gesto propriamente significa: nulla; ma vuol dire ancora: non m'importa un bel niente; io non ne voglio sapere; e qualche volta indica disprezzo.
25. Il vigore e la bravura, movendo con forza dall'alto al basso la mano chiusa davanti al petto, avvertendo però di tenere il pollice aperto e ben teso.
26. La perfezione, agitando un po' la mano, tenendone la palma rivolta al cielo, e l'estremità dell'indice sul polpaccio del pollice.
27. La fine, il compimento d'un atto, battendo con la palma della mano destra sopra la mano sinistra chiusa sulla piegatura del pollice.
28. Si attesta la divinità, qualcuno de' propri antenati, sè stesso, scotendo la barba colle prime tre dita della mano, e alzando al cielo gli sguardi.
29. S'implora la pietà, il favore, l'intercessione di alcuno, avvicinando le mani alla barba della persona che si sollecita, e stringendo poi tosto una delle sue mani tra le proprie.
30. Alcune volte viene indicata la qualità del mussulmano, alzando le mani tese di qua e di là della faccia, e appuntando i pollici nella parte inferiore [27] delle orecchie, come quando l'Arabo recita il tekbìr nella preghiera; o levando l'indice della mano diritta, cerimonia d'obbligo nella professione della fede mussulmana, accennando nello stesso tempo di sì o di no colla testa, secondo che l'individuo indicato è o non è vero mussulmano.
[29]
Vendette — Guerre — Armi — Coraggio passivo e fierezza — Ostinazione degli Arabi — Il suicidio — Le montagne dei Dénka — Il Tarciàm.
I Baggàra, come tutti gli Arabi e i popoli barbari, non hanno tribunali per deliberare intorno alle pene dovute ai delinquenti; non hanno polizia per invigilare, prevedere ed evitare i delitti; non hanno prigioni per tenervi chiusi i rei o gli accusati e per far loro scontare la pena ch'essi han meritata; e quindi s'attengono alla legge del taglione, che è la legge della Bibbia, di Menu e del Corano. Occhio per occhio (aèn be aèn), orecchio per orecchio (uèden be uèden), sangue per sangue (ed-dàm b'ed-dàm); l'uccisore deve morire quand'egli non acqueti i parenti della sua vittima, cedendo loro una parte delle proprie sostanze.
All'insulto fatto ad un Arabo Baggàra o ad un [30] suo ospite deve rispondere sovente un'intera famiglia, o tutta la tribù dell'offensore.
Il più leggiero pretesto dà origine tante volte a lotte le più lunghe e le più sanguinose fra tribù e tribù.
Io so di una carovana la quale recandosi dal Kordofàn al Dar-Fùr venne di notte tempo assalita, a poca distanza dalle frontiere, dagli arabi Baggàra i quali uccisero quindici uomini, senza darsi alcun pensiero di trafugarne le mercanzie.
Un Arabo, che conosceva appieno e raccontava minutamente le circostanze di questo incidente, asseriva che i Baggàra avevano compiuto così un atto di giustizia, una vendetta, tarda sì.... ma legittima.
Otto anni prima, alcuni mercanti, giallàba, che battevano questa medesima via, s'erano incontrati in pochi Baggàra, la cui marcia era sembrata loro sospetta, e ne uccisero due, mettendo gli altri in fuga. Ma da questo momento i Baggàra vendicati lasciaron libera la strada, che potè essere poi percorsa dalle carovane senza alcun timore.
Il beduino Sciànfara, come dice la tradizione, pretendeva il taglione per la morte violenta di suo padre. Egli aveva ucciso in diverse imboscate novant'otto de' suoi nemici. Finalmente, sorpreso da alcuni all'orlo di un pozzo, non seppe trovar modo allo scampo e dovette egli stesso perire, ma dopo d'averne ammazzato uno ancora con un colpo di [31] pugno nel petto. Egli però aveva giurata la morte a cento, e il suo voto.... verrà esaudito. Il cadavere dell'Eroe fu sospeso ad un albero e non tardò a decomporsi; le sue ossa si disarticolarono; e un pastore della tribù nemica, passando per caso sotto quell'albero, premette col piede sulla punta di un osso e restò ferito. Nello stesso giorno gli si contrassero spasmodicamente i muscoli e dovette soccombere. Così il voto di Sciànfara, secondo la favola, ebbe il suo compimento.
Una delle cause, e forse la più attiva, delle lotte che di quando in quando intraprendono le tribù del deserto, è la sete ardente che tutti i popoli nomadi hanno del bottino. Guerra e bottino suonano presso loro la stessa cosa; essere vincitore vuol dire spartirsi la preda; vedere un Arabo tornare dal campo di battaglia coronato di gloria, è vederlo ricco di montoni e di cammelli tolti al nemico. Insomma l'eroismo degli Arabi è l'eroismo de' Cosacchi. Essi combattono a cavallo armati di lancia e di sciabola, sparpagliati, stuzzicando il nemico di fronte e dai lati, e tenendolo inquieto continuamente; uccidono il cavaliere per avere la sua giumenta; salvano sè stessi per assicurare la propria.
Havvi in ciascuna tribù una quantità di giovani [32] poveri, i quali ambiscono di far mostra del loro coraggio e di procacciarsi in tal maniera la dote che essi debbono, volendo sposarsi, offerire al padre della fidanzata, dote che generalmente consiste in un certo numero di capre, di pecore, di cammelle o d'altro.
Per questi giovani la guerra è una buona fortuna; la loro suscettibilità quindi per il punto d'onore non conosce confini; il più leggiero pretesto dà origine spesso a lotte le più tremende. Raro è il caso che una tribù viva in pace per più di due anni senza che succeda alcuna infrazione delle leggi del deserto. I vecchi allora ne gioiscono, mentre s'incamminano senza inquietudine verso la tomba. Ma la gioventù?... La gioventù s'agita, si lamenta, si dispera per tanta disgrazia; finchè sorge qualcuno fra i principali personaggi della tribù, rinomato per bravura ed esperienza delle cose di guerra, il quale approfittando della speciale condizione in cui trovansi gli spiriti irrequieti della gioventù, la chiama a sè e le dichiara ch'egli è pronto a guidarla ovunque per derubare i vicini de' loro bestiami, per saccheggiare le carovane, per la tratta dei Negri.
Il Capo, in due o tre giorni, s'è formata una truppa di circa un migliaio d'uomini, e la campagna incomincia.
Da questo momento esploratori sono inviati qua e là per investigare di nascosto ogni cosa; e il Capo sa minutamente quanto succede di giorno in giorno, [33] di ora in ora, nel deserto e presso le tribù vicine. — Viene egli a conoscere che gli uomini forti di una tribù sono partiti per la guerra o per la caccia? — Egli si mette in marcia, sorprende le loro mandre guardate da piccoli fanciulli, le rapisce e dispare in un istante. — È stata veduta una carovana nel deserto? — Egli dispone subito la sua gente a gruppi, e tutti se ne vanno silenziosi verso la carovana tenendo gli occhi sempre all'erta; e questi la precedono, quelli la fiancheggiano, altri la seguono a poca distanza, protetti dalle colline di sabbia che nascondono alla stessa il segreto dei loro passi. Il Capo frattanto e tutti i suoi bravi la spiano cautamente, contano le sue armi, ne studiano l'accampamento, osservano la maniera di allestire i cammelli; l'aspettano al varco, e allora, la sera o il mattino, quando mercanti, servi e cammellieri sono occupati a scaricare o a caricare le tende, le casse, il mobilio, la cucina, i viveri, le mercanzie, o nel momento che si prendono un po' di riposo, un po' di cibo, o appena desti dal sonno, gli Arabi, ad un cenno del loro Capo, si slanciano contro di loro, uccidono quanti si oppongono all'improvviso loro assalto e tutto portano via, non lasciando colà che un campo di morti.
Qualche anno prima del mio arrivo nel Sudàn, una grossa carovana, composta di 120 uomini e 200 cammelli, cadde vittima d'una insidiosa aggressione degli arabi Benì-Geràr. Un solo uomo, di [34] nome Abd-El-Kàder, ebbe la sorte d'aver salva la vita e di poter dare esatti ragguagli del crudele e pietoso avvenimento.
La carovana, partita da Dòngola, era diretta a El-Obèid nel Kordofàn, ove trasportava merci provenienti dall'Europa e dall'Egitto, e datteri di Nubia. Essa si trovava vicina al pozzo Bir-Uày, ove si sarebbe accampata; quando 600 Arabi dei Benì-Geràr, montati sopra 300 cammelli e guidati da un Capo de' più arditi, passarono un po' a sud del pozzo allo scopo di sorprendere e derubare i Kubabìsc del numeroso loro gregge che intorno a quei luoghi da qualche giorno pascolava. I pastori però ch'erano alla custodia di quel bestiame non appena ebbero qualche sentore dell'avvicinarsi dei Benì-Geràr, lasciarono quel posto e s'avviarono verso il pozzo di Elài, che dista da Bir-Uày un giorno e mezzo circa di cammino. E quando i Benì-Geràr s'accorsero della ritirata dei Kubabìsc, due esploratori annunziarono al loro Capo la venuta della carovana al pozzo Bir-Uày. Quindi il Capo adunò la sua gente per chiedere se fosse miglior partito quello di dar tosto l'assalto alla carovana, o l'altro di seguir prima le orme dei Kubabìsc e impadronirsi dei loro bestiami. E tutti furono d'avviso di mover tosto verso il pozzo di Elài, imperciocchè la carovana per tre giorni almeno sarebbe rimasta al pozzo Bir-Uày per ristorarsi delle fatiche del viaggio e per dar riposo e nutrimento ai cammelli.
[35]
Partíron subito, e dopo alquante ore di buon trotto giunsero in Elài, ove il gregge dei Kubabìsc non era custodito che da qualche vecchio e da alcuni giovinetti, i quali, come videro i Benì-Geràr, si diedero alla fuga. I Benì-Geràr s'impadronirono di tutto il bestiame e lo incalzarono verso Bir-Uày, ove arrivarono dopo due giorni. Colà si misero in agguato, presso la carovana, dietro a due lunghe colline di sabbia aspettando il momento opportuno per assalirla.
I mercanti frattanto coi loro servi vivevano sicuri, tranquilli, allegri almanaccando intorno ai guadagni che speravano ricavare dal traffico delle loro mercanzie.
La vigilia del giorno fissato per la partenza, colui che soleva dirigere la carovana diè l'ordine di riunire i cammelli ch'erano sparsi qua e là, lasciati liberi di pascere gli arbusti spinosi della vallata. Tutti furono rinvenuti ad eccezione di un solo, che apparteneva a un mercante, il quale non poteva darsi pace d'averlo perduto; e vedendo appressarsi la notte, comandò a un suo schiavo di ricercarne le tracce e di seguitarle finchè l'avesse trovato. Lo schiavo, riconosciute le pedate, rinvenne il cammello del mercante, ma presso i Benì Geràr, i quali, come del cammello, divennero padroni anche dello schiavo.
Frattanto il mercante, passate alcune ore, vedendo che oltre il cammello anche il servo era scomparso, voleva egli stesso mettersi in cerca dell'uno e dell'altro; [36] ma il suo amico Abd-El-Kàder: no, disse, è notte, e temo che tu smarrisca la via; andrò io, che sono un po' più pratico del deserto.
Abd-El-Kàder aspettò che tutti si fossero ritirati nelle loro tende; si ravvolse in una cappa bianca, e con un triste presentimento nell'anima si diresse pian piano a quella parte verso la quale s'era incamminato lo schiavo. — In tutto l'accampamento regnava un silenzio profondo. — Dopo circa un quarto d'ora, salì sopra una collina di sabbia, discese, traversò una stretta valle, ove qua e là vedeva qualche macchia nera. — Erano cammelli accosciati. — Ebbe allora per un momento la tentazione di rinunziare all'impresa di procedere più innanzi; cominciò a sospettare d'un'imboscata, e temeva d'essere sorpreso da qualcheduno dei nemici. Ma la curiosità vinse la paura e tirò avanti in punta di piedi, finchè trovossi sur una seconda collina e vide a un tratto brillare davanti a' suoi occhi i fuochi accesi dei Benì-Geràr. — L'oscurità della notte lo proteggeva; egli potè arrestarsi un istante; contò press'a poco i fuochi e gli uomini; si stese in terra, e tese l'orecchio; udì confusamente qualche discorso che gli parve si riferisse alla sua carovana; e tutto commosso di ciò che aveva veduto ed udito tornò frettoloso e tremante all'accampamento de' suoi.
Tutti erano quieti nelle loro tende; solamente l'amico l'attendeva con qualche buona notizia; ma [37] quando intese ciò ch'eragli avvenuto: ci siamo, sclamò; ora convien pensare a salvarci.
Furono tosto chiamati a consiglio i mercanti, i servi e i cammellieri, ai quali Abd-El-Kàder raccontò ogni cosa e gli invitò a una pronta deliberazione.
Ecco i due quesiti proposti: «dovrem noi partire stanotte?... o sul far dell'alba?...
Meglio sarebbe stato, secondo il parer mio, appigliarsi al primo partito. I mercanti però risolsero di differire la partenza allo spuntar del giorno, poichè nella notte, com'essi dicevano, il grugnito de' cammelli avrebbe svegliato i nemici, i quali sarebbero accorsi per impedire che fossero caricati. — Ma il grugnito de' cammelli, io dico, gli avrebbe pure svegliati all'alba, quando fossero stati addormentati. — Meglio era partire la notte, perchè allora i Benì-Geràr dormivano senza dubbio; avrebbero dovuto quindi svegliarsi, accordarsi, riunire i loro cammelli; la qual cosa richiedeva tempo e presentava maggiori difficoltà fra le tenebre della notte. Oltre a che la carovana, se fosse riuscita a partire prima d'essere assalita, poteva mutar direzione nel suo cammino e rendere così malagevole al nemico l'inseguirla; e nel caso fosse stata raggiunta, essa avrebbe potuto opporgli una resistenza assai meno pericolosa che durante la lunga e faticosa operazione del suo allestimento, il quale sarebbe stato certamente interrotto dagli Arabi all'alba del mattino. [38] Di fatto, mentre un po' prima dell'aurora i cammellieri, i servi e i mercanti stessi s'affaccendavano a mettere in pronto la carovana, duecento Benì-Geràr montati sopra cento cammelli sboccarono nella valle, e al primo vedere la loro preda saltaron giù dalle cavalcature, e sparpagliati in un grandioso disordine, agitando convulsivamente le lance, imprecando, e mandando grida selvagge, le s'avventarono contro come leoni affamati. I mercanti credendo dapprima di non avere altri nemici da combattere tentarono di resistere all'improvviso assalto; tirarono alcuni colpi di fucile contro di loro che non erano armati che di lance: ma, tutt'a un tratto, e nel momento in cui la carovana cominciava a pigliar confidenza nelle proprie forze, cento cammelli da una parte e cento dall'altra trasportarono sul campo di battaglia quattrocento Arabi ancora. Fu quindi un terrore, un'angoscia da non potersi descrivere. La gente della carovana stretta tutt'all'intorno dai Benì-Geràr venne barbaramente trucidata in pochi minuti. Solo Abd-El-Kàder, non avendo ricevuta alcuna ferita, riuscì a gittarsi a terra e a fingersi morto. Ma un Arabo passandogli accanto lo punse leggermente colla sua lancia, e da un movimento che vide lo riconobbe per vivo; lo fece alzare e lo condusse davanti al suo Capo. — La carneficina era già consumata; tuttavia il Capo allettato dall'odore del sangue propose di legarlo a un albero, e così per passatempo di ucciderlo a [39] colpi di giavellotto. — A un segnale del Capo il crudele divertimento incominciò a spese di quel disgraziato. Ma per un singolare accidente, cui il Capo ascriveva a miracolo, dieci o dodici colpi successivi di lancia sfiorarono la pelle di Abd-El-Kàder senza ferirlo gravemente. Il Capo allora stupito esclamò: la tua vita, o amico, è molto dura, o Dio ti vuol salvo. Ebbene! sii adunque libero, e vattene pure ove meglio ti aggrada. — Abd-El-Kàder che da quel momento era libero, ma libero in mezzo al deserto, senza camicia e senza cibo, stette fermo al suo posto. — E dunque! gli domandò il Capo, tu non pensi di andartene? e che altro t'aspetti? — E dove mai, egli rispose, vuoi tu ch'io me ne vada? e come potrò campare la vita senza alimento alcuno? ho io nè manco un otre per conservarvi un po' d'acqua? — Gli Arabi frattanto si dividevano i datteri tolti ai mercanti; e per far giuste le parti li contavano ad uno ad uno. — Il Capo quindi, messa la mano in una cesta, ne prese trenta e li consegnò ad Abd-El-Kàder, a cui diede pure un vecchio otre, e poi gli disse: or vattene; che ti guidi Iddio e che ti benedica. — Abd-El-Kàder, incerto della via che avrebbe dovuto prendere per imbattersi in qualche carovana ed unirsi ad essa, s'avviò pensoso e sconfortato verso il pozzo per riempirvi d'acqua il suo piccolo otre. Ma l'otre era forato, e invano n'avrebbe chiesto un altro agli Arabi. Egli allora si risolse di non abbandonare il [40] pozzo, e di attendervi rassegnato tutto ciò che di lui avesse voluto il destino. La sera del giorno stesso i Benì-Geràr erano scomparsi, e l'infelice Abd-El-Kàder, sentendosi morir di fame, mangiò i trenta datteri senza poi sentirsene sazio. Fortuna che il torrente che conduceva al pozzo era coperto d'arbusti spinosi chiamati dagli Arabi es-segiàr, e rhamnus lotus dai botanici, il cui frutto, che è una bacca, forniva anticamente l'alimento ai Lotofagi; e gli Arabi, che lo dicono nàbak, ne fanno uso pure oggidì; Abd-El-Kàder dovette rassegnarsi a questa manna che gli dava il deserto, la quale però ci voleva per salvargli la vita. Così tirò avanti per quindici giorni; ma in ultimo era ridotto sì male da non potersi più reggere in piedi, e fu costretto a ritirarsi in un antro sinuoso, ove per pietà invocava la morte. Finalmente un gawàs (sgherro) turco guidato da un Arabo e diretto, a dromedario, verso El-Obèid s'avvicinò al pozzo per rinnovar l'acqua al suo otre.
Abd-El-Kàder, che altro non s'aspettava che la morte, li vide di lontano e cominciò a sperare la vita; fece sforzi incredibili per levarsi da terra e mover loro incontro, ma invano; le braccia e le gambe più non gli servivano: a stento riuscì a strascicarsi fino alla bocca della spelonca e a mandar fuori lamenti e gemiti da intenerire il cuore più duro. Il Gawàs fu il primo ad udir quelle grida, e disse al Beduino che lo accompagnava: ascolta.... [41] ascolta tu pure.... queste sono certamente le grida d'una bestia che soffre dolore.... ed escono da quella grotta che tu vedi là presso il torrente; eccola, eccola la fiera che si contorce.... debbo io inviarle contro la palla della mia pistola?
— No, no, rispose il Beduino: io son d'avviso ch'esse sieno invece le grida d'un infelice che chiede soccorso, e io voglio assicurarmene: balzò giù dal dromedario, e dopo pochi salti fu alla spelonca. — Oh spettacolo!! — Il Beduino levò di peso Abd-El-Kàder e sei portò al pozzo, ov'egli venne trattato con umanità e si sentì subito ristorato. I due passeggieri consecrarono inoltre quel giorno a sotterrare i morti compagni di Abd-El-Kàder, i cui corpi disseccati dal sole giacevano ancora sopra la sabbia rossa del loro sangue; e l'indomani partirono tutti e tre alla volta di El-Obèid.
Dopo qualche anno alcuni Baggàra raccontavano con tuono di vanto questo avvenimento colle più minute circostanze.
Il suono d'un tamburone, chiamato noggàra, battuto a misurati colpi invita la tribù al combattimento ed annunzia ancora una semplice mutazione di posto per comodità dei pascoli.
L'arma degli Arabi nel Sudàn, e così presso i [42] Baggàra, è la lancia (hàrba), la quale serve loro anche da giavellotto. Questi Arabi non hanno nè arco, nè frombola, che tanto solevano usare i loro antenati. I capi specialmente si servono pure di lunghe spade diritte cui imbrandiscono con ambo le mani.
In guerra si difendono collo scudo che non è altro che un telaio ovale, formato d'un legno flessibilissimo e traversato per lungo da un asse della medesima specie, sopra il quale essi stendono e fissano la pelle del dorso d'un'antilope. La sua larghezza è circa di due piedi, e dai tre ai cinque l'altezza. La superficie esteriore è convessa, e nel mezzo della parte opposta sta l'impugnatura. Sull'orlo poi superiore sono, per lo più, alcune tacche, delle quali si valgono per appoggiarvi l'asta della loro lancia e per dirigerne quindi meglio i loro colpi. Quantunque la pelle di cui è formato lo scudo sia molto dura, pure succede talora che vien perforata dalle punte dei giavellotti; perciò il guerriero cerca di ripararne i colpi o colla sua lancia o collo scudo, che oppone in direzione obliqua alla linea percorsa dai giavellotti. L'Arabo minacciato dal nemico s'abbassa, mettendo un ginocchio in terra e coprendosi nello stesso tempo collo scudo; scatta poi su come una molla allorquando alla sua volta egli tenta di attaccarlo.
I Baggàra combattono possibilmente a cavallo, ed allora non hanno lo scudo, di cui sono quasi [43] sempre muniti i soldati a piedi. Questi vengono tradotti a cammello sul teatro del combattimento; e ciascun cammello ne trasporta due, dei quali l'uno siede sul gibbo e l'altro si tiene in sulla groppa del ruminante. Questo mezzo di trasporto torna nel Sudàn assai facile e pronto; e siccome i cammelli vi si trovano in una quantità enorme, così arrivati a posto i combattenti non se ne danno gran pensiero, ma gli affidano a pochi guardiani, i quali a non molta distanza attendono inquieti l'esito della pugna.
Gli Arabi del fiume Bianco, come i Nubi, hanno quasi tutti legato sopra il gomito sinistro un pugnale del quale si servono a vari usi, e qualche volta per isfogare le loro gelosie o per far mostra del loro coraggio. — Un d'essi ha preso moglie e trovasi contento, beato d'aver ottenuto quella mano, a cui tanti altri aspiravano ardentemente ma invano. Or questi ingelositi della sua felicità non lo perdono d'occhio mai, gli tendono continue insidie, non gli lasciano un istante di riposo; e quand'egli meno ci pensa sente che la punta di un pugnale gli trapassa la polpa d'una gamba o lo ferisce in un braccio o in una spalla. Se il ferito giunge a conoscere il feritore, lo sfiderà poi a duello davanti [44] al Capo della tribù, duello che avrà luogo col pugnale e alla presenza del Capo stesso. Ma nell'atto del tradimento si guardi bene il tradito dal lasciarsi sfuggire un grido, dall'emettere il più piccolo lamento per non meritarsi fama d'uomo debole e vigliacco, servo del dolore; s'egli camminava non s'arresti punto: se parlava non interrompa il discorso, non si conturbi, nè volga il capo verso l'assassino.
Qualche volta un giovine guerriero racconta ad altri giovani le sue prodezze e se ne vanta, dicendo che nessuno può superarlo in valore; e un altro giovine, che non può più tollerare le sue petulanti presunzioni, senza rispondergli afferra il pugnale e se lo conficca in una coscia, e passandolo poi insanguinato al millantatore, lo invita a fare altrettanto s'egli non vuol essere da meno.
Questi costumi sono senza dubbio barbari e feroci; non si può negare però ch'essi imprimano in coloro dai quali vengono praticati una singolare energia, un coraggio passivo, invincibile e stoico. E si noti che questi atti di eroismo si manifestano specialmente fra i giovani che appartengono alle più distinte famiglie della tribù.
Molti fra noi male sopportano un forte dolor di capo, di denti, di stomaco; la più leggiera ferita strappa loro un grido; ma l'Arabo invece saprà sostenere senza risentirsi e senza rammaricarsi i più atroci tormenti; e non è ch'egli non soffra; egli [45] soffre quanto noi soffriamo; ma il punto d'onore gli fa dire come allo stoico: «Non sarà mai, o dolore, ch'io ti confessi in nessun modo.» Non la sete, non la fame nè la stanchezza nè le ferite profonde di una lancia potranno indurlo ad inquietarsi; e mentre nei divani dell'Egitto si veggono i Fellahìn, condannati al bastone o alla sferza, trascinarsi piagnolosi ai ginocchi delle autorità turche perchè sia loro conceduto il perdono o alleviata la pena, s'è ammirato più d'una volta l'Arabo del Sudàn subire lo spaventevole supplizio del palo senza accordare a' carnefici assetati di vendetta il trionfo di un gemito, la soddisfazione di una lagrima.
Io so d'un Arabo il quale, facendo parte d'un drappello militare che aveva seguito il governatore del Kordofàn in una spedizione contro i Baggàra, si rese colpevole d'omicidio, ed assiso quindi presso il cadavere della sua vittima attendeva paziente e tranquillo che i satelliti del Governo venissero ad arrestarlo. Alcuni soldati, che di là passarono per caso, lo videro, l'afferrarono e lo condussero alla tenda del Governatore.
Più di venti uomini stringevano l'omicida il quale non opponeva alcuna resistenza; e chi lo tirava per le braccia, chi per le gambe, chi pel collo e chi per i capelli; e com'egli fu davanti al Governatore: «Sappi, o Signore, sclamò, ch'io non ebbi la viltà di fuggire dopo l'uccisione del mio Capo, ma attesi imperterrito la mia cattura; or dì adunque [46] a' tuoi cani che mi lascino in pace, affinchè libero io possa, se mai, marciare al supplizio come un uomo.» Il Governatore ordinò fosse lasciato libero; e l'Arabo allora cominciò ad esporre i motivi che, secondo lui, erano più che sufficienti a giustificare il suo delitto. Ma il Governatore lo condannò a morire legato alla bocca di un cannone carico a palla, a cui egli stesso avrebbe dovuto dar fuoco. Mentre si facevano i preparativi per l'esecuzione della sentenza, l'Arabo che aveva sentito con tutta indifferenza la propria condanna uscì dalla tenda ove si trovava, e avvicinatosi a un gruppo di soldati che lì presso erano accoccolati, pregò uno di essi che fumava a voler cedergli un istante la pipa; quindi si raccolse più che gli fu possibile in sè stesso, fumò mezza pipa, e quando lo si venne ad avvertire che tutto era pronto pel suo supplizio, la restituì al padrone, lo ringraziò, lo salutò e mosse con passo fermo verso il cannone, infame strumento della sua morte.
Le esecuzioni, di cui noi fummo parecchie volte testimoni in Europa, offrono uno spettacolo ben differente; la maggior parte dei colpevoli che prima d'essere caduti nella mano inesorabile della giustizia facevano i rodomonti, vinti poi dal terrore furono veduti strascicarsi sul palco più cadaveri che persone vive.
[47]
Noi abbiamo veduto l'Arabo fiero e dotato della più squisita suscettibilità; ma invincibile è pure la sua ostinazione; non c'è caso di smuoverlo quando egli si sia fissato con la mente in un'idea, in un capriccio qualunque; le preghiere tornano vane, inutili le minacce, il bastone e la sferza; la morte stessa non l'indurrebbe a mutar consiglio; meglio è allora abbandonarlo a sè stesso finchè da sè stesso rinsavisca.
Un mercante europeo viaggiava in un deserto del Sudàn, e guida della sua carovana era un Arabo, a cui solo era nota la via che si dovea percorrere per giungere a un dato luogo. Dopo due o tre giorni di cammino, l'Arabo non avendo di che cibarsi chiese al cuciniere, che preparava la cena pel mercante, qualche cosa da mangiare. Il cuciniere gli rispose con mal garbo d'aver pazienza un poco. L'Arabo aspettò un quarto d'ora, e poi rinnovò la domanda. Il cuciniere indispettito gli diè sulla voce, e intanto capitò là il mercante che fece all'Arabo un acerbo rimprovero, perchè voleva essere servito prima di lui ch'era il padrone. L'Arabo, che credeva di non meritare tali parole di censura e di biasimo, insistette nella sua domanda, che questa volta espresse con un «voglio mi si dia da mangiare.» Allora il mercante: ebbene, disse, poichè sei così prepotente da volere quel che vuoi tu, e non quello che voglio io, sappi che ti tratterò da qui innanzi come un asino indocile.... e stasera non cenerai per dio! — Così [48] fu — l'Arabo tacque, abbassò il capo e si ritirò in disparte.
All'indomani il mercante si levò di buon'ora, e com'era solito di fare, uscito dalla tenda, risvegliò la sua gente ed ordinò il carico de' cammelli; quindi rientrò a bervi il caffè aspettando che tutto fosse in punto per rimettersi in via. Ma poco dopo un servo veniva ad avvertirlo che la guida si ricusava di sellare la sua cammella e di continuare il cammino. Egli stimò bene di tacere, sperando che l'Arabo non l'avrebbe durata a lungo nel suo proposito; fece un giro intorno all'accampamento; passò vicino alla guida fingendo di non essersi accorto di nulla. Venuto il momento della partenza, l'Arabo colla sua lancia in mano era sempre là immobilmente assiso sopra la sabbia come uno che non dovesse far parte di quella carovana. Ma.... come? — disse il mercante — tu non se' pronto ancora? — No, rispose, poichè non posso partire; tu non ignori che ieri io non assaggiai briciola; il mio ventre è vuoto ed ha bisogno di riposo. E poi tu mi dicesti, n'è vero? ch'io sono un asino; e tu pure devi sapere che non è possibile che un asino possa guidare degli uomini. — Alzati, te lo impongo, gridò allora con voce animata il mercante. — L'Arabo non si mosse di così com'era. — Ed egli lo percosse con un colpo di sferza. — E l'Arabo sempre fermo al suo posto come una statua. — Il mercante cavò quindi dalla sua cintura una pistola, e drizzatane la bocca alla [49] fronte della guida: tu partirai, le disse, o ti farò saltare in aria la dura tua cervice.
Un Italiano, un Francese, un Inglese, un Turco avrebbero ubbidito, o si sarebbero difesi. Ma l'Arabo? l'Arabo armato della sua lancia nè volle ubbidire nè difendersi, e levatosi ben tosto da sedere, gittò via la lancia e cominciò a danzare davanti al mercante dicendo: ammazzami adunque, ammazzami presto: sono io forse un turco da temere la morte?
Il mercante ch'era ben lungi dal credere che la cosa la sarebbe andata a finire così, si trovò in un bell'imbarazzo. Aspettare che di là passasse qualche carovana e unirsi ad essa.... avventurarsi senza guida in un deserto ove non esisteva traccia alcuna di via.... era un esporsi a morir di sete con tutta la sua gente. Egli s'appigliò finalmente al partito, ch'io credo sia stato il migliore, di seguire cioè le tracce già stampate da' cammelli nella sabbia, e rifare così la strada, la quale l'avrebbe condotto ad un pozzo, che aveva abbandonato da circa due giorni; sperava frattanto d'incontrarsi in alcuni Arabi e di provvedersi d'un'altra guida. Montò in sella, e senza lasciare trasparir nulla di ciò che lo inquietava moltissimo comandò alla sua gente di ritornare verso il pozzo, mentre egli contava i passi del suo cammello, risoluto di retrocedere e di uccidere la guida, se prima d'averne contati cento non l'avesse veduta marciare alla testa della carovana.
Ma non appena questa si mosse, ecco l'Arabo [50] che si rizzò lestamente, si diresse verso la sua cammella, la sellò in un batter d'occhio, le si slanciò sopra, e raggiunta la carovana la rimise sul sentiero che dovea condurla là dove il mercante era diretto. Or questi in tutto quel giorno non fece parola alla guida come non l'avesse veduta, e come niente fosse accaduto. Venuta la sera, e posto l'accampamento, l'Arabo si prostrò ai piedi del mercante piangendo come un bambino; ma il mercante due volte lo respinse; e due volte l'Arabo, pentito, gli s'inginocchiò davanti dicendo: ah! perdonami, o Signore; non è il gastigo da me giustamente meritato ch'io temo; conosco il male che feci e l'angustia che ti recai colla mia condotta, e son pronto a scontarne la pena; ma ti supplico, per ciò che hai di più caro al mondo, a non conservar rancore contro di me, a volere dimenticar tutto; e ti giuro che non avrai più di che lagnarti del mio servizio. — Il mercante ordinò al cuciniere gli si portasse da mangiare; l'assicurò del suo perdono, ed imparò ancora una volta come gli Arabi debbano essere trattati.
Vogliamo notare però che, quando l'Arabo non sia giunto a un certo grado di ostinazione, se v'ha mezzo d'indurlo a far qualche cosa è quello delle minacce e della forza, non mai quello delle promesse e della preghiera.
[51]
Il suicidio è rarissimo fra gli Arabi, e non v'ha, si può dire, caso in cui lo si approvi o lo si scusi; tutti, senza eccezione, lo condannano e gli si dichiarano contro più o meno severamente secondo i motivi dai quali esso è determinato. E faccio qui osservare che gli Arabi, quelli almeno coi quali io parlai, non vogliono nè manco supporre che l'attentato contro la propria esistenza possa avvenire con volontà pienamente libera, e quindi con perfetta coscienza dell'atto che viene commesso. L'istinto naturale della propria conservazione è così sentito, che non permette loro di fare una tale supposizione.
L'uomo, dice il Beduino, deve colla sua savia condotta saper evitare la passione, il dolore, il rimorso, l'infortunio che lo inducono a tanta viltà; o se pure è colto da qualche sciagura improvvisamente, deve trovarsi apparecchiato ad affrontarla e a vincerla. L'Arabo insomma non la intende di scusare in nessun modo il suicida da lui sempre considerato qual vile insofferente del dolore; e però sommamente spregievole.
E chi crederebbe esservi fra noi, che pur non siamo beduini, chi loda ed esalta il suicidio? — Si volesse almeno riflettere che mentre fra gli Arabi il sentimento di alta riprovazione dei suicidi ne diminuisce grandemente il numero, presso noi invece la lode e la scusa tanto spaventosamente l'accrescono.
[52]
La riva destra del fiume, da Chartùm al 12º grado, non presenta al viaggiatore quell'interesse che gli desta nell'animo la riva sinistra.
Passato il confine della dominazione egiziana, e dopo le secolari foreste vergini e impenetrabili che a sinistra la dividono dalla potente e brutale razza dei Negri Scìluk, s'ergono a destra del Bàhr-el-Àbiad le montagne dei Dénka. — Ed ora mi tornano alla mente con affettuoso e profondo sospiro i bei momenti quando io e la buon'anima del missionario Angelo Melotto, mio collega, nel 17 marzo del 1859, salimmo la cima di una delle più alte di quelle montagne, per adocchiare in un istante tutta la parte da noi con tanta fatica esplorata nella penisola del Sènnaar ove abitano alcune tribù dénka, fra le quali speravasi di fondare la Missione Italiana. — Le montagne dei Dénka, poste tra il 12º e il 13º grado di latitudine, diconsi Niemàti dalla tribù più vicina degli Abialàñġ; e sulla carta del Werne trovansi del pari fra questi due gradi e son chiamate da lui G. Njemàti; le vedo pure segnate sulla confusa carta di Brun-Rollet sotto il nome di Dj. Hemàja, e su quella del Zimmerman di Jeb.-jemàti. Dagli Arabi poi sono dette Giobàl-ed-Dénka, perchè un tempo i Dénka della penisola s'estendevano a nord fino a quelle montagne; ma, fatti scopo alle continue incursioni degli Arabi Abù-Ròf, si ritirarono poi alquante miglia geografiche verso sud. Tuttavia gli Abù-Ròf fanno a cavallo frequenti scorrerie tra i [53] Dénka per derubare il dùrah, di cui abbondano, e, potendo, anche i loro figliuoli[3].
Questi Negri, abitanti tra il 12º e il 9º lat. N., sono chiamati Dénka dagli Arabi della penisola del Sènnaar; dagli Arabi poi situati alla sinistra del fiume Bianco sono detti Gianghè, come la tribù che divide i Scìluk dai Nuèr. Ma gl'indigeni si riconoscono col nome di Gièn; e con questo nome generale appellansi tutte le tribù che parlano la lingua dei Dénka, avendo ciascuna anche un nome proprio significativo, come meglio vedremo parlando delle tribù Dénka del Nilo superiore, le quali hanno con queste comuni i costumi.
I Scìluk però e i Nuèr non sono compresi nel novero dei Gièn, dai quali vengono considerati come antichi invasori delle loro terre. E in fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka.
Chi amasse entrare in particolari sulla conquista che la potente e fiera tribù dei Scìluk fece, molti anni sono, del Sènnaar, rendendosi tributario il paese fino a Bèrber, non ha che a leggere il Bruce e il Brocchi[4].
[54]
Presso l'11º grado, a destra del fiume Bianco, s'alza un piccolo monte, che gli Arabi nominano Tefafàn o Bìbar, e i Dénka Kur-uìr, cioè masso del fiume. In questo punto Brun-Rollet sulla sua carta segna un influente, ch'io trovo notato anche su altre carte, a cui dà il nome di Pìper (dal monte Bìbar); ma in realtà non è che un canale, o, per usare della frase dei Dénka, un occhio del fiume (ñġàen) chiamato da essi Tarciàm, il quale esce dal fiume presso il monte Bìbar, e dopo un giro di circa quindici miglia geografiche ritorna nel fiume stesso. La sua maggiore distanza dal fiume è dalle quattro alle cinque miglia. Ciò riscontrai col mio collega defunto Angelo Melotto in una nostra esplorazione fra i Dénka Abialàñġ.
[55]
Caratteristiche della razza negra — Il paese dei Scìluk — I cani — Odio contro i Turchi — Raffronti della lingua dei Dénka con quella dei Scìluk.
Il viaggiatore che parte dal Cairo e si dirige, rimontando il Nilo, verso il sud, traversa successivamente l'Egitto, la Nubia, il Sènnaar; e a misura ch'egli s'avvicina all'equatore vede cangiarsi intorno a sè il teatro delle creazioni di natura.
Arrivato però a Chartùm (15°, 37′), s'egli continua il suo cammino lunghesso il fiume Azzurro sino a Fazòql, e quindi segue il Tómat fin quasi alle sue sorgenti, si troverà finalmente in mezzo alle tribù nere dei Bèrta, e crederà così d'aver veduto concatenarsi l'Egiziano aborigene col crespo Etiope per una gradazione insensibile di colore, che non gli permetterà di segnare il punto ove finisce l'uomo bianco ed ove incomincia il nero.
[56]
Che se dalla città di Chartùm veleggia pel fiume Bianco verso il mezzodì, egli distinguerà facilmente dall'Arabo giallognolo o bruno i negri Dénka della penisola del Sènnaar, che dal 12º grado si estendono fino al 9º di lat., e i negri Scìluk, posti agli stessi paralleli, a sinistra del fiume.
Ma i Bèrta, i Dénka, i Scìluk, i quali tutti hanno la pelle nera, ci presentano forse tutti il tipo del vero Negro, del crespo Etiope?
Il color della pelle, che cade subito sott'occhio, non può essere trascurato da un osservatore superficiale. Le differenze di forme potranno sfuggirgli, ma non quelle di colore, le quali saranno per lui base d'una classificazione grossolana.
Il naturalista al contrario poco o niun caso fa del colore, il quale talora non serve nè manco a distinguere le varietà d'una medesima specie; e altrettanto dicasi delle tinte dei fiori e delle foglie nelle piante, dei peli e dei capelli negli uomini. La materia colorante, la sostanza, (il pigmentum), che sta nelle cellule dello strato mucoso dell'epidermide, si sviluppa e si condensa sotto l'influenza di alcune circostanze, fuori delle quali sparisce o vi si mostra appena. Quindi è che l'Arabo giallognolo dell' Heggiàs si fa bianco in Algeri e in Aleppo, e bruno nel Sènnaar e sulle rive del Senegàl. Il corpo umano trasportato da una in un'altra latitudine, vi perderebbe la vita se non si producessero in lui delle modificazioni. Sotto una temperatura [57] elevata, un'aria secca, un vento rapido, la traspirazione sarebbe eccessiva se la pelle non fosse resa assai meno porosa e quasi impermeabile a certi fluidi, che sono i veicoli stessi della vita. Una pelle densa e rugosa sottrae il corpo dall'azione troppo brusca delle variazioni atmosferiche; lo preserva da congestioni cerebrali e da colpi di sole; lo ripara dal freddo, imperciocchè arresta l'irradiazione e la dispersione del calore del sangue: sicchè la pelle dei Negri è al tatto meno calda della nostra, e li protegge come protegge noi il vestito.
Questa pelle densa però non presenta presso tutti gli Africani le medesime tinte di colore. Ma egli è certo che fra i popoli più barbari del centro dell'Africa la pelle offre una tinta assai nera, o s'avvicina a quella della fuliggine, pelle dura, rugosa, la quale facilmente si screpola. Presso i Negri del Sudàn le unghie sono bianche o, dirò meglio, sembrano tali, e talvolta sono leggermente colorite, e tal'altra hanno un color rosa.
Non si creda però che la pelle abbia lo stesso colore in tutte le parti del corpo. Ov'essa è più densa ha un colore più oscuro, come sui ginocchi, sul gomito, sulle tempie ecc.
La pianta del piede però, la palma della mano, la pelle posteriore al ginocchio sono le parti meno oscure.
Il sudore dei Negri, che in generale è poco abbondante, manda un odore acuto, acre, spiacevolissimo. [58] Quindi non deve far meraviglia se le bestie feroci attaccano i Negri a preferenza dei Bianchi. Il loro fiuto annunzia assai più facilmente l'avvicinarsi dei primi che non quello dei secondi.
Se non che non è la pelle, come già dissi, che noi dobbiamo interrogare per conoscere le differenze reali che passano tra l'una e l'altra razza.
La fisonomia del Negro puro è talmente caratteristica, che è impossibile, anche a chi non sia molto addentro in questi studi, non riconoscerla a prima vista, quando pure l'individuo avesse la pelle bianca. Le sue labbra sporgenti, la fronte bassa, i denti in fuori, i capelli corti, lanosi, semiricciuti, la barba rada, il cranio depresso, il naso largo e schiacciato, il mento fuggente, le mascelle salienti, gli occhi rotondi, le orecchie grandi, le braccia lunghe e gracili, le gambe arcuate con polpaccio piccolo, i ginocchi semipiegati, i piedi lunghi e piatti col tallone sporgente all'indietro, lo sterno tondeggiante, il corpo un po' curvo all'innanzi e il portamento stanco, gli danno un aspetto speciale fra tutte le altre razze umane.
La Negra sovente raccoglie da terra degli oggetti, senza punto piegare le gambe; chinando il corpo tutto d'un pezzo, a partir dal bacino, ella prende colla mano ciò ch'ella desidera. Una donna bianca a grande stento potrebbe imitare tale movimento.
Ciò premesso, i Bèrta, quantunque la loro pelle sia nerissima, non ci presentano il tipo del vero [59] Negro[5], mentre invece sono veri Negri i Dénka e i Scìluk. Dei Bèrta ho già parlato in un altro mio lavoro, ove scrissi pur qualche cosa dei Dénka, dei quali però molto ancora mi resta a dire, che dirò più tardi quando mi toccherà di parlare delle tribù Dénka del Nilo superiore. Or qui non farò che trascrivere alcune note, le quali trovo sparse qua e là ne' miei vecchi giornali di viaggio risguardanti i Negri scìluk e il loro paese.
Il paese dei Scìluk, che conta dai 15 ai 20 mila, abitanti, dal 12º grado si estende lungo la riva sinistra del fiume fin quasi al 9º di lat. settentrionale, mentre non oltrepassa un quarto di grado in longitudine, partendo dalla riva verso occidente. Esso in generale è fertilissimo; l'estremità sud-ovest però è assai paludosa, e sabbiosa è quella a nord.
Nelle vicine boscaglie più che altrove crescono i tamarindi, e moltissime piante, che gli Arabi chiamano Àmbag[6] (Aedemone mirabilis), e verdeggianti nàbak (Rhàmnus Nabèca, secondo Forskal,) adornano ambedue le rive.
[60]
Nei luoghi paludosi cresce naturalmente il riso rosso selvatico, e dopo il 10º grado, rimontando il fiume, s'incontrano boscaglie di palme delèb (Borassus Aethiopum) e di palme dóm.
I Scìluk coltivano con amore il sesàme, il mais bianco (dùrah), piccoli fagiuoli e tabacco. Non parlo degli animali selvaggi, dell'ippopotamo, del coccodrillo, degli animali domestici, poichè son quegli stessi che si trovano nella valle del fiume Azzurro, e dei quali già dissi qualche cosa nel mio lavoro «Il Sènnaar e lo Sciangàllah.» Non voglio tacere però che fra gli uccelli si mostrano qui più frequenti le anitre, i pellicani, le folaghe (anas aegiptiaca, anas gambensis, anas melanotos, anas plotus vaillantii, pelecanus rufescens, sterna leucoptera, fulica atra ecc.); quindi le gru (grus pavoninus, anatamus camelligerus); le ibi, tra le quali la religiosa; le ardee (ardea atricollis, ardea minuta, ardea purpurea).
Vidi fra i Scìluk una bellissima razza di cani. Il fondo della loro pelle è grigiastro e screziato qua e là di macchie oscure. Essi hanno forme eleganti; somigliano a' nostri levrieri, ma sono più piccoli. Non saprei per qual sentimento, i Scìluk gli amano e li proteggono.... sarà forse per solo interesse, [61] poichè i cani guardano nella notte i loro bestiami. Avvicinandosi qualche fiera alle zerìbeh (ricinti), ove trovasi raccolto il bestiame, essi mettono urli, latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; i Negri gridano l'allarme, aizzano i cani; questi uniti in frotta s'avventano contro le fiere, e se non possono raggiungerle le inseguono rabbiosamente fino a una certa distanza; qualche volta però piombano loro addosso, e allora ne segue una battaglia feroce, un sottosopra da non poter farsene idea. Le fiere possono rimaner vinte; ma più spesso ci perdono i cani. Qualcheduno nel mattino non si vede più a comparire; qualche altro è là sul terreno disteso vittima della mischia; questi grondano sangue, quelli han rotte le gambe o lacerate le orecchie. Poveri cani!.... e non meriterebbero d'aver dei padroni che gli amassero e li proteggessero un po' meglio di quel che non facciano i Scìluk? Ma essi invece sono abbandonati, vagabondi, senza nome, senza una capanna che li ricoveri, senza leggi. Sono tutti nel deserto, vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini e vi muoiono. Tutto l'amore che i Scìluk hanno per loro si riduce a non maltrattarli, a non permettere che sieno maltrattati e a non lasciar loro mancare il cibo. Non ho udito mai che un cane sia divenuto rabbioso; e sì che da quelle parti i cani patiscono seti ardentissime a lungo tempo sostenute. [62] Bisogna dire adunque che la sete ardente non sia il motivo o, dirò meglio, l'unico motivo della rabbia dei cani. Certo è ch'essa nasce spontanea nel cane, nel lupo, nella volpe, nel gatto, e che questi animali la trasmettono agl'individui della loro specie, ai quadrupedi di specie diversa, ed all'uomo; ma non s'è potuto fin qui dimostrare in che consista la disposizione di detti animali, e specialmente del cane, la quale da origine alla rabbia spontanea, nè quali sieno le circostanze o le condizioni a ciò necessarie. E supponendo pure colali condizioni, si ignorano le cause, onde sono poste in atto. Molte, a dir vero, se ne sono divisate, ma non àvvene alcuna la quale regga ad un esame profondo.
I primi viaggiatori e mercanti europei che visitarono i Negri scìluk, li trovarono sospettosi, diffidenti, e per conseguenza pericolosi e crudeli. E tali divennero specialmente dopo la spedizione egiziana in Nubia (1821), del cui passaggio si risentirono tanto, mentre essa era diretta verso il fiume Sóbat, e nel suo ritorno a Scèndi. Ma il loro odio contro i Bianchi, ch'essi credevano tutti Turchi, crebbe assai più allorquando, un anno dopo, intesero la disumana strage di Scèndi, per la quale si volle in [63] qualche modo vendicata la morte d'Ismail-Pascià[7]; odio che il monarca e i vecchi del paese non tralasciarono mai d'istillare nel cuore dei giovani, allo scopo di renderli avversi ad ogni relazione coi Bianchi. Fin d'allora i Scìluk ebbero in fondo all'anima il vago sentimento d'una forza aggressiva, crescente, minacciosa de' popoli bianchi, dalla quale temevano o presto o tardi d'essere schiacciati. E quando gli Europei dopo alcuni anni tentarono di metter piede fra loro per recar doni al Capo supremo, in apparenza, ma in realtà, pensavan essi, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere e spiare così il terreno per farne una conquista; quando furono veduti con taccuini in mano, con cannocchiali, con istrumenti misteriosi ficcarsi da per tutto, notar tutto, misurar tutto, voler saper tutto.... tanto più crebbero i sospetti ed i timori d'un'invasione, e immaginavano questa invasione accompagnata da tutti gli orrori dell'odio e della vendetta, persuasi com'erano che i Bianchi nutrissero contro di loro gli stessi sentimenti, ch'essi nutrivano contro i Bianchi. Ma a poco a poco i Scìluk cominciarono a distinguere i Turchi dagli altri Bianchi europei ed a comprendere che questi non avevano mire ostili, e che tutt'al più attendevano al solo commercio.
La prima volta ch'io vidi i Scìluk fu nel 1858, [64] allo spuntar dell'alba del 28 gennaio. Ero coi miei compagni e col missionario Matteo Kirchner, che fu poi degno successore del defunto Provicario Ignazio Knoblecher, quando la dahabìah (gran barca) della Missione, carica delle provvisioni di un anno per le due stazioni di Santa Croce, nella tribù dei Kic fra il 6º e il 7º lat. N., e di Kondókoro, nella tribù dei Bàri tra il 4º e il 5º grado, arrenò in un banco di sabbia presso la sponda sinistra, ov'erano attendati provvisoriamente alcuni Negri scìluk pescatori colle loro famiglie. I nostri barcaiuoli fecero tutti gli sforzi per disimpacciarla, ma inutilmente. Dovemmo aspettare il chiaro giorno, ed invitare que' Negri che venissero in nostro soccorso, promettendo loro un bel regalo in perline di vetro che essi amano tanto. Ma non ci fu verso di persuaderli a venire fin quasi al mezzodì; essi non si fidavano della nostra lealtà; ci credevano Turchi. Allora uno dei nostri barcaiuoli, di nome Mahàmmed-Chèr, saltò in acqua e s'avvicinò alla sponda mostrando loro alcune file di perline di vetro delle più belle che avevamo per adescarli, assicurandoli nello stesso tempo che i Bianchi che si trovavano nella gran barca non eran Turchi, e che perciò non temessero di nulla. Capitarono quindi sopra una mal connessa barchetta circa dodici Scìluk, e giunti alla distanza d'una decina di passi da noi, s'arrestarono, ci squadrarono ben bene, si scambiarono a bassa voce alcune parole, vollero vedere la quantità de' [65] regali che noi avremmo data; fecero poi sforzi incredibili, insieme coi nostri barcaiuoli, per cavare la barca dall'arena, ma non riuscirono nè manco a smoverla. Noi demmo loro il regalo convenuto e li pregammo d'indurre anche i loro compagni, che ci stavano osservando dalla riva, perchè venissero a prestarci assistenza, facendo loro nuove promesse. Accorsero allora su quattro o cinque barchette tutti i Scìluk pescatori che colà si trovavano e che saranno stati intorno a trenta, muniti di lancia, lasciando sole le donne con i bambini. A dir vero noi temevamo questi liberatori, che alzando la voce pretendevano vedere quali e quante perline avremmo loro date; e vedutele ce le presero fuor di mano quasi colla forza; lanciando poi grida selvagge cominciarono a spingere la dahabìah verso il corso d'acqua navigabile; ma non appena essa fu smossa, le donne dalla riva, agitando le braccia e mettendo acutissimi strilli, incitavano i loro mariti a fuggire. Questi saltarono tosto nelle loro piroghe e in pochi istanti guadagnarono la sponda, negandoci ogni ulteriore soccorso e dicendo che noi eravamo Turchi. Stemmo lì fermi fino al giorno seguente; i Negri durante la notte erano già scomparsi; che cosa fare?... Noi credemmo miglior partito di alleggerire la dahabìah delle casse più pesanti, improvvisando alla meglio una zattera coi remi e con altro per adagiarvele; quindi tentammo a tutto fiato di smuoverla, ma indarno; calammo allora altra roba [66] sulla zattera; e finalmente alle due pomeridiane, la Dio mercè, siamo usciti dal difficile passo e ci rimettemmo sul buon canale. I barcaiuoli ricaricarono con gran fatica ogni cosa, e alle ore cinque e mezza partimmo col vento in poppa.
Nell'anno 1860 io tornai a visitare i Scìluk e li trovai trattabili e pieni di fiducia specialmente verso gli Europei non Turchi, ch'essi sapevano distinguere assai bene.
In questa occasione io ebbi la fortuna di parlare più volte con un Capo di questi Negri, il quale oltre la propria lingua e quella dei Dénka parlava speditamente anche l'araba, essendo egli stato schiavo per alcuni anni nella casa di un Turco, alla morte del quale potè ricuperare la libertà che aveva perduta fin da tenero giovinetto.
Da questo Capo io raccolsi principalmente quanto sto scrivendo sui Negri scìluk, ed ho ragione di credere che tutto ciò che mi disse sia vero, perchè è conforme a quello che udii ripetere da qualche Arabo, il quale da lungo tempo trattava con questi Negri, ed a ciò ch'io stesso ho potuto osservare.
Ho detto altrove che i Scìluk, come i Nuèr, non sono compresi nel novero dei veri Dénka (Gièn), dai quali vengono considerati come antichi invasori [67] delle loro terre; e di fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka[8].
Io volli notare alcune parole della lingua propria dei Scìluk, per indagare a quale altra razza potessero appartenere, e dedurne così la provenienza.
Ecco le poche parole ch'io trascrivo quali trovo segnate sul mio giornale di viaggio, a fronte delle quali porrò quelle della lingua dénka, per conoscerne e valutarne il divario.
Nomi scìluk | Nomi dénka |
Dio — Kuàe | Dio — Dèn-did (pioggia grande) |
Uomo — Giâló, Dâno | Uomo — Ran, Móg |
Donna — Dakóu | Donna — Tík |
Fanciullo — Dèn | Fanciullo — Mèvt, Uén |
Fanciulla — Gñàn | Fanciulla — Gñà |
Cielo — Màl | Cielo — Vniàl |
Terra — Figñ | Terra — Pigñ |
Acqua — Fíu | Acqua — Píu |
Fuoco — Màg | Fuoco — Màg |
[68] | |
Vento — Rùde | Vento — Ióm |
Pane — Bièl | Pane — Kuín |
Albero — Tàu | Albero — Tim |
Frutto — Gñuèl | Frutto — Tàu (l'a quasi o) |
Casa — Uàt (l'a quasi o) | Casa — G¨ùt |
Barca — Jái | Barca — Rièi |
Stella — Kièlo | Stella — Kuél |
Tabacco — Tàbo | Tabacco — Tàb |
Pipa — Dak | Pipa — Tógñ-e-tàb (vaso del tabacco) |
Bestia — Diàn | Bestia — Lái |
Lancia — Ton | Lancia — Tòn |
Pronomi personali | |
Scìluk | Dénka |
Io — janèn | Io — g¨èn |
Tu — jin | Tu — jín |
Egli, Ella — ñġatì | Egli, Ella — jèn |
Noi — Uèn (l'e quasi o) | Noi — òg¨ |
Voi — Un | Voi — uék |
Eglino, Elleno — Ġi (ġ dura) | Eglino, Elleno — kék |
Tutti — Ġebène (ġ dura) | Tutti — ké-vdia, rór-e-bèn (Tutti gli uomini) |
[69]
Addiettivi indicativi numerali cardinali | |
Scìluk | Dénka |
1 — dièl | 1 — tók |
2 — ariòu | 2 — ròu |
3 — adèk | 3 — diàk |
4 — añġuèn | 4 — ñġuàn |
5 — abìġ | 5 — vdiéc |
6 — abik-ièl | 6 — vde-tèm |
7 — abi-riòu | 7 — vde-ròu |
8 — abi-dèk | 8 — bêd |
9 — abi-ñġuèn | 9 — vde-ñġuàn |
10 — fiàr | 10 — vtiár |
11 — fiàr ógiàk-ièl | 11 — vtiár-ko-tók |
12 — fiàr ógià-riòu | 12 — vtiár-ko-ròu |
13 — fiàr ógià-dèk | 13 — vtiár-ko-diàk |
14 — fiàr ógià-ñġuèn | 14 — vtiár-ko-ñġuàn |
15 — fiàr ógià-biġ | 15 — vtiár-ko-vdiéc |
16 — fiàr ógià abik-ièl | 16 — vtiár ko-vde-tèm |
17 — fiàr ógià abi-riòu | 17 — vtiár-ko-vde-ròu |
18 — fiàr ógià abi-dèk | 18 — vtiár ko-bèd |
19 — fiàr ógià abi-ñġuèn | 19 — vtiár ko-vde-ñġuàn |
20 — fiàr-riòu | 20 — vtiár ròu |
21 — fiàr-riòu ógiàk-ièl | 21 — vtiár ròu ko-tók |
22 — fiàr-riòu ógià-riòu | 22 — vtiár ròu ko-ròu |
[70] | |
30 — fiàr-dèk | 30 — vtiár diàk |
40 — fiàr-ñġuèn | 40 — vtiár ñġuàn |
50 — fiàr-abìġ | 50 — vtiár vdiéc |
60 — fiàr-abìk-ièl | 60 — vtiár vde-tèm |
70 — fiàr-abì-riòu | 70 — vtiár vde-ròu |
80 — fiàr-abì-dèk | 80 — vtiár bèd |
90 — fiàr-abì-ñġuèn | 90 — vtiár vde-ñġuàn |
100 — fiàr fiàr | 100 — buòt |
Addiettivi indicativi possessivi | |||
Scìluk | Dénka | ||
mio | ġià (ġ dura) | mio | kedià |
mia | mia | ||
tuo | ġiìn (ġ dura) | tuo | kedù |
tua | tua | ||
suo | ġiì (ġ dura) | suo | kedè |
sua | sua | ||
nostro | miuón | nostro | kedà |
nostra | nostra | ||
vostro | miubèn | vostro | kedún |
vostra | vostra | ||
loro | ġitinaciá | loro | kedèn |
Basta, io credo, questo brevissimo saggio per iscorgere chiaramente che la lingua propria dei Scìluk [71] è bensì diversa da quella dei Dénka, ma presenta press'a poco la stessa fisonomia, e che quindi i Negri che parlano questa lingua debbono appartenere alla medesima razza. Si vuole che i Scìluk sieno provenienti dal sud-ovest.
[73]
Il regno dei Scìluk e il loro Governo — Mezzi d'incivilimento — Punizioni — Diritto di elezione al trono — Residenza reale — Quanto si possa fare assegnamento della parola di un re Negro — Il latrocinio — Divisione, carattere e costumi vari dei Scìluk — La schiavitù presso i Scìluk e gli Arabi in Hèllat-Kàka — I mercanti d'avorio divenuti rapitori e mercanti di schiavi.
Tra i Negri che s'incontrano lungo le rive del fiume Bianco, non havvi che la tribù dei Scìluk che abbia un Re, il quale risiede a Dènab, ed esercita una indeterminata autorità generale, che viene spesso limitata dalle reciproche gelosie e dal capriccio di alcuni Capi de' villaggi vicini, i quali compongono una specie di Consiglio di Stato.
I due più grandi villaggi fra i Scìluk sono Hèllat-Kàka, tra il 10º e l'11º lat. N., villaggio che si estende lungo la riva sinistra del fiume per quasi tre miglia geografiche, ed è diviso in tante borgate vicinissime le une alle altre e scostate dal fiume [74] circa un quarto d'ora di cammino; e Dènab (a 9°, 5′), ch'io ritengo col Kotschy sia la capitale dei Scìluk e non Hèllat-Kàka, come pretesero alcuni. Dènab trovasi più nel centro della tribù; Dènab è la residenza del Re; Dènab è abitato puramente dai Scìluk, mentre Hèllat-Kàka si compone di famiglie di tante e diverse tribù; vi si vede l'Arabo bruno de' Baggàra, il giallastro degli Hossanìeh, l'uomo di Nóba, del Kordofàn, del Dàr-fùr, il Negro dénka, il mercante dongolèse e l'indigeno Scìluk.
I Negri scìluk sono di mezza statura, ben tarchiati, forti, ruvidi com'è la loro pelle, han l'occhio vivo, penetrante, feroce; sono per natura bellicosi e vendicativi; essi vivono per solito di pesca, di caccia, di furti e di rapine.
Il Monarca, assistito dal Consiglio di Stato, piuttosto che reggere i suoi sudditi gli opprime.
Il meschino commercio, che da circa ventanni s'è iniziato colle barche de' mercanti passeggieri, i quali sulla riva del fiume, con perline di vetro, comprano dalle donne e dalle fanciulle gherre, borme (piccoli e grandi vasi di terra cotta), galline, uova, latte, grano di dùrah (holcus dùrah) e, nell'interno della tribù, denti di elefante, non è possibile che progredisca perchè è strozzato da monopoli del Monarca e dei membri del Consiglio di Stato, dalle proibizioni d'esportazione e d'importazione, e dalla capricciosa mutabilità degli ordine; e con tali vincoli [75] posti al commercio, come potrà mai, io dico, attuarsi l'industria? e l'arte di lavorare e rendere fruttifero il terreno, che pure in alcuni luoghi è tanto fecondo, come potrà introdursi, io domando, e perfezionarsi, se quel po' di agricoltura che oggi vi si pratica, in modo però da non meritare quasi il nome di arte, trovasi aggravata di balzelli e vincolata nell'esportazione dei prodotti?...
Conquistare bisogna simili regioni colla forza, ma con una forza che tenda ad edificare, non a distruggere; con una forza che emani da un popolo religioso veramente e civile, il quale sparga qua e là colonie numerose e forti, che s'affratellino con que' poveri Negri e s'accomunino fino a stringere matrimoni, e insegnin loro a legarsi in amichevoli relazioni con tutti, ma specialmente colle tribù che hanno la medesima origine e parlano la stessa lingua, cercando così d'infondere nei loro animi il sentimento di nazionalità e far che incominci a risorgere fra tribù e tribù il commercio che ora è morto; mentre nessuna tribù osa oltrepassare i propri confini se non per portare la guerra alla tribù vicina, affrettandosi poi a ripassarli. I Negri di una tribù, che ordinariamente non supera i venticinque mila abitanti, vivono sempre isolati, fuggendo ogni [76] altro consorzio umano. E in questa mancanza assoluta di comunicazioni, essi rimarranno sempre, quali sono, ignoranti di tutto, timidi, creduli, superstiziosi. Ignari di quanto succede a non molta distanza dal proprio paese, immagineranno cose straordinarie e prodigiose.
Alcuni anni sono Lakonò, Gran Capo d'una tribù sul fiume Bianco, raccontava a un certo Solimàn Kàscef che a dieci giorni di cammino dal luogo ov'essi si trovavano, esistevano miniere d'oro inesauribili, le quali erano custodite da esseri mostruosi, che avevano la testa di cane e che si pascevano di carne umana[9].
Qualunque educazione ricevano i Negri da Missionari premurosi e zelanti, lo spirito rimane sempre frivolo e vano, la loro attività sopita, infermo il ragionamento. Sono bambini incapaci di regolarsi da sè, che si trastullano dei gingilli, si dilettano al racconto delle storielle, sorridono alla favola, ammirano i giuochi di prestigio, ma sdegnano affatto la scienza, e non vogliono saperne di religione.
Come sopita in loro è la ragione, così lo è l'immaginazione. È vero che i popoli barbari, per lo più, amano molto la poesia, la quale somministra i più brillanti colori, ond'essi si compiaciono di tracciare i graziosi quadri d'un'ingegnosa mitologia. I Greci non hanno aspettato Pericle per creare [77] l'Iliade; e l'Arabo selvaggio, nomade, predatore, recava alla Mecca, assai prima dell'islamismo, il tributo de' suoi versi. Vi s'incontravano allora poeti sporchi, affamati, seminudi, a lunga ed unta capigliatura, cantare le gesta degli Eroi o i saggi dell'amore con quella forbitezza di lingua, con quell'eleganza ardita, con quella grazia ingenua che noi ancora ammiriamo, e di cui n'è prova il Moallakàt di Sciànfara.
Nulla, assolutamente nulla di tutto questo presso i Negri. Le loro canzoni rassomigliano ai ritornelli che balbettano i fanciullini; e il più delle volte si compongono di parole slegate, dalle quali difficilmente si può dedurre un concetto. Tali sono i Negri scìluk, e tali sono tutti i Negri da me visitati entro il bacino del fiume Bianco.
Insomma, fuori d'un miracolo di Dio, il quale può tutto, io non vedo altro mezzo che valga a mettere in sulla via della civiltà i popoli selvaggi dell'Africa Interna che una forza bene intesa e l'incrociamento di razze.
Il Re dei Scìluk punisce con delle multe i furti e le rapine; e gli omicidi colla morte a colpi di lancia o di bastone.
Ciascun villaggio ha il suo Capo, che viene eletto [78] dal Re e che deve invigilare alla osservanza degli ordini superiori, quando si tratta specialmente della vendita dei denti di elefante, la quale non può seguire che dietro il consenso del Monarca, a cui va pagata la tassa. Uno che fosse colto in flagranti sarebbe tosto punito e spogliato di tutto ciò che possiede.
Il regno dei Scìluk non è ereditario, come scrisse qualche viaggiatore. Quando io visitavo per la terza volta questo regno e mi trovavo a Dènab il 7 dicembre 1859, il Re, di nome Mievdòk, era già morto sin dal febbraio dello stesso anno, e nelle sue ultime agonie veniva finito con tre colpi di lancia da uno dei suoi parenti più stretti, perchè disdice ad un Monarca sì grande il morire, come essi ripetono, d'una morte troppo comune. Egli sen giaceva ancora insepolto, ben chiuso in una capanna, perchè non era stato eletto il successore, che si diceva dover essere il figlio di un suo fratello chiamato Ghèu. «La scelta però dipende dal voto del popolo, e appena il successore sarà stabilito in carica, il defunto Monarca verrà seppellito sotto un tamarindo presso la residenza reale;» così diceva a' miei barcaiuoli un vecchio Scìluk, che mostravasi dolente di una nuova elezione, e che meglio era, andava ripetendo, di vivere senza Re.
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Dènab; con questo nome vengono chiamate diverse borgate, che per notevole estensione si succedono l'una all'altra lungo il fiume; e in mezzo a queste, un po' distante dalla riva, abita il Gran Re dei Scìluk, a cui nessuno, pel dovuto rispetto, può presentarsi se non procedendo carpone.
La residenza reale è tutta chiusa da un ricinto quadrato (zerìbah), e si compone di circa sessanta capanne di paglia, di cui altre hanno il tetto acuminato, ed altre rotondo come una cupola. Quasi tutte sono abitate dalle donne di Sua Maestà, il quale passa la notte e il giorno or nell'una or nell'altra come meglio gli aggrada. Quattro o cinque di queste capanne son destinate per le donne incinte, e otto o dieci per quelle che soffrono comecchessia incomodi di salute; una grandissima capanna poi, che si distingue fra tutte l'altre anche per la sua forma, è riserbata per la tesoreria. Essa contiene i più grossi denti d'elefante e d'ippopotamo, maravigliose corna di rinoceronte e di diverse antilopi, preziose pelli di animali feroci, i più bei campioni di perline di vetro, stoffe di tela e sciabole donate al Monarca da mercanti arabi, turchi, europei. Questa capanna è considerata come luogo sacro, e solamente le persone che sono in grazia di Sua Maestà possono porvi il piede.
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Ai quattro angoli fuori del grande ricinto della residenza reale sono quattro piccole zerìbeh, ciascuna delle quali contiene intorno a cinquanta Negri scelti fra i più forti della tribù; e questi costituiscono la guardia nobile dell'Augusto Monarca. Davanti all'ingresso s'inalzano parecchi superbi tamarindi, dei quali il più maestoso copre colla sua ombra il seggio reale; e qui s'uniscono a consiglio i Capi, qui si danno giudizi, qui si pronunciano sentenze. I padri, che posseggono belle e graziose ragazze, si tengono onorati di poter presentarle ai piedi del Re; così che io credo che il Re dei Scìluk conti più donne del Gran-Sultano dei Turchi.
Per conoscere quanto si possa fare assegnamento della parola di un re Negro, leggiamo ciò che lasciò scritto M. Jules Poncet, negoziante e viaggiatore ch'io conobbi di persona in Chartùm, nel suo libro: Le fleuve Blanc, e les chasses a l'éléphant:
«En 1860, mon frère Ambroise s'arrêta au-dessus de Dénab, pour essayer d'obtenir du roi des Schellouk la permission de chasser dans ses États. Comme ce Monarque n'a jamais voulu recevoir aucun blanc, mon frère dut lui envoyer notre reis Oued-Khalled, et un de nos employés nommé Messaad, qui ayant habité chez les Schellouk, parlait bien leur langue; [81] mon frère envoyait à sa majesté à titre de cadeau plusieurs sacs en indienne, pleins de différentes verroteries. Nos émissaires partirent de la barque, traversèrent deux gros ruisseaux pour arrivar à la résidence royale. Ils s'assirent sous un tamarinier, et quelques minutes après s'être fait annoncer, le roi sortit de son palais, tenant sa pipe d'une main et son bâton de l'autre, du reste nu comme tous ses sujets; il alla s'asseoir sous son arbre particulier. Un Nègre vint alors dire à nos gens de s'approcher. Ils marchèrent dans la direction du roi jusqu'à une distance de quinze pas, puis s'agenouillèrent en marchant sur les pieds et les mains, selon l'usage, jusqu'à la distance de trois ou quatre pas de sa majesté, qui reconnut d'abord Messaad, à qui il dit: Messaad, pourquoi es tu venu? Ce dernier répondit, ce qui était la vérité, que les Schellouk, après avoir tué son frère l'anné précédente, l'avaient dépouillé de tous ses biens, et qu'à la suite de ces malheurs, il s'était retiré auprès d'un blanc, qui lui avait donné des armes et des hommes pour chasser; que ce même blanc le saluait, e lui envoyait par ma médiation quelques sacs des verroteries, avec prière de lui permettre de chasser l'éléfant, ainsi qu'à lui Messaad, connu de tous les Schellouk, et duquel l'on n'avait rien a craindre.
«Le roi, sans dire un seul mot, ouvrit les sacs qu'il regarda attentivement, en prit deux contenants les plus belles verroteries; puis il distribua le reste [82] à ses gens. Il parut satisfait, et après avoir gardé le silence quelques minutes, il dit à Messaad: Retourne auprès de ton blanc, et dis-lui que je donne pleine permission à Messaad de chasser dans mes États, et que, dès demain, j'en avertirai les chefs de tous les villages.
«Nos deux émissaires se trouvant très-satisfaits de cette promesse, le remercièrent en termes flatteurs, et se retirèrent en marchant sur leurs pieds et leurs mains comme ils étaient venus. Ensuite, ils s'en vinrent raconter a mon frère le résultat de leur ambassade. Le lendemain, Messaad et ses hommes sortirent pour aller chasser. Dejà ils étaient en route, quand mon frère les rappela d'àprès un contre-ordre de sa majesté, que deux émissaires lui avaient apporté peu après leur départ.
«Les députés de ce monarque remirent à mon frère de la part de leur maître, deux boeufs en cadeau, et lui dirent que son conseil l'avait déterminé a retirer sa parole pour cette permission de chasse, ajoutant que les Turcs prenaient le prétexte de chasser pour s'emparer de ses États, et que, d'après cette réflexion, sa majesté ne permettait pas à Messaad de chasser, et qu'en outre, il invitait mon frère de partir de suite avec ses gens.
«Un de ses émissaires, qui s'appelait Cheik Abder-Rhamàn, nous assura, en langue arabe, que c'étaient les conseillers seuls du souverain qui l'avaient fait revenir sur sa promesse.»
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I Negri scìluk sono il popolo più turbolento, più audace, più traditore, più ladro di tutta la vallata del Bàhr-el-Àbiad. Il Re però e tutti i Capi sanno reprimere colla forza questa loro indole perversa, nell'interno della tribù; ma non impediscono che venga dispiegata al di fuori, anzi la favoriscono col ricever parte dei loro furti. I genitori stessi avvezzano i loro ragazzi a rubare. Fra questi Negri il latrocinio è ammesso come cosa naturalissima, sempre però fuori della loro tribù, quando non si tratti di derubare un forestiero. — Mi ricordo che un giorno, giusto nel paese dei Scìluk, stanco di starmi seduto in barca nel mio ristretto e disagiato casotto, montai sulla riva e m'addentrai nel bosco non più di cento passi, perchè i miei barcaiuoli m'aveano avvertito che non conveniva allontanarsi troppo dal fiume per timore dei Negri. Eran circa due ore dopo il mezzodì; avevo appena mangiato un boccone; m'acconciai comodamente all'ombra di una pianta a fare il chilo, e deposta da banda la mia pezzuola e la tabacchiera d'argento, che mi tenevo cara assai non tanto pel suo valore intrinseco, quanto per la persona che me l'aveva regalata, m'addormii. Svegliatomi dopo alcuni minuti, non trovai più nè pezzuola nè tabacchiera. Alcuni giovinetti Negri, che [84] ho veduto poi a qualche distanza fuggir via, se n'erano serviti. È incredibile l'audacia di questi monelli. Non c'è luogo dove non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza; strisciano, guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d'erba, di paglia, di foglie; rischian la vita per un nonnulla. Io stetti lì ancora un cinque minuti, mortificato, immobile sotto l'albero, colle braccia incrociate, e lo sguardo fisso a terra, esclamando di tratto in tratto: — Ah! che birboni!!... e tornai poi in barca a rintanarmi nel mio casotto.
Del resto i Negri scìluk nelle loro grandi spedizioni si raccolgono in numero di cento e più, e discendono o rimontano il fiume sopra leggiere piroghe, armati di lancia e di scudo e muniti di grossi utensili, per dare la caccia all'ippopotamo e al coccodrillo. Essi vanno disciplinati; hanno dei Capi, degli statuti, dei diritti riconosciuti in un certo senso persino dal Governo. Se discendono il fiume, spiano continuamente gli Arabi della riva sinistra e i Dénka della riva destra, e tirano specialmente alle loro vacche. Qualora riescano ad impossessarsene le spingono nel fiume, e d'isola in isola le conducono presso alle loro abitazioni. I Scìluk poi del sud fanno le loro spedizioni lungo il Sóbat e fino all'imboccatura del fiume delle Gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl), cercando di derubare per sorpresa i Gianghè della riva sinistra o i Nuèr della riva destra.
Durante la spedizione, che può durare anche più [85] di un mese, essi dànno la caccia agli ippopotami e ai coccodrilli[10]. Da questi ultimi hanno il muschio, di cui fanno mercato; e dei primi conservano la pelle e i denti canini, ricercatissimi specialmente da qualche Inglese.
I Scìluk appetiscono assai la carne dell'ippopotamo che tagliano a lunghe striscie; quindi la sospendono a corde tese all'ombra e all'aria aperta, non mai al sole; e passate circa ventiquattr'ore hanno la carne secca che può servir loro di nutrimento per qualche mese. Rarissime volte mangiano la carne del coccodrillo, che è molto indigesta e sa di muschio. Vidi a mangiarne una volta i miei barcaiuoli, e io avrei proprio desiderato di assaggiarla, tanto più che quel coccodrillo l'avevo ucciso io stesso con un colpo di carabina; ma non mi fu possibile di accostarne briciolo alla bocca; il puzzo spiacente che mandava mi sconcertò talmente, che dovetti uscire di barca per non rigettare.
I Scìluk sono divisi in due classi. Quelli che si trovano ad Hèllat-Kàka, o più a nord, che sono assai pochi in confronto degli altri, vengono, per [86] così dire, considerati come schiavi degli Arabi da quelli che abitano più a sud, i quali si estendono fin quasi al lago No, formato dalla mescolanza delle acque del fiume Bianco (Bàhr-el-Àbiad) con quelle del fiume delle Gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl o Kèilak). In realtà però i Scìluk del nord vollero emanciparsi dal predominio tirannico del Re e de' suoi Consiglieri, mescolandosi cogli Arabi, dei quali non si può dire che sieno schiavi. Questi Scìluk non hanno stabili abitazioni, sono erranti; io ne vidi attendati fin presso al 14º grado, e vivono unicamente di pesca, di caccia e di furti; mentre i Scìluk del sud hanno stabili dimore ed esercitano, sebbene con poco amore e con poco studio, anche l'agricoltura. Essi coltivano il dòkn (holcus dùrah), e i campi sono per lo più alquanto discosti dalle abitazioni. Avvicinandosi il tempo della raccolta, i coltivatori abbandonano le capanne e fanno dimora in mezzo ai loro seminati, per frastornar gli uccelli che non mangino il grano, e per guardarli dai ladri. Allora non riposano la notte che sopra grandi alberi per difendere così la loro proprietà senza il timore d'essere assaliti dagli animali feroci.
Il Scìluk è per natura infingardo, poltrone, come ordinariamente sono tutti i Negri. Bere la merìssah (specie di birra), fumar la pipa al suono del tamburo e della rabàba (strumento simile alla ghitarra) presso donne e fanciulle, che gesticolano, ballano, [87] e cantano a più non posso, è il più bel divertimento, l'unica sua ambizione.
In tempo di pace, la quale non si prolunga mai oltre il mese della luna nel quale s'è conchiusa, i Negri scìluk fanno el-sùk (il mercato) cogli Arabi Baggàra, cogli Abù-Ròf, coi Dénka. Nei loro mercati essi vendono ai Baggàra della riva sinistra del fiume ed agli Abù-Ròf della riva destra correggie d'ippopotamo e muschio di coccodrillo; e ai Dénka carne secca e tabacco, ricevendo in cambio grano di dùrah.
I Negri scìluk, come tutti i Negri ch'io ho conosciuto in sulle rive del fiume Bianco, hanno una maniera singolare onde preservarsi dal freddo della notte. All'avvicinarsi della sera essi accendono un gran fuoco, ne attivano la combustione, e allorquando le legna sono ridotte in cenere, vi s'avvolgono con tutto il corpo unto d'olio di ricino, formandosi così come una crosta di cenere che serve loro di vestimento, nel quale dormono saporitamente e assai meglio che tanti poveri sventurati qui da noi, i quali sui loro letti non hanno abbastanza da coprirsi nella stagione invernale. Appena che coll'alba sorge il mattino, si spogliano del loro inviluppo notturno, lavandosi con molta cura nelle acque del fiume, e ricomparendo poi nel vecchio loro costume, di cui la natura sola n' ha fatto le spese, e che essi non sarebbero disposti a mutare con nessun altro. La è questione d'abitudine; non vogliono [88] saperne di camicia e di calzoni; essi hanno dell'eleganza ben altra idea da quella che noi n'abbiamo; torturano gli orecchi, le labbra, il naso con grossi anelli di ferro e di rame; bizzarri abbigliamenti portano al collo, alle braccia, ai fianchi, ai piedi; si tingono il corpo di terra rossa; alcuni tengono irti i capelli; altri li voglion rasi e si coprono il capo con una pasta di cenere intrisa con olio, a cui danno diverse forme più o meno ridicole, ma tutte in modo da farli parer mostruosi. Ecco le loro galanterie; qui sta tutta la loro ambizione; così è — de gustibus non est disputandum — e tanto basti.
Un contrassegno, un'impronta particolare, fatta con un ferro rovente, il più delle volte sulle spalle, sulle guance, o sulla fronte serve a distinguere tribù da tribù, e talora villaggio da villaggio.
Le ragazze dei Scìluk sono piuttosto brutte; laide se le consideriamo dal lato materiale, e laidissime dal lato morale. Esse vanno affatto ignude fino al momento del loro matrimonio, il quale ha luogo, come presso tutte le tribù negre del fiume Bianco, intorno ai vent'anni. Allora si coprono con due pelli di capra o di montone, davanti e di dietro, le quali pelli s'uniscono solamente alla cintura, lasciando scoperta la parte esteriore delle coscie. Un numero maggiore o minore di bovi, secondo il potere dello sposo, è la dote della futura sua moglie. La dote vien consegnata ai genitori di lei, i quali [89] dovranno conservarla per farne la restituzione al marito, nel caso che la moglie, stanca di lui, volesse fare ritorno alla propria famiglia; e questo non è solo costume particolare dei Scìluk, ma di tutti i Negri lungo le rive del fiume.
I Scìluk sono cupidi di schiavi, ma specialmente gli abitanti del nord, i quali s'uniscono quasi sempre cogli arabi Baggàra nelle loro spedizioni per la tratta di altri Negri, dei quali fanno poi crudele mercato.
Il luogo, nel quale venivano raccolti i poveri schiavi, era Hèllat-Kàka, ove traevano mercanti di molti paesi per comperare... carne umana. Nel 1859, quand'io mi trovavo appunto sul luogo, mi fu detto che ve ne erano stati venduti presso a 500, quasi tutti dell'età di otto o dieci anni. Molti di quegli infelici muoiono in breve tempo, altri di stento ed altri di nostalgia. I loro padroni prima di esporli in vendita, gli ingrassano, come si fa de' polli d'India; cercano di guarirli dalla nostalgia colla musica, co' balli, col canto; ne evirano alquanti, e insegnano o fanno loro insegnare qualche parola araba; il che ne aumenta il prezzo, che è ordinariamente cento piastre egiziane (quasi venticinque lire italiane) per un ragazzo, duecento per una bimba, circa ottocento [90] per una giovane di diciassette o diciott'anni, bella, la quale sappia parlare un po' l'arabo e che non abbia ancora partorito; ed altrettante per un giovinetto evirato. Il Re dei Scìluk ha un tanto per cento sugli schiavi venduti da' suoi sudditi. Se muore uno schiavo, il suo corpo vien gittato nel deserto e fatto pascolo delle belve; se egli ammala, e la sua malattia è creduta contagiosa e difficile a guarire, lo si adagia alla meglio sopra il fusto di un albero nell'interno della foresta, ed accanto gli si pone un vaso d'acqua e qualche cosa da mangiare; e lo si lascia là ignudo giorno e notte, esposto all'aperto, qualunque sia la stagione. Avviene talvolta che l'acqua venga meno, che gli manchi il cibo, che il male aggravi; egli allora invoca aiuto, smania, si contorce... Gridi pur l'infelice quanto ha fiato, pianga, urli, si disperi, che nessuno avrà pietà di lui... Oh potesse almeno discendere da quella pianta malaugurata!... Non gli è possibile; v'è legato così, da non potersi per niun modo svincolare. — Tutto ciò mi parrebbe incredibile, s'io stesso non fossi stato testimonio d'un simile fatto.
Era la notte del quattro dicembre 1859, la terza volta che percorrevo il fiume Bianco fra Chartùm e Santa Croce; la mia barca era ferma presso Hèllat-Kàka; quella notte per me fu una delle più agitate del viaggio; non mi sentivo bene; non potevo prender sonno; avevo tante cose per la mente che m'inquietavano — il pensiero d'aver perduto così presto [91] la cara e dolce compagnia degli amati miei fratelli missionari, coi quali solevo dividere il tempo in utili e preziose conversazioni, Francesco Oliboni ch'era morto poco dopo il nostro arrivo nella missione di Santa Croce, Angelo Melotto ch'era morto poco dopo il nostro ritorno da Santa Croce a Chartùm, Isidoro Zili ch'era pur morto in Chartùm, Alessandro Dal Bosco che vi lasciai gravemente ammalato, Daniele Comboni che sofferente di febbri era tornato in Europa. E i missionari tedeschi?... quasi tutti erano morti. Ma ancora più m'inquietava il pensiero del richiamo, che per mezzo mio ordinava il Prov. Apostolico Matteo Kirchner, col beneplacito di Roma, de' pochi missionari superstiti dalle stazioni di Santa Croce e di Kondókoro sul fiume Bianco. Ecco, io sclamavo allora, troncato d'un sol colpo il filo delle mie speranze... dopo tante e tante fatiche sostenute, dopo il sacrificio di tante vite! oh quanta maledizione pesa su questo suolo africano! quanto incomprensibili sono i giudizi di Dio!... ma sia fatta la volontà sua. E voi, anime a me tanto care, che or vi beate lassù nel cielo della vista del Padre universale e onnipotente, il cui Figlio incarnato sparse per tutti il preziosissimo suo sangue, ah! pregate affinchè lo Spirito Santo che dall'uno e dall'altro procede infiammi col fuoco dell'amor suo i gelidi cuori di tanti poveri Negri, e illumini le oscure loro menti perchè sieno fatti degni di entrare in grembo alla vera Chiesa da Gesù [92] Cristo fondata... deh! pregate anche per me, che ignoro la sorte che m'attende, affinchè il Signore mi conceda, quando a lui piacerà, di rivedervi in cielo. — A un'ora dopo la mezza notte, appena addormentato mi svegliai; tutti i barcaiuoli e il mio servo dormivano profondamente; a me non riuscì più di chiuder occhio; udivo ad intervalli il latrato dei cani scìluk e il ruggito del leone; quindi in un momento di silenzio mi tuonò all'orecchio improvvisamente una voce squarciata e selvaggia, che non tacque più fin quasi all'alba; essa veniva dalla foresta, ed ora mi pareva d'averla vicina, ora la sentivo lontana, poi tornava a risonare più vicina, a seconda del vento che spirava, e sempre in tono di lamento, di disperazione; e prorompeva di tratto in tratto in grida acutissime, che mettevan freddo nelle vene. Io svegliai allora il servo e i barcaiuoli perchè essi pure ascoltassero quelle grida; e tutti eravam persuasi fossero le grida d'un infelice che domandasse soccorso. All'alba del giorno, io con tre barcaiuoli e il servo movemmo verso quella parte della foresta donde era venuta la voce, e dopo breve cammino scoprimmo il cadavere d'uno schiavo in mezzo a un lago di sangue, che alcuni cani, più fortunati di lui! leccavano. — Gittammo un grido di stupore. — Accanto al cadavere era una donna che accarezzava il suo volto sanguinoso, singhiozzando, ridendo convulsivamente, mormorando con voce infantile parole di disperazione e d'amore. Il cadavere, [93] caldo ancora, aveva sei ferite nel petto; aveva un occhio crepato, morsicate le braccia e le mani, e stava disteso in terra sotto l'albero, sopra il cui fusto era stato legato quand'era vivo, ed ora vedevasi ancora la fune e un piccolo vaso di terra senz'acqua. Chi fosse quella donna, pazza di dolore, non l'abbiam potuto sapere; nessuno capiva la lingua che parlava.... Ah! forse sarà la moglie, io dissi, di questo sventurato!... Ma e chi l'ha ucciso così crudelmente?... e perchè?... mistero!
Il 17 febbraio 1860, essendo io di ritorno da Kondókoro e da Santa Croce coi missionari tedeschi Francesco Morlang, Antonio Kaufman, Giuseppe Lanz, con due laici, membri pure della missione, e con quattro giovinetti Negri e sei giovinette, catecumeni, m'arrestai colla dahabìah davanti alla maggiore borgata di Hèllat-Kàka, distante dal fiume circa un quarto d'ora, per comperare delle uova, delle galline, de' fagiuoli e due o tre montoni da mangiare durante il resto del viaggio fino a Chartùm.
Nella mia assenza di circa due mesi, la popolazione araba di Hèllat-Kàka s'era aumentata di forse duecento abitanti provenienti dalle montagne di Tèghele, i quali, come gli altri Arabi che da parecchi anni erano qui stabiliti, non avendo che poco bestiame, scelsero a loro dimora questa posizione perchè assai opportuna per la tratta dei Negri. Gli schiavi venivano poi venduti o qui sul luogo, o sui mercati di Dàr-Fùr e di Kordofàn.
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Hèllat-Kàka, dal tempo che Seid Pascià vicerè dell'Egitto proibì la compera e vendita degli schiavi, n'era divenuta l'emporio, e gli Arabi crescevano ogni di più. Le loro capanne sono spartate da quelle dei Negri scìluk e compongono il gruppo principale di questa contrada. Due de' miei vecchi barcaiuoli, che da parecchi anni conoscevano questi Arabi, mi dicevano che non era che da poco tempo ch'essi avevano migliorata d'assai la loro condizione, da quando, cioè, cominciarono a tener commercio con alcuni mercanti d'avorio che percorrevano il fiume Bianco, dai quali compravano ogni anno buon numero di schiavi, qualche volta con piastre egiziane, ma il più delle volte con grossi denti di elefante, ch'essi ritraevano dagli Arabi dell'interno. Così è, alcuni mercanti di Chartùm, ch'io ho conosciuto, Turchi specialmente, i quali viaggiavano sul fiume Bianco coll'unico scopo di sordido guadagno, vedendo che la quantità dell'avorio diminuiva sempre più, che i concorrenti aumentavano e che crescevano le spese; nè avendo i mezzi da procacciarsi carabine di grosso calibro, e di assoldare uomini per dar la caccia agli elefanti, come facevano gli Europei, ricorsero ad uno spediente assai facile onde provvedere ai loro interessi, abusando ferocemente [95] della impunità dei loro atti ingiusti e crudeli. Questi mercanti non s'allontanano mai dal fiume, ed allorchè veggono in sulle rive donne e fanciulle venute per lavarsi e per riempiere d'acqua le loro bórme (vasi di terra), o giovinetti che guardano il bestiame, o qualche casotto di poveri pescatori, si fanno subito annunziare dai Negri loro turcimanni quali buoni amici, che vanno in cerca di denti di elefante per comperarli, e mostrano alcune perline di vetro delle più belle, e ne promettono in dono per adescare gl'innocenti; anzi dalla barca ne gettan loro alquante file. Le donne allora, e i giovinetti specialmente, provocati dai doni bugiardi dei traditori, si raccolgono in buon numero; approfittano quindi gl'inumani del timore, che ispira loro lo scarico dell'armi da fuoco; uccidono i più forti che potrebbero opporre una resistenza; altri feriscono; molti mettono in fuga, e s'impadroniscono così a sangue freddo delle donne e de' fanciulli. Gli sventurati vengono tosto condotti in Hèllat-Kàka, ove il padrone della barca lascia un suo rappresentante chiamato uakìl, perchè procuri di venderli al più presto; mentre egli ritorna in traccia di nuova preda. Qualche volta questi mercanti avevano l'abilità di provvedersi di grano di dùrah a buon mercato, con quattro o cinque sole fucilate, che spaventassero i Negri venditori, i quali per campare la vita lasciavano volentieri la loro merce. Non era più possibile di porre il piede sicuri sopra una riva, ov'erano state commesse [96] tali e tante crudeltà. I Negri non potevano più fidarsi, e con ragione, degli stranieri, e studiavano ogni modo per vendicarsi.
[97]
Una zerìbah di schiavi — L'asta, la vendita, la separazione — Le dieci schiave Abialàñġ rapite a tradimento — Il loro quartiere in Hèllat-Kàka — Scena commoventissima — Brutto rischio — Audaces fortuna juvat — Uno de' più bei giorni della mia vita — Diffidenza punita — Il tradimento.
Io ebbi occasione nel 1859 d'introdurmi fra le capanne degli Arabi in Hèllat-Kàka, e di vedere co' miei occhi l'inumano governo che si fa di membra e d'anime umane.
Ecco là una grande zerìbah (ricinto), la quale circonda otto o dieci capanne; la porta d'ingresso è chiusa e non viene aperta agli estranei se non sono compratori di schiavi. Io non era uno di questi, nè avrei avuto il denaro per esserlo; pure volevo entrare ed osservare quel luogo di miserie per poter poi descriverlo con chiarezza; e vi riuscii.
«La zerìbah, mi diceva il Ràies della mia barca, appartiene a un Gran-Capo mercante di schiavi, e contiene mercanzia umana; quel Capo vende bene [98] la sua merce, e quindi ha cura di nutrirla e d'alloggiarla meglio che può, onde presentarla alla vendita in buona condizione; nessuno vi troverai legato; sono schiavi fatti da qualche tempo e provenienti da tribù lontane; vedremo poi come sieno trattati gli schiavi fatti di fresco, o troppo vicini al loro paese.»
Due o tre fanciulli, una o due ragazze esposti fuori del ricinto sotto ad una tettoia, servono di mostra. Entriamo nella zerìbah senza paura, benchè un Arabo dall'occhio bieco c'inviti con poca cortesia a restar serviti. Io do un'occhiata intorno.... saranno state cinquanta persone; tutti Negri, mariti, mogli, fratelli, sorelle, padri, madri, fanciulli e bambini lattanti da vendersi separatamente o a partite, secondo il gusto di chi compra. E tante anime immortali, riscattate dal sangue e dalle angoscie d'un figlio di Dio, in quell'ora misteriosa in cui la terra tremò, ed in cui le rupi si squarciarono e i sepolcri si dischiusero.... tante anime saranno presto vendute, affittate, ipotecate o scambiate con droghe ed altri valori di simil genere, secondo la posizione commerciale o la fantasia del compratore! Quell'Arabo dall'occhio bieco, che ci fece restar serviti è il custode di tutta questa merce umana; e vuol vederli i suoi Negri sempre allegri, contenti, a mangiare, ballare, cantare e a ridere vivamente. Colui che rifiuta di essere di buon umore, o colui che non può sbandire dall'anima il pensiero [99] della moglie, dei figli, del domestico tetto, è notato come un soggetto pericoloso, e si trova esposto a tutte le durezze che un uomo crudo e senza altra legge che la volontà propria può fargli subire. La vivacità, il brio e l'allegrezza, massime in presenza dei visitatori, sono loro imposti costantemente, ed essi vi sono stimolati o dalla speranza di avere un buon padrone, o dal timore delle punizioni che riceveranno non essendo venduti. L'ora nella quale io visitai quegl'infelici era ora di riposo, e se ne stavano distesi per terra, o sopra stuoie, in varie attitudini, all'ombra che proiettavano le capanne e qualche albero nella zerìbah; parte di essi dormiva, e parte era desta e taciturna; io vidi però alcuni che piangevano, perchè designati dal Gran-Capo per essere venduti quel giorno stesso. Verso sera, cioè dopo due o tre ore, doveva incominciar l'asta; mercanti del Dàr-Fùr, del Kordofàn, di Chartùm, di Dòngola si trovavano già da alcuni giorni in Hèllat-Kàka per comperare schiavi e per rivenderli poi nei loro paesi. Tra coloro che piangevano mi cadde sott'occhio una donna che poteva avere trent'anni, e a fianco a lei era una bambina, a cui era stato dato il nome di Scibàka, che non ne aveva più che dieci, la quale si teneva stretta alla madre e la guardava attonita. Entrambe balbettavano un po' l'arabo ed erano belle assai; parlavano insieme sommessamente per non essere sentite; ed oh! figliuoletta mia, diceva la madre col cuore affranto [100] dallo scoraggiamento, questa è forse l'ultim'ora che passiamo insieme....
— No, mamma, non parlar così, noi saremo vendute ad uno stesso padrone, e tu sarai sempre mia e io sarò sempre tua.
— Se si trattasse di tutt'altra cosa, direi che tu la indovini, o figlia, ma io ho molta paura di perderti!
— Coraggio, mamma, non piangere; lo disse proprio il. Capo, che se saremo buone e ci daremo l'aria la più gaia, egli ci venderà ad uno stesso padrone.
La madre si asciugò colle mani gli occhi lagrimosi, e si sforzò di sorridere alla figlia e poi le disse: levati dal collo, o cara, le perline di vetro, che ti fan parere troppo bella, perchè temo altrimenti che il caro prezzo che tu costeresti impedirebbe forse d'essere comperate da uno stesso padrone.
— Or bene, madre, lo farò.
— Ascoltami ancora. Va da quel signore, che par che ci guardi commosso del nostro stato infelice, e pregalo.... ma pregalo assai a voler comperarci tutte e due.
La bambina colse il momento che non la vedesse il custode e corse da me, mi strinse una mano e disse: ah! signore, comprami tu insieme con mia madre, che è quella là che ci guarda; è buona, sai, e gaia come son io, e sapremo fare tutto quello [101] che tu vorrai. — Quanto avrei desiderato di aver denaro! le avrei comperate a qualunque prezzo; il mio cuore mi diceva che di quelle due anime si avrebbe potuto far qualche cosa per guadagnarle a Dio. Ma così.... io non risposi; la parola mi si strozzò in gola; rivolsi gli occhi al cielo e dissi con tutta l'anima: deh! Signore, abbi pietà almeno di queste due infelici! — La Negretta, che vide i miei occhi umidi di pianto, si tenne più che sicura ch'io le avrei comperate, e s'affrettò a confortare la madre. Ma ecco il custode che entra nella zerìbah affaccendato e di buon umore. Egli getta un rapido sguardo sopra gli schiavi, ed ingiunge loro di mostrarsi quanto più possono piacevoli e lieti; poscia li fa mettere a circolo, e li passa a rassegna per l'ultima volta prima di esporli al mercato; e ne fa una scrupolosa ispezione per dar l'ultima mano al loro esteriore.
— Che vuol dire? esclamò egli arrestandosi davanti a Scibàka; ove sono le perline di vetro, o fanciulla?
La fanciulla guardò timidamente sua madre, che colla sveltezza propria delle Negre rispose:
— Le ho detto io poco fa di levarsele, perchè mi pareva più convenevole....
— Che sciocchezza! disse il custode con accento perentorio. E volgendosi verso la giovinetta:
— Rimettile subito al collo, capisci? soggiunse egli facendo girare una sferza che teneva in mano, [102] e fa presto. E tu aiutala, diss'egli alla madre; le perline di vetro possono produrre una differenza di cento piastre egiziane nella vendita.
Fuori della zerìbah, in un vasto piazzale, erano raccolti i compratori che aspettavano il momento dell'asta. Ad un segnale che diede il Gran-Capo, l'Arabo dall'occhio bieco, il custode, condusse fuori gli schiavi da vendere, fra i quali Scibàka e sua madre che se la teneva per mano coll'aria abbattuta ed agitata aspettando il momento fatale.
Molti spettatori, disposti o no a comperare, secondo che darà l'occasione, si avvicinano agli schiavi; li palpano, li esaminano, e parlano dei pregi rispettivi di essi colla stessa noncuranza con cui un gruppo di stallieri discuterebbe intorno al merito di un cavallo.
La madre di Scibàka intanto guardava e riguardava con occhio inquieto la moltitudine delle fisonomie che si affollavano attorno a lei cercando se tra quelle ce ne fosse una cui essa e l'amata sua figlia si sentissero di poter chiamare padrone con minore ribrezzo.
Un momento prima che l'asta avesse luogo, un uomo, che non si sapeva di dove fosse venuto, ma che non era certo del Dàr-Fùr nè del Kordofàn [103] nè di Chartùm nè Dongolèse, un uomo di color bruno, lungo, magro e muscoloso, che aveva un camiciotto bleu, logoro e sudicio, si fece largo in mezzo alla folla come chi voglia incominciare attivamente un affare, e appressandosi al gruppo di schiavi, si pose ad esaminarli da uomo che se ne intende.
Subito che lo vide la madre di Scibàka provò istintivamente un orrore insuperabile, il quale si aumentava sempre più all'avvicinarsi di quell'individuo.
Or egli cominciò senza fare alcun complimento un esame minuzioso sopra quella partita di schiavi: prese la madre di Scibàka per la mascella e le aprì la bocca per osservarle i denti. La piccola Scibàka, ch'era vicina, per istinto, apriva anch'essa la sua bocca e faceva tutti que' movimenti che vedeva fare la madre. Quell'uomo poscia le fece tirar su la misera fàrda (veste), che la copriva per vederla tutta: la voltò e rivoltò in tutti i sensi, e la fece camminare e saltare per assicurarsi della sua agilità.
— Qual'è il tuo paese? le disse egli seccamente dopo di averla osservata da capo a fondo.
— Il paese dei Scìr[11], rispose ella guardando intorno come per cercare chi potesse liberarla.
[104]
— Potrebbe anch'esser vero, disse l'amatore, e distese la lunga e larga sua mano e tirò a sè la giovinetta; le toccò il collo e il busto; le tastò le braccia, esaminò i denti, e poscia la spinse verso la madre, la cui fisonomia esprimeva le crudeli angosce che le facevano provare i movimenti di quello stomachevole straniero.
La giovinetta atterrita si pose a piangere.
— Cessa adunque di miagolare, disse il venditore; non fare smorfie, poichè principierà subito la vendita.
E di fatto la vendita cominciò.
La madre fu messa all'asta prima della figlia, e seguita la vendita, essa volse indietro l'occhio inquieto; e sua figlia le stese le braccia; quindi la madre rivolgendo uno sguardo angoscioso al nuovo suo padrone ch'era d'età matura e di benevola fisonomia:
— Ah! padrone, vi prego, disse, per ciò che avete di più caro su questa terra, comprate pure mia figlia....
— Io lo vorrei, ma temo di non poterlo fare; non ho denaro che basti, rispose egli riguardando con affettuoso interesse la giovinetta, la quale lanciava intorno sguardi timidi e impauriti.
Il banditore vanta i pregi di lei, e parla a lungo per farla tenere in molta stima; le offerte si elevano con una rapidità progressiva, e sorpassano già la somma della quale può disporre il padrone della [105] madre.... Insomma la giovinetta toccò in anima e in corpo a quell'uomo sconosciuto, di color bruno, lungo, magro, muscoloso, logoro e sudicio, pel quale la madre provava un orrore insuperabile. Iddio la protegga! io sclamai nel momento stesso che quelle due infelici creature emisero un grido il più acuto e straziante, e corsi via mordendomi per dolore ambo le mani.
Lo stesso Ràies della mia barca, il 18 febbraio 1860, mi diceva: — Ora vieni meco, o signore, ch'io ti condurrò a vedere in una capanna dieci schiave, che furono rapite l'altr'ieri sulla riva destra del fiume dal mercante * * * che tu devi conoscere; e a quanto adesso mi fu raccontato quelle donne sono Dénka; ma non ho potuto sapere a quale tribù appartengano; vieni e vedrai tu stesso come sieno trattati gli schiavi appena strappati dalle loro famiglie, massime quando la tribù è vicina.
— No, io non vengo; non potrei assistere a tanto spettacolo senza sentirmi spezzare il cuore; farei di tutto per superarmi, se avessi denaro da comperarle per ridonarle poi ai loro cari, ma così io non posso venire; ritorniamo in barca.... Mi spiacerebbe assai che quelle donne fossero della tribù degli Abujò, o degli Aghèr, o degli Abialàñġ; [106] le quali tribù tu sai che furono da me visitate l'anno passato; ma che io voglio visitare pure quest'anno co' missionari tedeschi. Or dimmi un poco, o Ràies: — Quelle schiave, lo sai di sicuro che sono Dénka?
— Eh! senza alcun dubbio, me l'ha detto un Scìluk, che ne capisce la lingua; e mi disse ancora che son tutte, o quasi tutte maritate, e che tre o quattro hanno il latte; i poveri bambini saranno là che piangono le loro madri e che ne voglion le poppe!
— E che cosa farà il Turco di quelle donne?
— Le venderà in Chartùm per quel poco che valgono, perchè hanno partorito, e quindi il loro prezzo non è caro.
— Ma.... e non è ora proibita la vendita degli schiavi in Chartùm?
— Sì, è proibita pubblicamente, ma gli schiavi si vendono di nascosto; e il Divano lo sa, e tace.
— E i compratori di quelle donne come se ne serviranno?
— Trattandosi di donne che hanno partorito, i compratori se ne servono per lavorare la terra e inacquarla, per la seminatura e per i raccolti, o le affittano anche a coloro che ne hanno bisogno.
— Quanto tempo durano in vita queste povere donne?
— Veramente, non lo so; secondo la loro complessione. Quelle che sono vigorose e forti possono [107] durare anche otto o dieci anni; e le scarte finiscono in tre o quattro.
— E se ammalano?
— Anni sono, i compratori si davano molta pena per farle guarire; davan loro medicine e una coperta la notte perchè se ne munissero contro il freddo. Ma tutto ciò serviva a poco o nulla; si buttava via il denaro, ed eran sempre fastidi, come essi dicono. Ora le fanno andare sino a tanto che possono, malate o sane; e quando una Negra crepa ne comprano un'altra: è una cosa più comoda e più vantaggiosa per tutti i versi; così, ripeto, essi dicono; e come le schiave, vengono trattati anche gli schiavi.
— Infelici! io dissi fra me, almeno aveste un qualche conforto nei vostri patimenti, il conforto della religione che unica al mondo può sostenere l'uomo nei momenti più desolati! ma anche questo conforto vi manca! oh Dio! qual prova terribile deve essere per voi quella di vedervi abbandonati da tutti, e sotto il giogo mostruoso d'una violenza senza fine!...
Di buon mattino ordinai al Ràies di staccare la barca dalla riva e di scendere il fiume. Durante il cammino io m'era seduto presso il timone, ov'era il Ràies, uomo intelligente e maomettano per la vita.
— E dunque, egli mi disse, che ti pare di quel turco mercante.... rapire quelle povere donne.... e chi sa in qual modo....
[108]
— Puoi immaginartelo, io risposi, a tradimento, dopo d'averle adescate con perline di vetro. Egli è un uomo vile, dispregevole, brutale. Povere donne! chi sa come e dove andranno a finire!
— Speriamo, soggiunse il Ràies, ch'esse cadano in buone mani. Fra i compratori vi sono molti uomini generosi ed umani.
— Te lo concedo, io dissi, e tu ne saresti uno, che tratti bene, lo so, la tua schiava; ma secondo la mia opinione, voi, uomini umani e generosi, siete in qualche modo responsabili delle brutalità e degli oltraggi che subiscono questi poveri sfortunati. Anche i Turchi, posso dirtelo, trattan bene gli schiavi; ma se il Divano ritirasse la sua sanzione e la sua influenza, quanto non sarebbe diminuita la schiavitù nell'Africa! Seìd-Pascià, è vero, ha proibita la schiavitù, fin dal 1854, nei paesi a lui soggetti, e quindi la compera e la vendita degli schiavi; pure noi sappiamo che nel Sudàn grande ne è ancora il numero, e che si possono acquistare a tenuissimo prezzo, se non nei pubblici mercati, in tanti altri modi che vengono suggeriti, e tu lo sai, da quelle stesse autorità, che dovrebbero invigilare perchè la legge fosse osservata. Che importa che i Pascià, gli Ufficiali del Governo e pochi, pochissimi, nel Sudàn trattino bene i loro schiavi, se la maggior parte invece nessuna cura si prende della salute e della vita di quegli infelici, che ammalati abbandona, stroppiati uccide, morti trascina lungi dall'abitato [109] nel deserto perchè se li mangino le jene?... Insomma, lo ripeto, sono i vostri sentimenti generosi ed umani da voi millantati, che autorizzano tante brutalità.
— Sappi però, o signore, continuava il Ràies, che la schiavitù avrebbe luogo medesimamente nell'interno dell'Africa, ove dalle tribù stesse dei Negri viene praticata....
— Ma forse non con tanta barbarie; e, se mai, credi a me che i Governi civili d'Europa, qualora fossero assistiti dal vostro Governo, riuscirebbero se non a torla presto del tutto, a mitigarla d'assai.
La barca intanto progrediva il suo cammino, e giunse dopo circa tre ore alla riva destra dei Dénka-Abujò.
Era mia intenzione di visitare anche quest'anno (1860) il Gran-Capo di quella tribù, Akòl-Guorgièb[12].
Il vecchio mio turcimanno Cher-Allàh, il quale conosceva bene il sentiero che conduceva all'abitazione del Capo distante dalla riva del fiume quasi un'ora di cammino, andò solo senza alcuna scorta per annunziargli la nostra venuta. Ma il Gran-Capo era partito per Dim, villaggio nell'interno, e non sarebbe venuto che il giorno dopo. Cher-Allàh tornò alla barca verso le undici antimeridiane non più [110] solo, ma accompagnato da un servo del Gran-Capo di nome Ciòl, il quale parlava e intendeva bastantemente l'arabico idioma che aveva appreso dagli arabi Abù-Ròf, ed era il principale confidente di Akòl-Guorgièb. Io avevo conosciuto Ciòl già da un anno, e me n'ero servito vantaggiosamente nella esplorazione che feci allora nell'interno del paese. Or bene, fatti i complimenti d'uso, egli mi disse:
— Domani adunque tu verrai a visitare co' tuoi compagni il Gran-Capo degli Abujò, Akòl-Guorgièb, ed io ti sarò guida; e, come ho inteso dal tuo Turcimanno, tu vuoi poscia introdurti fra i Dénka Abialàñġ; ma io non ti consiglierei davvero a mettere in pericolo la tua vita....
— Come?... non ti capisco, io dissi, sappi che anche l'anno passato ne visitai la tribù presso le rive del canale Tarciàm, e vi fui ricevuto con molta cordialità dal loro capo Fadièt-Niàr-Buòn, a cui promisi anzi che mi sarei stabilito con alcuni miei compagni nella tribù stessa; ed egli se ne mostrò soddisfattissimo. Come dunque or tu mi dici, o Ciòl, che non mi consiglieresti d'introdurmi fra gli Abialàñġ perchè metterei in pericolo la mia vita?
— Ciòl allora mi raccontava che un mercante turco essendo passato di là colla sua barca, ed avendo veduto delle donne che attignevano acqua al fiume, le rapì a tradimento, ed uccise cinque persone. «Immaginati adunque, egli mi diceva, quanto gli Abialàñġ debbono essere irritati contro i Bianchi, [111] fra i quali essi non sanno ancora ben distinguere il Frangi dal Turco, come lo so io.»
— E quante erano, io domandai, quelle donne?
— Erano nove, tutte donne maritate, ed una fanciulla sugli otto o nove anni, che son dieci. Ora gli Abialàñġ sono nelle furie, e cercano ogni mezzo per riavere le loro donne, o per vendicarsi contro i Bianchi.
— Senza dubbio, soggiunse quindi il Ràies della mia barca, queste sono le dieci schiave, di cui mi parlò quel Negro scìluk, le quali, o signore, io volevo farti vedere in Hèllat-Kàka.
— Certamente!... io risposi; poi rimasi silenzioso per qualche minuto, colla testa appoggiata alle mani, pensando a quello che avrei dovuto fare. Mi scossi alla fine ed esclamai: Oh! s'io potessi francheggiar quelle donne e ridonarle alle proprie famiglie!... che opera santa!... qual trionfo per me ritornando con esse nella loro tribù!... con quanto giubilo vi sarei da tutti ricevuto!...
— Senti, amico, io dissi a Ciòl, tu devi pure sapere ove ora si trovano le dieci donne Abialàñġ....
— Lo so di certo che si trovano in Hèllat-Kàka. Io e alcuni Abialàñġ, poco tempo dopo che furono rapite, le vedemmo da questa riva passare in barca, e le seguimmo co' passi e coll'occhio fino al momento dello sbarco. Allora abbiam chiamato l'uomo bianco, che ci rispose per mezzo di un interprete, e ci domandò che cosa volevamo da lui. Noi chiedemmo [112] di comperare le schiave, ma non è stato possibile d'accordarci nella qualità del prezzo, poichè egli pretendeva piastre egiziane, e noi non potevamo dare che vacche.
— Ebbene; saresti tu disposto, o Ciòl, di venire con noi in Hèllat-Kàka?... Io sono risoluto di liberar quelle donne, e di liberarle senza piastre egiziane.
— E perchè no, rispose Ciòl un po' titubante; quando io sono con voi non ho di che temere. — Disse poi ad alcuni Negri di avvertire il Gran-Capo della sua partenza, e montò in barca.
I missionari tedeschi, ch'erano meco, approvavano la mia risoluzione; e ciò m'era di grande conforto. Il Ràies però mi diceva:
— Vedi bene, o signore, che ti metti in un bel cimento; spero tuttavia che tu n'esca al meglio, e conta pure sulla fedeltà mia e de' barcaiuoli.
— E più che in ogni altro, io soggiunsi, pongo la mia confidenza in Dio; Egli mi aiuterà, ne son certo. Volgi, o Ràies, la prora al sud, fa spiegare la vela, e ritorniamo ad Hèllat-Kàka.
Era il mezzodì del 19 febbraio quando partimmo, e alle tre ore circa pomeridiane fummo in Hèllat-Kàka. Appena arrivati, io e i tre missionari tedeschi [113] Francesco Morlang, Antonio Kaufman e Giuseppe Lanz, col turcimanno Cher-Allàh e col servo Ciòl, preceduti dal Ràies, movemmo difilati al luogo delle schiave Abialàñġ. Il Ràies già conosceva l'uakìl (il rappresentante), a cui erano state affidate; ed egli doveva presentarmi a lui in persona. Noi seguivamo taciturni il Ràies; ed eccoci finalmente al quartiere degli schiavi, uomini e donne, ch'era formato d'una specie di fila di capanne male allineate, le quali avevano qualche cosa di squallido e di desolante. — Mi sentii mancare il cuore quando le vidi. — Io volli osservare di dentro la prima, ch'era assolutamente vuota, con nessun altro mobile che un mucchio di paglia stomachevole pel sudiciume, gettata in un canto, sulla nuda terra, resa dura dai tanti piedi che l'avevano calpestata. Tutte le altre capanne erano abitate da schiavi, alcuni dei quali erano seduti fuori a prender aria perchè non ammalassero, legati come fossero cani rabbiosi. E sebbene non fossero là che da pochi giorni, io non vidi tra loro che uomini tristi, cupi, imbrutiti, e donne deboli e scoraggiate, donne che non erano più donne, ma che erano proprio a livello dei loro compagni.
— Quale è la capanna, io chiesi al Ràies, delle schiave Abialàñġ?
— Eccola qui, egli rispose.
La porta di quella capanna era aperta ed attraversata da un angarèb (letto arabo), sul quale stavasi [114] sdraiato un giovane dongolèse, che vedendoci a comparire si alzò presto in piedi, si ritirò in disparte e fu tanto sorpreso di questa nostra improvvisa venuta, che dimenticò di farci que' complimenti che sogliono sempre farsi da un mussulmano.
— Sono qui le schiave Abialàñġ? io gli domandai.
— Appunto, egli rispose, sono in questa capanna.
— E quante sono?
— Ora son nove; erano dieci, ma la decima, che è una giovinetta di otto o nove anni, se l'ha presa seco nella barca il suo padrone, il quale si recò pel paese dei Nuèr per comperare del grano.
— Tornerà egli presto?
— Fra pochi giorni; così egli promise.
— E queste schiave quando saranno poste in vendita?
— Appena il padrone sarà ritornato.
— Avrei desiderio io di comperarle; e tu, m'immagino, avrai facoltà di venderle, in mancanza del padrone.
— Veramente io non sono l'uakìl, rispose, ma vado a chiamartelo, e son qui subito.
— Aspetta.... intanto ci permetterai di dare un'occhiata alle schiave, n'è vero?
— Quando non volete altro, questo posso fare anch'io.
Egli tirò in disparte l'angarèb che, come dissi, [115] attraversava la porta della capanna, e poi se n'andò per l'uakìl, e noi entrammo.
No, non le descrivo.... non voglio descriverle.... non posso; mi sento l'anima troppo inclinata a maledire ed imprecare contro i trafficanti di schiavi! Sarei d'altronde ben crudele se volessi mettere alla tortura tanti spiriti gentili, cui toccasse di leggere questa pagina lacerante e sanguinosa. Faccio riflettere solamente che sono nove giovani madri ch'io dovrei descrivere appena strappate all'amore dei loro cari; sono madri per la perdita delle quali si disperano i mariti, e bambini lattanti le piangono e ne bramano il latte; sono madri strozzate fra i ceppi più duri; sono madri che avanti d'essere rapite non han potuto dare l'ultimo amplesso all'amata famiglia; or eccole lì accovacciate fra le loro immondezze, ignude, smunte, affamate, le quali, dopo d'avere indarno invocata la morte, aspettano coll'apatia dell'abbrutimento di mutar destino! Oh tremendi giudizi di Dio! io dicevo rivolgendomi convulsivamente ai compagni, e torcendo in cento guise le mani, senza sapere quello che mi facessi; non posso più reggere a questa vista! quanta espressione di dolore e di angoscia su que' volti e su quegli occhi, che più non piangono! ah! no, il [116] cuore non ha più lagrime da spandere; esso non ha altro che sangue, e manda sangue tacitamente! Ah! Cristo Gesù, io sclamai alzando gli occhi al cielo, Voi, che a così caro prezzo avete redenta l'umanità intiera dalla schiavitù di satana, deh! salvate tante creature infelici anche dalla schiavitù degli uomini!...
Ah! sì; tutti unanimi innalziamo ardenti voti a Dio, perchè l'Associazione Internazionale per l'esplorazione e l'incivilimento dell'Africa Centrale, fondata a Bruxelles il 12 settembre 1876, dietro l'iniziativa di S. M. il Re dei Belgi, consegua presto il nobile e santo suo scopo! e ci sia dato di sollevare un grido in nome di Dio stesso perchè questa orrenda macchia dell'onore umano sia levata per sempre dalla faccia del mondo! E voi madri, specialmente, voi che avete appreso accanto alla culla dei vostri figli ad amare l'umanità, a simpatizzare con tutti coloro che soffrono; in nome del sacro amore di madre, in nome delle vostre gioie materne, in nome della sollecitudine tenera e profonda colla quale dirigete le giovani vite, in nome delle vostre ansietà per l'avvenire dei vostri figli, ve ne scongiuro, abbiate pietà della madre che ha un cuore come il vostro, ed a cui non è conceduto di proteggere, di guidare e di educare il figlio delle sue viscere! Per l'ora dolorosa dell'agonia di vostro figlio, per la rimembranza del suo sguardo moribondo che non potrete obliare giammai, per [117] quegli ultimi gridi che hanno lacerato il vostro cuore quando non potevate nè salvarlo nè sollevarlo, per la desolazione di quella culla vuota e di quella camera silenziosa, io ve ne scongiuro, abbiate pietà di quelle madri, a cui il traffico degli schiavi strappa nei paesi dell'Africa Interna i loro figli, e pregate il Signore, come sapete voi pregarlo, perchè finisca una volta tanta sventura!!..
Mentre noi contemplavamo inorriditi quelle miserabili creature trattate colla più ributtante crudeltà, sopraggiunse l'uakìl, cui erano state affidate le schiave da vendere. Questi appena mi vide, mi salutò per nome, e disse d'avermi veduto più volte in Chartùm; e poi salutò il Ràies, e gli chiese:
— Che cosa desidera da me questo tuo signore, che mi mandò a chiamare?
— Egli desidera di comperare le schiave che si trovano in questa capanna.
— Così è, io soggiunsi, bisogna che le comperi per ricondurle nella loro tribù, ch'io debbo visitare per ordine superiore.
— E tu lo sai, o signor mio, a quale tribù esse appartengono?
— Lo so di fermo che son donne Abialàñġ, senza le quali non mi sarebbe possibile d'introdurmi nel [118] loro paese; e so tante altre cose, che è inutile ch'io ti ripeta, perchè tu pure le sai meglio di me.
A questo punto l'uakìl mi pregò di seguirlo, e mi condusse sotto un'acacia, ove eravam soli, e là s'impegnò un dialogo importante che durò più di mezz'ora; e finalmente io conchiusi, avvicinandomi alla capanna delle schiave:
— Senti; a me sembra che si potrebbe accomodare ogni cosa chiamandomi io debitore verso il tuo padrone del prezzo che sarà tra noi convenuto; prezzo che verrà da me consegnato a lui in Chartùm. E tu che ne dici?
— È impossibile; così non mi ci posso adattare assolutamente. Il mio padrone è troppo scaltro da non vedere che in Chartùm egli non potrà legalmente esigere da te il prezzo delle schiave, ancorchè tu te ne obblighi con uno scritto.
— E dunque?... cedimi, io dissi, medesimamente le schiave; e potrai rispondere al tuo padrone ch'io le ho volute ad ogni modo; che se egli avrà delle pretensioni su di esse, io saprò rispondergli davanti al Divano e al mio Consolato in Chartùm, dacchè io conosco benissimo la maniera colla quale le ha rapite, a tradimento, ferendo non so quante persone, ed uccidendone cinque, tre uomini e due donne; gli dirai che tu hai dovuto consegnarmele, poichè altrimenti, arrivato in Chartùm, io n'avrei mosso lamento contro di lui e contro di te presso le autorità competenti. [119] — L'uakìl; così meno ancora, disse, mi ci posso adattare.
— Ebbene, non c'è tempo da perdere; disciogli intanto dai legami le schiave; pel resto vedrai tu poi come meglio giustificare il tuo procedere davanti al padrone.
Il Ràies della mia barca e alcuni dongolèsi ch'erano presenti all'ultima parte del dialogo, cercavano di persuadere l'uakìl a condiscendere a' miei desideri. L'uakìl, perplesso da prima, messo un sospiro, alla fine s'indusse a fare sciogliere le schiave per consegnarmele. Un servo, dietro l'ordine avuto, cominciò a levare le pesanti catene che stringevano i piedi delle sventurate; un altro servo con un coltellaccio tagliava i grossi legami di pelle che tenevano raccomandata al collo di esse una stanga lunga e forcuta; le mani erano già sciolte, nè si legavano a tergo che durante la notte. Frattanto il Negro Ciòl e il mio turcimanno Cher-Allàh confortavano quelle povere donne, assicurandole che noi eravamo venuti per liberarle e per ricondurle alle loro case.
La cosa fin qui era andata a meraviglia; di meglio non s'avrebbe potuto sperare, ed io pregavo il Signore perchè avesse a terminare felicemente; non vedevo l'ora però di trovarmi al sicuro nella barca colle povere schiave, e di partir presto da Hèllat-Kàka. Un andirivieni ch'io osservavo da un quarto d'ora in poi di certuni, accigliati in viso, che mormoravano [120] non so che tra' denti... alcune espressioni che udivo da certi altri... ecco davvero un brutto affare per quello sfortunato mercante!... l'uakìl non avrebbe dovuto cedere alle pressioni di quel signore!... E vi fu chi disse: le schiave non sono ancora partite, e non se n'andranno!.. a momenti saranno qui gli Arabi muniti di lancia, e stiamo a vedere come se la caverà questo signore. Tutto ciò m'impensieriva assai, e mi faceva temere qualche brutto tiro da parte specialmente degli Arabi. Io raccomandai al Ràies e al mio Turcimanno di starsene bene all'erta e di avvisarmi appena s'accorgessero d'un allarme. — Le schiave erano pronte e noi eravamo lì lì per partire, quando tutt'a un tratto il Ràies mi si presenta con gli occhi spalancati, e mi dice: Signore t'arresta per carità!... entrino le schiave nella capanna... son qui gli Arabi armati contro di noi... ti raccomando prudenza se ti è cara la tua e la nostra vita. — Poco dopo eccoci circondati da uno stuolo di Arabi, il cui Capo:
— Che vuol dire tutto questo, gridò ad alta voce, rivolgendosi vivamente verso di me; sappi che noi rispondiamo d'una maniera sola a chiunque abbia delle pretensioni in questo nostro paese; e che il miglior partito che tu possa scegliere è di andartene via tosto co' tuoi compagni e di lasciare le schiave che costano denaro.
— Hàder, eccomi pronto a' tuoi cenni, io risposi [121] con un accento tanto sommesso quanto il suo era prepotente, e fatto cenno a' miei compagni di seguirmi, senza dir altro, presi il sentiero che conduceva alla barca.
Dopo alquanti passi mi accorsi d'avere a fianco l'uakìl; lo guardai fiso senza dir verbo; ed egli non trovava parole per assicurarmi che non era complice per nulla in ciò ch'era avvenuto, che non aveva neanche sospettato che un orecchio straniero avesse spiato il nostro colloquio e l'avesse poi riferito agli Arabi, ch'era spiacentissimo di questo incidente; e mi pregava, mi scongiurava a non giudicarlo severamente; e a prova di quanto asseriva, mi prometteva che avrebbe fatto di tutto per darmi in mano le schiave prima ancora che sorgesse il sole del giorno dopo.
— Staremo a vedere, gli dissi; io adunque non partirò che domani; e tu rifletti intanto che senza le schiave non potrò visitare la tribù degli Abialàñġ, e me n'andrò difilato a Chartùm, ove hai moglie e figliuoli, ed ove spero di rivederti. Vedi bene che allora non ti rincresca, ma troppo tardi, di non avermi consegnato quelle donne.... selàm aalèk (io ti saluto); e lo lascia così.
[122]
Come fummo tutti in barca, ordinai al Ràies di scostarla dalla riva e di gettar l'áncora per evitare ogni possibile assalto, durante la notte, da parte degli Arabi. Le armi da fuoco erano cariche; non era a temer nulla; potevamo riposarci tranquilli. Ma io non avrei potuto dormire, e non dormii; la mia anima era troppo agitata: pensavo alle schiave abialàñġ, al grave pericolo incorso in Hèllat-Kàka, alle ultime parole dell'uakìl, che avrebbe fatto di tutto... per darmi in mano le schiave... prima che sorgesse il sole di domani... e speravo che ciò sarebbe avvenuto, che Dio avrebbe esaudito i voti ardenti del mio cuore... e m'immaginavo di vederle in barca con noi riboccanti di gioia per la libertà ottenuta... Oh! il senso della libertà quanto è sublime!... Come sarà bello, come sarà dolce per queste povere madri di rivedere le proprie famiglie, e di contemplare il volto dei loro figliuoletti resi ancora più cari dalle rimembranze dei pericoli corsi e dei crudeli timori di non più rivederli! Oh! quanto ci saranno grati i mariti, ai quali avremo ridonate libere le mogli! E tutta la tribù quale opinione non concepirà di noi! Quanto bene fra loro ci sarà dato di fare, coll'aiuto di Dio!... È vero che la Missione cattolica è stata richiamata dal fiume Bianco a cagione del terribile clima che non permette ai Missionari di vivere, fatte poche eccezioni, più di due o tre anni; ma coi debiti riguardi e colla grazia del Signore, scegliendo [123] una stazione migliore di quella di Chartùm e di Santa Croce, qual sarebbe la stazione ch'io vorrei stabilire nella tribù degli Abialàñġ presso il canale Tarciàm, perchè non potremo noi vivere?... Sono vissuto anch'io... Ah! sì, io farò tutto il possibile affinchè Roma conceda, almeno a noi missionari italiani, di ritornare fra questa tribù.
Con tali pensieri passai tutta la notte; e già cominciava a sorgere il mattino, e dalla parte di Hèllat-Kàka, ove tenevo fissi gli sguardi, non vedevo a comparire nessuno. Presto sorgerà il sole, dicevo, e l'uakìl non si farà vedere nè solo nè colle schiave; ormai ho perduta ogni speranza! Povere schiave! quanto io vi compiango! qual piena di angoscie e di patimenti vi aspetta! poteste almeno confortarvi in Dio e in una futura giustizia, chè allora meno tremenda vi si presenterebbe la vita; ma languire nella degradazione, subire il giogo di una barbara servitù, perdere gradualmente la facoltà di sentire, senza una speranza di felicità più o meno vicina... questa deve essere la prova più crudele, io penso, che l'uomo possa sostenere quaggiù.
— Ecco che il sole si alza, mi diceva il Ràies, e l'uakìl non s'è ancora veduto; veramente... mi pare che due uomini s'avanzino; eccoli là, o signore; e vengono dal quartiere degli schiavi.
— Oh! fosse l'uakìl, io sclamai, che mi desse qualche buona notizia!... ma io ne temo assai.
— Sì, è proprio lui in persona... è lui in compagnia [124] di un faqìh (sacerdote) dongolèse ch'io pure conosco; e vengono, senza alcun dubbio, per concertare qualche cosa di buono intorno alle schiave; altrimenti non si sarebbero lasciati vedere.
Di fatto, l'uakìl, giunto col faqìh a trenta o quaranta passi dalla riva del fiume, mi chiamò per nome, dicendo che gli premeva di parlare con me solo. — Io feci avvicinare la barca alla riva, smontai, ed eccomi a lui, ansioso d'ascoltarlo.
— Sappi, o signore, egli disse allora, che ier sera ci unimmo a consiglio in cinque persone, e dopo lunga e matura deliberazione fu deciso che conveniva rilasciarti le schiave, a condizione però che tu stesso te le venga a prendere dalla capanna, ove si troveranno slegate, senza che nessuno di noi le custodisca. Ma vieni solo, o accompagnato da due o tre uomini al più, per non dar troppo nell'occhio.
— In una parola, io soggiunsi, voi volete fare di me un ladro; tuttavia accetto volentieri la vostra proposta; ma dimmi... non è pericoloso l'esporsi così di giorno... se ci colgono gli Arabi ci fanno in brani: tu sai il brutto tiro di ieri, ch'io non mi sarei mai aspettato.
— Sta sicuro, o signore; fidati di me; oggi non ti può capitar nulla di sinistro; il Capo arabo, che ti si presentò ieri co' suoi bravi è partito stanotte per la tratta dei Negri; del resto fu una smargiassata la sua, perchè ti sapeva Frangi incapace di vendicarti; non avrebbe fatto così con un Turco.
[125]
— E quando debbo venire?
— Mezz'ora dopo che noi saremo partiti, rispose; ma prima permetti che ti dica, in un orecchio, che sarà bene che tu faccia un regalo, e un bel regalo a questo faqìh, poichè se la cosa andò a terminare così, a lui principalmente ne dobbiam dare il merito.
— Che cosa dovrò dargli, che non ho denaro?
— Un sacchetto di perline di vetro, che so che ne possiedi di bellissime.
— Ehi! Cher-Allàh! portami qui due sacchetti di perline di vetro, delle più belle che abbiamo; e ne consegnai uno all'uakìl e un altro al faqìh, i quali partirono contentissimi.
Passata mezz'ora, me n'andai io pure al quartiere degli schiavi col missionario Antonio Kaufman, col turcimanno Cher-Allàh e col Negro Ciòl. — Fuori delle capanne non vedemmo anima viva; tutte erano chiuse, ad eccezione della capanna delle schiave abialàñġ, che se ne stavano dentro ritte in piedi, bell'e slegate, guardandosi l'una l'altra senza capirne nulla. — Appena però videro il negro Ciòl e il turcimanno Cher-Allàh mandarono un grido di gioia, che mi fece piangere di tenerezza; ma io tosto imposi loro silenzio con un movimento della mano; e Ciòl e il Turcimanno fissarono gli occhi sopra gli occhi loro in modo così grave ch'esse dovettero subito immaginarsi che avvenisse qualche cosa di straordinario. — Zitto, o sorelle, disse Ciòl,... [126] parlate piano,... potrebbero sentirci gli Arabi,... e allora voi siete perdute;... noi siamo ladri... ladri buoni venuti per furarvi di soppiatto, e per liberarvi dalle mani dei ladri cattivi;... vi raccomando il maggiore silenzio. — E tutti uscimmo con precauzione dalla capanna, senza che ci vedesse, o che ci volesse vedere, nessuno. — Quel faqìh, che Iddio lo benedica! non poteva aver meglio disposto le cose. — La via che dal quartiere degli schiavi metteva alla barca era calcolata un quarto d'ora di cammino; ma noi l'avremo fatta... in cinque minuti.
Or eccoci in barca, al sicuro. — Sii lodato, o mio Dio, io dissi fra me, che traesti queste creature infelici dalla casa della servitù! Ah! perchè esse non sanno lodarti e ringraziarti con me! In mezzo a tanta gioia, il mio cuore ribocca di compassione per loro che non t'intendono e non ti sentono; ma verrà tempo.... sì verrà.... e venga presto, in cui possano intenderti e sentirti.... e allora piovan pure sopra di loro le sventure come un diluvio da tutte parti, ch'esse troveranno rifugio nel tuo seno, o Dio di libertà!...
— Ah! Ah! presto, io dissi poi loro che mi guardavano aprendo i grandi occhi attonitamente, [127] voi vedrete e abbraccerete i vostri mariti e i vostri figliuoli.... siete voi contente così?...
— Presto! ripeterono in coro, quasi non comprendessero il significato di quelle parole. Io dico ch'esse credevano di sognare. — Nella loro testa tutto era tenebre e confusione. A primo tratto quelle povere vittime, consunte ed imbrutite dalle privazioni e dagli acerbi maltrattamenti, stentavano a comprendermi; tutto il loro sangue a quelle mie parole — presto voi vedrete e abbraccerete i vostri mariti e i vostri figliuoli, — era rifluito verso il cuore; cangiossi il colore delle loro labbra, e le vidi quasi venir meno. Una specie di languore, un inesprimibile bisogno di riposo invadeva le loro membra; ed i nervi che si trovavano in una violenta tensione dall'istante del loro rapimento, cedevano ora sotto l'influenza d'un profondo sentimento di sicurezza.
— Lasciamole riposare qualche ora, io dissi, e tu, cuciniere, prepara intanto da mangiare anche per queste povere donne, che debbono sentirsi sfinite.
Dormirono quasi tre ore continue; dormirono un sonno tranquillo, come non l'avevano ancora fatto dopo quel momento terribile, in cui erano state rapite. Svegliatesi bevettero del brodo e mangiarono qualche cosa con gusto; quindi parvero rinvenute da morte a vita. — Mi fissavano gli occhi addosso, e si sforzavano d'esprimermi in cento modi i loro [128] ringraziamenti, la loro gratitudine, perchè le avevo liberate dalle mani dei Bianchi cattivi, come dicevano, cominciando così a distinguere anch'esse Bianchi da Bianchi.
— No, non ringraziate noi, io diceva loro, ringraziate Iddio, e a Lui siate grate perchè è Lui, che vi ha liberate; è Lui che per mezzo della nostra coscienza ci ha obbligati a fare verso di voi quello che abbiam fatto, e che ci obbliga a fare sempre così in simili circostanze. — Parlai loro della grandezza di Dio, d'un Redentore pieno di compassione, e di una celeste patria — Donai quindi a ciascuna un piccolo Crocifisso dicendo: ecco qui il Redentore di tutti, il figliuolo di Dio che, fattosi uomo, nella natura umana volle morire sulla Croce per salvare tutti noi dalla schiavitù di satana. Io volendo essergli seguace giurai d'imitarlo additando agli uomini le vie del bene, e procurando di emancipare, se mi fosse possibile, tutti gli schiavi, anche a costo di espormi ai più gravi pericoli, acciocchè nessuno sia costretto a vivere separatamente dalla sua famiglia, da' suoi parenti ed amici, e a morire in terra lontana. Così ho fatto con voi, sorelle mie, perchè questo Crocifisso mi ha insegnato a fare così. Sicchè voi, tutte le volte che vi rallegrerete della vostra libertà la quale avete ricuperata, ricordatevi che la dovete a Lui, a questo Crocifisso, e a Lui mostrate la vostra riconoscenza amandolo sempre. E ogni volta che vedrete questo Crocifisso, pensate [129] alla vostra emancipazione; pensate a ciò che Egli ci ha insegnato cioè, l'amore a Dio soprattutto e l'amore al prossimo nostro per l'amore che dobbiamo a Lui.
Tutto ciò dissi loro per mezzo del mio buon turcimanno Cher-Allàh, il quale piangeva ripetendo queste dottrine, che per lui non erano nuove, ma le udiva ogni giorno da me, che lo apparecchiavo a farsi cristiano; e le riceveva con quella fiducia e con quella docile fede che l'Evangelo richiede; e siccome le sentiva profondamente, così sapeva esporle con tanto affetto e con tale efficacia da far vibrare nei cuori di quelle povere Negre alcune corde rimaste sino allora silenziose.
Io non potrò dimenticare mai il giorno 20 febbraio 1860, che fu per me uno dei più bei giorni della mia vita!
Giorno stupendo sotto tutti gli aspetti! Le acque biancastre del fiume si agitavano un poco per il vento leggiero, che, contro il solito, spirava dal sud favorevole al nostro cammino, e scintillavano ai raggi del sole. Ad un'ora pomeridiana partimmo da Hèllat-Kàka a vele spiegate e a seconda della corrente.
In meno di due ore, gridò il Ràies, noi saremo sulle rive dei Dénka Abujò; e il Negro Ciòl lo ripeteva alle donne abialàñġ.
Quante inesprimibili sensazioni non doveano essere racchiuse nei cuori di quelle Negre all'avvicinarsi [130] della barca alla loro tribù! Chi avrebbe potuto indovinare tutto ciò che agitavasi nel loro seno! Avrei scommesso ch'esse non osavano credere a quella gioia incomparabile che le attendeva, e tremavano internamente che uomo gliela potesse rapire.
Giunti alle sospirate sponde degli Abujò, molti Negri eran là che ci aspettavano ansiosi di sapere s'io fossi riuscito a liberare le schiave. Ciòl fu il primo a smontar sulla riva. Tutti i Negri gli corsero intorno per sentire dalla sua bocca... cose nuove, cose grandi, inaudite, mentre vedevano che le schiave abialàñġ erano ritornate libere. Ciòl raccontò loro qualche cosa in fretta perchè gli premeva sbrigarsi e far atto di presenza di sè al Gran-Capo Akòl-Guorgièb, il quale, come gli fu detto, era nelle furie perchè egli aveva pernottato fuori della zerìbah senza il suo permesso.
Io smontai pur sulla riva col mio Turcimanno, e dissi a Ciòl: noi ti seguiremo; ho vivo desiderio di vedere il tuo Signore, di dargli un affettuoso saluto, e di offerirgli il regalo, che fin dall'anno passato gli avevo promesso. Ma ancora stasera voglio ritrovarmi in barca, poichè penso di viaggiare tutta la notte, ed essere domani mattina per tempissimo [131] fra gli Abialàñġ per consegnare le donne ai loro mariti.
— Sarà difficile però, rispose Ciòl, che tu possa, o signore, persuaderle a rimanersene in barca. Nella notte fa troppo freddo in questa stagione, e perciò esse non potrebbero dormire. Sono stanche, poverette! ed hanno bisogno di riposo. Per altro.... interrogale, e vedi che cosa ti risponderanno.
Il mio Turcimanno, prima ancora d'interrogarle, m'avvertiva in un orecchio che con grande suo dispiacere aveva sentito Ciòl a far loro certi discorsi.... da metterle quasi in dubbio sulla nostra buona fede....
— Basta, basta; ho capito tutto.... Non c'è tempo da perdere; tu, o mio Cher-Allàh, colla tua solita prudenza fa di consigliarle a restare in barca, assicurandole che noi non saremmo capaci di trarle in inganno. Qualora però esse non vogliano accettare il tuo consiglio, non insistere, perchè faresti peggio. Va adunque, e sappimi dire.
Cher-Allàh ritornò tosto cogli occhi spalancati per lo stupore e disse:
— Signore, signore, le donne abialàñġ si rifiutano assolutamente di passare la notte in barca con noi; esse vogliono andare presso il Capo Akòl-Guorgièb per riposarsi nelle capanne, ove, dicono, possono meglio che nella barca ripararsi dal freddo; ma promettono che domani ritorneranno da noi perchè le conduciamo nel loro paese.
[132]
— Non lo credere, Cher-Allàh; esse non torneranno più. Ciòl si metterà d'accordo col Gran-Capo, e da questa bella occasione vorranno tutti e due trar partito per aumentare il loro bestiame; vedrai che la cosa andrà a finire così senza dubbio, io dissi a lui sotto voce.
— Dopo averle colmate di tanti benefizi, esse, ingrate! ti contraccambiano in questo modo....
— No, mio caro Cher-Allàh, non parlare così; queste povere donne non ne hanno la menoma colpa. Abituate a sentirsi raccontare ed a vedere dalla loro infanzia tanti pessimi esempi dei Turchi, che sono bianchi, come possono fidarsi così presto della buona fede de' Missionari, specialmente se qualcheduno ne insinui il dubbio nei loro cuori? Tutta la colpa sarà di Ciòl e del Gran-Capo Akòl-Guorgièb, dato il caso che mettan su gli Abialàñġ contro di noi, arrogandosi il merito della liberazione delle schiave per cupidigia di guadagno, mentre essi ci conoscono perfettamente.
— Che cosa risposero adunque le schiave? domandò Ciòl al mio Turcimanno.
— Risposero che vogliono venire presso il Gran-Capo, e che domani mattina torneranno con noi alla barca.
— Se potranno, io soggiunsi fra me, o se, potendo, vorranno.
I due missionari Antonio Kaufman e Francesco Morlang desideravano conoscere di persona il Gran-Capo [133] degli Abujò, Akòl'Guorgièb, e chiesero a Ciòl, se egli credeva opportuno che venissero essi pure con noi. Ciòl rispose che il suo Signore gli avrebbe veduti volentieri; e partimmo tutti insieme colle donne abialàñġ.
Trovammo il Gran-Capo accovacciolato davanti alla sua capanna. Appena lo vidi io corsi a lui per dargli e per ricevere il saluto che è in uso fra i Dénka; ma non così i due compagni missionari, ai quali Ciòl fè cenno, quando furono a una certa distanza, d'aspettare, ed egli, deposta la lancia e la clava, si presentò al Gran-Capo, a cui disse ch'erano miei amici frangi e non turchi; ed io abbassai la testa in segno di approvazione. Quindi il Gran-Capo (Bègñ-did) così mi parlò: «sono lieto di conoscere i tuoi amici e di stringere io pure amicizia con loro; spero che anch'essi serberanno cara memoria di questo mio paese quando saranno lontani; se buone sono le loro intenzioni verso di me, come sono le mie verso di loro, la nostra amicizia potrà essere vantaggiosa ad ambe le parti. Sono quasi le precise parole che egli pronunciò nell'occasione ch'io lo visitai la prima volta colla buon'anima del mio compagno Angelo Melotto[13]; e come allora, le pronunciò pure adesso lentamente, a pause, come se le avesse studiate prima, e facesse di tratto in tratto [134] uno sforzo per rammentarsele. Finalmente essi furono ammessi al suo cospetto, e gli s'inchinarono più volte, mentre egli stette fermo al suo posto, immobile, guardandoli fissamente senza dir nulla.
Poco dopo il Gran-Capo ordinò a un suo servo, che gli stava vicino osservandolo attentamente e in atteggiamento di umile venerazione, che stendesse due pelli sul terreno per sederci, e ci fece portare del latte.
Io gli presentai il regalo che fin dall'anno passato gli avevo promesso, e che consisteva in un paio di babbuccie rosse, in una fàrda (veste che si cinge alle reni), e in una scure; cose ch'egli aveva molto desiderato, e per le quali mi si mostrò obbligatissimo. Dopo di che ci diede licenza di ritirarci in una grande capanna che era stata apparecchiata per noi; ed egli ordinò a Ciòl di condurgli davanti le schiave abialàñġ, colle quali parlò a lungo fino a notte, ma non ho potuto sapere di che cosa. Poco dopo ci venne apprestata la cena, cioè pasta di duràh cotta nel latte. Durante la cena io sentii Akòl-Guorgièb a disputare e a discutere calorosamente con alcuni.
Erano le nove pomeridiane quando comparve sull'uscio della nostra capanna il Turcimanno con due Negri.
— Vi presento, o signori, ei diceva, due Negri abialàñġ; questi è il marito di una di quelle donne, che voi avete riscattate; e quest'altro è il fratello [135] della giovinetta che non si trovava nella capanna delle schiave in Hàllat-Kàka, perchè il Turco se l'aveva condotta via in barca.
I due Abialàñġ, deposte le lance, ci baciarono la mano e ci fecero mille ringraziamenti; ma il fratello della giovinetta.... oh! quanto era contristato! Io lo confortai come ho potuto, e dissi all'altro:
— E tu, domani di buon'ora, potrai andartene con tua moglie per terra fra gli Abialàñġ; o se la via è troppo lunga, vieni con noi in barca, è ce ne andremo tutti insieme, e più presto, se il vento non ce lo impedisce.
— Magari potesse farlo! sclamò il Turcimanno, volgendosi indietro per paura che qualchedun'altro l'avesse sentito; ma egli nol può. Akòl-Guorgièb non gliel permette; egli pretende dagli Abialàñġ il prezzo di due vacche per ogni donna.
— Come s'intende! che cosa ha da fare egli colle donne? Le donne sono state liberate da noi, e a noi sta di consegnarle ai loro mariti.
— Pur troppo è così; ma la cosa andò a finire nè più nè meno di quello che tu, o mio signore, hai preveduto. Ecco il motivo della calorosa discussione di poco fa tra questo povero Negro e il Gran-Capo.
Il Turcimanno non aveva ben terminate quest'ultime parole che Ciòl venne a chiamar lui e i due Negri Abialàñġ, dicendo che il suo Signore voleva parlare con loro.
[136]
Cher-Allàh tornò da me dopo mezz'ora tutto tremante....
— Che c'è di nuovo? io gli chiesi.
— Ah! signore, Akòl-Guorgièb e Ciòl non son più quelli di prima, essi non fanno che un gran parlare a quattr'occhi.... ci deve esser per aria qualche cosa.... Io non vedo Torà che sorga l'alba per potermene andare.... Fui a un pelo di prendermi delle sferzate....
— E perchè?
— Perchè ho condotto qui da voi i due Negri abialàñġ senza il suo permesso; e mi disse che guai a me, se parlerò più con loro, e se mi muoverò più da questa capanna.
Durante la notte nessun di noi potè chiuder occhio. Per due o tre fessure e per una finestrella della nostra capanna, noi potevamo osservare un andar continuo e un venire di gente, un correre, un gridare, uno strepitar di lance; e le donne a gruppi sulle porte dei loro abituri presso accesi fuochi che guardavano con tanto d'occhi, parlavano, gesticolavano e a momenti mandavano acutissimi strilli; e noi chiusi là dentro, in mezzo a tanto tafferuglio, senza capirne nulla.
— E che vuol dire tutto questo? io chiesi al Turcimanno.
— Dal senso di qualche discorso che ho potuto intendere, mi pare, o signore, che sieno venuti degli Abialàñġ; certo sono i mariti delle donne da noi liberate [137] i quali pretenderanno le loro mogli; e il Gran-Capo non vorrà cederle, in qualunque modo, senza il prezzo, come t'ho detto ancora, di due vacche per ognuna.
— E chi sa quello che Ciòl e Akòl-Guorgièb daranno ad intendere sul conto mio agli Abialàñġ?
— Io indovino; essi daranno loro ad intendere che tu le hai liberate, quelle donne, per riguardi dovuti al Gran-Capo, per l'amicizia che tu professi per lui, e che altrimenti non te ne saresti dato alcun pensiero. Questo discorso, fra gli altri, fece Ciòl alle donne, fin da quando eravamo in barca; che ingrato!
— Mi dispiacerebbe assai se ciò fosse, perchè così non solo noi non ne avremmo alcun merito presso gli Abialàñġ, ma, volendoli visitare, essi non ci riceverebbero con quelle dimostrazioni di gioia, colle quali fummo accolti l'anno passato. Non credere però, o Cher-Allàh, ch'io me ne dolga per me, ma, se mai, per la nostra missione. Eh! caro Cher-Allàh, noi, in quanto a noi, ci conviene fare il bene per il bene; non dobbiamo contar mai sulla lode o sulla gratitudine che ne possono derivare, chè quasi sempre ne andremmo ingannati; le nostre azioni mirino a Dio solo, che ne è giusto rimuneratore.
Cher-Allàh gettò sopra di me uno sguardo attonito, come se il suo spirito fosse stato percosso da una nuova idea, e poscia:
— Ah! signor mio, sclamò egli, tu dici il vero.
[138]
La mattina il Gran-Capo, Akòl-Guorgièb, si presentò a noi, e senza cerimonie e riguardi disse: «ritornate pure alla vostra barca; quanto alle donne Abialàñġ, penserò io ad inviarle per terra al loro paese, poichè esse non vogliono venire con voi.»
Ritornati in barca continuammo il cammino lentamente, atteso il vento contrario, e con molta cautela, avendo inteso che altri schiavi erano stati fatti sulle rive dei Dénka; e anche questa volta fra gli Abialàñġ da un mercante turco. — A certe svolte del fiume non era possibile di procedere avanti se non rimorchiati, e bisognava attenersi alla riva sinistra, mentre la riva destra era così ingombra di spessi cespugli e d'alberi spinosi da non permettere a' barcaiuoli di poter tirare la barca.
Eccoci finalmente tra i due canali Tarciàm e Ñġàen, luogo degli uccisi e delle donne rapite. Qui il Turcimanno Cher-Allàh, messo piè sulla riva, ode da alcuni Negri che i due Abialàñġ, da noi veduti presso il Gran-Capo Akòl-Guorgièb, erano già ritornati a prendere diciotto vacche, che il Gran-Capo degli Abujò esigeva quale riscatto delle nove donne; ode ancora che un altro Turco, oltre a quello che fece schiave le donne da noi liberate, era passato di là subito dopo con due barche, e ch'era riuscito [139] ad uccidere a tradimento due uomini e una donna, e a fare schiavi due donne e un uomo. Il Ràies della nostra barca asseriva d'averlo veduto in Hèllat-Kàkapoco prima della nostra partenza, e ch'era un inviato del Divano.
Verso le quattro pomeridiane dello stesso dì, mentre io e i miei compagni missionari eravamo occupati a scrivere nella camera della dahabìah la quale era ferma e un po' scostata dalla sponda, quattro Negri Abialàñġ chiamavano il Turcimanno, dicendo che avrebbero voluto parlargli. Il Turcimanno, senza che nessuno di noi se n'accorgesse, si fece condurre alla riva da uno dei nostri giovani catecumeni, di nome Fathàllah, sopra una piccola e leggiera piroga ch'era legata a poppa della dahabìah.
I Negri lo persuasero facilmente a ritirarsi con loro in una bassura distante dal fiume circa due tiri di fucile, ripetendo che avevano interessanti discorsi da fare con lui. Cher-Allàh, il quale quanto era buono altrettanto era semplice ed incapace di sospettar male di nessuno, vi andò, e lo seguì pure Fathàllah, curioso naturalmente di udire i loro discorsi. Ma essi, fatte poche parole sulle schiave da noi liberate, dissero al Turcimanno:
— Or tu devi condurci alla barca perchè desideriamo di vedere e di parlare coi Bianchi che vi si trovano.
— Volentieri, rispose, e vedrete quale accoglienza sincera e cordiale vi faranno i miei Signori, che son [140] tanto buoni, sapete; e come tali li conoscerete sempre più quando verranno ad abitare fra voi; pregate intanto la Gran-Pioggia (Dèn-did, Dio) perchè ciò avvenga presto.
Non appena il Turcimanno e il giovine Fathàllah presero il sentiero per accompagnarli alla barca, si sentono colpiti da una lancia vibrata loro alle spalle, e mandano un fortissimo ed acutissimo lamento. I barcaiuoli diriggono a quella parte gli sguardi; veggono i Negri fuggenti e il giovine solo, che con una corsa da disperato veniva verso il fiume. Essi gridano allora ad una voce: il Turcimanno, il Turcimanno, presto si accorra ad assistere il Turcimanno! A questo grido noi balziamo spaventati fuori della camera, mentre il giovine catecumeno, scendendo dalla riva cade colla faccia per terra, nè più si muove. Io montai tosto sulle spalle di un barcaiuolo e mi feci portare presso lui, nella fiducia di battezzarlo.... gli versai l'acqua sul capo dicendo con voce tremante e convulsa: se sei vivo, io ti battezzo nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo.... lo chiamai tre volte.... poveretto!... non rispose.... era morto. — La cruda lancia l'aveva trafitto; e nessun di noi sapeva comprendere com'egli avesse potuto reggere ad una corsa così violenta, dopo tanta ferita!...
Il Turcimanno, che trovammo disteso per terra, fu colpito presso la scapula diritta; ma fortunatamente la lancia non s'internò molto da produrre, [141] a mio avviso, una ferita mortale. Da due barcaiuoli venne trasportato nella camera della dahabìah, adagiato in un letto, e subito medicato con arnica.
Il cadavere del giovine Fathàllah fu deposto in quella piroga ch'egli poco prima aveva guidata e rimorchiato all'altra riva del fiume fra i pianti dirotti delle giovinette della missione e dei tre superstiti suoi compagni.
Davanti ad una scena sì dolorosa, crudele ed orribile, lascio pensare ad ognuno come il cuore di noi missionari dovesse sanguinare internamente.
Io, per me, non misi alcun grido: il colpo era stato troppo profondo, perchè il mio dolore potesse manifestarsi con lagrime e gemiti. — Ero seduto solo presso la piroga, e l'occhio avevo fisso al cielo.
Intanto era giunta la notte, calma, immobile e splendida. Le innumerevoli stelle nell'azzurro del firmamento mi parevano tanti sguardi scintillanti, aperti, d'un altro mondo sopra la terra intenebrata: e da quel cielo lontano sentivo come una voce che mi parlava al cuore parole di conforto e di rassegnazione. Passai tutta quella notte recitando alcune preci all'anima del trapassato, ed assistendo il povero ferito, il quale diceva di sentirsi piuttosto male, e si godeva ch'io continuassi a parlargli del divin Redentore e de' suoi patimenti, nei quali egli trovava un dolce conforto; ed io gli dicevo:
— Povero il mio Cher-Allàh! ti senti male n'è vero...? ed io soffro a vederti così; ma tu non [142] perderai la pazienza nelle tue sofferenze... e quando ti parrà di non poter resistere al dolore.... mira Gesù Cristo in croce, che patì tanto per noi...!
— Sì, farò come tu mi dici, e Dio m'aiuterà certo.
— Sì, t'aiuterà; pensa che non c'è palpito nè lagrima d'oppressi che sieno dimenticati da questo divino Consolatore. Egli porta nel suo cuore paziente e generoso i dolori di tutto il mondo... Sopporta adunque pur tu, o fratel mio, con pazienza e con rassegnazione il dolor tuo, e sta sicuro che, per quanto è vero che c'è un Dio, verrà il giorno della retribuzione.... e per tutti.... anche per quegl'infelici che hanno tentato di assassinarti.... come hanno assassinato il povero Fathàllah; ma noi vogliam pregare per loro, come c'insegnò Gesù Cristo....
— Sì, padre, tu l'hai detto più volte, che questo Crocifisso morente in croce perdonò ai suoi crocifissori.... dunque anch'io perdono.
Cher-Allàh stringeva colle mani un Crocifisso, e contemplava con adorazione la maestà di quel volto, ove splendeva una pazienza sublime, e lo sguardo divino commosse l'anima di lui sino nelle più intime fibre. Allora egli mi diede un'occhiata espressiva, colla quale pareva volesse dirmi qualche cosa....
— Parla, parla, o fratel mio, dimmi.... io sono qui per assisterti in tutto quello che desideri.
— Una carità ti domando, o padre.... battezzami [143] subito.... Tu m'hai insegnato che senza il battesimo, nessuno può entrare nel regno dei cieli a goder Dio per sempre.... e s'io morissi, e tu non fossi in tempo di battezzarmi....
— Tranquillati, o Cher-Allàh; in questo caso, il desiderio che tu hai d'essere battezzato supplirebbe al battesimo di acqua. Tuttavia voglio accontentarti, abbenchè io non veda che tu sia in pericolo di morte; spero anzi che tu guarisca, e presto.
— Perdona, padre, alla mia ignoranza.... Io mi metto nelle tue mani.... Quelle cose che tu mi hai insegnate, le ascoltai volentieri.... e le credo con tutta l'anima mia.... e provo un piacere che non ti so dire, a sentirmele ripetere.... ma non saprei recitarle a memoria, perchè io sono un povero ignorante.... e la memoria specialmente non mi serve.
Io lo disposi a ricevere questo sacramento, e poi lo battezzai.
Da questo momento il cuore di Cher-Allàh riboccò d'una gioia così grande che m'è impossibile di esprimerla; bisogna averlo veduto, per averne una qualche idea; quella gioia, bisognerebbe averla provata per apprezzarne la grandezza. Egli si sentì rinascere il cuore, e provò celesti ineffabili emozioni. Gli acuti dolori che prima sentiva tanto, non voleva più sentirli.... e non li sentiva più. — Il sentimento del dolore rimase sopraffatto da quello della gioia d'esser cristiano, seguace di Cristo; e [144] pregava per tutti, ma specialmente per la conversione de' suoi fratelli africani.... e pregherà ancora, mentre egli vive presentemente nella casa dei Missionari cattolici in Chartùm[14].
Fattosi il mattino, ordinai a quattro barcaiuoli di prendere con loro una vanga e di seguirmi. Poco distante dal fiume venne scavata una fossa profonda; e tornati alla barca, feci levare il cadavere dalla piroga. Noi sacerdoti coi giovanetti della Missione recitammo le solite preci pei defunti; e quindi due compagni del povero Fathàllah, assistiti da due barcaiuoli, ne portarono il cadavere al sepolcro, preceduti da tutti noi altri. Fu seppellito in silenzio, colmata la fossa, ricoperta d'erbe, e benedetto quel tumulo.
Nessuna pietra segna il luogo ove riposa il vostro fratello — io dissi allora ai giovinetti della Missione che piangevano — ma il suo e nostro Salvatore conosce questa tomba, da cui egli risorgerà immortale per partecipare alla gloria degli eletti. Voi lo sapete, quanto era buono Fathàllah! Quanta premura [145] metteva nell'apprendere il catechismo! Quanto desiderava di essere battezzato!... Dio se l'ha voluto con lui.... sia fatta la sua volontà. E voi, figliuoli miei, lo dimenticherete mai, il fratello, nelle vostre preghiere?... procurerete sempre d'imitarne le virtù...? Tutti abbassarono il capo in segno d'affermazione, e risposero.... con un gemito!
[147]
Il fiume Jâl — Il Sóbat e i suoi abitanti — Affluenti del Sóbat e i Negri scìluk — Dall'imboccatura del Sóbat al lago No — Il Bàhr-el-G¨azàl e i suoi affluenti — I Gnam-Gnàm; etimologia del nome e cannibalismo di questi popoli.
Fra i paesi di Hèllat-Kàka e di Dènab, il fiume Bianco riceve a destra l'influente Jâl che discende dalle montagne dei Bèrta. Questo influente nel suo corso da est ad ovest bagna dapprima il paese dei dénka Beèr, ov'è ingrossato dalle acque di più torrenti; e quindi il paese degli Agnarkuèi[15].
[148]
Più a sud il fiume Bianco riceve il Sóbat (9°, 11′, 25″ lat. N.), così chiamato dagli stranieri e dagli Arabi, i quali lo dicono pure Bàhr-el-Mochàda, fiume dei guadi, perchè molti sono i luoghi, come io stesso ho potuto osservare, che si passano a guado; ma i Dénka, che abitano vicino alle rive del fiume Bianco, l'appellano Kiâti, piccolo fiume, e quelli che sono lontani Kìdid, gran fiume (kir, fiume; adìd, grande) per distinguerlo dai piccoli torrenti che lo ingrossano. Questi nomi diversi io trovo molto alterati e confusi sopra alcune carte geografiche.
Il fiume Sóbat si compone di due rami principali, l'uno dei quali, che è il più importante, proviene dal sud, e conserva una direzione costante verso nord, N. O.; e l'altro deriva dall'est, e procede verso ovest, S. O.[16]
Il Sóbat, dopo d'essersi riunito col ramo settentrionale ch'io penso sia l'Addùra, forma, seconda i ragguagli del viaggiatore Filippo Terranova, ch'io conobbi in Chartùm, varie isole abitate pressochè tutte da Negri, fra i quali dai Scìluk, che non posseggono bestiami, ma son dati alla coltivazione del màis, dei fagiuoli e del tabacco, che seminano nelle isole, e ne raccolgono frutti abbondanti. Questi Scìluk sono pure abilissimi cacciatori di elefanti e di ippopotami, e vivono in amichevoli relazioni coi [149] Nuèr che si trovano sulla riva sinistra, e coi Dénka della riva destra, coi quali confinano ad est, N. E.
I Dénka del Sóbat sono quasi sempre in guerra coi Nuèr-Balòk, i quali benchè combattano muniti di bastone e di lancia, senza lo scudo, pure sanno farsi temere dai Dénka e da altri Negri, che tremano al sentirsi pronunciare solamente il nome di Nuèr.
Un giorno Filippo Terranova fu pregato dai Dénka, presso i quali egli dimorava da circa un anno, d'unirsi a loro per discacciare i Nuèr-Balòk dalla riva destra del fiume ove s'erano condotti coi loro bestiami, trovandovisi buoni pascoli. I Dénka già contavano sulla vittoria, poichè il Bianco, come essi lo chiamavano, aveva un cannone di bronzo che soleva caricare a mitraglia, allo scoppio del quale i Nuèr spaventati si sarebbero dati a precipitosa fuga, abbandonando i loro bestiami in mano al nemico.
Il Terranova dovette accondiscendere al desiderio dei Dénka, e poco dopo eccolo col suo cannone in mezzo a un migliaio di combattenti di fronte ad altrettanti Nuèr. Sul principio, dall'una e dall'altra parte non si faceva che correre di qua di là per assicurarsi dagli assalti nemici ed impadronirsi di posizioni vantaggiose; ma tutt'a un tratto i Nuèr si scagliarono contro i Dénka così improvvisamente, da non dar loro tempo di prepararsi a resistere all'impeto dell'assalto, e da costringerli quindi ad [150] una fuga disperata, lasciando il povero Terranova,, che fatto non aveva ancora un colpo di cannone, a sbrogliarsela da solo coi Nuèr. Buon per lui che questi, contenti della vittoria riportata, tornarono ai loro posti senza darsi il menomo pensiero del Bianco, il quale col suo cannone rifece con fatica la strada di prima.
I Nuèr-Balòk, che si estendono sulla riva sinistra del fiume Sóbat, dal 9º fin presso all'8º grado di latitudine, hanno gli stessi costumi e le stesse abitudini dei Nuèr che abitano lungo le rive del fiume Bianco, dei quali parleremo di poi. Questi però sono più ricchi di bestiami e di grano, e più destri di quelli del fiume Bianco nel dare la caccia agli elefanti.
Durante la stagione delle piogge (charìf), essi abbandonano la riva del fiume e si ritirano nell'interno tra il canale Zeràf e il Sóbat.
Nel 1855 due barche di negozianti arabi s'avventurarono lunghesso il fiume Addùra, e dopo parecchi giorni di marcia giunsero ad una tribù di Negri che si dicevano Scìluk, i quali avevano il loro re come quelli di Dènab. Questi Negri appena videro le barche, ch'erano ancorate in mezzo al fiume, presentarono ai negozianti due bovi, dicendo che volessero accettarli come segno di buona ospitalità; [151] e siccome intesero ch'erano venuti in cerca di denti di elefante, fecero loro sperare che sarebbero partiti colle barche cariche d'avorio. Non parve vero a que' negozianti d'aver trovato fra quella tribù tanta cordialità con tanta fortuna; ne ringraziarono la Provvidenza, e s'affrettarono ad aprire le casse contenenti perline di vetro, per mostrarne i campioni. Quindi gli uomini della barca più vicina alla riva smontarono disarmati, e si sparpagliarono pieni di fiducia in mezzo ad una moltitudine di Negri, dai quali vennero tosto assaliti e barbaramente trucidati, senza che n'andasse salvo nè pur uno. La gente dell'altra barca, atterrita a tanto spettacolo, fece presto a discendere il fiume per non incontrare la sorte dei compagni. Dopo questo fatale avvenimento, nessuna barca osò più inoltrarsi su quel fiume.
Alquante miglia geografiche a sud, S. E. del paese dei Nuèr-Balòk, trovansi altri Scìluk sulla riva sinistra e sulla riva destra del Sóbat, e inoltre lungo il Ghìlo, che pare sia un ramo del fiume Addùra. Tutti questi Scìluk però formano una sola e grande tribù soggetta al medesimo Capo, che come abbiamo detto ha il titolo di re.
Un po' più a sud, S. E. di questi Scìluk, il Sóbat riceve a destra le acque del Nikàna, che credesi un ramo settentrionale del Bongiàk. Il Bongiàk poi sbocca nel fiume Giùba proveniente dal sud, di cui ignote sono le sorgenti.
[152]
Dall'imboccatura del Sóbat chi rimonta il fiume Bianco deve dirigersi, per quasi un grado di longitudine, verso ovest fino al lago No, ove il Bàhr-el-Àbiad riceve le acque del maggiore de' suoi influenti chiamato fiume delle gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl, 9°, 18′, 24″).
In questo lungo tratto il fiume Bianco, poche ore di cammino dopo il Sóbat, riceve a destra un canale grande quasi la metà dello stesso fiume. Questo canale è conosciuto col nome di Bàhr-ez-Zeràf (fiume delle giraffe), le cui rive sono abitate dai Nuèr fin oltre l'8º grado di latitudine, ed esce dal fiume Bianco nel paese dei Bòr, tra il 6º ed il 7º lat. N., presso al villaggio Akuàk. Un vecchio de' miei barcaiuoli mi diceva d'averlo percorso quasi tutto con una piccola barca; il Ràies stesso ed altri della mia gente già lo conoscevano a tratti, e tutti s'accordavano nell'asserire che il canale, il quale esce da Akuàk, nel paese dei Bòr, è quello stesso che rientra nel gran fiume presso il Sóbat; e ciò mi confermarono pure altri, durante il viaggio che feci a Kondókoro[17].
Il Bàhr-ez-Zeràf è il più largo e il più lungo fra [153] i canali del fiume Bianco; canale ch'io trovo mal segnato su diverse carte geografiche.
Il fiume Bianco quindi riceve a sinistra un influente, che secondo gli abitanti che ne abitano le rive, prende nomi diversi, cioè di Bàhr-el-Aàrab, nella parte conosciuta più occidentale, poi di Solongò, e finalmente di Kiâti presso allo sbocco.
Poco prima di arrivare al lago No, io vidi a poca distanza, rimontando il fiume, i monti Tekèm a nord, N. O., all'ovest dei quali sono i Baggàra Homùr, che vivono in continua guerra coi Nuèr e coi Gianghè.
La tribù dei Gianghè è posta tra la tribù dei Scìluk e quella dei Nuèr, e si estende per alquante miglia geografiche nell'interno verso occidente. Questa tribù, alleata a quella de' Nuèr, coi quali ha comuni la lingua ed i costumi, è nemica acerrima dei Scìluk, cui spia continuamente per assalirli e depredarli.
Il 28 gennaio 1859 feci arrestare la barca proprio al confine di queste due tribù. Non molto lontani dal fiume scorgeansi i loro villaggi. Io speravo che i Negri Scìluk o i Gianghè, vedendo la barca, venissero per far mercato, avendo io bisogno di provvedermi di carne e d'altro. Di fatto non andò molto che ci comparvero parecchi Scìluk, armati di lancia, scortando donne e fanciulle, le quali portavano sul capo cestelle di paglia ripiene delle miserabili loro derrate, dùrah, specialmente, fagiuoli, sesàme e cotone; avevano anche galline ed uova; ed alcuni giovanetti tenevano per una corda [154] capre e montoni. Si poteva comprare d'ogni cosa con perline di vetro, ad eccezione delle capre e de' montoni, che valevano lance o anelli di ferro o di rame. In poco d'ora il mercato aumentò fino a comporre circa duecento persone tra uomini, donne e fanciulli. Quando io fui abbastanza provveduto, ordinai la partenza; e tutti questi poveri Scìluk s'avviarono pian piano alla volta delle loro capanne contenti e allegri dei prezzi ricevuti. Tutt'a un tratto noi udiamo alzarsi acutissime grida.... «Ecco, ecco là, disse il mio Turcimanno, i Gianghè che inseguono i Scìluk, e sono tanti come l'erbe che crescono dal terreno.... (era la sua frase ordinaria per esprimere una grande moltitudine); essi tentano di assalirli a mezzo del cammino; ma i Scìluk giungeranno prima alle loro capanne; o, se mai, sapranno far loro resistenza; molti vengono in loro aiuto.» Io fui spiacentissimo di quello scontro, del quale era stata occasione il mercato, che non era prudenza di fare al confine di due tribù nemiche. Dopo alcuni istanti sole voci di pietà mi percuotono il cuore più che l'orecchio, nè potei più seguirli coll'occhio, poichè un rialto di terreno me li nascose totalmente.
Il fiume Bianco tra l'imboccatura del Sóbat e il lago No, ove, come dissi, riceve le acque del maggiore de' suoi influenti, è notevolmente ristretto e rigirante per frequenti e rapidissime svolte, le quali rendono assai difficile e faticosa ai barcaiuoli la navigazione, e le sue rive sono adorne di boschetti eleganti di papiri.
[155]
Il Cyperus Papyrus, o Papyrus Antiquorum è l'antica e celebre pianta del cui libro usavano gli Egizi per iscrivere; ed è frequentissima tra il 9º e il 10º grado nelle regioni del Sóbat, del fiume delle Gazzelle e del fiume Bianco.
Intorno al lago No crescono rigogliosi gli Àmbag, i papiri, le ninfee, e fra esse il famoso loto (Nymphaea lotos), la Neptunia stolonifera, e la palma deìèb.
Navigando sul fiume Bianco da est ad ovest verso il lago No, ci si presenta dapprima il grande e maestoso fiume delle Gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl), e poi subito il fiume Bianco, il quale pare che qui si umili ed offra spontaneo all'altro fiume il tributo delle sue acque.
Io vidi questo piccolo lago e lo girai quattro volte. Vi giunsi una volta di notte, due ore avanti giorno, e i miei barcaiuoli fecero allora molti spari di fucile, e perchè? — «Perchè, com'essi mi dicevano, all'imboccatura de' grandi fiumi si trovano adunati vari spiriti, che conviene salutare così, affinchè non imprechino contro di noi.»
Il fiume delle Gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl) sbocca, come abbiamo detto, nel fiume Bianco (Bàhr-el-Àbiad) al 9°, 18′, 24″ lat. N. Questo fiume, del [156] quale io ebbi tutta la cura di studiarne il corso, fino al 1859 non era conosciuto che presso al punto di confluenza col fiume Bianco.
L'arabo Aly-Omùri fu il primo a rimontarlo per quasi un grado di longitudine ovest dal lago No, e quindi per circa cinquanta miglia geografiche verso sud-ovest; finalmente piegando a sud, dopo due giorni di penoso cammino, egli arrivò ad un luogo ove il fiume dilaga; e quel lago dagli arabi Baggàra Homùr è chiamato Mùsciarat.
Il console inglese Petherick, poco tempo dopo lo navigò oltre a quel lago; e d'allora in poi molti altri s'avventurarono più innanzi e scoprirono nuovi paesi. Dopo tre anni, cioè nel 1862, già era conosciuta la parte ovest e sud, sud-ovest del fiume delle Gazzelle, e così pure il fiume dei Giùr, ch'io ritengo sia lo stesso G¨azàl, come vedremo in appresso, proveniente da sorgenti proprie e non dal fiume Bianco, come opinava M.r Peney ed alcun altro viaggiatore.
Brun-Rollet aveva tentato invano di rimontare il fiume delle Gazzelle, dal lago No fin nella tribù dei Giùr, onde così provare che il fiume che attraversa la tribù dei Giùr era il fiume stesso delle Gazzelle (Bàhr-et-G¨azàl); e fu più tardi un Arabo a scoprirlo. A questo fine egli fece costruire una piccola barca nel paese dei Giùr, colla quale discese la corrente per luoghi paludosi ed intricati fin presso al lago Mùsciarat.
[157]
Il Bàhr-el-G¨azàl nel lento suo corso fra il lago Mùsciarat e il lago No riceve due o tre grandi torrenti, che rigonfi durante la stagione delle piogge scorrono da sud a nord. Questi torrenti impaludano e formano una specie di laghetto, da cui escono uniti in un sol ramo, che limpido e tranquillo si scarica nel Bàhr-el-G¨azàl.
Le rive di questo grande influente, chiamato anche fiume Nam, cominciano ad essere abitate a quattro ore di cammino dalla sua imboccatura nel lago No. Quindi riceve a sinistra presso il lago Mùsciarat un grande torrente che scorre da nord a sud-est, e dopo il detto lago verso occidente, vari altri torrenti aventi la direzione da nord a sud. Finalmente fra l'8º e il 9º grado di latitudine, là dove il Bàhr-el-G¨azàl ha il nome di fiume dei Giùr, viene ingrossato da un influente, che prima ha una direzione da sud a nord-est, e quindi piega verso est, e sbocca nel fiume dei Giùr.
Il fiume dei Giùr, che, come dissi, io ritengo sia lo stesso G¨azàl, proviene dal sud, ove tra il 4º e il 5º grado lat. N., e tra il 28º e il 29º long. est dal meridiano di Parigi, ha il nome di Jèji, il quale segna ad ovest il confine della lingua dei Bàri, ed è formato da due rami che s'uniscono fra il 3º e il 4º grado; e da questo punto di unione, dopo circa quaranta miglia geografiche, esso riceve l'influente Irè, e poi scorre verso nord, nord-ovest bagnando il paese dei Giùr, dai quali prende il nome; [158] e finalmente piegando ad est, col nome di Nam e di Bàhr-el-G¨azàl, si scarica nel fiume Bianco.
M.r Peney, col quale io parlai più volte in proposito, era pure di questa mia opinione; soltanto egli riteneva che il Jèji fosse un braccio del fiume Bianco, mentre io sosteneva e sostengo che abbia sorgenti proprie.
M.r Jules Poncey invece lasciò scritto in argomento[18]: «On a cru jusqu'ici que la rivière appelée Iaïe (le Giei ou Jeïh ou Yièh de Peney), qui traverse le Niàmbara venant du sud, était la même rivière que celle des Djour; il n'en est rien; car le jaïe, après avoir traversé le Niambara, passe un peu a l'ouest du Mandara, traverse une partie du pays des Djour et arrive enfin dans la tribu des Rol qu'il divise en deux, passe chez les Nouair e va se jeter directement dans le lac Nau. Cette rivière serait donc la même que celle des Rol. Le Bàhr-Djour vient à coup sûr du sud, mais plus loin ancore à l'ouest que le jaïe. Il a été remonté par le barques jusqu'à Cazenga (Cazingo). Là, le fleuve commence a être rempli d'écueils, et sa petite quantité d'eau est cause que les barques ne peuvent aller plus haut.
À quinze à vingt journées de Cazenga, vers l'ouest, il y aurait, au dire des Niamniàm, un autre fleuve [159] beaucoup plus grand que celui des Djour, coulant du sud-est au nord-ovest.»
Or ecco quanto posso dire io intorno alla provenienza e al corso di questo fiume, appoggiato alle relazioni esattissime che me ne diede il missionario Francesco Morlang, il quale lo visitava in persona con alcuni dongolèsi mercanti d'avorio in sullo scorcio del 1859; e dietro a quelle relazioni io delineai tutto il suo viaggio che intraprese a sud-ovest di Kondókoro, percorrendo oltre a un grado di latitudine e di longitudine[19].
Partiva l'intrepido Missionario nell'ottobre 1859 da Kondókoro con circa venti dongolèsi, dirigendosi verso sud-ovest, e fece la sua prima stazione a Tokimàn; lasciò quindi a destra il monte Kunùpi, e dopo faticoso cammino arrivò a Kèlie, seconda stazione. — Non nomino che le stazioni fatte in luoghi abitati da Negri. — Oltrepassò poi due grandi torrenti, il Lurì e il Kòda, e dopo le stazioni di Dìmu, Kakaràk, Riòka, Tongà, Lòci, Lìghi, Liguèk e Morò egli vide le rive del fiume Jèji, che scorreva da sud a nord e presentava la grandezza del Ciuffiri (fiume Bianco) dei Bàri. Fu in questa stazione di Morò che gli indigeni, dei quali egli conosceva la lingua la quale era quella dei Bàri, gli parlarono del fiume Irè influente del Jèji, le cui rive erano abitate dai [160] famosi Gnam-Gnàm o Makarakàk, cui la tradizione aveva tramandato ai Nubî qual popolo, che riepilogava in sè stesso tutto ciò che l'idea di selvatichezza può far concepire di più spaventoso a gente dotata di spirito inventivo.
«I selvaggi designati da cotesto nome terribile, i Gnam-Gnàm, non erano soltanto vicini all'animalità per il genere di vita, ma dicevasi conservassero il marchio della loro discendenza; e la questione dell'origine scimmiesca dell'uomo era allora scioccamente discussa sulle rive del Nilo con non minor calore che non lo sia ora da alcuni in Europa.»
Il Morlang avrebbe voluto visitare per il primo que' Negri, vederli coi propri occhi, e sollevare un lembo del velo che involgeva quella nazione leggendaria, percorrendone una provincia almeno da essi abitata; ma i suoi compagni di viaggio non v'acconsentirono, e dovette con essi piegare a mezzodì. Il merito di farli conoscere l'ebbe di poi il viaggiatore italiano mio amico Piaggia, il quale passò venti mesi fra i Gnam-Gnàm dell'ovest, e quindi l'illustre Giorgio Schweinfurth, che lo seguì da vicino, e fu in grado di descriverci quel popolo interessante, di cui ha studiato le tribù orientali, in modo da rendere affatto inutile ch'io ripeta ciò che mi disse il Morlang intorno ai Gnam-Gnàm per relazioni avute dagli abitanti lungo le rive del Jèji, relazioni che corrispondono perfettamente con ciò che scrisse l'illustre viaggiatore.
[161]
Il Morlang adunque dovette piegare a mezzodì; traversò il ramo orientale del Jèji e sostò a Morciàk; e finalmente si diresse a Vrànga presso la riva destra del ramo occidentale dello stesso Jèji. Fu qui che intese che le sorgenti di questi due rami componenti il Jèji non erano molto lontane, e ne sentì parlare con tanta sicurezza da escludere ogni sospetto che il Jèji sia un canale del fiume Bianco, secondo l'opinione di M.r Peney.
Nè io posso convenire con Jules Poncey, che cioè il Jèji, il quale traversa il paese dei Jàmbara (Jàngvara), non sia lo stesso fiume dei Giùr. Egli dice: il Jèji dopo d'aver traversato il paese dei Jàmbara, passa un po' all'ovest dei Màndara, scorre una parte del paese dei Giùr, ed arriva in fine nella tribù dei Rol che divide in due parti; bagna quindi la terra dei Nuèr, e si getta finalmente nel lago No. Ma io credo fermamente ch'egli scambi il Jèji col grande torrente Kòda, il quale traversa di fatto il paese dei Jàmbara, passa un po' all'ovest di Màndara, scorre una parte del paese dei Giùr, ed arriva in fine nella tribù dei Rol che divide in due parti; e bagnata quindi la terra dei Nuèr, io ritengo che direttamente sbocchi nel lago No, o da solo o dopo d'essersi unito col torrente Lurì[20].
[162]
Il fiume Jèji e il suo influente Irè scorrono fra due lunghe catene di monti aventi una direzione da sud a nord, delle quali l'occidentale prende diversi nomi secondo le posizioni, di Lopiòko, di Ghirimenìt, di Vovù, di Kurubù, di Malangà, di Longobè, e l'orientale è conosciuta col nome di montagne di Bègong a nord, e di montagne dei Jàngvara a sud.
Questi due fiumi sono abitati da ippopotami e coccodrilli, e a sinistra dell'Irè e del Jèji, dopo ricevute le acque dell'Irè, è la grande e famosa tribù dei Gnam-Gnàm, che si estende fra il 3º e il 6º grado di latitudine nord; ma ancora non si sa con precisione fin dove s'estenda il paese dal lato dell'ovest; volendo però giudicare da ciò che i Nubî ne conoscono, pare abbia una lunghezza di cinque o sei gradi.
Gli abitanti sarebbero stati calcolati a circa due milioni.
Io che non ebbi la fortuna di visitare i Gnam-Gnàm, non ho mai voluto credere ch'essi fossero cannibali quali me li dicevano i Nubî, che non gli avevano però ancor visitati, ed alcuni avventurieri della tratta dell'avorio, argomentandolo anche dal nome, col quale viene chiamata questa tribù.
In una mia carta geografica annessa ad un opuscolo, [163] che scrissi dal fiume Bianco, il quale porta la data 13 dicembre 1859, e vide la luce nel 1861 (Verona, tipografia Vicentini e Franchini), io chiamai questa tribù col nome di Gnemgnèm (Gnèm-gnèm), e non di Niam-Niam o Nyam-Nyam, come dalla maggior parte degli scrittori era stata chiamata; e nel settembre del 1867 spedivo l'opuscolo al mio amico marchese O. Antinori accompagnandolo con una lettera, nella quale gli dicevo che la tribù da lui chiamata dei Niam-Niam avrebbe potuto chiamarsi Gnemgnèm; e ciò non dissi a caso, ma avvertitamente. La qual cosa diede motivo a due lettere che non sarà discaro al lettore ch'io qui riferisca, sebbene sieno state registrate sul Bollettino della Società geografica italiana (anno I, fascicolo 1º-1868). Ecco la lettera del marchese O. Antinori sulla parola Niam-Niàm.
D. Giovanni mio pregiatissimo.
Firenze, 2 ottobre 1867.
Le sono debitore di molte grazie per l'opuscolo sul suo viaggio del fiume Bianco che Ella ha voluto inviarmi, e che ho gradito molto, mentre la copia che io possedeva da lunga data, non so per quale fatalità, era mancante delle carte sul corso dei due fiumi Bianco ed Azzurro, cosa che osservasi in fin di libro.
[164]
Mi permetta ch'io le ritorni un mio lavoro sui volatili che raccolsi durante il mio soggiorno in alcune delle contrade da Lei descritte, ed in altre, che avrebbero ben meritato una sua visita, se Ella non si fosse restituita in Europa.
Nella prefazione vi troverà lo scheletro del mio viaggio, sul quale non discesi a minuti ragguagli nol consentendo il titolo del libro che dava al pubblico.
Sulla parte, o meglio sul paese interno del G¨azàl, vi tornerò sopra quando pubblicherò un lavoretto sui Niam-Niàm che mi propongo di fare. E poichè mi cade quasi involontariamente sotto la penna il nome di questa tribù che Ella nell'ultima sua mi consiglia di chiamare Gnem-Gnèm, ad esempio di quanto Ella aveva praticato nel suo libro, mi permetta ch'io le richieda, se vi sia una particolare ragione etnica per così chiamarla, o se il suo parere appoggi piuttosto sul valore del suono della parola, quale le si è presentato all'orecchio allorchè l'ha udita proferire. In questo caso, per me che ho soggiornato lungamente fra i Giùr, e che mi sono sentito ripetere le mille volte questo vocabalo, esso mi ha sempre suonato Niam-Niàm, o al più Gnam-Gnàm, e non mai gnem-gnèm; lo che accorderebbe maggiormente coll'origine che si può attribuire alla detta parola, sia pure essa divisa in due, o in una sola come Ella la scrive. I fratelli Poncet, Heuglin, Lejean, ne resero il suono nel modo stesso adoperato [165] da me, e la differenza unica che s'incontri fra l'uno e l'altro dei detti autori, è differenza ortografica propria alla lingua in cui essi scrissero.
Heuglin poi asserisce che il plurale di Nyam-Nyam è Nyamanyam; lo dice in modo assoluto, ma senza accennarne il perchè. Esso, a parer mio, lo si potrebbe ripetere dalla natura stessa del linguaggio di molte famiglie dell'Africa australe, ove la forma etnica vuole che si pongano innanzi, appresso e anche in mezzo ai nomi proprii dei popoli e delle tribù, le particelle ba, ma, ouà, ouè ecc. ecc. Burton parlando del popolo Fân dice che nel plurale vien chiamato Bâ-Fân ed anche Fan-ouè. E nel caso nostro, nella parola Nyamanyam rivelataci da Heuglin, la particella ma troverebbesi interposta fra le due sillabe che compongono la parola Niam-Niàm, alla quale per ragione eufonica sarebbesi soppressa la prima m, e convertita l'ultima m in n. Ma qualunque possa essere l'ipotesi dedotta da me dagli esempi di linguaggi dell'Africa australe, per spiegarmi in qualche modo l'asserzione di Heuglin, rimarrà sempre vero che il suono tanto nel singolare che nel plurale è in à e non in è, e che lo stesso suono hanno le parole da cui essa probabilmente è derivata. Livingstone ci dice che nel Zambesi Nama-nama è un grido che i rematori fanno ad un Trogon, allorchè l'uccello col suo canto imita il suono della lira, e vuol dire carne carne. Gnià, nel linguaggio Niam-niam vuol dire animale ed anche carne. Presso [166] i Dor vuol dire pure animale, e presso alcune altre tribù del nord esprime il bufalo. Ciam-ciam presso i Dor vuol dire mangiare, e notisi che oltre a certa analogia di suono che questi vocaboli hanno col motto Niam-niam, Speke ci fa sapere che presso gli Ouganda gli venne assicurato che Niam-niam significa mangia mangia. Non pare a Lei che vi sia un qualche rapporto non dirò etimologico, ma eufonico fra il vocabolo Dor e quello con cui vengono chiamati i loro vicini? E la parola gnia, animale o carne che essa significhi, non ha pure un ravvicinamento di suono e di significato col vocabolo in questione? A Lei dottissimo in alcune delle lingue dei Negri lascio il deciderne, contento di averle esposte alcune ragioni, in forza delle quali a me sembrerebbe che il vocabolo Niam-Niàm non dovesse mutarsi. Se Ella mi illuminerà in proposito non lascerò di tenerne conto a suo tempo.
Suo servo ed amico
O. Antinori
Eccone la risposta.
Pregiatissimo signor Marchese,
Verona, 8 ottobre 1867.
Oggi ho ricevuto la carissima sua del 2 corrente, ed alcuni giorni prima il prezioso Catalogo descrittivo di una collezione di uccelli, fatta nell'interno [167] dell'Africa con tanto disagio ed abnegazione della sua vita. — Ne la ringrazio infinitamente.
..... Ma or veniamo alla tribù ch'Ella, signor marchese, Petherick, Lejean, Heuglin, Speke ecc., nomi tutti rispettabilissimi, ed i quattro primi a me tanto cari, conosciuti in Chartùm, chiamano dei Niam-Niàm, e che io Le suggeriva nell'ultima mia di chiamare piuttosto Gnem-Gnèm, come sta scritto nel mio opuscolo, che porta il titolo: «Un viaggio sul fiume Bianco nell'Africa centrale,» ed avrei anche potuto dire Gnam-Gnàm, che è il singolare, come vedremo, di Gnem-Gnèm. — Prima di tutto Le dirò che in quella denominazione Niam-Niàm, io non intesi, com'Ella ha creduto, di appuntar la vocale a, ma di meglio esprimere il valore della consonante radicale n, che in questa parola come in molte altre, nella lingua dei Bári e in quella dei Dénka, suona precisamente come l'unione delle due consonanti gñ seguite da vocale in italiano.
Del resto nella denominazione Niam-Niàm io non trovo errore; la trovo anzi quasi affatto consona a quella di Gnam-Gnàm, poichè il ni o ne davanti ad una vocale fanno il più delle volte una sillaba sola colla medesima, che rappresentasi in italiano ed in francese con gñ, p. e. Signor, Seigneur; nello spagnolo con ñ, p. e. Señor; nel portoghese con nh, p. e. Senhor, derivazioni tutte dal latino Senior-vecchio, seniore ecc. — Volli dire con ciò, che Petherick, Heuglin, Speke nominando la tribù all'occidente [168] dei Bàri e al sud dei Dénka e confinante con essi, Niam-Niàm, non poteano, usando della loro ortografia, meglio esprimerla di quello che l'abbiano espressa, mancando, tedeschi ed inglesi, di quel suono nasale che in italiano e in francese risulta dalla combinazione, come dissi, delle due consonanti gñ seguite da vocale, suono, ripeto, che perfettamente corrisponde a quello dei Bàri e a quello dei Dénka in questa ed in molte altre parole. — Or resterebbe a vedere come il Lejean e i fratelli Poncet, da Lei pure citati, e che sono francesi, abbiano chiamato quella tribù. — Ella stessa, signor marchese, mi dice che «l'unica differenza che notasi fra l'uno e l'altro dei sopradetti autori è differenza ortografica propria della lingua in cui scrissero,» ma che tutti hanno chiamata quella tribù facendo sentire il suono della vocale a. — Questo io credo, e così anche va bene; ma io vorrei poter credere ancora che i signori Lejean ed i fratelli Poncet, essendo francesi, l'avessero nominata, secondo la propria ortografia, Gnam-Gnàm e non Niam-Niàm, a meno che non abbiano voluto accomodarsi ad una ortografia straniera che non corrisponde, come la nostra, al debito suono[21]. — Veniamo adesso alla vocale. — Io dissi che non fu mia intenzione di appuntare nella denominazione Niam-Niàm la vocale a; tuttavia [169] io debbo rendere ragione perchè scrissi sulle carte del mio opuscolo Gnem-Gnèm e non Gnam-Gnàm, che è, com'io diceva, il singolare di Gnem-Gnèm. — Ecco da che fui indotto a ciò fare:
I. Perchè sentii qualche volta chiamarsi così quella tribù da molti negri Dénka, da alcuni Bàri e da qualche missionario di Kondókoro, sebbene sia vero che il più delle volte mi suonava all'orecchio il singolare Gnam-Gnàm. — Io domandai ad alcuni Negri perchè la dicessero Gnem-Gnèm qualche volta, e non Gnam-Gnàm, come il più delle volte e generalmente era chiamata; ed essi mi rispondevano senz' altro dire «è la stessa cosa.» — Questo motivo però non era ancor sufficente perchè io dovessi adottare il plurale piuttosto che il singolare, che dai più e il più delle volte era usato.
II. Il vero motivo però che m'indusse ad usare il plurale Gnem-Gnèm (o come scriverebbero i tedeschi ed inglesi Nien-Nièm o Nyem-Nyèm) piuttosto che il singolare Gnam-Gnàm (o secondo altri Niam-Niàm o Nyam-Nyam) fu per accennare in qualche modo la via a rintracciare la vera etimologia di questa parola nella natura appunto, per ripetere, signor marchese, le sue parole, del linguaggio di molte famiglie appartenenti all'Africa centrale. — M'attenda:
Ella sa che fra i Gnam-Gnàm scorre un fiume verso il Bàhr-el-G¨azàl o Kèilak, formato tra il 4º e il 5º grado lat. N. dal fiume Jèji e dal suo influente Irè. In questo fiume, come riferivano il missionario [170] Francesco Morlang, che vide il Jèji a Morò, e tutti quelli che viaggiarono con lui, sono molti coccodrilli. Vedi! — io dissi allora fra me — il coccodrillo da tutte le tribù Dénka del fiume Bianco è detto Gnàn, plurale Gnèn; così adunque lo chiamano i Giùr, gli Atuòt, i G¨ok, i Ròl, tribù Dénka limitrofe ai Gnam-Gnàm dalla parte nord. Così chiamano il coccodrillo anche i Bàri ed i Scìr, che confinano coi Gnam-Gnàm ad est, e sono divisi dal fiume Jèji. L'etimologia, io conchiusi quindi, di questo nome Gnam-Gnàm dato a quella tribù deve ripetersi dalla parola Gnan-coccodrillo, plurale Gnèn-coccodrilli. Per la qual cosa, tribù dei Gnam-Gnàm o dei Gnèm-Gnèm vorrebbe dire tribù del coccodrillo o dei coccodrilli, i quali abitano in gran copia nelle acque dell'Irè e del Jèji[22]. Ora questa etimologia [171] è fondata sulla realtà delle cose, sul fatto dell'esistenza dei coccodrilli in quella tribù; mentre altri vorrebbero ripeterla dalla supposizione che quella tribù sia antropofaga. Nè, io credo, potrebbesi sostenere questa ipotesi da ciò che narra il celebre ed intrepido viaggiatore Speke, a cui gli Ougànda tradussero, egli dice, la parola Niam-Niàm per mangia-mangia. Io vorrò credere benissimo che allo Speke gli Ougànda abbiano detto che Niam-Niàm esprime mangia mangia, ma riferendosi alla tribù da essi accusata, o a torto o a ragione, come antropofaga; ma come provò egli mai che mangia-mangia è il vero senso della parola Gnam-Gnàm dei Dénka e dei Bàri? — Nè vale il dire, a sostenere questa ipotesi, che presso i Dòr la voce cian-cian, com'Ella scrive, vuol dire mangiare; poichè questa voce, mi pare, non ha alcuna analogia con quella di Gnam-Gnàm o Nyam-Nyàm, essendo affatto diversa la prima radicale; ma l'ha piuttosto colla parola ciám dei Dénka, che pur significa mangiare; anzi direi che è la stessa parola, mentre sappiamo che le due consonanti m ed n sono ambedue lettere nasali, che facilmente si scambiano.
Ella dice finalmente, signor marchese, che la parola Gnià nel linguaggio pure dei Dòr ed in quello stesso dei Gnam-Gnàm significa animale; e non sembra a lei che vi sia una grande analogia fra questa parola Gnià-animale, e Gnàn-coccodrillo? e non ci verrà il sospetto almeno che questo animale, [172] che i Gnam-Gnàm chiamano Gnià, sia lo stesso coccodrillo? — Aggiungerò che tutti quelli, coi quali io stesso parlai, e che si recarono fra i Gnam-Gnàm o Gnem-Gnèm, non hanno potuto, non dico verificare, ma nè manco sospettare che quella tribù si cibasse di carne umana. — Aggiungerò ancora che allorquando dovevo recarmi nel 1854 nella tribù dei Bèrta fra gli Sciangàllah, mi si diceva da molti, e seriamente, ch'erano antropofagi; e quando io li vidi, dovetti persuadermi che la cosa era ben altra da quella che mi si voleva far credere....[23] Dopo tutto ciò, mio carissimo marchese, è facile concludere che la ragione che m'indusse a cambiare la parola Niam-Niàm in quella di Gnem-Gnèm o Gnam-Gnàm che n'è il singolare, non fu solo sensazione organica, ma fu particolare etnica ragione. — Ad altro.
Da questa mia risposta può immaginarsi il lettore quanto io fossi lontano dal credere i capricciosi racconti e le feroci accuse lanciate dai Nubî, specialmente, e dagli avventurieri della tratta dell'avorio contro i Gnam-Gnàm.
Della famosa coda che si pretendeva formasse parte del loro corpo, io parlai a lungo col mio amico viaggiatore Lejean, e dovetti ridere con lui [173] quando nel 1860, reduce dal fiume Bianco, mi diceva che la pretesa coda dei Gnam-Gnàm altro non era che una striscia di cuoio, che passa fra le gambe e si spande, inferiormente alle reni, in un largo ventaglio in guisa, che veduta di lontano produce l'effetto d'una coda.
«Ma per essere senza coda, i Gnam-Gnàm non cessavano per ciò di figurare come gli eroi d'una infinità di storielle di caccia e di guerra riferite da alcuni avventurieri, storielle d'interesse palpitante. Abitavano inoltre un paese sconosciuto, e anche per tal motivo destavano in Europa una viva curiosità.» — Così scrisse l'illustre viaggiatore Schweinfurth, che dopo il Piaggia, intrepido viaggiatore italiano, visitò quel popolo interessante e ne studiò le tribù orientali. Or ecco quanto egli ne dice in proposito:
«A parte i lineamenti speciali, caratteri di razza che, più o meno spiccati, contraddistinguono i diversi gruppi della famiglia umana, i Niam-Niàm (Gnam-Gnàm) sono uomini della stessa natura degli altri, colle stesse passioni, le stesse gioie, gli stessi dolori di noi. Io ho scambiato con essi molte e molte facezie, ho partecipato ai loro giuochi infantili, avvivati dal rumore di tamburi o dal suono di mandolini, e trovai in essi il buon umore e l'estro che s'incontrano altrove....
«I Niam Niàm (Gnam-Gnàm) sono eminentemente carnivori, ed è appunto la carne che mette il colmo [174] ai loro piaceri gastronomici. «Carne! carne!» è la parola d'ordine che risuona in tutte le loro campagne, è il grido che esprime la loro collera o i loro desideri.
«È naturale che in ogni paese, nella stagione in cui la selvaggina è più abbondante e migliore, l'idea della caccia s'impadronisca di tutti i cervelli: ma tale disposizione può anche essere soltanto temporanea. A me pare che il più sicuro criterio del genere di nutrimento prevalente in tale o tal luogo, sia quello delle voci usate dagli abitanti per ciò che concerne le loro refezioni. Così, presso i Bòngo, popolo essenzialmente agricolo, il nome del sorgo è l'indefinito del verbo mangiare, mentre fra i Niam-Niàm (Gnam-Gnàm) è la voce carne omonima del verbo: carne e mangiare s'esprimono colla stessa parola.
«Quanti scrissero intorno ai Niam-Niàm (Gnam-Gnàm), tutti li hanno accusati di cannibalismo; e l'accusa parrà giustificata a chiunque ricordi l'origine della mia collezione di cranî.
«Anche qui, come dappertutto, la regola ha naturalmente delle eccezioni. Viaggiatori che visitarono i distretti di Banzibèh e di Tèmbo, situati all'ovest della strada da me seguita, mi riferirono di non aver veduto nulla che possa far credere a siffatto costume; e Piaggia, che passò in questa provincia quasi due anni, dal 1863 al 1865, fu testimonio d'un unico fatto d'antropofagia; fatto nel quale [175] trattavasi d'un nemico ucciso nella mischia, e divorato da uomini che la battaglia aveva resi sitibondi di sangue e di vendetta. Io stesso posso citare dei Capi, che respingono con forza l'idea di cibarsi di carne umana, sebbene, essendo sempre in guerra, avrebbero di continuo occasione di soddisfare il loro appetito, se tale fosse il loro gusto.
«Nondimeno, da ciò che ho udito, e sopratutto da ciò che ho veduto, affermo senza esitare, che i Niam-Niàm (Gnam-Gnàm) sono antropofagi; e che, senza punto farne mistero, raccolgono i denti delle loro vittime e ne fanno dei manili, di cui si adornano con ostentazione. Inoltre, ne' loro trofei di caccia si vedono i cranî di uomini da essi divorati; e il grasso umano è dappertutto in vendita. Dicono che, assorbito a larga dose, questo grasso produca l'ebbrezza; ma sebbene il fatto mi sia stato assicurato da molte persone, non mi è mai riuscito scoprire su cosa si fondi tale asserzione.
«Raccontasi che in tempo di guerra vengono mangiate persone d'ogni età, principalmente i vecchi resi dalla debolezza più facile preda. Aggiungono ancora che, in ogni tempo, quando un individuo muore nell'abbandono, il suo corpo serve di pasto agli abitanti stessi del distretto in cui visse. Insomma, tutti coloro che fra noi cadrebbero sotto il coltello dell'anatomico, qui subiscon la triste sorte ora detta.
«I Nubî mi affermarono che parecchi Bòngo, morti di fatiche in seguito alle carovane, furono [176] disotterrati per servir di cibo. Ahmed, povero giovine! mi diceva d'aver veduto toglier le pietre che coprivano le tombe, d'aver veduto le fosse aperte, e gl'indigeni portarne via i cadaveri. Io non volevo prestar fede, ma i Niam-Niàm (Gnam-Gnàm), che non arrossiscono del loro cannibalismo, confessano che tutti i cadaveri, eccetto quelli d'individui affetti da malattie della pelle, sono essi considerati buoni per la mensa. Tuttavia alcuni di loro hanno una tal ripugnanza per la carne umana, che rifiutano di mangiare allo stesso piatto una vivanda qualsiasi con un compatriota antropofago.
«Le esplorazioni eseguite in questi ultimi anni nel centro dell'Africa ci hanno fatto conoscere delle popolazioni, il cui cannibalismo è pienamente accertato; ma o si consideri l'antropofagia come vestigio d'antico culto, o si riguardi come effetto di insufficienza di nutrimento animale, nessuna delle spiegazioni messe innanzi per risolvere il problema psicologico scema l'orrore che ci colpisce ad ogni nuova rivelazione d'un sì odioso e ributtante costume.
«Fra gli Africani notoriamente antropofagi, i Fàni del Gobon appariscono, per questo riguardo, i maggiori rivali dei Niam-Niàm (Gnam-Gnàm). Al pari di questi ultimi, trafficano de' loro morti, e si citano esempi di cadaveri da loro egualmente disotterrati per mangiarli....»
Dopo l'esplicita asserzione dell'illustre viaggiatore [177] Schweinfurth, per il quale io professo tanta stima, non oso più di negare il fatto, che cioè i Gnam-Gnàm sieno antropofagi, mentre egli ciò afferma senza esitazione alcuna. — Ecco le sue parole: «da ciò che ho udito, e sopratutto da ciò che ho veduto, affermo senza esitare, che i Niam-Niam (così) sono antropofagi.» — Ma io debbo pur confessare schiettamente che, tolto il caso della sua oculare testimonianza del fatto ch'egli asserisce, tutti gli altri argomenti che n'adduce non mi valgono a provarlo incontestabilmente.
[179]
I Nuèr del fiume Bianco — Fuochi notturni — Formiche — Zanzare — Cinocèfali, mostri, cannibali — Credenze religiose; indovini (Kogiùr); superstizioni, strani abbigliamenti e caccia dei Nuèr.
La nazione dei Nuèr dopo quella dei Dénka e dei Gnam-Gnàm è la più grande e la più forte di quante si conoscono nel bacino del fiume Bianco. Essa si estende da est ad ovest, dalle rive del fiume Sóbat fino a quelle del Bàhr-el-G¨azàl, e lungo ambedue le rive del fiume Bianco, a sud della tribù dei Gianghè, fin oltre l'8º grado di lat. N. Fra questa paludosa e malsana regione s'aggira il fiume Bianco con un corso lento e tortuoso.
Quand'io la traversai la prima volta, era la stagione asciutta, e scorgevo dalla barca lontane le abitazioni dei Nuèr circondate da zerìbeh, e, coll'aiuto del cannocchiale, campi coltivati di dùrah, di cui essi fanno commercio colle tribù vicine e coi [180] mercanti stranieri. A destra poi e a sinistra del fiume sono qua e là disperse in sul mattino innumerevoli torme di gazzelle e d'altre antilopi, considerevoli mandre di bufali selvatici e truppe di elefanti, che tornano dal fiume, ove la notte vengono a dissetarsi, nell'interno della foresta. E sul far della sera sbuffano dall'acqua gl'ippopotami che pesantemente s'arrampicano sulle rive in cerca di pascoli, e vedi sugli arbusti una sterminata quantità d'ibi, che stancano gli orecchi co' beffardi loro gracchiamenti, e nuvoli d'altri uccelli che si contendono i rami per riposarsi.
Ma nulla di più stupendo dei fuochi notturni fra le secche, folte e altissime erbe di quelle vaste pianure. Le fiamme dapprincipio lontane e sparse qua e là raramente, spinte dal vento, s'avvicinano sempre più maestose e minaccianti, e secondo i tratti d'erba che incontrano, or s'abbassano d'improvviso ed or sollevansi furiose al cielo; e quindi crepitando s'uniscono insieme e illuminano d'una luce purpurea vivissima l'aere d'intorno; e grandi nuvole di fumo s'inalzano con in mezzo un vortice di scintille, e s'allargano rapidamente verso il cielo stellato. — Cresce il vento, e le fiamme abbattute s'incurvano a terra in larghe vampe orizzontali da sembrare tende ondeggianti. — L'incendio non corre, vola; e prima di avvolgere, copre, come un mare di fuoco, e tutto illumina il sottoposto terreno. — A momenti, pare che, scemando un poco il vento, [181] l'incendio rimetta della sua furia; ma subito il vento ricomincia a soffiare con maggior veemenza, e le fiamme, che s'erano appena risollevate, tornano a curvarsi con impeto e a vibrare come frecce le loro punte diritte e implacabili. Ed oh! potessi io ora descrivere il tumulto, gli urli, i barriti, il ruggito, il fischio, il mugghio di tante bestie feroci, e le querule strida d'un'immensità di volatili che tentano in ogni modo di salvare la propria esistenza dal vorace incendio, come dalle insidie e dai colpi di mano inaspettati d'una gran caccia, guidata astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete tutti quegli animali e non lasciare scampo a nessuno! E già essi corrono e saltano qua e là disperatamente, e a tratti si veggono come spettri illuminati da bagliori d'inferno, e tosto spariscono tra le fiamme che si riuniscono e s'incrociano precipitando e spandendosi in laghi di fuoco con una rapidità incredibile.
Io vidi altra volta i fuochi notturni fatti accendere da uno dei grandi Capi dei Bèrta (Uàd-el-G¨àrbi) nella vasta pianura che divide lo Sciangàllah dall'Abissinia[24]; e quei fuochi mi colpirono d'un tale stupore, che per un pezzo non aprii bocca, e le prime parole rivolte al Gran-Capo furono l'esclamazione spontanea: bello! bello assai! Ma i fuochi [182] ch'io vidi dalle rive del fiume Bianco mi stupirono assai più.
Mi par di vederlo ancora quell'elemento divoratore, che in poche ore tutte distrugge le secche erbe e le foglie delle piante che sono disperse in quelle vaste pianure, le quali assumono poi l'aspetto d'immense carbonaie. — Solo alcuni arbusti continuano a bruciare. — Passata la notte, al primo riapparir della luce del giorno, ecco spiegarsi agli sguardi una nuova scena di viva sorpresa. Una miriade di colonne di fumo vermiglio, sulfureo, bianco, nero, fuggono rapidissimamente e s'allungano a perdita d'occhi, ottenebrando e tingendo di colori sinistri il vasto orizzonte. Larghissimi tratti scorgonsi coperti d'uno strato di cenere bianchissima, come se fosse nevicato. Invece che ai tropici, lo spettatore, per un momento, può credersi trasportato nella zona glaciale. Qua e là monticelli anneriti lacerano il bianco lenzuolo, come nel disgelo le prominenze erbose d'un padule spuntano fuori dal manto di neve; e il fumo ancor serpeggiante dappertutto sparge su questo quadro imponente come un velo di nebbia; e gli alberi colle loro braccia spoglie e stese verso il cielo completano il paesaggio d'inverno.
Fattosi chiaro giorno, Negri, uomini e donne, errano nella vasta pianura arrestandosi davanti a corpi morti o feriti di bestie feroci, di serpenti e di grossi uccelli; e gli anneriti cumuli, opera delle formiche [183] nella stagione piovosa, alti da un metro e mezzo a due metri, s'ergono qua e là, vecchie tombe, come tosto vedremo, di estinti animali.
Havvi nel Sudàn, ma specialmente in questi luoghi bassi e paludosi, gran numero di formiche, di varie specie, e io procurai di studiarne un poco i costumi.
C'è una formica rossastra e piccola, la quale s'occupa unicamente a raccoglier sementi di cui fa anche conserva; essa vive in compagnia, soggiorna sotterra e non esce che nella stagione piovosa a procacciarsi il vitto. Questa formica dai Dénka è chiamata a-gñièg o a-ñġièg (sapiente).
Un'altra formica piccola e nera, di cui la puntura è assai dolorosa, trovasi da per tutto, in qualunque stagione, e dicesi Aciùk.
Osservai pure una formica grossa e nera, alla quale i Dénka danno il nome di agingìn o agiìn, e si ciba solo di altre formiche.
Havvi poi una formica che non si pasce che di ciò che è dolce, ed è nominata areròu.
Ma la formica, che può recar gravi danni agli indigeni ed ai viaggiatori inesperti, è la formica bianca che gli Arabi appellano àrda (dalla parola ard — terra), e i Dénka vdièi. Questo insetto è della grossezza delle nostre formiche comuni, e si nutre [184] principalmente di legno; del resto egli divora ciò che gli si presenta, il cuoio, la carne, il cartone, la carta sopratutto; e torna assai difficile il preservare da suoi attacchi i libri e gli abiti di qualsiasi specie. D'un mio giornale, che mi tenevo conservato con tanta cura, fu rosicchiato quasi tutto il cartone da queste maledette formiche, nello spazio d'una sola notte, e fu un mero accidente ch'io l'abbia potuto salvare, nel mattino, dalla totale distruzione. Dovetti tirarlo fuori da un vecchio baule di pelle per consultarlo, e m'accorsi del pericolo ch'aveva corso. Le formiche, di fatto, erano penetrate per di sotto, dal fondo del baule, sebbene fosse un po' sollevato da terra per mezzo di due liste di legno poste alle estremità; e nulla esteriormente faceva sospettare la loro presenza. D'allora in poi, carte, cartoni, scatole, astucci, biancheria, vestiti, tutto insomma solevo tener sospeso con delle corde al tetto della mia abitazione. Così gli indigeni riescono a conservare intatte le loro provvisioni giornaliere. Quanto ai loro grani, essi li depongono in grandi e profonde fosse, la cui parte inferiore e le pareti sono coperte d'una cert'erba, dalla quale questi insetti si tengono lontani. Essi cominciano il lavoro di sotto terra, ed allorquando sono arrivati alla superficie del suolo non l'intralasciano, ma per mezzo d'una secrezione viscosa, che è loro propria, uniscono le particelle più minute della polvere che li circonda, e formano una [185] specie di smalto, costruendone piccole gallerie, che aumentano sempre più e si sviluppano pel continuo e nascosto lavorìo di questi insetti, che camminano sempre al coperto. Il lavoro dura per quasi tutta la stagione piovosa, e l'edificio che ne risulta ora racchiude un corpo di bestia morto, disseccato dal sole, ora un oggetto di cuoio od uno straccio qualunque abbandonati nella pianura, o il tronco di un albero, il più delle volte d'acacia, e presenta alla sua base un raggio di tre o quattro piedi. Esso s'inalza qualche volta all'altezza di due metri, e non è abbandonato dalle formiche che allorquando non rimane più traccia dell'oggetto che viene assediato.
Nelle paludi trovansi due altre specie di formiche; la formica rossa, mormuòr, e la formica volante, agnièl. Quest'ultima formica fabbrica pure monticelli di terra simili a quelli dell'àrda, e cessata la stagion delle piogge n'esce coll'ali.
Fu allora ch'io vidi molte di queste formiche abbandonare le loro gallerie e rimanersi per qualche tempo immobili e come istupidite, e molte invece darsi a movimenti disordinati, ed agitar l'ali con una impazienza e con un'ebbrezza al tutto singolare; mentre altre, che non erano alate, si mostravano affaccendate ed occupatissime nell'assistere le loro compagne.
«Ecco, io dissi, come anche in questa società di formiche si trovano i maschi, le femmine ed i [186] neutri, che sono le femmine abortive, nelle quali, come nelle api operaie, gli organi del sesso, per procurata scarsezza o per qualità d'alimento, ristettero dallo svilupparsi. I maschi e le femmine hanno l'ali, e i neutri ne son privi, e ad essi incombono tutte le cure, che si riferiscono alla conservazione e all'ordine interno della società. Son essi che scavano sotterra il formicaio e costruiscono poi sopra l'edificio, di cui ho detto. Son essi, che senza posa battono la campagna, quando in colonna e quando alla spicciolata, in cerca di alimenti; son essi che assistono, invigilano e nutrono i maschi, le femmine e le nuove generazioni imboccandole come fanno le madri coi loro uccellini. Quindi, da operai fattisi soldati, son essi che, in casi non infrequenti di aggressione, difendono la città, o che, toccando una sconfitta, migrano a nuove sedi portando tra le mandibule i più preziosi loro averi, cioè i maschi, le femmine, le uova, la carne, e le ninfe. Or questi operai, che sono tanto gelosi custodi de' loro maschi e delle loro femmine, e che ostinatamente si oppongono perchè non escano dai loro alloggiamenti, son poi essi medesimi che, arrivato il dì e l'ora delle nozze, gli spingono ad uscirne, e lasciano che spieghino il volo per compiere negli spazi dell'atmosfera l'ultimo voto della natura, la propagazione della specie.»
[187]
Io visitai pure la paludosa regione dei Nuèr nella stagion delle piogge, e le impressioni che n'ebbi allora le trovo registrate sur un mio giornale di viaggio e compendiate, sotto date diverse, nelle parole « — che curiosa levata di sole! — qual magnifico quadro! — che bizzarro tramonto! — che notte orrenda! maledette zanzare!»
Più d'una volta, in sul mattino, io vidi il cielo tutto coperto di nuvole, da una parte infocate dal sole nascente e rotte in vari punti da raggi vivissimi, e dalla parte opposta nere e rigate da striscie oblique di pioggia. Da questo cielo inquieto scendeva una luce strana, che pareva passata a traverso una volta di vetro giallastro, e dava alla vastissima pianura tutta coperta di verdeggianti erbe e d'arbusti una tinta arrabbiata.... che non saprei dire di qual colore; e da per tutto stormi di grossi uccelli che andavano e venivano dall'una all'altra riva del fiume; e qua e là qualche scimmia, che faceva capolino fra l'erbe dalla punta de' formicai. E vidi in sulla sera tramontare il sole sotto un padiglione immenso di nuvole color d'oro e di bragia, e, lanciando rasente la pianura i suoi ultimi raggi sanguigni, calare dietro a un velo di vapori color di piombo come un enorme disco rovente, che si sprofondi nelle viscere della terra.
E la notte?.. la notte era impossibile di poter [188] dormire. — Nessuno può immaginarsi, se non l'ha provato, il tormento, l'irritazione, ch'arrecano le zanzare in questo paese basso e acquitrinoso. — Non appena è tramontato il sole, ch'esse s'annunziano con un acuto ronzìo, e a miriadi ti perseguitano da per tutto, assetate di sangue, e ti trafiggono la pelle iniettandovi il loro fluido velenoso, che ti cagiona tosto un prudore insopportabile. Io era costretto a balzar fuori dal casotto della mia barca, non so quante volte, come un disperato che non può più difendersi da mille nemici, che tentano di ammazzarlo a poco a poco a forza di punture.
I Nuèr sono ben fatti della persona, e la loro corporatura è robusta e fatticcia. Essi posseggono molto bestiame e sono dati all'agricoltura, specialmente alla coltivazione del dùrah.
Gli schiavi, ch'essi ritraggono dalle tribù vicine, son quelli che eseguiscono i lavori più faticosi della campagna.
I Nuèr sono spesso in guerra coi Negri di altre tribù, e i pascoli principalmente sono il motivo delle loro querele.
Essi, come tutti i Negri del Sudàn, non oltrepassano i confini della loro tribù che per combattere, e mai da soli, nè allo scopo di stringere relazioni [189] di commercio. — Quindi assoluta mancanza di comunicazioni. — Una tribù non conosce i costumi dell'altra, massime se un po' lontana e parli una lingua diversa. Per la qual cosa il Negro di una tribù, credulo e timido per natura, immagina prodigi e favole sul conto dei Negri d'un'altra tribù ov'egli non abbia ancor posto il piede.
Tutti gli storici dell'antichità sono pieni di simili testimonianze; essi veggono ovunque cinocèfali e mostri; e se noi ne vediam meno, è perchè siamo più istruiti, più osservatori e meno creduli.
Ctesias, nell'epitome della sua storia dell'India datoci da Photius, entra nei più minuti dettagli intorno ai cinocèfali.
«Nelle sue montagne (dell'India), egli dice, havvi degli uomini con testa di cane, i quali vestono pelli di bestie feroci. Essi non fanno uso, come noi, del linguaggio; abbaiano come i cani, e s'intendono scambievolmente. I loro denti sono più lunghi di quelli dei cani, e le unghie rassomigliano a quelle di questi animali, ma sono più lunghe e più rotonde.»
Non si crederebbe qui forse che Ctesias ne avesse veduto un gran numero?
Nè meno esplicito è Erodoto. «In questa parte occidentale della Libia si trovano serpenti d'una grandezza straordinaria, leoni, elefanti, orsi, aspidi, asini cornuti, cinocèfali ed acefali, i quali hanno, se dobbiamo prestar fede a quei di Libia, gli occhi [190] al petto. Veggonsi pure uomini e donne selvaggi ed altre bestie feroci.»
Quante volte io stesso ho avuto l'occasione di udire simili racconti! Ne potrei comporre un grosso volume se volessi riferire solo i principali fra quelli che mi fecero impressione. E non è necessario di internarsi nell'Africa per raccoglierne molti; in tutte le città dell'Egitto stanziano genî e mostri; e non può essere che gente incredula, come noi, che passi loro vicino senza vederli.
Quindi è che gli Africani contano antropofagi assai più che non esistano realmente. I Negri idolatri del Sudàn considerano noi stessi come cannibali; e ciò mi pare che basti per metterci in guardia ad accettare con riserva quanto essi ci dicono di altri popoli. Allorquando i Negri ci parlano di antropofagi stabiliti al sud della loro tribù, altro non esprimono se non che non gli hanno veduti, e che temerebbero d'abbattersi con que' mostri feroci assetati del loro sangue. Noi siamo per essi il tipo della bruttezza e della crudeltà — non dimentichiamolo.
Quanto poi agli incettatori di schiavi, questo cannibalismo, di cui essi accusano le loro vittime, è un pretesto a giustificare la loro condotta. Impadronendosi di questi infelici, dicono: noi non facciamo che compiere un atto meritorio, liberandoli dal dente divoratore.
Davvero! che se questi cacciatori d'uomini fossero [191] in Europa, si qualificherebbero per filantropi e pretenderebbero d'essere paragonati a S. Vincenzo di Paola.
Allorquando in Africa si vuol saccheggiare e ridurre a schiavitù una popolazione, basta accusarla di cannibalismo.
Così in ogni paese, il forte non manca mai di sottili pretesti per opprimere il debole; e non è che la critica sana e spregiudicata, la quale sappia smascherare la male giustificata ipocrisia dei forti.
Le capanne dei Nuèr, come quelle dei Scìluk, sono fatte di paglia; hanno per lo più forma conica e sono grandi assai; alcune di esse sono costruite appositamente per accogliervi i forestieri. Le abitazioni di una famiglia sono lontane da quelle di un'altra dai cinquanta ai trecento passi.
Quanto alle credenze religiose, essi credono nell'esistenza di Dio; ma a lui non attribuiscono nessun culto. Sentono che gli avvenimenti dipendono da una forza occulta, che bisogna rendersi favorevole. Da ciò ne vengono i sacrifizî, che di quando in quando offrono al Genio malo, onde allontanare i malefizî e gli avversi destini. Professano grande stima ai loro Kogiùr (indovini), i quali avrebbero [192] l'abilità di annunziare la pioggia e le disgrazie, e di rendere la salute ai loro bestiami.
I Kogiùr sono d'una scaltrezza mirabile. Essi sanno così bene condursi nelle molte e varie occorrenze del loro mestiere da cavarsela in ogni modo, fuggendo noie e rimproveri, e avvantaggiando sè stessi. Io credo sieno i più ricchi della tribù, poichè non fanno mai nulla per nulla.
Un buon Kogiùr è ricordato anche dopo morte; tutta la tribù l'accompagna al sepolcro e lo piange; la sua tomba viene poi coperta da una grande capanna, che addiviene luogo sacro e d'invocazione. Nella capanna sta sempre un vaso d'acqua lustrale, e intorno ad essa vengono spesse volte piantati, a mo' di siepe, denti di elefante per onorare il santo.
I Nuèr sono assai superstiziosi, e sovente accendono nella notte dei fuochi per discacciare i mali spiriti. Qualche volta però dànno fuoco a dei fascetti d'erba secca, che tengono in aria colle mani sì che possano essere veduti dai loro vicini, i quali alla lor volta fanno medesimamente, per avvertire i più lontani di qualche pericolo che li minacci.
Questi Negri, meno miserabili di tante altre tribù, sono vivaci, scherzevoli, e trovano il tempo di abbigliarsi nei modi più strani e ridicoli. Alcuni fra [193] gli uomini copronsi il capo con una berretta, fatta in varie fogge, di tela di cotone, adorna di piccole conchiglie del mar rosso, che comprano dai mercanti di Chartùm; ma i più hanno i capelli impiastricciati con cenere ed olio di ricino in maniera da farne apparire acconciature bizzarre e stravaganti. Quasi tutti portano un braccialetto d'avorio sopra il gomito, e sono ignudi. Compagni loro indivisibili sono la lancia e lo scudo, o il bastone e la pipa (tógñ-de-tàb). Entrambi i sessi, usciti appena dall'adolescenza, fumano tabacco da grandi pipe fornite di grosso cannello, a metà del quale è una scorza di zucca piena di stoppa e di pezzetti di legno odorosi, per la quale si espande il fumo, di cui s'impregna la stoppa, mentre esso riceve odore aromatico dai pezzetti di legno, e n'esce più fresco.
Le donne usano di adornare le orecchie di anellini di rame e di ferro; e le più ricche ne hanno uno grandissimo, che pende dall'estremità dell'orecchio destro. Molte poi sopra il labbro superiore attaccano un filo di ferro, lungo quasi una spanna, che sporge dalla faccia orizzontalmente, e che, quando parlano, va su e giù in guisa da farti ridere. Donne e fanciulle non si coprono che quando debbono uscire dalle loro capanne; allora cingono alle reni due pelli di capra, l'una davanti e l'altra di dietro, fregiate di conchiglie e di catenelle di ferro.
[194]
I Nuèr sono abilissimi cacciatori di coccodrilli, d'ippopotami e di elefanti.
La caccia che dànno al coccodrillo e all'ippopotamo non differisce da quella dei negri Dénka[25]. Ma per cacciare l'elefante s'uniscono in numero di venti o trenta, e ciascuno alla sua volta lo assale. Il primo che riesce a ferirlo ottiene il più pesante dei due denti del mostruoso animale; il secondo ha diritto all'altro dente; e tutti gli altri se ne dividono le carni.
I Nuèr che, come dissi, sono spesso in guerra coi Negri di altre tribù, intraprendono ogni anno spedizioni, a diverse riprese, verso il sud, e sempre all'incominciare del charìf (della stagion delle piogge). Allorquando gli abitanti del sud scorgono qualche nube comparire all'orizzonte, esclamano ad una voce: prepariamoci alla difesa! I Nuèr sono vicini! E difatto lo stesso giorno, o il giorno dopo, eccoli in numero di quattro o cinque mila, divisi in tre o quattro drappelli, lanciarsi con audacia incredibile sopra paesi interi, e derubarli di tutto quello che viene loro alle mani, e percuotere, ferire, ammazzare senza pietà quelli che loro si oppongono, e condur via schiavi uomini e donne, che non riescano a salvarsi colla fuga.
[195]
Il 19 dicembre 1859 percorrevo il fiume Bianco per la terza volta, ed ero diretto a Kondókoro nella tribù dei Bàri. — Avevo passata di poche miglia la paludosa e malsana regione dei Nuèr, ed ero entrato in quella dei Kìc. — Erano le ore 4¾ pomeridiane, quando nella camera della dahabìah, ove stavo scrivendo, mi si presentò il turcimanno Cher-Allàh, il quale con accento di pietà e cogli occhi pieni di lagrime, disse: padre.... or ora spirò... e poi diede in un dirotto pianto.
Dio! — sclamai alzando gli occhi e le mani al cielo, — abbi misericordia di lei!
Povera schiava! che ancor non avevi pregustato il dolce della tua ricuperata libertà!
[196]
Era nata questa donna fra le montagne di Nòba; ancor piccina fu rapita dagli Arabi, e dopo qualche tempo i suoi genitori, ch'erano ricchi in bestiame, riuscirono a riscattarla. A circa vent'anni fu dalla madre, chè il padre era morto, maritata ad un Negro della stessa tribù.
Per tre anni vissero in pace i due sposi, che si amavano appassionatamente, e la loro gioia non fu turbata che dalla perdita di un bambino. La giovine madre lo pianse con un dolore tanto profondo, che il marito dovette qualche volta farle dolci rimproveri, vedendo che non l'acquetavano i conforti.
Finalmente ebbero un altro figlio, ed allora la pena della madre si calmò, e il suo cuore, riattaccato alla vita da quel secondo bambino, sentì rimarginare a poco a poco la passata ferita.
Trascorsero poi trentasei lune; e un giorno, verso sera, in cui la donna si trovava nella sua capanna col figliuolino di tre anni, aspettando ansiosa il marito che tornasse dal pascolo col suo piccolo gregge, udì una voce al di fuori che esclamava: povera donna!... quanto sei disgraziata!... che tu non fossi mai venuta al mondo!... tu vivesti lieta fin qui, ma ora.... ah! che tu non l'avessi mai conosciuto quel buon uomo!... e che cosa sarà di te e del tuo figliuolino.... ora che hai perduto colui, che amavi tanto, e da cui fosti tanto riamata!...
La donna, avvicinatasi d'un salto alla porta, aveva [197] capito che quelle parole erano dirette a lei. Poteva ingannarsi? — Altre capanne non erano vicine alla sua; il cuore cominciò a batterle con violenza, ed involontariamente ella strinse così forte suo figlio fra le braccia, che quella creaturina levò sopra lei uno sguardo di stupore, e disse: mamma! che cosa hai che ti fa male?... Nello stesso momento entrò nella capanna la madre della sposa, tutta convulsa, e corse ad abbracciare la figlia, annunziandole con voce interrotta da affannosi singhiozzi che suo marito.... era divenuto schiavo degli Arabi. — Sorpresa ed atterrita la figlia a così crudele notizia, chinò tosto la fronte sulla spalla della madre, e scoppiò in un pianto da disperata. — Invano la madre tentò di calmarla nella dura sorte di tanta sventura. — La mia vita, gridava ella, è amara come il fiele! io sono da questo istante una tormentata senza speranza.... no, voglio vederlo ancora.... lo vedrò.... e perchè vivere altrimenti?... io vorrei esser morta mille volte piuttosto che averlo perduto!... maledetti Arabi!... ed in virtù di qual diritto voi ci rubate le nostre gioie?... ecco quello che vorrei sapere. — Non siamo noi uomini come siete voi? e perchè ora opprimerete quell'uomo, che è mio? perchè lo sferzerete, l'ucciderete forse per mangiarne le carni? — Figlia, tu mi spaventi, disse la madre; io non ti ho sentita mai parlar così; e temo che tu ti lasci trasportare dal dolore a qualche eccesso. Capisco, [198] tu l'amavi molto il tuo marito, e sommo dev'essere il dolore che senti per la sua perdita, da farti perdere quasi la ragione; ma t'acqueta, te ne prego, per l'amore del tuo figliuolino, che è qui che ti guarda attonito, e dell'amata tua madre. — La figlia rimase tacita e tremante per qualche minuto; e traendo il fanciullino verso le sue ginocchia, contemplò i grandi occhi neri di lui, cavando lunghi e profondi sospiri senza proferir più parola. Vennero poco dopo per confortarla parenti ed amiche. — Ella tacque sempre; e a notte bene avanzata fu lasciata sola col figlio, com'ella desiderava, nella sua capanna. — La madre fu l'ultima ad abbandonarla, e prima le raccomandò di rassegnarsi al destino e di non commettere atti imprudenti.
Rimasta sola la povera donna col figlio che dormiva in un angolo della capanna, gli gettò sopra uno sguardo inquieto.... povera creaturina! — Ella pensò quindi tra sè — povero figlio! ti hanno rapito il padre.... ma tua madre te lo farà trovare.... sì, senza dubbio, lo ritroveremo; io conosco press'a poco la via che gli Arabi debbono avere battuta per condurlo alle loro tende.... e noi la seguiremo finchè l'avremo trovato; meno male vivere insieme tutti e tre schiavi degli Arabi, che liberi ma separati da lui. — Donna infelice, che cieca d'amore non hai presente che il marito, e non comprendi la mala ventura che imprudentemente tu sfidi! — Due ore avanti che spuntasse [199] il dì, la Negra, preso un po' di pane che ravvolse nella sua farda, e un po' d'acqua in un piccolo recipiente di terra, s'avvicinò al bambino che dormiva, e durò fatica a risvegliarlo. Dopo alcuni sforzi egli aprì gli occhi, e vedendo la madre affaccendata:
— Dove vai, mamma? egli chiese quando essa fece per prenderselo in braccio.
La madre fissò gli occhi sopra quelli del figlio in modo così grave, ch'egli capì subito che era per avvenire qualche cosa straordinaria.
— Zitto, figliuol mio! ella disse; parla piano; potrebbero sentirti, e impedirci che ce n'andiamo a ritrovare il padre tuo. Gli Arabi, che sono bianchi, ce l'hanno portato via, lontano; ma la tua mamma vuol ritrovarlo, e vivere insieme con lui e col suo caro figliuolo.
La madre così parlando prendeva fra le braccia il bambino, raccomandandogli il maggiore silenzio; ed uscì dalla capanna.
La notte era fredda; il cielo scintillava di stelle; e la povera madre si stringeva il fanciulletto al seno, mentre che esso, muto di spavento, le si attaccava al collo con ambedue le mani. La donna intanto s'avanzava a passi leggieri e frettolosa, premendole di torsi alla vista di chi avrebbe potuto conoscerla prima ancora che spuntasse il giorno; e piangeva dirottamente e singhiozzava da far pietà ai sassi.
Erano singhiozzi, erano lagrime simili a quelle [200] che potresti versare tu, o ricca, sulla tomba del tuo marito, o sul letto delle sue agonie; poichè tu, sebbene coperta di seta e di gioie, sei pure una donna come quella povera Negra; e le tue miserie e i tuoi dolori non potrebbero avere, no, una maggiore amarezza.
L'imaginazione non potrebbe rappresentarsi una donna più desolata ed abbandonata di quella povera Negra, quando s'allontanò dalla propria capanna. Il pensiero della dura ed atroce condizione, nella quale dovea trovarsi il marito, e del pericolo ch'essa correva col figlio per andare in traccia di lui, le si confondeva nello spirito coll'angoscia che provava lasciando per sempre il suolo nativo, la madre, i parenti e le amiche. Poi era combattuta dall'imagine de' luoghi ove era cresciuta, degli alberi sotto i quali aveva scherzato bambina, dei boschetti, ove in giorni più felici aveva passate tante ore col suo giovine sposo; e tutto quanto scorgeva in quella serena e fredda notte stellata pareva le parlasse con voci di rimprovero, e le domandasse come poteva ella mai lasciare e per sempre tante care memorie!
Ma l'amor coniugale spinto in un parossismo di esaltazione, mentre ella si figurava nella propria fantasia il miserabile stato del diletto marito, era più forte di qualunque altro amore.
Il fanciullino era abbastanza grandicello per camminare, almeno qualche tratto di via, a fianco della [201] madre; ed in qualunque altra occasione ella lo avrebbe condotto per mano; ma in quell'ora, il solo pensiero ch'egli potesse venirle rubato, e che essa non avrebbe potuto quindi più abbracciarlo, la faceva fremere; e lo riteneva al seno stringendolo convulsivamente, mentre essa non andava, ma correva.
E ad ogni rumore che udiva, o che le pareva di udire, rabbrividiva; una foglia tremante e un'ombra che vacillava facevano rifluirle il sangue al cuore e precipitare la corsa; ogni moto di timore pareva aumentare la forza straordinaria che l'animava.
Il fanciulletto dormiva. Dapprima la novità e il timore lo tennero svegliato; ma dietro alle ripetute assicurazioni della madre che, se stesse tranquillo, lo avrebbe condotto al padre suo, egli si strinse dolcemente attorno al collo materno, e non parlò che per chiedere, quando si sentì vinto dal sonno:
— Mamma, non occorre ch'io stia svegliato, n'è vero?
— No, mio caro, dormi se ne hai bisogno, che veglierà tua madre.
— Ma, mamma, se dormo non mi porteranno via?
— No, no, sta sicuro: finchè io son viva non permetterò mai che tu sii separato da me. — Il fanciullo colle sue braccia strinse più forte il collo della madre, e lasciò cadere la testa sulla spalla di lei, mentre essa al contatto di quelle braccia calde, e al dolce respiro del figliuoletto, oh! come doveva [202] sentirsi piena d'ardore e di coraggio! Ella quindi continuò senza posa il cammino fino a tanto che i primi chiarori dell'aurora le fecero scorgere il principiare della foresta, nella quale dovevano essere attendati gli Arabi; e dopo mezz'ora prese il sentiero che vi s'addentrava. Depose quindi a terra il bambino, e conducendolo per mano: andiamo innanzi, ella diceva, da bravo! vediamo quanto sei capace di camminare. — Di lì a poco il fanciullo cominciò a lagnarsi d'essere stanco, d'aver fame e sete. Allora la povera donna lo fece sedere, ed ella sedette con lui, sotto una frandosa pianta, e gli porse da mangiare e da bere di quel poco che aveva portato seco. Il fanciullino bevette e mangiò qualche cosa, ma si rammaricava e si crucciava perchè la madre non voleva prender cibo nè bevanda; e quando egli, cingendole il collo con un braccio, tentò porle in bocca un tozzo di pane, ella si sentì soffocata, e disse: no, no, amor mio, la mamma non può nè potrà mangiare sino a tanto che non avrà trovato il padre tuo. Avanti, figliuol mio, avanti! non perdiam tempo, che non c'incolga la notte qui nella boscaglia, perchè in tal caso ci divorerebbero le bestie feroci. Ella si mise poi questa volta a cavalluccio sur una spalla il bambino, che vi si reggeva abbracciando con ambo le mani il capo della madre, la quale si precipitò sulla via, sperando d'incontrar presto una stazione di Arabi, e presso loro il dilettissimo suo marito.
[203]
Con quella speranza nel cuore tirò innanzi, e non s'arrestò che verso il mezzogiorno, allorchè vide due donne arabe sedute sotto un albero, che la guardavano sospettose. A quella vista la tensione straordinaria dei nervi di quella povera Negra tutt'a un tratto scemò, ed ella sentissi estenuata per la stanchezza e per la fame; potè a stento avvicinarsi alle due donne, presso le quali depose il bambino, e sedette sfinita co' piedi feriti, lacerati e grondanti di sangue.
— Donde vieni e dove vai con questo bambino? — le chiesero quelle donne, curiose di saper qualche cosa.
— Vengo dal paese di Nóba, rispose con quel po' d'arabo che aveva imparato da piccina, e vado in cerca del mio marito, e padre di questo bambino; egli mi venne rapito ieri dagli Arabi col suo piccolo gregge; mia madre me ne diede la prima il triste annunzio; io mi risolsi d'andarmene in cerca finchè l'avessi trovato, dicendo fra me: meno male vivere insieme tutti e tre schiavi degli Arabi, che liberi, ma separati da lui.... e se voi, o donne, ne sapeste qualche cosa, non vogliate nasconderlo a una moglie sventurata, a un infelice figliuolo!
L'aria d'inquietudine e di scoraggiamento della povera Negra fece impressione a quelle due donne, le quali commosse le dissero che veramente ier notte era stato condotto in casa del loro Capo un Negro schiavo di Nóba, il quale poteva avere trent'anni, ed era di media statura....
[204]
— Proprio lui, esclamò la Negra, battendo palma a palma, e cogli occhi fuori dell'orbita e brillanti d'emozione. Balzò quindi in piedi, prese il bambino in braccio, e si pose in atto di correre.... ma non conosceva il sentiero che menava alla stazione.... e scongiurò quelle donne che gliel volessero indicare.
— No, no, non è bene che tu ti presenti senza essere accompagnata da qualcheduno della tribù alle nostre tende; tu diverresti, col tuo figliuolo, schiava del Capo, che è un padrone duro, che tratta assai male i suoi schiavi....
— Oh Dio! gridò la Negra, il vostro Capo vuole ammazzarmi il marito.... e cadde svenuta e come morta.
All'aspetto di quel viso immobile e di quelle membra irrigidite, le due donne arabe si sentirono comprese d'un fremito di pietà; e l'emozione impediva loro quasi di respirare; e l'una si sforzava di richiamare ai sensi la povera Negra, mentre l'altra teneva sulle ginocchia il bambino, che attonito fissava gli occhi sbarrati sulla madre, ma non piangeva; egli era giunto a quel punto in cui la sorgente delle lagrime è inaridita.
— Povera donna! dicevan esse, piene di compassione, l'han fatta venir meno le nostre ultime parole!
Dopo qualche minuto ella aprì i grandi occhi neri, e lanciò intorno uno sguardo smarrito; e subito [205] un'espressione d'agonia sconvolse il suo volto, e si alzò bruscamente gridando: ah! il mio figlio! mio figlio! me l'hanno rapito!
Il fanciulletto, udendo quella voce, saltò dalle ginocchia dell'Araba, e correndo alla madre la recinse colle braccia.
— Oh! egli è qui, egli è qui! esclamò ella.
— Le due donne allora: non temere, dissero con accento affettuoso, nessuno ti farà del male.
— Iddio vi benedica! soggiunse la Negra coprendosi il volto colle mani e singhiozzando, mentre il fanciulletto, vedendo ch'essa piangeva, tentava di salire sulle ginocchia di lei.
Le due donne arabe quindi le ripeterono che non era bene ch'ella si presentasse col solo bambino alle loro tende, ma che conveniva restasse nascosta, finchè esse fossero andate a casa e tornate a prenderla coi loro mariti.
Frattanto il bambino, sfinito del tutto, si lamentava; e la madre:
— Povero figlio! diceva accarezzandolo; tu non hai l'abitudine ancora di camminar molto, ed io t' ho fatto correre assai. Or, riposa, amor mio; e lo stese a terra supino, tenendo la di lui mano nelle sue, finchè fu addormentato. In quanto a lei, non avrebbe potuto prender sonno; e consunta dall'impazienza gettava lunghi sguardi sul sentiero, che presto doveva condurla al marito col suo bambino; e pochi minuti le parvero un secolo.
[206]
Finalmente ella vide comparire le due donne coi loro mariti, i quali la condussero col figlio in una capanna, ove furono lasciati liberi e trattati con umanità e benevolenza.
Qui la Negra non faceva che chiedere di vedere il marito; e lo chiedeva con tali accenti di ardente supplicazione, da intenerire il cuore più duro. Ma il Capo che già sapeva ogni cosa, e che non era uomo da commoversi facilmente, non volle permettere ch'ella vedesse il marito se prima non era divenuta sua schiava; ed essa, pur di vederlo e d'abbracciarlo, era disposta anche a questo.
I suoi ospiti però la sconsigliavano dal farlo, e la esortavano a tornar libera col suo figliuolino nel proprio paese; ma invano: essa preferì d'essere schiava col figlio in compagnia del marito, piuttosto che di andarsene separata da lui; e dopo dieci giorni fu consegnata col bambino al Capo della tribù, il quale la condusse bensì subito, ma senza il bambino, a vedere il marito. Questi giaceva, legato come un cane, tutto insanguinato in un angolo d'una vecchia ed oscura capanna, sulla nuda terra; l'atmosfera n'era insoffribile; e miriadi di zanzare irritavano colle loro punture le piaghe dell'infelice. Ma fra tutti i patimenti fisici che provava, il più intollerabile, quello che dava il colmo alla misura delle sue angustie, era una sete ardente che non poteva estinguere. Appena egli vide entrare nella capanna il Capo colla Negra, che non conobbe: un po' [207] d'acqua.... datemi un po' d'acqua! ve ne scongiuro — e ciò disse nella propria lingua, che il Capo non intendeva. La Negra mandò un grido soffocato, e come un lampo sparì dalla capanna; ma tornò subito con un recipiente d'acqua e corse all'assetato per dargli da bere, sollevandogli la testa. Egli bevette con ardore febbrile, e poi ringraziò la Negra dicendole: tu m'hai recato un gran sollievo! Ella si assise in terra, si cinse le ginocchia colle braccia, e lo guardò fissamente, senza che le fosse dato di proferir parola.
Lo schiavo pure la guardò, ma non potendo raffigurarla, perchè la capanna era oscura:
— Chi sei tu, buona donna, le chiese, che parli la mia lingua e senti tanta pietà del misero mio stato?
— Non mi conosci?... io sono tua moglie, e il bambino è qui fuori.... io venni con lui in cerca di te, e ti ho ritrovato.... Or sono contenta di poter vivere insieme, meno infelice che di trovarmi separata dall'amor mio, poichè io mi diedi schiava allo stesso tuo padrone col nostro caro bambino.
— Quanto coraggio! e quanto amore per me! tu hai voluto assoggettarti ad una vita di chissà quali patimenti per alleviare quelli di tuo marito! ma.... fosti mal consigliata. Io conosco per prova questo uomo crudele ed interessato. Noi saremo presto tradotti e venduti al mercato a diversi padroni; e così ciascuno di noi sarà più infelice di prima. Oh! potessi [208] io almeno pensare altrimenti di te, o cara, e del bambino! potessi dire che sono stato venduto io, e non tu nè il figlio! che voi siete al sicuro; che quello che avverrà non avverrà che a me solo!... ma noi tenteremo di fuggire tutti e tre prima d'essere venduti.... sì lo tenteremo. Qui non v'è alcuno che possa menomamente proteggerci. E questo uomo bianco è capace di tutto.... e non indietreggia dinanzi a qualunque misfatto. Se avessi cuore di dirti quello che ho sofferto in questi pochi giorni ch'io mi trovo presso lui, ti si rizzerebbero i capelli, e rabbrivideresti d'orrore.... è impossibile resistere!...
Il Negro disse tutto questo rapidamente e con un penoso stringimento di gola.
— No, no, soggiunse la Negra singhiozzando, voglio che tu mi prometta che non tenterai di fuggire.... Guai a noi se la nostra fuga venisse scoperta! egli diverrebbe furioso come una iena contro di noi; e non finirebbe più di maltrattarci, ci venderebbe sul mercato ad altri bianchi, e noi saremmo presto dilacerati dal loro ferro, o bruciati dal fuoco, o fatti pasto nei loro banchetti.
— Olà! basta, disse il Capo, sieno finiti i pianti e le smorfie. Ora mostratevi allegri, ve lo comando; guardatemi, guardatemi bene in volto.... e tremate. Egli levò quindi il pugno in aria, e sclamò: vedete questo pugno? è duro come il ferro, ed è divenuto tale a forza di battere i Negri; non ne ho trovato [209] un solo ch'io non potessi uccidere al primo colpo. Vi avverto che non mi sfugge nulla, siatene pur certi; ciascuno deve essere sempre pronto al suo dovere, ed ubbidire senz'altro quando io parlo; questo è l'unico mezzo di trovarsi bene con me; non v'aspettate la menoma dolcezza; io sono un uomo senza pietà.
Quindi s'avvicinò al Negro, e dandogli rabbiosamente una spinta col piede disse: Belàl! (era il nome imposto da lui a quello schiavo) levati su. Non te l'avevo detto che ti avrei insegnato a vivere come conviene? Credo che avrai trovata buona la lezione che ti diedi; e tu, o Bachìta, (era il nome imposto alla schiava), impara a sue spese a non voler mostrarti, come lui, ostinata a fuggire.
— Via, sorgi, animale! continuò il Capo, spingendolo ancora col piede.
Belàl non intendeva, e Bachìta l'avvisò di levarsi.
Egli allora, debole e coperto di piaghe, fece sforzi dolorosi per alzarsi, e il Capo si pose a ridere brutalmente.
Belàl stavasi ritto in faccia a lui col guardo mesto, e colla fronte calma.
— Ah! va bene! tu puoi starti in piedi! — soggiunse il Capo guardandolo dalla testa alle piante — credo che non ne avesti abbastanza. Adesso, Belàl, inginocchiati, e domandami perdono per aver tentato due volte di fuggire.
[210]
Belàl rimase immobile, perchè non intese ciò che gli era stato comandato.
— In ginocchio, cane! — riprese il Capo percuotendolo colla frusta, e facendolo poi cadere con un pugno — tu non sai quello che ti può avvenire: credi che ciò che hai avuto sia qualche cosa? non è nulla, te lo dico io, proprio nulla; ti converrebbe di essere attaccato ad un albero col fuoco acceso disotto....
— Ma.... perchè, o padrone, tratti così mio marito, disse Bachìta tremante e desolata, mentre egli non intende la tua lingua, e non sa quindi quello che tu gli dici?
Belàl cadendo in terra, vi si rotolò, torcendosi le braccia nel parossismo della rabbia, e disse: sì, fuggiremo, e se quel mostro d'uomo ci coglierà nella fuga, ci ammazzi pure; meglio è morire che essere trattati in questo modo.
Bachìta quindi per ammansire il Capo gli disse:
— Padrone! Belàl ti ha ringraziato ed ha promesso che non penserà più a fuggire, avendo omai seco la moglie e il figlio.
Il Capo si allontanò, risoluto di non spingere pel momento le cose più oltre; ed ordinò di slegarlo, convinto di ciò che gli avea detto Bachìta.
Passarono poi venti giorni, che furono per Bachìta un'angoscia continua.
Belàl stavasi quasi sempre solo nella sua capanna, triste, melanconico, pensoso, colla testa appoggiata [211] sopra una mano; parlava spesso e gestiva da sè; e qualche volta contraeva il volto, come all'apparizione improvvisa d'una immagine orribile. S'egli usciva dalla capanna, Bachìta tremando ne seguiva cogli occhi ogni passo e ogni gesto; talor l'accompagnava; lo cercava, lo chiamava. — Cosa pensi? gli domandava cento volte il giorno. — Ed egli rispondeva sempre: nulla!
Una mattina ella lo vide più inquieto, più triste, più stravolto del solito sotto una pianta, colle braccia incrociate sul petto, e cogli occhi spalancati e fissi al suolo. Bachìta piena d'affanno gli corse da vicino, s'assise, gli strinse una mano e gli disse a bassa voce, risoluta, con un accento in cui si sentiva tutto lo strazio dell'anima sua:
— Ascolta, mio caro, io non posso più vivere così! Mi sento morire! Non mi voler ridurre alla disperazione! Parla una volta, te ne scongiuro, dimmi che cosa pensi!
— Nulla.
— Non è vero! tu vuoi fuggire; e avresti il cuore di lasciarmi sola col figlio?
— No!
— Ebbene, qualche altro pensiero t'ingombra la mente forse peggiore... e voglio saperlo... io non parto di qui, nè ti lascio partire se non mi giuri che non fuggirai, che starai sempre con me, che mi amerai sempre; te ne prego in nome del bene che ti voglio, in nome di nostro figlio che tu ami tanto.
[212]
— Lo giuro — disse il Negro levando gli occhi da terra e fissandola in viso con uno sguardo attonito e pauroso.
— Lo giuri! gridò la Negra balzando in piedi e mettendogli le mani sulle spalle, giuralo un'altra volta.
— Lo giuro.
— Giuralo per l'amore, che nutristi sempre, e che pur ora nutri per me.
— Lo giuro.
— Giuralo ancora pel figlio tuo, che ami tanto.
— Lo giuro.
Bachìta lo guardò fisso, lasciò cadere le braccia, e mormorò in accento di profonda costernazione: — Non ti credo; hai qualche cosa negli occhi che non mi lascia credere.... e diede in uno scoppio di pianto.
Quindi il Capo fece chiamare Bachìta e Belàl, perchè ciascuno si ritirasse nella propria capanna; egli vedeva mal volentieri che si parlassero insieme; temeva che s'accordassero per fuggire, sebbene il figlio fosse sempre guardato nell'abitazione del Capo stesso.
Nel momento di separarsi, Bachìta disse al marito: ricordati che me l'hai giurato....
Questa vita però diveniva sempre più odiosa a Belàl. Tentò una volta di uccidersi; ma non vi riuscì. Il Capo allora lo fece battere finchè a lunghe striscie si vedessero fesse le carni e qua e là squarciate [213] in larghe piaghe. Bachìta non era presente; ma sapeva il castigo che gli veniva inflitto; e il suo cuore sanguinava internamente al pensiero di tanta ingiustizia verso il povero desolato, che doveva trovarsi ai piedi del Capo come una canna infranta.
Crudeltà sì orribili e fatti così atroci sembrerebbero incredibili se non fossero veri; e provengono, in moltissime circostanze, dall'inasprimento graduale delle due parti; il padrone diviene più crudele, perchè lo schiavo diventa più ostinato; e così quegli aumenta le percosse e i maltrattamenti a misura che in questo cresce l'ostinazione; e reciprocamente imbrutiscono.
Il Capo avrebbe voluto spedire i suoi schiavi al mercato di el-Obèid, nel Kordofàn, per esservi venduti; ma Belàl, nello stato in cui si trovava, non avrebbe potuto sostenere le fatiche del viaggio. Egli intristiva ogni dì più; non voleva più mangiare nè bere; era divenuto affatto insensibile agli ordini del padrone e alle preghiere della moglie, la quale gli diceva col cuore trafitto:
— Mangia, amor mio, chè tu hai fame! Bevi, te ne scongiuro, chè tu hai sete!
— No, egli rispondeva laconicamente, io non ho fame, nè sete.
— Ma questa tua fissazione.... ti condurrà alla morte....
— Alla morte; ripigliò lo schiavo con aria cupa, [214] tu non hai bisogno di dirmelo; lo so anch'io, e lo desidero.
Bachìta si sentì scossa da un tremito, e non parlò più.
Dopo due giorni si presentarono a lei due donne con aria mesta e cogli occhi lagrimosi, le quali le recavano il triste annunzio che suo marito era morto. Erano le due donne arabe, ch'ella aveva vedute nella boscaglia.
Bachìta alzò le mani al cielo; diede una lunga occhiata al suo bambino che le stava a fianco; i suoi grandi occhi si dilatarono per l'orrore, ma non versarono una lagrima; il colmo della sventura aveva impietrito il cuore di quella donna.
Da questo momento ella aborriva il Capo, e se qualche volta era pur costretta di vederlo, la paura la faceva fuggire inorridita.
Egli se n'avvide, e propose di venderla al più presto col figlio sul mercato di el-Obèid. Ma la Negra voleva ad ogni costo tornare in patria.
— Se tu non sarai buona, le diceva allora il padrone, e se non ti mostrerai allegra, io ti venderò separata dal figlio, e lui manderò tanto lontano che non potrai vederlo mai più.
Ella si sforzò d'esser tale, quale la pretendeva il Capo, nella speranza che la si venderebbe col figlio ad uno stesso padrone.
Fu comperata da un Arabo, che per circa quattro anno trattò madre e figlio con umanità; ma venuto [215] disgraziatamente a morte, il suo erede li condusse sulla piazza di el-Obèid per esservi venduti. Uno o due giorni dopo il loro arrivo, i due schiavi furono consegnati ad un sensale, vecchio del mestiere, il quale disse che la vendita doveva aver luogo al domani.
La povera Bachìta fu condotta col figlio in un gran cortile, per passarvi la notte, ov'erano raccolti molti altri Negri e Negre di diverse tribù e d'ogni età, i quali se la ridevano allegramente.
— Ah! benissimo, sempre così, figliuoli miei, sclamò il sensale: i Negri a me affidati debbono esser sempre di buon umore! È Mahàmmed, a quel che pare, la causa di tanto baccano: soggiunse egli volgendosi con tono di approvazione verso il Negro che faceva delle buffonate, le quali eccitavano gli applausi clamorosi degli altri Negri; applausi, ai quali Bachìta e il figlio erano ben lontani dal prender parte.
Bachìta s'assise colla faccia appoggiata ad una siepe, e coll'amato suo figlio fra le braccia.
Coloro che esercitano il traffico di carne umana fanno studiatamente ogni sforzo per mantenere l'allegrezza nei loro magazzini, essendo questo il miglior modo di tener distratti gli schiavi e di far dimenticare ad essi la loro condizione.
— Eh via! che fai tu qui pensosa? chiese il sensale indispettito avvicinandosi a Bachìta; e distribuendo poi a lei e al figlio un certo numero di [216] schiaffi e di calci, uscì dal cortile, dopo d'aver ingiunto a tutti di tenersi tranquilli e di dormire.
Bachìta, sempre ferma al suo posto, piangeva pensando al domani col cuore affranto dallo scoraggiamento, poichè ella presentiva che il suo caro figliuolo sarebbe stato venduto in anima e in corpo al primo venuto per quanto brutale e crudele egli fosse, purchè avesse denaro per comperarlo; che sarebbe stato condotto Dio sa dove, e che non l'avrebbe veduto mai più. Ella pensava a tutto questo per tutta la notte senza poter chiuder occhio, e di tratto in tratto stringevasi la sua creatura fra le braccia.
Ma ecco che spunta il giorno; la viva merce umana si leva da terra; entrano nel cortile compratori d'ogni paese; l'asta incomincia, e il figlio di Bachìta viene aggiudicato ad un mercante di Chartùm, mentre la madre passa nelle mani d'un mercante di el-Obèid.
Il Chartumèse prese allora il giovinetto duramente per un braccio, e lo spinse in un canto dicendogli con voce rauca: — aspettami qui.
L'asta continuava, e il mercante nubiano aveva l'intenzione di comperare altri schiavi per condurli poi sul mercato di Chartùm e venderveli a più caro prezzo.
Frattanto il giovinetto vedendo che sua madre veniva condotta via da un altro padrone, le si slanciò incontro gridando ed aggrappandosi alla povera e sdruscita sua farda. Il Nubiano gli corse dietro scagliando [217] orribili imprecazioni contro la madre e contro il figlio, cui percosse con varî colpi di sferza.... Ah! no, non batterlo così, disse la madre soffocata dal dolore.... egli è mio figlio. — Ed il mercante le rispose con un'alzata di spalle.
Il giovinetto continuava a gridare.... guardava la madre con aria compassionevole e sempre più si stringeva a lei. Ma quel miserabile uomo glielo strappò, strappandole insieme una parte della meschina sua veste, mentre l'infelice sclamava con voce lacerante: mamma, mamma mia!
La madre coll'anima trafitta dai gemiti del figlio fu strascinata alla casa del suo padrone. Ella lo supplicò che il figliuol suo non fosse bastonato; ed egli si pose a ridere dicendo: che ho io a fare col mercante che ha comperato il tuo figliuolo? In quel momento parve alla madre le si spezzasse qualche cosa nella testa: e al furor suo s'aggiunse una specie di vertigine.... tutto s'intenebrò agli occhi suoi, e fino al dì seguente non seppe più nulla di questo mondo.
Riacquistati i sensi, quella donna era triste, taciturna, dispettosa.
Il padrone minacciava di batterla se non si fosse mostrata un po' gaia.
Ma a nulla valsero le sue minacce, e dopo un anno fu costretto di venderla. Ella passò quindi di mano in mano, sino a tanto che, illanguidita, sbattuta e ammalata la comperò un miserabile uomo di [218] Bùri, villaggio sulla riva sinistra del fiume Azzurro assai vicino alla città di Chartùm. Qui la povera Negra era divenuta più triste, più melanconica, più cupa, più irritabile di prima, e più impaziente dell'orribile giogo della schiavitù. Ed anche da qualche tempo quella impazienza prendeva il carattere d'una follia furiosa. Due volte si gettò nel fiume per annegarsi e due volte fu salvata. Ella era giunta a quel punto della vita, in cui per lei era meno amaro il morire che il vivere.
Bachìta contava allora quaranta e più anni; e quindici n'aveva passati nella più dura schiavitù, fra le pene più atroci; aveva perduto il marito, che amava tanto; e al figlio pensava ora come a creatura morta.
Condannata a lavorare, vecchia com'era, tutto il giorno dai primi albori del mattino sino a notte avanzata presso la gente, a cui veniva dal suo padrone affittata, sotto la più severa ed incessante sorveglianza, destinata a patir sempre, a goder mai, disprezzata, schernita, percossa, senza libertà, senza patria, senza famiglia, senza una speranza di felicità più o meno vicina.... quale creatura maledetta da Dio.... oh! come poteva ella mai sentirsi attaccata alla vita!!! E pure?...
Mentre un giorno la povera Negra da Bùri si recava a Chartùm seguendo il sentiero lungo il fiume, s'incontrò per avventura coi giovani della Missione cattolica, i quali accompagnati dal loro maestro se [219] n'andavano verso Bùri nell'ora del passeggio avanti sera. La Negra si fermò a squadrarli meravigliata.... e tutt'a un tratto manda un grido di gioia, poichè ha ravvisato fra questi suo figlio, che tosto riconosce la madre....
— Chi è costei? chiese il maestro al giovine, fuori di sè per l'allegrezza.
— È mia madre.... mia madre!
— E tu, o donna, conosci questo giovine?
— Se lo conosco! è mio figlio.... mio figlio! rispose.
Questi due nomi, madre e figlio, furono pronunciati dalla donna Negra e dal giovinetto Negro con tanta espressione di affetto da non poter dire.
Oh! prezioso e solenne momento per una madre infelice di ritrovare il figlio, cui credeva perduto, e per sempre, e di rivederlo così ben vestito, pasciuto e contento!... Sì, che la tapina non aveva che un sucido cencio che le cingeva le reni, ed era smunta, affamata, oppressa sotto il peso delle fatiche, che il barbaro suo padrone le imponeva; ma da questo momento, io dico, meno crudele doveva tornare a lei la sventura e meno discara la vita.
Dopo il fortunato incontro passò lungo tempo, nè si seppe più nulla di lei, per quante ricerche sieno state fatte dai Missionari e dal suo figliuolo. Quando il venti novembre 1859, anno di fame in Chartùm, pochi giorni avanti la mia partenza pel fiume Bianco, verso la mezzanotte io sento picchiare [220] alla porta del cortile, ove solevo dormire sotto una grande rekùba coi giovanetti della Missione; sbalzo dall'angarèb su cui ero sdraiato, corro alla porta e domando: chi v'ha là! — Risponde una voce: «sono la povera schiava di Bùri, che viene a ricoverarsi presso il suo figliuolo nella casa della Missione.»
Io le aprii la porta, ed ella entrò continuando: «sono stanca di vivere una vita peggiore della morte; più non valgo a sostenere le dure fatiche, che m'impone l'inumano mio padrone; e non potendo eseguire quanto mi viene da lui comandato, io sono ogni giorno fortemente battuta; tel dica questo magro mio corpo coperto di piaghe; e voi che siete buona gente, deh! non vogliate abbandonare una donna infelice; liberatemi, voi che lo potete, da un cane rabbioso che mi perseguita, come avete liberato mio figlio da' suoi persecutori! — Il figlio era presente, e fissava la madre versando grosse lagrime senza proferir parola.
La Missione l'accolse benignamente in seno, e pensò subito a riscattarla.
Dopo due giorni venne sborsato al padrone della schiava il prezzo del riscatto, che fu di trecento piastre egiziane (circa settanta cinque lire italiane).
Parve allora a quella povera donna d'essere passata dalla morte alla vita; dalla dominazione del male a quella del bene, dal duro carcere d'un essere condannato alla libertà d'un'anima perdonata.
[221]
Qual penna varrebbe a descrivere la gioia di quel giorno, in cui venne sborsato il prezzo del suo riscatto, di quel primo giorno di libertà? poter essa agire, parlare, respirare, uscire di casa ed entrarvi senza essere sorvegliata.... senza correre alcun pericolo.... chi varrebbe, dico, a rivelare i sentimenti di quell'anima libera all'ombra della Missione, che le guarentiva i diritti che Dio ha dato all'uomo? Com'era bello, com'era dolce per una madre contemplare il volto dell'amato suo figlio cui credeva perduto, reso ora più caro dalla rimembranza dei mille pericoli corsi! Tanta gioia che riversavasi dal suo cuore allontanava da lei il sonno.
Nulla possedeva, è vero, quella donna che potesse considerare come cosa propria al mondo; nondimeno non poteva dormire; tanto era grande il suo contento!
O voi, che togliete all'uomo la libertà, in qual misura renderete conto a Dio!
Mentre Bachìta trovavasi libera e beata nella Missione Cattolica col diletto suo figlio, capitò dall'Europa in Chartùm il Provicario Apostolico Matteo Kirchner, ed io venni da lui incaricato di partire pel fiume Bianco colla Stella-Mattutina (grande dahabìah della Missione) e con tre altre barche vuote per richiamare, col beneplacito di Roma, i missionari Francesco Morlang presidente e Luigi Vichweider da Kondókoro (tra il 4º e il 5º lat. N.), e Giuseppe Lanz presidente e Antonio Kaufman da Santa-Croce [222] (6°, 40′ lat. N.), e per condur via meco i giovanetti negri e le giovinette, ch'erano presso i Missionari nelle dette stazioni, mentre il Provicario sarebbe tornato in Assuàn, rimpetto a File, per fondarvi una nuova Stazione.
Allora il Provicario pregava Bachìta perchè volesse, in compagnia d'un'altra Negra, ch'era cristiana, partir meco sul fiume Bianco per lavorare il pane a' barcaiuoli della grande dahabìah, promettendole che quando fosse ritornata, ella sarebbe venuta co' Missionari nella novella Stazione presso l'amato suo figlio. Bachìta v'acconsentì volentieri, e partimmo insieme il primo dicembre 1859.
Durante il viaggio ella mi parlava spesso del figlio, e non vedeva l'ora di rivederlo e di star sempre con lui. Mi narrava le avventure della sua vita, specialmente dopo d'essere fuggita da Nóba in cerca del marito; e me ne disse tante da farci un romanzo.
Quant'io ho detto non è che un embrione di ciò che avrebbe potuto dettare una penna meglio esercitata che la mia; ed oserei dire che nessuno varrebbe a descrivere ciò che quella donna espresse col linguaggio della parola, degli occhi e del gesto.
Io pure le parlavo spesso del figlio, e le dicevo che fu riscattato da noi Missionari sul mercato di Chartùm per istruirlo e per educarlo alla nostra religione, che è religione d'amore, che c'insegna di non far male a nessuno, e di giovare, potendo, a [223] tutti, perchè tutti siamo fratelli, figli di un solo padre che è Dio, il quale non ebbe mai principio nè può aver fine, che dal nulla ha creato cieli e terra, che tutto regge e governa, che non può fare e voler che il bene, che conosce e penetra ogni cosa, che ha una potenza infinita, una bontà senza limiti, una bellezza ineffabile.
Le parlavo del figliuolo di Dio, di Gesù Cristo; della sua venuta al mondo, della sua vita, della sua passione e della sua morte per redimere l'umanità decaduta, ed insegnare a tutti la via che conduce al cielo.... anche a te, o Bachìta.
Povera la mia Bachìta! e tu non conoscevi Gesù Cristo, che ti amò sempre, e ti ama tanto perchè fosti abbandonata da tutti e maltrattata.... nè pur lo conosceva tuo figlio, ma or che lo conosce e n'è divenuto seguace, oh! quanto è felice! ed io voglio che tu lo sia con lui.... e lo sarai senza dubbio se ascolterai i miei consigli....
Gli occhi rotondi di Bachìta si riempivano di pianto, e da essi cadevano vive lagrime. Io pure piangevo di tenerezza, poichè pareami in quel momento che un raggio di fede, un raggio d'amore divino penetrasse nelle tenebre di quell'anima pagana.
— Ah! padre, diceva allora Bachìta, io voglio essere quello che è divenuto mio figlio.
— E lo sarai; Gesù Cristo ti aiuterà, come ha aiutato il tuo figliuolo, e così potrete essere un giorno ambidue angeli del cielo.
[224]
Bachìta recitava ogni mattino e ogni sera il Pater noster e l'Ave Maria colla Negra compagna e col turcimanno Cher-Allàh; e fra il dì, durante il lavoro, non faceva che parlare colla sua collaboratrice di Dio, di Gesù Cristo, e del proprio figliuolo; e sospirava il momento di vederselo e di goderselo da vicino. Ma oh! sventurata, che più non l'avresti veduto qui sulla terra!... Fra le paludi dei Nuèr fu colta da un sì terribile vaiuolo, che la trasse improvvisamente al sepolcro.... Su quel sepolcro tutti piangemmo Bachìta; ed io rimasto poi solo m'inginocchiai e dissi: eterno Iddio! Dà pace a quest'anima, che visse tanto oppressa, e fa che risorga immortale per partecipare alla gloria degli eletti; e che questa terra di maledizione sia una volta liberata dall'obbrobrio della schiavitù!
«Quando l'Africa possederà una razza emancipata e colta, — e bisogna bene che prenda una volta o l'altra la sua parte nel gran dramma dell'incivilimento umano, — la vita vi si spiegherà piena d'una magnificenza e di uno splendore appena sognati dai popoli settentrionali.»
«In quel misterioso e lontano paese dell'oro, dei diamanti, dei profumi, delle palme ondeggianti, dei fiori sconosciuti, della fertilità prodigiosa, nasceranno nuove forme per l'arte e splendori inauditi; e la razza nera, liberata dal disprezzo e dall'oppressione in cui la tengono, disvelerà forse le ultime e più magnifiche rivelazioni della vita umana. Essa dolce [225] ed umile di cuore, disposta a lasciarsi guidare da un genio superiore e ad appoggiarsi alla sua forza, tenera e semplice come i fanciulli e sempre pronta a perdonare, sarà forse l'espressione più pura della vita cristiana, intima e vera. Forse quel Dio che castiga coloro che ama ha fatto passare la misera Africa per la fornace della prova, onde fondare in essa quel nobile e possente regno cui stabilirà quando tutti gli altri avranno fallito alla loro missione, poichè gli ultimi saranno i primi.»
«Allora la ricordanza della casa di servitù sarà per la razza nera, come l'Egitto per l'Israelita, un argomento di gratitudine verso colui che gli ha riscattati!»
«Poichè, mentre gli uomini di Stato fanno dispute, e gli uomini sono sbalzati qua e là dall'onda agitata degli interessi e delle passioni, la gran causa della libertà umana resta tra le mani di Colui del quale è stato detto:
«Egli non si ritirerà, nè perderà coraggio finchè non abbia stabilito la giustizia sulla terra.
«Egli libererà il misero e l'afflitto, che non hanno soccorsi.
«Egli salverà la vita dei poveri e la guarentirà dalla violenza e dall'oppressione, ed il loro sangue sarà prezioso agli occhi suoi»[26]
[227]
Le tribù Dénka della vallata superiore del fiume Bianco e la loro lingua — Stagioni e loro nomi — Il charìf — Una bufera — La stagion delle piogge, ed accrescimento e decrescimento del fiume sotto latitudini diverse — Morte di Francesco Oliboni — Un sogno.
Il fiume Bianco, dalla tribù dei Scìr (tra il 5º e il 6º gr. lat. N.) fin dove riceve il fiume delle Gazzelle (Bàhr-el-G¨azàl), scorre lento da sud a nord, nord-ovest, per innumerevoli svolte in mezzo ad una vasta e paludosa regione; e dagli abitanti che si trovano sulle rive, o a poca distanza, i quali sono tutti Dénka, prende il nome di Kir.
Questo fiume, a nord del paese dei Scìr, forma due grandi isole, degli Eliàb e dei Bòr, e a diritta presso il villaggio di Akuàk (tra il 6º e il 7º grado) lascia scorrere un canale, il quale bagna parte della tribù dei Bòr, tutta la tribù dei Tuìc, e parte della tribù dei Nuèr; e dopo un lungo corso di circa 180 miglia geografiche ritorna le sue acque al fiume, presso il Sóbat.
[228]
A sinistra poi io conosco assai bene un corso d'acqua perenne, chiamato dagli Arabi viaggiatori Bàhr-eg-Gemìt, proveniente dal sud, il quale si getta nel lago Giàk, tra il 6º e il 7º grado lat. N., a pochissima distanza dal fiume Kir, dopo d'aver bagnato le tribù degli Eliàb, dei G¨òk e dei Kìc; ma questo fiumicello, se pur non sia un canale, non è assolutamente da confondersi col fiume Jèji, di cui abbiamo parlato.
Le tribù Dénka che abitano a diritta del fiume sono:
A sinistra:
Oltre alle dette tribù Dénka, sulla geografica posizione delle quali ebbi esatte relazioni, che potei riscontrare anche col fatto, molte altre se ne trovano che parlano la stessa lingua e sono:
Che se a queste tribù aggiungiamo quelle dei Nuèr, dei Gianghè e dei Scìluk, delle quali abbiamo parlato, e così pure le tribù che dal fiume Sóbat (9°, 11′, 25″), si estendono fin oltre l'11º grado, nella penisola del Sènnaar, cioè i Donghiòl, gli Agnar-kuèi, gli Abujò, gli Aghèr, gli Abialàñġ; e le tribù dei Gnièl, dei Beèr e dei Jòm, nell'interno della penisola stessa, al parallelo delle montagne dei Bèrta, avremo un numero di ventidue tribù almeno, che parlano la lingua dénka; lingua che più d'ogni altra si estende nella grande vallata del fiume Bianco; e le differenze di pronunzia e di sintassi che esistono fra le diverse tribù che la parlano, sono così poche da accorgersene appena.
Le parole che compongono questa lingua sono [230] ordinariamente monosillabiche; che se qualche volta il vocabolo è bisillabo o trisillabo, scomposto che sia ne' suoi elementi, è facile a chi per poco conosca la lingua rilevare il significato di ciascun elemento.
Ciò non ostante la lingua dénka è pronta, rapida, abbastanza energica ed armoniosa[28].
Nel lungo studio ch'io feci di questa lingua ebbi a notare diverse voci onomatopeiche esprimenti specialmente i suoni che emettono le bestie; e queste voci talvolta sono monosillabiche e talora composte di due, tre, o anche più sillabe, secondo che semplici o composti sono i suoni emessi dall'ente che vuol essere indicato; per esempio: sing. miòr, pl. miûr — bove. Ñġào — gatto. Pér — gazzella. Kurè — tortorella. Bòu — abbaiare. Ròu — ippopotamo. Tuòt — oco selvatico. Aluluí — anitra selvatica. Il crepitare del fuoco si esprime colla parola letututùc, per esempio: il fuoco crepita — màg a-letututùc, ecc.
Tutte le tribù Dénka da me visitate, le quali abitano lungo il fiume Bianco dal 6º al 12º grado lat. N., contano cinque stagioni, che nella loro lingua sono chiamate così:
[231]
La prima stagione, Alè-kèr, corrisponde ai mesi di marzo e di aprile. Questa è la stagione, in cui il sole comincia a rianimare la vegetazione dapprima presso i Dénka verso il 6º grado, ai primi di marzo, e così gradatamente fino al 12º grado, ai primi di aprile.
E siccome dopo il 21 marzo il sole ha già passata la linea equinoziale, così tutti i Dénka chiamano questa stagione Alè-kèr — dopo il cerchio massimo. Di fatto la parola Alè-kèr è parola composta della preposizione alè — dopo, e del nome a-kèr, che significa cerchio massimo, equatore. I Dénka usano anche il verbo kèr, perf. ci-kèr, che vuol dire far cerchio, per indicare principalmente il giro apparente del sole intorno alla terra.
Le piogge hanno principio fra i Dénka verso il 6º grado, agli ultimi di marzo; e fra i Dénka verso il 12º grado, agli ultimi di aprile; sicchè questa prima stagione comincia poco innanzi le piogge.
In questa stagione il clima è reso meno caldo dai venti freschi ed umidi che spirano dall'est, e dalle nuvole che frequentemente velano il sole, senza però sciogliersi in pioggia.
La seconda stagione, Alè-jàk, corrisponde al tempo [232] che corre tra il 21 aprile e il 21 maggio, tempo in cui il sole è già passato al zenìt di tutte le tribù Dénka poste tra il 6º e il 12º grado, dirigendosi verso il tropico del cancro.
Questa è la stagione, in cui i Negri dénka seminano la prima volta fra l'anno il terreno di fagiuoli e di dùrah; per la qual cosa essa vien chiamata anche stagione della semina, akòl-rór a-puòk — tempo in cui la gente semina. E siccome i Negri dénka cominciano la semina del grano dopo che il sole passò al loro zenìt, così questa stagione è da essi chiamata Alè-jàk, colla quale espressione vogliono indicare — dopo che il sole cadde co' suoi raggi perpendicolarmente sulle loro terre, — mentre la voce alè vuol dire dopo, ed ajàk, ovvero a-juàk, caduta. I Dénka usano pure il verbo juàk, perf. ci-juìk — cadere dall'alto.
In questa stagione le piogge son già incominciate, e da per tutto animata è la natura.
La terza stagione, Alè-ruèl, corrisponde ai mesi di maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, nei quali mesi cadendo più abbondanti le piogge, il clima offre una temperatura ancora men calda; il perchè questa stagione è nominata, da tutti i Dénka, Alè-ruèl — dopo il calore, da alè — dopo, e ruèl — sole o calore; ruèl, perf. ci-ruèl, significa anche riscaldare.
La quarta stagione, Alè-rùt — dopo le piogge copiose, corrisponde ai due mesi di ottobre e di novembre.
[233]
Questa è la stagione, nella quale i Negri dénka raccolgono i frutti della seconda semina, che non è però praticata da tutte le tribù, ma da alcune soltanto, e specialmente da quelle del nord, allorquando il sole ripassa al loro zenìt dirigendosi verso l'equatore. Per la qual cosa questa stagione è detta altresì stagione del ricolto, akòl rór a-kuàgñ — tempo in cui la gente raccoglie.
La quinta stagione finalmente, Alè-mòi, corrisponde ai tre mesi di dicembre, gennaio, febbraio, e volendo comprendere i Dénka del nord, dobbiamo aggiungere anche il marzo.
E questa è la stagione della siccità, ed appellasi dai Dénka Alè-mòi, cioè dopo l'affogamento, da alè — dopo, e mòu, perf. ci-mòu — affogare, poichè, mentre durante le piogge copiose vengono allagati tutti i consueti pascoli in vicinanza al fiume, in questa stagione invece è arso il terreno e ogni erba disseccata.
Il viaggiatore che spinto dal desiderio di vedere e d'apprendere se ne va, durante la stagione asciutta, a visitare i Negri dénka nella vallata superiore del fiume Bianco, non può farsi un'idea di ciò ch'essa diviene nella stagion delle piogge (charìf).
Io vi passai tutto il charìf del 1858 nella Missione [234] di Santa-Croce (6°, 47′), co' miei compagni missionari Angelo Melotto, Daniele Comboni, Giuseppe Lanz, il quale vi si trovava da un anno.
Che orrore! Le piogge cominciano sul finire di marzo, e cessano nel novembre; ma cadono in maggior copia nell'agosto e nella prima metà di settembre. In questi due mesi un mare di acqua circonda le nostre capanne poste sur un breve rialto, e l'umidità che vi regna copre di muffa le casse, le vesti, la carta, tutto insomma, e tramanda un odore inqualificabile; le formiche brulicano da ogni parte, strisciano gli scorpioni, qualche rettile fa capolino dalle fessure delle pareti e del tetto, e miriadi di zanzare molestano giorno e notte collo stucchevole ronzìo e co' loro malaugurati pungiglioni. I missionari Melotto e Comboni sono ammalati di febbre e sentono il bisogno d'un po' di brodo che li ristori; ed io quasi ogni dì nella palude, affondando nell'acqua e nel pantano fin sopra la metà delle gambe, procuravo loro le carni, galline faraone, o francolini, anitre, od oche selvatiche che dànno un brodo saporitissimo. L'isolotto, ov'erano le nostre capanne, non misurava più di cento passi in lunghezza e dieci o dodici in larghezza. C'era da diventar matti, se Iddio non ci avesse assistiti.
Al principiare del charìf i Negri mandriani s'internano a drappelli, e a poco a poco, nelle boscaglie, ove hanno di quando in quando le loro stazioni chiamate ûn, vicino sempre a grandi pozzanghere, [235] le quali consistono in quaranta o cinquanta casotti messi quasi a cerchio, e costruiti con sei o sette pali sostenenti una tettoia di rami e terra, sotto la quale havvi un monticello di cenere, su cui siede e riposa tutta una famiglia. Nel mezzo poi della stazione trovansi, durante la notte, i bestiami, e qua e là accesi mucchi di sterco bovino, che esalano un odore sì acuto e spiacevole ed un fumo sì denso, da potervisi reggere appena; quell'odore però e quel fumo servono a tener lontane le zanzare. Dopo qualche tempo, crescendo le piogge, tutti que' drappelli giungono all'ultima stazione, lontana dal fiume al più il cammino di una giornata.
Quivi hanno capanne ben costruite, ed è il migliore soggiorno di que' negri mandriani, i quali, cessato il charìf, fanno tosto ritorno ai loro casotti presso il fiume.
I Negri dénka pescatori invece, che sono assai pochi, rimangono sempre sulle rive del fiume.
Fortissimi tuoni accompagnano le prime burrasche, le quali non durano più di due o tre ore, ma si ripetono talvolta per tre o quattro giorni consecutivi.
Chi non ha visto in quelle regioni tropicali l'addensarsi e il dissiparsi della bufera, è ben difficile [236] che possa imaginarsi la battaglia degli elementi scatenati e riottosi.
Gli urli di cento bestie feroci dall'interno della boscaglia ne annunziano la venuta; i Negri s'affaccendano di raccogliere il bestiame nelle zerìbeh, e corrono poi a rinchiudersi nelle loro capanne. — L'orizzonte s'intorbida; il cielo si oscura; immensi globi di nuvole fumose, che pigliano gli aspetti più strani, più mutabili, più paurosi e più fantastici, s'avanzano precipitosi dalla parte orientale, e cacciati dal vento rotolano furiosamente per lo spazio interminato, ondeggiano, si avvolgono, s'incontrano con altri globi di nuvole di forme incredibili provenienti dal sud; repente guizzano i lampi ed illuminano di riflessi sanguigni le masse fluttuanti; il tuono scroscia e la romba si diffonde, mentre qua e là cadono i fulmini rovinando annose piante ed uccidendo talora qualche animale. Le fumose masse si mescono in una, il vento continua impetuoso e gagliardo; la gran massa nebulosa si commuove, si agita, si agglomera, si scompiglia, si precipita in una corrente vorticosa, che cede al soffio prepotente, e si dilegua lontano, sparpagliandosi dietro uno strascico di vapori grigiastri, che lambiscono le cime degli alberi della foresta.
Qualche volta però, mescolati in uno gli immensi globi di nuvole, s'acqueta il vento, e l'acqua allora cade sulla terra a dirotta, come venisse riversata da un'immensa fontana.
[237]
In ogni mese della stagion delle piogge il fiume va soggetto a repentini accrescimenti, ma poco stante il livello torna ad abbassarsi. Io osservai però che il subitaneo crescere e calare del fiume succede specialmente nei primi mesi della stagione piovosa.
Posso dire inoltre con sicurezza che i due grandi affluenti del fiume Bianco, cioè il Sóbat e il Bàhr-el-G¨azàl cominciano a crescere e a decrescere nello stesso tempo, in cui cresce e decresce il fiume Bianco; dal che io conchiusi fin d'allora che si l'uno che l'altro di questi due affluenti doveva provenire dal sud a latitudini molto vicine all'equatore.
In una mia lettera inviata da Santa-Croce al professore Francesco Nardi in Padova, 15 marzo 1858, notavo che il dì 26 febbraio fu burrascoso, e che cadde la pioggia per quasi mezza giornata; e scrissi ancora che il primo di marzo crebbe notevolmente il fiume, ma che due giorni dopo l'avemmo allo stesso livello di prima.
Il repentino accrescimento del fiume era dovuto probabilmente alle piogge cadute presso l'equatore oltre al 5º grado, mentre sappiamo che fra i Bàri, secondo le osservazioni fatte dai Missionari in Kondókoro, la stagion delle piogge comincia coi primi di marzo, e termina verso la fine di novembre. E [238] dissi probabilmente, perchè per un caso accidentale e fuor di tempo poteva essere caduta una pioggia copiosa anche fra i Bàri, qual fu la pioggia del 26 febbraio a Santa-Croce nella tribù dei Kìc.
Nel 1858, perfin nel gennaio, e nel dicembre stesso, caddero alcune piogge fra i Kìc, com'io fui testimonio; e per citare qualche fatto anche fuori di questa tribù, l'undici febbraio 1859 sul fiume Sóbat, il che è più sorprendente, da un momento all'altro, io e i miei compagni Angelo Melotto e Daniele Comboni, alle due circa dopo la mezzanotte, fummo sorpresi da una pioggia così copiosa, che trapassò le stuoie del povero casotto della nostra barca, e bagnò da per tutto senza lasciarci un posticino asciutto, ove poter riposare il resto della notte. Il dì seguente io fui colto da un fortissimo dolor di denti, e i miei compagni scossero una buona febbre.
Tali piogge straordinarie e fuor di tempo possono succedere in ogni mese e sotto latitudini anche diverse; ma vengono tosto assorbite dall'arsicciato terreno. La vera stagione del charìf comincia da quando il terreno, già inzuppato da tre o quattro piogge di seguito, più non le assorbe.
Or questa stagione in Kondókoro (tra il 4º e il 5º grado lat. N.) ha incominciamento coi primi di marzo, e termina verso la fine di novembre; e le piogge cadono in maggior copia sul finir di aprile e nel mese di maggio; qualche anno però sono più abbondanti sul terminare di luglio fin verso la [239] metà di agosto, ed allora sono scarse, in confronto, nell'aprile e nel maggio.
A Santa-Croce invece (tra il 6º e il 7º grado), come ho detto, osservai che la vera stagione del charìf incomincia sul finire di marzo e cessa nel novembre; e le piogge cadono in maggior copia nell'agosto e nella prima metà del settembre.
Nel paese dei Scìluk (tra il 9º e il 10º grado) poi le vere piogge incominciano nel mese di aprile.
E nel dipartimento di Chartùm (tra il 15º e il 16º grado) la stagione piovosa è nel giugno, luglio e agosto. Dunque abbiamo un accordo tra il progredire dei paralleli e il tempo dell'incominciamento delle piogge a latitudini diverse.
Quanto poi all'accrescimento e decrescimento del fiume:
In Kondókoro comincia a crescere agli ultimi di febbraio, e tocca la sua massima altezza verso la fine di maggio, o nella prima metà di agosto, secondo che maggiori o minori caddero le piogge o nell'uno o nell'altro tempo. Comincia poi a calare verso la fine di agosto, e continua fino alla metà circa di febbraio, nel qual tempo il fiume tocca la sua maggiore bassezza.
In Santa-Croce comincia a crescere ai primi di marzo, e tocca la sua massima altezza ai primi di settembre; e principia a calare sul finir di settembre, e continua fino agli ultimi di febbraio, in cui tocca la sua maggiore bassezza.
[240]
Nel dipartimento poi di Chartùm il fiume comincia a gonfiarsi nel mese di luglio, e a calare nel mese di settembre.
Nell'Egitto finalmente cresce nei mesi di agosto e di settembre, e principia a calar nell'ottobre.
L'umidità che regna durante il charìf è cagione di febbri intermittenti e d'altre malattie, che ordinariamente sono negli indigeni senza gravità e di non molta durata; ma il passaggio dalle capanne, ov'essi erano ben riparati, alle altre stazioni, ove dormono la notte all'aria aperta, arreca ad alcuni pericolose e fatali infiammazioni. Un altro male, a cui di sovente vanno soggetti, è quello ch'essi chiamano vtiòu e gli Arabi frentìt[29]. Il charìf però è molto più avverso agli europei.
Io giunsi in Santa-Croce, co' miei compagni missionari Francesco Oliboni, Angelo Melotto, Daniele Comboni, Isidoro Zili, il 14 febbraio 1858 a due ore di notte; tutti in perfetta salute. Trovammo in quella stazione il missionario Giuseppe Lanz e un artigiano polacco, i quali vi dimoravano da un [241] anno, ed erano dolentissimi per la morte avvenuta pochi giorni prima del sacerdote Bartolomeo Mosgan, instancabile compagno del Provicario Knoblecher e di Angelo Vinco nei viaggi e nelle fatiche apostoliche. Qualche giorno dopo il nostro arrivo, Isidoro Zili dovette ritornare a Chartùm colla stessa barca che lo avea condotto in Santa-Croce, molestato dalla febbre che ogni dì veniva a visitarlo. — E Francesco Oliboni, uomo sanissimo e robustissimo, cadde ammalato d'infiammazione la mattina del 19 marzo, e subito sentì la gravità del suo male; disse che in pochi giorni avrebbe finita la sua mortale carriera; domandò tosto ed ottenne i conforti della religione, e poi tutto tranquillo, com'era suo costume anche nelle più amare vicende, non faceva che parlare della Missione, che incoraggiare noi fratelli, che ci mostravamo abbattuti, a tener fermo; promise che giunto in paradiso avrebbe pregato per tutti. Noi piangevamo curvati a canto del suo giaciglio, e lo assistavamo col cuore pieno d'amore. Ciascuno voleva rendergli qualche segno d'affetto, di che egli era stato prodigo con tutti. Io appena trovavo il fiato di raccomandargli l'anima a Dio, e a momenti sentivo mancarmi il cuore, e provavo una specie di vertigine. La mia voce penetrava senza dubbio nell'orecchio del moribondo, perchè egli scoteva di tanto in tanto dolcemente la testa con un sorriso, e ripeteva i cari nomi di Gesù e di Maria. Gli davo di quando in quando a baciare il [242] Crocifisso; ed allora il suo sguardo, vago dapprima e come smarrito, diveniva fisso e brillante, e tutto il suo volto s'illuminava d'ineffabile gioia; e congiungeva le gelide mani, e mi pareva gli si riempissero gli occhi di lagrime e volesse dire: questo bacio mi ravviva e mi fa bene al cuore.... muoio contento.... benedici al Signore, o anima mia! — L'ultimo giorno della sua vita, che fu il 26 marzo, poche ore prima di morire mi guardò, mi strinse la mano e disse con voce soffocata e appena intelligibile: «scrivendo in Europa salutami i miei.... teneramente.... il Superiore.... gli amici.... chi... chi... ci toglierà mai l'amore di Cristo?» Quindi una subita prostrazione lo invase, i suoi occhi si chiusero, e il suo volto prese quella sublime espressione che precede gli ultimi momenti: il suo respiro divenne lento e penoso; il largo petto gli si sollevava ed abbassava con forza; io gli diedi a baciare ancora una volta il Crocifisso; lo chiamai.... ma egli non m'udì.
Un solenne e glorioso sorriso illuminò il suo volto.... indi mise un sospiro e passò dalla mortale alla vita eterna.
— Addio, caro amico e fratello, le porte del paradiso ti si son chiuse dietro, e noi non vedremo più il dolce tuo volto! Sventurati coloro che dopo averti veduto entrare in cielo, si ritroveranno nella fredda e cupa atmosfera della vita, che tu hai lasciata per sempre!
[243]
Parte della notte e del dì seguente io m'ingegnai al meglio di fare una cassa per collocarvi la salma dell'estinto. Dopo ventiquattr'ore fu portato nella chiesuola della Missione, ove compiute le cerimonie religiose, venne poi seppellito a poca distanza presso la tomba di Bartolomeo Mosgan sur un piccolo rialto sabbioso, ombreggiato da poche piante, e circondato da una siepe di secchi pruni. Quel luogo sacro ai due estinti era segnato da due croci di legno, che si vedevano sempre stando nelle povere nostre capanne, e sulle quali era scritto: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, sebbene morto, vivrà.»
Anch'io dovetti pagare il mio tributo al charìf, passato in Santa-Croce; ma fortunatamente lo pagai sempre solo la notte con dolori insoffribili di denti, con qualche febbre da leone, con accessi di delirio e con sogni così stravaganti e paurosi, da non farsene un'idea. Fra i tanti che ricordo ne debbo io raccontar uno, che spaventò il povero mio compagno Melotto il quale dormiva nella stessa capanna, e che mi costò quasi la frattura di una gamba...
Una sera, tornato dalla caccia, mi coricai sul [244] mio angarèb[30] più presto del solito, perchè non mi sentivo bene.
— Che cosa ha don Giovanni? chiese con premura il mio compagno ch'era ammalato da alcuni giorni.
— Mi sento stanco, io risposi: ho il polso piuttosto frequente, la pelle liscia e molto calda.... temo di avere un po' di febbre; ma spero di scuoterla stanotte; l'ho scossa ancora, provocando il sudore.... e così dicendo m'accomodavo il zanzariere intorno all'angarèb.
— Per carità! don Giovanni, che non ammali.... che cosa sarebbe allora di noi?...
— Speriamo che no, io soggiunsi; e quindi mi rinvolsi ben bene in una coperta di lana, e dopo cinque minuti fui addormentato.
Nel cuor della notte, mi trovai in un'oscura foresta, seduto sur una pietra di un profondo torrente; e stanco, sudato, ansante stavo aspettando qualcheduno, che non comparve. — Io sono perduto! sclamai — A stento potei accendere un lanternino che avevo meco, e levandomi da sedere vagai più di mezz'ora per quel torrente pieno di spine, scontorto, ristretto e precipitoso. Oh Dio! non mi si presentano che seni, sporgimenti, anfratti, che nella mia fantasia sconvolta pigliano forme cotanto strane, [245] che m'agghiacciano il sangue nelle vene, e mi tolgono il respiro. Qui parmi di vedere mostri di belve frementi, là scheletri arruginiti. Frattanto s'ode il bramito di cento bestie feroci; il vento sbuffa terribilmente, e rotto dai grossi rami degli alberi della foresta manda orribili fischi, quasi gemiti lamentosi e lugubri; e di quando in quando que' gemiti sembrano cangiarsi in grida acute. — Queste grida, dicevo fra me, possono esser prese facilmente, dalle orecchie credule e superstiziose, per grida di orrore e di disperazione; ma io so che altro non sono che gli effetti strani che produce il vento.
Tutto d'un tratto mi s'affacciò una via lunga e stretta, fiancheggiata da giganteschi tamarindi. Io presi quella via, e dopo circa un quarto d'ora di cammino, eccomi giunto ad un vecchio castello. Il portone che metteva in esso era spalancato. Io mi sentii lavorar la fantasia entrando, fra quelle tenebre e quel silenzio, in quella solitaria drammatica dimora. Ma la stanchezza e il bisogno di riposarmi vinsero la paura; tirai avanti, dopo d'aver chiusa la gran porta con due catenacci di ferro; e salito per lo scalone, che ripercoteva il rumore de' miei passi, traversai alcune sale misteriose, e mi trovai nel centro ov'era una gran camera con un letticiuolo in un angolo della stessa. Chiusi accuratamente la porta, ne tolsi la chiave, mi posi a letto, e considerando che le apparizioni, le streghe ed i folletti non entravano nel mio credo, mi pareva di poter [246] calcolare su una nottata tranquilla, senza che occorresse prendere nessun'altra precauzione; e soffiato sul moccolo del lanternino, e spentolo, dopo qualche minuto m'addormii. — Il mio sonno però fu breve. — Mi svegliai impaurito. — Parvemi sentire un andare e un venir a pesta leggiera, fuori della porta della mia stanza. — M'alzai a sedere sul letto e tesi l'orecchio, dicendo tra me: che diamine succede! — Ma, io sono al sicuro;... e riprendo l'interrotto sonno, poichè ero molto stanco. Di nuovo mi scossi, risvegliato da un aspro fragore di ferri e da un rumore confuso di grida e di gemiti; insomma ero certo che qualche cosa avveniva nel castello. Quando, tre volte io sento pùm! pùm! pùm! sulla porta della mia stanza; ed io domanda atterrito: chi v'ha là! — Nessuno risponde. — Dopo qualche minuto si ripetono le tre battute; ed io chieggo a bassa voce, perchè mi mancava il fiato: che cosa volete? — Nessuno risponde. — Si ritorna a picchiare; e questa volta non potei cavar parola, nè fare il menomo movimento. — Udii una voce femminile, che disse: levati presto, ed apri questa porta, altrimenti io passerò dal foro della serratura. A quella voce fui compreso da un sentimento d'orrore indescrivibile e dallo spavento di qualche terribile cosa. — Di lì a poco dal buco della serratura uscì fuori un moscone — me n'accorsi dal ronzìo — e fece tre o quattro volte il giro di tutta la camera, e poi s'arrestò in mezzo [247] ad essa. — Quando, sentii il fruscìo delle vesti di qualcuno che si moveva verso il mio letto e fremetti; vidi allora, sebbene fosse spento il lume, colle luci dello spirito una figura di donna, vecchia, brutta come un demone, vestita d'un costume il più strano, la quale a poco a poco s'avvicinava a me, colle mani alzate, colla bocca aperta, e cogli occhi spalancati. Io non potevo reggere a quella vista, e mi coprii il capo col lenzuolo; ma il lenzuolo era trasparente, e mio malgrado vedevo sempre più da presso quello spettro infernale. — Curvai la gamba diritta, per esser pronto in ogni caso a spingerlo lontano; e quando una punta d'acciaio mi fu posta al fianco per trapanarlo, e una fredda mano toccò la mia, emisi un ruggito, e scagliando un colpo di piede contro a quella vanità che mi parea persona, mi svegliai coperto d'un gelido sudore. Ma la gamba invece aveva colpito sì fortemente l'orlo dell'angarèb, che subito la credetti fratturata.
— Od Dio! gridò allora il mio compagno, don Giovanni! don Giovanni!! don Giovanni!!!
— Nulla, nulla, io risposi; ho sognato; e gli raccontai il sogno.
Per quindici giorni dovetti poi curare la mia povera gamba, che fortunatamente non aveva sofferto che una grave contusione.
[249]
La stazione di Santa-Croce — La caccia — Il barone De-Harnier vittima di un bufalo selvatico — Le tribù Dénka della vallata superiore del Nilo, e i loro costumi.
La stazione di Santa-Croce nella tribù dei Kìc, sebbene fosse luogo assai inopportuno per fondarvi una Missione, attese le qualità malsane del suo clima, pure venne scelta da noi missionari italiani come centro provvisorio delle nostre investigazioni:
1.º Perchè in quella Stazione più che in altro luogo ci sarebbe stato reso facile lo studio della lingua dei Dénka.
2.º Perchè colà più che altrove avremmo potuto raccogliere esatte e sicure relazioni intorno alle tribù che la parlano e alla loro posizione geografica, intorno al clima, ed ai costumi degli abitanti.
3.º Perchè in quella Stazione potevamo esercitar subito il nostro ministero coadiuvando, secondo [250] le nostre deboli forze, i missionari tedeschi, che da qualche tempo vi si erano stabiliti.
Di fatto si trovavano in Santa-Croce alcuni giovinetti e giovinette che parlavano la lingua dénka, i quali erano stati accolti dalla Missione dopo che il vicerè d'Egitto Seìd-Pascià aveva proibito il commercio degli schiavi. Alcuni mercanti che si trovavano allora sul fiume Bianco, vedendo che tornando a Chartùm con una tal merce sarebbero andati incontro a gravi dispiaceri, cedettero questi loro schiavi alla Missione, presso la quale impararono la lingua araba.
Or questi giovinetti mi tornarono di un grande aiuto nello studio della lingua dei Dénka; ma specialmente mi giovò il negretto Kaciuòl, che mostrava maggiore intelligenza degli altri, e più tardi il mio vecchio e buon turcimanno Cher-Allàh.
Conversando spesso coi Negri, io ho potuto osservare che le donne mostrano d'avere più intelligenza degli uomini, ed i giovinetti più degli adulti.
Ora, col mezzo dei giovinetti della Missione, io potei anche registrare con precisione le tribù che parlano il dénka nella vallata superiore del fiume Bianco, e notarne i costumi, perchè essi appartenevano o all'una o all'altra di quelle tribù.
Finalmente nella stazione di Santa-Croce noi [251] fummo occupati ogni giorno nell'istruire i giovinetti e le giovinette, dei quali quattro furono i battezzati, oltre ad un bambino appena nato, la cui madre mi chiamò a visitarlo perchè era morente. Io lo battezzai e poco dopo spirò.
La caccia nel paese dei Negri dénka è una delle distrazioni più dilettevoli che l'Europeo possa desiderare. — Questa è una guerra che l'uomo fece, quasi sempre vincendo, agli animali per difendersi dalla loro rabbia, per cibarsi delle loro carni, o per coprirsi delle loro spoglie. Io, a dir vero, mi dilettavo solo di quest'arte per avere di che nutrir me e i miei compagni, ch'erano ammalati, e me ne andavo ogni altro dì, due o tre ore avanti sera, accompagnato il più delle volte da alcuni Negri, che mi facevano da cani da caccia, ed entravano poi a parte della mia preda. Mai, ch'io mi sia tornato a casa a mani vuote.
La selvaggina è frequentissima in queste regioni. Vi si trovano tortorelle, francolini, galline faraone, anitre, oche selvatiche ecc. ecc. in una quantità così sterminata, che senza il merito d'essere valenti nell'arte del cacciare, si possono uccidere in un'ora dalle dodici alle quindici tortorelle, o dai quattro ai cinque francolini, o dalle sei alle sette galline [252] faraone, o dalle tre alle quattro anitre, od almeno due oche selvatiche, a scelta del cacciatore; e ciò dico per esperienza. Quanto poi a' piccoli augelli, questi si levano a nuvole sotto gli occhi sì che si possono colpire colla clava. Mi ricordo d'averne uccisi con un sol tiro di fucile, caricato appositamente, dai settanta agli ottanta, senza contar quelli che si saranno perduti in mezzo all'erbe.
L'Europeo che si trova in queste regioni si crede come trasportato ad un'età in cui l'umana specie, per così dire nascente, vedesi circondata da ogni parte, e quasi assediata da una moltitudine innumerevole di forze incognite, nemiche, orride e terribili. La superficie della terra è qui ancora come una vasta arena, dove l'uomo è in mezzo ai muggiti, ai rugghi, agli urli, ai sibili, ai fremiti d'ogni sorta di animali. Egli non potrebbe uscire di notte dalla propria abitazione senza affrontare da vicino la morte. A lui s'avventerebbero sitibondi di sangue i leoni, le tigri, i leopardi, le pantere, e tacitamente strisciando lo minaccerebbero del loro veleno gli insidiosi serpenti. E veramente fa meraviglia che i Negri dénka, in un paese dove una natura così feconda produce e porge asilo a mostri cotanto formidabili, non dispieghino una maggiore potenza contro di essi. È vero che i Dénka danno la caccia all'ippopotamo, all'elefante, al coccodrillo; ma non osano sfidare gli animali feroci della foresta.
E sì che l'uomo, munito d'intelligenza e di non [253] so quale istinto che genera in lui l'amore della gloria, l'entusiasmo dell'eroismo e del sacrifizio, ha assalito coraggiosamente altra volta le tigri, i leoni, i leopardi e le pantere, che dovettero mordere la polvere dinanzi a lui e rintanarsi dentro inacessibili nascondigli. Così è, tra le mani dell'uomo, in apparenza sì delicate e impotenti, tutto s'è trasformato come per incanto, tutto s'è accomodato a' suoi bisogni, ed ha obbedito a' suoi desideri. Il legno, il ferro, la pietra, l'aria, l'acqua, il fuoco, tutto insomma è diventato arma irresistibile o insidia inevitabile. E la terra ha riconosciuto l'uomo per suo re, e gli animali bruti lo temono come un Dio. Ciò avvenne in Europa, ove nei tempi più remoti la caccia fu uno dei primi doveri d'ogni uomo sano e forte; e perciò i grandi cacciatori furono per lunga pezza gli eroi più onorati, i semidei per eccellenza. Che se parliamo dell'Oriente, chi non sa che l'uomo vi spiegò più che altrove la sua potenza contro gli animali feroci?
I poemi indiani sono ricchi di descrizioni di caccie, fatte in un linguaggio che non teme il confronto della poesia europea; e io credo di far cosa grata al lettore ponendogli qui sott'occhio il presente estratto del Mahabharata.
«Il giovine re, dotato di coraggio eroico, destro del pari e nel cavalcare un destriero focoso, e nel domare un elefante furibondo, sempre vincitore, o ch'egli adoperasse la lancia o la mazza, o che maneggiasse [254] la scimitarra o l'arco, simile di maestà al capo degli Immortali, di splendore al Dio potente della luce, era l'amore e l'ammirazione del popolo. Un giorno accompagnato da immenso esercito composto di fanti, di cavalli, di elefanti e di carri, volle recarsi a una vasta e densa foresta per darsi ai piaceri della caccia. Mentre avanzavasi in mezzo alle acclamazioni de' guerrieri, agli acuti suoni della conca e della tromba confusi col rumore de' carri, col nitrire de' cavalli, e coi gridi selvaggi degli elefanti, una folla di donne desiose di vedere il giovine eroe in tutta la pompa della sua grandezza, si precipita sui terrazzi delle case presso cui dee passare: — Ecco l'intrepido Vasù, gridano trasportate dalla gioia: è desso! è desso! — Indra, armato de' suoi folgori, s'avanzerebbe con meno splendore! e mille mani leggiadre gli gettavano a gara nembi di fiori sul capo, mentre virtuosi bramini tendendo le braccia al cielo pregavano al monarca i favori di Brahma. — Numeroso corteggio di cittadini d'ogni condizione segue vogliosamente insino alla foresta il diletto sovrano, che portato da un cocchio rapido quanto è nel suo volo Superna, la celeste cavalcatura di Vishnù, s'inselvò ben tosto in recessi impenetrabili alla luce, dove tutto inspirava un terror sacro, soggiorno squallido abbandonato dall'uomo, nè da altri abitato che dal selvaggio elefante, dalla tigre e da altre bestie feroci, che incessantemente contristavano le aure coi loro tremendi [255] ruggiti. Snidati dalle loro tane s'avventano essi rabbiosi sui cacciatori accaloriti nell'inseguirli; e a questi è mestieri di tutta la loro destrezza e vigoria per farsi padroni di una sì terribile preda. Dusmanta è primo a porgere esempio d'intrepidezza e d'audacia, e tigri furibonde cadono atterrate dalla sua mazza, o ferite dalle sue frecce. Da tutte le parti sbucano leoni ed elefanti, e coperti di schiuma e di sudore si recano a torme presso le acque per ispegnervi il fuoco che li divora; ma i più cadono rifiniti sulle rive degli stagni, e muoiono mandando orribili ruggiti. Altri, disperati, ricalcano le loro orme, si avventano furibondi sugli imprudenti nemici, e pestandoli colle zampe e avvinghiandoli colle enormi proboscidi, ne fanno una terribile vendetta. Così la foresta poc'anzi tanto romorosa, altro non presenta oramai che un campo funesto di strage, sacro al silenzio, ingombro di cadaveri, allagato di sangue, e sparso di tronchi di lance spezzate, di mazze, di archi, di frecce e di schegge d'armi d'ogni sorta. Intanto i cacciatori stimolati dal potente bisogno della fame riducono a pezzi molti cervi ed altri animali selvaggi, che sottrattisi dal dente micidiale delle fiere, erano caduti anch'essi sotto i loro colpi; ne arrostiscono le carni sminuzzate sopra una brace ardente, se ne satollano, e dànnosi per qualche ora al riposo.» (Framm. del Mahabharata, trad. in francese da Chezy).
Povero Sudàn! poveri Dénka! quanto siete lontani [256] dall'imitare un simile eroismo di quasi quattro mille anni sono, e dall'aver trasformate le vostre foreste in sacri campi di silenzio e di gloriose memorie!... Presso voi gli animali bruti delle boscaglie ne sono ancora gli assoluti padroni!
Qualche Europeo appassionato per la caccia osò talvolta di penetrare là dove soggiorna più frequente il selvaggio elefante o il bufalo, e d'inseguirli con un'audacia più unica che rara.
Tra i più arditi cacciatori dell'elefante, ch'io conobbi fra i Dénka, furono certo i fratelli Poncets; ed uno fra i più audaci cacciatori del bufalo credo sia stato il barone De-Harnier, che perì vittima di questo feroce animale.
Ecco quanto scrive in proposito M. Jules Poncet[31].
«Ayant dit quelques mots en passant de ce kharif (époque des pluies) que nous passâmes a Sainte-Croix, je raconterai aussi une catastrophe arrivée sous nos yeux dans cette même saison. Il s'agit de la mort accidentelle de M. le baron De-Harnier qui, [257] à l'arrivée des pluies, avait renvoyé sa barque à Khartoùm et s'était établi chez les Chir pour se livrer au plaisir de la chasse. Vers le 5 août, ce pauvre baron nous fit parvenir à Sainte-Croix une lettre écrite du pays des Chir, dans laquelle il nous priait de lui envoyer une barque pour le chercher, qu'il s'ennuyait beaucoup, surtout depuis qu'il avait perdu son compagnon, M. Wilkin, et son domestique Gaspard. Nous fîmes immédiatement venir de notre établissement de Mongok des hommes pour accompagner la barque qui partit de suite et revint vingt-cinq jours après avec le baron et tous ses effets, car, par hasard, les vents du nord soufflèrent favorablement. Il s'établit à la mission et nous passâmes ensemble deux mois et plus, pendant lesquels le baron De-Harnier chassait et s'occupait d'histoire naturelle.
«Son animal de prédilection pour la chasse était le buffle. Il en avait déjà tué vingt-sept. Le samedi, 23 novembre 1861, jour fatal, il se leva de bonne heure, sans même donner le moindre soin a sa toilette, prit son fusil, et étant accompagné de ses deux domestiques habituels, il entra dans la forêt avec l'intention de revenir une demi-heure après. Il revint en effet, mais rapporté mort et défiguré sur un angrèb. Ayant vu de très-près un buffle, il fit feu sur lui; mais ne l'ayant pas tué, il s'empara de la carabine de l'un de ses domestiques avec laquelle il tira un second coup sur ce buffle qui cependant [258] ne tomba pas; mais qui, furieux de sa blessure, lança un coup de corne dans le côté du domestique, qui cependant avait eu la présence d'esprit de se coucher par terre. Croyant pouvoir sauver ce dernier du danger qu'il courait, le baron s'arme de la carabine de son autre domestique qui s'était lâchement enfui, puis, au moment où il se dispose à tirer son troisième coup, le buffle qui l'avait aperçu s'élance en fureur sur lui, et le perce de plusieurs coups de ses cornes, à la tête, à la poitrine et aux cuisses. Nous le trouvâmes ainsi abîmé et roulé aux pieds de quelques arbustes, noyé dans son sang. Quel spectacle affreux! Nous en frisonnâmes d'épouvante et nos coeurs se brisèrent de douleur en songeant aux souffrances que notre infortuné compagnon avait dû éprouver. Nous remarquions, l'espace de quinze et vingt pas, des lambeaux de ses vêtements, des boutons de son paletot épars ça et là. Son anneau fut retrouvé a 10 pas de son cadavre. Le buffle avait disparu, mais il fut retrouvé mort deux jours après dans les environs. Sa tête fut envoyée au frère du malheureux chasseur.»
Il bufalo non assalta sempre; ve ne son di vigliacchi, che feriti vanno incontro al cacciatore, ma s'arrestano a mezza via, e dopo un istante di esitazione, fuggono impauriti. — Altri invece dopo il primo assalto, non assaltan più. — Altri d'indole mite e benigna, ricevuta una palla, dànno indietro, [259] scrollano la testa, e poi si voltano tutt'a un tratto a guardare con aria attonita l'assalitore, come se volessero dimandare: — Che vuoi da me? Che t'ho fatto? Perchè cerchi di uccidermi? — Alcuni però si mettono a correre e a saltare qua e là, irrigando il terreno di sangue, mandando altissimi muggiti, divincolandosi e scontorcendosi in mille modi. Vi sono de' bufali indomabili, che non vogliono chinar la testa se non traendo l'ultimo respiro; bufali che, versando ruscelli di sangue per la bocca, continuano a minacciare e a colpire colle corna gli assalitori; bufali che, trafitti da quattro o cinque palle, alzano ancora il collo con un movimento superbo che fa retrocedere atterriti i persecutori; bufali che hanno un'agonia più spaventevole della loro prima furia, che calpestano la loro vittima e la straziano rabbiosamente, correndole poi intorno colla testa alta; e guardando qua e là con una cert'aria di sfida, cadono finalmente, si rialzano, barcollano un pezzo prima di ricadere, e barcollando s'allontanano a lento passo dal luogo dove furono colpiti, per andar a morire in pace sotto una pianta.
Il territorio ove si trovano le tribù Dénka della vallata superiore del fiume Bianco è situato fra il 9º e il 6º grado di latitudine nord, e la sua maggiore [260] lunghezza è dai cinque ai sei gradi, tra il fiume Sóbat, e il Bàhr-el-G¨azàl. Giudicando da ciò che osservai io stesso, e da quanto me ne dissero i giovinetti della Missione appartenenti a tribù diverse, gli abitanti ammonterebbero a circa quattrocento mila: dappoichè non meno di venti sono le tribù; ogni tribù ha intorno a quaranta zerìbeh; ed ogni zerìbah comprende, a un di presso, cinquecento persone.
I Dénka, oltrechè presentare i caratteri comuni alla razza negra, ne offrono di così spiccati, che te li fanno immediatamente riconoscere in mezzo alle folle di Negri più numerose. Gli occhi, di rimarchevole grandezza, sono leggermente rilevati all'angolo esterno, il cranio è piccolo e notevolmente schiacciato alle tempie, la pelle è liscia e delicata, il corpo magro assai e rilassato; la statura media eccede quella degli Europei, il busto, paragonato all'altezza delle gambe, è piuttosto corto, e dà ai movimenti un'impronta particolare; pochissima è la loro agilità, se la confrontiamo con quella di altri Negri.
I Dénka di alcune tribù, arrivati all'età di circa dieci anni, si fanno cavare i sei denti di mezzo della mascella inferiore, perchè i loro antenati han sempre usato di fare così, nè sanno addurre altre ragioni.
[261]
Nessuno veste fra gli uomini, e fra le donne soltanto le maritate cingono alle reni due pelli di capra o di montone, e così pure le ragazze, dopo i dieci o dodici anni, allorquando s'allontanano dalle proprie abitazioni.
Le minuterie di vetro non sono molto in pregio presso i Dénka. I grani di vetro azzurro, chiamati mangiùr sul mercato di Chartùm, ed altri granellini bianchi detti gnaotèt, sono i soli dei quali s'adornano, le donne specialmente.
Le principali armi fra i Dénka sono la lancia e il bastone o la clava; le frecce e l'arco non sono usati che da qualche tribù.
Io vidi più d'una volta questi Negri giocare di scherma colla lancia, o col bastone; ma mi fecero sempre ridere. Non posso dire la stravaganza e la goffaggine dei loro tiri. Erano mosse da funamboli, salti senza scopo, contorsioni e sgambettate, e colpi annunziati molto prima con un gran giro del braccio; flemma beata, che avrebbe dato modo a un bravo de' nostri tiratori di adossare a que' Dénka un prodigioso carico di legnate, o di crivellare il loro corpo di ferite, senza il menomo pericolo di rimanere offeso. E intanto molti altri Negri eran là a contemplare i combattenti, a bocca aperta, volgendosi a me di tratto in tratto per cercare ne' miei occhi l'espressione della meraviglia; e io li contentavo fingendo un'ammirazione benevola.
[262]
Questi Negri ordinariamente non si cibano che una volta al giorno, verso il calar del sole. Il nutrimento principale è il latte e il dùrah, se ne hanno, ch'essi mangiano in grani cotti nell'acqua. A tanta frugalità suppliscono alcune radici, erbe e frutti, che le donne raccolgono nelle boscaglie e presso al fiume e ai torrenti. La carne per essi è un cibo de' più favoriti; ma non ne mangiano che rare volte, o quando l'animale muore da sè, o nelle feste dei matrimoni, o nell'occasione dei sacrifici, ch'essi fanno sempre al Genio malo per placarlo nelle loro avversità. Pel tabacco poi, che usano masticar per diletto, lasciano volentieri il cibo più squisito.
Non hanno fra loro alcun governo che li regoli; professano tuttavia grande rispetto alle persone che posseggono molto bestiame, e nei litigi s'acquetano facilmente alle loro decisioni. Tali persone vengono onorate col nome di Bègñ-did (Grandi-signori).
Quanto agli usi praticati da questi Dénka nel caso di gravi malattie o morti, e nei matrimoni; e quali idee abbiano di Dio, della creazione e di una vita futura, vegga il lettore: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, mie memorie, vol. I, pag. 229-243.
La coltivazione presso tutti i Dénka che abitano le rive del fiume Bianco, tra il 6º e l'8º lat. N., è quasi totalmente trascurata. Essi piantano, durante [263] la stagion delle piogge, un po' di grano di dùrah presso le loro stabili dimore discoste dal fiume, ove minore è la quantità degli insetti, ma senza punto lavorare il terreno, che atto sarebbe ad abbondanti produzioni.
Qui sono le donne che debbono pensare al mantenimento della famiglia e alla costruzione delle capanne. Gli uomini, se sono mandriani, tutt'al più portano a casa alcuni frutti, che raccolgono nella boscaglia, e di tanto in tanto qualche gallina faraona o francolino, che hanno la sorte di uccidere col bastone; e se son pescatori procurano che alla famiglia non manchi mai il pesce; e qualche rara volta vanno a casa con un bel pezzo di coccodrillo o d'ippopotamo.
I Dénka della vallata superiore del fiume Bianco non hanno bestiame minuto, o poco assai; ma posseggono grosse mandre di bovi, per allevar le quali si dànno molto pensiero, mentre qui è riposta la loro grandezza.
Fra questi Negri, i Tuìc e i Kìc sono i più miserabili, perchè sono i più pigri e i più indolenti fra tutti i Dénka del sud; e sì che le loro terre non sono punto ingrate. Essi per due terzi dell'anno si nutrono dei frutti della foresta. I mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre sono per essi i più bei mesi, poichè questa è l'epoca della maturazione dei frutti. Una sorta di vite selvatica, molto simile alla lambrusca, porge i suoi [264] frutti nel luglio, ma l'uve sono un po' asprigne e spiacevoli. In questo mese l'avàlval, specie d'arbusto, dà pure i suoi frutti che sono piccole bacche nere, simili per la forma a quelle del ginepro, ma sono piene di sugo e dolci assai. Nel dicembre le donne raccolgono dal limo delle paludi e degli stagni il così detto alób, il cui frutto somiglia molto a quello del melagrano; ha forma quasi rotonda, e racchiude in sè un gran numero di granellini, che si trovano in cellulette formate da una pellicola biancastra, il cui sapore è un po' amaro; lo stelo della pianta alób è tutto nell'acqua, su cui si distendono quattro o cinque larghe foglie, in mezzo alle quali sorge un bel fiore bianco, che veduto in distanza ricorda il tulipano. Quando l'alób sia bene disseccato al sole, se ne estraggono facilmente i granellini, che vengono poi ridotti in farina, la quale serve di nutrimento alle tribù Dénka nei mesi di febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno, che sono i mesi di fame. I poveri pescatori allora dopo d'aver pescato inutilmente per tutto il giorno, passano gran parte della notte nella palude, con delle fiaccole in mano, dando la caccia ai ranocchi e ad altri animali.
I mandriani si nutrono invece di radici, e dello scarso latte delle loro vacche.
Durante la stagione asciutta, molti dei Kìc del nord mandano a pascere i loro bestiami sulla riva destra del fiume, e perciò sono quasi sempre in guerra coi Tuìc; e i Kìc del sud per motivo pure [265] dei pascoli si trovano in continue dispute cogli Eliàb del nord: e così dicasi delle altre tribù. Io fui spesse volte testimonio delle loro querele, e riuscii qualche volta a pacificarli, donando alcune perline di vetro e qualche anello di rame ai Capi dell'una e dell'altra parte.
I Ròl, posti ad ovest, nord-ovest dei Kìc, secondo le relazioni dateci dai mercanti in avorio che li visitarono, sono i più simpatici e i più intelligenti fra tutti i Dénka della vallata superiore del fiume Bianco.
I Ròl furono i primi, fra i Negri dénka dell'interno, che accolsero con piacere nel loro paese i Bianchi, i quali vi si recarono per comprarvi avorio, e per dar la caccia agli elefanti.
La tribù dei Ròl, come tutte quelle dell'interno, meno pigra delle tribù Dénka lungo le rive del fiume Bianco, è ricca di grano e di miele, di cui fa anche commercio; e stretta in alleanza colle tribù vicine essa vive sempre in pace.
Fatìl è luogo santo in questa tribù, presso il quale i fratelli Poncets, mercanti d'avorio, ebbero per alcuni anni un loro stabilimento. Ecco quanto scrive in proposito Jules Poncet:
«En ce lieu, et à cinq pas de notre enceinte sur le bord d'une rivière, il existe une grande hutte où est enterré un kodjour de qui est née une jeune fille ventriloque, qui est parvenue à se faire une immense fortune. Elle est respectée, si non aimée, [266] de tout le monde. Elle venait chaque matin sur la tombe de son père, entourée de plusieurs hommes et femmes. Elle frottait avec ses mains la terre, en demandant au mort, d'une voix naturelle, si l'on devait ou non faire telle chose. Elle répondait alors du ventre oui au non, même en discours très-prolongés. Nos domestiques n'ayant jamais rien compris à cette pratique de jongleur en éprouvèrent toujours des sentiments de crainte. Les Nègres, qui sont plus simples encore, croient réellement entendre la voix du père, sortant de dessous terre, et ils en sont dans la plus grande admiration. Aussi ces ordres souterrains sont-ils immédiatement exécutés.
Cette demoiselle qui est jeune, coquette et trèsjolie, fait souvent dire par son père qu'un tel ou une telle doit lui donner tant de vaches, tant de chèvres ou autres choses de son goût, en sorte que par cette jonglerie elle a tout ce qu'elle désire.»
Tutti i Dénka ch'io visitai lungo le rive del fiume Bianco sono fumatori appassionati, e tuttavia non coltivano la pianta della Nicotiana tabacum che in pochissima quantità, la quale non basta per tutto l'anno a soddisfare il loro appetito; e finito il tabacco empiono le grandi loro pipe d'una certa erba secca e di carboni d'un legno aromatico, che riaccesi danno con quell'erba un fumo, che non è affatto spiacevole.
A proposito, mi ricordo che una notte, verso la [267] mezzanotte, da un momento all'altro, sentii dalla mia capanna i vagiti angosciosi d'una bambina di otto o dieci mesi, a cui era morta la madre nel darla alla luce. Il padre era un miserabile pescatore, che abitava vicino alle capanne della Missione, e non aveva che quest'unica figlia, che amava teneramente. Essa era custodita fra il giorno e nutrita or dall'una e or dall'altra delle donne di poveri pescatori che dimoravano a qualche distanza lungo il fiume; ma la notte la si lasciava dormire nel casotto del padre, adagiata in una pelle di capra, e sospesa per mezzo di due corde al tetto di quell'abituro. Il padre soleva la notte andarsene alla caccia dei ranocchi e di altri animali, poichè eravamo nella stagione, in cui mancava il pesce. Prima di partire però, anche questa volta prese seco la indispensabile pipa, ne accese i carboni, diede una occhiata all'innocente sua creaturina che dormiva placidamente, distese sopra il suo corpicciuolo un po' d'erba secca perchè l'aria della notte non le facesse male, l'accarezzò.... e partì; ma non si avvide che un carbone acceso della sua pipa era caduto sull'erba che copriva il petto della bambina; e di lì a poco quel carbone bruciava le carni di quell'infelice. Ecco il motivo de' vagiti angosciosi, che mi laceravano il cuore. Io pensai tosto che il padre non dovesse trovarsi presente, ed accorsi là frettoloso imaginandomi che qualche cosa di straordinario fosse accaduta a quella bimba, che non [268] aveva sentito mai a piangere; tanto era buona! — La presi in braccio; ella mi si strinse al collo, e s'acquetò subito: le feci qualche carezza, la portai nella mia capanna, la posai sul letto, ed accesi il lume. Poverina! — io sclamai — che piaga! — l'esaminai attentamente, la medicai meglio che ho potuto, la fasciai, e allo spuntar del giorno, tornato il padre dalla caccia, gliela consegnai assicurandolo che in pochi dì ella sarebbe perfettamente guarita. — Questa fu la prima volta ch'io vidi piangere di tenerezza un Negro adulto.
Nel paese dei Dénka dopo l'8º grado di lat. N. non s'incontra nessuna città, nessuna borgata propriamente detta, ma soltanto gruppi di capanne e piccoli casolari di tre o quattro famiglie, sparsi qua e là presso qualche campo coltivato nella stagione delle piogge.
Le capanne hanno una forma cilindro-conica e si elevano sopra una base d'argilla battuta; somigliano assai a quelle dei Scìluk; il tetto però è meno acuminato e sporge dal cilindro che lo sostiene circa un piede.
La suppellettile di una capanna non può essere più semplice; una o due pelli di bue che coprono il suolo, e sulle quali si sdraia e riposa o dorme tutta la famiglia; due o tre vasi di terra cotta da conservarvi l'acqua, il latte ed altro; tre o quattro scodelle ed altrettante coppe; qualche pelle di capra [269] o di montone; una specie di mortaio per triturarvi l'alób; qualche bastone d'ebano; una o due spazzole di giunco che servono a tener pulita la capanna; alcune lance ed altrettanti scudi, secondo il numero degli adulti che si trovano nella famiglia; e in qualche capanna un tamburone (lén-did); ecco tutto. Le frecce, il turcasso e l'arco non sono usati che presso le tribù dell'interno.
L'abitazione dei Capi (Bègñ-did) non si distingue da quella del resto degli abitanti se non per il numero e per l'ampiezza delle capanne che la compongono.
Essi non esercitano alcun diritto sui Negri della loro tribù, e sdegnano ogni pompa esterna, contenti del numeroso bestiame che posseggono; nè per ciò meno grande è la loro autorità, mentre nessuno della tribù oserebbe, senza il permesso del proprio Capo, mettersi in lotta con un vicino, accettare una tregua, o deporre le armi.
Sicuri del loro prestigio questi Capi non hanno altro segno della loro dignità, che l'alterezza dell'atteggiamento; e ve n'ha che per maestà di aspetto, nobiltà di portamento e di gesto, potrebbero rivaleggiare con qualcheduno de' nostri potentati. Io solevo riceverli nella mia capanna con quel rispetto col quale avrei accolto uno de' nostri principi d'Europa, se avesse avuto il coraggio di venire a visitarmi. Facevo distendere il più bel tappeto per terra, e gli invitavo a sedersi; ordinavo fosse loro portato [270] il scìbuk, e poi qualche bibita dolce ch'essi gustavano assai. E bisognava vedere quanto aggradivano tali attenzioni, e qual piacere mostravano d'avermi ospite nel loro paese.
Nella capanna di ogni Gran-capo è un enorme tamburo analogo ai nostri timballi, che gli Arabi chiamano noggàra, fatto con un tronco d'albero. I lati della cassa sono di diverso spessore, di maniera che lo strumento, quand'è percosso, rende due suoni affatto distinti; e secondo il modo con cui viene battuto, questo tamburo dà tre differenti segnali: uno per la guerra, un altro per la caccia, il terzo per riunire a festa; e centinaia d'uomini si adunano con incredibile rapidità.
[271]
Forme di saluto presso i Dénka — Matrimoni — Religione — Buffoni — Dialogo sulla schiavitù e sul diritto di punizione — Partenza da Santa-Croce verso Chartùm; stato della Missione; morte del missionario Angelo Melotto; ritorno a Santa-Croce.
Le forme di saluto presso i Dénka sono, per così dire, stereotipate, invariabili. Ecco qui le loro frasi di complimento allorquando s'incontrano due uomini per via:
— Màde (màdó), ti saluto.
Questa parola deriva, senza dubbio, dalla voce màd — amico mio, compagno mio, e viene ripetuta più volte alternativamente dai salutanti.
— Jín a-ci-nín; ci-nín; ci-nín? Hai tu dormito? hai dormito? hai dormito?
Con questa frase i Dénka vogliono significare: stai bene? ed essa viene ridetta tre volte contemporaneamente, nell'atto che l'uno dei salutanti batte la palma della propria mano su quella dell'altro.
[272]
— Jín a-bo-tenò? Donde vieni?
— G¨in a-bo e-pan.... Io vengo dal paese....
— Kòg e-pan-tuí a-nin? La gente di quel paese dorme?
— Jéne, a-nin. Sì, dorme.
— Dè tòn ci'vtìg e tù-tuí? V'ha novella (guerra) uscita di là?
— A-cin-tòn. Non v'ha novella (guerra).
— Ur ko mor ko tind-du ko mìvt-ku ko mèd-ku a-nin? Tuo padre e tua madre e la tua donna e i tuoi figliuoli e i tuoi amici dormono?
— Jéne, a-nin. Sì, dormono.
— Tig-è kòu. Voltami (mostrami) il tergo.
Con quest'ultima frase i Dénka intendono di lasciar partire l'amico in pace, e ne esprimono il senso anche col movimento della mano.
E finalmente dicono:
— Lor à-puat, ko jín a-cin ke bi-jók e-kuér-ig.
— Va col bene, e che tu non cosa incontri per via.
Le donne, le cui abitudini sono riservatissime, non dànno nè ricevono saluti se non dalle loro antiche conoscenze.
Il matrimonio dipende affatto dalla sostanza del pretendente; e il padre della ragazza richiesta in isposa la contratta con lui.
[273]
I vincoli del matrimonio sono sacri fra i Dénka, non ostante la poligamìa, la quale viene praticata da coloro che hanno mezzi sufficienti per mantenere più d'una donna. Ogni infedeltà è punita severamente tanto nell'uomo quanto nella donna.
I figliuoli sono considerati come la prova più evidente dell'attaccamento che unisce gli sposi, come il suggello dell'affetto conjugale: e la madre di numerosa prole ha diritto ad onori, che non le vengono mai contrastati.
Fra la tribù dei Kìc io conobbi un povero pescatore, monogamo, di nome Auán-did (gran-volpe), il quale aveva otto figliuoli; e fui assicurato che nessun poligamo n'ebbe mai tanti. In somma dalle osservazioni ch'io ho potuto fare, i monogami dànno in media più figli dei poligami. Osservai pure che nelle tribù lungo il fiume Bianco la popolazione va scemando, al che concorre certo anche l'infame commercio di carne umana.
Le feste in occasione di nozze si riducono a poca cosa.
La fanciulla viene semplicemente condotta alla sua nuova dimora dai parenti più stretti, seguiti da un corteggio più o meno numeroso d'invitati. Giunti alla capanna dello sposo, se questi possiede grosso bestiame, scannasi un bue, e se ne leva la pelle; le carni tagliate a grandi pezzi s'arrostiscono sulla viva brace, ed ivi si mangiano dai due sessi, benchè abitualmente le donne non mangino che nelle loro capanne.
[274]
Che se il fidanzato è un povero pescatore, il convito nuziale si limita a un po' di pesce.
Qualche volta però, se è lo sposalizio solenne di un Capo, trovasi legato presso la sua capanna un montone (gñón amàl) inghirlandato d'erbe e di fiori, sul quale monta a cavallo prima la sposa e poi lo sposo, quindi ad uno ad uno tutti quelli della comitiva; e finalmente lo Tièt (sacerdote e medico), tenendo in corda il montone, lo fa girare più volte intorno alla capanna dello sposo, e poi lo lascia andar nella foresta per esservi divorato la notte dalle bestie feroci; e tutto questo perchè il Genio malo tenga lontano ogni disgrazia dalla novella famiglia.
I doveri della donna fatta sposa consistono principalmente nel coltivare il terreno che circonda la capanna, provvedere, occorrendo, e preparare i pasti cotidiani, ungere il corpo del marito, e raddolcirgli le amarezze della vita co' suoi canti e colle sue smorfie.
Il canto fra i Dénka è assai monotono, e la voce de' cantori e delle cantatrici piagnolosa, per non dire gemebonda, e d'un suono decisamente nasale.
Tutte le tribù dénka ch'io ho visitato amano la danza, ma non così come i popoli della montagna.
Esse non hanno alcun amore per le arti, mentre questo è istintivo in altre tribù poste più al sud.
[275]
Nessuno fra i Dénka può dirsi che abbia un vero concetto religioso: nondimeno essi hanno nella loro lingua non una, ma due parole per indicare l'Essere Supremo, cioè Dèn-did — pioggia-grande o Ġáran. Inoltre essi usano in modo costante, per designare l'atto d'adorazione dai Missionari praticato, la voce a-ciòr; ed hanno i verbi ciòr e làm, che esprimono pregare Iddio; mentre il verbo vtiég significa pregare gli uomini. Di più, nel mio lavoro, il Sènnaar e lo Sciangàllah, ho detto quale idea essi abbiano di Dio, della creazione e di una vita futura. (Vedi vol. I, pag. 240-242). E qui faccio pure osservare che del verbo to-essere, usato nel tempo passato colla forma Tòu, i Dénka, parlando di Dio, esprimono sempre la forma presente, ancorchè vogliano significare un'esistenza relativamente a noi passata; per es: Dio è sempre stato e sempre sarà, traducono — Dèn-did a-to tin akorièg ko a-to tin akoriég — Dio è sempre ed è sempre. Abbiamo anche veduto con quali frasi tutte le tribù dénka, le quali abitano lungo il fiume Bianco dal 6º al 12º grado lat. N., chiamino le stagioni, in cui l'anno è diviso, e qual profondo significato esse racchiudano. Aggiungo ancora che la lingua dei Dénka ha locuzioni per formare le idee astratte[32].
[276]
Dalle quali cose io deduco che se l'intelligenza dei Negri dénka è ora evidentemente inferiore a quella dei Bianchi, tale inferiorità non è necessaria e senza rimedio, ma è un risultato dell'azione combinata di molte circostanze le più sfavorevoli allo sviluppo dell'intelligenza dell'uomo; ed io credo che l'azione energica di queste circostanze, prolungata da secoli, abbia potuto alterare presso questi Negri, come presso altri, un tipo primitivo più nobile, imprimendo sopra la loro fisonomia, riflesso della loro anima, la prova materiale della loro morale degradazione. Se io quindi esamino le istituzioni e la maniera di vivere di questi Negri, sono indotto, confrontandoli agli antichi Germani, ai Galli, ai Bretoni, che non erano meno barbari, a conchiudere ch'essi possono essere civilizzati, come lo furono quelli, nel volgere di alcuni secoli.
Tutti i Dénka ammettono due principii indipendenti; l'uno buono, ch'essi chiamano Dèn-did (pioggia grande) o Ġáran; e l'altro cattivo, che appellano Giòn-did (angelo grande o gran demonio), e dicono che da questi due principii emanarono gli spiriti buoni (giòk a-puat) e gli spiriti cattivi (giòk-à-rag); credono inoltre che i loro Tit (sacerdoti) conversino spesso col gran demonio e coi suoi spiriti subalterni e se la intendano con loro. Siccome poi dal Giòn-did procede ogni male, così essi procurano di placarlo coi sacrifici, s'egli è adirato contro gli uomini; nè si prendono alcun pensiero [277] di pregare Dèn-did o Ġáran perchè li protegga, li difenda o gli aiuti, mentre Egli è sommamente buono, com'essi dicono, e quindi non può fare che il bene. La credenza negli spiriti maligni è generale in tutta l'Africa Interna.
Presso i Dénka la foresta è la dimora di tutti gli spiriti maligni, che cospirano contro gli uomini; e nello stormir del fogliame par loro d'intendere misteriosi dialoghi.
«La superstizione, figlia della terra dove si produce, vi germoglia come i fiori dei campi, ed è intimamente legata al luogo che la vide nascere. Gli abitanti del nord sotto il loro cielo di piombo popolarono tutte le caverne, tutte le rovine di spettri irritati e vendicativi. Qui poi la selva impenetrabile, co' suoi nembi di gufi e di pipistrelli, è riguardata come l'abitazione dei genii malefici, mentre gli Orientali, che abitano un paese brullo, esposto a tutto l'ardore d'un sole fiammeggiante, temono soprattutto il mal occhio.
Il carattere insomma della superstizione dipende dalla natura dei luoghi, e diventa, a così dire, un problema geografico.»
Come in tutta l'Africa, così fra i Dénka non mancano i buffoni, che fan professione di provocare [278] altrui al riso con motti, lazzi ed atti stranissimi. Uno di questi, piccolo e grassoccio, con un naso singolarissimo che faceva ridere a vederlo, con una pelle ruvida, agilissimo ne' suoi movimenti, un uomo insomma che nessuno avrebbe riconosciuto della razza dei Dénka, i quali, come già dissi, sono piuttosto lunghi e magri ed hanno una pelle liscia e delicata, veniva a visitarmi quasi ogni giorno, e qualche volta, convien che lo dica, disturbava la mia quiete, mentre più spesso mi faceva passare la malinconia e mi teneva allegro. Egli faceva dei salti e delle capriole così agili, da produrre, colle sue quattro membra volteggianti, l'effetto delle ale d'un mulino a vento. Coperto dai piedi alla testa di ciocche di foglie e di code di diversi animali, era così comico da non poter figurarselo. I suoi frizzi e le sue burle parevano inesauribili: tutto gli era permesso, e bisognava lasciar fare perchè non facesse di peggio; si avvicinava a me, stendendomi la mano, e mentre io stavo per prenderla, spiccava un salto indietro come un daino, balzando lontano. Talora mi faceva capire che aveva fame, voleva da mangiare, e si doveva accontentarlo; tal'altra si metteva a cantare, e non la finiva più con quella voce che mi produceva l'effetto d'un babbuino che grugnisce. — Una mattina, in cui ero molto occupato nello studio del dénka, venne accompagnato da una truppa di giovinetti e di giovinette, e si pose davanti alla porta della mia capanna, [279] e dopo alcuni gesti burleschi, intonò la sua voce e prese la parola. Il discorso fu per me inintelligibile; ei si ripigliava spesso, soffermandosi a certe frasi per lasciar tempo ai circostanti d'applaudire; allora da tutte le bocche di que' giovinetti uscivano degli Ih, ih! e degli à-puat, à-puat! — bene, bene! e il baccano diveniva infernale. A momenti, come per istimolar gli applausi, il buffone proferiva un brrr di tal potenza da far vibrare il tetto della mia capanna, e da costringere a ritirarsi i lucertoloni che facevan capolino dalle fessure di essa. — Io non ne potevo più, e li cacciai via tutti colle parole d'uso tig-kè-kòu — voltatemi (mostratemi) il tergo, esprimendone il senso con un movimento un po' brusco della mano. Il buffone e i giovanetti s'allontanarono per poco; ma tosto ritornarono; e il buffone quatto quatto entrò nella capanna senza aprir bocca, prese un mio farsetto che vide appeso ad una corda, e nudo com'era, se l'indossò; avvicinatosi poi a me con un tuono imperioso mi disse: Tig-è-kòu — voltami (mostrami) il tergo, scimmiottando così quanto io avevo fatto dapprima con lui, e mi cacciò fuori della capanna. — Addio dénka per quest'oggi! io sclamai, e con gran soddisfazione de' giovinetti che mi circondavano, non potei trattenere uno scroscio di risa.
[280]
La fede nella potenza del caso o del destino domina fra i Dénka come presso molte altre tribù dell'Africa. Questi Negri credono che gli avvenimenti non dipendano dalla loro volontà, ma da una forza occulta che dirige ogni cosa, e che bisogna rendersi favorevole. Da ciò ne vengono i sacrifici, che fanno di quando in quando al Genio malo, onde allontanare i maleficî e gli avversi destini.
Nell'abbrutimento meraviglioso, in cui essi vivono, non hanno tuttavia smarrita ogni traccia di legge morale. Rispettano soprattutto la donna e la roba altrui, e i trasgressori vengono puniti severamente. Io vidi un giovane a cui fu tagliata la mano, perchè aveva rubato due braccialetti di rame e alcune perline di vetro. E un uomo sui trent'anni, che osò scherzare licenziosamente con una donna che non gli apparteneva, fu battuto quasi a morte e poi scacciato dalla tribù.
Durante la mia dimora nella tribù dei Kìc, dopo le funzioni del mio ministero, m'occupavo principalmente nello studio della lingua del paese, senza la quale è impossibile adempiervi a dovere la propria missione. Oltre a che mi trovai nella necessità, insieme co' miei compagni, di esercitare i mestieri del cuciniere, del fornajo, del cacciatore, del falegname, del lavandajo, del sarto ecc. ecc.
Prima di chiudere questo capitolo voglio trascrivere un dialogo ch'io tenni con un Negro dénka intorno alla schiavitù ed al diritto di punizione.
[281]
— Senti, io gli chiedevo un giorno, quanti saranno, press'a poco, tra uomini e donne, quelli che vengono rapiti a questa tua tribù dagli Arabi, dai mercanti e dai dongolèsi nel corso di un anno?
— Io non saprei dirtelo con precisione, ma certo non meno di quindici o venti, quasi tutti giovani, poichè si possono vendere a più caro prezzo.
— Che cosa ne dici della schiavitù?
— Che vuoi che te ne dica... mi pare ch'ella sia un'infamia da parte di coloro, dai quali viene esercitata.
— E presso voi è praticata la schiavitù?
— No, per noi non sono schiavi che i prigionieri fatti in guerra.
— E questi son forse venduti da voi, o ve ne servite nei vostri bisogni?
— Noi gli scambiamo coi prigionieri nostri fratelli, che si trovano presso la tribù nemica; e se qualcheduno ci resta, lo vendiamo ai mercanti o ai turchi.
— E perchè venderlo, se tu mi dicesti pur ora che la schiavitù è un'infamia da parte di coloro, dai quali viene esercitata?
— Perchè fanno così anche i nostri nemici.
— Ma.... se essi adunque fanno il male, perchè farlo anche voi? Ignori forse che non è lecito di comperare e di vendere l'uomo, come si farebbe di qualunque merce?
Il Negro tacque; ed io dico ch'era la prima [282] volta ch'egli udiva parlar così, poichè m'accorsi che le mie parole fecero una strana impressione sopra quel cuore selvaggio ed incolto, e nel suo occhio rotondo e penetrante brillò qualche cosa, che fu tosto seguita da un curioso sorriso, abituale alla razza dei Negri. Poi egli continuò:
— Ma... non siete voi Bianchi che rubate i Negri, che li mangiate, che li comperate e li vendete come fossero bovi o denti di elefante?
— Sì, io risposi, così fanno i Turchi e gli Arabi, ma non i Bianchi del mio paese, i quali in tal caso sarebbero severamente puniti. Davanti alle nostre leggi la libertà dell'uomo è sacra ed inviolabile; Dio stesso ci comanda di rispettarla, d'amarci tutti come fratelli e di non far male a nessuno, nè manco ai nostri nemici, ai quali dobbiamo perdonare, se vogliamo che Dio perdoni a noi.
— Tutto va bene, egli soggiunse, ma io non comprendo come si debba perdonare al nemico. Quando potrà egli allora correggersi delle sue colpe, se nessuno lo punisce? Continuerà a molestarci, e con tanto più coraggio, quanto meno temerà d'essere punito.
— E a chi spetta tra voi il diritto di punizione?
— Spetta alla persona che rimase offesa.
— E s'ella è impotente a contraccambiare l'offesa ricevuta?
— In tal caso i parenti e gli amici accorrono [283] a vendicarla; e se questi non bastano, tutta la tribù.
— Dimmi: la misura della punizione da chi viene determinata?
— Dalla consuetudine. Presso noi, per ogni delitto è stabilita la pena corrispondente.
— Quali sono le pene che ordinariamente vengono inflitte?
— Secondo le circostanze.... il taglio di un dito o delle dita della mano o del piede, il ferro rovente sulla viva carne, e qualche volta l'esilio, e tal'altra la morte; vi sono poi le multe, a cui vengono condannati i delinquenti.
— Le stesse pene sono forse applicate anche alle donne?
— No, alle donne cattive s'applicano pene meno severe, poichè si ritiene che la colpabilità nella donna sia minore che nell'uomo, e perchè essa è più sensibile al castigo.
— Tu mi dicesti che il diritto di punizione spetta alla persona, che rimase offesa; e ciò avviene, lo so, qualora si tratti di uomini o di donne. Ma se un uomo commette ingiustizia contro una donna, o una donna contro un uomo?...
— Se un uomo commette ingiustizie contro una donna, è il marito che deve vendicarla, e se ella non ha marito, i suoi parenti. Che se è una donna che offende un uomo, in tal caso la punizione viene inflitta da un'altra donna a ciò deputata, ma non [284] mai dall'uomo, fosse pur anche l'offeso, quando non sia il marito, il quale della propria donna può fare tutto quello che gli piace.
— Fammi attenzione (ñġiég-e-nòm); tu mi dicesti ancora che la misura della punizione viene determinata dalla consuetudine, e che presso voi, per ogni delitto è stabilita una pena corrispondente; ma.... possono occorrere certe circostanze che diminuiscono la colpa nell'offensore....
— È vero, rispose il Negro; ma se è così, noi ricorriamo allo Tièt (sacerdote e giudice) ed al Gran-capo (Bègñ-did) perchè essi decidano sulla proporzione della pena.
— E quale età debbono avere compiuto i giovinetti e le giovinette perchè sieno capaci di punizione?
— A un di presso questa età, egli disse, accennando due giovinetti ch'erano presenti, ed avevano circa dieci anni.
— V'è mai avvenuto di punire qualcheduno che fosse innocente?
— Per quanto io mi sappia, ciò non è mai avvenuto, e difficilmente può avvenire, imperciocchè non si puniscono che coloro che sono colti in flagranti.
— Quanti saranno, press'a poco, i condannati a morte nel corso di un anno?
— Uno o due tutt'al più; ma vi son degli anni in cui non havvi alcuna condanna.
— E i condannati all'esilio, o al taglio delle dita?
[285]
— Medesimamente.
— Forse più spesso sarà applicata la pena del ferro rovente, e delle multe, n'è vero?
— Senza dubbio; e la pena delle multe più che quella del ferro rovente.
— Qual'è la pena maggiore a cui va soggetta la donna colpevole?
— È quella d'essere venduta come schiava dal marito.
— E qual'è la colpa che la rende meritevole di tanto gastigo?
— È quella d'essere venuta meno al dover conjugale.
— Si dà mai caso che il marito perdoni alla moglie infedele?
— Certo, che si dà; ma allora il marito, adirato contro di lei, subito la percuote, la discaccia dalla sua capanna, e tutti la guardano di mal occhio e la disprezzano; ma se i suoi genitori vivono ancora, essa fa ricorso a loro, e li prega e li scongiura perchè l'aiutino a pacificare l'offeso marito; piange il suo peccato, e promette che non lo farà più.
— E qualora i genitori riescano ad acquetare il marito?...
— Questi allora invita i genitori colla figlia a ritornare nella propria capanna; gli asperge con acqua, e poi dice loro di sedere; mangiano qualche cosa tutti insieme, e la pace è bell'e fatta.
— Dimmi un po': come la passa il seduttore?
[286]
— Il seduttore dovrà pagare dieci vacche al marito di quella donna, se ella fu consenziente al mal fatto, altrimenti egli è punito coll'esilio o colla morte.
— Senti ancora, qui fra voi succedono mai alterchi, contrasti tra due o più persone, e in conseguenza busse e ferimenti?...
— Sì, accadono, ma non di spesso. E se l'alterco è fra uomini finisce prestamente, poichè lo Tièt, o il Bègñ-did, si mette di mezzo e li rappatuma; ma la cosa si fa seria, e può alle volte mutarsi in una catastrofe se altercano donne; esse non la finiscono più; e il peggio che peggio è che gli uomini non possono intromettersi lì per lì per farle venire a una conciliazione, nè manco i mariti; e frattanto il loro sangue s'accende sempre più, e le dispute durano per giorni e giorni e con gravissime conseguenze. Tu, o signore, che da un pezzo abiti fra noi, ne devi essere stato testimonio.
Una volta, verso le sei ore pomeridiane, tornandomi dalla caccia, vidi due donne d'una trentina d'anni ciascuna, le quali parlavano assieme a bassa voce: m'accorsi però che il loro colloquio era animato, e osservai inoltre che altre donne qua e là disperse, e disposte a piccoli gruppi, stavano come in aspettazione dell'esito di quel colloquio. Io, curioso, mi soffermai sotto una pianta in modo da non essere veduto e da veder tutto sino alla fine. Il colloquio fra quelle due donne terminò subito, [287] e sì l'una che l'altra, gesticolando furiosamente, stringendo il pugno, e battendosi il capo, si diresse, a breve distanza, verso uno di quei monticelli che formano le formiche, e vi montò sopra; e allora, cominciarono a scagliarsi contro imprecazioni inaudite; e quindi discesero dalle loro tribune, e s'incontrarono con impeto, si saltarono addosso, si avviticchiarono come due tigri, e principiarono a lacerarsi il viso, il collo, il petto a morsi e a unghiate con una furia che metteva orrore. A un tratto eccole staccarsi e correre ancora sulle loro tribune, e poi nuove imprecazioni, ingiurie sanguinose, accuse incredibili, minacce le più feroci; finchè, essendo caduto il sole, l'una sfidò l'altra per il domani, alla stessa ora. Tutti i gruppi di donne qua e là dispersi s'unirono in due, e ciascuno accompagnò la parte che proteggeva. Io m'avviai alla mia abitazione crollando il capo, e dicendo fra me: questo è veramente un saggio della ferocia femminile che non dimenticherò mai più; domani vorrò ritrovarmi nello stesso luogo, e vedrò come l'andrà a finire;... possibile ch'io non riesca a metter pace fra quelle donne?...
Il giorno dopo, alla stessa ora, le due donne furono ai loro posti, ma questa volta attorniate e incoraggiate dal proprio partito, che le rendeva più fiere. — A qualche distanza si vedevano Negri spettatori. — Di tratto in tratto s'ode fra i due gruppi di donne un confuso grido simultaneo di molte voci; [288] i due gruppi s'avvicinano a poco a poco. — Io provavo un senso di compassione e di orrore. — Si sentono interiezioni di rabbia e di vendetta. Nessuno, se non ha veduto, può farsi un'idea della figura di quelle Negre. Erano faccie convulse, cogli occhi fuori dell'orbita, colla bocca aperta, e la lingua sporgente; eran visi di febbricitanti e di epilettiche, illuminati da sorrisi indefinibili, contratti come da uno spasimo atroce. Esse pestavano i piedi e sbuffavano, e quindi cominciò una mischia così crudele, ch'io non potrei descrivere, perchè non ebbi il coraggio d'assistervi più a lungo, e tornai a casa risoluto di voler metter pace fra quelle donne, e pensando quale sarebbe stata la via più sicura per ottenere l'intento.
Mi posi d'accordo col Capo della tribù e collo Tièt, ed ottenni di parlare colle donne che sostenevano la parte principale di quella tragica scena, e riuscii ad acquetarle con tante perline di vetro quante ne hanno voluto, delle più belle che possedevo.
Il 15 gennaio 1859 lasciammo la Missione di Santa-Croce (6°, 40′ lat. N.) per ritornare a Chartùm, ove impaziente ci attendeva un nostro confratello, Alessandro Dal-Bosco.
[289]
Fu durante questo viaggio ch'io esplorai, per la prima volta, co' miei compagni Angelo Melotto e Daniele Comboni, il fiume Sóbat e le tribù Dénka nella penisola del Sènnaar per cercarvi un luogo opportuno ove fondare la Missione-Italiana.
Dopo faticose ricerche, il punto che a noi parve migliore da stabilirci fu sul canale Tarciàm, presso il villaggio Miegiòk, nella tribù degli Abialàñġ.
Giugnemmo in Chartùm il giorno 4 aprile 1859, ove trovammo il Dal-Bosco molto ammalato, e solo.
Il missionario Matteo Kirchner, che da più di un anno esercitava provvisoriamente le funzioni di Provicario Apostolico in Chartùm, udita la morte di monsignore Ignazio Knoblecher, avvenuta in Napoli nell'aprile del 1858, si risolse di tornare in Europa e di recarsi a Vienna presso il Comitato della Missione-Africana, e poi a Roma presso la Propaganda per intendersela su alcuni punti risguardanti la vacillante Missione. Prima di partire da Chartùm, egli mi scriveva una lettera, che mi venne ricapitata in Santa-Croce, colla quale mi consigliava di tornare a Chartùm co' Missionari italiani, raccomandandomi però di esplorare, durante questo viaggio, le tribù Dénka del Sóbat e della penisola del Sènnaar. Scrisse pure a Giuseppe Lanz, presidente in Santa-Croce, dicendogli che al più presto possibile mandasse avviso ai Missionari in Kondókoro di trattenersi in quella Stazione finchè fosse eletto il nuovo Provicario.
[290]
Queste lettere, con altre ancora provenienti da Europa, ci furono spedite da Alessandro Dal-Bosco col mezzo di un vapore che solcava per la prima volta le acque del fiume Bianco, ed era diretto da M.r Lafarque, mercante francese, il quale ce le consegnava il 13 novembre 1858. Il presidente Giuseppe Lanz spediva la lettera del Kirchner col mezzo dello stesso vapore ai Missionari di Kondókoro, acciocchè fossero bene informati dello stato in cui trovavasi la Missione dopo la morte del Provicario Apostolico Ignazio Knoblecher.
La risposta relativa alla lettera del Kirchner ci venne recata l'8 dicembre dallo stesso M.r Lafarque, che col vapore tornava a Chartùm, ed era scritta da Francesco Morlang presidente nella Stazione di Kondókoro. Eccone il tenore:
«Cari fratelli, non è possibile di poter resistere più a lungo fra questi Negri....» E dopo d'aver dipinto al vivo la deplorevole loro condizione, i pericoli e le sofferenze, a cui andarono soggetti, conchiude dicendo: «Questa Missione cominciò col fumo, e come un fumo svanì. Appena arriverà la barca col nuovo missionario, Luigi Viehwaider, e colle provvisioni per Kondókoro, fermatela e scaricatela in Santa-Croce, e poi speditela vuota a noi con un'altra barca, affinchè possiamo caricarle tutte e due degli oggetti che più c'interessano, se i negri Bàri ce lo permetteranno, poichè essi, udita dai mercanti la morte del Provicario Apostolico, pretendono [291] d'essere i padroni di tutto ciò ch'egli possedeva in Kondókoro.»
Vennero due barche in Santa-Croce col nuovo Missionario la sera del 13 gennaio 1859, una delle quali conteneva le provvisioni per questa stazione, e l'altra per la stazione di Kondókoro.
Il 15 gennaio con una delle due barche io partiva da Santa-Croce co' miei compagni missionari per ritornare a Chartùm, e coll'altra il sacerdote Luigi Viehwaider continuava poi il viaggio per soffermarsi in Kondókoro fino al ritorno in Africa del nuovo Provicario, che doveva essere Matteo Kirchner.
Noi giugnemmo in Chartùm, come dissi, il 4 aprile, e vi trovammo Alessandro Dal-Bosco molto ammalato. Daniele Comboni tartassato da febbri continue desiderava di tornarsene in Europa. E Angelo Melotto stanco dalle fatiche del viaggio, e molestato quasi ogni giorno da fortissimi dolori di capo, diveniva sempre più debole; mai però che si lamentasse de' suoi mali o mostrasse desiderio di ripatriare per ristabilirsi in salute. Egli amava di passeggiar solo in giardino, e quando, dopo caduto il sole, entrava nella sua stanza, spossato, per cercarvi un po' di riposo, ed io lo visitavo, e' non faceva che parlarmi della futura Missione Italiana sul Tarciàm, [292] e mi pregava a non voler abbandonarne il pensiero, qualunque fosse per essere la decisione del Comitato di Vienna. Poveri Negri, egli soleva dire spessissimo, quanto mi fate compassione! quanto io v'amo.... e quanto vorrei fare per voi, mi costasse pur anche cento volte la vita.... lo sa Iddio. Ma.... le mie forze diminuiscono ogni dì più, caro don Giovanni, e mi sento consumare a poco a poco. — Io badavo a lui continuamente; finchè la sera del 27 maggio lo vidi strascicarsi nella stanza più presto del solito e distendersi sul povero suo letticciuolo accanto alla finestra aperta, perchè altrimenti gli pareva di non poter respirare, e teneva gli occhi immobili e fissi al cielo. Corsi allora e sedetti a lui vicino, lo confortai e mandai pel medico Peney, che venne dopo alcuni minuti; questi gettò uno sguardo sopra l'ammalato e rimase per alcuni istanti silenzioso, e poi mi chiese:
— Quando s'è fatto in lui questo cangiamento?
— Veramente, risposi, è da tre o quattro giorni ch'io lo veggo triste, malinconico, pensoso, che non mangia proprio nulla; e giusto poco fa egli mi diceva che fu preso nel giardino da un capogiro, che lo fece cadere a terra; e chi sa quante volte ciò gli sarà accaduto; ma non parlò mai, forse per non contristarmi, sapendo quanto io l'amo.
Il medico mi strinse la mano e crollò il capo, volendo dire: non c'è più speranza di poterlo salvare.
— O Dio! è tremendo! io sclamai, rivolgendomi [293] al mio servo fedele Cher-Allàh, ch'era presente e che aveva bagnato di lagrime il nero suo volto.
Partito il medico, l'infermo volle confessarsi, ricevette il Viatico, egli stesso domandò l'Estrema Unzione.... Il dolce suo viso divenne poi tutto raggiante di speranza e di fede. Di quando in quando rivolgeva verso me i cilestri e grandi suoi occhi.... Era lo sguardo calmo e lucido di un'anima disciolta per metà dai legami di questa terra. — Io vegliai tutta la notte presso a lui raccomandandolo al Signore, e l'osservavo declinar rapidamente; pure pregavo Iddio perchè non volesse rapirmi il compagno e l'amico; ma era giunto a tal punto, che l'affezione più tenera non poteva conservare la menoma illusione ch'ei potesse rimettersi. A mezza notte tutt'a un tratto emise un grido straziante di dolore, dopo del quale perdette i sensi, nè più ritornò in sè stesso.
— Prega, prega, io dissi allora a Cher-Allàh, il quale m'era vicino, che anche questa prova finisca presto! essa mi lacera il cuore.... Alle ore nove antimeridiane del giorno 28 maggio i suoi dolori erano cessati, e il suo volto aveva uno splendore misterioso e solenne, che imponeva silenzio anche ai singhiozzi dolorosi di quanti erano presenti.
Tutti ci avvicinammo attorno a lui rattenendo il respiro....
— Don Angelo! io dissi dolcemente.... ma egli era morto....
[294]
Pochi giorni dopo, Daniele Comboni partiva per l'Europa, ed io ricevetti lettera, che fra l'altre cose mi parlava pure della nuova elezione del Provicario Apostolico Matteo Kirchner, il quale capitò in Chartùm verso la metà del novembre 1859.
Egli, col beneplacito di Roma e del Comitato di Vienna, ordinò:
che i pochi Missionari superstiti del Sudàn dovessero raccogliersi quanto prima in Assuàn, rimpetto a File;
che le Stazioni di Chartùm, di Santa-Croce e di Kondókoro venissero affidate ad alcuni Negri, fedeli guardiani;
che ogni anno si dovessero visitare da tre o quattro Missionari, per turno.
Diede quindi a me l'incarico di partir tosto pel fiume Bianco colla grande dahabìah della Missione e con tre altre barche vuote fino a Santa-Croce e a Kondókoro, per caricarle della suppellettile e condur via i Missionari e que' giovinetti orfani, che avrebbero voluto seguirci. Mi raccomandò pure di esplorare un'altra volta, co' Missionari tedeschi, il Tarciàm, nel ritorno da Kondókoro e da Santa-Croce verso Chartùm.
Frattanto il Provicario Apostolico si sarebbe recato in Assuàn a prepararvi la nuova Stazione, ove avremmo dovuto raccoglierci tutti.
Con questi ordini io feci vela pel fiume Bianco il primo dicembre, e il 22 dello stesso mese giunsi [295] in Santa-Croce, ove sani e lieti trovai i due missionari Giuseppe Lanz e Antonio Kaufman, il quale era venuto in questa Stazione da Kondókoro, con quella stessa barca che aveva condotto in Kondókoro il missionario Viehweider.
Questi due Missionari, udite ch'ebbero le disposizioni del Provicario Apostolico intorno alla Missione ed i motivi che lo avevano indotto ad attuarle, non seppero darsi pace, e vi si assoggettarono a malincuore, dicendo che questo nuovo progetto di missione toglieva a' Missionari ogni speranza di giovare ai poveri Negri, come avrebbero desiderato. Il pensiero poi di dover passare due volte il deserto per visitare le Stazioni del fiume Bianco gli atterriva più, che una continua dimora nel Sudàn, ove se nel corso di pochi anni morirono parecchi Missionari, non era tanto da incolparsi il clima, quanto le molte cure e diverse, delle quali essi erano soverchiamente aggravati, trovandosi tutt'al più due soli in una Stazione lontana, ov'era impossibile prima d'un anno di sperare soccorsi. Essi dicevano che sarebbe stato miglior partito quello di concentrare tutti i Missionari sul fiume Bianco in una sola stazione che non fosse troppo lontana da Chartùm, affinchè tornassero più frequenti e più facili le relazioni; e così uniti tentare un'ultima prova.
[297]
Da Santa Croce a Kondókoro — Costumi dei Bàri — Tremuoti, venti, temperatura — I Bàri e la Missione — L'islamismo e la schiavitù — Conclusione.
Da Santa-Croce mossi verso Kondókoro la mattina del 26 dicembre, non più solo, ma colla cara compagnia di Giuseppe Lanz. Frattanto il signor Kaufman doveva incassare e mettere in punto ogni cosa. A questo scopo io avevo lasciata una barca vuota a sua disposizione, colla quale si tenesse pronto a partire appena noi fossimo ritornati. Cagione di tanta fretta era il timore che il fiume giungesse al suo maggior decrescimento, e non ci permettesse quindi di recarci a Chartùm con barche assai cariche.
Fino alla sera del 26 dicembre noi vedemmo continue, dalla parte sinistra del fiume, le abitazioni provvisorie dei Kìc, mentre dalla parte destra, oltrepassata [298] la tribù dei Tuìc, eravamo entrati in quella dei Bòr, i quali soggiornavano ancora nell'interno sopra canali del fiume.
Il 27 dicembre avevamo a destra ancora i Bòr, e a sinistra gli Eliàb, tribù che sono quasi sempre in guerra coi negri Scìr, i quali abitano sulle due rive del fiume verso il sud.
A mezzodì dello stesso giorno facemmo stazione in Akuàk, presso cui esce dal fiume il canale delle giraffe (Bàhr-ez-Zeràf).
Fin qui la prospettiva per me non ebbe nulla di gradevole. Ma da questo punto, ecco cangiarsi la stucchevole monotonia delle rive. Alle altissime erbe e ai folti canneti succedono, a destra del fiume, le magnifiche boscaglie dei Bòr; e già sì veggono frequenti le mimose, le palme-dòm, l'ebano, i nàbak, le euforbie velenose e giganti, gli alòk, come dicono gli Arabi, i kakamùt ed altre piante, del frutto delle quali si pascono i Negri. Ora il fiume, diviso in canali, raccoglie pochissima quantità d'acqua, e con fatica si può procedere avanti. Un grande e profondo canale esce a sinistra al 5°, 56′, 44″ lat. N., e rientra al 6° 14′, 30″. L'isola tra questo canale e il fiume è chiamata dagli Arabi Gesì-rat-el-Eliàb, ed è la più grande del fiume Bianco, dopo quella formata dal canale delle giraffe, e dopo le isole dei Scìr. Queste isole favorite dall'umidità e dal calore sono stupendamente feconde; alcune abitate da poveri pescatori appartenenti a tribù diverse, [299] i quali compongono una casta al tutto speciale; altre lasciate incolte; e qui Negri mandriani conducono a pascolare i loro bestiami; e qualcheduna è riservata alla coltivazione del tabacco, del sesame, de' fagiuoli, del dùrah e del cotone. Il ricino vi cresce naturalmente, e sonvi di ricino folti boschetti.
Dal letto poi del fiume sporgono qua e là banchi di conchiglie, sui quali raro è il caso che non veggansi cercar pasto il falcone e la cicogna.
Il giorno 29 dicembre, poco prima del terminare dell'isola degli Eliàb, vedemmo sboccar nel fiume, dalla parte destra, due grandi canali di acqua, ch'escono dal medesimo presso il 5º grado lat. N.
Questi canali navigabili comunicano fra di loro per mezzo di altri piccoli canali, e formano così una quantità d'isole, che ti sembrano deliziosi giardini circuiti da artificiali fossati. Immense boscaglie, quasi ondeggianti per l'ineguaglianza del terreno, accompagnano il viaggiatore a destra e a sinistra al di là dei canali, ed or s'avvicinano or s'allontanano da' suoi sguardi sotto aspetti sempre nuovi e di meravigliosa bellezza. In queste boscaglie i Scìr hanno le loro stabili dimore durante la stagione piovosa; ma allor ch'eravamo nella stagione asciutta, essi abitavano le isole, veri luoghi fatati. Qui vedevi un uomo che custodiva un armento, là una donna e tre o quattro giovinette che pascolavano un branco di capre; più oltre alcuni Negri accosciati sotto una pianta che fumavano la pipa; [300] ed altri che aizzavano bestiami al passaggio di un canale mentre uno li precedeva a nuoto, segnando loro la via per condurli a pascoli migliori nelle isole vicine. Drappelli poi di fanciulle precedevano le nostre barche con battimani, canti e balli, nella speranza di ottenere in dono delle perline di vetro: tutto in somma concorreva a presentarci i più incantevoli panorami.
I costumi dei Scìr sono assai bizzarri, e quasi al tutto conformi a quelli dei Bàri, dei quali dirò tosto qualche cosa, dietro le relazioni avute dai Missionari di Kondókoro.
Anche la lingua di questi Negri è quella dei Bàri, lingua assai dolce e armoniosa.
La mattina del primo gennaio 1860 entrammo nella tribù dei Bàri, ove il fiume prende il nome di Ciufìri, nel quale si trovano sparse qua e là diverse ed eleganti isolette, che ne dividono il corso in più rami, il cui letto poco profondo rende difficile oltremodo la navigazione. La riva destra s'inalza notabilmente, il terreno diventa sabbioso, e le boscaglie non vi sono più così fitte come prima; mentre la riva sinistra si fa sempre più bassa e paludosa, e la foresta vi sparisce quasi del tutto.
Il primo monte che ci si offerse agli sguardi nella tribù dei Bàri, a sinistra del fiume, è chiamato dagli indigeni Gnárkègni, e dagli Arabi Gèbel-el-hadìd (monte del ferro); e quindi a destra, più a sud, vedemmo le montagne di Belegnàn, di Lokòja [301] e di Longhè, le quali ci annunziavano vicina la Missione di Kondókoro.
Verso il mezzogiorno del 2 gennaio giugnemmo a Libo, villaggio posto sulla destra del fiume tra il 4º e il 5º gr. lat. N., distante non più d'un'ora di cammino da Kondókoro. In questo villaggio visitai tosto la modesta tomba del mio collega ed amico Angelo Vinco, che primo fra' Missionari s'era introdotto nella tribù dei Bàri, e avea fissata la sua stazione in Libo, ove morì e fu seppellito il 23 gennaio 1853. — Nessun monumento segna il luogo ove riposano le sue ossa! — La tomba è circondata da gigantesche euforbie. I Negri di quando in quando vanno a cantarvi una canzone, colla quale ricordano gli splendidi regali da lui ricevuti, e che non furono superati da nessun altro Bianco. — Io vi lasciai il tributo delle mie lagrime e la promessa di ricordarlo sempre, finchè avrò vita.
Finalmente alle ore tre pomeridiane dello stesso dì abbracciammo in Kondókoro il missionario Francesco Morlang, che, con dolorosa nostra sorpresa, ci annunziava la morte di Luigi Viehweider avvenuta nella notte del 3 agosto 1859, dopo due mesi di penosissime febbri e sei di dimora in questa Stazione.
Le disposizioni del Provicario Apostolico, ch'io esposi a Francesco Morlang, missionario zelantissimo e coraggioso, produssero nel suo animo quella stessa [302] impressione che n'aveano avuta i Missionari di Santa-Croce.
Francesco Morlang, terzo Presidente nella stazione di Kondókoro, mi parlò a lungo intorno alla tribù dei Bàri, presso i quali si trovava da circa quattr'anni; e i suoi racconti corrispondevano pienamente a quelli del primo Presidente Bartolomeo Mosgan, il quale dopo un anno e qualche mese di residenza fra i Bàri, sfiduciato d'ottenere qualche cosa di buono da quella tribù, l'abbandonava nel marzo 1854, trasferendosi presso i Kìc, ove fondò la stazione di Santa-Croce; corrispondevano ancora a quelli del secondo Presidente Antonio Überbacher, che affaticato e stanco, dopo quasi tre anni di continua dimora in Kondókoro, vi moriva nel febbraio 1853 senza la più piccola soddisfazione, tanto naturale all'uomo, di veder coronate le sue fatiche d'un esito felice.
I Bàri, oltre al possedere gli altri difetti comuni alle razze negre, sentono in sommo grado l'indipendenza, ed hanno un'indole superba e feroce. Lieve querela viene il più delle volte terminata a colpi di lancia o di bastone, ed è causa d'una guerra sanguinosa e fatale.
Il Morlang mi diceva che fra i Bàri più sono [303] quelli che muoiono di morte violenta che di malattia.
Il Negro bàri col crescere dell'età moltiplica i suoi nemici, che non gli permettono di vivere una lunga vita. Perciò rari fra loro sono i vecchi, senza paragone più che fra i Dénka, sebbene le qualità del clima vi sieno migliori d'assai.
L'uomo bàri bisognoso di qualche cosa non s'umilia domandando, ma pretende o rapisce se può; e nel caso che regni la fame nel proprio paese, ed egli non possa in altro modo soddisfarla, vende senza pietà ai mercanti d'avorio e ai dongolèsi i suoi figliuoli; e per qualche pugno di grano lascia che la moglie e le figliuole sieno da essi disonorate.
Allorquando i Bàri di Kondókoro esercitavano il loro commercio con altri Bàri della stessa tribù, o colle tribù vicine, permutando il loro ferro, il sale, il tabacco ed altro con dùrah, sesame, bestiami ecc., non erano così miserabili come lo divennero dacchè s'introdusse fra loro un malinteso commercio, e con esso, fin dal 1844, l'infame razza dongolèse, che con altri vizi vi portò pure quella turpe malattia la quale dagli indigeni viene curata col ferro rovente, che sì negli uomini che nelle donne serve di medicina ad un tempo e di punizione della loro immoralità.
I Bàri, come tutti i Negri, amanti dell'ozio, vedendo che colla vendita dei denti di elefante potevano [304] procacciarsi da vivere con minor fatica che per lo passato, cominciarono a trascurare l'agricoltura, a cui dapprima erano dediti, e il consueto commercio. Ma ora che scarseggiano d'avorio ed hanno perduta la voglia di lavorare, il latrocinio è all'ordine del giorno. I più forti opprimono i più deboli costretti qualche volta a morir di fame, com'è succeduto nell'anno 1859 sotto gli occhi stessi de' Missionari. Parecchi allora trovarono scampo ritirandosi presso i Bèri, tribù potente e feroce all'est dei Bàri, ed altri presso i Scìr; pochi restarono in Kondókoro.
I Bàri non hanno alcun Governo; professano tuttavia grande rispetto ai loro Kimàk (Signori) che posseggono molto bestiame, ed ai Bunèk (Sacerdoti). I Bunèk sono per lo più uomini scaltri i quali esercitano la medicina, gittano le sorti pronosticando l'avvenire di una persona, e debbono inoltre comandare alla pioggia. Questi Negri tengono, come si suol dire, la fortuna pel ciuffo, ma qualche volta avviene che sguizzi loro di mano e che il popolo infuriato gli ammazzi. Tale fu la sorte del famoso Bunèk Níghila, il quale poco tempo prima ch'io giugnessi in Kondókoro venne barbaramente trucidato dai Bàri, che poi se ne divisero il numeroso bestiame di cui mangiarono le carni, lasciando in una deplorevole miseria tutta la sua famiglia.
Non si può negare però che i Bunèk non abbiano una perfetta cognizione dell'efficacia di certe [305] erbe e radici, e non sappiano quindi alleviare ed anche guarire alcune malattie.
L'arte del medicare viene anche esercitata da qualche donna, la quale in tal caso prende il titolo di Bunìt ed è, si può dire, venerata dal suo sesso.
Havvi pure fra i Bàri una classe di persone, che s'occupano esclusivamente in lavorare il ferro, di cui abbonda il paese; e fanno lance, frecce e diversi strumenti con grande abilità e maestria. Essi vengono chiamati col nome di Tumonèk e sono disprezzati dai mandriani e dagli agricoltori, come lo sono i pescatori che pur si dicono Tumonèk; nome che dato ad un agricoltore o ad un mandriano sarebbe un insulto bell'e buono. I Tumonèk non hanno mai la parola nelle pubbliche adunanze.
Per convocare il popolo alla danza (lerì) che ha luogo ordinariamente la notte, per adunarlo alla guerra, per invitarlo a partecipare della gioia o del dolore di una grande famiglia, di un Màtat o di un Bunèk (capo o sacerdote), usano i Bàri di battere un gran tamburo che, come la danza, è chiamato lerì. Questi Negri hanno pure cornette e pifferi; ma il principale strumento musicale è il tamburo, che, secondo la maniera colla quale si batte, manda un suono che esprime il dolore o la gioia di un paese; anima i danzanti o dispone al pianto quelli che seguono il funebre convoglio; chiama alla guerra e ne annunzia poi la vittoria o la sconfitta. Questo tamburone altro non è che un [306] tronco d'albero vuoto, chiuso alle due estremità da una pelle tesa.
Io ebbi l'occasione di assistere ad una danza di mille e più persone, tra uomini e donne. Essa doveva cominciare dopo caduto il sole; ma già fin dal mattino le grida d'allegria e gli apparecchi, specialmente della gioventù, annunziavano che la doveva essere una gran festa. Era l'annuale commemorazione d'una strepitosa vittoria riportata sui Liria, tribù belligera posta a sud-est dei Bàri. — Mezz'ora prima del cader del sole, i danzatori e le danzatrici eran tutti al loro posto, in un vasto piazzale a cielo scoperto, le donne e le ragazze dipinte colla massima cura di bianco, di rosso, di giallo sul fondo della loro pelle lucida e nera come l'ebano; e quelle vestivan pelli di montone, queste cingevano alle reni una fascia larga un quattro dita, dalla quale pendevano davanti spessi cordoncini di cotone o catenelle di ferro, ed alcune avevano a tergo una lunga coda di vacca; anelli poi d'avorio, di rame o di ferro ne decoravano le gambe e le braccia, e numerose file di perline di vetro a vari colori adornavano il collo; gli uomini poi ed i fanciulli, in atteggiamento di guerrieri, in divisa di gala, formavano una siepe compatta, irta di lance; e gli uni avevano certi berrettoni delle forme più strane, e gli altri mazzi di piume ondeggianti sul capo, e pelli e code di bestie feroci che pendevano da ogni parte del loro corpo. — Mostrarsi nelle danze sotto [307] un aspetto sempre nuovo e bizzarro è per questi Negri una soddisfazione incomparabile. — Già si erano requisiti tutti gli strumenti musicali disponibili, e n'era risultato un miscuglio indescrivibile di tamburi, di tamburoni, di corni, di pifferi e di cornette, a cui dovevano aggiungersi i vigorosi battimani delle donne. Ma ecco che incomincia la festa, vero delirio. — Suonano i tamburi. — Un buffone apre la danza, lanciando furiosamente le braccia in ogni direzione senza mai perdere la misura del tempo; ritorconsi le sue gambe come quelle d'un acrobata, ed or s'allungano parallelamente al suolo, or vi si puntano verticalmente, ed or sollevansi in aria; e tutti questi movimenti si seguono con una rapidità, una furia vertiginosa, e fra lo strepito d'una musica tanto monotona quanto selvaggia. Egli fa scambietti e capriole con una foga e un eccitamento degni del più infatuato dervisc. — Io mi aspettavo ad ogni tratto di vederlo cadere, colla schiuma alla bocca, in preda ad un accesso d'epilessia. — In capo a una mezz'ora, il buffone riposa, e dopo una breve pausa si rimette a saltare e a contorcersi con più lena che mai, invitando ed animando i circostanti a dar principio tutt'insieme alla danza. — Al suon de' tamburi s'unisce allora quello de' tamburoni, de' corni, de' pifferi, delle cornette e dei battimani, per cui ne risulta una musica d'inferno. — Uomini e donne quindi, fanciulli e fanciulle si mettono in orgasmo, e nell'ebbrezza [308] della gioia cominciano una specie di danza sfrenata, accompagnata da salti, contorcimenti, urli non più uditi e stringimenti di spalle così nuovi, così bizzarri da non poter farsene un'idea da chi non ha veduto. Oh! che bocche! che occhi! che sorrisi satanici! che facce stravolte!... mi par di vederle tuttora; ed or mi s'eccita il riso come alla vista di una gran mascherata; or mi si stringe il cuore come all'imagine d'una gran baldoria di pazzi; e se considero la bellezza selvaggia del quadro, ci provo la voluttà d'un artista. — Circa alle due dopo la mezza notte, tutti tornarono alle loro capanne.
Nella tribù dei Bàri son frequenti le scosse di tremuoto. Il missionario Francesco Morlang, nei quattro anni che dimorò nella Stazione di Kondókoro, attesta d'averle sentite ogni anno, ed in tre epoche differenti:
1.º Pochi giorni prima del cominciar delle piogge, continuando per circa un mese, e facendosi sentire specialmente la notte dalle sei alle otto volte.
2.º Poco prima delle piogge copiose di agosto.
3.º Sul finire della stagione piovosa: ma queste ultime scosse sono assai leggiere in confronto delle altre, che più d'una volta furono così veementi da [309] scrostare le pareti della casa della Missione, e da produrvi considerevoli fenditure.
I tremuoti si fanno più frequenti e terribili verso le montagne del sud.
Quanto alla direzione dei venti: i venti del nord nel paese dei Bàri principiano sul terminare della stagione piovosa e continuano fino al marzo.
Ai venti del nord succedono quelli dell'est, e durano circa un mese; ma si rinnovano poco prima dei venti del nord. Questi venti dell'est cagionano ai Missionari dolori di capo, inappetenze e febbri.
I venti del sud cominciano sul finir di aprile, e continuano fino al settembre. Nel settembre poi ed ottobre predominano quelli dell'ovest.
Nei primi tre mesi delle piogge i temporali provengono più comunemente dalla parte sud, sud-est; nei mesi poi di giugno, luglio ed agosto ci vengono direttamente dal sud; ed in settembre ed ottobre dall'ovest; ma questi ultimi temporali, come quelli che talora derivano dal nord-est, non apportano mai piogge copiose.
Quanto alla temperatura: secondo le osservazioni fatte dai Missionari in Kondókoro nel 1858, il maggior calore era ordinariamente fra le 4 e le 5 pomeridiane, e la temperatura meno calda al levar del sole.
[310]
Nell'ora più calda, in casa, il term. non segnò | Al levar del sole non segnò | |||||
mai più di | nè mai meno di | mai meno di | ||||
nel | genn. | 30 R. | 27 | nel | genn. | 18 R. |
» | febb. | 31 » | 26 | » | febb. | 20 » |
» | mar. | 31 » | 21 | » | mar. | 19 » |
» | apr. | 26 » | 24 | » | apr. | 18 » |
» | mag. | 24 » | 19 | » | mag. | 17 » |
» | giug. | 26 » | 22 | » | giug. | 18 » |
» | lugl. | 24 » | 20 | » | lugl. | 17 » |
» | agos. | 23 » | 19 | » | agos. | 16 » |
» | sett. | 26 » | 18 | » | sett. | 16 » |
» | ott. | 27 » | 20 | » | ott. | 18 » |
» | nov. | 27 » | 22 | » | nov. | 20 » |
» | dic. | 28 » | 24 | » | dic. | 18 » |
In quest'ultimo mio viaggio da Chartùm verso Kondókoro, che durò dal 1º dicembre 1859 fino al 29 marzo 1860, il massimo calore nei primi giorni era intorno alle tre pomeridiane; ma più mi avvicinavo all'equatore, la temperatura si faceva più calda verso le quattro ore.
Il giorno più caldo l'ebbi il 15 dicembre fra le paludi dei Nuèr, in cui il termometro segnò 28 R. nella camera della dahabìah alle 3½ pomeridiane; e il giorno meno caldo l'ebbi l'8 dicembre sul finir del paese dei Scìluk, in cui il termometro non segnò più di 25 R. verso le 3 pomeridiane, ed al levar del sole 13½.
[311]
I Bàri, benchè sapessero che il Morlang gli avrebbe abbandonati e che più nessun Missionario sarebbe rimasto fra loro, se ne mostrarono indifferenti. Non può dispiacere ai Bàri, mi diceva il Morlang, la nostra partenza, mentre tante volte i loro Capi, che pretendono d'essere mantenuti a spese della Missione colle loro famiglie, tentarono di scacciarci colla forza. Essi han conosciuto che principale scopo della Missione è d'istruirli ed educarli a religione e civiltà; ma non vogliono intenderla; e quando noi parlavam loro di religione, essi rispondevano francamente e con ischerno: convertite prima i vostri servi (dongolèsi), e poi penserete a noi; dateci ora da mangiare, giacchè calcate il nostro terreno, o fate ritorno ai vostri paesi. E si noti che il terreno della Missione era stato già comperato, ed a caro prezzo, non una, ma due volte dal Provicario Apostolico Ignazio Knoblecher, e che i Missionari, ogni anno, han dovuto far regali ai tre proprietari del medesimo terreno, Lutverì, Leghè, Vanì, ed al loro Gran-capo (Màtat) chiamato Medì. Senza un gran regalo non era dato a noi neppur di seppellire i nostri morti.
Il 16 gennaio 1860 tutto era pronto per la partenza, ed alle ore dieci antimeridiane io comandai ai nostri barcaiuoli di discendere il fiume. Quand'ecco io vedo balzare nella dahabìah tutto furioso il Gran-capo Medì con altri Negri armati, i quali ci strappano, si può dir, di mano l'unico fra i 47 [312] battezzati, la maggior parte adulti, che promettesse qualche speranza di buona riuscita[33], e un altro buon giovinetto suo compagno, poco più che dodicenne, non però battezzato, di nome Ladò, senza padre e senza madre, che m'avea pregato per carità di prenderlo meco offerendomisi qual servo fedele[34]; e tutti e due doveano venire con noi dietro [313] il consenso del Gran-capo e dei loro parenti. Ma come, da un momento all'altro, questi hanno mutato consiglio? — io dicevo tra me. — Qual può essere stata la cagione di tal cambiamento?...
Il 13 gennaio, alcuni mercanti fra i Bàri avevano spedito 150 soldati dongolèsi in un paese posto fra le montagne di Belegnàn e quelle dei Liria, a sud-est di Kondókoro, per vendicare, dicevan essi, il sangue di 5 loro servi, che pochi giorni prima erano stati colà trucidati senza alcun motivo, mentre si recavano ai Liria per comperare denti di elefante. Or questi soldati avevano costretto per via alcuni giovani Bàri di Kondókoro a seguirli, fra i quali un parente del Gran-capo Medì, il quale, sapendo un po' di arabo, avrebbe dovuto servir loro d'interprete. I soldati dongolèsi diedero alle fiamme quel paese, ne uccisero gli abitanti, ad eccezione delle donne e dei fanciulli che divennero loro schiavi, portaron via tutto il bestiame, e festosi per la vittoria riportata e pel grosso bottino, pensavano di ritornare a Kondókoro. Quando tutt'a un tratto i Liria calarono dalle montagne numerosissimi e precipitaronsi loro addosso uccidendone in pochi istanti [314] 120, e mettendo gli altri in fuga. I giovani Bàri morirono quasi tutti, anche il parente del Gran-capo. — L'infausta notizia giunse in Kondókoro poco prima della nostra partenza. — Medì, come l'ebbe intesa, montò sulle furie, imprecò ogni male a tutti i forestieri che si trovavano in Kondókoro, disse ch'erano stati la rovina del suo paese, voleva ad ogni modo veder morto un giovine copto, che era stato il promotore della spedizione contro i Liria. — Ecco, senza dubbio, la cagione del subitaneo cambiamento del Gran-capo e dei parenti dei due giovinetti, che ci furono strappati di mano, mentre essi piangevano e avrebbero voluto seguirci.
Nell'ora stessa che noi lasciammo Kondókoro vi giugneva una grande dahabìah da Chartùm, e un'altra la seguiva a poca distanza, tutte e due condotte da soldati del Governo egiziano, capitanati da un Circasso, il quale per ordine superiore avrebbe dovuto fra due mesi ricondurre a Chartùm 500 schiavi. — E tanto vitupero pure adesso continua!
E vi sarà ancora chi osa dire che la schiavitù è tolta?... Legga costui, se non le ha mai lette, le dolenti pagine, ma vere, dell'illustre viaggiatore [315] Giorgio Schweinfurth, là dove descrive la tratta del l'uomo[35], e poi mi dica se la schiavitù è tolta.
In sul finire di quel capitolo: «L'Egitto, egli dice, la più antica, la più feconda delle terre istoriche, ha qui una grande missione da adempiere; ma che vuoi sperare dall'islamismo? Con esso non c'è alleanza possibile.
«Per aprir la via del Signore, dice il Corano, uccidete coloro che vorrebbero uccidervi, ma non siate voi i primi a cominciare le ostilità, perchè Dio non ama i peccatori; uccideteli dovunque gli incontriate; scacciateli da dove vorrebbero scacciar voi; perchè la tentazione dell'idolatria è peggiore della morte.» Figlio del deserto, l'islam fa un deserto di tutti i luoghi dove penetra. Supporre che possa esser capace di progresso, è un sogno, un'illusione attinta nei libri. I suoi fedeli rassomigliano ai germi di vegetazione, che dormono nelle sabbie delle valli deserte: una scossa di pioggia, un nulla, può suscitarli ad una vita effimera; le piante si levano un giorno; poi, al contatto del soffio fatale, inaridiscono, e tutto ridiventa sterile.
Domandate agli Europei che dimorano in Egitto, se gli abitanti di quel paese potrebbero seguire le nostre usanze senza rinunziare al maomettanismo; e vi risponderanno con una negativa, e poi aggiungeranno [316] non esservi luogo a sperare che quel popolo abbia mai a cambiare di culto. Dei nostri costumi, gli Egiziani adottarono unicamente il vestiario; ma vestano all'orientale o all'europea, i sudditi del Kedìve non mutano le loro idee sulla schiavitù. È moda nel bel mondo egiziano d'aver la casa piena di schiavi, e la cosa è colà indispensabile. Entrate nella dimora di un ricco Egiziano; troverete adagiato sopra un divano un uomo silenzioso e contemplativo, di cui nulla turba il riposo. Alieno da ogni nobile passatempo, ogni attività gli è sconosciuta; egli ignora la caccia, la pesca, l'equitazione, il modo di condur un battello; fino il passeggio è estraneo alle sue abitudini. Se ha sete, leva una mano, e chiama «Ja, uàled!» (Ehi, ragazzo!) e uno schiavo gli porge da bere. Vuoi fumare o dormire? «Ja, uàled!» ed è servito, senza ch'egli muova un dito.
Se un bel giorno non ci fossera più aulàd (ragazzi), che ne sarebbe di questi grandi signori sui loro divani? Ora una tale letargica apatia invade tutti gli Stati Orientali. Perchè la schiavitù si abolisca, bisogna prima che l'Oriente si trasformi e risorga a nuova vita. Se un tal cambiamento è impossibile, la schiavitù rimarrà per l'Egitto una necessità, per quanti impegni il Governo si assuma contro di essa.
Si è spesso parlato de' vantaggi da cui lo schiavo è circondato, degli agi di cui gode. Certo tra l'uàled [317] degli Orientali e l'antico servo della gleba degli Europei, il contrasto è grande; tuttavia gli Europei facevano dello schiavo un membro utile alla società, mentre gli Orientali ne fanno un ozioso. Caricare delle pipe, porgere un bicchiere, preparare il caffè, sono occupazioni indegne d'un uomo; e i vantaggi che l'uàled ne trae furono caramente pagati colle angoscie della lotta, il viaggio nel deserto, la fame, la fatica, le malattie contagiose, che uccisero tanti suoi compagni, e si aggravarono anche sopra di lui.
Ma la conseguenza più dolorosa di questa caccia dell'uomo è lo spopolamento. Ho veduto distretti interi del Dàr-Fertìt convertiti in deserti pel rapimento di tutte le ragazze del paese. Gli Arabi e i Turchi vi diranno che salassano soltanto delle tribù senza valore, gente che, se avesse modo di moltiplicare, adopererebbe la potenza del numero ad esterminarsi fra loro. — Io penso tutto il contrario. — È giunto il tempo in cui l'Africa deve partecipare al commercio del mondo. Bisogna pertanto che la schiavitù sia abolita. Anzichè mantenerla, meglio varrebbe che Turchi e Arabi e tutti quanti i popoli inattivi scomparissero dalla terra: dal momento che lavorano, i Negri sono loro superiori.»
[318]
Giugnemmo il 24 gennaio in Santa Croce, e il 29 marzo in Chartùm lieti d'abbracciare il missionario Alessandro Dal Bosco alquanto ristabilito in salute.
Dopo due mesi ci recammo tutti in Assuàn, ove il Provicario Apostolico Matteo Kirchner ci attendeva con impazienza. Colà passammo quasi due anni; e finalmente, essendo stata ceduta la Missione dell'Africa Centrale ai Padri Francescani, noi tornammo in Europa. Ma i Francescani non valsero a sostenerla che per circa due anni, e quindi essa venne affidata a Monsignor Comboni, che coll'ardente suo zelo e colla sua instancabile attività riuscì a fondare qua e là diverse Stazioni, ove bravi missionari, assistiti da alcune suore del Buon-Pastore, ottennero frutti che fino allora non erano stati mai ottenuti.
Secondo ciò che ne dicono gli annali di questa Missione pare che l'aurora d'un giorno migliore cominci a sorgere per la disgraziata razza africana.
Ed ora che da ogni parte la mano della beneficenza si stende a mostrare gli abusi, a riparare i torti, ad alleviare i patimenti, e a far conoscere ed amare al mondo gli infimi, gli oppressi e gli obliati; ora che per l'iniziativa del Re de' Belgi surse il Comitato Internazionale per l'esplorazione e l'incivilimento dell'Africa Centrale; in questo generale movimento par sia giunta, io dico, l'ora propizia anche per l'Africa, che da secoli incatenata [319] e grondante sangue ai piedi dell'umanità incivilita ne implora gli aiuti.
Ah! sì, Dio faccia spuntare il giorno, in cui la schiavitù distrutta come tante altre iniquità dalla faccia della terra, non sia altro che una memoria, in cui i quadri, quali in questo mio libro ho descritti, non abbiano altro pregio che di ricordare ciò che più non esiste.
Fine.
[321]
Prefazione Pag. 5
Capitolo I. 9
Il Provicario Apostolico dell'Africa Centrale Ignazio Knoblecher — Ultime sue parole in Koròsko ai Missionari veronesi — Le rive del fiume Bianco da Chartùm ai Scìluk — Le meraviglie di una foresta — Gli Arabi d'Abù-Zèt — I Baggàra-Selèm — Linguaggio mimico degli Arabi.
Capitolo II. 29
Vendette — Guerre — Armi — Coraggio passivo e fierezza — Ostinazione degli Arabi — Il suicidio — Le montagne dei Dénka — Il Tarciàm.
Capitolo III. 55
Caratteristiche della razza negra — Il paese dei Scìluk — I cani — Odio contro i Turchi — Raffronti della lingua dei Dénka con quella dei Scìluk.
Capitolo IV. 73
Il regno dei Scìluk e il loro Governo — Mezzi d'incivilimento — Punizioni — Diritto di elezione [322] al trono — Residenza reale — Quanto si possa fare assegnamento della parola di un re Negro — Il latrocinio — Divisione, carattere e costumi vari dei Scìluk — La schiavitù presso i Scìluk e gli Arabi in Hèllat-Kàka — I mercanti d'avorio divenuti rapitori e mercanti di schiavi.
Capitolo V. 97
Una zerìbah di schiavi — L'asta, la vendita, la separazione — Le dieci schiave Abialàñġ rapite a tradimento — Il loro quartiere in Hèllat-Kàka — Scena commoventissima — Brutto rischio — Audaces fortuna juvat — Uno de' più bei giorni della mia vita — Diffidenza punita — Il tradimento.
Capitolo VI. 147
Il fiume Jâl — Il Sóbat e i suoi abitanti — Affluenti del Sóbat e i Negri scìluk — Dall'imboccatura del Sóbat al lago No — Il Bàhr-el-G¨azàl e i suoi affluenti — I Gnam-Gnàm; etimologia del nome e cannibalismo di questi popoli.
Capitolo VII. 179
I Nuèr del fiume Bianco — Fuochi notturni — Formiche — Zanzare — Cinocèfali, mostri, cannibali — Credenze religiose; indovini (Kogiùr); superstizioni, strani abbigliamenti e caccia dei Nuèr.
Capitolo VIII. 195
Bachìta la schiava.
Capitolo IX. 227
Le tribù Dénka della vallata superiore del fiume Bianco e la loro lingua — Stagioni e loro nomi — Il [323] charìf — Una bufera — La stagion delle piogge, ed accrescimento e decrescimento del fiume sotto latitudini diverse — Morte di Francesco Oliboni — Un sogno.
Capitolo X. 249
La stazione di Santa-Croce — La caccia — Il barone De-Harnier vittima di un bufalo selvatico — Le tribù Dénka della vallata superiore del Nilo, e i loro costumi.
Capitolo XI. 271
Forme di saluto presso i Dénka — Matrimoni — Religione — Buffoni — Dialogo sulla schiavitù e sul diritto di punizione — Partenza da Santa-Croce verso Chartùm; stato della Missione; morte del missionario Angelo Melotto; ritorno a Santa-Croce.
Capitolo XII. 297
Da Santa-Croce a Kondókoro — Costumi dei Bàri — Tremuoti, venti, temperatura — I Bàri e la Missione — L'islamismo e la schiavitù — Conclusione.
[326]
ALTRE PUBBLICAZIONI DELLA STESSA DITTA EDITRICE
ALEARDI A. — Epistolario con un'introduzione del prof. G. Trezza. 1 vol. in-12, 1879 | L. 5 — |
BELTRAME prof. G. — Il Sènnaar e lo Sciangàllah; 2 vol. con ritratto dell'Autore ed una carta geog. | 8 — |
BERTINI P. — Tutto pel meglio. Racc. 1 vol. in-12 | 3 — |
CALIARI prof. P. — La donna cristiana. Conferenze. 1 vol. in-12, 1879 | 1 50 |
CHAVASSE P. H. — Sull'educazione fisica dei bambini. Consigli di un medico alle madri. Trad. dalla XII ediz. inglese di C. Ruata-Pronati. 1 vol. | 4 — |
FRIZZO prof. G. — La Geometria per le Scuole Tecniche secondo i nuovi programmi | 2 60 |
GIULIARI M.r G. C. — Monumenti grafici affidati al marmo, al bronzo, al papiro, alla pergamena e alla carta, relativi alla storia di Verona, 1 op. | 2 — |
GUERZONI prof. G. — Il terzo rinascimento. Corso di letteratura italiana dato nella Regia Università di Palermo, II ediz. 1 vol. in-12 di pag. 560 | 4 50 |
— Il primo rinascimento, 1 vol. in-12 di pag. 220 | 3 — |
LEBRECHT dott. G. — Il Risparmio e la educazione del popolo. Studio sulle Casse di Risparmio italiane ed estere. 1 vol. in-12 di pag. 455 | 5 — |
MANGANOTTI prof. A. — Manuale di storia naturale applicata al commercio, 1 vol. in-8 | 4 — |
MATTEAZZI E. — Doveri morali della giovinetta italiana. 1 vol. in-12 | 1 — |
PATUZZI G. L. — A proposito dei Pensieri sull'Arte e Ricordi Autobiografici di Giov. Duprè. 1 op. | 1 — |
PEREZ. — I sette cerchi del Purgatorio di Dante. 1 vol. in-12 | 3 — |
SALA A. — I Musicisti veronesi. Saggio storico critico. 1 opusc. in-12 | 1 — |
SCOPOLI-BIASI I. — La tavola rotonda. Racconti educativi, 1 vol. in-12, 1877 di pag. 182 | 2 — |
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE:
BELVIGLIERI C. — Scritti storici. — 1 volume in-12.
VERONA 1881 — STAB. G. CIVELLI.
1. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. II, pag. 51.
2. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 87, e vol. II, pag. 251.
3. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 201, 212, 244.
4. Questo illustre naturalista e ardito viaggiatore italiano fu spedito nel 1825 nel Sènnaar dal vicerè dell'Egitto Mahàmmed-Aly per istudiarvi il terreno; ma troppo presto e con grave danno della scienza cadde vittima dell'insalubrità del clima a Chartùm nel settembre 1826. Venne seppellito nel deserto a mezzodì delle poche capanne, di cui allora si componeva Chartùm; ed ora quella parte di deserto è occupata dagli abitati della città ingrandita. Io feci di tutto per rinvenirne le ossa, assistito dal dottore Peney ispettore sanitario del Sudàn, e da un vecchio greco, per nome Dimitri, che aveva conosciuto il Brocchi ed era stato presente alla sepoltura; ma indarno. Io dovetti contentarmi di far porre nel cimitero cristiano una pietra con iscrizione, la quale almeno indicasse il nome dell'illustre bassanese.
5. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. II, pag. 102.
6. Pianta, del cui fusto che è leggerissimo si servono le donne per passare dall'una all'altra riva del fiume.
7. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 19.
8. Viaggio sul fiume Bianco, Verona, Tipografia Vicentini e Franchini, 1861.
9. Expedition zur Entdeckung der Quellen des weissen Nils. Werne, Berlin, 1848.
10. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 266-270.
11. Il paese dei Scìr è posto sulle rive del fiume Bianco tra il 5º e il 6º gr. Lat. N. a settentrione dei Bàri, coi quali confina.
12. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 215.
13. Vedi mie memorie «Il Sènnaar e lo Sciangallàh.» Vol. I, pag. 217.
14. Pochi giorni dopo la stampa di questa pagina, il vescovo Daniele Comboni mi scriveva da Chartùm in data 12 marzo 1881.
«.... Cher-Allàh, il vostro turcimanno Cher-Allàh, che tanto vi ha assistito a trar fuori dalle ombre la lingua dei Dénka, è morto poco tempo fa. Voi, don Giovanni, che avete conosciuta la vita di questo incomparabile cristiano, sappiate che com'egli visse da santo, da santo morì.»
15. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 213, e vol. II, pag. 183.
16. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 211, e vol. II, pag. 182.
17. Vedi mia relazione, 13 dicembre 1859, Viaggio sul fiume Bianco. — Verona, Tipografia Vicentini e Franchini, 1861.
18. Vedi «Le fleuve Blanc, notes géographiques et ethnologiques» — Paris. Arthus Bertrand, editeur, libraire de la société de géographie, 21, rue Hautefeuille.
19. Vedi mia relazione, 13 dicembre 1859, Viaggio sul fiume Bianco. — Verona, tipografia Vicentini e Franchini, 1861, con carta lit. Penuti.
20. Vedi mia relazione, 13 dicembre 1859, Viaggio sul fiume Bianco. — Verona, tipografia Vicentini e Franchini, 1861, con carta lit. Penuti.
21. Il nome di detta tribù tanto dai fratelli Poncet che dal Lejean venne scritto sempre Nìam-Niàm.
22. E qui si noti che sono i soli Dénka e i Bàri che chiamano con questo nome quella tribù, e che sì gli uni che gli altri per esprimere gran quantità di una cosa, ripetono il nome della cosa stessa due e anche tre volte. Di fatto i Gnam-Gnàm dei Dénka e dei Bàri dànno a sè stessi il nome di Zandèh; «e i Bòngo del nord li chiamano Mùndo e talvolta Maniània (Magniàgnia?); e dai Mittù dell'est sono detti Makarakkà; dai Gòlo, Kùnda; e i Mumbuttù li denominano Babùnghera.» (Vedi Giorgio Schweinfurth, nel cuore dell'Africa, vol. II, p. 3, ove dice pure; «il nome sotto il quale li conosciamo, e che vuol essere pronunziato Gnam-Gnàm (così), è preso dalla lingua dénka (così), e significa mangiatore, o meglio gran mangiatore, e allude evidentemente (egli dice) al cannibalismo della gente cui è imposto;» — significato ed allusione, a cui io non posso sottoscrivere.)
23. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. II, pag. 164.
24. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. II, pag. 193.
25. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 266, 268.
26. Isaia, cap. XLII, salmo LXXII.
27. Il nome di questa tribù, ch'io trovo scritto quasi sempre sulle carte geografiche a destra del fiume, deve essere posto a sinistra. Le stabili abitazioni dei Kìc, ch'io visitai nel 1858 col missionario Comboni, ora Vescovo di Claudiopoli e Vicario Apostolico dell'Africa centrale, sono tutte a sinistra del fiume ad una giornata circa di cammino, e non è che durante la stagione secca, che per la comodità dei pascoli i Kìc s'appressano al fiume provvisoriamente lungo la riva sinistra, passando alcuni anche sulla riva destra.
28. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, p. 243.
29. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 35.
30. Vedi mie memorie: Il Sènnaar e lo Sciangàllah, vol. I, pag. 120.
31. Le fleuve Blanc. — Notes géographiques et ethnologiques et les chasses à l'élephant dans le pays des Dénka et des Djour. — Paris, Arthus Bertrand éditeur.
32. Vedi mia Gram. dénka, cap. IV, § 37.
33. In tutto il tempo che la Missione si sostenne con enormi spese e con grandissime difficoltà, cioè dall'anno 1852 al 1860, i battezzati furono 47; n. 34 dal Provicario Apostolico Ignazio Knoblecher: n. 12 dal Presidente Antonio Überbacher, dieci dei quali per ordine del medesimo Provicario; e n. 1 dal missionario Antonio Kaufman.
34. Quest'ultimo giovinetto dopo due anni mi comparve, quasi per incanto, nel Cairo mentre tornavo in Europa, essendo stata la Missione Cattolica dell'Africa Centrale affidata ai Padri Francescani. Egli fece meco il viaggio a Terra Santa, a Costantinopoli, a Vienna; e giunti a Verona, egli venne battezzato col nome di Michele nella chiesa di S. Paolo di Campo Marzo, e gli fu padrino l'illustre comm. conte Antonio Pompei. Dopo cinque anni, affetto d'infiammazione polmonare, ritornò in Cairo, a spese dell'amato suo padrino, nella speranza che si potesse rimettere in salute; qui fu accolto amorosamente nel convento dei Padri Francescani, ove dopo un anno morì.
Un'indole così dolce, così facile, così semplice, così buona come nel mio caro Michele, non la riscontrai che nel mio turcimanno Cher-Allàh, tutti e due veri tipi di bontà, profondamente cristiani. — E quali vissero, così morirono nella pace, tranquilli e contenti.
La morte non è nulla, o cari, per coloro che v'assomigliano! per essi non vi sono nè tenebre, nè ombre, che si dileguano come la stella del mattino sotto i raggi dorati dell'aurora....
Voi otteneste la vittoria senza combattimento, e la corona senza lotta!...
Or pregate in cielo per chi ha fatto qualche cosa per voi!...
35. Giorgio Schweinfurth. Nel cuore dell'Africa, vol. II, cap. XIV, pag. 179.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Nel testo originale sono presenti segni diacritici (accenti, legature, punti sovrascritti) per rappresentare foneticamente le parole della lingua dénka. In particolare, la legatura è usata per segnalare il suono della lettera n unita ad altre lettere: è stata qui resa tramite la tilde (ñ).
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
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