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ISTORIA CIVILE DEL
REGNO DI NAPOLI VOLUME V


ISTORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

DI

PIETRO GIANNONE

VOLUME QUINTO

MILANO
PER NICOLÒ BETTONI
M.DCCC.XXI


INDICE


[5]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMOTTAVO

Morto Federico, prese immantenente il governo di questi Regni Manfredi suo figliuolo, lasciato dal padre per l'assenza di Corrado, ch'era in Alemagna, Balio e Governadore de' medesimi con assoluto potere ed autorità. Manfredi fu un Principe, in cui s'univano tutte le doti e virtù paterne, e lo Scrittor Anonimo delle sue gesta, dice essere stato chiamato Manfredi, perch'egli era la mano e la mente di Federico. Egli nudrito nella Camera imperiale, e careggiato, e tenuto in pregio dal padre più degli altri figliuoli, crebbe colle medesime idee; ed avrebbe certamente emulato la gloria e la grandezza paterna, se la sorte l'avesse fatto nascere suo figliuol primogenito, e di legittimo matrimonio; ma preferendo l'ordine della successione Corrado primo nato, al quale fu conforme il paterno testamento, Federico non potè far altro, che ammetterlo alla successione in mancanza [6] di Corrado, e d'Errico senza figliuoli, e durante l'assenza del primo, lo creò Balio in Italia e nel Regno di Sicilia.

Nel raccontar le vicende di questo Principe, e' suoi generosi fatti, mi valerò dell'Anonimo Scrittor contemporaneo, la di cui Cronaca si legge ora impressa ne' volumi dell'Ughello[1], e la autorità sua è riputata grandissima, non pure da Agostino Inveges, dal Tutini, e da altri più moderni Scrittori, ma anche da Oderico Rainaldo ne' suoi Ecclesiastici Annali. Narra adunque questo Scrittore, che gli andamenti, e le virtù di Manfredi furono cotanto conformi a quelle del padre, che ancorchè la morte de' Principi soglia negli Stati sovente esser cagione di gravissimi turbamenti, nulladimanco per la prudenza di Manfredi non fu veduto interrompimento alcuno, come se un medesimo spirito governasse: non si vide nè alla Corte, nè tra gli Ufficiali mutazione; ed avendo fatto gridare il nome del Re Corrado nel regno di Puglia, mandò Errico suo fratel minore a governar in sua vece la Sicilia e la Calabria[2], perchè i Siciliani e' Calabresi, veduta la regal persona di Errico, si contenessero nell'ubbidienza, e lo riputassero come l'istessa persona di Federico.

Ma breve tempo durò questa tranquillità, e ben si prevedevano i turbini e le tempeste, che da Innocenzo IV romano Pontefice erano per moversi. Questi persuaso, che per la sentenza della deposizione interposta [7] nel Concilio di Lione, fosse Federico con tutta la sua posterità decaduto da' Reami di Sicilia e di Puglia, pretese che come Feudi della Chiesa romana fossero a quella ricaduti per la contumacia del medesimo; onde intesa la sua morte, si risolvè partir da Lione, e ripassare in Italia; ed intanto scrisse a tutte le città principali, ed a' Baroni dell'uno e l'altro Regno, ch'alzassero le bandiere della Chiesa; e giunto a Genova sua patria, proccurò movere i Genovesi a danno di questi Reami. Manfredi avuta di ciò novella non tardò, cavalcando per tutto il Regno con una buona banda di soldati Saraceni, dissipare queste Papali insidie, e facendo gridare il nome del Re Corrado, racchetò le turbolenze, e confermò gli animi nell'ubbidienza del proprio Principe; ma non fu però, che questi moti non dassero fomento ad una occulta congiura, che poi si scoperse nelle province di Puglia e di Terra di Lavoro. In Puglia si ribellarono Foggia, Andria e Barletta. In Terra di Lavoro, Napoli e Capua. Accorse tosto Manfredi in Puglia, e col suo estremo valore e coraggio ripresse la fellonia di quelle città, ed usando moderazione e clemenza concedè perdono a que' cittadini, riducendogli nell'ubbidienza di Corrado[3].

Avendo in cotal guisa renduta la pace e tranquillità a quella provincia, tosto passò in Terra di Lavoro: ridusse sotto le sue insegne Aversa, che posta in mezzo tra Capua e Napoli, dava indizio di sospetta fede: cinse di stretto assedio Capua, devastando insino alle mura il suo territorio; e Nola ch'era già passata nel partito delle due ribellanti città, non [8] avendo voluto rendersi, fu espugnata, e presa. Ma niun'altra città mostrò in tal congiuntura più ostinazione, quanto Napoli. Dimenticatisi così subito i Napoletani d'aver Federico resa la lor città celebre per la nuova Accademia ivi stabilita, e per li magnifici edificj che v'eresse, i quali furono i primi fondamenti onde poi si rendesse capo e metropoli sopra tutte le altre, con somma ingratitudine, morto lui, si ribellarono dal suo figliuolo, e resero la lor città al Pontefice Innocenzio, alzando le bandiere della Chiesa: il di cui esempio seguì Capua, ed i Conti di casa d'Aquino, che a quel tempo possedevano quasi tutto quello, ch'è tra il Volturno e 'l Garigliano.

Manfredi, scoverta la poca fede de' Napoletani, avea mandati prima a loro più messi, esortandogli a non dover macchiare con tanta indegnità la loro fama; ma essi mostrando di non poter negare d'ubbidire al Pontefice, il quale gli minacciava terribili anatemi ed interdetti, apertamente gli fecero intendere, che amavano meglio di sottoporsi al dominio della Chiesa, che star interdetti e scomunicati, aderendo al partito di Corrado, cui senza l'investitura del Papa, non potevan riconoscere per loro legittimo Re. Per la qual cosa Manfredi, vedendo indarno essersi da lui adoperati questi mezzi, deliberò di ridurgli per forza; ed avendo assediata la città dalla parte del Monte Vesuvio, cominciò a devastare tutto il territorio di quel contorno, depredando infino alle mura, per obbligare i Napoletani ad uscire dalla città, per attaccargli in campo aperto, non avendo forze bastanti per assalire la città cinta di ben forti e ben difese mura. Ma i Napoletani deludendo l'arte coll'arte, non vollero in conto alcuno partirsi dalla città, niente curandosi del [9] devastamento, che faceva Manfredi de' loro campi: il quale ciò vedendo, pensò per altra parte cingerla di assedio, e collocato il suo esercito nella Solfatara vicino Agnano[4] quivi cominciò a devastare, e depredare tutto quel territorio, per allettare i Napoletani ad uscire dalla città, già che vedevano l'esercito nemico tra que' monti e quelle balze in luogo, donde con difficoltà poteva scampare, se fosse stato inseguito. Ma i Napoletani, fermi nel loro proponimento, non vollero abbandonare la città, ed esporsi a battaglia; ed ancorchè Manfredi gli avesse più volte sfidati alla pugna, non vollero in conto alcuno uscire; onde avendogli dopo l'invito aspettati tre giorni, levò l'assedio, ed avendo devastati tutti que' luoghi, partissi da quivi, e s'incamminò in altre parti di Terra di Lavoro per mantenere in fede que' Popoli, acciocchè non seguitasser l'esempio di Napoli, e di Capua,

[10]

CAPITOLO I. Corrado di Alemagna cala in Italia: giunge per l'Adriatico in Puglia, ed abbatte i Conti d'Aquino: Capua se gli rende, e Napoli vien presa per assalto e saccheggiata.

Ma ecco, che mentre Manfredi con tanta vigilanza ed accortezza era tutto inteso a rompere i disegni del Pontefice, vennegli avviso, che Corrado Re di Germania, pochi mesi dopo la morte del padre, essendosi disbrigato dalle guerre d'Alemagna, se ne calava con potente esercito di Tedeschi in Italia in quest'anno 1251[5]; ed in fatti essendo giunto in Lombardia trovò le forze de' Ghibellini tanto abbassate, che fu astretto d'indugiare alquanto, per poter poi entrare con più sicurtà nel Regno; onde chiamati a se tutti i Capi di quel partito, ordinò, che tra loro facessero un giusto esercito, del quale avesse ad esser Capo Ezzelino Tiranno di Padova, e che avesse da abbatter tanto la parte Guelfa, che Papa Innocenzio non potesse valersene, e contender con lui della possessione del Regno. Ed avendo in cotal modo stabilite le cose di Lombardia, con provvido consiglio determinò di passare al Regno per mare; perocchè vedendo tutte le città di Romagna e di Toscana tenersi dalla parte Guelfa, non confidava di passare senza impedimento, e dubitava che il suo esercito tenuto a bada, non venisse a disfarsi per mancamento [11] di danari e di vittovaglie[6]. Mandò adunque a' Veneziani per navi e galee per potere passare in Puglia, i quali per lo desiderio di vederlo presto partito di là, gli mandarono tutte le navi ch'e' volle nelle marine del Friuli, dove imbarcato comodamente con tutto l'esercito, giunse in pochi dì con vento prospero alle radici del monte Gargano, e diede in terra all'antica città di Siponto, non molto discosto dal luogo, dove è oggi la città di Manfredonia[7].

Quivi comparvero Manfredi, che l'attendeva, e tutti i Baroni di quella provincia ad incontrarlo. Ed essendosi Corrado da lui informato dello stato delle cose del Regno, e della contumacia di Napoli, di Capua, e de' Conti d'Aquino, avendo commendata molto l'industria, e vigilanza di Manfredi, deliberarono insieme di dover prima d'ogni altra impresa, debellare i Conti d'Aquino, i quali posti fra Garigliano e Vulturno potevano somministrare al Papa pronto ajuto; ed all'incontro occupati que' luoghi, co' quali serravasi ogni strada di poter venire soccorso a Capua ed a Napoli si sarebbe facilitata l'espugnazione di quelle due città cotanto importanti. Si mosse perciò il Re Corrado seguitato dal Principe Manfredi con tutto il suo esercito per la via di Capitanata, e del Contado di Molise contra que' ribelli[8].

Il Papa, che da Genova era passato a Milano, indi a Ferrara e Bologna, ed erasi finalmente fermato in [12] Perugia, schivando d'andare in Roma, perchè i Romani erano pieni di fazioni; e molti aderivano a Corrado, fatto consapevole dell'angustie, nelle quali si trovavano i Conti d'Aquino, premendogli molto la lor salute, mandò subito in lor soccorso alcuni soldati da Perugia, promettendo ancora di mandar loro maggiori ajuti; ma fu tanta la forza, ed il valore dell'esercito di Corrado, accresciuto poi da Manfredi con gran numero di Saraceni venuti da Lucera e da Sicilia, che que' ribelli in pochi dì furono debellati; e le principali città a loro soggette saccheggiate ed arse, tra le quali fu Arpino, Sessa, Aquino, S. Germano, ed altri castelli di quel contorno[9].

Da poi che Corrado ebbe espugnato que' ribelli, e ridotte alla sua ubbidienza quelle città, andò sopra Capua, ove non ritrovò resistenza alcuna, per la paura, e per l'esempio fresco delle terre arse e saccheggiate: onde tosto a lui si rese[10]. Così tutta l'ira di Corrado e tutta la sua forza si raggirò contro la città di Napoli, la quale arditamente determinò di contrastare al Re sdegnato, e seguire le parti della Chiesa, per la speranza, che lor porgeva il Papa di presti soccorsi, e per la gran paura d'essere data in preda a' Tedeschi e a' Saraceni. Accampato dunque Corrado vicino alla città, la cinse di stretto assedio, perchè non potesse andare vettovaglia agli assediali; e vedendo, che alcuni Ministri del Papa mandavan qualche volta navilj con cose da vivere, ordinò a Manfredi, che facesse vestire le galee, ch'erano in Sicilia.

[13]

I Napoletani, fra questo tempo, non mancarono di mandar più volte Ambasciadori al Papa per soccorso, i quali ritornaron sempre carichi di benedizioni, e di promesse, ma vuoti d'ogni ajuto, perchè Ezzelino avea sollevata la parte Ghibellina in Lombardia; ed i Guelfi, tra' quali il Papa avea molti parenti e seguaci, non potevano partirsi dalla difesa delle cose loro; ed i Guelfi di Toscana e di Romagna, ancorchè fossero liberi, avendo estinta in tutto la parte Ghibellina, come suol accadere nelle felicità, erano venuti in discordia fra loro. Nè dalla città di Genova patria del Pontefice, della quale ei confidava molto, poteva sperarsi ajuto; poichè si trovava a quel tempo aver mandata la sua armata contra gl'Infedeli; onde veniva a togliersi ogni comodità di poter soccorrere gli assediati d'altro, che di parole.

In fine essendo giunte alla marina di Napoli le galee di Sicilia, si tolse ogni speranza di soccorso: nè questo bastò a far piegare l'ostinazione degli assediati, perchè si tennero tanto, che ormai non potevano più sostenere in mano l'armi; in tal modo erano per la grandissima fame estenuati, onde i vecchi della città cominciaron a persuadere, che si mandasse per trattare di rendersi a patti, e così si eseguì. Ma Corrado, il qual sapeva l'estrema necessità loro, rigettò gli Ambasciadori; ed avendo con macchine diposte intorno alla città, e con cave sotterranee scosse le mura della medesima: in quest'anno 1253 la costrinse a rendersi, solo col patto della salute delle persone[11].

[14]

La città fu messa a sacco, nè si tralasciò atto alcuno di crudeltà, e di rigore dall'irato Re; scaccionne l'Arcivescovo, ed entrato dentro volle, che per mano de' proprj cittadini fossero buttate a terra dai fondamenti le forti mura di quella città, per le quali, dice Livio, che si sgomentò Annibale cartaginese. E dopo esser quivi dimorato due mesi, che consumò in punire severamente l'infedeltà de' Napoletani, fece ritorno in Puglia, seco menando Manfredi, al quale volle, che si dasse il secondo grado dopo lui.

§. I. Primo invito d'Innocenzio fatto al fratello del Re d'Inghilterra alla conquista del Regno.

Innocenzio avendo scorto che Corrado avea depresse le città sue amiche, e sotto la sua ubbidienza era tornato il Regno di Puglia, riputando che tutti i suoi sforzi sarebbero vani per opporsi agli eserciti formidabili di Corrado, pensò (giacchè svanito era il disegno di poterlo per se conquistare, siccome erano riuscite sempre infelici le spedizioni fatte da' romani Pontefici sopra di quello) d'invitare alla conquista del Reame Riccardo, o come altri lo chiamarono, Ciarlotto fratello d'Errico III Re d'Inghilterra e Conte di Conturbia, prode e valoroso Capitano. Inviò per tanto in Inghilterra Alberto Notajo appostolico per trattare sopra le condizioni dell'investitura offertagli da Innocenzio. Ma narra Matteo Paris in quest'anno 1253 che più cose fecero svanire questi trattati. Primieramente perchè Ricciardo temè della potenza [15] di Corrado, nè si credette d'uguali forze per poterlo da quivi discacciare. II. La parentela, che vi era tra loro, essendo Corrado, com'egli dice, nato da Elisabetta inglese, sorella del Re Errico e moglie di Federico II, nel che va di gran lunga errato; perchè Corrado fu figliuolo di Jole, non già d'Elisabetta; onde l'istesso Paris altrove, cioè nel 1258 rapporta un'altra cagione, perchè fu rifiutata l'investitura, dicendo che Ricciardo non volle accettarla se non sotto queste due condizioni. I. Che per la sua conquista gli fosse data la metà delle Decime solite raccogliersi per li Crocesignati nella guerra Santa. II. Che il Papa gli consignasse alcuni castelli del Reame da lui fortificati per la ritirata de' suoi soldati. Al che non volendo il Pontefice Innocenzio acconsentire, svanì questa prima investitura, e si trattò poi dell'altra in persona d'Edmondo suo nipote, come diremo più innanzi. Ciò che convince l'errore del Collenucio e di Paolo Pansa nella vita di Innocenzio IV che volle seguirlo, ove disse, che il Papa investì Ciarlotto fratello del Re d'Inghilterra, il qual accettò, e che perciò nelle lettere si scrivea Re di Sicilia.

(Lunig nel suo Codice Diplomatico[12], rapporta un Breve d'Innocenzio drizzato a Lodovico IX Re di Francia, che porta la data di Perugia dell'anno 1252 resogli da Alberto Notajo, offerendogli il Regno per Carlo suo fratello. Ma questo Breve o è apocrifo, o fu posteriore; poichè in quest'anno Alberto fu mandato in Inghilterra a quel Re, e non in Francia al Re Lodovico).

[16]

CAPITOLO II. Corrado insospettito di Manfredi lo spoglia d'ogni autorità e de' suoi Stati; avvelena il suo minor fratello Errico; ed egli poco da poi se ne muore da consimil morte; onde Manfredi assume di nuovo il Baliato del Regno.

Intanto Corrado per le crudeltà usate alle città debellate ed a Napoli, e per lo genio suo aspro e severo, era entrato in grandissimo odio e malevolenza presso ogni grado ed ordine di persone; ed affatto ignudo di quelle virtù civili e militari, che ornavano l'animo di Federico suo padre, riusciva a' suoi sudditi molto pesante e duro il suo imperio. All'incontro Manfredi uomo d'ingegno e di valore, con destrezza mirabile andava mitigando l'azioni crudeli del Re, per acquistarsi benevolenza da' Popoli e da' Baroni; talchè in breve nacque opinione per tutto il Regno, che tutto quel male, che lasciava di fare il Re, e l'esercito de' Tedeschi, fosse per intercessione, e benignità di Manfredi.

Occultava ancora questo Principe con mirabile dissimulazione il dispiacere, che Corrado insospettito di lui gli avea dato per molti torti fattigli; poichè scorgendolo d'elevati pensieri e d'animo regio, ed atto più a dominare, che a governare come Balio il Regno, venne in sospetto non la sua potenza e l'amore che s'avea acquistato de' Popoli, lo facessero aspirare al Regno. Deliberò per tanto trovar modi d'abbassarlo, ciò che non volendo far apertamente un dì gli [17] disse, ch'avea in pensiero di rivocare tutte le donazioni, che l'Imperador suo padre avea fatte nel suo testamento, come quelle, ch'erano dannosissime allo Stato, e portavan detrimento grandissimo alla sua Corona; e perchè gli altri Baroni con animo pacato il sopportassero voleva incominciar da lui, acciocchè dal suo esempio s'inducessero gli altri. Con non dissimil arte simulò Manfredi di crederlo, e mostrandosi con prontezza di secondarlo, volle esser il primo spontaneamente a rinunciar in sue mani il Contado di Monte S. Angelo, e la città di Brindisi, che per ragion del Principato di Taranto possedeva[13].

Tolsegli ancora di tempo in tempo, secondo se gli presentavano le congiunture, li Contadi di Gravina, di Tricarico e di Montescaglioso, che possedeva per concessione di Federico suo padre; e sol gli rimase il Principato di Taranto assai diminuto; ed affinchè nemmeno da quel Principato rimastogli potesse riceverne profitto, e gli riuscisse inutile, impose agli uomini di quello una pesante, e gravissima general colletta, la quale faceva egli esigere, ed applicare al suo regio Erario. Rimosse dal Principato suddetto il Giustiziero, che soleva recarsi da Manfredi, e vi pose il suo, siccome a tutte l'altre province del Regno praticavasi. Tolsegli ancora il mero imperio e potestà che Federico gli avea conceduto sopra quel Principato, e ordinò che il Principe sopra di quello non avesse altra giurisdizione, che nelle cause civili solamente[14]; poichè in questi tempi non soleva a' Baroni concedersi il mero imperio sopra i Feudi, ma solamente ad alcuni Grandi e della Casa regale, o [18] suoi congiunti per ispezial favore e grazia del Re rare volte si concedeva: ciò che poi a' tempi d'Alfonso I d'Aragona cominciossi a dare a quasi tutti i Baroni; onde nacque, che ora non vi è Barone, ancorchè picciolo, che non l'abbia.

Nè fermossi qui l'astio di Corrado contro quel Principe; ma volendolo ridurre all'estrema bassezza per liberarsi da ogni sospetto, sotto mendicate occasioni e pretesti, comandò che dal Regno uscissero tutti i suoi congiunti ed affini, ch'e' teneva del lato materno. Ne mandò via Gualdano Lancia, che avea così bene e con tanta fedeltà e prudenza servito l'Imperador Federico, onde n'era stato da quello creato suo Vicario in Toscana, ove per molti anni avea con molta fede esercitato quel supremo comando. Il medesimo fece con Federico Lancia suo fratello, con Bonifacio di Anglono zio materno di Manfredi, con tutti gli altri suoi consanguinei ed affini, e con esso loro le mogli, madri, sorelle, figliuoli e figliuole grandi e piccoli, che si fossero. I quali tutti usciti dal Regno, essendosi ricovrati in Romania presso Costanza Imperatrice di Costantinopoli sorella di Manfredi, mandò Corrado Bertoldo Marchese di Honebruch in Romania far intendere all'Imperadore, che gli avrebbe fatto un dispiacer grandissimo, se ritenesse presso di se quegli esuli; onde fu duopo a quell'Imperadore che gli facesse partire anche da' suoi Stati[15].

Tutte queste offese sofferiva il Principe Manfredi con una prudenza e dissimulazion d'animo maravigliosa; poichè non perciò tralasciava con ilarità di ajutarlo, e di seguirlo in tutte l'imprese, come fece [19] in Terra di Lavoro, quando debellò i Conti d'Acquino, in Capua ed in Napoli, ed ora in Puglia, simulando il suo acerbo dispetto; e nell'istesso tempo con astuzia grandissima cattivandosi i Baroni ed i Popoli, era nell'amore e benevolenza di quelli.

Accadde a questo tempo, che mentre era Corrado in Melfi, Errico suo fratello, che non avea più che dodici anni, venne in Sicilia a visitarlo; ed ancorchè l'Anonimo non faccia autor Corrado di tanta scelleratezza, non mancano però gravi Autori, che rapportano, che per mezzo di Gio. Moro Capitano saraceno, ch'Errico avea seco portato da Sicilia, lo facesse crudelmente avvelenare. Coloro che narrano avere Corrado fatto morire Errico per torgli il Regno di Sicilia, dicendo che Federico non poteva, nè dovea separarlo dal Regno di Puglia, errano all'ingrosso; poichè Federico non il Regno di Sicilia, ma quello di Gerusalemme, ovvero Alcarense ad elezion di Corrado gli avea lasciato nel suo testamento: e Manfredi mandò Errico in Sicilia per contenere i Siciliani nell'ubbidienza di Corrado, come si è di sopra narrato. Altri credono che l'avesse fatto morire, per avere la maggior parte del tesoro dell'Imperador Federico, che era in suo potere. Che ne sia, narra Matteo Paris[16], che Corrado diede non leggieri sospetti d'esser egli stato autore della morte di quell'innocente fanciullo; poichè da allora in poi non mostrò Corrado il suo volto così sereno e giocondo come prima. E negli Atti d'Inghilterra, ultimamente fatti imprimere dalla Regina Anna, si legge una lettera di Corrado scritta [20] nell'anno 1254 al Re d'Inghilterra zio d'Errico, nella quale, per togliere questo romore che s'era sparso d'averlo fatto avvelenare, diedegli l'avviso della morte di suo nipote, con sentimenti molto appassionati, fingendo molta afflizione e dolore, per la morte di quel Principe; ma Papa Innocenzio, fomentando l'inimicizia nata perciò tra Corrado ed Errico, offerì il Regno di Sicilia ad Edmondo figliuolo d'Errico, ch'era ancor fanciullo.

(Presso Lunig[17], si leggono alcune lettere d'Alberto Legato d'Innocenzio in Inghilterra, per le quali dassi l'Investitura del Regno ad Edmondo, e la conferma del Papa nel 1254 coll'avviso, che dà ad Alberto di tal conferma. Ma questo trattato per la morte d'Innocenzio rimase interrotto).

E notasi in questi Atti, che Innocenzio non tralasciò cos'alcuna, per impegnar il padre a mettersene in possesso, fino a dar ordine al Clero d'Inghilterra di prestar denari a questo Principe, e d'impegnar perciò i beni delle loro Chiese. Ma da poi tutto questo denaro fu dissipato, ed impiegato ad altri usi dal medesimo Papa; onde questo secondo trattato anche rimase in tutto svanito.

Avendo intanto Corrado in cotal guisa ridotte le città del Regno fluttuanti sotto la sua obbidienza, si disponeva di passare altrove verso le parti dell'Imperio; ma ecco, che mentre nella Primavera di quest'anno 1254 s'accingeva a tal viaggio, ne' campi vicino Lavello fu assalito da mortal febbre, che in pochi giorni nel più bel fiore della sua età, non avendo più [21] che 26 anni, a' 21 maggio lo tolse a' mortali[18], avendo durato il suo regno poco più che tre anni: onde di questo Principe nè leggi, nè altro attinente alla politia di queste province, abbiamo.

Pure gli Scrittori dalla parte Guelfa, infesti non meno a Federico, che alla sua progenie, narrano, che Manfredi per mezzo d'un medico lo facesse avvelenare, con isperanza, morto Errico e lui, non essendovi della linea di Federico altri, che Corradino, che era nato l'anno avanti, figliuolo d'esso Corrado, potesse agevolmente occupare l'uno e l'altro Regno: e che Corrado, non sapendo, che moriva di veleno, fattogli dare da Manfredi, lasciasse nel suo testamento erede Corradino e Balio l'istesso Manfredi.

Ma se dobbiamo prestar fede all'Anonimo Scrittor contemporaneo, nè avremo Manfredi per Autore di tale scelleratezza, nè per Balio lasciato da Corrado.

Narra questo Scrittore, che mentre Corrado era infermo, Bertoldo Marchese di Honebruch, allora potentissimo per lo favore de' Tedeschi, vedendo l'inclinazion di Corrado, ch'era di lasciar Manfredi per Balio del Regno, con sottil arte dimandò a Manfredi se volesse assumere quel peso, per iscorgere l'animo suo. Manfredi conoscendo l'arte del Marchese, gli rispose, ch'egli non avrebbe accettato il Baliato, ma che ben se lo meritava la prudenza del Marchese, al quale in ciò per ogni rispetto dovea cedere: ciò che fece con somma astuzia, così per non esporsi all'odio [22] de' Tedeschi, come anche perchè conoscendo, che Bertoldo, come insufficiente, tosto avrebbe con sua vergogna avuto a soccombere al grave peso, i Magnati del Regno avrebbero chiamato lui per Balio, come seguì. Bertoldo, ricevuta questa risposta, avendo al moribondo Corrado riferito che Manfredi non avrebbe accettato il Baliato, fece che il Re nominasse lui per Balio del Regno.

Fece Corrado prima di morire il suo testamento, nel quale avendo lasciato erede il piccolo Corrado suo figliuolo, e Balio il Marchese di Honebruch, fra l'altre cose, prevedendo gli sconvolgimenti, che avrebbe potuto cagionargli Innocenzio IV, raccomandò al Balio, che proccurasse usar ogni studio d'ottener per Corradino la grazia e la pace della Sede Appostolica, per non vedere implicato quel fanciullo in nuove guerre col Pontefice.

Il Marchese avendo assunto il Baliato, e postosi in mano tutto il tesoro della Camera regia, volle ubbidire al testamento del Re, e mandò Legati al Pontefice Innocenzio, chiedendogli in nome di Corradino la pace e la sua buona grazia, siccome Corrado aveagli raccomandato nel suo testamento. Innocenzio che, morto Corrado, credeva aver per le mani la più opportuna congiuntura d'impossessarsi del Regno, reputò questa Legazione più tosto un'argomento della debolezza della parte Regia, che atto di devozione; onde rendutosi più animoso che mai, rispose a' Legati, che in tutte le maniere egli voleva prender la possessione del Regno devoluto già alla Chiesa romana: che venuto alla pubertà Corradino, quando fosse maggiore, allora si sarebbero esaminate le sue pretensioni, e che forse, se la Sede Appostolica ne [23] l'avesse reputato degno, gli avrebbe conceduta la sua grazia[19].

Questa risposta fece avvertito il Marchese ed i Baroni del Regno, che l'animo del Papa era già tutto rivolto ad occupare il Regno, e ben tosto se ne videro gli effetti; poichè cominciava già a ragunare un conveniente esercito per invaderlo; ed oltre di ciò si erano scoverti alcuni trattati, che teneva con molti Baroni affezionati della Chiesa, perchè l'ajutassero alla conquista; i quali mal soddisfatti del governo del Marchese, e dell'insolenza de' Tedeschi, amavano meglio sottoporsi al dominio della Chiesa, che vivere oppressi sotto la loro servitù. Il Marchese volle riparare all'imminente invasione; ma scoverto, che molti Baroni, da' quali egli sperava ajuto, s'erano dati dalla parte del Pontefice, e che l'esercito Papale era già per invadere i confini del Regno, atterrito dall'impresa, avvilissi in maniera, che pentitosi d'aver assunto il Baliato, quello, non senza suo rossore, rifiutò, e vergognosamente depose[20].

I Conti e' Baroni e gli altri Magnati del Regno, che erano rimasi fermi nella fede del Re, vedendo il Marchese aver abbandonato il governo, tosto ricorsero al Principe Manfredi, pregandolo e scongiurandolo, [24] che per non veder ruinato il Regno, ed esposto a perdersi, riprendesse egli il Baliato, a cui di ragion s'apparteneva. Manfredi ripugnava, dicendo che ora che le cose erano in istato pur troppo calamitoso, non voleva perdere il suo onore; ma i Baroni incessantemente rampognandolo, e protestandosi che sarebbe il Regno perduto, finalmente l'indussero a pigliarne il governo. Movea ancora un'altra ragione fortissima, perch'essendosi sparsa la voce che Corradino fosse morto, il Papa era entrato in maggior speranza d'occupare il Regno. All'incontro Manfredi, che reputava, secondo il testamento dell'Imperador Federico suo padre, dover egli succedere ne' suoi Stati, determinò di prenderne il governo, affinchè se il pupillo vivea, gli avrebbe per lui amministrati, e per lui ripressi gli sforzi dell'emolo Innocenzio, se all'incontro fosse vero il rumore della morte, con facilità se ne sarebbe potuto incoronare[21].

Avendo adunque Manfredi assunto il Baliato del Regno, si fece giurare fedeltà dall'istesso Marchese, dalli Conti, Baroni, e da tutti i fedeli del Regno, in cotal maniera, che se vivea il picciolo Re, giurassero a lui come general suo Balio; se fosse morto, avessero da ora a riputarlo per loro Re e signore del Regno[22].

[25]

CAPITOLO III. Spedizione d'Innocenzio IV sopra il Regno.

Composte in cotal maniera queste bisogne, il Marchese andossene in Puglia, promettendo a Manfredi di colà mandargli ogni soccorso di denaro, e di gente; ed intanto Manfredi cominciò a preparare, e disporre l'esercito per poter fronteggiare a quello del Pontefice, che a grandi giornate se ne calava nel Regno. Presidiò a questo fine San Germano con buon numero di Tedeschi, e fortificò Capua con tutte le vicine terre, che cominciavano a fluttuare, per contenerle nella sua ubbidienza.

Ma dall'altra parte Innocenzio avea fatti progressi grandi per facilitar l'impresa, avea mandati suoi messi in Sicilia a Pietro Ruffo di Calabria, che dal Marchese di Honebruch era stato lasciato Balio della Sicilia e della Calabria, perchè disponesse que' popoli ad alzar le bandiere della Chiesa[23]; ed in fatti Pietro da Messina spedì al Papa Folco suo nipote, ed altri Ambasciadori sopra due galee a significargli, che tanto la Sicilia, quanto la Calabria s'andavan disponendo ad abbandonar Manfredi, e darsi dalla parte sua.

S'aggiungeva ancora, che Riccardo di Monte Negro per l'odio ed inimicizia, che teneva col Marchese Bertoldo, s'era dato già nel partito del Pontefice, col quale erasi confederato, e promise voler dar libero passo all'esercito papale per le sue terre, che teneva [26] ne' confini del Regno. Molti altri Baroni ancora aveano nascostamente mandato dal Papa a giurargli fedeltà, ed a ricevere da lui la rinnovazione dell'investiture de' loro Feudi che possedevano[24]; ed altri ottennero con facilità dal Pontefice nuove investiture, siccome Borrello di Anglono, che fu da Innocenzio in questi tempi prima d'entrar nel Regno investito del Contado di Lesina, ancorchè s'appartenesse a Manfredi, come pertinenza del Contado di Monte S. Angelo. Anzi Innocenzio avea conceduta l'investitura del Contado di Lecce a Marco Ziano figliuolo di Pietro Duca di Venezia, a cui dichiarò appartenere come discendente del Conte Tancredi suo avo, non ostante le ragioni, che vi teneva il Conte Tigrisio de Mudignana, ovvero i di lui figliuoli, per ragione d'Alberia sua moglie, che dovea nella successione a tutti preferirsi; e non per altra cagione, se non perchè il Conte Tigrisio e' suoi figliuoli aderirono all'Imperadore Federico contro la Chiesa, ed ancora non tralasciavano d'offenderla, onde Innocenzio gli reputava affatto indegni della sua grazia; e la carta di questa investitura spedita da lui in Perugia l'anno 1252 vien rapportata dall'Ughello[25], che dice averla riscontrata nel registro vaticano. Siccome nell'istesso anno 1252 a' 21 gennajo dimorando per anche in Perugia, investì O. Frangipane del Principato di Taranto, ancorchè fosse di Manfredi, con tutta la terra d'Otranto: sotto pretesto, ch'era stato prima dato dall'Imperadrice Costanza I normanna ad O. suo zio, come appare per privilegio [27] dato in Perugia, rapportato da Rainaldo[26]; ed in cotal maniera Innocenzio gratificandogli s'avea resi suoi ligi, e dependenti i migliori Baroni del Regno, e ridotti molti personaggi di conto al suo partito.

Di vantaggio erasi penetrata una congiura, che si ordiva a Capua contro Manfredi, con deliberazione, subito che l'esercito papale si fosse accostato al Regno, con impeto grande dar sopra quel Principe per imprigionarlo, o ucciderlo. Erasi ancora scoverta la poca fede del Marchese Bertoldo, il quale violando tutte le promesse fatte a Manfredi di mandargli dalla Puglia denaro e gente, non solo non adempieva alle promesse, ma discorrendo per Puglia badava solo al suo utile, gravando que' sudditi d'eccessive taglie, ed i suoi Tedeschi, per la loro rapacità gli aveano alienati dalla fede che doveano al Re, e desideravano il dominio del Papa; ed ancorchè Manfredi avesse mandato Gualvano Lancia suo zio, a narrargli le angustie, nelle quali si trovava per moverlo a dargli ajuto, fu però inutile la missione, niente curando de' suoi pericoli.

Vedutosi perciò il Principe Manfredi in così gravi angustie, nelle quali era, più per gli occulti, che per li palesi nemici, reputando inutile ogni suo sforzo di voler colla forza contrastare al Pontefice, bisognò cedere al tempo, e ricorrere per vincer l'inimico alle simulazioni ed agl'inganni. Erasi il Pontefice Innocenzio, per accalorare l'impresa, disposto di venir egli di persona a conquistare il Regno: e fermato in Anagni era tutto inteso al grande apparecchio, e perchè [28] non si tralasciasse strada per agevolarne l'impresa, avea mandati più Messi a tentare l'istesso Manfredi, affinchè lasciasse il governo del Regno, e quello ponesse in mano della Chiesa. Manfredi con somma accortezza andava differendo la risposta; ma ora vedutosi in queste angustie, deliberò fargli tornare al Pontefice con risposte tutte umili e riverenti, dicendogli, che rapportassero al Papa, ch'egli fidando al suo gran zelo e pietà, che aveva verso il Re pupillo suo nipote, e reputando esser proprio della Sede Appostolica di proteggerlo, e riceverlo nel suo seno con paternal amore e grazia, non ripugnava abbandonar il governo del Regno, e ponerlo in mano della Chiesa madre pietosa di tutti, e più de' pupilli; e che sperava che con ciò si fossero adempiuti i voti di Corrado padre del fanciullo Re, che nel suo testamento avea ardentemente desiderato, che la Santa Sede ricevesse sotto la sua protezione e grazia l'innocente fanciullo: che egli non solo non contrasterebbe, ma darebbe ogni ajuto alla sua entrata, e possessione del Regno, senza però, che dovesse recarsi con tal atto alcun pregiudicio alle ragioni sue, e del Re pupillo[27].

Il Pontefice ricevuta questa risposta con indicibile allegrezza, si lodò tanto di Manfredi, che quando prima tenne quel Principe per iscomunicato, e niente cattolico, ora lo ricevè in sua grazia ed in quella della Sede Appostolica, dimenticando ogni offesa; ed avendogli fatto animo, che fidasse in lui che con porsi il Regno in mano della Chiesa, non si sarebber punto pregiudicate le ragioni del Re pupillo, e sue; e che quando sarebbe quegli venuto alla età maggiore, la [29] Sede Appostolica gli avrebbe renduta sua ragione, si dispose ad entrare nel Regno col suo esercito. Inviò intanto Manfredi, per maggiormente assicurarlo della sua fedeltà, Gualvano Lancia suo zio ad Anagni ad umiliarsi col Pontefice; e, se deve riputarsi vera quella Bolla rapportata dal Tutini, si vede che Innocenzio per mostrargli all'incontro ugual corrispondenza, a' 27 settembre di quest'anno 1254 in Anagni gli confermò l'investitura, colla quale per mezzo dell'istesso Gualvano investì, e confermò a Manfredi il Principato di Taranto (del quale prima avea investito O. Frangipane), il Contado di Gravina, e di Tricarico, con l'onore del Monte S. Angelo, con tutte le supreme regalie ed onori e preminenze, colle quali l'Imperador Federico suo padre gliel'avea conceduto, e che Corrado gli avea tolte. E per mostrargli maggior benevolenza, possedendosi allora il Contado di Montescaglioso dal Marchese Bertoldo, in iscambio di quello gli diede il Contado d'Andria, investendone in pubblico Concistoro in suo nome il sopraddetto Gualvano Lancia, dandogli in segno dell'Investitura un anello, come si legge nella Bolla dell'investitura, rapportata dal Tutini nel libro de' Contestabili del Regno[28].

Il Principe Manfredi, ancorchè dal tenore di questa investitura, e da altri fatti comprendesse, che l'animo d'Innocenzio era non di governare come Balio il Regno insino all'età maggiore di Corradino, ma supponendolo devoluto alla Sede Appostolica, dominarlo con assoluto, ed indipendente imperio, nulladimanco con mirabile astuzia dissimulava il tutto; e per maggiormente [30] farlo cadere nelle sue reti, vie più mostravasi di lui tutto umile ed ubbidiente; anzi per segno di maggior venerazione, essendosi Innocenzio già incamminato, volle andare ad incontrarlo, insino a Cepperano, e quivi incontratolo, volle inginocchione adorarlo, e prendendo da poi il freno del suo cavallo, lo servì in cotal maniera per un pezzo di strada insino che passasse il ponte di Garigliano[29].

Innocenzio gradì tanto queste umili dimostrazioni, che ancorchè vecchio, e per esperienza prudentissimo, si lasciò ingannare, in guisa, che oltre aver conferito con lui quasi tutti i suoi più riposti pensieri, credendo, che conserverebbe la più sopraffina divozione alla Sede Appostolica, volle cumularlo di maggiori onori; poichè oltre avergli dato il primo luogo fra tutti i Baroni, lo creò Vicario del Regno, dal Faro insino al fiume Sele, e per tutto il Contado di Molise, e terra Beneventana, eccettuatone il Giustizierato d'Abruzzo, costituendogli ottomila oncie d'oro l'anno di mercede; e la carta di questa concessione la rapporta ancora il Tutini[30]; ed essendosi già sparsa fama per tutto il Regno, che il Papa con accordo e permissione di Manfredi era entrato nel Regno per amministrarlo, i popoli, che stavano infastiditi de' trattamenti, che ricevevan da' Tedeschi, erano già tutti disposti per riceverlo, riputando in cotal guisa poter uscire dalla loro servitù, ed esser fuori di periglio d'esser più interdetti dagli Ufficiali sacri[31]. E questo fu cagione, [31] che Manfredi con grandissime astuzie consigliò il Papa, che compartisse il suo esercito per le più ricche province del Regno: dal quale consiglio ne avvenne, che i Capitani tedeschi, parte per timore dell'esercito del Papa, parte per la mala volontà, che conosceano ne' popoli, i quali ricusavano di pagare a' Tedeschi cos'alcuna, si partirono dal Regno, e tornarono in Germania delusi da Manfredi, con lasciarne solo in Puglia, ed in terra d'Otranto alcuni, i quali appena potendo vivere, non avendo paghe, andavano sempre più mancando di numero. Così Manfredi toltisi dattorno i Tedeschi, i quali gli davano maggior sospetto, che i nemici palesi, e tratto tratto acquistando forza in quelle province, ove era egli stato creato Vicario dal Papa, cercava ora opportunità, come potesse discacciarne i costui soldati, che compartiti in più luoghi, infra di loro divisi, credeva con più facilità debellare.

Intanto il Pontefice entrato nel Regno, prima fermossi a Teano per picciola indisposizione, e poi giunse in Capua, ove fu ricevuto con molta pompa e celebrità[32]; e quivi fermatosi, era tutto inteso ad unire sotto il dominio della Sede Appostolica tutte le altre province del Regno di Puglia e di Sicilia, come avea fatto dell'Abruzzo, di Terra di Lavoro, parte della Puglia, e d'alcune altre. Avea egli fatto Legato della Sede Appostolica sopra il Regno il Cardinal di S. Eustachio, suo nipote, al quale avea data tutta la sua autorità e potere per amministrarlo. Questi essendo giovane, e congiunto ad Innocenzio[33], cominciò con alterigia a governarlo, non come Governadore, ma come [32] assoluto padrone, ed obbligava i Conti, i Baroni e tutti gli altri a dargli il giuramento di fedeltà, nullo jure Regis, et Principis salvo (come dice l'Anonimo) ma assolutamente a lui, come Legato della Sede Appostolica, a cui era il Regno devoluto. Per questa cagione pretendeva ancora, che il Principe Manfredi, siccome avean fatto gli altri Baroni, dovesse prestar a lui consimil giuramento di fedeltà.

Allora fu, che Manfredi opportunamente cominciò pian piano a togliersi il velo della simulazione, ed a resistere apertamente al Legato con dirgli, che le convenzioni avute col Pontefice erano state, che si lasciasse in mano della Chiesa il governo del Regno, salve però le sue ragioni e quelle del nipote, ed infino a tanto che il pupillo non sarà fatto pubere, non dovesse mutarsi cos'alcuna dello stato, nel quale era il Regno: per la qual cosa non volle dar il ricercato giuramento, non ostante le moleste dimande del Legato. Non fu però, come dice l'Anonimo, che per tali contese Manfredi non venisse a perdere molto della sua stima presso gli altri Baroni del Regno: poichè questi vedendo, che il Legato niente riguardando alla sua regale stirpe, voleva trattarlo di pari, e nell'istessa guisa che gli altri, cominciarono a perdere quella riverenza ed ossequio, che prima gli portavano.

Per questa cagione avvenne, che avendo Borrello di Anglono ottenuto dal Pontefice Innocenzio, prima che entrasse nel Regno, l'investitura del Contado di Lesina, perchè abbandonasse le parti Regie, e seguitasse quelle della Chiesa, siccome avea fatto con molti altri Baroni, per tirargli al suo partito, pretendeva egli in vigor di tal investitura, che quel Contado a lui appartenesse; ma Manfredi pretendendo giustamente, che [33] essendo quello tra le pertinenze del suo dominio, non dovesse in quello esserne turbato, gli fece prima amichevolmente intendere, che se ne astenesse; anzi di certa altra terra, che teneva, appartenente al Contado di Monte S. Angelo, gli fece sentire, che la godesse pure, ma che almeno ne ricevesse da lui l'investitura, con la ricognizione, e con dargli il solito giuramento della assicurazione, altrimenti, che la lasciasse[34]. Borrello insuperbito per lo favore del Papa, disprezzando l'ambasciata di Manfredi, con molta arroganza gli rispose, ch'egli non era nè per lasciar il Contado, nè per riconoscer lui per quella terra, nè per dargli giuramento alcuno. Manfredi ancorchè acerbamente ricevesse tal risposta, non volendo contendere col disuguale, dissimulò l'ingiuria: ed avendo inteso, che Borrello avea mandata molta gente ad invadere il Contado di Lesina, con aver già occupate due terre di quel Contado, non volle usar la forza, ma ebbe ricorso al Pontefice Innocenzio, ch'era allora a Teano, al quale espose il torto fattogli dal Borrello, che sotto pretesto d'aver avuta da lui la concessione di quel Contado, voleva appropriarselo, quando, come appartenente a quello del Monte S. Angelo, era di suo dominio: pregava perciò il Papa, che vi riparasse, perchè non sortissero inconvenienti maggiori.

Il Pontefice, secondo le solite ambiguità di quella Corte, gli rispose a guisa d'oracolo in tal maniera: Se praefato Burrello nihil de Juribus Principis concessisse[35]. Manfredi ben intese da questa risposta, che l'animo del Pontefice era per favorire Borrello, con tutto ciò premendo sempre, che gli fosse renduta sua [34] ragione, gli fu risposto che, giunto a Capua avrebbe fatto esaminare per termini di giustizia quest'affare.

Intanto s'ebbe notizia, che il Marchese Bertoldo da Puglia erasi incamminato per Capua per inchinarsi al Pontefice, onde Manfredi, per non incontrarsi col medesimo, prese commiato dal Papa per tornarsene; e mentr'era in cammino, ecco che da lungi videsi Borrello, che con molta gente armata era in agguato per assalire ad un luogo angusto il Principe. Dicchè avvedutisi que' della comitiva di Manfredi, gli diedero sopra, e postolo in fuga, rimase in quel rumore ucciso Borrello dalle genti del Principe, niente sapendo Manfredi intanto della sua morte.

Essendo arrivato il Papa a Capua, tosto i suoi emuli variando il fatto, facevano reo di questo delitto Manfredi; ed ancorchè per mezzo del Marchese Bertoldo proccurasse purgarsi col Papa, con dire, che attorto ciò se gl'imputava, nulladimanco, avendo scoverto che il Marchese in vece di difenderlo proccurava la sua prigionia, mandò nella Corte del Papa, ch'era allora in Capua, Gualvano Lancia suo zio per difendersi; ed egli intanto nell'Acerra in casa di quel Conte suo cognato ricovrossi.

Il Papa pretendeva che Manfredi si presentasse avanti di lui per conoscere della di lui inquisizione; Manfredi non ripugnava venire, purchè se gli fosse promessa sicurtà della sua persona; ma Gualvano Lancia, avendo penetrato, che il Papa voleva imprigionarlo, nè voleva dargli sicurtà, ma che si fosse presentato avanti il suo Legato; avvisò a Manfredi, che tosto partisse dall'Acerra, non stando ivi sicuro, e che proccurasse andarsene in Puglia, ove coll'intelligenza dei Saraceni, ch'ivi erano suoi partigiani, proccurasse entrar [35] in Lucera, e quivi afforzarsi[36]. Manfredi avuto quest'avviso partì di notte, e seco portossi due fidati giovani Nobili napoletani, che con se avea, i quali furono Marino Capece, e Corrado suo fratello. Questi furono i suoi fidi compagni, che non l'abbandonaron mai in tutto quel pericoloso e disagevol viaggio.

Passati molti pericoli e disagi, finalmente Manfredi giunse in Lucera, ove coll'ajuto de' suoi Saraceni, che erano dentro, infrante le porte, entrò ivi pien di gloria, e da tutta la città fu acclamato, e gridato per lor Principe e Signore, a' quali esponendo le cagioni per le quali erasi allontanato dalle parti del Pontefice, che non come Governadore, ma come Signore voleva usurpare il Regno al Re pupillo suo nipote, dichiarò, la volontà sua non essere altra, che jura Regis nepotis sui, et sua, et libertatem, bonumque statum Regni, et Civitatis ipsius viriliter manutenere, atque defendere, come scrive l'Anonimo. Per la qual cosa tutti gli prestarono giuramento di fedeltà, e d'omaggio, pro parie Regis, et sua.

Il Marchese Bertoldo, Odone suo fratello ed il Legato del Pontefice, udita la sorpresa di Lucera, tosto uniti insieme s'afforzarono colle loro truppe in Troja per resistergli; ma Manfredi, essendosi indi a poco impadronito di Foggia, avanzava alla giornata di forze, e reso formidabile il suo esercito, dopo varie vicende, ruppe finalmente il Legato e l'esercito Papale, prese Troja, disperse le genti d'Odone e del Marchese Bertoldo; e sopra di esse ottenne rimarchevol vittoria. Allora fu, che Manfredi scrisse a' Baroni del Regno suoi partigiani quella lettera, che si legge presso [36] il Summonte[37], avutala da Pier Vincenti di Brindisi, nella quale minutamente descrivesi questa vittoria, che bisogna averla per vera, siccome per tale l'ebbe Rainaldo ne' suoi Annali: giacchè è conforme a quel, che di tal vittoria diffusamente ne scrisse l'Anonimo.

§. I. Innocenzio abbandona il Re d'Inghilterra, ed invita il fratello del Re di Francia alla conquista del Regno: se ne muore in Napoli, e svaniscono i suoi disegni.

Innocenzio sin dal mese di giugno dell'anno 1253 erasi colla sua Corte portato in Napoli, dove sentendo i progressi di Manfredi fatti in Puglia, temè non finalmente dovesse discacciarlo da tutte l'altre province del Regno, ch'erano nell'ubbidienza della Chiesa: e vedendo essere inutile ricorrere in Inghilterra, avendo avuta contezza in quel tempo che fu in Francia del valore e prudenza di Carlo d'Angiò Conte della Provenza, fratello del S. Re Lodovico di Francia, spedì a quello Maestro Alberto da Parma suo Cappellano e Segretario, per trattare la sua venuta in Regno, offerendogliene l'investitura. Ma per trovarsi il Re Luigi in Oriente implicato nella guerra Sagra, non potendo dargli ajuto, non potè niente conchiudersi: rimase non perciò Alberto in Francia, e trattò quest'affare sotto i Pontefici successori d'Innocenzio per quattordici anni a fin di ridurre il trattato ad effetto, siccome sotto il Pontificato d'Urbano IV fu ridotto[38].

[37]

Vi è anche chi scrisse che, infermatosi Innocenzio in Napoli, avendo intesa la novella della vittoria ottenuta da Manfredi, se ne morisse di cordoglio a' 7 o, come altri rapportano, a' 13 dicembre di quest'anno 1254[39]. Giace sepolto questo Pontefice nel Duomo di Napoli, ove ancor oggi s'addita il suo tumulo. Pontefice, che potè darsi questo vanto, d'essere stato il primo, che unisse alle pretensioni, che han tenuto sempre i Pontefici romani sopra questo Reame, l'attual possesso di quello. Tutte le spedizioni degli altri Pontefici per conquistarlo furono, o infelicemente terminate o appena mosse dissipate e spente; d'Innocenzio IV può solamente dirsi che per più mesi ne avesse avuto il corporal possesso, e che per altri tanti lo tramandasse al suo successore Alessandro IV. Perciò si leggono di lui tante investiture concedute a molti nostri Baroni, delle quali si è fatta memoria. Pontefice ancor egli intendentissimo di ragion civile, e che ornò la nostra giurisprudenza di molti trattati e volumi.

Fioriva in Italia in questi anni l'Accademia di Bologna sopra tutte le altre; dove Innocenzio essendo giovane apprese la disciplina legale, e nelle leggi civili ebbe per Maestri Azone, Accursio e Jacopo Balduino; siccome nel jus canonico Lorenzo Spagnuolo, Giovanni Teutonico, Jacopo d'Albasio ed Uguccione, principali Dottori di quella età; onde ne divenne un dei più perfetti legisti del suo tempo[40]. E volendo emulare Innocenzio III pur famoso Giureconsulto de' suoi tempi, in mezzo alle cure di quel turbolento ed inquieto Pontificato, non tralasciò questi studj, perchè stando [38] in Lione, scrisse sopra i cinque libri de' Decretali gli Apparati, di che tanto i Canonisti si servono: fondando il principio sopra l'autorità d'Ezechiel profeta: della qual Opera scrivendo S. Antonino dice, ch'ella è di maggior autorità, che la lezione di ciascun libro degli altri Dottori, onde ne venne chiamato padre e monarca delle divine ed umane leggi.

Scrisse le Costituzioni, che fece nel Concilio di Lione, parte delle quali s'hanno nel Sesto libro dei Decretali. Compose un libro, che Ostiense nella sua Somma chiama Autentiche. Ed un altro intitolato Apologetico, contro a Pietro delle Vigne, intorno alla giurisdizione dell'Imperio ed autorità del Papa; e compose anco i Commentarj del vecchio e del nuovo Testamento.

Ebbe in molto pregio gli uomini virtuosi, e letterati, fra' quali Alessandro d'Ales di nazione inglese, ch'essendo già vecchio prese l'abito de' Frati Minori; dal quale fece comporre la Somma della Teologia, ed altre grandi opere, onde ebbe il cognome di Dottore Irrefragabile. Spinse Bernardo da Parma, ed il Compostellano, ch'erano suoi Cappellani, perchè scrivessero sopra il Decretale, e componessero altre opere.

Amava molto le religioni, e fra le altre quella di S. Benedetto, e le due di S. Domenico, e di S. Francesco, le quali a guisa di novelle piante allora fiorivano. Riformò la Regola a' Frati Carmelitani, dandone la cura al Cardinal Ugo. Ordinò, che tutti i Romiti viventi senza Regola, e particolarmente quelli ch'erano per la Toscana, ed anche molti Religiosi di S. Agostino, uniti sotto un Generale, si chiamassero Eremitani. Rinovò in Francia, ed anche in Italia la Religione de' Cruciferi, ch'era quasi spenta; tal che in Italia [39] si rifecero alcuni Monasteri di nuovo, ed in Napoli particolarmente ebbero poi quello di S. Maria delle Vergini fuori della Porta di S. Gennaro, dato loro dalla famiglia Carmignana, e da' Vespoli. Concesse a' Cavalieri de' SS. Maurizio e Lazaro autorità d'eleggere il Gran Maestro nella religion loro; e concesse a' Canonici dell'Arcivescovado di Napoli l'uso della Mitra bianca, quando l'Arcivescovo celebra; ed al Clero le franchigie, che insino ad oggi gode per tutto il Regno.

CAPITOLO IV. Spedizione d'Alessandro IV sopra il regno, e nuovi inviti fatti da lui al Conte di Provenza, ed al Re d'Inghilterra.

Il Legato appostolico intimorito per la vittoria ottenuta da Manfredi, abbandonando la Puglia, fece ritorno coll'esercito papale in Terra di Lavoro, incamminandosi verso Napoli, e per istrada incontrossi col Marchese Bertoldo, e continuarono uniti il cammino insino a Napoli, ove giunti trovarono, che pochi giorni prima Innocenzio era già morto[41]. Quando i Cardinali, e tutti que' della Corte videro il Legato, ed il Marchese Bertoldo, ed intesero la ruina de' loro eserciti, furono presi di tanto timore, che volevan tosto partire da Napoli, e ritirarsi in Campagna di Roma; ma confortati dal Marchese, che non partissero, si [40] stettero; ed all'elezione del nuovo Pontefice furono tutti rivolti. Non mancano Scrittori[42], che dicono esservi stato gran contrasto fra' Cardinali per questi elezione, e che perciò la Sede fosse vacata un anno. Ma l'Anonimo, il Collenuccio, Pansa ed altri[43], rapportano, che i Cardinali temendo non il differire l'elezione fosse cagione di maggior lor danno, tosto in Napoli uniti, di concorde volere eressero Rainaldo d'Anagni della famiglia Conti nipote di Gregorio IX che fu chiamato Alessandro IV, il quale nel Duomo di Napoli fu consecrato, ed incoronato, ed in questa città siccome pruova il Chioccarelli[44], vi si trattenne per un'anno.

Intanto il Principe Manfredi, reso più animoso per la morte d'Innocenzio, ridusse sotto la sua ubbidienza quasi tutte le altre città della Puglia, che aveano alzate le bandiere della Chiesa. Si sottopose a lui Barletta, da poi Venosa e finalmente Acerenza, dove Giovanni Moro fu da' Saraceni crudelmente fatto morire. Prende Rapolla; indi si resero Trani, Bari, ed in breve tutta la Puglia, toltone alcune città di Terra d'Otranto, che ancora si mantenevano sotto l'ubbidienza della Chiesa.

Il Pontefice Alessandro IV atterrito nel principio del suo Pontificato di questi progressi del Principe, spinse Tommaso Conte dell'Acerra cognato del Principe, e Riccardo Filangerio, che andassero a trovar Manfredi; i quali vennero in Puglia, spinti anche, come [41] si diceva, da alcuni Cardinali, per insinuargli, che non mancasse mandare i suoi Ambasciadori a rallegrarsi col nuovo Pontefice della sua esaltazione a quella Cattedra, portando ammirazione, che ciò, che tutti gli altri Principi del Mondo facevano, non volesse far egli[45]. Manfredi dubitando, siccome altra volta era accaduto, che questa sua Legazione al nuovo Pontefice non fosse interpretata per sua debolezza, e pusillanimità, loro rispose, ch'egli non avrebbe mandati altri Ambasciadori al nuovo Pontefice, se non per trattar la pace con tali condizioni: Ut Regnum in dominio, et possessione Regis Conradi II nepotis sui, sub baliatu Principis remaneret. Compositio autem super eo tantum esset, ut census pro ipso Regno Romanae Ecclesiae augeretur.

(Questo trattato fu conchiuso da Alessandro, il quale nell'anno 1255, dimorando ancora in Napoli, quivi spedì la Bolla dell'investitura ad Edmondo, che vien rapportata da Lunig[46]).

Quando il Pontefice intese nel ritorno del Conte e di Riccardo, che Manfredi non era niente disposto a mandargli i Legati, nè a lasciare il Regno nelle mani della Chiesa, cominciò, seguitando le pedate del suo predecessore, a mostrarsegli più inimico degli altri. Fece in prima ripigliar il trattato da Maestro Alberto da Parma con Carlo Conte di Provenza, dal quale avuti riscontri, che Carlo non si trovava disposto per l'impresa del Regno, si voltò ad Errico Re d'Inghilterra, rinovando il trattato, che il suo predecessore Innocenzio avea cominciato col medesimo, offerendogli di nuovo l'investitura del Regno per Edmondo suo [42] figliuolo, purchè venisse tosto a discacciarne Manfredi; e notasi negli Atti di quel Regno, che Papa Alessandro si riscaldò tanto per quest'impresa, che commutò il voto, che avean fatto il Re d'Inghilterra, i Re di Norvegia, ed altri, d'andare in Terra Santa, nell'andare a conquistar la Sicilia, e il Regno di Puglia in favor della Chiesa.

Mandò ancora un Vescovo in Puglia a citar Manfredi da sua parte: Ut in festo Purificationis Beatae Mariae proxime futuro ad Curiam Romanam accederet, responsurus de interfectione Burrelli de Anglono, et de injuria, quam Apostolicae Sedi intulerat, expellendo Legatum, et exercitum Ecclesiae de Apulia[47]. A questa citazione rispose Manfredi per sua lettera diretta al Pontefice, purgandosi di ciò, che se gl'imputava della morte di Borrello, e che per quello, che toccava d'aver discacciato il Legato, e l'esercito della Chiesa da Puglia, non avea fatta niuna ingiuria alla Chiesa romana, defendendo con ciò la giustizia del suo nipote, e sua.

Durando Manfredi in tal proponimento di non mandar suoi Ambasciadori al Papa, venne da lui Maestro Giordano da Terracina Notajo della Sede Appostolica già benevolo di Manfredi, il quale mostrando dispiacere di queste contese, consigliò il Principe, che in tutte le maniere mandasse al Papa i suoi Legati, perchè da questa missione non altro, che sommo onore e comodo n'avrebbe ritratto: finalmente Manfredi mosso dal consiglio di costui, destinò due Legati al Pontefice, dandogli potere per trattar la pace, i quali furono Gervasio di Martina, e Goffredo di Cosenza suoi Secretarj[48].

[43]

Giunti costoro in Napoli, ove risedeva allora la Corte del Papa, cominciarono a trattar con alcuni Cardinali deputati per questo effetto la pace; ed incontrandosi delle difficoltà e de' dubbj, i quali non potevano superarsi, se non si trattasse a dirittura col Principe, i Legati persuadevano il Papa, che mandasse un Cardinale in Puglia a trattar con Manfredi, perchè in cotal maniera era molto facile, che la concordia seguisse. Ma i Cardinali gonfi per la loro dignità, e grandezza, la quale di fresco era stata da Innocenzio cotanto innalzata, dicevano id non convenire Sedis honori, ut Cardinales hoc modo mittantur[49]. Per la qual cosa lungamente essendosi contrastato su questo punto, non poterono gli Ambasciadori del Principe in conto veruno indurre quelli della Corte a mandar un Cardinale a Manfredi.

Il Principe intanto, vedendo che si portava in lungo il trattato, non volle perder tempo di reintegrare al suo Contado d'Andria, ciò che con ragione speziale se gli apparteneva; e perciò restituì a quello la Guardia Lombarda, ch'era delle pertinenze di quel Contado, e che ancora era rimasa in potere delle genti Papali. Si mostrarono i Cardinali, avuta tal notizia, offesi per tal novità, e ch'era volergli deludere e rompere con ciò ogni trattato. I Legati del Principe rispondevano, che ciò non era violar i trattati, perchè Manfredi, ciò che avea fatto, avealo fatto come Conte di Andria, non già come Balio; non avendo fatto altro, che reintegrare al suo Stato quella Terra, la quale, come narra l'Anonimo, erat de speciali jure ipsius Principis, e che ciò non dovea dispiacere al Pontefice.

[44]

Ma ancorchè i Cardinali sotto questo pretesto mostrassero le loro doglianze, non era però per altro la loro dispiacenza, se non perchè vedendo approssimarsi tanto Manfredi col suo esercito, temevano che finalmente non s'incamminasse verso Napoli: ed in fatti erano entrati perciò in tanta costernazione, che il Pontefice con tutta la sua Corte pensavano imbarcarsi, ed uscire da quella città; per la qual cosa avvertirono gli Ambasciadori del Principe, a dovergli fare intendere, che se veramente egli voleva la pace colla Chiesa, partisse col suo esercito dalla Guardia Lombarda, e ritornasse in Puglia.

Gli Ambasciadori, accortisi del lor timore, gli promisero di voler scrivere a Manfredi, che ritornasse in Puglia, come fecero; ma nell'istesso tempo in secreto gli significarono, che se egli s'incamminava verso Napoli, per la paura entrata nelle genti del Papa, con facilità l'avrebbe disfatte, e si sarebbe impadronito di Terra di Lavoro. Manfredi avuta tal notizia, era disposto, ancorchè impedito dalle tante nevi cadute di passare in Terra di Lavoro: ma lo ritenne l'avviso importuno in quell'istante sopraggiuntogli d'una sollevazione scoverta in Terra d'Otranto di coloro di Brindisi, i quali essendosi sollevati, aveano sorpresa Nardò, e fatta molta strage di que' Cittadini e di soldati, ch'erano comandati da Manfredi Lancia, che il Principe suo consanguineo avea creato Capitano in Terra d'Otranto; laonde convenne a Manfredi rivocar il suo proponimento, e volle incamminarsi verso Brindisi, come fece, lasciando la Guardia, e venne con ciò a soddisfare alla volontà del Pontefice.

I Cardinali, veduto lui allontanato, ed implicato a questa nuova impresa in Terra d'Otranto, si raffreddarono [45] per la pace, nè per ciò i Legati di Manfredi poterono conchiuder niente; anzi il Papa creò allora un'altro Legato della Sede Appostolica per lo Regno, che fu Ottaviano di Santa Maria in Via Lata, Diacono Cardinale, il quale appena fu fatto, che subito cominciò ad unire gente, per formar un competente esercito da opporsi a Manfredi: di che avvedutisi i suoi Legati, tosto partirono da Napoli, e andarono a ritrovar il Principe, il quale già era per incamminarsi verso Brindisi, e gli esposero ciò che il Papa per mezzo del nuovo Legato intendeva di fare, e di essersi rotto ogni trattato.

Manfredi, perciò non intimorito, volle proseguire l'impresa; e cinse d'assedio Brindisi capo della ribellione, alla qual città eransi unite molte altre di Terra d'Otranto come Oria, Otranto, Lecce e Mesagna, e devastando il terreno d'intorno, abbattè e demolì Mesagna, fece ritornar Lecce sotto la sua ubbidienza, ed all'assedio d'Oria tutto si rivolse.

Or mentre questo Principe era tutto inteso a sedare queste rivolte, altre nuove revoluzioni lo chiamarono in altre più rimote parti, in Sicilia ed in Calabria.

Era a questi tempi il governo di queste Regioni commesso ad un solo Moderatore, il qual era, come si disse, Pietro Ruffo di Calabria Conte di Catanzaro. Questi essendo di fortuna assai povera, fu a' tempi dell'Imperador Federico ammesso nella sua Corte[50]; indi tratto tratto crescendo nella grazia di Federico, fu fatto suo intimo Consigliero, e finalmente Maresciallo [46] del Regno di Sicilia. Morto Federico, fu da Manfredi dato per Balio ad Errico, perchè governasse la Calabria e la Sicilia in suo nome. Fu da poi da Corrado fatto Conte di Catanzaro, e confermato nel governo di quelle province; ma morto Corrado, mal sofferendo il Baliato di Manfredi, diede di se gravi sospetti d'essersi confederato col Pontefice Innocenzio IV a' danni del Re Corradino; e mostrò sempre avversione con Manfredi, ed ora più che mai, che lo vedeva potente in Puglia, gli avea sconvolta la Sicilia non meno che la Calabria per mezzo di Giordano Ruffo suo nipote. Questi essendosi con molta gente afforzato in Cosenza, teneva sotto la sua divozione tutta la provincia di Val di Crati, e Terra Jordana, in guisa che il nome del Principe Manfredi, non solo non era temuto, ma avuto in niun conto; anzi erasi scoverto un trattato, che passava con molta secretezza tra lui ed il Pontefice Alessandro, di darsi la Calabria in mano della Chiesa, e già andavano, e ritornavano messi per compire il trattato[51].

Manfredi avvisato di queste insidie da alcuni Cosentini, e da Gervasio di Martina, tosto mandò sue truppe in Calabria, e ne fece Capitano Corrado Truich, al quale insieme col suddetto Gervasio impose, che guardasse quella provincia. Furono da questi valorosi guerrieri dopo varj successi, descritti diffusamente dall'Anonimo, finalmente poste quelle province sotto l'ubbidienza del Re Corrado; ed avendo l'esercito di Manfredi soggiogata quasi tutta la Calabria, fu anche espugnata Messina; e Reggio tosto si pose sotto l'ubbidienza [47] del Principe, il quale intanto mentre per suoi Ministri guerreggiava in Calabria e in Sicilia, non tralasciò l'assedio d'Oria, e di ridurre le città di Terra d'Otranto ribellanti alla sua divozione.

Ma mentre Manfredi era intento all'assedio d'Oria, e teneva le sue forze divise in varie parti di Calabria e di Sicilia, Ottaviano Legato della Sede Appostolica avea già ragunato un grand'esercito per invadere la Puglia; ed era il numero delle truppe, che lo componevano, sì grande, che obbligarono Manfredi abbandonare quell'assedio, e portarsi in Melfi, per resistere a quel torrente, che veniva ad inondarlo. Unì per tanto il Principe, come potè meglio, i suoi Tedeschi e Saraceni: ed ancorchè il suo esercito di numero cedesse a quello del Legato; nulladimeno per lo valore de' suoi soldati, con intrepidezza mirabile se gli fece incontro, invitandolo a battaglia. Ma l'esercito papale, alla cui testa era il Legato, non volle mai accettar l'invito, e sol fronteggiava quello del Principe, non venendosi per più tempo a niun fatto d'arme.

Intanto sotto la condotta dell'Arciprete di Padova, che il Legato avea fatto suo Vicario, erasi ragunato un altro esercito per l'impresa di Calabria; poichè Pietro Ruffo scacciato da Messina, e fuggitivo da Calabria era ricorso al Pontefice Alessandro, animandolo all'impresa di Calabria. S'aggiunsero ancora gli acuti stimoli di Bartolommeo Pignatelli, creato allora dal Papa Arcivescovo di Cosenza, il quale per l'odio implacabile, che teneva con Manfredi, fu dal Pontefice Alessandro riputato istromento abilissimo per poterlo impiegare insieme con Pietro Ruffo a quella impresa. Accoppiossi ancora a costoro Bertoldo Marchese di Honebruch, al quale Alessandro, per maggiormente [48] adescarlo, avea conceduta l'investitura del Contado di Catanzaro, tolto da Manfredi a Pietro Ruffo[52].

Or mentre questi erano per incamminarsi in Calabria, fu dal Legato richiamato indietro l'Arciprete, per dover colle sue truppe accrescere l'esercito, che fronteggiava con quello di Manfredi; e s'avviarono l'Arcivescovo di Cosenza, e Pietro Ruffo in Cosenza, ove giunti, avendo prima sparse molte finte novelle, per atterrire que' Popoli, finalmente gli richiesero, che si rendessero al Papa. Ma stando alla difesa di que' confini Gervasio di Martina, fece loro valida resistenza; e poichè, per la mancanza delle genti dell'Arciprete, l'esercito dell'Arcivescovo era molto estenuato, questo Prelato per accrescere il numero, tenendone facoltà dal Papa, cominciò a crocesignare quanti Calabresi potè avere per que' contorni, togliendogli dalla zappa, dall'aratro e dal remo, i quali correvano in folla a farsi crocesignare; poichè l'Arcivescovo avea pubblicata la Crociata contro Manfredi, con remissione di tutti i loro peccati, e indulgenze così plenarie, come se pigliassero la Croce contro Infedeli per discacciargli da Terra Santa, e dal Sepolcro di Cristo[53]. Si crocesignarono perciò da duemila Calabresi, che uniti colle genti dell'Arcivescovo, ancorchè mal in arnese d'armi e cavalli, nulladimanco come se andassero a prender il martirio per la Fede, mostrarono intrepidezza tale che stimolavano l'Arcivescovo a dover in tutti i modi uscire e combattere l'esercito contrario. Ma Gervasio di Martina disprezzando le loro forze, dopo varie vicende descritte minutamente dall'Anonimo, alla perfine gli pose in fuga, gli dissipò [49] tutti, e costrinse l'Arcivescovo e Pietro Ruffo a scappar via, il quale ricovratosi in Lipari, tornò poi in Terra di Lavoro nella Corte del Papa. Questi avvenimenti stabilirono le Calabrie saldamente nella fede del Principe Manfredi, e tutte pacate sotto la sua ubbidienza tornarono.

Intanto questo Principe campeggiava col suo esercito in Puglia presso Guardia Lombarda a fronte dell'esercito del Legato, il quale non volendo venir mai a battaglia, stavasi a vista di quello di Manfredi osservando l'uno gli andamenti, ed i moti dell'altro.

Ma mentre questi eserciti erano in cotal stato, ecco che giunse in Puglia a Manfredi un Maresciallo del Duca di Baviera zio del fanciullo Re Corrado mandato dalla Regina Elisabetta madre del Re, e dal Duca istesso, per trattare con Manfredi, e colla Corte romana di questi interessi, ch'erano proprii di quel Principe[54].

Subito che il Legato ed il Marchese Bertoldo seppero l'arrivo del Maresciallo, e la cagione per la quale era stato inviato, mandarono al Principe Manfredi a cercargli una tregua e sospension d'arme, affine di potersi trattar la pace tra il Papa Alessandro ed il Re Corrado per mezzo del Maresciallo; Manfredi glie la accordò; ed essendosi per molti Nobili e Baroni dell'una parte e l'altra giurata la tregua per insino che durasse il trattato, e per cinque dì da poi, nel caso niente si conchiudesse: il Legato, niente rispondendo circa la dilazione di cinque giorni, diede di se sospetto, non volesse ingannarlo, siccome l'evento dimostrò; poichè essendosi Manfredi (fermata che fu la [50] tregua) allontanato col suo esercito da quel luogo, e scorrendo per le marine di Bari, il Legato, contro i patti della tregua, entrò col suo esercito in Capitanata, e sorprese Foggia; pose in costernazione tutte le altre città di questa provincia; e la città di S. Angelo posta nel sopracciglio del Monte Gargano, all'arrivo dell'esercito papale in Foggia, si ribellò contro il Principe. Manfredi, ch'era a Trani, pien di stupore per la violata fede del Legato[55], non credè in prima la sorpresa di Foggia; ma accertato da poi di sì grave attentato, tutto pien d'ira velocemente passò col suo esercito a Barletta, ed avendola mantenuta in fede, ritornò in Lucera; indi passò al Gargano, ove presa per assalto quella città ribellante, la ridusse alla sua ubbidienza; e ristorato il suo esercito, si appressa a Foggia, ove assedia l'esercito papale, ch'erasi ritirato in quella città. Intanto il Marchese Bertoldo era accorso colle sue truppe in ajuto del Legato: Manfredi lo prevenne, e datagli una fiera rotta, lo pone in fuga, e prende tutto il suo bagaglio.

Il Legato si chiude in Foggia col suo esercito; e Manfredi cinge la città di stretto assedio, e vi cagiona una penuria grandissima di viveri, tanto che si dava un cavallo per una gallina, e sopra questi mali vi s'aggiunse altro peggiore d'una infermità così grave, che ne perivano molti del suo esercito, e l'istesso Legato cadde anch'egli infermo[56].

Vedutosi perciò in quest'angustie, conoscendo, che [51] non poteva più resistere alla fortuna e valore del Principe, per non veder perire tutte le sue genti angustiate con quel stretto assedio, mandò suoi Messi a Manfredi pregandolo della pace. Non fu il Principe renitente ad abbracciarla; onde dopo varj trattati infra di loro avuti, fu la pace conchiusa con queste condizioni[57].

Che il Principe tenesse il Regno per se e per parte del Re Corrado suo nipote, eccetto Terra di Lavoro: che questa provincia dovesse tenersi dalla Chiesa: che se Papa Alessandro non volesse forse accettar questa concordia e transazione, fosse lecito al Principe ricuperare tutta quella Terra, ch'appartiene al suo dominio.

Fermata che fu dal Principe e dal Legato questa pace, fu da costui Manfredi instantemente pregato, che volesse ad imitazione del nostro buon Redentore perdonare a que' gentiluomini del Regno, che nel tempo dell'Imperador Federico suo padre erano stati esiliati dal Regno, e che allora erano col Legato. Manfredi, ancorchè questo non fosse compreso ne' capitoli della pace, nulladimanco usando della sua clemenza concedè a tutti il perdono, e non solamente lor diede la sua grazia, ma restituì loro tutte le Terre, che in pena della fellonia loro erano state giustamente tolte, con che però nell'avvenire colla loro fedeltà ed onore cancellassero le passate offese.

Nè volle, che da questa grazia fosse eccettuato il Marchese Bertoldo, co' suoi fratelli, ma con ampio perdono gli ammise nuovamente nella sua familiarità, [52] permettendo, che potessero ritenere i loro Stati, dei quali per le loro colpe avrebbono meritato esserne perpetuamente privi.

Conchiusa in cotal maniera questa pace, l'esercito papale col Legato partì da Foggia, ed andò in Terra di Lavoro; e Manfredi avendo perciò tolto l'assedio da quella città, andò a divertirsi alla caccia in quelle vicine pianure; ma nell'istesso tempo del riposo, non trascurò mandare suoi Ambasciadori al Papa a chiedergli l'accettazione di quanto erasi col Legato concordato[58]; altrimente rifiutando l'accordo, in esecuzion di quello avrebbe proccurato ridurre sotto la sua ubbidienza Terra di Lavoro.

Ma ecco come tosto svanirono questi concordati; poichè giunti gli Ambasciadori del Principe in Napoli, trovarono nella Corte del Papa il Conte Guaserbuch, il quale scoprì loro una congiura, che coll'intelligenza di quella Corte, il Marchese Bertoldo, e suoi fratelli con alcuni Nobili del Regno tramavano contro la persona di Manfredi, al quale bisognava tosto avvisarla, perchè se ne guardasse. S'avvidero ancora, che il Papa Alessandro a tutto altro era inchinato, che a confermar l'accordo avuto col suo Legato; onde tosto dell'uno e dell'altro ne avvertirono Manfredi.

Il Principe sorpreso da tal notizia, ricercati altri indizj di tal congiura, s'avvide, che era vero ciò che gli aveano avvisato i suoi Ambasciadori; onde fece tosto imprigionare il Marchese e' suoi fratelli. Ed essendo ritornati dalla Corte del Papa gli Ambasciadori senza conchiuder niente, stante la ripugnanza d'Alessandro ad accettare la preceduta concordia: per riparare [53] a' mali gravissimi, che se gli minacciavano, intimò una general Corte a tutti i Conti e Baroni del Regno da tenersi in Barletta in febbrajo nel dì della Purificazione del seguente anno 1256. Ed intanto perchè dal suo canto niente da far rimanesse, per togliere ogni scusa, tornò a mandare nuovi Ambasciadori al Pontefice a ricercarlo di nuovo, se volesse confermar la concordia, ma Alessandro espressamente negando di fermarla, ne rimandò i Legati.

Allora fu, che Manfredi nel stabilito tempo convocò in Barletta il general Parlamento, nel quale in presenza di tutti i Conti e Baroni del Regno furono varj, e gravi affari risoluti.

Fu privato per sentenza de' medesimi Pietro di Calabria, tanto dell'onore del Contado di Catanzaro, quanto dell'Ufficio della Marescialleria regia del Regno di Sicilia, per la sua fellonìa.

Fu creato Conte del Principato di Salerno Gualvano Lancia zio del Principe, al quale fu anche conceduto l'Ufficio di Gran Maresciallo del Regno di Sicilia, di cui era stato Pietro spogliato.

Nell'istesso Parlamento, il fratello di Gualvano zio parimente di Manfredi fu fatto Conte di Squillaci; ed ad Errico da Spernaria fu conceduto il Contado di Marsico[59].

Fu parimente in questa general Corte agitata e discussa la causa del Marchese Bertoldo e de' suoi fratelli, i quali convinti della congiura macchinata contro il Principe, con concorde voto de' Conti e de' Baroni del Regno, furono con lor sentenza condennati a morte. Ma Manfredi volendo usar loro clemenza, [54] commutò la pena in carcere perpetua, ove miseramente finirono la loro vita.

Disbrigato che fu il Principe Manfredi da questa Corte, ove diede molti provedimenti politici per la quiete del Regno, fu poi tutto rivolto all'impresa di Terra di Lavoro, ed a spegnere affatto dalla Calabria, e più dalla Sicilia la fazione del Papa, il quale in quell'isola ancor vi teneva Frate Rufino dell'Ordine de' Minori per Legato della Sede Appostolica, il quale poneva in isconvolgimenti continui quell'isola avendosi resi molti Siciliani benevoli, i quali scossa la fede regia, ubbidivano a lui, come a Signore dell'isola in nome della Chiesa romana. A riparar questi mali creò Manfredi per suo general Vicario di Calabria e di Sicilia Federico Lanzia suo zio, il quale con mirabile destrezza e gran valore ripose le città di Calabria fluttuanti interamente in pace e quiete, e sotto l'ubbidienza del Re, e dando animo all'esercito regio, ch'era in Palermo, fece sì, che il Legato Rufino, e' suoi seguaci fossero fatti tutti prigioni, e fosse restituita Palermo, e tutti que' luoghi all'ubbidienza del Re; e passato poi in Messina ridusse parimente quella città alla fede regia.

Intanto il Principe Manfredi avendo intimata la guerra al Papa, che allontanatosi dal Regno, avea prima in Anagni, e poi in Viterbo trasferita la sua Corte, s'accinse all'impresa di Terra di Lavoro, per restituirla sotto il suo dominio. Spiegò li suoi stendardi, e con potente esercito entrò ne' confini di Terra di Lavoro, e verso Napoli incamminossi. Fu veramente cosa maravigliosa, come notò il Costanzo[60], che la città di Napoli, la quale pochi anni prima avea tanto [55] ostinatamente chiuse le porte e negata l'ubbidienza a Corrado, ora, mandasse fuori messi a Manfredi, mentre era ancor lontano, a spontaneamente offerirsegli[61]. Nè si crede che ne fosse stata altra cosa cagione, che le poche forze e vigore del Papa, e la fresca memoria, che sotto la speranza di Papa Innocenzio IV erano stati saccheggiati, e miseramente disfatti. Nè vi è dubbio, che vi cooperarono molto le promesse di Manfredi, il quale mandò a dire a molti gentiluomini suoi conoscenti, quanto gli uomini valorosi poteano sperare maggior esaltazione da lui, che dal governo de' Preti; il che si potea vedere per esempio di molti di Puglia e di Calabria e d'altre province, ch'egli con somma liberalità e munificenza avea esaltati con ordine di cavalleria, e con altre dignità e preminenze. In fatti i Napoletani riceverono con gran festa e giubilo Manfredi nella lor città; il quale, perchè l'effetto fosse conforme alle promesse, entrato che vi fu, fece tutto il contrario di quel, che avea fatto Corrado, rinovando a sue spese gli edificj pubblici, assecurando tutti coloro, che a tempo di Corrado ed a tempo suo s'erano mostrati inimici della Casa di Svevia, ed onorando molti Nobili, con pigliargli, secondo l'età e la virtù, o per Consiglieri, o per Cortegiani appresso la sua persona[62].

L'esempio di Napoli mosse anche i Capuani di rendergli parimente la loro città, ed il simile fecero tutte l'altre città convicine. Solo Aversa per la fazione, che v'aveano le genti del Papa, fece alquanto resistenza; ma finalmente bisognò, che cedesse alla forza di Manfredi, [56] ed in breve tutta la provincia di Terra di Lavoro si sottopose alla sua ubbidienza. Ridotta questa provincia, passò in Capitanata, ed indi in Brindisi per reprimere la sedizione, che l'Arcivescovo di quella città aveagli fomentata: la ridusse in sua fede, ed imprigionò l'Arcivescovo. Ariano e l'Aquila, che furono l'ultime e le più ostinate a mantenersi in ribellione, furono da lui arse e distrutte.

Così avendo questo Principe restituito con tanto valore al suo dominio tutto il Regno di Puglia, si dispose di passare in Sicilia per maggiormente stabilirla nella fede regia, e purgare quell'isola d'ogni vestigio, che mai vi rimanesse della fazion contraria. Navigò lo stretto, ed in Messina giunto, fecevi dimora per pochi giorni, ed indi passò a Palermo regia Sede degli antichi Re di Sicilia.

Intanto il Pontefice Alessandro, non potendo per se solo rintuzzare le forze di Manfredi, rinovò in quest'anno 1257 le pratiche in Inghilterra, per ridurre quel Re ad accettar l'investitura del Regno offertagli per Edmondo suo figliuolo; e narra Matteo Paris, che Errico vi condescese; ma perchè le forze non erano pari all'impresa, il Re desiderava, che gl'Inglesi gli dessero validi ajuti: per la qual cosa fece egli unire un Parlamento, e fecevi in quello comparire Edmondo vestito alla Pugliese, per maggiormente spingergli a soccorrerlo, acciocchè il Regno offertogli, per cagion loro non si perdesse[63]; ma gl'Inglesi niente conchiusero, e come diremo, nell'anno 1259 il trattato rimase affatto estinto; e Manfredi per vano rumore, essere Corradino morto, fattosi incoronare a Palermo, si stabilì [57] nel Trono di Sicilia: ciò che bisogna rapportare nel seguente libro di quest'istoria.

(Si leggono presso Lunig[64] due Brevi d'Alessandro IV uno scritto ad Errico Re d'Inghilterra padre d'Edmondo, ed un altro al Vescovo di Erford, perchè in vigor dell'investitura si sollecitassero per questa spedizione, e mandassero gente e 'l denaro promesso per discacciar Manfredi del Regno).

FINE DEL LIBRO DECIMOTTAVO.

[58]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO DECIMONONO

Mentre Manfredi era in Palermo, giunse quivi novella, che il Re Corradino fosse morto in Alemagna; ma in questo passo d'istoria gli Scrittori, secondo le fazioni contrarie, non convengono. I Guelfi, come Giovanni Villani Fiorentino, e gli altri Italiani di quel partito narrano, che Manfredi per eseguire il suo scellerato pensiero, che lungo tempo sotto contrario manto nascondeva d'usurpar il Regno al Re suo nipote, avendo tentato invano di farlo avvelenare, avesse ordinato alcuni falsi messi, che gli portassero nuova di Germania, prima dell'infermità, e poi della morte di Corradino, e che questo rumore sparso in Palermo, ed in tutte le città del Regno, fosse stato tutto per sua astuzia ed inganno; e che perciò, per maggiormente farlo credere, con dissimulazione grandissima di dolore inviò a' Baroni e Sindici delle terre dell'uno e l'altro Regno cotal avviso, pubblicando per vera la morte di Corradino, e che avendo in Palermo fatto celebrare con pompa reale, e con dimostrazione di [59] grandissimo lutto i funerali per la finta morte di quel Principe, avesse egli in presenza di tutti i Conti, Baroni e Prelati ivi concorsi, fatta una gravissima orazione, colla quale connumerando i beneficj de' Principi Normanni, e degli Imperadori Svevi suoi progenitori verso l'uno e l'altro Regno, e l'opere fatte da lui a tempo di Corradino, e nell'infanzia di Corradino suo figliuolo, pregò tutti, che poichè la fortuna in sì poco spazio, mostrandosi nemica al sangue loro, avea mandato sotterra sì grande Imperadore, com'era stato Federico suo padre, con tanta numerosa progenie, non volessero fraudar lui di quella successione, che la volontà di Dio, e quella di suo padre dichiarata nel di lui testamento, l'avea destinata, avendolo lasciato vivo per sua misericordia, dopo la morte di tanti altri Regali. Ed aggiungendo poi la poca speranza, o il poco timore, che s'avea da tenere de' Pontefici romani, per essere il di lor governo breve e mutabile, nel quale la morte d'uno guasta quanto è fatto in molti anni di vita, e lascia al successore necessità di cominciare ogni cosa da capo: vogliono, che queste cose dette da lui con somma grazia e con mirabil arte, fossero state di tanta efficacia e vigore, che fu immantenente da tutti salutato per loro Re e Signore.

Dall'altra parte l'Anonimo, ancorchè Scrittor contemporaneo, ma tutto Ghibellino, e coloro che lo seguirono, narrano, che niente Manfredi usasse di simil inganni ed astuzie; ma che sparsosi nel Regno cotal rumore della morte di Corradino, quasi tutti i Conti, e gli altri Magnati del Regno, i Prelati ancora delle Chiese s'avviarono immantenente in Sicilia a trovar Manfredi, siccome fecero tutte le altre città dell'uno e l'altro Regno, con mandar i loro Sindici, e messi [60] in Palermo: dove insieme uniti, di concorde volere tutti lo richiesero, che avendo egli sinora con tanta prudenza governato il Regno per parte sua, e di Corradino suo nipote, essendo questi mancato, dovesse egli come vero erede di quello, prenderne il governo, e coronarsi Re di Sicilia; che alle grida e a' desiderii di tutti, essendo concorso i Conti, i Baroni e tutti i Prelati del Regno l'avessero gridato Re, e colle solite cerimonie l'incoronassero nel Duomo di Palermo agli 11 del mese di agosto di quest'anno 1258[65].

Che che ne sia, se Manfredi colle sue arti s'avesse ciò proccurato, come è più verisimile a chiunque riguarda l'ambizione ch'ebbe di dominare, o fosse caso o volontà de' sudditi, fu egli con solenne cerimonia, secondo il costume de' maggiori concorrendovi tutti i Conti, Baroni, e gli altri Magnati del Regno, con molti Prelati, gridato e coronato Re, assistendo a questa sua incoronazione infiniti Vescovi e Prelati; e Rinaldo Vescovo d'Agrigento, che celebrò la messa, l'unse del sacro olio, assistendovi l'Arcivescovo di Sorrento, e l'Abate Cassinense, e poscia dagli Arcivescovi di Salerno, di Taranto e di Monreale gli fu posta, nel Trono assiso, la corona Reale. Alcuni sognarono, che Manfredi si fosse fatto anche incoronare Re di Puglia in Bari colla corona di ferro, siccome dissero di Errico e di Costanza; ma ancorchè il Beatillo nella vita di S. Niccolò di Bari, con autorità d'alquanti moderni Scrittori s'ingegni provarlo, è ciò tutta favola, non essendovi niuno Scrittore antico o contemporaneo, che lo rapporti.

Tosto che il Re Manfredi fu assunto al solio del [61] Regno, per obbligarsi maggiormente i popoli, ed acquistarsi nome di benefico, e di liberale, nella festa della sua coronazione, a tutti i Sindici delle città e terre, che ivi si trovarono, fece splendidissimi doni, diede uffici e molti promosse a gradi ed onori di cavalleria. Indi di Palermo ritornò tosto in Puglia con alcuni Saraceni, per tener in freno i Tedeschi; ma scorgendo esser tutte le province pacate, e liete del nuovo suo dominio, e che erano in placidissima pace, celebrò un general Parlamento a Barletta, ove onorò molti dell'ordine di cavalleria, e molt'altri investì di vari Contadi, dando loro per lo stendardo l'investitura. Dopo questo intimò un'altra general Corte in Foggia, ove avendo convocati i Baroni, e' gentiluomini, ornò molti altri del cingolo della milizia, e profusamente concedè ad altri onori, ufficj e preminenze; e con magnifici giuochi, feste ed illuminazioni tenne i popoli tutti allegri e festanti, e pieni di gioja.

Il Pontefice Alessandro di mal animo vedendo i progressi di Manfredi, ed il poco conto che s'avea di lui, pensando che per reprimere le costui forze non erano sufficienti quelle della Chiesa, avea già sin dal passat'anno 1257 ripreso il trattato con Errico Re di Inghilterra, invitando Edmondo suo figliuolo alla conquista del Regno: ed in effetto, come si disse, avea mandati suoi Legati in Inghilterra a portargli l'investitura, per la quale investiva del Regno il Re Errico in nome d'Edmondo suo figliuolo, che allora era di minor età. E già Errico in nome di suo figliuolo diede il giuramento di fedeltà al Legato; e si erano stabiliti i patti ed il censo, che dovea pagarsi alla Sede Appostolica, ed avea promesso di presto venire con potente armata in Regno per discacciarne Manfredi. Ma [62] o che questo Principe, meglio pensando, non volesse intrigarsi in questa nuova guerra, o che il censo stabilito ne' patti dell'investitura fosse veramente grave ed esorbitante, differiva l'espedizione, e sollecitato da Alessandro, rispondeva, che bisognava moderar il censo, ch'era esorbitante, prima d'ogni altra cosa[66]. Il Papa impaziente designò tosto di mandare in Inghilterra Arlotto Sottodiacono della Sede Appostolica, ed il suo Cappellano per trattar di questa moderazione; ma non fu ciò di mestieri, perchè nell'istesso tempo dal Re Errico furono spediti suoi Ambasciadori al Papa l'Arcivescovo di Tarantasia, i Vescovi di Bottun, e Roffense, e Maestro Nicolò di Francia suo Cappellano Regio per trattare di quest'istesso affare; ma essendosi costoro affaticati in vano, per li nuovi torbidi insorti in Inghilterra, finalmente nel seguente anno 1259 svanì ogni trattato; nè da poi si pensò più in Inghilterra, ma in Francia furono rivolti i pensieri d'Alessandro non meno, che del suo successore Urbano.

Mentre per queste cagioni si differiva tal espedizione, Manfredi intanto avea già discacciate le genti del Papa da Puglia, da Terra di Lavoro e da Sicilia: avea presi e puniti i ribelli, ed erasi già, come si è detto, fatto incoronare Re in Palermo. Per la qual cosa Papa Alessandro adirato più che mai, non volendo trascurare via di vendicarsi, e vedendo che le armi temporali niente giovavano, fu tutto rivolto alle spirituali, onde alle scomuniche, ed interdetti fece ricorso.

Prefigge in prima certo termine al Re Manfredi, perchè comparisse avanti di lui e dassegli soddisfazione, [63] ed ammenda di tutto ciò, che contro la Sede Appostolica avea attentato, altramente l'avrebbe deposto, scomunicato e privato di tutti gli onori; ma non comparendo Manfredi, poco curante di queste minaccie, egli lo scomunica, lo dichiara ribelle, inimico della romana Chiesa, e sacrilego occupatore e predone delle sue ragioni, e che avea stretta confederazione co' Saraceni, de quali s'era fatto Capo. Lo priva del Principato di Taranto e di tutti i feudi, ragioni, onori e preminenze. Lo dichiara reo di esecrandi delitti, di aver preso, ed in oscuro carcere posto Fra Ruffino suo Cappellano, e suo Legato in Sicilia e Calabria; d'aver stese le sacrileghe mani sopra i beni delle Chiese del Regno di Sicilia; d'aver preso, e con dure catene tenuto in istrette prigioni l'Arcivescovo di Brindisi, con ispogliarlo di tutte le sue robe; e d'avere con esecrando ed orribile attentato aspirato al soglio regale di Sicilia, con aver occupato quel Regno devoluto alla Sede Appostolica, e sacrilegamente fattosene incoronare Re, senza sua permissione e consenso. Dichiarava perciò col voto, e consiglio de' suoi Cardinali Manfredi scomunicato, nulla ed irrìta la sua incoronazione, e tutti gli atti di unzione, ed ogni altro attinente a quella.

Interdisse tutte le città, luoghi e castelli, che ricevessero Manfredi, e lo avessero per Re. Proibì a tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati e qualunque altra persona ecclesiastica di celebrare i divini uffici presente Manfredi, e che non ricevessero da lui beneficii ecclesiastici, e niuna amministrazione di Chiesa o monasteri; e che coloro, che si trovassero avergli ricevuti, fra due mesi dovessero onninamente resignargli.

Oltre ciò, asserendo egli, che mentr'era in Napoli [64] rigorosamente avea ordinato a tutti i Prelati, ed a qualsivoglia persona ecclesiastica, che non s'accostassero a Manfredi, nè gli mandassero ambasciadori, nè ricevessero messi da lui inviati, nè gli prestassero ajuto, o consiglio; che ciò non ostante, contro questo suo divieto, quasi tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati ed altri Prelati del Regno di Sicilia s'erano portati a Palermo, ed erano intervenuti alla di lui incoronazione: perciò avea fatti citar generalmente tutti coloro, che v'erano intervenuti, e nominatamente alcuni, che dovessero comparire personalmente fra certo termine avanti di lui; ma perchè niuno era comparso, niente curando della intimazione fattagli; perciò scomunicava Rinaldo Vescovo d'Agrigento, e lo deponeva dalla vescovil dignità, per aver colle sacrileghe sue mani unto in Re quel Principe, ed avea nel giorno dell'incoronazione solennemente celebrata la messa. Scomunicava ancora l'Arcivescovo di Sorrento, e lo deponeva della sua Chiesa come anche l'Abate Cassinense, privandolo del governo di quel monasterio per aver assistito a detta unzione e coronazione; comandando a' Capitoli delle Chiese d'Agrigento e di Sorrento, al Convento del monasterio di Cassino, ed a tutti i vassalli delle Chiese e monasterio suddetti che non li ubbidissero nè li riconoscessero per tali; nè più gli contribuissero l'entrate e loro ragioni. Agli Arcivescovi di Salerno, di Taranto e di Monreale, ch'erano parimente intervenuti alla coronazione, li quali all'indegno capo di Manfredi avean posta la real corona, e l'aveano posto nel regal Trono di Palermo, citò con termine perentorio e prefisso, che dovessero personalmente presentarsi avanti di lui nella prossima festività dell'ottava de' SS. Pietro e Paolo. La carta di queste [65] terribili censure che Alessandro scagliò contro Manfredi e suoi partigiani, ove con formole orrende si lanciano tanti fulmini ed interdetti, vien rapportata dal Tutino e si legge nel suo trattato de' Contestabili del Regno[67].

Ma di questi fulmini non si facea alcun conto, erano riputati vani e senza ragionevol cagione scagliati; onde non si mossero punto nè Manfredi nè le città del Regno nè i Prelati, nè que' Popoli ad obbedirgli; anzi Manfredi godendo il frutto delle tante sue vigilie e sudori, sovente divertivasi in giuochi e nelle caccie rigorosamente comandando che si proseguissero per tutte le Chiese del Regno, come prima i divini uffici, nel che non incontrò veruna repugnanza ne' Prelati, ed in tutte l'altre persone ecclesiastiche. E resosi da per tutto potente e glorioso, già stendeva le sue forze fuori dei confini del Regno, e nell'altre parti d'Italia avea reso celebre e famoso il suo nome, tanto che per lui la fazione Ghibellina cominciò a sollevarsi sopra la Guelfa; ed in Lombardia ed in Fiorenza avea fatti mirabili progressi.

E perchè vedeva, che l'opulenza dell'uno e l'altro Regno, ancorchè fosse grande, non avrebbe bastato a mantenere grandi eserciti come bisognava, che e' tenesse per l'inimicizia de' Pontefici romani, prese partito di mandare parte dell'esercito in Toscana e parte in Lombardia in sussidio de' Ghibellini; onde venia insieme ad evitar la spesa, ed a divertire il pensiero del Papa dal molestarlo, al quale era più necessario attendere alla conservazione de' Guelfi, del patrimonio di S. Pietro, [66] di Romagna e della Marca[68]. Ed egli rimase nel Regno, dove trattanto viveva quel tempo con molta felicità e splendidezza: dimorando nelle città marittime di Puglia e più d'ogni altra in Barletta.

Or mentr'egli dimorava in questa città giunsero quivi gli Ambasciadori della Regina Elisabetta, secondo l'Anonimo, ovvero di Margherita (secondo per una carta che rapporta, crede il Summonte) madre del Re Corradino e del Duca di Baviera, i quali esposero a Manfredi la loro ambasciata dicendogli, che Corradino era vivo, e che si doveano punire quelli che falsamente aveano pubblicata la sua morte; onde in nome della Regina e del Duca lo pregavano che volesse lasciare il Regno, che legittimamente era di Corradino. Manfredi ricevè gli Ambasciadori con grand'onore e stima; e come molto accorto e prudente avendo prevista l'ambasciata, prontamente loro rispose: ch'era già notorio e palese a tutti, che il Regno era perduto per Corradino, e che egli con tanti sudori e vigilie per viva forza avealo ricuperato dalle mani di due Pontefici: ch'essendo Corradino di poca età tornerebbe facilmente a perderlo; ed i Pontefici romani fieri inimici della casa Sveva con facilità glielo ritoglierebbero; oltre che le genti del Regno non avrebbero comportato, dovendosi egli valere de' Tedeschi, dei quali aveano orrore, che dominasse più in quello la nazion tedesca; che non bisognava ora che i popoli erano assuefatti al suo dominio, ed alle sue maniere placide ed all'Italiana, con dar loro nuovo Principe, mettersi in pericolo di nuove rivoluzioni; e perchè si scorgesse, che non per ambizion di regnare, ma per maggior utile del piccolo Re, egli non lasciava [67] il Regno, prometteva di conservarlo per lui e governarlo per lui, e mentr'egli vivea, e da poi lasciarlo a Corradino: che perciò avrebbe la Reina fatto assai prudentemente di mandarlo a lui ad allevare, acciocchè apprendesse i costumi italiani perch'egli l'avrebbe tenuto, non come nipote, ma come proprio suo figliuolo[69]. Gli Ambasciadori ricevuta tal risposta, chiesta licenza, si partirono riccamente presentati; e mandò al Duca di Baviera dieci corsieri bellissimi, ed al picciolo Corradino molte gioie.

Rimandati con queste risposte i Legati del Duca e della Regina, riputando questa infelice Principessa esser molto dura e difficil impresa poter colle sue forze ritoglier ora dalle mani di Manfredi il Regno, le fu forza dissimular il tutto, riserbando a tempo migliore di poter vedere il piccolo Re suo figliuolo restituito al Trono di Sicilia.

Intanto Manfredi stabilito ora più che mai nel Regno, avendo abbassate le forze del Pontefice, e dei Guelfi in Italia, s'era reso formidabile a tutta Italia, avea esteso oltre quella la sua fama e grido per tutte le altre Nazioni d'Europa per lo suo coraggio, munificenza e splendidezza, e per tutte le altre virtù, che adornavano la sua persona, veramente regie. Si vide perciò favorito e stimato da quasi tutti i Principi di Europa, co' quali egli trattava con estraordinaria magnificenza e splendore; ed accadde in questi tempi, ch'essendo venuto a Bari Baldovino Imperador di Costantinopoli, trovandosi egli in Barletta, andò subito cortesemente a riceverlo, e lo trattenne in splendidissime feste e diversi giuochi d'armi; e non perdonando [68] a spese, fece far superbi apparati e giostre continue, ove furono invitati i Signori più riguardevoli così dell'uno, come dell'altro reame.

Per la celebrità della fama, che aveasi con sì generosi modi acquistata, fu mosso il Re Giacomo d'Aragona a volersi imparentar con lui, sposando il suo primogenito Pietro d'Aragona alla sua figliuola Costanza, ch'egli avea generata di Beatrice figliuola di Amadeo Conte di Savoja sua prima moglie, presa in tempo, che ancor vivea l'Imperadore suo padre[70]; ed il Marchese di Monferrato si sposò un'altra sua figliuola.

Dispiacquero al Pontefice Alessandro queste parentele, e per impedire quella col Re d'Aragona ingiunse a Raimondo di Pennaforte Frate Domenicano, e celebre per la sua Compilazione delle Decretali, che s'adoperasse con ardore, ed efficacia appresso quel Re, di cui egli era Confessore, per frastornarla; ma tutti gl'impegni del Papa, e le insinuazioni di Fra Raimondo a nulla valsero; laonde vedutosi Alessandro fuor di speranza, non ebbe ardire per quel tempo, che sopravvisse, di mai più molestarlo; per la qual cosa Manfredi insino alla morte d'Alessandro, regnò con molta quiete e felicità, riordinando le cose del Regno; e nato per opre magnifiche, volle anco presso di noi lasciar di se perenne ed immortal memoria, con fondare alla falda del Gargano ne' lidi del mare Lina magnifica città, che estinse affatto l'antica Siponto, [69] e che dal suo insino ad ora ritiene il nome di Manfredonia, ancorchè Carlo d'Angiò occupato il Regno, ed i romani Pontefici per l'implacabil odio al nome di Manfredi, avessero fatto ogni studio, perchè non Manfredonia, ma Nuovo Siponto s'appellasse.

Il Pontefice Alessandro non potendo sostener di vantaggio i continui dispiaceri, che per le prosperità di Manfredi, e de' Ghibellini riceveva nell'animo, vinto finalmente da grave cordoglio, mentr'era colla sua Corte a Viterbo, gravemente infermossi, ed indi a poco uscì di vita in quest'anno 1260 secondo l'Anonimo, perchè il Sigonio, Inveges ed altri comunemente riportano la sua morte nell'anno seguente 1261.

I Cardinali nell'elezione del successore furono in grandissimi contrasti; e finalmente non potendo infra di loro convenire, dopo tre mesi elessero persona fuori del lor Collegio. Questi fu Giacomo Patriarca di Gerusalemme, che si trovava allora in Viterbo per promovere col Papa alcuni interessi della sua Chiesa. Egli era di nazione franzese, uomo di grande spirito, zelantissimo di promovere le pretensioni della romana Corte, ed in conseguenza fiero inimico di Manfredi, e de' suoi Ghibellini. Urbano IV nomossi; nome assai luttuoso, e memorando all'infelice Casa di Svevia.

[70]

CAPITOLO I. Spedizione d'Urbano IV contro Manfredi; ed inviti fatti in Francia per la conquista del Regno.

Il Re Manfredi intesa l'elezione d'Urbano oltremodo turbossene, e cominciò a temere non volesse ricorrere alle forze di Francia per turbar quella pace, ch'ora godeva il Regno. Nè furon vani i suoi sospetti, poichè il nuovo Pontefice, appena assunto al Ponteficato, adoperò nuovi mezzi perchè il Re Giacomo d'Aragona disfacesse il matrimonio già conchiuso da Pietro suo figliuolo con Costanza figliuola di Manfredi[71]; e per mostrare maggior coraggio del suo predecessore, volle sul bel principio ritrattar la causa di Manfredi; onde nel dì della Cena del Signore in presenza d'innumerabil concorso di popolo solennemente gli spedì una terribile citazione[72], e per renderla più strepitosa, la fece affiggere nelle porte delle Chiese, per la quale citava Manfredi di dover comparire avanti di lui per purgarsi e difendersi sopra molti altri gravi ed enormi delitti, e ricever da lui que' castighi e quelle pene, che la giustizia gli avrebbe persuaso d'imporgli.

I delitti ch'erano espressi in quella citazione rapportata dal Tutini[73], e sopra de' quali voleva prender ammenda, erano, che Manfredi per mano de' Saraceni avea fatto abbattere e ruinare sin da' fondamenti la città d'Ariano; che avea fatto vergognosamente uccidere [71] Tommaso d'Oria e Tommaso Salice; avea data crudel morte, e con tradimento a Pietro Ruffo di Calabria Conte di Catanzaro, e fatta crudel strage di molti fedeli della romana Chiesa.

Che in disprezzo dell'autorità Appostolica, e delle censure ecclesiastiche, ed in destruzione di quelle, faceva celebrare avanti di lui ne' luoghi interdetti i divini Ufficj, ciò che non era senza sospetto d'eretica pravità: e che citato perciò dal suo predecessore Alessandro, nè comparendo, era stato da colui scomunicato.

Che egli in obbrobrio della fede cattolica, preferiva a' Cristiani i Saraceni, valendosi de' loro riti, e conversando con essi assai famigliarmente; che avea ridotto il Regno di Sicilia ad uno stato ignominioso ed in dura servitù, per l'acerbe taglie ed imposizioni, colle quali gravava gli abitatori; che s'era anche imbrattato del sangue de' suoi congiunti; ed avea fatto proditoriamente trucidare Corrado Busario Nunzio e vassallo di Corradino; oltre di molti esecrandi eccessi, per li quali era dannato di notoria infamia.

Manfredi, ancorchè non personalmente citato, ma in quella maniera, per editto, udita la citazione, non volle mancare di mandar tosto suoi nunzj al Papa per difendersi di quanto se gl'imputava; ma ne furono tosto rimandati indietro senza conchiuder niente; ed approssimandosi il tempo prefisso alla citazione di dover comparire, tornò Manfredi a mandare altri suoi Messi; vi spedì il Giudice Attardo da Venosa, e Giovanni da Brindisi Notai suoi famigliari, i quali con premurose istanze dimandarono, ch'essendo stato Manfredi citato per cause ardue e gravi, non poteva commettere a niuno de' suoi Nunzj la sua difesa, ma che sarebbe egli personalmente venuto a presentarsi avanti [72] il Papa ed il Collegio de' Cardinali, purchè però se gli spedissero dal Pontefice lettere di assicuramento, affinchè dovendo passare per luoghi della Chiesa non ricevesse molestia ed ostilità. Il Papa gli concedè sì bene licenza di poter venire, ma ristrinse il numero di coloro, che doveano per sua custodia accompagnarlo, e che entrasse senz'armata; onde Manfredi temendo di qualche insidia incamminossi alla volta del Pontefice, ma per sua sicurezza portò seco competente numero di soldati e molti Cavalieri per sua compagnia. Urbano ciò reputando una gran temerità di Manfredi, sordo ed implacabile a quel, che per sua discolpa allegavano i suoi Ambasciadori, rotto ogni indugio, rinovò le censure contro Manfredi, e con celebrità grande non altrimente di quel che fece il suo predecessore di nuovo lo scomunica, lo dichiara tiranno, eretico ed inimico della Chiesa[74].

Allora Manfredi toltasi ogni lusinga di poter entrare in grazia d'Urbano, vedendolo risoluto ai suoi danni, e che non vi era altro rimedio, che reprimere la sua alterigia colla forza, mandò subito ad assoldare nuove compagnie di Saraceni, spedendole a' confini del Regno, perchè infestassero lo Stato della Chiesa in Campagna di Roma; ed altre truppe mandò nella Marca d'Ancona, ritirandosi egli in Puglia a provvedere a' bisogni d'una buona guerra, che già prevedea doversi fare con Urbano.

Queste mosse accrebbero in guisa lo sdegno e l'ira nell'animo del Papa, che non contento d'aver umiliati [73] i Svevi in Germania, cercò anche abbattergli in Italia; ed avendo scorto, che i ricorsi fatti da' suoi Predecessori in Inghilterra erano riusciti tutti vani, volle tentare se in Francia potessero avere miglior successo. Spedì pertanto ivi M. Alberto Notajo Appostolico, a trattare col Re Lodovico perchè accettasse l'investitura per alcuno de' tre minori suoi figliuoli, che erano Giovanni Conte di Nevers, Pietro Conte d'Alenzon, e Roberto Conte di Chiaramonte. Ma il Santo Re non accettò l'offerta, temendo (come rapporta Rainaldo[75] per una lettera di questo Pontefice scritta al soprannominato Alberto) di non scandalizzar il Mondo, assaltando un Regno, che a Corradino Svevo era dovuto per eredità, e ad Edmondo d'Inghilterra donato per investitura d'Alessandro IV.

Escluso per tanto Urbano dal Re Lodovico si rivolse a pubblicar la Crociata in Francia: laonde mandò ivi un Legato Appostolico ad assoldare buon numero di gente, ed a predicare l'indulgenza plenaria e remissione de' peccati a chi pigliava l'arme contra Manfredi, dichiarandolo per tiranno, eretico ed inimico della Chiesa.

Il Legato giunto in Francia pubblicò la Crociata, ed assoldò gran numero di soldati sotto Roberto Conte di Fiandra genero di Carlo Conte di Provenza e di Angiò, il quale venuto in Italia con buon numero di Cavalieri franzesi, in tal modo rilevò le cose de' Guelfi, e sbigottì i Ghibellini, che il Re Manfredi rivocò gran parte delle genti, che teneva sparse in Italia in favore de' Ghibellini; per la qual cosa i Guelfi di Toscana e di Romagna andarono ad incontrar Roberto, ed insieme [74] con lui debellarono il Marchese Uberto Pallavicino. Il Re Manfredi per accorrere a' mali più gravi, si risolvè di passare egli in Campagna di Roma, e ponersi in luogo opportuno, ove potesse esser presto a vietare a' nemici l'entrata nel Regno, o venissero per la via d'Abruzzo, o di Terra di Lavoro; e subito andossene ad accampare con tutto l'esercito tra Frosinone ed Anagni[76].

Era allora il Papa in Viterbo, e volle che Roberto Conte di Fiandra con tutto l'esercito passasse di là, dove benignamente l'accolse, lodandolo ed accarezzando lui e gli altri Capi dell'esercito; e benedisse le bandiere e le genti, con esortarlo, che seguisse il viaggio felicemente, mandandolo carico di lodi e di promesse: delle quali gonfiato Roberto, si mosse con tanto impeto contra il Re Manfredi, che senza fermarsi in Roma un momento, andò ad accamparsi vicino a lui.

Ma il Re conoscendo, che non era per lui di fronteggiare nella campagna, ma più di munir le terre, e guardar i passi, per temporeggiare quella Nazione, che di natura è impaziente delle fatiche, quando vanno a lungo, si ritirò di quà dal Garigliano, da quella parte, che divide lo Stato della Chiesa dal Regno di Napoli; e già Roberto cercava di passar ancora quel fiume. Ma perchè la mano del Signore avea riserbato ad altri il ministerio della ruina di Manfredi, ecco che i Romani si ribellarono, e tolsero in tutto l'ubbidienza al Papa, e crearono un nuovo Magistrato detto de' Banderesi; per la qual cosa Urbano fu stretto a chiamare l'esercito franzese, per mantenere almeno [75] con la persona sua il resto dello Stato ecclesiastico, che non seguisse l'esempio di Roma.

Non lasciò Manfredi di pigliare sì opportuna occasione, e di travagliarlo; poichè partito che fu dall'altra riva del fiume l'esercito nimico, passò solo coi Saraceni, ricusando i suoi Baroni regnicoli d'andare con lui ad offesa delle terre della Chiesa, col pretesto che l'obbligo loro era solo di militare per la difensione del Regno[77]; come se non fosse difender il Regno, con tal diversione abbattere le forze del nemico. Ma Manfredi cedendo al tempo, dissimulò l'abbandonamento, e con placidezza diede a tutti licenza, perchè partissero ed andassero quietamente alle lor case: gli richiese solamente a titolo d'imprestito, che lo sovvenissero di que' danari che aveano portato seco per le spese: ciò che fu trattato dal Conte di Caserta, e così fu fatto.

L'intrepido Re solamente co' suoi Saraceni andò verso Roma, e porgendo aiuto agli altri ribelli del Papa, perturbò tanto lo Stato ecclesiastico, che quelli Franzesi ch'erano venuti al soldo, non potendo aver le paghe, se ne ritornarono di là dall'Alpi, e gli altri che rimasero, appena bastarono a difenderlo.

§. I. Invito d'Urbano fatto a Carlo d'Angiò per la conquista del Regno.

Questo accidente accaduto al Papa co' Romani, e 'l veder co' suoi ribelli unito Manfredi, accrebbe di tanto sdegno ed ira l'animo d'Urbano, che lo fece pensare a più potenti ed efficaci modi di ruinarlo; [76] e perchè vedeva con isperienza, che le forze del Ponteficato non erano bastanti ad assoldare esercito tanto possente, che potesse condurre a fine sì grande impresa, chiamò il Collegio de' Cardinali[78], e con una gravissima ed accurata orazione commemorando le ingiurie e gl'incomodi, che per lo spazio di cinquanta anni la Chiesa romana avea ricevuti da Federico, da Corrado e da Manfredi senza niuno rispetto, nè di religione nè d'umanità, propose, ch'era molto necessario non solo alla reputazione della Sede Appostolica, ma ancora alla salute delle persone loro, di estirpare quella empia e nefanda progenie; e seguendo la sentenza della privazione di Federico data nel Concilio di Lione da Papa Innocenzio IV concedere l'uno e l'altro Regno, giustamente devoluto alla Chiesa, ad alcun Principe valoroso e potente, che a sue spese togliesse l'impresa di liberare non solo la Chiesa, ma tanti Popoli oppressi ed aggravati da quel perfido e crudel tiranno, dal quale parevagli ad ora ad ora di vedersi legare con tutto il sacro Collegio, e mandarsi a vogare i remi nelle galee. Queste e simili parole dette dal Papa con gran veemenza commossero l'animo di tutto il Collegio, e con gran plauso fu da tutti lodato il parer di Sua Santità, e la cura che mostrava avere della Sede Appostolica e della salute comune.

Si venne perciò alla discussione intorno all'elezione del Principe: e poichè dal Re Errico d'Inghilterra non era da sperarsi cos'alcuna per esser lontano, per essersi veduto fin ora inutilmente averlo aspettato tanto, bisognava metter l'occhio ad altro Principe. Dal Re di Francia esserne già stato escluso. Nè era da sperar [77] soccorso da Alemagna, implicata allora tra fiere guerre per l'elezione di due Re de' Romani, cioè d'Alfonso X Re di Spagna e di Rainulfo fratello del Re d'Inghilterra. Gli altri Principi di Spagna, essere parte a Manfredi congiunti di sangue, e parte lontani ed impotenti; onde non restava, che dalla Francia, come non molto lontana e sempre propensa a soccorrere la Chiesa romana, di ricercar ajuto.

Era allora Carlo Conte di Provenza assai famoso in arte militare ed illustre per le gran cose fatte da lui contra gl'Infedeli in Asia sotto le bandiere di Re Luigi di Francia suo fratello[79], colui che per l'innocenza di sua vita adoriamo ora per Santo; e perchè era ancora ben ricco e possedeva per l'eredità della moglie tutta Provenza, Linguadoca e gran parte del Piemonte; parve al Papa ed a tutto il Collegio subito che fu nominato che fosse più di tutti gli altri attissimo a questa impresa; onde senz'altro indugio elessero Bartolommeo Pignatello già Arcivescovo d'Amalfi, ed ora di Cosenza e poi di Messina[80], per andare con titolo di Legato Appostolico a trovarlo in Provenza e riferirgli la buona volontà del Papa e del Collegio di farlo Re di due Regni, ed a trattare la venuta sua e sollecitarla quanto prima si potesse.

Fu anche in quest'anno 1263 da Urbano inviato in Inghilterra altro Legato al Re Errico e ad Edmondo suo figliuolo, affinchè non volendo accettar i patti contenuti nell'investitura concessa, nè essendo in istato di adempir le condizioni, colle quali era stato il Regno conceduto, rinunziassero in mano del detto Legato le ragioni [78] che mai potessero avere in questi Reami per l'investitura fattagli da Papa Alessandro IV.

(Lunig[81] rapporta il breve d'Urbano IV drizzato in quest'anno 1263 al Re d'Inghilterra, riprendendolo della sua negligenza, e che perciò rinuncii all'investitura del Regno, minacciandolo di volerne investir altri. E ripigliando il trattato con Lodovico IX Re di Francia, offerendo l'investitura a Carlo suo fratello, gli scrisse per ciò due Brevi, che pur si leggono presso Lunig[82]).

E que' Principi prontamente, nauseati da tanti patti e condizioni dal Papa ricercate, rinunciarono l'investitura[83], nè vollero di ciò più sentir parola; ond'è che gl'Inglesi dicono che i Papi dopo aver tirate dall'Inghilterra grandissime somme di denaro per questo negozio, la fecero restar delusa d'ogni speranza, incolpando il Re Errico, il quale essi dicono, avrebbe dovuto alla prima rifiutar questa corona, o almeno rinunziarla tosto, da poi che vide le tante condizioni e difficoltà; e pensare che donare un Regno, sopra del quale non vi si abbia in sostanza alcun diritto, a condizione che s'abbia da andare a conquistare a proprie spese e rischio, è lo stesso, che fare un presente egualmente ingiusto e nocevole, e che fa tanto male a colui che l'accetta, quanto disonore a chi lo dona.

Intanto l'Arcivescovo di Cosenza giunto in Provenza, espose con molto vigore ed efficacia l'ambasciata; e come era uomo del Regno di Napoli e fiero inimico di Manfredi, cui avendo egli in tanti modi offeso, e [79] dubitando non ne prendesse vendetta, premeva molto di ridurre ad effetto quest'impresa; esagerò a quel Principe con molto spirito e vivacità la bellezza e l'opulenza dell'uno e l'altro reame, e l'agevolezza d'acquistargli, per l'odio che portavano universalmente i popoli alla casa di Svevia.

Carlo, ancorchè Principe ambizioso, intesa l'ambasciata, restò alquanto sospeso, pensando all'arduità dell'impresa ed all'avversione, che v'ebbe sempre il Re Luigi suo fratello, onde fu per rifiutar l'offerta; nulladimanco stimolato da Beatrice sua moglie, la quale non poteva soffrire, che tre sue sorelle fossero l'una Regina di Francia, l'altra d'Inghilterra e l'altra di Germania, ed ella, che avea avuto maggior dote di ciascuna di loro, essendo rimasta erede di Provenza e di Linguadoca, non avesse altro titolo che di Contessa, vedendo suo marito così sospeso, gli offerse tutto il tesoro, tutte le cose sue preziose, fino a quelle, che servivano per lo culto della sua persona, purchè non lasciasse una impresa così onorata. Mosso adunque non meno dal desiderio di soddisfare alla moglie, che dalla cupidità sua di regnare, rispose all'Arcivescovo, ch'egli ringraziava il Papa di così amorevol offerta, e che accordate che si fossero le condizioni dell'investitura non sarebbe rimasto altro, che di parlarne al Re di Francia suo fratello, il quale sperava, che non solo gli avrebbe dato consiglio d'accettare l'impresa, ma favore ed ajuto di poter più presto e con più agevolezza condurla a fine.

Ed essendosi cominciato a trattar delle condizioni, che il Papa voleva imporre su i due reami di Sicilia e di Puglia, si vide, che Urbano voleva investirne Carlo, ma con quelle condizioni, colle quali erasi stabilita [80] la pace tra Manfredi ed il Cardinal Ottaviano allora Legato Appostolico, cioè che Napoli, e tutta la provincia di Terra di Lavoro, colle sue città e terre e l'isole adjacenti, come Capri e Procida, Benevento col suo territorio e Val di Guado restassero alla Chiesa romana: e tutte l'altre province, coll'isola di Sicilia si sarebbero a lui per investitura concedute.

Mostrate al Conte queste condizioni, non volle in conto alcuno accettarle, e dal suo canto all'incontro si fecero alle medesime queste modificazioni: Ch'egli non avrebbe inclinato ad accettar l'impresa, se non se gli fosse conceduto interamente il Regno di Sicilia, con tutta la terra di quà dal Faro insino alli confini dello Stato della Chiesa; siccome lo possederono i Re normanni e svevi: di manierachè, eccettuatane la città di Benevento, con tutti i suoi distretti e pertinenze, niente dell'altre terre sarebbe rimasto alla Sede Appostolica se non il censo, ch'egli avrebbe pagato ogni anno di diecemila once d'oro[84].

E perchè premeva ad Urbano di non differir di vantaggio quest'affare; poichè in altra maniera non si sarebbe potuto scacciar Manfredi dal Regno; fu contento di moderare secondo il volere di Carlo le condizioni suddette; onde conchiuso il trattato in cotal modo, scrisse anche al Re Lodovico, che desse ajuto a Carlo suo fratello, significandogli per altra lettera, che i denari che fosse per somministrargli, si sarebbon presi per titolo di prestanza, con animo di restituirgli. Il Re Luigi non potè resistere a tanti impulsi, e di mala voglia fu alla perfine costretto a dar il consenso [81] che suo fratello accettasse l'invito. Questa memoranda deliberazione, siccome fu cagione della fatal ruina della casa di Svevia, così ancora non può negarsi, ciò che da' savj politici fu ponderato, che portasse insieme la cagione non pur di tanti travagli e desolazioni della casa stessa d'Angiò, ma anche tante spese e tante inutili spedizioni alla Corona di Francia la quale per lo corso di più secoli si vide impegnata perciò a sostener molte dispendiose guerre, le quali riuscitele sempre con infelice successo, le han portato dispendii ed incomodi gravissimi; essendo cosa, e per gli antichi e nuovi esempi pur troppo nota, che cominciandosi da Gregorio M. tutti i Papi suoi successori, ancorchè invitassero molti Principi alla conquista, ebbero poi quegli stessi invitati per sospetti, quando gli vedevano prosperati, e a maggior fortuna arrivati; onde ne invitavano altri per discacciar i primi, per la qual cagione il nostro Reame fu miseramente afflitto, e reso teatro d'aspre e di crudeli guerre.

Ma mentre il Legato Appostolico era di ritorno in Italia, portando la novella della venuta di Carlo, ecco che Urbano dimorando in Perugia, se ne muore in quest'anno 1264 ciò che impedì per allora il passaggio di Carlo in Italia.

[82]

CAPITOLO II. Spedizione di Clemente IV e conquiste di Carlo d'Angiò, da lui investito del Regno di Puglia e di Sicilia.

Re Manfredi intesa la morte di Papa Urbano ne prese grandissimo piacere, sperando esser in tutto fuor di pericolo, non meno per le discordie che a quei tempi soleano sorgere tra' Cardinali per l'elezione, onde nasceva lunga vacazione della Sede Appostolica, che per la speranza avea che fosse eletto alcun Italiano, il quale non avesse interesse co' Franzesi, e che avesse abborrimento d'introdur gente oltramontana in Italia; ma restò di gran lunga ingannato, perocchè i Cardinali, che si trovavano averlo offeso e dubitavano, che egli ne avesse presa vendetta, studiaronsi di creare un Papa d'animo e di valore simile al morto: e di comune consenso a febbrajo del nuovo anno 1265 crearono Papa il Cardinal di Narbona. Costui non solo era di nazione franzese, ma vassallo di Carlo[85]: ebbe già moglie e figliuoli; e fu uno de' primi Giureconsulti della Francia: fu poi, morta sua moglie, fatto Vescovo di Pois, indi di Narbona, ed appresso Cardinale, ed ora si trovava Legato in Inghilterra. Tosto che seppe l'elezione, partissi di Francia, ed in abito sconosciuto di mendicante, secondo il Platina, o di mercatante, come vuol Collenuccio, venne a Perugia, ove da' Cardinali con somma riverenza ricevuto, fu adorato [83] Pontefice e chiamato Clemente IV; indi con molto onore a Viterbo 'l condussero.

La prima cosa, che e' trattò nel principio del suo Ponteficato, spinto da natural affezione che la Nazion franzese suol portare a' suoi Principi, fu la conclusione di seguitare quanto per Papa Urbano suo predecessore era stato cominciato a trattare con Carlo d'Angiò, per mezzo dell'Arcivescovo di Cosenza.

(Clemente IV successore d'Urbano, rivocò prima l'investitura data ad Edmondo; e la Bolla di questa rivocazione è rapportata da Lunig[86]; e da poi nell'istesso anno 1265 investì del Regno Carlo d'Angiò, e la Bolla di questa investitura con tutti i suoi patti e gravami, si legge pure presso Lunig[87], siccome anche il giuramento dato da Carlo nel 1266 a Viterbo, pag. 979).

E perchè trovò il Collegio tutto nel medesimo proposito, mandò subito con gran celerità l'Arcivescovo a sollecitare la venuta di Carlo. Confermò ancora il Cardinal Simone di S. Cecilia Legato in Francia, dal suo predecessore eletto; e gli scrisse che assolvesse tutti i Crocesignati Franzesi per Terra Santa, commutando loro il voto nella conquista di Sicilia, come si raccoglie da un'epistola di Clemente stesso riferita da Agostino Inveges[88]. Scrisse ancora al S. Re Lodovico, che desse aiuto a Carlo suo fratello; ed essendosi renduto certo, che così il Conte di Provenza, come il Re suo fratello erano disposti per l'impresa, commise al Cardinal di Tours, che accordasse i patti, co' quali egli voleva, che si fosse data l'investitura; ed [84] ancorchè non potesse alterar niente di ciò ch'erasi convenuto con Urbano sopra le modificazioni già fatte, nulladimanco, ora che vide Carlo impegnato, volle di gravi e pesanti condizioni obbligarlo nell'istesso tempo che gli dava l'investitura.

Aveva Urbano, come si è detto, tentato in questa nuova investitura che s'offeriva al Conte di Provenza, ricavarne per la Sede Appostolica gran profitto, proccurando allora con ogni industria, che la provincia di Terra di Lavoro con Napoli e l'isole adiacenti, non altrimente che Benevento, fosse eccettuata e si aggiudicasse alla Chiesa; ma Carlo non volle sentir parola: poichè finalmente non se gli concedeva un Regno, la cui possessione fosse vacante, ma dovea egli colle sue forze discacciarne il possessore Manfredi, ed il Papa non vi metteva altro che benedizioni ed indulgenze ed un poco di carta per l'investitura; poichè le sue forze erano così deboli, che non poteva nemmeno mantenersi in Roma. Clemente per tanto, non potendo appropriar a se quella provincia, proccurò almeno gravare l'investitura di tanti patti e condizioni, che veramente rese il nuovo Re ligio, spogliandolo di molte prerogative, delle quali prima eran adorni i predecessori Re normanni e svevi.

I Capitoli stipolati e giurati da Carlo, nel modo che il Papa gli avea cercati, secondo che vengono rapportati dal Summonte, da Rainaldo[89] e da Inveges, sono i seguenti.

I. Fu da Clemente investito Carlo Conte di Provenza del Regno di Sicilia ultra e citra, cioè di quell'isola e di tutta la terra, ch'è di quà dal Faro insino [85] a' confini dello Stato della romana Chiesa, eccetto la città di Benevento con tutto il suo territorio e pertinenze: e ne fu investito pro se, descendentibus masculis, et foeminis: sed masculis extantibus, foeminae non succedant; et inter masculos, primogenitus regnet. Quibus omnibus deficientibus, vel in aliquo contrafacientibus, Regnum ipsum revertatur ad Ecclesiam Romanam[90].

II. Che non possa in conto alcuno dividere il Regno.

III. Che debba prestar il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio alla Chiesa romana.

IV. Atterriti i romani Pontefici di ciò che aveano passato co' Svevi, che furono insieme Imperadori e Re di Sicilia, in più capitoli volle convenir Clemente, che Carlo non aspirasse affatto, o proccurasse farsi eleggere o ungere in Re ed Imperador romano, ovvero Re de' Teutonici, o pure Signore di Lombardia, o di Toscana, o della maggior parte di quelle Province, e se vi fosse eletto, e fra quattro mesi non rinunziasse, s'intenda decaduto dal Regno.

V. Che non aspiri ad occupar l'Imperio romano, il Regno de' Teutonici, ovvero la Toscana e la Lombardia.

VI. Che se accaderà, stante le contese ch'allora ardevano per l'elezione dell'Imperadore d'Occidente, che fosse eletto Carlo, debba alle mani del romano Pontefice emancipar il suo figliuolo, che dovrebbe succedergli, ed al medesimo rinunciar il Regno, niente presso di se ritenendosene.

[86]

VII. Che il Re maggiore d'anni 18 possa per se amministrare il Regno, ma essendo minore di quest'età, non possa amministrarlo; ma debbasi porre sotto la custodia e Baliato della romana Chiesa, insino che il Re sarà fatto maggiore.

VIII. Che se accadesse una sua figliuola femmina casarsi coll'Imperadore, vivente il padre, e quegli defunto, rimanesse ella erede, non possa succedere al Regno; e se deferita a lei la successione del Regno, si casasse coll'Imperadore, cada dalle ragioni di succedere.

IX. Che il Regno di Sicilia non si possa mai unire all'Imperio.

X. Che sia tenuto pagare per lo censo ottomila once d'oro l'anno nella festa de' SS. Pietro e Paolo in tre termini, e mancando decada dal Regno; e di più un palafreno bianco, bello, e buono; e più, secondo un istromento che si legge nel regale Archivio[91], che fecero li Tesorieri del Re Carlo I nell'anno 1274 con alcuni Mercatanti di pagare alla Sede Appostolica ottomila once d'oro per questo censo, si vede, che seimila si pagavano per lo Regno di Puglia, e duemila per l'isola di Sicilia. Del che furono i Pontefici sì rigidi esattori, che nell'anno 1276 strinsero in maniera il Re Carlo, che trovandosi in Roma e senza danari, fu forzato scrivere in Napoli ai suoi Tesorieri, che impegnassero a' Mercatanti la sua Corona grande d'oro, e tante delle sue gioje ed oro, che abbiano in presto ottomila once d'oro, e che gliele [87] mandino subito in Roma per doverle pagare alla Sede Appostolica per lo censo di quell'anno[92].

XI. Che debba pagare alla Chiesa romana 5000 marche sterline ogni sei mesi.

XII. Che in sussidio delle terre della Chiesa, a richiesta del Pontefice, sia tenuto mandare 300 Cavalieri ben armati; in guisa che ciascuno abbia da mantenere a sue spese almeno tre cavalli per tre mesi in ciaschedun anno; ovvero si possano commutare in soccorso di Navi.

XIII. Che debba stare a quello diffinirà il Pontefice sopra la determinazione de' confini da farsi di Benevento.

XIV. Che dia sicurtà a' Beneventani per tutto il Regno; ed osservi i loro privilegi; e che permetta di poter disponere liberamente de' loro proprj beni.

XV. Che non possa nelle terre della Chiesa romana acquistar cos'alcuna per qualunque titolo, nè ottenere in quelle Rettorìa o altra Podestarìa.

XVI. Che s'abbiano a restituire alle Chiese del Regno tutti i beni, che alle medesime furono tolti.

XVII. Che tutte le Chiese e' loro Prelati e Rettori godano della libertà ecclesiastica, e particolarmente nelle elezioni, ristabilendo Clemente ciocchè Alessandro IV avea aggiunto nell'investitura data ad Edmondo figliuolo del Re d'Inghilterra; cioè che il Re e suoi successori non s'intromettano nelle elezioni, postulazioni e provisioni de' Prelati, in guisa che, nec ante electionem, sive in electione, vel post Regius assensus, vel consilium aliquatenus requiratur[93]; soggiungendosi [88] però che ciò non abbia a pregiudicare al Re e suoi eredi, in quanto s'appartiene in jure patronatus, si quod Reges Siciliae, seu ejusdem Regni, et Terrae Domini, hactenus in aliqua, vel aliquibus Ecclesiarum ipsarum consueverunt habere: in tantum tamen, in quantum Ecclesiarum patronis canonica instituta concedunt; siccome perciò non furono esclusi i Re, sempre che la persona eletta fosse loro sospetta d'infedeltà, d'impedire il possesso e concedere il placito Regio alle Bolle di provisione, come altrove diremo.

XVIII. Che le cause ecclesiastiche saranno trattate innanzi agli Ordinarj; e per appellazione alla Sede Appostolica.

XIX. Che abbia a rivocare tutti gli Statuti emanati contra la libertà ecclesiastica.

XX. Che i Cherici nè per le cause civili nè per le criminali si possano convenire avanti il Giudice secolare, se non si trattasse civilmente di cause attinenti a' Feudi.

XXI. Che niuno imponga taglie alle Chiese.

XXII. Che nelle Chiese vacanti non possa pretendere, ed avere nè regalie, nè frutti.

XXIII. Che gli esiliati della Sicilia si riducano nel Regno, secondo che comanderà la Chiesa romana.

XXIV. Che non faccia lega o confederazione con alcuno contro la Chiesa.

XXV. Che debba tener pronti mille Cavalieri oltramontani, apparecchiati per Terra Santa o altro affare della fede.

Queste sono quelle convenzioni, delle quali spesso Marino di Caramanico, Andrea d'Isernia e gli altri nostri Scrittori fanno memoria, quando trattano de' pesi, [89] che nell'investitura data a Carlo furono da Papa Clemente aggiunti.

Accordate in cotal maniera queste Capitolazioni, e vie più sollecitando Clemente la venuta del Conte, intraprende questi il passaggio, ed avendo fatta accompagnare la Contessa Beatrice sua moglie da molti Capitani e Cavalieri franzesi e provenzali, costoro fecero il viaggio per terra; ed egli da Provenza, essendosi posto intrepidamente con pochi legni a solcar il mare, dopo aver miracolosamente scampate l'insidie, che Manfredi gli avea tese con 80 galee, finalmente giunge con somma felicità nel mese di maggio di quest'anno 1265 a Roma, ove fu da' Romani con molti applausi, e segni d'allegrezza ricevuto e careggiato; e narra l'Anonimo[94], che fu tanta la leggerezza e vanità dei Romani, che ritenendo essi, per la dignità Senatoria, un picciol vestigio dell'antica loro libertà, vollero anche di quella spogliarsi, ed esclusi i loro Nobili, crearono Carlo lor Signore e Senatore perpetuo di Roma.

Questa sì felice, e presta venuta di Carlo, gli diede tanta riputazione e fama di Principe valoroso e magnanimo, che pareva, per tutta Italia, la persona sua valesse per un grandissimo esercito; onde vennero tosto da lui tutti que' della fazione Guelfa a visitarlo e ad offerirsi di servirlo. Ed intanto l'esercito di Carlo, che per terra erasi avviato, dopo varj avvenimenti, era finalmente giunto in Italia, e la Contessa Beatrice a Roma; [90] onde Carlo desideroso d'entrar presto nel Regno, per timore, che troppo in Roma trattenendosi, non venisser a mancargli i denari per supplire alle paghe de' soldati, sollecitò fortemente l'espedizione, unendo tutta la sua milizia per combattere l'esercito di Manfredi.

§. I. Coronazione di Carlo in Roma.

Ma prima d'uscire di Roma, volle che Clemente colle celebrità solite l'incoronasse Re, ed insieme gl'inviasse l'investitura, secondo ciò ch'erasi stabilito. Il Pontefice, ch'era a Perugia, gli spedì sua Bolla, per la quale commise a cinque Cardinali, che in S. Giovanni Laterano avanti all'altare pubblicassero la Bolla dell'investitura, e ricevessero dal Conte il giuramento di fedeltà, del ligio omaggio e dell'osservanza di que' Capitoli di sopra notati, e colle debite forme l'incoronassero Re dell'una e l'altra Sicilia. Li Cardinali destinati a questa celebrità furono Rodolfo Vescovo di Albano, Archerio Prete del titolo di S. Prassede, Riccardo di S. Angelo, Goffredo di S. Giorgio al Velo d'oro, e Matteo di S. Maria in portico, Diaconi Cardinali, li quali nel giorno dell'Epifania a' 6 Gennajo di quest'anno 1266 colle solite cerimonie incoronarono Carlo Re d'ambedue le Sicilie insieme con Beatrice sua moglie, essendo presenti molti Prelati e Signori con infinito popolo.

(Di questa Beatrice si legge il Testamento, che fece a Lagopensile nell'anno 1266 rapportato da Lunig[95]).

Si lesse la Bolla dell'investitura fatta da Clemente [91] per la quale con que' patti di sopra riferiti l'investiva del Regno di Sicilia, et de tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confinia terrarum ipsius Romanae Ecclesiae, excepta Civitate Beneventana cum toto territorio, et omnibus districtibus, et pertinentiis.

All'incontro i Cardinali riceverono il ligio omaggio dal Re ed il giuramento di fedeltà, la di cui formola insieme coll'istromento dell'incoronazione vien rapportata dal Tutini[96] ed è del seguente tenore: Nos Carolus Dei gratia Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, et Principatus Capuae, ec. Vobis Dominis Rodulpho Albanensi Episcopo, Archerio, ec. Diaconis Cardinalibus quibus per literas suas Dominus Papa commisit receptionem ligii homagii, quod pro Regno Siciliae, ac aliis Terris Nobis a predicta Ecclesia Romana concessis tenemur, eidem Dom. Clementi Papae IV et ejus successoribus canonice intrantibus, et predictae Ecclesiae Romanae facere, ac in manibus vestris, vice, et nomine ipsius Domini Clementis Papae, et hujusmodi ejus successorum, ac predictae Romanae Ecclesiae, et per nos eidem Dom. Papae, ejus successoribus ac Romanae Ecclesiae ligium homagium facimus pro Regno Siciliae, ac tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confinia Terrarum, excepta Civitate Beneventana cum toto territorio, et omnibus districtibus, et pertinentiis suis, nobis, et haeredibus nostris a predicta Ecclesia Romana concessis, ec.

Donò ancora questo Principe in ricompensa, e memoria di quest'atto al Capitolo di S. Pietro e suoi Canonici in perpetuo le rendite e proventi della Bagliva della città d'Aitona, e l'altre rendite, che la Camera [92] regia esigeva sopra di quella sita negli Abruzzi, come per una carta dell'Archivio regio rapporta il Tutino[97], e di più ogni anno in perpetuo 50 once d'oro sopra la Dogana di Napoli[98].

Il Sommario della Bolla di quest'investitura co' Capitoli di sopra esposti vien rapportata dal Summonte, e parte della medesima vien anche rapportata da Baldo[99] ne' suoi Comentarj al nostro Codice. E questa è la prima scrittura, nella quale questi due Regni vengon la prima volta chiamati di Sicilia citra et ultra Pharum, leggendosi quivi: Clemens IV infeudavit Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum. E da qui in progresso di tempo ebbe origine l'altro moderno titolo: Rex utriusque Siciliae. Non già che Carlo l'usasse mai ne' suoi diplomi e privilegj; poichè ritenne sempre gli antichi titoli, de' quali s'erano valsi i Re Normanni e Svevi, siccome si è osservato nella riferita scrittura del ligio omaggio, ed in molte altre fatte nei seguenti tempi osservarsi il medesimo fa vedere Agostino Inveges ne' suoi Annali di Palermo.

Il Biondo, Platina, ed alcuni altri affermano, che ora Carlo ricevesse anche il titolo e la corona di Re di Gerusalemme; ma sono di gran lunga errati, poichè questo titolo ancora non era stato tolto a Corradino, che per Jole madre di Corrado suo padre il riteneva, e 'l Papa non glie lo contrastò mai. Pervenne poscia a Carlo dopo la morte di Corradino nell'anno 1276 per cessione di Maria d'Antiochia; onde avvenne, che ne' suoi privilegj si leggono per [93] questa cagione in maggior numero gli anni di Sicilia, che quelli di Gerusalemme[100].

Terminate le feste della coronazione, il Re Carlo senza perder tempo si pose in cammino con le sue genti contro Manfredi, e per la Campagna di Roma s'avviò verso S. Germano. Il Papa non cessava di sollecitarlo, e per agevolar l'impresa mandò in Sicilia il Cardinal Rodolfo Vescovo d'Albano, acciò crocesignasse i Siciliani, e sollevasse que' popoli contro Manfredi. Altra Crociata avea già pubblicata in Italia, dove per la fortuna e felicità di Carlo la parte Guelfa era notabilmente cresciuta di seguito, ed all'incontro i Ghibellini tutti depressi.

CAPITOLO III. Re Manfredi riceve con intrepidezza e valore il nemico: ferocemente si viene a battaglia, nella quale, tradito da' suoi, rimane infelicemente ucciso.

Dall'altra parte il Re Manfredi non tralasciava con intrepidezza e valore accorrere in tutte le parti per prepararsi ad una valida difesa. Dolevasi dell'avversa sua fortuna, e fremeva insieme e stupiva in veggendo il suo nemico non solo aver con tanta felicità su poche navi valicato il mare e sfuggito l'incontro delle sue galee, ma con giubilo e feste essere stato ricevuto in Roma e, istrutto il suo esercito, essere già ne' confini del Regno. Stupiva ne' medesimi suoi [94] sudditi vedere tanta incostanza e volubilità[101], sembrandogli, che tutti chiamassero Carlo, e già per ogni angolo non s'udiva altro, che il suo nome e quello de' Franzesi. Non tralasciava intanto il mal avventuroso Principe inanimirgli ed incoraggiargli alla difesa; ed a tal fine convocò in Napoli una general Assemblea di tutti i Conti e Baroni, richiedendogli del loro ajuto[102]: scorreva egli ora a Capua, ora a Cepperano, ora a Benevento, e commise la custodia dei passi a due, de' quali dovea promettersi ogni accortezza e fedeltà: al Conte di Caserta suo cognato, ed al Conte Giordano Lancia suo parente. Presidiò San Germano, ed ivi pose gran parte de' suoi Cavalieri tedeschi e pugliesi, e tutti i Saraceni di Lucera; ed intanto va in Benevento per tenere in fede quella città e per accorrere da quivi a' bisogni del suo esercito; ed indi passa a Capua.

Ma tutte queste cauzioni niente giovarono a quest'infelice Principe; poichè essendo Carlo giunto all'altra riva del Garigliano, presso a Cepperano, il Conte Caserta ch'era alla guardia di quel passo, con alcune scuse si ritirò indietro, e lasciò che passasse il fiume senz'alcuno ostacolo: il Conte Giordano stupisce del tradimento, e torna indietro per la via di Capua a trovar Manfredi. Così, come deplora l'Anonimo, ad malum destinatus Manfredus, qui apud Ceperanum gentis suae resistentiam ordinare debebat, passus Regni vacuos, et sine custodiae munitione reliquit, ut liber ad Regnum aditus pateat inimicis. Ecco come Carlo col suo vittorioso esercito entra nel Reame, [95] e come tutti i luoghi aperti se gli rendono, tosto prendendo Aquino e la Rocca d'Arci.

Il Re Manfredi avendo inteso, che Re Carlo avea passato il fiume senz'alcun contrasto, inorridisce al tradimento, ed avendo subito unite le sue genti coll'esercito, che teneva il Conte Giordano, cominciò a temere non gli altri Baroni facessero il medesimo; ed avendo già per sospetta la fede de' Regnicoli, tentò di volersi render Carlo amico e di trattar con lui di pace; mandò per tanto i suoi Ambasciadori al medesimo a cercargli pace o almeno tregua. Ma il Re Carlo, che vedeva la fortuna volar dal suo canto, non volle perdere sì buone occasioni, onde agli Ambasciadori, nel suo linguaggio franzese, diede questa altiera, e rigida risposta: Dite al Soldan di Lucerna, che io con lui non voglio, nè pace, nè tregua, e che presto, o io manderò lui all'Inferno, od egli manderà me in Paradiso[103]. Avea Carlo, per inanimire i suoi soldati, lor persuaso, che egli militava per la fede cattolica contro Manfredi scomunicato, eretico, e Saraceno: ch'essi erano soldati di Cristo, e che in qualunque evento, si sarebbero esposti ad una certa vittoria, o d'esser coronati colla corona del martirio morendo; o debellando l'inimico con corona trionfale d'alloro, e renduti gloriosi ed immortali per tutti i secoli[104].

Ricevuta Manfredi questa risposta, fu tutto rivolto all'armi, ed avendo riposta tutta la sua speranza nel gagliardo presidio, che avea lasciato in S. Germano, credea, che Re Carlo non avesse da procedere più oltre, per non lasciarsi dietro le spalle una banda così grossa di soldati nemici, e che per lo sito forte di [96] S. Germano, si sarebbe trattenuto tanto, che o l'esercito franzese fosse dissoluto, per trovarsi nel mese di gennajo in que' luoghi palustri e guazzosi; o che a lui arrivassero gagliardi soccorsi di Barberia, dove avea mandato ad assoldare gran numero di Saraceni; o di Ghibellini di Toscana e di Lombardia. Ma ecco i giudicii umani come tosto vengono dissipati dagli alti giudicii divini: poichè contra la natura delle stagioni i giorni erano tepidi e sereni, come sogliono essere i più belli giorni di primavera; e quelli, ch'erano rimasi al presidio di S. Germano, non mostrarono quel valore nel difenderlo, ch'egli s'avea promesso; perchè in brevi dì, per la virtù de' Cavalieri franzesi, dato l'assalto alla terra, con tutto che i Saraceni valorosamente si difendessero, fu nondimeno quella presa e gran parte del presidio uccisa.

Come Manfredi intese la perdita di S. Germano, ritornando di là la gente sconfitta, sbigottì: e mandata molta gente a presidiar Capua, egli consigliato dal Conte Gualvano Lancia, e dagli altri suoi fidati Baroni, si ritirò nella città di Benevento, per aver l'elezione, o di dar battaglia all'inimico quando volea, ovvero di ritirarsi in Puglia se bisognasse. Il Re Carlo intendendo la ritirata di Manfredi in Benevento, si pose a seguitarlo, e giunse a punto il sesto dì di febbraio alla campagna di Benevento, e s'accampò due miglia lontano dalla città, e manco d'un miglio dal campo de' nemici. Allora Manfredi col consiglio dei principali del suo campo deliberò dar la battaglia, giudicando, che la stanchezza de' soldati di Carlo potesse promettergli certa vittoria. Dall'altra parte Re Carlo spinto dall'ardire suo proprio, e da quello, che gli dava la fortuna, la qual pareva, che a tutte l'imprese [97] sue lo favorisse, posto in ordine i suoi, ancorchè stanchi, uscì ad attaccare il fatto d'arme, onde si cominciò quella memoranda, e fiera battaglia, la quale non è del nostro istituto descriverla a minuto, potendosi con tutte le sue circostanze leggere nell'Anonimo, nel Summonte, Inveges, Tutini; e presso molti altri Istorici, che la rapportano.

L'infelice Manfredi mentre la pugna tutta arde, ed egli la mira da un rilevato colle, vede due schiere del suo esercito, ch'erano malmenate da' nemici, e volendo movere la terza, ch'era sotto la sua guida, tutta di Pugliesi, grida a' Capitani suoi, che tosto ivi accorressero alla difesa, s'avvede che molti de' nostri Regnicoli corrotti da Carlo, seguivano il suo partito, e con infame tradimento non ubbidivano, ma s'astenevano di combattere, quando il bisogno più lo richiedeva[105]. Allora Manfredi con animo grande ed invitto, deliberando di voler più tosto morire, che sopravvivere a tanti valorosi suoi Campioni, che vedea in quella strage morire; cala egli al campo, ed ove la pugna più arde si mischia nella più folta schiera de' suoi nemici, e tra loro combattendo, da colpi di sconosciuto braccio, perchè niuno potesse darsi il vanto di sua morte, restò infelicemente in terra estinto; e sconosciuto tra innumerabile folla di cadaveri estinti, tre dì, prima che fosse ravvisato, miseramente giacque. [98] Così infamemente da' suoi tradito morì Manfredi[106]. Il cui tradimento non potè Dante (siccome l'Anonimo) non imputarlo a' nostri Regnicoli, chiamati allora comunemente Pugliesi, quando nel suo Poema[107] commemorando questa rotta, coll'altra data a Corradino, disse:

E l'altra, il cui ossame ancor s'accoglie

A Ceperan là dove fu bugiardo

Ciascun Pugliese; e là da Tagliacozze,

Ove senz'arme vinse il vecchio Alardo.

Ecco l'infelice fine di questo invitto e valoroso Eroe, Principe (se ne togli la soverchia ambizion di regnare e non avesse avuto l'odio di più romani Pontefici, che lo dipinsero al Mondo per crudele, barbaro e senza religione) da paragonarsi a' più famosi Capitani dei secoli vetusti. Ei magnanimo, forte, liberale ed amante della giustizia, tenne i suoi Reami in istato florido ed abbondante. Violò solamente le leggi per cagion di regnare, in tutte le altre cose serbò pietà e giustizia. Egli dotto in filosofia, e nelle matematiche fu espertissimo, non pur amante de' Letterati, ma egli ancora litteratissimo, e narrasi aver composto un trattato della caccia, a questi tempi da' Principi esercitata, ed in sommo pregio, e diletto avuta. Biondo era, e bello di persona e di gentile aspetto, affabilissimo con tutti, sempre allegro e ridente, e di mirabile ed ameno ingegno; tanto che non son mancati[108] chi con ragione l'abbia per la sua liberalità, avvenenza e cortesia, paragonato a Tito figliuolo di Vespasiano, reputato la delizia del genere umano. Della sua magnificenza [99] sono a noi rimasti ben chiari vestigi, il Porto di Salerno, e la famosa città di Manfredonia in Puglia, che dal suo ritiene ancor ora il nome. E se i continui travagli sofferti per difendere il Regno dalle invasioni di quattro romani Pontefici, gli avessero dato campo di poter più attendere alle cose della pace, di più magnifiche sue opere, e di altri più nobili istituti avrebbe egli fornito questo Reame.

Intanto l'esercito di Carlo avendo interamente disfatto quello dell'infelice Manfredi, inoltrossi nel Regno, ed in passando, non vi fu crudeltà e strage, che i Franzesi non usassero; Benevento andò a sacco ed a ruba, nè fu perdonato a sesso, nè ad età. Que' Baroni, che nella pugna non restarono estinti, parte fuggendo scamparono la morte, e parte inseguiti da quei di Carlo furono fatti prigionieri: alcuni ne furono mandati prigioni in Provenza, ove gli fece morire d'aspra e crudel morte; alcuni altri Baroni tedeschi e pugliesi ritenne prigioni in diversi luoghi del Regno; ed a preghiere di Bartolommeo Pignatelli Arcivescovo di Cosenza, e poi di Messina, diede libertà a' Conti Gualvano, e Federico fratelli, ed a Corrado, ed a Marino Capece di Napoli cari fratelli[109].

Erano intanto scorsi tre giorni, e di Manfredi non s'avea novella alcuna, tanto che si credea avesse colla fuga scampata la morte; ma fatto far da Carlo esattissima diligenza nel campo tra' corpi morti fu finalmente a' 28 di febbraio giorno di domenica, ravvisato il suo cadavero[110]; e condotto avanti il Re, lo fece [100] Carlo osservare da Riccardo Conte di Caserta, e dal Conte Giordano Lancia, e da altri Baroni prigionieri de' quali alcuni timidamente rispondendo, quando fu esposto agli occhi di Giordano, questi tosto che lo riconobbe, dandosi colle mani al volto, e gridando altamente, e piangendo se gli gittò addosso baciandolo, e dicendo: Oimè, Signor mio, ch'è quel che io veggio! Signor buono, Signor savio, chi ti ha così crudelmente tolto di vita! Vaso di filosofia, ornamento della milizia, gloria de' Regi, perchè mi è negato un coltello, ch'io mi potessi uccidere per accompagnarti alla morte, come ti sono nelle miserie[111]; e così piangendo non se gli potea distaccare d'addosso, commendando que' Signori franzesi molto cotanta sua fedeltà ed amore verso il morto Principe. E richiesto Carlo da' Franzesi stessi impietositi del caso estremo, che lo facesse onorar almeno degli ultimi ufficj, con fargli dar sepoltura in luogo sacro, si oppose il Legato Appostolico, dicendo che ciò non conveniva, essendo morto in contumacia di Santa Chiesa; onde Carlo loro rispose, ch'egli lo farebbe molto volontieri, se non fosse morto scomunicato. Perlaqualcosa fu il suo cadavero seppellito in una fossa presso il Ponte di Benevento, ove ogni soldato (affinchè almeno in cotal guisa fosse noto a' posteri il luogo del suo sepolcro, e l'ossa non fossero sparse, ma ivi custodite) vi buttò una pietra, ergendovisi perciò in quel luogo un picciol monte di sassi.

Ma l'Arcivescovo di Cosenza fiero inimico di Manfredi, cui non bastò la morte per estinguere il suo implacabil odio, ad alta voce gridando cominciò a dire, [101] che se bene non fosse stato Manfredi sepolto in luogo sacro, era però stato il suo cadavero posto presso a Benevento, in terreno ch'era della romana Chiesa; che dovea quel cane morto levarsi da quel luogo, e portarsi fuori del Regno, e le ossa buttarsi al vento; del di cui zelo cotanto si compiacque Papa Clemente, che furono l'ossa dissotterrate ed a lume spento furono trasportate in riva del fiume Verde, oggi appellato Marino[112], ed esposte alla pioggia, ed al vento, tanto che gli abitatori di que' luoghi non poteron mai di quelle trovar segno, o memoria alcuna[113]. Dante come Ghibellino, avendo compatimento d'un così miserabil caso, finge Manfredi penitente, e lo ripone perciò non già nell'Inferno, ma nel Purgatorio, e così gli fa dire:[114].

son Manfredi

Nipote di Costanza Imperatrice:

Ond'io ti priego, che quando tu riedi,

Vadi a mia bella figlia, genitrice

Dell'onor di Cicilia e d'Aragona,

E dichi a lei il ver, s'altro si dice.

Poscia ch'i' ebbi rotta la persona

Di due punte mortali, i' mi rendei,

Piangendo, a quei che volentier perdona.

[102]

Orribil furon li peccati miei:

Ma la bontà infinita ha sì gran braccia

Che prende ciò, che si rivolve a lei.

Se 'l Pastor di Cosenza, ch'alla caccia

Di me fu messo per Clemente allora,

Avesse in Dio ben letta questa faccia,

L'ossa del corpo mio sariéno ancora

In co del Ponte presso a Benevento

Sotto la guardia de la grave mora:

Or le bagna la pioggia, e move 'l vento

Di fuor dal Regno quasi lungo 'l Verde:

Ove le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,

Che non possa tornar l'eterno amore,

Mentre che la speranza ha fior del verde.

CAPITOLO IV. Re Carlo entrato nel Regno comincia a reggerlo con crudeltà e rigori; onde il suo governo è abborrito, e gli animi si rivoltano, ed invitano alla conquista Corradino.

Sparsasi intanto la fama della rotta dell'esercito di Manfredi, e la sua morte, non fuvvi città così dell'uno, come dell'altro Reame, che non alzasse le bandiere de' Franzesi.

(Le Lettere del Re Carlo scritte a Clemente, per le quali gli dà avviso di questa vittoria, sono rapportate, oltre il Summonte, da Lunig[115]).

[103]

Tutti gridavano il nome di Carlo, e promettendosi nel nuovo dominio franchigia e dovizia grande, credevano dover vivere sotto i Franzesi non solo liberi da straordinarie tasse, ma d'essere ancora liberati dai pagamenti ordinari. Non era città, ove Carlo conducevasi, che non fosse ricevuto con segni d'estrema allegrezza, e giubilo. Tosto da Benevento parte, e viene in Napoli, e non ancor quivi giunto, che i Napoletani mandarono a presentargli le chiavi della loro città. Entrò in quella con la Regina Beatrice sua moglie, con gran pompa e fasto, accompagnato da tutti i Nobili della città, che 'l gridarono loro Re, e dall'Arcivescovo di Cosenza assistito, si portò nel Duomo di S. Restituta a render grazie al Signore di così segnalata vittoria. Creò da poi Principe di Salerno Carlo suo figliuol primogenito il quale uscito da Napoli cavalcò per tutto 'l Reame per affezionarsi i nuovi vassalli: e con non interrotto corso di felicità tutte le cose succedono ai loro desiderii. Le reliquie del rotto esercito erano ritirate in Lucera, dove anche erasi salvata la Reina Elena moglie di Manfredi con Manfredino suo picciolo figliuolo, ed una figliuola[116]. Re Carlo tosto mandò ivi Filippo di Monforte con la maggior parte dell'esercito ad assediarla, ma difendendosi i Saraceni, ch'erano dentro, valorosamente, bisognò abbandonar l'impresa, lasciandola però strettamente assediata, la qual città insieme colla Regina e 'l figliuolo non si rese, se non dopo la rotta data a Corradino, come diremo.

I Siciliani ancora, intesa la morte di Manfredi, subito alzarono le bandiere Franzesi, ed i primi furono [104] i Messinesi. Mandò perciò Re Carlo Filippo di Monforte in quell'isola, e non passò guari, che tutta la ridusse sotto l'ubbidienza di Carlo[117].

Ecco come in un tratto si rese Carlo Signore di ambedue questi Reami, con allegria e giubilo de' Popoli, che si credeano liberati dal giogo, come dicevano, del Re Manfredi e de' Saraceni, e di vivere sotto il Regno di Carlo franchi d'ogni pagamento, in una perpetua ricchezza, ed in una tranquilla e quieta pace.

Ma restarono tosto delusi, poichè i Franzesi scorrendo per tutti i luoghi, portavano co' loro transiti danni e ruine insopportabili agli abitatori[118]. Ed il Re chiamando i Baroni dell'uno e l'altro Regno, che venissero a servirlo, impose ancora un pagamento straordinario alle terre del Regno contro la loro espettazione e lusinga, falsamente stimando, che non solo non s'avessero da veder più soldati, nè pagar pesi estraordinarj, ma d'essere ancora liberati dagli ordinarj. Ma il novello Re all'incontro badando unicamente ad arricchire per questi mezzi il suo Erario, chiamò a questo fine tutti i Tesorieri e Camerari del Regno, e volle da quelli essere minutamente informato de' proventi del Regno, degli Ufficj, delle giurisdizioni, e di tutte altre sue ragioni del Regno; e poichè era stato informato, che un di Barletta nomato Giezolino della Marra era di queste cose instruttissimo, e che per tal cagione da Manfredi era stato adoperato in simili affari, valendosi della di lui opera per le nuove imposizioni d'angarìe, taglie e contribuzioni; fecelo a se [105] venire, il quale per applaudir all'avidità sua ed acquistarsi perciò merito presso il novello Principe, portogli non solo tutti i Registri, ove erano notati i proventi degli Ufficj, delle giurisdizioni, e delle altre ragioni regie; ma anche i registri, ov'erano rubricate tutte le estraordinarie imposizioni d'angarìe, parangarìe, collette, taglie, donativi, e contribuzioni, colle quali sovente erano stati oppressi i miseri Regnicoli[119]. Furon tali le insinuazioni, ed i consigli di Giezolino, che Carlo per porgli più speditamente in opera levò tutti gli Ufficiali, che prima erano nelle province, e creò nuovi Giustizieri, Ammirati[120], Protonotari, Portolani, Doganieri, Fondachieri, Secreti, Mastri Giurati, Mastri Scolari, Baglivi, Giudici e Notari per tutto il Regno, a' quali prepose altri Ufficiali maggiori che sopra di loro invigilassero. Questi esercitando le loro commissioni con inudita acerbità e rigore, gravarono di peso insopportabile i Popoli, scorticandogli e cavando loro il sangue e le midolle[121].

Ecco ora mutati i giubili in continui lamenti, gemono sotto il grave giogo i Regnicoli, e tosto mutano volere, e desiderano già, e sospirano Manfredi. In ogni angolo si sentono lagrimevoli querele: O Rex Manfrede (con amaro pianto dicevano) temet non [106] cognovimus, quem nunc et ter etiam deploramus. Te lupum credebamus rapacem inter oves pascuae huius Regni, secuti spem praesentis dominii, quod de mobilitatis, et inconstantiae more sub magnorum profusione gaudiorum anxie morabamur, agnum mansuetum te jam fuisse cognoscimus, dulcia tuae potestatis mandata sentimus, dum alterius, et majora gustamus. Conquerebamur frequentius nostram partem, partem in dominii tuae Majestatis adduci, nunc autem omnia bona, quod prius est, et personas alienigenarum convertere debemus in praedam[122].

§. I. Invito di Corradino in Italia; e mal successo della sua spedizione.

Da' lamenti si venne alle mormorazioni, e finalmente alla risoluzione di chiamar Corradino da Alemagna per discacciare i Franzesi. Molti Baroni così di questo Reame, come di quello di Sicilia, s'accingono all'impresa, e istigano ancora, oltre i fuggitivi ed i raminghi, tutti i Ghibellini di Lombardia, e di Toscana a far il medesimo, a' quali, per maggiormente stimolargli, espongono l'insopportabile dominio de Franzesi[123]. Que' che sopra gli altri si distinsero in questa mossa, furono i Conti Gualvano, e Federico Lancia fratelli, e Corrado, e Marino Capeci: costoro si portarono in Alemagna a sollecitar Corradino[124] unico rampollo di tutta la posterità di Federico. Mandarono ancora, per quest'istesso fine, molte città imperiali i loro Ambasciadori, [107] i Pisani, i Sanesi, ed altri Ghibellini, e con le promesse ed esibizioni, portarono ancora molto denaro per agevolar la venuta.

Era Corradino giovanetto di quindici anni: perciò sua madre Elisabetta di Baviera troppo amandolo temea esporlo a tanti pericoli per una impresa reputata malagevole; ma Corradino spinto da generoso cuore ruppe ogni indugio, ed abbracciò l'invito, stimolato ancora dal Duca d'Austria ancor egli giovanetto, che s'offerse venir ancora in sua compagnia a riporlo nei paterni Regni; e Corrado Capece tosto da Alemagna ne diede avviso in Sicilia.

S'accinse intanto Corradino al viaggio, e nel principio dell'inverno di quest'anno 1267 partì da Alemagna conducendo seco il Duca d'Austria, ed un esercito di diecimila uomini a cavallo, e per la via di Trento nel mese di febbraio giunse a Verona; ove convocò tutti i Principi della parte Ghibellina, che l'aveano sollecitato a venire; e presa risoluzione, che dovessero passare per la via di Toscana, si mosse da Verona, ed inviando la maggior parte dell'esercito per la via di Lunigiana, egli col resto tolse la via di Genova, ed in pochi dì giunse a Savona, dove ritrovò l'armata de' Pisani, nella quale s'imbarcò ed andò a Pisa. I Pisani l'accolsero con molto onore ed amorevolezza, lo providero di denari, e gli mostrarono l'armata, che volevan mandare a sollevare le terre marittime d'ambedue i Reami.

Giunto per tanto Corradino a Pisa insieme con molti Principi d'Alemagna, e con Corrado Capece di Napoli, costui cercò a' Pisani che gli dessero navi per poter tragittare in Tunisi a sollecitare il soccorso de' Saraceni. Erano in Tunisi agli stipendj di quel Re, [108] Federico, ed Errico di Castiglia[125], i quali lividamente invidiando la grandezza e prosperità del Re di Castiglia lor fratello, si tirarono sopra l'indignazione del medesimo, onde cacciati di Spagna militavano in Tunisi sotto gli stipendj di quel Re. E per la continua conversazione, che tenevano co' Saraceni, eransi quasi dimenticati della religione cristiana, e ne' costumi poco differivano da' Saraceni medesimi[126]. Federico era in Tunisi quando vi giunse Corrado, dal quale informato delle cose di Corradino, l'indusse a prendere la difesa, e proccurare presso quel Re valido soccorso. Ma Errico per la sua natural superbia ed ambizione, entrato in sospetto del Re di Tunisi, era passato a trovar Carlo in Italia, e poi con finzioni ed astuzie si mise a tentare nella Corte di Roma i suoi avanzamenti; per la qualità de' suoi natali fu ricevuto onorevolmente da que' Ministri, e pose in trattato la pretensione, che promovea del Regno di Sardegna. Giunto a Roma, colle sue arti e macchinazioni, seppe far tanto, che ancorchè non vi concorresse buona parte di que' Nobili romani, e de' Cardinali, si fece eleggere Senatore di quella città[127]. Fu prima amico di Carlo, che gli era cugino, da cui sperava col favor suo qualche Stato in Italia: ma vedendolo troppo ingordo di Signorie, e che voleva ogni cosa per se, cominciò ad odiarlo e ad invidiar la sua grandezza e cercar opportunità di ruinarlo. Altamente ancora si dolea di lui, che avendolo soccorso di molti denari quando era in [109] bassa fortuna e quando calò in Italia contro Manfredi, da poi salito in tanta grandezza e con tante dovizie, che con facilità potea restituirglieli, non volea in conto alcuno renderglieli. Avendo adunque avuta novella dell'invito fatto a Corradino in Italia, credette aver nelle mani opportuna occasione di vendicarsi di Carlo, ed insieme collegandosi con Corradino, si pose in isperanza d'ottener da lui quello che non avea potuto ottener da Carlo; mandò perciò più lettere e messi a Corradino, affinchè si sollecitasse a venire, perchè egli avrebbegli facilitata l'impresa, desiderando il suo arrivo più che tutti i Regnicoli, Roma e tutta l'Italia, e sperava con certezza discacciarne i Franzesi.

Intanto Corradino sollecitato per queste lettere d'Errico, era, come si è detto, calato in Pisa, e per maggiormente istigare i Popoli d'Italia, e del Reame di Puglia e di Sicilia, fece spargere da per tutto più esemplari di un suo Manifesto[128], ove querelandosi acerbamente di quattro romani Pontefici, e di due Re, Manfredi e Carlo, invita i suoi devoti a dar mano all'espulsione de' Franzesi da' suoi Reami di Puglia e di Sicilia.

Non si può credere che grandi movimenti fece in Sicilia, Puglia e Calabria questa Scrittura: tutti gridavano il nome di Corradino; ed a questi stimoli si aggiunse un fatto d'arme accaduto al Ponte a Valle vicino Arezzo; poichè proccurando Guglielmo Stendardo e Guglielmo di Biselve, Capitani di molta stima del Re Carlo, impedire il passaggio all'esercito di Corradino, furono rotti, ed appena Guglielmo Stendardo [110] si salvò con 200 lance, ed il Biselve restò prigione con alcuni pochi Cavalieri franzesi, ch'erano rimasti vivi.

La novella di questa rotta sparsa dalla fama per tutto il Regno di Puglia e di Sicilia, ed ingrandita assai più del vero, trovando gli animi già disposti, sollevò quasi tutte le province; ed i Saraceni, ch'erano soliti sotto l'Imperador Federico, e Re Manfredi d'esser stipendiati, rispettati ed esaltati con dignità civili e militari, e non poteano soffrire di stare in tanto bassa fortuna sotto l'imperio del Re Carlo, preso vigore, fecero sollevar Lucera, la quale inalberò tosto le bandiere di Corradino. Seguirono il di lui esempio quasi tutte l'altre città di Puglia, di Terra d'Otranto, di Capitanata e di Basilicata, ed era veramente cosa da stupire, vedere tanta volubilità, e leggerezza in que' medesimi Popoli, i quali poc'anzi ardentemente desideravano la venuta di Carlo co' suoi Franzesi, ed ora averne cotanto abborrimento, invocando incessantemente il nome di Corradino; dal che, e da molti altri esempi passati, e da quelli che si leggeranno, ne nacque, così presso gli antichi Storici, che moderni, quell'opinione de' nostri Regnicoli, d'essere i più volubili ed incostanti, e che sovente, tosto infastiditi di un dominio, ne desiderano un nuovo. Taccia, la quale nemmeno Scipione Ammirato[129] ne' suoi Ritratti, osò di negarla a' nostri Regnicoli; e della quale mal seppe difendergli Tommaso Costa in quella sua infelice Apologia del Regno di Napoli.

Re Carlo stupiva pure di tanta volubilità, non men de' Regnicoli, che della sua fortuna: e posto in gran [111] pensiero, era tutto inteso di accrescere il suo esercito, per andare ad opporsi a Corredino, il quale a grandi giornate se ne calava a Roma, ove da Errico di Castiglia e da' Romani era aspettato, per entrare per la via d'Abruzzi nel Regno.

Intanto Papa Clemente ch'era a Viterbo, avendo inteso i progressi di Corradino in Italia ed i moti del Regno, per opporsi dal suo canto in ciò che poteva, non avea mancato, tosto che Corradino giunse in Verona ed in Pavia, di scrivere calde e premurose lettere a varie città d'Italia inculcando loro, che non aderissero a Corradino; ma scorgendo, che queste lettere producevan poco frutto, volle vedere se per un altro verso potesse spaventarlo.

(Oltre di queste lettere scrisse pure ne' precedenti mesi una terribile lettera all'Arcivescovo di Magonza perchè dichiarasse pubblicamente scomunicato Corradino, co' suoi, che affettava invadere il Regno di Sicilia, che si legge presso Lunig[130].).

Gli spedì per tanto in aprile di quest'istesso anno 1267 una terribile citazione, colla quale se gli prescriveva certo tempo a dover comparire avanti di lui, se avesse pretensione alcuna sopra i Reami di Puglia e di Sicilia, e che non cercasse di farsi egli stesso giustizia colle armi, ma proponesse sue ragioni avanti la Sede Appostolica, che glie la avrebbe renduta; altrimente non comparendo, avrebbe contro di lui proferita la sentenza. Corradino non comparve già, ma proseguì armato il suo cammino; ed egli nella Cattedral Chiesa di Viterbo a' 28 aprile alla presenza di tutto il Popolo pronunziò la sentenza. Da poi invitò [112] Carlo a venir a Viterbo, dove s'abboccarono insieme, e lo fece Governadore di Toscana; e poichè l'Imperio d'Occidente vacava, lo creò egli Paciero, ovvero Vicario Generale dell'Imperio. All'incontro a' 29 giugno nella festa degli Appostoli Pietro e Paolo, con grande apparato e celebrità scomunicò pubblicamente Corradino, e lo dichiarò nemico e ribelle della romana Chiesa, e decaduto da tutte le sue pretensioni[131]. Scrisse ancora a Fr. Guglielmo di Turingia Domenicano, che scomunicasse tutti coloro che non volessero prestar ubbidienza a Carlo; ed all'incontro ricolmasse di benedizioni ed indulgenze quelli, che per lui prendessero l'arme contro Corradino. E dopo tutto questo, essendosi reso certo, che erasi confederato con D. Errico di Castiglia, lo scomunica di nuovo la seconda volta. Ma Corradino poco curando di questi fulmini, non s'atterrisce, e fermo nel proponimento bada unicamente ad unir gente, e denaro per l'impresa[132].

Dall'altra parte Corrado Capece, e D. Federico fratello di Errico, ch'erano ancora a Tunisi, seguendo le buone disposizioni di quest'impresa, partirono da Tunisi con 200 Spagnuoli, ed altrettanti Tedeschi, e 400 Turchi, che teneva a' suoi stipendj quel Re, e si portarono in Sicilia. Corrado giunto a Schiacca, pubblicandosi Vicario di Corradino, sparge lettere per tutta quell'Isola, sollevando que' Popoli a ricevere il loro Re Corradino, che con numeroso esercito veniva. Le lettere erano dettate in questo tenore: Ecce Rex noster cito veniet in celebri, etc. e sono rapportate da Agostino Inveges. Le quali furono cotanto efficaci, [113] che in brieve, avvalorate dal coraggio di Capece, quasi tutta la Sicilia alzò le bandiere di Corradino, tanto, che Fulcone Vicario in quell'Isola per Re Carlo restò sorpreso, e volendo colle armi frenar la sollevazione, furono le sue truppe rotte, ed egli obbligato colle sue genti a mettersi in fuga. E qui terminando l'Anonimo la sua Cronaca, si ricorrerà ora al Villani, ed agli Scrittori non meno diligenti che fedeli rapportatori de' successi di questi tempi.

Papa Clemente avendo nel nuovo anno 1298 intesa la rotta di Fulcone in Sicilia, bandì la Crociata, e scomunicò tutti coloro, che assalivano la Sicilia di qua e di là dal Faro. A Corradino mandò nuovamente suoi Legati, perchè tosto uscisse d'Italia. Questi non ubbidendo, lo priva del Regno di Gerusalemme, lo dichiara inabile all'Imperio e ad ogni altro Regno. Scomunica di nuovo tutti i Popoli, le città e tutte le terre, che 'l favorissero. Fulminò anche scomunica contro D. Errico, e lo priva della dignità Senatoria, conferendola al Re Carlo per dieci anni.

Ma Corradino, niente di ciò curandosi, prosiegue il suo viaggio, e giunto a Roma, fu ricevuto in Campidoglio dal Senatore Errico e da' Romani con gran pompa ed allegrezze a guisa d'Imperadore; ed ivi ragunata molta gente e denaro, unito con D. Errico e colle sue truppe, inteso ancora i moti delle città e Baroni del Regno, si partì da Roma a' 10 d'Agosto con D. Errico e i suoi Baroni, e con molti Romani, nè volle far la via di Campagna, sapendo che il passo di Cepperano era ben guardato, ma prese la via delle montagne tra Abruzzo e Campagna, conducendo il suo esercito per luoghi non guardati e freschi, abbondanti di carni e di strame, e d'acque fresche, [114] che fu a' Tedeschi impazienti del caldo di grandissimo ristoro, e finalmente nel piano di Tagliacozzo collocò il suo esercito.

Il Re Carlo dall'altra parte, avendo ordinato a Ruggiero Sanseverino, che con buon numero di altri Baroni suoi partigiani tenessero a freno i sollevati; egli con tutte le sue forze cavalcò da Capua per andare ad opporsi a Corradino; ma accadde, che in quelli dì capitò in Napoli Alardo di S. Valtri, Barone nobilissimo Franzese, che veniva d'Asia, dove con somma sua gloria avea per venti anni continui militato contro Infedeli, ed ora già fatto vecchio ritornava in Francia per morire nella sua patria. Costui non ritrovando il Re in Napoli, andò a ritrovarlo a Capua, dove era coll'esercito: Re Carlo, quando il vide, si rallegrò molto, e subito disegnò di valersi della virtù di tal uomo e del suo consiglio, e lo pregò che volesse fermarsi ad ajutarlo in sì gran bisogno: e bench'egli si scusasse, che per la vecchiezza avea lasciato l'esercizio delle armi, e s'era ritirato ad una vita cristiana, e che non conveniva, che avendo spesa la gioventù in combattere con Infedeli, alla vecchiezza avesse da macchiarsi del sangue de' Cristiani: nulladimanco avendogli Carlo dato a sentire, che militando contro Corradino, pure militava contro gl'Infedeli, essendo ribelle del Papa, scomunicato, e fuori della Chiesa, oltre che il Re di Francia l'avrebbe sommamente gradito; tanto fece, fin che lo strinse a restare; e sentendo che Corradino era alloggiato nel piano di Tagliacozzo, volle che l'esercito di Carlo da lui guidato s'accampasse forse due miglia lontano da quello: da poi con pochi cavalli salito in un poggio, e considerato bene il campo de' nemici, s'avvide l'esercito [115] suo esser di numero molto inferiore di quello di Corradino, e perciò dover sperarsi più nella prudenza ed astuzie militari, che nella forza; ed avendo appiattato il terzo squadrone dietro ad una valle, fece presentare la battaglia al nemico, il quale avidamente la ricevè, sdegnato dall'ardire dei Franzesi, che con tanto disvantaggio di numero venivano a far giornata. Si attaccò il fatto d'arme, ed ancor che i Franzesi con due soli squadroni valorosamente sostenessero l'impeto de' nemici, a lungo andare bisognò che cedessero, facendosi una strage crudele de' Franzesi. Re Carlo che con Alardo sopra il Poggio vedea la ruina de' suoi, ardeva di desiderio d'andare a soccorrergli, ma fu ritenuto da Alardo, e pregato che aspettasse il fine della vittoria, la quale avea da nascere dalla rotta de' suoi, siccome avvenne; poichè cominciando i Franzesi a gettar l'arme, a rendersi prigioni, e gli altri a fuggire, le genti di Corradino, credendosi aver avuta intera vittoria, si dispersero, parte si misero ad inseguire i fuggitivi, altri attendevano a spogliare i Franzesi morti ed a seguitare i cavalli degli uccisi, ed altri a menare i prigioni. Allora Alardo volto al Re Carlo, disse: Andiamo, Sire, che la vittoria è nostra; e discendendo al piano con lo terzo squadrone, che era rimaso nella Valle, diedero con grand'impeto sopra l'esercito nemico in varie parti diviso, ed agevolmente lo posero in rotta, e spinti innanzi, trovarono, che Corradino e 'l Duca d'Austria, e la maggior parte de' Signori ch'erano con lui, certi della vittoria, s'aveano levati gli elmi, e stavano oppressi dalla stanchezza e dal caldo; e non avendo nè tempo, nè vigore da riarmarsi, si diedero a fuggire, e nella fuga ne fu gran parte uccisa.

[116]

Corradino ed il Duca d'Austria, col Conte Gualvano ed il Conte Girardo da Pisa pigliaron la via della marina di Roma, con intenzione d'imbarcarsi là, ed andare a Pisa; e camminando di giorno e di notte, vestiti in abito di contadini, arrivarono in Astura, terra in quel tempo de' Frangipani nobili Romani: dove con acerbo lor destino a caso scoverti, furono da uno di que' Signori fatti prigioni, e di là a poco condotti e consignati a Re Carlo, che gli mandò prigioni in Napoli, e gradì questo dono, come preziosissimo, donando a quel Signore la Pelosa ed alcune altre castella in Valle Beneventana, e volle, che si fermasse in Napoli: da cui discesero i Frangipani che goderono gli onori lungamente del Seggio di Portanova di Napoli.

D. Errico di Castiglia, mentre fuggiva, fu incontrato dalle genti di Carlo, i quali ruppero le sue truppe, e ne fecero molti prigioni; ed egli si salvò fuggendo per beneficio della notte. Alcuni narrano, che si ricovrò in Monte Cassino, ove da quell'Abate, che credette farsi un gran merito col Papa, fu fatto prigione, e fattosi assicurare di risparmiargli la vita, lo mandò in dono a Papa Clemente, il quale tosto l'inviò al Re Carlo, che insieme con gli altri lo fece condurre prigioniero in Napoli. Altri dicono, che fuggì verso Rieti, e che pure un Abate d'un altro monastero, dove capitò, fattolo prigione, lo mandò al Papa.

Soli scamparono dall'ira del Re, Corrado Capece, e Federico fratello d'Errico; i quali trovandosi in Sicilia ebbero modo d'imbarcarsi sopra alcune galee dei Pisani, ed a Pisa ne andarono.

In memoria di questa rimarchevole vittoria, per cui, [117] se diam fede al Fazzello, fu sparso il sangue di dodicimila Tedeschi, fece Re Carlo edificare una Badia per li Monaci di S. Benedetto[133], nel luogo ove seguì la battaglia col titolo di S. Maria della Vittoria, dotandola di molte possessioni. Ma per le guerre seguenti fu disfatta e disabitata: ed oggi il Papa conferisce il titolo di quella Commenda, la quale è delle buone del Regno per li frutti delle possessioni, che ancora ritiene[134].

Non si possono esprimere le crudeli stragi, che fece Carlo de' ribelli e de' presi in battaglia dopo questa vittoria. Alcuni fece impiccar per la gola, altri furono fatti morire col ferro, e moltissimi condennati a perpetuo carcere. Le città delle nostre province, che alla venuta di Corradino ribellaronsi, furono da' Franzesi manomesse, portando da per tutto desolazioni, ruine ed incendi. Aversa fu disfatta, Potenza, Corneto, e quasi tutti i castelli di Puglia e di Basilicata furono crudelmente distrutti.

Nè minori furono le stragi nell'Isola di Sicilia. A Corrado d'Antiochia, ed a molti Signori del partito di Corradino furono prima cavati gli occhi, e poi fatti barbaramente impiccare. Ridusse i Siciliani in una quasi schiavitudine, gravandogli di nuovi tributi; ed i Franzesi insolenti non perdonavano nè all'onore, nè alle robbe degli abitatori, onde nacque il principio del famoso Vespro Siciliano; poichè i Siciliani per uscire da tanta servitù diedero poi mano alla cotanto celebre congiura di Giovanni di Procida, della quale parleremo più innanzi.

[118]

Debellò ancora i Saraceni, che s'erano fortificati in Lucera, ed avendo ridotta quella città sotto la sua ubbidienza, fece ivi prigioneri Manfredino, e sua madre Elena degli Angioli seconda moglie di Manfredi, che condotti in carcere nel castel dell'Uovo di Napoli, furono per opera del Re Carlo fatti ivi morire.

Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti[135] rapporta, che i figliuoli di Manfredi fossero stati tre, e che i lor nomi fossero Errico, Federico e d'Ansellino, a' quali infino a' tempi del Re Carlo II, essendo tenuti incarcerati nel castello di Santa Maria al Monte, si davano tre tarì d'oro per ciascun giorno. Ma altri, fra' quali è Inveges[136], rifiutano ciò, che scrive quest'Autore; poichè i due figliuoli di Manfredi, ch'ebbe della prima sua moglie Beatrice di Savoja, premorirono al padre, e sol Manfredino figliuolo della seconda fu fatto prigione con la madre, che furono da Carlo I fatti morire in prigione.

§. II. Infelice morte del Re Corradino, in cui s'estinse il legnaggio de' Svevi.

Avendo con tali mezzi di crudeltà Carlo recati questi Regni sotto la sua ubbidienza, ed usando rigore estremo, avendo ridotti i suoi sudditi in istato di non poterlo più offendere, gli rimaneva solo di deliberare ciò, che dovesse farsi di Corradino, del Duca d'Austria, e degli altri Signori prigionieri. Ne volle prima il Re sentirne il parere del Papa, con cui soleva consultare delle cose più ardue e gravi del Regno. [119] Scrivono Errico Gualdelfier, il Villani, Fazzello, Collenuccio, ed altri, che Clemente alla domanda rispondesse queste brevi parole; Vita Corradini, mors Caroli: Mors Corradini, vita Caroli. Lo niegano il Costanzo, il Summonte e Rinaldo; ed il Summonte s'appoggia ad una ragion falsissima, dicendo, che ciò non poteva avvenire, trovandosi già dieci mesi prima morto Clemente, quando Corradino fu fatto decapitare: nientedimeno ciò non ripugna al testimonio di quegli Scrittori, i quali dicono, che Carlo richiedesse il Pontefice del suo parere, che gli fu dato; ma che poco da poi prevenuto dalla morte non potè vedere l'esecuzione del suo crudel consiglio. Il Costanzo avendo quel Papa per uomo di santissima vita, e perchè lo scrive il Collenuccio suo antagonista, non potè persuadersi a crederlo. Ma in ciò dee pur darsi tutta la fede al Villani, il quale con tutto che Guelfo, e capital nemico de' Svevi, difendendo il Papa, non ardisce di negarlo.

Papa Clemente non potè vedere l'esecuzione di sì fiero consiglio, poichè a' 29 di novembre di quest'anno 1268 o pure com'altri scrissero a' 30 dicembre trapassò; e per le continue fazioni contrarie de' Cardinali, che per la potenza di Carlo non potevano deliberarsi ad eleggere un successore di loro arbitrio e volontà, vacò la sede quasi tre anni, cioè infino all'anno 1271 siccome scrive il Gordonio.

Re Carlo, morto il Pontefice, nel nuovo anno 1269 essendo per la sua natural fierezza e crudeltà stimolato a prender di quell'infelice Principe le più crudeli risoluzioni: per dar altra apparenza e più speziosa a questo fatto, volle che si prendesse su ciò pubblica deliberazione; e fatti convocare in Napoli tutti i maggiori [120] Baroni di quello, e quelli Signori franzesi che erano con lui ragunò un consiglio affinchè deliberasse ciò che dovesse farsi di Corradino. I principali Baroni franzesi erano in discordia; poichè il Conte di Fiandra genero del Re e molti altri Signori più grandi e di magnanimo cuore, e che non tenevano intenzione di fermarsi nel Regno, furono di parere, che Corradino e 'l Duca d'Austria si tenessero per qualch'anno carcerati, finchè fosse tanto ben radicato e fermato l'imperio di Carlo, che non potesse temer di loro. Ma quelli, che aveano avuto rimunerazione dal Re, e desideravano assicurarsi negli Stati loro (il che non parea, che potesse essere, vivendo Corradino) erano di parere, che dovesse morire. Altri, a cui era nota l'inclinazione del Re, per andar a seconda del suo desiderio s'unirono co' secondi. A questa opinione s'accostò il Re[137], o fosse per sua natura crudele, o per la grandissima ambizione e gran desiderio di Signoria, che lo faceva pensare agli Stati di Grecia, a' quali non poteva por mano senz'esser ben sicuro di non aver fastidio ne' Regni suoi, massime per le rivoluzioni, ch'avea veduto per la venuta di Corradino; onde dubitava, che i medesimi Saraceni, ch'erano rimasti nel Regno, ajutati da' Saraceni di Barberia, essendo egli lontano, non si movessero a liberarlo; fu conchiuso in fine, che se gli dasse morte.

A questo fine, fu imposto, che gli si fabbricasse il processo sopra queste accuse: di perturbatore della pubblica quiete, e dei precetti de' sommi Pontefici: di tradimento contro la Corona: d'aver ardito d'invadere ed usurpare il Regno con falso titolo di Re, e d'aver tentato anche la morte del Re Carlo. [121] Fu il processo fabbricato e compito innanzi a Roberto da Bari, ch'era Protonotario del Re Carlo; il quale proferì la sentenza di morte, e quella lesse in pubblico, appoggiandola sopra le riferite accuse.

(Di questo Roberto e della poca sua letteratura, ne fa anche menzione Errico d'Isernia in quella lettera scritta a Fr. Bonaventura, che si legge nel Codice MS. della Biblioteca Cesarea di Vienna, N. 170 pag. 82 dove fra l'altre cose gli dice: Novimus etiam, si ad moderna tempora stilum retrahimus, quod Papa Clemens Robertum de Baro non magnae Literaturae hominem, imo tantum ex usu aliquid cognoscentem, apud Regem promovit Carolum.)

Fu da questa sentenza di morte sol eccettuato D. Errico di Castiglia, che fu condennato a perpetuo carcere in Provenza, per osservarsi la fede data all'Abate, che lo consignò al Papa sotto parola, che di lui non si spargesse sangue.

Fu a' 26 ottobre di quest'anno 1269 in mezzo del Mercato di Napoli con apparati lugubri e funesti, essendosi apprestato il talamo e l'altre pompe di morte, mandata in esecuzione sì barbara e scellerata sentenza; e narrasi che l'infelice Corradino quando l'intese leggere dal Protonotario, voltatosi a lui, gli avesse detto queste parole: Serve nequam tu reum fecisti filium Regis et nescis quod par in parem non habet imperium: poi rivolto al Popolo purgossi de' delitti, che falsamente se gl'imputavano, dicendo, ch'egli non ebbe mai talento d'offendere S. Chiesa, ma solo di acquistare il Regno a lui dovuto per chiare e manifeste ragioni, e del quale a torto n'era stato spogliato. Ch'egli sperava, che di sì inaudite e barbare violenze, ne dovessero prender vendetta i Duchi di Baviera [122] della stirpe di sua madre, e che i Tedeschi, ancora non lasceranno invendicata la barbara sua morte. E dette queste parole, trattosi un guanto, come vuole il Collenuccio, e come altri un anello, lo buttò verso il Popolo, quasi in segno d'investitura. E vi è chi scrive, che per tal atto avesse voluto lasciar suo erede D. Federico di Castiglia figliuolo di sua zia, che, come s'è detto, erasi da Sicilia fuggendo, ricovrato a Pisa. Ma il Maurolico ed altri comunemente affermano, che Corradino con questo segno, morendo senza figliuoli, istituì erede D. Pietro d'Aragona marito di Costanza sua sorella cugina. E narra Pio II[138] che questo guanto o anello fu raccolto da Errico Dapifero, da cui fu portato in Ispagna al Re Pietro. Ond'è che i Re aragonesi e gli austriaci prendono la lor ragione per la successione de' Regni di Sicilia e di Puglia, non già dagli Angioini, ma da questo Corradino, il quale tramandogli a' Re di Sicilia discendenti da Pietro e da Costanza figliuola di Manfredi, siccome, dopo Aventino, scrissero Besoldo[139], il Summonte ed altri. E gli Scrittori siciliani[140], che riguardando il testamento dell'Imperador Federico, dove Manfredi è trattato come suo figliuol legittimo, invitandolo alla successione de' suoi Regni nel caso che Corrado ed Errico mancassero senza figliuoli, riputano per vero, ciò che Matteo Paris narra, come una voce fatta insorgere da Manfredi stesso, cioè, che sua madre essendo vicina a morte, fattosi chiamar l'Imperadore, avesselo per le calde preghiere e sue pietose lagrime, indotto per quelle poche ore di vita, [123] che le rimanevano a riconoscerla per vera moglie, con isposarla; ed in conseguenza, che per cotal atto Manfredi si venne a legittimare[141]: tengono per cosa certa, che la successione di questi Reami per la morte di Corradino si fosse diferita a Costanza figliuola di Manfredi e moglie del Re Pietro, ed a' suoi discendenti; e che a ragione gli Arragonesi ne cacciarono i Franzesi, e con giustizia se ne rendesser poi Signori.

Ma perchè più dura e acerba fosse l'angoscia dell'infelice Corradino, non fu il primo ad essergli mozzo il capo, ma vollero riserbarlo al fiero spettacolo della decapitazione di Federico Duca d'Austria; poichè il primo ad esser decapitato fu quest'infelice, il cui capo mozzo dal carnefice prese in mano il dolente Corradino, e dopo averlo bagnato d'amare lagrime, baciollo e se lo strinse al petto, piangendo la sua sventurata sorte, ed incolpando se stesso ch'era stato cagione di sì crudel morte, togliendolo alla sua infelice madre. Poi rincrescendogli di sopravvivere a tanti acerbi spettacoli, postosi inginocchione chiedendo perdono a Dio de' suoi falli, diede segno al carnefice di dover eseguire il suo ufficio, il quale in un tratto gli recise il regal capo. E dopo lui, furon decapitati il Conte Girardo da Pisa, ed Hurnasio Cavalier tedesco, e nove altri Baroni regnicoli furono fatti morire su le forche.

(Questo Federico ultimo dell'antica stirpe Austriaca era della casa di Baden, e s'intitolava Duca d'Austria, com'erede di Federico II il Bellicoso. E' nacque da Gertrude figliuola d'Errico III ch'era fratello del Bellicoso, la quale si maritò con Ermando di Baden, come [124] narra Gerardo a Roo[142]: Cum Fridericus Austriae Ducum ex Babenbergensi gente ultimus Anno post mille ducentos sexto et quadragesimo ex vulnere in pugna cum Hungaris commissa accepto, obiisset, Hermanus Badensis, qui Gertrudim illius ex fratre Henrico Medlicense neptem in matrimonio habebat, Austriae gubernationem adierat. Ejus filius Fridericus annos tutelae vix egressus, Neapoli cum Cunradino Apuliae et Siciliae Rege, uti paulo post dicetur, capite plexus erat. Vedasi Struvio[143]).

Questo infelice fine, compianto da quanti videro sì funesto ed orrido spettacolo, ebbe il giovanetto Corradino in età di 17 anni. In lui s'estinse la chiara e nobilissima casa di Svevia, che per linea non men mascolina che femminina discendea da' Clodovei e dai Carolingi di Francia, e da' Duchi di Baviera. Famiglia, che sopra tutte le altre d'Europa contava più Imperadori, Re, Principi e Duchi, e che sopra tutte le famiglie di Germania teneva il vanto di nobiltà. In questo sangue incrudelì Re Carlo, portandogli cotal barbaro fatto eterna infamia presso tutte le Nazioni d'Europa; nè vi è Scrittore, ancor che franzese, che non detesti ed abbomini atto sì crudele, da non paragonarsi a quante empietà e scelleraggini si leggono de' più fieri Tiranni, ch'ebbe la terra. Quindi in Alemagna surse l'illustre Casa d'Austria; poich'estinta la stirpe de' Principi di Svevia, e Riccardo, fratello del Re d'Inghilterra, che aspirava all'Imperio, essendo morto, ed Alfonso Re di Castiglia suo competitore non avendo più partigiani in Alemagna, gli Elettori [125] l'anno 1273 si ragunarono in Francfort, ed elessero per Imperadore Rodolfo Conte di Auspurg, il quale fu coronato l'istesso anno in Aquisgrana, e riconosciuto da' Principi d'Alemagna; ed avendo umiliato Ottogaro Re di Boemia, fece che restituisse l'Austria, la qual diede ad Alberto suo primogenito, i di cui discendenti presero il nome di Austriaci.

Ecco finalmente come dopo 69 anni terminò in Sicilia, ed in Puglia il Regno de' Svevi e con qual crudel principio cominciasse quello de' Franzesi, che portò in queste nostre province grandi mutazioni, così nello stato civile e temporale, come nello ecclesiastico e spirituale. Ciò, che dopo aver narrata la politia ecclesiastica di questi tempi, sarà il soggetto de' seguenti libri di quest'Istoria.

CAPITOLO V. Politia ecclesiastica dal decimoterzo secolo insino al Regno degli Angioini.

La potenza de' romani Pontefici si stese in questo secolo tanto, che non fu veduta in altri tempi maggiore: volevan esser creduti Monarchi non meno nello spirituale che nel temporale, e s'arrogavano perciò la facoltà di poter deporre i Principi da' loro Stati e Signorie: chiamargli in Roma a purgarsi de' delitti, dei quali erano stati accusati: assignar loro certo termine a comparire, sentenziargli, e nel caso non ubbidissero, di dichiarargli decaduti da' loro Reami: assolvere i loro vassalli da' giuramenti dati, ed invitar altri alla conquista delle Signorie, ond'erano stati deposti. Riputandosi [126] Signori del Mondo, non aveano difficoltà d'investire i loro devoti di province, e di Regni in tutta la terra, ed in tutto il mare d'isole e golfi, e d'altre province sconosciute e lontane. Bonifacio VIII avendo Ruggiero di Loria famoso Ammiraglio di mare conquistata Gerba ed alcune altre isole dell'Affrica, tosto nel primo anno del suo Ponteficato 1295 essendo in Anagni gliene spedì Bolla d'investitura, per la quale gli concedè in Feudo le isole suddette con obbligarlo a prestar il giuramento di fedeltà ed omaggio, e di pagarli cinquanta once d'oro l'anno al peso del Regno di Sicilia, per censo, in ricognizione del dominio diretto, ch'egli vi pretendeva, siccome lo pretendeva in tutte le altre province del Mondo; e la carta di quest'investitura è rapportata dal Tutini[144]. E da questo principio nacque, che Alessandro VI nell'anno 1493 si facesse lecito di concedere la terra ferma e l'isole insino a' suoi tempi sconosciute, e tirar una linea da un Polo all'altro, assegnandole e donandole a Ferdinando ed Isabella Re di Castiglia[145]. Quindi surse la nuova dottrina professata da' Dottori Guelfi e dai Canonisti che il Papa fosse Signore di tutto il Mondo contrastando a' Dottori Ghibellini, che ne facevano Signore l'Imperadore.

La Cattedra di S. Pietro volevano che si riputasse la Reggia universale del Cristianesimo, ed a questo fine ingrandirono i Cardinali e depressero i Vescovi, per rendere più maestosa la loro Sede. I Cardinali, come si è veduto, sdegnavano di andar di persona a [127] trattare con Manfredi, dicendo, che ciò non era di loro stima ed onore; ed Innocenzio IV ad onta di Federico, che s'ingegnava abbassargli insieme con tutto l'Ordine ecclesiastico, volle dargli il cappel rosso, la valigia e la mazza d'argento quando cavalcavano, volendo che alla regia dignità fosse la loro agguagliata; ed essendosi da poi proccurato d'innalzar assai più la loro dignità a gradi ed onori Eminenti, vennero dagli adulatori della Corte romana anche chiamati Grandi Senatori, che venerati con regali onoranze eleggono il Supremo Principe, che così chiamano il Papa, ed assistono al suo gran soglio.

Divenuto il Papa Monarca, i Cardinali grandi Senatori, e la Sede Appostolica Reggia e Corte universale del Cristianesimo, Gregorio IX per maggiormente stabilire la Monarchia applicò l'animo ad una compilazione e pubblicazione di Decretali, le quali terminarono di mettere interamente in rovina il diritto antico de' Canoni, e stabilirono la possanza assoluta e senza termine de' romani Pontefici; poichè considerando, che siccome l'Imperador Teodosio formò la politia dell'Imperio, con far raccorre le costituzioni ed editti, così suoi, come degli altri Imperadori predecessori in un libro, che fu poi chiamato il Codice Teodosiano; e l'Imperador Giustiniano, oltre la compilazion delle Pandette, che contenevano le leggi antiche accomodate al suo tempo, ridusse ancora in un corpo le sue costituzioni e quelle de' predecessori Imperadori nel suo Codice; così bisognava formar una nuova politia per la Chiesa accomodata a' suoi tempi (giacchè, mutate le cose, la compilazione del Decreto non era a proposito) e di ridurre perciò in un corpo tutte l'epistole decretali de' suoi predecessori, con separarle [128] da' canoni, e dall'altre epistole de' Pontefici, le quali non potevano servire, come queste, ch'egli trascelse, per stabilire la Monarchia romana, e massimamente per la materia beneficiale e per lo Foro episcopale, e per maggiormente stendere la conoscenza nelle cause e la loro giurisdizione; ond'egli, ad imitazione di que' due grandi Imperadori, ordinò la compilazione d'un nuovo Codice; ed aboliti tutti gli altri rescritti, volle, che questo suo libro, che chiamò Decretale, avesse tutta la forza e vigor di legge; nel quale vi è molto più intorno a quello che concerne l'edificazione de' processi, che l'edificazione dell'anime.

§. I. Della compilazione delle decretali; e loro uso ed autorità.

Epistole decretali erano ne' primi tempi chiamate quelle lettere, che i Vescovi delle Sedi maggiori scrivevano a' Padri della Chiesa, che gli richiedevano di qualche parere intorno alla dottrina, e disciplina della Chiesa[146]. Ma da poi il Pontefice romano, come Capo della Chiesa essendosi innalzato sopra tutti i Vescovi e Patriarchi, e facendo perciò valere la sua autorità più di tutti gli altri, s'appropriò egli solo di mandar sue epistole ai Padri ed a' Vescovi, che ricorrevano a lui per consultarsi di qualche affare delle loro Chiese; e pervenute queste epistole a qualche numero, sin ne' tempi di Papa Gelasio nel Sinodo di 70 Vescovi tenuto in Roma nell'anno 494 furono quelle confermate, acquistando [129] vigore non meno che i Canoni, che ne' Concilj erano stabiliti[147].

Ma a' tempi di Carlo M. che favorì cotanto i Pontefici romani, acquistando vie più forza le loro decretali, si cominciò a separarle da' Canoni, e riputandosi non esser mestieri per aver vigore, di esser confirmate da' Concilii, o da' Sinodi, si credette, che esse sole bastassero per regolare la dottrina e la disciplina della Chiesa, onde maggiormente i Pontefici stabilirono la loro autorità, e vie più crebbe il lor numero, tanto che bisognò pensare ad unirle insieme, e farne raccolta, con introdursi perciò un nuovo dritto Pontificio, lasciando da parte stare i Canoni de' Concilii[148].

La prima compilazione di queste lettere decretali separate da' Canoni la fece Bernardo Circa Preposito di Pavia, e poi Vescovo di Faenza, il quale sotto certi titoli dispose le decretali de' Pontefici, cominciando da Alessandro III, insino a Papa Celestino III il qual pervenne al Ponteficato nell'anno 1191. Non ebbe egli altro scopo, se non perchè quella servisse, come un supplemento al decreto di Graziano; onde questa Raccolta fu chiamata libro delle Stravaganti, perchè le Costituzioni ivi racchiuse, vagavan fuori del Decreto[149]. Antonio Augustino la diede alla luce, dandole il primo luogo fra le altre Raccolte delle antiche decretali. [130] In questo decimoterzo secolo ne surse un'altra, di cui si nominano tre Autori, Gilberto, Alano e Giovanni Gallense. Questi imitando Bernardo, raccolsero le decretali di quelli Pontefici, che vissero dopo Bernardo; ma sopra i due primi si distinse Giovanni, che ne fece più ampia Raccolta[150]. La terza la dobbiamo a Bernardo Compostellano il quale da' Registri d'Innocenzio III Pontefice il più dotto, e 'l maggior facitore di decretali, le raccolse, fu chiamata Romana[151].

Tutte queste Collezioni essendosi fatte per privata autorità, allegate nel Foro o altrove, non avevano vigor alcuno; onde era di mestieri da' scrigni della Chiesa di Roma cavar gli esemplari perchè facessero autorità. Per la qual cosa i Romani pregarono Innocenzio III perchè di sua autorità comandasse una nuova Compilazione: Innocenzio loro compiacque e diede la cura a Pietro Beneventano suo Notajo, che la facesse: questi nell'undecimo anno del suo Ponteficato intorno il 1210 la fece, e fu la prima raccolta del jus Pontificio, che si facesse con pubblica autorità[152]. Passati cinque anni, coll'occasione del Concilio tenuto in Laterano sotto il medesimo Pontefice, se ne fece un'altra nel 1215, nella quale furono aggiunte tutte le decretali e rescritti, che per lo spazio di que' cinque anni eransi emanati. Da poi nell'anno 1227 Tancredi Diacono di Bologna ne fece un'altra, nella quale unì le Costituzioni d'Onorio III successor d'Innocenzio; ma quantunque fosse stata terminata in quell'anno, nel quale morì Onorio IX suo successore, che meditava oscurar la fama de' suoi predecessori con una più ampia o nuova [131] compilazione, la fece supprimere, nè mai vide la luce del Mondo, se non negli ultimi tempi, quando Innocenzo Cironio nell'anno 1645 la fece imprimere in Tolosa colle sue dottissime chiose[153].

Gregorio IX adunque per maggiormente stabilire la Monarchia romana, ordinò, che si compilasse un nuovo Codice, nel quale ad imitazione dell'Imperadore Giustiniano, volle, che risecate le altre Costituzioni dei Pontefici suoi predecessori, le quali non erano più confacenti a' suoi tempi, s'inserissero in quello le sue e l'altre de' suoi predecessori, che egli stimò più a proposito; ed oltre a ciò, perchè non s'avesse occasione di ricorrere al jus civile, statuì da se molte cose ancorchè non richiesto[154], affinchè con questo suo Codice si regolassero i Tribunali ne' giudicii, e le Scuole nell'insegnar a' giovani la giurisprudenza. Commise la compilazione di quest'opera a Raimondo di Pennaforte del Contado di Barcellona, Frate Domenicano, gran Canonista, ed Inquisitore in Catalogna, e molto caro a Giacomo Re d'Aragona, che lo trascelse per suo Confessore[155]. Gregorio tratto dalla fama della sua dottrina e bontà de' costumi, lo fece venire in Roma, e lo creò suo Cappellano e Penitenziero, dignità che a que' tempi non si conferiva se non che ad uomini riguardevoli e letteratissimi. Costui eseguendo la sua commessione la ridusse a compimento. Divise l'opera in cinque libri, e seguitò l'istesso metodo appunto, che tenne Triboniano nella compilazione del Codice di Giustiniano[156].

[132]

Papa Gregorio, vedendo terminata l'opera a seconda del suo genio, tosto promulgò una Costituzione, che la propose all'istesso Codice, per la quale, abolendo tutte le altre, comandò a tutti, che solamente di questa compilazione si servissero così ne' giudicii, come nelle scuole: proibendo ancora con molto rigore, che per l'avvenire niuno abbia ardimento di farne altra, senza spezial autorità della Sede Appostolica[157]. Comandò ancora, che per tutto il Mondo si divolgasse, ed in tutte l'Accademie ed Università d'Europa si legesse[158], infiammando allo studio di quella non meno i Professori, che gli scolari.

Non vi fu parte d'Europa, che per la potenza e credito di Gregorio non la ricevesse con ardore; e si mossero i Professori da tutte le parti, non meno ad insegnarla nelle scuole, che a farvi copiose chiose. I primi furono Ruffino, Silvestro e Riccardo inglese: Rodovico cognominato di pocopasso, e Pietro Corbolo, ovvero Boliato spagnuolo: Bertrando, Damaso ed Alano inglese: Pietro Preposito di Pavia, Pietro Gallense di Volterra, Bernardo Compostellano, Vincenzo Castiglione di Milano, Giovanni Teutonico e Tancredi. Seguitarono appresso le costoro pedate Guglielmo Naso e Giacomo di Albenga Vescovo di Faenza, Vincenzo Goffredo, Filippo, Innocenzio Ostiense, Pietro Sampso, Egidio bolognese, Bonaguida d'Arezzo, Francesco da Vercelli, Boatino di Mantua, e l'Arcidiacono. [133] Ma surse poi sopra gli altri Bernardo Bottone da Parma, il quale raccogliendo tutte le costoro Chiose, ne fece egli, intorno l'anno 1240, una più ampia, trasferendo a se la gloria di tutti[159].

Anche i Monaci per secondare il genio de' Pontefici v'impiegarono i loro talenti, e sopra queste Decretali composero un'opera intitolata Suffragium Monachorum; ma come mancante delle cose sustanziali, e ripiena di molti errori e di cose vane e superflue, riuscì molto inetta ed inutile. Frate Giacomo Canonico di S. Giovanni in Monte pure intorno a ciò volle affaticarsi: ma così egli, come tutti coloro, che vi s'erano affaticati riuscirono inetti, e siccome per quelli, che s'erano impiegati sopra il Decreto, ne nacque il proverbio Magnus Decretista, Magnus Asinista, così ancora, secondo che ci testifica Giacomo Gujacio[160], non vi furono Dottori più inetti di coloro, i quali a questi tempi si posero a scrivere sopra questo nuovo Diritto Pontificio.

Dopo questa compilazione di Gregorio non tralasciarono gli altri Pontefici suoi successori (per ingrandire vie più la Monarchia romana) di stabilire altre loro Costituzioni, sicchè nel fine di questo istesso secolo decimoterzo non fosse stimata necessaria da Bonifacio VIII una nuova altra compilazione. Se n'erano stabilite alcune da Gregorio istesso, molte da Innocenzio IV, da Alessandro IV, da Urbano IV, da Clemente IV, da' due Gregorio IX e X, da Niccolò III e dall'istesso Bonifacio. Vi erano ancora molte Costituzioni fatte nel Concilio di Lione nell'anno 1245 sotto [134] Innocenzio IV. Ve n'erano ancora delle stabilite nell'altro Concilio di Lione, tenuto nel 1274 sotto Gregorio X. Per tanto Bonifacio VIII, il quale sopra tutti gli altri suoi predecessori ebbe idee molto grandi, e vaste del Ponteficato romano, riputando per quella sua veramente stravagante Costituzione unam Sanctam, che in balia del Papa sia maneggiar ugualmente i due coltelli, e la sovranità temporale essere dipendente dalla spirituale: volle, che di tutte queste Costituzioni se ne formasse una nuova raccolta, e fosse come di Giunta a quella fatta da Gregorio IX, e ne diede l'incumbenza a tre Cardinali, a Guglielmo Mandagoto Arcivescovo d'Ambrun, al Vescovo Berengario Fredello ed a Riccardo Malumbro da Siena gran Dottore di que' tempi, e Vicecancelliere della chiesa di Roma[161]. Costoro diedero compimento all'opera, e la divisero pure in cinque libri, e quasi in altrettanti titoli, come fu divisa da Raimondo di Pennaforte la sua. Bonifacio, compita che fu, la fece pubblicare intorno l'anno 1299 e volle, che s'aggiungesse al volume delle decretali di Gregorio, e si chiamasse perciò il Sesto libro; e con sua particolar Bolla ordinò, che da tutti s'osservasse, che in tutte l'Università del Mondo si leggesse, e ne' Tribunali avesse la sua forza e vigore, non altrimenti di quel, che Gregorio fece per la sua; ma in Francia questa compilazione di Bonifacio non ebbe gran successo, non solo per contener molte ordinazioni riguardanti l'ingrandimento della sua potenza, e del maggior guadagno della sua Corte, ma ancora perchè molte cose in quella avea stabilite in odio [135] del Regno di Francia per le controversie, ch'allora ardevano fra lui e il Re Filippo il Bello[162]. Non così gli avvenne negli altri Regni[163] dove fu con onor ricevuta, nè le mancarono Canonisti, che vi facessero le loro Chiose, e fra gli altri il famoso Giovanni d'Andrea insigne Dottore del diritto canonico di quei tempi[164].

Seguirono da poi nel seguente secolo decimoquarto l'altre Collezioni chiamate le Clementine; ed anche l'Estravaganti, affinchè siccome le compilazioni sinora fatte corrispondevano, cioè quella del Decreto alle Pandette, e le Decretali al Codice, così l'Estravaganti corrispondessero alle Novelle; e perchè niente mancasse, negli ultimi secoli, si venne anche a far compilare i libri delle Istituzioni; di che ne' loro luoghi e tempi secondo l'opportunità, che ci sarà data, ragioneremo.

Queste Decretali presso di noi durante il Regno de' Svevi, in quelle cose, che s'opponevano alle nostre Costituzioni, non ebbero gran successo: e così Federico II come gli altri Re svevi suoi successori fecero valere le loro Costituzioni, e quelle dei Re normanni suoi predecessori, contrastando con vigore alle sorprese, che intendevano fare i romani Pontefici sopra i loro diritti e supreme regalie, facevano valere le leggi da essi stabilite sopra i matrimoni, sopra gli acquisti de' stabili alle Chiese, mantenevano le loro regalie nelle Sedi vacanti, nell'elezioni de' Prelati, e sopra tutto ciò, che ne' precedenti libri si è potuto osservare.

[136]

Ma caduto questo Regno sotto la dominazione degli Angioini uomini ligi de' Pontefici romani, e da' quali riconoscevano il Regno, prendendo vigore la fazion Guelfa, ed abbassata affatto la Ghibellina, tantosto si vide tutto mutato, ed introdotte nuove massime, e le Decretali non pur ricevute ed insegnate nelle scuole, ma anche ne' Tribunali: non già per legge d'alcun Principe, ma per l'uso e consuetudine, che di quelle s'avea in ciò, che non era espresso nel diritto civile, e massimamente per l'edificazione de' processi nelle cause forensi, per la forma e per l'ordine di procedere ne' giudicii, contenuto nel secondo libro[165]; siccome ancora per le cause ecclesiastiche, e dove accadeva disputarsi di cosa, che poteva portar peccato e pericolo della salute dell'anima[166]. Ed i nostri Principi della casa d'Angiò, ancorchè conoscessero essersi quel volume fatto compilare per gareggiare colle leggi degli Imperadori, ed ingrandire la potenza de' Pontefici, e che si metteva mano non pure alle cose ecclesiastiche ma anche alle profane, con assumersi autorità di giudicare sopra tutte le cause ne' dominii dei Principi cristiani, così fra gli Ecclesiastici come fra' laici; nulladimanco parte per trascuraggine ed ignoranza, non sapendo essi farne migliori, parte perchè molto loro premea aver la grazia e buona corrispondenza de' Pontefici, non si curarono di farle valere ne' loro dominii, e che non pure nelle pubbliche scuole s'insegnassero, ma anche ne' loro Tribunali s'allegassero.

I nostri Professori perciò vi s'applicarono non meno di quello, che faceano gli altri nelle altre città d'Italia; [137] onde imbevuti delle loro massime, ciò che non era a quelle conforme, era riputato straniero ed ingiusto. Alcune Costituzioni di Federico e degli altri Re normanni suoi predecessori, parvero perciò empie, e tra l'altre quelle, che disponevano de' matrimoni, degli acquisti, della cura delle robe delle Chiese vacanti e cose simili: si credette che ciò non potesse appartenere alla potestà del Principe, e fosse un metter la falce nell'altrui messe. Andrea d'Isernia disse chiaramente, che tutto ciò erasi prima stabilito, perchè allora non era uscito fuori il libro delle Decretali: non erat compilatum (e' dice) volumen Decretalium[167].

A tutto ciò providero ancora i romani Pontefici nell'investiture, che diedero a' nostri Re, e Clemente IV in quella che diede al Re Carlo I d'Angiò, volle che s'annullassero tutte le Costituzioni e tutti gli Statuti, che riputava essere contra la libertà ecclesiastica[168], togliendogli molte regalie e preminenze, che i Re normanni e svevi si aveano mantenute; onde presso di noi nel Regno degli Angioini, non solo i Pontefici romani non ebbero alcuno ostacolo a' loro disegni di stabilire la Monarchia; ma trattando questo Reame come lor Feudo, ed i Principi come veri Feudatarj e loro ligi, vi fecero progressi maravigliosi, come si vedrà chiaro ne' seguenti libri di quest'Istoria.

[138]

§. II. Elezione de' Vescovi, e provisione intorno a' beneficj.

Non bastava per fondar una Monarchia provvederla di sole leggi, ed ornar la Corte di grandi Senatori, e di altri Ministri per renderla più maestosa; ma bisognava ancora provvederla di denaro, per mantenerla con pompa e fasto conveniente ad una Reggia universale del Cristianesimo, senza il quale sarebbe tosto sparita. Le sole rendite dello Stato della Chiesa di Roma non bastavano: si proccurò pertanto tirare da tutte le province ogni cosa a Roma. Bisognava, che siccome gli altri Principi per gratificare i loro fedeli, e per premiare coloro che per essi militavano, concedevan Feudi, Dignità ed Ufficj: così era uopo averne de' consimili per potergli dispensare a coloro che militavano per la Corte, e trovar mezzi per istabilirgli, affinchè niente mancasse, ed in tutto il Sacerdozio corrispondesse all'Imperio. S'istituirono perciò molte dignità ed ufficj, i quali non appartengono punto alla Gerarchia della Chiesa per ciò che concerne il suo potere spirituale; ma indrizzati solamente per la temporalità e giurisdizione, e per le cose del governo politico: ed in ciò la Corte di Roma ha superate tutte l'altre Corti de' Principi. Per li Feudi, si sono istituiti i Beneficj, e siccome per la materia Feudale surse una nuova giurisprudenza, che ha occupati tanti volumi, così per la materia Beneficiale ne surse un'altra, che ha occupati assai più volumi presso i Canonisti, che non la Feudale presso i Legisti.

La maniera, che si praticò per fargli sorgere, fu non meno ingegnosa che travagliosa: bisognò lungo [139] tempo per istabilirgli, e s'ebbero da sostenere grandi contese co' Principi, e co' Popoli, e Capitoli delle province per tirargli tutti a Roma.

L'elezioni de' Vescovi, ancorchè in apparenza si lasciassero al Clero, si è già veduto, che i Pontefici si servivano di varj mezzi per tirarle tutte in Roma. Si proccurò ancora togliere nell'elezioni l'assenso a' nostri Principi: Federico II, Corrado e Manfredi sostennero con vigore i loro diritti, nè permisero sopra ciò novità alcuna; ma Clemente IV, investendo Carlo I d'Angiò, fra i Capitoli, già rapportati, che gli fece giurare, volle espressamente, che si rinunciasse a quest'assenso, e nel capitolo 18 gli prescrisse, che così egli, come i suoi successori, non s'intromettessero nell'elezioni, postulazioni e provisioni de' Prelati, in maniera, che nè prima, ne dopo l'elezione si ricercasse regio assenso; ma solamente lor rimanesse salvo il diritto, che per ragione di patronato avessero in alcune Chiese, per quanto i canoni concedono a' padroni di quelle[169].

Rimase solamente a' nostri Re la facoltà di poter impedire all'eletto, che se gli dasse la possessione senza il lor placito regio; e questa pure tentarono di contrastarla; ma non meno gli Aragonesi, che gli Angioini stessi loro ligi, se la mantennero, leggendosi, che Carlo II essendo stato eletto Manfredi Gifonio Canonico di Melito per Vescovo di questa istessa città, perchè era al Re sospetto, gl'impedì il possesso di quella Chiesa, non concedendogli il regio exequatur, come si legge nella carta del Re data in Napoli nell'anno 1299, rapportata dall'Ughello nella sua Italia [140] Sacra[170]. E tutti gli altri Re Angioini, come Carlo III Ladislao, insino alla Regina Giovanna II quando gli eletti non eran loro sospetti, davano alle Bolle papali di loro provisione l'exequatur; di che presso il Chioccarelli[171] se ne leggono più esempj.

Tolse ancora Clemente a' nostri Re la Regalia, la quale (non meno che i Re di Francia) tenevano nelle Sedi vacanti del nostro Regno, con porvi i Regj Baglivi, o altre persone da essi destinate per l'amministrazione dell'entrate, per conservarle al successore, secondo il prescritto de' canoni; e Federico II, com'è chiaro dalle nostre Costituzioni del Regno[172], ve la mantenne. Siccome altresì fece Corrado suo successore, il quale, secondo che narra Matteo Paris, essendo stato dal Pontefice, fra l'altre cose, imputato, che avesse occupato i beni delle Chiese vacanti; rispose all'accusa, ch'egli non faceva usurpazione alcuna, ma valevasi di quella istessa ragione, che i suoi Predecessori s'erano valsi nelle Sedi vacanti, con dar la cura de' beni di quelle a' suoi proccuratori idonei, e fargli da quelli amministrare; e che egli era contento di valersi di quell'istessa ragione, che i Re di Francia, e d'Inghilterra valevansi nelle Chiese vacanti de Regni loro[173].

Ma Clemente IV ne' suddetti Capitoli investendo [141] Carlo I ciò non piacendogli, volle nel capitolo 22 obbligare quel Re, e suoi successori a rinunziare a qualunque Regalia, stabilendo, che nelle Sedi vacanti non potesse pretendere, nè avere, nè regalie, nè frutti; rimanendo intanto, finchè non fossero proviste, la custodia delle Chiese presso le persone ecclesiastiche, le quali secondo il prescritto de' Canoni dovranno amministrare le rendite di quelle, e conservarle a' futuri successori[174]. Questo fu un gran passo, che avanzarono i Pontefici romani, togliendo a' nostri Principi le regalie nelle Chiese vacanti; poichè, se bene in questi principii si mostrasse di far rimanere la cura delle medesime alle persone ecclesiastiche, e di regolare l'amministrazione delle loro entrate secondo i Canoni; nulladimanco in processo di tempo, vi destinarono essi i Collettori e Nunzii, i quali mettendo mano sopra i beni di quelle, non più a' futuri successori, ma a Roma si serbavano i frutti; onde fu stabilito presso di noi un nuovo fondo, e cominciò a sentirsi il nome di Nunzio Appostolico, il che non ebbe perfezione se non nel seguente secolo decimoquarto nel Regno di Roberto per le cagioni, che saranno da noi rapportate ne' libri seguenti di quest'Istoria, quando ritornerà occasione di favellare dell'introduzione del Collettore Appostolico nel Regno e de' suoi maravigliosi progressi in fornir Roma di danari per gli spogli delle nostre Chiese, e per altri emolumenti, che ivi si tirarono.

Si fecero ancora a questi tempi altre sorprese per [142] tirar ogni cosa in Roma; poichè quando prima, secondo i concordati dal Re Guglielmo I colla Sede Apostolica, non erano accordate le appellazioni del Regno di Sicilia[175]; ora Clemente nel 18 articolo dell'investitura data a Carlo, espressamente convenne, che le cause ecclesiastiche dovessero trattarsi innanzi agli Ordinarii, e per appellazione dalla Sede Appostolica; ed essendosi proccurato in questi tempi, come vedremo più innanzi, stendere la conoscenza, ed il Foro episcopale in immenso, e tanto che non vi era litigio, dov'essi non pretendessero metter mano, furono tirate tutte le cause in Roma: ciò che apportò a quella Corte grandi emolumenti e danari.

Ma quello, che portò maggior utile e guadagno alla Corte di Roma, siccome non minor povertà al Regno, fu la provisione de' beneficii, ed i varii mezzi e modi inventati e stabiliti da poi per le loro Decretali, ed Estravaganti e molto più per le Regole della Cancelleria, per le quali quasi tutto il denaro delle nostre chiese e monasterii va a colare in Roma.

Il nome di Beneficio fu ne primi secoli della Chiesa inaudito, nè per tutto il tempo, che durò la quadripartita divisione de' beni di quella, s'intese mai; ma quella poi posta in disuso ed annullata, si videro varie mutazioni. Siccome la parte assignata a' poveri si diede a' Vescovi col peso d'alimentargli, così la porzione assegnata a' Cherici cessò, ed in sua vece furono assegnati agli ecclesiastici ufficii certi, con destinar loro determinate rendite, delle quali si servissero i Ministri [143] delle Chiese, come di roba propria; e questo dritto di raccogliere le mentovate rendite congiunto col ministerio spirituale, fu generalmente appellato Beneficio, e credesi che tal nome, ed assegnato di rendite a ciascun ministero cominciasse nel nono secolo circa l'anno 813 come si raccoglie dal Maguntino, celebrato in quell'anno, dove la prima volta si fa menzione del Beneficio ecclesiastico[176]. In cotal guisa, siccome coloro, che militavano per l'Imperio, erano premiati con Feudi, che pure si dissero Beneficj, così i Ministri militanti per la Chiesa era di dovere, che si premiassero con tal sorte di Beneficj, cioè con queste rendite, e dignità ecclesiastiche, le quali erano chiamate Beneficj; affinchè con tal premio ciascuno si rendesse più animoso e forte, e adempisse al proprio dovere ed ufficio.

Ma questi beneficj non essendo, che un dritto annesso e dipendente dal ministerio di godere le rendite ecclesiastiche in vigore d'una canonica istituzione, bisognava, che chi il conferiva, avesse ragione e potestà di conferirlo, e che la persona, a chi si conferiva, fosse parimente ecclesiastica, per cagion del ministerio, a cui con titolo perpetuo era unito. Nelle diocesi la facoltà di conferire era de' Vescovi, i quali o liberamente gli conferivano, ovvero di necessità; ed era quando il beneficio non poteva conferirsi se non a colui, che il Padrone presentava in vigor del patronato, che v'avea: diritto, che erasi acquistato, o per aver fondata la Chiesa, o arricchitala di beni, sopra i quali avea istituito il beneficio.

I Pontefici romani trovaron mezzi non solo di tirar [144] in Roma le collazioni, e privarne i Vescovi, ed i padroni delle presentazioni, ma d'inventare nuove regole, perchè ogni cosa servisse a congregar tesori. Prescrissero certi termini, così agli uni, come agli altri, di valersi di loro ragione, li quali elassi, la collazione si devolve a Roma. Parimente se nominavano persone indegne ed incapaci, ed a' quali ostassero canonici impedimenti, a' quali essi soli si riserbarono la potestà di poter dispensare, togliendola ad ogni altro. Se fra gli presentati, o eletti accadeva litigio, la causa era tirata in Roma, e spesso il beneficio si conferiva nè all'uno, nè all'altro, ma ad un terzo. S'introdusse, che il Papa potesse concorrere, e prevenire ciascun collatore de' Beneficj. S'inventò la Riservazione, ch'è un decreto, per cui il Papa innanzi che un Beneficio vachi, si dichiara, che quando vacherà, nessuno lo possa conferire. Che li vacanti in Curia, la provisione sia del Papa; siccome tutti li vacanti per privazione, ovvero per traslazione ad un altro Beneficio, ed ancora tutti quelli, the fossero rinunziati in Curia, e tutti li Beneficj dei Cardinali, Ufficiali della Corte, Legati, Nunzj, ed altri Rettori e Tesorieri nelle terre dello Stato romano, e parimente li beneficj di quelli, che vanno alla Corte per negozj, se nell'andare, o nel tornare morissero circa 40 miglia vicini alla Corte, ed ancora tutti quelli, che vacassero, a cagione che li possessori loro avessero avuto un altro beneficio.

Furono ancora introdotte le Rassegnazioni, comandandosi sotto spezioso pretesto di levare la pluralità de' Beneficj, che chi ne avea più gli rassegnasse; e per l'avvenire, chi avendo un beneficio curato ne ricevesse un altro, dovesse parimente rassegnar il primo, e li rassegnati fossero riservati alla disposizione del Papa.

[145]

S'introdussero in questo secolo le Commende dei beneficj, le quali secondo la loro istituzione antica, non duravan, che per poco tempo: perchè vacando un beneficio, che dall'Ordinario per qualche rispetto non si potesse immediatamente provvedere, la cura di quello era raccomandata dal Superiore a qualche soggetto degno, sin tanto che la provisione si facesse, il quale però non aveva facoltà di valersi dell'entrate, ma di governarle, e riserbarle al futuro successore; ma poi, ancorchè i Pontefici proibissero a' Vescovi il Commendare più che sei mesi, essi passarono a dare le Commende a vita. E le Commende delle nostre Badie rendute ricchissime, che stabilirono nel nostro Reame, han tirato in Roma più tesori, che quelle di tutte le altre parti d'Italia.

Papa Giovanni XXII che si distinse sopra tutti gli altri per l'esquisita diligenza, che avea in cavar danari d'ogni cosa, onde in 20 anni di Pontificato ragunò incredibili tesori, e con tutta la profusione usata in vita, pure lasciò alla morte sua 25 milioni: introdusse da poi l'Annate, ordinando, che per tre anni ogniuno, che otteneva beneficio di maggior rendita, che 24 ducati, dovesse nell'espedizione delle Bolle pagare l'entrata d'un anno: il qual pagamento però finiti li tre anni fu continuato così da lui, come da' suoi successori.

Furono anche introdotte le Pensioni sopra i beneficj, le quali sono riuscite più utili che i beneficj stessi. S'introdussero anche le Coadiutorie, i Regressi, le Grazie espettative, gli Spogli e tanti altri modi per tirar denaro in Roma[177]. Ma sopra tutto li tanti divieti, [146] per potervi appoggiar poi le tante dispense, così per la pluralità de' beneficj in una persona, come per li gradi di matrimonj, per le irregolarità, per l'illegittimità di natali, e per tante altre infinite ed innumerabili cagioni; onde non concedendosi quelle senza denari, vennesi per tante, e sì diverse scaturigini ad essere ben provveduta di tesori la Reggia universale del Cristianesimo: con impoverirsi all'incontro le nostre Chiese, e togliersi ai nostri Vescovi la provisione di quasi tutti i beneficj del Regno, li quali erano in Roma provveduti nella maggior parte a' forestieri, esclusi i nazionali, contro il prescritto de' Canoni.

Quando nella general Dieta tenuta in Vormazia, alle querele de' Principi e de Vescovi si trattò di togliere questi abusi, narra il Cardinal Pallavicino[178], che i Legato del Papa Alessandro altamente si protestava, che ciò sarebbe uno sconvolgere tutto il Mondo: e facendo la Chiesa un Corpo politico, diceva che il volerlo ridurre all'antica disciplina, era l'istesso, che far tornare un giovane al vitto, che usò bambino; e che siccome le complessioni si mutano ne' corpi umani, così parimente avviene ne' Corpi politici. E quando nel Concilio di Trento s'ebbe a trattare di quest'istessa materia, per darvi almeno riforma, fu la cosa più sensibile e spiacente, che mai potesse proporsi. Si opposero con vigore i Prelati del Papa, e difendevano gli abusi per quest'istesso, che sarebbe dissolvere questo Corpo politico, e questa gran Monarchia; e l'istesso Cardinal Pallavicino[179] alla svelata dice, ch'essendo il Papa il Supremo Principe, che ha tanti gran [147] Senatori venerati con regali onoranze, in una Reggia universale del Cristianesimo, non deve sembrar cosa strana, se per conservar lo splendore d'una Reggia ecclesiastica abbia tirato a se tutte le grazie, le dispense, le collazioni, e tanti altri emolumenti per le resignazioni, regressi, annate, pensioni, spogli e tanti altri modi introdotti per tirar danaro in Roma; poichè (e' dice) siccome qualunque Principe riscuote senza biasimo i diritti per le grazie e per le dispensazioni, ch'egli concede secondo le tasse del suo Governo, così non debba biasimarsi il Papa Principe Supremo e Monarca, per ciò che concede e dispensa nel Cristianesimo; e siccome i Principi qualora talun de' suoi Fedeli s'è segnalato in qualche azione militare o politica, gli concede Feudi o altra mercede; così il Papa Principe Supremo dispensa quanti beneficj egli vuole a chi s'è segnalato in qualche azione o d'aver maneggiato bene un affare, compita bene una Legazione o Nunziatura o fatti altri importanti servizi alla Santa Sede; ed affinchè non fossero distratti dai loro impieghi, e si togliesse l'incompatibilità d'aver molti di questi beneficj, e non adempire a' ministeri, a cui sono annessi, s'introdusse, che in vece dell'ufficio, bastasse la semplice recitazione del breviario e dell'ore canoniche.

Per mantener questa Reggia, dice ancor questo Cardinale[180], che bisognava aprire più fonti per cavar denari ed onori, onde i Ministri si mantengano con decoro e pompa conveniente a' Re; e che perciò non debbasi molto badare all'unione di più beneficj in una persona, senza obbligargli alla residenza. Questi sono i mezzi in verità (e' dice) per conservar con splendore [148] l'Ordine clericale, ed una Reggia ecclesiastica; un de' più efficaci è la copia di que beneficj, i quali non obbligano a residenza: dovea provvedersi con ciò ed una Corte e ad una Reggia universale. Ed altrove[181] valendosi del medesimo paragone del Principe, apertamente dice, che siccome l'erario del Principe bisogna star sempre pieno per ben governarsi lo Stato, così, tener l'erario vuoto il Papa, Principe supremo, è l'istesso, che allentar la disciplina. Quindi conchiude, che il riformar la Datarìa, proibire a' Giudici ecclesiastici impor pene pecuniarie, ed il levar le spese nelle dispensazioni, era un allentar la disciplina; poichè la pecunia (sono sue parole) è ogni cosa virtualmente; così la pena pecuniaria è dall'umana imperfezione la più prezzata di quante ne dà il Foro puramente ecclesiastico: il quale non potendo, come il secolare, porre alla dissoluzione il freno di ferro, convien che gliel ponga d'argento.

§. III. Della conoscenza nelle Cause.

Tirate tutte le cause d'appellazioni in Roma, si proccurò ampliare la giurisdizione del Foro episcopale, e stendere la conoscenza de' Giudici ecclesiastici sopra più persone, ed in più cause, sicchè poco rimanesse a' Magistrati secolari d'impacciarsene. Federico II in alcuni enormi e gravi delitti de' Cherici, perchè non rimanessero impuniti, prendeva egli sovente a fargli castigare: ma Clemente nelle condizioni dell'investitura data a Carlo, volle nel 20 articolo che si stabilisse, che in tutte le cause così civili, come criminali [149] non si potessero convenire avanti il Giudice secolare, se non si trattasse civilmente di cause feudali. E le sorprese, che a questi tempi si fecero, non pure presso di noi, durante il Regno degli Angioini, ma anche nel Regno stesso di Francia, furono maravigliose. I nostri Re della Casa di Angiò riconoscendo da' romani Pontefici il Regno; e vedendo che in Francia anche quei Re lo sofferivano, non aveano cuore di resistere e di opporsi. Sottratto l'Ordine ecclesiastico totalmente dalla giurisdizione secolare, ed arricchito di molti privilegi ed immunità, si pensò stendere in prima l'esenzione a più persone che non erano di quell'Ordine.

I. Essi mettevano al numero de' Cherici tutti quelli che avevano avuta tonsura, ancorchè fossero casati, ed attendessero ad altre occupazioni, che ecclesiastiche; e narra Carlo Loyseau[182], che in Francia la cosa s'era ridotta in tale estremità, che quasi tutti gli uomini erano di loro giurisdizione, perchè ciascuno prendeva tonsura per esenzionarsi dalla giustizia del Re o del suo Signore, più tosto che per servire alla Chiesa. In Francia però quest'abuso fu nell'anno 1274 corretto a riguardo dell'esenzioni delle tasse o gabelle dal Re Filippo l'Ardito, il quale volle che i Cherici casati fossero sottoposti alle tasse, come li puri laici, e l'immunità loro rimanesse solo a riguardo del Foro, la quale pure fu poi lor tolta dall'Ordinanza di Rossiglione, la quale questa immunità la conservò solamente ai Cherici costituiti negli Ordini Sacri, e poi il Parlamento la conservò anche a' Beneficiati. Ma nel nostro Regno l'abuso non fu tolto all'intutto, e rimase sol corretto a riguardo dell'esenzioni delle collette [150] o gabelle, rimanendo loro l'immunità a riguardo del Foro, perchè facevano i Re della Casa d'Angiò valere nel Regno la Costituzione di Bonifacio VIII, per la quale era stato conceduto a' Cherici conjugati privilegio d'immunità; onde il Re Roberto nel 1322 ordinò a' suoi Ufficiali del Regno che osservassero detto privilegio, e che non procedessero, così nelle loro cause civili, come criminali, purchè però abbiano contratto matrimonio con una, e vergine, portino la tonsura, e le vesti chericali, e non si meschino in mercatanzie e negoziazioni; ed ancora se non abbiano assunto la tonsure, ed abito del Chericato dopo commesso il delitto per evitar la pena[183]. La qual Ordinanza fu rinnovata poi dalla Regina Giovanna I nell'anno 1347[184]; e confermata dal Re Ferdinando I d'Aragona per sua Prammatica[185] stabilita nell'anno 1469.

Parimente nel nostro Regno a' Frati terziarj di S. Francesco che sono mantellati e cordonati, ed abitano in luoghi claustrali; siccome alle Bizoche, che vivono con voto verginale o celibe viduale, pure loro si diede l'esenzione dal Foro secolare. E nel Regno degli Angioini la cosa si ridusse a tal estremità, che fino le Concubine de' Cherici godevano esenzione; e quel che fa più maraviglia, ne furon persuasi gli stessi nostri Principi, leggendosi, che i Cherici della città e diocesi di Marsico si querelavan col Re Roberto, perchè il Giustiziero della provincia di Principato citra procedeva contro le loro concubine; imperocchè avendo il Re Carlo II padre di Roberto per suoi Capitolari ordinato, che le concubine scomunicate, le quali passato [151] l'anno persistevano pure nella scomunica, fossero multate in certa quantità di denari, il Giustiziero, anche dalle concubine de' Cherici voleva esiger la multa; onde il Re Roberto nell'anno 1317 ordinò al medesimo, che non procedesse contro di loro in virtù del detto Capitolo di suo padre, nè tampoco le molestasse nelle persone, nè nelli beni, ma che lasciasse il castigo di quelle alli Prelati delle Chiese[186].

S'introdussero ancora nel Regno i Diaconi selvaggi che pure pretendevano esenzione; e bisognò per correggere in parte quest'altro abuso, che il suddetto Re Ferdinando I, nel 1479, pubblicasse prammatica[187] colla quale fu stabilito, che qualora non sono ascritti al servizio d'alcuna Chiesa, ma si mescolano ne' negozi secolari, e di Diaconi e di Cherici non abbiano che il puro nome, s'abbiano da riputare come veri laici, in modo che siano soggetti al Foro secolare, ed avanti giudici secolari, così nelle cause civili, come criminali, debbano essere convenuti, e debbano soffrire tutti i pagamenti fiscali, gabelle, collette, e tutti gli altri pesi, che sostengono i laici. Fu da poi praticato, che non godessero il privilegio del can. si quis suadente, nè il privilegio del Foro nelle cause civili, ma solo nelle criminali, e nelle civili in quanto al costringimento del corpo, rendendogli immuni da' pesi personali, non però di gabelle, collette, ed altri pagamenti fiscali e pesi reali. Intorno a che dal nostro Collaterale per varie consulte, e dal Tribunale della regia Camera per molti suoi Arresti fu meglio regolato tutto quest'affare, e [152] rimediato in parte agli abusi; di che è da vedersi il Chioccarelli[188].

Ancora fra noi fu uno de' punti controvertiti se i laici famigliari de' Vescovi dovessero convenirsi così nelle cause civili, come criminali avanti il Vescovo, o pure avanti Giudici secolari[189]; pretendendo gli Ecclesiastici tirargli al loro Foro episcopale.

Parimente stendevano la esenzione conceduta alle loro persone, anche sopra i mobili de' Cherici, in conseguenza di quella massima mal intesa, mobilia sequuntur personam, di maniera che tutti li mobili delle genti di Chiesa casate o non casate, non potevano essere eseguiti, nè ad altri aggiudicati dal Giudice laico.

II. Essi sostennero, che ogni causa dove occorresse mala fede, e per conseguenza peccato, fosse della loro giurisdizione, come quella nella quale occorre di doversi trattare del soggetto dell'anima, di cui essi sono i Moderatori; e così essi intendevano il passo del Vangelo, si peccaverit frater tuus, dic Ecclesiae, particolarmente quando le Parti se ne querelavano; la qual querela perciò essi chiamavano denuncia Evangelica, siccome è ampiamente trattato nelle Decretali[190], dove il Papa vuol prendere a giudicare delle differenze tra i Re di Francia e d'Inghilterra toccante la devoluzione pretesa dal Re di Francia de' Feudi e Signorie, che il Re d'Inghilterra teneva di quella Corona, a cagion della costui fellonia; per la qual cosa essi si pretendevano Giudici competenti quasi in ogni azione eziandio personale, anche tra laici, dicendo, che rare volte ella era esente dalla mala fede, e per conseguenza [153] dal peccato, o dell'una, o dell'altra parte: e quando si trattava dell'esecuzione de' contratti, essi non facevano difficoltà di tirar alla loro conoscenza la lite, a cagion del giuramento, che per lo stile comune de' Notai vi è inserito[191], confondendo malamente la censura de' costumi colla giurisdizione, e la correzion penitenziale colla giustizia contenziosa, senza aver riguardo al fatto di Natan con Davide rapportato anche da Graziano nel suo Decreto[192].

III. Per somigliante ragione essi sostenevano, che la conoscenza de' testamenti loro appartenesse, come materia di coscienza, dicendo, ch'erano li naturali esecutori di quelli; anzi ch'essendo il corpo del defunto testatore lasciato alla Chiesa per la sepoltura, la Chiesa ancora erasi fatta padrona de' suoi mobili per quietare la coscienza, ed eseguire il suo testamento. E Carlo Loyseau[193] ci testifica, che in Inghilterra erasi introdotto perciò costume, che quando taluno moriva senza testamento, il Vescovo o persona da lui destinata s'impadroniva de' mobili di quello. E che in Francia anticamente gli Ecclesiastici non volevano seppellire i morti, se non si metteva tra le loro mani il testamento, o in mancanza del testamento, non s'otteneva licenza speziale del Vescovo; tanto che nell'anno 1407 bisognò che il Parlamento rimediasse a tanto abuso, con far decreto contro il Vescovo di [154] Amiens, e li Curati d'Abbeville, che coloro, che morivano intestati, fossero senza contraddizione, e senza comandamento particolare del Vescovo seppelliti. Ed erasi parimente in Francia introdotto costume, che gli afflitti eredi per salvare l'onore del defunto, morto senza testare, dimandavano permissione al Vescovo di poter per lui testare ad pias causas; e vi erano degli Ecclesiastici, li quali costringevano gli eredi dell'intestato di convenire a prender Arbitri, per determinare la somma, che il defunto avesse dovuto legare alla Chiesa.

Da queste intraprese degli Ecclesiastici nacque nel nostro Regno la pretensione di alcuni Vescovi, d'arrogarsi la facoltà di far essi i testamenti ad pias causas per li laici, che muojono ab intestato, siccome per antica usanza lo pretesero i Vescovi di Nocera de' Pagani, d'Alife, d'Oppido, di S. Marco ed altri Prelati nelle loro diocesi, i quali sovente applicavano i beni del defunto a se stessi. Ed in alcune parti del Regno i Prelati pretesero indistintamente d'applicarsi a lor beneficio la quarta parte de mobili del defunto morto senza testare. E si penò molto presso di noi per estirpar questi abusi, e non se negli ultimi tempi, alle reiterate consulte della regia Camera, e voti del Collaterale, vi si diede rimedio, con ispedirsi più lettere ortatoriali a' Vescovi, affinchè non presumessero d'arrogarsi tal potestà, e sovente contro gl'inobbedienti si è proceduto al sequestro delle loro entrate, ed a carcerazioni de' congiunti; non perdonandosi nemmeno al Vescovo di Nocera, con tutto che per se allegasse l'immemoriale, come un abuso condannabile, e più tosto corrutela, che lodevole usanza[194].

[155]

Da ciò è nato ancora, che siavi presso di noi rimaso costume, siccome anche dura in Francia che li Curati, o i Vicari siano capaci come i Notai di ricevere li testamenti, e quando dispongano ad pias causas, ancorchè fatti senza solennità, dar loro vigore ed osservanza.

IV. Per cagion della connessità, se tra più compratori, coeredi, o condebitori, uno ne fosse Cherico, essi dicevano, che il privilegiato, come più degno, deve tirare avanti il suo Giudice tutte le altre parti. Parimente li Canonisti dicevano, che il laico poteva prorogare la giurisdizione ecclesiastica, e non il Cherico la secolare: e dicevano ancora, che apparteneva al Giudice ecclesiastico supplire il difetto, o negligenza del Giudice laico, e non al contrario; e quando se gli dimandava la ragione, essi dicevano, che ciò era, perchè anticamente gli Ecclesiastici erano giudici de' laici così ben che de' Cherici, e che non v'era perciò inconveniente, che le cose tornassero nella loro prima natura, come dice il Cardinal Ostiense[195]. E pure da' precedenti libri di quest'Istoria si è chiaramente veduto, che la giustizia ecclesiastica in ciò che ella è contenziosa, è stata conceduta dalli Principi, e dismembrata dalla giustizia temporale ed ordinaria, e fu chiamata perciò privilegio Chericale; e li Canonisti la chiamano pure privilegium Fori, per denotare ch'è contro il diritto comune.

V. Essi sostenevano, che tutte le cause difficili, spezialmente in punto di ragione, loro appartenessero, e principalmente quando vi era diversità d'opinioni tra' Giureconsulti o Giudici: allegavano perciò quel passo [156] del Deuteronomio[196]: Si difficile, et ambiguum apud te judicium esse prospexeris, et judicium intra Portas videris variari, venies ad Sacerdotes Levitici generis, et ad Judicem, qui fuerit illo tempore, qui judicabunt tibi veritatem, et facies quaecumque dixerint qui praesunt in loco, quem elegerit Dominus. Quando è a tutti palese la gran differenza tra le leggi romane, e la politia del vecchio e nuovo Testamento. E da questo principio avvenne, che si veggano in più luoghi delle Decretali cause difficili decise da' Pontefici, che non erano in conto alcuno della giustizia ecclesiastica, come fra l'altre la famosa decretale Raynutius[197].

VI. Dicevano, che apparteneva ad essi il supplire al difetto, negligenza, o suspizione del Giudice laico[198]; e sotto questo pretesto, se un gran processo durava lungo tempo nel Tribunale secolare, lo tiravano a loro. Quindi s'arrogavano la facoltà di conoscere delle suspizioni de' Giudici laici, e quest'abuso non pure in Francia, come testifica Loyseau[199], ma anche ne' Regni di Spagna erasi introdotto[200], e presso di noi nel Regno degli Angioini avea preso anche piede; e fu tanta la soggezione a' Pontefici romani, ovvero la stupidezza de' nostri Principi Angioini, che non senza gran maraviglia, tra i Riti della nostra Gran Corte della Vicaria[201], si legge una prammatica della Regina Giovanna II colla quale ordina, che (toltane la città di Napoli, dove vuole che le suspizioni si conoscano [157] dal G. Protonotario) in tutte le altre città e luoghi del Regno, le suspizioni s'abbiano ad allegare avanti il Vescovo diocesano, e suo Vicario. E con tutto che nel regno degli Aragonesi non si fosse fatta osservare, nulladimanco non mancavano i Vescovi, quando lor veniva fatto, di prenderne la conoscenza.

Ma succeduti gli Spagnuoli, usarono costoro rimedj più forti per togliere quest'abuso, perchè avendo nel 1551 l'Arcivescovo d'Acerenza tentato d'intromettersi a conoscere della suspizione allegata innanzi a lui dal Capitano di Pietrapertosa contro i suoi Sindicatori, D. Pietro di Toledo, ad istanza di quella Università, con voto del regio Collateral Consiglio, scrisse una grave lettera ortatoriale all'Arcivescovo, insinuandogli, che dovesse astenersi di conoscere di quella sospizione, spettando tal conoscenza alla giurisdizione del Re, non essendo stata la pretesa prammatica osservata, e che facendone il contrario avrebbe proceduto contro di lui, come di chi cerca usurparsi la giurisdizione regia[202]: la qual lettera, narra Prospero Caravita[203], averla egli fatta imprimere fra le altre prammatiche di questo Regno, che oggi giorno si legge in quel volume. E nel governo di D. Parafan di Riviera, essendo stato questo Vicerè avvisato che i Vescovi e i loro Vicarj nelle province di Principato citra e di Basilicata, s'abusavano d'intromettersi a conoscere delle cause di sospizione degli Ufficiali, dirizzò nel 1566 un premuroso ordine al Governadore di quelle province, comandandogli, che in suo nome facesse emanar bando sotto gravi pene in [158] tutte le città, terre e luoghi di quelle province, che nelle cause di sospizioni le parti litiganti non debbano più aver ricorso a' diocesani, ma che lo dovessero avere nella regia Audienza, dove loro sarà ministrato complimento di giustizia: il quale ordine fu pure fatto imprimere tra le nostre prammatiche[204] affinchè tra noi si togliesse affatto quest'abuso.

VII. Sotto colore, che negli antichi Canoni trovavano, che il Vescovo era protettore delle persone miserabili, come delle vedove, pupilli, stranieri e poveri, volevano conoscere di tutte le loro cause[205]; ancorchè vi sia gran differenza tra proteggere i miserabili, e proccurar per essi la giustizia, che d'esser Giudice delle loro cause.

VIII. Inventarono un altro genere di giudicio, chiamato di Foro misto, volendo, che contro il secolare possa procedere così il Vescovo, come il Magistrato, dando luogo alla prevenzione, come sono i delitti di bigamia, d'usura, di sagrilegio, d'adulterio, d'incesto, di concubinato, di bestemmia, di sortilegio e di spergiuro, siccome ancora le cause di decime e di legati pii. Nel che essi v'aveano questo vantaggio, perchè colla esquisita lor sollecitudine, sempre prevenendo, non lasciavano mai luogo al Magistrato secolare, e se l'appropriavan tutti, come reputati anche da essi, delitti ecclesiastici. E nel nostro Reame non si finiron d'estirpare affatto questi abusi, se non nel Regno degli Spagnuoli, i quali non ammisero prevenzione alcuna, e la cognizione de' suddetti delitti contro i laici fu attribuita interamente a' Giudici [159] regi[206]; non dovendosi riputar in modo alcuno ecclesiastici perchè veramente li delitti ecclesiastici, o sono quelli che concernono la politia ecclesiastica, come dice Giustiniano nella Nov. 83 ovvero li minori delitti, di cui la Giustizia ordinaria ne trascura la ricerca, e di cui perciò la primitiva Chiesa ne intraprendeva la censura o correzione, per conservare una particolar purità di costumi tra' Cristiani; ma questa correzione ei faceva sommariamente, e senza giudizio contenzioso; come si è narrato nel primo e secondo libro di questa Istoria.

IX. Si appropriarono tutte le cause matrimoniali, dicendo, che essendo stato il contratto di matrimonio da Cristo S. N. elevato a Sacramento, la cognizione di tutte le cause a quello appartenenti deve essere de' Giudici ecclesiastici. Ma s'è veduto ne' precedenti secoli, che i Principi cattolici presero essi la cura dei matrimonj, essendo cosa chiarissima, che le leggi de' matrimonj, i divieti e le dispense de' gradi, tutte furono stabilite dagl'Imperadori; e fin tanto che le leggi romane ebbero vigore, i giudicj a quelli appartenenti erano innanzi a' Magistrati secolari agitati: il che la sola lettura de' Codici di Teodosio e di Giustiniano e delle Novelle lo dimostra evidentemente. E nelle formole di Cassiodoro[207], come altrove fu da noi rapportato, restano memorie de' termini usati da' Re ostrogoti nelle dispense de' gradi proibiti, che allora erano reputate appartenere al governo civile, e non cosa di religione; ed a chi ha cognizione dell'istoria, è cosa notissima, che gli Ecclesiastici sono entrati a giudicar cause di tal natura, parte per commessione [160] e parte per negligenza de' Principi e de' Magistrati. Ma di ciò ora, per la determinazione del Concilio di Trento[208], non lece più dubitarne.

Finalmente i Dottori romani[209] arrivarono insino ad insegnare, che i delinquenti ne' territorj d'altri Principi, non si debbano rimettere, ma mandarsi a dirittura in Roma per esser puniti, perchè il Papa essendo il Signore della città di Roma, ch'è la comune Patria di tutti, avendo l'Imperador Antonino per sua legge[210] statuito, che tutti coloro, che nascono nell'Orbe romano, s'intendano fatti cittadini romani, meritamente come suoi sudditi può prendergli a giudicare e punirgli[211].

Nè finirono qui le loro intraprese, perchè vi sono altri innumerabili casi, ne' quali eran costretti i laici piatire avanti Giudici ecclesiastici, de' quali non comporta il mio istituto farne qui un più lungo catalogo. Essi furon nientedimeno compresi da Ostiense[212] in sette versi, che chi gli considera, non può non rimaner sorpreso in veggendo a quale sterminata ampiezza avessero gli Ecclesiastici a questi tempi stesa [161] la loro conoscenza; donde conoscerà ancora, che non vi è fine all'usurpazione, da poi che una volta li limiti della ragione sono superati ed oltrepassati.

Tutte queste intraprese della Giustizia ecclesiastica, non meno presso di noi, durante il Regno degli Angioini, che in Francia durarono lungamente, ma da poi i Franzesi valendosi di rimedi forti ed efficaci, ruppero le catene; e per l'Ordinanza del 1539 furono molto ben risecate, la quale rimise la loro giustizia al giusto punto della ragione, lasciando solamente alla Chiesa la conoscenza de' Sacramenti tra tutte le persone, e delle sole cause personali degli Ecclesiastici[213]; che fu in effetto ritornare all'antica distinzione delle due potenze, lasciandosi le persone e le cose spirituali alla Giustizia ecclesiastica, e le temporali alla temporale. Nel nostro Reame gli Spagnuoli cominciarono a risecar gli abusi, ma non ridussero la loro Giustizia al giusto punto, come si fece in Francia; perchè gli Spagnuoli, come saviamente fu osservato da Pietro di Marca Arcivescovo di Parigi, e da noi si farà vedere, quando ci toccherà ragionare del lor governo, vollero medicar la ferita giurisdizione regia con impiastri ed unguenti, non già col fuoco e col ferro, come si era fatto in Francia.

§. IV. Tribunale dell'Inquisizione.

Per meglio stabilir la Monarchia, fu in questo secolo introdotto in Roma il Tribunale dell'Inquisizione. Innocenzio III, come si è veduto nel decimoquinto libro di quest'Istoria, non avea agl'Inquisitori eretto [162] Tribunale alcuno; ed il nostro Imperador Federico II nè meno presso di noi l'eresse, ma a' Magistrati ordinari commise la condannazione degli Eretici, i quali insieme co' Prelati delle Chiese da lui destinati, ai quali s'apparteneva la conoscenza del diritto, dovevano invigilare per estirpargli. Ma morto l'Imperador Federico, essendo le cose di Germania in confusione, e l'Italia in un Interregno, che durò 23 anni, Innocenzo IV rimanendo quasi arbitro in Lombardia, ed in alcune altre parti d'Italia, e vedendo il gran progresso, che gli Eretici aveano fatto nelle turbazioni passate, applicò l'animo all'estirpazione di quelli; e considerate l'opere, che per l'addietro aveano fatte in questo servigio i Frati di S. Francesco, ebbe per unico rimedio il valersi di loro, adoperandogli, non come prima, solo a predicare, o congregare i Crocesignati, ma con dare ad essi autorità stabile, ed erger loro un fermo Tribunale, il quale d'altra cosa non avesse cura.

Ma a ciò due cose s'opponevano: l'una, come si potesse senza confusione smembrar le cause d'eresia dal Foro episcopale, che le avea sempre giudicate, e costituir un Ufficio proprio per esse sole: l'altra come si potesse escludere il Magistrato secolare, al giudicio del quale era commesso il punir gli Eretici, per l'antiche leggi imperiali, e per l'ultime dell'Imperador Federico II ed ancora per li propri statuti, che ciascuna città era stata costretta ordinare, per non lasciar precipitare il governo in que' gran tumulti. Al primo inconveniente trovò il Pontefice temperamento, con erger un Tribunale composto dell'Inquisitore e del Vescovo, nel quale però l'Inquisitore fosse non solo il principale, ma il tutto, ed il Vescovo vi avesse poco [163] più, che il nome. Per dar anche qualche apparenza d'autorità al Magistrato secolare, gli concesse d'assegnar li Ministri all'Inquisizione, ma ad elezione degl'Inquisitori medesimi: di mandare coll'Inquisitore, quando andasse per lo Contado, uno de' suoi Assessori, ma ad elezione dell'Inquisitore stesso: di applicare un terzo delle confiscazioni al Comune; ed altre cose tali, che in apparenza facevano il Magistrato compagno dell'Inquisitore, ma in sostanza servo. Rimaneva di proveder il danaro per le spese, che si sarebbero fatte nel custodire le prigioni, ed alimentar gl'imprigionati; laonde si ordinò, che le Comunità le pagassero, e così fu risoluto, essendo il Papa in Brescia l'anno 1251.

Furono per tanto deputati li Frati di S. Domenico Inquisitori in Lombardia, Romagna e Marca Trivisana, li quali adempiendo al lor ufficio con molto rigore, cagionarono in Lombardia qualche tumulto: perciocchè avendo nel seguente anno Innocenzio deputato Inquisitore di Milano Fr. Pietro da Verona dell'Ordine de' Predicatori,[214] costui per estirpar da quella città alcuni infettati d'eresia, che si facevano chiamar Credenti, non trascurava diligenza per punirgli, onde alcuni incarcerava (sono parole del Pansa[215]) ad altri dava bando, e gli ostinati, in balia della Corte secolare faceva con l'ultimo supplicio del fuoco punire; ed avea già fatto molte esecuzioni, ed ordinato di farne dell'altre dopo Pasqua di Resurrezione; di che intimoriti alcuni principali Milanesi, dubitando della lor vita per li processi, che avean presentito aver loro fatti fabbricare l'Inquisitore, si congiurarono insieme, [164] e risolvettero di prevenir l'Inquisitore con farlo morire; onde accordati gli assassini, questi postisi in agguato in una solitudine fra Milano e Como, dove all'Inquisitore occorreva passare, quando lo videro, gli corsero subito colle spade nude addosso, e l'uccisero. Di che fattosene in Milano gran rumore, e preso de' delinquenti severo castigo, Innocenzio, per questo martirio sofferto, volle canonizzarlo per Santo, siccome la prima domenica di quaresima del seguente anno 1253 con molta solennità fu celebrata la canonizzazione, ed ascritto nel Catalogo de' Santi Pietro Martire da Verona. Si segnalarono anche in cotal guisa molti altri Frati di quest'Ordine, e di quello ancora de' Frati Minori, i quali mandati dal Papa nelle parti di Tolosa, molti ne furono per simili esecuzioni ammazzati. Ma non perciò riputò Innocenzio di rallentar il rigore, anzi sette mesi da poi che in Brescia avea date le leggi per questo Tribunale, dirizzò una Bolla a tutti i Rettori, Consigli e Comunità di quelle tre province, prescrivendo loro XXXI Capitoli, che dovessero osservare per lo prospero successo del nuovo Tribunale, comandando, che li Capitoli fossero registrati fra gli Statuti del Comune, ed osservati inviolabilmente. Diede poi autorità agl'Inquisitori di scomunicargli, ed interdirgli, se non gli osservassero. Non si distese il Pontefice per allora ad introdurre l'Inquisizione negli altri luoghi d'Italia, nè fuori di quella, dicendo, che le tre province soprannomate erano più sotto gli occhi suoi e più amate da lui. Ma la principal cagione era, perchè in queste egli avea grande autorità, essendo senza Principi, e facendo ogni città governo da se sola, nel quale il Pontefice avea anche la parte sua, poichè aveva loro aderito nell'ultime guerre. Ma contuttociò [165] non fu facilmente ricevuto l'editto; onde Alessandro IV suo successore, sette anni da poi, nel 1259, fu costretto a moderarlo e rinovarlo. Comandò tuttavia agl'Inquisitori, che con le censure costringessero li Reggenti della città all'osservanza.

Per la stessa cagione Clemente IV, sei anni da poi, cioè nel 1265 lo rinovò nel medesimo modo, nè però fu eseguito per tutto, finchè quattro altri Pontefici suoi successori non fossero costretti ad usar ogni loro sforzo per superar le difficoltà, che s'attraversavano nel far ricevere il Tribunale in qualche luogo. Nascevano le difficoltà da due capi: l'uno per la poco discreta severità de' Frati Inquisitori, e per l'estorsioni ed altri gravami: l'altro, perchè le Comunità ricusavano di somministrar le spese; per la qual cosa risolsero di deporre la pretensione, che le spese fossero fatte dal Pubblico; e per dar temperamento al rigore eccessivo degli Inquisitori, diedero qualche parte di più al Vescovo, il che fu cagione, che con minor difficoltà s'introducesse l'Inquisizione in quelle tre province di Lombardia, Marca Trivisana e Romagna e poi in Toscana ancora, e passasse in Aragona ed in qualche città d'Alemagna e di Francia. Ma da Francia e da Alemagna presto fu levata, essendo alcuni degl'Inquisitori stati scacciati da que' luoghi per li molti rigori ed estorsioni, e per mancamento ancora de' negozi. Per la qual cagione si ridussero anche a poco numero in Aragona; poichè negli altri Regni di Spagna non erano penetrati.

Nel nostro Reame di Puglia, mentre durò il Regno de' Svevi, non fu variato il modo stabilito dall'Imperador Federico di procedere contro gli Eretici. Nè, morto Federico, per la nimistà e continue guerre tra [166] Corrado e Manfredi suoi successori con Innocenzio e con gli altri seguenti Pontefici, fu introdotta novità alcuna. Nelle Corti Generali da Federico istituite se ne prendeva cura, dove i Prelati doveano denunciargli, affinchè il Magistrato vi procedesse, di cui era il conoscer del fatto e la condanna, siccome de' Prelati la conoscenza del diritto. Erano non da Roma, ma da' nostri Principi destinati i Prelati per quest'Ufficio, i quali insieme co' Giudici regj, quando bisognava, scorrevano le province, e gl'imputati d'eresia, se convinti persistevano ostinatamente nell'errore, erano fatti morire; se davano speranza di ravvedimento, erano mandati nel Monastero di Monte Cassino, o a quello della Cava, dove si tenevano prigionieri, insino che dopo aver abjurato, non soddisfacessero la pena a loro imposta, siccome si è narrato ne' precedenti libri di questa Istoria.

Ma caduto il Regno in mano degli Angioini ligi de' romani Pontefici, ancorchè non si fosse introdotto presso di noi Tribunal fermo d'Inquisizione dipendente da quello di Roma; nulladimanco di volta in volta i Pontefici solevano destinar particolari Commessari Inquisitori per lo più Frati Domenicani, i quali scorrendo per le nostre province, col favore e braccio del Magistrato secolare, facevano delle esecuzioni. E quantunque queste commessioni non potessero eseguirle senza il placito regio; nulladimanco i nostri Principi Angioini per la soggezione, che portavano a' romani Pontefici, non solo non gl'impedivano, ma loro facevan dare da' Giudici regj ogni ajuto e favore; anzi sovente comandavano, che dal regio Erario loro fossero somministrate anche le spese. Così Carlo I d'Angiò nell'anno 1269 ordinò a' suoi Ministri, che pagassero [167] a Fr. Giacomo di Civita di Chieti Domenicano Inquisitore dell'eretica pravità nella provincia di Terra di Bari e di Capitanata costituito dalla S. romana Chiesa, un augustale d'oro il dì per sue spese e di un suo compagno, d'un Notajo e tre altre persone e loro cavalli[216]; e nel medesimo anno ordinò al Governadore della provincia di Terra di Lavoro, che a richiesta di Fr. Trojano Inquisitore costituito dalla Sede Appostolica gli prestasse ogni ajuto, consiglio e favore, quando, e dove vorrà, e che eseguisse subito le sue sentenze, che darà contro gli Eretici, loro beni e fautori[217]. Parimente scrisse a' regj Secreti di Puglia, che somministrassero 30 oncie d'oro a Fr. Simone di Benevento dell'Ordine de' Frati Predicatori Inquisitore dell'eretica pravità, costituito dalla Chiesa romana nel Giustizierato di Basilicata e di Terra d'Otranto[218]. Il medesimo Re nel 1271 ordinò a' suoi Ministri, che pagassero a Fr. Matteo di Castellamare Inquisitore nelle province di Calabria, un augustale il dì per le sue spese e d'un altro Frate suo compagno, un Notajo e tre altre persone[219]: e nell'anno 1278 mandò più lettere a' Giustizieri d'Abruzzo e Capitani dell'Aquila ed a tutti i suoi Ufficiali, che a F. Bartolommeo dell'Aquila dell'Ordine de' Predicatori Inquisitor deputato dalla Sede Appostolica nel Regno di Sicilia, somministrassero ogni ajuto e favore, con tormentare [168] i rei, secondo loro dirà detto Inquisitore ed eseguire quanto da colui verrebbe imposto[220].

Carlo II suo figliuolo nell'anno 1305 ordinò a tutti i Baroni e suoi Ufficiali, che dassero ogni ajuto a Frate Angelo di Trani Inquisitore destinato dalla Sede Appostolica, guardando e riducendo nelle carceri le persone macchiate d'eresie, secondo vorrà detto Inquisitore: che non molestino i suoi uomini per portar armi: eseguano le sentenze ch'egli darà contro le persone degli Eretici e loro beni; e che agl'Inquisitori di tali delitti, e per gli Ufficiali regj d'ordine del detto Inquisitore carcerati, si tormentino a richiesta di detto Frate Angelo, acciò possa cavare la verità da essi e dagli altri[221]: e nell'anno 1307 incaricò a Frate Roberto di S. Valentino Inquisitore del Regno di Sicilia, che con tutto rigore procedesse contro l'Arciprete di Buclanico, che corretto prima dal suo predecessore Benedetto, era ricaduto ne' primi errori, sostenendo falsa dottrina sopra alcuni articoli della fede Cattolica[222].

L'istesso Re negli anni 1295 e 1307 scrisse a Filippo suo figliuolo Principe d'Acaja e di Taranto, che Papa Clemente V avea scritto un Breve a Roberto Duca di Calabria suo figliuolo e Vicario generale del Regno avvisandogli, che il Re di Francia avea usata grandissima diligenza in carcerare per le loro eresie in un tempo stesso tutti li Cavalieri Templari che erano in Francia, e sequestrati i loro beni; e per ciò [169] lo richiedeva, che con consiglio secreto de' suoi Savii; facesse carcerare cautamente, e secretamente in un tempo tutti i Cavalieri Templari, ch'erano ne' dominii, e quelli carcerati, tenergli in buona custodia ad ogni ordine della Camera appostolica, siccome facesse sequestrare tutti i loro beni, e li tenesse in nome della medesima: onde Re Carlo ordina al detto suo figliuolo, che esegua detto Breve nel Principato d'Acaja, siccome il Duca di Calabria avrebbe fatto nel Regno.

Il Re Roberto suo successore nell'anno 1334 parimente ordinò a' suoi Ufficiali, che dessero ogni aiuto agli Inquisitori destinati da Roma; ed il medesimo stile fu tenuto dalla Regina Giovanna I nel 1343, dal Re Lodovico nel 1352 e dal Re Carlo III nel 1381, il quale donò a Tommaso Marincola suo famigliare i beni confiscati del Vescovo di Trivento eretico, come aderente all'Antipapa, e dichiarato ribelle di Santa Chiesa e del detto Re[223].

Non a' soli Frati Predicatori era commesso quest'ufficio, vi ebbero anche parte i Frati Minori, i quali dichiarati dal Papa Inquisitori scorrevano pure le nostre province. Era in questo secolo il numero degli Eretici cresciuto in immenso di varie Sette e di vari istituti. Alcuni, lasciate le loro religioni, affettando di vivere da Solitari senza Regola e senza Superiori, e di menar una più austera vita, si ritiravano nelle solitudini, e scorrevano in varie parti, contaminando dei loro errori molta gente. Si facevano chiamare Fraticelli, Bizocchi, Begardi, ovvero Beghini; e presso di noi erano moltiplicati assai ne' Monti d'Abruzzo e nella vicina Marca d'Ancona. Erano usciti dall'Ordine dei [170] Frati minori, ed avevano quasi tutti gli stessi principii e la stessa condotta; ed i loro Gonfalonieri furono due Frati minori, Pietro di Macerata e Pietro di Forosempronio, i quali prima ottennero da Papa Celestino V amatore della ritiratezza, la permissione di vivere da Romiti e di seguire litteralmente la Regola di S. Francesco; ma da poi Onorio IV, Niccolò IV e Bonifacio VIII condennarono il loro istituto; e i loro successori Clemente V e Giovanni XXII gli suppressero affatto[224]. Era commessa per lo più la cura d'estirpargli a' Frati Minori; onde si legge, che Bonifacio VIII commise a Fr. Marco di Chieti dell'Ordine de' Minori Inquisitore nella provincia di S. Francesco, che si portasse ne' Monti d'Abruzzo e nella Marca d'Ancona, ed implorando, se sarà di bisogno, il braccio secolare, proceda contro di loro e loro fautori, con incarcerargli, scovrirgli, e manifestargli dai nascondigli, ove solevan appiattarsi, mandargli in Roma prigioni e con molto rigore farne inquisizione[225]. Eglino si ritirarono perciò in Sicilia, cominciando a declamare contro i Prelati e contro la Chiesa romana trattandola da Babilonia.

In cotal modo fu, durante il Regno degli Angioini, praticata l'Inquisizione presso di noi; ma quanto poi questo Reame si fosse distinto sopra ogni altro, per aver tolto da se ogni vestigio d'Inquisizione, sarà narrato al suo luogo ne' seguenti libri di quest'Istoria.

[171]

§. V. Monaci e beni temporali.

Fa di mestieri da ora innanzi congiungere i Monaci co' beni temporali, perchè siccome altrove fu notato, che chi dice Religione, dice Ricchezze; così ora essendosi per gli acquisti de' beni temporali renduti più esperti i Monaci, che tutti gli altri Ecclesiastici, tantochè non vi è proporzione fra gli acquisti, che in questi tempi si fecero dalle Chiese, e quelli fatti da' monasteri, bisogna ora dire, Nuove Religioni, nuove Ricchezze; e tanto più la cosa fu portentosa, che non ostante, che fossero fondate sopra la mendicità, onde furon chiamate Mendicanti, contuttociò gli acquisti e le ricchezze furon immense.

Le Religioni, che sursero in questo secolo, riuscirono come tante Legioni, per conservare, e mantenere la Monarchia romana; ed i Pontefici non furon mai dagli altri cotanto ben serviti, quanto da costoro, i quali militavano con ogni fervore per sostenere la loro autorità, e per agevolare le loro intraprese; onde con ragione di tanti privilegi e prerogative gli cumularono. Coloro, che sopra tutti in questo secolo si distinsero, furono i Frati Predicatori ed i Frati Minori. De' primi, come si è veduto, fu autore Domenico Gusmano, il quale avendo gran tempo predicato contro gli Albigesi, prese nell'anno 1215 la resoluzione con nove suoi compagni di fondar un Ordine di Frati Predicatori, con istituto d'impiegar le loro prediche per estirpar l'eresie a quel tempo moltiplicate in Italia ed in Francia. Portossi Domenico a Papa Innocenzio III per ottener la conferma del suo Ordine; ma il Papa differì l'accordarla; e lui morto, ciò che non fece Innocenzio, [172] ottennero da Onorio III suo successore, il quale nell'anno 1216 lo confermò ed acconsentì, che quei Religiosi lasciassero l'abito di Canonici Regolari da essi sino a quel tempo portato, e prendessero un abito particolare, e osservassero nuove costituzioni. Si propagarono in Francia, ed in Parigi sin dall'anno 1217 ebbero un Monastero nella Casa di S. Jacopo, onde furono denominati Jacopini. Appena eran sorti, che vennero nel nostro Reame a fondarvi de' Conventi, ed ebbero gradito ricevimento; poichè avendo i Patareni ed altri Eretici, cominciato a contaminar Napoli e l'altre province. Gregorio IX gli spedì a Napoli, scrivendo nell'anno 1231 a Pietro di Sorrento Arcivescovo di questa Città, che benignamente gli ricevesse e che gl'impiegasse quivi a predicare, ed insinuasse a' Popoli a se commessi di ricevere dalle loro bocche il seme della parola di Dio, per essersi costoro cotanto segnalati in estirpar l'eresie, e con voto di volontaria povertà essersi in tutto applicati ad evangelizzare la sua parola[226]. Incaricò anche, che gli provvedesse in Napoli di una comoda abitazione, affinchè quivi agiatamente permanendo, potessero attendere con maggior fervore alla carica loro imposta. Scrisse consimile epistola al popolo Napoletano, incaricandogli, che benignamente e devotamente gli ricevessero, affinchè potessero felicemente pervenire al lor fine, e raccogliere il frutto delle loro fatiche, cioè la salute delle [173] anime[227]; ed insinuò anche al Cardinal Castiglione suo Legato appostolico nel Regno di Sicilia, che incaricasse all'Arcivescovo il loro ricevimento; per la qual cosa ricevute costui le lettere del Papa, e l'insinuazioni del Legato, gli ricevè con onore e gli diede per abitazione la Chiesa di S. Arcangelo ad Morfisam con un gran Monastero ivi congiunto, ch'era allora abitato da' Monaci Benedettini, i quali tenendo in Napoli altri grandi Monasteri, cedettero quello a' Frati Predicatori, resignandolo in mano dell'Arcivescovo con tutte le case ed orti adiacenti. L'Arcivescovo insieme col Capitolo ne investì Fra Tommaso, sotto la cui guida erano que' Frati qui venuti, e ne gli spedì Bolla, che si legge presso Chioccarello[228] sotto la data del primo di novembre 1231. Ampliarono poi que' Frati il lor Convento (che mutato l'antico nome lo chiamaron poi dal nome del loro Institutore S. Domenico) con altri orti contigui, per concessione avutane da Giovanni Francaccio, a cui l'istesso Arcivescovo nell'anno 1246 prestò l'assenso. Nell'anno 1269 in tempo dell'Arcivescovo Aiglerio per nuovi altri acquisti l'ingrandirono assai più[229], e vie maggiori ingrandimenti ricevè da poi nel Regno degli Angioini sotto Carlo II d'Angiò, cotanto appassionato di questa Religione, di che è da vedersi Engenio nella sua Napoli Sacra.

Non furono soddisfatti i Re di questa Casa d'aver in Napoli un solo Convento di Padri Predicatori, ma l'istesso Carlo II nell'anno 1274 ne costrusse un altro in onor di S. Pietro Martire da Verona, che come si disse nell'anno 1253 era stato da Innocenzio IV ascritto nel catalogo de' Santi. Lo dotò di ricchi poderi, [174] di molte case e di altre rendite. L'esempio del Principe mosse altri Nobili napoletani ad arricchirlo, come fecero Errico Macedonio, Bernardo Caracciolo, Giacomo Capano, ed altri rammentati dall'Engenio.

Parimente nella città d'Aversa edificò una Chiesa, e Convento a' Frati di quest'Ordine sotto il titolo di S. Luigi, che fu suo zio, al quale concedè ampissimi privilegi, e dotò di molte rendite[230].

Anche alle Suore Domenicane, che vivevano nel medesimo istituto, fu data in questa città comoda abitazione. Ad istanza di Maria, moglie di Carlo II, Papa Bonifacio VIII ordinò all'Arcivescovo di Capua, che alle Monache Domenicane si dasse per loro abitazione il Monastero di S. Pietro a Castello situato dentro il castello dell'Uovo, con tutte le case e possessioni; e che i Monaci Benedettini, che tenevano quel luogo si fossero trasferiti ne' monasteri di S. Severino, di S. Maria a Cappella e di S. Sebastiano. Ma essendo stato da poi il monastero di S. Pietro saccheggiato da' Catalani, e con gran vergogna cacciate le Monache, il Pontefice Martino V scrisse all'Abate di S. Severino, che desse loro ricetto nel Monastero di S. Sebastiano, che allora era stato dato in Commenda al Vescovo di Melito, e non v'abitava che un sol Monaco Benedettino, con ceder loro tutte le sue possessioni ed entrate, siccome fu eseguito; ond'è che per detta unione ritenga questo monastero ancora oggi il nome di S. Pietro e S. Sebastiano[231].

Non meno in Napoli, che in tutto il Regno multiplicaronsi i Frati Predicatori in questo secolo per lo [175] favore, che tenevano non meno de' Re angioini, che de' romani Pontefici. Innocenzio IV dirizzò nel 1245 un diploma agli Arcivescovi di Napoli, di Salerno e di Bari, col quale loro si dava facoltà, che in nome della Sede Appostolica, strettamente ordinassero a tutti gli Arcivescovi, Abati, Priori ed a tutti i Prelati delle Chiese de' Regni di Sicilia, che non inferissero a' Frati Predicatori gravame alcuno, e proibissero ai loro sudditi di dar loro molestia; e che proccurassero di fare ai medesimi mantenere tutte l'esenzioni ed immunità concedutegli dalla Sede Appostolica[232]. Crebbero perciò col favore de' Pontefici e de' nostri Principi della casa d'Angiò in maggior numero di quello, che avean fatto nel Regno di Federico e degli altri Svevi suoi successori; e molto splendore recò loro Tommaso d'Aquino, soprannomato il Dottor Angelico, uscito dalla famiglia de' Conti d'Aquino, il quale mal grado di sua madre entrò nell'Ordine de' Frati Predicatori nell'anno 1243, ed avendo in Parigi presa la laurea dottorale di teologia l'anno 1257, ritornò in Italia l'anno 1263 e dopo avervi insegnata la Scolastica nella maggior parte delle Università, si fermò in fine in Napoli a legger teologia, ricusando l'Arcivescovado di questa città, offertogli da Clemente IV.

Non disugual successo ebbero in questo Regno i Frati Minori. Essi riconoscono per loro istitutore San Francesco d'Assisi, e sursero ne' medesimi tempi, che i Valdesi; ma ebbero disuguale fortuna. Pietro Valdo Mercatante ricco di Lione prese anch'egli risoluzione di menar una vita tutta appostolica; ed avendo distribuite [176] tutte le sue facoltà a' poveri, fece professione d'una povertà volontaria. Molti seguirono il di lui esempio, onde verso l'anno 1160 si formò una setta d'uomini, che si denominavano i Poveri di Lione, a cagion della povertà da essi professata. Si dissero ancora Lionisti, dal nome della città di Lione; ed anche Insabbatati, a cagione di certa sorta di scarpe, ovvero sandali da essi portati, tagliati per far apparire i loro piedi ignudi ad imitazion degli Appostoli. Ma avean da poi preteso, senza missione del Vescovo e della Sede Appostolica, di poter eziandio predicare la lor riforma, ed insegnare la lor dottrina per se soli, ancorchè laici. Ebbero per ciò opposizione dal Clero di Lione; onde cominciarono per queste contese a biasimar la vita rilasciata degli Ecclesiastici, e declamare contro gli abusi, che vedevano introdotti nella Chiesa. Fu loro imposto silenzio; ma persistendo, Lucio III gli scomunicò, e gli condennò insieme con gli altri Eretici. Le scomuniche maggiormente l'irritarono e gli confermarono nella loro ostinazione, tanto che scossero il giogo dell'ubbidienza e caddero in molti errori. La loro setta si sparse in più luoghi onde obbligarono Pietro Re d'Aragona nell'anno 1197 di esiliargli dai suoi Stati, e Berengario Arcivescovo di Narbona di condennargli. Essi non potendo resistere a tanto impeto, risolvettero di ricorrere a Roma, e dimandare dalla Sede Appostolica la conferma del loro istituto.

Dall'altra parte Francesco pur egli mercatante d'Assisi, lasciato Pietro Bernardone suo padre a mercatantare, abbandonò ogni cura mondana, ed applicatosi ad una vita tutta appostolica fece anch'egli professione d'una povertà volontaria, e coll'esemplarità de' suoi innocenti costumi, avendo tirati molti compagni a vivere [177] in mendicità, e ad impiegarsi ad opere di carità, accresceva il numero più con gli esempii d'una vita innocente ed austera, che colle prediche e sermoni: non molto impacciandosi perciò, nè declamando contro i corrotti costumi degli Ecclesiastici, nè entrandogli in pensiero senza missione d'andar predicando ed insegnando la sua riforma; ma fu tutto ubbidiente alla Sede Appostolica; onde avendo distesa nell'anno 1208 una nuova Regola per li suoi Frati, la volle presentare al Papa per riceverne l'approvazione e la conferma. Papa Innocenzio III siccome rigettò l'Istituto de' Valdesi, avendolo conosciuto pieno di superstizioni e d'errori,[233] così nell'anno 1210 approvò la Regola di Francesco e l'Ordine de' Frati Minori, i quali ancorchè non lasciassero di andare a piedi ignudi, e di far voto d'una povertà, non aveano quelle tante superstizioni de' Valdesi. Si stabilirono perciò in più luoghi d'Italia, ed in Francia, sin da questo tempo ebbero ancora nell'anno 1216 ricetto in Parigi. Onorio III nell'anno 1223 confermò il loro Istituto, e di molte prerogative e privilegii decorò questo nascente Ordine.

Nel nostro Reame, ancorchè sotto Federico II e gli altri Re Svevi suoi successori (per essersene valsi i romani Pontefici, nelle contese che ebbero con que' Principi, per messi e portatori di lettere) avessero sovente patiti disagi, prigionie e morti; nulladimanco non lasciarono i nostri Regnicoli di ricevergli in questi medesimi tempi che sursero: e narrasi, che San Francesco istesso, loro Istitutore, avesse in molti luoghi del Regno fondati egli di sue proprie mani alcuni [178] piccoli Conventi, come in Bari, in Montella, in Terra d'Agropoli ed altrove[234]. Napoli ancora vanta d'aver avuto un Convento fondato dall'istesso Istitutore Francesco nel luogo ov'è ora il Castel Nuovo, che lasciò sotto la cura d'Agostino d'Assisi suo discepolo, il qual da poi da Carlo I d'Angiò fu trasferito in S. Maria la Nuova[235]. In breve siccome non vi è quasi città, che non vanti aver avuto S. Pietro per fondatore della sua Chiesa, così non vi è luogo, dove si vegga qualche Convento antico di quest'Ordine, che non vanti esserne stato egli il fondatore. Che che ne sia, non può mettersi in dubbio, che nella città di Napoli, fin dal suo nascimento, ebbe quest'Ordine ricevimento; poichè Giovanni Vescovo d'Aversa, possedendo in Napoli la Chiesa di S. Lorenzo con alcune case e giardini, appartenenti alla Cattedral Chiesa d'Aversa, col consenso del suo Capitolo nell'anno 1234 la concedè a Fr. Niccolò di Terracina Frate Minore di S. Francesco provinciale della provincia di Napoli, in nome di sua Religione, con condizione di dovervi quivi dimorare i Frati del suo Ordine, la qual concessione fu da poi nell'anno 1230 confermata da Papa Gregorio IX[236].

Ma nel Regno degli Angioini fu quest'Ordine non meno dai romani Pontefici, che da' Principi di questa casa molto più favorito e careggiato. Carlo I allargò l'antica Chiesa di San Lorenzo col palagio ivi congiunto, dove solevansi unire la Nobiltà ed il Popolo [179] e vi fabbricò una magnifica Chiesa, la quale fu ridotta a perfezione da Carlo II suo figliuolo, il quale nell'anno 1302 fra l'altre rendite, che le assegnò, le diede la terza parte della gabella del ferro. L'esempio del Principe trasse gli altri ad arricchirla: il nostro famoso Giureconsulto Bartolommeo di Capua G. Protonotario del Regno a sue spese fecevi fare tutta la facciata della porta maggiore, ed Aurelio Pignone del Seggio di Montagna la piccola porta[237]. L'istesso Re Carlo I volendo in Napoli fabbricar Castel Nuovo nel luogo ov'era quel convento de' Frati Minori poco anzi rammentato, trasferì da quivi i Frati, e loro costrusse nell'anno 1268 una nuova Chiesa e Convento nella piazza chiamata Alvina dov'era l'antico palagio e Fortezza della città, la quale anticamente fu detta S. Maria de Palatio, e poi prese il nome di S. Maria la Nuova, il qual oggi ancor ritiene[238].

Il Re Roberto gli favorì non meno che il padre e l'avo, e non pur careggiò i Frati, che le Suore di quest'Ordine. Siccome le Suore Benedettine ebbero per Fondatrice Scolastica sorella di S. Benedetto, così le Suore Francescane ebbero per Institutrice Chiara d'Assisi discepola di S. Francesco. Costei ricevendo con ardore gl'insegnamenti del suo maestro, si rese Monaca e si chiuse in Assisi nel Monastero di San Damiano, dove stese una Regola del suo Ordine, perchè dovesse servire per le donne. Mentr'era gravemente inferma, convenendo al Pontefice Innocenzio IV d'uscir da Perugia, e portarsi in Assisi, fu visitata dal Papa, il quale le confermò la Regola del suo Ordine; [180] e poco da poi trapassata, per la fama de' suoi incorrotti costumi, fu dal successor d'Innocenzio Alessandro IV ascritta al numero de' Beati[239]. Furono perciò edificati in memoria di lei molti Monasteri di donne del suo Ordine in Italia; ma in Napoli il Re Roberto a' conforti della Regina Sancia sua moglie nel 1310 ne costrusse uno, che più magnifico ed ampio non si vide allora in tutta Italia, dove la Regina v'introdusse le Monache della Regola di S. Chiara, da cui prese il nome, che ancor oggi ritiene. Fu d'immense rendite e possessioni dotato, e vi edificò a canto un Convento de' Frati del medesimo Ordine, perchè le servissero ne' sacri uffizi. La Chiesa fu costrutta con tal magnificenza, che fu reputata non inferiore a tutti gli altri superbi e ricchi tempj d'Italia; e di vantaggio la dichiarò Roberto sua Cappella Regia[240]. Presso di questa Chiesa lo stesso Re nel 1320 collocò in una casa alcune Monache dispensiere delle limosine regie; ma venuta in Napoli nell'anno 1325 dalla città d'Assisi una Monaca del Terzo Ordine di S. Francesco, infiammò di maniera le dispensiere, che di comun volere fabbricarono di quella casa una Chiesa con monastero, che si vide subito pieno di nobili donne napoletane tirate dallo spirito ad ivi rinserrarsi, e fra l'altre fuvvi Maddalena di Costanzo, la quale benchè avesse preso l'abito nel Monastero di S. Chiara, il Re Roberto aveala quivi mandata a presiedere alla distribuzione delle limosine regie. Dura ancora nella sua floridezza questo monastero, ed è nominato dal nome del lor Santo [181] Francesco[241]. Un altro monastero, fu eretto e dotato dalla Regina Sancia in Napoli nel 1324 per le donne di mondo convertite, le quali vissero sotto la Regola di S. Francesco, e presero di lor cura i Frati Minori; la lor Chiesa perciò prese il nome della Maddalena, che ancor oggi il ritiene, ma non già il medesimo istituto; perchè ora si ricevono donne nobili e vergini, e portano l'abito di S. Agostino, e militano sotto la Regola di quel Santo, se ben ritengano ancora la corda di S. Francesco[242].

Non meno in Napoli, che in tutte le province del Regno si videro multiplicati i monasteri de' Frati Minori e delle Suore Francescane; e col correr degli anni il di lor numero arrivò a tale, che non vi è città o castello ancorchè picciolo, che non abbia i suoi.

Surse in questo secolo un altro Ordine di Mendicanti, detto de' Romiti di S. Agostino. Innocenzio IV fu il primo che formò il disegno di unire diversi Ordini di Romiti in un solo; ma questo disegno fu poi eseguito dal suo successore Alessandro IV, il quale trattigli da' lor Romitaggi per istabilirgli nelle città, e per impiegargli nelle funzioni dell'ecclesiastica Gerarchia, ne fece una sola Congregazione sotto un sol Generale, e lor diede il nome de' Romiti di S. Agostino.

Non al pari de' due precedenti Ordini si multiplicarono presso di noi gli Agostiniani. Napoli in tempo degli Angioini ne noverava alcuni, come quello di S. Agostino, che secondo l'opinion più fondata, si crede aver avuti i suoi principii non prima di Carlo I [182] d'Angiò ampliato poi, e con maggiori rendite arricchito da Carlo II suo figliuolo e dagli altri Principi di quella Casa[243]: l'altro di S. Giovanni a Carbonara fu fondato da Frate Giovanni d'Alessandria e Dionigi del Borgo per munificenza di Gualtieri Galeota, il quale negli anni 1339 e 1343 donò a' medesimi per la costruzione di quella Chiesa e Monastero tutte le sue case e giardini, che e' possedeva in quel luogo; cotanto poi ingrandito e ristorato dal Re Ladislao[244]. Ve ne furono altri, ma nelle province del Regno se ne stabilirono moltissimi.

Parimente l'Ordine de' Carmelitani non fece a questi tempi fra noi grandi progressi. Era stato istituito intorno l'anno 1121 da alcuni Romiti del Monte Carmelo, adunati dal Patriarca d'Antiochia per mettergli in comunità. Da poi ricevette nell'anno 1209 una Regola da Alberto Patriarca di Gerusalemme, che fu approvata in questo secolo da Onorio III. Cotesti Religiosi passarono in Occidente l'anno 1238 e si stabilirono in Congregazione e vi si diffusero; essendo stata poi la lor Regola spiegata e mitigata da Innocenzio IV l'anno 1245. Diffusi per Italia pervennero in Napoli; ove presso la porta del Mercato vi fabbricarono una piccola Chiesa con Convento. Venuta poscia la dolente Regina Margherita madre del Re Corradino a Napoli con molta quantità di gioje e di moneta per ricuperar dalle mani del Re Carlo il suo unico figliuolo, trovatolo morto e seppellito nella piccola Cappella della Croce, lo fece quindi torre; e fattogli celebrare convenienti esequie, diede per l'anima di colui [183] a questa Chiesa tutto il tesoro, che avea seco portato. Re Carlo per mostrar di concorrere alla pietà della Regina, nell'anno 1260 loro concedè per ampliazion della Chiesa un luogo del suo demanio, che era quivi vicino, chiamato Morricino, e crebbe di poi in quella grandezza, che ora si vede. Altri ne furon da poi fondati in Napoli e nel Regno ma non tanti, finchè potessero uguagliare il numero de' Predicatori e de' Frati Minori.

Oltre di queste quattro Religioni di Mendicanti, sursero in questo secolo molte altre Congregazioni religiose, che tratto tratto furono anche introdotte nel nostro Regno. L'Ordine della Trinità della Redenzion degli Schiavi, fondato nell'anno 1198 da Giovanni di Mata di Provenza, Dottore di Parigi, e da Felice Anacoreta di Valois ed approvato due anni da poi da Innocenzio III. L'ordine de' Silvestrini, i quali seguitavano la Regola di S. Benedetto, fondato l'anno 1231 in Monte Fano da Silvestro Guzolino, che di Canonico si fece Romito, e trasse nella sua Comunità non poche persone. L'ordine di S. Maria della Mercede, fondato da S. Pietro Nolasco in Barcellona l'anno 1223 sotto l'autorità di Jacopo I Re d'Aragona, per consiglio di Raimondo di Pennaforte, ed approvato da Gregorio IX l'anno 1235. L'Ordine de' Serviti, il quale cominciò in Firenze l'anno 1234 approvato da Alessandro IV e da Benedetto XI. L'Ordine de' Cruciferi, ch'era quasi spento, fu restituito da Innocenzio IV tal che in Italia si rifecero alcuni Monasterj di nuovo; ed in Napoli da poi nel 1334 dalla famiglia Carmignana e Vespola fu conceduta a Fr. Marino di S. Severino in nome d'essi Cruciferi la Chiesa di S. Maria delle Vergini collo Spedale che ivi eravi, [184] fuor della porta di S. Gennaro, perchè quivi dimorassero, e servissero gl'infermi di quello Spedale[245]. Ebbe ancora in questo secolo origine l'Ordine de' Celestini, istituito nel nostro Regno da Pietro di Morrone d'Isernia, che menando una vita tutta austera e solitaria alle falde della Majella, diè fuori la sua Regola, e fu tanto caro al Re Carlo I d'Angiò, che prese sotto la sua protezione tutti i suoi Monasterj; e la sua santità rilusse tanto, che dall'Eremo ascese al Pontificato sotto il nome di Celestino V. Pose il suo Ordine sotto la Regola di S. Benedetto, e l'approvò fatto Papa con una sua Bolla l'anno 1294, che fu poi nel 1297 confermato da Bonifacio VIII e da Benedetto XI nell'anno 1304. Non pur in Abruzzo, ma anche in Napoli ebbero i Celestini ricetto nell'istesso tempo del loro nascimento. Fu loro data una Chiesa vicino la porta chiamata anticamente di Donn'Orso, edificata, e di ricchi poderi dotata da Giovanni Pipino da Barletta M. Razionale della G. Corte e Conte di Minervino, e da Carlo II tenuto in sommo pregio, per aver col suo valore discacciati i Saraceni di Lucera di Puglia; e di lui in questa Chiesa se ne addita ancora il sepolcro. Fu chiamata perciò di S. Pietro a Majella; la quale ruinata dal tempo, fu nell'anno 1508 rifatta ed ampliata da Colanello Imperato M. Portolano di Barletta[246].

Molti altri Ordini sursero in questo secolo, il numero de' quali era divenuto sì grande, che Gregorio X fu costretto nel Concilio general di Lione tenuto l'anno 1274 sospendere lo stabilirne de' nuovi, e vietare [185] tutti quelli, ch'erano stati stabiliti dopo il quarto Concilio generale Lateranense, senz'essere stati approvati dalla Sede Appostolica. E d'un medesimo Ordine, ed in una stessa città se ne andavan costruendo tanti Conventi, che fu uopo a più Pontefici per varie loro Bolle[247] stabilire una convenevol distanza di passi, perchè l'uno non togliesse il concorso all'altro, di cui eran tanto gelosi.

Ma di tanti Ordini i più distinti furono i Mendicanti, e fra questi i più favoriti da' romani Pontefici, furono i Frati Predicatori, ed i Frati Minori. Essi s'erano sopra gli altri segnalati per le spedizioni contro gli Eretici di questi tempi, ed aveano fatti altri importanti servigi alla Chiesa di Roma; perciò furono sopra gli altri innalzati ed arricchiti di molti privilegi e prerogative. Innocenzio III ed Onorio III concedè loro esenzione dagli Ordinarii, e vollero che fossero sottoposti immediatamente alla Sede Appostolica. Così essi come gli altri Religiosi Mendicanti, appoggiati sopra i privilegi lor conceduti da' Pontefici pretesero aver diritto di confessare e di dar l'assoluzione a' Fedeli senza dimandarne la permissione, non solo a' Curati, ma nè pure a Vescovi: di che nacquero tanti ostinati litigi col Clero secolare, che per comporgli s'affaticarono più Papi.

Ma se mai meritarono questi novelli Religiosi il favore de' Pontefici romani, per niun'altra cagione era loro certamente più ben dovuto, quanto che per essi fu stabilita la nuova teologia Scolastica, la quale avendo fatto andare in disuso la Dogmatica, e posto in dimenticanza lo studio dell'antichità e dell'istoria ecclesiastica, [186] tenne occupati gl'ingegni a quistioni astratte ed inutili, e a dispute piene di tanta oscurità, di tanti contrasti e di tanti raggiri, che non vi furono se non coloro, ch'erano versati in quell'arte, che potessero comprenderne qualche cosa.

Questa sorta di studj, allontanandogli dall'antichità e dall'istoria, piacquero a Roma, e tanto più, quanto che la potestà de' Pontefici romani era innalzata in infinito, non prescrivendo loro nè termine, nè confine: e ciò anche bisognava farlo per proprio interesse; perchè avendo essi ottenute da Roma ampissime esenzioni e grandi privilegi, perchè loro valessero e potessero contro i Vescovi e Curati sostenergli, bisognava ingrandire la potestà del concedente. Quindi i Decretisti da una parte, e gli Scolastici dall'altra cospirarono insieme a stabilir meglio la Monarchia romana, e far riputare il Papa supremo Principe non meno dello spirituale, che del temporale.

Ma parrà cosa stupenda come queste Religioni fondate nella mendicità, onde presero il nome di Mendicanti, e che nacquero per lo rilasciamento della disciplina ed osservanza regolare, cagionato dalle tante ricchezze, avessero potuto in progresso di tempo far tanti acquisti, sicchè per quest'istesso bisognasse pensare ad altra Riforma, la quale nemmeno ha bastato. Ma a chi considererà la condizione degli uomini sempre appassionati alle novità ed a' modi tenuti da Roma, a cui ha importato sempre stendere i di loro acquisti, perchè finalmente a lei veniva a ricadere la maggior parte, non parrà cosa strana o maravigliosa. I Monaci vecchi avendo già perduto il credito di santità, ed il fervore della milizia sacra essendosi intepidito: li Frati Mendicanti, per quest'istesso che professavano [187] povertà, essendosi accreditati, invogliavano maggiormente i Fedeli ad arricchirgli; imperocchè essi s'erano spogliati affatto della facoltà d'acquistar stabili, e fatto voto di vivere di sole oblazioni ed elemosine; ed ancorchè trovassero molte persone loro divote, ch'erano prontissime di dar loro stabili e poderi, contuttociò per lo loro istituto non potendo ricevergli, rifiutavano l'offerte. A ciò fu subito da Roma trovata una buona via: perchè fu conceduto dalla Sede Appostolica privilegio a' Frati Mendicanti di poter acquistare stabili, con tutto che per voto ed istituzione loro era proibito. Per cotal ritrovamento, subito i Monasteri de' Mendicanti d'Italia e di Spagna e d'altri Regni fecero in breve tempo grandi acquisti di stabili. In Francia solo i Franzesi s'opposero a tal novità, dicendo, che siccome erano entrati nel loro Regno con quell'istituto di povertà, così conveniva, che con quella perseverassero.

Ma nel nostro Regno, particolarmente a tempo degli Angioini ligi de' romani Pontefici, i loro acquisti furono notabili, massimamente ne' tempi dello scisma, quando tutto il rimanente dell'Ordine Chericale era in poco credito, ed all'incontro tutto il credito era dei Monaci. Assaggiate ch'essi ebbero le comodità ed agi, che lor recavan le ricchezze, non trovaron poi nè modo nè misura, siccome è difficile trovarlo quando si oltrepassano i confini del giusto per estraricchire. Per vie più accrescerle e tirar la divozione de' Popoli inventarono molte particolari divozioni. I Domenicani istituirono quella del Rosario. I Francescani l'altra del Cordone. Gli Agostiniani quella della Coreggia; e gli Carmelitani l'altra degli Abitini; e poi al di loro esempio non mancarono l'altre Religioni d'inventar [188] anch'esse le proprie insegne, chi Scapularii, e chi altre particolari divozioni; e per lo profitto che se ne traeva, diedero in eccessi, ciascuno innalzando l'efficacia ed il valore della propria insegna, con depressione dell'altre. I Domenicani esageravano il valor del Rosario. I Francescani a' loro Cordonati quello del Cordone. Gli Agostiniani a' suoi Coreggiati il proprio della Coreggia; ed i Carmelitani il loro degli Abitini; e con questo trassero non men gli uomini, che le donne a rosariarsi, a cordonarsi, a coreggiarsi, e ad abitiniarsi, e ad ergere proprie Cappelle, Congregazioni, favorite sempre da' romani Pontefici con indulgenze plenarie, e remissione di tutti i peccati ed altre prerogative.

(Non dee alcun credere, che questi vocaboli di Coreggiati, Rosariati, Cordonati, ec. siansi posti per derisione; poichè così si nominano nelle Bolle stesse Papali, da' Canonisti e da' Curiali stessi di Roma. Il Cardinal de Luca, ch'essendo Avvocato in Roma, ebbe sovente a difender liti istituite in quella Curia o dagli uni o dagli altri in più suoi discorsi, non si vale di altri termini. Leggasi il Tamburino[248], ove rapporta più Bolle di sommi Pontefici, che così gli chiamano, con darne di più la derivazione, scrivendo, che le donne si chiamano Corrigiatae ec. quatenus Corrigiam S. Augustini cingunt. E lo stesso ripete nella disp. 7 qu. 10 n. 4. Il Cardin. de Luca[249] fa un Catalogo di questi nomi, li quali non altronde derivano, che da simiglianti cagioni: Quae appellari solent (ei dice) Conversae, Tertiariae, Biguinae, Corrigariae, Mantellatae, [189] Pinzoncheriae, Canonissae, Jesuitissae ec., ciochè sovente questo medesimo Scrittore rapporta in altri suoi discorsi, particolarmente de Jurisdictione, part. 1 disc. 45 n. 3 ed altrove).

E fu tanta sopra ciò la loro emulazione, che ciascuno guardava l'altro perchè non si valesse della sua insegna per tirar a se la gente, ovvero s'ingegnasse d'introdurne un'altra simile a quella: e sovente vennero a contrasti, e ad istituirne liti in Roma, insino se un Francescano tentava all'immagine di nostra Signora farvi dal dipintore aggiungerci un Rosario denotante nuova istituzione, sicchè per quella si scemasse il concorso a' Domenicani, e s'accrescesse agli emoli Francescani. Frat'Ambrogio Salvio da Bagnuolo dell'Ordine de' Predicatori famoso Oratore e poi Vescovo di Nardò, cotanto per le sue prediche grato all'Imperador Carlo V ed al Pontefice Pio V, ed a cui i Napoletani eressero una statua di marmo nella Chiesa dello Spirito Santo, che fu zio del Dottor Alessandro Salvio, celebre ancor egli per lettere e per lo famoso trattato, che compilò del Giuoco degli Scacchi; perchè il rosariare fosse solo de' Domenicani, e non potessero altri arrogarsi tal facoltà, ebbe nell'anno 1569 ricorso al Pontefice Pio V da cui ottenne Bolla[250], per la quale fu interdetto e vietato a tutti gli altri d'ergere Cappelle e Confraterie del Rosario; e che tal facoltà fosse solamente del Generale dell'Ordine di S. Domenico, o suoi Deputati, concedendola ancora per ispezial favore al medesimo Frat'Ambrogio.

Per l'occasione di queste particolari divozioni per [190] maggiormente infiammar i devoti, s'inventavano molti finti miracoli, ed oltre di predicargli a voce, se ne compilavano libri, tantochè, siccome avvertì Bacon di Verulamio[251] per questa parte resero l'istoria ecclesiastica così impura, che vi bisogna ora molta critica, e gran travaglio per separare i finti miracoli dalli veri. Cotali furono i principj di questi nuovi acquisti in questo decimoterzo secolo, i quali ricevettero molto maggiore augumento per tutto il tempo, che fra noi regnarono gli Angioini, gli avvenimenti de' quali bisognerà riportare ne' seguenti libri di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO DECIMONONO.

[191]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMO

I Franzesi al tempo della declinazione dell'Imperio romano abitarono quel paese volto al Settentrione che tra la Baviera e la Sassonia, si distende lungo le rive del Reno, e che sino al presente Franconia dal nome di questa Nazione vien nominato. Indebolito l'Imperio, e cessato lo spavento della potenza romana, invitati dall'esempio degli altri Popoli vicini, deliberarono colla forza dell'armi procacciarsi più comodo vivere, e più larga e fertile abitazione; ed avendo eletto in loro Re Faramondo, uno de' figliuoli di Marcomiro, sotto la di lui condotta, passato il Reno, si volsero alla conquista delle Gallie intorno l'anno 419 lasciando il dominio della Franconia al vecchio Principe Marcomiro. Clodione figliuolo di Faramondo distese le conquiste, e cominciò a signoreggiar quella parte delle Gallie, che più propinqua alle rive del Reno, Belgica vien nomata. Successe a costui Meroveo, non si sa di certo, se fratello, o se figliuolo di lui, ma prossimo al sicuro e congiunto di sangue, [192] il quale con valorosi progressi, dilatandosi nelle parti della Gallia Celtica propagò l'imperio de' suoi Franzesi sino alla città di Parigi, e giudicando aver acquistato tanto, che bastasse a mantenere i suoi Popoli, ed a formare un giusto, e moderato governo fermò il corso delle sue conquiste, e rivoltato l'animo a' pensieri di pace, abbracciò ambedue le Nazioni sotto al medesimo nome, e con leggi moderate e con pacifico governo, fondò e stabilì nel possesso delle Gallie il Regno de' Franzesi.

Continuò con ordinata successione la discendenza Reale in questa prima stirpe de' Merovingi, insino all'ultimo Re Chilperico. Pipino la trasferì poi nella famiglia de' Carolini; ma essendo questa seconda stirpe mancata, Ugo Capeto diede principio alla terza, detta perciò de' Capeti: di cui nacquero i Filippi ed i Luigi per cui la Francia fu gran tempo governata; ed essendosi continuata per molti secoli la successione in questa stirpe, pervenne a questi tempi alla possessione del Regno il Re Lodovico IX di questo nome, quegli il quale per l'innocenza della vita e per l'integrità de' costumi, meritò dopo la morte d'essere ascritto tra' Santi. Fratello di questo Re fu Carlo Conte di Provenza e d'Angiò, il quale per le cagioni nel precedente libro esposte, essendo stato invitato alla conquista del Regno, con prosperi avvenimenti ridusse l'impresa a compiuto fine, e stabilì in Puglia ed in Sicilia il Regno degli Angioini.

Nel narrare i successi ed i cambiamenti del governo civile accaduti nel Regno loro, serbarò, contro il costume degli altri Scrittori, maggior brevità di quel che sinora abbiam fatto. La dovizia istessa e copia grande delle loro memorie lasciateci, e 'l veder la maggior [193] parte d'esse notate in molti volumi di nostri Autori, e d'essersene tessute più istorie, mi fa sperare, che rese ormai note e divulgate, di non mi si dovere imputare a difetto l'averle in parte taciute. De' fatti degli Angioini, e degli altri seguenti Re, molto da' nostri si trova scritto: de' predecessori nostri Principi molto poco, e tutto intrigato. Ciò nacque da più cagioni: principalmente per non avere i Principi normanni e gli svevi fermata la loro Sede regia in Napoli, o in altra città di queste nostre province, e d'esserci perciò mancati delle loro memorie pubblici Archivii. Le tante guerre poi, e revoluzioni accadute; gl'incendi, e' saccheggiamenti di quelle città, che avrebbero potuto conservargli, come di Capua, Benevento, Salerno e Melfi; e finalmente la barbarie e l'ignoranza de' Scrittori mal disposti a tesserne istoria, ne cancellarono quasi ogni memoria. Molto perciò dobbiamo a' monasterj della Regola di S. Benedetto, e sopra tutto a quello di Monte Cassino, in cui serbansi le memorie più vetuste anche de' Goti, essendo il più antico Archivio che abbiamo nel Regno; ed a' due altri della Trinità della Cava, e di Monte Vergine, dove sta raccolto quanto mai de' Normanni è a noi rimaso. Molto ancora dobbiamo a' loro Monaci; poichè qualche antica Cronaca, e qualche mal composta Istoria ad essi la dobbiamo. De' Re della illustre Casa di Svevia, per aver avuti costoro nemici i Pontefici romani, gli Scrittori italiani, che per lo più furono Guelfi, ne scrissero con molto strapazzo, con gran pregiudizio della verità; e se qualche straniero, o qualche Cronaca novellamente trovata, non vi rimediava, si sarebbe nella medesima ignoranza e pregiudicj.

Non così avvenne ne' tempi di questi Re della Casa [194] d'Angiò; poichè avendo Carlo principiato adornar Napoli con magnifici tempj ed edifici, e dopo la separazione del Reame di Sicilia, avendola renduta regia sede, e capo e metropoli del Regno: quindi avvenne, che tennesi maggior conto de' regali diplomi, e delle altre lor memorie, e si diede miglior forma in Napoli a' regi Archivii. Carlo fu il primo, che ordinò in Napoli l'Archivio della Zecca, che prima era in potere de' Maestri Razionali, ed in miglior forma lo ridusse; ond'ebbe lunga durata, e ancor dura, ed è il più antico, che oggi abbiamo in questa città. Si conservano in quello 436 registri, cominciando dal Re Carlo I dall'anno 1267 che fu il secondo anno del suo Regno, insino alla Regina Giovanna II ove molte scritture, anche nella lor lingua franzese, sono dettate. Di Carlo I si trovano cinquantacinque registri, e più di Carlo II suo figliuolo, ch'ebbe più anni di Regno, insino al numero di 153. Di Roberto, 117. Di Carlo suo figliuolo, Vicario che fu del Regno, 62. Della Regina Giovanna I, 32. Di Carlo III della seconda razza d'Angiò non più che tre. Di Ladislao, diece, e della Regina Giovanna II sua sorella, quattro[252]. Per questo oggi giorno vediamo, che le scritture, che si conservano in quello Archivio non hanno maggior antichità, se non di quella de' tempi di Carlo I d'Angiò. Solamente quasi per miracolo vi è rimaso un registro dell'Imperador Federico II d'un solo anno, cioè del 1239. Ed è da credersi, che a ciò vi cooperasse Carlo per estinguere affatto la memoria de' Re svevi, a' quali egli era succeduto, non già per ragion ereditaria, ma per ragion di guerra, e di papali [195] inviti[253]. Quindi avvenne, che i nostri Scrittori furono più copiosi ed abbondanti in registrar la memoria degli Angioini, che degli altri Re predecessori.

S'aggiunse ancora, che costoro regnarono in tempi, ne' quali la barbarie non era cotanta, e cominciavano pian piano in Italia, e presso di noi a risorgere le buone lettere, e ad aversi buon gusto dell'istoria. Aveva Fiorenza Giovanni, e Matteo Villani, che coetanei de' due Carli e di Roberto, non mancarono di mandar alla memoria de' posteri le loro gesta.

Successero poi uomini più illustri, come il Petrarca, e Giovan Boccaccio, i quali nelle loro opere de' Re angioini ci lasciaron non poche memorie, come da coloro ben careggiati, e tenuti in sommo pregio: e tra' nostri non mancarono ancora chi i fatti di questi Re notasse, come Matteo di Giovenazzo, che scrisse dalla morte di Federico II sin a' tempi di Carlo II ne' quali visse: l'Autore de' giornali chiamati del Duca di Montelione, ne' quali furono annotate dì per dì le cose fatte dal tempo della Regina Giovanna I fin alla morte di Re Alfonso I e Pietro degli Umili di Gaeta, che scrisse a pieno delle cose del Re Ladislao, il qual visse a quel tempo, e fu Ufficiale della Tesoreria di quel Re. Dalle memorie de' quali e da altri gravi Autori, confortato da quei due grandi uomini Giacomo Sannazaro e Francesco Poderico, compilò poi Angelo di Costanzo quella sua grave e giudiziosa Istoria del Regno di Napoli, che siccome oscurò tutto ciò, che insin allora erasi scritto, così ancora per la sua gravità, prudenza civile ed eleganza, si lasciò indietro tutte le altre che furono compilate dopo lui dalla [196] turba d'infiniti altri Scrittori. Per questa cagione l'Istoria di questo insigne Scrittore sarà da noi più di qualunque altra seguitata, nè ci terremo a vergogna se alle volte colle sue medesime parole, come che assai gravi e proprie, saranno narrati i loro avvenimenti.

Carlo adunque, dopo essersi con que' mezzi di sopra narrati stabilito ne' due Reami di Puglia e di Sicilia, dopo aversi reso benevoli molti Baroni del suo partito con profuse donazioni, e dopo, per maggiore sua sicurezza fatti fermare nel Regno molti Signori franzesi, a cui diede molti feudi, onde nuove famiglie in esso ci vennero, erasi reso formidabile per tutta Italia e riputato uno de' maggiori Re d'Europa; e stendendo le sue forze oltre i confini di questi Reami, aveasi ancora reso tributario il Regno di Tunisi, e come uomo ambiziosissimo ed avido di Signoria, aspirava all'Imperio di Costantinopoli, e tutto il suo studio era di cacciar da quella Sede Paleologo, che allora imperava in Oriente. E forse gli sarebbe riuscito, se in Gregorio successore di Clemente avesse trovato quelle medesime inclinazioni ed affetti, che in costui furono.

Era stata la Sede Appostolica, per le discordie dei Cardinali, vacante poco men di tre anni dopo la morte di Clemente; nè vi bisognò meno, che la presenza del Re Filippo di Francia, e d'Errico, e d'Odoardo l'uno nipote e l'altro figlio del Re d'Inghilterra, per ridurre i Cardinali a rifar il successore; poichè questi Principi, che ritornavano d'Affrica, passati per Sicilia e Napoli, ritornando a' loro Stati, andarono a Viterbo per sollecitare i Cardinali per l'elezione, i quali finalmente mossi dalla presenza di que' Signori, non convenendo [197] in niun di loro, finalmente nel dì 1 di settembre di quest'anno 1271 elessero persona fuor del Collegio, che fu Teobaldo di Piacenza della famiglia de' Visconti Arcidiacono di Liegi, che a quel tempo si trovava in Asia Legato appostolico nell'esercito cristiano contro Infedeli; che fattosi nel seguente anno coronare a Viterbo, fu chiamato Gregorio X, il quale ammaestrato da' precedenti disordini, fu il primo che fece la legge di chiudere dopo la morte del Papa i Cardinali in Conclave, e di tenervigli finchè avessero eletto il successore.

Fatta l'elezione del nuovo Pontefice, Re Filippo se n'andò in Francia, e Re Carlo ritornò in Napoli: questi considerando, che Filippo suo figliuolo secondogenito era morto, un altro chiamato Roberto terzogenito era pur morto sin nel 1265 e che Carlo suo primogenito (investito da lui del Principato di Salerno colla corona o cerchio d'oro, del Contado di Lesina con lo stendardo, e dell'Onore di Monte S. Angelo coll'anello[254]) non avea ancor figliuoli maschi, egli nel nuovo anno 1272 tolse la seconda moglie, figliuola (secondo il Costanzo) di Balduino di Fiandra, ultimo Imperador di Costantinopoli, per via della quale sperava acquistar parte dell'Imperio di Oriente: ancorchè il Sigonio dica, che fu figliuola non già di Balduino, ma del Duca di Borgogna. Furono perciò in Napoli fatte gran feste e giostre, ed armati da lui molti gentiluomini con cingolo militare e fatti Cavalieri. Fu anche quest'anno assai lieto al Re, perchè nella fine del medesimo al Principe di Salerno successore del Regno, che non avea altro che figliuole [198] femmine, nacque un figliuolo chiamato Carlo Martello, che fu poi Re d'Ungheria, del che si fece festa non solo in Napoli, ma in tutte l'altre città del Regno.

Ma poi che Carlo ebbe novella, che tornava da Soria il nuovo eletto Pontefice, e veniva a dismontare in Puglia, cavalcò, ed andò subito in Manfredonia ad aspettarlo e lo ricevè con molta stima ed onore, e volle accompagnarlo per Capitanata e per Abbruzzo fin a Campagna di Roma, lusingandosi con queste carezze tirar Gregorio a dar mano all'impresa, ch'ei meditava di Costantinopoli; ma il novello Pontefice, che stato lungamente in Soria, teneva grande affezione a quella guerra, coronato che fu, nel primo Concistoro fece nota a tutto il Collegio l'intenzion sua, che era d'impiegare tutte le forze del Ponteficato all'impresa di Soria contra Infedeli; la qual cosa, subito che fu scritta al Re Carlo, s'accorse quanto avea perduto con la morte dell'altro Papa suo predecessore.

Era a quel tempo venuto di Grecia Filippo figliuolo dell'ultimo Balduino, genero e cognato di Re Carlo, per sollecitarlo che venisse all'impresa di Costantinopoli, e 'l Re gli consigliò che andasse al Papa: e mandò con lui per Ambasciador suo il Vescovo d'Avignone, i quali trattando insieme col Papa, che volesse contribuire al soccorso, come si conveniva, per far unire la Chiesa greca colla latina, lo ritrovarono molto alieno da tal pensiero; perchè il Paleologo, che avea occupato l'Imperio, in quel medesimo tempo avea mandati Ambasciadori al Papa, offerendogli di ridurre la Chiesa greca all'ubbidienza della romana; onde Gregorio, che stimava più il bene universale de' Cristiani che il particolare dell'Imperador Balduino, e che voleva più tosto l'amicizia di colui, che possedeva l'Imperio [199] e poteva sovvenire all'esercito cristiano nel riacquisto di Terra Santa, che divertirsi dall'aiuto dei Cristiani per rimettere nello Stato Balduino; si mosse da Orvieto, escludendolo da questa speranza, e se ne andò in Francia a celebrare il Concilio in Lione, per invitare il Re di Francia e d'Inghilterra, e gli altri Principi oltramontani alla medesima impresa. Il Paleologo, ch'avea inteso, che Balduino era andato in persona al Papa, per gelosia ch'ebbe, che non fosse di più efficacia la presenza di lui, che l'intelligenza degli Ambasciadori suoi, si mosse da Costantinopoli e condusse seco il Patriarca e gli altri Prelati del suo dominio a dare ubbidienza al Papa, dal quale fu accolto con grandissimo onore, ed ottenne quanto volle, e se ne tornò subito in Grecia, confermato Imperadore dalla Sede Appostolica[255]. Si adoperò ancora Gregorio, che Ridolfo Conte d'Ausburg fosse eletto Imperador d'Occidente, essendo vacato l'Imperio molti anni, affine d'unire questi Principi al riacquisto di Terra Santa.

Tutte queste cose molto dispiacquero al Re Carlo; e avendo Gregorio nel 1274 aperto già il Concilio in Lione, ed invitato Fra Bonaventura, soprannomato il Dottor Serafico, che era stato creato Cardinale, e Fra Tommaso d'Aquino, il Dottor Angelico, perchè dovendosi trattare dell'unione della Chiesa greca e latina, potessero questi due insigni Teologi confutar gli errori de' Greci; Carlo temendo che Tommaso, il qual partiva di Napoli, dove in quest'università leggeva teologia, ed al quale erano note le sue crudeltà, nel Concilio non maggiormente esacerbasse l'animo del Pontefice, [200] passando egli per Fossanova, luogo non molto lontano da Terracina, lo fece avvelenare, onde ivi nel monastero de' Monaci Cisterciensi trapassò nel dì 7 marzo dello stesso anno, in età di 50 anni. Ciò che Dante[256] noverò tra le altre fierezze e crudeltà di questo Principe, dicendo:

Carlo venne in Italia, e per ammenda

Vittima fè di Corradino; e poi

Ripinse al Ciel Tommaso per ammenda.

Scorgendo per tanto Re Carlo l'animo del Pontefice non esser niente disposto a secondare i suoi desiderj, differì i suoi disegni; e mentre Gregorio visse, non si travagliò molto per le cose d'Italia, nè fuori di quella: ma fermato in Napoli, attese a magnificarla, ed a dar nuovo sistema alle cose di questo Regno, cominciando da lui queste nostre province a riconoscer Napoli per loro capo e metropoli.

CAPITOLO I. Cagioni onde Napoli divenisse capo del Regno, e Sede regia.

I primi fondamenti della magnificenza e grandezza di questa città, onde con prosperi avvenimenti surse poi a quello stato in cui oggi si vede, furono gettati da Federico II Imperadore. Primieramente lo studio generale, che questo Principe vi fondò, tirò a quella gli scolari non pur di questo Reame, ma anche di Sicilia e d'altre più remote parti. Il non essersi da [201] poi Federico fermato in Palermo, come gli altri Re normanni suoi predecessori, ma avere scorso più città di queste nostre province, ed essersi spesso fermato in Napoli colla sua Gran Corte e con gli altri Ufficiali del Regno, servì anche per scala a tanta altezza; e l'aver ancora in magnifica forma ridotto il Castello capuano, e quel dell'Uovo vi conferì molto.

L'altra cagione di tanta elevatezza furono Innocenzio IV e 'l suo successore Alessandro, i quali in Napoli lungamente colla loro Corte dimorarono; ma coloro, che vi diedero l'ultima mano furono i novelli Re angioini, Carlo I e II, e più la separazione della Sicilia per quel famoso vespero siciliano: donde sursero due Reggie e due Re, cioè l'antico di Sicilia, e 'l nuovo di Napoli. Palermo antica Reggia restò per gli Aragonesi in Sicilia. Napoli nuova Reggia restò per li Franzesi in Puglia e Calabria.

§. I. Edificj.

Cominciò prima Carlo ad ampliarla con magnifici e superbi edificj: non ben soddisfatto del Castel capuano fatto alla tedesca, appena sconfitto Manfredi, ed entrato con trionfi e plausi in questa città, che fece edificar il Castel Nuovo, dove è oggi, al modello franzese, per farlo abile a ricever soccorso per mare, ed a difendere il porto, riputato allora una delle opere più notabili d'Italia, ingrandito poi e reso più forte ed inespugnabile dagli altri Re suoi successori. Narrasi ancora, che nell'antico Molo di questa città per maggior sicurtà de' vascelli e per maggior difesa di questo castello vi avesse fatta edificare quella Torre, che ancora oggi ritiene il nome di S. Vincenzo, per [202] Chiesetta, che in questo luogo v'era dedicata a quel Santo.

L'adornò anche di magnifiche chiese e monasterj, ed una chiesa de' Frati di S. Francesco, che era in quel luogo ove edificò il Castel Nuovo, la trasferì, come si disse, dove è oggi Santa Maria della Nuova in forma più magnifica, e vi fece un comodo monastero capace di molti Frati Minori, il di cui numero ne' seguenti anni fu notabilmente accresciuto. L'antico palazzo della napoletana Repubblica, ove solevano convenire per pubblici affari il Popolo e la Nobiltà, per tenergli divisi, proccurò che si disfacesse, e fecevi edificare quella magnifica chiesa che ritiene ancora il nome di S. Lorenzo, (che poi Carlo II suo figliuolo ridusse in più ampia forma) a cui unì un ben grande convento di S. Francesco.

L'antico Duomo di Napoli, che prima era la chiesa di S. Restituta, lo cominciò in altra più grande e magnifica forma a ristorare, ciò che non potendo perfezionare, Carlo II poi lo fece riedificare nella forma che oggi si vede, benchè nell'anno 1456 per un gran tremuoto cadde, e fu in quella guisa che stava prima ristorato dal Re Ferrante I d'Aragona e da molti altri signori del Regno, che tolsero ognuno da per se una parte a ristorare, de' quali si vedono oggi l'insegne sopra i pilastri.

L'esempio del Principe mosse anche i suoi famigliari e domestici a far il medesimo, i quali d'altre Chiese l'adornarono; ma sopra tutti si distinsero tre Franzesi che si crede fossero stati tre cuochi del Re Carlo, i quali ottenuto dal medesimo nell'anno 1270 per donazione quel luogo, v'edificarono un ben grande Ospidale e una chiesa dedicata a tre Santi Vescovi [203] Eligio, Martino e Dionigi: che in decorso di tempo si è resa una delle opere più notabili della pietà cristiana.

Fece ancora delle pietre quadrate, ch'erano per le ruine della via Appia, lastricare in bella forma le strade della città, e rifare le mura della medesima in miglior modo di prima. E per renderla più abbondante di viveri e di traffichi, fece quel gran mercato, che oggi si vede, in luogo più ampio e capace, poichè allora era fuori della città[257]; onde Napoli ebbe due mercati, questo nuovo fatto da Carlo, ove fu decapitato l'infelice Corradino, ed il mercato vecchio che era prima vicino alla chiesa di S. Lorenzo.

§. II. Ristoramento degli Studj.

Imitando questo Principe le vestigia di Federico II per render più rinomata ed illustre questa città, ampliò lo Studio generale da Federico fondato, e l'arricchì di molte altre prerogative e privilegi. Re Roberto suo nipote tra' suoi Capitoli, che aggiunse a quelli fatti dall'avo e dal padre, rapporta un ampio privilegio a quest'Accademia conceduto da Carlo nel primo anno del suo Regno 1266 che fu istromentato da Roberto da Bari suo Protonotario in Nocera, nel quale mostra essergli stato sommamente a cuore la grandezza e decoro di questa Accademia[258]. Perciocchè per maggiormente privilegiare i Dottori e gli scolari di quello, costituisce loro un proprio e particolare [204] Giustiziero, avanti di cui ordina, che tutte le loro cause civili o criminali, attori o rei che fossero, debbano agitarsi; nè che possano esser tirati a piatire altrove avanti altro Giudice o Tribunale, se non se volessero a loro arbitrio per via di compromesso andare avanti l'Arcivescovo della città, ovvero ad un Dottore dell'istessa Accademia, affinchè determinassero le loro cause. Stabilì per ciò al Giustiziero, se sarà napoletano, 20 once d'oro l'anno per sua provisione, e se sarà forastiero 30. Ed il Summonte da' libri dell'Archivio dell'anno 1269 rapporta, che fu da Carlo costituito in quell'anno per Giustiziero Landolfo Caracciolo con 20 once d'oro l'anno per suo salario. Statuì a questo Giustiziero per la retta amministrazione della giustizia tre assessori: uno oltramontano da eleggersi dagli scolari oltramontani, che venivano quivi a studiare; l'altro Italiano, che doveasi eleggere per gli scolari d'Italia; ed il terzo Regnicolo, la di cui elezione apparteneva ai scolari del Regno; li quali dovevano da tre in tre mesi successivamente mutarsi.

Diede anche facoltà a questo Giustiziero (acciocchè gli studenti non fossero defraudati del prezzo de' commestibili) che coi consiglj degli Assessori e dei Dottori e maestri degli scolari mettesse egli l'assisa alle cose venali, moderata però e giusta, affinchè non riuscisse grave ed iniqua a venditori e compratori. Che potessero anche costituire, col consenso degli scolari, uomini probi, i quali dovessero assignare a' scolari gli ospizi e stabilire la giusta mercede per li medesimi e per le case, che serviranno per l'abitazione de' medesimi. Perchè non fossero distratti da' loro studj, proibì a tutti gli Ufficiali della sua Corte di non gravare [205] i medesimi d'angarìe, esazioni, servigi personali, anche se la sua Corte medesima o la città ne avesser bisogno. Nè che i Baglivi ed altri Ufficiali esigessero per le Merci e robe, che saranno a' scolari mandate per loro sostentamento o necessità, dritto alcuno di pedatico, fondaco o dogana, esimendogli affatto dalla loro giurisdizione e potestà.

Finalmente invita tutte le Nazioni a mandar i loro giovani a studiare in Napoli, a' quali sarà libero e sicuro l'accesso, e 'l recesso a loro arbitrio e volontà, e saranno benignamente accolti, e liberalmente protetti e favoriti dal presidio e regal munificenza. Della Corte di questo Giustiziero degli Scolari istituita da Carlo l fassi anche memoria nel Regal Archivio; e ne' Registri di Carlo II si leggono altri Giustizieri, come Marino del Duca Giustiziero degli Scolari, e da poi Pietro Piscicello, detto Ortante, e dopo costui Gualtiero Caputo di Napoli Milite; e finalmente Matteo Dentice Milite. Ed il Summonte rapporta, che dalle carte di que' registri si vede, che l'assisa de' pesci e delle altre cose commestibili conceduta da Carlo I, e poi confermata da Carlo II suo figliuolo allo Studio di Napoli, si faceva nella Chiesa di S. Andrea a Nido, insieme col Giustiziero, Dottori e Studenti, conforme al solito[259]; di che ora n'è pur a noi rimaso vestigio; poichè sebbene l'Ufficio del Giustiziero degli Scolari si vegga a' tempi nostri molto ristrettamente passato nel Cappellan Maggiore, il quale come Prefetto degli studj tiene giurisdizione, ma molto ristretta e differente da quella, che teneva il Giustiziero, stendendosi solamente sopra gli Scolari delinquenti nello Studio: e la potestà [206] di metter l'assise fosse rimasa al Giustiziero, ed a' suoi Catapani, con giurisdizione molto differente dall'antica, e ristretta solo sopra i venditori delle cose commestibili[260] nulladimanco dura ancor ora, che gli emolumenti della Catapania per tre mesi dell'anno si appartengano al Lettor primario di Legge civile di quest'Università, il quale senza nuova provvisione, gode di quegli emolumenti, come attaccati e dependenti dalla cattedra primaria del jus civile.

Perchè ancora questo Studio fosse più florido e numeroso, invitò i più insigni Dottori forastieri de' suoi tempi con grossi stipendi, perchè venissero ad istruire la gioventù di buone lettere e discipline. Fioriva a questi tempi lo Studio di Bologna, e fra gli altri Professori era rinomato per la legge civile Giacomo Belviso. Fu costui invitato da Carlo a venir in Napoli ad insegnare jus civile, con stabilirgli di salario cinquanta once d'oro l'anno. Invitò ancora nell'anno 1269 per la legge canonica Maestro Girardo de Cumis, con salario di 20 once d'oro. Per la teologia Maestro Tommaso d'Aquino Frate Domenicano, colui che adoriamo ora per Santo, con salario di un'oncia d'oro il mese. E per leggere medicina Maestro Filippo de Castrocoeli, con salario d'once dodici d'oro l'anno[261]. Le di cui vestigia, come diremo, furono da poi calcate da Carlo II e da Roberto suoi successori.

Questo ristabilimento dell'Accademia napoletana (la quale dopo la morte di Federico per le continue guerre, che durarono per più di venti anni, era alquanto decaduta da quello splendore, nel quale Federico lasciolla) [207] fu pure una delle cagioni fortissime perchè Napoli si rendesse più numerosa di gente concorsavi da paesi vicini e lontani, e perchè s'inalzasse sopra tutte l'altre città del Regno.

L'aver ancora Carlo deliberato di non trasferire la sua sede regia in Palermo, siccome i predecessori Re normanni e svevi fecero, fu poi la principal cagione dell'ingrandimento di Napoli. Riputò questo Principe Palermo, come città lontana, esser men adatta per poter accorrere a' bisogni del Pontefice e de' Guelfi in Italia, e per non allontanarsi tanto dagli altri suoi Stati di Provenza e di Francia, colla quale tenne continuo e stretto commercio; di che a torto si lagnavano i Siciliani, non altrimenti che a torto si dolevano i Romani d'Onorio, il quale per reprimere l'inondazioni de' Barbari, che per quella parte venivano ad infestar l'Italia, traslatò la sua sede da Roma, e la collocò prima in Milano e poi a Ravenna. Fermossi per ciò Carlo in Napoli; e se bene non sempre quivi dimorasse, avendo sovente dovuto ricorrere per li bisogni del Reame, e per renderlo più quieto e pacato sotto la sua ubbidienza, ora in una città, ora in un'altra, siccome si vede dalle date de' suoi Diplomi, ed anche de' suoi Capitoli, li quali si leggono istromentati ora in Nocera, ora in Trani, Foggia, Aversa, Venosa, Brindisi ed altrove; non è però, che in Napoli col Principe di Salerno suo figliuolo primogenito e successore del Regno, non facesse la sua maggior dimora con gli Ufficiali della Corona e della sua Corte, ed attendesse ad ingrandirla e ad adornarla di tanti seggi che non fece a niun'altra città del Regno.

Questa sua dimora in Napoli, e l'aver insieme adornata la sua regal persona di molte altre illustri prerogative, [208] come d'aversi reso tributario il Regno di Tunisi, e fregiato del titolo di Re di Gerusalemme, quanto più estolsero la sua regal persona, altrettanto ingrandirono Napoli sua Sede regia.

CAPITOLO II. Carlo si rende tributario il Regno di Tunisi; e per la cessione di Maria figliuola del Principe d'Antiochia diviene Re di Gerusalemme.

Luigi Re di Francia, fratello di Carlo, essendo passato nella fine dell'anno 1270 in Affrica contra Infedeli, e tenendo assediato Tunisi, oppresso il suo esercito da peste, stava in pericolo d'esser rotto da' Mori e d'esser fatto prigioniero co' suoi figliuoli, ch'erano con lui[262]. Carlo, avuta tal nuova, fu costretto dal debito del sangue e dall'obbligo, che avea a quel buon Re, che l'avea aiutato ad acquistare due Regni, di ponersi sopra l'armata, che avea apparecchiata per passare in Grecia, ed andar subito a Tunisi[263]; dove trovò l'esercito franzese cotanto estenuato, che parve miracolo di Dio, che i Mori non l'avessero assaltato e dissipato; e trovò il Re che all'estremo di sua vita, stava nel punto di render l'anima a Dio, come la rese. Quanto fosse il suo arrivo caro a' figliuoli del Re ed a tutto l'esercito, non è da dimandare, perchè a quel tempo medesimo venne un numero infinito d'Arabi, con disegno non tanto di soccorrere il Re di Tunisi, quanto di saccheggiare le ricchezze del Re di Francia, e del Re di Navarra e di [209] tanti altri Principi, ch'erano seco venuti a quella impresa, ma poichè videro l'esercito Cristiano accresciuto d'un tal soccorso, se ne tornarono a' loro paesi; ed il Re di Tunisi, ch'aspettava d'ora in ora, che gli Arabi in quel modo lo liberassero dall'assedio, uscito da tal speranza, mandò Ambasciadori al Re Carlo per la pace: Carlo temendo, che la peste non s'incrudelisse ancora co' suoi, come avea consumato l'esercito di Re Luigi; e vedendo ancora Filippo suo nipote, nuovo Re di Francia, desideroso d'andare a coronarsi, entrò con gli Ambasciadori del Re di Tunisi nella pratica della pace, la quale fra brevi dì si conchiuse con questi patti: che si pagasse al nuovo Re di Francia una gran quantità d'oro per la spesa, ch'avea fatta nel passaggio: che si liberassero tutti i prigioni Cristiani, ch'erano nel Regno di Tunisi: che potessero i Cristiani liberamente praticare con mercatanzie in Affrica: che si potessero ivi edificare Chiese e Monasterj e predicarsi il sacro Evangelio di Cristo senza impedimento: e che 'l Re di Tunisi e suoi successori restassero tributari al Re Carlo ed a' discendenti di lui, di ventimila doble d'oro. Tributo che da' Re di Tunisi altrevolte s'era pagato a' Re di Sicilia, come al Re Ruggiero e Guglielmo normanni. Tutini da' regj archivi trascrive una carta, ove sta notato quanto importasse l'anno questo tributo, il di cui tenore è tale: Tributum Tunesi debitum Regi Siciliae, anno quolibet est Bisantinorum triginta quatuor millia, tercentum triginta tribus, quorum Bisantinorum quodlibet valet tarenos auri duos, et dimidium; et sic reductis ipsis Bisantiis ad tarenum aureum, sunt tarenum, triginta tria millia, triginta tribus, quibus tarenis reductis in uncias auri, sunt unciae duo millia, octuaginta, [210] triginta tribus. Collecta igitur Bisantinorum dictorum summa per tribus annis, pro quibus tributum ipsum debetur dicto Regi, ascendit ad Bisantinorum centum millia. Summa dictorum tarenorum, pro eisdem tribus annis, unciarum octo millia trecenta tribus unum[264].

§. I. Carlo per la cessione di Maria figliuola del Principe d'Antiochia diviene Re di Gerusalemme.

Venuto l'anno 1275 Papa Gregorio senza aver fatto nulla di quanto avea designato, venne a morte, ed in suo luogo fu eletto Pietro di Tarantasia Borgognone Frate Predicatore, che fu chiamato Innocenzio V. Carlo udita l'elezione d'un Papa franzese riassunse con molta alterigia la dignità sua Senatoria, ed avendo in suo luogo sustituito Giacomo Cantelmo, che altre volte ivi era stato suo Vicario, governava Roma a sua voglia, ottenendo per se e per gli amici quello che volea; ma tosto le sue speranze si dispersero, poichè avendo Innocenzio appena pochi mesi retto il Pontificato, finì i giorni suoi. Ed i Cardinali ingelositi della potenza di Carlo, tosto elessero un Papa Italiano, che fu Ottobono del Fiesco genovese nipote d'Innocenzio IV, che Adriano V nomossi. Costui, in quel poco tempo che visse da poi, mostrò gran volontà d'abbassare la potenza di Carlo, che teneva oppressa Italia e Roma, ed avea perciò chiamato l'Imperador Rodolfo. Ma l'esser tosto Adriano mancato, e rifatto Pietro Cardinal Spagnuolo per suo successore, che Giovanni XXII, secondo il Platina, e secondo altri XXI fu nomato, la potenza di Carlo non mancò punto; poichè Giovanni ancor che [211] di santi costumi, ora affatto inabile al governo di tanta macchina; e Carlo, come Senator di Roma governava ed amministrava ogni cosa appartenente al Papato. Per la qual cosa durante il suo Pontificato, e sei mesi dopo la morte di Giovanni che vacò la Sede Appostolica, insino all'elezione di Papa Niccolò III era riputato maggiore, ed il più temuto Re di que' tempi: poichè oltre i due Regni, e le Signorie di Provenza e d'Angiò che possedeva in Francia, avea tributario il Regno di Tunisi; e Tutini aggiunge, che s'era impadronito anche dell'isola di Corfù[265]; e come tributari avea ancora i Fiorentini, ed a divozione tutte le città Guelfe d'Italia. Disponeva ancora del giovane Re di Francia suo nipote; ma quello, che più lo rendea formidabile, era la quantità di gente di guerra ch'egli nudriva in varie, e diverse parti sotto la disciplina d'espertissimi Capitani. Era ancor potente per forze marittime, le quali erano poco meno di quelle di terra, tenendo nei nostri porti varie armate di mare, numerose di vascelli, sotto il comando d'Errico di Mari genovese suo Grand'Ammiraglio; ed al di lui imperio ubbidiva l'uno e l'altro mare superiore ed inferiore; onde a questi tempi non potevano certamente i Vinegiani vantarsi del dominio del Mare Adriatico, poichè Carlo era più potente in mare ch'essi non erano; alle di cui forze marittime fidandosi, avea egli intrapreso di scacciar l'Imperador Paleologo dalla Sede di Costantinopoli, e fare altre imprese in Oriente.

Per quello Maria figliuola del Principe d'Antiochia, cui Ugo suo zio Re di Cipri le contrastava il titolo e le ragioni del Regno di Gerusalemme, venne in Roma [212] e ricorse al Papa ed al Re Carlo, perchè volessero aiutarla; ma poichè vide il Papa poco disposto, fu indotta finalmente da Carlo a ceder a lui queste sue ragioni: onde innanzi al Collegio de' Cardinali assegnò e rinunziò al medesimo tutte le ragioni, che avea nel Regno di Gerusalemme, ed il Principato d'Antiochia[266], con tutte le solennità, che si richiedevano a cosa di tanta importanza[267]: onde Papa Giovanni che favoriva il Re, avendo per vere le ragioni di Maria, in quest'anno 1277 coronò Carlo Re di Gerusalemme, e da questo tempo cominciarono gli anni del suo Regno di Gerusalemme.

Carlo avuta tal cessione mandò subito Ruggiero Sanseverino a pigliare il possesso di tutte le terre che Maria possedeva, e ad apparecchiare di ricovrar l'altre: ed in un medesimo tempo ordinò un apparato grandissimo di guerra di infinite galee ed altri legni, con numerose genti, per l'impresa non meno di Costantinopoli che di Gerusalemme.

Le ragioni di Maria sopra il Reame di Gerusalemme venivano a lei per la sua madre Melisina quarto genita, che fu di Isabella sorella di Balduino IV Re di Gerusalemme. Lasciò Isabella, dal suo primo marito Corrado di Monferrato, come nel XVI libro fu narrato, quattro femmine: la primogenita Maria fu madre di Jole seconda moglie dell'Imperador Federico, al quale il titolo e le ragioni di Gerusalemme furono date in dote: perciò Federico, Corrado suo figliuolo e Corradino si valsero del titolo di Re di Gerusalemme. Per la morte di Corradino ultimo del sangue Svevo senza [213] successori, essendo estinte queste ragioni in quella linea, pretendeva Maria come figliuola di Melisina che s'appartenessero a lei.

La secondogenita d'Isabella fu Alisia. Costei si casò con Ugo Re di Cipro. Pretese questi per le ragioni di sua moglie, estinta la linea della primogenita nella persona di Corradino, di poter egli intitolarsi Re di Gerusalemme, siccome fece; ma per parte di Maria d'Antiochia, si diceva che anche queste ragioni d'Alisia fossero estinte, poichè il Re Almerico di Cipro, altro marito della Regina Isabella, al qual successe il Re Ugo suo figliuolo, procreato con la sua prima moglie e marito dell'Alisia, le avea cedute a Giovanni di Brenna marito di Maria primogenita, siccome scrive il P. Lusignano nella Cronaca de' Re di Cipri.

La terzogenita d'Isabella fu Sibilla. Costei maritata con Livone Re d'Armenia morì senz'eredi; onde restavano solamente le ragioni di Melisina quartogenita madre di Maria, che fece la cessione a Carlo.

Ma questa cessione avea delle gravi difficoltà; poichè veramente non potea dirsi, che le ragioni della secondogenita Alisia fossero estinte per la cessione fatta da Almerico a Giovanni di Brenna; poichè quella cessione non potea pregiudicare a' suoi successori, i quali vengono a succedere in quelle per altra cagione, cioè per le ragioni d'Alisia, alla quale, come figliuola di Isabella, non già d'Almerico s'appartenevano, nè questi cedè altro, che quelle ragioni, che allora le appartenevano, come marito d'Isabella, non già le future, che per altra cagione poteano spettare ad Alisia e suoi descendenti; per la qual cosa saviamente avvertì il P. Lusignano, che questa cessione di Maria fatta a Carlo fu di quelle ragioni, ch'ella non avea, ma che [214] spettavano ad Alisia sua zia moglie del Re Ugo. Ed in effetto, quando Federico II Imperadore fu scomunicato e tornò in Puglia, lasciando la Soria, la vedova Regina di Cipri andò in Soria, ricorrendo agli Ospitalieri e Templari, perchè la mettessero nel possesso del Regno di Gerusalemme, stante che Federico era tornato in Puglia, ed era stato scomunicato: di che gli Ospitalieri e Templari non vollero far nulla, rispondendoli, che volevano aspettar un anno a vedere, se anderebbe in Soria Corrado figliuolo di Federico e di Violante sua moglie, figliuola della sorella maggiore da parte di madre di questa Regina di Cipri: il qual Corrado era più propinquo alla Corona e successione del Regno, siccome narra il Bossio[268]. Quindi avvenne, che Carlo avvertito da poi della poca sussistenza di queste ragioni di Maria, si convenne con Errico II di tal nome Re di Cipri, che, come scrive P. Lusignano, gliele contrastava. E sebbene Errico rinovasse da poi la contenzione col Re Carlo II d'Angiò per le ragioni dell'ava; nulladimanco così il suddetto Carlo, come tutti gli altri Re Angioini suoi successori, continuarono ad intitolarsi sempre Re di Gerusalemme, come si vede da' loro diplomi e privilegi. Ed il Re Roberto colla Regina Sancia sua moglie, essendo ne' loro tempi dal Soldano angustiati più che mai i Cristiani, che ministravano al Santo Sepolcro, convenne col Soldano, che non si dasse impedimento alcuno a' Cristiani, che ivi erano, con promettergli perciò grosso tributo, somministrando ancora a quelli tutto il bisognevole, perchè non mancassero d'assistere a quel santo luogo[269]. Parimente la Regina Sancia a [215] sue spese fece edificare nel Monte Sion un convento a' Frati Minori di S. Francesco, e n'ottenne anche Bolla da Papa Clemente VI rapportata dal Wadingo; il qual Autore narra ancora, che la Regina Giovanna I ottenne anche dal Soldano permissione di poter costruire un altro convento a' Frati suddetti di S. Francesco nella Valle di Giosafat somministrando ella le spese, e quanto bisognava per mantenimento di detti Frati[270]. Donde alcuni fondano il patronato, che tengono i Re di Napoli nel S. Sepolcro, ed in detti luoghi serviti da' Frati Minori di S. Francesco, soccorsi e fondati con tante spese da' loro predecessori, avvalorato anche dalla Bolla di Papa Clemente.

Ma altri ponderando, che il fonte, onde deriva il titolo di Re di Gerusalemme a' Re di Napoli, sia alquanto torbido, volendosi tirare da questa cessione di Maria, per ischermirsi ancora più validamente dalle pretensioni de' Re d'Inghilterra, de' Marchesi di Monferrato (donde tirano le loro ragioni i presenti Duchi di Savoja) e della Signoria di Vinegia, i quali per la successione de' Re di Cipro tutti pretendono questo titolo; scrissero, che a' Re austriaci giustamente s'appartenga per le ragioni di Maria primogenita di Isabella sorella di Balduino IV Re di Gerusalemme, le quali non s'estinsero nella persona di Corradino; poichè gli Scrittori oltramontani ed Italiani tutti concordano, che quando fu mozzo il capo a quell'infelice Principe, investì egli col guanto, e coll'anello di tutti i suoi Regni e ragioni il Re Pietro d'Aragona, al [216] quale s'apparteneva la successione di tutti i Regni e Stati di Corradino, com'erede della famiglia di Svevia a cagione di Costanza figliuola del Re Manfredi; ed al Re Pietro essendo per legittima successione succeduto il Re Federico d'Aragona, ed a costui, i Re austriaci di Spagna suoi successori, meritamente questi se ne sono intitolati Re con maggior giustizia e ragione, che tutti gli altri Competitori.

CAPITOLO III. Nuova Nobiltà franzese introdotta da Carlo I in Napoli; e nuovi Ordini di Cavalieri.

Nel Regno de' Normanni, siccome si vide ne' precedenti libri di quest'Istoria, molti Signori franzesi capitarono in queste nostre parti adorni di militari posti, de' quali, come Capitani in guerra espertissimi, si valsero que' Principi, che dalla Normannia, paese della Francia, ci vennero: furono in premio delle loro lunghe e gloriose fatiche lor conceduti molti Feudi, ed aggranditi co' maggiori Ufficj della Corona: essi per ciò introdussero appo noi un nuovo modo di succedere ne' Feudi, detto jus Francorum; e molte altre usanze e riti vi portarono. Ma questi Baroni non in Napoli si fermarono: molti in Sicilia, e particolarmente in Palermo, allora Sede regia, fecero permanenza. Altri ne' loro Stati, de' quali erano investiti, altri seguendo la persona de' loro Principi, decorati di varii Ufficj ivi residevano, dove era la persona regale, ovvero dove ricercava il lor posto, facevano residenza. Ma que' Capitani, e que' guerrieri franzesi e provenzali, che seguirono [217] Re Carlo nell'impresa di questi Regni, residendo, dopo avergli conquistati, per lo più egli in Napoli, in questa città si fermarono, ove dalla munificenza del Re riceverono i premj delle loro sofferte fatiche; poichè Carlo, dopo essere entrato in Napoli, con magnifico apparato, e con allegrezza ricevuto, avendo passati molti dì in festa con la Regina Beatrice sua moglie, e con gli altri Signori franzesi, volle premiar tutti coloro, che l'aveano servito; e fatto scrutinio de' Baroni, che aveano seguitato la parte di Manfredi, confiscati i loro beni, cominciò a compartirgli a costoro, principiando da Guido Monforte, ch'era stato Capitan generale di tutto il suo esercito, e da Guglielmo Belmonte, che oltre averlo fatto Grand'Ammiraglio, l'investì del Contado di Caserta, e donò molte città e castelli a moltissimi altri. Furono premiati Guglielmo Stendardo, Gugliemo di Clinetto, Ridolfo di Colant, Martino di Dordano, Bonifacio di Galiberto, Simone di Belvedere, Pietro di Ugoth, Giovanni Galardo de Pics, Giordano dell'Isola, Pietro di Belmonte, Roberto Infante, Beltrano del Balzo, Giacomo Cantelmo, Guglielmo di Tornay, Rinaldo d'Aquino, ed altri moltissimi rapportati dal Costanzo, e dal Summonte[271], e più diffusamente da Pier Vincenti nel Teatro dei Protonotari del Regno, dove favella di Roberto di Bari, per le cui mani, come Protonotario del Regno passavano allora queste donazioni. Ed oltre aver premiato anche i Romani e gli altri Italiani, che lo seguirono, ebbe particolar cura di que' Cavalieri franzesi, che di Provenza e di Francia condusse seco, a' quali donò città, terre, castelli, dignità ed ufficii [218] eminenti nel Regno; tra' quali furono più chiari quelli di casa Gianvilla, d'Artois, d'Appia, Stendardi, Cantelmi, Merloti della Magna; que' di casa di Burson, di Marsiaco, di Ponsico detti Acclocciamuri, di Chiaramonte, di Cabani, ed altri. Potè Napoli pertanto, oltre l'antica, per la nuova e numerosa Nobiltà franzese quivi stabilita con tanti Feudi, preminenze ed ufficii, rendersi sopra ogni altra città del Regno più illustre e chiara; ond'è, che poi meritamente acquistonne il titolo di nobile, ovvero di gentile.

§. I. Cavalieri armati da Carlo in Napoli.

Ma quello che sopra ogni altro rese illustre questa città, fu averla questo Principe arricchita d'infinito numero di Cavalieri, con avere ornati d'Ordine di cavalleria moltissimi cittadini, oltre molti altri del Regno, nel quale per ciò introdusse in tanta frequenza l'esercizio militare, che quelli, che sotto la disciplina sua e de' suoi Capitani erano esercitati nelle guerre, non cedeano punto a' veterani, ch'egli avea condotti di Provenza e di Francia.

L'ordine de' Cavalieri fu presso i Romani in tanta stima e riputazione ch'era uno de' tre Ordini, dei quali si componeva quella Repubblica: Martia Roma triplex, Equitatu, Plebe, Senatu, dice Ausonio. Cioè di Senato, Cavalieri, e minor Popolo. Il Senato per lo consiglio: li Cavalieri per la forza: il minor Popolo, per somministrare e fornire, ovvero ridurre a perfezione le cariche della Repubblica.

Prima l'Ordine de' Cavalieri era come un Seminario di Senatori: poichè, come dice Livio, da quest'Ordine si pigliavano, e si facevano i Senatori; ma da [219] poi che i grandi Ufficii furono comunicati al minor Popolo, li Senatori erano scelti da que' ch'erano stati Magistrati. Prima i Romani davano il cingolo militare a coloro ch'erano abbondanti di beni di fortuna; onde nacque, che chi avea molti sestertii poteva aspirare ad entrar in quest'Ordine, siccome a quello di Senatori ancora. In tempo poi degli Imperadori era dato con solennità alle persone di merito, e più frequentemente a quelle, che non aveano ufficio o carica pubblica, ma dimoravano per lo più, come semplici gentiluomini nella Corte dell'Imperadore; e perchè erano di più sorte, perciò l'Imperadore in una sua Costituzione, che ancor leggiamo nel Codice di Giustiniano[272], volle stabilire le loro precedenze, e dopo quelli che tengono esercizio per qualche ufficio o carica, mette in secondo luogo que' Cavalieri, a' quali essendo in Corte avea egli dato il cingolo militare: nel terzo luogo, quelli a' quali non essendo in Corte, ma assenti, avea l'Imperadore mandato il cingolo: nel quarto, quelli a' quali questo cingolo non era stato dato in tutto, ma a' quali essendo in Corte, l'Imperadore avea semplicemente concedute le lettere di dignità: e nel quinto ed ultimo luogo, quelli a' quali avea semplicemente mandate queste lettere in loro assenza. Precedevano perciò secondo quest'ordine; da che ne seguiva, che questo cingolo dato a coloro che non aveano ufficio o carica pubblica, attribuiva loro il dritto di portar continuamente la spada, e conseguentemente di godere de' privilegi delle genti d'arme; e ch'era più onore averlo dalle mani dell'Imperadore, che mandato [220] in assenza: e più avere il cingolo, che le lettere di dignità.

Ruinato l'Imperio romano, e dalle sue ruine surti in Europa nuovi Reami e dominii, i Re di Francia, per quanto si sa, furono i primi, che vollero rinovare sì bello istituto[273]; i quali al medesimo modo, coloro, che conoscevano di grande merito, o almeno ch'essi volevano elevare a dignità, allora che non aveano ufficio o carica pubblica da conferir loro, gli facevano Cavalieri, cioè a dire, gli dichiaravano gente d'arme onorarie per godere de' privilegi militari, ancorchè non fossero arrolati tra le genti di guerra. Ed in fatti la maggior parte degli antichi Scrittori franzesi chiamano in Latino il Cavaliere Militem e non Equitem. Ond'è, che quando volevano armarlo Cavaliere di cavallo, spezialmente essi lo dichiaravano per gente d'arme di cavallo, perchè in Francia costoro sono molto più stimati, che quelli a piedi. Ed in segno di ciò, che gli facevano gente d'arme, essi davan loro il cingolo militare ne' dì più segnalati e rimarchevoli, e sotto cerimonie le più illustri e magnifiche che si potessero. Ciò che fu da poi imitato da' nostri Re Normanni, da Ruggiero I e dagli altri seguenti Re, anche Svevi, ma sopra tutti da Carlo d'Angiò e dagli altri Re Franzesi suoi successori.

I giorni destinati per tal cerimonia erano per lo più quelli della loro incoronazione: ne' primi ingressi che facevano nelle città: ne' dì d'alcune festività grandi, ed in particolare della Vergine Maria; ovvero in occasione di qualche pubblica allegrezza[274]. Era ancora [221] antica usanza di fargli Cavalieri, o avanti una battaglia, o quando doveano dar qualche assalto ad una Piazza, affin d'incoraggire i bravi gentiluomini a portarsi valorosamente; ovvero dopo la battaglia, o presa della Piazza, per ricompensar quelli, che s'erano portati con valore, ed ardire[275]. Si facevano ancora in tempo de' maritaggi de' Re, o loro figliuoli, o per la natività del Principe, per onorare i Tornei, che vi si facevano.

I nostri Re prima d'ogni altra cosa, per mezzo di un general editto solevano pubblicar per tutto il Regno il giorno destinato, nel quale doveasi far tal cerimonia, affinchè, chi voleva prendere il cingolo, s'accingesse a portar i requisiti, che secondo le nostre Costituzioni erano ricercati; poichè il nostro Ruggiero I Re di Sicilia avea fatta una costituzione[276], colla quale ordinava, che senza licenza del Re, e senza che discendessero da Cavalieri, niuno potesse aspirare al cingolo militare: ciò che fu confermato da Federico II nella Costituzione[277] che siegue, la quale non a Ruggiero, come con errore leggesi nelle vulgate, ma a Federico deve attribuirsi, così perchè in quella, intendendo di Ruggiero, lo dice Avi nostri; come anche perchè della medesima fece menzione nella sua Cronaca Riccardo da S. Germano, che dice essersi pubblicata da Federico in un Parlamento generale, che tenne in S. Germano nel mese di Febbraio dell'anno 1232.

I Re angioini vi aggiunsero altri requisiti, ricercando non solo: Quod nullus possit accipere militare cingulum, [222] nisi ex parte patris saltem sit miles, come si legge nel Registro di Carlo II dell'anno 1294 rapportato dal Tutini[278]: ma che esso, ed i suoi maggiori avessero contribuite le collette, e sovvenzioni coi Nobili e Cavalieri. Ma da una postilla di Bartolommeo di Capua nella riferita Costituzione di Ruggiero, par, che a' tempi del Re Roberto, ne' quali egli scrisse, non si ricercasse più la pruova della discendenza da Cavaliere, e che solo in Francia era ciò richiesto, come sono le sue parole: Non potest quis militare qui non est de genere militum ex parte patris. Hoc in Regno Siciliae non servatur, sed bene audivi servari in Regno Franciae. Ed in effetto leggiamo essersi dato il cingolo a molti del minor Popolo, che non potevano mostrare essere stati i loro maggiori Cavalieri, e molti del Popolo, così di Napoli come del Regno, armò Carlo II suo figliuolo, e Roberto, che possono vedersi presso Tutini[279], ch'e' chiama per ciò Cavalieri di grazia, perchè ebbero tal onoranza senza le suddette condizioni.

Ricercavasi ancora, che il candidato fosse di età adulta. I Romani secondo riferisce Dione[280], armavano Cavalieri da' diciotto anni in su, e l'Abate Telesimo[281] ne' fatti del Re Ruggiero, descrivendoci l'avvenenza, e l'età de' figliuoli di quel Re, dice, che ambedue erano capaci di prendere il cingolo, essendo già adulti: Habebat autem Rex Rogerius et alios duos liberos adolescentiores, forma speciosissimos, morumque honestate praeclarissimos; nec non ad suscipiendum militiae cingulum jam utrosque adultos.

[223]

A questo fine coloro, che volevano armarsi Cavalieri, dimandavano, che si prendesse informazione dei loro requisiti, ed il Re commetteva, o al Capitano di Napoli, se eran Napoletani, ovvero a' Giustizieri delle province, se Regnicoli, che ne formassero il processo: e presa l'informazione, costando de' requisiti, erano nel giorno destinato ammessi ad armarsi: e costoro prima di ricevere il cingolo erano chiamati in linguaggio franzese Valletti, che nel nostro suona Paggi. Comparivano essi nel giorno della celebrità tutti adorni di vaghi e ricchi abiti e nella maggior chiesa della città, ove dovea farsi la cerimonia, s'alzava un gran palco ben adorno, dove s'ergeva un altare, ne' cui lati si ponevano la sedia del Re e 'l faldistorio del Vescovo, e quivi vicino un'altra sedia inargentata coverta di drappo di seta. Sopra l'altare, come narra Giovanni Sarisberiense[282], si ponevano le spade, che doveano cingersi a' fianchi de' nuovi Cavalieri.

Venuto il Re e la Regina con tutta la lor Corte, Cavalieri, ed altri Nobili in chiesa, s'introducevano coloro, che doveano armarsi, e si facevan sedere nella sedia d'argento. Da poi, da alcuni Cavalieri vecchi erano esaminati se fossero sani, e ben disposti di corpo a poter adoperarsi nelle battaglie, e ricevuto il loro esame, erano poscia condotti in presenza del Vescovo, il quale sedendo nel suo faldistorio vestito da Diacono, teneva il libro de' Vangeli aperto, ed avanti di esso inginocchioni, chiamandogli per nome diceva loro[283]: Già che volete ricevere il cingolo militare, e farvi Cavalieri, avete da giurare sopra questi Santi [224] Vangeli, che in verun conto non verrete mai contra la Maestà del vostro Re qui presente, e de' suoi successori, e volendo voi partirvi dalla fedeltà del vostro Re (che Iddio non permetta) il quale vi dovrà crear Cavalieri, dovrete prima restituirgli il cingolo, del quale or ora sarete ornati, e da poi potrete far guerra contro di esso, e niuno vi potrà riprendere di fellonia; altramente sarete riputati infami, e degni di morte. Avrete ancora da esser fedeli della Chiesa cattolica, riverenti a' Sacerdoti, difensori della Patria, dell'Onor delle donzelle, vedove, orfani, ed altre miserabili persone[284].

Rispondevan quelli, che confidati nella divina grazia sarebbero stati fedeli e leali al loro Re, e avrebbero osservato quanto promettevano, e toccando con le mani il libro de' Santi Evangeli, così giuravano. Poscia da due Cavalieri veterani venivan condotti alla presenza del Re, ed ivi inginocchiati, il Re prendeva la sua spada, e con quella toccando leggiermente a ciascuno il capo diceva: Iddio ti faccia buon Cavaliere. Altri, come il Mennio[285], dicono, che il Re percuoteva colla sua spada gli omeri, non il capo. Allora, senza che i valletti si movessero davanti il Re, comparivano sette donzelle della Regina vestite a bianco, le quali portando i cingoli nelle loro mani, offertigli prima al Re, gli cingevano ne lombi de' Cavalieri. Si prendevano poi da su l'altare le spade, come narra Pietro di Blois[286], e dalle medesime donzelle erano [225] attaccate a' lati de' nuovi Cavalieri. Venivano appresso alcuni Cavalieri, e lor calzavano gli sproni, e poscia ponevano loro una sopravvesta di panno di lana verde foderata di pelle di vajo. La Regina poi dalla sua sedia lor porgea la mano, ed alzatisi, s'andavano a sedere nella lor sedia. Venivan allora tutti i Cavalieri e Nobili quivi presenti a rallegrarsi con loro della dignità ricevuta, e datasi una colazione di cose inzuccherate, si finiva la festa.

D'allora in poi non più valletti, ma Messeri, o Militi erano appellati, e come gente di guerra godevano de' militari privilegi, e di quelli ancora, che hanno i semplici Gentiluomini, cioè d'essere esenti dalle tasse: di portar la spada sino al gabinetto del Re: goder il privilegio della caccia: essere esenti dalle pene degli ignobili; e non esser tenuti battersi in duello con gli ignobili. Ne' loro tumuli perciò si scolpivano vestiti d'arme, col cingolo, con la spada e con gli sproni ai piedi, sotto i quali erano due cani per simbolo della fedeltà, ciò ch'era l'impresa de' Cavalieri; e di ciò infiniti marmi si veggono in varie chiese di Napoli; nè era permesso ad altri, che non fosse Cavaliere, farsi scolpire in cotal modo nelle sepolture; poichè i Dottori ne' loro tumuli si scolpivano con la toga lunga, e col cappuccio su 'l capo, come si vede nella chiesa di S. Domenico Maggiore di Napoli nel sepolcro di Niccolò Spinelli da Giovenazzo, detto di Napoli ed in altre chiese ancora; e que' del minor popolo, come i mercatanti e gli artefici, si facevano scolpire con una vesta a mezza gamba, con maniche larghe, e con uno involto di tela su 'l capo, siccome si veggono i loro tumuli in varie chiese di questa città[287]. Per questo [226] era necessario, che si ritornasse il cingolo, quando si voleva far guerra al Principe, da cui erano stati armati Cavalieri, perchè altrimenti sarebbero stati reputati felloni ed infami, siccome de' Principi di Bisignano e di Melfi, del Duca d'Atri e del Conte di Maddaloni rapportano l'Engenio ed il Tutini[288], i quali essendo stati onorati da Luigi XII Re di Francia della collana di S. Michele, quando occupò il Regno, essendo quello poi ricaduto a Ferdinando il Cattolico, restituirono la collana a Luigi.

Queste cerimonie per essersi rese le più segnalate e rimarchevoli, si facevano con tale magnificenza e dispendio, che si vede così in più Costumanze di Francia, come nelle nostre leggi del Regno, che i Baroni aveano dritto d'imporre dazi su i loro vassalli, e dimandar sovvenzioni da essi per le spese, che si avean da fare in tal funzione, quando essi o i loro figliuoli primogeniti dovean armarsi Cavalieri, non altrimente che quando maritavano le loro figliuole primogenite[289]. Noi ne abbiamo una Costituzione di Guglielmo sotto il titolo de adjutoriis exigendis[290], che parla de' figliuoli, pro faciendo filio Milite. Federico II l'ampliò poi al fratello, come si legge nella Costituzione Comitibus sotto il titolo de adjutoriis pro militia fratris. E tra l'epistole di Pietro delle Vigne[291] ne leggiamo una di quell'Imperadore dirizzata ad un Giustiziero, affinchè faccia esigere il solito adjutorio da' vassalli d'un certo Barone, il cui figliuolo dovea prender l'onoranza [227] di Cavaliere: Idem Justitiarius a Vaxallis praefati Baronis juxta Constitutionem Regni nostri subventionem fieri faciat congruentem.

Così ancora nel Regno di Carlo di Angiò e del suo figliuolo leggiamo ne' regali Archivi molti di questi ordini; e nel Registro dell'anno 1268[292], se ne vede uno spedito a favore di Filippo Brancaccio: Scriptum est Justitiario Terrae Laboris, ec. Quod Philippo Brancaccio, qui nuper se fecit militari cingulo decorari, subventionem per hoc congruam a Vaxallis suis faciat exhiberi. E nel Registro dell'anno 1294[293] un altro a beneficio di Lionardo S. Framondo: Quod Vaxalli Leonardi de S. Framundo, praestent eidem congruam subventionem juxta Regni consuetudinem, pro militari cingulo accipiendo. Simil ordine ottenne Adinolfo d'Aquino per Cristoforo suo fratello, quando da Carlo primogenito del Re, mentr'era in Francia, fu cinto Cavaliere: Adenulphus de Aquino petit subventionem a vaxallis pro Christophoro ejus fratre militari cingulo decorato a Carolo primogenito in partibus Franciae[294]. E poichè per la celebrità e magnificenza, che si usavano nella creazione de' Cavalieri, s'introdusse, che non solamente i semplici Gentiluomini, ma anche i Principi, i fratelli e sino i figliuoli del Re volevano avere quella dignità di Cavaliere, perciò nella creazione de' figliuoli, o fratelli del Re, poteva questi dimandar la sovvenzione da' suoi vassalli per tutto il Regno; ed Andrea d'Isernia rapporta, che tra' Capitoli di Papa Onorio venga anche ciò dichiarato, che possa il Re imponere una taglia nel Regno, quando, [228] o volesse egli armarsi Cavaliere, o suo figliuolo, o fratello, pur che però non eccedesse la somma di dodici mila once[295].

Tante belle e sì magnifiche cerimonie, che si facevano nella creazione de' Cavalieri, furono cagione, che non solamente i semplici Gentiluomini, e que' che non aveano ufficio o carica pubblica, ma ancora i Signori, i Principi e fino i figliuoli de' Re vollero armarsi Cavalieri, riputando, che questo fosse non solamente un onore, ma ancora un buon presagio, e parimente un impegnamento al valore ed alla generosità il ricevere la spada dalle mani del loro Principe. Ciò che frequentemente, ed in Francia, e presso noi da' nostri Re costumavasi.

Negli Annali di Francia vediamo, che il Re Carlo M. cinse la spada a Luigi il Buono suo figliuolo, essendo in procinto d'andare alla guerra. E Luigi medesimo fece il simile a Carlo il Calvo suo figliuolo. Il Santo Re Luigi armò Cavaliere il suo figliuolo primogenito Filippo III, e Filippo tre altri suoi figliuoli. E l'Istoria nota, che in queste funzioni, il Re avea la sua corona in capo, la Corte era piena, ed in quel giorno era tavola aperta per tutti.

I nostri Re normanni ed angioini, che punto non si discostarono dall'usanze de' Re di Francia, solevano praticar il medesimo. Così leggiamo di Adelasia Contessa di Calabria e di Sicilia, la quale prima che Ruggiero suo figliuolo fosse Conte, e poi primo Re [229] di Sicilia, volle che s'armasse Cavaliere; onde è, che prima questo Principe ne' diplomi si nominasse Cavaliere, e poi Conte, come si osserva in più carte rapportate da Pirro[296], in una delle quali si legge così: Ego Adelais Comitissa, et Rogerius filius meus Dei gratia jam Miles, jam Comes Siciliae et Calabria, etc. Ruggiero istesso, narra l'Abate Telesino[297] che fatto Re, duos liberos suos ad militiam promovit, Rogerium Ducem, et Tancredum Bagensem Principem, ad quorum videlicet laudem et honorem quadraginta Equites cum eisdem ipsis militari cingulo decoravit; e Paolo Pansa nella vita d'Innocenzio IV[298] rapporta ancora, che l'Imperador Federico II essendo nell'anno 1245 passato a Cremona, creò Cavaliere Federico suo figliuolo Principe d'Antiochia, che quivi era, e cinsegli di sua mano la spada al lato.

Ciò che fu da poi imitato da' Re angioini, ed infra gli altri da Carlo II il quale, innanzi di dar altri titoli a' suoi figliuoli, gli volle prima crear Cavalieri: così nell'anno 1289 dopo un general parlamento volle, prima di crearlo Re d'Ungheria, ornar Cavaliere, insieme con molti altri, Carlo Martello suo primogenito. Il simile fece a Filippo Principe di Taranto suo quartogenito, il quale fu da lui ornato del cingolo militare prima d'esser creato Principe di Taranto. A Roberto suo terzogenito, che poi gli successe nel Regno fece il medesimo; poichè trovandosi egli nell'anno 1296 in Foggia scrisse a Filippo suo figliuolo, che pubblicasse per mezzo de' soliti editti, come a' 2 Febbrajo giorno della Purificazione, voleva cinger Cavaliere Roberto; [230] e tutti que' gentiluomini, che desideravano armarsi, comparissero in Foggia, ove insieme con Roberto avrebbero ricevuto il cingolo militare.

Il mentovato Re Roberto volle anch'egli nella città di Napoli cinger Cavaliere nel dì della Purificazione Carlo Duca di Calabria suo unigenito, e di ciò nell'anno 1316 ne diede parte a tutto il Regno, scrivendone a' Giustizieri delle province, come dal diploma, che rapporta il Tutini[299] insieme con gli altri esempi sopra riferiti.

Da questo costume, che tenevano i Re d'armare Cavalieri i loro figliuoli, che dovevano succedere nei loro Reami, nacque il dubbio, se essendosi ciò tralasciato di farsi, coloro che succedevano al Regno essendo Re, fossero Cavalieri, ancorchè non avessero ricevuto l'Ordine. E da quello ch'essi praticavano si scorge, che pare non s'avessero per tali, già che essendo Re volevan esser cinti Cavalieri. Così osserviamo nel libro dell'epistole di Pietro delle Vigne[300] dove si legge una lettera, che scrisse il Re Corrado figliuolo di Federico II agli abitanti di Palermo, nella quale loro scrivea aver voluto cingersi Cavaliere: Licet, dic'egli, ex generositate sanguinis qua nos natura dotavit, et ex dignitatis officio una duorum Regnorum nos in solio gratia divina praefecit, nobis militaris honoris auspicia non deessent; quia tamen militiae cingulum, quod reverenda sancivit antiquitas, nondum serenitas nostra susceperat, prima die praesentis Mensis Augusti cum solemnitate tyrocinii latus nostrum eligimus decorandum, etc.

[231]

Parimente leggiamo in Sigeberto, che Malcolmo Re di Scozia volle esser fatto Cavaliere dal Re di Francia Errico I. E narra Ottone Frisingense, Guglielmo Rufo Re d'Inghilterra essersi fatto cingere Cavaliere da Lanfranco Arcivescovo; poichè in que' tempi ancor durava il costume, che non pure i Principi, ma anche i Vescovi e Prelati armavano Cavalieri: ciò che fu poi lor proibito nel Sinodo Westmonasteriense celebrato nel 1102[301]. Così ancora Errico II si fece armare dal Maresciallo Bisense[302]: ed Odoardo IV Re d'Inghilterra ricevè l'onoranza di Cavaliere dal Conte di Devonia. Errico VII ricevè il cingolo dal Conte d'Evadolia: ed Odoardo VI dal Duca di Somersette. Giovanni Villani[303] ancor rapporta, che Luigi di Taranto secondo sposo della Regina Giovanna I ricevè il cingolo militare dalle mani d'un Capitano tedesco; e negli annali di Francia si legge, che dopo la giornata di Marignano il Re Francesco I fu fatto Cavaliere da Capitan Bajart, che gli cinse la spada[304]; e Luigi XI si fece ancora armar Cavaliere dal Duca Filippo di Borgogna[305].

Ma quantunque l'istorie abbondino di questi e di molti altri esempi, dove si vede, che non avendo preso il cingolo nella loro adolescenza, fatti Re, se n'han voluto ornare; non è però, come saviamente notò Loyseau[306], che ne avessero avuto bisogno, e non fossero senza quello Cavalieri: essi lo facevano per maggiormente onorare l'Ordine de' Cavalieri, e per metterlo [232] in maggior lustro e splendore. I Re come Oceano d'ogni dignità e d'ogni onore, e come Sole onde deriva ogni splendore, contengono in se medesimi tutte le dignità e tutte le più alte prerogative e preminenze.

Quest'Ordine reso sì illustre da' Franzesi e da' nostri Re angioini in maggior numero ristabilito in Napoli, ed in queste nostre province, per li molti Cavalieri, che creavano, pose in tanta riputazione l'esercizio militare, che non vi era gentiluomo, che non proccurasse quest'onoranza e s'esercitasse perciò nella milizia; onde venne il Regno a fornirsi di bravi e valorosi Capitani.

Non è, che Carlo I d'Angiò fosse stato il primo ad introdurgli in Napoli e nel Regno; cominciarono sin da' tempi di Ruggiero I Re di Sicilia; ma egli fu che esaltò quivi tal Ordine, e specialmente a Napoli, in maggior elevatezza, e lo rese più numeroso e florido.

Ruggiero I Re di Sicilia fu il primo ad introdurlo a Napoli, e fu allora, quando entrato pien di trionfo, e vittorioso in questa città, si narra, che nel primo ingresso che vi fece nell'anno 1140 armò 150 Cavalieri[307]. E quando diede il cingolo al Duca Ruggiero, ed a Tancredi Principe di Bari suoi figliuoli, ne creò quaranta altri[308]. Il di cui esempio imitò poi Tancredi, il quale essendo stato nell'anno 1189 coronato in Palermo Re di questi Regni insieme con Ruggiero suo figliuolo, in questa solennità cinse molti Cavalieri, dell'uno e l'altro Reame.

Il Re Manfredi, narra Matteo Spinello da [233] Giovenazzo[309], coronato che fu Re in Palermo, essendosene passato in Calabria, creò per quelle città molti Cavalieri, e poscia venendo in Napoli, nell'ingresso solenne, che vi fece, armò trentatrè Cavalieri, tra' quali vi furono Anselmo e Riccardo Caracciolo Rossi. E portatosi poi nell'anno 1253 in Civita di Cheti, nelle feste di Natale cinse molti Cavalieri di varie città di Abbruzzo.

Ma niuno altro de' nostri Principi usò tanta magnificenza e profusione in armar Cavalieri in Napoli e nel Regno, quanto Carlo I d'Angiò. Non vi occorreva pubblica solennità, che Carlo con sontuose feste non volesse crearne. Nell'anno 1272 nel dì di Pentecoste ne cinse in Napoli moltissimi tutti nobili Napoletani, fra' quali Bartolommeo dell'Isola, Landolfo Protonobilissimo, Marino Tortello, Liguoro Olopesce, Filippo Falconaro, Bartolommeo d'Angelo, Marino del Doce, Marino Pignatello, Tommaso Pignatello, Gualtieri Falconaro, Lorenzo Caputo, Bartolommeo Gaetano, Gualtieri Caputo, tutti nobili Napoletani. De' Nobili poi del Regno, armati da Carlo Cavalieri, ne sono pieni i Registri, siccome in quello dell'anno 1269 ove ne sono notati infiniti, e fra gli altri Pietro di Ruggiero da Salerno, Bernardo di Malamorte, Raimondo di Brachia, e Pietro di Penna d'Abbruzzo: creò ancora Cavaliere il Giudice Sparano da Bari, che poi innalzò ad esser G. Protonotario del Regno, ed altri infiniti sotto questo Re se ne trovano. Nè la munificenza di questo Re si restrinse a' soli Nobili, ma ammise anche a quest'onoranza que' del Popolo di Napoli e del Regno, che s'erano distinti, o per il loro [234] valore o per altra prerogativa: così nel suddetto Registro dell'anno 1269 se ne leggono moltissimi[310], tanto che adornò questo Principe Napoli ed il Regno di tanti Cavalieri, che la disciplina militare e l'esercizio dell'arme si rese di gran lunga mano superiore a quello delle lettere; e siccome a' tempi nostri il presidio delle Case, ed il loro istituto è di applicar i figliuoli alle lettere ed alle discipline, e sopra tutto alla legale; così allora per quest'Ordine di Cavalleria cotanto da Carlo pregiato, non vi era famiglia, non istruisse i figliuoli all'esercizio della guerra e delle armi.

Ad esempio di Carlo, fecero lo stesso tutti gli altri Re angioini suoi successori, come Carlo II suo figliuolo, che nell'anno 1290 coll'occasione dell'incoronazione di Carlo Martello in Re d'Ungheria, armò in Napoli più di 300 Cavalieri[311], e negli anni 1291, 1292, 1296 e 1300 altri moltissimi[312]. Così Roberto suo nipote, dopo la sua coronazione diede il cingolo a molti Napoletani e del Regno ancora, siccome nell'anno 1309 ad alcuni d'Aversa, nell'anno 1310 a molti di Salerno, di Capua e d'Isernia; e circa il 1312 trovandosi egli nell'Aquila fece molti Cavalieri di quella città. E così fecero gli altri Re della seconda stirpe d'Angiò, come Carlo III, Luigi III, Ladislao ed altri, avendo tutti calcate le vestigie di Carlo il Vecchio. Quindi si fece poi, che fosse tanto cresciuto nel Regno il numero de' Cavalieri, che per cagione della moltitudine, e del poco merito d'alcuni, che n'erano ammessi, cominciava già l'Ordine della Cavalleria a cadere in disprezzo, e di non esser molto stimato.

[235]

Nè ciò avvenne presso noi solamente, ma anche in Francia, e negli Reami degli altri Principi, pure a cagion della moltitudine ch'essi ne facevano: poich'era la facilità di fare Cavalieri giunta a tanto, che i Re tanti ne facevano, quanti in qualche pubblica festività se ne presentavano avanti. E negli Annali di Francia si legge, che il Re Carlo V all'assedio di Burges in un giorno solo ne fece cinquecento[313]. E di Carlo V Imperadore pur si legge, che quando fu incoronato Imperadore in Bologna da Clemente VII fece Cavalieri tutti quelli, che trovò ragunati avanti la Chiesa di S. Giovanni, toccandogli, senz'altra solennità, leggiermente con la sua spada su gli omeri.

§. II. Particolari Ordini di Cavalleria.

Da questa facilità e dal disprezzo, che poi ne avvenne, nacque l'origine de' particolari Ordini di Cavalleria; poichè da tanta moltitudine se ne sottrassero i più principali, e segnalati Cavalieri, e si ridussero ad una piccola banda, o truppa; per la qual cosa si inventarono certi nuovi Ordini o Milizie di Cavalieri, ne' quali si ritennero solamente quelli di più merito, o per valore o per legnaggio, non ricevendosi coloro che non avevano altra prerogativa o titolo, che di semplici Cavalieri.

E per rendere questi nuovi Ordini più augusti, e venerabili, s'astrinsero a certe cerimonie di religione, riducendogli in forma di Confrateria; ed ancora, affin di rendergli rimarchevoli e distinti sopra li semplici Cavalieri, loro si fa portare un collare d'oro, o altra [236] insegna, che il Re dà loro, e pone in conferendogli l'Ordine nel luogo della collana degli antichi Cavalieri. Ed erano questi Ordini diversi e distinti da que' di S. Giovanni di Gerusalemme, de' Teutonici, de' Templari, de' Cavalieri di Portaspada, di Gesù Cristo, de' Commendatori di S. Antonio, di S. Lazaro, ed altri rapportati da Polidoro Virgilio: perchè questi erano dell'Ordine ecclesiastico, compreso sotto i Regolari; e per ciò erano chiamati Fratelli Cavalieri, i quali anche s'astringevano a certi voti, come di castità ed ubbidienza, ed a certe regole mescolate di vita monastica e secolaresca.

In Francia il primo Ordine, ch'è stato di durata (poichè quello della Gennetta istituito da Carlo Martello, non accade annoverarlo, perchè non durò guari) fu quello de' Cavalieri della Vergine Maria istituito nell'anno 1351 dal Re Giovanni; e poichè essi portavano una Stella nel loro cappuccio, e poi nel mantello dopo essersi abolito l'uso de' cappucci, si chiamarono perciò Cavalieri della Stella. Di questa compagnia furono presso di noi molti Cavalieri napoletani, e siccome rapporta l'Engenio[314] fuvvi Giacomo Bozzuto, ed alcuni della famiglia Zurla ed Aprana, siccome si vede ne' loro sepolcri.

Il secondo, fu l'Ordine di S. Michele, istituito in onore dell'Angelo tutelare della Francia dal Re Luigi XI il quale per annientare il primo Ordine, ed innalzare il suo, diede l'insegna della Stella a' Cavalieri della sentinella di Parigi, ed a' suoi Arcieri. I nostri Cavalieri pure ne furon decorati da' Re di Francia, siccome Troiano Caracciolo Principe di Melfi; [237] Berardino Sanseverino Principe di Bisignano, Andrea Matteo Acquaviva Duca d'Atri, e Gio. Antonio Carafa Duca di Maddaloni, li quali da poi (come si è di sopra rapportato) ricaduto il Regno al Re Cattolico, resero la collana al Re di Francia.

Finalmente Errico III grande inventore ed amatore di nuove cerimonie, oltre aver istituito l'Ordine militare della Vergine del Monte Carmelo, al quale Paolo V concedè molte prerogative[315], istituì l'Ordine e Milizia di San Spirito, in memoria, che nel dì della Pentecoste era nato e stato fatto Re. E questi Cavalieri oltre l'insegne del loro Ordine, che portano sopra i loro mantelli, ne portano un altro ad una fascia di color turchino.

Ad esempio de' Re di Francia hanno per l'istessa cagione altri Principi istituiti nuovi Ordini di Cavalleria, ed i nostri Re Angioini ne furono i più pronti imitatori. Odoardo III Re d'Inghilterra, essendo caduta ad una Dama, la quale egli amava, una becca della gamba, che gl'Inglesi in lor lingua chiamano Garter, egli alzolla, ed alla Dama cortesemente la rendè: di che si levò romore tra la Corte, che il Re con quella avesse amorosa pratica; onde il Re in sua scusa, e per onorar quell'accidente, istituì l'Ordine, detto tra noi volgarmente della Giarrettiera; aggiungendo alla becca quelle parole franzesi: Honni soit, qui mal y pense, che in nostra lingua vuol dire, mal abbia, chi mal pensa[316]. I Re di Castiglia ne istituirono un consimile detto della Banda, ovvero Fascia. I Duchi di Borgogna l'altro del Toson d'oro. [238] I Duchi di Savoja quello dell'Annunziata. I Duchi di Toscana l'altro di S. Stefano. I Duchi di Orleans quello dell'Istrice; e sotto gli ultimi Re di Spagna, e Portogallo quelli d'Alcantara, di S. Giacomo, di Calatrava, di S. Benedetto de Avis, ed altri.

Ma i nostri Re della casa d'Angiò istituirono ad imitazione di quelli di Francia più Ordini. Luigi di Taranto Re di Napoli, secondo marito della Regina Giovanna I nell'anno 1352 nel giorno della Pentecoste ordinò una festa in memoria della sua coronazione, nella quale istituì l'Ordine, e la Compagnia del Nodo di sessanta Signori e Cavalieri i più valorosi di quella età, sotto certa forma di giuramento e perpetua fede; ed insieme col Re vestivano ognun di loro la giornea usata a que tempi della divisa del Re, con un laccio di seta d'oro e d'argento, il quale si annodava dal Re al petto, come il Costanzo[317], ovvero al braccio, come vuol l'Engenio[318], di quel Cavaliere, ch'entrava in questa Compagnia. Di questo Ordine furono il Principe di Taranto, fratello maggiore del Re Luigi, benchè scriva Matteo Villani, che quando il Re gli mandò la giornea riccamente adornata di perle e di gioje, col Nodo d'oro e d'argento, egli ch'era di maggior età, e che s'intitolava Imperadore, sdegnato di ciò, disse ridendo a quelli, che la presentarono, ch'egli avea il vincolo dell'amor fraterno col Re, e però non bisognava più stretto nodo. Il mandò anche Re Luigi a Bernabò Visconte Signor di Milano, il quale l'accettò molto volentieri. Il diede a Luigi Sanseverino, a Guglielmo del Balzo Conte [239] di Noja, a Francesco Loffredo, a Roberto Seripando, a Matteo Boccapianola, a Gurrello di Tocco, a Giacomo Caracciolo, a Giovanni di Burgenza, a Giovannello Bozzuto, a Cristofano di Costanzo, a Roberto di Diano, ed altri. E fu loro istituto, che quando un Cavaliere faceva qualche pruova notabile, per segno del valor suo, portava il nodo sciolto: ed alla seconda pruova tornava a rilegarlo, siccome avvenne a Giovannello Bozzuto, il qual portandosi valorosamente in una battaglia, meritò sciogliersi il nodo, ed in Gerusalemme poi tornò a rilegarlo; ond'è, che nel suo tumulo nel Duomo di Napoli si veggono due nodi da' lati del suo cimiero: e nel sepolcro del Costanzo nella Tribuna di S. Pietro Martire, si vede un nodo legato, e l'altro sciolto. Quest'Ordine di Cavalleria, crede il Costanzo, che fosse stato il primo istituito in Italia: seguirono da poi gli altri istituiti da' seguenti nostri Re.

Carlo III ad emulazione di Luigi, istituì da poi nell'anno 1381 un nuovo Ordine, il quale l'intitolò la compagnia della Nave, alludendo alla Nave degli Argonauti, affinchè i Cavalieri che da lui erano promossi a quell'Ordine, s'avessero da sforzare d'esser emuli degli Argonauti[319]. Volle lo stesso Re esser Capo di questa compagnia, eleggendo per protettore S. Niccolò Vescovo di Mira, al qual dedicò la chiesa appresso il Molo, ed ordinò, che da' Cavalieri di quest'Ordine ciascun anno si celebrasse la sua festa. Portavano costoro nelle sopravvesti, e negli altri militari ornamenti dipinta una Nave in mezzo l'onde alla divisa de' colori del Re, con alcuni interlacci [240] d'argento[320], e di questa compagnia furono i più pregiati e valorosi Cavalieri di que' tempi, e fra gli altri Giannotto Protoiudice di Salerno creato da Carlo Conte dell'Acerra, e G. Contestabile del Regno[321], Gurrello Caracciolo detto Carafa Marescalco del Regno (i sepolcri dei quali con l'insegne si veggono nella chiesa di S. Domenico di Napoli), Errico Sanseverino Conte di Melito, Ramondello Orsino Conte di Lecce, Angelo Pignatello, Gianluigi Gianvilla di Luxemburgo Conte di Conversano, Tommaso Boccapianola, Giovanni Caracciolo ed altri.

Dopo la morte del Re Carlo III la Regina Margherita sua moglie col Re Ladislao suo figliuolo nel 1388 fuggirono a Gaeta, rimanendo Napoli a divozione del Re Luigi d'Angiò; e travagliando allo spesso li vascelli della Regina le Marine di Napoli, alcuni Nobili del Seggio di Portanova con altri Napoletani armarono i loro navili per contrastare le galee della Regina; ed acciocchè con maggior ardire ed amore fra di lor andassero, istituirono la compagnia dell'Argata, e per insegna portavano nel braccio sinistro un'Argata ricamata d'oro in campo azzurro, simile a quelle argate di canna, delle quali si sogliono servir le donne ne' loro femminili esercizi[322]. Di quest'Ordine furono molti Cavalieri di diversi Seggi e famiglie, come di Costanzo, Caracciolo del Lione, di Dura ed altri[323].

Fu istituita da poi in Napoli la compagnia della Leonza, e l'insegna era una Leonessa d'argento legata con un laccio nelle branche e ne' piedi; e li Cavalieri di quest'Ordine furono quasi tutti del Seggio di Portanova, [241] cioè della famiglia Anna, Fellapane, Gattola, Sassona, Ligoria e Bonifacia, e ve ne furono degli altri Seggi ancora[324].

Da poi, Giovanni Duca d'Angiò figliuolo di Renato Re di Napoli, essendo giunto nel Regno coll'armata di suo padre ad assaltarlo, per cattivarsi gli animi de' Cavalieri napoletani, e fra gli altri di Roberto Sanseverino, cercò all'uso di Francia istituire una nuova compagnia che chiamò della Luna, a cagion che per impresa di questa sua milizia portava la Luna cornuta, e ciascun de' suoi compagni la portava d'argento legata nel braccio. Furon molti di quest'Ordine, e fra gli altri Roberto figliuolo di Giovanni Conte di Sanseverino[325].

Finalmente Ferdinando I Re di Napoli, essendo scampato dall'insidie e tradimenti di Marino Marzano Duca di Sessa e marito d'una sua sorella, ed avendolo fatto incarcerare, era consigliato da alcuni di farlo morire; ma il Re non volle acconsentirvi, reputando atto crudele imbrattarsi le mani nel sangue di un suo cognato, ancorchè traditore. Volendo poscia dichiarar questo suo generoso pensiero di clemenza, figurò per impresa un Armellino, il qual pregia tanto il candor della sua politezza, che per non macchiarla si contenta più tosto morire. Si portava perciò dal Re una collana ornata d'oro e di gemme coll'Armellino pendente, e col motto: Malo mori, quam foedari[326]. Fu di questa Compagnia, fra gli altri, Ercole da Este Duca di Ferrara, al qual il re Ferdinando [242] mandò la collana per Gio. Antonio Carafa Cavalier Napoletano[327].

Fu veramente nel Regno degli Angioini per questi Ordini di Cavalleria la milizia tenuta in sommo pregio: onde la Nobiltà di Napoli seguendo questi generosi costumi, stese l'ale della sua fama per ogni parte della Terra abitata: poichè molti Cavalieri napoletani impazienti dell'ozio, e spinti da studio di gloria, si congregavano in diverse Compagnie, e sotto diverse insegne; ed a guisa di Cavalieri erranti, mentre il Regno era in pace, andavano mostrando il lor valore per diverse parti del Mondo, dove sentivano, che fosse Guerra; ed avevano tra loro alcuni obblighi di fratellanza con molta fede e cortesia osservati; ed il Costanzo[328] rapporta, non esservi memoria, in tanta emulazione d'onore, che l'invidia o malignità avesse tra loro suscitata mai briga o discordia alcuna.

Ma in decorso di tempo avendo perduto Napoli ed il Regno il pregio d'esser Sede regia, per la lontananza de' nostri Re, non solo l'Ordine de' Cavalieri rimane oggi affatto estinto; ma anche sono estinti tutti questi altri nuovi Ordini di Cavalleria, e solo il nome di Milite è rimaso agli Ufficiali perpetui di toga del Re, come a' Reggenti della Cancelleria, al Presidente del Consiglio, al Luogotenente della Camera ed a tutti i Consiglieri e Presidenti di Camera, i quali dal Re nella loro creazione sono decorati di questo titolo, come quelli, che militano ancor essi[329]. E siccome i primi eran cinti di spada, così questi sono ornati di toga; alla qual milizia sono ammessi non pur i nobili, [243] ma anche que' del Popolo di Napoli e dell'altre città del Regno, pur che siano Dottori; ond'è, che siccome ne' tempi di Carlo e degli altri Re angioini suoi successori tutti erano intesi all'arte della guerra, così oggi tutti alla milizia togata drizzano i loro desiderii; ed il di lor numero non pur pareggia, ma è di lunga mano maggiore di quello de' Cavalieri, che fiorivano a' tempi de' Re dell'illustre Casa d'Angiò.

CAPITOLO IV. Seggi di Napoli riordinati ed illustrati da Carlo.

Napoli città greca (siccome fu detto nel primo libro di quest'Istoria) ebbe sin da' suoi principii i suoi Portici, ovvero Teatri, detti ancora Tocchi, li quali ora Piazze, ovvero Seggi s'appellano, così come l'ebbero tutte le altre città greche di queste nostre province, poichè non fu ciò pregio solamente di questa città, siccome altri crede. Essi non erano, che luoghi particolari delle città, per lo più vicini alle porte di quelle[330], ove alcune famiglie nobili di quel rione, o quartiere s'univano a menar tempo allegro in conversando fra di loro, e con tal opportunità confabulare ancora e conferire de' pubblici affari, e d'altro bisogno della città, ed anche de' loro privati interessi; e poichè per lo più in quelli non solevano convenire se non gli sfaccendati, i quali vivendo nobilmente non stavano attaccati ad alcun mestiere o arte per vivere, perocchè veniva ad essi somministrato ciò che loro bisognava, [244] o da' lor ampi e ricchi poderi, o dalla milizia, ovvero da qualche altra carica della Repubblica: perciò s'introdusse per questi Seggi come una divisione e distinzione tra cittadini, per li quali i Nobili si vennero a separare da' Popolani, i quali impiegati, o nello studio delle lettere e discipline, o nelle mercatanzie, o nelle arti meccaniche, o ne' lavori di mano, o nell'agricoltura, ovvero in altre opere di braccia, non potevano aver quest'ozio di convenir nelle Piazze a trattar co' Nobili de' pubblici affari, o d'altri bisogni della città.

I Greci non aveano città la quale non avesse queste ragunanze, ovvero sodalitadi, o Confraterie, ch'essi chiamavan Fratrie, nelle quali i cittadini per lo più convenivano per trattar i negozi. E Sigonio rapporta, che gli Ateniesi ne' Portici della loro città trattavano i loro affari. Nè altrimente si praticava a Cuma, città parimente greca, la quale teneva questi Teatri, ovvero Fratrie. Onde Pio II ne' suoi Commentari[331] portò opinione, ch'essendo stati i Cumani i primi fondatori di Napoli, avessero essi ad imitazione della loro città istituiti questi Teatri in Napoli, ove i Nobili passeggiando, e quivi diportandosi, soleano trattare de' pubblici affari: Cumanos quoque Theatra, deambulationes, conventusque frequenter posuisse.

E non può dubitarsi, siccome altrove fu rapportato che in Napoli non fossero antichissimi, per la testimonianza di Strabone, il quale noverando i riti, e costumi greci, che ancor'a' suoi tempi riteneva questa città, fra gli altri, scrisse che siccome l'altre città greche, così Napoli avea questi Portici, che ancor'a' [245] suoi tempi i Napoletani chiamavano con greco vocabolo Fratrie. E Varrone[332] pur ne fece memoria quando disse: Phratria, est Graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli etiam nunc. Ove Turnebo notò, ch'essendo Napoli città greca, a somiglianza d'Atene avea queste ragunanze particolari, e separazioni, dette Fratrie[333].

Quanti di questi Seggi avesse prima avuti Napoli, Cammillo Tutini[334] dall'antiche sue regioni e contrade, e da molti altri monumenti, con molta diligenza ed accuratezza andò ricercando; e veramente essendo costume de' Greci dividere le loro città in quattro parti, siccome d'Atene testifica Guglielmo Postello[335], non è fuor di proposito il credere, che anche Napoli in quattro principali parti fosse ripartita: ciò che par, che si confermi dal nome istesso di Quartiere, che ancor oggi si ritiene. Ciascuna di queste quattro regioni, ovvero Quartieri, racchiudeva dentro di se molte altre regioni, ovvero Piazze minori, che sono come tanti membri, che formano il corpo della città. Queste quattro principali regioni non può difficoltarsi, che secondo l'antico sito di questa città fossero stati i Quartieri di Capuana, di Forcella, di Montagna e di Nido.

Il Quartiere di Capuana, così detto, perchè da questa contrada prendeasi il cammino verso Capua, oltre la maggior sua Piazza, abbracciava molte altre minori strade o vicoli, i quali (siccome tutti quelli dell'altre [246] tre regioni) per la maggior parte prendevano il nome, o dalle famiglie, che vi abitavano, o da' Tempj, o da altri pubblici edificj, che vi erano. Così in questo quartiere leggiamo i vicoli del Sole, e raggio di Sole, per lo famoso Tempio d'Apollo, che quivi era costrutto. Quelli di Dragonario, Corneliano, Corte Torre, di S. Lorenzo ad Fontes, delle Zite, Corte Pappacavallo, Ferraro, Santi Appostoli, da' Filimarini, de' Barrili, Gurgite, Rua de' Fasanelli, Caracciolo. Boccapianola, de' Zurli, de' Carboni, Manoccio e Rua de' Piscicelli.

Perciò, oltre il maggior Seggio di Capuana, erano in questo quartiere cinque altri Seggi minori, che presero il nome o dalle famiglie, che solevano ivi abitare, o da Tempj, ovvero dal nome comune di quel luogo dove erano fabbricati. Così in questo Quartiere leggiamo i Seggi di S. Stefano, di Santi Appostoli, di S. Martino; ond'è, che poi essendosi questo unito al maggior Seggio di Capuana, per conservarne la memoria, si vede dipinto questo Santo a cavallo nel muro del Seggio, il Seggio de' Melazzi e l'altro de' Monocci.

Il Quartiere di Forcella chiamossi dagli antichi Scrittori Regione Erculense, come chiamollo S. Gregorio nelle sue epistole[336], perchè quivi fu fondato il Tempio d'Ercole; e talora Regione Termense, per le antiche Terme, ch'erano nel suo seno[337]. Come da poi si chiamasse di Forcella, non è di tutti conforme il sentimento. Alcuni vogliono, che fuori d'una porta, ch'era vicina a questa contrada, fossero piantate le forche per castigo de' malfattori. Altri perchè quivi fosse la scuola di Pitagora, che per impresa faceva una [247] lettera biforcata, detta Ypsilon. Ma altri con maggior senno dissero, che quella forca, che sinora si vede scolpita in un antico marmo sopra la porta della chiesa di S. Maria a Piazza, dove anticamente era il Seggio, fosse particolar insegna del Seggio, che diede nome al quartiere.

Abbracciava questa regione molte altre regioni minori, ovvero vicoli, come l'Ercolense, Cupidine, Lampadio, Placido, Granci, Pizzofalcone, Regionario, Verde, di S. Epulo, Pubblico Bajano, Fistola, Corario, Termense, Capo d'Agno, Corte Bagno nuovo, Corte Greca, Sennarino, degli Agini, degli Orimini, di San Giorgio Cattolico maggiore, Cimbri, Pistaso.

Erano perciò in questo secondo Quartiere, oltre al maggiore di Forcella, ch'era posto avanti l'Atrio della chiesa, detta oggi perciò S. Maria a Piazza, due altri Seggi: quello de' Cimbri; e l'altro di Pistaso.

Il terzo Quartiere, ovvero Contrada fu chiamato di Montagna, ovvero di Somma Piazza, perch'era nella più alta parte della città. Fu detta ancora la regione del Teatro e del Foro; per aver nel suo recinto il Teatro ed il Foro; ed anche regione Palatina dall'antico Palazzo che ivi era, ove si trattavano i pubblici affari.

Le minori Piazze o vicoli di questa Contrada erano: il vicolo della Luce, Bell'aere, Circolo, Piazza Augustale, Piazza Segno, Sopramuro, Marmorata, de' Giudei, Casurio, Formello, Dodici Pozzi, Carmignano, Ferraro, Friggido, Burgaro, de' Tori, de' Maj, Vertecilli, Casatino, de' Marogani, de' Masconi.

Erano perciò in questa Regione, oltre il maggior Seggio di Montagna, detto anche di S. Angelo per essere allato della Parocchial Chiesa di S. Angelo, [248] otto altri Seggi minori. Il I Seggio di Talamo. II dei Mamoli. III di Capo di Piazze. IV de' Ferrari. V de' Saliti. VI de' Canuti. VII de' Calandi. VIII de' Carmignani.

La quarta Regione è quella, che oggi diciamo di Nido, e che gli antichi nominavano Vestoriana e Calpurniana. Fu appellata ancora Alessandrina, o per la frequenza de' Mercatanti d'Alessandria, che venuti a Napoli a mercatantare dimoravano in quella regione, come vuole il Giordano, o per una Chiesa, che v'era dedicata a S. Attanagio Patriarca d'Alessandria, come stima il Tutini. Perciò si vede essere stata quivi collocata la statua del fiume Nilo, che diede poi il nome al Quartiere, e che oggi ancora il ritiene, ancorchè, corrotta dal tempo la voce, di Nido s'appelli.

Nel suo distretto ha più strade, o vicoli minori, che sono di S. Biase, Scorfuso, Fontanola, Capo di Monterone, Daniele, Cortegloria, Pretorio, Casanova, Camillo, Montorio, Scalese, Misso, degli Acerri, degli Offieri, de' Vulcani, Salvonato, Australe, Arco Bredato, Ficarolo, della Giosa, Celano, Quattropozzi, a due Amanti, del Sole e della Luna, Settimo Cielo, Capo di Trio, Don Orso ed Ursitato, e Corte Pagana.

Questa Contrada, oltre al Seggio maggiore di Nido, avea quattro altri Seggi minori. Quello d'Arco; l'altro di S. Gennarello ad Diaconiam; l'altro di Casanova vicino il Monastero di Monte Vergine, non già, come vuole il Costanzo[338], che questo Seggio fosse il medesimo di quello di Portanova, e che mutasse il nome [249] di Casa in Porta; e l'altro di Fontanola nel vicolo oggi detto di Mezzo Cannone.

Queste quattro regioni con l'altre minori Piazze, che le componevano, ebbero, siccome si è veduto, altrettanti principali Seggi, e gli altri minori erano diciannove, che uniti con que' quattro arrivavano al numero di ventitre. Tutti erano rinchiusi dentro le mura dell'antica Napoli; ma essendo stata questa città da varj Imperadori greci, sotto la di cui dominazione durò lungo tempo, ampliato ed allargato il suo recinto vennero perciò a rinserrarsi i Borghi e gli altri luoghi, ch'eran fuori di quella; onde s'accrebbero due altre regioni, che furono quelle di Porto, e l'altra di Portanova, ed in conseguenza due altri Seggi maggiori, oltre i minori, a' primi s'aggiunsero.

La regione di Porto, che anticamente era borgo fuori della città, chiamossi così, perchè stava vicino al mare dov'era l'antico porto della città. Abbracciava più minori contrade, chiamate: Morocino piccolo, Severino, Monterone, Bagno di Platone, Aquario, Fusario, Scotelluccio, delle Calcare, della Lopa, Media, ovvero Melia, Rua de' Caputi, Serico, Volpola, Griffo, Appennino di S. Barbara, Albina, Petrucciolo, Cervico.

Oltre il suo Seggio maggiore di Porto, teneva due altre Seggi minori, quello d'Aquario così detto per l'abbondanza dell'acque, ch'era in quella contrada; e l'altro de' Griffi, che prese tal nome dalla famiglia Griffa di quella Piazza.

Il Quartiere di Portanova era prima detto di Porta a mare, per una Porta antica della città, ch'era dalla parte del Mare; ma ampliata la città, nelle nuove muraglie si fece una nuova Porta, onde prese poi questo [250] nome. Racchiude queste minori contrade: Patrociano, Appennino de' Moccia, de' Costanzi, de' Grassi, S. Salvatore, Acciapaccia, Giorgito, Alburio, Barbacane, Sinocia, Porta de' Monaci, Ferula, delle Palme.

Oltre il suo maggior Seggio, ve n'erano due altri minori: quello degli Acciapacci, e l'altro de' Costanzi.

Erano adunque a' tempi del Re Carlo I d'Angiò 29 Seggi in questa città, sei maggiori e ventitrè minori, come si è detto.

Tutti questi Seggi, ed in cotal maniera disposti, trovò Carlo, quando si rese padrone di Napoli e del Regno; onde non è punto vero ciò, che alcuni Scrittori sognarono, che Carlo I d'Angiò istituisse i Seggi in Napoli, come ben a lungo, e coll'autorità di pubblici ed antichi monumenti dimostrò il Tutini[339]. Non è punto ancora vero, che questo Re di 29 ch'erano, gli avesse ridotti ne' soli cinque, che sono al presente; poichè dalle scritture rapportate dal medesimo, si vede chiaro, che anche a' tempi del Re Carlo II suo figliuolo, e di Roberto suo nipote non s'erano ancora uniti. Siccome non deve riputarsi Carlo autor della divisione tra la Nobiltà ed il Popolo, quasi che egli fosse stato il primo a separare in questa città i Nobili da' Popolari; essendo chiarissimo, che in tutti i tempi, così de' Romani, come de' Goti, de' Greci, dei Longobardi, Normanni e Svevi, furon sempre in Napoli divisi i Nobili dal Popolo, come da molti marmi rapportati dal Grutero[340], dall'epistole di Cassiodoro[341], da quelle di S. Gregorio M.[342], d'Innocenzio [251] III e d'altri romani Pontefici[343] si è potuto notare ne' precedenti libri di quest'Istoria.

Nè Carlo ne' Seggi medesimi separò i Popolari dai Nobili, quasi che quelli promiscuamente, e di Nobili e di Popolari si componessero: poichè, siccome ben pruova il Tutini[344], que' Seggi di soli Nobili si componevano, e de' primi della città, ancorchè non si praticasse quel rigore, che s'usa oggi, di non ammettere in essi i Popolani; come spesso si faceva allora, quando o vivessero nobilmente, o imparentati con Nobili, o d'altra prerogativa cospicui ne fossero stati stimati meritevoli.

Carlo solamente gli rese più cospicui e chiari, dando loro marche più notabili di distinzione dal Popolo, e rendendogli più eminenti ed illustri sopra gli altri Seggi delle altre città del Regno; onde la Nobiltà di Napoli si rese similmente più chiara ed illustre sopra la Nobiltà di tutte l'altre città del Regno. E ciò avvenne per più cagioni.

Primieramente per aver Carlo ornato quasi tutti que' Nobili col cingolo militare, facendogli Cavalieri; II essendosi per la di lui residenza renduta questa città capo e metropoli del Regno, concorrevano in essa tutti i Baroni del Regno, ed i maggiori Signori e Feudatari a dimorarvi, i quali per venire ammessi allora con facilità, anzi pregati, a que' Seggi, gli resero più numerosi, e cospicui; III dalla residenza dei maggiori Ufficiali della Corona e della Milizia, i quali illustrarono anch'essi quelle Ragunanze; perchè non volendo essere del Popolo s'arrolavano co' Nobili; IV i tanti Nobili franzesi e provenzali, che portò seco [252] Carlo di Francia e di Provenza, i quali per essere stati premiati da lui con feudi e cariche pubbliche, fermati perciò in Napoli ed arrolati co' Nobili, resero più cospicue le loro Piazze, introducendosi in quelle molte famiglie franzesi: al che Carlo vi cooperava per altro fine, cioè per aver contezza di quanto in quelle si trattava.

E per ultimo, vivendosi in Napoli a' tempi di Carlo per collette, concedè questo Principe molte prerogative a' Nobili intorno a tali pagamenti, perchè volle, che contribuissero co' Popolari, ma che separatamente dal Popolo i Nobili le pagassero; onde i Nobili esigevano per la Nobiltà, ed i popolani per lo Popolo. E per allettare maggiormente la Nobiltà napoletana, nel primo anno del suo Regno confermò il privilegio concesso loro dal Re Manfredi, di dividersi tra essi la sessagesima parte del jus delle mercatanzie, ch'entravano in Napoli, tanto per terra, quanto per mare[345]: ciocchè fu una più distinta marca di divisione tra' Nobili, e que' del Popolo.

Ma tutte queste belle prerogative non poterono far tanto estollere la nobiltà di questi Seggi sopra tutti gli altri Seggi del Regno, e rendergli in quella maniera pregevoli, nella quale si vedono oggi, quanto i rigorosi regolamenti seguiti da poi intorno all'ammettere nuove famiglie, e l'essersi poi tutti questi ridotti a soli cinque.

Prima ne' tempi stessi di Carlo e degli altri Re angioini suoi successori, non vi era tanto rigore nelle aggregazioni: i Popolari e' Forastieri vi erano indifferentemente ammessi. Questo costume da tempi antichissimi [253] traeva la sua origine; poichè Napoli come città greca, seguendo l'esempio de' Tebani, che come dice Aristotele[346], a lungo andare ammettevano alla loro Nobiltà que' del Popolo, ch'erano ascesi a grandi ricchezze e quegli ancora, che per lungo tempo eran nobilmente vivuti, ed aveano lasciato il mercatantare, ed altri simili mestieri; riceveva le famiglie così nazionali, come forastiere, che per lungo tempo avean serbato il decoro della Nobiltà, e che per lungo tempo eran vivute con arme e cavalli. Così ne' tempi, nei quali siamo di Carlo I, Fusco Favilla vivendo nobilmente con armi e cavalli, fece istanza al Re di farlo contribuire co' Nobili, e 'l Re acconsente, dicendo: Eo quod vivit cum armis, et equis, contribuat cum militibus[347]. Il simile leggiamo di Marino di Madio, di Ademaro di Nocera, e di Nicolò Canuto cittadino napoletano[348]. E Carlo II suo figliuolo a M. Dono da Fiorenza commorante in Napoli l'ammise a qualsivoglia Seggio, e di poter contribuire cum militibus illius Plateae, in qua habitaverit, usque ad regium beneplacitum, ex gratia speciali[349]. E moltissimi altri esempi se ne leggono ne' regali registri, ammettendo i Re le famiglie ne' Seggi in tal guisa; poichè questa era la nota, che distingueva i Nobili da' Popolani; cioè che costoro contribuivano le collette col Popolo, e coloro colla Nobiltà.

Ma, tolte via le collette, cessa questo modo d'aggregar ne' Seggi; ed a' Nobili s'appartenne l'aggregare, [254] i quali niente di rigor usando, ammettevano indifferentemente tutti quelli, che per lungo tempo erano nobilmente vivuti in Napoli, sì cittadini, come forastieri, che aveano contratta parentela co' Nobili, ed abitavano nel Quartiere di ciascun Seggio: così la famiglia Sassone vivendo nobilmente in Napoli nel quartiere di Portanova, ed imparentando co' Nobili di Piazza fu aggregata al Seggio di Portanova. E nel libro dei Parlamenti leggesi l'aggregazione fatta nell'anno 1480 di Giulio Scorciato, ch'era uomo nuovo in Napoli, allora venuto dalla Castelluccia, e perch'era Dottore e Consigliere del Re Ferrante, ed avea la casa nello tenimento della Montagna, lo chiamarono alla Congregazione dello detto Seggio. E questo era il consueto stile d'aggregare allora, leggendosi nel processo d'Ettorre d'Anagni con la Piazza di Nido, che così anticamente erano chiamati nelle Piazze quelli, che abitavano nello quartiero, gente ben nate, ricche, dotte, che viveano nobilmente, a dare il loro parere nella Congregazione delli Seggi[350].

Quindi avvenne, che nelle cause di reintegrazioni, l'aver avute le case ne' quartieri a' Seggi vicini, era riputato alto possessivo di Nobiltà in quel Seggio, e così furono reintegrate molte famiglie, come la Pandona, e la Mariconda a Capuana; la Majorana a Montagna, la Mastrogiudice a Nido, e moltissime altre.

Da poi si vennero pian piano a restringersi le aggregazioni; poichè i Nobili delle Piazze infra di loro fecero alcuni stabilimenti, con ricercare altri requisiti, senza i quali non erano ammessi. Così i Nobili della Piazza di Capuana nell'anno 1500 per pubblico istromento [255] conchiusero, che chiunque volesse essere ammesso nella lor Piazza, dovea esser Nobile di quattro quarti di nome e d'arme, senza alcuno ripezzo: che fosse legittimamente nato, e figliuolo di legittima persona: che per lungo tempo avesse praticato con Nobili, e con essi contratta ancora parentela: che non fosse macchiato di alcun vizio, che offender potesse la Nobiltà. La Piazza di Nido fece ancor essa molti altri Capitoli così in detto anno 1500 come negli anni 1507 e 1524. Quella di Montagna nell'anno 1420 pur fece i suoi, che poi nell'anno 1500 accrebbe d'altri, i quali tutti possono vedersi in Tutini. Siccome anche fecero i Nobili di Porto e Portanova, i Capitoli de' quali non si sanno, per essersi gli antichi libri di questi due Seggi perduti.

Ridotto per questi nuovi Capitoli l'esser nobile di Seggio in più alta stima, così per lo rigore, che praticavasi nell'aggregazioni, come anche per passare i negozi più importanti per le mani de' Nobili, e perchè i Signori Vicerè nel trattare gli affari regi avean sovente bisogno di essi, onde quando prima non molto si curavano queste aggregazioni, si fece da poi così desiderabile esser di Piazza, che non vi era famiglia, nè Signore o Ministro regio, che non movesse ogni impegno per aggregarvisi; sicchè infastidite le Piazze per le tante dimande, si tolsero per sè medesime l'autorità di aggregare, risegnandola in mano del Re; di modo che ordinò Filippo II, che senza sua saputa e licenza non si potesse trattare aggregazione o reintegrazione alcuna nelle Piazze di Napoli; e volendosi di ciò trattare, s'ottenesse prima licenza di Sua Maestà, e poi congregati tutti i Nobili di quel Seggio, e propostasi la dimanda, non essendovi discrepanza, fosse [256] ammesso colui, che dimandava l'aggregazione, altrimenti, discrepando uno d'essi Nobili, il trattato fosse nullo: ciò che riusciva molto difficile, ed era esporsi ad un cimento molto pericoloso. Per la qual cosa molti impresero più tosto per via di giustizia pretender reintegrazione, portando, che alcuni de' loro maggiori avessero goduto in quelle Piazze, che esporsi al cimento difficile dell'aggregazione. Sicchè al presente il Re tien deputati cinque Consiglieri, ed un Fiscale nel S. C. a sentenziare sopra le loro istanze, ottenuta prima licenza dal Re di potersi trattare la reintegrazione. Al cui esempio le città minori delle province, alcune delle quali hanno Seggi chiusi, ottennero parimente dal Re, che senza sua licenza non potessero trattarsi reintegrazioni, ovvero aggregazioni.

L'altra cagione, onde questi Seggi si fossero resi cotanto pregevoli, si fu di 29 ch'erano in prima, essersi ultimamente ridotti a soli cinque, di Capuana, Nido, Montagna, Porto e Portanova. Quando si fosse fatta tal restrizione, non è di tutti conforme il sentimento, poichè non vi sono scritture che ci possano accertare del tempo preciso; ma poichè quest'unione non si fece tutta in un tratto, egli è verisimile, che negli ultimi anni del Regno di Roberto quella si perfezionasse. Ed il modo come tutti que' Seggi minori s'unissero a questi cinque, fu così naturale e proprio, che sarebbe maraviglia se s'osservasse il contrario; poichè quasi tutti questi Seggi si componevano di sei o otto famiglie, quante forse n'erano in quelle minori contrade, ed essendo dipendenti dal Seggio maggiore, in decorso di tempo sovente accadeva, che spenta la maggior parte d'esse, e poche famiglie rimaste, queste se ne passavano al suo principale Seggio, e restavano [257] estinti i minori; onde si vede, che poi i Nobili del principal Seggio vendevano il luogo, ove era il Teatro o portico[351]; così vedesi il Seggio de' Melazi, appartenente al Seggio di Capuana, ne' tempi di Roberto, intorno l'anno 1325 essere stato venduto dalla Piazza di Capuana, per essere spente le famiglie, che quello componevano. Così ancora nell'anno 1331 per comandamento della Regina moglie di Roberto fu abbattuto il Seggio delli Griffi. Ed il Seggio di Somma Piazza, altrimente detto il Seggio de' Rocchi, essendo mancate le famiglie, che lo componevano, e rimasto per ricettacolo de' malfattori, la Reina Giovanna II lo donò ad Antonello Centonze da Tiano. Parimente i Nobili di Montagna venderono il Seggio de' Cimbri, come cosa lor propria, a D. Fabio Rosso. Ed in questa maniera tratto tratto si ridussero tutti a' loro Seggi maggiori.

Ma come, ed in qual tempo si facesse l'unione d'un Seggio maggiore ad un altro parimente maggiore, come fu quello di Forcella a quello di Montagna, è d'uopo che si narri. Alcuni portarono opinione, ch'essendo mancate ne' tempi di Carlo I nella Piazza di Forcella molte famiglie, si fosse fatta da poi nel Regno di Carlo II suo figliuolo questa unione. Ma siccome notò prima il Summonte[352], e da poi il Tutini[353], ciò è falso; poichè tra' Collettori dell'anno 1300 nel Regno di Carlo II destinati all'esazione delle collette, si legge Niccolò Saduccio Collettor di Forcella, e ne' Capitoli del Re Roberto, si vede convenire Giacomo Chianula per la Piazza di Forcella, insieme con gli altri deputati nobili dell'altre Piazze[354].

[258]

Non è da rifiutarsi perciò l'opinione del Tutini, che credette quest'unione essersi fatta negli ultimi anni del Regno di Roberto, con l'occasione della discordia nata fra' Nobili delle due Piazze, Capuana, e Nido, co' Nobili dell'altre Piazze, intorno alla quale Roberto avendo ordinati alcuni stabilimenti, rapportati dal Summonte[355] e dal medesimo Tutini, e facendo in quelli solamente menzione di sei Eletti, comprendendo in essi quello del Popolo, si ricava, che in questi tempi la Piazza di Forcella era già unita a quella di Montagna. Ciò che maggiormente si conferma da una carta della Regina Giovanna I. rapportata dall'istesso Tutini, nella quale, avendo ne' primi anni del suo Regno ordinato, che si facesse inquisizione di tutti i Feudatari del Regno, si notano i Feudatari de' Seggi di Napoli Piazza per Piazza, e non si fa in essa altra menzione, se non de' soli cinque.

Nella quale unione è da notarsi, che per essere il Seggio di Forcella Seggio maggiore, che s'unì ad un altro maggiore, perciò la Piazza di Montagna fa due Eletti, uno per se, e l'altro rappresentando quel di Forcella. Ciò che non avvenne nell'unione degli altri Seggi minori uniti alle principali loro Piazze, perchè essendo questi dipendenti da quelli, bastava un Eletto per tutti. Solo per conservar la loro memoria è rimasta l'elezione degli Ufficiali, che ciascuno di questi cinque Seggi crea con nome di sei, e cinque Capitani de' Nobili, i quali uniti tutti insieme, fanno il numero de' 29 rappresentanti ciascuno d'essi uno di quegli antichi Seggi[356]. Questi hanno prerogativa di far convocar [259] i Nobili per trattar i pubblici affari, propongono i punti, che devono risolversi, ricevono i voti ed hanno grand'autorità nell'assemblee, e sono da' Nobili creati ogni anno, ed oggi tengon titolo di Deputati.

Ridotti adunque ed incorporati tutti questi Seggi a' soli cinque, e disfatti tutti gli altri, cominciarono in varii e diversi tempi ad ampliare con magnifici edifici i loro teatri, e ridursi i portici in quella magnificenza, che oggi si vede; ed essendo poi di tempo in tempo con nuovi edifici ampliata la città, e venuta a quella portentosa grandezza, che oggi s'ammira, crebbero a proporzione i loro quartieri e si resero più spaziosi. Sono tutti cinque uguali, e non hanno maggioranza infra di loro, ancorchè que' di Capuana e Nido, per lo splendore de' loro Nobili, per cagion degli ampii Stati e ricchezze che possedono, vantino sopra gli altri maggiore preminenza.

Hanno molte prerogative, non solo di creare gli Eletti, i quali con quello del Popolo governano la città, convenendo insieme nel loro Tribunale a trattare i negozi del Pubblico, ma esercitano ancora molte giurisdizioni, e fra l'altre di dichiarar i Popolani nobili del Popolo napoletano, e conceder lettere di cittadinanza. Hanno parimente i Nobili di queste Piazze autorità di creare il Sindico, che ne' Parlamenti generali ed in altre pubbliche funzioni, appresso il Vicerè rappresenta non meno la città, che tutto il Regno. Comunicano insieme i Nobili di Capuana e Nido, quando s'uniscono per trattare i negozi del pubblico, potendo l'uno andare al Seggio dell'altro, con dar i voti; ma non perciò possono ricevere uffici, se non ognuno nel suo proprio Seggio. Hanno ancora una legge fra loro circa il contrarre i matrimoni, detta la nuova maniera [260] di Capuana e Nido. Ed i Nobili di Montagna aveano anch'essi anticamente nuovo modo circa il dar delle doti alle Gentildonne della loro Piazza. Ed in Napoli ancora nell'età vetusta v'era un altro modo di contratto dotale all'usanza delle Contesse e Baronesse del Regno.

Non riconoscendosi nella città di Napoli se non che due Ordini, di Nobiltà e di Popolo, poichè lo Stato ecclesiastico, che in Francia fa ordine a parte, presso di noi non è riputato Ordine separato; ma (siccome l'Ordine de' Magistrati) è rimasto mescolato tra la Nobiltà e Popolo, perciò nel governo della medesima, non si ammettono se non Nobili e del Popolo. Quindi è, che appartenendosi il governo della medesima non meno a' Nobili che al Popolo, siccome fu sempre, come ben pruova il Tutini[357], perciò oltre le cinque soprannomate Piazze, evvene un'altra del Popolo, la quale non altrimenti che quelle de' Nobili, elegge il suo Eletto, crea i suoi Ufficiali, tiene le sue regioni minori, che chiamano Ottine, ed è partecipe insieme co' Nobili del governo delle città, e di tutti gli altri onori e preminenze[358].

Ma all'incontro, dimorando in questa città molte nobili ed illustri famiglie, le quali non comunicano nè con la Nobiltà, nè col Popolo: perciò queste si riputano come fuori del Corpo della cittadinanza, traendo esse la maggior parte l'origine da altre città di dentro e fuori del Regno. Nè tal Nobiltà ha sede o luogo; perchè altrimente dovrebbe ancor ella aver parte nei [261] paesi, e negli onori insieme con gli altri Nobili de' cinque Seggi.

Per questa cagione a' tempi di D. Pietro di Toledo, allora Vicerè, cadde in pensiero a molte famiglie, che non erano aggregate a' Seggi, nè comunicavano col Popolo, di supplicar Carlo V, che traendo esse origine da famiglie illustri, nobilitate con feudi, per lunghi anni signore di vassalli, ed imparentate con Nobili di Piazze, che dovessero ammettersi a' Seggi ovvero di conceder loro licenza, che potessero edificare un nuovo Seggio, e goder degli onori e pesi, che godono i Nobili della loro città. Ma trovandosi allora implicato l'Imperadore alla guerra di Siena, non potè darvi alcun provvedimento; ed intanto perchè molte di quelle famiglie furono poi ammesse a' Seggi, non vi si fece altro. Ma da poi correndo l'anno 1558 si rinovò la dimanda da quelle Case, che non furono aggregate, e da molte famiglie spagnuole, le quali ne supplicarono il Re Filippo II ma rimesso dal Re l'affare a giustizia, s'impose a quello perpetuo silenzio. Ultimamente nell'anno 1637 molte illustri famiglie, come gli Aquini, Eboli, Filangieri, Gambacorti, Ajerbi d'Aragona, Concobletti, Orsini, Marchesi, Franchi, Leiva, Mendozza ed altre, posero di nuovo in tratto d'ergere un nuovo Seggio, e ne ricorsero al Re Filippo IV; ma dopo un lungo aspettare, secondo la solita tardità e lunghezza di quella Corte, stancati finalmente i pretendenti, non ne fecero più parola, tanto che proccuraron da poi d'essere aggregati negli antichi Seggi, dove sono stati ammessi.

[262]

§. I. Parlamenti generali cominciati a convocarsi in Napoli.

Da' precedenti libri di quest'Istoria si è potuto notare che i Re di Sicilia, quando o per occasione di stabilir nuove leggi, ovvero per altri bisogni dello Stato convocavano le Corti generali, non in Napoli, ma in varie città del Regno l'intimavano. Così ora in Melfi, ora in Ariano, ora in Bari, in S. Germano, Capua, Barletta ed altrove tennero Parlamenti. Ma da poi che Carlo d'Angiò, residendo per lo più in Napoli, invitò ad abitare in quella quasi tutti i Baroni, i Signori ed i maggiori Ufficiali del Regno, fu questa città riputata la più acconcia e comoda, per potersi quivi convocare le generali Assemblee, dove trovandosi la maggior parte de' Baroni, e venendo i Sindici delle altre città e terre del Regno, s'univano i due Ordini della Nobiltà e del Popolo a deliberare delle cose importanti e rimarchevoli dello Stato; poichè presso di Noi, siccome in tutti gli altri Stati della Cristianità, toltone il Regno di Francia, lo Stato ecclesiastico non fa Ordine a parte, ma non altrimente che facevano i Romani de' loro Preti, li quali li lasciavano mescolati fra i tre Stati, gli lasciamo nell'Ordine della Nobiltà e del Popolo; ond'è, che tra noi ne' Parlamenti il Clero non ha luogo a parte, e se talora vi sono invitati i Prelati, v'intervengono come Baroni, siccome l'Abate di Monte Cassino che vanta essere il primo Barone del Regno, l'Arcivescovo di Reggio e tanti altri. Quindi per essersi Napoli renduta capo e metropoli del Regno, quasi tutti i Parlamenti che si tennero da poi, in questa città si convocarono, [263] tanquam in solemniori, et habiliori loco come Carlo II stesso lo qualifica[359]. Ciò che poi imitarono Giovanna I, Carlo III, Luigi II, Alfonso I e gli altri Re suoi successori[360], tantochè avendo il Re Alfonso intimato un Parlamento in Benevento, i Napoletani se ne offesero, e feron sì, che il Re lo convocasse in Napoli.

CAPITOLO V. Divisione del Regno di Sicilia da quello di Puglia, per lo famoso Vespro Siciliano.

Ma fra le cagioni sinora annoverate, onde Napoli sopra tutte le altre città estolse il suo capo, la principale fu la divisione di questi due Reami. Divisi questi Regni, si videro due Reggie, l'antica di Sicilia e la nuova di Napoli. Palermo rimase per gli Aragonesi in Sicilia: Napoli per li Franzesi in Puglia e Calabria. Ed è cosa da notare, che non meno la prospera fortuna fin qui tenuta da Carlo, che l'avversa, la quale, assunto che fu al Ponteficato Niccolò III cominciò a travagliar questo Principe, cospirarono alla esaltazione di questa Città.

Morto Papa Giovanni, e non avendo potuto Re Carlo per sei mesi di maneggi, quanto appunto vacò quella sede, ottenere, che si fosse rifatto un Papa Franzese, si risolvè il Collegio de' Cardinali nel mese di novembre dell'anno 1277 eleggere per successore Giovanni Cardinal Gaetano di Casa Ursina che [264] Niccolò III volle nomarsi. Costui, che tanto nella vita privata, come nel Cardinalato fu tenuto per uomo di buoni costumi e di vita cristiana, assunto al Papato mostrò un desiderio sfrenato d'ingrandire i suoi; onde nel conferire le Prelature ed i gradi, e beni tanto temporali del suo Stato, quanto ecclesiastici, ogni cosa donava, e conferiva a' suoi parenti o ad altri, ad arbitrio loro[361]; e da questa passione mosso mandò a richiedere Re Carlo, che volesse dare una delle figliuole del Principe di Salerno, ad uno de' suoi nepoti. Ma quel Re, ch'era usato d'aver Pontefici vassalli ed inferiori, se ne sdegnò, e rispose che non conveniva al sangue Reale di pareggiarsi con Signoria, che finisce con la vita, come quella del Papa. Di questa risposta s'adirò il Pontefice, in guisa che rotto ogni indugio se gli dichiarò nemico, e rivocò fra pochi giorni il privilegio concesso, e confermato dagli altri Pontefici in persona del Re Carlo, del Vicariato dell'Imperio, dicendo, che poichè in Germania era stato eletto Rodolfo Imperadore, toccava a lui d'eleggersi il Vicario, e che 'l Papa non avea potestà alcuna d'eleggerlo, se non in tempo che l'Imperio vacava. Poi venne a Roma, e conoscendosi col favore de' suoi poter più di quello, che aveano potuto gli altri Pontefici, gli tolse l'Ufficio di Senatore, e fece una legge, che nè Re, nè figliuoli di Re potessero esercitare quell'Ufficio.

Carlo disprezzò l'ire del Pontefice e' suoi disgusti, li quali, come vedrassi, furono una delle quattro cagioni della perdita di Sicilia; ma tutto inteso alla guerra contro Michele Paleologo Imperador di Costantinopoli ne avea già ordinato un apparato grandissimo [265] nel Regno, nell'isola di Sicilia ed in Provenza; ed erasi già accinto all'impresa con un gran numero di galee, e numero infinito di legni da passar cavalli, e da condur cose necessarie ad un grandissimo esercito; fece intendere a tutti i Conti e Feudatari a lui soggetti, che si ponessero in ordine per seguirlo: scrivendo in oltre a tutti i Capitani, che facessero elezione de' più valenti soldati e cavalli, per venire al primo ordine suo a Brindisi[362].

La fama di sì grande apparato sbigottì molto il Paleologo, e 'l mise in gran timore, sapendo quanta fosse la potenza di Re Carlo; pure quanto potea, si preparava a sostener l'impeto di tanta guerra; ma trovò dall'ingegno e dal valore d'un solo uomo quello aiuto, che avrebbe potuto promettersi da qualunque grande esercito.

Quest'uomo fu Giovanni di Procida cittadino nobile salernitano, Signore di Procida e di molte terre; fu molto affezionato alla Casa di Svevia, e da Federico II tenuto in sommo pregio per le molte virtù, alle quali accoppiò anche una somma perizia di medicina, ciò che non faceva in que' tempi vergogna; poichè, come si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria, in Salerno questa scienza era professata da' Nobili più illustri di quella città, nè abborrivano di professarla eziandio i Prelati della Chiesa, siccome l'Arcivescovo di Salerno Romualdo Guarna, e l'Arcivescovo di Napoli Berardino Caracciolo, il quale non disdegnò nella iscrizione del suo sepolcro, rapportata dal Summonte[363], che fra gli altri encomi vi si ponesse: Utriusque juris Doctoris, ac Medicinae scientiae [266] periti. Ed il Tutini[364] rapporta d'aver egli osservato nel regio Archivio una carta, ove Gualtieri Caracciolo dimanda licenza al Re Carlo II d'andare nell'isola di Sicilia a ritrovar Giovanni di Procida, già vecchio, per farsi curare d'una sua infermità. Non meno di Federico l'ebbe caro Re Manfredi, di cui volle troppo ostinatamente seguire le parti; onde per la venuta di Carlo, essendogli stati confiscati i suoi beni, non fidandosi di star sicuro in Italia, per l'infinito numero degli aderenti di Re Carlo, se n'andò in Aragona a trovare la Regina Costanza unico germe di casa Svevia, e moglie di Re Pietro, al quale per segno dell'investitura di questi Reami eragli stato portato il guanto, che, come si disse, buttò Corradino nella piazza del Mercato, quando Re Carlo gli fece mozzar il capo. Fu benignissimamente accolto tanto da lei, quanto dal Re suo marito, dal quale essendo nel trattare conosciuto per uomo di gran valore e di molta prudenza, fu fatto Barone nel Regno di Valenza, e Signor di Luxen, di Benizzano e di Palma. Giovanni veduta la liberalità di quel Principe, drizzò tutto il pensier suo a far ogni opera di riporre il Re e la Regina ne' Regni di Puglia e di Sicilia; e tutto quel frutto che cavava dalla sua Baronia, cominciò a spendere in tener uomini suoi fedeli per ispie nell'uno e nell'altro Regno, dove avea gran sequela d'amici, e cominciò a scrivere a quelli, in cui più confidava.

Ma tosto s'avvide, che tentar ciò nel Regno di Puglia era cosa affatto impossibile e disperata; poichè per la presenza di Re Carlo, che avea collocata la sua [267] sede in Napoli, e scorreva per l'altre città di queste nostre province, e per li beneficj che avea fatti a' suoi fedeli, e per lo rigore usato contro i ribelli, era in tutto spenta la memoria del partito di Manfredi. Rivoltò perciò tutti i suoi pensieri nell'isola di Sicilia, ove trovò le cose più disposte; poichè essendo il Re lontano, avea commesso il governo di quella a' suoi Ministri franzesi, i quali trattando i Siciliani asprissimamente, erano in odio grandissimo presso tutti gli isolani. Venne perciò sotto abito sconosciuto Giovanni in Sicilia, e cominciando a trattare della cospirazione con alcuni più potenti e peggio trattati da' Franzesi, vennero a conchiudere fra di loro di prender l'armi tutti in un tempo contro i Franzesi, e gridare per loro Re Pietro d'Aragona. Ma parendo loro poche le forze dell'isola e non molte quelle di Pietro, e che perciò bisognava a queste due giungere altra forza maggiore: Giovanni ricordandosi de' disgusti, che Carlo passava col Papa, e che 'l Paleologo temendo molto degli apparati di Carlo, avrebbe fatto ogni sforzo per distorlo dall'impresa di Costantinopoli; andò subito a Roma sotto abito di religioso a tentare l'animo del Papa, il quale trovò dispostissimo d'entrare per la parte sua a favorir l'impresa. Se ne andò poi col medesimo abito a Costantinopoli, ed avendo con efficacissime ragioni dimostrato al Paleologo, che non era più certa nè più sicura strada al suo scampo, che prestar favore di denari al Re Pietro, affinchè l'impresa di Sicilia riuscisse, poichè in tal caso Carlo, avendo la guerra in casa sua, lascerebbe in tutto il pensiero di farla in casa d'altri; di che persuaso l'Imperadore, si offerse molto volentieri di far la spesa, purchè Re Pietro animosamente pigliasse l'impresa; e mandò insieme [268] con Giovanni un suo molto fidato segretario con una buona somma di denaro, che avesse da portarla al Re d'Aragona, ordinandogli ancora di abboccarsi col Papa, per dargli certezza dell'animo suo, e della prontezza, che avea mostrata in mandar subito aiuti. Giunsero il Segretario e Giovanni a Malta, isoletta poco lontana da Sicilia e si fermarono ivi alcuni dì, finchè i principali de' congiurati, avvisati da Giovanni, fossero venuti a salutare il Segretario dell'Imperadore, ed a dargli certezza del buono effetto, che ne seguirebbe, quando l'Imperadore stasse fermo nel proposito fin'a guerra finita. Poi si partirono i congiurati, e ritornarono in Sicilia a dar buon'animo agli altri consapevoli del fatto. Intanto Giovanni col Segretario passarono a Roma, dove avuta audienza dal Papa, gli proposero tutto il fatto: costui che temea la potenza di Carlo, e voleva vendicarsi dell'ingiuria fattagli, imitando i suoi predecessori, siccome costoro con l'aiuto de' Franzesi discacciarono da quell'isola gli Svevi, così egli colle forze degli Aragonesi, pensò discacciarne gli Angioini; onde non solo entrò nella Lega ma avendo inteso, che l'Imperadore mandava denari, promise di contribuire anch'egli per la sua parte, e scrisse al Re Pietro, confortandolo con ogni celerità a ponersi in punto per poter subito soccorrere i Siciliani da poi che avessero eseguito la congiura, ed occupato quel Regno, del quale egli l'avrebbe data subito l'investitura, ed aiutato a mantenerlo. Per queste cagioni il Re d'Aragona nella lettera scritta a Carlo dopo essersi impadronito dell'isola, gli diceva che quella era stata aggiudicata a lui per l'autorità della Santa chiesa e di Messer lo Papa e de' venerabili Cardinali. Con queste lettere e promesse portossi nell'anno 1280. [269] Giovanni in Aragona, ed avendo comunicato al Re il disegno che s'era fatto per dargli in mano la Sicilia, Pietro temè in prima di entrar in una guerra, della quale dubitava di non poter uscire con onore: ma il Procida tolse tutte le difficoltà: I con assicurarlo per parte dell'Imperador di Costantinopoli, il quale per mezzo del suo Segretario gli avea mandato il denaro, ed offertosi che non avrebbe mancato per l'avvenire di contribuire a tutti i bisogni della guerra: II con dargli le lettere del Papa che l'assicurava del medesimo, e che l'avrebbe investito di quell'isola: III che i Siciliani per l'odio implacabile, che aveano co' Franzesi, con contentezza universale avrebbero agevolata l'impresa; e per ultimo gli fece concepire, che non era necessario ch'egli s'impegnasse, se non quando la congiura di Sicilia fosse riuscita. Per queste efficaci ragioni fu disposto quel Re d'accettarla; tanto più, quanto la Regina Costanza sua moglie il sollecitava non meno a far vendetta di Re Manfredi suo padre e del fratello Corradino, che a ricoverare i Regni, che appartenevano a lei, essendo morti tutti i maschi della linea sveva: convocati perciò i più intimi suoi consiglieri, trattò del modo, che s'avea da tenere, e fu convenuto tra di loro, che il Re allestirebbe una flotta considerabile, sotto pretesto di far la guerra in Affrica a' Saraceni, e che si terrebbe su le coste dell'Affrica, pronto a far vela in Sicilia, se la cospirazione fosse riuscita: che se venisse a fallire, poteva, senza mostrar d'averci alcuna parte, continuare a far la guerra a' Saraceni. E vi è chi scrisse[365], che Re Carlo vedendo posta in ordine questa flotta molto [270] maggiore di quello, che potea sperarsi dalle forze di Re Pietro, gli avesse mandato a dimandare a che fine facea tal apparato; ed essendogli stato risposto per l'impresa d'Affrica contro Saraceni, Re Carlo, o per partecipare del merito guerreggiando contro Infedeli, de' quali egli fu sempre acerbissimo persecutore, o per gratificare quel Re suo stretto parente, gli avesse mandati ventimila ducati per soccorso di quell'impresa.

Ma ecco, che mentre queste cose si dispongono, e 'l Procida ritorna in Italia, muore Papa Niccolò: ed in suo luogo per gl'intrighi di Carlo, o più tosto per la violenza fatta a' Cardinali, fu rifatto a febbraio del 1281 un Papa franzese, creatura ed amicissimo del Re Carlo, che Martino IV comunemente si noma, chiamandolo altri Martino II, poichè i due predecessori, non Martini, ma Marini gli appellano. Dubitando perciò Giovanni, che non si raffreddasse l'animo dell'Imperadore, tosto ritornò in Costantinopoli per riscaldarlo; e passando in abito sconosciuto insieme col Segretario per Sicilia, venne a parlamento con alcuni de' primi della congiura, e diede loro animo, narrando quanto erasi fatto, e che non dovessero sgomentarsi per la morte di Papa Niccolò: e fece opera che quelli mostrassero al Segretario la prontezza de' Siciliani, e l'animo deliberato di morire più tosto che vivere in quella servitù, affinchè ne potesse far fede all'Imperadore e tanto più animarlo; poi seguirono il viaggio e giunsero felicemente a Costantinopoli. E fu notata da' Scrittori per cosa maravigliosa, che questa congiura tra tante diverse nazioni, ed in diversi luoghi del Mondo durò più di due anni, e per ingegno e per destrezza del Procida fu guidata in modo, che ancor che Re [271] Carlo avesse per tutto aderenti, non n'ebbe però mai indizio alcuno.

Dall'altra parte Re Pietro, ancorchè per la morte di Papa Niccolò restasse un poco sbigottito, avendo perduto un personaggio principale ed importante alla Lega; non però volle lasciar l'impresa, anzi mandò Ambasciadore al nuovo Pontefice a rallegrarsi dell'assunzione al trono e a cercargli grazia, che volesse canonizzare Fr. Raimondo di Pegnaforte; ma invero molto più per tentare l'animo del Papa, mostrando destramente volere, non per via di guerra ma per via di lite innanzi al Collegio proponere e proseguire le ragioni, che la Regina Costanza avea ne' Reami di Puglia e di Sicilia. Ma il Papa avendo ringraziato l'Imbasciadore della visita e trattenuto di rispondergli sopra la Canonizzazione, come intese l'ultima richiesta, disse all'Imbasciadore: Dite a Re Pietro, che farebbe assai meglio pagare alla Chiesa romana tante annate, che deve per lo censo, che Re Pietro suo Avo promise di pagare, ed altresì i suoi successori, come veri vassalli e Feudatari di quella; e che non speri, finchè non avrà pagato quel debito, di riportar grazia alcuna dalla Sede Appostolica[366].

Mentre queste cose si trattavano, Giovanni di Procida tornato di Costantinopoli in Sicilia, sotto diversi abiti sconosciuto, andò per le principali terre di Sicilia, sollecitando i congiurati, e tenendo sempre per messi avvisato Re Pietro segretissimamente di quanto si faceva; ed avendo inteso, che la sua armata era già in ordine per far vela, egli eseguì con tant'ordine e tanta diligenza quella ribellione, che nel mese di [272] marzo, il secondo giorno di Pasqua dell'anno 1282 al suon della campana, che chiamava i Cristiani all'ufficio di vespero, in tutte le terre di Sicilia, ove erano i Franzesi, il Popolo pigliò l'arme, e li uccise tutti con tanto sfrenato desiderio di vendetta, che uccisero ancora le donne della medesima isola, ch'erano casate con Franzesi e quelle ch'erano gravide, ed i piccioli figliuoli ch'erano nati da loro; e fu gridato il nome di Re Pietro d'Aragona e della Regina Costanza: e questo è quello che fu chiamato e si chiama il Vespro Siciliano. Non corse in questa crudele uccisione, dove perirono da ottomila persone, spazio di più di due ore; e se alcuni pochi in quel tempo ebbero comodità di nascondersi o di fuggire, non per questo furon salvi; perocchè essendo cercati e perseguitati con mirabile ostinazione, all'ultimo furon pure uccisi.

Questa crudele strage, e così repentina mutazione e rivoluzione fu per lettera dall'Arcivescovo di Monreale scritta al Papa, a tempo, che Carlo si trovava con lui in Montefiascone. Il Re restò sorpreso e molto abbattuto, vedendo in tanto breve spazio aver perduto un Regno, e buona parte de' suoi soldati veterani; pure, raccommandate le sue cose al Papa, trovandosi già l'armata in ordine, ch'era destinata contro l'Imperador greco, ritornò subito nel Regno, e con quella incontinente fece vela verso la Sicilia, e cinse Messina di stretto assedio.

Dall'altra parte Papa Martino, desideroso che l'Isola si ricovrasse, mandò in Sicilia per Legato appostolico il Cardinal Vescovo di Sabina, con lettere ai Prelati ed alle terre dell'isola, confortandole a rimettersi [273] nell'ubbidienza di Carlo, con ingiungere al medesimo, che quando queste lettere non valessero, adoperasse non solo scomuniche ed interdetti, ma ogni altra forza, per favorire le cose del Re.

Giunse il Cardinale in Palermo, nel medesimo tempo che Carlo giunse a Messina; ma siccome gli uffici del Legato niente poterono contro l'ostinazione dei Siciliani, così l'assedio, che Carlo avea posto a Messina fu con tanto vigore proseguito, che finalmente strinse gli abitanti a volersi arrendere a lui colla sola condizione di salve le vite: ma egli era così trasportato dalla rabbia, che negò anche questa condizione. Mandarono Ambasciadori al Papa, perchè intercedesse per loro presso l'adirato Principe: ma non fu data loro udienza, onde posti nell'ultima disperazione si risolvettero di difendersi fino all'ultimo spirito.

Giovanni di Procida, che si trovava a Palermo, impaziente della dimora del Re Pietro, il quale era passato già coll'armata in Affrica all'assedio d'una città che gl'Istorici siciliani chiamano Andacalle, vedendo lo stretto bisogno de' Messinesi, imbarcatosi sopra una Galeotta con tre altri, che andavano con lui con titolo di Sindici di tutta l'isola, andò a trovare Re Pietro, ed informatolo del presto bisogno del suo soccorso, l'indusse a lasciar tosto le coste dell'Affrica, e colla sua armata ad incamminarsi verso Palermo.

Allora fu, che Re Pietro non potendo più nasconder i suoi disegni per l'impresa di Sicilia, volle giustificarsi co' Principi d'Europa suoi parenti; onde prima che lasciasse le coste d'Affrica, scrisse in questo anno 1282 una lettera ad Odoardo Re d'Inghilterra, che si legge negli atti di quel Regno, ultimamente [274] fatti dare alla luce dalla Regina Anna[367], nella quale gli dice, che essendo egli occupato nella guerra contro i Saraceni, i Siciliani gli aveano inviati deputati a pregarlo di venirsi a mettere in possesso della Sicilia, ciò ch'era risoluto di fare, perchè quel Regno apparteneva a Costanza sua moglie. Fece dunque egli vela per Sicilia, e a' dieci d'agosto giunse a Trapani, ove concorsero ad incontrarlo tutti i Baroni e Cavalieri de' luoghi convicini; indi portossi a Palermo, dove fu con grandissima festa e regal pompa incoronato Re dal Vescovo di Cefalu, poichè l'Arcivescovo di Palermo, a cui ciò toccava, era presso Papa Martino.

I Messinesi, per l'arrivo del Re Pietro, ripresero vigore, ed attesero costantemente alla difesa della Patria; e non solo quelli ch'erano abili a portare ed esercitar l'armi, ma le donne ed i vecchi non lasciavano di risarcire di notte tutto ciò che il giorno per gl'istromenti bellici era abbattuto.

Intanto Re Pietro, così consigliato dal Procida, ordinò che il famoso Ruggiero di Loria Capitano della sua armata, andasse ad assaltare l'armata franzese per debellarla, e ponere guardia nel Faro, affinchè non potesse passare vettovaglia alcuna di Calabria al campo franzese; ed egli per animar i Popoli, e tener in isperanza i Messinesi, si partì da Palermo, e venne a [275] Randazzo, terra più vicina a Messina. Di là mandò tre Cavalieri Catalani per Ambasciadori al Re Carlo, con una lettera, nella quale l'informa essere giunto nell'isola di Sicilia, che gli era stata aggiudicata per autorità della Chiesa, del Papa e de' Cardinali, e gli comanda, veduta questa lettera, di partir tosto dall'isola, altrimente ne l'avrebbe costretto per forza. Letta da Carlo questa lettera in pubblico avanti tutto il Consiglio de' suoi Baroni, nacque tra tutti un orgoglio incredibile, ed al Re tanto maggiore, quanto era maggiore, e più superbo di tutti; nè poteva sopportare, che Re Pietro d'Aragona, ch'era in riputazione d'uno de' più poveri Re, che fossero in tutta Cristianità, avesse osato di scrivere a lui con tanta superbia, che si riputava il maggiore Re del Mondo. Fu consultato della risposta. Il Conte Guido di Monforte fu di parere, che non s'avesse a rispondere, ma subito andare a trovarlo, e dargli la penitenza della sua superbia; ma il Conte di Brettagna, ch'era allora col Re, consigliò, che se gli rispondesse molto più superbamente, siccome fu eseguito con un altro biglietto del medesimo tenore, trattandolo da malvagio e da traditore di Dio e della Santa Chiesa romana. Questi due biglietti, oltre esser rapportati da Giovanni Villani e dal Costanzo, si leggono ancora così in Italiano, come furono scritti, negli Atti suddetti d'Inghilterra ultimamente stampati[368].

Esacerbati in cotal maniera gli animi d'ambedue i Re, che non si risparmiavano anche con parole piene di gravi ingiurie d'infamar l'un l'altro: Re Pietro intanto avea soccorsa Messina, e Ruggiero di Loria era [276] passato colla sua armata al Faro per combatter la franzese e per impedirgli le vettovaglie. Errico Mari Ammiraglio di Carlo venne dal Re a protestare, che egli non si confidava di resistere, nè poteva fronteggiare con l'armata catalana, che andava molto ben fornita d'uomini atti a battaglia navale. Carlo, che in tutti gli altri accidenti s'era mostrato animoso ed intrepido, restò sbigottito, e chiamati a consiglio i suoi, dopo molte discussioni, fu conchiuso, che per non esporsi l'armata d'esser affamata dalla flotta del Re d'Aragona, si dovesse levar l'assedio, e ritirarsi in Calabria, e differire l'impresa. Carlo, benchè l'ira e la superbia lo stimolasse a non partire con tanta vergogna, lasciò l'assedio, e subito pieno di scorno e d'orgoglio, passò in Calabria con animo di rinovare la guerra a primavera con tutte le forze sue; ma appena fur messe le sue genti in terra a Reggio, che Ruggiero di Loria sopraggiunse con la sua armata, e quasi nel suo volto pigliò trenta galee delle sue, ed arse più di settanta altri navili di carico; del che restò tanto attonito, e quasi attratto da grandissima doglia, che fu udito pregar Dio in franzese, che poichè l'avea fatto salir in tant'alto stato, ed or gli piaceva farlo discendere, il facesse scendere a più brevi passi. Dopo distribuite le sue genti per quelle terre di Calabria più vicine a Sicilia venne a Napoli, e pochi giorni da poi se n'andò a Roma, a portar querele al Papa contro il suo nemico, lasciando nel Regno per suo Vicario il Principe di Salerno, a cui diede savi Consiglieri, che l'assistessero per ben governarlo.

Ma trattanto che Carlo perdeva il tempo a querelarsi col Papa, Re Pietro a' 10 ottobre entrò in Messina, e ricevuto con allegrezza universale, fu riconosciuto [277] ed acclamato per Re da tutta l'isola. E fermatosi quivi diede assetto a tutte le cose, riordinando quel Regno, ora che tutto quieto e pacato era sotto la sua ubbidienza. Ed avendo voluto il Cardinal di Parma, Legato Appostolico, disturbarlo con interdetti e censure, egli imitando gli esempi degli altri Re di Sicilia suoi predecessori, curandosi poco dell'interdetto, costrinse i Sacerdoti per tutta l'isola a celebrare, e que' Prelati aderenti al Pontefice, che negarono di voler far celebrare nelle loro Chiese, si lasciarono partire, ed andare a Roma[369]. Ed avendo poco da poi fatta venire a Palermo la Regina Costanza sua Consorte e due suoi figliuoli, Don Giacomo e Don Federico, ed una sua figliuola chiamata D. Violante, ordinò a' Siciliani che dovessero ubbidir a Costanza, alla quale egli dichiarossi avere riacquistato il perduto Regno. Indi dovendo partir per Aragona, e dopo passar in Francia per l'appuntato duello in Bordeos col Re Carlo, volle, che tutti i Siciliani giurassero per legittimo successore ed erede, e futuro Re Don Giacomo suo figliuolo: il che fu fatto con grandissima festa e buona volontà di tutti.

Ecco come rimasero questi due Reami infra di lor divisi, e come due Reggie sursero. Palermo restò per gli Aragonesi in Sicilia: Napoli per li Franzesi in Puglia e Calabria.

[278]

CAPITOLO VI. Uffiziali della Corona divisi. Il Tribunale della Gran Corte stabilito in Napoli, e della Corte del Vicario.

Quindi nacque ancora, che quando a tempi de' Normanni e de' Svevi, essendo una la sede regia, gli Ufficiali della Corona erano i medesimi non meno in Sicilia che in Puglia; da questo tempo in poi ciascuno Regno ha avuti i suoi propri, nè quelli dell'uno si impacciavano dell'altro. Re Pietro creò i suoi per lo Regno di Sicilia, e Carlo ritenne gli antichi, che restrinsero la loro giurisdizione nel Regno solo di Puglia. Così avendo il Re d'Aragona creato Gran Giustiziere di quell'isola Alaimo di Lentino, che fu uno de' principali capi della congiura, vennero a farsi due Gran Corti, una in Sicilia, della quale era capo Alaimo; l'altra in Napoli, nella quale era Gran Giustiziere Luigi de' Monti: ond'è che Sicilia ritenga ancora questo Tribunale della Gran Corte, senz'altra giunta di Vicaria; poichè in quell'isola non vi fu la Corte del Vicario, come fu in Napoli, essendo questa stata istituita da Carlo I, quando lasciò il Principe di Salerno per Vicario del Regno, come diremo. Così nell'istesso tempo, che Re Pietro creò Giovanni di Procida Gran Cancelliere di Sicilia, noi avevamo l'altro in Napoli. Ruggiero di Loria fu Grand'Ammiraglio del Re Pietro, ed Errico di Mari del Re Carlo; e così di mano in mano degli altri Ufficiali.

Perciò Napoli ritiene oggi li suoi Ufficiali separati [279] da quelli di Sicilia, siccome eziandio gli ritenne, ancorchè quella si fosse riunita poi sotto il Regno d'Alfonso I. Ciò che per questa divisione ne avanzò il Regno di Sicilia fu, che gli Aragonesi per aver sempre avversi i Pontefici romani, i quali volevano che il Regno si restituisse agli Angioini, non cercarono più ad essi investitura; onde a lungo andare quella del Regno di Sicilia si tolse, e rimase solo per lo Regno di Napoli.

Ma non perchè Napoli fosse per tanti gradi salita ad esser capo e metropoli del Regno di Puglia, è punto vero quel che il Munstero[370], Freccia[371], e 'l Summonte[372] scrissero, che sin da questi tempi fosse questo Regno perciò chiamato il Regno di Napoli, e che Carlo I d'Angiò, Re di Napoli volle denominarsi; poichè tanto Carlo I quanto Carlo II suo figliuolo, e Roberto suo Nipote, e tutti gli altri suoi successori, non ostante la Bolla di Clemente IV, che chiamò questi Regni di Sicilia citra, et ultra Pharum, non vollero ne' loro diplomi mutar punto gli antichi titoli, e sempre vollero intitolarsi Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, et Principatus Capuae. Anzi per quest'istesso che la Sicilia era occupata dagli Aragonesi, affinchè non potesse dirsi di aver avuto animo d'abbandonarla, perciò s'intitolavano anch'essi, non meno che gli Aragonesi, Re di Sicilia. E l'essersi poi questo Regno detto di Napoli non più di Puglia, non accadde in questi tempi, ma molto tempo da poi; e ciò avvenne, quando di nuovo fu diviso dalla Sicilia sotto il Regno di Ferdinando I [280] d'Aragona, figliuolo d'Alfonso e de' suoi successori, poichè questi Aragonesi non avendo altro Reame che quello di Napoli, nè potendo aver pretensione per quello di Sicilia, si dissero, o semplicemente Re di Napoli, ovvero di Sicilia citra Pharum. E nel Regno degli Angioini, gli Scrittori di questi tempi non chiamarono con altro nome questo Regno, che con quello di Puglia, siccome, oltre di molti altri, può scorgersi in Giovanni Boccaccio, il quale scrivendo ne' tempi del Re Roberto e di Giovanna I, non chiamò mai questo Regno di Napoli, ma sempre di Puglia.

§. I. Del Tribunale della Gran Corte stabilito in Napoli.

L'essersi questo Tribunale stabilito in Napoli, non solo si dee alla residenza di Carlo I d'Angiò in questa città, non molto più a questa divisione del Regno di Sicilia, la quale obbligò così lui, come gli altri Re suoi successori a mantenerlo quivi. Non è, che questo Tribunale riconoscesse la sua istituzione da Carlo o da Federico II, siccome si diedero a credere alcuni, ma come si è veduto nell'undecimo libro di quest'Istoria, quando si favellò del Gran Giustiziere, fu introdotto da' Normanni. Federico per mezzo di molte sue Costituzioni lo innalzò, e stese molto la giurisdizione, costituendolo supremo sopra tutti gli altri: siccome, imitando i suoi vestigi, fecero poi gli altri Re della Casa d'Angiò. Prima, oltre del Gran Giustiziere suo Capo, componevasi di quattro Giudici; ma Federico v'aggiunse poi l'avvocato, ed il Procurator fiscale, il M. Razionale, molti Notai ed altri Ufficiali minori. Si agitavano in questo, non solo le cause civili [281] e criminali, ma anche le Feudali, delle Baronie, dei Contadi e de' Feudi Quaternati, le liquidazioni d'istromenti; e tutte le cause degli altri tribunali inferiori, e de' Giustizieri delle province, si portavano a quello per via d'appellazione, anche quelle delegate dal Re. Erano sottoposti alla sua giurisdizione tutti i Conti, tutti i Baroni e tutte le persone del Regno. Poteva anche conoscere de' delitti di Maestà lesa, e di tutte le cause più gravi e rilevanti dello Stato.

I Re angioini gli diedero anche per mezzo de' loro Capitoli più regolata e stabil forma: e fra gli altri Carlo II nel 1306, mentr'era Gran Giustiziere Ermengano di Sabrano Conte d'Ariano, mandò al medesimo molti altri Capitoli, co' quali gli diede norma più particolare, come dovesse reggere il suo Ufficio, mostrandogli quanto quello fosse sublime, ed in quante cause potesse stendere la sua giurisdizione[373].

Reggendosi questo Tribunale dal Gran Giustiziere, perciò veniva anche chiamato M. Curia Magistri Justitiarii il quale prima avea la facoltà di destinar egli il suo Luogotenente, ovvero Reggente, che in sua vece lo reggesse: la qual prerogativa fu da poi tolta al Gran Giustiziere, ed attribuita a' Vicerè, siccome ora costumasi.

Napoli adunque resasi più cospicua sopra l'altre del Regno, anche per cagion di questo Tribunale, il quale tirando a se per via d'appellazione tutte le cause del Regno, e dove trattavansi le più rilevanti de' Baroni e de' Conti, doveva per necessità renderla più frequentata e grande. Ma con tutto che per la residenza [282] de' Re angioini fossesi un tribunale così augusto stabilito in Napoli, non s'estinse perciò l'altro più antico che vi era del Capitano. Il Capitano di Napoli avea la sua Corte composta da suoi particolari Giudici, la quale amministrava giustizia a' cittadini napoletani ed a suoi Borghesi[374]. Si stendeva ancor la sua giurisdizione nella città di Pozzuoli; ond'è, che nei Registri[375] di questi Re franzesi, si leggano alcuni che furono Capitani di Napoli e di Pozzuoli, come Aymericus de Deluco Miles Capitaneus Neapolis, et Puteolis. E ne' tempi del Re Roberto ancor si legge Roberto di Cornai Capitano di Napoli e di Pozzuoli. Era creato a dirittura dal Re, e perciò non poteva il Reggente della Gran Corte impedire, che non esercitasse la sua giurisdizione in questi luoghi. Così leggiamo a' tempi di Carlo II, che Francesco d'Ortona Capitano ottenne dal Re, che il Reggente della Gran Corte non l'impedisse a poter esercitare la sua giurisdizione, anche nella città di Pozzuoli.

Di questa Corte del Capitano di Napoli sin da' tempi di Carlo I d'Angiò, ne' quali come si è altrove rapportato, vi fu Giudice il famoso Marino di Caramanico, abbiamo ne' registri di questi Re franzesi spessa memoria. Nel registro del Re Carlo II dell'anno 1298 si legge una sua carta dirizzata Capitaneo, et universis hominibus Civitatis Neap. ec[376]. E ne' registri dello stesso Re dell'anno 1302 e 1303 si legge essersi scelta la Casa de' Fellapani nella Piazza di Portanova, che era allora quasi in mezzo della città, per reggersi questa [283] Corte; dalla quale fu denominata la Chiesa di San Giovanni a Corte, come narra il Summonte[377]: ancorchè il Tutini[378] creda, che questa Chiesa ritenga tal nome dal Tribunale della G. Corte, che dice essersi in que' tempi in quella contrada eretto. Nel tempo di Carlo III pure della medesima si ha memoria, leggendosi una carta rapportata dal Tutini[379] di questo Re, dove drizza un suo ordine; Magistro Justitiario Regni Siciliae, et Judicibus M. Curiae Consiliariis nec non Capitaneo Civitatis Neap. ec. Fassene anche menzione negli ultimi anni del Regno degli Angioini; poichè la Regina Giovanna II ne' suoi Riti della G. Corte della Vicaria ne favella[380]. Nè sentendosi da poi più di quella parlare, crede il Tutini[381], che questa Corte rimanesse estinta ne' tempi de' Re aragonesi ond'è, che ora il Tribunal della Gran Corte abbia la conoscenza delle sue cause, la quale erasi negli ultimi tempi degli Angioini molto estenuata, perchè non gli era rimasa, se non la conoscenza delle cause criminali, nè poteva procedere nella liquidazione degli stromenti, come si vede da Riti[382] della Regina Giovanna II, donde si convince l'errore di Prospero Caravita[383], il quale credette, che siccome nella Gran Corte presideva il gran Giustiziere, così nella Corte della Vicaria, prima che questi due Tribunali s'unissero, presideva questo Capitano; poichè la Corte del Capitano di Napoli era tutta altra dalla Corte della Vicaria, della quale saremo ora a trattare.

[284]

§. II. Della Corte del Vicario.

La Corte del Vicario, detta comunemente Vicaria; bisogna distinguerla e separarla non meno dalla Corte del Capitano di Napoli, che dalla Gran Corte, così se si riguarda l'origine, come le persone, che le componevano, e le loro preminenze. Il Tribunale della Gran Corte è più antico, come quello, che riconosce la sua istituzione da' Normanni. La Corte del Vicario ricevè i suoi principii da Carlo I d'Angiò, ma la sua forma e perfezione l'ebbe da Carlo II suo figliuolo. Errano perciò il Frezza ed il Mazzella, che credettero questo Tribunale essere stato istituito dal Re Roberto figliuolo di Carlo II.

L'origine di questo nuovo Tribunale deve attribuirsi alle moleste cure, ed a' continui travagli, ne' quali fu Carlo I intrigato, da poi che vide la sua fortuna mutar aspetto, e da prospera, che l'era sempre stata, farsi poi avversa: quando voltandogli la faccia, gli fe' vedere ribellanti i Popoli, e perdere in un tratto la Sicilia, ed intrigarsi perciò con nuove guerre col Re Pietro d'Aragona suo fiero nemico e competitore, che glie la involò. Percosso da così gran colpo Carlo, che non fece per ricuperarla? mosse tutte le sue forze con grandi apparati di guerra contro i Siciliani, ma sempre invano: strinse d'assedio Messina; ma costretto ad abbandonarla, va in Roma, ove altamente si querela col Papa del Re Pietro, chiamandolo traditore, e mancator di fede. Rimprovera colà l'Ambasciadore dell'Aragonese, e lo chiama a particolar tenzone. Accettata la disfida da Pietro, si stabilisce il luogo da [285] battersi, e si destina la città di Bordeos in Francia, ch'era allora tenuta dal Re d'Inghilterra.

Dovendo Carlo adunque imprendere sì lungo viaggio, coll'incertezza se mai sopravvivesse a sì pericolosa e grande azione, perchè il Regno di Puglia, che era rimaso sotto la sua ubbidienza, e seguendo forse l'esempio della vicina Sicilia, per la sua assenza, non pericolasse, pensò d'eleggere il Principe di Salerno suo primogenito, e successore per Vicario del Regno, con assoluto ed independente imperio, dandogli tutta la sua autorità regia per governarlo in sua assenza. Gli assegnò ancora i più gravi Ministri, ed i più alti Signori, perchè assistessero al suo lato per Consiglieri nelle deliberazioni più importanti della Corona. Ed il Principe, come savio, seppe così bene valersi di tanta autorità, che riordinò il Regno in miglior forma, stabilendo, mentr'era Vicario, più Capitoli, de' quali a suo luogo farem parola, pieni di somma prudenza, e benignità verso i Popoli di queste nostre province.

Per questa nuova dignità di Vicario, e per gli Ufficiali destinati al lato del Principe per suo consiglio, surse questa nuova Corte, detta perciò Curia Vicarii[384]: maggiore e più maestosa dell'altra, che vi era della Gran Corte; poichè la Gran Corte era rappresentata dal M. Giustiziere uno degli Ufficiali della Corona, che n'era Capo; ma questa rappresentava la persona del Primogenito del Re, come Vicario Generale del Regno, di cui egli era Capo: ciocchè certamente era di maggiore dignità e preminenza. Quindi la preminenza, che oggi ritiene il Tribunale della Gran Corte della Vicaria di dar la tortura a' rei dal processo informativo, [286] la ritiene perchè a quello sta unita la Corte del Vicario, poichè altrimenti la sola gran Corte non potrebbe darla[385].

Ma la Corte del Vicario, in tempo di Carlo I, fu solamente adombrata, e ne' suoi primi delineamenti; siccome furono quasi tutte le cose di Carlo, che dal suo successore furono poi ridotte a perfezione.

Carlo II suo figliuolo le diede forma più nobile, e maggiore stabilimento, per una occasione, che bisogna qui rapportare. Avendo questo Principe promesso nelle Capitolazioni della pace fatta per la sua scarcerazione, di presentarsi di nuovo prigione, nel caso che Carlo di Valois non volesse rinunziare l'investitura del Regno d'Aragona; vedendo differita tal rinunzia, deliberò passare in Francia a stringere quel Re, e suo fratello a farla, con fermo proponimento di ritornare in carcere, quando non avesse potuto ciò ottenere. Dovendo dunque intraprender questo viaggio creò nell'anno 1294 Vicario Generale del Regno Carlo Martello suo primogenito, come si legge nel libro dell'Archivio dell'anno 1294[386]. Ed avendo differita la partenza per Francia, portatosi a Roma per l'elezione del nuovo Pontefice, da questa città nel mese d'aprile dell'anno seguente 1295 mandò a Carlo Martello una più esatta istruzione del reggimento di questa Corte, destinandogli i Consiglieri e tutti gli altri Ufficiali, de' quali dovea comporsi: donde si raccoglie ancora la preminenza di questo Tribunale; poichè anche alcuni Ufficiali supremi della Corona furono destinati [287] per Consiglieri Collaterali del Vicario. Ed in prima fu trascelto Filippo Minutolo Arcivescovo di Napoli, quello stesso, di cui il Boccaccio[387] ragiona in una delle sue Novelle, Giovanni Monforte Conte di Squillaci Camerario, Raimondo del Balzo figliuolo del Conte d'Avellino, Gotifredo di Miliagro Senescallo, Guglielmo Stendardo Marescallo, Rainaldo de Avellis Ammiraglio, e Guido di Alemagna, e Guglielmo de Pontiaco Militi. Tommaso Stellato di Salerno Professore di Legge civile, e Maestro Razionale della Gran Corte, Andrea Acconciajoco di Ravello Professore di legge civile, e Viceprotonotario del Regno; e Fr. Matteo di Roggiero di Salerno, e M. Alberico Cherico, e familiare del Re. Prescrissegli ancora il modo da spedire gli affari appartenenti a' loro Uffici, distribuendo a ciascuno ciò ch'era della sua incumbenza, come si legge nel suo diploma istromentato in Roma per mano di Bartolommeo di Capua, e rapportato non men dal Chioccarelli[388], che dal Tutini[389] nelle loro opere.

Questo medesimo istituto mantennero gli altri Re angioini suoi successori; e Carlo II istesso, partito che fu Carlo Martello per Ungheria a prender la possessione di quel Regno, elesse per Vicario Generale del Regno Roberto altro suo figliuolo[390]. Roberto innalzato al soglio, fece suo Vicario Carlo Duca di Calabria suo unigenito, del quale come Vicario abbiamo più Capitoli, ed una Costituzione fra' Riti della [288] Gran Corte[391]. E negli ultimi tempi del Regno loro leggiamo ancora, la Regina Isabella essere stata creata Vicaria del Regno dal Re Renato suo marito, la quale nell'anno 1436 dirizzò una sua lettera a Raimondo Orsino Conte di Sarno Giustiziere del Regno, ed al Reggente della Gran Corte della Vicaria, che si legge tra' Riti della medesima[392].

Fu ancora lor costume, che i Vicari in caso d'assenza, o altro impedimento, solevano eleggere loro Luogotenenti, chiamati Reggenti, affinchè attendessero all'amministrazione e governo di questa Corte, della quale erano Capi, e perchè maggiormente si veda quanto nel Regno degli Angioini si fosse innalzato questo Tribunale, i figliuoli stessi de' Regi non isdegnavano d'essere eletti Reggenti del medesimo. Così leggiamo che tra' figliuoli di Carlo II fu eletto Reggente della Vicaria Raimondo Berlingerio suo quintogenito[393]. E nell'anno 1294 il suddetto Re fece Reggente Pietro Bodino d'Angiò; e nell'anno 1306 Niccolò Gianvilla. Il Re Roberto creò ancor egli vari Reggenti, come nell'anno 1326 Francesco Stampa di Potenza; e nell'anno 1338 Giovanni Spinello da Giovenazzo. La Regina Giovanna I creò ancor ella nell'anno 1369 Gomesio de Albernotiis, detto per ciò Regens Curiam Vicariae, et Capitaneus Generalis Regni Siciliae[394].

Oscurò pertanto questo nuovo Tribunale del Vicario non poco l'altro della Gran Corte. La Corte del Vicario per li personaggi che la componevano innalzossi sopra tutte l'altre, ed era, come è a noi oggi [289] il Consiglio collaterale del Principe. Così osserviamo che nel Regno de' Normanni, e degli Svevi la Gran Corte era il Tribunal supremo. Nel Regno degli Angioini tenne il campo la Corte del Vicario. Nel Regno degli Aragonesi, il nuovo Tribunale del Sacro Consiglio di S. Chiara oscurò tutti due. E nel Regno degli Austriaci si rese eminente sopra tutti gli altri il Consiglio Collaterale, come si vedrà nel corso di questa istoria.

Questi Tribunali della Gran Corte, e della Vicaria furono lungo tempo divisi, leggendosi ne' medesimi tempi i M. Giustizieri, che reggevano la Gran Corte ed i Vicari, ovvero loro Reggenti, che amministravano quella della Vicaria. Nel tempo istesso di Carlo II abbiamo Ermengano di Sabrano Giustiziere della Gran Corte, e Niccolò di Gianvilla Reggente della Vicaria ed in tutte le scritture di questi tempi de' Re Angioini osserviamo d'altra maniera espressi i Reggenti di Vicaria, e d'altra i M. Giustizieri della Gran Corte. Così di coloro preposti alla Corte del Vicario, leggiamo; Regens Curiam Vicariae. Degli altri: In quo hospitio M. Curiae Magistri Justitiarii Regni; regebatur et regitur. In breve la Gran Corte era chiamata: Curia Magistri Justitiarii. Quella del Vicario: Curia Vicarii, seu Vicariae.

Quando questi Tribunali si fossero uniti e ridotti in uno, e chiamato perciò la Gran Corte della Vicaria, non è di tutti conforme il sentimento. Camillo Tutini[395] credette, che questa unione si fosse fatta da Carlo I, ma va di gran lunga errato; poichè tanto è lontano che fosse stato egli autore di quest'unione, [290] che appena possiamo riconoscerlo per istitutore della Corte del Vicario, avendocene sol egli dati i primi principii e delineamenti. Carlo II suo figliuolo ancora non è da dirsi, che gli unisse, perchè egli diede forma e perfezione alla Corte del Vicario, e la rese eminente anche sopra la Gran Corte, per i personaggi dei quali volle che si componesse; e nelle scritture degli altri Re angioini suoi successori, sovente quando fassi memoria di questi Tribunali, leggiamo l'uno essere chiamato Curia M. Justitiarii, e l'altro Curia Vicarii. Per questa ragione alcuni credettero, che questa unione non si fosse fatta nel Regno degli Angioini; e Prospero Caravita[396] credette, che a' tempi della Regina Giovanna II questi Tribunali fossero ancora divisi. Altri dissero, che tal unione seguisse negli ultimi tempi d'Alfonso I d'Aragona, il quale avendo istituito il nuovo Tribunale del S. C. unì insieme questi Tribunali, che chiamò della Gran Corte della Vicaria, come tenne il Toppi[397]. Ma più verisimile sarà il dire, che questa unione non si facesse in un subito. L'origine d'essersi tratto tratto questi due Tribunali uniti, e la cagione di ciò, bisognerà riportarla fin a' tempi di Carlo II verso l'anno 1306. Maggiori occasioni di tal unione si diedero dopo il vicariato del Duca di Calabria figliuolo di Roberto, ma assai più nel Regno di Giovanna II onde negli ultimi tempi d'Alfonso I Re d'Aragona fu l'unione perfezionata, e di due Tribunali se ne formò un solo.

Chi vi diede la prima mano fu l'istesso Carlo II poichè avendo egli, come si disse, nell'anno 1306 formati [291] alquanti capitoli[398] intorno all'amministrazione dell'ufficio di G. Giustiziere, che drizzò ad Ermengano de Sobrano M. Giustiziere del Regno di Sicilia, fra l'altre cose, che in quelli costituì, fu di dar la cognizione al M. Giustiziere di tutte le cause, delle violenze, ingiurie, delitti e di tutto ciò che s'apparteneva alla Corte del Vicario, e che a lui potesse ricorrersi, siccome Robertus primogenitus noster Dux Calabriae, nosterque Vicarius Generalis posset adiri. Essendosi adunque fra di lor confuse le cognizioni e le preminenze; fu cosa molto facile in decorso di tempo farsi questa unione, e congiungersi insieme queste due Corti. Ma dopo il vicariato del Duca di Calabria figliuolo di Roberto, la divisione fu riputata più inutile; poichè non leggendosi dopo lui essersi creati altri Vicari, se non che, negli ultimi periodi del Regno loro, si legge costituita Vicaria del Regno la Regina Isabella dal suo marito Renato, avvenne, che tal separazione fosse riputata inutile, potendosi gli affari di questi due Tribunali spedire con più facilità ridotti in uno. Poi la Regina Giovanna II volendo per mezzo de' suoi riti, riformare queste due Corti, riputò meglio congiungerle insieme; onde avvenne, che il gran Giustiziere ch'era capo della Gran Corte a' tempi de' Normanni, unendosi ora questi Tribunali, ne venne anche egli ad esser capo di questo altresì. Quindi è, che tutte le provvisioni ed ordini, che dal Tribunale della Gran Corte della Vicaria si spediscono, tanto per Napoli, quanto per tutto il Regno, sotto il titolo di gran Giustiziere vengono pubblicate[399].

[292]

Da ciò nacque ancora, che dandosi al solo gran Giustiziere la soprantendenza di queste due Corti[400], siccome poteva egli crear il Luogotenente, e Reggente per regger la sua Gran Corte, così ancora deputava egli quello stesso per Reggente della Corte della Vicaria: unendo queste due dignità ed uffici in una sola persona che vi destinava, de' quali Reggenti, insino ai suoi tempi, Niccolò Toppi tessè lungo catalogo.

E quindi avvenne ancora, che volendo la Regina Giovanna II riformare e ristabilire i riti ed osservanze di quelle, trovando ne' suoi tempi, che scambievolmente comunicavansi infra d'esse tutta la loro autorità e cognizione, con una sola determinazione providde al ristabilimento e buono governo ed amministrazione delle medesime.

Ed è da notare, che quantunque i riti, che questa Regina ordinò, fossero stabiliti per lo miglior governo ed amministrazione di questo Tribunale, componendosi di due Corti, perciò viene da lei nominato ora con singolar nome di sua Corte o Gran Corte di Vicaria, ed ora di Corti in plurale. Così nel proemio disse: In nostris Magnae et Vicariae Curiis. E nel primo rito: In praedictis nostris Magnae, et Vicariae Curiis, et qualibet ipsarum. Ed altrove Judices ipsarum Curiarum.[401] Ed è notabile ancora, che questa Regina ne' privilegi che spedì a' Napoletani nell'anno 1420 che son registrati tra' riti suddetti[402], volendo che di quelli potessero valersi in tutte le Corti di Napoli, disse: Tam scilicet Magna Curia Domini Magistri Justitiarii Regni Siciliae, seu ejus Locumtenentis; [293] ac Regentis Curiam Vicariae; quam Capitaneorum, vel aliorum habentium merum, et mixtum Imperium etc. volendo denotare componersi questo Tribunale di due Corti, di quella del M. Giustiziere e dell'altra della Vicaria. E la Regina Isabella creata Vicaria dal Re Renato suo marito, drizzando, come si disse, nell'anno 1436 una sua lettera, che pur leggiamo tra quei riti[403] agli Ufficiali di questo Tribunale, pur disse: Raymondo de Ursinis etc. Magistro Justitiario Regni Siciliae, et ejus Locumtenenti: Nec non Regenti Magnam Curiam nostrae Vicariae.

Donde si convince l'errore d'alcuni, e fra gli altri del Reggente Petra[404], i quali leggendo ne' riti della Gran Corte della Vicaria fatti compilare dalla Regina Giovanna II chiamarsi questo Tribunale ora in dual numero, ed ora in singulare, si diedero a credere, che nel tempo, che questa Regina ordinò la Compilazione, erano queste Corti separate; quando poi fu quella ridotta a fine, erano già unite; onde perciò nei primi riti si nominano in dual numero, e negli ultimi in singulare. Ciò che sarebbe far gran torto alla diligenza, ed accortezza di que' Giureconsulti, de' quali si valse la Regina per quella compilazione, i quali raccolti ed ordinati che l'ebbero, gli diedero fuori tutti insieme in un volume; e sarebbe stata grande loro trascuraggine, se nel principio avesser separate queste Corti, e nel fine l'avesser congiunte. Oltre che non meno la Regina Giovanna II nel privilegio conceduto a' Napoletani, spedito negli ultimi anni del suo Regno, e posto nel fine di que' riti, che la Regina Isabella, [294] che visse dopo Giovanna, separò queste due Corti nel tempo, che il Reggente Petra le vuole unite, drizzando quella sua carta non meno al gran Giustiziere e suo Luogotenente, che al Reggente della Vicaria. Erano adunque queste Corti separate in se medesime, ma congiunte insieme a questi tempi, facendo un solo Tribunale, di due Corti composto.

Nel Regno poi d'Alfonso I si tolse affatto così nelle scritture, come nel parlare ogni vestigio di divisione, e l'unione si rese perfetta, onde da poi non si nominò più in numero di più, ma fu riputato un solo Tribunale; e poichè era composto di due Corti, fu chiamato perciò con un sol nome, Tribunale della Gran Corte della Vicaria.

CAPITOLO VII. Carlo Principe di Salerno governa il Regno come Vicario, mentre il padre è in Roma, e va poi a battersi in Bordeos con Pietro Re d'Aragona.

Il Re d'Aragona, ancorchè fosse certo, che le sue preghiere al Pontefice Martino niente doveano giovargli, essendo il Papa alle preghiere di Carlo già risoluto di dare a costui ogni aiuto per la ricuperazione dell'isola; nulladimanco perchè Carlo non fosse solo a querelarsi col Papa, e potesse, con frapporre qualche trattato di pace divertire la guerra, mandò a Roma suoi Ambasciadori ad iscusarsi con Martino e col collegio de' Cardinali, ponendo loro in considerazione, che volendo ricovrare quel Regno dovuto alla moglie ed a' suoi figliuoli, non avea potuto con aperte forze [295] levarlo di mano a Carlo, ch'era il più potente Re dei Cristiani; e però avendo veduto, che quelli dell'isola, disperati per gli atrocissimi portamenti de' Franzesi, erano stati sforzati di fare quella uccisione, avea voluto pigliare quella occasione, e cercare di salvar insieme la vita a' Siciliani e racquistare alla moglie il perduto Regno: e che conveniva alla Santità del Papa ed al decoro di quel sacro Collegio di spogliarsi d'ogni passione e giudicare quel che ne fosse di giustizia: che se si fosse sentenziato per lui, avrebbe egli così ben pagato il censo alla Chiesa romana, e sarebbe stato così buon feudatario di quella, com'era stato Re Carlo, e quando, udite prima le sue ragioni, fosse sentenziato contra di lui, egli avrebbe lasciata la possessione dell'isola in man della Chiesa.

Ma furono ben tosto conosciuti, e dal Papa e da Carlo questi artificii di Pietro, onde ne furono rimandati gli Ambasciadori, non riportando altro da Roma, se non che il Papa avea conosciuto, che queste erano parole per divertire la guerra, e che era risolutissimo di dar ogni aiuto e favor possibile al Re Carlo, il quale senza dubbio alla nuova campagna verrebbe sopra l'isola con grandissimo apparato per mare e per terra.

Allora fu, che Re Pietro lasciate ordinate alcune cose in Sicilia, come fu consigliato da Ruggiero di Loria e da Giovanni di Procida, passò in Aragona per provvedere di mandare in Sicilia nuovi soccorsi. Gli Aragonesi, che prima aveano avuta a male quella impresa, come pigliata senza volontà e consenso dei Popoli, e con ciò d'esser altresì rotte e violate l'ordinanze e privilegi di quel Regno; nulladimanco vedendola succeduta prospera, e guadagnato un Regno, [296] nel quale, da poi, molti del Regno di Aragona e di Valenza ebbero Stati e Signorie, cominciarono a pensare d'aiutare il Re quanto potevano, e nel Consiglio gli persuasero, che cercasse in ogni modo di placar il Papa; onde l'indussero a mandare di nuovo Gismondo di Luna per Ambasciadore, il quale avesse d'assistere a Roma, e pregar uno per uno i Cardinali, che vedessero d'addolcir l'animo del Papa. Ma ecco, che ciocchè Re Pietro con tanto studio non avea potuto per innanzi ottenere, fortunatamente gli avvenne; poichè mentre il suo Ambasciadore va per Roma, è incontrato da Carlo, il quale subito che 'l vide, come era impaziente e soggetto all'ira, gli disse: che il Re Pietro avea proceduto villanamente e da traditore, con avergli, essendogli cugino, occupato il Regno suo, nel qual Manfredi non era stato mai Re legittimo, ma occupatore e Tiranno; e ch'egli sarebbe per sostenerlo in battaglia a corpo a corpo, o con alcuna compagnia di soldati. Gismondo, ch'era persona accorta, rispose, ch'egli era venuto per trattar altro, e non per disputare se 'l Re avea fatto bene o male, ancora che fosse certo, che avea fatto ottimamente, ma ch'egli avrebbegli scritto, e che sarebbe venuta da lui risposta, quale si conveniva al grado, al sangue, ed al voler di tal Re; nè indugiò molto a scriver al suo Re quel ch'era passato. Re Pietro gli rescrisse subito, che accettasse per lui il duello e che offerisse al Papa, che per evitare tanto spargimento di sangue di Cristiani, e' si contentava non solo combattere quella querela, ma con esso ancora il dominio di tutta l'isola.

Alcuni scrissero, che Carlo per la fiducia, ch'avea nella persona sua ed in molti altri Cavalieri del suo esercito, si fosse rallegrato di questa offerta di Pietro, [297] e che con assenso del Papa si cominciò a trattare del modo, che aveano da tenere per combattere, nel che i due Re convennero di scieglier ciascuno dodici Cavalieri per regolare il tempo, il luogo e le condizioni del combattimento. Questi essendosi ragunati formarono alcuni articoli, che furono ratificati da' due Re. Fu in quelli determinato, che si sarebbero battuti a Bordeos città della Guascogna, ch'era allora sotto il dominio del Re d'Inghilterra: la giornata fu stabilita, per lo dì primo giugno 1283 nel quale s'avessero da presentare in quella città ciascuno accompagnato da cento Cavalieri.

Negli atti d'Inghilterra ultimamente fatti imprimere dalla Regina Anna[405], si leggono questi articoli, e come quelli che non eran pubblici, nè se non per questa edizione si sono esposti alla luce del Mondo, sono stati cagione d'alcuni abbagli a' migliori Istorici, con gran pregiudizio della riputazione del Re d'Aragona; poichè credettero, che nella formazione de' medesimi v'avesse avuto anche parte il Re d'Inghilterra, il quale come ugualmente parente d'ambedue questi Re, avesse loro assicurato il campo, e che perciò non poteva scusarsi Re Pietro d'aver avuto timore di comparire in pubblico, come fece in secreto; imperocchè da questi articoli e da alcune lettere dello stesso Re d'Inghilterra si convince, che tanto fu lontano, che v'avesse avuta egli parte ed avesse egli assicurato il campo, che più tosto egli fece ogni sforzo per disturbare il combattimento. Gli articoli furono accordati solamente da' Cavalieri eletti da ambedue i Re, ed alcuni anche scrissero, che nemmeno il Papa vi assentisse.

[298]

(Nel Codice Diplomatico di Lunig[406], si legge il Diploma del Re Pietro, nel quale s'inseriscono le Capitolazioni accordate inforno al duello col Re Carlo nella città di Bordeos in Guascogna, firmato da' suoi Cavalieri. Siccome alla pagina 1015 si legge un consimile Diploma spedito dal Re Carlo, dove promette di comparire nel luogo stabilito del duello, firmato parimente da' suoi Cavalieri. E che il Papa facesse ogni sforzo per impedirlo, è manifesto da due Brevi di Martino IV che rapporta il cit. Lunig, uno alla pag. 1014 dove inibisce al Re Carlo il duello concertato col Re Pietro; l'altro alla pag. 1022 drizzato ad Odoardo I Re d'Inghilterra, nel quale esorta quel Re ad usar ogni studio per impedire, che siegua ne' suoi Stati).

Gli articoli, come si legge in quegli atti, furono i seguenti:

I Che il combattimento si farà a Bordeos, nel luogo, che il Re d'Inghilterra giudicherà più convenevole, il qual luogo sarà circondato di barriera. II Che gli due Re si presenteranno avanti il Re d'Inghilterra per far questo combattimento il dì primo giugno 1283. III Che se il Re d'Inghilterra non potrà trovarsi in persona a Bordeos, li due Re saranno tenuti di presentarsi avanti colui, che il medesimo Re avrà deputato per ricever la loro presentazione in suo luogo. IV Che se il Re d'Inghilterra non si trovasse in persona nel medesimo luogo, nè inviasse alcuno in sua vece, i due Re siano tenuti di presentarsi avanti colui, che comanda a Bordeos per lui. V Egli è stato ancora convenuto, che il detto combattimento non si [299] farà avanti a chi che sia delle genti del Re d'Inghilterra, a meno che il detto Re non vi si trovasse attualmente presente in persona: salvo a' due Re di convenire tra di loro, per un consenso reciproco, di fare il detto combattimento di questa maniera, cioè a dire in assenza d'Odoardo. VI Che se il Re d'Inghilterra non si trovasse di persona nel luogo e nel tempo accennato, gli due Re siano tenuti di aspettarlo trenta giorni. VII Affinchè si possa in tutte le maniere proccurar la presenza del Re d'Inghilterra, li due Re promettono e giurano di fare il lor possibile di buona fede e senza frode, per ottenere dal detto Re, che si trovi al luogo notato, ed al giorno detto, e di fare in maniera che le loro lettere gli sian rese. Dopo alcuni altri articoli, che riguardano la tregua e le sicurezze, che li due Re si danno reciprocamente, egli è convenuto. VIII Che quegli de' due Re che mancherà di trovarsi nel luogo e giorno suddetto, sia riputato vinto, e spergiuro, falso, infedele, traditore, che non possa giammai attribuirsi nè il nome di Re, nè gli onori dovuti a questo grado; ch'egli resti per sempre privato e spogliato del nome di Re e dell'onor regale, e sia incapace di ogni impiego e dignità, come vinto, spergiuro, falso, infedele, traditore ed infame eternamente.

Accordati questi Articoli, ambedue i Re s'affrettarono di dar provvedimenti a' loro Reami, perchè, dovendo intraprendere sì lungo viaggio, ed esporsi ad una sì pericolosa azione, la loro assenza o mancanza ad essi non nocesse. Re Pietro raccomandò a' Siciliani l'ubbidienza, che doveano prestare alla Regina Costanza: diede allora il titolo di Vicerè di quell'isola a Guglielmo Calzerano: creò Giovanni di Procida Gran [300] Cancelliere: diede l'Ufficio di Gran Giustiziere ad Alaimo di Lentino, ed a molti altri benignamente fece grazie, e concedè molti privilegi; e volle che tutti giurassero per legittimo successore ed erede, e futuro Re D. Giacomo; il che fu fatto con magnifica pompa e buona volontà di tutti.

Dall'altra parte il Re Carlo lasciò nel Regno per suo Vicario il Principe di Salerno, e gli diede buoni Consiglieri, che assistendolo l'avessero da governare; stabilendo, come fu detto, un nuovo Consiglio, che fu chiamato la Corte del Vicario; ed affrettandosi più del suo Competitore, tolta che ebbe la benedizione dal Papa, marciò con le sue genti, e si presentò nel giorno destinato con li cento suoi Cavalieri al campo avanti Bordeos; e cavalcando per lo campo aspettò fino al tramontar del Sole, facendo spesso dal suo Araldo chiamare il Re Pietro; ma questi non comparendo, alcuni rapportano, che Carlo si portasse avanti il Siniscalco del Re d'Inghilterra, che comandava la città di Bordeos, e 'l richiedesse, ch'avesse da far fede di quello, ch'era passato: e che avendo novella, che il Re d'Aragona era ancora lontano, si ritirasse lo stesso giorno.

Re Pietro dall'altro canto, dappoichè s'ebbe eletti i suoi cento Cavalieri, lor comandò, che s'avviasser subito verso Guascogna, ed egli mandò avanti Giliberto Gruiglias per intendere se 'l Re d'Inghilterra era arrivato a Bordeos, o se ci era suo Luogotenente, che avesse assicurato il campo; ed egli con poco intervallo gli andò appresso con tre altri Cavalieri valorosi: ma scorgendo, che niuno era che assicurava il campo, narrasi, che si fosse travestito e nascosto dentro la città di Bordeos sotto nome d'un de' Signori [301] della sua Corte, e che da poi, che Re Carlo fu partito, la stessa sera andasse a presentarsi al Siniscalco di Guienna, facesse atto della sua presentazione, e gli lasciasse le sue arme in testimonianza: e che dopo ciò avesse ripigliato frettolosamente il cammino verso i suoi Stati temendo l'insidie e gli aguati che Re Carlo susurravasi avergli preparati.

Questa condotta ha dato luogo agli Istorici franzesi di accusarlo di poltroneria, e di non aver avuto animo di misurarsi col suo nemico. Ma l'error nacque dall'avere tutti gli Istorici, così franzesi ed italiani, come spagnuoli, creduto costantemente, che Odoardo avesse assicurato il campo a' due Re, ingannati per essersi presentato Re Carlo a Bordeos co' suoi cento Cavalieri; imperciocchè non hanno potuto comprendere, come questo Principe fosse venuto colla sua truppa pronto a combattere, e si fosse trattenuto a Bordeos dal levar del Sole fino alla sera del giorno appuntato, se egli non avesse creduto d'essersi assicurato il campo e di combattere.

Ma negli atti d'Inghilterra ultimamente dati alle stampe, si legge al foglio 239 una lettera di Odoardo a Carlo, per la quale gli fa sapere, che quando egli potesse guadagnar i due Regni di Aragona e di Sicilia, non verrebbe ad assicurar il campo a' due Re; nè permetter che questo duello si facesse in alcun luogo del suo dominio, nè in alcun altro dove fosse in suo potere l'impedirlo. In un'altra lettera, ch'egli scrisse al Principe di Salerno (pag. 240) gli dice, che era ben lungi dal vero di aver accordato a suo padre ciò che gli avea dimandato intorno a questo combattimento, anzi egli l'avea rifiutato tutt'oltre (tout outre) questo [302] è il termine di cui egli si serve; perchè queste lettere sono in franzese.

Egli dunque non vi è luogo di credere, che Odoardo abbia autorizzato questo combattimento, nè per la sua presenza, nè con inviarvi alcuno, che avesse rappresentata la sua persona, nè in dando salvocondotto a' due Re, nè in fine con far loro preparare il luogo; e nientedimeno gli Istorici lo suppongono come certo, quando dicono che Carlo venne a Bordeos, ch'entrò nel campo, e che vi si trattenne dal levare fino al tramontar del Sole, senza veder comparire il suo nemico.

Quel che abbiamo di certo è, che Carlo venne effettivamente a Bordeos il giorno appuntato: ch'egli vi si trattenne fino verso la sera, e che avendo novella, che il Re d'Aragona era ancora lontano, si ritirò lo stesso giorno. Ma appena fu egli partito, che Pietro, il qual era nella città travestito sotto nome d'un de' Signori della sua Corte, andò a presentarsi al Siniscalco di Guienna, fece atto della sua presentazione, e gli lasciò le sue armi in testimonianza: fatto questo si ritirò in diligenza verso i suoi Stati. Se si considera il tenor degli articoli aggiustati tra' due Re, questa condotta non potrà accusarsi di poltroneria; poichè la presentazione di questi Principi avanti il Siniscalco di Guienna non era, che per soddisfare al quarto articolo, e non per battersi; perchè per lo quinto, non dovea esservi punto di combattimento, se il Re d'Inghilterra non vi era presente, e che per le lettere di Odoardo qui sopra rapportate, non vi era cosa più lontana dall'intenzione di questo Principe, che l'assistere a questo combattimento. Che voglia accusarsi il Re d'Aragona di aver avuta paura, non è da dubitare; ma la paura ch'egli avea non era di battersi [303] contro il suo nemico; poichè per le loro convenzioni non era a ciò obbligato, se non in presenza del Re d'Inghilterra, dopo avergli assicurato il campo. Che dunque ha egli temuto? Gl'Istorici franzesi, che per altro sono stati ben attenti di trovare una occasione d'avvilir questo Principe nemico della Casa di Francia, non si sono curati di spiegare il soggetto del suo timore; ma gli Siciliani ed i Napoletani l'hanno fatto in dicendo, ch'egli era informato non solamente, che Carlo avea portati i suoi cento Cavalieri con lui in Bordeos, ma ch'egli aveva, altri dicono 3000 altri 5000 cavalli una giornata distanti da quella città; ed alcuni anche aggiungono, che il Re di Francia suo nipote era alla loro testa. Ciò che Mezeray non ha potuto interamente dissimulare, quando egli dice, che Pietro si ritirò, fingendo di aver paura di qualche sorpresa dalla parte del Re di Francia; perchè se il Re di Francia non avesse avute truppe vicino Bordeos, come Pietro, trovandosi ne' Stati del Re d'Inghilterra, avrebbe potuto fingere d'aver paura di qualche sorpresa del Re di Francia?

Si devono adunque esaminar due cose per giustificazione del Re d'Aragona: la prima, se egli ha eseguite le convenzioni; e di ciò non si può dubitare dopo aver letti gli articoli di sopra rapportati: la seconda, se ha avuto soggetto di diffidarsi di Carlo e del Re di Francia. Quanto al primo di questi Principi, gli Istorici di Napoli e di Sicilia dicono, ch'egli si era vantato pubblicamente di fare assassinare il Re d'Aragona, ciò che bastava per dare un giusto soggetto di timore a quest'ultimo, che si trovava in un paese lontano da' suoi Stati, vicino a quelli del Re di Francia, e senza salvacondotto del Re d'Inghilterra [304] nè alcun'altra sicurezza, che la parola d'un nemico; sopra la buona fede del quale egli non poteva appoggiarsi, perchè si era vantato di farlo assassinare. Quanto al Re di Francia, gl'Italiani assicurano che avea un corpo di 5000 o di 3000 cavalli a una giornata di là. Mezeray e gli altri Istorici franzesi, che non hanno potuto ignorare ciò che gl'Italiani han detto, non lo negano, e si contentano di non parlarne; di maniera che egli è altrettanto dubbio, che la cosa sia vera, quanto è dubbio che sia falsa. In somma quando anche Re Pietro fosse stato preso da un timor mal fondato di qualche sorpresa del Re di Francia, non meritava perciò quelle accuse e quegli scherni, che han fatto i Franzesi su la sua condotta.

Dall'altra parte alcuni Istorici spagnuoli furono soverchio millantatori, e fra gli altri Garibay, il quale senza dubbio non sapeva le convenzioni passate tra' due Re; e pure fu così ardito, che scrisse, che il Re di Aragona si presentò a Bordeos, e che se ne ritornò perchè Carlo non vi si trovò: Despues que el Rey D. Pedro se apoderò del Reyno de Sicilia, viviò cinco annos, y dando orden en las cosas del nuevo Reyno, tornò à Espanna, y tuvò rieptos y desafios con el Rey Carlos, y disfrazado passò por la Provincia de Guipuscoa, para la Ciudad de Burdeos, que por ser en esto tiempo de Ingleses era el lugar de la batalla, a la qual por no acudir el Rey Carlos, tornò el Rey D. Pedro en Aragon, y Catalunna.

Non è da tralasciare quel, che tra queste diversità d'opinioni credette il Costanzo nostro gravissimo Scrittore[407], aiutato ancora da un'annotazione antica scritta [305] a mano, che dice aver trovato: cioè che Re Pietro, il qual confidò sempre più nella forza, non ebbe mai volontà d'esporre un Regno a quel cimento, e che dopo la giornata, ragionando di questo fatto si fosse dichiarato, dicendo, ch'egli intrigò con tante condizioni e patti quel combattimento, per far perdere al Re Carlo una stagione, ed egli aver tempo di più fortificarsi, e far pigliar fiato a' Regni suoi; anzi si facea beffe di Carlo, che avesse creduto, ch'egli voleva avventurare il Regno di Sicilia, che già era suo, senza volere, che Carlo avesse da promettere di perdere all'incontro il Regno di Puglia, quando succedesse, che restasse vinto.

In fatti risoluto a questo modo il combattimento, Papa Martino ben s'avvide d'essere stato il Re Carlo beffato, e che Re Pietro avea evitata la guerra; onde pieno di stizza lo scomunicò con tutti i suoi Ministri ed aderenti. Scomunicò ancora, e di nuovo interdisse i Siciliani, dichiarandogli ribelli di S. Chiesa con tutti quelli, che gli favorivano in secreto, o in palese: lo privò e depose del Regno d'Aragona e di Valenza, scomunicando ancora chi l'ubbidisse, o chiamasse Re; e concedè questi Regni a Carlo di Valois, figliuolo secondogenito di Filippo III Re di Francia[408]; mandando il Cardinal di S. Cecilia Legato Appostolico in Francia, con l'investitura di questi due Regni, ed a trattare col Re, ch'avesse da movere un potente esercito in Aragona, per discacciar Pietro [306] dalla possessione di que' Regni. Fu ricevuto il Legato in Francia con grand'onore, e tosto si pose a predicar la Crociata, ed a conceder indulgenze a ciascuno, che prendesse l'armi contro Re Pietro, e non tardò il Re di Francia poner in punto un grandissimo esercito, col quale andò a quell'impresa. E Carlo dall'altra parte tornato da Guascogna in Provenza, glorioso per aver cavalcato il campo, ma deriso d'aver perduto il tempo, si mosse da Marsiglia con 60 galee e molte navi, e navigò di Provenza verso Napoli, con intenzione d'unirsi con l'altre galee ch'erano nel Regno, e passar in Sicilia innanzi l'Autunno.

Re Pietro all'incontro tornato in Aragona mandava tutto giorno validi soccorsi in Sicilia di navi e genti a Ruggiero di Loria suo Ammiraglio; e poco curando delle maledizioni e deposizioni del Papa, per ischerzo si faceva chiamare: Pietro d'Aragona, padre di due Re, e Signore del mare.

CAPITOLO VIII. Prigionia del Principe di Salerno, e morte del Re Carlo suo padre.

Mentre queste cose si trattavano in Francia, Ruggiero di Loria avendo inteso, che Guglielmo Carnuto provenzale, era passato con ventidue galee per soccorrere e munire il castello di Malta, che si tenea per Carlo, uscì dal Porto di Messina con diciotto galee, ed andò per trovarlo, e giunse a tempo, ch'avea messo nel castello genti fresche e vettovaglie, e stava con le galee nel porto di Malta. Mandò Ruggiero una fregata [307] con un trombetta, che richiedesse il Capitano franzese a rendersi, o veramente apparecchiarsi alla battaglia: il Provenzale, che da sè era orgoglioso, ed avea avuta certezza, che l'armata nemica era inferiore di numero di galee, uscì dal Porto, ed attaccò la battaglia; ma alla fine dopo molto spargimento di sangue restò egli rotto e morto, e delle sue galee se ne salvarono sol dodici fuggendo verso Napoli: le diece altre furon prese, e condotte da Ruggiero a Messina con grand'allegrezza di tutta l'isola. I Maltesi si resero, e Ruggiero lasciò alla guardia di quell'isola Manfredi Lancia suo Capitano[409].

Ma non contento Ruggiero di questa vittoria, avendo già conceputo nell'animo l'altre gran cose che poi fece, poste in ordine quante galee erano per tutta l'isola, con grandissima celerità andò verso Napoli, acciocchè offerendosi qualche altra occasione avesse potuto far alcuna altra notabile impresa; il che gli successe felicemente, perchè avendo trascorse le marine di Calabria con quarantacinque galee, se ne venne a Castellamare di Stabia, donde rinfrescata l'armata passò verso Napoli nel medesimo mese di giugno dello stesso anno 1283 e con quell'ordine, che si suol andare per combattere, appressato alle mura di Napoli cominciò a far tirare saette ed altri istromenti bellici, che s'usavano a quel tempo dentro la città: onde tutto il Popolo si pose in arme, credendosi che Ruggiero volesse dar l'assalto alla città; ma perchè l'intenzion di Ruggiero non era di far altro effetto, che d'allettare e tirare le galee, ch'eran nel Porto di Napoli alla battaglia, dappoichè ebbero i Siciliani con parole ingiuriose provocati i Napoletani, [308] che stavano su le mura, e quelli ch'erano al porto su le galee, si mosse egli colle sue costeggiando la riviera di Resina e della Torre del Greco, e l'altra riviera verso Occidente di Chiaja e di Posilipo, bruciando e guastando quelle ville e que' luoghi ameni, che vi erano.

Il Principe di Salerno lasciato dal padre Vicario del Regno, non potendo soffrire tanta indegnità di vedere, che su gli occhi suoi i nemici avessero tanto ardire, fece ponere in ordine subito le galee, delle quali era allor Capitano Generale Giacomo di Brusone franzese, e vi s'imbarcò con animo d'andar a combattere. Gerardo Cardinal di Parma Legato Appostolico, che si trovava in Napoli, esclamava, che non uscisse il Principe, nè s'arrischiasse l'armata a combattere; ma egli non potendo soffrire il fasto di Ruggiero, volle in tutti i modi imbarcarsi. Non solo i Franzesi veterani e gli altri stipendiari del Re s'imbarcarono con lui, ma non restò nella città uomo nobile, o cittadino onorato atto a maneggiar l'arme, che non andasse con lui con grandissimo animo: e poichè l'armata fu allontanata poche miglia dal porto di Napoli, Ruggiero di Loria, tosto che la vide, fece vela con le sue galee mostrando di voler fuggire, ma con intenzione di tirarsi dietro l'armata nemica tanto in alto, che non avesse potuto poi evitare di non venir a battaglia. Il Principe allegro, credendosi, che fosse vera fuga, e tutti i soldati delle sue galee, e massime quelli, ch'aveano poca esperienza nell'armi, con grandissime grida si diedero a seguire, sperando vittoria certa; ma poichè furon allontanate per molte miglia da terra ferma, Ruggiero fece fermare le sue galee, e dopo averle una per una visitate, animando i suoi [309] fece girar le prode verso i nemici, che già s'avvicinavano, e con grandissimo impeto andò ad incontrargli. Fu con grandissima forza dell'una parte e dell'altra attaccata la zuffa; ma poichè la battaglia fu durata un gran pezzo, tanto stretta, che appena si potea conoscere una galea dall'altra, al fine avendo i Cavalieri delle galee del Principe adoperate tutte le forze, vinti dal caldo e dalla stanchezza, cominciarono a cedere; ma la galea capitana dove trovavasi il Principe fu l'ultima, perchè ancora che fosse in luogo, nel quale non poteva agevolmente disbrigarsi, ed uscire dalla battaglia, come fecero molte altre, che si salvarono ritirandosi verso Napoli, fece grandissima resistenza, perchè in essa si trovava il fiore de' combattenti, deliberati più tosto morire, che voler cedere, e vedere prigione il Principe loro. Ma Ruggiero per uscire d'impaccio fece buttare dentro mare molti Calafati ed altri Marinari con vergare, ed altri istromenti, i quali subito perforarono in molti luoghi la galea del Principe, in modo che si venne ad empire tanto d'acqua che per non andar a fondo, il Principe e gli altri, che se n'accorsero, si resero a Ruggiero, che gli confortava a rendersi; e Ruggiero porse la mano al Principe sollecitandolo, che passasse presto alla galea sua. Restarono insieme col Principe prigioni il Brusone Generale dell'armata, Guglielmo Stendardo e molti altri Signori italiani e franzesi, che andavano sopra dieci galee che parimente si resero[410].

Questa rotta sbigottì grandemente i Napoletani, poichè videro Ruggiero quasi trionfante tornar avanti le mura della città, ed invitare il Popolo napoletano a [310] far novità. E già la plebe avea cominciato a tumultuare, ed a gridare, muoia Re Carlo, e viva Ruggiero di Loria. E narra il Costanzo, che se i Nobili, i vecchi ed i più riputati Cittadini, che pigliarono a guardare le porte della città ed a frenare quell'impeto, non riparavano, sarebbe occorso qualche gran disordine. Ripressa adunque la plebe, e quietata la città, Ruggiero si ritirò all'isola di Capri: ed ottenne dal Principe, che Beatrice ultima figliuola del Re Manfredi, la quale era stata prigione quindici anni nel castello dell'Uovo con la madre e co' fratelli, i quali allora si trovaron morti, fosse liberata, e se ne ritornò in Sicilia; e con grandissimo fasto, e grand'allegrezza di tutti i Siciliani, presentò alla Regina Costanza la sorella libera, ed il Principe prigione, il quale con tutti gli altri principali prigioni fu posto nel Castello di Mattagrifone in Messina.

I Siciliani volevano servirsi del Principe, come rappresaglia per Corradino, e convocati i Sindici delle terre di tutta l'isola giudicarono, che se gli dovesse mozzar il capo, siccome Carlo avea fatto di Corradino, e mandarono alla Regina Costanza, che ne prendesse in cotal guisa vendetta. Ma questa grande, e magnanima Reina detestando tal crudeltà, fece loro intendere, che in cosa di tanta importanza, quanto era la morte del Principe, non era di farne determinazione alcuna, senza la volontà del Re Pietro suo marito, che si trovava in Aragona; onde per levarlo dal loro cospetto, e conservarlo vivo, lo mandò prigione in Aragona a Re Pietro, ove stette più anni custodito in stretta prigione. Questa illustre azione, siccome fu celebrata per tutti i secoli per magnanima e generosa, così rese più detestabile l'infamia del Re [311] Carlo, perchè la pietà e la clemenza trovò più luogo in un petto debole ed infermo d'una donna, che nell'animo virile di quel Re, infamato perciò per tutti i secoli, e da tutti i Scrittori.

Intanto quasi due dì dopo la battaglia, il Re Carlo che veniva da Marsiglia, giunge a Gaeta, dove con infinito suo dolore ebbe novella della rotta, e prigionia di suo figliuolo, e del tumulto accaduto a Napoli. Ne scrisse immantinente al Papa, chiedendogli a tanta avversità conforto e soccorso di danari[411]; e adirato contro i Napoletani si portò subito a questa città, ed avuto in mano i Capi del tumulto al numero di 150 de' più incolpati, gli fece impiccare, condonando il resto a' Nobili e Cittadini principali, che avevano guardata la città. Ed essendo il principio di luglio, volendo passar in Messina per l'impresa di Sicilia, spedì 75 galee, che passassero il Faro, e girassero a Brindisi ad unirsi con l'altre galee, ch'erano armate nel mare Adriatico. Ed egli per terra andò in Calabria ad assediar Reggio, ch'era in potere degli Aragonesi; ma riuscitagli anche vana quest'impresa, ritornò in Puglia, tutto occupandosi a fornire di numerose Navi la sua armata per l'impresa di Sicilia.

Ma Re Pietro intanto era da Aragona passato in Messina per difesa di quell'isola, e conoscendo, che il Papa era implacabilmente adirato con lui, ma che per la rotta e prigionia del Principe, dissimulando l'odio, avea mandato due Cardinali in Sicilia a trattare la libertà del Principe, e la pace, volle deluderlo con la medesima arte: poichè dopo aver ricevuti i [312] Cardinali con onor grandissimo, diede loro tanta speranza di pace onorata per Re Carlo, che quelli mandarono a dirgli, che non si movesse, e con questa speranza, da poi che Carlo ebbe perduta un'altra stagione, con molta destrezza e prudenza uscì dal trattato di pace, onde i Cardinali ingannati e delusi, dopo avere di nuovo maledetto, e riscomunicato Re Pietro ed i Siciliani, si partirono e tornarono al Papa.

Carlo vedendosi beffatto, si risolse a mezzo decembre di porre in ordine l'armata per ricuperare la libertà del figliuolo ed il perduto Regno; ma mentre egli da Napoli parte per andare a Brindisi a poner in punto l'armata, ecco che nel cammino infermossi a Foggia; dove, essendo giunta l'ora sua fatale, oppresso da malinconia per le tante avversità accadutegli, trapassò nel mese di gennaio del nuovo anno 1285. Teodorico de Niem[412], che fiorì nel Regno di Carlo III di Durazzo e del Re Ladislao, narrando la morte di questo Principe, scrisse, che fu tanta l'oppressione e malinconia del suo animo, che una notte vinto da disperazione da se stesso con un laccio si strangolò. Il suo corpo fu condotto a Napoli, e seppellito nella maggior chiesa con pompa reale, dove ancor oggi s'addita il suo tumulo.

[313]

CAPITOLO IX. Delle nuove leggi introdotte da Carlo I e dagli altri Re angioini suoi successori, che chiamiamo Capitoli del Regno.

Lasciò a noi questo Principe, oltre delle tante altre sue memorie, onde illustrò questo Regno, e molto più la città di Napoli, nuove leggi, che all'uso di Francia non Costituzioni, ma Capitolari, ovvero Capitoli del Regno furon chiamati. Per la famosa Accademia istituita da Federico II in Napoli, e poi da Carlo I arricchita di maggiori privilegi, le Pandette e gli altri libri di Giustiniano avevan invogliati i nostri Professori a studiargli in guisa, che non pure i Dottori, che in que' tempi si chiamavano Maestri, quivi l'insegnavano, ma anche gli Avvocati nel Foro pubblicamente gli allegavano per le decisioni delle cause. E quando quelle leggi non s'opponevano alle longobarde, o alle Costituzioni de' Re normanni e di Federico promulgate da poi, ovvero alle approvate consuetudini del Regno, aveano acquistata tanta forza ed autorità presso i Giudici, che secondo i lor dettami decidevano le cause; non già che vi fosse stata legge scritta, che lo comandasse, ma tratto tratto cominciarono coll'uso ad acquistar forza e vigor di legge, prima per la forza della ragione, da poi per connivenza de' nostri Principi, i quali giacchè volevano, che pubblicamente si leggessero nelle loro Accademie, e che i Giureconsulti gl'illustrassero con commentarii, doveano in conseguenza ancor commendare che s'osservassero nel Foro; e finalmente per le Costituzioni [314] di Federico II il quale dell'autorità delle medesime spesso valevasi, anzi espressamente in più sue Costituzioni[413], comandò la di loro osservanza, purchè alle Longobarde, alle Costituzioni del Regno e Consuetudini non s'opponessero. Ed in progresso di tempo la loro forza ed autorità s'estese tanto, che finalmente vinse, e mandò in disusanza le leggi Longobarde. Ecco ciò, che sopra questo soggetto ne scrisse Marino di Caramanico, che fiorì a questi tempi[414]; Licet vero Regnum desierit subesse Imperio, tamen jura Romana in Regno per annos plurimos, convenientia Regum, qui fuerunt pro tempore, servata diutius consensu tacito remanserunt, ac imo expressim servantur, et corroborantur in Compilatione Constitutionum istarum, ubi neque Constitutiones hae, seu approbatae Regni Consuetudines non obsistunt.

Non è però, che in questi tempi l'autorità delle leggi Romane fosse stata tanta, che avesse dal Foro discacciate affatto le leggi Longobarde: duravano ancor esse nel Regno di Carlo I siccome durarono ne' Regni de' suoi successori Angioini, ancorchè pian piano andassero in disusanza. In fatti Marino stesso di Caramanico, che fu uno de' maggiori Giureconsulti di questi tempi, e che, come si disse, sotto questo Principe fu nell'anno 1269 Giudice appresso il Capitano di Napoli[415], ci attesta, che queste leggi a' suoi dì ancor s'osservavano: Ad quod concordant Longobardae [315] leges quae in Regno similiter obtinent. Biase di Morcone, che fiorì a' tempi del Re Roberto, tra le sue opere legali, che lasciò, una fu delle differenze tra le leggi romane e longobarde[416], compilata ad imitazione di Andrea da Barletta, per togliere anche a' suoi tempi occasione agl'incauti Avvocati di rimaner confusi, se soverchio invaghiti delle Romane, abbandonando le Longobarde, non cagionasser danno a' loro Clientoli, e ad essi scorno e rossore, se nel Foro rimanessero per l'ignoranza di quelle perditori. Abbiamo ancora una carta[417] rapportata dal Tutini[418], tratta dall'Archivio regale della Zecca, formata in S. Germano nell'entrar, che fece Carlo nel Regno, ove a tenor delle leggi longobarde, che si allegano in quella scrittura, il Monastero di Monte Cassino e suo Abate, cede al Re la pretensione, ch'egli avea di riconoscere anche nelle cause criminali i suoi vassalli. E non pure in Terra di Lavoro, e nelle vicine province d'Apruzzo e del Contado di Molise, queste leggi erano osservate, ma eziandio in quella di Puglia, vedendosi che la compilazione delle Consuetudini di Bari, che dalle leggi Longobarde derivano, fu ne' tempi di Carlo I fatta da que' due Giureconsulti, cioè dal Giudice Andrea di Bari e dal Giudice Sparro, cotanto in pregio tenuto da Carlo, che da Giustiziere di quella provincia lo innalzò ad esser gran Protonotario del Regno. Così ancora nel Principato, in Salerno e nell'altre province osserviamo il medesimo; e se nelle province di Calabria di esse non rimase alcun vestigio, [316] fu perchè lungamente essendo state possedute da' Greci, e poco da' Longobardi, non poterono in quelle mettere sì profonde radici, sicchè avesser potuto avere lunga durata.

Nel Regno adunque di Carlo niente fu mutato intorno all'autorità delle leggi romane e longobarde e non pur queste, ma le Costituzioni di Federico volle inviolabilmente, che si osservassero, quelle, che dall'Imperadore furono promulgate in tempo, che non era stato ancora dal Concilio di Lione privato dell'Imperio e del Regno di Sicilia. Rivocò bensì nell'anno 1271 ed annullò tutte le donazioni, locazioni, concessioni, atti e privilegi conceduti da Federico dopo la sua deposizione, da Corrado, da Manfredi e loro Ufficiali, che non si trovassero da lui confermati, riputandogli Principi intrusi, e tiranni, come quelli, che erano stati privati del Regno dalla Sede Appostolica, la quale n'avea lui investito[419]. Non altrimente di ciò, che fece Giustiniano Imperadore, il quale non tutti gli atti de' Re goti annullò, non quelli di Teodorico, di Atalarico e di Teodato, ma sì bene quegli di Teia, di Totila e di Vitige, i quali avendogli contrastato, e fatta guerra, con opporsi con vigore alla conquista, che intendeva fare d'Italia, furon da lui riputati tiranni, intrusi ed usurpatori.

Carlo adunque dopo avere sconfitto e morto Manfredi, essendosi reso padrone de' Regni di Puglia e di Sicilia, volle con nuove leggi riordinare lo stato di questi Reami, per togliere i disordini, che per le precedute guerre e revoluzioni erano accaduti. Le sue leggi, che Capitoli, ovvero Capitularii si dissero ad [317] imitazione del Regno di Francia, erano drizzate così per l'uno, come per l'altro Reame; onde Capitula Regni Siciliae s'appellarono, non meno che le Costituzioni di Federico; avendone ancora per Sicilia propriamente detta, ordinati alcuni particolari rapportati da Inveges[420]. Ma i Siciliani dopo il famoso Vespro Siciliano, sottrattisi dal giogo de' Franzesi, non conobbero altri Capitoli, che quelli che riceverono da poi da' Re Aragonesi, onde restaron gli altri fatti da Carlo e dagli altri Re Angioini suoi successori, per lo solo Regno di Puglia, detto di Sicilia di qua del Faro; e Carlo Principe di Salerno suo figliuolo, espressamente si dichiara, che i Capitoli da lui stabiliti in tempo del suo Vicariato, erano stati promulgati per lo Regno di Sicilia di qui del Faro, non già per quell'isola.

Il disordine e la confusione, colla quale questi Capitoli furono insieme uniti e mandati poi alle stampe, merita il travaglio, che siamo per soffrire di distinguergli secondo i tempi e le occasioni, nelle quali furono promulgati. Ciocchè era anche necessario farsi per conoscere, onde nascesse tanta varietà, che s'osserva nelle massime, ch'ebbero i nostri Principi Normanni e Svevi nelle loro Costituzioni da quelle, che mostrarono avere questi Principi Angioini ne' loro Capitoli. Poichè riconoscendo Carlo questo Reame dalla Sede Appostolica, come vero Feudo, ed essendosi dichiarato suo uom ligio, ricevè nella investitura quelle dure e gravi condizioni, che sopra si notarono. I Pontefici romani perciò erano tutti accorti, che nel promulgarsi delle nuove leggi, non solo niente si derogasse [318] alla loro pretesa immunità e libertà, ma che tutto si facesse a seconda delle loro massime e dettami; anzi quando lor veniva ben fatto, s'intrigavano ancor essi a stabilirle, come vedremo: perciò si videro nuove leggi contrarie alle Costituzioni di Federico e quindi nacque, che gli Scrittori, che fiorirono a' tempi di questi Re, imbevuti di quelle massime empissero i loro Commentari di dottrine pregiudizialissime alle regalie e preminenze del Re, ed offendessero in tante guise le ragioni dell'Imperio de' nostri Principi. Non dee recar maraviglia il vedere, che essendo Franzesi questi Re, doveano tanto più esser lontani a soffrire tanti oltraggi; poichè la Francia, siccome fu nel precedente libro veduto, a questi tempi era non men gravata, che l'Italia, e la giustizia ecclesiastica in quel Regno avea fatti progressi mirabili, e non prima dell'ordinanza dell'anno 1438 furono le sue intraprese risecate, e ridotte al giusto punto della ragione.

§. I. Capitoli del Re Carlo I.

Tutti gli Scrittori convengono, che il Regno di Carlo non durasse più che diciannove anni e pochi giorni, ma alcuni nostri Professori[421] cominciarono a noverargli dall'anno 1265 con manifesto errore, essendo presso i più appurati Autori costantissimo, che questo Principe a' 6 gennaio, giorno dell'Epifania, dell'anno 1266 fu incoronato Re da Papa Clemente in Roma, e che a' 26 febbraio del medesimo anno fu da lui Manfredi morto, ed occupò il Regno. Altri errarono nell'anno della morte di questo Principe; poichè [319] scrissero che morisse a' 7 gennaio dell'anno 1284. Ciò ch'è falso, essendo egli trapassato in Foggia in gennaio dell'anno seguente 1285. Quindi derivano i tanti errori, che s'osservano nelle vulgate edizioni di questi Capitoli, per non essersi saputo ben fissare gli anni del Regno di questo Principe, come anderemo notando in alcuni.

Moltissimi altri errori s'osservano ancora nel notarsi gli anni del suo Regno di Gerusalemme. Alcuni credettero, che Carlo nell'istesso tempo, che in Roma fu incoronato Re di Sicilia, fosse stato anche intitolato Re di Gerusalemme. Altri, che conobbero quest'errore, ancorchè confessino, che molto tempo da poi per la cessione di Maria, Carlo acquistasse quel titolo, nulladimanco non sono costanti in fissare l'anno, che fu veramente l'anno 1277 come si disse.

Coloro che unirono insieme questi Capitoli nella maniera, che oggi si leggono, non serbarono ordine alcuno nè di tempo, nè di materia; ma alla rinfusa l'affastellarono. Antonio de Nigris[422], che gli commentò, conobbe il disordine, ma non seppe emendarlo, e volle dietro quelli seguire il suo commento, come gli trovò. Dovendosi adunque attendere l'ordine de' tempi, il primo deve riputarsi quello, che fu da Carlo promulgato per la riforma dello Studio generale di Napoli. Fu quello stabilito per mano del famoso Roberto di Bari Protonotario del Regno di Sicilia nel 1266 primo anno del suo Regno in Nocera de' Pagani, detta però de' Cristiani, dove Carlo colla sua moglie Beatrice erasi portato, la quale in questa città morì, e fu sepolta. Fu inserito da Roberto suo [320] nipote ne' suoi Capitoli, sotto il titolo, Privilegium Collegii Neapolitani Studii, dove si legge con questa data Dat. in Castro Nuceriae Christianorum per manus Domini Roberti de Baro, Regni Protontotarii anno 1266. Di questo Capitolo lungamente fu già da noi discorso, parlando dell'Accademia di Napoli ristorata da Carlo.

Nel secondo e terzo anno non se ne leggono; ma seguono da poi alcuni altri Capitoli stabiliti nel quarto anno del suo Regno, cioè nel 1269 sotto i titoli: De Furtis. De assecurandis hominibus illorum, qui turbationis tempore Corradini a fide regia defecerunt. De poena, et vindicta proditorum, etc. Tutti questi furono stabiliti in Trani, e nell'istesso anno alcuni rinovati in Foggia dopo la rotta data a Corradino, per li quali si dà sicurtà a coloro che avendo aderito alla fazion di quel Principe, cercando perdono, ritornassero all'ubbidienza del Re, eccettuando i Tedeschi, Spagnuoli, Catalani e Pisani, i quali volle, che tosto uscissero dal Regno. Si danno ancora altri provvedimenti per riparare a' disordini accaduti in quel turbatissimo tempo, e s'impongono gravi pene a coloro, che non manifestassero i ribelli.

Nel sesto anno, cioè nel 1271 mentre il Re dimorava in Aversa, ne fu promulgato un altro contro chi ardiva contraer matrimonio co' figliuoli de' ribelli senza licenza della sua Corte: si legge sotto il titolo, Quod nullus contrahat matrimonium, etc. e porta la data in Aversa A. D. 1271, dove con errore si legge Regni nostri anno 7 dovendo dire, anno sexto.

Nel settimo anno, cioè nel 1272 ne furono emanati moltissimi: alcuni in Napoli, altri in Aversa, ed altri in Venosa. Que' stabiliti in Napoli nel mese di [321] marzo di quest'anno, ed in Aversa pure nel medesimo anno, si leggono sotto i titoli: De Violentiis. De poena Violentorum, etc. Per li medesimi si procede con molto rigore contro i perturbatori della pubblica e privata quiete, e si reprime l'audacia di coloro, che assuefatti nelle passate rivoluzioni a vivere di rapina e di violenza, perturbavano lo Stato, allor che era in pace. Quello dato in Aversa sotto il titolo de poena Violentorum, porta nella vulgata questa data: Datum Aversae A. D. 1262 anno octavo: ove si scorgono due errori, uno che in vece di dirsi A. D. 1272 si riporta in dietro dieci anni, quando in quel tempo al Re Carlo non era ancor caduta in pensiero l'impresa del Regno: l'altro errore è, che dovea notarsi il settimo, non l'ottavo anno del suo Regno di Sicilia. L'altro capitolo dato in Napoli porta la data giusta, dicendosi: A. D. 1272 Regni nostri anno septimo. Un altro capitolo leggiamo di Carlo dato in quest'istesso anno a Venosa nel mese di giugno sotto il titolo, De occupantibus res demanii. In quello si conservano le ragioni fiscali, delle quali Re Carlo fu molto geloso, ed attento. Porta la data esatta, leggendosi: Datum Venusiis A. D. 1272 Regni nostri anno septimo.

Nell'ottavo anno del suo Regno, cioè nel 1273 leggiamo un altro suo capitolo sotto il titolo, De testimonio publicorum disrobatorum, etc. Si dà la norma intorno alla pruova di questo delitto, e si stabilisce, che la testimonianza di tre malfattori faccia contro essi tanta fede, quanto quella di due uomini probi. Porta la data: Datum Cav. A. 1273 etc. Regni nostri anno 9. L'Addizionatore Bottis, che numera gli anni di Carlo dal 1265 non è maraviglia, che passasse quest'anno per lo nono del Regno di Carlo, ma dovendosi [322] cominciare dal 1266 deve emendarsi il suo errore, e dirsi: Regni nostri anno ottavo.

Nel nono anno, cioè nel 1274 deve riporsi il primo capitolo, che incontriamo in questo Volume stabilito in Napoli nel mese di febbrajo di quest'anno 1274 che si legge sotto il primo titolo, Statutum editum super Portubus. De Bottis stando nel medesimo errore alla data aggiunge: Regnorum nostrorum anno decimo, dovendo dire anno nono. Si danno in esso molte provvidenze intorno all'estrazione del sale e delle vettovaglie da' porti del Regno, ed alcune istruzioni a' Portolani colle quali devono regolarsi. L'altro capitolo, che segue concernente il medesimo soggetto, sotto la rubrica, Aliud statutum super extractione victualium, stabilito in Brindisi, è molto probabile, che da Carlo in quella città si fosse emanato in questo medesimo anno.

Ne' tre seguenti anni niente si legge di questo Principe; ma nel decimoterzo anno del Regno di Sicilia, e secondo del Regno di Gerusalemme, cioè nel 1278 molti capitoli furono da lui fatti in Napoli, che si leggono sotto il titolo, Quod Officiales jurare debent, con gli altri tre seguenti, che portano questa data: Dat. Neap. A. 1278 die 26 januarii. Gli altri che seguono insino al titolo, De poena rei ablatae, furono parimente in quest'anno fatti in Napoli, leggendosi: Dat. Neap. 2 Decembris. In essi si danno vari provvedimenti intorno a' Giustizieri, ed altri Ufficiali, a' quali, fra l'altre cose, vien rigorosamente proibito di darsi ogni qualunque dono, non ostante qualsivoglia consuetudine. Sotto quest'anno deve collocarsi quell'altro capitolo di questo Re, che si legge in fine de' Capitoli del re Carlo II sotto la rubrica, Ad obviandum [323] fraudibus. Fu quello stabilito da Carlo nell'entrar di passaggio nella Terra di S. Eramo vicino Capua, e porta questa data: Anno D. 1278 mense aprilis sept. ejusdem 6. indictionis. Regnorum nostrorum Hierusalem anno 2 Siciliae vero decimotertio.

Nel decimoquinto, cioè nel 1280, si leggono due capitoli fatti a Lago Pensile, il primo ch'è sotto la rubrica, De non mittendo ignem in restuchiis camporum, fu fatto a' 27 luglio di quell'anno; il secondo a' 9 di agosto, e porta nelle vulgate questa scorrettissima data: Data apud Lacum Pensilem. Anno D. 1222 die 9 augusti 7 Indictionis: Regnorum nostrorum, Hierusalem anno 3 Siciliae vero 15 deve leggersi, A. D. 1280 et Hierusalem anno quarto.

Nel decimosesto, cioè nel 1281, si legge un altro Capitolo pubblicato contro i monetari sotto il titolo, De poena infligenda falsariis monetarum. Fu quello stabilito in Brindisi, e porta questa data: Dat. Brundusii A. D. 1281 mense januarii, ec. Regnorum nostrorum, Hierusalem an. 4 Siciliae vero 17 che deve emendarsi e leggersi, Hierusalem an. 5 Siciliae vero an. 16.

(Fu stabilito in Brindisi; perchè questa Città sin da' tempi dell'Imperadore Federico II avea la Regia Zecca, dove anche Federico fece coniar nuove monete, siccome rapporta Riccardo di S. Germano: Anno 1228 mense Januario denarii novi Brundusii per Ursonem Castaldum in S. Germano dati sunt).

Nel decimo settimo anno del Regno di Carlo, cioè nel 1282, furono da questo Principe moltissimi Capitoli stabiliti in Napoli, che furono gli ultimi. Cominciano da quella rubrica: Constitutiones aliae factae per praedictum D. Carolum Regem Siciliae super bono [324] statu: ove si legge un lungo proemio, che a quelle prepone, nel quale esagera il pensiero, e cura che vuol tenere de' suoi Ufficiali, e di distribuire con ordine a ciascuno le sue funzioni, e prefiggere i limiti, perchè senza nota d'avarizia, ed ambizione adempiano le loro parti. Questi Capitoli sotto varie rubriche collocati, arrivano al numero di cinquantotto. I Principi non si ricordano di governar con giustizia i loro sudditi, se non quando ne sono ammoniti per qualche disgrazia loro sopraggiunta, per la quale si veggono costituiti in istato d'aver bisogno di quelli. La rivoluzione di Sicilia spinse Carlo a dar a' suoi sudditi queste nuove leggi, nelle quali si danno molti lodevoli e saggi provvedimenti per la retta amministrazione della giustizia, per evitare le frodi, ed inique esazioni degli Ufficiali, e per lo buono stato della Repubblica; ordinò perciò che fossero pubblicati per tutti i Giustizierati, e per ciascuna città, terra e castello de' medesimi. Furono con somma maturità, e prudenza stabiliti in Napoli, e portano questa esattissima data: Actum Neapoli A. D. 1282 mense Jun. 10 ejusdem indict. Regnorum nostrorum, Hierusalem anno 6, Siciliae vero 17.

Questi furono gli ultimi Capitoli del Re Carlo, il quale in quest'anno con suo cordoglio vedutosi rivoltata la Sicilia, ed a più avversi casi esposto, distratto perciò in cose di maggior importanza, a tutto altro furono poi rivolti i suoi pensieri, che a far leggi. Fu per gravi, ed importanti affari tutto occupato in Roma, e poi in Francia, ed in Bordeos per quelle cagioni, che si sono dette; e lasciando il governo di questo Regno al Principe di Salerno suo figliuolo, lo creò suo Vicario con pieno ed assoluto potere, ed autorità. [325] Questo Principe nel tempo del suo Vicariato molti provvedimenti diede per lo buon governo, onde avea più che mai bisogno questo Reame, e più Capitoli furono perciò da lui stabiliti.

§. II. Capitoli del Principe di Salerno promulgati in tempo del suo Vicariato, mentre Re Carlo suo padre era assente.

Dappoichè per lo famoso Vespro Siciliano si sottrasse la Sicilia dall'ubbidienza del Re Carlo, il Principe di Salerno tardi s'avvide, che una delle principali cagioni di esso fu l'aspro governo, che i Franzesi facevano di quell'Isola; ed all'incontro avendo saputo, che Re Pietro avea sollevati i Siciliani dall'angarie e pagamenti introdotti a tempo del Re suo padre, e che di buoni e salutari statuti avea fornito quel Regno: volle ancor egli (per rendersi benevoli i Popoli del Regno rimasogli, e togliere dall'opinion di costoro il sinistro concetto, che aveano avuto di suo padre) di nuovi Capitoli pieni di liberalità ed indulgenza provvederlo: avverando ancor egli quella massima, che allora i Principi si ravvedono, e procuran il buon governo de' Popoli, quando le avversità gl'inducono ad aver bisogno di loro, e dubitano della loro fedeltà; e considerando ancora l'obbligo ed il bisogno che si teneva allora del Pontefice Martino, il quale favorendo le parti di Carlo, era tutto impegnato alla ricuperazione del perduto Regno, volle per questi nuovi Capitoli soddisfare così agli uni come all'altro, con dar provvedimenti molto favorevoli per la Chiesa e persone ecclesiastiche, per li Baroni e per li Popoli. Perciò avendo in quest'anno 1283 convocato un Parlamento [326] di Prelati, Conti, Baroni e di molti Regnicoli nel Piano di S. Martino, terra posta in Calabria citra[423], non già in Apruzzo, come credette il Reggente Moles[424], ove dopo la partita del padre trovavasi col suo esercito: col consiglio de' medesimi stabilì a questo fine quarantasei Capitoli che portano questo titolo: Constitutiones Illustris D. Caroli II, Principis Salernitani. Vi premette un ben lungo proemio, nel quale va esagerando il pensiero e la cura, che tanto egli, quanto suo padre han tenuto sempre di ben governar i suoi popoli, e rilevargli dalle oppressioni de' suoi Ministri; ma che distratti in cose più ardue e gravi non avean potuto mandar in effetto questo loro proponimento; ma che era già venuto il giorno di lor salute, nel quale egli come esecutore della volontà paterna era per dare ad essi buon guiderdone della loro fede; del che non sarebbero stati partecipi i Siciliani ribelli, i quali per la loro iniquità, essendo mancati dalla ubbidienza e fedeltà, se n'erano resi incapaci ed indegni.

Sieguono da poi venti Capitoli riguardanti i privilegii e le immunità delle Chiese, e delle persone ecclesiastiche collocati sotto questa rubrica: De privilegiis, et immunitatibus Ecclesiarum, et Ecclesiasticarum personarum. Primieramente con termini forti e precisi s'incarica il pagamento delle decime, che si devono alle Chiese ed alle persone ecclesiastiche. II. Che secondo la convenzione avuta tra la Sede Appostolica, ed il Re suo padre (intendendo de' patti accordati, quando il [327] Papa Clemente gli diede l'investitura) i Cherici non siano tratti avanti i Magistrati secolari, se non se per li beni feudali. III. Che le Chiese di tutto il Regno godano de' privilegi conceduti ad esse dalle leggi comuni; cioè che i rei, che a quelle ricorrono per asilo, non possano a forza estraersi, se non ne' casi permessi dalla legge. IV. Che le case de' Prelati, Religiosi e delle altre persone ecclesiastiche, senza la loro volontà non possano dagli Ufficiali occuparsi per cagione di ospidalità; nè in quelle esercitarsi giudizj criminali, anche nel caso che di loro buon volere si dassero. V. Che gli Ufficiali, Conti, Baroni e qualsivoglia altra persona laica non s'intromettano nelle elezioni dei Prelati, nelle collazioni de' Beneficj ecclesiastici, ed in tutto ciò appartenente alle cose spirituali, se non per privilegio o per ragione di jus patronato ad essi s'appartenga. VI. Che i Cherici che vivono chericalmente, non siano astretti comunicare con gli altri nelle collette o in altra qualsisia esazione, non solo per li beni ecclesiastici, ma nemmeno per li patrimoniali, per le porzioni ad essi legittimamente spettanti. VII. Che ciascuno liberamente possa dare, donare o legare alle Chiese le possessioni o altre robe che gli piacerà, purchè non siano in qualche cosa tenute alla sua regal Corte; e se saranno talmente obbligate, sicchè non possa impedirsi la distrazione, s'intendano passare alle Chiese con gl'istessi pesi. VIII. Che i vassalli delle Chiese che sono alle medesime obbligati alla prestazione de' servizi personali, non possano, senza licenza de' loro Prelati, dalla sua Corte, da' Conti, Baroni o qualsivoglia altro, costringersi ad accettar uffici o altri pesi personali. IX. Che tutte le ragioni e privilegi conceduti alle Chiese, ed alle persone ecclesiastiche [328] da' Cattolici ed antichi Re di Sicilia, nella cui possessione sono, si debbano conservare illesi ed intatti: di quelli, de' quali non sono in possesso, si farà nelle Corti competenti senza difficoltà pronta e spedita giustizia. X. Che debbano i Prelati denunziare alla sua Corte tutti coloro, i quali passato l'anno pertinacemente ed in contumacia, persevereranno nelle scomuniche, affinchè per la sua Corte si possa loro imporre le debite pene. XI. Che gli Ufficiali e Commissari della sua Corte non presumano contro la giustizia per turbare le possessioni e le robe che si possedono dalle Chiese, e molto meno toglier loro i beni suddetti. XII. Che gli Ufficiali o altre persone laiche, in niuna maniera s'intromettano nella cognizione de' delitti ecclesiastici; nè impediscano i Prelati o i loro Ufficiali, affinchè quelli liberamente conoscano e puniscano, com'è di ragione. XIII. Che i Prelati, e l'altre persone ecclesiastiche possano far trasportar per mare da una terra all'altra dentro il Regno, grano, legumi ed altre vettovaglie, che pervengano dalle loro massarie, senza pagar dogana e dritto d'esitura. Per le robe comprate siano obbligate pagar solo il dritto della dogana, non già quello dell'esitura: purchè però s'estraggano da' porti leciti e statuiti, e con picciole barche di cento some a basso, e si vadano a scaricare similmente in porti leciti e stabiliti colle debite cautele di responsali e piegiarie. XIV. Che i Giustizieri o altri Ufficiali non traggano ne' giudicii avanti di loro i vassalli delle Chiese, se non se nelle cause criminali, di asportazioni d'armi, di violate difese ed altri delitti, la cognizione de' quali s'appartiene alla Corte regia e suoi Ufficiali. XV. Che i Prelati delle Chiese e le persone ecclesiastiche, ovvero i loro Ufficiali possano [329] per modi legittimi costringere i loro debitori al pagamento de' loro debiti. XVI. Che se i vassalli delle Chiese, che sono obbligati a personali servizi, fuggiranno dai luoghi ove sono tenuti permanere, possano i Prelati e le persone ecclesiastiche, costringergli a fargli tornare a' luoghi onde partirono, e forzargli a permanere in quelli. XVII. Che a' Giudei che fossero vassalli della Chiesa, non si commettano uffici, nè si inferisca gravame o oppressione alcuna. XVIII. Che delle ingiurie, offese e maleficii fatti in persona di Religiosi, Cherici ed altre persone ecclesiastiche, quando non vi siano accusatori, si proceda dalla sua Corte ex inquisitione ed ex officio, affinchè gl'ingiuriatori, e malfattori siano colle debite pene castigati. XIX. Abolendo, cassando, ed irritando la Costituzione di Federico honorem nostri diadematis, ordina, che dovendo i matrimonj esser liberi, sia lecito a' Baroni, Conti ed altri, che posseggon Feudi, ed in generale a tutte le persone, di contraere liberamente essi e loro figliuoli matrimonj, e casare le loro figlie, zie, sorelle e nepoti, senz'assenso della sua Corte, purchè però non si diano i Feudi in dote, ed i matrimonj non si trattino con persone al Re infedeli e sospette. XX. Che i Prelati delle Chiese, che per ragion di quelle tengono Feudi, siccome i Conti e tutti gli altri Baroni possano ne' casi stabiliti nelle Costituzioni del Regno esigere da' loro vassalli i debiti e moderati adjutorj, senza impetrarne altre lettere particolari, bastando questo editto, che a tal fine vien promulgato.

Soddisfatto ch'ebbe il Principe Carlo in cotal guisa il Papa e le persone ecclesiastiche del Regno, passa ora con altri Capitoli a rendersi benevoli i Baroni di quello; concede perciò a' medesimi molti privilegi che [330] si leggono sotto questa rubrica: De privilegiis, et immunitatibus Comitum, Baronum, et aliorum Feuda tenentium. Ordina in prima che oltrepassati tre mesi, non siano obbligati servire più alla sua Corte a proprie spese; ma se oltre di questo tempo la Corte vorrà ritenergli al suo servigio, debba somministrar loro i gaggi e soliti stipendi. II. Toglie anche a lor riguardo l'assenso ricercato da Federico nella allegata Costituzione honorem, perchè possano liberamente contraere i matrimoni. III. Che senza cercar lettere particolari, possano esigere da' loro vassalli i debiti e moderati adjutorj. IV. Che le loro liti, così criminali come civili, che s'agiteranno nella regal Corte, siano essi attori o rei, accusatori o accusati, debbano giudicarsi, assolversi e condennarsi per li Pari della Curia; e le loro cause saranno più pronte e speditamente terminate. V. Si comanda premurosamente a' Giustizieri ed agli altri Ufficiali di Corte, che non commettan a' Baroni niuna esecuzione, che dovesse mai farsi attinente a' servizi della medesima, che non convenga allo Stato ed alla loro nobile condizione.

Rimaneva unicamente, che si fosse, oltre a' Prelati ed a' Baroni, dato compenso a tutti i Cittadini, borghesi ed agli altri uomini del Regno universalmente, affinchè tutti si rilevassero dalle passate gravezze, e tutti sperimentassero la clemenza e benignità del Principe; perciò egli che intendeva cattivarsi la benevolenza di tutti, concedè a' medesimi molti privilegi, e per mezzo di molti utili provvedimenti riordinò lo stato delle cose, togliendo molte gravezze e molti altri perniziosi abusi. Questi altri Capitoli vengono perciò arrolati sotto quella rubrica: De privilegiis, et immunitatibus Civium, burgensium, et aliorum hominum, a Faro citra.

[331]

Il primo e principal beneficio era da tutti reputato di rilevar i popoli dalle tante imposizioni, ond'erano gravati. Perciò egli con particolar editto, da doversi inviolabilmente osservare, statuì e comandò che nelle collette, taglie, pesi, imposizioni generali o speziali, ovvero sovvenzioni di qualsivoglia nome, s'osservi lo stato, l'uso ed il modo, il quale nel tempo del Re Guglielmo II era osservato, secondo che nelle convenzioni avute tra la Sede Appostolica ed il Re suo padre, nel tempo della collazione ad esso fatta del Regno, più pienamente si contiene; il quale stato, modo ed uso, perchè non può costare, essendo che niuno o pochi sopravvivono, li quali possono di ciò rendere testimonianza: ordinò il Principe che s'osservasse quello, che dal Pontefice Martino sarà dichiarato, determinato e disposto; e perchè presto s'ottenesse tal determinazione, promette di mandar tosto al Papa suoi Ambasciadori, dimodochè per tutto il mese di maggio vegnente al più tardi siano là; tra il qual termine gli uomini di qualsivoglia provincia mandino pure due Ambasciadori de' migliori, più ricchi e fedeli di tutta la provincia ad assistere, ed impetrare la suddetta; la quale seguìta, egli promette per parte del Re suo padre e sua, e de' suoi eredi, di inviolabilmente osservare. Di vantaggio da ora rimette totalmente tutti i residui di qualsivoglia colletta, a' quali fossero tenute alcune province e terre, nè di molestarle nemmeno avanti la suddetta determinazione. Promette in fine di non dimandar cos'alcuna; eccetto ne' casi compresi nelle Costituzioni, e che non saranno astretti, nemmeno a titolo di prestanza, non volendo, a prestazione alcuna.

Questa determinazione però non seguì nel tempo [332] del Pontefice Martino, ma sì bene ne' tempi di Papa Onorio suo successore, come diremo; la quale nemmeno ebbe effetto; poichè ne' tempi di Napodano a questi prossimi, non osservavasi niente di ciò, anzi questo Scrittore esclama, che in ciaschedun mese sei collette si esigevano, scorticando gli Ufficiali regi i poveri Regnicoli usque ad sacculum et peram, et tegularum evulsionem[425].

Secondo, ordinò, che si coniasse nuova moneta di buon conio, non gravando perciò i popoli di nuova colletta, ma che si sarebbe data a' Mercadanti e cambiatori, che vorranno spontaneamente riceverla: e che quella non s'altererebbe, ma il suo valore sarebbe stato perpetuo ed immutabile. III. Minorò la pena stabilita per li clandestini omicidi. IV. Volle, che il capitolo statuito per li baroni intorno la libertà de' matrimonj, s'osservasse per tutti indistintamente. V. Che non più s'ammettessero le calunniose accuse dagli Ufficiali della sua Corte. VI. Che tenendo alcuno occupata qualche possessione appartenente alla Corte, non sia di fatto di quella privato, se non prima sarà in giudicio stato convinto con modi legittimi e dalla legge richiesti. VII. Che non siano i Popoli gravati dagli Ufficiali per li servizi della Corte, che non sono convenienti allo stato e grado delle persone. VIII. Che niente si paghi per le soscrizioni delle sentenze, così quelle profferite dalla G. Corte, come da' Tribunali di tutti gli altri Giustizieri e Giudici. IX. Che l'Università non sieno tenute all'emenda de' furti fatti da persone particolari. X. Che l'Università non siano costrette a proprie spese portar il denaro alla Corte, ma a spese [333] della medesima. XI. Che non siano gravate per lo vitto degli Ufficiali, quando si porteranno ivi a regger Corte. XII. Si dà norma, e prescrivesi tassa di quanto debba pagarsi per li diritti delle lettere regie e degli altri atti e spedizioni. XIII. Che gli Ufficiali della Regia Corte non comprino cavalli o muli in quella provincia ove sono, ma se ne provvedano fuori della provincia. XIV. Che le figliuole de' ribelli, che non han seguitato, nè seguitano la paterna malizia, si possano maritare de' beni non feudali senza l'assenso della Corte. XV. Che niente si paghi per lo suggello del Giustiziero o d'altro Ufficiale. XVI. Che i Carcerieri niente più esigano da' carcerati se non quanto fu tassato dal Re Carlo suo padre. XVII. Che l'Ufficio del Maestro Giurato colla Bagliva non s'esponga venale. XVIII. Che non siano molestate nelle loro doti le mogli di coloro, che per le loro colpe furono banditi dal Regno. XIX. Che non si costringa alcuno a riparare i vascelli della Corte per certo prezzo. XX. Che dall'Università delle terre deputate alla reparazione de' castelli, s'esiga solamente tanto denaro, quanto sarà necessario, nè s'obblighino a nuovi edificii. XXI. Che affinchè i fedeli del Regno non siano gravati da' Forastieri, si facciano inquisizioni per trovar i termini antichi delle Foreste, e si pongano i confini alle medesime ed i custodi. Per ultimo, che i Giustizieri delle Regioni non facciano presedere nelle Fiere, i loro famigliari, ma i Maestri Giurati de' luoghi, ove si fanno, debbano custodirle.

Stabiliti in cotal modo questi Capitoli, comandò il Principe Carlo, che insieme colle Costituzioni novelle da suo padre promulgate in Napoli l'anno precedente 1282 s'osservassero inviolabilmente, siccome [334] divenuto Re volle ancora confermargli; e perchè con effetto da ora ciò si mandasse in esecuzione, ne mandò a' Prelati, Baroni ed alle Università de' luoghi più esemplari, perchè per tutto si pubblicassero. Ecco com'egli dice nel fine: Ut autem ea quae communi utilitate sancita sunt, communiter sciantur ab hominibus et generaliter observentur, de eisdem Constitutionibus singulis Praelatis, Baronibus, ac locorum Universitatibus sub sigillo pendenti Vicariae copiam fieri volumus et mandamus. Data in Campis in planitie S. Martini A. D. 1283 die penult. martii undecimae indictionis.

Il Pontefice Onorio IV nell'anno 1285 trascegliendo da questi Capitoli solamente quelli, che facevano a favor delle Chiese e delle persone ecclesiastiche, e della loro immunità, con aver mutate alcune cose, con particolar sua Bolla, mentre Carlo II era prigione in Ispagna, volle pure confermargli comandando, che quelli inviolabilmente s'osservassero. L'original Bolla si conserva nell'Archivio della Trinità della Cava[426]; ed il Re Ferdinando volle nell'anno 1469 farla inserire nella Prammatica 2 de Clericis, seu Diaconis selvaticis, che si legge impressa nel primo tomo delle nostre Prammatiche. Comunemente vengono chiamati anche questi, Capitoli di Papa Onorio, con manifesto errore; poichè questi non sono i Capitoli di Onorio, che fece nel medesimo anno nel tempo della prigionia di Carlo, mentr'era Legato nel Regno il Cardinale di Parma: ma tutto altri, siccome diremo quando de' Capitoli di questo Pontefice nel seguente libro ci toccherà ragionare.

[335]

§. III. Capitoli del Re Carlo II.

Queste furono l'ultime leggi del Principe di Salerno, che stabilì come Vicario del Regno, poichè la sua prigionia gl'interruppe il corso del governo; e morto suo padre, trovandosi egli ancor prigione in Aragona, ne' seguenti anni non si fece altro, per mezzo del Re d'Inghilterra, che trattarsi della sua libertà; finalmente con quelle condizioni, che si diranno nel seguente libro, fu sprigionato e tornato in Italia, fuvvi onorevolmente accolto da Niccolò IV che ad Onorio successe, e nel giorno di Pentecoste a' 29 maggio dell'anno 1289, coronato Re di Sicilia e di Puglia. Partissi da poi dalla Corte del Papa, ed a Napoli fece ritorno, ove con molta festa e magnifiche pompe ricevuto, a' passati disordini tosto pensò dar riparo.

L'ordine de' tempi non comporterebbe, che si dovesse favellar qui de' Capitoli di questo Re, siccome degli altri Angioini suoi successori; ma per non tornar di nuovo a trattare de' Capitoli del Regno, che formano oggi una delle principali parti delle nostre patrie leggi, perciò gli ridurrò qui tutti insieme; e perchè s'abbia ancora un'intera e compita istoria di quelli siccome degli Autori, che con varie note e commenti gl'illustrarono.

Carlo adunque, avendo ne' suoi cinque anni di prigionia sofferto il Regno varie mutazioni e disordini, quando fu a quello restituito, pensò immantinente con nuove leggi a ripararlo. Nel proemio, che a quelle prepone tutto ciò rapporta e narra, che precedente consiglio, e discussione avuta co' Prelati, Conti, Baroni e Sapienti del Regno in Napoli, avea quelle stabilite. [336] Cominciano dal titolo: De inquisitionibus; e per Molti altri titoli seguenti, non ad altro fu inteso, che a regolare i giudizj criminali, e come debbano istituirsi: le pruove, che vi si ricercano: di che vaglia siano i tormenti e le confessioni de' rei: si stabiliscono le pene contro coloro, che portano armi proibite: contro i forgiudicati ed i di loro figliuoli; e contro gli omicidi. In breve, tutto ciò che concerne a' delitti, ed il modo di provargli e di punirgli.

Disbrigato delle cose criminali, passa alle civili. Proibisce di potersi pignorare i buoi aratori[427]. Fa una lodevol legge intorno all'invenzion de' tesori, contraria a quella del Re Guglielmo, volendo, che gl'inventori non siano inquietati, trovandogli nel fondo proprio: se nel comune, o del Fisco, se gli dia la metà: se nell'alieno, niente al Fisco, ma la metà all'inventore, e l'altra al padrone del fondo: dichiarando per tesori non intendere le miniere dell'oro e dell'argento e degli altri metalli, siccome delle saline[428]. Inculca il pagamento delle decime[429]. Stabilisce pene pecuniarie a coloro, che passato l'anno persisteranno nella scomunica[430]. Prescrive il modo a' Feudatari morti, o con testamento, ovvero ab intestato, di statuire il Balio[431]. Provvede alle doti delle donne, e sopra alcuni abusi dà utili provvedimenti[432]. Conferma ancora con nuove leggi tutti i Capitoli, ch'egli fece mentre fu Vicario nel piano di S. Martino, dicendo: Capitula eadem constitutione praesenti in perpetuum valitura, de nostra mera scientia, confirmamus et defectum [337] omnem, si quis eis tunc infuit, qui Regni potestate Vicaria, non Dominica fungebamur, Regis dignitatis authoritate supplemus[433]. E perchè i suoi Popoli apprendessero quanto gli fosse a cuore la giustizia e la riordinazione delle province in miglior e più utile stato, ordina[434], che il Maestro Giustiziero ed i Giudici della G. Corte debbano sei settimane dell'anno scorrere le province da lui destinate, cioè in tutto l'Apruzzo in Terra di Lavoro, e Principato, in Capitanata e Basilicata, in Terra di Bari e Terra d'Otranto. Vuole, che dimorando nelle province inquirano, correggano gli eccessi de' Giustizieri di quelle e de' loro Ufficiali; e parendo loro di doversi ammovere, ne diano a lui distinta notizia per darvi provvidenza.

Per mostrarsi grato a' Conti e Baroni del Regno, proroga i gradi della successione ne' loro Feudi[435]. E per evitare le dissensioni e le querele, che gli erano fatte per conto de' confini de' tenimenti, de' Baroni, delle Chiese e de' privati, ordinò, che da' Registri del suo Archivio, ove si tratta delle confinazioni, se ne formassero due libri, uno ne rimanesse nella sua camera, e l'altro in un gruppo di ferro s'appendesse nella più famosa Chiesa della città[436]. Levò molti abusi intorno all'esazione delle collette; ed in fine fu tutto inteso, perchè i suoi sudditi non fossero gravati indebitamente d'ingiuste esazioni.

Tutti questi Capitoli furono stabiliti in Napoli nel [338] primo anno, ch'egli vi tornò libero: e perciò portano questa data: Data Neap. A. D. 1289.

Oltre di questi, se ne leggono molti altri, sparsi tra quelli del Re Roberto suo successore, fatti negli anni seguenti, come quello, che si legge nella rubrica, Quod in poenis pecuniariis, etc. L'altro sotto il titolo, Quod sit licitum accusatori, etc. L'altro sotto il titolo, Exceptione excommunicationis, etc. ed alcuni altri. Ed in fine quello, che fu da lui pubblicato nel penultimo anno del suo Regno, che si legge tra' Capitoli di Roberto, sotto la rubrica, Literae Domini Regis, che porta questa data: Dat. Neap. per D. Bartolomeum de Capua A. D. 1307 die 12 decembris 11 indict. Regnorum nostrorum anno 22.

Si valse questo Principe in formargli non già d'Andrea d'Isernia, come credette Giovanni Antonio Nigris[437], ma della penna del celebre Giureconsulto Bartolommeo di Capua, Protonotario del Regno, innalzato da lui, e più dal suo successore Roberto a' primi gradi ed onori del Regno.

§. IV. Capitoli del Re Roberto.

Questo Principe, che per la sua saviezza fu riputato un altro Salomone, ci lasciò ancora molte utili e savie leggi: di lui come Vicario di suo padre non ne abbiamo, ma solo quando fu incoronato Re. Il suo figliuolo Carlo Duca di Calabria costituito da lui Vicario del Regno, emulando la sua sapienza e giustizia, ne fece anche alcune in vita del padre. Fabio Montelione [339] da Gerace[438] scrisse, il Re Roberto in tutto il tempo di sua vita non aver fatti più che cinquanta di questi Capitoli; e questo numero veramente si vede nell'edizione vulgata; ma molti altri se ne leggevano nell'originai manuscritto, che, come rapporta de Bottis[439], si conservava a suoi tempi da Baratuccio Avvocato fiscale; ed alcuni altri ne rapporta ancora Goffredo di Gaeta[440] nella sua Lettura a' Riti della regia Camera della Summaria.

Cominciò Roberto a regnare nell'anno 1309, e le prime sue leggi furono eziandio dettate da Bartolommeo di Capua Protonotario del Regno, nel qual posto non solo fu confermato da Roberto, ma ingrandito d'altri onori, come colui, che l'avea così ben servito in Avignone nella famosa contesa che Roberto ebbe col nipote per la successione del Regno.

Fu Bartolommeo creato Logoteta e Protonotario del Regno nell'anno 1285, che fu il primo anno del Regno di Carlo II, e visse con questa gran dignità insino al 1328, anno della sua morte. Ricavasi esser quella accaduta in quest'anno dall'iscrizione del suo tumulo, che prima si leggeva nella maggior chiesa di questa città nella sua cappella, ov'è sepolto; e se bene sin da' tempi, ne' quali scrisse il Summonte[441], questa lapide fosse stata altrove trasferita, si legge però l'iscrizione, oltre nel Summonte, in Cesare d'Engenio[442], e nel Toppi[443], in Pietro Stefano[444], il [340] quale scrisse in tempo, quando non era stata ancora di là tolta, dove fra l'altre cose si leggono queste parole:

Annis sub mille trecentis BIS ET OCTO,

Quem capiat Deus, obiit bene Bartholomaeus.

Ma non è da tralasciare che Pietro Stefano istesso portando in volgare questa iscrizione, traduce queste parole: Annis sub mille trecentis bis et octo, in cotal maniera: Nell'anno mille trecento sedici; donde si diede occasione al Summonte, a Pier Vincenti[445] ed al Toppi, di scrivere anch'essi che Bartolommeo di Capua morisse nel 1316. Ciò che ripugnerebbe a tanti nostri Capitoli, che abbiamo del Re Roberto, istromentati per mano del Gran Protonotario Bartolommeo dopo l'anno suddetto, leggendosene del 1318, 1324 e 1326. Quindi altri[446] interpetrarono in altra guisa quelle parole bis et octo, non già di sedici perchè avrebbesi dovuto dire bis octo, non già bis et octo; ma di ventotto; poichè secondo la goffaggine di que' tempi, al mille aggiungendo i trecento, ed a questi, due e poi altri otto, fanno appunto questo numero di 1328.

I primi Capitoli del Re Roberto sono quelli che istromentati per Bartolommeo di Capua cominciano dal terzo anno del suo Regno. Questi sono il Cap. Robertus etc. Ad quietem publicam, sotto il titolo, Ut Comites, et Barones, etc. stabilito nel terzo anno del Regno di Roberto, dove nella vulgata edizione evvi [341] errore; poichè in vece di leggersi A. D. 1311, si legge 1326 che sarebbe non il terzo, ma il diciottesimo anno del Regno di Roberto. Il Cap. Robertus, etc. Privilegia, sotto il titolo, De oblationibus, privilegio Clericorum, etc. Il Cap. Robertus etc. Pro bono statu, sotto il titolo, De exceptione excommunicationis. Il Cap. Importuna petentis, sotto il titolo, De non creandis Judicibus in perpetuum. Il Cap. Robertus, etc. Ne per exemptionis, sotto il titolo, Quod testes excommunicati debent absolvi ad cautelam, che oggi noi diciamo, cum reincidentia. Il Cap. eodem studio, sotto il titolo, Quod in causis criminalibus, etc. Il Cap. Robertus, etc. Quia nulla legis, sotto il titolo, Quod Justitiarius possit cognoscere de civilibus causis Ecclesiae, etc. Il Cap. Robertus, etc. Nolumus, sotto il titolo, Quod Barones, vel Feuda tenentes, etc. Il Cap. Robertus, etc. Licet contra, sotto il titolo, Quod receptatores pari poena puniri debent, qua et malefactores. Il Cap. Statuimus, sotto il titolo, Quod liceat specialibus personis, etc. Il Cap. Robertus, etc. Frequenter ex abundanti, sotto il titolo, Confirmatio constitutionum per genitorem Regis Roberti editarum. Il Cap. Juris censura, sotto il titolo, Capitulum de arbitrio concesso Officialibus, che siccome a proposito notò De Bottis, fu dato per Bartolommeo di Capua nell'anno 1313. Il Cap. Robertus, etc. Si cum Sceleratis, sotto la rubrica Litera arbitralis, che porta la data del 1313, e l'anno quinto del Regno di Roberto. Il celebre Cap. Ad regale fastigium, sotto il titolo, Quod Justitiarius possit cognoscere de gravaminibus illatis per Praelatos, vel alias Ecclesiasticas personas, istromentato per Bartolommeo di Capua nell'anno 1314 nel sesto anno del Regno di Roberto, come accuratamente e senz'errore [342] notò ivi De Bottis. Il Cap. Robertus, etc. Inter belli discrimina, sotto la rubrica, Capitulum contra exceptionem hosticam, etc. che nell'edizione vulgata porta una data scorrettissima, cioè dell'anno 1416 quando non pur Bartolommeo, ma Roberto, anzi la sua nipote Giovanna ed il suo successore erano morti, onde deve emendarsi e leggersi 1316. Il Cap. Robertus, etc. Pridem, per diversas, che siegue sotto la medesima rubrica. Il Cap. Robertus, etc. Ad consultationem Magistri Justitiarii, sotto il titolo, Quod accusatore desistente, Curia ex officio procedere potest. Il Cap. Robertus, etc. Exercere volentes, sotto il titolo, De componendo. Il Cap. Provisa Juris sanctio, sotto il titolo, Quod latrones, disrobatores stratarum, et piratae omni tempore torqueri possint. Il Cap. Robertus, etc. Quorundam expositio, che si legge tra' Capitoli del Re Carlo II sotto la rubrica, Litera super Justitia retardata. Il Cap. Robertus, etc. Ordinata justitia, sotto il titolo, Quod Bajuli Judices exerceant officia, etc. che fu fatto mentr'era vivo Bartolommeo di Capua, giacchè sopra questo capitolo si leggono le sue note. Il Cap. Robertus, etc. Salubrem statum, ovvero Frequenter ex abundanti, sotto la rubrica, Hoc capitulum est ad confirmationem Capitulorum factorum per Regem Carolum: ed il Cap. Robertus, etc. Alienationis actus, sotto la rubrica, Non est capitulum, sed litera declarans juris ambiguitatem, etc., istromentato pure per Bartolommeo di Capua, A. D. 1326, die 5 Decemb. 10 indict. Regnor. nostr. A. 18.

Questi sono i Capitoli stabiliti dal Re Roberto per tutto l'anno 1326, decimo ottavo del suo Regno, per mano di Bartolommeo di Capua suo Gran Protonotario. Se ne leggono ancora alcuni altri del medesimo [343] Principe; ma poichè riguardano gl'interessi del suo regal patrimonio furono perciò istromentati non dai Protonotarii, ma per li Maestri Razionali, a' quali s'apparteneva la cura delle cose fiscali; poichè, siccome notò assai a proposito Pier Vincenti nel Teatro dei Protonotarii del Regno[447], tale era lo stile sempre praticato eziandio da poi sotto il Regno degli Aragonesi. Questi sono il Cap. Robertus, etc. Novis morbis, sotto il titolo, De compilatione, et compositione rationum Officialium, istromentato in Napoli nel 1317, nono anno del Regno di Roberto per li Maestri Razionali, come si legge nella data: Data Neap. Per Magistros Rationales Magnae Curiae nostrae, A. D. 1317, die 20 Septembris, 1 indict. Regnorum nostrorum anno nono. Il Cap. Robertus, etc. Fiscalium functionum, sotto il titolo, De appretio, et modo faciendis in terris, et locis Regni; che parimente portano questa data: Datum Neap. Per eosdem Magistros Rationales Magnae Curiae, etc. A. D. 1333, die 7 Augusti, 1 indict. Regnorum nostrorum anno vigesimo quinto. Ed il celebre Cap. Apud Fogiam, sotto il titolo, Quid fiet mortuo Barone.

Tutti li Capitoli, che poi leggiamo stabiliti da Roberto, si vedono istromentati per Giovanni Grillo da Salerno Viceprotonotario del Regno, nelle date de' quali occorrono nell'edizione vulgata alcuni errori. Morto Bartolommeo di Capua nell'anno 1328, ancorchè il Re Roberto in vita del medesimo avesse innalzato al sommo onore di Protonotario Giacomo di Capua suo figliuolo con provvisione di 108 once d'oro l'anno, tanto che con esempio nuovo furono veduti in un istesso tempo due [344] Gran Protonotarii; nulladimanco essendo Giacomo premorto al padre, estinto da poi Bartolommeo, carco di gloria e d'anni, questo supremo Ufficio per molto tempo rimase vacante, sin che nell'anno 1343 non fu provvisto nella persona di Ruggiero Sanseverino[448]. Intanto veniva esercitato da' Viceprotonotarii, onde dopo la morte di Bartolommeo, furono un dopo l'altro eletti Nicolò Frezza, Andrea Comino e Giovanni Grillo da Salerno; di quest'ultimo si veggono tutti i seguenti Capitoli del Re Roberto istromentati. I due primi si leggono sotto il titolo, De non procedendo ex officio, nisi in certis casibus, et ad tempus; e portano questa data: Data Neap. per Joan. Grillum de Salerno Juris civilis professorem, Vicesgerentem Protonotarii Regni Siciliae A. D. 1328 (come dee leggersi) die 10 Feb. 12 Indic. Regn. nostrorum anno 20. L'altro si legge sotto il titolo, De indebitatoribus victualium, et usuris, che porta la medesima data, come quello, che fu stabilito nel'istesso anno a' 24 del mese di luglio. Il quarto è il Cap. Ut inter subiectos, sotto il titolo, De prohibita portatione armorum; istromentato per mano del Viceprotonotario Grillo nell'anno seguente, che fu il ventesimo primo del Regno di Roberto; e deve emendarsi la data, che porta la vulgata edizione, ed invece di A. D. 1300 deve leggersi, 1329.

Sieguono da poi tre editti pubblicati da Roberto nell'anno seguente 1330. I due primi nel mese di maggio, ed il terzo in giugno. Il primo è sotto la rubrica: De non componendo super receptatione bannitorum cum Universitate, personisque singularibus. Il secondo ha questo titolo: Tenor secundi edicti, de [345] damnis emendandis per Universitatem. Ed il terzo sotto la rubrica: Tenor tertii edicti, de familia Officialium qualiter esse debent. Portano questi editti le date giuste nell'anno 1330 ventesimosecondo anno del Regno di Roberto. Nel medesimo anno furono stabiliti due altri Capitoli, che si leggono, il primo sotto il titolo, De non componendo super crimine capitali, il secondo sotto l'altro, Quod possit Regis Curia in Terris non jurisdictionis.

Nell'anno seguente 1331 fu da Roberto per mano del Viceprotonotario Grillo stabilito quel famoso capitolo, col quale si proibiva l'estrazione de' carlini d'argento fuori del Regno, che si legge sotto la rubrica: De prohibita extractione carolenorum argenti de Regno; e deve emendarsi la data, ed in vece d'A. D. 1303 deve leggersi 1331 che fu il ventesimoterzo anno del Regno di Roberto.

Nel seguente anno 1332, fu pubblicato per mano del medesimo da Roberto quell'altro famoso editto, col quale per dar rimedio a' frequenti e scandalosi disordini, che in Napoli avvenivano per alcuni ribaldi, i quali sotto pretesto di matrimonio rapivano dalle loro case le vergini, avendo convocate le Piazze della città, proibì sotto severissime pene delitti sì enormi, del quale non si dimenticò il Summonte nella sua istoria, come quello, che contiene i cognomi di molti Nobili de' Seggi di Capuana, Nido, Portanova, del Mercato, di Porto, di Somma Piazza, di Salito, di Arco, e di S. Arcangelo. Si legge sotto la rubrica: Statutum contra Neapolitanos maleficos rapientes virgines sub colore matrimonii; e deve emendarsi la data, ed in vece di Regnorum nostrorum A. 14. leggersi, A. 24.

Nel 1334 furono stabiliti due altri Capitoli; il primo [346] in agosto, ch'è sotto il titolo, De non componendo in delictis corporaliter puniendis; ed il secondo in ottobre, fatto per dichiarazione del medesimo, ch'e sotto la rubrica: De declaratione constitutionis prohibentis compositionem in criminalibus. Ambedue nella vulgata edizione portano giuste date, come quelle che esattamente notano l'anno ventesimosesto del Regno di Roberto.

Nell'anno seguente 1335 furono dal Re Roberto per Giacomo Grillo suo Viceprotonotario emanati cinque famosi e celebri editti. Il primo in gennaio di quest'anno, che si legge sotto il titolo, De revocatione occupatorum demanii regii ad ipsum demanium, deve correggersi la data, e leggersi: Data Neap. per Jo. Grillum A. D. 1335 die 16 januar. 3 indict. Regnorum nostrorum anno 27 non 26 come si legge nella vulgata. Il secondo sotto il medesimo mese ed anno, ch'è sotto il titolo: De pecunia Fiscali non tenenda per Officiales post amotionem ab officio: dove parimente deve la data correggersi e leggersi: Regnorum nostrorum A. 27. Il terzo si legge sotto la rubrica: De non recipiendis vassallis demanii in Terris Baronum. Il quarto sotto il titolo: Quod Clerici conjugati solvant collectas regias; ed il quinto sotto il titolo, Quod non extrahantur lignamina extra Regnum.

Sieguono da poi que' famosi Capitoli, donde alla violenza degli Ecclesiastici si dà riparo. Questi Capitoli, che volgarmente chiamiamo Rimedii, ovvero Conservatoriali, sono quattro. Il primo fu stabilito da Roberto in tempo che vivea il famoso Giureconsulto Bartolommeo di Capua, e da lui come Protonotario del Regno istromentato: comincia Ad regale fastigium, e fu da noi di sopra notato. Sieguono ora i tre altri [347] pubblicati appresso. Il secondo comincia: Charitatis affectus, drizzato da Roberto a' Giustizieri d'Apruzzo ultra flumen Piscariae, e si legge sotto la rubrica Conservatorium pro laico contra clericum. Il terzo comincia: Finis praecepti charitas, drizzato a' Giustizieri di Val di Crate e Terra Giordana, e si legge sotto la rubrica: Conservatorium pro clerico contra clericum. Ed il quarto, che fu indrizzato al Reggente della Vicaria ed a' suoi Giudici, comincia: Omnis praedatio, e si legge sotto il titolo, De spoliatis pro laico contra clericum. Di questi Capitoli ci tornerà a noi occasione di diffusamente ragionare ne' seguenti libri, quando del Regno e della giustizia e sapienza di Roberto dovremo favellare; siccome delle Quattro lettere arbitrarie, che parimente riconoscono per Autore questo Principe, e che fra questi Capitoli l'abbiam semplicemente accennate.

Finalmente abbiamo di Roberto quell'altro suo famoso capitolo, col quale si prende cura e pensiero della riforma dell'Accademia napoletana; comincia: Grande fuit, e si legge sotto il titolo: De reformatione Studii Neapolitani, et interdicendo particulares Scholas in utroque jure ubilibet infra Regnum. Quell'altro capitolo che comincia, Pondus aequum, e che comunemente viene attribuito alla Regina Giovanna sua nipote, leggendosi sotto questa rubrica, Litera Reginae Joannae, credette De Bottis, che sia pure del Re Roberto, e testifica egli aver nel registro trovato concepito il principio del medesimo in cotal guisa: Robertus, etc. Justitiariis Principatus ultra Serras Montorii praesentibus et futuris, etc.

Nè dobbiam tralasciare un altro editto di Roberto, col quale fu proibito a' Chierici il portar armi, li [348] quali, dopo essere stati tre volte ammoniti, se non si emenderanno, ordinò che fossero loro tolte. Non l'abbiamo tra questi Capitoli, ma sibbene tra le nostre prammatiche[449]. E se ora vediamo il contrario praticarsi, è parte abuso, parte perchè in processo di tempo fu accordata a' Vescovi la famiglia armata, di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.

Questi sono i cinquanta Capitoli del Re Roberto, che abbiamo impressi nel corpo delle leggi del Regno, e che hanno presso di noi ne' Tribunali della città e del Regno tutta l'autorità e tutto il vigore; e tutto ciò che per le posteriori leggi non si trova corretto, o mandato in disuso, dobbiamo inviolabilmente osservare.

Sieguono ora i Capitoli del Duca di Calabria suo figliuolo, che fece mentre da suo padre gli fu dato il governo del Regno, creandolo suo Generale Vicario.

§. V. Capitoli di Carlo Duca di Calabria Vicario del Regno.

Re Roberto, convenendogli di portarsi ora in Provenza, ora in Fiorenza o Genova, e sovente all'impresa di Sicilia, vedendo in Carlo suo figliuolo risplendere molte virtù, e sopra tutto la religione, la giustizia e la prudenza, quasi dall'adolescenza gli pose il governo di tutto il Regno in mano, creandolo suo General Vicario; ed egli adempì così bene, e con tanta lode e prudenza le sue parti, che il Re suo padre ne vivea sommamente soddisfatto. Egli pose in maggiore splendore e floridezza il Tribunale della Vicaria, [349] creandovi per M. Giustiziere Filippo Sanguineto con provvisione di 150 once d'oro l'anno, assegnando ancora 90 once l'anno per istipendio di dieci uomini a cavallo e sedici a piedi per guardia e per maggior decoro di questo Tribunale[450]. Ebbe in costume ogni anno cavalcare per lo Regno per riconoscere le gravezze che facevano i Baroni ed i Ministri del Re a' popoli. E per mezzo di varii editti, che abbiamo inseriti tra' Capitoli del Re Roberto suo padre, diede savio provvedimento a molte cose riguardanti il buon governo del Regno e retta amministrazione della giustizia, della quale fu egli amantissimo.

Il primo de' suoi Capitoli si legge contro i Baroni ed altri recettatori di sbanditi e d'altri uomini facinorosi, che turbavano la pace del Regno, imponendo loro pena di morte e della perdita de' loro beni: fu questo drizzato al Giustiziere di Terra d'Otranto, ed istromentato per Bartolommeo di Capua, di cui, sopra il medesimo, abbiamo ancora alcune note, e porta la data, apud Hospitale Montis Virginis, Santuario allora reso assai celebre in Terra di Lavoro per la magnificenza e pietà de' Re angioini, dove sovente facevan dimora.

Il secondo, pure istromentato per Bartolommeo di Capua, è il celebre Cap. Ex praesumptuosae, che leggiamo sotto la rubrica: Quod Feudatario decedente absque legitima prole, possessio Feudi usque ad anni circulum in modum sequestri stet penes Fiscum. L'Autore di questo Capitolo fu Carlo II suo avo; ma poichè insino ad ora non era stato pubblicato, Carlo suo [350] nipote per mezzo di questo suo editto ordinò, che quello si divulgasse, e che tenacemente si osservasse.

Sieguono tre altre sue Costituzioni dettate anche per Bartolommeo di Capua riguardanti il tempo ed il modo di darsi il Sindacato degli Ufficiali, che si leggono sotto la rubrica: Quod tempus syndicationis non labatur, donec acta sint compilata et assignata.

Ne sieguono appresso quattro altre, la prima comincia: Legem veterem Digestorum; la seconda: Voluntas libera; la terza: In forma sigilli; e la quarta: Accusatorum temeritas; tutte istromentate per Bartolommeo di Capua; e portano questa data: Dat. Neap. per Bar. de Capua. etc. A. D. 1324 die 8 febr. 7 indict. Regnorum Domini patris nostri anno 15.

Abbiamo un altro Capitolo di questo Duca tra quelli della Regina Giovanna, stabilito per lo Vescovo di Chieti in una lite che tenea con Roberto Morello, che comincia: Carolus illustris, etc. Ne personarum casu, etc. Fu parimente dettato da Bartolommeo di Capua nel mese di settembre dell'anno 1322.

Tra' riti della G. Corte della Vicaria si legge eziandio un altro Capitolo di Carlo, che comincia: Detestantes, sotto la rubrica, De supplendis defectibus causarum, drizzato a Giovanni de Aja, Reggente della G. Corte, e porta questa data: Dat. Neap. A. D. 1320 die 28 Decembris 3 indict. Regnorum dicti Domini patris nostri, anno 11.

Pure fra' Capitoli del medesimo se ne legge uno istromentato per li Maestri Razionali: si tratta in quello di cose fiscali attinenti al regal patrimonio, come di falsa moneta, fu fatto contro coloro che falsificavano i gigliati ed i carlini, e per questa ragione nella data [351] non si legge il nome del Protonotario o Viceprotonotario, ma solo: Data per Magistros Rationales. Comincia: Carolus illustris, etc. Jam saepe, ed è sotto il titolo: De demolientibus et falsantibus Liliatos, Carolenos et incidentibus.

(Questi Gigliati, de' quali il Boccaccio, come moneta d'argento del Regno a' suoi tempi usitatissima, fa memoria, furono così chiamati da' gigli ivi impressi, siccome vedesi nel libro delle Monete del Regno di Napoli del Vergara Tavola 10, n. 7, e Tavola 11, n. 5, e ragguagliava il lor valore a quello del carlino).

Questi sono i Capitoli, che ci lasciò questo savio e giusto Principe, il quale essendo nell'anno 1328 premorto all'infelice padre; nè tenendo Roberto altro maschio, a chi insieme col titolo di Duca di Calabria avesse potuto conferire la carica di Vicario del Regno, riprese egli il governo del medesimo; e come abbiam veduto, molti altri Capitoli per mano del Viceprotonotario G. Grillo stabilì, insino che nel 1343 essendo morto senza maschi, lasciò il Regno a Giovanna I. sua nipote figliuola di Carlo: origine, che fu di molti disordini e confusioni nel Regno, tanto che così ella, come i suoi successori, regnando in continue agitazioni e sempre in mezzo alle armi, non poterono pensare alle leggi. Per questa cagione della Regina Giovanna non abbiamo se non che pochi suoi Capitoli, rifatti per gli Ufficiali, e buono stato del Regno, non che intendesse per quegli stabilir cose nuove, come ella stessa lo dice: Condita sunt Capitula infrascripta modica, et quasi nulla statuentia nova. Sed solum rememorantia, et reformantia jura antiqua et Capitula, quae per abusum malorum Officialium minime fuerunt [352] observata modernis temporibus[451]. E degli altri Re angioini suoi successori, toltone quel celebre Capitolo di Ladislao, dove proibisce a' Notari vassalli stipulare istromenti de' loro Baroni; ed un altro della Regina Isabella come Vicaria del Regno, lasciata dal Re Renato suo marito, che si legge tra' Riti della G. Corte della Vicaria, non abbiamo legge o costituzione alcuna.

Ecco di quali leggi si compone il volume, che ora noi chiamiamo de' Capitoli del Regno; ecco i loro autori: Carlo I, Carlo II, Roberto, Carlo suo figliuolo, e Giovanna, uno di Ladislao, ed un altro d'Isabella.

Sin da che furono pubblicati, ebbero chi con note, e chi finalmente con pieni commentarii gl'illustrasse. Il primo fu Bartolommeo da Capua, che vi fece alcune picciole note. Giovanni Grillo da Salerno, anche famoso Giureconsulto di que' tempi, che dopo la morte di Bartolommeo fu Viceprotonotario del Regno. Il celebre Andrea d'Isernia pur vi fece alcune note. Nel Regno di Giovanna I. Sebastiano Napodano e Nicolò da Napoli; Sergio Donnorso, che fu M. Razionale della G. Corte e Viceprotonotario[452], e Luca di Penna, anche vi notarono alcune cose. Seguirono da poi a far il medesimo Nicolò Superanzio, Pietro Piccolo da Monforte, Gio. Crispano Vescovo di Chieti, Fabio Giordano, Gio. Angelo Pisanello, Marc'Antonio Polverino, ed il Regio Consigliere Giacopo Anello De Bottis. Finalmente, per tralasciarne alcuni che vi fecero picciolissime note di niun momento, Gio. Antonio De Nigris di Campagna, città posta nel Principato citra, non ignobile Giureconsulto, negli ultimi tempi di [353] Carlo V, e propriamente nell'anno 1546 alle note di Bartolommeo di Capua, di Sebastiano e Nicolò di Napoli, e di Luca di Penna, aggiunse i suoi più diffusi commentarii.

FINE DEL LIBRO VENTESIMO.

[354]

STORIA CIVILE
DEL
REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOPRIMO

La morte del Re Carlo I accaduta in Foggia nel cominciar del nuovo anno 1285 siccome fu opportuna al Re Pietro d'Aragona, non solo per averlo stabilito nel Regno di Sicilia, ma anche per avergli tolto il pericolo dì perdere i suoi paterni Regni, invasi da Filippo Re di Francia, così fu acerba e lagrimevole al Regno di Puglia, ed al Principe Carlo suo figliuolo: poichè rimase il Regno non solo esposto all'invasione di Ruggiero di Loria, il quale avendo preso Cotrone e Catanzaro, ed alcuni altri luoghi di quella provincia, minacciava le altre vicine regioni: ma anche perchè si vide senza Re e senza governo, per la cattività del Principe di Salerno, che dovea succedere al Regno, il quale era ritenuto prigione in Spagna. Essendovi per tanto sol rimasa l'infelice Principessa Maria sua moglie, con Carlo Martello primogenito del Principe, che allora non avea più che tredici anni: il Pontefice Martino per profittare dell'occasione, vi rimandò subito Gerardo Cardinal di Parma Legato appostolico, perchè insieme [355] colla Principessa lo governasse. Ma Filippo Re di Francia dolorosissimo della morte del Re suo zio, dubitando che la compagnia del Legato con una donna, ed un fanciullo, non recasse pregiudizio alle supreme regalie del Principe, vi spedì tosto Roberto Conte di Artois suo figliuolo[453], perchè avesse cura della Casa regale, e prendesse egli il governo del Regno. Contuttociò per lo bisogno, che s'avea allora del Pontefice, e per l'accuratezza del Legato, non ne fu questi escluso; anzi seppe far valer tanto la sua autorità, che fatto convocare in quest'istesso anno un Parlamento in Melfi di molti Prelati e Baroni, stabilì alcuni Capitoli[454] per lo buon governo del medesimo, per dovergli conferire col Pontefice Martino, affinchè confermati da costui, si fossero poi pubblicati, e fatti osservare nel Regno come sue leggi, come diremo.

Intanto Re Pietro, vedendosi per la morte di Carlo, sicuro del Regno di Sicilia andò subito colle forze siciliane ad opporsi in Aragona al vittorioso Re di Francia, il quale avea già preso Perpignano, Girona e molte altre terre di quel Regno, per acquistarlo a Carlo di Valois suo figliuolo secondogenito, che n'avea avuto il titolo e l'investitura dalla Chiesa romana; e benchè si trovasse con forze assai dispari, per lo grandissimo ardir suo naturale, accresciuto dal favor della fortuna sino a quel dì, volle attaccar la battaglia; ma rotto il suo esercito, ed egli rimasto ferito, a gran pena ritirandosi, si salvò a Villafranca, dove di là a pochi giorni, a' 6 ottobre di quest'anno 1285, trapassò. Re certo dignissimo di lode e di [356] memoria eterna: poichè con pochissime forze, coll'arte e con l'industria, solo difese da due Re potentissimi, e da un Papa acerbissimo nemico, due Regni tanto distanti l'uno dall'altro, trovandosi sempre pronto colla persona ove il bisogno richiedeva che fosse. Di lui rimasero quattro figliuoli maschi, Alfonso, Giacomo, Federico e Pietro, e due femmine, Isabella e Violante. Ad Alfonso lasciò il Regno d'Aragona, ed a Giacomo quel di Sicilia, con condizione, che se Alfonso moriva senza figliuoli, Giacomo gli succedesse in quel Regno e nella Sicilia.

Certamente il Regno d'Aragona, per la morte di Re Pietro, sarebbe venuto in mano de' Franzesi se non l'avesse salvato da una parte una gravissima pestilenzia, che venne all'esercito del Re di Francia; e dall'altra, la gran virtù di Ruggiero di Loria, il quale, fin dentro il Porto di Roses, andò a bruciare l'armata franzese, dopo l'incendio della quale fu costretto Re Filippo di ritirarsi a Perpignano, per aver perduta la comodità delle vettovaglie, che gli somministrava l'armata; ed infermato in Perpignano, passò di questa vita quest'anno a' 23 di settembre, e gli succedè Filippo il Bello suo figliuolo.

Fu quest'anno anche lugubre, per la morte di Papa Martino, il quale a' 28 di marzo 1285[455] morì in Perugia, e tosto in suo luogo fu rifatto Onorio IV romano, della nobilissima famiglia Savelli.

Papa Onorio calcando l'orme del suo predecessore, ancorchè italiano, fu tutto inteso a favorire la Casa d'Angiò, e nell'istesso tempo, per mezzo del Legato Girardo fece provvedere a' bisogni del vedovo Regno; [357] e perchè il Conte d'Artois, il quale avendo intesa la morte del Re Pietro, e che per testamento avea lasciati divisi i Regni, era entrato in isperanza di ricovrar la Sicilia di mano del Re Giacomo, onde avea tutti i suoi pensieri a quell'impresa rivolti; volle ancor Onorio profittando dell'occasione intrigarsi nel governo civile del Regno, ed a provvederlo di nuove leggi conformi alli desiderj de' Baroni, ed universalmente di tutti i Regnicoli; ma più d'ogni altro a ristabilire i privilegi ed immunità delle persone ecclesiastiche di quello. A questo fine con una sua particolar Bolla spedita a' 17 settembre di quest'anno 1285 confermò que' Capitoli, che Carlo Principe di Salerno mentr'era Vicario del Regno statuì nel Piano di S. Martino; ma que' soli che riguardavano l'immunità e privilegi degli Ecclesiastici, la qual Bolla, esemplata dal suo originale, che si conserva nell'Archivio della Trinità della Cava, si trova anche inserita da Ferdinando I d'Aragona nelle nostre prammatiche, ed è tutto altra, come si disse, di quella, della quale saremo ora a ragionare.

CAPITOLO I. De' Capitoli di Papa Onorio IV, e qual uso ed autorità ebbero nel Regno.

Chiunque considererà lo stato lagrimevole, nel quale per le avversità del Re Carlo I, e per la prigionia del Principe suo figliuolo, erasi ridotto questo Reame, non si maraviglierà come il Pontefice Onorio abbia potuto innalzar tanto la sua autorità sopra il medesimo, sicchè [358] a suo arbitrio si vegga impor leggi non pure ai nostri Baroni e ad altri Regnicoli, ma a' Regi stessi, trattandogli come suoi sudditi e veri vassalli. Il bisogno che s'avea in questi tempi cotanto a loro avversi, de' Pontefici romani, fece, che il Principe Carlo mentr'era Vicario del Regno si ponesse sotto la protezione del Pontefice Martino, allora vivente, al quale diede ampio potere di regolare il governo di quello, e di rimettere a lui lo stabilimento, ed il modo intorno all'esazion delle collette, e di ridurle conforme a' tempi del buon Re Guglielmo, e di dar sesto alle gravezze de' suoi sudditi. Il Cardinal di Parma fece dal canto suo quanto potè, ma non finì di perfezionare l'opera con Martino, come fece poi col Pontefice Onorio, il quale pose mano non solo a stabilir il modo di quest'esazione, ma diede molti regolamenti intorno ad altre più gravi e rilevanti cose, alla succession feudale, e sopra altri punti non appartenenti, che al supremo imperio del Principe.

L'origine però di tali intraprese deve riportarsi più indietro, cioè a quelle gravi e pesanti condizioni apposte nell'investitura, che Papa Clemente IV fece del Regno a Carlo I. Questo Principe mentre durò la sua prospera fortuna, non si curò molto d'osservarle, ed intorno alle esazioni delle collette e delle altre sovvenzioni continuò, siccome le ritrovò in tempo del Re Manfredi; anzi per essere un Principe assai diligente in conservare le sue ragioni fiscali, mostrò maggior acerbità, che gli altri suoi predecessori. Ma sopravvenute da poi le disgrazie di Sicilia, allora il Principe di Salerno suo figliuolo per acquistar benevolenza da' sudditi, in que' Capitoli stabiliti nel Piano di S. Martino, ordinò che tal esazione dovesse ridursi [359] conforme a' tempi del buon Guglielmo; ma poichè non vi era chi di tal uso e modo potesse render testimonianza, fu rimesso, come si disse, al Pontefice Martino allora vivente, che dovesse stabilirlo con sentire i Sindici delle città e delle terre, che l'informassero dello stato delle loro Comunità.

Il Pontefice Martino per la morte accaduta del Re Carlo, e per la prigionia del Principe di Salerno, rimandò subito il Cardinal di Parma suo Legato in Napoli. Questi appena giunto, pensò prima d'ogni altra cosa vantaggiare l'ordine ecclesiastico; onde fece convocare in Melfi i Prelati del Regno, e nel dì 28 marzo dell'anno 1285 nel quarto anno del Ponteficato di Martino stabilì alcuni Capitoli riguardanti il favore della giurisdizione ed immunità ecclesiastica, che procurò ampliare quanto più potesse[456]. E questi Capitoli nè da Onorio, nè da Martino furono confermati, perchè fatti dal Cardinal Gerardo nel tempo istesso, che morì Martino; ond'è, che allegandosi alle volte da Matteo d'Afflitto[457] si nominano Capitoli di Gerardo, come si vede nella costituzione praesente, ove n'allega uno ex Capitulis Gerardi, che comincia: Capientes Ecclesiarum et locorum, etc.[458]. Questi Capitoli di Gerardo è da credere, che nell'età d'Afflitto si leggessero M. S. poichè non vi è notizia, che si [360] fossero mai impressi, e che poi di loro si fosse perduto ogni vestigio, come inutili: o tanto più fecer quelli sparire i Capitoli di Onorio, per li quali fur dati più accurati e numerosi regolamenti.

Ma essendo da poi sopraggiunto in Napoli il Conte d'Artois mandato dal Re di Francia, perchè come Balio governasse egli la Casa ed il Regno del Principe suo cugino: il Legato seppe far tanto, che non fu escluso affatto dal governo, anzi la sua accortezza e più il bisogno, che s'avea allora del Pontefice, fecero, che insieme colla Principessa Maria ed il Conte lo governasse. Ma questi distratto dalle cose militari, per la guerra che ardea allora per la ricuperazione della Sicilia, non potè badar molto al governo civile e politico; onde morto il Pontefice Martino, e rifatto Onorio in suo luogo, si pose costui colle istruzioni del Legato Gerardo a stabilire nuovi Capitoli, che sono i veri Capitoli di Papa Onorio.

Nel che son da notare i vari errori, che presero i nostri Dottori intorno all'Istoria di questi Capitoli, de' quali non fu nemmeno esente l'istesso Reggente Moles[459], che con più accuratezza di tutti gli altri ne scrisse; poichè e' credette, che il Conte d'Artois fosse stato costituito Balio del Regno da Onorio, affinchè insieme col Cardinal di Parma lo governasse, e che perciò questi Capitoli fossero stati drizzati da Onorio così all'uno, come all'altro. Più gravi furono gli errori del Reggente Gio. Francesco Marciano[460], il quale scrisse, che il Principe di Salerno, mentr'era Vicario, mandasse a supplicare il Pontefice Martino, [361] che gli inviasse un Legato appostolico, perchè riformasse lo stato del Regno, e lo riducesse, siccome era nel tempo del Re Guglielmo, e che perciò gli mandasse il Cardinal di Parma; quando tal riforma dovea farsi dove risedeva il Papa, ove perciò avea il Principe comandato, che si mandassero i Sindici delle terre. Questo Cardinale fu mandato prima in Sicilia per accorrere a quella rivoluzione, e da poi portossi in Napoli. Ma dopo la prigionia del Principe, ed il ritorno di Carlo I da Francia, il Cardinale erasi portato dal Papa; e fu mandato dal Pontefice Martino di nuovo quando intese la morte del Re Carlo, affinchè assumesse il governo del Regno; ed allora avendo intese le querele de' Regnicoli intorno all'esazione delle collette ed i desideri de' Baroni, perchè s'allargassero i gradi della successione feudale; di tutto ciò ne fece con varie istruzioni ed informazioni partecipe il Pontefice Martino, acciocchè vi dasse rimedio, e gli mandò ancora que' Capitoli, che il Principe di Salerno avea stabiliti nel Piano di S. Martino. Ma il Papa sopraggiunto dalla morte, non potè far niente; onde rifatto in suo luogo Onorio, questi trovandosi allora a Tivoli a' 17 di settembre di quest'anno 1285 con una particolar sua Bolla confermò que' Capitoli fatti da Carlo nel Piano di S. Martino, attenenti al favore dell'immunità ecclesiastica, che, come si è detto, sta inserita nelle nostre prammatiche, e nel medesimo dì stabilì questi nuovi Capitoli, li quali mandò al Cardinal di Parma suo Legato, che sono i veri Capitoli di Papa Onorio; perchè quelli confermati da lui nella Bolla, che si legge nelle nostre prammatiche, non sono suoi, ma di Carlo Principe di Salerno.

I Capitoli, che dal Pontefice Onorio furono con tal [362] occasione stabiliti, furono molti, parte riguardanti il modo per l'esazione delle collette, parte in favor dei Baroni, e parte in beneficio universale del Regno; poichè intorno alla libertà e favore dell'Ordine ecclesiastico avea egli provveduto a bastanza colla conferma, che fece de' Capitoli del Principe di Salerno.

Intorno all'esazione delle collette, stabilì, che in quattro soli casi fosse lecito al Re d'imporle a' suoi sudditi: ciò ch'eccedeva il potere, che gli fu dato dal Principe di Salerno, il quale solamente gli commise, che dovesse riformare, non stabilire i casi ove potesse imporgli: i casi erano questi: I. Per difesa del Regno, se accadesse esser quello invaso, ovvero se accaderà ribellione, o guerra civile permanente, e non simulata. II. Se accaderà doversi riscattare la persona del Re da mano de' nemici, ne' quali due casi stabilisce la somma di 50 mila once d'oro. III. Quando accaderà, che il Re voglia armarsi col cingolo militare, ovvero suo fratello, o alcuno de' suoi figliuoli, nel che vuole, che l'esazione non trapassi la somma di 12 mila once. IV. Per maritar sua figliuola, o sorella, o alcuna delle sue nipoti descendenti per linea retta: stabilendo la somma di 15 mila once. Ed in tutti questi casi, che una sola volta l'anno, e non più potessero imporsi, se non quando il bisogno, o altre circostanze da conoscersi da lui, non ricercassero altrimenti.

Stabilì ancora molti altri Capitoli riguardanti la mutazione delle monete, omicidi e furti, che debba il Re astenersi dall'alienazione de' demaniali del Regno. Tolsegli ancora la facoltà contro i feudatarii, che tengono feudi piani: che i matrimonj debbano esser liberi, togliendo l'assenso del Re, che prima si ricercava [363] in quegli de' Baroni. Diede ancora molti altri provvedimenti intorno a' rilevi, adoe, ed altri adiutorii da prestarsi da' Baroni al Re: ampliò la successione feudale a beneficio de' Baroni: che il jus Francorum abbia luogo non meno nella successione de' figliuoli, che de' fratelli. Provvide intorno all'elezione degli Ufficiali, e diede altri regolamenti sopra diversi capi, che oltre di leggersi nella sua Bolla, possono vedersi presso il Vescovo Liparulo[461], e Gio. Francesco Marciano[462].

Questi Capitoli, testifica il Reggente Moles[463], che furono lungamente conservati nell'Archivio regio, ed allegati come leggi da' nostri Professori. Il Reggente Marciano[464] anche attesta, che un autentico transunto de' medesimi si conserva nell'Archivio della Trinità della Cava insieme coll'original Bolla di Papa Onorio fatta in confermazione de' Capitoli del Principe di Salerno nel Piano di S. Martino; ed il Reggente Moles[465] dice da quell'Archivio averne egli avuta una copia estratta da quella original Bolla[466]. E narra Giovanni Francesco Marciano, che il Reggente Moles ed il Consigliere Orazio Marchese, per aver copia così di detta Bolla, come de' suddetti Capitoli, mandarono Marcello Marciano suo padre, allora Avvocato, in quel monastero per estrarla, come fece; e che que' due celebri Giureconsulti a' suddetti Capitoli v'aveano fatto un pieno Commentario per darlo alle stampe. Ma che [364] essendosi mandato il libro in Casa del Consigliere Gizzarello destinato alla revisione de' libri, essendo una notte accaduto un incendio nella libreria di quel Consigliere, restò quello bruciato con tutti gli altri libri. E così ciò, che in tanti giorni, con tanti sudori e vigilie erasi fatto, una sola notte tolse ed estinse.

Noi abbiamo avuta la sorte d'aver in mano un antico Camerario, che fu di Marcello Marciano, dove evvi questa copia MS. ch'egli estrasse dall'Archivio della Cava, la quale avendola noi riscontrata coll'originale, che ivi si conserva, abbiam reputato farla qui imprimere, essendo conforme a quella, che Rainaldo[467] impresse ne' suoi Annali, ch'e' dice aver estratta dall'Archivio del Vaticano.

Capitula Papae Honorii.

Honorius Episcopus Servus Servorum Dei ad perpetuam rei memoriam. Justitia et pax complexae sunt se, ita societate indissolubili societae tuentur, sic se comitatu individuo comitantur, ut una sine altera plane non possit haberi, et qui laedit alterutram, pariter offendant utramque. Hinc complexus earum graviter impeditur injuriis, per eas etenim laesa Justitia, Pax turbatur, ipsaque turbata, facile in guerrarum discrimina labitur. Quibus invalescentibus justitia inefficax redditur, dum et debitum sortiri nequit effectum: sicque ipsa sublata, nimirum pax, tollitur opus ejus, et ipsius fructus [365] subducitur seminandus in pace, ac proinde complexis deficientibus, necessario deficit et complexus, in horum vero defectu licentia laxata dissidiis multiplicantur bella, pericula subeunt, animarum, et corporum crimina frequentantur. Nec rerum vastitas praeteritur. Haec in praesidentium injuriosis processibus, et inductarum in subditos oppressionum excessibus patent apertius, et evidentius ostenduntur. In quorum multiplicatione sauciantur corda laesorum; et quantominus datur opportunitas licite propulsandi, quae illicite inseruntur, tanto rancor altius radicatur interius, et periculosius prorumpit exterius opportunitate concessa. Fiunt enim plerumque hostes ex subditis, transeunt auxilia securitatis in metum, munitiones in formidinem convertuntur, nutant Regnantium Solia, redundant Regna periculis intestinis, quatiuntur insidiis, extrinsecis insultibus impetuntur audacius, et regnantes in eis, qui operantes justitiam exaltationis gloriam merentur, humiliati propter injustitias frequenter in opprobrium dejectionis incurrunt. In praemissis etsi scripturae nos instruant, efficacius tamen notis docemur exemplis. Quantis enim tempore, quo Friderici olim Romanorum Imperatoris propter illatas Regnicolis afflictiones illicitas, et oppressiones indebitas in Regno Siciliae non absque immensitate gravaminum inductas ab ipso, Regnum ipsum tempestatibus fluctuarit; quot, et quantis rebellionibus concussum extiterit, quot invasionibus attentatum, quantum per ipsum, et posteros suos depauperatum opibus; quot incolarum exiliis, et stragibus diminutum, nullum fere angulum Orbis latet; quam praecipiti Fridericus idem, et genus ipsius ruina corruerunt probat notorius casus ejus, et manifestum eorumdem exterminium posterorum. Verum adeo Friderici [366] ejusdem in dictis continuata, et aucta posteris, ac in alios exemplari derivatione transfusa processit iniquitas, quod per eum inventa gravamina usque ad haec tempora duravisse, nec non et augumentata dicuntur aliqua eorundem, et adjecta nihilominus alia non minora; propter quod nonnullorum supponit opinio, quod clarae memoriae C. Regem Siciliae, quem prosecutionis dictorum gravaminum eorumdem Friderici, et posterorum perniciosa exempla fecerunt saltem permissione participem, dum opinaretur forsitan licita, quae ab illis audiverat tam longis temporibus usurpata: reddiderunt etiam praedictorum consequentium ad illa discriminum non prorsus expertem, prout Siculorum rebellio multis onusta periculis, aliorumque ipsam foventium persecutio manifestant non solum in ejusdem Regis, ac haeredum suorum grave adeo excitatae discrimine, quod ipsis haeredibus, nisi per nos celerius occurratur, praetactorum subductione gravaminum instans perditionis totius dicti Regni periculum comminantur; sed et in grande nostrorum, et Ecclesiae Romanae dispendium prorogatae: cum sit per eas in Siciliae Insula, et in nonnullis aliis ejusdem Regni partibus ipsarum incolis, nec nobis, nec Ecclesiae ipsi parentibus, sed adhaerentibus potius inimicis, nostra, et ipsius Ecclesiae civilis interversa possessio, et in caeterarum aliquibus turbata frequentius, et turbetur. Ex quo datur patenter intelligi quantum in iis nostrum, et Ecclesiae praefatae interesse versetur, quantumque ad nostrum spectet officium, et haeredum ipsorum praecipue necessitas exigat, non tantum praemissis obortis in eodem Regno, quod est ipsius Ecclesiae speciale, tanquam ad jus, et proprietatem, ejus pertinens, dictisque Regi, et haeredibus in feudum ab ipsa concessum [367] obviare periculis. Sed etiam ne similia oriantur in posterum, diligentem curam, et curiosam diligentiam adhibere, praetacta gravamina eorundem periculorum, ut veritati concurrat expressio manifestas occasiones et causas congruae provisionis beneficio abrogando. Cum proprietatis Domino praedium, in quo est jus alii constitutum pro eo, quod sua interest tueri fines ipsius, custodire liceat, eo etiam cui jus debetur invito, custodiae autem nomen id habeat, quod qui tenetur ad eam, non solum id debeat, ut si casu viderit in re custodienda fieri quid adversum prohibeat facientem, verum etiam ut curet dare operam, ne id fiat. Multiplex itaque nos ratio interpellat, et exigit, illud in hujusmodi gravaminibus, super quibus fama publica, et variae inquisitiones per Venerabilem fratrem nostrum Gerardum Sabinensem Episcopum Apostolicae Sedis Legatum factae de speciali mandato Sedis ipsius, et indagationes alias habitae nos informant, nostrae provisionis edicto remedium adhiberi, per quod injustis submotis oneribus circa ea in Regno praefato solidi stabilita justitia, Regium Solium firmet, pacis tranquilla producat, sitque inibi publice tranquillitatis silentium cultus ejus, et ipsa vinculum societatis humanae. Sic superiorem populo sibi subjecto domesticet, eique ipsius populi corda consolidet, qui superior insidiarum sollicitudine absolutus securitatis jucunditate laetetur, populos pressuris indebitis liberatus in pacis pulcritudine sedeat, et in requie opulenta quiescat, et in unanimitate ipsorum, ac mutuo sinceritatis affectu ejusdem Regni statu roborato pacifico, non sic, profligatis hostibus, qui foris exterreat, aut qui pacatis incolarum ejusdem animis intus turbet; instantiae quoque praemissae interpellationis non modicum adjicit, [368] quod memorati Regis, dum viveret, et dilecti filii nobilis viri C. sui primogeniti ex eo manifeste percepimus ad id, quo vota concurrere, quod idem Rex super directione, ordinatione, reformatione, seu quacumque alia dispositione collectarum, exactionum, matrimoniorum, aut aliorum quorumlibet, quae gravamina dicerentur, vel dici possent, tam circa Ecclesias, Monasteria, et alias Ecclesiasticas personas, quam circa Communitates, et Universitates Civitatem, Castrorum, et aliorum locorum, et etiam circa singulares personas totius Regni praedicti, aut cujuslibet partis ejus, foelicis recordationis Martini Papae Quarti praedecessoris nostri directioni, reformationi, dispositioni, et ordinationi se piene, ac libere, alte, ac basse submisit, dans, et concedens eidem super iis plenam, et liberam potestatem, ac promittens quicquid per eundem praedecessorem ipso Rege, dictove primogenito tunc ejus Vicario in Regno eodem, et aliis suis Officialibus requisitis, vel irrequisitis etiam actum foret, se, ac haeredes suos ad hoc specialiter obligando inviolabiliter observare suis super hoc patentibus literis praedecessori concessis eidem, praemissa quoque in mortis articulo per alias suas similiter patentes literas plenius repetens, et confirmans eidem praedecessori per eas humiliter supplicavit; ut omnia onera fidelium Regni sui, et quae gravamina dici possent, removere, tollere, et cassare, dictumque Regnum prospere reformare, omniaque statuere, quae ad bonum statum haeredum suorum, et fidelium eorundem expedire videret sua provisione curaret, non obstante, si Regem ipsum tunc infirmitate graviter laborantem naturalis debiti solutione contingeret praeveniri, sicut praemissae ipsius Regis literae, quae per nos aliquos ex fratribus nostris diligenter inspectae in Archivio [369] ejusdem servantur Ecclesiae, manifestius attestantur. Et tam idem Rex, quam dictus primogenitus super tollendis aliquibus eorundem gravaminum constitutiones varias edidisse dicuntur, et illae plenioris exequutione observationis indigeant, non plene (ut intelleximus) hactenus observatae. Volentes igitur, et illis robur Apostolicae confirmationis adjicere (ut inferius exprimetur) et praetactum nostrum exequi, ac commode provisionis adjectione propositum, infrascripta omnia prout substituta eorum senes indicat, de Fratrum nostrorum consilio et assensu, ac potestatis plenitudine providendo, a gravamine illo deliberavimus inchoandum, qui majorem scandali materiam, et generalius ministrabat.

Ideoque ut omnino cesset in Regno eodem onerosa exactio collectarum, praesenti edictali provisione, ac constitutione valitura perpetuo prohibemus per Reges, qui pro tempore fuerint, seu pro eis Dominantes in Regno praedicto, vel Ministros ipsorum collectas fieri, nisi tantum in quatuor casibus infrascriptis.

Primus est, pro defensione terrae, si contingat invadi Regnum invasione notabili, sive gravi, non procurata, non momentanea, seu transitura facile, sed manente, aut si contingat in eodem Regno notabilis rebellio, sive gravis, similiter non simulata, non procurata, non momentanea, sive facile transitura, sed manens.

Secundus est, pro Regis persona redimenda de suis redditibus, et collecta, si eam ab inimicis captivari contingat.

Tertius est, pro Militia sua, seu fratris sui consanguinei, et uterini, vel saltem consanguinei, sive alicujus ex liberis suis, cum se hujusmodi fratrem suum, vel aliquem ex eisdem liberis militari cingulo decorabit.

[370]

Quartus est, pro maritanda sorore simili conjunctione sibi conjuncta, vel aliqua ex filiabus, aut neptibus suis, seu qualibet alia de genere suo ab eo per rectam lineum descendente, quam, et quando eam ipse dotabit. In praedictis enim casibus (prout qualitas tunc imminentis casus exigeret) licebit Regi collectam imponere, ac exigere a subjectis, dum tamen pro defensione, invasione, seu rebellione praedictis, aut ipsius Domini redemptione, quinquaginta millium, pro militia duodecim millium, pro maritaggio vero quindecim millium unciarum auri summam collectae universalis totius Regni ejusdem, tam ultra Farum, quam citra, quantitas non excedat. Nec concurrentibus etiam aliquibus ex praedictis casibus, collecta in uno, et eodem anno, nisi una tantummodo imponatur.

Sicut autem collectae quantitatum praedictas summas in suis casibus limitatas excedere, ut praemittitur prohibemus, sic nec permittimus indistincte ad ipsas extendi, sed tunc tamen, cum casus instantis qualitas id exposcit, et ut in praedictis etiam casibus possit Rex, qui pro tempore fuerit eo vitare commodius gravamina subditorum, quo uberiores fuerint redditus, et obventiones ipsius, eum a demaniorum donatione volumus abstinere, id sibi consultius suadentes.

Simili quoque prohibitione subjicimus mutationem monetae frequentem, apertius providentes, quod cuilibet Regi Siciliae liceat semel tantum in vita sua novam facere cudi monetam, legalem tamen, et tenutae, secundum consilium Peritorum in talis competentis, sicut in Regnis illis obsevatur, in quibus est usus legalium monetarum, quodque usualis moneta sit valoris exigui, et talis quod in eodem valore sit apta manere toto tempore vitae Regis, cujus mandato cudetur, [371] nec pro ea, vel aliqua magna moneta, quam idem Rex semel tantum in vita sua fecerit expendenda, fiat collecta, vel distributio, sed campsoribus, et aliis mercatoribus volentibus eam sponte recipere tribuatur; et hoc ita praecipimus temporibus observari.

In homicidiis clandestinis providendo praecipimus, nihil ultra poenam inferius annotatam ab Universitatibus exigendum, videlicet, ut pro Christiano, quem clandestine occisum inveniri continget, ultra centum augustales. Pro Judaco vero, vel Saraceno, ultra quinquaginta nil penitus exigatur. Augumento, qui circa eandem poenam idem Rex dicitur induxisse omnino sublato: praesertim cum memorati Rex, et Primogenitus dicantur idem per suas constitutiones noviter statuisse, quas quoad hoc decernimus inviolabiliter observandas, et haec intelligi tantum pro homicidiis vere clandestinis, in quibus ignoratur maleficus, nec aliquis accusator apparet. Adjicientes, quod nonnisi tantum in locis magnis, et populosis exigi possit quantitas supradicta, in aliis vero infra quantitatem eandem pro qualitate locorum exactio temperetur.

Eidem provisioni adjiciendo praecipimus, Universitates ad emendationem furtorum, quae per singulares personas contingit fieri, nullatenus compellendas.

Nec ad mutuandum Regi aut Curiae suae, aut Officialibus, vel Ministris ipsorum, aut recipiendum aliquatenus Regiae massariae custodiam, sive onus, seu possessionum regalium procurationem, aut gabellae, vel navium, seu quorumcumque vassellorum fabricandorum curam, quicumque cogendum invitum: usurpationibus, quae contrarium inducebant penitus abrogatis, maxime cum dicti Rex, et Primogenitus ad relevanda, [372] non tamen plene gravamina in praemissis inducta, Constitutiones varias promulgasse dicantur.

Concedimus autem, ut si casus emergat, in quo sit necessarium, naves, vel alia vassella pro utilitate publica fabricari, liceat tunc Regnanti committere eorum fabricationis hujusmodi expensis Regis faciendae personis idoneis, videlicet hujus rei peritiam habentibus, et quos officium tale decet, et ipsis satisfiat pro susceptione curae praedictae de competenti mercede, et idem servari praecipimus in faciendo biscotto.

Ad Captivorum custodiam, Universitates, vel singulares earum personae nullatenus compellantur, praesertim cum hoc ipsum dicatur ejusdem Regis constitutione provisum, quod praecipimus inviolabiliter observari.

Gravamen, quod in pecunia destinando Regi, vel Regali Camerae, seu ad loca quaecumque alia Universitatis alicujus expensis per aliquas personas ejusdem Universitatis periculo eligendas inferri dicti Regni Universitatibus dicebatur, provisione simili prohibemus ipsis Universitatibus, vel singularibus personis earum de caetero irrogari, maxime cum dicatur idem quoad Universitates dicti primogeniti prohibitoria constitutione provisum, quam in hac parte decernimus inviolabiliter observandam.

Illud, quod in eodem Regno dicitur usurpatum, videlicet, quod Incolae ipsius Regni ad reparanda Castra, et construenda in eis, expensis propriis nova aedificia cogebantur, emendatione congrua corrigentes providendo praecipimus, ut nil ultra expensas necessarias ad reparationem illorum antiquorum Castrorum, quae consueverunt hactenus incolarum sumptibus reparati, et aedificiorum, quae in hujusmodi Castris fuerant [373] ab antiquo, ab eisdem incolis peti possit, et constitutio, quam circa hoc idem Primogenitus edidisse dicitur, in hujusmodi antiquis Castris, et Aedificiis solummodo intelligenda servetur. Antiqua vero Castra intelligi decernimus in hoc casu, quorum constructio annorum quinquaginta jam tempus excessit.

Circa personas accusatas, quae in eodem Regno injuste capi dicebantur, si etiam idoneos fidejussores offerrent, licet dictus Rex aliquid statuisse dicatur ad gravamen hujusmodi temperandum: Nos tamen, ut nulla super hoc querela supersit, providendo praecipimus jura civilia observanda, et eadem observari jubemus.

Circa destitutionem possessorum Comitum, Baronum, et quorumlibet aliorum, qui per Regalem Curiam, et Officiales ipsius, ac alios alienigenas feuda tenentes in Regno suis possessionibus, si quando Curia, Officiales, vel alienigenae praedicti jus habere praetendebant, in illis spoliari, sive destitui dicebantur, et de possessoribus effici petitores, nullo Juris ordine observato, nec non et cum aliquis dicitur invenisse thesaurum, et etiam cum quis apud eandem Curiam pro alio fidejussit, ita quod nec aliquis suae destituatur possessionis commodo, vel spolietur, aut destituatur eadem, nec quod illum, qui defertur, aut convincitur de intentione thesauri, nec quoad fidejussores Curiae datos, aliter quam eadem jura statuunt, procedatur.

Regibus futuris pro tempore in Regno praedicto, et memoratis incolis, qui de inordinata passuum ejusdem Regni custodia querebantur se immoderate gravari, similiter de passu providentes eidem custodiae moderamen competens adhimebus, videlicet, quod tempore impacato, seu imminente turbatione aut verisimili turbationis suspicione, et contra ipsum Regem, aut dictum [374] Regnum, seu in Regno eodem Rex facere possit, passus eosdem ad evitandum pericula custodire. Tempore vero pacifico incolis Regni habitantibus in eodem ac aliis non suspectis liber sit ex eo exitus, et ingressus in illud, ita tamen, quod equi ad arma nullo tempore sine Regis licentia extrahantur exinde ad vendendum.

Victualia vero quaelibet de suis possessionibus, vel massariis, seu oves, boves, et alia animalia humano competentia usui, de gregiis propriis, armentis, vel redditibus habita extra Regnum, dum tamen non ad inimicos eorundem Regis, aut Regni, unusquisque libere mittat, etiam ad vendendum, nisi sterilitas, aut praetactae turbationis instantia, seu verisimilis suspicio suadeat, circa missionem hujusmodi per Regem ejus temporis aliud ordinandum. Si vero praedicta victualia, vel animalia ex negotiationis commercio habeantur etiam fertilitatis tempore absque Regnantis licentia extra Regnum mittere vel ex ipso extrahere non liceat sic habenti. In omnibus praemissis missionis, seu extractionis casibus, jure, quodcumque Regi competit, per omnia semper salvo. Infra Regnum vero etiam per mare liceat cuilibet.

Ecclesiasticae, saecularive personae frumentum, et alia blada, nec non et legumina de propriis terris, massariis, atque redditibus habita, sine jure exiturae, Fundici, seu Dohanae in loco, in quo victualia recipiantur, vel deponantur praestando, de uno loco deferre, seu facere deferri ad alium, a Rege, seu ipsius Officialibus licentia non petita. Emptitia vero jure exiturae, ac Fundici non soluto, sed alio si quod Regi debetur, dummodo emptitiorum delatio de Portu licita, ad similem Portum, et cum barcis parvis centum solummodo [375] salmarum, vel infra capacium tantum fiat et deferentes, seu deferri facientes praemissa emptitia, dent particulari Portulano loci, in quo fiet oneratio eorundem, fidejussoriam cautionem, quod literas testimoniales de ipsorum victualium, et leguminum extractione a simili Portulano loci, in quo exoneratio ipsa fiet habeant infra certum terminum pro locorum distantia praefigendum, et haec omnia perpetuo praecipimus observari.

Abusum contra naufragos, ut fertur, inductum in eo, quod bona, quae naufragium evadebant, capiebantur per Curiam, nec ipsis naufragis reddebantur, ejusdem provisionis oraculo penitus abolemus, praecipientes bona hujusmodi illis restitui, ad quos spectant.

Querelam gravem hominum Regni ejusdem super eo nobis exhibitam per Curiales stipendiarii Regii, et alii regalem Curiam sequentes in civitatibus, et locis, ad quae cum dicta Curia, vel sine ipsos declinare contigit domos Civitatis, seu locorum eorundem pro suo arbitrio Dominis intrabant invitis, et interdum ejectis eisque in altilibus animalibus, et aliis bonis eorum, et quandoque horum occasione in personis ipsorum graves injurias inferebant, sopire competentis provisionis remedio cupientes, prohibemus, ne aliquis Curialis stipendiarius, vel alius sequens Curiam memoratam, domum, vel hospitium aliquod capere, sive intrare propria authoritate praesumat, sed per duos, aut tres, aut plures, prout Civitatis, aut loci magnitudo poposcerit per eandem Curiam, et totidem a locorum incolis electos, authoritate tamen Regia deputandos, hospitia memoratis Curialibus, stipendiariis, et aliis assignentur. Iidem autem Curiales, stipendiarii et alii nulla bona suorum hospitum capiant, nec in illis, aut in personis eorum ipsis aliquam injuriam inserant, nec [376] ipsorum aliquis pro eo, quod sibi hospitium fuerit aliquando taliter assignatum, si cum aliis ad eundem locum cum Curia, vel sine Curia venire contingat, si jus hospitandi vendicet in eodem, aut ipsum intrare audeat, nisi fuerit sibi simili modo iterum assignatum. Hujusmodi autem hospitia taliter assignata, praefati Rex, et illi de domo, et familia sua gratis semper obtineant; Reliqui vero, sive stipendiarii, sive quicumque alii per unum mensem solum, si tanto tempore in eodem loco contingat Curiam residere, si vero ultra resederit, vel ipsos stipendiarios, aut alios ad aliqua loca sine Curia venire contingeret, satisfaciant Dominis hospitiorum, seu ipsorum actoribus de salario competenti per deputatos, ut praemittitur, moderando.

Similiter prohibemus, ne in locis, in quibus vina, et victualia possunt venalia reperiri, quisque ea per Regalem Curiam, aut Curiales, seu per quoscumque Ministros ipsorum, vel quoscumque alios invitus vendere compellatur nec aliqua bona nolentibus vendere, auferantur, nec eorum vegetes consignentur, etsi de facto fuerint consignatae, signa eis imposita liceat Dominis authoritate propria removere, praesertim cum praefatus Rex hoc ipsum de remotione hujusmodi statuisse dicatur; si vero in loco, ad quem Curiam, Curiales, et alios praedictos declinare contingit, talia venalia non habentur, abundantes in illis per aliquem, vel aliquos ad hoc a Regali Curia, et totidem a locorum incolis electos, authoritate tamen Regia deputandos omnia hujusmodi, quae habent ultra necessaria suis, et familiarum suarum usibus, non solum Curiae, sed Curialibus, et aliis eam sequentibus cogantur vendere pretio competenti per deputatos, ut praemittitur, moderando.

[377]

In matrimoniis, in quibus volentibus ea contrahere varia impedimenta contrahendi adimentia libertatem per Regem; et suos ingeri dicebantur, Apostolicae provisionis beneficium deliberavimus adhibendum; ideo provisione irrefragabili prohibentes Regnicolis Regni habitatoribus, matrimonium inter se contrahere volentibus per Regem, vel suos Officiales, aut alios quoslibet inhibitionis, seu cujuslibet alterius obicem impedimenti praestari, declaramus, et declarando praecipimus, libera esse matrimonia inter eos, ita quod bona mobilia, vel immobilia, feudalia, vel non feudalia, libere sibi mutuo dare possunt in dotem, nec iidem Regnicolae Regni ut praemittitur, habitatores ejusdem super matrimonio inter se contrahendo, aut in dotem dando bona quaelibet, licentiam petere teneantur, nec pro eo quod matrimonium esset cum bonis quibuslibet, aut dote quantacumque contractum fuerit a Rege licentia non petita contrahentibus, aut alterutri eorundem, vel Parentibus, Consanguineis, sive amicis ipsorum in personis, aut rebus impedimentum, dispendium, aut gravamen aliquod irrogetur, nulla in praemissis constitutione, vel consuetudine contraria de caetero valitura.

Providendo praecipimus, ut si quando in Regno praedicto contra certam personam fuerit inquisitio facienda, nisi ea praesente, vel se per contumaciam absentante, non fiat, si vero praesens fuerit, exhibeantur sibi capitula, super quibus fuerit inquirendum, ut sit ei defensionis copia, et facultas; simili provisione praecipimus, ut pro generalibus inquisitionibus, nihil, vel sub compositionis colore, vel alias ab Universitatibus exigatur, sed si procedendum fuerit, juste procedatur [378] ex eis, praesertim cum dictus Rex C. hoc idem statuisse dicatur.

Hujusmodi praecepto adjicimus: ut quoties inter Fiscum, et privatum causam moveri contingit, non solum in examinando jura partium, sed ad difinitivam sententiam juste ferendam, sive pro privato, sive pro Fisco, nec non ad ipsius exequutionem nulla in hoc difficultate ingerenda per Fiscum efficaciter procedatur, itaque nec in praedicto examine, nec in prolatione vel exequutione sententiae injustam moram, vel aliam injuriam patiatur per Fisci potentiam justitia privatorum.

Providendo districtius, inhibemus forestas per Regem aut Magnates suae Curiae, vel Officiales, seu quoscumque Ministros in Terris fieri privatorum, vel aliquarum forestarum occasione per Regiam Curiam Magistros, vel Custodes forestarum ipsarum aliquem in cultura Terrarum suarum, seu etiam perceptione fructuum impediri, sive ipsis propter hoc damnum aliquod vel iniuriam irrogari; factas vero de novo forestas hujusmodi omnino praecipimus amoveri.

Omnes Ecclesiasticae, secularesve personae Regni Siciliae libere suis salinis utantur, et praesentis provisionis oraculo prohibemus, ne illis, per Regem, Officiales, aut quoscumque Ministros ipsius usus, aut exercitium interdicatur earum, neve quisque prohibeatur sal de salinis ipsis proveniens emere ab eisdem.

Abusiones Castellanorum, per quos homines dicti Regni ad portandum eis paleas, ligna, et res alias etiam sine pretio cogebantur inviti, et iidem Castellani de rebus quae circa, seu per Castra eadem portabantur pedagia exigebant, praesentis provisionis beneficio prohibemus.

[379]

Ejusdem provisionis edicto praecipimus, ut pro literis regiis, et sigillo nihil ultra ipsius Regni antiquam consuetudinem exigatur, videlicet, ut pro literis justitiae nihil omnino, pro literis vero gratiae, in qua non est Feudi, vel Terrae concessio, nihil ultra quatuor tarenos auri ab impetrante solvatur, nulla in praemissis distinctione habita inter clausas literas, et apertas.

Pro literis autem super concessione Feudi, vel Terrae confectis, nec non et pro privilegiis aliis pro concessionis seu privilegii qualitate, aut benevolentia concedentis Curiae satisfiat; dum tamen summam decem unciarum pro quolibet concesso feudo integra satisfactio non excedat, sed nec praetextu sigilli regii justitiae, sive gratiae literis in aliquo casuum praedictorum impressi, vel appensi forsitan impetrans ultra quam praemittitur, solvere compellatur.

Animalia deputata molendinis, quae centimuli vulgariter nuncupantur, per regalem Curiam, vel officiales, aut Ministros ipsius, eamve sequentes, stipendiarios, vel quoscumque alios nullo modo ad aliquod eorum ministerium Dominis capiantur invitis, nec alia etiam, sed pro competenti pretio, de quo conventum fuerit inter partes, a volentibus conducantur, et haec ita de coetero praecipimus observari, maxime cum ipse Rex statuisse dicatur, quod Justitiarii, et subofficiales eorum, ac stipendiarii, et subofficiales non capiant animalia deputata ad Centimulos, sed cum est necesse, inveniantur alia habilia ad vecturam, et loerium conveniens tribuatur, etsi contrafecerint, restitutis animalibus cum toto damno eorum Dominis, poenae nomine, et pro qualibet vice, et quolibet animali solvant [380] Curiae unciam unum auri; praemissam quoque constitutionem dicti Regis, similiter observari praecipimus.

De creatione Officialium praesertim extraneorum, qui propter ignorantiam status Regni et favorem, qui eis a Regali Curia praestabatur subjectos impune gravabant; consulte suggerimus, quod Rex creare studeat Officiales idoneos, qui subjectos injuste non gravent.

Super eo, quod Regnicolae querebantur, videlicet, quoti eis gravatis pro relevationis obtinendo remedio ad Regem aditus non patebat, suademus per Regem taliter provideri, quod querelae subditorum ad eum valeant libere pervenire.

Prohibemus, ne quisque pro animali silvestri extra defensam, vel limites defensae invento sine aliqua invenientis impulsione, arte, vel fraude, aliquatenus puniatur, etiamsi illud capiat, vel occidat.

Nullus Comes, Baro, vel alius in Regno praedicto de caetero compellatur ad terridas, vel alia quaecum que vassella propriis sumptibus facienda. Per hoc autem juri Regio in lignaminibus et marinariis, vel alio servitio vassellorum, quae a quibusdam Universitatibus, et locis aliis, sive personis singularibus dicti Regni deberi dicuntur, nolumus in aliquo derogari.

Si contingeret Baronem aliquem mori, filio, vel filia superstitibus, aetatis, quae debeat cura balii gubernari, providendo praecipimus, quod Rex alicui de consanguineis ejus balium concedat ipsius, et quod ad hoc inter consanguineos proximior, si fuerit idoneus, praeferatur.

Si aliquem feudum a Rege tenentem in capite, vel etiam subfeudatarium nullo haerede legitimo per lineam descendentem, sed fratre, aut ejus liberis superstitibus, mori contingat, si decedentis feudum ab aliquo ex parentibus [381] sibi, et fratri communibus pervenerat ad defunctum, idem frater, aut ex liberis suis usque ad Trinepotem, ille qui tempore mortis supererit defuncto proximior in feudo succedat, habiturus illud cum onere servitii consueti.

Ad successionem feudi omnibus Personis feudatario, aut subfeudatario defuncto simili gradu conjunctis eodem ordine admittendis.

In successione vero praemissa inter feudatarios, et subfeudatarios viventes in Regno jure Francorum sexus, et primogeniturae praerogativa servetur, ut inter duos eodem gradu feudatario conjunctos foeminam masculus, et juniorem major natu praecedat, sive sint masculi, sive foeminae concurrentes, nisi forsan duabus concurrentibus esset primogenita maritata, et junior remanserit in capillo, tunc enim junior, quae in capillo remanserit primogenitae maritatae in successione hujusmodi praeferatur. Sed si nulla remanente in capillo, duae, vel plures fuerint maritatae, majori natu jus primogeniturae servetur, ut alias in dicta successione procedatur.

Si vero feudum, de quo agitur, non ab aliquo parentum processerat, sed inceperat a Defuncto, tunc solus defuncti frater in eo succedat, nisi lex concessionis in praemissis aliud induxisset, et haec ita de caetero praecipimus observari, qualibet contraria consuetudine, vel constitutione cessante.

Nullus subfeudatarius pro feudo, quod ab aliquo feudatario Regis tenet, compellatur ipsi Regi servire, sed si aliquod aliud feudum ab ipso Rege tenet in capite, pro eo sibi serviat, ut tenetur.

Si contingat, subfeudatarium crimen committere, propter quod publicanda fuerint bona ejus, aut ipsum [382] sine legitimis haeredibus fati munus implere, si feudum ejus fuerit quaternatum, nihilominus immediatus Dominus illud cum onere servitii consueti personae concedat idoneae Regi postmodum praesentandae, ut ejus super hoc habeatur assensus. Si vero quaternatum non fuerit, sic ad eundem immediatum Dominum revertatur, ut ipsum hujusmodi personae pro sua voluntate concedat, nec eam Regi praesentare, aut ejus super hoc requirere teneatur assensum; iis ita deinceps ex nostro praecepto servandis, constitutione, vel consuetudine contraria non obstante.

Vassalli Baronum per Curiam, vel Officiales ipsius ad aliqua privata officia non cogantur, etsi ea voluntarii subeant ratione debiti ex hujusmodi officii receptione, vel gestione contracti, vel delicti forsan in ea commissi Baronibus eorum Dominis in bonis Vassallorum ipsorum, vel aliis praejudicium nullum fiat.

In Terris Ecclesiarum, Comitum et Baronum Regni praedicti Magistros Juratos poni de caetero prohibemus, et positos exinde praecipimus amoveri.

Ad novas communantias Vassalli Baronum, vel aliorum ire non compellantur inviti, sed nec vuluntarii admittantur si sint adscriptitiae, similisve fortunae, vel ratione personae, non rerum tantum personalibus servitiis obligati. Si vero ratione rerum tantummodo servitiis hujusmodi teneantur, et ad easdem communantias transire voluerint, res ipsas Dominis suis sine contradictione dimittant.

Barones, vel alii extra Regnum, nec servire personaliter, nec addohamenta praestare cogantur. In casibus quoque, in quibus intra Regnum servire, vel addohamenta praestare tenentur, servitia exhibeant, et addohamenta praestant antiquitus consueta, videlicet, ut [383] vel tribus mensibus personaliter serviant cum numero militum debitorum, vel pro singulis militibus, ad quos tenentur pro quolibet trium mensium praedictorum tres uncias, et dimidiam auri solvant, et haec ita de caetero inconcusse de nostro praecepto observentur.

Caeterum, ut contra pericula, quae sicut praetactum est, propter gravamina illata subditis excitata creduntur, ne (quod absit) recidant in tanto periculosius residuum, quanto recidenti solet esse deterius, qui cadenti eo magis sit regnantibus in Regno praedicto securitas, quominus erit libera eadem gravamina irrogandi facultas, provisioni praemissae subjungimus ad perpetuum sui roboris fulgimentum, quod si ventum fuerit in aliquo contra eam, licitum sit Universitatibus, et gravato cuilibet libere ad Apostolicam Sedem habere pro sua querela exponenda, et obtinenda illati gravaminis emendatione reversum. Adjicientes inter illa, in quibus contra provisionem eandem fieri contingeret congrua distinctione delectum, videlicet, ut si ea fuerint, quae per ipsam prohibitorie, vel praeceptorie sunt provisa, et principaliter factum regnantis respiciunt, nec solet absque ipsius authoritate praesumi, ut est collectarum impositio, monetae mutatio, matrimoniorum prohibitio, vel impedimentum aliud eorundem, nisi Rex ejus temporis illa infra decem dies revocaverit per se ipsum, eo ipso Capella sua Ecclesiastico sit supposita interdicto, duraturo solum, quousque gravamen fuerit revocatum. In reliquis vero prohibitoriis et specialiter, si Universitas, singularisve persona gravata, volens propterea recurrere ad Sedem eandem, per Officiales regios, seu quoscumque Ministros, vel quoslibet alios fuerit impedita, vel ipsos aut alios pro eis exinde damnum passum, nisi satisfactione laesis praestita, impedimentum infra mensem postquam [384] ipse Rex sciverit, revocetur, ex tunc sit Capello eadem similiter interdicta. In quolibet autem casuum praedictorum, si Regnans interdictum hujusmodi per duos menses substinuerit animo contumaci, ab inde loca omnia, ad quae ipsum, uxorem, et filios suos declinare continget, donec ipsi praesentes fuerint, simili interdicto subjaceant, etsi deinde per sex menses interdicta hujusmodi substinuerit animo indurato, exinde sit excommunicationis sententia innodatus, quam si per alios menses sex contumacia obstinata substineat, ex tunc subditi ad mandatum Sedis ejusdem ipsis propterea faciendum in nullo sibi obediant, quamdiu in hujusmodi obstinatione persistet. Ad majorem quoque provisionis hujusmodi firmitatem eidem specialiter adjicimus, quod quilibet Rex Siciliae, quando juramentum fidelitatis, et homagii praestabit Summo Pontifici, solemniter eidem, et Ecclesiae Romanae pro se, ac suis haeredibus in Regno sibi successuris eodem, promittere teneantur, qui provisionem praesentem in omnibus, et per omnia, quantum in eis erit, observabunt inviolabiliter, et facient ab aliis observari, nec contra eam, vel aliquam partem ipsius per se, vel per alium quoquomodo aliquid attentabunt, et super hoc tam ipse, quam quilibet eorundem successorum dent ipsi Pontifici, et Ecclesiae suas patentes literas sui pendentis sigilli munimine roboratas, licet autem praemissae provisionis verba gravamina certa respiciunt, de quibus ad nos querela pervenit, Reges tamen, qui continuanda temporum, et successionum perpetuitate regnabunt in Regno praedicto, non propterea existiment gravandi alios subditos arbitrium sibi fore concessum; sed sciant potius se debere ipsos in bono statu tenere ab omnibus illicitis exactionibus, et indebitis eorum oneribus per se, ac alios abstinendo. [385] Sane, si quod in eadem provisione, vel aliquo ejus articulo dubium non tam sollicitatur, quam rationabilem dubitationem continens oriri contingat, interpretationem dubii hujusmodi nobis, quamquam etiam de jure competat, reservamus expresse. Decernimus ergo, ut nulli omnino hominum liceat hanc paginam nostram provisionis, constitutionis, inhibitionis, praecepti, declarationis, abolitionis, et abrogationis infringere, vel ei ausu temerario contraire, si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotentis Dei, et Beatorum Petri et Pauli Apostolorum ejus se noverit incursurum.

Ego Honorius Cath. Eccles. Episcopus.

[386]

Datum Tibure per manum Magistri Petri de Mediolano S. R. E. Vicecancellarii, quintodecimo Kalendas Octobris, Indictione 14 Incarnationis Dominicae anno millesimo ducentesimo octuagesimo quinto, Pontificatus vero D. Honorii Papae IV. Anno I.

[387]

Praesens copia Capitulorum Papae Honorii sumpta est a transumpto existente in Archivio Monasterii Sanctissimae Trinitatis Cavae, me procurante, cum ad Monasterium praedictum ad hoc accessissem ordine Regentis Annibalis Moles, et Consiliarii Horatii Marchesii. Et in eodem Archivio similiter adest transumptum Confirmationis factae ab eodem Pontifice eodem die Capitulorum editorum per Carolum II tunc Vicarium Caroli I in hoc Regno, quorum copiam similiter habeo ad pennam; sed haec Capitula Caroli II cum Confirmatione Pontificis sunt impressa cum Pragmaticis in tit. De Clericis, Pragm. 2 sine die; et eadem originalia Capitula Caroli II pariter impressa sunt cum aliis Capitulis Regni in tit. de Privileg. et Immunit. Eccl.

Marcellus Marcianus.


Evvi gran contrasto fra' nostri scrittori, se mai questa Bolla fosse stata ricevuta nel Regno, ed avesse avuta in quello forza o autorità alcuna di legge. Furon mossi alcuni a dubitarne dal vedere, che i nostri Professori, come Andrea d'Isernia, Angelo, Baldo, Luca di Penna, Paris de Puteo, Aretino, Soccino, Afflitto, Capece, Loffredo, Camerario e tanti altri, sovente nelle loro opere allegano i Capitoli in quella contenuti. Ma niuno quanto Rainaldo[468] ne' suoi Annali ecclesiastici si sforza in grazia de' Romani Pontefici di mostrare, ch'ella nel Regno avesse avuto tutto il vigore ed osservanza. E certamente mentre durò la prigionia del Principe Carlo, non meno il Cardinal di Parma, che il Conte d'Artois la fecero valere nel Regno, [388] leggendosi, che il Pontefice Onorio inviandola al Cardinale, con suo particolar Breve, l'incaricò, che l'avesse fatta osservare; e presso questo medesimo Scrittore si leggono due lettere del Conte d'Artois, una dirizzata da Foggia al Giustiziero di Basilicata, e l'altra spedita da Barletta a' 22 ottobre dell'anno 1288 e dirizzata a' Prefetti della Puglia, per le quali loro s'impone, che avessero fatti osservare i Capitoli del Pontefice stabiliti super statu et regime Regni; tanto che poi per non irritare i Pontefici con mostrarne disprezzo, s'introdusse nelle lettere, che si spedivano agli Ufficiali, come per formola, di soggiungervi anche, che osservassero e facessero osservare le Costituzioni e Capitoli del Regno, ed anche quelli per la Sede Appostolica stabiliti.

Ma sprigionato che fu il Principe Carlo, ed incoronato Re da Niccolò IV successor d'Onorio, essendo egli ritornato in Napoli nel 1289 conoscendo di quanto pregiudizio fosse la Bolla d'Onorio alle sue ragioni e preminenze Regali, ancorchè per non disgustar quel Pontefice cotanto suo benefattore, non gli paresse di espressamente rivocarla, non permise però, che avesse nel suo Regno vigore alcuno. E scrive Pietro Piccolo[469] da Monteforte, antico e famoso Dottore de' suoi tempi, che Carlo II per riverenza, che bisognava allora avere di quel Pontefice, l'avesse richiesto, che si contentasse di sospenderla, e che Papa Niccolò l'avesse già sospesa; ed ancorchè Rainaldo restringa la sospensione solamente in quanto alle pene in quella [389] minacciate, non già in tutto il resto; con tutto ciò si vede dalle cose seguite, che non ebbe esecuzione alcuna; poichè non solo per le pene, ma per molti altri capi non fu osservata, nè ricevuta. In fatti Carlo II stesso volendo con nuove leggi (tornato che fu in Napoli) riformar lo stato del Regno, ne stabilì molte, e confermò solo quelli Capitoli, ch'egli avea stabiliti nel Piano di S. Martino[470]; ma di questi di Papa Onorio, come pregiudizialissimi alle supreme regalie della sua Corona, non ne fece motto; anzi si videro nel suo Regno medesimo contrarii effetti di ciò, che quel Pontefice avea stabilito. Non ostante la proibizione d'alienare i beni demaniali, fu sempre in balìa del Re di donargli; anzi Andrea d'Isernia non potè non confessare, che Papa Onorio non poteva ciò proibire a' nostri Re. L'istesso Andrea Compilatore dei Riti della regia Camera ci testifica, che ancorchè Onorio in questa sua Bolla[471] avesse stabilito, che ciascuno potesse liberamente valersi delle sue saline, e vendere ad altri il sale procedente da quelle; con tutto ciò si osservava quel che Federico II avea disposto, e non quel che Onorio volle. Parimente niente fu osservato intorno all'esazione delle Collette in quelli quattro casi da Onorio permessi; e tutti i nostri Autori attestano, che tanto prima, quanto dopo il Re Alfonso I fu sempre in arbitrio e balìa del Re d'imporle in ogni caso, quando conosceva il bisogno dello Stato.

Nè la succession feudale fu alterata, ma intorno a ciò furono osservati i Capitoli del Regno e le grazie [390] concedute poi da' nostri Baroni. Nè furon ricevuti quelli d'Onorio, se non in alcuni casi, dove l'equità e la ragione v'avea luogo, e quando si stimavano ragionevoli. Quindi l'istesso Andrea d'Isernia disse: Quod illa non servantur, nisi quatenus sunt rationabilia; onde chiamò questi Capitoli Oratoriali, perchè non aveano presso di noi forza alcuna di legge; ma alcuni erano osservati più per forza d'equità e di ragione, che di legge.

Sebastiano Napodano credette, che questi Capitoli perderon tutta la forza nel tempo del Re Roberto, nella quale opinione par che inclini Rainaldo, dicendo che per non esser stati poi osservati accaddero quelle miserie e calamità, delle quali si duole il Summonte[472]; ma dalle cose di sopra dette, ben si conosce, che molto tempo prima di Roberto, nel Regno stesso di Carlo II non furono osservati.

Per questa cagione avvenne ancora, che i Compilatori de' Capitoli del Regno gli esclusero da quella compilazione, e solo quelli fatti dal Principe Carlo nel Piano di S. Martino vi posero, insieme con gli altri Capitoli di tutti i Re angioini. Così ancora quando il Re Giacomo di Sicilia ordinò per quel Regno i suoi Capitoli, volendo concedere a' Siciliani ciò, che avea conceduto a' nostri Regnicoli si valse d'alcuni di questi; e perchè avessero in quell'isola forza di legge, bisognò, che tra' suoi Capitoli gl'inserisse, come fece del Cap. si aliquem, del Cap. de Collectis, De frequenti mutatione monetarum, cap. 10. De matrim. libere contr. cap. 32 e simili: ond'è, che Cumia, che commentò que' Capitoli, disse parlando del Cap. si aliquem, [391] che quello non s'osservava nel Regno di Napoli, ma sì bene in Sicilia per ordinamento di quel Re. E quindi prudentemente fece il Reggente Tappia, che nella compilazione delle leggi del Regno, ne escluse affatto questi Capitoli, come quelli, che non ebbero in esso forza alcuna di legge.

Si vide perciò ancora, che a tempo degli Aragonesi, eretto che fu il Tribunal Supremo del S. C. quando erano allegati dagli Avvocati, testifica il Reggente Moles, che non si decise mai causa in vigor di questi Capitoli; per la qual cosa non possiamo non maravigliarci del Reggente di Ponte, che a torto vien reputato per uno de' maggiori sostenitori della regal giurisdizione, il quale nel suo trattato, De potestate Proregis[473], non s'arrossì di dire, che più tosto per desuetudine, che perchè non avessero avuta forza di legge, questi Capitoli non fossero osservati: soggiungendo in oltre, che Papa Onorio, come diretto padrone del Regno, con volontà di Carlo II utile Signore di quello, avesse potuto stabilir leggi nel Regno.

Termina in fine Rainaldo[474] il suo discorso, con un ricordo, che dà a' Principi, insinuando loro di essere ubbidienti alle leggi de' Sommi Pontefici, qualora si pongono a riformar i loro Stati, ponendo loro avanti gli occhi quest'esempio, che siccome per essere stati violati questi Capitoli, accaddero, al suo credere, nel nostro Regno tante calamità e miserie; così devono essi essere ossequiosi e riverenti alle leggi de' Pontefici, se non vorranno vedere i loro Regni dissoluti, [392] ed andare in desolazione e ruina. Terminiamo perciò ancor noi questo discorso con un altro consimil ricordo a' Principi, di guardarsi molto bene a commettere la cura ed il governo de' loro Stati ad altri, che a se stessi ed ai loro più fedeli Ministri; poichè se o per riverenza, o per bisogno vorranno farci intrigare i Pontefici, ancorchè si cominci per poco, essi poi per la propria esquisita diligenza, quel che prima era consiglio o divozione, lo mutano in autorità e dominio, e fanno sì, che da Padri divengono Signori, ed essi da figliuoli divengono servi; e chiarissimo documento sarà loro, quel che a' tempi de' Normanni, e molto più nel Regno degli Angioini è accaduto al Regno nostro, nel quale i Pontefici Romani vi pretesero esercitare assai più ampio ed indipendente imperio, che non osarono i nostri medesimi Principi; e non pur sopra i nostri Baroni e Regnicoli, ma sopra i Regi stessi osarono stendere la loro alta ed imperiosa mano.

CAPITOLO II. Negoziati fatti in Inghilterra, e ad Oleron in Bearn, per la scarcerazione del Principe Carlo; sua incoronazione e tregua fatta col Re Giacomo di Sicilia.

Mentre ardea la guerra in Sicilia ed in Calabria, tra il Conte d'Artois ed il Re Giacomo, che s'avea già fatto incoronar Re in Palermo: il Principe di Salerno, considerando, che per mezzo della guerra le cose doveano andar in lungo, desideroso della libertà, [393] e di ritornare al Regno paterno, mandò a sollecitare la Principessa sua moglie, che mandasse Ambasciadori a Papa Onorio e ad Odoardo Re d'Inghilterra, pregandogli, che volessero trattare la libertà sua col Re Alfonso. Odoardo con molta amorevolezza e diligenza cominciò a trattarla, prima per mezzo d'Ambasciadori, e poi con la sua propria persona, essendo andato fino ad Oleron in Bearn a trovare Alfonso, dove il Papa vi mandò ancora un Legato appostolico. Negli Atti d'Inghilterra fatti a' tempi nostri stampare dalla Regina Anna, si leggono molti atti e lettere riguardanti le negoziazioni d'Odoardo per la libertà di questo Principe, ed i principali sono gli articoli, sui quali Odoardo convenne ad Oleron col Re di Aragona. Gli articoli e condizioni, dopo molte discussioni accordati, furono questi.

Che prima, che il Principe uscisse da' confini del Regno d'Aragona, facesse consegnare per ostaggi tre suoi figliuoli, Luigi secondogenito, che fu poi Vescovo di Tolosa, e dapoi santificato: Roberto terzogenito Duca di Calabria, che fu poi Re: e Giovanni ottavogenito, che fu poi Principe della Morea; e sessanta altri Cavalieri provenzali ad elezione del Re di Aragona.

Che pagasse trentamila marche d'argento.

Che proccurasse, che il Re di Francia facesse tregua per tre anni, e che Carlo di Valois fratello del Re, ch'era stato da Papa Martino IV investito del Regno d'Aragona e di Valenza, cedesse ad Alfonso tutte le ragioni, e restituisse tutte quelle Terre, che Filippo suo padre prese nel Contado di Rosciglione e di Ceritania, ch'ancora si tenevano per lui.

Che quando il Principe mancasse d'eseguire tutte [394] le convenzioni suddette, fosse obbligato fra il termine d'un anno di tornare in carcere.

Che lasciasse il Regno di Sicilia al Re Giacomo, con dargli per moglie Bianca sua figliuola.

Giovanni Villani e molti altri Autori italiani non fanno menzione alcuna di questi articoli di pace convenuti in Oleron; ma, oltre Costanzo, gli Atti d'Inghilterra[475] ove sono impressi, chiariscono questo passo d'Istoria.

Mentre queste cose si trattavano ad Oleron, accadde nel mese di aprile dell'anno 1287 la morte del Papa Onorio, e dopo un anno, fu in suo luogo rifatto un Frate Francescano, che si fece chiamare Niccolò IV. Questi benchè fosse nativo d'Ascoli della Marca, non si lasciò vincere da niuno de' Pontefici franzesi nelle dimostrazioni d'amorevolezza ed affezione verso il Principe Carlo e della sua Casa: poichè avendo saputo, che con tanto vantaggio del Re Alfonso e del Re Giacomo s'erano accordati questi articoli, per li quali si vedea che Alfonso troppo cara volesse vender la libertà a quel Principe, disapprovò tutto il trattato, e diede fuori una sua Bolla, che si legge negli suddetti Atti d'Inghilterra[476], colla quale biasima questi articoli: e mandò in Aragona gli Arcivescovi di Ravenna e di Monreale con un Breve, in virtù del quale, come Legali Appostolici, richiesero il Re Alfonso, che sotto pena di censura dovesse liberare il Principe, e desistere d'aiutare Re Giacomo occupatore di quell'isola e ribello di S. Chiesa[477].

[395]

Il Re d'Inghilterra, che per la bontà sua amava il Principe, che gli era cugino, e desiderava estremamente liberarlo, s'impegnò assai più, vedendo che il Papa non avea approvato il fatto, ed andò di nuovo a trovare il Re d'Aragona, col quale travagliò molto per ridurre quelle condizioni a patti più tollerabili. Alfonso per non escludere il Re d'Inghilterra, ch'era venuto infino a casa a ritrovarlo, e dar qualche soddisfazione al Papa, confermò i medesimi primi articoli, ad esclusione dell'ultimo, non facendosi menzione alcuna nè di Re Giacomo, nè del regno di Sicilia.

Restò pertanto contento di pigliarsi gli ostaggi suddetti, le trentamila marche d'argento e la promessa, ch'il Principe condurrebbe ad effetto la pace con il Re di Francia, e la cessione di Carlo di Valois, con la condizione di tornar nella sua prigione, se non eseguisse il trattato. Il Re d'Inghilterra ne assicurò anche il Re d'Aragona; e con queste condizioni fu il Principe liberato.

Carlo vedutosi libero con tali condizioni, sì per l'amore che portava a' figliuoli, ch'erano rimasti per ostaggi, come per essere di sua natura Principe lealissimo, andò subito alla Corte dei Re di Francia, dove benchè fosse ricevuto con tutte le dimostrazioni d'amorevolezza e d'onore, nel trattar poi, che s'adempissero le condizioni della pace, trovò difficoltà grandissima; poichè il Re riservava ogni cosa alla volontà del fratello, il quale trovandosi senza Signoria, non potea contentarsi di lasciare la speranza di due Regni, e la possessione di quelle terre, che 'l padre avea acquistate nella guerra di Perpignano: tal che vedendo travagliarsi in vano, si parti, e venne a Provenza, [396] dove ricevè grandissimi onori, e passò da poi in Italia, e fu molto ben ricevuto dalle città Guelfe, e massimamente da' Fiorentini, e venne poi a Rieti[478], ove trovò il Papa Niccolò, dal quale nella maggior Chiesa di questa città con approvazione di tutto il Collegio fu nel giorno di Pentecoste a' 29 maggio di quest'anno 1289 coronato, ed unto per mano dell'istesso Pontefice Re dell'una e l'altra Sicilia: in memoria della qual celebrità, a' 22 giugno del suddetto anno, donò Re Carlo alla Chiesa suddetta 20 once d'oro l'anno in perpetuo sopra l'entrate Regie della città di Sulmona[479].

Passò poi in Napoli dopo essere stato ricevuto da tutti i luoghi del Regno con plauso e letizia incredibile, per la liberalità e benignità, che avea mostrata in vita del padre, il quale nelle cose di pace avea fatto sempre governar il Regno da lui, e fattolo suo Vicario, quando era egli assente. E quivi fermato, cominciò in questo medesimo anno, con nuove sue leggi a riformare lo stato di quello, che durante la sua prigionia, per quella mistura di nuovo governo, avea sofferto alquanto d'alterazione, stabilendo que' Capitoli, de' quali nel precedente libro si fece parola.

Il Re Giacomo, vedendo il Re d'Aragona suo fratello involto in tante guerre, avea mandato a dirgli, che attendesse all'utilità sua, conchiudendo nel miglior modo che potesse la pace, senza parlar delle cose di Sicilia, la quale egli si fidava di mantenere col proprio valore; quando poi vide, che il nuovo Pontefice con troppo affetto tenea le parti del Re Carlo, e che l'investitura datagli conteneva non meno l'una, che [397] l'altra Sicilia, fu pentito di non aver proccurato d'esser compreso nella pace: onde pensò, per prevenire e non aspettare la guerra in Sicilia, di moverne egli una in Calabria, ove fu con pari ardire e valore combattuto; ma non essendo riuscita con molta felicità al Re Giacomo questa spedizione, volse altrove la sua armata, e giunto alle marine di Gaeta, assediò quella città, la quale soccorsa immantenente dal Re Carlo, restò egli molto più strettamente assediato, che non stava Gaeta; ma la sua buona fortuna volle, che in que' dì giungessero nel Campo del Re Carlo Ambasciadori del Re d'Inghilterra e del Re d'Aragona a trattare la pace; e benchè tutti quelli del Consiglio del Re Carlo l'abborrissero, nulladimanco fu tanta la diligenza dell'Ambasciador aragonese, e tanto calde le persuasioni dell'Inglese, che 'l Re Carlo, contra il voto di tutti i suoi, gli concedette tregua per due anni, non ostante, che il Conte d'Artois ad alta voce gli avesse detto, che quella tregua l'avrebbe cacciata in tutto la speranza di ricovrare mai più il Regno di Sicilia. Re Carlo con lui e con gli altri del suo Consiglio si scusava, che non potea fare altrimenti per l'obbligo ch'avea al Re d'Inghilterra, il quale tanto amorevolmente avea proccurata la sua liberazione, e pigliata fatica d'andar fino in Ispagna, e che all'incontro egli non avea potuto attendere quel, che avea promesso di fare, che il Re di Francia si pacificasse co 'l Re d'Aragona, e di far cedere le ragioni da Carlo di Valois, il qual teneva dal Papa l'investitura di que' Regni. Così conchiusa, che fu la pace, il Conte d'Artois e gli altri Signori franzesi, ch'erano stati cinque anni alla tutela del Regno e de' Figliuoli del Re Carlo, si partirono da lui sdegnati, giudicandolo inabile [398] a fare alcuna opera gloriosa. Dall'altra parte lieto Re Giacomo d'aver passato il pericolo, fece vela per Sicilia. E Carlo dopo aver fatti franchi per dieci anni d'ogni gravezza i Gaetani, i quali s'erano portati in quell'assedio con grandissimo valore, a Napoli fece ritorno.

CAPITOLO III. Coronazione di Carlo Martello in Re d'Ungheria. Pace conchiusa tra il Re Carlo, ed il Re d'Aragona; ed incoronazione di Federico in Re di Sicilia.

Tornato che fu a Napoli Carlo, trovò quivi gli Ambasciadori del Regno d'Ungheria, che vennero a richiederlo, che mandasse a pigliar la possessione di quel Regno, che per legittima successione toccava alla Regina Maria sua moglie, essendo morto il Re Ladislao di lei fratello senza aver lasciati figliuoli, che fossero più prossimi in grado. Re Carlo ricevuti gli Ambasciadori con dimostrazione di onore, rispose loro, che vi avrebbe egli tosto mandato Carlo Martello suo figliuolo primogenito, al quale la Regina Maria sua madre avrebbe cedute le ragioni di quel Regno; di che rimasi ben contenti, Carlo mandò a chieder il Papa, che volesse mandar un Prelato per suo Legato a Napoli a coronarlo. Egli ciò fece non per altro, che per aver occasione con tale celebrità di rallegrar Napoli, e 'l Regno con una festa notabile dopo tanti travagli, non perchè credesse, che la coronazione fosse necessaria per mantenersi le ragioni ch'avea, o d'acquistarne di nuovo, perocchè sapeva molto bene che [399] secondo il costume di quel Regno bisognava coronarsi un'altra volta in Visgrado, con la corona antica di quel Regno, che ivi si conserva, per essere tenuto Re legittimo da que' Popoli[480]. Papa Niccolò imitando l'esempio de' suoi predecessori, che niente curando, se hanno potestà di fare, o di non fare, ricercati si mettevano ad ogni cosa, per l'opinione, che tengono ancora di poter tutto, mandò tosto in Napoli un Legato, il quale coll'intervento di più Arcivescovi e Vescovi lo incoronò Re d'Ungheria. Fu celebrata quest'incoronazione in Napoli a' 8 settembre di quest'anno 1290 nella quale anche v'intervennero gli Ambasciadori del Re di Francia, e di tutti i Principi d'Italia, tra' quali i Fiorentini comparvero con maggior pompa di tutti gli altri. Le feste, le giostre e gli altri spettacoli furono grandissimi; ma rilusse sopra d'ogni altra cosa la beneficenza e liberalità del Re; il quale prima che si coronasse Carlo Martello suo figliuolo, volle armarlo Cavaliere; ed appresso a lui, diede il cingolo militare a più di 300 altri Cavalieri di Napoli, e di tutte le province del Regno. Donò alla città di Napoli le immunità di tutti i pagamenti, e lasciò anche parte de' medesimi a tutte quelle terre, ch'aveano sofferto qualche danno dall'armata siciliana. Poi si voltò ad ordinar al Re suo figliuolo una regal Corte, ponendogli appresso Consiglieri savii, e per la persona sua servidori amorevoli, e gran numero di Galuppi, e di Paggi nobilissimi.

Ma mentre in Napoli si facevano queste feste, alcuni Baroni del Regno d'Ungheria aveano chiamato per Re un Andrea parente per linea trasversale del [400] Re morto, e l'aveano fatto dare ubbidienza da molte terre di quel Regno. Per la qual cosa Re Carlo differì mandare il figliuolo in Ungheria, e si trattenne in Napoli per alcuni anni appresso, avendolo lasciato il padre suo Vicario, mentr'egli tornò di nuovo in Francia; ed intanto per mandarlo con qualche favore, in virtù del quale potesse contrastare e vincere l'occupator di quel Regno, ed emolo suo, mandò Giacomo Galeota Arcivescovo di Bari Ambasciadore a Ridolfo I d'Austria Imperadore, per trattar il matrimonio d'una figliuola di costui col Re Carlo Martello; ed essendosi quello felicemente conchiuso, partì poi da Napoli con grandissima compagnia di Baroni e di Cavalieri, e andò in Germania a celebrare le nozze, e di là passò poi in Ungheria; e benchè conducesse seco molte forze, non però ebbe tutto il Regno, perchè mentre Andrea suo avversario visse, sempre ne tenne occupata una parte; pur da' suoi partigiani fu accolto con pompa regale e con grandissima amorevolezza; e que' Napoletani, che l'accompagnarono, riferirono gran cose a Carlo dell'opulenza di quel Regno.

Ma intanto questa felicità del Re Carlo di veder la sucessione di un tanto Regno in persona di suo figliuolo, era turbata da' continui messi, che per parte d'Odoardo Re d'Inghilterra si mandavano a lui per sollecitarlo all'adempimento della pace fatta col Re d'Aragona, il quale nell'istesso tempo si doleva con Odoardo, che avendo posto in libertà il Principe di Salerno colla sicurezza che egli aveagli data, di far rimovere il Re di Francia dall'impresa de' suoi Regni, ora più che mai era premuto da quel Re. E negli [401] Atti d'Inghilterra[481] ultimamente dati alla luce, si leggono due lettere del Re Alfonso scritte ad Odoardo, dove si lagna del Re Carlo per la soverchieria in ciò usatagli.

Carlo come Re lealissimo e di somma bontà, vedutosi in cotal guisa stretto non meno dal Re d'Inghilterra, che dal medesimo Alfonso, determinò d'andar egli di persona in Francia, e quivi far ogni sforzo d'ottenere dal Re e dal Fratello, che lasciassero l'impresa d'Aragona, come aveva promesso ne' capitoli della pace: con ferma intenzione di ritornare nella prigione, quando non avesse potuto ottenerlo. E lasciato, come si disse, Vicario del Regno Carlo Martello suo figliuolo, partì conducendo seco, fra gli altri, il celebre Bartolommeo di Capua G. Protonotario del Regno, ed ivi giunto, trovò che il Re di Francia e quello di Majorica facevano grandi apparati per entrare l'uno per la via di Navarra, e l'altro per lo Contado del Rosciglione ad assaltar il Regno d'Aragona; e trattenutosi molti dì inutilmente, era quasi uscito di speranza, non pur di far lasciare l'impresa, ma di differirla, perchè que' Re, che aveano fatta la spesa, non volevano perderla. E ne' riferiti Atti di Inghilterra si legge una certificatoria del Re Carlo, come egli era venuto ad un certo luogo per rimettersi in prigione[482].

In tanta costernazione d'animo essendo questo Re, sopravvennero opportunamente in Francia il Cardinal [402] Gaetano, ed il Cardinal Vescovo di Sabina Legati appostolici, i quali con l'autorità del nome del Papa, che a que' tempi era in gran riverenza presso al Re, ed alla nazion franzese, sforzaron il Re di Francia ad aspettare l'esito della pace, che si tratterebbe da loro. E ritiratisi in Mompelieri, avendo convocati gli Ambasciadori d'Inghilterra, d'Aragona, del Re Carlo, del Re di Majorica, del Re Giacomo di Sicilia, ed ancora quelli del Re di Francia, cominciarono a trattar la pace. Ma quanto con più attenzione quella era trattata, tanto più incontravano malagevolezze per ridurla a fine; poichè da una parte gli Ambasciadori di Sicilia dichiararono l'animo del loro Re di non voler lasciare la Sicilia; dall'altra gli Ambasciadori di Francia diceano, che 'l Re loro non volea perdere la spesa, nè che Carlo di Valois cedesse le sue ragioni, giacchè Re Giacomo voleva ritenersi quell'isola occupata a torto e con tanta ingiuria e tanto spargimento di sangue franzese. Il Papa ancora avea comandato a' suoi Legati, che in niun modo conchiudessero pace, se 'l Regno di Sicilia non restava al Re Carlo, allegando il pregiudizio, che ne nascerebbe alla Sede Appostolica, quando restassero impuniti i violenti occupatori delle cose di quella. In tanta malagevolezza, e difficultà trovandosi lo stato delle cose, Bartolommeo di Capua, che si trovava Ambasciadore per Re Carlo, Dottore in quel tempo eccellentissimo ed uomo di grandissimo giudizio, e di sagacissimo ingegno nel trattar i negozi, dimostrò a' Cardinali Legati, che una sola via restava di conchiuder la pace, ed era d'escluderne da quella il Re Giacomo, e proccurare, che Carlo di Valois in cambio della speranza, ch'avea di acquistar i Regni d'Aragona e di Valenza, [403] pigliasse per moglie Clemenzia figliuola del Re Carlo, la quale gli portasse per dote il Ducato d'Angiò. I Cardinali cominciarono a trattar la cosa con gli Ambasciadori d'Aragona, e trovarono grandissima inclinazione di non far conto, che il Re Giacomo restasse escluso, perchè la pace era necessaria al Re d'Aragona, il quale in niun modo poteva resistere a tante guerre; poichè oltre di quella, che gli minacciava il Re di Francia, e 'l Re di Majorica, si trovava dall'altra parte essere stato assalito dal Re Sancio di Castiglia: e, quel ch'era peggio, i suoi Popoli stavano sollevati, siccome dicevano, per l'interdetto dagli Ufficj sacri, ma molto più per le spese, che occorrevano per la guerra; e facevano istanza, che pur che la guerra di Francia fosse cessata, e placato il Papa, non si doveano ritenere i figliuoli del Re Carlo, per compiacere a Re Giacomo, ma si doveano liberar subito, e far la pace. Non restava da far altro che contentare Carlo di Valois; onde i Legati si mossero da Mompelieri con tutti gli Ambasciadori, ed andarono a trovare il Re di Francia, e dopo molte discussioni si conchiuse la pace con queste condizioni.

Che Carlo di Valois avesse per moglie la primogenita del Re Carlo col Ducato d'Angiò per dote, e rinunziasse all'investitura de' Regni d'Aragona e di Valenza.

(L'Istromento dotale di questo matrimonio stipulato nel 1290 si rapporta da Lunig. pag. 1042 nel quale Clemenzia viene chiamata Margherita; e nella pag. 1043 rapporta la conferma di Celestino V fatta nel primo anno del suo Pontificato, che fu nel 1294, colla quale corrobora la transazione passata tra Carlo II e Giacomo II Re d'Aragona).

[404]

Che il Re d'Aragona liberasse i tre figliuoli del Re Carlo con gli altri ostaggi, e pagasse il censo tanti anni tralasciato del Regno d'Aragona alla Chiesa Romana.

Che non solo non dasse ajuto al Re Giacomo, ma che avesse da comandar a tutti i suoi sudditi, che si trovavano in Calabria, ovvero in Sicilia al servizio di quel Re, che dovessero abbandonarlo, e partirsi.

Che dall'altra parte il Papa ricevesse il Re d'Aragona come buon figliuolo nel grembo di Santa Chiesa, e togliesse l'interdetto a que' Popoli.

Stabilita in cotal guisa la pace, furono gli articoli di quella mandati subito in esecuzione; poichè il Re Carlo, riavuti ch'ebbe i figliuoli e gli altri ostaggi, venne per mare in Italia, e fu ricevuto con grandissimo onore in Genova, e contrasse amicizia, e lega con quella Repubblica, la quale promise d'aiutarlo alla ricuperazione di Sicilia con 60 Galee; e Carlo di Valois mandò in Napoli per Clemenzia, la quale condotta in Francia fu da lui sposata.

Ma la morte accaduta poco da poi del Re Alfonso senza lasciar di se figliuoli, turbò un'altra volta la pace cotanto desiderata; poichè essendo stato chiamato al soglio di que' Regni il Re Giacomo da Sicilia come legittimo erede: questi senza dimora alcuna navigò in Ispagna, lasciando in quell'isola per suo Luogotenente D. Federico suo Fratello; e pigliata la possessione di que' Regni, il Re di Francia e 'l Re d'Inghilterra ad istanza del Re Carlo mandarono Ambasciadori a richiederlo, che poichè avea avuti que' Regni per eredità del Re Alfonso suo fratello, volesse ancora adempire le condizioni della pace poco innanzi fatta, e restituire il Regno di Sicilia, ovvero non dar aiuto alcuno [405] a' Siciliani, e chiamar in Ispagna tutti i suoi sudditi, che militavano in Sicilia; perchè altrimenti la pace si terrebbe per rotta, e la rinunzia di Carlo di Valois per non fatta, ed il Papa ritornerebbe ad interdire que' Regni. Re Giacomo rispose, ch'egli era succeduto a que' Regni, come fratello di Alfonso, e che però non era tenuto ad adempire quelle condizioni, alle quali avea consentito il fratello con tanto pregiudizio della Corona d'Aragona. Così d'ogni parte s'ebbe la pace per rotta, e tra il Re Carlo e Re Giacomo fu ripresa di bel nuovo ostinata guerra in Calabria.

Intanto il Re di Francia e 'l Papa molestavano Re Giacomo, che avesse da lasciar il Regno di Sicilia, e gli Aragonesi ed i Valenziani ancora il confortavano a farlo; ma la morte accaduta in quest'anno 1292 del Pontefice Nicolò fu cagione ch'egli nol facesse, e che aspettasse quel che potea far il tempo. E poichè i Cardinali venuti in discordia tra loro, lasciarono la sede vacante per lo spazio di due anni ed alcuni mesi, il Re di Francia non si mosse, e si visse quasi due anni in pace. Ma venuto l'anno di Cristo 1294 presero risoluzione di far Papa un povero Eremita, chiamato Fr. Pietro di Morrone, che stava in un picciolo Eremitaggio due miglia lontano da Solmona, nella falda del monte della Majella, e già era opinione, che per la santità della vita e più per la sua inespertezza non accetterebbe il Papato. Il Re Carlo udita l'elezione, andò subito a trovarlo ed a persuaderlo, che l'accettasse, e tanto fece, finchè l'indusse a mandare a chiamar il Collegio de' Cardinali all'Aquila; e fu agevol cosa a persuaderlo, non già per avidità ch'egli avesse di regnare, ma solo per la sua umiltà e grandissima [406] semplicità. Vennero i Cardinali all'Aquila a tempo, che 'l Re con Carlo Martello suo figliuolo, insieme col nuovo Papa ivi era giunto, ed essendo stato con molta solennità ed infinito concorso incoronato a' 29 agosto, prese il nome di Celestino V. Carlo rendette grazie e diè lodi a tutti ch'aveano fatta sì buona elezione, e con grandissima liberalità e magnificenza somministrò a tutti le cose necessarie per lo viver loro, e per quanto si spese. Tutti stupirono per la gran novità della cosa, vedendo in un punto una persona di sì basso ed umile stato esaltata nel più sublime grado delle dignità umane.

Questo Pontefice, non ostante la nuova dignità, dimostrò quanto fosse più amante della vita contemplativa, poichè ben tosto cominciò a manifestare il suo desiderio di ritornare all'eremo: del che Re Carlo sentiva dispiacere grandissimo, perchè quando fu creato se 'l tenne a grandissima ventura, essendo suo vassallo e di così santa vita, dal quale sperava ottenere quanto voleva: e vedendo che i Cardinali desideravano, che Celestino se ne ritornasse al suo eremo, gli persuase, che venisse a Napoli per mantenerlo col fiato e col favor suo. Venne Celestino in Napoli; ma la dimora in questa città, e le tante carezze e persuasioni di Carlo niente valsero a mutare il di lui proponimento, onde tra pochi dì in mezzo decembre nella gran sala del Castel Nuovo rinunziò il Papato in man de' Cardinali, e se ne ritornò all'eremo. Nel regale Archivio[483] si legge una carta di donazione fatta dal Re Carlo ad un fratello e due nipoti di Celestino di venti [407] once d'oro l'anno in perpetuo, sopra la Bagliva di Foggia, che poi furon loro assignate sopra quella di Sulmona.

Era allora Cardinale assai stimato Benedetto Gaetano, così per nobiltà, come per dottrina e per molto uso delle cose del Mondo, il quale vedendo, che Re Carlo con la magnificenza e con la liberalità sua si avea acquistati gli animi di tutti li Cardinali, andò a trovarlo, e lo pregò che volesse aiutarlo a salire al Pontificato, facendogli con vive ragioni quasi toccar con mano, che da niuno degli altri Cardinali ch'erano in Collegio, potea sperare così pronti aiuti, come da lui, tanto nel ricoverare il Regno di Sicilia, quanto in ogni altra cosa: e perchè il Re conobbe che era vero, poichè oltre l'altre qualità sue era capitalissimo nemico de' Ghibellini, promise di farlo, come già fece, e con andar pregando uno per uno li Cardinali, ottenne da loro, che la vigilia di Natale a viva voce l'elessero, e chiamarono Bonifacio VIII.

Bonifacio, essendo di vita in tutto diversa dal suo antecessore, confidando nel parentado, che avea con molti Principi romani, andò subito a coronarsi in Roma, molto ben soddisfatto di Carlo, perchè oltre di averlo fatto Papa, non lasciò spezie alcuna di liberalità e di onore, che non usasse con lui; e però celebrata la coronazione, cominciò a mostrarsi grato di tanti obblighi, e mandò a comandare per un Legato appostolico al Re Giacomo, che lasciasse subito il Regno di Sicilia, minacciando ancora di privarlo per sentenza degli Regni d'Aragona e di Valenza, quando egli volesse persistere nell'interdetto, e non ubbidire.

Dall'altra parte Re Carlo mandò Bartolommeo di [408] Capua in Francia a sollecitare Carlo di Valois, che rompesse la guerra per virtù dell'investitura de' Regni di Aragona e di Valenza; poichè la cessione che avea fatta nella pace con Alfonso, non dovea valere in beneficio di Giacomo, il quale non volea stare agli altri patti; ma Bartolommeo, poichè fu giunto in Francia, non ebbe tanta fatica a persuadere a Carlo, che rompesse la guerra, quanta n'ebbe a persuadere a quel Re, che facesse la spesa: ma in fine, passando per la Francia il Legato appostolico, che tornava da Valenza, e dicendo, che Re Giacomo, ancorchè avesse dato parole all'ordine del Papa, mostrava di stare pure sbigottito, per conoscere l'animo di que' Popoli, che mal volentieri sofferivano di stare interdetti, inanimò il Re a condiscendere a' prieghi di Bartolommeo, ed a bandire la guerra al Re Giacomo e ad apparecchiare l'esercito per assaltarlo.

Allora Re Giacomo cominciò a mutar pensiero ed a conoscere, che esso non era abile a sostenere insieme tante guerre; e per accattar benevolenza da' Baroni di quelli Regni, convocò un Parlamento generale, nel quale dichiarò, che l'animo suo non era di vivere e far vivere essi interdetti, e che desiderava d'ubbidire al Sommo Pontefice; ma che dall'altra parte temeva, per vederlo tanto strettamente legato con Re Carlo, e che però voleva, che si mandassero quattro Ambasciadori supplicando la Santità Sua, in di lui nome e di quelli Regni, che volesse trattare la pace con giuste ed oneste condizioni, ch'egli l'avrebbe accettata volentieri, e nel medesimo Parlamento furono eletti gli Ambasciadori, con piena potestà d'intervenire nel trattato della pace. Come questi Ambasciadori furono giunti in Roma, ed ebbero esposta al Concistorio [409] la buona volontà del Re Giacomo, fu loro risposto dal Papa molto benignamente, e promesso, ch'egli spogliandosi d'ogni affezione, tratterebbe la pace così onorata per l'una, come per l'altra parte.

Re Carlo, che per Breve del Papa fu avvisato di questo, ordinò a Bartolommeo di Capua, il qual tornava da Francia, che si fermasse in Roma, ed intervenisse come Ambasciadore al trattato della pace, la quale fu maneggiata dal Papa con tanta destrezza, che quell'articolo ch'era stato più malagevole a trattare, cioè la restituzione del Regno di Sicilia, fu con poca fatica accettato dagli Ambasciadori d'Aragona: e si crede che fosse perchè Re Giacomo non avea modo alcuno di trovar denari da provvedere e da opponersi agli apparati del Re di Francia, poichè li popoli, tutti inclinati alla pace, non volevano contribuire; e così a' 5 di giugno dell'anno 1295 fu conchiusa la pace con queste condizioni: che Re Giacomo consegnasse l'isola di Sicilia a Re Carlo, così intera, come l'avea posseduta Carlo I avanti la revoluzione. Che restituisse tutte le terre, fortezze e castella, che li suoi Capitani tenevano in Calabria, Basilicata e Principato; e dall'altra parte Re Carlo gli dasse per moglie Bianca sua figliuola secondogenita con dote di 100 m. marche d'argento, e che si facesse amplissima restituzione ed indulto de' beni e delle persone di coloro, che avevano servita l'una parte e l'altra; ed il Papa ribenedicesse e ricevesse in grazia Re Giacomo e tutti li suoi sudditi e aderenti, togliendo l'interdetto ecclesiastico, ed assolvendogli d'ogni censura. Gli Ambasciadori del Re di Francia entrarono nella pace per lo Re loro, con obbligarlo ancora a farvi entrare il Re di Castiglia.

Questa pace diede gran maraviglia per tutto il Mondo, [410] perchè parea cosa impossibile che Re Giacomo, il quale mantenuto tanti anni quel Regno con le sole forze di Sicilia, accresciuto poi da due altri Regni e di tante altre Signorie che avea in Ispagna, fosse avvilito e fatta una pace; ma li Savii giudicarono che egli avesse fatto prudentemente, perchè con quelli Regni gli era ancora venuta l'impossibilità di potergli difendere tutti, e gli era stata un'eredità di molto più peso che frutto, avendo da guerreggiare ne' Regni di Spagna col Re di Castiglia e col Re di Francia, ed in Sicilia con Carlo: onde gli sarebbe bisognato mantenere tre eserciti ed essere in tre luoghi, il che era parimente impossibile oltre l'inimicizia del Papa, la quale gli facea non minor guerra dell'altre: narrasi ancora, che vi s'inchinò per una promessa che gli fece il Papa d'investirlo del Regno di Sardegna, e di farlo aiutare da Re Carlo suo suocero all'acquisto di quell'isola ed ancora dell'isola di Corsica.

Alla fama di questa pace, che subito giunse in Sicilia, D. Federico che si trovava Luogotenente del fratello, com'era giovane di gran cuore, cominciò ad aspirare al dominio di quel Regno e simulando il suo disegno, mandò prima Ambasciadori al Papa a notificargli, che per quanto toccava a se, era stato sempre pronto e desideroso di vivere sotto le ali e sotto l'ubbidienza della S. Chiesa ed a supplicarlo che volesse riceverlo per tale: il Papa udita l'ambasciata ed accolti benignamente gli Ambasciadori, rispose che avessero detto a D. Federico che gli era stato gratissimo quell'ufficio, e che desiderava molto di vederlo e di adoperarsi per lui. D. Federico andò subito in Roma, e menò seco Ruggiero di Loria e Giovanni di Procida. Il Papa dappoichè l'ebbe accolto con onore [411] grandissimo, avendo vista la disposizione, e la bellezza del corpo, e l'ingegno che mostrava nel trattare, restò quasi fuor di speranza di poterlo persuadere, perchè pareva attissimo a regnare, e sapersi mantenere il Regno: pur non lasciò con ogni arte di manifestargli la pace e di confortarlo, che volesse conformarsi con la volontà del Re Giacomo suo fratello, e lo pregò che quando tornasse in Sicilia, avesse fatta opera che senza ripugnanza si fosse resa quell'isola, perchè egli all'incontro avrebbe tenuta special cura della persona di lui, conoscendolo degnissimo d'ogni gran Signoria, promettendogli di far opera che Filippo figliuolo di Balduino, Imperador di Costantinopoli, gli avesse data per moglie la figlia unica, con la promessa della successione d'alcune terre che possedeva in Grecia, e delle ragioni di ricovrare l'Imperio di Costantinopoli; e promise ancora di farlo aiutare dal Re Carlo e d'aiutarlo ancora egli con tutte le forze della Chiesa. D. Federico per allora non seppe far altro che accettare le offerte, e promettere di far quanto per lui si potea che l'isola fosse resa, e partì.

Ma i Siciliani, com'ebbero inteso da lui la certezza della pace fatta, disperati e malcontenti, non altrimenti che se aspettassero l'ultimo esterminio nel venire in mano de' Franzesi, loro mortalissimi nemici, s'unirono insieme a parlamento, e con quell'audacia che suole nascere dalla disperazione, determinarono di passare per ogni estremo pericolo più tosto che venire a tanta estrema miseria: onde elessero quattro Ambasciadori che andassero al Re Giacomo, e 'l supplicassero che fosser date in guardia agli oriondi del Regno tutte le castella e fortezze di quello, e che ritrovando il Re determinato di restituire l'isola a Re [412] Carlo, gli rendessero l'omaggio, sciogliendosi dal giuramento di fedeltà e di soggezione, con fargli intendere apertamente che in tal caso non erano per ubbidirlo.

Questi Ambasciadori arrivarono nel medesimo tempo, che giunse la Sposa al Re Giacomo, il quale udita l'ambasciata, rispose loro, che per ben della pace e sicurtà di quelli Regni, ove egli era nato, era stato costretto di restituire a Re Carlo suo suocero l'isola; onde imponeva loro che senz'altra ripugnanza quella si restituisse.

Gli Ambasciadori di questa risposta rimasero afflittissimi, ed avendo replicato al Re, che non avea potestà di vendergli, gli restituirono l'omaggio, e protestarono che quel Regno si teneva da quell'ora avanti per libero e sciolto da ogni giuramento, e che avrebbe proccurato altro Re, che con gratitudine ed affezione l'avesse difeso, e con questo si partirono e ritornarono con ogni celerità in Sicilia.

Intanto Giovanni di Procida e Manfredi di Chiaramonte aspettando il loro ritorno, si erano fortificati in alcune piazze, e tenendo per fermo che D. Federico avrebbe assai volentieri abbracciata sì opportuna occasione, gli persuasero che non la lasciasse, e che convocasse un Parlamento generale in Palermo. D. Federico si lasciò cadere dalla mente tutte le promesse del Papa, parendogli che se per mantenere Sicilia bisognava stare con l'armi in mano a casa sua, per acquistare Costantinopoli gli sarebbe stato necessario andare armato con assai maggior disagio e spesa per lo paese altrui; onde fece convocare a Parlamento non solo li Baroni, ma li Sindici tutti delle città e terre, innanzi a' quali gli Ambasciadori riferirono la [413] risposta di Re Giacomo, e fecero leggere la copia che aveano portata della Capitolazione della pace. Il fremito di tutti fu grandissimo, ed allora Ruggiero di Loria insieme con Vinciguerra di Palizzi pronunciarono il voto loro, che D. Federico fosse gridato Re di Sicilia, e s'offersero i primi a dargli il giuramento; la moltitudine non aspettò che seguissero gli altri Baroni secondo l'ordine, ma ad altissime voci gridarono: Viva D. Federico Re di Sicilia. Così l'anno di nostra salute 1296 a' 25 di marzo fu solennemente coronato Re Federico, il quale non meno prudente che coraggioso, diede ordine a far danari e nuove genti, e non solamente s'apparecchiò a difendere Sicilia, ma a continuare ancora l'impresa di Calabria.

(Federico salutato Re di Sicilia spedì sue Lettere a Palermo ed a tutte le comunità di quel Regno, invitandole ad intervenire nella solenne sua coronazione, le quali si leggono presso Lunig, tom. 2, pag. 1049; rapporta ancora pag. 1051 la Bolla di Bonifacio VIII, per la quale annullasi la Coronazione di Federico, ordina che si rivochi, e minaccia censure ai Siciliani, se non faranno ogni sforzo di cacciarlo di Sicilia).

Intanto Re Carlo arrivato ad Anagni, dove era il Papa, lo supplicò che avesse mandato un Legato appostolico, insieme coll'Ambasciadori del Re Giacomo, ad ordinare a' Siciliani che restituissero l'isola in mano di Carlo come fece; ma giunti che furono in Messina, si fece loro intendere che quella città, e tutta l'isola era del Re Federico d'Aragona, e che essi non passassero più oltre, perchè avrebbero trovato quel che non volevano. Gli Ambasciadori insieme col Legato sbigottiti se ne tornarono prima a Napoli a trovare il Re, e poi ad Anagni al Papa, ed all'uno ed [414] all'altro diedero relazione di quel ch'era passato. Parve a Carlo, che era lealissimo di natura, cosa molto inaspettata; ma non parve così al Papa che, da che aveva veduto D. Federico, e considerati gli andamenti suoi, sempre l'avea avuto sospetto. Si risolsero perciò mandare un Legato ed Ambasciadori al Re Giacomo, perchè con tutte le sue forze s'adoperasse che con effetto fosse resa quell'isola.

Mentre il Legato, e gli Ambasciadori andarono in Ispagna, Re Carlo con consiglio del Papa, e de' suoi più savi Baroni, per non aspettare che Re Federico pigliasse più forza, e per non stare in tutto appoggiato nella speranza di Re Giacomo, deliberò movergli guerra. Fu perciò con ugual ferocia ed ardire guerreggiato lungamente in Calabria, ove Carlo ora vincente, ora perdente faticò invano a ricuperare quelle Piazze, che Federico teneva occupate in quella provincia; anzi l'ardir di costui s'estese tanto, che invase la Provincia d'Otranto, prese e saccheggiò Lecce, fortificò Otranto, e disceso a Brindisi accampossi alle mura di quella città[484]. Sol questo danno ricevè Federico da questa guerra, che essendosi disgustato con Ruggiero di Loria, fe' che questi poi passasse al partito di Carlo.

Il Papa avendo avviso di questi felici successi del Re Federico, e che Carlo con le forze che avea allora, appena basterebbe a difendere il Regno di Puglia, e che la ricovrazione di Sicilia anderebbe a lungo, se non gli fossero aggiunte altre forze, parte per mantenere l'autorità della Sede Appostolica, la quale egli era deliberato innalzare quanto potea; parte per [415] l'amore che portava al Re Carlo, lasciò la cura di tutte l'altre cose, e si voltò solo a questa impresa; e per obbligarsi Re Giacomo perchè pigliasse impegno di far restituire in ogni modo la Sicilia, gli mandò l'investitura del Regno di Sardegna, e lo creò Confaloniere di S. Chiesa e Capitan Generale di tutti li Cristiani, che guerreggiavano contro gl'Infedeli, e mandò a pregarlo che con ogni studio avesse atteso a compire quanto avea promesso.

(Questa investitura del Regno di Sardegna, data al Re Giacomo, si legge presso Lunig tom. 2 sect. 3 de Sardiniae Regno, pag. 1415).

Re Giacomo vedendosi, oltre l'obbligo della Capitolazione, obbligato al Papa, ordinò ne' Regni suoi, che si facesse grand'apparato d'armata, e venne in Roma ad iscolparsi e giurare innanzi al Papa, che non era nè consapevole, nè partecipe in modo alcuno della contumacia e della colpa del fratello, e che l'avrebbe mostrato con l'armi in mano a tutto il Mondo; e per allora mandò in Sicilia Pietro Comaglies Frate dell'Ordine de' Predicatori per trattare col fratello, e persuaderlo che ubbidisse al Papa. Frate Pietro non potendo ottenere la restituzione di Sicilia, come Religioso consigliava al Re D. Federico che almeno lasciasse le terre di Calabria, sopra le quali non avea titolo niuno, nè giusto, nè colorato; perchè se bene egli si voleva ritenere il Regno di Sicilia per l'elezione, che aveano fatta di lui li Siciliani, o per lo testamento di Re Alfonso suo fratello primogenito; nel Regno di Puglia, del quale sebbene era stato di Re Pietro il titolo sotto la medesima ragione, che era Sicilia per l'eredità di Re Manfredi, nientedimeno per la cessione fatta da Re Giacomo nella pace, era [416] stata trasferita ogni ragione nella persona di Re Carlo, quando eziandio non gli avessero da valere l'investiture e confermazioni di tanti Papi. Ottenne con questo, che avantichè partisse di Sicilia, il Re Federico mandò a richiamare Ruggiero di Loria, e promise di richiamare tutti li presidii delle terre. Il Frate tornato al Papa ed al Re Giacomo, disse quanto avea fatto, e non restando contenti nè l'uno, nè l'altro, Giacomo mandò appresso il Vescovo di Valenza a pregare Re Federico, che avesse voluto venire a parlamento con lui nell'isola di Procida, o d'Ischia, ove si sarebbe preso alcun buon ordine alle cose loro: Re Federico rispose a questo, che non poteva moversi senza consiglio de' suoi Baroni; ed avendo dimandato ad alcuni quel che era da farsi, Ruggiero di Loria il consigliò, che s'umiliasse al fratello, e che andasse a parlargli; ma entrato il Re, per insinuazione degli emoli di Ruggiero, in diffidenza del medesimo, questi di ciò accortosi, parlò con tanta ira, che il Re gli comandò che non uscisse di Palazzo; ma supplicato il Re, che lo lasciasse andare, egli subito si partì: onde si trattò poi il modo per farlo entrare a' servigi del Re Carlo.

A questo tempo vennero nuovi Ambasciadori del Re Giacomo in Sicilia, con ordine, che se il Vescovo di Valenza non avesse ottenuto, che Re Federico fosse venuto a parlamento con lui, gli conducessero la Regina Costanza e l'infante Donna Violante a Roma, dove il Re Giacomo l'aspettava. Federico non volle sopra ciò mostrare di dispiacere al fratello, e disse alla madre, ch'era in potestà sua l'andare, come il fermarsi in Sicilia, e così ancora il menarne la sorella: quella Regina come savia ed amatrice dell'uno [417] e l'altro figlio, elesse d'andare, ancorchè sapesse d'incontrarsi col Re Carlo, figliuolo di colui, che avea ucciso il fratello, e fatta morire la Regina Sibilla sua madre ed un fratello unico in carcere, perchè dall'altra parte sperava di mitigare l'animo del Re Giacomo verso Federico; e così postasi in mare con la figlia, navigò verso Roma. Fu certo raro esempio della varietà delle cose umane vedere quella Regina accompagnata da Giovanni di Procida e da Ruggiero di Loria, che con le sue galee l'avea aspettata in mare, che s'imbarcasse ed andassero tutti insieme in cospetto di Re Carlo, al quale aveano fatti tanti notabilissimi danni. Re Giacomo accolse la madre e la sorella con grandissima reverenza, e le disse, come per mezzo del Papa avea promessa la sorella per moglie a Roberto Duca di Calabria, il quale s'aspettava il dì seguente. La madre ne restò quieta, sperando che, quanto più si legassero in parentado, più fosse col tempo agevole a conchiuder pace tra loro. Venne fra due dì Re Carlo col Duca di Calabria, e con tre altri figli con tanta pompa che fu a Roma cosa mirabile e nuova, perchè oltre il numero de' Conti, di tanti Ufficiali e Consiglieri del Re, era cosa molto bella a vedere presso ciascuno de' figli un numero quasi infinito di Cavalieri benissimo in ordine, di Paggi e di Scudieri, vestiti di ricchissime divise, ed il Papa, che ancora avea animo regale, per quel che toccava a lui con grandissima magnificenza e liberalità volle, che innanzi a lui si facesse lo sponsalizio, e che i Nepoti suoi celebrassero sontuosissimi conviti all'uno ed all'altro Re, ed a' figliuoli; ma finite le feste volle, che si trattasse delle spedizioni, che s'aveano da fare contro Re Federico per la ricovrazione di Sicilia; e per lo primo e più importante [418] apparato, trattò che Ruggiero di Loria entrasse a servire Re Carlo con titolo d'Ammiraglio dell'uno e dell'altro Regno, e Re Giacomo ritornasse in Catalogna, e Re Carlo in Napoli, a ponere in ordine le loro armate; ma avanti che Carlo partisse, per mostrarsi grato verso il Papa, essendo rimasta Giovanna dell'Aquila erede del padre nel Contado di Fondi ed in sei altri castelli in Campagna di Roma, la diede per moglie a Giordano Gaetano figlio del fratello del Pontefice; ed in questi dì medesimi morì in Roma Giovanni di Procida, uomo di quel valore e di quell'ingegno, che tutto il Mondo sa.

Ma tornando al Re Carlo, subito che e' giunse a Napoli fece grandissimi privilegi ed onori a Ruggiero di Loria, al quale restituì non solo tutte le terre antiche sue in Calabria, in Basilicata ed in Principato; ma glie ne donò molte altre, ed ordinò ancora a tutti i Governadori di province ed altri Ufficiali, che ubbidissero agli ordini di Ruggiero per l'apparecchio dell'armata.

Dall'altra parte il Re Federico, ch'era avvisato di quanto si trattava ed apparecchiava contro di lui, s'accinse anch'egli a sostener l'impeto di tanta procella, che se gli minacciava. Fece citar Ruggiero di Loria, e lo condannò per ribelle, e mandò subito a togliergli le terre che avea in Sicilia. Re Giacomo dopo aver richiamati tutti gli Aragonesi e Catalani, che erano in Sicilia ed in Calabria, avea già posto in ordine una buona armata, con intenzione di venire ad unirsi con quella di Re Carlo; non solo per costringere il fratello a lasciare la Sicilia, ma anche per acquistare il Regno di Sardegna, del quale n'avea ricevuta l'investitura da Papa Bonifacio. Partito da Barcellona, [419] venne a Civitavecchia, e poi a Roma, ove trovò il Papa, che l'accolse con molti segni di stima e di allegrezza.

Non fu Pontefice al Mondo, che tenesse sì alti e fantastici concetti del Papato quanto Bonifacio VIII. Era egli persuaso, che non meno dello spirituale, che del temporale fosse assoluto Monarca dell'Universo. Per maggiormente ciò dimostrare, avendo nell'anno 1300 pubblicato il Giubileo, con ordinare che lo stesso fosse rinovato ogni cento anni, traendo con ciò gran concorso di gente in Roma, egli per far maggior pompa di se, comparve nelle Cerimonie colle duplicate Corone sopra il Camauro, e vestito del Manto Imperiale, prendendo per divisa: Ecce duo gladii hic. Egli perciò credea di poter togliere e dare i Regni a sua posta; investì perciò il Re d'Aragona del Regno di Sardegna, al Re Federico avea promesso l'Imperio di Costantinopoli, ed a Ruggiero di Loria, che col suo valore si trovava nelle coste dell'Affrica aver acquistate in que' mari alcune isole, che furono Gerba e Karkim, non appartenenti all'Isola di Sicilia, ma al Regno di Tunisi, egli fattosi promettere per censo ogni anno cinquanta once d'oro al peso di Sicilia, ne gli diede investitura per lui e suoi eredi, commettendo a Fr. Bonifacio Calamendrano G. Maestro de' Cavalieri Gerosolimitani, che ne ricevesse il solito giuramento di fedeltà e d'omaggio. L'investitura fatta a Ruggiero di quelle isole a' 11 agosto del 1285 primo anno del suo Pontificato, si legge presso il Tutini[485], che la cavò dall'Archivio Vaticano. Così ora giunto il Re [420] Giacomo in Roma, con grandissima solennità lo fa Gonfaloniere e Capitan Generale per tutto l'Universo contra gl'infedeli, e gli consignò lo stendardo.

Partì Giacomo accompagnato dal Cardinal Marramaldo Legato appostolico, col quale in brevi dì giunse a Napoli, ove trovò Roberto Duca di Calabria suo cognato con 36 galee, e con maggior numero di navi da combattere e da carico; e congiunta quest'armata insieme con l'armata catalana, facevano il numero di 80 galee grosse e più di 90 navi; oltre a' navili minori, che usavano a quel tempo, parte chiamati Uscieri e parte Trite. Con questa grande armata a' 24 agosto del 1298 il Re, il Duca Ruggiero di Loria ed il Legato appostolico partirono da Napoli, ed invasero da più parti la Sicilia. La spedizione in su 'l principio parve felice, poichè si resero Patti, Melazzo, Nucara, Monteforte ed il castello di S. Pietro e molti altri luoghi di quella Valle.

Dall'altra parte Re Federico con Corrado Doria genovese, che avea creato Capitan generale dell'armata di mare, si misero con ogni studio a fortificare i luoghi più importanti, ed a vietare le vettovaglie al campo nemico; onde Re Giacomo vedendo le cose andar in lungo, ed essere già la stagione avanzata, per non avventurare così grande armata in quella marina mal sicura allo spirare di Tramontana, passò il Faro, ed andò a Siragosa città con porto più capace: ma giunto quivi alla fine d'ottobre, trovò che vi era dentro con presidio Giovanni di Chiaramonte, il quale non fece segno alcuno di volersi rendere; onde cominciò a darvi il guasto, ed a mandare parte di sue genti ad occupare le terre convicine di Val di Noto: ed avendo alcuni Preti, ch'erano dentro la città, per [421] far cosa grata al Legato appostolico, ch'era al campo, ordita una congiura di dare a Ruggiero di Loria una torre delta città, la trattarono così scioccamente, che si discoverse, e Giovanni di Chiaramonte punì molto bene i colpevoli.

Intanto portandosi a lungo quest'assedio, Re Federico ragunato tutto il corpo della cavalleria siciliana con spesse scorrerie infestava tutte quelle terre, che s'erano rendute a Re Giacomo, e che mandavano vittovaglie al campo del medesimo e vedutosi, che mantenendosi gagliardamente Siragosa, l'esercito del Re Giacomo perdeva di giorno in giorno di riputazione, i cittadini di Patti alzarono le bandiere di Re Federico, e posero l'assedio al castello di quella città, ove s'erano ritirate le genti, che Re Giacomo v'avea lasciate per presidio. Per la difesa di questo castello accaddero più fatti d'armi, ne' quali restando perditori le genti del Re Giacomo, lo posero in somma costernazione, tanto, che vedendosi sopra l'inverno, ed il suo esercito in gran parte infermo per incomodità sofferte nell'assedio; e dubitando, che l'audacia crescesse tanto a' nemici, che venissero ad accamparsi all'incontro di lui, levò l'assedio di Siragosa, e navigò verso Napoli con molto più sdegno che onore, e con animo di ritornare, quanto prima potea, a far guerra maggiore; ma sopraggiunto da una crudelissima tempesta sopra l'isola di Lipari, che disperse la maggior parte di sue galee e navi, a gran fatica si ridusse salvo col resto a Napoli. E quivi giunto fu subito assalito da una gravissima infermità di corpo e d'animo contratta non meno per l'incomodità sofferte nella guerra e nel naufragio, che per dispiacere d'impresa così infelice, e dopo essere stato gran tempo [422] in pericolo della vita, finalmente confortato dall'allegrezza, perchè la Regina Bianca sua moglie avea in Napoli partorito un figliuolo, il quale fu poi suo successore in que' Regni, sul finire dell'estate di questo anno 1299 navigò con lei verso Spagna; ed in pochi dì giunse salvo al Porto di Roses, e consumò tutto quel verno nel preparare le cose necessarie per rinovare al principio del nuovo anno con maggior forza la guerra, e per poter essere più presto ad assaltare l'isola. E veramente questo Re mostrò bene la bontà dell'animo suo regale, avidissimo d'attendere quel che avea promesso al Papa ed al Re Carlo suo suocero. Dall'altra parte Re Carlo in Napoli, come che di natura pacifico e avverso agli esercizi dell'arme, era sollecitato e spinto da' suoi figliuoli giovani arditi e bellicosi, onde con simile attenzione pose in ordine la parte dell'armata che toccava a lui; tal che ritornato il Re Giacomo a Napoli con lo sforzo dell'armata sua all'ultimo d'aprile del nuovo anno 1300 a' 24 del seguente mese di Maggio partiron le Galee e le navi, e quel dì medesimo fecero vela per Sicilia Roberto Duca di Calabria e Filippo Principe di Taranto, figliuoli del Re Carlo, e di comun voto col Re Giacomo fecero Generale dell'una e l'altra armata Ruggiero di Loria.

[423]

CAPITOLO IV. Guerra rinovata in Sicilia. Morte di Carlo Martello Re d'Ungheria; e pace conchiusa col Re Federico.

Fu l'ultimo anno di questo decimoterzo secolo assai memorabile non meno per le tante battaglie accadute in Sicilia, che per l'audacia del Re Federico e per le molte gloriose azioni di tanti valorosi Principi ed eccellenti Capitani, e sopra ogni altro del famoso Ruggiero di Loria, descritte così a minuto e con tanta vivezza dal celebre Costanzo[486], che serbando il nostro istituto, saremo sol contenti in accorcio qui notarle, con rimettere coloro, che forse volessero a pieno soddisfare i loro desiderj, a quel gravissimo Istorico.

Il Re Federico, che liberato da quel primo insulto, pieno d'animo e di coraggio avea ridotte sotto le bandiere le terre di quell'isola, invase da' suoi nemici, essendo stato avvisato dell'apparato stupendo, che si faceva contro lui, fece subito per tutte le parti dell'isola ponere in ordine il maggior numero di galee che fu possibile, con proponimento d'uscire incontro a' nemici e con intrepidezza inudita ponere ogni cosa a rischio in una giornata.

Nè è da tralasciare quel che ponderò il mentovato savissimo Scrittore[487], essere stata veramente cosa maravigliosa (per quella difficoltà, che si vedea a' suoi [424] tempi e molto più ne' nostri, nel ponere in ordine le armate) come que' Re poveri di quel tempo bastassero in tanto breve spazio a fare tanto numero di galee, quanto si vide messo in acqua, ed in esercito in quegli anni, che durò la guerra di Sicilia: rapportando alcuni, che Re Federico n'ebbe in punto cinquantotto, che pare cosa incredibile, ed aver potuto perfettamente armarle in quel poco spazio ch'ebbe di respirare, tra l'una guerra e l'altra.

Sentendo adunque Federico, che l'armata nemica sarebbe uscita fra pochi giorni da Napoli, egli partì da Messina con animo di combatterla, confidando all'audacia ed ostinazione de' Siciliani, i quali appena la scoversero, che ad alta voce gridando chiedevano battaglia. Frenogli il Re sino all'alba del giorno seguente, nella qual ora movendosi con la galea sua Capitana in mezzo di tutte le altre, andò con grandissimi gridi contro l'armata nemica. Ruggiero di Loria vedendo, che la temerità de' Siciliani avea mosso quel Re a speranza di vittoria, pose nel mezzo delle sue galee, la Capitana del Re d'Aragona e quella di Napoli, ove erano il Duca di Calabria e 'l Principe di Taranto, ed appressatosi a' nemici ricevè la battaglia. Fu con pari valore e pari ardire lungamente combattuto, ma con arte disuguale; poichè Ruggiero fingendo di fuggire, tirò in luogo le galee nemiche, dove potè con facilità stringerle, onde ruppe l'armata, e rimasero tutte o prese, o poste in fondo, e sol Federico con dodici galee, che lo seguirono, fuggendo si ricovrò a Messina.

Per questa così memorabil rotta seguita con tanta gloria di Ruggiero, rimasero tanto afflitte le cose dei Siciliani, che non fu persona a que' tempi, che non [425] giudicasse, che la Sicilia tra pochi dì avesse da venire in mano del Re Carlo; ma ecco come spesso errano i giudizi umani, perchè Re Giacomo credendo di aver tanto abbassate e consumate le forze del Re suo fratello, che le genti del Re Carlo sotto il governo di Ruggiero di Loria, non avessero da far altro, che fra pochi giorni pigliare la possessione dell'Isola, non volle procedere più oltre, parendogli d'avere soddisfatto al Mondo, al Papa e al Re Carlo, avendo in due guerre tanto speso e posto in pericolo la persona sua nella prima guerra con l'infermità, ed in questa battaglia con una ferita. E così essendo venuto il Duca di Calabria ed il Principe di Taranto e Ruggiero a visitarlo, dappoichè fu medicata la ferita, disse loro, che avendo piaciuto a Dio con sì notabile vittoria d'adempire le sue promesse, nè restando altro che pigliar la possessione della Sicilia, era ormai tempo ch'egli ritornasse in Ispagna a' suoi Regni, per disponere le cose in modo, che que' Popoli impoveriti per le gravezze sostenute in quella guerra, venissero a ristorarsi con mettere fine a' loro danni, che perciò lasciava loro a godersi il frutto della vittoria. Il Duca ch'era giovane di 23 anni avidissimo di gloria, accettando per vero tutto quello, che il Re diceva, e rendendogli insieme lodi e grazie a nome del Re suo padre, gli augurò prospero e felice viaggio, e così partito il Re, rimase egli allegro, credendosi che resterebbe a lui l'onore di ridurre felicemente l'impresa al desiato fine; ma molto più rimase allegro Ruggiero giudicando, che siccome era stata sua la gloria della vittoria, tale ancor sarebbe l'onore di quello, ch'avea da succedere. Non mancarono però molti, che dissero, che Re Giacomo si partì più tosto per la pietà fraterna, [426] che per giudicare le cose del Re Federico al tutto disperate.

Tra questo mezzo giunto Federico con le dodici galee in Messina, inanimito da que' cittadini a non abbandonar la difesa, e vie più fatto ardito quando a Messina giunse l'avviso, che il Re Giacomo era partito, cercò di raccogliere il maggior numero, che potea di fanti e di cavalli, ed andò a ponersi con tutto il suo sforzo a Castro Giovanni, luogo di natura fortissimo ed opportuno a soccorrere ovunque il bisogno lo chiamasse. Dall'altra parte il Duca di Calabria prese Chiaramonte, e dopo lungo contrasto Catania al fin si rese. La fama dell'acquisto di questa città andò non solo divulgando quello ch'era, ma che le due parti dell'isola aveano alzate le bandiere della Chiesa e del Re Carlo; onde Papa Bonifacio, che l'avea creduto, lusingandosi di potere senza tanto spargimento di sangue Cristiano, quietamente ridurre tutta l'isola all'ubbidienza del Re, vi spedì subito il Cardinal di Santa Sabina per Legato appostolico, il quale dovesse assicurare su la parola sua i Siciliani a rendersi, perchè sarebbero ben trattati; minacciando anatemi ed interdetti, se non ubbidissero; promettendo all'incontro benedizioni ed indulgenze, se si rendessero. Ma Ruggiero di Loria, conoscendo l'animo indomito de' Siciliani, che non si piegavano se non colla forza, persuase al Duca, bisognare a spedir la guerra altro aiuto di quello, che portava il Legato; ed il nemico doversi vincere con armi e non a suono di campanella e di scomuniche[488]. Fu perciò richiesto nuovo ajuto da Napoli, e dal Re Carlo furono mandate dodici altre [427] galee, e molti legni di carico; ed il Principe di Taranto con seicento cavalli, e mille fanti, diede alla Falconara la battaglia, ove restò prigione ed i suoi rotti. Fu dopo la prigionia di questo Principe guerreggiato con maggior audacia da Federico, ed avendo scoverta una congiura tesa contro la sua persona, tosto la ripresse, e punì i colpevoli. Il Duca di Calabria passò ad assediar Messina, ma soccorsa da Federico, il Duca vedendo il campo suo oppresso di fame e di molte infermità, si levò dall'assedio. Allora fu che per mezzo di Violante Duchessa di Calabria, sorella di Federico, si cominciò a trattare di triegua, che fu conchiusa per sei mesi. E 'l Duca tra questo spazio volle andare in Napoli a rivedere il padre, e lasciò la Duchessa Violante con un figliuolo, ch'avea partorito in Catania, per dare a credere ai partigiani suoi, che no 'l faceva per abbandonare l'impresa, ma per tornare con maggior forza.

Fra questi sei mesi Papa Bonifacio pensò in vantaggio di Re Carlo favori ed aiuti nuovi, e l'occasione fu questa, ch'essendo morta a Carlo di Valois fratello del Re di Francia la prima moglie, ch'era figliuola del Re Carlo, il Valois aveva pigliata una figliuola di Filippo, nato dall'ultimo Balduino Imperadore di Costantinopoli, erede di molti luoghi in Grecia, e del titolo e della ragion dell'Imperio, ch'era stato occupato dal Paleologo; e con l'ajuto del Re di Francia e del Papa, voleva andare all'impresa di Costantinopoli. Ed essendo nel viaggio giunto a Fiorenza, che allora per le solite fazioni si trovava in discordia, fu richiesto da que' cittadini, perchè gli componesse; ma egli pose più discordia, che prima vi era, e partissi per Roma, ove Papa Bonifacio gli persuase, che [428] l'impresa di Costantinopoli sarebbe stata più agevole aiutando egli Re Carlo a fornir l'impresa di Sicilia; perchè poi avrebbe potuto avere da costui più pronti aiuti, e più comodi soccorsi, che non già dal Re di Francia, per la brevità del cammino da Puglia in Grecia. Accettò il consiglio il Valois, e venne subito a Napoli con le sue genti, dove, tra le sue galee e navi, con altre che s'armavano quivi, posero molte truppe in ordine, e con felicissimo viaggio egli ed il Duca giunsero in Sicilia, a tempo, ch'era già finita la triegua. Non è dubbio, che vedendosi tanto numero di nemici in quell'isola, ogni uno giudicava le cose di Federico disperate; ma questo Principe con quel vigor d'animo, ch'era suo naturale e con quella prudenza, in che superò ogni altro Re del suo tempo, andò compartendo le sue poche genti a' luoghi di maggior importanza, così aspettando che il tempo diminuisse la forza de' nemici. Ed in effetto il Valois avendo spesi molti giorni senza fare gran frutto, Re Federico venne a certissima speranza di vincere senza combattere.

In quest'anno 1301 che queste cose passavano in Sicilia, accadde in Napoli l'acerba ed immatura morte di Carlo Martello Re d'Ungheria. Erasi questo Principe il precedente anno, coll'occasione del nuovo Giubileo pubblicato da Papa Bonifacio, portato in Roma a visitare la Basilica di S. Pietro, e venne poi a Napoli a visitar suo padre, e forse ancora, vedendo il padre vecchio, a proccurare, che il Regno di Napoli, dopo la sua morte restasse a lui, temendo, che trovandosi egli lontano, i fratelli non l'occupassero: ma il suo destino portò, ch'e' morisse prima, non senza sospetto, secondo narra il Carafa, che Roberto suo [429] fratello per ambizione di regnare dopo la morte del padre, l'avesse fatto avvelenare. Morì non avendo più che 30 anni con dolore universale di tutto il Regno, perchè era un Principe mansueto e splendido; e molti nobili Napoletani, ed altri di questo Regno, che vivevano splendidamente in casa sua, restaron privi di quel sostegno, e della speranza d'esaltarsi, servendo a Signore magnanimo e liberalissimo. Lasciò di Clemenzia sua moglie, che era figliuola di Ridolfo Imperadore, un figliuolo chiamato Caroberto, che gli successe nei Regno d'Ungheria. Fu sepolto nella chiesa maggiore di Napoli, appresso la sepoltura di Carlo I suo avo, ove si vede il sepolcro coll'armi sue e quelle di casa d'Austria, che sono della moglie; donde fu spinto il Conte d'Olivares Vicerè, sotto il Regno di Filippo III di collocare in luogo più eminente su la porta di quella chiesa, ed in più magnifica forma, questi due sepolcri, insieme coll'altro della Regina sua moglie.

Ma ritornando alle cose di Sicilia, il Re Federico persistendo nel suo proposito, non comparve in campagna mai, sol mirando a guardar le terre, perchè vedea, che un sì grande esercito, com'era il nemico, non potea non dissolversi presto, o per mancamento di paghe o di vittovaglie. Pur non mancava con la solita destrezza e con l'ajuto de' Cavalieri siciliani, che lo servirono mirabilmente, di trovarsi dov'era il bisogno, con assalire le scorte, che conducevano vittovaglia. Dopo brevi dì, nel campo incominciarono a sentir penuria, ed infermò gran quantità di soldati; onde il Valois cominciò a dar orecchio a parole di pace, giacchè troppo diminuendo l'esercito suo, non avria potuto far passaggio a Costantinopoli. Alcuni [430] rapportano, che sì trattò la pace dalla Duchessa Violante. Furono adunque eletti così dall'una parte, come dall'altra personaggi con autorità per negoziarla. Il Re Federico, e i Siciliani per la gran povertà di quel Regno e sua, n'avevano maggior desiderio. Così a' 19 agosto di quest'anno 1302 fu conchiusa con gran piacere di tutti e più di Federico, per essere stata per lui molto onorata. Solo la Duchessa Violante, con infinita doglia di suo marito e di suo fratello morì prima, che fossero firmati i Capitoli della pace, che furono i seguenti.

Che il Re Federico in vita sua fosse Re di Sicilia; e poi quella ritornasse liberamente a Re Carlo e suoi eredi.

Che e' s'intitolasse non Re di Sicilia, ma Re di Trinacria.

Che a lui si tornasse in termine di quindici dì ogni terra, che in Sicilia si tenea per Re Carlo; al quale all'incontro nel medesimo termine egli restituisse ogni terra ed ogni fortezza, che in Calabria tenevano bandiera sua.

Che dall'una e dall'altra parte si liberassero i prigioni senza pagar taglia.

Che il Re Federico pigliasse Lionora figliuola terzogenita del Re Carlo per moglie.

Che il Re Carlo procurasse, che il Papa avesse a ratificar la pace, e così ad investirlo di Sardegna o di Cipri, dove poi rimanessero i figliuoli, che fossero nati da questo matrimonio. Ed acquistando Re Federico di que' Regni o l'uno o l'altro, che andasse a regnarvi; risegnando subito al Re Carlo il Regno di Sicilia, con pagarglisi a conto di sua dote all'incontro centomila once d'oro.

[431]

(In esecuzione di questa pace, Federico nel 1303 prestò il giuramento di fedeltà al Pontefice Benedetto XI ch'era succeduto a Bonifacio VIII per mezzo del suo Proccuratore Corrado Doria, nel qual'istrumento, che si legge presso Lunig tom. 2 pag. 1054 Federico è chiamato Re di Trinacria).

In cotal guisa terminossi la guerra di Sicilia. Fu liberato il Principe di Taranto con gli altri Baroni prigionieri, ed il Re Federico andò a visitare il Valois, e 'l Duca di Calabria al campo, e con grand'amore s'abbracciarono ed unitamente mandarono a Re Carlo in Napoli per la ratificazion della pace, e per condurre la sposa in Sicilia. Re Carlo, che naturalmente era pacifico ed inchinando l'età sua alla vecchiezza, gli rincrescea molto la guerra, accettò gli articoli; e poich'ebbe ratificato, mandò sua figliuola con Giovanni Principe della Morea suo figlio ottavogenito: ed in Sicilia si ferono quelle feste, che la qualità di quei tempi comportò, più tosto con animi lieti, che con magnifiche pompe: e Carlo di Valois col Duca, e 'l Principe, e gli altri Baroni, riposti in libertà ritornarono in Napoli[489].

Questa pace per tutta Europa si giudicò molto vantaggiosa ed onorata per lo Re Federico, e fino al Cielo esaltarono la virtù sua, che con debili forze d'un picciol Regno, e' solo erasi mantenuto e difeso da molti avversari poderosi; e quantunque la condizione, che egli fosse Re in vita, pareva onorata per l'altro; nientedimeno chi era giudizioso mirava, che dopo sua morte s'avria da entrare all'esecuzione della pace, più tosto con l'armi, che con la carta de' Capitoli. Per [432] contrario si tenne poco onorata per Carlo di Valois; e da Giovanni Villani è scritto, che il motteggiarono per Italia, che era andato in Fiorenza a porvi pace, e lasciovvi nuova guerra; e che era andato in Sicilia a far guerra, e partivano con disonorata pace.

Il Valois ritornato a Napoli, indugiò molti giorni, riconciando l'armata, ed ancor dando tempo all'apparecchio del Re Carlo, che deliberava con ogni cortesia d'aiutarlo, e mandare il Principe di Taranto ed il Principe della Morea suoi figliuoli in Grecia. Ma, come accader suole nell'imprese grandi, essendo insorta tra il Pontefice Bonifacio ed il Re di Francia fiera guerra, contro cui fece anche il Papa mover guerra dal Re inglese; perciò non solo fu escluso il Valois degli aiuti del Papa e del Re di Francia, ma gli fu ancor necessario di ritornar a' suoi per l'aiuto di quel Regno; e non ebbe poi mai più comodità a far l'impresa; anzi in progresso di tempo avendo due figliuole di quella moglie, ch'era nipote dell'Imperadore Balduino, diede l'una per moglie al Principe di Taranto, che per lei s'intitolò Imperadore di Costantinopoli, e l'altra dopo molti anni fu moglie di Carlo Duca di Calabria, figliuolo di Roberto.

Ruggiero di Loria, al qual pareva, che in questa pace non avevan di lui fatto quel conto, che sua virtù meritava, benchè gli avesse donati Re Carlo ampi Stati nel Regno, in iscambio di quelli, ch'avea perduti in Sicilia, pur se ne passò in Catalogna ricchissimo di gloria, dove poi morì, con nome del più fortunato e Gran Capitano di mare, di quanti ne sono lodati per l'istorie greche e latine.

Ma ritornando alla pace, dicono alcuni Autori, che trovandosi il Legato Appostolico al trattar di quella [433] costrinse Re Federico a promettere una certa ricognizione alla Sede Appostolica, ma o fosse ciò vero o falso, non ebbe alcun effetto; poichè Papa Bonifacio poco da poi della sua prigionia morì d'afflizione in Roma a' 11 ottobre di quest'anno 1303, ed in suo luogo fu rifatto Benedetto XI Trivigiano dell'Ordine Frati Predicatori, il quale a' 6 luglio del seguente anno morì, non senza sospetto di veleno, e lasciò nel Collegio molte discordie; poichè essendosi quello diviso in tre fazioni, dell'una era capo Francesco Gaetano nipote di Bonifacio, uomo fatto assai potente dal zio, così di ricchezze, come di sequela; era capo dell'altra Napolione Orsino; e dell'altra il Cardinal di Prato: onde la Sede vacò per tredici mesi, ed al fine a' 5 di luglio del 1305 fu eletto Pontefice l'Arcivescovo di Bordeos franzese, che allora stava in Francia, e fu chiamato Clemente V.

Costui fu che, o a persuasione del Re di Francia, o per amor del paese nativo, in cambio di venire a coronarsi a Roma, trasferì la Sede Appostolica in Avignone, chiamando a quella città i Cardinali; dove poi con gran danno d'Italia si fermò per più di settanta anni, finchè Gregorio XI non la restituisse a Roma; ed a compiacenza di quel Re si coronò a Lione, ove intervennero egli, Carlo di Valois e molti altri Principi Oltremontani. Mandò poi il Papa tre Cardinali Legati in Roma colla potestà Senatoria, da' quali quella città e lo Stato fosse governato.

Da quest'anno 1305 fin al 1309 nel qual morì, il Re Carlo stette assai quieto nel Regno di Napoli, e si diede a magnificar questa città, ed agli altri studj di pace, come diremo. E parve che la fortuna gli rendesse per altra via quello, che di reputazione avea perduto [434] con la pace fatta col Re Federico; poichè i Fiorentini per le civili discordie vennero a pregarlo, che mandasse in Fiorenza il Duca di Calabria, a cui da loro si profferiva il governo della città: come ne gli compiacque, e Fiorenza il ricevè come suo Signore. Andò poi il Duca a visitar il Papa in Avignone, e dopo maneggiate col medesimo alcune cose in beneficio de' Guelfi, cavalcò per la Provenza, dove que' Popoli gli fecero ricchissimi presenti, ed all'istesso tempo tolse la seconda moglie, che fu la figliuola del Re di Majorica del sangue Aragonese, cugina della Duchessa Violante sua prima moglie: e con volontà di Carlo suo padre congiunse col cognato primogenito di quel Re, Maria sorella sua quartogenita. Nè mancarono tra 'l maneggiare in Francia questi matrimoni, altre feste a Napoli, perchè il Re Carlo diede Beatrice sua figliuola ad Azzo Marchese di Ferrara, e conchiuse il matrimonio della figliuola del Valois col Principe di Taranto, per la qual donna si trasferirono il titolo e le ragioni dell'Imperio di Costantinopoli nella Casa del Principe di Taranto; poichè il Valois vedendosi fuor di speranza a poter fare quell'impresa, la delegò al Principe, facendolo suo genero, scorgendolo uomo bellicoso, e per ajuti, che potea dargli il padre, abile a fare in que' paesi qualche conquista. Il Tutini[490] rapporta queste ragioni essergli pervenute non già dalla figliuola del Valois sua seconda moglie, ma dalla terza, che fu Caterina figliuola di Balduino Conte di Fiandra ed Imperadore di Costantinopoli, e porta una carta d'investitura fatta dal Principe e da Caterina, che s'intitolano Imperadori costantinopolitani, [435] per la quale creano Re e Despoto della Romania e dell'Asia minore, con tutti li Contadi, Baronie e isole adiacenti Martino Zaccaria, Signore dell'isola di Chio suo Consigliere, concedendogli tutte le prerogative regie e Despotali: che potesse bere in tazza d'oro, portare corona e scettro regio, scarpe rosse, con altre insegne regali, come più innanzi diremo.

CAPITOLO V. Napoli amplificata da Carlo II e resa più magnifica per edificii, per lustro della sua Casa regale, e per altre opere di pietà illustri e memorabili, adoperate da lui non meno quivi, che nell'altre città del Regno.

Inchinando questo Principe più agli studj di pace che a quelli della guerra, ed avendo così egli, come suo padre fermata la sede regia in Napoli, ed in conseguenza resala più numerosa di gente volle amplificarla; e fatti levare molti giardini, che avea intorno, fece in quelli far edificii, e allargando il recinto delle mura della città, fece più oltre trasferire le Porte, onde que' luoghi, che erano fuori, furono rinchiusi dentro: di che la città ricevè non picciola ampliazione; e per invitare altri ad abitarvi, fece franca la città d'ogni pagamento fiscale. Ordinò ancora a petizione della medesima, la gabella detta, del buon denaro, che fu molto grata a' cittadini servendo per riparazione delle strade, e per altri beneficii pubblici, come si [436] vede ne' Capitoli del Regno sotto l'anno 1306[491]. Perchè in essa il traffico ed il commercio fosse più sicuro e frequentato, per sicurezza delle navi fece edificare il Molo, che ora per l'altro più grande fatto a' tempi de' Re austriaci, appelliamo il Molo piccolo[492]. Alcuni anche scrissero, che facesse egli edificare il castel di S. Eramo, chiamato così da una picciola Chiesetta, che prima era sopra quel Monte dedicata a questo Santo, ancorchè il Collenuccio, ed altri vogliano, che quella fabbrica fosse stata opera di Roberto suo figliuolo. Stabiliti in questa città quei due grandi e supremi Tribunali della G. Corte, e l'altro del Vicario, per maggior comodità de' Giudici e de' litiganti fece fabbricare appresso il Castel Nuovo con grandissima spesa un Palazzo, nel qual doveano quelli reggersi, siccome tutti gli altri Tribunali di giustizia[493]; li quali da poi essendo stato dalla Regina Giovanna I quel palazzo converso in tempio ad onore della Corona di Cristo, furono trasferiti nel tenimento della Piazza di Nido nell'Ospizio del Comune di Venezia, siccome il Tutini[494] raccoglie da uno istromento stipulato nell'anno 1431 ove si leggono queste parole: In quo Hospitio M. C. Magistri Justitiarii Regni regebatur et regitur ad praesens. Indi si portarono nella strada di S. Giorgio Maggiore in un palazzo attaccato al campanile di quella Chiesa, il qual fin oggi ritiene il nome di Vicaria vecchia; insino che ne' tempi di D. Pietro di Toledo nell'anno 1540 non si fossero tutti ridotti nel Castel capuano, ove oggi per l'infinito numero de' litiganti, Giudici [437] ed Avvocati s'ammira per una delle cose più stupende, non pur d'Italia, ma di tutta Europa.

Non mancò ancora, per render questa città vie più magnifica di ciò che avea fatto suo padre, di ampliare i privilegi all'Università degli studj, e per maggiormente illustrarla, di chiamare a quella i più rinomati Professori d'Italia, invitandogli con grossi stipendii. Così nell'anno 1296 fece venire da Bologna Dino de Muscellis celebre Giureconsulto con salario di cento once d'oro l'anno[495]. Richiamò ancora da Bologna Giacomo di Belviso, dandogli l'istessa provisione, che suo padre gli avea stabilita di 50 once d'oro l'anno. Nel 1302 con grosso stipendio fece venire ad insegnare in quest'Università il Jus Canonico Maestro Benvenuto di Milo Canonico di Benevento, e celebre Canonista di que' tempi, che fu Maestro del famoso Biase di Morcone[496]. V'invitò ancora nell'anno 1308 Filippo d'Isernia famoso Legista a leggervi il Jus Civile. E poichè in que' tempi praticavasi il lodevol istituto, osservato oggi in Ispagna, che i Professori dalle cattedre passavano alle toghe ed alle mitre, si vide da poi il Canonista Milo fatto Vescovo di Caserta: e Filippo d'Isernia Consigliere del Re, ed a' tempi del Re Roberto Avvocato Fiscale. Richiamò ancora a leggervi Medicina Filippo di Castrocoeli, con accrescergli il salario, che suo padre gli avea prima assignato d'once 12 insino ad once 36 d'oro l'anno. Furonvi ancora chiamati a leggervi logica, Accorsino [438] da Cremona, celebre in que' tempi per le arti liberali, ed altri insigni Professori per l'altre Scienze[497]. E perchè ritenesse quello splendore e lustro, che Federico II aveale dato, rinovò la proibizione fatta dal medesimo a' Professori di non potere sotto pena di 50 once d'oro leggere in privato, o in altro luogo, eccetto solo in quella Università pubblicamente: di che nei regali registri de' suoi tempi se ne leggono molti divieti[498]. Per la qual cosa avendo presentito, che in Solmona alcuni s'erano dati a leggere Jus Canonico, fu da questo Principe ad istanza de' Lettori napoletani spedito rigoroso ordine, che subito se n'astenessero, spettando ciò solo all'Università degli studj di Napoli[499].

Rese anche adorna non meno questa città, che il Regno, per le magnifiche chiese ed ampi monasterii, che parte vi costrusse di nuovo, e parte ampliò. Oltre d'aver ridotto a perfezione, ed in più ampia forma l'Arcivescovado di Napoli e la Chiesa di S. Lorenzo, a cui unì un ben grande Convento di Frati Conventuali di S. Francesco; opere incominciate da suo padre ma non già ridotte a fine; fondò egli di nuovo la Chiesa ed il convento di S. Pietro Martire de' PP. di S. Domenico. L'altra ch'egli nominò della Maddalena, ancorchè ritenesse il nome di S. Domenico per li Frati di quell'ordine, e per essere consecrata a quel Santo. Quella di S. Agostino[500], e l'altra di S. Martino sopra il monte S. Eramo: se bene di quest'ultima [439] i più accurati Scrittori ne facciano autore Carlo Duca di Calabria suo nipote[501].

In Aversa edificò a' Frati di S. Domenico la chiesa e convento sotto il titolo di S. Luigi Re di Francia suo zio, dotandola di ricchissime rendite. Ma ove più rilusse la pietà insieme e la magnificenza di questo Principe fu in quelle tre celebri Chiese del Regno, cioè in quella di S. Niccolò in Bari, nell'altra di Santa Maria in Lucera, e in quella già prima fondata dall'Imperador Federico II in Altamura; nelle quali è da notare, che i Pontefici romani furono cotanto profusi in concedere non meno a' nostri Re angioini, che a lor riguardo a queste Chiese tanti privilegi e prerogative, che quasi scambievolmente comunicandosi il lor potere, siccome i Re erano profusi in donare a quelle beni temporali, così essi gli cumulavano di preminenze e favori spirituali.

§. I. Della Chiesa di S. Niccolò di Bari.

La regal chiesa di S. Niccolò di Bari, siccome fu narrato ne' precedenti libri di quest'istoria, ebbe il suo principio nell'anno 1087 nel quale alcuni mercatanti baresi da Mira città della Licia trasportarono nella lor Patria il Sacro Deposito. Urbano II nella fine di settembre del 1089 accompagnato da gran numero di Cardinali e di Vescovi, li quali insieme con lui erano intervenuti nel Concilio ragunato in Melfi, dedicò solennemente l'altare maggiore della chiesa inferiore, ove ripose le sacrosante Reliquie, conforme egli medesimo ne fa piena testimonianza in una sua [440] Bolla spedita in Bari a' 9 ottobre 1089 secondo anno del suo Pontificato, riferita dal Baronio e dall'Ughello.

Fin dal tempo della sua fondazione, fu quella chiesa edificata nel palazzo antico de' Capitani, li quali mentre governarono la Puglia in nome degl'Imperadori d'Oriente, fecero in esso la loro residenza: tolta poi da' Normanni la Puglia a' Greci, passò in potere di Roberto Guiscardo primo Duca di Puglia, ed appresso, di Ruggiero suo figliuolo, la qual Chiesa fu libera ed esente fin dal suo principio della giurisdizione dell'Ordinario, del che fanno bastantissima fede il privilegio concedutole da Alessandro Conte di Cupertino e di Catanzaro per ordine di Ruggiero Re di Sicilia, che si legge presso Ughello medesimo, la celebre Bolla di Pascale II indirizzata ad Eustachio II Abate, che succedè al primo cotanto rinomato Elia, ottenuta per intercession di Boemondo Principe d'Antiochia e Signore di Bari fratello di Ruggiero nell'anno 1106[502], e le Bolle di Bonifacio VIII dell'anno 1296[503], di Clemente V, Paolo III, Pio V ed altri romani Pontefici[504].

Il Re Carlo II d'Angiò fatto prigione colla disfatta del suo armamento navale, fu, come si disse nel precedente libro, in grave pericolo d'essere decapitato; ma avendo scampata la morte, e liberato poi dalla sua prigionia, memore di così insigni beneficj, ch'egli credette [441] per intercessione di questo Santo, di cui era divotissimo, aver ricevuti, rivolse l'animo ad accrescere il culto e la divozione, che gli portava, con arricchire la sua Chiesa d'amplissime rendite, facendole varie donazioni, con riserbarsi solo il poter godere delle distribuzioni, come Canonico di quella, sedendo nel Coro, come tutti gli altri. Per mezzo del Priore Guglielmo Longo Bergamasco, il quale fu creato Cardinal Diacono di San Niccolò in Carcere, nel 1294 ottenne da Bonifacio VIII ampi privilegi, esenzioni ed immunità. Vi destinò al suo servizio cento Cherici tra Canonici ed altre dignità, oltre il Priore, e la dichiarò sua cappella regia.

Impetrò dallo stesso Bonifacio VIII nell'anno 1296 Bolla, con cui gli diede facoltà di poter unire alla regal basilica le chiese e cappelle di sua collazione, che li paresse aggregarle, le quali, come quelle, a cui si sarebbero congiunte pleno jure, a lui appartenessero; e furono aggregati a quella la Badia e monastero di tutti i Santi[505].

Assegnò nell'anno 1298 per dote perpetua della chiesa trecento once d'oro per ciascun anno da esigersi sopra la dogana e fondaco dell'istessa città di Bari, alla qual somma, tre anni appresso, aggiunse altre once cento, con che di queste, ottanta se ne dassero al Priore, venti al Tesoriere, e le restanti trecento, si distribuissero fra' Preti e Ministri della chiesa; in iscambio delle quali, perchè molte volte dagli Ufficiali del Regno se ne differiva il pagamento, concedè alla chiesa tre castelli a lui devoluti, cioè Rutigliano, S. Nicandro e Grumo, de' quali n'investì il [442] Tesoriere di quel tempo, e gli altri, che fossero eletti ne' tempi futuri.

Nel mese d'ottobre del medesimo anno 1298 in virtù della potestà datali da Bonifacio incorporò l'Arcipretura d'Altamura con tutte le sue chiese, cappelle, ragioni e pertinenze alla dignità di Tesoriere, il che confermò con altro Privilegio de' 2 dicembre del 1301 col quale anche unì le chiese della Trinità di Lecce e di S. Paolo d'Alessano all'Ufficio di Cantore; e la chiesa di S. Maria di Casarano a quello di Succantore.

A' 18 gennajo del 1302 istituì nel sagro Tempio quattordici Ministri, de' quali otto avessero pensiero ne' dì festivi d'assistere in guardia delle porte del Coro con una mazza regale d'argento in mano, donde presero il nome di Mazzieri, e sei per li Ministri più bassi, come per rappezzar le fabbriche, racconciar gli scanni, e cose simili, chiamati perciò Maestri di Fabbrica, a' quali diede l'esenzione del pagamento delle gabelle, e del Foro secolare nelle cause civili, sottoponendoli alla giurisdizione del Tesoriere, appellandosi da' decreti della di lui Corte a quella del Cappellano Maggiore, le quali esenzioni ed immunità, furono confirmate da Roberto nel 1340 e da Ladislao nel 1403, e gli altri Re successori, al suo esempio, di moltissime altre concessioni e preminenze arricchirono questa chiesa.

Dotata ch'ebbe in tal modo la regal Chiesa, v'introdusse una nuova forma di servizio a similitudine di quello usitato nella regal cappella di Parigi, ad esempio della quale volle ancora, che in quanto alla recitazione de' divini Uffici, si valessero i suoi Ministri dell'antico Breviario parigino; il che fu poi tolto [443] all'ultimo di dicembre del 1603 con lettere di Filippo III, colle quali permise, che, quello tralasciato, nell'avvenire potessero servirsi del Breviario romano, detto volgarmente di Pio V.

Dispose per mezzo di un suo privilegio spedito a' 20 giugno del 1304 che oltre il Priore fossero in questa chiesa tre dignità, cioè quella del Tesoriere, che costituì la prima e la più riguardevole, e due altre, cioè di Cantore e Succantore e cento Preti beneficiati, quarantadue Canonici, fra' quali le dignità furono annoverate, ventotto Cherici mediocri e trenta bassi, siccome s'appellano nel privilegio, con molti particolari regolamenti attinenti al Priore ed al Tesoriere.

Dopo avere il Re Carlo II costituito in questa chiesa le dignità, il numero de' Canonici, ed altri Cherici inferiori, assignate le rendite, ed ordinato tutto ciò, che stimossi da lui espediente per buon reggimento e regolamento della medesima; riserbò per se, e suoi Serenissimi Successori nel Regno la dignità di Tesoriere colla prebenda a quello annessa, in modo che ritrovandosi in Bari, interveniva egli nel Coro come Tesoriere, sedendo nella seggia costrutta all'incontro di quella del Priore, in cui sono intagliate l'armi regie, e vi sta scritto con lettere d'oro, Sedes Regalis, coll'effigie di questo piissimo Principe, sotto il quale, scolpito in abito di Tesoriere, leggesi l'iscrizione: perpetuo monumento d'aver per se e suoi successori ritenuta la prima canonica dignità, ch'è quella di Tesoriere[506].

[444]

Avea ciò il Re Carlo appreso da' Franzesi, e massimamente da' suoi Angioini; e conforme nella recitazione dell'Ufficio, e nell'altre cose concernenti il culto di della Chiesa, così in questa volle imitare l'usanza della Francia; poichè si legge presso Eginardo[507] che Carlo M. si dilettava ancor egli di cantare con gli altri nel Coro: e nella Cronaca d'Inghilterra lo stesso si legge di Fulcone III, cognominato il buono Conte d'Angiò, il quale nell'anno 960 fu ammesso nella Chiesa di S. Martino come Canonico, e spesse volte nella recitazione dell'ore canoniche con vesti canonicali intervenne[508]. Parimente Ingelgero Console, ovvero Conte d'Angiò (poichè dell'uno e dell'altro titolo allora promiscuamente valevansi) dopo aver ottenuta nella Chiesa di S. Martino in Tours una prebenda perpetua, essendo vacata la dignità di Tesoriero, fu dichiarato tale, difensore della chiesa, e tutore delle sue possessioni; e mentre visse occupò la [445] sede di Tesoriere, nella qual dignità, a' Conti e Duchi d'Angiò succederono i Re di Francia, e quel Canonicato laico conseguirono[509].

Da' precedenti libri di questa Istoria ciascuno avrà potuto notare, che molte usanze di Francia furono da' nostri Re fra noi introdotte, cominciandosi sin dai Normanni, e moltissime poi ve ne furon portate dai Re angioini; onde non dee recar maraviglia se alcune nel nostro Regno oggi ancor durino totalmente difformi da quelle di tutto il resto d'Italia. In Francia il Tesoriere della regal cappella di Parigi, secondo ne rende testimonianza Coppino[510], oltre d'esercitar giurisdizione sopra i Canonici di quella, conserva egli i vasi sacri e gli ornamenti, ed anche tutti gl'istrumenti, privilegi e concessioni riguardanti a' Feudi, ed altre robe donate a quella Chiesa. Parimente il Tesoriere di Bari ha egli il pensiero e la custodia di tutto ciò; e come questa città fu lungamente governata da' Greci, si ritengono insieme ancora molti usi grecanici, e nel Tesoriere istesso di questa Chiesa si veggono ancora uniti gli uffici di Cartolario e di Cartofilace; poichè siccome in Oriente due erano i Cartofilaci, uno conservava le carte e monumenti della chiesa, e presiedeva [446] all'Archivio; l'altro alle rendite della chiesa, e teneva conto delle spese[511]; così in Bari il Tesoriere di questa chiesa ha di tutto ciò cura e pensiero. E poichè in alcuni luoghi era incombenza del Tesoriere non solo di custodire i privilegi e gli ornamenti della chiesa, ma anche il regio diadema[512]; così alcuni, avendo per vera quella favola, che i nostri Re solevansi coronare in Bari colla Corona di ferro, scrissero che il Tesoriere di questa Chiesa, tra gli ornamenti di quella, custodiva ancora questa Corona[513].

A questo Principe adunque devono i nostri Re quelle tante prerogative e preminenze acquistate non men per fondazione e dotazione, che per privilegi dei Sommi Pontefici, delle quali oggi sono essi in possesso, onde sono reputati capi e moderatori di questa chiesa, ch'è di Regia collazione; conferiscon essi il Priorato e l'altre dignità di quella, e vi stabiliscono un Giudice d'appellazione, il qual'è il Cappellano Maggiore, che riveda i processi del Priore e del Tesoriere, con totale independenza dall'Arcivescovo Ordinario di Bari.

Secondo l'antica disciplina della Chiesa, tutte le basiliche, che si costruivano nella diocesi del Vescovo, erano sotto la sua potestà[514]. Ma sin da' tempi di Carlo M. i Pontefici romani cominciarono per mezzo di loro privilegi ed esenzioni, a mutare l'antica polizia: e per invogliare maggiormente i Principi ad arricchire le Chiese di beni temporali, e rendersegli vie [447] più devoti e soggetti, concedevano ad essi ed alle Chiese, che fondavano, ampi privilegi e prerogative, comunicandosi scambievolmente i loro poteri. Ma in ciò sempre i Principi vi perdevano, perchè arricchite e fondate, ch'essi aveano le Chiese, sorgevano delle grandi contese con gli Ordinarii, e non si disputava sopra i beni donati, acquistati già alla Chiesa, ma sopra i privilegi loro conceduti: i Pontefici che s'arrogano la potestà d'interpretargli, moderargli e sovente anche di rivocargli, eran sempre dalla parte degli Ordinarii; e quando ciò lor non riusciva, tiravano almeno il litigio in Roma, ed essi ne prendevan la conoscenza. Di che potranno esser bastanti prove le gravi ed ostinate contese insorte per ciò tra il Priore di questa chiesa e l'Arcivescovo di Bari, le quali, non ostante tanti privilegi ed esenzioni, per lo corso non meno che di ducento anni, non vi è stato modo di poterle affatto estinguere[515]. Siccome non furono minori per le stesse cagioni li contrasti nati fra l'Arciprete d'Altamura col Vescovo di Gravina, e per l'altre Chiese di regia collazione. Ciocchè dovrebbe essere documento non meno a' Principi, che a' privati, di lasciare alla Chiesa ed a' suoi Ministri ciò che a loro s'appartiene, e non intrigarsi in tali faccende, e nell'andar regolando Capitoli e confratanze, come se loro non restasse niente da fare attendendo a' loro proprii impieghi; perocchè la sperienza n'ha dimostrato, che tali cose se bene da principio s'intraprendono per impulsi di divozione, da poi riescono di vanità, dove non vi è niente dello spirito, e tutto del mondo e della carne. Ed all'incontro i Preti ed i Monaci da poi ch'essi avranno arricchite [448] le chiese e le cappelle, vogliono amministrar le rendite, dimandarne conto, ed aver coloro, che voglion prenderne cura, per loro ligi e sudditi, con tirargli per l'orecchie dove la lor ambizione e la loro avarizia gli portano.

Ciò che dovrebbe ancora condannare l'istituto pur troppo da un secolo in quà frequentato in questa città e Regno di tante Confraterie di secolari e d'artigiani, li quali invece d'attendere a' loro mestieri, ed adempiere le parti della giustizia in non fraudare con inganni il prossimo, si mostrano tutti ardenti di devozione nelle loro cappelle e Confraterie, e cotanto si compiaciono d'una processione, di portare stendardi, croci, turibuli e torchi, e di proccurar da Roma divise pei loro abiti, le quali molti se le procacciano di colori di porpora per mostrarsi nelle funzioni più vistosi, e tanto si gonfiano d'un titolo di Priore, di Primicerio o Assistente, che credono con ciò aver ben soddisfatto all'ufficio di buoni Cristiani. E la meraviglia è, che da poi che la domenica avranno nelle loro Congregazioni intonato bene l'ufficio, sentito il sermone del Padre, e girato attorno per la città con croci e stendardi; il lunedì la mattina tornando nelle loro botteghe, non perciò al primo, che vi capita, non cercano ingannarlo, e con frodi e menzogne circonvenirlo ne' prezzi delle robe o ne' lavori di mano.

Quindi i Preti ed i Frati, riputandogli non in tutto secolari, se accade lite per precedenza, per custodia de' vasi e d'ornamenti, per amministrazione, conti o altro, vogliono essi riconoscere di queste cause, e gli tirano al Foro ecclesiastico, tenendo erette per ciò particolari Congregazioni, onde si sentono tutto il giorno contrasti non meno ne' Tribunali ecclesiastici, che avanti [449] il Delegato della regal giurisdizione, e quando dovrebbero attendere a' loro lavori, perdono le giornate intere dietro a queste frasche. Ciò che ben loro sta, perchè quando a ciò potrebbero essere sufficienti i loro Parochi, essi, come se vi fosse scarsezza di Preti e di Monaci, vogliono intrigarsi in tali funzioni, e non conoscono, che da poi che vi avranno consumato il tempo e le loro sostanze, niente profittano nello spirito, nè migliorano di costumi, anzi vivono in continue soggezioni ed in continui contrasti, che cagionano fra di loro odj e rancori, e sovente anco gravi inimicizie e disordini.

§. II. Della chiesa di S. Maria di Lucera.

Dappoichè Re Carlo ebbe sconfitto Manfredi, e debellati i Saraceni, che teneva a' suoi stipendj, il misero avanzo di quelli ricovrossi in Lucera di Puglia, ed in quel castello si fortificarono; ed ancorchè il Regno si fosse per Manfredi interamente perduto, renduti che furono, ricevettero a buon patto da quel Re di poter quivi abitare colle loro famiglie; ma Carlo suo figliuolo come Principe pietoso e zelantissimo della fede cattolica, conoscendo, che per l'abitazione di questi Infedeli in quella città, il culto Divino era vilipeso, la chiesa cattedrale poco men che ruinata, e la religione in pessimo stato ridotta, si risolse discacciargli affatto, come fece, ed invitarvi nuovi abitatori Cristiani; ed affinchè la città tosto si popolasse, assegnò a' nuovi abitatori Cristiani molte terre, ripartendole secondo la qualità e condizione degli abitanti; ed affinchè la città in cotal maniera purgata, si reputasse tutta nuova, volle ancora, che non più si chiamasse [450] col nome antico di Lucera, ma di Santa Maria, titolo della sua cattedral Chiesa. Perchè questa Chiesa era posta in luogo meno frequentato, e fuori della città, e minacciava ruina, ed avea così picciole facoltà, che il Vescovo di quella non poteva sostentarsi conforme ricercava la dignità Pastorale, e per la povertà dell'entrate pativa anche difetto di Ministri; Carlo II la trasferì dentro la città, costruendone una più magnifica, con ordinare nel 1303 al Castellano della vecchia Fortezza di quel castello, che dasse certo metallo rotto, che ivi era per farsene una campana[516]. La dotò d'ampie e ricche entrate; e nello stesso anno gli donò cento once d'oro l'anno sopra le rendite sue regali, che teneva in quella città, per sostentamento de' Canonici, che accrebbe sino al numero di venti, con obbligo di quivi risedere, ed assistere alli divini Uffici tanto di notte, quanto di giorno, da dividersi fra di loro le rendite, che assegnava, egualmente, in maniera che ciascuno avesse cinque once d'oro l'anno in beneficio, ovvero prebenda. Si riserbò per se e suoi successori nel Regno la collazione de' Canonicati suddetti per la metà, e la restante parte, che fosse del Vescovo, in modo che quello, che primo vacherà sia a collazione del Re, e quel che vacherà la seconda volta sia del Vescovo. Oltre a ciò instituì nella medesima Chiesa le dignità di Decano, Arcidiacono, Tesoriero e Cantore, assegnando per ciò trenta once di oro l'anno, e che fossero di regia sua collazione[517].

Il Pontefice Benedetto XI lodando la pietà e munificenza del Re, per mezzo d'una sua Bolla spedita [451] a' 28 novembre dello stesso anno 1303 approvò e confermò l'istituzione, concedendo al Re Carlo e suoi eredi e successori di presentare al Vescovo le persone, ch'egli volea innalzare al Decanato, Archidiaconato e Cantoria, le quali dovesse il Vescovo istituire e confermare. Gli concedè ancora di poter in luogo del Papa conferire la metà delle prebende di sopra accennate quando vacherebbono, con poter anche conferire le altre dignità. Di vantaggio, se occorresse crear altre prebende, che potesse egli farlo, con riserbarne l'altra metà al Vescovo e suoi successori, quando vacheranno. Ed in fine, per ispezial favore, ancorchè per le convenzioni passate con Carlo suo Padre si fosse tolto l'assenso, che prima era necessario nell'elezioni dei Vescovi; gli concedè, che occorrendo eleggersi il Vescovo di questa città, debbia il Capitolo, prima di domandare la confermazione di quello, ricercare l'assenso dei Re e suoi successori, e non si possa l'Eletto confermare, se prima non sarà ricercato detto assenso; come si legge nella Bolla trascritta dal Chioccarelli, della quale non si dimenticò Tommasino[518], con rapportarne anche le parole. Ciò che si vede essersi praticato anche a tempo del Re Alfonso I come per due carte di questo Re, una scritta al Vicario di Napoli [452] nel 1450, e l'altra al Pontefice, rapportate dal Chioccarelli[519].

Non soddisfatto questo Principe di ciò, nel seguente anno 1304 volle maggiormente arricchire questa Chiesa da lui fondata, donando a Stefano Vescovo di quella città e suoi successori le terre dell'Apricena, Palazzuolo e Guardiola poste nella provincia di Capitanata, e glie le concedè in feudo nobile, contento solo del giuramento di fedeltà, senz'altro servizio personale o reale, eccetto che ogni anno il Vescovo e suoi successori fossero tenuti dare al Re un bacile d'argento con 25 libbre di cera, cioè in un anno nella festività del Natale di N. S., ed un altro nel dì della Pentecoste; il qual bacile anche solevasi restituire al Vescovo per doverlo convertire in vasi d'argento per divin culto della Chiesa suddetta. Stabilisce inoltre, che vi siano in detta Chiesa il Decano, l'Arcidiacono, il Tesoriero, il Cantore, ed oltre i Canonici, otto Cherici: che il Decano abbia ogni anno quindici once di oro, l'Arcidiacono altrettante, il Tesoriero dodici once, il Cantore altrettante, e gli otto Cherici ciascheduno d'essi quattro once; ed il Tesoriero abbia anche quattro once pei lumi. Comanda che queste somme se gli paghino dalla Bagliva e da altri diritti ed entrate regali, che la regia Corte possiede in detta città; e vuole, che le dignità di Decano, Arcidiacono, Tesoriero e Cantore quando vacaranno, si conferiscano dal Re e suoi successori; però la metà de' Canonicati si conferisca dal Re, e la restante metà dal Vescovo alternativamente nella maniera detta di sopra: che gli altri Cherici s'ordinino dal Vescovo; che il Decano abbia [453] da dare al Re e suoi successori ogni anno per se e Capitolo dodici libbre di cera; e che le persone, che avranno dette dignità e Personati, debbano insieme colli Canonici eleggere il Vescovo, con doverne presentare al Re l'elezione, e ricercare il suo assenso. Il qual privilegio nel seguente anno fu confermato da Carlo stesso, e nel 1332 da Roberto suo figliuolo[520].

Siccome Carlo II statuì nella Real Chiesa di Bari, che nel celebrare ivi i divini Ufficii, si osservasse il rito Franzese; così parimente volle, che si praticasse in questa chiesa di S. Maria di Lucera; onde a' 25 novembre dell'anno 1307 scrisse al Vescovo e Capitolo di quella città, dicendo loro, che desiderando che in questa sua Chiesa da lui fondata si facesse progresso non meno nelle cose temporali, che spirituali, voleva perciò, che si governasse secondo le approvate consuetudini delle chiese cattedrali del Regno di Francia; onde ordinò loro e prescrisse alcuni riti, che si osservavano in Francia circa il celebrare l'Ufficio divino ed altre cerimonie di Chiesa[521].

Ritengono per tanto i nostri Re ancora oggi queste preminenze sopra la Chiesa di Lucera, se non che sin da' tempi d'Alfonso venne loro contrastato (non ostante la Bolla di Benedetto XI) l'assenso ricercato nell'elezione del suo Vescovo, il quale ora si è proccurato con varii maneggi e trattati di toglierlo affatto; siccome dall'altra parte furono tolte al Vescovo le terre, che da questo Principe furon concedute, ond'è, che ora è sciolto dal tributo del bacile d'argento e della cera.

[454]

§. III. Della chiesa d'Altamura.

La Chiesa d'Altamura, ancorchè fondata dall'Imperadore Federico II, e per suo privilegio spedito in Melfi l'anno 1282 confermato da poi da Innocenzio IV per la sua Bolla data in Lione l'anno 1248, fu resa esente dalla giurisdizione di qualunque Ordinario: con tutto ciò Carlo II ne prese la protezione, allorchè Sparano da Bari Protonotario del Regno, sotto colore che il Re Carlo suo padre gli avesse donato Altamura, tentava appropriarsi anche questa Chiesa, ch'era di jus patronato regio; onde scrisse nell'anno 1292 con molta premura a Carlo Martello suo figliuolo Re d'Ungheria, che comandasse al Protonotario di non impacciarsi a cosa veruna appartenente a questa Chiesa, per essere sua cappella regia, e si guardasse molto bene a non provocarlo ad ira; anzi ordinò, che non portasse rispetto in modo alcuno al suddetto Sparano in eseguire subito suoi ordini[522]. Maggior protezione ne prese quando il Vescovo di Gravina tentò di sottoporla alla sua giurisdizione. Egli nell'anno 1299 commise al Vescovo di Bitonto ed a Lupo Giudice della medesima città, che portandosi di persona in Altamura esaminassero la pretensione del Vescovo; e dopo matura discussione, d'accordo compose egli la contesa, stabilendo, che la chiesa suddetta fosse Cappella Regia; che la collazione appartenesse al Re; che fosse colle sue cappelle e Clero esente; e che la giurisdizione spirituale contenziosa in Altamura, spettasse all'Arciprete: quella che appartiene all'ordine Vescovile spettasse [455] al Vescovo, al quale parimente il Re Carlo donò sette once d'oro l'anno in perpetuo[523].

Dichiarata questa chiesa cappella regale, ed esente dalla giurisdizione dell'Ordinario, si proccurò poi dai Re successori di Carlo d'illustrarla con altre prerogative; onde nell'anno 1485, a richiesta di Pietro del Balzo Principe allora d'Altamura, s'ottenne da Innocenzio VIII Bolla, ovvero privilegio per cui fu innalzata da Parrocchiale ch'era, in Collegiata, con tutte l'insegne e dignità collegiali: fu conceduto ancora di potervi quivi creare nuove dignità, cioè d'Archidiaconato, Cantorato, Primiceriato e Tesorierato, con la creazione di ventiquattro Canonici, la provvisione dei quali si diede all'Arciprete. Fur concedute al medesimo le ragioni e preminenze Vescovili, il portar il Roccetto, la Mitra, l'anello e tutte le altre insegne Pontificali: di dare la solenne benedizione, colla potestà ancora di conferire gli Ordini minori alli suoi sudditi, e la superiorità e punizione circa tutti i Preti, e d'assolvere tutti i suoi Parrocchiani e sudditi di tutti li casi Vescovili. E poichè i Pontefici romani s'arrogavano ancora la potestà d'ergere le terre e castelli in città quando vi creavano un Vescovo; Innocenzio innalzando il suo Arciprete quasi al pari d'un Vescovo, dichiarò egli Altamura città, e comandò che ne' futuri tempi tale dovesse nominarsi, come si legge nella sua Bolla, rapportata dal Chioccarelli[524].

Innalzata a tale stato la Chiesa d'Altamura ed il suo Arciprete, quindi è che oggi i nostri Principi vantino questa singolare e grande prerogativa di crear essi l'Arciprete senz'altra provvisione del Papa, il [456] quale, ottenute le lettere regie di sua provvisione, esercita giurisdizione nel suo territorio sopra i Preti e Cherici di quella Chiesa e suoi sudditi, e gode di tutte le ragioni vescovili, e di tutte l'altre prerogative di sopra rapportate; poichè quantunque i nostri Re abbiano la presentazione di molte chiese cattedrali, nominando essi molti Vescovi ed Arcivescovi ancora, nulladimanco non la sola loro presentazione e nomina gli fa tali, ma vi bisogna ancora la provvisione del Papa, che gli ordini e confermi nelle loro Sedi, ciò che non si richiede nell'Arciprete d'Altamura; ond'è avvenuto che i nostri Re non abbiano mai permesso, che questa Chiesa da collegiata passasse in cattedrale, ed il suo Arciprete da tale passasse ad esser Vescovo.

Ma con tutto che il privilegio di Federico II confermato da Innocenzio IV, la provvisione del Re Carlo II, e la Bolla d'Innocenzio VIII avessero favorito tanto questa Chiesa, non furono però bastanti d'evitar le contese, che dal Vescovo di Gravina, favorito da Roma, si posero negli ultimi tempi, intorno l'anno 1605, di nuovo in campo; poichè pretese visitare l'Arciprete e la sua Chiesa, e n'avea già ottenute provvisioni da Roma; ma essendosegli impedito di potersene valere, fece egli pubblicare per iscomunicati il Capitolo ed il Reggimento di Altamura, ed affisse cedoloni d'interdetto a tutta la città, che si componeva non meno di 18 mila anime: e furono con tanto ardore sostenute queste contese dal Vescovo col favore di Roma, che per gran tempo furono impiegati i più gravi personaggi e più cospicui Ministri del Re per sedarle, le quali dopo il corso di 22 anni furono finalmente composte con dichiararsi che nella visita, [457] che s'era concordato con S. M. che potesse fare il Vescovo, come Delegato della Sede Appostolica, potesse solamente provvedere e correggere, e non gastigare o punire; e che non si permetta al Clero d'Altamura d'avere un Giudice d'appellazione in partibus per li decreti e sentenze che s'interpongono dall'Arciprete, ma, come era stato solito, dovesse appellarsi alla Corte del Cappellano Maggiore. Ebbe gran parte in quest'affare il Consigliere Giovanni Battista Migliore mandato con tal incombenza in Roma dal Cardinal Zapatta allora Vicerè, per la vigilanza del quale dopo essere stata interdetta la città 18 anni, e scommunicati il Capitolo e Reggimento della medesima, si pose a tal negozio fine, riputato di grandissima importanza. Gli atti di questa controversia, e molte consulte ed allegazioni fatte per la medesima, insieme col Breve di Papa Gregorio XV, col quale si conferma la transazione, ed accordo seguito sopra queste differenze, si leggono presso Chioccarello nel tomo 6 dei suoi MS. giurisdizionali.

Tengono i nostri Principi del Regno molte altre chiese e cappelle di regia collazione, e Carlo II nell'anno 1300 ordinò, che di loro se ne formasse un distinto e compito inventario; dal cui esempio gli altri Re suoi successori, e particolarmente negli ultimi tempi il Re Filippo II, si mossero per conservarne memoria, di ordinarne altri più esatti. Per aver essi dai fondamenti erette molte Chiese ed altre dotate d'ampissime rendite, furono meritevoli di tal prerogativa; e siccome il fondamento, dove s'appoggia il diritto, di cui godono i Serenissimi Re di Spagna di presentar i Vescovi alle chiese cattedrali, non è altro, come dice [458] il Vescovo Covarruvias[525], se non perch'essi le fondarono e dotarono; così i nostri Re, perchè, siccome si è potuto notare da' precedenti libri di quest'istoria, e da quel che si dirà ne' seguenti, moltissime Chiese ancor essi a loro spese fondarono, e di grandi entrate dotarono: quindi o per concessione de' Sommi Pontefici, o per consuetudine e prescrizione immemorabile[526], ottennero che le medesime fossero di loro collazione, senza che nel provvederle avesser bisogno del ministero del Vescovo o del Papa istesso[527]. Ciò che non dee recar maraviglia, particolarmente nelle persone de' Re, i quali non sono riputati puramente Laici; poich'essendosi da molti secoli introdotta tra' Principi cristiani quella spiritual cerimonia, che mentre si incoronano per mano de' Vescovi, sogliono anche ungersi col sacro olio, s'è riputato perciò che questa sacra unzione rendesse le lor persone sacrate, e capaci di tali e simili prerogative e dignità[528].

Quindi è nato, che nel Regno i nostri Principi, oltre la presentazione che tengono in moltissime chiese di patronato regio, eziandio in alcune chiese cattedrali, delle quali si parlerà a più opportuno luogo, tengono la collazione di molte chiese e cappelle regie fondate da essi e dotate di loro rendite, siccome in Napoli la [459] chiesa di S. Niccolò del porto, ovvero del Molo, di S. Chiara, di S. Agnello, di S. Angelo a Segno, di S. Silvestro, e de' SS. Cosma e Damiano, di S. Severino piccolo e moltissime altre. E nel Regno in tutte le sue province, come in Lecce la cappella della Trinità, la cappella di S. Angelo posta nel castello della medesima città ed altre: in Apruzzo la Badia di S. Maria della Vittoria: nella Diocesi di Sarno la Badia di S. Maria di Real Valle: in Salerno la cappella di S. Pietro in Corte, di S. Cattarina ed altre: in Bari la badia di S. Lionardo: in Barletta la chiesa di S. Silvestro: nella diocesi di Sora la chiesa di S. Restituta di Morea: in Montefuscoli la chiesa di S. Giovanni: nella Diocesi di Nardò la chiesa di S. Niccolò di Pergolito: in Catanzaro le cappelle di S. Maria e di S. Giovanni Battista, e tante altre che possono vedersi presso il Mazzella[529], e negli inventarii fatti d'ordine di Carlo II e di Filippo II, rapportati dal Chioccarello nel sesto volume de' suoi MS. giurisdizionali.

CAPITOLO VI. Della Casa del Re: suo splendore e magnificenza; e de' suoi Uffiziali.

Non fu veduta in alcun tempo la casa regale di Napoli in tanta magnificenza e splendore, quanto nel Regno di questo Principe; o si riguardi il lustro della numerosa sua regal famiglia, e la grandezza de' suoi Baroni, ovvero il numero e splendore degli Ufficiali della [460] Corte: ciò che innalzò cotanto non pur la città di Napoli, ma tutto il Regno, e lo rese famoso sopra tutti gli Stati di Europa.

Vide il suo primogenito Carlo Martello Re d'Ungheria e costui morto, Caroberto di lui figliuolo e suo nipote, sicuro Re di quel Regno, avendo debellato gli avversarii suoi. Tutti gli altri suoi figliuoli vide innalzati alle supreme grandezze; perchè Lodovico secondogenito, quantunque nella sua giovanezza fossesi fatto Frate minor Conventuale a S. Lorenzo di Napoli, fu poi creato Vescovo di Tolosa, e da poi per la santità della sua vita fu da Papa Giovanni XXII posto nel catalogo de' Santi Confessori. Roberto suo terzogenito che gli succedè nel Regno, fu Duca di Calabria, Vicario del Regno ed ebbe il supremo comando delle sue armate. Si reputò quindi a' più prossimi alla successione del Regno convenirsi meglio il titolo di Duca di Calabria che di Principe di Salerno: poichè Carlo II tenendo molti figliuoli, ed avendone decorati alcuni col titolo di Principe, come Filippo che fu fatto Principe di Taranto, Tristano Principe di Salerno e Giovanni Principe d'Acaja, si stimò che fosse più proprio e decoroso, a chi dovea succedere nel Regno, darsi il titolo di Duca di Calabria: titolo antico preso da' primi Normanni e che non una città, ma due ampie province abbracciava. Quindi s'introdusse che ai primogeniti de' nostri Re, che debbon succedere al Regno, tal titolo si dasse; e siccome in Francia al primogenito si dà il titolo di Delfino, in Ispagna di Principe d'Asturia, così nella casa regale di Napoli, colui che teneva il primo grado nella successione, era chiamato Duca di Calabria; ond'è che Roberto così facesse nomare il suo primogenito Carlo che gli dovea [461] succedere nel Regno: e così praticarono tutti gli altri Re aragonesi; ed unito poi questo Regno alla Corona di Spagna, quindi avvenne che i primogeniti de' Re di Spagna si dicessero non meno Principi d'Asturia che Duchi di Calabria.

Filippo quartogenito fu Principe di Taranto e di Acaja, Dispoto di Romania, Grand'Ammiraglio del Regno, e per ragion di sua moglie, ebbe il titolo d'Imperadore di Costantinopoli; ed ancorchè non possedesse quell'Imperio, venne in tanta bizzaria, che imitando l'Imperador Federico Barbarossa, gran facitor di Duchi e di Re, volle nella Romania e nell'Asia Minore crearvi un Re ed un Dispoto. Il Tutini[530] nell'Archivio de' PP di S. Domenico Maggiore di Napoli ha rinvenuto l'originai diploma, da lui inserito nel libro degli Ammiragli del Regno, dove Filippo, e Catterina coniugi, che s'intitolano Imperadori di Costantinopoli, creano, e fanno Martino Zaccaria di Castro Signore di Chio, Re e Dispoto di Romania, e dell'Asia Minore, detta Anatolia, concedendogli investitura per se, suoi eredi e successori, con tutti li Contadi e Baronie e città di essa, con l'isole adiacenti, cioè Fenotia, Marmora, Tornero, Mitileno, Chio, Samo, Mitanea, Lango, ed altre isole: di più gli concede tutte le prerogative regie e Dispotali, cioè di bere in tazze d'oro, di portar la Corona, lo Scettro e le scarpe rosse fuori e dentro del palazzo di Costantinopoli, come sono le parole del diploma: infra vero Palatium ipsum, caligas Despotales et alia insignia Regalia, et despotalia deferre, ac portare possit, et valeat, secundum Regalem, et despotalem usum et consuetudinem [462] Constantinopolitani Imperii; poichè secondo la Gerarchia dell'imperial Casa di Costantinopoli rapportata da Leunclavio[531], il primo Ufficiale del palazzo dell'Imperadore di Costantinopoli, era il Dispota. Vuol che il Regno lo riconosca in feudo da lui, e perciò si fece dare il ligio omaggio ed il giuramento di fedeltà da Frate Jureforte Costantinopolitano dell'Ordine de' Predicatori, Proccuratore e spezial Nunzio del Re Martino destinato a quest'atto. Il diploma fu spedito in Napoli per mano di Roberto Ponciaco Giureconsulto, Consigliere e familiare dell'Imperadore, e porta questa data: Datum Neapoli per manus D. Roberti de Ponciaco J. C. professoris, dilecti Consiliarii et familiaris nostri. A. D. 1305 die 24 maii 8 Indict. Morì poi Filippo nell'anno 1332 in Napoli, e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico de' Frati Predicatori di Napoli, ove insino oggi si vede il suo tumulo.

Raimondo Berlingiero suo quintogenito, per la sua gran giustizia e prudenza fu fatto da lui Reggente della Vicaria, e fu Conte d'Andria e Signore dell'Onore di Monte S. Angelo; il qual poi morì con gran fama di bontà. Giovanni sestogenito morì Cherico nell'adolescenza. Tristano settimogenito, così chiamato, perchè nacque nella tristezza quando il padre era prigione in Ispagna, fu Principe di Salerno. Giovanni ottavogenito, fu Principe d'Acaja e Duca di Durazzo nella Grecia: Durazzo è città posta nel Peloponeso, oggi detto Morea, della quale abbiamo una minuta descrizione in Tucidide: ella fu città metropoli, ed il suo Metropolitano era sottoposto al Patriarca di Costantinopoli: [463] avea Trono e Molti Vescovi suffraganei rapportati da Leunclavio[532]: fu poi Conte di Gravina per successione dell'ultimo fratello; Pietro l'ultimogenito, fu Conte di Gravina e non già inferiore agli altri nella virtù e valor militare.

Non meno illustre che numerosa fu la sua femminile progenie sposata a' Principi più Sovrani d'Europa. Clemenzia fu moglie di Carlo Conte di Valois fratello del Re di Francia. Bianca fu moglie di Giacomo Re d'Aragona. Lionora fu moglie di Federico Re di Sicilia. Maria fu moglie di Giacomo Re di Majorica. Beatrice l'ultimogenita fu moglie d'Azzo d'Este Marchese di Ferrara e poi di Beltramo del Balzo Conte di Montescaggioso e d'Andria, ed ultimamente di Roberto Delfino di Vienna. Adornavano ancora la sua regal Casa tanti grandi ed illustri Baroni: gli Orsini Conti di Nola: li Gaetani Conti di Fondi e di Caserta: li Balzi Conti d'Avellino e d'Andria: i Chiaramonti Conti di Chiaramonte: i Conti di Lecce, di Chieti e tanti altri rinomati Baroni.

Da questo numero di così illustri figliuoli ebbe Re Carlo non pur l'allegrezza che può aver un padre de' figli buoni ed eccellenti, ma una benevolenza infinita del popolo di Napoli. Il fasto, che portavano alla Casa regale e la splendidezza di tante Corti, non pur illustravano la città, ma erano di grande utilità a' suoi cittadini; poichè non solo gli Artisti ne riportavano grandissimi guadagni dalle pompe loro, ma gli altri popolani onorati, che comparivano alle Corti loro, erano poi esaltati a più alti e ragguardevoli uffici della Casa regale, i quali erano in questi tempi in [464] tanto numero e così varii in fra loro, che meritano onde qui se ne faccia particolar memoria.

§. I. Degli Ufficiali della Casa del Re.

Gli Ufficiali della Casa del Re non bisogna confondergli con gli Ufficiali della Corona, de' quali si parlò nel libro XI di quest'Istoria. Quelli della Corona, non erano mutabili per ogni mutazione di Re, come questi, e la loro carica non era limitata in alcun luogo o provincia, ma si distendeva generalmente per tutto il Reame, e propriamente servivano lo Stato, non già la persona del Re: questi all'incontro servivano la Casa del Re, perchè assistevano giornalmente alla regal persona e perciò quelli, de' quali trattiamo, sono senza dubbio li più veri Ufficiali del Re, perchè dirittamente servono ed assistono la sua regal persona.

Bisogna ancora distinguergli dagli altri, che pure sono Ufficiali del Re, cioè da quelli, che hanno ufficii pubblici conferiti dal Re, come Giudici, ed altri Magistrati, perocchè questi non sono Ufficiali della Casa del Re, nè suoi domestici: ond'è, che nel dritto[533] i domestici dell'Imperadore erano chiamati Palatini.

Prima tutti gli Ufficiali della Casa del Re aveano subordinazione agli Ufficiali della Corona; e ciascuno, secondo la sua carica, era subordinato a colui, ch'era nell'istesso rango di dignità. Per ciò gli Ufficiali della Corona aveano sotto di loro un sostituito, il quale continuamente assistesse nella Casa del Re e comandasse [465] a' minori Ufficiali, siccome nell'antico Imperio vi era sotto ciascun grande Ufficiale un altro chiamato Primicerius Officii, il quale avea la dignità di Spettabile, allora che i Grandi Ufficiali aveano quella d'Illustri.

Così ancora in Francia, ed al di lei esempio, in Sicilia, i primi Capi si qualificavano Ufficiali della Corona e gli altri solamente sono qualificati per grandi Ufficiali o Capi d'ufficio della Casa del Re. Ma gli uni e gli altri anticamente nell'Imperio e nel Reame di Francia erano chiamati Comites, cioè compagni del Principe o più tosto suoi cortigiani, essendo chiamata in latino la Corte del Principe Comitatus[534]. Ma poichè nelle province e nelle città vi erano anche dei Conti, così chiamati, perch'erano scelti tra i principali cortigiani: per distinguer questi da quelli, ch'erano impiegati alle principali cariche della Corte, furon perciò i primi appellati Comites Palatini. Quindi è, che per ispecificare la qualità loro, si aggiunse al titolo di Comes il nome della loro carica, come Comes Palatii, Comes Stabuli, Comes Sacrarum largitionum; ond'è, che in Francia questi Ufficiali si dissero il Conte del Palazzo, il Conte della Stalla, per significare i cortigiani, che aveano carica del Palazzo e della Stalla, ovvero Cavallerizza del Re, di sorte che Comes significava un Capo d'Ufficio, o principale Ufficiale di compagnia, ed in fatti Comes Palatii è chiamato dal dritto, ed in Cassiodoro Magister Palatii. Quindi in Francia fu detto il Maestro della Casa del Re; e presso noi, gli altri Ufficiali della Corona, furono [466] prima detti Maestri, come Maestri Giustizieri, M. Siniscalchi e poi Grandi Giustizieri, Gran Siniscalchi, Grandi Ammiragli, ec. Ed il titolo di Maestro restò solo agli Ufficiali minori, come a' Maestri Ostiarii: M. Panettieri: M. Razionali ec.

Or anticamente i grandi Ufficiali della Casa del Re erano sotto alcuni degli Ufficiali della Corona; ma da poi molti si sono esentati d'ubbidire ad altri, che al Re: ma non fu però che moltissimi non riconoscessero presso noi per lor Capo il G. Siniscalco, ch'è il medesimo, che in Francia si chiama il G. Maestro della Casa del Re, ed oggi di Francia, come vedremo dal novero di questi Ufficiali.

Era il G. Siniscalco, come si disse nell'XI libro di quest'Istoria, il G. Maestro della Casa del Re; ed intanto egli fu noverato tra gli Ufficiali della Corona, perchè quantunque la sua carica riguardasse il governo della Casa del Re, siccome la carica del G. Contestabile il governo della Guerra, quella del G. Giustiziero, della Giustizia, e l'altra del G. Camerario, delle Finanze; nulladimanco la sua autorità non era limitata da alcun luogo, o provincia, ma si distendeva per questo fine in tutto il Reame, nè era mutabile per ogni mutazione di Re, e si diceva perciò servire allo Stato ed al pubblico, e non già solamente alla persona del Re.

Egli era chiamato nell'antico Imperio Magister Officiorum, e per ciò teneva sotto di se più Ufficiali tanto grandi, quanto piccioli nella Casa del Re. I grandi finalmente furono esentati d'ubbidire ad altri, che al Re; onde sursero per ciò altri Ufficiali, i quali non possono dirsi della Corona, ma sì bene Grandi Ufficiali, come diremo.

[467]

Di questi Ufficiali della Casa reale di Napoli, Camillo Tutini[535] ne fece solo un Catalogo di nomi, e ne promise un Trattato; ma non si è veduto poi alla luce; gli raccolse da' Capitoli del Regno, e dall'Archivio della Zecca, ch'è quello che contiene i fatti, e le gesta di questi Re angioini, nel Regno de' quali, e particolarmente in quello di Carlo II, se ne videro in maggior numero, perchè la sua Casa regale di Napoli ne fu abbondantissima. E poichè questo Principe, come Franzese, tutto faceva ad imitazione del Regno di Francia, molte cose v'introdusse a similitudine di quello, ciò che non solo nella sua Casa regale volle imitare, ma anche, come si vide, nelle chiese, ch'ei fondava, o arricchiva di sue rendite.

Del Tutini non sappiamo ciò, che uom se n'avrebbe potuto promettere; poichè in quel Catalogo non distingue gli Ufficiali della Corona, e quelli minori a coloro subordinati, dagli Ufficiali della Casa del Re e suoi subalterni. Noi avendo riscontrati questi Ufficiali della Casa di Napoli essere in tutto simiglianti a quelli della Casa di Francia, non ci apparteremo dall'ordine tenuto da coloro, che trattarono degli Uffici di quella Augustissima Casa.

De' Grandi Ufficiali.

Gli Ufficiali adunque della Casa del Re erano divisi in grandi Ufficiali, e minori Ufficiali. I Grandi Ufficiali, che furono sotto il G. Siniscalco erano: il primo Maestro dell'Ostello, ovvero del Palazzo, che il Tutini chiama Maestro dell'Ospizio Regio, ed altri [468] Siniscalco dell'Ospizio Regale. Il primo Panettiere, chiamato dal medesimo, Maestro Panettiere Regio, del cui ufficio abbiamo ne' Registri[536] del Re Roberto, che ne fosse stato onorato da quel Re, Giacomo Ulcano, che fu Maestro Panettiere Regio. Il primo Coppiere; ed il primo Trinciante, ovvero Scalco del Re.

Sotto il G. Ciambellano, ovvero Cameriere Maggiore del Re, erano: il primo Gentiluomo di Camera, che presso il Tutini si chiama Maggiordomo della Casa reale: il Maestro della Guardaroba, che Tutini chiama Regio: il Maestro delle Cerimonie: il Capitano della Porta, detto dal Tutini Maestro Ostiario: il Conduttore degli Ambasciadori ed il Cameriere ordinario. Questi Ufficiali in Francia non ubbidiscono che al Re, tra le mani del quale fanno il giuramento, e deferiscono solamente per onore al G. Ciambellano.

Alcuni, come rapporta Carlo Loyseau[537], sotto il G. Ciambellano mettono ancora il Primo Medico della Casa del Re, ed il Maestro della Libreria del Re; altri niegano a costoro il grado di G. Ufficiali, sol perchè sono, come i Franzesi dicono, de longue robe; ma vanno quest'ultimi di gran lunga errati; poichè i Medici del palazzo dell'Imperadore nell'antico Imperio erano del Comitato di essi, non altrimenti che tutti gli altri suoi Ufficiali e Conti Palatini. In Costantinopoli, da poi che per venti anni aveano in quell'Accademia con pubblici stipendii insegnato, erano ammessi in Palazzo e resi Conti, ed ascritti nella Comitiva del primo Ordine, non perchè insegnassero, ma perchè come Medici dell'imperial Palazzo, si dicevano [469] ancor essi intra Palatium militare, come vengon qualificati dagl'Imperadori Onorio e Teodosio[538]. Questi però eran chiamati medici del sacro, ovvero imperial Palazzo, non già dell'Imperadore. Fu da poi accresciuta la lor dignità, quando il Principe fra essi trascelse uno per cura della sua persona, il qual chiamavasi il primo Medico del Principe e Giudice e primo di tutti gli altri Medici; e ciò fu introdotto non già da alcuno degl'Imperadori, ma dal nostro Teodorico ostrogoto Re d'Italia, come si legge presso Cassiodoro[539], il quale così introduce a parlare questo Principe: Huic peritiae deesse Judicem, nonne humanarum rerum probatur oblivio? Et cum lascivae voluptates recipiunt Tribunum, hoc non meretur habere primarium? Habeant itaque Praesulem, quibus nostram committimus sospitatem. Sciant se huic reddere rationem, qui curandam suscipiunt humanam salutem.

Questo medesimo istituto si vide praticato nella Persia, dove il primo Medico di quel Re era insieme Capo e Giudice degli altri Medici, senza l'approvazione del quale niuno in Regno poteva esercitar medicina, e da' Persiani era chiamato Hakim Pasci[540], siccome per la testimonianza d'Alpino, nella città del Cairo, il primo Medico, che tiene la medesima potestà, vien anche chiamato Hakim Fasci. Presso gli Arabi [470] Hakim è l'istesso, che presso noi Sapiente, ovvero Dottore: quindi gli Spagnuoli per eccellenza chiamano il Medico Dottore: siccome i Franzesi, la Levatrice, che la noverano tra' Medici, chiamano Sage-femme.

Presso di noi primo Medico fu chiamato Protomedico, e nel Regno degli Angioini e degli Aragonesi spesso s'incontra di lui memoria; e nel famoso indulto della Regina Giovanna I, rapportato dal Summonte[541], abbiamo, che in quel tempo era Protomedico Carlo Scondito, siccome nel Regno degli Aragonesi furono successivamente Protomedici Pannuccio Scannapeco, Silvestro Galeota ed altri, de' quali il Toppi nella sua Biblioteca fece catalogo. Teodorico gli avea conceduto grande autorità e prerogative: che tutti coloro, che esercitavan medicina, dovessero a lui render ragione, e conto della perizia del lor mestiere: che occorrendo tra' Medici discordia intorno alla cura degl'infermi, egli dovesse determinarla e starsi al suo giudicio: e per ultimo, ch'egli fosse il Medico del Principe[542].

Eravi anche presso di noi il Protochirurgo, ma da poi fu quest'Ufficio estinto, ed unito al Protomedico, il quale è creato dal Re, o dal suo Luogotenente, e deve essere Regnicolo, ed ha la conoscenza non meno sopra i Chirurgi, che sopra le Levatrici annoverate tra Medici; e sopra gli Speziali, ch'egli crea, spedendo loro il privilegio, e visita le loro botteghe; e quella autorità, che Federico II diede per due Costituzioni[543] a' suoi Ufficiali ed a' Medici d'invigilare, che [471] i sciroppi, e gli elettuari, e gli altri farmaci fossero ben composti, la esercita ora egli, tassando il prezzo di quelli, ed è Capo perciò del Collegio degli Speziali, che chiamano degli Otto. Tiene Tribunale, ed insieme col suo Assessore conosce contro le Levatrici, Speziali ed altri suoi sudditi, e contro coloro, che medicano senza privilegio; ed è sottoposto al Tribunale della regia Camera della Summaria, ancorchè da' suoi decreti s'appelli al Tribunale del S. C.[544].

Sotto il G. Scudiero, Ufficiale anche nell'Imperio d'Oriente conosciuto col nome di Scuterius, era il primo Scudiero, che Tutini chiama Maestro della Scuderia Regia.

Sotto il G. Cacciatore, fra' Greci annoverato pure tra gli Ufficiali del Palazzo di Costantinopoli, e chiamato Primus Venator, che noi diciamo oggi il Montiere Maggiore, sono il G. Falconiero, il Maestro dell'Acque e delle Foreste, di cui sovente ne' nostri Capitoli del Regno[545] fassi memoria, e li quattro Luogotenenti della caccia.

Non bisogna cercare nell'antico Imperio questi Ufficiali; poichè i Romani, siccome ebbero l'esercizio dell'agricoltura e pastorizia, e la fatica della campagna in pregio, così disprezzavano la caccia; ond'è che da Salustio[546] è annoverata la caccia tra' mestieri servili; e Tiberio notò d'infamia un Capitano d'una legione, perchè avea mandati certi pochi soldati a caccia[547]. Le cagioni vengono esaminate dal nostro Scipione [472] Ammirato[548], fra le quali non sono di leggier momento quelle di aver dovuto per prender diletto della caccia, allontanarsi le giornate da Roma, per essere questa città a molte miglia intorno circondata di ville, orti ed altre delizie, e perchè i Romani aveano tanti giuochi e spettacoli pubblici di gladiatori e diversi altri esercizi militari in casa, onde non bisognava loro ricorrere perciò alla caccia. All'incontro i Principi stranieri ch'essi chiamavano barbari, i Re de' Macedoni, i Re di Persia, i Re de' Parti e tanti altri, stimavano gran pregio l'essere valenti cacciatori; ma sopra tutti i Principi germani e settentrionali, li quali nella decadenza dell'Imperio soggiogarono l'Europa, ne furono vaghissimi; onde avvenne che presso i nostri Principi sia venuto in disprezzo l'esercizio della agricoltura e pastorizia, ed innalzato cotanto quello della caccia. Questi Popoli, come saviamente ponderò l'Abate Fleury[549], vivevano in paesi coperti di boschi, ne' quali non aveano nè biada, nè vino, nè buone frutta, ond'era loro necessario di vivere di cacciagione, siccome fanno ancora i Selvaggi de' paesi freddi nell'America. Dopo aver passato il Reno ed essersi stabiliti in terre migliori, vollero trar profitto dalle comodità dell'agricoltura, dalle arti, e dal commercio, ma non vollero avervi l'applicazione. Lasciarono queste occupazioni a' Romani da loro soggiogati, ed essi mantennero i loro istituti, e quanto avvilirono l'agricoltura, altrettanto innalzarono la caccia, della quale gli antichi facevano molto minor caso. Eglino ne han fatto una grand'arte; e l'hanno portata perfino all'ultime [473] sottigliezze, tanto che la caccia fu reputata la più ordinaria occupazione della nobiltà.

Fu reputata ancora proprio esercizio della profession delle armi, perchè avvezza gli uomini a levarsi per tempo, a sostenere i freddi ed i caldi, a lasciar il cibo ed esercitarsi ne' viaggi e ne' corsi, ed a soffrire i disagi, talchè potendo accadere il simile in guerra, non parrà così strano a sostenerli in campo. I Principi stessi eran persuasi, non esser per loro più utile occupazione che l'esercitarsi nelle cacce, così per assuefare il corpo a' disagi ed alle fatiche, come per imparare la natura de' siti, e conoscere, come sorgono i monti, come imboccano le valli, come giacciono i piani, ed intendere la natura de' fiumi e delle paludi: ciocchè arreca al Principe doppia comodità, sì perchè con quella via apparerà il sito del suo paese, onde può vedere che difesa gli si può dare, e sì perchè, con quello esempio può venire a notizia d'altri siti, avendo tutti i paesi una certa somiglianza infra di loro; la qual cognizione, e per condurre gli eserciti, e per trovare gli alloggiamenti, e per pigliare suoi vantaggi, e per altri rispetti può in vari tempi apportare molte e diverse comodità.

Quanto i nostri Principi o sian goti, o longobardi e normanni, ovvero svevi, fossero stati applicati alla caccia, si è potuto notare ne' precedenti libri di questa Istoria, e sopra tutti l'Imperador Federico II e Manfredi suo figliuolo che della caccia ne compilarono particolari libri. Le medesime pedate furon calcate da questi Re angioini, i quali avendo collocata la Sede regia in Napoli, nè essendo a que' tempi questa città circondata di tante ville ed orti, nè i suol piani ridotti a quella coltura che oggi si vede, ma racchiudendo [474] la provincia di Terra di Lavoro ampie foreste e boschi, quindi il lor consueto esercizio era la caccia, onde molti Ufficiali si videro nella Casa regale di Napoli destinati per assistere al Re alla caccia, li quali aveano il lor Capo, chiamato il Gran Forestiere, il quale teneva sotto di se molti Maestri Forestieri, e questi aveano moltissimi Cacciatori a loro subordinati[550].

L'autorità e giurisdizione di questo Ufficiale, chiamato da' nostri il Montiere Maggiore, nel Regno degli Angioini non si era distesa cotanto, quanto si proccurò allargarla da poi nel Regno degli Spagnuoli; poichè a questi tempi il Gran Maestro delle Foreste non estendeva la sua giurisdizione, che nelle foreste demaniali del Re. Ma da poi essendosi stabilita la caccia per regalia del Principe, si vede l'autorità sua non aver termine nè confine; tanto che concede egli licenza ai Cacciatori di portar armi, e cacciare per tutto il Regno (ancorchè i Baroni nelle loro investiture vengano pure investiti delle foreste, e ragioni della caccia) e tiene proprio Auditore e particolare Tribunale[551].

De' Minori Ufficiali.

I Minori Ufficiali erano così chiamati, non perchè fossero piccoli in se medesimi, ma comparati a' Maggiori, e grandi Ufficiali detti di sopra. Questi nell'antico Imperio erano chiamati Milizie, ovvero piazze ed ufficii di compagnia, perchè di ciascuna sorte ve ne erano più, a luogo, che li Gran Ufficiali sono quasi [475] tutti unici nella loro spezie. Di queste milizie spesso nel Codice di Giustiniano, e nelle Novelle fassi memoria[552]; e ne trattarono accuratamente Giacomo Cujacio, ed Arnoldo Vinnio[553] celebri Giureconsulti, riprovando l'opinione che sopra le milizie ex casu tenne Lelio Taurello.

Erano di due sorta. Gli uni dati a' Gentiluomini, e gli altri lasciati agli Ignobili.

Quelli ch'erano dati a' Gentiluomini, sono le piazze de' Gentiluomini di Camera; i Gentiluomini della Caccia: e quanto a' Paggi (detti dal Tutino Valletti), essi non tiravano salario, ma aveano la livrea solamente dal Re. I Gentiluomini della Camera, che nell'antico Imperio erano chiamati Decuriones Cubiculariorum, comandavano agli altri Ufficiali minori, ed erano in gran numero. I Gentiluomini della Caccia, erano quelli che assistevano al Re alla caccia, differenti dalli Cacciatori Regj, che sono plebei, ed hanno la cura di ordinare, ovvero drizzare la caccia. I Gentiluomini della Falconeria, i quali avevano il pensiero di qualche volo, differenti dagli Falconieri della Camera Regia, che sono quelli che avevano la cura di ordinar la caccia. Questi Ufficiali, come si è detto, non bisogna cercargli nell'antico Imperio, perchè gli Imperadori non erano applicati alla caccia, come furono i nostri Re.

I Ciambellani Regj, che scalzavano il Re, e lo [476] mettevano in letto, ed erano nella Camera secreta del Re. Gli Arcieri delle guardie del Re. I Scudieri del corpo del Re. I Scudieri della Stalla del Re, chiamati dal dritto Siratores, ed in Francia detti Marescialli, termine alemano, che significa Ufficiale di Cavalli, the Tutino chiama Maestro della Marescallaria Regia: donde viene che noi chiamiamo ancora Maniscalchi quegli che medicano e ferrano i Cavalli: differenti dalli Marescialli degli alloggiamenti del Re.

I Marescialli della soprantendenza della guerra, li quali distribuivano alle milizie gli ospizj, seguivano il G. Contestabile, e gli Ufficiali succeduti nella loro carica si chiamarono Scudieri ed anche Scudieri di Stalla, a distinzione degli altri Scudieri del corpo del Re detti di sopra.

Vi erano ancora i Maestri degli stipendiarii Regj, i quali aveano la cura di tener conto degli stipendiati del Re, e presso noi è rimasto di loro ancor vestigio, leggendosi nella Chiesa di S. Niccolò a Pozzo bianco un'iscrizione, nella quale si nota il fondatore di quella essere stato Errico Barat, familiare del Re Carlo I ac stipendiariorum Regiorum Magistrum[554]. La di cui incombenza, siccome l'altra di distribuire alle milizie gli ospizj, appartenente a' Marescialli di guerra, si vide da poi a tempo degli Aragonesi e degli Spagnuoli, trasferita nel Regio Scrivano di Ragione, di cui favelleremo nel Regno di questi Principi.

Eravi il Maestro delle Razze del Re, che ora diciamo Cavallerizzo Maggiore, il qual Ufficiale a tempo degli Spagnuoli, come ivi diremo, innalzò grandemente [477] la sua giurisdizione, ed ebbe pure proprio Uditore e particolar Tribunale.

Più numerose erano le milizie de' Secretarii del Re. Questi, che nell'imperio erano nella milizia de' Tribuni de' Notari, e chiamati ancora Candidati, come l'attesta Cassiodoro[555], nel Regno di Sicilia riconoscevano il G. Protonotario per lor Capo, ch'era uno de' sette Ufficiali della Corona, come si disse nel libro XI di quest'istoria. Egli era il Capo de' Notari, e nell'Imperio era per ciò chiamato Primicerius Notariorum: avea la dignità Proconsolare, e dopo due anni d'esercizio diveniva illustre. Erano ancora nell'antico Imperio tre sorta o gradi di Notari, che sono apertamente distinti nel Codice di Teodosio[556]; i primi erano intitolati Tribuni Praetoriani et Notarii: e questi aveano la dignità de' Conti; i secondi erano semplicemente detti Tribuni et Notarii, e questi aveano la dignità de' Vicarii; finalmente i terzi erano chiamati Notarii familiares, ovvero domestici, i quali aveano l'ordine e dignità di Consolarità. Questi non bisogna confondergli co' Notari che ora diciamo, li quali erano tutto altro, ed erano chiamati Tabelliones, ovvero Tabularii, siccome fu da noi osservato nel riferito libro.

In Francia, secondo che rapportano gli Scrittori di quel Regno, parimente vi sono tre sorta di Notari del Re, chiamati ancora Secretarii ad esempio di Vopisco, il quale chiama i Notari dell'Imperio Notarios Secretorum, e nel dritto vengono chiamati a Secretis[557]. Sono perciò variamente appellati: Secretarii di Stato: Secretarii del Re: e Secretarii della Casa del Re. I [478] Secretarii del Gabinetto si riferiscono alli Cartularii, Cubicularii, qui emittebant simbola, sive Commonitoria, come si dicono nelle Novelle di Giustiniano[558]. Erano in Francia sessanta i Secretarii del Re, Casa e Corona per far tutte le lettere patenti di Cancelleria. E come ch'essi spediscono i privilegi degli altri, era ben di dovere, che ne ottenessero tanti dal Re a lor beneficio.

Parimente nella Casa Reale di Napoli erano a' tempi degli Angioini molti di questi Secretarii e Notari del Re. Furonvi i Notari della Casa del Re, ed a questi tempi di Carlo II d'Angiò fu suo Notaio Niccolò di Alife, celebre Giureconsulto di quell'età. Vi erano i Maestri e Prepositi sopra le soscrizioni e signature delle lettere della Camera Regia: i Notari della Tesoreria Regia: il Sigillatore delle Lettere Regie: il Compositore delle Bolle Regie: ed altri Ufficiali minori della Secreteria del Re.

Fra questi Ufficiali dobbiamo annoverar ancora il Maestro dell'Armature Regie: il Maestro de' Palafrenieri: il Maestro degli Arresti: il preposito degli ufficii dell'Ospizio Regio: il Maestro Massaro: i Maestri Razionali della Camera Regia (fra quali, a' tempi di questo Re, furono Andrea d'Isernia e l'istesso Niccolò d'Alife) ed altri consimili, de' quali si tratta in più luoghi nei Capitoli di Carlo I e II d'Angiò[559].

Sieguono nell'ultimo luogo i minori uffici lasciati agl'Ignobili: e sono quelli, che apprestano il mangiare del Re e de' Principi e de' loro domestici, li quali in Francia si chiamano li sette uffici, non per ragione [479] della loro carica, ma a cagion delle cucine dove gli esercitano, e si chiamano uffici a casa del Re ed a casa de' Principi. Nelle due cucine, li Capi sono chiamati Scudieri di Cucina, e gli Aiutanti, Maestri Cuochi.

Così ancora coloro, che apprestavano il mangiare a' nostri Re ed a' Principi della Casa regale erano chiamati Prepositi della Cucina Regia e Maestri Cuochi del Re; onde si narra che que' tre Franzesi, Gio: Dottum, Guglielmo Burgund e Gio: Lions, che fondarono la chiesa e l'ospedal di S. Eligio, fossero stati tre Cuochi della Cucina del Re Carlo I.

Vi erano ancora i Prepositi della Panetteria, della Copperia, della Frutteria e della Buccellaria del Re; i quali aveano molti Aiutanti sotto di loro. Come ancora i Valletti del Nappo del Re ed altri molti Ufficiali subalterni.

A questa classe devono collocarsi i Vessilliferi Regi: i Portieri della Camera Regia: i Cacciatori Regi: i Falconieri Regi, cioè quei che avean la cura di ordinare e dirizzar le cacce ed i voli: i Custodi degli Uccelli Regi: i quaranta Soldati dell'Ospizio Regio ed altri simili minori Ufficiali.

Camillo Tutini nel Catalogo di questi Ufficiali minori rapporta alcuni, i quali non appartengono punto alla Casa Regale ed agli G. Ufficiali del Palazzo del Re; ma unicamente appartengono agli Ufficiali della Corona, a cui sono subordinati: come il Maresciallo del Regno: i Contestabili delle Terre e Castellani, che nella soprantendenza della guerra seguivano, ed erano subordinati al G. Contestabile: il Maestro del Porto Regio, e' Protontini, ovvero Portolani o Vice-Ammiragli, che appartengono al G. Ammiraglio: il Tesoriere Regio ed i Secreti delle province, che sono [480] subordinati al G. Camerario; e li Giustizieri delle province, e quello degli Scolari, che riconoscevano per lor Capo e superiore il G. Giustiziero.

Di tanti e così illustri pregi era ornata la regal Casa di Napoli ne' tempi del Re Carlo II, il quale con ugual bilancia compartiva questi uffici per lo più a' Napoletani e Regnicoli, come si legge ne' regali Archivi, prezzando i vassalli di questo Regno non meno di quelli degli altri de' suoi paterni e materni Stati; e se alle volte leggiamo, che ne onorava ancora i forestieri di quegli Stati, non tralasciava però a Provenza, a Forch'Alquir, a Piemonte, di porvi Regnicoli e Napoletani con altrettanto di prerogativa, come si legge ne' medesimi Archivi, e come si vede in quei luoghi a molte insegne di Napoletani, che furonvi a governare[560]. Ed ancorchè tutto disponesse ad imitazione del Regno di Francia, e molto fosse inchinato al suo nativo paese ed a gratificar que' di sua nazione; con tutto ciò in cose di Stato non riguardò Nazione, ma s'atteneva al consiglio de' più prudenti e savi.

Ma quasi tutti questi Ufficiali, perduto ch'ebbe Napoli il pregio di esser Sede regia, sparirono, e nella loro suppressione sol alcuni ne rimasero; poichè nel Regno di Ferdinando il Cattolico, e più in quello degli Austriaci, essendosi introdotta fra noi nuova politia, sursero nuovi Ufficiali; e siccome quelli finora rapportati furono da' Re franzesi qua introdotti ad esempio di quelli di Francia, così a' Re spagnuoli piacque introdurne de' nuovi a similitudine di quelli di Spagna, de' quali ne' Regni loro si darà distinta e particolar contezza.

[481]

§. II. Del Maestro della Cappella del Re, che ora chiamiamo Cappellano Maggiore.

Bisogna separare il Maestro della Cappella del Re, dagli altri Ufficiali della Casa del Re; poichè quantunque ancor esso, avendo la soprantendenza dell'Oratorio del Re posto nel regal Palazzo, potesse annoverarsi fra gli Ufficiali della Casa regale, nulladimanco presedendo egli alle cose ecclesiastiche e del Sacerdozio, era distinto da quelli, che presedevano alle cose dell'Imperio e della Casa del Re. In Francia per istabilire in maggior splendore e magnificenza lo stato della Casa del Re, fu reputato prudente consiglio introdurre in quella tutti i tre Ordini del Regno, e che non meno quello della Nobiltà e l'altro del terzo Stato v'avesse parte, ma anche l'Ordine ecclesiastico, che in quel Regno fa Ordine a parte, tutto diverso di quel che si pratica fra noi, che gli Ecclesiastici sono mescolati ne' due Ordini di Popolo e Nobiltà. Dalla Nobiltà presero, come si è veduto, i Gentiluomini di Camera, della Caccia, della Falconeria ed altri, onde si componevano le milizie o piazze della Casa del Re. Dal terzo Stato si presero i Graffieri, Secretarii, Cancellieri e tutti que', a' quali erano lasciati i minori uffici. Così ancora dall'Ordine ecclesiastico si presero il G. Elemosiniere, il Maestro della Cappella o Oratorio, ed il Confessore ordinario del Re; ed a tempo de' Re della prima razza, fu tanta l'autorità del Cappellano del Re, chiamato ancora Arcicappellano, nella Casa regale, che s'aveano diviso l'imperio ed il governo col Maestro del Palazzo: suppressa poi tal carica nella seconda stirpe, e data altra norma al governo [482] della Casa regale, restò l'autorità dell'Arcicappellano in gran parte diminuita, e surse sopra di lui il G. Elemosiniere, che tenea sotto di se così il Maestro dell'Oratorio, come il Confessore del Re[561].

Nel Regno di Sicilia, avendo i Normanni costituita la loro Sede Regia in Palermo, il Cappellano del Re, a somiglianza di quell'antico di Francia, avea per tutto quel Regno stesa la sua giurisdizione, nè l'Elemosiniere, nè il Confessore del Re erano distinti. Nella Casa regale di Sicilia era chiamato Cappellano del Re, e tra l'Epistole di Pietro di Blois, se ne legge una[562] dirizzata ad Cappellanum Regis Siciliae, dove gli ricorda, che per l'ufficio suo ammonisca il Re a non dare il Vescovato d'Agrigento a persona indegna.

Da poi che i Principi cristiani vollero avere nel regal Palazzo proprio Oratorio, surse in conseguenza il primo Prete del Clero Palatino; e poichè ov'essi tenevano collocata la loro regia Sede, ivi colui dovea risiedere; quindi è, che presso di noi ne' regali Archivii non s'incontra memoria di Cappellano Regio, se non a' tempi de' Re angioini, i quali in Napoli fermarono la lor Sede, e cominciarono quindi ad avere regia Cappella. Prima i Re normanni e svevi l'ebbero in Sicilia, perchè in Palermo avean collocata la lor Sede; ond'è, che la memoria del Cappellano di Sicilia è più antica di quello di Napoli.

Collocata adunque da' Re angioini in Napoli la lor Sede regia, cominciò presso noi la prima volta a sentirsi il Maestro della Cappella del Re, e ne' suoi principii insino al Regno di Ladislao fu chiamato Magister Regiae Cappellae, ovvero Magister Sacratae Cappellae, [483] e sovente Protocappellanus[563], per essere egli il Capo di tutti li Cappellani minori del Re, non altrimenti, che presso i Greci il primo Prete del Clero Palatino chiamavasi Protopapa del Palazzo, di cui si ritrova spessa commemorazione presso Codino, Zonara, Cedreno e nelle Notizie dell'Imperio; al medesimo s'appoggiava la principal cura della celebrazione delle funzioni e solennità nella Cappella del Palazzo imperiale, dove presedeva agli uffici ecclesiastici, del che fu ricordevole anche Tommasino nel suo trattato de' Beneficii[564].

Il Maestro adunque della Cappella reale di Napoli avea la principal cura dell'Oratorio del Re, e presedeva a tutti i Cherici del Palazzo reale; ed a' tempi di Carlo II leggiamo essere stato suo Cappellano regio Pietro, il qual intervenne all'assoluzione del giuramento, che Papa Bonifacio VIII diede a Lionora terzagenita di Carlo II per isciorla dagli sponsali, che avea contratti con Filippo Signor di Tussiaco, e Ammiraglio a tempo di Carlo I[565]: e regnando il Re Roberto si legge, che fosse suo Cappellano Regio Landulfo di Regina Dottore e Canonico napoletano[566]. E sin da questi tempi, non già nel Regno d'Alfonso I, come contro l'opinione del Freccia fu notato nel libro XI di quest'istoria, fu escluso il G. Cancelliere d'esercitar giurisdizione sopra i Cherici del Palazzo reale, sopra i Cappellani regj, e tutta passò nella persona del Cappellano Maggiore, come Prete del Clero Palatino.

[484]

Crebbe molto più la sua autorità nel Regno di Carlo II, poichè essendosi per antichissimo costume introdotto, che i Principi potessero avere Cappelle regie, non pure nella città metropoli, dove facevano residenza, ma in alcune altre, dove solevano ancor essi in alcun tempo dimorare, e dichiarar essi per tali alcune Chiese, ove aveano maggior divozione, e che per ciò erano state delle loro rendite profusamente dotate; siccome presso di noi n'abbiamo memoria fin da' tempi del Conte Ruggiero, il quale nell'anno 1094 fra l'altre cose che donò a S. Brunone, fu la Chiesa di Santa Maria di Arsafia, sua Cappella, che teneva in Calabria esente dalla giurisdizione dell'Ordinario: la carta della qual donazione vien rapportata dal Tassoni[567], ove si legge ancora Folcone suo Cappellano; quindi multiplicandosi nel nostro Regno le Cappelle regie, venne in conseguenza ad accrescersi l'autorità del Cappellano regio. La chiesa di S. Niccolò di Bari fu dichiarata Cappella regia; e perciò il Priore ed il Capitolo siccome eran esenti dall'Ordinario, così erano subordinati al Cappellano maggiore del Re. La chiesa d'Altamura fu dichiarata ancora Cappella regia, e quindi l'Arciprete di quella co' suoi Preti, come Cappellani regj pretendevan independenza dal Vescovo di Gravina, e non riconoscer altri, che il Cappellano Maggiore del Re[568]. Tante altre Chiese di regia collazione, dichiarate Cappelle regali, delle quali si è favellato nel precedente Capitolo, parimente pretendendo [485] esenzione da' loro Ordinarii, non riconoscevan altri, che il Cappellano Maggiore per superiore.

Furono da poi riputate anche Cappelle regie quelle, ch'erano costrutte dentro i regj castelli: per la qual cosa multiplicandosi nel Regno il di lor numero, vennero a multiplicarsi i regj Cappellani. Multiplicaronsi ancora per un'altra cagione, perchè avendo i nostri Principi ottenuto da' Sommi Pontefici molti privilegi ed esenzioni a' medesimi, come di non essere obbligati a residenza, ancorchè tenessero beneficii curati, di non dover soggiacere al pagamento delle decime, che i Pontefici imponevano sopra gli Ecclesiastici ed altri consimili[569]: ogn'uno proccurava farsi dichiarare dal Re per suo Cappellano; poichè s'era introdotto costume, che anche a coloro, che attualmente non servissero nella Cappella regia, e fossero lontani, solevansi spedire da' Re lettere, per le quali gli dichiaravan suoi Cappellani regj: le quali ottenute da varie persone portavan loro non picciol giovamento, perchè nelle congiunture d'imposizione di decime sopra gli Ecclesiastici, i Cappellani ricorrevano al Re, acciocchè essi non fossero compresi, e ne ottenevano provvisioni, siccome molte se ne leggono nel secondo volume de' M. S. giurisdizionali del Chioccarelli; e fra l'altre una spedita ad istanza dell'Arcivescovo d'Otranto, il quale supplicava il Re, che per essere uno degli antichi Cappellani della regia Cappella, e che quando era stato in Napoli avea sempre servito in essa, non dovesse soggiacere al pagamento delle decime. Tanto che i Pontefici romani avveduti dell'abuso fecero più Bolle, prescrivendo, che solamente [486] coloro dovessero godere de' privilegi ed esenzioni concedute a' Cappellani regj, li quali attualmente servissero nella Cappella regia, le quali però come troppo restrittive, come fra l'altre furon quelle di Lione X e di Clemente VIII, non furono ricevute senza dibattimento e dichiarazioni. Quindi crescendo l'autorità del Cappellan Maggiore sopra tutti i castelli del Regno, e le Chiese dichiarate Cappelle regie, nacquero quelle tante contese giurisdizionali tra il medesimo coll'Arcivescovo di Napoli, col Vescovo di Cotrone e con tanti altri, delle quali è ripieno il secondo volume de' M. S. giurisdizionali del Chioccarelli.

Nel tempo de' Re Austriaci fu accresciuta la sua autorità, per essergli stata commessa la cura e la presidenza de' Regj Studii, e trasfusa a lui parte di quella giurisdizione, che prima sopra gli scolari teneva il loro Giustiziere; e sovente dal Collateral Consiglio se gli commettevano le cause riguardanti il turbamento e le violenze inferite dagli Ecclesiastici a' Laici, in vigor de' Capitoli del Regno; e se gli diede ancora giurisdizione sopra i Musici della Cappella regia[570], siccome favellando del Regno di que' Principi, ci tornerà occasione di più diffusamente ragionare.

[487]

CAPITOLO VII. Delle Consuetudini della città di Napoli e di Bari, e d'alcune altre città del Regno.

Fra gli altri beneficii finora noverati, onde al Re Carlo II piacque di favorire ed innalzar cotanto questa città, non inferiore deve riputarsi quello della compilazione delle nostre Consuetudini. Prima che quelle si fossero ridotte in iscritto, li cittadini erano in continue liti e discordie, per cagion dell'incertezza delle medesime: ciascuno allegava per se la Consuetudine, e per provarla produceva i suoi testimonii, e secondo quelle pruove era deciso il litigio. Occorreva in caso simile, che commettendosi la pruova al detto de' testimonii, in un altro giudicio si pruovava il contrario, e contraria perciò ne seguiva la determinazione; onde avveniva, che sempre stassero incerti, dubbii ed in perpetui litigii e contese. Per togliere disordine sì grave Carlo II pensò di darvi rimedio.

Avea egli un esempio assai recente di ciò, che ai tempi del Re Carlo suo padre si fece nella città di Bari, e di quel che ivi avea fatto prima di lui il famoso Ruggiero I Re di Sicilia. Pure in quella città, che stata lungamente sotto la dominazione de' Longobardi, si reggeva colle loro leggi, eransi tratto tratto stabilite particolari Consuetudini conformi per lo più alle leggi longobarde. I Baresi perchè non inciampassero in quella confusione, nella quale si vedea ora Napoli, le fecero ridurre in iscritto, e presa la lor città da Ruggiero, le presentarono al medesimo, il quale (come [488] si legge nel proemio di quelle) et laudavit et servavit illaesas: imo potius suo inclyto favore firmavit, et eis perlectis, demum robur suae constitutionis indulsit[571]. Ma ne' tempi di Carlo I ebbero più felice successo, perchè trovarono due celebri Giureconsulti baresi, che in un picciol volume con la maggior brevità ed eleganza, che comportava quel secolo, le restrinsero, e con istile certamente non insulso le tramandarono ai posteri: ed è quel volume, che oggi corre per le mani d'ognuno; il qual avrebbe meritato altro più culto Scrittore, non Vincenzo Massila, che ignaro delle leggi longobarde, donde trassero la loro origine, con istile assai goffo e pieno di puerilità nell'anno 1550 commentolle.

Que' due Giureconsulti, che in quella guisa, che ora le vediamo, le compilarono, furono il Giudice Andrea di Bari, ed il famoso Giudice Sparro, o sia Sparano, parimente barese. Fu questi uno de' maggiori Giureconsulti, che fiorisse a' tempi di Carlo I, da questo Principe molto ben veduto, e in sommo pregio avuto; poichè, oltre essere stato prima da lui creato Giustiziere di Terra di Bari, e poi M. Razionale della G. C., dopo la morte di Roberto da Bari fu fatto G. Protonotario del Regno. Ebbe ancora la suprema preminenza ne' Tribunali de' Contadi di Provenza e di Forch'Alquir, ed il titolo di vir nobilis, solito darsi in que' tempi a' Titolati, ed a persone d'esquisita nobiltà: creollo di più Cavaliere, e l'arricchì di molti Feudi.

Il Giudice Andrea in quel libro, che compilò, tenne quell'istesso ordine e metodo, per quanto gli fu permesso, [489] del Codice di Giustiniano, ed in alcuna parte seguitò quello delle Pandette. Comincia perciò dopo un non disprezzevol proemio, ad imitazione di Giustiniano, dal titolo de Sacrosanctis Ecclesiis, ove tratta delle cose attinenti alla cattedral chiesa di Bari e dell'altra di S. Niccolò. Finisce la sua compilazione ad imitazione di Triboniano nelle Pandette col titolo: de Regulis juris, seguitando ancora l'esempio de' Compilatori delle Decretali.

Il Giudice Sparano, che con non minor eleganza aggiunse alla costui compilazione un altro libro, tenne altro metodo. Conoscendo, che quelle Consuetudini in gran parte derivavano dalle leggi longobarde, stimò più a proposito seguitar quell'istesso ordine, che tennero i Compilatori di quelle leggi: e perciò comincia da' delitti, siccome da questi si dà principio al primo libro delle longobarde. Narrasi ancora di questo Giureconsulto, che componesse altre opere, ma due sole sono di lui rimase a' posteri: questa compilazione, ed un libretto, che intitolò: Rosarium virtutum et vitiorum: che fu da poi nell'anno 1571 stampato in Venezia con la giunta dell'Abate Paolo Fusco da Ravello.

Carlo II adunque, avendo innalzata Napoli a tanta sublimità, non permise, che in ciò Bari la superasse. Per ciò non trovandosi le sue Consuetudini ridotte in iscritto, onde derivavano que' disordini accennati di sopra, diede prima incombenza all'Arcivescovo di questa città, e gli prescrisse, che chiamati a se dodici uomini di sperimentata probità, e ben istrutti de' costumi della loro patria, desse principio all'opra. Era allora Arcivescovo di Napoli Filippo Minutolo, quello stesso, che per la sua saviezza e dottrina fugli dal padre destinato per primo Consigliere, quando lo rimise [490] in Napoli per suo Vicario, onde l'opera era degna di lui, da chi poteva sperarsi felice successo[572]. Ordinò nell'istesso tempo, che l'Università di Napoli eleggesse quegli uomini che fossero non meno integri, che informatissimi delle costumanze della loro patria, i quali dovessero ricercare tutte le Consuetudini della città, ma le più vere, le più antiche, le più concordi e le più approvate ne' giudicii: e dopo averle ben esaminate con legittima testimonianza d'uomini probi ed integri, le riducessero in iscritto in un volume: il quale riveduto ed esaminato dall'Arcivescovo, e da queste dodici persone a ciò destinate, lo dovessero presentare a lui, perchè quelle solo dovesse confermare ed approvare con sua Costituzione, e riprovar tutte l'altre: in maniera, che nè in giudicio, nè fuori avessero forza e vigore alcuno.

L'Arcivescovo, e gli uomini a ciò deputati adempirono la loro incombenza, ed in nome di tutti i cittadini presentarono il libro al Re, perchè lo confermasse. Nè a questi tempi erano entrati gli Ecclesiastici in quella pretensione, che fortemente sostennero da poi, d'essere da quelle liberi e sciolti. Carlo lo fece poi rivedere da Bartolommeo di Capua, ch'era allora Protonotario del Regno, il quale levate alcune cose, ed aggiuntene alcun'altre, ed in miglior modo dichiarate, le dettò in quello stile che ora leggiamo. Il che fatto, furono dal Re approvate, e vietato che toltone quelle ch'erano scritte in quel volume, non fosse lecito per l'innanzi ne' giudicii o fuora, allegarne altre: ciocchè accadde nell'anno 1306 morto già l'Arcivescovo Minutolo.

[491]

Se vogliamo far paragone tra le Consuetudini di Napoli con quelle di Bari, non vi è dubbio alcuno che i Giudici Andrea e Sparano con maggior eleganza dettarono quelle che i Baresi presentarono al Re Carlo I, che non fece Bartolommeo di Capua di queste, che i Napoletani presentarono a Carlo II. Lo stile di quelle non fu cotanto insulso ed intrigato, come può esser noto a chi leggerà l'une e l'altre: se non vogliamo difendere il Capua con quel che leggesi nel proemio di Carlo, il quale dice, che piacque a quel Giureconsulto di non mutare lo stile, ed i vocaboli proprii del paese, per maggior intelligenza di que' cittadini: In stilo dictaminis eorudem civium, ut magis proprie illarum usualia verba remaneant[573].

Scorgesi eziandio un'altra differenza tra l'une e l'altre; perchè quelle di Bari, per essere state lungamente de' Longobardi, per la maggior parte traggono origine dalle costoro leggi. All'incontro Napoli che non riconobbe mai il dominio de' Longobardi, ma, se si riguardano i suoi principii, fu città greca, o se il dominio che n'ebbero in que' medesimi tempi, che i Longobardi dominarono l'altre province del Regno, fu ella sotto la dominazione de' Greci, e degli ultimi Imperadori d'Oriente: quindi le sue Consuetudini dalle leggi di quella Nazione derivano.

Fu chi credette che chiamando il Re Carlo queste Consuetudini antichissime, fossero reliquie di quelle antiche leggi, colle quali si governava in tempo de' suoi Arconti e Demarchi, come dicemmo nel primo libro. Altri, apponendosi più al vero, senza ricorrere ai tempi tanto lontani e remoti, credettero che dalle Novelle [492] degl'ultimi Imperadori greci derivassero, di che ne potrebbe esser argomento i tanti riti e costumi degli ultimi Greci che ancor si ritengono, e l'analogia ed i molti vocaboli ancor ritenuti di quella Nazione.

L'ordine ancora ed il metodo tenuto da Bartolommeo di Capua fu tutto altro da quello che tennero Andrea e Sparano. Questi, almeno per quanto si potè, imitarono Giustiniano ed i Compilatori delle leggi longobarde, come si è detto: il Capua di suo arbitrio ne formò un altro nuovo. Trattò in prima l'ordine della successione ab intestato, ed indi quella ex testamento: della potestà che in vigor di queste Consuetudini hanno i figli di famiglia di poter testare e di quali beni: delle donne maritate, le quali uscendo dalla patria potestà, potendo testare delle loro doti, in che quantità possano farlo o in altra maniera disporne: degli alimenti che devono i padri e le madri prestare a' loro figliuoli, e su di quali robe. Passa poi a trattar delle doti e della quarta alla donna dovute su i beni del marito. De' contratti tra i mariti e le mogli. Degl'istromenti soliti in questi tempi farsi da' Curiali e della lor fede; e da poi, di tutto ciò che s'attiene alla materia dotale e della quarta.

Prima di passar agli altri contratti, intermezza otto titoli, uno ove tratta de' casi, ne' quali per propria autorità possa alcuno pignorare la roba altrui: l'altro della ragion del congruo: nel terzo esamina di che forza sia il detto del Colono parziario: nel quarto della testimonianza de' rustici, e quanta fede meriti: nel quinto tratta delle Servitù, e nelli tre seguenti di cose a quelle appartenenti. Torna poi a' contratti, e parla delle locazioni e condizioni, de' pegni, delle compre e vendite, e delle arre da darsi: ma vengono questi titoli [493] framezzati con altri, come della nunziazione della nuova opera: Communi dividundo, e de Glande legenda.

Finalmente chiudono il libro il titolo de ripa, vel efrico, e l'altro, ch'è l'ultimo de restituitone in integrum. Quest'ordine tenne Bartolommeo di Capua in questa sua compilazione delle Consuetudini di Napoli, la quale ebbe il suo compimento e confermazione del Re a' 20 di marzo dell'anno 1306, come si legge nella loro data: Data Neapoli per manus ejusdem Bartolomaei de Capua militis Logothetae et Prothonotarii Regni Siciliae. Anno Domini 1306 die 20 martii 4 Indict. Regnorum nostrorum anno 22.

Furono queste Consuetudini dal Re Carlo fatte riporre nel suo regale Archivio, affinchè i Napoletani, essendo ridotte in iscritto, e roborate dalla sua autorità, non fossero più intrigati in tante dispute, e sapessero dove ricorrere per terminarle[574].

I nostri Dottori cominciarono poi a commentarle, e non passarono 44 anni da che furono da B. di Capua compilate, che surse Napodano Sebastiano di Napoli, il quale fu il primo ad impiegar intorno a quelle i suoi talenti nel Regno di Giovanna I, pronipote di Carlo nell'anno 1350. Fiorì egli ne' tempi di quella Reina, ed era riputato per uno de' bravi nostri Professori: era egli Nobile napoletano, della famiglia Sebastiana, e non meno di Matteo d'Afflitto, che tirava la sua famiglia da S. Eustachio ed il Sannazaro da S. Nazario, ebbero i suoi la vanità d'ostentare che la sua parimente dipendesse da S. Sebastiano Maestro de' Soldati dell'Imperadore Diocleziano, ovvero, se questo fallisse, da quell'altro Sebastiano Pretore a' tempi [494] dell'Imperadore Zenone; o pure quando tutto altro mancasse, da' Signori di Sebaste, città di Samaria[575]. Essendo Cancelliere il Vescovo di Fiorenza, Lettore degli Studii Lorenzo Poderico e Vice Protonotario del Regno Sergio Donorso, ebbe egli nel Collegio di Napoli pubblico esame; e datosi allo studio legale riuscì il primo della sua età. Si pose egli a commentar prima le Costituzioni e Capitoli del Regno: da poi per quella mortifera pestilenza che accadde in Italia nell'anno 1348, descritta con tanta vivezza ed eloquenza dal Boccaccio, avendo perduti tutti i figliuoli, per dar qualche conforto al suo dolore, ritirossi in una villa presso Napoli ed in quella solitudine si pose a commentar queste Consuetudini, e terminò le sue fatiche a' 5 aprile dell'anno 1351 come e' dice nel fine de' suoi Commentarii. Testifica Scipione di Gennaro[576], il qual fece alcune addizioni al Commento di Napodano, che aveva inteso da' loro più antichi che quella villa, ove ritirossi Napodano a far questo Commento, era quella appunto che a' suoi tempi si possedeva da D. Luisa Rossa vedova del Dottor D. Paolo Marchese, ch'è posta nel principio della strada, onde vassi a S. Martino.

Il Commento, che questo Giureconsulto fece alle Consuetudini, acquistò tanta autorità presso i nostri Dottori che tiene ora non inferior forza e vigore del testo medesimo delle Consuetudini, e non meno di quello venne da poi da' nostri Professori esposto e commentato o da alcune note illustrato. Undici anni dopo queste sue fatiche, propriamente a' 20 agosto dell'anno 1362 trapassò di questa mortal vita ed il suo cadavere [495] giace sepolto nella Chiesa di S. Domenico Maggiore di Napoli, ove se n'addita il sepolcro[577].

Dopo Napodano, illustrarono queste Consuetudini o con note, o con addizioni ovvero con varie decisioni del S. C. della regia Camera e della G. C. della Vicaria, altri insigni Giureconsulti che fiorirono ne' seguenti secoli. I primi furono Antonio d'Alessandro Presidente, che fu del S. C. Viceprotonotario del Regno: Stefano di Gaeta: il celebre Matteo d'Afflitto: li Consiglieri Antonio Capece e Marino Freccia: il Consigliere e Presidente della regia Camera Diomede Mariconda: Antonino di Vivaya, e nell'anno 1518 Scipione di Gennaro; il quale avendo riscontrato l'esemplare ch'egli avea coll'originale di Napodano, le fece imprimere in Napoli colle addizioni, che nell'anno precedente avea fatte su 'l Commento di quello, ed è la più antica edizione che si trovi di queste Consuetudini.

Seguirono da poi altre edizioni con nuove Chiose e Giunte, come quelle fatte da' Consiglieri Vincenzo de' Franchis, Camillo Salerno, Antonio Barattucci, Bartolommeo Marziale, e Cesare Vitelli: da Coluccio Coppola, Gaspare di Leo, e Gio: Angelo Pisanello: da' Consiglieri Felice Scalaleone, Giacomo Anello de Bottis e Felice de Rubeis: dal Presidente della regia Camera Scipione Buccino, dal Reggente Francesco Revertero, da Tommaso Nauclero, da Provenzale, da Caputo, ed ultimamente da Carlo di Rosa, il quale in un volume raccolse quasi che tutte le costoro note ed addizioni.

[496]

Oltre a costoro, sursero pure nel passato secolo altri Scrittori, li quali, o per via di controversie, o di decisioni, o di consiglj, ovvero con trattati, largamente scrissero sopra queste nostre Consuetudini, fra' quali porta il vanto il celebre Molfesio, che più d'ogni altro in più volumi trattò di quelle, tanto che oggi ai nostri Professori il diritto appartenente a queste Consuetudini, si è reso una delle parti più necessarie per la disciplina forense, la quale non meno che l'altre ha le sue sottigliezze, ed i suoi intrighi, dove il numero di tanti Scrittori l'han posta, e richiedesi perciò somma dottrina, e perizia per ben maneggiarla.

L'esempio di Bari e di Napoli seguirono l'altre città del Regno: Aversa volle anche ridurre in iscritto le sue Consuetudini, che girano per le mani d'ognuno col Commento di Nunzio Pelliccia. Capua tiene pure le sue commentate da Flavio Ventriglia Gentiluomo capuano. Gaeta similmente ha particolari Consuetudini e Statuti. Amalfi e suo Ducato ebbe anche le sue particolari Consuetudini, le quali furono compilate dal Giudice Giovanni Agostaricci, che morì in Amalfi l'anno 1281 dove nell'antico Chiostro di San Andrea si vede il suo tumulo ed iscrizione[578]. Catanzaro tiene eziandio le proprie Consuetudini spiegate dal suo cittadino Giovan Francesco Paparo. E così di mano in mano l'altre città del Regno, delle quali non accade far qui un più lungo e nojoso catalogo.

In tanta grandezza avendo il Re Carlo II posta la città ed il Regno di Napoli, finalmente giunto al sessantesimoterzo anno di sua vita, soprapreso da febbre [497] acutissima, dopo aver regnato anni 25 trapassò a' 5 di maggio dell'anno 1309 nel palagio chiamato Casanova fuori Porta Capuana, ch'egli avea fatto edificare lungi da Napoli 200 passi, ove abitar solea d'estate, per l'opportunità dell'acque del Sebeto, che entrando nella città, passavano per quello, il qual luogo divenuto poscia grandissima villa, ritiene sin a' nostri dì il medesimo nome, ancorchè dell'antico palagio non ne sia rimaso alcun vestigio.

(Carlo II un anno prima di morire fece in Marsiglia il suo testamento a' 16 Marzo 1308, nel quale istituì erede del Regno Roberto Duca di Calabria, chiamandolo suo primogenito, ed a Carlo suo nipote figliuolo del Re d'Ungheria, che fu suo primogenito, gli lasciò solo duemila once d'oro da pagarsegli per una sol volta dal Regno. Si elesse per sepoltura del suo corpo la chiesa del monastero di S. Maria di Nazaret in Provenza, e fece molte altre disposizioni intorno agli Stati del Contado di Provenza, di Forcalquer e di Pedemonte, ne' quali per non poter succedere le femmine in mancanza de' discendenti maschj di Roberto chiamò Filippo Principe di Taranto e di Acaja suo figlio e suoi discendenti maschj, sostituendo a questi altri maschj di primogenito in primogenito. Il suddetto testamento estratto dal real Archivio di Provenza fu impresso da Lunig[579]).

Non è memoria, come scrive il Costanzo, che fosse mai pianto Principe alcuno tanto amaramente, quanto costui, per gran liberalità, per gran clemenza, e per altre virtù, ond'era egli adorno. Per la sua liberalità fu comparato ad Alessandro M. e quanto nelle cose [498] militari fu inesperto, altrettanto nelle cose civili e pacifiche fu eminente. Fu con regal pompa seppellito il suo cadavere nella chiesa di S. Domenico e non molto da poi fu trasferito in Provenza, e nel monastero delle Suore dell'Ordine de' Predicatori di S. Maria di Nazaret, edificato da lui in Arles, fu collocato[580]; ma il suo cuore, per ordine di Roberto suo figliuolo, fu fatto conservare in una Urna d'avorio e riporre in quella medesima chiesa in Napoli, dove oggi giorno da que' Monaci, memori d'aver questo Principe arricchito quel Convento, con molta religione e riverenza vien custodito.

FINE DEL VOLUME QUINTO

[499]

TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI
NEL TOMO QUINTO

LIBRO DECIMOTTAVO pag. 5
 
Cap. I. Corrado di Alemagna cala in Italia: giunge per l'Adriatico in Puglia, ed abbatte i Conti d'Aquino: Capua se gli rende, e Napoli vien presa per assalto e saccheggiata 10
§. I. Invito d'Innocenzio fatto al fratello del Re d'Inghilterra alla conquista del Regno 14
Cap. II. Corrado insospettito di Manfredi lo spoglia d'ogni autorità, e de' suoi Stati; avvelena il suo minor fratello Errico; ed egli poco da poi se ne muore di consimil morte; onde Manfredi assume di nuovo il Baliato del Regno 16
Cap. III. Spedizione d'Innocenzio IV sopra il Regno 25
§. I. Innocenzio abbandona il Re d'Inghilterra, ed invita il fratello del Re di Francia alla conquista del Regno: se ne muore in Napoli, e svaniscono i suoi disegni 36
[500]
Cap. IV. Spedizione d'Alessandro IV sopra il Regno, e nuovi inviti fatti da lui al Conte di Provenza, ed al Re d'Inghilterra 39
 
LIBRO DECIMONONO 58
 
Cap. I. Spedizione d'Urbano IV contro Manfredi; ed inviti fatti in Francia per la conquista del Regno 70
§. I. Invito d'Urbano fatto a Carlo d'Angiò per la conquista del Regno 75
Cap. II. Spedizione di Clemente IV e conquiste di Carlo d'Angiò, da lui investito del Regno di Puglia e di Sicilia 82
§. I. Coronazione di Carlo in Roma 90
Cap. III. Re Manfredi riceve con intrepidezza, e valore il nemico: ferocemente si viene a battaglia, nella quale, tradito da' suoi, rimane infelicemente ucciso 93
Cap. IV. Re Carlo entrato nel Regno comincia a reggerlo con crudeltà e rigore; onde il suo governo è abborrito e gli animi si rivoltano ed invitano alla Conquista Corradino 102
§. I. Invito di Corradino in Italia; e mal successo della sua spedizione 106
§. II. Infelice morte del Re Corradino, in cui s'estinse il legnaggio de' Svevi 118
Cap. V. Politia Ecclesiastica del decimoterzo secolo insino al Regno degli Angioini 125
[501]
§. I. Della Compilazione delle Decretali; e loro uso ed autorità 128
§. II. Elezione de' Vescovi, e provisione intorno a' Beneficj 138
§. III. Della Conoscenza nelle cause 148
§. IV. Tribunale dell'Inquisizione 161
§. V. Monaci e beni temporali 171
 
LIBRO VENTESIMO 191
 
Cap. I. Cagioni onde Napoli divenisse Capo del Regno, e Sede regia 200
§. I. Edificj 201
§. II. Ristoramento degli Studj 203
Cap. II. Carlo si rende tributario il Regno di Tunisi; e per la cessione di Maria, figliuola del Principe d'Antiochia diviene Re di Gerusalemme 208
§. I. Carlo per la cessione di Maria figliuola del Principe d'Antiochia diviene Re di Gerusalemme 210
Cap. III. Nuova nobiltà Franzese introdotta da Carlo I in Napoli; e nuovi Ordini di Cavalieri 216
§. I. Cavalieri armati da Carlo in Napoli 218
§. II. Particolari Ordini di Cavalleria 235
Cap. IV. Seggi di Napoli riordinati, ed illustrati da Carlo 243
§. I. Parlamenti generali cominciati a convocarsi in Napoli 262
Cap. V. Divisione del Regno di Sicilia da quello di Puglia, per lo famoso Vespro Siciliano 263
[502]
Cap. VI. Ufficiali della Corona divisi. Il Tribunale della Gran Corte stabilito in Napoli; e della Corte del Vicario 278
§. I. Del Tribunale della Corte stabilito in Napoli 280
§. II. Della Corte del Vicario 284
Cap. VII. Carlo Principe di Salerno governa il Regno come Vicario, mentre il padre è in Roma, e va poi a battersi in Bordeos con Pietro Re d'Aragona 294
Cap. VIII. Prigionia del Principe di Salerno, e morte del Re Carlo suo padre 306
Cap. IX. Delle nuove leggi introdotte da Carlo I e dagli altri Re angioini suoi successori, che chiamiamo Capitoli del Regno 313
§. I. Capitoli del Re Carlo I 318
§. II. Capitoli del Principe di Salerno promulgati in tempo del suo Vicariato, mentre Re Carlo suo Padre era assente 325
§. III. Capitoli del Re Carlo II 335
§. IV. Capitoli del Re Roberto 338
§. V. Capitoli di Carlo Duca di Calabria Vicario del Regno 348
 
LIBRO VENTESIMOPRIMO 354
 
Cap. I. De' Capitoli di Papa Onorio IV, e qual uso ed autorità ebbero nel Regno 357
Capitula Papae Honorii 364
Cap II. Negoziati fatti in Inghilterra e ad Oleron in Bearn, per la scarcerazione del Principe Carlo; sua incoronazione e tregua fatta col Re Giacomo di Sicilia 392
[503]
Cap. III. Coronazione di Carlo Martello in Re d'Ungheria. Pace conchiusa tra il Re Carlo ed il Re d'Aragona; ed incoronazione di Federico in Re di Sicilia 398
Cap. IV. Guerra rinovata in Sicilia. Morte di Carlo Martello Re d'Ungheria; e pace conchiusa col Re Federico 423
Cap. V. Napoli amplificata da Carlo II, e resa più magnifica per edificj, per lustro della sua Casa regale, e per altre opere di pietà illustri e memorabili, adoperate da lui non meno quivi, che nell'altre città del Regno 435
§. I. Della chiesa di S. Niccolò di Bari 439
§. II. Della chiesa di S. Maria di Lucera 449
§. III. Della Chiesa d'Altamura 454
Cap. VI. Della Casa del Re: suo splendore e magnificenza: e de' suoi Ufficiali 459
§. I. Degli Ufficiali della Casa del Re 464
De' Grandi Ufficiali 467
De' Minori Ufficiali 474
§. II. Del Maestro della Cappella del Re, che ora chiamiamo Cappellano Maggiore 481
Cap. VII. Delle Consuetudini della città di Napoli e di Bari, e d'alcune altre città del Regno 487

FINE DELL'INDICE.

NOTE:

1.  Ughel. Ital. Sacr. tom. 9. Anonym. de Reb. Feder. Conrad. et Manfr.

2.  Anonym. Misitque Henricum fratrem suum minorem ad gubernandam Siciliam, et Calabriam vice sui.

3.  Anonym. de Reb. Frid.

4.  Anonym.

5.  Costanzo lib. 1. Ist. di Napoli.

6.  Pansa Vita Innoc. IV.

7.  Anonym. Dictum Regem cum magna Theutonicorum comitiva per mare venientem apud Sypontum debita reverentia et devotione recepit sub anno Domini 1252.

8.  Anonym. Cum ipso Rege praecedente, in Terram Laboris contra rebelles illarum partium cum toto suo exercitu profectus est.

9.  Anonym. In processu autem illius in Terra Laboris, Rex Civitates Aquini, Suessae, S. Germani, pluraque vicina Castra, quae per Regis adventum rebellaverant, vicit.

10.  Anonym. Costanzo, l. 1.

11.  Anonym. Machinis quoque circumcirca dispositis, et cavis etiam subterraneis ad murorum obversionem, et fossis, ad deditionem coëgit; magnaque victoria ex illarum Civitatum deditione Rex illustratus est.

12.  Tom. 2 pag. 914.

13.  Anonym.

14.  Anonym.

15.  Anonym.

16.  Paris histor. Angl. Unde Rex Corradus post mortem sui fratris, numquam, ut antea, vultum ostendit serenum.

17.  Lunig Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 915, 916.

18.  Anonym. In Campis prope Lavellum infirmitate correptus, cum esset circa annos aetatis 26 in triumphorum suorum primordiis acerbae mortis fato succubuit.

19.  Anonym. Summus Pontifex illam Legatorum missionem, et Apostolicae gratiae postulationem, magis debilitati partis Regiae, quam devotioni ascribens, respondit, praecise se habere velle Regni possessionem, atque dominium; promittens Regi pupillo, cum ad pubertatem veniret, de Jure, si quod haberet in Regno, gratiam esse faciendam.

20.  Anonym. Baliatus officium se assumpsisse poenituit, et ex tunc onus quidem incaute susceptum, non sine pudore deponendum existimavit.

21.  Anonym. Quamobrem Princeps ad hujusmodi quidem aemulorum intentionem repellendam, Regni gubernaculum, tam ad utilitatem pupilli nepotis sui, si viveret, quam ad suam, si forte de facto aliud contigisset, assumere de jure debebat.

22.  Anonym. Sin autem ipse Puer vel jam defecisset, vel post, liberis non susceptis, deficeret, ipsum Principem Manfredum ex tunc in Regem et Regni dominum haberent.

23.  Anonym.

24.  Anonym.

25.  Ughel. Ital. Sacr. tom. 9 p. 109 riscontrata in Reg. Vat. an. 9. Pontif. n. 121 et 122.

26.  Raynal. t. 13. Annal. Ecclesiast. an. 1252 a n. 5 ad. 7 colla data 12. Kal. Feb. an. Pont. IX.

27.  Anonym.

28.  Reg. In. IV. in Vat. epist. 205. Tutin. de' Contest. del Regno pag. 58. Pansa in vita Inn. IV.

29.  Anonym. Et Papa Regnum intrante, Princeps stratoris ei officium exhibens frenum tenuit, quo usque ad pontem Garigliani transiret.

30.  Tutin. loc. cit. p. 60.

31.  Costanzo lib. 1 histor. di Napoli.

32.  Anonym.

33.  Anonym. Viro quidem juvene, et ipsius Papae consanguineo.

34.  Anonym.

35.  Anonym.

36.  Anonym.

37.  Summ. tom. 2 p. 132.

38.  Tutino de' Contest. p. 61. Raynal. Annal. Eccl. tom. 13 ann. 1255.

39.  Chiocc. de Archiep. Neap. ann. 1262.

40.  Pansa in Vita Innoc.

41.  Anonym. Ambo simul Neapolim pervenientes, invenerunt, quod ipsis diebus, videlicet Idibus Decembris, Papa defunctus erat.

42.  Gio. Villani. Costanzo, lib. 1.

43.  Anonym. Pansa, in Vita Innoc.

44.  Chiocc. de Archiep. Neap. an. 1262 ex Glos. in l. si maritus 15, § legis Juliae, D. de Adulteriis, ivi: Quidam erat absens causa Reipublicae, ut puta in Civitare Neapolitana, ubi nunc est Papa Alexander IV.

45.  Anonym.

46.  Lunig Cod. Ital. Dipl. Tom. 2 pag. 918.

47.  Anonym.

48.  Anonym.

49.  Anonym.

50.  Anonym. Curiam ipsius Imperatoris Federici pauper ingressus.

51.  Anonym. Quia tractari dicebatur, quod Calabria in manibus Ecclesiae daretur.

52.  Anonym.

53.  Anonym.

54.  Anonym.

55.  Anonym. Minime credibile reputavit, et miratus est si verum esset, quod Legatus Sedis Apostolicae, vir quidem Ecclesiasticus, et qui magis aliis fidem servare tenebatur, firmata inter se, et Principem treguarum pacta, fregisset.

56.  Anonym.

57.  Anonym. Ut princeps pro parte sua, et Regis Conradi nepotis sui Regnum teneret, excepta Terra Laboris, quam Princeps Ecclesiae concessit tenendam.

58.  Anonym.

59.  Anonym.

60.  Costanzo l. 1.

61.  Anon.

62.  Anonym. Et ideo praedictae duae Civitates Neapolis, et Capua sponte sua se ad mandatum Principis converterunt.

63.  Inveges Annal. di Paler. tom. 3.

64.  Lunig. Cod. Ital. Diplom. p. 927 a 928.

65.  Anonym. Pirri. Rainaldo.

66.  Tutin. de' Contest. p. 61.

67.  Tutin. de' Contest. pag. 63 et 64.

68.  Costanzo lib. 1 hist. di Nap.

69.  Costanzo lib. 3.

70.  Anonym. Et filiam suam Constantiam, quam ex prima consorte sua Beatrice, filia quondam A. Sabaudiae Comitis, Imperatore vivente, susceperat, Don Petro primogenito dicti Regis Aragonum matrimonio copulavit.

71.  Inveges Ann. di Palermo, tom. 3.

72.  Anonym.

73.  Tutin. de' Contest. del Regno fol. 67.

74.  Anonym. Excusatorum itaque praedictorum allegationibus non discussis, ipse Summus Pontifex cum vinculo excommunicationis adstrinxit.

75.  Rainald. ad ann. 1262 num. 21.

76.  Costanzo lib. 2.

77.  V. Jacob. de Ajello tract. de Adaha, num. 15.

78.  Costanzo lib. 1.

79.  Costanzo lib. 1.

80.  Anonym.

81.  Lunig Cod. Ital. Diplom. tom. 2 p. 390.

82.  Ibid. pag. 935 e 936.

83.  Tutin. de' Contest. pag. 59. Chioccar. M. S. giuris. tom. 1.

84.  Le carte di queste condizioni e modificazioni vengono rapportate dal Tutini de' Contestab. del Regno, fol. 70, 71.

85.  Costanzo lib. 1.

86.  Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 942.

87.  Ibid. pag. 964.

88.  Inveges Annal. di Palerm. tom. 3.

89.  Rainald. ann. 1265.

90.  V. Rainaldo ad ann. 1265 il quale adduce convenzioni più diffuse intorno al regolamento della successione del Regno.

91.  Reg. 1273. fol. 167. Vien anche rapportato dal Tutini degli Ammirag. del Reg. p. 89.

92.  Chioccar. tom. 1. MS. giurisd.

93.  Chiocc. MS. Giurisd. in Indice, t. 19.

94.  Anonym. Romani Cives de more mobiles, quos ex hoc in illud exilis de facili versat occasio, illius modicae libertatis reliquias, quas ipsis praescripta veterum transfudit authoritas, temere distrahentes, exclusis pro magna parte nobilibus, Carolum Provinciae Comitem elegerunt in Dominum, et Senatorem Urbis perpetuum, et evocaverunt.

95.  Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 970.

96.  Tutin. de' Contestabili, p. 81.

97.  Tutini de' Contestabili, fol. 79 ex Reg. Caroli II 1297. A. fol. 152.

98.  Tom. 1. M. S. Giurisd. apud Chioccar.

99.  Bald. in l. cum antiquioribus, C. de Jur. deliber.

100.  Inveges to. 3. Annal. di Palerm.

101.  Anonym. Qui semper de instabilitate, et voto contrario illorum de Regno merito dubitabat.

102.  Anonym.

103.  Costanzo lib. 1.

104.  Anonym.

105.  Anonym. Mandat caeteris Capitanis et Praepositis sui exercitus, quod illico descendant ad pugnam: sed cum nonnulli de Regno, qui quosdam falsos Comites, cum quibus Rex Carolus sub colorato patrimonialis successionis titulo spolia Regni diviserat, sequebantur, nollent bellum ingredi, sed proditorie abstitissent, Manfredus cum suis militibus mori potius eligens, etc.

106.  Anonym. Proh dolor! a suis sic proditus, etc.

107.  Dante nell'Infer. canto 28.

108.  Riccobaldo presso il Summonte.

109.  Anonym. Quibus ad preces B. de Pignatellis Archiepiscopi Messanensis vitae veniam post eventum praefatae deliberationis indulserat.

110.  Epist. Caroli ad Clem. IV. che si legge presso Tutini de' Contest. del Reg. pag. 96.

111.  Inveges Annal. di Paler. t. 3.

112.  Boccaccio: Viridis fluvius a Picaenatibus dividens Aprutinos, et in Truentum cadens, mirabilis, eo quod ejus in ripam, quae ad Picaenates versa est, jussu Clementis Pontificis Summi, ossa Manfredi Regis Siciliae, quae secus Calorem Baneventi fluvium sepulta erant, absque ullo funebri officio dejecta fuerunt a Consentino Praesule, eo quod Fidelium communione privatus occubuerit.

113.  Alessand. Andrea nella Guerra di Paolo IV ragion. 2.

114.  Dante Canto 3 del Purgatorio.

115.  Cod. Ital. Diplom. tom. 2 pag. 970.

116.  Costanzo lib. 1. V. Inveges Annal. di Paler. tom. 3.

117.  Anonym. Mittit in Siciliam Dominum Philippum de Monforte.

118.  Anonym.

119.  Di questi Registri fassi anche memoria in una carta rapportata dal Summonte.

120.  Anonym. Legem ponit Regnicolis, novosque Secretarios, Justitiarios, Admiratos, Protonotarios, Portulanos, Dohanerios, et Fundigarios, Magistros Scholariorum, et Magistros Juratos, Bajulos, Judices, et Notarios ubique per regnum, et super hos majores Praepositos statuit.

121.  Anonym. Subjectos gravant indebite, ac eis importabilia onera imponentes exigenda plus debito, cruorem eliciunt, ac medullas.

122.  Anonym.

123.  Anonym. Universis in Lombardia et Tuscia Gibellinorum capitibus intimare procurant de aspero, et angusto, ac importabili dominio Gallorum.

124.  Anonym.

125.  Anonym.

126.  Anonym. Hi sane fratres Hispani pro Saracenorum conversatione diutina actibus Agarenorum imbuti, et fere Christianae religionis obliti, a Saracenis ipsis vita parum et moribus differebant.

127.  Anonym.

128.  Questo Manifesto si legge presso Inveges Annal. di Paler. tom. 3 e Lunig Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 938.

129.  Ammirato ne' Ritratti, in quello del Re Carlo I.

130.  Cod. Ital. Diplom. tom. 2 pag. 971.

131.  Inveges Annal. Paler. tom. 3.

132.  Anonym.

133.  De Bottis in addit. ad Capit. de assecurandis hominibus illorum, qui turbationis tempore Corradini a fide regia defecerunt.

134.  Costanzo lib. 1.

135.  Ammir. nel ritratto di Carlo I.

136.  Inveges Annal. di Pal. tom. 3.

137.  Costanzo lib. 1.

138.  Pius II. in Europa.

139.  Besoldo de Regno Sicil. et Neap. c. 3 ann. 1269 fol. 681.

140.  V. Tutin. de' Contest. pag. 53.

141.  V. Inveges Annal. di Palerm. tom. 3.

142.  Histor. Austr. Lib. 1 pag. 15.

143.  Syntagm. Hist. Germ. dissert. 22 § 10 pag. 714.

144.  Tutini degli Ammir. del Regno, pag. 90 data in Anagni a' 11 Agosto 1295.

145.  Bolla di Aless. VI presso Franc. Lopez Istor. dell'Indie, cap. 19.

146.  Jo. Costa Comment. in decretal. Greg. IX pag. 1.

147.  Synod. Roman. sub Gelasio ann. 494. Item decretales epistolae, quas beatissimi Papae diversis temporibus ab Urbe Romana pro diversorum Patrum consultatione dederunt, venerabiliter suscipiendae sunt. Can. Sancta Romana 3 dist. 15.

148.  V. Baluz. in praefat. ad Ant. Augustini Dialogos, § 2.

149.  V. Mastricht. hist. Jur. can. num. 238. Fr. Florent. de Methodo et Aut. Collect. Grat. § 4.

150.  Mastricht. loc. cit.

151.  Guido. Pancirol. lib. 3 c. 8. Mastric. loc. cit. num. 349.

152.  Mastric. num. 349.

153.  Mastric. num. 351.

154.  Cujac. ad c. ult. X de sent. et re jud.

155.  And. Schottus Bibl. Hispan. tom. 2 p. 186.

156.  Fr. Floren. dissert. de Metho. et Auct. Collect. Grat. in fine.

157.  Greg. IX. Volentes igitur, ut hac tantum Compilatone universi utantur in judiciis, et in scholis, districtius prohibemus, ne quis praesumat aliam facere, absque auctoritate Sedis Apostolicae speciali.

158.  Math. Paris hist. Angl. ann. 1233 p. 352. Solemniter, et authentice per totius Mundi latitudinem legi praecepit, et divulgari.

159.  Guid. Pancirol. de Clar. leg. Interp. lib. 3 c. 8. Mastric. num. 356, 357.

160.  Cujac. ad cap. X extr. de sept. et re judic.

161.  Bulla Bonifac. ad lib. decret. et Pithaei Fratres in notis ad libri titulum.

162.  Duar. in praefat. l. de Sacr. Eccl. Ministr.

163.  Artur. Duck de Aut. Jur. civ. l. 1 c. 7 n. 13, 14, 15, 16, 18.

164.  Pancirol. de Clar. leg. Interpr. l. 3 c. 19.

165.  Decretal. l. 2. Artur. Duck l. 1 c. 2 n. 19.

166.  V. Artur. l. c. n. 10, 11, 12, 13, 14.

167.  Andr. de Isern. in Constit. l. 3 tit. 31 de admin. rer. Eccl.

168.  Cap. 19. Invest. Clem. IV.

169.  Chiocc. M. S. giurisd. in indice tom. 19.

170.  Ughell. tom. 1 in Episc. Militens. num. 16.

171.  Chioc. tom. 4 de Regio exequatur.

172.  Tit. de Administr. rerum Eccl. post mortem Praelator.

173.  Matth. Paris Hist. Ang. in Henrico III fol. 597 edit. Paris. et ex libro additamentorum cuso post dict. Hist. fol. 125 et 126. Quod si videtur absonum Apostolicae Sedi, contentus est Dominus Rex illo jure in praedictis vacantibus, quo utitur Rex Franciae, et Angliae in Ecclesiis vacantibus Regni sui.

174.  Raynald. Ann. Eccl. ad ann. 1253 n. 3 et ann. 1265. Custodia Ecclesiarum earundem libere remanente penes personas Ecclesiasticas, juxta Canonicas Sanctiones.

175.  Bulla Adriani apud Capecelatr. histor. Neap. lib. 2. Habebit Romana Ecclesia, quae habet in aliis partibus Regni nostri, excepta appellatione.

176.  Cap. 1 de Eccles. aedific.

177.  V. Il Trattato delle materie Beneficiarie attribuito al P. Paolo Sarpi Servita.

178.  Pallav. Istor. del Concilio di Trento, l. 1 c. 25.

179.  Pallav. l. 1 c. 8 et 16.

180.  Pallav. lib. 8 cap. 12.

181.  Pallav. lib. 2 cap. 6.

182.  Loyseau des Sign. et Justic. Eccl. cap. 15.

183.  Chioc. M. S. giuris. tom. 10.

184.  Chioc. loc. cit.

185.  Pragm. 1 de Clericis, seu Diaconis salvaticis.

186.  Chioc. loc. cit.

187.  Pragm. 4 de Clericis seu Diaconis salvaticis.

188.  Chioc. M. S. giurisd. tom. 10 de Immunit. Cleric.

189.  Chioc. M. S. giurisd. tom. 3.

190.  Cap. Novit. de Judic.

191.  Cap. 3 do For. compet.

192.  Can. 41 § item cum David caus. 2 qu. 7. Nathan cum David redarguit, suum est executus officium, in quo erat Rege superior: non usurpavit Regis officium, in quo erat Rege inferior. Monuit eum, ut per poenitentiam peccata sua expiaret; non autem tulit in eum sententiam qua tanquam adulter, et homicida morti adjiceretur.

193.  Loyseau l. c.

194.  V. Chioccar. M. S. giurisd. tom. 15.

195.  Ostiens. in Summa tit. de foro compet.

196.  Vien allegato nel cap. per venerabilem, Extr. qui filii sint legit.

197.  Cap. Raynutius. Extr. de testamentis.

198.  cap. licet, Extr. de foro compet.

199.  Loyseau l. c.

200.  For. Judic. lib. 2 tit. 1 l. 22 et ibi Villad. n. 8. Rov. Pragmat. 2 et 3 de suspic. offic.

201.  Rit. 265.

202.  Pragm. 2 de suspic. offic.

203.  Caravita Rit. 265 nu. 2.

204.  Pragm. 3 de suspic. offic.

205.  Cap. ex parte de foro compet. Cap. nuper de donat. inter vir. et uxor.

206.  V. Chiocc. M. S. giurisd. t. 5.

207.  Cassiod. lib. 7 cap. 46.

208.  Conc. Trid. sess. 24 can. 12.

209.  Oldrad. cons. 124. Petr. Barbos. ad lib. 2 § legatis, D. de Judic. Farinac. in prax. crim. q. 7 num. 17.

210.  L. Romae 33. D. ad municipal. L. in Orbe 17. D. de stat. hom.

211.  V. Artur. Duck de auth. jur. civ. Rom. lib. 2 c. 3 num. 3.

212.  Ostiens.

Haereticus, Simon, foenus, perjurus, adulter,

Pax, privilegium, violentus, sacrilegusque,

Si vacat Imperium, si negligit, ambigit, aut sit

Suspectus Judex, sit subdita Terra, vel usus

Rusticus, et servus, peregrinus, Feuda, viator.

Si quis poeniteat, miser, omnis causaque mista,

Si denunciat Ecclesiae quis, judicat ipsa.

213.  Loys. loc. cit.

214.  Vedi Apologia Tom. V. parte seconda cap. 3.

215.  Pausa nella Vita d'Innocenzio IV.

216.  La carta (oltre il Chioc.) è rapportata dal Toppi nel fine della sua Biblioteca Napol. cavata dall'Archivio della Zecca in Regist. R. Caroli I. sign. ann. 1269. lit. S. fol. 129 a ter.

217.  Chioc. M. S. tom. 8.

218.  Toppi l. c. ex Registr. Caroli I.

219.  Chioc. M. S. tom. 8.

220.  Le carte sono rapportate dal Toppi l. cit. ex Reg. Car. I. sign. ann. 1278 lit. C. fol. 181 a ter.

221.  Chioc. l. c.

222.  La carta è rapportata dal Toppi loc. cit. ex Reg. Car. II sign. ann. 1307 lit. B. fol: 217 a ter.

223.  Chioc. l. c.

224.  V. Wadingo tom. 2. Ann. Min. ann. 1291.

225.  La Bolla di Bonifacio VIII è rapportata dal Toppi loc. cit. ex Reg. Vatic. num. 170.

226.  Epist. Greg. apud Chioccar. de Archicp. Neap fol. 155. Dilectos filios Fratres Ordinis Praedicatorum velut novos vinitores suae vineae suscitavit, qui non sua, sed quae sunt Jesu quaerentes, tam contra profligandas haereses, quam pestes alias mortiferas extirpandas se dedicarunt evangelizationi verbi Dei in abjectione voluntariae paupertatis.

227.  Epist. Gregor. apud Chioccar, loc. cit.

228.  Chioc. loc. cit.

229.  Chioc. de Archiep. Neap. ann. 1269.

230.  Summont. hist. tom. 2 lib. 3 cap. 2.

231.  V. Engen. Nap. Sac. di S. Sebastiano.

232.  Il diploma si legge nell'Archivio di S. Domenico, secondo che rapporta Chiocc. de Archiep. Neap. fol. 159.

233.  Vedi Apologia tom. 5 par. 2 pag. 5.

234.  V. Guadigno negli Annali de' Minori, ann. 1222. Beatil. Ist. di Bari lib. 2. Capec. hist. Neap. l. 3.

235.  V. Engenio Napoli sacra, di Santa Maria della Nova.

236.  Engen. Nap. sacra, di San Lorenzo.

237.  Engen. loc. cit.

238.  Engen Nap. sacra, di S. Maria della Nova.

239.  Pansa in Vita Inn. IV.

240.  V. Engen. Nap. sacra, di S. Chiara.

241.  Engen. Nap. sacra. di S. Francesco.

242.  Engen. Nap. sacra. della Maddalena.

243.  V. Engen. Nap. sacra, di S. Agostino.

244.  Engen. Nap. sac. di S. Gio. a Carbonara.

245.  Engen. Nap. sac., di S. M. delle Vergini.

246.  Engen. Nap. sac., di S. Pietro a Majella.

247.  Si leggono nel Bullario Romano.

248.  Tambur. de Jure Abbatissarum disp. 7 q. 3 num. 4.

249.  De Luca de Regularibus part. 1 disc. 50 n. 4.

250.  Bulla Pii V. 86 in Bullario, tom. 2.

251.  Baco de Aug. Scien.

252.  Toppi de Orig. Tribun. tom. 1 in princ.

253.  Andreys disp. feud. pag. 159.

254.  Inveges tom. 3. Annal. di Paler.

255.  Costanzo lib. 2.

256.  Dante Purgator. cant. 20.

257.  De Bottis in cap. 1. Regni: Hic Neap. fecit forum magnum.

258.  In Capit. Regni, sotto il titolo, Privilegium Colleg. Neap. Stud.

259.  V. Summont. tom. 2 lib. 3 cap. 2.

260.  Summ. tom. 2 lib. 3 cap. 2. Nigris in Comment. ad cap. Reg. cap. 269 num. 17.

261.  Summ. tom. 2 lib. 3 c. 1.

262.  Villani lib. 7 cap. 37.

263.  Costanzo lib. 1.

264.  Tutini degli Ammir. del Regn. pag. 64.

265.  Tutini degli Ammir. pag. 64.

266.  Chioccarell. tom. 1. M S. giurisd.

267.  Rainald. Annal. ad ann. 1277.

268.  Bossio Istor. di Malta, l. 16 p. 561.

269.  V. Rainald. Annal. ann. 1342.

270.  V. Fr. Luca Wadingo Annal. Min. tom. 3 fol. 486. V. Lucerna Hierosolymitana. V. D. Maurizio d'Alsedo nella Gerusal. Schiava, pag. 77.

271.  Costanzo lib. 1 Summonte to. 2 pag. 240.

272.  L. 2 C. Ut. dignit. ord. serv.

273.  Loyseau des Sign.

274.  Tutini dell'Orig. de' Seggi, cap. 14 p. 145.

275.  Loyseau des Ord.

276.  Constitut. Reg. l. 3 tit. de nova militia.

277.  Constit. Constitutione praesenti.

278.  Tutin. loc. cit. pag. 143 ex Registr. Caroli II 1294. M. fol. 344.

279.  Tutin. loc. cit. pag. 257.

280.  Dion. Cass. lib. 52.

281.  Abb. Teles. lib. 3 fol. 134.

282.  Jo. Sarisberiens, in Policratico.

283.  Tutin. loc. cit. pag. 147.

284.  Petr. Blesens. epist. 94.

285.  Franc. Mennio, Orig. Milit. fol. 14. Stricto gladio leviter. humeris percussis, etc.

286.  Petr. Blesens. epist. 94. Hodie Tyrones enses suos recipiunt de Altari etc.

287.  V. Tutin. Orig. de' Seggi cap 14 p. 149.

288.  Engen. Nap. dell'Ordine di S. Michele. Tutin. loc. cit. pag. 158.

289.  Andr. de Isernia Constit. quamplurium de adjutoriis exigend. lib. 3.

290.  Constit. Reg. lib. 3.

291.  Lib. 5 epist. 5 fol. 560.

292.  Reg. Caroli I 1268. O. fol. 60.

293.  Reg. ann. 1294 M. fol. 247.

294.  Reg. ann. 1278 et 79 lit. H. fol. 72.

295.  Andr. de Isernia in Constit. Quamplurium de adjutor. exig. lib. 3. Unde si pro faciendo fratre milite velit Rex subventionem, imponet eam secundum quantitatem ab Honorio declaratam, et expressam, videlicet, duodecim millia unciarum in toto Regno Siciliae.

296.  Roc. Pirro Notit. Sicil. Eccl. not. 1 fol. 105.

297.  Abb. Toles lib. 4 fol. 138.

298.  Pansa fol. 32.

299.  Tutin. loc. cit. pag. 150, 151, 152 et 153.

300.  Lib. 3. epist. 20 fol. 410.

301.  Tutin. loc. cit. pag. 149.

302.  Franc. Mennio fol. 8.

303.  Gio. Villani hist. lib. 1 cap. 10.

304.  Camil. Portio nella Cong. de' Baroni, fol. 76.

305.  Loyseau des Ord.

306.  Loyseau loc. cit.

307.  Fazzel. Poster. decad. lib. 7 V. Camill. Pellegr. hist. Long. in Castigat. ad Falcon. Benev. in fine.

308.  Ab. Teles. lib. 4. fol. 138.

309.  Annali M. S. di M. Spin.

310.  V. Tutin. loc. cit. p. 157.

311.  Costanzo lib. 3.

312.  Tutini pag. 156.

313.  V. Loysseau des Ord.

314.  Engen. Nap. sacr. nel discorso di questi Ordini.

315.  Bulla Pauli V. edita ann. 1608 tom. 5 Bullar.

316.  Polidor, Virg. Ammirato ne' paralelli, p. 201.

317.  Costanzo hist. lib. 6.

318.  Engen. loc. cit. dell'Ordine del Nodo.

319.  Costanzo lib. 8.

320.  Engen. loc cit. della Nave.

321.  Tutin. de' Contestab. p. 115.

322.  Costanzo lib. 9.

323.  Engen. l. c. dell'Argata.

324.  Engen. loc. cit. della Leonza.

325.  Engen. loc. cit. dell'Ordine della Luna.

326.  Engen. loc. cit. dell'Armellino.

327.  Pigna lib. 8 hist. Estens.

328.  Costanzo lib. 9.

329.  Ann. Lucanus in Panegyr. Pison. Togatae militiae exercere numera.

330.  Camil. Pellegr. Discorso del nome Porta.

331.  Pio II in Com. in Europa.

332.  Var. lib. 4 de lingua lat.

333.  Turneb. Quod cum Neapolis Oppidum Graecum esset, ut Athenae, suas Phratrias habebat.

334.  Cam. Tutin. dell'origine, e fondaz. de' Seggi, cap. 4 et 6.

335.  Gul. Postel. de Magistr. Athen. cap. 2.

336.  S. Greg. epist. 59 fol. 116.

337.  Janus Gruter. fol. 430.

338.  Cost. hist. lib. 2.

339.  Tutin. dell'Orig. de Seggi, cap. 7.

340.  Grut. inscript. Orb. fol. 366 et 374.

341.  Cassiod. var. lib. 6 epist. 24.

342.  S. Gregor. lib. 2 epist. 6 et lib. 8 epist. 40.

343.  V. Tutin. loc. cit. cap. 8.

344.  Tutin. loc. cit. cap. 7.

345.  Tutin. cap. 12 p. 113.

346.  Aristotel. lib. 6. Politic. cap. 7.

347.  Tutin. cap. 12 pag. 112. Registr. ann. 1269 lit. S. fol. 14.

348.  Reg. 1269 lit. C. fol. 6 a ter. Reg. 1269. S. fol. 38 1269. D. fol. 13.

349.  Reg. ann. 1294 M. fol. 179.

350.  Tutin. cap. 12 pag. 114.

351.  Tutin. dell'Orig. de' Seggi, cap. 3.

352.  Summonte t. 2 pag. 209.

353.  Tutin. l. cit.

354.  Cap. de Raptoribus.

355.  Summonte tom. 2 pag. 401.

356.  V. Tutin. cap. 13 pag. 131.

357.  Tutin. cap. 9.

358.  V. Tutin. dell'Orig. de' Seggi, cap. 16 et seqq.

359.  Summ. tom. 2 p. 208.

360.  V. Costo nell'Annot. a Collenuc.

361.  Costanzo histor. lib. 2.

362.  Costanzo lib. 2.

363.  Summ. t. 2 pag. 282. La rapporta anche il Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1262.

364.  Tutini degli Ammiragli, pag. 66.

365.  Costanzo lib. 2.

366.  Costanzo lib. 2.

367.  Foedera, Conventiones, Litterae, etc. tom. 1 pag. 208. (Oltre i Biglietti rapportati negli Atti d'Inghilterra, si leggono presso Giovanni Cristiano Lunig nel suo Codice Diplomatico d'Italia, tom. 2 pag. 974 et 977 due vicendevoli Lettere Latine contumeliose, e diffidatorie, una scritta dal Re Carlo, e l'altra dal Re Pietro in risposta al medesimo; siccome nella pag. 918 se ne legge un'altra scritta da' Palermitani a' Messinesi contra il Re Carlo, e' suoi Franzesi.)

368.  Foedera, Convent. etc. to. 2 p. 225.

369.  Costanzo lib. 2.

370.  Munster. in sua Geogr. fol. 276.

371.  Freccia de Subfeud. lib. 3 cap. ult. post. num. 37.

372.  Summonte tom. 2. p. 211.

373.  Questi Capitoli si leggono in Registr. ann. 1306. lit. A. fol. 95, e sono rapportati dal Tutini de' M. Giustiz. pag. 10.

374.  Tutin. de' M. Giustiz. pag. 2.

375.  Registr. ann. 1302 cap. 4 lit. A. fol. 3.

376.  Registr. ann. 1298 et 99 lit. C. fol. 207 apportato anche dal Summonte, to. 2 pag. 329.

377.  Summ. loc. cit.

378.  Tutin. de' M. Giustiz. pag. 7.

379.  Tutin. Orig. de' Seggi, pag. 218.

380.  Rit. 55 et 302.

381.  Tutin. de' M. Giustiz. pag. 3.

382.  Rit. 55 et 302.

383.  Carav. Rit. 55 et 302.

384.  Summonte to. 2 pag. 211 et pag. 328.

385.  V. Grammat. decis. 34. nu. 9. Carav. Rit. 1. nu. 35 Hierony. Calà de praeemin. M. C. V. cap. 1 n. 7, 8.

386.  Archiv. ann. 1294 fol. 10. Simm. to. 2 pagin. 330.

387.  Boccacc. Giorn. 2 n. 5.

388.  Chiocc. de Archiep. Neap. ann. 1288.

389.  Tutin. de' M. Giustizieri, pag. 4.

390.  Freccia de subfeud. lib. 1 cap. 10 de Offic. Logot. n. 40. Summ. to. 2. fol. 329. Tutin. de' M. Giustiz. fol. 2.

391.  Rit. de supplendis defectib. Detestantes, etc.

392.  Rit. seq. Isabella, etc.

393.  Tutin. loc. cit. fol. 3. Summ. loc. cit.

394.  Tutin. loc. cit.

395.  Tutin. loc. cit.

396.  Carav. Rit. 1 n. 35.

397.  Toppi tom. 1 de Orig. Tribunal.

398.  Sono rapportati dal Tutini de' M. Giust. fol. 10.

399.  Tutini de' M. Giust. pag. 2.

400.  Rit. 54, 63, 64.

401.  Rit. 14, 34, 39, 46, 50.

402.  Si leggono sotto il tit. Confirmatio, etc. fol. 442.

403.  Sotto il tit. de supplendis defectibus, etc. fol. 440.

404.  Petra Rit. 1 num. 23.

405.  Foedera, conventiones etc. tom. 1 p. 226.

406.  Tom. II. pag. 986.

407.  Cost. lib. 2.

408.  La Bolla di Martino IV di questa scomunica e deposizione, si legge negli Atti d'Inghilterra, pag. 252. Leggesi parimente questa Bolla di scomunica, ed interdetto di Martino IV presso Lunig pag. 999 che porta la data del 1282.

409.  V. Maurolico.

410.  Maurolico.

411.  Questa lettera di Carlo I. scritta al Papa si legge presso Tutin. degli Ammir. p. 81.

412.  Teod. de Niem, de privil. et jur. Imp. pag. 282. Adeo mente oppressus, et pusillanimis tandem factus est, ut dicitur quod mortem sibi conscivit, noctis sub silentio se ipsum laqueo strangulans.

413.  Constit. puritatem, de Sacramento à Bajulis, et Camerar. praestando. Constitut. cum circa, de Off. Vicar. Const. Ut universis, de servando honor. Comit. et Baron.

414.  Marin. de Caramanic. in prooem. Constit. Regni.

415.  Registr. ann. 1269 in Regio Archiv. Afflict. in prooem. Const. in principio. Fab. Jordan, in addit. ad prooem. Glossatoris.

416.  Ciarlante del Sannio lib. 4 cap. 26.

417.  Nell'Archivio della Zecca, cassa H. mazzo 47.

418.  Tutin. de' Contestabili p. 85.

419.  Tom. 1. M. S. della regal. jurisd. presso Chioccar.

420.  Inveges Ann. di Palerm. tom. 3.

421.  De Bottis Addit. ad cap. 1. Regn. in princ.

422.  De Nigris in Comment. in fine.

423.  Afflict. in Constit. Honorem, col. 1 in 5 lib. Summon. to. 2 pag. 306. De Nigris in Comment. ad d. Capit. nu. 6.

424.  Moles. decis. 1. Reg. Cam.

425.  Napodan. in Comment. ad d. Capit.

426.  Reg. Mores. decis. 1.

427.  Cap. de bobus arator.

428.  Cap. de thesauris.

429.  Cap. de solv. decim.

430.  Cap. de morantib. in excom.

431.  Cap. de statuendo Balio.

432.  Cap. de dotib. mulier. et sequ.

433.  Confirmatio capitulorum editorum in planit. S. Martini.

434.  Cap. Quod Magister Justitiarius certis temporibus, etc.

435.  Cap. de prorogat. success. duratura.

436.  Cap. de tollenda dissentione inter fideles nostros. Summont. tom. 2 pag. 360.

437.  Nigris Comment. ad cap. 138 n. 6.

438.  Fab. Montel. in Comment. super quatuor literis arbitr. par. 2.

439.  Bottis in addit. ad tit. 1 de oblationib.

440.  Goss. de Gaeta rub. 5 de jur. Dohanae, tit. 8 num. 207.

441.  Summonte to. 2 lib. 3.

442.  Engen. Nap. Sac. del Duomo di Nap.

443.  Toppi Bibl. Nap. in Barth. de Capua.

444.  Stefan. Descriz. de' luoghi Sacri di Nap.

445.  Vincenti Teatro de' Proton. del Regno, da chi copiò Toppi in Bibl.

446.  Andreys disp. Feud. cap. 1 § 5 num. 28 pag. 34. Ut quem obiisse constat ann. 1328 ex ejus sepulcro in nostra Aede Archiepiscopali. Fulvio Carac. Allegaz. per la Città di Nap.

447.  P. Vinc. in principio.

448.  P. Vincenti de' Proton. in B. de Capua, fol. 75.

449.  Pragm. 6 de Cler. seu Diac. selvaticis.

450.  Tutini de' G. Giust.

451.  Capit. Reg. Joannae pro statu Regni, etc.

452.  Pier. Vinc. de Prot. 1331 pag. 90.

453.  Collen. lib. 5. Costanzo lib. 3 in princ.

454.  Moles decis. 6 § 1. Jo. Fran. Marcian. disp. 3.

455.  Ciacon. dice a' 27 di Marzo.

456.  Reg. Moles decis. 1 § 1 num. 12.

457.  Reg. Moles. loc. cit. num. 13 et 14. Haec ergo Capitula non ab Honorio, sed a Martino ejus praedecessore fuerunt facta, et de eis meminit Afflict. in constit. Regni incip. praesente, in ejus rubrica, et in continuatione ipsius, dum allegat unum ex dictis Capitulis Gerardi, quod incipit Cupiens, etc.

458.  Afflict. ad Costit. Reg. tit. de administr. rer. Eccles. post mortem Prael. in rubr.

459.  Reg. Moles loc. cit. nu. 16.

460.  Jo. Franc. Marc. disp. 3 num. 1.

461.  Lipar. ad Andr. in cap. 1 de nat. success. feud. sub num. 1 aute addit vers. capitulum, lit. B.

462.  Marcian. disp. 3 n. 5.

463.  Moles decis. 1 § 1 numer. 19.

464.  Marc. loc. cit. nu. 3.

465.  Moles loc. cit. n. 34.

466.  V. de Ros. in prael. feud. nu. 48.

467.  Raynald. Annal. Eccles. ann. 1285. (Furono anche impressi questi Capitoli di Papa Onorio da Lunig, e si leggono nel 2. Tom. Cod. Diplomat. Italiae pag. 1023).

468.  Rainald. ad ann. 1285 a num. 53 ad nu. 62.

469.  Petr. de Montefor. in addit. ad Constit. Reg. lib. 3 tit. 25. Constit. Post mortem. V. Marcian. loc. cit. nu. 17 et 10. V. Andreys disp. feud. cap. 1 § 3 num. 10.

470.  Cap. Confirmatio Cap. edit. in Plan. S. Martini.

471.  Cap. Omnes Ecclesiastic.

472.  Summont. histor. tom. 2 lib. 3.

473.  De Ponte de potest. Proreg. tit. de assens. regalibus super dotib. a num. 6 cum seqq.

474.  Rainald. ann. 1265 num. 61.

475.  Foedera, conventiones, etc. inter Reges Angliae, et alios, pag. 342.

476.  Foedera, etc. fol. 358.

477.  Costanzo lib. 3r.

478.  Costanzo lib. 3 dice in Perugia; ed il Summonte in Roma.

479.  Chioccar. tom. 1. M. S. giurisd.

480.  Costanzo lib. 3.

481.  Foedera, convent. etc. pag. 450 et 456.

482.  Foedera, conventiones, etc. to. 1 pag. 3. (Presso Lunig tom. 2 si legge alla pag. 1350 l'istromento della cauzione data dal Re Carlo II di rimettersi in prigione nelle mani del Re d'Aragona).

483.  Registr. ann. 1298 et 1299. B. fol. 161 rapportato dal Ciarlant. fol. 368.

484.  Costanzo lib. 2.

485.  Tutin. degl'Amm. fol. 70. Reg. in Vatic. lib. 1. Bonifacii epist. 115.

486.  Costanzo lib. 4.

487.  Costanzo l. 4.

488.  Costanzo lib. 4.

489.  Costanzo lib. 4.

490.  Tutini degli Ammir. pag. 103.

491.  Summ. to. 2 pag. 360.

492.  Summ. to. 2 pag. 333.

493.  Costanzo lib. 4.

494.  Tutin. de' M. Giust. pag. 7.

495.  Reg. ann. 1296 lit. G. fol. 295 ivi: Vocavit Dominum Dinum de Muscellis, ut Bononia ad Neapolitanum Studium lecturus cum annuo salario unciarum centum auri. Summ. to. 2 p. 362.

496.  Ciarlant. pag. 371. Istor. del Sannio.

497.  Reg. ann. 1300 fol. 251 et ann. 1301 fol. 273 et 330.

498.  Registr. ann. 1301 fol. 8 ann. 1308.

499.  Ciarlant. pag. 373.

500.  Summ. pag. 348 tom. 2.

501.  V. Engen. Nap. Sac. fol. 585.

502.  Bulla Paschalis II apud Ughell. ove nella data evvi errore, ed in vece di XIV deve leggersi IV.

503.  Nelle quali Bolle si legge nullo modo, non già nullo medio; onde perciò Carlo II nel privilegio della dotazione del 1304 disse, che questa Chiesa se l'apparteneva pieno jure.

504.  V. Chioc. tom. 7 M. S. giurisd. de Eccl. S. Nic. de Baro.

505.  Bulla apud Beatil. hist. S. Nicol. lib. 11 cap. 17.

506.  Le parole della detta iscrizione sono: Serenissimus Rex Carolus Secundus, etc. hanc Basilicam munificentia Regali dotavit sola sibi, et successoribus suis prima Canonica dignitate servata. Lettera dell'istesso Carlo II de' 3 Novembre 1304 rapportata dal Beatillo Istor. di Bari, lib. 3 fol. 443 ove si legge: In signum devotionis retinemus nobis, et haeredibus nostris, quod cum personaliter erimus nos, et nostri haeredes in Baro, quotidianas distributiones accipiemus sicut unus de Canonicis ipsius nostrae Ecclesiae recipit, et recipere habeat.

507.  Egin. apud Duchesne tom. 2 pag. 103 et 104. Legendi atque psallendi disciplinam diligentissime emendavit; erat enim utriusque admodum eruditus; quamquam ipse, nec publice legeret, nec nisi summissim, et in commune cantaret.

508.  Script. antiq. Eccles. Anglic. tom. 10 pag. 455. Biblioth. Clun. nota pag. 21. Spicileg. tom. 10 pag. 403 et 447. Canonicus adscriptus fuit in Ecclesia S. Martini, in festis Sancti ejusdem in Choro inter psallentes Clericos cum veste clericali, et sub disciplina eorum adstabat.

509.  Biblioth. Clun. not. pag. 48. Cura omni consilio dederunt Ingelgerio Comiti praebendam B. Martini, ipsi, et haeredibus ejus in perpetuum possidendam. Quia vero Ecclesia ejusdem Sancti carebat Thesaurario, et Aedituo, Consulem Ingelgerium intronizaverunt, et Thesaurarium constituerunt, et Defensorem Ecclesiae fecerunt, et Tutorem omnium possessionum ejus ubicumque essent delegaverunt. Qui sedem Thesaurarii, et Domos cum reditibus quandiu advixit, obtinuit. Duchesne tom. 4 pag. 680.

510.  Renat. Chop. de S. Polit. l. 3 tit. 6.

511.  Cyron. in parat. lib. 5. Decret. de Offic. Custod.

512.  Innoc. III l. 1 epist. 489.

513.  V. Beatil. Istor. di S. Nic. di Bari, lib. 11 cap. 11.

514.  Concil. d'Orleans, cap. 9. Nicol. I in can. si quis Episcopor. caus. 16 quaest. 2.

515.  V. Chioccar, tom. 7 M. S. Giurisd.

516.  Chioc. M. S. giurisd. to. 7 de Capitulo Civit. Lucer.

517.  Chioc. loc. cit. in princ.

518.  Thomas. Vet. et Nova Eccl. dise. p. 2 lib. 2 c. 37, num. 4 trascrive le parole della Bolla, che sono: Quoties electionem Episcopi S. Mariae Luceriae, per quam Capitulum contingeret vacationis ingruente tempore celebrari, teneantur ipsi Capitulum, priusquam ejusdem electionis confirmatio postuletur, tuum, et eundem successorum tuorum, assensum requirere, nec possit eadem electio, nisi prius hujusmodi requisitus assensus fuerit, confirmari.

519.  Chioc. loc. cit. in fin.

520.  Chioccar. loc. cit.

521.  Chioccar. loc. cit.

522.  Chioccar. tom. 7. M. S. giurisd.

523.  Chioc. loc. cit.

524.  Chioccar. loc. cit.

525.  Covar. in reg. possessor. par. 2 § 10 n. 5. Guerrero tract. de reformat. Eccl. cap. 14.

526.  V. Jo. Andr. in cap. 2 de praeben. in 6. Abbat. in cap. quanto in primo notab. de consuet. et in c. cum Apost. in fin. de iis, quae fiunt a Praelato.

527.  V. Marin. de Caramanico in prooem. Constit. Reg. col. 4 num. 50 et 60. Andr. de Isernia in prooem. Const. Regn. nu. 40. Afflict. ad Const. Regn. in praelud. qu. 28 num. 2.

528.  Aless. Patrit. in Marte Gallico lib. 1 cap. 8. Ut persona uncta sit sacratior, sit venerabilior Christianis etc.

529.  Mazzella descriz. del Reg. di Nap. fol. 289.

530.  Tutin degli Ammir. p. 103. Archiv. cas. sig. n. 4.

531.  Leunclav. tom. 1 lib. 2. Jur. Graeco-Rom.

532.  Leunclav. Jur. Gr. Rom. 2 lib. 3.

533.  Tit. de Palatinis, et tit. de Castrens. Palatin. pecul.

534.  L. 43 de testament. milit. l. 12 § ignominiosa, de re militari, l. de his, qui per met. etc.

535.  Tutin. in princ. degli Uffic. del Regno.

536.  Registr. ann. 1325 fol. 229 rapportato dal Summon. istor. tom. 2 pag. 440.

537.  Loys. des Offic.

538.  Cod. Theod. l. 1 de Comitib. et Archiatris Sacri Palatii, ivi: Archiatros intra Palatium militantes. L. 16. C. Th. de Medicis, et Professorib. ivi: Universi, qui in Sacro Palatio inter Archiatros militarunt, et Comitivam primi ordinis, vel secundi adepti sunt. Et l. 18 eod. tit.

539.  Cassiod. 6 var. 19 in Formula Comitis Archiatrorum. V. Gothofr. in l. 1. C. Th. de Comitibus, et Archiatris.

540.  Gabriel Chinon in notitia Orientis.

541.  Summonte tom. 2 pag. 459.

542.  Cassiod. loc. cit Goth. in C. Th. l. 1 de Comitib. et Archiatris.

543.  Constitut. de Medicis. Constit. de Fidelium numero super electuariis, et syrupis statuendis.

544.  V. Tasson. de Antefato, vers. 31 obs. 3. Tribun. XIX.

545.  Capit. Regni, sub rubr. de Magistris, et Foresteriis, et sub Officialibus eorum. De Forestis antiquis, et novis.

546.  Salust. in prooem Catilin.

547.  Suet. in Tiber. cap. 19.

548.  Ammir. Discorsi sopra Corn. Tacito, lib. 2. disc 1.

549.  Fleur. de' Costumi degli Israeliti, par. 2 cap. 2.

550.  Capit. Regni, de Magistris Foresteriis, et Subofficialibus eorum.

551.  Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 5. Trib. XXVII.

552.  L. penult. C, de Collationibus, l. si quis 11. C. de proxim. sacr. scrin. lib. 12. l. ult. C. de pign. l. omnimodo 30 § 2. C. de inoff. testam. Nov. 53 cap. 5.

553.  Cujac. ad Nov. 53. Vinnio tract. de Collationibus, cap. 13 num. 16 ad 19.

554.  Engen. Nap. Sacr. fol. 173.

555.  Cassiod. lib. 4 ep. 3.

556.  L. 2, 3. Cod. Th. de Primic. Notar.

557.  L. 9. C. Qui milit. pos.

558.  Nov. 8, 24, 26, 27.

559.  Capit. Regni sub rub. de offic. Magistrorum Massariorum, cum tribus seqq.

560.  Costanz. lib. 3.

561.  Loyseau des Ord.

562.  Epist. P. Blesensis, epist. 10.

563.  V. Chiocc. tom. 2. M. S. giurisd.

564.  Tomasin. de benefic. par. 1 lib. 2 cap. 5 n. 11.

565.  Summont. lib. 3 tom. 2 pag. 330.

566.  Registr. ann. 1334 fol. 47. Summont. tom. 2 pag. 410.

567.  Tasson. de Antef. vers. 4 obs. 5. num. 46. Privil. ann. 1094. Quod Monasterium Arsaphiae Cappella mea erat exempta ab Episcopali jurisdictione per Sacrosanctam Romanam Ecclesiam.

568.  Chiocc. tom. 7. M. S. giurisd.

569.  V. Chioccar. tom. 2. M. S. giurisd.

570.  V. Reg. Constantium in l. unica, n. 21. C. de Palat. et Domib. Dominic. lib. 11. Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 3. Trib. IX n. 271 et num. 284.

571.  In prooem. Consuet. Bar.

572.  Chioc. de Archiep. Neap. ann. 1288.

573.  Prooem. consuet. Neap.

574.  In Prooem. Consuet. § pro certiori.

575.  Addit. in Comment. ad Consuet in fine.

576.  Scipio Januar. in princip. Consuet.

577.  In lapide Sepulchr. in Eccles. S. Dominici. Scipio Januar. in prooem. n. 1.

578.  Toppi Biblioth. Nap. lit. G. pag. 113.

579.  Lunig Cod. Dipl. Ital. Tom. 2 pag. 2066.

580.  Collenuc. Comp. Istor. lib. 5.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 50645 ***