The Project Gutenberg EBook of Niccolò de' Lapi, by Massimo D'Azeglio This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Niccolò de' Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni Author: Massimo D'Azeglio Release Date: September 24, 2014 [EBook #46957] Language: Italian Character set encoding: ISO-8859-1 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NICCOLÒ DE' LAPI *** Produced by Giovanni Fini, Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
NICCOLÒ DE’ LAPI.
PROTESTA DEGLI EDITORI
La presente edizione Originale, è posta sotto la tutela delle veglianti leggi e convenzioni dei Governi d’Italia che concorsero a garantire le proprietà letterarie, e si agirà rigorosamente contro quelli che ardissero eseguirne ristampe o introdurne edizioni estere nei rispettivi Stati ove sono in vigore le dette convenzioni.
Milano, luglio 1841.
OVVERO
I PALLESCHI E I PIAGNONI
DI
MASSIMO D’AZEGLIO
Videbis filii mi, quam parva
sapientia regitur mundus.
Cancell. Oxenstiern.
MILANO
Coi tipi Borroni e Scotti successori a V. Ferrario.
A SPESE DEGLI EDITORI
1841.
A Tommaso Grossi.
Amico carissimo,
Alla tua amicizia, che è un tanto bene della mia vita, intitolo questo lavoro; e con che cuore, lo sai. Solo mi dolgo n on potere scrivere l’affetto che ci lega, sovra più degno e durevole monumento.
M.o Azeglio
Milano, 2 maggio 1841.
PAG. | |
PREFAZIONE | ix |
CAPITOLO PRIMO | 1 |
CAPITOLO II. | 17 |
CAPITOLO III. | 37 |
CAPITOLO IV. | 58 |
CAPITOLO V. | 71 |
CAPITOLO VI. | 87 |
CAPITOLO VII. | 105 |
CAPITOLO VIII. | 127 |
CAPITOLO IX. | 153 |
CAPITOLO X. | 172 |
CAPITOLO XI. | 190 |
CAPITOLO XII. | 211 |
CAPITOLO XIII. | 229 |
CAPITOLO XIV. | 251 |
CAPITOLO XV. | 279 |
CAPITOLO XVI. | 301 |
CAPITOLO XVII. | 324 |
CAPITOLO XVIII. | 347 |
CAPITOLO XIX. | 372 |
CAPITOLO XX. | 398 |
CAPITOLO XXI. | 427 |
CAPITOLO XXII. | 448 |
CAPITOLO XXIII. | 475 |
CAPITOLO XXIV. | 507 |
CAPITOLO XXV. | 530 |
CAPITOLO XXVI. | 556 |
CAPITOLO XXVII. | 580 |
CAPITOLO XXVIII. | 605 |
CAPITOLO XXIX. | 626 |
CAPITOLO XXX. | 648 |
CAPITOLO XXXI. | 671 |
CAPITOLO XXXII. | 693 |
CAPITOLO XXXIII. | 717 |
CAPITOLO XXXIV. | 742 |
CAPITOLO XXXV. | 766 |
CAPITOLO XXXVI. | 790 |
CAPITOLO XXXVII. | 807 |
CAPITOLO XXXVIII. | 829 |
CAPITOLO XXXIX. | 851 |
CONCLUSIONE. | 877 |
RETTIFICAZIONE ERRORI. | 905 |
Questo racconto che presento al pubblico non senza il batticuore dell’amor proprio in pericolo, fu incominciato nel 1833, e tralasciato cento volte per cagioni ora funeste ora fastidiose. Se egli serba le tracce di codesti disturbi, se per mio difetto rimane di tanto inferiore al suo tema, non per questo potrei senza ingratitudine dubitare del favore o dell’indulgenza almeno degli Italiani. Debbo ricordarmi che in grazia appunto del tema essi amorevolmente accolsero un mio primo saggio. Questo secondo lavoro, che anch’esso si raggira su un fatto non meno onorevole al nome Italiano, promette dunque uguale indulgenza a chi s’è disposto, insin che gli durin le forze e la vita, non aver un affetto, non un pensiero, che non sia dedicato alla patria.
Quantunque abbia preso a trattare l’epoca luminosa e terribile per la città di Firenze, in cui la repubblica si difese sola contro le armi di Clemente VII e di Carlo V, non ebbi tuttavia per iscopo dipingere il quadro completo dell’Assedio del 1529-30, ed il titolo stesso di questo racconto basta forse a mostrare che più degli eventi, mi sono proposto descrivere le passioni che in allora agitavano il popolo Fiorentino.
La relazione intera, minuta e regolare dell’Assedio, l’ha scritta meglio d’ogni altro il Varchi. Contemporaneo, attore anch’esso della sua storia, mosso dagli affetti del tempo, chi potea far meglio di lui? Chi oserebbe rifare il suo lavoro?
Agli storici dunque la storia. Al Varchi quella dell’Assedio; chè malgrado i suoi lunghi ed intralciati periodi, malgrado l’oscura irregolarità che talvolta s’incontra nella sua costruzione, sarà pur sempre quella che trasporta il lettore al secolo XVI con maggior illusione, che trasfonde nel cuor de’ moderni, i pensieri, le passioni, la vita tutta del cinquecento.
Ma se il Varchi disse bene, disse egli tutto? Tutto quanto si vorrebbe sapere sul fatto di quegli antichi uomini, che negli amori, nell’ire, nella fede, ne’ sacrifici e persin ne’ delitti, mostrarono una ferrea natura tanto lontana dalla moderna fiacchezza?
Ignoro qual sia la risposta del lettore. La mia è negativa.
No, non conosco tutto quanto vorrei conoscere quando leggo gli onorati fatti di que’ cittadini animosi, le battaglie, i tumulti, le pratiche; quando li vedo in piazza magistrati, soldati, capi di parte; io ammiro in essi la virtù, la costanza, la fortezza, l’ardire; io mi maraviglio che la natura umana abbia prodotto individui di così potenti facoltà, ma domando invano allo storico quali fosser costoro che eran pur padri, mariti, figli, fratelli, quali fosser, dico, quando dopo una tempestosa giornata ritornavan la sera tra le pareti domestiche; quando, deposto l’arnese di guerra, e cercando un po’ di sosta alle cure, ai travagli che li stringevano al di fuori, riprendevano negli intimi colloqui della famiglia la forza di gettarsi a nuovi pericoli, a nuove fatiche.
Trovata muta, insufficiente la storia, mi volsi alle cronache, ai carteggi, ai prioristi del tempo, alle tradizioni del popolo, ai monumenti. Interrogai le torri, le mura di Firenze, i bastioni di s. Miniato ove l’edera cresce e si stende ugualmente sui macigni repubblicani tagliati dallo scalpello di Michelangelo, e sull’impresa Medicea delle sei palle; come un’istessa tomba raccolse un tempo le ceneri di Polinice e d’Eteocle. Interrogai il Palazzo Vecchio, antico ed immoto testimonio di tanti trionfi, di tante rovine;[xii] che vide sorgere e cadere tante fortune: che dall’alto de’ suoi merli guelfi vide oppresso il duca d’Atene, vincitori i Ciompi, arso Fra Girolamo, strascinato il cadavere di Jacopo de’ Pazzi, calpestata tre volte l’idra medicea, e tre volte risorta: che sopravvisse alla repubblica, la vide vendicata nelle impure e sanguinose vicende della razza di Cosimo spenta vilmente dopo dugent’anni; edificio che ancora erge i suoi fianchi, sostiene l’alta torre d’Arnolfo posata a sottosquadro sulla facciata, destinato forse a veder tanti secoli nel futuro quanti ne vide già nel tempo passato.
Visitai il Palazzo del bargello, ove in età più remote i priori della repubblica ebber il primo tetto, le prime sale che fosser loro proprie, per ragunarsi a consiglio: vidi quella scala del cortile tutta di marmo coperta d’una rozza tettoja come fosse la scala d’un contadino;[1] quelle massicce lastre del cortile che nel centro invece di fontana o di statua che l’adornasse, ebber tante volte il ceppo e la mannaja: che divenner vermiglie pel sangue di tanti cittadini, morti ora a dritto ora a torto, ma virilmente sempre: marmi che rimbombaron sotto i colpi onde furon tolti[xiii] di vita il Boscoli, il Capponi, Bernardo del Nero, Francesco Carducci penultimo gonfaloniere della repubblica, e tant’altri, i quali tutti persero il capo al tremendo giuoco che tra la casa de’ Medici ed il popolo di Firenze durò più di cent’anni.
Io scorsi le antiche dimore de’ cittadini, quei palazzi, o piuttosto fortezze domestiche di sasso annerite, merlate, tutte a un dipresso simili al palazzo Ferroni al Ponte s. Trinita; scorsi i cortili, le scale, entrai per tutto tentando figurarmi qual viso, qual discorso, qual costume avessero i loro antichi abitatori: come talvolta vedendo un elmo antico tutto rugginoso, ed alzandone la visiera, la fantasia tenta dipingersi il maschio ed ardito volto che dovette un tempo riempierne il vano.
Colla fantasia dunque (e qual altra guida potevo io avere?) cercai per tutto ed in tutti i modi l’antico popolo di Firenze: quel popolo di tanto nerbo, di tanta vita che, dopo 300 anni di agitazioni, di guerre, di discordie, di furori, di proscrizioni, si trovò pure nel 1530 abbastanza vegeto e vigoroso da resister solo alla potenza di Carlo V, e cadde dopo lungo contrasto più tradito che vinto; popolo che prosperò quando pareva portasse in seno i germi della distruzione, che s’invilì, perdette ogni generosità, ogni spirito quand’ebbe lunga e stabile tranquillità sotto la dominazione de’ Medici.
Forse perchè principio dello stato antico era accendere il pensiero della patria, principio dello stato mediceo conculcarlo ed estinguerlo.
Ma le orme impresse sul suolo di Firenze dai suoi antichi abitatori, la civiltà moderna le ha cancellate quasi del tutto. Le hanno cancellate gli stranieri che ogn’anno scendono a godersi e vilipendere, quasi cortigiana, l’Italia.
Contristato e pensoso del terribil giudizio che pesa sul nostro popolo, sperai almeno trovarne le antiche orme in qualche angolo dimenticato, ove gli usi, la lingua, il corso delle tradizioni, fosse rimasto puro, e non turbato dal passo delle genti nuove. Corsi il contado, salii sui monti di Pistoja, e mi consolai il cuore e l’orecchio udendo poveri pastori e contadini parlarmi la lingua del Firenzuola: ascoltando ciò che mi sapean narrare di Castruccio, di Francesco Ferrucci, che non avean certo conosciuti nelle storie o ne’ libri, ma d’età in età gli uni dagli altri avean imparato, che il primo fu un prode, il secondo morì sui loro monti per la salvezza di Firenze. Io benedico quelle ore ch’io passai colà seduto ad un umile focolare prestando orecchio ai rozzi e pur nobilissimi racconti di uomini semplici, che assai sapevano di quelle antiche e gloriose età, e nulla della presente, quasi un intimo senso insegnasse loro quel che essa vale. Io riuscivo persino in que’ colloquj a dimenticare questa età nostra, e mi parea, per[xv] dir così, viver in quell’altre, e vedermi innanzi vivi e reali quegli uomini che m’eran noti soltanto per averli veduti ritratti dagli storici, dai comici e dai novellieri.
Io gli ho pur trovati! dissi tutto contento. Io ho trovato i modelli che ho in animo di dipingere! E m’ingegnai di studiarli; di ritrarre quanto potevo col vero prima, poi ajutandomi colle induzioni, e colla fantasia, la vita intima, le passioni, gli affetti dell’epoca che avevo scelta per collocarvi gli attori del mio racconto.
Frutto di cotali studj, parte reali, parte fantastici, è questo mio lavoro; col quale, imitando gli architetti, che per dimostrare l’ordine interno d’un edifizio lo suppongono ne’ loro disegni tagliato pel mezzo, volli rappresentare in ispaccato la casa d’un popolano fiorentino durante l’assedio.
Io feci per fare bene tutto quanto potevo. Se invece feci male, pensi il lettore che anche a far male costa fatica, e s’incontra difficoltà.
I fatti che stiamo per narrare accaddero circa il tempo in cui Firenze era assediata dall’esercito di Carlo V, il quale per mandare ad effetto il trattato di Barcellona conchiuso con Clemente VII, voleva costringere i Fiorentini a sottomettersi al dominio de’ Medici.
Il popolo di Firenze negava di riceverli pure come privati e si difendeva, fatto animoso dalla memoria di que’ Medici stessi tanto facilmente cacciati nel 1527; dalle profezie di fra Girolamo Savonarola; dal desiderio del viver libero; dall’armi e dalle fortezze ond’era munito per cura della parte detta de’ Piagnoni, i quali s’avvedevano non esser l’Imperatore ed il Papa per contentarsi che i Medici tornati in patria cogli altri sbanditi Palleschi vi stessero quali privati cittadini, ma sotto tal modesta domanda aver in animo di farneli signori.
Era una mattina sul finir d’ottobre dell’anno 1529, e l’alba pareva penasse più del solito a comparire, penetrando a stento la densa nebbia che copriva[2] Firenze. Cadeva una pioggia fitta, cheta e congelata, che quasi si poteva dir neve, e per le strade, tranne qualche soldato, e le compagnie degli uffiziali di notte che tornavano in Palagio intirizziti, serrati ne’ mantelli, co’ becchetti de’ cappucci avvolti intorno al viso, non s’incontrava anima viva.
Le porte e le finestre tutte chiuse, le imposte serrate, mostravano che la maggior parte de’ cittadini era ancora immersa nel sonno. S’andavano aprendo le chiese, ma non vi si trovava se non gli scaccini occupati a spazzare, e qualche sagrestano attendendo a preparar gli altari.
In S. Marco soltanto, de’ frati Domenicani, le campane che suonavano a morto da un’ora innanzi giorno avean già radunato un piccol numero di fedeli.
L’interno di questa chiesa non era ornato in quel tempo dalle colonne d’ordine composito, e dagli altari che v’eresse poi Gian Bologna, ma si conservava semplice e severo quale fu edificato per opera di Cosimo il vecchio.
Davanti all’altar maggiore, tra quattro grossi candellieri di ferro, era posata in terra una bara, nella quale giaceva il cadavere d’un giovane che mostrava non passare i venticinque anni: tra le sue mani giunte sul petto era acconcio un crocifisso, ed il suolo, come pure il cataletto sparsi, secondo il costume di Firenze, di foglie e di fiori di melarancio. Sul guanciale che gli reggeva il capo erano[3] due candele benedette accese, colle quali i devoti usavano segnare il defunto.
Quantunque avesse indosso l’abito di S. Domenico, si poteva supporre che gli fosse stato posto per divozione soltanto dopo morto, ma che non l’avesse usato in vita: e ciò che lo faceva credere era una spada ed una rotella col giglio rosso in campo bianco (impresa del comune di Firenze) che erano appese a’ piedi del defunto.
Non essendo ancora uscita la messa, un solo candelliere ardeva. La sua luce rossiccia illuminando un gruppo di persone che erano state le prime a giungere, e pregavano in ginocchio raccolte intorno al cadavere, lumeggiava le figure più vicine (come soventi usò Rembrandt) con frizzi vibrati di luce, la quale cadendo sempre più debole sugli oggetti a misura che si trovavan più lontani, finiva perdendosi in fondo alla chiesa in una totale oscurità. In alto soltanto le tenebre venivano diradate dai gran finestroni della volta, i quali cominciavano a potersi discernere per la tinta pallida e cilestrina che veniva nascendo col giorno sulle invetriate.
Non passava minuto senza che a uno, a due, a tre per volta non entrassero uomini che ai passi gravi, al suonar delle stellette degli sproni, ad un luccicare ottenebrato di corsaletti e giachi si conoscevano per soldati. Venivano avanti e giungendo alle spalle di chi si trovava già in chiesa posavano a terra il calcio o della picca, o della ronca, o di un grosso archibugio, chè tutti avevano l’una o[4] l’altra di queste armi, e rimanevano con viso mesto e contegno tutto raumiliato.
Poco stante comparve, accompagnato da venti uomini ben armati, il Gonfalone del Leon d’oro del quartiere di S. Giovanni. Era una bandiera quale usa la fanteria anche in oggi, con suvvi dipinto un leon d’ oro in campo bianco. L’uomo che la portava si fermò a metà della chiesa, e vi rimase, messo in mezzo da’ suoi.
Crebbe così a poco a poco la folla, serrandosi intorno al feretro ed al gruppo che vi stava dappresso, il quale mostrava essere composto de’ più stretti parenti del defunto.
A due passi da’ suoi piedi era un vecchio molto innanzi cogli anni. Aveva indosso il lucco, abito usato nella repubblica fiorentina, dalle persone gravi specialmente, che era una vesta di saja nera foderata di pelli, sparata dinanzi e dai lati dove si cavan fuori le braccia, ed increspata in alto ove s’affibbia alla gola: in capo il cappuccio, composto di un cerchio di borra coperto di panno, e si chiamava il mazzocchio: una parte dell’istesso drappo cadeva a guisa di pendone sull’orecchio sinistro ed era detta la foggia; il becchetto poi era una striscia che andava sino a terra, si ripiegava sulla spalla destra e spesso s’avvolgeva al collo.
L’aspetto di questo vecchio, largo di spalle, grande della persona, era valido e robusto. Gli stava ancor sulle guance quella tinta vegeta che nasce da un’ottima complessione, non mai logorata da vizj.
Nella barba, che era lunga e folta, e nei pochi capelli che uscivano di sotto il cappuccio, non era pelo che non fosse bianchissimo, le sopracciglia sole conservavano ancora in parte il color bruno: ed una frequente contrazione di muscoli che le avvicinava contribuiva a dare a’ suoi occhi neri una molto fiera guardatura.
Il nome di questo vecchio era Niccolò di ser Cione, di ser Lapo de’ Lapi, di famiglia popolana, uno de’ capitudini[2] dell’arte della seta, il quale poteva vantarsi d’essere giunto ad 89 anni, chè tanti ne aveva, sempre integro, sempre amante della patria e dello stato popolare, a pro del quale avea messo in molte occasioni la persona e l’avere. Ma il vantarsi di tal modo di vivere neppure gli sarebbe caduto in pensiero, tanto era nella natura sua, e pareva a lui il solo possibile.
Tra i primi ed i più devoti seguaci di Fra Girolamo Savonarola mentre viveva, lo piangeva morto, venerandolo come un martire; studiando di osservare in ogni sua azione ed in ogni tempo, senza aver rispetto a cosa del mondo, le severe massime del frate, le quali, dobbiam confessarlo, lo portavano talvolta a convertire la mansueta legge del vangelo in una legge tirannica ed impraticabile.
Ser Cione, padre di Niccolò, s’era trovato intinto nella congiura, che diretta da Rinaldo degli Albizzi, riuscì a cacciar per un anno, di Firenze, Cosimo,[6] detto Padre della Patria, onde al ritorno di questi andò con molti altri banditi a finir la vita in esiglio.
Niccolò, nato in una terra di Puglia, ov’era il confino del padre, testimonio della sua miseria negli ultimi anni, e della morte oscura, circondata da tutti i travagli dell’esiglio, avea colle prime impressioni dell’infanzia concepito, quasi fatale necessità, un odio orrendo contro i Medici e le parte Pallesca.
Come poi mettesse d’accordo quell’odio col vangelo che professava, lo potrà intendere chi sa quale sia la logica degli uomini di parte.
Dopo molt’anni gli era venuto fatto di tornare a Firenze, Avea riaperto il fondaco del padre, e fattovi grossi guadagni, coi quali soccorse la città nel 1494, quando per la calata di Carlo VIII, e per la dappocaggine di Piero de’ Medici, lo stato di Firenze corse così grave pericolo. In quell’occasione s’era visto quanto il popolo minuto, i lavoratori di seta, e tutti gli operai in genere gli fossero divoti, chè nella notte antecedente al giorno in cui Pier Capponi stracciò i capitoli in faccia a Carlo, n’ebbe a sua posta più di seimila.
Quest’affetto della moltitudine, nato dalla riverenza che ispirava la sua virtù, dal saperlo amatore sincero e costante del ben pubblico, che in lui non era mai stato pretesto onde cercar l’utile privato, s’era sempre fatto maggiore, e quando i Medici tornarono nel 1512, il solo timore dell’opinion pubblica era bastato a salvarlo dalle persecuzioni. La sua fama sola bastò nell’istesso tempo a preservarlo[7] dalle lusinghe e dalle seduzioni colle quali la parte Pallesca mai non cessava d’adescare i suoi avversarj; e dal 12 al 27, anno dell’ultima cacciata dei Medici, fu tenuto bensì in sospetto da questi, ma pur lasciato stare, e dagli amatori dello stato popolare considerato come uno de’ loro capi, nel quale, più che in ogni altro, ponevan speranza, ove nascesse occasione favorevole alla libertà.
L’amicizia poi che l’avea unito sì strettamente a Fra Girolamo, l’osservar con fedeltà sì scrupolosa le sue massime, e soprattutto la fede cieca che prestava alle sue profezie, facevano, per dir così, sopravvivere in suo favore tra il popolo quella specie di culto che avean professato pel celebre Domenicano. Gl’istessi frati di S. Marco l’aveano in gran concetto, lo tenevano come uno dei loro, ed avean per le sue parole quasi altrettanta deferenza, quanta ne aveano avuto già per quelle del Savonarola.
Due anni prima dell’epoca di quest’istoria, quando per la partenza del cardinal di Cortona, e d’Ippolito e d’Alessandro de’ Medici, Firenze tornò a reggersi a popolo, s’era adoperato con Niccolò Capponi e Filippo Strozzi onde salvar la città che ondeggiava travagliata da tanti umori, da tante parti diverse.
Era stato de’ signori, de’ Dieci di libertà e pace; ma più che sui magistrati la sua autorità si fondava sulla fiducia che metteva in lui la moltitudine.
Cominciò a bisbigliarsi dell’assedio, e Niccolò confidando nella famosa profezia di fra Girolamo
«Florentia flagellabitur, et post flagella renovabitur»[3]
tenne sempre per la parte che rifiutava ogni accordo co’ Medici, e pose in opera quant’era in poter suo per accendere il popolo alla difesa.
Comparì l’esercito condotto da Filiberto di Chalons, principe d’Orange, pose il campo sui colli che sono a mezzogiorno di Firenze il 24 ottobre 1529, e Niccolò, nei pochi giorni scorsi dacchè era cominciato l’assedio, aveva già assistito all’esequie d’uno de’ suoi figliuoli morto combattendo sotto le mura. Ora assisteva all’esequie del secondo, colla fronte alta, la faccia serena e la mente tutta assorta in Dio, al quale offeriva non solo la vita di questi due figli, che teneva per martiri, ma quella degli altri ancor vivi, e la sua, purchè salvasse Firenze.
Di madonna Fiore, sua moglie, morta pochi anni prima, avea avuto cinque maschi e due femmine; i tre superstiti erano con lui intorno alla bara: due di loro avevano indosso il giaco o il corsaletto, che in quel tempo, si può dire, la gioventù fiorentina non se lo cavava mai. Il minore aveva nome Bindo, ed era un bel giovanetto di quattordici anni, ma alla statura si poteva dargliene almeno diciotto, e non aveva indosso giaco, nè arme accanto come i suoi fratelli.
La bella struttura delle sue membra, in perfetta[9] armonia tra loro, la tinta bruna e robusta della sua carnagione, gli occhi neri, mobili, vivacissimi, e che avean la fierezza di quelli del padre, temperata dalla grazia dell’adolescenza, facean pensare che gli sarebbe stato troppo bene una spada accanto ed una corazza sul petto: ma il gran core soprattutto ed il mirabile ardire che avea mostrato fin dall’infanzia, lo facean degno di portare ormai l’armi anch’esso in difesa della patria.
Niccolò si trovava riprodotto in questo suo figliuolo parte per parte nelle forme del corpo come nelle doti dell’animo, perciò, benchè non lo volesse mostrare nè concedere, l’amava con maggior tenerezza degli altri.
Questa tenerezza l’aveva impedito sin’ora di condiscendere alle istanze di Bindo, che si struggeva di combattere anch’esso cogli altri giovani fiorentini.
Niccolò gli diceva spesso—Saresti un bel soldato a quattordici anni!.... sei fanciullo, Bindo! lascia andar innanzi i più vecchi, verrà anche troppo il tuo tempo.—
Poi finalmente per racquetarlo gli avea promesso che, ove alcuno de’ suoi fratelli venisse ucciso, gli concederebbe di prender l’armi in vece sua. Il tempo d’attener la promessa era giunto, e Niccolò non era uomo che potesse mancarvi.
La mattina prima d’uscir di casa non avea potuto a meno, malgrado la sua natura austera, di far carezze al figliuolo; e tiratoselo in camera gli[10] avea detto—Bindo mio, sin’ora fosti fanciullo, dacchè ti basta la vista d’esser uomo d’ora in poi, siilo al nome di Dio. Verraine con esso noi.....gli è bene che tu conosca tosto come vadan le cose di quaggiù. Prega Iddio che ti faccia un valentuomo... egli sia quello che t’ajuti, come io ti dò la mia benedizione.—
Il vecchio un po’ mutato negli occhi e nella voce baciò il figliuolo, e vennero in S. marco. Quel fremito interno, quel batter di polsi più rapido che nasce da una forte commozione d’animo, agitarono il petto di Bindo quando si trovò accanto alla bara ove giaceva il suo povero Baccio (così avea nome) che avea sempre veduto così vegeto, così vispo, col quale s’era trastullato per tant’anni, ora pallido, immobile, colla morte sul viso, ed all’età di Bindo, il morire par cosa tanto impossibile!
Vedeva sotto il cappuccio, in mezzo alla fronte, un buco tondo, largo come uno scudo, fatto dalla palla d’uno de’ grossi archibusi che s’usavan nel 1500. Avea sin a quel giorno parlato, ed udito parlar più volte di fatti d’arme, di ferite, di morti, s’era acceso in quei discorsi ed ardeva di trovarsi all’atto ancor esso, ma ora ne vedeva sotto gli occhi proprio veri e reali i terribili effetti, e non v’è piccol divario!
Due calde lagrime stavano per cadergli dalle palpebre, e si sentì il cuore scosso in un modo che gli riusciva nuovo affatto.
Sbigottì di se medesimo un momento, e si domandò—avrei io paura?—
Preghiamo il lettore a non voler rispondere affermativamente alla semplice interrogazione di Bindo poichè s’ingannerebbe.
Il senso che provava non era timore, era un misto di stupore, d’afflizione, di smania di gloria, di indegnazione; e non è maraviglia che alla sua età non fosse in grado di rendersene ragione.
Degli altri figliuoli di Niccolò, il maggiore, uomo sui quarant’anni, avea nome Averardo, il secondo Vieri.
Le due giovani inginocchiate, sedute sulle calcagna, s’eran poste a qualche distanza dai maschi.
La maggiore si chiamava Laldomine o Laudomia, la minore Lisa.
Intanto il frate sagrestano aveva accese quattro candele all’aitar maggiore. S’accostò alla bara tenendo la canna che aveva attorcigliato in cima un pezzo di stoppino, e dopo aver acceso i tre candellieri, trovandosi presso a Niccolò, gli disse sotto voce accennando il morto:
—Egli era de’ Lapi, messer Niccolò, e non ha tralignato punto! Pace all’anima sua.—
—Amen, rispose il vecchio, ed il frate con un sospiro s’avviò verso la sagrestia.
Un momento dopo uscì la messa. Il celebrante era fra Benedetto da Faenza superiore del convento, vecchio venerabile che mostrava sentir tutto il peso degli anni.
Il laico che serviva in rocchetto, aveva un viso che non si poteva lasciarvi cader su un’occhiata,[12] e poi volger lo sguardo altrove senza più curarsene, come si fa colla maggior parte de’ visi che s’incontrano. Costui invece aveva una fisonomia, un portamento così nuovo, ed un non so che di dissonante e di disarmonico in tutta la persona, che, veduto una volta, pareva non fosse possibile perderlo d’occhio nè finir di considerarlo.
Mostrava una cinquantina d’anni, piuttosto alto e magro, ma nerboruto e diritto come un giovanotto. L’occhio ardito, ed in questo caso l’espressione dev’essere presa ad literam, poichè ne aveva un solo; la guancia destra segnata da una lunga cicatrice. Poi in ogni suo moto, in ogni atto, un fare disinvolto che riusciva curioso coll’abito che portava. Nell’istesso tempo era impossibile d’apporgli nulla di sconvenevole, o che sapesse d’irriverenza: anzi avea lo sguardo basso, il contegno raccolto, rispondeva a tempo con voce ragionevole senza mangiar le parole, come fanno per lo più i chierici nel servir la messa.
Tuttavia non andò molto, che si potè conoscere esser per lui in quel momento uno sforzo non indifferente il seguir la massima dell’Age quod agis.
Le artiglierie piantate dagl’imperiali a Giramonte fecero sentir qualche sparo. Ma non se ne faceva caso come di cosa giornaliera: però i colpi a poco a poco divenivan più numerosi e più frequenti, e molti de’ soldati che si trovavano in chiesa per assistere ai funerali del loro compagno, cominciarono a bisbigliare parlandosi all’orecchio, vergendo[13] gli sguardi verso la porta con moto involontario e sicuramente inutile, poichè non vi trovavan certo la spiegazione d’un fatto che accadeva in tanta distanza. I loro discorsi erano di questo genere:
—Comincia a soffiar per tempo la chimera[4] questa mattina—Eh! saran fuochi d’allegrezza per qualche altro malanno che ci viene addosso.—Possiate morir quanti siete!—(s’udì uno scoppio più forte). Senti, senti! Dev’essere l’archibuso di Malatesta[5]—Senti che nespola!—Che mattinata senza liuto!—Oggi in guerra, doman sotterra—Malann’aggia chi rimane—Oh che vorrà dir questo! Vuol dir panicco pesto.... ec. ec.—
Queste parole ed altre simili che uscivano di mezzo alla turba che era in fondo alla chiesa, formavano un susurro che, unito agli spari, cagionava una gran distrazione al povero laico.
Non ardiva voltarsi del tutto, ma non si vedeva più star immobile all’ufizio suo come prima: tendeva l’orecchio, e talvolta gettava così sopra la spalla ed alla sfuggita un’occhiata verso la porta.
A Niccolò non piacque udir in chiesa un tal bisbiglio, e voltando appena il capo verso chi ne era cagione, disse con voce ferma e chiara quantunque sommessa:
—E’ pare che siamo in piazza!
Un maestro di scuola temuto che comandi il silenzio con voce burbera ad una trentina di fanciulli, non è obbedito più pienamente, ne più presto, di quel che lo fu Niccolò da quella turba, composta d’uomini che però non si sarebbero lasciati dar sulla voce da altri così facilmente. Il silenzio fu a un tratto generale e perfetto: cosicchè il prete che diceva le segrete all’altare appena a mezza bocca, si potè udire da un capo all’altro della chiesa. Ma questa quiete dovea durar poco.
Unitamente ad uno scoppio più forte delle artiglierie del campo, i vetri, i piombi ed il legname d’una delle maggiori finestre, infranti in minutissimi pezzi caddero in chiesa, sfracellandosi e rimbalzando pei cornicioni, per le mura e per tutti gli sporti che venivan trovando, con tanto calcinaccio e polverio e ragnateli che parve rovinasse la volta.
Per fortuna gran parte de’ rottami cadde su un altare chiuso da un balaustro, onde nessuno venne offeso.
V’era il costume in que’ tempi tra i soldati che campeggiavano una terra ogni volta che, venissero loro sborsate le paghe, o fosse la festa del Sovrano che li pagava, nelle occasioni infine, ove parea loro da mostrare allegrezza, di abbassar d’un palmo le culatte de’ pezzi d’artiglieria piantati per batter i bastioni, poi dar fuoco sparando all’impazzata senza torre la mira, onde le palle dando loro quest’arcata passavano al di sopra delle mura ed andavano a cadere[15] in mezzo alla città ove storpiavano ed uccidevano Dio sa quanti, che ci avevano che fare quanto la persona che ci usa la cortesia di tener questo libro tra le mani. E questa bella allegria (tutto sta intendersi) si chiamava far gazzarra.
Il campo del principe d’Orange si trovava appunto in uno di questi tali impeti di buon umore, e facendo gazzarra quella mattina, una palla colse la chiesa di S. Marco, un’altra ferì in piazza S. Giovanni, uno de’ migliori soldati del capitano Sandrino Monaldi, ed in altre parti della città furon fatti molti inaspettati danni.
Questo caso non alterò gran fatto nè i soldati nè Niccolò nè i suoi figli. Le due giovani un poco si sbigottirono, ma visto non era altro, presto si dettero pace.
Quello che si mostrò meno ardito di tutti, e gli servan di scusa lo stato e l’età cadente, fu il padre che diceva messa.
Il senso del timore superò in lui in quel momento ogni altro rispetto, e per dir il vero tanto rovinìo e tanto fracasso a chi non se l’aspettava, dovea fare un certo senso: fe’ gobbe le spalle, abbassando il capo, e coprendosele colle mani disse—Dio mio, misericordia!—E se il robusto laico non l’avesse afferrato sotto l’ascella forse cadeva.
Fin qui però v’era poco male, ed il laico avea meritato bene anzi chè no dal suo superiore.
Il male fu, che nel reggerlo, vistolo tanto sgomentato per un accidente che a lui pareva assai[16] leggiero, gli venne una tal voglia di ridere, che a malgrado de’ suoi sforzi per vincerla alla fine pur gli convenne lasciarsi andare, e scoppiò in una risata la più sonora e sgangherata del mondo, ed avendo le mani impedite nel sostenere il buon vecchio, che ancora tremava a verga a verga, non potè nè volgere il capo altrove, nè porsi una mano sulla bocca, nè soccorrer se stesso con que’ rimedi che s’adoprano in cotali casi.
Molti fra gli astanti avean posto mente allo sbigottimento del frate che diceva messa. Pel rispetto che gli si portava, era saputo male alla maggior parte che il laico fosse stato tanto ardito da ridergli in viso a quel modo, e se ne maravigliarono credendolo un laico da dozzina, un qualche villano che avesse lasciata la vanga per entrar in religione.
S’ingannavano: ed affinchè il lettore anch’esso non istupisca del suo fare, gli diremo chi egli fosse più brevemente che si potrà.
Gl’Italiani al giorno d’oggi sanno l’istoria della loro patria, onde se il nostro lettore è italiano, avrà a mente senza dubbio una disfida che venne combattuta presso Barletta dai nostri contro i francesi, ove gli ultimi rimasero perdenti.
Ove poi questo nostro libro venisse tra mano a qualche straniero lo pregheremmo a dar un’occhiata al Guicciardini, al Giovio, od al Muratori, anno 1503, e vi troverà narrata questa disfida, e, tra i guerrieri Italiani, mentovato un certo Tito da Lodi, soprannominato il Fanfulla, il quale al dir del Giovio[18] specialmente, era uomo prode, ma di nuova e capricciosa natura.
Costui quando Consalvo ebbe conquistato interamente il regno di Napoli, ricevè come gli altri uomini della compagnia del signor Prospero Colonna alla quale apparteneva, la sua parte delle spoglie de’ vinti, e la convertì con grandissima fretta in due centinaja di bei ducati d’oro.
L’ultimo giorno del primo mese che passò in Napoli, dopo aver riscosso questa somma dovette dividersi dall’ultimo de’ suoi ducati, il quale andò nella borsa di coloro che giocavano al lanzichinecco (oggi zecchinetta) con miglior fortuna, o maggior astuzia di lui, a tener compagnia agli altri centonovantanove.
Egli avrebbe avuto, è vero, un buon cavallo ed un ottimo arnese da vendere, o da impegnare, e potuto così scialare un altro poco, ma ebbe pur senno bastante per capire che sarebbe stato lo stesso come per un cieco vender il violino che lo fa campare.
Si rassegnò, confortandosi col dire «Oramai mi son fatto tanto conoscere, che dove m’accosto trovo pane.»
Il signor Prospero non l’avea voluto più nella compagnia per non so che quistione avuta con certi compagni, nella quale avendo il torto, s’era fatta una ragione a suo modo a furia di busse.
Ciò non ostante quando si trovò al verde, l’andò a trovare al palazzo Gravina, sulla piazza ove oggi[19] è la fontana di Montoliveto, senza curarsi di passar per un’anticamera piena di que’ suoi avversari, e quando gli si trovò davanti, disse che non veniva a richiederlo d’altro se non che d’un attestato in iscritto com’egli avesse combattuto nella disfida di Barletta, e poi gl’insegnasse per sua cortesia qual fosse il paese più vicino ove si menasser le mani.
Il signor Prospero, che pur gli voleva bene, conoscendolo un diavolo ardito, come se ne trovan pochi, gli fece una carta a modo di benservito, tutta in sua lode, poi l’avviò in campagna di Roma ove si messe colla parte colonnese durante i torbidi che tennero dietro alla morte d’Alessandro VI, che turbarono il breve pontificato di Pio III, ed il principio di quello di Giulio II.
Seguì questo fiero pontefice nelle sue imprese di Romagna, poscia, per non allungarla troppo, venne al suo solito mutando padroni sino al 1527, ed in quel frattempo non accadde in Italia fatto d’arme d’importanza ove egli non si trovasse.
Lasciò un occhio alla battaglia di Ravenna, due dita della mano manca a Marignano, rimase per morto sul campo alla giornata di Pavia, e quantunque dopo tante batoste si trovasse ridotto a camminare un po’ sciancato, a dolersi ne’ luoghi ov’era stato ferito, ogni volta che volea cambiar il tempo, quantunque i suoi baffi già così neri, apparissero ora come se vi fosse brinato, nulladimeno lo troviamo la mattina del sei di maggio del 1527 (e Dio sa se vorremmo poterlo tacere!) al piè delle mura di[20] Roma tenendo colle due mani in equilibrio una lunga scala a piuoli in mezzo alla feccia de’ più sfrenati malandrini che prendessero in quel tempo il nome di soldati, i quali guidati da Borbone stavan per dar l’assalto alla capitale del mondo cristiano.
La scala di Fanfulla, detto fatto, si trovò appoggiata ai merli e piena dal fondo alla cima d’altrettanti di quei satanassi quanti aveva piuoli. Sul più alto, già s’intende, era Fanfulla, che i suoi compagni videro un momento dopo cacciarsi tra i merli e sparir tra il fumo delle archibugiate, e volendo seguirlo vennero ributtati, nè poterono superar le mura se non alcuni minuti dopo.
Per quanto possa un cervello umano esser fertile ad immaginar fatti i più strani, i più turpi, i più atroci onde formarne un tutto che gli rappresenti il sacco dato a Roma in quell’occasione dall’esercito di Borbone, rimarrà sempre addietro dagli orrori, de’ quali gli storici hanno a noi tramandata la memoria.
Passò un giorno, poi un altro ed un altro, e nacque tra soldati un bisbiglio.
—Fanfulla dov’è? Che è stato di Fanfulla?—tutti ne domandavano e Fanfulla non compariva.
Quelli che conoscono di qual pasta sia il buon cuore della gente d’arme, non dureranno fatica a credere che, a malgrado di questa premura, non trovar Fanfulla, domandar di lui, crederlo morto e sotterrato, e non pensarvi più, tutto accadde in un quarto d’ora.
Ma Fanfulla non era morto.
Stava zitto e contento nella cantina d’un canonico di S. Maria in Trastevere, ove s’era chiuso conducendovi il padrone e la fante acciò gl’insegnassero la botte migliore. Riposatosi molto a suo bell’agio, e fattovi un fianco da prelati, riscappò fuori dopo tre giorni.
Ma il povero canonico, o fosse lo spavento provato in tutto quel tempo di vedersi a discrezione d’un omaccio di quel taglio, che ad ogni momento gli pareva avesse a spiccargli il capo con un rovescio di quel suo maledetto spadone, o fosse il disagio sofferto, chè Fanfulla ubbriaco per far ora tra un pasto e l’altro, voleva per forza insegnargli a schermire, e quando non lavorava a suo modo le pugna fioccavano, il fatto sta che s’ammalò ed in pochi giorni se n’andò all’altro mondo.
Ora finalmente ci troviam presso a poter dir bene del nostro Lodigiano: pure ci rimane a narrare l’ultima sua pazzia, la quale pur troppo non fa parer bugiardo il proverbio volgare «che la più dura a rodere è sempre la coda».
Uscito dunque mezzo balordo e trasognato dalla cantina del povero canonico, trovò la città vinta e soggetta del tutto, e le chiese, i palagi, le case, gli sventurati cittadini, le loro robe, tutto insomma in balìa, non dirò dell’esercito, che questo nome suppone Capi che comandino, e soldati che obbediscano, ma di quella masnada d’assassini senza legge, senza fede, senza discrezione, e senza misericordia.
Clemente VII dall’alto di castel S. Angelo ove era chiuso poteva scorgere gl’incendj serpeggiare per la città, udir gli urli, i pianti, i lamenti di quelli che venivan tormentati onde scoprissero i tesori nascosti, le grida forsennate, le risa feroci, lo sgavazzare sfrenato dei vincitori.
Per le strade di Roma si trovava qua una casa che ardeva, là un’altra consumata di fresco dalle fiamme divenuta uno scheletro informe ed annerito. Sulle cime de’ muri rimasti in piedi vedevi star in bilico travi ancor fumanti, disordinate e sporgenti. Sotto monti di rottami, di calcinacci, di tavole e di masserizie infrante ed abbrustolite giacevan cadaveri schiacciati, de’ quali molti perduta ogni umana sembianza mostravan fuori delle rovine o braccio, o piede, o capo, tutto poi intriso di sangue, sozzo e contaminato d’ogni bruttura.
Più lungi cadeva con fragore svelto da’ gangheri un portone d’un palazzo: la folla dei predatori si scagliava nell’interno urlando: in un momento dalle cantine alle soffitte tutto s’empieva di que’ ladroni; dalle finestre sconficcate, piovevano in istrada gettati alla rinfusa, cofani, sedie, tavole, quadri, vasi, bronzi, coltri di seta, suppellettili d’ogni genere: fra quelli che aspettavano il bottino nella via fu visto taluno rimanere storpiato, o malconcio da qualche pezzo di mobile che all’impensata gli rovinava addosso, altri contender furibondi la medesima preda, sguainar le spade, ferirsi, poi sopraggiunger una nuova frotta che la strappava loro di mano e fuggiva[23] con essa. Drappi, vesti di gran valore si fermavano appiccate ai cornicioni, alle inferriate; parte vi rimanevan neglette per l’abbondanza della preda, parte si facevan cadere colle punte delle partigiane e delle picche. Ad ora ad ora scoppiava un urlo generale più forte; tutti i visi si volgevano, tutte le bocche s’aprivano.—Dov’è. Che è.—Guarda là, là, lassù...—tutti guardavano in alto: ad una finestra v’era o ritta, o ginocchioni, o spenzolata mezza fuori qualche vecchia, qualche matrona, pallida, abbandonata come uno straccio, o domandava pietà o cacciava strida: la turba la voleva tosto—Giù, giù... a noi—venga. Le si dava l’andare, veniva a terra tra le risa e gli evviva, e rimaneva fracassata sul lastrico, o fermata in aria sulla punta delle ronche. Quando tutto era devastato s’appiccava il fuoco, onde se v’eran padroni nascosti dovessero sbucar fuori.
Trovati alle volte senza un tal mezzo nei nascondigli, su pei cammini, nelle cantine, nelle fogne, pe’ cessi, strappati di là a forza, percossi, bistrattati, rivedevano la luce del sole, e stavano come insensati e immelensiti all’aspetto di que’ visi infocati dal furore, dall’ubriachezza, dalla gioia di potere sgozzare, distruggere, stuprare; alla vista di quei pugnali che splendevano loro ad ogni tratto sugli occhi, delle corde, de’ ferri roventi preparati per istraziarli, delle fanciulle oltraggiate, poi derise, delle donne, o vecchie o brutte che fossero, fatte tombolar per le scale o morire sotto il bastone, dei giovanetti ridotti a tali vituperii che gli sventurati parenti si dolevano di vederli vivi.
Nelle chiese le immagini de’ santi rovesciate od infrante; le pitture, le tavole degli altari lacerate od imbrattate; fatti in pezzi i vasi e gli arredi sacri onde partirli più facilmente. Finito il devastare, nè essendovi da far altro danno, divenivano stanza de’ soldati, che vi alloggiavano co’ muli e co’ cavalli, pe’ quali gli altari servivan di mangiatoia.
I banchi ed i confessionari fatti in pezzi ardevano in un angolo sotto pajuoli e spiedi pieni di carni: in un altro gozzovigliavan giorno e notte a tavole sempre imbandite, soldati, meretrici ebbre avvolte ne’ paramenti sacerdotali, e tra mezzo monache, matrone, fanciulle onorate che lo spavento, le percosse, gli strapazzi, avean fatte uscir di senno, senza saper più nè dove fosser, nè che facessero, stavano a tutte le voglie di quella gente perduta, che intronava loro gli orecchi di schiamazzi, di motteggi, d’orrende bestemmie e di canti osceni.
S. Giovanni de’ fiorentini, tra l’altre chiese, era nel modo appunto che abbiamo descritto, ridotto un rancio da soldati, una stalla, un postribolo, quando sul far della notte v’entrò Fanfulla uscito allora dalla sua cantina.
Egli aveva indosso la sola corazza. L’elmo, i bracciali, gli stinieri, i cosciali, legati colle loro corregge in un fascio gli pendevano sulla schiena annodati alla spada che portava in ispalla reggendola colla mano manca. In capo la berretta del canonico: e sotto questa usciva quel suo viso spiritato, tra giulivo e sonnolento pel gran bere che aveva fatto.
Si fermò sulla porta fischiando e cominciò a guardare lo strano parapiglia che era là entro.
Sui capi di molti barili rizzati in piedi stavan posate imposte di finestre, assi, battenti di porte, e formavano una tavola lunga quanto la navata della chiesa. La tovaglia mancava all’imbandigione, ma questa povertà era compensata abbondantemente. Calici, pissidi, piatti e vasi d’argento lavorati sottilmente a cesello sul gusto delle opere di Benvenuto Cellini, ampolle, boccali che aveano ornate le mense di cardinali e di prelati, splendevan’ ora tralle mani ruvide ed abbronzate de’ soldati.
I candellieri degli altari servivano ad illuminare quest’orgia, e perchè forse parean pochi, eran incastrati qua e là ne’ fessi delle tavole pezzi di torcie e candele, quali lunghe, quali corte, alcune rotte e rovesciate in modo che la punta accesa cadendo sulla tavola a poco a poco l’accendeva senza che alcuno se ne curasse. All’uno de’ capi era posto un orcio pieno d’olio a guisa di lucerna, ed una tovaglia d’altare attorcigliata, ardeva per lucignolo, all’altro era un mezzo barile sfondato, ed in esso un mazzo di forse cinquanta candele, le cui fiamme attraendosi a vicenda s’univano e formavano una fiamma sola e grandissima.
Dall’una e dall’altra parte del desco, seduti sulle panche della chiesa, chi mangiava senza guardare attorno, chi dormiva appoggiate le braccia alla tavola, ed il capo sovr’esse. A quattro, a sei giocavano a dadi o al lanzichinetto, o a germini; e[26] ad ogni poco senza dir che ci è dato, era un gridare, un dirsi ogni villania, un rizzarsi, un prendersi pe’ capelli, un guizzar di pugnali; poi chi era caduto sotto la tavola o ferito o morto vi rimaneva con altri che già v’eran da prima sepolti o nel vino o nel sonno: i compagni seguitavano a giocare. Un pezzo d’omaccio grande e grosso s’era sdraiato boccone per dormire, sulla tavola stessa, quant’era lungo, tutto imbrodolato dal vino uscito da’ vasi che avea rovesciati, cogli stivali pieni di fango sui piatti d’argento, e russava senza darsi per inteso del diavoleto che si faceva intorno a lui.
Le più sozze cortigiane s’aggiravano in quel disordine, come i vermi sguazzano nell’acqua corrotta. Correvano qua e là cogli occhi ardenti, le guancie infocate, quali tutte scinte, quali seminude; accolte ora con turpi carezze, ora con villane parole, con percosse, o con urtoni, senza che paresser curar più le une che gli altri.
Un soldato salito a cavalcioni su una botte vuota sonava un piffero, e cacciava fischi che s’udivano a malgrado delle voci, delle grida, de’ canti e dello schiamazzar generale: un altro con una briglia da muli piena di sonagli, batteva a gran sferzate sulla botte per far la battuta; un terzo picchiava con un turibolo sovr’un paiuolo rovesciato, e questa musica diabolica serviva a far ballare chi poteva ancora reggersi in piedi.
Fanfulla si fermò un momento sulla soglia ammorbato dal tanfo del vino, di sudiciume, di rifritto[27] che esalava di là entro; poi venne avanti e scaricò sulla tavola la ferraglia che avea in collo senza guardare nè a stoviglie nè a bicchieri, e ne fracassò tanti quanti ne colse.
Lo strepito che fecero l’arme cadendo, e rompendo piatti e boccali fe’ volgere uno de’ seduti a tavola che lo guardò, e ravvisatolo gridava:
—Oh Fanfulla!—
E poi un altro, e un altro, e un altro, poi tutti si dettero ad urlare battendo le mani, o percuotendo co’ pugni sulla tavola.
—Fanfulla! e tornato Fanfulla, è risuscitato il guercio (che così avea nome dacchè gli mancava un occhio).—Evviva il guercio cane!—Ti credevamo all’inferno da tre giorni!—Dove sei stato sin ora brutto anticristo?—Vien qua, bevi,... che non ti possa uscire di corpo!—Ohe! ohe! Qua vino, carne, capponi, saette per Fanfulla, che è tornato!—Sia ammazzato chi ne dice bene! Evviva Fanfulla!—Evviva il guercio!...—
E quest’ultimo evviva fu uno scoppio tale di tutte le voci unite che riuscì sino a coprire il fischio del piffero, fece soprastare quello che battea colla briglia, e l’altro dal turibolo, fermar chi ballava, e svegliarsi colui disteso sulla tavola, il quale alzò un visaccio strano, contraffatto dal sonno, si guardò attorno con male umore, disse «che siate morti a ghiado» e ricacciato il capo tra le braccia ricominciò presto a russare.
Quegli che riceveva dalla brigata segni così lusinghieri[28] di benevolenza (il lettore non guardi troppo a minuto al modo d’esprimersi, chè tutto sta intendersi, come abbiamo detto nel capitolo antecedente), il nostro Fanfulla stava ritto, colle braccia intrecciate sul petto, sogghignando per la compiacenza di vedersi tanto innanzi nella stima e nell’affetto di quest’uomini dabbene.
Venne una cuoca tutta sudicia, stracciata, e coll’untume fin sulla punta de’ capelli, recando le vivande che erano state domandate; ma Fanfulla con un pugno a sottomano, mandò per aria i piatti e ciò che v’era.
—Che mangiare? M’avete preso per morto di fame?....—
La fante si ritrasse sbigottita, ed egli togliendosi la berretta del canonico la piantò in capo a quello che si trovò più vicino dicendogli:
—Da bere!—
—Prima hai da dire dove sei stato questi tre giorni.
—Sono stato coi trentamila paia di diavoli che vi portino quanti siete... Da bere!—
Per non attediar troppo il lettore con queste ciance, diremo che dopo aver bevuto (e Dio sa se piovve sul bagnato) raccontò alla meglio che potette colla lingua grossa, e la pronuncia mal sicura, i suoi casi col canonico. Alla fine però d’ogni periodo della sua storia, ove lo scrittore metterebbe un punto fermo, il narratore metteva un bicchier di vino, ed i periodi, contro l’usanza dei cinquecentisti, furon brevi e furon molti.
Poco stante comparì in chiesa strascinato da una ventina di que’ malandrini, un povero sventurato vecchio, che aveano, si può dir, dissotterrato, traendolo dal fondo d’una cantina ove s’era appiattato. Mostrava l’età di settant’anni all’incirca, tremante, curvo, in sola camicia, che gli giungeva al ginocchio, e lasciava vedere le coscie scarne, le ossa protuberanti alle giunture, le gambe consunte, enfiate sui malleoli per la vecchiaja. Aveva ancora una calza vermiglia lacera e cadente, solo avanzo della porpora. Quest’uomo così indegnamente trattato era un cardinale; caritatevole, senza superbia, di costume angelico, in fine un sant’uomo.
Quando si trovò scoperto, abbandonò ai soldati quel poco che avea potuto salvare, riponendolo in un nascondiglio in fretta in fretta, mentre già correva la voce per Roma che le mura eran vinte. Il tesoro era piccolo, poichè dava tutto per elemosina: onde i soldati non potendo credere vi potesse essere un cardinale povero, tennero per fermo ch’egli non volesse palesare il tesoro maggiore, e che l’avarizia fosse in lui più potente dell’amor della vita. Provarono dapprima a spaventarlo, poi dalle parole presto passarono alle percosse, gli strapparono di dosso i panni, lo pestarono coi pomi delle spade e de’ pugnali: visto che tutto era inutile lo spinsero in S. Giovanni de’ Fiorentini per vedere quale strazio fosse da farne.
Gli urli e il fracasso crebbero, se era possibile, all’apparire di questa nuova masnada, che si fermò[30] avanti alla botte sulla quale era l’uomo dal piffero. Questi cominciò a farla da giudice, e ad interrogare il povero vecchio, il quale viste le tante e così abbominevoli profanazioni, scordava il proprio pericolo, e coprendosi gli occhi colle mani dava in un pianto dirotto.
Ma le parole duraron poco, e si stava per venire ai fatti. Già un soldato luterano, di quelli calati in Italia con Giorgio di Fransperg, recava un ferro rovente per incominciare il tormento, quando afferrato al polso del braccio destro, da una mano che parve una tanaglia, si dovette fermare, ed il ferro gli cadde a piedi.
Era la mano di Fanfulla. L’ubriachezza avea per costui due periodi: il primo gaio, vispo, manesco, pieno di risa e di pazzie fin che il vino non era in troppa abbondanza; se poi seguitava a bere cadeva nel secondo, ed allora diventava malinconico, tutto tenero, tutto svenevole, abbracciava, baciava chi gli capitava innanzi, che pareva proprio se ne struggesse.
In quel critico momento egli si trovava appunto in questo stato per fortuna del vecchio prigione.
Respinse il soldato con tanta forza che quasi lo mandò a gambe all’aria, e poi cominciò a gridare:
—E’ non si la così co’ galantuomini.... e’ non si strapazza a quel modo la carne de’ cristiani!.... razzaccia di can rinnegati!... sì... cani... cani... mille volte cani!.... Credete voi che abbia paura perchè siete in tanti?.... Vi avevo in.... dieci anni prima[31] che foste nati! (avverta il lettore che ci manca l’ortografia per esprimere le strane trasformazioni che subivano le parole pronunciate dalla lingua annodata di Fanfulla, perciò la sua fantasia supplisca a questo difetto). Guarda come me l’hanno conciato!.... E non si vergognano mica i ladroni!.... Povero vecchio.... Ma non aver paura..... (ed intanto gli si abbandonava addosso con tutta la persona baciandolo ed abbracciandolo) Non aver paura.... C’è qui Fanfulletta tuo!.... vedrai come te li suona.... son gentaccia senza fede.... luterani.... scomunicati, fanno il peggio che sanno..... che vuoi sperare?....—
—E tu che speri, pezzo d’asino, gridò uno di que’ forsennati, cavar danari da un cardinale senza la corda e ’l fuoco?—
—Pel carattere di vescovo che ho in dosso, disse il vecchio cardinale stendendo le mani scarne e tremanti verso i suoi persecutori, vi giuro che non ho altro:....nè oro: nè argento—nulla, nulla... avete preso tutto.—
—Dallo ad intendere a ’sto par di stivali, disse uno di quelli che l’avean condotto: e buttando in mezzo un fardello che si sciolse n’uscirono alcuni arredi sacri, un boccale col suo bacino d’argento, due breviarj ed altre cosarelle di poco valore.
—Ecco qui il tesoro, seguiva,... e non ha altro il cardinale!... Guardate un po’ se il fanciullino ha tutti i denti in bocca!.... Porta qua quel ferro che al corpo... al sangue... gli ho da friggere il core!—
Fanfulla anche questa volta entrò in mezzo, ed impedì l’esecuzione della minaccia.
—Senti zi’ cardinale,.... mi cominci a puzzar d’ammazzato.... che vuoi? son villani..... gente bassa.... senza creanza... le parole fan poco frutto, voglion esser ducati, fiorini, e se no ti fanno la festa.... mortuus est in camiciola.... per loro ammazzar un cristiano, è lo stesso che cacciarsi una mosca dal viso. Senza il pagamini, senza il mammona iniquitatis, come dite voi altri preti, ti mettono allo spiedo ad uso starna.... Animo... spirito... fuoco al pezzo.... una parola è presto detta.... qua a Fanfulletta vostro in un orecchio.... Dov’è sotterrato il morto?—
—Ma io già v’ho detto che non ho tesoro, lo sa Iddio che ci vede, son un povero prete:... vi par forse che a questi termini vorrei star a badare a qualche sacchetto di fiorini?—
Fanfulla si scontorse, scosse il capo masticando e tirandosi colle dita prima un baffo e poi l’altro.
—Io la credo a mio modo, e tu la dirai al tuo.—E chinandosi all’orecchio del cardinale al quale teneva una mano sull’omero e glielo ghermiva sempre più sodo a misura che andava avanti col discorso, disse:
—Avete capito che si tratta della pelle? Come vi s’ha da dire?... in tedesco?... Seguita, seguita a far l’indiano e te n’accorgerai?... E non s’intende già di dar tutto (seguì abbassando la voce onde gli altri non udissero) un migliaretto di scudi.... di zecchini...[33] sarà meglio.... gran cosa! Son ubbriachi fradici dal primo fin all’ultimo, vedete, questo branco di porci..... ci vuol giudizio..... io son solo.... e tra tanti uno solo che stia in cervello non basta..... non ti far strapazzare prete mio benedetto!....—
Il dialogo andò innanzi un altro poco su questo fare e finì come dovea finire. Il vecchio asserì sempre che non avea altro, ed era la verità; i soldati furon sempre più convinti ch’egli avesse, e la conseguenza di questa persuasione fu di volerlo obbligare a palesare i tesori nascosti a forza di tormenti.
Il buon volere di Fanfulla diveniva impotente contro il numero. Quando conobbe affatto disperata la causa del suo cliente saltò di nuovo in mezzo facendosi far largo ed urlando come uno spiritato.
—Zitti giovanotti, fermi tutti, e sentite se vi va a pelo questa. Mattiamolo in una bara e facciamogli il mortorio attorno per Roma co’ ceri; chi sa trovandosi a questi termini, e vedendo che bel gusto sia stare all’altro mondo gli potrebbe uscire il ruzzo dal capo.—
S’udì uno scoppio di voci discordi, che tutte insieme approvarono, schernirono, rifiutarono il partito. Alla fine però la maggior parte sperando trovar materia di ridere in questa mascherata, e sedotti dalla stravaganza del pensiero stabilirono s’eseguisse.
In un momento furon trovati i ceri, la bara, i paramenti neri, le cappe dai battuti, e fu messa insieme a furore questa pazza compagnia, che tosto[34] uscì di chiesa col povero vecchio stesso nel cataletto e s’avviò per Banchi.
Vedevi uno colla pianeta alla rovescia, un altro col piviale, e la spada cinta di sotto glielo teneva, colla punta, alto da terra tre palmi: Fanfulla con una granata che intingeva in una secchia piena di vino, e che adoperava a uso d’asperges su quanti incontrava, precedeva il corpo: facce, poi, che Dio ve ne scampi sempre: femmine tra mezzo d’aspetto diabolico, peggiori degli uomini. Udivi un cantar lungo più ululato, che canto, col quale voleano imitare quello de’ preti: poi chi rideva, chi urlava, chi faceva il verso di qualche bestia, chi cacciava fischi, chi dava fiato ad un fiasco vuoto, chi percuoteva insieme padelle e rami da cucina, chi cantava canzonaccie da postribolo e tutto in una volta un ferir di voci divenute rauche a forza di bere e d’urlare, un miscuglio di parole tedesche, italiane e spagnuole, e d’altre lingue, chè in quella turba v’era d’ogni gente, d’ogni generazione d’uomini.
Questa canaglia girò così molte ore per Roma facendo baccano, ed a notte avanzata tornò in S. Giovanni.
Deposta la bara, dissero al cardinale:
—Su, messere, alzati e discorriamola.—
Ma non era più in loro mano il poterlo tormentare. Il vecchio non avea retto a tanto disagio, ed era spirato per istrada.
Fanfulla alcuni giorni dopo nel passar presso al portone di S. Spirito per andar a mutar le guardie[35] venne ferito nel capo da certi rottami che le artiglierie di Castello aveano staccati dalle mura vicine. Giunse in termine di morte, e guarì a stento molto tempo dopo che l’esercito per l’accordo fatto da papa Clemente era uscito di Roma carico delle sue spoglie.
La cura che ebbe di lui un povero prete, giovò egualmente all’anima ed al corpo del buon Fanfulla, e finalmente possiamo presentarlo al nostro lettore come un uomo nuovo, affatto diverso da quel di prima, ed è lo stesso che dire come un galantuomo.
S’avvide che n’avea fatte di grosse assai e che bisognava pensare a far un po’ di penitenza in questo mondo, onde non gli toccasse farla tutta nell’altro. Stette infra due, o di farsi frate o di tor moglie (la nostra lettrice non se l’abbia per male, e si ricordi che quantunque buono, era però sempre Fanfulla) alla fine si attenne al primo partito.
Uscì di Roma una mattina sul suo buon cavallo coll’armi indosso ed accanto, portava infilzate all’elsa della spada, una corona, e al manico del pugnale una disciplina, arnesi che adoperava ogni sera all’albergo. Per Viterbo, Radicofani e Siena finalmente giunse a Firenze. Senza scavalcare si condusse alla porteria del convento di S. Marco, e picchiò col calcio della lancia. Uscì fuori il portinaio e gli domandò che voleva.
—Che m’insegniate la stalla per rimetter questo cavallo, che mi vo’ far frate.—
Sulle prime il portinaio credette che fosse pazzo od ubbriaco, pure dopo molte domande e molte difficoltà, dopo un diluvio di ma, di come, di perchè, s’indusse a lasciarlo entrare, ed a presentarlo a Fra Benedetto da Faenza il quale, udita la voglia dello strano postulante, considerandone l’abito, il taglio, e la faccia fiera non sapeva definire se dicesse da senno o da burla.
Senza dar precisa risposta prese tempo alcuni giorni, durante i quali avendo avuto campo di far esaminare la sua vocazione, alla fine credette bene non dar ascolto a qualche dubbio, che pure gli rimaneva, e si risolse riceverlo per laico.
Fanfulla depose tutta la ferraglia che portava addosso, vestì l’abito di S. Domenico, e si pose nome Fra Giorgio da Lodi. In pochi giorni imparò tanto del suo nuovo mestiere, da poter far discreta figura in coro ed in refettorio; ed il cavallo, che incominciava ad aver i denti lunghi ed il sopracciglio infossato, imparò anch’esso presto a portar sacchi al mulino ed a girar il bindolo dell’orto. Al punto in cui abbiamo trovato il suo antico padrone servendo messa, era già circa due anni dacchè ambedue aveano mutata la vita del campo con quella del chiostro, trovandosi contenti del loro nuovo stato, colla sola differenza, che non è probabile tornassero in mente al cavallo i tempi in cui correva la lancia, mentre all’opposto si rappresentavano ancora molto vivi talvolta alla memoria del cavaliere.
La messa da requie era terminata senz’altro disturbo. Il celebrante spogliatasi la pianeta, prese il piviale per far l’ultime esequie al cadavere, e scese dall’altare con tre chierici innanzi: l’uno portava la croce, gli altri due i candellieri. Fra Giorgio seguiva colla secchiolina dell’acqua benedetta.
La folla si ritrasse dal feretro attorno al quale rimasero soltanto Niccolò ed i suoi figliuoli. Si recitaron le orazioni, si compierono le cerimonie e le aspersioni prescritte, e quando i preti furon tornati in sagrestia, Niccolò fattosi accostar Bindo spiccò la rotella e la spada di Baccio e reggendole colla manca, pose la destra in capo al figliuolo, al quale disse:
—Bindo! Questa spada e questa rotella ch’io dò a te, ell’erano di Baccio che vedi qui morto per aver fatto il dovere di buon cittadino. Ora, guardami gli occhi: ti par egli ch’io pianga?—
Il fanciullo tutto attonito accennò col capo di no.
—E s’io non piango sappi che non è per poco[38] amore ch’io portassi a codesto mio carissimo figliuolo e tuo fratello, ma perchè conoscendo essere ogni uomo obbligato in primo luogo al nostro Signore Iddio, ed alla sua santa fede, in secondo luogo alla patria, e dover porre in loro servigio le forze e la vita, ed essendo certo serbarsi a coloro che così fanno, onorata memoria in questo mondo, ed eterno premio nell’altro, io stimo la morte sua essere stata bellissima ed invidiabilissima. S’io piangessi dunque perchè egli lasciando noi tra la miseria di questa vita se n’è ito a godere l’infinite dolcezze dell’altra, mi parrebbe mostrarmi ingrato alla divina bontà, ed invidioso del ricco guiderdone che s’è comprato colle virtù sue.—Ora to’ quest’armi col nome di Dio: fa di mostrarti valente qual era Baccio, e con esse in mano o tu vinci o tu mori: e per quanto temi la maledizione d’un padre, l’ira di Dio, ed il vituperio tra gli uomini, abbi sempre innanzi gli occhi con qual viso e con qual core hai veduto me stare accanto alla bara d’un figliuolo morto virtuosamente; sappi ch’io vedrei te al luogo suo coll’istesso viso... Dio me ne darebbe la forza....—Ma sappi ancora (qui levò alta in atto fiero e terribile la mano che avea tenuta sin allora in capo a Bindo) che se tu, che Dio non voglia.... ti mostrassi.... no, non mi vo’ lordar la bocca con queste parole..... nè immaginar pure tanta bruttura nel sangue mio.....—Basta, chè tu m’hai inteso!.... Allora, se pur pur stimassi ancora la vita, fa[39] che questi miei occhi non t’abbiano a veder mai più.—
Al fine di queste parole, che dette da un uomo di tanta autorità, in occasione, e con modo così grave produssero gran senso su Bindo e sugli astanti, volle cingerli la spada. Il fanciullo alzando le braccia lo lasciava fare. Ma la cintura che stava bene alla vita di Baccio era troppo larga per quella del fratello. Disse Niccolò:
—Troppo sei scarzo, povero Bindo mio!—E portando la fibbia addietro tre o quattro punti soggiunse:
—Così starà bene....—
Ma pensò nell’istesso tempo alla dura necessità che costringeva un fanciullo così tenero ad esporsi a tanti pericoli, pensò alla rovina che stava per cadere su Firenze, ed a chi n’era cagione; si fece più scuro nel volto e non potè rattenere un sospiro, mentre gli affibbiava la cintura.
Ciò fatto si volse a Messer Giovan Gondi, capitano del Lion d’oro, il quale si teneva presso il suo Gonfalone, coperto fino a mezze cosce d’una bellissima camicia di maglia.
—Messer Giovanni, gli disse con voce e con volto sicuro, s’io ho perduto un figliuolo, voi non avete perduto un soldato. Eccovi questo invece di Baccio; e confido in Dio che non sarà per mostrarsi da meno di lui.—
—E voi valorosi cittadini, non isdegnate averlo per compagno perch’egli sia così fanciullo, David era fanciullo anch’esso quando vinse Golia.
Il bisbiglio e le parole interrotte che sorsero fra soldati mostraron ammirazione e rispetto per Niccolò, stima ed amore pel giovanetto.
—Egli è d’una razza che non falla!—Questo vecchione egli è di ferro stietto!—Ve’ se gli esce nemmeno una lagrima! E il figliuolo! Ti so dir che non canzona.—Dagli tempo un pajo d’anni!—Un pajo d’anni? Va, va alla torre in Mercato Nuovo, dove insegna a schermire il figlio del Grechetto, vavvi la mattina, lo vedrai come gioca di spada e pugnale. E’ si provò jer l’altro col Morticino, sai pur che diavoletto egli è!.... Be’ glien’ha dato un carpiccio, de’ buoni... e per poco non facean quistione daddovero!...—
Si fece innanzi un soldato col libro sul quale stavano scritti gli uomini del Gonfalone, l’aprì, e lo resse avanti al Gondi, il quale, scrittovi alcune linee, le presentò a Niccolò.
Questi lesse ad alta voce le seguenti parole:
—Addì 17. ottobre 1529. Bindo di messer Niccolò, di messer Cione de’ Lapi, del Popolo di S. Giovanni.... Sta bene.... Ascoltami, Bindo! Sappi che d’or in poi questi (additando il capitano) è tuo padre. Questa (additando la bandiera) è la casa tua. Costoro (additando i soldati) i tuoi fratelli.... Ora inginocchiati (Bindo ubbidì: il padre gl’impose le mani, e levati gli occhi al cielo disse ad alta voce) Bindo, ti dò la mia benedizione.—
Il lettore conosce oramai abbastanza la natura ed i pensieri degli attori di questa scena, per formarsi[41] un’idea de’ varj affetti che provarono in un tal momento. Per alcuni minuti nessuno parlò, nessuno si mosse: soltanto Bindo, alzandosi, cinse colla destra (la manca era impedita dalla rotella) il busto del padre sotto l’ascella, gli appoggiò la fronte sul petto e rimase immobile. Le mani del vecchio, che pure alfine furon viste tremanti, s’immersero nella folta capigliatura del figlio, e quando questi alzò il capo sciogliendosi da quell’abbraccio alcune stille caddero strisciando lungo la saja del lucco.
Molti de’ soldati ch’erano stati più stretti amici di Baccio s’accostarono allora alla bara e l’uno dopo l’altro lo segnarono colle candele benedette. Il moto de’ baffi dava a vedere che recitavan sotto voce preghiere in suffragio dell’anima sua. Fra Benedetto che era venuto con alcuni de’ suoi frati per porgere a Niccolò qualche parola di conforto, e fargli onore all’uscir di chiesa prima che se n’andasse, gli facea motto sommessamente.
—Fra Benedetto, disse il vecchio, mentre si movea per partire, vi raccomando nelle vostre orazioni vi ricordiate di Lamberto; onde Iddio ce lo renda sano e salvo. E’ m’ha scritto, che a giorni sarà in Firenze.... ma i cavalli del marchese del Vasso si son veduti sulla via di Bologna..... Dio non voglia che.... Lisa, sta di buon animo (seguitava volto alla figlia che udendo quelle parole s’era scossa) Lamberto non è pazzo e sa quel che convien fare, e non passeranno molti giorni che coll’ajuto di Dio sarà in parte dove le capre non lo cozzeranno.
Lisa stringendosi alla sorella nascose il viso in modo che non fu possibile conoscere con qual animo accogliesse il discorso del padre. Quelli tra gli astanti che sapevano essere stabilito il parentado fra Lamberto e la Lisa, giudicarono quel nascondersi venisse dalla peritanza che soglion mostrar le fanciulle in tali occorrenze.
Niccolò intanto, attorniato dalla sua famiglia e seguito da quanti erano in chiesa uscì, e non rimase in S. Marco altri che il sagrestano, il quale dopo aver tirato un lembo di lenzuolo sul viso al defunto e spenti i lumi, se n’uscì anch’esso per la porta della sagrestia.
Fra Giorgio, finita la messa, se n’era venuto alla sua cella, e vi s’era chiuso. La risata sfuggitagli in chiesa lo martellava; conosceva d’aver mal fatto, e provava quella amarezza, quella stizza contro se medesimo, che nasce nel cuor degli uomini, quando debbono contrastare di continuo ad abiti inveterati.
Non s’era punto freddata in lui la volontà di cancellare coll’austerità della vita claustrale gli errori della passata, ed in questi primi due anni le cose gli erano andate assai quietamente. Se talvolta la fantasia gli correva a rammentar fatti d’arme, pensava, ammonito così da’ suoi superiori, esser questa tentazione del demonio, e tanto faceva che riusciva a cacciarla. Gli era pur riuscito di sottometter quasi pel tutto la sua natura bizzarra, intollerante di freno, facile ad accendersi, ed a passar tosto dalle parole ai fatti. Gli altri frati, considerando[43] chi egli era stato, gli sapean grado della fatica che durava per istare in cervello, e quantunque forse in cuore poco l’amassero, perchè Fra Giorgio avea quel certo fare che agli uomini quieti suol dar fastidio (quantunque tra loro usassero chiamarlo per soprannome Fra Bombarda) tuttavia parlando di lui conchiudevano dicendo «Talvolta e’ crede di star ancora colla lancia alla coscia, e non vuol esser stuzzicato, ma poi a ogni modo e’ non è cattivo il poveraccio.»
Ma allor quando fu avviato l’assedio, che per Firenze non si vedevano se non cavalli, e fanti, ed uomini d’arme, e s’udiva giorno e notte uno scarichìo incessante d’archibusi e d’artiglierie, e batter tamburi, a sonar pifferi, e trombe; nè v’eran altri discorsi che sui modi d’offendere e difendersi, e sui casi di guerra che venivano accadendo alla giornata, allora l’abito di S. Domenico, principiò a parere a Fra Giorgio più grave di quattro armature.
La notte nella quiete del dormitorio mentre intorno a lui il silenzio non era interrotto che dal russare lento e profondo de’ frati che dormivan nelle celle vicine, il povero laico sonnecchiava appena un poco, riscosso a ogni tratto da cento immagini di battaglia che tosto gli si presentavano in sogno purchè velasse l’occhio un momento. Costretto a vegliare si volgeva all’orazioni; ove non bastassero a metterlo in pensieri santi, arraffava con istizza una disciplina, che stava sempre appiccata[44] al muro sopra il capezzale, cominciava a sonar a distesa sulle spalle, col capo basso, gli occhi chiusi ed arruotando i denti, ed in questo duello contro sè medesimo, si portava senza misericordia come s’era portato in molti con altri.
Molte volte la tentazione nasceva da cause reali e presenti. Udiva sorger lontano lo scalpitar d’una truppa di cavalli, tendeva l’orecchio, rattenendo l’anelito; lo strepito cresceva, cresceva. Sboccavano sulla piazza S. Marco, quand’erano a passar sotto la sua finestra il rimbombo facea vibrar le invetriate, s’allontanavano, lo strepito diminuiva, al voltar d’un canto appena più si poteva udire, poi cessava del tutto. Allora soltanto rimetteva l’anelito; e per lunga pratica avea potuto discernere in mezzo a quel frastuono confuso tutti i diversi strepiti e le cause che li producevano. Aveva potuto dirsi: questo è stato uno scudo percosso, questo un puntale di spada che ha urtato in uno stiniere, questo un cavallo punto dallo sprone al quale è sdrucciolato un piede sul lastrico, questo un tronco di lancia che ha dato in un elmetto ec., ec.
Una simil vita di smania continua gli aveva alla fine tolto il sonno del tutto, e gli parea d’impazzare. Il giorno si mostrava insofferente cogli eguali, cupo co’ superiori, ed ogni volta che uno sparo d’artiglieria gli veniva all’orecchio diceva tra denti «Così non ho io a stare!»
Quand’era entrato in religione si trovava la salute e la complessione indebolite e stanche dai tanti[45] strapazzi, e forse senza fargli torto, questa depressione delle forze fisiche aveva in parte determinata la sua vocazione, ma la vita riposata e metodica l’avea ristorato, e sentendosi ora di nuovo forte e sano come una volta, badava a dire: «Così non ho io a stare!»
Queste benedette parole gli erano di nuovo uscite di bocca, quando udì i passi d’un uomo che s’accostava all’uscio. Giuntovi, battè due colpi colle nocche delle dita dicendo «Deo gratias.»
—Sempre Deo gratias, avanti—rispose frate Giorgio, ma il mal’umore col quale pronunziò queste parole, era poco d’accordo col loro senso. Aprì ed entrò un laico, che gli disse:
—Fra Benedetto vi vuole.—
Fra Giorgio immaginò tosto di che cosa si trattasse, e disse «questa tocca a me» tuttavia s’avviò francamente, e per istrada risolse, poichè gli s’offeriva l’occasione, di voler a ogni modo uscire di quel travaglio.
Trovò il suo superiore allo scrittojo: aveva gli occhiali sul naso, e stava leggendo un S. Agostino in foglio. Fra Benedetto alzò il naso all’aria per porre sull’istessa linea le sue pupille, le lenti degli occhiali ed il viso del laico; lo guardò un momento, come se la sua fisonomia dovesse servirgli a regolar la dose nella predica che stava per fargli.
La faccia di Fra Giorgio era compunta e modesta, ma sul suo viso la modestia e la compunzione in quel momento mettevan paura.
Pure il buon vecchio facendosi animo, e vincendo la ripugnanza che provava ad entrar in materia così strettamente con un tal uomo, si tolse gli occhiali, li depose sul libro, e disse:
—Fra Giorgio, da un pezzo in qua mi vo avvedendo di certe cose che poco mi piacciono. Forse avrei dovuto farvi motto prima d’ora: ma dubitando di non mi apporre quando pensavo male del fatto vostro, ed anco aspettando a ogni modo che voi vi dovessi mutare, sono stato cheto. Ma ora egli è pur forza ch’io faccia il debito. Che novità son queste figlio benedetto? Io non vi trovo più sollecito com’una volta all’ufficio vostro. Una volta voi eri sempre in chiesa, e non v’era modo a spiccarvi dalle predelle. Una volta voi ascoltavi le riprensioni con faccia serena e tutto volenteroso di far bene. Ora vi veggo sempre scuro in viso, se vi si parla, e’ pare che l’abbiate per male; i frati non hanno altro che dire «Fra Giorgio è tutt’un altro.... non ci si può più combattere.» Ricordatevi, figliuol mio, la miglior parte della vita l’avete data al demonio, il Signore potea lasciarvi nella via dell’inferno, v’ha usata misericordia, non ripigliate ciò che gli avete donato, ora che avete consacrato a lui l’altra parte, gli anni che vi rimangon di vita; non tornate addietro, figliuolo.... Sta mattina poi in tempo di messa!..... vi par egli? un disordine, uno scandalo a quel modo?
E’ mi duole d’avervi a riprendere d’un fatto nel quale mi ci trovo di mezzo io.... non vorrei (già[47] noi siamo tutti miserabili a un modo!)... c’entrasse punto di ruggine con voi, perchè avete riso di me.... del mio sgomento. Ho errato anch’io figliuolo, lo confesso, se fossi stato col pensiero in Dio, com’era dovere, non ne sarei stato distolto da così poca cosa! Dunque che ci resta a fare? Umiliarci tutti a due, riconoscere che siamo fragili, che senza la grazia possiamo cadere ad ogni passo, e perciò non mancare di far quanto è in noi colle orazioni e colle penitenze per ottenerla.—
Fra Giorgio che una riprensione acerba avrebbe forse irritato, si sentì commovere dalla mansuetudine, e dall’umiltà candida del suo superiore.
—Voi siete un Santo, gli disse, ed ho avuto mille torti... ma....—
—No figliuolo, non sono santo, son peccatore più di voi, e pur troppo lo so io come sto! Ma questo ora non ci ha che fare. Ho caro vedere che conosciate il vostro errore; tanto volevo. I mal abiti son come la gramigna, la sradichi da una parte, rigermoglia dall’altra: vi compatisco,... aver per tanti anni vissuto ne’ campi tra soldati, in mezzo ad uomini sfrenati, si fa l’uso a quel vivere sciolto, pieno di fortune diverse, se poi l’uomo si vuole assestare... è dura fatica... vi compatisco. Ma (seguiva sorridendo affinchè un’ombra di scherzo addolcisse ancor più la riprensione) anche qui si tratta di guerreggiare, e si vuol distruggere i nemici vecchi; in questa guerra tocca a tutti ad armarsi, ed a noi più degli altri, s’ha a star sempre all’erta, a combatter sempre... violenti rapiunt illud.—
Prima di riferire la risposta di Fra Giorgio preghiamo il lettore a pensare se gli accade mai nel trattare con alcuno a quattr’occhi di cosa che molto gli prema, udir verbigrazia una parola che assorbe interamente la sua attenzione: l’altro va innanzi col discorso, ed egli ruminando su quella parola, non l’ode: ritorna poi in se, vuol riprendere il filo del ragionamento, ma non avendo ascoltato tutto, nascon equivoci e per intendersi bisogna ricominciar da capo? Se questa situazione non riesce nuova al nostro lettore sarà forse peggio per i suoi affari, ma è meglio senza dubbio per l’intelligenza di quest’istoria, poichè a Fra Giorgio accadde di trovarsi appunto in questo caso.
Avendo ritratto dalle prime parole del suo superiore che era in bonis più che non s’aspettava, invece d’ascoltarlo con attenzione sino al fine, si pose a studiare in qual modo avesse a dire per fargli conoscere che non ne voleva saper altro di far il frate; onde tutta la predica di Fra Benedetto se giunse all’orecchio del laico non penetrò certo più innanzi; soltanto a quest’ultime frasi «anche qui si tratta di guerreggiare... in questa guerra tocca a tutti ad armarsi... ecc. ecc.» si riscosse, ed il suo cervello balzano, che difficilmente poteva capir più d’un’idea per volta, la interpretò nel senso che più faceva per lui.
Si sentì consolar tutto, ed in cuore disse: «Avrà capito anche lui che se non ci ajutiamo tutti contro quest’Imperiali, e se i frati essi pure non[49] danno una mano, la vuol finir male... Tutto il male non vien per nuocer! La nespola di stamattina l’ha persuaso, che l’affare si mette al serio.»
Questi pensieri però che hanno voluto da noi più d’una pagina di spiegazione, passarono come un baleno per la mente di Fra Giorgio, il quale tenendo superata ogni difficoltà, disse coll’effusione di chi vede aprirsi inaspettatamente una porta ai proprj desiderj:
Fra Benedetto, io non ho altro desiderio al mondo... e se io stavo tanto di mala voglia da un pezzo in qua, sappiatelo, e’ non è stato altro che per questo: ch’io mi tengo coll’ajuto di Dio pur anco buono da qual cosa, e mi pareva portarmi troppo rimessamente in questa guerra (al contrario dell’altra ove mi son travagliato per tanti anni, e pur troppo quasi sempre a mal fine) io son certo che il combattere mi sarà merito innanzi Iddio, ed ho in animo di farlo,.... e farò il meglio ch’io saprò e voglia così Iddio farmi degno della sua gloria, e fosse oggi piuttosto che domani.
Il vecchio seguitando ad intenderla a modo suo, parte si maravigliò vedendo tanto fervore nel laico, chè tutt’altro aspettava, e disse fra se «Oh tò!... gli ha ripreso per questo verso ora!» Pure contentissimo di trovarlo in così buone disposizioni, soggiunse:
—Che siate benedetto figliuol mio! benedetto mille volte.... Già e’ non si sbaglia (e gli batteva[50] sorridendo sul braccio) questi bravacci se fanno tanto di volgersi al bene, lo fanno poi senza risparmio;... tutto sta a saperli indirizzare... Orsù dunque quel gran core che avete mostrato nelle guerre che dicevate testè per fini mondani, è tempo d’adoprarlo ora in questa per fini santi: il contrasto sarà lungo e grave, il nemico possente ed astuto... leo rugiens...... ma Iddio sarà con voi...... non vi spaventi....—
—Spaventarmi? rispose Fra Giorgio maravigliato, e sorridendo; non ho mai saputo di che colore ella fosse la paura.—
E, soggiunse sottovoce.—L’hai proprio trovato chi si spaventa.—
—Lo so, lo so, non siete pauroso, ma badiamo veh! anche il confidar troppo nelle nostre forze, è male, e male grave, ma non vo’ aggiunger altro per ora.... non mettiamo troppa carne a bollire. Andate, ed il Signore v’ajuti e vi dia forza.
Fra Giorgio si mosse per partire. Giunto all’uscio gli sorse un pensiero in mente, e tornato addietro, riprese:
—Fra Benedetto, io v’ho a domandare una grazia.
—Dite.... purch’io possa.—
—Oh quando sia per questo, basta che voi vogliate.... Ma capisco ancor io.... e’ non istà bene... chi dà e poi ripiglia.... dice il proverbio.... all’inferno si scapiglia.... ma non trovo altro modo.... non ve l’avrete per male....—
—Be’ dite su.... parlate francamente.—
—Ecco vedete.... io non son uso così a piede... son della scuola vecchia, intendete!.... Chè soltanto da un vent’anni in qua, si vede (lasciamo star gli Svizzeri) buona gente mettersi nelle fanterie.... e si può dire anzi che il primo a metterle in riputazione è stato il sig. Gonzalo Hernandez.... via, il Gran Capitano.... l’avrete inteso nominare.... e per dir il vero e’ gli venne fatto molto bene; che alla giornata della Cerignola gli uomini d’arme francesi.... se gli aveste veduti caricar una battaglia di que’ fanti spagnuoli pareva n’avesser a far tonnina: ma loro fermi colle picche spianate parevan inchiodati alla terra.... e quei terremoti di francesi addosso come fulmini... Saint Denis!... Saint Denis! non ci è Saint Denis che tenga, era come percuotere in un bastione.—
Immagini il lettore se Fra Benedetto udendo questo discorso spalancava gli occhi, e credea che a Fra Giorgio desse di volta del tutto. Ma non era finito.
—Basta: lasciamo star le fanterie... So bene, anche tra loro sono di valentuomini.... ma ognuno ha da far l’arte sua: ed io mi trovo ormai troppo innanzi cogli anni per impararne una nuova, e se voi volete ch’io possa far cosa buona mi dovete concedere... conosco ch’è un grand’ardire il mio... voi vi maraviglierete.... ma ai termini ov’è ridotta la città non mi riuscirebbe, cred’io, neppur con dugento ducati.... chi l’ha l’adopera per se.... e poi già chi me li darebbe questi danari; insomma, per non allungarla di più, se voi non mi date licenza[52] ch’io mi possa valere del mio cavallo, io mi troverò impacciato.—
A metà di questo discorso Fra Benedetto s’era di nuovo posti gli occhiali, ed appoggiando ambe le mani sui bracciuoli del seggiolone si faceva innanzi colla persona alzando il capo verso il laico, e guardandolo fiso, fiso. Quando finì di parlare il vecchio tacque per mezzo minuto pur seguitando a guardarlo, poi con voce che sonava somma maraviglia, disse due o tre volte:—
—Cavallo? Cavallo? Oh che Domin c’entra il cavallo? Ma a che modo l’intendete? V’ho io detto forse che andassi a giostrare?—
—Ma Fra Benedetto mio, e’ non è mal di giostra; chè qui si fa da maladetto senno... e, com’io v’ho detto, e’ mi basta la vista ancora di far il mestiero a cavallo... ma a piede!—
—E chi v’ha detto di far il mestiero? e di farlo a cavallo o a piede?... col ben che Dio vi dia! Che pazzie son queste? Vi dico di far l’ufficio di buon religioso, d’attendere all’anima, alle cose di Dio... e vo’ m’uscite fuori col cavallo, colle picche e colle fanterie! E’ mi par che vogliate la baja del fatto mio! Andate, andate che vo’ m’avete chiarito... ed io che gli davo retta! Oh Signore, Signore, dammi pazienza con costui!—
—Fra Benedetto.... non v’adirate, disse Fra Giorgio accortosi dallo sbaglio, e tutto doloroso di trovarsi da capo quando già credeva d’aver aggiustate le cose sue. E’ non c’è mal nessuno.....[53] vo’ l’intendete a un modo, io l’intendevo a un altro.—
Visto poi che il superiore taceva e soffiava con certi scrollamenti di capo che non presagivano nulla di bene, si risolse in tutto, dacchè si trovava avere scoperto l’animo suo, di volerla vincer egli; e venendo un tratto a mezza spada, disse col fare di chi non è più per tornare addietro:
—Orsù Fra Benedetto, ascoltatemi. Se voi non mandavi per me sarei venuto di mio, ch’io mi trovo in troppo travaglio per poterla durare. Io vi confesso che stamattina ho fatto errore in tempo di messa, e vi prego a perdonarmi come spero mi vorrà perdonare il mio Signore Iddio. Io vi confesso che gli altri frati hanno mille ragioni di dolersi di me, che i miei portamenti non sono quelli d’un buon religioso. Io sono un omaccio, un pezzo di carne cattiva.... ma forse ci ho che far io s’i’ mi sento struggere, s’i’ perdo il sonno, s’i’ mi rodo giorno e notte di non trovarmi in sulle mura quando vi si fa all’archibusate!.... Ci ho che far io se ho una natura tanto nuova, tanto pazza.... dite pure tanto perversa, che io non ho bene se non quando mi trovo in mezzo alle picche, agli archibusi, alle busse e a mille malanni?.... Io non ho mancato di far il dovere, come m’avete insegnato, per ispegnere codeste fantasie: io digiuni, io orazioni, io discipline.... E sono stati scherzi! Ora io vi protesto che il mio cuore non s’è discostato un dito dal glorioso barone S. Domenico, nè dalla sua[54] santa regola, e ch’io voglio vivere e morire in quella. Io mi ricordo de’ miei peccati, e so che ho da farne la penitenza... e la vo’ fare. A questa guerra io non ci vo’ nè per avvantaggiarmi, nè per salire in grado, nè per altri fini mondani. Io ci vo’ perchè a questo modo io non ci posso stare, ch’io impazzerei; ci vo’ per difendere questo stato popolare, come volle il nostro Beato Fra Girolamo.... e quanto alla penitenza voi la farete in convento, io su per le mura alla neve, e al freddo; voi digiunerete ed io digiunerò; voi farete le discipline e io troverò ronche e spiedi che mi conceranno Dio sa come!
Io non sono in sacris.... sapete voi s’io ho lettere latine!... Ma lo fossi anco... la buona memoria del cardinale Sanseverino l’ho veduto con questo pajo d’occhi (chè allora ce gli aveva tutt’a due) alla giornata di Ravenna su un bel bajo turco, tanto bene a cavallo, tanto ardito e ben armato che io ne disgrado il sig. Giovanni,[6] e Napoleone Orsino, l’Abatino di Farfa, non corr’egli Casentino co’ suoi cavalleggieri? e poi tant’altri.... E se v’è caso in cui anche voi altri preti dobbiate ajutar la difesa, è questo senza dubbio; e volete che ve la canti chiara? Quest’esercito non è per far da motteggio, e vedo di gran nugoli serrarsi addosso Firenze,[55] e se ognuno di noi non val per tre, e’ può venire il punto che ce n’abbiamo a pentire.... Li conosco questi Bisogni[7], questi Lanzi gli ho veduti al sacco di Roma.... dove pur troppo.... anch’io.... basta, Iddio mel perdoni.... e se riescono a rovinar in città un giorno o l’altro addio Parigi... e’ non vi sarà nè chiesa nè convento che tenga. Ora voi m’avete inteso, conoscete l’animo mio; datemi dunque buona licenza, e coll’ajuto di Dio non ve n’avrete a pentire.—
Il buon vecchio udendo quel parlare cotanto risoluto, rimase senza parola. Egli non era sprovveduto di quel coraggio che sostiene l’uomo virtuoso quando si tratta d’adempiere al proprio dovere, ma come s’è veduto, l’ardire proprio de’ soldati non era il fatto suo, e si può credere che avrebbe amato meglio trovarsi un po’ più lontano da quelle benedette artiglierie: onde il vedere ora un uomo sui confini della vecchiaja che mostrava non poter più vivere se non andava a cacciarsi in mezzo alle schioppettate, gli parve cosa tanto pazza che credette il povero laico presso ad uscir di senno.
Perciò si guardò bene dallo sgridarlo, ed anzi considerando la cosa così in fretta in fretta disse tra se «E’ non sarà male con buona maniera levarselo dinanzi prima che ne faccia qualcuna delle[56] sue e mandi a soqquadro la casa» e senza mostrarsi alterato gli rispose:
—Certo non mi sarei mai aspettato.... ma se avete tanto desiderio... che per me non so intendere... basta, se così vi piace... non essendo voi in sacris vi si potrà concedere. Ma riflettete bene a quanti pericoli andate incontro; pazienza quelli del corpo. Ma per l’anima come andrà? Voi tornate nella via vecchia, tornate in mezzo alle male compagnie, tra ribaldi che vi porranno innanzi mille occasioni di mal fare!—
—Quanto a questo voi dite il vero; ma Iddio conosce i miei fini, egli m’ajuterà.—
—Poi ricordatevi; la difesa è lecita; ma debb’essere fatta col minor danno possibile: cum moderamine inculpatæ tutelæ, ferir le parti meno vitali, mai il capo, nè il busto.—
Il laico non si potè tenere di non sorridere un poco udendo questi precetti che mostravano quanto il superiore conoscesse i modi che si tengono nel combattere; ma pure ascoltò fino alla fine cogli occhi bassi (e non gli parve fatica, tant’era l’allegrezza che provava di sentirsi ridiventar soldato) un’ultima ammonizione di Fra Benedetto piena di consigli e di precetti sulla carità, sulla prudenza, sui buoni e cattivi esempi, e che per essere stata un po’ lunghetta pensiamo di non riferirla parola per parola. Quando fu finita, disse Fra Giorgio:
—Dunque siete contento ch’io mi valga del cavallo.—
—Sì, sì... che ad ogni modo le noci son macinate, e per l’olive serve il ciuco... Che Dio vi benedica.—
Fra Giorgio se n’andò contento. L’altro guardandogli dietro giunse le mani, strinse le labbra, ed alzò gli occhi al cielo.
—Il cavallo è trovato... e’ ti pare aver fatto tutto!... resta a vedere se ti potrà portare, che non s’ha a far i conti senza l’oste.—
Così diceva Fra Giorgio avviandosi verso la stalla. Andava pensoso, col cuore piccino piccino, come chi trovandosi costretto a far una spesa e non avendo numerati da un pezzo i quattrini che ha in borsa, si dispone a contarli, ma il cuore gli dice che non arriveranno.
Ne’ primi tempi dopo che era entrato in convento, ogni tanto andava a trovare il suo cavallo e sempre s’ingegnava di razzolar qualche cosa per supplire alla scarsità e cattiva natura della pietanza che gli somministrava l’ortolano. Per una bestia avvezza a farsi il fianco tondo ogni giorno con paglia, orzo, e biada ci voleva altro che star ai pasti del ciuco e di due vacche smunte che erano i suoi compagni di stalla e di lavoro.
Malgrado le cure di Fra Giorgio, dopo il primo mese, l’ossa dell’anche cominciarono a sorgere, indi a numerarsi le costole: il collo, la schiena e la groppa s’avvezzarono a star abitualmente sull’istessa linea,[59] l’orecchie anch’esse non potendo più opporsi alla legge di gravità si chinarono sulle tempie, l’occhio divenne malinconico, ed il povero Grifone (così gli avea posto nome il Fanfulla d’altre volte) acquistò la seria ed afflitta immobilità del ciuco suo vicino.
Fra Giorgio, non reggendogli il cuore di veder questa brutta metamorfosi fino al fine, l’abbandonò per disperato e da più d’un anno non avea messo piede in istalla. V’entrò adesso preparato al peggio.
Al di sopra delle vacche e dell’asino vide sorgere il dorso del suo sventurato Grifone: ma pareva un di quegli animalacci rari che si conservano ne’ musei, o per dir meglio la loro pelle retta su quattro stili, e pochi regoli in traverso, ed imbottita qua e là di paglia e di borra.
Fra Giorgio si messe le mani ai capegli e fu per voltarsi a fuggire com’avesse veduta la versiera. Pure si rattenne. Fin che v’era filo di speranza non volle rinunciarvi. Considerò le spalle e le zampe, e non gli parve di trovarvi gran male: fece di metter insieme uno stajo tra orzo e biada, e dopo averlo abbeverato, glielo pose innanzi.
«A corpo pieno ci riparleremo» disse, e per allora lo lasciò stare.
Pensò di dare intanto un’occhiata alle sue armi dicendo: «Anche qui vi saran de’ guai.» S’avviò ad una camera terrena specie di guardaroba, ove le avea lasciate per vestir l’abito. Era uno stanzone posto in un angolo del chiostro, e vi giaceva buttato[60] alla rinfusa un monte di mobile vecchio, di suppellettili di sagrestia; v’erano scale, legnami a stagionare, orci, stuoje vecchie, mele a maturar sulla paglia, agli e cipolle appiccate alle chiavi della volta, ed in mezzo a questa confusione trovò, parte pendenti dal muro, parte caduti in terra, tutti i pezzi che componevano il suo arnese, colla sella, la briglia e gli altri guernimenti del cavallo. I ferri erano pieni di ruggine; le cuoja screpolate coperte d’un velluto di muffa verde e turchina.
De’ ragnateli poi e della polvere non se ne parla.
Raccozzò ogni cosa alla meglio e portò il tutto nella sua cella: aiutandosi con olio e con un pezzo di legno dolce si diede a giocar di schiena finchè dopo un’ora buona di lavoro ebbe scoperto che la ruggine non avea tanto danneggiate quell’armi da renderle inservibili.
Tornato alla stalla ove il cavallo s’era un poco ristorato dallo stento, lo sciolse dalla mangiatoja, e lo trasse in una piccol’aja che era tra la casa e l’orto. Dopo avergli infilata la briglia, con un salto si trovò su, e così a bardosso cominciò a provare a farlo muovere in volta. La povera bestia trovandosi satolla, e non le era accaduto da un pezzo, avea ripreso spirito, e si maneggiava ancora meglio che il cavaliere non avrebbe pensato.
Questi saltò a terra molto contento e confortandosi che un migliore scotto per qualche giorno l’avrebbe finita di risuscitare, ritornò nella sua cella.
Per non perder tempo (chè ad ogni minuto si[61] sentiva crescer la smania) dispose d’uscir tosto per cercare ove potesse venir adoperato. Si rassettò i capelli e la barba, scosse la tonaca, e tiratosi in sugli occhi il cappuccio, si trovò presto sulla piazza S. Marco avviato verso il Renajo de’ Serristori (passato il ponte Rubaconte, ora detto alle Grazie) ove abitava il signor Malatesta Baglioni capitan generale de’ Fiorentini.
Il tempo ch’egli impiegherà per istrada non crediamo inutile (prima d’entrare in altro) impiegarlo a por sottocchio al lettore a qual termine si trovasse allora Firenze, ed a ricordargli le congiunture politiche, che ve l’avevan condotta.
Dai primi anni del secolo XVI l’Europa si trovava sconvolta.
Tre uomini ai quali era dato trarsi dietro la moltitudine coll’autorità del grado, colla potenza dell’armi, o con quella dell’ingegno, Carlo V, Francesco I e Martino Lutero, parve in quel tempo facessero a chi di loro poteva metter più sottosopra l’umanità.
I due primi divenuti nemici, dacchè cessarono di essere rivali nelle loro pretensioni alla corona Imperiale ottenuta da Carlo, mossero l’un contro l’altro, e durarono finchè vissero in un’alternativa continua di guerre lunghe, atroci, macchiate di frode e di crudeltà, e di brevi paci accordate vilmente, ed oltraggiosamente turbate.
Il terzo, povero frate Agostiniano armato di dottrina, d’ingegno, d’audacia ad ogni prova, potente[62] de’ mali umori che gli abusi della giurisdizione ecclesiastica avean generati tra popoli della Germania destò quell’incendio, che dovea consumare il cattolicismo nella metà dell’Europa.
L’ambizione, l’amore di gloria vana e avventurosa, ed il fanatismo di religione, che erano le passioni dominanti di questi tre uomini, divennero le passioni di tutti nel secolo XVI, al principiar del quale l’umana società entrò per una strada nuova, che dovea battere senza guardarsi indietro sino a tutto il XVIII.
I re che fin allora avean condotte a stento guerre brevi e locali coll’ajuto di vassalli mal domi obbligati a seguirli soltanto per un tempo limitato, trovarono danari aumentando le gravezze, per pagar soldati i quali non lasciavan mai le bandiere e stavano a posta del principe dove e quanto pareva a lui. Furono allora posti i fondamenti di quel sistema d’eserciti numerosi e stanziali, e di tasse sempre maggiori; sistema che uscito d’ogni termine ragionevole, partorì all’età nostra gravissime difficoltà.
La politica per tener dietro a questo nuovo stato, dove pel passato era quasi interamente circoscritta entro i limiti d’ogni nazione, si dilatò, e concepì il disegno di stabilire l’equilibrio Europeo, pel quale i governi venuti a potenza maggiore e più compatta si sostennero a vicenda sodando in certo modo gli uni per gli altri.
La religione fondata sin allora sull’autorità, fu scossa dalla dottrina dell’esame individuale, e la[63] fede rovinando si sminuzzò, se ci si concede l’espressione, in altrettante quanti erano i seguaci della riforma. Le forze di questa intromettendosi tra i monarchi rivali ora ne turbarono ora ne ajutarono i disegni, rendendo più complicate le loro gare cui dovettero prender parte più o meno tutti gli stati minori.
Narrare le tante vicende che ne seguirono, non fa per la nostra storia. Basterà toccare rapidamente quelle che ebbero più diretta influenza sui destini de’ Fiorentini.
Dopo il trattato di Madrid col quale Francesco I ricuperò la libertà, si conobbe tosto che le sventure ed i poco generosi trattamenti di Carlo V aveano spenta nel monarca francese quella lealtà cavalleresca che lo avea tante volte indotto a spinger la fiducia sino alla credulità, e la generosità sino all’imprudenza.
Non solo trovò il modo di coonestare il rifiuto di cedere la Borgogna secondo l’accordo, ma si fece capo d’una lega contro Carlo V, detta la lega Santa, cui s’accostarono i principali stati d’Italia che la smisurata potenza dell’Imperatore metteva in sospetto.
S’unirono il Duca Sforza, Clemente VII, ed i Fiorentini, i quali dovettero servire ai disegni d’un Papa di casa Medici padrona allora della città. Ma da una parte il Duca d’Urbino capitano dell’esercito della lega, ricordando le ingiurie sofferte da quella famiglia[8] non v’andò mai di buone gambe,[64] dall’altra il re Francesco, mirando solo ad ottener la libertà de’ suoi figli rimasti in Ispagna per istatichi, si valeva degli sforzi degl’Italiani per avvalorare le sue continue istanze presso la corte di Madrid, rovesciando su di essi tutto il peso della guerra.
I collegati s’avvidero presto della sua dubbia fede, e raffreddandosi pensarono ciascuno ai proprj interessi.
Il Papa cui i Colonnesi intesi con D. Ugo di Moncada vicerè di Napoli, avevano assaltato e costretto a rifuggirsi in Castel S. Angelo, conchiuse un accordo pel quale dovette essere il primo a staccarsi dalla lega, e richiamare le sue genti di Lombardia. Queste cose accadevano nel 1526.
Intanto Carlo V ingrossava in Italia. Le soldatesche calatevi con Giorgio di Fransperg s’erano unite a Borbone, e si movevano alla volta di Roma, il Papa preso allo zimbello d’una tregua conchiusa col vicerè credette poter esser sicuro, e licenziò il suo esercito. Ma i soldati di Borbone senza curarsi della tregua o d’altro, presero Roma e le dettero quel sacco memorando che narrammo nel II capitolo.
I Fiorentini allora tenendo Clemente VII per ispacciato, levarono il rumore e dopo aver cacciati, quasi sotto gli occhi dell’esercito della lega, il Cardinale di Cortona, ed Ippolito ed Alessandro de’ Medici, riformarono la città, e ripresero a reggersi a popolo.
Ma il nuovo stato avea poco saldi fondamenti.
Non faceva per Carlo V che i Fiorentini, costanti[65] da così lungo tempo nell’amicizia di Francia, rimanessero in libertà. Il papa voleva ad ogni costo veder prima di morire la sua famiglia stabilita nella Signoria di Firenze; ed i Veneziani, per quella politica creduta sottile dagli Stati italiani, finchè l’ebber poi vista partorire alla spicciolata la rovina di tutti, desideravano, e forse erano per ajutare copertamente lo strazio de’ Fiorentini. Il solo re Francesco avrebbe potuto e dovuto difenderli, ma presto s’avvidero (e molti se ne sono avveduti in appresso) che i Francesi sapeano mirabilmente trarre altri in impaccio per utile proprio, e lasciar poi che n’uscissero come potevano.
L’Imperatore volendo passar in Italia, e riordinarla a suo modo prima di pensar alle cose della Germania, conobbe aver bisogno che qualche principe italiano tenesse dalla sua. Il papa che da molto tempo faceva istanze per ottener pace venne scelto per alleato da Carlo, il quale desiderava cancellar gli oltraggi fatti soffrire dalle sue soldatesche al capo della chiesa.
Mentre si stavano lentamente discutendo i capitoli della pace generale fra Carlo, Francesco ed i loro alleati, l’Europa udì con sorpresa che il trattato di Barcellona avea terminate le differenze tra il papa e l’imperatore, il quale fra gli altri impegni aveva assunto quello di stabilire in Firenze il dominio de’ Medici[9].
Quest’infelice città vide addensarsi il nembo sospeso sul suo capo; e quando il re Francesco ebbe poco dopo firmata anch’esso la pace di Cambrai abbandonando, ad eterna sua vergogna, tutti i suoi alleati[10]; conobbero i Fiorentini che non dovean porre oramai speranza di salute che in Dio, nella giustizia della loro causa, ed in loro stessi.
Ma per potere usar le proprie forze avrebber dovuto esser tra loro d’un volere medesimo.
Invece, le parti de’ Piagnoni e de’ Palleschi[11] inconciliabili per odj vecchi, e per fresche ingiurie tenean divisa la città.
Quelli tra cittadini che eran saliti in riputazione, ed arricchitisi all’ombra della casa Medici, uomini la più parte di buon tempo, amanti de’ piaceri e dello sfarzo; ed anco molti tra i popolani e gli operai cui il largo spendere di quella famiglia facea far grossi guadagni, ne avean veduta con dolore la cacciata, eran presti ad afferrar l’occasione per farla ritornare, e la loro parte, nominandosi dallo stemma Mediceo (sei palle rosse in campo d’oro) era detta Pallesca. Costoro non si curavano[67] della libertà ed amavano meglio il viver lieto, e la licenza di costumi di che godevano sotto il reggimento de’ Medici.
I loro avversarj allievi, per dir così, di fra Girolamo Savonarola, e seguaci della sua stretta dottrina, professavano somma austerità di vita, orrore per gli spassi e pei divertimenti ancorchè leciti, e favorivano la democrazia nel senso più esteso. L’abito d’aver sempre alla bocca massime di morale e precetti d’austerità, e di deplorare continuamente le sfrenatezze del vivere mondano, fu cagione che venisser detti Piagnoni.
Se poi questo zelo per la religione e la libertà fosse sincero in ognuno, o se a molti servisse per mascherare disegni violenti ed ambiziosi, non assumeremo deciderlo. Poichè in ogni tempo i capi di parte hanno scritto sulla loro bandiera «Noi vogliamo religione, libertà, giustizia per tutti» e così hanno trovato chi li seguisse: che invece ad avervi scritto ciò che spesso era vero «Noi vogliamo religione che serva a noi, libertà a noi soli, e giustizia a modo nostro» non avrebber trovato; e quantunque una tal riflessione paja ovvia, gran parte de’ guai del mondo e accaduta appunto dal non averla avvertita.
Il contrasto tra queste due parti era però tutt’altro che palese. I Piagnoni tenevano la città, ed ai Palleschi pareva far molto a potervi stare nascondendo con ogni studio i loro pensieri: ed ottenevano a forza d’ipocrisia di non esser taglieggiati,[68] posti al tormento per ogni piccolo sospetto, e mandati al bargello, o al patibolo.
Ma per questa oppressione, crescendo in loro l’odio contro la parte nemica, supplirono alla forza coll’astuzia; e le pratiche segrete onde rimettere i Medici si mantennero sempre, e partorirono alla fine la rovina della repubblica.
Tra queste due opposte parti, come accade sempre ne’ tempi di rivoluzione, ve n’era poi una terza detta de’ Neutrali che avea desiderj più moderati. Quantunque anch’essa volesse il viver libero, avrebbe però inclinato a cercar accordo col papa, e veder se, ammettendo che i Medici tornassero come privati cittadini, si fosse potuto fuggir la guerra ed al tempo stesso salvar lo stato. Di questa setta detta anco degli Ottimati, perchè ad essa aderivano molti di costoro più ricchi e perciò più paurosi, era capo Niccolò Capponi. Essa, come vedremo, fu alla fine cagione della perdita della libertà.
Si sparse frattanto per tutta Italia la nuova essere Carlo V sbarcato a Genova con grande apparecchio: e se tutti ne rimasero commossi, i Fiorentini se ne sbigottirono più degli altri; ma ripreso animo a poco a poco pei conforti del gonfaloniere Carducci e di più altri cittadini della setta de’ Piagnoni tra quali erano principali Niccolò Guicciardini, Giovanni Battista Cei, Bernardo da Castiglione, Jacopo Gherardi e Luigi Soderini; risolsero far quelle provvisioni che potevan maggiori, ed infine voler morire piuttosto che perder la libertà.
La parte de’ Neutrali riuscì però a vincere il partito che fossero mandati ambasciatori a Cesare: vennero scelti Tommaso Soderini, Matteo Strozzi, Raffaello Girolami, Niccolò Capponi, i quali prestamente corsero a Genova.
La risposta dell’Imperatore, quantunque porta assai ammorevolmente, fu breve ed assoluta; poichè egli era fermo di voler soddisfare in tutto a Clemente VII. Le parole furono «Che si rendesse l’onore al Papa» la sostanza «Che Firenze divenisse roba di casa Medici.»
Il gran cancelliere poi usò cogli oratori modi e parole più rigide. Cavò fuori le solite pretensioni; Firenze esser feudo dell’imperio, ed i Fiorentini entrando in lega col re Francesco aver perduto e dritti e privilegi e libertà; esser ora grande umanità dell’Imperatore l’indursi a perdonar la loro perfidia ed ingratitudine al solo patto che rimettessero i Medici.
Gli ambasciatori risposero quattro parole a modo: «Firenze essere stata sempre libera e di sua ragione» e rotta la pratica partirono.
Lo svanire dell’ultime speranze d’evitar la guerra, invece d’abbatter l’animo de’ Fiorentini, lo sollevò. Con una generosità ed un ardore de’ quali ha pochi esempi la storia, e che meritavano miglior fortuna, risolsero difendersi fino agli estremi senza curarsi nè de’ tradimenti di Francia, nè dello sdegno di Clemente, nè dell’immane temerità di voler soli stare contro tutta la potenza di Carlo V.
È cosa che stringe il cuore, veder tanta moltitudine di cittadini, insieme colle donne e persin co’ fanciulli, risolver tutti con tanto ardire di volger il viso alla fortuna, affrontar con tanta prontezza d’animo i rischi d’una lotta cotanto impari, i disagi, la fame, le ferite, la morte, piuttosto che soffrire un’ingiustizia, e pensar poi a qual fine doveva riuscir tanta virtù.
Non sappiamo resistere al desiderio di far conoscere minutamente al lettore i modi che tennero per mandare ad effetto il generoso proposito, e ci teniamo sicuri ch’egli non ce ne sappia il malgrado.
Primieramente per partito vinto fu condotta divotamente in Firenze la Vergine Maria dell’Impruneta e la tavola di S. Maria Primerana di Fiesole che collocarono in S. Maria del Fiore nella cappella di S. Zanobi.
Poi soldarono molti capitani nuovi, massimamente di quelli delle bande nere[12], accrescendo le compagnie, onde fatta una rassegna generale si trovarono soltanto in Firenze, senza contare il contado, meglio di ottomila fanti pagati sotto sei colonnelli, e circa ottanta capitani, de’ quali ve n’erano diciassette Fiorentini.
In oltre i quattro quartieri ne’ quali si divideva Firenze, cioè S. Spirito, S. Croce, S. Giovanni e S. Maria Novella avean ciascuno quattro gonfaloni, sotto i quali era scritta la gioventù in modo che veniva a formare sedici bande di quattrocento in circa per banda, ognuna delle quali eleggeva[72] colle più fave nere capitano, luogotenente, banderajo, sergente, e capi squadra. Queste bande armate di picche, corsaletti ed archibusi, ben ordinate ed ottimamente in arnese, eran composte d’uomini tutti dai diciassette ai 40 anni. Dovean ragunarsi una volta al mese ognuna su una piazza del proprio quartiere, ove facevano evoluzioni, e tiravano al bersaglio cogli archibusi, ed esercitandosi così in tutti gli uffici della milizia giunsero ben presto a potere stare a paragone delle fanterie pagate. Di più, era istituito che ogni anno quattro di quei giovani facessero in una delle principali chiese un’orazione ciascheduno, che trattasse della libertà[13]. Non piacque a Dio che quest’istituzione avesse lunga vita.
Oltre questi, che eran tutti soldati a piede, Amico d’Arsoli e Jacopo Bichi sanese stavano a servigi del Comune co’ loro cavalli che in tutto non sommavano a quattrocento.
A D. Ercole d’Este primogenito del duca di Ferrara era destinato il comando della milizia pagata, come capitan generale de’ Fiorentini. I Dieci gli fecero significare dovesse mettersi in ordine per cavalcare, e gli furon al tempo stesso sborsati tremila cinquecento ducati, quali eran tenuti somministrargli a’ termini della condotta per soldar mille fanti di guardia alla sua persona. Ma il duca Alfonso malgrado la fede data, o dubitando del papa[73] o temendo inimicarsi l’Imperatore, trovò pretesti, e non volle nè mandare il figliuolo, nè restituire i danari.
Per questo tradimento dovettero i Fiorentini commettere il comando generale al sig. Malatesta Baglioni, figlio di Gio. Paolo, soldato della repubblica: gli mandarono a Perugia Bernardo da Verazzano oratore, che lo vezzeggiasse con tutte le maniere di carezze e d’onori, per mantenerlo in fede, onde non si lasciasse corrompere dal papa che era intento a ciò continuamente.
Malatesta accettò ed assunse il comando per disgrazia de’ Fiorentini.
Viene in mente alla prima il domandare perchè questi si fidassero tanto d’un uomo che per molti motivi dovevano aver in sospetto? Prima il tempo stringeva, e non era facile così subito trovar un altro che nelle cose della guerra valesse quanto Malatesta. Poi gli ordini della milizia in quel secolo eran talmente instabili, e la disciplina così corrotta, che i diversi capi delle bande che costituivan l’esercito non si sarebbero piegati mai ad ubbidire ad un loro eguale innalzato dalle sue virtù al comando supremo, e comportavano appena di star soggetti a chi poteva dirsi principe indipendente.
Acciocchè non mancassero i danari per pagare queste genti, vennero eletti sedici ufficiali detti di Banco, i quali tra tutti avessero a servire il Comune d’ottantamila fiorini. Fissandosi per loro utile a ragione di dodici per cento. Si creò un magistrato di[74] quattro cittadini il quale dovesse porre un accatto che non s’avesse a rendere; e nel tempo stesso fu ordinato che si restituissero i residui delle imposizioni passate. Si vendettero all’incanto tutti i beni di ciascuna delle ventun’arti, e quelli delle fraternità e compagnie così della città come del contado. Clemente VII, con suo breve aveva conceduto che questi beni ecclesiastici si potessero vendere quando in Firenze erano ancora i Medici, onde il danaro che se ne ricavasse fosse adoperato da questi per mantenersi nello stato. Non s’era fatto uso in allora di questa licenza, che fu messa ora a profitto in difesa della libertà.
Prima del 1526 le mura erano difese da innumerabili torri, che i Medici fecero abbattere per consiglio di Pietro Navarro. Ora Michelangelo Bonarroti, che avea bensì mostrato tentennare scostandosi da Firenze quand’era minacciata, ma poi tosto tornato in se vi s’era condotto per far il dovere di buon cittadino, diede opera di fortificare d’ogni parte le mura. Chiuse nel loro circuito il colle che sta fra Porta S. Niccolò e S. Miniato, circondandolo con un bastione, e mettendo in fortezza il convento, la chiesa, ed il campanile di S. Miniato. Condusse molti altri bastioni dove gli parean bisognare, coi loro fianchi e fosse, e bombardiere secondo insegnava l’arte in quel tempo.
La corteccia di fuori di tali bastioni era di mattoni crudi fatti di terra pesta mescolata col capecchio trito: di dentro era di terra e stipa molto bene stretta e pigiata.
Nel consiglio degli ottanta fu vinta una provvigione «che i borghi della città si dovessero incontanente tutti rovinare dai fondamenti, e tutti gli edificj d’intorno a un miglio, o piccoli o grandi, così sacri, come profani, che potessero recare o comodità alcuna a quei di fuori, o scomodità a quei di dentro si spianassero e mandassono a terra ecc.»
I padroni però furono scritti come creditori del valore riconosciuto secondo la stima.
I borghi erano in quel tempo quasi altrettante città, il contado pieno per tutto di case, di ville, di palazzi, con orti e giardini, più ricco e meglio ornato che paese del mondo. Non è possibile immaginare il danno che risultò sì al pubblico che ai privati da questa distruzione nella quale vi ebbero famiglie peggiorate più che di ventimila fiorini.
Ma i cittadini non guardando nè a danari nè a possessioni accolsero animosamente la provvisione ed uscendo a frotta giovani, vecchi, ricchi e poveri ed i padroni istessi andavano a questa o a quella villa, e non solo rovinavan le case, ma guastavan gli orti ed i giardini, le fontane, i vivaj ed abbattendo colle scuri gli alberi fruttiferi, o di bellezza, sbarbando viti, ulivi, cedri, melaranci, tornavano a Firenze con muli ed asini carichi di fascine che si adoperavano poi nell’innalzare i bastioni.
Gli edificj di maggior solidità si rovinavano con un istrumento fatto a guisa d’ariete: era una trave che retta orizzontalmente in bilico colle funi veniva[76] dimenata e spinta con grandissima forza da molti uomini, i quali battendo con essa a furore, inanimando l’un l’altro colle voci e colle grida mandavano a terra lunghi tratti di muro.
Il volgo dava a quest’ordigno un nome che non ci è lecito porre sott’occhio al lettore; in altro modo era detto Battitojo.
Accadde nel corso di queste devastazioni un fatto che mostra, quanto dagli uomini di quel secolo fossero tenute in pregio le arti.
Una turba di cittadini, soldati e contadini, avean gettato a terra con una di quelle macchine buona parte della chiesa e del convento di S. Salvi. Giunti colla rovina in luogo d’onde si scoperse loro il refettorio nel quale era dipinto il Cenacolo, opera di Andrea del Sarto, ad un tratto tutti quanti si fermarono quasi fossero loro cadute le braccia: nè bastando l’animo ad alcuno di metter le mani su quell’opera maravigliosa lasciarono in piedi quel pezzo di muro e la pittura rimase intera.
Il palazzo di Jacopo Salviati, la villa di Careggi di casa Medici vennero arsi da una brigata di giovani guidati da Dante e Lorenzo Da Castiglione, de’ più fieri nemici che avesse questa famiglia. A Castello ed a Poggio a Cajano per poco non toccava la stessa sorte.
Queste arsioni però non essendo fatte in servigio della città ma soltanto per isfogar l’odio contro i nemici, vennero biasimate dagli uomini gravi, ed il gonfaloniere Carduccio diede commissione onde ne[77] fossero castigati gli autori. Ma il tempo non comportava troppa severità contro tali insolenze, e la commissione non ebbe effetto.
Il principe d’Orange vicerè di Napoli aveva frattanto ricevuto l’ordine dall’Imperatore di mettere insieme le genti e muoverle contro lo stato fiorentino ad ogni richiesta del papa. Giunse il vicerè a Roma agli ultimi di luglio con cento cavalli e mille archibusieri, e s’alloggiò in Borgo nel palazzo Salviati.
Venuto a parlamento con S. S. vi fu molto che fare prima che si mettessero d’accordo.
Al papa, di natura stretto e sospettoso, parea fatica lo spendere e l’anticipar sussidj; il principe vicerè, persona altiera, non potea patire che si procedesse con tanta miseria in un’impresa così importante. Convennero finalmente nelle somme da sborsarsi dalla Camera Apostolica, ed il principe andò all’Aquila ove era rimasto l’esercito guidato da Gian d’Urbino, per farlo muovere verso Fuligno ove si dovea far la massa.
In questo tempo Roma commossa dagli apparecchi d’una tal guerra s’andava empiendo di genti d’arme. Spagnuoli, Tedeschi ed Italiani, soldati di ventura, s’arruolavano a torme tratti dalla cupidigia di saccheggiar Firenze. Si tenevano tanto sicuri del fatto (e seguitiamo a lodare il buon tempo antico!) che v’ebbe di quelli i quali essendo citati in giudizio, e dubitando per questo ritardo di non giungere in tempo, protestarono agli avversarj[78] loro pei danni ed interessi del non trovarsi al sacco di Firenze.
Il papa sentendosi offeso perchè la repubblica avea mandati ambasciatori all’Imperatore e non a lui, si mostrava tanto infiammato a volersi vendicare che non v’era chi ardisse tentar di placarlo. Due soli cittadini fiorentini, Jacopo Salviati e Roberto Pucci, gli parlarono a viso aperto, facendogli considerare a quanto rischio mettesse la sua patria, ed a quanta infamia esponesse se stesso.
Ma Clemente s’era fatto a credere che i Fiorentini fossero per piegarsi, prima d’esser ridotti agli estremi, nè si distolse punto dal suo proposito.
Per cura del principe d’Orange l’esercito si trovò presto riunito nelle pianure intorno a Fuligno, in numero di trentacinquemila fanti, e circa milledugento cavalli. Tra questi si trovavano i tedeschi condotti in Italia da Giorgio di Frondsberg, o per dir meglio quelli avanzati alla guerra, alla peste di Roma, ed alla fame di Napoli, soldati veterani, valentissimi.
I primi signori e condottieri d’Italia guidavano queste genti. Tra principali capitani si contavano D. Ferrante Gonzaga fratello del marchese di Mantova, Pier Luigi Farnese, Giovanni Battista Savello Marzio, Piero, Sciarra Colonna, il conte Pier Maria Rossi di S. Secondo di Parma, Alessandro Vitelli da Città di Castello, Braccio e Sforza Baglioni: più tardi sopravvenne il marchese del Vasto monsignor Ascalino Astigiano, e Giovanni da Sassatello,[79] il quale avendo preso soldo da’ Fiorentini pensò bene senza render loro i danari di condurre i suoi tremila soldati al campo d’Orange.
Fabrizio Maramaldo di nazione sardo senza esser nè condotto, nè chiamato a servir l’Imperatore, predava intanto e taglieggiava sul Sanese, e su quel di Volterra con tremila più malandrini che soldati.
Questo era il bell’ordine di guerreggiare che s’usava in quel tempo.
Perugia, Cortona, Arezzo caddero presto in mano degl’Imperiali che per il Val d’Arno di sopra scendevano senza grandi ostacoli verso Firenze.
I progressi del nemico avevano alquanto commosso gli animi di molti cittadini, e la parte de’ moderati riuscì a persuadere che si mandassero oratori al papa. Si condussero a lui con gran difficoltà essendo rotte le strade, chiusi i passi, e corso il contado da saccomanni.
La risposta di Clemente fu che «trattandosi dell’onor suo voleva che i Fiorentini si rimettessero in lui liberamente, e poi mostrerebbe a tutto il mondo, ch’egli era fiorentino anch’egli, ed amava la patria sua.»
Tosto che l’esito di questa legazione fu noto in Firenze, gli animi di tutti, deposto ogni pensiero d’accordo, si volsero a crescer le munizioni ed a rinforzar le difese.
I lavori delle mura che erano già molto innanzi si proseguirono con maggior alacrità, massimamente[80] quelli intorno al bastione di S. Miniato, ed il gonfaloniere in persona li sollecitava con incredibile diligenza.
Quando il sole era tramontato si continuava l’opera tutta la notte al lume de’ torchi.
Agli operai ed a marrajuoli s’univano i soldati, i giovani, le donne, i vecchi, i fanciulli, ingegnandosi ognuno d’ajutare fin dove giungevan le forze trasportando terra, sassi, fascine, mettendosi a gara ai servigi più vili e più faticosi con quella fiera allegrezza che si desta all’avvicinarsi di grandissimi pericoli, in chi sa d’incontrarli per la giustizia.
In breve le fortificazioni si trovarono condotte a termine d’essere inespugnabili per un esercito di quei tempi.
A misura che il pericolo s’avvicinava la parte de’ Piagnoni diveniva più rigida contro i Palleschi. Molti di questi delle prime case di Firenze s’erano fuggiti spaventati dai pericoli dell’assedio, o dalle persecuzioni de’ loro avversarj, i quali li accusavano ai magistrati, gli oltraggiavano per le piazze e per le vie, e spesso avean tentato di manometterli.
Dante da Castiglione, giovane feroce, ardentissimo, il Sorrignone, Cardinale Rucellai, Pietro Poldo dei Pazzi, Domenico Boni ed altri della setta nemica ai Medici, avean piena la città di queste loro insolenze e dicendo pugnare per la libertà, erano i primi a distruggerla.
Gli uomini savii che pur conoscevano quanto simili modi fosser contrarj al viver libero, ciò non ostante li comportavano per non parer freddi, e venivan così strascinati da questi più furibondi, a prender partiti violenti ed estremi.
A questo punto, per impedire che altri fuggisse dalla città, e far sì che i fuggiti ritornassero, tutti coloro che si trovavan fuori vennero citati per pubblico editto a doversi presentare al magistrato entro un tempo determinato. Quelli che non ubbidirono ebbero bando di ribelli, e vennero loro confiscati i beni. Alcuni però tornarono.
A Baccio Valori, commissario pel papa al campo d’Orange, come a traditore della patria, venne inoltre posta una taglia di mille fiorini a chi lo desse vivo, a chi lo desse morto di cinquecento. Di più, secondo un’antica legge contro i traditori della patria, venne sfregiata e sdrucita una lista della sua casa da capo a piede.
Al papa intanto venivano giungendo le nuove del campo d’ora in ora: udendo guastarsi tutto il contado con arsioni, ruberie e mille mali, forse glien increbbe, e fisso nella sua opinione che i Fiorentini fossero per diventar più manosi, ora che l’esercito si trovava nel cuore del loro stato, risolse innanzi che fosse diserto del tutto, mandare in Toscana l’arcivescovo di Capua. Gl’impose passasse per Firenze, che ancora si trovava aperta, sotto colore di portarsi presso il principe d’Orange, e vedesse così[82] di suo se vi fosse modo che senza spinger le cose più oltre i Fiorentini si volessero piegare.
Venne l’arcivescovo, alloggiò presso Agnolo della Casa, ma tosto si levò un rumore tra il popolo, ch’egli venisse per corrompere i capi della città.
Furon mandati dalla Signoria quattro cittadini per intendere il motivo della sua venuta: rispose che andando al campo era passato di Firenze per sua comodità. S’offeriva nell’istesso tempo d’intromettersi tra i cittadini e Sua Santità.
Quest’offerta non venne accettata, come s’era immaginato Clemente, e l’arcivescovo fu fatto accompagnare fuori della Porta S. Niccolò, sino alle prime scolte del campo.
S’accrebbero i sospetti contro i Palleschi nel governo e nell’universale per la venuta di costui, onde furono creati sei uomini i quali insieme col gonfaloniere dovessero dichiarare quelli tra i cittadini che tenessero per fautori de’ Medici, o per sospetti alla libertà dello stato.
Per questa legge molti vennero presi e sostenuti in palazzo, ove rimasero serrati a buona guardia quasi fino alla fine dell’assedio.
Tutti gli Spagnuoli che per cagione di mercanzia si trovavano in Firenze furono rinchiusi in una casa, ordinando chi li guardasse, e che provvedendo amorevolmente ai loro bisogni non li lasciasse però favellare con alcuno, nè scrivere se non quello che s’appartenesse alle loro faccende private.
A queste severità, cui servivan di scusa i casi[83] della città, se ne aggiunsero altre più crudeli e fuori d’ogni ragione.
Carlo Cocchi ebbe mozzo il capo per non altro che per essergli sfuggito di bocca «Firenze essere de’ Medici, e perciò essere dovere l’accettarli per signori senza aspettar la guerra.»
Altri sul dubbio che ordissero trame col papa furon posti al tormento; e pur troppo è assai verosimile che in questi casi restassero vittime molti od innocenti, od almeno meritevoli di minori pene; chè pur troppo un’ingiustizia suol generarne cento: ma questi modi ingiusti e violenti usati dai due partiti ogni volta che si trovavan giunti al potere, modi ch’essi pazzamente credevan mezzo sicuro onde mantenervisi, furono invece la vera cagione per la quale nessuno di essi non potè fermarvisi mai stabilmente, finchè la sorte di Firenze non venne irrevocabilmente fissata dall’armi straniere.
Comparve finalmente l’esercito, ed ai quattordici d’ottobre alloggiò nel piano di Ripoli intorno al monastero del Paradiso. Si narra, che i soldati spagnuoli quando giunsero all’Apparita, scoprendosi loro ad un tratto tutta la città di Firenze, gridarono con indicibile allegrezza brandendo le picche: «Senora Florencia apareja los brocados, que’ venimos a comprarlos a medida de picas!»[14].
Ai diciassette fu cominciata una trincea a Giramonte, ai ventiquattro il principe fermò il campo[84] sui colli che sorgono al mezzogiorno di Firenze dalla porta di S. Niccolò a quella di S. Friano, e la mattina dopo Malatesta Baglioni, per ordine dei Dieci di libertà e pace, si presentò a levata di sole sui bastioni di S. Miniato accompagnato dai capitani e dagli uffiziali dell’esercito, e seguito da tutti i suonatori della città, e dopo lunghe trombettate, battendo continuamente i tamburi, fece scaricare tutte le artiglierie grosse e minute, che erano un numero infinito, quasi salutasse i nemici, o li sfidasse a battaglia.
Il fragore di questo scoppio scosse la città e le mura, rimbombando ne’ poggi e nelle valli di Fiesole. I bastioni rimasero nascosti dal fumo per qualche minuto, ed i Fiorentini conobbero che quell’assedio tanto temuto era finalmente incominciato.
Questa dimostrazione fatta per seguire il costume militare del tempo, non produsse però effetto veruno.
Ne’ giorni seguenti le prime operazioni degli assediati si volsero contro il campanile di S. Miniato, su cui era un famoso bombardiere detto Gio. d’Antonio, e per soprannome Lupo, il quale con due sagri facea grandissimo danno al campo nemico. Il principe fe’ piantare quattro grossi cannoni sul bastione di Giramonte, i quali durarono a battere il campanile tre giorni continui.
Questi pezzi scaricarono due volte in un’ora, ed agli artiglieri del secolo XVI, pareva d’essere svelti. Le loro palle poi andavano ora a destra ora a sinistra,[85] or alte or basse, e se talvolta davano nel campanile lo danneggiavan poco per la troppa distanza e per essere solidissimo, e non facevano altro che scalcinarlo.
Nondimeno que’ di dentro affinchè (come s’esprime il Varchi) chi era venuto con tanta baldanza per prender tutto Firenze non prendesse nemmeno una delle sue torri, lo fecero armare con grosse balle di lana dalla parte che guarda i nemici. La cosa essendo venuta in gara, e volendosi da ognuno vincer la prova, una notte i Fiorentini bastionarono il campanile con un gran monte di terra, perchè gli imperiali dovettero restar dall’impresa.
Piantarono invece una colubrina e preser di mira il palazzo de’ Signori. Ma nello sparare, il pezzo si aperse e la palla cadde nella casa del manigoldo, onde messer Silvestro Aldobrandini ne prese occasione di far due sonetti, in ischerno del papa i quali incominciavano.
«Povero campanile sventurato»
e
«Vanne Baccio Valor dal Padre Santo»
In quei primi giorni di novembre si venne alle mani in molte piccole scaramuccie, che non partorirono effetto d’importanza. I giovani della città uscivano a fronte ogni giorno, per provarsi co’ nemici contro i quali avean concepito nuovo sdegno, per una cagione che dipinge al vivo i costumi di que’ tempi.
L’esercizio della milizia si considerava allora come un mestiere del quale non avea diritto d’impacciarsi chi non fosse scritto tra i soldati, ed arruolato secondo le regole. Questi si consideravano tra loro quasi membri d’un’istessa confraternitàa, tra i quali, benchè nemici, era patto d’osservar leggi e riguardi reciproci.
La conseguenza di questa usanza fu, che i soldati imperiali la più parte invecchiati nelle guerre, e matricolati, per dir così, nell’arte che professavano, guardavano con disprezzo i Fiorentini che usurpavano (così dicevan essi) il diritto di impugnar l’armi in difesa della loro patria, nè vollero acconsentir mai di far con loro a buona guerra, come cogli altri soldati, dicendo ch’essi non eran tali, ma erano gentiluomini.
Tra le pazzie della superbia umana, questa non sarà delle meno curiose.
La gioventù se l’ebbe tanto per male che trascorse a macchiarsi di molti atti crudeli: tra gli altri Vincenzo Aldobrandini, ed il Morticino degli Antinori avendo fatto prigioni due spagnuoli, in cambio di porre loro la taglia, li scannarono.
Le cose di Firenze si trovavano in questo stato il giorno in cui Fra Giorgio uscito dal convento di S. Marco camminava verso la casa di Malatesta Baglioni.
Il popolo di Firenze si trovava ottimamente ordinato per la difesa. Forti le mura, numerosa e ben instrutta la milizia, ben fornito il tesoro, abbondanti le vettovaglie, accesi gli animi d’amor di patria e d’ardire: ma egli s’allevava un serpe in seno, e questo serpe era Malatesta Baglioni.
I suoi maggiori erano stati capi de’ nobili e de’ ghibellini di Perugia, ove Gian Paolo suo padre s’era fatto signore verso la fine del secolo XV, e benchè due volte ne fosse stato cacciato, l’una da Cesare Borgia, l’altra da Giulio II, pure gli era di nuovo riuscito di stabilirvisi. Finalmente Leon X, volendo riunire Perugia agli stati della Chiesa, adescatolo con larghe promesse e con un salvocondotto, l’indusse a portarsi a Roma, ove in iscambio dell’accoglienza che gli si prometteva, fu preso, posto al tormento e decapitato.
L’odio che gli si portava dall’universale pe’ suoi delitti, fece che la voce pubblica assolvesse Leone della tradita fede.
I principj di Malatesta furono simili a quelli del padre.
Condottiere a’ servigi de’ Veneziani da prima, poi signore di Perugia, infine, come vedemmo, capitano de’ Fiorentini. Uomo di mente fredda, sagace, astutissimo; d’instancabile pertinacia ne’ suoi propositi, superbo, avaro, tenace nelle vendette, e sopra ogni altra cosa maestro di frodi e dell’arte di nasconderle e colorirle, persino allorquando avessero partorito l’effetto; prode ed ardito della persona, ed assai esperto capitano. Tipo insomma di que’ signorotti tirannelli che per secoli sorsero, caddero e ricomparvero in pressochè tutte le città italiane: ora principi ora condottieri a servigi di altri principi, o di repubbliche più potenti di loro, spesso capi di parte, di fuorusciti, o di masnadieri. Esperti d’ogni fortuna, ed in tutte animosi, insaziabili, irrequieti. Uomini che allevati tra domestiche infamie e risse cittadinesche, vissuti in vicenda continua di violenze e d’astuzie, finivano le più volte oppressi o traditi da nemici potenti e palesi, ovvero sotto il coltello de’ sicarj, o de’ loro più stretti congiunti. Onde in quell’età più che in ogni altra apparve vera la sentenza di Giovenale:
Ad generum Cereris sine cæde et vulnere pauci
Descendunt reges et sicca morte tyranni.
Non parrebbe che in cotesti ribaldi dovesse esser idea veruna di religione o di fede. Eppure, a loro modo, essi avean l’una e l’altra; tanto è vero che[89] Diogene nel definir l’uomo un bipede implume, avrebbe dovuto aggiungere «ed inconseguente.» Essi edificavan chiese, nutrivan frati, arricchivan santuarj; credevan in Dio, nel vangelo, nel papa, ed, avanti sempre coll’istessa logica, nelle streghe, nell’alchimia e nell’astrologia.
Malatesta anch’esso prestava cieca fede ad un astrologo ebreo detto maestro Barlaam, nativo d’Ungheria, il quale all’arte divinatoria univa molto sapere nella medicina, e molta pratica nel modo d’esercitarla.
Viveva costui a discrezione in casa il Baglioni, lo seguiva in tutte le sue imprese, e s’andava facendo ricco de’ suoi danari.
Non si può dir però che fossero tutti egualmente rubati, e ne guadagnava meritamente una parte colle cure continue che richiedevano le gravi infermità del suo padrone.
Quella malattia tremenda, colla quale l’America s’è così pienamente vendicata dell’Europa, e che nel secolo XVI raro o non mai si guariva, andava consumando lentamente Malatesta. Egli aveva sortita dalla natura una complessione robusta colla quale potè sostener le fatiche e i disagi della milizia, finchè le conseguenze della dissolutezza non ebber distrutta in lui la salute e le forze. Dapprima egli era largo di spalle e di petto, di volto vegeto e brunetto, con barba e capelli neri, corti e ricciuti; insomma era il vigore in persona.
In quale stato l’avessero ora ridotto i suoi malanni, lo vedremo tra poco.
Il palazzo Serristori, ov’egli alloggiava, era, com’è al presente (benchè al tutto mutato) in fondo alla piazza presso il Ponte alle Grazie. La parte di dietro guardava sul canale delle mulina e sull’Arno.
L’istessa mattina dalla quale ha preso le mosse la nostra storia, un’ora innanzi l’alba tutto il palazzo era cheto, il portone chiuso ed il solo sportello rabbattuto, al quale era di guardia un soldato, coperto di ferro le braccia, il capo e ’l busto, coi larghissimi calzoni del cinquecento, a striscie rosse e nere, e colle calze a liste de’ colori medesimi.
Teneva in ispalla una lunga partigiana, e passeggiava sollecito sotto l’androne dell’entrata battendo i piedi per riscaldarsi.
Gli uomini di guardia, avvolti ne’ mantelli, russavano in un angolo sdrajati sulla paglia presso un mucchio di cenere e di carboni spenti, avanzo del fuoco che s’era fatto durante la notte.
Al primo piano tutti parimenti dormivano. Il solo Malatesta era già desto da un pezzo. Stava a sedere su un letto in forma di rettangolo, di legno nero lavorato di tarsia; le facce divise in compartimenti, e su ognuno di questi era rappresentata una storia di mitologia in basso rilievo. Le cornici che chiudevano queste istorie, presentavano un curioso e complicato intreccio di fogliami, di figure d’animali, di mascherine e d’ogni qualità d’arabeschi. Il letto sorgeva su una predella che correva intorno alta un palmo dal pavimento.
Accanto al letto sopra una tavoletta tonda retta da una figura d’atlante tutta curva e scontorta, ardeva una lucerna d’argento: attorno a quella erano gettati in disordine un bellissimo pugnale co’ suoi cordoni a fiocchi per appiccarlo, anelli e collane, un reliquiario ed un giojello di forma così strana, che riusciva difficile indovinarne l’uso. Era una gemma tonda e schiacciata come una moneta del color del balascio legata in un filetto d’acciajo. Per una punta parimenti d’acciajo innestata nella legatura rimaneva sospesa per virtù d’attrazione ad un ago calamitato, che stava fisso nella parte superiore d’un cerchio entro il quale rimaneva in bilico la gemma. Il cerchio stava fisso su un piccolo piedestallo di legno nero: il tutto poi segnato di lettere e di segni cabalistici.
La camera era parata di cuojo rosso rabescato in oro: quadri alle pareti, seggioloni a bracciuoli all’intorno pure di cuojo, pieni di borchie e di frangie. Due grossi mastini russavano accovacciati in un angolo.
L’aspetto di Malatesta era quello d’un morto dissotterrato. Cavi gli occhi e le guance: la pelle d’un livido piombino: la barba e i capelli così folti un tempo, radi adesso e malfermi che per nulla si schiantavano e cadevano. Aveva infilato sulla camicia un giubbone di sciamito rosato, che rimaneva aperto d’avanti, e lasciava vedere un petto scarno, ove si sarebber potute numerare le costole. Eran queste coperte dalla sola pelle, che tra l’una[92] e l’altra s’avvallava in solchi profondi. Umori densi e viziati fermandosi alle giunture vi s’erano rappresi ed induriti in modo che ne imprigionavan i moti, e rendevano le braccia in ispecie pressochè attratte.
Stava sorbendo lentamente un gran bicchiere di decotto che avea tolto dalla tavola vicina, e guardava con un ghigno sardonico un Frate che gli sedeva dirimpetto a due passi dal letto.
Questi vestiva l’abito di S. Francesco. Il cappuccio gli nascondeva il viso e gli occhi in modo che non appariva altro se non un po’ di naso, e due guance vermiglie e ben nutrite. La barba che era bianca e grandissima copriva bocca e mento, e veniva terminando diradata al cordiglio.
Stava a capo basso, tenendosi con una mano il mento, gonfio il petto di sospiri, ed al vedere, tutto assorto in pensieri che lo turbavano fieramente.
Mormorava sotto voce:
—Sarebbe troppo una vil cosa! non sarebbe mai possibile... non me la sento...—e seguitava a tener gli occhi a terra, chè se gli avesse alzati in viso a Malatesta, ed avesse veduto quel riso diabolico credo si sarebbe cacciato a fuggire. Buon per lui se così avesse fatto.
Disse alla fine il Baglioni con un fare di scherno, e tutto pace al tempo stesso:
—Non se ne parli più.... Non mancherà ai signori Medici chi voglia far loro questo poco di servigio senza tanti lezj e tante fanciullaggini....[93] Lo sai, eh? che vi son fanciulli di dieci, di venti.... di cinquanta.... insino di settant’anni?—Messer Baccio Valori che fa sì gran capitale di te pare che non lo sappia però.... Va, va, non mancherà chi voglia corre la palla al balzo, se tu non vuoi. E quando sul portone di palagio staranno le palle vi sarà qualcuno che sguazzerà in casa i Medici, ed attenderà a darsi buon tempo, e verrà portato a cielo, e non gli mancheranno nè cavalli (Malatesta parlava adagio pronunciando spiccata ognuna di queste parole) nè cani.... nè cornacchie..... nè vesti.... nè oro.... nè balli.... nè commedie... e se punto punto, alcuno gli darà noja, e’ si potrà cavare di strane voglie: e tu lo vedrai e dirai Ov’è costui potevo esser io.... Ti so dire che ti parrà un bel diletto.—
Il Frate soffiava, il petto gli s’alzava pe’ sospiri, ma pur taceva.
—Vero è, proseguiva Malatesta, che queste cose e’ sarà pel tuo migliore il non vederle e metterti Firenze dietro le spalle. Ai signori Medici non dovrebbe andar troppo a sangue che un uomo il quale ne ha saputo tanto de’ fatti loro, e non gli ha voluti servire, abbia a sentire ancora il sapor del pane.—
In questo punto l’oriuolo della torre di Palagio suonò le dieci ore[15].
—Tra un’ora è giorno. Vatti con Dio. Ma tieni[94] a mente, se il diavolo ti tentasse, d’impacciarti più di cose di Stato, che e’ conviene esser uomo e non fanciullo a mettersi a codesta bisogna; e ricordati poi sempre che questa (si toccò la lingua colla punta dell’indice) talvolta fa cadere il capo.... e se trapelasse nulla di ciò che è stato detto tra noi... que’ due mastini so che non avran parlato, onde saprò con chi me l’avrò a pigliare....—
—Un tradimento a quel modo!—diceva il Frate parlando con se stesso.
—Un tradimento! ripetè due volte Malatesta col suo solito riso, sta a vedere che converrà andar dagli Otto e dir loro Sappiate che vi vogliamo torre lo Stato per darlo a’ Medici, onde fate buona guardia... E’ mi pare che abbi il cervello sopra la berretta!...
—Ma quello sventurato vecchio.... la figlia, la famiglia!....—
—Oh? son eglino de’ Bardi, degli Strozzi, dei Frescobaldi?.... E’ pare che sia qualche gran casa, che s’abbiano ad aver tanti rispetti! Pajonti questi, pensieri di gentiluomo par tuo? quando si tratta di sì grandi cose, che principi e signori vi metton la vita, e tu mi stai a mercantare un lavoratore di seta, come se fosse de’ reali di Francia?—
Il Frate s’alzò ad un tratto come se una molla l’avesse spinto su dal seggiolone. S’accostò al letto, prese la mano a Malatesta, gliela strinse, e disse con voce rabbiosa:
—Farò tutto... che sia maladetta l’ora in cui nacqui al mondo!—
Malatesta rise di quella furia: e ritratta a se la mano, con un certo chè di sprezzo soggiunse:
—Oh! oh! Hai mutato pensiero? Gli scrupoli son passati?... Quanti minuti durerà questa risoluzione?—
—Durerà anche troppo pel mio malanno. E se romperò il collo in questa impresa, e’ mi starà molto bene.—
—Ora ascoltami, disse Malatesta mutando voce e modi ad un tratto. Quanto a questo chi non vuol porsi a rischio nessuno, ha a rimanere nel carruccio del babbo. Ma chi vuol uscirne e diventar uomo da qualcosa e non consumar la vita sua vilmente a innaspar lana, o a cimar panni, e’ convien commettersi alla fortuna. Credi tu che i Medici ti vorranno far grande e ricco, perchè quand’era tempo d’operare tu invece stavi a grattarti il corpo? A te sta la scelta. Ben sai che codesta casa ha sempre rimeritato i servigi da quella casa ch’ella è, come ha fatto le vendette a misura di carbone. E se i suoi vecchi non avessero avuto altr’animo di quello che tu hai, l’impresa delle Palle starebbe ora appiccata sulla porta d’un fondaco, e non su pei palagi e per le fortezze... Il mondo è di chi se lo piglia e non di chi si ravvolge tra tanti scrupoli e tante paure.—
—Orsù, sarà fatto... Se pure si presenterà l’occasione... chè così alla prima non vedo strada.—
—Oh pensa se Niccolò non avrà caro di veder la Lisa maritata ad un par tuo.—
—Niccolò? Ma lo sapete voi chi è Niccolò? La scannerebbe colle sue mani proprie prima di darla ad altri che a un Popolano... A me poi?... a uno di parte Pallesca? Si vede bene che la Vostra Magnificenza non lo conosce.... Se Niccolò sapesse come sta la cosa.... chi sa.... ma chi sarebbe tanto ardito di dirgliene?—
—Io t’ho inteso, rispose Malatesta, bisogna pensarci: ma intanto vatti con Dio, chè non vorrei ti si facesse giorno per istrada. Dirai a messer Baccio ch’io me gli raccomando.—
Il Frate, aperta una porticella che era nascosta sotto un panno d’arazzo, se n’andò.
—Anche questa la s’avvia bene—disse Malatesta quando si trovò solo: e si stropicciò insieme le mani come soleva fare quand’era contento. Ma quel moto gli fe’ provare certe trafitture di dolore che lo costrinsero a fermarsi: gli sfuggì un ahi! si morse il labbro inferiore, e bestemmiò i suoi malanni.
Chiamò ad alta voce due volte:
—Barlaam!—
Comparì un vecchietto impresciuttito, col viso pieno di tante grinze che pareva formato di matasse di spago: naso profilato ed adunco, due occhietti come grani di pepe, ed una bocca sempre ridente; ma di quel riso che non essendo accompagnato da alcuna letizia nel resto del volto, pare piuttosto uno stiramento convulso delle labbra.
—Io credo, disse Malatesta, che la metà di tutto[97] il maladetto legno[16] che m’hai fatto ingozzare da un mese in qua, e’ sarebbe bastato a bruciarti vivo.... e sa Iddio s’io ne sarei stato peggio!—
—La V. M., rispose il vecchio senza turbarsi punto, avrebbe ora un buono e fedel servidore di meno.—
—Ma non lo sai, nemico di Dio, che non ho un’ora di bene in tutta la notte? Che mi pare mi buchin cogli aghi le midolle dell’ossa? Ci vuol tanto a trovar un’erba, una polvere, un diavolo che mi faccia dormire un’ora? Alla fediddio, ch’io non darò sempre le spese a chi mi strazia.—
—Io troverò questa state il celidonio, pietra che nasce nel ventre della rondine, e la V. M. legherà questa pietra in un pannolino, e la cucirà alla camicia sotto la poppa manca, che tocchi la pelle..... oppure s’io potessi andare insino in Dalmalzia, v’è un monte....—
—E’ sarebbe meglio andassi insino all’inferno... ho paura che vi sarei prima di te.... Io t’ho inteso... Orsù, levamiti d’innanzi, e chiama messer Benedetto, e fa presto.—
Il vecchio uscì.
Messer Benedetto de’ Nobili, dottor di legge, grande amico de’ Medici, si trovava spesso con Malatesta onde conferire degl’interessi della parte Pallesca. Veniva a lui di notte ponendo ogni cura[98] affinchè quelle visite non si risapessero in palagio ove in quel tempo non si scherzava.
Era messer Benedetto un vecchione di bella e grave presenza, uomo del resto di natura vile e malefica: ingordo, simulatore, ingegnoso in trovar cavilli e grandissimo ipocrita. Egli solo tra Palleschi aveva comunicazione col Baglioni; e questo riguardo era necessario affinchè il capitan generale non venisse in sospetto al popolo, la qual cosa avrebbe rovinato affatto le speranze del partito mediceo.
Mentre il Frate e Malatesta tenevano insieme i discorsi che abbiam riferiti, messer Benedetto stava aspettando in una camera poco lontana. Dirà taluno: Non poteva egli trovarsi presente al trattato ed ajutarlo?
Malatesta avea per costume, le cose che si posson dire a quattr’occhi non dirle a sei. Entrò messer Benedetto: avea indosso il lucco, in capo il cappuccio. S’adagiò sul seggiolone ov’era stato il Frate, e disse:
—E così?—
—E così le cose camminan bene, rispose il Baglioni; ecco qua una lettera di messer Baccio.—
Cavò di sotto il capezzale una letterina che il Frate avea portata cucita in un lembo dell’abito. Era in cifra.
—Una ne fa, cento ne pensa costui,—disse Malatesta ghignando.
Aprì il foglio, e lette le prime linee con quel[99] mormorìo inintelligibile che serve per trapassare le cose inutili e giungere alle importanti, seguì:
«Jer mattina parlando con Troilo degli Ardinghelli, delle belle donne di Firenze, mi venne a raccontare d’una certa fanciulla ch’egli aveva vagheggiata e sposata segretamente (il modo ve lo dirà egli) figlia di Niccolò de’ Lapi. Io tosto feci disegno sopra Troilo, che è il meglio costumato, il più sollazzevole ed ingegnoso giovane di Firenze, e credetti bene di mandarvelo. Se gli vien fatto di mettersi in casa di Niccolò, e farsi accettar per genero, e mostrarsi de’ loro, egli sa così ben fare, che potrà saper ogni cosa, servirci maravigliosamente durante l’assedio, e dopo, far che questi Piagnoni abbiano a pianger daddovero. Io non mi sono voluto aprire interamente al giovane, perocchè avendogli dato qualche cenno così alla lontana, mi parve e’ nicchiasse. Ma egli è povero gentiluomo, ed ama lo spendere e vivere da principe; egli è uso in corte tra signori, e non può patire d’aversi tutto dì a ’nzaccherar gli usatti nel fango di questo campo. Non sarà cosa ch’egli non voglia fare per venire in grado a’ signori Medici, ed essere adoperato da loro. Io ho detto alla V. M. più che non bisogna, ed essendo la medesima di quell’autorità e di quella prudenza ch’ella è, potrà molto facilmente voltarlo ec. ec. ec.»
—E’ non l’ha pensata male il ribaldone. Eh?—
—Anzi ottimamente. Tutto sta che riesca...[100] Oh lo conosco bene questo giovane, di veduta però, e sono di S. Gimignano gli antichi suoi... Me lo ricordo quando giocavano alla Chintana, innanzi il portone del palazzo Medici... (avea un cavallo turco che andava come un razzo)... e poneva nel saracino con tanta bella grazia che mai più. Bello come un sole poi. Oh! suo padre era tutto cosa del Magn: Giuliano, onde il figlio se non traligna ha ad esser Pallesco insino al cuore...... Ma come domin gli è venuto fatto cacciarsi in casa di quel serpentaccio di Niccolò?—
—Ora ve lo dico, messer Benedetto, e non l’andiamo allungando tanto che si faccia dì chiaro, e v’abbiano a veder uscir di qua.... Troilo dunque vide questa figliuola di Niccolò, che ha nome Lisa, ad una festa delle potenze, prima che i Medici se n’andassero—Scoprì chi ell’era, rintracciò la casa, e tanto seppe fare e dire, che la fanciulla s’innamorò di lui. Ma in Firenze non ci fu mai conclusione di trovarsi insieme—Niccolò andò colla famiglia ad un podere ch’egli ha presso il Poggio a Cajano. Troilo, che era al Poggio coi signori Alessandro ed Ippolito, non potendo per nulla voltar la Lisa alla sua volontà—chè la fanciulla avea messo il piede al muro di voler essere sposata—Troilo, dico, fece motto a’ sig. Medici, dolendosi d’esser uccellato, e, come accade tra giovani, posta la cosa in riso, e venuti in gara di vincer questa prova, si disposero di far alla figlia ed a Niccolò insieme la più nuova, la più piacevol[101] beffa che voi udissi mai. Troilo diede a credere alla Lisa com’era contento torla per donna, ma, sotto colore di temer che Niccolò non fosse mai per acconsentire ad un tal parentado, se non isforzato dalla necessità, disse conveniva far la cosa segretamente. La Lisa benchè a malincuore pur vi si piegò.—Ordinarono ch’ella dovesse trovarsi una mattina per tempo ad una pieve discosta un miglio dal Poggio,—fecero in modo che il pievano non fosse in casa—Colà un tal Michele, palafreniere di Troilo, si vestì coll’abito del prete, in rocchetto e stola....
A Malatesta crescevan le risa a mano a mano che veniva narrando questo vituperoso fatto, parendogli la più gentil burla del mondo....
—E fece lo sposalizio, con tutte le cerimonie che gli erano state insegnate... He’, he’, he’,... che pazzi! che pazzi!... E’ sarà stato un bel fare.... chi sapeva la cosa... non iscoppiare! he’, he’, he’.... La Lisa fu contenta e gabbata... ed i signori Medici ne fecero maravigliosa festa, e n’ebbero a ridere per più dì... He’, he’, he’....—
Messer Benedetto, malvagio per natura, nemico poi di Niccolò per motivi che vedremo in appresso, rideva anch’esso d’un riso a scosse che gli faceva saltellare il ventre, come fosse andato a cavallo di trotto. Però quando udì che in quest’inganno entravano cose di chiesa, s’andava scontorcendo, diceva di no colla testa, ma pur veniva facendo qualche sogghigno sotto i baffi.
Qui non avrebbe avuto bisogno di far l’ipocrita,[102] ma chi n’ha contratto l’abito finisce col farlo senza accorgersene.
—Oh.... oh... disse finalmente con un certo suo viso malinconico, questa poi... è un po’ grossa!... Una profanazione!... In taverna co’ furfanti, dice il proverbio, ma lascia stare i santi.—
Malatesta volse l’occhio in giro per la camera com’avesse cercato scoprire se v’era nessuno: poi volto al dottore disse:
Messer Benedetto, qui siamo soli sapete! Dunque non mi venite a far il Piagnone... Con me è fiato sprecato. Ci conosciamo. Se il diavolo n’avesse a portar uno di noi e’ si troverebbe impacciato a conoscere il più tristo. Quando sarete in piazza fate del Fra Girolamo quanto volete, ma qui, carte in tavola.—
Messer Benedetto sentendosi trafiggere disse in cuore «Mi sta bene» ma tacque.
—Insomma, proseguì Malatesta, Niccolò non seppe mai nulla di questo matrimonio. Dopo non so che tempo la Lisa partorì un figliuolo e coll’ajuto d’una sua sorella, che venne posta a parte del segreto, quando all’altra cominciò a crescer il corpo, la cosa succedette tanto copertamente che nessuno della casa se n’avvide.—Troilo in tanto per la guerra che s’aspettava, se n’era ito onde unirsi a’ Palleschi: e non ha pensato più nè alla Lisa nè a Niccolò, nè a cotali sollazzi. Il fanciullo, dic’egli, debb’esser in qualche casa di Firenze, ma non sa dove. Ora e’ bisogna trovarlo e far che Niccolò sappia[103] tutto. Piagnone, o non Piagnone, e’ converrà bene che sia contento d’aver Troilo per genero, anzichè veder vituperata la figliuola.—
—E Troilo è egli disposto di mettersi in questo gineprajo?—
—E’ non voleva, e mi faceva il fanciullo, ma io l’ho svilito molto, e gli ho fatto intendere che queste coscenze e queste fedi son cose da morir di fame.... Eh! vi so dir io che si farà un valentuomo. I gattini al dì d’oggi, aprono gli occhi per tempo.—Ora dunque sono da fare due cose.... e voi come fiorentino, pratico della terra, potrete di leggieri.... onde tocca a voi.... Ecco: La prima sapere chi tiene il fanciullo ed in qual casa egli stia. La seconda far che Niccolò sappia ogni cosa.... oppure.... che so io?.... si potrebb’anco far che gli portassero il fanciullo in casa, all’impensata,... insomma pensatevi voi. O egli vorrà coprir la cosa ed avrà di grazia accettar Troilo; o nasceranno scandali, farà un diavoleto del trentamila, dirà una villania da cani alla figlia, le darà, la caccerà di casa, ed allora la Lisa dovrà volgersi a Troilo, e quando al vecchio si sia freddato il primo furore, l’avrà a mangiare a modo nostro s’egli crepasse.—
—Bene, bene, tutte cose non molto difficili; lasciatene la cura a me.—
—Ora andatevene per amor di Dio, che a momenti dovrebbero sonar dodici ore (le 7). Animo, e prudenza. Dio v’ajuti.—
I due ribaldi si separarono.
Il dottore per certi bugigattoli riuscì in istrada. Malatesta rimase co’ suoi dolori, e forse col piacere d’averne preparati di peggio a tanti sventurati.
La sala ove Malatesta avea costume di tener consiglio, ed accogliere chi veniva a visitarlo, che noi diremmo sala di ricevimento, era un gran stanzone verso strada, ornato di pitture a fresco del Francia e di Pietro Perugino: riceveva la luce da sei finestre, e sotto il parapetto d’ognuna sorgean di qua e di là due sedili di mattoni coperti d’una lastra di marmo; nel mezzo della parete in fondo era una specie di zoccolo, o basamento di legno nel quale stava fitta la bandiera di Malatesta, di qua e di là v’eran disposte a guisa di trofei molte sue armature, mirabili soprattutto per la tempra, e per la leggerezza, qualità necessaria onde le potesse indossare un uomo cotanto indebolito dalle infermità.
Era l’uso che ogni mattina a levata di sole i capitani di guardia alle porte della città mandassero a Malatesta uno de’ loro ufficiali, a riferirgli se vi fosse stato nulla di nuovo durante la notte, e ad intender gli ordini per la giornata. A quest’ora[106] si trovavan costoro già tutti radunati nell’anticamera, e come appunto in quel frattempo eran cominciati gli spari dell’artiglieria del campo, s’eran affacciati alle finestre che guardano verso Ponte alle Grazie ragionando tra loro di questi rumori.
Non dubitando che, se vi fosse nulla di grave dovesse tosto giungere un qualche messo a darne l’avviso, badavano attenti ora dalla parte di S. Niccolò, ora dal Ponte se ne comparisse alcuno. Ma in tutta la piazza per quanto potea correr l’occhio, non v’era anima viva: pioveva, e fra il tempo, la solitudine, il gusto di far anticamera, e quel brontolamento cupo e lontano delle artiglierie era di quelle mezz’ore che mettono l’uggia addosso ad ognuno.
A un tratto ecco sboccare dal Ponte alle Grazie un frate di S. Marco che a vedere come menava la gamba per la melletta, si dovea dire che la tonaca poco gli desse impaccio.
I soldati di tutti i tempi e di tutte le nazioni (almeno così crediamo) hanno avuto sempre una decisa vocazione per dar la baja e farsi beffe del prossimo. Tra loro un frizzo costa alle volte una buona stoccata, perciò prima di parlare ci pensano; ma se incappano in uno che non sappia e non voglia rispondere agli scherzi cogli stocchi, allora lascia far a loro.... Tanto poco è vero che l’uomo sia per natura animale generoso.
Visto adunque appena quel benedetto Frate, tutti a ridere e schiamazzare.
—Ecco la nuova!—Ecco il corriere. Ecco il corriere della scomunica!—E il Frate avanti. Quando poi fu sotto alle finestre e che invece d’andar al suo viaggio infilò il portone, crebber le risa e l’allegrezza, e di più pensarono, per far ora intanto che Malatesta ci fa aspettare, e per passar la seccaggine, ci sollazzeremo a dar la baja a questo frate. Ma il frate poteva star alla barba a tutti loro poichè egli era il nostro amico Fanfulla.
Entrato in cortile, e veduto ragazzi di stalla che strigliavan cavalli sotto il portico, soldati di qua, archibusi e picche di là, e respirando quell’atmosfera soldatesca s’era sentito come ad allargare il cuore. Qualche risata alle sue spalle s’era bensì potuta notare, e qualche piacevolezza sulla sua tonaca gli era pur giunta all’orecchio: ma in quel momento, contento com’era e pieno del suo disegno, non si sarebbe volto se gli fosse scoppiata una mina alle spalle. S’aggiunga poi che, strada facendo, non aveva perduto il tempo, ed era venuto combinando un pezzo d’eloquenza, col quale potesse farsi onore, e degnamente esporre la sua domanda al capitano de’ Fiorentini; e questo lavorìo gli teneva troppo occupata la mente perchè potesse curarsi d’altro.
Giacchè siamo su questo discorso, faremo sapere al lettore che Fanfulla era sottoposto anch’esso a quella fatalità che sembra portar tutti gli uomini da qualcosa a pretender poco nell’arte che sanno e molto in quella che non sanno. Ed egli appunto che era buon soldato, pretendeva invece d’esser bel[108] parlatore, soltanto perchè durante la vita fratesca a furia d’udir sermoni, di leggere libri d’ogni materia, conversar coi frati, e con quanti capitavano in convento, s’era mobiliata la memoria di qualche centinajo di frasi, di sentenze, di periodi bell’e fatti; ma mobiliata, s’intende, come può esserlo una bottega d’uno stipettajo o d’un rigattiere.
Salì le scale, entrò nell’anticamera salutando la brigata ed accostandosi all’usciere gli disse:
—In grazia, quando si possa, vorrei dire due parole a S. Mag.—
—Il vostro nome?—
—Fra Giorgio da Lodi di S. Marco.—
—Aspettate. Ma vi so dir che ci sarà tempo... vedete quanta gente è in anticamera.—
Fanfulla senza risponder altro si mise a sedere accanto ad una tavola, e v’appoggiò un braccio, distese le gambe, e dimenando piano piano la punta de’ piedi col mento all’aria, senza guardar in faccia a nessuno, rimase tutto assorto nel pensiero della sua arringa. Non era malcontento tutt’insieme del modo col quale l’aveva combinata, ma avrebbe ancora voluto farvi entrare qualche parte di filosofia, come scrive di aver fatto il Cellini, quando parlava con Paolo III, del modo di tingere un diamante: ognuno s’avvede quanto in ambedue i casi la filosofia venisse a proposito; e tanto più quella di Fanfulla che consisteva in qualche idea di fisica, vera o falsa non importa, ed in qualche sogno d’astrologia.
Mentre egli durava questa fatica, gli ufficiali che[109] eran prima affacciati, avevan volte le reni alle finestre, squadrato ben bene il Frate, e trovandolo d’altra faccia e d’altri modi che non s’aspettavano, si guardavano in viso l’un l’altro.
—Che te ne pare? diceva uno, di quella faccia di servo di Dio? non istarebbe male sul collo d’un birro.—
—Diavolo! diceva un’altro, senz’un’occhio!... un taglio in faccia! bisogna dire che quand’hanno a creare il priore, si dilettino a far volar le scodelle, questi reverendi.—
—E’ si sarà azzuffatto colla gatta in refettorio....—-
—O sarà cascato per la scala di cantina.—
—O avrà creduto che qualche marito volesse chiudere un occhio, ed il marito invece l’avrà fatto serrare a lui.—
E nel dir codeste pazzie, con molto sghignazzare, tutti avean gli occhi addosso a Fanfulla.
Questi dapprincipio non badava loro nè punto nè poco, come colui che aveva un pensiero importante pel capo che l’occupava, e che non essendo mai stato uso a sentirsi uccellare, non s’immaginava vi potesse essere chi si prendesse tanta sicurtà con esso lui. Pure alla fine messosi in sospetto e dato retta un momento conobbe che l’avean proprio colla persona sua: girando l’occhio vide non esservi altro frate in anticamera; sentì quel certo moto del pericardio che si prova quando salta la stizza; ma fresco ancora del sermone di Fra Benedetto,[110] e dei propositi formali di non tornare alle usanze antiche, disse in cuor suo, soffiando pure un poco, e raccogliendo le gambe sotto la tonaca:
—Animo, Fanfulla, non ricominciar da capo colle tue!....—
Ed abbassati gli occhi s’ingegnò di prender un’aria modesta, che stava bene a quel suo viso, come starebbero bene due baffi da granatiere sul volto d’una Madonna di Raffaele.
Ma la beffa, il ridere, e le parole di scherno seguitavano: in tutta la persona di Fanfulla non appariva altra dimostrazione di ciò che provava nel suo interno, fuorchè un dimenar frequente delle ginocchia che andavano in su e in giù col moto di un asinello che trotti: ma dentro il sangue gli faceva come l’acqua d’una pentola che stia per levare il bollore.
Sul suo capo stava fisso nel muro alto cinque braccia da terra un di quegli oriuoli che si fanno movere coi contrappesi, e questi penzolavano appunto a quattro dita dal naso di Fanfulla, che li vagheggiava, come uno scolare vagheggia un grappolo d’uva al quale non può aggiungere, e diceva tra i denti:
—Guardate se non pare che mi vengano sotto mano per dispetto, e per uccellarmi anch’essi, ora che sanno che fo il santo e non li posso adoperare! Fosse dieci anni fa! Cari i miei piacevoli, vedreste come ve ne manderei un pajo sul groppone ad insegnarvi la creanza.—
E mentre con un sospiro dava a conoscere quanto a quel punto, l’impegno di far il santo gli riuscisse malagevole, la sua mano quasi da se si sollevava verso que’ bei cilindri di piombo, che avrebbero potuto servir così mirabilmente di projettili in quella circostanza, e gli accarezzava facendoli girar tra le dita. Che tentazione tremenda!.... ma il lettore non si sgomenti, Fanfulla n’uscì vincitore.
I suoi avversarj intanto fatti più sicuri dal suo silenzio seguitavano: la cosa cominciava a puzzar d’indiscrezione. Un soldatello giovanetto smilzo e sbarbato volle anch’esso dir la sua sull’occhio del Frate; che sentendosi pungere da un pazzarellino di quel taglio non la potè mandar giù. Balzò in piedi, ridivenuto a un tratto il Fanfulla di una volta, e movendosi lentamente verso il gruppo degli ufficiali, disse col modo di chi proprio n’ha piene le tasche:
—E’ vi dovrebbe ricordare, cari miei signori, di quel bel proverbio, che ogni bel giuoco dura poco; e questo se non isbaglio principia a durare assai..... E voi bel zittello (volto al giovanetto che avea parlato l’ultimo) ingegnatevi di campare e di mettervi in corpo un po’ di ben di Dio, che a voler far il soldato con quelle spalle d’attaccapanni, vi vedo e non vi vedo, tanto mi parete tisicuzzo, e tristanzuolo.... e del resto poi sappiate che quest’occhio me l’ha fatto schizzare la punta d’una picca spagnuola alla battaglia di Ravenna; quando a voi la balia tirava su le brache...., che questa[112] tacca che porto nella memoria, la toccai per voler difendere quel valoroso signore del re Francesco alla giornata di Pavia, quando la balia dava a voi la pappa e le sculacciate.... che queste due dita sono state seminate a Marignano per opera d’uno spadone a due mani d’uno Svizzero d’Undervald, quando a voi la balia.... Ma l’ultima impresa di questa benedetta balia se la disse Fanfulla, noi la lasceremo nella penna, per brevità.
—Ora, seguiva, per non tenervi a disagio, vi dirò tondo come la bocca d’un pozzo, che se non fossi frate, ed avessi ancora la mia pelle d’una volta, già v’avrei chiamati qui fuor dell’uscio per dirvi una parolina come s’usa tra soldati: ma trovandomi con questa tonaca indosso, almen per ora, vi pregherò di farmi tanta finezza di lasciarmi pe’ fatti miei, che non son uso ad essere il trastullo delle brigate, e la pazienza[17] l’ho soltanto sopra la tonaca.
A quest’intemerata costoro (ed il giovanetto più degli altri) rimasero goffi ed isconfitti, come accade sempre a chi cerchi di sonare, e invece sia sonato. Presero il partito che deve prender sempre in simil caso chi ha un filo di giudizio, si diedero il torto, scusandosi il meglio che poterono, ed il solo di tutti loro che non avea mai aperto bocca sin allora, ed era uomo già innanzi cogli anni, disse ridendo:
—Quando stavo cogli spagnuoli ho imparato il proverbio che tal va.... o tal cree tosar, y vuelve trasquilado[18].
Con questa barzelletta la cosa si volse in riso. Ma lo sbaglio preso destò in tutti gran curiosità di saperne più in là sul fatto d’un uomo così strano. Lo pregarono però umanamente a voler palesare chi egli fosse, ed alcuni, che s’eran trovati ai fatti d’arme accennati da lui, instavano più degli altri attorniandolo.
Fanfulla, come tutti gli uomini attempati e che n’hanno passate di molte alla vita loro, amava narrare e parlar di sè: onde senza farsi pregare disse di dove egli era, nominò i suoi parenti, e quando finalmente, dopo aver detto il suo nome aggiunse:
—Però tra soldati fui sempre chiamato Fanfulla...—
Scoppiò un Oh! generale di maraviglia e d’allegrezza; chè in quel tempo insino i fanciulli sapevano della famosa disfida vinta dagl’Italiani ventisei anni innanzi, e conoscevano i nomi degli uomini d’arme che avevano combattuto in essa, i quali tra soldati erano tenuti in grandissimo onore.
Fra i caporali che si trovavan costì ve n’era uno che avea militato nell’esercito spagnuolo sotto Consalvo: era stato spettatore del combattimento a Barletta, ed avea nome Boscherino. Aperse le braccia, le gittò al collo di Fanfulla, dicendo:
—E chi diavolo t’avrebbe riconosciuto con questo fodero bianco e nero.... Fanfulla frate! Oh! oh! oh! Prima di morire posso sperar di vedere il Soldano cardinale! Ma abbi pazienza, lasciatelo dire, stavi meglio colla daga sulle reni... E così non mi riconosci?... Si vede bene che se non ho mutato pelle ho però mutato pelo. Boscherino?.... ci siamo invecchiati, ma ancora le gambe ci portano.—
—Ci portano anche troppo, almeno parlo per me, rispose Fanfulla raffigurando l’antico camerata e facendogli festa, se non mi portassero tanto me ne sarei stato zitto e quieto in convento; e quando c’entrai, fanno due anni, mi pensavo che mi fossero usciti per sempre i ruzzi dal capo, chè con tanti malanni, e quell’ultima nespola del sacco di Roma soprammercato, mi sentivo crocchiare come un tronco di lancia fesso... Che vuoi? con due anni di quiete e ogni giorno tavola imbandita, son tornato polledro.—
E qui cominciò tra i due amici un dialogo tanto pieno di ti ricordi di questo, ti ricordi di quest’altro, che non la finivano più. Disse alfine Boscherino dopo aver rammentati molti antichi compagni:
—E quel povero Ettore! Ti ricordi? Quel pazzo malinconico, si pensava esser al tempo di Tristano e della regina Isotta!... far quella fine! Ma se l’è proprio cercata col lanternino... Non voleva bere, figurati! Io glielo dicevo, quando lo vedevo con[115] quella faccia d’ammazzato.... Ettore, andiamo da... da... come diavolo avea nome quell’oste del Sole? Ah! mi ricordo, Arsenico. Andiamo da Arsenico, gli dicevo: aveva un trebbian di Dio, di quello che ci si schioppa la frusta.... che vuoi, era come dirgli vola.... E tu non bere, dicevo io, e te n’avvedrai.... e difatti non dubitare che non mi ha voluto far bugiardo. E poi, a chi dich’io? tu eri con lui nella compagnia, lo sai...—
—Lo so anche troppo, interruppe Fanfulla riprendendo la faccia modesta e compunta, non me ne parlare. Io, pazzo da catena, fui allora causa di tutto il male.... io indussi in errore quella povera donna....—
—Come? come?—domandò con premura Boscherino.
—Oh quanto poi al come, rispose l’altro, già t’ho detto che di tutto questo fatto non ne voglio discorrere. Già son cose vecchie, ed al fatto non c’è rimedio.—
—Sia per non detto, rispose sorridendo con un po’ di stizza Boscherino. E di quella Saracina se ne può discorrere? Come avea nome quella bella moretta, con que’ panni attorcigliati in capo?—
—Zoraide, rispose Fanfulla. Quanto a questa te ne dirò tanto che sarai contento: ti ricordi al principio del pontificato di Giulio II quando il Valentino era sostenuto in castello?.... Bene, allora....—Ma qui l’usciere fatto un cenno a Fanfulla, che tutto infervorato in sul raccontare non gli dava[116] retta, se gli accostò, e tiratolo per la manica gli disse, alzandogli un panno d’arazzo che pendeva avanti alla porta della sala di Malatesta:
—Entrate Fra Giorgio.—
Con ciò fece due mali: Boscherino e i suoi compagni rimasero, come qualcun altro, colla voglia in corpo di sentir che cos’era stato di Zoraide; ed il buon Fanfulla, al quale per la quistione avuta con que’ caporali, e pe’ discorsi fatti in appresso era uscita di mente la sua parlata, non ebbe tempo a riordinare le idee e prepararle a mostrarsi con un po’ di grazia. Messo all’improvviso alla presenza del capitano generale gli accadde all’incirca come accadrebbe ad un cocchiere che, guidando quattro polledri bizzarri, avesse, o per sonno o per sbadataggine, lasciato loro le redini sul collo; se a qualche improvvisa cagione quelli si cacciano di carriera, gli tocca a dipanar mezz’ora prima di giungere a far giocare i freni; e nella confusione, credendo tirar a destra, tira a manca, e se una gran fortuna non l’ajuta è certo di rompere il collo.
Ma Fanfulla fece esperienza che le gran fortune capitan di rado. Sentendo che la sua arringa gli era andata in fondo alle calcagna, si fece avanti col cuore d’un uomo che dovesse andare a combattere disarmato. Pure, fatta di necessità virtù, e senza perdersi d’animo interamente, salutò Malatesta con modo ossequioso ma disinvolto, e disse, tossendo così un poco ogni tanto per acquistar tempo:
—Magnifico capitano, s’io ho preso il disagio[117] di venirvi.... dirò meglio, s’io son venuto a tenervi a disagio, n’è cagione un desiderio che vi parrà forse disforme da questi panni ch’io vesto; ma s’egli è vero ciò che affermano gli astrologi, non poter l’uomo sottrarsi a quell’influsso col quale le stelle, o vogliam dire i pianeti, dan norma sin dal suo nascere, e conducono con immutabil legge gli atti e le operazioni della vita sua.... ovvero, come insegnano i filosofi ed i fisici, non potersi cavar buon frutto dal legare a un giogo le tigri cogli agnelli, chè ogni animale ha a fare il verso suo, e non è se non stoltezza grandissima il voler ch’egli vada contro la sua natura, e chi l’intende altrimenti, come dicon gli uomini volgari, dà a guardar la lattuga al papero.... e per questo, com’io dicevo,.... son venuto.... perchè conoscendomi ancora molto atto, per amore della robusta complessione mia, ad esercitare quest’arte per la quale sola m’hanno inclinato i cieli, e visto il bisogno che in queste strettezze può avere questa città, d’uomini che conoscano la nostra professione,.... che di detta professione se ne troverà talvolta di più esperti che non son io, ma non mai chi l’abbia esercitata con maggior fede.... e forse s’io non temessi di darvi noja potrei anche mostrarvi che quanto all’esperienza.... e vi potrei narrare....—
Malatesta dava retta a Fanfulla, e l’avea fatto passare prima di molt’altri, in grazia dell’abito di S. Marco che avea indosso, chè allora in Firenze bisognava aver molti rispetti a questo convento;[118] ma vistolo poi con quel viso che a dir il vero aveva un po’ del pazzo, ed accorgendosi da quella sua strana filastrocca ch’egli doveva averne qualche ramo, non ebbe tanta pazienza che lo lasciasse venir alla conclusione, e, per levarselo dinanzi, gli tagliò la parola dicendogli, con voce nella quale era minor cortesia di quel che fosse nelle espressioni:
—Per esser voi di S. Marco, ed anche per la persona vostra, farò molto volentieri ove possa.... quando però sappia quello che volete.... qual è questa vostr’arte? che ancora me l’avete a dire.... forse siete il padre cerusico del convento, e volete adoprarvi pe’ nostri feriti?.... Ve ne saprò il buon grado....—
Fanfulla mezzo in collera disse tra denti:
—Oggi è il giorno che nessuno m’ha ad intendere.—
Poi ad alta voce:
—Io vi servirò molto bene, se voi volete, a darne delle ferite, e non a medicarle... e, per finirla in una parola, sappia la V. Magnif: ch’io son Fra Giorgio da Lodi adesso, ma una volta ero Fanfulla da Lodi, e son per ridiventarlo quando che sia, basta che la medesima si voglia servir di me, e spero di farle vedere, che due anni di convento non m’hanno tanto mutato ch’io non sia ancor buono da qualcosa.... ed ecco qui (traendosi di petto un foglio) ecco l’attestato del sig. Prospero Colonna.... e poi credo che la V. Magnificenza non mi senta mentovare per la prima volta.—
Esclamò ridendo Malatesta:
—Oh impiccato, chè nol dicesti al primo tratto senza avvilupparmi la Spagna con tante novellate di fisici e d’astrologi, che mi parevi un predicatore. Oh quand’è così, e che l’animo tuo sia riprender la lancia, io molto volentieri t’accetto, e t’adoprerò... e, a pensarla bene, credo abbi ragione, chè dovrai, da quel che ho udito, riuscir meglio per uomo d’arme che per predicatore.—
Letto poi il benservito di Prospero Colonna, disse restituendoglielo:
—E’ non bisogna... chè senza questo già mi sapevo che sei un valentuomo.—
Malatesta mosso dalla novità del caso, volle però conoscere per quali accidenti un così rinomato soldato fosse andato a finir frate, e Fanfulla molto volentieri gli soddisfece. Udito ch’egli ebbe il tutto, si volse ad Amico d’Arsoli capo d’una delle bande di cavalli ch’erano a servigi de’ Fiorentini, e che si trovava costì con altri ufiziali, dicendogli:
—In mio servigio, sarete contento torre costui nella compagnia.... Ma a proposito, dico io.... Fanfulla, come si sta ad arnese ed a cavallo soprattutto? che non vorrai cominciar ora a far il mestiere a piede, suppongo.—
—In arme, rispose Fanfulla, sto bene.... quanto poi al cavallo, a dir il vero è un po’ sulle spalle, ma se piacerà a Dio potrà accadere, vedendoci in viso con uno di questi tedeschi di fuori, ch’io me ne procacci uno migliore, e glielo paghi col ferro della lancia.—
—Al nome di Dio, rispose Malatesta. A ogni modo avrai una paga subito, se mai t’occorresse pe’ tuoi bisogni: ora va, prendi le tue armi, e torna, che presto darò da fare a ciascuno.—
Fanfulla uscì che non capiva nella pelle per l’allegrezza, ed in un lampo fu in convento.
Colà era già sparza la voce che Fra Bombarda, come lo chiamavano, se n’andava, e sapendone tutti anche la cagione, molti frati, e laici eran pel chiostro curiosi di vederlo partire trasformato in uomo d’arme. Esso appena giunto avea sellato e condotto in cortile il suo cavallo: salito poscia in cella, s’era messe indosso ed accanto le sue armi, e sulla corazza a guisa di sopravvesta, la pazienza di saja nera dell’ordine di S. Domenico che la cintura della spada gli teneva ristretta alla vita. Per conservar del frate quanto potesse, tolse inoltre la corona, e l’appese ad un suo grandissimo pugnale che portava dal destro lato, ed in quest’ordine s’avviò alla cella di Fra Benedetto, chè non gli parve onesto partirsi senza toglier commiato. Udite modestamente le sue ultime ammonizioni, e baciatagli la mano scese in cortile ove trovò i frati che l’aspettavano per dargli la ben andata. Dopo aver salutato gli uni, abbracciato gli altri e stretta la mano a parecchi (questi non furono i più fortunati; tra ch’egli era gagliardo, e tra ch’egli aveva il guanto di ferro, fu lo stesso diletto che sentirsi prender le dita da una tanaglia) si dispose a salire in sella.
Ma s’egli avea sperato che anche al cavallo fossero[121] tornati gli spiriti marziali, dovette presto accorgersi che avea fatto torto alla sua costanza.
Anticamente, non c’era verso di tenerlo fermo alla staffa, ed appena sentiva l’uomo in sella, partiva come uno strale. Ora in vece lasciò che il suo signore salisse molto a suo bell’agio, senza far altro moto che piegarsi tutto sul lato manco ove sentiva il peso. Vi volle un pajo di discrete spronate per farlo muovere, e ve ne vollero delle più gagliarde, affinchè s’avviasse al portone che mette in Piazza, invece di avviarsi alla stalla, come procurava ostinatamente di fare malgrado la briglia che gli torceva il capo alla parte opposta. Pure, come a Dio piacque, dagli, ridagli, tira, alla fine infilò l’androne ed andò al suo cammino, mentre Fanfulla, non restando di punzecchiare, s’andava volgendo salutato, e salutando, finchè potè vedere ed esser veduto.
Pochi giorni dopo, circa alle 6 ore di notte, egli girava per Firenze alla testa di sei alabardieri, cercando e ricercando tutte le strade e tutti i chiassi del quartiere di s. Giovanni, e facendo ciò che ora si direbbe la pattuglia o la ronda, e che allora veniva detta la scolta. Era un tempaccio rotto, come spesso ne porta il novembre a Firenze; freddo, vento, ed acqua a catinelle. Fanfulla non se ne curava; e, per intrattenere la sua brigata, che era di soldati giovani di nuova leva, (anche pensando d’esser egli cagione che facessero un po’ di bene) faceva dir loro la corona così strada facendo. Egli innanzi il primo, e gli altri dietro alla sfilata muro muro per bagnarsi meno.
Non creda però il lettore che i soldati d’allora fossero altrettanti cappuccini, poichè nemmeno i compagni di Fanfulla non pregavano se non pel timore del manico d’un gran partigianone ch’egli aveva in ispalla col quale avea già fatto l’atto di voler spolverare le spalle d’uno di loro che s’era immaginato di far l’ésprit fort.
Persuasi dunque da quest’argomento che, se le regole della versificazione l’avessero permesso, si poteva benissimo includere cogli altri in quel bel verso de’ trattati di logica
Barbara, celarent, dario, ferio, baralipton
camminavano già da un’ora con quel diletto che conosce chi ha dovuto talvolta portar il nome in una brutta nottata d’inverno a sette o otto corpi di guardia.
Alla fine voltando la cantonata d’Or S. Michele per andar in porta Rossa, videro, al lume di un torchio che avean con loro, come un viluppo di panni in terra vicino al muro; perchè accostatisi e considerato attentamente s’accorsero che era una donna accovacciata: per difendersi dall’acqua s’era tirati i panni in capo, e a veder com’era tutta inzuppata e lorda di fango si capiva che doveva essere costì da un pezzo. Se fosse stata a giacere si sarebbe potuto sospettarla vittima di qualche violenza, ma era seduta.
—Che diavolo.... che domin sarà—disse Fanfulla fermatosi co’ suoi uomini a considerarla.
—Qualche pazza fuggita—disse uno.
—Pare una figura dell’inferno di Dante—disse un altro che voleva far il letterato.
—Fosse la notte di S. Giovanni, soggiunse un terzo, si potrebbe credere fosse... avesse a essere...—
—Sì proprio! una strega! rispose sorridendo con disprezzo l’ésprit fort della compagnia, non vedi che non ha il piede di capra!...... ignorante che tu se’!—
—Vediamo insomma—disse Fanfulla, e fattosele dappresso le diceva:
—Quella giovane!... Ohe, quella giovane, quella donna! dico a voi! Ohe.—
Ma l’altra non si movea. Ripetè ancora due o tre volte la sua chiamata, poi, sollevando i panni che la nascondevano, la prese pel braccio, la scosse, ed essa alzando allora lentamente il capo mostrò un viso che si capiva dover essere stato bello; ma in quel momento appariva affilato e livido come quello d’un cadavere. Gli occhi spalancati, ma stravolti e spenti, s’affissavano sugli astanti senza mostrar di vedere. In grembo aveva un bambino di poco tempo tutto ravviluppato in una coperta di lana; dormiva riposato, con certe gote tonde tonde tutte latte e sangue, perchè la madre facendogli tetto colle braccia e col capo, era riuscita a difenderlo dall’acqua e dal freddo.
Tutto a un tratto la meschina, come svegliandosi e riscotendosi da quel torpore, si scosse, ed il primo moto fu stringersi al petto il bambino, ricoprendolo colle mani e co’ panni, mentre Fanfulla le diceva:
—Oh! che domin fate voi qui a quest’ora, a codesto modo? Animo, su, alzatevi.... che è stato? che v’è succeduto?.... diteci dove state di casa, vi ci meneremo....—
—Dove sto di casa? soggiunse la giovane dando in uno scoppio di pianto, io non ho più casa.... eccola, casa mia è questo fango.... questo è il mio tetto... la culla di questo povero figlio mio sventurato.—E così dicendo stampava sulla bocca al fanciullo certi baci disperati che lo destarono; e svegliarsi e cacciarsi a piangere fu tutt’uno.
—Bel gusto di svegliare e far piangere quel povero innocente, che non ci ha che far niente, disse Fanfulla, che alla fine aveva poi buon cuore, come l’hanno in genere tutti gli uomini valorosi, ed un po’ latini di mano, per un curioso capriccio della umana natura.
—Ma non avete parenti, marito, padre... madre almeno?.... male che vada, madre se non altro l’abbiamo tutti.—
E la donna piangeva sempre più forte senza dar altra risposta.
—Oh insomma, disse Fanfulla, qui ci vuol altro che piangere e disperarsi; è notte, piove, e fa freddo, e questo fanciullo non sarebbe mai vivo domattina, onde levatevi di qui; al coperto intenderemo il fatto.... andiamo.—
E con amorevoli parole, usando così pure un poco di forza, sollevò di terra la donna, e s’avviò con essa a lento passo non restando di reggerla e[125] confortarla, e portandole alla fine anche il bambino, che faceva un bel vedere in collo a Fanfulla, finchè l’ebbe condotta al palazzo de’ Signori nelle camere terrene, occupate dalla guardia del portone, ove almeno non piovea, e v’era anche acceso un buon fuoco.
Colà appoco appoco, rasciutta e ristorata alquanto, cominciò la donna a parlare. Sul primo stava come in sospetto, vedendosi attorno molti soldati che la consideravano senza cerimonie, nè tralasciando pur anche ognuno di dir ciò che gli veniva bene sul fatto di essa: ma Fanfulla, accortosi che quell’investigazione e que’ discorsi l’offendevano, li fece ritrarre in una stanza vicina, parte con buone parole, parte mostrando di adirarsi, e di voler usare quel tal argomento, accennato di sopra, che i maestri di logica hanno scordato di mentovare.
Non sapeva perchè, ma sentiva premura per quella sconosciuta, e non è cosa che non avesse fatto per farle piacere: la donna anch’essa, rassicurata un poco e rincorata dal buon cuore che traspariva dai modi un po’ ruvidi, è vero, ma pure amorevoli del vecchio soldato, si lasciò persuadere ad aprirsi a lui, e raccontargli le sue vicende. Ma considerando che questo racconto riuscirebbe per avventura interrotto e mal connesso, quale si dovrebbe aspettare da una persona posta in tanta agitazione d’animo, e confusione di pensieri, crediamo bene di tralasciarlo: essendo però necessario che il lettore sappia chi era costei, e conosca i suoi casi, ci giova per questo[126] riprender le cose indietro un po’ alla lontana, e riferir molti particolari appartenenti alla famiglia di Niccolò, ai quali non abbiam fin ora saputo trovar luogo nel nostro racconto.
In faccia alla porticciuola di fianco di S. Maria Maggiore si vede ora una casa dell’architettura insipida e senza carattere del secolo XVIII, che dopo essere stata la locanda dell’Aquila nera, vien detta in oggi la nuova York. In quest’area medesima, occupata prima dal Seminario, ed in parte, più anticamente, dalla casa de’ Cerretani, era, all’epoca di cui scriviamo, la casa di Niccolò, fabbricata dal tre al quattrocento, e simile ad alcune di quel tempo che ancora rimangono in Firenze. Dio voglia conservarla un pezzo, o liberarla da un padron di casa di que’ tali che, per aumentar le pigioni, d’una camera ne fanno quattro, apron finestre, danno il bianco alle facciate.... ma lasciamo questo discorso, che è un brutto combattere e parlar di gusto, di memorie, d’architettura, con chi risponde quattrini.
La casa ove abitava la famiglia de’ Lapi (divisa da’ Carnesecchi dalla via de’ Conti) era quadra, soda, massiccia, a tre piani, con un bugnato sino al primo di pietre scarpellate ed annerite dal tempo; le mura al disopra tutte piene di rabeschi a graffito, ed in[128] cima affatto una loggia retta da colonnette sottili. Il tetto sporgeva innanzi di molte braccia, e le travi dell’incavallatura che lo reggevano, prolungandosi fuori del muro, mostravano a guisa di gran mensoloni ornati alla grossa di qualche intaglio. Le finestre del pian terreno, forse un po’ troppo a portata di chi era in istrada, eran munite da grosse ferriate, sott’esse una panca di sasso quant’era larga la facciata, ed in questa, all’altezza di dieci braccia, eran commesse tra le bugne spranghe di ferro lunghe tre palmi, ripiegate all’insù, con un bocchino in cima ove si piantavan, in occasione di feste, torchj o stendardi, e dalle quali pendeva un grandissimo anello: sull’angolo poi del palazzo era, all’altezza medesima, uno di que’ lampioni pure di ferro, quali ancora si vedono sugli angoli del palazzo Strozzi, opera del Caparra. Al portone posto nel mezzo, si picchiava con due campanelle di bronzo grandissime che pendevan dalla bocca di due maschere di leoni: ed a veder come le imposte eran per tutto afforzate di chiodi e di lastre, nasceva l’idea, che per i ladri una visita in quella casa non sarebbe stato tempo perduto.
Entrando si trovava un androne la cui volta era a scompartimenti a buon fresco, e che metteva in un cortile quadrato, intorno al quale, sotto un atrio arioso e ben disposto, si vedean molte storie pure a fresco, dell’epoca e della scuola di Masaccio. A metà dell’androne sopraddetto, due porte davano adito al terreno. Quella a mano manca conduceva[129] a quattro sale ove Niccolò avea il fondaco, lo scrittojo, e v’attendeva co’ suoi giovani alle faccende mercantili: l’altra a destra serviva d’ingresso al suo quartiere, che avea prescelto dacchè la vecchiaja, benchè verde, gli avea però reso grave il disagio di far le scale. Il primo piano era occupato dai figli: l’ultimo dalle figliuole e dalle donne, che venivano così ad esser in luogo più guardato, e divise affatto dal resto della casa.
La camera del vecchio (e dagliela con le descrizioni! dirà il lettore.... ma come si fa a dipingere un gruppo di figure se non si fa loro un po’ di campo?) la sua camera dunque era in tutto appropriata a chi l’abitava, cioè di stile grave e severo. Tesa d’un panno d’arazzo di Fiandra, che rappresentava varj fatti della Bibbia, con un soffitto di legno oscuro, a larghi cassettoni; non conteneva che questo poco mobile; un letto di noce lucido, la cui camerella quadra di sciamito pavonazzo, era portata da quattro colonnette piantate su un soppidiano che a guisa di zoccolo o basamento circondava il letto e serviva a salirvi: due cassoni di legno tutti intagliati a mezzo rilievo (la moglie di Niccolò gli aveva recati in casa quando v’era venuta sposa, e secondo l’uso d’allora, contenevano il corredo,) infine molti seggioloni a bracciuoli di cuojo pavonazzo, fermato con borchie d’ottone.
Accanto al letto era una nicchia nel muro alta quattro braccia dal pavimento, nella quale stava appiccata una tonaca da domenicano; sott’essa un’urna[130] d’argento a modo d’un cofanetto, ed una lampada appesa con una catena al soffitto le ardeva davanti. La tonaca era l’ultima che avea portata fra Girolamo Savonarola (il cui ritratto si vedeva attaccato alla parete vicina, chiuso in una cornice d’ebano) ed era quella che gli avean tratto di dosso all’atto del suo supplizio: l’urna conteneva le ceneri del rogo sul quale era stato arso, e queste cose che Niccolò teneva quali reliquie d’un martire, e come memorie d’un maestro e d’un amico, erano da lui guardate con tenera ed altissima venerazione.
Pochi giorni dopo l’esequie di Baccio, egli era seduto dopo cena, ove solea porsi sull’imbrunire, sotto la cappa d’un gran cammino, nel quale ardeva un buon fuoco: avea intorno tutti i suoi di casa, ed alcuni degli uomini che allora più potevano in Firenze, i quali spesso si trovavan quivi insieme a veglia; non che Niccolò fosse allora d’alcun magistrato, ma soltanto per l’affetto che gli portavano, pel molto conto in che tenevano la sua pratica nelle cose di stato, e per la sua autorità nella parte de’ Piagnoni della quale potea dirsi l’anima ed il capo.
V’era Bernardo da Castiglione, padre di Dante, odiatore ferocissimo del nome Pallesco, ed uno dei più riputati della sua parte, quella de’ popolani, che volevano la più estesa democrazia, avversi perciò alla setta degli Ottimati, della quale, come dicemmo, era stato capo il gonfaloniere Niccolò Capponi.
V’eran due frati Domenicani, Fra Benedetto da[131] Faenza, che abbiamo trovato superiore di S. Marco, grandissimo uomo dabbene, e di assai vaste cognizioni, sia nelle materie teologiche, sia nelle lettere latine e greche; ma di natura troppo mite per quei tempi d’arditi e tremendi consigli: e Fra Zaccaria da Fivizzano di S. Maria Novella, predicatore facondo ed agitatore bollente del popolo, che era da lui infiammato alla libertà coll’eloquenza incalzante e fatidica del Savonarola.
V’era Francesco Ferruccio di mercante divenuto soldato, uomo che si potea dir di ferro schietto anima e corpo; di que’ tali che si uccidono, ma non si vincono, nè si piegan giammai: di quelli che bastan talvolta essi soli a ritardar la rovina degli stati; intrepido soldato, capitano avveduto, fortunato nelle fazioni, rigido per la disciplina ed inflessibile co’ soldati, che ciò non ostante l’amavano, perchè lo conoscevano al tempo stesso giusto e liberale. Caldo ammiratore de’ modi e della scuola di Giovanni de’ Medici, capo delle bande Nere, ch’egli studiava d’imitare, onde si diceva tra suoi ch’egli volesse far troppo del sig. Giovanni; macchiò, dobbiam dirlo, tante virtù, con qualche atto crudele; ma pensiamo ch’egli viveva nel secolo XVI, che amava la sua patria, e che dovette vederne l’agonia lunga e dolorosa, e prevederne l’inevitabil rovina!
Bernardo seduto accanto a Niccolò parlava seco sommésso, e pareva aver appiccato ragionamento d’importanza. Fra Benedetto soprappensieri, voltando[132] al fuoco ora la palma ora il dosso della mano, veniva appresso, ed alla sua destra, seguendo il semicerchio intorno al cammino, era Fra Zaccaria, che fissando in alto due occhi neri tagliati come quelli del Giove Olimpico di Fidia, si teneva la barba folta e lunga colla mossa fiera ed ispirata del Mosè di Michelangelo. Francesco Ferruccio, ritto nel mezzo, voltava la schiena al fuoco, e la sua ombra vacillante a seconda della fiamma era portata sulla parete dirimpetto, ove disegnava in dimensioni gigantesche l’alta e robusta sua figura.
Intorno, per la camera buttati sui seggioloni, e stanchi delle fatiche del giorno, stavano Averardo e Vieri, figli di Niccolò, armati di loro corsaletti. Bindo stava ritto accanto ad un desco ove Lisa e Laudomia attendevano a preparare sfili e cucir fascie pei feriti: egli teneva fra le mani un suo elmetto che aveva finito di forbire, e pur guardando sott’occhio se il padre gli badasse, pregava sommesso Laudomia gli trovasse un pajo di penne per farsene un cimiero. La giovane scrollando il capo con un mesto sorriso gli accennava di tacere. Forse la vista della buona spada di Baccio, al fianco del fanciullo, le rammentava il fratello ucciso: forse l’occupavano pensieri ancor più angosciosi e pungenti della mal consigliata ed infelice sorella.
Lisa era minore d’un anno, ne avea diciotto, ambedue potean dirsi belle; ma all’aspetto ognuno avrebbe tenuto Laudomia per la più giovane. Sul suo[133] viso onesto e malinconico, nel muover tardo e soave delle sue pupille azzurre, e fin nella voce e nell’atteggiarsi, splendeva quel non so che virgineo ed illibato, che ogni occhio discerne, ogni cuor sente, ed è pur impossibile definire: che senza esser proprio d’un’età più che d’un’altra, senza appartenere esclusivamente a nessuno stato, orna sovente il volto d’una madre di molti figli, e si desidera indarno su quello d’una fanciulla: quel non so che (se ardissi dirlo) che pare la beltà dell’anima trasparente sotto il velo corporeo; che essendo cosa affatto distinta dalla bellezza, però sempre o la rende irresistibile e divina, o la compensa con usura: quello finalmente, che vendica persino gli oltraggi della fortuna, facendo onorata ed augusta la povertà umile ed oscura.
Quest’aureola d’un’anima non mai contaminata da un pensiero di colpa, facea del volto di Laudomia un volto d’angiolo; nè la sua vita era stata punto difforme da ciò che mostrava il suo aspetto. Rimasta a quindici anni orfana della madre, avea con prematuro giudicio conosciuto, che a lei stava farne le veci colla sorella, e n’aveva assunto, e mantenuto già molti anni l’impegno. Pel resto della famiglia era si può dire il perno sul quale s’aggirava la somma delle cure domestiche. Se poi v’era in casa qualche parola dispiacevole, Laudomia con un motto detto accortamente, e a tempo, l’acchetava o la volgeva in riso; chi aveva un affanno lo confidava a lei, che con que’ suoi modi amorosi[134] pareva tosto lo facesse suo, dolendosi coll’afflitto, ma trovandogli però sempre qualche ripiego o qualche consolazione. Se v’era nulla da risolvere d’importante Niccolò sentiva lei più d’ogn’altro, ed essa con parlar timido e diffidente di se, ma con giudicio sicuro, quasi sempre s’apponeva nell’indicare il partito migliore. Insomma e tra suoi, e fuori tra gli amici ed i vicini non era detta altrimenti che l’Angelo de’ Lapi.
Circa un pajo d’anni prima d’ora avea notato spesse volte un giovane vestito alla foggia de’ gentiluomini, che passava quasi ogni giorno sotto le finestre di casa ora solo ora con suoi amici, spesso ancora su un suo bel giannetto col quale si maneggiava mirabilmente, e le era venuto detto colla Lisa che le sedeva accanto lavorando, Che bel giovane, ma senza pensar più in là e come avrebbe detto che bel fiore; ed ogni qualvolta veniva a passare, lo guardava con piacere e senza sospetto come avrebbe guardata una giovane di consimili bellezze. Un giorno i Magnifici Alessandro ed Ippolito de’ Medici cavalcando per la città capitarono sotto casa i Lapi, e le due sorelle videro con qualche maraviglia quel giovane andare a paro con loro. Tutti e tre a un punto alzarono il capo affissandole; poi quando furon passati, or l’uno or l’altro si volgeva e ridevan tra loro.
Laudomia che s’era affacciata si ritrasse indietro e per la prima volta arrossì: le parve quelle risa l’offendessero, e provava quasi un senso d’umiliazione[135] e di rimorso senza saper perchè. In ogni modo, docile a quella interna misteriosa voce che per le giovani è pur guida saggia e sicura quanto l’esperienza, e vien detta il Pudore, d’allora in poi, quando venivano a passar cavalli, non s’affacciò e non guardò più in istrada.
Ma la povera Lisa benchè ammonita dalla sorella a far lo stesso, testina com’era, fece pur troppo altrimenti. La prima volta aveva come Laudomia guardato il bel giovane; in appresso, senza volerle dar retta, quando sentiva nascer lontano lo strepito del cavallo sul lastrico abbassava il capo, arrossiva, e fattasi alla finestra pareva guardasse tutt’altro, lasciando però cader l’occhio tratto tratto sul cavaliere che passava.
La buona Laudomia non penò un pezzo ad avvedersi di ciò che v’era sotto: ne toccò leggermente con poche parole la sorella, che se l’ebbe quasi per male negando risolutamente: ma il suo viso era divenuto come una vampa di fuoco. Laudomia conobbe come stava la cosa e tacque.
Ben sapeva che aveva un capo da non guidarsi con un fil di seta.
Difatti il cuor della Lisa era buono, l’animo generoso e leale, ma la madre, che la teneva un portento e si struggeva di qualunque cosa le venisse fatta o detta, non avea conosciuto, o troppo tardi, quanto funesto sia quell’amore, che per risparmiare qualche lagrimetta ad una fanciulla, trascura d’avvezzarla a non creder che ogni cosa ed ognuno[136] debba sempre piegarsi alle sue voglie. Usa a volere fin da piccina, non potea patire che non le si andasse a versi: usa alle lodi, (e potean dirsi adulazioni) della madre, ogni minima correzione che altri s’attentasse a farle, stimava nascesse da malevolenza; e dove una direzione saggia ed autorevole avrebbe potuto renderla donna d’alto pensare, e d’animo costante, lasciata in balìa di se stessa s’era fatta piuttosto altera ed ostinata.
Intanto da quelle prime parole in poi dette da Laudomia alla sorella sul fatto del giovane, mai più erano entrate su questo proposito. E siccome fra due persone che sogliono dirsi scambievolmente ogni loro pensiero, nulla tanto genera freddezza, quanto l’avere una corda che da ambedue si sa non doversi toccare, così era nata tra loro, non dirò ruggine precisamente, ma insomma ognuna non vedeva più l’altra coll’occhio di prima.
Laudomia sapeva troppo che parlare alla sorella del suo amore (quantunque inesperta s’avvedeva bene che amore doveva chiamarlo) e non mostrarsele favorevole, era andar a rischio senz’altro frutto, d’allontanarsela affatto. Parlar contro coscienza e lusingarla, non era capace d’averne neppure il pensiero; onde taceva e badava a pregar Iddio la salvasse da tanto pericolo.
Ma ogni giorno più s’andava avvedendo che le sue preghiere non eran esaudite, e che il cuor della Lisa diveniva sempre più infermo. La vedeva a mano a mano venirsi cambiando ne’ modi e nell’aspetto,[137] e trascurare ciò che sin allora le era piaciuto: certi bei fiori che teneva sul terrazzo dell’ultimo piano e de’ quali, coltivandoli di sua mano, avea preso sempre grandissimo piacere, appassivano per non venir annaffiati. Un piccolo uccellino che era il suo caro ebbe quasi a morire, che per due giorni era rimasto senza panico. E ciò, che più di tutto rammaricava la Laudomia, la vedeva trascurare gli atti della religione, o andar molto rimessa nel modo d’adempierli. Ognuna di queste osservazioni era una puntura al cuore dell’ottima Laudomia.
Venne intanto il giorno di Calendi-maggio, festa che si celebrava in Firenze dalle Potenze e dalle giovani specialmente con balli ed altri spassi; e vestite de’ migliori panni, incoronate di fiori, concorrevano a veder giostrare, correre la chintana, o far al calcio. Lisa e Laudomia andarono a veder la festa con una loro parente, e trovandosi in piazza S. Croce, in una gran folla, che è, che non è, la Lisa non si vide più; nè per quanto la cercassero venne lor fatto di rintracciarla.
Tornò però a casa poco dopo di loro, e se Niccolò e gli altri non ne fecero gran caso come d’accidente assai ordinario in quelle confusioni, Laudomia, ancorchè non lo dicesse, l’intendeva altrimenti, e le si avvolgevano per la mente mille sospetti. Ma essa ne sapeva più degli altri. Per tutta quella sera la Lisa, ancorchè facesse ogn’opera per parere come al solito, non potè però nascondere all’occhio indagatore della sorella un certo sbigottimento,[138] un non so chè di nuovo nella guardatura ed in tutta la persona.
Laudomia notando questi sintoni d’un amore sempre crescente che la tenean ravvolta tra mille oscuri e dolorosi sospetti avea giusti motivi di provarne amarissima afflizione. Vedeva troppo bene che non era da sperarne virtuoso fine. Il giovane era di parte Pallesca: di quella parte, che aveva recato al padre ed a tutta la sua casa infiniti mali, che s’era sempre mostrata nemica delle antiche leggi, e dell’antica libertà di Firenze. Era pur da supporre che Niccolò volesse aver per genero uno di quella setta? Aggiungi a tutto ciò, che la giovane domandando destramente e senza far parer di nulla ai fratelli o agli amici di casa qual fosse costui, aveva udito sul fatto suo cose che molto le dispiacevano. Ch’egli era un Messer Troilo degli Ardinghelli, cagnotto de’ Medici, uomo cortigiano e di rotta vita.
A questi motivi che riguardavano gl’interessi della famiglia e della parte, un altro se n’aggiungeva intimo e domestico.
Nel fondaco di Niccolò lavorava un giovanetto di prima barba che sin da piccolo fanciullo s’era allevato in casa ed avea nome Lamberto. Costui era nato molto umilmente. Suo padre, lavorante dell’arte di Por S. Maria[19], per la sua fede e per esser di[139] buonissimo ingegno era venuto in grado a Niccolò, che di povero operajo, l’aveva tirato su fino a costituirlo capo d’ogni sua faccenda. Quest’uom’ dabbene pagò col sangue gli obblighi ch’egli aveva al suo benefattore.
Quando, addì 6 di aprile del 1498, i nemici di Fra Girolamo assaltarono il convento e la chiesa di S. Marco, moltissimi Piagnoni, e fra essi Niccolò, con Pietro padre di Lamberto, concorsero, e vi si rinchiusero per difenderlo. Durò la battaglia molte ore della notte, essendo quei di fuori in gran numero, e combattendo con armi d’ogni sorta, con archibusi e sassi, e facendo quei di dentro grandissima resistenza, non altrimenti che s’usa nell’espugnazione d’una rocca. Il padre co’ suoi frati, dopo esser andato processionalmente per tutto il convento, si ridusse in chiesa e, preso nel tabernacolo il Sacramento lo pose sull’altare, e messisi quivi in orazione cantavano tutti insieme «Salvum fac populum tuum domine et benedic haereditati tuae» aspettando di punto in punto il martirio. Benchè il padre non volesse consentire che s’usassero l’armi per difenderlo, Fra Domenico da Pescia, e molti nobili cittadini, fra quali erano Francesco Valori, Battista Ridolfi e T. Davanzati, si strinsero intorno e deliberarono ribatter coll’armi i loro avversarj, i quali consumata col fuoco la porta della chiesa, alla fine v’entrarono in folla attaccando battaglia di mano, furiosissima co’ Piagnoni e co’ frati, la quale durò molte ore. Un novizio chiamato Herico, tedesco,[140] salito sul pergamo con un archibuso ammazzò di molti nemici, ed ogni volta che dava fuoco diceva anch’esso «Salvum fac Populum tuum domine ecc.» Ed un frate de’ Biliotti con un crocifisso di ottone cavò un occhio a Jacopo di Tanai de’ Nerli, e ciò sia detto per dar idea quali fossero codesti tempi.
Niccolò, che aveva allora 58 anni, combatteva in mezzo alla chiesa rimpetto l’altare della Madonna, ed aveva allato il suo fedel Pietro (così aveva nome il padre di Lamberto) il quale avvistosi d’un tale cui Niccolò non poneva mente, che con un partigianone gli menava un gran colpo che l’avrebbe passato banda a banda, non trovando altro modo a ripararlo si gettò frammezzo, e ricevette nel petto il ferro che gli uscì per la schiena, ed il suo sangue innondò da capo a piedi Niccolò.
Corsero alcuni frati, come usavano con chi cadeva, e raccolto il ferito lo portarono presso l’altare ove, presa con grandissima letizia la comunione, e ringraziato Iddio di quella morte, volse a Niccolò, che gli reggeva il capo non senza lagrime, gli occhi moribondi, e gli disse: «Io lascio la Nunziata ne’ setti mesi.... vi sia raccomandato il mio figliuolo, o figliuola che sia....» e senza poter dir altro rese l’anima a Dio.
Da quel punto, come ognuno può immaginare, egli tenne cura grandissima della Nunziata, e Lamberto nato due mesi dopo, trattò poi sempre come se gli fosse stato figliuolo: e trovato che facilmente[141] apprendeva, lo fece ammaestrare tanto che fatto esperto in sulle scritture gli diede a tener i suoi libri con buona provvisione, pensando giorno e notte qual modo avesse a tenere per fargli uno stato e rimeritar per cotal via il grand’obbligo che aveva col padre. Niccolò era ricco mercatante, perciò avrebbe potuto dire a Lamberto, togli questo tanto in danari e fa i fatti tuoi. Ma gli pareva prima di tutto che obblighi di quella fatta mal si potessero compensare colla sola moneta; poi trovandosi molta famiglia gli pareva fosse anche ingiusto sminuire l’avere de’ suoi figli per una cagione che a lui solo si riferiva.
Gli era nato il pensiero di dare a Lamberto una delle sue figlie con tal dote che stesse bene, così veniva a salvare tutti i rispetti. Ma quantunque il giovane, che era già oltre i vent’anni, fosse tale da non temere un rifiuto da nessuna fanciulla, Niccolò aveva però troppo senno e troppa giustizia per voler ordinar tal parentado senza conoscer prima ben bene il cuore e la volontà di chi lo doveva contrarre. Muovere i primi passi e proporlo egli stesso non gli pareva ci stesse dell’onor suo, onde dato tempo al tempo aspettava che una qualche occasione favorisse l’adempimento di questo suo disegno.
Che Niccolò avesse in animo di far Lamberto suo genero, senza curarsi ch’ei venisse di sì povero stato, non poteva recar maraviglia a chi li conosceva ambedue. Il vecchio non era di que’ tali che[142] sono avversi all’aristocrazia de’ nobili perchè l’invidiano, e che la vogliono spenta per occuparne il luogo. Egli teneva ogni uomo figlio delle proprie opere, lo stimava a norma delle sue virtù, e perciò giudicava sempre pericolose ad una città quelle sette o vuoi di grandi, o vuoi di popolani, o mercanti, o di qualunque altra generazione esse siano, che ristringendosi insieme, e separandosi dagli altri cittadini, schifando imparentarsi con chi non sia de’ loro, usando atti violenti e portamenti superbi, cercano ottener autorità, ricchezze ed onori, non per veruna particolar virtù che sia in loro, ma pel solo accidente d’esser nati in codesta loro setta, o d’appartenerle in qualunque modo.
Ma quanto sono rari gli uomini che, simili a Niccolò, detestino gli abusi per solo amor dell’equo e dell’onesto, e non pel timore di riceverne danno o pel dispetto di non potersene valere ad opprimere altri!
Lamberto poi dal canto suo avrebbe meritato di esser posto tra le eccezioni anche da un padre che stimasse i natali e le ricchezze più che non facea Niccolò.
Se il lettore desidera figurarsi il ritratto di Lamberto, immagini un giovane alto di statura, ed atto per l’ottima proporzione delle membra a tutto quanto può imprender l’uomo, che richiegga forza e destrezza. E ciò basti circa il fisico. Nella parte morale, la natura l’aveva favorito con quel dono che riserba a suoi più cari, a quelli che senza distinzione[143] di stato o di fortuna ella destina alle maggiori imprese; dono che può nominarsi l’amore, anzi la smania della perfezione, seme fecondo delle belle azioni e delle grandi virtù, e di tutto quanto è di sublime nell’umano operare. Giudice severo, che dice all’orecchio dell’uomo applaudito Tu potevi far più, sprone che punge sempre chi è nato per sentirlo, perchè in ogni cosa, in ogni atto vede quanto è più lunga la strada da farsi per giungere alla perfezione di quella già fatta; tormento dell’anima ed insieme la sua vita, il fonte di tante dolcezze, Sarebb’egli forse l’impressione rimasta nell’uomo da quel soffio divino col quale Iddio l’ha chiamato dal nulla?
Questa nobil passione, che in Lamberto andava divenendo più fervida col crescer degli anni, l’aveva eccitato a profittare con ogni studio della ventura di venir allevato in una casa dove eran a sua portata tutti i mezzi di educarsi a quelle discipline che procurano il perfetto sviluppo delle qualità fisiche e morali. Presago forse che la sua vita non avrebbe avuto a consumarsi tutta in un fondaco, s’era ingegnato rendersi pari ad una più splendida fortuna, raffermandosi la sanità e le forze con ogni sorta d’esercizj cavaliereschi, ne’ quali era riuscito mirabile sopra ogni altro; e maturandosi il senno colla lettura degli storici principalmente, ai quali unendo i ragionamenti che udiva farsi in casa da Niccolò e da quelli uomini di stato che vi concorrevano, era venuto a formarsi un capitale di sode[144] e variate cognizioni, per le quali e per l’abito fatto fin dall’infanzia di non far atto, non accettar opinione senz’avervi prima molto pensato, venne a trovarsi uomo in quell’età in cui molti altri sono poco più che fanciulli.
È vero altresì, per non tacere de’ suoi difetti, che appunto per quel suo amore del bello e del perfetto, egli facilmente e con incredibil veemenza s’infiammava di quelle cose e di quelle persone, ch’egli si immaginava avessero alcun che di grande, e colla calda fantasia se le dipingeva d’una perfezione molto maggiore che non era in effetto: conoscendo poi (come suole accadere sempre) d’essersi o in parte o totalmente ingannato, passava dall’immoderata ammirazione ad un immoderato dispregio.
Nè sarà forse fuor di proposito l’osservare, che se i giovani di mente fervida e di cuor generoso come Lamberto si potessero premunire contro questa smania di giudizj avventati ed eccessivi, eviterebbero molti errori, non avrebbero a rimproverarsi molte ingiustizie, ed i mali che ne sono la conseguenza; ed il disappunto delle illusioni svanite non farebbe loro concepire contro l’umanità quell’odio cieco ed orgoglioso, che ha forse prodotte molte belle declamazioni poetiche, ma non ha mai reso gli uomini nè più virtuosi nè più felici.
Si potrebbe anzi dimostrare che invece li ha fatti più duri per gli altri e più amanti di sè, togliendo loro il conoscere una verità trivialissima e palese ad ogni cervello riposato, che se al mondo sono molti[145] bricconi, son pure molti galantuomini, e gli uni e gli altri, compresivi anche questi feroci odiatori della nostra specie, fanno promiscuamente delle cose buone e delle corbellerie, onde alla fine tutto poi si riduce ad aver la santa flemma di segregare le une dalle altre, lodar il bene, biasimare il male; compianger gli uomini che per loro natura debbono ondeggiar sempre in tra due; e finalmente ammonirli ed ajutarli se si può, invece di strapazzarli e di maledirli inutilmente.
Queste riflessioni sarebbero però state affatto inutili per Lamberto. Egli aveva incontrato pochi guai, e trovato invece nella famiglia del suo protettore infinite carezze, il suo carattere non avea perciò avuto motivi d’inasprirsi, e non ostante il difetto che gli abbiamo apposto, la sua aggiustatezza, i suoi modi affettuosi ed onesti, e la tenera gratitudine che mostrava a Niccolò, gli avevan compro l’amore del vecchio, de’ figli e di tutti quanti lo conoscevano. V’era però in casa tal persona che l’amava senza esserne forse neppure avveduta, in modo diverso dall’altre, ed era Laudomia.
Per verità, se mai due cuori dovevano incontrarsi, i loro erano quelli. Ma Lamberto quantunque si sentisse portato verso di lei dalla simpatia che nasce dalla somiglianza de’ caratteri, era però rattenuto da quello splendore puro e verginale che appariva in essa, pel quale veniva a giudicarsi troppo inferiore a cosa tanto alta e divina.
Rade volte la vedeva, e più rado le parlava, e gli[146] parea persino Laudomia l’avesse in poco conto, e lo sfuggisse. Il timido ed onesto giovane pensava «merito forse un suo sguardo?» Ma la figlia di Niccolò era lungi dall’averlo in dispregio, e lo sfuggiva per quell’intimo senso di pudore che era sua guida.
Lisa invece teneva con Lamberto altri modi. Lo trattava con quella sicurtà confidente, di chi è certo non gli si trovi a ridire. L’anima amorosa e candida di Lamberto era in quella stagione ove tanto facilmente s’apre all’amore, come all’aura d’una nuova vita: ove il potere di questo si fa sentire prima d’aver trovato l’oggetto su cui fermarsi. Tempo pieno di perigli, d’angosce, di dolcezze e di trepidazioni, ove l’uomo è quasi sempre colto al primo laccio ed allettato dalla più agevol’esca. Tutto sta a non capitar male!...
Il cuor del giovane che non avea osato innalzar i suoi voti sino a Laudomia, si volse a Lisa appoco appoco senza quasi avvedersene e volerlo, e finalmente se le diede vinto, ponendo in essa sola ogni suo bene ed ogni suo pensiero.
Quel senso avveduto e sottile che la natura ha posto in ogni donna, e che precede l’esperienza, mostrava a Lisa benchè giovanetta qual fosse per lei il cuor di Lamberto. Essa godeva di sapersi amata. E qual cuore umano non ne gode, sia pure illibato ed innocente? Ma questa compiacenza era forse per essa più di amor proprio che di cuore. Sentendo molto altamente di se, aveva caro codesto amore[147] come una prova di più di quanto valesse: se si vuole avea caro anche Lamberto; l’avrebbe fors’anco amato perdutamente, ma non poteva capirle in mente l’idea di divenir moglie di chi passava la vita sua col braccio in mano a misurar broccato.
Lamberto poi, che per natura e per sapersi persona cotanto umile già dubitava di sè, parte immaginando i pensieri della giovine, talvolta usciva di speranza affatto, talvolta vedendosi tanto accarezzato da Niccolò e trattato come un figliuolo, un poco si riconfortava, ed il vecchio, che pure per quanto glielo concedevano i suoi molti pensieri, s’ingegnava scoprire qual fosse il cuor della figlia pel suo Lamberto, fatto quasi certo che tra esso e la Lisa qualche cosa ci fosse, procurava senza troppo aperte dimostrazioni di lasciar però conoscere ch’egli non avrebbe posto ostacolo alla loro unione.
Alla fine, un giorno ch’egli era solo in camera con ambedue, essa a caso uscì, e Lamberto non pensando di venir osservato le tenne dietro col guardo: con un guardo che assai diceva. Niccolò sorridendo, e postagli una mano sul capo gli disse: «Lamberto, io ti voglio quanto bene io ho, perch’io ti conosco intero uomo dabbene, e sappi che per dar marito alla Lisa io non guarderò che sia ricco nè che sia di gran casato; ma che sia un giovin dabbene e che le piaccia» e soprastato così un momento, guardando amorevolmente il giovane che avea il viso come una brace, ripetè ancora «che le piaccia, tu m’hai inteso.»[148] Niccolò era già uscito di camera, che Lamberto aveva ancora a batter palpebra, ed a muoversi, tanto gli parea di sognare. Alla fine riscossosi, e pazzo per l’allegrezza disse «ora s’io non saprò guadagnarmela avrò a dolermi di me.» Ma ad avvelenar questa gioja gli sovvenne ad un tratto, ciò che gli era parso indovinare, che la Lisa fosse troppo altera per porre l’amor suo in basso luogo, e per la prima volta in vita sua si sentì offeso dell’oscura povertà de’ suoi natali: per la prima volta pensò sospirando «Oh fossi nato un signore!» Ma tosto quasi facendo vergogna a sè stesso di questi inutili rammarichi, diceva scuotendo il capo: «Non son io forse un uomo come un altro?» e colla fervida fantasia vedeva quasi schierarglisi innanzi quanti in Italia per le loro virtù eran di povero stato, saliti in grado ed in autorità. Rammentava quanto aveva letto di Castruccio, d’Uguccione della Faggiuola, e di Sforza, e del Carmagnola, e di tant’altri, e prendendo per se quel passo del Purgatorio di Dante, esclamava Son io pure «di quel paese
....ove un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.»
Passando poi da un’idea all’altra vieppiù si confermava in questi pensieri così ragionando: «Niccolò, è vero, mi darebbe la Lisa, perchè son figlio di chi ha dato il sangue per lui, ma non per questo tralascerà di conoscere che io son nato d’un[149] povero operajo, e che potrebbe, purchè volesse, dar la Lisa al primo uomo di Firenze, e gliene saprebbe il buon grado.»
L’animo di Lamberto nobilmente altero si sdegnava all’idea che il suo benefattore, che la Lisa, non avrebbero però mai cagione di andar superbi di lui, e riscaldandosi in quest’immaginazione gli pareva già veder Laudomia sposa d’un qualche grande, e che il cognato si vergognasse del povero Setajolo, che gli amici e le brigate lo lasciassero da canto, che la sua Lisa (secondo il solito se la dipingeva una perfezione) offesa da questi sprezzi lo volesse difendere, avesse a farglisi sostegno, quasi a proteggerlo!.... quest’idea lo trafisse a un tratto così amaramente, e passar la vita a quel modo gli parve cosa tanto dolorosa e vigliacca, che con subita risoluzione fermò in cuor suo di voler ad ogni costo prepararsi quella che si sentiva poter meritare. Pieno d’ardire e di speranza si vide a un tratto apparire innanzi agli occhi come una scena nuova tutta piena e risplendente di fatti d’arme, di vicende e di gloria; in fondo alla quale vedeva se stesso chiaro nella milizia, signore di castella, onorato e potente, e la Lisa tenuta in conto di gran signora, ed invidiata dalle compagne e dalle amiche; ebbro di queste seducenti immagini, conoscendosi saldo d’animo e di corpo, atto d’ogni difficil cosa, esclamava, quasi sdegnato di non aver avuto prima cotali pensieri:
«Pur beato ch’io m’accorsi alla fine d’aver[150] cuore e braccio al pari d’ogni uomo!» e soggiungeva: «Se Iddio m’ajuta come m’ajuterò da me, Niccolò non avrà ad arrossire di suo genero, nè la Lisa ad invidiare altra donna.»
Il disegno di Lamberto di darsi al mestier dell’armi non era in quel secolo privo d’una certa probabilità che venisse a riuscire ad una splendida fortuna; ben inteso che chi vi si metteva avesse ad un grado eminente le doti che rendono atto a tale ufizio, e che una palla d’archibuso non gl’impedisse troppo presto di farle valere. Durava ancora per la milizia il costume de’ condottieri, ed era libero a ciascuno di divenirlo, purchè salisse in tal riputazione tra la gente d’arme che molti si contentassero d’averlo per capo. Ogni soldato, facendo il mestiere per propria scelta, e come un modo d’arricchire e salir in grado, concorrevano in maggior numero a quel condottiere col qual si ripromettevano miglior fortuna. Esso poteva, accettando e rifiutando a sua posta, farsi una compagnia scelta; e questo modo di formar l’esercito avea di buono, che nessuno senza esser valente della sua persona, e senza grand’esperienza nelle cose di guerra non giungeva al comando.
Ma al momento di mandar ad effetto le sue risoluzioni, un pensiero gli si parò d’innanzi, se non come ostacolo insuperabile, almeno come una difficoltà, che sempre è più grave, quanto più è virtuoso l’uomo che l’incontra. Lamberto aveva ancor sua madre. Essa era, prima di prender marito, una buona[151] contadina di quel di Lucca, e venuta a Firenze con Piero, era stata seco molt’anni prima che le nascesse Lamberto. Si sarebbe potuto applicarle l’elogio racchiuso in quelle quattro parole che serviron d’epitaffio ad un’antica dama Romana:
Domum mansit=Lanam fecit[20].
Ma mi pare di sentire qualcuna delle mie leggitrici, se avrò la fortuna di trovarne, dire sorridendo «già noi povere donne non abbiamo ad esser buone ad altro che a star a casa a filare!»
Ah care le mie donne! (già suppongo che siamo d’accordo sul non prender letteralmente le parole dell’epitaffio) se sapeste quanto vi rende grandi, nobili, importanti ai miei occhi, l’incarico a voi commesso dalla provvidenza nel mondo!
Se il vero bello, il vero grande, l’importante finalmente ha a misurarsi dall’utile e dalla virtù, chi potrà credersi più importante d’una buona moglie, d’una buona madre? Chi regge i primi passi, chi consola i primi affanni di questi uomini superbi, che cresciuti poi si tengono dappiù di voi, ed a voi pure debbon ricorrere se voglion trovare sollievo alle miserie della vita? Chi al par di voi è capace viver vita di sagrifici, immolarsi del tutto al bene, alla felicità della persona cui donaste il vostro amore? Gli atti d’eroismo presso gli uomini sono sempre sostenuti dagli applausi e dalle lodi: per voi invece quanto può operar d’arduo e di[152] grande la virtù in un cuore umano, resta il più delle volte ascoso ed obbliato tra le pareti domestiche. E se ciò non ostante siete virtuose ed utili, qual gloria, qual merito maggiore!
Se sapeste quanto stia in vostra mano il bene dell’umana società, che tutto è posto alla fine nel bene delle famiglie! Se sapeste quanto da voi dipenda far gli uomini generosi, arditi, amanti della patria, farli umani, operosi, sapienti, fargli gentili e costumati, non invidiereste al nostro sesso i tristi privilegi d’ammazzar uomini in battaglia, o coll’ampolle e le ricette, che sono i due modi approvati per mandarli all’altro mondo; di tormentarli, o rovinarli coi codici, le cause e mille malanni; di torcer loro il giudicio, e gabbarli coi libri.... e Dio voglia che la gentil leggitrice non aggiunga del suo «e di farli sbadigliare con dei racconti simili a questo!» Ma non voglio supporla ingrata: che se le donne non son dalla mia questa volta, non c’è più speranza. Ora torniamo alla madre di Lamberto.
Essa era stata sempre non solo moglie fedele ed illibata, che se ciò basta ad un marito quanto all’onore, non basta quanto alla felicità, ma avea saputo, nei limiti angusti d’una povera casa, esser massaja senza miseria, provvedendo che il marito ed una fanticella non patisser di nulla, e potessero anche mostrarsi onorevolmente vestiti secondo lo stato loro. Ciò non ostante ad ogni fin d’anno trovava il modo di riporre qualche danaro pei casi impensati. Dove non giungeva la provvisione che veniva pagata a Piero da Niccolò, cercava supplire col lavoro dell’aspo, che facea girare tutto il giorno e parte della notte talvolta; tantochè le vicine, quando sgridavano i loro bambini perchè eran frugoli, che non istavan mai fermi, dicevan loro «Tu sembri l’aspo della Nunziata.»
È vero che la buona donna conscia dell’ottimo ordine col quale governava la casa, si lasciava andare a brontolar un poco quando tra i suoi sudditi[154] appariva qualche segni di ribellione. Ma siccome e sudditi e governo, eran d’accordo in sostanza, e contenti per l’essenziale gli uni dell’altro, accadeva nella famiglia di Piero, come in Inghilterra, che se talvolta sorgon contese, nessun però vuol mai spinger la cosa al punto di capovolgere del tutto lo stato. Se il paragone è un po’ troppo disuguale per le dimensioni, l’importanza relativa è all’incirca la stessa, perciò preghiamo il lettore ad ammetterlo.
Finchè era vissuto Piero le cose erano andate così. Dopo la sua morte Niccolò s’era a suo tempo tirato in casa il picciol Lamberto, ed accomodata la Nunziata d’una casetta ch’egli aveva poco lontana dietro S. Lorenzo, ove la buona donna, quando le furori cresciuti gli anni e sopraggiunti gli acciacchi della vecchiaja, potè rallentare un poco il lavorìo dell’aspo, stante gli ajuti di Niccolò, de’ quali si può dire vivea quasi interamente. La sua casa consisteva soltanto in una camera ed una cucinetta: ma siccome sempre la Nunziata s’era dilettata dell’ordine e della pulizia, la teneva rassettata e netta come uno specchio.
Sul letto, sempre rifatto che non faceva una piega, era sparso qualche fiore come s’usava allora in Firenze: appiccate al muro, sopra il capezzale, molte cosarelle di divozione; il ramo d’ulivo, il palmizio, il cero pasquale, e madonnine e santini. Nell’altro lato della camera uno scaffale con suvvi disposte in ordine stoviglie di terra e di stagno che splendeva[155] come fosse argento, e tra mezzo molte fronde d’alloro: un desco, qualche sedia, l’aspo, compagno indivisibile di tutta la vita, ecco qual era la camera della Nunziata. La sua persona piccola ed asciutta come colei che avea durata troppa fatica alla vita sua per poter ingrassare: i panni ruvidi ma ben composti senza una macchia.
La buona vecchierella viveva felice in quella casetta senz’altra compagnia che d’un gatto nero, il quale poteva dirsi più compagno che soggetto, a veder quali modi teneva in tempo di pranzo e di cena. Essa si cucinava e si serviva da se, soltanto le vicine, ora l’una ora l’altra, vedendola vecchia ed inferma, attingevano l’acqua che le bisognava, per loro amorevolezza non per mercede: giacchè generalmente i poveri tra loro (aprite gli orecchi, ricchi e signori!) quando non possono ajutarsi coll’avere, s’ajutano colle braccia.
Nella sua solitudine raramente interrotta, la buona vecchia aveva però un pensiero vivo, incessante, che l’occupava tutta: quello del figlio. Cominciando dall’allevarlo col proprio latte, e su via via per gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della gioventù, s’era ingegnata con tutti quei modi che le suggeriva il suo amore, di dargli tale avviamento ch’egli avesse per prima cosa a riuscire un uom dabbene, e potesse poi godere di tutta quella felicità che era compatibile colla sua povera fortuna. Al modo che lo vedeva stabilito in casa i Lapi le pareva che tante cure e tanti pensieri avessero pur servito a qualche[156] cosa: ed ora faceva di tutto onde Lamberto coi suoi portamenti venisse ogni dì più avantaggiando i fatti suoi. Quando un bel giorno ecco che egli le confida il suo amore per la Lisa e le speranze che nutriva: la buona donna, che non sapeva immaginare al mondo altro di grande, di ricco, di potente che la casa Lapi: cui pareva già toccar il ciel col dito vedendovi il figlio costituito in ufficio poco più che di servo, conoscendo di giunta che testina avesse la Lisa, si sbigottì tutta tremando che con quest’amore il figlio non venisse a far isdegnar Niccolò, e guastar in tutto i fatti suoi, onde prese a mostrargli quanto pericolo fosse in simil cosa, e molto lo pregò a volersene togliere, e sospirando, diceva: «Se almeno avessi posto in Laudomia l’amor tuo: Cotesta, figliuolo, farebbe per te, ma non è tua pari, neppur essa. Pensaci Lamberto!»
Nunziata, come tutte le donne avanzate in età, che standosene sole tutto giorno, se hanno cosa alcuna che le tenga in sospetto, a furia di fissarvi sopra il pensiero, si scaldano il cervello, e se la dipingono mille volte più terribile e pericolosa che non è in effetto, viveva in grandissima sollecitudine pel figlio; e quando questi veniva a passar qualche ora con lei, s’ingegnava con quelle ragioni, e quelle carezze che sa trovar una madre amorosa, di fargli entrare quei consigli ch’ella stimava fossero pel suo migliore.
Le cose erano a questo termine quando il discorso di Niccolò cambiò in certezza la speranza di Lamberto[157] e lo spinse a quelle risoluzioni che abbiamo accennate.
Ma come annunciarle alla madre? Come separarsi da lei, e forse per sempre? Come dire a lei, vecchia inferma, amorosa sopra tutte le madri «Vi lascio e vado in guerra?» Lamberto, quantunque in molto travaglio per queste idee, non si smarrì.
Sapea che la madre, come tutte le donne del secolo XVI, era assuefatta all’idea che è cosa virtuosa e virile talvolta il prender l’armi, e che lo sconsigliarne i mariti ed i figli, ove abbiano onesta cagione d’impugnarle, è atto vile e dappoco. Di fatto la Nunziata cresciuta in tempi torbidi e travagliati, aveva, e per le cose vedute e pei discorsi uditi continuamente, avvezzato l’animo alla lunga a pensieri forti ed arditi; onde quando Lamberto, dopo averle replicate le parole di Niccolò, le aprì il cuore interamente dicendole quanto avea fermato d’eseguire, con tutte le ragioni ed i rispetti, che aveva lungamente pesati in cuor suo, bensì sulle prime parea non sapesse risolversi a tanto sagrificio, ma poi a poco a poco si diede se non contenta almeno rassegnata alle ragioni del figlio. Essa era povera, non avea lettere, ma era capace di que’ pensieri generosi che germogliano in una bell’anima anche senza l’ajuto de’ libri. Passato quel primo sgomento, e considerando più pacatamente la cosa, le piacque l’idea di Lamberto di non accettare una tanta ventura prima d’essersene reso degno.
Sentì un nobile orgoglio pensando che il figlio[158] diverrebbe genero d’uno de’ primi cittadini di Firenze, senz’esserne obbligato soltanto alla sua umanità: che a quell’uomo dal quale s’eran ricevuti continui beneficj senza mai poterli menomamente ricambiare, si potrebbe pur alla fine render merito in qualche modo, o mostrare almeno d’avervi posto ogni studio, onde se v’era difetto s’attribuisse alla fortuna e non a viltà di pensieri. Insomma la partenza di Lamberto venne risoluta d’accordo.
Mentre segretamente si metteva in ordine di panni, d’arme e dell’altre cose che gli bisognavano, parte spendendo de’ suoi danari, parte di quelli della madre, che in questo suo bisogno gli volle donare tutt’i risparmi fatti in tanti anni; una parola uscita di bocca alla Lisa lo confermò sempre più nelle sue risoluzioni, e ne affrettò l’esecuzione. L’udì un giorno, parlando co’ fratelli d’un giovane loro parente che attendeva allo studio delle leggi, dire: «Quanto a me non mi pare uomo chi non vedo a cavallo colla corazza sul petto.» Queste parole suonarono all’orecchio di Lamberto come gli avesse detto «Ora se vuoi avermi tu sai quel che hai a fare».
Due giorni dopo sulla prim’alba il giovane coperto di tutte arme picchiava all’uscio della Nunziata, per abbracciarla e domandarle la benedizione. Il lettore potrà facilmente immaginare gli atti e le parole d’ambedue senza che prendiamo a descriverli minutamente. Al momento di dividersi, la povera vecchia preso tra le mani scarne e tremanti il[159] capo del figlio, che avea posto in terra le ginocchia, lo baciò in fronte, lo benedisse, e ponendogli al collo un crocifisso d’ottone gli disse «Questo non lo lasciar mai, figlio mio, ti porterà ventura» e Lamberto partì.
Ma prima d’avviarsi alla porta S. Gallo ov’era il suo cammino, volse il cavallo e lo fermò al portone di casa i Lapi. Mai gli era bastato l’animo di parlar proprio schietto ed aperto alla Lisa; ma ora il momento del distacco, la risoluzione presa, lo facevano animoso; quell’arme stesse che lo coprivano, già gli pareva sentire l’avessero mutato in tutt’altro uomo, e forse (era così giovane!) godeva mostrarsi alla Lisa tutto lucente di ferro, e pensava: quando sarò lontano e si ricorderà di me, mi vedrà colla spada e la rotella, e non con quel maladetto braccio e quei maladetti broccati.
Smontò da cavallo, e su per le scale risolutamente giunse alla loggia dell’ultimo piano. Lisa alzatasi pur allora era uscita con un infrescatojo ad annaffiare i suoi fiori prima che levasse il sole.
Le parole furon pronte e brevi.
—S’io ritorno, disse Lamberto tenendosi a due passi dalla giovane, e colle mani giunte in atto di preghiera, s’io ritorno sarò degno di voi, s’io non ritorno... vorrà dire che Lamberto vostro avrà perduta la vita per meritarvi. Ove ciò sia, avrete memoria di me? Se Iddio mi serba a miglior fortuna, sarete contenta aspettarmi?—
Lisa s’era appoggiata al muricciuolo della loggia,[160] chè quella comparsa improvvisa, quell’arme, le parole del giovane gravi e tenere al tempo stesso, le aveano messo in cuore siffatto turbamento, che le ginocchia le tremavano.
Sentì velarsi la vista da una nube dì lagrime, e rispose sotto voce volgendo il capo in altra parte:
—Sì, povero Lamberto!—
Stesa poi la mano ad un vaso di rose tutto in fiore, ne colse una, la diede a Lamberto, e fuggì nelle sue camere.
Lamberto in un momento fu in istrada: il moto del salire a cavallo sfrondò la rosa, ed un po’ di vento che soffiava ne disperse le foglie.
Lamberto tutto sbigottito le guardava volare tremolanti e spandersi all’intorno.
Si pose in seno, sospirando, il gambo e le fronde verdi che rimanevano, e spronò al suo viaggio col cuore stretto ed il pensiero a quella rosa che tanto poco era potuta durare intera.
Non lo deridiamo, povero giovane! quando il cuore si trova a questi passi, un’inezia basta ad affliggerlo come a consolarlo.
La Lisa intanto aveva narrato il successo alla sorella, e presto Niccolò ed i fratelli seppero anch’essi la partita di Lamberto. Saliti nella sua camera trovaron, lasciata sulla tavola, una lettera per Niccolò: in essa il giovane dopo avergli rese le grazie ch’eran dovute al tanto bene che avea avuto da lui, dopo avergli chiesto perdono s’egli partiva senza toglier commiato, e senza aver da Niccolò, come[161] da padre, la benedizione, gli si apriva interamente, dichiarandogli che nonostante il grande amore nutriva per la Lisa, non ostante le benigne parole del padre, egli non era però tanto cieco da non conoscere quanto la persona sua fosse inferiore alla ventura che gli si voleva far sperare: che gli sarebbe parsa gran villania, e troppa indegna riconoscenza dei tanti beneficj, il valersi sul momento della generosa profferta che Niccolò gli faceva per effetto di sua buona natura: che andava a porre in opera tutte le virtù dell’animo e le forze del corpo per mostrare almeno al mondo che s’egli era persona umile e povera avea però spiriti e pensieri meritevoli di miglior fortuna. Pregava poi la Lisa ad aver qualche memoria di chi tanto fedelmente l’amava, e ad aspettarlo un pajo d’anni, sperando potere, prima che fosser trascorsi, farle udir tali novelle che avesse a dire: Lamberto è divenuto un uomo.
E ciò lo scrisse con un frego di sotto, volendo riferirsi alle parole della Lisa.
Niccolò per la sua fiera natura amante de’ caratteri forti, rimase ammirato del partito preso da Lamberto; e quantunque molto glien’increscesse non si sapeva saziare di lodarne l’alta cortesia. E la Lisa considerando che il giovane soltanto per amor suo andava incontro a tante fatiche e a tanti pericoli, colta nel lato debole del cuore, crebbe agli occhi suoi proprj, e sentì che potea andar superba d’un tale amante.
Per ogni donna che sia del carattere della Lisa, è ben raro che l’amor proprio appagato non ischiuda la porta all’amore: ed in quei primi momenti udendolo desiderare e lodare da tutti le parve amarlo e forse l’amava realmente. Interrogata da Niccolò in quel primo calore, rispose ch’era contenta aspettarlo, e nella sua inesperta semplicità, già le pareva vederlo tornare signore d’un reame.
Ora vuoi sapere, o lettore, chi aveva posto in animo a Niccolò il dire ciò che disse a Lamberto? Era stata la buona Laudomia, che accortasi del suo amore, e stimandolo gran ventura per la sorella, avea con quella sua celeste bontà, cancellato tosto, o rinserrato almeno nel più profondo del cuore, ogni pensiero di se stessa, per occuparsi soltanto del bene della Lisa e di Lamberto, che da quel punto amò sempre come gli fosse stato fratello.
Tanto è vero che a questo mondo, vivon talvolta nascoste in qualche angolo ignoto, anime di eroi, a petto alle quali Alessandro, Cesare, e tanti altri simili a questi, son pure la povera e la meschina razza! e la differenza è presto capita. I secondi tormentaron gli altri per giovare a sè. I primi tormentan se stessi per giovare agli altri.
Faceva l’anno dacchè Lamberto era partito, nè, da una prima lettera in poi ove diceva essere agli stipendj del sig. Filippino D’Oria e militare sulle sue galee, s’era potuto saper altro sul fatto suo. Si cominciava a dubitare non fosse capitato male, e nel cuor della Lisa la sua immagine s’andava[163] cancellando per la lontananza, per l’incertezza dell’evento, e più di tutto perchè l’immagine di Troilo veniva occupandone il luogo. Si può pensare se alla buona Laudomia, recasse dolore veder quel Lamberto che il suo cuore avea saputo così bene conoscere e pregare, cui avea però rinunciato con tanta virtù per farne felice la sorella; quel Lamberto che avea lasciato patria, parenti, agi ed amici, ed avea mostrata tanta altezza di pensieri per amor di essa, vederlo, dico, posto in obblìo così presto per un pazzarello, per un cortigiano scannapane, per uno di quella parte dalla quale erano venute addosso a Firenze, e sulla sua casa cotante sventure. Laudomia era gelosa dell’onor di Lamberto, e non potea patire di vedergli fare un così gran torto; questa era la più potente cagione per la quale tanto l’offendevano i portamenti della sorella.
Nè potendo più reggere alla passione e tacere, una sera sull’imbrunire, in quell’ora che più di tutte può dirsi l’ora della confidenza, trovandosi sola con essa in camera, le prese le mani e le disse quasi piangendo—Oh Lisa! ed il povero Lamberto!.... la sua fede!.... il suo amore!.... l’hai proprio dimenticato del tutto?.... Alle quali parole Lisa ne rispose poche e brevi, ma amare e superbe. Laudomia tacque, uscì di camera, e trovatasi sola pianse dirottamente, come si piange quando, sulla virtù, sui pregi di persona che s’ami si è costretti a dire: «Io m’era ingannato!»
Ma venne ben presto il tempo in cui quella freddezza[164] che sentiva per essa scomparve e si cangiò in compassione, in premura più calda, più tenera che mai. Verso il finir di maggio Niccolò si condusse colla famiglia ad un podere ch’egli aveva presso il Poggio a Cajano, villa de’ signori Medici. Egli ed i figli venivano di continuo a Firenze per loro faccende, onde spesso le due sorelle rimanevan sole con una vecchia fante detta Mona Fede, buona, ma credula e di corto ingegno che non si potea trovar peggio.
Una mattina Laudomia che soleva dormire colla sorella, svegliatasi a levata di sole, non se la trovò più allato. Pensando fosse scesa in giardino per goder l’ore fresche, v’andò; ma non v’era, e neppure la fante, tantochè non sapea che pensare. Dopo un pezzo comparvero ambedue, ma come sbigottite e scompigliate, e pareva parlassero e rispondessero a sproposito. Laudomia cominciò a tremare, e condottasi in camera la sorella, le domandò affannata che cosa l’avesse così per tempo condotta fuor di casa, e che volesse dir quel suo sbigottimento.
Diede, l’incauta giovane, in uno scoppio di pianto, e buttandosele al collo disse: «Sono sua moglie!».... Laudomia all’udir quelle terribili parole che suonarono al suo orecchio come la profezia d’interminabili sventure, rimase senza respiro: e coprendosi il viso colle mani potè dir solo «Ah sciagurata, che cosa hai fatto!» Visto poi che in quel momento non avrebbe potuto ricavar altro dalla sorella, corse, per chiarirsi, alla fante, e con[165] parole affannose ora pregando, ora sgridandola, pur alfine fece parlare quella povera vecchia, che maravigliandosi molto di veder tanto turbata la Laudomia per questo fatto, non restava di dire che Troilo era un gran gentiluomo, e molto onorato partito per la Lisa, e che se avea voluto far le cose così in segreto, co’ signori non bisognava guardarla tanto pel sottile, avendo anch’essi le loro fantasie, e che Niccolò alla fine si sarebbe poi trovato contento, ed altre simili sciocchezze.
Insemina, per dirla in una parola, la cosa era fatta, ed il turpe modo, il lettore lo conosce: ma nessuna di quelle povere donne lo conosceva, anzi la fante per vieppiù rassicurare la Laudomia, narrava particolarmente la cerimonia esaltando la cortesia dello sposo ed affermando essersi eseguito il tutto colle debite regole in chiesa col prete, i testimonj ec., tantochè l’animosa giovane conosciuta niuna cosa esser più vana ed inutile, che disperarsi quando il male non ha rimedio, prese il savio partito di volger tutte le cure a prevenirne le tristi conseguenze. Il suo primo pensiero, ed il consiglio che diede alla Lisa fu gettarsi tosto a’ piedi di Niccolò e confessargli il tutto, ma non le bastò l’animo di seguirlo. Rade volte chi ha bisogno di un tal consiglio è capace di mandarlo ad effetto. Si spera coprire colla simulazione un primo fallo, ma quel male che conosciuto tosto amine Merebbe rimedj, ignoto si fa incurabile. Se Lisa avesse dato retta alla sorella, avrebbe avuta ad incontrare senza dubbio la prima furia di[166] Niccolò, ma poi volendo questi aver in mano le prove della validità del matrimonio si sarebbe scoperta la vile ribalderia che v’era sotto; diveniva facile, ed in tempo il rimedio, e la misera Lisa non sarebbe finita.... Ma narriamo le cose per ordine.
Il cuore umano è talmente impastato dell’amore di se stesso, che le anime più nobili anch’esse, in parte almeno gli vanno soggette. Laudomia udito il caso della sorella non potè non pensar subito «Dunque Lamberto è libero!» Ma fu tanto dolente di aver avuto un tal pensiero quasi per primo, le parve cosa tanto abbominevole e vile aver potuto trovar bene a se stessa nella colpa della sorella, che nell’innocente sua semplicità già si teneva per una perversa, e piangeva amaramente. Raddoppiò le premure per Lisa, e le pareva quest’aumento di tenerezza le alleggerisse il cuore, stimandolo quasi un risarcimento del torto che credea averle fatto. Colla speranza che il tempo offerisse poi una qualche occasione favorevole di dare miglior piega alle cose, scelse per partito migliore (dacchè a ogni modo era pur moglie di Troilo) ajutarla a tener quest’unione celata ed agevolarle i modi onde talvolta segretamente potesse trovarsi con suo marito.
La cosa andò così innanzi più mesi con poca soddisfazione però della povera Lisa che potea vederlo ben rare volte per la soggezione in cui vivea: costretta poi a premere i suoi dispiaceri e vivere in continuo sospetto, s’era dimagrata, avea perduto il fiore giovanile, e non pareva più quella di prima.
L’appassire della sua bellezza le era di tanto maggior dolore, quanto le era parso avvedersi d’un certo raffreddamento per parte di Troilo, ch’essa amava invece ogni giorno più ciecamente. Prima, quando non gli riusciva accostarsele, si mostrava però a lei in istrada, in chiesa, ovunque potesse: poi le era sembrato che piano piano andasse rimettendo di queste premure. La povera giovane si sentiva, com’ è naturale, pungere da’ sospetti; pensieri di gelosia tanto più tormentosi quanto meno era in grado di saperne il vero, le pullulavano in cuore; tutt’insieme menava vita meschina e malcontenta, e coglieva pur troppo presto gli amari frutti dell’errore commesso.
Ma l’infelice era appena in principio de’ suoi guai. S’accorse in modo da non poterne dubitare che presto non sarebbe più sola a portar la pena del suo fallire.
Quel momento aspettato bensì, ma pure pieno di tanto nuova allegrezza, di tanta trepida sollecitudine per le spose novelle, fu per la povera Lisa come l’annunzio d’una sventura. E qui nuovi motivi e nuove difficoltà per celarsi; aumento di patimenti pel presente, aumento di timori per l’avvenire.
È inutile distendersi nel minuto racconto dei modi tenuti da ambedue le sorelle per celare in quegli ultimi giorni d’angoscia e di dolore prima la madre, poi il bambino. L’esperienza ha più volte mostrato poter passar segreti ed inosservati fatti simili a questo anche in famiglie nelle quali vegli[168] l’occhio materno: in casa i Lapi poi fu cosa agevole celarsi a Niccolò, lontano le mille miglia da cotali sospetti, tutto avvolto ne’ pensieri della città e della mercanzia, spesso fuor di casa, e, quando vi era, sempre racchiuso nelle sue stanze terrene.
Ma questo segreto custodito con tanto studio, e per tanto tempo, per poco non si venne a scoprire per cagione della Lisa medesima. Per quanto Laudomia e la fante la scongiurassero, non vi fu verso a persuaderla si separasse dal suo bambino per confidarlo ad una balia. In un carattere più docile codesto amore, quantunque bello e virtuoso, si sarebbe però piegato sotto la quasi assoluta necessità, ma essa volle: e trovata opposizione volle con tal impeto, con tali smanie, che facendo dubitare della sua vita in quei momenti di sfinimento, bisognò pure arrendersi e contentarla. Ma allora fu indispensabile aprirsi ad altra donna. Sotto colore che pel governo de’ panni bisognasse una fante di più, fu presa in casa una giovane d’un sesto assai lontano, la quale venutavi col bambino della Lisa ne fu creduta madre e si teneva l’allattasse.
Per non esser in casa altro che uomini i quali avean il capo a tutt’altro, anche questa andò bene.
Bensì, Niccolò e taluno de’ figli udendo talvolta su in alto i vagiti del bambino dicevano alle giovani «Che domin siete andate cercando di metterci in casa questa tristizia! Mancan eglino donne in Firenze?» Ma la cosa tosto si quietava.
Gli uomini la dicevano, e le donne la facevano[169] a modo loro: come accade per lo più nelle famiglie quando tra uomini e donne si discute circa le cose domestiche.
Troilo intanto malgrado la cacciata de’ Medici, e l’abbassamento della parte Pallesca, era rimasto in Firenze con buon numero de’ suoi consorti, e vi s’andava mantenendo per trovarsi a portata, ove gli venisse fatto, di giovare ai suoi signori ed alla parte.
Quando poi i capitani di Carlo V rupper guerra a’ Fiorentini apertamente, cresciuti i sospetti nel governo pei quali si mostrava ognora più rigido verso i fautori della famiglia sbandita, parve a molti di questi tempo oramai di fuggirsi. Il seduttore della Lisa partito anch’esso segretamente, si condusse al campo degl’imperiali, che facean la massa a Fuligno: non potè, o non volle far motto alla figlia di Niccolò, prima di lasciar Firenze: le scrisse però in modo di consolarla e racquetarla alquanto. Non essere, scriveva, atto di leale, e d’onorato gentiluomo romper fede a’ suoi signori, ed abbandonarli nella mala fortuna; stesse di buon animo, avesse cura di se, del loro piccolo Arriguccio; sperasse tempi migliori; poi proteste di amore, giuramenti di non esser giammai per mancarle ecc....
Quanto fosser sincere queste espressioni è difficile giudicarlo, poichè non sempre anche gli effetti contrarj, sono sufficiente argomento per asserire sieno state usate con animo di mancarvi.
Il fatto stà però, che da quella lettera in poi o[170] Troilo non volesse farsi sospetto ai suoi con mostrare di tener pratiche in Firenze, o realmente fosse già spenta del tutto nel suo cuore ogni idea di virtù, d’onore, di compassione per la sua vittima, essa non ebbe più nè lettera nè riscontro veruno che le desse nuova de’ fatti suoi: e se ne vivesse malcontenta e sconsolata vel potete immaginare. Soltanto dopo parecchi mesi, quando già i nemici erano a campo sotto Firenze, venne a sapere pel canale di certi prigioni, che Troilo era in campo, e militava fra i gentiluomini del principe d’Orange.
Allora cominciò la meschina ad aprire gli occhi ed a tener per certo che Troilo fosse a lei traditore come lo era alla patria. «Esser così vicino, pensava, e non farmi aver una linea di scritto, non farmi dir una parola? Ah fossi io dov’è egli! fossi ne’ suoi panni! saprei ben io trovare i modi!»
Laudomia che aveva concepiti gli stessi sospetti anche prima della sorella si sforzava però di nasconderli, e di scusare il creduto cognato; e talvolta trasportata dal desiderio non si potea risolvere a crederlo ribaldo e sciagurato a quel segno.
Quantunque s’ingannasse, poichè è impossibile immaginare più vile ribalderia di quella colla quale avea tradita la Lisa, pure non era forse nato per esser uno scellerato, ed avrebbe per avventura avuti i semi di molte virtù se non gli avesse soffocati un vizio più di tutti pericolosissimo, la vanagloria. Questa passione la più credula ed al tempo stesso[171] la più fallace conduce l’uomo direttamente al fine opposto di quello che gli promette, soprattutto s’appiglia ai cervelli leggieri. Troilo per sua disgrazia se l’era dato vinto fin da fanciullo: e trovandosi presto in compagnia d’uomini tra i quali il vizio fruttava onore, la virtù dispregio, si diede a quello non tanto per propria inclinazione quanto per vanagloria.
Il tradimento fatto alla Lisa venne da lui ordito e condotto a fine per potersi vantare d’aver vinta una prova. Vero è ch’egli in principio l’amava, o piuttosto (per non profanare una tal parola) gli era piaciuta la sua bellezza: forse lasciato ai propri pensieri, non si sarebbe mai condotto a farle cotale inganno: ma uccellato da compagni, che lo deridevano avesse tanti rispetti ad una popolana, figlia d’un Piagnone sagrificò barbaramente ad una meschina vanità l’onore di quell’infelice, e la pace d’una famiglia onesta e dabbene.
Ora che il lettore ne conosce le tristi vicende, torniamo ove Niccolò sedeva fra suoi nella forma descritta al principio del capitolo antecedente.
Posto fine al ragionamento ch’egli avea tenuto sotto voce col Castiglione, il conversare divenne generale, e si ravvolgeva sugli affari del Governo, e sui partiti da prendersi, che quivi sotto l’influenza de’ Frati di S. Marco, e di Niccolò, quasi in anticipazione delle pubbliche discussioni, si concertavano.
Come accennammo al capitolo V, era stato mozzo il capo al Cocchi per inconsiderate parole a pro de’ Medici. Messer Ficino Ficini, caduto nello stesso errore, fu preso, posto al tormento, e condannato alla medesima pena. La sentenza doveva eseguirsi appunto in quell’ora, nel cortile del bargello, a lume di torchj, ed il discorso tenuto da messer Bernardo con Niccolò s’era aggirato sul caso di costui. Poco stante un tavolaccino della Signoria bussò alla porta di casa i Lapi; fu introdotto, entrato, si volse a Niccolò e disse:
—Il magnifico gonfaloniere vi fa sapere che in questo momento è stato mozzo il capo a messer Ficino; è morto molto da buon cristiano.—
—Stà bene, rispose il vecchio senza scomporsi, ed il tavolaccino uscì. Ma gli astanti, e le donne più di tutti, si scossero a quest’annuncio, e premurosamente tutt’insieme domandarono per qual causa si fosse fatta cotal uccisione.
—Un nemico di meno a questa città, rispose Niccolò; egli fu tanto ardito di dire pubblicamente che Firenze era stata meglio sotto le palle che a popolo: chi si mostra traditore colle parole sarà da aspettare venga ai fatti?
Tutti abbassato il viso e lo sguardo, tacquero. Fra Benedetto alzò gli occhi al cielo con un sospiro raffrenato. Le due giovani colle due mani abbandonate sul lavoro guardavan sgomentate or gli uni or gli altri. Il Ferruccio scostandosi dal cammino e buttandosi su una sedia diceva:
—Così avessimo stiacciato il capo al serpe, come ora si cerca di stiacciargli la coda, e la città non sarebbe a questi termini,... ma gli uomini pagano spesso i loro errori colla vita, ed i popoli colla libertà. Se alla calata di re Carlo nel 94, Piero e’ suoi consorti, e tre anni sono Ippolito ed Alessandro si fossero non cacciati ma spenti, si risparmiava il sangue di molti con quello di pochi.... I Pisani ci dicon ciechi per via delle colonne di S. Giovanni! Han ben altre e più potenti cagioni di chiamarci tali!.... Non abbiam saputo vedere che per[174] i Medici il più sicuro confino e in S. Lorenzo!....[21].
Alle rigide parole del Ferruccio, che pur troppo avevano in se una parte di vero, tutti rimasero pensosi e muti per qualche minuto. Era venuta intanto l’ora in cui per costume della famiglia si faceva in comune la preghiera della sera. Alzossi Niccolò, si volse a Bindo, il quale inteso il cenno uscì e poco dopo introdusse una brigata di operai e di fattorini del fondaco di Niccolò che avean costume ritrovarsi a queste preghiere, e che s’inginocchiarono taciti e riverenti in sull’uscio. Il vecchio trasse d’un forziere un libro di preci, e porgendolo a Fra Zaccaria gli disse:
—Più d’una volta in tempi men tristi il nostro glorioso Fra Girolamo fece l’uffizio che state per far voi;.... quanto sovente qui in questa camera ci diceva: «figliuolo, verranno i flagelli, converrà patire, combattere, ma poi Florentia renovabitur»!.... La prima parte della profezia è avverata, preghiamolo ora c’impetri da Dio l’adempimento della seconda; ottenga pace e libertà questo popolo, e chi combatte per esso incontri gloriosa vittoria, od onorata morte.
—Amen, rispose Fra Zaccaria. Prese il libro, e postosi ginocchione sotto la nicchia ov’eran le ceneri del Savonarola, gli altri si inginocchiarono[175] intorno per la camera. Dopo le solite orazioni pregò per le anime di coloro che già avean lasciata la vita nell’assedio, e più particolarmente per quella di Baccio. Niccolò, al nome del figliuolo, fu visto congiunger le mani in atto di fervida preghiera, ed alzar gli occhi al cielo pieni d’una serena rassegnazione.
Fra Zaccaria intanto per le parole dette poco prima dal vecchio, e per la vista della tonaca di Fra Girolamo, nella quale fissava gli sguardi, si sentiva ribollire in cuore più fervidi i pensieri di Dio e della patria. Per l’uso continuo avea facile il dire all’improvviso, chè niuno ebbe allora più di lui dalla natura l’eloquenza ardita e concitata del tempo, e l’animo inclinato ad usarla. Nel finir la preghiera il suono della sua voce si veniva facendo più alto; finita che l’ebbe, senza volgersi nè interrompersi proseguiva dicendo:
—No, non saranno disperse dai venti le tue parole, o glorioso Fra Girolamo, ed i nemici di chi confida in Dio diverranno polvere e cenere. Exurgat Deus et dissipentur inimici ejus! Ecco già s’adempion le tue profezie! La mano di Dio già s’aggrava sulla sventurata Firenze. Ora è tempo d’esclamare al Signore, di spargersi di cenere, di correre a penitenza. Ora è tempo d’armarsi di costanza e fortezza, onde impetrare che s’avveri la misericordia, come s’è avverato il flagello. Volgiamci all’unico re nostro, e nostro Signore Gesù Cristo.... Ricordati, esclamiamo, che questo popolo[176] t’ha scelto per solo suo re[22] Vedi che i tuoi nemici già vengono per toglierti il regno, per porsi sul tuo glorioso trono, fatti scudo a questo popolo che non vuol esser d’altri che tuo. Non sei tu quel Dio forte e geloso che s’adirò contro Israele quando chiedeva un re? Non sei tu quello stesso che al profeta Samuele diceva Non enim te abjecerunt sed me, ne regnem super eos! Non sei tu quel Dio che volendo usare agli ingrati ebrei un’ultima misericordia, dicesti loro per mezzo del Profeta:
Et constituet sibi tribunos et centuriones, et aratores agrorum suorum, et messores segetum, et fabros annorum et curruum suorum.
Filias quoque vestras faciet sibi unguentarius, etc.
Son pur queste, seguiva, le tue minacce contro chi si volea sottrarre al tuo imperio: Sii tu dunque giudice, o sommo Iddio, fra te ed il tuo popolo, e s’egli combatte per obbedire a te solo, per non piegare il ginocchio a Dagon ed a Belial, combatti dunque con noi, salvaci dalla spada degli Amorrei e degli Amaleciti, Exurge, exurge Domine, e sian dispersi i tuoi ed i nostri nemici.—
Queste parole dette in modo quasi profetico, potenti perchè profferite da chi li credeva, destarono fra gli astanti un fremito d’approvazione. Niccolò,[177] che si sentiva ancor nelle vene il calor de’ trent’anni ove si trattasse di patria e di Palleschi, afferrò pel braccio il Ferruccio e diceva fremendo:
—No, perdio, non c’entreranno in Firenze que’ maladetti; e finchè vivrete voi, fortissimi giovani, finch’io sarò vivo, le Palle non cacceranno il Giglio. Co’ nemici di fuori la spada, con quei di dentro la mannaja. Ben c’insegnava il nostro Fra Girolamo nella congiura di Bernardo del Nero, come si tolgon di mezzo i traditori. Vollero guerra a morte, e se l’abbiano, ed il loro scellerato sangue ricada sovr’essi!....
—Guerra a morte, ripeteva ferocemente il Ferruccio, odio e maledizione eterna a tutti i Palleschi! Così potessi con questa (e batteva sull’elsa) spaccare il cuore di quanti sono dentro e fuori le mura!—
Niccolò, i suoi figli ed il Castiglione risposero a queste parole di sangue con un riso sinistro. Fra Benedetto pensò sospirando:—In che tristi tempi mi tocca a vivere!—Fra Zaccaria ebbe appena con un primo moto del volto mostrato d’approvare il Ferruccio, che tosto mutato viso abbassò le ciglia e tacque.
Ma chi sentì poi adatto darsi come una coltellata nel cuore fu la povera Lisa, e serrando le ciglia malamente verso il Ferruccio stava per dirgli—«Si può esser buon cittadino senza aver animo e parole di beccajo» Ma la divina Laudomia che avea letto nel suo cuore, conoscendo quanto dovessero[178] offenderla cotali discorsi, e quanto fosse facile che nell’opporvisi cadesse in qualche imprudenza, si fece coraggio, le tagliò la parola, e con quel suo modo tutto dolcezza disse:
—Messer Ferruccio, anch’io amo la patria e mi tengo buona cittadina; anch’io spero che le vostre spade ajutate dal favore che Iddio promette alla giustizia salveranno la nostra città dalle mani de’ Medici e d’ogni altro tiranno, ma se credo lecita ad un cristiano la brama di venir liberato da chi cerca d’opprimerlo; se credo permesso, anzi opera santa, ributtar colle ferite e le morti gl’inimici della patria, non trovo che il nostro divin Redentore ci abbia permesso d’odiarli, di godere ne’ loro strazj, di rallegrarci della loro morte per piacer di vendetta. Non dite voi il Pater noster, messer Ferruccio?—
Il Ferruccio e gli altri rimasero senza saper che rispondere a queste mansuete parole, e per verità oppor loro una buona ragione non era cosa facile; Fra Zaccaria poi, che aveva bensì un’anima tutta fuoco per le sue opinioni politiche, ma era al tempo stesso uomo leale, severo e virtuoso, cui eran sorti in cuore i medesimi pensieri di Laudomia senz’essersi attentato a palesarli, disse volgendosi a Fra Benedetto:
—Quello che dovevamo dir noi ministri dell’evangelio, l’ha detto la Laudomia. Iddio parla spesso per bocca dell’innocenza; egli sia quello che ti benedica buona fanciulla.—
Laudomia arrossì, e tacque, e la Lisa di, nascosto le prese una mano, se l’accostò alle labbra ringraziandola così alla mutola d’aver tanto appuntino indovinato il suo cuore.
Niccolò, era rimasto come assorto in un profondo pensiero, in quel momento le passioni di parte, l’odio contro i Palleschi nutrito per tanti anni durava fatica a reggersi contro la sublime mansuetudine che suonava nei detti della figlia, le si accostò, le pose una mano sul capo, e le disse:
—Che tu sii benedetta, cara, buona Landomia.
Persino il feroce Ferruccio (tanto è grande ed invincibile la forza della virtù) fattosi dappresso alla giovane la stette guardando un momento in atto di rispetto e di maraviglia, ma poi brontolando le diceva:
—Voi parlate bene Laudomia, ma al modo in cui si vive oggi giorno, con tutti questi perdoni ci farebbe poco frutto, se un nemico è in piedi, ponilo a giacere se puoi, e quando è caduto non t’impacciar di levarlo da terra, che chi spicca l’impiccato, l’impiccato impicca lui. Del resto poi io son soldato e non chierico, amo la mia patria, sono nemico de’ suoi nemici. S’io potessi ammazzarli tutti non lascerei di farlo, e del resto non m’intrometto in altro.—
—Non nego che si possa, che si debba ammazzarli talvolta, rispose Laudomia alzando timidamente i suoi occhi azzurri e sereni sul volto duro[180] e torbido del feroce repubblicano, ma non si può forse al tempo stesso piangere sulla dolorosa necessità che ci porta a versar tanto sangue? Non si può forse sentir per loro pietà invece d’odiarli? Non si può almeno pregar per loro, che morendo lasciano pur mogli e madri sconsolate? Che hanno pur un’anima immortale da salvare o perdere eternamente? Voi, Fra Zaccaria, diceste che ora è tempo di meritar misericordia e perdono dal nostro Signore Iddio. Non vi par egli che, invece di godersi nell’odio de’ Palleschi, nell’immagine delle loro membra palpitanti, sarebbe miglior via a meritar questa misericordia il pregar per essi, il chiedere a Dio la forza di ributtarli bensì e difendersi da loro, ma, nel mostrarsi buoni cittadini, di non iscordarsi d’esser cristiani?—
A coteste parole quasi costretti da una forza invincibile, Fra Zaccaria, il primo, e poi tutti gli altri, e perfin Ferruccio, caddero ginocchioni. Alzò la voce il frate non più tremenda e sonora come prima ma dolce e raumiliata.
—Dio di bontà, disse: ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem; una fanciulla ha dato gloria al tuo nome più di noi che pur siam tuoi ministri.—
—Ora accogli questa nostra nuova preghiera, salva il tuo popolo dalle violente mani de’ malvagi; ma sovvienti che que’ malvagi sono più miseri di noi, poichè si chiariscono tuoi nemici e rinnegano il tuo santo nome, rammenta che sono nostri fratelli,[181] che tutti siamo tuoi figli, rammenta che tutti a un modo ti costiam prezzo di sangue, infondi adunque in loro sensi di giustizia, in noi di mansuetudine, concedi ad essi il perdono, a noi la forza di accordarlo, e di chiedertelo per loro.—
—Ti raccomandiamo, o Signore, più degli altri l’imperator Carlo V, poichè egli è il nostro più fiero nemico! Ti raccomandiamo papa Clemente. Ti raccomandiamo tutta la casa de’ Medici....—
(Queste parole parvero tanto nuove, tanto enormi, che fecero riscuotere ognuno).
—Ti raccomandiamo tutti i nostri nemici, i Palleschi....—
La povera Lisa, che stava ginocchioni col viso nascosto nelle palme sentiva a questa preghiera due rivi di pianto scenderle per le mani e le braccia.
—Ti raccomandiamo finalmente tutti coloro che ci hanno fatto o vogliono farci ingiuria. Salga, o Iddio, questa nostra preghiera sino al piè del tuo trono, ed a norma delle tue promesse c’impetri quella misericordia e quel perdono che non abbiamo negato ai nostri fratelli.—
Finita questa orazione tutti s’alzarono con viso sereno e contento, che tale è il primo frutto d’una vittoria riportata dalla carità sulle passioni dell’odio e del furore di parte.
—Ecco la Trojana che suona, disse messer Bernardo[23], è tempo di andarci con Dio.—
Voltosi poi alla Laudomia le disse sorridendo;
—Non anderò agli Otto a dir loro quali preghiere ci avete fatto fare stasera, chè non vorrei credessimo tutti dormire a letto, ed avessimo a dormire al bargello....—
Salutato poi Niccolò, uscirono tutti. I frati s’avviarono al convento, egli a casa sua, ed il Ferruccio disse voler arrivar insin in palagio per non so che faccende egli avea col gonfaloniere.
Le cose accadute in questa serata aveano versato un po’ di balsamo nel cuor della Lisa. Avvezza a non udir parlar de’ Palleschi che nel modo con che si parlerebbe di fiere, pieni sempre gli orecchi di parole di sangue contro di loro, s’era sentita ricrear il cuore dal suono di quella preghiera, come da una celeste rugiada; senza saper essa stessa ben definire quali speranze potesse accogliere, le pareva però di veder come un primo albore d’un men tristo avvenire. Salì in camera colla Laudomia, vi si chiuse, e quando fu ben sicura di non esser sovrappresa, corse nella stanza vicina alla culla del suo bambino; e lo trovò che dormiva riposatamente. Nel voltolarsi come soglion fare i fanciulletti di poco tempo avea disordinato il lettuccio. Una picciola gambetta tonda e bianca con un piedino color di rosa, usciva fuori dalie coperte; le braccia stavan buttate uno in qua l’altro in là con certe manine piccine e grassotte, ed il petto colmo e tondo, splendeva così candido e pulito che pareva un raso, e proprio rubava i baci.
La povera madre s’abbandonò tutta sulla culla, guardando però di non lo svegliare, ed aprendo la porta a mille affetti che aveva dovuto tutta la sera tener racchiusi nel cuore, cominciò a piangere dirottamente. Racquetatasi poi a poco a poco, diceva al fanciullo, che s’era pur risentito, aveva aperti gli occhi, e colle manine s’andava ora prendendo un piedino, ora accarezzava il mento della Lisa.
—Povero Arriguccio, passerino mio, amore della madre.... sai.... hanno pregato anche per te finalmente, hanno pregato anche pel babbo. Poi volgendosi a Laudomia le diceva:
—Sai che sono stata per isvelare ogni cosa? Quando Fra Zaccaria ha detto preghiamo pei nostri nemici Palleschi, c’è mancato un pelo che non abbia detto:—Preghiamo dunque per mio marito.—
—Davvero non so che mi ti dire, rispose Laudomia, in certi momenti anch’io quasi quasi penserei che fosse il nostro meglio.... ma pure, misura sette, e taglia uno....—
—Più ci penso e più mi pento di non averlo fatto.... vedi che vita di sospetto viviamo; sempre così non è possibile di durarla, senzachè ben sai per la natura mia quel finger continuo, quel coprire, quel dissimulare è cosa troppo dura ed insopportabile.... sono stata una dappoca a non saper cogliere quel momento che si trovavan avere il cuore un po’ men duro del solito. S’io avessi parlato, allora per forza conveniva che il rumore fosse men[184] grande se non volevano smentire le loro parole e le loro orazioni.—
Laudomia non partecipava che sino a un certo punto a questa speranza; il suo chiaro discernimento le mostrava che era un mal fidarsi di un momento di commozione, e che non bisognava creder per questo che cuori indurati nell’odio e nella vendetta si potessero così tosto ed interamente cambiare; perciò disse alla sorella:
—Lisa mia, quanto a questo lo sa Iddio che cosa sarebbe accaduto, e per me, siccome non mi son mai attentata a darti un consiglio (fuorchè quel primo), così neppur ora non mi vi attento; quel che ti posso dire si è, che qualunque cosa risolva, mi avrai sempre pronta per ajutarti, reggerti, consolarti, per quanto mi durino le forze e la vita. Lo sai pure ch’io vivo del bene che mi vuoi, del bene che mi vogliono i miei di casa, che non conosco, non comprendo altra gioja fuori di quella d’essere amata, e di pensare a procurar il bene, la contentezza, la pace di chi mi ama.—
La povera Laudomia pensava forse nel secreto del suo cuore a Lamberto nel dir codeste parole, ma non osando fermare troppo il pensiero in lui, riportava sulla Lisa e sulla sua famiglia quegli affetti che pur volevano un oggetto sul quale fermarsi.
Lisa intenerita le si gettò al collo dicendo:
—Io credo che gli angioli non abbiano il cuore fatto altrimenti dal tuo. Così ti avessi dato retta[185] quella mattina sul tornar di chiesa.... ma dopo mi pareva ogni giorno più difficile: che vorrà dire che stasera invece mi sento spinta con tanta forza a confessare, a svelare ogni cosa?—-
—Iddio talvolta, rispose Laudomia, ci pone in cuore ciò che farebbe per noi.—
—Orsù, disse Lisa risolutamente, vo’ fare ciò ch’Egli m’ispira. Domattina non saranno uscite ancora di mente al babbo le parole dicesti, le preghiere di Fra Zaccaria; basterà ch’egli mi punisca d’avergli avuto sì poco rispetto, d’essermi maritata senza sua saputa, ma non vorrà rinnegar quel perdono che ha poche ore prima implorato pe’ suoi nemici, non vorrà rinnegarmi per figlia, cacciarmi soltanto perchè un Pallesco è divenuto suo genero. E poi ci butteremo a’ suoi piedi con Arriguccio, lo pregheremo come si prega Iddio; Iddio non nega il perdono, potrà egli negarlo? La speranza è un male che facilmente s’appicca; se pure si può dire un male anche quando è fallace. Laudomia si persuase alla fine anch’essa che dopo un primo impeto di sdegno le cose si sarebbero pur potuto assestare. Lisa sedutasi accanto alla culla si recò in grembo il fanciullino e scopertosi il seno glielo porse, dicendo:
—Prendi angioletto, e voglia Dio che quando sarai fatto grande, siano spente queste maladette parti.—
Il bambino suggendo avidamente il latte, la Lisa gli dicea sorridendo:
—Avrei pur bisogno mi lasciasti un po’ di forza per domani.... ma Iddio me la darà.—-
Appoco appoco il fanciullino veniva chiudendo gli occhi, e la madre dondolando colla sedia, canterellava sottovoce una canzoncina, onde s’addormentasse del tutto. Laudomia, ritta dietro la sorella, gli veniva intanto ravviando i capelli, e finalmente glieli serrava in una reticella per la notte.
Mona Fede strascinando certe sue pianelle si dava da fare per ammannire i letti delle due giovani, porre la culla d’Arriguccio accanto a quella di Lisa.
—Aveva ascoltata attentamente la discussione tra le due sorelle, ma la conclusione ultima poco le andava a sangue: ricordando la parte avuta nel caso della Lisa, già le pareva aver addosso Niccolò con tutta la casa; onde, quando tacquero, con molti sospiri e molti scrollamenti di capo, pur seguitando ad ammannire l’occorrente per la notte cominciò a brontolare:
—Hum! Dio faccia che la vada bene!.... è presto detto raccontare ogni cosa!.... e poi? Se riesce a rovescio? Se succede qualche diavoleto peggio?.. così almeno con un po’ di riguardo si vive, stiamo in puntelli è vero, ma insomma finora non è andata malaccio, e un giorno o l’altro in qualche modo s’ha da trovar la via d’uscir da questo gineprajo.,.. ma almeno, per amor di Dio, non gli stessi a dire, che v’ho tenuto mano, che sono stata io.... lo sapete anche voi, io non ci ho che far niente!....—
—No, no, non gli dirò nulla, rispose la Lisa sorridendo della paura della povera vecchia.
—Già vi dico il vero, avrete un gran coraggio se vi basterà la vista di dire a messer Niccolò «Son moglie di....» Uh vergine Santissima!... solamente a pensarci.... è un grand’uomo dabbene, non c’è che dire, è un santo, ma quando s’entra su certi particolari, e’ diventa troppo pessima bestia.... è un pezzo che sono in questa casa, e come l’ho veduto io in certe occasioni, non l’avete veduto voi altre, avrebbe fatto tremare il sig. Giovanni. Quando poi ci si mette di mezzo quella diavoleria del Giglio e delle Palle.... allora salvatevi.... che io poi non so capire che domin si vogliano Intendere: quel che so io è, che quando era vivo il sig. Lorenzo, e i Fiorentini gridavano Palle, il grano non istava a sette lire lo stajo, nè il vino a otto e nove fiorini d’oro il barile, come oggi giorno. Del resto, i ricchi e i signori hanno le loro fantasie, ed io in questo non c’entro.... ma volevo dire a proposito di messer Niccolò, e di quando va in furia..... Alla venuta de’ Francesi nel novantaquattro.... voi altre eravate ancora in mente Dei.... que’ caporali dell’esercito, com’è usanza di cotesta nazione, vagheggiavano le belle donne di Firenze: un certo capitano de’ Guasconi, proprio il nemico lo tentò di mettersi a spesseggiare qui sotto i balconi per M. Fiore vostra madre. Un giorno il padrone torna a casa e qui, proprio sul portone, se lo trovò tra’ piedi. Vi so dir che con due parole ed un certo viso che gli[188] fece, il capitano pensò bene provvedersi d’altro alloggiamento. Insomma, badate al fatto vostro.—-
—Fede, lasciami stare, già sono risoluta, e sai che non mi muto.—
—Eh lo so, lo so anche troppo.... Basta, Dio faccia che se ne indovini una: ma da quel giorno che i leoni[24] s’azzuffarono, e fu morta la leonessa, una che è una non ci è più andata bene nè per Firenze, nè qui per la casa. Già l’ho sempre inteso dire a’ vecchi, che per questa città non è il più pessimo augurio.... e jer notte a aria cheta si sentiva sin di qua il ruggito di quel leone grande che venne colla giraffa, quando il soldano mandò a presentare il sig. Lorenzo nell’88... quel povero animale lo saprà ben egli perchè grida a quel modo.—
—Ed anch’io lo so, rispose la Lisa, e te lo dico subito, e’ grida perch’egli ha fame: ora che la carne d’asino vale un carlino la libbra gli toccherà far magro scotto.—
—Sentite, sentite, s’è vero che non finisce mai d’urlare!....—
Le tre donne cessaron in un subito di cicalare; la Lisa fermò la sedia, la Fede rattenne perfin l’anelito, tendendo ognuna gli orecchi. Per l’ora tarda, tutta la città quieta, il lungo della casa alto, e non[189] troppo discosto dal palagio de’ Signori, dietro il quale era il serraglio de’ leoni, s’udiva giunger tratto tratto il cupo e rauco ruggire di quelle fiere, che in quel disagio dell’assedio (la Lisa aveva indovinato) pativan la fame.
Ma mentre le povere donne stavan tutte orecchie ad udir quel ruggito lontano, un suono scoppiò terribile e vicino, la voce di Niccolò, che battendo all’uscio colpi furiosi, gridava:
—Apri, mala femmina!....—
Tra le molte leggi ed i molti ordini coi quali si reggeva la repubblica Fiorentina ve n’era uno il quale, non ostante fosse stabilito a tutela del viver libero, era non di rado pregiudicevole a quello, e partoriva tutto di pessimi effetti. Questo si chiamava la tamburagione.
Affinchè ogni cittadino potesse avere una via secreta, sicura, e sempre aperta per accusare ai magistrati chi macchinasse contro lo stato, e per togliere al tempo stesso ogni sospetto quando l’accusato fosse possente e temuto, erano ordinate in varj luoghi della città alcune casette chiamate tamburi, sul coperchio delle quali era un fesso d’onde si poteva far passare lettere o carte, e la chiave di tali tamburi era presso i rettori.
Chi voleva far pervenire in mano di questi un’accusa contro un cittadino la buttava in un tamburo (e ciò si nominava tamburare), e rompendo[191] in due pezzi un grosso d’argento ne serbava una metà, l’altra la chiudeva nella lettera onde se in seguito gli fosse venuto bene di farsi riconoscere ne avesse il modo.
Queste tamburagioni produssero mai sempre poco vantaggio, se pure ne produssero alcuno, e spesso furono istrumento alla malignità, all’odio ed alle vendette d’uomini codardi e vigliacchi.
Messer Benedetto de’ Nobili tra gli altri il quale, se il lettore se ne ricorda, avea concertato con Malatesta quanto fosse da farsi per costringere Niccolò ad accettar Troilo per suo genero, s’era tanto maneggiato, che gli venne fatto scoprire ove fosse il bambino della Lisa. Conobbe poter ottenere l’intento molto facilmente per vie della tamburagione.
Scritta perciò una lettera accomodata a questo suo disegno, la gettò nel tamburo posto nel muro del palazzo de’ Signori dalla parte della Dogana, e venne in mano al gonfaloniere Carduccio la sera stessa ove accadder le cose accennate nel precedente capitolo.
La lettera diceva così:
Magnifice Domine
«Avvegnachè sia pervenuta a notizia d’alcuni cittadini amanti della patria e di questo stato popolare esservi chi desidera e procura far novità, e tiene pratiche segrete coi nemici del nome e della libertà Fiorentina, si tengon essi obbligati darne avviso a chi può correre al riparo d’un tanto male.
Sappia adunque la vostra Magnificenza, che si dubita assai da molti sul fatto di messer Niccolò de’ Lapi, e si crede quella sua rigidità contro la parte Pallesca non sia che una vana ostentazione per colorire disegni pregiudizievoli a questo reggimento. La cagione di cotali sospetti sta nel sapersi che molte volte prima che cominciasse l’assedio era messo segretamente in casa sua, di notte tempo e per una loggia che mira sulla via dei Conti, Troilo degli Ardinghelli, rubello, al quale Niccolò ha maritata la Lisa; e per tener nascosto il parentado, dubitando forse non generi sospetto nel popolo, tiene ora un fanciullo nato di questo matrimonio, molto ben guardato in certe camere appartate su in alto della sua casa.
Vi è chi dice d’aver veduto Troilo entrargli di notte in casa anche a questi giorni che il campo è sotto le mura, benchè si sappia esser il sopraddetto Troilo ai servigi del principe d’Orange, e militare coi nemici di Firenze (ciò era al tutto falso, e messer Benedetto lo sapeva meglio d’ogni altro). Ora potrà la V. Magnificenza chiarirsi della verità dei fatti, e giudicar cosa si debba inferire da queste pratiche condotte con tanto segreto, e se faccian ritratto di buono e leale cittadino. A ogni modo non s’è voluto mancare di non l’avvertire a quella quae bene valeat.»
Il Carduccio rimase senza fiato leggendo quell’accusa. Niccolò, il suo amico, l’uomo sul quale non era mai caduto un sospetto, crederlo un traditore,[193] crederlo soltanto capace di dissimulare, non ci si sapeva indurre. Dall’altro lato la lettera citava fatti così positivi che si potevano così presto verificare!... Stette un momento sopra di se, ma tosto nel suo cuore riuscì vittoriosa la buona opinione che aveva del vecchio popolano, e deliberò mostrargli questa volta quanto largamente si rimettesse nella sua fede.
Si trovava appunto il Ferruccio alla presenza; fatto un piego, ove pose la lettera, e suggellato, lo pregò volesse in suo servigio portarlo tosto a Niccolò, dicendogli queste parole «Il gonfaloniere vi manda questo scritto onde veggiate in qual conto vi tiene.»
Pensò servirsi del Ferruccio e non d’un fante, affinchè qualunque alterazione apparisse sul volto di Niccolò nel leggere una sì enorme accusa, non fosse veduta se non da persona amica e prudente, e così non andasse per le bocche d’ognuno.
Giunse il Ferruccio a casa i Lapi, ed intromesso, non senza qualche maraviglia di Niccolò di vederlo così tosto ricomparire, gli pose in mano la lettera, dicendogli le proprie parole del Carduccio.
Niccolò l’aperse; la lesse, e rimase un momento senza dir parola o far moto nessuno. Poi alzatosi in piedi, e fattosi più presso al lume, colla mano si strofinò gli occhi e la fronte, guardò fisso in viso il Ferruccio come per accertarsi ch’era desso, e ricominciò a leggere il foglio dal principio.
Finita questa seconda lettura, e fatto certo che[194] tutto ciò non era sogno, pensò al primo che non fosse se non una filza di menzogne trovate da’ suoi nemici per iscreditarlo, e fu sua buona ventura, che se avesse pensato ciò poter esser vero, è probabile, colto così all’improvviso, fosse caduto morto. Due o tre volte incominciò a parlare, ma gli s’annodava la lingua in bocca e taceva, finalmente, facendo ogni prova onde non apparisse agli occhi del Ferruccio la tempesta si sentiva nel cuore, lo pregò ringraziasse il Carduccio della sua cortese opinione, ed usando tronche ma amorevoli parole gli diede commiato.
Volto allora a’ suoi figliuoli, che soli erano rimasti, con un’occhiata che li fece tremare, disse con quella voce alla quale alcuno in casa non osava replicare:
—Niuno sia tanto ardito d’uscir di questa camera finch’io non torno; presto saprò se anche sotto questo tetto vivano traditori.—
I tre giovani, attoniti e conturbati, si guardarono in viso l’un l’altro senza profferir parola; Niccolò, preso un lume colla manca, s’avviò per uscire, e passando vicino a Vieri gli strappò d’accanto la daga; varcò la soglia, chiuse la porta, e cominciò a salire la scala. Fatto il primo capo, si fermò un momento a pensare, poi scagliò lontano da sè il pugnale, che venne sdrucciolando per gli scalini insino in fondo.
Giunse alla porta della camera ove dormivan le figlie, si fermò di nuovo un momento origliando,[195] pose l’occhio al buco della chiave, ed il povero sventurato vecchio fu certo alfine della sua vergogna. La Lisa allattava il bambino.
A quella vista smarrito affatto il lume degli occhi percosse due volte col pugno chiuso sì fattamente la porta che quasi la staccò dalle bandelle, e con voce che pareva piuttosto ruggito d’una fiera mandò quel grido che abbiam poco sopra narrato.
—Apri!.... mala femmina.—
Passarono due o tre secondi, e nessuno apriva. Niccolò con una valida spinta sforza l’uscio già scassinato, entra, e si ferma in mezzo alla camera. Le due giovani s’eran fatte a un tratto diacciate e bianche come due statue di marmo, ed il vecchio rimasto muto, ed assalito da un tremito convulso, figgeva nella Lisa due occhi di fiamma che sembravano consumarla come fosse di cera.
—È dunque vero! gridò alla fine dando un muglio che i figli udirono dal pianterreno, e trasportato dalla furia di quel primo impeto si scagliò contro la figlia colle più orrende e vituperose parole che siano mai state dette a femmina perduta, a tale che Laudomia tutta tremante cadde bocconi piangendo dirottamente, e prese pel lembo il lucco del padre: ma questi voltosele come un serpe cui venga pesta la coda, glielo strappò dalle mani, e la sbigottita giovane ricadde colle braccia e colla fronte sul pavimento.
Lisa col capo tra le ginocchia (che al primo picchiar di Niccolò avea posto il fanciullo nella[196] culla) non s’era mai mossa; dopo quella prima sfuriata il vecchio tacque un momento come per riprender l’anelito, ma tosto proseguiva:
—Dimmi, femmina d’inferno, vergogna mia, vergogna della tua casa, non potevi prima ammazzarmi, e poi far quel che tu hai fatto? Non vi eran più coltelli in Firenze? Ci voleva tanto a spegner l’ultimo fiato di vita d’un vecchio di novant’anni? Non bastava levartelo dinanzi, e poi se volevi, darti anima e corpo al nemico? Togliermi la vita? che mi toglievi? ma l’onore salvato per tanti anni puro, intatto insin ad oggi!...... quando ho già un piè nella fossa, tu, perversa, mi butti il fango in capo? Su questi canuti, che dovean essere la gloria de’ miei figliuoli, l’onore di te, sozza scellerata!.... E se non eri da tanto di saper tener in mano un pugnale, chè nol dicesti a quel tuo sgherro ribaldo.... era impresa di gentiluomo, di Pallesco, di cortigiano fradicio de’ Medici scannar un vecchio da tergo..... ma sapeva il traditore che potea farmi peggio.... Ma, alla croce d’Iddio, anch’io gli saprò far conoscere l’error suo d’aver lasciato vivo Niccolò, e se n’avrà a pentire che non sarà più tempo.... Averardo.... Vieri....—
I giovani, che stavano in orecchi, corsero alle grida di Niccolò, che data loro a leggere la lettera mandatagli dal Carduccio esclamava:
—Chi di noi sarà tanto ardito d’or innanzi di alzar gli occhi in viso a Lamberto, a quel giovane onorato e dabbene, ed altrettanto disavventurato....—
E qui fermatosi un momento come colto da un nuovo pensiero:
—Disavventurato? seguiva, son pur pazzo.... avrà invece a ringraziar Dio, e botarsi, d’averlo salvato d’impacciarsi con questa trista, con questa sfacciata, che ha potuto tradire un par suo per darsi ad un ribaldo traditore, traditor mille volte!....
—Fuori di questa casa, gridava con furore e voce sempre crescente, fuori ora proprio, tu e questo fanciullo, e va, portaglielo a suo padre, e digli che ringrazii Iddio ch’io non son nè Pallesco, nè gentiluomo, ne cortigiano, che s’io fossi tale!.... che avete fatto assai ad uscirmi vivi dalle mani... Ma è stato Iddio che non ha permesso ch’io venissi sin qui con quella daga....—
Mentre Niccolò profferiva queste parole, la Laudomia in terra non cessava di singhiozzare tentando d’abbracciare le ginocchia del padre, che mai nol sofferse, e sempre la respingeva; i fratelli, vedendolo venuto in tanto furore, non ardivano appressarsegli.
La Lisa, che senza muoversi, e senza aprir bocca aveva ascoltato sino al fine quella gran villania finch’era contro essa sola, si scosse udendo chiamar traditore il marito, e ritrovò forza nella sua ardita natura, che a guisa d’una molla più era compressa, e più valida risorgeva. Alzò la fronte pallida, ed affissato il padre con occhio languido ma sicuro si pose ginocchioni così un po’ distante com’era, poi disse:
—Mi fate voi degna dirvi quattro parole prima ch’io esca di questa casa?—
Niccolò rispose—Di’, e fa presto.—
—Se voi m’avessi ammazzata, lo meritavo bene.... non posso negarlo. Conosco d’aver fatto errore grande, scostandomi da quell’obbedienza che v’era dovuta, e conosco ch’io dovevo almeno, poichè il male era fatto, confessarvi ogni cosa.... Laudomia ch’è costì e che non seppe mai nulla finchè tutto non fu condotto a fine, me lo consigliava; sono stata io che non ho voluto. Dunque tutta la colpa è mia, ed è ragionevole ch’io ne porti la pena, e tutto quanto m’avete detto, o mi direte, e qualunque sia il castigo che mi preparate, tutto riceverò benedicendovi le mani e dirò d’averlo molto ben meritato; ma se siete signore e padrone di me, non lo siete dell’onore e del nome di Troilo, che mai fu traditore a persona....—
—Io voglio aver tanta pazienza ch’io ti ascolti insino in fine....—
Disse Niccolò con riso amaro.
—E, riprendeva Lisa, di questo ne starà a paragone con tutto il mondo. S’egli è della parte Pallesca, egli è quali furono gli antichi suoi, e ciò non vuol dir altro se non che egli l’intende a un altro modo, che non l’intende il popolo di questa città.... e sarebbe cosa troppo enorme voler dire, che quanti cittadini son fuori di questa mura tutti sono traditori....—
—E tu vile ribalda sei tanto ardita di bestemmiar[199] la tua patria a questo modo, in casa di Niccolò, e credi pazza che tel comporti?.... e quando dovresti nasconderti sotterra, e morir per la vergogna, e ringraziar Dio e me che ancora vedi lume, invece ti rimane pur tanta faccia di parlare, e per poco la non dice che la buona, la virtuosa è stata essa.... e l’uomo dabbene egli è ’l suo drudo, e non è traditore chi viene armata mano contro la sua patria?.... Ah, che conosco finalmente che vipera mi tenevo in seno, che sia maladetta l’ora che tua madre s’incinse di te pel mio malanno.... Animo, a chi dich’io? Ch’io ho troppo sofferto.... Animo, fuor di questa casa....—
Finir queste parole, avventarsi alla Lisa, afferrarla per le trecce e strascinarla carpone sin presso la porta, malgrado i pianti e le grida di Laudomia, fu tutt’uno.
I figli allora, commossi a pietà per la misera sorella, s’interposero e gliela levaron di mano.
—Via, disse Vieri, il più giovane de’ tre, ch’era bonaccio e di que’ caratteri che non possono sentir discorrere di guai, via, d’ogni cosa alla fine si vuol far pace, e basta bene che la se ne vadi se voi non la volete in casa....—
—Oh padre mio! interrompeva Laudomia, è vero, abbiam fatto error grande, ma Iddio perdona pure a chi si pente, e domanda pietà... Se quel che più v’offende è l’aver essa sposato un pallesco, ma non avete voi pregato per essi non son tre ore... e se non perdonate, come volete che Iddio, scusate[200] babbo s’io son tanto ardita.... come volete che Iddio perdoni a voi?—
Gridò Niccolò:
—Non mi star a far la saccente, ch’io non ho mestieri d’imparar da te, sciocca, ciò che convenga di fare.... Sta a vedere ora che bisognerà lasciarsi vituperare le figliuole da’ Palleschi, per dar retta alle tue baje.... bada a te, e a’ fatti tuoi, tu.... e tu (volgendosi a Lisa) prendi quel fanciullo e levamiti dinanzi, e vattene col malanno, che Dio ti dia....—
La povera giovane, ch’era sino allora rimasa in terra buttata come uno straccio, coi capelli che le cadevan per le spalle e pel volto, mandando tratto tratto dal petto un singhiozzo convulso si venne alzando con gran fatica.
—Iddio è giusto, diceva interrottamente, oh Iddio è giusto.... egli e non voi m’avrà a giudicare.... e vedrà.... se meritavo.... d’esser trattata... a questo modo. Per la disubbidienza.... quanto a questo, ero colpevole.... è vero..... ma è mio marito.... non è mio drudo, come dite.... non ho peccato.... Per quanto all’esser Pallesco.... oh questo poi!.... Iddio non parteggia, io mi confido ch’egli non è nè Pallesco, nè Piagnone.... egli maledice.... oh sì, maledice queste sette.... quest’odj.... questi furori....—
—Egli maledice i figliuoli empj, gridò Niccolò, i figliuoli che disubbidiscono, e vituperano chi diè loro la vita, e n’attristano la vecchiaja, e li cacciano[201] disperati nella fossa, e tu, sciagurata, te n’ avvedrai....—
A questo punto Laudomia atterrita, e quasi smarriti i sensi e l’intelletto per la terribil scena di cui era spettatrice, e per l’orrenda maledizione scagliata dal vecchio sul capo della misera sorella, non trovava più forza per formar parole, ma coi gemiti, colle lagrime, coll’abbracciare le ginocchia e baciar i piedi del padre, divenuta come ebbra e forsennata, coll’avvinghiarsegli appigliandosi alle sue vesti tentava ancora d’impietosirlo. Ma lo sventurato vecchio era (non per modo di dire, ma realmente) fuor di sè, e smarrito ogni lume, ogni senso di ragione, ributtò Laudomia con un urto così valido che la misera si dovette arrovesciare sul suolo: provò dapprima un gran dolore al capo; a poco a poco non sentì più nulla e svenne.
I figli di Niccolò, visto l’atto crudele e furibondo del vecchio, che sconvolto nel viso, irti i capelli sulla fronte livida, mostrava col pallore, col tremito delle membra, coll’errar delle pupille, star presso a perder i sensi, come già dava segno di aver smarrito l’intelletto, gli si posero attorno con sommesse ed umili parole, ma pur usando misuratamente le forze, e l’avviarono fuor della camera dietro la sventurata sua figlia.
Questa, col fanciullo in collo che piangeva, scese, e senza più volgersi uscì in istrada. Al padre s’era intanto dissipata la nube che l’aveva per un momento come tratto di senno, si sciolse dalle[202] braccia de’ figli, e chiuso con impeto il portone, fe’ correre il chiavistello, e senza profferir più parola entrò nelle sue stanze e voltò la chiave dell’uscio.
Eran circa le sei ore, che in quella stagione corrispondono a un dipresso alla mezzanotte; la tramontana spingeva di traverso una pioggia fitta e diacciata, e la povera Lisa camminava a caso nelle tenebre, ora inciampando, ora entrando fino a mezza gamba nelle pozze d’acqua e di mota di che era piena la via, ma non avendo altra cura, altro pensiero che di tenersi ben serrato al petto il suo bambino ed addoppiargli i panni in capo ed indosso, onde salvarlo dall’acqua e dal freddo.
Procurando andar rasente il muro; e per dirigersi (avendo le mani impedite brancolar non poteva) alzava gli occhi tratto tratto, e seguiva la linea de’ tetti, che in quell’oscurità generale erano più scuri del cielo, appena tanto da poterli distinguere. Andò così un buon pezzo vagando, ed a poco a poco l’idea dello stato presente, del pericolo, del patire del figlio, cacciò o distrusse ogni altro pensiero. L’idea che s’ella fosse venuta meno, il povero Arriguccio sarebbe spirato nel fango di freddo e di disagio, forse in pochi minuti, valse a ritornarle quella forza che già sentiva mancare: pregò Dio col cuore, e riflettendo a qual partito dovesse appigliarsi, si risolvette andar da una parente che le s’era sempre mostrata amorevole.... ma stava fino in porta S. Friano. Pure non conosceva altro rifugio, s’avviò.[203] Poco pratica delle strade, così allo scuro, ed in tanto travaglio d’animo presto, come suol dirsi, perdè la tramontana, nè seppe più in quale strada si trovasse. Si fermò un momento per riprender gli spiriti e raccoglier le idee, e calcolando la strada fatta le fu avviso trovarsi in faccia al Duomo, di dove pel corso degli Adimari potea dirigersi verso l’Arno. Ma scostandosi da un muro che aveva alle spalle e procedendo avanti credendosi in piazza, dopo otto passi diede invece nel muro infaccia d’una via stretta, poichè senza accorgersene avea voltato dietro l’arcivescovado, e per Calimala era venuta verso porta Rossa.
Allora, perduta adatto ogn’idea del luogo ove fosse, sentì, insieme colla speranza, mancarsi l’animo e le forze, e si mise a piangere dirottamente, pur alzando tra i singhiozzi la debol voce a chieder ajuto per amor di Dio. Ma nessuna finestra s’aprì, nessuna luce comparve.
—Oh Dio mio! Dio mio, disse la misera stringendosi al seno il figlio, ch’egli abbia a morir a questo modo in mezzo a Firenze!—-
Ed alzò più forte la voce, che finì in istrido disperato. Tutto inutile. Le corsero allora alla mente le cagioni della sua presente sventura: ripensò rapidamente gli odj di parte, le preghiere fatte quella sera stessa, i furori de’ Piagnoni, li maledisse, maledisse la patria!... ma il suo dolore s’era mutato in follia. Merita compassione. Crebbe allora l’affanno del respiro, un sudor freddo le usciva da[204] tutti i pori, e le parea sentirsi agghiacciar l’alito nelle fauci. Le ginocchia le mancarono affatto, dovette accosciarsi rasente il muro; un torpore mortale le invase le membra pel quale a poco a poco anche la mente le si venne oscurando: non era sonno, non era svenimento, ma un misto d’ambedue.
Rimase in questo stato brev’ora, sopraggiunse per sua ventura la scolta guidata da Fanfulla, dal quale venne raccolta, e confortata nel modo narrato al capitolo VII. S’egli avea sentito premura per lei al primo vederla, tanto maggiore la provò quand’ebbe udito i suoi casi. Le si profferse in tutto quanto era in poter suo, interrogandola al tempo stesso, che cosa pensasse di fare. Ma neppur essa lo sapeva. Andar da quella parente come avea divisato quando si trovava sola, abbandonata da tutti, ora non ci si sapea risolvere: era una casa di Piagnoni arrabbiati, come tutti i congiunti e gli amici de’ Lapi, ed oltre che aveva in uggia più che mai in quel momento cotesti furori, era di più molto incerta se, saputo il suo matrimonio con un Pallesco, avrebbe trovato carezze ed accoglienze, od invece rimproveri e male grazie.
Quantunque caduta sì basso, il suo animo ripugnava a porsi in casa altrui in figura di colpevole e di supplicante. Rispose dunque a Fanfulla, che se Iddio, ed egli non l’ajutavano, non sapeva quanto a lei che cosa divenire.
—Vi sarebbe un mezzo, soggiungeva, ed il migliore[205] di tormi d’affanni, condurmi al campo a trovar mio marito!
—Eh figliuola, al campo! giusto; la via dell’orto! Prima, per bando del sig. Malatesta, nessuno può uscir di Firenze se non comandato, e per combattere; poi, un affare di poco! condurre una donnetta del vostro taglio col bambino, che se gli salta di cacciarsi a urlare, felice notte.... no, no, questa lasciamola per l’ultima.—
Alla povera Lisa si gonfiaron gli occhi di lacrime vedendosi tagliar la via di condursi a quello che era pur sempre signore del suo cuore. Sospirava e taceva, Fanfulla soprastato così un poco a pensare, scrollò il capo in atto di risolversi e disse:
—Orsù, per qualche tempo.... finchè arriverà... ci penso io.... Venite meco.—
Presosi il bambino in collo e coll’altra mano reggendo la Lisa uscì dalle camere della guardia, che potea star poco ad albeggiare, e dopo alcuni minuti si fermò all’uscio d’una casetta in via Larga. Dopo otto o dieci bussate l’uscio s’aprì.
—Aspettatemi qui un momento, disse Fanfulla entrando. Ricomparso dopo alcuni minuti mise dentro la Lisa, che in una povera cameruccia trovò una vecchia consumata dallo stento ma di benigno viso, la quale l’accolse con mostra di buon volere e di compassione. Si può imaginare se la povera giovane avesse bisogno di conforti d’ogni qualità! Pochi ne potè trovare, ma porti con amorevolezza, in quell’estremo bastarono pure ad ajutarla, e[206] fatta porre su un lettuccio col suo bambino, benedisse Iddio di trovarsi ancor tanto latte da poterlo addormentare: quando lo vide dormire, la stanchezza vincendo a poco a poco il senso della sua sventura l’immerse in un sonno placido e profondo.
Fanfulla intanto, visto appena che le cose si avviavan bene, se n’era uscito, promettendole che si sarebbe lasciato rivedere. Quando fu in istrada camminava a capo basso, colle mani dietro le reni, scrollando il capo e soffiando: poi un tratto si cacciò a ridere, e disse:
—Ora che il capitan Fanfulla ha creduto bene di farsi cavaliero di questa dama, e che le ha detto ci penso io.... al fornajo, ben inteso, vediamo un po’ se non se l’ha per male; con che quattrini le farà le spese? E non si scordi che la terra è assediata, e se la fame non cresce, che più di così e impossibile, cresce almeno ogni giorno il prezzo del grano!.... A te, rispondi.—
La risposta del buon Fanfulla fu cacciarsi a ridere un’altra volta dicendo:
—Proprio tutte a me mi capitano!.... Uh, fosse il tempo del sacco di Roma!... ma tosto dandosi colla mano sulla bocca si ricordò che dal sacco in poi aveva fatto di gran discipline appunto per iscontare il mal guadagno d’allora. Si recò in mano le poche monete si trovava indosso, avanzo della paga ricevuta a conto dal signor Malatesta. Il poveraccio n’avea donato la maggior parte all’ospite della[207] Lisa pel suo mantenimento, salvandone appena un terzo per sè, ma la provvisione, tanto per l’uno che per l’altra, potea servire una settimana malvolentieri. Pensando e ripensando, alla fine gli venne un’idea, ma dovette esser tremenda per lui, poichè gli trasse un gemito dal petto, come v’avesse materialmente sofferto la trafittura d’un ferro.
Si contorse, combattè, respinse l’idea, la discacciò, e raddoppiava il passo sperando lasciarsela dietro le spalle. Ma quella maladetta idea gli ronzava nel capo, lo molestava, cacciata di qua ricompariva di là, e quantunque non lasciasse di pungerlo, aveva però in se una potenza attrattiva d’un genere così irresistibile, che alla fine rimase essa padrona, ed il povero Fanfulla dovette proprio fare a suo modo.
Sapete che cos’era quest’idea? Rinunziare, niente meno, a far com’egli diceva il mestiere a cavallo, non esser più uomo d’arme, mettersi nelle fanterie e vendere il suo vecchio Grifone.
Un cuore come Fanfulla non v’è più in questo nostro secolo d’ egoisti!
Era tanta la pietà del caso della Lisa, ed il punto d’onore di non mancare alla promessa, che dovette, non trovando altro modo, attenersi a questo, benchè sopra tutti enorme e doloroso. Proseguì il suo cammino colla fronte bassa ed avvilita, come colui che già si sentiva caduto di grado, e nel solco della cicatrice che gli divideva la guancia scese lento, lento, un certo umido che in tutt’altri si[208] sarebbe chiamato una lacrima. Ma Fanfulla, chi diamine vorrebbe dir che piangesse!
Si condusse alla stalla ove teneva il cavallo e nel guardarlo pensava:
—Chi vuoi tu che compri questo povero animale? Torse lo sguardo ed il capo dal suo antico compagno al quale gli parea quasi farsi traditore, ed andò difilato ove alloggiavano gli uomini della compagnia del sig. Amico d’Arsoli. Nelle scaramucce che si facevano alla giornata sempre qualcuno ne rimaneva a piede. Fanfulla profferse il suo cavallo ad uno di costoro, e quantunque risoluto in tutto all’enorme sacrificio, gli rimaneva però nel cuore un resto di speranza, di non trovare chi volesse far il negozio per esser la bestia troppo sfinita. Ma in quel tempo non bisognava cercar cinque piè al montone, ed uno di que’ caporali, fu contento pagarlo trenta ducati. Il nostro povero amico prese i danari e presto se li mise in tasca. Levatane la chiave della stalla la diede al compratore, insegnandogli il luogo dov’era, tutto ciò senza guardarlo in viso, e si tolse di quivi sospirando e dicendo—È fatto—
Questa somma, che in tempi ordinarj avrebbe dato le spese alla Lisa per più mesi, col caro, cagionato dall’assedio, non potea servire pel quarto del tempo.
Una circostanza s’aggiunse, che la fece struggere anche più in fretta. La Lisa s’ammalò. Tante agitazioni, tanti patimenti le infiammarono il sangue;[209] le saltò una febbre gagliarda che per due settimane non la lasciò mai, e quando per le assidue cure della vecchia, di un medico dabbene, e più d’ogni altro del buon Fanfulla, fu rimessa in piedi, si trovò con poche forze e con meno danari. La vecchia non n’avea per sè, onde non potea darne. Fanfulla, senz’altra provvisione che la paga d’un fante, facea quel poco che poteva, ma se ciò bastava a non morire, non era abbastanza per poter campare. E la povera Lisa, conoscendo ch’egli viveva in disagio per cagion sua, gli nascondeva il proprio patire, il bisogno di cibo migliore e più abbondante, che per l’abito, la gioventù e le rinascenti forze, provava urgentissimo; in somma, la figlia di Niccolò nata e vissuta negli agi e nell’abbondanza d’ogni bene, imparava ora per la prima volta le terribili angosce della fame.
La vecchia che l’aveva raccolta in casa, detta la Niccolosa (l’arte sua era lavar pannilini, cucire e rimendare) era stata conosciuta da Fanfulla quando egli stava in S. Marco, chè spesso, per esser costei in tanta vicinanza del convento, le portava tovaglie d’altare ed altre biancherie. Tenendola per donna dabbene e d’amorevole natura, le avea messa in casa la Lisa, che accettata volentieri, fu del pari ben trattata finchè durarono i danari. Ma finiti questi, la povera vecchia venne a tali strette, che il suo proprio patire le toglieva di potere aver pietà dell’altrui. Salita un giorno nella cameruccia d’ella Lisa, con viso afflitto, ma con buoni modi, le dovette[210] pur dire, che quanto alla casa sua ell’era contenta vi stesse, nè intendeva metterla in mezzo alla strada; ma quanto al vitto, pensasse a provvedersene.
—E come provvedermene? Pensò sospirando la Lisa, che da molti giorni viveva di poco pane ov’era più crusca che farina, e vedeva presso a finire la piccola provvisione che se n’era fatta. Panni di qualche valore, anella da vendere non ne aveva, chè era uscita di casa si può dire in sola camicia. Ed in tante miserie fosse almeno stata sola a soffrire, ma essa avea un figlio che dovea vivere del suo latte!
Il povero Arriguccio, che dipingemmo così bello, così colorito e pienotto, avea pur fatta in poche settimane la gran mutazione. Le membra tonde e sode s’eran, per dir così, liquefatte ed avvizzite. La pelle lucida e tesa un tempo pendeva ora floscia ed arrendevole a tutti i moti del fanciullo.
Ogni giorno la povera madre nel vestirlo o nello spogliarlo, lo guardava, lo veniva ricercando per tutta la persona cogli occhi umidi di pianto; ed ogni giorno le pareva si fosse consumato la metà; ogni giorno credeva trovare qualche ossicino più protuberante, e meno coperto del giorno innanzi. E sebbene questo decadimento non fosse tanto rapido quanto la materna sollecitudine l’immaginava, era però vero e continuo.
Per la nuova magrezza, e l’impossibilità di mutarlo spesso, chè la poverina non avea panni, la tenera e sottil pelle del bambino in molti luoghi ov’era più frequente l’attrito, s’era fatta rossa, e pareva presso a lacerarsi.
La sventurata madre seguiva ansiosa e tremante il progresso di questi mali, struggendosi in pianto, ed in baci che imprimeva a migliaja sul misero corpicciuolo, quasi dovessero aver virtù di ritornargli la forma e lo splendore di prima. Ma questa virtù che era un tempo nel suo seno, il dolore, gli stenti, la fame, l’aveano esausta quasi del tutto.
Gli orrori della sua cacciata dalla casa paterna, il rimescolo, il freddo di quella prima notte, le avean subitaneamente scemato il latte; nè il suo modo di vivere era atto a ristituirglielo ora. Il fanciullo non mai sazio, piangeva di continuo: la poverina priva d’ogni ajuto, d’ogni modo onde acchetarlo se lo teneva tutto giorno attaccato al petto, ma neppur questo valeva: che il bambino trovandolo vôto, si sfiniva suggendo inutilmente e presto staccatosi dava in un pianto fioco e sconsolato.
Il giorno stesso in cui la Niccolosa era venuta a dirle quelle dolorose parole, la povera giovane verso sera rimasta sola in casa si sentiva più debole, più inferma del solito. Quel tenersi continuo il fanciullo al seno l’avea sfinita. Un dolore profondo alle ossa del petto le impediva di mettere intero l’anelito, e tratto tratto si sentiva soffocare.
Seduta a canto alla finestra col figlio steso sulle ginocchia, che languido ed abbandonato, dormiva, o piuttosto era in quel sopore che sopravviene al mancare delle forze, ella vedeva scemare la luce del crepuscolo pensando con terrore alle imminenti tenebre d’una lunga notte d’inverno.
Non avendo lume era costretta, quand’annottava, di andarsene a letto; e quell’ore eterne passate nell’oscurità senza poter chiuder occhio, e col disperato travaglio di non trovar via ad acchetare il pianto del figlio, le mettevano, al sol pensarvi, un brivido di spavento, ed eran forse il più duro tormento del suo stato presente.
Ora alzava gli occhi guardando il ciel bigio, che di momento in momento s’andava facendo più nero, ora li lasciava cadere afflitti e spenti sul volto affilato del bambino, misurandone il respiro, che le parve a poco a poco farsi più frequente e affannoso. Le parve scorgere che il candido pallore della pelle s’andasse come annebbiando di livido, specialmente attorno alle labbra, s’alzò sbigottita, e sperando codeste apparenze fossero effetto della poca luce, preso il fanciullo, lo pose col volto contro la finestra, e vide che il lividore non era illusione, vide le labbruccia farsi scure e turchine, gli occhi semichiusi aprirsi un tratto, e la pupilla errare un momento, poi sparire sotto la palpebra. Gettò un grido la misera madre, che credette giunta l’ultima ora del figliuolo, lo portò sollecita sul letto, lo sciolse in un baleno dalle fasce, e tremando per l’ansia, per[213] la fretta, per l’incertezza, cominciò a strofinarlo, e colle palme, col fiato, e, senz’avvedersene, colle lagrime che gli piovevano dagli occhi le pareva pure dover riuscire a ridestare in esso il calor vitale.
Poscia avvisando nuovi modi s’abbandonava colla bocca su quella del fanciullo, coprendolo e riscaldandolo, poi gli faceva cader tra le labbra qualche stilla di latte, che a stento riusciva a spremersi dal seno, ma la dolcezza di vederlo inghiottire, che avrebbe comprata colla vita, non l’ebbe; rizzatasi allora smaniosa, disfacendosi in lagrime, giungendo le mani convulse, o cacciandosele ne’ capelli:
—Oh figlio mio! diceva, oh amore della povera madre! oh non l’abbandonare!..... No, no, no!.... Oh se mi guardasse almeno! oh Dio! che non ho altro al mondo che il povero angioletto mio;.... e anche questo mi vuol abbandonare! Oh! Arriguccio mio,.... guarda la povera madre.... oh ridi!.... Oh! veder ridere una volta ancora quella boccuccia cara e poi morire! Oh! Dio! Dio! prendimi tutto..... sì, tutto e tutti..... ma il figlio, l’amor mio, le mie viscere,.... oh no, non è possibile.... oh non lo potresti volere!....—
Ma il fanciullo immobile, respirando appena, non dava segno atto a destare ombra di speranza. L’infelice Lisa rasciutte le lagrime, invetrito lo sguardo, ristette fissandolo un pezzo, immobile e muta; ma intanto ciò che gli sforzi, le cure, il pianto della madre non avean potuto, lo potè la natura e la convulsione che aveva assalito il bambino si venne a poco a poco calmando.
Se n’avvide ai primi indizj la donna. Scorse il colore ritornar naturale, gli occhi sereni; ricomporsi i lineamenti; tacita, tremante, teneva dietro a questa mutazione con un ansare sempre più rapido, ma quando vide le labbra del suo fanciullino aprirsi ad un sorriso, fu un tale scoppio d’allegrezza, di piangere e ridere ad un tempo, fu tale l’ebbrezza, la commozione interna, che mal reggendosi in piedi cadde ginocchioni accanto al letto, e coprendo di baci le ginocchia ed i piedi del figlio, diceva:
—Oh Dio, lo sapeva!... oh! non era possibile... sarebbe stato troppo ad una povera madre, ad un’infelice.... infelice? Chi dice che sono infelice? Che sono povera?.... M’è tornato l’amor mio! mi guarda e ride, l’ho visto ridere.... son felice, son ricca, io son troppo avventurata, io non chiedo altro, io non ho cuore per altro bene, per altro amore.... oh Arriguccio! tu avevi morta la povera madre.... oh cattivo!.... no, no cattivo.... angiolo, angliolo del paradiso, chè ora m’hai ridonata la vita.—
Nè bastando quelle parole a dare sfogo ad affetti tanto indomiti e bollenti, le finiva in un fiume di lagrime ed in mille baci e mille carezze.
Intanto era fatta notte del tutto. Quando nel cuor della Lisa fu acchetata la tempesta di tanti affetti, cominciò a riflettere al suo stato, al pericolo che, durando così le cose, quella sventura che era stata ora soltanto minacciata, s’avverasse: l’amor materno vinse il terrore ch’ella provava al solo pensiero pel padre, e si risolse andare a lui senza[215] por tempo in mezzo, impetrarne la vita del figlio, ottenerla o morire a’ suoi piedi.
Arriguccio dormiva. Fe’ sopra lui il segno della croce, l’assettò in modo che se veniva a muoversi non corresse pericolo di cadere, lo baciò, e scese brancolando nella cameruccia al pian terreno ov’era la Niccolosa.
—Per l’amor di Dio, le disse, state attenta se mai Arriguccio piangesse.... or ora torno.—
La vecchia la sgridava di voler uscire sola la sera; ma inutilmente, chè la Lisa già avviata più non l’udiva. La notte era scura, le strade deserte, appena qualche bottega a sportello, ed il debol chiarore dei lumi di dentro pur serviva a non ismarrir la via. La Lisa camminava muro muro, con passo veloce; in pochi minuti fu al portone de’ Lapi, che rivedeva per la prima volta. A quella vista pianse. Ma rasciutte quelle lagrime, ferma col piede sul primo de’ due scalini pe’ quali si saliva al limitare, le veniva meno il coraggio, nè poteva stender la mano alla campanella che serviva a picchiare.
Vide lume alle finestre delle camere terrene di Niccolò, e salita sulla panca di marmo che s’estendeva quant’era larga la facciata, riuscì, attenendosi all’inferriata, a poter alzarsi tanto da vederne l’interno.
Nella camera non era altri che Niccolò e Laudomia, egli sul suo seggiolone sotto il cammino, ella alla tavola del lavoro, ambedue immobili e muti; ambedue mostrando sul volto tracce tali che potevano, da chi ignorasse i loro casi, esser attribuite[216] egualmente, ad una calamità sofferta, o ad una fresca malattia. Lisa, che la prima conosceva, dubitò della seconda, e non s’ingannava.
Dicemmo come al fine della terribile scena, mentre Lisa era cacciata di casa, Laudomia rimanesse in terra svenuta; soccorsa dalla fante, si riebbe tanto da poter a stento, ed ajutata, giungere al suo letto, ma presa già dalla febbre, da vacillazione di mente, stette in forse della vita per molti giorni, ed altri moltissimi in letto, e quella sera stessa era scesa per la prima volta nella camera di Niccolò.
Ad esso era accaduto poco meno. Ma d’animo e di complessione più ferma, non aveva mai voluto nè stare in letto, nè sentir medici, nè veder anima viva; i figli, che s’eran lasciata sfuggir qualche parola a pro della Lisa, gli avea discacciati, ed alla sola Laudomia l’avea comportato, ma col patto espresso, che mai più non entrasse su questo discorso: vietato poi a tutti, pena la sua disgrazia, d’aver che spartire in verun modo cosa alcuna colla moglie, com’egli diceva, di quel traditore Pallesco.
Laudomia però, riavutasi appena tanto da poter connetter le idee, conosciuto che bisognava operare di nascosto del vecchio, avea combinato coi fratelli di ritrovar la povera Lisa, n’andasse il mondo. E per dir il vero avean messo sossopra Firenze, ma senza frutto nessuno, e la Laudomia più di tutti ne vivea disperata.
Lisa guardava intenta ora il padre, ora la sorella: il pallore, la mestizia d’ambedue, quell’immobilità,[217] quel silenzio erano altrettante punte che le laceravano il cuore. «Ecco di che fosti cagione! diceva a se stessa.... ecco in che termini hai ridotto tuo padre, un povero vecchio.... tua sorella quell’angiolo senza macchia.... e speri che Iddio non faccia a te altrettanto? Speri ch’egli voglia lasciarti la consolazione del figlio?....» E qui sorpresa dal pensiero che la vendetta divina stesse forse per colpirla appunto nella vita del suo bambino, non si potè più frenare, e scoppiò in un singhiozzare così alto che Laudomia e Niccolò l’udirono.
—Chi piange costì? disse il vecchio alzandosi; e andato alla finestra l’aperse. Lisa, vedendo che il padre si moveva, sopraffatta dal terrore, era scesa, e prostrata sul lastrico della via diceva:
—Ah babbo! per me non chiedo nulla.... non merito nulla.... ma il mio bambino sventurato! che colpa ha egli se sua madre è una sciagurata?.... Se suo.... (la povera Lisa ebbe ancor tanto senno da non nominare Troilo in quel momento). Oh babbo! il mio povero bambino infelice vive del mio latte:... ed io non ne ho più.... non ho più forza, non ho più fiato, più vita!... la fame, babbo!... la fame.... oh Dio, se provaste la fame!.... e vedere un bambino che muore di fame!....—
Lisa nel finir queste parole alzò il capo tremante, pensando, esser impossibile che Niccolò fosse tanto crudele da non muoversi a compassione; già si figurava veder alla finestra il padre in atto benigno.... invece la finestra era chiusa, sparito il lume.[218] L’infelice stette in due di spaccarsi la fronte sui sassi, tanto fu il dolore disperato che l’invase.
Niccolò, accortosi appena della figlia, s’era tosto tirato indietro, non perdendo però una delle sue parole. Laudomia, senza profferir sillaba, gli s’era accostata, e piangendo cheta gli abbracciava le ginocchia. Ma il vecchio fattola alzar di forza, e coll’indice teso mostrando la porta, disse, con voce ch’egli voleva far minacciosa e severa senza potervi però interamente riuscire:
—Laudomia, io non mi muto: esci, sali in camera; lo voglio, te lo comando.—
Visto che non era prontamente ubbidito, ripetè l’ordine, e questa volta con quella voce alla quale nessuno di casa s’attentava a resistere. La povera Laudomia uscì coprendosi il viso colle mani. Il vecchio, soprastato così un poco origliando, quando udì perdersi lo strepito de’ passi di Laudomia che lentamente saliva, andò prestamente nella camera ove era la dispensa, pose in una tovaglia quanto pane vi potè capire, e venuto al portone l’aperse, lasciò sul limitare la provvisione, e richiuse col chiavistello. La povera Lisa, udendo aprire, s’era alzata tosto dal luogo ove giaceva con tutta la fretta che le concedevano le sue poche forze, tutta l’ansia che si può immaginare, e s’era mossa, sperando venire accolta in casa: ma giunse appunto quando il chiavistello veniva ricacciato negli anelli, e vide a terra la tovaglia col pane. Tante umiliazioni, tanti mali l’avean prostrata; non ebbe più[219] forza nè di piangere nè di dolersi. Sedè sulla soglia, prese un pane e cominciò (chè si sentiva mancar dalla fame) a mangiarlo con avidità. Spento, o sospeso almeno ogni senso de’ suoi mali morali, pensò, sospirando pel desiderio:
—Che ristoro, che bene mi avrebbe fatto un buon fuoco ed un po’ di vino, così intirizzita, così debole come sono!—
Laudomia intanto, salita appena, era di nuovo scesa senza lume, scalza, per non far rumore, sperando ingannar la vigilanza del padre, e poter giungere alla Lisa: facendo capolino dall’alto vide l’atto di Niccolò, lo vide fermarsi dopo chiuso il portone e rimanere colla fronte bassa alcuni minuti, che le parvero mille secoli, poi asciugarsi gli occhi col dosso della mano, ed alla fine rientrare nelle sue camere. Laudomia si lanciò al chiavistello, l’aperse adagio, adagio, uscì in istrada: era scura e deserta; fece alcuni passi chiamando a voce bassa, ma quanto potè distinta, «Lisa mia! Lisa mia! Nessuno rispose: eppure, pensava, non può esser ancora tanto lungi che non m’oda: oh, sapessi per qual parte ha preso! Averla forse qui presso e non poterla trovare! E s’io non uso quest’occasione, forse mai più!.... Griderò più forte; accada che vuole.» E la buona Laudomia con voce acuta chiamò due volte la sorella.
Una voce, non femminile, ma forte, maschia e vicina, le rispose dicendo:
—Chi può chiamar la Lisa per la via a quest’ora?—
E tosto le fu sopra un uomo d’arme a cavallo che rattenne la briglia mentre la giovane sbigottita rifuggiva all’uscio di casa. Entrò, ma non lo chiuse, e si volse incerta, chè passato il primo sgomento le era parso quella voce non le giungesse nuova.
Il cavaliere fattosi avanti, smontò e le disse:
—Laudomia, voi cercate di Lisa in istrada, a quest’ora?—
—Oh Lamberto!....—
Ma non potè dir altro, chè questa comparsa così improvvisa le fu come un colpo di fulmine. L’avea pur tanto sospirata, anche dopo il caso della sorella, poichè conoscendo bensì quanto sarebbe stato doloroso il narrarglielo, pur l’idea di Lamberto vicino la rassicurava, le sembrava avrebbe una guida, un appoggio: che egli saprebbe trovar rimedi ove nessun ne trovava; consigli, mentre venivan meno ad ognuno. Figurandosi il suo arrivo, se lo era immaginato in modo che non le mancasse tempo a preparar le parole; colta ora così improvviso, non potè per brev’ora nè parlar nè rispondere.
Ma tornata tosto al pensiero della Lisa che intanto sempre più s’allontanava, e preso risolutamente partito, diceva con parlar celere e pieno d’istanza:
—Lamberto! Iddio, vi ci ha mandato.... La Lisa era qui ora.... sarà poco lontana.... cerchiamola, non vi posso dir altro.... chè se si perde un momento.... oh Lamberto! andiamo.... saprete il motivo.... ma andiam presto.—
Lamberto, lontano mille miglia dal vero, sentì[221] però darsi da queste strane parole una botta al cuore; ben conobbe che qualche gran cosa v’era sotto; ma come forte e discreto, cacciato ogni altro pensiero, senza domandar più oltre seguì la giovine, che fatta sicura per tal compagnia, mise in cuore di cercar tanto finchè trovasse la sorella. Tiravano verso il Duomo, e ad ogni passo la chiamavano a nome.
Ma prima di narrar l’esito di quest’inchiesta, sarà bene dir due parole dei casi di Lamberto dal giorno ch’egli uscì di casa Lapi.
Ardeva in quel tempo la guerra tra Carlo V e Francesco I. Il popolo di Firenze, che per antico uso seguiva la fortuna di Francia, aveva nel campo francese un suo cittadino, il più riputato e valente soldato che fosse allora in Italia, Giovanni de’ Medici, capitano di quelle bande famose, che dopo la sua morte furon dette bande nere. Lamberto propose mettersi nella sua scuola, e da un cittadino amico de’ Lapi, ebbe una lettera che molto lo raccomandava al capitano fiorentino. Saputo ch’egli era in Lombardia, ove già romoreggiavano le genti tedesche, che condotte da Giorgio Fronsperg per la valle dell’Adige calavano in Italia, prese il suo cammino per Bologna, Parma e Piacenza, ed a piacevoli giornate, per non trovarsi, giungendo, troppo male a cavallo, dopo non molti giorni si trovò a Milano.
La terra ed il ducato si tenevan per l’imperatore, ed era tutto pieno d’armi tedesche e spagnuole sino alle rive dell’Adda. Di là dal fiume, l’esercito di Francia, s’alloggiava pei borghi e per le terre della[222] Ghiara d’Adda; e Giovanni colle sue bande era in quel momento a Rivolta con parte delle genti; il resto l’aveva sparso da Vailà sino a Casirate. Siede Rivolta non lungi dalla riva sinistra dell’Adda tre miglia al disotto di Cassano, pel di cui ponte avrebbe dovuto passar Lamberto; ma v’era a guardia un grosso d’imperiali, i quali, vedendo un uomo d’arme avviarsi al campo nemico, l’avrebbero senza dubbio fermato. Bisognava dunque provvedersi d’altro tragitto.
Il più spedito, ed insieme il più pericoloso, era guadar l’Adda rimpetto a Rivolta; a questo s’appigliò Lamberto pensando «Più che la lettera mi gioverebbe appo il sig. Giovanni s’io potessi giungere al campo dando segno alcuno della mia virtù sotto gli occhi suoi proprj.» Così deliberato, partì una mattina nel finir di giugno, allegro e contento da Milano, sul suo buon cavallo che avea ristorato dal viaggio, ed ottimamente in arnese di tutte armi; e passando libero tra molte truppe di soldati, che lo credevan di parte imperiale, poco dopo mezzogiorno si trovò là dove le campagne cessando d’esser coltivate s’imboscano, ed il terreno divenendo ghiajoso mostra non lontana la corrente del fiume.
Seguì la strada che s’avvolgeva entrando fra certi macchioni, ora sassosa ora affondata nella sabbia, e giunto ov’era un poco di rialzo scorse, in mezzo ad un largo letto di ghiaje aride e bianchissime, scender veloce e limpida l’onda dell’Adda. Al di là, sul campanile di Rivolta, vide sventolare[223] la bandiera del sig. Giovanni, le Palle de’ Medici. Quella vista non potea non offendere chi era nato del popolo di Firenze, e Lamberto stringendo i denti, e dando di sprone al cavallo, pensava «Peccato ch’io pur debba combattere sotto quella impresa!» ma gli sovvenne tosto, che il ramo mediceo, dal quale usciva il valoroso capitano, era capital nemico di quello che tanto avea pesato su Firenze, e cacciati que’ molesti pensieri passò innanzi.
Qui però, conoscendo esser per lui il luogo di maggior pericolo (poichè in tempo di guerra, come ognun sa, passar la linea che divide gli amici dai nemici è tenuto per atto sospetto) e dubitando incontrar qualche mano d’imperiali che corresse velettando quella riviera, s’inforcò meglio sulla sella, imbracciò più stretto lo scudo, e colla lancia alla coscia era tutt’occhi, camminando pur tuttavia, per non esser colto improvviso.
S’era provveduto a tempo. Uscito appena dal bosco, non avea fatto dieci passi sulla nuda ghiaja quando si sentì alle spalle uno stormir di frasche e voltosi al rumore, vide sbucar dalle macchie tre balestrieri a cavallo e due barbute, che tutti insieme di mezzo galoppo gli vennero sopra. Egli avea scorto sulla riva opposta buon numero di soldati delle bande che cercava, e tra loro due a cavallo di nobil presenza che pareva l’attendessero ad osservare che cosa dovesse nascere di quest’incontro. Pensò in cuor suo «Oh, fosse costà il sig. Giovanni!» e questa speranza gli raddoppiò l’ardire e perfin la[224] forza, e disse tra denti «Uno contro cinque: è una buona occasione. Ora Iddio m’ajuti.»
Fattosi avanti, una delle barbute gli gridò:
—Chi sei, e con chi stai?—
—Con nessuno: rispose Lamberto senza far atto nè di muoversi, nè d’arretrarsi.—
—Chi viva!—Replicò l’altro arrestando la lancia.
—Viva il sig. Giovanni, viva Firenze, e muojano i marrani! gridò Lamberto in modo che, udito dall’altra riva, cento voci ripeterono il medesimo grido: ma nel mandarlo, il giovane, piantati di forza gli sproni ne’ fianchi al cavallo, s’era lanciato contro l’avversario, e, passatogli colla lancia l’arcione dinanzi, lo ferì nella coscia, e lasciandolo, che tutto rannicchiato accennava di cadere, si volse agli altri.
Fortuna per lui, che su quella ghiaja piena di ciottoli e di pietre grosse i cavalli mal si potevan maneggiare, onde non vennero ad essergli tutti addosso ad un tratto, chè al certo si trovava spacciato: ma pure, per quanto fosse valente della sua persona, per quanto disperatamente menasse le mani, difendersi contro quattro era difficile impresa. Pure, furon poco stante ridotti a tre, chè Lamberto, in mezzo a quel tempestare, n’avea veduto cadere uno senza essersi accorto, in tanti colpì, quale gli fosse toccato.
Così sempre ravvolgendosi tra loro, e combattendo, s’erano accostati alla riva, e Lamberto, che[225] sentiva negli orecchi le grida di dagli, dagli, dalla sponda opposta, voleva esser fatto a pezzetti prima d’arrendersi. Conobbe pure alla fine che dirla solo contro tanti era pretender troppo dalle sue forze e dalla fortuna.
Preso il suo vantaggio, si lanciò nel fiume lasciando sulla sponda due de’ nemici; ma il terzo più pronto, gli tenne dietro quasi nell’istesso tempo, tanto che i cavalli ebber presto l’acqua fino al petto, e quello di Lamberto aveva alla groppa la testa del cavallo nemico.
L’animoso giovane volgendosi tirò una punta al cavaliere: non potè passare il corsaletto del quale era armato, ma fu di tanta forza che la lama volò in pezzi; il percosso collo stringer le cosce comunicò l’urto al cavallo che già si reggeva mal sicuro sul fondo incerto del fiume, l’uno e l’altro andaron sotto in un tonfo profondo, ed uno scoppio di grida lodò dalla riva il bel colpo di Lamberto. Alcuni archibusieri del sig. Giovanni avevano intanto coi loro tiri fatto arretrare i nemici: a Lamberto non restava altro contrasto che quello del fiume. In quella vede riuscir dall’acqua assai lontano il capo del cavallo caduto che notava a salvamento, e a poche braccia il cavaliere, ma abbandonato in atto di chi abbia smarriti i sensi.
A Lamberto, che l’avrebbe poco prima morto a buona guerra volentieri, increbbe ora di vederlo affogare: volse la briglia verso lui stimolando il cavallo, mentre i soldati del sig, Giovanni accortisi[226] del suo disegno gli gridavano con grandi schiamazzi==Lascialo bere!==Colui per sua fortuna non era nel filo della corrente, ma in uno spazio ove l’acqua ripercossa da un gomito della sponda si rivolgeva all’indietro; onde Lamberto ebbe agio di giungere ad afferrarlo per le coregge della corazza, e tirandoselo dietro spinse il cavallo di traverso nella corrente. Questa era profonda e rapida nel mezzo, il povero animale dovea portar quasi doppio peso, e poco mancò la carità di Lamberto non gli riuscisse fatale. Pure senza smarrirsi d’animo, preso colla sinistra il crine del cavallo che aveva appena il capo fuor dell’acqua, animandolo colla voce e col calcagno, riuscì alla fine, deviando però molto, a toccar l’altra riva.
Fu raccolto con gran festa dai soldati spettatori di quel bel fatto, e molti entraron nell’acqua per ajutarlo a sorgere, e togliergli l’impaccio di quell’uomo mezzo morto, che stesero sulla riva a bocca sotto motteggiando del bello sturione, com’essi dicevano, che aveva pescato.
Sopraggiunse in quella un giovane a cavallo di aspetto altero e di membra fortissimo, con un cojetto indosso, ed una rotella in braccio nella quale eran le sei palle in campo d’oro. Tutti s’allargarono riverenti, ed egli fermatosi presso Lamberto, il quale tutto grondante d’acqua (e dalle spalle stillava pure a gocce sanguigne) era scavalcato, gli disse con parlar tronco; ma sorridente ed amorevole.
—Chi sei tu, che combatti contro cinque uomini per gridar il mio nome?—
—Il mio è troppo umile e basso, perch’egli non giunga nuovo all’Ecc. V., rispose Lamberto, beato oltre ogni credere d’essere stato veduto in quella occasione dall’istesso capitano: ho però qui una lettera di Messer (nominò chi l’avea scritta) se pure l’acqua non l’avrà disfatta, che potrà dare all’E. V. contezza dello stato mio, e farle fede quanto sia grande in me il desiderio di venire ammaestrato in questa prima, e mirabile scuola della milizia italiana.
Nel dir queste parole sfibbiatosi da un lato il petto di ferro, si cercò in seno, e ne trasse una carta che l’acqua aveva però risparmiata in gran parte. Giovanni la prese, dicendogli:
—Quanto al venir ammaestrato, pare che poco ti faccia mestieri, tuttavia, vediamo.—
Mentre Giovanni de’ Medici leggeva, Lamberto sfogando a sua posta la smania che sentiva già da gran tempo di conoscere di veduta un così valente e riputato signore, ne ammirava la fiera presenza, l’atto del cavalcare, ardito e disinvolto, guardandolo con quell’appassionata venerazione che invade ogni anima generosa e ancor digiuna di gloria all’aspetto di chi è già fatto chiaro per grandi ed onorate imprese. Non avrebbe mai osato sperare la fortuna tanto amica quanto gli s’era mostrata in questo incontro; ed il trovarsi ora ad un tratto venuto in onore presso i suoi nuovi compagni, ben accolto e lodato alla loro presenza da un tant’uomo[228] gli destava il senso d’una felicità troppo grande per non crederla un sogno. Col cuor palpitante, e gli occhi umidi per l’allegrezza, col viso adorno d’una cotal trepidazione, che riusciva più bella in chi pur ora avea dato segno di tanto ardire, aspettò immobile il fine della lettura.
—Tu stavi con messer Niccolò?—disse alla fine Giovanni alzandogli gli occhi in viso: poscia aggrottate le ciglia, soggiungeva battendo colla destra sulla rotella:
—Col maggior nemico di questo scudo?—
Lamberto era tanto affascinato dalla presenza di Giovanni, che stette per rinnegar la parte dal popolo, e Niccolò con essa. Ma egli era di quelle anime incapaci di cader mai in atto che abbia ombra di viltà, onde rimasto un momento incerto, alla fine, modesto ed ardito insieme, rispose:
—Ecc., Niccolò è popolano, ama la libertà di Firenze, e non è nemico che de’ suoi nemici.—
—E perciò egli non può esser pallesco. Bene, Lamberto, così parla un valentuomo qual tu sei. E poi cacciatosi a ridere soggiungeva: oramai neppur io son più pallesco; papa Clemente l’accoccherebbe a me se potesse, ed io a lui.... Orsù, sta bene.... tu hai fatto tal prova che questa lettera poteva anche andarsene giù per l’Adda. Capitan Puccino, scrivi questo giovin dabbene nella compagnia, e stasera ne verrai con esso a cena in castello.—
Dette queste parole volse il cavallo, e di mezzo galoppo prese la via di Rivolta.
Il capitano Puccino, al quale Lamberto era stato affidato, si fece avanti per condurlo all’alloggiamento.
—Andiamo, valentuomo, gli disse, l’acqua che ti gocciola d’indosso da quel che vedo non è chiara per tutto.—
—Nulla, nulla, rispose Lamberto, una leccatura qui nella spalla.... Lasciatemi prima dar un’occhiata a quel balestriere che ho fatto prigione.... s’egli è di qua o di là.—
Itosene in così dire ove l’avean dapprima posto a giacere, lo trovò in mezzo a un cerchiello di soldati, e già s’era levato a sedere, nè pareva lontano dal riprender del tutto gli spiriti e le forze.
Mentre Lamberto nel fiume s’ingegnava di trarlo a riva, que’ soldati vedendo il suo pericolo e la fatica che durava, avean detto tra loro: «Costui vuol far la fine di Francesco Sforza!, il quale per voler ajutare un suo paggio che s’annegava nel fiume Pescara, vi rimase egli stesso annegato.»
Visto poi che il giovane n’usciva ad onore, uno[230] cominciò a dire «Evviva Sforza!» e un altro: «bravo Sforza» e «ben venga Sforzino» e così per quel bisogno di soprannomi che s’aveva allora in Italia, tanto più tra le milizie, ed anche ignorandosi da loro il nome di Lamberto, gli rimase quello di Sforzino, che non andò più giù fin che visse, e che ricordando un suo bel fatto, egli udiva volentieri.
—Vieni qua Sforzino, disse ridendo uno di costoro, chè questa volta hai guadagnata la taglia d’un principe.
Accostatosi Lamberto, vide che faccia principesca avesse costui. Era un omotto piccolo e tarchiato, con una faccia tonda e scimunita; capelli e baffi biondi come lino cardato, e quanto all’arme ed alle vesti in poverissimo arnese.
—A noi, compare, disse Lamberto sorridendo anch’esso, sentiamo chi tu sei, e come hai nome.—
—Io, signore, star pofere soltate sguizzere, venir in Italia con capitano Altsax: perchè cretute qui befer molto pon fino: e in contrario befuta molta acqua....—
E seguitando su questo fare diceva esser del cantone di Zurigo, chiamarsi Maurizio Schuber, e non poter pagar riscatto, poichè era, pofere soltate; ma esibirsi pronto a seguir sempre come famiglio quegli che oltre l’averlo abbattuto, l’aveva poi campato da quella maladett’acqua che tanto detestava.
Lamberto gli oppose, che non essendo neppur[231] esso ricco soldato, non potrebbe seco toccar stipendi: ma lo svizzero protestando non potersi scioglier giammai dal grand’obbligo che gli aveva, essendo per opera sua campato da quella morte acquatica, sopra ogn’altra funestissima, volle in tutti i conti seguir la fortuna del suo liberatore. Questi distinguendo pure nelle sue rozze parole una cotale schietta e leale semplicità, avendolo anche conosciuto alla prova per uomo ardito e da dir la sua ragione coll’armi in mano, si risolse accettarlo.
—Capitan Puccino sono con voi—disse volto alla sua guida, e s’avviarono tutti e tre all’alloggiamento, mentre que’ soldati motteggiando Lamberto gli andavano dicendo:
—Evviva Sforzino! Hai fatto un bel guadagno, invece di taglia, avrai a dar le spese a questo poltrone!....—
Il castello ove il sig. Giovanni avea invitato Lamberto ed il capitan Puccino, era lontano tre miglia. Sorgeva sul ciglio d’una ripa sparsa di boscaglie e sovrapposta ad acque stagnanti, avanzi d’innondazioni dell’Adda, che gli agricoltori, sbattuti sempre dalle guerre, non avean nè tempo nè mezzi d’inalveare. Intorno al castello molte povere case di villani, la più parte coperte di paglia, formavano un piccol borgo detto Casirate.
Il capitan Puccino, e Lamberto col suo nuovo famiglio vi giunsero sulle ventitrè e scavalcaron tutti (chè que’ soldati avean per loro umanità ripescato[232] allo svizzero anche il cavallo) nel cortile del castello. Era un recinto irregolare, composto di edificj di varie forme, circondato da una fossa e dominato da un torrione quadrato e massiccio che s’ergeva sull’orlo della ripa. Quivi era la stanza di Giovanni de’ Medici, e, per usare la parola moderna, il suo quartier generale.
Poichè Lamberto fu ben rasciutto ed ebbe medicata la piccola ferita della spalla venne condotto in una gran sala terrena, ov’era apparecchiato per forse una trentina di persone, chè il sig. Giovanni splendido e generoso teneva tavola di continuo ai suoi caporali. Egli ricevè il giovane come persona d’antica dimestichezza, salutandolo colla mano, e voltosi al castellano Galeazzo Menclozzo barone della terra, ed a molti ufficiali ch’erano già radunati per la cena, raccontava loro il bel fatto del guado di Rivolta.
Giunsero a poco a poco gli altri invitati, vennero le insalate in gran piattelli, secondo l’uso del tempo, che voleva s’incominciasse da questa vivanda, ed ognuno si pose a mensa.
Chi vuol avere il perfetto ritratto di Giovanni de’ Medici, aggiunga due baffi castagni alla testa di Napoleone, e la ponga su un corpo grande e robusto.
Lamberto pareva non si potesse saziar di guardarlo, e considerando poi ad un per uno tutti quanti eran seduti a quella tavola, notando i visi arditi e sdegnosi, le robuste membra, l’atteggiarsi[233] marziale de’ suoi nuovi compagni si sentiva così contento, ed aveva questa contentezza così chiaramente dipinta in viso che il Puccino indovinò i suoi pensieri.
—Che te ne pare eh? Sforzino? Ti so dire che ti puoi vantare d’aver cenato stasera coi primi bravi d’Italia. Vedi quello a destra del sig. Giovanni, è Orazio Baglione, figlio di Pagolo e fratello di Malatesta, che è stato un pezzo co’ Veneziani. L’altro a sinistra, quel piccolo con que’ due occhi tutti pepe, è Ivo Biliotti. Sampiero da Bastelica è quell’altro. Codesto lo conoscerai, è nostro fiorentino, Cecchino del Piffero lo chiamiamo noi, ma egli è de’ Cellini. Il fratel suo è assai buono orefice: gli sta però meglio in mano la daga che il cesello.—
Lamberto s’era accorto che tra mezzo a costoro, giù in fondo alla tavola, v’era una donna; vestita com’era da uomo, ed all’incirca simile agli altri, non dava nell’occhio così alla prima. Osservandola poi più minutamente, certe trecce di capelli neri che in parte si mostravano sotto una berretta rosata ad orlo frastagliato che portava sull’orecchio alla brava; il petto colmo non del tutto celato da un farsetto a liste nere e rosate, palesavano chiaramente il suo sesso. Il solo viso non avrebbe forse bastato a darne contezza, chè poteva anche star bene ad un bel giovane di diciotto anni. Il balenar rapido e protervo delle pupille, le risa sfrenate, ed un certo che d’impudente in ogni[234] moto, in ogni atto, mostravano poi tutt’altro che femminile ritegno.
Il viso, considerato attentamente, ed un po’ a lungo, si ricomponeva per dir così, tratto tratto: lo sguardo allora cadeva spento e sinistro sugli astanti, le labbra tumide e colorate si chiudevano togliendo alla vista due file di denti bianchissimi, e divenute pallide e sottili parevano esprimere tutt’altri affetti, ben più profondi di prima: sprezzo, dispetto, ironia, ira e dolore talvolta. E quando meno l’aspettavi, ecco di nuovo ricomparirle sul viso una gioja ebbra e sfrenata: si sarebbe creduto che due anime albergassero in quel corpo a vicenda.
Lamberto accennando ad essa coll’occhio, disse al Puccino sorridendo:
—Anche codesto bel giovane è uno de’ primi bravi d’Italia?—
—Quello, o per dir meglio quella giovane, (chè vedo sei un buon bracco e tosto hai scovato il lepre) non ha forse paura di quanti siam qui, coll’arme in mano. Essa è la più nuova creatura che tu vedessi mai; uomo, donna, soldato, cortigiana.... questo, proseguiva ridendo, questo, cred’io più di ogni cosa. Ma non delle solite, che ora è di tutti, ora di nessuno: ora ride, si dà buon tempo, e fa un chiasso del trentamila, ora non le si può dire che begli occhi avete in fronte, chè non risponda una carta di villania; ora amorevole, ora perversa come la versiera. Io dico che n’ha un ramo.[235] Certi voglion vedervi sotto di gran cose (chè non si sa di dove sia scappata fuori) voglion che sia.... che sia.... che so io? Ne dicono tante!.... a me, a guardarla in viso.... mi par sangue di zingani, ma, quel che è certo, è mezza pazzericcia; per non dir pazza intera.
In questa il sig. Giovanni, cui poco durava la pazienza a star a tavola, s’era alzato ed insieme la maggior parte de’ convitati ch’eran seco usciti in cortile. Alcuni ne rimaser seduti; e tra gli altri Lamberto che stava udendo il Puccino, e la donna che badava a sghignazzare co’ suoi vicini. Il giovane avvezzo in casa di Niccolò all’austera virtù de’ Piagnoni, coll’immagine pura della Laudomia dipinta nella mente e quella di Lisa scolpita nel cuore, osservò costei qualche momento, ma quantunque nell’età ove i sensi più facilmente s’infiammano, la guardò con ripugnanza, e fece l’atto d’alzarsi per andarsene.
—Sta qui con noi Sforzino, disse il capitano Cattivanza degli Strozzi, che era seduto accanto alla donna. Sta qui, che la signora Selvaggia ti vuol conoscere.—
Visto poi che il giovane non mostrava una grande smania di far quella conoscenza, proseguiva:
—Eh vien qua! e sebbene sei nato di Piagnoni, una bella donnetta t’ha ella a parere il diavolo? O temi tu che il suo fiato non t’appesti? Eppure sento dire, che in Firenze dopo che fecero arrosto Fra Girolamo, le damigelle dal velo giallo[25][236] menan la coda più che mai; sicchè e’ non ti dovrebbe parer cosa nuova...—
Lamberto sentendosi pungere dall’ironia che era in queste parole alzò le spalle avviandosi per uscire, e disse:
—Mal abbian le cortigiane, e chi.... ma non potè finir la frase, chè tutti urlando e schiamazzando: «Uh Piagnone! bravo Piagnone! evviva il Piagnone!» gli tagliaron le parole. A questa tempesta tornò indietro, che già era presso l’uscio.
Fermatosi ritto di contro la tavola e fissando negli occhi il Cattivanza, senza mostra di stizza, che però l’aveva, disse:
—Oggi è il primo giorno ch’io mi trovo in questa tanto onorata compagnia, e però è dovere ch’io mi mostri modesto, e sebbene voi mi diate la baja, forse più che non mi si converrebbe, neppur per questo mi voglio adirare con esso voi. Vi dirò solo, che d’esser nato di Piagnoni me ne vanto. Di seguir la dottrina del beato Fra Girolamo, volesse Iddio che io potessi vantarmene com’io vorrei: e, per dirvene la ragione chiara chiara, egli è perchè e’ cercava colla gloria di Dio, la libertà del popolo di Firenze, dove invece i suoi avversarj l’hanno riposto in servitù. Io vi concedo ch’egli poco si dilettava di cortigiane, dove quelli che[237] l’hanno morto se ne dilettano assai. A voi pare forse ch’egli avesse il torto; ed a me pare ch’egli avesse ragione, chè non tutti i cervelli la pensano a un modo. E quanto al pensare sappiate, capitan Cattivanza, che io stimo messer Domeneddio, abbia fatto dono agli uomini d’un cervello per uno, senza lasciarne un solo sprovvisto, col proposito espresso che ognuno si valga del suo.
Chè dove fussi stata sua intenzione che un cervello solo servisse per parecchi uomini, e’ non avrebbe durata tanta fatica, ed a tutti coloro che n’avessero avuto a far senza, avrebbe posto nella memoria semi di zucca, o qual altra cosa costasse meno.—
A questo punto molti non si poterono tenere di non ridere, e Lamberto, che prima pareva sopraffatto da chi lo dileggiava, veniva a poco a poco riprendendo il suo vantaggio nella mente d’ognuno.
—Poichè dunque, proseguiva, questo benedetto cervello, Iddio l’ha dato anche a me, lasciate che l’usi come mi vien bene. Io so benissimo che tra’ soldati è costume darsi buon tempo con quante donne s’incontrano; nessuno potrà dire però che chi non fa così non debba esser tenuto buon soldato e valente della sua persona, ed a chi lo volesse affermare, potrei di leggieri farlo avveduto dell’error suo. Ora dunque che siam d’accordo su questo punto, che si può pur esser uom da qualcosa e non impacciarsi con meretrici, sarete contento, capitan Cattivanza, e lo stesso dico a tutti gli onorati gentiluomini che ora sono miei compagni[238] d’arme, sarete, dico, contenti tenermi per buon fratello, parato ad ogni vostro comando, ma quanto all’esser io Piagnone, al fare o non fare questa o quell’altra cosa, vogliate, vi prego, lasciarne il pensiero a me, ed in tutto il resto abbiatemi sempre per cosa vostra, apparecchiato ad ogni vostro piacere.—
Confessare le proprie opinioni in faccia ai coltelli, o alle mannaje, è forse meno difficile talvolta che professarle apertamente in faccia a chi v’oppone lo scherno ed i motteggi. A questo paragone si conosce un cuore veramente alto e generoso; e quel di Lamberto era tale.
—Che vuoi che ti dica? rispose il Cattivanza, tra il persuaso e il dispettoso; hai ragione! Che sappi menar le mani l’abbiam veduto; sicchè qui non c’è contrasto. Quanto al resto aggiustala a tuo modo, per me poco mi cale, e nessuno qui ti darà fastidio, che, viva Dio, sei un giovin dabbene.... vien qua, beviamo e siamo amici.—
—Col cuore e coll’anima, rispose Lamberto prendendo la mano che gli offriva il suo avversario, e poi un dopo l’altro quella di tutti. Empiuti i bicchieri li votarono in pace e concordia, e Lamberto rimase presso di tutti in miglior concetto di prima.
Il capitan Puccino il quale, mentre Lamberto parlava con sì poco rispetto della signora Selvaggia e sue consorti, gli era andato sempre facendo qualche cenno, o dicendo a mezza bocca, «Bada! bada a te Sforzino!» soggiungeva ora battendogli sulla spalla:
—Ringrazia Iddio che sei un bel giovane, se[239] un altro avesse detto la metà di quel che hai detto tu, avrebbe saputo presto quante dita sia lunga quella lama pistolese che porta al collo la signora.—
Ed additava un bel pugnaletto ch’ella aveva sul petto appeso ad una catena d’oro.
Il Puccino non s’era però apposto giudicando i pensieri della Selvaggia. Le parole di Lamberto invece di farla adirare, avevan impressa sul suo viso quell’espressione cupa e profonda che accennammo poc’anzi. Durante tutta la quistione era rimasta coll’occhio basso senza aprir bocca. A questo punto alzò il capo, e serrando le ciglia verso il Puccino disse:
—Che cosa sai tu di quel ch’io pensi? E se costui mi paja un bel giovane, o no? E s’io mi rechi a vergogna ciò ch’egli ha detto? Non t’impacciar del fatto mio tu! Che sempre mi sei parso un asino, ed ora più che mai.—
—Tempo cattivo! disse ridendo il Puccino, e preso pel braccio Lamberto pur seguitando a ripetere, «tempo cattivo! Temporale in aria!» lo trasse fuori in cortile.—
—Lascialo andare, e faccia pure il santo a sua posta, disse il Cattivanza alla donna, e noi attendiamo a darci buon tempo, anima mia. Uh! benedetti quegli occhi ladri! Ch’io ti voglio un bene ch’i’ me ne muojo!—
Ed in così dire volle cingere colle braccia la vita snella della Selvaggia, la quale gli rispose con la mano in sul viso, e non picchiò per ischerzo.
—Fatti in costà, che tu m’hai fradicia!—disse alzandosi per andarsene.
—Oh! sta a vedere che tu pure ti fai Piagnona. Se ti vedessi mai far segno di croce, e’ sarebbe il primo alla fediddio.—
Questa risposta dello Strozzi non fu però udita dalla donna, che senza più badargli era scomparsa. Anch’esso cogli altri si tolse allora di là andando ognuno pel fatto suo, chè già principiava a imbrunire: non lasciava però egli di brontolare esclamando: Sforzino faccia pure il Piagnone quanto vuole... suo danno... ma se punto punto vedo che questo male s’appicchi, l’avremo a discorrere.—
Dopo due giorni il campo si mosse verso Mantova, col proposito di far testa ai tedeschi di Giorgio Frondsperg che, in numero di quindicimila uomini, seguivan l’usanza vecchia di vivere a discrezione alle spalle degl’Italiani. Si noti che in questi casi il vocabolo discrezione, suona indiscrezione. Le bande del sig. Giovanni, in pochi alloggiamenti e dopo qualche scaramuccia di lieve momento, si trovaron sul Po presso a Governolo. Lamberto, per la via, facendo l’uffizio di buon soldato quando si offerse l’occasione, e quando le cose procedevan quietamente, mostrandosi solazzevole e buon compagno, s’era comprata la benevolenza de’ suoi camerati, coi quali piacevolmente più volte era tornato sui medesimi discorsi fatti alla cena in proposito della Selvaggia.
Ella avea bensì tenuto dietro all’esercito, ma senza mai cavalcare di compagnia con alcuno, nè far motto a persona. Lamberto la vide due o tre[241] volte trascorrergli accanto su un cavallo turco veloce e leggero come un cervo, con un cojetto indosso ed una zagaglia in mano, e tosto sparire tra la polvere sollevata dalla moltitudine che seguiva la strada maestra. Un giorno che alcuni scoppiettieri tedeschi fecero un poco di testa e convenne rompersi, la vide un tratto uscire correndo dal folto dell’archibusate, e passandogli accanto senza fermarsi gli gridò: S’io non valgo per donna, valgo per uomo, e via come una saetta.
Passati alcuni giorni il valoroso e sventurato Giovanni de’ Medici, colpito in una gamba da una palla di falconetto, fu portato a Mantova, ed in breve spazio di tempo passò di questa vita. Le sue bande piansero amaramente la morte di quello che era stato tra essi il primo per ardire più che per grado, vestitesi a bruno ebbero d’allora in poi nome di Bande Nere, e mantenendo viva tra loro la memoria de’ precetti e degli ordini del loro capitano, furono sempre il terror de’ nemici, e sempre, ovunque percossero, rimasero vittoriose.
Lamberto che aveva sperato, seguitando la fortuna del sig. Giovanni, salir presto a quel grado d’onde con suo onore potesse poi rivolgere il pensiero alla Lisa; che all’ammirazione accesa in lui da gran tempo dalla fama delle sue imprese, univa ora per esso un affetto nuovo e vivissimo generato dalla cortesia colla quale n’era stato accolto, provava doppio dolore e non sapea a qual partito appigliarsi. Quantunque Orazio Baglione avesse ottenuto[242] il comando delle bande, e fosse pur uomo da guerra di molto grido, temeva Lamberto non s’avessero a risolvere, o almeno a perder molto della loro riputazione e quantunque ciò in effetto poi non avvenisse, il suo sospetto non era però del tutto fuor di proposito.
Venne tratto da questa perplessità da uno strano incontro ch’egli ebbe colla Selvaggia.
Egli non era sì poco accorto da non essersi alla prima avveduto che costei gli avea posti gli occhi addosso, ed avea fatto disegno sopra di lui. Diceva tra sè ridendo: «io non son tordo pel tuo carniere!» pensandosi fosse suo solo proposito tentare, com’è costume delle cortigiane, di spillargli i danari. Siccome quanto a questo si sentiva sicuro non n’aveva un pensiero al mondo.
Una sera uscito un trar di mano dagli alloggiamenti, sedutosi sulla riva sabbiosa del Pò, volgeva gli occhi al sol cadente che stava per nascondersi dietro folte e lunghe file di pioppi onde era coperta la riva opposta. Mirava scendere placida e maestosa la corrente del fiume, che facea tremolo specchio agli alberi, ed all’infocato chiarore dell’occidente.
Ripensava in cuore le belle sere d’estate in riva all’Arno, quando fuor della porticciuola passeggiava lungo la sponda e vedeva il sole tramontar dietro le colline d’Artimino. Si ricordava che da quei luoghi volgendo a tergo lo sguardo verso oriente avea tante volte considerato quanto bella ed augusta si mostrasse Firenze all’ultimo raggio del sole,[243] co’ suoi palazzi bruni e merlati, le sue innumerabili torri, i suoi ponti, le sue chiese. Vedeva colla fantasia la gran cupola di Santa Maria del Fiore, e la palla dorata che da lontano, quando il sole la ferisce di costa, pare una stella che si sia posta sulla sua cima; vedeva il campanile di musaico del Giotto, l’altissima torre di Palazzo, ed al sommo il Leone rampante della repubblica volgersi a seconda de’ venti; e pensava: «ti sei piegato, è vero, a molte tempeste, ma sei pur sempre costì!»
Povero Lamberto! Non sapea che un tal vanto dovea presto cadere per sempre insieme con quell’insegna.
Questo quadro bello, ma inanimato riceveva ad un tratto vita ed affetti dalle immagini della Lisa, di Laudomia, di Niccolò, de’ figli, de’ compagni d’infanzia; dalla memoria delle parole dette od udite, degli sguardi, de’ cenni, di quegli atti cui si finse non porre mente, ma che sempre poi si sono serbati in cuore. Dall’amaro pensiero, e pur caro al tempo stesso, dalla povera vecchia madre, che all’ultima dipartenza aveva saputo spinger l’amor materno sino a velar con un sorriso di speranza la rassegnata persuasione che provava di non rivedere più il figlio che in cielo. Egli avea letto nell’ultimo suo sguardo questo pensiero doloroso, e col cuore trafitto da uguale sospetto, aveva esso pure simulata quella speranza che in effetto poco sentiva. Tali memorie ora l’assalivano come un rimorso, e rimproverando se stesso diceva: «E[244] potesti lasciarla? E se non la rivedessi più?» e colla mano sugli occhi piangeva.
La volta del firmamento si veniva intanto popolando di stelle, l’ultimo crepuscolo mostrandosi appena all’occaso con una striscia di luce rancia sulla quale apparivano le cime de’ pioppi, mosse leggermente dal vento notturno.
In quella sentì una pedata che s’avvicinava cheta cheta sull’arena. Alzò il capo, e vide una figura bruna avvolta in un mantello che si veniva accostando. Importuno! disse in cuore Lamberto, cui doleva venir tolto a’ suoi più cari pensieri, e stava per moversi onde evitarlo, ma quella figura gli si era posta a sedere a due braccia distante, e dopo un momento di silenzio con voce bassa ed umile gli diceva.
—Dimmi, o giovine, non hai tu lasciata nella tua terra una donna che t’ama? che tu ami sopra ogni cosa al mondo? Non pensavi tu ad essa ora? Rispondimi; che Dio ti consoli! Rispondimi schietto.—
La voce era di donna: Lamberto disse fra se stesso: «costei è la Selvaggia!» e l’idea che una cortigiana si venisse a frammettere ne’ pensieri augusti e puri della patria, della madre, della sua Lisa, gli fe’ sentire il ribrezzo che si prova quando in mezzo a fiori odorosi ed intatti si scorge appiattato un insetto brutto e schifoso.
S’aggiungeva poi il sospetto che quella comparsa improvvisa, a quell’ora, in quel luogo solitario, fosse una trappola di costei.
—Oh! che c’entrate voi ne’ fatti miei?—rispose Lamberto con voce tronca ed altera.
—Oh! non c’entro; lo so, non son degna d’entrarvi..... chiedo io tanto? Veggio ch’io t’ho offeso..... e sa Iddio se n’avevo il pensiero..... ma non seppi con quali parole cominciarti a parlare... ed è forza ch’io ti parli.... speravo, nominandoti quella che fai beata dell’amor tuo,.... speravo ti scordassi un momento ch’io son la Selvaggia, e mi dessi ascolto un minuto senza adirarti. Oh giovane! alle biscie che strisciano pei canneti delle paludi, Iddio non nega l’aria nè il sole.... ad una creatura che ti sta dinanzi colla fronte nel fango e ti chiede due parole di conforto, le darai tu col piede nel viso?—
E in così dire la fronte della Selvaggia cadeva in effetto sull’arena già umida per la rugiada.
—Io non vi fo nè mal nè bene, signora (rispose Lamberto sempre più fisso nell’opinione che quelle calde parole, quegli atti, quella voce commossa, fossero pura commedia) e se volete nulla da me, siate contenta dirmelo in due parole, ma dalla bocca vostra non esca verbo su altra donna... m’avete capito.... ch’io non sono per sopportarlo.—
—Lo confesso: non sono degna neppure di nominarla. Sei contento? Ti rimane in mente qualche parola di sprezzo che non m’abbi detta? Su, dimmela. Sfogati.... calpesta chi è venuto ad implorarti umile e tremando, come farebbe il verme[246] più vile, se gli fosse data e voce e mente per volgersi al creatore dell’universo. Oh! godi della tua prodezza, della tua virtù.... e quando parli con Dio, digli: Ti ringrazio ch’io non somiglio a costei!....—
La persuasione intima in cui era Lamberto sul conto della donna non potè impedire però che quell’umili parole, ed il modo, il suono di voce col quale erano espresse non gli giungessero al cuore, e vi destassero un dubbio, un moto quasi di compassione. Fatto perciò meno aspro nel viso e nelle parole diceva:
—In verità di Dio, signora, voi mi fate maravigliare! Sprezzarvi! calpestarvi! che c’entra questo discorso? O voi sapete quale opinione io possa avere di voi, del viver vostro; ed allora, se non vi piace udirle, perchè mi conducete a dovervela palesare? o di quest’opinione voi non n’avete pure il sospetto, nè credete meritarla, perchè allora ve ne curate?—
—Perch’io la conosco, perchè so ben io quali sventure m’abbian condotta a meritarla, per questo la curo, per questo mi son gettata nelle tue.... a tuoi piedi.... Per la prima volta dopo tanti anni ho riveduto un viso d’uomo che non m’è sembrato quello d’un bruto, d’una fiera selvaggia.... Oh, che dich’io, sciagurata! M’è parso il volto, la voce d’un angiolo che si chinasse fino al mio fango e mi porgesse una mano per sollevarmene! Oh, se t’avessi incontralo quando aveva quindici anni![247] Ma invece!.... uno spirito dell’inferno!.... entrò, credo, in un corpo umano per farmi sua preda! Oh giovine! Iddio solo ha diritto di sprezzare e punire, perchè conosce tutto, e perciò appunto io credo ch’egli abbia finalmente sentita pietà de’ miei mali, ed ha voluto che t’incontrassi! Ma tu non ne conosci la serie tremenda! Se ti fosse nota piangeresti con me. Oh! non negar d’ascoltarla, non sarà lungo il tedio.... poche parole basteranno.... chè dopo tant’anni sei tu il primo uomo al quale m’attenti a parlar di pentimento, senza il dubbio d’incontrar nuovi scherni e nuovi oltraggi.—
Lamberto pensò: «ecco una delle solite novelle di costoro»; non avendo però motivo di rifiutare ciò che con tanta istanza gli veniva domandato, disse:
—Se tutto quanto mi dite è la verità, parlate, o signora, ch’io v’ascolterò.—
—Se è la verità!—E la povera infelice battendosi la fronte colle palme, rimase muta un momento, poi scrollando il capo disse, che appena si potè udire:
—Si presta fede alle cortigiane? Hai ragione, proseguiva poi volta a Lamberto, quest’oltraggio m’è dovuto. Ma vedrai ora s’io ti dica il vero. Se mi pesi il tuo sprezzo, l’hai potuto conoscere, non dubiti di questo? Eppure v’è tal cosa che ignori, che avrei potuto nasconderti, che mi farà, se è possibile, più vile, più abbietta agli occhi tuoi.... Non ostante sappi anche questa.....[248] Io non sono cristiana!—Un ebreo d’Ungheria fu mio padre. Mio padre? E debbo dargli un tal nome? Dovrei dire il mio più atroce nemico! Per lui son dove sono, per lui ho perduto patria, parenti, amici.... Ha parenti, amici, patria, la cortigiana? Qui si fermò un momento a pensare, poi con voce più dolorosa diceva: E non uscii forse pura dal seno di mia madre? forse non ebbi da Dio, come le altre creature, un cuore capace d’amore, capace di virtù? Chi mi rapì questo tesoro, chi bruttò questi doni divini? ch’eran miei, ch’eran la porzione di bene, di felicità assegnata a me dall’Onnipossente? chi?—
E qui tacque un momento, guardando Lamberto con occhi che fulminavano; afferratogli il braccio, proseguiva poi, tremandole la voce e le labbra:
—Prestami fede, o giovane, se ne hai il coraggio. Io ero sola quella notte.... sola nella mia camera.... mia madre non era più al mondo.... oh, se fosse stata viva!.... M’avrebbe difesa!... picchiarono all’uscio.... udii la voce di mio padre, mi chiamava.... aprii. Un uomo era seco, pareva un principe alle vesti, alla fronte superba. Io lo guardavo incerta, spaventata... mio padre scomparve... l’uscio si richiuse....
—Egli aveva fatto mercato del proprio sangue...
—Fa egli mestieri ch’io ti narri il seguito de’ miei casi? Tu virtuoso, tu nobile e generoso, potrai tu comprendere come si faccia a rimanere in vita[249] dopo tali orrori? come a poco a poco si formi il callo al vituperio, alla colpa? come possa alla fine una donna calpestar ogni rossore, non aver più anima che pel piacere, non più cuore che per amarlo, cercarlo ed inebbriarsene? Io ti metto spavento!.... lo vedo.... ma dimmi, sii tu mio giudice.... dove fu la mia difesa... il mio ajuto?... com’era possibile resistere, vincere, salvarmi? Eppure, tradita prima, poi vituperata; cacciata al fine come una vil cosa, posta sotto i piedi di tutti, s’io talvolta alzo la voce per chieder pietà, s’io stendo la mano, sperando che una mano amica si muova ad ajutarmi, non trovo che insulti, non odo che scherni, ognuno mi respinge nel mio fango! La mia miseria, il mio pianto, è trastullo a chi per un momento si degna badarvi... Oh! Dio del Cielo, che avevo io fatto, per venir al mondo a patir tanti strazii?...
—Oh! giovane, tu che non hai delitti che ti pesin sull’anima, che sei bello, prode, virtuoso; che in mezzo ai pericoli, ai travagli, ti riposi nel pensiero de’ tuoi cari, se sapessi che cosa sia esser nata con un cuore ardente, assetato d’amore, e non essere stata amata mai, mai da nessuno! neppure dal padre!... Se conoscessi quest’orribile strazio.... ti maraviglieresti ch’io abbia serbato ancora nell’aspetto, e forse nel cuore, alcun che d’umano!... stupiresti che non mi sia gettata furibonda come una fiera su quanti incontravo di quella razza perversa e crudele che m’ha tradita, che m’ha cacciata[250] in quest’abisso di miserie, e poi mi nega ogni conforto!... Se mi si dicesse, che un’anima c’è ancora al mondo che potrebbe accogliermi, asciugar le mie lagrime.... se mi dicessero: v’è ancora una creatura sulla terra che t’amerà se saprai meritarlo!... Oh! Dio di bontà, sarebbe troppa la mia ventura!... non reggerei a tanta gioja!... correrei tutto il mondo per rintracciarla.... se la vedessi al di là d’un mare di fuoco, mi vi caccerei per raggiungerla!... le abbraccerei le ginocchia... che cosa potrei offrirle per rimunerarla di un tanto bene, che cosa potrei operare per rendermene degna?... Oh! giovane, se sapessi a quanto poco starei contenta!... Il tuo cuore, lo vedo, è posto in luogo qual egli merita, ma tu ami pure il tuo cavallo da battaglia, nè ti credi far torto a... ad... ad alcuno... Tu ami il tuo veltro!... oh! dopo il tuo cavallo, dopo il tuo veltro, non aver a sdegno che io implori da te un tuo pensiero; lascia cader un tuo sguardo sulla povera Selvaggia... che mi dica poveretta, mi fai pietà!...
—Oh Dio! neppur mi risponde!—Gridò la sventurata donna, e proruppe in un pianto dirotto.
Se Lamberto tardava a rispondere era per una cagione ben diversa da quella che supponeva la Selvaggia.
Le sue parole, alle quali gli pareva pure di dover prestar fede, gli avean destata nel cuore una pietà profonda, ma un avanzo di sospetto, che non riusciva a far tacere interamente, lo persuadeva a star sulla sua e non mostrar tutta quella compassione che provava. Onde studiando di aver ferma la voce e tranquillo l’aspetto, le diceva:
—Voi volete compassione, signora? Chi potrebbe negarla a casi dolorosi e tremendi quali furono i vostri? Ma voi v’invilite troppo, chè una creatura formata a somiglianza di Dio non dee porsi a paragone coi bruti.—
—Io m’invilisco troppo? E come puoi dirlo, se neppur così mi vien fatto impetrare quel poco che ti domando. Ti costava tanto dirmi addirittura:[252] povera Selvaggia, io t’accetto per ischiava?.... darmi un momento di bene, un minuto di conforto con una parola che sgorgasse proprio dal cuore? ed invece tu m’esci fuori col Voi v’invilite... La virtù è bella, oh! ma è dura ed orgogliosa.—
—No, Selvaggia, io non ho virtù, e molto meno sono e duro ed orgoglioso con te. Io sento all’anima le tue sventure, e se stesse in me il liberartene poco ti rimarrebbe a soffrire. Ma dove non arrivano le mie forze, giungerà la virtù d’Iddio, se a lui ti rivolgi. Io non t’ho risposto come sarebbe stato il tuo desiderio perchè non è in poter mio d’adempirlo. Non cercar più oltre, Selvaggia. Pensa che un animo forte può sempre farsi maggiore al suo destino.... che la virtù non si parte dai cuore dell’uomo giammai del tutto se non per suo espresso volere, e mediante questo vi può far sempre ritorno. Tu puoi risorgere, puoi sperare ancora in terra stima ed affetto, purchè lo voglia. Io t’ho ascoltata, quel che potevo dirti te l’ho detto.... ora convien dividerci.... Iddio ti conceda quel bene, quella pace ch’io ti prego da lui. Addio.—
Lamberto s’allontanò di buon passo, e n’era tempo; questi ragionamenti l’avean turbato, sconvolto; scorgeva che per lui il più sicuro partito era fuggir questa donna. La sua bellezza, le sue sventure, i delitti, i rimorsi suoi stessi la rendevano interessante, facevan di lei un essere nuovo, singolare.... insomma, era meglio fuggirla, e Lamberto in pochi minuti fu tornato ov’era il suo alloggiamento.
La donna gli tenne dietro coll’occhio finchè il poco chiarore delle stelle le permise di scorgerlo. Quando non lo vide più sentì nel cuore una solitudine desolata.... le parve rimanere unica superstite sulla terra.... «I malvagi, pensava, mi deridono ov’io voglia appena far parola di quest’inferno ch’io sento nel cuore.... Costui virtuoso mi vede spirante di disperazione a’ suoi piedi.... volgiti a Dio!... e m’abbandona! Oh Dio! giacchè tu solo conosci il mio strazio, tu solo odi il mio pianto, perchè dunque m’hai tu dimenticata! Oh povera me! dovrò proprio morire senza aver provato la dolcezza d’esser amata!...» E smaniosa, dovrei dir furibonda per questo pensiero, correva come pazza lungo la riva del fiume.
Un tratto si fermò quasi percossa da una nuova idea.
—E son io sicura ch’egli m’abbia prestato fede?.... E rimasta ancora un momento a riflettere, gridava tutta mutata in viso per l’inaspettata speranza—No! no! non m’ha creduta.... ha pensato ch’io l’ingannassi... Oh! se avesse potuto esser certo ch’io gli dicevo il vero.... non m’avrebbe risposto, nè lasciata così.... Oh! lo conosco, egli è generoso!... e buono!... dunque v’è ancora speranza?... Ti ringrazio Dio di bontà, e cadeva sulle ginocchia cogli occhi e le braccia tese verso il cielo, che hai così tosto accolta la mia preghiera, che m’hai tornato in cuore il tesoro, l’immenso tesoro di poter sperare. Sì, verrà il giorno che mi presterai fede! vedrai allora che[254] non t’avevo ingannato.... verrà il giorno che mi dirai: Selvaggia poveretta, finalmente ti credo.... mi sei cara!..... Non sarà amore.... no.... sognerei io mai d’ottenerlo? Io vile, io misera, io abbietta creatura.... l’amor di quell’angiolo? Qual è la donna in terra che n’è degna?..... Ah sì! ve ne debb’essere una!..... Ebbene, io l’amerò costei, io sarò sua serva poich’essa è cara al mio signore.... forse così potranno patire la mia presenza..... forse potrò ottenere che non mi discaccino.... forse quando sarò alla mia ultim’ora.... quando gli diranno: la povera Selvaggia sta per passare.... chi sa? verrà forse al mio letto, e se mi rimarrà tanta voce da potergli parlare, lo pregherò di dirmi sua prima ch’io spiri!.... sulla mia fronte gelata sentirò allora posarsi la sua mano, mi dirà mia Selvaggia.... poi non sentirò più nulla.... sarò morta!—
In questi pensieri la povera giovane era uscita affatto di sè.... Dio sa quanto tempo rimase in questo stato. Quando le tornò la facoltà di pensare, di riflettere, l’alba spuntava all’oriente, riconobbe la riva del Po, le trabacche degli alloggiamenti, si guardò attorno smarrita, domandò a se stessa: «Che fo io qui? dove mi trovo? chi sono?...». Una voce poco lontana (eran soldati che venivano ad abbeverare cavalli al fiume) rispose con uno scroscio di risa:
—Sei cortigiana delle Bande Nere, ecco chi sei!—
La poveretta mise uno strido e si cacciò a fuggire....
Un anno dopo, nel mese di aprile, l’armata di Filippino Doria veleggiava sul mezzogiorno per le marine d’Amalfi, volte le prore a Capri ed al capo Campanella. Erano 15 galere, colle quali il nipote d’Andrea teneva guardato il golfo di Napoli affinchè nessun soccorso potesse giungervi agl’imperiali che v’erano assediati da Lautrec. Il loro vicerè Ugo di Moncada, volendo ad ogni costo far libero il mare, avea stabilito affrontarsi con Filippino, e moveva colle sue galere, sulle quali avea fatto salire il fiore della nobiltà e delle genti spagnuole, in cerca del nemico; questi, saputo il suo disegno, stava apparecchiato a riceverlo.
Gli ordini della guerra marittima, la forma delle navi, tutto è mutato oggigiorno. La galera del medio evo è scomparsa dai mari. Nella darsena del porto di Genova una ne galleggia ancora in un angolo senz’alberi, abbandonata, tutta sdruscita e sconnessa: l’intemperie, gl’inverni, la pioggia avranno tra pochi anni distrutto e fatto scomparire del tutto questo unico simbolo della passata potenza de’ Genovesi. Perchè non salvan essi almen l’ultimo di que’ legni veloci sui quali corsero arditi e vittoriosi per tanti secoli le marine d’Italia e di levante? O Genovesi, vorrete voi che si perdano questi segni della vostra gloria, che è pur gloria d’Italia, che è nostra? Poichè avete con tanta vostra virtù aggiunta questa all’altre sue[256] palme, serbatene la memoria, mantenetene l’ultime reliquie. L’onor d’Italia ve lo domanda, gl’Italiani ve ne scongiurano, o Genovesi!
Il naviglio di Filippino si moveva lentamente verso l’alto mare spinto da un leggiero levante, che feriva di fianco le larghe vele latine tutte spiegate per riceverne il soffio debole ed interrotto. I remi sospesi rimanevan alti sul mare, e le galere, ora poggiando sul fianco quando il vento incalzava, ora di nuovo rizzandosi quando veniva meno, solcavano il mare con un lento e maestoso ondeggiare, e tacite si preparavano alla battaglia.
Nessuna alterazione, nessuna confusione appariva per questi apparecchi: quei soldati, que’ marinai non sapevano da gran tempo che combattere fosse altro che vincere. Sulla prora, ove il tremendo cannone di corsia apriva, tra quattro pezzi di minor calibro, la sua gola ampia ed affumicata verso il nemico, i bombardieri, dopo averlo caricato colla sua palla, che pesava talvolta sessanta libbre, sedevano ragionando tra loro, e taluno, pel caldo del meriggio, velava gli occhi e così un poco veniva sonnecchiando.
Gli archibusieri, che nella battaglia soleano schierarsi sul tavolato che copriva le artiglierie, detto castello di prora, stavano armati di corsaletti, cosciali, cappelli di ferro, appoggiandosi ai loro scoppietti od alle forcine, tenendo in mano le corde accese pronti a dar fuoco; dietro a loro altri fanti con picche, alabarde, partigiane ed arme in[257] asta coi ferri quali a falce, quali uncinati, quali larghi e diritti. Alcuni tenevano levati in ispalla lunghi spadoni a due mani colla lama serpeggiante, v’eran targhe e rotelle, che oltre il servir di difesa poteano anche offendere coll’acuto e forte ferro che avean fitto nel mezzo, si vedeva insomma tutta la moltiplice varietà d’armi e d’armature che le robuste braccia de’ padri nostri ed i loro fortissimi petti, reggevano ed adopravano senza disagio gl’intieri giorni sotto la sferza del sol Lione, e che la gioventù de’ tempi nostri, avvolta nella robe de chambre, sdrajata sul seggiolone alla Voltaire, contempla nelle sue sale appesa ed ordinata in polverosi trofei.
La corsia della galera, spazio largo quattro braccia, che si tendeva da poppa a prora tra le due laterali turbe de’ remiganti, era stivata anch’essa di soldati, i quali a guisa di retroguardo stavan pronti a spingersi avanti ove i primi cadessero, ovvero, vincitori nell’arrembaggio, fosser saltati sul legno nemico. Gli uomini delle ciurme, a cinque per remo, nude le braccia, e l’intero busto talvolta, legati alla panca sulla quale sedevano, con catene che non dovean sferrarsi che dal loro cadavere, erano schiavi turchi la maggior parte: delinquenti condannati al remo, prigionieri di guerra: (atroce costume!) e sulle galere d’Andrea, eran più di tutti spagnuoli. Quanti ne poteva aver nelle mani, tanti ne metteva al remo, chè egli odiava sopra tutti la loro nazione[26].
Per questa miserabil ciurma l’imminente battaglia era un fatto ordinario, un giuoco al quale la vita serviva di posta: perdendola, uscivan di mille travagli; serbandola, godevan anch’essi in qualche menoma parte i frutti della vittoria, chè i loro feroci padroni in queste occasioni eran larghi con essi di miglior cibo e di vino.
Il coraggio tuttavia che mostravan quest’infelici all’appressarsi della battaglia, era, più che altro, la cupa rassegnazione de’ disperati. O le palle dell’artiglierie nemiche traversassero la loro folta, o percuotendo nel corpo della galera la mandassero a picco, o, come spesso accadeva, questa venisse incendiata, essi non vedean che la morte. Certa, atroce, senza difesa, senza potersi, incatenati com’erano, in verun modo ajutare, senza provare veruna di quelle impetuose passioni che fanno agli uomini parer men duro il morire, potean essi sentire amor di patria, furor di parte, superbia del vincere, onore guerriero? Neppur quel sanguinario e bestiale istinto che spinge uomo contro uomo nel furor del combattere, neppur di quest’ebbrezza potevan giovarsi. Mentre i soldati, i marinai, gli uomini liberi della galera potevano muoversi, agitarsi, combattere, procurare in qualche modo la vittoria o lo scampo, ad essi toccava vogare e tacere, e lasciarsi uccidere o mutilare sempre tacendo e vogando, chè ad ogni atto meno servile li aspettava il nerbo e talvolta la daga dell’aguzzino.
Indietro, sulla poppa che s’alzava in pendìo,[259] coi lati scolpiti al di fuori, rabescati, dipinti e dorati soventi volte; coperta di belle cortine a nappe e drappelloni, cui reggevano cerchi in traverso e tre aste pel lungo, in questo luogo eminente stavano il capitano della galera ed i principali uffiziali delle milizie imbarcate. Qui, sopra l’ultima punta, che rimaneva sospesa sul mare assai indietro dal corpo della nave, eran tre gran lampioni che s’accendevan la notte. Qui sventolava la bandiera di Genova, la Croce rossa in campo bianco, e questa medesima impresa si vedeva sulle banderuole e le fiamme che in gran numero adornavano le antenne e gli alberi della galera.
Armi, remi, sarte, ciurme, marinai, soldati, ufficiali, tutto era pronto, tutti erano ai loro posti, la maggior parte fissando gli sguardi alla gaggia dell’albero maestro, d’onde un marinajo di guardia doveva gridar all’erta! tosto che vedesse il navilio nemico. L’onda larga e cerulea rifletteva nel suo concavo la tinta purpurea de’ remi e de’ lunghi fianchi delle galere, le dorature della poppa, il bianco delle vele, il lampeggiare dell’armi, i varii colori de’ pennoni, delle bandiere, e quelle tinte riflesse parevan più vivide pel contrasto delle candide spume che le attraversavano prodotte dal solcar delle carene.
Cinque galere, distanti 50 braccia l’una dall’altra, formavano la battaglia: tre s’erano allargate in mare per tornar poi sul fianco, od alle spalle del nemico, quando fosse incominciata la musica. Molti legni minori armati ottimamente si teneano sui lati[260] per nuocer co’ tiri delle moschette e degli archibugi.
Sul castello di prora della capitana stava ritto Lamberto con un morione in capo in cima ai quale era fissa una lunga penna color d’amaranto. Il busto, le braccia e le cosce eran coperte di ferro brunito e misto a strisce d’oro. Le calze larghe sopra il ginocchio, strette sulla gamba, del medesimo color della penna: in braccio una rotella foderata di velluto trapunto, e nella destra una spada larga quasi un palmo presso l’elsa, forte ed acuta sulla punta, con un’iscrizione lungh’essa che diceva: Prœmium virtutis; arme guadagnata da lui col suo valore, chè il tempo saltato a piè pari da noi con tanta disinvoltura, egli non l’avea nè giuocato, nè trascorso colle mani alla cintola.
Anche prima d’aver colla Selvaggia quell’incontro notturno che abbiamo narrato si sentiva spinto, come dicemmo, a cercar la sua ventura altrove. Dopo averla udita ed aver conosciuto qual tempra ardente avesse costei, che difficilmente si sarebbe tolta dal proposito di volerlo ad ogni costo far suo, stimò più sicuro e più onesto partito lasciare il campo, e preso tosto commiato da Orazio Baglione uscì la mattina dopo col suo servo svizzero dagli alloggiamenti.
S’egli avesse voluto condursi cogl’imperiali avrebbe potuto aggiustar bene i fatti suoi. Ma egli stimava che alla fortuna di Francia andasse unita quella di Firenze. Pensava che l’animo di Carlo V,[261] fosse dominare l’Italia, e quello di Francesco I e de’ Francesi, donarle la libertà. Povero Lamberto, si vede bene che era giovane!
Il più rinomato de’ capitani italiani che seguissero le parti di Francia era in quel tempo, senza contrasto, Andrea Doria. Lamberto, dopo non molti giorni, fu a Genova, ottenne di seguirne la bandiera, e salì sulle sue galee che si movevano per cercare e combattere l’armata che Ugo di Moncada, vicerè di Napoli, conduceva dalla Spagna sulle coste del regno di Napoli. Nella battaglia ove questi fu vinto e volto in fuga, Lamberto, sotto gli occhi d’Andrea, saltò il primo sulla capitana nemica, ed ebbe, in premio di questo fatto, la bella spada che brandiva ora aspettando di combattere per la seconda volta lo stesso nemico.
Nel poco tempo passato col signor Giovanni avea scritto una volta a sua madre ed a Niccolò; un’altra lettera avea mandata da Genova prima d’imbarcarsi, ma in quel tempo non v’eran le poste ordinate come al dì d’oggi, ed una sola volta egli avea potuto, dopo molto tempo, ricevere una risposta di Niccolò. Quantunque vivere così al bujo di ciò che più strettamente gli premeva fosse per lui doloroso oltremodo, si consolava però pensando di quanta gioja gli sarebbe stato cagione il ritornar poi improvviso, e degno d’offrir la sua mano alla Lisa.
Bastino questi pochi cenni per non lasciar nella vita di Lamberto una troppo lunga lacuna. Ora torniamo all’armata di Filippino.
Il sole scendeva già verso l’occidente, ed il capitano genovese pensando che per quel giorno non avesse più a mostrarsi il nemico, stava per dare il cenno di volger le prore a Salerno, quando dalla gaggia della galera sulla quale era Lamberto fu gridato con voce lunga—Vela a Maestro!—Un sordo mormorìo, un fremito, un agitarsi senza confusione tra le ciurme e i soldati, tenne dietro a questo grido, e nel tempo stesso s’alzò la voce sonora d’ogni capitano che dava gli ultimi comandi. Per una corda che era attaccata alla cima dell’albero maestro della capitana (essa era posta in mezzo della linea di battaglia) si vide correr veloce all’insù la bandiera dei Doria, che vi si fermò spiegandosi e sventolando al soffio del vento, ed un urlo generale e simultaneo di tutta l’armata, salutando questo segno della battaglia, rimbombò sul mare e ne’ monti di Salerno.
I remi, ch’eran prima sospesi ed immobili, si tuffarono tutti in una volta nel mare, le galere, mosse da un solo volere, partirono insieme veloci come saette scoccate, lasciando dietro l’onda biancheggiante e agitata. Dopo la prima vela n’era intanto comparsa una seconda, ed uscivan di dietro gli scogli del promontorio di Campanella, poi un’ altra ed un’altra, infine in ispazio di mezz’ora le due armate si trovarono a fronte a poco più d’un tiro di cannone.
Filippino d’Oria, uomo di mezzana statura, asciutto, tutto nerbo, stava a poppa sulla spalla destra della galera sotto lo stendardo, luogo ch’egli doveva, come[263] capitano dell’armata, occupare durante la battaglia; coperto d’armi splendide e dorate, non mostrava che il viso abbronzato dal sole, indurito al vento ed all’intemperie marine, e quanto ai lineamenti, vero tipo dell’ardita razza de’ marinai genovesi.
E marinajo, anzi uomo di mare perfetto, potea dirsi il nipote d’Andrea, chè alla scuola d’un tanto uomo aveva appreso a dirigere l’evoluzioni d’una armata non solo ma il corso altresì d’una galera come un semplice piloto. E se accenniamo questo suo merito, egli è perchè in quel tempo presso molte nazioni (tra’ francesi, verbigrazia) erano soventi volte eletti a capitani di guerre marittime, gentiluomini esercitati soltanto nella milizia di terra, i quali, lasciando intieramente ai nocchieri la cura delle cose navali, si riserbavan solamente la suprema direzione dell’impresa, non avendo nelle battaglie altro pensiero, fuorchè combattere arditamente alla testa de’ loro soldati, com’avrebbero fatto sugli spalti d’una rocca o d’una trincea.
Ai fianchi di Filippino erano il tenente della capitana e monsignore di Croy, mandato da Lautrec sull’armata con trecento archibusieri di rinforzo: altri uffiziali stavan in luogo meno eminente presso il primo remo di destra, che avea sette galeotti invece di cinque (e tanti ve n’ era dai due lati ai quattro primi remi dalla banda di poppa dai quali veniva regolata la voga), e sulla spalla sinistra, anch’esso al suo posto di battaglia, il proprio capitano della galera, tutti colle ciglia strette e le[264] pupille fisse nei legni nemici, studiandone i disegni ed i moti, colla seria, tranquilla e risoluta impostatura, che gli uomini più valenti non acquistano ne’ pericoli se non dopo lunghissime prove.
Il nostromo[27] era in capo alla corsia presso la poppa con un valido nerbo sotto l’ascelle, una mezza spada larga e tagliente appesa al fianco, senza fodero, e le braccia intrecciate sul petto; avea in capo un cappello di ferro basso e rugginoso, un giaco indosso, larghi calzoni in gamba, ed i piedi nudi.
Otto, tra comiti[28] ed aguzzini, venivan passeggiando su e giù per la corsia, osservando con sguardi lenti e di traverso se ogni galeotto facesse il dovere; ove taluno rallentasse la voga, si vedean con moto rapidissimo descriver in aria la figura d’un 8 col nerbo, che cadeva fischiando sulle spalle del colpevole, ed al tempo stesso de’ suoi vicini; di torre la misura con precisione poco si davan pensiero costoro.
Tuttociò si faceva nel più alto silenzio, chè la rigida disciplina delle galee genovesi non permetteva parole quando gli ufficiali erano al loro posto di battaglia; nè s’udiva altro strepito fuorchè quello dell’onda alternatamente percossa, il gemere delle sponde sotto il pigiare de’ remi, ed il suono delle[265] catene che s’urtavano nel rizzarsi e nel ricader grave de’ galeotti sulla loro panca.
Benchè nessuno parlasse, il nostromo tuttavia si volgeva tratto tratto guardando in viso ora il capitano, ora Filippino, quasi aspettando un comando che a quel punto gli sarebbe parso opportuno.
Per intendere ciò che or ora diremo convien sapere, che tra gli ultimi apparecchi d’una galera che si disponeva a combattere, v’era quello d’innalzare due specie di serragli, o trincere, che la tagliavano pel traverso: uno a prua dietro le artiglierie, l’altro all’albero di maestra, e venivan detti bastioni. Ognuno di questi bastioni era composto di due assiti alti sei braccia, retti da stili che si piantavano sulla corsia e sulle sponde. Lo spazio tra i due assiti, d’un braccio all’incirca, si empieva di gomene rotolate e ravvolte, e la facciata verso prua si vestiva di torciglioni di paglia. Si veniva così a fermare, o rallentare almeno le palle d’artiglieria che infilando pel lungo la galera avrebbero menata troppa strage tra la ciurma; ovvero, accadendo che nell’arrembaggio fosser saltati i nemici sul legno, si poteva di dietro questi ripari prolungar la difesa, e talvolta rannodandosi e facendo impeto ricuperar la parte perduta della galera.
Il nostromo dunque, come abbiam detto, si volse più volte a’ suoi maggiori, finchè il capitano, conosciuto il suo pensiero, disse a Filippino:
—Se Uscià crede, alzaremo el bastion de prua.—Il Doria accennò col capo di sì, ed il nostromo,[266] dando un Oh! prolungato che avvertiva i marinai di star attenti al comando, disse: «Oh! dò trincheto! A alzar el bastion de prua!»
A quella voce sorse a prua un rimescolio senza disordine tra marinai, e si vider sorgere a un tratto gli stili, l’assito e le gomene a fasci, che si collocarono nel modo anzidetto. In cinque minuti tutto fu all’ordine, e gli uomini che avean condotto questo lavoro, ripresero i loro posti e la loro immobilità.
Un frate cappuccino, cappellano della galera, s’era intanto messa una stola, e ritto nel mezzo del castel di poppa, con un rituale in mano recitò alcune preghiere, poi alzò la mano e segnò d’una gran croce la ciurma ed i soldati, che tutti, dal Doria all’ultimo mozzo fecero il segno di croce: poi Filippino levando la voce, disse:
—Animo ragazzi, col nome di Dio.... e di S. Gio. Battista.... la giornata sarà buona.... Otto galere contro sei! guardate! guardate come vengono! Pel Santo Catino, che non prendono più di quattro palate per voga![29].
E Filippino ed i suoi ufficiali ed il nostromo sorridevan vedendo l’andar de’ remi incerto ed irregolare delle galere nemiche.
—Orsù, proseguiva il Doria, spero che ognuno farà il dovere come il solito per l’onor di Genova e in servigio del re Cristianissimo... Nostromo! Fa girar un barile per la ciurma.—
Il comando venne tosto eseguito, e gli aguzzini portarono intorno un caratello di vino, che passando ad ogni panca de’ rematori, i quali bevevano ognuno alla sua volta, produsse miglior effetto che non il pensiero d’illustrar Genova o servire il re di Francia.
—Ora, monsignore, disse Filippino al capitano degli archibusieri francesi, fate che i vostri uomini si tengan pronti, che, viva Dio, voglio che andiam a ber un bicchier d’Alicante a bordo della reale di Spagna.—
—Ce ne sera pas moi qui y ferai faute.—
Disse lietamente il francese, e volto ai suoi, dopo alcune parole per animarli, levò in alto la spada nuda gridando, com’era l’uso di sua nazione «vive le Roi!» ed a questo grido si unì quello di «viva Genova» mandato dalle genti del Doria; e più da lungi, l’altro di «viva Espana» che levavan le galere nemiche.
Le due armate s’erano intanto avvicinate a mezzo tiro di cannone; e Filippino accennando al timoniere, che teneva in lui fisso lo sguardo, e parea indovinasse ed eseguisse istantaneamente ogni suo pensiero, veniva regolando il corso della galera per giungere a porla in faccia alla reale di Spagna, non tanto diritta da esser infilata dalle artiglierie di[268] quella, e non tanto di traverso da non poterla cogliere colle sue nella diagonale più stretta che fosse possibile. Anche gli spagnuoli cercavan questo vantaggio, ma meno esperti e men destri non si movean che a stento, e mal sicuri.
—Bombardieri, ai vostri pezzi! ed attenti!—gridò Filippino. Poi volto al capo della ciurma:
—Voga tutto![30] nostromo!—
Questi si lanciò in mezzo alla corsia col nerbo in aria gridando:
—Arranca! arranca!—
Ed il medesimo grido ripeteano i comiti e gli aguzzini, scaricando una tempesta di nerbate a dritta ed a manca sui galeotti, che raddoppiando la velocità e gli sforzi si vedeano curvar i dorsi, stender le braccia, nelle quali i muscoli enfiati parean guizzar sotto la pelle, e la galera spinta con nuova e validissima foga prese a volar sull’onda come una slitta sovra uno stagno diacciato.
Filippino era tutt’occhi. Vede giunto il momento, si getta alla stanga del timone, e piegandola egli stesso di forza fa orzar la galera, la trova al filo ch’egli voleva, grida:
—Fuoco!—
Ed un tremendo scoppio de’ cinque pezzi di prora sembra generar per incanto una nuvola densa e bianchissima che occupa un momento tutto il davanti[269] della galera. Filippino che pel frapposto fumo non vedeva il nemico, si piegò tutto fuor della sponda e fece un gesto d’impazienza, non potendo neppur così scorger l’effetto de’ suoi tiri. Ma presto un fiato divento dissipò il fumo, e la reale di Spagna apparve piegala sul fianco pel peso del suo trinchetto, che scavezzato al calcio, era caduto parte tra la ciurma, parte nel mare. I marinai ebber però presto coll’accette troncato quell’albero affatto, e spintolo fuor del bordo, la galera si rizzò, e cominciò anch’essa a sparare, coprendosi di fumo che s’innalzava a globi densi, vorticosi, ora grigi, ora bianchi, ora per gli opposti raggi del sol cadente, dorati e trasparenti sui lembi.
—Viva Genova! e avanti, chè la reale e nostra! gridò Filippino lieto del felice principio, e di vedere i suoi legni tutti ottimamente diretti, saettar con spessissimi tiri il nemico, che anch’esso per verità rispondeva a dovere. La moschetteria tempestava anch’essa da ambe le parti, onde presto il limpido sereno del cielo rimase occupato da una caligine densa e rossastra nella quale pareva nuotasse il disco del sole sanguigno e senza raggi, come fosse di rame liquefatto.
E la capitana sempre avanti; diritta, veloce, fulminando dalla prora fuoco intensissimo, chè il Doria avea in animo, senz’andar per le lunghe, investir la reale, mandarla, se poteva, a picco coll’urto dello sperone, o prenderla all’arrembaggio.
L’aria era piena d’un tuono altissimo e continuo[270] che non toglieva però d’udire il sibilo incessante delle palle che passavano a centinaja dai lati o sul capo, e talvolta percuotevano, scrosciando per gli alberi, l’antenne, le sponde, e ne staccavano scheggie e frantumi, senza però che sin ora avessero arrecato gran danno.
Alla fine pure una grossa palla d’un corsiero[31] s’aprì la strada con fracasso tra gli assiti del bastion di prua, e presa in traverso la galera, portò via, fracassandole, quante membra di galeotti trovò sulla sua via.
I vicini di quest’infelici, coperti dal sangue e dall’interiora palpitanti de’ compagni, che sconciamente mutilati giacevan morti, o guizzavan mal vivi e gementi sotto le panche, parvero arrestar la voga quando più importava renderla impetuosa, ed alcuni mandaron grida lamentevoli e disperate.
—Nostromo! Perdio!—
Gridò Filippino furibondo alzando la spada, ed il nostromo invelenito anch’esso s’avventò co’ suoi aguzzini verso quei disgraziati, e, non più col nerbo, ma colla mezza spada, ora di piatto, ora di taglio, menava arrabbiato su que’ dorsi nudi, gridando:
—Arranca, canaglia!.... Che v’insegno io la paura.... avanti! avanti! Tappo in bocca, tutti![32] e poi urlate se potete!....—
E colle piattonate, e co’ tagli ajutando le parole ebbe presto ottenuto che ognuno avesse in bocca il suo sughero, e si riprendesse con nuovo vigore la voga.
Filippino era sempre al timone, arrabbiando di non poter pel densissimo fumo, ed anco perchè l’aria, tramontato il sole, si veniva a mano a mano oscurando, discernere bene la reale di Spagna ed il preciso luogo ove disegnava percuotere collo sprone.
Ma la fortuna, che volea favorirlo, gli mostrò a un tratto in uno spazio di cielo, ove il fumo per un momento fu spazzato dal vento, la punta dell’albero di maestra della galera nemica, attorno al quale si ravvolgeva ondeggiante il grave pennone giallo e vermiglio di Spagna.
Ciò gli bastò per calcolare ove dovess’essere il castello di prora; volse la stanga con furia, e gridando:
—Attenti! Ad investire!—
Avviso troppo necessario affinchè ognuno si fermasse in sulle gambe e s’apparecchiasse a saltar sul legno nemico, approfittando di quel primo disordine.
Passò un minuto di terribile aspettazione, di più fitte e tremende nerbate a’ galeotti, di più rapido andare del legno, d’indescrivibile ansietà ne’ combattenti, ed alla fine accadde il gravissimo scontro, con un fremito, un crocchiar sordo ed interno di tutti i costati della galera, che a un tratto l’arrestò, quasi urtasse in uno scoglio, ficcato[272] il suo sprone per isbieco nel castello di prora della nemica. Si gonfiò l’onda di sotto, e sorse lanciata in aria tra le due galere, in alti e candidi spruzzi; molti, ancorchè stessero in avviso, traballaron nell’urto e cadder travolti nel mare: le antenne, le sarte, i remi s’intrecciarono, si percossero, si scompigliarono rompendosi, e volando in pezzi: dalle gagge piene d’archibusieri crebbe il grandinar delle palle, e da ambe le parti, quanti potevano combattere, s’avventarono verso quel luogo, ove pel combaciarsi delle due galere era possibile, se non facile, il trapasso dall’una all’altra, e qui si accese la più furiosa e disperata battaglia ad armi bianche, a spade, a daghe, a coltelli, a pesanti e larghissime accette, un lottar sanguinoso ed ostinato, un afferrarsi, un sospingersi, un cadere, un risorgere, un avventarsi, un ghermirsi continuo, che ad ora ad ora diveniva più pauroso e micidiale per le crescenti tenebre della notte, per l’angustia e stranezza dei luoghi ove s’avean a fermare i piedi, e perla sopravvenuta agitazione dell’onde, che sollevate a poco a poco da un gagliardo levante messosi in sul tramonto, venivan alte e minacciose di traverso, ed arricciandosi cadevan impetuose sui fianchi e sulla coperta delle fluttuanti scompigliate galere.
Ad illuminare questa scena infernale serviva in parte il lampeggiar incessante delle cannonate e dei moschetti, e la luce de’ fanali posti a poppa delle galere, che all’annottar eran stati accesi, ma a[273] questo scarso ed incerto lume un altro se n’aggiunse tosto continuo e splendente mandato da una galera spagnuola incendiata, che presto divenne come una sola e grandissima fiamma trabalzata, or alta or bassa, sul mare, dal gonfiarsi e dal comprimersi alternato dell’onde sulle quali si rifletteva, scherzando in mille guizzi il gran fuoco.
Questo legno era lontano circa cinquanta braccia dai due attaccati, e ne usciva luce vivissima, insieme colla vampa del caldo, e colle disperate ed acutissime grida degl’infelici galeotti, che incatenati alle loro panche, si sentivan rosolar le carni, senza potersi sferrare, e perivan di mano in mano con lenta e crudelissima morte, senza che i marinai o i soldati, scampati a nuoto o ne’ palischermi, si curasser di loro o pensassero ad ajutarli.
Ma nè questo tremendo spettacolo, nè il pericolo del probabile ed imminente scoppio delle polveri sul naviglio incendiato non rattenevan punto il furor del combattere sulla reale e sulla capitana, al disopra delle quali trasvolavan tratto tratto nembi di faville e di fumo fetente e denso, quale lo producon legni impeciati che ardano.
Filippino, appena ebbe condotta la galera a percuoter nella nemica, lasciato al piloto il timone, s’era avventato con Mgr. De Croy, e co’ suoi ufficiali, nel luogo ov’era più stretta la zuffa, e tutti facean bellissime prove della loro persona.
Lamberto, il quale già stava sul castello di prora[274] col suo servo Maurizio al fianco, e con molti degli archibusieri francesi d’intorno, avea notato tra questi uno che gli s’era collocato a lato, e che invece d’aver come gli altri suoi compagni un cappello di ferro in capo, portava un morione che gli nascondeva il volto del tutto. Non ebbe però tempo d’osservare a lungo costui, che le galere scontrandosi, cominciò la descritta battaglia nella quale entrò Lamberto de’ primi. E siccome eran seco non pochi soldati che avean militato sotto il sig. Giovanni nelle sue Bande, Lamberto s’avventò tra’ nemici gridando:
—Viva il sig. Giovanni! a noi le Bande Nere!—
Quasi eccitando i suoi compagni a mostrarsi degni della loro fama: e quando gli veniva fatto un bel colpo, alcuno di costoro gridavano:.
—Evviva Sforzino!—così gli uni cogli altri si facevan animo a portarsi virtuosamente.
Dopo lungo contrasto, dopo infinite uccisioni, riuscì pur ad essi di superar il nemico, ributtarlo, e gettarsi in folla nel suo naviglio, e qui crebbe, se pur potea crescere, l’accanimento ed il furore nel disputar palmo a palmo il cassero della galera, che lubrico pel sangue, barcollante per l’agitazione del mare, parea ogni tratto sfuggisse di sotto i piedi de’ combattenti, ora sospinti e serrati gli uni sugli altri, ora divisi, sbalzati, capovolti spesso fuor delle sponde, ove molti, dal peso dell’arme, dai ripercossi flutti, eran tosto cacciati al fondo, molti morivan feriti sul capo da quelli che ne’ palischermi attendevano[275] a finire i nemici, e trarre gli amici dall’acqua, ed alcuni pochi riuscivan pure, afferrandosi ad una prora, ad un remo d’una qualche barchetta a campare; ed i concavi, i dorsi dell’onde si vedean pieni di barche sbalzate dai cavalloni, di nuotanti, di cadaveri, di mezzo sommersi, di frantumi di tavole e di remi spezzati; chè la fiamma della galera incendiata rischiarava tutto d’intorno d’una luce vivissima e vermiglia.
D. Ugo di Moncada, vicerè di Napoli, dopo aver fatto ciò che può farsi per difender il suo naviglio, e conosciuto ch’egli era vinto e disfatto senza rimedio, sdegnò arrendersi, e deliberò morire, ma far costar cara la sua morte al nemico. Circondato da’ suoi gentiluomini, e dai capitani delle sue milizie, tra’ quali era Cesare Fieramosca (fratello di Ettore) Don Pietro Urias, Antonio Colonna, il M. del Guasto, e molti altri, fece testa dietro l’albero di maestra presso la stanga del timone, e chiuso in uno scintillante arnese damascato, coperto di una rotella, col Toson d’oro sul petto, aspettò l’ultimo assalto delle genti di Filippino, che affollate e ruinose, per la corsia gli si serrarono addosso.
Lamberto s’avventò per essere il primo a ferire, ma senza ch’egli sapesse come, gli passò innanzi quel soldato dal morione, ch’egli sempre s’era trovato vicino (e spesso gli avea porto ajuto durante la battaglia) e che a questo punto, percosso tutt’in un tempo da molti colpi, cadde, e sospinto si rovesciò fuor delle sponde nel mare. Parve a Lamberto[276] ch’egli cadendo gridasse il suo nome, ma ravvolto com’era tra’ nemici, intronato il capo da tanto frastuono e tanti gridi, neppur fu certo s’egli avesse realmente udito chiamarsi, o se fosse stata immaginazione. Ed intanto (per non allungarla troppo) era stato dopo breve, ma asprissimo contrasto, disfatto e sciolto interamente quel nodo di spagnuoli. Morto il vicerè, il Fieramosca, e quasi tutti coloro che aveano a quel disperato modo tentato prolungar la difesa, la reale di Spagna era venuta in potestà de’ Genovesi, che abbattuto lo stendardo di Castiglia v’alzarono invece la croce di Genova tra mille lietissime grida di vittoria.
E ad ottenerla avean cooperato non poco le galere che mandate in alto dal Doria prima che cominciasse il conflitto, eran tornate alle spalle degli spagnuoli, tempestandoli colle artiglierie. Una palla tra l’altre avea in sull’ultimo percossa e sfondata la reale un palmo sott’acqua, onde non appena furono i Genovesi padroni di essa; non appena Lamberto avea avuto tempo di ricever la spada d’un gentiluomo spagnuolo, il conte d’Aguilar, che egli s’era dato prigione, quando s’accorsero che la galera si veniva affondando.
Filippino comandò alle sue genti d’uscirne, e si può credere che fu ubbidito senza ritardo. Parte si gettarono ne’ palischermi, parte riuscirono ad arrampicarsi alla prora della capitana, ed in pochi momenti il naviglio fu vuoto d’uomini liberi, ma i galeotti vi rimasero, nè v’era forza umana che[277] valesse a salvarli. Eran già nel mare sino alla cintola e dall’interno della galera, dalle parti basse e cave della carena, l’aria cacciata dall’acqua sopravvegnente, usciva con un suono cupo, quasi un lamento (direbbe un poeta) del naviglio che si sentiva sommergere. Ma ben altri lamenti (e pur troppo qui non era poesia) ben’altre grida mandava la sventurata ciurma, parte cercando con tremendi ed inutili sforzi strappar le catene, parte divincolandosi, gettando qua e là la persona, molti piangendo e gridando misericordia, i più urlando bestemmie e maledizioni: e l’acqua sempre cresceva.
Poco stante venne un’ondata, e dove prima si vedean le sponde, la poppa, lo sprone della reale, le teste, le braccia tese della disordinata ciurma, più non si videro che candide e gorgoglianti spume. Avanzavan gli alberi; chè anch’essi in un baleno entrarono e si nascoser nel mare; e nel punto medesimo un orrendo ed istantaneo scoppio, unito ad un baleno di luce bianchissima, sconvolse ed intronò il mare, i monti, l’armata, e lasciò il tutto in profondissime tenebre. Poi, dopo un momento, un piover per tutto di travi, di legni, di ferri stiantati, di membra d’uomini, di mille frantumi, che cadder nell’acqua o sulle galere, ammazzando e storpiando Dio sa quant’altra gente, e producendo mille mali, e poi un silenzio attonito e pauroso, nel quale più non s’udiva che il sibilo della bufera tra le sarte e le antenne, e lo scrosciar dell’onde che battevan le navi, o mugghiavan lontane nelle scogliere del lido...
Lamberto, dopo questo fatto, venne mandato all’esercito di Lautrec. Vinto e disperso questo, andò in Puglia con Renzo da Ceri, poi, quando fu posto a Firenze l’assedio, deliberò correre tosto ad ajutar la difesa, e non senza difficoltà riuscì pure ad entrare una sera in città: giunto, col cuore che gli batteva, come può credersi presso la casa i Lapi incontrò Laudomia nel modo che già abbiamo riferito.
Le loro ricerche non furono lunghe, Laudomia s’accorse tosto ch’era pazzia volerne sperar alcun frutto, ed ebbe presto ricondotto Lamberto al portone di casa. Questi avea taciuto un pezzo, ondeggiando in mille pensieri e mille sospetti, pure alla fine non si potè più tenere, e quando vide che era sul timore, disse fermando Laudomia pel braccio:
—Ma non dovrò io sapere che cosa sia tutto questo mistero?—
—Oh! Lamberto, ve ne prego, ritroviamo il babbo prima—rispose Laudomia; pure strascinandolo seco, ed a passo veloce, giunsero ed entrarono in casa.
La giovane picchiò all’uscio di Niccolò, chiamandolo, e nel tempo che egli penò a venir ad aprire prese le mani a Lamberto, e con passione grandissima, e quasi piangendo, gli disse all’orecchio:
—Oh, non dir parola che lo contristi, povero babbo!—
Poi, quando udì i passi gravi del vecchio che s’accostava, spinse così un poco Lamberto, onde il padre non se lo vedesse davanti improvviso, ed in quella l’uscio s’aprì. Niccolò, fieramente turbato ancora per la comparsa della Lisa, alla quale mal grado la sua terribil natura, sentiva pur sempre d’esser padre, aveva il volto affilato e pallido, e malsicuro l’andare. Credè che Laudomia venisse a star seco il resto della sera, che ancora non era molto innanzi, perciò senza parlare ritornò in camera e si rimise sul suo seggiolone presso al cammino, riprendendo un libro di preghiere che stava leggendo. Ma Laudomia accostandosegli, e facendosi lieta in viso quanto poteva:
—Ho una buona novella, babbo,.... sapete chi è arrivato?.... e sta qui fuori?....—
—Lamberto? rispose il vecchio alzando un tratto il viso, e facendo l’atto di rizzarsi.... «Oh! vieni, vieni figliuol mio, gridò;» e Lamberto che stava in orecchi gli si fu in un baleno inginocchiato davanti. Niccolò presogli il capo tra le palme se lo stringeva sul petto. Laudomia in piedi, colle mani giunte e gli occhi al cielo, pregava Iddio che gli ajutasse tutti e tre a questo terribil passo.
Rimasti così un momento senza parlare, Niccolò, discostando da sè il volto di Lamberto, e messagli sulla fronte una mano, si poneva a guardarlo fisso. Alla fine con un sospiro risoluto disse:
—Tu non m’hai più viso di fanciullo. Codesto è viso d’uomo forte ed ardito.... ti sta bene quel[281] bruno.... ti sta bene quel taglio che ti fende la gota... Tu hai attenute le tue promesse Lamberto!... ma noi!....—
E qui il povero vecchio alzando le mani scarne al cielo se le battè sulla fronte coprendosi gli occhi, e stette così tanto che si sentisse sicuro di non prorompere in pianto.
—E noi, proseguiva, che avevam pensato rivederti, riceverti con festa, aprirti le braccia tutti e dirti, ora finalmente sei nostro davvero!... Io che avevo creduto accoglierti colla fronte sicura e serena,.... son qui innanzi a te.... ed è la prima volta in novant’anni, Lamberto!.... Son qui come un reo costretto a confessar l’onta sua colla propria bocca! Io mi sentirei spinto a cader ginocchioni, ma tu non lo vorresti patire.... Ascoltami, Lamberto, e sii uomo, quale dimostri nell’aspetto.—
Il povero giovane, tutto sotto sopra, stava pur sempre con un ginocchio a terra, guardando il vecchio con occhi pieni di maraviglia, e direi quasi di spavento, che dalla bocca di Niccolò cotali parole eran veramente terribili, e da far presagire ogni peggior male.
—Messer Niccolò, voi mi fate morire con questi discorsi così oscuri, parlate, col nome di Dio, e di me non dubitate.—
—Ebbene, sappi dunque, ch’io sono vituperato, che la Lisa ha tradito me, ha tradito te, la casa sua, la patria.....—
Lamberto si trovò in piedi d’un balzo, e senza accorgersene, colla mano in sull’elsa.
—Per Dio eterno, ciò non può essere..... voi siete tratto in errore... e chi v’ha dette codeste favole ne mente per la gola....—
—Lamberto, rispose Niccolò prendendolo pel braccio e facendoselo sedere accanto, io che ti parlo sono suo padre sai!... Ora dunque taci ed ascolta,—Sì, la Lisa ci ha traditi tutti,.... dal sangue de’ Lapi, dal sangue di Niccolò ha potuto nascer donna capace di darsi in braccio ad un traditore, nemico di questo popolo di questa città.... tale è stato il giudicio di Dio su questa casa.... Justus es Domine, et rectum judicium tuum!—
E qui il povero vecchio dovè tacere un momento per riavere il respiro.
S’alzò: andò ad un forziere, l’aperse, prese una carta, ritornò verso Lamberto, e gliela porse.
—Eramo qui una sera per andarcene a letto: fu picchiato: entrò il Ferruccio, e per parte del gonfaloniere mi diede questa lettera: leggila....—
Lamberto lesse. Il suo viso, che prima s’era fatto rosso e quasi violaceo, diveniva a mano a mano pallido.
—E tutto ciò era vero?—disse alla fine.
—Era vero. E qui Niccolò gli narrava, come essendo salito alla camera delle figlie avesse trovata la Lisa col bambino, e poi tutto il rimanente che il lettore conosce, sino all’ultimo caso di quella sera istessa: e Lamberto ascoltò sino in fine senza interrompere, senza dar segno nessuno di ciò che provava nel cuore: soltanto il lembo d’una panziera[283] di maglia che (stando egli seduto) pendeva lungo gli stinieri di ferro, li faceva risuonar tratto tratto, e n’era cagione il tremito convulso che egli provava in tutte le membra.
Quando Niccolò ebbe finito di parlare, rimasero muti tutti e tre per alcuni minuti.
Lamberto entrando con Laudomia in casa s’era fatto dare dal suo famiglio un involto e la spada che avea ricevuta da Andrea Doria, ed avea deposto il tutto sulla tavola accanto a Niccolò. A questo punto, rizzatosi, aperse l’involto, e trattane una catena d’oro, poi alcune carte, che eran benserviti tutti in sua lode, di Filippino e d’Andrea Doria, ed una tratta di cambio per la taglia del conte d’Aguilar che aveva fatto prigione nella battaglia di Salerno, tenne la spada e le carte in mano un momento, poi gettando a terra ogni cosa, disse, scrollando il capo con un sorriso sinistro che fece agghiacciar Laudomia:
—M’eran costate gran catinelle di sangue!.... alla fediddio, ch’egli è stato bene speso!....—
Spiegata poi una cartolina ne trasse un gambo di rosa inaridito con alcune foglie secche, le gettò nella fiamma, che l’ebbe divorate in un momento, e disse tra se stesso fremendo:
—Oh, quando mi venne in mente di ritornare in Firenze!....—
Niccolò, udite queste parole s’alzò, gli pose una mano sulla spalla, e con voce dolce e grave al tempo stesso gli parlava così:
—Lamberto, non sei tu fiorentino? Non è questa la tua patria, ora minacciata da tanti nemici? E ti potresti pentire d’esser venuto ad ajutarla? Lo sa Iddio se io vorrei colla vita poterti liberare dal tuo giusto dolore.... così avesse Iddio voluta la mia morte e non la mia vergogna!.... Ma chi potrebbe levar la fronte contr’esso, contro il voler suo?.... Il male non ha rimedio!.... e questo male è mio, è tuo, è di questa povera casa, di poche persone private.... e dobbiamo noi averne pensiero, dobbiamo tanto curarlo, quando un male immenso, una rovina universale ed imminente sovrasta alla patria nostra? Oh Lamberto! qui i vecchi, le donne, i fanciulli hanno posto mano alla difesa, e tu....—
—Oh! non mi dite altro, messer Niccolò, chè mi trafiggete l’anima.... E stato un momento! che alla fine il cuore non è poi di bronzo.... Sì, messer Niccolò, sì, padre mio (che a dispetto della fortuna io non vo’ più chiamarvi altrimenti) questo braccio, questo sangue è di Firenze: le mie forze, la mia vita, tutto consacro alla patria, alla difesa di questo popolo e della nostra libertà.... Iddio volle togliere tanto bene, tanta dolcezza della mia vita? Sia benedetto il suo santo nome, che la maggiore di tutte non me la tolse, quella di combattere e di morire per la terra ove nacqui, in difesa di quelle mura che chiudono i miei cari, i miei amici, i miei fratelli! Mi vedrete da’ merli combattere, cader nel mio sangue; direte: Lamberto è morto da virtuoso, da forte cittadino, e[285] rimarrò per sempre nel vostro cuore, nella vostra memoria... Oh! padre mio, io parlai come un pazzo.... ma perder in un momento ciò che per tanti anni s’è tenuto di mira come il sommo de’ beni! che s’è comprato con tanti travagli!.... son uscito di me.... perdonatemi. Oh! quanti si stimerebbero felici,... ora lo conosco.... quanti benedirebbero Iddio di poter dare alla patria la vita! e debbon consumarla vilmente, e perderla alfine inutile ed oscura!.... Ed io invece?... Dio, ti ringrazio, ti ringrazio o Cristo nostro re, che m’hai raccolto sotto la tua bandiera!.... non si parli più d’altro, padre mio, non si parli più di nulla.... combattere, vincere o morire per la patria, per la sua libertà....—
E nel dir queste parole avea la faccia levata, gli occhi scintillanti. Niccolò l’abbracciava con impeto d’affetto e d’allegrezza, e la povera Laudomia, che era stata sempre attenta e muta durante questo colloquio, si trovò, senza avvedersene, avere stretta tra le sue mani candide e delicate, la robusta destra di Lamberto.
Tornata in se dopo un momento lasciò quella mano, ed un poco dopo, arrossita, uscì dalla camera dicendo andava a dar gli ordini, onde i cavalli ed il famiglio di Lamberto fosser messi al coperto.
I due rimasti, sedutisi al fuoco, seguitava Niccolò:
—Bene hai detto, Lamberto; ora è tempo da pensare non ai nostri, ma ai casi di questa povera patria. Ma stiam di buon animo; tutto quanto accade,[286] è stato predetto dal nostro santo maestro: più s’aggrava il flagello, e più si fa vicina la corona e il trionfo, più sembrerà inevitabile la ruina, e più ci sarà d’appresso il soccorso. Quando e’ parrà che tutti gli uomini ci abbiano abbandonati o traditi, allora sorgerà la virtù d’Iddio, allora i suoi angeli scenderanno su queste mura a difenderle. Così predisse fra Girolamo. Chi potrà dire che una sol volta egli abbia mentito? Vengan tutte l’armi del papa, dell’imperatore; vengan tutti gli eserciti della terra, potranno essi star contro la spada d’un sol serafino? Contro quella spada che precipitò Lucifero negli abissi?—
Lamberto, che stava immobile fissando il fuoco, rispose così colle labbra:—Voi dite il vero—tanto per mostrare d’aver ascoltato, ma di tutto il discorso del vecchio non avea udita neppur una sillaba. I pensieri che gli agitavan la mente, eran troppo potenti perchè fosse in istato di dar retta ad altro. Diceva a se stesso—Tu abbandonasti la mamma vecchia, inferma, già con un piè nella fossa, tutto per costei, per guadagnarti il suo amore, per meritar la sua mano. Eccoti tornato. Dov’è tua madre? Morta. Dov’è la Lisa? Peggio che morta—è fuggita con un traditore!.... Oh! è giusto Iddio.
Fortuna pel povero giovane che era partito d’accordo colla madre, ch’essa l’avea benedetto; ove la cosa fosse andata altrimenti, ora il dolore l’avrebbe morto.
Niccolò intanto per isviarlo più che potesse dal pensiero delle sue sventure, ed accenderlo in quello della difesa, proseguiva:
—Ma perchè Iddio all’ultimo ci ha promesso il suo ajuto, non per questo dobbiam lasciar d’ajutarci, fin dove giungon le forze e la vita. S’è pensato a tutto, Lamberto: e le cose son governate in modo che quest’esercito vuol far poco profitto. Per ora intanto, chi si vantava d’inghiottirsi Firenze in un sorso, non è stato neppur capace di vincere il campanile di S. Miniato....—
—Ditemi, messer Niccolò—interruppe Lamberto, ma la parola gli morì sulle labbra. Voleva domandar di sua madre, parlare de’ suoi ultimi momenti, sapere se avea pronunziato il suo nome, se prima di passare avea chiesto poterlo vedere, se l’avea benedetto, se pareva adirata con esso lui, se gli avea perdonato il suo allontanamento, e cent’altre cose. Ma al momento di muover la parola glie n’era mancato il coraggio. Vi sono tali ferite del cuore tanto intime, tanto acerbe ed irritabili, che non v’ha modo a trattarle. Difficilmente l’uomo s’attenta a palesarle, a parlarne; sembra che que’ pensieri stessi già tanto dolorosi quando pesan sull’anima taciti e profondi, espressi colla voce si farebbero troppo enormi e tremendi; e si sente che esacerbati d’un sol grado diverrebbero maggiori delle forze dell’uomo. Rimase perciò un momento sospeso, e ripetendo poi la frase, ma con mutato pensiero:
—Ditemi, messer Niccolò. Sapete ove s’è riparata vostra figlia?—
—Vuoi dir la Lisa.... che la mia figlia è Laudomia. Rispose il vecchio con volto severo. Non lo so, e non mi curo saperlo. Tieni a mente, Lamberto, che prima di fermare un proposito, vi penso. E fermato ch’io l’ho, non mi muto. Ora parliam di Firenze. Pensiamo al fatto tuo. Tu sei a cavallo, tu hai indosso l’arnese d’un uomo d’arme. Se vuoi darmi retta, ti porrai nella compagnia dell’Arsoli. Egli è valent’uomo; la sua è buona gente, e di cavalli n’abbiam mestieri, per tener aperti i passi e pulito il contado verso Mugello, ove già scorron quelli del marchese del Vasto.—
—Così farò.... Ma e colui.... Quel Troilo, dov’è?....—
—È in campo.... Oh! che pensieri ti giran nel capo? Vorresti tu?.... non sai ch’è suo marito?... Se l’incontrerai in battaglia passagli il petto colla spada,.... ti è lecito.... ma non dubitare, ciò non avverrà.... i traditori non s’incontrano in battaglia. Orsù, levati di questi pensieri. Sii uomo, Lamberto.—
Il giovine percosse col pugno sul cosciale di ferro, e balzò in piedi.
—Voi avete mille ragioni. Andiamo dunque dall’Arsoli, e poniamoci alla bisogna.... E, appunto... neppur vi domando dei fratelli. Che n’è di Baccio?—
—Morto in battaglia.—
—Di Bernardo?—
—Morto in battaglia.—
—E Bindo, e Vieri ed Averardo.—
—A difender le mura, e seguitar i fratelli se così avrà fissato Iddio.—
—Ah sì! seguitiamoli, e Dio voglia chiamar me per il primo, chè l’uscir di questa vita sarà uscire d’un gran travaglio.—
Ed in quella si mosse per andarsene. Ma il vecchio lo fermò. Aperse un forziere, e trattone un mazzo di chiavi:
—Queste, disse, son le chiavi della casa ove stava la povera Nunziata. Ma prima d’andarvi fa di parlare col Fivizzano in S. Marco. Egli deve dirti cosa che importa.—
—Oh, madre mia benedetta!—disse Lamberto prendendo quelle chiavi e baciandole: e due lagrime gli scesero per le gote.
—Tua madre è in miglior luogo che non siam noi. E morì benedicendo Iddio d’avere in te un figliuolo valentuomo e dabbene.—
—Dite voi il vero?—chiese Lamberto tutto tremante, e mutato in viso l’immenso conforto che gli arrecavano quelle parole.
—Sì, ti dico il vero, e il Fivizzano, che la confessò agli estremi, ti confermerà il mio detto.—
—Oh! lodato... ringraziato sia Iddio mille volte, e quell’anima santa e pura che ora è beata nella sua gloria!—
E in così dire il valente giovane abbracciò il padre[290] dando in un pianto d’allegrezza; chè proprio gli parve rinascere a nuova vita.
Stato così un momento si sciolse da quell’abbraccio ed uscì, senza più volgersi, mentre Niccolò gli diceva:
—Ricordati che questa è casa tua, e quando non sii comandato, qui è già fatto il tuo letto. Or va, e più tardi lasciati rivedere.—
Lamberto prese verso S. Marco; e dove poco prima il domandar di sua madre gli metteva si può dir terrore, adesso invece tutto mutato per le parole di Niccolò, non vedeva l’ora di trovarsi con chi gli parlasse di lei e potesse soddisfarlo sui mille particolari che ardeva di conoscere. Portarsi col pensiero nella sua vita avvenire, e trovarsi solo, senza la sua Lisa, colla continua memoria d’esserne stato sì bruttamente tradito, era tremenda sventura, di quelle però che non abbattono, anzi talvolta servono ad elevare un’anima forte e virtuosa. Ma durare i giorni, i mesi e gli anni; invecchiare; e sempre con quel rimprovero in cuore, tua madre morente ti cercò invano intorno al suo letto, le sorse nel cuore il pensiero di chiamarti ingrato, un altro chiuse le sue pupille, compose le sue membra gelate.... Questo era tale strazio che non valeva ad affrontare neppur col pensiero. Ed in fatti qual tempra umana è forte abbastanza per stargli a paragone?
Smanioso d’uscir del tutto di questa angoscia, e con un’impaziente speranza che le parole del frate avessero a sollevarlo interamente fu tosto alla porteria[291] del convento. Per l’ora tarda durò fatica a farsi aprire; pure nominatosi, fu messo dentro, ed in pochi momenti si trovò nella cella di Fra Zaccaria da Fivizzano.
—Son io, son Lamberto! disse al frate attonito che un uomo tutto coperto di ferro, venisse con tant’impeto a quell’ora nella sua cella. Sono scavalcato in casa i Lapi, sarà un’ora.... So tutto.... Niccolò, povero vecchio, egli stesso m’ha narrato della Lisa.... Iddio vuol così!.... Ma so che avete a parlarmi, che foste voi a chiuder gli occhi alla povera mamma mia.... perdonatemi s’io son venuto a darvi disagio a quest’ora.... ma non ho potuto aspettare a domani. Oh! consolatemi, chè n’ho mestieri! Ditemi che mi benedisse, che non mi chiamò sconoscente, che mi perdonò d’esser lontano! Oh, parlate, per l’amor di Dio!...—
—Lamberto, rispose il frate abbracciandolo, tu sei un giovin dabbene, e questi tuoi timori ne fanno fede. Ora chetati: la Nunziata era madre: ma era madre animosa, e t’amava per te, e non per se stessa. Sì, ti benedisse, e ben lungi dal far sinistro giudizio sul fatto tuo, mi disse che moriva contenta vedendoti sulla via di divenir un valent’uomo ed un uom dabbene. Se Iddio, mi diceva, vuol negarmi il conforto d’averlo qui ora accanto al mio letto, sarà forse pel nostro migliore; sarà meno amara quest’ultima dipartenza, ed egli vorrà sciogliermi così d’ogni pensiero di quaggiù onde mi volga tutta a lui ed ai pensieri dell’anima. Due[292] ore prima di passare, (era la sera sull’imbrunire) mi chiamò, e mi disse: Fra Zaccaria, tirate in qua quel deschetto, sedete qui al capezzale, e scrivete quattro parole ch’io ho in animo di far avere a Lamberto mio. Lo conosco: avrà bisogno di conforto per più d’un verso. Io scrissi e suggellai il foglio. Poi soggiunse, sento che mi si va spegnendo il anelito: un altro poco, e non potrò più parlare: quest’ultimo fiato che m’avanza sia per Lamberto mio, e stesa la mano tremula, come tu fossi stato ivi presente e ginocchioni e te la ponesse sul capo, aggiunse: «Ti prego, Dio onnipotente, di benedire il figliuol mio com’io lo benedico: fallo buono in questa vita, e beato nell’altra.» Non potè dir altro. Non parlò più, e passò tranquilla e serena.—
Lamberto fin dal principio di questo discorso piangeva come un bambino; Fra Zaccaria gli porse il foglio, che il giovine baciò mille volte, ed ebbe in un momento reso tutto molle di lagrime.
—Piangi, che n’hai ragione; diceva il frate commosso; piangi Lamberto, che nessun amore vale l’amor d’una madre, e quando la morte l’ha spento niun altro lo compensa. Ma che dich’io spento? egli è fatto più puro, più ardente in quell’amore immenso che tutto vede, che numera le nostre lagrime, per volgerle poi in altrettanta allegrezza. Essa t’ama lassù in paradiso, quanto t’amava in terra, e più se fosse possibile; essa compatisce questo tuo dolore, t’è grata di questo pianto.—
—Ah! ch’io fui uno sciagurato, esclamava Lamberto[293] raddoppiando i singhiozzi, dovevo prevederlo, essa, poveretta, mi lasciò partire perchè... pensava a me solo..... a vedermi contento..... ma io dovea prevederlo.... a lasciarla così sola.... chè la malinconia, il timore de’ rischi ne’ quali m’avvolgevo.... dovevo pur saperlo, che non avrebbe potuto durare a questa passione continua, che il dolore l’avrebbe uccisa!—
—Ascoltami Lamberto. Accade talvolta nel risolvere un partito che in qualche modo si cade in colpa. Se a te paresse d’aver fallato, non sia mai ch’io ti ritragga dal sentirne dolore, e dal chieder perdono a chi meglio di noi conosce il cuor nostro. Ma per quel ch’io so di te, e della mamma tua, per quell’autorità che dalla Chiesa si comparte a’ suoi ministri, ti dico di non affannarti più oltre con questi timori. Io ti fo sicuro del cuor di tua madre, ed in quel foglio ne troverai miglior riprova che non sono le mie parole. Ora dunque datti pace.—Lamberto intanto impaziente di leggere lo scritto della madre s’era accostato al lume spiegando il foglio, ma Fra Zaccaria gli disse:
—Non ora, figliuolo, chè non è lecito l’intrattenersi in convento a notte avanzata, e poi, sarà forse meglio che solo, ed in quiete, tu faccia codesta lettura. Come poi abbi dato convenevole sfogo a codesta tua giusta passione, taccia ogni pensiero de’ tuoi mali privati, a fronte del grande e virtuoso pensiero della patria: essa ha mestieri di uomini forti e non inviliti dal pianto. Le tue forze, la tua[294] vita, non tua ma di questa città, non si disperdano inutili, mentre è tempo d’usarle in suo benefizio. Lamberto! coll’arme in mano, a fronte de’ nemici.... là ti vuole Iddio; là, tua madre dal cielo t’addita il tuo luogo! Combatti e muori per la libertà di questo popolo; e renderai più onore alla memoria di essa che non con un mare di lacrime. Oh figlio! Iddio nell’ira sua ha rammentato i peccati de’ nostri padri.... il grido delle nostre iniquità è salito fino al suo trono.... debbon esser lavate, lavate col sangue. Ora va, chè a quest’ora nessuno di fuori dovrebbe trovarsi in convento: e già troppo sei soprastato.—
Le fiere parole del frate, tanto simili a quelle udite poco innanzi da Niccolò, e che parevano quasi racchiudere una rampogna, fecero levar il capo al giovine. Una vampa di caldo gli salì alle gote, strinse la mano a Fra Zaccaria, e nel guardarlo, un baleno di sdegno gli corse tra ciglio e ciglio: ma rimessosi tosto, gli disse:
—Io avevo bisogno de’ vostri conforti per quanto s’attiene alla mamma. Iddio vi rimeriti, che per le vostre parole son tornato in vita. Ma quanto alla patria, io son Fiorentino, e posso dir d’esser dei Lapi!.... Addio Fra Zaccaria, il resto ve lo dirà chi avrà tra qualche giorno vedute l’opere mie.—
Uscì così dicendo. Quando fu di nuovo in piazza S. Marco si fermò, ed alzate le mani al cielo, disse: «Dio, ti ringrazio!» Gli parve sentirsi salir dal petto più libero il respiro, scorrer più spedito il sangue,[295] e star più franco sulle ginocchia. Ma quel foglio che teneva in mano voleva leggerlo, e tosto, ed esser solo, che nessuno venisse ad interromperlo. Era un bujo grandissimo (allora in Firenze non eran lampioni, ora sul tardi si spengono ma pur vi sono. È sempre un progresso) si guardò intorno se apparisse da lungi la lampada di qualche madonna. Vide il chiarore di quella che è sul canto di via Larga, e che v’era anco in quel tempo.
Quantunque racchetato in gran parte per le parole del Fivizzano, pure una voce interna e severa non restava d’accusarlo dicendo: «Gli uomini t’assolvono, ma Iddio vede che in cuore ti nacque però il dubbio di far errore lasciando tua madre! Prevedesti possibile ciò che è avvenuto pur troppo! Eppur partisti!» Si sentiva bisogno d’una espiazione: ed il dolore amarissimo del tradimento della Lisa, gli si mutava, per dir così, in altrettanta dolcezza pensando «questo castigo m’è dovuto!» e pregava Iddio, dicendo: «se mai per effetto dell’umana fragilità la povera mamma fosse rattenuta fra quelle anime che ancora non sono ammesse alla visione divina, accetta le mie pene in di lei suffragio, fa patir me solo in questa vita, e rendila felice nell’altra!» Poi pensando a quel foglio desiderava trovarvi qualche comando, arduo, doloroso; e qualunque potesse essere, si disponeva ad eseguirlo scrupolosamente con gioja, con quell’impeto proprio d’un’anima incapace di venir a patti col dovere, colla coscienza, incapace di soddisfarsi co’ palliativi, e spinta per natura[296] sua a cercare in ogni azione ciò che la virtù ha di più grande.
La parte migliore, più nobile del suo cuore provava questi affetti, formava questi propositi: ma nell’altra più inferma, ove trovan sempre ricovero le passioni, benchè domate, si racchiudeva pur sempre come in una trincea l’immagine dei suo amore perduto, pronta ad uscirne ove appena trovasse libero il campo.
Egli era giunto intanto a portata della lampada. Aprì il foglio, lo baciò, e principiò a leggere. Diceva così:
«Sono parecchi mesi ch’io non so più nulla del fatto tuo. Ma Iddio non vorrà che sii capitato male. Tu tornerai, e non troverai più mamma tua, che a Lui non piacque ch’io t’aspettassi se non in paradiso, e tanto spero dalla sua misericordia. Ora mi vien meno la vita: poche parole dunque. Tieni a mente, figliuolo, che il tuo primo debito è verso il nostro signore Iddio e la sua santa Fede: poi verso la tua patria: nell’amore di essa è racchiusa ogni virtù, che i virtuosi cittadini, e non altro, fanno le città felici e potenti» (questi pensieri, che forse al lettore parranno superar l’ingegno d’una contadina, s’erano impressi nella mente della Nunziata nel suo praticare in casa di Niccolò.) «Ricordati sempre del babbo, e della mamma tua, che s’ingegnò allevarti onoratamente secondo le sue povere facoltà, e non potendo lasciarti di molta roba, ambedue ti lasciarono, la[297] Dio mercè, un buon nome, tantochè non t’abbi mai a vergognare di loro: e per quanto s’appartiene a te, fa in modo che pei tuoi portamenti sia benedetta sempre la loro memoria. Se Iddio ti vorrà salito a maggior fortuna, non ti levare in superbia, e rammentati, che anche tu sei nato di poveretti. Ama e soccorri dunque i poveri, e de’ ricchi tieni quel conto che è dovuto, e non più. Della Lisa io ne feci sempre giudizio, quale venne poi raffermato dai fatti. Fin dal principio, lo sai, codesto tuo amore non mi finiva di piacere. Pure non ti volli contristare. Ora Iddio te ne ha sciolto, conosco di quanto dolore ciò ti sarà cagione, ma ho ferma fiducia che tutto quanto è accaduto sarà per tua gran ventura. Io te lo dicevo pure, che la Laudomia era il fatto tuo! Ora, non per comando, ma per consiglio, ti conforto quanto posso a porre in essa il tuo amore. Prego Iddio che la faccia tua moglie; nè saprei qual maggior bene desiderarti. Addio, figliuol mio buono. Troppe cose vorrei dirti, ma la lena mi vien meno. Che tu sii benedetto nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito santo.»
«La mamma.»
E questa firma avea con grande stento voluto pure scriverla essa di sua mano.
Chi potrebbe dir con parole la piena d’affetti che innondò il cuore del povero giovane a questo punto? Se, o lettore, avesti madre, che per una intera[298] vita non abbia pensato che al tuo solo bene, non abbia avuto cuore che per istudiar di giovarti, se essa fu il tuo conforto, la tua guida, la tua provvidenza, e se questa madre tu l’hai perduta, non hai bisogno che ti si spieghi ciò che dovè provare il cuor di Lamberto leggendo quel foglio. Se invece Iddio non te la tolse, nessuna spiegazione potrebbe bastare. Possa il supremo tra i dolori esser per te lungamente un mistero!
Suonava la mezzanotte alla torre di Palagio, e Lamberto era immobile nel luogo stesso, ginocchioni col capo appoggiato al muro:, e dopo un pianger lungo e dirotto, ripensando quanto di soave, di tenero era in quel foglio, sentiva cessar a mano a mano la procella che l’aveva agitato, e spandersi nel cuore una pace, una tranquillità mesta bensì, ma rassegnata confidente. Incapace poco innanzi di riflettere e di risolvere su nulla, ora invece a poco, a poco, quasi al diradarsi d’una tenebrosa caligine, cominciavano le virtù dell’anima a poter discernere, combinare le idee. Di tanti affetti impetuosi, uno solo rimaneva vivo e potente, quello di seguire in tutto i voleri, i consigli della madre. Darsi alla virtù, alla patria, a Laudomia.
Ma poteva egli sperare d’aver così tosto ad offrirle un cuore libero e degno di lei? Sospirava agitato da questo dubbio, che a quel punto, meno che mai, gli era possibile conoscer sè stesso, i suoi affetti, i suoi desiderj. Prevedeva una vita d’affanni e di travagli, ma togliendosi tosto dal[299] volerli conoscere o numerare, e risoluto d’incontrarli, qualunque fossero, trovava finalmente riposo nell’idea consolante d’un santo dovere adempiuto. Si preparava a soffrire con quella prontezza e quella gioja che la religione sola può dare, perchè essa sola è potente abbastanza sul cuore dell’uomo per convincerlo che il soffrire è un bene; essa sola invece d’insegnargli a fuggire il dolore, o a sopportarlo con superba ed impaziente rassegnazione, gli apprende ad esserne lieto ed a trovarvi un guadagno. Essa sola è guida e compagna all’uomo nei giorni della sventura, e riporta il vanto d’impedire ch’egli divenga un istrumento inutile o dannoso all’umanità.
Questo sentire, che tolse Lamberto dal buttarsi al disperato, e lo rese invece, come si vedrà in appresso, un operoso e forte cittadino, dominava il suo animo, perchè gli uomini di quel secolo ottenebrato pur troppo di tanto sangue e tanti delitti, ignoravano però quello di negar fede a tutto, fuorchè all’oro ed ai diletti che si compran con esso.
Aveano, è vero, odj, amori eccessivi e furibondi, ma ciò appunto, perchè credevan vi fosser cose che meritassero o gli uni o gli altri. Il soffio avvelenato dell’indifferenza, del dubitare, ammesso come un, principio, non aveva agghiacciato quei cuori: essi poteano palpitare liberi e sicuri, per quella fede che s’aveano scelta, poteano sagrificar tutto per seguirla e farla trionfare, potean dire colla fronte levata: «Noi crediamo che al mondo vi sian cose più alte, più[300] degne, più stimabili delle ricchezze, de’ comodi, de’ piaceri» senza il sospetto che l’ironia rispondesse alle loro parole, che il loro nobile sacrificio venisse accolto col sorriso dello scherno e della compassione.
Fortuna per Lamberto di non esser nato 300 anni dopo, e per conseguenza di non aver avuto la tentazione d’imitare certi eroi che la letteratura moderna sembra offrirci quali modelli di fortezza, di pensar magnanimo e di ardito operare.
Colpito dalla sventura, tradito ne’ suoi affetti più cari, avrebbe pensato che la vita è un viaggio senza meta, la virtù un’illusione, il praticarla una fatica senza compenso; avrebbe veduto nell’umanità un branco di vili o di scellerati, nella morte il termine del soffrire, e dopo la morte il nulla.
Forse si sarebbe ucciso, forse si sarebbe scagliato come una fiera sugli uomini, sarebbe divenuto scellerato per vendicarsi di loro; avrebbe adorato come suo idolo il superbo diletto di calpestarli, ed infine avrebbe detto a se stesso: «io solo sono generoso, io solo sono potente contro la sventura, io valgo più di tutti!»
Ma egli non ebbe questi pensieri, che era ancor lontano quel secolo in cui la poesia e le lettere doveano chiamar magnanimo e forte chi è vinto dalle passioni: debole e dappoco chi n’è vincitore.
Poichè la Lisa ebbe visto chiudersele in faccia dal padre il portone di casa; dappoichè la sua miseria, le sue preghiere, il suo pianto tutto era stato inutile, si mosse, lenta e sconsolata, dopo essersi un momento riposata sugli scalini del limitare, per tornare ove avea lasciato il figlio. Colla sinistra veniva attenendosi ai muri, portava nella destra il poco pane, nel quale erano, si può dir, numerati i giorni di vita che rimanevano a lei ed al suo bambino, e con voce sommessa andava dicendo: «Oh! debbe pur esser enorme il mio peccato!»
Giunta all’uscio della casetta in via Larga, udì il pianto del povero Arriguccio, unito al cantar della vecchia, che non sapendo trovare altro modo s’ingegnava così di racchetarlo. Salita a furia, trovava in grembo alla Niccolosa l’affamata creaturina, che colle manine le frugava ne’ panni, aprendo le labbra aride, e cercando il seno.[302] Gettò su un desco la tovaglia col pane, si tolse in collo il figlio, sedette, si scinse in un lampo, e trovò aver pure tanto latte da poterlo calmare per un momento. «Oh, il mio sangue potesse far le veci del latte!» diceva sospirando la misera madre.
La vecchia, alzato un de’ capi della tovaglia, e vedendo il pane arrecato:
—Questo, diceva, è pur qualcosa la Dio mercè! ma quanto durerà? Oh! chi ve l’ha dato? dove fusti?.... siete uscita tanto in furia....—
—Dal babbo.—
—E nient’altro? Non v’è riuscito?....—
—Nulla, nulla. Io non ho più anima al mondo che si curi di me, che m’ajuti. Oh! ma è vivo il padre di quest’innocente, s’io dovessi passar tra le fiamme, io saprò giungere a lui: io glielo arrecherò.... è suo sangue alla fine?.... se Fanfulla vorrà condurmi egli, se no, andrò sola. Che cosa mi potrà succedere alla fine.... che m’ammazzino? E qui non moriam forse di stento oncia a oncia?—
—Voi dite il vero, e, secondo me, qui non è tempo da perdere ed ogni poco che si tardi, questo fanciullo è ridotto di qualità che l’ajutarlo poi sarebbe inutile.—
Le due donne tacquero alcuni minuti, mentre il bambino tutto inquieto per la scarsità dell’alimento, ora si staccava dal petto lamentandosi, ora accarezzato dalla madre si lasciava riporre il capezzolo fra le labbra, finchè dopo un lungo durare di queste angustie venne ricadendo in quell’irritazione[303] convulsa ond’era stato assalito in prima sera. Apparvero i segni precursori del nuovo insulto, e la Lisa a darsi da fare per ajutarlo, e piangendo diceva:
—Oh, Vergine Santa, aiutatemi! ecco che gli torna il benedetto[33]. Oh! questa volta sarà l’ultima, non saremo più a tempo.... si potesse mandar per lo speziale.... avesse un qualche lettovaro!... oh! correte.—
—Figlia benedetta, è suonata ora mezzanotte, e qui ser Nuto, al canto alla macina, quand’è a letto non s’alzerebbe pel papa.—
—Ma provate almeno, che Dio vi rimeriti, volete voi lasciar morire quest’innocente senz’aver mosso un dito?—
La vecchia, che non avrebbe messo un piè fuor dell’uscio sola, a quell’ora, per guadagnar un regno, rimaneva ritta senza dar segno di voler contentar la Lisa, e le veniva dicendo:
—E’ mi par migliorato il fanciullo, voi vedrete madonna che non sarà nulla.—
La Lisa, che non poteva sperare soccorso da costei, e non voleva abbandonar il figlio in quel momento, si slanciò alla finestra dicendo:
—Oh! non passerà nessuno, che ci voglia ajutare?—
Guardò in istrada, era buja. Tese l’orecchio, nessuna[304] pedata s’udiva. Volse il cuore e lo sguardo alla Madonna, ch’era poche braccia lontano, e fissando l’occhio sotto la lampada, vide nell’ombra non so che luccicare: strinse le ciglia, e s’accorse d’un uomo armato ginocchioni, ed al vedere tutto attento a dire orazioni:
—Oh! pensava: egli è soldato; ma costì solo a pregare, a quest’ora, e’ non può esser se non un uom dabbene!—ed alzando la voce lo chiamò:—Oh, quel soldato! Venite insin qui all’uscio, che Dio v’ajuti e la Madonna.... noi siam due donne sole con un bambino che sta per morire se voi non ci soccorrete.... Iddio si ricorderà di questa carità.—
Il soldato a quel grido balzò in piedi con una prontezza che fe’ maravigliar la Lisa; pel bujo non lo poteva vedere, ma s’accorse al suono de’ passi, che s’era accostato sotto la finestra alta dalla via circa un uomo e mezzo.
Tenendosi sicura del suo buon volere, lo pregava tutta affannata di correr allo speziale e tornare presto con qualche medicina, e v’aggiungeva molti ringraziamenti e benedizioni. Il soldato, senza profferir parola s’avviò correndo.
—Neppur mi risponde! pensava la giovane, sarà buon segno, o cattivo?—e tutta tremante teneva dietro al rumore de’ passi che si andava allontanando. Dopo un minuto, un picchiar furioso che udì venir di verso lo speziale l’avvertì che il soldato pensava ad ajutarla.
Vi pensava il buon Lamberto che l’aveva tosto[305] raffigurata; e nel primo moto dell’ira e della sorpresa era stato per dirle: «Che importa a me d’un figlio di traditori?» Ma raffrenatosi, e preso miglior consiglio, fece in cuore questa preghiera. «Dio! rimetti alla mamma mia ogni suo debito, com’io ora lo rimetto a costei.»
Lo speziale s’affacciò sonnacchioso, mandando il malanno a chi metteva la strada a rumore, e giurando, s’egli non si partiva l’avrebbe fatto pentire. Ma s’avvide che chi picchiava era coll’arme indosso, ed udendosi dire: «Se tu non apri, spezial ribaldo, io ti butterò l’uscio in mezzo alla strada.» Divenne come un agnellino, aprì, diede a Lamberto un alberello che, gli promise avrebbe fatto l’effetto che si voleva, ed egli presolo fu tosto sotto la finestra della Lisa, la quale appena l’udì tornare scese, per incontrarlo, e l’aspettava sull’uscio di strada.
—Oh! Iddio sia quello che vi rimuneri e vi faccia contento.... un poco è migliorato il fanciullo... ma potrebbe ricadere.... Oh! valentuomo, dacchè è tanta la vostra cortesia, un’altra grazia vi chieggo. Andate ove alloggia la compagnia dell’Arsoli.... cercate d’una lancia ch’era frate in S. Marco, ed ha nome Fanfulla, ditegli che per l’amor di Dio venga qui appena giorno, ch’io ho grandissimo bisogno di parlargli.—
In così dire riceveva l’ampolla, e s’accorgeva che la mano del soldato tremava. Non poteva vedergli il viso, chè avea abbassata la visiera, ma scorgeva[306] due occhi castagni che la saettavano in modo che quasi la spaventava; udiva nel concavo dell’elmetto risuonar grave e frequente l’anelito.
Rimase un momento sospesa.... le corse per la mente un sospetto.... «questo tremito! questo volersi nascondere.... fusse Troilo! che essendo tenuto nemico nella città, e dubitando in casa vi fosse forse altra gente non si volesse scoprire; badava a guardarlo, a misurarne la statura, e le pareva tutto riscontrasse.... Oh! s’è pur ricordato di me, del nostro Arriguccio.... non fu speso indarno il mio amore.... senz’altro è desso;» e finalmente colle puppille umide e la voce mal ferma gli diceva:
—Fate ch’io sappia ora a chi ho un cotanto obbligo.... alzate almeno cotesta visiera.... parlate, dabben giovane.... oh! parlate, ch’io quasi già credo d’aver indovinato.... il mio cuore mi dice ch’io non m’inganno... voi potete parlar senza sospetto... noi siamo proprio sole.... io ed una povera vecchia... in questa casa, non è da dubitar di nulla.—
E s’illuse in modo con quest’immaginazione, che spento ogni dubbio, disse con voce bassa, ma piena di passione e d’allegrezza:
—Ah! sì, tu sei Troilo! ti sei pure rammentato un tratto della tua Lisa!.... io lo sapevo.... io non ho dubitato mai della tua fede, sai! oh! parla, parla, chè tu mi fai morire....—
Essa vide il soldato porre la mano alla visiera, alzarla lenta lenta, scoprirle una sembianza pallida che al primo non riconobbe, e s’arretrò sbigottita.—
—Voglia il cielo, disse il giovane, che la fede di Troilo giammai vi venga meno, ma egli però è in campo, e combatte contro la patria.... Chi vi ha ajutato ora è Lamberto.—
Lisa a queste parole s’attenne all’uscio per non cadere. Quando volle parlare era rimasta sola.
L’indomani a punta di giorno Fanfulla picchiava all’uscio suo.
La trovò piena ancora d’agitazione pel pericolo del suo bambino, e per l’improvviso comparire di Lamberto. Appena vide quello che con tanto affetto l’aveva soccorsa ne’ suoi maggior bisogni, dopo molte grate parole, gli scoperse l’animo suo protestando che in nessun modo si sentiva di sopportar più codesta vita, e voleva ad ogni costo, e comunque potesse, andar in campo, e rimettersi col figlio nelle mani di Troilo. Pregava Fanfulla volesse esser sua guida, senza ch’egli riuscisse a persuaderla de’ pericoli cui s’esponeva, tra’ quali stimava grandissimo (benchè non l’accennasse) quello d’esser ributtata da Troilo, che si sentiva da tutti un ribaldo, e che probabilmente avrebbe usato ogni opera per sottrarsi all’adempimento de’ suoi doveri. Tutta l’eloquenza, tutte le preghiere di Fanfulla furon vane, e quando, per far ogni prova, le volle dire in nessuno modo non l’avrebbe accompagnata (non sapea che cervellino avesse costei) essa, senza turbarsi, e rendendogli quelle grazie che meritavan l’amorevolezza sua e le sue premure, gli disse: «Dunque, addio; Dio vi dia ogni bene. Anderò da me.»
Fanfulla, che avea parlato a quel modo soltanto per rimoverla dal suo proposito, e che piuttosto di abbandonarla nel pericolo ci avrebbe rimessa la vita, sospirò, ripetendo la sua frase prediletta: «Proprio tutte a me m’hanno a toccare» e poi soggiunse «Madonna, valetevi di me come di cosa vostra.»
Allora cominciarono d’accordo a combinare il modo che convenisse tenere per uscir dalla città e condursi al campo. Quanto all’uscire non v’era difficoltà, chè le porte sulla destra d’Arno eran rimaste aperte, ma bisognava trovar modo di passare il fiume, e poi d’introdursi negli alloggiamenti salvando la donna dalla licenza de’ soldati, de’ quali si raccontavano tante gran cose, che tutto il contando all’intorno era rimasto affatto vuoto di abitatori.
—Io, diceva Fanfulla, mi metterei indosso la mia tonaca di frate, e sotto le mie buone armi; e voi, madonna, se si potesse trovare un abito da monaca....[34], ed alle scolte diremmo che andiamo cercando l’elemosina pel convento.... e poi..... ma a proposito!..... e il bambino..... monache co’ bambini in collo e’ non s’usa, e frati molto meno. Si potrebbe dire d’averlo trovato per[309] via... eh! no, no... la cosa va zoppa. Pensiamo dunque. Se voi pure trovaste una tonaca da fraticello.... da novizio.... eh! ma peggio.... v’è sempre questo benedetto fanciullo! Peccato che i frati non abbian moglie!... E tre: vestirci da zingani? allora ci cape quanti bambini vogliamo. Sì, sì, questa è la meglio. Costoro si caccian per tutto, e nessuno dà loro noja. Lasciatemi fare, troverò chi m’impresti un qualche sajo lacero; troverò un liuto, e voi ingegnatevi d’aver qualche cencio da mettervi indosso e in capo un fardelletto legato sulle spalle, e fate di tingervi codesto viso bianco, e coteste manine, che a fargliela ai soldati, ve lo dico io, bisogna saperla lunga. Orsù, madonna, state di buona voglia, ch’io vi ci menerò a ogni modo; verso le ventitrè vengo a levarvi, in un pajo d’ore, se piace a Dio, avrem fatta la bisogna. Ora dunque a rivederci.
Fanfulla toltosi di quivi andò in cerca d’un pescatore e l’indusse a condurre un suo navicello un miglio più su della porta S. Niccolò ove gli avrebbe aspettati per traghettarli all’altra sponda.
All’ora fissata si condusse alla Lisa; messosi indosso un buon giaco con maniche di maglia, una daga ed una mezza spada accanto, coprì quest’arme con un sajaccio logoro, ed il capo con un cappello a larghe falde che nascondeva però una cuffia di ferro, e detto addio alla Niccolosa s’avviarono, che il cielo cominciava a divenir fosco. Usciron per Porta la Croce, e volti a manritta giunsero in[310] riva d’Arno, il quale per le piogge scorreva assai ben gonfio, e seguitando taciti la ripa del fiume venivan risalendo contro la corrente. Ad ora ad ora s’incontravan passi difficili; più d’una gora che sboccava in Arno dette loro grande impedimento. Allora il buon Fanfulla si recava sul braccio ritto la donna, sul sinistro il fanciullo, ed entrando nell’acqua a passi lenti e studiati, li trasportava sulla ripa di là.
—Quanti disagi vi tocca a soffrir per noi!—diceva la Lisa tutta commossa: ed egli, che in 53 anni d’una vita travagliata da mille perversi accidenti non avea mai saputo che fosse la malinconia (salvo negli ultimi tempi che passò in S. Marco) rispondeva:
—Eh! madonna, per intaccarmi il cuojo ci vuol altro che quattro gocce d’acqua e un po’ di mota. Io, vedete, son fatto come i ciuchi, che alla stalla s’ammalano, e perchè stiano di buona voglia,... lavorare, e picchiate.—
Poi vedendola stanca ed afflitta si studiava di farle animo dicendo:
—Voi che non siete uscita mai del carruccio del babbo, vi parrà gran cosa questo andar così di notte par questi luoghi, ma non dubitate, siete in compagnia di chi vi difenderebbe contra cento. Che volete? Chi non muore convien che abbia travagli. A tutti ne toccano. Ed io, che ne so qualche cosa, vi dico, che appunto quando pare che il mondo ci rovini addosso, in un baleno la ruota dà una volta, si muta il vento, ed eccoci scampati...—
Qui la Lisa, che oramai si trascinava a stento, chiese di potersi riposare un momento: e sedutasi in terra volgeva le pupille umide verso Firenze, dalla quale s’eran dilungati poco più di mezzo miglio. L’atmosfera occupata da una nebbia rada nelle parti superiori del cielo, e fitta soltanto all’orizzonte, era debolmente rischiarata dalla nuova luna che stava per tramontare. Essa appariva rossiccia e senza raggi, poco più alta degli edifici e delle torri della città, la quale si mostrava quasi una massa bruna ed addentellata, senza che nessun fuoco, nessun lume interrompesse quell’uniforme oscurità, senza una voce, od uno strepito qualunque che richiamasse l’idea della vita. Cosicchè un poeta avrebbe potuto dire ch’essa stava pensosa del fato che le sovrastava.... Soltanto il fragore sordo e lontano delle acque che rompevano contro la pescaja de’ mulini de’ Serristori feriva l’orecchio della Lisa e le empievano il cuore d’un senso di terrore inesplicabile, del quale eran causa ed effetto a vicenda gli angosciosi pensieri che l’agitavano. Finchè era rimasta in Firenze, benchè cacciata di casa sua, le era però sempre sembrato di rimanere unita con qualche vincolo ad essa ed alla sua famiglia: potea sempre creder possibile una riconciliazione. Ora le pareva avere colla sua partita rotto l’ultimo filo che la congiungesse ancora a’ suoi, alla sua patria, alle amiche della fanciullezza, a quelle care e perenni memorie dei luoghi ove si provarono le più pure gioje, ed i[312] più brevi affanni della vita. Allevata ne’ pensieri d’amor di patria, avvezza fin da fanciulla a detestarne i nemici, e coll’orecchio ancor pieno de’ vituperosi nomi che dal padre e da’ fratelli udiva porre a chi si mostrava avverso alla dottrina del Frate ed alla libertà, non riusciva, malgrado il suo amore per Troilo, nè a scancellare dal suo cuore le prime impressioni dell’infanzia, nè a sradicarne quegli effetti che le eran però sembrati belli e santi per tanto tempo, e che l’amore avea sopraffatti senza poterli interamente distruggere. Si trovava ora ribelle al padre, ribelle e nemica alla patria. Si sentiva inseguita dalla maledizione di Niccolò, da quella di tutti i virtuosi cittadini che rimanevano tra quelle mura a cadervi o di fame o di ferro, guardando la torre di Palazzo vecchio, nella quale s’era avvezzata a personificare, per dir così, l’idea del popolo e della libertà fiorentina, le parea vedere un fantasma vendicatore che spiasse la sua fuga per giungerla poi e punirla con qualche nuova e più tremenda sventura.
E se distogliendo la mente da queste lugubri immagini, voleva rasserenarla nel pensiero di Troilo che stava per rivedere, le veniva turbata questa speranza da un dubbio non ammesso dal suo cuore, ma che importuno s’ostinava però sempre a volervi entrare, e le diceva: «Sei tu certa della sua fede? Sei tu certa che egli t’accolga? Puoi tu confidar tanto in lui, che da più d’un anno non t’ha nè scritto, nè fatto dir parola del fatto suo?»
Questo tormentoso sospetto la trafisse in guisa che dovè alzarsi e proseguire la via, non potendo patire tanta incertezza, e bramosa d’uscirne presto e ad ogni costo. Dopo non molto trovarono il navicello, v’entrarono, e non senza gran fatica per la forza della corrente, si trasferirono all’altra sponda. Usciti all’asciutto, ripresero il lor cammino all’insù lungo la riva, per condursi dietro la collina ove siede la villa, allora de’ Guicciardini, detta la Bugia. Quando a Fanfulla parve tempo, lasciato il fiume, volsero a man ritta, e traversata la strada d’Arezzo presero per gli uliveti a salir il dosso del colle. Egli aveva in animo di scendere poi in val d’Ema, e risalire a S. Margherita a Montici, chiesetta ov’eran le bande di Sciarra Colonna, non molto discosta dal pian de’ Giullari, che potea dirsi il cuore degli alloggiamenti, essendo stanza del principe d’Orange.
Pareva probabile che Troilo, come gentiluomo e lancia spezzata, vi stesse ancor egli, o almeno fosse facile trovarne ivi le tracce. Ma più s’accostavano al termine del loro viaggio, e più Fanfulla sentiva anch’esso crescere il sospetto che avessero a far un buco nell’acqua.
Quando furono in luogo d’onde non rimaneva che a salire l’ultima pendice per trovarsi a S. Margherita.
—Orsù, disse Fanfulla, fermiamoci qui un momento, riposatevi un altro poco, chè questo salir e scendere vi debbe avere stracca assai bene. E poichè, la Dio grazia, non s’è incontrato nessuno per[314] ora, combiniamo il modo d’uscire ad onore di quest’impresa.
Così dicendo si cavò di tasca un pane ed una zucca piena di vino, e porgendo alla donna l’uno e l’altra diceva:
—Questo vi rinfrancherà gli spiriti.—
—A tutto avete pensato! disse la Lisa, che, non usa a que’ disagi, si sentiva sfinita; e veniva sbocconcellando un po’ di pane: vi bevve su qualche sorso di vino, che non poteva questo ristoro essere offerto in momento più opportuno.
Ma a Fanfulla non bastava restituire alle sue membra un po’ di vigore, ed avrebbe voluto trovar modo di fermarle l’animo, e prepararla pel caso che Troilo avesse avuto o a ributtarla del tutto, o almeno a rivederla in modo che venisse poi a significare il medesimo. Andava studiando le parole, ed alla fine diceva:
—Eccovi, madonna Lisa, il mio pensiero. Quando sarem presso a S. Margherita voi vi rimarrete appiattata tra quegli ulivi; io andrò innanzi, e trovato ch’io l’abbia, farò di condurvelo, ma.... è meglio che non gli dica chi siete.... e poi bisogna prepararsi.... già sapete, i soldati in tempo di guerra hanno tutto dì mille sciagure alle mani.... supponete nella giornata, verbigrazia, qualche faccenda sia andata male e si rimane stravolti.... salta la stizza per nulla.... l’ho provato anch’io.... ma non è da farne caso. Egli potrebbe aver per male che vi fussi posta a questo rischio, con un bambino[315] di così poca età.... potrebbe dirvi qualche mala parola.... armatevi dunque di pazienza, e fate di prenderlo pel verso suo.... chè a star tutto dì con tante libbre di ferro sulle spalle, alla pioggia, al freddo, tra mille malanni, si prende un fare un pò ruvido.... ma voi, con que’ vostri modi amorevoli, non vi sarà difficile.... e poi, già potrei ingannarmi, ed anzi spero, e credo, che non gli parrà vero ritrovarvi dopo tanto tempo.—
E tra se stesso aggiungeva:
—Fa soltanto ch’io ti possa condurre fuori del campo, poi, se nulla nulla ti vedessi uscir de’ termini, so io come si fa ad insegnarti la buona via.—
Ed era tanto l’amore che avea posto alla Lisa, sentiva tanta pietà de’ suoi casi, che s’era promesso, ove la cosa voltasse al peggio, di farne una delle sue, e non era muso a mancar di parola.
Ripresero il viaggio, e dopo una mezz’ora di salita, trovandosi a un mezzo tiro d’archibuso da santa Margherita, parve a Fanfulla tempo di fermarsi; trovò una siepe molto a proposito per servire di nascondiglio, e vi fece ficcar la Lisa procurando di aprirle il varco colle mani nel folto de’ rami.
Tra quegli arbusti erano di molti pruni, de’ quali per l’oscurità non potè accorgersi se non quando si sentì punger le dita; ma il peggio fu, che un di que’ pruni, quando egli ritrasse la mano colla quale l’avea scansato, tornando colla sua elasticità al luogo di prima, venne a percuotere con forza sulla gota del fanciullo. Sino a quel punto era stato quasi[316] sempre portato da Fanfulla, ed il movimento dell’andare l’aveva addormentato, ma ora, graffiato da quelle spine, si svegliò e si cacciò a gridare quanto ne avea nella gola. Gli posero ambedue con gran fretta le mani in sulla bocca, ma, parte pel riguardo di non lo soffocare, parte perch’egli si scontorceva, non poterono vietare che quella voce non si sentisse dall’alloggiamento del Colonna.
Fanfulla, guardando all’insù, scorse a un tratto per l’uliveto andar intorno ed agitarsi molti punti lucidi a guisa di lucciole, e come pratico, s’ accorse che eran soldati colle corde[35] de’ loro archibusi accese che venivano alla volta del grido.
I loro passi e le voci ben presto risuonavan vicine, ed un soldato spagnuolo gridava innanzi agli altri con certe sue risa goffe. [36] —Ahora, ahora, voy á darle tal santiguada á este niño, que no ha de despertarse hasta el día del juicio.
—Teneos, gridava un altro, veamos ántes.... podría ser alguna dama principal de esta tíerra, que se huyese, y me gustaran mas sus florines, que los cascos de este hideputa..... no parecce[317] sino que ya se le salen las tripas? I que gargaata que tienes hijo mio! Soggiungeva un terzo.
—Oh! cagnaccio, i’ giucherei il capo contro un morso di berlingozzo ch’egli è figlio d’un frate, e’ par che canti messa.. ora ora, naccherino, ecco la pappa e ’l bombo.
Se Fanfulla fosse stato solo, avrebbe subito saputo quel che era da fare. Si sarebbe scagliato a capo sotto tra costoro colla spada nella destra e la daga nella manca, e addio, a rivederci, si sarebbe trovato presto o fuor d’impaccio o all’altro mondo. Ma qui bisognava lavorar di politica. Disse alla Lisa che badava a stringersi al petto il figlio, raccomandandosi l’anima a Dio:
—Non dubitate, e lasciate fare a me—poi volto allo spagnuolo che giungeva pel primo: [37] —Detengase, señor caballero (i soldati italiani d’allora sapeano quasi tutti lo spagnuolo, per l’istessa ragione che venticinque anni sono essi sapeano il francese) Detengase.... somos pobres gitanos, y veniamos al campo para sonar y tener regocijadas á v.m.!..... Somos pobres ahora.....[318] però éramos ricos no hay mas que un momento.... llevábamos un bolsillo con cien florines... y algunos saldados alemanes que se andaban por ahi nos le han quitado.... los majaderos me han despolvoreado las espaldas a mi con sus alabardas, y á esta pobrecita le han dado un recio bofeton que ha cogido aun á este niño,... Allá allá, miren entre los árboles, aun los veo que se van á priesa..... alcancenlos por dios, y del bolsillo nos darán lo que quisieren.—
I soldati s’accostarono, e considerando, per quanto permetteva l’oscurità, il povero vestire di Fanfulla e della donna, toccato il liuto ch’egli aveva a tracolla, dieder fede alle sue parole. Egli intanto, simulando passione grandissima, badava a stimolarli che presto seguissero la pesta di quelli che l’aveano svaligiato, non restando d’accennar colla mano giù alla china tra quegli ulivi, e giurando che ancor li scorgeva:
—Fate presto, ragazzi, per amor di Dio.... che senz’altro gli arriverete.... quello che ha agguantata la borsa, affinchè lo conosciate, è un ometto mingherlino, ed ha in mano la forcina senza l’archibuso, e in tutto son cinque o sei non più.—
Nell’indicare però la parte ove dicea scorgere questi soldati, aveva avuto riguardo a sceglier quella opposta alla via che si disponeva tenere appena fosse rimasto libero. Conoscendo poi la gelosia e l’inimicizia che bolliva tra le varie nazioni ond’era composto l’esercito imperiale, i cui soldati[319] non poteano accostarsi ai quartieri gli uni degli altri senza che succedessero baruffe, pensò di metter questo assassinamento sulle spalle ai tedeschi.
E ciò si avverte, per mostrare se Fanfulla era poi tanto pazzo come hanno voluto far credere i malevoli e gl’invidiosi.
In conclusione, que’ soldati dettero nella ragna. È vero, che per quanto guardassero in giù tra gli alberi non pareva loro scoprir nulla che si movesse o avesse forma d’uomo, ma pensarono, costui avrà occhi migliori, o sarà come i gatti, che ci vedono allo scuro. Insomma (e tutta questa scena fu quanto il dire un avemaria) si mossero in frotta, a salti, giù per l’uliveto, bravando e giurando con terribili bestemmie, che se potevano metter l’ugne addosso a que’ poltroni tedeschi gli avrebbero tutti tagliati a pezzi. «Oh! vedete, ladroni scomunicati! Insin qui vengono a far bottino!.... fin sotto il nostro capo!» e non restando di correre, s’allontanarono ben presto, tantochè cessò il rumore de’ passi, il suono delle voci, e Fanfulla mise un respiro libero, e disse ridendo:
—Buona caccia, giovanotti! Ora, madonna, leviamci di qui prima che ritornino.—
La povera Lisa, più morta che viva per quello spavento, conosciuta però la necessità di salvarsi mentr’era tempo, uscì di quella siepe, e messasi in piede a stento, prese la via, sorretta da Fanfulla, che coll’altro braccio portava il bambino ormai racchetato. Mutato il primo pensiero, risolsero[320] di venirsi accostando più che potessero al pian de’ Giullari ed alla villa de’ Guicciardini, abitata dal principe, e come a Dio piacque, venne lor fatto di giungere senz’altro accidente a piè del muro di una delle prime case.
Qui non era siepe, ma un monte di saggine secche, ove la donna potè nascondersi, e questa volta ebbe gran cura al fanciullo che non venisse tocco nè offeso.
Fanfulla allora fattole nuovamente animo s’avviò solo per andar in cerca di Troilo, e trovata la strada, si condusse presto sulla piazzetta che è nel centro del casale.
Essa avea la figura d’un triangolo, contornata di casucce di contadini da due lati, il terzo era occupato dalla facciata della chiesuola, la sola che fosse in paese: nel mezzo un pozzo sotto una tettoja, e da un lato eran rizzate una trave con una carrucola per dare i tratti di fune, e le forche, dalle quali era ben raro il giorno che non si vedesse spenzolare qualche disgraziato, qualche contadino colto sul fatto di portar vettovaglie a Firenze, qualche spia, e talvolta soldati rei di lesa disciplina, che a voler reggere un esercito in quel secolo bisognava spesso lavorar di corda, nè l’etichetta militare aveva ancora stabilito che morir appeso offenda l’onore, e morir fucilato lo lasci illeso. Ma bisogna compatire i poveri cinquecentisti, essi avean forse l’idea che la vergogna stia nel delitto e non nella pena.
Quella piazzetta per la quale al dì d’oggi si passeggia ad ogn’ora liberamente, incontrando soltanto o contadini tranquilli, e che vi rispondono cortesemente in quella loro armonica e corretta lingua, o brigate di cittadini villeggianti ne’ contorni; quelle casucce che presentano oggi giorno l’immagine della povertà quieta e contenta; quegli usci ingombri di bambini di tutte le misure, di donne che attendono all’utile e pulito lavorìo dei cappelli di paglia; tutto, al punto che vi giunse Fanfulla, era pieno di genti strane, di disordine, di schiamazzi. Il suolo fangoso, immondo, pesto pel gran passare d’uomini e cavalli: le case piene di soldati, le mura sudice ed affumicate, la chiesuola ridotta una taverna, e la piazza ingombra di frascati sotto i quali eran vivandieri con pane, grasce, barili di vino ec., ed avean rizzata quivi la loro bottega con assai buon giudizio, sapendo che la vista della corda e delle forche, era un ottimo trattato di mnemonica per quegli avventori che potessero scordarsi di pagare.
Mentre Fanfulla s’aggirava considerando a chi gli convenisse dirigersi per domandar di Troilo, udì levarsi un bisbiglio tra la gente, s’accorse d’un agitarsi di persone nel lato ov’eran le forche, e vide poi che appoggiatavi una scala saliva un uomo ad acconciare il laccio, e preparar l’occorrente per far giustizia. Accostatosi per curiosità, vide poco lontano dal patibolo a piè d’un muro la persona che pareva destinata al supplizio. Era una donna,[322] colle mani legate dietro le reni, e, posta ginocchioni a piedi d’un cappuccino, si confessava. Fanfulla si maravigliava che avessero ad impiccare una femmina, ma gli crebbe la maraviglia vedendo che di sotto i panni le spuntava fuori il fodero d’una spada.
Nel momento che stava per domandare qual fosse il delitto di costei, vide venire un caporale, che facendosi far luogo tra gente e gente, s’appressò ad uno de’ soldati che guardavano la paziente, e gli domandò per qual cagione s’impiccasse codesta donna.
—Dite pure codesto giovane, rispose il soldato ridendo. È stato un caso bizzarro.... io non c’ero... ma qui il Fruga ci s’è trovato.... egli, ch’è fiorentino, dice che lo conosce questo garzoncello.... e la casata sua.... egli è figlio d’un piagnone, d’un setajolo...—
—Ma che ha egli fatto insomma....—riprese il caporale con impazienza.
—E’ dicono che ha voluto ammazzare un tal messer.... che so io? Troi.... Trojano.... il nome non importa.... ch’è lancia spezzata qui del signor principe. Questo gentiluomo debbe aver fatto forza ad una sorella del giovine, ed egli per farne vendetta se n’è venuto in campo sull’imbrunire vestito da donna, e appostatosi in un luogo fuor di mano, ha mandato un fanciullo a questo gentiluomo dicendogli, che una giovine voleva dirgli due parole.... capite il mariuolo! perchè non entrasse in[323] sospetto e venisse solo. L’altro è venuto, ma dietro, un po’ lontano, aveva quattro soldati.... appena trovata quella ch’egli credeva donna si sente gridar da essa «difenditi, traditore!» e mette fuori tanto di stocco; il gentiluomo caccia mano alla spada e ribatte appena due o tre colpi, che que’ suoi bravi correndo saltan alle spalle e sulle braccia del giovine! L’hanno legato, e qui or ora mastro impicca gli serrerà il gorgerino.—
Il caporale scuotendo il capo ed alzando le spalle, come volendo dire: «Tutto qui questo gran caso!» se n’andò pe’ fatti suoi.
Fanfulla rimase pensoso, chè gli pareva (quantunque non avesse potuto raccapezzare i nomi) questo negozio avesse che far colla Lisa, ed intanto appiè del patibolo v’era proprio il povero Bindo che si preparava da buon cristiano all’ultimo viaggio.
Al cominciare di quest’istessa sera, mentre la Lisa con tanto disagio e pericolo usciva di Firenze per cercare di Troilo, egli se ne stava contento e senza pensieri nella villa Guicciardini a cena col principe d’Orange e con un monte di capitani e di gentiluomini, che vi passavano il tempo lietamente quando i doveri militari non li chiamavano altrove: vi trovavan ricca mensa, carte e dadi, e quanti trattenimenti eran comportabili co’ luoghi e col tempo che correva. Quantunque per la grettezza di papa Clemente fosse in quell’esercito gran penuria di danaro, e che i soldati pel difetto delle paghe vivessero nello stento sempre, e spesso s’ammutinassero, i capitani avevan però bastante giudizio per regolar le cose in modo da non patir mai, essi almeno, nè fame, nè sete, ed anzi aver sempre preparata una buona tavola. Su questo punto della tattica militare, sembra che tutti i gran capitani siano andati sempre[325] d’accordo, prima e dopo l’invenzione della polvere, ed il principe d’Orange, che nella sua fresca età di 27 anni era uno de’ più arditi ed esperti di cui faccia menzione la storia, neppur in questa parte non rimaneva addietro dagli altri.
La villa de’ Guicciardini, in buon essere ancora ai nostri giorni, è posta sulla strada che dal pian’ de’ Giullari conduce a S. Margherita a Montici. Essa consiste in due fabbriche a due piani, quadrate e piuttosto nane: due muri merlati le congiungono, e lasciano in mezzo un vano che serve di cortile. Nel muro verso strada è il portone coll’arco e gli stipiti a bugnato. Le finestre del terreno, disposte con bella proporzione ed a piacevoli distanze secondo lo stile Bramantesco, son munite di grosse ferriate, che dal cornicione sovrapposto scendono ad appoggiarsi su un largo davanzale petto da due mensole. Nella fabbrica posta a manca di chi entra pel portone di strada, era alloggiato il principe insieme co’ suoi gentiluomini e paggi, in quella a mano ritta erano i servi colle bagaglie ed i cavalli.
Nel cortile, illuminato dalla luce rossiccia di fiaccole resinose, molti vasi d’agrumi ricoverati ivi da giardinieri della villa per salvarli dall’accetta dei soldati, servivano di rastrello alle alabarde de’ lanzi che tenevan la porta. Fuori di questa, lungo i muri, molti cavalli colle briglie e le selle, guardati da’ valletti, aspettavano i loro padroni. Questi, dandosi allora buon tempo tra i dadi e le bottiglie, vicini ad un buon fuoco, in sale ben riparate, tutte scintillanti[326] di lumi, avean del disagio, del freddo, della noja che soffrivan per loro uomini e bestie, appunto l’istesso pensiero che prende un lord inglese d’una carrozza a nolo che l’aspetti alla porta d’un ballo in un ambiente di 15 gradi sotto lo zero.
Finita la cena, sparecchiata la tavola, vennero le carte ed i dadi. Il principe vestito d’una cappa di velluto cremisi foderata di vajo, sotto la quale non avea altro che farsetto e calzoni di pelle di dante, per poter presto ad ogni bisogno indossare l’armatura, giuocava al Lansquenet con D. Ferrante Gonzaga, il Co. di S. Secondo, Pier Luigi Farnese ed una decina di ufficiali spagnuoli e tedeschi. Egli si teneva davanti un mucchio di fiorini d’oro; ne poneva una manciata ad ogni posta, e comunque la fortuna decidesse, il suo volto rimaneva sempre ugualmente altero ed impassibile; chè gli statuti cavaliereschi, e le massime in vigore tra la nobiltà, volevano si giocasse largamente, si perdesse con indifferenza e si pagasse senza ritardo.
Per osservar queste leggi, un giorno tra gli altri, al dir del Varchi, egli dovè dare a’ suoi compagni di giuoco il danaro che papa Clemente gli avea mandato per le paghe dell’esercito. I soldati morivan di fame, ma il debito d’onore era soddisfatto. Tra i due mali si scelga sempre il minore.
Per la sala alcuni, o seduti su larghi seggioloni a bracciuoli, o passeggiando innanzi e indietro, conversavano, ridevano, parlavan di caccia, d’amore, di fatti d’arme, di quistioni, di duelli, in una[327] camera vicina, molti de’ più giovani attendevano a schermire, ed in quel momento, fatto un cerchiello, badavano ad un assalto di spada e pugnale, nel quale Troilo ed Alessandro Vitelli mostravano egual destrezza, quantunque il primo fosse dai più giudicato averne la meglio.
Per le sedie e per le tavole stavan buttati alla rinfusa i cappelli, gli elmi, i guanti, le spade ed i pastrani de’ convitati; dal muro dipinto a fresco, e scompartito in molte storie chiuse in cornici di stucco a bassorilievo, pendevano armi, pennoni, bandiere ed arnesi da guerra d’ogni maniera: ed i chiodi che le reggevano, piantati senza riguardo nelle pitture, le avean tutte scrostate e guaste.
Nell’un de’ lati s’apriva un largo ed alto cammino la di cui cappa sporgeva molto innanzi, e posava su due figure di cacciatori ritte contro gli stipiti, le quali tenevansi alla bocca una cornetta; il cornicione che reggevano col capo e con un braccio era pieno di bellissimi fogliami, d’animali e mascherine; ed al di sopra due ninfe giacenti tenevan ritto tra loro uno scudo sul quale eran le tre cornette de’ Guicciardini.
Un uomo di mezzana statura, che mostrava nella persona una vecchiaia anticipata, sedeva su un seggiolone al fuoco: solo, tutto assorto ne’ suoi pensieri, pareva non s’accorgesse, o non si curasse, delle risa, del chiasso che si faceva intorno a lui. Vestiva il lucco ed il cappuccio fiorentino, e col gomito appoggiato ad uno de’ bracciuoli reggendosi[328] la gota col pugno chiuso, guardava fisso il serpeggiar della fiamma, ed a seconda dei pensieri che lo travagliavano, ora aggrottava le ciglia, ora così un poco scrollava il capo, e talvolta a fior di labbra sorrideva, ma il suo ridere esprimeva tutt’altro che allegrezza. Era costui messer Baccio Valori commissario pel papa all’esercito imperiale. Uomo di acuto ingegno, pratico delle cose di stato, avido di potere e tenuto astutissimo. Egli dovette però accorgersi, dopo alcuni anni, che la più sottile astuzia sta nell’esser uomo dabbene, poichè non riuscì alla fine a salvar il suo collo dalla scure di Cosimo I.
Dalla riuscita dell’impresa di Firenze dipendeva l’adempimento delle sue ambiziose speranze, o la sua totale rovina. Se la città veniva espugnata e sottoposta al giogo mediceo, egli saliva ai primi gradi, otteneva onori e ricchezze, egli allora era il buono, il prudente, l’amico dell’ordine e delle leggi. Se in vece il popolo vinceva e conservava la sua libertà, egli rimaneva col bando di ribelle, spogliato dell’avere, e nella dispregiata condizione del traditore deluso.
Ma per riuscire le difficoltà eran molte e gravissime. Egli doveva tenere il campo abbondante di munizioni e vettovaglie, mentre al papa per un lato incresceva lo spendere, ed il principe per l’altro non era buon massajo, come vedemmo, neppur di quei pochi danari che tratto tratto venivan pagati dalla camera apostolica. Nell’animo di Clemente VII si[329] era inoltre generato il sospetto che il principe d’Orange allo stringer de’ conti, intendesse far per sè l’acquisto di Firenze, ed il Valori aveva l’incarico di tenerlo d’occhio per isventare al bisogno le sue macchinazioni[38]. E finalmente, la parte de’ Piagnoni, che s’era sperato sbigottire col solo accostar l’esercito alle mura, si vedeva ora invece tanto cresciuta d’animo, e tanto pronta alla difesa, che si poteva ragionevolmente dubitare del fine di questa guerra.
Stimando cosa importantissima aver in Firenze chi lo tenesse avvisato giorno per giorno delle risoluzioni dalla parte nemica, s’era ingegnato mantenere corrispondenza secreta con molti Palleschi: ma da costoro, sospetti al reggimento, era o tardi o male informato, e giovavano poco o nulla. Avrebbe potuto fare gran fondamento sopra Troilo, il quale, se una volta gli veniva fatto d’entrare in casa Niccolò, ed affiatarsi con esso, si sarebbe trovato per dir così nel cuore della parte Piagnona, ed a portata di conoscerne i pensieri e le risoluzioni più secrete.
Ma poco sperava da questo giovine. Quantunque avesse promesso a Malatesta di porsi a tale impresa, come vedemmo al capitolo VI, quantunque neppure al Valori istesso non avesse disdetta la sua parola, si mostrava però tutt’altro che smanioso di osservarla: ora trovava un pretesto, ora un altro, moveva mille dubbj, e non si sapeva risolvere a barattare la[330] vita del campo un po’ dura talvolta, ma pur libera, piena di licenza e condita dai piaceri di cui godeva nella casa del principe, col viver uggiuso e malinconico d’una città assediata, piena di prediche, processioni e discipline, ove appunto gli sarebbe toccato abitare nella casa più austera, e sotto l’uomo più temuto e più rigido della parte Piagnona.
Se dunque Baccio Valori, con tanti pensieri pel capo, col contrastar continuo a tanti diversi umori, vivea malissimo contento, e se ne stava solo e malinconico, senza partecipare all’allegrezza ed ai solazzi che l’attorniavano, non è da farne maraviglia, invece è da ringraziare Iddio, che in questo mondo si duri più fatica talvolta a far il birbone che ad esser galantuomo.
In quella, posto fine al giocar di spada, una frotta di que’ giovani entrarono nella sala, e facendo tra loro non so che baje, se ne vennero a furia e schiamazzando verso il cammino, e trascorrendo all’impazzata, urtarono malamente il seggiolone sul quale sedea Baccio. Egli si volse stizzito e brontolando, mentre Troilo accostandoglisi, diceva ridendo:
—Non v’adirate messer Baccio, e cacciate codesti pensieri, chè il viso ogni giorno vi s’allunga d’un braccio.... non sapete voi che cent’anni di malinconia non pagano un quattrin di debito?—
—Tu sei un gran pazzo, e se attendessi ad altro che a queste bajate, e’ sarebbe pure il tuo meglio. Ora siedi qui un momento, chè dovresti però esser stracco al diavoleto che avete fatto finora.—
—Stracco? Mai, messer Baccio, e se volete che tiriamo quattro stoccate, voi ve n’avvedrete.—
—Non m’affastidir il cervello col malanno che Dio ti dia,.... ch’io non ho il capo a motteggi.—
Poi con miglior viso ed in suono quasi di preghiera seguitava:
—E a Firenze insomma, quando pensi d’andarvi? Tu promettesti pure al sig. Malatesta ed a me!.... Sia pure quanto ci bisognerebbe averci un uomo da potersene fidare!....—
—Aspettate messer Baccio, rispose il giovine strascinando un altro seggiolone vicino al suo, e sdrajatovisi colle gambe tese e le braccia aperte, ho già capito, che avete sullo stomaco un sermone e volete liberarvene.... Eccomi qua, son pronto a riceverlo, vi sentirete meglio dopo.... dite pur su, ora che ho assaggiato questo seggiolone vi so dire ch’io non mi moverò di quel pezzo.
—Tu scherzi, Troilo, e s’io parlo è per il tuo bene.—E postagli una mano sulla spalla guardandolo fisso, seguitava, abbassando la voce:
—Ah, pazzo che sei! Ma non sai tu che un’occasione come questa di guadagnarsi la grazia di papa Clemente e de’ signori Medici, molti la comprerebbero ad ogni prezzo: ed avrebbero a gran ventura che capitasse loro alle mani, e tu....—
—Ed io.... ed io non la rifiuto, rispose Troilo, dimenandosi sul seggiolone con mostra d’impazienza, siete curioso anche voi... È presto detto andar a[332] Firenze, da Niccolò.... eccomi qua, son diventato Piagnone! Sì.... e lui senz’altro mi crederà.... mi metterà in casa.... saprò tutto.... troverò subito modo di farvi sapere i suoi secreti.... eh! messer Baccio, voi viaggiate per le poste....—
—Che vi sia qualche difficoltà non lo nego: ma gli affari del mondo non si fanno da sè.... e convien durar fatica e farli noi. E se tu non te ne dai maggior pensiero di quello che n’abbi preso sin ora, al sicuro rimarremo sempre aspettando la manna ci caschi dal cielo.... se non vi fossero difficoltà e pericoli neppur ti sarebbero stati promessi i ricchi premj....—
—Oh! quanto a questo, interruppe Troilo, io li avrò molto ben guadagnati. Pensa che diletto!.... abitare con Niccolò!.... sarà tutt’uno come stare di casa alla buca di S. Antonio. A proposito, e’ converrà che mi rimetta in esercizio di dir orazioni.... bisognerebbe aver alla mano qualche passo, qualche profezia del Frate, ora, ora: una me la ricordo.
—Florentia renovabitur e poi flagellabitur... no, tutt’al rovescio.... Si principia col bastonabitur, e qui ci ha azzeccato.... Ah! e poi.... vi par egli uno scherzo? andarmene, Dio sa per quanto tempo, a far, niente meno, il marito innamorato e fedele. Se il papa è galantuomo per questa sola merito il cappello!—
—Eh via! tristaccio, che costei, ho udito dire, è pur bella di molto: ed ora è un pezzo che non la vedi, e ti parrà quasi una novità.—
—Sì, quasi, bene avete detto!—
—E poi confortati, che quando saremo padroni di Firenze, e’ sarà d’uopo di metter giudizio, ti troverò io una fanciulla, di tal casata, e con tanta dote, che me ne saprai il buon grado. Oh! insomma.....—
—Insomma andrò, andrò. Già è tutt’una... son condannato a udir sermoni; qui, da voi, in Firenze, da’ frati. Se non foss’altro, per variare, voglio udire i loro, chè i vostri, messer Baccio mio buono, mi son cominciati a venir a noja assai bene.—
A questo punto molti di que’ gentiluomini si ristrinsero intorno al cammino. Essi sapevano che da qualche tempo il Valori tentava inutilmente di spinger Troilo a questa nobil impresa, e n’era stato tra loro spesse volte ragionato, e motteggiato non poco. Ora Troilo, dopo aver annunciato che finalmente s’era risoluto partirsi, disse:
—Sarà però bene fare un pò di prova del discorso ch’io terrò in Consiglio grande per celebrare la mia conversione.—
E salito in piedi sul seggiolone, con voce flebile e nasale cominciò così:
—Un raggio della divina grazia, signori osservandissimi, un raggio della grazia celeste, prestantissimi magistrati, sceso su questo indegno capo per intercessione del nostro beato e santo Fra Jeronimo, venne, popolo eccellentissimo, lanajoli, setajoli, speziali nobilissimi, beccai, muratori, tintori,[334] conciatori, illustrissimi ed eccellentissimi, venne finalmente a diradare quelle tenebre per le quali miseramente camminando, ingannato dagli scellerati esempj e consigli di quell’empio, ribaldo, pravissimo e detestabile uomo, d’ogni nefando, turpe ed abbominevole peccato di messer Baccio Valori....—
A queste parole si levò tant’alto lo schiamazzare ed il ridere, che il sermone venne interrotto, ed i giuocatori affastiditi si volgevan di mal umore, ma il Principe fece ben presto cessar il fracasso, alzando il capo e pronunciando con voce forte questo solo monosillabo:
—Paix!—
Il quale fece in un attimo acquetare ogni rumore; tantochè potè udirsi chiarissima la voce d’un servo che disse d’in sulla porta:
—Messer Troilo! un fanciullo domanda di voi.—
—Fallo entrare,—rispose il giovane senza mutar luogo; e venne tosto introdotto un ragazzo, il quale disse:
—Una donna, che vorrebbe parlar con voi due parole tosto, vi manda dicendo, che v’aspetta qui sulla strada di Baroncelli.—
Troilo scese in fretta dal suo pergamo dicendo: —Signori, il sermone a un’altra volta.... le dame non s’hanno a far aspettare.—Poi con viso serio aggiungeva:—È però una gran seccaggine che queste benedette donne abbiano a venir fino in[335] campo a darmi noja.... Eh! ma.... le compatisco....—
E dato un gran sospiro:
—Ecco quel che accade ad essere un bel giovane... Andiamo, fanciullo, mettiti avanti ed insegnami la via. I suoi compagni gli davan la baja e lo complimentavano sulla sua ventura, ed il Valori gli diceva, seguitandolo verso l’uscio:
—Sta a vedere ch’è la Lisa!—
—Sarebbe cacio sui maccheroni; ora s’io mi appongo, e se quest’occasione ti si para innanzi, sappi usarla chè buon per te!—
Troilo uscì, ed invece della Lisa trovò Bindo, il quale più volonteroso che savio, s’era posto in animo di far le vendette della sorella fin dal giorno della sua cacciata di casa, nè mai fin allora s’era trovato libero di mandare ad effetto questo suo disegno.
Se Troilo fosse andato solo forse gli sarebbe riuscito, ma egli nell’avviarsi fe’ cenno a quattro soldati di tenergli dietro, e la cosa finì appunto nel modo narrato alla fine dell’antecedente capitolo.
Quando il giovinetto fu menato prigione e si trattò d’impiccarlo, Troilo avrebbe potuto di leggieri campargli la vita, dicendo una parola all’ufficiale che aveva la cura di mantener quieto il campo, e punir i disordini e le risse. Fu anzi sul punto di risolversi, poi disse fra se:
—Lascialo impiccare! ciò potrà per avventura liberarmi da questa maladetta andata in Firenze.—
—A quel poltrone di Baccio non verrà più in capo, cred’io, mandarmi in casa di chi avrà avuto il figlio impiccato per cagion mia.—
Così lasciato la piazza s’avviava lentamente verso la villa Guicciardini. Ma Baccio, che dubitava potesse da questo fatto nascere occasione favorevole a’ suoi disegni, e che non era uomo a trascurare le piccole cose, sapendo che dalle piccole nascon talvolta le grandi, non s’era contentato d’aspettare il suo ritorno, ma uscito poco dopo ne veniva verso piazza, e s’imbattè in uno di quei soldati che avendo ajutato a prender Bindo se ne tornava narrando il caso a chi veniva con lui.
Il Valori domandando con premura che fosse accaduto, e saputa appena la cosa, e che si stava per impiccare il figlio di Niccolò, si cacciò a correre quanto poteva, e giunse per fortuna appunto in quella che il povero fanciullo con un piè sul primo scaglione stava per salire il secondo.
Parve a tutti cosa grandissima vedere il Commissario del campo comparire in quel luogo, aprendosi a furia la strada tra le genti colla voce a colle spinte, onde il carnefice soprastette all’esecuzione, ed il Valori, fatto sciogliere e liberar dal laccio il giovinetto, che pure aveva il viso bianco come un panno lavato, gli fece animo con umane parole, dicendogli non dubitasse di nulla, e presolo per la mano lo condusse fuori di quella calca.
—Questa sola mancava! diceva Baccio tra’ denti, pensando al pericolo corso di mandar per la[337] morte di Bindo tutto il suo disegno a monte; e siccome i tristi tra loro si conoscono, sospettò al primo qual fosse stato il calcolo di Troilo nel permettere questa uccisione. E tirando pur sempre verso la villa, con Bindo per la mano, diceva in cuor suo:
—Troilo, Troilo! Tu sei volpe giovane! ed io volpe vecchia; se me l’appicchi mio danno!... ma io mi conforto che l’andrà a mio modo e non al tuo.—
Giunto in casa consegnò ai suoi servi il giovinetto onde lo confortassero con cibo e vino, e gli preparassero un letto; ed egli, rassicuratolo di nuovo con amorevoli carezze, se ne tornò nella sala ove poco stante comparve anche Troilo.
—Se non ero io, disse Baccio battendogli sulla spalla, a quest’ora tuo cognato tirava de’ calci al vento.... ora ringraziami, ch’io t’ho campato d’un gran pericolo, che insieme con quel fanciullo sarebbero morte tutte le tue speranze di guadagnarti la grazia del papa.—
—In verità ch’io v’ho un obbligo grandissimo, rispose Troilo con un viso marmoreo, (se l’espressione è lecita) sul quale era impossibile scorger traccia di quel che realmente pensava in quel momento. Impossibile ai più; ma non a Baccio, che benissimo indovinò i suoi pensieri, e sotto i baffi si rise di lui.
Fanfulla frattanto, che avea visto prepararsi il supplizio del giovinetto, e poi capitar ivi con tant’impeto[338] il commissario stesso a liberarlo, gli tenne dietro, quando uscì dalla folla, e giunse all’alloggiamento del principe un momento dopo ch’egli v’era entrato. Un famiglio pregato da Fanfulla andò nella sala ov’era la brigata, e disse a Troilo:
—Sta qui fuori un uomo.... pare uno zingano, che dice avrebbe a farvi motto, per parte d’una gentildonna di Firenze.... e non vuoi dir chi sia....—
—Oh! insomma, rispose Troilo, io credo che stasera e’ voglian la baja del fatto mio! digli che vada al bordello lui ed essa....—
—No, no, aspetta, interruppe il Valori, e preso sotto braccio il giovane lo strascinò fuori dicendogli: Eh, non andar tanto a furia! udiamolo prima. Giunti nell’anticamera ov’era Fanfulla, Baccio fece le viste di andare oltre, e si nascose dietro una portiera d’arazzo per poter udire ogni cosa. Fanfulla, fatta riverenza a Troilo, gli disse come una gentildonna, ch’egli dovea molto ben conoscere, s’era partita da Firenze apposta per venirlo a trovare, e che l’aspettava poco discosta. Interrogato poi dal giovane chi fosse, che cosa volesse, Fanfulla, con fare ambiguo e mezzo ridendo, gli diceva:
—Chi sia e che cosa voglia voi lo vedrete.... e non v’avrete a pentire d’aver preso questo poco disagio di venir dove lei....—
—Oh, parlami chiaro!.... senti, uom dabbene, io ho certi sospetti....dimmi, è ella la Lisa, figliuola di Niccolò de’ Lapi?—
—Voi vi siete apposto, rispose Fanfulla, che credette[339] legger sul viso di Troilo pensieri favorevoli alle speranze della Lisa; venite dunque, chè la poverina v’aspetta come un’angelo del cielo. Mentr’egli parlava, il Valori, che gli rimaneva dietro le spalle, alzata la portiera badava a far cenno a Troilo che andasse presto, ond’egli disse «moviamoci dunque» e preceduto da Fanfulla uscì della villa, senza prender seco altra compagnia, per esser la donna, al dir della sua guida, appiattata là dentro l’ultima casa dalla terra ed a pochissima distanza.
Sarebbe cosa difficilissima voler determinare quale fosse l’animo di Troilo in quel momento. I misteri del cuore umano sono tanto profondi, ed il bene vi si trova misto col male in un modo così inestricabile, che riesce talvolta assai arduo il giudicare anche i maggiori ribaldi. Forse al punto di por mano irremissibilmente a quest’opera tenebrosa la sua coscienza mandava l’ultimo grido. L’idea di riveder quella misera che avea tanto patito per lui, che tutta si rimetteva nell’amor suo: d’accoglierla fra le sue braccia, e quel suo stesso confidente amore farlo servir di rete ove rimanesser colti i suoi più cari, e cadessero così in mano de’ loro implacabili nemici, tutto ciò era talmente vile ed orrendo, che non era possibile, per quanto fosse ribaldo, vi si accingesse con animo freddo e tranquillo. Ma la voce del suo buon angelo non potè farsi dar retta da lui tutto invaso dal desiderio d’una grandezza futura, che tratto tratto gli s’affacciava vivissimo; dall’orgoglioso pensiero che gli persuadeva esser[340] male assai leggiero l’ingannar una fanciulla popolana quando n’andava lo stato e la fortuna d’un gentiluomo. Quel momento d’incertezza e di rimorso, se pure n’ebbe, passò come un lampo: fermò l’animo anticipatamente per non lasciarsi commovere da qualunque cosa potesse udir dalla Lisa, e per acquetarsi interamente, diceva in cuor suo: «Che gran danno avrò io poi fatto a costei? aver un fanciullo da un gentiluomo! quasi ciò non accada ogni giorno! ma io non farò come molti altri, e le darò tanti danari che bastino a trovarle un marito suo pari.»
Mentre Troilo veniva camminando con questi pensieri, la Lisa, che aspettava col cuore tremante da una mezz’ora in circa, stimando invece fosser già trascorse due ore almanco, stava timorosa di qualche nuova disgrazia. Sul punto di riveder quello che avea cotanto amato, il suo cuore, cacciando tutt’i sospetti, s’era inebbriato della sola idea di giunger pur una volta ad essere tra le sue braccia. Ma la poverina s’affliggeva pensando: «Dio sa come mi troverà! I dispiaceri, lo stento m’hanno tanto consumata!.... Oh! che cosa pagherei d’esser bella come era una volta!» E per fare almeno tutto il possibile, si veniva racconciando alla meglio i capelli, e spogliatasi una vestaccia che s’era messa per aver sembianza di zingana, rimaneva coi panni che si trovò aver indosso quando uscì della casa paterna, i soli che possedesse dappoi, e procurava disporli con buon garbo più che potesse:[341] e in tutti questi rassettamenti usava gran riguardo di non far rumore, temendo a ogn’ora di venire sentita o scoperta.
Finalmente ode passi d’uomini sulla strada, tende l’orecchio rattenendo l’anelito; i passi s’accostano, varcano una siepe, e si dirigono alla sua volta: l’oscurità impediva di discernere chi li movesse, ma ben tosto udì la voce di Fanfulla che diceva:
—State di buona voglia, madonna, eccolo lui in persona.—
La giovane si volle alzare, ma le forze le mancarono, cadde sulle ginocchia, dicendo:
—Oh! Troilo mio, t’ho pur riveduto prima di morire!—
Il giovane raccoltala da terra se la stringeva al petto, con parole di tanta tenerezza, così appassionate, che la Lisa per poco non gli rimase in braccio svenuta.
Conoscendo noi l’animo di chi le proferiva non ci regge il cuore di riferirle.
Il buon Fanfulla a quegli atti strofinandosi le palpebre colla mano ruvida, diceva:
—Sta a vedere che mi metto a piangere.—
Così passato quel primo momento, Troilo si recava in collo il fanciullino facendogli infinite carezze, mentre la Lisa attaccatasi al braccio del giovane e stringendosi a lui, gli diceva:
—Io, che temevo mi sgridassi d’esser venuta così di notte con questo bambino!.... sciagurata,[342] io doveva pur conoscerti, Troilo mio! perdonami, ch’io ti feci questo torto. Oh! ma ora non pensiamo più a nulla. Ci siam trovati! Non ci sono più guai per la povera Lisa tua, tutto è dimenticato.... Era tempo!.... Ho sofferto tanto, sai!... ti racconterò poi!.... Ma ora non ci penso più.—
E in così dire avviatisi tutti e tre per tornare in paese, seguitava la Lisa con voce più bassa:
—No, non ci penso più, che l’animo si muta in un momento.... ma il viso è un’altra cosa... quello della povera Lisa ti piacque un giorno! oh, quanto ti parrà diverso! Non ti sbigottire, Troilo mio.... vedi, ora che ho il cuore tanto contento.... in poco tempo.... tornerò come prima.... abbi pazienza qualche giorno... e quando mi sarò rimessa, se piacerà a Dio che pur mi trovi bella, io ti dirò: «È tutta opera tua, amor mio!» Oh, poveretta me! Pensare che or ora mi vedrai in viso!....—
—Via, pazzerella, che sogni son questi, rispose Troilo sorridendo, tu mi fai torto, e se non cacci codesti pensieri io m’adirerò.—
La povera Lisa paurosa di dir cosa che l’offendesse tacque all’istante, e stringendosi al suo braccio, soggiunse soltanto:
—Oh, amor mio, hai troppo ragione! ed io son pazza a diffidare di te.—
In quella giunsero alla villa.
Baccio intanto, ammonito da quanto era successo poco prima rispetto a Bindo, a tener d’occhio gli andamenti di Troilo, neppur in questa sua seconda uscita non l’avea perduto di vista.
Lo trovarono in mezzo alla via, ed accostatosi a loro senza mostrar di conoscere la Lisa e Fanfulla, o di curarsi di loro, disse a Troilo:
—Soprastate un momento, ch’io debbo dirvi cosa che importa.—
Troilo disse pianamente alla giovane:
—Costui è il commissario del campo.... non vorrei avesse a sospettar chi tu sia.... chè qui si sta in gran gelosia de’ Piagnoni, e di chi ha che far con loro.... Fatti dunque in costà tu e quest’uom dabbene, ed aspettatemi tanto ch’io gli abbia fatto motto.—
La Lisa volonterosa d’ubbidire, si staccò dal suo braccio, e passo passo se n’andò in là nella parte più scura della strada, e Troilo avvicinatosi al Valori, questi gli disse pieno d’allegrezza:
—È la Lisa?—
—È dessa.—
—Ora dunque, riprese Baccio, sappi che per dar miglior colore alla tua partita dal campo, n’ho pensata una.... e non mi par cattiva..... Basta, ora non è il tempo di mettersi in troppi discorsi.... Era qui or ora il tuo servo.... trova mezzo di mandarla con esso lui al tuo alloggiamento, e tu rimanti qui, e discorreremo.—
Troilo ritornato alla Lisa le disse:
—Per cosa che molto importa io non posso venir teco, vanne tu coll’uomo che or ora ti manderò, e non dubitare. Se t’occorre nulla, comandagli, ed egli ti provvederà d’ogni cosa.... Addio[344] Lisa, sta di buona voglia, ch’io penerò poco a raggiungerti.—
Lasciatala in così dire, trovò un suo famiglio per nome Michele, quello stesso che, vestito da prete, l’avea ajutato a fingere il suo matrimonio, e gl’impose conducesse la Lisa alla Torre del Gallo ov’egli alloggiava, e la servisse di quanto le potrebbe bisognare in quel primo momento.
Disse il servo:
—Ponete mente, messere, che costei non mi avesse a riconoscere.—
—Eh! non c’è paura, rispose Troilo, prima ell’era tanto sbigottita questa mattina, che neppur ti vide in viso: poi, è passato tanto tempo, ed ora in abito così diverso e con quella gran barba che ti lasciasti crescere, nemmeno il diavolo ti ravviserebbe. Oh! va, va, e non dubitare.... nel parlarle abbi cura soprattutto di dirle quante pappolate ti verranno in capo, per farla sicura ch’io non penso, non ho pensato, e non penserò che ad essa.—
—Io ho inteso... Insomma, far con questa, come si va facendo con tutte l’altre vostre ganze.—
—Appunto.—
Il servo si mosse ed il ribaldo padrone raggiunse il Valori, e tornati nella sala, sedettero insieme al fuoco. Disse Baccio:
—Ora ascoltami bene, chè ormai se tu saprai fare, la cosa non può fallire: ho riflettuto che se tu vai a Firenze colla Lisa non per questo ti verrà[345] fatto d’entrar in casa di Niccolò. Convien tu abbia un qualche merito con esso lui. A quest’effetto Bindo ci servirà maravigliosamente.—
E qui gli venne spiegando il nuovo inganno che avea immaginato, del quale dovendo il lettore veder tra poco l’esecuzione, sarebbe superfluo il discorrere adesso. Rimasero inoltre d’accordo de’ segni che Troilo avrebbe potuto fare dai tetti della casa di messer Benedetto de’ Nobili, della cifra da usarsi ove accadesse il corrisponder per lettere, fissarono il luogo ove queste sarebber lasciate, e prese da uomini che non doveano così neppur incontrarsi; e questo modo di corrispondere avea il vantaggio grandissimo che, venendo a cader nelle mani de’ nemici uno di tali messi, anche volendo non poteva svelare chi l’avesse mandato. Aggiunse poi Baccio moltissimi consigli, promesse e conforti, e tra i quali l’ammonì a far gran capitale dei Frati di S. Marco, e tenersi con loro più che potesse, stimando, com’era il vero, che avessero autorità grandissima sull’animo di Niccolò.
—Io ti darò una letterina pel Nobili, che potrai cucirti ne’ panni, o nascondere agevolmente altrove. Orsù dunque, Troilo, mostrati valentuomo, va col nome di Dio, che a pensare qual guadagno avrai a fare con così poca fatica, davvero ch’io t’ho invidia. Or ora alla Torre del Gallo ci rivedremo, ti porterò danari che bastino pel tuo trattamento mentre sarai costà: intanto fa buona cera con madonna, e tienla allegra, chè quest’allegria[346] d’ora l’avrà a scontar anche troppo.... ed io non son di que’ tristi che godono di far patire senza utile alcuno.—
Troilo dovette pur dire in cuor suo: «Tu sei il gran ribaldo!» S’alzò, disse addio al Valori, e preso commiato dal principe s’avviava al suo alloggiamento, considerando per via quanto fosse ben pensata la nuova frode che gli avea comunicata il Valori, e sentendo per lui quella riverente ammirazione che provano i birboni per chi è più birbone di loro.
Le colline che sovrastano a Firenze dalla banda di mezzodì, entrano colle loro falde nella cerchia delle mura, tantochè dalla via de’ Bardi alla porta a S. Giorgio, la città si viene alzando quasi in anfiteatro: fuori della terra sorge gradatamente il poggio ricco d’uliveti, di vigne e di molte case sparse; a mezza costa siede Giramonte; e sulla cresta del giogo d’onde si scende in val d’Ema, sta la Torre del Gallo, ove il conte Piermaria di S. Secondo avea i suoi quartieri, e dove era parimente alloggiato Troilo degli Ardinghelli.
Quell’edilizio non consiste in una sola torre, come parrebbe mostrare il suo nome. Essa s’innalza sull’angolo d’una casa in forma di rettangolo, con un cortile interno circondato da un portico: la torre, alta due volte la rimanente fabbrica, è a molti piani; sulla cima un terrazzo munito di merli, ov’è piantata un’asta colla banderuola di ferro che ha la figura d’un gallo.
All’epoca del nostro racconto il viottolo pel quale vi si giunge dal piano de’ Giullari era chiuso tra due file di cipressi, per mezzo le quali la Lisa e Fanfulla venivan camminando, preceduti da Michele, che con una lanterna illuminava la via. Giunti in casa, e nella camera ove Troilo dormiva, disse il servo:
—Madonna, il padrone m’ha comandato ch’io facessi ogni vostro volere.... già e’ non accadeva... io che gli sto vicino di dì e di notte, so ben io.... infin quando dorme, vedete, egli ha sempre in bocca il vostro nome.... ancora jer notte, senza andar più in là.... lo sentii... credo che sognasse.... e gridava «Io voglio la Lisa mia! Se non la riti trovo io morrò senza manco nessuno!»
È facile l’immaginare quanto dolci suonassero al cuor della giovane i discorsi di quel mariolo. Malgrado la lunga via, ed il disagio sofferto, non le pareva a quel punto sentir più stanchezza, e col bimbo in collo che le dormiva su una spalla andava girando per le camere; e considerando il disordine grandissimo ch’era là dentro, diceva sorridendo a Fanfulla:
—Si vede bene che qui non son donne! Guardate, poverino, egli ha un letto che un cane non ci dormirebbe.—
E nel dir queste parole, dato a Fanfulla il bambino, si poneva sollecita a rassettar le coltri, rimboccar le lenzuola, osservar che pendessero uguali e simmetriche da tutte le parti, con quel fare di[349] superiorità incontrastata che è proprio delle donne in queste occasioni. Rifatto il letto a suo modo si volgeva al resto della stanza, ove non eran che poche sedie ed una tavola, ingombrate in modo di biancheria, panni, guanti ed altre robe, che molte eran cadute a terra. Le sole armi tutte riunite insieme pendevano forbite e lucenti lungo la parete. Era sulla tavola una specie di valigetta mezzo aperta. La Lisa per fortuna non pensò nè a toccarla nè a guardar che cosa contenesse; avrebbe forse in esse trovato materia di gravi obbiezioni alle parole udite poco prima dal servo.
Finito di metter in ordine, e coricato nel letto il fanciullo, diceva, guardandolo dormire riposatamente:
—Oh! vedete, Fanfulla, se questa cosa non par proprio condotta da Dio! Jer notte egli ebbe a morire.... e stasera, con tutto il disagio ed il freddo di questo viaggio.... e’ par che non abbia avuto mai male! Da quanto tempo me lo diceva il cuore, che a venir qui sarebber finiti tutti i miei guai!—
Il seguito di quest’istoria mostrerà quanto sia un bel fidarsi di quel benedetto cuore, che però moltissimi, e le donne più di tutti, ascoltano qual consigliero e profeta infallibile.
Troilo frattanto spiccatosi dal Valori se n’era venuto a casa diviato; ed entrando nella camera, ov’era atteso con tanto desiderio, buttò su una sedia cappello e pastrano, e mettendo un respiro libero, disse con grande allegrezza:
—Finalmente eccomi da te! e qui, viva Dio, non avrò più nè commissario, nè principe, nè altro malanno che mi venga ad intorbidare.... ma da quanto vedo (e dava un’occhiata in giro) è facile accorgersi ch’io non son più in balìa di quel disutilaccio di Michele, che mi tiene questa camera com’una stalla. Lisa mia, tu sei sempre a un modo, sempre amorevole, sempre un’angioletta!—
Poi presole le mani, e guardandola fissa nel viso, che per le moltiplici commozioni di quella sera se l’era infocato, e non appariva smunto e sparuto quanto lo era in effetto, le diceva:
—Brava, Lisa mia! Tu m’hai voluto uccellare, è questo quel viso tanto munto, tanto brutto....? un pò dimagrata lo sei, ma ora ti ristorerai d’ogni affanno.—
—Oh! amor mio, dicea la Lisa fuor di se, è proprio vero? Siam proprio riuniti? Mi par un sogno.... mi par d’impazzare certi momenti.... se fosse un sogno, oh, poveretta me quando mi destassi!—
Alzatasi poi, e condotto Troilo vicino al letto, soggiungeva:
—Vedi il povero Arriguccio nostro! Che viso patito, coll’ossicine a fior di pelle! Tu t’aspettavi fosse più grande, più bello eh? Ho fatto assai a tenerlo vivo; non avevo più latte!.... Oh! che giorni, che notti ho passate! ti narrerò tutto, ma ora non voglio pensar che al presente.... il passato è passato, e per sempre!—
Fanfulla, per non turbar quei primi momenti ch’egli stimava egualmente dolci per ambedue, s’era fin qui tenuto in disparte: comparve intanto Michele con un pò di cenetta; sederono tutti e tre, e mangiarono lietamente. Troilo allora volgendosi a chi era stato scorta alla sua donna, e che al viso ardito, al parlare, alle cicatrici ond’era segnato gli pareva uomo diverso da quello che dinotavano i panni ond’era vestito, gli diceva:
—Neppur ho avuto tempo di rendervi quelle grazie che merita la gran cortesia usata da voi alla mia Lisa....—
—Oh! Troilo mio, interruppe essa, egli ha fatto tanto per me, che s’io gli dessi il sangue neppur potrei compensarlo.—
—Sappiate, madonna, rispose Fanfulla, che in tutta la vita mia, vecchio come sono, io non ebbi mai il maggior piacere di questo ch’io provo stasera vedendovi contenta, e ridotta in luogo sicuro con vostro marito. Oh! che diavolo vi vien in mente di parlar di cortesia, di compensi? Con me non ci voglion queste novellate, buone pei cortigiani..... e la prima volta che v’occorra nulla, m’avete a dire «Qua la tua pelle, chè mi bisogna» questo sarà il mio guiderdone.—
A queste parole Troilo stava per rispondere, pensando al tempo stesso venir con bel modo a domandar chi egli fosse, chè pur si sentiva una gran curiosità di saperlo, ma entrò in camera Michele tutto ansante, chè aveva fatto le scale correndo, e disse:
—Messer Troilo! è qui il sig. commissario che vi vuole, e sale da voi.—Il giovane mostrando maraviglia, e contorcendosi sulla sedia con impazienza, diceva:
—È pur una gran cosa ch’io non possa godermi in pace un momento.... questa è pur una gran noja!.... Animo, fagli lume, e fallo entrare. Volto poi a’ suoi commensali, proseguiva: Già sarà per qualche malanno.... non ne mancan mai. Entrate tutt’a due in quella cameruccia e badate a non farvi sentire, che guai se vi vedesse! e’ vorrebbe sapere chi siete.... poi, talvolta da solo a solo potrò sbrigarmene più presto.—
Fanfulla e la Lisa alzatisi in fretta presero un lume e si ritrassero in uno stanzino attiguo.
Poco stante entrò Baccio, e mentre Troilo gli facea riverenza, dicendogli ad alta voce: «Qual buona faccenda vi conduce qui a quest’ora?» con un cenno dell’occhio e della mano gli mostrava che la Lisa era nel camerino.
Baccio rispose con uno sguardo, e, sedutosi, cominciò a parlare, procurando alzar la voce abbastanza da poter essere udito da essa. Affinchè la cosa principale ch’egli voleva fosse ascoltata dalla giovane, paresse venirgli detta a caso, e come si narrerebbe un fatto di poca importanza, disse a Troilo, che il principe l’avea mandato per commettergli un incarico di gran momento, e da tenersi segretissimo, che per allora non voleva dirgli altro, ma si trovasse la mattina appresso armato,[353] a cavallo, sulla piazzetta del Pian de’ Giullari, e sarebbe stato mandato a tal impresa che, riuscendo, buon per lui; moltiplicava poi le carezze e le buone parole con dirgli, ch’egli era molto innanzi nella grazia del principe, e sapendo mantenersela n’avrebbe potuto ricavar onore ed utile grandissimo. Passando poi da questi ad altri ragionamenti, fatti come per ozio, diceva, quasi rammentandosi a un tratto:
—Oh, a proposito, sai! quel giovanotto di stasera.... quello ch’io ho campato dalle forche, ad istanza tua, e’ me ne sa male, ma per lui non c’è rimedio.... quel che non è stato stasera sarà domattina.—
—Oh! come?—disse Troilo.
—Che vuoi? Il principe non so da chi ha saputo la cosa; e’ dice che non è per sopportar questi assassinamenti.... tanto più, quando gli hanno detto ch’egli è figliuolo d’un Piagnone, di quel Niccolò de’ Lapi.... (A questa parola un grido soffocato s’udì nella cameruccia vicina); «quell’arrabbiato, egli ha ordinato, s’impicchi domattina...» e quando ha detto voglio... già sai, è tutto inutile; per un verso e’ dice bene, se non si castigasse l’insolenza di costui, avremmo sempre a guardarci la vita contro questi traditori.... anzi, come il carcere costaggiù presso la villa è pieno, il giovinetto è stato condotto a questa Torre, e chiuso per stanotte sotto la volta qui al terreno.—
Troilo allora con grandissima istanza si poneva a pregar il Valori che volesse interceder per lui e trovar modo a salvarlo.
—Ascoltami, rispondeva Baccio asciutto asciutto, tu daresti del capo nel muro. Ma se vuoi dar retta a me, di questo fatto non t’impicciare, che una tanta premura pel figlio d’un Piagnone, non mi sa troppo di buono. Io ti voglio bene, e però non dirò nulla, ma avverti a quel che tu fai, Troilo!—
Così dicendo s’alzò, ed uscito seco scese le scale; quando furono in parte da non poter essere uditi dalla Lisa si cacciarono a ridere, e Baccio diceva:
—Hai tu inteso il grido, quando dissi Niccolò de’ Lapi? io ho colto dove posi la mira. Or bene, eccoti qua cento scudi d’oro, e la lettera, sii avveduto, chè buon per te; già feci motto qui al conte Piermaria che dirà ai suoi uomini d’obbedirti in tutto, e preparati a far questa difficile impresa, degna d’un paladino della Tavola Rotonda... e potrai dire a Niccolò «Ecco il figliuol vostro liberato per virtù del mio fortissimo braccio! miglior salvocondotto non lo potresti avere.... e sappimene grado. Addio.»
Troilo, risalito in camera, trovò la Lisa, che tutto sossopra e piangendo gli si buttò al collo esclamando:
—Oh Dio, Dio! che ho io inteso? C’è qui un mio fratello?.... e si vuoi farlo morire? Oh, dimmi[355] presto! chi è? come?... per qual cagione? non si potrà salvarlo! ma qual è, qual è de’ miei fratelli?—
—È Bindo, rispose Troilo, mostrando anch’esso grandissimo turbamento, pur troppo è Bindo,.... benedetto ragazzo!.... è stato tutto per volerti troppo bene,.... e però gli perdono, e vorrei salvarlo a costo....—
E qui si batteva la fronte col pugno in atto disperato; poi narrava alla Lisa tutto il fatto, soggiungendo:
—Io non t’ho detto nulla.... prima, neppur v’è stato tempo.... poi, lo tenevo campato, e speravo domattina poternelo mandar libero a Firenze.... ma ora, come si rimedia.... oh Dio, Dio! che orrenda cosa!—e colle mani ne’ capelli dava in nuove smanie.
—Come si rimedia? gridava la Lisa disperata, ma in qualche modo si rimedia!.... si trova una via.... ce ne sono tante.... Ma non capisci che Bindo non può far questa morte.... che non è possibile.... che sarebbe un orrore troppo grande.... per cagion mia.... il suo sangue mi cadrebbe sul capo a me.... a te.... sul capo di quel povero bambino che è là! Ma non è vero che non c’è rimedio.... oh! sì, Troilo.... dimmi che c’è.... che l’hai trovato.... siete due uomini, ci son io.... io.... io sola farò per tre.... oh! ma è troppo.... che io avessi all’anima anche il sangue di questo fanciullo! è troppo, è troppo....—
—Chetati Lisa, in nome di Dio,—diceva Troilo abbracciandola.
—Chetatevi, diceva Fanfulla, chè con queste smanie si farà poco frutto.... pensiamo... e forse... mi son trovato in peggiori imbrogli!.... ma vedete, col gridar non si fa nulla.—
—Non grido, rispondeva la giovine tutta tremante, no, ecco, sto zitta.... v’ubbidisco.... ditemi voi quel che debbo fare.... ma salvatemi Bindo.... non è egli vero che l’avete trovato il modo?... oh! se sapeste, una povera donna che è già con tanti rimorsi, ed ora avrò anche questa uccisione... oh, ma parlate una volta! non avete cuore, non avete pietà nessuna!...—
Troilo s’era posto a sedere col capo tra le mani. Alzato in piedi ad un tratto, e presa pel braccio la Lisa disse risolutamente.
—Sì, perdio, v’è il rimedio.... uno solo, e bisogna adoperarlo. Lisa! io ti sacrifico più che la vita! stanotte fra tre ore.... quando tutti dormono, rimane soltanto un uomo di guardia al portone.... so la camera di quello che ha la chiave del carcere..., con questa daga l’ammazzo:.... all’altro faccio lo stesso.... se la cosa mi riesce, e non può fallire, domattina saremo tutti salvi a Firenze.—
La Lisa non potè formar parole, ma gli si buttò tra le braccia, stringendolo e baciandolo pel petto e per la faccia dove le veniva: quando si fu racchetata, Troilo se la fece seder vicina, poi proseguiva:
—Da gran tempo, Lisa mia, io mi sentivo spinto a lasciar questo campo. I miei maggiori furon[357] tutti Palleschi, ed anch’io lo era, venni a questa guerra, onde i Medici fosser rimessi, ma non pensando mai che questo bastardo di questo papa volesse, com’ora si è conosciuto, la total rovina della patria nostra. Non è ora il tempo di spiegarti a minuto quali siano stati i miei dubbj, le mie incertezze; quanto sia stato contrastato dall’amor di parte per un verso, dell’amor tuo e della città nostra per l’altro. Questo solo ti dico, che mi sono risoluto in tutto combatter per Firenze e non contr’essa, e quest’occasione presente io la credo mandata da Dio per darmi l’ultima spinta.
—Oh! non dir altro, Troilo mio, ch’io non reggerò a tanta allegrezza. Che potrà dir il babbo quando conosca questo tuo proposito.... Oh Dio! questa è una felicità troppo grande.... e quel poverino cacciato dal nonno, che non avea più nè casa nè tetto!... questa è opera tua, Dio grande, benedetto! Io non meritavo tanto bene.—
—Ora, disse Fanfulla, che tutto si mette per la buona via, non gettiamo il tempo in ismanie ed in allegrezze, e pensiamo all’essenziale.—
—Sì, sì, disse la Lisa; e volgendosi a Troilo tutta contenta soggiungeva: sai, ove accada dover menar le mani per salvarci, questo, che ti par un paltoniere con quel sajaccio logoro (e batteva colla mano sulla spalla di Fanfulla) questi, vedi, si sa ingegnare anche lui.—
Ed aprendogli i panni sul petto gli scopriva il giaco ond’era armato. Troilo, l’andava squadrando con maraviglia, ed essa:
—Vuoi che ti dica chi è? Niente meno che Fanfulla da Lodi, uno de’ tredici di Barletta, e il più bravo di tutti....—
—Voi mi fate troppo onore, madonna.—
—Che ne dici? ho io avuta buona compagnia a venir qui?—
Troilo, che avea inteso nominare costui per uno de’ più arrischiati demonii che fossero allora tra’ soldati, e sapeva benissimo tutto il fatto di Barletta, si mostrò contentissimo di conoscerlo, e d’aver un tanto ajuto, ma nel suo interno pensò: «Qui ci vorrà gran giudizio.» Dapprima non sapendo chi si fosse, e tenendolo un qualche bottegajo di Firenze, avea divisato condurlo seco alla finta uccisione del carceriere, pensando: Egli rimarrà indietro pauroso, e vedendomi menar il pugnale narrerà ch’io veramente l’abbia morto, e me n’avrà maggior fede egli, e quanti l’udranno in Firenze raccontar questo fatto; ora, saputo chi egli era, disse «S’io lo conduco meco egli è muso da tagliarmi a pezzi tutta la guardia della porta, e succeda poi quel che vuol succedere.» Perciò, quando Fanfulla, imbaldanzito sempre più per le lodi della Lisa, e contento d’aver da fare qualcosa dell’arte sua, disse:
—Messer Troilo, quantunque sia opera non troppo lodevole dare a chi non se l’aspetta, pure in questo caso, che esce dagli ordinarj, se volete, io v’ajuterò a spacciar uno di que’ ribaldi, ed anche tutti e due.—
Troilo lo ringraziò, dicendogli: non esser prudenza andar più d’uno a questo fatto, che tutto dipendeva dal non esser sentiti, e perciò ne lasciasse ad esso solo il carico, come a pratico della casa, e del resto non dubitassero.
Era un’ora dopo la mezzanotte, e fra tre ore avean risoluto por mano all’impresa, calcolando di poter esser sul far del giorno già assai ben lontani dal campo. Troilo, avendo a dar sesto a tutto quanto occorreva perchè la cosa andasse netta, persuase alla Lisa di gettarsi sul letto a riposare il poco tempo che le rimaneva. La giovane se ne sentiva grandissimo bisogno ed acconsentì. Quando si fu coricata, Troilo la coperse col suo mantello ed uscì promettendo sarebbe tornato più presto che potesse; aggiungendo non istesse in pena se avesse tardato, chè senza alcun fallo, per l’ora stabilita, sarebbe venuto a levarla.
È pur una gran fortuna che sia negato all’uomo conoscer il futuro! Que’ pochi momenti di felicità che si godono di quando in quando e ci ajutano a sopportare i dolori della vita, sarebber perduti, o almeno ridotti a un piccolissimo numero. La povera Lisa, che dopo tanto soffrire si riposava ora col suo bambino sul letto di suo marito, che avea temuto non riveder mai più, o rivedendolo, esserne ributtata; che godeva dell’impensata gioja di ritrovarlo, non solo amorevole e fedele, ma di vederlo deciso ad abbandonare quella parte per la quale sarebbe stato sempre nemico a suo padre ed alla città,[360] se avesse potuto legger nell’avvenire, conoscere il cuore di quello che ora le era cagione di tanta dolcezza, si sarebbe scagliata fuor di quel letto come da un nido di vipere, e anche questo poco conforto, questa breve pausa, sarebbe stata negata a quella misera, cui rimaneva pur ancora tanto a soffrire.
Essa invece, ignara del futuro, si sentiva finalmente, dopo tante procelle, nascer in cuor una calma serena e confidente; le pareva agevole, ridotti che fossero a Firenze, riacquistar la grazia del padre pel mutamento di Troilo, del quale pensava fosse dovuto a lei tutto il merito, e sperava dover anzi trovar presso Niccolò maggior favore di prima. Il cuore le prometteva ogni bene, e la poverina, secondo il solito, gli dava retta. Abbandonandosi tutta a questi sogni di felicità, si veniva a poco a poco addormentando, mentre Fanfulla seduto all’altro capo della camera, volgendole le spalle, s’era posto a recitar salmi ed orazioni, memore degli ultimi ricordi di Fra Benedetto. Per vincere il sonno, che pure l’aggravava, si teneva sulla vita, senza appoggiarsi, colle mani intrecciate fra la ginocchia pronunciando sotto voce bensì, ma spiccato e presto presto; poi, a poco a poco, il moto della labbra diveniva meno rapido, le palpebre gli s’abbassavano, il capo e la persona s’andava sbilanciando in avanti, finalmente perdeva l’equilibrio del tutto, ma riavendosi tosto, riprendeva la prima posizione, col muover delle labbra, ed in questa alternativa veniva passando un tempo che Troilo impiegava ben altrimenti.
Sceso dalla sua camera andò in quella del conte di S. Secondo, posta al terreno, e, come a persona intrinseca ed alla quale non eran celate le deliberazioni anche importanti del papa e del commissario, gli fa palese tutto quel che si stava preparando, onde meglio colorire la sua andata a Firenze, richiedendolo al tempo stesso volesse agevolargli questo suo disegno. Il Conte udì il tutto, nè gli parve trovar nulla da mutare a questa trama, fuorchè una sola cosa che non gli finiva di piacere, ed era il dar ad intendere alla Lisa e al suo compagno di aver ad ammazzar due uomini, e che ciò non fosse vero, almeno per uno, e per ragione adduceva, che potea benissimo per mezzo di qualche prigione, o in altro qualsivoglia modo, venirsi a saper a Firenze questo fatto, e che nessuno v’era rimasto ucciso, e ciò verrebbe talvolta a generar sospetti sulla sincerità di Troilo, e sulla cagione che gli avea fatto abbandonare il campo.
Questi conosceva che l’obbiezione non era senza fondamento, ma rimaneva sospeso, senza poter immaginare come fosse possibile riparare a quest’inconveniente. Il conte lo tolse d’impaccio dicendogli: «che tra suoi uomini ve n’era uno grandissimo amico d’Anguillotti da Pisa[39], che l’avea confortato fuggirsi, ed egli sapendo certissimo che gli aveva promesso di far le sue vendette, s’era risoluto comandare[362] al suo sergente, che alla prima fazione gli facesse dare un’archibusata per levarselo d’innanzi, ed aggiungeva: senza tenerlo più a disagio, te lo farò metter di guardia al portone, e così avanzerà tempo di quello che già in cuore gli avevo promesso. Un po’ prima un po’ dopo sarà tutt’una per lui.»
—Quando sia così, e che a voi non importi, anzi abbiate motivo di mandar costui alla morte, conosco anch’io, che la cosa si farà con maggior apparenza di verità.—
Quanto al carceriere, che il conte Pier Maria non volea s’uccidesse, essendo uomo da fidarsene, lo fe’ chiamare, e in presenza di Troilo l’avvertì, che nella notte questi sarebbe entrato in camera sua per la chiave; se fosse venuto solo gliela desse, ed allora non era difficoltà, se (per preveder tutti i possibili) avesse avuto un compagno, Troilo fingerebbe di piantargli un pugnale nel petto, ed egli mostrasse di dar i tratti senza gridare, come accade a chi è ferito in parte molto vitale.
Rimasti così d’accordo, Troilo, nel prender commiato, domandò al conte:
—Posso servirvi di nulla in Firenze? Ora ch’io divengo setajuolo, se vi bisogna velluti, broccati, sciamiti, voi non mi farete torto eh? E vi potrò dir presto quanto stanno il braccio.—
—Addio, addio pazzo. Ma se in un pajo di braccia di quale stoffa tu vorrai, mi mandassi il capo d’Anguillotto, chi me lo portasse avrebbe una[363] mancia che lo ristorerebbe del disagio: digli però, che se il pane non gli è venuto a noja, faccia di non venirmi nelle mani.—
Troilo uscì, e andò alla stalla ov’era il suo cavallo, gli pose sella e briglia, e gl’involse l’ugne in certi stracci, onde il cavarlo fuori non fosse sentito sul lastrico; ed avendo così preparato tutto, risalì in camera, e trovò Lisa e Fanfulla addormentati: si pose pianamente a sedere, e rimasto così una mezz’ora, quando gli parve il momento risvegliò l’una e l’altro, e disse: «ora è tempo, prepariamoci.»
La Lisa fu tosto in piedi, e preso il fanciullino gli pose, così addormentato com’era, il seno in bocca, onde svegliandosi non gridasse. Troilo s’armò, ajutato da Fanfulla, poi prese una lanterna, che copriva col pastrano, s’avviarono tutti e tre giù per la scala, in punta di piedi, e, giunti al basso sotto il portico del cortile, disse Troilo: «Aspettatemi qui, io vo per la chiave.» Voleva Fanfulla ad ogni patto venire ad ajutarlo, dicendogli sotto voce: «gli metterò due dita al collarino, che vi so dire l’azzitteranno subito» onde il giovane conobbe sempre più quant’importasse l’andar solo, e con gran difficoltà riuscì pure a liberarsi dal suo troppo zelante compagno, dicendogli; «no, no, rimanete, piuttosto, se volete ajutarmi, quando mi vedrete tornare, intanto ch’io cavo di prigione il giovinetto, voi gettatevi sull’uomo di guardia, e fate che il primo colpo sia l’ultimo.» Si mosse[364] senza aspettar risposta, e dopo tre minuti, ricomparve, alzando il braccio per mostrar la chiave. Fanfulla s’era intanto accostato muro muro sin presso il portone, come un tigre che sta per iscagliarsi sulla preda, e teneva nuda in mano una mezza spada larga, pesante e che radeva: veniva a trovarsi tre passi lontano dal soldato di guardia, il quale appoggiate le due braccia sulla bocca dell’archibugio, di tanto in tanto abbassava il capo sonnecchiando, e scopriva così un palmo di collottola. Vide venir Troilo, dette uno slancio menando un rovescio, e la testa del soldato cadde da un lato, il corpo dall’altro. Fanfulla forbita la spada sull’erba, la ripose nel fodero, e levando in ispalla l’archibugio del morto, se n’andò colla Lisa innanzi sotto i cipressi, in luogo coperto ed oscuro, ad aspettare. Troilo era sceso intanto nel carcere, e trovato Bindo addormentato, lo svegliò, e gli disse di seguirlo: il fanciullo, che avea creduto si venisse per ammazzarlo, si mosse contento, e fu presto al fianco della sorella, che con grandissima maraviglia riconobbe ed abbracciava, e che avvertendolo prima ben bene a non alzar la voce, gli diede a conoscere, con brevi ma caldissime parole, l’accaduto, ed il proposito fermato da Troilo, facendone ambedue, per quanto il luogo lo concedeva, maravigliosa festa. Comparve allora Troilo col cavallo a mano, e taciti, alla sfilata, presero tutti insieme la strada che conduce a Baroncelli, di dove avean intenzione, passando dietro Bellosguardo, di venire a riuscire sulla strada di Pisa,[365] e varcato Arno sul Ponte a Signa, condursi per porta al Prato a Firenze.
Camminando con gran riguardo, e colla precauzione d’evitare i luoghi ove alloggiavano bande di soldati, giunsero, senza cattivi incontri, dopo due ore di viaggio, sulla strada di Pisa.
Pel resto del cammino non v’era altro pericolo fuorchè d’incontrare qualche mano di scorridori; ma se erano imperiali Troilo aveva il nome di quella notte, se fiorentini, Fanfulla si dava a conoscere, ed in ogni modo eran certi di non capitar male, perciò lieti e contenti di un così buon successo si fermarono un momento per lasciar riposar la Lisa, poi messala a cavallo, tirarono innanzi verso Signa: passato quivi il ponte, per S. Donato si condussero finalmente, a levata di sole, sani a salvi a Firenze. Bindo, per la via era venuto camminando alla staffa della Lisa, udendola raccontare i suoi casi, e tutto il successo di quella sera, e non è da dire se essa magnificasse il valore e la bontà del suo sposo; il quale, per salvar la vita d’un suo fratello, avea, a suo credere, rinunziato alle splendide speranze che avean accennate le recenti parole di Baccio, e che da quel tristo erano state dette col solo fine di far apparire maggiore il sacrificio di Troilo, e metterlo così in maggior vista di Niccolò, della sua famiglia e della parte Piagnona. Il giovinetto, pien di gratitudine pel suo liberatore, non si potea saziar di lodarlo, e diceva: che senza dubbio Niccolò, e per un tanto servigio, e per essersi tolto[366] dal combatter la patria, venendo invece ad ajutarla, l’avrebbe accettato in grazia, e si sarebbe così posto fine una volta a tanti dispiaceri: Troilo, che indovinava quali dovessero esser i discorsi della Lisa, e li stimava utilissimi ai suoi bisogni, per darle maggior campo, si teneva addietro con Fanfulla, al quale con lunghi ragionamenti mostrava d’aver seguito sin allora a malincuore la parte Pallesca, tiratovi da una certa fatalità, e dall’esempio de’ suoi maggiori, ma che d’or innanzi voleva esser buon fiorentino, e tra ch’egli era bel parlatore, tra che l’altro era uomo alla buona e lontano dai sospetti, gli riuscì facilmente tirarlo interamente dalla sua, tantochè, prima ancora d’aver messo piede in città, potea già vantarsi d’avervi tre persone che renderebbero testimonianza al suo valore, al suo eroismo, ed alla sincerità della sua conversione politica.
Entrati per porta al Prato, quando furono al fine di borgo Ognissanti, la compagnia si divise. Bindo prese per Parione, e gli altri per lung’Arno. Ma prima di lasciarli, il giovanetto, dopo aver ringraziato Troilo, e dettogli che da lui riconosceva la vita, gli promise che avrebbe con ogni studio e ad ogni suo potere procurato che venisse accolto in casa con quell’onore e quell’affetto che meritavano i suoi virtuosi portamenti.
Troilo, giunto alla porta della città, s’era chiuso nell’elmo, per non esser riconosciuto prima di aver ricomprato il bando di ribelle, pel quale, non[367] avendo egli salvocondotto alcuno, era lecito ad ogni uomo il manometterlo. Ora, accompagnata Lisa in casa la Niccolosa, ove dimorasse frattanto che le faccende s’assestavano, non parendogli d’andare addirittura al magistrato sui ribelli e confinati, prese partito di ripararsi con Fanfulla in S. Marco, ove poteva rimaner sicurissimo, mentre si sarebbe operato ch’egli venisse liberato dal bando.
Giunti ambedue alla porteria, disse Fanfulla mentre picchiava:
—La meglio sarà andare a Fra Benedetto; egli è più amorevole di tutti, e senza dubbio si prenderà a petto questa faccenda.... Quando può far piacere egli va a nozze.... chè di quest’altri frati non si può dir così di tutti.... e molti hanno sempre a mente la notte che fu dato l’assalto al convento, e per loro un Pallesco e il diavolo è tutt’una cosa.—
In quella il portinaio aprì, e riconosciuto il suo antico amico e compagno, disse levando le braccia:
—Oh, ben venga il nostro Fra Bombarda! Era un pezzo che non ci venivi, e quasi quasi si cominciava a dubitare.—
—Eccomi vivo e sano, la Dio grazia, rispose Fanfulla, e non vengo solo.... ho bisogno di far motto a Fra Benedetto.... vedi qua, ho fatto un novizio.—
Il portinajo guardando Troilo tutto armato, che gli si vedevan a malapena gli occhi, diceva, mentr’essi s’avviavano:
—Un novizio del tuo taglio! se non erro. Eppure, col vento che tira, e’ farà più bisogno corazze che tonache.
Saliti, trovaron il buon vecchio nella sua cella, sul solito seggiolone, col suo S. Agostino aperto davanti, coi soliti occhiali sul naso, proprio come Fanfulla l’aveva lasciato l’ultima volta, che pareva non si fosse mai mosso. Entrando, e vedendolo, non potè a meno di non pensare in cuor suo: «Domando io se questo si chiama vivere! Tanto sarebbe nascer fungo!» Baciata poi la mano al suo superiore, che con modi amorevoli l’accoglieva, e s’era alzato così un poco per abbracciarlo, gli presentava Troilo, dicendogli chi egli era, narrandogli tutti i diversi accidenti pei quali era qui venuto, la liberazione di Bindo, la risoluzione presa di accostarsi alla parte Piagnona, e la sua riunione colla Lisa, alla quale non mancava ormai se non l’assenso di Niccolò.
—Egli, proseguiva, non vorrà ributtare chi gli ha campato il figliuolo.... ma se pure bisognasse, noi siam venuti a richiedervi d’un poco di favore. Se voi vorrete parlargli, egli non vi potrà dir di no.—
Troilo allora, trattosi l’elmo, e mostrandosi in viso tutto raumiliato e contrito, cominciò a parlare con tanta passione ed apparenza di verità del suo amore per la Lisa, del dolore col quale ricordava la vita passata, del proposito fermato di renderla migliore in avvenire, in una parola, seppe[369] così bene far del Piagnone, che Fra Benedetto rimase pienamente convinto della sua sincerità, e promise di far tutto il possibile onde aggiustar i fatti suoi con Niccolò e colla Signoria.
—Qui non c’è da metter tempo in mezzo, disse alzandosi, e prendendo in un angolo un suo bastoncello; voi trattenetevi in convento.... Fra Giorgio!.... quantunque abbiate ora più del soldato che del frate, siete però di casa: vi lascio dunque in custodia questo gentiluomo..... fatelo rinfrescare, e mi confido tornarmene fra non molto con lieta novella.... Quel buon Niccolò! diceva alzando gli occhi al cielo, egli è pure il grand’uom dabbene.... un po’ ruvidotto alle volte, non si può negare.... ma uno di quelli della stampa antica.... il maggior amico che abbia questo convento.... vorrei vederlo in pace una volta.... sarebbe tempo, che n’ha avuto de’ dispiaceri!.... Sì, sì, speriamo bene; ora la cosa è ridotta al punto che, per onor di mondo, egli non può voler altro di quello vorremo noi.—
Uscito dal convento, ed affrettando i passi quanto glielo concedeva la vecchiaja, fu in breve al portone de’ Lapi. In casa non era che Laudomia, il padre, e, giuntovi da pochi momenti, il giovinetto Bindo, pel quale, non avendone avuto notizia dal giorno innanzi, erano stati in grandissima apprensione. Appena arrivato, era subito ito da Niccolò. Egli l’aveva accolto con faccia turbata, e con aspre parole, dalle quali traspariva però l’allegrezza che[370] egli sentiva, di vedersi davanti sano e salvo quello tra i suoi figli che solo gli sapea far dimenticare talvolta la sua consueta rigidità; e pel quale vedendolo in così tenera età esporsi a tanti pericoli, tremava più che per gli altri.
Questi, per quell’intimo senso che rende accorti i fanciulli de’ pensieri e dell’inclinazione de’ loro parenti, temeva meno d’ognuno la collera e la faccia severa di Niccolò, e sapendo con destrezza governarsi secolui ne’ momenti di burrasca, senza cercar ora di scusarsi, gli domandava perdono di essersi messo, senza sua licenza, ad una così difficile impresa; ma, diceva, non aver potuto reggere al desiderio di vendicar ad un tempo la città e la sorella: e narrandogli ingenuamente tutto quanto gli era succeduto, quando fu a raccontar che già stava col laccio alla gola salendo la scala del patibolo, il povero vecchio, ch’era pure stato in vita sua, saldo a cotante scosse, non potè non lasciarsi cader colle braccia sul collo del figlio, ed una tinta rosata ravvivò per qualche momento il pallore abituale delle sue guance.
E con impaziente smania domandò chi l’avea liberato. Udì il nome di Baccio Valori, e fatto scuro nel volto, disse fra sè stesso: «Dio mio, sia fatta la tua volontà!» chè vi volle un atto di rassegnazione assai potente per fargli sopportare l’idea di aver un cotant’obbligo a quel traditore; seguitò Bindo a dir della sua prigionia e dell’inevitabil morte alla quale era destinato.
—Ma, soggiungeva, da questa m’ha campato? —Troilo.—
A tali parole, a questa nuova vergogna, Niccolò non si potè più tenere:
—Troilo, tu dici, Troilo t’ha campata la vita?.... Ma Dio mio, Dio mio, che cos’ho io fatto che tutte l’onte s’abbino a cumular sul mio capo! E tu, codardo, non iscegliesti morir mille volte?.... Non lo sai che si muore? che la morte o prima o poi non si può fuggire?... ma che l’infamia si può fuggire.... e che è infamia il tener la vita da chi ha tradita la patria.... da chi ha vituperato quel sangue che ti corre nelle vene, da chi ha calpestato nel fango questi capelli bianchi?.... e co’ suoi portamenti ha detto a te, ai tuoi fratelli, e a tutti noi, che siamo un branco di vili, e quest’onta ce l’ha scritta in fronte, sulle mura di questa casa, sullo scudo che tenete in braccio, e che io vi diedi senza macchia ed onorato? Tuttociò non lo sapevi?..... e mi torni vivo alla presenza?
A queste rigorose parole, profferite senz’arrestarsi punto con voce concitata ed occhi fulminanti, Bindo avea tentato inutilmente d’opporre qualche sillaba. Venir chiamato codardo da quel solo al quale non potea risponder col ferro gli riusciva troppo dolorosa ed insopportabil cosa, chè quantunque fanciullo non era di meno terribil natura del padre: onde alzato arditamente il viso rispondeva:
—Questo traditore che voi dite, questi che ci ha fatto oltraggio, io me n’andai senz’altra compagnia che la mia spada, in mezzo ai nemici per ammazzarlo. Avrò errato a non chiedervene licenza, ma non fu atto di codardo, credo io. Quand’egli venne a cavarmi di prigione, dormivo. Svegliato all’improvviso, neppur lo riconobbi. Uscii, trovai la Lisa, e seppi da lei che Troilo ravveduto si disponeva[373] a venir con noi, e combatter d’ora innanzi per la libertà di Firenze....—
—Troilo in Firenze?—disse Niccolò con maraviglia grandissima.
—Egli v’è tornato con noi, ha riconosciuto il suo torto, e non ha altro desiderio che di mostrarsi buon cittadino, lavarsi della macchia di traditore e ottener la grazia vostra....—
—La grazia mia! disse Niccolò con sorriso amaro: poi rimasto un momento pensando, proseguiva: cancelli le sue ribalderie passate, torni al suo dovere, ponga la vita per questa sventurata patria, ed allora egli avrà la grazia di Dio che val più della mia.—
—E la vostra insieme—disse Fra Benedetto, che entrando avea udite quest’ultime parole e indovinato, vedendo Bindo, e notando l’alterazione dei visi d’ambedue, a chi si dovessero riferire. Accolto cortesemente da Niccolò, e sedutosi, soggiungeva:
—Io vengo a rallegrarmi con voi di due cose: l’una, che un figlio ribelle ed empio di questa città ritorni ora ravveduto a soccorrerla. D’un tale esempio in questi momenti è da tenere gran conto.... così ce ne fosser molti, ciò crescerebbe a noi riputazione, e la terrebbe ai nemici. L’altra, che Iddio v’abbia aperta una via di tor di mezzo ogni scandalo, e di mostrare che voi trattaste la Lisa con estrema rigidità, non tanto per l’offesa fatta a voi quanto per quella fatta alla patria, col dare la mano[374] di sposa a chi le era nemico. Messer Niccolò, io vengo, com’è mio uffizio, a portarvi parola di pace, e chiedervi perdono per parte di Troilo e della vostra figliuola. Questa sottomissione serve a riparar l’ingiuria che v’hanno fatta: Troilo saprà poi egli ammendar quella ch’ei fece alla patria, e s’egli dapprima vi fece oltraggio, ora v’ha pur salvato Bindo dalla morte. Iddio, giusto e terribile, accoglie chi di cuore si pente, egli fa maggior festa d’un peccator convertito, che di novantanove giusti, messer Niccolò, vorreste voi correggere, infermare i suoi giudizj, mostrarvi più implacabile dell’istessa Eterna Giustizia?—
Il vecchio pensoso non rispondeva nulla, e colla mano alla barba, gli occhi a terra e le ciglia aggrottate, veniva considerando se dovesse tanto fidarsi di se stesso, da concedere che un uomo del quale non avea avuto sin allora il maggior nemico gli venisse alla presenza. Gli pareva cosa tanto enorme, e gli capitava addosso così inaspettata, che era pur naturale vi volesse qualche tempo per avvezzarsi alla sua idea.
Ascoltando il cuore soltanto, avrebbe risposto al frate con un rifiuto netto; ma anche prima d’udirlo, se avesse avuto il tempo di fermar un momento il pensiero, si sarebbe col suo buon giudizio persuaso presto che Troilo, rimesso in patria e divenuto buon cittadino, Troilo, al quale era debitore della vita del figlio, non poteva più trattarsi come Troilo Pallesco; e tosto o tardi, dacchè[375] non si potea però togliere ch’egli non fosse marito della Lisa, sarebbe bisognato perdonargli e riceverlo in grazia.
Udendo com’era passata la cosa, e l’uccisione del soldato, non gli pareva ragionevole il dubitare della sua sincerità, e non essendo il vecchio per natura suo uso a tergiversare, disse finalmente:
—Chi è amico di questo popolo, e combatte per la sua libertà, non può esser mai nemico di Niccolò de’ Lapi. All’ingiuria ch’egli mi fece, ora, lo conosco, è contrapposto un gran beneficio; poi ad ogni modo, a fronte della calamità pubblica, debbon tacere gli odj privati, essi terrebber divisi gli animi, quando più è necessario che si mantengan uniti....
—Fra Benedetto! voi conoscete Niccolò da cinquant’anni, conoscete i miei pensieri, e quanto abbia curato sempre l’onore di questa povera casa! Io non mi sarei mai immaginato che m’avesse a succedere quello che m’è accaduto!.... Iddio vide ch’io meritavo questo castigo! Ora egli vuole che il sacrificio si consumi, sia fatta la sua volontà...—
E rimasto sopra di se un momento, soggiunse:
—Io perdono a Troilo ed alla Lisa.—-
—Messer Niccolò, disse il frate ponendogli sul braccio una mano: Iddio si ricorderà di queste vostre parole, ed io che vi conosco, come voi dite, so quel che vi costano, e perciò quello che valgono.—
Così dicendo s’alzava per tornare a S. Marco, non vedendo l’ora di portare a Troilo questa buona[376] nuova; Niccolò lo rattenne. Al punto di fare alla patria il sacrificio d’un odio cotanto radicato ed acerbo, al punto di accogliere qual figlio uno di quella parte la quale gli avea sempre contrastato il più impetuoso de’ suoi desiderj, quello di veder Firenze libera e felice, e gliel’avea contrastato con modi ora astuti, ora violenti, ma scellerati sempre, si sentiva bisogno d’un ultimo sfogo, e di versare nel petto d’un amico l’amarezza onde il suo traboccava. Fatto seder di nuovo Fra Benedetto, diceva scrollando il capo, e saettando a quando a quando certe terribili occhiate che mettevano paura al mansueto religioso:
—Sì, gli perdono! L’ho detto, e basta, ma mi costa! non lo nego, mi costa, e molto! Pensate, Fra Benedetto, che non v’è stata sventura, non v’è stato danno o ruina di quante hanno percosso la nostra città, e questa mia casa dal 34[40], quando ritornò Cosimo sino ad oggi, che non ci sia venuta da quei perfidi Palleschi. Per loro l’ossa di messer Cione mio padre giacciono in terra straniera! Per loro non istette che non fossimo preda di re Carlo nel 92! Per loro questo popolo già tanto religioso e costumato, corrotto da pessimi esempi, s’è ridotto di sorte che ormai Firenze è fatta un postribolo! Per loro fu arso e saccheggiato Prato nel 12: da questi sozzi, vituperati ribaldi fu morto quel mirabile e santissimo Fra Girolamo, ed ora non[377] contenti di metter essi le mani violente nel sangue della misera patria, chiamano in soccorso persino i barbari che gli ajutino a lacerarla.... e questo ribaldo papa benedice le spade destinate a trafiggere i suoi concittadini e a desolar quella terra che gli fu madre!.... Non dovrei parlar più di questo Troilo, poichè ho stabilito di perdonargli, ma con voi, Fra Benedetto! da 50 anni siamo amici! Egli è pur forza ch’io lo dica per l’ultima volta, egli m’ha troppo assassinato!—
Tacque un momento; poi con un sospiro disse risolutamente:
—Orsù, questa sera voi farete di condurmeli tutt’a due; voglio che ci si trovino i miei figliuoli, e Lamberto, che anch’esso lo tengo per tale. Io so che le case degli Ardinghelli andarono a sacco, e furon parte rovinate: vo’ mostrargli ch’io non fo le cose a mezzo. Venga ad abitar nella mia finchè egli abbia dove andare.... già ormai questa era troppa casa a sì poca famiglia.—
Fra Benedetto contentissimo dell’ottimo fine di questa pratica, dopo aver grandemente commendata la determinazione cotanto magnanima di Niccolò, tolta licenza se ne tornò a S. Marco, e trovato Troilo, gli fece intendere che la sera istessa l’avrebbe condotto dal suocero, che da quel momento l’accettava per figlio e dimenticava tutto il passato. Non è a dire se il giovine si mostrasse contento e grato al buon frate di cotanto beneficio. Mancava ora che dai magistrati egli venisse liberato dal[378] bando. Fra Benedetto scrisse una lettera ad Alessandro d’Antonio Scarlattini, uno de’ cinque sindachi de’ rubelli; Fanfulla tolse il carico di portarla, e messosi per la via non tardò molto a ricomparire con risposta favorevole, per la quale Troilo ribenedetto potè uscire sicurissimo dal convento a ritrovar la Lisa, che tutta ansiosa lo stava aspettando, e fu per morir dall’allegrezza, udendo con quanta felicità venissero a terminarsi tutti i suoi dispiaceri.
Rimasti così un poco a far festa e rallegrarsi insieme, Troilo se ne uscì dicendo che trovandosi colle sole sue armi, e non avendo panni civili voleva andare a rivestirsi per potersi presentare decentemente la sera, ed avviatosi verso Calimala, veniva per istrada cercando il modo di poter senza dar sospetto trovarsi con messer Benedetto de’ Nobili per dargli la lettera di Baccio, e conferir seco sugl’interessi della parte Pallesca.
Messer Benedetto stava appunto di casa in una delle vie che da Calimala sboccano sul corso degli Adimari. Troilo, passando davanti all’uscio suo, lo trovò chiuso:, alle finestre non era persona. Andò innanzi alle sue faccende, e in una bottega di sarto vicina pochi passi trovò panni quali s’usavano in quel tempo da’ soldati: una cappa chiamata alla spagnuola, cioè colla cappuccia di dietro, calza tagliata al ginocchio con cosciali fregiati di velluto, ed in capo un tocco. Scelse colori oscuri pensando «questo zazzerone[41] di Niccolò, mi troverà più[379] a suo modo così.» Quando fu rivestito, legò tutte insieme le sue armi, dicendo avrebbe mandato per esse, e mentre attendeva ad assettarle, venne appiccando ragionamento col sarto per veder di scoprire dove messer Benedetto si riparasse, che non avrebbe voluto entrargli in casa così alla scoperta, ma neppur s’arrischiava domandar di lui direttamente; perciò, dopo un lungo giro di parole, compose una sua novella, che veniva di Bologna per una lite che gli era mossa da certi mercanti, e gli conveniva cercar di un dottor di legge per consiglio, e pregava finalmente il sarto se ne conoscesse alcuno valente glielo insegnasse. Questi, come Troilo sperava, propose tra primi Messer Benedetto, e disse che se non lo trovasse in casa, era sicuro incontrarlo alla stamperia del Giunta, in faccia alle scalere di Badìa[42], o all’osteria del Porco, o in sulla bottega di Benvenuto Orafo in Mercato nuovo.
Troilo vi si condusse, e trovò sulla porta molti giovani ed omaccioni tutti della milizia dei quartieri, che ogni giorno vi praticavano, dilettandosi di veder lavorare il Cellini, ed intrattenendosi con esso, chè s’era messo in ordine anch’egli sotto il suo gonfalone, e diceva tante gran cose, che pareva volesse egli solo ingojarsi l’esercito imperiale. Quando[380] Troilo vi capitò, era tra loro un gran bisbiglio, perchè Benvenuto s’era partito di nascosto d’ognuno e correva voce fosse tornato a Roma. Chi diceva che bisognava farlo raggiungere, chi voleva gli fosser saccheggiate le sue robe, altri gridava «E’ converrebbe impiccarlo» ed i più, concordavano che si dovesse bandire; questo subuglio venne a proposito per Troilo, che vide messer Benedetto tra costoro, e potè accostarsegli senza che alcuno ponesse mente al fatto suo. Fattosegli dappresso, disse, guardando il cielo: «Domani pioverà» (era accordo fatto tra il Valori e messer Benedetto, che questa frase servisse a fargli riconoscere coloro che venivano da parte del primo, e de’ quali potea fidarsi) messer Benedetto si scosse a queste parole e gli venne in mente fosse Troilo appunto, che da molti giorni aspettava: guardandolo attentamente gli parve ravvisarlo, chè non s’era imbattuto più in lui da molti anni, ed anche allora non lo avea conosciuto se non di veduta.
Trattosi seco un po’ in disparte, e saputo ch’egli era desso, gli diceva:
—Non è bene che noi pratichiamo insieme.... ma per poterci parlare sicuramente ti farai scrivere tra’ fratelli della buca di S. Girolamo[43]: io vi vo[381] ogni sabato ed ogni vigilia di festa: per riconoscerci, che tutti colà siamo col viso coperto dal cappuccio, avverti ch’io farò un segno di croce colla mano nuda e mi metterò il guanto tossendo tre volte: tu mi ti accosterai dicendo «egli è freddo.» Ora scostati, e se mai c’incontreremo in luogo pubblico, non far le viste di conoscermi.—
Troilo gli diede la lettera di Baccio e senz’altra parola si separarono.
Messer Benedetto, cui tardava leggerla, corse a casa, si chiuse nel suo scrittojo a pian terreno, ed apertala, trovò che dapprima l’ammoniva star cogli occhi addosso a Troilo, il quale di carattere leggiero e facile a lasciarsi aggirare, correva rischio di venir sottomesso, e forse mutato dall’autorità di Niccolò; gl’indicava poi la traccia da seguirsi d’accordo con Troilo pel vantaggio generale della parte, e finiva colle seguenti parole: «E quando la città sia in mano nostra, che o prima o poi lo sarà, senza manco nessuno, lascio a voi la cura che Niccolò non ci possa fuggire: e non dico altro, ch’io so a chi lo raccomando.»
—Non dubitare!—Disse il Nobili buttando la lettera sotto il camminetto ed osservando che tutta venisse ridotta in cenere.
—L’odio ch’egli avea contro Niccolò era nato[382] molti anni addietro da questa occasione: esercitando, messer Benedetto, non so che magistrato, ebbe voce di non aver serbato le mani nette. Niccolò, al quale era noto non esser quest’accusa senza fondamento, udendolo in una pratica scagliarsi con troppo aspre parole contro un cittadino caduto nel medesimo sospetto, lo riprese dicendogli «che a volersi far tanto sicuramente accusatore altrui conveniva esser puro.» Il Nobili, che sapeva di non esserlo, tacque, ma se la legò al dito: e da quel simulatore grandissimo ch’egli era, seppe far tanto che, rappacificato seco Niccolò, lo persuase a prestargli molte migliaja di scudi, coi quali potè dar sesto alle cose sue, e turar la bocca a chi l’accusava. Per mostrarsi grato, a uso dei ribaldi pari suoi, cercava ora la rovina di Niccolò, non tanto per rubargli quei danari ch’egli aveva di suo, quanto colla speranza d’ottenere, giungendo allo stato i Palleschi, parte delle sue spoglie, e forse tutte: chè finito l’assedio, costoro patteggiarono insieme gli esilii e le morti, ognuno de’ proprj nemici, nel modo istesso che Ottavio, Antonio e Lepido usarono al loro ritrovo nell’isola del Reno.
Troilo intanto se n’era tornato a casa per aspettar l’ora d’andar a S. Marco e levar Fra Benedetto e condursi tutti di compagnia a casa i Lapi, ove anche Fanfulla (ci scordammo di dirlo) dovea venire per volere del suo superiore, affinchè potesse al caso, render testimonianza di tutto il fatto della Torre del Gallo.[383] Quando Lisa lo vide comparire tutto rivestito in un modo che dava buonissima grazia e sveltezza alla persona, ed insieme avea una certa gravità composta, e senza affettazione, disse tosto: «Oh quanto stai bene, Troilo mio!» poi indovinando l’intenzione sua nella scelta de’ colori, aggiungeva:
—Come ti vidi partito mi sovvenne ch’io ti avrei dovuto ammonire a non porti indosso troppe gale come usano questi soldati, chè al babbo poco gli vanno a sangue; non dovevo io sapere, pazzarellina, che il mio Troilo non ha mestieri di queste saccenterie, e sa molto meglio di me quello che si conviene? Oh! lasciamiti guardare!.... volgiti.... ora, così.... Oh, chi è bello come te in Firenze?—
Troilo, che n’era persuaso, quanto essa almeno, depose sulle sue labbra un bacio, nel quale senza la benda ch’ella aveva sugli occhi, avrebbe potuto ravvisare meno tenerezza che degnazione: ma non era ancor venuto il giorno in cui doveva conoscerlo.
—Ora senti, proseguiva la Lisa, sedendogli sulle ginocchia, postogli un braccio al collo, mentre coll’altra mano gli veniva ravviando ora la barba, ora i capelli, ora le pieghe del vestito. Senti amor mio, io vorrei avvisarti.... ecco lei che fa la saccentina, dirai.... lo so, non hai bisogno dei miei avvisi.... ma pure lo sai il proverbio, ne sa più un pazzo di casa sua, che non un savio dell’altrui.... ed io conosco il babbo.... vedi.... così[384] alla prima e’ mette paura.... eh, tu ridi!.... non a te, lo so.... ma pure non vorrei che ti venisse così improvvisa quella sua guardatura... e poi.... lo capisci anche tu, egli ha avuto ragione d’adirarsi con esso noi.... potrebbe dire qualche parola un po’.... un po’.... che so io? Ma tu, non è egli vero? Sarai buono per amore di Lisa tua.... pensa che anch’essa ha tanto sofferto, poverina.... ed ho sofferto volentieri; son contenta ora, tornerei a soffrir il doppio, purchè sia con te, purchè non mi sii tolto..... questo dunque ti volevo dire,..... tu non te l’hai avuto per male, non e vero? e col babbo, qualunque cosa dica, tu saprai comportarla.... e....—
—Io ti taglio la parola in bocca, Lisa mia. Tu mi fai torto. Credi tu ch’io possa trovarmi a questo passo, e non aver preveduto tutto? e non essermi armato a soffrir da Niccolò persino gli oltraggi?—
—Oh, sii tu benedetto! M’hai tolto un gran peso dal cuore.... ed io che non ardivo dirtelo!.... Oh! chi ti vede tanto bello.... non sa quanto sei buono!—
In così dire gli si abbandonò sul collo senza più parlare, e rimase così per alcuni momenti. Alzandosi poi, ed asciugandosi gli occhi, diceva:
—Ora convien pensare al povero Arriguccio... vorrei aver come vestirlo un po’ a modo!... povero innocente, non ha che quella poca vestuccia! Pure m’ingegnerò.—
E, preso il bambino sulle ginocchia, gli veniva ravviando i capelli, acconciando i panni, e mentre attendeva a questa bisogna, sentiva l’oriuolo di Palagio suonar le 22 e mezza. Alle ventitrè dovean muoversi; l’avvicinarsi di quell’ora desiderata prima con tanta smania, ora le metteva in cuore un indefinibile terrore, sentiva farsele più rapido il batter de’ polsi, mille sospetti, mille paure le si affollavano nella fantasia, ora volgeva il cuore a Dio con una breve e fervida preghiera, ora baciava il fanciullo, ora volgeva gli occhi a Troilo, cercando di trovar nella sua vista un po’ di forza, un po’ di coraggio, sperando d’incontrare un suo sguardo che la confortasse: ma egli era seduto col gomito appoggiato sul davanzale d’una finestra, il suo viso era immobile volto verso strada, Dio sa a che cosa aveva il capo a quell’ora. La povera Lisa avrebbe accolta un’occhiata, in quel momento, come un benefizio, ma non l’ebbe, e suonaron le 23.
Sentì un momento quasi mancarsi le ginocchia; ma le scorrea nelle vene il sangue di Niccolò, e perciò questo momento di debolezza passò come un lampo. Recatosi in collo il bambino s’alzò, chiuse gli occhi pregando Dio d’ajutarla, poi si mosse arditamente con Troilo e s’avviarono verso S. Marco senza profferir più una sola parola per tutta la strada: e trovati alla porta del convento Fra Benedetto e Fanfulla che gli aspettavano, tutti di compagnia presero la strada, e dopo non molto picchiarono al portone de’ Lapi.
Niccolò avea frattanto fatti avvisare i suoi figliuoli affinchè si trovassero in casa a quell’ora, e dato a Laudomia il carico di preparare una camera per la sorella e il cognato ove stesser col loro bambino comodamente. Quand’essa ebbe ammannito tutto quanto occorreva, scese e trovò Niccolò seduto sul suo seggiolone, ed i suoi figli Averardo, Vieri e Bindo in piedi all’intorno, tutti armati; v’era anche Lamberto, e Niccolò gli diceva:
—Lo conosco, figliuol mio, quanto t’ha a parer duro veder costui in casa mia. Che poss’io dirti? Egli è marito di Lisa!... egli viene a combatter con noi!..... Egli m’ha pur campato Bindo dalla morte! potevo io negargli il perdono? potresti tu negarglielo? Ti volli ora presente a questo fatto perchè ti conosco saldo d’animo.... e in tutti i modi vi sareste pur dovuti rivedere prima, o poi... e ciò forse ti riuscirà men grave accadendo qui in nostra presenza.—
—Padre mio, rispose Lamberto, di tutto quanto vi verrà bene di risolvere sul fatto mio ora, e per l’avvenire, voi non v’avrete mai a scusar meco. A me basta che mi vogliate tener per figliuolo, e quanto al resto, io farò di mostrarmi sempre maggior d’ogni fortuna.—
—Tu parli da uomo, Lamberto!.... poi scrollando il capo, soggiungeva: Lisa, Lisa, tu fosti pur pazza!—
Averardo allora, uomo ruvido, feroce, di pochissime parole, e che non aveva altro pensiero[387] fuorchè delle cose della guerra, disse con malumore:
—E le pazzie delle donne tocca a noi a scontarle.... perciò non tolsi mai donna.... ora io vo’ sperare che questi sposi non vorranno indugiar troppo.... non gli aspetterò un pezzo, alla croce di Dio. S’è visto oggi in campo un gran rimenarsi... non vorrei s’entrasse in ballo, ed io non esservi!—
Vieri, che all’opposto del fratello era di quegli uomini ch’hanno la felicità d’esser sempre beati, anche fra le malinconie e le sciagure, tanto che neppur pareva nato de’ Lapi, diceva ridendo:
—Eh! non dubitare; se anche perdessimo una qualche archibugiata, non ce ne vorrà mancar per questo.... di tal derrata ce n’è abbondanza, la Dio grazia.... così la ci fosse di starne e fegatelli, e di buon trebbiano. Ho veduto dalle mura che governo hanno fatto delle vigne sul poggio sopra Arcetri, ve n’è rimasto quant’io n’ho sulla palma della mano. Se è così per tutto, avremo a bere trebbian di carrucola.—
Niccolò non rispose nulla, ed Averardo, senza far nemmen l’atto di sorridere, disse mezzo stizzito:
—Beato te, che la ti va sempre per un verso.—
—Mi va! mi va! Già lo sai ch’io voglio aspettare a star ingrugnato quando sarò nella bara, chè ora non ci conosco profitto nessuno. Eh via! stiamo di buona voglia, che forse forse la finirà meglio che non pensate. E tu, Lamberto, rallegrati[388] che hai pur fuggito il gran brutto rischio.... è mia sorella la Lisa, ma non importa, avresti avuto per donna una pazzerellina, e di costoro n’è gran dovizia in Firenze; sarai sempre a tempo.—
Mentre erano in questi ragionamenti comparve la fante M. Fede, e distesa una tovaglia di bucato su una tavola, vi depose un vassojo con due fiaschi di vino; venne Maurizio, il famiglio di Lamberto, quello ch’egli avea tratto dall’Adda, portando i bicchieri ed un piatto di confetti, chè in quel tempo in Italia ogni riconciliazione voleva il bere, come anche oggi giorno nelle province meridionali di essa, ove sono frequenti risse sanguinose fra contadini: e ci sovviene aver assistito ad una di queste paci, ove due che s’erano voluti ammazzare il giorno innanzi, vennero condotti tutti malconci e colle ferite fasciate, a bere insieme: e ci fu detto, che dopo quest’atto non vien neppur in mente di dubitare, che non si siano vicendevolmente perdonato.
Dopo il breve dialogo che abbiamo narrato, si erano tutti ammutoliti, che in quei momenti ove abbondano i pensieri vengono meno le parole. La fante soltanto bisbigliava sommessamente col famiglio per dirigere l’apparecchio, e tratto tratto dava un’occhiata ai suoi padroni, chè si moriva di voglia d’appiccar discorso sul ritorno della Lisa e mostrar l’allegrezza che ne sentiva; vedendoli tutti ingrugnati, quando appunto, secondo essa, avrebbero dovuto confortarsi e far buon viso, non sapea darsene[389] pace, ma poi s’acquetava colla solita riflessione che usava applicare a tutti i casi superiori alla sua intelligenza, ed ove entrassero signori e ricchi, e diceva fra se stessa: «già, hanno le loro fantasie! È inutile, bisogna lasciarli stare.»
Maurizio invece, sotto l’apparenza fredda e riposata degli uomini boreali, si rodeva di dover far onore ed accoglienza a quello che aveva fatto così brutto torto al suo padrone, pel quale sentiva l’affetto esclusivo, scevro d’ogni pensiero d’utile proprio, che, a vergogna dell’umanità, ha nel cane il più perfetto modello. E quando M. Fede gli disse tutta contenta:
—Vedi Maurizio, di questi fiaschi ce n’è pochi in Firenze! gli avevo riposti,... pareva che il cuore me lo dicesse, a che dovevan servire!—
Egli rispose scrollando il capo:
—Questo fostro messer Droile, io piuttosto harchibusata, che picchieri di fino!—
In quella s’udì picchiare, e tutti si scossero. Corse la Fede ad aprire, e dietro di lei si slanciò Laudomia, non tanto per abbracciar più presto la sorella, come per non lasciar ch’entrasse sola dal padre: Bindo anch’esso si fece incontro a Troilo per introdurlo. Aperto appena l’uscio, le due sorelle si trovarono abbracciate stringendosi co’ visi e coi petti, e rimasero così senza profferir parola, quanto il dire un’avemmaria: scioltesi alla fine, Lisa prese in collo il bambino, che era stato fin qui portato dal marito, e si mosse con Laudomia che con[390] una mano la teneva per un braccio, coll’altra le cingeva la vita. Fra Benedetto andava innanzi, dietro Troilo con Bindo, Fanfulla veniva l’ultimo.
Niccolò si preparò per riceverli in piedi accanto al suo seggiolone con una mano su un bracciolo, e l’altra pendente lungo la coscia. Stava col petto aperto, le spalle ritte, avea l’occhio grave, non lieto, ma sereno. Da un lato Averardo, scuro ed austero in viso, colla sinistra sull’elsa, la destra dietro le reni, dall’altro Lamberto, che se dovè mai ringraziar Iddio d’avergli data un’anima forte, fu per certo in quell’ora. Vieri anch’esso, prese un contegno serio e conveniente. Appena Fra Benedetto fu sull’uscio, cominciò a dire, venendo pur avanti seguìto dagli altri:
—Messer Niccolò, ecco qui la vostra figliuola, ecco messer Troilo, che sanno d’aver bisogno del vostro perdono e vengono a domandarvelo,... pronti ora, e sempre, a far tuttociò che voi vorrete.... e sperano che gli vogliate accettare nella grazia vostra, e tenerli in conto di figliuoli amorevoli ed ubbidienti.—
Mentre il frate parlava, la Lisa tutta tremante, retta da Laudomia, s’era venuta accostando, ed alfine cadde ginocchioni a’ piedi del padre, col viso basso, nascosto in parte da quello del suo bambino, che al veder tanta gente nuova si stringeva colle sue manine alla madre. Troilo anch’esso aveva posto a terra un ginocchio, un po’ più addietro. Nel prepararsi col pensiero a questa scena, aveva proposto[391] di non iscender ad atto cotanto umile: inginocchiarsi avanti ad un setajolo! Avrebbe tenuto pazzo, e deriso chi gliel avesse suggerito. Ma all’entrar in quella camera, l’alta e maestosa figura del vecchione popolano, l’autorità veneranda che appariva sulla sua fronte e in tutta la persona; il senno, la fortezza che gli splendeano negli sguardi; tuttociò l’aveva turbato, l’aveva vinto in modo, che cadutagli ad un tratto ogni superbia, e trovatosi tanto piccolo, tanto basso e spregevole a petto a quell’uomo, fu quasi, senza saper come, da una incognita ed invincibil forza prostrato a’ suoi piedi. Sentì in quel momento venirsi meno l’ardire di dar opera al brutto tradimento: gli era sembrato che la prima occhiata del vecchio l’avesse penetrato fino nel profondo del cuore, n’avesse tosto conosciuto lo scellerato mistero, per poco non gli abbracciò le ginocchia, confessando ogni cosa, ed implorando perdono. Ma a condurlo a quest’atto non potea bastare la sola commozione di quella prima vista, senza che vi s’unisse uno di quegl’impeti virtuosi che ferman talvolta anco i ribaldi sull’orlo del precipizio: ma di quest’impeti non era capace l’anima di Troilo.
Anzi gli sovvenne in quel momento di Baccio Valori, de’ suoi amici del campo, gli parve vedersi innanzi i loro visi che ridessero della sua dappocaggine e lo schernissero; si raffermò più che mai ne’ suoi primi pensieri, e conosciuto che dal non recitar perfettamente la sua parte in quell’occasione[392] potean generarsi sospetti sul fatto suo, e seguirne la total rovina della sua impresa, compose il viso e la persona, e s’armò per parlare in modo che la simulazione riuscisse perfetta.
Quanto a Niccolò, aveva alla vista di Troilo, provata inestimabile passione, ma premendola in cuore, gli piantò gli occhi in viso per veder pure che faccia avesse quest’uomo che gli era stato cagione di tante perturbazioni. «È bello, non si può negare!» disse fra se, poi tosto soggiunse: «Come mai potè la Lisa innamorarsi di costui!» Che se era piaciuto agli occhi di Niccolò, era stato ributtato dal suo cuore. Ma non fece caso di questo giudizio, stimandolo effetto dell’odio che gli aveva sin allora portato, e non l’ebbe appena veduto piegare il ginocchio, che gli disse:
—Alzatevi, messer Troilo! Lisa, alzati, ed ascoltatemi.—
Rimessisi in piedi ambedue, Niccolò proseguiva:
—S’io v’apersi là porta di casa mia non fu con animo di dirvi di male parole, o farvi rimproveri sulle cose passate. Per quanto s’attiene a me, ed all’ingiuria che voi m’avete fatta, io son contento perdonarvela liberamente, e vi prometto cancellarla in tutto e per tutto, così Iddio cancelli i miei peccati. Ma voglio che sappiate, messer Troilo.... e ve lo dico ora a viso aperto, per non dover mai più per l’avvenire entrare in questo discorso,.... voglio che sappiate, che se voi non tornavi in[393] Firenze; se invece di venir a difendere la libertà di questo popolo, come, da quanto mi è stato detto, voi avete in animo di fare....—
—E’ v’hanno detto il vero, messer Niccolò, ch’io non ho altro desiderio...—
—E così voglio credere.... Ma lasciatemi dire. Se dunque all’opposto voi fossi rimasto coi nemici della patria nostra, tenete per fermo, messer Troilo, che Niccolò de’ Lapi prima d’accettarvi per genero si sarebbe lasciato tagliar a pezzi. Ma ora, se Firenze ha fatto guadagno d’un buon soldato, d’un difensore di più, non solo v’accetto per genero, ma benedico tutti i miei dispiaceri, che alla fine vengono a riuscire a beneficio della nostra città. Io non farò differenza d’or innanzi tra voi, e gli altri miei figliuoli; ma è dovere che sappiate, ch’io ho giurato ad essi, e così giuro a voi, per quelle ceneri che voi vedete là in quella nicchia (e le indicava col braccio alzato e l’indice teso) e furon raccolte ancor calde dal rogo d’onde l’anima santa di Fra Girolamo volò in paradiso, vi giuro, che se mai per vostra mala fortuna v’accadesse di mancare in qualsisia modo al debito di buon cittadino, vi saprò giungere, o io col ferro, o quell’Iddio che ascolta, e rafferma sempre la maledizione d’un padre, colla sua vendetta.—
Troilo a queste parole si sentì correr un freddo per le vene, ma, a somiglianza del reo, che posto alla colla si sforza di parer franco, e non dir parola che possa tradirlo, rispose arditamente e con quanta veemenza gli fu possibile:
—Ed io, messer Niccolò, a patto d’esser da voi tenuto per figliuolo d’or innanzi, accetto sul mio capo questo sacramento che voi fate; e coll’ajuto di Dio, e del beato Fra Girolamo, ch’io voglio d’or innanzi per solo avvocato e protettore, io mi confido che non sia per avvenirmene male nessuno.—
—E così credo anch’io, rispose Niccolò, poi soggiunse, additando l’un dopo l’altro i suoi figli; questi Averardo, questi e Vieri, Bindo, e questi è Lamberto....—
A questo nome Troilo si scosse, che sapeva tutto quanto era passato fra esso e la Lisa: essa abbassò gli occhi ed impallidì. Niccolò, rimasto un momento come riflettendo, soggiunse, guardando Lamberto, che rimaneva immobile e gli si veniva intorbidando lo sguardo:
—Lamberto! Niccolò ha perdonato!.... Orsù, figliuoli, ascoltatemi!.... son io che parlo! (e nel profferire queste parole la faccia del vecchio divenne accesa, e la voce terribile). Si tratta di Firenze! si tratta della patria e non di noi! Alle sue ingiurie pensiamo e non alle nostre! Ci sta sul capo l’ultima rovina, e potremmo aver altro pensiero che del suo pericolo? Unione! concordia! per Dio! chè le città divise furon sempre preda d’ogni nemico, e lo sa Firenze, lo sa tutta Italia. Contro i nemici della libertà nostra, contro i traditori e i ribelli a questo stato popolare si volgan gli odj, le forze e l’armi di tutti: ma chi si ravvede sia[395] accolto come fratello. Ricordatevi di Lorenzo dei Medici venuto a morte.... il beato Fra Girolamo gli offerse misericordia e perdono al solo patto che restituisse lo Stato che ingiustamente teneva, ed al popolo la sua libertà. Rifiutò il perdono, e morì da quell’empio e ribaldo ch’egli era: ma stava in lui l’ottenerlo, nè il nostro santo maestro glielo avrebbe negato, ove avesse dato segno di penitenza e restituito il mal tolto. Così non si nieghi da noi. Come ci ajuterà Iddio, se ostinati seguitiamo ad offenderlo?—
—Oh! messer Niccolò, disse Fra Benedetto giungendo le mani, sono sante queste parole! Oh, fosse qui presente tutta Firenze ad ascoltarle!—
Il vecchio allora voltasi alla fante le fece un cenno, ed essa, venuta avanti con Maurizio, si fermarono innanzi a Niccolò presentandogli il vassojo col vino ed i bicchieri; ed esso empiutili, fe’ che ciascuno prendesse il suo, e così tutti bevvero. Poi Niccolò pose le mani sulle spalle di Troilo, lo baciò in bocca (com’era costume nelle paci) baciò la figlia ed il bambino, e tutti, gli uni dopo gli altri, fecero scambievolmente lo stesso.
Volle Niccolò che anche madonna Fede ed il famiglio, bevessero. La fante ubbidì tosto, ed accostandosi alla Lisa col bicchiere in mano, le disse:
—Madonna, io lo sapevo, che questo giorno doveva venire, e.... non per vantarmene.... ma m’ero botata a’ Servi di digiunare ogni sabato, perchè Dio e la santissima Nunziata ci facessero questa grazia.—
—Io t’avrò dunque quest’obbligo,—rispose Lisa sorridendo.
Ma non fu mai possibile di far bere Maurizio, che alle istanze della fante rispose sempre «Non hafer sete!» e neppur a Lamberto non venne fatto di vincerlo, onde spiccandosi dall’impresa, gli disse ridendo, Vieri:
—Se tu avessi saputo che non amasse il vino, conveniva lasciarlo bere l’acqua dell’Adda.—
Maurizio ingrugnato non rispose, e se n’andò brontolando e ripetendo fra se stesso: «Harchipusata, e non picchier di fino!»
La brigata intanto senza badargli s’era seduta in cerchio attorno al fuoco; le due sorelle vicine, Laudomia con Arriguccio sulle ginocchia, Troilo accanto alla Lisa tenendola per la mano, Fra Benedetto allato a Niccolò, e tutti con modi più sciolti venivano entrando in varj ragionamenti, quando a un tratto vennero scossi, ammutolirono, e teser l’orecchio all’udire un tocco della campana grossa del Consiglio, e poi due e tre e quattro, e via via sempre con maggior furia sonare a stormo, e quasi ad un tempo risponder tutte le campane della città, con un fremito, un rombo lontano che pareva venisse per l’aere dall’alto, e nascesse da turbe che mandasser grida e facesser tumulto in distanza; poi qua e là si fecer sentire colpi d’archibuso, e poco stante scoppi più forti d’artiglieria; ed intanto il fragore pareva si venisse accostando, le vie s’empievano di gente, di romore, di grida,[397] s’aprivano e si serravano a furore porte e finestre, e pareva insomma che la città tutta si fosse per qualche grave ed impensato accidente levata in arme: e facendosi d’ora in ora più frequente il correr de’ popoli per le vie, e più alto il bisbiglio, s’udì sotto le finestre passar correndo una frotta d’uomini, ed una voce gridare: «Arme, arme, popolo e libertà!.... I nemici sono in Firenze!»
Voler dipingere il furore che invase Niccolò, Averardo, Lamberto, Vieri e Bindo a questo grido, lo spavento di Fra Benedetto e delle due giovani, l’agitazione di Troilo, che tutt’altro attendeva, sarebbe cosa vana, ma sei pensi il lettore. Averardo saltò sul suo archibuso che avea lasciato in un angolo: arrotava i denti, e con voce strozzata dalla rabbia diceva:
—Maladetta l’ora ch’io mi tolsi dalle mura.—
Gli altri fratelli insieme con Lamberto e Fanfulla avean anch’essi dato di piglio alle loro armi; e quest’ ultimo, senza dar segno di perturbazione nessuna, chè troppo era uso a simili strette, accese alle braci del focolare la corda del suo archibuso, dicendo: «Qui ci vuoi altro che baje»! e tutti insieme stavan per uscire, quando entrarono con impeto cinque o sei uomini del popolo minuto,[399] artefici dell’arte della seta a servigi di Niccolò, dicendogli:
—Messere, siam qui fuori cinquanta compagni, e veniamo per guardarvi la casa e difendervi fino alla morte.—
—Che difendermi? gridò Niccolò, alle mura, alle mura! Chè questo è il giorno che tutti abbiamo a morire per la nostra libertà, ed io voglio esser il primo.—
Ed il feroce vecchio, afferrato un pezzo d’arme in asta ch’ era in un canto, voleva uscire cogli altri e correr anch’ esso alla difesa; se non che tutti si diedero a pregarlo, e fargli forza che restasse, e le figlie più degli altri, ma egli insuperbito, ributtava ognuno prima colle parole, poi cogli urti, esclamando:
—Io voglio morire ad ogni modo!—e senza poter esser persuaso o trattenuto, tirava disperatamente verso la porta, quando giunse correndo un tavolaccino della Signoria, che per parte del gonfaloniere veniva ad annunziare non esser i nemici in Firenze com’ era corsa la voce, ma aver bensì cominciato a combatter le mura, con gran numero di scale, e perciò ordinava che tutti gli uomini da fazione corressero oltr’ Arno verso S. Niccolò ove era cominciato l’assalto.
A quest’ annunzio, visto che le cose non erano ali’ ultima rovina, com’ egli aveva creduto dapprima, si lasciava pur indurre, ma non così subito, a rimanere; e fermatosi sul portone di strada colle[400] mani alzate, disse con gran voce ai giovani che si avviavano:
—Addio figliuoli! Ricordatevi che voi siete cristiani, e cittadini liberi, ed a rivederci forse in Paradiso.—
Essi si perderono parte tra la folla, e Troilo, che avea pur dovuto andarne con loro e mostrarsi volonteroso ed ardito, pensava in cuor suo «Sarebbe bella che tutte le promesse di Baccio finissero stanotte con una buona archibusata!»
Niccolò allora, mandata a combattere anco la maggior parte degli operai che erano venuti ad offerirglisi, ne tenne con se otto o dieci onde l’ajutassero metter in ordine la casa e prepararla a sostenere un assalto. Quel suo primo furore avea dato luogo alla ragione, e poichè la città non era ancor vinta, dispose, mutando proposito, e considerando che le sue povere figliuole potean venir alle mani de’ soldati e dei Palleschi, di fortificarsi e far testa, e quando non potesse, ne gli rimanesse altro scampo, metter fuoco alla casa, ardervisi colle figlie, e salvar così a se la libertà, ad esse l’onore. E Niccolò era muso di farlo.
Serbando le antiche usanze di Firenze, ch’egli non avea voluto mutar in nulla, si trovava aver in pronto i ferramenti, le catene e i legnami, per far il serraglio. Giacevano sotto il portico del cortile, ed in un attimo vennero strascinati in istrada, e disposti in modo che si potessero in un momento porre in opera.
Ciò fatto, mandava uno de’ suoi uomini nelle case de’ Carnesecchi che stavan di fianco a quelle de’ Lapi, separati tra loro dalla via de’ Conti, dicendo si mettessero in ordine che intendeva far il ponte sulla strada, e sollecitando l’opera egli stesso, vide presto uscire dai fori disposti a quest’uso al primo piano di casa sua, lunghe travi che sospinte dagli uomini di dentro venivan introdotte in buchi corrispondenti nella casa de’ Carnesecchi. Su quelle travi furono collocati in più pezzi tavolati che si connettevano tra loro e si fermavano con arpioni, onde venivano a formare un ponte solidissimo capace di sostener uomini e munizioni per opprimere dall’alto i nemici che fossero in istrada.
Mentre Niccolò in mezzo alla via, ove pei lumi posti a tutte le finestre si vedeva chiaro come di giorno, gridando ora agli uni, ora gli altri, e facendo animo a tutti colle parole e colla presenza, ordinava questi apparecchi, nell’interno della casa si trasportavano armi d’ogni sorta dalla stanza ove eran ammucchiate, nei luoghi più vicini a quello ove si doveva combattere, nell’androne cioè, che era contiguo alla porta di strada, e su al primo piano sotto le finestre che mettevano sul ponte. Laudomia, Lisa e la vecchia ajutavano anch’esse la bisogna, e tutte affannate per la fatica, pel correre e per l’agitazione dell’animo, venivan dov’era il bisogno, arrecando fasci di picche, sassi, balestre grandi a staffa, archibusi e munizioni d’ ogni maniera.
Qucll’ardire, quella prontezza medesima che[402] mostrò in codesta notte Niccolò e tutta la famiglia de’ Lapi, apparve spontanea e mirabile in ogni casa di Firenze[44], ed il principe d’Orange, che avea stimato per esser la notte scurissima e piovosa, e la vigilia di S. Martino, trovar le guardie negligenti o sepolte nel vino, ed aveva con questa fiducia all’improvviso assaltato le mura dalla Porta S. Niccolò a quella di S. Friano con gran numero di scale, pensandosi aver la terra per sorpresa, fu invece accolto con tanto furore d’artiglierie, trovò i bastioni così ben provvisti di difensori, che dovette alla fine ritrarsi dall’impresa con vergogna, e con non poca uccisione de’ suoi soldati. Ma se gli fosse pur riuscito di superare le mura in qualche parte, è difficile prevedere che cosa sarebbe avvenuto; e quanto a noi, crediamo che neppur per questo non avrebbe riportato vittoria; chè la milizia s’armò in un attimo, tutti i cittadini corsero oltrarno, e pei quartieri più prossimi al campo, insino ai ponti, ed al di qua per un buon tratto, le vie eran calcate d’ uomini armati; dalle case i vecchi, le donne, i fanciulli avrebbero col gettar sassi, tegoli e qualunque cosa venisse loro alle mani, dato ajuto non piccolo alla difesa, la disperazione avrebbe duplicate le forze e l’ardire d’un popolo che aveva pel passato anche troppo fatto conoscere quanto valesse nelle battaglie cittadine, e forse l’esercito imperiale che d’uomini utili non sommava a quindicimila[403] persone, avrebbe trovato in Firenze la tomba: ma questa generosa ed infelice città era da Dio condannata a più lunghi dolori ed a maggiori castighi.
Dopo brev’ora le bande nemiche, disperatesi affatto di poter vincere, si tolsero dall’impresa, e si ridussero agli alloggiamenti, di dove l’indomani il principe d’Orange partì alla volta di Bologna onde ottenere dall’imperadore e dal papa, che s’eran colà condotti per l’incoronazione, nuovi ajuti di genti e d’artiglierie, senza i quali conosceva impossibile di far profitto nessuno. Le milizie dei quartieri, vedendo passato il pericolo, si divisero tornando ognuno a poco a poco alle sue case: le vie rimasero presto vuote, le finestre si chiusero, i lumi ed i lanternoni de’ soldati scomparvero, tutto ritornò nella quiete e nel silenzio consueto; ed in ogni famiglia i vecchi e le donne rimaste sole in casa, udendo i passi sonanti de’ mariti, de’ fratelli, de’ figli usciti poco innanzi con tanta probabilità di non aversi a riveder più vivi, e che ora tornavan salvi, e dopo aver colla virtù loro respinto il nemico e salvata la città, correvano ad incontrarli con festa, con carezze, e lodi, e abbracciamenti, e lacrime d’allegrezza, non restando di render grazie a Dio che gli avesse tutti campati da una tanta rovina. Quei fortissimi uomini, que’ poveri popolani, tutti trafelati, molli pel sudore, per la pioggia, e taluni pel sangue, deponendo per poco le loro armature, ajutati dalle mogli, dalle sorelle, dai[404] vecchi genitori, che tosto si davano a forbirle e rassettarle per le future battaglie, si riposavano intanto cresciuti di speranze e d’ardire per l’ottenuta vittoria: seduti al fuoco, o ristorandosi di quei cibi, che comportavano le loro scarse facoltà e la strettezza presente, circondati dalla famigliuola rimessa appena da tanto spavento, e che a bocca aperta gli stava ascoltando, narravano i fatti di quell’assalto, l’irrompere de’ nemici, l’armi, l’insegne, le strane fogge, i barbari aspetti che dalle mura benissimo si eran potuti discernere per la moltitudine infinita di lanterne e di torce che portavano i nemici con loro. Descrivevano con parole vivissime il giungere, l’appoggiar delle scale, il salire a furia e tumultuariamente, e poi a un tratto dai fianchi de’ bastioni, ove nelle casematte s’ascondevano cannoni grossi ed artiglierie d’ogni misura, lo scoppiare e lo scagliarsi, come da tante bocche d’inferno, del fuoco di mille tiri, che percuotendo per fianco quelle scale le mandava a fracasso con quanti soldati portavano, tutti in un monte nel fosso: e qui aggiungevano, delle ferite, del sangue, delle strane ed orribili morti di quegli sciagurati, delle grida, dei lamenti, del guizzare dei mal vivi, del fumo che occupava ogni cosa, del tonare e lampeggiare incessante di tante cannonate, e di nuovo tutti insieme lodavano e rendevan grazie a Dio d’averli salvati dalle mani di così feroci nemici.
Quelli tra i difensori che avean riportate ferite[405] venivano medicati con diligenza, i più maltrattati negli spedali, gli altri nelle proprie case, ed intanto si nominavano i compagni, i cittadini rimasti morti nell’assalto;, chi li compiangeva, chi pregava per essi, ma i più portavan loro invidia, tenendo per fermo fossero le loro anime, come quelle de’ martiri, salite immantinente a godere della gloria del paradiso; ed i più divoti e zelanti tra Piagnoni, stimando si fosse avverata in quest’occasione la profezia di Fra Girolamo; che prometteva a’ Fiorentini l’ajuto stesso degli angioli, divenivan sempre più fervidi in quella loro fede, tenendosi sicurissimi all’ultimo di codesti alleati, e non mancò chi affermasse d’aver veduto in aria serafini che colle spade infocate sbaragliavano, e, ad ogni colpo, abbattevano l’intere file nelle bande imperiali.
Nessuno più di Niccolò potea vantarsi d’avere intera e vivissima questa fede nel frate, e se non era forse intimamente persuaso (avea troppo senno per giungere a tanto) che dovessero apparir visibilmente angioli a difender Firenze, fondava però, sulle parole del Savonarola, la speranza, per non dir la certezza, d’uno speciale ajuto celeste pel quale sempre sarebbe stato respinto il nemico. Eppure avea potuto creder possibile che fossero entrati in città!
Quando, cessato il romore e svanito il pericolo, egli fu ritornato in camera colle figliuole, sedutosi al focolare, veniva col pensiero riandando tutto il successo di quella sera, e sospirando diceva: «Modicae[406] fidei! quare dubitasti?» Parole usate spesse volte da Fra Girolamo, e ch’egli ora applicava a sè stesso, dolendosi d’aver potuto vacillare un momento.
Mentr’egli stava in questi pensieri, Lisa e Laudomia, ritte contro le impannate delle finestre, aspettavano con impazienza il ritorno de’ giovani, non senza agitazione e timore, che fosse avvenuta loro qualche disgrazia. Ma svanì presto ogni sospetto; e verso la mezzanotte tornaron tutti, eccetto Averardo, che quasi mai veniva a casa a dormire, e non voleva altra camera che le cannoniere de’ bastioni, nè altro letto che la nuda terra; e quella letizia, quell’ebbrezza che ci siamo ingegnati dipingere accennando il ritorno delle milizie dei quartieri alle case loro, riempie parimenti la casa de’ Lapi quando, Bindo pel primo, e poi gli altri, entrando tutti allegri, e gettando in un angolo con fracasso i loro pesanti archibusi, ancora anneriti dal recente sparare, e con un odore di polvere arsa che empiè tosto la camera, si posero intorno a Niccolò ed alle giovani, raccontando anch’essi a loro modo, con festa grandissima, e con ardite e concitate parole, la gloriosa sconfitta data all’armi imperiali. E narrando a gara le loro prodezze, e quelle degli amici e de’ cittadini più noti, veniva a saper Niccolò che Bindo avea toccata un’archibusata nel lato manco del corsaletto, ed il fanciullo, pur ripetendo che non era nulla, e mostrando non doversene far caso, scintillava d’allegrezza[407] negli occhi, mostrando l’ammaccatura che era rimasta impressa nel ferro, e diceva in cuor suo, «son pur soldato anch’io!» Vieri narrava, come Lamberto avesse fatto cadere un sasso grandissimo con tanto giudizio e fortuna su una scala piena da cima a fondo d’assalitori, che tutta l’avea vuotata, proprio, diceva egli, come a sfrondar un ramo pieno di foglie secche: e presa poi la scala vuota pei due capi che giungevano ai merli l’avea rovesciata nel fosso, ed ucciso e storpiato con essa buon numero di nemici. Tutti poi lodavan Troilo per la sua prodezza, e Bindo più degli altri, chè avea combattuto al suo fianco, e vedutogli menar le mani in modo, che molti imperiali e Palleschi, se avessero saputo da qual mano uscivan i colpi che li ferivano, avrebber potuto dire, che Troilo recitava la parte di Piagnone un po’ troppo al naturale. Egli difatti s’era portato da soldato ardito e valoroso, chè si trovava condotto a tale da non poter fare altrimenti; rodendosi però internamente di dover correre rischio d’uccider alcuno de’ suoi amici o di venirne ucciso, mandava divotamente il canchero a Baccio Valori che l’aveva messo a questo sbaraglio, e se l’avesse scoperto tra nemici, non è certo che si fosse potuto trattenere dal fargli coll’archibuso parer poco felice la sua invenzione di mandarlo in Firenze.
Alle lodi espresse da Bindo, che Niccolò udì con mostra di contento grandissimo, parendogli sempre più confermarsi da’ portamenti di Troilo, l’intera[408] sua mutazione, e l’amore per la parte che voleva la libertà ed il governo popolare, questi rispondeva, simulando modestia e compunzione:
—Messer Niccolò, qual merito si può avere a combatter con qualche ardire quando si fa per una causa cotanto santa, e si conosce per segni manifesti che Iddio sta per noi! E se non, paresse.... se non temessi parer troppo facile a prestar fede a certe cose nelle quali conviene pure andar cauti assai.... ardirei quasi asserire d’aver veduto questa notte gli angioli che dalle mura ributtavano i nemici.—Il mariuolo sapeva ch’era quest’opinione tra Piagnoni, ed aveva fra popoli in quella notte stessa uditone bisbigliare come di cosa veduta da molti nell’assalto:
—Iddio può tutto, rispose Niccolò, e ciò sarà forse vero: ma meritan tanto i nostri peccati? A ogni modo siam certi, che Dio si farà scudo alla debolezza nostra, e dove non giungeranno le forze umane, giungerà col suo braccio Egli. Di tanto si fece mallevadore il B. Fra Girolamo, ed i suoi miracoli ci fanno sicuri ch’egli era inspirato da Dio.... Figliuoli, riprese dopo breve pausa, io vi fui stasera cagione di scandalo, mostrai di dubitare!.... ho fatto errore, e stimo mio debito farvelo conoscere, affinchè non ne prendiate mal esempio, e duriate invece sempre più saldi in quella fede colla quale potremo alla fine ottenere vittoria.—
In un uomo qual era Niccolò, una confessione tanto candida doveva produrre gran senso; ma egli[409] era di que’ tali che son capaci di sacrificar tutto al vero e prima di tutto se stessi.
Senza aspettar risposta alle sue parole, egli diede commiato ad ognuno, accennando all’ora tarda ed al bisogno che doveano aver di riposo, e rimasto solo, aperse il priorista sul quale soleva scrivere le cose notabili che venivano accadendo alla giornata, e dopo avervi descritto l’accidente di quella sera, ed aver poi di nuovo caldamente raccomandato a Dio la città, la famiglia e se stesso, il vecchio entrò nel letto e presto s’addormentò.
Ma sotto quell’istesso tetto, non a tutti riusciva quella notte prender sonno così subito.
Lamberto, salito nella sua cameruccia che aveva abitata sin da fanciullo, ed era per lui piena di tante memorie così dolci un tempo, ed ora così acerbe, chiamò il suo servo che l’ajutasse disarmarsi, e mentre Maurizio gli veniva prestando i suoi servigi, ogni tanto alzava gli occhi in viso al padrone, il quale non poteva a meno di non mandare tratto tratto qualche sospiro. Lo svizzero allora scrollava il capo soffiando; chè, non parendogli bene d’entrar egli pel primo su quelle cose che supponeva agitassero l’animo di Lamberto, sperava con cotali atti di condurlo a cominciar egli in qualche modo; ma quest’arti non gli riuscivano e già gli avea tratto di dosso l’arnese senza che avesse mostrato por mente a que’ suoi atti, nè profferita parola.
Maurizio allora si poneva ad asciugare e forbire con un panno l’armadura, che pezzo per pezzo veniva[410] appiccando a certi chiodi fissi nel muro. Quando fu al pugnale, lo trasse dal fodero per nettar la lama, ed ora guardandola a striscio di luce per veder ove abbisognasse di ripulitura, ora strofinandola, osservava pur sott’occhio che viso facesse Lamberto, il quale si veniva spogliando per entrare in letto, e stava tutto scuro e malinconico. Vistolo a quel modo non si potè più tenere, e diceva, senz’alzar gli occhi dal suo lavorío:
—Io sapere tofe starebbe pene questa pella lama!—
—E dove?—domandò Lamberto sorridendo a fior di labbra, chè già mezzo indovinava la mente di Maurizio.
—Starebbe pene nella putelle di messer Droile.—
—Pazzo! mettila, mettila nel fodero, e vattene a letto.—
—Io anterò. Ma messer Droile hafer fiso di traditore,..... quello non galantuomo!.... io star pofere soltate, pofere servitore, non potere parlare... ma questa sera folefa dire «Non pefer fine, messer Lamperte, non pefere.... Ma io, soggiungeva scrollando il capo con un certo suo fare curioso, io però non hafer pefute!»—
Lamberto parte sgridandolo, parte ridendo di quella sua tedesca maniera, e dicendogli che un buon sonno l’avrebbe guarito da’ suoi furori, lo mandò a dormire, ed egli v’andò, ma ripetendo sempre «Io però non hafer pefute» ed il motivo pel quale tanto gli premeva stabilire questo fatto lo vedremo poi.
Coricatosi Lamberto, non istette forse mezz’ora, che provando una smania insopportabile, buttò giù le gambe dal letto, e messosi indosso un poco di veste andò verso la finestra, ed apertala, si pose appoggiato co’ gomiti sul davanzale a respirare l’aria libera. Quella vita di sacrificio che s’era promesso di fare, cominciava duramente per lui. Pensi ognuno come dovea sentirsi il cuore trovandosi in quella stessa casa d’onde era partito pochi anni innanzi, pieno d’amore e di speranza, e beato per tante illusioni! vedendosi accanto il terrazzo medesimo ove Lisa gli avea data quella rosa, troppo fedel simbolo della sua costanza. Per essa s’era scostato da Laudomia, avea incontrato fatiche e pericoli, lasciata la madre, (ed era stato per sempre!) per essa avea negata una parola di conforto a quell’infelice che trovò in riva al Po, a quella Selvaggia che suo malgrado, tornandogli tratto tratto alla mente, e ponendovisi a paragone della Lisa, gli facea dire: «Per qual cagione Iddio perdona egli ogni peccato, e gli uomini ne perdonano alcuni soltanto? Romper la fede data, tradir patria e parenti, dovrà trovare scusa e perdono? E non dovrà un’infelice tradita essa dal padre stesso, e strascinata suo malgrado alla colpa, trovar più misericordia nè pietà nessuna? Questa, viver vita miserabile tra gli scherni e gli oltraggi: quella, venir accolta, onorata oramai al paro d’ogni altra, ed esser contenta e felice?».... Pensare ch’essa era al piano disotto, in braccio a quello pel quale l’avea[412] così bruttamente tradito, che bisognava pur sopportarlo, ch’egli avea dovuto perdonare ad ambedue, costretto da così strane ed improvvise circostanze, che a riflettervi pareano un sogno! Tutto ciò era peso soverchio, era troppo amaro calice per Lamberto, il quale non aveva imparato ancora, che ogn’anno aggiunto alla vita dell’uomo passa portandone seco una speranza, e lasciando in suo luogo un dolore. Egli era ancora in quell’età, ove si crede che la felicità sia una cosa lontana forse e difficile a raggiugnersi, ma però reale, ottenibile, la condizione ordinaria, per dir così, della vita; e la sventura invece un’eccezione. Dovendo ora dimenticare il passato, rinunziare ai disegni, ai desiderj di tant’anni, si consolava pensando «io ebbi disgrazia, e non seppi guidarmi» e si confortava colla lusinga di poter meglio ordinare il suo avvenire: i consigli della madre, venerandi per esso come ordini divini, stimava gl’indicassero la via sicura per giungere alla felicità, a quella quiete contenta del cuore, dalla quale si sentiva cotanto lontano. Si volgeva colla mente a Laudomia, ch’egli sin da fanciullo, come dicemmo, avrebbe amata prima di Lisa, se non gli fosse parsa troppo alta e divina cosa, nella quale neanche adesso non avrebbe ardito fermare il pensiero se non gli avessero fatto animo i conforti materni e le accoglienze di Niccolò; cercava di figurarsi una vita nuova tutta riempiuta dal suo amore, ma correndo colla fantasia dietro queste immagini, il cuore pareva arrestato da un ostacolo che Lamberto stesso[413] non poteva definire, sul quale ripugnava ad arrestare la riflessione, quasi temesse che esaminandosi nel profondo, potesse trovarvi cosa che gli troncasse ad un colpo ogni nuova speranza, distogliendola dall’ubbidire alla madre, facendolo immeritevole dell’amore angelico di Laudomia.
Era immaginario o reale quest’ostacolo? Qual era? Neppur Lamberto, lo ripetiamo, avrebbe saputo rispondere a tali questioni; pensi dunque il lettore, se potremmo rispondervi noi! Ma forse vi risponderà per tutti il seguito di quest’istoria, ed ora lasciando il giovane ondeggiante tra suoi dubbj, troviamo gli altri abitatori di casa Lapi, che in quella notte a nessuno, fuorchè alla Lisa, non mancavan cure moleste e pensieri pungenti.
Laudomia, dopo aver condotti ed alloggiati gli sposi nella loro camera, s’era chiusa nella sua, che rimaneva di sotto a quella di Lamberto, e postasi ad un inginocchiatojo sul quale stava un’immagine di Nostra Donna, del beato Angelico da Fiesole, pregava tutta raccolta; e dai pensieri di Dio scendeva a quelli della patria, del padre, della sorella, implorando per tutti la celeste bontà, e ringraziandola d’averli salvati dall’ultimo pericolo. A vederla in orazione in atto composto, colle mani giunte, le palpebre abbassate, tanto pura ed onesta nel volto, si sarebbe pensato che quello della Vergine fosse ritratto dal suo. Dopo alcuni minuti s’alzò, e scioltasi la veste, si trovò presto nel suo lettuccio, tenendo, nel deporre o mutar panni, tali[414] modi, che nessun occhio, per quanto fosse pudico, vedendola in quel momento non avrebbe dovuto volgersi altrove, chè il pudore in essa non era studio, neppur virtù; era natura.
In breve prese sonno, ma non istette molto a venir destata da uno strepito, che al primo svegliarsi non sapeva d’onde nascesse, tosto però s’accorse esser passi nella camera di sopra, e naturalmente i suoi pensieri si volsero a Lamberto, ricordando una ad una tutte le circostanze che a lui si riferivano sin dalla loro infanzia: fermando con delizia la mente a quell’epoca ov’egli aveva a lei consacrato il primo pensiero d’amore: chè Laudomia era modesta, ma al tempo stesso sagacissima, e s’era allora benissimo accorta qual fosse per lei il cuore del giovane, quale la cagione che l’impedì di scoprirsi, e come poi a poco venisse preso dai modi più facili della sorella, alla quale ella aveva così tosto sacrificato ogni pensiero di sè, solo per procurarle ciò che stimava la maggiore tra le venture. Ma ora che le cose eran tanto mutate, le pareva nella serie de’ tanti accidenti avvenuti, scorger come una traccia disposta da Dio per unirla poi finalmente a quel solo col quale si sentiva di poter esser felice.
Un discorso tenutole da Niccolò la stessa sera dell’arrivo di Lamberto la raffermava in queste idee, e la persuadeva che le era lecito aprire il cuore alla nuova speranza. Egli, presala per la mano, quando furon rimasti soli, le avea detto: «Laudomia,[415] io non ho pensiero che tanto mi stia a cuore, e tanto mi tenga in travaglio nei rischj di quest’assedio, quanto quello della tua sicurezza e del tuo bene. Da più di un anno tu hai rifiutato molti parentadi che ti s’offrivano, assai onorevoli. Avrai avute le tue ragioni, nelle quali non m’intrometto; ma ora, lo vedi, io son vecchio, mille pericoli ti circondano; vorrei pur vederti appoggiata a tal braccio, che ti potesse guidare e difendere. Io ho pensato a Lamberto per te? Ora sta a te il pensarvi. S’io ti comandassi di dargli la tua mano, m’ubbidiresti?»
Laudomia, che non confondeva il pudore colla simulazione, gli avea risposto, arrossita bensì un poco, ma schietta ed ingenua: «Babbo, v’ubbidirei e ci avrei poco merito.»
Contentissimo Niccolò, veniva d’allora in poi considerando come potesse condurre a termine questo suo desiderio, e si disponeva, calmata che fosse l’agitazione che aveva turbato Lamberto al trovar, ritornando, le cose sue tanto mutate, di muovergliene parola egli stesso. Laudomia adunque ripensando ora in cuore i disegni del padre, diceva: «beata me che rifiutai codesti parentadi!» e volgendosi col cuore alla Nostra Donna di Frate Angelico, che tanto vivamente le raffigurava la divina madre della purità, la pregava chiamasse sul suo cuore la benedizione del Cielo, l’accogliesse sotto il suo manto, e sempre la mantenesse illibata in ogni atto ed in ogni pensiero; e facendo per se[416] queste preghiere, sentiva di farle al tempo stesso anche per Lamberto, col quale le pareva ormai aver una vita, un interesse, un desiderio solo.
Con pensieri tanto diversi e lontani da questi quanto lo può esser l’inferno dal paradiso, l’anima d’un traditore da quella d’un angiolo, Troilo anch’esso vegliava accanto alla Lisa, che sola, a quell’ora, trovandosi aver raggiunto il sommo de’ suoi desiderj, e stimando la sua felicità stabilita per sempre, dormiva tranquilla e riposata. Non sapeva, poveretta, che certi errori, giammai non sfuggono al castigo neppure nella vita presente! ch’esso indugia talvolta, ma posto da Dio sulla traccia del reo non la perde più d’occhio, e lo coglie dopo lunghi anni, quand’egli forse neppur più si ricorda d’averlo meritato!
Troilo intanto, che aveva alle mani troppo diffidi bisogna per potersi addormentare così al primo, e conosceva necessario pensare e ponderar molto ogni sua azione nell’arduo passo a cui si trovava, veniva dicendo tra se stesso: «Eccomi dunque in casa!.... l’entrare è andato benone, sta a vedere come se n’uscirà!.... corpo di Fra Girolamo e di tutti i domenicani! che muso ha quel vecchione! me gli sono inginocchiato davanti come un bambino! questa, per tutti i santi, non l’avrei mai immaginata. L’avessero a sapere in campo starei fresco, vorrebbero rider poco! E quell’altro Alberto, Adalberto, che so io.... stava là ritto ritto che pareva avesse inghiottito il braccio che gli[417] serviva anni sono, a misurar le rascie, e mi faceva cert’occhi!.... È capace immaginarsi di mettermi paura! Ora che ha la spada accanto, gli pare d’esser divenuto qualche gran cosa! e mi ricordo.... quant’anni saranno?.... che lo vedevo a bottega sul canto di Vacchereccia a innaspar seta co’ fattorini.... ma io dico così che son proprio commedie!.... Alberto! s’è messo un nome, questo poltrone, come fosse de’ duchi di Brandeburgo! Se non era che mi tocca aver pazienza, quasi quasi stasera gli insegnavo io.... Gli ho rubata l’innamorata! se non ha altro con me.... eccola qui, se la venga pure a prendere.... gli ajuterò una mano se gli bisogna, e sopra mercato.... via, muoja l’avarizia.... gli darò anche quel bambino, che se è vero che i maschi tengono dalla madre, dovrebbe, quando fosse fatto grande, aver più del setajuolo che del gentiluomo.»
Così dicendo, volgeva sulla povera Lisa, che gli dormiva accanto col suo bambino, un’occhiata piena di noja, e della sazietà che provava omai grandissima di quell’infelice.
Ad alcuno fra’ miei lettori, o le mie lettrici, se avrò la fortuna d’averne, parrà forse impossibile che un cuore umano possa giungere a tanta perversità. Beati loro! hanno la fortuna di non conoscere tutte le vergogne della nostra natura!
Proseguendo poi il corso delle medesime idee, soggiungeva: «Dice pur bene quell’altro di Ferrara, quel poeta....
Che non v’è soma da portar più grave
Come aver donna quando a noja s’ave.
Ed io... Dio sa quanto tempo mi toccherà a godermi questo diletto!.... e di giunta, aver sempre sotto i baffi quella sua bella sorellina, che par un giglio appena sbocciato.... non si potrebbe?... trovar modo?.... Eh! giudizio, messer Troilo.... che qui non si scherza! non ci mancherebbe altro, che il vecchio, o que’ grugni di lupi manari de’ fratelli se n’ avvedessero!.... eppure, a non voler morire di seccaggine in questo mortorio, bisognerà ajutarsi in qualche modo, e così, per far ora trovar qualche trastullo.... la cosa è difficile, è vero... ma alle cose facili, in fatto di donne, Troilo non ci s’è messo mai.... e se mi riuscisse, m’avrebbe a far di berretto più d’ uno, là in campo; che le figlie di Niccolò de’ Lapi son altra maggior cosa che non quelle loro sguajate di che si vanno vantando tutto giorno!....Insomma, vedremo! me ne son riuscite dell’altre; fa che nulla nulla quest’assedio s’allunghi, e col tempo e la pazienza.... e se questi arrabbiati seguitano a dir davvero, come nell’assalto di stasera, e’ ci sarà da spingere.... eppoi, io credo che quando i nostri saranno in piazza, e’ converrà loro mettere il campo sotto questa casa, a volerla avere.... hai veduto come lavora qui il nostro messere!.... In un baleno, il serraglio, il ponte, la casa piena di picche, d’archibusi, di balestre,[419] che pareva il mastio di castello al tempo del sacco[45]. E messer Baccio, che lo vuol vivo nelle mani! bisognerà discorrer con Niccolò!»
Verso il fine di queste parole il ribaldo avea cominciato a sbadigliare e stirarsi, chè gli era pur venuto sonno: stette un altro poco pensando, e ruminando più di tutto sul fatto di Laudomia (che davvero ci duole figurarci la sua pura immagine dipinta nella mente di questo sciagurato, ma il raggio del sole si riflette pure nel più sudicio pantano senza macchiarsi), poi s’acconciò sul guanciale e presto rimase addormentato.
Non molto dopo, quando mancava un’ora all’incirca al far del giorno, si destò Niccolò, chè aveva, come accade ai vecchi, il sonno breve, e l’ebbe quella notte più del solito, non potendo esser tanto padrone di se stesso che il pensiero d’aver Troilo in casa non gli riuscisse molesto, e pieno d’indefinibili sospetti: ma quando voleva chiarirne l’origine, non la sapeva trovare, e si perdeva in mille dubbi, ognun de’ quali era lieve per se stesso, ma tutti insieme uniti si facean gravi e lo metteano in pensiero. La sua riunione colla Lisa, il ritorno in Firenze ed alla parte popolare, erano stati coloriti in modo di togliere ogni adito alla diffidenza, ma i ribaldi, per quanto siano sottili ed astuti, hanno però sempre in fronte un marchio indelebile, (Dio ne sia lodato e ringraziato) che in modo[420] più o meno evidente, li tradisce: e la frode, per quanto s’ingegni coprirsi o celarsi colle veste della verità e della schiettezza (ci si perdoni la strana espressione) ha sempre indosso un tanfo che la fa riconoscere: ma poco giova, chè gli uomini dabbene pel timore d’ingannarsi, e di far torto a chi fosse innocente, non consentono a questi indizj, cercan prove; ed il birbone intanto gliela ficca, come pur troppo accadde a Niccolò, il quale pensando e ripensando ai portamenti di Troilo, non pensava dove intaccarlo, e dovea ridursi a dire «sarà immaginazione, o forse per l’odio gli portavo da tanto tempo.... ma non mi finisce di piacere.»
Poi, come animoso, e che non avrebbe temuto di cento uomini, non che d’ uno, soggiungeva: «Alla fine sarà quel che Dio vuole, ed il tempo chiarirà ogni cosa» e per distogliere la mente da queste angosciose idee cominciò a vestirsi, chè già a molte chiese veniva suonando l’ave maria del giorno. Fatta poi la sua preghiera, innanzi alla nicchia ov’ eran le ceneri di Fra Girolamo, accese alla lampada, che v’ ardeva dì e notte, una candela, ravvivo il fuoco del cammino, e sedutosi si diede a pensare come potesse venir presto a capo del suo disegno di maritar Laudomia a Lamberto, parendogli, quando ciò gli avvenisse, aver provveduto, per quanto si poteva in quel tempo, al bene ed alla salvezza della figliuola. Risolse anzi di non metter tempo in mezzo ed aprir al giovine l’animo suo quel giorno istesso: stava però in due, o di parlargli o di scrivergli,[421] prese partilo alla fine di averne seco ragionamento, stimando così più facile lo scoprire l’intimo de’ suoi pensieri, chè non avrebbe voluto facesse forza in nessun modo al proprio cuore, spinto forse dal desiderio di compiacerlo.
Intanto a poco a poco s’era fatto giorno, e Niccolò sentiva su in alto della casa, madonna Fede che andava trafficando per le sue faccende: fattosi dappiede alla scala, la chiamò, e le disse, che le mandasse Lamberto, come fosse desto: egli era già in piedi e vestito, onde scese tosto e si presentò al vecchio, che fattoselo seder vicino, e guardandolo amorevolmente, dopo alcune parole, come per avviare il discorso, gli disse:
—Ora ascoltami, Lamberto: Se questa città non fosse in tanto pericolo, come essa è, o tu non fossi di casa, come tu sei, nè più nè meno ormai degli altri miei figliuoli, io non sarei mai per dirti cotanto apertamente quello che ti dirò or ora. Ma questi rovinosi tempi non comportano indugio, nè con te accade far troppi rigiri di parole, chè assai ci conosciamo l’un l’altro. Tu sai, ed io non lo dimentico, l’obbligo grandissimo ch’io ebbi a Piero tuo padre; e ti devi rammentare, che volendotene dare quella maggior prova ch’io potevo, ed essendomi avveduto del tuo amore per la Lisa, io ti tenni un giorno tal discorso da farti conoscere quanto l’avevo caro.
Iddio poi volle tribolare te e me, e le cose sono andate come tu sai. Ma fatti animo, chè forse è stato[422] pel tuo meglio: che tu meriti altra donna che codesta pazzarella. Io ti tengo di troppo alto pensare; perchè io dubiti ti possa esser rimasta in cuore la menoma favilla di quell’amore che le portasti, dopo i modi ch’ella ha tenuto con te.
Ora dunque, senza allungarla di più, pensa Lamberto, che un’altra figliuola mi rimane, pensaci: ed insieme sappi, che Niccolò chiuderebbe gli occhi in pace, se morendo potesse riposarsi nell’idea che Laudomia non resta sola, e senz’appoggio, in tempi così tristi.... Io sono schietto con te.... più forse che non si converrebbe ne’ casi ordinarj.... Siilo tu con me,.... non parli tu col padre tuo? con quello che non avrà bene nè riposo finchè non ti veda contento?—
La commozione di Lamberto, che era venuta sempre crescendo a mano a mano che Niccolò parlava, non ebbe più misura a queste parole dette in suono così tenero; gli prese una mano, se la strinse alle labbra, e rimasto così un momento rispose:
—Oh! pensate s’io non voglio essere schietto con voi!.... e vi dirò tutto addirittura.... senza neppur ringraziarvi prima come dovrei....—
E qui cominciando da’ quei primi tempi, quando avea, ancor fanciullo, donato a Laudomia l’amor suo, gli facea l’istoria degli affetti, delle impressioni diverse che avea provate sino al momento del suo ritorno: dipingeva il rammarico, la terribile angoscia sofferta, pensando a sua madre; narrava del ragionamento avutone con Fra Zaccaria, della lettera ch’ella gli avea lasciato, ed aggiungeva:
—Oh sì! Il primo, il sommo de’ miei desiderj, la sola speranza ch’io scorgessi nel futuro, fu tosto di poter ottenere quel bene di che voi mi parlate. Ma coll’animo in tanta agitazione, tenevo questa speranza per illusione, ne diffidavo come d’un inganno. Oh! per giungere a tanto,.... perchè venga meno anco il conforto dello sperare bisogna pur esser misero! Vedevo difficoltà, ostacoli in tutto.... tremavo d’aprire di nuovo il cuore a quest’affetto,.... (s’io mi trovassi deluso, pensavo, sarebbe troppo!....) A quest’affetto che, ora lo conosco, è stato il primo, il solo della mia vita che mai potrà cancellarsi.... io credetti averlo volto altrove.... oh, come mi sono ingannato!.... mi pare ora come se mi destassi da un lungo sonno.... Oh! ma chi può dirsi degno di Laudomia...? di quell’angiolo! chi potrebbe tanto presumere di sè da sperarne l’amore!—
Da molto tempo Niccolò non avea provata gioja eguale a quella che sentiva in questo momento. Le calde parole del giovane gli mostravano che l’adempimento del suo desiderio non sarebbe costato nè a Laudomia nè a Lamberto, ed avrebbe anzi stabilita la felicità d’ambedue. Gli venne sulle labbra di dirgli «consolati dunque ch’ella t’ama» si rattenne però, frenato da un cotal senso d’alterezza, da un riguardo per la figlia, che non ardiremo chiamare eccessivo; e pensò: «Ormai la cosa non può fallire: sarà miglior partito lasciar che s’intendano tra loro.» Posta di poi una mano sulla fronte al giovane, gli diceva sorridendo:
—Eh via! ti pare? Un soldato par tuo dubitare tanto di se?... Tutti due alla fine siete miei figliuoli, non è dovere ch’io favorisca più l’uno che l’altro, e perciò ti dico: se merita il tuo amore, tu meriti il suo.—
—Oh, che dite mai! rispose Lamberto scrollando il capo, e rimase pensoso.
Ma s’egli amava Laudomia, come in effetto l’amava più di quel che sel pensasse egli stesso, a che rimaner sospeso e pensoso? Se da quello che ci siamo ingegnati descrivere sin qui sul fatto di Lamberto, ha potuto il lettore comprenderne l’animo e la natura nobile, e dilicata fino allo scrupolo, non troverà strani i pensieri che in quel momento lo combattevano.
Appunto perchè l’amor di Laudomia era il primo ch’egli avesse provato, il solo che meritasse veramente di riempire un cuore qual era il suo, e perchè ora risorgeva più possente dopo le vicende che l’avean bensì represso, ma estinto non mai, stava il valoroso giovane più timoroso di non avere ad offrirle un cuore tanto puro, tanto immemore d’ogni altro affetto, quant’ella gli pareva meritare.
Rammentando Selvaggia ed i suoi pietosi casi, si sentiva ancora commovere sin nel profondo, e questa giusta compassione, degna d’ogni anima gentile, questa premura (come non sentirla!) che provava per una infelice che tanto disperatamente s’era abbandonata all’amor suo, il povero Lamberto le[425] scambiava con affetti d’altro genere, e sospirando pensava: «Sarei io tanto sciagurato d’offrire a Laudomia un cuore ove rimanesse vestigio dell’immagine d’una....» e non poteva sostenerne l’idea nè compiere la frase.
Agitato la sera antecedente da queste angustie non era riuscito a superarle, nè a distinguere il reale dall’immaginario, chè il giudicare è incerto ed offuscato quando le passioni sono in tempesta. A questo punto però la gioja intima ed immensa, provata alle parole di Niccolò, fu come un raggio che gli rischiarò l’animo, e dovette avvedersi quanto profondamente vi fosse radicato l’amor di Laudomia. Così dopo un momento rasserenatosi tutto in viso, si volse a Niccolò che attento lo guardava non senza maraviglia, e gli disse:
—La troppa opinione appunto che avete di me è quella che mi pone in pensiero.... ma qualunque io mi sia, meritevole o no della grazia vostra, voglio che voi mi conosciate meglio.... che sappiate tutto.... mi parrebbe tradirvi se vi tenessi celato un solo pensiero.... voi poi siate mio giudice....—
Lamberto allora narrando sin dal principio tutto quanto si riferiva a Selvaggia, apriva interamente il suo cuore a Niccolò, mostrandogliene con intera schiettezza i dubbj, i timori, gli affetti; ed il vecchio, che dall’esperienza d’una lunga vita trascorsa tra vicende ed uomini d’ogni maniera, aveva conosciuto quanto sian rari quelli che in fatto d’amore e di donne danno retta agli scrupoli, s’avvide quanto[426] gran tesoro verrebbe a posseder Laudomia divenendo donna di chi pareva proprio formato da Dio sul di lei stesso modello. E quando il giovane ebbe posto fine alla sua, si può dir confessione, gli prese il capo tra le mani, e, baciatolo in fronte con effusione di tenerezza, gli disse:
—Va, che s’io avessi dovuto crearti apposta, per farti sposo di Laudomia, io non avrei saputo immaginare la metà di quel che tu vali.... io leggo nel tuo cuore più che non vi leggi tu stesso.... tu ami Laudomia.... e se di quell’altra sventurata non sentissi pietà non saresti quel Lamberto che sei... Orsù, sta di buona voglia, e se saprai (come non ne dubito) rendere a Laudomia accetto il tuo amore, sappi insieme, che prima di morire potrò aver ancora per cagion tua un momento di bene, in mezzo a tanti mali che ci minacciano.... chè io, vedi, non sono ormai per campare un pezzo, ma di ciò non ho un pensiero, quando sia certo che tu rimani a guardia e a consiglio di questa mia casa: chè io mi fido di te, più che d’ogni altro, Lamberto!—
Nel dir queste parole Niccolò s’era fatto grave nell’aspetto; rimasto sopra di se un momento, proseguiva:
—Dacchè siam venuti su questo ragionamento, sappi ch’io fo capitale di te pel tempo in cui non sarò più di questo mondo. Averardo è animoso, amante della patria, ma soverchio feroce: ed il furore suole offuscar la prudenza: Vieri, buon cittadino e valente anch’esso, ma leggiero: Bindo è fanciullo. Ed ora questo Troilo ci s’aggiunge.,.. io non diffido di lui.... ma egli era Pallesco; i suoi maggiori ed esso, insino a ieri, furon sempre nemici nostri e di questo stato.... egli è seme di traditori!.... Forse ho io il torto di porre innanzi cotali sospetti.... A ogni modo m’hai a promettere, che pel futuro, tu, Lamberto mio, avrai di questa casa e de’ miei figliuoli quelle cure che io ebbi di te fanciullo, e spenderai a loro benefizio il senno e la prudenza di che per avventura sei fornito meglio di loro. Me lo prometti, Lamberto?—
—Oh, babbo, ma pensate s’egli accade ch’io vi faccia codesta promessa! Quel poco ch’io sono, e tutto il bene ch’io ho, non lo tengo forse da voi e da’ vostri..., e potreste dubitare....—
Gli occhi ed il viso del giovane esprimevano tanta passione nel dir queste parole, che Niccolò riprese tosto:
—Tu dici il vero, non occorron promesse tra noi.... io ti leggo in cuore, ed ove tu legga altrettanto nel mio, vedrai quanta fede io riponga in te... se ti parlai a quel modo fu soltanto affinchè le mie parole ti rimanesser poi sempre più vive e presenti nella memoria. Ora dunque ascoltami: tieni a mente, che questa casa venne in qualche riputazione, e si mantenne onorata e sicura attenendosi alla nostra santa religione ed alla libertà di questo stato popolare; le quali cose non è possibile che stieno l’una senza l’altra. Religione senza libertà, non sarà religione, ma frode ed ipocrisia. Cristo re nostro non morì forse egualmente per tutti? Non volle egli che ci tenessimo in conto di fratelli? non maledisse forse i violenti, i superbi, coloro che s’innalzano sulle rovine dei deboli, che occupano il loro avere, i loro diritti, che li costringono a porre in proprio benefizio le fatiche e la vita? E quelli che operano in codesto modo chi sono eglino, se non i nemici della religione ed al tempo stesso della libertà? Quel che più nuoce poi si è, che queste male operazioni le cuoprono col manto della fede. Quali furono i portamenti dei[429] Medici e di tutti i Palleschi? Quale il loro intendimento nell’edificare conventi, stabilir regole di frati, dotar chiese ed ospedali? Il fatto l’ha dimostrato.
Libertà poi senza religione, se pur fosse possibile stabilirla, non potrebbe durare, e saria spenta da qualunque tra’ cittadini salisse in maggior grado degli altri, o per ricchezze, o per potere, o per ingegno ed astuzia, che non avendo il freno della religione, non sarebbe schivo dal farsi ingiusto e violento, ed occupar lo stato.
Sia dunque sempre vostro primo pensiero mantenerle ambedue, chè ove queste sian salve, sarete salvi ancora voi, e non altrimenti.
Ma non i soli Palleschi sono i nemici da temersi. Io veggo serpeggiare un rumore per la città che mi tiene in sospetto. La setta di Niccolò Capponi, la setta de’ grandi, che vorrebbe ristretto in pochi il reggimento, se venisse a farsi più potente, potrebbe arrecare a questo popolo altrettanto danno di quello che si teme da’ Palleschi e dai nemici di fuori. Per ora costoro mostrano tener pel popolo: ma sarà egli da fidarsi di loro? in ogni tempo, e presso tutti i popoli, i grandi per nobiltà e ricchezza ebber sempre volto l’animo a ristringer lo stato, sperando così accrescer codesti beni, o goderne meglio e più sicuramente; e per questi motivi nelle mutazioni e ne’ contrasti cittadineschi inclinaron sempre piuttosto alla tirannide che alla libertà. E converrà aver loro gli occhi[430] addosso, Lamberto. Io ne tenni già ragionamento con questi nostri uomini di stato, e gli ho trovati nella medesima opinione. Ora ho voluto farne motto anche con te, affinchè un giorno, quando abbi ad esercitare alcun magistrato (allora, la Dio grazia, sarà sciolto quest’assedio, la città viverà libera e felice, ed io non vi sarò più) quando t’avvenisse esser de’ rettori del popolo, ti torni a mente questo ricordo di Niccolò, e lo usi in beneficio della patria. E sappi, Lamberto, che in popolo omai corrotto, quale è il nostro pur troppo, le buone leggi ed i buoni ordini poco giovano, anzi nulla, ove non si vieti ai grandi ed ai ricchi di ristringersi e far setta tra loro. Che vale in fatti, che ad eleggere i magistrati, i rettori, e tutti coloro che debbon fare e mantener le leggi, si richieggano i voti d’uomini liberi, se questi si vendono, e se i petenti li comprano?
Però, te lo ripeto, guardati da costoro, che sono i più pericolosi nemici del viver libero, che da principio non si possono frenare perchè non apertamente colpevoli, ed alla fine perchè troppo potenti.
Nelle parole del vecchio era una tal effusione di confidenza, che Lamberto, parte maravigliato, parte commosso, non batteva palpebra, e tutto riverente lo stava ascoltando:, a questo punto però non potè tenersi di non esclamare:
—Dio mio! se voi foste all’ultim’ora non potreste parlare altrimenti.... oh! perchè tenermi[431] cotali discorsi? Io non son tale d’aver mai in Firenze autorità nessuna, ma ciò dovesse pure avvenire un giorno, avanzerà tempo, la Dio mercè, perchè possiate reggermi ed ammonirmi al ben fare co’ vostri consigli.
—Forse ci avanzerà questo tempo che tu dici: ma ci potrebbe anco venir meno. Ti voglio a buon conto dar questi ricordi oggi, che più che mai mi sembri divenuto mio figlio: mio buon Lamberto, lo veggo, t’attristan le mie parole.... ti fanno il senso d’un’ultima dipartenza, m’è caro il tuo amore, lo sa Iddio, ma questo è tempo di virili pensieri, non di deboli affetti; prima o poi tutti dobbiamo andarcene, ed il quando poco importa: ma assai importa a me che la morte non mi colga tanto improvviso ch’io non abbia disposto tutto quanto è in poter mio a pro della città e di questa mia casa. Or va, che Dio ti benedica mille volte!—
Lamberto uscì dalla camera pieno il cuore di gratitudine, e, se era possibile, di più alta venerazione per Niccolò; pieno del pensiero di Laudomia, e formando mille disegni sul modo d’aprirsele una volta interamente. Non avrebbe tardato un momento a cercar di lei; se non che giunse in quella l’avviso, che dovesse, ognuno per non so che motivo di non grave importanza, raccogliersi in piazza sotto il suo gonfalone, per la qual cosa i giovani di casa i Lapi uscirono, e per tutto quel giorno più non poteron tornare.
Ma prima di sera Laudomia già s’era trovata da sola a solo col padre, il quale non le nascose il ragionamento ch’egli avea tenuto con Lamberto, e, pieno d’allegrezza, la fe’ sicura dell’amor suo. Sul volto di Laudomia apparve una luce di gioja così serena, così pura a quelle parole, che ben mostrava quanto divina cosa sia l’amore quando nessuna colpa lo macchia, nessun timore l’attrista, nessun rimorso lo turba. Essa alzò al cielo gli sguardi umidi, giungendo le mani e stringendosele al seno in atto tenero e riconoscente, e nel suo cuore la gratitudine verso Dio, l’amore per Lamberto si fusero in un solo affetto, ineffabile ed ardente, che per un momento cangiò il di lei pallore in un leggiero incarnato, mentre con voce tremula disse:
—Povero Lamberto! lo sapevo!—
Niccolò se la strinse al cuore e la baciò in fronte, poi soggiunse:
—Io però non volli scoprirgli quel ch’io t’avevo letto nell’animo, nè dirgli che tu l’amassi.—
Laudomia gli alzò in viso gli occhi, e, tutta attonita, disse in modo cotanto ingenuo e candido che mosse il vecchio ad un sorriso:
—Oh, perchè non dirglielo, s’egli è pur così vero? povero Lamberto! egli l’avrebbe avuto caro.—
—L’avrà più caro assai udendolo dalla tua bocca—rispose Niccolò, poi, presa una mano della figlia tra le sue, proseguiva con un affetto che sul suo volto, abitualmente severo, riusciva più commovente:
Laudomia mia, tu sei giunta al passo più grave ed importante della vita d’una donna. In questa occasione, più che in ogni altra, ti gioverebbe aver viva tua madre, ma, poveretta! tu l’hai perduta!... dal cielo almeno ella ti benedica e preghi per te; e s’io non sapessi pienamente far le sue veci, l’amore grandissimo ch’io ti porto, o meglio forse la di lei mente, di lassù m’ispirino que’ consigli e que’ pensieri che più fanno ora al tuo caso. Tu vedi in quanti pericoli s’avvolga questo popolo; in giorni più lieti, l’essere sposa ad un uomo come Lamberto ti prometterebbe una vita piena d’allegrezza. In questi invece io prego Iddio, ed egli sa con che cuore! di farti contenta, di raccogliere sul mio capo ogni sventura, purchè s’allontani dal tuo, ma sarà ascoltata la mia preghiera?.. nei casi dunque che minacciano la nostra città, armati di fortezza, Laudomia, chè forse e’ ti farà mestieri, sta preparata ad ogni fortuna, e ferma l’animo in modo che tu sappi in tutte mostrarti degna della tua fede, della tua patria, di quel sangue che ti corre nelle vene, e ch’io vi trasfusi, la Dio grazia, libero ed onorato....—
Qui il vecchio si fe’ ad un tratto scuro nel volto, serrò le ciglia, ed alzando il pugno chiuso in atto di minaccia, esclamava:
—Ah, Lisa! Lisa! Se non eri tu, questo vanto sarebbe più pieno!....—
Sentì in quella sulla sua mano gelida il tocco delle labbra tiepide di Laudomia, vi sentì il caldo[434] d’una stilla di pianto.... ricompose il volto, e proseguì:
—E per mostrarti degna figliuola di Dio, e di Firenze, può nascer tale occasione che ti costi assai caro, Laudomia! Il primo tuo pensiero, il primo tuo affetto tra le creature viventi debb’essere d’or innanzi Lamberto, ma devi pure ad esso anteporre Iddio e la patria, che in certo modo fanno una cosa sola, poichè il bene dell’una, non mai va disgiunto dal volere dell’altro. Pensa, figliuola, che viviamo in tempi ove per la salute pubblica, quel Lamberto che ami, che sarà presto il padre dei tuoi figli, il tuo solo sostegno, l’unico conforto che ti rimanga dopo me, dovrai vederlo cacciarsi tra le ferite e le morti con occhio sereno! dovrai tu stessa spingerlo ne’ maggiori pericoli! pensar ogni volta che ti lascerà, sarà forse l’ultima! e non piangere, non dolerti, non tornar troppo agli abbracci, alle carezze, non dirgli di quelle parole che sgorgan pronte ed impetuose dal cuore in tali occasioni, ma che scuotono, rendono men sicuro l’ardire, perchè troppo rammentano le dolcezze della vita quando appunto più importa l’averla in dispregio.
La patria ne’ suoi pericoli assai chiede agli uomini, ma più forse talvolta alle donne. Agli uni il sangue e la vita propria, alle altre quella de’ loro cari. Gli uni incontran la morte nel fervor della battaglia, agli occhi de’ cittadini e de’ nemici, bollenti di furore, d’amor patrio e di gloria; le povere[435] donne, sole, chiuse nel silenzio della casa, debbono udir lontano il fragor de’ colpi, gli urli dei combattenti, pensare: in questo punto forse cade il marito, il padre, il fratello.... tra gli uni e le altre chi ha più mestieri di fortezza, di sicurtà d’animo?.... Tu piangi, povera Laudomia?.... Non per sbigottirti od affliggerti io ti ho dipinti i cimenti ai quali sarai posta, ma perchè sappi quali sono i doveri d’una donna: d’una moglie in una città libera, perchè li pensi, li mediti, conosca quanto siano sacri ed importanti, fermi l’animo e lo disponga ad adempierli virtuosamente, e ti sostenga il nobil pensiero, che a mantener la libertà di un popolo, a produrre azioni grandi e generose, hanno grandissima forza le donne, purchè sappiano e vogliano usarla; e tu, son certo, vorrai e saprai.—
—Oh! sì, sì, padre mio.... io non mancherò.... questo mio pianto non è per poco animo.... sono figliuola vostra. Certo.... non mi vo’ far più brava di quel che sono.... pensar che Iddio mi dona oggi Lamberto.... e forse domani....—
Qui la voce della giovane fu troncata da un singhiozzo represso, le sue labbra sporgevano chiuse e tremolanti, finchè riuscì ad aprirle ad un sorriso dicendo:
—Ma non dubitate di me, babbo! Iddio mi darà forza.... e dacchè voi tenete pur le donne buone da qualcosa, non sarà Laudomia vostra che vi torrà di codesta opinione.... già non siamo a questo mondo per godercela, ma per patire come e quando piace a Dio.—
—Ora hai detto bene, figliuola, che in questa vita la vera, la sola sapienza, sta non nell’affannarsi col tener dietro ad un fantasma di felicità, che quanto più s’insegue tanto più s’allontana, ma nel racchetar l’animo nell’idea del patire. E siccome rassegnarsi a patir senza compenso è contrario ed impossibile alla nostra natura, chi vuol trovar quiete quaggiù e regger al peso de’ mali che ci opprimono, non ha altro ajuto se non la speranza d’un compenso futuro. Se questa speranza sola guidasse gli uomini, il mondo non sarebbe in mano de’ violenti, degli ambiziosi, degli iniqui, e la libertà oppressa presto risorgerebbe.
—Ma, diceva sorridendo il vecchio, io ti volevo parlare di te, delle cose tue, ed invece io ragiono di cose di stato! che vuoi? la mia vita sta presso il suo termine; mi preme il pensiero della patria, e la mente mi corre, contro mia voglia, talvolta ad esprimer quel solo. A ogni modo, anco sul fatto tuo, t’ho detto abbastanza e mi sono accorto che m’hai inteso molto bene. Ora sta di buona voglia, e piaccia a Dio di non porti a troppo ardui cimenti.—
Questo dialogo era accaduto mentre, come dicemmo, non era in casa se non Niccolò colle figlie. Lisa, che era in camera col suo bambino, si vide comparir Laudomia col viso commosso, le palpebre umide: s’avvide che qualche novità doveva esser nata; l’interrogò premurosa, e seppe dalla sorella i suoi pensieri, le sue speranze, è tutto[437] quanto, poco innanzi, aveva discorso col padre. Laudomia parlava coll’affetto caldo ed espansivo che nasce dal bisogno d’aprirsi con quelli che si amano, e di metterli a parte delle gioje, de’ secreti del cuore, ed era troppo intenta a ciò che diceva, troppo agitata, ed anco forse troppo ingenua per avvedersi del senso che le sue parole producevano sull’animo della sorella.
Lisa la veniva ascoltando con un sorriso ch’ella cercava di rendere affettuoso e compiacente; sa il lettore che testina avesse costei. Colta all’improvviso, si sentì punger proprio, come si suoi dire, ove le doleva, dal pensiero che l’amore di Lamberto era svanito assai più presto che non era ragionevole, e non era dunque stato quale essa se l’era figurato e le parea meritare. Quest’idea riusciva doppiamente dolorosa al suo amor proprio, perchè non potea non iscorgere quanto abbietto fosse il motivo che la produceva, non v’è maggior dispetto per i superbi che venir condotti a trovarsi bassi e ridicoli nella propria opinione, e questo dispetto si dipinse amaro e cocente sul volto di Lisa. Durò un momento; e Laudomia per fortuna, non se n’avvide, chè la sorella più per ingannar se stessa, che per ingannarla (almeno così ci giova sperare per onor suo) le profuse mille espressioni e mille carezze, passato appena quel primo momento, e facendo ogni opera per persuadersi ch’ella sentiva grandissima premura per la felicità de’ nuovi sposi, ch’ella era sopra modo contenta[438] di quest’unione, riuscì alla fine a parere, e fosse ad essere, sincera e naturale nelle sue dimostrazioni.
A due sorelle, a due giovani, in tali occasioni non mancano le parole: e qui furon molte; piene di progetti, di disegni, di disposizioni per l’avvenire, e non le ripeteremo, per l’ottima ragione che al lettore annojerebbe il leggerle ed a noi lo scriverle.
Si lasciarono alla fine abbracciandosi e rallegrandosi insieme, ed appena uscì Laudomia, che tornato a casa Troilo salì dalla moglie.
Chi l’avesse veduto per le scale dovea dire, costui del mestiere che gli tocca fare n’ha proprio piene le tasche. Veniva su lentamente dondolandosi ad ogni scalino con un fare svogliato, e si strascinava dietro una grande alabarda, che tenendola impugnata da capo presso il ferro, veniva col calcio picchiando sul ciglio d’ogni gradino. Giunto sul pianerottolo, gonfiò a un tratto le gote lasciandone tosto uscire il fiato, che durò un bel pezzo, tanto s’avea pieni i polmoni, e con certe ciglia alte ed inarcate, cogli occhi a terra e la testa su una spalla, canterellando a mezza voce, appiccò ad un chiodo l’alabarda accanto all’uscio di camera sua, si sfilò una rotella che aveva in braccio, volle deporla ritta appoggiata al muro, ma sdrucciolò e venne a terra, senza ch’egli si chinasse per raccoglierla; poi entrò ov’era la Lisa sforzandosi di fare il miglior viso che potesse, e facendosi animo col dir tra sè: «Su, Troilo, coraggio; tutta questa seccaggine non sarà senza premio!»
—Credevo s’uscisse a combattere, disse baciando in fronte la giovane così a fior di labbra, ma è stata soltanto una rassegna, ed altra novità non v’è.—-
—La c’è bene in casa, invece—rispose Lisa.
—Ed è?—
—Lamberto sposa Laudomia.—-
—Ah! eh!.... Come?.... oh! n’ho piacere.—
Poi fissando la Lisa in volto, e conosciuto ottimamente i suoi pensieri, soggiungeva, godendo d’esercitare la sua cattività naturale:
—Oh, bella davvero!.... Proprio, non l’avrei indovinata!... Chi avrebbe pensato che costoro s’amassero? Bisogna dire che se l’intendessero da un pezzo.—
Lisa si morse le labbra, e si strinse nelle spalle; e Troilo avanti:
—Davvero ci ho gusto... che a dirtela, di quel povero Alberto.... Lamberto voglio dire.... me ne sapeva male.... quantunque non avessi avuto intenzione di fargli dispiacere.... pure ero stato cagione di disturbargli il suo amore.... e nessuno più di me doveva avergli compassione, chè io so quanto vale il tesoro ch’egli ha perduto....—
E qui trovandosi alle spalle della Lisa tirò fuori dalla bocca un palmo di lingua.
—Ora ringrazio Dio ch’io vedo ch’egli non s’è buttato al tutto al disperato.... ed anche per te n’ho piacere, Lisa mia. Capisco, col tuo buon cuore doveva esser una spina.... ed ora devi provare un[440] gran sollievo a vederlo contento, e che ha saputo così ben far uso della ragione, e consolarsi....—
—Oh! quanto a me son contentissima—- disse Lisa asciutto asciutto.
Troilo se le piantò davanti e, fissandola, disse:
—Eppure, a veder che viso fai, e’ parrebbe che fossi tutt’altro che contenta. Hai forse qualche altra cosa, qualch’altro dispiacere....—
—Io, non ho nulla.... mi pare d’essere come il solito.—
—Oh! come il solito no, Lisa mia. Perchè non dirmi addirittura: «non te lo voglio dire?» A ogni modo ti si vede in viso il dispetto un miglio lontano.—
—Ma che dispetto vuoi tu che abbia?.... e con chi?—
—Questo appunto è quello che ti domandavo... chè da me non lo so indovinare.... ma qualunque cosa sia, mi piace che in questo momento il veder felice tua sorella, Lamberto consolato e contento, ti dovrebbe rallegrare in modo da farti scordar ogn’altra cosa.—
Lisa a queste parole, delle quali conosceva la profonda ironia, senza che le fosse concesso lo sfogo di potervi risponder direttamente, fu presa da un tal impeto d’impazienza, che battè il piede in terra, s’alzò, e ripetendo due o tre volte: «Ma se dico che non ho niente!» alla fine, come i bambini cattivi, si mise a piangere.
Troilo, godendo intieramente di questa scena,[441] che, come diremo or ora, serviva ai suoi fini, la stava guardando con mostra di grandissima maraviglia, e badava a dire:
—Io non capisco.... ma che cos’hai? Ma che è accaduto?
—Ma non ho nulla, non è accaduto nulla.... anche tu vieni qui con un certo viso, mi guardi a un certo modo.... e poi: che cos’hai.... e di certo hai qualche cosa.... e non me lo vuoi dire.... tu mi faresti uscir de’ termini.... ch’ell’è pure una gran noja....—
—Noja! mi piacque la parola! che è quanto dire: levamiti d’innanzi. Se non vuoi altro, saremo presto d’accordo.—
In così dire volse le spalle alla giovane, che mutata a un tratto, e sbigottita all’idea d’aver isdegnato quello che pur cotanto amava, si mosse frettolosa per rattenerlo; ma fu inutile, e Troilo con una strappata liberò il braccio ch’ella gli avea preso ed in quattro salti si trovò in istrada. Udito appena il matrimonio di Lamberto, era venuto in mente allo sciaurato d’impedirlo a ogni modo, chè ove s’eseguisse andava a monte affatto ogni disegno ch’egli avesse fatto sopra Laudomia: disegno appena abbozzato, che conosceva benissimo d’assai difficile esecuzione, ed al quale avrebbe forse potuto rinunciare: ma vederla ora in mano d’un altro, diede nuova forza al suo malvagio appetito, presa la cosa in gara, e conoscendo che non era da perder tempo, seppe profittar dell’occasione[442] per far nascer la contesa colla moglie, or ora accennata, per la quale l’uscir di casa ed il lasciarla così tosto sola parve cosa naturale.
Mentre camminava, egli, che non era punto in collera, quantunque n’avesse fatto le viste, diceva tra se ridendo:
—Quest’amoroso sdegno non lo darei per un fiorino! alla fediddio, ch’egli non potea venir in miglior punto! Ora, messer Troilo; a noi, a saperlo usare! Prima di tutto, trovar modo di mandar Lamberto a cento mila paja di diavoli.... E come? questo, domando io.—
Gli sovvenne in quel punto del Nobili; di quel che gli avea detto circa la buca di S. Girolamo, del modo di potergli parlar segretamente, e pensò potersi valer di costui. In pochi minuti fu all’ufficio della confraternita suddetta, e, dato notizia di sè ad uno di quegli anziani, che conoscendo Niccolò e la casata sua, avea udito bisbigliare di tutto quanto era accaduto a quei giorni, ottenne facilmente di venire scritto tra’ fratelli. Pagò que’ pochi danari che vi volevano per l’ammissione, diede la ben entrata allo scaccino, e ricevuto l’abito della compagnia ne fece un fardelletto, col quale si mosse tutto allegro per ritornarsene a casa.
In questo frattempo Lamberto cogli altri giovani v’eran già ritornati. Questi salì in camera, si disarmò frettoloso, parendogli mill’anni di trovar Laudomia, alla quale, fatto ora mai sicuro e confidente, ardeva l’aprir una volta il cuore, e[443] rifarsi del lungo silenzio, dell’incertezze, delle pene sofferte, scese al piano di sotto, non senza aver prima posto maggior cura del solito onde il suo vestire, i capelli, la barba, avesser miglior garbo possibile, e persino (già in certi momenti siam tutti a un modo) gettò nell’uscire di camera un occhio così alla sfuggita su una spera che era appiccata alla parete, ma nel punto istesso, fatto accorto di quel suo donnesco pensiero, rise di sè, e tirò innanzi.
Giunto all’uscio di Laudomia lo trovò socchiuso, picchiò piano piano chiamandola a nome, chè pure gli batteva il cuore assai bene; siccome nessuno rispondeva, spinse la porta ed entrò; la camera era vuota. Quantunque vi fosse stato parecchie volte, gli parve questa la prima, si sentì correr per le vene un leggier fremito non mai provato sin allora, e rimase un momento girando intorno lo sguardo sulle pareti, sul mobile tutto nitido, ordinato e ben disposto, che assai mostrava da qual gentilmano ne fosse tenuta cura. L’aria della stanza era profumata d’un certo misto dell’odor de’ fiori che ornavano l’immagine della Vergine, e della fragranza delle biancherie di bucato che coprivano il letto. La luce del giorno ormai presso all’imbrunire, cadeva languida sul pavimento sotto le finestre; e la sua tinta azzurrina si sfumava nel chiarore rossiccio diffuso dalla lampada che ardeva sopra l’inginocchiatojo.
Lamberto fattovisi dappresso fissava gli sguardi[444] su quella Madonna, che non gli era mai sembrata di bellezza cotanto divina; considerava a minuto quel, per dir così, santuario de’ pensieri più ascosi della sua Laudomia, que’ fiori, que’ libri di preghiere, que’ cuscini che mantenevan l’impronta della persona ne’ luoghi ove si soleva appoggiare. Tutte queste cose, che per ogni altro sarebbero state mute e senza vita, per esso in quel punto aveano e senso e voce, che dolce e potente al tempo stesso, gli scendea ne’ segreti del cuore.
Tutto immerso ne’ suoi appassionati pensieri, Lamberto, quasi senz’avvedersene, piegò le ginocchia innanzi all’immagine, appoggiando al cuscino un braccio, sul quale posava la fronte. Le troppe celeri e potenti vibrazioni del suo cuore si venivan rallentando, e si perdevano in un indefinibile e placido assopimento dell’intelletto, quando sentì sulle sue spalle il posarsi d’una mano ed all’orecchio suonarsi dolce la voce di Laudomia, che gli diceva:
—Tu qui, Lamberto? E per chi preghi?—
Il giovane alzò il capo volgendosi, e che cosa provasse in quel punto, come rimanesse incontrando lo sguardo di quelle pupille umide che tanto pietosamente lo guardavano, si può immaginarlo, ma non esprimerlo. Senza mutar luogo, prese tra le sue mani quella di Laudomia, e posandovi le labbra tutto tremante, rispose:
—Io veniva per pregar te; e di qual preghiera, e con che cuore, lo sai Laudomia!—
—Sì, lo so—disse la giovane, ma gli occhi suoi diedero più piena e più dolce risposta: senz’aggiunger altra parola, s’inginocchiò anch’essa al fianco di Lamberto, che sempre le teneva la mano, ed affissati gli occhi nel volto della Nostra Donna, dopo breve silenzio, diceva:
—Oh, Maria! Se il cuor di Lamberto dovesse venirmi mai tolto, fammi prima morire!....—
E ambedue tacquero, chè il parlare era impossibile a quel punto, ed inutile tra due cuori trasfusi a un tratto l’uno nell’altro, colla rapidità di due fiamme che vengan poste a contatto.
Quando riebbero entrambi, dopo lunga pausa, la facoltà di discernere e di parlare, Laudomia impotente a reggersi più sulle ginocchia si lasciò andare su un seggiolone che avea vicino; un appassionato ed onesto languore le velava gli sguardi, che cadendo teneri e lenti sul suo caro, pur tuttavia inginocchiato a’ suoi piedi, gli narravano la sua felicità colla sicurtà confidente e ingenua d’un amore innocente. Pareva ad ambedue esser nati ad una nuova vita, trovarsi in un mondo diverso, sto per dir quasi, aver mutato natura ed essenza; nessuna memoria del passato, nessun affanno dell’avvenire; un intendersi scambievole, senza parlarsi, ed al tempo stesso un bisogno di parlarsi, e dirsi tratto tratto l’uno all’altra «Ma tutto ciò non è un sogno?.... Ma è proprio vero?» Ed intanto la mano candida di Laudomia sfuggendo ai troppo ardenti baci del giovane, gli si posava sulla fronte, e facea debol forza per tenerlo lontano.
Poi, ravviando a poco a poco le idee, e rannodando i pensieri, i casi della vita passata colla felicità presente, ricordavano mille inezie della fanciullezza, i primi pensieri, i primi moti del cuore nell’adolescienza, si chiedevano e davano spiegazioni scambievoli di parole rimaste oscure, d’atti, di sguardi, e di cento minuzie passate molt’anni addietro, ma vive sempre e presenti alla memoria del cuore: e nel tener questi cotanto intimi ragionamenti, Lamberto frammetteva ad ogni frase nomi d’amore dolcissimi, coi quali chiamava Laudomia in modi sempre diversi: nomi che non si possono ripetere, profanati come furono e resi ridicoli dai poeti arcadi, buona memoria, e dagli sciocchi, ma che perciò non son meno un bisogno, uno sfogo dell’anima quando essa prova troppo più che non può esprimere colle parole consuete.
—O mia Laudomia, diceva il giovane, mio dolce, mio solo pensiero, tu ora mi fai accorto del mio errore passato... io, che credevo d’aver provato che cosa fosse amore!.... Oh! non pensavo mai potesse giungere a tanto.... vedi.... soltanto un’ora fa, io mi struggevo pensando, che avea potuto volgermi alla Lisa.... mi parea d’aver fatto troppo gran torto al tuo amore.... che fu il primo, il solo della mia vita, ora me n’avvedo degno di un tal nome.... ora conosco che credetti amar altri.... ma non fu vero.... Oh! quanto mi conforta questo pensiero.... non fu vero!.... non amai se non te sola, di quell’amore che sola tu meriti, che[447] solo è tuo, e lo è stato sempre nell’intimo del cuor mio, e sempre lo sarà finchè viva!.... Ma puoi tu comprender quanto quest’idea mi ridoni la vita?... Pensar ch’io non son macchiato di quella colpa che mi faceva indegno dell’amor tuo? Che lo sguardo celeste della mia Laudomia può scendere su me sereno, il suo pensiero posarsi sul mio cuore senza cader troppo basso?—
Durante questi ascosi colloquj, s’era fatto notte chiusa, e la camera rischiarata soltanto dal lumicino della lampada, era in una semi-oscurità che in tutt’altro momento avrebbe avvertito i due giovani a provvedersi di maggior lume, ma in quel momento non se n’avvedevano. La famiglia s’era già radunata al pian terreno nella stanza di Niccolò per le orazioni della sera, e mancando Lamberto e Laudomia, Vieri s’era fatto a piè di scala per chiamarli; la sua voce si fece udire, e risuonò per tutta la casa, ma non all’orecchio de’ due chiamati, che non s’accorsero di nulla, e Vieri, non dandosene maggior pensiero, ritornò al fuoco cogli altri, mentre Lamberto proseguiva:
—Oh cara! non sai in quanto travaglio vivessi per queste immaginazioni!.... ora vo’ dirti tutto.... chè nulla vi debb’essere in me che non ti sia palese....—[450] E qui le narrava di Selvaggia, della memoria che glie n’era rimasta, della pietà che pur ancor ne sentiva, e mentre parlava, veniva osservando attento e pauroso, qual impressione producesser le sue parole sul volto di Laudomia. Quando non gli rimase nulla ad aggiungere, diceva:
—Ora sai tutto, amor mio. Ti par egli ch’io avessi motivo di tenermi immeritevole del tuo celeste amore? Ti sembro io degno ancora d’un tuo pensiero? Oh, non tardar a rispondere, Laudomia mia!—
Ed aspettava coll’ansia d’un reo che dubiti udire la sentenza del capo.
Il viso di Laudomia, sul quale dapprima era apparsa una leggiera nube, si rasserenò, mentre con un pò di sospiro (forse pensando che il cuor di Lamberto non sempre era stato di lei sola) rispondeva:
—Dimmi, caro, se codesta donna non fosse stata cotanto vile, se tu potessi amarla senza vergogna, l’avresti cara più di Laudomia tua?—
Lamberto si cacciò le mani a’ capelli non trovando parole per esprimere l’orrore che provava d’un cotal dubbio, ma l’atto ed il volto dissero assai, onde la giovane proseguiva:
—Ora dunque, Iddio accetta pure i cuori che prima non eran suoi! Egli pur si contenta di succedere ad altro amore! Ed io, inferma e debol creatura, non dovrei contentarmene? Dovrei levar più alte le mie pretese? Ah no! Lamberto. L’orgoglio[451] mio non giunge a tanta pazzia.... Non mi dolgo del passato, neppur n’avrei motivo.... ma l’avessi anco, più non vi penso.... Ma l’avvenire! Oh Lamberto! l’avvenire!—
E qui giunse le mani in atto d’umil preghiera, dicendo:
—Vedi, Lamberto, io sono una timida, una debol creatura, che tutta s’affida all’amor tuo; per esso io saprò trovar forza ed ardire in ogni caso della vita travagliosa cui ci facciamo incontro, in questi tempi d’ire e di sangue: nessun pericolo, nessuna sventura potrà mai ridurmi a tale che tu debba arrossir di me.... tanto promisi a Dio, al babbo.... e tanto saprò mantenere.... ch’io mi sento d’esser cristiana, nata d’un popolo libero, e figlia di Niccolò.... Ma, Lamberto, d’una sola cosa ti prego.... non amar mai che me sola!... io, vedi, mi sento di poter esser forte contro ogni sventura, ma contro questa!.... oh, non lo sarei! La vita di noi donne è tutta nel cuore, sai.... Per noi l’amore non è un trastullo.... non un sollievo da cure maggiori! Quel cuore che mi donasti è oramai il mio solo tesoro, l’unico mio pensiero; non rapirmelo, Lamberto, fin che son viva!—
Quel che sentì in cuore il giovane a queste tenerissime parole, non potè esprimerlo fuorchè baciando mille volte quella mano che, abbandonata tra le sue, oramai più non gli fuggiva. Dopo un poco, rialzando a un tratto il capo e cercandosi in seno, ne cavò la lettera della madre, che sempre[452] avea seco, e, fattala leggere a Laudomia, che la bagnò di lagrime di tenerezza, la riprese, e disse:
—Tu vedi qual cuore avesse per te la povera mamma mia; tu vedi com’essa mi benedisse all’ultima ora; ora dunque ascoltami, se mai io potessi esser tanto sciaurato da farti torto sol d’un pensiero, questa benedizione si volga....—
Ma non potè finir la parola, chè la mano di Laudomia gli si posò sulle labbra vietandogli di più parlare.
—Oh! Lamberto, non dir di queste parole, Iddio le riprova.... mi basta leggerti in cuore.... oh! sì, vi leggo che il nostro amore non finirà neppure in cielo, ove ci ameremo pur sempre, immersi nell’amor santo di Lui che ci creò per farci in eterno beati.—
E gli occhi suoi si levarono al cielo con quello sguardo di paradiso, che nacque talvolta sotto il gentil pennello di Guido Reni.
Stati così un momento, risorse nel cuor di Laudomia il pensiero di Selvaggia: i suoi rimorsi, la sua miseria l’avean commossa, volle udirne i casi più a minuto, ed alla fine diceva, quasi sbigottita:
—Oh poveretta!.... oh, che scellerati si trovano!.... che orrende cose succedono a questo mondo!.... che cosa non ha dovuto soffrire, e non dovrà forse soffrire ancora quella poverina! Oh! sì... amarti, caro, e non aver ombra di speranza!.... dev’esser orrendo! Ma almeno si potesse saper dov’è! rintracciarla, recarle qualche conforto.... farle[453] provare una volta la dolcezza d’essere amata, se non d’amore, d’affetto, d’amicizia almeno!—
—Dov’ella sia ora, Dio solo lo sa.... (non lo direi con altri.... ma con te, Laudomia mia, posso dir tutto....) mi sta in mente ch’ella non abbia a perder la mia traccia.... che vuoi? s’io non corrisposi al suo amore, le parlai almeno con riguardo, e mostrandole compassione, avvezza, come era, a trovarsi sempre tra insulti o scherni, le parve d’aver una volta incontrato chi avesse viso e viscere d’uomo.—
—Oh, quanto l’avrei caro se la ritrovassi!.... io, vedi, son fatta così.... saper che la mia felicità rende cotanto infelice una povera creatura.... mi stringe il cuore... avrei bisogno, in certo modo, di farmelo perdonare.... di risarcirla in qualche maniera. Oh Lamberto!.... troviamola! Io le sarò amica! non avrà più a dire che nessuno al mondo non le ha voluto mai bene!—
—Un angelo come te non c’è neppure in paradiso!—disse Lamberto fuor di sè, e sulla fronte di Laudomia, soave e puro come il petto d’una colomba, fu colto dal giovane il primo bacio dell’amore.
Niccolò in quella, vedendo che Lamberto e Laudomia non comparivano, mezzo s’addette di ciò ch’era dovuto accadere. E per chiarirsi, rattenne Vieri, che s’era mosso per chiamarli di nuovo, e volle andar per essi egli stesso. Salì, ed al primo venne all’uscio di Laudomia, che era socchiuso,[454] tantochè potè entrare senz’esser sentito, udir l’ultime parole, e veder l’atto di Lamberto.
Fu così contento il buon vecchio vedendo adempirsi il suo maggior desiderio che, contro la natura sua, posto per un momento sullo scherzare, fe’ risentire i due giovani, ripetendo le parole che nell’ultimo colloquio gli avea detto Lamberto.
—Oh, io non merito l’amor di costei! Io non son degno dell’amore di quell’angelo!.... Povero Lamberto! anch’io principio a dubitare non abbi ragione!—
Poscia, ripreso il suo solito viso, pieno però di dolcissimo affetto, strinse in un solo abbraccio i due giovani che, sorridenti e parte arrossiti, si eran levati in piedi, e tenutili così un poco, li trasse presso l’Immagine, e fattili inginocchiare, pose ad entrambi le mani sul capo, dicendo:
—Oh, figliuoli miei! voi che foste sempre buoni, ubbidienti; che siete la dolcezza e l’onore della mia vecchiaja, io vi benedico. Benedico il vostro amore, i vostri figliuoli sin d’ora, e chi verrà da essi! Quand’io non sarò più con voi.... e sarà presto.... rammentate Niccolò padre vostro, ricordate l’amore ch’egli vi portava, la benedizione ch’egli oggi vi diede, e se volete che Iddio la confermi dal cielo, amatevi sempre come ora v’amate.... ma prima ancora amate Iddio, la patria vostra, e così ci verrà concesso alla fine d’esser per sempre riuniti tutti nella celeste.—
Tacque, nè dai due giovani venne per alcuni[455] minuti profferita parola, compresi, com’erano, da un senso di religiosa venerazione e di tenera gratitudine per le parole udite. Alla fine, Niccolò, il primo, si mosse, dicendo:
—Ora andiamo chè ci aspettano.—E scesi insieme vennero nella sua camera, ove gli altri individui della famiglia, che avean dalla Lisa udito che cosa si trattasse, sorridendo, notarono una tinta più accesa del solito sulle guance di Laudomia, e sul volto di Lamberto, abitualmente mesto, una cotal effusione d’allegrezza tutta espansiva, che appariva eguale, e parea ancor più nuova sulla severa fronte del vecchio. Mentr’egli era uscito per cercar di loro, eran comparsi i soliti amici che venivan a veglia, e Fanfulla tra gli altri, chè era ormai fatto di casa come la granata.
Niccolò diede alla brigata la nuova del parentado concluso, e seguirono gli abbracci, i rallegramenti, gli augurj, la festa insomma che si suol fare in cotali occasioni. Il contratto venne fissato pel domani a sera nella chiesa di S. Marco, secondo l’antico costume fiorentino; chè agli sposi, non meno che al padre, non pareva di frapporre maggior indugio. Egli disse a tutti quanti eran presenti, che gl’invitava ad un pò di cenetta, che si sarebbe fatta tornando di chiesa, non quale, diceva, avrebbe voluto in quest’occasione, ma quale le presenti calamità lo concedevano. Voltosi a Fra Benedetto da Faenza, lo pregava fosse contento benedir egli questo matrimonio, che si sarebbe fatto tra tre giorni nella chiesa medesima.
—Oh Lisa! Che n’è di Troilo, che non è qui stasera?—disse volgendosi alla figlia che stava lavorando presso una tavola in disparte.
Lisa rispose, ch’egli s’era scritto quel giorno stesso alla buca di S. Girolamo, e v’era andato, nè potrebbe ritornare che sul tardi.
—Bene sta—disse Niccolò, che non era in quel momento disposto a dar ascolto a sospetti, nè inclinato a male interpretazioni, e godendosi nell’allegrezza di trovarsi fra suoi cari, in quel momento non pensò più a Troilo, nè ad altro, e così venne passando quella sera.
Ma Troilo pur troppo pensava bene a loro.
Ritornando a casa con quel suo fardelletto, e rimessosi in buona colla moglie, che, poveretta! era rimasta tutta sbigottita ed in grandissimo travaglio, dandosi tutta la colpa di quel bisticcio, il primo nato fra loro dacchè erano insieme, aspettò che imbrunisse, e messosi indosso l’abito di fratello si mosse verso porta S. Gallo, ov’era l’oratorio della confraternita. Giuntovi, e fattosi conoscere alla porta dall’anziano di guardia, fu messo dentro, e scese per molti gradini in una chiesuola, che per esser sotterra veniva chiamata buca. Si trovò sotto una vôlta bassa, lunga, partita in croce da grosse e rilevate spine di pietra rozza ed affumicata dal lungo arder delle torce. Il pavimento di lastre larghe, era sparso d’avelli, sui quali stavan scolpite l’effigie di guerrieri, di cittadini, vestiti con lunghe tonache, ed il basso rilievo era quasi spianato[457] pel lungo stropiccio de’ piedi. Sull’altare, in fondo, ardevan alcune candele dinanzi all’immagine di S. Girolamo, dipinta su un trittico d’antica maniera, tutto pieno di dorature e d’intagli: e moltissimi voti che, secondo l’uso del tempo, consistevano in fantocci grandi al vero rappresentanti figure di divoti d’ambo i sessi coi loro abiti al naturale, pendevan nel vano appiccati alla vôlta. Questa popolazione aerea, simile in tutto, fuorchè nel moto, a quella che le stava sotto i piedi, avea un non so che di strano, e, vista in massa scura contro il chiarore dell’altare, pareano fantasmi evocati dalle sottoposte tombe. Voci basse e nasali e strascinate cantavan le ore canoniche dietro l’altare, e per la chiesa, inginocchiati muro muro contro una spalliera di legno, oravano molti fratelli chiusi nell’abito, e colla buffa calata sugli occhi.
A Troilo, avvezzo ai balli, alle cene, ai sollazzi d’ogni maniera, e che ai suoi giorni non era stato forse dieci volte in chiesa, parve proprio, scendendo quivi, d’essersi calato in sepoltura. Venne avanti con riguardo di non sdrucciolare, chè il pavimento era grommato d’una muffa umidiccia, a modo delle cantine, e, fermatosi, diceva guardandosi intorno:
—A pensar che per andar in paradiso e’ convien pigliare questa razza di scorciatoje!... Pazienza!.... anche questa tocca a te, messer Troilo!.... Ah, Baccio cane!... ci rivedremo, se piace a Dio!... E ora, come si fa a riconoscere quel poltrone di[458] messer Benedetto in mezzo a que’ sacchi di carbone tutti compagni?.... Lasciami un pò guardare.... Quello costà tutto rannicchiato che par che covi?... Sì.... le zucche marine!.... è più alto un braccio... Oh! quell’altro là con quel groppone trionfale, come un cavallo da giostra?.... È lui senz’altro.—
Fattosegli dappresso s’inginocchiò al suo fianco, e, dato e ricevuto il segno combinato fra loro, trovò ch’egli s’era apposto, e cominciarono a voce bassa a bisbigliare insieme. Troilo, per ottenere più sicuramente e più presto il suo intento, venne al primo a mezza spada, e, senza preamboli, disse a messer Benedetto, che in nessun modo egli non si sentiva più di rimanere in Firenze a far quella vita di frate, ch’era una seccaggine, che non sarebbe stato vivo dopo una settimana, e però ne facesse avvertito messer Baccio, ch’egli si voleva partire a ogni modo.
E messer Benedetto, a dirgliene quante sapeva per persuaderlo, e fargli mutar proposito, e l’altro sempre più duro: pure, alla fine, dopo molto disputare, si lasciò fuggir di bocca, ch’egli si sarebbe contentato di rimanere, ma ad un patto «Qualunque sia, purchè cosa fattibile, vi sarà accordato» rispose tosto il Nobili.
—Ora dunque ascoltatemi, disse Troilo. Voi vi avete ad adoperare in modo col sig. Malatesta che dentro domani Lamberto, quell’uomo d’arme della compagnia del signor Amico d’Arsoli, che è alloggiato in casa di Niccolò, sia mandato fuor di Firenze[459] colle bande di contado, o dove vogliono, chè poco m’importa, purchè mi si levi d’innanzi.—
—Se non vuoi altro, figliuolo, e’ sarà subito fatto,—rispose il Nobili cui parve averne bonissimo mercato.
—Anzi, proseguiva, mi vien in mente, dacchè siamo mascherati a questo modo, la meglio sarà che andiamo insieme da Malatesta, come sia finito l’uffizio. Ora taci, e fatti in costà per non dar sospetto.—
Troilo, tutto contento, si rise in cuore della costui sciocchezza, nel credere avesse intenzione daddovero di torsi da un’impresa alla quale cominciava invece a prender gusto: e tiratosi un po’ lontano si pose il capo fra le mani, fingendo di pregare, e ruminando invece le sue ribalderie.
Passò così un pajo d’ore, che per la posizione incomoda, e pel dolor delle rotelle, cui toccava per la prima volta di portar tutto il peso del corpo, gli parvero quattr’ore almeno. Alla fine s’accorse che le candele dell’altare si spegneano una ad una. Alzò il capo, e vista scomparir l’ultima fiamma sotto lo spegnitojo, rimase nelle tenebre, se non che, dietro l’altare, un lumicino mandava appena un debole albore.
S’accorse allora come d’un’ombra, che andando in volta lungo il muro si fermava, ed ogni fratello facendo l’atto di porgerli non so che, si fece più presso a messer Benedetto per domandargli che volesse dire codesto, quando, giunto a lui l’uomo che[460] andava in giro, gli pose in mano un certo negozio di legno lungo due palmi, che allo scuro non potè conoscer che cosa fosse: ma al tatto, sentendo certe funicelle a nodi che pendevano dall’un dei capi, scoprì d’aver fra le mani una disciplina.
Fu per lanciarla dietro a quello che glien’avea fatto dono, pure si trattenne; ed il Nobili, che lo tenea d’occhio, gli disse sottovoce: «Fa come fo io.» Troilo badava a guardare: vide messer Benedetto che, spogliatisi uno ad uno tutti i panni sopra la cintura, rimase colle braccia e le spalle nude, e presa la disciplina cominciò a battersi, e, si può credere, con più strepito che danno, e tutti gli altri fratelli facendo lo stesso venivano intanto recitando il Miserere.
Troilo si sentì montar una tale stizza d’essersi lasciato cogliere a questa baratta, della quale messer Benedetto non gli avea fatto parola, che, presa la disciplina, senza spogliarsi altrimenti, disse: «ora me la paghi senza aspettar domani.» E datosi a picchiare all’impazzata per le panche e pei muri, n’appoggiò un pajo delle cattive sulle spalle di messer Benedetto, che lo fecero accorto quanta differenza passi dal far la disciplina colle proprie mani, o con quelle d’altri. Il percosso si volse come una vipera, e Troilo, ridendo sotto i baffi, si scusò sull’oscurità e sulla poca pratica ch’egli avea di cotali esercizj.
Alla fine, verso le quattr’ore di notte, dato fine all’uffizio ed al picchiare, cominciarono i fratelli[461] a partirsi alla sfilata; e quando la chiesa fu vuota anche i nostri due ribaldi, risaliti in istrada, s’avviarono verso il palazzo di Malatesta al Renajo dei Serristori.
Giacchè ci è dato di fornire d’un salto, ed in un attimo, quella strada, che per costoro richiese una mezz’ora di tempo e di molti passi, li precederemo col nostro lettore alla meta della loro via, e ci poseremo, aspettandoli, in certe camerette a pian terreno, delle quali, per una scaletta segreta, si comunicava colla stanza da letto di Malatesta, abitate da maestro Barlaam, suo medico ed astrologo, del quale speriamo non si sia dimenticato il lettore, quantunque da un pezzo non glien’abbiamo fatto parola. Un ospite nuovo, già comparso esso pure nel nostro racconto, s’era presentato ventiquattr’ore innanzi in questo quartiere: ma prima d’occuparci de’ suoi fatti presenti, è necessario riempire la lacuna che lasciammo nel racconto de’ suoi casi passati.
Quando Selvaggia, dalla prora della galera di D. Ugo di Moncada, ove combatteva per difender Lamberto, fu travolta nel mare ferita e mal condotta, (il lettore l’avrà, senza dubbio riconosciuta in quel soldato dal morione) dopo la prima impressione del freddo dell’acqua, non sentì più nulla, perdè la memoria ed i sensi; e quando rinvenne, si trovò racchiusa in un luogo oscuro, angusto e fetente, stesa sulla paglia e stivata tra feriti e moribondi. Le venne in mente d’esser uscita dal mondo e trovarsi[462] nelle pene dell’inferno: ma raccolte a poco a poco le forze mentali, ed ascoltando il rumore sordo e confuso che si faceva sopra il suo capo di passi risuonanti su un tavolato, e lo strepito a scosse uguali e prolungate, prodotto dall’andar e tornar de’ remi, s’accorse d’esser nel fondo d’una galera, le ritornò la memoria della passata battaglia, ed obbliando il suo stato, le sue ferite, gli acuti dolori che soffriva, corse colla mente a Lamberto, e disse sospirando:
—Oh! me l’avranno ammazzato!....—
La ferrea tempra di questa donna non potè stare contro un tal pensiero: poveretta! si mise a piangere come un bambino. Dopo aver pianto un pezzo, diceva fra sè, in un momento di terribile disperazione:
—Come deve essere spietato!... astuto!.... quel demonio che da quando nacqui mi è sempre stato sopra accanito!.... e mi seguita dappertutto!.... in pace.... in guerra.... fin nel profondo del mare.... non c’è modo a fuggirlo!.... Ma io voleva morire questa volta.... domandavo tanto? Morire!.... ma per Lamberto, ma per salvargli la vita.... Oh sì!... appunto! anche questa era troppa gioja per Selvaggia! Una gioja!.... una che è una! non l’ha da provare.... mai.... mai! Ma chi sono io? diceva alla fine dando in uno scoppio di pianto dirotto e sconsolato. Chi sono io?.... sono un serpe? una fiera?... Che cosa ho fatto prima di nascere? che delitto commisi?... T’ho io pregato di mettermi[463] a questo mondo, Dio terribile che mi creasti?....—
Queste tremende smanie, aumentando i mali fisici di Selvaggia, la spinsero di nuovo nel primo letargo: vi stette, immemore di sè e de’ suoi dolori, Dio sa quanto tempo! Ritornandole poi l’uso de’ sensi, si vide un cappuccino inginocchiato accanto, che le andava bagnando le tempie d’aceto. Penò un pezzo a poter parlare; appena le riuscì di farsi intendere, domandò:
—Dove siamo?—
—Sulla santa Marta, figliuolo, rispose il buon frate, nell’acque di M. Cristo, e diretti a Gaeta.—
—Oh! ditemi, soggiungeva ansiosa facendo forza di sollevar il capo: la capitana spagnuola?.... sulla quale si combatteva quando fui rovesciato in mare?—
—A picco, figliuolo; che Dio abbia in pace tante povere anime.—
—Ed anche lui?... anche Lamberto?.... anche quel bravo giovane?.... quello che tutti gli uccideva lui solo.... Oh! ditemelo? anch’esso?—
—Che volete ch’io sappia? non so di chi mi vogliate parlare, ne son morti tanti! che a saper il nome di tutti ci vuol altro! Quel che posso dirvi è, che la galera cadde sul fianco, chè una cannonata l’avea sfondata sott’acqua.... e quanto dir un’avemmaria, la bandiera di Spagna, che stava in cima all’albero maestro, scomparve nel mare.—
—Oh! me l’hanno ammazzato!—ripetè due[464] volte l’infelice con voce debole e profonda, e rimase muta, immobile, senza mostrar di udire o di curare nè i conforti, nè gli ajuti del frate.
Giunta la galera a Gaeta, tenuta allora pei Francesi, vennero sbarcati i feriti, e Selvaggia cogli altri, ed ammucchiati in certi magazzini, sudici, malsani, del porto. Se il lettore ha veduto (e se non l’ha veduto, meglio per lui!) un ospedal militare in tempo di guerra, se il suo piede ha calcato la paglia trita e fetida che serve di letto a centinaja di feriti, ravvolti in tutte le sozzure della miseria, egli può farsi un’idea dell’orribil luogo nel quale fu ridotta la poveretta, e tenga a calcolo che, trecento anni sono, cotali ospedali eran di molto peggiori de’ nostri.
Parrebbe che la natura, formando certe esistenze d’uomini predestinate al patire, avesse cura (più crudele forse che provida) di rafforzarle con una complessione ad ogni prova: al modo istesso che, il costruttor di navi, ricuopre di rame, e rende più validi i fianchi di quelle destinate ad affrontar le tempeste ed i ghiacci del polo.
Una tal complessione avea sortito Selvaggia, ed i dolori, le malattie, gli stenti ne’ quali venne languendo per più d’un anno, non valsero a torla di vita. Non del tutto chiuse, dopo alcuni mesi, le sue ferite, fu levata a braccia (chè in piedi non potea stare) dalla paglia dell’ospedale per dar luogo ad altri feriti, e lasciata sul lastrico d’una strada, ove sarebbe morta di fame, se da caritatevoli[465] persone non fosse stata raccolta, e soccorsa, finchè a gran pena, e dopo molto tempo, non potè riacquistar forza e salute.
Finchè avea tenuto per certo di dover morire, l’idea di lasciar la vita senza riveder Lamberto, senza saper più nulla di lui, avea reso più grave e disperato il suo male: ma appena sentì rinascersi le forze, appena le tornò in cuore un pò di vita, riprese la speranza ch’egli non fosse morto nella battaglia, che le potesse riuscire ancora di ritrovarlo, e questa speranza fu per essa la miglior medicina.
Per quanto cercasse informarsi dai soldati, dai viandanti che passavan di Gaeta, giammai le venne fatto d’udir parola che la togliesse a tanta incertezza, o le potesse dar indizio dove fosse capitato: e quando qualcun di nuovo le veniva innanzi, e dopo averlo interrogato si trovava un’altra volta delusa nelle sue speranze, la poveretta ripetea sospirando:
—Me l’hanno ammazzato!....—
Alla fine, sentendosi forte assai bene, tolse una mattina commiato da chi tanto amorevolmente l’aveva soccorsa, e sola, a piede, con un bastoncello, e senz’altro bene che que’ pochi panni che aveva indosso, e certi danari donatile da que’ suoi benefattori, prese animosa per le gole d’Itri la via di Roma. Avea udito dell’assedio che s’era stretto intorno a Firenze. «S’egli è vivo, vi sarà anch’esso» diceva «s’egli non v’è.... sarà segno ch’io posso oramai uscir di vita.... ma almeno morrò[466] ov’egli è nato, sull’uscio di casa sua.... questa consolazione almeno me la lasceranno?.... Oh Dio! fa che non passi allora qualcuno che mi riconosca e dica: costei è Selvaggia la cortigiana, che forse sarei cacciata anche di là....»—
In cotali pensieri, variando continuamente supposizioni e progetti, veniva camminando tacita e sola. Le due prime giornate fece di molte miglia, poi le sue ferite le principiarono di nuovo a dolere, e dovette riposarsi a lungo e più sovente. Passò Terracina, le paludi, i colli di Velletri e d’Albano, battuta ora dalle piogge d’autunno, ora sfinita dalla stanchezza, ora trafitte le membra da acuti dolori, ma sempre soccorsa dalla speranza, portata dal desiderio di Firenze, ove dovea trovar fine alla lunga e travagliosa incertezza. Dopo dieci giorni di viaggio entrò una sera in Roma per porta S. Giovanni. Vi si trattenne alcuni giorni per riprender un po’ di forza, e poi di nuovo avanti, e per Viterbo, Radicofani e Siena, dopo un mese, dacchè avea lasciato Gaeta, giunse finalmente alle porte di Firenze.
Entrata in porta S. Gallo (avea dovuto, lasciando la via diritta, condursi quivi per un lungo circuito, onde evitare il campo imperiale), si buttò a giacere sotto la vôlta stessa della porta, non tanto per riposarsi, chè la sua ferrea complessione s’era più che altro rafforzata nelle fatiche del viaggio, quanto per pensar al modo di trovar Lamberto, chè in una città così vasta, ove non era mai stata,[467] piena di tanti soldati e tanto popolo, conosceva la cosa non molto agevole. Egli è soldato, pensava; dunque, chiedendo del capitano che comanda le milizie, di ragione, dovrei poterlo scoprire. Appiccato ragionamento con alcuni di que’ gabellieri, le fu detto che il capitano de’ Fiorentini era il sig. Malatesta Baglioni, signore di Perugia.
Si scosse a questo nome, e n’avea motivo, come vedremo più innanzi. Rimase pensosa un pezzo; diceva alla fine: «Egli avrà seco mio padre!... Mio padre qui?... e posso vederlo fra pochi momenti!»
E stette ancora un buon poco battagliando con sè stessa: poi a un tratto alzandosi risoluta, disse: «Sarà forse pel mio meglio. Andiamo.» E domandando agli uni e agli altri la sua via, giunse, che già era fatto notte, al portone de’ Serristori.
Maestro Barlaam frattanto era solo nel suo scrittojo, che dovremmo piuttosto chiamare officina, essendo il luogo ove, coll’ajuto di due fornelli e di gran quantità di pentole, alberelli, lambicchi e storte componeva rimedii, stillava acque, che mantenevano o dovean mantenere la vacillante salute del suo padrone. Il magro e misero carcame del vecchio ebreo era avvolto nella classica vesta da camera, o robbone di velluto logoro, foderato di pellicce; senza il quale, grazie ai pittori e narratori di storie che ci precedettero, è impossibile di figurarsi l’alchimista.
Egli aveva tutti i vizj delle razze lungamente perseguitate, ed insieme quelle doti, direi quasi[468] virtù, che loro concede la natura, onde non rimangano affatto senza difesa contro i loro oppressori: avaro, astutissimo, incapace di provar mai in nessun’occasione, o per chi si sia, il senso della pietà e della compassione, senz’altra cura che di sè stesso, senz’altra mira che il proprio interesse. Ma questo medesimo concentrarsi di tutte le facoltà morali nelle stretta periferia del suo solo individuo, l’avean dotato d’una mirabile rapidità di concetto nell’ordire i suoi disegni, d’una tenacità imperturbabile nell’eseguirli, e d’una prudenza calcolatrice, dissimulata e paziente per rivolgere e guidare a’ suoi fini gli uomini coi quali si trovava aver che fare. La sua mente fredda, e lucidissima insieme, potea paragonarsi ad una scacchiera, sulla quale le mosse sien rare, ponderate, frutto d’un disegno impenetrabile e sicuro.
In tempi ove gli agi, i comodi, la sicurezza della vita erano il frutto per lo più della nascita, dell’ardire e della forza materiale, egli, privo di tutti questi doni, figlio, per soprappiù, d’una razza sprezzata e maladetta, avea saputo coll’ingegno e coll’astuzia procurarsi quei beni, che per altre vie gli venivan ricusati dalla condizione sociale d’allora. Egli era giunto a sottomettersi Malatesta; ed all’ombra della sua potenza viveva vilmente, è vero, ma ricco e sicuro. Un momento di sdegno, un capriccio del suo padrone, potea però fargli perder tutto, e la vita insieme: chè l’ebreo ben sapeva di non essere amato, e che quelle carezze, que’ riguardi[469] che gli si usavano, eran soltanto perchè si credeva non poter far senza di lui.
Conosceva Malatesta inclinato al sospetto, terribile nell’ira, implacabile soprattutto nella vendetta; e, continuo studio della sua vita era il mantener saldi ed interi i fili della rete in cui lo tenea avviluppato, far che non se n’avvedesse, e lo tenesse invece per servitore leale, affezionato, ed incapace mai di usar seco simulazione o tradimento.
Mentr’egli seduto ad una tavola leggeva un Averoe manoscritto in carta pecora, al lume d’una piccola lucerna, s’alzò la portiera dell’uscio che metteva in cortile, ed un soldato entrando, disse:
—Maestro, v’è fuori un giovane che cerca di voi.—
E prima che il vecchio avesse tempo a rispondere, entrò Selvaggia, si fermò sull’uscio, ed il soldato se n’andò pe’ fatti suoi.
—Chi siete voi?—disse Barlaam stringendo le ciglia, e mettendo la mano scarna tra i suoi occhi e la fiammella della lucerna per veder meglio chi tanto sicuramente entrava senz’ambasciata.
Selvaggia soprastette un momento a rispondere. Provava un’ indicibile passione alla vista di chi era prima e scellerata origine di tutte le sue sventure. Pure, venuta avanti lenta lenta, ed appoggiate le mani alla tavola si lasciò guardare un momento, poi con sorriso amaro diceva:
—Ho mutato viso eh? dacchè m’avete venduta.... e con quello che ho al presente sarei cattiva merce....—
Il vecchio allora la raffigurò, e senza che si potesse, dalla sua voce, dal volto, da gesto nessuno trarre il menomo indizio dell’impressione prodotta in lui da questa comparsa improvvisa, disse con impassibile tranquillità:
—Ah!.... sei tu Selvaggia?
La giovane allora punta dalla freddezza di questo sciagurato, alzò la fronte, intrecciò le braccia sul petto, e riprese con voce e modo risoluto:
—Sì, son io. Ora ascoltatemi, maestro Barlaam: in tutti i giorni, in tutte le ore trascorse in questi anni passati dal momento che mi lasciaste sola quella notte.... in quella stanza con colui.... non v’è mai nato in mente il pensiero «Dio m’avea data una figlia! Che n’ho io fatto?» Non v’è mai accaduto essere destato nel sonno dalla sua immagine? Non l’avete veduta vituperata, schernita, coperta d’oltraggi, raminga di terra in terra? Non v’è mai venuto in mente il dubbio.... essa forse è nuda, forse ha fame, forse giace inferma, e non ha chi le porga un sorso d’acqua? chi l’ajuti? ditemi, non l’avete provato mai un momento di rimorso pensando agli immeritati dolori ch’essa soffriva per cagion vostra?—
Selvaggia tacque un momento aspettando risposta, ma visto che il padre, immobile ed impassibile, cogli occhi sul suo manoscritto, non dava segno nessuno di voler parlare, proseguiva con passione sempre crescente:
—E questa miseria, questi mali ch’io v’ho[471] enumerati, credete voi che siano stati i soli o i peggiori? Non vi nacque mai il sospetto, che quest’infelice che voi condannavi al delitto, alla vergogna, avesse forse invece sortito dalla natura un anima sdegnosa d’ogni viltà, un cuore capace di virtù e d’amore? Che quest’amore potesse divenire un giorno un bisogno per essa come l’aria che si respira? Che diventasse il suo pensiero incessante, la sua vita, l’unico ed ardentissimo suo desiderio? Che si trovasse per cagion vostra, incapace, indegna d’ottenerlo, e morisse disperata maledicendovi? Ditemi.... non vi venne mai questo pensiero?.... movetevi.... rispondetemi, per Dio!....—gridò forsennata percuotendo sulla tavola co’ pugni serrati.
—Io credo che tu abbi il diavolo addosso! disse il maestro arretrando un poco il suo seggiolone, e mezzo insospettito non volesse costei manometterlo. Simulando tuttavia sicurezza, proseguiva:
—Dimmi un poco, Selvaggia, chi credevi tu d’essere? la figlia di qualche principe? Non lo sai che sei nata in terra di cristiani da un ebreo mendico? che i ricchi, i signori hanno più stima de’ loro bracchi che de’ figli della nostra razza? che questa vergogna che tu vai dicendo non la potevi fuggire e v’eri destinata dall’utero di tua madre? E perchè vivessi almeno negli agi io t’avevo data a chi ti poteva far ricca e felice? E se tu non hai saputo governarti, se ti sei fatta cacciar via, che colpa n’ho io? e che cosa vieni a rompermi il capo con queste tue novellate e questi tuoi furori?—
—E chi v’avea detto ch’io avessi bisogno di viver negli agi? Chi v’aveva domandato tesori? Non v’è altro bene che l’oro a questo mondo?—
—Orsù, Selvaggia, se tu seguiti a far la pazza a questo modo, con un fischio fo venir qui quattro soldati che ti mettano in istrada, e quando avrò detto ch’io non so chi tu sia, avrò detto tutto. Se invece vorrai prender la buona via.... Se t’occorron danari....—
Ed un pronunziar più lento di quest’ultima frase lasciò conoscere quanto costasse al vecchio avaro.
—Io non venni qui per danari, seguitava a gridar la Selvaggia, mostrando nella voce e nella guardatura un’esaltazione sempre maggiore; venni qui perchè ho l’inferno nel cuore.... perch’io non posso viver senz’esso, perchè vo’ rivederlo ad ogni costo... perchè spero ancora, prima ch’io muoja, di trovar un cuore che non sia per me di bronzo!.... amore! oh, lo so, non è per la povera Selvaggia!.... Ma un po’ d’affetto.... oh! l’otterrò s’io ritrovo Lamberto....—
—Oh, insomma, disse Barlaam risoluto, stendendo la mano verso un fischietto d’ottone che era sulla tavola, io non t’intendo....—
Selvaggia afferrò quella mano, e mutando a un tratto l’espressione, quasi feroce, della sua fisonomia, disse con fredda e sinistra ironia:
—Non m’intendete? aspettate un momento, che io vi parlerò una lingua che intenderete.... Se vi serve la memoria! (e fate che vi serva, chè[473] v’importa!) vi ricorderete che prima di vendermi a quell’uomo che poi m’ebbe là in quel castello del Friuli.... m’avevate promessa a Malatesta.... soldato allora de’ Veneziani... egli era sui principii e non troppo ricco... ed il prezzo ch’egli potea darvi era minore di quello offertovi da quell’altro... però all’altro mi desti, facendo credere a Malatesta ch’io fossi stata rapita da certi soldati. Non credevi eh? che ne sapessi tanto?.... voi ora direte ch’io non ho prove per convincerlo del vostro inganno... ma qui sta il vostro errore.... voi non foste avveduto, maestro! nella fretta, e pel timore non vi fuggisse di mano il vantaggioso mercato, voi scriveste un foglio al mio compratore, dicendogli come stava la cosa, e pregandolo fosse contento tenermi nascosta finchè Malatesta si fosse partito colla compagnia da que’ contorni, e così fu fatto.... Malatesta non seppe, nè sospettò di nulla, ed anzi, salito poi a maggior fortuna, v’accettò fra suoi famigliari, e vi fece ricco come siete al presente. Questo foglio vivendo io libera e sciolta nella casa di costui, lo trovai un giorno, e mi parve cosa che meritasse di esser serbata.... non pensando però mai dovesse venire un tempo che m’avesse a servir tanto.... io l’ho con me, maestro! ed affinchè non crediate che io mi vanti, vedete s’è vero.—
In così dire si trasse di seno il foglio e lo squadernò agli occhi del vecchio rimasto atterrato a quella vista.
Ben sapeva che Malatesta non era uomo a perdonagli[474] quel tratto se gli fosse venuto a cognizione.
—Maestro Barlaam! disse Selvaggia lasciandogli libera la mano, che avea sempre tenuta ghermita durante il suo discorso, ora chiamate i vostri soldati, fatemi cacciar via, più non vi trattengo.... avreste mutato pensiero?.... m’avreste intesa questa volta?—
L’astuto vecchio trovatosi colto ne’ suoi proprii lacci non si perdè d’animo, e dove non valeva la forza pensò valesse la simulazione. Si sforzò di vestire d’un’apparenza di tenerezza, umile e contristata, quel suo bruttissimo volto, che ne divenne più brutto il doppio, e guardando Selvaggia scrollava il capo, e diceva:
—Sì, t’intendo!.... va dunque.... va da Malatesta.... mostragli quel foglio.... fa che mi strappi questo rimasuglio di vita... già non sei venuta per altro; volevi farti padrona di quel poco ch’io ho potuto metter assieme in tant’anni di sudori..... volevi la morte mia.... lo meritavo!.... era stato troppo enorme il mio delitto.... avea voluto levarti dai cenci.... farti viver contenta e ricca, in uno splendido stato.... oh! meritavo la morte.... oh![476] figliuola.... disse poi alzandosi, ed aprendo le braccia verso Selvaggia, è questo dunque ciò che prepari all’infelice tuo padre?—
—Mio padre voi? disse Selvaggia arretrandosi e sorridendo amaramente. Maestro! voi non m’intendevi poco fa: ora v’intendo io.—
—Non m’intendi? sciagurata... non odi neppur più la voce del sangue?—
—V’è una voce di sangue tra noi, ma a voi non a me tocca l’udirla. Questa voce vi dirà, che mediante questo foglio il sangue vostro è mio,.... è mio, m’avete intesa?.... quello di maestro Barlaam.... non quello di mio padre, che io sola fra i vivi, non l’ebbi mai. Ma rassicuratevi, non venni qui per ispargerlo, non cerco la vostra rovina, tenetevi i vostri tesori.... al prezzo che gli acquistaste sono assai ben vostri.... rimettetevi a sedere ed ascoltatemi. Io incontrai due anni sono un giovane, un angelo, il solo di cui mi caglia, il solo che mi faccia soffrir la vita finchè dura la speranza di ritrovarlo, un uomo.... Ma che vo’ io a parlarvi di lui ora? disse con impazienza, provando nel parlar di Lamberto a maestro Barlaam ugual ripugnanza che il giovane avea mostrata altra volta nel sentire il suo amore accennato da essa.
—In una parola, proseguiva, io venni in Firenze per cercar di lui. Non voglio da voi altro se non che mi ajutate a rintracciarlo, e trovato ch’io l’abbia vi lascio.... e non udrete mai più parlar de’ fatti miei. Ecco i miei patti, maestro!....—
All’udir queste parole il vecchio riprese fiato, e gli parve, come si suol dire, averla per un tozzo di pane. Siccome le sue smorfie di tenerezza divenivano inutili, riprese il suo viso impietrito, e disse:
—T’ajuterò quanto potrò molto volentieri, se non vuoi altro.... sappimi dire il nome di costui... chi egli è.—
Selvaggia, colle più brevi parole possibili, fe’ conoscere al padre il nome, l’aspetto, la condizione di Lamberto; ed egli prendendone appunto, le scrisse su un fogliolino: diede alla figlia poche monete d’argento, ed accomiatandola le disse, si facesse rivedere il giorno dopo, ed intanto si sarebbe dato pensiero del fatto suo.
L’indomani ella vi venne due volte nella giornata ed una terza la sera al tardi, ma non era riuscito ancora a Barlaam di scoprir nulla. «La città è piena di soldati, ci vuol tempo; ho fatto domandare tutti i capitani, se vi è, si troverà.... miracoli non se ne posson fare» diceva egli alla giovane per calmare la sua impazienza.
Troilo e messer Benedetto, che lasciammo per la via, erano intanto giunti al palazzo Serristori: venendo loro negato di entrare da Malatesta, chè a quell’ora non volea veder nessuno, disse il Nobili:
—Andiamone dal maestro.... è cosa di così poco rilievo che già sarà tutt’uno.... una parola ch’egli dica a Malatesta, e’ sarà fatta.—
E così venne alle stanze di Barlaam, col quale era molto domestico. Entrarono, essendosi prima spogliati della cappa di confratelli e buttatala in un angolo, e trovarono il vecchio con Selvaggia, che, vestita com’era da soldato, non riconobbero per donna, e stimarono fosse uno de’ famigliari di casa.
—Addio maestro—disse il Nobili, con un certo suo modo autorevole; e l’ebreo rispose al saluto molto umilmente, come solea usar con tutti, e tanto più con quelli che sapea nella grazia del suo padrone.
—Noi siam venuti a domandarvi un piacere, proseguiva il primo; questo gentiluomo..... egli è quello che venne travestito da frate.... de’ nostri.... di quelli del campo.... vi ricordate?—l’ebreo accennò col capo di sì.
—Egli dunque per una sua faccenda, ed io pure di compagnia, volevamo far motto a Malatesta.... ma ci vien detto ch’egli a quest’ora non ammette visite. Sarete dunque contento in nostro servigio salire un momento da lui, ed esporgli il nostro desiderio.... di che questo giovane ed io molto lo preghiamo.... è un’inezia.... che ad esso non costerà che il volerlo. Si tratta di mandar colle bande di contado un uomo d’arme qui della compagnia del signor Amico d’Arsoli.... e della cagione che noi gli domandiam codesto, gliene parlerò poi a miglior agio quando ci troveremo insieme.—
—E come ha nome questo soldato?—domandò Barlaam movendosi e mostrando cogli atti del volto che non era cosa difficile ad ottenersi.
—È quello che si tiene in casa Niccolò fin da fanciullo... che stette un tempo nelle Bande Nere, col signor Giovanni, ed ora dovrà maritarsi colla Laudomia.... se troverà il momento, ben inteso (e girò un’occhiata a Troilo sorridendo); egli è quel Lamberto..... ben sapete.—
—Ah! disse il maestro, ho capito—ed uscì.
Troilo ed il Nobili, che a lui solo ponean mente, non s’avvidero dell’atto di sorpresa ed allegrezza che fece Selvaggia udendo pronunziare il nome di quello che da tanto tempo cercava. Ma represso quel primo moto, di tutto quanto aveva udito non le rimase presente all’intelletto altra frase fuor di questa «ora dovrà maritarsi colla Laudomia.» Le pareva che queste parole le si fossero infisse nel cuore come altrettante saette, e le passò innanzi gli occhi rapida qual baleno, come una visione di nuove e più spaventevoli angosce che le si preparassero. Rimasta sola coi due venuti, smaniosa di parlar pure una volta ed udir di Lamberto, benchè conoscesse ormai che ogni parola sarebbe stata una nuova fitta, cominciò a dire, frenandosi, e mostrando indifferenza più che poteva:
—Anch’io un tempo fui delle bande del signor Giovanni.... oh! lo conosco bene quel bravo giovane.... ed ho caro che sia ora in Firenze.... ma ditemi?.... com’è? come avete detto? egli prende moglie?....—
—Sì, prende moglie.... cioè.... non così tosto credo io—rispose Troilo con un certo sorriso malizioso.
Selvaggia s’accorse che v’era sotto qualche cosa, e le crebbe la smania di chiarirsene pienamente. Ma come riuscirvi? Potea sperare che costoro volessero tanto fidarsi d’uno sconosciuto da palesargli così al primo i loro segreti?
Pure seguì a maneggiarsi con molta destrezza, ed ottenne gli venisser narrati tutti i casi di Lamberto colla Lisa, e poi colla sorella, ed in fine il matrimonio imminente: ma d’onde quel dubbio che s’avesse ad eseguire? Chi voleva impedirlo? perchè?
Tuttociò le si nascondeva, e non trovava modo a scoprirlo; tornò intanto il maestro con viso allegro, e disse:
—Ho trovato il signore di buona voglia e sul verso di motteggiare.... ed è andata benone... sarà fatto come voi volete.... povero signore, quando que’ suoi dolori lo lasciano in pace egli è tutt’altro... oh! egli è il grand’uomo dabbene.... che Iddio gli dia salute e lunga vita.... anzi m’ha detto vi faccia salir da lui,.... qui per la scaletta, e vi vedrà volentieri. Onde se volete.... ecco....—
Ed in così dire, alzata la portiera del piccol uscio d’onde era venuto, li messe su per la scaletta e li lasciò andare, tornando al suo solito posto, e dicendo a Selvaggia:
—L’uomo è trovato, eh?—
—È trovato—rispose la giovane, e fattasi presso il maestro, e presolo pel braccio, disse prestamente e con un certo raffrenato furore:
—Ora voglio sapere quando deve farsi questo matrimonio; perchè, e da chi si vuole impedirlo, domandatene loro, io sarò nella camera qui appresso.—
—E come diavolo vuoi che faccia a farmelo dire, se volessero tacermelo?—
—Voglio saperlo! v’ho detto—gridò Selvaggia, e scagliando sul maestro un’occhiata che diceva il resto, se n’andò all’oscuro nella camera vicina.
Barlaam si morse le labbra per dispetto di trovarsi a quel modo sottoposto a costei, colla quale ben vedeva non era da scherzare. Ma se correva grandissimo pericolo nel ricusare di contentarla, ne incontrava forse uno eguale nello scoprire il nome, la condizione, i disegni dei due venuti. Le loro pratiche con Malatesta a favore della parte Pallesca, quelle visite notturne e misteriose erano un geloso ed importante segreto sotto una Signoria sospettosa ed avveduta. Come fidarlo a Selvaggia, mezzo pazza a parer suo, e che non avrebbe mancato di palesarlo a Lamberto, uno de’ più caldi fra gli avversarj dei Palleschi? E se per cagion di costei si fossero scoperte codeste frodi, non era egli verisimile che Troilo ed il Nobili ne accusassero lo sconosciuto di quella sera e quindi il maestro? E Malatesta allora che cosa era per fare? Ben lo sapea Barlaam.
Ma, per fortuna sua, egli non avea il suo pari nel saper all’improvviso immaginar un ripiego. Si[482] fece sull’uscio della camera ove s’era ritirata Selvaggia all’oscuro, e le disse:
—Senti: s’io aspetto che costoro tornino.... prima potrebbero andarsene per altra parte.... poi, se anco scendessero di qua, non è credibile volessero tanto a minuto dirmi i fatti loro.... io ho pur voglia di contentarti, figliuola, chè non son quello che tu mi credi: ora dunque salirò sin all’uscio di Malatesta, e vedrò d’origliare che cosa parlano con esso lui.—
—Come volete, purchè lo sappia,—rispose Selvaggia, ed il tristo vecchio salì sorridendo e compiacendosi della sua malizia.
Giunto in un andito oscuro dove avean a riuscire i due, venendo fuori dalla camera di Malatesta, si fermò aspettandoli, senza curarsi d’ascoltare che cosa dicessero, che poco gli caleva saperlo, e lavorando invece col cervello a comporre la novella che voleva poi dire a Selvaggia. Dopo non molto uscirono, ed egli, fattosi sentire così all’oscuro, e presili per la mano, gli avviò per un’altra porta che metteva sullo scalone, dicendo:
—Ad ogni buon riguardo è meglio non vi facciate rivedere da quel soldato ch’io avevo in camera: egli è di casa.... uomo di fede.... ma è giovane sventato.... e poi, meno persone vi vedono è sempre meglio.—
Questa precauzione parve ad ambedue naturale e ragionevole, e, senza curarsi d’altro, salutato il maestro, se n’andarono con Dio.
Sceso in camera, e chiamata fuori Selvaggia dal suo nascondiglio, le diceva con fare ingenuo:
—Ora so tutto, e ti posso contentare, fortuna però ch’io son salito! chè costoro se ne vollero andare per altra parte.... oh! non v’è sotto quel gran mistero che credevamo.... costoro sono due gentiluomini di Firenze, il vecchio è messer Gabriello Spini, ed il giovane un suo figliuolo, ch’io appena mi ricordavo aver veduto, ed ha nome messer Lodovico. Questo giovine è innamorato di quella che dee sposar Lamberto, e non trovando altra via ora di rompere e sospendere almeno il parentado, ha pensato questo rimedio, di ottenere dal signor Malatesta sia mandato fuori di Firenze, come in effetto sarà mandato domani, chè appunto devon partire per Empoli cento barbute in ajuto del commissario Ferruccio.
Nacque nel cor di Selvaggia un fiero contrasto, a queste parole.
Permettere che il suo Lamberto venisse tradito a quel modo; che soffrisse le terribili angosce (e la misera ne sapeva qualche cosa) che gli si preparavano, le pareva un offendere, un ingannare essa stessa quello pel quale avrebbe sofferto lieta mille dolori, e non poteva darsene pace. Ma dall’altro canto darlo colle proprie mani in braccio alla sua fortunata rivale, figurarselo al fianco d’un’altra, sposo felice, immerso in tutte le gioje dell’amore, ed ella, poveretta, non aver più da lui nemmeno un pensiero, trovarsi di nuovo abbandonata da tutti[484] nella sua prima desolata solitudine!... quest’idea fu troppo enorme, troppo tremenda; Selvaggia spaventata, non potè reggervi, dovette allontanarla ad ogni patto, e, per iscusarsi in parte a’ suoi proprj occhi e transigere con affetti cotanto potenti ed opposti, disse fra sè «io potrò svelar tutto a Lamberto, dirgli ch’egli punisca il mio fallo, che m’uccida, ma prima vederlo, oh sì! ch’io lo veda, ch’io gli parli una volta!...»
Ondeggiante in questi pensieri, era rimasta muta e come assorta per alcuni momenti; preso partito alla fine, si scosse, e disse risolutamente:
—Ora, maestro, due altre cose m’occorron da voi, e poi vi lascio. L’una, ch’io sola sia mandata domani a portar a Lamberto l’ordine di partire. L’altra, che mi provvediate d’un’armatura e d’un cavallo per seguitarlo.—
—D’un’armatura! disse maravigliato il maestro, sei tu pazza affatto? credi tu poter reggere coll’armatura indosso e valerti della tua persona?—
—S’io potrò reggere e valermi della persona voi ve ne avvedrete: e per ora lasciatene il pensiero a me.—
—Oh! dove vuoi tu che trovi codeste cose? esclamò il maestro che si spaventava per la spesa; sai pure che in una terra assediata chi ha cavalli ed armi le tien per sè.—
—Maestro, potrei rispondervi soltanto ch’io n’ho mestieri, e li voglio: ma vi vo’ far riflettere che starebbe in me il torvi altra maggior cosa che non il pregio d’un cavallo e d’un arnese.... e,[485] tenete a mente, ch’io voglio l’elmetto colla visiera che si chiuda.... Ora addio, a domani.—
Uscì Selvaggia, ed il maestro arrabbiato e malcontento dovè pur pensare al modo di levarsi d’addosso costei, e contentarla. L’indomani, appena giorno, si mise in moto, e per virtù di molte diecine di scudi, mandando il malanno a chi gliene faceva spendere, riuscì ad aver pronto per la sera ciò che la giovine gli avea domandato.
Ebbe da Malatesta l’ordine scritto che imponeva a Lamberto di seguire la gente che si mandava ad Empoli, ed ottenne facilmente, sotto varj pretesti, da uno de’ caporali che dovean guidarla, la licenza di dar il carico ad un uomo a sè noto, d’andar per Lamberto, condurlo ove la compagnia faceva la massa, ed uscire di Firenze con essa.
Quella medesima giornata era intanto, per la casa de’ Lapi, e per le donne specialmente, piena di pensieri e di faccende. Laudomia, svegliatasi all’alba col cuore consolato e sereno, si vestì, e copertosi il capo con un velo che le scendeva sino alle ginocchia, se n’andò a’ Servi a far le sue divozioni.
Tornata poi a casa, e lasciatasi vedere al padre, che le fece quella mattina più carezze che non soleva, salì nelle camere, che oggi si direbbe di guardaroba, e, coll’ajuto di M. Fede e della sorella si diede ad ammannire panni, biancherie, e preparar le cose necessarie, con quella sollecita ed operosa premura che nasce nelle profonde agitazioni dell’animo.[486] Lisa, ritornata in sè dopo quel primo momento di dispetto, e temendo forse ancor più, per amor proprio, di darne il menomo segno, prestava il consiglio e l’opera sua in questi preparativi, senza quel diluvio di parole che la gentil metà del genere umano suole impiegare in cotali operazioni, quando non ha la mente occupata da più importanti e più gravi pensieri.
Mona Fede era la sola che sostenesse il dialogo, se piuttosto non si dovea dir soliloquio, e strascinando in qua e in là le sue pianelle, numerando e scegliendo panni, dichè eran coperti e letto e tavole e tutto il mobile della camera, veniva dicendo:
—E pensare che una di casa Lapi abbia a farsi sposa senza che neppure ci sia tempo e modo di farle un po’ di corredo! Fortuna che rimane pure di molta bella roba di M. Fiore vostra madre!... chè quando il frate cominciò a predicare si vestì d’una gammurra scura, e non volle mai più portar altri abiti.—
Poi, tirando non senza fatica un cassone, parte scolpito, parte dipinto al modo del 400, che era in un angolo, simile a quello che vedemmo presso al letto di Niccolò (ambedue avean contenuto il corredo di M. Fiore) lo strascinò a fianco d’una tavola, sulla quale avea messo a parte un monte di robe. Spolveratolo per tutto diligentemente, l’aperse, e, volta a Laudomia, le diceva:
—Ora, se volete scrivere, faremo la nota di tutto quanto pongo qui dentro.
Laudomia prese l’occorrente, ed appoggiandosi,[487] ritta com’era, alla tavola, colla penna intinta nella destra, veniva scrivendo ciò che la Fede dettava.
—Una cioppa e giornea di dommaschino chermisì con frangie.
—Una cotta di dommaschino alessandrino con maniche fiorite.
—Una cioppa pavonazza ricamata.
—Una gammurra ricamata con seta bianca, con maniche di seta chermisì.
—Questa, mi ricordo, se la mise, e fu la sola volta, per andar a veder entrare re Carlo VIII.... un ometto piccino piccino, biondo e bianco che pareva un fanciullo, e si pensava potersi inghiottir Firenze!..... sì.... sì, Pier Capponi, buona memoria.... gl’insegnò egli la via ritta.... ed anche allora, che tempi!... che diavolerie!....
—Una gammurra di rascia bianca con maniche di dommaschino verde.
—Una giornea di boccacino bianco.
—12 Camicie. 12 Cuffie. 25 Fazzoletti da mano. 25 Benduccie. 2 Sciugatoj larghi.
—Una berretta di velo alessandrino ricamato con perle e ariento.—
—Questa, disse Laudomia, riponila, chè non son questi tempi, nè io in istato da portar cotali fogge.—
—Come volete—rispose M. Fede mettendo in disparte la berretta, poi con un sospiro:
—Povera signorina, vi tocca andare sposa in un brutto momento!.... senza nemmeno un pò di festa!....[488] Oh, quest’assedio!.... (per poco ch’io nol dissi).... quando finirà?.... e tutt’i guai con esso!....
—Una berretta di dommaschino bianco....
—Ho inteso che messer Niccolò non vuol che si faccian nozze.... non vi sarà nè invito, nè suoni, ed ha fatto sapere agli amici di casa, che non vuol neppure il serraglio[46]. Perchè è lui, gli daranno retta, ch’egli è più ubbidito che il capitan di giustizia.... Forse un altro!....
—Una cappellina di drappo alessandrino e bianco....
—Eh! non andò così la cosa, no, quando tolse donna egli.... io ero bambina... pure, me ne ricordo, e sì ch’era fatta di poco quella legge.... come la chiamavano?.... che so io?.... La legge Santuaria.... per un verso era proprio cosa santa.... chè prima, a furia di spendere in nozze, le famiglie andavan in rovina.
—Un libricciuolo di donna ricamato di perle e fornito d’ariento....
—Eh! se aveste veduto la strada qui avanti alla casa, era tutta coperta d’una tenda di teli rossi e bianchi, retta da stili, e v’era sotto un ricinto di panche coperte d’arazzi.
—Una filza di pater nostri di coralli.
—Una cintola di broccato paonazzo fornita d’ariento.
—Un pajo di calze di rosino.
—Un bacino d’ottone da mano.
—Un boccale a detto bacino.
—Un pettine d’avorio.
—Due borse d’oro e di seta.
—Un anello d’ariento da cucire.
—Uno specchio d’osso intarsiato.
—.... E.... come dicevo.... i trombetti della Signoria sulle scalere di Santa Maria maggiore, e le trombe, co’ pendoni bianchi e ’l giglio rosso in mezzo! e tanti fiori, e tanta mortella... e saranno stati da 200 tra giovani e gentildonne in istrada aspettando fosse ora del desinare.... e che gale! e che ricchezze!... Ma vostra madre M. Fiore ell’era degli Albizzi, e portava 1000 lire di dote!.... e gli Albizzi, prima che messer Rinaldo si rovinasse, era la prima casa di Firenze. Le cose non andavano com’oggi giorno, allora....
—Un pajo di forfici.
—Un pajo di scarpelli da occhielli.
—Nastri di più ragioni, e refe di più colori.
—Una stola bianca lavorata di seta.
—Una coda di cavallo da pettini lavorata di seta[47]....
—Allora Fra Girolamo non avea vietati ancora[490] i desinari, le veglie, le feste che si facean per le nozze.... non avea ordinate le compagnie de’ fanciulli che andasser per le case a domandar l’Anatema, per abbruciare poi tutto in piazza..... Era un sant’uomo! e vero.... ma egli arse pure allora di gran belle robe!.... e messer Niccolò volle che vostra madre desse a codesti fanciulli vesti, cappelliere, e lisci, e liuti, e pitture che valevano di gran centinaja di fiorini.... Poverina! gliene sapea pur male, e non voleva... ma il babbo disse: voglio.... chi potea opporsegli?..... Egli avea un ritratto di M. Fiore per mano del Francia.... una bellezza! parea vivo. Volle che anche codesto si ardesse.—
—Oh! bene, ringraziamo Iddio sempre di quel che abbiamo—rispondeva Laudomia.
—Eh! lo so, povera signorina, voi non avete la mente alle gale ed al sollazzi! Poco v’importa di codeste cose.... ed avete ragione!.... dicevo per dire.... voi divenite donna del più bravo e dabben giovane di Firenze.... e questo vi basta.... e Iddio e la santissima Nunziata vi benediranno, e sarete felice e contenta come meritate.... Oh! sì, vedete, il cuore mi dice che non avrete più guai.... ed io ho sempre veduto che questi presentimenti non isbagliano.—
—Iddio ti senta, Fede:—rispose Laudomia, ed intanto in queste occupazioni venne passando quel giorno, che Lamberto spese anch’esso in dare assetto alle sue cose, nel procurar le carte necessarie[491] al contratto, e nel visitare in Santa Maria Novella il luogo ov’era sepolta sua madre, alla quale, entrando nel nuovo stato, volle consacrare i primi pensieri. Giunta la sera, si riunì la famiglia nella camera di Niccolò, e non tardarono a comparire gli amici invitati, messer Tommaso Grossi notajo, e tutti insieme, a piede (Niccolò avanti cogli sposi e gli altri dietro) si condussero alla chiesa di S. Marco.
A mezza navata era stata posta una tavola con suvvi un tappeto, ed intorno intorno seggioloni e sgabelli: pochi candelieri illuminavano la chiesa, ove Niccolò e la sua comitiva, ricevuti alla porta da Fra Benedetto e Fra Zaccaria, entrarono, ed appresso una moltitudine d’operaj dell’arte della seta, di soldati conoscenti di Lamberto, e di popolo minuto, che allogandosi lungo le pareti faceano cerchio intorno alla tavola ove dovea farsi il contratto.
Quella moltitudine era tenuta in rispetto ed in silenzio dalla presenza di Niccolò, e soltanto s’udivan sommessamente bisbigliare tratto tratto poche parole, che venivan dette tra vicini all’orecchio, tutte piene di lodi e di maraviglie per la bellezza, pel soave ed augusto contegno della sposa, che era tale in quel punto da fissare tutti gli sguardi e soggiogar tutti i cuori.
Vestita di bianco, con un lungo velo fermato sulla fronte da una ghirlanda di fiori di melarancio, nel passare tra tanti sguardi, nel moversi,[492] nel sedere al luogo che da Fra Benedetto le venne indicato, appariva in lei una certa maestà senza orgoglio, una timidezza senza impaccio, una gioja temperata da così celesti pensieri, che tutti gli astanti guardandola si sentivan sottomessi, direi quasi all’adorazione.
Niccolò sedeva sul seggiolone posto nel mezzo della tavola volgendo le spalle alla porta. Alla sua destra la sposa, poi Lisa e Troilo co’ fratelli: alla sinistra Lamberto, gli amici che dovean servir di testimonj, e tra gli altri Fanfulla; su un lato i due frati ed il notajo, il quale, levatosi in piede, cominciò a leggere il contratto in questa forma:
Anno 1529 die 23 Novemb.; Lambertus quondam Petri de populo S. Joannis de Florentia, recepit a D. Laudomia, filia Nicolai, quondam Cionis. de eodem populo S. Joannis de Florentia, sponsa dicti Lamberti, nomine dotis Libras 1010. Florent. parv. scilicet Libras 863 in uno Podere cum domibus et habituro in populo d. Gavinana. Et libras 88 et solidos 10, in uno casolari posito in populo S. Laurentii de Florent. 1. d. Croce di via. Et libras 59 in pecunia et aliis rebus mobilibus ec., ideoque propter nuptias, et vice Morgincap secundum usum Civit. Florentiae praedictus Lambertus fecit praedictae D. Laudomiae donationem de ipsius bonis libras 30 Flor. Parv.
Actum Florentiae testibus ec.
Postea incuntinenti coram dictis testibus, Lambertus[493] et D. Laudomia, per mutuum consensum inter se intervenientem et anuli dationem et receptionem, matrimonium ad invicem contraxerunt. Ego Thomas Grossi, quondam Francisci, de pago Bellanensi Imperiali auct. Iudex atque Notarius publicus rogatus scripsi.
Lamberto, che non s’era immischiato nella compilazione di questo contratto, e neppur sapeva che cosa contenesse, sentì al cuore il gentil pensiero di Niccolò, di fargli dono, a titolo di dote, della casetta ove sua madre avea passato i suoi ultimi anni: gettò un’occhiata di gratitudine al vecchio, un’altra più tenera a Laudomia, ed intanto il notajo, preso un bacile sul quale erano due anelli, si mosse per venir a presentarlo agli sposi affinchè li barattassero fra loro.
Nella circostante folla si vedevano, come dicemmo, di molti soldati, senz’arme la maggior parte, o soltanto col corsaletto od il giaco, come quelli che non erano sull’andare a combattere. Tra essi, in prima fila, e soltanto pochi passi lontano dagli sposi, da più persone, sin dal principio della cerimonia, n’era stato notato uno il quale, per esser coperto d’acciajo da capo a piedi, colla visiera calata, per la sua totale immobilità, per una certa impostatura insolita, richiamava tratto tratto gli sguardi curiosi di chi gli avea già posto mente una volta.
—Egli crede star sulla mura all’archibusate, e non in chiesa, diceva uno—E’ pare ch’egli abbia[494] freddo, o la febbre! Egli trema tutto!—osservava un altro.
Quando il notajo ebbe presentato agli sposi gli anelli, e che essi, accostatisi, a vicenda se li scambiarono, volsero a un tratto il capo, e l’intera adunanza con loro, ad un poco di rumore levatosi intorno a quell’uomo tutto di ferro. I suoi vicini avean udito come una voce indistinta e soffocata risuonare nel concavo dell’elmetto, s’era mutato sulle gambe in qua e in là due o tre volte, quasi perdesse l’equilibrio, tantochè taluno temendo non cadesse, l’avea retto per le braccia e per le spalle. Una voce poco lontana disse, abbastanza alto da poter essere udita:—Egli era trebbiano eh?—e molti sotto i baffi a sghignazzare. Poi un altro:—Ell’è pure una gran vergogna, venir in chiesa con quella poca cotta!—E così ognuno diceva la sua. Allora il soldato, scagliata in giro un’occhiata, che si vide balenar pe’ buchi della visiera, aprì la folla cogli acuti gomiti dell’armatura, e tra il mormorìo di chi gli brontolava dietro, si tolse di là ed uscì di chiesa. La cosa si quietò subito, e nessuno si curò più di lui.
Finita la cerimonia, i frati fecero sgombrare tutti coloro che non erano della famiglia de’ Lapi, o loro consorti ed amici. Mentre questi aspettavano che si fosse interamente sciolto quel nodo di popolo, che uscendo occupava la porta, messer Niccolò diceva a Fra Benedetto, sospirando un poco, eppure sereno in volto:
—Iddio m’ha colpito con grandi flagelli in questa chiesa.... in quest’istesso luogo! Ora la sua misericordia vuole che vi trovi in compenso la maggior consolazione che potessi provare prima di morire! Sia lodato il suo santo nome!.... Odi, Lamberto, figliuol mio! Nel darti oggi Laudomia, io credo, io spero averti fatto quel maggior dono che per me si poteva.... ov’io creda il vero, sappi ch’io adempio ad un grand’obbligo, alla promessa ch’io feci a tuo padre su questi stessi marmi che calchiamo, bagnati, tant’anni sono, col suo sangue ch’egli sparse per me. Vedi.... vien qua.... vedi tu la pietra bianca di quest’avello, ell’era rossa del sangue di tuo padre, quella terribil notte in cui sostenemmo l’assalto per difendere il glorioso Fra Girolamo, e sperando camparlo.... Ma Iddio pe’ nostri peccati aveva stabilito altrimenti.... Qui, io solo, ravvolto tra nemici, io morivo al certo.... ma Piero tuo padre volle morir per me! Possa l’anima sua valorosa veder dal cielo ch’io t’abbraccio, t’accetto per figliuolo, e sciolgo così la mia promessa!—Possa egli serbar immacolato e felice l’amore che vi giuraste, far sì ch’egli vinca sempre nel vostro cuore ogn’altro affetto.... e ceda soltanto all’amore augusto e santo che voi dovete alla patria ed alla sua libertà.—
—Faccia Iddio che sieno salve ambedue; disse a voce bassa Laudomia, ed in cuore soggiunse: «Ed il mio Lamberto con esse»!—
Parve tempo allora a Niccolò di partire, e salutati[496] i frati e ringraziatili, disse a Fra Benedetto che tra due giorni sarebbero ritornati per la benedizione nuziale; e coll’ordine medesimo, col quale erano venuti, tutti insieme s’avviarono a casa.
Mona Fede intanto, non del tutto ubbidiente ai voleri di Niccolò, s’era ingegnata di adornare nel miglior modo possibile le camere terrene; e nella prima, che serviva di passo per andar a quella da letto, aveva apparecchiato per la cena molto pulitamente, con molti fiori e molti lumi, ajutata da Maurizio famiglio di Lamberto. Mentre gli sposi erano in S. Marco, e ch’essa attendeva a quest’apparecchio tutta premurosa, temendo non le capitassero addosso prima d’averlo finito, era stato picchiato al portone di strada «Proprio ora ci capitano!» avea detto brontolando, quando non ho per ajutarmi altri che questa tartaruga! e, lasciata a Maurizio la bisogna di asciugar certi piattelli che si trovava in quel momento tra mani, corse ad aprire: dopo mezzo minuto era già ritornata, e strappando di mano al servo lo sciugamani, che veniva adoprando non troppo a suo modo, diceva:
—Non si può aver un minuto di bene con questi soldati!.... era un uomo d’arme.... colla visiera calata come andasse a giostrare.... e’ voleva Lamberto!.... Sì! aspetta!.... proprio e’ vuol dar retta a lui ora!.... Gli ho detto ch’egli è in S. Marco, e gli ho chiuso l’uscio in viso....—
E senza più pensarvi seguitava a correre innanzi e indietro per le sue faccende, colle pianelle calzate[497] sulle calcagna, e l’andare svelto come avesse vent’anni: tantochè, quando sentì per istrada il bisbiglio e lo scarpiccio della brigata che ritornava, aveva accesa appunto l’ultima candela, e da Maurizio era stato intorno alla mensa collocato l’ultimo sgabello.
Corse a spalancare il portone per esser la prima a dare il ben tornato agli sposi, parendole cosa importantissima, secondo la teoria sugli augurj, che tornando in casa la prima volta dopo essersi dati gli anelli, udissero parole di felice presagio. Più volte aveva teso l’orecchio, se que’ benedetti leoni, che in tante occasioni le avean servito a legger così maravigliosamente, a parer suo, nell’avvenire, si sentissero ruggire, ma la Dio grazia tacevano.
Giunta sul limitare, mentre tirava il chiavistello, s’accorse però che la granata era stata lasciata dietro l’uscio (cattivo augurio secondo l’opinione delle donne in Firenze) e che in terra proprio sul passo, v’era per caso due paglie in croce.
—E’ si sarebbe rotte le braccia, quel disutilaccio, a dar una spazzata!—disse dando di piglio alla granata e spazzando; raccolta poi colla destra una di quelle paglie se la buttò dietro la schiena sulla spalla sinistra, e con questo potente scongiuro si sentì rassicurata sulla sorte futura de’ nuovi sposi.
—Felicità, e salute per cent’anni, signorina: disse la vecchia a Laudomia, osservando di pronunziare[498] queste parole appunto in quella che la sposa varcava la soglia; e volle baciarle la mano, ma ebbe invece un abbraccio, al quale corrispose tutta amorosa e riverente, e così entrati gli uni dopo gli altri, diceva Niccolò:
—M. Fede, io non avevo detto di far tanta luminiera!—
Ma il rimprovero venne corretto da un sorriso, e, passato innanzi, andò a sedere al fuoco sul suo seggiolone, attorno al quale si raccolse la famiglia aspettando d’esser chiamati in tavola.
Laudomia, che era uscita un momento colla sorella per torsi il velo e la ghirlanda dal capo, tornò; e sedutasi presso Lamberto, cominciò a parlar seco quelle intime ed importantissime inezie, che nascono e si moltiplicano all’infinito tra chi si vuol bene; ed intanto, Troilo, la Lisa, i fratelli e gli amici facean crocchio un po’ in disparte per non dar soggezione agli sposi. Tutti i visi eran sereni, tutte le bocche sorridenti, e quelle camere stesse, tutte scintillanti di lumi, ripulite, adornate con maggior cura, apparivan più gaje, e parevan promettere per quella sera una veglia piacevole, lieta, e dissimile per conseguenza dalle consuete, piene di pensieri malinconici e pungenti; quando vennero picchiati due colpi al portone, e poco stante comparì sulla porta della camera un uomo tutto di ferro, che rimase un momento immobile guardandosi intorno, non senza maraviglia degli astanti, de’ quali molti ravvisarono il soldato che s’era[499] poco prima fatto vedere in S. Marco, e non potevano immaginare chi fosse, o che cosa cercasse.
—Che ci arrechi, valentuomo? Domandò Niccolò, e l’altro, con voce che mal s’udiva, suonando chiusa nell’elmo, disse, volgendosi a Lamberto, e porgendogli un foglio suggellato:
—Per parte del Capitan Generale.—
Lamberto, lasciando il posto che occupava al fianco di Laudomia, s’alzò prendendo il foglio, ed apertolo, vi lesse di doversi armare sull’attimo, montar a cavallo, seguire chi gli avea recato quest’ordine, ed unirsi alla compagnia che si faceva sulla piazza di S. Spirito per andare ove importava pel servigio della città.
Che cosa provasse il giovane leggendo quel comando così assoluto in tal momento, lo immagini il lettore.
Laudomia, che fissa e sbigottita gli tenea gli occhi in viso mentre stava leggendo, vide farglisi accese le gote, e si mosse verso lui spaventata: egli, guardandola con mesto e tenero sorriso, come per rassicurarla, porse il foglio a Niccolò, che osservando ora gli uni ora gli altri, cominciava ad entrare in qualche sospetto.
Lo lesse due volte, mentre tutti da lui solo pendevano, ed alla povera Laudomia ogni secondo pareva un secolo; alla fine, levato al cielo lo sguardo sicuro ed infiammato, diceva:
—Sì, mio Dio! ma almeno sia salva Firenze! e mentre pronunziava queste parole, la timida Laudomia,[500] immemore d’ogni rispetto, si gettava su quel foglio, lo strappava di mano al padre, ed in un lampo già l’avea letto. Rimase un momento coll’occhio basso, inchiodato su quello scritto, poi alzandolo umido e supplichevole in viso ora al padre ora a Lamberto, pareva implorasse il conforto d’un po’ di speranza, cercasse scoprirvi un’ombra di possibilità d’eludere quel comando, di sottrarvisi in qualche modo. Ma invece sulla fronte d’ambidue, lesse irrevocabile la sentenza che la condannava a nuove ed infinite angosce: ed educata, com’era, da Niccolò, rinunziò del tutto alle concepite speranze, e rimase muta e lagrimosa, ma rassegnata.
Saputasi alla fine la cosa anche da’ circostanti, ne mostrarono tutti grandissimo travaglio.
—Oh! come può star codesto, diceva Vieri, se la tua compagnia, Lamberto, non doveva uscir di Firenze?—
Il giovane si stringea nelle spalle, chè esso pure ne era stato fatto sicuro, ed avea perciò creduto poter attendere liberamente a queste nozze.
—Non vi sarrebbe modo, soggiungeva Lisa, di fargli dare lo scambio?—
Troilo allora facendosi avanti, disse risolutamente:
—Ed io voglio esser quello.... Lamberto.... fratello!.... e voi, messer Niccolò, non m’avete a negar questa grazia.... non è ragione ch’egli debba lasciar la sposa, ed andare, Dio sa dove, in un momento[501] come questo.... Corro dal signor Malatesta, e torno con la licenza d’andar io in suo luogo....—
Ed il mariuolo, che sapeva di poter in quest’occasione far gran pompa di generosità, con poca spesa, si movea per uscire; ma Lisa di nascosto gli diede una tirata alla falda della cappa, e Lamberto in palese l’arrestò pel braccio, e come leale ed ignaro del simulare, credette sincera la profferta di Troilo, e gliene seppe grado.
—Io ti ringrazio, fratello, disse guardandolo con affetto (e fu la prima volta) io ti ringrazio, ma non ci starebbe l’onor mio.... tu sai quale sia il debito del soldato.... ma di questa tua profferta io me ne ricorderò.—E gli strinse la mano.
—La patria prima di tutto, figliuoli! disse con gran voce Niccolò. Ubbidir cecamente e non cercar più in là.... Lamberto, Laudomia.... io ve l’aveva detto.... me n’incresce insino al cuore.... ma questo non è tempo di sospiri.... è tempo d’ardito e franco operare.—
Poi, presa pel braccio Laudomia, e chinandosele all’orecchio, le diceva:
—Ricordati di quel mio discorso.... mostrarsi forte, serena.... non tornar troppo agli abbracci.... non dir di quelle cose che vanno al cuore troppo diritte....—
E la povera Laudomia col viso basso, accennava di sì col capo, chè sentendosi imminente lo scoppiare dei singhiozzi, non s’attentava di parlare.
Durante questi contrasti, l’uomo di ferro era rimasto sempre immobile appoggiato allo stipite della porta; se non che una volta s’era fatto innanzi due passi come per voler parlare, e poi, quasi mutato pensiero, era tornato al luogo di prima. In quel punto la generosa Selvaggia non potendo reggere alla vista del dolore di Lamberto, del pianto, persino della sua rivale, s’era risoluta venir avanti, palesarsi, palesar tutto. Ma la forza d’eseguire il nobil proposito, di rinunciare a veder da solo a sola Lamberto, a ragionar seco una volta ancora, le era mancata ad un tratto «Sarà breve.... sarà l’ultimo questo dolore!» disse fra sè stessa, e riprese il primo disegno.
Il tempo stringeva. Lamberto chiamò il suo famiglio:
—Maurizio, va a sellare i cavalli... torrai la lancia nuova di cerro... e nell’uscire, insegna a questo valentuomo il luogo ov’è il mio arnese, egli, in sua cortesia, e per avanzar tempo, m’ajuterà armarmi.... non è egli vero? (soggiungea vôlto a Selvaggia). In grazia.... non per comando, va con costui, ed arrecami l’arme.... ben vedi i momenti che m’avanzano, son pochi.... non vorrei buttarli... se hai mai provato (soggiungea sorridendo) che cosa sia voler bene.... tu saprai quel che vuol dire.—
Selvaggia, col cuore ridotto, come si può immaginare, ma contenta pure d’ubbidire, si mosse dietro Maurizio col passo più fermo che potè; e ritornò[503] poco dopo, coll’arnese di Lamberto tutto in un fascio; lo depose in terra, si preparò a vestirnelo, e per potersi maneggiar meglio nell’affibbiargli le corregge, si tolse ambo i guanti di ferro.
Mentr’essa sollecitava da un lato, Laudomia anch’essa dall’altro ajutava la bisogna, e nessuno diceva parola. Vieri, ponendo mente alle mani dello sconosciuto soldato, veniva intanto pensando come mai un uomo d’arme può egli mantenersi le mani così belle e dilicate! Ma nè Laudomia nè Lamberto non avean il capo allora a simili osservazioni.
In quel momento di tristezza e di silenzio generale, si sentì per istrada nascer lontano lo strepito d’un cavallo che batteva il lastrico di gran trotto. Laudomia si fermò ascoltando «Oh, fosse mai un messo del capitano che mutasse l’ordine!.... Tuttociò nascesse da qualche errore?.... fosse stato uno scherzo per farmi paura?»—Ed il cavallo veniva innanzi: giunto al portone si fermò a un tratto. «Vien proprio qui» disse Laudomia cresciuta di speranza.
Non pensava, poveretta, che la stalla ove Lamberto tenea il suo cavallo era un po’ lontana, e che era Maurizio, il quale dopo averlo sellato; per far più presto, l’avea condotto di trotto. Entrato in quella il famiglio, disse che i cavalli eran all’ordine, e addio l’ultima speranza di Laudomia.
Lamberto, armato da capo a piedi, e tutto scintillante d’acciajo e d’oro, colla visiera alta, ed il viso pallido ma sicuro, abbracciò Niccolò, e tutti gli altri senza parlare: voleva abbracciare anche Fanfulla, ma appena giunta Selvaggia e saputo l’ordine che arrecava, egli era scomparso senza dir addio a nessuno; Lamberto girò intorno lo sguardo, e non vedendolo, disse: «Mi saluterete anche Fanfulla.» Non avea finito di dirlo, ch’egli entrò col fiato grosso come di chi è venuto correndo.
Egli avea indosso il corsaletto, i cosciali ed il bacinetto de’ fanti, ed un partigianone in mano.
—Malann’aggia chi ha piantato il Renajo dei Serristori tanto lontano! disse soffiando per riprender l’anelito, e a voler correr il palio col corsaletto le gambe di Fanfulla sono un pò stagionate.... non importa, anche questa l’hanno fatta.... insomma, messer Lamberto, non c’è rimedio, bisogna andare.... ero corso così per vedere se volevano mandar me invece, che io non lascio nessuno addietro a piangere... ed a questo mio cuojo, una sforacchiata più o meno, è poco male! ma non c’è verso.... e io allora subito addosso la corazza.... questo finocchio in mano.... e son qua.... e vengo con voi in villa. Se non vi curate d’esser in compagnia d’un povero fante.... che.... dopo un certo caso.... fo il mestiere a piedi.... ma prima di morire.... basta!... E, sentite, M. Laudomia, messer Lamberto non ha mestieri l’ajutino cacciarsi le mosche dal naso, ma[505] non importa.... voglio esser io a rimenarvelo qui vivo e sano.... e sappiate che io so quel che vi dico, e voi lo rivedrete a ogni modo.—
Laudomia corse al buon Fanfulla colle mani giunte, e per poco l’abbracciava, chè le sue parole le parvero venir dal cielo.
—Oh! a piedi voi non verrete,—disse Lamberto.
E volle togliesse il cavallo del suo famiglio a ogni modo. Niccolò fece in fretta cercare d’un arnese da cavaliere, e ne presentò Fanfulla, al quale parve esser tornato vivo ed all’onor del mondo, vedendosi fuori di quella maladetta fanteria che avea tanto in uggia.
Così venuti tutti insieme al portone trovarono Selvaggia in sella: vi saltò alla sua volta Fanfulla, senza quasi toccare staffa, e non potè trattenere un ah! d’allegrezza, quando si sentì guizzare fra le cosce un cavallo, e d’altri spiriti che non era il suo vecchio Grifone.
Laudomia era venuta sin qui senza profferir parola per non disubbidire al padre, solo si stringeva al braccio di Lamberto, abbandonata di tutto peso; all’ultimo, disse a voce bassa ed interrotta «Dio ti difenda!» Poi chiuse gli occhi, sentì sulla sua mano imprimersi tremanti le labbra del suo sposo; poco stante udì i tre cavalli partir di galoppo, si sentì allora abbracciare, e si trovò il capo sul petto di Niccolò, che stringendola con tenerezza, le disse:
—Son contento di te, figliuola. Ora puoi piangere.—
E la poverina diede in un pianto dirotto.
Messer Francesco Ferruccio, che trovammo a veglia in casa di Niccolò ne’ primi giorni dell’assedio, se ne viveva allora in Firenze pressochè dimenticato da’ signori Dieci di Libertà, finchè dovendosi creare un commissario per Prato, ve lo mandarono, per consiglio di messer Donato Giannotti loro segretario, cui sapeva male che un tanto uomo non venisse adoperato quando più bisognava.
Stette in Prato poco tempo; e per contrasti avuti con Lorenzo di Tommaso Sadorini, podestà della terra, venne rimosso e mandato in Empoli, grosso borgo posto quasi nel centro del Val d’Arno di sotto, sulla via di Pisa, a 16 miglia di Firenze, (oggi 18) per l’antica strada che passa pel poggio di Malmantile.
I suoi portamenti in questa commissaria furon quali dovean aspettarsi dalla virtù sua, e dalla sua vita passata. Aggiunse nuove fortificazioni alle mura della terra, che di forti divennero fortissime ed inespugnabili;[508] e quando conobbe di non poter esservi sforzato, si diede a molestare i nemici che tenevano i castelli circonvicini, con frequenti ed ardite fazioni, per le quali venne presto in grandissimo grido, ed ottenne il favore della Signoria e dell’universale.
A questi giorni egli aveva scritto a’ signori Dieci, esponendo minutamente il disegno di nuove imprese che avea in animo di fare: e fra l’altre, quella di S. Miniato al Tedesco, allora occupato dagli Spagnoli. Domandava ajuti di cavalli, ed a quest’effetto Amico d’Arsoli e Jacopo Bichi ebbero l’ordine di cavalcare alla volta d’Empoli con 100[48] uomini d’arme, tra i quali per la ribalderia di Troilo, venne compreso anche Lamberto, che seco trasse Fanfulla e Selvaggia nel modo narrato nell’antecedente capitolo.
Quando giunsero in piazza S. Spirito, trovaron la compagnia già a cavallo, ordinata in battaglia su due file, volta la fronte alla chiesa, la destra un pò in disparte, quattro trombetti, ed innanzi sullo spazzo, i due condottieri Jacopo Bichi ed Amico d’Arsoli, coi loro banderai e due sergenti. Lamberto ed i suoi compagni erano gli ultimi a giungere, e mentre attraversavan la piazza di buon trotto per andar a porsi in fila cogli altri, Amico d’Arsoli gridava loro dietro:
—Animo, animo! perdio!—col dolce modo che conosce chi nel mestier dell’armi ha dovuto ubbidire ad uno di que’ vecchi soldati, rigidi sulla disciplina, che hanno in orrore soprattutto la specie, detta dai Francesi trainards.
Radunata così la compagnia, e fatto dal sergente l’appello per veder se nessuno mancasse, l’Arsoli, tratta la spada, volse il cavallo, dando ad alta voce l’ordine del muoversi.
—Per due dalla destra.... Avanti!—
E così alla sfilata, pel Fondaccio, vennero al ponte alla Carraja, ed alla porta al Prato, d’onde uscirono alla campagna, procedendo verso Signa.
La notte era serena, l’aria sottile e rigida, e splendeva uno stellato scintillante come accade sovente in inverno. I soldati co’ loro mantelli di panno oscuro camminavano di buon passo formando due lunghe file brune sullo sterrato della strada leggermente imbiancato dalla brina, ed il silenzio non era interrotto che da poche parole bisbigliate tratto tratto fra vicini, o da qualche bestemmia scagliata quando un cavallo sdrucciolava, ed il cavaliere lo puniva con un buon pajo di spronate.
Lamberto, giunto all’ultimo in piazza, s’era posto alla sinistra della compagnia, e secondo l’ordine della mossa, si trovava ora alla coda. Questa, per un curioso fenomeno, osservato senza dubbio da quanti tra miei lettori ebbero a militare, debbe sempre, ove voglia tenersi unita alla testa, camminar più veloce di essa. Egli era perciò costretto[510] ogni tanto, cogli altri soldati del retroguardo, a levar il trotto, finchè giungessero alle groppe di quelli che li precedevano: e poi di nuovo a poco a poco restavano addietro, e di nuovo pungendo i cavalli racquistavano la perduta distanza: ma per durare in questa alternativa un po’ a lungo sarebbe stato necessario ch’egli avesse avuto il capo a ciò che faceva, e non istesse, come in effetto stava, col pensiero a Firenze.
In ogn’altra occasione, quella partenza notturna, per una fazione pericolosa e d’importanza sarebbe stata per esso una vera festa; ma a quel punto (e chi sarebbe tanto severo da condannarlo?) egli si sentiva invece pieno il cuore d’un lutto, d’una mestizia indefinibile, parendogli vedere in quest’improvviso impedimento l’infallibile indizio d’una fatalità che lo perseguitasse: per sè solo poco l’avrebbe curata, ma oramai come separare dal suo destino quello di Laudomia?
Intanto la testa della compagnia, varcato già da un pezzo il ponte a Signa, era giunto ove la strada prende pel poggio verso Malmantile, e serpeggia per un buon tratto chiusa tra gli scoscendimenti della collina vestita di folte boscaglie. Quando Fanfulla s’accorse che stavano per entrare in quelle gole, passo pericoloso, e molto a proposito per tendervi agguati, previde, siccome pratico, che i capitani avrebber voluto prima di porvi il piede rannodare la compagnia, e far precedere esploratori.... Non trovandosi accanto Lamberto, si volse,[511] e lo vide che veniva molto lontano. Torse la briglia, e di galoppo gli si fece incontro, gridandogli:
—Lavorate di sproni, messer Lamberto, se non volete sentirne quattro dall’Arsoli.... in quella bocca di forno dove siam per metterci, non è muso da patire che gli uomini suoi si sbandino....—
Si scosse Lamberto, spinse il cavallo, raggiunsero la compagnia, e con essi Selvaggia, che era rimasta sempre a fianco del giovane senza mai trovar modo e coraggio di scoprirsegli, o dirgli pure una parola. Si rodeva ora d’aver perduta quell’occasione, che s’era procurata con tanto studio e tante fatiche, ripromettendosi di non esser un’altra volta cotanto timida e dappoco: e mentre appunto giungeva a mettersi in fila coi compagni, la truppa, al comando dell’Arsoli, fece alto.
Egli avrebbe avuto mestieri di fanti spediti, onde ricercar le soprastanti macchie, ed assicurarsi il passo:, ma non avea se non uomini d’arme carichi di ferro, che mal potevano arrampicarsi per quell’erte. Gli convenne dunque contentarsi di far precedere otto barbute a guisa d’antiguardo, e quando pensò che potessero aver oramai varcato i passi di maggior pericolo, si mosse col resto delle sue genti ed entrò fra quegli scoscesi gioghi, che nell’oscurità apparivano a modo di masse opache, addentellate in cento bizzarri contorni ove le vette spiccavano sullo stellato del cielo.
La compagnia saliva di buon passo serrata insieme,[512] ed ogni soldato s’era sciolto dal mantello per aver le mani libere e pronte; l’Arsoli ed il Bichi precedevano francamente colla lancia alla coscia, e l’eco ripeteva lo scalpito de’ cavalli, e l’urtarsi a minuto delle staffe e degli stinieri.
Il conversar sommesso, ma tranquillo, che s’udiva qua e là tra le file, mostrava la sicurtà di quelle genti nell’occasione che suol mettere a maggior prova l’animo de’ soldati; cioè quando sovrasta un pericolo oscuro, indefinito, e contro il quale non valgon l’armi o le difese, qual era appunto in quest’occasione, ove una debol mano di nemici avrebbe potuto dall’alto col solo rotolar sassi disfarli senza rimedio.
Ma costoro avean da un pezzo promesso alla patria il sacrificio della loro vita, e la promessa l’attennero quasi tutti a Gavinana, ove l’ossa loro onorate non sono ancora a’ nostri giorni, ridotte in polvere affatto, ed arrestano talvolta ne’ campi la marra del contadino, che non sa quanta virtù, quanta gloria calpesti.
La fortuna che colà gli aspettava, vergognandosi forse di dar loro quivi una morte tenebrosa e senza vendetta, non avea condotto agli agguati nemico veruno, onde passaron liberi; e varcati sotto l’antico castello del Malmantile, scesero su M. Lupo e si trovarono presto fuori di quelle foci, ove incomincia il Pian d’Empoli, allargandosi il Val d’Arno fra più lontane e men aspre colline.
L’ordine tenuto nel tratto di strada ov’era sospetto[513] di pericolo, si rallentò di nuovo a poco a poco quando la truppa si trovò in luoghi più sicuri ed aperti, e Selvaggia, che non s’era mai spiccata da Lamberto, veniva a bello studio rattenendo la briglia, sperando che il cavallo di lui, lasciato in balìa di sè dal cavaliere, venisse per naturale istinto anch’esso a rallentare il passo, e potesse così di nuovo trovarsi sola col giovane, risoluta questa volta a dirgli.... che cosa? Neppur lo sapeva la poveretta, chè ora mai conosceva troppo lo stato di Lamberto per poter conservare ombra di speranza; e palesare la tremenda passione che la consumava a chi non potea corrisponderle se non con una sterile ed umiliante pietà, era pur cosa dura. Ma l’amore, che viene a patti coll’orgoglio, dovrebbe piuttosto dirsi amor proprio, e tale non era quel di Selvaggia.
—Troverò parole, pensava, e se non ne trovassi, vedrà il mio pianto, la mia disperazione:.... mi getterò a’ suoi piedi, a quelli del suo cavallo, che mi calpesti.... ma ch’io esca una volta di questa vita d’inferno.—
In cotali infermi pensieri le era intanto venuto fatto a poco a poco di rimaner addietro col giovane com’era suo disegno. L’alto silenzio della notte, appena interrotto dal romper lontano dell’acque d’Arno, o dal sordo abbajar de’ cani ne’ circostanti casali, le lasciava udire il frequente respiro di Lamberto, che venendole a paro, senza mai schiudere le labbra, neppur forse s’avvedeva di averla accanto.[514] Essa lo veniva guardando colla speranza che volgesse una volta il viso verso lei e nascesse così occasione di dir una qualunque parola tanto per principiare; ma la speranza fu vana. Eppure parlare bisognava.
Per fissare a sè stessa un termine a quest’incertezze che le facean balzare il cuore in modo ora mai da non potervi reggere, notò un albero un po’ lontano piantato accanto alla strada, e disse «quando sarem là dovrò dir la prima parola.»
Ma giunse all’albero con un battito di cuore che pareva le volesse scoppiare nel petto, aprì le labbra, ne uscì un suono inarticolato, ma non potè formar parola o frase nessuna, e fu cotanto potente il contrasto che l’agitava in quel momento, tanta la smania che l’invase, che non trovando l’inferma natura altro scampo le s’innondarono gli occhi di lagrime, con uno scoppiar di singhiozzi tant’alto, che Lamberto distolto da’ suoi pensieri si volse presto pieno di meraviglia, che tenendo il suo compagno un uomo d’arme, come gli altri, gli pareva il caso assai strano.
—Oh! che cos’è questa? disse tenendo un poco la briglia, e fissando con tanto d’occhi in volto di Selvaggia, che mal potea discernere in quell’oscurità, quantunque avesse la visiera alzata. Ripetè due o tre volte la sua interrogazione senza ottener risposta, e mezzo in sospetto non fosse data la volta al cervello del suo compagno, quando alla fine udì dirsi con voce tutta ansante, e della quale[515] era impossibile non riconoscesse la terribile verità.
—E s’io non ho difesa contro te.... ch’io t’ho fuggito come volesti!.... Se non ho potuto morire.... ed ho dovuto pur ritornarti dinanzi, che colpa n’ho io?.... Io ti seguivo zitta, senza darti noja.... senza aver ardire di dirti una parola.... e mi pareva pure di non esser più sola sulla terra.... e se questa smania ora m’ha vinta, se non ho potuto pianger tanto basso che non mi sentissi, che colpa n’ho io?.... Oramai so tutto.... ho veduto con quest’occhi.... So quel che tocca ad una disgraziata mia pari... ma pensa!.... è l’ultima volta!.... io vorrei.... ti domando....—
E qui non trovando neppur essa che cosa potesse volere o domandare, nè venendole parola nessuna per terminare la frase incominciata, riprese a singhiozzare colla fronte bassa, curva sul collo del suo cavallo, appoggiate le mani al pomo della sella.
Alla voce, e più ancora alle appassionate parole, Lamberto riconobbe Selvaggia, e sentì darsi una botta al cuore, ben prevedendo in quale impaccio fosse per trovarsi. Non avendo ad offrirle nessuna specie di conforto, avrebbe comprato ad ogni prezzo il poterla sanare di quel pazzo ed inutile amore, e per la pietà appunto che sentiva di lei, non v’era cosa che non avesse fatta per ritornarla in pace con sè stessa, e vederla tranquilla e felice. Già prima di quest’incontro, prevedendolo tra le cose possibili, era venuto fra sè stesso considerando quale[516] condotta gli convenisse tenere venendo il caso, pel meglio di quell’infelice; ed avea ragionato così: «S’io le lascio vedere la pietà che m’inspira, e prendo a consolarla con modi amorevoli ed umani, quel suo cuore cotanto ardente, serberà sempre nell’intimo una qualche speranza: tenendomi buono e generoso, m’amerà più che mai. Mi trovi invece duro, superbo, incredulo al suo patire (il rimedio sarà amaro, doloroso per essa ed altrettanto per me!) ma passato quel momento la stima si cangerà forse in dispregio, l’amore in odio.... non penserà più a me dopo qualche giorno, e potrò dire d’averle fatto il solo bene ch’era in mia mano.»
Non vorremmo asserire che questo ultimo risultato non destasse un po’ di rammarico nel giovane, senza ch’egli stesso se lo confessasse, ma comunque fosse, egli era incapace di quel puerile e brutto sentimento che i Francesi chiamano coquetterie, e che non germoglia soltanto nel cuor delle donne; tutto ben ponderato, stabilì dunque di seguire questo suo divisamento, e la botta al cuore che accennammo più sopra fu quella appunto che sente chi, avendo fermata da un pezzo una risoluzione spiacevole ad eseguirsi, vien sorpreso all’improvviso dalla necessità d’adempirla.
—Orsù, Lamberto, disse per rinfrancarsi mentre Selvaggia parlava, pensa al vero bene di questa poveretta, e non a te ed al tuo piacere.—
Quand’ebbe finito, benchè sentisse lacerarsi l’anima da que’ suoi disperati singhiozzi, prese a dirle, simulando, quanto poteva, freddezza ed ironia:
—Ma non sai tu, Selvaggia, che è proprio peccato non sii nata ai tempi del re Arturo, e della Tavola Rotonda?... chè quest’incontri di notte, questi amori infelici, sarebbero stati molto meglio nella selva Ardenna, presso qualche fontana incantata, che non sulla strada maestra d’Empoli, in mezzo a questi campi ancora pieni di fusti di saggina.—
A queste parole il singhiozzar della giovane s’era fermato a un tratto. Lamberto ne prese buon augurio per la riuscita del suo disegno, e proseguiva:
—Siamo nel 1529, Selvaggia mia cara, ed io sono un povero soldato, alla buona, come tutti gli altri, e non un cavalier errante, e non mi chiamo nè Amadigi, nè Galaor, che son morti e sotterrati da un pezzo, Dio gli abbia in pace. Oh! che domin ti metti in capo.... ben inteso, volendo esser persuaso che tu non vogli la baja del fatto mio.... non sai tu ch’io già sono come avessi moglie, e mi convien tenere il cervello a casa e star pe’ fatti miei, e non aver il capo a queste avventure da paladini e da romanzi?—
—Io credevo, da quella sera in poi, là in Lombardia, in riva al Po, ti fossero usciti codesti grilli, e pensavo avessi trovata buona ventura, e, a dirti il vero, ero lungi mille miglia dal pensare al fatto tuo.... e invece eccola qui lei un’altra volta, fresca com’una rosa, e rieccoci da capo!—
La povera giovane, quasi insensata pel dolore all’udir questo amaro parlare, taceva cupa col capo[518] basso, e Lamberto, col cuore anch’esso come si può pensare, pure, facendosi forza, soggiungeva:
—Orsù, Selvaggia, è tempo di far senno; e già tant’è, se non vuoi farlo tu, lo farò io. Tutte queste scene, queste commedie non si sa in che diano, e se vorrai che questa sia stata l’ultima, io l’avrò caro assai. Io non ti posso far bene nessuno.... lasciami dunque in pace, che Dio ti benedica mille volte, e addio.—
—Sì, addio, e per sempre, rispose fuor di sè la giovane, nel cui cuore lo sdegno e l’orgoglio offeso per un momento, sopraffecero l’amore; ma sappi prima.... anima di serpe, chè altro non sei.... sappi che Iddio è giusto.... e ti pagherà colla moneta che meriti, e ti domanderà conto di me, che non m’avea messa al mondo perch’io fossi il tuo trastullo.... ed anch’io, per Dio eterno! ho un cuore, ho un’anima, ho forma umana, e non sono una biscia, un demonio. Sappi che nessun re, nessun principe ha mai posseduto tesoro che valesse il cuore di quest’infelice, che era tuo, e che non meritavi, disgraziato! e non ti bastava respingerlo, hai voluto avvilirlo, insultarlo.... insulti? oltraggi? a me? e credi esser da tanto? credi poter rider di me cui devi la vita? Sì, sappilo, io, e non altri.... là sulla capitana di Spagna, alla battaglia di Salerno... io ricevei nel petto il ferro di quella picca che dovea passarti il cuore.... io, per salvar la tua vita, vissi ne’ dolori, nella miseria, nella disperazione.... ed ora credi che possa un tuo oltraggio salire tant’alto[519] che mi tocchi? Io t’ho compassione, chè Iddio ti prepara quel che tu meriti, e prima di quel che pensi.... e son io che te lo dico, e sappi che quella tua donna, ora, in questo momento, mentre ti parlo, è forse già dove tu non vorresti.... e t’hanno fatto partire solo per aver agio di tortela, e tu, pazzo, non hai saputo scoprire la trappola, ed io conosco chi te l’ha tesa, e so tutto, e non te lo voglio dire, chè ove ti fossi portato con me in altro modo sarei stata da tanto d’avvisarti di tutto, e persino, vedi, disgraziato, che cuore ha Selvaggia! sì, persin d’ajutarti; ed ora, se mi facessi a pezzetti minuti come teste d’aghi non lo saprai. No, no, non lo saprai, e quella tua Laudomia, nè Dio, nè diavoli non la potrebber salvare. Dì, sciagurato, te lo senti ora anche tu l’inferno nel cuore? ve lo senti una volta? Ebbene, abbivilo per sempre, e ora anch’io ti dico addio.—
E voltar il cavallo, cacciargli furiosa gli sproni ne’ fianchi, e partir di carriera rapidissima verso Firenze, fu quanto il dire, Iddio m’ajuti, e dopo due secondi neppur più s’udiva lo scalpitar del cavallo.
Lamberto agitatissimo per le parole udite, per l’oscuro pericolo minacciato a Laudomia, si volse a furia anch’esso per raggiugnerla e fermarla, ma quando il suo cavallo ebbe dato due o tre slanci, conosciuto la cosa impossibile, ed anco rattenuto dal pensiero, ch’egli non poteva in modo nessuno disertar la bandiera, rattenne il freno, e tutto doloroso riprese il suo cammino.
Un momento di riflessione bastò tuttavia a tranquillarlo sull’imminenza del pericolo: in Firenze, in casa di Niccolò, Laudomia non avea che temere, e si persuase che (fosse pur vera la trama scopertagli da Selvaggia) non poteva mai produrre effetto così pronto, e che queste minacce erano state usate da essa per effetto di sdegno soltanto, per fargli dispiacere e metterlo in sospetto: ed in ciò s’apponeva. Tuttavia, pensò tosto, ad ogni buon riguardo, di trovar modo onde far sapere a Laudomia ed al padre quel che avea udito, stessero in sull’avviso, e cercassero se fosse possibile di chiarire il fatto, e risolse, appena giunto ad Empoli, spedire un uomo apposta a Firenze a tal effetto.
Con questi pensieri parte si rassicurava, e seguendo la sua via, sempre riflettendo a quanto aveva udito, finiva col calmarsi interamente, persuadendosi ognor più della vanità delle costei parole; così di pensiero in pensiero venne considerando quanto compassionevol fosse il fatto di quell’infelice che egli avea cotanto aspramente ributtata, pel suo meglio, è vero, ma pure, gli pareva ora che il modo fosse stato troppo crudele; temeva che con quella natura così sfrenata facesse, Dio sa, che cosa: e non poterlo impedire, non poter nemmeno sapere, per lungo tempo forse, dove, come fosse capitata! e se le accadesse qualche disgrazia, doverne aver poi l’eterno rimorso! Stette in due un momento di chieder all’Arsoli licenza di[521] tornare addietro, ma ci stava dell’onor suo il domandarla? Eran questi gli insegnamenti di Niccolò, di porre innanzi a tutto il pensiero della patria?
Costretto da queste riflessioni a tirar innanzi, si volse a pregar Dio, vietasse per sua misericordia, che quell’infelice fuor di senno venisse a qualche rovinoso partito.
Mentre il buon Lamberto veniva formando questi voti, il cavallo di Selvaggia tormentato dagli sproni che gli lavoravano nelle carni vive, atterrito dall’agitarsi furioso del cavaliere che si sentiva sul dorso, divorava la via colle nari aperte e sanguigne, la coda tesa, l’occhio spaventato, sperando sottrarsi a chi tanto fuor d’ogni misura lo maltrattava: la povera bestia crebbe la rapidità del suo correre fin dove gli giunsero le forze, ed in pochi minuti si trovò di nuovo tra’ que’ poggi ove la strada è più ripida e malagevole: qui, non potendone più, si parò sulle quattro zampe tutta molle di sudore ed ansante, e si pose imbizzarrita e feroce a giocar di schiena per torsi di dosso questa insopportabile tribolazione.
Cominciò allora combattersi la più pazza, la più ostinata disfida che si vedesse mai tra cavaliere e cavallo. Il primo colle ginocchia serrate, saldo in arcione come vi fosse legato, dovea pur seguire l’impulso che gli comunicavano le violenti scosse dell’animale, che lo gettava qua e là, come accade ad un albero di salde radici e di pieghevol cima quando il vento l’investe. Erano slanci, saltimontoni,[522] impennate, e lanciandosi il cavallo a un tratto ora in questo, ora in quel lato, teneva tutta la via, e andò a un pelo più volte di non traboccare fuori del muricciuolo che sorge sul ciglio della strada ove il dirupo si scoscende a perpendicolo. Nessuno era spettatore di questa strana battaglia, che durò un buon poco, finchè per istracchi vi poser fine.
Il cavallo tutto trafelato si fermò a un tratto, agitate le ginocchia da un tremito che pareva ogni momento avesse a cadere. Selvaggia si pose la mano alla fronte, che grondava di sudore, e riprendendo fiato anch’essa, si guardò intorno ed in alto, vide che l’alba già tingeva le vette de’ poggi d’una luce azzurra, e nello spazio di cielo che avea sul capo trapassava intanto un volo di corvi, crocitando sull’ale. Stette un momento guardandoli coll’occhio spalancato e fisso, poi, fosse vacillazione di mente, od effetto convulso, diede in uno scroscio di risa spaventoso ed alto che fece rimbombare quella solitudine.
Si ricordò in quel momento d’aver veduto talvolta sui campi di battaglia stormi di codesti uccelli svolazzare lieti e loquaci tra i cadaveri, e tutti in faccende, fare a loro modo festa grandissima della ricca cena che trovavano nelle loro viscere, ed accecata dall’odio che provava in quel momento contro tutti gli uomini indistintamente, dal desiderio di vendetta contro quella razza spietata, cagione d’ogni suo danno, disse, pur seguitando a[523] ridere, tenendo dietro coll’occhio a quegli aerei passeggeri, finchè l’ultimo si nascose dietro le rupi.
—Oh, Dio vi benedica mille volte, o corvi!—
Le venne in mente allora di scavalcare, e saltata a terra, si sdrajò sulla ripa della strada e vi rimase immobile, colla mente in quello stato, che potrebbe paragonarsi al crepuscolo, non oscurata al punto di non conoscere il suo stato presente, e non tanto chiara da poterne dar retto giudizio.
La terra, sulla quale giaceva, era coperta d’una grossa brina, che presto si sciolse in acqua tutta attorno al suo corpo. La poveretta ardeva di febbre.
Quel freddo, quel breve riposo, dopo un poco parvero ristorarla, e le sembrò che la densa caligine dalla quale le veniva ottenebrato l’intelletto pian piano si venisse diradando.
Si vide innanzi agli occhi Lamberto come fosse presente, udì il suono delle sue parole, quasi le profferisse di nuovo, e disse, con quel riso sinistro che non essendo in armonia coll’espressione degli occhi e del resto del viso, sembra piuttosto uno stiramento convulso delle labbra:
—Oh, oh! rider di me!.... Anche gli scherni? Bada al fatto tuo, valentuomo.... chè la cosa potrebbe andare a rovescio alla fine, ed a me toccasse ridere, a te piangere!... Così m’ajutasse il demonio come mi saprei ajutare, se nascesse l’occasione!... e vorrei vederlo quest’uomo perfetto, colla sua gran[524] virtù, colla sua prodezza, che par che tutto sia fango a petto a lui, e quella sua donna, quell’angiolo, quella gran cosa, vorrei vederli, che saprebber dire se toccasse loro domandar pietà colle braccia in croce, a chi? a Selvaggia, alla cortigiana! alla vile, alla pazza, alla sciagurata!—
Si morse il dito, ed alzandolo minaccioso lo scrollava, dicendo:
—Tutti contro me? Sia come volete. Io contro tutti!.... Chi ha più lino farà più tela!.... e la vedremo. Hai veduto sin ora come tratti l’amore?... All’odio adesso! vedrai com’io scherzo.... vedrai se me n’intendo di vendetta.... lasciamici pensare appena due minuti.... eh! io non voglio tener con te i modi soliti.... un par tuo, tanto dappiù d’ogni altro, non debb’esser trattato come un del volgo....—
E col capo basso, le guance e gli occhi lividi ed infossati, stette fissa ruminando mille progetti che, per dir così, si vedean passare sul suo volto come su un cielo burrascoso trasvolano le nubi in cento fantastiche e diverse forme, cacciate dal vento.
Si scosse alla fine come invasa a un tratto da una nuova idea: alzò il capo e lo tenne immobile piegandolo un poco su un lato, nell’atto di chi tende l’orecchio, quasi desse ascolto tutta intenta alla voce che le parlava all’anima, poi disse:
—Questa sarebbe la maggior di tutte. Oh, mi riuscisse!.... ma avrò poi cuore che basti a condurla sino al fine?—
E da quel petto, ove bolliva tanto furore, uscì pure un sospiro. Forse le parve il nuovo progetto troppo doloroso ed enorme.... forse in quel momento la memoria del suo amore le spicciò viva dal cuore, come accade talvolta se si voglia soffocare sotto le ceneri un fuoco ardentissimo, che una falda di fiamma si fa strada, guizza e splende un momento, e poi scompare.
Poco importa del resto lo scoprir ora la cagione di questo sospiro, che probabilmente verrà palesata a chi avrà la pazienza di finir quest’istoria; fatto sta, che dopo averlo messo dal petto due o tre volte si chiuse il volto colle palme, e da chi in quel momento l’avesse considerata, si sarebbe potuto supporre, dal moto delle spalle, che piangesse. Stata così un pezzo, di seduta ch’ell’era, si lasciò andar supina, e rimase pur sempre colle mani sul volto, immobile, finchè dopo lungo tempo, anche le braccia, quasi perdessero ogni forza, caddero a terra distese lungo la persona.
Apparve allora il suo viso pallido, affilato, rallentati i muscoli dalla contrazione dell’ira, ma serbando tuttavia l’impronta della terribil tempesta ch’era passata su quell’anima desolata. Rendeva in un modo l’immagine d’una campagna spazzata da un tremendo turbine, dopo il quale sulla terra solcata dall’acqua, sugli alberi divelti e coricati, sulla natura tutta si stenda un silenzio, una calma attonita e sbigottita.
Alla fine, lenta lenta si rimise seduta, poi a fatica,[526] chè si sentiva le membra tutte rotte e sfinite, s’alzò in piedi: venuta al suo cavallo gli acconciò le briglie, ed afferrato il crine e l’arcion di dietro mise il piede alla staffa, e, datasi l’andare due o tre volte, non senza stento si trovò in sella.
Prese verso Firenze, curva la persona, col capo caduto sul petto, in atto di tanto scoramento, che non parea possibile fosse quella di prima: e neppure il cavallo, dal mutar lento e strascicato delle gambe, dal collo e dalle orecchie cadenti, non parea quel medesimo che avea poco innanzi menata tanta tempesta.
Alla prima giravolta della strada scomparvero ambidue, e, col permesso del lettore li lasceremo andare al loro viaggio, chè Lamberto ci aspetta alla porta d’Empoli colla compagnia.
Il sole levato di poco, colla sua luce radente, tingeva già di rosato la bianca veste di brina che scintillava sul dosso delle colline, sugli alberi e sui tetti, lasciando le parti non illuminate in una tinta diafana ed azzurrina, quando il soldato di guardia sulla torre sovrapposta alla porta della terra, vide venir di lontano la compagnia, e riconosciuto il giglio nello stendardo, diede l’avviso che era comparso l’aspettato soccorso, e la nuova ne fu tosto arrecata al Ferruccio.
Il commissario, già in piedi da un pezzo (chè era assai difficile trovarlo a letto a qualunque ora si cercasse) attendeva poco lontano a far riparar non so che ad un bastione. Udita la nuova, venne[527] sollecito ad incontrarli, e, fatto calare il ponte, alzare la saracinesca, ordinò s’aprisse la porta.
Entraron le genti, con le trombe sonanti alla testa, precedute dai due capitani, che sfilando innanzi al commissario lo salutarono coll’atto della persona e l’abbassar della lancia.
Il Ferruccio, alto di corpo e tutto nerbo, vestito d’una cappa bruna con istivali grossi ed un berretto, che da un lato gli cadeva sull’occhio, stava a vederli passare, piantato sulle due gambe un poco aperte, intrecciate le braccia al petto, la fronte alta ed austera, sotto la quale lampeggiava quel suo sguardo sicuro che pel color delle pupille e lo sporger del sopracciglio, era simile a quello dell’aquila.
Con un rapido abbassar del capo corrispose al saluto de’ condottieri, mentre accennando colla mano ordinava loro di distendergli innanzi in battaglia la compagnia sulla piazzetta che si trovava entrata appena la porta. I soldati, che avean legati i mantelli sulle groppe, e s’eran rassettati alla meglio, apparivan bella e buona gente e bene a cavallo: ed al comando dell’Arsoli, dato un po’ di volta per la piazzetta, si schierarono in linea. Si fece innanzi il Ferruccio, pur sempre colle braccia all’istesso modo, ed accostatosi ai due capitani, posti nel mezzo ed un poco innanzi dagli altri, diceva loro con voce sonora e quel parlar tronco che tanto può sui soldati:
—Bella compagnia! uomini, cavalli, armi, tutto[528] bene. Li vedremo all’opera e presto, che, viva Dio! non aspettavo altro. Li farete rinfrescare, poi v’aspetto all’alloggiamento.... Di Firenze già nulla di nuovo? L’assalto del principe lo seppi colle lettere di jeri. Avrà veduto che anche i mercanti se n’intendono di far bastioni e sparar artiglierie. Ora due parole ai vostri soldati.—
E, voltossi alla truppa che gli stava dinanzi immobile ed in silenzio, disse con un sorriso:
—Questi marrani spagnuoli qui del contado, hanno di maladette gambe che a raggiungerli m’era fatica, voi farete la bisogna, valentuomini, con buoni sproni e dodici braccia di lancia assaggeremo loro le reni, se piace a Dio. Pensate che tutti combattiamo per la patria, e per questa santa causa non risparmierò nè la mia vita nè la vostra, ve ne avviso. Io saprò far il debito di capitano, dacchè i nostri signori m’hanno fatto degno di tanto onorato comando. Voi pensate a far quello di valenti soldati, chè usando altri modi io non sarei per sopportarlo.
—Ora attendetevi a riposare, chè non vi lascerò un pezzo colle mani in mano... e, viva il marzocco! viva la repubblica!—
A questo grido rispose la compagnia ed il popolo, che in folla le s’era radunato all’intorno; e mentre i soldati scavalcavano disponendosi a condurre a mano i cavalli all’alloggiamento, dicevan tra loro:
—Codesto si chiama discorrere!—E non gli[529] trema la lingua in bocca!—È un diavolo costui, che non avrebbe soggezione dell’imperatore.—Ohe! e’ pare che converrà arar diritto con quel muso.—S’egli ha il ruzzo di menar le mani, e noi non vogliamo altro.—
Ed un di loro volgendosi a Fanfulla che veniva zufolando sotto i baffi, com’era suo costume, mentre buttava le staffe sulla sella, gli diceva:
—E che ne dice il nostro Fra Bombarda?—
—Fra Bombarda dice: Quando tu avessi il fiasco alla bocca, ed il commissario ti dicesse basta, fa di non ne mandar giù una goccia di più, se vuoi che la via del pane ti rimanga aperta. Che di musi me n’intendo, e n’ho visto più d’uno uscir di sotto il morione, colle setole dure abbastanza, ma come codesto n’ho visto due altri soli sinora, quello del sig. Giovanni, e quell’altro del gran capitano. E per ora non dico altro.—
Ed intanto la compagnia venne presto alloggiata ne’ quartieri già preparati.
Tostochè l’Arsoli ed il Bichi ebbero dato sesto alla compagnia, si condussero dal commissario, e con esso andò anche Lamberto, che aveva da Niccolò (ci scordammo accennarlo) avuto l’incarico di fargli riverenza per parte sua e narrargli quegli ultimi suoi casi.
Il Ferruccio era alloggiato nella casa del Comune in Piazza, e lo trovarono che li aspettava in una sala al primo piano ove le pareti eran tutte coperte di gigli e di marzocchi, e su in alto, sotto il soffitto intorno, si vedevan dipinte l’arme de’ podestà che avean retta la terra, tra quali fu il vincitore de’ Ciompi Michele di Lando. Il commissario sedeva presso una gran tavola ov’era costume render ragione. Salutò i nuovi arrivati, che entrarono ancora tutti armati quali erano venuti di Firenze. Ad un suo cenno sedettero e disse l’Arsoli:
—Questi, sig. commissario è messer Lamberto, che voi conoscete di nome se non di veduta.—
—Ah! rispose Ferruccio facendogli festa col viso, ho caro conoscervi ch’io non ho il maggiore amico di messer Niccolò, e so quanta stima egli faccia di voi.—
Lamberto allora, fattigli prima i saluti del suocero, gli venne narrando tutto il caso di Troilo, e com’egli avea lasciato il campo e datosi tutto alla parte Piagnona. Disse poi il suo matrimonio colla Laudomia, il motivo ed il modo ond’era stato interrotto, e vedendo che il Ferruccio gli prestava grandissima udienza, gli narrò dell’oscuro avviso ricevuto per via, di non so quali insidie tramate contro di essa, chiedendogli insieme licenza di spedire un uomo apposta a Firenze affinchè potessero guardarsi ed investigar la realtà e l’ordine di questa trama.
—Io vi do questa licenza molto volentieri, e se il servigio della città lo concedesse, vi direi andate in persona; ma una buona spada val tant’oro quanto pesa, a questi giorni, e non posso privarmene; conosco che dev’esser una gran passione per voi, messer Lamberto, lasciar una tale sposa per torre invece la lancia.... almeno così suppongo... (disse sorridendo) chè io di queste cose poco me n’intendo, ed alla vita mia non ebbi mai tant’agio ch’io potessi pensar a donne... A ogni modo, un par vostro saprà aver buona pazienza, chè ora i[532] nostri amori hanno ad essere cogli archibusi e le bombarde.—
—Quanto a questo spero mostrarvi che so il mio debito, e che il mio primo amore è della patria e non d’altri.—
Così rispose Lamberto, con un viso ardito che non lasciava dubitare ch’egli mentisse; fatta poscia riverenza al Ferruccio si tolse di quivi, trovò presto d’un cavallaro che fu contento portar a Firenze la lettera per Laudomia. La scrisse Lamberto più presto che potè, ed in essa le narrò distesamente tutto l’accaduto in quella notte senza ommetter sillaba di quanto era stato discorso tra esso e Selvaggia. Dopo aver molto raccomandato che facessero in modo di scoprire se quest’insidie eran vere, oppur supposte da costei per puro dispetto, mostrando, quanto a sè, propendere per quest’opinione, entrava a deplorare e mostrar rammarico dell’aspro modo da lui tenuto con quell’infelice, svolgendone insieme a Laudomia i motivi, e mostrando poi alla fine in quanta agitazione d’animo si trovasse al presente sul fatto di costei.
La passione che provava per questo accidente la seppe esprimer benissimo, e forse troppo, chè scrivendo in furia, e coll’animo preoccupato, non ebbe campo di pesare e calcolar molto le parole, e l’effetto che sarebber per produrre su quella che con mente più tranquilla le avrebbe lette. Si faceva in ultimo a pregar Laudomia, volesse metter subito gente in moto, mandar sulla strada d’Empoli, ed[533] in quelle vicinanze, per iscoprire che ne fosse stato di Selvaggia; ed avendo avuto a dire tante cose, col tempo che lo stringeva, conchiuse la lettera in modo più tronco, che al certo non avrebbe fatto, se la cosa non fosse stata di tanta premura.
Com’ebbe scritto, piegò la lettera in quattro, come s’usava in quel tempo, e traforatala, la chiuse con una funicella, della quale fermò i capi con un sigillo.
Partì il cavallaro, e seppe così ben pungere un cavalletto che avea sotto, che verso le ventidue scavalcava al portone de’ Lapi.
Mona Fede venne ad aprire: prese la lettera, e con gran festa corse nella camera di Niccolò ove egli si trovava colle figlie, ed a caso v’era anche Troilo. Laudomia, conosciuto dalla sopraccarta chi le scriveva, disse tutta allegra ed un poco arrossita:
—Oh! povero Lamberto, già m’ha scritto!—e principiò a leggere. A mano a mano che leggeva le si vedea tratto tratto mutar viso, mostrando ora maraviglia, ora mestizia, ora compassione, ed in ultimo parve sulla sua fronte serena si stendesse persino l’ombra d’un sospetto.
—Gran cosa è questa! disse alla fine tutt’altro che tranquilla in volto; e porgendo la lettera a Niccolò, soggiunse:—Ora vedete voi quel che convenga fare.—
Niccolò la prese, ma parve che quella lettura facesse sull’animo suo tutt’altro effetto, e piuttosto lo rallegrasse.
—Egli è il gran giovin dabbene, disse alla fine, che vuoi ch’io ti dica? bisogna far quel ch’egli consiglia.... non vedo altra via.—
Voltosi poi a Troilo, col quale s’era ogni giorno più venuto addomesticando, e tanto maggiormente ora di lui si fidava, dopo aver veduto con quanta prontezza si fosse proposto di partir in iscambio di Lamberto, gli disse, pur guardando Laudomia, quasi le domandasse licenza:
—Con buona pace di Laudomia, io voglio che leggiate questa lettera.... vedrete che cuore abbia il nostro Lamberto.... e che se volevate andar alle archibusate per lui, la cortesia non era sprecata.—
Troilo, nel vedere che de’ suoi disegni ne dovea pur esser trapelato qualche cosa, non potè a meno di non far un arresto, ed in cuore trasecolava, non potendone immaginare il come, tanto più in così breve spazio di tempo. L’atto che gli sfuggì, fu dagli astanti interpretato in tutt’altro senso, e l’attribuirono ad una natural maraviglia d’un caso cotanto strano, ed egli, vedendo che la lettera non nominava persona, si venne presto rassicurando.
—Non v’è dubbio nessuno, disse alla fine, bisogna far ciò ch’egli dice. Lasciatene il pensiero a me, ch’io troverò chi saprà benissimo disimpegnare quell’incarico. Date qua quella lettera, ch’io tenga a mente i segnali di codesta donna, perchè possa riconoscersi, e s’ella non è sotterra si troverà.—
Così dicendo uscì, mentre Niccolò, tutto lieto, gli gridava dietro:
—E così? non te lo dicevo io, che a trovarne un altro come quel giovin dabbene vi sarebbe da fare?—
Laudomia, uscita anch’essa poco dopo Troilo, salì in camera e vi si chiuse. Non sapeva, o non voleva dirsi il perchè, ma non si sentiva il cuore a modo suo: e provando una cotale indefinibile ripugnanza ad esaminarlo a minuto in quel momento, attese a non so che sue faccende per aver in che occupare il pensiero.
Ove la buona giovane avesse voluto scendere a questo esame, sarebbe forse d’un in un altro pensiero venuta a far molte osservazioni su questa tanto calda pietà di Lamberto, sulla troppo laconica conclusione della sua lettera, avrebbe provato forse il desiderio d’esser sola a sentire tanta compassione per le costei sventure.... Dio sa quante cose avrebbe trovate in quel suo povero cuore! non volle tuttavia troppo scrutarlo in quel momento.
Ma il seme caduto una volta nel solco ha egli bisogno d’altri ajuti? lavora solo, germoglia in silenzio, e quando dà segno di sè spuntando dal suolo ha già messo le barbe.
Troilo intanto s’era dato da fare per trovar di questa Selvaggia, che, in modo per esso tanto inconcepibile, parea informata de’ suoi disegni; e certo nè Lamberto, nè persona al mondo avea in quel momento maggior desiderio di lui che si[536] rintracciasse. Spedì gente, e fece far tutte le inchieste possibili, e vi volle a ciò un pajo di giorni, ma fu inutile, non se ne potè saper nuova.
Visto alla fine che si dava in non nulla, ne fu scritto a Lamberto (e la lettera la portò Maurizio, che trovato un altro cavallo raggiunse così il suo padrone) il quale, se ne rimanesse afflitto e malcontento, non è da dire. Egli intanto, seguitando la fortuna del Ferruccio a Volterra, a Pisa ed in ultimo a Gavinana venne passando un tempo, durante il quale lo stato di Laudomia e degli altri attori di questa istoria non ebbe a provare notabile alterazione. Gli ultimi casi che afflissero poi la casata de’ Lapi, e coi quali verrà a concludersi il nostro racconto, sono strettamente legati a quelli della città, ed all’intero ed ultimo esterminio della libertà fiorentina: ci conviene dunque con largo e rapido pennello dipingere ad eterna infamia dei vincitori, ed a gloria eterna de’ vinti, la sua dolorosa agonia, e come alla fine rimanesse spenta del tutto.
Il nostro quadro riuscirà pallido e senza vita, posto a fronte di quello lasciatoci dal Varchi nella sua storia, ricca di tanto colore e di tanta azione. Se avessimo a dar un consiglio al nostro lettore gli diremmo (tanto più s’egli è italiano) di leggerla da capo a fondo. Ma se invece si trattasse di una lettrice? Chè anche le donne italiane vorremmo sapesser le glorie della nostra comune patria per poterle presto narrare a’ loro bambini.... Come[537] sperare che non si sbigottisse al solo vedere quel grande in folio della bella edizione di Colonia, con quella carta ingiallita, e la sua barbara ostinazione a non andar mai a capo?
Alle nostre lettrici consacriamo dunque specialmente queste pagine, e possa il nostro desiderio di risparmiare loro un po’ di fatica e di accender più viva la fiamma dell’amor patrio in cuori cotanto gentili, dar potenza alla nostra penna e procacciarle favore.
A pochi giorni dopo l’inutile assalto dato dal principe d’Orange alle mura di Firenze, la Lastra, forte castello, molto a proposito per assicurare la strada d’Empoli, venne in potere degli imperiali, i quali avuta la terra a patti che fosser salve l’avere e le persone, entrati appena, scannarono il presidio, che s’era arditamente difeso a buona guerra come chiedeva l’onore ed il servigio della città.
S’alzò in Firenze un grido d’indegnazione e di vendetta alla nuova dell’atroce caso, e del danno sofferto; e la milizia, che ardeva di venirne una volta a più stretto combattere, trovò il suo capitano Stefano Colonna pronto a guidarla contro il nemico. Ordinò s’uscisse una notte con circa mille fanti, armati quasi tutti d’arme in asta e spadoni a due mani, con pochi archibusieri, avendo in animo di cader inaspettati addosso agli imperiali e non combatter se non corpo a corpo. Contenta la cosa con Malatesta, dapprima lo trovò contrario al[538] suo disegno. Voleva il traditore che la città si consumasse a poco a poco negli stenti d’un lungo assedio, e queste ardite fazioni, conoscendo egli l’ardore e l’animo di quelle milizie, gli facean temere non riuscissero una volta a rompere il campo nemico. Per non iscoprir troppo il suo disegno dovette nondimeno acconsentire.
La notte dell’11 dicembre, oscura e piovosa, uscì Stefano Colonna dal bastione dietro S. Francesco, in mezzo alle sue lance spezzate con una zagaglia in mano, avendo ad ogni soldato fatto mettere una camicia sopra il corsaletto, affinchè si riconoscessero nell’oscurità. Come avessero affrontato il nemico, dovevano uscire da varie porte altre genti ad un cenno d’artiglieria dato da Mario Orsino dal bastione di S. Francesco, e Malatesta s’era riserbato di sonare a raccolta con un corno quando lo stimasse opportuno.
Assaltata improvvisamente la guardia del colonnello di Sciarra Colonna a Santa Margherita a Montici, la misero in tanto disordine, che dopo breve e mal composto combattere, e molta uccisione de’ nemici, li posero in rotta; e seguitando il loro vantaggio, pur sempre combattendo, si spinsero innanzi, non più taciti e nascosti, ma con alto fracasso di grida, di tamburi e di trombe, tantochè levatosi tutto il campo a rumore ed in arme, correndo qua e là il principe e gli altri capitani per riparare e far testa, e rannodare i disordinati e i fuggiaschi, cominciarono gl’imperiali[539] anch’essi a combattere francamente. Parve tempo allora a Mario Orsino di dare il cenno convenuto, e sparate due grosse artiglierie sboccarono dalle circostanti porte le bande a ciò ordinate, e per più lati furiosamente assaltarono il campo, tantochè il principe non sapendo ove volgersi, chè da ogni parte si vedea venir addosso nuovi nemici, si gettava ov’era più stretta la mischia, disperatamente combattendo, e fattosi oramai morto e disfatto: e sicuramente la cosa sarebbe riuscita com’egli s’aspettava, tanto mirabilmente la milizia fiorentina stringeva le vecchie ed agguerrite bande tedesche e spagnuole, se Malatesta, vedendosi a un pelo di perdere in un momento il frutto de’ suoi tradimenti, non avesse fatto rimbombare il suono del corno (veramente allora sinistro e doloroso) che strappando la vittoria di mano a que’ prodi e generosi cittadini li chiamava a raccolta.
Si ritrassero sparsi ed a stento, e ritornarono con bell’ordine senza venir seguiti o molestati dal nemico, al quale parea averne troppo miglior mercato che non sperava.
Questa cotanto onorata fazione accrebbe animo grandissimo a’ Fiorentini e desiderio d’uscir di nuovo contro i nemici, e fece accorto Malatesta, che cosa dovesse aspettarsi se non trovava modo d’attraversare ed impedire appunto che uscissero. È cosa da non potersi credere, con quanti pretesti, con quanti inganni e rigiri egli riuscisse sino all’ultimo dell’assedio in questo suo scellerato proposito,[540] in modo che o la milizia non ottenne d’esser condotta a combattere, o se l’ottenne, furono dal traditore ordinate le cose in modo, che senza profitto si venisse consumando finchè la fame, le ferite e le morti l’avesser ridotta a tale di poterne disporre com’era suo disegno.
È difficile concepire come i Fiorentini non s’avvedessero d’esser venduti. Ma di cotali accecamenti è piena la storia de’ popoli e de’ governi, e furon sempre precursori ed indizj della loro rovina.
Venuto intanto il tempo di raffermare o mutare il gonfaloniere, cadde l’elezione su Raffaello Girolami invece del Carduccio, e fu l’ultimo che sedesse in Palagio.
Le speranze de’ soccorsi de’ confederati s’andavan sempre più dileguando, finchè s’estinsero del tutto. Francesco I, che per iscusarsi di non ajutare i Fiorentini, aveva addotto il pretesto di voler prima riavere i suoi figli rimasti statichi in Ispagna; riavuti che gli ebbe non mutò proposito, ed abbandonando questi suoi alleati, i più antichi e fedeli che avesse la corona di Francia in Italia, scrisse a Stefano Colonna suo soldato, di partirsi da loro, e richiamò il suo ambasciatore presso la repubblica, non curandosi di tal codardo operare purchè si tenesse amico l’imperatore. Vecchia peste d’Italia, fidarsi alle promesse di Francia o (per esser più veri) degli ambiziosi che se la giuocano a palle.
Ma per trovar l’esempio di tale perfidia pur troppo non occorse questa volta varcar l’Alpi.
I Veneziani anch’essi calpestando le promesse e i capitoli della Lega, fecero soli accordo con Cesare, e venutane la nuova a Firenze, ove non era sospetto veruno[49], i cittadini commossi gridavano per le piazze e per le strade, la loro essere stata lealtà veneziana[50]; ma questi nuovi ed inaspettati colpi della fortuna, non solo non raffreddarono il proposito di difendersi de’ Fiorentini, ma v’aggiunsero anzi l’impeto d’un nuovo sdegno e del nobile orgoglio di bastar soli contro tanti nemici.
Per contrastare all’estremo pericolo si risolsero partiti estremi, e talvolta crudeli, come fu quello circa i beni de’ Palleschi.
Vennero creati cinque ufficiali, detti Sindachi de’ rubelli, e, vinta una legge che sarebbe lungo riferire minutamente, ma che in sostanza poneva la mani sui loro averi, accordando facoltà di venderli e persino di costringere arbitrariamente i cittadini a farsene compratori, ove non se ne fossero offerti spontaneamente; e, ciò che più ripugna ad ogni giustizia, avendo anche effetto sulle cose passate, e potendosi per essa, render nulli molti anteriori contratti ove paresser fittizj. Legge barbara, è vero: ma, al cospetto della giustizia di Dio, chi parrà più colpevole? il Papa che volea la rovina di Firenze, o’ Fiorentini che, ridotti all’ultima disperazione, non avean altra alternativa fuorchè prender questi ingiusti partiti, o perire?
Ed alle insopportabili spese della guerra, neppur bastando codesta provvisione, si dovette presto por mano agli ori ed agli argenti delle chiese e de’ privati, i quali con mirabil prontezza portarono il loro vasellame; e le donne le collane, gli smanigli e i giojelli alla Zecca, ove si coniò una nuova moneta del valore di mezzo ducato con suvvi il giglio e le parole S. P. Q. F., e sul rovescio Jesus Rex noster et Deus noster.
Nel donare ai bisogni della patria gli ori e gli argenti, si può pensare se Niccolò rimanesse addietro dagli altri cittadini. Persin l’urnetta che conteneva le ceneri del Savonarola! volle dar anche quella, e le ceneri le raccolse diligentemente e le chiuse in una delle borse di seta e d’oro ch’eran nel corredo di Laudomia, ch’ella offrì volonterosa, e che si collocò nella nicchia ov’era dapprima il cofanetto.
Par infiammar sempre più l’universale, e fargli parer men gravi tanti sagrifizj, s’univano i conforti e le pompe della religione, non restando i frati di S. Marco, il Fojano, ed il Fivizzano più degli altri, di predicare nelle chiese e per le piazze, tenendo i modi, e seguendo lo spirito del Savonarola, e le loro calde ed ispirate parole, rese più valide dalla austerità del costume, che in essi splendeva purissimo, non ebber poca parte nel forte e costante operare del popolo di Firenze, e conoscendo codesti frati quanto possano le cose strane e non aspettate, a commovere la moltitudine, usavano spesso atti teatrali,[543] come fu quello del Fojano, che orando in consiglio, dopo una lunga e concitata diceria, fece comparire uno stendardo sul quale era dipinto da un lato Cristo vittorioso con molti soldati abbattuti a suoi piedi, e dall’altro la croce, e porgendolo al gonfaloniere finì pronunziando le miracolose parole udite già da Costantino, e che gli predicevano la vittoria.
L’impulso dato con questi mezzi a uomini già infiammati di libertà e di gloria, si palesava non solo nelle fazioni ove molti concorrevano a combattere, ma eziandio in onorati fatti di persone private.
Un soldato accortosi un giorno che i nemici facevan cattiva guardia ad una trincera, si mosse solo dalle mura, ed arrampicatosi sul terrapieno della medesima giunse a strappare un’insegna che v’era piantata sull’alto, e fra una grandine d’archibusate potè tornare con essa illeso fra suoi.
Lo spirito de’ paladini dell’Ariosto, e de’ molti romanzieri di quell’età, appariva trasfuso ne’ soldati d’ambe le parti, e partorì disfide e duelli combattuti con tutte le formalità e le pompe cavalleresche. Per un trombetto venuto dal campo, un gentiluomo de’ nemici fece offerire agli assediati la battaglia a cavallo, che venne accettata dal capitano Primo da Siena.
Allo scontrarsi, questi ruppe la sua lancia sulla corazza dell’avversario e con un’acuta scheggia del mozzicone rimastogli lo ferì un poco in un[544] braccio; mentre l’altro pose il ferro all’arcione del nemico, e lo passò, benchè fosse ferrato, ma senza suo danno, sfuggendogli per soprappiù la lancia di mano nell’urto, onde fu stimato averne la peggio.
Ma d’assai maggior momento fu il duello tra Lodovico Martelli e Giovanni Bandini, narrato dal Varchi colle più minute circostanze: vorremmo poter trascrivere tutt’intera la descrizione, ma ci trattiene la sua lunghezza[51], ed anco per non parere si voglia ingrossare questo volume di cose già pubblicate.
Il fatto si può tuttavia ridurre in poche parole.
I due giovani sopraddetti, erano stati già un tempo rivali d’amore per la Marietta de’ Ricci moglie di Niccolò Benintendi, la quale pareva favorisse il Bandini.
Trovandosi ora questi in campo, gli fu mandato dal rivale un cartello per provargli ch’egli era traditore, poichè armata mano veniva contro la patria. Si scusò il Bandini adducendo, che per visitare gli amici v’era venuto, e non per combattere; ma non ammessa dall’avversario la scusa, si stabilì venire alla prova dell’arme, e dal Bandini, per purgarsi dalla taccia che gli veniva apposta d’esser più astuto che animoso, fu scelto combattere senz’altre arme difensive che una manopola di maglia nella destra, spada e pugnale.
Dante da Castiglione s’aggiunse al Martelli come secondo: e Bertino Aldrovandi[52] al Bandini.
Combatterono a Baroncelli, ove in oggi è il Poggio Imperiale. Dante d’una stoccata nella bocca uccise Bertino. Il Bandini ferì Lodovico sulla fronte, d’onde il sangue che grondava, togliendogli la vista, dovette arrendersi, e portato in Firenze, in breve, molto malcontento della mal sostenuta impresa, uscì di vita.
Volto poi l’animo de’ Fiorentini ad operazioni di maggior frutto, nè potendo più Malatesta raffrenare la loro smania d’uscire contro il nemico, ordinò di condurli dove fosse impossibile che facessero gran frutto, e venissero invece esposti ai maggiori pericoli. Ottaviano Signorelli, colle più animose e meglio ordinate bande, uscito di Porta S. Pier Gattolini assaltò le trincere di M. Uliveto, difese da Baracone alla testa delle migliori fanterie di Spagna, mentre da Porta S. Friano, Bartolommeo dal Monte e Ridolfo d’Assisi conducevano altre genti alle spalle degli inimici. Anche in quest’occasione la milizia fiorentina si portò arditissimamente, e morto il capitano spagnuolo sopraddetto, per poco non misero in rotta i migliori soldati che fossero allora in Europa: ma ingrossando sempre più quei del campo per gl’incessanti ajuti di genti fresche, mandate dal principe a riparare le perdite sofferte, convenne alla fine alla milizia ritrarsi, e senza confusione[546] veruna ritornarono in città lasciando gran numero de’ loro sul campo, tra i quali Lodovico Macchiavelli, figlio del celebre Niccolò.
Il cattivo esito di questa fazione servì a Malatesta per mostrare che egli non avea il torto quando disapprovava che s’uscisse a combattere, e non fu bastante ad aprir gli occhi a’ Fiorentini sui suoi nascosti disegni, chè anzi, mostrando egli grandissimo desiderio di ottenere il grado di capitan generale delle milizie forestiere, del quale avea sin allora esercitato l’ufficio, senza averne espressamente il titolo, la Signoria si risolse contentarlo, non avendo potuto ottenere da Stefano Colonna che per sè medesimo l’accettasse.
In presenza di tutto il popolo radunato in piazza, collocati in ringhiera il Gonfaloniere colla Signoria fu dunque solennemente dato a Malatesta il bastone di capitan generale. In segno di festa s’era inghirlandato il marzocco posto sull’angolo di palazzo, e postagli sul capo una corona d’oro. Ed il prelibato traditore, come il Butini chiama piacevolmente Malatesta, riccamente vestito, e con una medaglia nel berretto, sulla quale era scritto Libertas, disse una sua lunga orazione per ringraziare il popolo, e profferirsi pronto a metter la vita per difendere la sua libertà, con tutte le solite novellate di giuramenti e di promesse, che hanno sempre ingannato e sempre inganneranno la moltitudine.
Mentre questo traditore, conducendo, senza che[547] se n’avvedessero, i fiorentini alla mazza, otteneva cotali onori, altri traditori di più basso stato eran in diversi modi perseguitati e puniti, chè d’ordinario a’ meno ribaldi tocca sopportar que’ castighi, che i maggiori sanno con più sottile astuzia evitare.
Ad alcuni capitani che si fuggiron di Firenze colle loro bande furon poste addosso di grosse taglie, e contraffatta la loro persona con fantocci di cenci, vennero impiccati per un piede alle forche sul bastione di S. Miniato verso Giramonte alla vista de’ nemici, ed un cartello che avevano al collo mostrava in lettere da speziali, scritto il nome di ognuno, per fuggitivo, ladro e traditore.
Andrea del Sarto li dipinse poi sulla facciata della Mercatanzia in Condotta, quantunque desse voce che l’opera fosse di Bernardo del Buda suo discepolo, per non acquistarsi nome di pittore d’impiccati.
Un frate di S. Francesco, Vittorio Franceschi, per soprannome fra Rigolo, morì sulle forche per aver inchiodato artiglierie, e Lorenzo Soderini, fece l’istessa fine, convinto d’essere spia di Baccio Valori.
Intanto la carestia, non ostante le cure e gli sforzi de’ rettori, andava sempre crescendo. Dopo aver ne’ primi mesi consumato il grano e l’altre biade buone da far pane si cominciò a macinar legumi, e beato chi ne poteva avere.
E basti a dar un’idea de’ prezzi cui eran salite le migliori grascie, il dire, che la carne de’ cavalli[548] ammazzati nelle scaramucce si vendeva due grossoni la libbra, quella d’asino un carlino, un gatto quaranta soldi, ed un topo un giulio, e finito l’assedio pochi ve ne rimasero.
Sul primo la difficoltà delle vettovaglie non era molta, chè dai contadini n’eran portate in città di continuo, allettati da’ grossi guadagni che vi trovavano, ed essendo la città rimasta aperta per molti mesi dalla banda di Fiesole. Ma quando un corpo di Tedeschi ebbe occupato S. Donato in Polverose, tennero cura grandissima che nulla potesse entrare in Firenze, e furon cotanto orribili le torture colle quali straziavano que’ poveri contadini che cadeano nelle loro mani, che presto non si trovò più chi fosse tanto ardito da porsi all’impresa. Il Bentivoglio, soldato nel campo imperiale, descrive nella satira seconda (citata anco dal Pignotti) l’atroce fatto d’un povero contadinello che fu colto mentre conduceva a Firenze un asino carico di biada e fieno. Da otto spagnuoli gli vennero al primo recise le parti nascoste, e poi messolo allo spiedo l’arrostiron vivo, a fuoco lento, pillottandolo come s’usa colla cacciagione.
Ma neppur la fame non abbatteva ancora ne’ Fiorentini il costante proposito di difendersi, e le nuove che di giorno in giorno venivan giungendo delle frequenti e fortunate imprese del commissario Ferruccio, rendevan anzi questo proposito più fermo che mai. Egli s’era reso padrone di S. Miniato, come aveva promesso, salendo il primo sulle mura,[549] che furon vinte per iscalata: ed essendosi frattanto, ribellati i Volterrani, e datisi al papa, egli fece istanza alla Signoria di venir mandato a sottometterli; premendo d’usar prestezza onde non avesser tempo di sforzare il commissario Bartolo Tebaldi, che, ritiratosi nella rocca, gagliardamente si difendeva.
Abbiam la fortuna di poter offrire al pubblico la lettera propria del Ferruccio alla Signoria, colla quale le rese conto del suo operato in questa occasione.
Alli Dieci della guerra[53].
Noi arrivammo qui alli 20 a ore 21 ed avemmo ad entrare nella fortezza a colpi d’artiglierie; e quando fummo tutti arrivati al ridotto d’essa feci saltar dentro tutte le fanterie e trar la sella a tutti li cavalli, ed ad uno ad uno li messi nella cittadella, faccendo dar ordine subbito a rinfrescarli alquanto, ma non trovai con che, chè a premere tutta la fortezza non vi si trovò più che sei barili di vino con tanto pane che ne toccò un 1/2 per uno e non più, e vi giuro a Dio che[550] se io non aveva avuto avvertenza di far pigliare ad ogni uomo pane per due giorni, e così portar meco due some di sale e 25, o 30 marraioli con picconi ed altre cose che fanno mestiere ad espugnare una Terra, ed una soma di polvere fine da archibusi, che io non ci avrei trovato modo che li vincitori non fussero stati vinti senza combattere. Rinfrescati alquanto li feci metter a battaglia, e feci aprire la porta di verso la Terra ed a bandiere spiegate li assaltai da tre lati, ed in tutti tre trovammo un intoppo di trincee che a volerle passare vi morirono 50, o 60 uomini de’ più segnalati che fussero nelle bande fra delle nostre e delle loro; nè si mancò per questo di non passare, e passati li pigliammo insieme con la piazza di S. Agostino, dove avevano fatto il fondamento loro, e quello che ci dette più molestia fu l’essere combattuti da tre bande per aver loro traforato le case di sorte che passavano d’una nell’altra et offendevano senza poter essere offesi. Le forze de’ nemici fecero alquanto temere le nostre fanterie, per esser due mezzi cannoni a ridosso di quelle trincee su detta piazza, e spararono due volte per uno con qualche danno nostro. Vedendo io con gli occhi questo, fui forzato di fare di quelle cose che non era l’offizio mio, e così imbracciai una rotella, dando coltellate a tutti quelli che tornavano indietro. Finalmente saltai su quel riparo con una testa di cavalli leggeri armati di tutt’arme, con una[551] picca in mano per uno, insieme con parecchie lance spezzate che io ho appresso di me, et insignoritosi del riparo cominciarno a pugnare innanzi, e guadagnammo la piazza con l’artiglierie et con grande occisione di loro togliendo loro due insegne, et vi morì un capitano, et così ci volgemmo a combattere casa per casa tanto che c’insignorimmo del tutto. Assalicci la notte nè si potè andare più innanti, ed eravamo in modo stracchi che nessun fante poteva stare in piè. Feci tirare quelle artiglierie che avevamo lor tolto, sotto la fortezza, et mettervi le sentinelle, et lasciai a guardia della piazza il sig. Cammillo con tre altri capitani, e così ci stemmo sino a questa mattina, dove di nuovo riordinai le genti et le messi in battaglia per dare l’assalto. Trovammo che avevan fatto tutta notte bastioni et attraversate le strade con certi pezzi d’artiglieria grossa, nè per questo si temeva, che andava alla volta loro. Impauriti d’aver perduto parte della terra et vedendo tanti morti per le strade, e d’esser fuggiti quelli tanti tristarelli che ci erano Fiorentini con il gran Ruberto Acciaioli padre di tutti, accennarono di voler parlamentare, e così detti la fede al Commissario Taddeo Guiducci, et se altri della Terra venissino parlare con me volendomi domandare quello che io desiderassi. Risposi loro che volevo la terra per li miei Signori o per forza o per amore, et che volevo che fusse rimesso nel petto mio quel[552] bene et quel male che avevasi a fare alli Volterrani; et loro mi chiesero tempo di due ore per poter far consiglio con gli uomini della Terra, et che verrebbono con pieno mandato. Non lo volsi fare perchè vedevo che mi volevan tenere a bada fino a tanto che il soccorso che era per via comparisse. Detti lor tempo sinchè tornassero loro dentro le trincere, con far loro intendere che se fra una mezz’ora non tornavano con risoluzione di quello che avevo loro imposto, che io farei prova di acquistare quel resto con l’arme in mano come ho fatto sino a qui. Et così se ne andorno et tornarno fra ’l tempo, e di più menarno con loro il capitano Gio. B. Borghesi che era colonnello di tutti li altri capitani. Arrivati a me si buttorno in poter mio, et che li Volterrani si rimettevano in tutto e per tutto in me e nella mia discrezione. Et così li accettai promettendo la fede mia di salvare la vita al commissario et a tutti li fanti pagati, et tanto ho osservato; et subbito li feci passare in ordinanza per mezzo delle bande nostre et metterli fuori della Terra. Et perchè Taddeo Guiducci mi pareva nel tempo che noi siamo di troppa importanza a lasciarlo, l’ho ritenuto appresso di me con animo di non li fare dispiacere nessuno, avendogli data la fede mia, et ancora se l’è guadagnata con fare qualche opera che mi è piaciuta. Onde io prego le SS. VV. che gli voglino perdonare fino a quello che io gli ho promesso,[553] che, come di sopra ho detto, gli detti la fede mia di non lo far morire.
Partiti li soldati imperiali, presi la piazza, e messi a guardia dell’artiglierie tutti li cavalleggeri, et le guardie alle porte, et spartiti li quartieri, che questa volta non furono ne’ borghi, feci mandare un bando che ciascheduno Volterrano fusse trovato con l’arme cadesse in pena delle forche. Oggi farò descrizione di esse et ne li priverò del tutto a causa che non possino più adoperarle contro di noi, come questa volta hanno fatto. Anche oggi si farà bando per vedere tutte le portate del frumento, che intendo che ce n’è gran copia, et le farine che ci fussero fatte et altre grane rimetterò nella cittadella con più prestezza che si potrà, et tutte le artiglierie mandate da Andrea Doria, che pare che l’abbin fatto a posta per renderci il contraccambio. Di quelle di Ruberto prese l’artiglierie son due cannoni di libbre 70 di palla per ciascuno et due colubrine che mai veddi le più belle artiglierie et meglio condotte, et 1/2 cannone et un sagro che fanno il numero di sei pezzi grossi con palle 80, con qualche poco di polvere et salnitri; et domani che saremo alli 28 manderò un trombetto alle Pomerance et uno a Monte Catini, et di quello che seguirà per il prossimo li darò avviso.
Quando parrà tempo alle SS. VV. quelle mi daranno un cenno che io cavalchi per la volta di Maremma a liberare Campiglia, Bibbona,[554] Buti et tutto il paese, et se ne caccerà quelli ladroni di strada che vi si trovano accasati, et quando io intenderò la passata di Fabbrizi per la volta di Pisa, non mancherò di mandare quelle forze, che per me si potrà a quella volta; nè mancherò di mandare a Empoli una banda a causa si renda più sicuro, ancorchè si trovi assettato dall’arte che le donne con le rocche lo potrebbono guardare. Nè altro ho che dire, salvo che pregare quelle che mi voglino consentire la sede data al Guiducci, et questo voglio che sia il premio di tante mie fatiche.
15 luglio 1530.
Li nomi di quelli tristarelli usi a sollevare li popoli a partito vinto son questi:
Agnolo di Donato Capponi.
Giuliano Salviati et un certo Giovanni di.... de’ Rossi.
Lionardo Buondelmonti fratello del cavaliere, e
Ruberto Acciaioli, padre di tutti.
Sforzati così i Volterrani tornarono sotto il giogo de’ Fiorentini; e giogo veramente si potea dire, poichè privati d’ogni libertà, ed anco poco ben trattati, non avean parte veruna alle deliberazioni di Stato. Gl’ingiusti modi tenuti con loro non meno che con Pisa, Pistoja e l’altre città del dominio, impedì che nel comune pericolo essi andassero di buone gambe alla difesa, ed anzi accrebbero[555] l’impaccio, dovendosi impiegare molte forze a tenerle soggette. Tanto è vero che l’oppressione de’ deboli genera faville, le quali covano ignote e sprezzate per lunga stagione, ma scoppiano pure alfine in incendio, e consumano l’oppressore.
Di questa verità Firenze ne offerì un tristo esempio, nè la giusta ammirazione che c’ispira la sua ultima difesa, c’impedirà di riconoscer le colpe e gli errori che contribuirono alla sua rovina. Si crederebbe, che fra gli uomini di stato d’allora correva questa sentenza: Pisa si dee tener colle fortezze e Pistoja colle parti? Si crederebbe, che la crudele astuzia di attizzare gli odj, pei quali le parti Cancelliera e Panciatica, empievan di sangue il piano e la montagna di Pistoja, si potesse chiamare ragion di stato? e si credesse accorto non solo ma lecito ed onorevole l’usarla? Se in questo furono accorti i Fiorentini, il fatto lo mostrava all’ultimo dell’assedio, quando, se Ferruccio fosse potuto giungere sotto le mura di Firenze, era quasi impossibile non la salvasse: ma egli, parte ingannato, parte persuaso dal capitan Melocchi di S. Marcello che pensava a distruggere i Panciatichi suoi nemici più che a liberar Firenze, si trattenne tanto, che potè in mal punto essere assaltato e rotto, come vedremo, dagli imperiali. Ecco qual frutto colsero i Fiorentini di sì loro sottile ed accorta ragion di stato!
L’allegrezza sparsasi in Firenze per la sottomissione di Volterra venne presto turbata dalla perdita d’Empoli, chè lasciato dal Ferruccio a guardia di Andrea Giugni e Piero Orlandini, per la costoro viltà venne espugnato e mandato a sacco dagl’imperiali. Condotta a fine quest’impresa, si drizzarono a Volterra guidati dal marchese del Vasto da Inigo Sarmiento ed altri capi, e riunitisi a Fabrizio Maramaldo, strinsero la terra con furore sperando ritoglierla al Ferruccio, che senza punto smarrirsi per le soverchianti forze degl’inimici, o pei sospetti de’ cittadini di dentro, si difese francamente sempre, tantochè alla fine, dopo molta uccisione, disperatisi dell’impresa, se ne levarono.
Allora si vide come il cuore d’un uomo solo basta talvolta, a guisa di favilla che cada su un ammasso di polvere, ad accenderne mille. I fiorentini infiammati dalle rapide ed ardite imprese del[557] Ferruccio (quantunque un nuovo e più terribil nemico si fosse aggiunto a’ loro danni, e la peste scopertasi nel monastero di S. Agata cominciasse a serpeggiare per la città) risolsero non pertanto d’uscir di nuovo contro i tedeschi, che sotto il conte Lodovico di Lodrone alloggiavano in S. Donato in Polverose.
Ripugnando ed opponendosi, come il solito, Malatesta, che non acconsentì se non quando conobbe esser egli solo contro l’opinione dell’universale, venne stabilita quest’impresa ed ordinato s’eseguisse a modo d’incamiciata.
Uscì Stefano Colonna per la porta di Faenza con duemila fanti armati di picche e partigianoni: per porta al Prato Pasquino, Corso col suo colonnello per la porticciuola, Maìatesta lungo la riva d’ Arno con 1500 fanti acciocchè i nemici dal campo non potessero, guazzando il fiume, venire ad offendere a tergo gli assalitori.
Mancavano due ore a giorno, e pel caldo grande erano i nemici immersi nel sonno. Fattosi avanti Pasquino più presto che non volea l’ordine dato, si risentirono le guardie della prima trincera, e levarono il rumore, che udito dal sig. Stefano lo fecero correre all’assalto. Superato ogni ostacolo, e cacciandosi innanzi i tedeschi, che sbalorditi e sonnacchiosi disordinatamente si difendevano, ajutando lo spavento e la confusione gran quantità di trombe da fuoco, che Giovanni da Torino gettava fra loro, giunse colle sue bande ad assaltare il monastero.
Il conte di Lodrone aveva intanto raccolto un nodo di duemila tedeschi, che colle picche spianate attendevano a difendersi da’ furiosi assalti d’Ivo Biliotti (il quale a dir del Varchi, abbassando il capo com’era suo costume, si gettava contro i nemici gridando ai suoi «su, valentuomini, mescoliamci!») e degli altri capitani e giovani fiorentini, che con tanto disperato furore combatterono quella notte da esserne rimasta poi lunga ed alta meraviglia fra quelle vecchie ed agguerrite bande, che mal potevano resistere a tanta furia. Mentre colla peggio de’ lanzi durava ostinata la battaglia, s’era fatto giorno; ed uditosi il romore nel campo del principe, egli aveva spinto una grossa banda di cavalli in ajuto de’ suoi, e dove era ufficio di Malatesta combatterli e ributtarli al guado del fiume, la qual cosa, ogni poco che impedisse il soccorso, avrebbe data vinta l’impresa ai Fiorentini, egli invece, da quel traditore ch’egli era, si ritrasse dentro le mura, e mandò ordinando al sig. Stefano di sonare a raccolta.
Dovettero le milizie, così vilmente abbandonate, ubbidire al comando per non venir tolte in mezzo, e volgendo pur sempre il viso al nemico, che poco avea in animo di molestarle, si ridussero ordinate dentro le porte; e parte avvedendosi alfine dei disegni di Malatesta, si cominciò tra popoli a bisbigliare di tradimento, ed a sospettare del fatto suo.
Ma l’avvedersi ed il voler ora riparare era tardo. Malatesta, antiveggendo di lunga mano la possibilità[559] di venir sospettato ed anco scoperto, s’era governato in modo che l’evento non lo cogliesse nè sprovveduto nè disarmato. Conversando co’ più reputati cittadini aveva saputo guadagnarseli, qualunque fosse la loro opinione circa lo stato, «ed ai popolani (usiamo le parole del Busini) dicea della libertà; ai malcontenti, del papa; agli ambiziosi, biasimava questi e quelli, e lodava uno stato di pochi ec.» con siffatte arti essendogli riuscito persuadere ad ogni setta di cittadini ch’egli teneva per essa, non gli mancava mai chi lo difendesse dalle accuse che gli si apponevano nell’universale, come non mancarono alla fine cittadini più ingannati che colpevoli, i quali l’ajutassero a compiere lo scellerato suo tradimento.
Di più, cominciando ad avvedersi che la Signoria dubitava della sua fede, s’era levato dal palazzo Serristori, ed alloggiato invece in casa i Bini[54], sotto colore d’esser più a portata pei bisogni dell’assedio, ma in effetto, per aver più vicina la porta Romana, la di cui torre ben armata e provvista, era in mano d’uomini suoi, e potea servirgli ad un serra serra, come di fatto gli servì. Egli non si lasciò più vedere gran fatto fuori di casa, e quando usciva era bene accompagnato, facendo soprappiù tener bonissima guardia giorno e notte intorno al suo alloggiamento, e, chiamato in Palagio, o non vi volle andare, o se qualche volta[560] v’andò, fece pigliar il portone e le scale da gran numero di suoi soldati, temendo, com’egli diceva, di non fare il salto di Balduccio d’Anghiari[55].
Rassicurato così dal timore di poter essere oppresso, e parendogli oramai preparate le cose, e matura l’occasione, si dispose con nuove frodi a coglierne il frutto. Il Ferruccio, che da Volterra, per la Maremma, s’era condotto a Pisa, e nel quale stava oramai riposta l’ultima speranza della repubblica, avea avuto l’ordine di condursi a Firenze, e non par da dubitare, che ove egli avesse assaltato il campo imperiale nel tempo stesso che le milizie l’affrontassero di verso la città, non fosse riuscito risolvere finalmente l’assedio.
Malatesta, che più di tutti tenea per ferma la riuscita di cotale impresa, ordinò, pel mezzo d’un suo fidato ribaldo, detto Cencio guercio, di abboccarsi segretamente di notte col principe d’Orange sotto le mura fuor di porta Romana, e quali pratiche tenesser fra loro non si seppe mai, ma pare probabile, che il traditore dando notizia al principe della mossa del Ferruccio, gli promettesse di non far atto nessuno contro il campo, mentr’egli fosse andato ad incontrare il commissario, e di cotal promessa gli desse una polizza scritta di sua[561] mano. Il fatto sta che la polizza fu poi trovata in petto al cadavere del principe morto pochi giorni dopo.
Il disegno di Mala testa ebbe pienissimo effetto, e nella rotta di Gavinana, avvenuta poco appresso, l’Orange ed il Ferruccio rimaser morti e svanì l’ultima speranza di salute che rimanesse ai Fiorentini. Il seguito di quest’istoria ci offrirà l’occasione di ritornare sui particolari di quella memorabil giornata, ma prima dobbiam ritrovare gli attori del nostro racconto, che la storia de’ pubblici avvenimenti narrati sin qui, ci conduce ad un’epoca ove i casi della famiglia de’ Lapi, principale scopo del nostro lavoro, ci pajon meritevoli d’una qualche attenzione.
La sera de’ 4 d’agosto era in Firenze un’afa grandissima e l’aria inerte ed infocata appariva ottenebrata e densa per una caligine rossiccia e polverosa che opprimeva il respiro. La spera del sole lambendo l’orizzonte si mostrava purpurea e dilatata pe’ frapposti vapori, e le cime soltanto degli edifizj ne venivan colorite d’una tinta spenta e sanguigna. Tra le quattro massicce colonne che l’animoso ingegno d’Arnolfo di Lapo seppe collocare sulla torre di Palagio, a reggerne il castello, si vide a un tratto la campana grossa del consiglio sulla quale erano in giro scolpite quelle parole: Mentem sanctam, spontaneam ad Dei gloriam, et patriae liberationem (habeto) scuotersi, dondolar lenta, e poscia mostrando la vasta bocca agitarsi[562] più rapida finchè il grave battaglio percosse il primo colpo nella parete di bronzo, ed una vibrazione sonora e prolungata si sparse per l’aria seguita da altre mille; chè oramai si suonava a distesa. Questo suono, che da secoli, ed in tante fortune della città, avea chiamati i cittadini a trattar dell’onor o de’ pericoli della patria, s’udiva questa volta per l’occasione più dolorosa e tremenda che avesse mai minacciato lo stato.
Era giunta in Palagio la nuova della rotta di Gavinana, e della morte del Ferruccio; di quello che i Piagnoni chiamavano il nuovo Gedeone, e col quale era spenta ogni speranza di soccorsi di fuori. I volti de’ cittadini calcati in piazza e per le strade che vi mettono, anneriti dal sole e dal fumo di tante battaglie, solcati di cicatrici, ridotti per la farne e gli stenti in forma di teschi ricoperti d’una pelle aggrinzita, erano impressi d’un lutto profondo, disperato, ma indomito e feroce. Dopo tanto combattere, tante vittorie, tante pericolose e pur felici fazioni, al punto di coglierne il frutto, al punto che ognuno s’aspettava udire: «Il commissario è comparso... egli assalta il nemico... egli combatte.... ha vinto.... egli entra per la porta di Faenza....eccolo... siam salvi! Ed invece udir le terribili parole: l’esercito è disfatto ed esso ucciso!» pareva persino impossibile a molti! chè vi son tali vite tanto venerate e gloriose, che non si stima possa una palla o una spada osar di troncarle! Eppure il fatto era certo, la sentenza irrevocabile;[563] l’idea sott’intesa spesso, ma che sempre ed in ogni occasione serviva d’ultimo rifugio alle vacillanti speranze, il pensare, «Ferruccio è vivo!» Questa idea, questo pensiero era a un tratto dovuto uscir d’ogni petto, lasciandovi in sua vece la tremenda certezza d’una rovina imminente ed irreparabile. In che di fatti potea più sperare quel misero assassinato popolo, stretto di fuori dalla soperchiante potenza di Carlo V e del papa, abbandonato da tutti, e travagliato di dentro dalla fame, dalla peste e dal tradimento? Come reggere a più lunghe fatiche, al languire delle mogli, de’ vecchi, dei figliuoli? Come risolversi ad incontrar nuovi pericoli, a protrarre la lunga ed inutile agonia, che certissimamente si sapeva dover riuscire a pessimo fine. Quale potrebbe essere la risoluzione del popolo più generoso, più sofferente, più ardito in cotal estremo, se non quella di cedere alla necessità ed arrendersi?
Quale fu la risoluzione de’ Fiorentini, quale il grido che si levò nell’universale? Difendersi, e sempre difendersi.
Sulla piazza di Palagio, che ancor conservava allora la sua augusta ed antica semplicità, e non era ornata, come oggi, dalla fontana dell’Ammannato, nè dai gruppi di Cellini e di Gian Bologna, s’agitava la turba del popolo, composta d’uomini d’ogni età e d’ogni stato, di vecchi, di soldati e capitani forestieri, d’adolescenti, di frati, di giovani della milizia, quasi tutti più o meno armati,[564] e la fatal nuova narrata in cento modi, con cento commenti diversi, era in bocca d’ognuno, e ne sorgeva un ronzìo cupo e pauroso, interrotto tratto tratto da qualche voce più alta, ora di preghiera, ora d’imprecazione o di bestemmia; e, com’accade tra la moltitudine in siffatte occasioni, si formavan cerchietti intorno a quelli che avean più pronto ed efficace il dire, e se varii erano i rimedi, i modi proposti, il fine era sempre lo stesso: combattere e difendersi.
Sotto la tettoja de’ Pisani, dirimpetto alla Ringhiera, era più che altrove, accalcata la folla, più riverente l’attenzione, e non turbato il silenzio; e dal centro di quel nodo di popolo sorgeva di tutto il capo l’alta e venerabil presenza di Niccolò, che colla mano in alto, e movendo in giro lo sguardo sicuro, diceva:
—Sì, popolo mio, l’esercito è disfatto.... messer Francesco è morto... E che perciò?.... Oh! sta a vedere che il braccio di Dio si sarà raccorciato, che la sua mano avrà perduta ogni forza per la morte d’un uomo!.... Sta a vedere che l’Onnipotente sarà ora in impaccio a trovar modo d’ajutarci? che gli dorrà d’essersi troppo impegnato, d’averci troppo promesso!.... Ah, di poca fede!... (esclamava più alto) di poca fede! Chi muove, chi fuga, o dà vittoria agli eserciti se non Iddio? e quand’egli vi rimane, quand’egli per bocca del suo profeta v’ha giurato di star per voi, di salvarvi, vi turba il fallito soccorso di poche braccia?....[565] Sappiatemi dire di quante ebbe mestieri Iddio per ammazzar Sennacherib ed il suo esercito? Di quante per salvar Betulia? Speravate negli uomini; conoscete una volta che in Lui, in Lui solo dovete sperare, che ha promesso difendervi, che ha promesso (lo sappiam pur tutti) di mandar persino i suoi angioli a combatter per voi[56]. Vi voleva l’estremo pericolo affinchè più chiara apparisse la sua gloria!.... Il pericolo è giunto, è immenso.... A terra le fronti dunque (ed egli, e tutto il popolo cadde in ginocchio) Iddio, gridiamo tutti, Iddio! Cristo re nostro, in te solo oramai confidiamo! a te sta ora il confondere i tuoi nemici, onde non dicano con ischerno «Ecco come gli ajuta il loro Dio!» A noi sta il combattere, ed il morire, se morire sarà mestieri!... su dunque, esclamò rialzandosi, su dunque, all’armi, alla battaglia, e giuriam tutti di morire mille volte prima che arrenderci una!—
Durante questa parlata, chi levava le mani in alto in atto di preghiera, chi si batteva il petto, chi fremeva, chi singhiozzava, e all’ultime parole del vecchio scoppiò, come il tuono, un urlo feroce, discordante, di mille voci, che in mille modi ripetevano il proposto giuramento, ed a quel grido così alto ed improvviso tenea poi dietro un cupo[566] e lungo mormorìo pieno di concitate parole, di minacce, di strane e tremende proposte, e molte voci s’udivano scagliarsi qua e là esclamando: Ah, traditor Malatesta! e pareva appunto quel brontolar sordo e lontano che s’ode fra monti dopo il primo scoppio del tuono. Questa scena, che accadeva qui sotto la loggia de’ Pisani, intorno a Niccolò, si ripeteva uguale in altre parti della piazza, ove qua e là da molti frati di S. Marco, e dal Fojano e dal Fivizzano più di tutti, si arringava coll’impeto e col proposito stesso, onde a seconda del dire di codesti popolari oratori, non appena finiva il grido e lo schiamazzo in un lato, che cominciava in un altro.
Crebbe poi l’agitazione, se era pur possibile che crescesse, per questo fortuito accidente: un povero fanciullo del popolo minuto, il quale, come si seppe di poi, da più mesi era rimasto abbandonato, senza ricovero nessuno, essendogli morto in battaglia il padre, lanajolo, e la madre di fame, avea notato, stretto dalla necessità, un luogo sul lato del Palazzo verso la dogana ove sboccava a fior di terra un acquajo che veniva di su dalle cucine della Signoria, e per esser così un poco fesso il condotto, il misero fanciullo s’era accorto di certe erbe che colle lavature delle stoviglie cadevano per quel canale, ed ingegnandosi di dilatare la rottura, poi ricopertala alla meglio onde altri non se n’avvedesse e non gli rapisse quel suo solo ed ultimo bene, veniva qui sulla sera ogni giorno, e trovava, fermata in certe[567] cannucce che avea disposte in traverso del condotto, una piccola quantità di bucce di frutta, d’ossicini, di legumi e d’altre immondezze, colle quali sosteneva la sua povera vita. Questa sera v’era venuto come il solito, tutto sfinito, chè al povero fanciullo quel tristo pasto bastava appena appena per non morire, ma reggendosi a’ muri pure v’era venuto. Ma quel giorno, in Palagio, pel sottosopra della nuova arrivata, o non s’era pensato a desinare nè a cena, o, comunque fosse, per quell’acquajo non era stata buttata cosa veruna, ed il povero sventurato orfanello, che appena avea più un soffio di vita, non trovò nulla, e caduto boccone presso l’acquajo diede in un pianger basso e fioco; nè trovato altro modo d’ajutarsi, cavando lungo il muro coll’ugne, ne strappava pochi fili di gramigna che vi crescevano, tutti arsicci, e se li cacciava in bocca, e mentre si sforzava colle indebolite mascelle di masticarli, fu visto cader sul fianco, stirare un momento le consunte membra, e rimaner immobile.
Notato l’atto da alcuni per caso, gli si fecero accosto, vollero sollevarlo da terra, e trovarono che era morto; e da un frate che s’imbattè costì fu portato via per mezzo la piazza, mentre appunto per le parole di Niccolò e degli altri era il popolo più infiammato, e gli animi più commossi. Il pietoso spettacolo di quel morticino portato in collo a quel modo, colle braccia e le gambe spenzolate, la testa arrovesciata, le labbra livide ed imbrattate[568] dai succhi verdi di quell’erbe, che ancor teneva strette tra denti serrati dall’ultima convulsione, scosse i cuori di que’ poveri popolani, che in quell’infelice vedevan raffigurata la sorte de’ loro figliuoli, e di loro stessi.
—Se s’ha a morire a quel modo, gridavano alcuni, moriam piuttosto d’archibusate!—Ah cane! Ah rinnegato Chimenti!, diceva un altro, ah! traditore, assassino della tua patria!....—E Bindo, che si trovava fra costoro, diceva adirato:
—Ma ditelo voi: di tante volte che siam usciti contro i nemici, fummo vinti, ributtati una sola? Non tornammo sempre in Firenze perchè così ci parve di fare, o (per esser più veri) per difetto di quel traditore di Malatesta? Eh! gridiamo tutti che si vuoi uscire a combattere, mettiamoci d’accordo noi, e converrà bene che i signori su in Palazzo s’accordino anch’essi al nostro volere.—
Per queste parole, e per tante cause riunite, sempre più si faceva terribile ed alto il tumulto e le grida del popolo che chiedeva battaglia, e molti, spingendosi su per le scalere che sorgono sotto la ringhiera ed il portone di Palagio, mostravano voler far forza alla guardia, per entrare e turbar le deliberazioni della pratica radunata. Si potea scorger da lontano l’onda della turba che si sollevava da un lato, e l’agitarsi disordinato delle picche de’ soldati che s’ingegnavano raffrenarla: ma a rimettere un po’ d’ordine in questa confusione corse[569] a un tratto tra la folla la voce, che era vinto il partito d’assaltare le trincere. A questa nuova si levaron mille grida di viva i Signori!—Viva il marzocco! E nel modo istesso che in mare al cader del vento, cade presto, ma non subito, la superbia del flutto, così, ancora per breve spazio durò il frastuono e l’agitazione, ma poi a poco a poco, anco per esser oramai notte chiusa, si venne diradando la folla, scemaron le grida e il susurro, e movendosi allegri i cittadini, pieni di nuova speranza, tornaron alle loro case, lasciando la piazza muta e deserta.
Insieme cogli altri, e misto tra quelli che venivan per Vacchereccia e Mercatonovo, camminava anche Troilo, tirando verso Ponte Vecchio. Dacchè non ci siam più occupati de’ fatti suoi, egli s’era occupato anche troppo della scellerata bisogna per la quale era venuto in Firenze, e vendutosi a Baccio Valori, quantunque sul primo si portasse assai rimessamente e di malavoglia, come accennammo, parte per un resto di ripugnanza a totali ribalderie, parte per trovarsi affastidito della vita che gli conveniva menare, avea poi a poco a poco, calpestando ogni scrupolo, saputo guadagnar benissimo il prezzo del suo tradimento.
Dal tetto della casa de’ Nobili, quando l’occasione lo richiedeva, veniva facendo cenni a quelli del campo con panni e biancherie, di giorno, e con lumi la notte: avea tenuto mano ad una segreta corrispondenza tra Baccio e Malatesta, e portava le[570] lettere in una balestriera fuor di porta a S. Gallo, ove un messo del campo di notte segretamente veniva per esse. Instrutto da Malatesta, chè oramai si fidava di lui interamente, s’era addimesticato coi giovani della milizia, e con quelli spezialmente che appartenendo alla setta di Niccolò Capponi, ed essendo de’ grandi, concorrevano bensì col resto del popolo alla difesa, ma nutrendo sempre in cuore l’antica gelosia contro la plebe, e mantenendo il sospetto non venisse il reggimento a cadere unicamente nelle sue mani, offrivan appiglio a chi si volesse staccare dal comune interesse, come di fatti avvenne.
Troilo, senza scoprirsi, e mostrandosi anzi acceso più degli altri per la parte Piagnona, avea però saputo con grand’arte seminar tra loro di quelle parole che inveleniscon gli animi più sollevati, e li spingon destramente verso que’ propositi che non s’oserebbe esprimere allo scoperto. Mostrandosi pensoso, sopra ogni cosa, del bene della città, diceva talvolta, stando sopra di sè e sospirando: «Si vincerà, si scioglierà l’assedio, non v’ha dubbio nessuno, ma poi?...» e qui una reticenza, ed a chi lo stimolava si spiegasse, aggiungeva con voce grave «poi... faccia Iddio che questo popolo non si levi in troppa superbia, non voglia cose disoneste.... non abusi della vittoria.»
Con queste ed altre somiglianti insinuazioni, ed anco per esser egli gentiluomo, era venuto in grazia de’ grandi, e coll’arti medesime appropriate ai diversi[571] umori che dividevano i cittadini, era generalmente ben veduto, ed avuto in grande stima da tutti, e Niccolò stesso, malgrado la sua vecchia esperienza, e non ostante gli antichi sospetti, s’era ora del tutto rassicurato sul fatto suo, ed interamente si riposava sulla sua fede.
Trovatosi Troilo in piazza questa sera tra il popolo avea fatto come gli altri; gridato, urlato, Battutosi il petto come il più arrabbiato Piagnone, ma insieme era venuto attentamente notando gli atti ed i visi di quelli fra i cittadini che sembrava partecipassero a que’ furori, più per non cader in sospetto del popolo che perchè tale fosse realmente la loro opinione, e quando la turba si cominciava a sciogliere, avendo veduto un cerchiello di giovani fermati un po’ in disparte sotto la loggia dell’Orgagna, fra quali era il Morticino, Alamanno de’ Pazzi, Daniele degli Alberti, Giannozzo de’ Nerli e molti altri de’ primi di Firenze, ch’eran di quegli appunto ch’egli andava sobillando, s’era accostato a loro, e dopo molti ragionamenti coi quali magnificava l’ardito proposito d’andare a combattere, e si protestava pronto a morir mille volte per la libertà, faceva poi intendere destramente che maggior gloria sarebbe stata a’ grandi l’abbracciar questo partito, che ai popolani: poichè vincendosi lo stato rimaneva in balìa de’ popolani, e perdendosi, o i nemici, espugnata la città, l’avrebber posta a sacco, ed i ricchi perdean più de’ poveri; o si veniva agli accordi,[572] ed ai ricchi sarebbe toccato pagar le taglie che senza dubbio verrebbon poste a’ cittadini per punire una troppo ostinata e pazza difesa, onde a ogni modo i grandi ci perdevano, ed il popolo ci veniva ad acquistare: e finiva dicendo: «Tanto maggior virtù sarà per voi il combattere!»
Ma quei giovani, conoscendo ch’egli diceva il vero, ed a fronte del danno, poco curandosi di tanta virtù, stavano ingrugnati senza rispondere, e Troilo in cuore godeva, vedendo così ben riuscirgli le sue malizie.
Questi suoi aggiramenti furon molti più che non si scrivono, bastandoci aver accennato quali fossero il suo animo e le sue frodi.
Uscito egli dunque di piazza, e venuto al Ponte Vecchio, che già era notte, si condusse al palazzo di Malatesta. Le bocche delle vicine strade, e quella di Via Maggiore, di dove era venuto, eran prese dalle guardie, che riconosciutolo lo lasciaron passare, e, giunto al portone, che trovò chiuso e guardato da molti soldati, fu messo dentro, e s’avviò per cercare di maestro Barlaam, che soleva segretamente introdurlo da Malatesta.
Attraversando il cortile illuminato da molte torce vide nel lato, in fondo, e collocato in modo che dal portone aperto potesse vedersi anco da chi passava in istrada, vide, dico, un asino sparato, ed appiccato pei piè di dietro, come s’usa de’ vitelli e de’ manzi ne’ macelli.
Con questa vista voleva Malatesta dar ad intendere[573] al popolo ch’egli pativa non men degli altri gli stenti di quell’assedio, e si cibava di quella vil carne: se ciò fosse vero lo vedremo tra poco.
Nel nuovo alloggiamento del capitan generale, maestro Barlaam s’era allogato alla meglio, ed in modo però d’esser sempre, per certi bugigattoli segreti, a portata del suo signore. Anche qui le sue camere eran terrene, ma non avendovi per la sua officina quelle comodità che gli offeriva il palazzo Serristori, era ancora colle sue robe per aria, ammucchiate in disordine negli angoli della camera che occupava.
Entratovi Troilo lo trovò che attendeva a dar loro sesto, ed in questa bisogna lo veniva ajutando Selvaggia. Lo salutarono ambedue, come s’usa con chi da un pezzo è di casa. Da quando lasciammo Selvaggia sulla strada d’Empoli erano scorsi di molti mesi, come sa il lettore, ed in questo frattempo, quantunque non le fosse avvenuta cosa d’importanza, è però bene, a maggior chiarezza di quest’istoria, diciamo di lei quattro parole.
Maestro Barlaam vedutala ricomparire così tosto, e quando meno l’aspettava, chè essa era venuta difilato a scavalcare da lui, s’era molto maravigliato, e mentre stava in sospetto non venisse costei a tempestarlo con nuove richieste e nuovi furori, fu rassicurato tosto da essa, che gli disse risolutamente aver ormai mutato d’animo, pensieri e desiderj; aver scoperto finalmente quanto poco meritasse il suo amore quello sciaurato pel[574] quale avea durate tante fatiche, e tanto sofferto: narrò come l’avesse trattata, e quali parole di scherno avesse dovuto sentire, e giurando di volersi a ogni modo vendicare, profferiva al padre di volerlo servire d’or innanzi in ogni cosa, e non ubbidir se non lui, purchè l’ajutasse ad ottenere questa tanto desiderata vendetta. Mostrandosi poi nei modi non più altiera e feroce come prima, ma docile e dimessa, come colei che era a un tratto caduta d’ogni speranza; e considerando il maestro, che un animo sicuro come il suo poteva però talvolta venirgli molto a proposito pe’ suoi fini, l’accolse benignamente, e le disse, che era molto contento si fosse messa sulla via ragionevole, e quanto al vendicarsi, ch’ella gli desse campo a pensare, e lasciasse capitar l’occasione, e poi forse farebbe in modo ch’ella rimanesse contenta. Senza voler dir altro, nè fidandosi ancora del suo giudizio, la venne intrattenendo, finchè trovatala sempre uguale a sè stessa, e sempre più accesa nel volersi vendicare di Lamberto, un giorno le svelò, ridendo, tutte le pappolate che le avea date ad intendere quella prima sera che s’era trovata con Troilo e messer Benedetto, de’ quali, dicendole ora i veri nomi e lo stato, soggiunse: che non gliene volle dire allora, per sospetto, che trovandosi essa con Lamberto non gli rivelasse ogni cosa.
Avendo essa poi varie volte occasione di trovarsi con Troilo, ed affiatandosi seco, a poco a poco erano spesse volte venuti sul discorso di Lamberto,[575] e mostrando Selvaggia passione grandissima nel parlar di costui e non minor desiderio di fargli dispiacere, Troilo, visto che la cosa faceva per lui, avea soffiato in questo fuoco, pensando che nessuno al mondo avrebbe potuto tenergli il fermo, ed ajutarlo ne’ suoi disegni, quanto questa cotanto offesa ed adirata donna. Ed avendo da essa, e parte dal padre, avuto notizia della sua vita passata, e conosciuta la sua arrischiata e terribil natura, rimase persuaso che in cuore di siffatta tempra l’odio e la sete di vendetta per l’amor vilipeso dovean produrre effetti sicuri e tremendi, e che nel suo disegno di toglier Laudomia a Lamberto non potea trovare ausiliario che più efficacemente di lei lo soccorresse.
Non sapeva ancora, a dir il vero, in che l’avrebbe potuta adoprare; ma prevedendo in nube il fin dell’assedio, ed il momento in cui la casata de’ Lapi si troverebbe oppressa cogli altri popolani, pensava: «Capiterà bene una qualche occasione! e fra due anime, come Selvaggia ed io, che vogliam risolutamente la cosa stessa, sarà gran che, se non ci vien fatta!»
—Presto, presto, maestro, disse dunque Troilo entrando e senza risponder al saluto, conducetemi dal sig. Malatesta, chè si sta mettendo di gran carne a bollire, e qui non è tempo da perdere!—
Barlaam gli s’avviò innanzi e, mentre Troilo usciva con esso, diceva, volto a Selvaggia:
—Sta di buona voglia anche tu, chè se egli[576] non ha voluto far alle braccia con qualche archibusata, dovrebbe star poco a comparire il nostro messer, e allora a noi, n’avremo ognun la sua parte.—
E via senz’aspettar risposta.
Trovò Malatesta in un suo salotto appartato, ed avea finito di cenare allora allora; era ancora seduto a tavola, avendo dinanzi in certi piattelli gli avanzi della vivanda, che alle ossa appariva essere stata composta di capponi ed uccellami, e non d’asino. Appoggiato col gomito al bracciolo del seggiolone e stuzzicandosi i denti, tenea bassa la fronte, ed il lume della lucerna che ardeva in mezzo alla mensa gli percuoteva sulla cotenna tirata e scolorita del cranio, che rifletteva quel raggio come fosse d’avorio ingiallito.
Gli sedevan di contro messer Benedetto de’ Nobili, e Baccio Valori, che molte volte, durante l’assedio, con grandissimo suo disagio e pericolo era venuto segretamente a visitarlo[57]. Tutti e tre alzarono il viso verso Troilo, che aspettavano con grande impazienza, per udire che novità vi fosse; e Malatesta, che volea parer d’animo sicuro, quantunque gli errasse sulla fronte e nella guardatura un sospetto inquieto, e non senza qualche spavento, disse, sforzandosi di sorridere:
—Che tu sii il ben venuto!.... Orsù, e che ne dicono i Piagnoni del loro Gedeone?—
—Dicono.... dicono.... (rispose Troilo scrollando il capo coll’atto che significa «non è tempo da motteggi») Dicono ch’e’ faranno senz’esso..... ed hanno il diavolo addosso più che mai.—
—E con esso si stieno, rispose Malatesta, alzando le spalle con disprezzo. A buoni conti questa mosca dal naso ce la siam saputa cacciare. E in piazza, che si fa?
—In piazza e stato l’inferno, e ancora mi duol l’ugola pel grand’urlare,.... chè a far il Piagnone ci vuol canna e polmoni.... ve lo dico io!.... In somma, il nostro vecchione, ed i frati, e’l Fojano, e tutti, a predicare, e dagli! a chi più ne diceva, chè non avrebber voluto Fra Girolamo per ragazzo. E il popolo era com’andasse a nozze: schiamazzi, urli, battersi il petto; e la conclusione è stata: che se non si spargeva la voce che in Palagio era vinto il partito di uscir a combattere, io credo che que’ diavoli tagliavan a pezzi la Signoria.
—Ed ora?—
—Ora tutti a casa a prepararsi per la festa di domani.—
—Oh, oh! il marzocco arriccia il pelo da maladetto senno questa volta! E se a me non piacesse l’uscire?—
—Farebbon qualche diavoleto, ho paura, e vorrebbero sforzarvi.—
—E s’io chiedessi licenza, e li lasciassi ingegnarsi da loro, con quest’esercito addosso, che non pensa e non sogna altro che sacco?—
—Al modo come sono infiammati, e come gli ho veduti stasera, io non vorrei giurare che v’avessero a lasciar finir la parola, e pensassero i fatti loro farseli da se.—
—Quando fosse così, vedremmo un bel gioco, alla croce di Dio!—
E l’occhio del traditore lampeggiò di quella rabbia diabolica che accende uno scellerato se scorga possibile il perdere in un punto il frutto di lunghe frodi.
Baccio allora, che non avea il capo a far il bravo, e stava con una vecchia paura addosso che non tentava dissimulare, diceva:
—Ma e gli altri, e la setta di Niccolò[58] che fanno? che dicono? E’ pare che in Firenze non sian più se non Piagnoni?—
—Che volete che facciano! Fanno come gli altri. Chi avesse voluto dir una parola in contrario, era bravo stasera, e poteva far conto di tornar a casa colle budelle nella berretta. Tuttavia, anche stasera qualche cosa s’ è fatta.... via.... rassicuratevi. E s’io non erro, a un serra serra molti gonfaloni tentennerebbero, e molti di questi che hanno le casse molto ben foderate di ducati avrebber caro che non finissero per le mani de’ bisogni, e de’ lanzi; e perciò terrebbono più presto per gli accordi e pel sig. Malatesta, che vuoi le cose oneste, ed ha promesso loro di molte volte uno stato di[579] pochi, che sarebbe appunto il fatto loro.... Non è egli vero, sig. Malatesta? Io credo che il papa non vorrà farvi parer bugiardo, e sarà contento dar loro uno stato di pochi—E sorridendo con malizia, aggiungeva—Ed anzi, per mostrarsi largo nel mantenere i patti, vorrà che sian pochi fin dove si può giungere, e se a questo modo lo stato finisse in un solo non istarà a guardarla tanto pel sottile.—
Nessuno de’ tre non rispose alle suggestive parole di Troilo; chè quelle vecchie volpi poco si fidavan tra loro, e sapevano che non sempre i padroni vogliono che si parli tanto sicuramente delle loro ribalderie, anche tra quegl’intimi che sono pur incaricati d’eseguirle. Onde Baccio, dando una voltata al discorso, diceva:
—A buon conto, del Ferruccio siam liberi, che potea nuocer tanto... io ho scritto la morte del principe a S. Beatitudine, cui dorrà grandemente, son certo, d’un così valoroso signore; ma dacchè la volontà d’Iddio[59] e le sorti della guerra l’hanno tolto di questa vita.... da quel sant’uomo ch’egli è, comporterà in pace una tanta sventura....—
—Ma non siam ancor liberi d’ogni sospetto,.... sig. Malatesta (disse quasi raccomandandosi), qui è[581] tempo di star desti, ed all’erta.... pensiamo che gli imperiali, ora che il principe, e D. Ferrante, come nuovo capitano, non ha grande autorità, pensiamo, per amor di Dio, non abbia a succedere qualche strano scherzo... che ad ogni poco d’occasione quelle genti potrebbero abbottinarsi a voler dar l’assalto, e dove riuscissero, trattar Firenze, come Roma tre anni sono. E se noi dessimo Firenze saccheggiata a S. Beatitudine, sapete che grado ce n’avrebbe.... E potrebbe anco avvenire che l’esercito ributtato dalle mura si risolvesse e s’andasse con Dio, che sarebbe mal peggiore; perchè bisogna pensarvi.—
—E’ par che non ci pensi! rispose Malatesta con impazienza. Orsù, voi, messer Baccio, tornate in campo più presto che voi potete, e fate di trattener quelle genti col dire, che non si vuol in Firenze sentir parlar d’accordi;.... così i soldati spereranno sul sacco, e finchè speran sovr’esso non faranno movimento nessuno. E di questi arrabbiati lasciatene il pensiero a me. E tu, Troilo, e voi, messer Benedetto, pensate che il tempo stringe, e che è venuto il momento di raccogliere il frutto delle vostre fatiche e de’ vostri pericoli. Trovate Cencio e gli altri, e mettetevi in moto, chè ora è tempo rannodar que’ giovani che hanno que’ bei ducati e non li voglion perdere.... io so quel che mi dico.... su loro e non su altri si dee far fondamento. Voi sapete quel che avete loro a promettere.... fate che a me si uniscano ed a me faccian capo.... Eh! soggiungeva poi scrollando il capo e sorridendo, di questi[582] furori di libertà n’ho veduti a guarir parecchi, o coll’oro, o col timore di perderlo!.... e quel vecchione di Niccolò debb’essere d’una pasta diversa d’ogni altro, per dio! che e’ dicono di fiorini egli n’abbia piene le cantine, eppure non si cura di nulla,... su di esso non è da far conto, non è egli vero?—
—Oh! disse Troilo con quel viso di chi ode dire la maggiore stravaganza del mondo. Oh! quanto a Niccolò, se non avete altro moccolo, anderete a letto all’oscuro.... figuratevi! Nemmeno a discorrerne.—
Al Nobili, udendo di quelle cantine piene di fiorini, era venuta l’acqua alla bocca, e
—Per l’amor di Dio, disse, che non succeda il sacco!... Già vi ricorderete, messer Baccio, che sul fatto di Niccolò siam d’accordo... e dacchè ora sembra si venga allo stringere, ho caro rammentarvelo... per dirvela com’è, a far quel che vuole il signor Malatesta, e rannodare, com’egli dice, questa setta de’ grandi, in questi momenti,... non si scherza!... se nulla nulla si cadesse in sospetto, ne va la vita.... io son contento porla a questo rischio, ma a cose finite poi ricordatevi....—
—Sì, sì, già sapete, ve l’ho promesso, disse troncando le parole il Valori, affastidito di questo vile ribaldo.
—Io poi, disse Troilo ridendo, non patteggio a danari... altre cose voglio... e quando sarà tempo vi dirò quel che fa per me, messer Baccio: ora[583] non vi voglio tener a disagio, chè avete altro pel capo.... Questo solo vi dico, che ho passati qui nove mesi in mezzo a prediche e croci, e me n’ avrete a saper grado.—
—Orsù, non è tempo da pazzie ora... bensì vi giuro la mia fede ch’io non mancherò a nessuna promessa ch’io v’abbia fatta, e per avventura potrei attenerla migliorata, ove i vostri portamenti lo meritino.—
—E di tanto ero certissimo, rispose Troilo. Ora, messer Benedetto, andiamo, chè prima di domani ci rimane di molte bisogne da fare, e non vorrei mancare di trovarmi a casa per l’ora delle orazioni,.... chè non avessi ad andar a letto come i cani, a uso vostro... e poi, e poi egli è bene ch’io faccia provvista di divozioni, così n’avrò poi per fin che campo senza avermi a confonder altrimenti, quando non sarò più in casa i Lapi.—
Malatesta s’alzò, ed aperto un cassone ne trasse un sacchetto di danari, e consegnandolo a Troilo, gli disse:
—Questi in mio servigio li darete, uscendo, a Cencio, chè li distribuisca a’ soldati, tanto che ognuno abbia la parte sua; e ditegli che non si lascino senza vino... non troppo però... ch’io non li vorrei ubbriachi. Ora andate e siate accorti e di fede, chè buon per voi. E d’ogni novità fatemi avvertito, che la riuscita o la rovina dell’impresa in questi momenti può dipender da un nulla.—
Troilo ed il Nobili, toltisi di quivi, scesero in cortile e, consegnati a Cencio i danari, uscirono. Dopo pochi passi si separarono, andando ognuno in traccia di quelli che era loro commesso sedurre e trarre al partito di Malatesta.
Mentr’essi attendevano a queste macchinazioni, Niccolò, che aveva abbandonata la piazza insiem colla turba del popolo, si trovava in casa già da qualche tempo.
Affrante le membra dalle cure, dalla fatica, dal dolore amarissimo della rotta e della morte del Ferruccio, dolore ch’egli aveva dovuto comprimere alla presenza del popolo per non disanimarlo, e che perciò appunto avea sentito più cocente di dentro, il misero vecchio entrando in camera s’era buttato sul suo seggiolone, e col capo nelle mani, l’anima ottenebrata da funesti presentimenti, e combattuto tra la speranza e i sospetti circa le profezie del frate, taceva, e tratto tratto metteva lunghi e profondi sospiri.
Seduta un po’ in disparte, colla fronte bassa e le mani intrecciate sulle ginocchia stava piangendo, cheta, la povera Laudomia. Le sue guancie in questi mesi s’eran affilate e fatte pallide, chè quel viver sempre in agitazione, quel dover ad ogni ora temere le giungesse l’avviso che Lamberto era rimasto ucciso, esauriva in lei a poco a poco la vita. Ed ora dopo questa rotta, della quale s’ignoravano i particolari, ed in cui sapeva però quasi 3000 persone aver perduta la vita, rimaner col tremendo[585] dubbio s’egli fosse vivo o morto! Non aver modo di uscirne, non sapere a chi domandarne! «Oh! pensiamo, diceva, s’egli non si sarà gettato nel maggior pericolo! S’egli avrà voluto staccarsi dal fianco del Ferruccio? Oimè! Oimè! ch’io non abbia proprio a vederlo mai più?»
E veniva calcolando, quando sarebbe potuto comparire, ove ancor fosse vivo... poi, pensava alla difficoltà d’entrare in Firenze.... al caso possibile, che fosse vivo bensì ma ferito, abbandonato, chi sa dove, e in mano di chi!
Tutti questi pensieri eran altrettanti aghi arroventati, che le entravano e le rimanevan fissi nel cuore, e per trovar modo di sopportare quell’innestimabili angosce, diceva, vestendosi un po’ di speranza «questa sera ancora può capitare... fino a domani a mezzogiorno... aspetterò. Ma se allora non fosse comparso?» E seguitava a piangere, rattenendo i sospiri e i singhiozzi per non aggiunger dolori al padre, che vedeva attraverso un velo di lagrime, in atto di così profonda afflizione.
E le sarebbe stato pur dolce in quel momento di buttarsi a’ suoi piedi, abbracciarlo, versare nel suo seno a rivi quelle lacrime che raffrenava! ma sempre, in ogni momento, Laudomia pensava ai suoi cari più che a se stessa. A un tratto un dubbio tremendo l’assalse «ch’egli sapesse che Lamberto è ucciso!... e non trovasse modo a dirmelo! e volesse farmelo intendere con quel silenzio, e con quel sospirar profondo!»
La poveretta non potè più rattenersi, si gettò alle ginocchia di Niccolò, e scoppiando in singhiozzi, tutta tremante diceva:
—Oh babbo! L’hanno dunque ammazzato!.... Voi lo sapete... e volete nascondermelo... Oh! sarebbe più crudeltà a tenermi in questo dubbio... Oh! ditemelo... ed ajutatemi a portar anche questo dolore....—
Ed impedita dal pianto a profferir parole, stringeva e baciava le mani del vecchio, che tutto commosso s’affrettava a rassicurarla, affermandole sulla sua fede non saper nulla sul fatto di Lamberto, e facendole animo a sperar bene.
Laudomia sapeva troppo quanto valesse la fede di Niccolò per serbar ombra di dubbio, onde tutta rasserenata, colle mani giunte, alzava al cielo gli occhi lagrimosi, e ringraziando Iddio di questo leggiero conforto, lo pregava le concedesse la vita, la salvezza del suo sposo.
S’era fatto intanto un po’ di rumore al portone, e comparvero poco stante Fra Zaccaria con altri frati, ed insieme alcuni cittadini, tra’ quali due o tre eran de’ Priori. Entravan taciti, salutando appena, e sedevan gli uni dopo gli altri in cerchio attorno a Niccolò, col quale volevan consultare circa i casi presenti, udire quali fossero i suoi pensieri, quali i consigli da proporsi in Palagio, ma venivan meno le parole ad ognuno: in ogni cuore stava impressa la dolorosa sentenza «Per noi non è più rimedio!» e nessuno però voleva concedere a se[587] stesso nè agli altri che si dovesse tenerla irrevocabile, avrebbe voluto parlar di speranza; ma la cercavano invano, ed il silenzio durava.
In quella fu udito picchiare, Laudomia si riscosse, chè ad ogni rumore, ad ogni voce le era avviso fosse Lamberto, ed era in quello stato d’agitazione nervosa per la quale ogni piccolo strepito che venga improvviso fa dare un balzo ed accelera il battito del cuore. Tendea l’orecchio la poverina tutta tremante; udì il portone aprirsi. Chi potrebbe esprimere quel ch’ella provasse, udendo a un tratto la voce di M. Fede esclamare:
—Oh! sia benedetto Iddio mille volte! Voi siete pur vivo, Lamberto!—
Laudomia volle alzarsi e correre all’uscio, ma le ginocchia non la ressero, ricadde seduta, sentendosi alle fauci ed alla fronte quel sottil gelo che precede lo smarrirsi de’ sensi. S’alzarono bensì frettolosi e contenti Niccolò cogli altri, ed in quel mentre entrava Lamberto reggendosi al braccio di Fanfulla, e quanto potè più presto, ch’egli mostrava aver un piede offeso, accostatosi a Laudomia, che gli alzava in viso gli occhi illanguiditi, e gli stendea la mano, le diceva, stringendogliela tra le sue:
—Laudomia mia, lo vedi che pur son ritornato!—
E la voce appassionata del giovane diceva assai più che non sonassero le parole.
In un momento Niccolò e tutti gli furono attorno abbracciandolo e rallegrandosi, e ringraziando Iddio[588] ch’ei fosse salvo, e poco minori carezze facevano a Fanfulla, che tutto contento diceva a Laudomia:
—Non ve l’avevo io detto che ve l’avrei rimenato a ogni modo?—
—Lo puoi dir con verità, esclamava Lamberto, che se non eri tu!.... E s’io son qui, dopo Iddio, lo debbo a te, fratello!—
—Che ci ho che fare io? rispose Fanfulla, son i casi della guerra, ajutami che t’ajuto,..... oggi tu, domani io.... e a buon conto siam qui, ancora buoni da qual cosa.... e, vedete, M. Laudomia, non vi sbigottite se Lamberto strascina quella gamba... non è nulla.... ora vi racconteremo com’è andata.—
Le accoglienze intanto non restavano, e Niccolò, abbracciando replicatamente Lamberto ed il buon Fanfulla, a questo rendeva grazie per ciò ch’egli aveva operato, e che indovinava dalle parole del suo compagno, ed a Lamberto diceva:
—Fra tante calamità almen tu ci rimani! Oh Lamberto, in qual terribile punto ci tocca rivederci!—
L’aspetto de’ due soldati mostrava assai ch’essi avean di fresco avuto parte ad un’aspra ed accanita battaglia. L’armatura a strisce d’oro di Lamberto, già così tersa e lucente, era appannata dalla ruggine e da un velo di polvere: delle penne che ornavan l’elmo non n’era rimasta neppur una, ed appena n’avanzava il segno in due o tre fusti rotti e spogliati. Il bracciale sinistro era rotto, e tenuto[589] insieme provvisoriamente da una funicella, sul petto poi e sui cosciali si scorgea l’impronta di cento colpi, e sul fianco destro l’ammaccatura profonda d’una palla.
Fanfulla anch’esso era conciato, Dio lo sa! non avea elmo in capo, ed invece un cappello, sotto il quale uscivan i capi d’un panno che gli fasciava le tempie, ed i pochi capelli bigi che si vedessero eran tutti impiastricciati di sangue cagliato. Avea fasciato la mano sinistra, e tanto sconnesso e maltrattato l’arnese, che nel moversi crocchiava tutto come una canna fessa.
Madonna Fede, parte afflitta nel veder costoro così malconci, parte rallegrandosi che fossero pur usciti vivi di tanti pericoli, aveva intanto sollecitato ad arrecar qui da bere ed un po’ di vesti per ambedue affinchè si disarmassero, e gli veniva ajutando, insieme con Maurizio, giunto col suo padrone in non miglior arnese.
Ma alla momentanea, benchè vivissima allegrezza, prodotta dal ritorno de’ due uomini d’arme, prevalse ben presto nel cuor degli astanti il doloroso e dominante pensiero della rotta del commissario Ferruccio. Così abbujandosi di nuovo a poco a poco gli aspetti eran tornati al primo silenzio, e soltanto mentre Lamberto e Fanfulla si disarmavano, venivan dicendo qualche interrotta parola, tutta piena di rammarico, di maraviglia e di lodi grandissime sulla terribile fazione di Gavinana; ed appena disarmati, diceva Niccolò con un sospiro, nel[590] quale il dolore appariva temperato da virile fermezza:
—Ora, dacchè a Dio piacque così, narrateci tutto almeno!—
Lamberto allora battendo insieme le palme, ed alzandole congiunte insieme, esclamava, tutto infiammato in viso:
—Ah! un eroe come il Ferruccio non vi fu, non vi sarà mai più al mondo!.... e l’età nostra sciagurata non era degna d’un tal uomo, e pensar che tanta virtù sia finita alle mani di quel disonorato marrano traditore di Maramaldo! E non aver potuto nè impedirlo, nè farne vendetta?.... Eh, ma saprà ben farla Iddio! la faranno gli uomini finchè dura il mondo, finchè la virtù, l’onore, l’amor di patria varranno più che la codardia e il tradimento!—
Dette queste parole con impeto grandissimo, a un tratto, mutando voce ed aspetto, proseguiva con amaro sorriso:
—Oh, appunto, egli ha mestieri delle mie lodi!—
Poi, rimasto un momento a pensare, come per raccoglier le idee, diceva con voce bassa e dolorosa:
—Ecco dunque come andò la cosa. Avrete saputo ch’egli s’ammalò a Pisa quando appunto avea avuto l’ordine di Palagio di mover le genti verso Firenze. Perdemmo tredici giorni, chè tanto penò a risanare. E quella, per dio, fu la nostra rovina!....[591] basta; come a Dio piacque, uscimmo una notte per la porta di Lucca. Eravam venticinque bandiere. Intorno a tremila fanti, e non s’aggiungeva a 500 cavalli. Ma gente.... lo può dir Fanfulla.... gente che.... e poi s’è veduto a Gavinana che genti erano.... ma sotto il Ferruccio chi non sarebbe stato soldato!.... Di munizioni poi non se ne discorre, egli avea provveduto a tutto. Polvere, scale, ferramenti, biscotto:.... v’eran trombe da fuoco, moschetti da porsi sui cavalletti, e mille cose.... Si prese verso Pescia, e per istrada un’ordine! una disciplina! parevan una regola di frati.... dicon delle Bande nere!.... Fanfulla, l’abbiam vedute.... Di’ un po’ tu se queste avean loro invidia?—
Fanfulla rispose coll’atto della bocca, che significava grandissima affermazione.
—Dunque si prese verso Pescia, e, come costoro della terra ci negarono il passo, ci volgemmo al castello di Medicina, ove s’alloggiò. E l’indomani a Calamecca. La mattina di S. Stefano poi, che fu l’ultimo giorno di quel grand’uomo, si salì sul poggio, e si dovea andare al Montale. Ma arrivati che fummo alle Lari, quei due ribaldi cancellieri, il capitan Pazzaglia e ’l Melocchi.... quello che chiamano il bravetto, gli si misero attorno pe’ nostri peccati (chè non pensavan costoro al servizio della città, ma valersi di noi per disfare i Panciatichi) e tante gliene dissero, che in vece d’andar diritto, come dicevo, al Montale, egli si lasciò pur condurre a S. Marcello, e, sappiate,[592] che della rovina dell’impresa furon cagione que’ due vituperati ribaldi, e non altri, e ne starò a paragone con chi si vorrà!,... chè quegli arrabbiati della montagna di Pistoja non si curano che rovini il mondo, purchè riescano a scannare uno della parte nemica; e messer Francesco, Dio gliel perdoni, non dovea mai prestar il suo ajuto a que’ pazzi furibondi.... Basta, non tocca a me il giudicare quella grand’anima.... avrà avuto i suoi motivi. Egli, dolendosi che i popoli gli si mostravan nemici e gli negavan vettovaglie, disse coll’Arsoli «E ci converrà alla fine sforzar qualche terra!» Ed anco, bisogna dire, che que’ Cancellieri avean promesso un ajuto di mille uomini, che mai si videro.
—In somma, in un pajo d’ore fummo a S. Marcello. Quei della terra, veduto venirsi addosso quella rovina, avean sollecitato chi a sgombrar le loro robe, chi a chiudersi e fortificarsi nelle case, e molti s’eran ridotti nel campanile. E dall’altra parte della terra, su per la costa del Cerreto, era una processione di donne, di fanciulli, di vecchi che s’ingegnavano campar da quella rabbia, e tutti con qualche fagotto in capo, carichi de’ loro fanciullini e di quante masserizie di casa avean potuto raccorre e portare, e tirandosi dietro qualche asinello, pur carico, o qualche loro vaccarella od altro bestiame, si vedevano ora sì ora no tra i gruppi de’ castagni e si sentivan insino le voci e i pianti delle donne e de’ bimbi... ed io venivo poco indietro[593] da que’ due ribaldi Cancellieri, e vedevo che ridevano tra loro, con una rabbiosa allegrezza negli occhi, pascendosi di quel doloroso spettacolo, e venivano instando onde sollecitasse, e dicevan presto, presto, che non ci fuggan tutti!.... Ah! vi giuro ch’io non so che santo m’ha tenuto di non dar loro della spada in sul capo, che avrei tolto un gran puzzo dal mondo.... e, dicevo io, pensare che stiamo con tanti nemici addosso, e Tedeschi, e Spagnuoli, e mille diavoli, che anderà a finire.... Dio lo sa! E con chi la pigliamo? con que’ poveri disgraziati contadini....
E chi son essi? Italiani.... E chi siam noi? Italiani. Ah! pel vero Dio, che s’egli ci flagella, e’ ci fa molto bene il dovere.... e lo può dir Fanfulla, che gliene dissi subito «questo principio poco mi piace, invece di pregar Dio che ci dia vittoria, far questi brutti assassinamenti!....» Non dubitate, che troppo fui profeta!
In somma, che volete? appena nella terra, addosso tutti, casa per casa a sfondar le porte, ammazzar quanti potevano, e dalle finestre l’archibusate fioccavano, e si combatteva per tutto, per le strade, nell’interno delle case, per le scale, di camera in camera, che que’ miseri, disperati d’ogni pietà volevan almen morire vendicati, e que’ due maladetti parevan diventati cento, non potevo voltar l’occhio in un luogo che non ve li vedessi, e facean cose che non so come la terra non s’aprisse.... l’ho veduto io con quest’occhi il Melocchi[594] che nella casa d’un suo particolar nemico avea trovato un bimbo di pochi mesi.... venne in piazza.... l’avea per una gamba.... e rideva all’impazzata, lo rotò due volte e lo scagliò in una casa che ardeva!.... ancora sento l’acuto vagito di quell’innocente!.... oh Dio! Dio, e potevi dar vittoria a cotali assassini?.... Io, non potendo impedire, e non volendo vedere cotali ribalderie, mi tolsi di là e Fanfulla meco, e andammo alla porta verso Gavinana ad aspettar che finissero quegli orrori..... a un tratto, chi vedo? il Melocchi suddetto che veniva correndo con due altri, e mi dice: «Andiamo, andiamo, presto, dietro quelli che fuggono, che li arriveremo!»... Gli ci avventammo come due mastini... «se tu non ti levi di qua, sozzo ribaldo!» gli dissi, e s’egli replicava una parola era morto. Così si ritrasse e que’ poveretti poteron scampare.
Intanto avean posto fine al loro furore, chè si sentivan le campane di Gavinana sonare a furia a martello, ed il Ferruccio, avvisandosi fossero i nemici, veniva mettendo in ordine le sue genti. Egli era, cogli altri capitani, nella casa de’ Mezzalancia[60] fuor della porta di Pistoja, e quel campo che sorge dall’altra parte della strada su per la costa, era tanto stivato di soldati che non si vedea che un ferro[61].
S’era fatto un tempo scuro; ed acqua a bigonce: fu ordinato che le genti si ristorassero e mangiassero, ed il Commissario uscito fuori coperto di tutte armi, fuorchè il capo, parlò ai soldati com’egli sapeva parlare: e poi bevve, e siccome pioveva sempre, disse ridendo: «Il tempo ci ajuta: e ci inacqua il vino perchè non andiamo ubbriachi a combattere» E fu pur troppo l’ultimo ch’egli bevve.
Era costì apparecchiato quel suo cavallo bianco, quel turco che comprò dall’Albanese: vi salse, e colla spada ignuda si mosse egli con quattordici bandiere e facea l’antiguardo; il retroguardo eran quindici, guidati dal sig. Gian Paolo. Io venivo con questi e seguivo Amico d’Arsoli, e Fanfulla andava col Ferruccio.
Venne intanto di Gavinana l’avviso che gl’imperiali eran molti più di noi, e li guidava il principe in persona. Dice Fanfulla, che Ferruccio udito questo non potè tenersi di non esclamare: «Ah traditor Malatesta!» chè non si potea supporre volesse l’Orange lasciar cotanto sprovvisto il campo sotto Firenze, se non fosse stato sicuro di non venir molestato da Malatesta.
Forse in cuor suo dubitò allora Ferruccio della giornata, ma al di fuori mostrandosi pieno di baldanza s’affrettò a giungere a Gavinana.
Noi altri intanto coi cavalli del retroguardo prendemmo un po’ al disotto a destra della terra, per andar contro quelli del principe, e camminando[596] quanto più si poteva veloci e serrati (chè son luoghi ove a maneggiar uomini d’arme è cosa malagevole) udivamo nell’interno del castello le archibugiate, e le grida della zuffa attaccata già dal Commissario. Allora anche noi, avanti, per venir alle mani, e passammo quel piccol torrente che v’è. Di là tra castagni v’era un po’ di largo, e così ci urtammo coi cavalli del Bicherini, con Herrera e Rosciale, e l’Albanese co’ suoi stradiotti, e non fummo mescolati mezz’ora che, ajutati dagli archibusieri che avevam con noi, li cominciammo a ributtare, ed essi non troppo ordinatamente venivan perdendo terreno.
Non per dir che ci fossi anch’io, ma s’è fatto il potere, ed il sig. Amico, povero vecchio, combattè quel giorno com’avesse venticinqu’anni. Così sempre serrando i nemici girammo intorno alle mura, e venimmo a riuscire dall’altra parte della terra, in quel luogo che si chiama Vecchietto, ove gl’imperiali cominciarono sparpagliati a fuggire: il principe vedendo i brutti portamenti de’ suoi si spinse innanzi in que’ campi che dicon le Vergini: di qua, di là dal castello, da ogni parte veniva in quel luogo una grandine d’archibugiate, ma egli, da quel franco signore ch’egli era, niente, e avanti! e in quella che s’avventa al Masi colla spada in alto, lo vedo piegarsi da un lato, e poi giù disteso in terra: sul primo pochi de’ suoi se ne avvidero, chè il fumo occupava ogni cosa.... ma a un tratto, ecco il suo cavallo, un bel bajo, tutto coperto di[597] cojame bianco, venir giù a salti sbuffando che parea un leone, e passar come un razzo, e sparir nel folto del castagneto rompendo e fracassando rami e quanto trovava.,.. Per que’ suoi poltroni fu come avessero veduto il demonio, ed invece di scagliarsi alla vendetta, via tutti a rotta di collo verso Pistoja, e i nostri dietro, e gridavam Vittoria da farci scoppiar la canna, chè il Ferruccio udì le grida di dietro e credette aver vinto.
L’Arsoli allora tutto ansante, fulminando per gli occhi l’allegrezza della vittoria, disse a me e ad un altro «Presto, addietro alla porta Papiniana, e se il Commissario può darmi 50 cavalli, fateli passar qui affinchè ributtino quelli che volessero girar la mura e coglier i nostri alle spalle, mentre io seguito costoro che fuggono» Diede di sproni e via di carriera, e noi addietro come saette; ben conoscevo quanto importasse far presto, chè vedevo comparir lontane molte bandiere di lanzi, intere e ordinate all’assalto. Mentre galoppiamo per que’ greppi, fu a un tratto come la terra mi si sfondasse sotto, e ’l cavallo ed io sottosopra, giù pel pendìo tra i cespugli e le macchie finchè ci fermammo in un cavo, io sotto, lui addosso, immobile, e la gamba ritta che avevo presa la sentii a un tratto tutta molle e calda, era il sangue del cavallo che, trapassato da una palla, credo morisse per aria. E non mi potevo nè movere, nè ajutare, e sentivo mancarmi l’anelito, nè potevo capir perchè, avendo solo una gamba presa sotto;[598] riflettendovi dopo, credo che nel momento appunto ch’io caddi mi dovette passar dappresso al viso due dita, una palla di cannone, e sapete che ciò basta a levar il respiro per un pezzo.
Io puntavo le mani qua e là, e mi sforzavo di riaver la mia gamba, ma tutto era inutile, e mi toccò aver pazienza. Intanto il mio compagno era giunto al Commissario, e Fanfulla venne comandato per guidar que’ 50 cavalli ove aveva detto l’Arsoli. Li vidi venire, e formarsi in battaglia in un largo che mi stava sopra a pochi passi, di dove ero caduto, loro non vedevan me, chè ero ficcato fra i cespugli, e gridare non potevo; io li osservavo, ed ho potuto allora conoscere che conto fa qui il nostro Fanfulla dell’archibusate. Figuratevi ch’egli era col cavallo dinanzi la fila de’ suoi uomini, e sentivo che, vedendo certi soldati giovani far gobbe le spalle al fischiar delle palle, diceva «Animo ragazzi, non è nulla, quelle che fischiano son già passate» e inforcato, ritto fra gli arcioni, pareva fosse sulla piazza d’un alloggiamento a far scuola a’ soldati, e non in battaglia, e veniva loro dando molti insegnamenti, ed in quella il suo cavallo toccò un’archibusata di striscio in una spalla e si piegò tutto da un lato, ed egli serio serio, senza scomporsi, diceva facendolo muover di passo «Quand’un s’accorge che il cavallo è ferito, è regola di non lo lasciar fermo; sente più il dolore, se un nervo è offeso si può irrigidire: si fa muovere pianamente, così, e venirlo toccando un po’ di sprone.»
A queste parole Fanfulla disse sorridendo:
—Che volete? vedevo certi giovani di prima barba, che quel psst delle palle vicin all’orecchie pareva li disturbasse, e volevo che capissero che non è da farne caso.... n’ho sentite tante io, eppur son qui ancora.—
Niccolò e gli altri sorrisero così un poco, e Lamberto proseguiva:
—Insomma, non ci fu mai verso di riaver la mia gamba, che oramai mi doleva forte e la sentivo tutta intormentita, e dubitavo fosse rotta: e quando mi pareva mi tornasse in petto tanto fiato da poter chiamare in mio ajuto, ecco venir di verso Gavinana un balestriere correndo, e richiamando addietro Fanfulla e la sua gente in ajuto del Commissario, chè que’ lanzi veduti da noi poco prima, invece di prender di sotto, avean imboccata la porta Peciana, e rinnovata nella terra la battaglia colle genti del Ferruccio, stanche dal lungo combattere con quelle del Maramaldo, che aveano sconfitte. Io vidi partir Fanfulla e dovetti rimaner così senza poter far altro, e poco dopo sentii nel castello levarsi un tremendo grido, con tanto spesseggiar d’archibusate che pareva un tuono continuo e che la terra s’aprisse, ed io mi disperavo di non poter ajutar in nulla.
Poi, dopo un’ora, a poco a poco si fecero meno spessi i tiri, e sempre più diradandosi finiron poi affatto, e solo sentivo nel castello un ronzìo cupo come in un nido di calabroni: a sera poi capitò[600] Fanfulla, che m’ajutò; egli vi potrà dire come andassero le cose dentro la terra, chè vide tutto.
—Così non avessi veduto! disse Fanfulla. Quando venni richiamato addietro.... Eh! badate ch’io non so discorrere come Lamberto, e ve la narro come posso.... Quando dunque giungemmo alla porta Papiniana, feci scavalcar ognuno.... per quelle vie torte e strette, meglio su due gambe che su quattro, dico io.... Dunque a piedi, colle picche innanzi, e ben serrati, eccoci in piazza. Che volevate vedere? I morti a mucchi, il sangue a rigagnoli per tutto, come l’acque ne’ temporali: e dalla via che mette a porta Peciana era già sboccata la prima bandiera de’ lanzi, e tutta la strada, che sale un poco, si vedea piena zeppa di picche, e venivan avanti da maladetti. Il Commissario, tutto già ferito e pesto, che fa? la gente sua era in gran parte morta o ferita. Arrendersi? sì, le zucche fresche!... si chiama attorno tutti i capitani e caporali, ne fa una fila, e tutti insieme a capo sotto, dentro in quella battaglia di lanzi! E lui vi s’era buttato il primo, vedete! E al capitan Goro, che volle passargli innanzi per riparargli la persona, afferrò un braccio ruggendo com’una fiera, e lo tirò addietro. Eh! è un pezzo che vedo picchiare, e ho visto picchiare davvero più d’una volta, ma un cozzo come quello che diede il nostro squadrone (chè c’eravamo uniti anche noi agli altri) nella fila dei lanzi, in quarant’anni, per la Madonna, è stato il primo!
E sotto! tutti co’ denti serrati, che quasi non si vedea lume, si lavorava co’ pugnali e co’ coltelli, e talvolta ad afferrarsi e lottare, e andar sottosopra, e rialzarsi, e più se n’ammazzava, e più ne ricompariva, e tanto pensavo uscirne vivo, come esser fatto papa.... Presto eran per mancarci proprio le forze di reggerci in piedi non che di combattere.... era un caldo! e l’armatura parea foco espresso.... Allora l’Orsino, che sempre era accanto al Ferruccio, e lo vedeva ansante, pieno di sudore, di polvere, e gocciolava sangue per tutto, sento che gli dice «Non ci vogliamo arrendere sig. Commissario?»
—No! grida lui con un urlo strozzato, e parve che gli tornassero le forze a un tratto, e si caccia, più diavolo che mai, nel folto dei lanzi, che cominciano a tentennare. Figuratevi noi allora! Ci scagliamo come mastini, e mena, e spingi, e avanti, ributtandoci, a viva forza, scavalcando cadaveri, e tutti imbrodolati di sangue, riuscimmo a un tratto fuor di porta, e vistomi all’aperto m’accorsi che avevam rotti i lanzi, chè a dirvela, per quella via stretta non ci vedevo più, e non sapevo dov’ero, e mi sentivo la testa intronata, chè n’avevo toccata una sul capo, e ’l sangue mi velava la vista. Basta, fuori che fummo si fece un po’ di largo, mi nettai un po’ gli occhi, ed i nemici aprendosi alquanto, vidi il Commissario cacciarsi in una casetta vicino alla cappella delle vergini, e io dietrogli, e dico: «Finchè ne vuoi tu ne voglio anch’io.»
E costì da capo ricominciamo a sonare,.... ma eram rimasti una decina e non più, e ora ne cadeva uno or un altro, ma senza rinculare un passo, e si combatteva sull’uscio, alla fine, eran più di cento che spingevano, e di peso ci portaron dentro, e ci montaron addosso, che ognun di noi n’avea quattro alla vita; allora il Ferruccio, che pel sangue perduto e la stanchezza era venuto a terra e non potea più muover gambe nè braccia, e non parea vivo che dal fulminar degli occhi e dal ruggito che gli usciva tratto tratto di gola, povero signore!.... fu preso da uno spagnuolo, e io da un altro, e così finì; eramo quattro vivi.
Quello spagnuolo che ebbe il Ferruccio voleva nasconderlo, ma venne un ordine di Maramaldo che gli fosse condotto. Lo misero a sedere su due picche in croce, e lo portarono in piazza.
Maramaldo, vinto ch’egli ebbe, s’era riparato in quella casa sull’angolo della chiesa: uscì sul ballatojo innanzi l’uscio, al quale s’ascende per due gradinate, mentre appunto le salivano i soldati che portavano il Commissario,... glielo buttarono ai piedi, rimase stramazzato, reggendosi però su un braccio, colla fronte alta e più feroce che mai.—
Qui Fanfulla tacque per un momento. Poi, fatto grave e addolorato nell’aspetto (cosa tanto fuori della natura sua) disse, scrollando il capo:
—Darei quel poco sangue che m’avanza per non aver veduto ciò che sto per narrarvi!....—
E dopo un’altra pausa, riprese.—Maramaldo gli[603] si accosta e gli dice: «Ci sei una volta! mercante poltrone!» Ma Ferruccio non gli lascia finire la parola e lo mente per la gola, com’egli fosse sano ed armato, e non ridotto com’era, e mentre si dicean villania, vedo Maramaldo colla destra venirsi frugando dietro le reni finchè trova il manico del pugnale, lo sguaina, e l’alza a un tratto sul viso al Ferruccio, io lo guardavo proprio negli occhi.... non li mosse, vedete! non li volse, com’ho da render l’anima a Dio! ed ebbe due volte la lama nella gola, e disse, morendo e borbogliando pel sangue che gli usciva di bocca: «Vil poltrone, tu ammazzi un uomo morto!»
Io perdio avea le mani legate da que’ marrani, chè coll’ugne e co’ denti l’avrei vendicato. E codesti si chiaman capitani di soldati? capi d’assassini piuttosto! vergogna di quanti fanno il mestiere!
Io fui condotto in una casa poco discosto, e da quello che m’avea preso venni raffigurato, ed io riconobbi lui, chè fummo insieme nell’esercito di Borbone, era un certo Valesco..... e mi dice: «Oh, chi pensava mai che fossi qui!» e cominciamo a discorrere, e per dirla in breve, m’usò di molta cortesia, chè gli dissi: «Vedi, che taglia vuoi tu che ti paghi? a scorticarmi tutto non ne caveresti un ducato.»
Insomma, e per l’antica amicizia, e perchè a dirla, tutti i soldati che da vent’anni sono in sulle guerre d’Italia li conosco uno a uno, e non per[604] merito mio, ma tutti mi voglion bene, mi lasciò andare: bensì gli ho promesso, che se potrò metter insieme un po’ di denari qualche cosa gli darò. Ho paura però che aspetti un pezzo.
Allora pensai a Lamberto: Dio sa com’è capitato!.... era già fatto sera, e i soldati nella terra attendevano a far buona cera, bere e giocare, e metter a sacco le case, insomma, quel che si suol far sempre. Io me n’uscii zitto zitto e misi in animo di trovar Lamberto vivo o morto.... e pensavo a voi M. Laudomia.... come vorresti tornarle dinanzi senz’esso! dicevo. Comincio a cercare per que’ greppi (era uno stellato chiaro) pieni di morti e moribondi, e chi si lagnava, chi bestemmiava Dio e i Santi, chi vedendomi passare si raccomandava.... ma che potevo in fare? Dicevo «raccomandati a Dio, fratello» e passavo avanti, chè a voler dar retta a tutti non bastava un mese. Insomma, dopo un par d’ore, chè credetti più volte, tanto mi doleva la ferita del capo, e mi sentivo rotto e stracco, di cascar anch’io, per non rizzarmi più; alla fine, dico, te lo trovo in quel fondo, e, la Dio grazia, vivo «Ajutiamoci Lamberto, chè la festa è bell’e terminata» e gli racconto tutto. Ora, come riuscimmo tra tutt’e due a movere quel cavallo morto, e poi a trovar modo di condurci fin qui, poco importa il narrarlo; il fatto sta che ci siamo, e che se credevo riveder Firenze, possa rompere il collo.—
La notte che tenne dietro a questa torbida giornata fu pe’ Fiorentini piena d’inquietudine, di sospetti e d’apparecchi, nell’aspettazione de’ gravi casi che essi prevedevano per l’indomani. In quell’ore stesse ove, particolarmente ne’ gran caldi, suole il sonno vincere ogni cura e la memoria di ogni travaglio, Firenze rimase desta. A girar per le strade non s’incontrava persona, ma il chiarore che traspariva qua e là dalle finestre, i rumori, le voci che s’udivano nell’interno delle case, assai mostravano che quel disgraziato popolo sentiva appressarsi l’ultima scena della lunga e sanguinosa tragedia, e nelle sue viscere ribollivan più fervidi gli umori e le passioni di parte, le speranze, i desiderj, vicini ormai ad essere irremissibilmente appagati o delusi.
Il popolo minuto, la maggior parte cioè de’ cittadini, che in cotali casi suole operar sempre con prontezza e lealtà, senza secondi fini e senza raggiri,[606] e per questo appunto viene spesso a pagar lo scotto a pro degl’ipocriti o degli astuti, si preparava in quell’ore notturne a venir francamente l’indomani all’ultima prova dell’armi, sperando vittoria, e rassegnandosi a comprarla colla vita di molti.
Bello ed augusto spettacolo sarebbe stato a poter penetrare il segreto delle povere case popolane, veder gli apparecchi di quel gran sacrificio. Veder quegli uomini disporsi tranquilli a morir per la patria, ed a quali patti? con quali speranze? di mutar sorte, e divenir ricchi vincendo? No: il loro stato, ben lo sapevano, non potea cambiarsi, la povertà e la fatica eran la parte che loro sarebbe toccata dopo, come prima. Ma non facean questi calcoli, neppur li pensavano; essi amavan la patria, come s’ama una madre, l’amavan d’amore, era stato per loro il primo pensiero dell’infanzia, dovea esser l’ultimo della vecchiaja, essi davan la vita per lei con quel cuore stesso con che un’amante la spende per l’amata, senza cercare altro premio che la gioja stessa di morire per salvarla.
Quali e quanto fervide saranno state in quella notte le preghiere delle madri e delle spose! Quante lagrime sparse in segreto! Quanti voti, quante promesse a Dio d’anime innocenti e cadute d’ogni speranza che non fosse in Lui! La fantasia si smarrisce immaginando l’infinita varietà di casi che dovea offrire l’interno di tante famiglie, pensando i severi conforti de’ vecchi, l’animoso e confidente[607] sperare de’ giovani, l’onorato ed irremovibil proposito di tutti; ma il cuore si stringe considerando poi che in quell’ore istesse v’eran in Firenze cittadini che vegliavan disegnando come potessero scampar soli dal comune naufragio, redimere la loro vita a prezzo di tradimenti, le loro ricchezze a prezzo del sangue o della libertà de’ loro fratelli.
V’eran pur troppo costoro, ed eran la setta dei grandi, quella di che facea capitale Malatesta, e che Troilo ed il Nobili avean avuto, come vedemmo, l’incarico di sollevare.
Essi ebbero a durarvi poca fatica, chè oramai le cose eran mature, ed il privato interesse poteva più d’ogn’altro rispetto in uomini che, sul primo, s’eran però mostrati pronti ed accesi pel comun bene. Ma essi eran ricchi; avean che perdere, e Niccolò dubitando di loro, non avea preso errore.
Troilo ed il Nobili, lasciato Malatesta, venner dunque raggirandosi, e trovando uno ad uno quei grandi; e, come portava l’occasione, con parole e promesse più aperte riuscirono a staccarli affatto dalla causa del popolo e risolversi a quegli estremi partiti, che presero poi di fatti, e furon cagione dell’ultima rovina della città.
Passata così quella notte, l’alba desiderata, o temuta, ma sicuramente spiata da tanti, appariva finalmente chiara e limpida dietro i poggi dell’Incontro e di Vallombrosa. Quando i suoi raggi cominciarono a penetrar nelle case, e ad esser visibili malgrado la luce rossiccia de’ lumi, si fece in[608] ogni famiglia quasi un’ultima dipartenza, successero gli abbracci, i pianti, i caldi e rapidi colloquj delle mogli, le benedizioni de’ vecchj e de’ padri, ed a poco a poco si sparse un rombo per la città, un rumor cupo, di voci, di passi, di porte che s’aprivano e serravano a furia, ed uscendo i cittadini armati dalle case, per raccogliersi ai loro gonfaloni, ricambiavan l’ultimo addio, l’ultime occhiate co’ loro congiunti, colle donne, co’ bambini che lasciavan lacrimosi sugli usci.
A levata di sole la piazza era già, non meno del giorno innanzi, calcata di popolo, ed i Signori radunati in consiglio, quando si vide di verso Vacchereccia giungere una compagnia d’uomini a cavallo, alla cui testa veniva Cencio Guercio e si drizzava al Palagio. Giunto al portone fra l’ondeggiare ed un non troppo amico mormorare della folla, scavalcò; e salito nella sala ov’era radunata la pratica, espose con arroganti parole il messo pel quale era stato mandato da Malatesta.
Il traditore neppur in quella notte non avea perduto tempo, e conoscendo l’universale repugnante più che mai agli accordi, ed acceso invece a tentar ancora il combattere, avea mandato in campo a Don Ferrante Cencio sopraddetto, con un altro, i quali ne eran ritornati con una bozza di capitoli pei quali, in sostanza, venissero bensì rimessi i Medici, ma rimanesse però libera la città.
Con questa bozza venne dunque Cencio ai Signori, dicendo: «come Malatesta li confortava accettarla,[609] e gli ammoniva, dacchè eran pure spacciate le cose loro, non volessero l’intero esterminio di Firenze, moltiplicando poi parole di tanta alterigia, che il gonfaloniere fu per fargli metter le mani addosso.» Tardi avvedutasi la Signoria dell’error suo nel commettersi alla fede di quel ribaldo, che ora tanto sfacciatamente scopriva il suo tradimento, udendo anche il rumore che s’era levato in piazza, e le grida del popolo che chiedeva battaglia, diede con altrettali e più superbe parole commiato a Cencio, imponendogli, dicesse a Malatesta (trascriviamo il Varchi) «Che la Pratica per ispraticare oggimai questa tante volte proposta, e determinata consulta, aveva di nuovo per ultima risoluzione deliberato, che onninamente si combattesse; il perchè essi come Signori gli comandavano, e come cittadini lo pregavano per l’onor suo e per la salvezza loro che desse ordine a cavar fuori i suoi soldati, perchè eglino dalla parte loro erano preparati, ed aveano preste e in punto tutte le cose da lui chieste e dimandate, e qualcuna di più.»
Malatesta intanto, tutto pieno d’ansia e di sospetti, moltiplicando intorno a se le guardie dei suoi perugini e de’ soldati côrsi che gli eran devoti, aspettava la risposta di Palagio, ora bravando, ora promettendo a’ suoi, e raccomandandosi gli tenessero il fermo. Quando Cencio gli ebbe riferito le parole de’ Signori, conosciuto non rimanergli altro scampo, si risolse, com’avea disegnato,[610] domandar licenza, e dimettersi dal grado di capitan generale prima che ubbidire a quel comando, chè potea fargli perder il frutto di tante frodi: non ch’egli credesse la sua licenza venisse accettata, sperava al contrario vincer così la costanza de’ Fiorentini, e costringerli, trovandosi senza capitano, a calare agli accordi.
Egli dunque scrisse una lunga lettera alla Signoria con parole e ragioni oscure ed avviluppate (chè di chiare e schiette non ne avea) sforzandosi mostrare aver egli onoratamente e con fede adempiuto all’ufficio di capitano, e dato ogni opera affinchè la città si liberasse di quell’assedio, il fatto aver dimostrato che il suo consiglio di non uscire a combattere era stato buono, ed a quello più che mai volersi attenere, ora che per le tante perdite erano sceme le forze de’ cittadini, e di troppo inferiori a quelle degl’inimici; non potergli patir l’animo di concorrere egli alla rovina di così nobile città, seguendo l’opposta opinione, e dacchè pure le loro Signorie avean deliberato mandarla ad effetto, voler piuttosto domandar buona licenza, lasciar l’ufficio, e partirsi.
Stefano Colonna, al quale Malatesta molto umilmente si raccomandò quel giorno onde non gli facesse contro e l’ajutasse, s’accomodò piuttosto a favorirlo, o perchè così gli fosse stato commesso dal re di Francia, del quale era soldato, o per qualsivoglia altra cagione: il fatto sta che a questa protesta anch’egli appose la sua firma, ed appena scritta la mandarono in Palagio.
L’indegnazione e lo sdegno che si destò tra’ Signori nel leggerla, e nel veder ormai tanto aperto il vituperato animo di quel traditore, è cosa impossibile a dirsi; e senza frapporre indugio, tutti bollenti d’ira, posero il partito, ed a tutte fave nere lo vinsero, che s’accettasse la licenza di Malatesta; venne tosto scritta una risposta nella quale, senza scendere a recriminazioni ed a lagnanze, che mal poteano stare colla dignità della repubblica, gli si accordava però la sua domanda con parole troppo più onorevoli che egli non avrebbe meritate.
Andreolo Niccolini e Francesco Zati, ambedue commissarj, ebbero il carico di portar questo scritto a Malatesta, e condussero con loro Leo Paolo da Calignano, notajo, chè ne facesse pubblica fede.
Il popolo, che aspettava impaziente il fine di quelle pratiche, vide accostarsi al portone del palazzo tre muletti condotti dai tavolaccini della Signoria, e poco stante comparvero i Commissarj sopraddetti, e montati a cavallo s’avviarono con due mazzieri innanzi, tra il bisbiglio della folla, ove già correva la voce dell’importante e strana commissione alla quale venivan mandati. Giunsero al capo di via Maggio, ov’eran le prime guardie di Malatesta, che s’aprirono per lasciarli passare, ma con brutte parole ed occhiate in cagnesco davan loro indizio dell’accoglienza ch’eran per ricevere dal capitano. Scavalcati finalmente in cortile, salirono, e lo trovarono nella sala ove era solito dar[612] le udienze, seduto su un seggiolone, circondato dalle sue lance spezzate, con un viso stravolto ed altiero, che non mutò al giungere de’ Commissarj, ed appena con un piccol moto del capo corrispose al loro saluto.
Se questi non si sbigottirono trovandosi nelle mani di tanti, che a quel punto ben potean dirsi nemici, vedendo i visi di que’ suoi ribaldi tanto volti al male, e sapendo qual messo arrecavano, convien dire, che assai fossero d’animo sicuro. Si disposero ad adempiere arditamente al loro ufficio, ed il Niccolini, cavato fuori lo scritto, cominciò a leggerlo ad alta voce.
Ma non ebbe appena profferite le prime parole, che Malatesta alzandosi furibondo gli corse addosso, e sguainato il pugnale lo ferì malamente in più parti, e l’avrebbe ucciso se le sue lance stesse, considerando l’enormità del caso, e temendone forse ancor più le conseguenze, non gliel’avessero levato di mano; ovvero, se la debolezza del suo braccio non avesse reso i colpi mal sicuri e di poca offesa. Allo Zati, veduto il compagno a questi termini, fallì un momento l’ardire, e domandò la vita a Malatesta, che accecato dall’ira, anche a lui s’avventava, e che pur si rattenne dal manometterlo.
A quel tumulto si levò il rumore grandissimo per tutta la casa, nel cortile ed in istrada, e dai soldati (che in quell’età ad ogni poca d’occasione, pensavano subito a far bottino) venner tolte le[613] mazze d’argento de’ mazzieri, le mule, e perfin la cappa del ferito Commissario, che tolto di là da Alamanno De’ Pazzi fu amorevolmente soccorso e fatto medicare. Intanto Malatesta, che il furore, la rabbia, il sospetto di dover in un punto rinunziare a tante speranze, avean tratto di senno, s’aggirava fulminando; e gridava «Non esser Firenze stalla da muli, e voler egli salvarla a dispetto de’ traditori.»
Il disordine e le grida duravano grandissime, ed era ormai palese ad ognuno esser le cose condotte a tal estremo, che la forza sola avrebbe deciso chi dovesse rimaner signore di Firenze, il Palagio o Malatesta; e questi non ebbe tanto offuscato dall’ira l’intelletto da non comprendere ch’era tempo non di parole e braverie, ma di pronto ed animoso operare.
Erano intanto ritornati in piazza lo Zati, il notajo, co’ mazzieri svaligiati, e tutti disordinati ne’ panni e nella persona, ed il popolo maravigliato li vide passare per entrare in Palagio, e saputo appena l’accaduto, si levò un ruggito d’ira e grida di vendetta tanto smisurate che ne rimbombaron i monti e la valle dell’Arno, ed il gonfaloniere insuperbito, e giurando di voler vendicar a ogni modo l’offesa repubblica, gridava a’ suoi sergenti gli venisser arrecate l’armi e preparato il cavallo, onde, alla testa di tutto il popolo, andar contro Malatesta, e veder, com’egli diceva, se un traditore potesse star solo contro tutta Firenze. L’ordine fu eseguito in[614] un baleno: venner l’arme, venne al portone un gran palafreno da lancia, bardato, e tutto sparso de’ gigli fiorentini; ed il popolo a quest’apparecchi si metteva in ordine anch’esso a furia, e si vedeva la turba agitarsi, dividersi, ravvolgersi in sè stessa, correndo ognuno a schierarsi sotto il suo gonfalone, preparando l’armi, accendendo, gli uni dagli altri, le funi degli archibusi, ed a quest’armeggio s’udiva un fremer cupo ed incalzante di voci che rassomigliava alla romba sotterranea foriera del terremoto. Ad accrescer e superar tanto frastuono s’aggiungevano a un tratto i tocchi della campana grossa, che in pari circostanze aveva molte volte battute l’ultime ore de’ traditori; le sonore, profonde oscillazioni del bronzo percosso, piovendo dall’alto sulla turba, vibravano in ogni cuore, v’accendevan nuove faville, come suole fare ai cavalli in battaglia lo squillar delle trombe, chè quel suono, in così fatto punto, ed in così estremo pericolo, non pareva se non la voce stessa della patria che chiamasse i suoi figli, e implorasse ajuto.
Fra i gonfaloni de’ quartieri che disposti intorno alla piazza a larghe distanze ondeggiavano al vento, si notava il Lion d’oro di S. Giovanni, e nella prima fila era Niccolò co’ suoi giovani. Il feroce vecchio, sordo a mille preghiere, al pianto delle figlie, allo sconfortar degli amici, aveva voluto quel giorno trovarsi cogli altri ove eran per decidersi l’ultime sorti di Firenze. Se non col braccio, pensava, ed a ragione, giovar coll’esempio; e qual piede avrebbe[615] potuto arretrarsi, qual cuore vacillare, alla presenza sicura e veneranda d’un tant’uomo?
Deposto il lucco, egli vestiva un lucente giaco di maglia, aveva accanto la spada, in mano una picca, ed invece del cappuccio un cappello di ferro, di sotto al quale gli usciva l’onorata canizie, e coprivagli il collo, mentre sul petto gli scendeva, ugualmente candida e folta, la barba. Il suo busto non più curvo dagli anni, stava eretto sulle reni, e si piantava saldo su due gambe, alquanto aduste ma di valida e bella proporzione: il suo sguardo lampeggiava d’un fuoco di gioventù, ed un insolito vampo gli coloriva le guancie. Malgrado il tumulto e i diversi pensieri che occupavan le menti, molti avevano fissi gli occhi in esso, e se lo mostravan gli uni agli altri, con parole d’affetto, di maraviglia e venerazione mentr’egli immobile volgeva in giro l’occhio tranquillo ed altero nel quale si leggeva un irremovibil proposito, ed intanto l’ombra errante del gonfalone che gli sventolava sul capo, ora lo copriva spegnendo il lampo delle sue armi, ora guizzando lontana le lasciava scintillar di nuovo ai raggi del sole.
Sulla ringhiera di Palagio era intanto comparso il gonfaloniere coperto di tutte armi; e montato a cavallo, si mosse, preceduto dal grande stendardo del popolo, che con bell’ordine, quartier per quartiere, si veniva mettendo in fila per tenergli dietro: le trombe della Signoria sonavano; sonavan le campane di Palagio, e quelle di molte chiese; spesseggiavan[616] le grida di Viva il marzocco! viva il Palagio! Morte ai traditori! Morte a Malatesta! e pareva la terra tremasse percossa da tanti passi, le mura si scuotessero al rombo di tante voci, al suono di ferri che s’urtavano nella calca, al grave rotolare de’ carri d’artiglierie che venivan avviati per Vacchereccia, onde abbattere al bisogno le mura e le porte del palazzo di Malatesta.
Ma prevedendo questi la rovina che stava per venirgli addosso, s’era oramai provveduto dell’ultima e più scellerata difesa che gli avanzasse, ed al tempo stesso della più terribile e sicura che si potesse immaginare, contro la quale il popolo di Firenze non ne avea rimedio. Il traditore avea fatto entrare Porro Stipicciano da Castel di Piero ne’ bastioni con le sue genti, e mandato Margutte da Perugia alla Porta a S. Pier Gattolini, che ruppe e spezzò a furia, cacciandone il capitano Altoviti che l’aveva in guardia, e volgendo al tempo stesso verso la città le artiglierie collocate sul torrione della porta medesima.
Il campo imperiale, avvertito da Malatesta di questi accidenti, s’era intanto levato in arme e si apparecchiava, ad un suo segnale, a scendere ed entrare nella città, e le feroci bande tedesche e spagnuole, agitando le picche, mandavan grida d’allegrezza stimando imminente il sacco di Firenze, i guadagni, le rapine, le uccisioni, gli stupri, la meta infine delle loro lunghe e contrastate speranze.
Rassicurato così Malatesta alle spalle, e forte oramai[617] di tutto l’esercito imperiale, poteva, quanto a sè, ridersi della furia del popolo, ma una gravissima cagione lo sforzava a non spinger le cose all’estremo, e far sì che il popolo si ritraesse senza opporgli gli ajuti di fuori, e pel solo timore de’ medesimi. Questa cagione era il dubbio, anzi la certezza, che entrando tumultuariamente in Firenze le bande del campo, ed appiccando la zuffa in città non venisse questa saccheggiata e distrutta, contro la mente espressa del papa, che la voleva invece intera e piena delle sopravanzate ricchezze.
Malatesta dunque spedì all’incontro delle torme del popolo alcuni suoi uomini, che le trovarono sul Ponte Vecchio, e dissero al gonfaloniere ed ai signori, che se venissero avanti d’un passo, l’intero esercito imperiale sarebbe messo dentro le mura, e da alcuni cittadini, che eran stati testimonj dell’occupazione di porta S. Pier Gattolini, fu confermata la verità del fatto, ed esser oramai in potestà di Malatesta il mandare ad effetto le riferite minacce; ed al tempo stesso, entrando costoro tra i Signori e tra que’ primi del popolo che seguivano, e prendendo le mani or degli uni or degli altri, ed esortando, e pregando, e piangendo, confortavano la turba a ritirarsi, e non voler tentar Iddio e la fortuna in un’impresa ormai disperata, e che non poteva partorire se non la rovina e l’eccidio universale. Ma in que’ petti cotanto accesi non potè lo sdegno dar così tosto luogo alla ragione, ed il messo di Malatesta, eccitando più che mai la generale indegnazione[618] accrebbe la sete di vendetta, e la voglia di muovere all’assalto, più che non la frenasse:, ma furon tante e tali le parole di que’ cittadini che s’erano messi di mezzo, e tanta l’evidenza, che ormai nessuna forza al mondo non poteva salvare quello sventurato popolo, che alla fine il Gonfaloniere e la Signoria, dolenti e disperati d’ogni ajuto, e maledicendo la sorte, la crudeltà del papa, ed i traditori che n’erano stati strumento, diedero pure al popolo il comando di tornar addietro, e sciogliere l’ordinanza.
Quella fermata della testa del popolo sul Ponte Vecchio produsse in tutta la folla un rigurgito, per dir così, nel senso opposto alla direzione che prima seguiva, e si vide correr per essa a mano a mano quel moto ondulato che si comunican tra loro le anella ond’è composto il corpo de’ bruchi, ed al tempo medesimo correva addietro, di bocca in bocca, la voce dell’ostacolo incontrato, e sul primo era ripetuta senza variazioni o commenti, ma poi andando avanti, soffriva di strane trasformazioni, ed alla fine tra un bisbiglio pieno di terrore, e che sempre più incalzava, si veniva da tutti affermando, esser entrati dal lato opposto i nemici in Firenze, e tutto l’Oltrarno venuto già in potere degli imperiali, che avean dato principio all’uccisioni ed al sacco.
Dall’estremo ardire suol facilmente la moltitudine passar all’estremo scoramento, tanto più quando si vede minacciata da un pericolo oscuro, contro il[619] quale non conosce difese, e che perciò appunto viene dalla fantasia fatto maggiore della verità. Alla cura dell’utile comune, succede allora quella delle private cose, e da que’ cittadini che disperavano ormai salvar la patria, occorse più vivo alla mente il pensier delle mogli, de’ figli, della famiglia, ad ognuno sovvenne de’ suoi cari lasciati inermi tra le domestiche mura; ognuno già se li figurava manomessi da tedeschi e dagli spagnoli del campo: correre tosto alla loro difesa fu il pensiero che invase ciascuno, e sciolse in brevi momenti quell’ordinanza cotanto calcata.
Correvan qua e là i cittadini per le strade, per le piazze, pe’ chiassi, parendo a tutti mill’anni riveder l’uscio di casa, e tremando trovarlo già sconficcato, trovar già dentro i soldati imperiali; avean i volti bassi, i petti ansanti, gli occhi lagrimosi, e ciascheduno, secondo la natura sua, o si volgeva a Dio, e con pregare interrotto ne implorava l’ajuto, o l’imprecava con tremende bestemmie; e chi si scagliava contro il papa, chi contro Fra Girolamo, chiamandolo ciurmadore, e maledicendolo per averli ingannati. Ed a poco a poco spargendosi per le case e per le famiglie lo spavento, si levava per tutto un pianto, un lamento di donne, di bambini, e quelle che si trovavan sole in casa, nè vedean ricomparire i loro uomini, avvisandosi d’ogni peggior danno, e che già fossero stati morti, ed insieme udendo le grida ed il pianger delle vicine, uscivan di senno affatto e, tolti a furia in braccio i piccoli bambini, trascinandosi[620] dietro i più grandicelli, che tutti sbigottiti afferravan loro la gonna, venivan fuori delle case, e vagando per le strade, cercavan d’una qualche chiesa per ripararvisi; e deposti sulle predelle degli altari i bambini, colle braccia in croce, e parendo loro ogni tratto sentirsi ne’ capelli le mani de’ soldati, gridavano a Dio misericordia.
Nè a tutte le famiglie, che pur l’avrebber voluto, riusciva ripararsi intere ne’ luoghi santi, chè in molte, come suoi accadere, erano infermi da malattie o da ferite, inchiodati ne’ letti, o vecchi ridotti dagli anni ad una eguale impotenza di muoversi od ajutarsi, ed allora sorgeva un nuovo e più doloroso contrasto tra il desiderio di porre in salvo chi potea fuggire, e l’ambascia di abbandonar soli ed indifesi quelli che sarebbe bisognato trasportar con molte braccia e molto tempo: e da questa varietà d’accidenti ne nacquero atti stupendi di fortezza, di carità, di pietà filiale, ove la prontezza dell’anima aggiunse forze soprannaturali a persone deboli e languenti, e si videro giovani donne riuscire a levarsi in collo o padre, o madre cadenti, e giungere tutte affannate e sfinite a deporli sulle scalee di qualche chiesa, ove da pietose braccia eran raccolti e trasportati a piè degli altari. A fronte di cotesti atti virtuosi, altri se ne videro brutti e nefandi, ed in molte madri lo spavento e la cura de’ figli spegnendo ogni altro affetto, lasciavan le case aperte, ed entrovi abbandonati quelli che non avean forza a seguirle, e talvolta accadde che non da soldati nemici, ma[621] dalla feccia de’ ribaldi della città venisser commesse ruberie ed assassinamenti su quei miseri derelitti.
Ora quelli tra’ cittadini che ritornando in casa la trovavan vota, e fuggita la sbigottita famiglia, si davano a domandarne pel vicinato, a cercarne qua e là per le strade, e ritrovatala, parte rampognando, parte compiangendo l’improvvida fuga, la riducevano di nuovo d’onde s’era partita; chè la città s’era per cura della Signoria un poco rassicurata quanto all’imminenza del sacco, ed era stato posto ad ogni ponte un gonfalone di guardia, per difendersi da chi venisse d’Oltrarno, onde nel cuor di molti l’improvviso terrore avea già dato luogo ad una nuova speranza, e tra’l popolo radunato in piazza, quantunque nè tanto nè così ardito come prima, s’udivan pure di molte voci che di nuovo chiedevan battaglia. Ma ve n’eran anco non pochi chiedenti gli accordi; poi tra cittadini alcuni, che più la patria e la libertà stimavano, che non la vita, concorrendo al marzocco che era sul canto di Palagio, s’abbracciavano a que’ ruvidi macigni che gli servon di base, gli innondavan di lacrime, li coprivan di baci, giuravan voler difender fino all’ultimo quella venerata repubblica, voler morir mille volte prima che disertarla.
Dove potea esser Niccolò se non quivi, se non il primo ed il più infiammato di questi? Poteva egli anche a quest’estremo, ammettere il solo dubbio che Firenze avesse a cadere? Poteva egli credere Fra Girolamo un impostore, le sue profezie una menzogna?
Ritto a piedi del Leone, circondato da’ suoi e da molti cittadini, egli veniva tratto tratto con gravi ed infiammate parole comunicando ad ogni cuore quella fede, quella costanza, che nel suo rimanevano inconcusse, e neppure quando il sole cominciò a declinare all’occidente, e quando alla fine, calato sotto l’orizzonte, cominciarono a comparir le stelle, non volle lasciar quel luogo malgrado le istanze de’ suoi, che non potevan patire avesse a sopportar tanti disagi, e temendo nella notte avessero a succeder nuovi accidenti, od i Palleschi cogliesser l’occasione di far novità e levar il rumore, ricusò ostinato di andarsene a casa, e tratti dal suo esempio, molti cittadini passarono anch’essi in piazza l’ore del sonno. È facile immaginare quali poteron essere per l’universale, quanto dolorose, piene di sospetti, di spavento per i mali estremi che s’aspettavano dall’indomani, e quando, dopo la mezzanotte, un alto silenzio era succeduto a tanto rumore, e non s’udiva in piazza se non i passi delle sentinelle, il lamento de’ gufi appollajati in cima della torre, e di quando in quando il batter delle ore. Niccolò, cedendo alla stanchezza, cominciò a declinar la fronte su un letto composto de’ mantelli de’ suoi figli, e s’addormentò col capo basso alla base del marzocco, mentre essi muti e pensosi vegliavano al suo fianco. Due ore prima di giorno, la luna che era in sul finire, venne a poco a poco mostrandosi pallida e scema sugli edifizj verso oriente, ed illuminò d’una luce[623] alabastrina il volto del vecchio addormentato. Lamberto gli avea tolto pianamente il cappello di ferro, e, per difenderlo dall’umido rezzo della notte, gli avea tirato sul capo il lembo d’uno di que’ mantelli, e l’augusta e placida serenità sparsa sui lineamenti di Niccolò, il suo respirar largo e profondo mostravano che sulla nuda terra, nell’estreme sventure, e tra i maggiori pericoli è pur concesso trovar sonno e riposo all’uomo forte ad incontaminato.... Resta a saper se in quella notte, in quelle ore medesime, l’avranno trovato uguale ne’ loro letti di piuma, di seta e d’oro, Carlo V e Clemente VII.
Un nuovo disordine, preparato però da lunghe macchinazioni, sorgeva intanto ad affrettare e render più dolorosa l’agonia della repubblica.
La setta de’ grandi, risolutasi affatto a staccarsi dal resto del popolo, concorse armata alla prim’alba sulla piazza di S. Spirito, in numero di quattrocento giovani delle prime case di Firenze, «sprezzando» secondo le proprie parole del Varchi «la religione del sagramento, tante volte ed in tanti modi fatto da loro.»
Scelsero codesto luogo per esser prossimo alle case di Malatesta, e poter così soccorrerlo all’uopo, e venire soccorsi: sforzare il Palagio agli accordi, ed averli tali che potessero salvare il loro grado e le loro ricchezze, era il fine al quale tendevano. Corse a questo rumore Bernardo da Verrazzano, Commissario della milizia del quartiere, e si studiò con buone parole ricondurli al dovere, mostrando[624] loro di quanta importanza fosse che in quel pericolo si mantenessero unite le volontà di tutto il popolo, che potrebbe così ottenere capitoli più ragionevoli e confacenti alla comune utilità, ove all’opposto le scissure e le disunioni, dando maggior animo a’ nemici, gli avrebber resi meno trattabili e più insolenti.
Ma furono sparse al vento le sue parole, chè anzi ributtato e minacciato villanamente, mancò poco non venisse ammazzato dal Morticino degli Antinori, che toltolo di mira coll’archibuso, già appressava al draghetto la fune accesa, ed avrebbe dato fuoco, se da’ circostanti non fosse stato rattenuto e ripreso.
Venuta la nuova in Palagio di questo ammutinamento, la Signoria, che oramai navigava per perduta, ed in tanti e così diversi pericoli che la minacciavano non sapeva più che farsi, nè come riparare, spedì pure per tentare ogni prova, il Rosso de’ Buondelmonti, Commissario della milizia di S. Maria Novella, a pregarli che non volessero l’ultimo strazio della repubblica, colle ragioni medesime addotte già senza frutto dal Verrazzano, e che pur senza frutto furono udite per la seconda volta, rispondendo costoro non voler per l’innanzi riconoscere altra signoria nè altro signore che Malatesta.
Disperatosi allora il Buondelmonti di potere svolger costoro, a lui si condusse pregandolo, per parte della Signoria, volesse colla sua autorità far partire que’ giovani da S. Spirito, e se questa[625] domanda gli venisse accordata, lo può immaginare il lettore; chè anzi già avea mandato Malatesta a que’ cittadini abbindolandoli colle solite promesse d’uno stato di pochi, quale essi desideravano, e profferendosi pronto ad ajutarli e sostenerli, ed al Commissario della Signoria, disse alla fine aperto, ch’egli stava con quelli di S. Spirito e non conosceva altri che loro.
Questa ribellione de’ grandi, quantunque pel loro scarso numero non paresse cosa di tanta importanza, fu però il colpo che dopo altri mille decise finalmente la caduta della repubblica di Firenze; nel modo istesso che ad abbattere un’antica e ben radicata quercia, quando pel lavoro di molte scuri tentenni già recisa sul calcio, basta alla fine un urto leggero.
Vennero in piazza i giovani di S. Spirito fatti oramai sicuri, e crescendo d’insolenza, e s’attelarono in arme sotto la tettoja de’ Pisani, guardando in cagnesco i Piagnoni che avean dirimpetto, schierati sotto la ringhiera, e se, come parve probabile, avessero attaccata la zuffa, sa Iddio a qual rovina sarebbe stata condotta la città: ma l’ordinanza di questi s’era d’assai assottigliata, chè alla sfilata s’eran partiti molti, conoscendo oramai che il più contrastare alla fortuna sarebbe stato di puro danno, e volere, non morire essi per la patria, ma che la patria perisse per loro o per la loro ostinazione.
Conoscendosi costoro padroni oramai di Firenze, vollero per prima cosa che la Signoria rilasciasse que’ cittadini Palleschi, che fin dal principio dell’assedio erano sostenuti in Palagio; e la Signoria, che dovea ubbidire, non potendo più comandare, li fece tostamente porre in libertà, onde presto furon veduti uscire di Palagio ringraziando i loro liberatori, come poco dopo ringraziaron Malatesta, recandosi a fargli riverenza.
Il Busini, che era presente a quel fatto, e stava con que’ pochi Piagnoni superstiti, desideroso più di morire che di vivere, narra, in una delle sue lettere al Varchi, che costoro avendo, durante la prigionia, trasandata ogni cura della persona, apparvero con lunghe barbe, e rassomigliavano ai romiti della Falterona.
Ora dunque i Signori, non conoscendovi più rimedio, sforzati dalla necessità, dalla violenza dei[627] nobili, e rimasti oramai abbandonati a se soli, dovettero alla fine risolversi a cedere; e, radunato il consiglio degli Ottanta nella sala grande di Palagio, in quella stessa, che per opera di Fra Girolamo era stata disposta pel consiglio maggiore; in quella, ove alcuni anni dopo il Vasari dipinse in tante storie le battaglie che ribadiron poi la servitù fiorentina; radunato, dico, il consiglio, pieno di quel lutto, di quel dolor tacito e profondo che assai si può immaginare, elessero quattro ambasciadori a Don Ferrante colla commissione d’accordarsi, salva però sempre la libertà fiorentina.
Questa clausola sola parrà al lettore una derisione amara, ed il progresso del tempo mostrò, che il suo giudizio non erra: ma è nell’indole umana l’attenersi con grandissima ostinazione alle parole allorquando vien meno la realtà da esse significata.
Partirono gli ambasciatori, si condussero alla villa Guicciardini, detta la Bugia, ove alloggiava Baccio Valori, e venuti a parlamento con esso e con D. Ferrante, dopo lunga discussione, fermarono i capitoli della resa, e tornarono con essi, che già era fatta notte, in Firenze.
Niccolò, quantunque abbandonato quasi da tutti, era sempre rimasto in piazza, al luogo medesimo. Quando gli fu annunciato che tutto era finito, estinta ogni speranza, e Firenze venuta finalmente alle mani de’ Palleschi, provò quel dolore che supera ogni altro dolore, e non è da mettersi a[628] confronto nè colla perdita de’ beni, nè con quella della vita, e neppur della libertà, nascendo da una perdita assai più tremenda per l’uomo, quella d’una fede nutrita, tenuta infallibile e santa pel corso dell’intera vita. Scoprir traditore l’amico dell’infanzia, è forse il solo dolore che a questo s’avvicini.
Chi può immaginare, non che descrivere, lo sconvolgimento tremendo che dovette operarsi nell’animo del vecchio popolano, quando a un tratto, quasi allo squarciarsi d’un velo, sentì nascersi il dubbio che Fra Girolamo gli avesse ingannati?
A novant’anni s’avvide l’infelice vecchio che egli ancor non conosceva tutti i dolori della vita, e mentre i suoi gli stavano attorno confortandolo, e notando con ansia l’istantanea e spaventosa mutazione che appariva nei suoi lineamenti, quella sua fronte, quei suoi occhi, già cotanto sicuri, caddero a terra, il suo volto illividito espresse una così desolata disperazione, che gli astanti temettero un momento non avesse a cader morto allora allora, e con quelle parole e quegli argomenti che alla mente d’ognuno parevan migliori, si studiavano ravvivarlo, mentre piano piano procuravano trascinarlo alla volta di casa.
Riuscirono a condurvelo, passando taciti per quelle strade poco prima tanto riboccanti di popolo, tanto piene di rumori e di grida, ed ora oscure, deserte e taciturne, se non che da quando a quando s’udivan lamenti, pianti soffocati, che[629] sonavan per l’aria senza potersi conoscere d’onde venissero. Quando Niccolò rivide la bruna facciata della sua casa, ove avea vissuto libero tant’anni, e dove oramai gli conveniva viver servo, od uscirne, sentì rinnovarsi più amaro il suo dolore, come accade a chi rivede per la prima volta quelle mura ove visse lungamente con una persona cara, e che la morte abbia rapita per sempre. Nel varcare la soglia, l’androne; nell’entrare nella sua camera sentì opprimersi il cuore come entrasse in una prigione. Trovò le figlie piangenti, che gli si fecero incontro, ed abbracciandolo raddoppiarono il singhiozzare, ed egli, senza nè rispingerle, nè corrispondere a quelle loro mute condoglianze, si venne spogliando l’arme e le gettò a terra lontane, lanciando sovr’esse un ultimo ed amaro sguardo; un altro sguardo gettava in alto a quella nicchia entro la quale stava appesa la tonaca, ed eran collocate le ceneri di Fra Girolamo, e senza torcer le pupille da quelle cose che in cotal momento dovean destar in lui tanta tempesta di pensieri, rimase un buon pezzo fisso, ed alla fine il misero venne alla presenza de’ suoi, che profondamente commossi, e senza osar quasi respirare lo circondavano, pianse, pianse a lungo ed amaramente.
Degli sbagli delle profezie e de’ profeti a tutti si suol dar la colpa fuorchè a loro, chè essendo la fede un affetto del cuore, più che un’operazione dell’intelletto, il cuore s’ostina a serbarla, a difenderla contro gli assalti della ragione, contro[630] l’evidenza stessa, e trattandosi appunto di predizioni non mancano mai appigli per persuadersi, quando gli eventi siano succeduti a rovescio, che la colpa fu di chi non seppe interpretarle, o adempierne le condizioni.
Così Niccolò, che non poteva in un momento abjurare quella fede in Fra Girolamo, che era stata lo spirito animatore di tutta la sua vita, che non poteva in un punto detestare ciò che avea adorato, nè rinunziare in quella terribil prova alla sola consolazione, alla sola speranza che gli avanzasse, disse in cuor suo, mentre s’affissava in quelle reliquie:
—E se i nostri peccati furon tali da renderci immeritevoli della divina misericordia, vorremo, per colmar la misura, perder anco la fede? Ci fu promessa vittoria: ma abbiam noi combattuto? Perchè ritrarci vilmente? Perchè arrenderci? Può forse Iddio ajutare i codardi?... Oh Firenze! nelle tue forze speravi e non in quelle di Dio, ed egli t’ha abbandonata alle tue forze sole! Quare. Quare dubitasti?—
Questi pensieri furon cagione del pianto di Niccolò, ed insieme di rinnovare più salda in lui quella credenza che avea potuto bensì vacillare, ma non mai venire abbattuta, onde, riassumendo nel volto e nella presenza quell’autorità grave e tranquilla, solo per un momento smarrita, disse ai figli, a Lamberto ed a Troilo:
—Figliuoli miei! Ad uomini men forti e di minor fede che voi non siete, le parole che sto[631] per dirvi potriano parere stoltezza, e vacillazioni d’un vecchio.... Ma a voi, che conoscete le promesse fatte da Dio per bocca del suo profeta a questa città, che fidate in esse,... a voi che, la Dio grazia, non conoscete nè viltà nè paura, posso ben dire, anco allorquando da tanti si crede che siam perduti, sì, perdio, posso dirvelo,.... che non siam perduti del tutto nè irremissibilmente. No! che a chi non dispera di Dio, nè di se stesso, sempre avanza una via di salute.... si dovrà dire che tutto il popolo di Firenze, che tante migliaja di cittadini non han più forza nelle braccia, non han più modo a difendersi, e perchè? Perchè piacque ad alcuni codardi disperar della pubblica salute, e darsi in mano a’ nemici dello stato. Perchè quattrocento grandi... (Ah Lamberto! ti ricordi? non te l’avevo io detto?).... vollero calpestare i giuramenti, farsi traditori, per questo non siam più noi? non siam più quelli che eravamo jeri? Le nostr’armi non hanno più nè punta nè taglio? Siam scemati di numero? Son cresciuti i nemici?... Sì, è vero, siam scemati di 400 traditori, e d’altrettanti si sono afforzati i Palleschi.... e non è ella una vergogna, un’infamia, che ciò basti a sbigottire un intero popolo, a fargli cader l’armi di mano?.... Disperi chi vuole! s’arrenda chi vuole, ch’io non dispero e non mi arrendo.... Ah Ferruccio, Ferruccio! ci hai pure insegnato come si combatte! e noi in una terra piena d’armati, con mura salde ed intatte!.... Oh vergogna! vergogna eterna!.... Orsù, non è tempo[632] questo di parole, ma di fatti; l’ore incalzano; la notte s’avanza. Io voglio tentar questa prova, ed Iddio ci ajuterà. Uscite, ed andate per la città cercando de’ nostri, de’ nostri operaj, de’ poveri popolani.... Ah, non son traditori costoro!.... in essi e non ne’ grandi sta la forza della città.... e raduniamci tutti in S. Marco dopo la mezzanotte, e là stabiliremo ciò che ci resti a fare; là vedremo se in Firenze vi sono uomini ancora. Io m’avvio ad aspettarvi, fate che ognuno venga per l’uscio di dietro dell’orto, farò che s’apra a chi dirà S. Marco e libertà. Ora andate, e non perdiamo tempo.—
Gli animosi giovani accettarono con allegrezza il messo, e si mossero, ravvivati dall’idea che vi fosse pur ancora qualcosa da fare. Usciti appena dall’uscio si separarono, andando ognuno verso quelli che avea più in pratica, e sui quali facea maggior fondamento, e Niccolò, lasciando le figlie che piangevano, prevedendo oscuri pericoli e nuovi guai, si condusse anch’esso a S. Marco.
Troilo era uscito cogli altri, mostrandosi più sollecito ed infiammato di tutti. Ma quando si trovò solo (avea preso a caso verso S. Trinita) si fermò un tratto, e scrollando il capo diceva:
—Io dico così che questo vecchio ha indosso il diavolo e la versiera!.... Ed io, che credevo d’esserne fuori finalmente! Ed eccoci da capo!.... Già, finchè non l’abbiam messo a giacere non è contento, e se non troverà pazzi che gli dien retta, è capace d’andar solo con quella sua picca ad affrontar il campo.—
Così parlando tra se stesso, avea ripreso a camminare; passato il ponte, s’era condotto alla casa di Malatesta, al quale avea in animo dar notizia di questo nuovo accidente.
Le strade tutt’all’intorno eran piene di soldati, di cittadini di parte Pallesca, che andavano e venivano, e con visi allegri, con parlar alto, cogli atti, co’ gesti, colle risa, assai mostravano la mutazione che s’era operata nel loro stato, e la sicurezza in che oramai si sentivano. Il cortile, le finestre del palazzo splendevan di molti lumi, e nell’interno era un ronzìo, un moversi, un dimenarsi di genti, e ben appariva che da quanti eran raddunati in codesto luogo, non si pensava che a rallegrarsi ed a festeggiare.
Troilo, trovato un familiare di casa, fe’ sapere a Malatesta, ch’egli avea a comunicargli cosa di grande importanza; non ebbe ad aspettar molto, e venne tostamente introdotto. Egli era in una sua camera segreta con Baccio Valori, in istretti ragionamenti, e Troilo entrando udì questi che diceva:
—Io non mancherò di scrivere a Sua Beatitudine, ma essa potrebbe anco pensare che voi ne volete troppo....—
E queste parole si riferivan alle disoneste domande fatte da Malatesta al papa, siccome prezzo del sangue de’ Fiorentini. Tacquero all’entrar del giovane, che potè osservar i visi d’ambedue tanto mutati da quei di prima, che appena sembravano[634] le stesse persone. Il capitano parea meno scarno, stava sopra di sè più ritto, ed a Baccio parean scemati vent’anni. L’accolsero con festa, non però egualmente sincera in ambedue, chè dopo la vittoria, le parti rispettive di questi ribaldi s’erano già mutate, ed i loro interessi non potean oramai molto accordarsi. Baccio vedeva giunto il momento che avrebbe avuto addosso tutti quelli che s’erano adoperati per lui, ed ai quali aveva tanto promesso, e s’egli volea conservarsi la grazia di papa Clemente, e non rischiare di perdere esso stesso le sue ricompense, ben sapeva che la sola via era quella consigliata da Guido di Monforte a Bonifacio VIII, ed espressa da Dante col verso
«Lunga promessa coll’attender corto....»
E quanto gli avesse a riuscire ardua e piena di fastidj glielo mostravan le pretensioni di Malatesta da lui già messe avanti, e sulle quali già discutevano al giunger di Troilo; era perciò naturale, che non gli riuscisse neppur molto gradito in quel momento l’aspetto di questi, come a chi sta battagliando con un creditore inesorabile poco piace la sopraggiunta d’un nuovo. Ma Baccio era troppo astuto per non saper celare que’ suoi pensieri sotto un’apparenza grata ed amorevole; mentre Malatesta trovandosi con Troilo, per dir così, in comunione d’interessi, e vedendo in lui quasi un ausiliario, non avea bisogno di fingere per fargli buon viso.
Egli dunque, stendendogli la mano e stringendogliela, gli diceva, volto un poco verso il Valori.
—Ed anche questo giovane s’è portato da valent’uomo e non ha temuto nè fatiche nè pericoli... e se le cose son riuscite tanto a modo di S. Beatitudine, convien pure in gran parte sapergliene grado.... Ora dimmi un po’, Troilo, ti diedi io un mal consiglio confortandoti a quest’impresa? Sei contento ora?—
Baccio, con un suo risetto finto e sforzato, accompagnava, e pareva approvare le parole di Malatesta, al quale intanto mandava divotamente il canchero in cuore, e l’altro, proseguiva tutto allegro:
—Coraggio, coraggio giovinotto, chè son finite le prediche e i miserere, e le processioni, ed hai finito oramai di tribolare, ed è volere di S. S. che i suoi servitori, quelli che l’hanno ajutata, abbian que’ premj che meritano: e qui messer Baccio saprà ben egli eseguire le intenzioni generose e magnifiche di S. Beatitudine.... e poi, basta a dire che il papa è di casa Medici.... e codesta Casa non conosce nè ingratitudine nè miseria.—
Forse Malatesta, cui era noto assai bene l’animo di Clemente, che s’avvedeva anco de’ pensieri di Baccio, parlava così per istraziarlo, e Troilo probabilmente col fine medesimo, rispondeva:
—Eh! lo so, lo so, non occorre dirmelo.... e quanto a messer Baccio, è un pezzo che mi vuol bene, e son certissimo che delle cose mie egli n’ha maggior pensiero di me. Ma non penso a queste cose ora; chè v’è un nuovo diavoleto per aria, e son venuto ad avvisarvene....—
E qui narrava come Niccolò, non si tenendo ancora per vinto, volesse far un’ultima prova, ed avesse dato opera onde rannodare la parte Piagnona e ridurla ad un notturno ritrovo nel convento di S. Marco, ove eran per risolvere, Dio sa che disperato e pazzo partito.
—Non che io creda che possano oramai nuocer molto, proseguiva Troilo, ed anco bisognerà vedere se si troveranno, al punto che son le cose, molti sciocchi e furibondi tanto da volersi mettere a questo sbaraglio.... ma pure m’è parso la cosa non del tutto da trascurarsi, e ve n’ho voluti avvertire.... tanto più, che dovendo trovarmi anch’io a questo consiglio, potrei giovare in qualche modo.—
—Ed hai fatto benissimo a darcene avviso, rispose Baccio, chè forse forse.... da questa occasione... si potrebbe.... lasciamici pensare un minuto.—
Malatesta, vedendo Baccio che colla mano al mento, e l’occhio fisso e pensoso, parea dar molto peso alla nuova riferita da Troilo, diceva, sorridendo con ischerno:
—Oh! che volete voi che faccian costoro?.... Meno che non vengan, come credevan essi, gli angioletti per aria.... ma, vorrei veder anche questa, che gli angioli l’avesser a pigliar col papa! sarebbe una bella disciplina!...—
Baccio, senza badare a queste parole, si veniva accarezzando colla mano il mento, sporgeva innanzi il labbro inferiore, tentennando il capo, come[637] chi sta fra se stesso discutendo e pensando un progetto: alla fine, quasi risolvendosi, diceva:
—Lo so anch’io, che i Piagnoni ci ponno oramai nuocer poco.... Ma e se potessero anzi giovarci? se con queste loro pazzie ci ajutassero invece ad ottenere.... a far sì che.... so ben io quel che mi dico....—
E troncando le parole ricominciava a pensare ed i suoi due uditori a guardarlo, aspettando spiegasse questo nuovo disegno; rimasti così un poco in silenzio tutti e tre, diceva Baccio:
—Ditemi un pò, sig. Malatesta. I capitoli son fermati: la città è nostra, ve l’accordo.... Ma.... qua, tra voi e me, che non ci ode nessuno.... Siam noi sicuri ugualmente di quest’esercito? Siam certi ch’egli non vorrà se non quello che vorremo noi? Che quei diavoli tedeschi e spagnuoli, dopo undici mesi d’assedio, dopo tanti malanni e tante fatiche vorranno proprio rinunciare al sacco di Firenze? Vorranno star contenti alla doppia paga, e partirsi cheti e senz’offesa della città? E se volessero far tutto il rovescio, chi li potrebbe impedire o rattenere? È morto il principe: è morto Gian d’Urbino: e D. Ferrante, che autorità ha egli su codesti ladroni? E se Firenze andasse a sacco, lo sapete anche voi qual grado ce ne saprebbe il papa. Voi, sig. Malatesta, potreste far conto (parliamoci chiaro) di non riveder Perugia; io, d’andarmene a tribolar la vita mia, Dio sa dove, e, quanto a Troilo, non se ne discorre...—
Le parole di Baccio, che racchiudevano moltissima probabilità, scossero gli animi di que’ due, che avrebber fatto ogni cosa al mondo piuttosto che mettere in compromesso quelle ricompense di che facean oramai capitale.
—Ora ascoltatemi, proseguiva Baccio, il campo, finchè stia unito e d’una sola volontà, sarà più forte di noi: ma s’io non erro, ci verrà facilmente fatto di metterlo in discordia.... Si facciano azzuffar tra loro, ed avran di grazia a cercare di campar la vita.... altro che pensare ad entrar in Firenze.... Voi mi domanderete, come farli azzuffare?.... E qui voglio che m’ajuti Niccolò co’ suoi Piagnoni.... Eh! proseguiva Baccio con un riso di compiacenza, quando ho soltanto un minuto da potervi pensare... ancora mi riesce di trar d’impaccio me ed altri!—
Ed il ribaldo, tutto contento, scrollava il capo e rideva; volto poi a Troilo gli spiegò minutamente il suo progetto, e l’ammaestrò ottimamente sul modo che avesse a tenere, trovandosi la notte coi Piagnoni, ed in ultimo, soggiungeva, con un suo maladetto ghigno:
—E andando bene la cosa v’è un altro guadagno..... pensate quante paghe di meno avrem forse a sborsare.... Son io buon massajo, eh?—
—Io vi fo di berretta, messer Baccio, disse Malatesta ridendo, e giurando al suo modo perugino, soggiungeva: Per lo Dio, che in fatto di trappole io non potrei star con voi per ragazzo!—
Baccio, sempre più soddisfatto del suo pensiero, proseguiva:
—Un altro vantaggio vi trovo.... già, quando una pensata è di quelle che dico io, quadra per tutti i versi.... Con questo modo verranno a scoprirsi i più arrabbiati de’ Piagnoni, quelli da’ quali non è da sperare nè pace nè tregua, e che perciò si vogliono spegnere, e quanti n’andranno all’altro mondo in questa zuffa saran tanti di meno che daran da fare al carnefice, tanto odio di meno che ne verrà a noi, al papa, ed alla casa de’ Medici... anche dell’odio convien esser massajo... E di Niccolò, più degli altri, avrei caro liberarmene con una buona archibusata senz’averlo a mandare al bargello, chè il popolo è troppo in favor suo, ed in uno stato nuovo e in puntelli com’è il nostro, è un brutto pigliarsela con uomini del taglio di Niccolò.... Tutto sta ch’egli, vecchio com’è, possa trovarsi a questa scaramuccia...... chè del volere non ne dubito.—
—Oh! quanto alla volontà egli n’avrà di troppo, ma ch’egli possa è un altro discorso, disse Troilo... e stasera egli era assai bene stracco.... a ogni modo, potrebb’essere che....—
—S’egli finirà a questo modo, tanto meglio per lui.... chè altrimenti converrà lasciar ogni rispetto, e ’l popolo dica ciò che vuole; eh! non è uomo da lasciarsi vivo in Firenze, a voler che lo stato de’ Medici metta le barbe!.... Ma a ciò si penserà dopo il fatto. Un’altra cosa ora.... E se costoro[640] s’azzuffano, come te n’uscirai tu, Troilo? Non vorrei che ci avessi a rimanere, ora che tocchiamo il porto.—
Non che Baccio fosse in molto pensiero della vita del giovane, che anzi, a cose finite, avrebbe forse applicato anche ad esso il calcolo accennato poc’anzi circa le paghe de’ soldati; ma ora egli potea ancora esser necessario ove Niccolò rimanesse in vita, e convenisse trovar modo d’averlo nelle mani senza scandalo e senza rumore.
—Voi sapete, che del pericolo della vita mia poco mi son curato sin ora, rispose Troilo; poi, sorridendo così un poco, soggiungeva: ma, per dirvela com’è, ai termini in cui siamo, stavo pensando anch’io, che la pelle mia val qualche ducato più che non valeva un mese fa... e se si potesse recitar la commedia al naturale, senza rompere il collo, l’avrei caro altrettanto.—
—E di questo lasciane il pensiero a me, disse Baccio risolutamente, e porgendogli la mano proseguiva: va, e fa pure del Piagnone come gli altri e non dubitar di nulla, chè troverò io il modo a cavarti d’ogni pericolo.... Tu già ti fidi di me?——
Disse Troilo in cuore—Fidarsi o non fidarsi, a questo fiasco ho io a bere; poi ad alta voce:
—Orsù, messer Baccio, voi vedete ch’io non istò a mercantare quanto ai pericoli, e di questo a suo tempo ve ne ricorderete: ora lasciatemi andare, e speriamo bene.—
—E tu va e stà di buon animo, rispose Baccio,[641] che di lacciuoli n’ho dovizia, e anche te saprò trarre d’impaccio.... ma (ed alzò il viso ed il dito per dar maggior forza all’ultime parole) giudizio e prudenza.... e pensa che questa sarà l’ultima fatica, e dopo non avrai che a sguazzare e darti buon tempo.—
Troilo uscì brontolando tra’ denti «l’ultima fatica! Non vorrei che avesse ad esser l’ultima daddovero.»
Tuttavia non potendo far altrimenti (chè del Baccio d’ora, signore, si può dir, di Firenze, non poteva farsi beffe, come avea usato col Baccio del campo, quando tutto era ancora in forse, e pieno di pericoli) si rassegnò ad eseguire puntualmente e ad ogni suo rischio quanto gli era stato commesso.
Niccolò intanto, con gran disagio e non senza pericolo, che era un mal andar per le strade in que’ momenti di confusione, s’era condotto alla porteria di S. Marco.
Picchiò in un certo suo particolar modo col quale era solito farsi conoscere; venne il portinajo, che gli domandò di dentro s’egli era solo, ed udito di sì, gli aperse così a mezzo, e con sospetto; e messolo dentro, richiuse in fretta con quante serrature e chiavistelli v’erano. Era costui un vecchio laico, che stava a quell’ufficio fin da’ tempi di Fra Girolamo, uomo semplice, e caldissimo per le cose del convento e della parte Piagnona.
—Scusate, disse, messer Niccolò, s’io v’ho[642] domandato se eri solo, ma ancora mi ricordo delle cose del 98[62], e mi pare che que’ tempi voglian ritornare.... Oh! i flagelli predetti dal nostro santo maestro non son finiti! Iddio abbia pietà di noi....—
—Fatevi animo, Fra Gaudenzio, ch’egli non abbandona se non chi si discosta da Lui, disse Niccolò passando innanzi, ed il vecchio frate giungendo le mani, rispose: «Amen» e gli teneva dietro coll’occhio, notando l’andare lento, stanco ed affannoso di Niccolò, che seguiva il porticato del primo cortile «Povero vecchio!» disse alle fine il frate, e scrollando il capo e sospirando rientrò nella sua cella accanto alla porta. La stanchezza di Niccolò, troppo naturale ad un vecchio di tanta età, battuto, com’egli era, dalle passioni e dai patimenti di quegli ultimi giorni, veniva aumentata quella notte dallo stato dell’atmosfera. Sulla valle dell’Arno e su Firenze si stendevan nuvoli bassi e densi, i quali formando uno strato, e quasi un coperchio, comprimevano l’aria, la tenevano inerte, tantochè non un soffio, non la menoma corrente veniva a ristorare, a ravvivar l’anelito in quella afa morta e pesante. Le lampade del chiostro, che poste a grandi distanze, servivan di guida e di segnali in quell’oscurità, più che non la rischiarassero, avean le loro fiammelle ritte ed immobili,[643] che illuminavan appena un piccol tondo sul muro al quale eran dappresso, o sul pavimento sottoposto, e tutto il resto era tenebre; ma più neri di tutto apparivano i vani degli archi, da’ quali in altr’occasione si sarebbe veduto il cielo: senonchè, nell’angolo verso tramontana, al disopra del tetto, nasceva tratto tratto un tremolìo d’una luce livida e biancastra, che errando sulle facciate del chiostro vi rifletteva a momenti un chiarore pallido e vacillante, pel quale si distinguevano le piccole finestre delle celle, le linee dell’armatura, ed il pozzo collocato in mezzo al cortile, poi a un tratto, tutto spariva in un’oscurità più nera di prima, ed intanto parea d’udire (ed era tanto debole e lontano, che era impossibile conoscer da qual parte venisse) un romoreggiare basso e continuo del tuono, simile a quello che produrrebbe un corpo grave strascinato sotto la volta d’un sotterraneo.
Niccolò, salita lentamente e con fatica la scala, si trovò nell’androne del dormitorio, al primo piano verso via del Maglio, e si fermava un momento per riposarsi innanzi alla Annunziata, dipinta a fresco sulla parete dirimpetto da Frate Angelico.
Il lume d’una piccola lampada che v’ardeva davanti lasciava veder la semplice e celestiale bellezza del volto della Vergine, divota e gentile invenzione d’un cuore illibato e pieno d’amore: l’augusta e riverente forma dell’Arcangelo colle grand’ali aperte ed appuntate, i capegli sciolti, la veste ricca e lunga sino ai piedi, e che suppone più[644] che non mostri le forme della persona, le sottili colonne e gli archi d’un portico sotto il quale sono collocate le due figure: dinanzi a quest’immagine chinò la fronte Niccolò, e, giunte le mani, si trattenne ad orare per alcuni momenti, chiedendo il celeste ajuto per l’impresa alla quale era per porsi; ed ove gli venisse prosperamente eseguita, fece voto erigere una chiesa a tutte sue spese in onore della Vergine: poi, un tratto alzati gli occhi in alto, gli venne veduta al sommo dell’arco sul quale posa l’incavallatura del tetto del dormitorio, la maladetta impresa de’ Medici, postavi da Cosimo il vecchio, fondator del convento.
Quello stemma gli parve quasi una funesta visione, quasi il tristo segnale d’una fatalità che lo perseguitasse, ne distolse lo sguardo con isdegno, e toltosi di costì, si volse a man ritta, ed alla distanza di poche celle trovò quella di Fra Zaccaria da Fivizzano.
I due amici s’abbracciarono senza dir parola; ed il frate ben s’avvisò che la venuta di Niccolò, a quell’ora tarda, non fosse senza grave cagione.
—Possibile, gli disse guardandolo fisso, e tenendogli ancor le mani sugli omeri ove le avea posate, nell’abbracciarlo, possibile che ci rimanesse ancora qualche speranza?—
—Negli uomini poca, Fra Zaccaria, ma io n’ho di molta in Dio, io son venuto qui stanotte perchè non posso credere ch’Egli ci abbia al tutto abbandonati, che nell’ira sua egli abbia al tutto[645] risoluta la nostra rovina.... non posso persuadermi che il nostro santo martire abbia derelitto questo misero popolo.... e non l’ajuti, non lo difenda dal Cielo contro i tiranni, com’egli fece vivendo in terra tra noi.... Oh sì! io lo credo certissimo, questa è una prova, una terribil prova che Iddio permette onde far esperienza della nostra fede.... usciamone vincitori.... non lasciam ch’essa si scuota, che si smarrisca.... non ci scandalizziamo al cospetto dell’abbominazione, e, viva Dio!.... ch’egli non verrà meno a’ suoi fedeli.... non gli darrà in mano de’ suoi nemici, e dopo la tribolazione, dopo la prova, seguirà il gaudio e la vittoria....—
Dopo queste parole, alle quali corrispondevano pienamente i pensieri e i desiderj dell’ardito frate, che in essi era infiammato quanto Niccolò, e per esser nel vigor dell’età lo superava di forze, spiegò il vecchio il suo disegno; disse: che avea mandato i suoi giovani onde vedessero di ravvivare le cadute speranze de’ Piagnoni, si rannodassero, e facessero di condurli quella notte al convento, onde consigliarsi sui partiti che si potessero abbracciare, e paresser migliori in quell’estremo, e distendendosi in molti ragionamenti, non durò fatica ad infondere nel frate il suo spirito, la fiducia, la costanza che lo animava, e risolsero andar tosto dal superiore, Fra Benedetto, e farlo avvertito di ciò che si stava ordinando.
Trovarono il povero vecchio già in letto, e se[646] si sbigottisse all’udire l’arrischiato proposito di Niccolò, non è da dirlo, chè assai si può immaginare, conoscendo la natura sua timida e mite; privo di forza morale, egli era avvezzo ad abbandonarsi in balìa dell’altrui, e tanto più seguì questo partito nella presente occasione, tanto pericolosa e difficile, per la quale si sentiva non aver nè rimedi, nè consigli, e molto meno ardire.
Le sue parole furon piene di sospiri, di rammarichi e di dubitazioni; la conclusione fu di rimettersi in tutto al giudizio di Niccolò, pregando Iddio volesse proteggere la città ed il convento contro la rovina e l’esterminio che loro soprastava.
Lasciato così Fra Benedetto, Niccolò scese in chiesa ad aspettare, e Fra Zaccaria andò di cella in cella a destare ed avvertire i frati, incominciando da quelli de’ quali maggiormente si fidava, e così a mano a mano si risentì tutto il convento, ed uscendo i frati per gli anditi, e parlando tra loro di questa novità, si vedevano, o camminare a due, a tre insieme avviandosi verso la chiesa, o far cerchielli e discorrere quali mesti e pensosi, quali arditi e loquaci, co’ loro tonacelli bianchi, e molti con bugie o stoppini accesi in mano che illuminavano a sott’insù quelle loro fisonomie, la più parte severe e veramente virili, e che pel distacco tagliente del chiaro-scuro apparivan più che mai piene d’angoli, di rughe e d’incavi.
I lumi, il bianco delle tonache e de’ muri, facean parer più oscura in alto l’incavallatura rozza,[647] comecchè ottimamente disposta, del tetto che copre il dormitorio; avendo le sottoposte celle, con un curioso modo di costruzione, un soppalco loro proprio che le ristringe e le preserva dal freddo.
In breve tutta la famiglia del convento, che sommava quasi a duecento frati, fu radunata in chiesa: ed alla maggior parte di loro, che da quaranta circa, avean in molte occasioni avuto gran parte ne’ casi e nelle deliberazioni di stato, che eran usi ai pericoli, ai rivolgimenti, ai contrasti cittadineschi, non facea maraviglia nè recava spavento questo notturno e misterioso consesso, chè in quell’età anche gli uomini appartenenti alle classi ordinariamente meno ardite, avean però sempre un non so che di fiero e d’armigero, che il progresso della civiltà ha poi cancellato dalla società d’oggi giorno.
Intanto ad un oriuolo posto in fondo al dormitorio, in una stretta ed alta cassa di noce oscuro nella quale si moveva il pendolo, e pendevano i contrappesi, suonò la mezzanotte; poco stante la suonò l’oriuolo di sagrestia, poi quello del campanile; era l’ora fissata, e poco potean stare i primi a comparire. Fu mandato un frate ad aspettare all’uscio dell’orto in via del Maglio, ammonito ad aprire a chi dicesse, com’era il convegno, S. Marco e libertà.
Niccolò, sceso in chiesa, s’era intanto inginocchiato presso l’altar maggiore.
Un sagrestano v’accendeva quattro ceri, pe’ quali si venivano un poco a diradare le tenebre, chè la vastità del luogo non potea dirsi illuminata da così poca luce: ma la rischiarava tratto tratto e pienamente quella de’ lampi che guizzava su per l’invetriate de’ finestroni, e tingendosi, ne’ vividi e variati colori de’ vetri, correa per la chiesa con un chiarore simile a quello dell’iride, che mantenendosi a momenti tremulo ed abbagliante, scompariva poi tosto, e nella rinnovata oscurità facea parer più che mai offuscato e smorto il raggio delle candele. Le loro fiammelle, ritte ed immobili sin allora, cominciarono repentinamente ed a scosse a piegarsi, e farsi piccine come avessero a spegnersi, chè il temporale addensatosi ne’ monti di Mugello, s’era venuto[649] accostando; già si levava quel vento umido e fresco che suol precedere la bufera; ed entrando pe’ fessi e per gli spiragli delle finestre con sibili acuti e discordi, ovvero ingolfandosi sotto i porticati del chiostro, per gli anditi, pe’ bugigattoli del convento, facea con opposte e rapide correnti sbatter usci, imposte e finestre, svolazzar tende e portiere, quasi ammonendo a premunirsi contro l’imminente tempesta. Il tuono anch’esso fatto più alto e vicino, pareva attraversasse le regioni superiori del cielo, nascendo lontano, poi scoppiando sul capo col fragore delle artiglierie, e dileguandosi infine, brontolava prolungato e lontano nelle gole de’ monti. I primi goccioloni d’acqua cominciarono a percuoter di traverso l’invetriate, ed a poco a poco spesseggiavan sempre più fitti, finchè a quello strepito s’aggiunse il tempestar minuto e secco della grandine che ribalzava sui tetti, sulle gronde, pe’ muri, per le finestre: e ad ogni colpo di tuono cresceva il rovescio, il muggito del vento, che s’udiva scompigliare gli alberi dell’orto.
Di tanto frastuono appena s’avvedeva Niccolò, che pieno del suo pensiero non avea la mente se non a quel solo, ed a raccomandarsi a Dio che lo facesse riuscire; e per la mutata condizione dell’atmosfera, per la nuova frescura arrecata dal temporale, sentendo ricrearsi gli spiriti, e quella pesante stanchezza che l’opprimeva dar luogo a nuove forze, e per così dire, ad una nuova vita, sorgeva più che mai coll’animo a sperar bene.
La chiesa s’era frattanto venuta empiendo di frati. Fra Zaccaria, fattosi dappresso a Niccolò, gli diceva:
—Questo tempaccio fa per noi; i nostri potranno uscir di casa e venir qua più sicuramente, senza aver chi gli osservi....—
Ed in quella sull’uscio della sagrestia comparve Lamberto, molle fradicio, e che gocciava per tutto come fosse cavato da un fiume. Niccolò gli tenea gli occhi fissi nel volto, mentre gli s’accostava per leggervi l’esito delle sue pratiche, e s’avvide che non era per annunciargli gran chè di buono. Quando gli fu da presso, disse con viso scuro:
—Io ho fatto il potere.... e qualcuno ho raccapezzato.... del popolo minuto però, de’ vostri operaj di for S. Maria.... Oh! codesti son tutti pronti e verranno dove voi vorrete, e sono stato casa per casa, e nessuno s’è tirato indietro, e insin le donne, anzi, esse per le prime, facean animo agli uomini e dicevan: «Andate, andate, che messer Niccolò sa ben egli quel che si conviene, e poi, non viviam noi del suo pane? ora dunque è dovere, che mettiam la vita per lui, e per quel ch’egli ha in animo di fare.»
—E così quella povera gente si confortavan gli uni gli altri, e si mettevan in ordine, e presto ne vedrete comparire in buon dato.... ma i popolani grassi, i cittadini di conto....—
E qui scrollò il capo, sospirando.—Codesti, è un altro discorso....alcuni sono fuggiti.... chi si è[651] nascosto.... altri non si trovavano.... e que’ pochi che ho veduti.... pareva parlassi a sproposito.... che dicessi la maggior pazzia.... Oh! che vuoi tu che si faccia oramai?.... egli è come a voler dar un pugno in cielo, e molti rinnegano Fra Girolamo e dicono: noi siamo chiari una volta! e maledicono il giorno e l’ora che gli hanno creduto.... sarà forse la mia mala fortuna.... forse i fratelli, Troilo, l’avranno avuta migliore, possono star poco a comparire, speriamo che arrechin migliori novelle.—
Lamberto, dette queste parole, si trasse in disparte, mentre Niccolò esclamava:
—E poi diranno che Iddio gli ha abbandonati!.... che non gli ha voluti ajutare!.... quando son essi invece che l’abbandonano e rinnegano il suo profeta... oh, povero popolo! Povera Firenze!—
E, intrecciate sul petto le braccia, rimase pensoso un momento, poi soggiunse:
—Ora s’aspettino gli altri.—
I frati ch’erano ristretti intorno a Lamberto per udir ciò che arrecava, si scostarono sciogliendo quel cerchio, e cogli atti del volto, e qualche mezza parola, mostravano scoramento ancor più che maraviglia, e, quali formando crocchi di quattro o cinque, quali seduti per le panche, quali passeggiando in su e in giù nel fondo della chiesa, si venivan intrattenendo con discorsi secondo i diversi umori e le diverse passioni d’ognuno; gli uni, nella resa della città vedendo solo la rovina dello stato popolare, parlavan di libertà, e ne lamentavan la perdita:[652] altri, conoscendo che verrebbe tolta al convento quell’autorità che aveva tenuta sulle cose di stato nei tempi della repubblica, si rammaricavan dicendo: «l’avranno vinta un’altra volta i frati minori!» ed il laico campanajo soggiungeva, quasi piangendo: «e la nostra povera campana avrà ella a rifare il viaggio di S. Francesco?»[63] Molti, cui premevan più di tutto le cose della religione e la santità del costume, mantenuta dalle esortazioni, e dagli esempj del Savonarola, si dolevan dicendo: «e se tornano i Medici, chi potrà più tener questo popolo!... Sarem da capo, e peggio di prima, co’ giuochi, e le taverne, e le disonestà... e pensare che son pur i Medici che han fondato questo convento! Oh! che Dio ne scampi da siffatti fondatori di chiese, che persino l’opere sante le fan servire ad ingannare il popolo!»—E v’eran pur taluni che in cuor loro poco aveano creduto sempre a Fra Girolamo, quantunque pel quieto vivere non lo mostrassero, e fra questi correvan ghigni così alla sfuggita, e guardate di sottecchi, ripetendo tra loro a mezza voce, e con ischerno, le famose parole del Frate «Sei tu chiaro?»[64]
La furia del temporale frattanto incalzava; e pareva cosa più dell’altro mondo che di questo, veder a quell’ora sotto l’antiche volte di S. Marco una simil radunata di figure bianche, che erravano in quella semi-oscurità, ove spiravan soltanto le quattro fiamme rossicce accese all’altar maggiore, simili a stelle che tramontino in un’atmosfera caliginosa; aggiungi il rapido e breve splender de’ lampi, lo scroscio della pioggia, i frequenti colpi del tuono, che parea percuotessero le mura e le facessero tremare; il furiare del vento che si cacciava per luoghi stretti, per le fessure, pe’ fori, e produceva ora un fischio sottile, ora, quasi imitando la voce umana, pareva un ululato, un lungo lamento, ed ora sembrava il lontano ruggir delle fiere. Ad alcuni frati meno arditi o più creduli, correva alla mente che gli spiriti maligni fosser gran parte di quella burrasca, e parea loro quasi, che quelle voci misteriose e sinistre uscissero da gole infernali, da qualche vicina tregenda di demoni che si mettesse in ordine per iscagliarsi sopra il convento, ed un vecchio laico diceva, facendo il segno di croce e sospirando—Anche questa notte, s’io non erro, le monache di S. Lucia voglion[654] avere un po’ di feria, come fu quando il beato Fra Girolamo venne condotto in Palagio![65]
Alcuni giovanetti novizj, a queste parole dette con viso pieno di sospetto ed in modo cotanto grave, si sentivano tremare le fibre, e spalancando gli occhi e la bocca verso il vecchio parean chiederne ed aspettarne una più aperta spiegazione, ed il laico con un viso malinconico, proseguiva:
—Eh! chi è invecchiato in questo convento n’ha avute a passar di brutte! E vi sono stati tempi che l’inimico non ci lasciava requie nè dì nè notte, e lo stesso faceva con quelle poverette di S. Lucia... Ma allora era vivo Fra Girolamo... e v’era quel sant’uomo di Fra Domenico da Pescia... quello bisognava vedere come lavorava col demonio! Eh, con lui non c’era da far il matto! e sì che una volta anch’esso gliene fece una, che tutt’altro uomo avrebbe lasciato per sempre d’impacciarsi d’ esorcismi.... sentite questa!.... che ci mise una paura a tutti, che non ve ne dico niente!... sapete, la cella che ora è di Fra Giordano... c’è quell’immagine di Nostro Signore tentato da quel satanasso nero nero, con quella coda e quelle gran corna? Be’, Fra Domenico un giorno (anche lui che domin gli venne in mente?) prese una granata e scopollo,[655] e lo scherniva in varj modi. Che volete? la notte eramo tornati da mattutino, e s’era ripreso sonno....—
(I novizj si stringevan tra loro guardandosi intorno con sospetto, e credevan a ogni tempo veder saltabeccar per la chiesa qualche Farfarello.)
Potevan esser le due dopo mezzanotte, si sente a un tratto strepito di picchiate, un gridar soffocato; che cos’era? Era lo spirito maligno che per vendicarsi avea date a Fra Domenico tante bastonate ch’egli rimase conciato, che Iddio vel dica[66]... E io, dopo questa faccenda... non mi vo’ far bravo!... io, quando vado a spazzar la cella, e vedo quel lucifero, mi raccomando a Dio, e dico in cuore:
Lasciami stare, lasciami stare,
Che non ti fo nè ben nè male!
Figuratevi se ha lavorato a quel modo con Fra Domenico, ch’era in sacris, con me, povero converso!.... mi strozzerebbe! che Dio m’ajuti e la Madonna.... Ora.... via, non ci possiam lagnare, si sono un po’ quietati.... ma allora!... certe notti non si trovava la via di scender in coro! certi gattacci neri su per le travi del tetto, con occhi come brage, certe salamandre che andavan come razzi pe’ muri; e non vedevi di dov’uscivano nè dove andavano, e talvolta ne vedevi taluna star ritta sulla fiammella della lampada e godersi di quel[656] foco.... lo so anch’io! a petto di quello dell’inferno le sarà parso una frescura! poi voltavi un canto del dormitorio, ed ecco in fondo, ritto contro il muro, come un etiopo, piccino piccino, tutt’occhi e bocca! Uh! Signore, ajutateci, che quest’occhi han vedute di gran brutte cose!—
—Ed alle monache accadeva lo stesso?—domandò a mezza voce e tremando un novizio.
—Lo stesso, e peggio! Ed il demonio entrava addosso quando ad una, quando ad un’altra, e facea far cose a quelle povere figliuole!.... cose!... ma che volete! non ci avean colpa esse.... era il nemico.... e allora mandavan di carriera per Fra Domenico.... e lui era come una mano santa, appena si mostrava restavan libere; e, quando per qualche impedimento non poteva andar egli, mandava un altro colla Bibbia, e ’l comandamento al demonio di partirsi.... bisognava sentire allora come gridava.... «Eccolo, eccolo collo scartafaccio!» e volendo nominare il nostro santo profeta, invece di Fra Girolamo dicea per ischerzo Fra Gira gli uomini, Fra Giraffa, ed altre cotali insolenze.... Basta, ringraziamo Iddio; che questa tribolazion ce l’ha pur tolta di dosso!....—
Udiva queste parole fra gli altri un frate vecchio, uomo sparuto, e ridotto dalle penitenze ad aver aspetto di quelle mummie naturali che si vedon verbigrazia nel convento de’ cappuccini a Roma, che vestite coll’abito da frate mostrano solo il viso coperto d’una cotenna arsiccia, secca ed aggrinzita.[657] Questi, che in tutta la vita sua non avea avuta un’ora di bene, tormentato sempre dagli scrupoli, diceva, con una vocina tremola e sottile:
—La cagione che il demonio non ci tormenta altrimenti, e non ci si fa più vedere, ve la dirò io, fratelli (e qui un sospiro). Egli è che ora le cose vanno più a modo suo, pur troppo! in questo convento; dove al tempo di Fra Girolamo era tutto l’opposto (e un altro sospir) noi ci siamo allargati nel vitto, nel vestire, ed in tutte le cose.... ed invece d’attendere allo spirito, invece d’insanire pro Cristo, siamo tornati alla superbia degli studi mondani... la compieta si dice ora dopo cena, contro gli ordini di Fra Girolamo.... la Bibbia, che allora i frati l’avean sempre sotto il braccio, oggi è posta da un lato e tralasciata.... insomma, poco si pensa all’interiore, fratelli miei.... che volete dunque che ’l demonio duri fatica con esso noi quando camminiam per la via ch’egli vuole?....—
E qui un ultimo sospiro che valeva per quattro.
In quella gli occhi di tutti si volsero verso la parte ov’era Niccolò, ad un poco di bisbiglio più alto che vi si faceva, ed era cagionato dalla venuta de’ suoi figliuoli, di Troilo e di Fanfulla, intorno ai quali presto si raccolsero i frati sparsi per la chiesa. Le nuove avute da costoro non eran punto migliori di quelle portate da Lamberto, ed appariva sempre più chiaro che bisognava pur risolversi a cedere alla fortuna. Cominciò Averardo a parlare nel suo solito modo tronco ed adirato,[658] e dopo aver riferito ciò ch’egli aveva operato, che si riduceva in sostanza alla conclusione medesima ottenuta da Lamberto, dopo essersi scagliato con male parole contro que’ cittadini che ricusavano di porsi a nuovi rischj, disse, alzando ferocemente il viso ad un lampo vivissimo che scintillò, seguìto immediatamente da un tremendo tuono:
—Possa tu incenerire que’ vituperati codardi che aman più viver servi che morir liberi!....—
A quest’imprecazione uscita in tal punto di bocca a un uomo che, pel suo terribile aspetto, solo a guardarlo metteva paura, fece arricciar i peli ai più arditi de’ circostanti.
Il frate dagli scrupoli si prese il capo colle due mani e mormorò tra denti «Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis!» E Niccolò, alzando la mano con autorità verso il figlio, e guardandolo fisso, gli disse:
—Averardo, tu sei in chiesa!
E questi, che avrebbe sostenuto gli sguardi di un esercito, senza batter palpebra, non potè sostenere quelli di Niccolò, ed abbassati gli occhi, ammutolì.
Sorse allora Bindo, e fattosi avanti baldanzoso (di che si dubita o si dispera alla sua età?) disse:
—E s’io vi dicessi che sono stato da Mannelli, dagli Agolanti, da Spini, e che ho trovato que’ giovani pronti a far ciò che noi vorremo, e che non ho veduto in essi quella viltà che voi dite? E sebbene, a dir il vero, i vecchi, i padri di molti li sgridassero, e s’opponessero, i figliuoli però mi[659] hanno fatto sicuro che di nascosto si sarebbero ingegnati uscire e trovarsi qui stanotte con noi.... Io per me non dispero, no.... chè di giovani animosi ce n’è dovizia in Firenze, la Dio grazia.... tutto sta incominciare, e poi, non dubitate, tutti si leveranno, e saranno per noi. Ma la sicurtà di Bindo non potè trasfondersi negli animi di chi l’ascoltava; guardando in giro i visi di tutti, vedevi errarvi un sospetto, un dubbio inquieto e doloroso, e Niccolò stesso, quantunque si conoscesse che faceva ogni opera per parer franco e sereno, mostrava però sul volto l’inquietudine che lo agitava.
Volse lo sguardo a Fanfulla, che stava ritto ritto col suo solito ed impassibil viso, nè lieto nè malinconico, e portando sul giaco di maglia lo scapulare di S. Domenico, avea insieme del soldato e del frate: lo guardò come per accennargli dicesse il suo parere, e Fra Zaccaria intanto, esprimendo il pensiero di Niccolò:
—Qui, Fra Giorgio, di cotali faccende ne sa più di noi: vi par egli che vi sia modo.... che qualche cosa si possa ancor fare?—
E tutti gli occhi s’affissarono intenti su Fanfulla, che inarcando le ciglia, abbassando gli occhi, sporgendo il labbro inferiore, tentennava il capo e veniva tratto tratto soffiando e facendo risuonar tra denti un hum! tutt’altro che di buon augurio. Alla fine, ponendosi la mano tra capelli e sulla fronte, e parte grattandosi, parte rassettando la fasciatura della ferita, diceva:
—Non essendo io fiorentino, non posso aver in pratica come voi questi cittadini.... dunque stasera uscendo, ho detto: va un po’ da chi ti conosce e lasciami far motto a questi soldati, e sentir come la pensano.... Perchè.... vedete! l’anima di questi negozj.... non per far torto ai cittadini della milizia, che io non vidi mai i più bravi, nè i più valenti.... ma insomma, bisogna lasciarselo dire, ognuno l’arte sua, e val più una ventina di quelle picche invecchiate nel mestiere, e che da bambini, si può dire, son usi alla disciplina, e ad aver sempre un occhio al gatto e l’altro alla padella, vo’ dire, un occhio al nemico e l’altro alla bandiera, e a non romper la fila, e in mezzo all’archibusate; un cenno del sergente o del capitano, e già hanno capito, e anche senza questo, sanno da se quel ch’hanno da fare.... insomma, mi avete inteso.... val più una ventina di costoro, che cento uomini, e siano valenti quanto volete, chè non conoscano il mestiere, ed ora fanno troppo, ora troppo poco, e non sanno che una battaglia di soldati debbe esser com’una sega, ove i denti son molti, ma la volontà che li muove una sola, e allora si fa profitto.... Ora dunque, son andato per gli alloggiamenti delle bande pagate.... già li conosco tutti! a qualcuni la spada in mano gliel’ho messa io.... vado pel primo da quelli là dietro S. Croce; entro; Fanfulla di qua, Fanfulla di là.... Addio, buon giorno, che è? che non è?.... Dico fra me.... prova un po’ per questo verso, e comincio,[661] addosso con una villania da cani «Bell’onore, per Cristo e la Madonna!....»—
Ma ebbe appena detta la parola, che si percosse colla mano la bocca, accorgendosi che rappresentava la scena con troppa verità; e rimettendosi tosto, proseguiva:
—Bell’onore n’avrete acquistato!.... Dar la terra a patti.... che non v’è un palmo di bastione scalcinato.... non vi mancano nè polvere nè palle.... il cuojo delle scarpe ancor non l’avete mangiato!.... se avessi saputo che era per ischerzo non mi sarei mosso di S. Marco (dicevo così per dire, chè, poveracci, non si son portati male, ma co’ soldati bisogna parlar così) e loro, chi ne diceva una, chi un’altra, e parevan arrabbiati, e che n’avesser vergogna anch’essi.—E sono stati i Signori!—Egli è quel traditore di Malatesta.... e chi sgrullava le spalle, chi bestemmiava, chi diceva «Noi siam qui ancora; chi ci paga e insegna la via!.... e un capitano di Guasconi!... un valentuomo!... eramo assieme alla presa di Brescia...» Io, mi dice, jer altro, se il Palagio acconsentiva, assaltavo colla mia banda le genti di Malatesta; non hanno voluto! E io ho da volerne più de’ Signori? Ora è troppo tardi....—
Fanfulla tacque un momento, poi stringendosi nelle spalle ed aprendo le braccia, soggiungeva:
—Ha ragione!.... che gli volevate rispondere?... in guerra l’occasione è tutto. La lasci fuggire? Peggio per te.—
Durante il discorso di Fanfulla eran sopraggiunti alla sfilata molti artefici dell’arte della seta e della lana, molti operaj del popolo minuto, tutti, come meglio potevano, più o meno armati; eran insieme venuti alcuni di que’ giovanotti ai quali avea parlato Bindo, ma tutti costoro insieme non sommavano a dugento persone; il tempo passava; già da qualche tempo l’oriuolo di sagrestia avea suonato le due, non si vedea comparir altra gente, e quelli che s’eran condotti quivi, vedendo il loro piccol numero, notando lo scoramento che si dipingeva sul volto de’ frati, e dello stesso Niccolò, si venivan guardando in viso gli uni gli altri, ed alcuni in cuore molto si pentivano d’essersi mossi di casa loro.
Niccolò stava perplesso, ed ondeggiava in varj opposti pensieri. Rimandarli, e rinunziare all’ultima speranza, gli parea troppo duro ed acerbo: e spingere questi pochi ad un partito disperato, ad una certa morte, non vi si sapeva risolvere. Mentr’egli si stava travagliando in quest’incertezza, i frati avean fatto disporre di molte panche lungo i due lati della chiesa verso l’altar maggiore, ove sedettero essi ed i più ragguardevoli dell’adunanza, e il rimanente popolo, stando in piedi in fondo alla chiesa, chiudeva da quel lato il quadrato, che rimase vuoto nel mezzo. Niccolò sedette su un seggiolone che era stato collocato all’estremità superiore, ed avea vicini Fra Zaccaria ed i suoi giovani, e parlavan tra loro sommessamente, quando[663] entrò in mezzo al quadrato, venendo dalla porta della sagrestia, un vecchio che a’ panni mostrava essere un povero operajo, ed aveva sul suo vestire ordinario affibbiato un petto di ferro tutto rugginoso ed una spada allato. L’aspetto di costui era d’uomo che l’età ed i patimenti avesser condotto agli estremi della vita, ma questa parea si raccogliesse tutta negli sguardi, ove ardeva un fuoco torbido, che dava indizio d’un feroce e disperato proposito.
Questo vecchio avea per la mano un fanciullino di dodici anni, magro, pallido e che parea più attonito che spaventato di trovarsi in codesto luogo, in mezzo a quella grave addunanza.
Niccolò conosceva quest’uomo, che era stato sempre ardentissimo per la dottrina di Fra Girolamo, s’era trovato alla difesa del convento nel 98, e poi sempre in appresso avea, in ogni tempo, e sotto tutti i reggimenti, perseverato costantemente nelle medesime opinioni, facendo ogni opera onde si mantenessero tra il popolo, per quanto gli era concesso dal suo povero stato, e dalla sua poca autorità.
—Oh, maestro Simone! gli disse Niccolò, mentre gli s’appressava con quel fanciullo. Oh! che venite voi a far qui col vostro Bertino?—
—Piero suo padre, e mio figliuolo benedetto, rispose il vecchio, è morto combattendo per la nostra libertà.... io, e questo fanciullo, noi siam rimasti sali in casa.... soli al mondo.... voi lo[664] sapete.... non abbiam più nessuno; e perchè, neppur io non mi curo più di vivere, ho condotto meco questo povero orfanello, ond’egli o viva o muoja cogli ultimi difensori di Firenze!—
Niccolò levava gli occhi e le mani al cielo, e diceva, crollando le palme aperte:
—Oh, perchè tutti i cittadini non ebber l’animo di questo povero operajo! Oh! perchè i maggiori di questa terra, ch’eran tenuti dar l’esempio all’universale, si sottrassero al peso, quando più premeva saperlo onoratamente portare?—
Ed a mano a mano riscaldandosi nel dire, ed alzando vieppiù la voce, proseguiva:
—Non son questi, no, gli esempj lasciatici dai nostri antichi, che seppero mostrare il viso a’ papi, a’ re e ad imperatori, e difender contro tutti la libertà di Firenze! Oh, Firenze! appiè delle tue mura cadde la superbia d’Enrico di Lucemburgo imperatore, e di tutto lo sforzo del santo romano impero!.... l’imperator Massimiliano.... e questo l’abbiam veduto cogli occhi nostri, a nostri giorni!... dovè fuggire prima d’aver pur vedute le tue torri!... A Carlo di Francia, ch’era dentro le tue porte col fiore de’ suoi cavalieri, tu mostrasti il viso, quando ti volle serva, e re Carlo ebbe di grazia salvar sè ed i suoi, e rimanesti onorata, ed in tua ragione... Ma Dio grande! è forse il presente pericolo maggiore di codesti? Siam noi uomini diversi da quelli d’allora? Non è più un bene la libertà, l’onore, la religione? Non più un male la schiavitù e l’infamia?[665] Ma possibile, Dio eterno, che siam caduti nel fango di cotanta viltà? Possibile che tanto abbin pesato i nostri peccati, che ci abbi così abbandonati! che il popol tuo sia tanto da te maladetto? Oh cittadini! oh figliuoli! S’avrà dunque a profferire quella tremenda parola! l’avremo a dir noi fiorentini, e non morir prima mille volte—Firenze, è spenta! Firenze è serva! e noi siam rimasti vivi! e torniamo alle nostre case, alle donne, ai figliuoli nostri, cui dovevam mantenere quello stato lasciatoci da’ nostri maggiori!.... e che direm loro scignendoci le codarde spade asciutte di sangue, e buttandole in un canto? che direm loro? Che ragion troveremo che gli acqueti e li faccia contenti d’essere, non più uomini liberi, ma quasi una mandra di bestiame, divenuta roba de’ Medici? E quando questi tiranni porran le mani nel sangue e negli averi de’ vostri figliuoli fatti grandi, non avranno essi cagione di maledirvi, e chiamarvi codardi? E che cos’è poi la vita, che si debba serbarla a cotanto prezzo? E non pensate ch’io parli così perchè son vecchio, e la posta ch’io son per metter a questo giuoco, è di pochi giorni, di poche ore forse di vita. Ma non ho io figli? Questi che mi stanno intorno non son eglino sangue mio? e ne son io avaro? (e ponendo la mano sul capo di Bindo che gli era vicino) Son io avaro del sangue di questo fanciullo, cui rimarrebber forse anni ed anni di vita felice? E facendone dono alla patria, chi potrà dire ch’io non doni più assai[666] che la mia vita stessa?.... Oh! cittadini, abbiate pietà di questa patria sventurata, chè forse ancora n’è tempo! O Jesu Cristo, re nostro, abbi pietà di Firenze, ch’è pure il tuo regno! Parce Domine! perdona i nostri peccati, perdona ancor questa volta.... la tua vendetta risparmi la patria.... io, pei peccati di tutti.... io t’offro questo misero capo, t’offro questi miei figliuoli!.... Scompaja la mia casa.... si cancelli il sangue mio, il mio nome dalla faccia della terra, ma Firenze! Oh, Firenze sia salva, sia libera, sia felice!....—
Piangendo al cospetto di tutti, colla fronte alta, e mostrando ch’egli non avea rossore di quel pianto, pose fine Niccolò alle sue parole, che erano state l’indispensabile sfogo dell’indomita passione ch’egli provava, più forse che non un mezzo col quale sperasse fare oramai molto profitto.
Visi bassi e scuri, ed un silenzio di morte, diedero alle parole del vecchio una troppo chiara ed eloquente risposta.
Il temporale, cacciato dal vento, s’era intanto allontanato dirigendosi verso Volterra; di tanto in tanto splendeva ancora qualche lampo, e giungeva all’orecchio il lontano brontolar del tuono.
Niccolò provò un senso di dolore ancor più terribile di quello che l’oppresse quando fu decisa la resa della città; ora perdeva l’ultima speranza; ora soltanto Firenze era irremissibilmente caduta per esso; ora soltanto si sentiva divenuto veramente servo de’ Medici.
Appoggiati i gomiti sulle ginocchia, e sulle palme la fronte, rimase immobile, annichilato, per dir così, dall’immensità della sua sventura, ed avrebbe in quel momento benedetto Iddio, se gli avesse mandata la morte.
Sventurato vecchio! e gli restava ancora a soffrir tanto!
I popolani e gli operaj, che al bollente parlare di Niccolò non avean risposto che col silenzio, giudicando, con quel retto sentire che è quasi sempre negli uomini rozzi, esser ormai pazzia il voler tentar di resistere, non poterono sostener la vista del dolore, del pianto di quell’uomo, che s’eran avvezzati a considerare come il loro padre comune, come un ente d’una natura e d’un’intelligenza superiore. Eran, per dir così, spaventati ora di vederlo soggetto, come gli altri, alla sventura ed all’umana miseria, e per l’amore che gli portavano, si sentivan straziare il cuore, e rampognavan se stessi quasi fosser cagione d’ogni affanno, d’ogni danno che gli potesse avvenire. E cominciò a sorgere un bisbiglio tra que’ poveri uomini, mentre pur tuttavia Niccolò stava immobile colla fronte nelle mani, e chi di loro metteva sospiri, che piuttosto parevan ruggiti, chi si mettea le mani nei capelli, chi si scontorceva, chi col dosso della ruvida mano si asciugava una lacrima, e tutti, in questi od altri cotali modi, mostravano passione e malcontento grandissimo, chè tenuti in rispetto dalla presenza di tanti loro maggiori non s’attentavano[668] venir avanti, o moversi, o parlar troppo alto.
Ed a mano a mano crescendo quest’umore tra loro, cominciarono a dirsi a vicenda ed a mezza bocca:—Oh noi siam pure i gran sciagurati!—Povero vecchione! vedi s’egli ha a pianger a quel modo!—Lui che ci ha veduti tutti nascere!—- Che ci ha sempre fatti lavorare!—E quando fu il caro, chi ci dette pane se non egli?—Ed ora, quand’è il bisogno, ci tiriamo addietro? E non vorremo noi che i ricchi e i grandi dicano che il popolo, i poveri sono ingrati?—Tu che dici, Sandro?—- e tu, Bozza? Abbiam noi a farci avanti, e buttarglici a’ piedi, e domandargli perdono, e dirgli che noi siam pronti, e che faccia di noi quel che vuole? Vai tu? Vo io? Andiam tutti?—Andiamo....—
Dissero animosamente alcuni, e fattisi innanzi, seguendoli tutti gli altri, irruppero nel vôto del quadrato, e venuti avanti velocemente verso Niccolò, che a quello strepito di passi aveva alzato un poco il capo, gli si buttarono in ginocchio a’ piedi, ed i più vicini stendendogli le mani ai panni, alle ginocchia, con visi umili e contriti, e gli occhi lagrimosi, parlavano alla rinfusa e tutti insieme, tantochè mal si potea comprendere che cosa intendessero dire, che domandassero, se non che dagli atti del volto, dalle braccia alzate de’ più lontani, e da qualche parola che spiccava qua e là più chiara, come perdono.... pentiti.... noi siam i vostri figliuoli[669] insin che ci duri la vita.... ed altre somiglianti, potè presto avvedersi Niccolò qual fosse l’animo ed il proposito di que’ poveracci. Il suo cuore ne fu commosso, e lo fu del pari quello di tutti i circostanti.
Egli alzò amorevolmente le mani, e posandole ora sul viso e sul capo de’ più vicini, che afferrandole con impeto ed effusione le baciavano, ora accennando che tacessero e si levassero in piedi, dopo un buon poco ottenne finalmente che cessasse il rumore, il confuso parlare, ma non che sorgesser da terra.
—Oh che volete voi dunque, figliuoli? parli un di voi, e dica quel che voi volete.—
—Il Bozza! Parli il Bozza—dissero varie voci, ed un uomo sui quarant’anni, grande, asciutto e di volto maschio ed ardito, comecchè in quel momento lagrimoso, disse, stendendo le braccia nude e tendinose:
—Messer Niccolò, no’ siamo ignoranti.... ci avete a compatire.... no’ siam bestie... che volete? no’ lo conosciamo anche noi!... Noi meriteremmo che ci cacciassi a calci... Non lo sappiam noi, che tutto il bene che s’è avuto alla vita nostra c’è venuto da voi? Che questi panni che abbiam indosso, son roba vostra? Che ci avete ajutati quando eravam infermi, e provveduti quando non c’era lavoro? e in quest’assedio, che n’era di noi, delle nostre famiglie, se non eri voi? si moriva di fame. E ora, quand’avete dette quelle parole pel bene della città, pel bene nostro,[670] noi.... ribaldi.... non ci siam mossi.... non abbiam risposto nulla.... noi siam bestie (e questo noi siam bestie, siam ignoranti lo ripeteva quasi ad ogni parola e molto più che non si scrive). Ed ora vi abbiam veduto piangere.... e noi non possiamo vedervi piangere.... e vo’ avete a star di buona voglia.... e non avete a piangere.... che no’ siam qui noi.... e ci avete a mettere dove voi vorrete.... e far di noi quel che voi vorrete.... e finchè c’è vita... finchè di noi ce n’è un pezzetto come l’orecchia... vedete, messer Niccolò, no’ siam tutti presti a ogni vostra volontà, ma state su.... via.... rasciugatevi quegli occhi benedetti.... fatevi veder col viso un po’ contento.... e allora sapremo che ci avete perdonato, che non siete adirato con esso noi.... Oh! perdonateci, messer Niccolò, perdonateci.—
E tutti a stender verso lui le braccia ed a gridare:—Perdono, perdono!—
—Perdono! disse Niccolò pieno il volto d’una pietà tenera e malinconica, e di qual colpa v’ho io a conceder perdono, poveri figliuoli miei?... Ah! no.... non è vostra la colpa, ma de’ vostri rettori, di quelli che vi dovean difendere e v’hanno abbandonati.... Non avete risposto alle mie parole! Che v’era a rispondere? Ah! lo vedo, lo conosco anch’io che per noi non v’è più rimedio, che siam condannati da Dio.... s’io vi parlava a quel modo, egli è perchè non si può veder disperse le speranze e le fatiche di tutta la vita, non si può veder la patria oppressa, caduta a mano de’ nemici e de’ traditori, e rimaner muti, coll’occhio asciutto.... ma lo so, lo so, figliuoli; che potete far voi oramai per impedirlo! Chi può opporsi, chi può sottrarsi al[672] giudizio di Dio? E questo giudizio è oramai chiaro ed aperto. Egli ci mandò il suo profeta, come lo mandò ai Niniviti: quelli si convertirono e furon salvi.... noi ci siam indurati nel peccato, abbiam morto il profeta, dovevam capitar male, è giusto! Justus es Domine, et rectum judicium tuum. E poi dicono ch’egli ci aveva ingannati! Noi sciagurati c’ingannammo! ch’egli ci avea ben promesso misericordia, ma a patto di rivolgerci a Dio, e lasciar gli abbominevoli vizj. L’abbiam noi fatto?.... Ora, figliuoli miei, alzatevi, tornate alle case vostre, andate, che Iddio vi benedica mille volte. Questa sarà forse l’ultima che noi ci vediamo, s’io in nulla vi detti mai scandalo, s’io v’offesi in checchesia, siate contenti perdonarmi; ricordatevi sempre di Niccolò, che v’ha amati come figliuoli insino alla morte.... ricordatevi, se mai verranno per Firenze giorni men tristi, che sempre può la patria risorgere, e sempre si debbe esser parati per essa.... ricordatevi di Dio, che fu il nostro principio e debbe esser il nostro unico fine, e pregatelo per l’anima mia, pregatelo che mi faccia degno d’uscir di questa vita nella sua santa grazia, e d’accettar virtuosamente quella morte che gli piacerà mandarmi,.... avessi anco.... e così dovrà finire!.... avessi ad incontrarla sotto la mannaja dei Palleschi....—
A queste parole, come allo scoppiar d’una mina, tutti que’ popolani ch’eran rimasti sin allora in ginocchio umili e cheti, si trovarono in piedi, feroci e minacciosi, ed alzando al cielo le pugna, arrotando[673] i denti e fremendo, giuravano morir tutti in difesa di Niccolò; ed il Bozza, alzando la voce sopra ogni altro, gridava....
—No, siam qui noi!.... e prima che vi si torca un capello.... di quanti siam qui, e di mezzo Firenze, se n’ha a far tonnina!....—
Niccolò, accennando colle mani levate, acchetò di nuovo questo rumore, poi disse:
—Io vi ringrazio figliuoli.... vi ringrazio, e sa Dio con che cuore!.... ma s’io non istimo che abbiate a metter la vita vostra a rischio per l’utile della città, pensate s’io vorrei che per l’utile mio!... Dio non lo voglia!.... ora andate e pregate per me, come io pregherò per voi.—
A Troilo, che in tutti quei contrasti non s’era mai mosso, nè avea mai aperto bocca, parve allora esser giunto il momento che faceva pel suo disegno, e venuto avanti, disse, risoluto ed ardito:
—Messer Niccolò, cittadini! ascoltatemi, m’è venuto un pensiero.... una speranza ancor ci rimane!....—
Si volsero tutti a queste parole, guardandolo fisso, che nessuno se l’aspettava in quel momento, e molto meno da Troilo; ed esso:
—Sì, ci rimane aperta una via!.... dubbia.... difficile.... è vero.... ma noi siam ridotti in termini che l’audacia.... la temerità può nominarsi prudenza. Ditemi? Chi tiene il piè sul collo a Firenze? chi la tiene ormai vinta in sua potestà, che non può più far difesa? l’esercito imperiale. Sperar d’assaltarlo[674] e di romperlo colle forze d’una città sbigottita e divisa!.... Pazzie! Ma e se v’insegnassi il modo di disfarlo coll’armi sue proprie? E questo modo, viva Dio! io spero averlo trovato.—
Niccolò gettò le braccia al collo del traditore, e questi, ricevuto modestamente quell’abbraccio, seguitava:
—Voi sapete di quante nazioni sia composto il campo, e quanti odii, e gelosie, e risse sian tra loro tutto giorno.... io che, pur troppo! combattevo con essi contro questa infelice patria, conosco un per uno que’ colonnelli italiani ed i loro capitani, e mille volte gli ho uditi maledir la fortuna che li condannava combatter a pro de’ Forestieri contro quelli della loro nazione. Ora è nato un caso.... l’ho saputo stasera.... che potrebbe mirabilmente ajutare il mio disegno. Alcuni fanti spagnoli hanno morto due italiani per rubarli, e gittatili in un pozzo: e le bande del Vitelli hanno fatto altrettanto per vendetta a parecchi spagnoli.... gli uni e gli altri stanno ora coll’animo sollevato, e pronti ad ogni momento a venirne alle mani.... gl’italiani soli saranno più deboli del resto del campo, ma se ci accosteremo a loro, saranno più forti, e potremo metterlo in rotta, e rimaner padroni noi di Firenze.... e dove sul principio succeda prosperamente la cosa.... si leverà tutto il popolo.... e non avremo a temere di Malatesta, forte soltanto finchè il campo è intero e può fargli spalla....—
Niccolò non potè aver tanta pazienza che lo[675] lasciasse finir di dire, ed alzando la voce esclamava:
—Egli dice il vero!.... chi potea pensare!.... Dio ti benedica, figliuolo!.... tu sei la salute nostra...—
E Fanfulla, sorridendo con compiacenza, soggiungeva:
—E’ non l’ha pensata male, sapete! e Lamberto ed i figliuoli di Niccolò, e poi a mano a mano tutti i frati, stringendosi intorno a Troilo, e discorrendo sul suo disegno, e, per dir così, volgendolo e rivolgendolo per tutti i versi, lo venivan sempre maggiormente approvando, e si capacitavano che fosse, se non d’esito sicuro, almeno tale da restare ancora bastante probabilità per non doversi lasciare intentato.
Così risolutisi affatto, ed abbracciandosi gli uni gli altri, e rallegrandosi insieme, ordinarono di porsi all’opera senz’altro indugio, chè cessato il temporale, e sgombratosi il cielo d’ogni nube, appariva già la prim’alba, rischiarando placida e serena tutto l’oriente; e non era da perder tempo.
—Prima di moversi, disse Niccolò a Fra Zaccaria, siete contento dirci la messa, chè da Dio s’ha a cominciare se vogliam che ci ajuti.—
Andò il frate in sagrestia, e poco stante tornò parato, ed incominciò la messa, che tutti udirono taciti e con quel fervor di preghiere che eccita l’imminenza de’ grandissimi pericoli. Ma Troilo intanto; che era inginocchiato cogli altri e stava[676] in apparenza tutto divoto e raccolto, veniva tra se dicendo:
—Ora dunque s’andrà difilato in campo.... ci azzufferemo senz’altro.... E Baccio penserà, cred’io, a trarmi d’impaccio, com’io penso a farmi frate!.... e come ho io a fare per avvertirlo di quanto sta per accadere?.... e’ bisogna ch’io trovi Michele ad ogni modo.—
Egli facea disegno sul suo servo. Quel tal Michele che trovammo, se il lettor se ne rammenta, alla Torre del Gallo, e che rimasto in campo fin ch’era durato l’assedio, s’era poi condotto in Firenze, e così istrutto da Troilo, senza farsi vedere in casa i Lapi, s’andava raggirando in modo che il suo padrone l’incontrasse assai sovente, ond’esser sempre pronto ad un suo cenno, per tutti i fortuiti accidenti che mai potessero nascere.
Finita la messa, tutti ricevettero la comunione, e Troilo cogli altri, e tornando dall’altare, sotto colore di cercar un angolo appartato ove potesse attendere, senza disturbi, alle sue divozioni, s’andò a porre nello sfondo d’una cappella, e quivi, volgendo le spalle alla chiesa, e tutto curvo, appoggiandosi ad una panca, trasse di seno un fogliolino ed un pezzo di matita, dei quali s’era ad ogni evento provveduto, e scrisse in fretta:
«Si va in campo a sollevar le bande italiane, e farle azzuffare contro gli spagnoli; s’è tentato far movere le bande di città: e finalmente si leverebbero al rumore: perchè state all’erta. Fate[677] buona guardia alle porte. Non vi scordate ch’io non ho modo nessuno ad uscir di mezzo a costoro se voi non m’ajutate.»
Piegato il fogliolino, e postoselo nella manica, pensò: «all’uscir di qui, Michele si lascerà vedere, e potrò mandarlo a Baccio.»
Niccolò intanto, finite le sue orazioni, s’era rizzato, e, raccolti intorno a se i circostanti, tenne loro un breve discorso, quale voleva la strettezza del tempo e l’importanza del caso. Le fatiche, le inquietudini, la veglia più di tutto di quella notte, aveano esauste le forze del povero vecchio; si sentiva incapace, per quanta volontà n’avesse, d’andar cogli altri a quest’ultima impresa: il pensiero di sè e del pericolo cui s’esponeva non sarebbe sicuramente bastato a rattenerlo, ove pensasse di poter giovare in alcun modo; ma conosceva ch’egli, invece d’ajuto, sarebbe stato d’impaccio a’ giovani, i quali avrebbero avuto che fare assai a pensar a loro stessi, senza dover di giunta pensare a lui.
—Andate, disse alla fine abbracciandoli l’un dopo l’altro, andate, chè s’io non posso accompagnarvi colla persona, sarò con voi col cuore, colle preghiere; e chi di voi non vedrò più in questo mondo lo vedrò in cielo....—
Mentre diceva queste parole era venuta per Bindo la sua volta d’abbracciar il padre: corse alla mente del vecchio un tristo presagio (chi può non curarli in certi momenti?).... Pensò: «Fosse[678] appunto questo fanciullo ch’io non dovessi riveder più se non in Cielo!....»
Niccolò si fece forza più che umana per rattenere e divorar le lagrime che stavan per isgorgargli, conobbe quanto importasse mostrarsi forte a quel punto, e, posto sotto i piedi ogni altro affetto, disse, colla fronte alta e stendendo le mani verso i suoi figli:
—Oh Firenze! Oh patria! null’altro mi rimane fuorchè codeste vite!.... io te le dono.....—
Dette le quali parole si lasciò cader seduto; si coperse gli occhi colle mani, e rimase un momento quasi fuor di sè, e presso a soccombere a così terribili e replicate scosse: un ronzìo confuso gli suonava nell’orecchio, e sentendosi affievolire e vacillare le virtù dell’intelletto, non sapea ben discernere se fosse quello un sogno, o se udisse veramente i passi e lo strepito de’ suoi figliuoli e del popolo che usciva di chiesa.
Dopo un buon poco, ripresi alquanto gli spiriti, aprì gli occhi, si guardò intorno: avea accanto Fra Zaccaria ed alcuni pochi frati che oravano; e tutti gli altri se n’erano andati.
Venuti questi nel chiostro, e prima d’uscir sulla piazza, disse Troilo:
—Tutta l’importanza sta nel poterci condurre salvi agli alloggiamenti: e sebbene alle porte non s’usi troppo rigore, e si lascian assai liberamente comunicare i cittadini col campo, pure io stimo non usciamo di qui tutti in frotta.... ciò potrebbe[679] dar sospetto... ma a due, a tre insieme; e ’l ritrovo sia Giramonte, ove alloggia il signor Alessandro Vitelli.... nelle sue bande, come vi dissi, è nato lo scandalo, incominciam da loro.... Ora lasciatemi uscir solo sulla piazza, tanto per veder se di verso i Servi, o di via Larga, s’ha a temere impedimento nessuno.... Io do un po’ di volta qui attorno, e son qua in un baleno.—
—Troilo uscì, ed Averardo, guardandogli dietro:
—Chi m’avesse detto che costui dovea diventar de’ nostri, gli avrei risposto: tu te ne menti!... Oh, vedi ora ch’egli è più infiammato di tutti!....—
—Oh! non ve lo dicevo io? esclamò Bindo; egli era traviato dalle male pratiche, da amici ribaldi.... ma in sostanza è un bravo giovane.... e poi, ora le opere sue le vediamo... Mentre costoro, con parole ancor più diffuse che non si scrivono, portavano a cielo quel ribaldo, egli, uscito in piazza, la trovò deserta, se non che volgendo l’occhio in giro, scórse di dietro il canto di via della Sapienza, proprio al filo dello spigolo, uscir il terzo d’un volto, in modo che si vedeva soltanto un occhio ed un po’ di naso. Si drizzò a quella parte, e trovò dietro il canto appiattato il suo servo. Gli mise in mano il fogliolino, dicendogli prestamente:
—Corri con quanto n’hai nelle gambe e portalo a Baccio.... e digli.... ma tienlo ben a mente!... che io uscirò di porta s. Giorgio tra mezz’ora.... e gli serva di regola.... ora corri, e se non giungessi in tempo, cercati d’un altro mondo.... tu m’hai inteso, io non motteggio!—
Il servo, che conosceva con chi aveva a che fare, la diede a gambe, ed in un momento non si vide più: e Troilo si venne trattenendo, quanto gli fu possibile, per dar campo a Michele di giungere, e non tanto che potesse dar sospetto ai suoi; ed alla fine, rientrato in convento, disse, per guadagnar qualche altro minuto:
—Ho veduto certi soldati venir su per via del Cocomero.... andranno a metter le guardie.... aspettiamo un altro poco. Alla fine, quando gli parve tempo, cominciarono a tre, a quattro per volta ad uscire, combinando tra loro, che ogni compagnia tenesse una strada diversa. Troilo in varj modi destramente ottenne d’esser degli ultimi, e finalmente uscì anch’esso con Bindo e Fanfulla, e per la piazza e la via de’ Servi si drizzarono verso P.a s. Giorgio. Passato ponte alle Grazie, presero sopra la via del Bardi su per la costa, e Troilo, che aveva scelto uscir da quella porta, la più lontana di tutte, per dar tempo a Baccio d’ajutarlo in qualche modo, veniva fra se almanaccando sul modo appunto che quegli avesse a scegliere, non senza qualche sospetto, che dopo averlo messo in quest’impaccio non lasciasse poi a lui il pensiero d’uscirne come potesse.
Ma il Valori avea ancora bisogno di lui, e però non l’aveva abbandonato. Mentre costoro venivano salendo, senza incontrar persona, chè appena usciva il sole di dietro le colline di Vallombrosa, e Troilo veniva gettando occhiate avanti e addietro aspettando qualche soccorso, videro, ove la strada voltando[681] un poco lascia scoprire porta s. Giorgio, venirsi incontro un frate minore, che mostrando d’oltrepassare senza curarsi di loro, e poi, a un tratto fermandosi, coll’atto di chi raffigura qualcuno, disse:
—Oh! voi qui messer Troilo? E dove andate voi?—
Troilo non conosceva il frate, ma gli venne tosto in mente fosse mandato da Baccio, e si dispose secondarlo.
—E voi, Padre, di dove ne venite?—
—Vengo dal campo.... già sapete, l’abito di s. Francesco ripara meglio che un giaco, e con esso si può andar sicuri.... ma voi, non andresti mai in campo, eh?....—
—E s’io vi volessi andare?
—Che Iddio ve ne scampi... E levatevi di qui il più presto che voi potete.... e di Firenze ancora, chè sarà meglio.... Non sapete? Il sig. D. Ferrante v’ha posto addosso 400 fiorini di taglia, per vendicarsi che avete combattuto co’ Fiorentini.... E ora appunto, qui fuori la porta, son passato per mezzo una compagnia di lanzi, che mostrano conoscervi di persona, e dicono, che se v’incontrano v’hanno a tagliar a pezzi.—
Troilo, per far un po’ di commedia, ringraziò il frate, mostrando voler pur passare innanzi, ma costui lo prese pe’ panni affermando, che in nessun modo non lo lascerebbe andare ad una inevitabil morte; e Fanfulla e Biado, conoscendo che[682] non conveniva attaccar una mischia e levar il rumore nel campo, mentre s’apparecchiavano a cosa di tanta importanza, e che ad ogni modo non avrebber potuto bastar essi soli a campar il loro compagno, lo persuasero tornasse addietro, e Fanfulla, tiratolo in disparte, tanto che il frate non lo udisse, gli diceva:
—Va, va, che anche in Firenze ci potrai ajutare... parlando ai soldati, com’ho fatt’io jeri, e persuadendoli, quando sentano attaccata la mischia, ad uscir fuori, ed in mezzo a loro non avrai paura dei lanzi.—
E senza voler udir altro, voltogli le spalle, e’ se n’andò con Bindo, mentre Troilo, ridendo in cuor suo, scendeva di nuovo la costa in compagnia del frate.
Fanfulla dunque col giovanetto, tirando innanzi verso la porta, diceva il primo:
—Fortuna che s’è incontrato codesto par di zoccoli... se non era lui, Dio sa che diavoleto nasceva!... e in questi casi, un nulla basta a rovinar un’impresa.—
Porta s. Giorgio era tenuta da una grossa guardia, di cui Malatesta si potea fidare, e che non impediva ai cittadini di comunicare col campo, come dicemmo, meno però le ore della notte. Fanfulla venne riconosciuto e salutato da parecchi di quei soldati, e mentre varcava la soglia sotto il voltone massiccio, che ancora in oggi si vede, chi gliene diceva una, e chi un’altra.
—Oh, ecco Fanfulla!—Ben levato Fra Bombarda!—Dove si va così per tempo! ec. ec.—
E egli, senza fermarsi, e salutando colla mano:
—Andiamo a vedere certi amici del campo, ora ch’è aperta la gabbia.... Addio, addio, ci rivedremo, cristiani, se piace a Dio e alla Madonna!...—
E via senz’aspettar risposta.
Se il nostro lettore fu mai a Firenze, se gli accadde andarsene a spasso fuor di questa porta, d’onde ora uscivano Bindo e Fanfulla, si ricorderà, che dal piede delle mura di Firenze, guardando verso mezzodì, si vedono sorgere a gradi quelle bellissime colline ondulate così gentilmente sulle cime, sparse di foltissimi uliveti, di filari di vigna frapposti, parte verdeggianti, parte d’un color grigio-perla, simile a quello del salcio; ricorderà quelle casucce, quelle villette, che bianche e pulite fan capolino tra gli ulivi, e mettono cotanta invidia a chi le vede, tanto più se a caso stia in qualche tristo pensiero, e ruminando i suoi guai, quasi non dovessero essi penetrare tra quelle mura, sotto quelle ombre tranquille!.... e pur chi sa quanti ve ne sono anche costì!.... ricorderà insomma l’aspetto placido e ridente di codesta contrada, variata com’è varia la natura, ma insieme accurata come un giardino... Or bene, all’epoca della nostra storia, dopo undici mesi che era in mano de’ nemici, tutta quella bellezza era cambiata in una landa desolata, nuda e fangosa; non più traccia di siepi o di divisione alcuna tra poderi, le viti sbarbate, rotte, peste e[684] sotterrate; gli ulivi tagliati al pedale per farne legna, o, se pur qualcuno ne rimaneva qua e là ad attestare l’antica ricchezza, eran tronchi, o quasi fusti informi, senza rami, pieni d’intaccature, e traforati dalle palle dell’artigliera. Smosso e solcato da queste in varii luoghi vedevasi il terreno, non men che dall’acque de’ temporali. Tale era l’aspetto del suolo tra le mura e le trincee, che simili ad una zona cingevano il poggio a mezza costa sotto Giramonte, e consistevano in un fosso, dietro il quale s’alzava un terrapieno armato di stecconi e forato da cannoniere.
Mentre Bindo e Fanfulla si dirizzavano verso un seno del poggio ov’era una dell’entrate dal campo, già si poterono accorgere che v’accadeva o vi si preparava qualche cosa di straordinario del sordo mormorìo che n’usciva, dal chiamarsi, dal correr de’ soldati per le vie che rimanevan tra le file dei padiglioni, delle trabacche, e lungo le trincere, chè giacendo l’alloggiamento sul pendìo del poggio, si poteva coll’occhio abbracciar tutto quanto, e vi si Vedeva quell’intimo ed incomposto rimescolamento che appare in un formicajo, ove in qualche modo si metta il disordine.
Entrati alla fine nel campo, e seguitando a salire per giungere sull’eminenza ove siede Giramonte, passavan tra le tende e le baracche costrutte in cento modi, d’assi, di graticci, di stoppie o di mota, come meglio era venuto fatto a chi v’avea avuto a passar tanti mesi, e s’era ingegnato procurarsi alla meglio qualche comodità: alcune, le[685] più fiacche, mezzo rovesciate dal turbine della notte, giacean tutte arruffate, tutte ispide e piene di pali contorti o schiantati, di stecchi, di cannucce fradicie e ancora stillanti d’acqua piovana; sovra molte eran distesi panni onde asciugarli ai raggi del sole, o v’erano appiccati arnesi da guerra, che i ragazzi ed i famigli venivan racconciando e forbendo frettolosi, punzecchiati da’ loro padroni, chè aveano furia di vestirsene. Tra questi famigli, molti, colle lunghe capigliature, colla forma del petto e de’ fianchi tradivan l’abito virile che avean indosso. Eran donne e donzelle (in quel tempo ne’ campi ne accadeva di tutte le razze) o rapite nel sacco di qualche terra e da un padrone rozzo e bestiale ridotte ai più bassi uffici, o che, sedotte ed innamorate, eran fuggite di casa con qualche soldato, il quale, sazio oramai di loro, le soffriva, a patto soltanto di tenerle in conto di garzoni, ed esserne servito[67].
Tratto tratto trovavan tettoje o frascati sotto i quali i vivandieri e canovaj facean la cucina e vendevan vino: un qualche fanciullaccio sudicio e bisunto, attendeva a volgere lunghi spiedi innanzi al fuoco sul quale insieme bollivano grandissimi pajuoli. A certe tavolacce lunghe e mal composte, od usando botti rizzate a guisa di mense, eran[686] soldati sollecitando finire gli ultimi bocconi, per unirsi a quelli che alla rinfusa concorrevano a Giramonte; s’udiva gridare, ridere, sganasciare. S’udiva il parlar alto e concitato di cento voci, ora grosse e sonore, ora rauche, ora stridule; ed ognuno voleva dir la sua sul fatto degli spagnoli: ma chi potea ritrarre il senso d’una sola parola in quel confuso fracasso, accresciuto, ora dall’abbajar d’un cane, ora da un tamburino, che per prova, veniva battendo la cassa, ora da qualche majale, che legato per una zampa di dietro ad uno stilo si veniva ravvolgendo a saltellone stiracchiando la fune, ed empiendo il cielo d’acuti e maladetti grugniti?
Fanfulla e Bindo, seguitando a salire tra gente e gente, e notando, tutti allegri, la buona disposizione di costoro a sollevarsi e menar le mani, giunsero finalmente sullo spazzo ov’è posta la villa di Giramonte; luogo piano, assai ben largo, donde si scopre tutta Firenze, i monti di Fiesole e il val d’Arno da’ poggi dell’Incontro a quelli d’Artimino. Quivi, sul ciglio che guarda in città, era una batteria di ventiquattro pezzi, tra cannoni, sagri e columbrine, separati da grossi gabbioni di vinchi, pieni di sassi e di terra; quivi era più che mai stretta ed accalcata la folla de’ soldati, de’ quali eran pur piene le finestre della villa; ve n’ era sul carriaggio che serviva pel bagaglio della banda, e stava in fila lungo i muri della casa; ve n’era sulle artiglierie, su’ gabbioni, su tutti i luoghi alti, e stavano tutti intenti ad udire Lamberto, che salito[687] medesimamente su un gabbione parlava con voce alta, gestir pronto ed infiammato, e quando i due giunsero a portata della sua voce, diceva, terminando una frase della quale non avean udito il principio:
—.... de’ vostri compagni che que’ marrani hanno assassinati! Vendetta di loro soltanto! di tutta la nostra nazione che hanno assassinata, ed assassinano tutto giorno in mille modi, di essa s’ha a far vendetta, e liberarci una volta da codesti ladroni!... Ma ditemi, perdio!... s’io non dico il vero buttatemi giù di questa trincea... ditemi! andiamo noi nei paesi loro a vivere a discrezione, a rubarli, a vituperar le loro donne, a scannarli, a sollevarli con mille trappole, e metterli in discordia gli uni contro gli altri, come s’aizzano i mastini pel gusto di vederli sbranarsi? E loro invece sempre qui! ora con una scusa, ora con un’altra, ora per mare, ora per terra... ogni momento, che è, che non è? una truppa di questi ribaldi, miseri, scalzi, morti di fame, che hanno bisogno di rifarsi.... dove s’ha a andare? In Italia! andiamo, col nome di Dio! In Italia! Ma per Cristo, la terra dove siam nati, dove son sepolti i nostri padri, è roba rubata? è roba del comune?.... Iddio, che ad ogni popolo ha dato tanta terra che ci potesse vivere e morire in pace... ove potesse seminare e mietere.... ha egli detto: questa sola sia di chi la vuole, di chi se la prende, sia di tutti, e vi possa raccogliere chi non vi ha arato? Siam forse maladetti da Dio? siamo[688] bastardi? siamo bestie?.... Lo volete sapere? senza avvertirlo, ve l’ho detto io quello che siamo! Siamo bestie, e peggio che bestie! chè anco i bruti, se si voglia disturbarli nella loro tana, si difendono e adoprano l’ugna e ’l dente, e non badano se ’l nemico sia maggior di loro.... e non potranno gli uomini far almeno altrettanto?.... E non mi vengan a dire che son più valenti di noi! Gli uomini son tutti compagni, e solo i cattivi ordini, le male usanze li corrompono e li rendon diversi.... e in prova, quante volte s’è avuto a far con loro a buona guerra, corpo a corpo, chi n’ha toccate? loro o noi? ed eccola...—(Disse accennando Fanfulla, che avea scorto nella folla).
—Ecco là.... s’io dico bugia, mi dica bugiardo....—
Tutti i visi si volsero a veder con chi parlava, ed egli:
—Fanfulla, che era de’ tredici di Barletta, lo dica egli.... come andò la cosa? Chi vinse?... e per combatter que’ tredici francesi, si mando forse un bando per tutta Italia per venire i più valenti? i più arditi? S’aspettò d’aver raccolti uomini più grandi e grossi che non erano i nemici? si misero due contr’uno?.... tredici loro, tredici noi; quelli che si trovaron sotto mano ne’ due campi.... si scelse i migliori, è vero.... ma scelsero i migliori anch’essi. E chi visse? torno a dire.... Non son più valenti dunque, ma più astuti.... o per dir meglio, essi son tristi ed astuti, chè sanno[689] seminar la discordia tra noi e consumarci colle nostre armi medesime.—
Ma che sciagurato furore, che maladetta peste è mai questa? qual demonio dell’inferno ci saetta ne’ cuori il suo veleno, che sempre tra noi ci abbiamo a lacerare! tra noi fratelli! tra noi d’un istesso sangue, d’un’istessa lingua, d’un’istessa famiglia! E una città coll’altra, o coll’armi, o colle frodi e co’ maneggi, e sempre in ogni modo, pensare a nuocerci e a rovinarci tra noi?.... e beato chi ci riesce, e’ gli sembra un gran bel fatto.... e quando non posson farci del male.... affinchè almeno non se ne perda la volontà, e l’odio si mantenga vivo.... ad offenderci con parole, con nomi ingiuriosi.... e chiamar i Pisani traditori; i Fiorentini ciechi, i Sanesi pazzi, e che so io? e non solo tra città e città, tra stato e stato, ma ogni terra, ogni casale, ogni villa a voler male alla sua vicina, offenderla, ingiuriarla, odiarla almeno, se altro non può?—
E, stese in giù le mani accennando la città sottoposta, proseguiva:
—Ed ecco qui un esempio fresco fresco!.... Firenze, che era libera, ricca, felice; ch’era l’onore, la gloria d’Italia, madre di tanto senno, di tante virtù e d’ogni bell’ arte.... questo bastardo papa dice un giorno: Firenze ha ad esser mia... la prima cosa.... al solito!.... chiamar questi spagnoli, questi ladroni ad ajutarlo!.... Pensate se aspettano la seconda parola!.... Figuratevi se corrono!....[690] Si tratta di saccheggiar Firenze!.... E che fanno intanto le altre città? che fa Venezia, Siena, Genova?.... Venezia fa la sua brava pace coll’imperadore, rinnega le sue promesse, e sta a vedere.... Siena, manda perfino artiglierie che ajutino disfar la sua vicina....—
E guardando una lunga colubrina che avea dappresso, e percuotendola col piede in atto d’ira e di dispregio, gridava:
—E questi pezzi, che vorrei farne polvere co’ calci, non son essi de’ Sanesi? non son essi armi italiane? E voi, voi, compagni miei!.... Lasciatevelo dire, perdio! e non v’adirate.... voi non siete tutti italiani? non avete voi ajutata la rovina di questa nobilissima terra.... e qual profitto n’avete, ora che ve la vedete a’ piedi schiava, povera, vituperata?.... Cento disagi e cento ferite, e quella misera fecciosa paga, se pur riuscirete a toccarla. E i tesori, e ’l potere, a chi? a questi ladroni.... i quali soprammercato ci hanno in dispregio e ci chiamano poi traditori, codardi.... e se in cambio d’ajutarli aveste ajutato i vostri fratelli, credete voi che il guadagno fosse minore? E lo fosse anco!.... la gloria, l’onor della vostra nazione, non siete voi sicuramente tali da averlo in dispregio... E quanti son poi i nemici che abbiam a combattere?.... Son forse milioni d’uomini, che sien dieci contro uno di noi?.... Son poche migliaja. E non siete qui voi? Le bande italiane non son esse quasi la metà di questo campo.... e se gl’italiani che[691] son dentro le mura s’uniscono a voi, non basterete a sterminar una volta questi saccomanni assassini? Per quest’effetto, io e questi miei compagni, e qui Fanfulla, che è l’onore della nostra professione, vi ci siam vanuti ad offerire per combattere, e vincere o morire con esso voi, e quando avremo attaccata la mischia, usciranno dalle porte i nostri a percuoter per fianco ed alle spalle i nemici, e sì che una volta abbiamo a far casa pulita di questi ladroni.
—Ora, col nome di Dio, chi ha core in petto, chi ci vuol stare a quel ch’io propongo, alzi la mano; e chi non vi vuoi stare.... faremo senza esso. Evviva le bande italiane! Evviva Firenze!—
Lamberto, nel cacciar questo grido, sguainava la spada, e sollevandola sul capo la faceva guizzare in cento rapidissimi mulinelli, ed in tutta la folla che gli stava a piedi, e che sin allora era stata come un musaico di visi, ora non si vedeva se non mani che s’agitavano, e molte brandivano spade, picche ed archibugi, ed al tempo stesso s’alzavan grida feroci di viva Italia! morte agli Spagnoli!.... tantochè mostrandosi così pronto ed espresso il consenso di quelle genti, Lamberto saltava a terra tutto allegro da quel gabbione, ed insieme co’ cognati, con Fanfulla e con quanti eran seco venuti di Firenze, s’andavano a porre attorno allo stendardo della compagnia per formar l’ordinanza, mentre i capitani e gli altri ufficiali delle bande sollecitavano a radunare e disporre i loro uomini, che con gran[692] prestezza e senza disordine nessuno (all’uso de’ vecchi soldati) si rannodavano ognuno intorno alla propria bandiera.
Ma che faceva intanto il Vitelli, capo di queste genti? che faceva D. Ferrante Gonzaga, capitano dell’esercito, vedendo questo moto, udendo questi rumori, che davan segno d’un’imminente sedizione, e forse d’un’aperta ribellione?
Facevano all’incirca come, con certe mandre di cavalli e puledri mezzo salvatici delle campagne di Roma usano i loro guardiani; i quali le guidano e se ne fanno ubbidire alla meglio che possono nei casi ordinarj; ma quando talvolta, qualunque ne sia la cagione, il diavolo entra in corpo a quelle bestie e si scompigliano a un tratto, correndo e sbuffando, colle nari aperte ed a coda ritta, e s’azzuffano tra loro a morsi, a calci, con mille strani guizzi e mille volate, allora il guardiano s’ingegna colla voce, col gesto di rimettere un po’ d’ordine, sempre però girando attorno, e tenendosi ad una prudente distanza da quella mischia, e quando poi vede che tutto è inutile, sta a vedere, ed aspetta che abbian finito.
Così appunto fece D. Ferrante: ed ai capitani di quel secolo accadeva assai sovente di voler comandare e di esser comandati colla peggio de’ poveri popoli presso i quali si guerreggiava, cui, oltre i mali ordinarj ed indispensabili, venivan poi addosso cento malanni eventuali cagionati dalla sfrenatezza e dall’indisciplina delle milizie.
Eran già quasi due ore di sole quando le bande del Vitelli, alle quali s’erano accostate tutte l’altre italiane del campo, si trovarono in punto di prender le mosse per condursi ad affrontar gli spagnoli.
Il cielo spazzato dal temporal della notte splendeva d’un bel turchino diafano e netto, che si sfumava all’orizzonte in una tinta dorata e vaporosa sulla quale spiccavano lunghe strisce di nuvole leggermente posate sulle creste de’ monti: pe’ fianchi di queste, le ombre portate dalle nubi, si stendevano in aspetto di macchie turchino-scure, mentre le parti percosse dai raggi del sole si vestivano di caldi e variati colori onde si tinge la campagna in sul finir della state. L’atmosfera tutta era come un mare di[694] luce candida e purissima, che lasciava minutamente discernere anco gli oggetti lontani, tantochè gl’italiani radunati a Giramonte eran veduti distintamente da tutti i punti del campo, d’onde i soldati concorrendo sui luoghi alti, sulle trincee, su ogni sporto della collina, stavano ad osservare quel movimento, come spettatori ad una festa, tutti curiosi ed allegri di veder un qualche bel fatto.
Sulla spianata della Torre del Gallo, che a poca distanza domina Giramonte, era D. Ferrante Gonzaga, Alessandro Vitelli, il conte Pier Maria e molti de’ primi dell’esercito, e considerando, tutt’altro che allegri, la gravità di quel disordine, stavan goffi ed attoniti nella forma appunto di quel mandriano che ci servì poc’anzi di paragone. Vedevan come cominciava la cosa, ma non potean prevedere come sarebbe finita, e sapevan ch’egli è de’ soldati come de’ puledri (anche qui la similitudine combina) cominci uno a far il matto, e coll’esempio ne fa scatenar cento.
Dall’altra parte, le bande spagnole alloggiate per la costa sotto Bellosguardo e M. Uliveto, avvisando quel che a loro danno si preparasse, sollecitavano ad allestirsi, armarsi, e mettersi in ordine; quantunque assai di mala voglia si trovassero al punto d’azzuffarsi cogl’italiani, non per viltà di animo, ch’erano ardita ed ottima gente, ma perchè invece di far quistione, avrebber preferito mettersi tutti d’accordo per entrare a forza in Firenze e metterla a sacco.
Non potendo risolversi a rinunziare alla speranza di questo benedetto sacco, stabilirono mandare a D. Ferrante due de’ loro capitani, pregandolo ad interporsi, e rimettendosi in lui per quelle soddisfazioni che, salvo il loro onore, avessero a dare agli italiani per rappacificarli, e cancellar ogni passata ingiuria. Si mossero i due messi, e, giunti alla Torre del Gallo, esposero al capitano la loro ambasciata; egli l’ascoltò di mal umore, colle braccia intrecciate sul petto, ed alla fine diceva adirato:
—Chi volete voi che possa far capir la ragione a quei demonj!.... siam proprio in tempo, alla fediddio!.... Guardate!—
E difatti in quel momento appunto, s’empieva l’aria delle grida di costoro, della voce de’ capitani che ordinavan la mossa, del batter fragoroso e celere de’ tamburi, dell’acuto fischiar de’ pifferi... Si vedeva quelle profonde e serrate battaglie (chè non si usava allora l’ordine sottile delle moderne fanterie) tutte ispide e lucenti d’alabarde e di picche, all’incirca come il pettine d’uno scardassiere volto sott’insù, si vedevano, dico, dar que’ primi crolli gravi ed ondulati d’uno squadrone che prende la mossa, s’udiva il sordo e regolare percuotere di tanti piedi, e per dir il vero, l’aspetto di quelle genti non dovea dar molta speranza che s’avessero a poter frenare o volger come si volesse colle sole parole.
Le battaglie intanto venivan scendendo la costa ora di fronte ed intere, ora piegandosi e rompendosi[696] talvolta, e poi tosto rannodandosi secondo volevano i luoghi o la giacitura del suolo, ma sempre ordinate. Innanzi, ed ai fianchi del grosso d’alabardieri ond’eran formate, venivan più radi buon numero d’archibusieri, reggendo colla manca il calcio della loro arme appoggiata sulla spalla, e colla destra portando la forcina e la corda accesa: alcuni invece d’archibusi tenean ritti colla punta all’insù grandissimi spadoni a due mani, di quelli che, appesi in oggi per ornamento nelle nostre sale, cavan di bocca a chi per la prima volta li vede, quella novissima esclamazione: «Che braccio dovevano avere i nostri vecchi!».... I capitani ed i sergenti, camminando in atto bravo innanzi alla fronte colle spade sguainate, e con targhette o rotelle al braccio, tutte intarsiate e miste d’oro, con una frangia intorno all’estremo lembo, ed un’acuta punta nel centro, vestivan corsaletti e cosciali d’acciaio, sotto i quali scendevano in larghe pieghe sino al ginocchio calzoni raccolti pel lungo da strisce di panno, mentre le gambe coperte d’una calza stretta alla carne mostravan tali muscoli da non lasciar sospetto che potessero mai venir meno a nessuno sforzo. Non parliamo de’ visi abbronzati, fieri, veramente marziali, dalle barbe, da’ baffi ridotti a non mostrare se non occhi e naso, nè dello strano atteggiarsi, del muoversi da bravaccio che era ne’ modi de’ soldati di quella età.... per dare una idea di così minuti particolari, non meno che del modo d’ordinarsi degli eserciti d’allora, val più[697] il pennello che la penna, ed un’ occhiata alle pitture del Vasari in Palazzo Vecchio, o a qualche incisione del secolo XVI, spiegherebbe assai più d’ogni descrizione.
Mentre queste genti si movevano così sicuramente all’assalto, parve però a D. Ferrante non ci stesse dell’onor suo lasciar seguire un tanto disordine senza pur muovere un dito per impedirlo; e non curandosi di compromettere la sua autorità, che pur sapeva non esser molta sopra l’esercito, salito su un suo muletto, e seguito da Vitelli e da pochi ufficiali, scese ad incontrare gli ammutinati. Giunto vicino ad essi, alzò la mano, accennando ai tamburi di sostare, e mostrando voler parlare, ma nè i soldati gli badavano, tirando pur innanzi, e piuttosto guardandolo in cagnesco, e così i capitani, nè i tamburi cessavano dal battere, ond’egli alzando la voce procurava superar quel frastuono, ma soltanto qualche parola, qualche sillaba senza senso potè, per dir così, sormontare e salvarsi dal generai naufragio del suo discorso. Ma potè ben egli udire invece di molte ed ingiuriose parole che gli vennero scagliate di mezzo alle file da polmoni che sapean dirla con vantaggio co’ tamburi e co’ pifferi, ed una voce di toro fu udita gridare fra le altre: «Levati, levati, mangia ranocchi!» alludendo ai molti che si trovan negli stagni di Mantova, patria di D. Ferrante. Visto alla fine ch’egli dava in nonnulla, si levò di quest’impresa disperata, e volto dispettosamente il muletto, ritornò di donde era partito[698] non senza un poco cortese accompagnamento d’urli, di schiamazzi e di fischiate.
Giunte le bande sul piano di Baroncelli, luogo nel quale sorge in oggi Poggio Imperiale, d’onde con poca via erano per iscender ove vedean gli spagnoli apparecchiati ad aspettarli, si fermarono un momento per ristringere l’ordinanza.
In una delle prime file eran Averardo e Vieri, armati di due lunghe partigiane, ed accanto a questi, venivan, cogli archibusieri, Lamberto, Fanfulla e Bindo. Mentre ognuno osservava e metteva in punto le sue armi, l’uno affibbiandosi più stretta una correggia, un altro allacciandosi meglio il morione, soffiando taluno sulla corda onde non si smorzasse, ed i capitani rivedendo le file e facendo mutar di luogo ora questo ora quello, secondo parea loro venisse meglio, riguardo alle stature ed alle forze d’ognuno, Lamberto veniva osservando l’aspetto degli spagnoli attellati in fondo alla piccola valle, al di là della strada Romana che pel lungo la divide. Vedeva que’ serrati squadroni d’uomini di mezzana statura, è vero, ma robusti, tarchiati, invecchiati nelle guerre, e i migliori fanti che fossero allora in Europa, e prevedendo quanto terribile sarebbe stato lo scontro, sentiva grandissima apprensione per Bindo, che gli stava innanzi a tutti e non trovava luogo, come un barbero alle mosse, smanioso d’attaccar la battaglia. Volerlo ritrarre?.... neppur pensarci. Lamberto fece d’occhio a Fanfulla, e senza parlare, per non esser udito dal giovanotto, espresse così chiaramente[699] col volto e col gesto l’idea «stiamogli vicino e difendiamolo» che Fanfulla l’intese benissimo, ed accennò due o tre volte di sì col capo, con tale espressione, che valeva assai più delle parole.
Contento così Lamberto, si volse ai soldati, che, per tacito consenso, avendolo udito così animosamente parlare, lo tenevano in quella fazione quasi in conto di capitano, ed alzando la voce, per esser udito da quanti più si poteva, disse con volto pieno d’una nobile e fiera allegrezza:
—Orsù, fratelli, ci siamo.... Ci siamo una volta a poter combattere non per chi ci paga, e ci dispregia insieme, ma per noi finalmente, per la nostra nazione, per decidere, viva Dio, se veramente meritino gl’italiani d’essere il bottino di tutti i popoli, il ludibrio e lo scherno di tutto il mondo. Sia benedetto Iddio, che per una volta mi è toccato combatter contro genti, tra le quali non vedo un sol volto italiano! Ora, non vi dico altro... Firenze ci guarda.... ci guarda tutto il campo, il fiore di tutti i bravi d’Europa.... chi si pentisse è a tempo.... vada con Dio.... chi ama la patria, l’onore, la gloria, mi segua, e se do addietro m’ammazzi.—
I tamburi batterono la marcia, ed al grido di viva Italia! che scoppiò ripetuto mille volte, si mossero tutte insieme le bande, e scendendo velocemente colle picche spianate giunsero al basso, attraversarono la strada e si serrarono addosso agli[700] spagnoli che, immobili, e rispondendo viva Espana, ad arme parimente abbassate, gli aspettavano; colle bandiere gialle e vermiglie ondeggianti, con un rumor di tamburi, di pifferi e d’altri militari istrumenti che andava al cielo, ed al quale rispondevan l’eco e le grida lontane di tutto il campo. Prima che le due truppe nemiche si congiungessero era già incominciato il tempestar dell’archibusate, e vedevi or qua or là i soldati fermarsi, calar veloci l’archibuso sulla forcina, sparare e rimettersi tosto in via ricaricando; e quegli squadroni che poco innanzi si discernevano così splendidi e netti, cominciavano or qua or là ad esser velati, ed interrotti da globi di fumo che comparivano a un tratto, si ravvolgevano candidi e densi, e si sfumavan tosto diradati e dispersi dal vento.
Ma quando la prima fila delle bande italiane, coll’impeto suo proprio, e con quello che le aggiungeva da tergo la profondità delle battaglie, venne a dar di cozzo nelle genti di Spagna, sorse un nuovo e più alto fragore di ferri, d’arnesi, d’armi percosse, simili a quel cupo e sonante ruggito del mare quando rompe lontano in una lunga scogliera, o piuttosto allo scroscio tremendo di due grosse navi da guerra che s’urtano gettate l’una contro l’altra dalla tempesta.
Tra quelli che miravan dall’alto questo terribile spettacolo cessarono a un tratto le grida, cessò ogni voce, guardando tutti intenti e maravigliati quelle due masse d’uomini combaciati e prementesi[701] l’una contro l’altra, così che non ne formavano oramai che una sola; le vedevano ondeggiare, ora perdendo, ora riguadagnando il terreno, piegandosi or innanzi ora indietro quella selva di picche per mezzo la quale, seguendone i moti, sventolavan tra i lampi del ferro, pennoni, stendardi, pennacchi di mille colori; vedevan nel mezzo ove era più stretto e furibondo il combattere, guizzar rapido, errante e confuso il luccicar dell’armi, che maneggiate velocissimamente, riflettevano in mille modi i raggi del sole; vedean tratto tratto in quella calca farsi dei vani pel cader repentino de’ feriti o de’ morti, ma in un baleno si riempivan i voti, chè altri calcando i caduti senza guardar se fossero amici o nemici, n’occupavano il luogo, e spesso per cader loro sopra dopo pochi momenti. Quando il fumo sorgendo a caso più denso in qualche parte, spandeva l’ombra sua sui combattenti, apparivano i tiri degli archibusi più spiccati in quello scuro, con un saettar fitto e lucente di lingue di fuoco, che impallidivano poi o sparivano affatto ove a quell’ombra succedesse la luce del sole.
Malgrado l’enorme e discordante fracasso prodotto dall’incessante scarichìo di moschetti, dal batter celere de’ tamburi, dagli urti, dalle percosse scambievoli, ed anzi vincendo questo frastuono, s’alzava tratto tratto un terribil grido di vittoria da quella delle due parti cui pareva ottener sull’altra un qualche vantaggio, ed ora il grido d’Italia, ora quello di Espana risuonava per l’aria ed era[702] accolto dagli spettatori con altrettante grida e schiamazzi, e batter di mani come usavano gli antichi stando nel circo a veder i giuochi de’ gladiatori.
Ma questo spettacolo, che veduto in distanza appariva splendido, ed aveva in se, sto per dire, un non so che di gajo pel lustrar dell’armi, la ricchezza de’ colori e de’ fregi, e per la bellezza del cielo che lo rischiarava, veduto d’appresso era oltre ogni dire terribile e doloroso. L’accanimento della mischia, pel quale i soldati si lasciavan trapassare dall’alabarde piuttosto che cedere un palmo di terra, facea sì, che ai caduti era maggior ventura venir a terra morti che non feriti: a questi toccava una fine più disperata mentre spiravan l’anima nell’ultime angosce calpestati da tanti piedi; e s’udiva tra le gambe de’ combattenti (chè vedere non si poteva per la gran calca) urli rabbiosi, bestemmie, gemiti, grida dolenti, e talvolta qualche voce pietosa invocare Iddio. Il sangue, per essere il suolo un poco in pendìo, veniva qua e là uscendo a piccioli rigagnoli dalle file raccogliendosi in pozze ne’ luoghi concavi e bassi, tante eran già state le morti da un’ora o poco più che si combatteva, senza che si potesse ancora in verun modo prevedere a chi dovesse rimaner l’onore della giornata.
Ma non era possibile che una così furiosa battaglia durasse a lungo indecisa; e stava oramai per traboccar la bilancia.
I nostri giovani, che insieme con Fanfulla avean[703] combattuto tra’ primi con quell’ardire e quell’impeto che si può immaginare, chè combattevan sempre stretti allo stendardo, tutti trafelati, pieni di sudore e di sangue, tra mucchi di cadaveri, pei quali male potean maneggiarsi ed appena trovavano ove fermare i piedi, chè il suolo, anco ne’ luoghi scoperti, non era se non una mota sdrucciolevole e sanguigna, vedean di fronte tra un folto di nemici sorgere lo stendardo maggiore delle bande spagnole retto da un banderaio, uomo di terribile aspetto, e, cosa rara tra loro, di statura altissima e di colossale struttura.
Lamberto, conoscendo esser venuto quel critico momento dal quale nelle battaglie viene decisa la vittoria, che riman sempre a chi lo sa cogliere, fatto un cenno a Fanfulla, che in quel momento tirava a sè con forza la spada, per riaverla dal corpo d’uno spagnolo che aveva abbattuto, dicendo:—Han’ sett’anime e un’animuccia come i gatti! e finchè non battono il muso, non c’è verso che vogliano morire!—
Lamberto, dico, gridav’ai suoi:
—Alla bandiera, valentuomini, a terra quella bandiera, e la giornata è nostra!...—
E lanciandosi tutti insieme come leoni verso la parte accennata, egli il primo, con quella sua incredibil prestezza e bravura, senza che da nessuno de’ nemici si trovasse modo di ripararlo, mise una stoccata nel ventre al banderajo, e seguitando[704] innanzi, coll’elsa della spada lo spinse in terra, e con esso lui la bandiera, che essendo grandissima e spiegata, pel vento, coperse di molti soldati, i quali, impedita così la vista, nè potendo maneggiarsi e combattere, si posero, mentre cercavano di sottrarsi a quell’impaccio, in qualche confusione; come sul cassero d’una nave accade alla ciurma, ove fiaccando l’albero la copra, cadendo colle vele tutt’in fascio.
I nostri non perdettero un momento, e spingendosi sotto, quali colle daghe, quali co’ coltelli, fecer sì che pochi di codesti impacciati poteron liberarsi, e caddero quasi tutti trapassati da cento ferite gli uni sugli altri in un monte, tantochè, fattasi un poco di piazza, Lamberto, afferrata la bandiera, la capovolse ficcando in terra la punta dorata che avea sulla cima, e rattenendo pel braccio Bindo, che si gettava su’ nemici sopravvegnenti d’ogni parte, gli disse:
—Tieni forte questa bandiera, chè, viva Dio, noi abbiam vinto!—
Conobbe il buon Lamberto, che intorno a quell’insegna stava per sorgere l’ultimo e più terribil contrasto, e dando al giovinetto l’onore di tenerla, veniva sotto questo colore a porlo nel centro de’ suoi, e nel luogo meno esposto della battaglia.
Difatti si strinsero d’ogni parte in questo luogo gli Spagnoli, veduta a terra la loro bandiera, ma da ogni parte ugualmente vi concorsero gl’Italiani, con tremende e lietissime grida di vittoria, in modo[705] che si fece un gruppo d’uomini tanto stretto e calcato intorno a Bindo, rimasto a formarne il centro, che riusciva oramai impossibile usar l’aste o le spade, ed a stento, co’ pugnali, venivan a corto, ma con rabbia e sforzi grandissimi, gli uni sugli altri, per dir così, succhiellinando per ferirsi; e spingendosi e lottando crocicchiavan piegati gli uni contro gli altri i bracciali, gli scudi, i petti di ferro, sentendosi ognuno sul viso il frequente ed infocato anelito del nemico che si trovava a fronte; e la vita o la morte dipendeva dall’aver il primo la fortuna di trovar di sotto, ed alla cieca, al pugnale la via d’entrare; onde talvolta accadeva, tra due che a denti serrati, co’ visi accesi e furibondi, stesser così frugando per darsi la morte, veder a un tratto spegnersi il vampo d’un di quei volti, illividire, errare, stravolte le pupille, e cadere arrovesciato il capo, mentre il cadavere imprigionato in quella stretta tardava spesso a venire a terra più d’un momento.
Ma quando appunto sono uguali le forze, l’ardire, l’accanimento tra i combattenti, basta bene spesso poca cosa a dar la vittoria. Questa bandiera caduta produsse effetto grandissimo ed istantaneo sull’animo di quelli che combatte vari lontani, togliendolo agli Spagnoli ed aumentandolo mirabilmente agl’italiani, vieppiù infiammati dal grido incessante che udivan ripetuto di vittoria, vittoria, in quel luogo ove, per lo stendardo, era ristretta ormai tutta l’importanza della zuffa. Si videro costì prove maravigliose,[706] tanto nel difenderlo che nel volerlo ricuperare, e per le molte morti, diradatasi presto quella prima stretta, tanto che gli uomini potean raggirarsi un poco e valersi dell’arme loro, fu visto uno spagnolo, saltando al di sopra de’ corpi morti, avventarsi alla caduta insegna e giungere ad afferrarla, mentre Bindo, colla mano che avea libera, usando la spada, lo passava fuor fuori, e se lo stendeva morto a’ piedi: ma un altro ed un altro avean tenuto dietro al primo, gettandosi sull’asta dello stendardo, e facendo incredibili sforzi per istrapparlo dalle mani di Bindo e di parecchi de’ nostri, che s’eran messi ad aiutarlo, pur sempre combattendo, e facendo forza a vicenda con ripetuti crolli e strappate, e sforzi terribili, ora cadendo, ora rizzandosi, frementi ed affannati, finchè Averardo, che era trascorso combattendo a qualche distanza, visto il pericolo del fratello e de’ suoi, s’avventò quivi, levando più che poteva alto sul capo un enorme spadone a due mani, che, caduto fischiando sul più ostinato degli Spagnoli, gli fesse la cervelliera ed il cranio, gridando ferocemente Averardo:
—Del sacco di Firenze portati a casa questo bottino... marrano!... e mentre così urlava n’avea, con velocità di mano e furia incredibile, morto un altro e ferito un terzo, e seguitando a menar la spada, che s’udiva più che non si vedesse per aria, sclamava ad ogni colpo—Al sacco!... al sacco di Firenze valent’uomini!... al sacco, che in Ispagna aspettati la nuova!....—
L’insegna, insomma, benchè fessa nell’asta e tutta pesta, stracciata, lorda di sangue e di fango, pur rimase in potestà degl’italiani, che, insuperbiti per questo onore, e vedendo così a momenti, mentre combattevano, sulle circostanti alture gli spettatori alzar le braccia e fare sventolar panni, quasi facendo applauso alla loro impresa, scorgendo inoltre certe bande che uscivan dalle porte di Firenze, e stimando fosser i loro che venissero, secondo la promessa, ad ajutarli, levaron di nuovo più alto il grido di vittoria e d’Italia, Italia, e fu tanto unito, tanto istantaneo e potente il cozzo col quale percossero i nemici, che in questi apparvero i primi segni del disordinarsi, e crescendo sempre l’animo e gli sforzi degl’italiani, cominciarono gli Spagnoli apertamente a rinculare, mantenendosi e difendendosi però sempre in modo, che non potea dirsi fossero in rotta.
—Eccoli, eccoli, gridavano i nostri giovani, ed i capitani delle bande italiane accennando a quelle ch’erano uscite da porta S. Friano, ecco i nostri che vengono!...—
E così cresceva l’animo e l’impeto e l’incalzare, in alcuni per la certezza del soccorso, in altri per non lasciar che giungesse a dividere con essi l’onore della vittoria, e gli Spagnoli sempre più a cedere ccl arretrarsi, cosicchè alcuni cominciavano, fuggendo scopertamente, a sbandarsi, inseguiti alla vita dai loro avversarii, ebbri di feroce allegrezza; e per quel movimento, venendo a mutar luogo le genti,[708] si venne a scoprire il posto, ove aveano combattuto, coperto da più di 600 cadaveri.
E perchè tardavan le bande uscite poco innanzi della città? Perchè invece d’esser, come aveano stimato i combattenti, venute per unirsi con loro, giungevan mandate da Malatesta, che le avea composte di côrsi e de’ suoi perugini a lui fidatissimi, per veder soltanto come la cosa finisse, e tener in rispetto intanto que’ soldati che avessero avuto in Firenze pensiero di levar il rumore, ed uscir in ajuto della loro nazione. Cotal frutto avea prodotto il foglio scritto da Troilo in S. Marco.
Pure, anche senza questi rinforzi, la vittoria era ormai decisa per la parte italiana; ma era scritto in cielo, che anche in quell’occasione, il sangue di tanti onorati e generosi italiani si versasse a torrenti e senza profitto nessuno.
I lanzi, che sommavano a più migliaja d’uomini, ottima gente, invecchiata in sulle guerre, considerando questa fazione, come una lite privata tra nazione e nazione per fatto d’onore, avean promesso non intromettersi o parteggiare ne per l’una nè per l’altra, ed eran rimasti in arme, e pronti bensì, ma oziosi spettatori della zuffa, ne’ loro alloggiamenti. Quando D. Ferrante conobbe che gl’italiani avean la meglio, e seguivano cotanto arditamente il loro vantaggio, temè non riuscissero a rompere allatto e distruggere i loro nemici, e quantunque non fosse istrutto appunto del disegno ordinato da’ Piagnoni per sollevare i soldati chiusi in[709] Firenze in favore de’ loro compatrioti del campo, ebbe il sospetto ciò non venisse naturalmente a succedere, e vide quanto gran danno ne potrebbe avvenire al campo imperiale ed all’impresa, condotta ormai a così prospero termine. Venuto prestamente ov’erano i lanzi, e trovato Tanusio loro capitano, gli disse, simulando saper certissimo ciò che soltanto dubitava, essersi gl’Italiani, di dentro e di fuori le mura, accordati per dare addosso a quanti forestieri militavano in quella guerra; aver cominciato dagli Spagnoli, e se li lasciava loro tempo di romperli affatto, esser per piombare tutti insieme sui lanzi; onde attendessero alla loro salute, e non dicesser poi che non gli aveva avvertiti. E mentre parlava, mostrava a Tanusio le bandiere che uscivan di Firenze, aggiungendo:
—Quegli intanto escono... con qual proposito, lo sa Iddio.... e tra poco lo saprete anche voi...—
L’arte di D. Ferrante (e in parte pur s’apponeva) ebbe pienissimo effetto:, e, pochi minuti dopo, dodici bandiere di lanzi, col loro capitano alla testa, scendevano serrate e di buon passo, minacciando alle spalle gl’Italiani stanchi, scemati di numero, e non troppo in ordine, per la lunga battaglia, e per la sicurezza d’esser oramai vincitori.
Fanfulla che, secondo aveva detto la notte innanzi in S. Marco, descrivendo le qualità de’ vecchi soldati, avea sempre un occhio al gatto e l’altro alla padella, com’egli diceva, s’accorse il primo di questa mossa; e ne fece accorti i compagni che stavan[710] tra il sì e il no, non potendo indovinare ancora qual fosse il disegno de’ lanzi. Ma parecchie archibusate sparate da loro, dalle quali alcuni venner tocchi, tolsero tosto ogni dubbio, ed i poveri Italiani, presi in mezzo ed assassinati, gridarono, ai traditori, ma al tempo stesso dovettero pensare a togliersi da quel luogo ove, percossi da ogni lato, non era più in verun modo possibile che facessero testa.
Con un movimento sulla destra, serrati, e difendendosi sempre da’ lanzi e dagli Spagnoli, che al giunger dell’inaspettato ajuto avean ripreso le offese, si vennero accostando ad Arno, con animo di guadarlo sotto M. Uliveto, e farsi forti sull’altra riva nelle ville di Fiesole.
La corrente, che in codesta stagione si riduce quasi sempre umile e bassa in un lato del letto, lasciandone asciutte e biancheggianti le rimanenti ghiaje, s’era non poco accresciuta pel temporale della notte, e scendeva torbida e gonfia, ma non tant’alta però, che vietasse il passo del tutto, tanto più ad uomini forti, arditi, e che sopraffatti da troppo esorbitante numero di nemici, non avean altra via per ritirarsi.
Lamberto, Fanfulla e i capitani, che ancora eran vivi, scelti prestamente i migliori soldati, li disposero in modo che, sostenendo l’impeto degli assalitori, dessero tempo a’ compagni di tentare il guado e condursi sicuramente all’opposta riva.
Se le genti uscite di Firenze per ordine di Malatesta[711] fossero state invece quelle che i nostri aspettavano, era giunto il momento di percuoter alle spalle lanzi e Spagnoli, e potea forse quest’assalto ristabilir le cose e ricondurre la vittoria; vedendole rimanersi immobili, senza dimostrazione nessuna di voler venir avanti, si disperavan Lamberto ed i suoi compagni, e pur sempre combattendo, badavan a far cenni, ordinando al banderajo di sventolar lo stendardo, e gridando—A noi Italia! a noi! Finchè accortisi che alla testa di quelle bande era Cencio Guercio, cagnotto di Malatesta, conobbero come stava la cosa, e caddero affatto d’ogni speranza.
La corrente d’Arno s’era intanto già ripiena di soldati, i quali trapassavano puntando nel fondo le picche, per reggersi contro l’impeto dell’acqua, che gorgogliando giallastra, spumante e veloce, aggiungeva loro al petto ed al collo in molti luoghi, cosicchè non pochi ne venner travolti, alcuni a stento s’ajutarono, e n’annegarono parecchi, tutti poi tempestati dalla riva da una spessa grandine d’archibusate. Tuttavia il maggior numero giungeva salvo all’opposta sponda, e non avanzavano oramai che i nostri amici, con que’ pochi che ne avean fatto testa per proteggere il varco del fiume, e la moltitudine de’ nemici gli avrebbe certamente oppressi se fossero stati di minor valore che non erano, o se gli Spagnoli ed i lanzi non si fossero in gran parte staccati dal combattere per correre a svaligiare i voti alloggiamenti degl’Italianj, che vennero mandati a sacco, arsi, e distrutti con avidità e furore incredibile.
Ciò non ostante, quelli ne’ quali più la rabbia poteva che l’avarizia, ed eran pur troppi a fronte del piccol numero de’ nostri, non potendo patire che una mano d’uomini non tanto fosse riuscita ad arrestarli, ma soprappiù li bravasse, moltiplicando le ingiuriose parole e l’offese, si serrarono con nuovo impeto addosso a questi prodi che, fattisi morti, a guisa di fiere racchiuse si difendevano. In quel momento, trapassato da un’asta, il povero Vieri cadde morto; Averardo, che solo de’ fratelli se n’accorse, si avventò furioso contro l’uccisore, ma toccata al tempo stesso un’archibusata, che gli ruppe la gamba destra in tronco, cadde sulle ginocchia presso il cadavere del fratello, ad un palmo dalla ripa che scendeva scoscesa nel fiume. Nel vedersi impedita così la vendetta, quel suo viso, già tanto feroce, si vestì di una così terribile espressione, arrotando i denti e fulminando fuoco espresso dagli occhi, che l’omicida di Vieri rimase colla spada in alto come affascinato, senza calare il colpo, ed Averardo, non potendo giungerlo, gli lanciò la spada, che coll’elsa, lo percosse nel petto e lo fe’ traballare. Rimessosi tosto, e visto il ricco arnese del caduto, pensò, avendolo prigione, guadagnare una grossa taglia, e si fece avanti credendo, disarmato com’era, mettergli le mani addosso senza contrasto.
Ma appena gli fu a portata, Averardo, con un possente sforzo, rizzatosi sulla gamba che avea illesa, gli s’avvinghiò, e, giammai orso facendo alle braccia, non piantò così forti gl’unghioni nel dorso[713] del suo nemico, e tirandolo e tenendolo stretto, si lasciò cader riverso nella corrente. L’acqua s’aperse e rimbalzò in mille spruzzi, e si richiuse tosto sui caduti, i quali, essendo ivi le grotte assai ben alte, venner rotolando nella melletta del fondo, e, soltanto dopo lungo tratto, tornarono, ravvolgendosi sottosopra, e sempre strettamente ghermiti, a galla un momento, poi, di nuovo affondatisi, più non ricomparvero.
Lamberto e Bindo, avvedutisi del fatto, e scorgendo Vieri disteso a terra, mandarono un furibondo grido, e volendo disperatamente gettarsi tra mezzo i nemici, al sicuro si facevano ammazzare, chè quantunque, per un vero prodigio, non avesser toccata nessuna ferita d’importanza, avean tuttavia in varie parti offesa la persona, e cominciavan loro a venir meno le forze, chè da più ore combattevano sotto la sferza del caldo, ed erangli arnesi pressochè arroventati dal sole: ma Fanfulla, che mai non si perdeva, pel lungo uso di cotali strette, conosciuto che non era tempo di pensare a vendicare i morti, ma piuttosto di ridurre in salvo i vivi, trovò il modo di far che i due superstiti uscissero di quella disperata mischia. E cogliendo il momento che i nemici (maravigliati anch’essi del feroce atto d’Averardo) avean fatta un po’ di sosta, stando a vedere come finivan i due caduti nel fiume, disse prestissimamente a Lamberto:
—Salviamo Bindo, chè qui è affar finito; voi di là, io di qua, tiriamolo in Arno e passiamo, se si potrà.—
A Lamberto, che offuscato il lume dell’intelletto dal dolore della rovinata impresa, e della morte dei due cognati, s’era risoluto affatto di voler morire quivi ancor esso, sovvenne a un tratto di Niccolò, di Laudomia, e gli parve troppo enorme l’idea che il povero vecchio avesse a perder anco quel fanciullo, senza utile nessuno per la città, e, detto fatto, preso Bindo per un braccio, mentre Fanfulla l’afferrava dall’altro, lo costrinsero, benchè s’opponesse e facesse forza, a saltar con essi nel fiume.
Egli era tempo; chè, rimasti pressochè soli, ogni poco che avesser tardato, doveano o morire od arrendersi.
Gl’Italiani intanto, che passati già all’opposta riva vi s’erano schierati, appena ebber veduti costoro saltati in Arno, e perciò più bassi della linea de’ loro tiri, cominciarono cogli archibusi a bersagliare i nemici, con che fattili arretrar dalla sponda, ebber campo i nostri di condursi finalmente salvi tra la loro gente, che fatta un’ultima scarica di tutte l’arme, si mosse pianamente ed in ordine, a tamburi battenti ed insegne spiegate, onde non avesse apparenza di fuga, e lasciandosi Arno alle spalle si drizzò lungo le mura verso i colli di Fiesole.
Giuntevi, s’alloggiarono in luoghi ove non potessero venir facilmente sforzati, e gli Spagnoli ed i lanzi, dal canto loro, rimasero in arme ed in sospetto, temendo che i loro nemici, meglio ordinando il fallito disegno, rinnovassero con miglior fortuna l’assalto; questo loro timore rendendoli[715] docili ed obbedienti a’ capitani, che a suo tempo li condussero a tribolare ed esser tribolati altrove, fu la salute di Firenze; e la morte di tanti che, vivi avrebber voluto esser pagati, recò non piccol sollievo alla camera apostolica, che ottenne questo ribasso sul prezzo di Firenze, grazie al sottile ingegno di Baccio Valori.
Questi, da una torre delle case de’ Bini, ov’era salito con Troilo, Malatesta ed il Nobili, avea osservata tutta la fazione, e come la vide succeduta cotanto a seconda de’ suoi desiderj, disse, tutto allegro, fregandosi le mani, mettendo un—Oh!—con libero e lungo respiro:
—Ora è finita davvero e del tutto!—e siam padroni di Firenze.—
Il Nobili, che giorno e notte si vedeva innanzi gli occhi come fantasmi le casse di Niccolò piene di fiorini e di ducati, disse allora, con cert’occhietti tutti voglia ed impazienza, guardando ora Baccio, ora Troilo:
—Oh! per amor d’Iddio, facciamo presto, che non ci fugga!—
—E che non mi fugga Laudomia, quel fiore, quel giglio, quella bellezza delle bellezze! soggiunse Troilo ridendo, e pensando: fosse qui Selvaggia direbbe anch’essa «che non mi fugga Lamberto!...» se non altro, non avremo a far quistione, chè in questo bottino ognuno è contento della sua parte.—
L’allegrezza che provava Baccio lo metteva in tanto buon umore, che, preso, scherzando, Troilo per un de’ baffi, e tirandolo, diceva:
—Una ne fa e cento ne pensa il ribaldone!.... sentiamo!... Che cos’è quest’altra pazzia.... questa Laudomia.... me ne dicesti non so che.... mi pare... ma avevo altri pensieri pel capo.... sentiamo: animo! Già, un qualche amore!—
Ed aggrottando gli occhi, così per baja:
—Non ti vergogni tu? con moglie e figli!....—
—Messer Baccio, rispose Troilo ritirando pianamente il suo baffo dalle dita del Valori, io, vedete, son fatto tutt’a rovescio del popolo di Firenze, egli ora muta lo stato di molti in quello d’un solo, ed io invece dallo stato d’una sola passo allo stato di molte.... che volete? è effetto di costellazione... e, ringraziate Iddio che mi frulli per questo verso... se non era la speranza di beccarmi alla fine quella bella figliuola, aspetta! che volevo starmi a seccare tutto questo tempo....—
—Bene, bene; ma ora raccontaci la cosa.—-
—È presto raccontata: mi piace costei perchè è bella, e le belle donne son fatte per i bei giovanotti, se non erro. Sin ora non c’era da far il matto, con Niccolò alle coste e tutta la brigata.... e volete che ve la dica? Ho anche capito che sarebbe stata fatica sprecata. Figuratevi! un giorno le volli dire una parolina, farle così uno scherzo.... niente di male veh!... mi fece due occhi!.... e mi disse, con quel suo bocchin di mole.... «questi non sono modi nè di cristiano nè di gentiluomo!» Pazienza! pensai io, se questo modo non ti piace, ne troveremo un altro.—
—E quale sarà quest’altro modo?—domandò Baccio, chè prendeva piacere alle costui ribalderie, ed alla buffonesca maniera con cui le narrava.
—Eccolo. Ma torniamo un passo addietro. Dai discorsi fatti in casa ho ritratto, che Niccolò disegna fuggirsene a Genova, al signor Andrea Doria, passando per Pistoja e la Montagna, e dormendo ad un podere ch’egli ha presso S. Marcello. Se farete a mio modo lo lascerete partire, chè, a volerlo pigliare in Firenze, non vorrei giurare che non nascesse qualche grave scandalo tra ’l popolo. Bisognava vedere jer notte in S. Marco tutti que’ suoi straccioni d’operaj, come gli offerivano di morir per lui!... Lasciamolo dunque andare, anch’io farò le viste di fuggire con esso loro.... e basta che mi diate cinque o sei uomini d’arme, che ci vengan seguitando alla lontana, ed a questi s’accompagnerà una persona che so io.... e non[718] dovrebb’essere inutile.... Basta, questo sarà pensier mio..... questi soldati però converrà trovare uno che li guidi e sia uomo sicuro....—
—Anderò io!—esclamò il Nobili, che tremava non gliel avessero a ficcare in qualche modo.
Troilo lo squadrò da capo a piedi con un certo suo ghigno, poi disse:
—Be’.... verrete voi.... e costoro potranno vantarsi d’aver avuto un capitano, chè prima di trovarne un altro!.... Quando dunque siam nella montagna, coll’ajuto di parte Panciatica, se i nostri non bastassero, te li rimeniamo zitti zitti a Firenze, o, dirò meglio, qui, messer Benedetto, vi rimenerà Niccolò, e scavalcheranno al bargello. Io, quando siam verso Prato, prendo a man manca colla giovane e cert’altra brigata, e me ne vo’ alla villa di messer Baccio Valori a far i saldi col fattore, ed assaggiare un bicchier di buon vino, e messer Baccio mi darà una lettera affinchè, se avessi bisogno d’una camera, e di buttarmi sul letto un momento, non mi uscisser fuori che non han le chiavi.—
—E t’ho anche a tener la scala, birbone?—
—L’altro giorno, quando messer Benedetto qui vi si raccomandava pei fiorini di Niccolò, che per poco non si metteva a piangere, che vi diss’io? Ch’io non mercantavo a danari, e che un’altra cosa volevo... la cosa è questa.... e del resto non v’è nulla di male.... fo come gli antichi romani con quelle belle ragazze de’ Sabini....non vollero[719] per amore? le ebbero per forza......
Ma quando avessimo riferito sin all’ultima sillaba il dialogo di questi birbi saremmo poi certi d’aver fatto cosa molto grata al lettore che n’ha già inteso quel tanto che basta alla chiarezza del nostro racconto? Lasciamoli dunque far le loro combriccole, chè non a tutti, se piace a Dio, toccherà cantare troppo allegramente vittoria; e vediamo che cosa avvenisse intanto in casa i Lapi, ove era ritornato Niccolò, ed avea già ricevuto la trista nuova della rotta delle bande italiane.
Appena gli venne recata da chi era stato dalle mura testimonio del fatto, allontanò da sè le figlie, che gli stavano attorno timide e piangenti, e che a stento ubbidirono ad un assoluto e ripetuto comando; e chiuso ch’egli ebbe l’uscio neppur se ne scostarono, origliando piene di sospetto e di timore, e pregando Iddio reggesse in quel momento l’animo e le forze del misero vecchio. Egli, rimasto solo, si lasciò andar ginocchioni appiè della nicchia, e poi venendogli meno ogni vigore, cadde colla fronte a terra e le mani giunte in atto di preghiera. Stimiamo inutile dir dello stato di quell’anima desolata, alla quale (vacillando persino in essa a momenti la luce della fede) parve esser derelitta oramai dagli uomini e da Dio; mandando un doloroso gemito, e volgendosi col cuore a chieder l’intercessione del martire, del maestro, dell’amico, che era certo potesse ascoltarlo dal Cielo:
—Oh! Padre santo, disse, tu in terra m’amasti.... perchè m’hai abbandonato? Oh! serba in me la fede, e toglimi la vita.... ch’io muoja, Dio mio! ch’io muoja, ch’io non posso regger più.... non posso più...—
E rimase muto, immobile, affranto sotto il peso d’un dolore, che essendo tanto ormai da ottenebrare e render confuse le operazioni dell’intelletto, fu in certo modo rimedio a sè stesso, togliendo per poco a quell’anima afflitta la facoltà di sentirlo; ma a un tratto si scosse da quel letargo, parendogli udirsi all’orecchio una voce sovrumana che gli diceva: chi è costui che vuol la mercede prima che il sol tramonti? che chiede riposo prima della fine del giorno? Chi t’ha detto sii oramai istrumento inutile, che non possa la patria aver bisogno di te? Gli antichi tuoi tante volte cacciati non ritornaron forse? Chi dispera mai della patria, se non i codardi?—
Alzò la fronte, stette sulle ginocchia, si rizzò alla fine Niccolò tutto mutato da quel di prima, la sua fiera natura, a guisa d’una valida e ben temperata molla d’acciajo che un soverchio peso può piegare, ma non rompere, risorse potente ed intera; e disse:
—Fuggiamo Firenze per ora, ed andiamo altrove a prepararle giorni migliori.... Io non li vedrò, morrò sulla terra d’esilio.... li vedranno i miei figli.... se me n’è rimasto alcuno.... li vedrà la patria.... E potei sciagurato! desiderar di morire?.... dopo novant’anni di vita, dovette venire[721] il giorno ch’io avessi pensiero di me più che di essa?—
Udì in quella molti passi suonar nella camera vicina: immaginò fosser i suoi tornati dalla battaglia, pensò «E vi saran poi tutti?» e ponendo la mano alla chiave aprì, e con volto grave, mesto ma sicuro, accolse i giovani, ed accortosi dei due che mancavano, stette un momento sopra di sè, poi disse:
—Si può giovar loro? ajutarli ancora? E Lamberto rispose:
—Essi potran giovarci.... chè pregano ora per noi in paradiso.—
Niccolò, a voce bassa, rispose Amen; volse altrove il viso, e tacque per alcuni momenti, durante i quali dal moto delle labbra si potea conoscere ch’egli pregava; disse finalmente:
—Io non mi dolgo della loro morte incontrata per la patria.... io gli aveva allevati per questo... ma ben mi dolgo che l’incontrarono invano!.... Ma Iddio ha giudicato Firenze, e le sue iniquità furon trovate troppe!.... Ursù, figliuoli, l’ora dell’esilio è sonata per noi. Ricordiamoci quante volte gli antichi nostri si trovarono a questo passo; imitiamo la loro fortezza, la costanza colla quale vivendo anni ed anni sbanditi sepper preparare il loro ritorno, ed il trionfo della libertà: saremmo da men di loro?... Già vi parlai del mio disegno.... Andremo a Genova al sig. Andrea.... a quell’uomo che potè sottometter la patria, e pur[722] la lasciò libera e di sua ragione. Egli accoglierà chi soffre per la libertà. Preparate tutto l’occorrente; a notte chiusa ci leveremo di qui, io, per non più tornarvi, voi, per ritornarvi, se piace a Dio, in tempi migliori.—
E volgendo l’occhio in giro ai muri e sul mobile della camera ove abitava da cinquanta e più anni, disse:
—Addio dunque per sempre, povera casa mia... avevo sempre creduto che in codesto letto avrei potuto morir in pace, in mezzo a’ miei figliuoli.... che le mie ossa avrebber potuto riposarsi con quelle de’ miei maggiori, nel nostro avello di casa, in S. Marco!.... Come Dio vuole!.... ovunque giacciano, il suono della tromba nel dì finale giungerà sino ad esse.... ed allora, troverò il compenso degli affanni presenti, se gli avrò saputi virtuosamente portare.—
Durante il discorso di Niccolò i giovani e Fanfulla erano stati co’ volti bassi e compunti, Laudomia, dopo aver pianto amaramente la morte dei fratelli, avea tacitamente, ed all’orecchio, domandato a Lamberto se fosse ferito, od avesse male nessuno, ed egli coll’accennar del capo (per non interrompere il vecchio) e con amorevoli sguardi l’avea rassicurata. E Lisa, appena eran comparsi, non vedendo con essi Troilo, n’avea domandato, tutta spaventata, a Fanfulla, che sottovoce anch’esso, e con brevi parole, la tranquillò sul fatto suo, dicendole che sicuramente sarebbe stato poco a comparire; onde le[723] due donne se n’andarono ad attendere agli apparecchi del viaggio, pei quali, mancando oramai poche ore al calar del sole, non avean tempo d’avanzo.
Narrò allora Fanfulla dell’incontro del frate la mattina a porta S. Giorgio, mentre stavano per uscir di Firenze, e della taglia posta addosso a Troilo, e si mostrava in sospetto, non avendolo trovato in casa, avesse avuto a capitar male, ed il buon Niccolò entrando anch’esso in travaglio per quel traditore, che meno che mai credeva tale in quel momento, veniva tutto inquieto e pensoso dicendo se non convenisse mandarlo cercando; ma da chi? e dove? e poi pei cittadini conosciuti per Piagnoni era un brutto girar per Firenze in que’ giorni; e pel bene incerto d’un solo doveasi arrischiar la libertà e forse la vita de’ pochi rimasti?
Ma a toglier dubbi e timori comparve Troilo in quella, venendo di dove s’era fatto mercato del sangue, dell’onore, dell’avere di Niccolò, e presi quegli ultimi concerti che dovean compier l’esterminio di quella virtuosa ed infelice famiglia.
Il ribaldo venendo quivi s’era studiato, per quanto poteva, vestir il suo volto d’un’apparenza mesta e travagliata: ma un occhio accorto, e non prevenuto in favor suo, avrebbe di leggieri scoperto sotto quell’ipocrita maschera, la scellerata e mal repressa allegrezza che tratto tratto gli balenava negli occhi, parendogli d’esser giunto già già a por la mano al crine della fortuna, ed anticipatamente pascendosi col pensiero degli onori, de’ tesori,[724] delle variate ed incessanti delizie onde vedeva ripiena oramai la sua vita, cui dovea intanto servir di principio l’acquisto di quella donna cotanto bella e pura, e per la quale s’era lungamente consumato in inutili desiderj.
Venne accolto con un abbraccio da Niccolò..... e gli resse pur il cuore di riceverlo e di corrispondervi! Conoscendo poi che conveniva dar qualche spiegazione sul modo onde avea passata quella giornata, disse, avviluppando mille bugie, che s’era affaticato a lungo per sollevare le bande di città, e narrò degli sforzi fatti, e dell’impedimento trovato alla fine per le disposizioni prese da Malatesta onde tener in freno le milizie fiorentine, ed in ultimo molto lamentandosi, e deplorando la comune disgrazia, disse, esser venuto per vivere o morire con Niccolò ed i suoi, e far quello ch’egli fosse per fare.
Il buon vecchio, che per quella frottola della taglia lo stimava martire della libertà, ed esposto più di tutti al pericolo della vita, gli disse, che a notte l’avrebbero, in mezzo a loro, condotto fuor di Firenze, e difeso contro chi lo volesse offendere, insino all’ultimo della vita, ed abbracciandolo, e nominandolo figliuolo, e facendogli animo l’accommiatò cogli altri, onde potessero trovarsi pronti ed a cavallo all’ora stabilita.
Mentre nelle diverse parti della casa s’attendeva con sollecitudine ai preparativi del doloroso viaggio, tenteremo, penetrando nel cuore d’ognuno,[725] scoprirne, se pur si potrà, gl’intimi pensieri, descriver l’angosce di quell’intime ore che precedettero la partenza.
Niccolò, rimasto solo, sedette per riprender gli spiriti e riposarsi un momento; poi, alzatosi in piedi con un certo sforzo risoluto, pensò, prima d’ogni altra cosa, al modo di portarne seco le reliquie del Savonarola. Salito, non senza stento, su una sedia, spiccò la tonaca e tolse la ricca borsa, ov’erano le ceneri del frate, e le depose, non senza lagrime, in una cassetta, dicendo: «Almeno queste ch’io le abbia meco ov’io morrò.» Aperto poscia il suo priorista, che, per esser troppo grosso volume, pensò lasciare, insieme a molt’altre masserizie di casa, vi scrisse le seguenti parole:
«Ricordo che addì.... agosto anno 1530. Io, Nicholò di messer Clone, nella mia età di novant’anni, tre mesi, et quattro giorni, dovetti uscire di casa mia et della ciptà di Forenza venuta in potestà de’ Palleschi et di Sua Santità papa Clemente VII, inimici di questo popolo, quale si defendette insino all’ultimo virtuosamente et justamente, et havendo perduta la libertà, sia raccomandata almeno la sua fama agli huomini honesti, quae semper vivat. Et il nostro Signore Iddio habbia pietà de’ nostri peccati. Amen.»
Raccolte poi molte carte, e lettere, che trovate dal nuovo reggimento avrebber potuto nuocere a più d’un cittadino, ne fece un mucchio sotto il[726] cammino, v’appiccò il fuoco, e mentre la fiamma le consumava, pensava: «A momenti il tuo focolare sarà spento per sempre, Niccolò!» Ed a coloro, cui è noto il senso, sto per dir religioso, che desta nell’anima il focolare della casa paterna, sarà pur noto qual fosse in quel momento il cuore del povero vecchio.
Dal cammino, accostatosi al letto, spiccò da una delle colonne un crocifisso d’argento, lo baciò, e per un cordone che v’era attaccato se lo infilò al collo. Esso stesso l’avea posto tra le mani irrigidite di sua moglie morente; esso ne l’avea ritolto prima che venisse portata alla sepoltura, e gli rammentava quella donna che forte ed umile, prudente ed insieme ingenua ed innocente, era stata l’allegrezza della sua gioventù, l’onore ed il conforto della sua vecchiaja; quella che avea passato seco tant’anni, ignota, per dir così, a tutto il mondo fuorchè al solo suo cuore. E Niccolò l’avea imperterrito e forte, ma non duro nè sconoscente, e nel prender ora quest’ultima memoria della donna sua, lo sentì commosso da mille giovanili rimembranze che avea credute egli stesso cancellate per sempre.
—Oh! quanti dolori ti risparmiava Iddio chiamandoti a sè prima di questi tempi di sventura!.. la morte di tanti figliuoli.... la rovina di Firenze... il caso della Lisa.... ed ora l’esilio....la fuga.... i disagi.... la morte in terra straniera. Oh Dio! tu fosti misericordioso!... io piansi allora.... mi lamentavo... Tu sapevi qual era il mio meglio! Ora ti ringrazio Iddio, io non soffro che per me solo.—
Dato poi sesto a varie cosucce, per uso della sua persona, e racchiusele in una valigetta, cavò da una cassa alcuni denari che vi tenea riposti pei casi improvvisi, ed erano il solo tesoro in monete che egli avesse; chè quelle cantine piene d’oro eran la solita favola che in ogni paese ed in ogni tempo corre tra il popolo sul fatto delle persone stimate ricche. Ricco difatti potea dirsi Niccolò, ma nè avaro, nè inclinato ad ammucchiare inutilmente il danaro, che invece teneva vivo girandolo pe’ banchi di Venezia, di Lione, di Genova, e delle principali città d’Europa, per la qual cosa nel suo esilio, non dovea, se non altro, temere la povertà.
Finito così ogni apparecchio sedè per riposarsi, ed alzando il capo s’accorse che la lampada appesa dinanzi alla nicchia, oramai nuda e vota, ardeva tuttavia. S’alzò di nuovo e con un soffio la spense: quell’atto, in apparenza così indifferente, fu un nuovo e pungentissimo dolore pel povero vecchio, chè dalla morte del Savonarola, da 32 anni, sempre avea mantenuto quel lume, era avvezzo a vederlo di dì e di notte, a volgervi gli occhi mentre orava, e durante le lunghe e solitarie veglie in che, per la vecchiaja, passava sovente l’intere notti.... ed ora, la sua camera priva di quel solito lume, gli parve come una cosa senz’anima, tutta nuova, morta e desolata, ripensò più amaramente in cuore a’ suoi figli uccisi, i quali tante volte erano stati seco in codesto luogo, che gli parve ora pieno di tanta tristezza da non potervi reggere, e gli nacque[728] in cuore una fretta, una smania indicibile d’uscirne, e togliersi una volta a tante dolorose memorie.
E per verità, in codesta famiglia, il più infelice di tutti era Niccolò, che non trovava oramai nel futuro una sola speranza ove riposarsi.
Laudomia invece, mentre s’affaccendava nella sua cameruccia, ajutata da M. Fede, avea bensì gli occhi umidi ed il cuore trafitto pensando ai fratelli uccisi, ai mali della patria, al dolore del padre, vedendosi balzata a un tratto tra genti incognite e lontane, fuori di quel tetto al quale eran congiunti i pensieri, le gioje, gli affetti di tutta la sua vita... ma Lamberto, che sarebbe stato sempre al suo fianco lontano da tanti pericoli, non era forse un compenso bastante, un rifugio, una speranza? E finchè dura la speranza chi è pienamente infelice?
Una al tempo stesso ne avea in cuore la povera Lisa, che la reggeva contro la presente sventura. Sperava, infelice! ricuperar l’amore del marito (chè il sospetto, la certezza quasi d’averlo perduto le rodeva il cuore con sorda e ostinata lima) quando si trovasse con lei sola, in paesi lontani, discosto da’ compagni e dagli amici ch’ella stimava l’avesser disviato da lei: quando passandola vita fuori di tanti pericoli, di tanti continui rimescoli, placida e tranquilla, pensava avrebbe potuto ritornar in salute, bella e fresca come una volta.... ed in mezzo ai tanti guaj presenti, trovava nella sua ferace fantasia mille sogni di felicità; si figurava il marito[729] festeggiato, accolto con ammirazione pe’ suoi modi, per la sua bellezza, tornato per lei come prima, tutto amoroso e confidente, e si godeva in questo doppio trionfo, chè la poveretta non avea cuore, non avea pensieri se non per Troilo, ed ogni giorno più sentiva consumarsi d’amore per quel ribaldo.
Era intanto tramontato il sole, ed a S. Maria Maggiore sonava l’avemmaria della sera. M. Fede entrò in camera di Niccolò portando una lucerna accesa, e, come usano i servi in Italia quando, sull’imbrunire, arrecano il lume ai padroni, disse per abitudine «felice notte!» senza pensare che in quel momento tali parole parean pur troppo una derisione. Sorrise mestamente il vecchio, ed intanto entraron taciti i giovani, le figliuole e Fanfulla, che s’ era protestato non volerli abbandonare sin che non fosser tutti ridotti in salvo.
Disse Lamberto, che ogni cosa era in pronto per la partenza, e che consigliava affrettarla prima che la notte più s’innoltrasse, per evitare il pericolo di esser trattenuti alla porta, d’onde dopo un’ora di notte non s’usciva se non con grandissima difficoltà. Eran già apparecchiati al portone due muli sui quali si stava caricando il bagaglio, ed il famiglio di Lamberto, ajutato dalla fante, venne a prendere intanto e portò fuori quello di Niccolò.
Gli apparecchi di quella partenza non poteron, come ben si comprende, farsi tanto segretamente che il vicinato non se n’avvedesse, e la voce n’era[730] già corsa tra il popolo minuto, per mezzo il quale trovandosi molti operaj a’ servigi di Niccolò, e non pochi di quelli che gli s’eran profferti la notte innanzi in S. Marco, cominciarono a radunarsi, e far cerchielli, e parlar tra loro, ricordando che avean promesso difenderlo, e facendosi animo gli uni cogli altri a non lasciar che senza compagnia si mettesse per istrada in momenti di tanto pericolo.
Questi poveri uomini furon presto risoluti, e mandaron il Bozza a casa i Lapi onde s’informasse destramente da qual porta pensasse uscir Niccolò; e saputo da uno de’ cavallari ch’egli prendeva per Pistoja si divisero in due truppe; e molti uscirono (alla sfilata però) per Porta Prato, dandosi il ritrovo in un campo fuor di strada presso S. Donato, e gli altri si sparsero intorno alla casa, per via dei Conti, sul canto de’ Carnesecchi e sulla Piazzetta, per far testa ed esser pronti nel caso che, da chi si fosse, si volesse disturbare od impedire codesta partenza.
Troilo, da una finestra, vide questa ragunata di popolo, e disse tra sè:
—Ve’ s’io m’apposi pensando che menar costui prigione in Firenze era un brutto rischio!—
Finalmente l’ora era giunta, pronti i cavalli, avviato già innanzi il bagaglio, e negli ultimi momenti, mentre la famiglia radunata se ne stava sospirosa ed in silenzio, s’era sentito pei piani superiori della casa il sordo ed interrotto strepito degli usci che si serravano, de’ chiavistelli, degli arpioni che venivan[731] messi per tutto, e questo rumore si veniva accostando a misura che M. Fede scendeva assicurando l’imposte e rivedendo in ogni parte se si lasciasse nulla fuor d’ordine, nessun’entrata ai ladri, e pensando persino all’acqua nei casi de’ temporali, e diceva, mezzo piangendo:
—Tante fatiche! Tante cure! e poi lo sa Iddio in che mani capiterà questa povera casa! Altro che ladri! ho paura.... Oh! la Madonna Santissima ci aiuti.—
E così terminati questi assetti se ne venne in camera di Niccolò, e rimase appoggiata allo stipite dell’uscio, quasi volendo significare che avea oramai pensato a tutto, e che quanto ad essa era lesta, senza volerlo espressamente dire, chè non le reggeva il cuore dar proprio lei il segnale, per dir così, della partenza.
Il vecchio intanto pareva agitato da una nuova inquietudine, e disse alla fine, avere mandato per uno de’ garzoni di stalla un breve a Fra Zaccaria in S. Marco per offrirgli d’uscirsene di Firenze con esso loro, e commettendogli di proporre al Fojano questo modo istesso di scampo, chè tutti e due, per le loro prediche fatte durante l’assedio in favore della difesa, portavano ora pericolo grandissimo.
—Io non mi so risolvere a partire prima di sapere se possiamo ajutar questi frati dabbene.—
Fanfulla, senza contrastare a questo generoso pensiero, mostrava però col viso, e con un certo irrequieto moto della persona, ch’egli non approvava[732] in quel momento maggiori indugi, e Lamberto, che la pensava al modo stesso, propose, che andasse intanto innanzi alla porta e parlasse col capitano, onde disporlo a non metter impedimento alla loro uscita, e Niccolò gli diede cinquanta ducati affinchè la pratica più sicuramente riuscisse.
Partito Fanfulla, dopo un altro poco comparve finalmente la risposta di S. Marco. Scriveva Fra Benedetto, esser già in salvo i due frati (egli così credeva; ma il Fojano era stato preso all’uscir travestito di Firenze) e pregare Iddio che conducesse del pari a salvamento Niccolò e tutti i suoi. Questi, mettendo allora più libero il respiro, disse, alzandosi con una prontezza che ben si vedeva non naturale:
—Ora dunque andiamo.... E Iddio, che vede la nostra ragione, sia quello che ci ajuti.... Figliuoli miei, (disse fermandosi a un tratto) voi tornerete un giorno in questa casa, in questa camera, senza me: ricordatevi allora di Niccolò e de’ suoi avvisi. Se avrete autorità nessuna in Firenze, non vi fidate nè de’ grandi, nè di soldati e capitani mercenarj.... chè per cagion loro noi perdiamo oggi la patria.—
E gettata intorno un’ultima occhiata, soggiunse, con voce ed aspetto che pareva tranquillo:
—Andiamo.—
Così tutti insieme alla fine si mossero: gli uomini muti e pensosi, le donne piangenti, e venuti a! portone uscirono in istrada, e gli uni dopo gli[733] altri messisi a cavallo, s’avviarono con quest’ordine: precedeva Niccolò messo in mezzo da Bindo e da Fanfulla: seguiva Lamberto al fianco di Laudomia, poscia Troilo colla Lisa che aveva in collo il fanciullo; e venivan ultimi M. Fede e Maurizio. Mentre Niccolò, non senza fatica, montava a cavallo, erano concorsi ad esso molti di que’ popolani che s’aggiravano intorno alla casa, e chi gli teneva la staffa, chi tentava sorreggerlo ed ajutarlo, alcuni piangendo gli abbracciavan le ginocchia o gli baciavano i piedi, dicendogli parole piene d’affetto, di venerazione, benedicendolo e facendogli animo, ed il Bozza, appoggiata una mano sulla groppa del cavallo, e coll’altra vivacemente gestendo, esclamava:
—Non dubitate, messer Niccolò, che no’ siam qui noi, e camperete pure a dispetto de’ ribaldi e de’ traditori!—
Ed il vecchio, co’ cenni e con qualche amorevole parola rispondendo a queste dimostrazioni s’avviarono, e giunti a Porta al Prato trovarono che Fanfulla avea con poca fatica ottenuto d’aver libero il passo, ed uscirono senza ostacolo accompagnati da molti di quegli artefici, ringraziando Iddio di non aver quivi incontrato impedimento: non sapean essi che questa cotanta facilità era per ordine espresso di Baccio, che assai accortamente seguiva in quest’occasione il consiglio di Troilo.
Quando, usciti fuor di porta, presero la via di Prato, il cielo era oramai tutto sparso di stelle, e[734] soltanto all’oriente splendeva, dietro le masse scure ed addentellate de’ monti, una striscia di luce rancia, sulla quale campeggiavan lunghi nuvoli neri tinti appena qua e là sugli estremi e più bassi lembi d’una luce languida e rossastra.
L’afflitta comitiva, parte in sella, parte a piedi, camminava senza profferire parola, nè produrre altro strepito fuorchè quello del calpestio de’ pedoni e dello scalpitar de’ cavalli: l’aspetto della campagna fosco e tranquillo, stillava al cuore una pace dolce e mesta ad un tempo: giungeva all’orecchio con certa regolare intermittenza il fioco e tremulo cantar de’ grilli, ed i spessi e diversi sibili di quelle innumerabili generazioni d’insetti che danno vita ai silenzi della notte senza turbarli. La placida quiete della natura contrastava pur troppo coll’agitazione, co’ dolorosi pensieri di que’ poveri afflitti. E chi, percosso dalla sventura, e trovandosi a caso in luoghi ameni, vedendo una bell’aurora, un tramonto, una notte serena, non ha provato un senso d’amarezza, quasi d’insulto alla sua miseria? Forse, perchè l’ordinata e perenne stabilità della natura, paragonata colle mutazioni continue della condizion nostra ci raumilia e ci fa accorti della nostra piccolezza.
Dopo un tratto di strada, giunti su un poco di rialto, di dove si potea forse ancora discernere gli edifizj e le torri di Firenze, Niccolò rattenne la briglia, si volse indietro, e stringendo le ciglia rivolse a vedere per l’ultima volta, o così gli parve,[735] la massa bruna della cupola del duomo. Stese verso essa le braccia quasi salutandola, mise un sospiro profondo, e senza aprir bocca, senza che alcuno de’ suoi osasse parlargli, punse il cavallo e si rimise in via.
La compagnia, che gli aspettava a S. Donato, s’era intanto congiunta con loro, senza strepito o voce nessuna, e quei poveri popolani, stimandosi beati di poter difendere e condurre in salvo Niccolò, venivan di buon passo, senza curarsi del disagio, nè del pericolo, finchè, dopo quattr’ore di viaggio, giunsero a Prato. Girate le mura e ritrovata la strada di Pistoja, volle Niccolò fermarsi e lasciare che chi veniva a piedi si riposasse, ma costoro non lo soffersero, e fattisi in molti intorno al suo cavallo, lo pregarono riprendesse pure il viaggio (chè ogni ritardo poteva esser pericoloso) affermando non esser in verun modo stracchi, ed in fatti non eran uomini che facilmente si lasciassero vincere dalla fatica.
Così camminando tutta la notte si trovarono verso l’alba presso la porta di Pistoja, ed oramai bisognava agli uomini ed alle bestie conceder cibo e riposo. Prendendo a destra per certi tragetti, riuscirono al di là della terra verso la montagna, sulla via di Modena, ove, mettendosi pe’ campi, trovarono un seno del poggio assai ben nascosto da cespugli e da gruppi foltissimi di castagni, tra i quali entrati in quella appunto che si faceva loro il dì chiaro addosso, scavalcaron tutti, e per cura[736] de’ giovani e di Fanfulla vennero presto disposte in terra coltri e mantelli, tantochè alle donne ed al vecchio facessero un poco di letto.
Quivi si riposarono tutto quel giorno, e rinfrescatisi il meglio che potettero, verso sera parve a Niccolò riprendere il viaggio. Prima però di avviarsi, chiamati intorno a sè quelli che gli avean sin qui servito così amorevolmente di guardia e di compagnia, e pe’ quali non pochi aveano in animo di passare innanzi, disse loro:
«Figliuoli miei, è giunta l’ora che noi ci dobbiam lasciare. Che posso io dirvi se non che io vi ringrazio e vi porto meco nel cuore, e non mai ne’ pochi giorni che m’avanzan di vita mi scorderò della cortesia, dell’amore che m’avete dimostro? Se e vero che la benedizione d’un vecchio venga raffermata da Dio, io ve la do questa benedizione, ed egli sa con che cuore! io, povero vecchio, non posso in altro modo rimeritarvi.... Ora tornate alle case vostre.... a quella patria venerata e santa ch’io non debbo riveder più, e che voi certamente rivedrete un giorno libera e felice.... la sera, quando farete l’orazioni co’ vostri figliuoli, pregate anche per Niccolò, pregate pe’ miei figliuoli morti in questa guerra.... io sarò sotterra, in paesi lontani.... ma la mia memoria sarà tra voi, sarà viva in questa patria per la quale non venni fatto degno di poter morire.... ecco l’ultimo mio desiderio, l’ultima speranza che mi rimane.... E Dio vi benedica tutti, e addio per sempre.»—
Queste parole vennero pronunziate da Niccolò con voce vacillante per la commozione che provava, mentre già era a cavallo con tutti i suoi; finito il dire allentò la briglia, volse un’ultima occhiata a quelli che rimanevano, e che immoti ed attoniti fissavano in esso gli sguardi, ed alzando la mano in segno di saluto, o forse accennando il cielo, prese la via tra gli alberi, e si tolse dagli occhi loro.
Ritrovata la strada maestra, principiarono a salire, sinchè scavalcato il giogo si trovarono nella valle del Reno, dalla quale, dopo breve tratto, volgendosi a mano manca, e venuti sulle cime dell’Oppio, s’aprì loro d’avanti la bella valle ove giace S. Marcello e Gavinana, e che può dirsi il cuore della montagna di Pistoja.
Chi visita ai dì nostri codesto paese non vi trova se non amenità di luogo, pace, ricchezza e cortesia tra gli abitanti. Il tempo, che tante cose guasta, taluna pur ne migliora, ed ha quivi spento del tutto gli antichi furori di parte, e cancellatane persin la memoria[68]. Le braccia che avanzano all’agricoltura trovano come adoperarsi nel[738] lavorìo delle cartiere stabilite da una casa che rammenta uno de’ primi nomi delle lettere italiane[69], ed impiega le sue ricchezze nel modo il più nobile, perchè il più utile all’universale. Quest’industria, ed i varj traffici, rendono codesti popoli operosi ed agiati, e perciò felici e tranquilli.
Troppo diversamente andavan le cose all’epoca della nostra istoria, e non avrà dimenticato il lettore le dolorose e crudeli vicende di S. Marcello, nè la furibonda rabbia da’ Cancellieri. Dopo quel fatto, rotto il Ferruccio, eran mutate le parti e le fortune, e con impeto e rabbia altrettanta, e maggiore, aveano i Panciatichi sopraffatti, perseguitati e distrutti i loro nemici, rovinandone, ardendone persino le case e le messi, ed i nostri viaggiatori, benchè fosse notte, presto scopersero i segni di quelle devastazioni.
Qua eran viti sbarbate, alberi fruttiferi rovesciati, o segati al pedale; là un campo ov’era stato messo il fuoco, nero, arsiccio, coperto di ceneri; ora un tugurio arso, e del quale non avanzavano che i quattro muri, ora qualche casa di gente più agiata depredata da saccomanni, parte rovinata, colle porte sconfitte, sgangherate; rotte l’invetriate, scontorte e pendenti le imposte, se pur taluna ve n’era rimasta, tutto poi desolato, silenzioso, voto d’abitatori; e questi, Dio sa che fine avean fatta! se erano stati morti, se avean potuto scampare, se[739] eran abbruciati, o sepolti sotto lo rovine a caso, e forse racchiusivi a bella posta onde sentissero lunga lunga la morte. Lamberto riconobbe i luoghi, le case che avea pochi giorni innanzi vedute, passando, in buon essere, e diceva a Niccolò:
—Ecco la vendetta di S. Marcello! La non s’è fatta aspettare.—
Mentre diceva queste parole, passavano appunto innanzi ad una casa peggio ridotta dell’altre, ed in molte parti diroccata, tantochè i mattoni, le travi, i calcinacci caduti, mezzo ingombravan la via, quando udirono da una buca a fior di terra d’una cantina, ’o legnaja che fosse, uscire un lamento fioco d’una voce che chiedeva misericordia per Dio!
Si fermaron tutti al momento. Scavalcaron Fanfulla, Lamberto e Bindo, e cacciandosi tra que’ rottami, e chiamando spesso per potersi dirigere, ed udendo rispondersi quell’istesso lagno debole e spento, mentre Niccolò e le donne con aspettazione grandissima li stavan guardando, s’accorsero alla fine d’una figura umana che, strascinandosi a stento carpone fuor della buca, disse con voce che fece aggricciar le carni a tutti.
—Oh, bene, ammazzatemi! ch’io non reggo più a questi tormenti, ma prima un po’ d’acqua per Dio.... Oh, l’acqua fresca, e poi morire!—
Presero quel disgraziato a braccia e lo portarono in mezzo alla strada, e Bindo corse al torrente Limestra, al quale eran vicini, e tornò coll’acqua,[740] che quegli bevve avidamente, e lasciandosi cader il vaso delle mani alzò la fronte il meglio che potette, e disse per ringraziamento:
—Ora più non vi temo, ammazzatemi, e l’avrò caro.... che maladetti siate con tutta la parte Panciatica!—
E Lamberto, raffigurandolo, esclamò:
—Tu sei il capitan Melocchi!.... Oh! come sei tu qui?—
—Ah! rispose il moribondo (che tale oramai si potea dire), io v’avea tolto in iscambio, v’ho creduti una mano di Panciatichi.... La casa mia (proseguiva con tanta quanta la rabbia che potea esprimere in uno stato di tanta debolezza) la parte cancelliera è disfatta.... io ferito, tutto rotto e pesto, da quattro giorni vivo costà nascosto... ora i tormenti!.... la sete! Ho detto m’ammazzino, ma bere! Ah, che non l’hanno avuto il gusto que’ cani di veder morire il Bravetto!....—
E rise. L’affanno dell’agonia cresceva.
—Oh.... se è vivo, mio cugino.... Giovanni... ditegli che è stato Piero che m’ha dato.... E.... si ricordi....—
Qui non si potè più capire che cosa dicesse, parve però pronunciasse la parola ammazzarlo, che gli si spense tra le labbra insieme colla vita.
Il cadavere venne tirato da canto, tanto che non venisse calpestato da’ muli e da’ cavalli che passassero. E la brigata riprese il suo viaggio, funestata, come può credersi, da questa brutta e disperata fine, e Lamberto disse:
—Tu non meritavi altra morte che codesta!—E Niccolò:
—Abbia Iddio, se è possibile, pietà di quel forsennato.—
Nè Lamberto, nè alcun altro di loro non conoscevano questo Giovanni nominato dal Melocchi: ma l’avessero anche conosciuto, sarebbero, come si può credere, stati poco disposti a fargli la perversa ambasciata.
Poco mancava alla mezzanotte quando la cavalcata giunse finalmente in Gavinana, alla casa che per contratto nuziale avea Niccolò concessa a Lamberto a titolo di dote, ed ove era giunto, un’ora prima, uno de’ cavallari che gli accompagnavano affinchè, precedendo, destasse il fattore, facesse aprire ed apparecchiare tutto quanto bisognava.
Questo fattore dabbene, che era poco più d’un contadino, persona affezionata alla casa i Lapi, cui serviva sin da giovinetto; tenendo, com’è naturale, per la parte cancelliera, era stato a que’ giorni offeso in varj modi dalla setta nemica, e salvatosi il meglio che avea potuto, viveva in continua paura; cosicchè ce ne volle prima che rispondesse, si persuadesse che realmente i suoi padroni stavan per giungere, e si fosse risoluto d’aprire, temendo d’una qualche trappola per entrargli in[743] casa a svaligiarlo. Persuaso finalmente, aperse, e si diede con fretta grandissima ad ammannire una cosa, disporne un’altra, ajutato dalla moglie e da un garzonaccio tutto sonnacchioso, tantochè finalmente udì lo scalpitar de’ cavalli, e corso giù per le scale trovò che i viaggiatori scavalcavano in un cortiletto, posto tra la casa e la pubblica via, separato da questa con un muro non troppo alto.
Quella sorridente ed officiosa premura che si dipinge sul volto d’ogni fattore nell’atto di far riverenza al padrone che giunge, sul viso di Matteo (chè così avea nome costui) era volta in altrettanta mestizia. Niccolò, senza entrar seco in molte parole, andò innanzi colla sua brigata in una saletta terrena ov’erano accesi i lumi, e che malgrado le cure del fattore serbava evidenti tracce di disordini recentemente accaduti. Al tanfo di racchiuso, solito alle stanze poco abitate, s’univa un odor di mosto o di vino: in terra macchie d’umido, rottami di stoviglie, chè il buon Matteo colto improvviso, non avea avuto tempo a spazzare: e sulla più larga parete, ov’era nel mezzo rozzamente dipinta l’impresa di Firenze, scudo bianco col giglio rosso, si vedean disegnate malamente col carbone le forche in modo, che il detto scudo occupasse il posto dell’impiccato. Sovr’esso, nell’atto di manigoldo, era figurato un uomo con una corona di imperatore sul capo, ed accanto, sulla scala ove suoi porsi il frate confortatore del giustiziato, un altro fantoccio che dal triregno si capiva dover[744] rappresentare un papa, con chè l’ingegnoso artista avea voluto figurar l’imperatore Carlo V e papa Clemente VII, che d’accordo davan lo spaccio alla città di Firenze, ed in quest’opera, alla nobiltà del pensiero, corrispondeva pienamente quella del disegno. Attorno pe’ muri era tutto imbrattato di parole scritte parimente col carbone in modo e con ortografia villanesca, e che dicevano—Viva le Palle!—Moja el marzocho—Parte Chancelliera, te porta el diavollo e la versiera ec.—
E mentre il vecchio accortosi di quest’insolenze le guardava con notabile alterazione di volto, il fattore diceva, tutto spaventato ancora, e quasi piangendo:
—Lo vedete, messere, que’ ribaldi vituperati, come v’hanno conciata la casa?.... E s’io son vivo, è stato miracolo espresso di Dio.... chè abbiam vedute le gran cose a questi giorni!.... io credevo che fosse il finimondo!.... Prima, la rotta del Ferruccio, che in paese l’archibusate eran come gragnuola fitta.... poi, que’ traditori Panciatichi a far il resto, e non c’è casa in Gavinana che non pianga; non c’è casa che non abbian rubata.... con ferite e morti di tanti poveretti.... già, credo io, non saranno rimaste qui insieme cento persone, chi è fuggito, chi è morto,.... e chi rimane sta in paura di peggio. Io non volli fuggire.... egli è pur obbligo mio guardarvi la roba vostra; e son venuti qui dentro a far gozzoviglia, ed hanno dato fondo a quanto ben di Dio c’era in casa.... e poi, ubbriachi[745] come majali, picchiate a me, alla Caterina, e queste porcherie su pe’ muri.... e sapete che mi hanno detto? «Quando tornerem qui, se troviamo che punto punto tu abbi tocco codesto muro, noi t’impiccherem per la gola dov’è questo scudo.» E però io, poverello, non son stato ardito di ripulirlo.
—Se tu non lo fosti, ben io lo sarò—disse Bindo dando di piglio con istizza ad una granata ch’era in un angolo, e disponendosi a cancellare quelle sozze figure, ma Niccolò lo rattenne dicendo:
—Noi partiamo, Bindo, e quest’uomo dabbene rimane; chi lo difenderebbe se que’ ladroni venissero per fargli dispiacere?.... Ai vinti, gli oltraggi.... È questo il nostro pane oramai.... a non volerli patire bisognava saper vincere.... e noi non abbiam saputo.—
Il fattore ringraziò con uno sguardo Niccolò, e col cuore Iddio, chè veder Bindo colla granata in aria, ed aversi già lo spago al collo gli parea tutt’una cosa.
Era intanto comparsa la Caterina con qualche cosarella per cena: e chi non avesse saputo che la casa era andata a sacco, l’avrebbe indovinato vedendo quell’imbandigione, chè tutta consisteva in un’insalata, un pezzetto di cacio, e due pan neri, che l’uno neppur era intero. La povera donna, scura e macilenta in viso, cogli occhi gonfi e rossi apparecchiava, senza parlare, e metteva ogni tanto lunghi sospiri; e dopo quelle prime e brevi parole[746] nessuno aprì più bocca, e rimaser pensosi sedendo su una spalliera che era tutt’in giro confitta nel muro; e questo silenzio parea tanto più mesto, chè nessuna voce, nessuno strepito s’udiva neppure al di fuori, benchè fossero nel cuor della terra, poco lontani di piazza. Il canto d’un gallo, o l’abbajar d’un cane avrebber almeno dato segno di cosa viva, ma quel desolato borgo aveva aspetto di cimitero; e tanto più parea tale, che il vento entrando per le finestre aperte portava un puzzo di sepoltura, del quale spiegò Matteo la cagione, dicendo:
—Dopo la battaglia eran in piazza meglio che 1200 morti: per non durar fatica a portarli fuori, gli hanno sotterrati costà dov’erano.... ma per far presto, non avranno indosso tre dita di terra.... Dio faccia che que’ morti non ammazzino ora i pochi vivi, e non ci si metta la morìa!—
—E tra costoro, domandò Niccolò con impeto, sarebbe mai confuso il gran Ferruccio?—
—No, messere, egli è stato sepolto in disparte sotto la gronda del fianco della chiesa.
—Sapresti tu insegnarmi dove?—
—Io so quando voi vogliate; chè anch’io fui comandato con un monte di marrajuoli, ed ajutai cavar la fossa.—
—Menamici tosto. Venite figliuoli, che noi facciamo questo poco d’onore al maggior uomo che nascesse mai in Firenze.—
Rizzatosi il vecchio arditamente e senza mostrare stanchezza, uscì co’ suoi e colle due giovani, chè[747] anch’esse, benchè non richieste per riguardo alle fatiche sofferte, vollero venir a prostrarsi sull’onorata sepoltura. Matteo precedeva per la via stretta, con una lanterna, che mostrava col piccolo e vacillante chiarore, molte case, e forse la più parte, aperte, abbandonate dagli abitatori, e di alcune gli usci eran divelti, e giacean buttati a terra lungo le mura. Disse Fanfulla, riconoscendosi a un tratto:
—Qui toccai quella nespola sull’orecchio, e in questo poco spazio, a veder che danza era quel giorno!... e qui, vedete.... qui proprio! il Commissario con quella fila di capitani si cacciò a capo sotto tra’ lanzi!...—
Niccolò, raccogliendo con avidità le parole di Fanfulla, non si stancava di domandargli di tutti i particolari, non tanto della battaglia, quanto del Ferruccio; chè appunto allora erano sboccati in sulla piazza e si trovavan nel luogo delle sue più mirabili prove. Trattenutisi così un buon poco, senza curarsi del puzzo che qui, più che mai, gli ammorbava, proseguirono attraversandola per condursi alla chiesa, e nel camminare sentivano la terra tutta smossa, e talvolta affondarvisi un poco l’orme, e le donne rabbrividivano pensando che cosa calcassero.
Matteo finalmente si fermò rasente il fianco dell’antica chiesa e, deposta in terra la lanterna, disse:
—Qui è stato posto quel bravo signore.—Si vedeva sul suolo uno spazio lungo e largo quanto un corpo umano di alta statura, ove la terra difatti[748] appariva rivoltata di fresco, e dall’impronta che serbava di suole di scarpe, e di piedi nudi, si conosceva che l’avean diligentemente pigiata. Niccolò, vedendosi proprio sotto gli occhi quella terra inzuppata ancora del sangue del suo amico, dell’uomo che per esso era l’ideale, il sublime di quanto vi può esser al mondo di virtuoso e di grande, cadde ginocchioni su quella fossa, preso da un tremito in tutta la persona, e chinandosi col capo baciò quel terriccio umido, e v’appoggiò poscia la fronte, rimanendovi immobile; e tutti quanti i suoi fecero lo stesso. Si sentiva il povero vecchio gemere, sospirare, ed alla fine si sciolse in pianto. Racquetatosi poi un poco, alzava il volto e le mani al cielo, dicendo:
—Oh! se dai santi e beati luoghi, ov’è ora gloriosa quella grand’anima, essa non isdegna calar uno sguardo su questo tenebroso mondo, essa vedrà forse questo mio pianto... vedrà che di quella città per la quale sparse il suo sangue sino all’ultima stilla, siam pur venuti, noi profughi almeno, a fargli quest’ultimo onore, quel solo che per noi si potesse nella nostra presente miseria.... Ferruccio, Ferruccio, ha ad esser questa dunque la tua sepoltura? Ed i Medici, omicidi della patria, l’avranno cotanto onorata in S. Lorenzo? Si vergogneranno essi di lasciarti quivi? Porranno almeno una croce sulle tua ossa? una pietra che dica: Qui giace Ferruccio?—
Così parlava Niccolò, ed il tempo ha mostrato[749] s’egli avesse una giusta idea della generosità medicea che lasciò le ossa del Ferruccio dov’erano: non pose loro sopra nè croce, nè sasso, e non l’ebber mai sino ad oggi, tantochè, neppur per tradizione, si serba memoria del luogo preciso ove giace il fortissimo e virtuosissimo tra i toscani. Ciò sia detto per incidenza, e queste parole vadano a chi debbono andare[70].
Poi, a un tratto, dolendosi d’aver formato un tal desiderio, aggiungeva, quasi riprendendo se stesso:
—Ma che dico? Esco io di cervello? Quasi avessi tu bisogno de’ costoro onori!.... se l’abbiano.... li serbin pure per le loro ceneri scellerate, chè anco sotto i monumenti di marmo saprà ben trovarle nel dì finale la vendetta di Dio! E tu intanto, se puoi udirmi, spirito valoroso, goditi questo nostro umile omaggio, e sappi che di tanto non potran mai vantarsi le tombe de’ tuoi e de’ nostri nemici!.... sappi che insin che duri il mondo sarà più onorata pe’ generosi la terra di quest’umil fossa, che non l’insolente ricchezza de’ loro sepolcri!.... Sappi, che quell’onta, che avran creduto farti lasciandoti in quest’angolo inonorato, si volgerà per essi in altrettanta infamia appo i secoli e le generazioni future, chè a sottrarsi all’infamia non han, viva Dio, trovato ancora i tiranni forza che basti!—
Mentre Niccolò con passione grandissima ed in modo quasi ispirato, profferiva queste parole, che la sua famiglia inginocchiata e riverente udiva, tutta intenta a lui solo, s’avventaron di sotto il portico della chiesa sei uomini d’arme colle spade sguainate, seguiti da forse 50 contadini armati di picche, falci o bastoni, e prima che i sorpresi potesser pure avvedersi di quest’assalto, si trovarono in terra sotto un monte d’uomini, colle punte delle spade o delle picche sul viso, od appuntate alla gola ed al petto, presi e tenuti da cento mani; oppressi sotto le ginocchia ed i piedi di molti; ed una voce, alzandosi di mezzo gli assalitori, gridò:
—Chi si muove è morto. Voi siete prigioni del papa!—
Ed intanto quegli sgherri avean violentemente strappate le spade e l’altr’arme ai giovani, ai quali non sarebber certamente falliti nè l’animo, nè il volere di difendere Niccolò, colla certezza ancora d’esser tagliati a pezzi; ma la rovina che cadde loro addosso improvvisa tolse loro materialmente il poter muover un dito, non che venisse lor fatto di valersi dell’arme e della persona.
Le donne avean levato un grido, che da mani villane venne tosto soffocato, non meno che da bestiali minacce; e prima che un solo di que’ ribaldi si fidasse a levarsi di dosso agli uomini che si teneano sotto, altri ficcandosi tra mezzo quel viluppo di gambe e di braccia, con funi di che s’eran provvisti, ebber presto legati i prigioni,[751] così validamente, che ben appariva in qual conto gli avessero; legati che gli ebbero, lasciaron che si rizzassero.
Chi potrebbe dir l’ira, lo sbalordimento, il terrore di que’ miseri perseguitati, vedendosi così fuor d’ogni aspettazione venuti in podestà de’ loro nemici, quando appunto tenevano oramai più sicuro lo scampo?
Lamberto e Bindo, collo sguardo basso ed errante, co’ petti gonfi e frementi per impotente furore, parean due fiere cadute nella tagliola: Maurizio, che venuto quivi per seguire il padrone era stato preso cogli altri, bestemmiava nella strozza in tedesco: Fanfulla, che non usciva mai della sua strana ed avventata natura, diceva scrollando il capo, soffiando e mezzo sorridendo:
—Siam proprio serviti nel coscetto!—
Le donne piangevano, tenute per le braccia ed un poco in disparte, da due di que’ maladetti.
E Niccolò, coll’augusta e veneranda fronte levata e sicura, disse:
—Io so quel che importi per me l’esser prigione del papa....—ed un amaro e sdegnoso sorriso gli corse sul labbro, quasi dicesse: «poco mi può togliere oramai!» Volgendosi poi ai figliuoli, ed additando la fossa ov’era sepolto il Ferruccio, soggiungeva:
—Da esso ho appreso come si muore.... ma forse non n’era mestieri.—
Ben conosceva il vecchio, che la sua morte si[752] voleva e non quella de’ figliuoli nè d’altri; e perciò poco s’era turbato: ma gli sovvenne in quel punto di Troilo, della taglia che credeva gli fosse stata posta, e tenendolo del tutto spacciato, troppo glien’increbbe. Si guardò intorno, cercandolo affannosamente coll’occhio, e dicendo:
—Di te mi duole, Troilo, figliuol mio!—
E siccome, non essendovi altro lume che la lanterna portata da Matteo, poco ci si vedeva, penò un buon poco a rintracciarlo; finchè poi lo scorse lontano, ritto, immobile, colle braccia intrecciate sul petto ed il viso basso, e s’accorse che non era nè legato, nè tenuto in guardia da alcuno di que’ soldati, che con tanta cura s’erano assicurati che gli altri non potesser fuggire.
Il volto del giovane, che dalla natura avea sortito bellissimo, era in quel momento spaventevole e turpe come il suo tradimento: simile a Caino, a Giuda e ad altri gran scellerati, cominciava per esso il supremo de’ tormenti, quello de’ rimorsi, scevri affatto d’ogni pensiero di speranza o di pentimento.
Niccolò gli lesse in fronte scritto il suo peccato, notò sui volti de’ soldati un riso di scherno, che pareva dicesse: «di lui non istare in pensiero!» Gli si squarciò il velo che gli avea tanto lungamente celata la verità, e questa gli si rivelò alfine nuta e tremenda. Stese le braccia e le mani, legate a’ polsi da una ruvida fune, e con voce che schiantò il cuore persino di que’ ribaldi che l’attorniavano, disse, guardando Troilo:
—Ed era un traditore!.....—
Nel suono di queste parole, nel modo di pronunciarle, nell’atto del misero vecchio, fu tanta e così dolorosa effusione di verità, che, persin lo ripeto, ne’ cuori di que’ rozzi e feroci sgherri sorse un senso di compassione.
Ma Lisa, la povera Lisa, quasi uno strale di fuoco le fosse penetrato nelle carni, si strappò dalle mani di quelli che la tenevano, colla forza nervosa e convulsa d’una disperata passione, e scagliandosi verso il padre gridava:
—Perchè traditore? come?.... chi può dir traditore il mio Troilo? Che ha egli fatto?....—
E non potendone correre in traccia, che era stata tosto ripresa e fermata da quelli cui era fuggita, si gettava innanzi colla persona, col capo, cercando cogli occhi il marito, e pur seguitando a ripetere:
—Oh! traditore poi!.... traditore il mio Troilo!... Oh babbo! perchè dir quest’orrore?.... ed in questi momenti?—
Alla fine anch’essa lo vide, ed era sempre al luogo, e nell’atto, e col viso medesimo, e quell’impressione che n’avea ricevuta Niccolò, quel pensiero, quella certezza istessa invase la Lisa, che provò il brivido della morte all’aspetto di quel ceffo sfigurato, e dovette torcerne il volto turandosi colla mano gli occhi, ma non pertanto vincendo tosto quel primo moto, e ritornando a sperare, gli diceva piangendo, senza guardarlo, se non tratto tratto alla sfuggita:
—Oh Troilo!.... vieni.... parla.... non senti? non udisti?.... Perchè star là ritto?... che mistero c’è sotto!.... Oh Troilo, Troilo! possibile che la tua Lisa disperata non ottenga pur una parola?...—
Ed alla fine, con impeto d’indicibile smania, esclamava:
—Ma sciagurato! dì almeno che è vero!.... che sei traditore.... uscirò almen d’incertezza!....—
Per sola risposta, Troilo si strinse nelle spalle, s’allontanò, e presto si confuse colle ombre della notte.
Lisa si fece bianca e fredda come un marmo, le cadder le braccia, e disse anch’essa:
—Era un traditore!....—
E lasciandosi andare come morta a piedi di Niccolò, colle fronte sulla terra, diceva con voce spenta:
—Ed io, scellerata, son cagione di tutto!—
—È vero pur troppo!—
Rispose il vecchio; ed i soldati cui riusciva oramai troppo grave esser testimoni di cotale scena, si mossero conducendo i prigioni verso la casa d’onde poco innanzi erano usciti.
Mentre camminavano, Maurizio, che veniva accanto a Lamberto, gli disse sottovoce con un sospiro:
—Ricortare quella sera! Io ticeva non pefere! Non pefer fine per far pace con messer Droile!.... Star tratitore! Hafefa racione pofere Maurizie?—
E Lamberto:—L’avevi pur troppo!—
Ricondotti così alla loro casa, Niccolò fu rinchiuso in una camera, le giovani in un’altra, ed in una terza gli uomini, guardati diligentemente da molti armati finchè venisse l’ora d’avviarsi tutti verso Firenze.
Il colpo era fatto: Niccolò preso, ed il capitano di questa nobil fazione, messer Benedetto de’ Nobili, che nascosto dietro le spalle de’ suoi avea gridato: «voi siete prigioni del papa» perchè non s’era fatto innanzi, perchè non s’era mostrato? Perchè il codardo non avea avuto ardire d’affrontare lo sguardo di Niccolò, come neppure a Troilo n’era bastata la vista. Sia lodato Iddio, che al cospetto di certi uomini, la fronte de’ ribaldi venduti ai potenti, dovrà, sinchè duri il mondo, cader sempre nel fango!
Ora che i prigioni eran rinchiusi e ben guardati, nè v’era il rischio d’incontrarsi con loro, entrarono in casa i due traditori, ed era con essi Selvaggia, alla quale non ci regge l’animo apporre l’istessa taccia, sin che non abbiano i suoi portamenti palesato interamente l’animo suo. E ad ogni modo, che non si perdona ad un amor come quello che la consumava, e che piuttosto dovrebbe dirsi delirio, furore o pazzia? Tanto più se si ponga mente al lungo e disperato soffrire di quella poveretta, all’offese, agli scherni, allo sprezzo, che era stato il solo suo pane (se è lecita l’espressione) dacchè avea aperto gli occhi alla luce, il cuore agli affetti? Pur troppo cotali anime entrando[756] nel mondo recan seco loro i semi d’eroiche virtù e di tremendi delitti. I casi, gli uomini ne’ quali s’imbattono, suscitano l’une o gli altri. Quindi virtù o vizio, felicità o sventura.
Sappiamo qual parte fosse toccata a Selvaggia, che votato il calice della sventura sino alla feccia dovea morir nello strazio, se una potente speranza non l’avesse tenuta viva, quella della vendetta. Per questa sola essa sosteneva la vita, pensava, agiva, si moveva, da quella terribil notte, ove sulla strada d’Empoli avea per l’ultima volta veduto Lamberto: l’avea pensata, combinata alla lunga nel segreto del cuore, nel silenzio delle notti senza sonno, nelle lunghe ore ove o fosse in quiete, o in trambusti, tra la moltitudine, o lontana da tutti, era sempre sola con quel suo perenne ed immoto pensiero, che le splendeva alla mente quasi torbida stella in un’immensità tenebrosa.
Volea vendetta, l’infelice! E l’avea a suo grand’agio meditata, e poi scelta quale, raro o mai, fu immaginata da cuore umano; l’avea, per dir così, nutricata, e con mille cure, mille stenti, condotta al punto di vederla compiuta. Il momento era giunto.
Intorno alla tavola sulla quale era ancora non tocca la cenetta apparecchiata pei poveri presi, sedettero messer Benedetto, Troilo e Selvaggia. Il primo, per guardarsi il meglio che poteva dai rischi che avrebbe forse incontrati in quest’impresa, s’era tutto inferrucciato di maglia, e di pezzi[757] d’armatura, con un petto ed uno schienale, che sulle spalle e sotto l’ascelle, per virtù di buone coregge, eran venuti bene o male a congiungersi e star a dovere: ma ai fianchi, con tre braccia in giro di pancia, erano stati scherzi a volerli far entrar nell’incastro, e rimanevano aperti, lontani un palmo l’un dall’altro, tantochè sui lati gli sarebbero stati di poca difesa. Ora poi, pel disagio, pel caldo che era grandissimo, benchè fosse notte, il ribaldo vecchio non ne poteva più e gli pareva d’aver indosso una montagna. Si cavò una cervelliera tutta bozze e rugginosa, e colle guance pallide e vizze, s’asciugava il sudore, gonfiando le gote e soffiando. Selvaggia, coperta del lucente arnese d’un uomo d’arme, non dava segno veruno di stanchezza: teneva i gomiti sulla tavola, e soprappensiero la veniva scheggiando con un coltello che s’era trovato sotto mano. Troilo, armato alla leggiera d’un picciol giaco, aveva un viso livido ed uno spavento negli occhi che metteva ribrezzo. Ma volea parer franco; parer più franco ribaldo del suo compagno, ed arrabbiava in cuore, vedendo che costui non mostrava sul suo viso di collo torto, verun’altra alterazione se non quella prodotta dalla fatica e dal caldo. Alfine, conoscendo che il suo aspetto lo tradiva, s’attaccò ad un fiasco, bevette, e pensando di volger la cosa in ischerzo, levò una risata grandissima, e che troppo appariva studiata, dicendo:
—Sapete che mi vien in capo, messer Benedetto?—vi[758] ricordate quella notte alla buca di S. Girolamo, quando vi toccai sul groppone con quelle funicelle... e fu per isbaglio, vedete!... buon per voi allora se foste stato come siete adesso, con quell’arme indosso che parete un paladin di Francia!—
—Così ci fuss’io ora alla buca, e non fossi qui:—rispose il vecchio ipocrita, che al contrario di Troilo, non provando senso veruno d’umanità, si studiava di simularne l’apparenza, con quella diversità che corre tra il birbone novizio ed il matricolato.
—Queste scene mi fauno male! proseguiva con un viso compunto.... Quel povero Niccolò! quella povera famiglia!....—
Poi con un gran sospiro:
—Ah! la ragion di stato è pur la terribil cosa! Ed il servire ad essa, servire alle leggi ed all’ordine costa di gran sacrifici!—
La presenza di Selvaggia e di alcuni soldati, che ritti sull’uscio guardavan l’entrata, persuase forse il Nobili a parlar così. Ma aveva da far con Troilo, che rifacendo il suo viso, la sua voce ed il suo sospiro, rispondeva:
—Eh! vi compatisco, povero messer Benedetto! Sono una gran cosa que’ bei sacchetti di ducati di sole.... voglio dir le leggi, e l’ordine e la ragione distato.... mi scordo nulla? il Nobili si scontorse e fece a Troilo cenno coll’occhio, quasi dicesse: «costoro ci odono» e chiedesse mercè. Ma Troilo,[759] che si sentiva in quel momento pieno d’un inesplicabil veleno, come accade a chi è costretto odiare e sprezzar sè stesso, ed avea bisogno di darsi un qualche sfogo, proseguiva con perfido riso:
—Messer Benedetto mio caro! vo’ siete già stracco e rifinito come un asino d’un mugnajo, e volete torre quest’altro disagio di tenervi sul viso quella maschera d’uom dabbene.... E se vedeste come siete sudato! vi goccian le gote come una pentola risciaquata! voi v’ammalerete. Già è inutile, vedete. Fate come fo io: sono un ribaldo, e lo dico. Sono un traditore; e che perciò! E gran capitani e re e papi e imperatori lo sono altrettanto e peggio, quando non trovano altra via. Fo i fatti miei come posso anch’io, e chi ne vuol venga avanti. Dico bene, Selvaggia?—
Ed alzandosi, non più col viso piacevole e in solo scherzo, ma a un tratto mutato in un piglio rabbioso, fedel ritratto dell’inferno che avea nel cuore, passeggiava pel salotto, e diceva, mezzo fremendo:
—Io non posso patir questi bacchettoni.... questi serpenti colla faccia d’angeli.... chi gli abbia a saper grado di cotesta fatica, non si sa, nè Cristo, nè diavolo certo!....—
E seguiva a passeggiare sbuffando e brontolando tra’ denti.
Selvaggia, poco o nulla gli badava. Il Nobili, mezzo sbigottito di quell’ira così subita e senza cagione, gli diceva, guardandolo con maraviglia:
—Oh! che cosa c’entra ora quest’adirarsi?—
Troilo gli si volse come una vipera; poi, tosto avvedendosi quanto quella sua rabbia desse in non nulla, e lo rendesse ridicolo, scoppiò in una grandissima risata sguajata e convulsa, e versando al Nobili un bicchier pieno colmo di vino glielo presentò, canterellando una canzoncina; il vecchio lo accettò, dicendo:
—Va, va che n’hai un ramo!—e bevette.
Entrò in quella Michele, il famiglio di Troilo, che era venuto colla squadra guidata da messer Benedetto, dicendo:
—C’è su vostra moglie....—
—Ci mancherebbe quest’altra! che avessi moglie!—disse Troilo ridendo.
—C’è dunque M. Lisa che non si sa più come farne bene! è buttata in terra come uno straccio in un angolo, cogli occhi fissi, stravolti, pare smemorata, e bada a dire che vuol voi, che vuol parlar con voi, e non le si può cavar altro di bocca, e la sorella e la fante le stanno d’intorno, ma pare che non capisca, e non senta, e non si può conoscere che mal le abbia preso.—
—Le ha preso il canchero, che Dio ti dia, ribaldo poltrone!—disse Troilo avventandosi col pugno chiuso al servo, che presto si ritrasse ed uscì, e Troilo gli seguiva a gridar dietro:
—Chi t? ha detto di venirmi a rompere il brutt’impiccato! son io medico o speziale? Son atto forse a guarir le donne del mal di corpo? Maladetta[761] l’ora che mi venisti tra piedi? È curiosa quest’altra.... Michele, Michele!—- gridò sempre più invelenito, e Michele ricomparve.
—Di’ a lei, e di’ a tutti coloro lassù, che noi facciamo quel che ci è stato ordinato da’ nostri maggiori.... e ce ne duole insino al cuore.... ma non si può fare altrimenti.... e va all’inferno.... e non esser più ardito di capitarmi d’innanzi se non ti chiamo. Michele sparve, e Troilo ricorse al fiasco. Il disgraziato voleva uscir di sè, per cessare un momento il tormento insoffribile che lo rodeva. Bevette, tacque, stette un poco sopra pensieri, poi a un tratto, disse con ismania:
—Si può saper almeno che ora sia? Che notte eterna! non v’è oriuolo sul campanile, non batton mai l’ore in questa maladetta terra?—
Un soldato ch’era sull’uscio, disse:
—Alle corde v’hanno impiccato quattro Cancellieri per contrappeso, ed ora toccano in terra co’ piedi, e l’oriuolo è fermo.—
Cert’altri soldati, che dormicchiavano buttati sulla paglia nel cortiletto, risero, borbottarono non so che motteggi, e tutto di nuovo fu silenzio. Il lume che ardeva sulla tavola s’impallidiva, e si facea piccino per mancanza d’olio.
Messer Benedetto s’era accomodato in un angolo, e fattosi con un pastrano un po’ di guanciale, russava, e russavan molti in cortile, per le scale e per istrada, chè era quell’ora presso l’alba in cui è più invincibile il sonno. Selvaggia, col capo tra le mani, non si[762] sapea se vegliasse o dormisse. E Troilo, che col bere avea sperato cacciare i pensieri tremendi che l’infestavano, gli avea invece, e di giunta, resi più incomposti e spaventosi, si sentiva la mente turbata e sconvolta da mille strane ed enormi immaginazioni, per le quali gli parea vedersi passar innanzi gli occhi mille paurose e sfuggevoli forme, che gli empievano l’animo d’un nuovo e puerile terrore.
La quiete che l’attorniava, la torbida luce della lucerna morente, lo funestavano: drizzava con istudiata violenza il pensiero ai guadagni che avea sperati dal suo delitto, pensava: «domani a quest’ora avrò quello che ho tanto desiderato, avrò Laudomia, potrò farne il piacer mio! poi i Medici mi faranno grande, ricco, vivrò splendido ed onorato!» Ma queste immagini a un tratto avean per esso perduto ogni colore, ogni vita, non altrimenti che se fossero state fallaci larve, evocate da un genio malefico soltanto per allucinarlo e trarlo al delitto.
Arrabbiava vedendo messer Benedetto dormir riposato, e pensava: «Egli è pur maggior ribaldo di me! Non è più bravo di me, non ha più animo... eppure... eccolo là, russa come un majale, come avesse condotta a fine un’opera santa!»
In ultimo, impazientito, rabbioso di trovarsi cotanto vile, diceva: «Eh, via, ella è pur la gran fanciullaggine! pensiamo a metterci in via, e col sole spariranno quest’ubbie di femminelle» ed accostandosi risolutamente al Nobili, lo tirò pel braccio, dicendo:
—Animo! non è più tempo di dormire, e bisogna dar ordine ad avviarsi.—
Il vecchio si risentì, e mettendo il respiro lungo lungo due o tre volte, stropicciandosi gli occhi, e dicendo: «ohi! ohi!» nel primo moversi, chè la mala positura e la pressione dell’arme l’avean tutto indolentito, pur si rizzò, e presto fu interamente desto.
Selvaggia anch’essa, che in tutta la notte non avea mai profferita parola, s’accostò, e sedette alla tavola con loro; i soldati si svegliarono, i cavallari si diedero ad ammannire le bestie, ed intanto una arietta fresca e montanina, che, entrando per la finestra, spense l’ultimo raggio della lucerna, annunciava vicina l’aurora.
—Orsù, disse Troilo, ho pensato che i prigioni gli avviamo innanzi accompagnati da’ nostri uomini e da que’ villani Panciatichi. A voi non piaccion le scene.... avete detto. A me non piaccion piagnistei. Noi verremo dietro col nostro comodo, già la montagna è sicura da’ Cancellieri, e non v’è dubbio di nulla. Quando sarem verso Prato, voi, messer Benedetto, v’avvierete a Firenze, e ne menerete con voi Fanfulla, Bindo, Maurizio e la Lisa colla fante, che rimanderete a casa, al fatto suo ho già provveduto. Non le mancherà pane. Son gentiluomo, e so quali modi si debbon tenere... Selvaggia ed io prenderemo a man manca, e andremo alla villa di messer Baccio con Laudomia e Lamberto,—con ambedue abbiamo a discorrere....[764] e non dubitare Selvaggia, che di vendetta io te ne satollerò, purchè ad ogni accidente tu mi tenga il fermo.—
—Di questo non istate in pensiero, rispose con parlar tronco la donna: poi riprese, ma se date retta a me condurrete con noi anche Fanfulla cogli altri due invece di mandarli a Firenze. Se vi vanno, saranno messi in libertà probabilmente, chè il reggimento vuol Niccolò e non loro, ed appena sciolti, loro primo pensiero sarà mettersi in traccia di noi. Sapete che anime sono.... Fanfulla pel primo... io ve lo volli avvertire.—
—E troppo facesti bene! Oh! vedi, pazzo ch’io ero, non v’avevo posto mente! e se non eri tu potea succeder una bella danza. È vero che essi son quattro, e noi con Michele tre: ma essi son legati e senz’arme, e noi armati.... potremmo condur con noi uno o due di questi soldati... ma... a dirtela.... meno siamo e più l’ho caro.... ed in certi casi, quando si può far a meno d’aver testimonj, è sempre meglio... No, no, soli tra noi! Eh, diavolo, sarebbe una vergogna!.... Ehi, Michele! (gridò chiamandolo) portami dell’acqua!.... non so.... mi sento stonato.... che sia quel maladetto vino... mi sento un’arsura!.... sarem fuori una volta di queste maledette mura!—
Venne l’acqua, bevve, e si rinfrescò il viso, ed intanto i loro cavalli erano comparsi all’uscio. Troilo, il Nobili e Selvaggia si misero in sella, e lasciato l’ordine agli uomini d’arme ed a Michele del modo[765] che dovean tenere nell’avviare i prigioni, voltarono per le strette vie di Gavinana in un luogo fuor di mano, di dove potean scoprire quando questi si fossero messi in istrada, con animo poi di venirli seguitando alla lontana.
La strada che da Pistoja conduce a Firenze, passando per Prato, si mantiene quasi sempre a breve distanza dal piede di quella catena di monti, che chiude a tramontana la valle dell’Arno. I molti gioghi che si diramano dalle vette sassose ed aride dell’Appenino, scendono a grado a grado sino alla pianura, formando dapprima dirupati e tortuosi burroni, poi fresche vallette ombreggiate da folti castagni, e s’allargano alla fine in ondulate convalli ricche d’ulivi e di vigne, tra le quali biancheggiano, sparse per la costa, ville e casali. Le falde di cotesti gioghi, che s’estendono quali più quali meno nel piano, ora si perdono insensibilmente con un dolce pendìo, ora a guisa di promontorj vi si scoscendono con angoli risoluti. A tre miglia da Prato, sovra un poggetto isolato, sta M. Murlo, castello degli Strozzi, d’onde messer Filippo[767] e Baccio Valori, alcuni anni dopo l’epoca che trattiamo, furon condotti, questi al boja, quello al carcere, che aveva co’ suoi danari ajutato edificare, e dov’ebbe al fine volontaria tomba. Così (in questo mondo, se non nell’altro) saldarono il conto che aveano colla patria tradita da loro.
Passato M. Murlo, s’interna verso i monti un largo seno a guisa d’anfiteatro, e vi siede nel fondo, assai bene elevata sul piano, la villa che allora era di Baccio Valori, oggi della famiglia Tempj, nominata il Barone. A quel punto della strada maestra, d’onde si comincia a scoprire M. Murlo, giunse la compagnia che conduceva Niccolò cogli altri prigioni, l’indomani della loro partenza di Gavinana quando, già tramontato il sole da una mezz’ora, si spandean per l’aria i tocchi delle campane, che ora di qua, ora di là, nelle circostanti terre, sonavan l’avemaria. Quali pensieri sorgessero ne’ cuori de’ nostri afflitti all’udir quel suono, può immaginarlo chi è capace di sentir la soave ed affettuosa bellezza di questi versi:
Era quell’ora che volge il disio
De’ naviganti, e intenerisce il cuore
Lo dì ch’han detto ai dolci amici addio.
E che ’l novello pellegrin, d’amore
Punge, s’egli ode squilla di lontano
Che paja il giorno pianger che si muore....
Ed all’orecchio dei nostri traditi quel suono dovea sembrar compianto di ben altre sventure!
Camminavan taciti, stanchi, il vecchio e le donne più degli altri, per la lunga via, per il materiale disagio, e per le agitazioni del cuore; e da quelli che li conducevano eran tenuti scostati gli uni dagli altri, cosicchè neppure avean il conforto reciproco degli sguardi e delle parole.
Troilo, che veniva indietro con messer Benedetto, parendogli giunto il tempo di separarsi, si fermò con Selvaggia, e, dato un cenno del quale era d’accordo co’ suoi uomini, si fermarono anche costoro tenendosi in mezzo Laudomia, Lamberto, Maurizio, Bindo e Fanfulla; Niccolò, la Lisa e M. Fede proseguiron, senza avvedersi di nulla, verso Firenze, ed il Nobili, punto il ronzino, presto gli ebbe raggiunti.
Troilo, che non voleva i suoi prigioni sapessero ov’eran condotti, avea dato a Michele gli ordini opportuni, cosicchè non appena fermati, ebber bendati gli occhi; furon fatti smontare (salvo Laudomia alla quale si contentarono di coprir gli occhi) ed i loro cavalli venner condotti da uno di que’ ribaldi alla truppa che andava innanzi con Niccolò. A queste operazioni, che non presagivan nulla di buono, i prigioni non fecer contrasto, non opposer difesa. Che potean essi fare? Avean le braccia strette sul petto da funi avvolte a molti giri, e neppur vollero far allegri i loro nemici con impotenti furori. Tacevano, ed aspettavano la morte, chè al certo credettero si volesse lasciarli scannati in un qualche fosso. Sentirono invece mani che, tastandoli[769] per la persona, tentavano le funi, ne stringevano e raddoppiavano i nodi. Coi capi delle corde vennero poi legati tutti insieme, due innanzi, due dietro: una voce gridò camminate! e s’avviarono. Michele conduceva a mano il cavallo di Laudomia. Alcuni uomini della compagnia eran rimasti per ajutare questi apparecchi: finiti che furono, Troilo gli licenziò, e anch’essi se n’andarono e raggiunsero i primi.
Troilo co’ suoi, giunti dopo un cinquanta passi al ponte alle Troje (è brutto il nome, ma non è colpa nostra) ove, per condursi al barone, conveniva lasciar la strada maestra, e passato il ponte, prender a mancina per una via stretta, Troilo, dico, ordinò a Michele che, fermati i prigioni, desse loro due o tre giravolte, onde perdessero la direzione, ed il medesimo fu fatto al cavallo di Laudomia. Poi rimessisi in via, dopo un’ora di cammino giunsero al cancello della villa. Era notte chiusa affatto.
Due grossi mastini udito il calpestio si gettarono con furore alle sbarre ringhiando e latrando, ma una figura comparsa di dentro entrò tra loro e ’l cancello, li cacciò a calci, dicendo, con voce bassa e concitata «Alla cuccia Grifone!...in casa subito. Alano!» ed i cani brontolando nella strozza pur si ritrassero. Fu aperto il cancello, entraron tutti, ed i bendati udiron il suono tronco e sonante de’ battenti che si richiudevano. Seguitarono innanzi, ed intanto Troilo e Selvaggia si fermarono con quello[770] che gli avea introdotti; custode ora della villa, malandrino un tempo, salvato dal padrone dalla taglia del capo.
—Benvenuto Signoria! disse costui, messer Baccio m’ha mandato un uomo apposta per avvisarmi che voi venivi, e ch’io v’avessi ad ubbidir in tutto. Comandate dunque. Io intanto ho apparecchiato il meglio che potevo. Ma in questi luoghi c’è da star male. V’adatterete.—
—Eh! di poco abbiam bisogno.... Oh! prima di tutto, come ti chiami, valentuomo.—
—Mio padre, che tenea osteria in Maremma.. verso Vada.... non sarete pratico?..... quell’osteria che si chiama la Forca de’ Preti?.... mi fece battezzare per Giovanni. Poi fui colla famiglia del bargello di Pisa, e mi chiamavano il Caporal tempo cattivo. Ora questi contadini, quando non mi stanno sotto mano, mi dicon lo sbirretto, quando fanno motto con me, mi dicon ser Vanni. A voi, quel che vi par migliore.—
—Dunque ser Vanni mio, disse Troilo sorridendo, io son venuto a star con te un giorno... al più due. Prima d’ogn’altra cosa, vi sarebbe una stanza, una cantina, un buco, ove fosser buone porte e buone ferrate per chiuder costoro che hai visto passare, e son legati come salami, se non te ne fossi avveduto?—
—Eh, ne volete delle camere a uso carcere! non vedete?... il palazzo da cap’a piede è tutt’una prigione, e’ pare il mastio di Volterra.
—Bene. E una. Poi, hai veduto? v’era una gentildonna a cavallo. A costei la miglior camera e ’l miglior letto, insomma, il meglio che tu hai.—
—Eh! non c’è altro che metterla nel camerone giallo, dove stava la nonna di messer Baccio, almeno così ho inteso dire da certi vecchi qui intorno.... anzi, dicon che ci si sente[71].... io per me non m’avvidi mai di nulla.... è vero ch’io non ci dormo, e sto nella casa del contadino qui un pò discosto. Pure raccontano una certa diavoleria di questa signora a’ tempi di Cosimo il vecchio, d’un pievano che veniva per casa, e un bel giorno scomparve, e voglion che per gelosia costei lo chiudesse giù in una fossa ne’ fondamenti; e da una gola di trabocchetto che metteva in camera sua gli calava con una fune un pò di pan muffito, e poi non gli calò più nulla.... e tant’anni dopo devon averlo trovato con le mani tutte rosicchiate, secco, stirato come la camicia d’una cicala.... e ora dicon che la notte di S. Giovanni li vedon tutt’a due a far il giro del ballatojo sotto i merli, e poi tombolano giù in quella fossa.—
—Poco male se non c’è altro, che di qua a San Giovanni c’è tempo. Ora dunque pensiamo a racchiuder costoro, e raccapezza qualche cosa da dar loro mangiare, ch’io non intendo usar con essi come la nonna col prete.... saette! non vorrei io pure,[772] quando fossi morto, aver a ballar il trescone su pe’ merli con esso loro alle coste.—
—Oh! dunque son prigioni da trattarsi bene—domandò lo sbirretto con un certo fare, che mostrava con quanta indifferenza avrebbe eseguito l’ordine di stringer loro il collarino.
—Cioè, rispose Troilo volgendosi a Selvaggia, tre di costoro, sì. Il quarto, questo mio compagno ne farà il piacer suo, e.... se si trattasse....—
—Oh! per me è tutt’una, rispose presto l’altro per levare a Troilo l’incomodo di spiegarsi.... sapete come si dice, sto coi frati e zappo l’orto.... quel che m’ordinerete, tanto farò, nè più ne meno.—
—Uomo più comodo non si potea trovare a stamparlo apposta, disse Troilo avviandosi, preceduto dal custode che gl’insegnava la via. Michele cogli altri, non conoscendo i luoghi, s’era fermato aspettando su un pratello avanti la villa; raggiunto da Troilo e da Selvaggia, si disposero finalmente ad entrare in casa.
Ma qui, non per la smania delle descrizioni, ma per l’intelligenza di quanto abbiamo a narrare, bisogna dir qual fosse questa villa, o castello, che lo vogliam chiamare: come ognun sa, le ville di que’ tempi avean dell’uno e dell’altro.
La pianta dell’edificio era un quadrilatero più lungo pel verso della facciata che sui fianchi: voto nel centro, ov’era il cortile circondato da un portico: in un angolo, il pozzo con due colonnelli[773] di sasso, ed un architravetto in traverso dal quale pendea la carrucola. La facciata, tutta di dadi di travertino, non avea che poche finestre a grandi distanze, con ferriate di rete così stretta che vi sarebbe passata una mano malvolentieri. Al portone, alto un uomo e mezzo da terra, si saliva per quattro rami di cordonata che s’intersecavano, e sui quali crescevan vigorose ed intatte ortiche, pruni e mill’altre erbacce: la porta di quercia, tutta vestita di piastra di ferro, fermata con grandissimi aguti, al di sopra verticalmente una torre poco più alta del resto della casa, e la cima d’ambedue guernita d’un ballatojo retto da archetti e coronato di merli ghibellini.
Entrando, vaneggiava sul capo l’interno della torre, e dall’alto, ov’era un soppalco, avrebbero all’occorrenza, potuto i padroni di casa fare a loro grand’agio la chierica a chi intendesse venirne a loro con una visita importuna. L’aspetto di codesta villa, quantunque trasformato dalle ispirazioni michelangiolesche d’un architetto del 600, serba tuttavia molti indizj dell’antica struttura. La pianta dell’edificio è la medesima: la torre sopra il portone tosata de’ suoi merli, serve all’orologio. I travertini della facciata rimangon visibili ancora sugli angoli, e persino nell’ultima camera del terreno a sinistra è ancora letto e mobile di seta gialla, come se la prescrizione v’avesse dato l’esclusiva ad ogni altro colore. Picchiando poi intorno per le pareti, ci venne udito in un luogo un suono di vôto,[774] Forse era costì il trabocchetto, ma non lo vogliamo asserire.
Troilo, prima d’introdurre i suoi prigioni, volle cogli occhi suoi proprii veder i luoghi; disse a Michele che soprastesse alquanto, chè costoro, bendati e legati, non sapendo se fosser guardati da pochi o da molti, non pensavan a moversi. Lo sbirretto mise a tentone un’enorme chiave nella toppa, che per la ruggine vi si sforzò dentro un pezzo scricchiolando prima che aprisse. Aperse alla fine ed entrò il custode con Troilo e Selvaggia: prese una lanterna, che avea lasciata accesa in un angolo, e volto a man manca salirono quattro gradini ed entrarono nel quartiere che solevan occupare i padroni: dapprima era un’anticamera piena di ritratti di famiglia; quali in lucco, quali in corazza, alcuni in vesta da prete; in una delle pareti una rastrelliera piena d’arme in asta, di spade, e d’arnesi da guerra: poi una gran sala di ricevimento, in ultimo la famosa camera gialla parata di dommasco giallo (per quei tempi era gran lusso) letto a colonne ritorte di noce scuro, e casse e seggioloni e stipi, insomma, mobile di tutta l’eleganza del quattrocento.
Quando v’entrarono videro, al lume della lanterna, svolazzar pel soffitto e per le pareti molti grandissimi pipistrelli. Disse lo sbirretto con istizza:
—Maledetti! escon di qua dentro!... se non voglion chiudere questi sportelli!—
Ed accennò un’apertura nel muro a modo d’armadio, poco lontana dal letto, sotto la quale era un inginocchiatojo. Troilo accostandovisi, s’accorse che non era un armadio, ma piuttosto somigliava ad un pozzo. Su in alto pendeva una puleggia colla sua corda che si perdeva in quel buco, d’onde saliva al viso il vento fresco ed umido che esce dalle cantine, con un tanfo di muffa e di terra umida, e scuotendo così un poco quella corda, udì un picchiar cupo di cosa soda che percuotesse contro le pareti, e pareva venisse di mezzo miglio sotterra. Si volse alla sua guida, che spalancate le finestre badava a cacciar i pipistrelli, e disse sorridendo:
—Qui forse stava l’amico?—
—Costì, costì... per quel che dicono.—
—E dove riesce questo pozzo?—
—Chi lo sa? A buttar la casa sottosopra forse si troverebbe; chè in tutte le cantine e ne’ sotterranei non si trova segno d’uscio, o d’altro passo che entrasse qui sotto. E poi, un giorno volli veder quant’era lunga la corda.... Eh ehei! va giù due volte, a dir poco, più del piano delle cantine.—
—Oh! non dici che quel tale fu trovato dopo molt’anni.—
—Son cose che si dicono da questi vecchi.... ma chi l’ha vedute? nessuno.—
In quella altri pipistrelli uscendo dal pozzo batteron coll’ali e nel petto e nel viso a Troilo, che arrestandosi, con ribrezzo si ritrasse, e presi i due sportelli li richiuse con forza, tanto che pur rimasero[776] a luogo; vide allora che erano dipinti ed ordinati in modo da formare un dittico nel quale eran due santi, ed una sottil colonna che li divideva avea servito a nasconderne con molt’arte la commettitura, quando i battenti non erano, come adesso, tutti fessi ed imbarcati.
—Oh! oh! disse Troilo: dietro la croce c’è il diavolo, come dicon gli spagnoli.... e qui, dietro i santi, c’era il pievano!.... Orsù, lasciamolo dove sta e pensiamo a noi. Qui dunque per la gentildonna. Sta bene.... ma.... che cos’è là su quella tavola? bravo, Vanni mio.... vino, frutte... Lo sai che sei un gran valentuomo.... se fossi papa ti farei cardinale. Ora andiamo a veder il quartiere per quest’altri.—
Lo sbirretto, dopo aver acceso due lumi, che lasciò quivi, riprese la sua lanterna, ed avviatosi innanzi ritornarono in cortile. In faccia al portone era nel fondo una porta nana, alla quale si scendeva per un incavo fatto nel suolo. Aperta anche questa con qualche difficoltà, il terreno seguitava in pendìo, pochi passi, per una specie d’andito, pel quale vennero in un luogo a volta, spazioso, che girava sotto il portico, dal quale ricevea la luce per mezzo d’aperture quadre a livello del lastrico, chiuse da buone spranghe di ferro. Qui eran botti, legnami, travi, attrezzi, un pò di tutto.
—Se voglion fuggir di qui.... padroni—disse lo sbirretto; nè Troilo o Selvaggia, dopo aver guardato e girato quanto era lungo il sotterraneo, poteano muover dubbio sulla sicurezza d’un simil carcere.
—Sei contenta? disse Troilo alla donna; io ho aggiustato i fatti miei: da buon compagno, vo’ che tu aggiusti i tuoi.—
—Per me son contentona. E volgendo l’occhio in giro disse, battendo il piede: «Qui per Dio, sarò io padrona!.... Qui la cortigiana si potrà maledirla; ma riderne, ma schernirla!....»—
—Brava Selvaggia! mi piaci... e quasi quasi.... sto per dir che t’invidio... e pure, anche la parte mia non è da buttar tra la spazzatura! ma aver un nemico che ve n’ha fatte di quelle che dico io!... averlo seguitato alla lunga... appostato... e finalmente... c’è perdio!... l’ho in mano, sotto i piedi... è roba mia! lo posso far morir in dieci anni, in un attimo, come voglio! e nè cielo nè inferno me lo posson levar di mano.... Eh! t’invidio; ti invidio.... sappine godere.... chè a pochi capitan queste venture.—
—E così farò, disse tra’ denti Selvaggia: poi accostatasi a Vanni gli disse—Tre di costoro li legherai qui a diritta voltato l’angolo del muro, tantochè non vedano quell’altro... ti mostrerò poi quello che avrai a legare qui a manca a quell’anello, costà tra quelle due botti.... ha’ tu inteso?—
—Ho inteso.—
—Ora andiamo per essi—dissero ad una voce Troilo e Selvaggia, ed il primo soggiunse:
—Chè tu ed io ce li siam molto ben guadagnati... d’una cosa però son curioso—disse Troilo fermandosi—di veder domattina che cosa hai saputo[778] fare dì bello. Al tempo de’ tuoi antichi le donne del popolo eletto ne sapean trovar delle nuove in fatto d’ammazzar cristiani.... non foss’altro, che quella gentildonna che mise un chiodo per l’orecchio a quel capitano che dormiva in casa sua.—
—Ed io, rispose Selvaggia, d’un’altra cosa son curiosa... di saper domani che modo avrai tenuto a far che quella bellezza, quell’angiolo, s’innamori d’un par tuo.—
—Per dirtela com’è... ora che viene il buono.... mi trovo più impacciato ch’io non pensava. Con questo maladett’assedio... e star sempre tra’ frati e l’archibusate, mi sono scordato come si principia per dir quattro paroline ad una bella giovane. Non c’è peggio che star fuori d’esercizio! Oh! che le si dice ora a quest’altra? Pensa come sarà invelenita!... e sperar che dia retta e tenerezze! sì, aspetta!... Eh! mi ci proverò.... a ogni modo di qui nessuno ci caccia, e abbiam tempo d’avanzo, e se volesse intender la via agevole, l’avrei caro.... in cose d’amore la forza guasta tutto.... Se poi non volesse capir la ragione.... allora poi.... dovrà dir mio danno, ed a tant’altre sarà accaduto di peggio... e, per dirne una, ti ricordi di que’ tuoi maggiori della tribù di Beniamino.... e della moglie di quel loro pievano.... vo’ dir, levita.... Be’.... non istette peggio costei?—
Troilo tirava per le lunghe con queste chiacchiere, attraversando senza fretta, a passo a passo, il cortile. Venuto al punto di doversi mostrar senza[779] maschera ad una creatura così nobile, così elevata, che s’era avvezzato a veder cotanto venerata da tutti, e che con un suo sguardo l’avrebbe atterrato, si sentì goffo, impacciato, provava un inesplicabile sbigottimento: eppure retrocedere non poteva. Che avrebbe pensato di lui Selvaggia? Che avrebber detto i suoi amici, ai quali tosto o tardi dovea venir notizia del fatto?—
Era destino di questo ribaldo d’esser pervertito, e reso sempre più scellerato da una vanità sciagurata. Per guadagnar tempo e rinfrancarsi meglio gli spiriti, ne pensò un’altra. Volto allo sbirretto, gli diceva:
—Senti, Vanni, penso una cosa.... codesta gentildonna che aspetta costà fuori.... tu già a un di presso avrai capito.... ch’ella non è qui con noi di sua voglia... non vorrei andare a lei così subito a brutto muso.... ci fosse una donna.... non avresti mai moglie per caso?—
—L’ebbi: ma a Ceppo[72], farà l’anno, che ’l Pievano è venuto per essa.... e qui non v’è di femmina che la chiave del portone.—
—Non c’è rimedio—disse Troilo tra’ denti; poi ad alta voce:
—Faremo senza: ora andiamo.—
Chiamò Michele, e gli disse:
—Condurrai qui madonna; quand’avrà scavalcato, la condurrai in quella camera che vedi laggiù[780] in fondo. Le farai animo, le dirai non dubiti di mal nessuno, e toltale la benda, la lascerai sola.... e qualunque cosa ti domandasse non le risponderai a nulla. Quand’esci chiudila, e portami la chiave.—
Selvaggia allora volta allo sbirretto, disse:
—E tu conduci costoro costà sotto, e legali come t’ho insegnato.—
Fattasi poi sul ballatojo innanzi al portone, gli mostrò Lamberto, ed aggiunse:
—Costui è quello che devi legare in disparte tra le due botti.... Però, aspetta che si sia dato assetto alla donna.—
Michele scese sul pratello, e preso per la briglia il cavallo di Laudomia lo menò sotto il portone, e colla voce più melata che potè, le disse:
—Madonna, siate contenta scavalcare ch’io son qui per ajutarvi.—
—Oh Dio! abbi pietà di me!... di noi, disse la poveretta sollecitando ubbidire, per fuggire appunto d’esser ajutata. Quando fu in terra, Michele la prese per la mano, dicendole:
—Non temete di nulla; nessuno vi vuol offendere.... venite con me.... badate.... son quattro scalini.... ora è tutto piano.... venite pur liberamente....—
E condottala nella camera gialla, dopo due minuti uscì, chiuse l’uscio, e diede a Troilo la chiave, dicendo:
—Par più di là che di qua.... e se non trovate[781] modo a consolarla.... la vedo e non la vedo!.... che non fosse come cert’uccelli, che in gabbia non voglion mangiare, e dopo due ore stiran l’ale, ed escon de’ guaj.—
Troilo non rispose, ma fece l’atto impaziente di chi ode cosa che gli dia noja.
Venne allora lo sbirretto conducendo i quattro legati; quando furon dentro, chiuse il portone, e poi li condusse dove gli era stato ordinato, e poco stante ricomparse anch’esso, e consegnando a Selvaggia la chiave, disse:
—È fatto. Ora volete che si mettan qualcosa sullo stomaco, m’avete detto? Lasciatemi arrivar sin a casa.—
Uscì. Dopo un quarto d’ora tornò con un paniere, e disse:
—V’ho tenuti a disagio.... abbiate pazienza.... ma è un pò lontano dov’io sto.—
E portata la provvigione ai prigioni venne a domandar a Troilo se gli occorreva altro.
—No, rispose questi, va, e domattina lasciati rivedere a levata di sole.—
Lo sbirretto diede loro la buona notte con un sorriso espressivo, e disse:—Chiudetevi, e mettete la stanga, chè in questi paesi seminan fagiuoli e nascon ladri. Poi se n’andò pe’ fatti suoi, e i due rimasti misero la stanga al portone: guardandosi allora in viso, disse Troilo:
—Se non siam sicuri qua entro, pazienza!—e mettendo un lungo respiro:
—Oh! ci siamo: a noi Selvaggia, e ognun pensi a’ fatti suoi.—
Egli s’avviò alla camera di Laudomia, essa al sotterraneo, colla chiave in una mano, e nell’altra la lanterna dello sbirretto.
Quando fu entrata, Fanfulla, che la credette il carceriere, le disse:
—Ohe maestro! tu ci porti da rodere, e ci lasci colle mani legate! credi tu che noi becchiamo come i piccioni?—
Selvaggia non rispose, ed andò diritto ove Lamberto s’era seduto in terra, pensando muto e disperato a Laudomia, e pregando Iddio che l’ajutasse, la salvasse Egli, dacchè si trovava di non poterla in nessun modo ne ajutar nè salvare.
Selvaggia, fermataglisi dirimpetto, alzò la lanterna tantochè le illuminasse il viso; poi disse:
—Son io!.... Mi riconosci Lamberto?—
A Lamberto, riconoscendola, cadde il cuore in terra: uscì poi di speranza del tutto, ricordandosi qual fosse costei, come si fosser lasciati l’ultima volta, e tutto doloroso, disse in cuor suo:
—Oh Dio! Dio! che Laudomia è in mano di questa furibonda!....—
Non ardì parlare, non sapendo che dirle, e temendo far peggio, e la guardava con occhio pieno d’ansia indescrivibile.
Selvaggia depose in terra la lanterna: intrecciò sul petto le braccia quasi per comprimerne l’ansar frequente che appariva malgrado la corazza e con[783] voce che penetrò il giovane sin nelle midolle, disse:
—Ti ricordi, giovane, di qual amore t’amò Selvaggia dal giorno che ti conobbe?.... ti ricordi, in riva al Po quella notte, con quante preghiere.... e furon umili, Lamberto!.... ti chiese, non amore, chè se ne stimava indegna, ma un pò di compassione?.... Te ne ricordi?.... Gliel’accordasti? No, gliela negasti.... s’adirò Selvaggia? ti maledisse? no. Ti benedisse e s’allontanò, nè più ti dette noja pensando, io non son degna neppur di tanto.... La povera Selvaggia non uscì perciò di speranza. Senza che tu il sapessi, o te ne potessi avvedere, s’informò di te, seppe dove andavi, ti tenne dietro, ma non ti si accostò più mai sino a quel giorno della battaglia, quando vide una picca spinta a passarti il cuore.... e non avevi rimedio sai!.... Te la riparai col petto, ed il gelo di quel ferro che m’entrava nelle viscere mi parve una delizia..... tu eri salvo ed io finivo di patire.... così credei allora.... Disgraziata! non avevo neppur cominciato! Travolta in mare, poi moribonda nella sentina d’una galera... poi nel lezzo d’un ospedale.... poi nel fango d’una strada.... poi a strascinarmi inferma per miglia e miglia... sotto la pioggia, al vento, al freddo.... colla fame.... lo stento.... e sempre avanti, e sempre a sperar in te.... non amore.... lo sai.... te l’ho detto.... ch’io non son pazza quale mi credi.... non amore, ma pietà.... ma una parola, uno sguardo di compassione.[784] Giungo a Firenze, m’adopro, m’ingegno in mille modi; soffro, aspetto.... alla fine ti trovo.... sai come tremavo a cominciar a parlare.... mi pareva essere innanzi ad un Iddio.... e mi facevo piccola... umile... mi mettevo sotto i tuoi piedi.... E tu avesti cuore.... non ti vergognasti d’oltraggiarmi.... Ma come non te ne vergognasti?....—
E la poveretta colle mani tese verso Lamberto, rimase immobile e muta alcuni secondi.
—Tu mi facesti il peggio che tu potevi: m’avessi uccisa.... ti ringraziavo, ti benedivo..... ma tu m’hai vilipesa, sprezzata. Volli mostrarti che si può odiare, uccider Selvaggia, ma non isprezzarla. Volli vendetta, e l’ho cercata, ho passato i giorni, ho vegliate le notti per ordinarla; e l’ho alla fine.... Laudomia o qui.... tu sei qui.... tutti siete in poter di Selvaggia, della cortigiana, del rifiuto del mondo, di quella che tutti calpestano, che tutti odiano, che non ha trovata mai anima, mai cuore... neppur quello del padre... che le donasse un affetto...—
Qui strappò dalla guaina il pugnale, che Lamberto credette volesse piantargli in cuore, e sopraffatta dalla passione, proruppe in un pianto desolato, dicendo:
—E neppur ora potrò ottenerlo!....—(Ed intanto tagliava le funi che legavan Lamberto).
—Neppur così, dandoti vita, libertà, salvando Laudomia che ami, potrò impetrar quella mia prima preghiera, che tu m’abbi cara come il tuo veltro, come il tuo palafreno?—
E mentre con voce non più severa, ma umile e supplichevole, finiva queste parole, Lamberto sciolto dalle funi, s’era, con impeto di gratitudine, di pietà, d’ammirazione, prostrato a’ suoi piedi, ed abbracciando gli stinieri della donna, esclamava con voce interrotta:
—Angelo salvatore!....—
Selvaggia levò al cielo le palme tremule per la gioja, apparì sul suo volto un’espressione tutta nuova, pura e serena, e disse:
—Dio di misericordia!.... finalmente ti benedico anch’io.... ti ringrazio d’avermi creata....—
E rimasta così immobile, e quasi estatica alcuni momenti, lasciò cader le braccia, e soggiunse, quasi parlando a se stessa:
—Avevo tanto patito!....—
Riscossasi a un tratto, disse, risoluta e con prestezza:
—Su, Lamberto, non è tempo da perdere. Sappi che Troilo dopo avervi traditi tutti, ha fatto scellerato disegno su Laudomia, ed è con essa in questo castello. Non v’è dubbio che noi non arriviamo in tempo. Egli non volea usar la forza se non agli estremi. Andiamo a scioglier quest’altri, e tutti insieme corriamo a liberarla.—
E mentre parlava se n’era andata con Lamberto nel fondo del sotterraneo ov’eran i prigioni legati e sollecitava tagliar le loro funi, mentr’essi sbalorditi, nè sapendo che pensare, con confuse e frequenti parole, ora ringraziavano, ora interrogavano,[786] e Lamberto anch’esso prestissimamente lavorando li veniva sciogliendo, e diceva, affannato e contento:
—Vedrete.... saprete poi.... è un angelo mandato da Dio.... presto, presto.... che quel traditore non ci può fuggire....—
E diceva loro di Troilo, de’ suoi disegni, e ch’egli era quivi con Laudomia.... tantochè, non appena si trovaron liberi, si slanciarono tutti in truppa fuor del sotterraneo, col cuore pieno d’indegnazione contro quello scellerato, e senza pensare o curarsi ch’erano disarmati, correvano per isbranarlo coll’ugne e co’ denti. Ma la fortuna avea pensato a provvederli, ed entrati nella prima anticamera s’accorsero della rastrelliera piena d’arme, ed ognuno ne prese una, il solo Lamberto, senza arrestarsi o pensare ad altro, s’era con Selvaggia gettato all’uscio della camera gialla, che Troilo, lontano d’ogni sospetto, non avea chiuso che col saliscendi.
Aprirlo, slanciarsi su Troilo, afferrarlo pel collo, averlo sotto i piedi, fu per Lamberto cosa d’un attimo.
Il traditore, al punto ch’erano entrati, si trovava a mezzo la stanza, discosto da Laudomia, la quale stava sul davanzale del trabocchetto aperto, in atto di volervisi buttare, ed assai appariva, che lo sciaurato, perduta ogni speranza di venir a capo del suo disegno in altro modo che colla violenza, avea ridotto, quell’infelice a quest’ultima disperata difesa.
Intanto, e quasi subito, eran accorsi i compagni, e Maurizio alzava una mezza spada sul capo al caputo, e l’avrebbe morto, se non che Lamberto gridò:
—Fermo, Maurizio!—
Ed il servo calò il colpo in terra ritraendosi con istizza.
Per alcuni momenti nessuno profferì parola. Il traditore spaventato, anelante, colle luci degli occhi fuori del punto, pallido come la morte, era sempre stramazzato e tenuto ora da Fanfulla ora da Bindo. Lamberto l’avea lasciato per correre a Laudomia, che di seduta ch’ella era s’era lasciata cader ginocchioni, e bianca come una statua di cera, alzava gli occhi al Cielo per ringraziarlo, e lo ringraziava col cuore, chè colla voce non poteva la poveretta.
Lamberto le s’inginocchiò accanto, ed essa gli si abbandonava sul collo. Rimase così un momento tra ’l sì e il no di venirsi meno. Selvaggia arrecò del vino ch’era sulla tavola; Laudomia ne bevve un sorso, e dopo un poco le ritornò sulle guance il color della vita.
—Sei salva amor mio!—le diceva Lamberto, e le fibre del suo volto tremavan tutte per la piena dell’allegrezza.
—Oh andiamo, per l’amor di Dio!—disse Laudomia con voce spenta, chè la vista di quei luoghi, e di Troilo le metteva troppo ribrezzo: e sollevandosi a stento, ajutata da Lamberto e sorretta[788] anco da Selvaggia, si tolse di là, e con mal sicuri passi si strascinò nella camera vicina, ove lasciandosi andare sfinita su un seggiolone, posava le mani su gli omeri di Lamberto che le stava a piedi, guardandolo con ineffabil espressione d’affetto. La povera Selvaggia, a passi indietro, si veniva ritraendo, e che provasse in cuore a quell’ora lo pensi il lettore. Disse Lamberto:—E lo sai chi m’ha liberato, chi ti ha salvata la vita e l’onore? Costei... quella di chi t’ho parlato... quella che avevi tanto nel cuore... Selvaggia.—
—Oh!... È Selvaggia costei!...—
Disse riscuotendosi Laudomia; e in un subito le ricorse alla mente tutta la sua miserabile istoria, pensò all’angoscia che dovea provare a vederla a quel modo con Lamberto, ritrasse le braccia con moto istantaneo e quasi timido, e giungendo le mani in atto di preghiera, le si volse con viso che implorava perdono, dicendo:
—Oh Selvaggia!.... Io non potevo saperlo!....—
—Sì, son io, rispose questa avvicinandosi, e la sua voce, il volto, l’atto della persona, assai mostravano in qual terribile travaglio stesse il suo povero cuore. Son io, proseguiva, che ebbi un lungo.... orrendo pensier di vendetta contro Lamberto..... contro voi...... ma..... dissi a me stessa «che cerchi, sciagurata, da tant’anni? Trovar chi non t’odii, non t’abbia in dispregio.... Trovar un cuore che t’ ami.. se non amore....[789] affetto almeno.... goder prima di morire, una volta.... una sola volta d’una parola, d’uno sguardo amico. E speri ottenerlo per questa via? ottenerlo colla vendetta?»....—
—Eccola quale è stata la mia vendetta!... Ditemi: Avrete cara almen voi quest’infelice?... Posso sperarlo questa volta?—
Laudomia volle alzarsi e correr nelle sue braccia, ma le falliron le forze e ricadde seduta, stendendo pur sempre le palme verso Selvaggia, che si gettò con un grido di gioia tra esse, e le due donne rimasero lung’ora avvinte in un caldissimo abbraccio.
Troilo intanto era sempre in terra: troppo superbo per raccomandarsi, o scender ad atto alcuno di viltà, taceva ed aspettava la morte. Fanfulla, e più di tutti Maurizio, si sentivan pruder le mani, ed avean gran voglia di dargli lo spaccio e finirla; ma li rattenne il rispetto di Lamberto, che tanto risolutamente avea comandato al servo di non toccarlo. Questi però non potè tenersi che non gli dicesse, scrollando in aria il dito verso di lui:
—Rincraziare, rineraziare messer Lamperte.... se non era mie patrone, ti ora star già a pruciare giù con der Teufel.—
Troilo gli lanciò un’occhiata piena egualmente di rabbia e di sprezzo, poi disse, senza guardar in viso nessuno in particolare:
—Vantatevi di quest’impresa. Quattro contro uno.... e coglierlo alle spalle e sprovveduto.... è degna di voi.... Già sapevate che a darmi tempo[791] ch’io voltassi il viso non bastavan otto come voi altri a fermarmi.—
—Sozzo ribaldo! gridò Bindo, e con una spinta allontanò Fanfulla, onde Troilo rimase libero; prendi la tua spada, e s’io non basto solo, tu non sei traditore.—
Troilo non ebbe appena tempo di rizzarsi e gettar la mano sull’elsa, che già Maurizio e Fanfulla l’avean di nuovo afferrato.
—Tu sei pazzo Bindo, disse quest’ultimo, tu metterti con questo ribaldo? Dove c’è Fanfulla di queste non ne succedono.—
In quella era entrato Lamberto; aveva udito il diverbio, e disse con impeto:
—E perchè non avrebbe a succedere? non con Bindo... ma con me, che ho più bisogno del sangue di costui, che non dell’aria per respirare; che darei la vita per tagliarlo a pezzi, e non sono un ribaldo par suo da voler vantaggio, o giovarmi della sorpresa.... del tradimento!—
—Ti facevo di maggior giudizio, Lamberto, disse Fanfulla, ed impugnata la spada di Troilo la sguainò, ch’egli validamente tenuto per le braccia non potea far contrasto, poi soggiunse:
—Codesta tua spada onorata lordarsi toccando quella d’un traditore! S’io lo consento possa io far un’altra volta il mestiere a piedi.... possa rompere il collo com’io rompo questa lama.—
E puntando in terra la spada, la spinse, dandole un pò di volta, e la fe’ saltare in tre pezzi.
Lamberto avea perduto il lume dell’intelletto: gridò a Fanfulla, col volto e gli occhi divenuti di fiamme:
—Tu fai da villan discortese.... ed, alla Croce di Dio, ch’io t’ho a insegnare ad usarmi maggior rispetto.... e bollente d’ira arraffò la spada dal fodero. Fanfulla non si mosse, non mutò viso o colore, non fece atto nessuno, ed in quella Laudomia, retta da Selvaggia, comparve sull’uscio, e gridò:
—Lamberto! vuoi tu farmi morire!—Il giovine s’arrestò, e volgendosi ad essa, rimase in atto umile e confuso.
—A Troilo, proseguiva Laudomia, non sia tocco un capello.... non io te lo comando, ma per mia bocca te lo comanda Iddio.... egli solo conosce i delitti, egli solo può farsene giusto vendicatore. Io perdono a Troilo.... e s’io gli perdono, chi vorrà vendicarsi di lui?.... Usciamo, e tosto, di queste disgraziate mura. Egli rimanga: sia chiuso chè non possa nuocerci.... e quando potrà, non avremo, la Dio grazia, a temer più di nulla.—
Lamberto intanto avea rinfoderata la spada: si accostò a Laudomia, le prese la mano, e disse:
—Angiolo d’Iddio! sarà fatto come tu dici, nè più nè meno.... quantunque un giorno per avventura ce ne potremmo pentire.—
Volto poi a Maurizio, disse:
—Lega costui colle mani dietro le reni, che[793] non si possa sciorre, alla colonna del letto.... e andiamo. Domani, quando verrà gente a disciorlo, noi sarem già lontani, e più di tutto sapremo che abbiam a guardarci di lui.—
Poi volgendosi a Troilo, rimase un momento indeciso, quasi volesse dirgli alcun chè: ma un tratto scrollò il capo con dispregio ed uscì con Laudomia e cogli altri, lasciando il traditore legato in modo, che senza ajuto era impossibile si liberasse.
Giunti appena nell’anticamera, Lamberto s’accostò a Fanfulla, e gli disse, sorridendo e prendendogli la mano:
—Io ho avuto il torto, fratello, non rimaner adirato con esso meco.—
—Io non m’adiro mai con chi mi vien colla spada di fronte.... e tu non saresti capace venir altrimenti.... ed anche a me, quand’ero giovane, ad ogni mezza parola mi veniva sempre quella benedett’elsa tra l’unghie... Orsù, non ci si pensi più, ch’io ti voglio più bene di prima.—
Con tutte queste tribolazioni avean fatto la mezzanotte. L’ora era opportuna per allontanarsi da que’ luoghi senz’esser sentiti nè visti, e per conseguenza senza lasciar traccia che potesse far indovinare per qual parte avessero preso. Laudomia instava che si partisse, e Selvaggia con Maurizio, trovata la stalla, sellarono i tre cavalli e li condussero sul pratello innanzi alla villa.
Quando Laudomia volle moversi dalla sedia[794] sulla quale s’era di nuovo abbandonata, le sue forze mal corrisposero alla smania che provava di torsi di quel luogo funesto. Se qualcosa dovesse recar maraviglia, sarebbe ch’ella avesse potuto tanto resistere. Ma bene spesso si vedon persone deboli, o pel sesso, o per l’età, o per la fisica loro struttura, sopportar maravigliosamente travagli e spaventi, rette dalla prontezza dell’animo, e dall’orgasmo stesso prodotto da un pericolo, da un affetto, da una passione prepotente. Cessino queste cagioni, e la natura spossata cade di tanto più bassa, quanto era maggiore lo sforzo che la reggeva.
Così avvenne alla poveretta. Uscita di quel terribil pericolo, trovandosi sicura ed illesa tra braccia amiche, tra quelle dello sposo, del fratello, sentì per tutte le fibre diffondersi un gelo torpido, che avea pure in se un tal che di dolce, e pel quale parea le si venisse spegnendo il principio vitale. Quell’ultimo atto d’interporsi onde Lamberto ritornasse in sè stesso e venisse a Troilo salvata la vita le avea dato l’ultimo crollo; assalita da un ribrezzo di febbre che la diacciava tutta; con una angoscia al cuore che ne rendeva violento, incerto e disuguale il battito, si sentiva intorbidar l’intelletto, ed occupar da confuse e dolorose immaginazioni.
—Oh! Lamberto, diceva pregando con voce spenta, mentre tentava invano d’alzarsi, io sento offuscarmisi la mente... la vita se ne va... Oh! prendimi in braccio.... portami altrove.... Son tua sposa....[795] è vero? Non è stato un sogno.... posso morirti vicina, mi puoi ajutare.... reggere il capo.... Oh! potessi ricordarmi.... ma ho le idee così scomposte! Mi desti l’anello in S. Marco.... son tua.... non è vero?—
—Oh! sì, Laudomia, amor mio, fatti cuore.... noi siamo sposi.... e tu sei col tuo sposo....Iddio te lo diede e tuo padre, e non ti lascerà più mai....—
—Oh! mio padre, dicevi....—
E la scena di Gavinana, il pericolo di Niccolò le si affacciava alla mente senza che potesse distinguere se era cosa reale o soltanto temuta; fatto accaduto, ovvero minacciato nell’avvenire.
—Oh Lamberto mio! diceva piangendo, dimmelo, se lo sai.... s’egli è vero che lo volean prigione.... o forse.... già l’avrebber preso.... sarebbe al bargello.... lo porranno al tormento.... vi fosse ora?.... fosse attaccato alla fune. Oh, babbo, babbo! Oh, povero sventurato vecchio!... Dimmelo, dimmelo se lo sai!—
E piangeva sconsolatamente, a torrenti, che avrebbe fatto pietà ai sassi.
Lamberto fuor di sè si struggeva in proteste, affermando sull’onor suo non saper nulla, e trovando mille modi, mille espressioni per rassicurarla; Bindo, coll’impeto d’affetto d’un cuor buono di quindici anni faceva altrettanto, e cogli occhi lagrimosi, si disperava temendo, più grave che non era in effetto, il male della sorella. Maurizio, che[796] era venuto ad avvisare esser ammanniti i cavalli, vedendo il suo padrone in tanti travagli per cagione di Troilo, non si sapea dar pace avesse a rimaner vivo. Il buon svizzero smaniava, e mordendosi il dito saettava di tanto in tanto sguardi stralunati verso l’uscio della camera gialla, ov’era chiuso e legato il traditore, dicendo in cuor suo:
—Io non hafer mai pefute fine con messer Droile.... Ah, se mie patrone dicesse: «Maurizie, ti far quel che pare migliore!»—
E seguitava a scollare il capo, chè secondo le sue idee non v’era cagione che permettesse di nuocere a quelli coi quali s’era bevuto vino, tanto era la sua riverenza per questo liquore. E perciò appunto non avea voluto assaggiarlo la sera della riconciliazione: e se gli altri avean perdonato, egli, per un istinto di fedeltà quasi canina (e crediam che l’epiteto contenga un elogio) era rimasto implacabile.
Il sospetto che destava lo stato di Laudomia, benchè grave, non lo era però al punto che non dovesse cedere a quello ben altrimenti maggiore di sospettar quivi tanto che nascesse qualche impensato ostacolo alla loro fuga.
Quando parve un po’ racquetata, e dissipata in gran parte quella nube che le avea per un momento offuscate le idee, Lamberto, e gli altri di compagnia, la levaron di peso, e con grandissimo riguardo tanto fecero che la misero a cavallo, ove, reggendola da ambo i lati, presero, guidati da Selvaggia, la via del piano.
Ma dove ripararsi a quest’ora con tanti sospetti, tanti timori, tanti nemici che forse li circondavano? Dove condurre quella poveretta, che al più potea far qualche miglio, ma poi avrebbe corso rischio della vita se non trovasse riposo od ajuto?
Monte Murlo sorgeva poco discosto. Lamberto e Bindo conoscevano il Pievano, e negli anni scorsi lo venivan talvolta visitando dalla villa che avea Niccolò poco lungi del Poggio a Cajano.
Presero partito d’andare a lui per la via più diritta. Come pratici del paese, malgrado l’oscurità, l’ebbero presto rintracciata, e facendo animo a Laudomia risolutamente vi s’avviarono.
Ma Selvaggia, che precedeva, fermandosi a un tratto, e percuotendosi colla palma la fronte, esclamò:
—L’abbiam fatta grossa! e il famiglio di Troilo?... Michele?... è rimasto nella villa.... libero.... nessun di noi ci ha più pensato..... Dio sa che non abbia udito.... veduto tutto.... Dio sa che a quest’ora non abbia sciolto il padrone.... e presto ci sia addosso con genti di quel ribaldo d’jeri sera!...—
Fanfulla, senza dar tempo ad altro, gridò, volgendosi e riprendendo di corsa la via fatta:
—Ci penso io, e non dubitate di nulla....—
E Maurizio, senza chieder a Lamberto licenza, corsegli dietro a gambe quanto poteva.
Gli altri rimasero un momento sospesi: riflettendo[798] poi che bastavano all’impresa que’ due, e non volendo assottigliar troppo a Laudomia la scorta, seguitarono il loro cammino verso M. Murlo.
Mentre Fanfulla ed il famiglio tornavano addietro a furia per la salita, ora correndo, ora di buon passo, a seconda che la strada era rotta od agevole, nacque a Maurizio un’idea, che gli parve bellissima e mirabile, e risolutosi di tentare il suo compagno, cominciò a dire, col fiato grosso e tronco dall’affanno:
—Ah!.. mie... patrone... star... troppo... pone... troppa carità... per... quel ripalde, traditore!... Non lasciar legato... ma impiccato... e allora noi non dofer tornar indietro... non hafer più paura.
—E così... avrei fatto, se stava in me... e non tanti perdoni... ma è stata... madonna... che vuoi? le donne hanno il cuore senza pelo...—
—È stato... che mie patrone hafer pefute... ma Maurizie furbe, non hafer mai foluto pefer fine con Droile... e poter adesso asciustar tutto, se messer Fanfulle star contente.—
Fanfulla non capì gran fatto questa sottil distinzione del pefer o non pefere: ma correva, le parole gli costavano, avea altro pel capo, onde non rispose, e così giunsero alla villa.
Trovarono il cancello aperto come l’avean lasciato. In quattro salti su per la cordonata furon al portone, che non parea fosse stato mosso, ed[799] era rimasto rabbattuto. Entrarono, e fermatisi tutti ansanti a tender l’orecchio, udirono che Troilo chiamava Michele con voce che facea risonar le volte del castello, e tra una chiamata e l’altra mandava con voce men alta, imprecazioni tremende, bestemmiando cielo ed inferno, e l’ora ch’era venuto al mondo.
—Senti che moccoli attacca!.... disse ridendo Fanfulla; dunque, dacchè uscimmo, non è stata mossa una maglia nel castello... ed ora siam qui noi, e non sarà altro, se piace a Dio.... quel poltrone di Michele si sarà messo a dormire qua su per queste camere... se va bene, avrà bevuto jer sera, poi anche lui sarà stato stracco... ed il padrone ha avuto tempo a urlare; non l’avrà sentito.., dev’esser così senz’altro. Ora, prima d’ogni altra cosa, lasciami chiuder questo portone, chè non se la colga mentre l’andiam cercando per la villa.—E chiuse a chiave, come avea detto.
—Ora andiamo a cercarlo—soggiunse: ma venne fermato pel braccio da Maurizio, il quale con un certo suo fare, che avea del furbo e del minchione tutt’assieme, gli disse:
—Care Fanfulle! io pensar una cosa. Se messer Droile sortirà di qui, lui poter far molto male a mie patrone, ora che brutte porche Pallesche hafer victoria. Io hafer pensate puone rimedie. Noi impiccar messer Droile, che star bestie più cattive... e pofere Michele lasciar andare.... che non poter far male.—
Fanfulla si cacciò a ridere, e rispose:
—Sicuro, che più puone rimedie di questo non c’è... e non ti credevo un così bell’ingegno. Ma a dirtela non feci mai il boja, e non intendo cominciar ora.—
—In mie paese, Fanfulla care, non pensar male così.... Manigolde dopo tagliar cento teste star nobile.—
—La legge è bellissima, ma tra noi non s’usa.... e poi, non mi sentirei forse voglia di divenire gentiluomo a quel modo.—
—Care Fanfulle, ti star solamente qui.... non ajutare.... lasciar far Maurizie.... ma ti prometter non dire niente a mie patrone.... se sapute! Pofere Maurizie!—
Fanfulla stette in due alcuni momenti: non ci si sapea risolvere parendogli la cosa brutta; dall’altro canto pensava quanto quell’infame meritasse la morte, e più di tutto di quanto pericolo fosse il lasciarlo vivo, ora che alla volontà di nuocere (come avea benissimo conosciuto Maurizio) s’aggiungeva, per la vittoria de’ Palleschi, il potere. Alla fine disse in cuor suo «un traditore di meno, poco danno.... purch’io non ci metta le mani» ed avviandosi su per la scala colla spada sguainata onde cercar di Michele; disse a Maurizio:
—Orsù, io vo a snidar quest’altro.... tu fa quel che il cuore t’ispira.... io non ne vo’ saper nulla... e non ne saprò mai nulla.... e non ti dico nè si, nè no.—
E presa la lanterna che era stata scordata, e ancora ardeva su uno scalino, seguitò a salire zufolando sotto i baffi, e molto contento che si fosse trovato chi, senz’essere rattenuto dalla viltà dell’impresa, levasse pur dal mondo cotanto puzzo, e liberasse l’oppressa casa de’ Lapi da così pericoloso persecutore.
Maurizio, contento anch’esso di far le vendette del padrone, e levargli questo bruscolo d’in su gli occhi, s’avviò alla camera, ove Troilo non restava di tempestare, ed infilzar bestemmie da far venir giù le cappe de’ cammini.
Quand’egli udì metter la mano al saliscendi, credendo fosse Michele, esclamò, schiumando dalla rabbia:
—Tu ci venisti pure, impiccato poltrone! scioglimi di qui ch’io t’ho a....—
Ma in quella l’uscio s’apperse, ed invece di Michele vide entrar lo svizzero con un viso, che gli fe’ correr un freddo tra carne e panni. Anco questi (quantunque la cagione fosse tutt’altra) si sentì scosso alla vista di quel ribaldo.
Lo spavento, la rabbia, il lungo divincolarsi sperando giugnere a sciogliere o strappar le funi, il gridar continuo e disperato, l’avean ridotto a tale che nella persona e nel volto parea più fiera che uomo. Chi avesse voluto rappresentar un’anima condannata alle pene eterne, non l’avrebbe dovuta dipinger altrimenti: sfigurato, rosso, e quasi pavonazzo il viso, molle di sudore, di schiuma, di lacrime rabbiose...[802] metteva paura. E Maurizio ne provò un tal ribrezzo misto di furore, che propose quanto più presto potesse levarselo dinanzi.
Visto il trabocchetto che era rimasto spalancato, fece nuovo disegno. Andò diritto all’apertura: scosse la fune, e conobbe quant’era profonda quella buca. Pose mano alla corda, e cominciò a tirarla su: e tira, e tira, e mai non veniva il capo. Troilo intanto, preso da un tremito, da un orrore indescrivibile per ciò che gli si preparava, avea cominciato a pregare, scongiurare, promettere, s’era gettato ginocchione per quanto gli avea permesso la fune, poi, uscito di sè per lo spavento, avea detto cose orrende, incomposte, senza senso, avea urlato, ruggito, e Maurizio badava a tirar su la fune, non dicendo altro se non:
—Messer Droile, ti far acto de contrizione.... ti meritar di morire in acqua!—
Alla fine venne fuori il capo della corda, al quale era attaccato un gancio di pozzo tutto rugginoso ed imbrattato di melletta. Troilo sfinito cadde bocconi, ma se smarrì le forze, per sua maggior sventura non ismarrì i sensi.
Maurizio prestissimamente (chè aveva voglia di finirla, e l’abbiamo anche noi) lo legò sotto l’ascelle colla fune del trabocchetto, tagliò quella che lo attacava alla colonna del letto, e levatolo di peso l’infilò in quella buca larga appunto abbastanza perchè vi potesse capire.
Il disgraziato si sforzò, dibattendosi, d’ajutarsi,[803] ma non gli venne fatto, ed appeso alla corda che velocemente scorreva tra le mani di Maurizio, si calò in quel profondo. Dopo un minuto la corda era al termine: Maurizio la sfilò dalla carrucola e la gettò giù anch’essa, vi gettò la berretta di Troilo, che era rimasta in terra, poi chiuse gli sportelli, e tornato in cortile ad aspettar Fanfulla, s’inginocchiò, e con quanta divozione potè, disse un Miserere per l’anima di Troilo, il quale non ebbe probabilmente laggiù così presta morte, che non avesse tempo a far molte riflessioni, sulle quali lasceremo spaziare la fantasia del nostro lettore.
L’ipotesi di Fanfulla circa il famiglio di Troilo aveva appunto colto nel vero. Assai bene stracco delle veglie e della mala vita de’ giorni passati, era andato cercando nel piano superiore della villa una camera fuor di mano ed un letto, sul quale sdrajatosi, s’addormentò, che le cannonate non l’avrebbero desto.
Fanfulla, giunto a capo la scala udì alla lontana il suo russar profondo, e guidato da quel suono, l’ebbe presto trovato. Gli fu addosso prima che si risentisse, onde acciuffatolo con gentilezza alla canna, Michele aprì gli occhi sbigottito, ed il primo oggetto che gli s’offerse fu la punta d’una spada che gli faceva il solletico alla bocca dello stomaco. V’era poco da replicare, onde senza far movimento o difesa chiese la vita per Dio, che gli venne concessa a patti che seguisse, o per dir meglio, precedesse il suo vincitore, il quale standogli a calcagni lo fe’ calare in cortile.
—Oh! che fai costì in ginocchioni?—disse Fanfulla alquanto maravigliato di veder Maurizio in quel momento a cotale occupazione.
—Far piccole tifozione per anime di pofere messer Droile—rispose il servo a mezza voce, onde Michele udendo non s’insospettisse.
—Non si può negare che non abbi buon cuore.... Ora dunque andiamcene, col nome d’Iddio.—
E legate le mani a Michele con una fune che veniva ad avvolgersi ad una delle gambe, onde non potesse fuggire, uscirono, e l’avviarono innanzi drizzandosi tutti verso M. Murlo.
—E così, com’è andata?—domandò Fanfulla, che si moriva di curiosità di saper che fine avesse fatta quel maladetto.
—Io dirò, care Fanfulle!... ma prima ciurare ti non dir mai niente a mie patrone!.... peccato ti non star gentiluome!... mi allora domandar ciuramente da gentiluome...—
—Non te ne curare, fratello: che lo fossi anco, sarebbe meglio ch’io ti facessi un giuramento da uom dabbene... chè de’ gentiluomini romper la fede se n’è veduti parecchi, e degli uomini dabbene nessuno... ed io, come tale, ti do la mia fede che non lo dirò a persona viva.—
—E mi star sicure puone Fanfulle. Messer Droile non impiccate. Pensava risparmiar strada per andar da der Teufel, e mandato giù, giù, giù, poi gettar dentro anche berretta.... così domani non trovar più.... credute andato fia... e nessuno sospettare niente.—
—Non l’ha pensata male!—disse Fanfulla, e seguitando a camminar di buon passo giunsero assai presto, alla pieve di M. Murlo, ov’eran già ricoverati i compagni, e dove Laudomia, alla quale era per istrada cresciuto il male, avea almeno trovato un letto ove stendere le sue membra sfinite, e tutti gli ajuti d’una cordiale e premurosa ospitalità.
Ma per dir pienamente delle sventure che percossero la famiglia de’ Lapi, ci convien ora ritrovar Niccolò, che lasciammo avviato verso Firenze.
Povera Firenze! Noi c’ingegnammo alla meglio narrar i mali che oppressero una delle sue famiglie, e pensare che mill’altre ne soffrirono altrettanti e forse maggiori! Quante spose rimaste vedove! quanti bambini orfani e derelitti! quanti vecchi orbati de’ loro figliuoli ebber a strascinar gli ultimi giorni nella solitudine e nel pianto! Quante anime forti e generose fiaccate dalle lunghe miserie dell’esilio si spensero inutili e dimenticate!
Pensare poi qual trista pianta mettesse le barbe tra quelle rovine! quali velenosi frutti portasse per le susseguenti generazioni che nacquero e morirono inonorate all’ombra sua pestilente!
Oh! ma convien por mente ad una cosa, e questa ci consolerà di tanti danni; ci mostrerà che i patimenti d’un intero popolo non furono gettati, e furon impiegati anzi ottimamente. Servirono a fermare stabilmente le cose di Carlo V in Italia, a mantenerlo in possesso della Lombardia, che per[806] 200 anni potè così dormir in pace tra le braccia della Spagna. Servirono a procacciar per altrettanti ai Napoletani la giusta ed amorevole tutela d’un vicerè Spagnolo. Servirono a far sì, che i soldati dell’impero, senza doversi guardar le spalle, potessero invitarsi talvolta a pranzo alle tavole de’ Francesi, e sfamarsi qualche giorno alle spalle de’ borghesi e de’ contadini Provenzali o della Sciampagna.
Servirono insomma a molte belle ed utili cose; ed ove i Fiorentini le avessero potute prevedere, si può immaginare se ciò avrebbe servito a consolarli; ma per disgrazia non eran profeti.
Eran sonate le quattr’ore di notte quando Niccolò, circondato dalla sua scorta, si fermava dinanzi ai battenti chiusi di porta al Prato.
La sentinella di guardia sulla torre gridò il chi va là? in tedesco; chiamò nell’istessa lingua il suo capitano, che salito ov’era il soldato, incominciò in cattivo italiano un dialogo con messer Benedetto, ed a grandi stenti riuscì pure a capire esser costoro quelli ai quali avea ordine da Malatesta d’aprir la porta a qualunque ora fossero giunti.
Dopo un poco la porta s’aprì lenta lenta: entrò la compagnia, e passando tramezzo ai lanzi s’avviò verso borgo Ognissanti.
In 90 anni di vita era stata questa la prima volta che Niccolò avea udito soldati a guardia delle porte di Firenze parlar lingua barbara e ignota. Se avesse avute le mani sciolte, le sue orecchie non[808] avrebbero ricevuto quel suono, che amaramente lo scosse, come si scuote lo schiavo ad un’improvvisa e dolorosa strappata della sua catena.
Camminarono innanzi per le vie oscure, deserte e silenziose, che davano a Firenze l’aspetto che ebbe forse la Necropoli degli egiziani, la città delle tombe; e giunti in piazza, potè Niccolò vedere il portone di Palagio, le sue scalere, la ringhiera ove si trattavan un tempo le cose del popolo, tutto ingombro di soldati stranieri che dormivano. Questo bestiame spagnolo e tedesco russava buttato sulla nuda terra in mille diversi e strani atteggiamenti.
Lo scalpitar de’ cavalli non ne destò pur uno; e la brigata traversò la piazza. Poi per Condotta e Badìa si condusse finalmente al portone del Bargello.
Anco qui convenne far risentire la gente di dentro. S’udì presto rumoreggiare nella guardiola de’ birri, posta di fianco all’entrata, poi un suonar di chiavi, un correr di chiavistelli, e finalmente il cigolar de’ cardini sui quali, aprendosi, girava il portone. Niccolò scavalcato, venne messo dentro, consegnato al bargello che era venuto in persona a riceverlo, dopo la qual cerimonia, la scorta e messer Benedetto se n’andarono, i battenti si richiusero, e i chiavistelli ritornarono a luogo.
Niccolò si guardò intorno, e non vedendo quivi nessuno di coloro che erano stati presi con essolui, parte si riconfortò. Pure gli sorse in cuore il pensiero delle figlie, il desiderio di sapere come fosser[809] capitate, ne dimandò con istanza a quelli che gli stavano attorno; nessuno rispose. Il povero vecchio conobbe con chi aveva oramai a trattare, e non replicò la domanda.
L’antico e venerando cittadino della repubblica, l’anima più nobile e generosa che fosse in Firenze, si trovava ora sottomessa a quell’impura e degradata razza (simile sempre a sè stessa in ogni età e sotto tutti i modi di principato) per la quale tener chiusi gli uomini, tormentarli e darli poi alla fine in mano al boja, è un modo come un altro, e talvolta miglior d’un altro, di guadagnarsi il pane. Per essa, chi ha posto il piede sul funesto limitare del carcere, sia colpevole od innocente; sia un ostinato assassino od un involontario omicida, abbia sull’anima un parricidio o l’abbia pura d’ogni delitto; per essa, dico, è tutta una cosa. È un prigioniero, e d’altro non si mette in pensiero. Pianga o rida, si disperi o sia rassegnato, poco le importa.
Vien in mente al mastino che dal beccajo è lanciato a fermare un vitello fuggito, se si dorrà sentendosi traforar l’orecchio dalle sue zanne?
Eppure questa gente, per la quale l’incapacità di sentir compassione è, sto per dire, condizion necessaria dell’esistenza, si sentì scossa alla vista di quell’augusto vecchio; se non fu propriamente pietà, fu almeno maraviglia che andasse tant’oltre la vendetta papale.
—Metteva conto, disse un di costoro, durar[810] tanta fatica per aver in gabbia codest’ucello!.... poco potea volar lontano, a ogni modo.—
Ed intanto tastava Niccolò per tutta la persona, onde toglierli l’arme se n’avesse avute. Frugandogli poi in tasca, prese i pochi danari che v’erano e li consegnò al bargello. Lo scrivano di costui notò sul suo registro il nome del prigioniero, l’ora del suo ingresso nel carcere; poi l’avviarono su per lo scalone esterno, che ancora oggigiorno si vede nel lato destro del cortile.
Se Niccolò nel salire v’avesse calato uno sguardo, avrebbe potuto vedere nel centro dello spazzo un ceppo quadro e massiccio, sul quale la mannaja era posata in traverso: le lastre del pavimento all’intorno lorde di larghe macchie oscure, sulle quali luccicava riflesso il raggio d’un torchietto affumicato che un birro portava innanzi: avrebbe forse indovinato di chi era quel sangue, che ora i cani potevan lambire, e scorreva pur poche ore innanzi nelle vene del penultimo gonfaloniere della repubblica.
Ma la nefanda vista non cadde sott’occhio a Niccolò, che levava in alto lo sguardo, affissandolo ora sul Marzocco che adorna la spalletta dello scalone, ora alle pareti ed agli scudi scolpiti che le ricoprono, e pensando ai valorosi uomini di cui erano, pensando all’antica maestà di Firenze, si sentiva rinfrancar l’animo e le forze, e proponeva renderle quell’ultimo omaggio che per lui oramai si poteva, mostrandosi a quel passo degno veramente d’esserle figliuolo.
Salì dunque con andare stanco sì, ma non vacillante: fronte grave, ma serena e sicura, e giunto sul pianerottolo su in alto, fu condotto per un andito lungo ad una porta nana ed angusta nella quale, aperta dal carceriere, gli convenne entrar tutto curvo. Era una segreta larga e lunga otto passi, ove da una buca in alto si vedeva un po’ di raggio di cielo tra le sbarre di una grossa ferriata. V’era un lettuccio con un sacconcello pieno di paglia trita, e che serbava l’incavo di chi v’avea prima dormito. In terra una mezzina.
—Vedi se c’è acqua.—
Disse il carceriere ad uno de’ suoi uomini. Quegli guardò, e rispose:
—È piena. Il Carduccio non ebbe sete, bisogna dire: neppur l’ha tocca.—
Niccolò si scosse a quel nome, ed interrogava ansioso:
—Era qui forse?—
—Qui.—
—Ed ora dove l’hanno posto?—
—Donde verran’ per esso il dì del Giudizio.—
Ed i birri uscirono, chiusero con rumore di chiavi e chiavistelli la segreta, e vi lasciaron il vecchio allo scuro. Ritto com’era in mezzo al carcere, alzò le braccia in atto di preghiera, e disse:
—Oh Francesco! tu compiesti il tuo sacrificio. Abbia in pace Iddio l’anima tua valorosa.—
Poi brancolando trovò il letto, vi sedè; prese la mezzina, bevve pochi sorsi, e determinò cercar riposo[812] e sonno se avesse potuto, per far quant’era in sè onde riprendere un po’ di forze.
—Che questo mio corpo, quest’istrumento logoro, non abbia a farmi vergogna al paragone!.... Ajutami Iddio nella prova che mi si prepara: tu vedi l’anima mia, ma vedi insieme a che sian condotte queste membra afflitte, infondi in esse tanto vigore che basti a condurle, senz’atto di viltà, quei pochi passi che le separano dalla tomba.—
Si stese sul giaciglio, vi declinò il capo, e compostosi per dormire, rimase immobile onde conciliarsi il sonno: ma com’era possibile che una mente traboccante di mille pensieri, che un cuore così appassionato potessero assopirsi? a tanto non basta pur troppo la sicurtà d’una coscienza illibata, nè la veglia è frutto de’ soli rimorsi. Com’era possibile che trovandosi oramai al termine d’una lunga e travagliata vita, piena di tante fortune, consumata tutta nell’ardente pensiero della patria, non gli si schierassero ora dinanzi in lunga serie tutti quanti gli eventi di tant’anni, i disegni falliti, gli improvvidi consigli, i casi infine pei quali dopo tanti sforzi, tante agitazioni, tanto sangue versato, Firenze era pur caduta sotto l’artiglio mediceo; ed esso condotto.... a che? A farle l’ultimo ed inutile sagrificio di poche ore di vita!.... e tanto lungo affannarsi, tante perdite, tante sventure non avean potuto ottener altro dall’Eterna Giustizia?
Essa avea potuto consentire che gl’iniqui trionfasser de’ buoni, malgrado la loro imperturbata costanza[813] a combattere, a soffrire, a pregare? Malgrado le promesse di Fra Girolamo suo profeta? «Qual tremendo giudicio! pensava l’afflitto vecchio, qual imperscrutabile mistero dell’ira di Dio!.... E qual era, o Signore, la nostra mira? pensava nell’amarezza del cuore. Quali i nostri ardentissimi desiderj. Non eran forse stabilire il tuo regno? accrescer gloria al tuo nome? Salvar la patria dalle mani dei tuoi nemici? Di quelli che per tener più sicuro il piede sul collo di questo popolo non hanno altra via che corromperlo ed affondarlo ne’ vizj?.... Oh, quanto ho patito, quanto ho pregato! Con che cuore ti diedi, Dio mio, la vita de’ miei figliuoli! Con che allegrezza t’avrei donata quella dell’ultimo che mi resta!.... Avrei visto l’ultima rovina della mia povera casa... Ma Firenze!...Dio mio!.... perchè non salvasti Firenze?»
Questi dolorosi pensieri ravvolgendosi nella mente di Niccolò che non potea, malgrado la sua tempra di ferro, non esser vinto ormai dalle veglie, dalle fatiche, dalle agitazioni morali, lo vennero avviando, senza che se n’avvedesse, verso una serie d’idee ancor più tetre e sconsolate; e ne fu appunto cagione l’accasciarsi delle forze vitali.
La fede nella giustizia di Dio e nella sua bontà,... la fede nelle profezie di Fra Girolamo, che a guisa d’un raggio celeste gli era stata per tant’anni guida e conforto, la vide offuscarsi e sparire in una tenebrosa caligine, piena di spaventi e di dubbi. Se in tutto quanto ho sperato... in tutto quanto ho creduto per novant’anni, mi fossi ingannato!
Questo tremendo sospetto sorse in quel travagliato cuore, quando appunto avrebbe avuto maggior bisogno di trovar nella Fede argomento e sollievo d’incorruttibili speranze: provò un brivido per l’ossa (materialmente, non per iperbole) sentendosi uscir di pugno l’ultimo filo al qual poteva ancora attenersi, come rabbrividisce chi, sospeso per un valido ramo su un baratro profondo, lo sente all’improvviso crocchiare e venirsi schiantando: o chi in nave battuta dal vento o dall’onde vicino ad un’irta scogliera, vede strapparsi la gomena dell’ultim’àncora di salute.
Un doloroso gemito uscì dal petto di Niccolò quando, non ostante i suoi sforzi per chiuder la porta del cuore a pensieri di disperazione, sentì che v’entravan terribili e ruinosi, come si versano i nemici in una rocca difesa a lungo e combattuta indarno. Per la prima volta a novant’anni sentì che cos’era spavento, parendogli veder crollare ad un tratto le speranze di tutta una vita per questo mondo e per l’altro, cercando invano nel presente e nell’avvenire un senso che non fosse dolore, un pensiero che non fosse tenebre ed incertezza, e alzandosi seduto sul letto, disse, levando le braccia al Cielo: Deus meus quare dereliquisti me?....
Era ne’ destini di Niccolò servir d’esempio sin dove possa su questa terra giungere la sventura e la forza dell’uomo nell’ottenerne vittoria. Colla tremenda potenza di volontà, ch’era stata sempre virtù sua principalissima, volle cacciar quelle idee,[815] e le cacciò: volle averne d’un genere affatto opposto, e le ebbe, raccolse gli sfrenati pensieri, e disse in cuor suo: «Chi son io per giudicare quell’ente che fece me e gli uomini tutti, e cielo, e terra, e l’universo! Dir ch’egli o non possa, o non voglia, o non gli caglia occuparsi d’ognuna, benchè minima, delle sue creature, pesarne i meriti e le colpe, i dolori e le gioje, perch’egli è troppo grande per iscender sì basso; qual empia pazzia? Non sarebbe ciò appunto limitare la sua potenza, volerlo rimpicciolire alla nostra misura? Le creature tutte non son esse egualmente atomi, e nulla a fronte della sua immensità? Volgere il sole e gli astri pel firmamento costa più forse alla sua mano che dar forma e moto al minimo degl’insetti? Oh, Iddio grande, dacchè m’hai pur creato, abbi dunque cura anche di me! Soccorri dunque quest’anima immortale ora che sta per ritornare donde tu la movesti! Perdona i dubbj di quest’intelletto, che è per tua fattura! Tu non gli desti di poterti comprendere, ma, lo sento, tu m’hai posta nel cuore, compenso a tutti i miei mali, bastante virtù da poter sperare in te, nelle tue misericordie. Sì, mio Dio, io spero.... io confido nella tua bontà, mi getto tra le tue braccia, nel tuo paterno seno, ove saprò forse un giorno perchè in terra ebbi tanto a patire!....»
La speranza, celeste amica degli afflitti, scese così nel cuore del povero vecchio, e vi sparse una nuova dolcezza, una quiete serena per la quale[816] si sentì riconfortar tutto. Gli parve essere già trasportato in una regione alta e lontana dalle miserie del nostro mondo, sentirsi sciolto oramai dalle passioni, dalle cure di esso, e trasfondersi tutto nelle idee d’una vita migliore. Questi pensieri a poco a poco, senza perder punto della loro soavità, si confusero, vennero acquistando non so che di fantastico e d’immaginoso, chè lo stanco vecchio s’era alla fine addormentato, e gli pareva vedersi dinanzi tre figure, tre forme umane vestite di tonacelli bianchi, co’ piedi scalzi, che gli sorridevano, e parean godersi in un fuoco vermiglio ed ardentissimo, che per ogni parte guizzando con mille rapidissime fiammelle le circondava.
Quello che era nel mezzo cominciava a parlargli, ma le sue parole erano come un’armonia dissimile ad ogni lingua terrena, ed incomprensibile a Niccolò, al quale, riconoscendo Fra Girolamo, pareva prostrarsegli, esclamando:
—O santissimo de’ martiri, fa che il tuo servo t’intenda!—
Il frate allora, mutando voce e lingua, gli diceva:
—E vorresti intendere i misteri di Dio? Adorali, e spera. S’adempiranno le mie profezie. Florentia post flagella renovabitur. Ma non puoi sapere nè quale abbia ad essere il flagello, nè quanto debba durare.... sic dicit dominus.... passeranno le generazioni ed i secoli, poi sarà luce nuova e terra nuova, e quella patria che abbiamo amata cotanto ambedue risorgerà libera, rinnovata.—
Il fuoco, i martiri, la visione tutta sparì: e Niccolò destatosi, e stimando appunto visione divina il sogno che con apparenze sovrumane gli avea ritratte quelle idee che avea sempre avute fisse nel cuore, si sentì più che mai avvampare di quell’ardente carità di patria, di quella fede inconcussa, che era stata l’anima del viver suo, e doveva essere in morte l’unico suo conforto.
Iddio, che giammai non abbandona chi d’abbandono non è meritevole, avea mandato l’ajuto quando appunto stava per isorgere maggiore il bisogno.
Un romore di persone e di chiavi si fe’ sentire nell’andito vicino: si riaprì la porta della segreta, entrò un tavolaccino con un torchietto, poi alcuni birri della famiglia del bargello, e comandarono al vecchio d’alzarsi e di seguitarli. Egli ubbidì, e preso in mezzo da costoro, uscirono, e dopo un lungo ravvolgersi per corridoi e scalette vennero alla porta d’una sala ove teneva ragione il nefando tribunale, statuito, non a giudicare, ma a mandar alla morte i nemici del nuovo stato, aggiuntovi lo scherno di un giudizio.
Era un camerone quadrato ed alto, mostrava dipinta nella facciata per mano di Giotto una storia piena di figure di santi, sotto i quali il pittore ritrasse molti de’ più ragguardevoli cittadini dei tempi suoi, tra gli altri, Corso Donati, Brunetto Latini e Dante Alighieri.
Sotto Pietro Leopoldo fu dato il bianco alla pittura.[818] A nostri giorni l’ugne de’ prigionieri scortecciando quell’intonaco, la scoprirono qua e là. Speriamo che si scopra del tutto, e che quel luogo pieno di così onorate memorie, sia ridotto meno schifo che non è al presente.
Sotto la pittura era una spalliera, o banco, sul quale sedeano otto giudici vestiti di robe pavonazze, ed avean dinanzi un lungo tavolone ov’eran registri, scritture, calamaj, un involto, ed in quattro candellieri altrettanti ceri accesi, chè ancora non era apparsa la prima luce del giorno: e per due finestre strette, lunghe ed alte dal suolo, poste a manca di chi entrava, ed aperte pel caldo, si vedean tra le sbarre dell’inferriate scintillare le stelle.
Presso la porta s’intrattenevano mazzieri, birri, testimonj e tavolaccini. In un angolo sporgeva dal muro una trave con una carrucula in punta, e la corda del tormento. Un’immagine di Nostra Donna dipinta accanto sulla parete, con una lampada accesa davanti, dovea forse colla sua vista confortar le vittime: o piuttosto era ivi collocata per la vecchia usanza degli uomini di usar le cose divine a tutelare le loro ribalderie.
Quando entrò il vecchio sorse un leggiero bisbiglio tra que’ ribaldi che erano in sull’uscio. Alcuni si riposavano sdrajati lungo il muro, chè a que’ giorni il tribunale non avea avuto posa d’un momento. Uno di costoro, stirandosi e sbadigliando, tutto svogliato diceva:
—Quando verrà l’ultimo di codesti uccellacci! che possiamo un tratto andarci a dormire!....—
Niccolò venuto avanti, si fermò a due passi dalla tavola. Quantunque si sentisse, come si può immaginare, parendogli che al cospetto di que’ nemici della sua patria, avesse egli il carico di sostenerne l’onore colla presenza e colle parole: si tenne ritto più che poteva, e girando lo sguardo, non arrogante, ma pure ardito sui giudici, nessuno potè sostenerlo, ed abbassarono gli occhi o li volsero altrove.
Erano stati scelti costoro tra’ più sviscerati amatori de’ Medici, o piuttosto tra quell’antica e mala razza, la quale, dacchè gira il mondo, s’è trovata sempre pronta a porre la sua viltà a servigi del partito vincente.
Era tra essi Baccio Valori (Dio ti benedica le mani, Cosimo de’ Medici!) v’era messer Benedetto de’ Nobili, degli altri non accade dire.
Il presidente, volto all’accusato, l’interrogò:
—Il tuo nome, l’età, la patria?—
E Niccolò con voce sicura
—Niccolò di messer Cione de’ Lapi, del popolo di S. Giovanni, gonfalone del Leon d’oro, di anni 91.—
—Messer Benedetto, leggete l’accusa.—
S’alzò il Nobili, e tolto dalla tavola un foglio, lesse con volto, in apparenza compunto, le seguenti parole:
«In Nomine D. I. C., ac Beatiss. V. Mariae.[820] Amen (ed il ribaldo chinò il capo sin quasi sulla tavola che avea dinanzi), Hoggi addì..... agosto 1530, è comparso dinanzi agli eccelsi signori Otto di Balia della ciptà et repubblica di Fiorenza, Niccolò di Cione de’ Lapi, et accusato come per infrascripti testimonj, d’avere
I.o Sollevato et aggirato il popolo con frodi et macchinazioni, a danno et vituperio di questo Stato, intromettendosi clam, seu palam, nelle deliberazioni e nelle pratiche de’ magistrati per contraddire che la sopraddetta ciptà et repubblica di Fiorenza non iscendesse alle giuste et honeste conditioni domandate da S. B. papa Clemente VII per l’ill.ma casa Medici, e pei cittadini Palleschi che aveano avuto bando di rubelli dopo il 1527, et essere stato cagione principalissima che si prolungasse la guerra con infiniti danni della ciptà et del contado.
II.o Item d’havere consigliata et favorita la deliberazione di spogliare le chiese, cappelle, luoghi pii et oratorj degli ori, argenti, gemme et arredi pretiosi, contro l’espressa proibizione di S.a S.a et a danno gravissimo del clero, de’ conventi et della S.a Catt.a Chiesa, per sostentare le spese della guerra et dell’abominevole ribellione contro gli ordini et le leggi antiche della repubblica di Fiorenza, e contro la chiesa romana.
III.o Item d’havere consigliato et confortato molti pessimi huomini, alle ruberìe, arsioni et rovine [821]delle ville di Careggi et altre case dell’ill.ma casa Medici, ed a far villania, e tagliar a pezzi papa Clemente a’ Servi e ad altre brutte insolenze[73].
IV.o Item d’havere tenuto in casa sua culto empio et sacrilego alla memoria di frate Hieronimo Savonarola arso sulla piazza di Palagio come heretico ostinato, et scomunicato dalla SS.ma memoria di papa Alessandro VI, come appare dalla tonaca et dalle ceneri del sopraddetto frate, quali sono presenti all’accusa, et havute dal sopraddetto Niccolò in venerazione et tenute in casa, nella propria camera da letto per farvi le sue divozioni, con iscandalo della famiglia, de’ buoni cristiani et disubbidienze alla S.a R.a Chiesa.»
Dalle quali accuse, ammoniti a dir la verità, e presone sacramento sull’anima loro e sopra i SS.mi Evangeli, seguono gl’infrascritti testimonj....
E qui lesse una filza di nomi della più bassa canaglia, seguiti tutti da una croce, perchè nessuno di costoro sapeva scrivere, poi soggiunse:
«Per le quali et per altre colpe et malefizj che si tralasciano, ma che all’occasione potrebbero venir dimostrati, si richiedono gli eccelsi signori Otto di Balia della repubblica et popolo di Fiorenza, facciano giustizia del sopraddetto Niccolò di messer Cione de’ Lapi, colla condennagione alla pena de’ traditori della patria; ad defensione de’ buoni cittadini ed delle leggi, et esemplo de’ tristi, et malvagi. Ad Dei gloria. Amen.»
Durante questa lettura un riso amaro era più di una volta apparso sulle labbra del vecchio: venuta a fine, disse il presidente:
—Niccolò, tu hai udito:, confessi, o vuoi parlare in tua difesa?—
—In mia difesa? rispose il vecchio sorridendo, io non butterei il fiato e le parole per questo: non vi conosco forse? non so io chi v’ha posti a quest’ufficio? Chi m’ha fatto pigliare e menar prigione, contro la fede de’ capitoli della resa, che patteggiavano salve le vite e la libertà de’ cittadini?
—E vorreste ch’io pensassi a difendermi? No, non parlo per salvare il mio capo: cada pure, e Dio volesse fosse caduto assai prima! non avrei veduta la rovina di questa santa ed altrettanto disavventurata patria, nè tanti tradimenti, nè tanta viltà.
—Ma parlo per l’onor di Firenze, perchè sempre, sinchè avrò libera almeno la lingua ed il respiro, sinchè mi lascerete vivo, non udrò mai vituperare e calunniar questo assassinato popolo, senza ch’io levi il grido in sua difesa.—Io non l’ho nè aggirato nè sollevato con macchinazioni, nè ho turbate le deliberazioni o le pratiche: ma in casa, in chiesa, in piazza, per tutto, a viso aperto (come ha parlato sempre Niccolò) l’ho confortato alla difesa della sua libertà, e me ne vanto: chè Firenze è stata sempre città libera e di sua ragione, ed i Medici e loro consorti, essi con macchinazioni e frodi tentarono sottometterla, e se ne furon cacciati, fu fatto loro il dovere: ora ritornano armata[823] mano a calpestarla; Iddio l’ha consentito pe’ nostri peccati, ma l’infamia di traditori alla patria starà eterna sovr’essi e non su noi.
—Gli ori e gli argenti delle chiese furon usati, ed avevam potestà d’usarli dal papa stesso, che l’aveva concesso prima del 27 in defensione dello stato de’ Medici. O non è lecito adoprar que’ tesori ad uso profano, e neppur allora non dovean porsi a discrezione de’ laici; o è lecito, e furon adoprati santamente a sollevar la miseria e salvar la vita a migliaja d’innocenti che morivan di fame.
—Dell’arsione di Careggi non parlo; ciò varrebbe soltanto a mia particolar difesa, ed io non curo difendermi.
—Ma parlo bene, e protesto alla faccia di Dio e del mondo, contro le vituperevoli bestemmie ch’io ebbi pure ad udire in offesa del santo martire Fra Girolamo Savonarola, che non vi basta aver morto, non vi basta averne disperse e battute in Arno le ceneri, se colle calunnie non lo vituperate. E vi pensereste forse che vi venisse fatto? Che non fosser note ed aperte al mondo le ribalderie, le frodi, le false accuse colle quali procuraste la sua rovina voi Palleschi, cui facean vergogna le sue virtù, le sue sante esortazioni? Che non sappia ognuno come fu falsato il suo processo? Come ser Ceccone, notajo, che fu istrumento di queste abbominazioni, per giusto castigo di Dio morì disperato? Ed una scomunica fondata sulle calunnie avrebbe a tenere?.... Io non prestai alle reliquie[824] del santo martire culto che non si convenisse, ma le tenni in casa con quel rispetto che era dovuto alle ceneri d’un santo, chiarito tale da miracoli, in vita e dopo morte operati.—
Messer Benedetto a queste parole sciolse l’involto che era sulla tavola, ne trasse la tonaca ed un sacchetto di seta trapunta d’oro ov’eran le ceneri, e mostrandola a Niccolò, disse:
—E’ basta che tu riconosca queste cose esser tue, e quelle medesime che tu tenevi in camera in una nicchia, con accesa una lampada dinanzi; quello che si debba inferir poi di codesto culto, e della validità della scomunica no’ lo sappiam ben noi.—
—Sì, ch’io le riconosco, e son mie, disse Niccolò prendendole e baciandole con impetuosa effusione d’affetto, e ringrazio Iddio che mi porge occasione di confessare a viso aperto il suo profeta innanzi a voi suoi nemici! di confessare la patria innanzi a voi che l’avete assassinata e tradita! Chi ero io, povero vecchio, da meritar di morire per cause cotanto sante ed onorate? Ora fatemi il peggio che voi potete, trionfi potestas tenebrarum, ma sappiate che Niccolò solo, inerme, prigione in mezzo a voi, v’ha compassione, e che a voi toccherà un giorno portargli invidia. Io dico e te, Baccio Valori.—
Disse alzando la mano e la voce verso di lui, che mezzo sbigottito si scosse.
—Io dico a te! verrà il giorno che la morte[825] di Niccolò ti farà invidia: e non ch’io t’imprechi alcun male per quel che tu mi fai ora, chè liberamente ti perdono, ma non perdona Iddio a chi fa alla sua patria quello che tu facesti!—
—Orsù! disse Baccio troncandogli le parole, e facendo un risoluto cenno a’ mazzieri, a questo modo si porta egli rispetto al magistrato? Ed il presidente, accennando anch’esso ai ministri, disse:
—Dacchè egli non vuol prender la buona via, e per arroto dice villania al magistrato, egli è dovere collarlo. Tu t’hai a dolere di te, Niccolò! Cancelliere, scrivete l’esamina.—
Alcuni birri si gettarono su Niccolò e, presolo per le braccia, lo trassero violentemente presso il brutto istrumento che accennammo dianzi, gli strapparon di dosso il lucco, il cappuccio, li gettarono a terra, ed il venerabil vecchio rimase in sole calze[74] e camicia. Il crocifisso d’argento, quello che avea tolto da capo al letto all’atto della partenza, ed era stato di M.a Fiore sua moglie, gli pendeva sul petto, e trasse gli sguardi di quegli sgherri, che gliel’ebber tosto strappato. A quest’atto uscì dal petto di Niccolò un doloroso sospiro, ma levò gli occhi al Cielo rassegnato, e le sue labbra mormorarono alcune sillabe di preghiera, o forse di perdono.
Intanto i ministri del manigoldo, vestiti di farsetti e calze d’un rosso cupo, colle maniche rimboccate[826] sin sopra il gomito, avevano spinto il vecchio sotto la carrucola, e legategli dietro le reni le braccia strettamente ai polsi colla corda che ne pendeva.
Tre di costoro afferratone l’opposto capo, aspettavano con istupida indifferenza il cenno d’incominciare, e Niccolò, volgendo il cuore a Dio ed implorando l’intercessione di Fra Girolamo, diceva:
—O tu, che soffristi tanto per la giustizia, fa ch’io sappia soffrir questo poco per la gloria di Dio, e per l’onore di questa povera patria.—
Messer Benedetto intanto, alzatosi dal suo posto, s’era accostato al paziente, e collocatosi ritto in faccia, accanto ad una piccola tavola, alla quale sedeva il cancelliere con un foglio bianco e la penna in mano aspettando di scrivere la confessione.
Molti pittori, nel rappresentare il martirio di qualche santo, si sono ingegnati render la scena più dolorosa ed evidente col contrasto tra i ceffi de’ manigoldi ed il volto del martire; ma nessuno potè mai giungere ad immaginarlo quale era quivi realmente. Il volto di Niccolò, che per l’estremo pallore era quasi d’un color solo colla barba e coi capelli, illuminato dalla lampada della Madonna che gli stava sul capo, avrebbe avuto l’apparenza del marmo o dell’alabastro, e sarebbe sembrato il volto d’un profeta scolpito da Michelangelo, ma gli occhi neri levati al cielo davan vita a quel volto, splendendo umidi tra quel candore, e tuttochè[827] devoti, e tutti trasfusi in Dio, non erano spogliati però del tutto della consueta fierezza. La bianchezza parimenti della camicia e del petto, che appariva largo e ben formato, benchè un po’ scarno, la figura tutta in una parola di Niccolò, parea circondata d’una certa aureola, parea quasi risplendesse sull’oscuro campo che le faceano le brune pareti della sala, le immonde vesti della sbirraglia, ed i loro sozzi visacci, quali rossi e spugnosi per l’abuso del vino, quali smorti e disfatti per immoderate libidini, quali scuri e bestiali per abituali e sanguinose violenze. Nè men turpe di loro, benchè d’aspetto meno plebeo, appariva il viso di messer Benedetto. Qual cosa e più turpe d’un viso d’ipocrita?
Mettendo un sospiro, ed abbassando gli occhi per simular umanità, disse:
—Niccolò, confessi tu d’aver sedotto e traviato il popolo, come appare dall’accusa e da’ testimonj?—
Il vecchio non rispose, e cominciò a recitar il versetto «Domine adjutor meus ecc.»
Il Nobili accennò ai ministri, e questi ravvoltasi meglio la fune alle mani piegarono le ginocchia lasciandosi andar di tutto peso.... Le braccia dell’accusato gli corsero su per le schiene, i muscoli del petto stirati con violenza gli s’avvallarono tra costa e costa, perdè colle piante la terra, e rimasto sospeso s’aggirò un momento colle ciglia e le labbra strette, ma senza mandar un gemito. Rimasto così[828] alcuni secondi, fu riposto giù.... ma non ci regge l’animo dir più oltre di questa barbarie, della quale per secoli furono vittime tante migliaja d’infelici, e se più crudele o più pazza, sarebbe difficile definirlo. Basti dire che l’innocente vecchio soffrì la fune tre volte, e la fortezza dell’animo potè tanto sulla natura che non rallegrò i suoi nemici nè d’un grido nè d’un lamento: ed alla fine, doloroso e languente, ma costante sempre, fu di nuovo portato, più che condotto, nella sua segreta.
Quando Niccolò fu lasciato, si può dir, semivivo, sul lurido saccone che gli serviva di letto, era già fatto giorno da un’ora. Rimase come lo aveano posto; chè quel misero corpo era oramai divenuto un peso inerte, e privo d’ogni forza; gliene fosse pur rimasta, il minimo atto, il più lieve moto avrebbe resi insopportabili gli acerbi dolori che lo tormentavano per la sofferta tortura. Ma neppur questi patimenti poterono prostrare quell’anima riconfortata dalla celeste visione che in sogno avea creduto avere, e dal pensiero ch’era ormai presso al termine di tante miserie.
Al silenzio della notte era succeduto colla nuova luce quel confuso e continuo rumore che s’ode in una città desta, e che penetrava pure in quella segreta per l’alta e piccola finestra, munita d’una ferriata fitta, e d’una tramoggia al di fuori.
Tra quel rumore, tra quel ronzìo confuso, che era un misto di voci e di schiamazzi lontani, dell’andar de’ carri, dello scalpitar de’ cavalli, del picchiar delle arti per le botteghe, parea talvolta a Niccolò udire un bisbiglio più forte, come d’una frotta di uomini che passasse sotto le mura del bargello, ed un tratto levarsi il rumore, col maladetto grido: Palle, Palle!.... muojan i Piagnoni! urlato dalla più vile canaglia di Firenze; poi tra mezzo qualche voce sonora e di comando profferir parole tedesche, ovvero spagnole, chè tutte le strade all’intorno eran, per sospetto del popolo, stivate di soldatesche straniere.
—Oh perchè vissi tanto! diceva sospirando Niccolò. Perchè non fui anch’io all’ultima battaglia ove morirono i miei figli?... sarei morto con essi! Oh felice me allora!—e sforzandosi d’alzar le braccia riuscì pure, malgrado la doglia degli omeri e delle spalle, a turarsi colle mani le orecchie.
Lo prese a quel punto più che mai ardentissimo il desiderio della morte, e come pratico de’ processi criminali per cose di stato, che in que’ tempi, da chiunque venisser ordinati, si sbrigavano assai presto, veniva calcolando l’ore che avrebbe ancora dovute passare in quest’inestimabil passione, e pensava come per confortarsi «non è possibile ch’io sia mai vivo domattina.» Gli venne a quel punto un pensiero «Potrò io avere un confessore, che non sia uno de’ costoro ribaldi?» E volea dire, se gli avrebber concesso d’aver una frate di S. Marco,[831] e non invece un di quegli altri avversi a Fra Girolamo, ed allo stato popolare, come verbigrazia erano i Frati di S. Croce. Poi rifletteva. «I nostri si terranno chiusi in convento con sospetto grandissimo, e potrebbero portare grave pericolo uscendo; dovrò io esporveli facendoli chiamare? Fra Benedetto, che sarebbe pur quello ch’io vorrei, si attenterebbe egli a venire? Egli è un santo, ma altrettanto pusillo d’animo. E se anco venisse, vorrei io esser cagione che soffrisse oltraggio, villania, e forse peggio da questa setta perversa?»
O Niccolò, tu devi saper morire solo, senz’altro conforto che la memoria della tua vita passata! Ora è tempo d’usare quella fortezza che predicavi agli altri, se non vuoi che dican di te, come disse Cristo de’ Farisei:[75]
All’ora che era solita distribuirsi la vivanda ai prigionieri, verso mezzamattina, comparve il carceriere con un pane ed una scodella di broda, nella quale il vecchio prese qualche cucchiajo, ajutandosi alla meglio, chè il riposo gli avea già in parte restituito l’uso delle braccia. Poi rimessosi a giacere, e rimasto solo, volse tutti i pensieri a Dio, ingegnandosi di venirsi così preparando alla morte.
Dopo un’ora udì disserrarsi di nuovo il chiavistello dell’uscio, e disse:
—Ecco chi viene a darmi il comandamento[832] dell’anima! Ora sii tu ringraziato Iddio, che finalmente mi chiami alla tua gloria!—
Ma invece dell’uomo che era solito adempiere quel triste ufficio, vide entrare messer Benedetto, il quale, com’ebbe diligentemente richiuso, si fermò ritto avanti il lettuccio.
Niccolò, che sapeva chi egli era, vedendolo in atto tutto benigno, gli piantò gli occhi in viso tanto sicuramente, e come per iscrutare i suoi pensieri, che il tristo ipocrita dovette volgere altrove lo sguardo. Poi, tutto modesto e compunto, disse:
—Niccolò, io ti vengo a visitare, ch’egli è dovere d’ogni cristiano sollevare i tribolati, come se’ tu. Ora sappi che mi duole moltissimo del tuo caso, ma non istette in me il potervi riparare.... pure, se vi fosse cosa che si potesse fare per levarti i tuoi dispiaceri io sarei disposto farla....—
Niccolò, al quale non cadeva neppur in pensiero prestar fede alle costui proteste, veniva dicendo «Che vorrà egli da me?» ma non riusciva indovinarlo. Pure gli volle rispondere umanamente, raffrenando l’ira che destava in lui quel ribaldo.
—Io ti ringrazio, Benedetto, e voglio esser persuaso di tutto quanto tu m’hai detto. Ma oramai io non ho altro desiderio se non che facciam presto, ed intanto sarai contento tu ed ognuno lasciarmi solo e non mi dar noja, chè in questi momenti l’uomo ha bisogno di star con sè stesso e con Dio, e non con altri.—
Dette queste parole Niccolò fece colla mano l’atto[833] di dar commiato, e volse il capo verso il muro, sperando torsi colui d’allato. Ma il Nobili non si mosse, e riprese sempre più melato:
—Troppo parli sicuramente, Niccolò! E’ pare che non ti curi nè di vivere nè di morire!.... tu ti butti troppo presto al disperato.... e ti credi non aver attorno che nemici, eppur non è così, Niccolò.—
Il vecchio volgendo il capo lo squadrò di nuovo con un’occhiata, che le pupille del Nobili evitarono, errando qua e là, poi disse, un pò più risoluto:
—Dov’io sia, e con chi.... lo so, Benedetto.... e dov’io sono, la Dio grazia, son contento d’esservi, ch’io morrei dieci volte non che una per non veder Firenze in mano di chi ella è.... ora te lo dico un’altra volta, vatti con Dio e lasciami in pace.—
Il Nobili parve stesse tra due d’andarsene; tacque un momento, poi, quasi riprendesse il primo pensiero, diceva:
—S’io venni qui, e s’io ti do noja ora, egli è ogni cosa pel tuo bene. Ascoltami Niccolò.... no’ siam soli.... nessun ci può udire.... Che io tenga pe’ Palleschi, e tu pel popolo, poco importa.... no’ siam vecchi tutt’a due... ed io penso pure che io ho un’anima da salvare, e codesto importa assai. Credi tu ch’io non veda i modi che tengono costoro del nuovo stato? ch’io non conosca il brutto torto che ti vien fatto? Tu mi dirai «O perchè dunque fosti tu ad accusarmi?» Come potevo io non ubbidire a quel ribaldo di Baccio? e[834] poi.... e se io ora appunto, per non imbrattarmi del sangue innocente, venissi a te per salvarti?—
Niccolò si scosse a questa parola, ma il Nobili, accennandogli colla mano onde non l’interrompesse, proseguiva:
—Vuoi tu aver in dispregio la vita perchè la tua parte fu vinta? È questo l’esempio che ci diedero i nostri antichi? E se in Firenze, ogni volta che una parte fu cacciata e dispersa, avesse fatto come vuoi far tu, sarebb’ella mai ritornata....
—Ingegnati di vivere, chè niuno ha ancor trovato chiodo che valga a conficcar la ruota della fortuna, e solo pe’ morti non v’è più speranza. Io parlo pel tuo bene, Niccolò! Vedi questi ribaldi che ti voglion veder morto, sta in te il farteli amici... tu sei ricco, Niccolò... io so che in casa tua,.... o forse al tuo podere presso il Poggio, tu hai molto tesoro nascosto.... insegnami il luogo.... ora non è tempo di miserie... i danari si ritrovano, ma la vita! Dimmi, dov’è codesto tuo nascondiglio, e con questo tesoro io saprò far in modo che quei tuoi nemici....—
Niccolò, che non aveva tesori nascosti, e che a un tratto conobbe aperta la scellerata ed avara frode del Nobili, non si potè più tenere.
—Ah ribaldo ladrone! gridò alzandosi con potente sforzo a sedere, non ti basta egli avermi involati que’ danari ch’io ti prestai per coprire le tue ladroncellerie, se non vieni ora ch’io sto in fin di[835] morte a sobbillarmi con queste tue finte compassioni per ispogliarmi di ciò che tu credi ch’io abbia, e che non ho, nè ebbi mai? Che tesori? che nascondigli? Che sogni son codesti? Io diedi pei bisogni della città infin quella poca urnetta d’argento ove tenevo le ceneri del B. Fra Girolamo, e vuoi ch’io abbia i pozzi pieni di fiorini? Tu fosti sempre un ribaldo, e sempre sarai, e non mai ti verrà fatto comprendere come usino gli uomini dabbene, che stimano la patria e la libertà più che l’oro e la vita.... e per salvarla credi tu ch’io vorrei aver obbligo ad un Pallesco? Una sola volta in 91 anni m’impacciai con Palleschi, e fu la mia mala ventura; chè la città non sarebbe forse fatta serva, io non sarei qui, e non avrei macchiato l’onor di casa mia, s’io non avessi accettato per genero un traditore Pallesco.—
Vedersi scoperto, deluso, e sentir le rigorose e pur vere parole di Niccolò, generarono una tanto velenosa rabbia nel cuore del Nobili, che per darle sfogo, e fargli dispiacere in qualche modo, disse:
—E neppur a termini in cui se’ ridotto t’abbandona la tua smisurata superbia? Ora, se tu credi non aver altra macchia all’onor tuo, se non quella d’aver un Pallesco per genero, sta di buona voglia, che mai Pallesco (e Troilo, gentiluomo ch’egli è, meno d’ogni altro) ebbe pur il pensiero di sposar la figlia d’un par tuo.—
—Oh! che discorso e codesto?—
—Io non t’avrei detta mai tal cosa, ma il tuo pazzo orgoglio mi vi sforza. Tua figlia fu concubina di Troilo e non moglie....—
Ed il vile ribaldo, godendosi tutto di far quel vituperio al povero vecchio, gli narrò da capo a fondo l’istoria del matrimonio della Lisa. Niccolò, che attentissimamente l’ascoltava, dapprima mostrò maraviglia, poi un lampo di sdegno gli balenò tra le ciglia, alla fine rimasto pensoso un momento, e ricomposto il volto in atto grave ed altero, disse, con istupore grandissimo del Nobili, che tutt’altro s’aspettava:
—Io ringrazio Iddio, e ringrazio te, Benedetto, di quel ch’io odo. Un pensiero, un solo mi travagliava uscendo di questa vita..... che mia figlia era pur moglie di quel traditore: ch’io so qual sia il debito d’una moglie verso il marito, sia pur ribaldo quant’esser si voglia.... Ma ora! Essa è disciolta d’ogni obbligo! Essa è libera! Può fuggire, può detestare chi s’è fatto traditore alla patria, e n’ha procurata la rovina!.... chè al tradimento fatto a me neppur vi penso..... A che si riduce oramai il mio caso? Aver sofferto oltraggio e villanie da un ribaldo! Essere stato preso all’obbrobriose frodi d’un Pallesco, d’un gentiluomo cortigiano! Egli ha fatto l’arte vecchia de’ pari suoi!.... Ed a me è toccato ciò che a tanti leali e dabbene. Ma l’infamia a chi resta ella? ad esso, o a me? Non macchia nè toglie l’onore la mannaja! non lo toglie l’esser ingannato da un falsissimo[837] ribaldo! ma lo macchia e lo toglie il fare quel che voi faceste, e tu, e Troilo, e Baccio: e tutti quanti siete voi Palleschi, vi siete messo in capo il cappello de’ maggiori traditori del mondo!... ed insin ch’egli duri, insin che giri il sole, diranno gli uomini e l’istorie, che voi Palleschi, non colla forza, ma con mille frodi e mille tradimenti vinceste, e noi Piagnoni, non dalla forza, ma da mille tradimenti restammo oppressi....—
Niccolò, che nel dir queste fiere parole s’era a mano a mano venuto infiammando, alzò il braccio alla fine, ed indicò la porta al Nobili con quell’autorità che usava quand’era padrone in casa sua, scordando in quel momento ch’egli era prigione. Ma neppur il Nobili non vi pose mente, raumiliato ed invilito dalla severa ed augusta presenza dell’indomito vecchio, e dal suo cenno risoluto, al quale gli parve impossibile disubbidire. Senza replicar sillaba, senza esser ardito d’alzar gli occhi in viso a Niccolò, si volse all’uscio, l’aperse, uscì, e rimandati a luogo i chiavistelli, s’andò con Dio, deluso ed isconfitto, pieno di quella vergogna e quella rabbia che si può immaginare.
L’ore intanto passavano. Il sole cominciava a volgersi verso l’occaso, e Niccolò era sempre solo nella sua prigione senza sapere nulla ancora della sua sorte, senza gli ajuti ed i conforti che sogliono pur concedersi ai condannati.
Ma non tutti l’aveano abbandonato; ed in quell’ora appunto v’era chi si disponeva incontrar ogni[838] rischio per adempiere a ciò che in cotali occasioni comanda la virtù, l’amicizia e l’onore.
Ove si tratta di rischi non s’aspetterà forse il lettore trovare il nome di Fra Benedetto, del superiore di S. Marco, di quello che dal primo capitolo di quest’istoria avea fatta così trista prova del suo coraggio. Eppure egli stesso, saputa appena la presura di Niccolò, risolse voler esser quello che l’ajutasse, e gli fosse vicino, e gli porgesse, nell’ultime ore del viver suo, i conforti della religione, fatti più soavi dal lungo abito d’una confidente amicizia. La fama, che in modo cotanto veloce ed inconcepibile sparge talvolta la notizia de’ fatti, avea divulgata la voce del tradimento di Troilo, ed il povero frate, ricordandosi d’aver egli consigliato Niccolò d’accettarlo in casa, si rammaricava pensando «Io son cagione della sua rovina!»
Questo pensiero, il pensiero d’adempiere un dovere, il desiderio di compensare in qualche modo quel male che stimava aver fatto, vinsero ogni altro rispetto, superarono ogni timore nel cuore del semplice vecchio, tanto è vero che la virtù e la più valida e sicura potenza dell’uomo! Fatta una breve ma calda preghiera a Dio che l’ajutasse e gl’infondesse quella forza e quell’ardire che per sè stesso sentiva di non avere, prese il suo bastoncello ed uscì dalla cella. Andò a quella del sottopriore, gli palesò il suo disegno, gli lasciò l’autorità sua pel caso che non avesse a tornare, gli disse pregassero per lui, esso ed i suoi frati, e raccomandandogli[839] il convento, l’osservanza delle regole, la reciproca carità, esortandolo a soffrir con fortezza le tribolazioni presenti, prese commiato dicendo: «ricordatevi di me nelle vostre orazioni.» Il sottopriore volle accompagnarlo insino alla porta del chiostro, e mentre v’andavano, parecchi frati si unirono a loro, tantochè giunti alla porteria, molti s’offerivano e facevan forza per accompagnare il loro superiore. Ma egli non volle; ringraziò ed abbracciò tutti, e disse:
—Sarà di me quel che Iddio vuole, ma l’andare in molti darebbe nell’occhio, e sarebbe talvolta cagione di peggio. Ora apri (disse al portinajo) ed andiamo col nome di Dio.—
Il portinajo penò assai prima che avesse tolte tutte le stanghe ed i chiavistelli che sbarravano ed afforzavano il portone; quando fu a volgere l’ultima chiave, guardò per una finestrella se in piazza fosse sospetto di nulla, alla fine aperse, e mentre Fra Benedetto varcava la soglia, gli prese la mano e gliela baciò, dicendogli:
—Voi fate opera santa e non vi mancherà l’ajuto di Dio.... Dite, vi prego, a messer Niccolò, che si rammenti del povero portinajo, chè anch’io prego per lui, e quando sia tra’ beati, preghi egli Iddio per me.—
Fra Benedetto se n’andò, raccomandando richiudessero bene; e prima d’ogn’altra cosa pensò andare a casa i Lapi per vedere se niuno vi fosse della famiglia, concertar con essi il modo di giungere[840] insino a Niccolò, o fors’anco condursi a lui in compagnia d’alcuni di loro. Prese per la via Larga, che da capo a fondo vide pressochè vota, e que’ pochi che camminavan per essa, erano uomini dell’ultima plebe, ovvero soldati. Le botteghe tutte a sportello, chè era un male starvi in que’ giorni a Firenze, tanto più nelle strade solitarie e fuor di mano. Il povero vecchio se n’andava muro muro effrettando il passo quanto glielo permettevan l’età e le forze; e per dir il vero gli tremava il cuore come una foglia. Giunse al palazzo Medici, ora Riccardi, e vide il portone preso da una guardia di lanzi, e via innanzi sempre lungo il muro, facendosi piccin piccino quanto poteva. Udì qualche sghignazzata tra que’ soldati, qualche motteggio, qualche villania forse mandatagli dietro, ma parlavan tedesco e non intese che gli dicessero. Sulla piazzetta di S. Giovannino, ove alloggiava il grosso di costoro, ne eran molti, non meno che innanzi alla portiera del convento, ma neppur qui gli avvenne nulla di male, e per via de’ Martelli, poi per S. Giovanni, si trovò finalmente presso il portone de’ Lapi.
Era aperto, ma vi stava di guardia un soldato col suo archibuso in ispalla, appoggiandosi colla destra sulla forcina posata in terra. Fra Benedetto sentì un momento quasi venirsi meno ogni ardire di passar presso a quel brutto ceffo, abbronzato come una vecchia pentola, con certi baffi che dai due lati si rizzavan fin sopra le tempie: pure, facendosi[841] animo e pregando Iddio d’ajutarlo, venne innanzi, e guardando il soldato quanto più pietosamente poteva, quasi per impetrarne il favore, rimase un momento sospeso, osservando se era da tentare il passo. Per fortuna il soldato era spagnolo: e gli Spagnoli in quei tempi (l’età dell’oro dell’Inquisizione) non potean vedere la tonaca d’un domenicano senza sentirsi quel certo brivido che a giorni nostri prova, verbigrazia, un mariuolo alla vista d’un’uniforme di giandarme. Per la qual cosa costui, senza molto scomporsi, fece però più che altro, riverenza a Fra Benedetto, e tirandosi da un lato gli sgombrava l’entrare.
—Non sempre l’apparenza dice la verità, pensò questi passando innanzi; e gli sovvenne in quel momento di Fanfulla, che con quel suo terribil viso era pure un uomo dabbene. Ma ben altri pensieri l’assalsero appena fu dentro, e visto l’androne e il cortile pieno di forzieri, di casse, di masserizie, e scrivani con registri che una ad una le notavano, viste andar in volta ed affaccendarsi facce di mal augurio, che avean viso di birri, o dipendenti dal bargello o dal fisco, conobbe che quella disgraziata casa era sottoposta ad un saccheggio legale, per la confisca pronunciata dalla Balia sui beni, com’essi dicevano, de’ rubelli.
Chi abbia lasciato un suo giardino bello, fiorito, ben coltivato, e lo riveda poi dopo che l’innondazione d’un torrente l’ha tutto guasto e sconvolto, lasciandolo coperto di melma e di ghiaja, prova assai[842] men rammarico che non Fra Benedetto vedendo quella casa, sede un tempo d’ordine, di dovizie, di senno, e di tutto quanto rende spettabile ed onorata una famiglia, venuta ora in mano di que’ ladroni che la svaligiavano, e ne facevano ogni mal governo. Gli vennero agli occhi le lacrime, e mentre si guardava attorno cercando chi gl’insegnasse, se pur v’erano, i padroni, scorse in mezzo al cortile il Nobili ritto, che parlando con un omaccio di perversa apparenza, gli dava alcune chiavi di molte che teneva in mano, e diceva parlando d’alcune ch’egli serbava:
—Queste delle cantine le terrò io, e vedremo poi a miglior agio....—
Intanto, di dietro la sua larga persona, fatta maggiore da un ampio e maestoso lucco, tutto di bel panno rosato, usciva una donna, che col grembiale si copriva e s’asciugava gli occhi, e scostandosi da quel ribaldo veniva, senz’avvedersene, alla volta di Fra Benedetto. Non s’accorse di lui se non quando fu quasi per dar in esso col petto; ed alzando a un tratto gli occhi lo riconobbe, ed egli lei.
—Oh povera Fede, tu piangi!....—disse il buon vecchio, che neppur esso aveva le palpebre asciutte.
—Ed anche.... voi!.... e.... come.... non.... piangere?...—
E non potè dir altro, chè la convulsion del singhiozzo le stringeva la gola. Oltre tutte l’altre[843] tribolazioni di que’ giorni, e quasi a compimento, essa stessa avea dovuto consegnar tutte le chiavi al Nobili. Quelle chiavi che da 50 anni erano il suo pensiero, la sua cura, la sua gloria, che considerava come una parte di sè stessa, che racchiudevano quelle provvisioni d’ogni qualità, quelle biancherie filate in gran parte dalle sue mani, o almeno scelte, comprate, mantenute, ordinate da tanto tempo da lei sola, ed ora tutta quella roba in che mani andava?
Cuori di padrone di casa, di cameriere, di donne di guardaroba!.... cuori di donne, di zie vecchie, di ragazze di 50 anni, voi sapete che dolore fu codesto!
Fra Benedetto s’impegnò alla meglio farle animo e consolarla, poi s’informò se vi fosse in casa nessuno della famiglia, e seppe che la sola Lisa col suo fanciullino era, si può dir, prigioniera dalla sera innanzi nella sua camera all’ultimo piano; udì l’istoria delle diavolerie di Gavinana, e questo racconto confusamente narrato, tramezzato sempre da singhiozzi, da esclamazioni, da lagrime e sospiri, si faceva, mentre avviatosi per condursi presso la giovane, veniva lentamente salendo le scale.
—Oh Madonna Santissima! diceva M. Fede stendendo la mano al saliscendi dell’uscio, che spettacolo vedrete!... la poverina pare smemorata! e non ha dormito mai tutta la notte, o non piange, e sta muta, cogli occhi fissi in terra, ed ogni poco dice: Era un traditore! e non c’è verso a farla[844] muovere, o parlare, e non risponde altro.... Oh Vergine benedetta, in che modo ha a finire questa casa, e noi poverine, sventurate!... E di messere che ne sarà?.... e de’ figliuoli.... e di M.a Laudomia?.... neppur sapere dove sian capitati.... Oh Signore, che rovina! che rovina!—
—Ora via, apri, disse il frate, qui non v’è rimedio, non v’è speranza che in Dio.—
La vecchia aperse, ed entrarono.
Lisa sedeva innanzi ad una tavola; v’appoggiava i gomiti e le braccia, e su queste il capo, tantochè il viso si nascondeva, mostrando soltanto la capigliatura disordinata e negletta, come lo eran le vesti, che l’avvolgevan incomposte, più che non la coprissero.
Accanto alla tavola si tenea ritto il piccolo Arriguccio, e per esser troppo piccino, non aggiungendo agli orli di essa col viso, vi s’attaccava colle manine, tra lo sbigottito e ’l piangente di veder la mamma a quel modo; e colle sue dita, piccole e tonde come pignoletti, facea forza inutilmente per sollevarsi tanto che la vedesse in volto; ma essa immobile e muta, neppur parea s’avvedesse degli sforzi del fanciullino.
—Povera infelice! disse Fra Benedetto commosso, se fu grande il tuo errore non è minore il castigo!....—
Poi pianamente fattosele dappresso la chiamò più volte invano, la scosse, poi dolcemente postale una mano sotto la fronte, le sollevava il capo. Essa[845] mise un gemito, come le desse noja quest’atto; pure alzò il viso, affissò il guardo nel frate, e fu tale, che questi più che mai doloroso, pensò in cuor suo:
—Oh Dio! che il senno di costei si smarrisce! Ed essa intanto scrollando il capo:
—Eh?.... Che ne dite?.... L’avreste immaginato ch’egli era un traditore?—e rimasta muta un momento, soggiungeva, stringendosi nelle spalle:
—Eppure è così.... Era un traditore!—
—Oh figlia benedetta! Poverina! Troppo avete ragione di dolervi.... ed io, che parte ho inteso i vostri casi, son venuto poi apposta per sentir come stavi, per profferirmivi in quel poco che posso, per consolarvi e pianger con esso voi.... Poverina.... via... su.... un po’ di forza.... è tremenda la vostra tribolazione.... ma Iddio non le manda per nostro danno, le manda perchè a lui ci volgiamo, per rammentarci che non s’ha a cercar il bene quaggiù, ma in Lui solo....—
Lisa pareva tutta attenta a queste parole, ed il buon vecchio ne traeva felice presagio; ma essa a un tratto interrompendolo, e prendendogli con forza convulsa le mani, gli diceva:
—Ma ditemi il vero, Fra Benedetto, voi l’avreste creduto, che era un traditore?—
—E che volete che vi dica, figliuola benedetta? No, non l’avrei creduto; ma chi può penetrare ne’ cuori se non Iddio.... tant’è vero, che io pur troppo dissi a messer Niccolò....—
—Ah dunque lo sapevate!.... ma perchè, perchè[846] non dirmelo anche a me poverina? perchè mettervi d’accordo tutti per tradir questa disgraziata?—
—Ma via, chetatevi figliuola, chetatevi per l’amor di Dio, voi non m’avete inteso....—
E M.a Fede anch’essa tutta piangente: —Chetatevi, madonna, ch’egli non v’ha detto cotesto....—
—Ed io sto cheta, non dico nulla.... che ho io detto?—-
E l’infelice li guardava, or l’uno or l’altra, con occhi pieni d’un talchè così nuovo, così spaventato, che ambedue più che mai ne sbigottivano.
—Oh! non pensate ora a coteste cose, via, fatevi un po’ di forza!.... cacciate la memoria di quel disgraziato... perdonategli.... pregate Iddio che abbia pietà di lui; poi dimenticatelo....—
—E come ho io a fare per dimenticarlo se io l’ho sempre qui (e colle mani si premeva il petto), qui nel cuore che me lo tormenta, me l’abbrucia, e non mi lascia requie nè riposo?.... io che l’amavo tanto, che non vedevo se non lui solo nel mondo!... perchè non dirmi quand’era tempo «Bada, ch’egli è un traditore!....»
—E perch’egli è tale, per questo appunto tu l’hai a scordare figliuola, e tanto più ora, a’ termini in che è ridotto il babbo! pensa al povero padre tuo!....—
—Oh! il babbo.... è vero.... dov’è, che gli hanno fatto?—
Disse Lisa quasi colpita da una spaventevole idea del tutto nuova ed inaspettata:
—Ah, è vero, sciaurata!... è vero.... ma s’io non ho più il capo!... compatitemi Fra Benedetto, abbiate pietà di me, povera pazza.... io lo sento, il cervello non è più mio,... oh! ditemi, del babbo che n’è stato!...—
E qui cacciandosi le mani ne’ capelli, dette finalmente in uno scoppio di pianto, versando lacrime a torrenti, e dicendo interrottamente:
—E pensare che.... sono.... stata io cagione di tutto!... Che.... avrò all’anima.... la morte sua!.... Oh! disse alzandosi risoluta, e racconciandosi i panni indosso, chè da ogni lato, male allacciati, le cadevano, andiamo per l’amor di Dio, andiamo a lui subito.... ch’io voglio morire a’ suoi piedi.... io non posso morire altrimenti. Ah, poterlo salvare! poter trovare una via di morir per lui!... insegnatemi il modo, e prendetevi... che posso io darvi?... che m’è rimasto?... la vita di questo fanciullo?.... prendetevela.... tutto, tutto! purchè il sangue di quel vecchio non mi spruzzi il viso, non mi piova sull’anima come un fuoco d’inferno....—
Il Frate e M.a Fede, mentr’ella smaniava a quel modo, mezzo fuori di sè, le stavano attorno tentando ogni via di racchetarla, ora con parole, ora con atti, con carezze, con persuasioni, che neppure udiva, o non curava quell’infelice. Ma lo sfogo del tanto piangere le giovò più di tutto, e si venne a mano a mano rallentando quello stato convulso e[848] violento, divenner più rari i singhiozzi, più lento l’ansare del petto, sembrò volgesse gli sguardi più naturali, tanto che a Fra Benedetto parve poter acconsentire a condurla fuori, e tentare con essa di penetrare nelle carceri del bargello.
M.a Fede la venne rassettando per tutta la persona, e le compose alla meglio i capelli e le vesti, mentre Lisa, recatosi in braccio il bambino, stringendolo e baciandolo, diceva, bagnandogli il viso di lacrime:
—Oh poverino! Quando potrai conoscere l’istoria di casa tua, i casi della mamma, saprai quanto caro ci sei costato a tutti.... Fede, ti raccomando Arriguccio.... chiuditi a chiave, sai!—
Ripose in terra il fanciullo e si mosse per uscire: poi fermatasi a un tratto si rivolse, tornò ad abbracciarlo, e disse, tenendogli tra le mani il capo:
—Oh bimbo mio, Dio ti benedica! Dio non ti castighi mai per le colpe di tua madre!.... tu che sei innocente, oh potessi pregar per me!—
Lo baciò un’ultima volta, dicendo:
—Ti vedrò ancora, bambino mio? poi, staccatasi da lui, tenne dietro al frate e scesero in cortile.
Pensò questi di far motto al Nobili per ottener che la Lisa potesse uscire, o, meglio ancora, impetrare che le venisse concesso veder il padre.
Trovò messer Benedetto in un angolo del portico, ove, tra un monte di masserizie, ed attendendo a ciò che faceano que’ suoi ribaldi, s’era seduto[849] sul seggiolone proprio di Niccolò, su quello che, collocato nella stanza del letto accanto al cammino, troppo era noto a Fra Benedetto. A quella vista gli si rinnovò più dolorosa la memoria del perduto amico, e non potè accostarsi al Nobili, e parlargli, senza che negli occhi e nel volto non apparisse turbamento grandissimo. Pure, facendo forza per comprimere codesti affetti, gli disse:
—Messer Benedetto, io v’ho a chieder in grazia, che sia concesso a M.a Lisa, alla figlia di Niccolò, d’uscir di questa casa... e che ella possa condursi sicuramente al bargello, e veder suo padre. Voi non vorrete negarle questa consolazione, non è egli vero?—
Il Nobili fu per dir no addirittura, chè ben lontano di sentirsi disposto a far piaceri a Niccolò, gli avrebbe fatto volentieri invece quel maggior dispiacere che avesse potuto; adirato e rabbioso com’era tuttora per la scena che abbiamo dianzi descritta. Ma non potendo mancare alla sua natura d’ipocrita, considerò che a nulla gli sarebbe giovato mostrarsi duro in questo caso, ed invece poteva con poca spesa apparire caritatevole, umano, e superiore ad ogni pensiero di vendetta o di parte. Disse dunque:
—Veramente io non dovrei, non potrei... chè gli ordini son severi. Pure.... conosco anch’io, sarebbe troppo disumana cosa impedir che una figlia abbracciasse il padre.
E messo un sospiro, alzò gli occhi al Cielo, aggiungendo:
—Già abbastanza son infelici costoro. Oh, la ragion di stato!... ell’è pur la terribil cosa!...—
—Iddio vi tenga conto di questa vostra umanità; ora dunque siate contento darci un de’ vostri uomini che ci accompagni.—
—Oh, ser Cecco, disse accennando ad un ometto sparuto, e mal in arnese, fate motto.... Andate con costoro, e procurate che possano entrare da Niccolò. Se qualcuno facesse opposizione, valetevi del nome mio.—
Ottenuta questa licenza, si mosse il Frate colla Lisa e la loro guida: passando sotto l’androne per uscire in istrada, vide in terra buttato tra un monte di robe anco il ritratto di Fra Girolamo, e s’accorse che per ischerno, l’aveano imbrattato tutto col carbone, e fategli le corna ed altre insolenze e sporcizie; ne torse gli occhi con dolore, e affrettando il passo, gli parve mill’anni trovarsi fuori di quel luogo di tanta desolazione.
L’ira alla quale s’era lasciato trasportare Niccolò contro il Nobili, e le rigorose parole usate con esso, le ripensava l’afflitto vecchio nell’amarezza del cuore, dolendosi di non aver saputo raffrenar quell’impeto, quando l’appressarsi della sua ultim’ora, avrebbe dovuto più infondergli la mansuetudine e la pazienza.
Raccolse i pensieri, e procurando dimenticare quella dolorosa scena, tutti li volse a Dio chiedendogli perdono del suo errore; offerendogli il desiderio, se non altro, di perdonare a chi avea procurata la rovina di Firenze, e pregandolo volesse per sua misericordia purgarlo in quegli ultimi momenti d’ogni lievito d’odio gli fosse rimasto nel cuore.
Così a poco a poco gli venne pur fatto di calmarsi, e stette a questo modo insin che sonarono[852] in Palagio le 22 ore. Udì allora nell’andito vicino un rumor di passi e quel suonar di chiavi che tanto di frequente ferisce l’orecchio de’ poveri prigionieri: poi sentì aprirsi la toppa della sua segreta, scorrere i chiavistelli, e finalmente spalancato l’uscio entrò un uomo, che dalla cappa scura e da una medaglia che avea al collo con suvvi il giglio fiorentino, conobbe essere il cancelliere della Balia. Cinque o sei birri e tavolaccini l’accompagnavano, e fecero cerchio intorno al cancelliere suddetto, il quale, volto a Niccolò, gli disse, usando le parole che si costumavano in quella trista occasione:
—Niccolò, assai mi pesa di doverti annunciare ciò che è pur mio ufficio annunciarti, che per partito vinto di tutte fave nere dell’eccelsa Balia del popolo Fiorentino, tu sei condannato nel capo, quale ti sarà mozzo questa notte ad ore sei nel cortile del bargello. Così il nostro Signor Jesù Cristo abbia in pace l’anima tua: Niccolò, rispondimi, hai tu inteso? affinchè costoro possano farne testimonianza.—
—Io ho inteso.—
Disse il vecchio, che a quell’annunzio non diede col volto, nè in tutta la persona, segno veruno di alterazione: poi soggiunse tosto, parlando con tranquillità, ma al tempo stesso in modo grave e solenne:
—Non per me, ch’io accetto volentieri questa morte pe’ miei peccati, ma per salvare i diritti[853] de’ cittadini e di Firenze, e la fede de’ patti giurati, quale si falsa e s’offende ora nella persona mia, protesto e dichiaro irrita e nulla questa condennagione.—
Que’ birri e quel cancelliere, che avea di birro tutto fuorchè il vestire, e che non s’impacciavan d’altro, che del loro ufficio, e non intesero o non badarono alla protesta di Niccolò, che scambiarono colle solite dichiarazioni d’innocenza di tutti i condannati, al momento in cui vien loro annunciata la morte. Lo fecero alzare senza maltrattarlo, nè usargli gran riguardi o mostrargli compassione, ma coll’indifferenza che s’acquista in ogni mestiere a forza d’abitudine; ed ajutandolo, chè s’avvedevano mal potea reggersi in piedi e camminare, lo condussero passo passo insino alla cappella.
Dal 1260, quando il palazzo del bargello serviva a’ Priori, ed essi udivan la messa ogni mattina in questa cappella, non era stata mutata in nulla, e si manteneva nella sua divota e venerabile antichità. Era un rettangolo coperto da un’ardita ed elevata vôlta, che quattro spine rilevate, innalzandosi dai capitelli di sottili colonne poste agli angoli, tagliavano in quattro parti, incontrandosi nella sommità, ove, a guisa di chiave, era lo scudo fiorentino di parte Guelfa. Le spine eran dipinte a liste in traverso rosse e bianche: i campi d’un azzurro annerito omai dal tempo e dal fumo de’ ceri, sparso di stelle d’oro. Di faccia all’ingresso, l’altare[854] con un Cristo crocifisso grande al naturale di legno nero, coperto sino a mezza gamba d’una tunica o clamide oscura ricamata d’argento, come il Volto Santo di Lucca: da ciascun de’ lati due ceri accesi, le mura tutte dipinte per mano di quegli artefici che ornarono il camposanto di Pisa, Buffalmacco, Gaddi, Tafo ec., ma per esser affumicate poco più si vedevano le loro pitture. La luce riflessa dal sole cadente (dritta non potea giungervi) ravvivava i colori dell’invetriate dipinte di due finestroni, e penetrando nell’interno della cappella vi spargeva una tinta misteriosa ed incerta nella quale spiccavan soltanto i lumi dell’altare.
Vicino a questo era già radunata la compagnia della Misericordia: quattro giornanti ed un capo guardia, coperti di loro cappe nere colla buffa calata sul viso del quale gli occhi solo apparivan per due buchi tondi. Aveano appoggiato al muro in un angolo un lor crocifisso grande, portatile però, sul quale un archetto confitto nel braccio superiore reggeva un drappo nero impresso di due croci bianche.
Quando entrò Niccolò sorretto da’ birri, i fratelli attendevano a recitar i salmi del vespero a voce bassa. Appena lo videro si mossero tutti ad incontrarlo, e levatolo di mano a que’ ribaldi, che tosto se n’andarono all’uscio e vi rimasero di guardia, disse uno di loro:
—Iddio ti salvi, Niccolò, e dacchè egli ti chiama a sè dalle miserie di questa vita mortale, noi[855] siam qui per assisterti e prestarti tutti que’ servigi che per noi si potrà, come è dover nostro, e come vuole la nostra santa regola.—
Ed in così dire lo volsero verso un lettuccio posto dirimpetto all’altare ove i condannati a morte usavano riposare, se stanchezza od infermità o vecchiaja lo richiedesse.
Sedutosi Niccolò, rispose:
—Io vi ringrazio, fratelli. Iddio sia quello che vi rimuneri della vostra carità.—Costoro allora andarono in un angolo ov’era preparata una piccola tavola e la portarono d’appresso al vecchio: poi con una tovaglia di bucato apparecchiarono pulitissimamente, ponendovi stoviglie, posate, tutto in somma l’occorrente per la cena, meno i coltelli, chè, non eran permessi ai condannati, e domandarono a Niccolò quando volesse cenare e qual vivanda desiderasse.
—Io non vo’ aggravarmi di cibo, figliuoli, che, per queste poche ore debbo pensare allo spirito e non al corpo: pure, per non ismarrire troppo le forze, accetterò un po’ di brodo e due dita di vino, e di nuovo di tutto vi ringrazio.
Non tardarono a comparire l’uno e l’altro, e preso questo poco ristoro parve che visibilmente Niccolò si riconfortasse, ch’egli era assai accasciato e cadente quando era quivi venuto. Quelli che lo servivano, vistolo star più ritto e girar gli occhi non più tanto languidi e spenti come innanzi, parve concertassero non so che fra loro, bisbigliandosi[856] poche parole all’orecchio; poi quattro di essi se n’andarono verso la porta, tenendosi tra quella e Niccolò, il quinto gli si pose a sedere accanto, come per intrattenerlo secondo s’usa co’ pazienti, ed accostandogli la bocca all’orecchio, gli disse pianamente:
—Messere, io v’ho a palesar una cosa... ponete mente di non dar segno veruno, che que’ ribaldi di guardia non se n’avvedessero.—
Niccolò, un po’ maravigliato, pure disse che farebbe.
—Voi dovete sapere, riprese l’altro, ch’io sono il Bozza; e quelli colà sono messer Bindo vostro, messer Lamberto, e quello che gli dicon Fanfulla, ed un loro famiglio: e jernotte, prima dell’alba, mi vennero a chiamare, e s’è concertato di barattar il giro co’ giornanti che dovevan venirvi assistere, e siam venuti noi in vece, e sotto queste cappe siamo benissimo armati, e ci siam risoluti o liberarvi o morire con esso voi, e quel che vi promise il Bozza in S. Marco, ora ve l’attiene... ed il modo l’udrete ora da messer Lamberto, ch’io ve lo mando qui, e così un po’ per uno parlerete con tutti senza far parere di nulla, che così usan fare i Fratelli co’ condannati....—
E prima che Niccolò potesse rispondere, s’alzò, e poco stante Lamberto e Bindo eran venuti a sedersi a’ fianchi del vecchio: presagli nascostamente ognuno una mano, che tratto tratto di sotto la buffa caldamente baciavano, disse Lamberto:
—Nostro solo timore era che non poteste reggervi e camminare; poichè potete, la Dio grazia, il resto lo faremo noi.... ci getteremo su codesti birri di guardia, e se ci vien fatto liberarcene al primo senza che levino il rumore, abbiam qui con noi una cappa della Misericordia che vi metteremo indosso e potremo uscire: verranno altri Fratelli... e parrà che ci diano la muta... io spero che ci verrà fatto.... altra speranza non ci rimane.... Molti del popolo son ordinati fuori ad aspettarci ed ajuteranno...—
—Lamberto, Bindo, figliuoli miei! disse Niccolò tagliandogli le parole, io ringrazio Dio ch’Egli m’ha procurato un conforto ch’io mai non mi sarei aspettato, e che non meritavo... quello di vedervi ancora una volta.... io vi ringrazio.... e conoscendovi, so che fareste più che non dite.... ma io non accetto le vostre animose offerte, e vi prego e vi comando come padre di togliervi affatto da codesti pensieri. S’io potessi uscir di qua senza pericolo, senza danno d’alcuno, io non vorrei.... pensate ora s’io vorrei mettendo a rischio la vita di tanti, le vite vostre, che potranno forse essere spese un giorno per l’utile della città! E vi pensate che mi pesi morire?
—Che mi possa parer duro dopo 91 anni di vita, dopo tanti travagli incontrati per veder onorata e felice questa povera patria, che son pur troppo andati invece a riuscire a vederla ora caduta al fondo d’ogni miseria, senza potervi far contrasto o trovar rimedio!.... Creder ch’io possa temer la morte?
—Io la desidero figliuoli! Essa è il solo pensiero tranquillo e dolce tra tanti dolorosi che mi travagliano! e voi vorreste levarmelo? vorreste togliermi quel riposo che Iddio concede alfine a queste membra logore ed afflitte, appunto perch’Egli conosce che han sofferto abbastanza? Qual ajuto potrei dar ancora a questa disavventurata patria? Vorreste voi che scordassi per me quegli insegnamenti che vi diedi, essere scopo dell’uomo non il protrarre la vita più ch’egli può, ma usarla virtuosamente, e saperla lasciare virilmente quando bisogna?—
I due giovani a quelle parole non poterono raffrenare le lagrime, e con caldissime istanze lo stringevano, tentando ogni via di rimoverlo da quel proposito; Niccolò allora, vestendo il suo aspetto di quell’autorità, alla quale nessun de’ suoi aveva mai avuto pur il pensiero di far contrasto, diceva:
—Io credevo coll’esempio e colle parole avervi insegnato quella virtù che s’appartiene a’ buoni cittadini, e mi confortavo d’avervi allevati in modo che in ogni occasione porreste l’utile della patria innanzi ad ogni altra cosa.... Volete voi ora che vada alla morte col disperato pensiero che neppur questo lo potetti ottenere? Che un vecchio di 91 anni viva pochi giorni più o meno, importa forse alla salute di Firenze? Ad essa pensate, e non a me... pensate ad uscir di qui, e ridurvi in salvo, voi che siete giovani, e vi potete valere della vita vostra.... pensate a rannodar i fuorusciti della parte[859] del popolo.... io sono invecchiato in queste bisogne, e so come si conducono.... pensate a preparar la vendetta.... a tornar forti un giorno, e liberar quella patria che non abbiam saputo guardar dai traditori.... a questo pensate se siete figli di Niccolò, e se vi preme esser da lui benedetti.... non vidi io morire i vostri fratelli? Piansi forse o mi lamentai, o tentai impedirli che facessero il debito loro? E credete voi ch’io gli amassi meno che voi non amate me? Orsù, neppur una parola voglio aggiungere, chè il contrastar di tal cosa troppo invilisce me e voi. Addio, figliuoli, dividiamoci ora, e ci rivedremo felici in quella patria che conquistano i forti e non i codardi; in quel regno che, al detto di Cristo, vim patitur, et violenti rapiunt illud.—
La mirabile ed indomita costanza del valoroso vecchio, si comunicò come una fiamma a’ cuori de’ due giovani, che da un tanto esempio si sentiron, per dir così, trasportati in una regione superiore, ove rimanean sotto i piedi gli affetti e le miserie terrene.
Convinti che ogni loro istanza sarebbe tornata vana, ed accesi di desiderio di mostrarsi quali egli voleva che fossero (non potendolo salvare era la sola consolazione che rimanesse a dargli) gli promisero ambedue non iscostarsi un punto dalla sua volontà.
—Noi saprem vincere il nostro dolore, disse Lamberto, e la vostra virtù ci sarà di sostegno,....[860] non avrete a vergognarvi de’ vostri figli.... e finchè ci duri la vita, vi giuriamo che il vostro volere, i vostri pensieri saranno i nostri....—
—E così vi benedirà Iddio, rispose Niccolò rasserenato tutto; così verrete accompagnati sempre dalle benedizioni mie; e le mie preghiere v’ajuteranno dal Cielo, ove per bontà d’Iddio spero aver luogo.... Ora due altre parole, per le cose di quaggiù, poi non avrò altro pensiero in terra. Lamberto, tu ti ricorderai, che non è gran tempo, io ti raccomandava la casa mia.... la casa mia ora, è tutta in questo fanciullo. Ricordatevi che siete fratelli, amatevi, aiutatevi, e tu, Bindo,.... dacchè Iddio ti vuole orfano.... odi i consigli di Lamberto, e secondo quelli informa la vita tua.... Laudomia non accade raccomandartela, Lamberto, essa è tua moglie, e ti conosco. Ma Lisa! Oh! quando nacque costei, chi m’avesse detto!.... sia fatta la volontà di Dio!.... Costei ha più che mai bisogno di conforto e d’ajuto, povera disgraziata! Sappiate....—
E qui narrò a’ figliuoli tutto quanto avea inteso dal Nobili.
Rimaser muti i due giovani a questo racconto, tanta fu l’indegnazione che gli invase contro quel traditore, e tanta la meraviglia d’un caso che era del tutto contro ogni loro aspettazione; e con brevi parole, dato prima un qualche sfogo allo sdegno, narrarono anch’essi al vecchio tutto quanto era avvenuto dopo che s’eran lasciati sulla strada di[861] Prato; dissero aver lasciata a M.e Murlo, in custodia del Pievano e di Selvaggia, Laudomia, la quale, prostrata affatto di forze ed ammalata, non s’era potuta movere, ma avea ad ogni conto voluto ch’essi venissero subito a Firenze per tentar tutto onde salvare il padre, e toccò a Niccolò maravigliarsi alla sua volta, che potesse giungere tant’oltre l’umana scelleratezza, e che tanto avesse potuto fidarsi d’un ribaldo qual era Troilo.
—Iddio ci voleva castigare, e ci rese ciechi.... ci tolse l’intelletto.... quos vult perdere dementat.... anche in questo, fiat voluntas tua!....
—Ora portate alle mie figliuole l’ultima mia benedizione, a Laudomia, all’angiolo della mia povera casa.... ed a Lisa il mio perdono.... Così voglia dimenticare Iddio ciò ch’ella ha fatto.... Tenete cura di quella povera derelitta, e confortiamci almeno, chè la vituperosa frode onde fu tratta in inganno, non macchia chi ne fu vittima, ma ne macchia e n’infama l’autore. Ringraziate Fanfulla, il Bozza, il tuo famiglio, che per amor mio volean porsi a tanto disperato pericolo, Dio vi rimuneri, vi benedica tutti.
In quella si fece alla porta un poco di rumore. Si volsero i due giovani, e Niccolò, lasciando a mezzo la frase, e videro il Bozza che stato un momento in parole con chi era al di fuori, s’accostò dicendo:
—V’è qui Fra Benedetto di S. Marco, e conduce [862]seco M.a Lisa.—
—Dio del Cielo! disse Niccolò, pieno di vivissima allegrezza, come ho io meritato tanta consolazione!—
Ed era in effetto la maggiore che ancor potesse provare.
—Voi, disse a’ figliuoli, tenetevi discosti.... non è bene vi riconoscano neppur costoro.—
Venne avanti il frate, seguito dalla Lisa, che a capo chino, e tutta tremante, piangeva.
—Oh! Fra Benedetto, voi avete pur voluto porvi a tanto disagio, e forse pericolo, sol per venirmi confortare!—ed i due vecchi s’abbracciarono e rimasero così stretti un buon poco, mescolando la loro veneranda canizie in quel caldissimo abbraccio. Quando se ne sciolsero, Niccolò aveva a’ suoi piedi, colla fronte sulla terra, l’infelicissima Lisa, che la vista del padre in quel funebre luogo, de’ tremendi apparecchi della sua morte, l’oribil pensiero che tutto ciò accadeva per sua cagione l’avean colpita d’un tanto terrore, l’avean colmata d’una così desolata disperazione, che avrebbe desiderato morire, essere inghiottita e coperta da que’ lastroni di marmo sui quali appoggiava la fronte, annichilarsi sull’attimo purchè sfuggisse ad un tormento mille volte maggiore di quanto avea mai potuto immaginare. Scosse le membra da un tremore convulso, molle d’un sudore diacciato, diceva tratto tratto con voce spenta:
—Perdono.... perdono!....—
Il cuor d’un nemico n’avrebbe sentita pietà,[863] s’immagini quale ne dovesse provare quello d’un padre! Si volle movere per levarla da terra, ma Fra Benedetto non gli dette tempo, e sollevandola e facendogli animo con amorevoli parole, che accompagnava Niccolò con altrettante, fecero in modo che Lisa alla fine pur si rizzò. Quand’ebbe alzato il viso ed affissate nel padre due pupille immobili, invetrite e fuori del punto, questi fece in cuore l’istesso giudizio che avea fatto poco innanzi Fra Benedetto, e disse, levando gli occhi al cielo:
—Oh disgraziata! ecco l’ultima delle sventure!—
Poi presale una mano se la fece accostare, le pose sulla fronte quella che avea libera, e gli parve toccare un marmo. Procurando render la voce, gli sguardi quanto poteva più dolci, disse, tirandosi sul petto il capo della figliuola:
—Qua.... vien qua, poverina!... appoggia qui... riposa questo tuo povero capo.... riscaldalo sul cuore di tuo padre che t’ha perdonato, e ti compiange... oh! come sei fredda, poverina... Dio di misericordia, dimentica ciò che nell’ira m’uscì di bocca contro quest’infelice.... rammenta soltanto il mio perdono ed il suo pentimento... ha assai sofferto, fu punita abbastanza questa poveretta! Lisa! figliuola mia!.... fatti animo, ascoltami!.... È tuo padre che t’ama, e ti parla per consolarti.—
Lisa, che aveva sempre sin allora seguitato a tremare, senza dar segno che mostrasse se udiva o no i conforti del vecchio, parve un poco si risentisse, e rispondeva:
—Io v’ascolto, babbo... Iddio vi rimuneri d’essere sceso a tanto di farmi queste carezze... a me sciagurata!—
—Poverina! Via.... su.... fatti animo.... noi, lo vedi, ci abbiamo la lasciare.... fammi contento, Lisa, ch’io possa vederti un po’ più a modo, un po’ più tranquilla... io, te lo ripeto, t’ho perdonato, e ti benedico. Non fu tua colpa, poverina!.... tu fosti tratta in errore!.... e quale errore!.... ed anche noi vi cademmo.... Ma tu! tu sei stata troppo tradita... Ora..... sappi... io ho a darti una cosa.... ti sarà di dolore, di maraviglia sul primo.... ma ti scioglie pure d’un gran debito.... ti toglie a maggiore sventura.... ti senti l’animo pacato abbastanza da poterla ascoltare?—
—Io son tranquilla, babbo.... lo vedete.—
Niccolò considerando l’ansar del petto, il pallore, il guardo soprattutto della Lisa, non era troppo rassicurato, pure, parendogli e sperando farle bene piuttosto che male, diceva:
—Odi dunque Lisa mia. Tu sai pur troppo d’essere stata tradita... ma sin dove giungesse il tradimento, tu non lo sai.... Ora poni mente, prima ch’io ti dica altro, che la vergogna è di chi inganna, non di chi vien ingannato... onde non istar a creder di te stessa quel che non fu nè poteva essere... chè una perversa non lo sei stata mai.... sappi dunque.... e per poco ti direi consolatene.... tu non sei moglie di Troilo.... non lo fosti mai....—
Lisa si scosse.
—Chetati, poverina! Odimi..... vedrai.... chè Iddio forse t’apre una via.... Dammi retta. No, tu non sei moglie sua, egli finse il matrimonio..... quello che credesti un prete era il suo staffiere, poi, non contento quel traditore, insidiava l’onore di tua sorella: ier notte la condusse al Barone, e se Iddio misericordioso non l’ajutava essa non potea fuggirgli. Ed in poche parole le narrava come era passato il fatto... Poverina!... lo so, t’ha a parere orrendo tal caso, e così parve a me quando lo seppi.... ma considera che in te non è colpa, poichè non fu volontà.... e neppur vi può esser vergogna... fu sventura, sventura tremenda, e non altro... ma non sarebbe forse sventura peggiore trovarsi ora irremissibilmente sua moglie? Tu invece ora sei di tua ragione, puoi.... non ti dirò odiarlo.... perdonagli figliuola..... e così gli possa perdonare Iddio.... ma puoi fuggirlo.... non sarei legata ad un traditore.... potrai viver se non felice, tranquilla ed onorata almeno, co’ fratelli, con Laudomia.... andare dov’essi andranno.... e forse.... io son vecchio.... vedi.... e so che quaggiù nulla è durevole: non lo è la felicità, ma neppur il dolore.... forse verrà tempo che le ferite di quel tuo povero cuore sian rimarginate....—
Niccolò parlava, e Lisa, tenendogli fissi in viso gli sguardi, parea che l’ascoltasse. Ad un tratto battè insieme le mani stringendole con forza, e disse con quella voce che esce da un cuore spezzato dal dolore:
—Ma dunque non m’ha amata mai, mai!.... neppur allora!.... non è stato mai vero quel che mi diceva! neppur una volta!.... E che viso! che bellezza d’angiolo! Com’eri bello Troilo!....—
A quel punto Niccolò, che teneva sulla figliuola fisso lo sguardo, pieno di funesti presentimenti, vide il suo volto, le sue pupille tramutarsi tutt’a un tratto, e cangiarsi, per dir così, in un nuovo viso, come se il primo, a guisa di maschera che si tolga, fosse scomparso.
Il lume della ragione, che già in lei vacillava, s’era a quest’ultimo colpo spento del tutto: il cervello dell’infelice avea dato volta: era pazza.
Rimase immota un buon pezzo, poi stese le braccia come chi per sonno o per accidia si stira, poi rise, e prestissimamente movendo le labbra parea tra se ragionasse, facendo gesti or con una mano or con l’altra.
Niccolò si coperse gli occhi colle mani, e Fra Benedetto, impietosito di lui e della Lisa, diceva con voce alterata:
—Niccolò, ora è tempo di ricordarsi che Gesù Signor nostro, santo ed innocente, patì sulla croce più che tu non soffri in questo momento! Patì anco per te, anco per la povera Lisa. Adoriamo il suo giudizio su questa meschina. Sappiam noi se ciò non sia pel suo meglio? Noi sappiam certo che l’anima sua fu anch’essa redenta dal suo sangue divino.... Da un Dio di tanto amore, come non isperar misericordia? Adoriamo, e chiniam la fronte,[867] e diciamo insieme: «Non sicut ego volo, sed sicut tu.»
Niccolò, che era rimasto sin ora colle mani sugli occhi, ripetè:
—Non sicut ego volo, sed sicut tu!—
E le braccia gli caddero sul lettuccio prive di forza.
Visto poco lungi Fanfulla, che quantunque ricoperto riconobbe all’alta statura, gli accennò, e fattoselo accostare, gli disse pianamente:
—Conducete costei a casa, e Dio abbia di lei misericordia.—
Fanfulla venne alla Lisa, la prese per la mano, la condusse verso la porta, ed essa, come cosa insensata, si lasciava volgere per ogni verso. Uscirono, e mentre varcavan la soglia, il povero vecchio alzava le stanche braccia per implorare la divina bontà sulla figliuola, e ripensando alla maledizione che un giorno avea scagliata sul suo capo, diceva:
—Dio mio! Dio mio! Perchè m’hai tanto esaudito!... .........................—
Le invetriate avean intanto perduto ogni colore, e sovr’esse si rifletteano soltanto i lumi dell’altare, chè l’aria al di fuori era oramai fatta scura. Eran comparsi altri Fratelli della Misericordia, che divisi in due, ai lati dell’altare, recitavano salmi a voce bassa per non tor la testa al condannato. Questi era rimasto immobile, muto, colla fronte caduta, e Fra Benedetto, postosegli a sedere al fianco, gli[868] tenea le mani stringendogliene con affetto tratto tratto, senza tuttavia parlargli, parendogli convenisse per allora dar campo che quella terribile ed ultima impressione per sè stessa un poco s’indebolisse. Rimasti così alcuni minuti, diceva il frate:
—Iddio ti porge occasione, Niccolò mio, di meritar molto in quest’ore che t’avanzano di vita, poichè ti fa molto patire! Tu hai a far ogni opera per portar questa croce con prontezza di spirito e rassegnazione.... e per racchetar l’animo un poco sul fatto della Lisa, pensa che Quegli il quale, ha cura del passero che vola pe’ tetti, e veste il giglio del campo, tanto più avrà pensiero d’una creatura fatta a sua immagine, e che non ha creata nè per perderla nè per istraziarla.... Considera quali e quanti erano i suoi mali!.... quel velo che Iddio permise le si calasse sull’intelletto fu per renderle ottuso forse il senso de’ suoi dolori..... Adoriamo, Niccolò, adoriamo; e speriamo in Lui che non spezza la canna fessa, calamum quassatum non confringet..... speriamo nell’autore di quel precetto d’amore col quale volle, che gli uomini tutti nelle loro miserie elevassero a lui il cuore, e lo chiamassero padre.—
Niccolò mise un sospiro, giunse le mani, e disse:
—Non sicut ego volo, sed sicut tu: e rimasto pensoso un momento, riprese:
—Fra Benedetto mio, io credo certissimo tutto quello che voi mi dite: e potrei dubitare della bontà[869] di Dio, mentre m’accorda ora il massimo, il più dolce de’ conforti, quello d’avervi qui, e d’udire dalla vostra bocca cotali parole? Sia fatto quel che Dio vuole di me, e de’ miei poveri figliuoli! Di tutto in lui mi rimetto. Ora, una cosa mi rimane a dirvi, un ultimo mio desiderio.... poi non penseremo che al Cielo. Io vorrei esser sepolto domattina senza pompa veruna, e vestito dell’abito di S. Domenico, nel nostro avello di casa in S. Marco all’altare della Madonna, e che voi dicessi la messa pel riposo dell’anima mia.
—Te lo prometto, Niccolò: e questo, ed ogni altra cosa che tu volessi sarà fatta.—
—Non altro, Fra Benedetto: e vi ringrazio.... pure.... sì, d’un’altra cosa v’avrei a pregare. Io, da tante scosse, mi sento tutto stanco e doloroso.... vorrei poter tener il pensiero fisso in Dio... e la mente non regge... il capo mi duole forte, e mi pare che mi si spacchi.... io avrei un desiderio,.... che mi lasciassi appoggiarlo un poco sulla vostra spalla e mi stringessi la fronte colle mani... mi pare ch’io n’avrei refrigerio, e riposato così un poco potrei meglio attendere all’anima....—
Fra Benedetto non gli lasciò finir le parole e, preso tra le sue mani il venerando capo del vecchio, se l’accomodò sulla spalla e sul colmo del petto, tenendogliene stretto, ed avvertì di fermarsi in cotal positura che potesse, senza stancarsi, reggerla un pezzo.
Niccolò, dopo due minuti, chiuse gli occhi,[870] e per l’estrema stanchezza placidamente s’addormentò. Se n’avvidero i fratelli che recitavan l’uffizio, e per non isvegliarlo si chetarono, rimasero immobili ognuno al suo luogo, e durò per quasi mezz’ora questa tacita e terribile scena, che avea pure in se non so che di soave e celeste, vista la serena tranquillità di quel vecchio, di cui solo s’udiva in quel silenzio il largo respiro, e considerando quanta virtù, quanta costanza dovesse essere in un uomo, che in cotal forma s’avvicinava alla morte.
Alla fine un respiro lungo e profondo diede segno ch’ egli si destava. Si destò infatti, e lenta lenta sollevò la fronte, vi pose una mano, poi disse:
—Voi m’avete dato conforto grandissimo, Fra Benedetto, Iddio vi rimuneri.... Oh! quante cose, diceva sorridendo così un poco, quante cose belle e divine ho vedute mentre dormivo. Dio mio, tu sei troppo amorevole al tuo povero servo!... Anco ier notte egli m’ha fatto degno di vedere la gloria sua.... egli mandò a visitarmi il suo santissimo martire.... Oh, Fra Benedetto, qual dolcezza!.... pensate.... è ritornato..... lo vidi dianzi..... e mi consolava!..... Quid retribuam Domino? come potrà la mia miseria ringraziar degnamente l’eterna bontà d’un tanto dono?.... Ora mi sento pieno di quella forza, che Iddio solo può dare; di quella vita ch’egli solo comparte, e che non può corrompersi nè perire!—
—Dunque ringrazialo..... ringraziamolo insieme—disse[871] il frate, pieno di soavissima allegrezza nel veder confortato a quel modo l’afflitto vecchio.
—Sì, rispose questi, gloria a Dio nelle altezze de’ cieli!... prepariamoci ad entrar nella sua gloria.—
Niccolò sentendosi la mente più libera, si volle allora allora confessare; com’ebbe finito, si disposer le cose per dargli la comunione per viatico, e Fra Benedetto, andato all’altare, fece accendere altri lumi, e vestì i paramenti sacerdotali.
I Fratelli accesero ognuno una torcia e si posero in cerchio a piedi della predella: due soli di loro (eran Lamberto e Bindo) s’accostarono a Niccolò, collocarono un guanciale in terra ove potesse inginocchiarsi, e gli si tennero ai lati per ajutarlo.
Fra Benedetto trasse la pisside dal tabernacolo, l’aprì, ne tolse una particola, e volgendosi, levò le mani all’ altezza del petto, pronunciando quelle soavi ed auguste parole:
—Agnus dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis.
E Niccolò intanto, sfavillando dagli occhi luce di paradiso, era ginocchioni, sorretto da’ suoi figli, ed alzava le palme tremule e bianche verso il Sacramento.
Chi ricorda la testa di S. Girolamo dipinta dal Domenichino in codesto atto medesimo, avrà una lontana idea del divino ed ardente amore di che s’impresse il volto di Niccolò. Quando si vide davanti Fra Benedetto in atto di porgergli la particola, disse, versando lagrime di dolcezza:
—Io ti ringrazio, altissimo Iddio, che tu vieni a visitare il tuo servo per condurre l’anima sua immortale fuori delle miserie di questa tenebrosa valle! Lavami d’ogni macchia e d’ogni peccato, chè di tutti mi pento e ti domando perdono! Accetta quello che di cuore io concedo a’ miei nemici.... a questi che ci tolsero la patria.... voi che mi state d’intorno, siate testimonj ch’io morendo perdono ai Palleschi.... mi sento in cuore di amarli come fratelli.... e prometto in Cielo pregar per essi onde ci troviam tutti un giorno riuniti in quella celeste Gerusalemme, ove saranno spenti gli odj, e vivremo trasfusi nel sempiterno amore—
Gli astanti tutti piangevano: piangeva Fra Benedetto, e per gl’impetuosi affetti che l’agitavano, vacillava sulle ginocchia, quando depose il Sacramento tra le pallide labbra del vecchio.
Tornò all’altare, terminò le preghiere, e deposti i paramenti, si rimase allato al suo amico, che sempre ginocchioni, sempre sorretto da’ suoi figli, che dirottamente piangevano, teneva alto il viso, sereni e ridenti gli occhi, pronunciando tratto tratto brevi e segrete preghiere.
Stette così un’ora. All’orologio di Palazzo sonarono le cinque. Entrò il ministro, quello cui era dato l’ufficio d’eseguir la sentenza. Uomo rozzo, tarchiato, di stupido aspetto, si accostò a Niccolò, e, com’era l’uso, disse:
—Messere, io fo l’ufficio mio, e ve ne chiedo perdonanza.—
—Anzi, io ti rendo grazie, tu m’apri la porta del paradiso.—
E Niccolò volle abbracciarlo. Poi disse a Fra Benedetto:
—Siate contento tagliarmi questi pochi capelli sulla collottola..... ecco l’ultimo disagio ch’io vi do.—
Fu mandato per un pajo di forbici, e la bianca capigliatura di Niccolò venne recisa, e raccolta dal frate, che gliela porse ad un suo cenno. Questi, osservando di non esser veduto, la pose sotto la cappa di Bindo, nella sua mano propria, che gli strinse: ed il povero vecchio sentì, per dir così, raccolto in quella stretta tutto l’immenso amore che avea portato e portava a quel suo ultimo e giovinetto figliuolo.
Passò un’altr’ora..... sonaron le sei..... entrarono dieci tavolaccini con torchi accesi. Fra Benedetto, i figliuoli, tutti intesero, e si scossero. Il solo Niccolò rimase, come prima, tranquillo e sereno. S’alzò ajutato, e volto ai fratelli che lo circondavano ed avean tolto di terra e levato in alto il loro crocifisso per metterglisi innanzi, disse, tutto ridente, due volte:
—Addio! Addio!—
S’avviarono. Bindo da un lato lo reggeva, alle spalle Lamberto, dall’altro Fra Benedetto, e tenendogli innanzi la tavoletta con suvvi il crocifisso, gli suggeriva preghiere ed affetti, ora in latino, ora in volgare.
Il passo di Niccolò era franco, sicuro, nè troppo lento, nè troppo veloce.
Giunsero sulla porta all’alto dello scalone, d’onde si scopriva il cortile illuminato da molte fiaccole, e pieno intorno intorno di tavolaccini e soldati colle loro alabarde, tutti taciti e cogli occhi volti in su verso il condannato.
Questi scese sempre nel modo descritto, e venuto nel mezzo del cortile, ov’era il ceppo, ed il carnefice con una lucente mannaja presa a due mani, si fermò, e gli disse:
—Come abbia la testa sul ceppo dammi un momento, chè raccomandi l’anima a Dio.—
Poi volto in giro uno sguardo su tutti, disse con voce chiara:
—Io perdono a’ miei nemici, e prego Iddio accetti questa mia morte per la salute della patria nostra.—
S’inginocchiò, e pose il collo sul ceppo.
Bindo e Lamberto chiusero gli occhi, e per un momento fu altissimo silenzio.... poi un colpo sordo e risoluto. Gli aprirono. Il tronco era a terra da un lato. Il santo capo riverso dall’altro, candidissimo ed ancor sorridente.
Ebber tanta forza ancora di muoversi, tolsero il corpo e lo stesero nella barca, vi posero il capo, e rimase (tanto fu netto il taglio) come se un nastro vermiglio gli avesse circondato il collo.... ........................
Addì 16 agosto, la mattina innanzi giorno, la campana di S. Marco sonava a morto, Nell’interno della chiesa era collocata nel mezzo una bara con quattro candelieri di ferro agli angoli, all’altare diceva messa Fra Benedetto, parato di nero, nella forma medesima descritta al primo capitolo di quest’istoria. Nel cataletto era il cadavere di Niccolò vestito dell’abito di S. Domenico. Parea che dormisse; avea il viso candido e sereno.
Lamberto, Bindo, Fanfulla, Maurizio, il Bozza ed una turba d’artefici e di popolo minuto pregavano inginocchiati all’intorno, in silenzio ed immobili, se non che talvolta col dosso delle mani s’asciugavano gli occhi.
Finì la messa, finirono le esequie. Vennero alcuni uomini del convento, e con pali di ferro levaron la lapide che copriva un avello posto innanzi all’altare della Madonna. Lamberto, Bindo e gli altri presero il corpo nel lenzuolo sul quale era steso, e cautamente, senza scomporlo, lo calarono nella tomba. La lapide fu rimessa al suo luogo. Que’ poveri artefici pregarono e piansero un poco sovr’essa, poi, alla sfilata, se n’andarono, ed in chiesa non rimasero che Bindo, Lamberto, Fanfulla e Maurizio.
I due fratelli inginocchiati sulla pietra che copriva Niccolò si presero per la mano, e Lamberto disse con voce alta e sicura:
—Noi giuriamo a Dio ed a te, padre nostro, di adoperarci sempre, infin che ci duri la vita,[876] per ritornar Firenze nella sua libertà, e non depor mai l’arme, e combattere i suoi nemici insino alla morte.—
Poi rizzatisi usciron di chiesa.
I capitoli della resa di Firenze patteggiavano salve le vite, gli averi e la libertà di tutti i cittadini indistintamente. Questi capitoli erano stati solennemente giurati dal commissario Valori e da D. Ferrante Gonzaga. Entrati costoro in città, e divenutine padroni, ammazzaron parecchi, molti spogliaron dell’avere, moltissimi cacciaron in bando, assegnando a ciascuno il luogo dell’esilio; e chi rompeva questo confino era dichiarato ribelle. Cotal principio ebbe il principato mediceo.
Le città d’Italia s’empirono di sbanditi fiorentini, che vi giungevano smunti dalla fame del lungo assedio, dalle fatiche del doloroso viaggio, e lo spettacolo delle loro calamità, la vista de’ vecchi, delle matrone, de’ fanciulli strappati violentemente ed a tradimento alle loro case, fece levare un grido universale d’indegnazione contro gli autori di tanta scelleratezza, e destò forse il rimorso nel cuor di[878] coloro che avrebber potuto e non la vollero impedire.
Di pari errori, seguiti da pari rimorsi, è piena l’istoria d’Italia.
Molte famiglie fiorentine, senza aspettar il bando della nuova Balia, uscirono volontarie dalla città, e riparandosi in qualche angolo fuor di mano del dominio, cercarono di potervi rimaner oscure e dimenticate, forse parendo loro di non perder così interamente la patria. Alcune si ritirarono a Serravezza, ove al dì d’oggi ancora, per tradizione, si mostran le case che occuparono codesti fuggiti.
Nel centro della catena de’ monti Apuani, che si stendono a man destra da chi va da Lucca a Sarzana per la via di Pietrasanta, e mostrano le loro nude e scoscese roccie accavallate e sporgenti l’une dietro l’altre con infinita varietà d’accidenti, di contorni e di tinte; nel centro, dico, di questi monti s’apre una stretta e sinuosa valle per la quale, scendendo dalle altezze delle Panie, scorre la Versilia limpida e fresca, sotto l’ombre di folti ed antichissimi castagni. Lo sbocco di questa valle, mascherato dall’intreccio di due gioghi dirupati ed alti, si nasconde a chi da lungi vi diriga lo sguardo, quasichè la natura abbia voluto con amorevole antiveggenza, preparar luoghi che servisser di rifugio ai deboli contro la violenza de’ forti.
Risalendo la Versilia, ad un miglio dentro la montagna, si trova Serravezza, ove s’allarga un poco la valle pel confluire d’un altro torrente che[879] viene dal M.e Altissimo. Quivi, sul finire di settembre, s’eran ricoverati Lamberto colla sposa e il cognato, ed era con essi Selvaggia, Fanfulla, Maurizio ed il piccolo Arriguccio.
Il tempo trascorso dalla morte di Niccolò sino a quest’epoca l’avean passato a M.e Murlo, ove Laudomia era, come vedemmo, rimasta inferma, e dove per la tremenda nuova della fine del padre, che non fu possibile nasconderle, cadde in più grave pericolo della vita; ed a stento avea, dopo più settimane, potuto alzare il capo dal guanciale. Ebbe lunga e penosa convalescenza, resa più lenta dal cocente e continuo pensiero del padre, de’ fratelli, della patria: e dalla disperata vista della Lisa che le avean ricondotta da Firenze. In quello stato, che divide da persona che s’ami con un abisso cento volte più doloroso e tremendo della morte medesima: perchè è men duro piangere spenta un’intelligenza, dalla quale s’ebbe lungo ricambio di pensieri e d’affetti, che trovarla degradata e sconvolta.
La pazzia della Lisa non era furibonda, e, neppur in apparenza almeno, continua. Passava l’ore, e le giornate talvolta, in una cupa e taciturna immobilità, tenea gli occhi spalancati, fissandoli in terra col guardo intensissimo, e per così dire, impietrito, e talvolta con voce bassa diceva: «Era un traditore!» A momenti pareva pur che riconoscesse le persone, intendesse le loro parole; ma eran brevi lampi in un’immensità tenebrosa.
Siccome però ne’ suoi modi non era nulla che potesse dar a temere, veniva lasciata in sua libertà, ed una contadinella soltanto avea l’incarico di tenerla d’occhio quando si riusciva a condurla fuori di casa: chè un medico, al quale s’era potuto chieder consiglio, avea suggerito si facesse stare, per quanto fosse possibile, all’aria ed in luoghi ameni ed aperti.
Un giorno, adoperandosi con quel sottil senso d’astuzia che suol ne’ pazzi sopravvivere all’intelletto, riuscì, mentr’ era fuori colla sua guida, ad allontanarla per pochi momenti. Quando la villanella tornò al luogo ove aveva lasciata la Lisa, questa era scomparsa, nè per quanto cercasse e corresse tutto all’intorno le venne fatto di rintracciarla od udirne novella, e tutta piangente dovette pur tornare a casa e narrare il fatto alla famiglia, che sbigottita uscì tutta, meno Laudomia, in cerca della povera fuggita, e correndo le pendici ed i boschi sottoposti al castello la venivan chiamando tratto tratto frugando e rifrugando ogni macchia, ogni siepe, ogni cespuglio. Fu tutto inutile; ed a notte chiusa soltanto, afflitti e malcontenti, tornarono alla pieve, nè venne loro fatto, per quanto ne’ susseguenti giorni moltiplicassero le ricerche e l’inchieste, di scoprire ove fosse capitata.
Ma una lettera scritta in que’ giorni dal Vanni, custode della villa del Barone, a Baccio Valori, ne darà notizia al lettore, e perciò la riportiamo qui tutt’intera.
«Magnifico messer Baccio, signor mio onorandissimo.
—Dipoi dell’ultima lettera vi mandai per Cecco cavallaro, nella quale, chome era debito mio, vi davo notizia del facto di que’ gentilhuomini che voi ci mandasti, che schomparsono senza che nè per me nè per alcuno di questi dintorni si sia possuto haverne notitia insin al dì d’hoggi, non s’è manchato di usare ogni diligentia per eseguire li vostri chomandi, ma non s’è possuto insin ad hora saper niente di messer Troilo, che nissuno ha veduto qui attorno che pare cosa impossibile, a non essersi partito per l’aere, che qualcuno non l’havessi veduto.
—Jeri essendo entrato nella villa, che non c’ero più stato dal giorno che costoro ci vennono, mentre attendevo ad aprir le finestre per dar aria, onde le cose della V.a M.a si mantenghano in buon essere, come è debito mio, venni alla chamera gialla, et aperto l’uscio, mi parve entrare in una sepoltura per l’inestimabile puzza di morto ch’era là entro, che a non voler ammorbare, ebbi a spalanchar usci, finestre et quanto c’era.
—E cerchando diligentemente d’onde il decto puzzo potesse uscire, m’avvidi che saliva dal buco del trabocchetto accanto al letto, che la Magn.a V.a molto ben chonosce. Io chorsi per una fune et attachatovi un lume lo calai giù, ma non potetti discerner nulla per esser quella bucha tanto profonda, et ancho per essersi spento il lume che ancora[882] non era sceso 20 braccia. Se il luogo fosse più agevole m’ingegnerei scoprire chi sia stato buttato laggiù, ma e’ converrà, a volerlo sapere, romper muri, et volte, che per altra via non ci conosco modo: et perchè aspetto li chomandi della V.a Magn.a.
—Mentre mi travaglio per questa faccenda, che ero solo nella villa, mi udii camminare alle spalle, et voltomi vidi una giovane che entrò in chamera a furia, tutta in disordine, et alla guardatura m’avvidi presto, che avea dato di volta: assai bella giovane, et al vedere gentildonna, et m’avviluppò un monte di sciocchezze come usano i pazzi, et voleva le insegnasse dov’era quel traditore, et un po’ mi bravava, un po’ piangeva, et mi si raccomandava, tanto chè io hebbi a durar fatica grandissima, a tormi di dosso questa tribolazione. Chi fosse costei, et qual fusse questo traditore io non potrei dirlo che pocho stette che se n’andò al modo stesso ch’era venuta, dove la portava la sua pazzia, et questi pecorai dicono haverla veduta che prendeva su pel monte jer sera all’annottare, e volendola fermare si difese a graffi, et si fece lasciare, et dicono che si messe correndo su pe’ boschi. Che non avesse a capitar male, che di lupi ne girano parecchi su per queste vette.
Altro non acchade per hora, che humilmente raccomandarmi alla V.a Magn.a.
Del Barone adì... Agosto 1530.
Il vostro Servo
Vanni.»
Baccio Valori, al quale era nato il sospetto della mala fine di Troilo, e che anco a un dipresso ne indovinava gli autori senza che ne provasse, come si può credere, una troppo viva afflizione, pensò bene non fare su questo caso maggiori ricerche, contentandosi d’aver un creditore di meno, senza andar cercando nè il come, nè d’onde questo vantaggio gli fosse venuto. Scrisse a Vanni di far buttare nel trabocchetto due some di calce viva, lasciar aperte le finestre sinchè il puzzo fosse dissipato, e del resto non si curar d’altro. Queste furono le onorate esequie di Troilo, e qui finisce la sua istoria.
Quella della povera Lisa finisce anch’essa; chè nè la sua famiglia, per quanto lunghe e ostinate ricerche ne facesse, nè alcun uomo di que’ paesi non ebbe più notizia veruna del come fosse andata a finire.
Morì di stento in qualche solitudine ignota? Fu pasto de’ lupi accennati dal Vanni? Lo sapremo il dì del giudizio. Ma se ci vien meno ogni certezza su questi fatti, non ci manca però qualche congetura, e col lettore paziente e cortese, che avendoci accompagnati sin qui possiam oramai considerare come un amico d’antica data, non vogliamo aver segreti nè usar reticenze. Nel 1580, vale a dire 50 anni dopo l’assedio, alcuni cacciatori cercando i gioghi sopra S. Marcello giunsero ad un luogo nascosto tra le rupi aride, pieno di sassi, desolato e selvaggio, ove molte caverne entrano ne’ fianchi del[884] monte senza che si sappia ove vadano a riuscire. In questa solitudine, detta insin ad oggi Macereto (forse per le macerie che l’ingombrano) costoro trovarono una vecchia coperta di vilissimi panni, non però luridi e negletti, come suol portarli chi per mestiere è mendico. I capegli sciolti, e lunghi insino al ginocchio; le scendevano dal capo spandendosi tutt’intorno sulla persona quasi un velo d’argento. Il viso pallido e macilente. Lo sguardo basso e doloroso. Era ginocchioni sull’entrata d’una di quelle spelonche, innanzi ad una croce fatta rozzamente di due rami di castagno tenuti insieme da una vermena di vinco. Non si mosse e non si volse al giunger de’ cacciatori, che fermatisi a considerarla maravigliati e riverenti, udiron che tratto tratto sospirando diceva «Dio mio! Dio mio! Son tanti anni che piango per lui!... Gli avrai tu perdonato?....»
E rimasta muta qualche momento, ripeteva poi la sua preghiera, e sempre colle stesse parole. Ritrattisi costoro s’informaron da’ contadini dell’esser suo, ed udirono che dai più era tenuta una santa, ma nessun seppe dire chi fosse o di dove fosse venuta. Narravano, che dopo aver inutilmente tentato di condurla a vivere nell’abitato, le avean accomodato un po’ di lettuccio in quella spelonca, ed or gli uni or gli altri le portavano di che campare. Un giorno poi finalmente la trovarono stesa sul suo lettuccio, bianca e fredda come un alabastro, e fatti certi ch’ell’era passata, la seppellirono[885] nel campo santo di S. Marcello. Fosse l’esempio di costei, o qualsivoglia altra cagione, si trovò sempre d’allora in poi chi abitasse quella spelonca, ed a dì nostri due povere vecchie vi menan vita romita e selvaggia.
Se costei fosse la povera Lisa, non lo possiamo asserire: posto però che fosse essa realmente quale non dovè essere l’amore di quell’infelice se, dopo tanti dolori, tanti tradimenti, dopo aver tutto perduto, persin il senno, il solo amore per quel traditore le rimase intatto nel cuore, e tanto potente, che insin agli ultimi anni ed all’ultimo respiro, non potendo far altro, pregava e piangeva per lui!...................... ........................
Nei primi giorni d’ottobre, Lamberto, che potea in certo modo dirsi ora mai capo e guida della sua brigata, avea dovuto pensare a levarla di M.e Murlo, ove per la troppa vicinanza di Firenze, e pei sospetti del nuovo stato, vivevano in continuo pericolo. Si condusse con essa a Serravezza, non senza disagio grandissimo per la povera Laudomia, della quale il caso della Lisa avea più che mai dissestata la vacillante salute. Sublime dono dell’anime veramente nobili e virtuose è il mantenersi tranquille e serene anco nelle più terribili prove. Questa pace del cuore che l’invidiosa impotenza degli spiriti volgari scambia coll’apatia, fu cagione che Laudomia rimanesse in vita, e potesse grado a grado ricuperar le forze, e, per così dire, rinascere ad una nuova esistenza.
Nella casa ove s’erano alloggiati, una delle prime entrando nella terra dalla parte di Ripa, stavano tutti assai comodamente, rimettendosi di tanti travagli colla quiete di quella vita intima, domestica e divisa dal rimanente del mondo, che tanto giova agli afflitti, e per ogni uomo è pure il sommo dei beni.... ma a quanto pochi è dato il poterne godere!.... La dolcezza di questo vivere non dovea tuttavia far dimenticare a Lamberto ed a Bindo l’augusto pensiero della patria, le ultime parole di Niccolò ed il giuramento pronunciato da essi sulla sua tomba. Appena ebbero dato assetto stabile alle loro cose, cominciarono a considerare in qual miglior modo l’opera loro potesse giovare al grande intento di restituire a Firenze la sua libertà. Nel primo stordimento di una tanta rovina, i fuorusciti Piagnoni, sparsi per le città italiane, riprendevano a stento la facoltà di sperare e formar disegni per l’avvenire, come allo scoppiar d’un fulmine gli uomini penano qualche momento prima di rivedersi in viso l’un l’altro. Presto però cominciarono ad accozzarsi e parlar tra loro, e corrisponder per lettere, ed ordir quella tela d’imprese spicciolate, deboli, sconnesse, che invece di spezzar le catene de’ fiorentini, le ribadirono. Fu risoluto da’ due cognati, tener dietro e partecipare a qualunque novità fosse per farsi, e deliberarono, che Lamberto rimanesse, e Bindo partisse per visitare le città d’Italia ov’era maggior numero di fuorusciti, e vedendo l’occasione propizia, ne avvertisse[887] il cognato, che non avrebbe tardato a concorrere ove lo chiamassero più santi doveri che non son quelli della famiglia. Bindo partì, ed andò seco Fanfulla, che fatto esperto della vita di frate, non provava nessun desiderio di ritornarvi.
Giacchè siam a parlare di questi due attori del nostro racconto, diremo brevemente, e senza curarci d’anticipar sull’epoche, quel che sappiamo de’ fatti loro, onde non dover poi interrompere il filo di quel poco che ci resta a narrare.
In tutte quante le pratiche, le imprese e le fazioni colle quali i fuorusciti fiorentini tentarono mutar lo stato di Firenze, insino alla presa di Siena nel 1555, colla quale si spense per sempre ogni speranza di sottrarsi al giogo mediceo, Bindo operò con quell’obblio di se stesso e d’ogni utile proprio, con quell’ardire e quella fierezza che lo rendevano vivo e vero ritratto di Niccolò suo padre. Nel 1535 fu a Napoli co’ principali della sua parte, che vi concorsero per domandare a Carlo V l’osservanza de’ capitoli della resa di Firenze.
L’imperatore ascoltò le loro ragioni esposte da Jacopo Nardi (lo storico) in una lunga orazione. Ascoltò la risposta del duca Alessandro. Diede buone parole a’ fuorusciti, e ragione al duca, stipulando tuttavia alcune condizioni, sotto le quali questi potessero ritornare in patria.
La fiera e generosa risposta de’ fuorusciti servirà, insin che duri il mondo, d’esempio a chi si trovasse in somigliante od in egual condizione.
«Noi non venimmo qui, risposero, per domandare alla Cesarea Maestà con che condizioni dovessimo servire al duca Alessandro, nè per impetrar per mezzo suo perdono da lui di quel che giustamente e volontariamente abbiamo adoperato in benefizio della libertà della patria nostra; nè di ritornar servi in quella città, onde non molto tempo innanzi noi siamo usciti liberi, acciocchè i nostri beni ci fosser renduti; ma ben ricorremmo a Sua Maestà, confidando nella giustizia e bontà dell’animo suo, perchè le piacesse di renderne quell’intera e vera libertà, la quale dagli agenti e ministri suoi, l’anno 1530, in nome di quella ci fu promessa di conservare. Ora veggendo noi aversi più rispetto alle soddisfazioni del duca Alessandro, che ai giusti meriti della onesta causa nostra; che non si fa pur menzione della libertà, poca degli interessi pubblici, e che anche la restituzione de’ fuorusciti non si fa libera, ma condizionata e limitata, non altrimenti che se la si domandasse per grazia, non sappiamo altro replicare se non che, siamo noi tutti risoluti a voler vivere e morir liberi, siccome noi siamo nati, e di non macchiar giammai per i nostri privati comodi la sincerità e ’l candore degli animi nostri, mancando di quella carità e pietà, la quale meritamente è richiesta a tutti i buoni cittadini inverso la patria loro.»
Aggiunge il Varchi (dal quale abbiam trascritta, abbreviandola, la detta risposta):
«.....e fu cosa molto notabile che nessuno di loro volle pigliar la grazia che l’imperatore loro fatta aveva per sua sentenza di poter ritornare nella patria loro, riaver i loro beni immobili, e godere quegli onori e quelle dignità che allora godevano gli altri cittadini, ancorchè la maggior parte di loro fuorusciti fosse molto malagiata e povera, ecc. ecc.»
Rotta la via delle pratiche, tentarono quella dell’armi, e (morto da Lorenzino il duca Alessandro) travagliarono Cosimo, primo suo successore, guidati da Piero Strozzi, ardito capitano ed altrettanto disavventurato, il quale ebbe la peggio a Sestino, a M.e Murlo (ove furon presi Baccio Valori e Filippo Strozzi) e finalmente una totale sconfitta dal M.se di Marignano alla giornata di Marciano o di Scannagallo in quel di Siena.
Bindo e Fanfulla, questi vecchio oltre i settanta, quegli uomo sui quarant’anni, che avean per tanto tempo divisa la buona e la cattiva fortuna, le speranze, i timori, i pericoli, amandosi come s’aman gli uomini che abbian battuta insieme cotale strada, morirono entrambi il primo nella battaglia, il secondo la notte innanzi. Di Lamberto, che si trovava con loro, diremo poi narrando le ultime sue vicende.
È dunque giunto il momento di dividerci, e per sempre, dal nostro buono e dabben Fanfulla. Al lettore, che non lo ha trattato ed avuto in cuore siccome noi per tanto tempo, che non può immaginare,[890] per quante glien abbiam dette, qual bontà, qual fede, qual grandezza d’animo fosse sotto quella sua scorza un po’ ruvida e strana, non parrà gran fatto questa separazione. Se così è, mi dolgo per te, povero Fanfulla, che da quelli i quali avrebber saputo scriver meritamente, e far palese al mondo la tua virtù, tu non fosti conosciuto, ed io che ti conobbi non seppi scriverne com’era dovere! E, quel che è peggio, questo rammarico sarà cagione che per raccontar la tua fine io sappia meno che mai trovare stile e parole quali si converrebbero. Eppure, tacerla al lettore, non si può!... Per uscir d’impaccio trascrivo una lettera scritta a Lamberto dal suo servo Maurizio dalla solitudine della Vernia, ove s’era ritirato a piangere la morte di Fanfulla, della quale, come appare dalla sua confessione stessa, egli era pur troppo l’involontaria, ma non del tutto innocente cagione.
Dalla Fernia ha dì 3 Ott.e 1555.
Mie patrone et signore.
«Pofere Maurizie fenire ora con ginocchia in terra et braccia in croce, et domandare pertone, et misericordie at sue patrone, che non meritar, ma pofer Maurizie hafer tanto crando dolori che non più torme, non più mancia, et voler far penitentia semper semper, et haver giurato non mai più pefer fine, et pregar Dio de morir presto, ma non poter morire si sue Patrone non dirà Pofer Maurizie mi hafer pertonate.»
Io hora dirò tutto, tutto, proprio ferità, como è achatuta la cativa disgrazia, che Dio, et messer Lamperte possa pertonare a pofer Maurizie et vedere che non hafer fato cum cativa intenzione.
V.a S.a Ill.a mie pone patrone, ti deve dunque sapere che in la notte prima de la patallia de Marciane mi star con pofer vecchie Fanfulle lontane dal alociamente a far veletta, et mi dire a Fanfulle, Fanfulle mie hafer multo desiderio de confessar mie peccate, perchè mi hafer pensato in sogno dofer morire in patallia de domane, et Fanfulle risponder, mi hafer medesima desideria, ma qui non star prete nè frate, mi allora trovate rimedie et dire, ti confessar io, et io confessar ti, et Idio star contente de pone voluntà nostra[76], et così hafer fato. Mi prima confessare a pone Fanfulle tutte mie peccate che star molte grande et Fanfulle per penitentia dar con manicho da halabarde sopra spalla mia forte, forte, molto forte, et mi dir: paciencia, meritar ancora più forte. Dopo, pone Fanfulle, confessar a mi tutte peccate sue sin da piccole fanciulle che durar più di due hore, che non finiva più, et mi alhora pensare Fanfulla hafer fate molto più ripalterie da pofer Maurizie, dunque meritar penitenzia de manicho de halabarde molto[892] più forte, et hafer dato cum molte grandissima desideria de far pene ad anima sua, et Fanfulle un poco hafer patientia, poi non hafer più, et dare gran colpe at pofere Maurizie et tutte due perder giuditie et prender molta collera et pofere Maurizie hafer cativa desgrazia, che non vedefa alle scure, de dar sopra testa de pone Faufulle che andate in terra et dire «Pone Maurizie ti mandar me in paradise, et mi ringraziare, et pone Fanfulle non folere più dire niente perchè star morto, et mi piangere et piangere et sempre piangere finchè mie patrone non hafer pertonate etc. etc.»
Il corpo di Bindo, morto, come accennammo
nella battaglia, fu seppellito onorevolmente. Nello
spogliarlo gli trovarono in petto una lunga ciocca
di capelli bianchi: eran quelli del padre che avea
sempre portati qual segno del giuramento fatto
sulla sua tomba. Molli e vermigli del suo sangue
attestavano la serbata fede. I contadini che seppellivano
il cadavere ebber rispetto a questa memoria
e gliela poser sul petto prima di colmare la
fossa........................
...........................
Per narrare quest’ultimi fatti siamo stati costretti trascorrere innanzi 25 anni. Dovendo ora far conoscere al lettore le ultime vicende di Lamberto e delle due giovani ci convien ritornare al tempo in cui Bindo lasciò Serravezza.
Dopo la lunga serie di agitazioni, di patimenti[893] e di disgrazie ond’erano state afflitte Selvaggia, Laudomia ed il suo sposo, pareva che finalmente volesse la fortuna conceder ad essi un po’ di riposo. Il loro stato presente, la quiete de’ luoghi ove avean fissata la loro dimora, tutto pareva prometter pace e tranquillità. Ma la promessa era fallace. La tranquillità era lontana ancora da quell’anime travagliate.
Il lettore che troverà, lo temiamo, già assai ben lunga la storia nostra, ci saprà grado che non la veniamo allungando ancora, col descrivere troppo minutamente le costoro passioni. D’altronde egli può immaginarle dagli antecedenti, ed a questo punto basteranno poche parole.
I portamenti della Selvaggia, il suo beneficio era stato tale, che a nessuno, non che a Laudomia e Lamberto, sarebbe potuto venir in pensiero d’allontanarla, o di negarle quel solo guiderdone che era stato scopo di così lunghi e dolorosi sagrificj per la poveretta; il bene di trovar finalmente chi l’amasse. Di questo bene ne godeva pure una volta anch’essa, e vi si beava coll’ineffabile effusione che compensa le anime ardenti di quel soprappiù di dolori al quale son condannate dalla Provvidenza.
Nell’ebbrezza di uno stato così nuovo per lei, parendole aver ottenuto ciò che appena si sarebbe attentata a desiderare, stimò che la felicità della sua vita potesse consistere sempre nel veder Lamberto, e nel goder dell’amicizia e della gratitudine dei due sposi. Tuttociò era il paradiso messo a[894] fronte della vituperosa miseria della sua vita passata. Essa propose non lasciarli mai più. Lamberto e Laudomia l’accolsero, e promisero tenerla sempre come sorella, e tutti e tre stimarono aver fatta una combinazione maravigliosa, e che dovesse riuscire pel migliore d’ognun di loro.
A quanti sbagli è soggetto il buon cuore (che è pur così bella e divina cosa) se la ragione e l’esperienza non gli servon di guida! Questa verità non avrà bisogno di commento per ogni lettore che abbia appena venticinque anni.
Le cose andarono bene per qualche tempo. Ma dopo la partita di Bindo, riducendosi i tre rimasti ad una convivenza più intima e ristretta, provarono a poco a poco nelle loro relazioni reciproche un senso di soggezione, nuovo, più sentito che ammesso, o spiegato dal raziocinio d’ognuno; ma che molto facilmente sarà inteso e spiegato dal nostro lettore.
Selvaggia amava sempre Lamberto: ed il bene di poterlo vedere ad ogn’ora, del quale si teneva paga dapprima, le s’era fatto in appresso quasi un tormento, per la necessità di progresso che è nell’amore.
Nel cuor candido di Laudomia non poteva capire quella gelosia che si nutre di sospetto o di diffidenza, e che avvilisce egualmente chi la prova, e chi ne dà motivo o pretesto. Ma essa non potea illudersi sulla bellezza di Selvaggia, sul senso che dovean produrre le sue sventure, la generosità del[895] suo sacrificio continuo, e la sposa di Lamberto viveva col cuor pieno d’un’ansia timida, indefinibile e dolorosa.
Troppo avveduta per non indovinare quali tormenti soffrisse Selvaggia nel segreto del cuore: troppo amorevole per non cercare ogni via di renderli meno amari, si trovava, quand’erano tutti e tre insieme, a non saper quali modi tener col suo sposo, dubitava sempre apparisse troppo aperta la corrispondenza d’amore ch’era tra loro: le pareva persino talvolta che Selvaggia dovesse odiarla, che l’odiasse; in altri momenti le passava come un baleno per la mente il dubbio che Lamberto potesse o raffreddarsi o mutarsi, e se in ciò prendeva errore, poteva il suo dubbio non parer del tutto fuor di proposito a chi stesse alle sole apparenze.
Nel cuor del giovane non era un affetto, non un pensiero che non fosse per la sua Laudomia; ma appunto perchè tanto l’amava, si faceva severissimo, anzi ingiusto giudice di se stesso, sembrandogli di non poter sentire affetto o gratitudine per Selvaggia senza profanar quell’amore che tutto avea donato alla figlia di Niccolò. Trovandosi colle due giovani temeva di continuo con uno sguardo, un atto, una parola volta a Selvaggia offendere in qualche modo la sua sposa; d’onde un cotale impaccio nel discorso e ne’ modi che potea facilmente trarre in inganno, venire attribuito a tutt’altre cagioni.
Se la convivenza tra persone poste in tali condizioni[896] potesse avere quell’intimità, quella scioltezza che n’è il primo, l’indispensabil pregio, sel pensi il lettore.
Esse avean però trovato un tema di discorso sul quale, quasi su un campo neutrale, potean le loro menti scorrere ed incontrarsi senza la compagnia di pensieri molesti od arcani; e questo tema era la religione.
Lamberto e Laudomia per tendenza inseparabile da tutte le persuasioni sincere e profonde, ponevano ogni studio a procurare che Selvaggia divenisse cristiana, nè costò ad essi troppa fatica risolverla a questo passo. Fu persuasione? Fu desiderio di seguir la medesima fede che professava Lamberto? Fu effetto di quell’irrequieto bisogno di cambiamento che provan le anime appassionate ed afflitte? Iddio lo sa che cosa fu. Fatto sta, che Selvaggia ebbe il battesimo ed accolse in cuore la nuova Fede, seguì le pratiche, i precetti, le idee del nuovo culto, coll’ardore e coll’impeto naturale al suo carattere. Ma se avea mutato culto, non avea potuto al modo stesso mutarsi il cuore.
L’infermità di Laudomia e le sventure, le agitazioni che n’erano state cagione avean sin ora frapposto ostacolo all’ardentissimo desiderio che provava Lamberto di potersi dir marito a quella cui aveva in S. Marco dato già l’anello di sposa. A questo punto pareva tolto di mezzo ogni ostacolo, ed il giovane con calde preghiere incominciò a stringer Laudomia onde le piacesse stabilir il giorno[897] della loro unione. La figliuola di Niccolò parea non vi si sapesse risolvere, ed udendo le appassionate istanze del suo sposo, si mostrava pensosa, esitante, e pareva persino talvolta frenar a stento le lagrime.
Lamberto non sapea che pensare di questi modi a lei così insoliti, ed un giorno, buttandosele ai piedi, la scongiurò di torlo ad una così tormentosa incertezza, e d’aprirgli il cuore, come era dovere, con chi tanto l’amava.
Erano in casa, sull’imbrunire. Laudomia senza rispondere s’alzò, e data la mano al giovane, lo condusse fuori. Presero taciti il sentiero che lungo le rive ombrose della Versilia conduce verso Ripa. Giunsero dove la corrente divisa in due rami cinge un’isoletta piena di salci, di pioppi e di nocciuoli. Vi si condussero passando sui sassi che disposti in fila attraversano il torrente, e giunti per uno stretto sentiero ove sotto una volta di rami e di verzura erano alcuni rozzi sedili, disse Laudomia:
—Io t’ho condotto in questo luogo remoto, perchè le parole ch’io debbo dirti son gravissime. Volevo esser certa non venissero udite nè interrotte da alcuno, promettimi non interromperle neppur tu.—
Lamberto maravigliato e quasi sbigottito lo promise, e Laudomia soggiungeva:
—L’amor ch’io ti porto, Lamberto, fu benedetto da Niccolò padre nostro: non debbo dunque arrossire di confessartelo: esso è grande, e perciò appunto egli è pensoso del tuo bene più che del[898] mio. Lamberto, lo sai, non sono io sola ad amarti. Della mia bellezza, se pur n’ebbi, le sventure n’hanno appassito il fiore. Io, poveretta, mai ho avuta occasione d’incontrar perigli, dolori, travagli, di versare il mio sangue per amor tuo.... Oh, così l’avessi avuta!.... Io non ebbi campo di mostrarmi grande, generosa, com’essa.... (è inutile il dire, che Lamberto fuor di sè voleva ogni tratto interrompere Laudomia, che col guardo e col cenno gli ricordava la promessa) Tuttociò lo conosco.... ma, Lamberto, rammentalo, te lo dissi la prima volta che mi parlasti d’amore:... io potrei rinunciarvi, ma non dividerne una menoma parte con altra donna!.... Essa, lo so, sarebbe stata un tempo indegna troppo d’un sol tuo pensiero.... ma il pentimento ha virtù di rinnovar l’anima e tornarla alla prima sua nobiltà.... non apre Iddio al pentimento le porte del Cielo? Io non posso vederla così misera per cagion mia.... se poi ora, o col tempo, lo divenissi anche tu.... sarebbe troppa disperazione per la povera Laudomia.... lascia ch’io cerchi riposo in Dio.... e nel pensiero di sapervi felici....—
Lamberto era pur riuscito sin allora a raffrenar
l’impeto che lo spingeva a gettarsi a’ piedi
della sua sposa, rattenuto più che altro dalla dolcezza
di contemplar senza velo quell’anima di paradiso,
ma non potè regger più a questo punto,
e cadendo colla fronte sul lembo della sua veste,
che baciò mille volte, seppe trovar parole degne[899]
di colei che le udiva, degne dell’amor suo: parole
che sciolsero ogni dubbio, vinsero ogni timore,
ritornarono nel cuor di Laudomia una fiducia
tranquilla e serena che le si diffuse sul volto, mentre
posando la mano candida sulla fronte di Lamberto,
gli diceva: «Ora dunque, per sempre son
tua».........................
...........................
Ritornati a casa, che già era notte, non vi trovaron Selvaggia. Sul tardi comparve un contadino con una lettera, l’aprirono, e vi lessero queste parole:
«L’ultima mia speranza d’ottener pace è in quel Dio che m’avete fatto conoscere. Io vado ad implorarlo sul suo sepolcro, in quella terra ove volle morire per la nostra salute. Io vi porterò sempre nel cuore, voi che soli al mondo, m’avete amata, mi donaste quel che era in voi di donarmi; ma questo mio cuore chiedeva di più. Io vi benedico, pregate per me da Dio pace, e fine al mio patire, ch’io pregherò per voi vita e felicità.
La vostra Selvaggia.»
..........................
Due anni dopo, Laudomia e Lamberto erano una sera nella loro saletta: egli leggeva una lettera di Bindo, essa avea a’ piedi una culla nella quale dormiva un bel bambino di cinque mesi al quale avean posto nome Niccolò. Comparve un uomo, che disse loro essere il giorno sbarcata alla marina[900] una donna, che all’aspetto pareva afflitta da gravissima infermità: aver voluto avviarsi tosto a Serravezza, ma venendole meno la lena e la vita, e volendo pur condurvisi ad ogni modo, essere stata costretta farsi portare su un letto fatto in fretta di rami d’albero con suvvi un saccone. Giunta alla Madonna di Quercia, e sentendosi presso al suo fine, s’era fatta deporre sulla porta della chiesa sotto alcuni cipressi, e mandava pregando Laudomia e Lamberto venissero a lei prestamente.
Ambedue ad un tempo, dissero:
—È Selvaggia!—
Ed ansiosi di chiarirsene, montati a cavallo, scesero velocemente al luogo indicato.
La notte era serena, risplendente la luna, che portava sulla facciata bianca della chiesuola l’ombra opaca de’ cipressi. Videro da lontano il letto. La donna che vi giaceva, un prete al suo fianco, ed a’ piedi un contadino con un cero acceso: punsero i cavalli, ed un momento dopo stavano entrambi stringendo tra le loro mani quelle della povera Selvaggia, che appena raffigurarono, tanto era mutata e ridotta un’ombra.
Guardò Laudomia e Lamberto, e quel suo nobile ed ardente cuore tutto parve trasfondersi in questi ultimi sguardi. Tacque un momento come per raccogliere le poche forze che le eran rimaste, poi disse, con parlar interrotto dall’affanno dell’agonia:
«Non l’ho... trovata mai... la pace.... sapete... Mai!... Sentivo... invece... crescermi nel cuore....[901] la morte.... temevo.... non giunger.... sin.... qui.... vi son giunta.... benedetto sia Iddio.... benedetti voi ambedue.... che soli amaste.... la povera cortigiana.... Lamberto, posami la mano.... sulla fronte.... fu l’ultimo mio desiderio.... in riva al Po.... quella notte.... dimmi tua.... perdonami Laudomia.... ma io l’amo sin d’ora.... come s’ama in Cielo....»
Mentre Lamberto poneva la mano sulla fronte
alla donna, la sentì agghiacciarsi, un sorriso le corse
a fior di labbra, e la morte ve lo fissò. Lamberto
e la sua sposa piansero lungamente sul corpo freddo
ed esamine di quella cui si dovea molto perdonare,
perchè molto avea amato, poi la seppellirono
con onore nel sagrato della chiesuola
.................................
Per lunga serie d’anni la vita de’ due sposi passò agitata tra continue e gravi vicende. Geloso custode della fede data a Niccolò, Lamberto seguì con Bindo e Fanfulla, finchè vissero, la fortuna de’ fuorusciti. La seguì ugualmente dopo la loro morte, e finchè in Italia vi fu una spada levata contro il dominio de’ Medici, ebbe compagna quella di Lamberto. Alla fine, ceduta ogni speranza, stanco per tante guerre, si ridusse colla moglie a Genova, e vissero felici quanto si può esserlo in questo mondo, e soprattutto quanto può esserlo chi abbia perduta la patria, e la vegga misera ed avvilita.
Qui finisce la storia nostra nella quale, narrando le sventure d’una sola famiglia, abbiamo inteso[902] raffigurare quella di molte altre, anzi di un intero popolo.
Coloro che in modo più o meno colpevole e diretto furono autori della rovina della loro patria, ottennero essi, a prezzo almeno di tante lacrime e di tanto sangue, quel fine che s’eran prefisso? Vediamolo.
Clemente VII volendo stabilire il dominio del ramo illegittimo di casa Medici, a danno dell’altro che odiava, e dal quale usciva Giovanni delle Bande Nere, aprì invece al figlio di questi la strada del principato, che durò nella sua stirpe fin quasi alla metà del secolo scorso.
Carlo V il quale, sperando poter trasmettere a Filippo suo figliuolo la corona imperiale, avea profuso sangue e tesori per raffermare la sua potenza in Italia, che veniva così a legare insieme le due parti d’una cotanto vasta monarchia, deluso nella sua speranza, lasciò al figlio il ducato di Milano ed il regno di Napoli, dominj pericolosi e lontani, che, a far bene i conti, costarono più che non produssero alla Spagna, e contribuirono alla fine ad esaurirla nella lunga guerra della successione.
Se i Fiorentini, che con tanta costanza e per tanto tempo difesero la loro libertà contro l’usurpazioni de’ Medici, riuscissero infine a sottrarvisi, l’abbiam veduto. Meritarono la loro sorte? Avremo il coraggio di dirlo? sì; in parte almeno, la meritarono. Volevano libertà per sè, ed intanto opprimevano le città del loro dominio; procuravano[903] che i Cancellieri e i Panciatichi di Pistoja si scannassero tra loro, che i fossi dell’agro pisano si colmassero, onde, co’ miasmi de’ paduli, si decimasse la popolazione, che, troppa, potea ribellarsi; intesero il proprio dritto, e non l’altrui: usarono due pesi e due misure. Venne il pericolo; le città del dominio cooperaron di mala voglia e forzate alla difesa di Firenze; la sua caduta parve ad esse una liberazione, il principato de’ Medici, un’eguaglianza colla loro antica e rigida dominatrice.
I Palleschi e gli Ottimati, che col loro tradimento negli ultimi giorni dell’assedio avean creduto procurare il trionfo dell’oligarchia, e s’accorsero troppo tardi d’aver procurato invece quello del dominio d’un solo, che tolse loro ogni autorità, e li tenne sempre bassi ed inerti.
Baccio Valori ottenne il premio degno de’ traditori; disprezzo da quelli a pro de’ quali avea fatto tradimento, infamia dall’universale, ed in ultimo dal duca Cosimo la mannaja.
Malatesta anch’esso, predicato traditore da tutta Italia, si ritirò a Perugia ove non ebbe quell’autorità e quelle grazie che avea patteggiato con Clemente VII. Travagliato anzi dal cardinal Ippolito legato della città (che il papa non volle o non seppe raffrenare) e che favoriva apertamente la parte di Braccio, nemica a Malatesta, egli si ritirò ad una sua villa, la quale, come dice il Varchi, per passare più il dolore che il tempo faceva fabbricare, e quivi quattordici mesi dopo la resa di Firenze, fradicio d’anima e di corpo uscì di vita.
Ecco in qual modo, gli autori di tanti mali, ottennero il fine che s’eran prefisso.
Non avevam dunque ragione d’avvertire il lettore coll’epigrafe del frontispizio, ch’egli avrebbe veduto con quanto poca sapienza si governi il mondo?
FINE.
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” | 484 | ” | 22 | lasciate | lasciatene |
” | 486 | ” | 8 | portanti | importanti |
” | 497 | ” | 3 | scarpiccio | scarpicciò |
” | 498 | ” | 7 | luminiera | luminaria |
” | 500 | ” | 11 | infinita | indefinite |
” | 508 | ” | 20 | la destra | a destra |
” | 545 | ” | 18 | Baracone | Baracane |
” | 546 | ” | 21 | Butini | Busini |
” | 547 | ” | 20 | fra Rigolo | fra Rigogolo |
” | 548 | ” | 10-11 | Polverose | Polverosa |
” | 551 | ” | 25 | la sede | la fede |
” | 553 | ” | 30 | Bibbona | Bibbiena |
” | 554 | ” | 4 | Fabbrizi | Fabbrizio |
” | ” | ” | 11 | la sede | la fede |
” | 557 | ” | 15-16 | per porta al Prato per porta al Prato Pasquino, Corso col suo colonnello per la porticciuola, Malatesta lungo ec. | per porta al Prato Pasquino Corso col suo colonnello; per la porticciuola Malatesta attelandosi lungo ec. |
” | 560 | ” | 3 | Balduccio | Baldaccio |
” | 570 | ” | 17 | più sollevati | già sollevati |
” | 572 | ” | 18 | Via Maggiore | Via Maggio |
” | 573 | ” | 28 | Mutato d’animo | Mutato animo |
” | 587 | ” | 2 | avrebbe voluto | avrebber voluto |
” | 594 | ” | 19 | che un ferro | se non ferro |
” | 594 | ” | 19 | Vecchietto | Vecchieto |
” | 611 | ” | 15 | con loro Leo Paolo da | con loro Paolo da |
” | 614 | ” | 8 | armeggio | armeggiò |
” | ” | ” | 21 | e implorasse ajuto | n’implorasse l’ajuto |
” | 616 | ” | 15 | Porro Stipicciano | Pirro Stipicciano |
” | 619 | ” | 4 | e da que’ cittadini ec. | ed a que’ cittadini ec. |
” | 621 | ” | 24 | Venerata Repubblica | Venerata insegna della Repubblica |
” | 623 | ” | 10 | Resta a saper se | Resta a sapere se |
” | 624 | ” | 16-17 | per perduti | per perduta |
[906]” | 627 | ” | 1 | abbandonati, a se soli | abbandonati a se soli, |
” | 629 | ” | 22 | il misero venne alla presenza ec. | misero alla presenza ec. |
” | 643 | ” | 11 | le linee dell’armatura | le linee dell’architettura |
” | 653 | ” | 5 | ora spiravan soltanto | ora spiccavano soltanto |
” | 655 | ” | 5 | a ogni tempo | a ogni tratto |
” | 668 | ” | 11 | noi che i ricchi | poi che i ricchi |
” | 684 | ” | 23 | si metta il disordine | si metta in disordine |
” | 689 | ” | 12 | non posson farci del male.... | non possiam’ farci del male.... |
” | 693 | ” | 10 | di questa, | di questi |
” | ” | ” | 12 | vestivano di caldi | vestivano de’ |
” | 696 | ” | 16 | intarciate e miste d’oro, | intarsiate e messe d’oro, |
” | 697 | ” | 20 | sormontare | sornuotare |
” | 698 | ” | 19 | attellati | attelati |
” | ” | ” | 26 | che gli stava innanzi | che stava innanzi |
” | 705 | ” | 7 | crocicchiavan piegati | crocchiavan pigiati |
” | 709 | ” | 7 | ciò che | ciò di che |
” | ” | ” | 11 | se li lasciava | se si lasciava |
” | 781 | ” | 10 | ricomparse | ricomparve |
” | 787 | ” | 12 | ora da Bindo | e da Bindo |
” | 797 | ” | 29 | corsegli dietro | dietrogli |
—in alcune copie— | |||||
” | 817 | ” | 11 | iscorgere | scorgere |
” | ” | ” | 24 | ed alto, | ed alto: |
” | 821 | ” | 14 | Dalle | Delle |
” | 823 | ” | 7 | Se non | O non |
” | 826 | ” | 1 | boccate in | boccate sin |
[1] | Eran i tempi della grandezza e della semplicità. Quei mercanti che servivano il re d’Inghilterra di 20 milioni di fiorini d’oro, avean appena sulla loro tavola una guastada d’argento, e le loro mogli audavan la mattina colla fante a far la spesa in mercato. |
[2] | Vocabolo tutto fiorentino, col quale si distinguevano i capi delle arti. |
[3] | «Firenze sarà flagellata, e, dopo i flagelli, rinnovata.» |
[4] | Pezzo d’artiglieria così chiamato, che i Sanesi avean mandato al campo con quell’amorevol premura che mostravan gl’italiani in quel tempo gli uni verso gli altri. |
[5] | Grandissima colubrina gettata da M. Vincenzo Brigucci. Pesava diciottomila libbre. Aveva nella culatta una testa d’elefante, ed i fanciulli le avevan posto nome l’archibuso di Malatesta, il quale era capitano de’ Fiorentini. |
[6] | Vuol intendere Gio. de’ Medici che in quel tempo serviva di paragone fra i soldati Italiani per dir un uomo d’arme perfetto. |
[7] | Nome dato per ischermo ai soldati Spagnuoli, perchè i loro ufficiali nel far gli alloggiamenti usavano chiedere ciò che occorreva per la loro gente scrivendo polizze che tutte cominciavano colla frase «C’è bisogno ec.» |
[8] | Leon X avea spogliata la casa della Rovere del Ducato d’Urbino. |
[9] | Parole del trattato. «Che Cesare per la quiete d’Italia e pace universale di tutta la cristianità, dovesse rimettere in Firenze nella medesima grandezza di prima, l’illustrissima Casa de’ Medici a spese comuni secondochè tra lui ed il papa si deliberasse» Varchi Stor. Lib. VIII, pag. 216. |
[10] | Si seppe che la madre del Re avea detto «Che per aver un solo, non che amenduni i figliuoli del re suoi nipoti avrebbe dato mille Firenzi.» Varchi lib. IX, pag. 229. |
[11] | Erano anche dette degli arrabbiati e compagnacci, degli adirati, de’ poveri, ec. |
[12] | Eran le bande che avea comandate il sig. Giovanni de’ Medici, e che essendosi vestite a lutto dopo la sua morte si chiamavan Nere. |
[13] | Segni, Stor. Lib. II. Pag. 39. |
[14] | Apparecchia i broccati che veniamo a comprarli a misura di picche! |
[15] | Circa le cinque dell’oriuolo così detto francese. |
[16] | Il Legno Santo era il rimedio più in uso in quel tempo per questa malattia. |
[17] | Lo scapulario viene anche detto Pazienza. |
[18] | Tal crede tosare e torna tosato. |
[19] | L’arte della seta così nominata in Firenze, per aver avuto dapprima quasi tutte le sue botteghe in Por S. Maria. |
[20] | Visse in casa—Filò lana. |
[21] | V’eran, e vi sono le tombe della casa Medici. |
[22] | Ciò non era modo di dire, poichè appena cacciati i Medici nel 27, era stato vinto il partito nel cons. magg. di crear G. C. re de’ Fiorentini. |
[23] | Una delle campane del Palazzo de’ Signori avea questo nome. |
[24] | In Firenze ai tempi della repubblica, si nutrivan leoni a spesa del comune, e se ne teneva grandissima cura, in onore del Marzocco (leone di pietra sul canto di Palagio) una delle imprese della città. Il popolo credeva a molte superstizioni sul fatto de’ leoni. |
[25] | All’epoca della nostra storia le meretrici per esser distinte dalle altre donne dovevan portar il velo giallo. Più tardi (nel 1600) un nastro giallo al cordone del cappello: poi l’appuntarono alle trecce. Alla fine ottennero, pagando una tassa, di smettere codesto segno. |
[26] | Varchi, lib VI, pag. 146. |
[27] | Capo della ciurma. |
[28] | Anch’essi comandavano la ciurma sotto gli ordini del nostromo. |
[29] | Una galera ben servita dalla ciurma e di buona proporzione, doveva prendere sei palate ad ogni impulsione data dai remi: cioè il primo remo, e così gli altri via via, dovean tuffarsi nel mare, al luogo istesso ove s’era prima tuffato il sesto remo che gli stava dinanzi verso prora. |
[30] | Voga tutto, volea dire vogar con tutto lo sforzo possibile. |
[31] | Cannon di corsia. |
[32] | Nei momenti di pericolo si obbligava i galeotti a prender tra i denti un pezzo di sughero che avevano appeso al collo con una funicella affinchè non potessero, urlando, destar paura ne’ soldati e ne’ marinai. |
[33] | Le convulsioni infantili son chiamate il benedetto dalle donne Fiorentine. |
[34] | Prima del concilio di Trento le leggi claustrali, molto rilassate, permettevano alle monache d’uscire. Molte di esse potevano così (essendo poverissime) campar delle elemosine che andavano raccogliendo, come al dì d’oggi fanno i frati mendicanti. |
[35] | Micce. |
[36] | —Ora—ora te lo segno in modo questo bambino, che
non s’ha a svegliare sino al dì del giudizio. —Aspettate——— vediamo prima. Potrebb’essere qualche gran gentildonna della terra, che fuggisse... e amerei meglio i suoi fiorini, che le cervella di questo figliuolo d’una.... Oh! non pare che già gli escano le budella? E che canna che hai al tuo comando, figlio mio! |
[37] | —Si fermi, signor cavaliere, si fermi. Siamo poveri zingani, e venivamo al campo per suonare e tener allegre le signorie loro. Siamo poveri ora. Ma eravamo ricchi un momento fa. Avevamo una borsa con 100 fiorini, e certi soldati alemanni che passavan di qua ce l’hanno tolta... que’ ribaldi m’hanno spolverato le spalle a me colle loro alabarde, ed a quella poveretta una ceffatta che ha colto anche il bambino. Collà! collà guardino tra gli alberi... ancora li vedo che se ne vanno correndo. Si raggiungano perdio, e della borsa ci daranno poi quel che parrà loro. |
[38] | Nardi, libro IV, pag. 120. |
[39] | Uffiziale nelle bande del conte Pier Maria, che per quistione avuta con esso fuggì in Firenze. Preso in un fatto d’arme fu scannato poi dal conte di sua mano. |
[40] | 1434. |
[41] | I vecchi del 1530 erano chiamati, per derisione, zazzeroni, dalla zazzera che portavano secondo l’uso antico di Firenze, mentre i giovani, secondo la nuova moda, si tosavano, e lasciavan crescer la barba. |
[42] | Lastri. Cominciò il Giunta a stampare nel 1494, e durò sino al 1555. |
[43] | Dice il Varchi, libro IX, che nel 1530 erano in Firenze 75 compagnie di Scolari che si radunavano per attendere insieme a pratiche divote: erano di molte maniere, e sotto diversi nomi. Quattro nelle quali non erano se non uomini nubili, e si radunavano solo di notte, eran dette Buche. Quella di S. Girolamo, (V. Lastri) ebbe principio nel 1410 sul monte di Fiesole nel luogo detto Belcaso, ove Antonio De Conti Guidi era stato fondatore degli Eremiti Gerolimini nell’anno 1380. Per comodo dei frequentanti fu trasportata a Firenze sotto lo spedale S. Matteo. |
[44] | Varchi, lib. X, pag. 310. |
[45] | Castel S. Angelo. |
[46] | Gli amici usavan aspettar la sposa al suo tornar di chiesa, e con un nastro le sbarravano la porta di casa. Lo sposo comprava il passo con una mancia, ch’essi spendevano in una cena. |
[47] | Questa s’appendeva ad un chiodo, e serviva a ripulire i pettini. |
[48] | Per l’esattezza storica si avverte il lettore, che questa mossa avvenne circa otto giorni prima di quest’epoca. |
[49] | Il doge Grilli interrogato dall’oratore fiorentino che mostrava temere quello che di fatto avvenne, avea risposto «Questa repubblica non fece mai cose brutte e non comincerà adesso.» |
[50] | Varchi, lib. X. |
[51] | Varchi, lib. XI, fol. 349. |
[52] | Vedi vita di B. Cellini. |
[53] | Copia estratta dal N. 17 della Lib. Rinucciniana. Mi stimo felice di poter qui attestare al mar. Rinuccini la mia gratitudine per la cortesia colla quale mi permise d’usare della sua libreria data in cura al sig. Ajazzi, nel quale sono al sommo grado riunite gentilezza e coltura. |
[54] | Ove oggi è il Gabinetto fisico. |
[55] | Capo di fanterie, che venuto in sospetto ai Signori fu chiamato in Palazzo e quivi ucciso, poi gettato in piazza dalle finestre. La sua vedova fu la virtuosa Anna Lena, fondatrice del convento di questo nome, ove si ritirò dopo la morte del marito, e finì i suoi giorni. |
[56] | Varchi lib. XI, foglio 420.. «e a Piagnoni, i quali aveano affermato, che Ferruccio era Gedeone, e ch’egli dovea esser senza fallo vittorioso e liberar Firenze, non era altra speranza che quella degli angioli rimasa.» |
[57] | Varchi, lib. XI, foglio 427. |
[58] | Niccolò Capponi, Gli Ottimati. |
[59] | Per ben intendere le espressioni di Baccio convien sapere che vi fu sospetto il principe non venisse ucciso se non per ordine di chi temeva volesse farsi poi egli signore di Firenze. Varchi Lib. XI, fog. 420. |
[60] | La casa de’ Mezzalancia è ora de’ Ciampalanti. |
[61] | Anche in oggi vien detto campo di ferro. |
[62] | Allude all’assalto dato al convento da’ nemici di Fra Girolamo. |
[63] | Tra i frati minori e quelli di S. Marco ardevan ire e rivalità fratesche sin da’ tempi di Fra Girolamo, alla cui rovina molto s’adoperarono i primi. Dopo la sua morte ottennero dalla Signoria di togliere ai Domenicani la campana, e la portarono al loro convento di S. Francesco, fuor di porta S. Miniato, di dove però fu poi restituita al primo luogo. |
[64] | Nel 1496 venne l’imperatore Massimiliano a Livorno colle genti del Duca di Milano e l’armata de’ Veneziani per mutar lo stato di Firenze. I Fiorentini si tennero perduti, ed i nemici del Savonarola andavan dicendo tra loro: «Si tu chiaro, che questo frate ci ha ingannati!» Succeduta la rotta dell’imperatore secondo la predizione di Fra Girolamo, questi fece una predica, ripetendo in suo favore le parole de’ suoi avversarj onde venne poi chiamata la predica del Sei tu chiaro? |
[65] | La notte in cui venne espugnato il convento di S. Marco (così racconta il P. Pacifico Burlamacchi) «Le monache di S. Lucia non patirono molestia alcuna da maligni spiriti, i quali dissero poi la mattina per la bocca loro: Questa notte siamo stati occupati nell’esercito che era contro alli frati.» |
[66] | Fatto narrato dal Burlamacchi nella vita del Savonarola. |
[67] | ....E ’l suo giubbone Le mette il tristo e una berretta in testa E l’usa in ogni ufficio di garzone. (Bentivoglio, Satire) |
[68] | Per scoprire se fossero rimasti almeno i nomi delle due opposte fazioni, domandai a un contadino di Gavinana, se usassero da paese a parse chiamarsi con qualche nome particolare ed oltraggioso, come accade in altre parti, mi rispose soltanto, che chiamavano Canciugli quelli di S. Marrello, senza sapermi dir perchè. Sarebbe una corruzione di Cancellieri? Ma essi invece eran Panciatichi. |
[69] | Cin da Pistoja. |
[70] | Dopo scritte queste pagine fu posta finalmente una povera lapide che indica il luogo ove morì Ferruccio. |
[71] | Modo toscano per dir vi son gli spiriti. |
[72] | Natale. |
[73] | V’era a’ Servi un’immagine di Clemente VII appesa alla vôlta, simile a quelle che trovammo alla buca di S. Antonio. Alcuni giovani la fecero in pezzi. |
[74] | Calze, significava allora un vestimento che dai piedi ricuopriva sin sopra l’anche, come oggi i calzoni. |
[75] | Quia oneratis homines oneribus quae portare non possunt
et ipsi uno digito vestro non tangitis sarcinas.
S. Luca c. II, v. 46 |
[76] | Tra i soldati di quell’epoca erano molte superstizioni di questo genere. Ad un ferito a morte solevano, per esempio, i troppo zelanti compagni, empier la bocca di terra per supplire alla comunione. |
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—L’indice non è compreso nell’opera originale. Ne è stato prodotto ed aggiunto uno dal trascrittore.
—La copertina è stata creata dal trascrittore ed è posta in in pubblico dominio.
End of the Project Gutenberg EBook of Niccolò de' Lapi, by Massimo D'Azeglio *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NICCOLÒ DE' LAPI *** ***** This file should be named 46957-h.htm or 46957-h.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/6/9/5/46957/ Produced by Giovanni Fini, Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at www.gutenberg.org/contact For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director [email protected] Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works. Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. 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