The Project Gutenberg EBook of Naja tripudians, by Annie Vivanti This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Naja tripudians Author: Annie Vivanti Release Date: September 16, 2014 [EBook #46874] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NAJA TRIPUDIANS *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) ANNIE VIVANTI Naja Tripudians ROMANZO FIRENZE R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI MCMXXI PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA per tutti i paesi compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda. _Copyright 1921 by A. Vivanti Chartres_ 1921 — Tip. Carpigiani & Zipoli — Firenze — Via Ricasoli, 63 _... The rest is silence._ SHAKESPEARE _Se qualcuno, leggendo questo libro, ne rimanesse turbato, vorrei potergli dire: «Non vi commovete. È tutta una fantasia». Ma questo, pur troppo, non lo posso dire._ _Non io ho ideato questa storia: è la Realtà, terribile Romanziera, che la concepì e creò._ _Fu lei che mi cantò le chiare note del principio; fu lei che mi dettò le nere pagine della fine._ _ — La fine? — dirà qualcuno. — Ma questo libro non ha fine! Alla notte segue l'alba, e all'alba il giorno.... Che accadde poi di Leslie?_ _Io rispondo: La vita non finisce soltanto colla morte._ _La storia di Leslie è finita._ _.... «The rest is silence»._ I. — Lasciamo fare a Madre Natura, — disse Mr Williams, il medico di campagna, uscendo dalla camera della sofferente e chiudendo cautamente l'uscio dietro di sè. E battè sulla spalla del marito, accasciato su una seggiola nel corridoio col capo tra le mani: — Lasciamo fare a Madre Natura. Francis Harding alzò la fronte su cui cadevano scomposti i capelli già biancheggianti. — Ma non c'è pericolo?... — e fissò gli occhi rossi dalle veglie e dal pianto sul suo vecchio amico e collega. — Niente! Niente pericolo, — disse il dottor Williams allegro e bonario; — e voi, mio buon Frank, andate a passeggio. — Quanto durerà ancora? — interrogò il marito. — Quattro o cinque ore.... o sei, — disse il medico. Un lungo gemito e un altro e un altro ancora, crescente fino a un urlo stridulo e straziante, giunse a loro traverso quella porta chiusa. Il marito trasalì, pallido, battendo i denti, e un sudore gelido gli perlò sulla fronte. Fece per tornare indietro. — No, no! — esclamò il dottore, prendendolo per un braccio. — Non fareste che disturbarla. C'è la buona Jessie che le bada. Fuori, fuori.... E trasse l'amico, che barcollava come un ubriaco, giù per la breve scalinata di Rose Cottage e fuori nel giardinetto mesto e sfrondato, dove le margherite viola e le ultime rose ottobrine sbattute dal vento si dolevano d'essere venute al mondo in autunno invece che in primavera. — Via, via! Andate a passeggiare, — ripetè il dottore. — Io vado a fare tre visite e poi torno qui. Guai a voi, se vi ci ritrovo! E stringendo affettuosamente la mano dell'amico, il dottor Williams andò a slegare dallo steccato le redini del vecchio cavallo bianco che pascolava placidamente l'erba sull'orlo della strada campestre. — Andrò a vedere la bambina, — sospirò Harding volgendo lo sguardo appannato nella direzione del villaggio, annidato nel verde a mezzo miglio di là. — Bravo, bravo! Dove l'avete? — L'ho mandata in casa della maestra, — disse Harding; — ha offerto lei di tenermela durante questi giorni. — È una buona creatura quella Miss Smith, — osservò il dottore. E colle redini in mano salì nel baroccino. — Non offro di condurvici perchè vado nella direzione opposta. E poi, vi farà bene il moto. Harding fece mestamente cenno d'assenso, e il dottore, sbattendo le redini sul grasso collo del cavallo, partì, sballottato nel suo calessino giallo, per la strada di campagna lunga, dritta, spazzata dal vento autunnale. Francis Harding scese lentamente per la scorciatoia verso il villaggio di Wild-Forest, tremando di udire rinnovarsi, prima d'esserne fuori di portata, quel gemito, quell'urlo che ormai da dodici ore si rinnovava a intervalli sempre più brevi, e che diveniva sempre più angosciante e straziante. — A che cosa serve, — riflettè egli amaramente, scendendo tra i prati umidi e smeraldini sotto gli alberi rosseggianti e in parte già sfrondati, — a che cosa serve ch'io sia dottore, se non posso assistere nell'ora del suo spasimo la creatura a me più cara? Se non posso lenire le sue sofferenze? E pensò che se pure, come marito, non poteva assistere nel parto sua moglie, avrebbe pur potuto starle vicino, farle respirare un po' di cloroformio nelle crisi del massimo dolore.... Ma poi si disse che il vecchio Williams era geloso delle sue pazienti e non avrebbe tollerato la menoma intromissione, neppure quella del marito. E continuando la sua strada, umiliato, pensava di sè: che razza di dottore era mai? Che dottore inutile e grottesco! Specialista di malattie tropicali qui, in un paesello nordico dell'Inghilterra, dove il sole si vedeva un giorno su dieci! Che ironia saper curare i casi d'insolazione e di colera asiatico! Essersi specializzato negli studi dell'elefantiasi e della lebbra, nelle cure dei veleni ofidici di vipere e di naie!... Ah! meglio se fosse rimasto laggiù nelle Indie, solitario naufrago della vita sulle torride e desolate coste del Malabar, tra i soldati e i negri; meglio se non fosse tornato qui nel suo paese nativo, a sposare la mite e timida creatura, di vent'anni più giovane di lui, che ora gli metteva al mondo, tra gli spasimi, dei figli — come lui miti e timidi, come lui inetti alla vita.... Veramente, pensò poi per consolarsi, sua figlia maggiore — l'unica fino ad oggi — la piccola Myosotis ch'egli andava ora a trovare, non era poi tanto timida, nè tanto mite.... Al pensiero di Myosotis il dottore Francis Harding affrettò il passo. Giunse alla casa della maestra e, battendo piano alla porticina verde, senza attender risposta girò la maniglia ed entrò. Subito dalla saletta a pianterreno gli corse incontro la sua bambinetta seguita con maggior compostezza da Miss Smith. — Papà!... — e gli saltò tra le braccia. Poi, guardandosi intorno: — dov'è la mamma? — Te l'ho già detto io, — interpose in fretta la maestrina, anima mistico-poetica, ammiccando cogli occhi al dottor Harding; — è andata nel giardino delle Esperidi a prenderti un fratellino. — Poteva tralasciare; — disse la piccola Myosotis — potevamo mandare il giardiniere o qualcun altro a prenderlo. E poi, — soggiunse con un piccolo broncio, — non c'era bisogno di fratellini; vero, Papà? Il Papà arricciandosi nervosamente i baffi grigi si strinse nelle spalle con fare un po' compunto. — Veramente.... — disse, quasi coll'aria di volersi scusare. La maestra s'interpose di nuovo: — Bisogna accettare con gratitudine ciò che il buon Dio manda. — Ma allora, — ribattè Myosotis coll'ostinazione propria all'infanzia — se Dio lo mandava non c'era bisogno che la mamma si disturbasse ad andarlo a prendere. Suo padre ebbe un pallido sorriso; ma Miss Smith aggrottò le sopracciglia. — Zitta, — disse. — I bambini non devono parlare che quando si rivolge loro la parola. Indi interrogò collo sguardo il dottor Harding. — Mah!... — fece egli, e trasse un profondo sospiro. — Non ancora.... Il dottore spera che tra qualche ora.... — Mah! — fece a sua volta Miss Smith. Ed entrambi fissarono lo sguardo un po' triste, un po' vacuo sulla bambina; e tacquero. Finalmente Miss Smith propose il rimedio inglese ad ogni più grave guaio. — Prendiamo una tazza di thè! Frattanto il grasso cavallo bianco del dottor Williams saliva a passo lento le brevi colline e scendeva a trotto pesante le brevi vallate; e il dottor Williams fece con cura e coscienziosità le sue tre visite. Indi il grasso cavallo bianco riprese la via di Rose Cottage; a passo lento le salite, a trotto pesante le discese; e arrivò al cancelletto verde sul calar della sera. Francis Harding passeggiava in su e in giù per il malinconico giardino crepuscolare; e si stringeva la testa tra le mani. — Dottore!... dottore!... — singhiozzò, — aiutatela, aiutatela per amor di Dio. E il dottore, entrando nella buia anticamera e togliendosi il soprabito, ripetè bonario: — Ma che, ma che!... Bisogna lasciar fare a Madre Natura. Lasciarono fare a Madre Natura — vecchia Levatrice cieca, sorda, pazza e perfida — e quella condusse alla vita, su un fiotto di sangue, una fragile creatura novella; e spinse alla Morte, sulla stessa onda purpurea, l'altra e più preziosa esistenza. . . . . . . . — Dov'è la mamma?...Dov'è? — gridò Myosotis, entrando inattesa e sola a Rose Cottage il mattino seguente. La maestra vi si era recata all'alba mentre la bambina dormiva ancora; ma appena desta, Myosotis, sfuggendo alla vecchia serva di Miss Smith, era corsa fuori, e su per la collina a casa sua. Nel salotto erano radunati silenziosi suo padre, la maestra, il dottore e la vecchia Jessie; questa recava sulle ginocchia un involto di flanella bianca. Myosotis ripetè la sua domanda: — La mamma dov'è? Nessuno — nè suo padre, nè il dottore, nè la maestra, nè Jessie — rispose. Forse non lo sapevano. L'unico che poteva saperlo era l'involto di flanella; e quello non aprì bocca. — Quando torna?... nessuna risposta. Tutti piangevano sommessi. — È rimasta in quel giardino?... — chiese la bimba avvicinandosi al padre che stava chino coi gomiti sulle ginocchia e il viso chiuso nelle mani. Il padre scoppiò in singhiozzi poggiando il capo grigio sul fragile omero della sua bambina. Allora pianse anche lei molto forte e a lungo, e tutti gli altri dovettero smettere di piangere per consolarla. Indi Miss Smith la ricondusse via. II. Passarono i giorni, e a Myosotis nessuno disse nulla. Per lei, la mamma s'aggirava ancora nel giardino delle Esperidi, aprendo i calici dei fiori per vedere quale contenesse il bambino più bello. Ma una sera, girando solitaria nel giardino di Miss Smith, vide al cancello il piccolo Joe Sibthorpe che con un fucile di legno faceva finta di volerla uccidere. Ella lo chiamò e gli confidò che s'annoiava assai senza la mamma, e fu grande la sua gioia quando Joe esclamò: — Ma dev'essere tornata. Ho sentito molti strilli in casa tua. Myosotis partì subito, correndo per la scorciatoia che conduceva al Cottage; e Joe le trotterellò dietro, alzando il fucile ogni tanto per prendere di mira le fiere che senza dubbio stavano rintanate dietro le siepi. Il cancelletto di Rose Cottage era chiuso, ma i bimbi girarono dietro la casa e trovarono aperta la porta della cucina. Dabbasso non c'era nessuno, e i due sgambettarono su per la piccola scala di legno. Ecco che dalla camera di Myosotis, ch'era la prima sul pianerottolo, udirono uscire degli strilli acuti e brevi. Myosotis, spinse piano la porta ed entrò; Joe, col fucile a spall'arm, pronto ad ogni evenienza, la seguì. Jessie in un grande grembiule bianco, stava dando il bagno a un piccolissimo essere umano, che piangeva, dibattendosi nell'acqua come un rospicciattolo. La donna, appena vide entrare Myosotis, riabbassò gli occhi, e Myosotis notò che anche lei, come la creaturina nell'acqua, piangeva; ma senza tanti strilli. Joe era rimasto di sasso accanto alla porta. — Misericordia! Che orrore. Com'è rosso! — disse. — E che bocca!... Myosotis s'accostò, e dopo breve contemplazione chiese a Jessie: — È un bambino o una bambina? Jessie non rispose. Joe corrugò le ciglia con aria saccente. — Questo, — sentenziò, — non si può dire finchè non sarà vestito! Quando fu vestito si vide che era una bambina, poichè aveva sulla cuffia dei nastri rosa, e non quelli celesti già preparati in attesa di un fratellino. — Bisognerebbe metterglieli neri, per la povera sua mamma, — disse cupamente Miss Smith. Ma Jessie, la fedele domestica, vi si oppose. — Inutile rattristare il papà e la sorellina, — dichiarò recisa. E la neonata portò i suoi nastri rosa e fu battezzata coi nomi scelti dalla mamma pel fratellino e che potevano adattarsi anche a lei: Leslie Denys Harding. III. Le due bimbe crebbero in serena innocenza, candide, mansuete e semplici. Rose Cottage, la casetta bianca e bassa del dottor Harding era lontana anche dal villaggio e nessuno si scomodava mai per andarvi a far visita. Il villaggio di Wild-Forest, sperduto nell'angolo più remoto del Yorkshire, non offriva nè attrattiva al viaggiatore nè seduzione a villeggianti; le medesime antiche famiglie campagnuole vi abitavano da generazioni, ed i tumultuosi eventi di un mondo lontano non giungevano a scuotere i calmi silenzi di quei patriarcali focolari. Così la giovinezza delle due fanciulle scorreva fuori del mondo, lontana dalla vita, come un ruscello argenteo in un paesaggio lunare. Poichè la scuola era lontana, Miss Smith veniva lei stessa due volte alla settimana ad impartire loro delle vaghe nozioni d'ogni genere. Di Storia ella impresse i punti secondo lei più importanti nelle chiare memorie delle due fanciulle: Re Canuth che aveva voluto fermare le onde del mare; i due principini assassinati nella Torre di Londra; il principe Clarence che volle affogarsi in una botte di Malvasia; i nomi delle sette mogli di Enrico VIII; la predilezione per il colore celeste dell'attuale regina Mary d'Inghilterra. I loro studi di Geografia si limitarono ai nomi dei continenti, dei mari e delle 37 contee d'Inghilterra; tutto il resto, visto le condizioni incerte e tumultuarie dell'epoca presente, era inutile impararlo, perchè le cose potevano cambiare ogni giorno. Impararono i nomi di tutti i fiori nel giardino di Rose Cottage, ed anche di tutti quelli nei boschi; studiarono a memoria le poesie di Mrs Hemans, e s'interessarono molto ai piccoli negri dell'Africa Centrale che hanno la sventura di non portare vestiti e di non leggere la Bibbia. E così, avendo assolto il suo compito d'educatrice, Miss Smith le abbracciò, le benedisse, e andò a vivere a Leeds. Dove sposò un capomastro e fu molto felice. Alla scuola di Wild-Forest venne Miss Jones, una nuova maestra, una maestra di Londra, molto risoluta e moderna. Arrivò a Rose Cottage, non invitata, a fare un breve ma severo esame alle due ragazzine; per sfortuna non chiese nè di Canuth nè dei piccoli negri; per conseguenza trovò che le bimbe erano assai ignoranti e insistette presso il dottor Harding perchè le mandasse a scuola. E a scuola andarono, ogni giorno, le due biondine, e impararono tutto ciò che ancora mancava alla loro perfetta educazione. Impararono che il mondo è rotondo e appartiene agli inglesi; che gli oceani sono vasti e appartengono agli inglesi; che gli inglesi permettono — generosamente — ad alcune altre nazioni di vivere nel mondo, e ad alcune altre navi — ma poche! — di navigare sui mari. Impararono che bisogna odiare i tedeschi, disprezzare i latini, e aver schifo dei negri. Impararono che il Dio inglese non riceve che la domenica, mentre il plebeo Dio cattolico (che del resto non serve che per gli straccioni, i forastieri e gli Irlandesi) lascia aperte le sue chiese tutti i giorni, ma non bisogna andarci. Impararono che il sentimento è una cosa volgare; che è ridicolo commuoversi, che è indecoroso entusiasmarsi; che la frutta si mangia col coltello e la forchetta, e che le unghie e la coscienza — ma sopratutto le unghie! — vanno tenute pulite. Terminata così la loro educazione scolastica, le due fanciullette lasciarono la scuola e tornarono a casa, da loro padre. E da lui appresero altre cose ugualmente utili per affrontare l'esistenza. Appresero quali sono i mezzi che si adoperano a Rio Janeiro e nell'Isola di Sumatra per neutralizzare il veleno dei serpenti; impararono a distinguere la Naja Tripudians — la funesta e terribile cobra egiziana — da altri rettili, quale il Crotalus horridus e il Cerastes cornutus; impararono a conoscere i sintomi determinati dalla puntura degli scorpioni di Columbia e quelli dei ragni del Capo di Buona Speranza; e conobbero la distribuzione geografica, la eziologia e la patogenesi della lebbra e del beri-beri. Così, preparate ed agguerrite alla vita, si affacciarono le due bionde sorelline alla soglia della giovinezza. Con gli occhi limpidi come il vento guardarono in faccia all'avvenire. IV. E la vita le salutò, tutta sorrisi. Le condusse, tenera come una mamma, gaia come una amica, pei mattinali sentieri dell'adolescenza. Myosotis bionda, Leslie biondissima, vagavano fantastiche e sognanti in un mondo d'azzurre irrealità. Credevano ai miracoli e alle visioni, ai poeti e alle fate, agli angeli e agli umani. Avevano l'abitudine gentile di parlare colle cose immateriali e inanimate. — Buon giorno, primavera! — diceva Myosotis quando, uscendo al mattino, scorgeva in fiore gli alberi di mandorlo e di pesco. — Buon giorno, sole, hai dormito bene? — chiedeva Leslie. E alla luna nuova facevano sempre un inchino e molte raccomandazioni perchè portasse il bel tempo. Al primo foraneve in Febbraio, alla prima violetta le bimbe facevano gran festa; e la prima rosa che si schiudeva nel giardino, la baciavano come se fosse un'amica tornata dopo lunga assenza. — Non bisogna parlare colle cose inanimate — ammoniva Miss Jones. — Inanimate? — chiedeva Leslie un poco stupita. — Siete certa che non hanno anima le rose?... Miss Jones non ne era certissima. E le bambine continuarono a salutarle. Ingenua quanto loro o più di loro era la vecchia Jessie, già domestica in casa della loro madre allorchè questa era ancora signorina; ed ora, divenuta cogli anni bisbetica, brontolona e avara, era pregiata quale perla di gran prezzo dal dottor Harding, e temuta e adorata dalle due bambine. Ma di tutti il più semplice, il più ingenuo, il più ignaro delle cose della vita era senza dubbio il dottor Harding stesso, nei cui ceruli occhi non fluttuavano che pallidi ricordi di cose passate, o vaghe nebulosità di astruse ricerche scientifiche. La sua giovinezza egli l'aveva trascorsa tutta nei tropici. Medico nella marina inglese, il destino lo aveva gettato a ventidue anni sulle coste delle Indie orientali. Ivi, il suo spirito indagatore e pietoso era stato profondamente impressionato dalle mostruose malattie che affliggono le razze indigene dei paesi tropicali. Alto magro taciturno passava come un dio biondo tra le popolazioni nere di laggiù, passava tra i mali senza nome, tra le piaghe e le pestilenze d'ogni sorta, curando, beneficando, studiando il modo di alleviare le febbri, il colera, la dissenteria; esaminando le orribili piaghe del mycetoma e la rossa escrescenza della framboesia che cresce come un mostruoso frutto di lampone sul volto e sulle membra delle sue vittime.... Ma più di tutto il giovane dottore si appassionava allo studio della lebbra. L'idea di scoprire una cura per quell'atroce flagello gli si era fissa nel cervello colla tenacità inflessibile d'una mania. Ben ricordava come per la prima volta gli era entrata nella mente questa idea. Da quasi due anni, relegato con pochi marinai sulle coste del Malabar, occupato quale ufficiale a sorvegliare la condotta degli uomini che costruivano un canale irriguo, e quale medico a combattere e curare i casi di febbre tropicale e d'insolazione, egli da qualche tempo si sentiva assalito da un'inquietudine strana e febbrile. Era questa una febbre morale quanto fisica. Severamente allevato da suo padre, pastore evangelico scozzese, egli era di natura e per volontà casto di corpo e puro di pensieri. Ma ecco che verso sera, nell'ora di pace dopo la torrida giornata, sdraiato nell'amaca e gustando la fresca brezza del mare che sollevava la tenda della sua casupola, questa irrequietezza, questa tensione di nervi lo assaliva invincibile. Davanti ai suoi occhi socchiusi ondeggiavano allora delle figure femminili. Talvolta era il ricordo di qualche sua bionda connazionale lontana; ma più spesso lo ossessionava la visione di qualche bruna indiana intravveduta lungo il giorno, sulla spiaggia o nella città vicina. Questi pensieri gli davano un vago senso d'inquietudine e di desiderio. E quasi sempre, in quell'ora del tramonto, passava davanti al suo bungalow, rapida e silenziosa come un'ombra, una donna sconosciuta. Alta, snella, velata di un manto azzurro che le copriva il capo, le ombreggiava il volto, e le avviluppava di pieghe armoniose tutto il corpo sottile, ella passava in quell'ora del crepuscolo, esile figura piena di poesia e di mistero. Ella doveva pur essersi accorta di quel solitario europeo che, sdraiato nell'amaca, fumando, la guardava; poichè nel passare ella rallentava un poco il passo; indi, quasi con voluta civetteria, volgeva via il capo fasciato d'azzurro, come per meglio contemplare il mare.... Francis Harding la vide passare così tutte le sere; finalmente, una sera, la chiamò. Essa fuggì come una gazzella. L'indomani quando il violento tramonto tropicale spennellava d'arancio e di viola il cielo, ella ripassò, e, come sempre, pur rallentando il passo quasi per farsi chiamare, volse il capo verso l'orizzonte non offrendo agli occhi del giovane che la sottile linea del capo, delle spalle, e delle esili anche. Ed egli con voce risoluta la richiamò. Ella si fermò di botto e si volse a lui. Era distante forse venti passi, ritta sullo sfondo di quel cielo sfolgorante. L'oriente rifletteva in una diffusa luce perlacea quel purpureo tramonto. — Vieni qui, — diss'egli tendendo un braccio verso di lei. — Vieni qui. Voglio parlarti. Ella non mosse d'un passo, ma deliberatamente, con gesto lento, solenne, quasi ieratico allargò le braccia che stringevano intorno alla persona e al capo il manto azzurro — e levò la faccia verso il cielo. Orrore!...quel viso era maculato di larghe chiazze bianche....pareva che sulle guancie, sul naso, sulla fronte avesse nevicato.... Un grido di orrore e di pietà sfuggì alla gola dell'uomo. La donna, a capo chino, si allontanò rapida e sparì. Di quell'incidente rimase per sempre a Francis Harding un brivido di terrore nelle carni. Ma un altro e più terribile ricordo egli doveva portar via dal suo soggiorno in quei tragici luoghi. In quelle solitudini, lontano dalla civiltà e da ogni relazione sociale, egli aveva fatto la conoscenza d'un ingegnere francese arrivato laggiù per la costruzione d'una ferrovia. Non era certo una persona oltremodo simpatica, e in altre condizioni ed altri luoghi il timido e riservato Harding non avrebbe mai stretto amicizia con Jean Vital, egoista arrogante e amorale. Ma nelle deserte solitudini di quei luoghi, il sensuale libertino francese e il nordico asceta, affratellati dall'isolamento e dall'esilio, si confidavano ogni pensiero. Così avvenne che Harding apprese da Vital, voluttuario impenitente, ch'egli aveva gettato gli occhi su una donna indigena convivente col quartier-mastro dei marinai inglesi. Era questa un bel tipo di donna color rame, dagli occhi languidi ed astuti sotto le palpebre socchiuse. Johnson, il quartier-mastro inglese che la teneva con sè, era dissoluto e brutale. Un giorno il francese venne con aria soddisfatta e spavalda a trovare l'amico. — _Ça marche!_ — esclamò ridendo; e gettandosi sulla sgangherata poltrona a dondolo, vanto e lusso del bungalow di Harding, incrociò le lunghe gambe nei pantaloni bianchi, trasse di tasca un sigaro e narrò al silenzioso dottore la sua fortuna. — Iersera mentre quel bruto di Johnson era assente, sono andato davanti al loro bungalow e ho fischiato. Lei è uscita sulla porta.... e io subito, là.... _à la six-quat'-deux!_.... le ho schioccato un bacio sulla bocca. — Siete imprudente, — disse Harding. — Se quella lo dice a Johnson! — Bah! non lo dice, — fece Vital, soffiando verso il soffitto basso e nero una lunga boccata di fumo. — E poi, mio caro, in guerra e in amore, la fortuna è per il temerario. — E ridendo dell'aria preoccupata dell'amico, soggiunse: — E ne vuoi la prova? Stasera un sudicio monello negro m'ha seguito mentre lasciavo il cantiere. Credevo che volesse un soldo e gli ho applicato una pedata. Ma lui ha continuato a seguirmi. Allora ho capito che voleva dirmi qualche cosa. Qui Vital fece una pausa a effetto; ma poichè Harding non lo interrogava, proseguì: — E sai che cosa m'ha detto? M'ha detto: «Stasera, dopo le dieci.... Molto scuro.... Capanna solitaria di là dal ponte di San Juan. Venite. Senza rumore, senza luce». Harding parve stupito. — È possibile? — disse. — Eh!... — e il francese si arricciò i baffetti bruni. — Mi pare chiaro!... Cioè, — soggiunse ridendo, — non sarà chiaro, sarà buio. Quel marmocchio mi ha ripetuto tre volte: «Senza luce. Senza rumore e senza luce». E senza rumore e senza luce Jean Vital si recò quella notte alla capanna solitaria di là dal ponte di San Juan. Lungo la spiaggia i suoi passi cadevano lievi e silenziosi sulla sabbia; indi volse a destra, traversò il ponte e lasciò dietro di sè le luci del villaggio e la luminosa striscia del mare. E ben altro lasciò dietro di sè in quell'ora Jean Vital che i suoi focosi venticinque anni conducevano a perdizione. Seguendo la strada, da qualche anno quasi deserta, vide presto, a destra della via, ergersi — ombra sull'ombra — la capanna abbandonata. Stava per emettere un breve fischio allorchè ricordò l'ingiunzione del ragazzo: «Senza rumore!» E giunto sulla soglia e spinto l'uscio basso e socchiuso, il buio davanti a lui fu così nero che per istinto cercò in tasca gli zolfanelli.... Ma ecco che gli tornò alla memoria l'ordine tre volte ripetuto dal messaggero: «Senza luce». Si tolse la mano di tasca e la tese brancolando innanzi a sè; indi sussurrò a bassissima voce il nome della donna: — «Jamana!...» Un mormorio inarticolato gli rispose; una mano toccò il suo polso e lo trasse nella capanna. Un profumo strano e violento gli tagliò per un istante il respiro. Era come un odore di muschio e di bergamotto; e sotto a quella duplice e forte fragranza vagava un altro aroma, dolciastro, languido, quasi impercettibile.... Ma la stretta al suo polso — egli la sentiva calda e tremante — lo traeva innanzi e in giù.... il suo piede toccò una stuoia.... e al suo respiro rapido e ansante rispose, lieve, un sospiro.... . . . . . . . L'alba color grigio-perla illuminava fiocamente l'apertura quadrata della finestra, quando un leggero rumore lo svegliò. Prima ancora di ogni altro ricordo, giunse ai suoi sensi assopiti quello strano odore, dandogli una lieve impressione di stordimento. Senza aprire gli occhi allungò la mano e toccò accanto a sè una coperta ruvida, un posto vuoto.... Allora aprì gli occhi e vide disegnata sullo sfondo grigio del vano della porta, un'ombra. Era un'ombra femminea, ammantata di scuro, che apriva cautamente l'uscio. Gli parve di non ravvisarla. La chiamò. — Jamana! Ma la donna non si volse. Spalancò la porta e uscì correndo. Vital balzò in piedi, e così qual'era, senza giacca e senza scarpe, le fu dietro colla leggerezza rapida d'una pantera. La raggiunse, la ghermì per le braccia, le strappò dal capo lo scialle nero e la guardò. Un urlo gli sfuggì dalla bocca spalancata. Gittò le braccia in aria, e gli occhi parevano schizzargli dalla testa.... E mentre la donna fuggiva, curva nella polvere, egli ululava, ululava strappandosi i capelli, dilaniandosi le carni, conficcandosi le unghie nella bocca come se volesse strapparsela dal viso. La bocca!...la bocca sua che aveva baciato quell'immonda cosa!...quel volto roso e sfigurato dalla lebbra! L'aurora lanciava pel cielo nastri di rosa e veli d'oro, allorchè Jean Vital ritraversò il ponte. Parlava forte da solo; gridava, gesticolando, scotendo i pugni al cielo. Andò a battere alla porta del dottor Harding. Questi si alzò da letto per aprirgli. Sulla soglia vide un essere ch'egli dapprima non riconobbe. — Lontano!...Stammi lontano — urlò Vital in frenesia, — sono contaminato! E stramazzò ai piedi di Harding, e sangue e schiuma gli uscivano dalla bocca lacerata.... . . . . . . . Passò un anno. Non accadde nulla. Durante quell'anno parve a Jean Vital di trattenere il respiro. Non osava guardarsi in uno specchio per paura di vedere le stimmate orrende del morbo. Non osava guardare in faccia alla gente per paura di scorgere a un tratto nei loro occhi la rivelazione spaventosa. Passarono due anni. Allora, tremando, egli osò per la prima volta guardarsi in uno specchio. Si trovò magro, con un ciuffo di capelli bianchi sulle tempia, col viso pallido ma d'un pallore chiaro e sano. Allora prese a guardarsi continuamente; si portava intorno uno specchietto e cento volte al giorno se lo toglieva di tasca e si scrutava; si esaminava gli occhi, la bocca, il naso, le gengive, la gola.... Nulla. Passarono quattro anni. Passarono cinque anni. — Nulla. Jean Vital riprese a lavorare e a vivere. Era rimasto incolume; era sfuggito al contagio. La sua gioventù, il suo sangue sano avevano trionfato della mostruosa contaminazione. Ed era un uomo felice. Il fatto di essere sano, di avere le carni illese, era per lui una fonte di perenne, estatica esultanza; non era la passiva, quasi inconscia, soddisfazione dell'uomo che gode di una salute normale. No; Vital ogni giorno, ogni momento si compiaceva nel constatare che il suo corpo era incorrotto, il suo sangue mondo, terse le carni vigorose; e questa constatazione gli pareva quasi una vittoria sui fati, una conquista personale della sua robusta virilità. Passarono otto anni. Vital tornò in Francia. Aveva danari. Pensò a prender moglie. Scelse con prudenza e deliberazione. Scelse la più bella e saggia fanciulla del suo paese. E quando l'ebbe chiesta e ottenuta, se ne innamorò perdutamente, pazzamente, sentendo rinascere in sè la passione scordata o frenata durante i suoi anni di tortura. L'amò con frenesia di gratitudine e di gioia, quasi rappresentasse per lui la liberazione definitiva dall'incubo mostruoso. L'adorò con tale trasporto di riconoscenza e di beatitudine che la fanciulla stessa non lo comprendeva, e ne aveva quasi paura.... Mancava un mese alle nozze. Era il primo d'Agosto e, dopo la giornata canicolare, Vital — che dal principio dell'estate s'era sentito un po' languido e sonnolento — scese con gli amici a fare un bagno nel fiume. Si svestì sulla sponda, parlando e scherzando; gettò giacca e sottovesti sull'erba, indi alzò le braccia per trarre da sopra al capo la camiciola di maglia.... Sostò. Guardò quelle braccia ignude alzate nella gran luce del sole.... Stette un attimo così, immobile, senza respiro. Indi abbassò le braccia e le tese davanti a sè nella luce abbagliante di quel sole estivo. Il terrore lo fulminò. Sull'avambraccio destro v'era una macchia rossastra, leggermente saliente. Più su, vicino alla spalla, ve n'era un'altra. Sul braccio sinistro.... Sì! sopra la piegatura del gomito, una piccola placca rossa e granulata.... Una nausea profonda gli chiuse la gola. Indi con un ruggito di belva si abbattè, colla fronte in terra. . . . . . . . Il dottor Harding ne ebbe notizia per qualche anno ancora. Vital errava per il mondo portando con sè la sua disperazione. Harding ne riceveva delle lettere che lo facevano rabbrividire d'orrore e di pietà. «Se tu sapessi che cosa vuol dire assistere con mente chiara alla propria putrefazione!... Non mi lascio vedere dai dottori per paura che mi mandino alla Lebbroseria, a Hendela. «Tu, tu che sei medico, studia, trova, inventa!... Per Dio! ci sarà pure un rimedio! Ancora sono nei primi stadi.... Trova! Cerca! Inventa!». E un anno dopo: «Fa presto! fa presto! Aiutami! Faccio già spavento a chi mi vede. Non ho più sopracciglia; ho dei noduli sulla fronte, sulle narici, sui lobi delle orecchie. Ho le mani difformi; le dita mi si ricurvano come artigli....». E più tardi ancora: «La cancrena mi ha fatto cadere un dito. Il morbo mi s'infiltra negli occhi; non ho più palpebre. Fa presto! In nome di Dio!... Cerca! trova! inventa....». E il dottor Harding studiò, cercò, inventò. Fece venire le opere di Bibb, di Koch, di Hutchinson, di Schmal; andò in cerca d'indigeni lebbrosi e fece su loro degli esperimenti, pericolosi a sè stesso e a loro; tentò inoculazioni, vaccinazioni, cure di arsenico, di mercurio, di olio di chaulmoogra.... Visse tra mostri deformi e animaleschi, studiando tubercoli e ulceri, cancrene e necrosi.... E già da anni la terra, scura e pietosa, aveva ricoperto il volto spaventoso di Vital, che ancora il suo amico, sulle lontane coste dell'India, cercava, studiava, inventava, ossessionato dall'idea di guarirlo, fisso nel pensiero di vincere il più antico, il più atroce morbo che affligga l'umanità. . . . . . . . Il dottor Harding aveva oltrepassato di poco la quarantina, allorquando l'unica sua parente — una sorella di suo padre, vecchia solitaria ed eccentrica ch'egli appena conosceva — si ammalò e lo chiamò in patria. Per devozione alla memoria di suo padre, egli, lasciando a malincuore i suoi studi e l'India, vi andò, e trovò la vecchia donna, colpita da paralisi, nella sua casetta rustica, «Rose Cottage». Al capezzale, mite, timida, pietosa, vegliava la bionda figlia del pastore anglicano di Wild-Forest. E quando la vecchia ebbe chiuso gli occhi — lasciando ad Harding la sua esigua sostanza, la casetta e i limitati poderi — Harding tese la mano alla mansueta e silenziosa infermiera per ringraziarla. Quella mano era piccola e tiepida e tremante. E Francis Harding la trattenne nella sua. V. Ma traverso gli anni — troppo brevi! — di calma dolcezza con lei, e nella vedovanza che gli straziò il cuore e lo lasciò, solo in un mondo che poco conosceva, con due fanciullette sulle braccia, l'idea fissa di Harding non gli uscì mai dalla mente: trovare un rimedio alla spaventosa elefantiasi greca, distruggere il bacillo di Hansen, liberare la terra da quella mostruosa impurità. Studiò tutte le nuove pubblicazioni di Pasini e di Borthen, di Moreno e di Padilla; si mise in corrispondenza con Filippo Rho, con Castellani e Chalmers; si creò un piccolo laboratorio in fondo al giardino dove, con bacilli mandatigli da Londra, fece degli esperimenti su conigli, topi e porcellini d'India. Intraprese dei viaggi a Parigi e a Bieberich sul Reno; mantenne delle corrispondenze agro-dolci coi collaboratori di giornali scientifici e riviste mediche; e non cessava mai di rammentare le sue passate esperienze indiane, rimpiangendo amaramente di non poterne sapere i risultati. — Avevo trovato!... sono certo che avevo trovato.... — diceva talvolta, la sera alzando i miti occhi dai suoi fogli e fissandoli sulle teste bionde delle sue figliuole che, chine al lavoro sotto la luce diffusa della lampada famigliare, alzavano a lui i soavi occhi celesti. — Mi basterebbe avere qui otto o dieci lebbrosi.... — E dove li terresti? — chiedeva Myosotis, non senza un poco d'inquietudine. — Già — rifletteva il dottore scotendo la testa bianca; — dove li terrei? VI. Lieti volavano i giorni, portando anemoni d'opale e iridi azzurre e candidi narcisi al giardino di Rose Cottage; allungando i tralci di edera che stringevano in un verde abbraccio tutto il piano inferiore della casetta. Avrebbe dovuto esserci anche un'aiuola di giacinti; ma questi, comperati allo stato di bulbo dal dottore a Leeds, e da lui e le sue figlie piantati con più cura che esperienza, non fiorirono perchè erano stati messi in terra colla testa all'ingiù. Nel piccolo orto, cura speciale di Jessie, si seminarono colla consueta regolarità cavoli, spinacci, cicoria e piselli, e colla medesima regolarità gli otto polli bianchi, cari al cuore del dottore, andarono a mangiare i semi appena messi in terra, e se ne tornarono all'aia soddisfatti, facendo cenno di «sì» col capo ad ogni passo. I quattro grossi conigli bianchi e neri diventarono i genitori di trentadue piccoli conigli bianchi e neri. I due cani, Whisky e Soda, per tutto un giorno non ebbero fame, e si fu molto in pena per la loro salute, finchè non si scoprì che avevano mangiato dodici dei piccoli conigli. Allora Myosotis e Leslie piansero molto per i piccoli conigli; e piansero ancor più per Whisky e Soda durante la punizione inflitta loro dalla inesorabile Jessie col battipanni. Il dramma dei conigli fu l'episodio più saliente di quella primavera. L'evento principale dell'estate fu una visita della signora Russel, moglie dello Squire del paese; ella arrivò a Rose Cottage un mattino con sua figlia Nelly ad invitare le due fanciulle ai bagni di mare a Felixstowe. — Partiamo lunedì, Nelly ed io, — disse, amichevole e vivace, al dottor Harding; — le sue due figliole potranno essere pronte per quel giorno? Il dottor Harding parve assai incerto. Pur ringraziando dell'invito, non pareva troppo incline ad accettarlo. L'idea di affidare ad altri, anche per breve tempo, le sue dilette, lo turbava assai. — Ma sapete pure, — insistè Mrs Russel, un poco impaziente — che questa è un'usanza entrata ormai in tutte le nostre migliori famiglie. Anche la mia Nelly fa ogni anno il suo giro di visite in casa dei nostri amici più intimi. Solo così le nostre ragazze possono imparare a stare al mondo, a conoscere gente, a non trovarsi timide ed impacciate quando vanno in società. Pur riconoscendo la saggezza e i vantaggi di questa abitudine inglese, il dottore non sembrava troppo disposto a conformarvisi. Allora la signora Russel, già sulla porta in procinto di partire, tentò un altro argomento. — Pensate, dottore, di quanto vantaggio per la loro salute saranno i bagni di mare.... Il dottore ringraziò, e promise che ci avrebbe pensato. Jessie che teneva aperta la porta, la richiuse con forza non appena Mrs Russel e sua figlia ebbero voltato le spalle; indi entrò nel salotto con ciò che le bimbe chiamavano «la sua faccia di policeman». — I bagni di mare! — esclamò. — Già. Non mancherebbe altro. — E perchè no? — fecero in coro Myosotis e Leslie. — Perchè è pericoloso — dichiarò essa. — Ma Jessie!... Tutti vanno a fare i bagni!... — Ci vanno, ci vanno; e per lo più si annegano, — sentenziò Jessie, lugubre e caparbia. — Vostro padre deciderà come vorrà. Ma se lo domandate a me, dico che finchè voi non saprete nuotare non dovete entrare nell'acqua. — E dove vuoi che impariamo a nuotare? Per istrada? nel prato? — esclamò Leslie, sarcastica. Ma la vecchia domestica volse le spalle quadrate e inesorabili, e tornò in cucina. Le due fanciulle la seguirono. — Jessie!... Sei proprio illogica... — ragionarono. — Sì, sì, illogica — fece quella; — quando avrete la mia età sarete illogiche anche voi. Myosotis rise. E rise anche Leslie all'idea di avere giammai l'età di Jessie. — Scommetto che Jessie, — osservò Myosotis — non sa neppure il significato della parola «illogica»! — Non lo so, nè lo voglio sapere — ribaltò Jessie. — Non ho tempo, io, di riempirmi la testa di parole nuove. E staccò dal gancio una casseruola, sbattendola sul tavolo con molto rumore. — Lasciamola stare! — fece Leslie, traendo pel braccio la sorella. — Sai bene.... È come la storia del pianoforte. La storia del pianoforte! Le ragazze la rammentavano a Jessie ogni volta che volevano farla stizzire. — Rose Cottage sarebbe perfetta — aveva detto un giorno Myosotis, guardandosi intorno nella casetta, che dopo la vigorosa pulizia pasquale di Jessie era linda e lucida come un bambino a cui si sia lavato con molto sapone la faccia, — sarebbe perfetta.... se ci fosse un pianoforte. Il papà, udendo quell'osservazione, aveva accarezzato la guancia rosea di Myosotis. — Te lo comprerò, — disse. Ma Jessie che stava mettendo tavola, e che, per principio, disapprovava ogni soverchia indulgenza, intervenne severa: — E si può sapere che cosa ne farete d'un pianoforte, poichè non lo sapete suonare? — Ma quando l'avremo, impareremo — disse Myosotis. — Niente affatto. Quando avrete imparato a suonarlo, lo potrete avere — ribattè Jessie, con grande fermezza. — Vostro padre non farà di quelle spese inutili. — E uscì, borbottando ancora: — Già! Mancherebbe altro. Un pianoforte, quando nessuno lo sa suonare!... — Sarà meglio non farla arrabbiare — disse il dottor Harding, a tavola, guardando i visetti compunti delle due ragazzine. — Non insistiamo per il pianoforte.... Non insistettero. Ma Myosotis si alzò ogni mattina alle sei, e prima di scuola scendeva correndo al villaggio. Alle sette e mezzo batteva già alla porta di Miss Jones, la quale, ancora in sottana con uno scialletto sulle spalle, la faceva entrare nel suo salottino, toglieva dal pianoforte un vaso di fiori di cera, le fotografie dei suoi genitori e quella della famiglia reale, e apriva con solennità l'istrumento. Myosotis sedeva risolutamente davanti alla tastiera e si poneva a studiare. Un pomeriggio, quattro mesi dopo, tornando di corsa a Rose Cottage, ella andò difilato in cucina, e davanti a Jessie che stava impastando un Yorkshire pudding, distese ed aprì il primo quaderno del Diabelli. — Vedi queste cose nere? — disse. — Sono note. Ed io le so suonare. E poggiato il quaderno all'orlo dell'asse infarinato, suonò sulla tavola da cucina, alzando molto le dita e cantando la melodia: — _Ta, tatà tatà tatà, ta, ta...._ Jessie colle mani infarinate sui fianchi, fu assai impressionata. — Ma guarda un po', ma guarda un po'! — esclamava. E nei suoi occhi rossi salivano le lagrime di meraviglia e di ammirazione. — _Ta, tatà tatà tatà tatà, ta, ta_ — continuava Myosotis. E a Jessie le lagrime traboccarono dagli occhi e caddero giù per le guancie; e non potè nè nasconderle nè asciugarle perchè aveva le mani infarinate. Tre giorni dopo, arrivava da Leeds il pianoforte. E il dottore in poltrona, e Leslie in piedi, e Jessie rigida in una sedia accanto alla porta, ascoltarono rapiti la Sonatina del Diabelli per ben otto o dieci o dodici volte di seguito; mentre in cucina il pollo — immolato per la grande occasione — bruciava nella casseruola, e Whisky in piedi sulla tavola, ne divorava i fegatini e il cuore. VII. Di ritorno da Felixstowe, Mrs Russel, a cui la timida e dolce ritrosia delle due fanciulle era assai piaciuta, le invitò a venire ogni sabato a giocare al tennis colle sue figlie e la figlia del nuovo pastore anglicano. Le due fanciulle vi andarono, ma essendo molto timide e non sapendo giocare al tennis non si divertirono troppo, e il sabato seguente non vi andarono più. Ma da quella visita riportarono una cosa nuova nella loro vita; un libro prestato da Nelly Russel: «_Jane Eyre_», di Charlotte Brontë. Non avevano mai letto un romanzo e fu per loro un avvenimento. In Rose Cottage non si parlava che delle sofferenze di Jane, della dolcezza di Helen, della fierezza di Rochester; Myosotis lo leggeva ad alta voce, la sera, a Leslie che ascoltava colle guancie accese e le mani strette in grembo, e al papà che ogni tanto sonnecchiava. Ma le ragazze lo svegliavano per rileggergli i passi più emozionanti, e poi andavano in cucina a leggerli anche a Jessie. Ma quella crollava la testa sotto la cuffia bianca inamidata: — A me non piacciono quelle storie. Meglio leggere la Bibbia: si capisce meno, ma si sa che fa bene. La sera che il libro fu terminato, Myosotis riprese rassegnata la sciarpa che stava ricamando per Leslie; ma Leslie tenne il libro tra le mani, quasi le dolesse separarsene. — È strano, — sospirò essa, facendo scorrere tra le dita le nitide pagine ormai lette, — è strano che nei libri accadono tante cose!... Invece nella vita non accade mai niente. — Perchè dici questo? — chiese la sorella maggiore volgendo su lei gli occhi teneri e inquieti. — Ti annoi, forse? — Non so se m'annoio — rispose Leslie, pensierosa. — Non so precisamente che cosa voglia dire «annoiarsi». — Già, — fece Myosotis, contemplando la diafana, biondissima sorellina. E seguendo il filo dei suoi pensieri dovette dirsi che, in fondo, non sapevano nè l'una nè l'altra che cosa volesse dire annoiarsi o divertirsi, gioire o soffrire. La vita non aveva finora offerto alle loro labbra che la pura inconsapevolezza d'ogni cosa, come un fresco e insapore sorso d'acqua montanina. — Perchè proprio a questa Jane — continuò Leslie, sfogliando il libro con nostalgica lentezza — vanno a capitare tante cose? Non è verosimile. Poteva accaderle niente, come a noi. Myosotis rise. — Ma è appunto perchè le sono capitate tante cose, che l'autore ha scritto il romanzo. Di una ragazza a cui non succede niente, nessuno scrive. — Già, sarà così — disse Leslie pensierosa. — La nostra vita!... Come è bianca e vuota! Certo di noi nessuno scriverà. VIII. Verso la fine di quell'estate, in cui Myosotis compiva diciannove anni e Leslie quindici, venne a stare a Wild-Forest, in una villa signorile da tanti anni chiusa, una signora dal bel nome aristocratico: Lady Randolph Grey. Grande, grassa, coi capelli tinti di rosso, la carnagione di un biancore abbagliante, si vedeva uscire dal cancello della villa, vestita di scuro con un largo cappello alla Rembrandt sui capelli color rame, e traversare il paese con calmo e dignitoso incesso. Non faceva nulla per far parlare di sè. Ma Wild-Forest tuttavia ne parlava. Commentava il suo contegno serio e composto ogni domenica in chiesa; e assaporava con piacere i _puddings_ profumati di cannella e garofano ch'essa mandava a tutte le vecchie povere del villaggio. Non si sapeva troppo chi fosse. Delle sue tre domestiche, una sola usciva a far compere nel paese e non parlava con nessuno. Ma, forse per qualche velata indiscrezione dello chauffeur — poichè Lady Randolph aveva anche una Rolls-Royce verde scura e uno chauffeur in livrea dello stesso colore —, si sussurrava che era una dama di alto casato: chi dava per certo che era sorella di Lord Randolph Churchill, e chi sosteneva con non minore convinzione che era invece la moglie di Lord Edward Grey. Il suo primo nome aveva un dolce suono esotico: «Miranda», che i villici di Wild-Forest rotolavano in bocca come una caramella di gomma. Il Pastore protestante e lo Squire colle loro signore le avevano subito fatto visita; ma essa, pur ricevendoli con regale affabilità, non aveva reso la cortesia se non col lasciare alle loro porte uno stemmato biglietto di visita. Viceversa, dopo qualche settimana di solitudine, cominciò a ricevere molte visite da Londra; e, specialmente al «_week-end_», cioè ogni Venerdì e Sabato, si udiva per le silenziose vie del villaggio un gran rantolare e russare e tossire d'automobili. La domenica andava sempre lei sola in chiesa; i suoi ospiti rimanevano nella villa delle Acacie. I buoni rustici, avviandosi alla chiesa, li scorgevano talvolta traverso l'alta siepe d'edera e di bosso: stavano languidamente sdraiati sotto agli alberi nelle poltrone di vimini, fumando sigarette (le donne come gli uomini) ed esponendo all'aria (gli uomini come le donne) le eleganti caviglie calzate di seta variopinta. Si faceva sottovoce i nomi degli ospiti: quello dai baffi bianchi doveva esser Mr. Asquith, e le due signorine vestite di rosso erano senza dubbio le sue figlie. C'era anche il Duca di Norfolk.... in incognito. E quel biondino snello e pallido, vestito di grigio, si sussurrava a bassa voce che doveva essere.... Sì, sì! nientemeno che il principe di Galles!... Traverso le siepi i contadini sostavano, trattenendo con riverenza il respiro, a mirare quelle caviglie iridescenti a quadretti rossi e verdi, appartenenti a Sua Altezza.... E quando, in chiesa, il reverendo Pastore recitava come di precetto la preghiera per la Famiglia Reale, tutti gli occhi si volgevano a Lady Miranda Randolph Grey, che inginocchiata piamente nel suo banco, chinava un po' più basso sulle guantate mani il cappello piumato e la nuca tizianesca, quasi fosse questa preghiera un favore speciale e personale che la congregazione chiedesse per lei all'Onnipotente. Una domenica, uscendo dalla funzione, col capo d'oro soavemente chino sopra il suo libro di preci, e percorrendo il viale del piccolo cimitero che circondava la chiesa, ella si imbattè faccia a faccia colle due figlie del dottor Harding. Quelle levarono a lei i limpidi sguardi; e quando furono passate ella ebbe l'impressione d'aver sfiorato qualche cosa di primaverile, di mattinale e d'alato. — Chi sono quelle due fanciulle giovanissime, biondissime, vestite d'azzurro, che ho visto or ora? — si degnò essa di chiedere a Mrs Russel che, ferma sulla strada davanti al cancello del cimitero, aspettava il passaggio e il saluto della illustre dama. — Sono le figlie del vecchio dottor Harding, — rispose Mrs Russel, felice d'essere interpellata; e rapidamente tracciò la breve e semplice storia delle due fanciulle. — Ah? non hanno madre? — osservò Lady Randolph Grey, mettendosi il guanto destro, che, secondo il rito della chiesa episcopale inglese, aveva tolto per prendere la Sacra Comunione. — Già, poverine! — disse Mrs Russel — vanno ogni domenica dopo la funzione a pregare sulla sua tomba. Quanto al loro padre, è una persona angelicamente buona; ma vive così lontano dal mondo, così fuori della vita, che quelle sue bambine non hanno amicizie, e si può dire che non vedono mai nessuno. Tuttavia — soggiunse la buona signora Russel — sono perfettamente liete e felici. — Si vede! — disse Lady Randolph Grey. — Hanno l'espressione beata ed aspettante dei due angelelli ai piedi della Madonna di San Sisto. — Già, già — assentì Mrs Russel, senza sapere affatto di quali angelelli nè di che Madonna si trattasse. IX. La domenica seguente, terminata la funzione, invece di recarsi direttamente alla sua automobile che palpitava in attesa sullo stradale, Lady Randolph Grey, all'uscire di chiesa s'inoltrò nel camposanto, volse per un ombroso sentiero a destra e sostò davanti a una tomba tutta ricoperta d'edera, recante, al capo, una gran croce di marmo. Appeso nel centro della croce un piccolo medaglione di vetro racchiudeva una fotografia sbiadita. Sul marmo erano incise le parole: «_Mary Evangeline Harding, morta a 24 anni._» «_Muor giovane colui che al cielo è caro._» Lady Randolph Grey si guardò intorno: il camposanto era vuoto; faceva caldo, ed essa aprì il grande ventaglio rosso; ma poi, udendo dei passi avvicinarsi, cambiò atteggiamento, congiungendo le mani e piegando il capo in atto di preghiera. Myosotis e Leslie si avvicinavano per compiere il consueto pio dovere verso la memoria materna; sostarono stupefatte vedendo davanti alla tomba della loro madre quella bella figura immobile, a mani giunte, a capo chino. Myosotis commossa afferrò e strinse la mano della sorellina. Leslie si fece rossa, poi bianca, e le lagrime le salirono agli occhi. Si avvicinarono, intenerite. Allora la straniera, con un gesto quasi umile davanti al sacro diritto della pietà filiale, si ritrasse per lasciar posto a loro. Un istante i suoi occhi incontrarono il bagliore cerulo degli infantili occhi di Leslie, acquarellati di pianto.... Lentamente, silenziosamente Lady Randolph Grey si allontanò; indi entrò rapida nella sua Rolls-Royce che, partendo, fece una serie di abbaiamenti, come una grossolana e demoniaca risata. . . . . . . . — Papà! — esclamò Leslie correndo verso il padre, che muoveva al loro incontro pel sentiero di Rose Cottage. — Pensa che nel cimitero c'era quella Lady.... sai bene, la parente del Ministro.... e pregava davanti alla tomba della nostra mamma! — Forse leggeva solamente l'iscrizione, — disse Myosotis. — No, — gridò Leslie, — no! l'ho vista io chinarsi a guardare la fotografia; poi ha sospirato, ha congiunto le mani.... E ho visto che pregava!... l'ho visto! Il padre, commosso anch'egli, carezzò il viso accaldato della figlioletta. — Sarà certamente un'anima superiore, — mormorò. — È una santa, un angelo! — disse in un singulto Leslie. Ed entrarono in casa. X. Arrivata alla Villa delle Acacie Lady Randolph Grey entrò rapidamente nel vasto atrio adorno di grandi piante d'azalea e di palme. Sdraiato e sbadigliante, coi piedi issati sul bracciolo del divano, giaceva colui che per Wild-Forest era il «principe di Galles». — Che fai, Totò, _my darling_? — chiese la bella signora. — Come mai sei qui? — Gli altri idioti giocano al croquet, — disse Totò in uno sbadiglio. — E t'hanno lasciato così solo? — Sdegnata Lady Randolph Grey si avvicinò alle vetrate aperte: — Carla!... Clorinda!... dove siete? — Ti prego di non chiamare quelle giraffe, disse il «principe di Galles», — ne sono sazio e saturo, e mi escono da tutti i pori. — Ma almeno Gerardo poteva restar qui a farti compagnia, — disse la signora, posandogli sui morbidi capelli biondi una mano guantata. Egli ritrasse con impazienza il capo. — Non parlarmi di Gerardo. Se non sapessi ch'è un rimbambito direi che è un degenerato. Quelle donne gli piacciono! È incredibile!... — E Totò rabbrividì come a un pensiero immondo. Lady Randolph sorrise e gli sedette accanto. — Adorato Totò, sei di cattivo umore? L'adorato Totò non rispose. — E Moses? — chiese la signora, volgendosi a guardare un enorme gatto bianco, che gonfio e torpido sul tappeto, russava come un vecchio signore troppo pingue. — È contento? — Sì, sì; è contento, — disse il giovane, imbronciato; — ma se non ero io, nessuno ci pensava. E alzandosi e stirando le lunghe membra, traversò la chiara e vasta sala e si affacciò alla vetrata. — Cos'è accaduto, Totò, per infastidirti così? — chiese Lady Randolph seguendolo alla finestra. — _J'ai le cafard_, — rispose Totò. — Ma perchè? — Perchè sono stucco e stufo. — Non di me, — fece Milady, appoggiandosi con tenerezza al suo braccio. — Di te, sì, di te! E delle giraffe, e di Gerardo, e di Moses, e di quanti siete. Mi uscite da tutti i pori. — Totò! Totò! non dir questo — ansò Lady Randolph e il suo ampio petto fluttuò come un mare in burrasca. — Sai che mi fai pena parlando così! Del resto, — soggiunse, — le giraffe, la settimana scorsa, ti erano pur piaciute. — E perciò? Devono piacermi per tutta la vita? — sogghignò il giovane con amara ironia. — Bada che ti preavviso: uno di questi giorni.... «tatà, Totò!» — E fece cenno d'addio colla mano. — Ma che cosa dici? — Sì, sì. È finita. Vado al Giappone col mio amico Collins. Vado a Yokohama, dove le donne non si pettinano che una volta all'anno, non parlano mai, e dormono vestite. Indi sciogliendosi impaziente da lei, uscì colle sue lunghe gambe snelle, nel giardino. A colazione Totò non volle parlare che di Yokohama e Tokio e, al domestico che gli porgeva i piatti, diceva: — _Sayonara!_ — con affabile dignità. A dir vero era incerto se quella parola significasse «grazie» o «buonanotte»; ma poichè nessuno degli altri lo sapeva.... — Mi sento male, — disse Lady Randolph Grey a metà colazione; e depose sulla tavola il tovagliolo. Le giraffe e il «Duca di Norfolk» emisero qualche inarticolato suono di rammarico; il «Principe di Galles» arricciò il fine naso in una espressione d'incredula noncuranza. La bionda signora uscì maestosamente dalla sala da pranzo, come una bella paranza a vele spiegate, e si ritirò nella sua camera. Chiamò Lucy a chiudere le imposte; si mise a letto e diede ordine che nessuno la disturbasse. E sola, nel buio, Lady Randolph Grey pensò. Pensò che Totò le sfuggiva: Totò, il divino Totò, fine e raffinato e depravato e complicato; Totò, che tutte le sue amiche le invidiavano e tutti i suoi amici detestavano; Totò, che le teneva luogo di tutte le perfide femmine e di tutti i brutali maschi che nel passato ella aveva conosciuto e amato e odiato.... Totò, il serafico e satanico Totò, le sfuggiva. E se Totò le sfuggiva, la vita non valeva più la pena di essere vissuta. Bisognava ad ogni costo trattenere Totò! Bisognava con qualsiasi mezzo divertire e distrarre Totò. Era difficile divertire Totò, che, per essersi già molto divertito non si divertiva più di niente. Tutto, secondo lui, gli «usciva dai pori». Le donne, gli uomini, i teatri, i cafè-chantants, l'arte, la musica, la danza, la cocaina, lo champagne, i vizi strani.... tutto gli «usciva dai pori». Ogni calice era già stato profferto alle sue labbra arcuate e sdegnose. Mio Dio, mio Dio! Bisognava cercare qualche cosa di nuovo per Totò! E che cosa c'era di nuovo al mondo? Nulla. Nulla, e nessuno. Assolutamente nessuno. Tutti e tutte avevano già detto tutto a Totò. E tutti e tutte non avevano che la stessa cosa da dire. Ah, trovare per il tediato Totò qualche cosa d'inedito, qualche cosa ch'egli non conoscesse ancora!... Impedire che Totò pensasse ad andare a Yokohama! Passò un'altra mezz'ora; indi Lady Randolph sporse dal letto il braccio morbido e un po' sudato, e suonò il campanello. Lucy comparve subito. — Milady ha suonato? — Voglio il dottore, — disse Milady. — Se Milady comanda, — disse Lucy, — manderò subito lo chauffeur a chiamare il dottor Methuen. — Non voglio il dottor Methuen, — disse Milady. — Voglio quell'altro dottore. Come si chiama?... Harding. Lucy si stupì. — Oh; ma è vecchio quello, Milady! Non ha più nessuna clientela. Pare che non sappia guarire che le morsicature dei serpenti a sonagli. E poichè, — soggiunse l'ancella con inesorabile logica, — dei serpenti a sonagli qui non ce n'è, così nessuno lo manda mai a chiamare. — Lo mando a chiamar io, — rispose Lady Randolph Grey. — Dite a Peter che vada subito. E tu, vieni a farmi le treccie e a darmi l'accappatoio celeste. XI. E colle treccie auree pendenti sull'accappatoio celeste, sdraiata su un divano presso la finestra, la trovò il dottor Harding un'ora più tardi quando Lucy, petulante e sarcastica, lo introdusse nella camera della sua padrona. Il dottor Harding, ufficiale-medico delle colonie, professore di medicina tropicale e dermatologia, tremò al cospetto della sua paziente. Pareva che l'ammalato fosse lui. Il suo fine viso cereo era più cereo del solito, i mesti baffi bianchi più spioventi sopra la bocca sensitiva. Da vent'anni egli non aveva curato più nessuno, eccetto la vecchia Jessie quando aveva il reumatismo e, talvolta, la famiglia di qualche contadino troppo povero o troppo avaro per mandare a prendere il valente e moderno dottor Methuen. Appena ebbe salutato e, obbedendo al languido gesto dell'ammalata, si fu seduto presso a lei, disse colla voce che tremava un poco per l'emozione: — Certo vi è stato errore. Lei aspettava il dottor Methuen. — No, — disse Milady, con un sorriso dolcissimo, — aspettavo lei, professore. Ho molto udito parlare della sua scienza profonda, dei suoi studi sulle malattie tropicali.... — Ma come.... — balbettò il dottore stupefatto, — ella avrebbe forse.... — No, no, — rise la bella dama, — io non ho nè il colera asiatico nè il piede di Madura. Ma trovo che anche nei piccoli malanni è da preferirsi un vero scienziato, un erudito, al medico modernista e ciarlatanesco che si serve dei suoi malati per fare degli esperimenti più o meno brillanti.... Il dottor Harding tossì, modestamente, colla mano davanti alla bocca; indi avvicinò la sua seggiola al divano della paziente. Era riconfortato; a suo agio; sicuro di sè. Evidentemente si trovava di fronte a una donna veramente superiore. — Vediamo, signora, — disse, prendendole delicatamente il polso su cui ciondolavano molti braccialetti. Il polso era buono. Un pochino debole forse.... Si trattava unicamente di una leggera forma di anemia.... Mentre il dottore, cogli occhiali sul fine naso, scriveva la ricetta di liquore arsenicale del Fowler, ferro e ipofosfiti, Lady Randolph uscì a parlargli delle sue due figlie. — Le ho scorte in chiesa l'altro giorno.... deliziose piccine!... Se osassi, le inviterei a farmi un po' di compagnia.... Il padre parve subito adombrarsi. — Oh, Milady! non ci pensi. Sono timide e selvatiche, senza conoscenza di mondo. Non potrebbero che darle noia. Milady ebbe il buon senso di non insistere. Ma pochi giorni dopo, insieme allo chèque di una ghinea per la visita professionale, il dottor Harding ricevette da Lady Randolph Grey un invito ad assistere colle sue due figlie a un concerto che avrebbe luogo alle «Acacie» il sabato susseguente. Canterebbero Clara Butt, la Tetrazzini, Van Heuvel; e la celebre danzatrice, Vera Sheremetzkaja, eseguirebbe la «Danza primaverile» di Mendelssohn. In un poscritto Lady Randolph Grey soggiungeva che il Reverendo Brownlie colla signora Brownlie, ed anche lo Squire, Sir Peter Russel, sarebbero intervenuti colle loro famiglie. Clara Butt! La Tetrazzini! Il Van Heuvel!... I primi due erano nomi quasi di leggenda. E Myosotis e Leslie le avrebbero vedute, vive e vere? Le udrebbero cantare!... Pareva troppo inverosimile per non essere un sogno. Clara, dalla portentosa voce di contralto, che da un ventennio mandava in visibilio l'Inghilterra!... la Tetrazzini, che un giorno — un indimenticabile giorno, a Leeds — le fanciulle entrando in un negozio di musica avevano udito gorgheggiare in un grammofono!... E poi Van Heuvel, il tenore olandese che era una nuova celebrità. Quanto alla Vera Sheremetzkaja non ne avevano mai udito parlare. Già; nessuno parlava di danzatrici a Wild-Forest e tanto meno nella casa del dottor Harding. Ma certo anche quella doveva essere un portento. Il dottore, colla vecchia Jessie, dibattè a lungo l'arduo problema se era il caso o no di accettare l'invito; infine conclusero che se ci andava il reverendo Brownlie e Sir Peter Russel colla sua famiglia, vi potevano andare anche le bambine. Indi si venne alla difficile questione delle vesti che indosserebbero per l'occasione. Dopo molte incertezze Jessie decretò che i loro vestitini bianchi della comunione, molto allungati, potevano andare. — E tu, papà, cosa metterai per il concerto? — chiesero le fanciulle sfiorando cogli sguardi un poco inquieti il vecchio abito color tabacco del loro padre, che traverso molte stagioni aveva sfidato pioggie, nevi e bel tempo. — Io? — fece il dottore, alzando i distratti occhi ceruli da un fascicolo di Annali di Parasitologia. — Io? Cosa mi metto per il concerto?... Un po' di cotone nelle orecchie; e basta. XII. Vi andarono; le fanciulle, nei loro vestitini bianchi, le biondissime capigliature divise à la Vergine e fluenti dietro le spalle, parevano uscite da una vecchia tela di Romney; il papà aveva una lunga ed antichissima palandrana scovata da Jessie in una cassa nel solaio, e fortemente olezzante di naftalina. Le fanciulle entrarono dietro al padre nel salone affollato, si sentirono le mani prese e strette nelle mani morbide di Lady Randolph Grey e furono presentate a molte persone, tutte d'apparenza straordinariamente elegante e dai nomi altisonanti e sonori. Fecero anche la conoscenza del «Duca di Norfolk», che veramente non era il duca di Norfolk bensì un altro nobile con un nome un po' meno conosciuto: Lord Gerard Neversol. Fu grande lo sbigottimento di Myosotis quando egli, salutandola, alzò la sua rossa e fredda manina ai suoi baffi e fece l'atto di baciargliela. Dopo un lungo mormorio di conversazione preliminare, tutti presero posto davanti a un piccolo palcoscenico adorno di palme. Myosotis e Leslie sedettero, in fila cogli altri invitati, aspettando trepide l'apparizione della sublime Clara Butt. La pianista, una modesta persona, entrò e fece un piccolo inchino; subito il reverendo Brownlie e il dottor Harding, credendola la diva, iniziarono una entusiastica e calorosa ovazione, ma poi, accorgendosi che erano soli ad applaudire, smisero, assai mortificati. Ma ecco alfine presentarsi Clara Butt, maestosa e magnifica, con un rotolo di musica tra le mani inguantate, e un pennacchio verde piantato sulla torreggiante capigliatura. Scoppiò unanime l'applauso, che essa accolse con benevolenza e ripetute flessioni del pennacchio. Indi cantò. La portentosa voce di contralto, larga e calma, le sgorgò dall'ampio petto, in note profonde, vibranti e rimbombanti come quelle di un organo di cattedrale.... Alle due fanciulle, ascoltandola, parve di essere in chiesa. Seguì la Tetrazzini. Tutte le allodole e tutti gli usignoli parevano essersi dati convegno, trillanti e gorgheggianti, nella sua bianca gola.... E ascoltandola, rapite, alle due fanciulle parve di essere in cielo. Ed ora era il turno del giovane tenore olandese. Myosotis consultò il programma che teneva tra le mani e lesse i titoli delle romanze che egli avrebbe cantato. «_Sehnsucht_», s'intitolava la prima. — _Sehnsucht_? Che cosa vuol dire? Inutile domandarlo a Leslie; e Myosotis volse gli occhi per la prima volta al suo vicino di sinistra. Vide che era Lord Gerard Neversol; e a lui ripetè la domanda: — Sehnsucht, che cosa vuol dire? — Sehnsucht? — rispose il giovine, fissandola negli occhi, — vuol dire struggimento. Vuol dire.... desiderio. — Grazie, — disse Myosotis. E tacque. — Perchè non prosegue nelle sue domande? — chiese Lord Neversol che non aveva distolto gli occhi da lei, lasciando errare lentamente i suoi sguardi dalla pura fronte sotto ai morbidi capelli, alla puerile bocca socchiusa e alle mani un po' rosse congiunte in grembo. — Perchè non mi chiede che cosa vuol dire desiderio? — Ma, — fece Myosotis, sorridendo, — mi pare di saperlo. — Ah! — ribattè Lord Neversol, guardandola profondamente negli occhi, — le pare di saperlo. E continuò a guardarla fisso, senza sorridere. Myosotis si sentì arrossire senza sapere perchè. Leslie dal suo posto si sporse un poco avanti. — Che cosa c'è? — chiese alla sorella, sogguardando il personaggio patrizio. Questi interpose: — Sa forse anche lei, signorinetta, il significato della parola «desiderio?». Ma prima ch'ella potesse rispondere comparve sul palcoscenico il tenore, e subito le note gli squillarono dal petto, chiarosonanti come oro che batte sull'argento. «_Nur wer die Sehnsucht kennt_ «_Weiss was ich leide...._» intonò egli nel timbro d'una tromba chiarina. E per le due più giovani tra le ascoltatrici non vi furono più desideri, non vi furono più pensieri. Quelle note colmavano ogni lacuna nella loro anima, cullandole in un vago, infinito incanto.... E ancora non s'erano riavute da quell'estasi, che già appariva, correndo — lieve come un petalo di fiore portato dai venti — la danzatrice Vera Sheremetzkaja. Era scalza e avvolta in diafani veli. E danzò. Danzò, aerea e scintillante, come danza un raggio di luna sull'acque.... I primi maestosi accordi di «_God save The King_» terminarono il trattenimento, e le fanciulle, mute e trasognate, seguirono gli altri invitati nella grande sala attigua; quivi mangiarono dei rosei gelati, delle fragole giganti annidate in nubilose colline di crema Chantilly, dei fondants del Fuller iridescenti tra le violette candite; e per la prima volta intinsero le loro labbra rosee nello scintillìo dorato dello champagne. Tutt'a un tratto Leslie si turbò. Strinse il braccio di Myosotis: — Viene il principe di Galles! — sussurrò. E difatti Totò, lento e noncurante, veniva verso di loro. Lord Neversol lo presentò: — Il barone Ottavio Tottenham, — disse. Indi si soffermò a udire come progrediva la conoscenza. Myosotis lo salutò, chinando la vezzosa testa; ma Leslie stette come trasognata a guardarlo. — Oh Dio! — esclamò, con accento di stupore e delusione, — ma allora non siete il Principe di Galles? Totò, rimasto per un attimo sorpreso, diede in un'allegra risata. — Che strana idea! Vi avevano forse detto.... — Ma tutti, tutti lo dicono, — esclamò Leslie, fissandolo quasi con rimprovero. — E Miss Jones, la maestra, è venuta apposta a insegnarci il saluto che dovevamo farvi! Totò fu galante. — Oggi per la prima volta rimpiango di non essere Sua Altezza Reale, — disse. — Avrei voluto ricevere quel saluto. — E avvicinandosi un po' più e affondando in quegli occhi infantili lo sguardo, quello sguardo profondo e languido col quale soleva turbare fino al deliquio le «giraffe»: — Si può sapere com'era? — domandò. — Ecco, — spiegò Leslie gravemente, — Miss Jones diceva che voi ci avreste steso «con lenta regalità» la mano; allora noi dovevamo prenderla e, con profondissimo inchino, far l'atto di baciarla.... badando però di non baciarla davvero! — Oh, guarda! — rise Totò. — Che crudele restrizione! — Non era facile, — disse con un sorriso Leslie, — ma a furia di provarlo con papà.... Myosotis la interruppe: — Sir Ottavio Tottenham ci crederà molto sciocchine.... — Ma no, ma tutt'altro, — fece Totò, assai divertito. — Oh Dio! — esclamò Leslie, mortificata. — E dire che Miss Jones ci ha tanto raccomandato di non fare le zucche campestri!... In quel frattempo Lady Randolph Grey, radiosa e regale, cercava per le sale il dottor Harding; lo trovò rifugiato in un angolo, solitario e pensoso. Vedendola, egli si alzò e le stette dinanzi, alta figura distinta e dignitosa nonostante la sua vecchia palandrana. Alle effusioni di Lady Randolph Grey egli rispose col suo consueto sorriso calmo e melanconico. Al primo momento la esuberante espansività di lei gli parve alquanto esagerata, e ne provò un certo senso di diffidenza. Ma la bella donna — biondo, aperto fiore di femminilità — lo disarmò col sorriso smagliante. — Lei forse, illustre Professore — (ah! chi d'altro al mondo lo chiamava «illustre Professore»?), — non ama troppo la società? La musica forse non le piace? — Ma anzi, ma tutt'altro! — protestò il dottor Harding, conscio dei suoi batuffoli di cotone, e turbato al pensiero che forse si vedevano. — Oso sperare che le sue due adorabili figliuole si siano divertite, — disse Milady, volgendo il capo lucente verso il centro della sala, dove le due fanciulle, strette l'una all'altra e tenendosi per mano — come, un po' per timidezza e un po' per affetto, ne avevano il vezzo — ridevano, alzando a tutti il viso di fiore e l'ingenua azzurrità dei loro occhi felici. Gli occhi del padre rispecchiarono quel riso; indi subitamente si velarono. Il suo pensiero corse ad una silenziosa tomba ricoperta d'edera nel piccolo camposanto deserto.... Disse cortesemente a Lady Randolph: — Le sono assai grato, Milady, per la gioia che ha dato loro. — Ma poi, irresistibilmente, dalle sue labbra sfuggì il singhiozzo del cuore: — Ah! se oggi la loro madre potesse vederle! Lady Randolph Grey ebbe un sussulto. Per un istante anche il suo pensiero volò alla tomba nel piccolo cimitero ombroso, e a quel ritrattino sbiadito appeso alla croce.... «_Mary Evangeline Harding, morta a 24 anni_».... Per un istante le parve che da quella tomba si ergesse l'esile ombra di Mary Evangeline, che colle braccia spettrali circondasse le due figurette, dai visi di fiore.... Le balenò l'idea di dire a quel vecchio gentiluomo che le stava dinanzi pallido e commosso: — Addio! Ritornate a casa vostra. E quelle vostre dilette, portatele via!... portatele via da me! Ma i suoi occhi tornarono a quel gruppo nel centro della sala, a quelle due teste biondissime sotto il raggiare del lustro. C'era anche Totò; e Totò rideva. Rideva d'un riso giovane e giocondo che ella non ricordava d'avergli udito mai. Totò si divertiva. Le due bambine di questo vecchio dottore non ancora gli uscivano da tutti i pori.... Milady fu così commossa da quel riso — e fors'anche da parecchie coppe di «_gin-fizz_» e di «_mint-julep_» — che le facili lagrime le fluirono agli occhi. Ne approffittò subito per alzarli, così traboccanti, al grave viso del dottore. — Quando sarò a Londra permetterà che mi vengano a trovare? Conosco tanta gente.... eppure mi sento talvolta così sola. Il dottor Harding trasalì e il cuore gli si strinse. Un rifiuto gli salì subito alle labbra, e cercò per pronunciarlo la forma che potesse recare meno offesa a quell'anima gentile. Ma alzando gli occhi, vide, fisso in lui, quello sguardo tremulo nuotante nel pianto. — Grazie, — diss'egli colla voce dolce e profonda; — sarò felice di confidarle a lei. Partiti tutti, artisti ed invitati. Lady Miranda Randolph Grey si stese sull'ottomana, con un lungo sospiro. — _Quelle corvèe!_ — esclamò, alzando sopra al capo le belle braccia seminude. — Totò!... una sigaretta! Il barone Ottavio Tottenham le buttò in grembo un astuccio dorato. Gerardo Neversol le sedette accanto e affondò nei cuscini la testa bruna e ben spazzolata. — Buona Gaby, vi applaudo. Siete stata «gran dama» fino alla punta delle vostre rosee unghie verniciate. Ma si può sapere perchè fate di queste cose? È dunque una mania inveterata che avete voialtre di volere a tutta forza entrare nella rispettabilità? Milady accendeva la sua sigaretta e non rispose. — Questo ricevimento a cui invitate le famiglie di dottori e di Pastori.... mi sembra una imprudenza.... dirò meglio, una impudenza, perfettamente inutile. La signora soffiò verso il soffitto una lunga boccata di fumo. — Poichè il Pastore è già stato qui — sorrise ironica — voi potete astenervi dalle prediche, caro Gerardo. E a proposito di Pastori.... che cosa ne dite di quelle due candide agnellette bionde? — Poh! — fece Neversol in uno sbadiglio. — Quelle lì.... lasciatele vivere! Totò si volse stupito e fissò in volto a Neversol i suoi lunghi occhi insolenti. — Che idea! — esclamò. — Lasciarle vivere?.... Perchè? XIII. La Villa delle Acacie si chiuse quasi improvvisamente pochi giorni dopo — era la fine di settembre — e la bella e benefica dama sparì da Wild-Forest, lasciando dietro a sè una scia di rimpianto in chi l'aveva conosciuta, e di rancori in chi non l'aveva potuta avvicinare. Si seppe che era andata in Iscozia per la stagione delle caccie. Prima di partire aveva chiesto al dottor Harding se le sue figliole, o almeno una di esse — forse la piccola Leslie? — avrebbe potuto essere della partita. Ma questa proposta aveva gettato un tale panico nel tranquillo ambiente di Rose Cottage, che Lady Randolph aveva trovato prudente non insistere. Ella si limitò allora a rammentare al dottore la promessa più d'una volta ripetuta, che, al di lei ritorno a Londra in dicembre, egli le avrebbe concesso di avere ospiti in casa sua le due care fanciulle. — Me le confiderà per qualche settimana; meglio ancora per qualche mese, — aveva detto, col suo scintillante sorriso, la gentildonna, — Impareranno a conoscere un poco il mondo, la vita.... Passeranno dei giorni lieti.... Se il pensiero di un'immediata separazione e, più ancora, della partenza d'una di loro aveva spaventato le due sorelle, altrettanto le deliziò l'idea della progettata visita a Londra, ancora abbastanza remota per non essere temibile. C'era tutto il tempo per pensarci, per parlarne, per preparare l'anima e il vestiario all'importante avvenimento. Fu quest'ultimo il problema più arduo: poichè, se Myosotis trovava che i loro abiti dell'anno precedente e la biancheria che possedevano poteva perfettamente bastare, la vecchia Jessie asseriva sdegnata che ci voleva tutto un corredo nuovo. — Guardale se è mai possibile, — esclamava, ciondolando sdegnosamente davanti ai loro ceruli occhi un po' trasognati, delle informi calze nere assai rattoppate e degli altri indumenti di forma imprecisata, da cui pendevano molte fettuccie: — guardate se è possibile andare a stare in un palazzo come sarà quello, infagottate di simili orrori! Nessuno osò discutere davanti a quegli oggetti penzolanti come corpi rei e giustiziati. — Poi — continuò con severità Jessie, che era in arretrato di vent'anni sulla moda attuale — avete qui dei copribusti, — e sollevava per la manica disadorna uno degli indumenti in questione. — A che serve il copribusto se il busto non l'avete? Bisogna averlo. Myosotis protestò. Non poteva portare il busto; le faceva male. E quanto a Leslie, inutile pensarci. — Già — fece Jessie, con disapprovazione, — grasse non siete. — E percorse con occhio severo le due esili figurette. — Ma il busto si deve portare lo stesso. E a Londra, — concluse, — senza un corredo decente, finchè sono viva io, non andrete. Myosotis e Leslie furono esterrefatte a tale annuncio; allora fu chiamato il dottor Harding a dare il suo giudizio. Egli si trovò assai perplesso davanti alla fila di indumenti femminili ordinatamente stesi sui due letti in attesa del suo verdetto; e, a vero dire, le sue osservazioni non servirono affatto a schiarire la situazione. — Potreste domandar consiglio a Mrs Russel o alla maestra, — disse egli infine, dopo essersi schermito alla meglio da un fuoco di fila di domande sulla maggiore o minore convenienza di portar giacca e sottana piuttosto che costumi «princesse» e se a passeggio era meglio portare le scarpe alte coi tacchi bassi o le scarpe basse coi tacchi alti. — Sì, sì, domanderemo a Miss Jones, — dissero le fanciulle, riconfortate. E Miss Jones fu pregata di venire a dare il suo autorevole parere su ciò che a Londra si poteva e non si poteva portare. Miss Jones fu da prima un poco acidula e sprezzante, non essendo ella stata invitata al concerto di Lady Randolph. Ma poscia, più che il rancore potè il piacere di occuparsi di fronzoli, e Miss Jones s'interessò, si appassionò, consigliò, ordinò, vietò, e finì col passare tutte le ore che la scuola le lasciava libere, a Rose Cottage preparando le due fanciulle, materialmente e spiritualmente, alla loro gita a Londra. — Dunque, — sentenziava lei, — appena arriverete.... — Ma, secondo una sua abitudine s'interrompeva tosto con un nuovo ammonimento. — Farete in modo di arrivare nel pomeriggio, dopo l'ora del thè, per non aver l'aria di venir subito a mangiare.... — Ma.... questo dipende dal treno, — osservò Myosotis. — Non importa il treno. Se arrivate troppo presto a Liverpool-Street, rimarrete ad aspettare alla stazione, quindi prenderete una carrozza e giungerete in quella casa a un'ora corretta e conveniente. A proposito — e Miss Jones aprì un'altra parentesi — badate di pagare lautamente, anche eccessivamente, il cocchiere, perchè non vi faccia una scena disaggradevole davanti alla porta. Io conosco i cocchieri di Londra, e.... Myosotis la ricondusse in carreggiata. — E allora? Quando saremo arrivate?... — Entrerete in casa con tranquilla compostezza, vi toglierete i mantelli nell'anticamera, e poi, nè troppo timide, nè troppo audaci, entrerete nel salotto, dove.... — E il cappello? — interruppe Myosotis, — lo teniamo in testa? O lo togliamo anche quello in anticamera? — E i guanti? — chiese Leslie. — I guanti si debbono sempre tenere, — sentenziò Miss Jones. — Quanto al cappello.... Oh, a proposito badate che a colazione si deve sempre avere il cappello in testa. — E perchè? — chiese Leslie. — Perchè è così, — disse con grande sicurezza Miss Jones. — Una mia amica, Flora Bates, è stata invitata a colazione dalla contessa di Marlbury, e tutte le signore, compresa la padrona di casa, portavano il cappello. Anzi, lei fu molto mortificata perchè, visto il cattivo tempo, s'era messa in testa una vecchia toque di sua zia che.... Myosotis e Leslie si scambiarono un'occhiata di disperazione. — Ma volete dire che quando si è in casa e che la colazione è annunciata, si va disopra a mettersi il cappello? Miss Jones diede una risposta evasiva, basata sulle dolorose esperienze di Flora Bates. Myosotis che cominciava a sentire un po' di nervosismo riguardo alla progettata visita, chiese: — Dobbiamo essere noi le prime a parlare, o aspettare che ci parlino gli altri? — E a tavola — interruppe Leslie — si deve mangiare finchè si ha appetito? o un po' meno? — È più moderno mangiar molto che poco, — dichiarò Miss Jones. — Dimostra salute e disinvoltura. Mentre all'epoca della regina Vittoria.... — Oh, non importa la regina Vittoria, — esclamò con lieve impazienza Myosotis; — proseguiamo con ciò che vi è di più importante. Ma più proseguivano e più si trovavano davanti a problemi, di maggiore o di minore importanza, che nè loro nè Miss Jones erano in grado di sciogliere. Per esempio: parlando con persone titolate (certo se ne incontrerebbero molte in quella casa!) si doveva dire «Sì, contessa» «sì, signora contessa?», o semplicemente: «Sissignore» e «nossignore»?... E parlando con qualcuno che aveva il titolo di «_Sir_» si diceva: «Sir Ottavio Tottenham»? «Sir Tottenham»? o «Sir Ottavio»? Erano problemi senza scioglimento. Allora Miss Jones ebbe una felice idea. — Bisognerebbe domandare tutto questo alla Zia Marianna, — disse. — Chi è la zia Marianna? — chiese, un poco scettica, Myosotis. — È quella che scrive la rubrica dei consigli mondani nel giornale settimanale di Leeds: «Il Mondo e il Focolare». Dà consigli su tutto ciò che riguarda la vita di società. Consiglia sul modo di pettinarsi e di vestirsi; dice quali cosmetici bisogna usare per la carnagione e i migliori rimedi per la caduta dei capelli.... — Ma a noi non cadono i capelli, — disse con impazienza Myosotis. — Insegna come si deve entrare in una sala, — continuò imperterrita Miss Jones, — e il modo corretto di salutare.... — Va bene, va bene, — esclamò Leslie, per tagliar corto. — Scrivete alla zia Marianna! — Ma, a dir vero, — disse Miss Jones un poco esitante, — sarebbe meglio che le scriveste voi. Io le ho già chiesto tante cose, che alle mie ultime tre lettere non ha risposto. Allora le sorelle passarono una serata di delizie componendo la lettera per la zia Marianna. Le narrarono brevemente e semplicemente il caso loro e le posarono tre o quattro soltanto delle mille domande che avrebbero voluto farle. Myosotis firmò la lettera, accluse un francobollo per la risposta e — dietro suggerimento di Miss Jones — vi mise anche un vaglia postale di due scellini. E attesero la risposta. XIV. «Signorina Myosotis, «Arrivando non vi toglierete niente in anticamera. Vi sarà indicata la vostra camera da letto ed ivi farete la vostra toilette con tutta calma. (_Memento_: In società non bisogna mai aver fretta). «A pranzo porterete sempre il _decolleté_. Vostra sorella, se non ha che quindici anni, vestirà di bianco, accollato. «Le signore sono sempre le prime a salutare un uomo; ciò che permette loro di non salutarlo se non ne hanno voglia. «Il cappello non lo metterete al lunch, quando siete in casa, a meno che portiate la parrucca; ciò che dal tenore della vostra lettera non appare probabile. La zia Marianna». «P. S. — Se avete gli occhi celesti, come arguisco dal vostro nome, portate di preferenza il _bleu Nattier_, o ancora meglio il _bleu Saxe_». * * * Myosotis rispose a volta di corriere per ringraziare la gentile consigliera; e soggiunse: «Ho potuto sapere che cos'è il bleu Saxe. È precisamente il colore degli occhi di Leslie. Forse anche dei miei....». Indi, come casualmente, introdusse nella lettera qualche altra interrogazione. * * * La zia Marianna attese cinque giorni e poi rispose a tutte le domande. * * * E Myosotis le riscrisse: «Poichè siete tanto buona, potreste forse suggerirmi anche qualche argomento di conversazione? So che in società si parla di teatri, di libri e della gente che si conosce; ma noi non conosciamo nessuno, non siamo mai state a teatro e non abbiamo letto che tre libri: «Jane Eyre»; le poesie di Mrs Hemans, e «Le Vipere dell'India e il loro Veleno». «Miss Jones, la nostra maestra, dice che nessuno di questi argomenti è adatto alla conversazione mondana, e temo che in società ci troveranno molto sciocche e noiose. Pazienza Leslie, che è tanto bella che basta guardarla per essere felici! E poi non ha che quindici anni.... Ma io, che ne ho quasi diciannove!... «Siamo tutt'e due così timide e silenziose che Miss Jones ci chiama «zucche villereccie»; d'altra parte una volta che per ubbidire a lei, a un thè dal Pastore, abbiamo voluto fare un poco le vivaci, papà ci ha detto che parevamo delle farfalle di legno. «Secondo voi, zia Marianna, è meglio essere zucche villereccie o farfalle di legno?». * * * La zia Marianna rispose: «Le persone che vi invitano avranno qualche ragione per invitarvi o non vi inviterebbero. Forse la vostra ignoranza è piacevole. O forse siete bella quanto Leslie? Potete dirlo alla vostra vecchia zia Marianna». «(Per la carnagione usate cipria Rachel e crema Freya)». * * * «O cara zia Marianna! Dunque siete «vecchia»?... Non lo credevo. «È strano, sapendovi vecchia, mi pare di amarvi di più. Ed ho anche più fiducia in ciò che mi dite. Se sapeste quanto mi piace scrivervi e ricevere le vostre lettere! Non abbiamo nessuno che ci scriva; e la sera, quando mio padre sonnecchia sulle sue riviste di medicina tropicale, e Leslie china la testa, bionda come il miele, sul suo lavoro, io vi scrivo e sono felice. «Bella io? come Leslie? Ma nessuno al mondo è bello come Leslie. Talvolta a guardarla la trovo così bella, così bella, che a me viene da piangere senza sapere perchè. «E poi, è così soave!... E ancora così bambina che, la sera, non si addormenta se io non le seggo vicino e le tengo la mano. E vuole sapere che anche papà è nella stanza vicina. «Capirete, è venuta al mondo quando la mamma è morta; e noi le diamo tutti i vizi.... «Ma se comincio a parlarvi di lei, non smetto più. «La cipria Rachel non la posso adoperare; ho la pelle tanto chiara che quella polveretta gialla non mi sta affatto bene. L'altro giorno quando l'ho provata, tutti hanno riso: e abbiamo finito col metterla a papà e alla nostra vecchia cuoca Jessie. «Quanto alla crema Freya, per disgrazia l'ha trovata il nostro cane, Soda. E l'ha mangiata. (Se ne è anche pentito.... in salotto.... mezz'ora dopo).... Vostra Myosotis». «P. S. — Oh Dio! In tutte queste lettere ho sempre dimenticato di accludere i francobolli. «E voi mi avete scritto lo stesso! Quanto siete buona!... «Sarei molto felice di avere una vostra fotografia». * * * «Grazie, grazie! Che cara fotografia! Siete proprio come io vi pensavo. Che bei capelli bianchi, che bella fronte aperta, e che cari dolci occhi!... Vi guardo, e vi amo molto. «Mi pare strano, guardandovi, che voi vi occupiate dei vestiti e delle maniere di gente che non conoscete, e di creme e di cosmetici. Mi sembrate lontana e al disopra di tutte quelle cose un po' vane. «Se un giorno papà dovrà andare a Leeds andrò con lui e vi verrò a trovare. Me lo permettete, zia Marianna? Entrerò nel vostro piccolo ufficio che mi descrivete così buio e triste colla finestra che guarda sulla muraglia alta e nera, e col rumore costante della rotativa che vi assorda e stordisce.... «Metterò, per venirvi a trovare, tutto ciò che mi avete consigliato voi: la veste grigio-argento, e la sciarpa «bleu Nattier». «E con voi non sarò nè «zucca villereccia» nè «farfalla di legno»; ma così quale sono — la vostra Myosotis, che senza conoscervi vi ama. «Se permettete vi mando un bacio». * * * «Grazie, zia Marianna, del bacio che mi rendete. «Capisco perfettamente ciò che voi mi dite riguardo alla necessità di guadagnarvi la vita; e non è un male che lo facciate dando i migliori consigli che potete, e aiutando tante povere piccole anime frivole che vi chiedono consiglio. «A me certo avete fatto un gran bene. Mi pare di potervi dire e chiedere tutto. E la visita a Londra, che mi faceva tanta paura, adesso me ne fa assai meno. «Vorrei seguire in tutto i vostri consigli, ma non posso pettinarmi come dite voi, a sbuffi e a polpette; ho i capelli troppo lunghi. Faccio due grosse treccie, e quando esco o quando viene qualcuno me li avvolgo intorno alla testa. No; non me li arriccio col ferro; si arricciano da sè. Quando li sciolgo, mi ondeggiano tutt'intorno come incandescenti, perchè sono quasi rossi. Non come quelli di Leslie che hanno un colore.... un colore che non vi so descrivere!... come raggi di sole e di luna misti insieme. È bionda, Leslie, come il sole quando filtra traverso un bosco d'abeti; è bionda come le primule, bionda d'un biondo tenue che manda chiarore.... «Per oggi vi lascio. Papà mi chiama per aiutarlo nel suo laboratorio. Mi fanno tanta tristezza i suoi poveri porcellini d'India!... Ma se salveranno la vita a quei poveri indigeni laggiù, nei terribili tropici, non bisogna rammaricarsene. Papà dice che è forse una di queste bestiole che porterà la luce e salverà migliaia di vite umane. «Se penso a ciò, quasi quasi avrei il coraggio anch'io di farmi inchiodare su quel terribile asse dove ho veduto spasimare tante piccole creature....». * * * «Cara zia Marianna, «Leslie ha un po' di febbre; e noi siamo inquieti e angosciati. «Ho passato tutta la giornata seduta accanto al suo letto nella penombra della camera silenziosa, guardando quella testolina bionda sul guanciale; finchè papà mi ha ordinato di andar fuori un poco. «Per obbedirgli sono uscita nel pallido sole autunnale. «Come è triste il mondo quando si esce dalla camera d'un malato! Come tutto sembra inutile e desolato e desolante! «L'aria era dolce e tiepida quasi fosse di Aprile.... ma io provavo un senso di spavento e di solitudine, come se il buon Dio fosse lontano, e il cielo vuoto. «Come mai, come mai quando tutti quelli che amiamo stanno bene, non siamo più felici? molto più felici?...» * * * «Non posso scrivervi oggi. «Oh, zia Marianna, pregate per noi!» * * * «No; non sta meglio ancora. Ha la febbre sempre alta. «Papà sembra pazzo; è invecchiato di dieci anni. Pregate, pregate, zia Marianna!... Andate in una chiesa in cui non siete mai stata (vi sarà pure a Leeds una chiesa che non conoscete?) ed entrando, pregate subito per Leslie. «Dicono che la prima preghiera che si fa in una chiesa in cui si entra per la prima volta, è sempre esaudita. «Vi bacio le mani, le mani congiunte nella preghiera per la piccola Leslie....» * * * «Grazie! grazie! grazie!... Leslie sta meglio. «Chissà, chissà che non siate stata voi, zia Marianna, che colle vostre preghiere avete salvato la vita a Leslie?... E anche a papà — perchè se le accadeva qualche cosa, egli certo moriva! E anche a me, poichè senza di loro due io non vorrei nè potrei esistere. «Sapete che cos'è Leslie per noi? È tutta la nostra vita. Noi tre esistiamo — papà, Jessie ed io — per la piccola Leslie soltanto. Quando parliamo di lei non diciamo neppure il suo nome. Diciamo: «Dov'è?... Cosa fa?...» È sottinteso che si parla sempre di lei. «Ella cresce e fiorisce così pura, così radiosa e traslucente, così lattea e luminosa, da parer quasi evanescente.... E noi pensiamo: Non è possibile che sia nostra, proprio nostra, una creatura così eterea, così vaporosa!... E non si osa mai dirle il bene che le si vuole. Non so perchè.... come per una specie di timidezza. «D'altronde, come dirglielo? Come andare da lei a dirle: — Leslie! Io ti amo tanto che vorrei morire per te? — Che impressione le farebbe? Rimarrebbe spaurita, sbigottita.... non comprenderebbe.... «Già, queste cose non si dicono mai alla gente colla quale si vive. Una specie di pudore vi trattiene, vi disperde sulle labbra le parole troppo dolci, le espressioni troppo appassionate.... E così si vive insieme, e l'uno non sa che cosa l'altro abbia nel cuore. «La piccola Leslie non saprà mai che noi tre — noi tre così diversi: il papà, la vecchia Jessie ed io — l'abbiamo amata con questo indicibile, questo struggente e doloroso amore. «Io penso che un giorno, quando saremo più vecchie, troverò il coraggio di dirglielo; ma so che mai, mai, troverò le parole che glielo potranno esprimere, che le potranno far comprendere quest'atmosfera di tremante, trepida adorazione che ha circondato la sua puerizia. «.... Zia Marianna, essa è qui, accanto a me, mentre vi scrivo queste cose. È sdraiata nella poltroncina a dondolo, cogli occhi chiusi; è ancora debole dalla recente malattia; sulle sue guancie pallide come un petalo d'eglantina le sue ciglie lunghe e bionde mettono una lieve ombra semilunare, e una delle sue mani — così piccoletta e infantile! — pende dal bracciolo, a pochi centimetri da me. «Che voglia ho io di chinare la faccia e di baciargliela, quella piccola mano inerte! Potrei farlo; ne ho il diritto; è la mia sorellina.... che ci sarebbe di strano? Ma non oso; no; sono timida davanti a quel visetto soave, a quei chiusi occhi.... E il bacio ch'è già suo, non glielo dò. «Dove vanno, zia Marianna, i baci non dati? I baci creati nel pensiero, fioriti sulle labbra e non giunti al loro destino?... «Dove vanno, zia Marianna, i baci non dati?» * * * «Ma come? Voi partite? Quanto me ne addoloro. «E credete che in quella fredda e nordica Edimburgo starete meglio di qui? La Scozia è lontana; e ci piove ancora più spesso che a Leeds. «E alla vostra età un viaggio così lungo non vi fa paura? Chi vi accompagna? Chi ha cura di voi? E il vostro giornale come farà senza la vostra rubrica così interessante? «Io mi sentirò sola e sperduta, sapendovi lontana. Mi era dolce sapervi a Leeds, non tanto lontana da noi; pensarvi, coi vostri bei capelli bianchi divisi sulla fronte calma, seduta nel vostro piccolo ufficio nero e malinconico, a scrivere di profumi, di fronzoli e di frivolezze che, in fondo, io credo siano lontane da voi e dal vostro pensiero.... «È strano che abbiate permesso a me, piccola sconosciuta, di diventare la vostra amica. «Zia Marianna, cara zia Marianna, mi addolora la vostra partenza.» XV. Negli ultimi giorni di novembre arrivò l'invito da Londra. Era scritto su carta molto grande, color viola pallido, e fortemente profumata. Anche la calligrafia era assai grande, perpendicolare, con molti ghirigori e svolazzi. Lady Randolph Grey invitava formalmente le signorine Harding a passare a Londra qualche settimana in casa sua. Erano attese per i primi giorni di dicembre; vi sarebbe qualcuno alla stazione di Liverpool-Street a riceverle. Mandava i suoi più distinti saluti all'esimio scienziato, professor Harding, e si protestava la loro affettuosa e sincera amica. Miranda Randolph Grey. Seguiva un P. S. — «Sarà mia ospite in quei giorni anche la dama d'onore della Regina d'Olanda. Senza dubbio le signorine Harding saranno liete di fare la conoscenza di quella illustre gentildonna e delle sue due graziosissime figlie». La dama d'onore della Regina d'Olanda! L'agitazione a Rose Cottage crebbe fino al parossismo. Anche il dottor Harding ne fu blandamente commosso. Il dolore amarissimo di separarsi anche per breve tempo dalle sue figliole fu un poco lenito dal pensiero delle conoscenze illustri che le sue piccole dilette farebbero nella casa patrizia della bella dama, la cui affabilità non gli era mai uscita dalla memoria. La dama d'onore della Regina di Olanda!... Myosotis corse colla lettera da Miss Jones. Miss Jones ne fu assai impressionata. — In tal caso, — dichiarò, — vi dovrete far fare dei vestiti nuovi da Miss Knox. — Già, già! — esclamarono le fanciulle. — Ed è impossibile che arriviate a Londra coi vostri cappelli dell'inverno scorso. — Impossibile! — fecero in coro le due. — Bisognerà comperare qualche cosa di moderno ed elegante. Una piccola _toque_ da viaggio con bordo di pelliccia per Myosotis; un cappellino con ghirlanda di rose per Leslie. Le fanciulle furono perfettamente d'accordo; ma dove trovare quelle eleganti creazioni? I copricapi esposti nella vetrina dell'unica modista di Wild-Forest non erano soverchiamente pittoreschi. Non c'era che un partito da prendere: andare a Leeds, dove secondo Miss Jones i negozi potevano stare a pari con quelli di Londra. Dopo molte discussioni e riflessioni e indecisioni fu stabilito che Myosotis andrebbe a Leeds il lunedì seguente; e Miss Jones, da buona amica, consentì ad accompagnarla. Passarono l'indomani, che era domenica, a fare delle lunghe liste di ciò che dovevano comperare, e il lunedì mattina prestissimo partirono.... dimenticando a casa le liste. Durante tutto il viaggio Miss Jones si alambiccò il cervello per rifarle, guardando dal finestrino con occhi distratti e la punta della matita in bocca; mentre Myosotis fantasticava intorno a un suo progetto da tanti giorni silenziosamente vagheggiato: — una visita alla zia Marianna! Arrivate a Leeds fecero le loro compere, dimenticando sempre qualche cosa; ciò che — con grande mortificazione di Myosotis — le obbligava a ritornare due o tre volte nello stesso negozio per comperare altri oggetti o cercare involti e pacchi scordati sulle sedie e sul banco. — È strano, — disse Miss Jones, ferma sotto un portone, contando per la decima volta i pacchi, — prima ce ne mancavano tre; adesso ne abbiamo due di troppo. Dopo molti calcoli e riflessioni e un gran tastare e pigiare e riaprire di pacchi, si trovò che difatti, dal banco del «_World's Emporium_» ne avevano portati via due che probabilmente appartenevano ad una signora che stava facendo delle compere accanto a loro. Bisognò tornare indietro ancora una volta a quel negozio e riportarli con molte scuse e spiegazioni. Esauste e snervate entrarono per far colazione in un democratico e affollato ristorante chiamato «A. B. C.», dove delle imperiose damigelle, con pettinature piramidali sormontate da piccolissime cuffie inamidate, passavano avanti e indietro con piatti e vassoi. Sedettero in un angolo, ma le signorine continuarono a passare, davanti al loro tavolo senza degnarsi di guardarle nè di ascoltare i loro timidi appelli. Dopo circa mezz'ora una di esse, che pareva la regina di Saba, si fermò al loro tavolo, porse un elaborato _menù_ e attese con sprezzante inarcar di sopracciglia e impaziente battito della punta d'un piede, la loro ordinazione. Questo le confuse a tal punto che finirono coll'ordinare in gran fretta dei cibi che detestavano; e Miss Jones rese vieppiù cupo ed affliggente il pasto con dettagliate e lugubri previsioni riguardanti il suo stomaco e la sua digestione. Finito il lunch Miss Jones si accinse a raccogliere gli involti. — Sarà ora di andare alla stazione, — disse. Ma Myosotis la trattenne. — No; lascieremo qui in consegna i pacchi. Abbiamo ancora una cosa da fare. — Che cosa? — fece Miss Jones, ancora acidetta, ma alquanto placata da due tazze di thè e vari _plumcakes_. — Adesso andiamo a fare una visita. — Una visita? — esclamò Miss Jones. — Ma non conosciamo anima viva a Leeds! — Si, sì, ne conosciamo una, — rise Myosotis, deliziosa sotto alla nuova «toque» con una ghirlandetta dei suoi fiori omonimi intorno al bordo, e con una cravatta «bleu Nattier» legata a fiocco sotto il largo colletto aperto. — Adesso andiamo a trovare.... la zia Marianna! Miss Jones fece molte proteste ed obbiezioni. — Non le siamo state presentate.... non si può andare senza un permesso speciale in una redazione di giornale.... Ma Myosotis non si lasciò stornare dal suo proposito. — È assolutamente indispensabile che io le domandi in che modo si deve salutare la dama d'onore di una regina. Vi saranno pure delle regole d'etichetta speciale! Questo argomento convinse anche Miss Jones; e dopo aver consegnato, con raccomandazioni e mancia, i pacchi alla Regina di Saba, si informarono dell'indirizzo degli uffici del «Mondo e Focolare». Indi s'avviarono per le affollate vie di Leeds verso un alto e nero fabbricato torreggiante in fondo alla High Street. — Non sappiamo neanche il vero nome di questa «zia Marianna», — brontolò Miss Jones. — E poi, andando così a domandar consiglio, certo bisognerà pagarla! — Non credo, — fece Myosotis con un sorriso, pensando alla corrispondenza intima e tenera, scambiata tra lei e la buona amica sconosciuta. Passando davanti ad un negozio di fiori Myosotis volle entrarvi; e ne uscì portando in mano un gran mazzo fragrante di delicate rose thee. — Certo le farà piacere, — disse, volgendo a Miss Jones sopra le rose la dolce faccia ridente. — Forse, poverina, poichè è vecchia, nessuno pensa a regalarle dei fiori. — Come fai a sapere che è vecchia? — chiese Miss Jones, con asprezza. Ma Myosotis non rispose. Arrivarono davanti al portone del giornale e, un pochino timide, entrarono nel cortile dove un autocarro stazionava, carico di enormi rotoli di carta. La macchina rotativa della stamperia faceva udire il suo rullo continuo ed assordante. Spinsero una porta di vetro ed entrarono in un atrio. Miss Jones, affacciandosi a un finestrino dietro al quale lavoravano molte signorine, chiese: — Si potrebbe parlare colla zia Marianna? La signorina più vicina al finestrino rispose senza alzare gli occhi: — Redazione. Primo piano. Salirono le scale oscure e strette e si trovarono davanti a un'altra porta di vetro: «Direzione e Redazione». Seduto nell'anticamera un ragazzo con un berretto in testa portante la scritta: «Mondo e Focolare», stava leggendo un giornale illustrato e fumando un mozzicone di sigaretta. Anche lui, come la signorina, non alzò la testa al loro entrare. Miss Jones ripetè la sua domanda: — Si potrebbe parlare colla zia Marianna? Soltanto allora il ragazzo — il tipico «_messenger-boy_» inglese — alzò la faccia pallida, sporca, e impertinente, e squadrò le visitatrici. — Cosa volete? — chiese lui, senza togliersi di testa il berretto nè di bocca il mozzicone. — Non si lascia passar nessuno senza sapere che cosa vogliono. Myosotis e Miss Jones si scambiarono uno sguardo. Impossibile dire a questo antipatico ragazzo: — Vogliamo sapere il modo corretto di salutare la dama d'onore della regina di Olanda. Il ragazzo stette un poco a guardarle, poi guardò le rose in mano a Myosotis; indi, facendo a questa una smorfia che somigliava a una strizzatina d'occhio, disse: — Potete scrivere qui i vostri nomi.... — E spinse verso di loro un foglietto di carta bianca non troppo pulita. — Metterò io il mio nome, — disse la fanciulla. E china sul tavolo scrisse sul foglietto: — Myosotis. — Indi, porgendolo al ragazzo, soggiunse: — Dite alla signora che non la tratterremo che pochi istanti. Stavolta non c'era da sbagliarsi; il ragazzo, con aria di burla, chiuse un occhio, poi gonfiò le guancie come se volesse scoppiare dalle risa. — Lo dirò.... alla signora! — disse. E se ne andò sventolando il foglietto. Rimase assente qualche minuto. Poi riapparve. — Passate pure, — disse, e ancora facendo le viste di torcersi in silenziosa ilarità, riprese il suo posto e il suo giornale. — Odiosa persona, — mormorò Miss Jones avviandosi per l'oscuro corridoio. — Porta 7, — le gridò dietro il ragazzo. Alla porta 7 Miss Jones bussò con molta decisione e risolutezza, poi entrò senza aspettare risposta. Myosotis, timida, colle sue rose in mano, s'era fermata un poco indietro; ma d'un tratto pensò: — La zia Marianna crederà che Miss Jones sia io! — Allora si avanzò rapida. Ed anche lei entrò dietro alla maestra. Si trovò in un piccolo ufficio buio, colla finestra che dava su un muro annerito dal fumo e dagli anni. Ed ivi, davanti a una grande tavola ingombra di carte, sedeva un uomo. Era un uomo sulla quarantina, largo di spalle, con una gran barba bruna. Egli teneva in mano il foglietto scritto da Myosotis, e contemplava Miss Jones con evidente stupefazione. Quella, traverso i suoi occhiali, lo contemplava con non minore sorpresa. Dopo un momento di incertezza Miss Jones ripetè per la terza volta la sua domanda: — Posso parlare colla zia Marianna? Ora gli occhi di lui avevano oltrepassato Miss Jones, e si fermarono sulla figuretta nel vano della porta col suo mazzo di rose in mano. Un riso gli balenò negli occhi, e, alzandosi lentamente dal suo posto, disse: — La zia Marianna sono io. XVI. Un silenzio esterreffatto seguì questa dichiarazione. Gli occhi di Myosotis, fissi su quel viso barbuto, si allargavano smisuratamente.... Egli vide quelle iridi balenare azzurrissime, poi con un rapido battere delle palpebre, velarsi subitamente di lagrime. Erano lagrime di bruciante umiliazione. In un lampo tornarono alla mente di Myosotis le lettere ch'ella aveva scritto a quest'uomo, lettere puerili in cui gli aveva svelata tutta se stessa, in cui aveva descritto le sue intime sensazioni, in cui aveva persino descritto il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli.... Tutti, tutti i suoi pensieri aveva detto a questo sconosciuto, credendo, di parlare ad un'amica, a una dolce donna dagli occhi profondi, dalla fronte serena sotto i capelli bianchi.... Un immenso rancore, quasi un senso d'odio, la invase; e colui che la guardava vide un pallore latteo salire lentamente a sbiancarle il viso delicato. E vedendola così pallida, colle sue rose in mano, un improvviso rimorso gli strinse il cuore. Frattanto Miss Jones aveva ritrovato la favella. — Ma come, — esclamava stupita, — è lei la persona che firma «zia Marianna?» Ma è possibile!... E come fa lei, un uomo, a intendersi di fronzoli e di fiocchi, di regole d'etichetta e di cosmetici? Egli cessò di guardare Myosotis e si volse con cortesia verso Miss Jones. — Voglia accomodarsi, signora. — E additava una poltrona accanto al suo scrittoio; indi andò a prendere dal vano della finestra una seggiola e l'offerse a Myosotis. — La prego.... segga. La fanciulla obbedì, come in sogno. E come in sogno contemplò quell'uomo, alto, largo di spalle, dai folti, capelli ricciuti e un po' grigi, la fronte alta e sbarrata dalle sopracciglia dritte e nere come una spennellata d'inchiostro della china; e sotto a quelle nerissime sopracciglia due occhi chiari, infossati, taglienti.... Myosotis non udì nulla di ciò che Miss Jones gli diceva; la udì che rideva d'un riso un po' stridulo e affettato; finalmente vide che si alzava, che quell'uomo si alzava anch'egli; allora come un'automa ella pure si alzò. L'uomo le si avvicinò e chinando il capo dalla sua grande altezza le parlò. — Lei deve perdonarmi — disse. — È da vent'anni che faccio la «zia Marianna», e, al principio, rispondendo alle sue lettere non pensavo affatto all'inganno. Poi le sue lettere mi piacquero tanto che.... non volevo che cessassero. Mi comprende? Mi perdona? Ella non potè alzare gli occhi nè rispondere. Finalmente trovò un filo di voce per dire sommesso, con amaro rimprovero: — Quella fotografia!... Egli si avvicinò d'un passo. — È la fotografia di mia madre, — disse. Un suono, una vibrazione nella sua voce, toccò qualche cosa nel cuore della fanciulla. Con subitaneo impulso ella tese verso lui la mano che teneva le rose. — Allora... _è quella_ la mia amica! Porti le rose a lei. Egli accettò il mazzo fragrante, senza rispondere, senza neppur ringraziare. Miss Jones era già sulla porta e Myosotis la raggiunse. Le due donne si ritrovarono nell'oscuro corridoio. Passarono davanti al ragazzo che leggeva e che non si mosse. — Mio Dio! — esclamò Miss Jones appena furono in istrada, — che cosa fantastica! La zia Marianna, un uomo!... Chi mai l'avrebbe pensato! Probabilmente — soggiunse, — sarà molto povero, e non avrà trovato altro da fare. — Già, — fece Myosotis ad occhi bassi. E non disse altro. D'improvviso Miss Jones si fermò. — Giusto cielo! — esclamò, — abbiamo dimenticato di chiedergli come si deve salutare la dama d'onore della regina d'Olanda! XVII. «Signorina Myosotis, «Lei deve perdonarmi. Non pensavo di vederla mai. Già, tra pochi giorni dovevo partire per la Scozia.... e, come ha detto lei, la Scozia è lontana.... «Le sue lettere, fin dalla prima, erano così deliziose! Non potevo non rispondere. E dopo, non ho più trovato il coraggio di disilluderla, nè di allontanare da me il suo affetto così dolce e fidente. E perchè avrei dovuto farlo? «Non fu che ieri, vedendola impallidire, vedendo i suoi occhi riempirsi di lagrime, che ho capito di aver avuto torto, e mi sono pentito e vergognato come di una mala azione. «Le ho detto che da vent'anni — cioè, dacchè dovetti lasciare l'accademia di pittura a Parigi per la morte di mio padre — lavoro per questo giornale. Vi compio le mansioni più svariate: sono il critico letterario e teatrale; sono il critico d'arte; e — dal giorno lontano in cui la prima ed autentica zia Marianna scappò col proto e con la cassa della redazione — sono la zia Marianna. Molte volte sono anche «Un fedele lettore», «Un abbonato che protesta», o «Un cittadino sdegnato», spinto a queste svariate attività dal buono ma tirannico direttore del giornale. «Egli oggi assai si rammarica di veder partire nella mia persona quasi l'intero personale della sua redazione. Anche a me dispiace; ma faccio un passo avanti nel giornalismo: divento redattore-capo della Gazzetta d'Edimburgo. «Mia madre, che è nativa di quella città, è felice di tornarvi. «Ecco, signorina Myosotis, tutta la mia semplice biografia. «Ed ora, se osassi, le chiederei un grande favore. — Oserò, tremando. «Parto tra otto giorni. Vorrei prima di partire vederla ancora una volta; e vorrei che mi fosse concesso di scorgere per un solo istante la sorellina, la piccola Leslie, dai capelli biondi «come i raggi del sole e della luna misti insieme».... Vorrei portar via con me l'immagine sua accanto a quella di Myosotis.... «Non è la zia Marianna che lo chiede; è il critico d'arte — il pittore mancato — che vorrebbe portarvi via entrambe nella sua memoria come vi ha vedute nei suoi sogni: bionde come il miele, bionde come le primule, aureolate della vostra bianca giovinezza!... «Il treno che mi porta verso la gelida Scozia passa dalla stazione di Westham — non lontano da Wild-Forest. Se scendessi, fra un treno e l'altro, potrei traversare le brughiere e giungere a Rose Cottage verso il mezzogiorno. «Me lo permettete? «Vedrò Leslie; saluterò vostro padre; dirò buon giorno alla vecchia Jessie.... (Come li conosco tutti traverso le vostre lettere!...) «E dirò addio — addio per sempre! — a Myosotis». «Laurence Wilmer». XVIII. Gli andarono incontro, le due sorelle, scendendo per la collina; le pallide luci autunnali avvolgevano il mondo di vaporosa bellezza. Laurence Wilmer saliva dalla valle immersa nelle nebbie e nel grigiore; le due fanciulle scendevano a capo scoperto, tenendosi per mano, e sorridendogli da lungi. Intorno alle loro teste il sole del meriggio metteva una sfumatura di luce, un pulviscolo d'oro.... Egli le ricordò sempre così. XIX. Il dottor Harding fece assai buona accoglienza a Laurence Wilmer, e anche la temibile Jessie, messa al corrente di tutto, lo salutò con molti sorrisi. Il dottore non volle che si parlasse di lasciarlo ripartire quella sera stessa, e gli fu preparata una cameretta gaia e imbiancata alla calce, da cui, per fargli posto, Jessie portò via molte provvigioni di mele, di pere e di cipolle. La colazione fu assai allegra. La zia Marianna, come le fanciulle continuarono a chiamare il loro ospite, aveva molte cose divertenti da narrare riguardo alle sue molteplici attività giornalistiche. Parlò brevemente della sua giovinezza, dei suoi sogni d'arte troncati dalla morte di suo padre — tragica ed improvvisa morte che lasciava senza risorse la madre delicata e sofferente. Parlò delle sue speranze per l'avvenire.... quell'avvenire di cui, ormai, poteva dirsi sicuro.... Dati questi brevi ragguagli biografici, la zia Marianna non parlò più di sè, ma riuscì a far parlare tutti: la timida Myosotis, il riservato dottore, e Leslie, ridente e ritrosa. Anche la bisbetica Jessie, portando il caffè, si attardò a prender parte alla conversazione generale. Dopo colazione le fanciulle lo condussero sull'aia a far conoscenza delle otto galline — gonfie e immobili pel freddo — e dei tre conigli bianchi e neri scampati alla truculenza di Whisky e di Soda e alla ferocia culinaria di Jessie.... Quindi gli venne presentato anche un piccolo maiale, convalescente dall'influenza, sdraiato sotto un mucchio di paglia dorata. — È stato molto male, poverino, — sospirò Leslie colla sua dolce voce di colombella; — bisognava vederlo! Era tutto rosso per la febbre!... allora papà ha ordinato che gli si facessero due tagli nella coda, per cavargli il sangue. — Sventurato! — disse Wilmer scotendo il capo con gravità. — Sì, era terribile, — disse Leslie. — Figuratevi che i tagli glieli ha fatti Jessie, colle forbici. E lui gridava tanto che faceva star male tutti. Allora papà ha pregato Myosotis di suonare il pianoforte, perchè non si udissero quegli strilli. La zia Marianna rise. — E che cosa ha suonato, signorina? — chiese, rivolto a Myosotis. — L'inno reale, — disse Myosotis, tutta arrossente; e rise anche lei. — Con molto pedale! — soggiunse Leslie. Allora tutti risero; e il convalescente grugnì, rallegrato da quel piacevole suono. In quell'istante passò accanto all'orecchio di Wilmer un insetto, volando con sonoro ronzio. — Oh, guarda! un «fioralato!» — esclamò Leslie. — Che cos'è? — domandò Wilmer. — Ma, veramente, — spiegò Myosotis, — il loro nome giusto non lo sappiamo. Sono delle strane bestiole, che quando sono ferme sembrano dei fiorellini verdi. Perciò le chiamiamo così. — Pensate, — disse Leslie, congiungendo infantilmente le mani in atto di pietà, — che non possono fare che un volo, uno solo! in tutta la loro vita! Appena hanno volato, muoiono. — Già. — soggiunse Myosotis, volgendo a Wilmer gli sguardi luminosi: — le abbiamo tanto osservate: stanno dei giorni e dei giorni ferme, o quasi ferme, su un sasso o sul muro, come se pensassero: «Adesso.... dove volerò?», E si muovono appena, adagio, adagio, come piccoli bruchi senz'ali. Poi, d'improvviso si decidono e spiccano un gran volo!... E appena si posano, sono morte. — Strano destino, — osservò Wilmer. — Voi, — chiese Leslie, col suo dolce sorriso di bambina, — al loro posto che cosa fareste? Volereste? O stareste fermo per non morire? Wilmer riflettè un istante. — Credo che volerei subito, — dichiarò. — Anche noi! — dissero insieme le due chiare voci giulive.... Oh, dolci, miti discorsi! A Wilmer pareva di tuffare lo spirito in una fresca fonte d'acqua montanina.... Il dottor Harding, da tanti anni esule volontario da ogni consorzio sociale, udendo quelle voci allegre uscì e si accompagnò a loro. Un po' più tardi le fanciulle rientrarono in casa, chiamate dalla severa Jessie per qualche faccenduola domestica; ma i due uomini rimasero insieme a discorrere su molti e svariati argomenti. Il dottore condusse Wilmer nel suo laboratorio e, lieto di avere un ascoltatore intelligente, gli espose ampiamente le sue teorie sulla profilassi e la cura della lebbra. L'enciclopedico giornalista che aveva una conoscenza superficiale anche degli argomenti prediletti dallo scienziato, s'interessò vivamente agli studi e alle esperienze di lui. Con anche maggiore curiosità ascoltò le drammatiche narrazioni che il dottor Harding gli fece riguardo ai temibili serpenti velenosi dei tropici. — Guardi — diceva il vecchio scienziato, curvo sopra una grande boccia di spirito che una enorme cobra riempiva dei suoi sinuosi avvolgimenti: — è questa la più formidabile e la più funesta delle colubridi; questa, la subdola e silente apportatrice di morte, dal bel nome femmineo: «_Naja Tripudians!_». Guardi che meravigliosa grazia sinuosa, che forma simmetrica, pura nelle sue curve come la voluta di un violino.... «_Naja Tripudians...._» — E la voce del dottore si attardò quasi con voluttà sulle sillabe che, nei ricordi, lo riportavano alla sua giovinezza nelle Indie, allorquando, invocato e adorato dagli indigeni come un dio, aveva creduto alla sua missione, aveva sognato di poter alleviare tante sofferenze, aveva sperato di liberare l'umanità da un mostruoso flagello.... — Ah! è questa la famosa Naja egiziana! — esclamò Wilmer chinandosi per meglio osservarla. — Si, Naja Tripudians, — ripetè il dottore, — quel nome getta il panico nelle popolazioni dei tropici. Ricordo il caso di un negro ch'era stato morsicato da un rettile perfettamente innocuo, ma che, udendo pronunciare da un mio marinaio quel nome, morì quasi istantaneamente di terrore. Wilmer Laurence, chino accanto al dottore, contemplava il sinistro rettile. — Il primo effetto del veleno, — continuò Harding, — è uno strano senso di ubbriachezza; la vittima inciampa e traballa come se fosse ebbra. Poi ammutolisce, per paralisi della lingua e della laringe.... Finalmente cessa il respiro. E lo sventurato è morto. È morto; ma il suo cuore, strano a dirsi, batte ancora.... E il dottore prese allora a parlare degli studi e delle ricerche che da trent'anni gli riempivano spiritualmente l'esistenza; e quand'ebbe finito di parlare dei veleni ofidici, tornò ad enumerare i suoi esperimenti sui lebbrosi del Malabar. D'un tratto si accorse che il suo interlocutore, pensieroso, non gli rispondeva. — Forse l'annoio con queste disquisizioni, — fece il dottore con un piccolo sospiro. — È naturale che lei non si interessi soverchiamente a questi argomenti. E si accinse a rimettere a posto ogni cosa per lasciare il laboratorio. — No — protestò Wilmer, — non è questo. Non è questo che pensavo.... Il dottore chiuse a chiave la porta del laboratorio e si avviò, a fianco del suo ospite, per il viale del giardino, verso la casa. Davanti a loro Whisky e Soda si rincorrevano traverso le sfiorite aiuole stellate soltanto qua e là da margherite invernali, da asteri viola e pallidi crisantemi. — Che cosa pensava? — chiese finalmente il dottore sostando a guardare i rami brulli e melanconici contro il grigiore del cielo. — Pensavo, — disse Wilmer volgendo sul volto fine e stanco dello scienziato i suoi occhi vividi, — pensavo che mentre noi cerchiamo i rimedi alla lebbra e ai veleni di vipere in terre lontane, qui, nel nostro paese, qui, nelle nostre città, infierisce un morbo psichico, dilaga una infezione morale che contamina e corrompe tutto ciò che ci sta intorno. Pensavo, mentre lei parlava della Naja egiziana, alle vipere umane che amano mordere nelle carni pure, avvelenare le anime innocenti! Pensavo alle «naie» sociali delle nostre grandi città, di cui è tripudio il contaminare e corrompere ciò che ancora di candido, di sano e di sacro è nel mondo.... Il dottore si era fermato in mezzo al viale e contemplava il compagno cogli occhi ceruli un poco appannati; i suoi capelli bianchi e fini ondeggiavano, mossi dal freddo vento autunnale. — Noi, — continuò Wilmer, — noi viviamo oggi in mezzo a questa lebbra morale e non ne temiamo il contagio; noi, ad ogni passo, sfioriamo un rettile umano che sprizza il tossico e la morte, e non lo distruggiamo, non gli schiacciamo la testa col piede. No. Passiamo oltre, cercando rimedio a tutti gli altri mali: alle infermità fisiche, alla miseria, alle rivoluzioni sociali, ad ogni guaio fisico e materiale.... Ma alla contaminazione dello spirito, alla cancrena dell'anima che in quest'epoca nefanda ci invade — chi porrà rimedio?... Questo io pensavo, dottore. Si erano fermati in fondo al viale; il vento dell'est, freddo e rabbioso, faceva turbinare ai loro piedi le foglie morte dei roveri e degli ontani. Il vecchio dottore ebbe un brivido. — È triste ciò che voi dite, — mormorò. Poi, rivolto verso il ponente (e giù, lontano, in fondo alla valle la nebbia si stendeva come una coltre sudicia sulle lontane città): — Fa freddo, — disse. — Entriamo. L'indomani all'alba Laurence Wilmer partì. Come egli stesso aveva messo per condizione, nessuno — eccetto la vecchia Jessie, che sempre si alzava all'alba — scese per salutarlo. Quando uscì dall'aia, pronto alla partenza, vide che le finestre della casetta erano ancora tutte chiuse. Whisky e Soda sbucarono da sotto un gran mucchio di fieno, stirandosi, cogli occhi rossi, gli vennero incontro, scodinzolando, e lo accompagnarono per un tratto di strada, giù per la ripida discesa. Indi sparirono nella brughiera. Ai suoi piedi il mondo dormiva, avviluppato nella nebbia. Giunto all'ultima svolta, Wilmer si fermò e si volse indietro a guardare Rose Cottage, addossato alla collina. Il cancello era aperto sul giardino autunnale, coi suoi rosai spogli, i cespugli nudi, gli asteri e i crisantemi. E Wilmer pensò che in primavera vi sarebbero le rose.... Sorrise a quel pensiero. Indi si volse e riprese la strada ripida che scendeva nella vallata. XX. Era la vigilia della partenza per Londra. La stanza raccolta e famigliare era illuminata dalla blanda luce della lampada e dagli sprazzi vividi del fuoco che ardeva nel caminetto. Sul tavolo giacevano, negletti, i libri del dottore; i lavori delle fanciulle erano già piegati e riposti in un cassetto per rimanervi fino al giorno del loro ritorno. Myosotis moveva silenziosa per la stanza aiutando Jessie a preparare il thè; ma Leslie sedeva languida e oziosa accanto al padre e poggiava la testolina lucente al braccio di lui, guardando muta nelle fiamme. Pensava all'indomani; alle giornate di svago, alle serate di divertimento che l'attendevano nella lieta e immensa capitale; pensava anche al babbo, che sarebbe rimasto qui, solo, per tante lunghe giornate e tante malinconiche sere.... A quel pensiero strinse più forte al braccio paterno la guancia accaldata. Il babbo non si mosse. Allora Leslie volse il viso e premette sulla manica della vecchia giacca color tabacco un bacio. — Pensa, papà, — disse piano, — che per Natale saremo di nuovo qui. — Sì, sì, — confermò Myosotis avvicinandosi anch'essa e cingendo col braccio il collo di suo padre; — per Natale saremo qui. — E si chinò a baciargli i capelli troppo presto imbiancati. — Staremo a Londra tutt'al più quindici giorni. Il chiarore della lampada illuminava quella testa argentea tra le due testoline dorate; e la vecchia Jessie, nell'ombra, col vassoio da thè tra le mani, le guardò e sentì nel suo rigido petto fondersi di tenerezza il cuore. — Sicuro! staremo tutt'al più quindici giorni, — fece eco Leslie. — Sono anche troppi, — brontolò d'improvviso Jessie dal fondo della stanza. E con una nota spezzata nella voce, soggiunse: — La vostra mamma, se fosse qui, non vi lascerebbe andare. A quella frase tutti e tre trasalirono e volsero alla vecchia i loro visi sbigottiti. — Perchè dici questo? — chiese il dottor Harding con voce turbata. Il nome della morta era sacro, nè si pronunciava mai che nelle più rare e gravi occasioni. — E perchè lo dici solo adesso? — soggiunse Myosotis in tono di rimprovero. — Sai bene che non faremmo mai una cosa che la mamma non avrebbe voluto. — Non so.... mi è venuto in mente così, — mormorò la donna. — Mi pareva di vederla qui.... E tutt'a un tratto Jessie si mise a piangere. Subito le furono tutt'e tre d'attorno, carezzandola e confortandola; ma ci volle del tempo prima che cessassero i suoi singhiozzi. Finalmente la vecchia si asciugò gli occhi col suo grembiale azzurro, e uscì. Gli altri si strinsero più vicini l'uno all'altro accanto al fuoco, senza parlare. XXI. L'indomani la casa fu tutta in trambusto di buon'ora; il dottore, colle fanciulle e Miss Jones, salirono nel calesse ordinato la sera precedente all'alberghetto di Wild-Forest, e Jessie andò a cassetta col vetturino e la cappelliera e la valigia. Faceva ciò che d'inverno in Inghilterra si chiama «bel tempo»; cioè, non diluviava e non soffiava una bufera; c'era semplicemente una nebbiolina grigia e umida diffusa su tutto, e in un punto del cielo si scorgeva un piccolo cerchio scialbamente rossastro, che, con molto ottimismo e fantasia, si poteva anche chiamare il sole. Rabbrividendo un poco, la piccola Leslie, sullo scanno mobile accanto a suo padre, gli si strinse vicino e gli prese e tenne stretta la mano. Di fronte a loro sedevano Miss Jones e Myosotis; questa taceva, pallidina, cogli occhi rossi. Ma Miss Jones si diffondeva in un verboso soliloquio che nessuno ascoltava. Rievocava i suoi ricordi di Londra; alternando alla narrazione delle sue passate esperienze molte considerazioni di ordine generale e raccomandazioni svariate alle due fanciulle. — Meno male che avete fatto fare da Miss Knox quei due vestiti di mussola rigata.... Badate di non metterli che la sera; e non mai sotto ai mantelli quando uscite di casa!.... A proposito — s'interruppe d'un tratto — non so precisamente in quale quartiere di Londra sia la casa di Lady Randolph Grey: non mi avete mai fatto vedere la sua lettera. Starà certamente nel West End; è vero?... In Park Lane, o Pont Street, dove abita tutta l'alta aristocrazia londinese.... potrebbe anche stare nel South Kensington, che è divenuto estremamente _fashionable_, dacchè la duchessa di Marlborough.... A questo punto Miss Jones si accorse che nessuno l'ascoltava. Ma non per questo si scoraggiò. Diede una scrollatina al braccio della silenziosa Myosotis: — Sulla sua lettera che indirizzo c'era? — Sulla lettera di chi? — chiese Myosotis, trasognata. — Ma sulla lettera di Lady Randolph Grey! — Non so.... Argyle Square — rispose la fanciulla. — Argyle Square.... Dev'essere vicino a Bond-Street, se non erro — fece Miss Jones, sopra pensiero. — È nel centro della città; non è proprio nel West End. Mi pare strano.... Tuttavia, potrebbe essere l'indirizzo di un Club aristocratico; ce n'è molti nei dintorni di Bond-Street e di Duke Street.... Ma siccome nessuno la seguiva in queste sue considerazioni, nè pareva soverchiamente interessarsene, finì col tacere anche Miss Jones; e la lunga discesa alla piccola città di Westham fu fatta quasi in silenzio. Arrivarono alla stazione appena a tempo; il treno era già annunciato. Lasciando Jessie e Miss Jones a guardia delle valigie, il dottore prese a braccetto una di qua, una di là, le sue due figliole e camminarono in su e in giù per la piattaforma. Non si parlarono. Pareva non avessero nulla a dirsi nel momento di questa loro prima separazione. — .... E non mi prendete freddo, — disse il padre alla fine, come se tutti gli altri suoi pensieri li avesse già detti ad alta voce. Entrambe le tepide e fragili braccia strinsero il suo braccio, ed ambo le giovanili voci dissero: — Stai tranquillo! Ma ecco arrivare il treno; e ritornarono correndo presso Miss Jones e Jessie che già da un pezzo, brandendo valigia e cappelliera, li chiamavano con gesti agitati. Allora, con un rapido bacio alle due donne e un lungo bacio al padre, le due sorelle salirono nel vagone; indi si affacciarono subito al finestrino. — Mi raccomando, — ansò Miss Jones, levando verso di loro il viso magro e nervoso, — in società non siate nè timide nè stupidelle; spero, in qualità di vostra maestra, che non mi farete sfigurare! Jessie si avvicinò cogli occhi rossi. — Mangiate tutto ciò che vi ho messo nel cestino, — disse, tendendo la mano ossuta, che le fanciulle strinsero sporgendosi dal finestrino. E soggiunse con voce un po' tremante: — E dite ogni sera le vostre preghiere. Il padre non disse nulla. Teneva fissi gli occhi su loro; e quando il treno si mise in moto anch'esse lo guardarono fisso e a lungo... finchè non lo videro più. Poi sedettero al loro posto e per un pezzo non parlarono. Ma a poco a poco, come il treno si affrettava pulsando e palpitando, anche nei loro giovani cuori tornò, con affrettato palpito, la gioia. XXII. Il treno rallentava per entrare nella stazione di Liverpool-Street e le due fanciulle si sporsero dal finestrino. — Ecco lo chauffeur! — esclamò Leslie. — Dove? dove? — Là, accanto a quella signora.... quella coi capelli grigi.... vestita di nero. — Si, sì, — disse Myosotis un po' nervosa. — Chi sarà quella signora? — Ha l'aria molto aristocratica, — disse Leslie; — che sia la dama d'onore.... — Può darsi, — disse Myosotis. Indi soggiunse: — Ma non credo che quella verrebbe alla stazione. Il treno si fermò; le fanciulle presero le loro valigie e scesero. Lo chauffeur si avvicinò, salutò, e risalì in treno per prendere la cappelliera. — Sono sole? — chiese poi, guardandosi in giro. — Si, sì; sole, — disse Myosotis. — Ah, — fece l'uomo, — credevo che forse le accompagnava il signor padre.... S'avviò rapido, portando valigie e cappelliera, verso la signora dai capelli grigi che s'era fermata in fondo alla piattaforma. Myosotis e Leslie lo seguirono, correndo un poco. Giunte presso alla sconosciuta le due fanciulle la guardarono con timido sorriso, in attesa del suo saluto. Ma lo chauffeur le parlava. — Sono sole, — disse. — Ah! sono sole? — La signora sfiorò le sorelle collo sguardo. — Allora io me ne posso andare. — Si, sì, — disse lo chauffeur, avviandosi verso l'uscita. Anche la signora si mosse, camminando accanto a lui. Si volse un istante e di nuovo sfiorò collo sguardo le due ragazze senza far atto di salutarle. Poi, rivolta allo chauffeur, disse: — Che Gaby non si metta nei pasticci!... Lo chauffeur si strinse nelle spalle. — Mah! Peggio per lei, — osservò. E piantando in asso l'aristocratica signora dai capelli grigi, si avviò in fretta verso la grande automobile verde che, guardata da un commissionario, stazionava all'uscita sotto la tettoia. Trotterellando dietro a lui le fanciulle non parlavano più. Myosotis si domandava perchè mai quella signora quando aveva saputo ch'erano sole, se ne era andata. Le pareva una ragione di più perch'ella restasse con loro e le accompagnasse. Vagamente si domandò anche chi poteva essere «Gaby», e in che sorta di pasticci stava per mettersi.... Ma lo chauffeur aveva caricato valigie e cappelliera sulla Rolls-Royce, ed ora teneva aperta la portiera perchè le due giovinette salissero. Entrarono nella sontuosa vettura e sedettero, sprofondando nei morbidi cuscini. Lo chauffeur chiuse Io sportello, salì al suo posto, e via!... .... Via, verso il turbinante cuore di Londra traverso le strade nere e affollate della City; via, lungo i neri meandri del Tamigi, e su pel sordido Cheapside e il formicolante Fleet Street e il brulicante Strand; via, oltre la grandiosa Trafalgar Square, e giù per l'interminabile Oxford Street e su per Regent Street e Langham Place... e fuori, verso i quartieri più aperti e lussuosi del West End. Via, costeggiando un parco immenso, e poi di nuovo il fiume, e poi un altro parco, via!... Rombando e strombazzando, tossendo e abbaiando, l'automobile verde correva rapidissima, lasciandosi dietro una strada dopo l'altra, una piazza dopo l'altra. Ora si susseguivano interminabili, uno identico all'altro, dei piazzali quadrati, ognuno con un giardino nel centro, e intorno le facciate delle case alte e solenni. Nel crepuscolo invernale — fosco e fuligginoso crepuscolo londinese — tutto si confondeva, grigio su grigio, ombra su ombra; le case, le strade, il cielo.... Tutto era plumbeo e livido. Pareva di correre senza posa e senza meta entro un mostruoso cinereo labirinto. Le fanciulle dapprima si erano scambiate qualche parola, commentando la velocità della corsa, la folla di gente affaccendata, l'altezza dei grandi ponti lanciati sopra le nere acque del Tamigi.... e poi le innumerevoli e interminabili strade e piazze che tutte si assomigliavano e si confondevano, livide sotto la livida cappa del cielo; tutte identiche l'una all'altra, a tal punto che si aveva l'impressione di ritrovarsi continuamente là dove si era già stati.... Ma ora tacevano, guardando fuori, sbalordite, senza pensiero. Non si preoccupavano più nè dell'arrivo, nè dell'accoglienza che farebbe loro Lady Randolph. Non si preoccupavano più di nulla, non pensavano più a nulla, cullate e intontite dal celere movimento dell'automobile che le trasportava, atomi inerti in questa immensa metropoli, verso la meta sconosciuta. Finalmente — e ormai tutt'intorno a loro si era chiusa, come una muraglia torbida, l'oscurità — l'automobile si fermò. Myosotis, che aveva chiuso gli occhi, si drizzò di soprassalto. — Ci siamo! — Che gioia! — esclamò Leslie, ravviandosi i capelli. XXIII. Entrarono, un po' stanche, un po' pallide, un po' freddolose, in una immensa e sontuosa anticamera decorata di arazzi e tappeti orientali; in un antico gigantesco caminetto ardeva il fuoco; e in un angolo una grande pendola antica ritmava lento e forte il passare del tempo. Le due fanciulle si strinsero un po' più vicine l'una all'altra, sentendosi piccole e sperdute. Il servitore che aveva aperto la porta prese i bagagli dallo chauffeur, richiuse a chiave e chiavistello la porta, indi sparì colle valigie entro un vasto e lungo corridoio. Sullo scalone apparve una cameriera in veste nera e cuffia bianca. Le ragazze furono contente di vedere ch'era vecchia e aveva l'aria mite. — Se le signorine vogliono salire prima di entrare al salone...? — disse con voce piana; e le attese, ferma sull'ultimo gradino del sontuoso scalone, tra due putti di marmo che reggevano dei maestosi candelabri accesi. Le fanciulle traversarono timide la vasta stanza e salirono dietro la cameriera; i loro passi affondavano senza rumore nel folto tappeto rosso. Giunte al primo piano udirono dietro una grande porta socchiusa il suono di parecchie voci; erano voci gravi, mascoline.... Ma già la cameriera le precedeva verso il secondo piano, ed esse la seguirono silenziose. — Ecco la sua stanza, — diss'ella a Myosotis, aprendo una porta e scostando, per lasciar entrare le fanciulle, una pesante portiera di velluto cremisi. Le giovinette si guardarono intorno stupefatte nella luminosa camera rossa; sul tappeto vermiglio erano gettate delle grandi pelli d'orso; nel caminetto un gran fuoco illuminava vividamente la tappezzeria color rubino, l'immenso letto a baldacchino e le larghe e profonde poltrone e gli enormi cuscini di raso scarlatto buttati per terra davanti al focolare. — Ma è una reggia! — mormorò Myosotis, meravigliata e intimidita. La cameriera aveva traversato la camera, ed ora, facendo scorrere sugli anelli un'altra pesante portiera rossa, aprì una porta che comunicava colla camera vicina. — E questa è la stanza della ragazzina, — disse, guardando Leslie. Leslie, sorridendo a quell'appellativo, seguì la donna verso la camera attigua, ma giunta sul limitare si arrestò con un'esclamazione di meraviglia. — Myosotis! guarda! Allora anche Myosotis si affacciò alla soglia e si fermò stupita. — Mio Dio! — disse Leslie inoltrandosi con passo trepido, — pare di entrare nel cuore di una rosa! Difatti la camera era tutta a tinte digradanti dal rosa pallidissimo al rosa profondo. Dalla tappezzeria carnicina, quasi bianca, i mobili di broccato e il morbido tappeto andavano via via facendosi di tinta più vivida e incarnatina, fino al centro della stanza dove troneggiava regale il letto colle seriche coltri di un rosa vividissimo. Era la stanza di una principessa. Intorno, dei larghi specchi ne riflettevano e moltiplicavano all'infinito il rosato splendore. L'aria era tiepida e profumata di _white-rose_. Le due sorelle non trovarono parole; e come la cameriera si era allontanata un momento — la udivano nella sala da bagno accanto, che faceva correre l'acqua — si abbracciarono in un trasporto di gioia e di commozione. Ma già la donna tornava, e Myosotis, esitante, la interpellò. — Non dovremmo subito andare a salutare Lady Randolph? — No, — rispose la cameriera, — Milady ha detto che è meglio, poichè ci sono visite a pranzo, che loro si vestano prima di scendere. Myosotis si turbò un poco. — Molte visite? — chiese timorosa. — Cinque, — rispose laconica la donna, andando verso un grande armadio a specchio. Myosotis e Leslie si guardarono. Che effetto farebbero in questo ambiente i loro vestitini di mussola rigata fatti da Miss Knox? — E le nostre valigie?... — chiese Myosotis guardandosi intorno. — Non occorreranno, — rispose la donna. Aveva aperto un armadio ed ora ne toglieva — oh meraviglia! — due vesti, una veste di velo celeste per Myosotis, una veste di mussolina bianca per Leslie; e nel fondo dell'armadio si scorgevano allineate molte scarpette di raso di tutti i colori, e su uno scaffale nell'armadio vi erano ammonticchiate delle calze di seta variopinta, e su un altro scaffale della biancheria iridescente e diafana come se fosse fatta di nuvole e di schiuma. — Ma come?... Ma per noi! — esclamò Myosotis, stupefatta. — Sì, sì; per loro, — disse la vecchia. Leslie, quasi incredula davanti a tante meraviglie, congiunse le mani in un piccolo singulto di gioia. — Oh! se papà potesse vederci, come sarebbe felice! E di nuovo abbracciò la sorella; e avrebbe abbracciato anche la cameriera se avesse osato. Questa, all'ingenuo grido della fanciulla, si era voltata improvvisamente a guardarla; ed ora i suoi occhi piccoli e vividi — occhi timidi come quelli d'un cane e furbi come quelli di una volpe — andavano dall'una all'altra delle due figurette ridenti, che fino a quel momento non aveva degnato d'uno sguardo. Myosotis notò quell'occhiata e, interpretandola a suo modo, arrossì e volle scusarsi. — Noi viviamo in campagna, — disse; — la mia sorellina non ha mai visto tante belle cose. Veramente, — soggiunse, spinta dalla sincerità, — non ne ho mai viste neanch'io. — Ah? — fece la donna; e la nota secca e sprezzante che prima aveva intimidito le fanciulle, non era più nella sua voce. — Vengono dalla campagna, loro? Credevo che vivessero qui in Londra. — Mai più! — disse Myosotis ridendo, tuttavia un poco lusingata da quella supposizione. — Non ci siamo mai vedute fino ad oggi. È la prima volta che lasciamo casa nostra, — soggiunse. — Allora capirà.... tutte queste belle cose ci fanno quasi paura! La vecchia non rispose. Crollò le spalle e si volse per uscire. Myosotis si meravigliò un poco di quell'atto; ma già, tutto qui era inaspettato e strano. Sulla soglia la donna si fermò. — Se hanno bisogno di qualche cosa, suonino. — Poi, ricordandosi di un'ordine ricevuto, soggiunse (e di nuovo la sua voce parve alle fanciulle aspra e ostile): — Ha detto la signora che lei, signorina, si pettini come al solito; e che la piccola qui, lasci i capelli sciolti. E uscì. Le due sorelle si guardarono sbigottite; poi risero, a lungo e allegramente. — Ci si prescrive la pettinatura! — disse Leslie; — par d'essere in collegio. — Par d'essere in un sogno, — disse Myosotis. Indi rapidamente si svestirono. Andarono nella sala da bagno e videro la vasca già piena d'acqua, tiepida, opalina e profumata. Una dopo l'altra vi tuffarono i loro giovani corpi dalle membra sottili, ridendo e chiacchierando. — Se Miss Jones ci vedesse!... Se la buona Jessie vedesse questa stanza!... E papà!... Come sarebbe contento che ci trattano così, come delle principesse reali! La parola «principessa» le fece pensare alla dama d'onore, e questo temperò alquanto la loro allegrezza. Misero delle calze di seta bianca che parevano ragnatele, della biancheria così fine che pareva di non averne; poi si pettinarono secondo gli ordini ricevuti. E finalmente fu il momento squisito di indossare quelle vesti fantastiche, meravigliose. Leslie ebbe presto fatto d'infilare la sua vesticciuola di mussola bianca, vaporosa, cortissima, con una cintura di raso bianco à la Russe, a metà della gonna. — Mio Dio, — esclamò ella specchiandosi, — sembro una bambina! — Già! — disse Myosotis, contemplando perplessa la figuretta deliziosamente infantile che le si parava dinanzi: — Devono averti creduta più giovane di quello che sei. — E soggiunse: — Sembri vestita per la prima comunione. — Ma guarda! m'arriva appena ai ginocchi, — disse Leslie inarcando le bionde sopracciglia. — Per fortuna le calze e le scarpe sono perfette! E fece un piccolo passo di danza, per gaiezza di cuore. — Meno male che ha le maniche lunghe, — osservò Myosotis, — e quel collettino di pizzo. Insomma ti sta divinamente! — E abbracciò la sorellina. — Sai che così, tutta bianca, con quei capelli sciolti.... sembri «Fiorin di Neve» dei racconti delle fate! Allora Leslie, confortata, rise e si rallegrò. Ma quando si trattò di vestire Myosotis la cosa si fece più grave. La veste di velo celeste era così stranamente fatta, che non teneva che su una spalla; al posto della manica sinistra non vi era che una spallina di nastro affrancata con un mazzetto di rose. L'altro lato della veste scendeva, senza manica, lasciando scoperto il collo e l'omero e parte del petto. Poi mancava la sottana. Almeno così parve alle fanciulle; il drappeggio era così trasparente, che certo ci doveva essere anche una sottoveste.... La cercarono nell'armadio. Non c'era. Allora si decisero a suonare il campanello. Per un po' nessuno venne. Risuonarono. Allora sulla soglia apparve Lady Randolph Grey. Era vestita di un abito verde smeraldo tutto coperto di pagliette d'argento, stretto come una guaina. — Bene arrivate, bene arrivate, — disse sorridendo e squadrandole con occhi di falco. — Deliziose, deliziose!... — esclamò. Indi traendo a sè l'arrossente Leslie; — Questa pare uscita da un educandato di suore; da un asilo infantile! — E la baciò e le carezzò colla bianchissima mano i lunghi capelli dorati. — Mi sembra.... temo.... di sembrare proprio una bambina, — disse Leslie un pò turbata. — Difatti, difatti! — rise la bella dama. — E bada, se chiedono la tua età dirai che hai dodici anni. Leslie sgranò gli occhi e si volse sbigottita a interrogare collo sguardo Myosotis. — La ringraziamo tanto per queste bellissime vesti, — cominciò quella. — Ma potrebbe.... — soggiunse timidamente, — farmi portare la sottoveste e le maniche? — Che maniche? Che sottoveste? — chiese Milady. — Ma per quest'abito.... — spiegò Myosotis, ritta davanti alla sua ospite e stendendo le braccia esili e ignude; i ceruli drappeggiamenti velavano appena l'ingenuo corpo giovanile. — La manica? La sottoveste? per questa toilette di Doucet? — Milady scoppiò in una risata. — E perchè non l'impermeabile e le soprascarpe? Ma, mia cara, siete divina così! Vedrete che cosa ne diranno i miei invitati. — La dama d'onore della regina d'Olanda? — chiese trepida Myosotis. Lady Randolph dette in un'altra risatina perlata. — Ma che! Quella era una storiella a tutto benefizio di vostro padre! — Come! — esclamò Myosotis, smarrita, — Non è venuta quella signora?... E le sue due figlie?... — Niente signora, niente figlie! — disse Milady, sempre ridendo colla testa all'indietro; e il collo ignudo le si gonfiava morbido e bianco come quello d'una colomba. Myosotis si sentì mancare un poco il respiro. — Del resto, troverete delle conoscenze — continuò Lady Randolph. — C'è Gerardo Neversol. C'è Totò.... ve lo ricordate Totò?... Si rallegrano tanto di vedervi. E poi, — soggiunse traendo a sè Leslie, — c'è un vecchio diplomatico che ama molto le buone e belle bambine come te; e c'è un americano, un pò sordo, ma milionario.... Insomma, un pranzo di gala. Andiamo, andiamo, fate presto! Myosotis e Leslie si guardarono ancora, smarrite e trasognate. La voce di Milady si fece un pò più aspra. — Fra dieci minuti suonerà il gong per il pranzo. — Prese per mano Leslie. — Tu, piccola, vieni con me. — E la trasse seco, esitante e ritrosa. Indi rivolta a Myosotis: — Vi aspettiamo nel salone al primo piano, — disse. — Vieni, vieni presto! Non lasciarmi sola, — sussurrò Leslie, separandosi a malincuore dalla sorella. — Andiamo, — ripetè Milady, con una nota metallica nella voce. E Leslie la seguì. XXIV. Rimasta sola Myosotis si guardò intorno smarrita. Che cosa fare? Era impossibile, impossibile scendere così. Per quanto ne dicesse Lady Randolph, era impossibile! Se avesse avuto uno scialletto, una sciarpa.... avrebbe potuto coprire quella spalla nuda, il petto, il collo. Forse la cameriera gliene avrebbe portata una?... Ma restava ancora la gonna, la terribile gonna, diafana, trasparente che lasciava travedere ogni linea, ogni curva.... Impossibile! impossibile! Myosotis si sentì alternatamente avvampare e gelare al pensiero di scendere in quella guisa; suonò il campanello per chiedere che le portassero le sue valigie. Nessuno rispose. Nessuno venne. E i minuti passavano; tra poco suonerebbe il gong. Seguendo un impulso fanciullesco, un'abitudine presa fin da bambina nei momenti d'incertezza o d'ansia, Myosotis cadde a ginocchi. Nella sua impudica veste di tulle cerula, s'inginocchiò accanto al letto e chinò il viso tra le mani. Iddio l'avrebbe aiutata, Iddio l'avrebbe consigliata. E pregò. Pregò: — Buon Dio, aiutatemi!... Ditemi voi come devo vestirmi per scendere in quel salone. Aiutatemi buon Dio!... Consigliatemi. Ispiratemi! Rimase immobile, aspettando il consiglio, l'ispirazione. Non venne. Una porta da basso si aprì e si richiuse, lasciando sfuggire il rumore di voci e di risate maschili. Lenta, triste, Myosotis si alzò d'in ginocchio, lo sguardo turbato fisso davanti a sè. Ed eccolo il consiglio! Ecco l'aiuto, ecco l'ispirazione! Là, davanti a lei, sul letto, come l'aveva gettato spogliandosi, stava il suo abito da viaggio, il disprezzato abito bleu-marin, un pò polveroso, un pò usato, un pò logoro; ma chiuso e intero e opaco e decente. In un attimo Myosotis era sgusciata dai veli ceruli, s'era tolta le calze e le scarpette bianche, aveva rimesso le sue calze di filo nero, le sue scarpe da passeggio raccomodate. E il gong non aveva ancora suonato, ch'ella era già vestita e pronta a scendere. Tuttavia, esitava sul limitare; ondate alterne di caldo e di freddo la facevano sudare e tremare.... Certo era doloroso presentarsi in quella guisa al pranzo di gala di Lady Randolph; certo sarebbe penoso aprire la porta di quel salone e rivelarsi così mal vestita agli occhi sdegnati di Lady Randolph, allo sguardo stupito dei suoi invitati. Ma mille volte peggio sarebbe stato scendere in quei ceruli veli trasparenti, presentarsi seminuda al cospetto di quegli uomini.... E Myosotis con un piccolo singhiozzo, girò la maniglia e scese. XXV. Gli occhi che si volsero a lei parvero, certo, stupefatti; e in quelli di Lady Randolph brillò non solo la sorpresa ma la più schietta disapprovazione. Senonchè Myosotis scordò quasi subito sè stessa e l'impressione che poteva fare ai convitati di Lady Randolph, quando il suo sguardo attonito cadde su Leslie. La bimba — invero ella pareva appena sulla soglia dell'adolescenza — sedeva in un grande scanno, rosea e ridente, con un calice pieno di un liquore dorato nella piccola mano. Intorno a lei, seduti o appoggiati all'alto schienale della sua sedia, stavano quattro o cinque uomini; uno, alla sua destra, Myosotis lo riconobbe subito: era il «Principe di Galles» — era Totò. Teneva anche lui un calice nella mano, e si chinava ridendo verso la fanciulletta, narrandole qualche cosa. Quando entrò Myosotis vi fu un attimo di silenzio; poi tutti i presenti ripresero a conversare, e nell'angolo intorno a Leslie ricominciarono i frizzi e le risate. Non vi fu presentazione di sorta. Myosotis rimase, un pò impacciata, accanto alla porta finchè Leslie la chiamò. — Vieni qui, vieni qui, Mymì! Così la chiamavano talvolta a casa, e Myosotis nuovamente si stupì della disinvoltura della sorellina fra tanta gente sconosciuta. Traversando la sala per andare accanto a lei, passò davanti a Lady Randolph, semisdraiata su un divano d'angolo, e la guardò, trepida, quasi implorandone il perdono. Ma Milady non fece atto di vederla. Parlava con un uomo bruno e grasso; parlavano francese, e Myosotis, pur indovinando che si trattava di lei, non comprese ciò che dicevano. — Assaggia, Myosotis, questa bevanda americana. Si chiama «Manhattan cocktail,» ed è un filtro che fa vedere il mondo tutto color di rosa con un occhio, e tutto color di cielo coll'altro!... Difatti, — e Leslie chiuse con aria birichina un occhio, fissando coll'altro l'abito bleu scuro e il volto rannuvolato della sorella, — guardandoti così.... io ti vedo tutta color del cielo.... quando vuol far temporale! Tutti risero, come se Leslie avesse detto qualche cosa di assai spiritoso, ma Myosotis non riuscì neppure a sorridere. Si sentiva la gola arida, le labbra secche; si diceva che a questi estranei, avvezzi alle donne brillanti della migliore società, Leslie doveva parere una bambina stolta e sfrontata, e lei stessa, nel suo brutto abito da viaggio, una «zucca villereccia,» goffa e intontita. Il suo pensiero corse alle raccomandazioni di Miss Jones.... a casa sua.... al babbo, solitario davanti al fuoco nella grande stanza vuota.... alla vecchia Jessie che diceva le sue preghiere ad alta voce in cucina.... E a tali ricordi le salirono cocenti le lagrime agli occhi. Dal fondo della sala le mosse incontro Lord Gerard Neversol, ed ella provò un senso di sollievo vedendo quel viso conosciuto. Non che egli le fosse soverchiamente simpatico; tutt'altro; ma almeno non era nè un perfetto estraneo come gli altri, nè odioso come Totò, nè ostile come ormai sentiva essere Lady Randolph. Neversol le disse qualche frase insignificante ch'ella quasi non udì ma che le diede il tempo di calmarsi, e subito risuonò l'appello insistente e sonoro del gong. Allora tutti si alzarono e discesero alla sala da pranzo. Era una vasta sala severa e sontuosa. La tavola scintillava di cristalli e di vasellame dorato. Nel centro un ammasso di gardenie diffondeva nella stanza un profumo che stordiva. Anche a tavola Myosotis si trovò accanto a Neversol; all'altro suo lato sedette l'uomo bruno e grasso che aveva parlato francese con Lady Randolph. Egli, appoggiato indietro nella sua seggiola, la guardò molto fissamente e a lungo. Ella rispose timida allo sguardo di lui, aspettando che le rivolgesse la parola; ma quegli, dopo qualche istante, volse via il capo e si dedicò risolutamente al suo pranzo. Nè durante tutto il pasto le parlò. Leslie era in fondo alla tavola fra Totò e il «diplomatico» — un personaggio magro, sulla cinquantina, tutto grigio: i baffi grigi, gli occhi grigi, la pelle grigia; pareva impastato di cenere e d'acqua sporca. — La piccola ciarlava e rideva colla massima disinvoltura. Beveva anche, a piccoli sorsi, con delle smorfiette puerili e graziose, dello champagne, insistendo però che Totò vi mescesse molt'acqua. Il quinto convitato, un uomo dai capelli rossi di una bruttezza ripugnante, parlava con Lady Randolph, bella e arridente a capo tavola. Talvolta dicevano delle cose che certamente dovevano essere molto spiritose, perchè tutti davano in grandi risate; ma a Myosotis sfuggiva il senso dello scherzo. — Stasera verrà Dafne Howard, — disse Milady sorseggiando una miscela di gin e curaçao, poichè lo champagne non le piaceva. — Dafne Howard! — esclamò l'uomo rosso. — E dove l'avete pescato? — All'Alhambra, — disse Milady. — Totò ed io siamo andati a vedere «Messalinette» e l'abbiamo riconosciuto subito. Vero, Totò? Totò non rispose. — Che parte faceva? — chiese Neversol. — Ma è questo il bello, — rise Milady — che, appunto, Messalinette era lui!... Figuratevi che sul programma si fa chiamare «Mademoiselle Lisa Douceur!» Gli uomini risero. — Bel tipo, Dafne Howard! — disse il diplomatico. — Ha poi lasciato la sua ballerina russa? Totò alzò il capo. — Da un pezzo, — disse, secco secco. — Stasera, ad ogni modo, viene qui col colonello Weisz, — osservò Lady Randolph, sogguardando con un sorriso Totò. Questi si strinse nelle spalle. — Se credete che me ne importi!... Mi usciva da tutti i pori, quel mostro, — disse. Nel silenzio che seguì si udì la soave vocina di Leslie. — Verrà qui un mostro stasera? — chiese essa con curiosità al suo grigio e macilento vicino. Quello rise. — Ma no, anzi; è una persona assai decorativa, Dafne. — Dafne?... — disse la fanciulla; — è un signore o una signora? — È un lusus naturae, — esclamò l'uomo dai capelli rossi, sporgendosi avanti a guardare Leslie, — prezioso per chi ama le anormalità. Di nuovo tutti risero. Ma Leslie e Myosotis si scambiarono un'occhiata perplessa. Evidentemente Miss Jones non aveva insegnato loro tutto ciò che era utile sapere in società. — _N'appuyons pas_, — intervenne Lady Randolph, crollando le belle spalle nude. — Tanto, qui non abbiamo che dei piccoli volatili del Campidoglio.... o di Strasburgo, che sia. — Io adoro il _pâté de foie-gras_; — disse Neversol; e di nuovo tutti risero. E siccome la guardavano, rise anche Myosotis per darsi un contegno. Tuttavia le parve che la conversazione fosse assai incoerente. Il pranzo si protrasse a lungo. Leslie, colle guancie accese, rideva sempre di più a tutto ciò che le raccontavano Totò e il diplomatico; aveva un'aria strana, esaltata.... Myosotis la guardava attonita, e non badava nè a Neversol che le diceva molte cose incomprensibili, nè all'uomo grasso che le stava dall'altro lato. Questi nè parlava nè la guardava, e Myosotis si disse che certo doveva trovarla noiosa e antipatica; e se ne rammaricava, perchè trovava ch'egli aveva una buona faccia di papà indulgente. Strano a dirsi, per errore, egli continuava a mettere il suo piede su quello di lei. Ella, confusa, temendo di offenderlo, diceva: «_pardon!_» e ritirava con cura il piede da sotto al suo. Quando questo accadde per la quarta volta, egli si volse e la tornò a fissare come l'aveva fissata al principio del pranzo. Myosotis si sentì diventar molto rossa sotto quello sguardo — già, l'aveva sempre avuto quel vizio di arrossire per nulla! — e come lui continuava a guardarla, ella continuò ad arrossire finchè ebbe gli occhi soffusi di lagrime. In quel punto tutti gli altri discutevano forte coll'uomo rosso e nessuno badava a ciò che l'uomo grasso poteva trovare da dire a quella ragazza noiosa e mal vestita. Egli si appoggiò indietro nella sua sedia, mise le mani in tasca e disse: — Si può sapere perchè siete qui? Myosotis, alzando a lui il dolce sguardo azzurrino, rispose: — Lady Randolph ha avuto la bontà di invitarci.... Egli aggrottò le ciglia. — E voi, perchè avete accettato l'invito? Myosotis sorpresa da quella domanda non seppe che cosa rispondere. — Si può sapere, — riprese lui, e la sua voce era rude e severa, — perchè avete portato qui quella bambina? Myosotis lo guardò sempre più stupita. — Ma.... non so.... — balbettò confusa. Le pareva che quell'uomo grasso, dall'aria buona e paterna, avesse assunto d'un tratto l'atteggiamento di un inquisitore; sotto le ciglia aggrottate egli la saettava con sguardo sdegnato. E siccome sembrava aspettare ch'ella parlasse ancora, la fanciulla soggiunse: — Siamo venute qui per fare delle conoscenze.... per incontrare.... — Per incontrare _chi_? — La voce era così aspra, l'espressione del viso così feroce, che Myosotis tremò. — Per incontrare.... la dama d'onore della regina d'Olanda, — disse quasi senza voce la fanciulla. — Cosa?... Cosa?... La dama d'onore.... cosa? — Il volto dell'uomo grasso si era fatto paonazzo. — Della regina d'Olanda — ripetè Myosotis, — e le sue figlie. Dovevamo incontrarle qui. Perciò papà ci ha lasciate venire. D'improvviso l'uomo grasso scoppiò in una immensa risata, una risata così potente che faceva sobbalzare tutta la sua grossa persona, e diede col pugno un colpo sulla tavola che scosse tutti i piatti e fece tinnire le posate d'oro. — Che cosa c'è.... Cosa c'è di così buffo? — chiesero gli altri. Lady Randolph Grey si volse con un sorriso di compiacimento. — Eccellenza, avete dunque fatto conoscenza colla vostra piccola vicina? E la trovate divertente? L'Eccellenza non rispose; continuava a ridere, colla grossa bocca aperta e il grosso corpo scosso dall'ilarità: ma strano a dirsi quel riso a Myosotis non pareva allegro; pareva terribile, pareva furente, pareva minaccioso.... La conversazione riprese, e l'uomo grasso non parlò più a Myosotis. Accese un sigaro e fumò in silenzio, guardando la tovaglia, come soprapensiero. E ogni tanto Myosotis lo vedeva lanciare verso Lady Randolph uno sguardo strano, fosco, quasi vendicativo. Quando furono portati il caffè e i liquori, egli si alzò e andò nella sala vicina — di cui il servitore aveva aperto i battenti — e Lady Randolph lo seguì quasi subito, lasciando intatta sulla tavola la sua tazza di caffè. Dopo alcuni momenti ella ritornò, sola; era pallida, colle labbra molto rosse come se le avesse morse a sangue. — E Sua Eccellenza? — chiese Totò. — Se n'è andato, — disse Lady Randolph, riprendendo il suo posto. — Che gioia! — esclamò Neversol. E gli altri risero. Lady Randolph non volse mai lo sguardo verso Myosotis, e questa ebbe l'impressione — certamente assurda — di essere odiata da quella donna. La conversazione per un poco languì, ma dopo qualche tempo Lady Randolph parve tornata di buon umore. Dietro un suo cenno tutti si alzarono e andarono nella sala vicina. Era una grande sala rettangolare, di cui le quattro pareti erano circondate da divani profondi e morbidi su cui si ammontichiavano dei grossi cuscini di raso multicolore. Nei caminetti alle due estremità della sala ardevano due fuochi immensi che illuminavano di baleni irrequieti e improvvisi la stanza. I lumi erano bassi e velati, taluni di viola, taluni di una tinta glauco-azzurra, ciò che, unito ai bagliori oscillanti delle fiamme, dava una stranissima colorazione, ora perlacea, ora cadaverica, ai volti. Myosotis potè finalmente riavvicinarsi a Leslie, e cingendole col braccio l'esile vita, sedette accanto a lei sul profondo e morbido divano. Totò si era messo al pianoforte e mollemente, con maestria trascurata, suonava delle danze sincopate, conturbevoli e suggestive. Gli altri uomini erano intorno a Lady Randolph e le parlavano a bassa voce. E Myosotis reclinata sui cuscini accanto a Leslie, sentendone così da vicino il calmo e dolce respiro, e sulla sua mano, come un morbido manto, i lunghi capelli sciolti di lei, si disse che era lieta d'essere venuta. Pensò che il lusso era piacevole, che la musica di Totò era dolce a udirsi, e che la vita era buona a vivere.... Con lieto impulso si chinò a baciare la guancia di Leslie. Quella si volse a lei e sorrise. XXVI. In quel momento si udirono di fuori dei lamenti e degli urli. Parevano le strida di un bambino che si sgozzasse. Le fanciulle trasalirono; ma Lady Randolph rise, e Totò non cessò di suonare. — È Moses, — disse Lady Randolph. — Neversol, aprite la porta. Il giovane, con un'alzatina di spalle, obbedì, e un grosso gatto bianco balzò nella stanza; gridando e miaulando si lanciò di qua e di là, ora saltando sui divani e conficcandovi le unghie, ora gettandosi a terra e strisciando appiattito sul tappeto. Pareva in preda a delle torture infernali. — Eh già! è tardi, povero bello! — disse Lady Randolph — ti avevamo dimenticato! — E, rivolta alla vecchia domestica, che in quel momento entrava portando un piccolo astuccio, glielo prese di mano, l'aprì, e ne tolse qualche cosa di lucido e brillante. — Cos'è? — chiese Myosotis a Neversol, che aveva traversato la sala e s'avvicinava a loro, — cos'ha quella povera bestia da gridare così? — È morfinomane — disse Neversol crollando le spalle con gesto di disgusto. — Come? — esclamò Myosotis. — Cosa vuol dire? — chiese Leslie, sbarrando gli occhi. — Vuol dire, — disse il giovane gettando un cuscino ai loro piedi e lasciandovisi cadere, — vuol dire che noi, depravati, per non goder soli e non soffrir soli, amiamo dare i nostri vizi agli altri.... a _tutti_ gli altri! È questa — soggiunse con una piccola risata amara — una caratteristica speciale di tutti gli auto-avvelenatori. Però dico francamente, per conto mio, le bestie.... le lascerei stare. Alzò gli occhi per guardare le due bionde fanciulle che lo ascoltavano sbigottite, attonite, come s'egli parlasse un linguaggio a loro sconosciuto. Frattanto Totò aveva smesso di suonare, e, a un cenno di Lady Randolph, le si era avvicinato. — Tienilo fermo, — disse quella; e il giovane afferrò il gatto e, appressatolo a Lady Randolph, lo tenne stretto per le quattro gambe. Dal loro posto sul divano le ragazze non videro ciò che Lady Randolph faceva alla bestia, che urlava torcendosi nella stretta di Totò. Ma un senso d'orrore, di nausea indefinibile, di terrore profondo le invase. — Ma cosa fanno?... Cosa fanno? — gridò Leslie impallidita. — Si divertono, — rise Neversol; — gli fanno una puntura di morfina. — Ma perchè?... perchè? — ansò Myosotis presa da un brivido d'indescrivibile orrore. Il giovane crollò di nuovo le spalle. — Ve l'ho detto. Perchè amano veder godere. E perchè amano veder soffrire. La vedrete or ora quella bestia sotto l'influenza del narcotico. Totò aveva lasciato ricadere il gatto e Lady Randolph, raddrizzandosi, disse con una morbida voce gutturale: — Ecco.... ecco.... povero Moses! — E riconsegnò l'astuccio alla vecchia domestica. Stette anche quella a guardare per qualche istante il gatto, poi, crollando la testa, se ne andò. La bestia aveva cessato di urlare, e ferma in mezzo alla sala si guardava intorno con occhi fosforescenti, il pelo irto, ritta la coda smisuratamente gonfia. Girò la testa con aria inquieta di qua e di là, come aspettando.... indi un lungo tremito le passò pel corpo; il suo manto di pelo bianco si rizzò.... poi si riappianò subitamente, liscio e lucido. L'animale fece qualche passo incerto, indi, lento e maestoso andò ad accoccolarsi accanto al fuoco. Tutti gli invitati di Lady Randolph, seduti o sdraiati in diverse posture sul divano quadrangolare, contemplavano con occhi un pò vacui le mosse della bestia; e gli sguardi di Myosotis e di Leslie vagarono smarriti dall'uno all'altro di quei visi che l'ebbrezza e la depravazione velavano di voluttuoso inebetimento. Ora il gatto, grosso, gonfio, acquattato sulle zampe davanti al fuoco, era evidentemente pervaso da un senso di beatifico benessere, di intenso e ineffabile godimento. Tutto il suo corpo vibrava emettendo un rombo sonoro, un cupo e profondo rullo. Myosotis lo contemplava inorridita, nè sapeva spiegarsi perchè quella manifestazione di godimento le ripugnasse ancor più, le incutesse ancor più avversione che non gli spasimi e gli urli di poc'anzi. Leslie fissava anch'essa con pupille dilatate l'animale, e il suo viso era bianco come un lino. — Lo vedrete più tardi, — disse Neversol, — quando cesserà l'effetto della morfina e comincerà quello dell'apomorfina. A Myosotis pareva più che mai di sentir parlare un linguaggio sconosciuto. — Che cos'è l'apomorfina? — chiese. — È il veleno creato nel corpo dalla morfina; dà delle sofferenze atroci. E l'unico contravveleno dell'apomorfina è appunto.... la morfina stessa! Vedete il tragico circolo? La catena senza fine? il serpente che si morde la coda?... Myosotis non capiva niente; ma a quest'ultime parole il suo volto si illuminò. — Noi, a casa, c'intendiamo molto di serpenti, — disse, rincorata di trovarsi su un terreno conosciuto. — Mio padre ci ha insegnato a conoscere tutti i diversi rettili, e gli antidoti per il loro morso. Neversol alzò il capo e diede in una risata. — Vediamo un pò!... e se io vi dessi un morso.... qui, — e stendendo la mano le toccò lievemente la guancia, — di quale antidoto vi servireste? Myosotis si ritrasse vivamente. Ma cosa aveva questa gente? Cosa dicevano? Cosa facevano? Erano tutti pazzi?... I suoi grandi occhi smarriti si riempirono subitamente di lagrime. In quel momento la domestica aprì la porta e un giovane entrò. — Oh, Dafne! — esclamò Lady Randolph, tutta sorrisi; e anche gli altri mossero incontro al nuovo arrivato; tutti, eccetto Totò, il quale era tornato al pianoforte, e non cessò dal modulare accordi e arpeggi in minore, con languida bravura. Ma, si chiese Myosotis, era proprio un uomo, il giovane alto e snello, che salutava tutti colla bianca mano tesa e la vermiglia bocca atteggiata al sorriso?... O era una donna vestita da uomo? O un uomo tinto come una donna? Molto alto e snello — press'a poco della stessa statura di Totò — egli si avanzava con quell'enimmatico sorriso sulle labbra scarlatte nel viso pallidissimo; era violentemente profumato; i capelli folti, lucidi, nerissimi, divisi da una parte, lasciavano da un lato scoperta la fronte bianca, dall'altro gli cadevano inanellati e lucenti sul sopracciglio. Neri, grandi e tinti erano gli occhi, occhi lunghi e languidi ch'egli teneva quasi sempre abbassati; ma quando d'un tratto alzava le palpebre l'effetto dello sguardo era impressionante. — E Weisz? Dov'è rimasto? — Chiese Milady. — Verrà più tardi, — disse il giovane, guardandosi intorno e sfiorando appena collo sguardo le due figurette sedute in fondo alla sala. — Più tardi? — esclamò Milady, in tono di rammarico. — Sì, sì. Molto più tardi, — disse il giovane. Traversò a lunghi passi la sala andando verso il pianoforte dove sedeva Totò. A lui pose una mano — una mano lattea ed ingemmata — sulla spalla; poi, come Totò continuava imperturbato a suonare l'aria di «Mélisande», il nuovo arrivato aprì la rossa bocca e cantò: cantò, con una voce di soprano delicata e vibrante, prendendo gli acuti con una strana e dolce morbidezza. Sì, sì; certo era una donna! pensò Myosotis meravigliata. Ma non appena se l'era detto, che, finita la frase musicale, l'artista pronunciò in una profonda e sonora voce baritonale: — E così, _Amberlocks_, trovate che canto bene? Totò, «dai riccioli d'ambra», non rispose e chiuse il pianoforte. Gli occhi tinti di bistro di Dafne Howard vagarono in giro alla sala e si fermarono dapprima su Leslie e poi su Myosotis. — Quanta gioveniscenza! — esclamò, tornando alla sua strana voce affettata di falsetto, e volgendosi a Lady Randolph. — Dove le avete pescate? — Senza attender risposta continuò: — Bene, bene. Stasera Weisz conduce qui.... — e disse sottovoce una parola (un nome, o un titolo?) che le fanciulle non afferrarono. A quell'annuncio Lady Randolph si turbò assai. — Cosa dite! — esclamò agitata. — viene qui? Lui stesso?... Stasera! Ne siete certo? — Sì, sì, — fece Dafne, — e riparte all'alba per Parigi. Lo farete condurre a Hounslow a prendere l'Airco. — Ma Weisz poteva preavvisarmi! — esclamò Lady Randolph. Indi attraversò la sala e si avvicinò a Myosotis. — Aspettiamo degli ospiti augusti, — disse; — il vostro abbigliamento, — e sfiorò collo sguardo sdegnoso l'abito di Myosotis, — è assai stonato. Vi prego di andarvi a cambiare. Myosotis si era alzata in piedi all'avvicinarsi di Lady Randolph ed ora le stava dinanzi tremante e incerta. Le venne in soccorso Neversol. — Per ora la lascerete qui, — disse con voce recisa. — A me piace così. Pare una governante d'Interlaken che avevo da ragazzino per insegnarmi la ginnastica e il tedesco, e che m'insegnò il significato delle parole _schwärmerei_, _träumerei_, _eselei_.... M'insegnò anche il delizioso proverbio del suo paese: «_Jedes Thierchen Hat sein Plaisirchen_» che in lingua meno barbara vorrebbe dire: «Ogni animaletto ha il suo diletto.» Lady Randolph aggrottò le ciglia. — Essa non può rimanere vestita in quella guisa. — Si andrà a far bella più tardi, — dichiarò Neversol. — Tanto, il personaggio non verrà prima di mezzanotte. Vero, Dafne? — No, no, — disse Dafne. — E a me, Myra, farete intanto preparare il ciandù. — Il ciandù! Volete dunque dormire? Gli altri protestarono. Il diplomatico grigio scosse il capo. — Male, male, Dafne! E l'uomo dai capelli rossi esclamò: — Ma no, ma no! Restate con noi stasera! State sveglio, Dafne! State sveglio. Dafne aprì la bocca tinta di cinabro, e in registro di soprano sopracuto gorgheggiò: «_Dormiam!.... Di gioia la vita è avara E sol ne' sogni felicità!_» . . . . . . . — Myra, — ripetè rivolto a Lady Randolph, — fatemi preparare il ciandù. XXVII. Immobili, attonite come due bambole, le due fanciulle sedevano sul divano assistendo ad uno spettacolo che non comprendevano, udendo delle parole che non intendevano. Ma era questo il mondo? Era questa la vita?... E allora Wild-Forest? Che cos'era? Era lo stesso mondo? Popolato della stessa gente?... Nelle sbigottite iridi cerule fluttuavano i dubbi, la stupefazione. Alla loro destra, traverso i battenti aperti della stanza attigua, scorgevano, disteso su un mucchio di cuscini, l'ambiguo Dafne Howard, senza colletto, la gola bianca scoperta come una donna scollacciata. La vecchia cameriera si affaccendava intorno a lui, intenta, grave, come la sacerdotessa di qualche misterioso rito. In terra, accanto alla forma supina, era accesa una lampadetta ad olio; ed ora la donna china sopra il lumicino, faceva riscaldare qualche cosa sulla punta di un lungo e sottile istrumento di metallo. Ogni tanto toccava leggermente la sostanza scaldata.... D'un tratto la tolse dallo specillo, la fece girare e rigirare rapidamente entro le dita per formare una piccola pillola. Ora avvicinava al giovane la lampadetta, e gli poneva tra le labbra il bocchino di una lunga pipa. Allora Dafne Howard aspirò, lentamente, lungamente, cogli occhi socchiusi.... Gli sguardi attoniti di Myosotis incontrarono quelli di Neversol, che sdraiato sui cuscini in terra davanti a lei, la guardava. — Perchè fuma in quel modo? — chiese. Una profonda inspiegabile nausea le saliva alla gola, un senso di repulsione, di orrore fisico profondo e indefinibile. — Fuma dell'oppio, — spiegò Neversol. — Adesso dormirà. E sognerà. — Dell'oppio? Perchè? È ammalato? — Siamo tutti ammalati, piccola Myosotis, tutti ammalati, — disse Neversol, fissandole in viso gli occhi torbidi e profondi. — Ammalati della vita; ammalati di dolore, ammalati di piacere. Acquattate dentro di noi ci stanno delle belve che rugghiano e ululano, e ci rodono i visceri, ci dilaniano i nervi, ci succhiano le vene. E bisogna farle tacere e dormire. — Che cosa dite? Di che belve parlate? — mormorò Myosotis. — Le conoscerete, le conoscerete un giorno le belve della bramosia, della smania, della passione, della disperazione. Le conoscerete un giorno anche voi, o celeste-occhiuta Myosotis!... A questo punto, Myosotis udì accanto a lei una risata di Leslie. Totò, che aveva attraversato la sala ed era venuto a gettarsi sul divano accanto alla fanciulletta, senza dubbio le raccontava qualche cosa di divertente che la faceva ridere del suo riso infantile e trillante; e a quel dolce suono Myosotis si riconfortò un poco. Ma Neversol le parlava. — Piccola Myosotis, la felicità umana è limitata, mentre i nostri desideri sono infiniti. Le possibilità di godimento sono fuori d'ogni proporzione colla nostra sete di piacere. Allora gli intellettuali, i raffinati, hanno voluto cercare fuori della vita, fuori della realtà, il filtro che plachi l'ardore d'inestinguibili desideri.... E l'hanno trovato nel bianco succo del papavero.... Tacque un istante, indi riprese: — Il fumatore d'oppio, il morfinomane, il mangiatore di coca e di haschish tiene nelle mani la coppa di tutte le ebbrezze, tiene nelle mani la chiave del chiuso cancello che limita la gioia agli umani. Egli, quando vuole, s'avvia rapsodico e sonnambulesco per le mistiche lande del sogno, per paesaggi sterminati e favolosi.... fuori del tempo e dello spazio. Egli ha spezzato ogni ceppo. Il vero non lo trattiene; la realtà non lo intralcia; tutto a lui è possibile: la frenesia di fantastici amori, il parossismo di non sognate estasi.... Egli è rimosso da ogni miseria umana, liberato da ogni vincolo umano. Egli ha vinto Dio e la natura!... Dal fondo della sala l'uomo dai capelli rossi si era alzato e veniva verso di loro con un calice di liquore iridescente in mano. Myosotis lo guardò con un senso di pietoso disgusto. Era veramente assai brutto; aveva le orecchie sporgenti, e traverso i capelli radi e rossi si disegnava tutta la forma del cranio; sotto i baffi rossi una larga bocca dalle labbra tumide s'apriva nel riso come una caverna. Porse il bicchiere a Myosotis. — A voi, biondina; bevete un sorso del mio calice e conoscerete i miei pensieri. — Grazie.... — balbettò Myosotis, — ma davvero.... non ho sete.... L'uomo diede in una grossa risata aprendo l'antro oscuro della sua bocca. — Non ha sete! Oh guarda guarda!... non ha sete! Ma io sì che ho sete! — esclamò, chinandosi vivamente verso di lei. Neversol, senza alzarsi, allungò di scatto il pugno chiuso e lo colpì in pieno stomaco. — _Réservé!_ — osservò laconicamente. L'altro aveva indietreggiato rovesciando parte della bevanda opalina sul tappeto. — _All right_, — disse con una smorfia. Indi lanciò uno sguardo anche su Leslie, verso la quale si chinava Totò col braccio allungato dietro di lei sullo schienale del divano. — All right, — ripetè; e tornò al suo posto in fondo alla sala accanto a Lady Randolph. Questa aveva preso in grembo il gatto e con un dito ne sollevava la palpebre e ne esaminava le pupille. — Ecco! — disse d'improvviso. E come il gatto subitamente faceva l'atto di saltarle alla faccia, ella lo gettò per terra spingendolo lontano da sè. Ora la bestia sotto l'influenza dell'ipnotico era in preda ad allucinazioni: fissava un punto della sala cogli occhi fosforescenti e il pelo irto; indi di scatto si lanciava addosso a una imaginaria preda. Rincorreva, balzando in qua e in là, una turba di topi invisibili; poi d'improvviso sostava immobile, impietrito!... D'un tratto, come se qualcuno lo afferrasse per la coda, si volgeva frenetico d'ira, scoprendo i denti in un ghigno selvaggio; roteava su sè stesso come una trottola.... poi irrigidito, teso, silenzioso, fissando un angolo colle saettanti pupille verdi, si avanzava lento, subdolo, strisciando sulla pancia, come una pantera che insegua nella jungla un nemico. Lady Randolph sdraiata all'indietro tra i cuscini, con un braccio nudo poggiato sulla spalla dell'uomo rosso, seguiva ogni mossa della bestia impazzita con grandi scrosci di risa. D'un tratto il terrore — come un'altra belva demente — balzò addosso a Myosotis e le conficcò le roventi zanne nel cuore. Era un terrore pazzo, cieco, frenetico, quale ella non aveva provato nè sognato mai; era come un lupo in furore che le mordesse e le squarciasse i nervi. E accanto a lei trillò nuovamente la risata argentina di Leslie, di Leslie che si divertiva, di Leslie che non aveva paura. Allora Myosotis ebbe il senso che tutto sprofondasse in lei e attorno a lei; le parve che la terra s'inabissasse sotto ai suoi piedi e ch'ella piombasse nel vuoto, affondasse nelle tenebre di un baratro beante e senza fondo.... Totò si era alzato e si era avvicinato a Lady Randolph. Ora le parlava a voce sommessa ed ella rispondeva non senza concitazione. Frattanto Neversol, senza alzarsi, spinse il suo cuscino più vicino a Myosotis. — Vi ricordate ciò che dice Amleto a Ofelia?... «_T'is a fair thought to lie between a maid's legs_». E sdraiandosi all'indietro le appoggiò il capo in grembo. Myosotis sussultò e volle alzarsi. — Vi prego, vi prego, — balbettò in un singhiozzo, tentando di sospingere dalle sue ginocchia quel capo bruno; ma Neversol, stendendo le braccia, afferrò le due mani della fanciulla e se le strinse contro alle tempia. — «È un dolce pensiero,» ripetè, — «giacere tra le ginocchia di una fanciulla». Leslie si era voltata e il sorriso le si agghiacciò sulle labbra. — Cosa fate a mia sorella! — esclamò. — Perchè la tenete così? E con ambo le piccole mani e colle unghie tentò liberare dalla stretta di Neversol le mani di Myosotis. Neversol rise e abbandonò la stretta; poi diede una tiratina di capelli a Leslie. — Se tu farai come il gatto, — disse, mostrandole la mano graffiata dalle unghie aguzze di lei, — ti daremo lo stesso rimedio che a lui. Poi, rivolto a Myosotis: — Vi ho fatto male? — chiese, prendendole una mano e guardando il cerchio rosso che la sua stretta aveva lasciato sul delicato polso. — Povera manina! E alzandola alle sue labbra, la baciò. Myosotis piangeva e non rispose. Neversol si chinò verso di lei: — Siete stanca, — disse. — Non vorrete già stare ad aspettare l'arrivo del.... personaggio? Non è vero? Ebbene, andate a dire a Milady che vi volete cambiare la veste; e poi salite nella vostra camera. — Sì! sì! — esclamò Myosotis guardandolo con occhi lagrimosi. — Vieni, Leslie.... E le due fanciulle si alzarono. Ma ecco che dal fondo della sala Totò tornava verso di loro. Era pallido e barcollava un poco. Teneva in mano una scatoletta d'oro piena di una fine polvere bianca. Ne aveva preso tra le dita un pizzico e lo fiutava. Si fermò davanti a loro porgendo la scatola d'oro aperta. — Fiutate un pizzico di questa polvere, — disse ridendo e guardando l'una e l'altra delle due sorelle con gli occhi velati e socchiusi. — Che cos'è? — chiese Leslie con aria un poco spaurita. — È ambrosia! — disse Totò, — è la nivea polve della coca che dischiude le porte del paradiso. — No! no! non la toccate, — disse Neversol respingendo il braccio di Totò. — E voi, — rivolto a Myosotis, — andate a dire a Lady Randolph che salite in camera vostra. Suvvia! Myosotis, mansueta e tremante, traversò la grande sala, scansando terrorizzata il gatto che faceva ancora balzi e capriole, e si avvicinò a Milady. L'istinto della sincerità non le permise di mentire. — Signora, — disse timidamente — mia sorella ed io siamo stanche dal viaggio. Se permettete, ci vorremmo ritirare.... — Ma che, ma che! — interruppe Lady Randolph colla sua voce metallica. — Non se ne parla. Sapete pure che aspettiamo delle visite illustri. Andate piuttosto a vestirvi come si conviene. Myosotis chinò il capo. — Andrò.... — disse, con un sospiro. Milady la fissò in viso aggrottando severamente le ciglia; indi, senza più badarle, si volse a parlare coll'uomo rosso. Myosotis rimase lì, ritta, incerta un momento.... poi si volse, umiliata, e si allontanò. — Vieni, Leslie, — disse, passando accanto alla sorellina; e quella subito si alzò per seguirla. Ma Totò s'interpose. — Ah, no! disse posando una mano ferma sul braccio della ragazzina. — Questa sta qui. Myosotis guardò incerta da Leslie a Totò, da Totò a Neversol; il quale disse: — Salite, salite, — e nella sua voce vi era una acuta nota d'impazienza. — La piccina vi raggiungerà tra qualche istante. — Già, — fece Totò. Quel monosillabo suonò ambiguo all'orecchio di Myosotis. Guardò perplessa la sorellina, e questa con lo sguardo le fece comprendere che l'avrebbe subito seguita. Lenta, trasognata, Myosotis lasciò la sala. XXVIII. Traversò la stanza da pranzo, fiocamente illuminata, e si trovò nella vasta sala d'entrata, illuminata anch'essa da varie luci velate di rosso. Tutto era silenzioso; un lungo corridoio sbadigliava nero davanti a lei, conducendo forse alle camere di servizio, ma nessuna voce, nessun passo si udiva; nulla se non il lento e ritmico battito della grande pendola nell'angolo accanto all'ingresso. Mentre Myosotis, incerta, si guardava intorno, la grande pendola suonò con rintocchi profondi di cattedrale, le undici. Con un senso di smarrimento indicibile Myosotis si avviò verso la scalinata, passando tra i putti di marmo biancheggianti nella penombra, reggenti le loro lampade ormai spente. Giunta al primo piano passò davanti al salone dove gli ospiti di Lady Randolph si erano radunati prima del pranzo; era buia e vuota; e bui e vuoti erano i corridoi che a destra e a sinistra si allungavano come braccia nere tese verso l'oscurità. Col fiato breve, col cuore in tumulto, Myosotis salì al piano superiore e spinse la porta della sua camera da letto. Questa era vivamente rischiarata; tutte le lampade color d'ambra erano accese e un gran fuoco ardeva nel caminetto, illuminando vivamente i turgidi cuscini di raso gettati sulla pelle d'orso davanti al focolare. E Myosotis, ferma sulla soglia davanti a tutto quel chiarore, davanti a tutto quello sfarzo aspettante.... ebbe un nuovo sussulto d'infinita paura. Ebbe più paura che nei corridoi tetri, che nelle stanze buie e misteriose.... Paura!... Paura — di che cosa? D'un tratto, portentosa e trasecolante, come un velo strappato da mano violenta, ella ebbe la rivelazione fulminea della propria ignoranza. Come un cieco-nato a cui una folgore istantanea dia la percezione della sua cecità, così un lampo di chiaroveggenza squarciò improvviso la tenebra in cui lo spirito della fanciulla era sommerso. Fino a quest'istante ella aveva ignorato che ignorasse qualcosa: innocente di essere innocente, ignara della sua inconsapevolezza. Ma ecco che d'un tratto ella percepì di essere chiusa nel suo candore come in una prigione, avvolta dalla sua ingenuità come da una fitta nube, in cui disperatamente il suo spirito si dibatteva. L'istinto — folgore illuminatrice — aveva squarciato la sua notte, per rivelarle.... che cosa? L'oscurità! Colle mani strette alle tempia cercava di ragionare. Aveva paura. Ma di che cosa?... L'oscura prescienza di un orrore ignoto le pareva più terribile di ogni altro terrore. Aveva paura. Paura di questa gente. Ma perchè? Non erano forse persone come tutte le altre? Persone ricche, persone vestite bene, persone affabili e sorridenti? Non erano già dei ladri che s'incontrano di notte per la strada, non già dei criminali feroci, o dei malati il cui contatto è letale.... Di che cosa, di che cosa dunque aveva essa questa paura insensata, frenetica? Con tonante voce, l'Istinto, l'oscura guida, le rispose: — _Fuggi!_ Fuggire! Sì, sì! fuggire! Prendere Leslie, chiuderla nelle sue braccia, trascinarla via!... Via? Dove? di notte, in questa immensa terribile città sconosciuta? Non importa! Via! via! nel buio, nella notte, nell'ignoto, ma via di qui. Dabbasso qualcuno si era rimesso al pianoforte e suonava una gioconda barcarola di Schumann. Quella musica calmò per un attimo l'agitazione di Myosotis. — Mio Dio! — pensò essa, — non è possibile che questa gente ci voglia trattenere contro la nostra volontà!... voglia obbligarci a restare per forza.... Pur mentre lo pensava cominciava a dubitarne.... e il terrore la riprese più forte. — _Fuggite! fuggite_, — urlava il cieco Istinto, — _ponetevi in salvo! Gettatevi entrambe dall'alto di quel ponte sopra le nere acque del Tamigi...._ Questo è ancora salvarvi! Ma come fuggire? Myosotis sentì che bisognava chiamar gente, invocare un aiuto dal di fuori. Traversò precipitosa la stanza e andò a una delle grandi finestre davanti a cui pendevano, risplendenti e arabescate, le tende di broccato. Le scostò. E subito Myosotis si sentì riconfortata. Pensò: Adesso passerà gente; io chiamerò e quelli si fermeranno. — «Cosa c'è?» — Venite, venite!... Salvateci! — «Salvarvi? Da chi? Da che cosa?» E come avrebb'ella risposto? Non importa. Bisognava aprire e chiamar gente. Ma ecco che, scostata la tenda, si avvide che la finestra era saldamente chiusa da un'imposta, un'imposta quale Myosotis non ne aveva mai vedute; tutta d'un pezzo e interamente ricoperta da una spesso strato di feltro. Ella non vedeva nè come era chiusa, nè dove ne era il serrame. Cercò di scuotere l'imposta.... vi battè col pugno con quanta forza aveva, ma la sua mano cadeva senza alcun suono sulla spessa superficie felpata. Myosotis si sentì mancare. Ma dunque.... erano veramente prigioniere, lei e Leslie! Ma dunque in questa camera, anche se avessero gridato e strepitato, nessuno dal di fuori le avrebbe udite? Nessuno sarebbe venuto in loro soccorso? Fremendo, gemendo, mordendosi i pugni Myosotis corse all'altra finestra: era chiusa nello stesso modo. Allora si slanciò nella camera attigua — la camera color di rosa, la camera di Leslie.... E anche qui, dietro le tende di raso bianco a fiorami rosa, vi era la grande imposta ricoperta di feltro ed ermeticamente chiusa. Allora Myosotis alzò le mani al cielo.... e si sentì morire. Udì un passo, lieve, smorzato dal tappeto. Si volse e vide sulla soglia la cameriera, la vecchia cameriera dagli occhi di cane e di volpe.... Calma, corretta, composta, col suo grembiule bianco ricamato e la cuffietta candida sui capelli inargentati, chiese con voce ossequiosa: — Posso aiutarla a vestire, signorina? Myosotis non rispose. La guardò; le fissò in viso i suoi occhi terrorizzati; e la donna rispose a quello sguardo collo sguardo tranquillo di serva ben disciplinata. Myosotis si guardò intorno, indi si avvicinò alla donna, si chinò verso di lei col volto terreo, colle labbra bianche, e sussurrò: — Ho paura! La donna non si mosse e non rispose. — Ho paura! — ripetè Myosotis senza respiro. Allora anche la donna si guardò intorno cauta, e, visto ch'erano sole, tentennò il capo. — Poverina! — disse. — Lo capisco. XXIX. _Lo capiva!..._ Quella donna lo capiva!... A Myosotis parve di non avere che in quell'istante conosciuto il terrore. In fondo al suo cuore aveva sperato che quella non la comprendesse; si aspettava che dicesse: «Paura? Ma di che cosa?». Ma la donna.... _aveva capito_. Allora con un grido sommesso Myosotis le afferrò le mani, le vesti, aggrappandosi a lei convulsa. Ma subito la serva si divincolò dalla sua stretta, e indietreggiando verso l'uscio, coll'indice sulle labbra, fece cenno a Myosotis di tacere; indi sparì, rapida come un'ombra, dietro le tende che drappeggiavano la porta d'uscita sul corridoio. Perchè, perchè era fuggita così? Myosotis si volse e sulla soglia della camera rossa vide Neversol che la guardava. Lungamente egli contemplò quella figuretta atterrita, come un serpente fissa l'occhio ipnotizzante sull'uccelletto che sarà sua preda. Indi con un sorriso si avanzò, tendendole ambo le mani. Ma in quell'istante un grido, un grido stridente, acutissimo risuonò per la casa. Era la voce di Leslie. Il cuore di Myosotis si fermò. Con un balzo fu fuori della stanza e nel corridoio e giù per la scala. Ma più di lei fu rapido Neversol; la raggiunse sul pianerottolo e con una ferrea stretta sul braccio la fermò. — Lasciate stare.... — diss'egli, ansando un poco, — lasciate stare!... Ormai.... è inutile! Myosotis lo fissò sbalordita, con gli occhi sbarrati, colla bocca aperta.... non poteva parlare.... — Andiamo! tornate su, — disse lui, spingendola davanti a sè e forzandola a risalire qualche gradino. Myosotis parve ubbidire, indi con uno strappo subitaneo che sembrava doverle rompere il braccio, si svincolò da lui e balzò giù per la scalinata. Come una freccia traversò l'anticamera, la sala da pranzo, e spalancò l'uscio del salone. Vide subito Leslie, seduta sul divano accanto a Lady Randolph. Era appoggiata indietro tra i cuscini e aveva gli occhi socchiusi. La piccola bocca rosea era semiaperta, e il suo viso non esprimeva nè terrore nè angoscia. Myosotis vide che intorno alle narici e sulle labbra aveva qualche traccia di polvere bianca. Perchè aveva gridato? E che cosa le avevano fatto per calmarla così? Myosotis rimase un istante immobile accanto all'uscio; poi s'avviò trepida verso la sorella fissando in quel viso di bambina assonnata i suoi sguardi esterrefatti. Dormiva, Leslie? Dormiva?... No. Tra le palpebre semiabbassate, le pallide iridi celesti guardavano Myosotis; la guardavano, senza luce, senza espressione. Misericordioso Iddio! che cosa avevano fatto a Leslie? Myosotis la chiamò per nome; ma quelle iridi pallide, quelle pupille velate non ebbero un tremito. Fu Lady Randolph che rispose. Sollevandosi dai cuscini disse con voce aspra a Myosotis: — Lasciatela stare. È stanca. — E col suo braccio nudo e profumato cinse il collo della fanciulletta. A Myosotis parve di vedere la sorellina chiusa nelle spire di una mostruosa serpe bianca. Si guardò intorno, frenetica; sentiva d'impazzire. Incontrò lo sguardo dell'uomo grigio, seduto sul divano dall'altro lato di Leslie; vide Totò al pianoforte colla testa rovesciata all'indietro che suonava come un sonnambulo, con un vago sorriso sulle labbra; e, chino sopra di lui, l'uomo dai capelli rossi che canticchiava. E laggiù, fermo sulla porta, stava Neversol. Allora nacque in lei l'astuzia, l'astuzia femminile. Fissando lo sguardo su Neversol, tornò rapida e tremante a lui e gli toccò la mano con una lieve carezza della sua piccola mano diaccia. — Chiamate Lady Randolph! — sussurrò. — Allontanatela da mia sorella.... ch'io possa parlarle.... Neversol le affondò negli occhi le sue cupe pupille. — E poi?... Sarete buona?... Myosotis rispose a quello sguardo col vergine sguardo celeste. — E poi.... sarò buona, — disse. Neversol traversò a lunghi passi la sala e senza indugio prese pel braccio Lady Randolph. — Venite via. Ho da parlarvi, — disse. Milady lo guardò, stupita, quasi non comprendendo, ed egli ripetè in tono perentorio la sua richiesta. Lady Randolph, sciogliendosi da Leslie — che rimase immobile nel suo atteggiamento di torpore tra i cuscini — si alzò e seguì il giovane nella sala da pranzo. Allora Myosotis corse ad afferrare le mani inerti della sorella; e le sentì molli e sudate. — Leslie!... Leslie! A sua meraviglia, subito la fanciulletta si raddrizzò come desta da un sogno. — Cos'hai? cos'hai?... dormivi? — ansò Myosotis. — Rispondimi! Parla! Leslie si rizzò, tutta lunga e flessuosa, con una strana mossa di leggerezza ed elasticità; e si guardò intorno con gli occhi brillanti. Poi d'un tratto fissò in volto la sorella: — Andiamo via — disse. Lo disse con voce così piana e strana che Myosotis credette di aver mal compreso. — Andiamo via, — ripetè Leslie sempre con quell'aria fra l'allucinato e il sonnambulesco. In quel momento Totò e l'uomo rosso, dal pianoforte si volsero a guardarle. — Biondine, biondine! Cosa complottate — gridò l'uomo rosso. E rise. E subito rise anche Leslie, d'un riso strano, d'un riso di bambina e di baccante. Myosotis impietrita di stupore la guardò, ma ella non cessò di ridere anche quando i due uomini ebbero ripreso a far musica. — Ma Leslie! Leslie!.... Non hai gridato? — ansò Myosotis. — T'ho pur sentito gridare?... Perchè? — Perchè?... Leslie aggrottò le ciglia cercando di raccogliere i suoi pensieri. — Aspetta.... sì. Ho gridato, — balbettò, tremula e incoerente. — Volevo seguirti, ma lui.... — additando Totò — non ha voluto. Mi ha chiuso la bocca con una mano, e coll'altra.... mi ha fatto fiutare di quella polvere.... non so, mi ha chiuso la bocca.... soffocavo.... ho respirato.... e la polvere m'è entrata nelle narici.... Allora ho gridato.... Sempre collo sguardo vacuo e scintillante, Leslie si toccava la faccia, la fronte, la bocca. — È strano.... ho qui un senso strano.... Non sento più niente.... come fosse tutto tramortito... — Fece qualche passo avanti, dei passi lunghi e lievi: — E poi, quando cammino.... non so.... mi pare di camminare sull'ovatta.... già! mi pare di camminare su tante morbide nuvole d'ovatta.... E rise di nuovo, con quel riso stravagante che a Myosotis gelava il sangue nelle vene. — Leslie! Leslie! — singhiozzò quella; e le lagrime le sgorgarono dagli occhi. Leslie si scosse. La vista di quel pianto parve ricondurla in sè. Improvvisamente si piegò verso Myosotis. — Chiama aiuto! — disse con voce ansante, — chiama aiuto. Fa presto! — No! Ti porto via con me, — esclamò Myosotis, disperata, tentando di trarla verso l'uscio. — È inutile! è inutile.... Non mi lasciano uscire di qui! — sussurrò Leslie, febbrile e rapida. — Se a te riesce di uscire, va! Chiama aiuto! Myosotis ristette un attimo a guardarla, indi si slanciò verso la porta della sala da pranzo; ma si trattenne a tempo ricordandosi che ivi si trovavano Neversol e Lady Randolph. Rapida e silenziosa tornò indietro e corse verso l'altra stanza, la stanza quasi buia dove stava sdraiato Dafne Howard. Sulla soglia si volse ancora un attimo a riguardare Leslie. La fanciulletta pareva dormire, riversa nelle sue chiome sciolte che l'ammantavano di luce fino ai ginocchi. Aveva gli occhi chiusi. E sorrideva. XXX. In un balzo Myosotis traversò quella stanza crepuscolare che l'oppio riempiva di un vapore denso e dolciastro, e, scansando la lunga figura supina, aprì l'uscio e si trovò in un corridoio che dava nella sala d'ingresso. E là, nell'anticamera, seduta accanto al focolare, calma, corretta e composta, stava la vecchia cameriera, pronta ad aprire la porta agli illustri ospiti attesi. Myosotis non pronunciò sillaba; cogli occhi stralunati, colle braccia tese come ad invocare da lei il silenzio, le passò dinanzi e strisciò, silenziosa come un'ombra, verso la porta d'ingresso. Con frenesia cercò la serratura.... La donna non si mosse; il suo sguardo acuto seguiva le movenze di quella figuretta brancolante intorno al chiavistello, poi i suoi occhi vagavano verso l'uscio socchiuso della sala da pranzo donde giungevano, in un sommesso mormorio, le voci di Lady Randolph e di Neversol. Myosotis in preda a un terrore folle sentì che non poteva aprire la porta. Allora ritraversò l'anticamera e cadde a ginocchi davanti a quella donna. Senza pronunciare una parola — per paura che la udissero! — la implorò, la scongiurò, afferrandole le mani, premendosele al cuore, agli occhi, alle labbra.... muta invocò Iddio e i Santi a commuoverla, a toccarle l'anima.... Ed ecco che alfine, rigida, sonnambulesca, quasi mossa da una forza superiore al suo volere, quella donna si alzò. Andò alla porta. Colle mani esperte e silenziose premette, sospinse, girò.... La porta era aperta! XXXI. Fuori, fuori.... libera, nel buio, nella nebbia.... Fuori a cercare aiuto e salvezza per Leslie! Come una freccia, come un razzo, Myosotis si lanciò per le vie deserte e silenziose, tremando di essere inseguita, credendo ad ogni istante di sentirsi afferrata, fermata, trascinata indietro.... Giù per una via, su per un'altra, ansando, tremando, barcollando, coi denti che le battevano, col sangue che le rombava nelle orecchie.... via!.... via, a cercare soccorso, soccorso per Leslie. Ma una strada dopo l'altra era buia e deserta, una piazza come l'altra era nebulosa e silente in quel quartiere remoto ed eccentrico di Londra. Grigio su grigio, ombra su ombra, tutto svaniva e si dissolveva in un fosco e opaco lividore. Allora Myosotis gridò, chiamò, strillò. Il suo terrore la rendeva afona: la nebbia avviluppava e smorzava la sua voce come una coltre di flanella umida e densa. Come talvolta in sogno aveva voluto gridare senza poter emettere un suono, così ora non erano più che gemiti e rantoli, fievoli e fiochi, che le uscivano dalla gola.... E nessuno l'udiva, nessuno rispondeva. Una frenesia di terrore la assalì. Eppure questa era una città, questi muri intorno a lei, chiusi e bui, erano case, case piene di gente.... Si volse e cercò una porta — la prima che trovò, e vi battè con deboli pugni, e poi coi piedi, e ancora coi pugni.... — Aiuto! aiuto! aiuto! Un passo, lento, cadenzato e pesante; lo sprazzo abbagliante di una lampadina elettrica: era un _policeman_. Myosotis si appoggiò al muro per non cadere in deliquio. — Cosa c'è? Cosa fate? — fece lui in tono burbero, illuminando dalla testa ai piedi la figura scarmigliata. — Venite! venite.... — balbettò lei, — per amor di Dio.... — e gli si aggrappò alla manica. — Venite! — Dove? — chiese il policeman con grave imperturbabilità. — Di qui!... di qui!... — E visto la impossibilità di trascinarselo seco, lo precedette, correndo, per la strada donde era venuta. — Che cosa accade? — chiese lui, camminando lento, ma con passi così lunghi che teneva dietro a lei che correva. — Mia sorella.... mio Dio!... mia sorella.... — Morta? — chiese il policeman. — No.... no! — gridò Myosotis, ansimando e singhiozzando; — è chiusa in una casa.... non so.... non so cosa le facciano.... Non ha che quindici anni.... — Ho capito, — fece laconico il policeman. Volsero l'angolo e si trovarono in un'altra piazza con un giardino nel centro. Myosotis si fermò titubante. — Di qua!... No! no.... di qua! E volse correndo a destra. Il policeman la seguì col suo passo lento e lungo. Il suo occhio percorreva le facciate buie delle case che guardavano colle spente finestre la piazza. — Granville Square, — disse. — È qui? — No!... No!... — gridò Myosotis, — deve essere giù di là.... — E si lanciò a sinistra. — Ecco.... sì, sì! Sono passata di qui.... mi ricordo! Giunta all'angolo si guardò intorno smarrita. — Ho sbagliato, — ansò; — dovevo voltare a destra!... — Ma in che strada è? — chiese il policeman, fermandosi. — Non vi fermate, non vi fermate! — pianse Myosotis. — Non so in che strada sia.... ma la troverò.... la troverò! Giù per un altro svolto; ed ecco un'altra piazza, un altro giardino, un altro quadrato di case oscure e silenziose. — Gledhow Place, — enunciò il policeman. Ma non era qui; no! Era ancora più in là, molto più in là.... Il policeman la seguì di qua e di là, da una strada all'altra, da una piazza all'altra, tutte identiche, tutte deserte, tutte acquattate nella nebbia, oscure e silenziose. E di nuovo l'uomo si fermò. Intorno a loro si chiudeva più fosca, più densa, più tenebrosa la nebbia sulla enorme città silenziosa. — Conoscete il nome della gente che sta in quella casa? — Sì! sì! È una signora.... Lady Randolph Grey. L'uomo ripetè titolo e nome, e sogghignò, incredulo. — È bionda.... alta.... ha un automobile verde scuro.... Il policeman scosse le spalle. — Ma insomma, come ci siete andate in quella casa? Non avete l'indirizzo scritto? Sì, sì! Myosotis l'aveva.... cioè, non l'aveva.... ma se lo ricordava. Argyle Square, numero 32. — Ma quello è nel centro della City, — disse il policeman. — A dieci chilometri di qui. E si tolse di tasca una piccola guida e la sfogliò alla luce della sua lanterna. — Argyle Square.... Argyle Square.... numero 32. Eccolo. — Poi alzò gli occhi e guardò Myosotis. — È un ufficio postale. — Mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!... — gridò Myosotis. — Facciamo presto! facciamo presto!.... Bisogna trovare quella casa! trovare quella casa!... Più nera, più fosca, più profonda scese la nebbia sull'enorme città, nefanda e misteriosa. E avanti ancora, di piazza in piazza, di strada in strada.... poi in un posto di polizia.... e poi, con altri policemen, di piazza in piazza, di strada in strada.... . . . . . . . Albeggiava. Quella casa non fu ritrovata. FINE OPERE DI ANNIE VIVANTI NAJA TRIPUDIANS (Romanzo) L. 6,50 LIRICA » 6, — I DIVORATORI (Romanzo) » 6, — CIRCE » 5, — L'INVASORE (Dramma in tre atti) » 4,50 VAE VICTIS! (Romanzo) » 5,50 “ZINGARESCA” » 5, — LE BOCCHE INUTILI (Dramma in tre atti) » 4,50 GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=NAJA TRIPUDIANS=” =Corriere della Sera= (_Ettore Janni_). Ed ecco ora il romanzo che avvince e fa rabbrividire, l'opera d'arte che spicca il volo dalla realtà ed è fantasia, _Naja Tripudians_ di ANNIE VIVANTI. L'idillico e il tragico vi fanno un violento contrasto.... ma l'idillio è come una maschera lieve che cade e scopre il volto dell'orrore. La catastrofe è presentata con una potenza a cui non si resiste. Singolare nella sua sobrietà formidabile è la chiusa. Un romanzo che non si confonde con gli altri: la voce che canta più alta e più sicura sulle mediocri orchestre e sui cori sguaiati. =Il Secolo= (_Paolo De Giovanni_). .... Un fiume di delicata poesia. =Giornale d'Italia= (_Diego Angeli_). .... E in queste parole è tutta la morale e tutta la spiegazione del bello e crudele romanzo che ANNIE VIVANTI pubblica in questi giorni pei tipi del Bemporad di Firenze. Bello e crudele e sotto un certo punto di vista altamente morale nella sua immoralità.... Quest'ultimo capitolo ha la durata di poche ore,... capitolo terribile, dove la descrizione di quella società equivoca è descritta con grande sapienza e dove tutti i vizi — dall'omosessualità alla cocainomania, dall'ubriachezza dei liquori forti allo stupore dell'oppio, dalle sottili dissertazioni sul godimento e sul desiderio, alla rivelazione brutale della voluttà — sono trattati con mano maestra. .... E Annie Vivanti è un'artista e il suo romanzo è tanto più pericoloso in quanto che è più bello. =Idea Nazionale= (_Umberto Fracchia_). _Naja Tripudians_ si legge con foga. Ecco stabilita la superiorità di questo romanzo femminile su tanti romanzi maschili che sono terribilmente noiosi.... =Il Marzocco= (_Luigi Tonelli_). .... Qui abbiamo una scrittrice nel vero senso della parola, che concepisce con potenza d'intelletto, e s'esprime con una sicurezza ed efficacia mirabili. In _Naja Tripudians_ riconosciamo l'autrice sorprendente de _I divoratori_, fosca di _Circe_, violenta e smagliante di _Vae Victis_: la creatrice d'immagini sfolgoranti, la coniatrice di frasi sintetiche e potenti, la calcolatrice sapiente d'effetti irresistibili. È impossibile resistere al fascino di questa scrittrice interessante che quando pare abbandoni, ti riprende di colpo, e t'inchioda allo scrittoio, finchè hai letto l'ultima pagina.... che ti lascia scosso e turbato fin nell'intimo dell'anima. =Il Tempo= (_Nicola Moscardelli_). Qui tutto è logico, naturale, musicale: il racconto precipita verso la conclusione fatale, così, come quella notte precipitava verso l'alba. Con quale modestia di mezzi è descritta l'aria in cui vive la mondana! Come leggermente si insinuano nell'anima delle due colombe i profumi e gli stordimenti emanati da quel mondo nuovo.... accennando appena un particolare, come una piccola fiammella che s'apre e chiude improvvisa, come se una musica sonnolenta impregnasse di sè tutta l'aria, scivolando, le immagini si precisano, emergono, si realizzano. L'impressione che dà il libro è profonda e profondamente morale: è l'orrore del male, la nausea per il vizio, il ribrezzo per la impurità scandalosa delle città cosidette morali. =Nuova Antologia=. Tutto il romanzo è un potente contrasto tra l'innocenza più pura e la depravazione più abbietta. A pagine fresche come un riso di puerizia, seguono pagine torbide di una drammaticità che turba e commuove. =L'Italia che scrive= (_Fernando Palazzi_). Qui veramente Annie Vivanti s'è abbandonata a sè stessa, ha svelato sè stessa. Forse non s'è neppure accorta di fare dell'arte, perchè in fondo non ha fatto altro che confidarci l'anima sua. Io non conosco Annie Vivanti, se non da un verso del Carducci.... ma noi conosciamo adesso la vera fisionomia dell'anima sua, che è bionda, romantica, timida, ingenua, sentimentale, fanciulla. Si è discusso se _Naja Tripudians_ sia o no il capolavoro di Annie Vivanti. Io capisco benissimo come altri possa preferire i _Divoratori_ o _Vae Victis_, romanzi assai più forti. Io preferisco _Naja Tripudians_, specialmente per la dolcezza. =Tutto= (_Cesare Sobrero_). Ecco un nuovo libro casto ed orribile ad un tempo.... Casto poichè la scrittrice riproduce le impudicizie col ferro rovente di una nausea profonda, di una desolazione accorata. Orribile, poichè la degenerazione psichica, e non psichica soltanto, vi è riprodotta colla precisione di altrettanti casi clinici.... Ricercando i gradi di parentela che possono esistere fra _Naja Tripudians_ e le opere di altri artisti, viene fatto di pensare che Annie Vivanti abbia invocato, compiendo la sua nobile fatica, due grandi ombre: Victor Hugo ed Octave Mirbeau. Victorughiana è la concezione del libro per il senso profondo dei contrasti, per la tragicità del contenuto umano. La seconda parte del volume, cioè le pagine vigorosamente realistiche ricordano invece le acri, inesorabili pitture di Mirbeau. .... Raramente in un libro, evocazione fu più dolorosa, pittura più straziante, lettura più struggente di questa orribile profanazione impunita. =I libri del giorno.= .... Qui veramente la forza del libro sta nella poesia della forma, nella efficace evocazione degli ambienti, nella leggera e quasi trasparente musicalità dei periodi. Il libro incomincia con capitoli di una delicatezza e di una grazia squisitamente femminili.... qualche cosa che fa pensare alla freschissima «Primavera» del Grieg. .... Ma a un punto la tinta rosea del romanzo viene interrotta improvvisamente da qualcosa di oscuro e misterioso.... Le pagine si fanno inquiete; a quel profumo di innocenza che aveva fin qui accompagnato il racconto si mescola uno strano e tentante odor di peccato. .... Corre per tutte le frasi come un misterioso brivido, un serpeggiare di febbre. Aprire il romanzo e leggerlo è come entrare in una serra dove tra i più semplici e delicati mughetti, alcuni strani fiori effondono un loro acuto e perverso profumo. Non si ha il tempo e forse nemmeno il coraggio di avvicinarli, tanto quel profumo ci prende, ci stordisce, ci travolge. Esciremo dalla serra, opporremo gli occhi e la fronte ai rudi baci del vento, ma il ricordo di quei terribili fiori resterà a lungo entro di noi, come di un sogno bello e perverso.... =Il Giorno= (_Carlo de Flaviis_). Pagine belle e tristissime; due piccoli mondi; scolpito, il primo, con una perfezione d'arte impeccabile, descritto il secondo, con una verità a volte piena di impudica baldanza a volte piena di titubante sgomento. =La Chiosa.= Tutta Annie Vivanti è qui: con le sue mani cariche di poesia ch'ella profonde in così bizzarro modo: qua, là, dovunque un dettaglio svegli la sua vibratilità, soffermi la sua commozione, desti la sua sensibilità. Non ci soffermeremo a evocare le bellissime tra le molte belle pagine del romanzo. Al pari di tutti i libri della Vivanti esso afferra alle prime pagine e non lascia più. L'interesse che suscita vi è graduato così che dall'incantesimo di una dolcezza piana e serena si passa a poco a poco per tutti gli stadi dell'ansia e della trepidazione fino a raggiungere l'angoscia piena d'orrore che strugge l'anima alla fine del racconto e del libro. Si esce da questa lettura sotto il peso di un incubo. Poesia! questo è il segreto di Annie Vivanti. Il segreto della sua malìa e della sua arte; dei suoi occhi ancora pieni di stellante azzurro e dei suoi libri sempre saturi di freschezza; della sua giovinezza sempre intatta e delle sue pagine sempre avvincenti. =La Donna= (_Nicola Moscardelli_). Il libro si chiude con un senso di soffocazione. Sebbene sia composto con un'arte squisita, nulla rivela in esso l'artefizio, nel quale era così facile cadere.... Non c'è nulla da aggiungere, e nulla da togliere. =Don Marzio.= Squisitezze psicologiche, gioielli d'osservazione, un profumo di grazia inarrivabile... =Gazzetta di Messina= (_G. Gigans_). Colei che seppe costruire coll'aiuto del suo potentissimo genio un'affascinante vicenda — _I divoratori_ —; colei che seppe nel poema vibrante di verità accomunare la fede al dolore — _Vae Victis_ — .... ci regala quest'opera semplice e possente. La Vivanti quando vuole appassionare il lettore, sceglie un argomento semplicissimo, un argomento di vita vera. Questa la sua arte. La semplice verità. =La Scuola= (_Antonio de Filippis_). Il poeta è vate. Gli basta uno sguardo, ed egli intravede il futuro. — Carducci, da profeta, intravide il genio di Annie Vivanti e disse: «_canta!_». .... Annie dimostrò il suo vero temperamento di artista col romanzo. Nel romanzo appare grande, perchè originale, strana, ardita, ma sempre vera. Tutta la vita di Annie è una battaglia contro la ipocrisia.... E con _Naja Tripudians_ ella compie una lotta ancor più potente. Storia triste che risalta sulla tavolozza di un Rembrandt! =Il Pungolo= (_Giuseppe Scaglione_). La poetessa squisita di «Lirica» la narratrice intensamente drammatica dei casi pietosi e terribili di Maria Tarnowska, l'autrice di «Zingaresca» di «Vae Victis» di «Bocche Inutili» ha creato ancora un'opera di grande bellezza artistica e di appassionata, travolgente poesia. Sopratutto da questo ultimo libro bisogna veramente riconoscere ad Annie Vivanti, una grande forza di pensiero e di forma; di pensiero ricco, elevato, profondo, di stile deciso, rapido, serrato, in alcuni momenti quasi convulso. Ella non soffre infingimenti e contraffazioni del pensiero e della forma. Ribellandosi a falsare la propria natura impetuosa e serena, e la natura delle cose e degli uomini, porta nei suoi libri una veemenza ed un pathos, una sincerità di vita che incatena l'attenzione del lettore di pagina in pagina e di libro in libro, con un continuo crescendo. I suoi libri sono morali, non di una morale stentata, arcigna e cattedratica, ma libera e spontanea. Con quale signorilità e sicurezza d'intuito, con quale potenza di analisi e semplicità di espressione è narrato questo documento umano così tragico e così patetico!... =Il Pungolo= (_Rodolfo Guido de Marsico_). .... Questa la vicenda di «Naja Tripudians». Vicenda terribile che martoria lo spirito, che esaspera, che accende una ribellione, che ci fa bestemmiare la vita! E più terribile è il romanzo perchè scritto da una artista. Annie Vivanti ha adoperato i colori più delicati, le sfumature più evanescenti, perchè più fosca noi sentissimo la tragedia che quella luce distruggerà. =Don Quichotte= (_Parigi_). .... Madame Vivanti y confirme une fois de plus son grand talent. Ces derniers chapitres constituent un morceau de haute littérature horrifique. GIUDIZI DELLA STAMPA INGLESE SU “=I DIVORATORI=” =Herald.= Qui ci troviamo davanti a quella rara cosa — un'opera di genio. =Telegraph.= Questo meraviglioso libro è un'opera di bellezza creata da chi possiede il più grande dono dello scrittore — lo stile. =Daily Mail.= Questo romanzo, scritto da un poeta, ha tutta la ossessionante potenza della poesia. =The Times.= Con questo libro _Annie Vivanti_ ha compiuto un'opera stupefacente. Scegliendo un tema finora non mai trattato da un romanziere essa ci ha dato un libro del più strano ed avvincente fascino. =Truth.= È un'opera di genio questa di _Annie Vivanti_. In essa vi è una forza ed un pathos, una veracità di vita e di natura, che ci tengono incatenati dalla prima all'ultima pagina. =Fortnightly Review= (_Georges Brandès_). La vera forza di questo libro sta nello stile, ora morbido e delicatamente allusivo, ora fluente e fantastico. Annie Vivanti è maestra nell'arte di evocare un ambiente, dandone la speciale atmosfera ed illuminazione. Nel humour è scintillante come una Rosalinda Shakespeariana. Quest'opera per quanto scritta in prosa, deve essere giudicata come poesia. Difatti essa ci fa l'impressione, non di un lungo, ma di un grande poema.... GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=VAE VICTIS!=” =Il Popolo d'Italia.= È sopratutto, un magnifico romanzo; è un'opera di arte d'alto valore e della più schietta ispirazione; è uno studio di psicologia pieno di profondo e delicato acume; questo in primo luogo; poi è anche, fortunatamente, un fiero grido di battaglia e un'opera buona, generosa e santa. . . . . . . . Ha la felicità e sicurezza d'intuito e la potenza d'analisi che Annie Vivanti rivelò primamente in quei Divoratori ch'ebbero così alta e vasta fama nella letteratura internazionale. Ha lo stesso procedere rapido, passionale, travolgente. =Giornale del Mattino.= Poema dolorante e poema di fede insieme, attraverso ad una virtù di narrazione vibrante come un sonito di guerra. La nostra letteratura, oggi, si è arricchita d'un nuovo potente documento umano. GIUDIZI DELLA STAMPA INGLESE =“Observer”.= Questo è il più tragico e memorabile dei romanzi. =Sir Conan Doyle= (_il creatore di Sherlock Holmes_). Un libro veramente terribile e veramente potente. Non ho mai letto nulla che mi abbia fatto realizzare con tale forza ciò che la guerra significhi per il paese invaso. =North Mail.= _Annie Vivanti Chartres_, mediante la grande e perfetta sua arte, ci presenta l'agonia del Belgio in una narrazione da allegarsi ad altri raccapriccianti documenti di guerra. È un libro di cui la lettura s'impone, come dovere e come necessità. È un libro che porterà lontano negli spazii dell'avvenire, l'eco del più nefando crimine che il mondo abbia conosciuto. =Land and Water.= «_Vae Victis_» è un libro da esporsi in ogni luogo dove un pacifista osa alzare la sua voce. =Morning Post.= Se questa potente e magnifica opera potesse essere largamente disseminata sarebbe un possente mezzo per rinforzare la nazione nel suo intento di proseguire la guerra fino a che la lotta contro la «Peste Grigia» non si chiuda col trionfo dell'umanità. =Sidney Walton= nel _Courier_. Quando la superba forza della Prussia morderà la polve come Niniveh e Tyro, quando sulle tombe dei suoi maledetti imperatori giocheranno i fanciulli di un'altra generazione, questo libro di _Annie Vivanti Chartres_ rimarrà quale sacro memoriale dell'innocente Belgio e parlerà ancora con terribili accenti all'umanità. GIUDIZI DELLA STAMPA SU “=CIRCE=” =Corriere della Sera.= _Annie Vivanti_ ha composto un'opera di spasimante umanità e di bellezza.... Col suo nobile ingegno e col suo istinto poetico, ha dato delle memorie di Maria Tarnowska una interpretazione che ha una sua poesia intrinseca.... un romanzo che appassiona di capitolo in capitolo, intensamente, che è tutto profumato, nel suo tetro groviglio, di passaggi candidi e luminosi.... =Pall Mall Gazette.= Documento umano di meraviglioso e soggiogante interesse. Una combinazione di poesia e di verità sul modello dato da Goethe.... Narrazione di maestria vivida e potente. =Mail.= Raramente accade di trovarsi dinanzi ad un documento umano di così tragico e patetico interesse. =Times.= _Annie Vivanti Chartres_ ci ha dato un documento umano di straordinario fascino, uno studio dell'aberrazione del temperamento femminile e della psicologia del crimine che ci lascia turbati e atterriti. =Le Journal= (_Ernest La Jeunesse_). .... Le hasard d'une conversation a jeté Annie Vivanti, romancier frémissant, poète profond, sur le nom de la prisonnière, sur l'acte, sur le secret de cette histoire. Un ami lui apporte un manuscrit de la condamnée, un cahier de classe haché d'une écriture régulière, élégante, indifferente, un carnet de bal — de quelle sarabande! — sur papier rugueux. Elle se passionne et son génie divinatoire, fraternel dans la peine, évocateur, transfigure ces pages mornes et qui n'ont que la scéau du malheur. Elle obtient de voir — avec quelles difficultés! — la reclusionnaire dans sa maison de force. Quelle révélation! Elle discerne, dévoile, retrouve une petite fille, une éternelle enfant vagabonde dans ses pensées et dans ses voyages, étonnée de se marier de n'être pas aimée de sa beauté étonnée de devenir femme, de devenir mère, étonnée de sa beauté qu'elle ne découvre, qu'on ne découvre que tard. Et tout se précipite dans ses étonnements. C'est avec stupeur qu'elle apprend de lui le désir et le dégoût, qu'elle se donne, au plus beau lancier du monde, quelle le voit mourir dans ses bras, longuement, tué par l'époux soudainement jaloux — pourquoi? C'est une surprise pour elle de trouver au chevet d'une amie d'enfance qui l'a appelée pour mourir celui qu'elle doit faire mourir, le mari de l'agonisante Emilie Kamarowska.... Mais je ne veux pas déflorer l'oeuvre inoubliable d'_Annie Vivanti_. C'est un lucide et incessant tourbillon d'action, de rêve, d'incoscient, de fatalité. C'est harmonieux et terrible, c'est la vérité et c'est l'art. Les paradis artificiels chantés par Thomas de Quincey et Charles Baudelaire flottent autour de plus lourdes ivresses et apportent leur relief inconsistant à des paysages d'âme dignes de Dostoïewski. Le mélodrame se purifie en élégie, sans perdre rien de son intensité, de sa fureur, de sa furie. La plus rare, la plus universelle émotion fait palpiter ces pages de fièvre, cette reconstitution idéale et forcenée.... Et sur cette beauté éparse et condensée, au dessus du sang apaisé et la fange bue par le soleil, les grandes ailes de la pitié apportent tout le ciel et tout le rêve.... Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of Naja tripudians, by Annie Vivanti *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NAJA TRIPUDIANS *** ***** This file should be named 46874-0.txt or 46874-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/6/8/7/46874/ Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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