The Project Gutenberg EBook of La plebe, parte I, by Vittorio Bersezio

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Title: La plebe, parte I

Author: Vittorio Bersezio

Release Date: August 29, 2014 [EBook #46723]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PLEBE, PARTE I ***




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LA
PLEBE

ROMANZO SOCIALE

DI

VITTORIO BERSEZIO


PARTE PRIMA


PROPRIETÀ LETTERARIA

TORINO
PRESSO C. FAVALE E COMP. EDITORI
PIAZZA SOLFERINO, CASA PROPRIA
1869.

[1]

PREFAZIONE.

Era mio pensiero dapprima scrivere una lunga prefazione, nella quale, con rinforzi di citazioni e di dottrina raccattata qua e colà, manifestare al lettore qual significato io creda si debba oggidì attribuire al vocabolo Plebe, e quale l'obbligo, cui verso questa parte diseredata del genere umano ha la società moderna; dimostrare il qual obbligo è lo scopo ultimo di questo mio nuovo romanzo.

Ma una posteriore ispirazione, che credo più felice, me ne sconsigliò affatto. Appunto per annoiar meno i miei buoni lettori io adotto la forma del racconto, vestendo della vita del dramma i concetti che voglio esporre, e sarebbe stato un andar contro del tutto alle mie buone intenzioni, quella noia cui voglio risparmiare ai miei lettori, dargliela dal bel principio tutta concentrata nelle pagine pesanti di una prefazione.

Lascio quindi ogni altro indugio ed entro di botto nel mezzo dell'argomento, dicendovi soltanto l'idea di questo lavoro essermi stata primamente ispirata dalle parole del nostro gran filosofo Vincenzo Gioberti, il quale in quell'aureo libro che è il Rinnovamento scriveva essere fra i debiti e i bisogni più urgenti dell'epoca nostra quello di elevare la plebe a grado e dignità di popolo.

L'idea di questo mio scritto è certamente troppo superba ragguagliata alle mie poche forze; ma se queste riusciranno impari all'argomento, voi, diletti leggitori, mi userete indulgenza pensando alla rettitudine della intenzione.

PARTE PRIMA.

I Derelitti.

CAPITOLO I.

Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino. Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini; chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle; chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della miseria ed al cattivo tempo della stagione.

Se t'avviene di passare per quei luoghi, tu senti quasi una mano di gelo posarsi adagio e pesar poi sul tuo cuore. Una nuova melanconia t'occupa l'anima e i sensi; il respiro medesimo da quell'afa nebbiosa, da quell'umido freddiccio, da quell'angustia di spazio, ti pare impedito; una strana malavoglia, incerta, vaga, ma potente, piglia possesso di te; e tu, guardando i cenciosi che sfilano taciti e lenti a randa al muro, come ombre nel Tartaro degli antichi; ricevendo nei tuoi occhi il lucicchiar febbrile di quelli delle povere traviate che in quegl'immondi casamenti hanno loro stanza [2] e s'aggirano, vere anime in pena, facendo risaltar la miseria inorpellata de' lor panni di color gaio nello scuro del nebbiume; vedendo tra le imposte d'un uscio di bottega socchiuso tremolare un raggio giallognolo della lucerna ad olio, al cui lume misere creature faticano a compiere il lavoro della giornata che ha da comprare lo scarso pane alla famiglia, tu, anche tuo malgrado, se non hai cuore d'avaro o di borsiere, ti sentirai le lagrime entro gli occhi.

Freddo, fame, strappi, sozzure materiali e morali ti stanno dattorno; un vecchio che tende la mano, un bimbo che piange, una donna che si vende, e su tutto la tenebra della notte che col gocciolar della sua nebbia par proprio che pianga.

E tu pensi alle necessità fatali di questa civiltà che mostra di aver testa soltanto e non cuore, o se cuore, non a sufficienza la mente da provvedere a questi danni; e il mistero del problema sociale t'afferra, e ad un tratto ti travolge dall'intelletto all'anima un mondo tumultuoso di pensieri e d'affetti avversi e pugnaci, mettendo in lotta gl'istinti e la ragione, il senno e la pietà, il possibile e il desiderio.

E così appunto, quella sera, per una di codeste strade, se ne stava dell'animo, camminando, un uomo, il cappello a larga falda tirato sugli occhi, il viso mezzo nascosto nelle pieghe d'un mantello anzi logoro che no, il quale non lasciava scorgere che il pallore delle guancie e la fiamma d'uno sguardo acceso, di persona nè alto nè basso, l'andare nè spedito nè impedito, curvo il petto, e il passo di chi va senza scopo che lo chiami o cosa che gli prema.

Invano già alle cantonate più d'un'Aspasia da dozzina gli aveva ammiccato col sorriso contratto; invano un cencioso, trascinandosi colle gruccie gli era venuto dietro neniando a domandare il quattrino per l'amor di Dio, al ripago de' suoi pater ed ave; invano una vecchia sbilenca, aggrinzita, sdentata e sciatta e sporca gli aveva susurrato infami parole all'orecchio; invano era passato innanzi ad una bettolaccia sconcia, convegno d'ogni peggio bordaglia, immondezzaio morale, da, cui veniva in istrada un tramestio di cose e di gente, un acciottolio di rozze stoviglie, un baccano di turpi canzoni sbraitate e di più turpi parole, e proverbiarsi, e minaccie, e bestemmiari da gole roche a voci squarrate; a nulla ei pareva badare, nulla sturbarlo dai suoi pensieri.

Sul passo d'una porticina scura, sopra la motriglia sozza ed attaccaticcia che a piastre copriva la pietra dello scalino, a metà seduto, a metà sdraiato, il capo contro uno degli stipiti umidicci, le mani nascoste nelle tasche de' calzoni a brandelli, tremante e battendo i denti pel freddo, pel bisogno, per la debolezza, piagnucolava un bambino.

Quell'uomo gli passò innanzi, come aveva oltrepassato tutti quegli altri oggetti, persone e cose, in cui si era abbattuto; ma quando fu in là due passi, quel piagnucolio giunse a ferirgliene le orecchie; ristette, si volse, vide un fanciullo, gli fu accosto sollecito.

Il poverino sentì che gli stava appresso qualcuno: cessò dall'infrignare; alzò gli occhi e la testa, trasse di tasca una manuccia livida come le sue guancie, colla quale teneva duo mazzi di fiammiferi, e colla vocina esile e rotta dal batter dei denti, disse in tono di preghiera e di pianto:

Brichett! buoni brichett! due mazzi al soldo.... Oh! ne pigli, signore.

L'uomo non rispose al fanciullo, ma gli stette sopra a guardarlo con occhio fiso, intenerito, compassionoso, amorevole.

Era un marmocchio da sette ad otto anni, sudicio, cencioso, brutto come la miseria.

— Povero bimbo! Disse quell'uomo a mezza voce parlando a sè stesso. Povero bimbo!

E questi, stato un poco, rizzatosi della persona a sedere, ripetè insistendo:

— Buoni brichett. La ne compri per carità!

Quell'uomo gli pose sulla testa carezzevolmente una mano, poi gli chiese:

— Perchè piangi?

— Ho fame: rispose il bambino.

— Chi t'ha insegnato a dar questa risposta? Tu non parli con tale che non conosca i misteri della miseria. Tuo padre e tua madre ti hanno comandato di piangere e di rispondere così.

Il bambino guardò il suo interrogatore cogli occhi larghi, larghi, e ripetè:

— Ho fame. Da questa mattina non ho più mangiato niente. E non avevo mangiato che una crosta di pane.

— Hai tu padre?

— Signor no.

— Madre?

— Signor no.

— Sono morti?

— Non li ho mai conosciuti.

Quell'uomo parve intenerirsi.

— Un derelitto: mormorò egli parlando di nuovo a se stesso; al pari di me!... E in questa medesima strada!...

Guardò quel fanciullo con occhio più benevolo e compassionoso di prima.

— Tu non hai nessuno al mondo?

— Ho la nonna che mi aspetta a casa.

— Ah!

L'uomo ritrasse la mano dal capo del bimbo.

— Perchè ti lascia ella andare attorno a questa ora e per questo tempo?

— Me ne manda per guadagnar qualche soldo.

— È tardi, fa freddo, tornatene a casa.

— Non oso.

— Perchè?

[3] — Se non le porto almeno dieci soldi la nonna mi batte...

— E te ne mancano?

— Sei.

— Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.

Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza: s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e ruppe in pianto.

Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:

— Che cosa hai?

Il bambino rispose della solita guisa:

— Ho freddo, ho fame.

— A casa la nonna non ti darà da cena?

Il fanciullo scosse la testa.

— Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.

E seguitava a piangere, e batteva i denti.

Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.

Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per mano il bimbo e gli disse:

— Vieni: te ne darò io da cena.

E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore e di gente.

CAPITOLO II.

La bettola si trovava in una bassa casipola che ora fu distrutta affine di allargare la strada. Per entrarvi bisognava scendere due scalini.

Lo sconosciuto apri l'uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d'assi inchiodati, tutto ronchioso pel fango recatovi ed appiccatovi qua e colà dai piedi degli avventori, con un'atmosfera grassa, densa, impregnata di acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale.

Dal trave del soffitto annerito, insieme con infiniti arazzi di ragnateli, per una cordicella ripiegata da tirarsi su e giù passando in mezzo ad una colomba di piombo, pendeva una lampada a tre becchi, di cui due soli avevano acceso il lucignolo, con certi tubi di vetro affumicati, e con una vernice rossa che era mezzo staccata dalla latta.

Lunghesso le pareti eran poste, ad uguale distanza l'una dall'altra, delle tavole oblunghe, e ai lati di esse delle panche di legno lunghe quanto le tavole medesime; nelle pareti, al di sopra di ciascuno di codesti deschi, era scritto in nero con cifre alte un palmo un numero diverso e progressivo.

In fondo allo stanzone, da una parte c'era un banco a mezzo ripieno di fiaschi e fiaschetti, e dietrovi seduto l'oste, con davanti un libro di conti dalla copertina sucida e strappata e un calamaio di piombo con un mozzicone di penna piantato nella bambagia immollata d'inchiostro: dall'altra parte si apriva una botola, con una cateratta che stava sempre sollevata ed appoggiata contro il muro, per la qual botola si scendeva nella cantina sotterranea, dove si custodivano i vini e si cucinavan le pietanze consumate in quell'orribile stamberga.

Nella parete, alla destra di chi entrava, presso al banco a cui sedeva l'oste, aprivasi una porta che metteva in un'altra stanza; ma questa era una stanza riservata, in cui non s'avventurava la comune dei bevitori, ed entravano soltanto alcune brigatelle di soliti accorrenti che, per la conoscenza avutane dal bettoliere, e per la vistosità dei guadagni che gliene recavano eran meritevoli di siffatto privilegio. I misteri di quella camera erano difesi dallo sguardo dei profani per certe cortine di stoffa di cotone di color rosso tirate accuratamente ai vetri dell'uscio. Al momento in cui lo sconosciuto col fanciullo per mano entrava nella bettola, quest'uscio misterioso si era aperto, per dar passo alla fante dell'oste, giovane grassotta e belloccia, con aria sfacciata, la quale portava colà dentro un vassoio e sopravi parecchi bicchieri e due boccali colmi di vin rosso. Chi si fosse trovato in quella di prospetto all'uscio avrebbe potuto vedere nella stanza di cui si tratta un allegro fuoco fiammare in uno di quei caminetti che pigliano il nome da Franklin, e intorno ad esso seduti cinque o sei uomini di varia età e di vario aspetto, che dalle vesti però apparivano appartener tutti alla classe degli operai, tutti, tolto uno, con figure risentite, e come si suol dire con di quei certi ceffi che non fa piacere incontrare nel nostro cammino, la sera.

Quasi tutte le tavole dello stanzone erano occupate dalla folla dei bevitori. Di questi tutti portavano la livrea della miseria, molti quella della abbiezione. Alcuni giuocavano alle carte, altri alla morra; gridavasi da ogni banda in un disarmonico concerto, nel quale più disarmoniche suonavano tratto tratto le voci e le risa roche di luride donnaccie di mala vita.

Lo sconosciuto personaggio, il quale primo ci apparve in questo dramma, di cui siam dietro a svolgere le scene, entrò colà dentro colla medesima sicurezza che avrebbe avuto un uomo avvezzo a quei luoghi ed a quelle cose. Quell'afa [4] impregnata di acri odori e di ingrati vapori, percotendogli sul viso non parve destare in lui il meno del mondo quella ripugnanza, da cui non avrebbe potuto difendersi, e cui non avrebbe saputo al certo dissimulare una persona all'atto nuova a quell'atmosfera.

Egli guardò intorno per cercare un posto a cui assidersi, e, da parte loro, il maggior numero dei bevitori, nell'udire il campanello della porta che suonò all'aprirsi dell'uscio, levarono la testa e si volsero a guardare chi entrasse.

Lo sconosciuto aveva tirato giù dal viso la falda del mantello, onde si copriva per la strada, e potevano vedersene i lineamenti alla rossigna luce della lampada di latta appesa al soffitto.

È una figura originale. In tutta la sua persona, come nei tratti del viso, un misto di forza e di debolezza, di bontà e di malizia, di sentimento e di noncuranza. Al primo vederlo mal sapreste dirne al giusto l'età. Vi è qualche cosa di giovanile nello sguardo, nella fronte, nella rara lanugine di barba scura che appena gli vela le guancie: vi è alcun che di vecchio e direi quasi di logoro nella curva del petto, nel floscio delle carni giallognole, nella mestizia abituale dell'aspetto infermiccio.

S'ei tiene spianata la spaziosa e pallida fronte su cui pare abbia impresso un segno il dito di Dio, quella fronte coronata da corti capelli d'un nero lucido ed azzurrigno, i quali irti e ribelli ad ogni ravviatura, danno alla sua testa una meravigliosa apparenza di risoluzione e di forza; se egli, i suoi occhi, che hanno il colore del mare, e ti appaiono come questo profondi, fa brillare d'un lampo di letizia o d'affetto; se sulle smunte gote gli corre un istante a colorarle il sangue, e sulle sottili e scialbe labbra erra un sorriso, tu nol diresti giunto per anco ai vent'anni; ma se egli, qual è suo costume, tiene aggrottate le sopracciglia e turbata come da incessante lotta di pensieri la fronte, dimesso lo sguardo, serrate le labbra, curva la testa, tu lo crederesti presso ai quaranta, e ti appare per soprappiù roso da una di quelle interne infermità degli organi vitali che distruggono lentamente la vita.

Avreste detto che la natura lo aveva creato per essere il più forte e robusto degli uomini, e che le circostanze e la sciagura lo avevano ridotto ad essere debole e miseruzzo. Un capo grosso stava sopra un corpo non a sufficienza cresciuto nè sviluppato, il quale pareva aver difficoltà a portare un tanto peso; il petto incavato pareva concedere a stento l'agio di respirare ai polmoni; delle mani grosse, nodose e da gigante si annodavano a braccia esili, piccole, forse troppo lunghe a paragone della corporatura, poco meno che da rachitico; una macilenza malaticcia gli ammenciva, per così dire, tutte le membra e lasciava apparire più che non convenisse l'ossatura grossa e sformata.

Eppure, a malgrado, e forse anche a cagione di tutto ciò, la sua era una di quelle figure che ti sorprendono e ad ogni modo non puoi trovare indifferenti; di certo era tutt'altro che bella, ma pure chiamava l'attenzione del riguardante e non si sapeva perchè. Quella faccia stranamente impressa ti destava tutt'insieme una qualche simpatia, quasi direi un senso di rispetto, eppure una certa diffidenza; per poco tempo tu guardassi quelle sembianze, le ti si stampavano nella memoria, ed o ti attraevano o ti ripugnavano, o ti consigliavano a farti amica l'anima che vestivano od a sfuggirla; o eri disposto ad amarla, o la temevi come un pericolo.

Quest'uomo volse tutt'intorno uno sguardo sicuro, e visto che un'unica tavola era disoccupata quasi in capo allo stanzone presso la botola e di prospetto all'uscio a vetri della stanza vicina, si avviò verso quella, seguito dal ragazzo.

Era evidente che la venuta di costui non avea fatto una aggradevole impressione in quelli dei frequentatori della bettola, che al suono del campanello d'entrata avevano alzato la testa e guardato chi venisse. Certo non era che i panni dello sconosciuto fossero signorili ed eleganti; molto anzi ci correva, e si rimanevano all'essere puliti, colle traccie appariscenti d'un uso lungo e continuato senza intermittenze, ma erano alla foggia che è propria del ceto dei ricchi, e da essi agli strappi che portava la maggior parte degli uomini raccolti là dentro correva una infinita distanza.

— Oh oh! Aveva incominciato uno dei bevitori ammiccando cogli occhi: un muscadino con tanto di guanti alle mani.

— E che vien egli a fare qui, questo bel coso? Aveva detto un altro.

— Che sì ch'ei si mena dietro il nipotino della Gattona: soggiunse un terzo che conosceva il piccino da cui lo sconosciuto era accompagnato.

— Un milorde che viene a cenare colla frittata alle cipolle di mastro Pelone.

— Gli è proprio il piccin della Gattona quel marmocchio: disse un altro. Sta a vedere che sto bastarduzzo ha trovato finalmente suo padre, che è questo milionario, il quale viene a pagargli il buon arrivo con un quintino di quel brusco di quest'oste della malora.

E sghignazzavano seguitando coll'occhio beffardamente insolente lo sconosciuto che s'avanzava senza darsene per inteso, come se quello non fosse fatto suo.

Per arrivare al desco disoccupato, convenne al nostro personaggio passare accosto a due uomini che stavano cioncando e discorrendo seduti alla tavola immediatamente prossima a quella verso cui [5] camminava il nuovo venuto. Costoro erano due tipi curiosi e degni di fermar l'attenzione dell'osservatore; e siccome avremo da trovarli attori non degli ultimi nelle scene del nostro racconto, non è fuor d'opera che ci fermiamo alquanto ad esaminarli.

CAPITOLO III.

Questi due uomini appartenevano l'uno e l'altro alla classe degli operai, ed al vederli poteva dirsi che contavano fra i più miseri di essi. Erano presso a poco della medesima età, fra i quaranta e i cinquant'anni; ma uno recava nelle sembianze tutti i segni dei patimenti fisici e morali cui conduce seco la miseria, onde pareva troppo più invecchiato che l'età non volesse, mentre l'altro, quantunque nei panni fosse strappato e sordido al pari e più del suo compagno, aveva nelle guancie rubizze, nella corporatura piena e robusta un certo aspetto di floridezza e di benessere che contrastava affatto col suo vestire da accattone.

A dispetto di questa differenza, chi li mirasse aveva da sentire più fiducia verso il primo che non verso il secondo. Quello, nella sua aria di sofferenza e di scoraggiamento, e diremo anche di degradazione, aveva pure alcuna traccia di bontà, e un resto di quel non so che onde si svela all'apparenza l'anima onesta; mentre il suo compagno nella sua faccia grassa e colorata portava l'espressione dei più bassi istinti, e nello sguardo degli occhi piccoli e nascosti sotto folte sopracciglia di color fulvo, aveva qualche cosa di losco, di falso e di feroce.

In questo momento, di cui stiamo discorrendo, il primo de' due era seduto contro il muro appoggiandovi le spalle e il capo, mentre il braccio sinistro gli cascava inerte lungo la persona, e il braccio destro s'appoggiava alla tavola tenendo in mano un bicchiere quasi pieno di vino. La testa che gli si dimenava lentamente di qua e di là contro la parete, lo sguardo incerto e semispento, le labbra allividite nella faccia pallida, la parola balbuziente indicavano abbastanza com'egli si trovasse in uno stato di ebbrezza assai inoltrata. Riscaldato di molto dal vino altresì, ma più padrone di se stesso, appariva il suo compagno, il quale sedutogli dinanzi, si curvava verso di lui, parlandogli con molta vivacità, come chi vuol persuadere alcuno di cosa che gli prema.

Sul desco, in mezzo a loro, quattro fiaschi vuoti rendevano chiara ragione dello stato in cui si trovavano ambedue.

Per giungere alla tavola a cui aveva posta la mira, lo sconosciuto dei capitoli precedenti doveva passare precisamente dietro quell'uomo dalla figura malvagia fra lo scanno su cui egli sedeva e il braciere che, pieno di carboni spenti e di cenere, faceva le mostre di scaldare lo stanzone; e siccome quel cotale, stando curvo verso il suo compagno a discorrergli, si teneva seduto in bilico sullo scanno pencolato, da tenere le due gambe posteriori in aria, avvenne che lo sconosciuto, passando, urtasse in una di queste gambe. L'uomo si volse bruscamente, ed al vedere in chi l'aveva scosso gli abiti d'un ceto sociale superiore al suo, aggrottò le sopracciglia, contrasse la bocca ad un sogghigno di scherno e mandò una specie di grugnito minaccioso.

— Perdonate: disse gentilmente il nuovo venuto, continuando il suo cammino e andando a sedersi alla tavola vicina.

— Eh! fate attenzione in vostra malora, cazzatello d'un muscadino delle mie ciabatte: borbottò quell'uomo coi denti stretti, guardando a stracciasacco lo sconosciuto.

Questi fece come se non avesse udito quelle parole, e quando fu seduto ed ebbe seduto del pari innanzi a sè il ragazzino raccattato per via, battè sulla tavola colla palma della mano per chiamare l'attenzione dell'oste.

— Che razza d'animale è costui? Disse ancora l'uomo dall'aspetto di scellerato, guardandolo di traverso con infinito sospetto ed avversione. Non mi piace vedere a svolazzare qui dentro di questi uccelletti dalle belle piume. Che sì che glie ne levo io il ruzzo, po' po' che mi tocchi!...

Lo sconosciuto, avvertisse o non avvertisse gli sguardi e le parole di quell'uomo, teneva gli occhi bassi e mostrava non udir nulla. Il popolano, stato ancora a guardarlo così un poco, scuoteva poscia le spalle, come per dire che non era cosa da dovergli importare, e riprendeva il discorso col suo ubbriaco compagno.

La venuta di quell'incognito in panni quasi signorili non pareva esser di gusto nemmeno dell'oste, il quale stava dietro il suo banco in fondo alla stanza.

Una curiosa figura e degna del Callotta era quest'oste, diverso affatto da tutti gli osti che voi trovate d'ordinario nella realtà entro le osterie, e nelle finzioni dei romanzi. Mentre per ordinario il bettoliere è una persona prosperosa, rubizza, grassa, dall'aspetto ilare e giovialone, questo cotale, che già abbiamo sentito chiamarsi mastro Pelone, era invece la più secca, allampanata, brutta persona che possano fare quattro ossa d'uomo ricoperte di pelle d'alluda. Lungo lungo, magro magro, scarna la faccia in cui dominava un naso mostruosamente voluminoso, pelato il cranio del colore dell'avorio ingiallito, su cui una berretta nera a fiocco, unta e bisunta; in mezzo al mostaccio una squarciatura che serviva di bocca e quando la si apriva pareva quella d'un forno, gli occhi infossati al di sotto di una arcata sopracciliare protuberantissima, lo stampo [6] dei sette peccati capitali nei bernoccoli della testa, certe mani a dita adunche da parer le graffe di un animale di rapina; braccia e gambe lunghe, dinoccolate, ridotte alla sola ossatura grossa e deforme; la voce rauca, velata che usciva faticosamente dal petto, una tosse profonda e cavernosa che di frequente gli scuoteva i precordi; tal era il taciturno e poco aggraziato e per nulla simpatico mastro Pelone. L'avreste detto, piuttosto che un ostiere, un becchino, ed anzi la morte medesima vestitasi sopra il suo scheletro di panni d'uomo.

Di dietro il suo banco, dov'egli stava meglio che seduto, accoccolato sopra una seggiola, le nodose ginocchia quasi sotto il mento, avendo ripiegate le lunghissime gambe, così da tenere le zattere che gli servivan da piedi appoggiate al piuolo che univa le due gambe anteriori della seggiola, mastro Pelone aveva veduto entrare lo sconosciuto e in mezzo a due sbruffi di tosse aveva borbottato fra quei pochi denti che gli rimanevano nelle pallide gengive:

— Uhm! Una faccia nuova.... Un nuovo agente del signor Commissario, ci scommetto.... La Polizia mi vuole un bene a me!..... Uhm! Che il fistolo li colga tutti quanti.

Ed aveva seguitato collo sguardo sospettoso e diffidente il nuovo venuto nel suo cammino sino al desco a cui aveva preso posto. Quando lo sconosciuto aveva picchiato sulla tavola, l'oste, non cessando mai di fissarlo con quel suo sguardo semispento, aveva tirato giù lentamente una gamba, e poi l'altra, aveva drizzato ancora più lentamente il petto incurvato, e poi puntando al banco una delle sue manaccie s'era levato in piedi colla medesima lentezza. Era uno strano spettacolo vedere quella magra figura sgomitolarsi, per dir così, a poco a poco ed allungarsi, allungarsi dietro il banco. Quando tutto fu diritto, mastro Pelone tentennò un pochino, come fa l'albero d'una nave che sta per mettersi in via, e poi uscì con piede riguardoso, e che non faceva rumore, di dietro il suo banco, e venne a passi misurati verso la tavola dove lo avevano chiamato.

Colà puntò sul desco le sue manaccie ossee senza carne, curvò la lunga persona da far pendere il suo naso enorme sopra la testa dello sconosciuto, e domandò colla voce rauca e soffocata:

— Che cosa comanda?

— Ci avete del buon brodo caldo? Disse lo sconosciuto.

L'oste accennò di sì col capo, e poi seguitò a dondolare la testa, come per significare: — Diamine! Si figuri, se nella mia osteria non si ha da trovar di questa roba!

— Ebbene, riprese lo sconosciuto, portateci una scodella di brodo con del pane, formaggio ed una mezzina di vino.

Mastro Pelone si tirò su del corpo, e facendo piombare il suo sguardo offuscato sul viso dello sconosciuto, disse interrogativamente:

— Una sola scodella?

— Sì.

— E il vino, quale? Quel da dodici?

— Quel da dodici.

Allora l'oste si rivolse sui suoi talloni e mandò in giro i suoi occhi infossati.

— Uhm! Borbottò egli fra sè tossendo; quella pettegola di Maddalena è ancora di là; quando si caccia nella stanza di quei sciagurati demonii, che Dio li confonda, la non sa più venirne via, figliuola di una mala femmina che la è..... Bisogna chiamare quell'imbecille di Meo.

Andò alla botola che metteva nelle stanze di sotto e curvatosi su di essa, gridò con quanta voce gli rimaneva nella magra cassa dello stomaco: — Meo! Meo! — sforzo che gli eccitò un accesso non indifferente di tosse. Nulla rispose, nè alcuno comparve. Pelone sembrò esitare un momento intorno al da farsi; ma poi gli mancò il coraggio di rinnovare quella prova infelice, andò all'uscio a vetri della camera vicina, e picchiò colla nocca delle dita in un certo modo particolare: Quando ebbe ripetuto due o tre volte questo picchio, l'uscio finalmente si aperse, e si fece vedere la fante, la quale, tenendo il battente a metà aperto, sporse in fuori la testa e domandò al padrone con tono d'arroganza e di impazienza:

— Ebbene? Che cosa c'è?

L'oste parve ringoiare una brutta parola che gli fosse venuta alle labbra.

— C'è della gente da servire.

— E Meo? Che cosa è buono da far Meo?

— È buono da niente, borbottò fra le gengive Pelone a modo suo, e tu neppure pettegoluzza da pochi quattrini che ti carezzino le graffe del demonio.

— Che cosa dite?

— Uhm! Uhm! Dico che l'ho chiamato Meo, e che non ho potuto farmene sentire.

— Oh bene; ora lo chiamo io.

E venuta alla botola gridò con voce che avrebbe bastato ad un comandante di reggimento in Piazza d'Armi: — Meo!

— Eh? Rispose di sotto una voce d'uomo assonnata.

— Vien su presto che c'è da fare.

— Vengo.

— Animo, sbrigati, marmotta. E non istar lì giù sempre a dormire, scimunitaccio, che mi tocca far tutto a me; e tu stai continuamente in panciolle.

— Uhm! tornò a borbottar l'oste: ci stanno tuttedue, che il diavolo li porti.

— Vengo, vengo; ripetè la voce di Meo; e dopo un poco si vide comparire dalla botola le [7] chiome giallastre arruffate, la fronte depressa, la faccia melensa, le spallaccie quadre, il corpo tozzo d'un giovinastro il quale, al solo vederlo, si poteva affermare che non si rubava un titolo immeritato quando si faceva dare dell'imbecille.

Vistolo a venire, Maddalena si affrettò per tornare nella camera da cui il padrone l'aveva fatta uscire allor allora. Ma le convenne passare vicino ai due bevitori di cui abbiamo parlato più su, e quello di loro dalle malvagie sembianze, smesso il discorrere col suo compagno, tese una mano ed arrestò per le gonnelle la fantesca.

— Eh! Una parola, Maddalenuccia bella.....

Ma la giovane volgendoglisi di mala grazia e facendo a liberar le sottane dalla mano di lui:

— Lasciatemi stare. Marcaccio, disse con rozzo accento.

— No, per la barba di mastro Impicca: riprese ghignando Marcaccio. Voglio vederti, voglio parlarti ancor io, o che? Non vieni mai a mostrare il tuo musino alla nostra tavola, corpo d'un salame! Che i nostri denari non valgon quelli di que' cacazibetto che son di là?... Sta qui un momento Cr..... ch'io t'inchiodo con una manata su quella panca.

— Volete lasciarmi! Gridava fra sdegnata ed atterrita la giovane. Guardate che c'è di là il medichino, ed io lo chiamo.....

Marcaccio allargò la mano e curvò il capo.

— Ah! C'è il medichino... Non chiamare nessuno stregherella del demonio, e vanne alla malora.

Così borbottò egli fra i denti stretti, e Maddalena s'affrettò a sparire per l'uscio della camera vicina. All'aprirsi di quest'uscio, gli occhi dello sconosciuto, il quale si trovava al desco postovi di faccia, poterono scorgere quegli uomini che sappiamo essere radunati in quella stanza medesima, e fra essi distinsero un giovane alto di statura, ben fatto di corpo, di bellissime sembianze, in vesti da operaio, ma portate con certa grazia signorile, come signorili erano nullameno l'aspetto ed i modi.

Lo sconosciuto parve stupirsi di vedere quel personaggio.

— To', diss'egli fra sè: qui Gian-Luigi!

Intanto il garzone dell'oste venuto su dalla botola, dietro il comando del padrone, portava sul desco dello sconosciuto il brodo, il vino, il pane e il formaggio domandati.

CAPITOLO IV.

Il ragazzo raccattato per la strada dallo sconosciuto si mise a mangiare con una voracità, la quale ben provava il suo lungo digiuno. Lo sconosciuto lo guardava con una specie di compassione e di soddisfacimento.

— La fame! diceva egli fra sè. Vi hanno tante creature al mondo che s'allevano avendo questa trista compagna al fianco, la quale o non li lascia mai nella vita, o se li abbandona un istante gli è per aspettarli al varco nel giungere della vecchiaia o nel sopravvenire d'un'infermità! Malesnada fames! Ah ti conosco, spettro scarno e terribile che spingi al disonore e al delitto! Ho sentito nelle mie viscere i tuoi morsi di iena, sciagurata figliuola della miseria!... E chi mi avesse detto allora che avrei potuto un giorno sfamare un più povero di me!... Mangia, mangia, misero fanciullo destinato a lottar tutta la vita cogli stenti nei bassi fondi dell'agglomerazione umana. La sorte ti ha gettato nel fango della più meschina e più corrotta plebe. Saprai tu, potrai tu levartene collo sforzo della tua volontà, colla virtù delle tue opere?

Appoggiò i gomiti sulla tavola, reclinò il capo fra le mani, e stringendosi con queste la fronte vasta e intelligente, stette immerso ne' suoi pensieri.

Egli era colla mente lontano le mille miglia da quel luogo, da quel momento, quando alcune delle parole pronunziate al desco vicino, appunto perchè corrispondevano alla qualità della sua meditazione, penetrarono sino al suo intelletto, e ne chiamarono l'attenzione. Lo sconosciuto levò il capo, e stette ad ascoltare con interesse ch'e' non pensò neppur di nascondere.

Quell'uomo che abbiamo udito chiamarsi Marcaccio, così parlava al suo compagno:

— Gua', Andrea, la cosa è chiara. I preti dicono che gli è un Dio che ha fatto la baracca del mondo; per me credo piuttosto che è il diavolo. Chiunque sia, fece le cose da maligno o da cieco, e piantò per regola la più solenne ingiustizia... Andrea! Corpo di mille sacramenti! Non hai tu mai pensato perchè ci hanno da essere dei ricchi a crogiolarsi nell'ozio e dei poveri che si fanno a correggiuole la pelle?

— Ah sì! Balbettava Andrea quasi compiutamente ubbriaco, dondolando il capo come se gli fosse troppo grave da reggere. Perchè ci hanno da essere dei poveri?

— E sopratutto, perchè abbiamo ad esser poveri noi? Tu, io... Io stesso, per mille e cento Satanassi... Se le ricchezze fossero lì in libertà, a tiro di mano della gente, a chi piglia piglia, oh che non ti sentiresti tu di arraffarne la tua buona porzione facendoti strada a cazzotti in mezzo alla ressa? Vorrei trovarmici allo sbaraglio, sacramento! che sì che farei stare a mostaccioni tutti costoro che hanno ora la fortuna, pani in molle che con un dito mi sento di mandarli le gambe in aria..... E se Dio o il demonio ci ha dato questa forza delle braccia a noi poveri, perchè abbiamo da non usarla e lasciarci [8] far la legge da una schiera di minchioni e di birbanti, che sono più deboli, che godono i dolci ozi mantenuti dai nostri sudori? Noi poveri siamo più forti e siamo in più. È una cosa assurda che ci lasciamo morir di fame guardando la tavola ben servita degli altri che sono più deboli e che sono in meno. Capisci?

E scuoteva per la carniera il suo compagno, il quale sempre più ubbriaco ripeteva balbettando:

— Capisco!... Sono in meno.

— Che cosa dunque ci manca a noi, eh?

— Ah si! Che ci manca?... Ci manca tutto..... Ho da pagare l'affitto a messer Nariccia, e non ho denari... Ho da comprar pane e vesti ai miei bambini che gridan dalla fame e treman dal freddo; e non ho quattrini... Ho una buona donna di moglie che sta poco bene, che un giorno o l'altro andrà a creparmi all'ospedale... e non ho un po' di monete da farla curare... E non c'è lavoro... E non so da che parte voltarmi... E sono disperato... Ecco!

La commozione lo guadagnava non ostante la sua ebbrezza: due lagrime gli colarono giù per le guancie: e il suo capo gli dondolava con mossa veramente dolorosa. Alzò alle labbra la mano che teneva il bicchiere quasi pieno e lo tracannò d'un fiato.

Marcaccio, tirando di nuovo Andrea per la casacca, riprendeva, come se non fosse stato interrotto:

— Ci manca d'essere uniti e di aver un po' di coraggio nelle budella, e di liberarci da certi scrupoli di femminetta che son quelli che ci danno piedi e mani legati in balìa dei ricchi. Mi capisci?

Andrea accennava col capo di sì, ma il suo sguardo incerto ed offuscato dinotava che troppo confusa oramai era la sua intelligenza per avere un'idea chiara ed esatta delle cose che gli venivan dette.

— To'! Se un bel giorno tutti i poveri, tutti quelli che stentan la vita nel lavoro se la intendessero insieme e gridassero: non vogliamo più esser poveri, vogliamo spartire con voi, ricchi, quei tanti denari che avete; vogliamo farla finita di questa ingiustizia che a noi nega la polenta ed a voi dà le quaglie arrosto; non credi tu che bisognerebbe il mondo passasse per quella, e non ci varrebbero nè carabinieri, nè arcieri, nè soldati, nè tribunali, nè i mille terremoti del sacramento a dettarci più la legge? Hai capito?

— Ho capito: ripeteva balbuziente Andrea.

— Ma gli è che siamo degl'imbecilli e dei codardi a lasciarci calpestare così...... Gli è ciò che dice sempre quel furbacchione che è il medichino. Quello è un capo di vaglia! Egli ha studiato, egli sa come può sapere qualunque dei ricchi che compra la scienza nei libri stampati. Queste cose che io capisco col mio buon senso, egli le ragiona per quinci e per quindi; e ti prova per due e due fan quattro, come, poichè siam posti qui in questa baraonda, ci abbiamo il diritto di stare, e siccome per vivere bisogna mangiare, abbiamo diritto di avere il pane assicurato, ed essendo che questo pane ci viene negato, corpo di mille diavoli, abbiamo il diritto di pigliarcelo da chi ne ha troppo..... È chiaro?

— È chiaro: ripetè ancora l'ubbriaco, dondolando sempre la testa a suo modo.

Marcaccio si fece ancora più presso al suo compagno, si curvò maggiormente verso di lui, e scuotendolo di nuovo ai panni affine di farsene ascoltare con più attenzione, continuò abbassando un poco la voce:

— Di questi ricconi che ne han troppi e lascian morire il povero di fame ce n'è a fusone, e ne conosciam tutti. Tu ne conosci uno che qualche volta pure si degna di farti l'ingiuria dell'elemosina.

— Elemosina? balbettò Andrea battendo col fondo del bicchiere sulla tavola. Sì, è una cosa che fa vergogna... Un uomo come me aver da domandare l'elemosina!

— Aver da domandare, umiliandoci, quello che ci viene per diritto e per natura, il pane da vivere!... È una scelleraggine... E ancora, sì che troviamo facilmente chi ci faccia elemosina!... I ricchi hanno il cuor duro come i zamponi del cavallo di marmo. Andate a lavorare, ci dicono con disdegno; è la gran ragione che hanno sempre in bocca: andate a lavorare.

— Lavorare!... Ripeteva l'altro sempre più ubbriaco. Ma dove trovarne del lavoro?... Piaceva anche a me una volta il lavorare...

— Eri un babbuino.

— Dall'alba al tramonto, sempre la lima o il martello in mano, e giù allegramente.

Scosse la testa, in guisa di rimpianto doloroso.

— Ah! bei tempi erano quelli! Il corpo stanco, l'anima tranquilla e il borsellino guarnito..... Come si dormiva! E con che gusto si mangiava quel boccone di pane! I bambini non piangevano; la moglie non tossiva E poi?... E poi il demonio mi ha gettato te fra le gambe.... Tu, Marcaccio, mi hai insegnato il cammino dell'osteria e disappreso quello del lavoro... Mi ci sono divezzato... Il principale presso cui lavoravo, mi ha mandato via come un ubbriacone... Poi un altro idemme... Non ne ho più trovato di lavoro, non ne trovo più, e sono alla miseria!

Si dirizzò un momento del corpo sulle anche, e un raggio d'intelligenza balenò fugacemente nel suo sguardo avvinazzato.

— To', la cagione d'ogni mio malanno sei tu.

— Eh via! rispose Marcaccio con accento tra [9] beffardo e minaccioso. Queste le sono sciocchezze... Bevi!

E gli mescette nel bicchiere.

Quel lampo d'intelligenza ratto svanì in Andrea; il suo corpo s'accasciò di nuovo contro la parete, e con atto automatico la sua mano gli recò alle labbra il bicchiere riempitogli da Marcaccio.

— Che? Ripigliava quest'ultimo: tu rimpiangeresti quel tempo in cui ti frustavi la vita senza riposo, senza mai un momento di piacere? Oh che siamo animali da tirar la carretta come i muli, sotto la sferza del bisogno? Io non domando solamente che mi si dia il pane da non crepare, domando un po' di quei tanti beni che godono i ricchi..... Lavoro! Lavoro! È l'antifona che ci cantano sempre. Ed essi lavorano forse, i ricchi? Siamo tutti uomini uguali, lo dice anche il Catechismo, ed a pugni anzi noi la facciam bere agli altri.... Dunque perchè a loro tutto, ed a noi niente?.... È tempo che ciò finisca.

— Sì, è tempo che finisca: ripeteva ancora Andrea.

— Ti dicevo d'un riccone che tu conosci, e che di quando in quando ti umilia con un po' di elemosina. Sai già chi voglio dire: il marchese di Baldissero.

Lo sconosciuto aveva prestato sino allora vivissima attenzione ai discorsi de' suoi due vicini, e quando Marcaccio aveva abbassata la voce, egli, per non perderne pure una parola, s'era sporto della persona ad appressare l'orecchio al parlatore; ora all'udir pronunziato quel nome, sembrò accrescersi ancora l'interessamento con cui ascoltava, e tutto tutto parve intento ad afferrare le parole di Marcaccio.

Codesto vedeva l'oste, il quale, riaccoccolatosi dietro il suo banco, faceva scorrere di sotto alle prominenti occhiaie il suo sguardo da gatto per tutta la stanza dell'osteria.

— Uhm! Diceva egli tra sè di mal umore. Se l'ho detto che codestui era un mercante di fiato... Un novizio però!... Ve' come si sporge, come allunga il collo e tende gli orecchioni!... Lo si può riconoscere da lontano le cento miglia... Uhm! Uhm! E quel soro di Marcaccio non ci abbada... Ha tanto giudizio come un fiasco rotto, ed è ubbriaco come una doga... Chi sa che razza di discorsi scomunicati mi sta facendo! Uhm! Non vorrei che compromettesse la mia osteria e me..... Quanto a lui vada pure a dar calci a rovaio che poco me ne importa; quantunque con esso ci sia da guadagnare dei bei denari..... Che il diavolo lo scavezzi; ma non vorrei che tirasse me nella ragna; e chi sa che cosa può dire, ebbro com'egli è!....... Uhm!....... Bisogna avvertirlo.

E s'alzò da sedere, avviandosi lentamente a suo modo verso il desco occupato da Marcaccio e da Andrea.

— Ah sì, il signor marchese, diceva intanto quest'ultimo: quello è un galantuomo... Oh sì un vero galantuomo!

Marcaccio scrollava compassionevolmente le spalle.

— Un galantuomo! Perchè ti dà qualche soldo di quando in quando di quelli che non sa cosa farne, e ne ha tanti che basterebbero a far vivere dugento altre famiglie.

— Ne dà a tutti: ripigliava con un certo calore Andrea: ne dà a tutti il marchese... io non oso molto comparirgli davanti, perchè me, mi strapazza, e quando strapazza con quella sua voce grave, e con quella sua faccia severa, e con quella sua bella figura da vecchio, a me, lo dico senza vergogna, mi fa un certo effetto..... Perchè sento che non ha torto, quando mi dice che sono un fannullone, un tristo arnese e che ho messo sulla paglia la mia famiglia..... Sulla paglia? Ne avessimo almeno di paglia!..... Ma mia moglie, alla mia povera moglie, concede tutto ciò che domanda; e se ella osasse andarci più sovente.... ma la si vergogna..... e massime per me che le tocca sempre difendere innanzi al marchese..... Breve! Quello lì è un ricco di cui non si ha da dir male.

— E tu sei uno sciocco che non sai ciò che ti peschi: proruppe Marcaccio. To', bevi ed ascoltami.

Tracannato egli medesimo un colmo bicchiere di vino, Marcaccio ripigliava:

— Quante lire di reddito ha quel galantomone d'un marchese, come tu lo chiami? Ducento mila di certo, e forse più: non è vero?... Bene. Per vivere ad un uomo quanto occorre, eh?... Non sapresti dirlo tu, Andrea?... To', se ti dicessero a te adess'adesso: ti diamo due mila lire all'anno e non hai più nulla da fare, sacr....! tu faresti di salti da toccare il cielo col naso. Vivresti per benone tu e la tua famiglia che siete in sette. Non è così? Or be' a quel marchese facciamola alla larga e diamogli tante duemila all'anno quante persone di suo sangue ha in casa. Duemila lire per lui, due mila per quel superbione di suo figliuolo, un arrogante quello lì che spero non vorrai portare in palma di mano ancor esso; duemila per la moglie del marchese, anche quella una schizzinosa che le vien del cencio solamente a guardarci, duemila ancora per la nipote del marchese, la signorina Virginia...

Lo sconosciuto che stava ascoltando diede in un lieve sussulto all'udir quest'ultimo dolcissimo nome: Andrea si riscosse ancor egli ed interruppe:

— Oh quella è una brava creatura del buon Dio... è una bellezza!... Cisti! Che bellezza!

— Buono! Riprese con rozza impazienza Marcaccio. Questo non ci ha da che fare. La bellezza di quella immagine dipinta non è fatta per noi miserabili [10] straccioni; e non me ne importa una pipa rotta... Gli è dei lughi che io mi do pensiero..... Dunque supponendo che a sto benedetto marchese rimanessero ottomila lire all'anno da mangiarsi in santa pace, non ti pare che avrebbe più che il bisognevole? Cospettone! Altro che!... Da duecento mila lire togline ottomila, restano cento novantadue mila lirette che a mille franchi ciascuno potrebbero far tranquilli e beati due centinaia di poveri diavoli, come siam noi, io e tu, per mille terremoti! Dico bene? Non è chiaro codesto come due e due fan quattro?

Ed Andrea sempre più stupidito dall'ebbrezza balbettava:

— Sicuro, sicuro; gli è chiaro.

— Povera ignoranza! Mormorava fra sè lo sconosciuto.

Intanto l'oste era giunto al desco dei due bevitori ed ammiccando in un certo modo a Marcaccio, perchè tacesse, s'era seduto sulla panca vicino ad Andrea.

— E così, compari, aveva incominciato a dire, come la va?

Marcaccio guardò lo interruttore di mal occhio.

— Che cosa vieni a ficcar qui il tuo becco, figliuolo della versiera? Gli disse con isgarbo. Chi ti ha chiamato?

E l'oste, facendo boccaccie che lo sconosciuto non poteva scorgere e strabuzzendo sempre gli occhi, per accennare all'uomo che aveva di dietro:

— Che? Rispose. Ti rincresce ch'io venga a domandarti come stai e scambi con voi altri quattro chiacchere?

— Un corno! Gridò Marcaccio. Ne abbiamo noi in via di chiacchere che sono più interessanti delle tue cianciafruscole. Non è vero, Andrea?...

E qui, cambiando ad un tratto di tono, come aveva cambiato di pensiero, secondo che succede alla mente in preda ai fumi del vino, soggiunse:

— Appunto! Tu Pelone che sei volpe vecchia puoi aiutarmi a far capire certo ragioni qui a mastro Andrea che è l'uomo più scrupoloso e più pan bagnato del mondo.

L'ubbriaco si riscosse.

— Io, pan bagnato?... Corpo d'una saetta, Marcaccio, son capace di mostrarti...

— Mostrarmi le ciambelle. S'io ti dicessi: c'è un bel colpo da fare a questo marchese, e se tu mi aiuti n'avremo in tasca dei bei giallognoli...

L'oste si mise a tossir forte, e di sotto alla tavola diede una gran pestata ad un piede di Marcaccio.

Questi ruppe in una sconcia bestemmia:

— Guarda che fai, oste della malora; mi storpii un piede.

— Al marchese!... Un colpo! Balbettava Andrea. Di bei giallognoli in tasca!.. E pane pei miei figliuoli...

— Sicuro!... Pane ed anche companatico... purchè tu voglia.

— No, no, non voglio... Al marchese... Mio benefattore!

— Uh! l'imbecille! susurrava Marcaccio fra i denti, guardando di traverso Andrea.

— Uh! l'imprudente! mormorava Pelone guardando con dispetto insieme e compassione Marcaccio.

— Bene: riprendeva quest'ultimo. Il tuo marchese lasciamolo Stare; ma c'è un altro riccone di nostra conoscenza che credo non vorrai difendere: il sig. Nariccia, il tuo padron di casa.

A quel nome tutto s'annuvolò l'aspetto di Andrea.

— Un birbante! Esclamò egli con uno scoppio di voce.

— Siamo d'accordo: soggiunse Marcaccio. Ed ha i marenghini a palate; ed io so ben bene dove li ripone. Quei marenghini li ha spremuti dai poveri. Pigliarglieli è fare opera meritoria.

L'oste, che aveva invano fino allora tentato ogni mezzo indiretto per far tacere Marcaccio, pensò che era tempo di ricorrere a più efficaci spedienti.

— Ah ah! Diss'egli con un suo riso forzato. Marcaccio è poi sempre quel medesimo che vuol ridere... Le sono le sue solite facezie...

— Facezie! Interrompeva Marcaccio guardando minaccioso Pelone entro gli occhi. Facezie una maledetta!...

Ma l'oste, curvatosi all'orecchio di lui, gli susurrava in fretta in fretta alcune parole che avevano la virtù di fargli cambiare improvviso l'espressione della fisionomia e di farlo sussultare sul suo sedile. Gettò egli ratto lo sguardo sull'uomo che stava col ragazzo al desco li presso, e siccome lo sconosciuto era lontano le mille miglia dal supporre i giudizi che si facevano di lui e i pericoli che lo minacciavano, Marcaccio potè vederlo nell'attitudine che aveva d'un attento ascoltatore dei discorsi de' suoi vicini.

Marcaccio diede un gran pugno sulla tavola che fece trabalzare bottiglie e bicchieri, mandò una fiera bestemmia e disse con tono che non prometteva niente di bene:

— Ora lo aggiusto io!

Si alzò in piedi e si raffermò sulle gambe che gli traballavano un poco, poi datosi un'aggiustatina a quel brandello di cencio che gli serviva di cravatta, rimboccate le maniche sfilacciate agli orli della casacca, mentre fulminava con isguardi pieni di minaccia lo sconosciuto, venne a piantarsi innanzi a quest'ultimo in atto pieno di provocazione.

L'imprudente ascoltatore del colloquio dei due beoni, non tardò ad accorgersi delle ostili intenzioni di Marcaccio, e ne apparve molto contrariato [11] e dirò meglio sgomento. Si trasse egli indietro contro la parete, e là sembrò quasi rannicchiarsi in se stesso, mentre i suoi occhi s'abbassavano paurosi a terra e una pallidezza, maggiore di quella ch'egli aveva quando era entrato in quel luogo, tornava a distendersi sulle sue guancie che il calore di quell'ambiente aveva d'alquanto colorite. Con una ratta sbirciata di sottecchi guardò se il piccino avesse terminato il suo pasto, e certo gli sarebbe stato gradita cosa che ciò fosse, ed egli potesse svignarsela di subito; ma il ragazzo era nel migliore della sua cena; un'altra occhiata intorno alla stanza lo ammonì che in ogni possibil caso, fra tutta la gente che vi era colà, egli non avrebbe potuto trovare aiuto o difesa.

Marcaccio tese una delle sue mani grosse, nere e villose, stretta a pugno, verso la faccia dello sconosciuto, e gli disse con tono affatto rispondente all'insolenza delle parole:

— Orsù, mio bel fusto, qui abbiamo da assestare i conti.

Il giovane così interpellato alzò un momento gli occhi su chi gli parlava: ma li chinò tosto, appena incontrati quelli ferini di costui, che lucevano sinistramente in fondo alle occhiaie sotto le spesse e fulve sopracciglia.

— Che cosa volete? Diss'egli facendo un evidente sforzo per apparire calmo e sicuro, e colla voce che a dispetto di questo sforzo gli tremolava un pochino. Io non vi conosco, nè voi mi conoscete, credo.

— Sì, per Dio, che vi conosco: urlò Marcaccio dando un gran colpo sulla tavola con quel pugno che aveva teso verso il giovane; e la razza di gente a cui voi appartenete, gua' io son uso a trattarla come fo di questo gotto.

E preso un bicchiere sul desco, lo scaraventò per terra mandandolo in mille frantumi.

Tutti coloro che si trovavano nell'osteria, a quello scoppio di voce ed al rumore, si volsero verso la tavola dove succedeva tal scena, ed alcuni alzandosi in piedi, altri appressandosi curiosamente, si apprestarono tutti ad assistere allo spettacolo che prometteva loro un po' di spasso.

Meo mostrò al di fuor della botola la sua faccia da imbecille in cui aveva tanto d'occhi spalancati.

Il ragazzo che mangiava, spaventato, aveva lasciato cader sul piatto il tozzo di pane e il boccon di formaggio in cui mordeva con tanta voglia e si era riparato contro la muraglia quatto quatto, pronto a scivolar per di sotto la tavola a fuggire ogni pericolo.

Lo sconosciuto, più pallido ed inquieto che mai, mandava attorno degli sguardi sgomentati come per cercare una via di scampo.

— Io non vi ho fatto nulla: balbettò egli con voce appena intelligibile. E se qualche cosa di me ha potuto offendervi.... posso assicurarvi che la non era mia intenzione affatto affatto.

Le simpatie di tutti gli spettatori di quella scena erano già di natura per Marcaccio contro il signore che era venuto a ficcarsi in mezzo a loro, ma la paura manifestata da quest'ultimo era fatta ancora per accrescergliene l'ostilità, mentre nulla più inferocisce una folla che la timidità della vittima.

Le parole dello sconosciuto furono accompagnate da un mormorio di scherno e di minaccia che accrebbe in Marcaccio la prepotenza e nell'altro lo sgomento.

— Dagli, dagli a quel muscadino: disse apertamente qualcuno.

— Fagli ballare il rigodone!

— Giù, giù su quel cappello!

Mastro Pelone credette sua convenienza d'intromettersi.

— Uhm! mormorava egli fra sè: questo sciamannato mi fa una buggera, ma di quelle... che il fistolo lo colga! Il commissario mi farà chiudere l'osteria, se non mi manda anche me in gattabuia... Che benedetto cervellino da galletto che ha questo scimunito!

Venne presso a Marcaccio e ponendogli chetamente sopra un braccio una di quelle sue mani da scheletro, gli disse con tono dolcereccio e con un sorriso che pareva la smorfia d'un epilettico:

— Via, via, amico mio, stai buono e non facciamo tafferugli....

Ma l'ubbriaco gli si voltava con brutto viso e dandogli una manata nel petto lo respingeva ruvidamente da sè, dicendo in mezzo alle più orride bestemmie:

— Lasciami stare, oste dell'inferno, e va a cacciar il naso nelle porcherie delle tue cazzeruole.

— Uhm! Esclamava Pelone assalito dalla tosse, cadendo seduto sopra una panca. La va a finir male.

Marcaccio tese una mano per prendere lo sconosciuto al bavero del vestito. Il giovane a quell'atto, parve ritrovare un po' d'energia: saltò in piedi di scatto, e schivando la branca dell'ubbriaco, gridò:

— Lasciatemi Che prepotenza è questa? Che vi ho fatto in fin dei conti?

— Che mi hai fatto? Gridò Marcaccio. Mi hai fatto che sei un codardo di spia e che le spie non le voglio tollerare, giuraddio!

Un susurro minaccioso corse per tutta la bettola.

— Una spia! Una spia! Dàlli, dàlli.

Lo sconosciuto ebbe un impeto d'indignazione che gli diede coraggio. Un vivo rossore gli salì alla faccia, la sua fisionomia prese di colpo una espressione di risolutezza e di forza, il suo sguardo folgorò, le vene della nobile fronte diventarono turgide, la persona gli si drizzò con un aspetto [12] di imponente fermezza che non avreste mai più creduto possibile in lui.

— Alla croce di Dio! Gridò egli con voce vibrante. Io una spia! Oh! Non ripetete questa infame parola, sciagurato, o vi pianto questo coltello nel cuore.

Ed afferrato con mano convulsa il coltello che stava sul desco, ne fece balenare la lama alla luce rossiccia della lampada.

Questo atto ne impose a tutta prima all'adunanza ed a Marcaccio medesimo. Vi fu come un momento di stupore; e l'ubbriaco, involontariamente dominato da quella personalità che rivelava la sua potenza, indietreggiò.

Ma lo sforzo non potè durare a lungo nella indebolita natura di quell'essere strano; di subito egli divenne più pallido d'un cadavere, e ricadde seduto spossatamente sulla panca, al momento appunto in cui la riazione di quel primo effetto di stupore spingeva Marcaccio a maggiore audacia e prepotenza.

— Minaccie a me! Urlò quest'ultimo. Credi tu mettermi paura? sacramento!.....

— Ah! Non mi fate del male; esclamò lo sconosciuto tendendo supplichevolmente le mani verso l'ubbriaco che si precipitava su di lui.

E Marcaccio stava per afferrare il poveretto, e chi sa che cosa ne sarebbe accaduto, se ad un tratto non si fosse aperto l'uscio a vetri della stanza vicina, e il giovane dalle maniere eleganti, che abbiam detto esservi colà dentro, non fosse comparso, gridando con voce imperiosa:

— Alto là! Che cosa c'è?

CAPITOLO V.

Era davvero un bel giovane. Alto e ben piantato, spalle quadre e petto robusto, un capo svelto e una faccia con espressione di coraggio indomabile e di naturale distinzione; uno di quegli sguardi che fanno abbassare gli altrui; sulle labbra carnose e rosse del color del sangue un abituale sorriso pieno d'ironia, di scherno e di superbia; nell'occhio grifagno alcun che di feroce; fra le sopracciglia, nella sua fronte giovenile, a volta a volta si disegnava il solco profondo d'una ruga, che dava alla sua bella fisionomia un aspetto di durezza e di minaccia, che pareva un segno di maledizione stampatogli dalla collera divina, come la traccia del fulmine di Giove sul capo dei ribelli Titani.

Chiamato dal rumore, accorreva per solo impulso di curiosità; dietro gli si aggruppavano le figure triste ed ignobili di coloro che gli erano compagni nell'altra stanza, vicino a lui veniva la Maddalena.

La comparsa di questo giovane in mezzo a quei miserabili, fu come quella d'un'autorità senza contrasto riconosciuta. Tutti gli fecero largo perchè potesse giungere al luogo del tafferuglio, e Marcaccio medesimo voltosi di scatto alla voce del giovane, s'indietrò alquanto e credette necessario di spiegargli le ragioni del suo procedere.

— Ecco.... Le dico subito, signor medichino.... Che scusi!... Ma gli è questo furfante qui che è una spia, e volevo io allungargli un momento le orecchie a modo mio.

La fronte del medichino si corrugò tremendamente, e le sue pupille mandarono veri sprazzi di fiamma.

— Una spia! Esclamò egli avanzandosi minaccioso verso lo sconosciuto, il quale pareva sul punto di svenire dallo spavento.... Una spia qui?... Per la Madonna!

Quando si trovò in faccia a quel giovane pallido, tremante, annichilito, l'espressione del suo volto cangiò di subito per far luogo, ad una superba quasi disdegnosa compassione. La ruga in mezzo alle sue sopracciglia sparì; egli incrociò le braccia al petto, abbozzò colle labbra un sorriso e disse col tono d'un superiore che parla ad un suo dipendente:

— Che? Sei tu Maurilio?

Il giovane salutato con questo nome sollevò timidamente gli occhi ancora smarriti, in volto a chi gli parlava, e rispose con voce tuttavia tremante:

— Son io, Gian-Luigi.

Questi allora si volse alla frotta dei cenciosi che facevano cerchia dietro di lui e disse loro con accento di comando:

— Andate a' vostri posti. Quell'animale di Marcaccio ha preso Sant'Antonio per un tedesco.

Che scusi: ripeteva l'ubriaco affine di difendersi: l'animale è stato qui, mastro Pelone... Io non ci pensava neppure... Egli è stato a venirmi susurrare...

— Sei un fiero cocomero: interruppe l'oste colla sua voce cavernosa; io non ho fatto che consigliarti la prudenza, e tu...

— Basti! Comandò Gian-Luigi con tono che non ammetteva altra ribattuta. E tu, soggiunse volgendosi a colui che aveva chiamato Maurilio, poichè ti trovo, sii il bengiunto. Vieni qui meco un istante, che ho giusto assai piacere di parlarti.

I bevitori erano tornati al loro desco, rassicurati compiutamente dalla parola di colui che essi chiamavano il medichino, il quale pareva esercitare su tutti coloro una non contrastata autorità.

All'invito di Gian-Luigi, Maurilio si alzò; era sempre pallido, e le gambe gli tremavano ancora; ma il suo sguardo aveva già ripreso quell'espressione di superiorità che davagli l'intelligenza.

— Aspettami qui, diss'egli al ragazzo, il quale era tornato ai suoi voraci bocconi; e intanto mangia finchè te ne basta l'appetito.

[13] S'avviò, preceduto da Gian-Luigi, verso la stanza vicina, dell'uscio a vetri. Quando furono per entrarci, il medichino si volse a coloro che gli erano compagni là dentro e che parevano volervelo di nuovo seguire.

— State qui: disse loro seccamente. Ho da parlare con questo signore.

Tutti si fermarono colla più sommessa obbedienza.

Maddalena insinuò amorosamente il suo braccio su quello di Gian-Luigi e facendo vezzucci e boccuccia gli domandò:

— Ho da portarvi qualche cosa da bere?

— Non seccarmi, curiosona che sei: disse con impazienza il medichino; ma poichè vide la ragazza lasciar cascare il braccio e chinar la testa tutta mortificata: — via via, soggiunse ridendo, non mettermi il broncio, Lenuccia. Tosto che avrò finito di discorrere con quest'amico, ti chiamerò.

E per placarla di meglio, le passò un braccio attorno alla vita, e le diede un bacio che le fece sbocciare sulle labbra il più lieto sorriso.

Pochi videro quest'atto, e di questi pochi uno fu il garzone dell'oste. Meo, il quale stava sempre colla testa fuori della botola a guardare.

Alla vista del bacio dato da Gian-Luigi a Maddalena, la faccia da scemo di Meo si contrasse violentemente in modo che dinotava sdegno e dolore profondissimi, ed un sospiro cupo e soffocato gli uscì dal petto, uguale a quello di chi avesse ricevuto una trafittura nel cuore.

La testa di Meo scomparì giù nella botola; ma chi fosse stato colà avrebbe sentito il povero diavolo borbottare fra i denti.

— Ah quel Gian-Luigi!... Se potessi mai fargliela pagare!.... Ed anche a lei!.... Mi costasse un occhio della testa che sarei contento.

I due giovani entrarono nella camera dall'uscio a vetri, e Gian-Luigi chiuse accuratamente la porta dietro a sè.

Il fuoco fiammeggiava sempre allegramente nel caminetto. Pur tuttavia il medichino prese una brancata di ramoscelli secchi e due pezzi di legna e ve li gettò sopra ad accrescere la vampa.

— Siedi, egli disse poi a colui che ora sappiamo chiamarsi Maurilio: ed egli stesso, presa una seggiola e postala innanzi a quella su cui s'era messo il compagno, vi si assettò a cavalcioni, appoggiando le braccia alla spalliera. Mio caro Maurilio! Continuò Gian-Luigi. Con quanto piacere ti rivedo! Oltre che tu mi ricordi la nostra infanzia, è da qualche tempo che sto pensando a te, perchè..... sarò schietto..... perchè da qualche tempo il mio animo, la mia risolutezza hanno bisogno del tuo cervello, ch'io so valere assai più del mio, e di quanti altri forse stanno sotto la calotta del cranio degli uomini che vivono oggidì.

Maurilio aveva accavallate le gambe l'una sull'altra ed appoggiando al ginocchio superiore il gomito destro faceva sorreggere alla mano la sua grossa testa reclinata, guardando acutamente, di sotto alle dita tese a paralume, l'interlocutore che gli stava dinanzi.

Alle parole di quest'ultimo che or ora ho riferite, le labbra di Maurilio si contrassero ad un sottile sorriso in cui c'erano malizia, ironia, una lieve tinta di scherno; ma non una parola fu da lui pronunziata.

La fronte di Gian-Luigi si rannuvolò alquanto e comparve leggermente accennato in mezzo alle sue sopracciglia il solco di quella ruga che ho detto. Fissò i suoi occhi ardenti in quelli di Maurilio, ma lo sguardo di quest'esso non si chinò nè sminuì punto di luce e di fermezza.

Stettero così un istante come due lottatori che si osservano a vicenda per conoscere l'un dell'altro le forze e l'abilità, e sapersi regolare a seconda.

Il medichino fu il primo a chinare lo sguardo. Trasse di tasca un elegante astuccio di sigari che contrastava stranamente co' suoi abiti da plebeo, ed apertolo tese la mano verso il compagno:

— Fumi?

Maurilio scosse la testa in segno negativo senza disserrar le labbra.

Gian-Luigi scelse con cura un sigaro nell'astuccio, ripose questo in tasca, chinatosi al fuoco prese uno dei ramoscelli fiammanti ed accese il sigaro che s'aveva posto fra i denti. Ma in questo frattempo e durante questi atti compiti con garbo che pareva d'uomo avvezzo alle maniere signorili della più elegante società, si sarebbe potuto notare in lui una certa preoccupazione, come di chi sia incerto del modo di affrontare un discorso e vada fra sè studiando il migliore.

Del resto era cosa degna di nota il cambiamento che, appena varcata la soglia di quella stanza, era avvenuto in que' due e fra quei due personaggi, che sono i principali della storia, la quale sta per isvolgersi innanzi a noi.

Nello stanzone precedente, in mezzo a quella folla concitata e minacciosa, là dove la forza dei muscoli e il coraggio fisico avevano il predominio, Maurilio appariva inferiore, debole, l'ultimo di tutti, e le superbe sembianze del robusto Gian-Luigi che colla sua forza e colla sua ardimentosa risoluzione ne imponeva a tutta la turba colà raccolta, potevano a ragione assumere quell'espressione che abbiamo notata di protezione e di compassione altezzosa; ma ora qui, fronte a fronte, questi due esseri in cui fortemente era impressa una diversa e ben definita personalità, nel colloquio da Gian-Luigi provocato, qui dove non più la forza muscolare in un contrasto materiale, ma [14] era in giuoco il valore intellettivo in una che ambedue gli attori sentivano dover essere scherma di propositi e di idee, qui le apparenze della superiorità erano passate dalla parte della vasta e travagliata fronte, del volto scarno e pallido ma intelligentissimo di Maurilio.

Fu Gian-Luigi a rompere il silenzio, poichè ebbe avviato per bene il suo sigaro, mandando fuori rapidamente dalle labbra tre o quattro dense nuvole di fumo.

— Quanti anni sono che non ci siamo più visti?....

— Sei, rispose asciuttamente Maurilio.

— Tò gli è vero. Avevo allora vent'anni, ed ora ne conto presto ventisette Mah! come il tempo passa!.... Tu ne avevi diciotto allora, non è vero?

Maurilio fece un segno affermativo col capo, conservando sempre la sua medesima positura.

— E' mi pareva un secolo che noi eravamo divisi: riprese Gian-Luigi; eppure ora nel rivederti mi torna ad un tratto come se ieri ancora noi fossimo insieme.... E tu? Mi hai tu dimenticato, Maurilio?

— No: disse quest'ultimo.

Gian-Luigi avvicinò ancora di più la sua alla seggiola del compagno, e tendendogli la mano soggiunse:

— Noi abbiamo vissuto nei primi anni come fratelli..... La nostra sorte, le nostre condizioni sulla terra sono le medesime. Perchè non ci uniremmo noi nel cammino della vita?

Maurilio pose freddamente la sua grossa mano in quella che gli tendeva Gian-Luigi (una mano elegante, quasi potrebbe dirsi aristocratica, di cui si vedeva il suo possessore averne gran cura); ma non tardò a ritrarnela senza pure avere corrisposto alla stretta di quella del suo compagno.

— E tua madre? Disse ad un tratto Maurilio piantando più acutamente ancora il suo sguardo negli occhi del medichino.

La domanda parve a quest'ultimo non molto gradita. La faccia di lui si contrasse alquanto con un'espressione di malavoglia a cui tosto successe una sdegnosa impazienza, cui però fu sollecito a frenare.

— Mia madre! Rispose egli, chinando gli occhi innanzi a quelli del suo interlocutore. Chi chiami tu mia madre?.... Sai bene che al par di te io sono un misero derelitto, cui trovarono soverchio peso i genitori e condannarono infamemente all'ingiusta infamia della condizione di trovatello.... Oh gli scellerati! Quante volte li ho già maledetti, e quante volte ne li maledirò.... e non finirò mai di maledirli fin che io viva!...

Maurilio sollevò la testa e drizzò la persona con nobile mossa.

— Non maledire nessuno! Esclamo egli con accento pieno d'autorevolezza e di forza. Che sai tu, che sappiamo noi se abbiamo il diritto di maledire?

Gian-Luigi si tolse il sigaro che masticava rabbiosamente fra i denti e lo gettò con impeto fra le fiamme del caminetto. Percosse con una mano la spalliera della sua seggiola su cui si appoggiava, e proruppe con vivacità che s'accostava alla violenza:

— Sì l'abbiamo, per Dio! Perchè i nostri genitori ci hanno lanciati nel mondo con questa macchia di disonore sulla fronte?... Trovatello!... Avessi tu il maggior ingegno, non potrai nulla, non sarai nulla, non perverrai a nulla mai, perchè sei un trovatello. Oh che abbiamo noi da portare così grave il peso e l'espiazione — noi innocenti — della loro colpa?

— E se fosse della miseria? Interruppe con voce grave Maurilio. Tu sai pure che cos'è la miseria! Tu l'hai vista faccia a faccia.... Non so ora come tu stii con essa, e se hai trovato nelle forze della tua personalità che sempre ho conosciute molte e potenti, il mezzo e la fortuna di far divorzio completo con quella scarna Dea della plebe; pur pure la ti fu compagna e scorta nei primi passi della vita... Non dovresti aver dimenticato a quali crudelissime strette ponga questo orribil flagello un'anima umana... Ah! io ne ho conosciute di queste madri nella corta ma avvicendata commedia della mia vita; ne ho conosciute di queste madri che col coraggio disperato con cui uno si lacera le proprie viscere, si separano dal sangue del loro sangue, dal nato dal loro seno, dall'unico amore, dall'unica gioia della loro vita di stenti, perchè non hanno più un boccone di pane da farne una goccia di latte pel figliuol loro.... Chi, chi su questa terra avrebbe la crudeltà di maledirle?

Maurilio parlava lentamente, con voce contenuta e direi quasi rimessa e sorda; ma in alcuni tratti quella voce velata vibrava in istrana maniera e si imprimeva d'un certo affetto onde lo ascoltatore difficil era non rimanesse commosso.

Ma però tale non rimase Gian-Luigi, che colla medesima concitazione di prima proruppe nuovamente:

— E se non han pane da dar loro, perchè mettono al mondo figliuoli?

— Gian-Luigi! Esclamò con infinito rimprovero Maurilio.

Il medichino rimase alquanto percosso nell'anima dall'accento del suo compagno; frenò fra i denti una bestemmia e si morse con atto pieno di contrarietà i neri baffetti che gli ombreggiavano assai leggiadramente il labbro superiore.

— Ebbene, sia: diss'egli poi. Abbiano, non dirò il perdono, ma men severa condanna od anche l'oblio coloro cui spinge a questo scellerato passo la miseria. Ma se tu pensi che tale possa [15] essere il motto dell'infelice destino a cui ti condannarono quelli che incautamente o colpevolmente hanno chiamato nel tuo corpo un'anima a dolorare in questa infame lotta fratricida della vita, io di me non lo penso, io di me sento che così non è. Il perchè e il come non saprei dirteli; ma sono sicuro che altra più rea cagione ha fatto imperdonabilmente colpevoli verso di me coloro che mi hanno data la esistenza.

Si alzò e incrociò le braccia al petto, piantandosi in tutta la venustà e l'imponenza della sua persona innanzi a Maurilio.

— Guardami! Diss'egli con superba sicurezza, la quale non appariva a chi lo guardasse che la giusta coscienza di sè medesimo. Ti sembro io il figliuolo d'un plebeo? Queste forme, queste membra, queste sembianze non dicono esse che un sangue gentile scorre nelle mie vene? È il grido che esce spontaneo dalle labbra di tutti, appena mi vedono; è il motto che fin dalla mia culla mi suonò all'orecchio sulla bocca d'ognuno che mi incontrasse: — e' pare il figliuolo d'un principe. Vedi tutti quei miserabili che s'accalcano nella stanza di là, ignobili di forme, di gusti, di pensieri. Quelli sono i figliuoli della miseria, non io!.... A contatto con loro, non ebbi mestieri che di volere, e mi si prostrarono innanzi, che di comandare, e mi obbedirono come servi. Perchè? Perchè mi sentirono d'una razza a loro superiore E queste aspirazioni, questo rabbioso anelare verso tutto ciò che è bello, tutto ciò che è splendido, tutto ciò che è grande? Oh! non è forse l'essere mio che tende a quell'altezza che gli compete?

Maurilio mirava fisso il suo compagno con isguardo freddo sempre, osservatore e severo.

— Questo, diss'egli col suo solito accento, è l'agognare dell'anima umana alla gioia ed al piacere che le sfuggono a mano a mano dinanzi. Tu hai forse posto più in alto la mira perchè le circostanze ti fecero capace di apprezzare altri diletti nella vita che quelli non sono, i quali appariscono alla ignorante fantasia della plebe; ma il sentimento è quel medesimo che poc'anzi informava le parole di quell'ubbriaco Marcaccio quando voleva indurre il suo compagno a bandire la guerra ai ricchi col latrocinio.

Gian-Luigi si riscosse come tocco da un ferro rovente: il solco della ruga frontale apparve in mezzo alle sue sopracciglia.

— Che di' tu? Che sai tu? Prorupp'egli con fierissimo impeto. Mi metteresti a mazzo con quei bari e ladroncelli?

— Io non so nulla: rispose Maurilio sostenendo lo sguardo acceso del suo compagno. E ad ogni modo mi guarderei bene dal porre te al loro livello ed essi al tuo. Tu nell'oblio del dovere e nel disprezzo della legge avresti a mille doppi maggiore che non essi la colpa, perchè tu sai, ed a loro la profonda ignoranza è scusa.

Il medichino parve prossimo a cedere ad uno di quegl'impulsi dello sdegno che spingono alla violenza; divenne in volto del color del fuoco, le labbra gli tremarono e gli occhi balenarono d'una luce sinistra; ma con uno sforzo della sua volontà potentissima si contenne. Mandò un'esclamazione che pareva una specie di ruggito mozzicato fra i denti, e levatosi a forza dal luogo dove stava piantato, fece due o tre giri per la stanza; poi tornò presso il caminetto, trasse fuori un altro sigaro e lo accese con tutta pacatezza.

Maurilio aveva ripreso il suo atteggiamento abbandonato e come stracco; tornava a sorreggere colla mano il capo che avreste detto essergli grave; e seguitava a guardare Gian-Luigi colla stessa attenzione osservativa; se non che un po' di compassione pareva ora congiungersi al sentimento scrutatore di prima.

— Io so, io so! Disse Gian-Luigi. Appunto perchè so, grido contro l'ingiustizia dell'assetto sociale e contro la barbarie di chi mi ha abbandonato povero e solo in questa empia lotta del mondo dove non vince che il danaro.

Maurilio tacque un istante, poi replicò, e col medesimo accento di prima, la domanda che già avea fatta poc'anzi:

— E tua madre?

— Ancora! Esclamò il medichino con una bestemmia. Tu chiami con questo nome la donna che mi raccolse?

— Sì, perchè questo santo nome la se lo merita. Quella povera donna ti ebbe ad allattare dall'ospizio, ma ti pose vero amore materno. Ti allevò come suo, tutta si sacrificò per te, come se tu fossi proprio suo sangue. Quante volte la non si è tolto essa lo scarso boccon di pane dalle labbra per darne a te, per soddisfare alcuno dei tuoi infantili desiderii, e più tardi dei tuoi giovanili capricci! Or bene, che cosa hai tu fatto di questa povera donna sublime? di questa ignorante ma generosa creatura cui la Provvidenza, o se ti piace meglio il fato ha posto sugli ultimissimi gradini della scala sociale e il cuore invece alloga fra le più elette del genere umano? La tua condotta fieramente ti accusa.....

— Come! Interruppe impetuosamente Gian-Luigi. Chi ti ha parlato di me? Chi mi accusa? Che ti fu detto?

Maurilio pose una di quelle sue grosse manaccie sulla spalla del compagno, e gli disse con accento mesto insieme e grave, come potrebbe avere per un fratello un fratello maggiore, quasi direi per un figliuolo un padre.

— Gian-Luigi, io t'ho amato molto, ed alcune volte nella solitudine in cui vivo, riandando il passato, le poche dolci memorie che ho di esso mi [16] richiamano te alla mente, quale hai meco vissuto allora; e parmi sentirti nel medesimo luogo tuttavia entro il mio cuore. Al cominciare di questo colloquio tu hai fatto appello a cotali ricordi, ed io, a dispetto della freddezza, dell'assoluta indifferenza che mi ero imposta di aver sempre omai a tuo riguardo.....

Il medichino sussultò sulla sua seggiola.

— Ma perchè? Dimmi in nome di Dio ciò di cui mi accagioni.....

— Lasciami parlare, e lo saprai: continuò col medesimo accento Maurilio. A dispetto adunque di cotal risoluzione io nell'udirti parlare della nostra infanzia, provai nell'animo un intenerimento che mi fece di nuovo rivedere in te il fratello d'un tempo; quindi, se prima era mio pensiero non dirti pure una parola di quelle cose che ora ti esprimo, determinai di botto favellarti a cuore aperto. Tu accennasti a quel tempo, non dirò felice, ma certo meno angosciato e men tristo — almanco per me, quantunque di molto, come sai, mi toccasse soffrire. Ma poichè tu li abbandonasti quei luoghi in cui passarono i nostri anni primi, e li abbandonasti per l'agonia di godere le abbaglianti delizie mondane che il villaggio non ti poteva dare, per arraffare alla sorte la tua satolla di gioie della vita cittadina, le quali da lontano, traverso la nostra ignoranza, ci apparivano quali al viaggiatore nel deserto la crudele illusione della Fata Morgana; dacchè li abbandonasti quei luoghi, hai tu cercato mai di rivederli? Io ne ho sentito tante volte, io ne sento continuamente il bisogno. Quando ho il petto troppo affannato da questa pesante atmosfera cittadina, quando ho l'animo troppo amareggiato dallo spettacolo di queste miserie e di questi dolori; quando ho le mie deboli membra troppo stanche da questo oscuro lavoro che mi dà scarsamente il pane, io con più intensità di desiderio anelo alla bellezza di quel soggiorno villereccio in cui primamente si ricordano d'aver visto la luce i miei occhi, in cui primamente sentii pensare il mio cervello. Allora, con più accanito lavoro da una parte e con maggiori privazioni dall'altra, tento raccozzare il pane di pochi giorni di ozio, e una volta guadagnato questo per me grandissimo capitale, io mi sento, io sono ricco, più ricco di messer Nariccia che anche tu conosci e accumula marenghi sopra marenghi pressurando il povero coll'arte infame dell'usuraio; io parto con passo animoso dalla città, e corro, corro verso quella valle, e a seconda che di qua mi allontano, sento più libero il rifiato, più aitante il corpo affralito, più serena la mente, troppo spesso e troppo conturbata. Allorchè là son giunto, con che emozione rivedo quei conscii luoghi! La misera casipola dove vissi vide pure molte mie lagrime di fanciullo; anzi quasi non altro che lagrime: e tuttavia non passo mai davanti ad essa senza che il cuore mi palpiti. Mi soffermo sulla soglia della porta di strada a guardar dentro lo stretto e sempre sucido cortile, in cui nel fimo razzolan le galline, in cui presso il truogolo grugnisce e s'impantana nella melma il maiale; vedo la scura, bassa, angusta, affumicata cucina, e in fondo ad essa il camino, entro cui nelle lunghe serate d'inverno io, accoccolato nel cantuccio più rimoto, guardavo a brillare la fiamma che cuoceva la poca cena e tutto intirizzito dal freddo fissavo quello splendore con infinita intensità di desiderio; il petto mi si gonfia di sospiri e gli occhi di lacrime..... E passo! Nessuno più mi conosce colà. Quelli che mi tormentavano e mi davano quel poco di pane amarissimo che mi teneva in vita, non ci sono più. Delle faccie sconosciute mi appariscono in quel quadro. Eppure mi commuovo. Oh! se alcuno mi vi avesse amato come ti amò la Margherita!.....

Gian-Luigi fece un movimento che Maurilio attribuì all'impazienza.

— Non isdegnarti..... Disse. Io son fatto così: o non dir nulla, o dare pieno sfogo ai miei sentimenti. Poichè ho cominciato, lasciami dunque dire a mia posta.

CAPITOLO VI.

Dopo una brevissima pausa, Maurilio riprese:

— Ah! se alcuno mi avesse amato, ah! se alcuno mi amasse colà! Quando respiro quelle aure, io divento migliore. Anche colà, certo, sono e miserie e dolori, ma l'umanità vi è men trista e la fatalità meno crudele che non nei bassi fondi della cittadinanza, dove s'agglomera il marame della massa sociale; ma colà vi ha pure una specie di egloga in azione che la natura pietosa manda come una consolazione al diseredato della gleba. La campagna ha il sole, ha la primavera, ha le feste sane e moralizzatrici, del lavoro sotto la cappa del cielo, la fienatura, la messe, la vendemmia.... Avessi potuto essere un coltivatore e maneggiare l'aratro! Presso la spica e presso il grappolo ad ogni modo si soffre meno. Qui in questa bolgia di fango, sotto una cappa di nebbia, la miseria è più crudele, senza pure il temperamento della dolce vista del paese..... Io mi reco sempre al cimitero. Non ci ho nissuno di mio sangue che dorma là dentro; si consumano in quella terra le ossa di coloro che hanno tormentata la mia infanzia. Non un affetto che mi leghi alle ombre di quei morti. Eppure, io siedo con mesta e dolcissima tenerezza su quei tumuli e il vento che geme sommesso fra le alte erbe di quel campo solitario, mi canta in una grave armonia mille cose inesplicabili che mi scendono al cuore e mi accarezzano l'anima. Poscia vado alla chiesa parrocchiale, dove la mia voce di fanciullo suonava sotto [17] la volta del coro nel canto degli inni sacri, dietro la guida della voce ancora robusta di don Venanzio. L'hai tu dimenticata la testa canuta e grave di quel buon vecchio, vero sacerdote del Vangelo? Ecco l'uomo che io ho amato di più nell'infanzia, che mi amò come amava tutti al mondo, ch'egli comprendeva sotto il nome di prossimo, che mi avrebbe forse amato anche di più, quasi come un figliuolo, se non avesse visto la mia ragione, forse il mio orgoglio ribellarsi a quella schiavitù ch'egli portava da tutto il tempo della sua vita e porta tuttora, ch'egli trovava dolce e che voleva impormi, la schiavitù della fede.

Gian-Luigi fece un sorriso di superba compassione.

— Quel povero vecchio! Diss'egli. Oh! se me lo ricordo. Fra tutti i bambini ch'egli pigliava ad istruire per carità, non aveva tardato ai accorgersi che noi due, tu ed io, avevamo nel cervello qualche cosa di più che gli altri. Si mise con più cura a svegliare in noi quell'ingegno che aveva travisto e voleva rivolgere a benefizio della Chiesa, a cui egli appartiene. Il buon uomo aveva sognato di fare di noi due difensori della fede; quando vide che quella non era la nostra strada, forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza. Mi ricordo che l'ultima volta in cui lo vidi, mi disse con doloroso abbattimento: Credevo di guadagnarvi a Dio; aimè! vi ho guadagnato al Demonio.

— Io ho per lui la maggior gratitudine che possa avere anima d'uomo: ripigliò a dire Maurilio. Per lui ha incominciato a stenebrarsi la mia mente. Quando entro, come ti dissi, in quella chiesa, che da bambino mi pareva così vasta e solenne, ed ora trovo qual è, niente più che un'umile e piccola chiesuola di campagna, io vado a sedermi nel coro, sopra uno di quei banchi di legno rozzamente scolpito, dei quali un per uno ho contati e toccati ed accarezzati tante volte i fiorami nelle ore del catechismo e delle sacre funzioni, mi serro nelle mani la testa, e tutto il mio passato mi difila dinanzi, illuminato dal sorriso mesto e benigno di don Venanzio. E talvolta, alzando il capo, me lo vedo in faccia lui stesso, sempre colla sua aria serena, colla sua bella aureola di capelli bianchissimi, col mite e pietoso splendore de' suoi limpidi occhi azzurri, che nella silenziosa solitudine di quel povero tempio, mi appare come il buon genio del luogo. Ad ogni volta egli mi viene incontro con una speranza che gli rallegra il viso:

«— Ah! Siete voi Maurilio? Dic'egli. È la mano di Dio che qui vi ha scorto? È la grazia che vi ha tocco? Nei luoghi della vostra infanzia siete venuto a cercare ed avete trovato la fede?

«Io crollo tristamente la testa; egli china con doloroso atto la sua, lascia cader la mano che mi tendeva, ed esclama: — Siate il benvenuto, nulla meno nella casa di Dio ed in quella del suo servo. Un giorno verrà, io spero, in cui l'anima vostra sarà riacquistata a quella divina, che lega la miseria della creatura alla grandezza del creatore; e mi conceda Iddio che in quel dì io sia ancora sulla terra e possa accogliervi nelle mie braccia.

— Eh! Fole! Esclamò Gian-Luigi sprezzosamente. Quel giorno saresti rimbambito al par di lui: e non è dei caratteri e degli ingegni come i nostri che si lasciano pigliare a ragne da femminette.

Maurilio aspettò un istante, e poi soggiunse:

— Ad ogni volta don Venanzio mi parla pure di te.

— Sì? Benone! Gli è desso dunque che mi accusa, ci scommetto. Che cosa ti dice?

— La sera, rispose Maurilio, quando le ombre invadono quella chiesa deserta, quando non un passo turba più il silenzio sepolcrale di quelle volte, quando non un bisbiglio di preghiera s'innalza più innanzi all'altare, una forma di donna che lentamente ed a fatica si strascina, viene a gettarsi ai piedi della statua della Vergine. Il debole lumicino che pende dall'arco della nicchia, colla sua fioca luce illumina il corpo curvo, affranto, miseramente vestito, d'una vecchia inferma. Tutto bianchi i capelli, tutto rughe la faccia il pallore del bisogno e della malattia sulle guancie, il rossore delle lagrime negli occhi mezzo ciechi, gli strappi della miseria intorno alla persona, i segni della fame nella magrezza dolorosa delle membra che tremano. Se tu fossi colà, udresti delle preci mormorate con quella passione che dinota il trasporto dell'anima, tutta tutta intesa in un pensiero, poi sospiri profondi, poi singulti di pianto che straziano l'anima.

«— Sai tu chi è quella infelice? Mi disse, con voce commossa don Venanzio, allorchè me l'ebbe mostrata fra le appena rotte tenebre della chiesa. È una povera derelitta cui Dio ha concesso le più fiere prove di purgatorio in questa vita terrena. Non ha che cinquant'anni, ma la sciagura glie ne dà sessanta: fu povera sempre, oggi è poverissima. Quando era giovane aveva le forze del suo corpo robusto per lottare colla miseria; ora attempata e malaticcia soffre il freddo, soffre la fame, soffre l'abbandono di tutti, e vive d'elemosina, e razzola nelle spazzature i rifiuti degli alimenti altrui. Odi la sua storia.....»

Gian-Luigi si agitò sulla sua seggiola.

— Odila anche tu, soggiunse Maurilio con un accento di autorevolezza che parve imporne al suo compagno. «Era moglie d'un onesto taglialegna; campavano allegramente contentandosi di poco, procurandosi il tozzo di pane inferigno con un lavoro indefesso d'ogni giorno. Ella restò madre. Era un sopraccarico alla loro povertà; ma essi lo accolsero come una ventura, come un regalo di Dio. Però il suo figliuolo non visse e le più amare lagrime [18] sparse la buona donna sul corpicino estinto di quella creatura che era venuta a farle conoscere le sublimi gioie della maternità, e poi erasi tostamente da lei dipartita. Alcuno consigliò al taglialegna di trar profitto della circostanza ed accrescere con qualche baliatico le loro misere fortune. Ma erano così poveri! Chi avrebbe consegnato suo figlio agli abitatori di quella capanna che pareva il soggiorno del bisogno? Non ne trovarono di genitori a cui bastasse la fama dell'onestà loro. «Dirigetevi all'ospizio dei trovatelli; loro disse ancora qualcheduno; colà troverete di sicuro uno di quei poveretti ad allevare.» Così fecero, e riuscirono. La buona donna ritornò alla sua casipola trionfante, stringendo amorosamente al suo seno il più bel fanciullo che possa veder occhio d'uomo. Le pareva che il cielo pietoso, commossosi alle sue lagrime, le avesse restituito suo figlio. Tutto l'amore che aveva sentito per quell'angioletto morto, lo raccolse sopra questo nuovo bambino mandatole dal cielo, a cui dava col suo latte la vita. Sì, ella sentiva di farlo suo ogni giorno più, ella sentiva un legame indissolubile, come quello del sangue, congiungere le intime sue fibre alla esistenza della creaturina che viveva, che cresceva, che ogni dì facevasi più bella per lei. Prima lavoravano indefessamente, i due poveri villani, solo per guadagnarsi il pane; ora si posero a lavorare con più accanimento per avere oltre il pane anche un po' di agio da circondarne la culla del bambino loro mandato dalla sorte.

«Ma un giorno fatale una orrenda disgrazia percosse quella povera famiglia. Il marito di quella donna sradicando un albero restò sotto al tronco di esso che precipitò troppo presto. Portarono alla sua casipola il misero taglialegna fatto cadavere. Non parliamo del dolore dell'infelice donna; essa era sola oramai al mondo per guadagnare il pane a sè ed alla creatura che aveva fatta sua; e quanto poco si paga il lavoro d'una donna nelle campagne! Dopo aver pianto tutte le sue lagrime, la buona Margherita non si smarrì di coraggio; affrontò fermamente le maggiori prove del suo nuovo stadio di vita. Il bambino era svezzato da tempo dal latte e l'ospizio non pagava più il baliatico.

«— Restituitelo alla pia casa: consigliarono i prudenti alla brava donna. Non ne avete abbastanza per mantenervi voi, e volete stracciarvi le cuoia a tirar su un figliuolo che in fin dei conti non vi è nulla di nulla?

«— Non mi è nulla? Esclamava essa quasi con isdegno. E' mi è tutto. Ho lui solo al mondo. E poichè l'amo tanto ed avrò tenuto cura della sua infanzia, egli mi amerà anche un poco, e consolerà la mia vecchiaia.

«Alcuno più previdente soggiungeva:

«— Eh! prima che quel bambino sia cresciuto di tanto da potervi rendere in alcun modo i sacrifizi che fate per lui, voi avete tempo a crepar di miseria; e ancora chi vi dice che non vi alleviate in seno la serpe d'un ingrato?...»

A questa parola Gian-Luigi si riscosse, ma non parlò, non interruppe nemmeno con una voce. Si curvò verso il fuoco, prese le molle e si pose a battere con esse sui tizzoni che ardevano.

Maurilio continuava:

«— Voi siete ancora di buona età. Margherita, le dicevano inoltre, e siete conosciuta da tutto il paese per una donna onestissima e la più tenace e forte al lavoro. Quel mezzaiuolo che vi sposasse farebbe un buon affare, e ne troverete di sicuro di quelli che vi cercheranno. Avrete una nuova famiglia e più agiate condizioni di prima; ma per ciò vi farà danno l'imbarazzo di quel figliuolo che non è vostro.

«La buona Margherita scrollava le spalle,

«— Ed io vi dico, soleva rispondere, che se c'è qualche galantuomo che mi voglia, avrà da prendermi col mio Giannino, o lasciarmi stare: ecco! Che io non cerco più altro, e se il far da padre a questo poveretto spaventa la gente, bene, tirino diritto, che io non ho bisogno di nessuno e il mio piccino mi basta.

«Coloro che facevano queste osservazioni alla donna ebbero ragione. Alcuni l'avrebbero sposata volentieri, ed ella stessa fra questi avrebbe trascelto uno volentieri assai: ma anche questo preferito non volle sopracaricarsi d'un trovatello, maggiore e non dovuto aggravio alla famiglia. Margherita non esitò neppure un momento. Sacrificò la sua propensione, mandò a spasso tutti i pretendenti; si tenne il ragazzo.

«La storia di costui non occorre dirla. Egli parve tale da dover compensare d'ogni cosa la madre adottiva. Lui bello, lui forte, lui primo a tutti in tutto. Il parroco prima lo istrusse; poi il vecchio medico del villaggio, innamorato dell'ingegno e della grazia nativa del trovatello, il prese con sè, lo fece studiare, lo mandò all'università; volle preparare in esso il suo successore. Ma questa sorte, che tutti dicevano fin troppo bella pel giovane senza nome, sembrò a lui meno degna ed inferiore ai suoi meriti, all'audacia de' suoi desiderii. Il medico morì ad un tratto prima che il giovane avesse finito i suoi studi professionali; e d'allora in poi questo giovane mai più non fu visto al villaggio. Qual vita fu la sua? Che fece? che fa? quali sono i suoi mezzi di sussistenza e i suoi guadagni? Questo è un mistero che io non voglio, nè posso penetrare; ma si buccinò che fosse visto in ricchi panni nelle case dei ricchi, che la sua vita corresse splendida nelle più splendide sfere della società torinese; ma lo vidi io stesso un tempo vestito da elegante far l'elemosina d'una raccomandazione alla mia povertà assoluta. Se egli trovò mezzo col suo onesto lavoro di riscattarsi [19] dalla miseria, ben sia di lui; ma che dirà ogni uomo di cuore quando sappia quella povera donna che piange e prega la sera nel tempio, lasciata sola sulla terra, nella più dolorosa miseria cui non può vincere più il lavoro, quella povera donna essere la raccoglitrice, la benefattrice, la madre di questo giovane che ora vive colle apparenze della ricchezza?»

Gian-Luigi, che era sempre stato curvo sul fuoco a percuotere i tizzi, si drizzò della persona, gettò via le molle e proruppe con impeto:

— Dove le vedi, tu ora codeste apparenze? Guarda quali panni mi vestono! E che sai tu altro di me? Non ti dice questo povero abbigliamento che io forse mi guadagno con istentato lavoro la vita?

— Forse! esclamò Maurilio con una strana espressione nell'accento.

Gian-Luigi volse vivamente il capo verso il suo compagno, e i suoi occhi neri e brillanti si piantarono in quelli di Maurilio.

— Insomma, diss'egli, che conto debbo io renderti dei fatti miei?

— Nessuno: rispose freddamente Maurilio.

— E se qualcuno, e se tu stesso mi hai visto in mostre signorili, tu hai detto giusto, erano apparenze, apparenze e non altro. Dovresti ricordare quel che ti dissi un dì in casa l'usuraio Nariccia. Sotto i panni da ricco, nelle sale eleganti della società, tu non sai quanta miseria si possa molto volte nascondere! Tu non sai come chi piglia delicatamente coi guanti color di burro un pasticcino ed un sorbetto in una festa di danza possa avere lo stomaco incavato da due giorni di digiuno... Non ti dico neanche che questo sia il mio caso: soggiunse vivamente; ma pure che sai tu s'io possa o non possa mandar soccorsi a quella donna? forse tu pensi che io doveva tutto sacrificare l'avvenire della mia vita, a tutti rinunziare de' miei desiderii, delle mie aspirazioni, per morire a lento fuoco nel misero lezzo di quella capanna dov'essa mi aveva accolto? Lo poteva io? Lo doveva fors'anche? No, no, no. L'acqua può, deve cessar di scorrere alla china? La fiamma di innalzarsi al cielo? È un'assurda impossibilità. La mia natura mi chiamava, mi spingeva, mi voleva ad ogni costo in questo mondo: non potevo resistere, sarei morto, facendolo. E d'altronde quella donna è forse mio sangue?...

— E qualche cosa di più: proruppe con forza Maurilio; e disgraziato te, se non lo comprendi.

Gian-Luigi accennava voler rispondere alcun che: ma in quella entrò precipitosamente la Maddalena, la quale pronunciò sommessamente alcune parole all'orecchio del giovane. Questi mandò un'imprecazione e si levò sollecito.

— Addio Maurilio: disse in tutta fretta. Va di là, ti prego... Ma il nostro colloquio non è finito, e verrò io a cercare di te per parlare con più agio. Dammi il tuo indirizzo.

Maurilio trasse fuori una cartolina su cui era scritto il suo nome e il luogo della sua dimora, e glie la diede.

— Sta bene.. Non parlare di me, non dire che qui mi hai veduto, nè alcuna cosa mai con nessuno al mondo del mio passato, te ne prego..... Se mi vedrai in altri luoghi sotto ben diverso aspetto, non riconoscermi neppure, se non son io a parlarti per primo... e non far troppo tristi giudizi di me. — Ora va.

Maurilio ubbidì. Sul passo dell'uscio a vetri, si imbattè in un uomo a faccia volpina che entrava.

Era vestito da povero operaio ancor esso, ma aveva alcun che di losco e di dissimulato nella fisionomia e nello sguardo. Il suo occhio scrutatore corse ratto per tutta la stanza in cui entrava.

— Che? Diss'egli. Non c'è nessuno. Credevo di trovar qui tutti i posti occupati.

Lo sguardo di quest'uomo esaminò per bene, ma in guisa coperta, Maurilio che usciva. Questi sentì una specie di freddo all'incontrare coi suoi gli occhi che sbirciavan di soppiatto del nuovo venuto. Nel partire Maurilio si volse indietro a guardare e fu tutto stupito vedendo che Gian-Luigi era scomparso, senza ch'egli potesse dire da che parte, non essendoci altro uscio visibile fuor quello per cui era entrato l'uomo dall'aspetto volpino.

Costui sedette ad un desco, e Maurilio l'udì che diceva alla fante:

— Dite a Meo di grazia di portarmi la mia solita porzione ed a Pelone di venirmi a parlare; da brava, Maddalenuccia bella.

Maurilio andò a raggiungere il ragazzo a cagione del quale soltanto egli era entrato in quella bettola.

CAPITOLO VII.

Maddalena era appena uscita da quella stanza per andare ad eseguire i cenni del nuovo venuto, che colà entrava l'oste con una cert'aria da can che teme il bastone, che era la più ridevol cosa a vedersi.

— Ah sei qui galantuomo: gli disse l'avventore con ironia e con una famigliarità insolente. Vieni un po' qui che la discorriamo. C'è sempre da imparare, conversando con un uomo della tua fatta.

Mastro Pelone s'avvicinava lentamente all'interpellante, col suo passo riguardoso, sbirciandolo di sottecchi dal fondo delle sue occhiaie incavate, con molto sospetto e diffidenza.

— Uhm! Uhm! Rispos'egli tossendo, voi credete? La vostra opinione è molto lusinghiera per me, signor Barnaba, ma....

Era giunto presso al desco e, secondo suo costume, ci puntava le mani su, curvando il suo lungo corpo verso l'uomo seduto.

[20] Questi levò sul volto dell'oste uno sguardo acuto che penetrava fin nelle midolle, e disse bruscamente:

— Siedi lì, vecchio peccatore, e parlami come devi parlare. Che cosa c'è di nuovo? Tu hai di sicuro qualche cosa d'interessante da raccontarmi.

Pelone aveva schivato lo sguardo di Barnaba; sedette e tossendo più disperatamente che mai, rispose:

— Di nuovo?... Uhm!... C'è proprio niente..... Uhm! Uhm! Che cosa volete che ci sia?

— Tu non hai dunque proprio nulla da dirmi?

— Proprio nulla.

Barnaba allungò il braccio sopra la tavola ed impugnò colla mano il polso dell'oste.

— Ebbene, sta attento, che te ne dirò io di nuovo.

— Ah sì?... Mi farete piacere.... È vostro mestiere saper delle novità.

— Stanotte hanno scassinato la porta che mette negli uffizi del signor Bancone; sono entrati nella stanza della cassa, hanno potuto romper questa ed hanno portato via venti mila lire.

— Che bel colpo! sclamò Pelone i cui occhi in fondo alla loro cavità brillarono un momento e tornarono spegnersi di botto.

— Tu non lo sapevi? Domandò Barnaba colla ironia di prima.

— Sì..... oh sì..... L'ho udito a contare..... Tutt'oggi non si è parlato d'altro che di questo furto a quel ricco banchiere.

— Il commissario, soggiunse Barnaba abbassando ancora la voce, pretende che tu non l'hai saputo solamente dopo.... ma lo sapevi prima.

— Io? Esclamò Pelone elevando le braccia e gli occhi al cielo. Dio buono! Si può egli pensare una cosa simile?

— Che tu, continuava Barnaba, conosci gli autori di questo «bel colpo» come tu lo chiami....

— Io ho detto così... così per dire... ma voglio che il corno del diavolo mi colga se...

— Che, inoltre, questo «bel colpo» è stato combinato nella tua osteria, qui stesso, in questa camera, forse a questo medesimo desco a cui siamo seduti tu ed io.

Mastro Pelone mandò un oh d'indignazione che si convertì in uno sbruffo di tosse.

— Il signor commissario mi fa torto, diss'egli poi, un gran torto, un grandissimo torto. A quest'ora dovrebbe già conoscermi, e dopo i servigi che gli ho resi, e che non domando meglio che di rendergli ancora...

— Gli è appunto perchè ti conosce che la pensa di questo modo sul conto tuo.

L'oste protestò con un'altra esclamazione e con una pantomima analoga.

— Or ben, vediamo. Ai fatti, signor mio. Sai tu dirmi qualche cosa del furto di questa notte?

Pelone pose la sua scarna e grossa mano destra sul petto incavato e rispose con enfasi:

— Parola da Pelone!... Non so nulla.

Barnaba lo guardò un istante con espressione che significava chiaramente qual poca fiducia avesse nella parola dell'oste; poi fece un sorriso e riprese scrollando le spalle:

— Bene! Non parliamone più. Guarda soltanto, vecchia gatta maliziosa, di non lasciarti cogliere lo zampino nel graffiare il lardo. Passiamo ad altro.... Chi era quel cotale che usciva di qua allorchè io ci entrai?

— Non so affatto, affatto, e voi, messer Barnaba, credo possiate saperlo più presto e meglio di me. Vi fu un momento che l'ho creduto uno dei vostri.

— Era egli solo qui dentro?

— Credo bene..... Ah! C'era Maddalena che lo serviva.

Pelone teneva gli occhi a terra per evitare quelli di Barnaba, che non cessavano di fissarlo con iscrutatrice insistenza.

Barnaba crollò la testa.

— No, diss'egli, Maddalena non c'era. Tu sai che al mio occhio non isfugge nulla. Entrando nel tuo sucido antro ho visto di là Maddalena, la quale, appena m'ebbe scorto, si slanciò in questa stanza ratta come il baleno.

— Quell'avventore l'avrà chiamata: susurrò con voce insinuante Pelone.

— Non vorrei che fosse venuta ad avvertire qualcheduno del mio arrivo.

— E chi mai, buon Dio?.... Che il diavolo mi porti!

— Quella ragazza sarebbe mai per caso istrutta del vero esser mio?

— Oh! Che cosa dite?.... Uhm! Uhm!.... Manco per sogno!

— Meglio per voi mille volte, che non sia; sapete?

— Se lo so!..... Diavolo!.....

— Da alcun tempo mi pare che qui, questi galantuomini mi accolgono con una diffidenza che non avevan prima.

— Vi assicuro, esclamò vivamente Pelone, che se mai per caso hanno dei sospetti, io non ci entro per nulla.

— Ma li hanno questi sospetti?

— Non credo.... Anzi no di sicuro.

Barnaba tacque un istante.

— Caro mastro Pelone, riprese egli di poi, fra i frequentatori della tua osteria c'è un personaggio di cui tu non mi hai ancora parlato mai, e che, per una combinazione veramente strana, non mi è ancora mai avvenuto di vedere.

— Ci siamo! Pensò l'oste cercando di prendere il meglio possibile un'aria da nesci. Qui conviene stare in gamba.

[21] — Chi è che volete dire? Domandò egli. Ce ne vien tanta della gente alla mia povera osteria, con l'aiuto di Dio.... Che il diavolo mi porti!

— Intendo dire colui che chiamano col soprannome di medichino.

Pelone tossì per cinque minuti prima di rispondere.

— Ah sì, disse poi, l'ho udito nominare ancor io.... Forse è venuto qualche volta egli pure qui dentro, ma non l'ho osservato, o non me l'hanno additato, o non me lo ricordo.... Del resto, che uomo è egli costui?... È forse tale che possa interessarvi?... Volete che guardi d'informarmene?.... Sapete che non ci ha il mio pari in codesto; e se vi piace, saprò dirvi chi egli è, che cosa fa ed altro ancora....

Barnaba fece un gesto di minaccia verso Pelone col dito indice della mano destra.

— Oste mio, ho paura che tu faccia male i tuoi conti. Sai che a me non la si dà così facilmente ad intendere.

— Vi assicuro....

— Che tu tieni il piede in due staffe, gli è un pezzo che lo sappiamo, e siamo disposti a perdonarti fino ad un certo punto, quando tu ci compensi del nostro chiuder gli occhi sui tuoi malestri con importanti effetti d'altra parte; ma se invece tu credi poterti servire delle attinenze che hai con noi per aiutare i birboni e favorire le opere loro, alla croce di Dio che sapremo fartene pentire e mettere al passo anche te.

— Credete, messer Barnaba.... Vi giuro....

— Basta! Pensa ai casi tuoi e fa senno. Persisti intanto a non aver nulla da dirmi intorno al furto Bancone ed al medichino?

— Non posso che ripetervi le stesse parole: nulla affatto.

— Ancora una cosa. Bada che questa è la più importante e intorno a questa non ti si vorrebbe tollerare neppur l'ombra d'uno scarto.

— Che cosa mai? Domandò Pelone con interesse.

Barnaba si curvò verso il suo interlocutore, abbassò ancora di più la voce, e disse:

— I nemici della società non sono solamente quelli che attentano alla proprietà ed alla vita degl'individui; ve ne hanno di più pericolosi e di più scellerati, e son quelli che cercano sovvertire le basi stesse su cui si pianta la fabbrica sociale, lo altare ed il trono, la monarchia e la religione. Sappiamo che in questi brutti tempi la perfida razza di costoro s'è accresciuta grandemente; sappiamo che essi si agitano e non si peritano innanzi a nessun eccesso per potere arrivare ai loro empi fini. L'iniqua setta va diffondendo le sue scellerate dottrine e la sua influenza per mezzo di società segrete che serpeggiano negli strati inferiori della società come la gramigna nei campi. Anche nella infima plebaglia ha gettate ora le sue radici e tenta abbarbicarvisi giovandosi dell'ignoranza di quella misera gente. Conviene vegliare più che mai e colpire più ratto e più severamente che sia possibile... Pelone, rispondete la verità, perchè si tratta proprio della vostra sorte. Nella vostra osteria avete voi udito che dai componenti della cocca si tenessero discorsi contro il Re ed il suo Governo, contro la religione e i suoi ministri? o che qualcheduno forse d'una classe superiore, qualche apostolo della borghesia s'insinuasse fra di loro a fare di cotali parlate?

La faccia di Pelone esprimeva la meraviglia e l'orrore che possano essere maggiori.

— E che? Esclamò egli con profonda indignazione. Voi potete pensare che io avrei sentito non fosse pure che una mezza parola di cotante scelleraggini, senza dirvi di subito qual fosse e chi l'avesse detta perchè ne ottenesse il premio che si meriterebbe?

— Dunque contro S. M. niente?

Pelone si levò di capo il berretto unto e bisunto e in un profondo inchino fece lucicchiare al lume della lampada il suo cranio pelato, giallo come l'avorio antico.

— Niente contro la sacra persona di S. M., ve lo giuro.

— E contro le LL. EE. i ministri?

L'oste aveva rimesso la berretta in capo, fece un inchino meno profondo, senza più levarsela, e rispose:

— Niente.

— Contro la polizia?

L'inchino di Pelone fu rivolto specialmente all'interrogatore.

— Niente affatto.

— Contro i preti? E sopratutto contro i Gesuiti?

— Meno che mai.

— Va bene. Ma state in guardia. Il marcio vi è, ne siamo sicuri, e conviene vegliare attentamente per apportarci subito il rimedio colà dove si manifesti.

— Per le corna del diavolo!..... Ferro e fuoco senza tardare..... Oh state tranquillo che non son io che in queste cose andrei rimessamente..... Per un povero diavolo che graffia via una borsa o che dà una coltellata perchè ha un bicchiere di vino nella testa, peuh! chiuderei qualche volta anche un occhio; ma per chi volesse dir male del nostro amatissimo sovrano.... uhm! uhm!... per la testa di S. Giovanni decollato!.... o per chi sparlasse delle autorità o dei buoni padri del Carmine...... sarei senza misericordia, che il diavolo mi porti!

— Siamo dunque intesi?

— Intesissimi.

— E bada a farti onore.

[22] — Vedrete, messer Barnaba.

— E va bene. Vedremo..... Intanto guarda un po' che cosa fa questo Meo che non comparisce colla porzione che ho domandato.

— Subito: disse Pelone, levandosi con una vivacità che poteva dimostrare o la premura che metteva nel servire quell'avventore, oppure la gran voglia che aveva di terminare quel colloquio; e in due passi delle sue lunghe gambe fu fuori della stanza.

Eravi in realtà un gran bisogno che mastro Pelone intervenisse perchè quell'avventore fosse servito, mentrecchè una contesa era nata nella cucina sotterranea fra Meo e Maddalena, per la quale il giovinastro stava là piantato col piatto della vivanda in una mano e un fiasco di vino nell'altra a sopportare le bordate di parole e di improperii che gli gettava contro lo scilinguagnolo troppo svelto di Maddalena, eccitando imprudentemente tratto tratto la bile e il fuoco delle ciarle della ragazza con qualche atto del capo che dimostravano la non vinta ed invincibile ostinazione della mulaggine del bravo Meo, imbecille ma testardo sino alla perfezione.

Ecco di che modo era nata la lite.

Maddalena era corsa giù a trasmettere al garzone gli ordini di Barnaba, e Meo, con aspetto torvo che pareva accrescere ancora la sua melensaggine, aveva accolto quegli ordini con un brontolio che pareva un grugnito, ma senza pronunziare una parola, e si era posto con tutta lentezza ad eseguirli.

— Un po' più lesto, marmotta: aveva detto Maddalena vedendolo muoversi così di malavoglia.

Meo aveva volto i suoi occhi grigi e a fior di pelle verso la ragazza, nei quali, se avessero potuto manifestar lo stato della sua anima, ci sarebbe dovuto essere collera e rimprovero, e che invece non avevano altra apparenza fuor quella di due pallottole di vetro incassate in una zucca; aveva sospirato, soffiato, grugnito, ma non aveva risposto. E tutto sarebbe rimasto lì se la Maddalena, per un eccesso di prudenza, non avesse commesso un fallo imprudentissimo.

Senza conoscerne bene la ragione, ella sapeva, perchè Gian-Luigi medesimo glie l'aveva detto, e il padrone pure della bettola le aveva fatte a questo riguardo le più calde raccomandazioni, ella sapeva essere cosa sommamente importante che quel cotal messer Barnaba non venisse mai a scoprire che fra i misteriosi frequentatori della riposta camera eravi il medichino, e tanto meno poi che vedesse costui; quindi, secondo l'usato, visto appena spuntare la faccia arguta e maliziosa di Barnaba, ella s'era precipitata ad avvertirne il medichino, al quale, come avete potuto accorgervi, la Maddalena portava il più vivo ed il maggior interesse del mondo; mentre alcuni di quelli che erano compagni a Gian-Luigi in quella stanza dall'uscio a vetri, prima che ne uscissero chiamati dal rumore della contesa fra Maurilio e Marcaccio, fosse caso od intenzione dietro ricevute istruzioni, arrestavano Barnaba nel cammino e lo tenevano un istante in novelle, fatto che giovava ad accrescere i sospetti di questo agente segreto e importante della polizia.

Ora, dovendo Meo presentarsi innanzi a Barnaba colla vivanda e col vino, Maddalena temette che quell'imbecille di garzone, benchè severissimamente proibito ancor egli di far motto alcuno di Gian-Luigi, dalle accorte domande di Barnaba si lasciasse mettere in mezzo e alcuna cosa dicesse di quanto non si doveva dir mai.

Il miglior partito a prendersi sarebbe stato quello di incaricarsi essa stessa di servire il sig. Barnaba; ma codesto non venne neppure in mente alla Maddalena, come quello che per nulla s'accordava colla sua gran voglia di fare il meno possibile. Laonde, pur conoscendo l'impero che le sue attrattive avevano sulla grossa natura di quel giovane soro, e sicura che una sua parola bastasse a farne quanto ella volesse, Maddalena, quando già aveva messo il piede sul primo scalino per risalire nell'osteria, si volse indietro verso Meo e gli disse:

— Bada sopratutto, per qualunque cosa ti possa dire ser Barnaba, a non lasciarti sfuggir di bocca parola intorno al medichino.

Meo divenne rosso più che un tacchino in bizza, e i suoi occhi di cristallo rotearono come usano quelli delle figure di cera dei gabinetti meccanici.

— Ah! Il medichino, rispos'egli a denti stretti; oh sì il medichino..... Potessi vederlo impiccato quel cicisbeo della malora!

Queste parole avevano dato l'aire alla collera ed alle ciancie della Maddalena.

Allorchè mastro Pelone sopraggiunse, perchè non trovando nello stanzone di sopra nè la fante ne il garzone, era disceso nella canova; allorchè egli sopraggiunse, la ragazza diceva sfavillante d'ira gli occhi:

— Tu non parlerai, o guai a te!

— Parlerò: rispondeva coi denti serrati e colla sua aria e col suo accento da testardo, il giovane tenendo sempre fra le mani il piatto e la bottiglia.

— Che cosa è questo? Esclamò Pelone pigliando dal suo sdegno tanta forza da poter parlare ad alta voce e con accento concitato. Figlioli di male femmine che state qui a perdere il tempo a bisticciarvi invece di servir gli avventori!.... Non so chi mi tenga dal misurarvi un calcio dove so io... che il fistolo v'accoppi.

Maddalena che mostrava chiaro non esser per nulla intimorita alle parolaccie del padrone, si volse vivacemente a quest'esso e gli disse in tutta fretta:

[23] — Questo martuffo di Meo vuol dire al signor Barnaba che il medichino era qui adess'adesso.

Pelone divenne pallido, se pur poteva dirsi che la sua pelle d'alluda impallidisse. Stette un momento senza parlare, quasi glie ne mancasse il fiato, poi con voce soffocata ma tremenda, disse al garzone:

— Disgraziato! Se una sola parola ti sfugge, hai finito di vivere.

Alle parole del padrone, Meo rimase il più sgomento uomo del mondo. Stava là piantato sulle sue gambaccie, cogli occhi sbarrati, colla bocca larga, e guardava mastro Pelone con un'attonitaggine spaventata che fece rompere la Maddalena in uno scoppio di risa.

Il bettoliere, rimessosi alquanto della emozione che lo aveva fatto uscire in quella minaccia, disse al garzone colla sua voce più affranta e più cavernosa di prima:

— Or va, sollecita, servi messer Barnaba, e bada di tenere la lingua a segno.

Meo balbettò qualche parola inintelligibile, roteò gli occhi ancora smarriti, fissando ora Pelone ora Maddalena, e salì la scala coi piatti e col fiasco in mano, seguito dalle risate beffarde della giovane.

— Sei qui finalmente, lumacone d'un addormentato? Disse Barnaba vedendo comparirsi dinanzi il povero Meo ancora tutto sconvolto. Eh! ci vuol egli un secolo a portar questa poca roba?

Il garzone non rispose e mise innanzi all'avventore. Ma questi s'accorse che nell'apparecchiargli in tavola, le mani di Meo tremavano, e guardatolo in faccia, gli vide i segni del turbamento, da cui non s'era ancora compiutamente riavuto.

— Che cos'hai. Meo, che la tua faccia par quella d'un mascherone da fontana?

Meo crollò la testa, soffiò forte, e rispose in fretta a parole mozzicate:

— Nulla, non ho nulla.

E fece per andarsene tosto: ma Barnaba lo trattenne.

— Sta qui meco un momento, che diavolo!... Tu hai dei dispiaceri, povero tambellone, non è vero? Te lo leggo chiaro su quella luna piena che ti serve da faccia.

Meo sospirò a suo modo, ma non disse verbo.

— Vuoi che te lo dica il tuo segreto? Tu sei innamorato morto.

Il babbuino si torse della persona con mossa di vergognoso, divenne rosso in volto e fece nello stesso tempo il più scemo sorriso.

— Quella birbona di Maddalena, eh?

— Ah sì! Quella birbona! Non potè a meno di ripetere Meo con un grosso sospiro.

— La è una civettuola che si lascia amoreggiare dal terzo e dal quarto.

— Ah si! Tornò ad esclamare Meo con un altro sospiro.

— Ed inoltre fra tutti i suoi galanti ce ne avrà qualcheduno di preferito.

Altro sospirone ed altra esclamazione affermativa di Meo.

— E questo preferito non sei tu?

— Non son io: ripetè dolentemente il garzone chinando la testa, con un sospiro più desolato degli altri.

— Ma sai tu almeno questo fortunato mortale chi sia?

Il giovane alzò vivamente la testa, ed un lampo balenò nei suoi occhi da stupido.

— Oh! se lo so: diss'egli serrando i pugni.

Barnaba si sporse di più verso il garzone e soggiunse sotto voce:

— Si dice che sia un cotale che viene qui soltanto di soppiatto: un bel giovane che fa il signore....

Meo digrignava i denti e seguitava a far girare le pallottole di vetro dei suoi occhi, come fanno quelle certe figure dipinte su alcuni dei pendoli a contrappesi.

Il poliziotto s'accostò ancora maggiormente al giovane, e continuò con voce più sommessa ancora ma con accento autorevolmente affermativo, fissando bene in volto l'imbecille:

— E questo tale è conosciuto qui col nomignolo di medichino.

A questa parola il povero Meo tutto si riscosse e si trasse indietro vivamente spaventato, come alla vista improvvisa d'una voragine che gli si aprisse sotto i piedi.

— Non so nulla: esclamò egli; non ho detto nulla; non mi fate dir nulla.

Barnaba lo prese ad un braccio e lo tirò presso di sè.

— Ah, ah! Disse. Ho posto il dito sulla piaga io. Vien qui, tambellone; e non ti pentirai d'aver parlato meco; ne avrai anzi sotto ogni riguardo vantaggio. Quel tal medichino, adunque...

Ma in quella l'uscio a vetri s'aprì, e comparvero, prima il naso enorme, poi la faccia cadaverica di mastro Pelone.

— Eh! marmotta: disse questi parlando a Meo. Si ha bisogno di te, e tu pianti le radici dappertutto dove ti fermi.

Barnaba lasciò andare tostamente il braccio di Meo, il quale s'affrettò a partire. Il poliziotto mirava con una certa intentività acuta e maliziosa il bettoliere ed il garzone.

— Comandate qualche cosa? Chiese Pelone a Barnaba, avanzandosi verso il suo desco.

— No, non mi occorre più nulla: rispose Barnaba. Va pure alle tue faccende anche tu, che io mangerò tranquillamente questa roba senz'altro.

L'oste che pareva desiderar mediocremente soltanto [24] di rimanere un'altra volta solo coll'agente della polizia, uscì sulle peste di Meo, e Barnaba rimase solo.

Allora questi si alzò, e con passo leggerissimo corse all'uscio a vetri a chiarirsi se di là ci fosse chi potesse vedere entro la stanza: tirò bene le tendoline ai cristalli, e poi si diede ad esaminare minutamente le pareti della camera, intorno alle quali correva ad altezza d'uomo una impiallacciatura di legno volgare di pioppo mal verniciato.

Guardò, toccò, battè riguardosamente qua e colà colla nocca delle dita, e ad un punto si fermò più lungamente che altrove. Gli parve poi udire l'appressarsi di qualcheduno, e più lesto ed agile che un gatto, fu al suo posto dove riprese a mangiare così tranquillo come se non si fosse mai mosso.

— Va bene: diceva egli intanto fra sè. I miei sospetti s'afforzano e spero diventeranno certezze. Andrò a far strabiliare il commissario... E ad ogni modo quell'imbecille di Meo sarà uno stromento che saputo maneggiare finirà per aprirci il segreto di ogni cosa.

CAPITOLO VIII.

Maurilio, uscito dalla stanza a vetri dopo il colloquio con Gian-Luigi, venne sollecito al desco a cui aveva lasciato il ragazzo trovato per la strada. Questi, dopo aver ben mangiato e ben bevuto, aveva appoggiate le sue piccole braccia sulla tavola, messovi su la sua piccola testa, e s'era saporitamente addormentato, a dispetto di tutto il baccano che veniva facendosi intorno a lui entro al denso aere di quella stanza, baccano che non era punto sminuito, ma piuttosto era venuto aumentandosi.

Maurilio stette un istante a contemplare quel ragazzo. Ei dormiva così tranquillamente, con tale una sembianza di benessere, che il giovane ebbe un momento d'esitazione prima di svegliarlo per condurlo via. Ma poi si decise a riscuoterlo, e già tendeva una mano per mettergliela sulla spalla, quando una nuova scena sopravvenne che ne lo fece sostare, tutta a sè chiamando la di lui attenzione.

Andrea e Marcaccio erano ancora a quel medesimo posto, in quella medesima attitudine, tornati ai medesimi discorsi, se non che l'ebrietà in ambidue era maggiore.

Marcaccio faceva allusione a quel furto vistoso di cui udimmo un cenno sulle labbra di Barnaba, commesso a danno del signor Bancone, uno dei principali banchieri della città; e con argomento che un maestro di logica avrebbe chiamato ad hominem, diceva al suo compagno che se fra quei capi di vaglia i quali avevano fatto il colpo si fossero per fortuna trovati ancor essi, avrebbero ora le tasche piene di denaro, e potrebbero bere tutta la canova di mastro Pelone; alle quali parole Andrea, che il lume della ragione omai ce l'aveva perduto tutto, rispondeva; sempre più balbuziente, con dei sicuro frammisti a voci inarticolate ed accompagnati da pugni sulla tavola.

Quegli altri dalle triste fisionomie, usciti fuor della camera vicina con Gian-Luigi, si erano sparsi qua e colà per la bettolaccia, alcuni rimanendo a gruppi fra di loro, altri ad uno, a due andandosi a frammischiare alle brigatelle che già erano formate intorno ai deschi, e susurrando a bassa voce nell'orecchio di qualcuno, con certe arie misteriose che ti davan sembianza di gente che comunicasse qualche parola d'ordine o qualche segreta istruzione.

In quella una donna miserissimamente vestita aprì l'uscio d'ingresso e stette sulla soglia peritandosi d'entrare, quasi timorosa, lanciando tutto intorno nell'aer crasso della bettola uno sguardo inquietamente ricercatore.

Alcuni, cui dava fastidio l'aria fresca che s'introduceva per la porta semiaperta, volsero a quella parte il capo e gridarono di mala grazia:

— Ehi là! Chiudete quell'uscio, che vi colga un accidente! Volete darci una scarmana che ci mandi a far terra per le pignatte?

Uno di loro riconobbe la donna chi fosse.

— Ah ah! siete voi, Paolina?.... La solita storia eh?..... Venite a cercare vostro marito, ci scommetto..... Entrate, Paolina, che diavolo! Entrate e chiudete quel battente in vostra buon'ora... Vostro marito è laggiù.

Paolina entrò del tutto e lasciò richiudersi dietro sè la porta. Era una donna di età ancora giovane, ma dai patimenti affatto stremata. Il viso color della cera, le labbra con livido pallore, livide le occhiaie infossate, gli occhi ardenti dalla febbre. Aveva intorno alle membra macilente una misera ciopperella di panno di cotone in più luoghi e con istoffe d'altri colori rappezzata; copriva il capo con un fazzoletto sbiadito, logoro, sfilacciato, ora tutto inumidito dal nevischio che il tempo freddoloso pareva stacciare traverso la nebbia nelle strade, e di sotto a questo fazzoletto le uscivano scarmigliate alcune ciocche di capelli nerissimi, fra cui cominciavano immaturamente ad essere frequenti i fili d'argento. Il dorso e il petto avea ricoperti da un pezzo qualunque di stoffa che le serviva da scialle.

Non la miseria soltanto, ma la malattia ed il dolore erano stampati sul viso di quella povera creatura che pareva reggersi e camminare con istento.

Ella ringraziò colui che le aveva parlato ed aguzzò gli occhi continuando a cercare per entro la densa atmosfera di quello stanzone.

— Dov'è egli, Andrea?

[25] — Laggiù, vi dico: rispose ancora quel tale: in fondo, a sinistra..... To', guardatelo là con Marcaccio.

Paolina fece un atto come di sdegno, il quale venisse a sopraggiungersi all'abbattimento ed al dolore che già la possedevano; e i suoi occhi vivamente balenarono fissandosi sulla testa di Marcaccio, la quale stava curva verso quella di Andrea, parlando a costui come sappiamo che faceva.

La donna, a quella vista, parve acquistare vigore e smettere affatto la timidezza e la peritanza; camminò risolutamente verso il desco a cui erano seduti i due uomini che abbiamo nominati, ed accostandosi al marito, gli pose, senza pur dir una parola, la mano sopra la spalla.

Andrea si riscosse in sussulto e levò il capo che gli cadeva abbandonato sul petto, mostrando la sua faccia imbestialita dall'ebbrezza.

Al vedere un'ombra comparire e stare presso di loro, anche Marcaccio alzò gli occhi verso di essa, e visto chi fosse, corrugò minacciosamente la fronte.

— Ah Paolina! Diss'egli con tono burbero ed impertinente. Ne siamo forse di nuovo alle solite. Che cosa venite qui a fare? A romper le tasche a vostro marito come sempre?

La donna fece guizzare verso Marcaccio un rapido ma ardentissimo sguardo, in cui c'era tutto il rancore e tutto l'abborrimento che può avere un'anima onesta verso il mal genio della sua famiglia e l'autore di tutti i suoi mali; ma non rispose pure una sillaba.

— Andrea: diss'ella al marito con voce soffocata, affannosa, ma pur tuttavia dolcissima, e con accento di amorevole rampogna: Andrea, vieni a casa.

L'ubbriaco guardava la moglie coll'occhio stupidamente rimbambolito.

— A casa? Ripetè egli: sì a casa... Adesso ci vado appena che abbia finito di bere..... Ma prima bisogna finire di bere... Ehi! oste del contagio, porta qui una di barbèra.

— Andrea, bisogna venirci subito a casa: disse la moglie con una certa autorità che a tutta prima fece impressione sull'ubbriaco.

Egli accennò volersi alzare, come per obbedire a quel cenno: ma il suo corpo non era in caso di far ciò con tanta agevolezza, e Marcaccio dandogli uno spintone, mentr'e' stava a mezza strada, lo fece ricadere seduto com'era prima.

— Sei tu matto? Disse beffardamente Marcaccio. Da quando in qua le donne hanno da comandare agli uomini come noi? che vuoi tu lasciarti metter le dande e menar a lascia?

Andrea fissò il suo sguardo avvinazzato in quello del compagno, e ripetè con una grossa bestemmia:

— Menar a lascia?... No giuraddio!

Alla donna un po' di sangue salito al viso arrossò un istante i pomelli delle ceree guancie; ma non degnò Marcaccio neppure d'uno sguardo.

— Sentite, Paolina, le diceva intanto quest'esso; se volete, sedete lì un momento, e vi daremo una volta da bere...

Paolina non potendo più frenarsi, gli si volse incollerita e colle labbra tremanti ed accento pieno di sprezzo lo interruppe:

— Con voi non parlo.

La figura di Marcaccio divenne terribile per feroce e scellerata espressione: ma poi tosto egli diede in una grassa risata.

— Oh oh! sentite che tono, la signora marchesa! Con noi non si degna!... Allora date retta ad un mio consiglio, Paolina, e sarà il vostro meglio. Alzate i tacchi, e non seccateci più la gloria.

Paolina tornò rivolgersi al marito, senza dare a Marcaccio altra risposta.

— Vieni, diss'ella nuovamente con supplichevole accento. È tardi. Sai che gli è fin dal primo imbrunire che ti attendiamo... Sono i tuoi figliuoli che ti attendono... Tu dovevi venirci a portare i denari della cena... E non sei venuto; e mentre tu stavi qui a sbevazzare, mentre ci sei, i tuoi figliuoli hanno fame...

Andrea si passò la mano sulla fronte che incominciava a diventar calva, e stette così un poco, come per raccogliere le sue sparse e confuse idee.

— I miei figliuoli hanno fame: ripetè egli poi con accento doloroso, come se quelle tremende parole avessero avuto potenza di farlo rientrare in sè.

Marcaccio si mise a canterellare sull'aria d'una sconcia canzone de' trivii.

— La la le ralà! Ci siamo colla solita storia... Hanno fame? Vadano a letto. Chi dorme mangia, dice il proverbio... E ci lascino tranquilli.

Queste ciniche parole, però, non parvero andare compiutamente a' versi ad Andrea, per quanto ebbro egli fosse.

— I miei figli! Balbettò esso. I miei poveri figli!

— Sì, i tuoi figli: riprese Marcaccio. Ecco lì il bel gusto di caricarsi d'una famiglia. Si ha una frotta di marmocchi che vi strillano alle orecchie e una donna che vi tien dietro e vi sta addosso come una mignatta..... Che cosa hai tu da fare pei tuoi figli? Hai tu denaro in tasca da recar loro?

Andrea scosse dolorosamente la testa.

— Non ne hai: continuava Marcaccio. Ti ho trovato che ti aggiravi come una mosca senza capo, per la città, disperato e senza saper che cosa fare di te, pronto a dar la pelle per un quattrino in aria..... Non avevi trovato lavoro da nessuna parte, non avevi la croce d'un maledetto centesimo, e la pelle del ventre ti toccava l'osso della schiena. Che cosa ti ho detto io eh? Andrea [26] sono un amico o non sono un amico, corpo di cento boja!..... Vieni qui all'osteria di Pelone che una frittata alle cipolle ed un fiasco di vino, ce ne ho sempre da offrirteli a tua disposizione. Si chiama parlar bene codesto o no, per le carezze di mastro Impicca? Sei venuto, abbiamo fatto ballare de' bei boccali; puoi tu lamentarti di qualche cosa? Saresti stato più allegro andando a casa ad udire strillare i bambini e borbottare la moglie? Bella musica! Le rampogne d'una donna con accompagnamento di guaìti fanciulleschi. Sì, sì, va ora con lei. Gli è quel bell'accoglimento che ti prepara a casa. Mi par già di sentirla. «Bel modo di regolarti! E che hai tu fatto qui? E che hai tu fatto là?» Il fastidio dei rimproveri e l'umiliazione di dover render conto dei fatti tuoi alla moglie.

Andrea fece un atto vivace di ripugnanza.

— No: esclamò egli, non voglio rimproveri, non li vo' tollerare giurabacco!........ Un uomo non lo deve!

— Bene. Disse la donna frenando con tutte le forze che le restavano la collera onde sentiva l'anima commossa verso Marcaccio. Sta certo. Non te ne farò neppur uno di rimproveri, ma vieni a casa.

— Sì, proruppe beffardamente Marcaccio, vacci, bamboccio, e vedrai che valore hanno le promesse delle donne.

Paolina non ci resse più.

— Tacete, Marcaccio: gridò volgendoglisi sdegnosamente. Non vi basta ancora tutto il male che ci avete già fatto? Voi siete il diavolo tentatore del mio pover'uomo.

— E voi non sapete quello che vi dite. Se questo buon uomo passa ancora qualche momento d'allegria, lo deve a me; e se ascoltasse i miei suggerimenti vivrebbe un poco meglio di quanto ora gli tocca.

— I vostri suggerimenti? Santa Vergine Maria! So di che genere sono; e se mai Andrea li seguisse tutti e davvero avrebbe cessato di essere un onest'uomo.

— Ohei! Che modo di parlare è codesto? Gridò Marcaccio battendo un forte pugno sulla tavola. Sapete voi che queste parole non le soffrirei da nessun uomo al mondo, fosse il più forte di tutti? E pensate voi voglia lasciarmele sputare in faccia da una miseruzza di donnicciuola come voi?

Il suo aspetto di scellerato era tale veramente da incuter timore, ma la donna è un essere che quando è posseduto da una giusta indignazione ha un coraggio cui null'altro uguaglia.

— Credete voi d'impormene, Marcaccio? Riprese Paolina. I brutti musi non mi fanno paura. E poichè vi trovo e mi ci avete incitata, vi dirò una buona volta il fatto vostro. Siete voi che avete recato il disordine e la miseria nella nostra famiglia. Siete voi che avete tolto a me ed a' miei figli l'animo di Andrea. Sia maledetto il momento in cui avete posto il piede in casa nostra, e siate maledetto voi stesso!.... Ma per l'anima mia, vi dico che nella mia povera soffitta, là dove sono i miei bambini, non vi lascierò entrar più o che mi caschi piuttosto la testa.

Marcaccio mandò una violenta imprecazione, poi afferrato il braccio di Andrea lo scosse rozzamente.

— Odi tu le belle cose che dice tua moglie? Va là che sai fartene proprio rispettare! Gli è lei che manda via di casa chi le pare e piace; e se tu vuoi avere un amico hai da domandarle licenza, e devi fare ciò ch'ella vuole, e levarti i calzoni e darglieli addirittura a lei.

L'ubbriaco pareva dagli occhi infiammati del compagno attingere la collera ancor egli.

— Levarmi i calzoni, diceva lo sciagurato non più conscio menomamente di sè: darglieli a lei!... No giuraddio!

— Gli è che sei un bamboccio, gli gridava Marcaccio sotto il muso, che ti sei lasciato mettere i piedi sul collo e ti lasci menare pel naso.

— No, no, mille volte no, sacramento! Urlava l'ubbriaco.

— Non dar retta a questo tristo: supplicava Paolina con tutta amorevolezza. Vieni a casa meco, te ne prego.

— Non seccarmi la gloria! Faccio quel che mi pare e piace.

— Bravo! Esclamò Marcaccio.

— Non voglio andare a casa, e non ci vado... e non ci vo!

E come per paura che lo venissero a strappar di là, si attaccò con tutte due le mani al desco.

— Bravissimo! Tornò ad esclamare Marcaccio. E dille che i tuoi amici sei in caso da sapertegli scegliere da te stesso e che in casa tua sei padrone tu.

— Sì, sono padrone io...

— E che le donne non hanno da alzare il becco.......

— Non hanno da alzare il becco... Diceva Andrea come un eco.

— Altrimenti.....

E il tristo arnese faceva un cenno troppo chiaro di minaccia.

— Altrimenti... Ripeteva ancor esso l'ubbriaco, dominato per l'affatto dalla volontà del compagno.

— Che? Prorompeva la donna vieppiù indignata. Minacci tua moglie tu? Sei tu ancora il mio Andrea? Oh che cosa mai hanno fatto di te!........... Andrea, ti scongiuro, vieni a casa.... Vieni a vedere i tuoi figli.....

E voleva cingerlo colle braccia; ma egli rigettandola:

— Lasciami ti dico; vacci tu a casa e non seccarmi dell'altro.

[27] — No, non ti lascio: insisteva essa tornando a volerlo abbracciare; voglio che tu venga meco.....

— Ah! Quanto sei babbeo a lasciarti piantar di queste grane: diceva Marcaccio. Se foss'io, a quest'ora l'avrei già ridotta alla ragione.

— Va via: urlò l'ubbriaco serrando i pugni.

— Non vado: rispose animosamente Paolina. Sono venuta a prenderti per condurti presso i tuoi figli; non esco se tu non vieni meco.

E siccome ella era sul punto di gettargli le braccia intorno al collo, il disgraziato la respingeva allungando innanzi a sè il braccio col pugno serrato, il quale colpiva violentemente a mezzo il petto la povera donna.

Paolina gettava un grido e cadeva alla rovescia mentre una schiuma sanguigna le veniva alle labbra.

— Bene! Ben fatto! Così la si mette a posto: diceva quello scellerato di Marcaccio, mentre Maurilio in un salto era presso la donna e sollevatala la adagiava sopra una panca vicina su cui quelli che v'eran seduti s'affrettavano a farle posto.

Visto cader così sua moglie, un profondo e subito rimutamento si fece in Andrea. Parve per un istante da lui dileguata ogni ebbrezza. Sorse di scatto e fu presso alla misera donna, turbato, commosso, pentito.

— Paolina! Diss'egli con accento pieno d'affetto, di rincrescimento, quasi di pianto, Paolina!

E parve volesse dire mille cose, ma che, l'intelligenza non soccorrendogli, non sapesse in altro modo esprimerle che ripetendo il nome di lei:

— Paolina! Paolina!

Maurilio intanto interrogava con molto interesse la donna.

— Vi sentite male? Se prendeste qualche sorso di brodo caldo? O meglio se veniste alla più vicina farmacia a farvi dare un cordiale?

Paolina si asciugava colle mani medesime, in mancanza di pezzuola, la schiuma sanguigna che le era venuta alle labbra, si sforzava ad abbozzare un sorriso, e rispondeva colla voce affannosa:

— Non è nulla.... Grazie.... Non è nulla.... Da un pezzo di tempo sono così debole, che il dito d'un ragazzo mi getterebbe in terra..... Soffro sempre tanto qui....

E si premeva il petto con tutte due le mani.

— Paolina! Diceva ancora Andrea venutole presso, volendo prenderle la destra.

— Lasciatela stare: proruppe vivacemente Maurilio indignato. Non avete vergogna? Trattar così una donna, ed una donna ammalata!

Andrea curvò il capo tutto mortificato. Ma Paolina, dando al marito quella mano che egli cercava, disse benignamente:

— Oh il mio Andrea è buono. Non è lui che ne abbia colpa. È il vino che ha in corpo ed i consigli di certa gente... Va, te, ti perdono, Andrea... So che mi vuoi ancora bene.

E l'uomo commosso:

— Sì che te ne voglio di bene.... tutto il mio bene....

Ed esaltandosi, come in ogni cosa agli ebbri suole avvenire, si cacciò le mani negli arruffati capelli e stracciandoseli a ciocche, piangendo ed esclamando soggiunse:

— Ma sono uno scellerato, un miserabile che merito le mazzate... sì, sì le merito... Mia moglie! I miei figli! Uh! uh! uh!... Sono io che li ho messi sulla paglia... Ah dovrei andarmi ad affogare, che sarebbe meglio per tutti.

Paolina, già un po' riavutasi, gettògli le braccia al collo con ispavento e con infinito amore.

— No, non dirle queste brutte cose. Andrea, ti prego..... Calmati, via, non piangere... Io ti perdono........ I tuoi figli ti perdonano...... Purchè tu lo voglia, la nostra sorte può cambiare e ridiventar quella di prima. Tu sarai di nuovo un buon operaio com'eri un tempo e guadagnerai come allora, io guarirò; e torneremo a vivere quei giorni felici che abbiamo già vissuto.

— Sono uno scellerato! Ripeteva colla sua ostinazione da ebbro il povero Andrea.

— Sei sempre il mio uomo, sei sempre il padre de' miei figli. Vieni presso di loro... E' t'aspettano. E' piangono per non vederti.

— Piangono!... Piango anch'io che sono un miserabile...

Marcaccio non s'era mosso di posto, e guardava ed ascoltava tutto codesto con un sorriso di scherno e crollando le spalle.

— E quello è un uomo? Diceva egli così da poter esser udito da Andrea. Che pan bagnato!

— Io! pan bagnato? Esclamava l'ubbriaco cambiando espressione, e volgendosi a Marcaccio. Pan bagnato un corno!...

— Non dargli retta! Supplicava Paolina, tirando Andrea per i panni affine di volgerlo dalla sua parte.

Maurilio le venne in soccorso; si mise innanzi ad Andrea, fra lui e Marcaccio, e ponendo in testa allo ubbriaco il berretto che gli era caduto in terra e il giovane aveva raccolto, disse alla donna:

— Avviatevi, e traetelo con voi, senza lasciarlo più parlare con quest'altro.

Poi, dirigendosi ad Andrea, con quel tono autorevole che egli sapeva assumere e che abbiamo visto produrre effetto persino su Gian-Luigi avvezzo a comandare, soggiunse:

— Andate a casa vostra, e ringraziate il cielo che vi ha dato una tal donna.

L'ubbriaco balbettò, parve un istante voler ribellarsi all'autorità con cui quello sconosciuto si arrogava di parlargli, ma incontrato lo sguardo potente di lui, dovette chinare il suo a terra. La [28] moglie lo tirò seco facendogli carezze e dicendogli dolci parole; ed Andrea finì per cedere ed uscire di là borbottando ma con riluttanza leggiera e facilmente superabile.

Marcaccio guardava di traverso il giovane che si era intromesso in aiuto di Paolina.

— Tant'è: diceva egli fra sè; questo cotale mi va a sangue come un bicchiere di vin cercone. Poichè il medichino lo conosce non sarà una spia.... Ma gli è qualche cosa da non dirsela coi nostri noi.... Per questa volta, in grazia al medichino, la passi liscia; ma se ancora gli avverrà di trovarmisi fra le gambe, il suo muso s'accorgerà com'è fatto il pugno di Marcaccio...... Quanto ad Andrea, e' non mi scappa più. Può tardare di qualche giorno, ma ci cascherà. Abbiamo bisogno di lui, e sarà nostro.

CAPITOLO IX.

Maurilio intanto aveva svegliato il bambino.

— Su, piccino, andiamo a casa tua adesso.

Il ragazzo s'era fregato gli occhi, s'era stirato le piccole membra ed aveva risposto sbadigliando:

— Andiamo pure.

Venendo fuori dell'osteria, il piccino indicò la direzione del cammino da farsi verso la parte più sporca e più brutta di quel bruttissimo e sporchissimo quartiere.

Giunsero, dopo un po' di strada, ad una porta ad arco, ma bassa e schiacciata, sotto la quale un lampioncino ad olio, di cui poteva dirsi col poeta, che pareva spento, tramandava attraverso ai vetri affumicati, tanto di luce tremolante e rossigna da poter scorgere che in quei muri, su quello spazzo l'umidità e le sozzure ci stavano trionfalmente in permanenza. Passarono un cortiluccio che di poco si discostava da una fogna; giunsero ad una scala stretta, non illuminata, a corte branche, a scalini alti.

— Se tu non mi dài mano: disse Maurilio al suo piccolo compagno, io non verrò a capo di andar su per queste tenebre senza rompermi il naso.

Il bambino pose la sua manuccia destra in quella sinistra del giovane, e questi scorrendo ancora coll'altra mano che gli restava libera lungo la parete trasudante un umor freddo e viscoso, scalpitando ad ogni posar di piede sempre nuove immondezze, pervennero ambedue alla fine della scala, sotto alla travata del tetto, in un corridoio basso, angusto, soffocato, tenebroso, che dava adito alle soffitte.

Fatti pochi passi per questo corridoio, il piccino si fermò innanzi ad un uscio serrato per di dentro, dalle fessure del quale trapelava un filo di luce del lume acceso all'interno, e vi picchiò col suo piccolo pugno.

— Chi va là? Chiamò di dentro a quell'uscio una voce aspra, rauca, stizzosa, che mal avreste saputo giudicare se era d'uomo o di donna.

— Son io: rispose il bambino. Allora s'udì un moversi di persona a rilento, uno strascico di pianelle e un brontolio di parole inintelligibili venir verso l'uscio.

— Sei proprio tu, Gognino? Domandò ancora la medesima voce.

— Sì, nonna.

L'uscio s'aprì e comparve fra i battenti una vecchia vestita a bardosso d'un subisso di panni che non avevan forma nè colore, la quale, senza badar più in là, per primo saluto allungò la mano, ghermì il polpastrello dell'orecchio al bimbo, e si pose a tirare.

Il tristanzuolo si diede a strillare come se lo pelassero.

— Biricchino! Gridava la nonna frattanto. È l'ora di tornarne questa qui? Le nove sono già ribattute alla campana della città.

Maurilio fece un passo innanzi; la vecchia lo udì, si volse, lo vide e lasciò il fanciullo che andò a finire il suo lamento e il suo pianto presso al misero focolare, dove s'accoccolò quasi sopra le braci mezzo spente.

La vecchia e Maurilio si guardarono l'un l'altra, come avviene fra due che si trovano a fronte e non si sono mai visti.

Di quella poteva dirsi col Boccaccio «una vecchia che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi,» tanto la era strema, vizza, sporca, brutta e scontrosa. L'occhio avea rimesso e maligno, la bocca asciutta, tirata e sottile, il naso adunco, il mento aguzzo e volgente all'insù con sopravi radi ma lunghi peli di barba grigia: un aspetto di tristo e d'abbietto, di maltalento temperato dall'impotenza.

Maurilio provò un senso di profonda ripugnanza, quasi di malessere innanzi a quella figura. E' non si scoprì la faccia e stette lì, com'era per istrada, col cappello fin sugli occhi e il mantello fin sopra la bocca.

— Chi è Lei? Domandò la vecchia colla sua voce squarrata. Gli è di me che cerca? Che cosa vuole?

L'uomo si appoggiò ad un desco zoppo che stava contro al muro presso l'entrata, e rispose:

— Son venuto a portarvi dieci soldi, perchè non vogliate battere quel vostro bimbo là.

La vecchia volse un suo sguardo invelenito sul fanciullo, il quale s'interrompeva dal piangere di quando in quando, per soffiare a pieni polmoni sulle braci, a cui cercava scaldare le sue mani intirizzite e gonfie dai geloni.

— Che cosa gli ha contato quel bugiardello di Gognino? Che sì che gli mostro io!

E la minaccia si sarebbe certamente risolta in [29] fatti, se la vecchia non avesse visto lo sconosciuto porre nel taschino del panciotto il pollice e l'indice della sua mano sinistra; allora ella, interrompendosi tosto nel discorso, tese la destra e stette ad aspettare.

Maurilio trasse fuori un pizzico di monete, le fece scorrere sulla palma della mano, e siccome, oltre poche di rame da cinque centesimi, non ce ne aveva che di argento, ne prese una da un franco e la porse alla vecchia, la quale fu lesta a farla ingoiare da un tascone della sua gonnella, dove, sonando cupamente, diede segno di essersi andata ad affratellare con il buon numero di soldacci grossi di rame. Poi ella sogguardò così di sbieco il donatore e con un cotale accento di timore, di peritanza, di rincrescimento, impossibile ad esprimersi, gli domandò:

— Ho da tornarle indietro il soprappiù?

Un sorriso ed un moto di spalle fatti dall'uomo, ella s'affrettò ad interpretare per una negativa, diede un colpetto colla mano alla sua saccoccia, come per chiuderla, e riprese con tono più umano e dolciato:

— Che Dio la benedica, signor mio, per questa carità.

Si volse verso il piccino che seguitava ad infrignare:

— Vuoi smetterla, Gognino, o che io vengo a levarti il ruzzo collo staffile?

Maurilio volle parlare, ma la vecchia non gliene lasciò tempo, e riprendendo a discorrergli come prima, soggiungeva:

— Per Lei, vorrò dire la terza parte del rosario, a favore dell'anima dei suoi morti.

La faccia di Maurilio si contrasse leggermente, ma ella nol vide.

— E sentirò domattina la messa alla Madonna del Carmine. Io sono sempre lì sulla porta della chiesa che vendo abitini, rosarii e candelette. Se mai avesse bisogno di me per alcuna cosa, la mi ci troverebbe. E se vuole, domani accenderò le candelette per lei all'altare delle indulgenze.

— No: interruppe Maurilio. Ciò ch'io vorrei si è che non batteste più quel povero bimbo.

— Ah! rispose la vecchia. Lei crede ch'io gli faccia del male a quel piccino. Si sbaglia, sa! Io non fo che per suo bene. È dura cosa alla mia età allevarsi su un figliuolo di quella fatta. Io sono tutt'altro che cattiva. Ne potrebbe domandare a chiunque, e se le si dirà che la Gattona è una senza cuore, voglio sprofondare. (Da un buon pezzo di tempo mi chiamano la Gattona; ma il mio vero nome è Modestina.... Modestina Luponi.... Ma, sa bene, tra noi povera gente si comincia, tanto per ridere, ad affibbiare ad uno un sopranome, lo si ripete una volta ed altra, e buona sera, gli è come se gliel'avesse dato il prete coll'acqua santa.) Dunque le dico che quel ghiottoncello là, di certe ore, tirerebbe le botte di mano ad un san Giobbe. Sono una povera vecchia io che il lavoro non può più darmi nessun guadagno. Vivo della carità della gente io, e deve sapere anche Lei, se la carità della gente la è tanto larga. Oh stia là, che a me quel biricchino gli è un grave peso a portare!

— Siete sua nonna, voi?

— Signor sì. Ma vorrei ben essere piuttosto.... Dio mi perdoni, che quasi ne direi qualcuna di grossa. È il figlio d'una mia figliuola, la quale dopo avermi dato i mille dispiaceri e perduto a me il rispetto, a sè l'onore, morì tra la miseria, lasciandomi sulle braccia quel coso. La ne aveva fatte di ogni razza quella disgraziata ed era proprio caduta al più basso.

— E voi, sua madre, come non avete potuto avviarla al bene?

— Eh sì! Che cosa vuole ch'io facessi? Bisognava ben lavorare per vivere.... Un tempo, me la ricavavo bene.... Sono stata in casa di signori.... e di certi signori.... Basta.... Venne un dì che la mia ragazza dovette andare in giornata da una parte ed io dall'altra. Sa come succedono queste cose. Cominciò per innamorarsi d'uno che la piantò. Poi diede retta alle offerte d'un ricco che la fece scialare per bene durante un po' di tempo. Quindi da questo a quello, che vuol ch'io le dica? Patatrach nella miseria e nell'abbiezione.... E fu allora, noti che provvidenza maligna! che le nacque codesto marmocchio della malora. Io avrei creduto che lo gittasse all'ospizio. Niente affatto. Quella creatura, che era stata senza cuore per sua madre e per tutti, volle tenersi il figliuolo, e per esso sostenne ogni sacrifizio ed ogni privazione.

— Ciò prova che vi era del buono in lei.

— E codesto la fece morire tisica all'ospedale a vent'ott'anni. Sono intorno a nove anni fa; me ne ricordo sempre; la mi fece chiamare al suo letto dove rantolava che faceva spavento, e mi disse con quel poco di voce che le restava e serrandomi la mano colle sue che bruciavano come carboni accesi: — Mamma, tu mi hai da promettere di non abbandonare mio figlio e di allevarlo su un onesto uomo. Che cosa vuole ch'io facessi? Promisi tutto quello ch'ella volle.

— Ed avete fatto bene.

— Oh! me ne ho dovuto pentire più d'una volta, glie lo dico io.... Avrei fatto meglio a dar retta al consiglio di alcune amiche, che era di piantarlo là e lasciar pensare a lui quella provvidenza che l'ha fatto nascere.

Maurilio sentì un profondo ribrezzo, ma stimò inutile il mostrarlo, e dopo un momento domandò:

— E suo padre?

— Chi? Il padre di quel bastardo? Chi l'ha mai visto o saputo chi fosse? Se l'avessi conosciuto, glie ne avrei portato bravamente e dettogli: — Mantenetevi [30] voi la vostra carne ed il vostro peccato, ch'io, che cosa ci ho da entrare io?

— Però voi da questo piccino tirate alcun profitto.

— Santa Madonna della Consolata! A che cosa può giovare di buono un bardassotto di quella guisa? Gli vo comperando qualche dozzina di mazzi di fiammiferi, perchè li rivenda e venga così raspando qualche solduccio: chè adesso che si vuol far tutto in nuovo, hanno proibito anche l'elemosina.... pena il Ricovero. S'e' volesse avere testa a partito, potrebbe pure guadagnarmi qualche cosuccia di questo modo; ma sì, egli è più vizioso di quanto si voglia credere, e non è ancora fuor di casa che con altri sbarazzini di sua risma, ei non sa far altro che giuocare alle biglie, o alla trottola, alle castelline e sciupare il tempo e i denari, e va apparando non altro che difettacci.

— Questo è vero. E voi non mantenete così la promessa fatta al letto di morte di vostra figlia; di allevarlo un onest'uomo.

— Oh sante piaghe! Che cosa ho da farne? Ei non vuol saperne di nulla delle cose da bene. Padre Bonaventura, un buon reverendo dei Padri Gesuiti lì del Carmine, mi aveva detto di mandarglielo in sacristia a far qualche piccolo servizio che gli avrebbero mostrato a servir la messa, e dato qualche elemosina di tanto in tanto, ed inculcatogli quanto meno il santo timor di Dio...... Eh sì! Gognino.... (lo chiamano Gognino, ma il suo vero nome è Luca).... Gognino è sempre scappato come il diavolo dall'acquasantino.

— Perchè non lo acconciate con qualcuna di quelle scuole infantili che ora si sono fondate?

— Scuole? Tutte baie!... Padre Bonaventura dice che non vi si tiran su che dei miscredenti..... E poi chi mi compenserebbe i dieci soldi che me ne fo portare?

— Ah!

Maurilio parve riflettere un poco. Diede una nuova e più minuta sguardata intorno a sè, si inoltrò nella soffitta ed esaminò meglio il ragazzo, il quale, tutto rannicchiato al focolare, aveva cessato di piangere, e teneva fisso sulla nonna e sullo sconosciuto gli occhioni larghi ed attenti. Poscia Maurilio si volse di nuovo alla vecchia e le disse:

— A quel bambino, di leggere e scrivere, voi non glie ne avete neppur parlato?

— Madonna santissima! E perchè mai? E che vuole ch'ei ne faccia? A che cosa giovano elleno queste cose per noi, povera gente, per quel disgraziato che gli toccherà sbrandellarsi la pelle se vorrà mangiar pane?

Maurilio non credette opportuno entrare in discussione colla vecchia sull'utilità del saper leggere e scrivere. Si rivolse al bambino e gli disse:

— Vieni un po' qui tu.

Gognino lo guardò con occhio ancora più largo, ma non si mosse.

— Hai sentito. Luca? Gridò la Gattona. Vien qui dal signore. E così, tristerello, vuoi obbedire o no? Subito, ti dico; chè se vado io a pigliarti.....

Fece un passo. Gognino tosto fu dritto e s'accostò adagio, mostrando nel muovere delle spalle e nel frusciarsi i panni addosso tutta la sua malavoglia.

— Luca, domandogli Maurilio, sai tu che cosa sia leggere e scrivere?

Gli occhi del fanciullo diedero un leggiero lampo d'intelligenza.

— Sì: rispose. Vedo bene che quando appiccan qualche cartello alle cantonate tutti ci si fermano.

— E di saperlo ne avresti voglia?

— Sicuro. L'altro giorno che hanno menato a morire quel bel giovane, e che io sono andato a vedere, e che tutto il mondo correva, che dicevano avesse ammazzato il suo padrone.... Ebbene avrei voluto poter leggere anch'io la sentenza su pei muri, come faceva l'altra gente.

Maurilio mandò un sospiro e scosse dolorosamente la testa.

— E voi, diss'egli alla vecchia, lasciate questo ragazzo andare a siffatti spettacoli?

— Bisogna bene. Così vedendo il castigo, imparano a non fare il male.

— Oh miseria dell'ignoranza! Mormorò il giovane; poi, come per una risoluzione subitamente presa, disse alla vecchia:

— Sentite. Voi quando aveste da questo ragazzo i vostri dieci soldi al giorno, nulla dovrebbe importarvi ch'egli se ne andasse attorno per le strade ad imparare i vizi, e il padre di essi, l'ozio, oppure da qualcheduno che gli desse un po' d'educazione. Non è vero?

— Certo. Ma se non vende fiammiferi o se non cerca l'elemosina, come razzolar dieci soldi? La mi par cosa impossibile.

— No: è fatta. Io gli darò dieci soldi al giorno e voi mi condurrete a casa ogni giorno, per lasciarmelo quanto tempo mi piacerà, il vostro Luca.

La Gattona guardò bene entro gli occhi l'uomo che le faceva una simile proposta.

— Scusi: biascicò ella: ma che cosa vuol fame lei di Gognino?

— Mostrargli a leggere e scrivere.

— Dassenno?

— Che cosa pensereste ch'io ne facessi?

— Ah! non saprei, ma di questi giorni se ne vedono tante!... Lei è dunque un maestro?

— Un maestro che vuol pagarvi invece d'essere pagato.

— To' gli è vero! L'è una bella opera che vuol fare!

— Bella no; mi ci voglio provare.

— Ed io avrò dieci soldi al giorno?

[31] — Senza fallo..... finchè non mi stanchi o non abbia altrimenti da cessare, perchè non prendo già un impegno per un dato tempo. Finchè dura, dura. Quando il vostro piccino non vi porterà più a casa i dieci soldi, potrete rifarne quel che vi piacerà. Siamo intesi?

— Ah! dieci soldi sono tanto pochini. Gognino cresce ogni giorno più.... Fra poco sarebbe in grado di fruttarmi assai di vantaggio. Mettiamo venti soldi.

— No. Sono povero ancor io. Questo lo posso fare, non di più. Se vi accontentate, bene; altrimenti sia per non detto.

— Via, come vuole.....

— Comincieremo da domani.

— A suo senno.

— Sapete leggere voi?

— Signor sì..... Come le ho già detto non fui sempre la misera donna che Lei vede in adesso. Quand'ero giovane.... Eh! Ho vissuto bene un poco ancor io.... Ma poi delle disgrazie.... Un vero romanzo se glie l'avessi da contare..... L'ingratitudine di certa gente.... Basta! Non gli accade ora di far parola di codesto.... So leggere come un notaio.

Maurilio trasse di tasca una cartolina compagna a quella che aveva data poc'anzi a Gian-Luigi.

— Prendete, disse porgendola alla vecchia, questo è il mio indirizzo. Domattina alle nove vi ci aspetterò col vostro nipote.

E fatta una carezza al ragazzo si mosse per uscire. La Gattona, presa la lucerna, gli tenne dietro a rischiarargli l'andito e la scala, e quando lo sconosciuto fu per ispiccarsene, ella lo ritenne.

— Ah signore, gli disse, d'una cosa la voglio avvertire. Se mai per caso..... poichè vedo che Lei è tanto generosa..... se le avvenisse di voler fare qualche maggior carità a Gognino..... in più di quei dieci soldi......; ebbene, la prego a non dar niente a lui. È malizioso come il fistolo, sa, e sarebbe capace di tenersi i denari e sciuparli al giuoco, non dicendomene neppur motto. Sarebbe meglio che li dèsse a me direttamente.

— Va bene, va bene; rispose Maurilio, e partendo di buon passo lasciò lì la vecchia, a piè della scala.

La Gattona, risalita alla sua soffitta, pose la lucerna in sul desco, e curiosamente si fece a leggere le parole scritte sulla polizzina datale dallo sconosciuto. Esse erano le seguenti: Maurilio Nulla, scrivano pubblico, via porta num. 7, piano quarto.

— Maurilio! Esclamò la vecchia sovraccolta. Oh! Che cosa mi ricorda questo nome! Sono più di venti anni che non l'ho più udito; che non trovai più nessuno che lo portasse....... E costui potrebbe egli avere alcuna attinenza con quell'altro là?.....

Scosse le spalle, come si fa quando ci viene un'idea assurda pel capo.

— Eh via! Gli è impossibile.

Allora domandò conto a Gognino di quanti denari avesse raccattato durante la giornata; e poichè vide che in luogo di dieci non le aveva portato a casa che quattro soldi, si diede a batterlo secondo l'usato, precisamente come se l'intervento di Maurilio non avesse avuto luogo.

CAPITOLO X.

Maurilio s'allontanava da quella casa col capo più basso e coll'animo più triste di prima. Andava lentamente traverso la nebbia fattasi più folta, come uomo a cui la volontà non dirige il cammino, ma si lascia trasportare a caso dalle sue gambe. L'umido spruzzolìo di prima s'era convertito in buona e bella neve che calava giù lenta, lenta, fra la nebbia, a larghi fiocchi, e già vestiva d'un bianco strato il terreno su cui ammortiva il suon de' passi ai rari cittadini che per quella melanconica sera si affrettavano a rientrare nelle case loro.

Ad un tratto il nostro giovane si riscosse. Era uscito dal povero quartiere della miseria e dell'abbiezione, e trovavasi in una strada larga, fiancheggiata da superbe abitazioni del ceto signorile. Innanzi a lui, un palazzo dei più suntuosi gettava nelle tenebre della notte dagli alti suoi finestroni delle ondate di luce che faceva brillare al passaggio i candidi fiocchi della neve. L'alto e imponente portone da via, per cui s'entrava in un atrio elegante di severa architettura, era spalancato, e nell'atrio medesimo stava una magnifica carrozza chiusa, a cui attaccati due stupendi cavalli di prezzo che scalpitavano e scuotevan la testa impazienti. Certo questa carrozza attendeva i padroni di quel palazzo che stavan per uscire: e così pensò tosto Maurilio, il quale nel cocchiere vestito di terraiuolo impellicciato, seduto con altezzosa imponenza sull'alto sedile colle redini in una mano e la frusta nell'altra, in una classica mossa che qualunque cocchiere inglese gli avrebbe invidiato, riconobbe tosto la livrea della nobile famiglia a cui quel palazzo apparteneva.

Maurilio s'era lasciato condurre passivamente dalle sue gambe, e queste lo avevan portato là dove tanto spesso volava il suo pensiero.

In faccia a quel portone, il giovane sostò, si volse a quel bagliore che pioveva dalle ampie finestre, guardandovi fiso con occhio e con sembiante pieni di mille espressioni, profferse parole cui nessuno, anche udendole, avrebbe pur potuto capire.

Parve esitare un istante, poi con evidente sforzo si staccò dal posto in cui stava piantato e fece alcuni passi per allontanarsi; ma tosto si arrestò [32] di nuovo; una lotta si combatteva nel suo animo; tornò vivamente indietro, e senza che alcun lo vedesse, guizzò sotto l'atrio e corse ad appiattarsi dietro ad un gruppo di colonne. Là si appoggiò al freddo marmo d'una di queste colonne e si premette con ambe le mani il cuore che gli batteva così violentemente da minacciar di scoppiare.

Non attese lungamente. La grande invetrata che metteva al marmoreo scalone venne aperta da un domestico in gran livrea a capo nudo; due donne con fiori ne' capegli, avvolte in ricchi mantelli alla foggia beduina di cascemir bianco con ricami in oro ed un uomo imbaccuccato nel tabarro ed avvolto il collo sino alla faccia da una finissima fascia di lana si diressero verso la carrozza, di cui corse ad aprire lo sportello un altro domestico in soprabito lungo, a grossi bottoni d'argento stemmati e col cappello coperto di tela incerata in mano.

Quelle due donne erano passate rapidamente, ma il nostro giovane le avea viste, le avea saettate di suoi sguardi accesi come una fiamma, ansimante il petto, battenti i polsi della testa, tremanti tutte le fibre, le avea seguite collo sguardo intento.

O per dir meglio non aveva visto, ammirato, vagheggiato che una di esse: — la più giovane. Era bella come un'apparizione nel sogno d'un poeta d'Oriente. Alta della persona, dignitoso e graziosissimo il portamento, mite e pur nobilmente superbo l'aspetto; un muover di collo che ricordava l'avvenenza del cigno, una eleganza nativa, non ricercata, non appresa, piena d'incanto; tutta la grazia aristocratica nel piglio, senza l'offensività dell'orgoglio. A vederla passare soltanto, ogni cuore si sentiva trascinato dietro lei con un omaggio d'ammirazione. Chiunque avrebbe affermato senz'altro esser ella nata per andar prima in tutto, per vedere tutto il mondo a que' suoi piccoli, ben arcati, sottilissimi piedi. Un diadema di regina non avrebbe disdetto alla sua fronte leggiadramente superba. I suoi capelli di color biondo un po' fulvo, le facevano intorno al capo di sì fina struttura un'aureola d'oro, come alla più bella vergine staccata da uno de' più bei quadri del Luvini. Lo sguardo limpido, sereno, profondo balenava in occhi cui meglio non avrebbe saputo disegnare il pennello di Murillo, del color del mare. Il sorriso era grave in una ed infantile. Tutta la malìa della gioventù accompagnata dalla più splendida bellezza, vi si trovava insieme colla riflessività d'un'anima che sente, che ha già visto il dolore, d'un cervello che pensa e d'un cuore che si commove. La sua mano, da sola, chi non vedesse altro di lei, l'avrebbe fatta conoscere per generata di purissimo sangue aristocratico. Era una mano esile, lunghetta, a dita affusolate, ad unghie color di rosa elegantemente convesse, bianche come l'alabastro ed appena se mostranti traverso la pelle finissima l'azzurigno della rete venosa; una mano che uno scultore avrebbe adorata.

L'altra donna era di età inoltrata e sul suo volto, che incominciava ad esser troppo corso dalle rughe, non si leggeva che orgoglio, arroganza e disprezzo d'altrui.

La giovane entrò prima nella carrozza, poi l'attempata, ultimo l'uomo. Il domestico richiuse la portiera, si mise in testa il cappello, salì in cassetta vicino al cocchiere, e la carrozza si mosse.

Già era uscita dal portone, già il domestico in livrea era risalito negli appartamenti: già il portiere, venuto fuori a salutare con un grande inchino il passaggio della carrozza, richiudeva il portone per non lasciar aperto che l'usciolo a sportello, e Maurilio era ancora là, appoggiato alla colonna, immobile, ma palpitante, gli occhi rapiti come da una celeste visione.

Ad un tratto si scosse. Aveva bisogno di vederla ancora. Si slanciò fuor del portone ratto come un baleno, passando presso il portiere spaventato; vide allo svolto della via sparire i fanali della carrozza che andava al piccol trotto de' suoi cavalli; corse come vola una saetta in quella direzione; raggiunse il cocchio, s'aggrappò al predellino di dietro, su cui stanno in piedi i servitori, vi si arrampicò, vi si raggomitolò, vi stette sentendosi mancare il fiato, la lena e le forze.

Intanto pensava nel suo cervello cui veniva a martellare il sangue concitato.

— Ella è là!..... Là presso a me..... Divisa da una sottile parete. Appoggia forse a questo punto la sua bella persona... Se potessi vederla nell'abbandono del suo atteggio!

La carrozza correva senza rumore sul tappeto già alto della neve caduta. Quando la si arrestò Maurilio parve ridestarsi e guardò intorno dove si trovasse. Era in piazza S. Carlo e la carrozza era venuta ad accodarsi l'ultima di una schiera di cocchi che facevan la fila per entrare uno ad uno nel portone d'un palazzo in mezzo a quel lato della piazza che guarda l'occidente. Questo palazzo dalle sue finestre del primo piano mandava torrenti di luce che correvano via lontano per la piazza a illuminare i fiocchi cadenti della neve, a ripercotersi sul cimiero di bronzo imbianchito ancor esso della statua equestre d'Emanuele Filiberto, a riflettersi come un lampo sanguigno in mezzo a tutto quell'albore sulla baionetta che brillava a capo del fucile stretto fra le braccia dalla sentinella del monumento intirizzita.

Eravi gran ballo nelle sale della Società dell'Accademia Filarmonica; uno di quei balli, come al giorno d'oggi non ne vediamo più, in cui il fior di farina della borghesia, stacciato traverso il cribro de' più permalosi pregiudizi, accoglieva la disdegnosa aristocrazia, la quale era stimolata [33] alla degnazione di arrendersi all'invito dall'esempio della Corte, che onorava la festa di sua presenza.

Maurilio si ricordò in quel punto di aver udito parola di tal festa da un suo amico, ricco, elegante e socio di quella congrega. Come fosse amico d'un ricco, egli povero, senza nome e senza stato, lo sapremo in appresso. Discese dalla predella su cui s'era aggomitolato, e si gettò sotto il portico del palazzo coll'intenzione di introdursi fin sotto l'atrio, fin nel vestibolo per aver la dolcezza di vedere ancora una volta la incantatrice visione di poc'anzi apparirgli, val quanto dire quella stupenda e superba bellezza di donna uscir di carrozza e passargli dinanzi.

Ma l'impresa era più difficile di quanto ei si pensasse, e fu un momento in cui per sua disperazione gli apparve impossibile. Sotto il portico, ai due lati del portone, sul passaggio delle carrozze, che lentamente sfilavano ad una ad una per lasciar giù nell'atrio le persone che contenevano ed uscir poi da un altro portone di facciata, traversando il cortile stato ricoperto con invetrate e ridotto a giardino; sotto il portico, dico, s'erano formate due fitte siepi di curiosi che stavano cogli occhi intenti a mirare nello scuriccio dell'interno de' cocchi le ombre di color bianco o rosato delle acconciature femminili.

Il nostro giovane protagonista ben riuscì, non senza difficoltà, a spingersi in prima riga di questa calca là dove facevano barriera a contenerla indietro il cappello a becchi dei carabinieri, e la mazza dei veterani, che si chiamavano ordinanze del Comando di piazza, i quali, allora, servivano da guardie di polizia. Ma ciò non gli bastava: era sotto il portone, era nell'atrio, era su per le scale ch'e' voleva penetrare. Pensava che occorreva affrettarsi. Quantunque la fila delle carrozze fosse assai lunga e procedesse lentamente, se Maurilio non si sbrigava, poteva arrivare la volta di entrare a quel cocchio su cui aveva rivolti tutti i suoi pensieri, prima ch'egli fosse là dove desiderava allogarsi. Un nuovo ardimento entrò in lui. Si spinse temerariamente innanzi e varcò la sacra soglia del portone conteso ai profani. Ma colà si trovò innanzi la imponente corporatura d'un gigantesco portiere con tanto di cappello a becchi gallonato, con tanto di gallone sul soprabitone a spada, con tanto di budriere largo un palmo traverso il petto, e con una gran mazza a pome di argento nella mano vestita di guanto bianco di cotone.

Questo alto personaggio fiancheggiato da due ordinanze, guardò con cipiglio disdegnoso ed impaziente l'audace dai panni logori colla neve sulle spalle e sul cappello, che osava avventurarsi in quelle aure olimpiche riserbate ai Dei e Semidei.

— Non si passa: disse il signor portiere con brusco accento, mettendosi innanzi all'intruso.

Dietro le grosse spalle quadre del portinaio, balenarono agli occhi di Maurilio le piastre di metallo colla croce in mezzo dei sciacò delle due ordinanze pronte a mettere in esecuzione il bando formolato dalla voce solenne dell'autorità della porta. E' si perdette un istante di spirito; balbettò confuse parole e sentì un rossore accusatore salirgli alla faccia.

— Andiamo, andiamo: riprese il portinaio, bisogna sgomberare. A momenti arriva la Corte...

Un'idea per fortuna era venuta a Maurilio che si torturava il cervello per trovarla. Si ricordò di quel suo amico che ho detto poco anzi, e pensò invocarne la protezione del nome.

— Cerco dell'avvocato Benda....... È ben qui l'avv. Benda?

— Sicuro che c'è; rispose il gigante che faceva da cerbero; ma questo non è il luogo nè l'ora di cercarlo.

Maurilio fece come il naufrago, che aggrappatosi a qualche cosa onde spera salute, non vuole spiccarsene più; giunse le sue grosse manaccie in atto di supplicazione ed insistette:

— Bisogna assolutamente ch'io gli parli.......... Si tratta di cosa gravissima e che preme..... Mi contenterò d'aspettarlo sotto l'atrio o su per le scale... Di grazia lo facciano chiamare... Darò il mio nome... Vedranno che verrà tosto... Ripeto che è cosa importantissima.

L'accento, la figura, la mossa del giovane erano così turbati che il portinaio credette realmente a qualche cosa di serio. Pensò inoltre alle larghe mancie che soleva distribuire l'avvocato Benda, onde valeva la pena di far cosa che potesse contentarlo. Il cerbero si fece più umano; curvò le spalle ed abbassò d'un tono l'altezzosa impertinenza dell'accento.

— Se è così... possiamo provare.... ma il difficile sta nel trovare l'avvocato nella confusione di gente che c'è lassù...... Gli è quasi come cercare un ago in un fastello di fieno..... Ma pur via......

Si rivolse dignitosamente ad una delle ordinanze.

— Fate il piacere, disse, accompagnate questo giovane lì nel vestibolo in fondo alla scala e dite ad uno dei domestici il fatto suo.

L'ordinanza fece un cenno affermativo col capo ed eseguito un dietro-front, disse a Maurilio con tono di comando militare:

— Venite!

A Maurilio il cuore saltava in petto dalla gioia. Aveva sperato bensì che lo avrebbero lasciato introdursi da solo, allora avrebb'egli ben cercato dove appiattarsi da veder comodamente ciò che tanto desiderava: ed invece doveva seguire i passi del soldato e proseguire nella menzogna a cui aveva domandato soccorso: ma almeno egli era, per dirla in istil militare, nella piazza, e ciò gli bastava.

[34] Il veterano condusse il giovine fin sulla soglia del vestibolo dello scalone, dove un servitore della Società in gran livrea stava appostato. Già in quel vestibolo tutto era luce e profumi. Ricchi arazzi pendevano alle pareti con ghirlande di fiori, un morbido tappeto copriva il marmo del pavimento, ai due lati si schieravano enormi vasi ed eleganti, da cui gettavano il soave effluvio de' loro fiori, cedri, aranci ed oleandri; mille fiammelle alimentate dal gaz e dalla cera brillavano a gara nel tepore di quell'ambiente. Come aveva detto il portinaio, si stava aspettando da un momento all'altro l'arrivo della Corte. Sotto l'atrio, facendo ala fino al vestibolo, erano schierate in due file le guardie del palazzo reale; a cominciar dal vestibolo, su per tutto lo scalone, ad ogni due passi, da una parte e dall'altra, sorgeva il cappello piumato e scintillavano a quel tanto bagliore gli spallini e le tracolle d'argento d'una guardia del Corpo. La deputazione dei soci dell'Accademia destinata a ricevere le LL. MM. e le LL. AA. RR. già era venuta giù fino al ripiano frammezzo alle due branche dello scalone, e mostrava in gruppo le sue cravatte bianche e i suoi vestiti a coda.

Voi comprendete quindi quanto fosse mai inopportuna la venuta e la domanda del nostro povero Maurilio. Quando il buon veterano ebbe spiegato l'una e l'altra al domestico, questi volse sul meschino mantello del giovane lo stesso sguardo di disprezzo che già s'era meritato dal portinaio, e rispose crollando le spalle per impazienza e sorridendo con superba compassione.

— Eh! siete matto, brav'uomo! Si ha ben altro da pensare adesso! E poi chi potrebbe mai trovare lassù fra tanta confusione l'avvocato Benda?

Per azzardo un altro domestico che passava udì queste parole, e si fermò.

— L'avvocato Benda? Diss'egli. E' si può trovar subito, chi lo vuole. Egli è qui sul ripiano che fa parte della deputazione per ricevere il Re.

Allora Maurilio si trovò costretto a ripetere la sua menzogna, che urgeva parlasse a quel signore.

— Mi dica il suo nome: soggiunse quel secondo domestico che pareva più umano: e glie ne dirò all'avvocato.

Così fece Maurilio, e il domestico s'affrettò su per lo scalone. Due minuti non erano ancor passati che ecco venir correndo un bel giovane in elegante ed inappuntabile acconciatura da ballo, il quale esclamò con accento veramente cordiale:

— Che? Sei tu che mi cerchi, Maurilio? Vieni, vieni e dimmi che cosa è capitato.

A questo intervento, la soglia del vestibolo, che fino allora gli era stata contesa dal domestico e dall'ordinanza rimasta lì pronta a pigliar pel braccio l'intruso e ricondurlo fuori, quando ne fosse il caso; quella preziosa soglia fu permessa a Maurilio e il piede di costui potè, benchè tutto sporco di fango, calpestare il ricco tappeto del vestibolo come facevano gli scarpini di vernicato del suo compagno.

Francesco Benda, come ho già detto, era un bel giovane, ma ciò che è meglio, simpatico per chiunque lo vedesse, e inoltre (il che è assai di più ancora) buono, generoso, amorevole, pieno di carità e d'affetto. Apparteneva alla ricca borghesia, ma non ne aveva gli stupidi orgogli, l'arida ignoranza e i gusti meschini. Suo padre, operoso industriale, aveva coll'intelligenza e col lavoro accresciuto un vistoso patrimonio già lasciatogli da' suoi parenti, e seguitava ad accrescerlo coll'esercizio di parecchie miniere di ferro che attivamente coltivava e con una grandiosa fabbrica d'ogni fatta utensili di questo metallo.

L'unico figliuolo maschio di questo fabbricante aveva fin da principio manifestato poca inclinazione per le cose dell'industria. L'orgoglio del padre suscitatosi alquanto coll'aumentar delle ricchezze, quello della madre maggiormente soddisfatto ed incitato insieme dalle belle sembianze e dalle simpatiche maniere del figliuolo, le tendenze di quest'esso, avevano congiurato per far decidere dalla famiglia che Francesco non continuerebbe nel mestiere del padre, ma farebbe il signore; val quanto dire l'uomo ozioso, il consumatore improduttivo che la sciala sul capitale raccolto dal lavoro accumulato da' suoi antecessori. Siccome per la borghesia torinese, massime a quei tempi, la laurea d'avvocato era una mezza nobiltà che tirava su chi la possedesse dal ceto mercantile creduto da meno; padre e madre Benda decisero che il loro figliuolo vestirebbe la toga dottorale; e il buon Francesco accrebbe di uno il numero degli avvocati senza cause che pagano con cinque anni sciupati all'Università la sciocca superbia di portare quel titolo.

Ma il giovane Francesco ebbe due fortune: la prima un'indole eccellente, non iscompagnata da una buona intelligenza, e quindi una propensione per tutto ciò che è bello e sopratutto per le divine cose dell'arte, fra le parti della quale egli prescelse e coltivò non senza successo la più delicata di tutte, la musica; la seconda fortuna fu di abbattersi in una schiera di amici che erano d'animo eletto e di non volgare ingegno. Fra costoro contava Maurilio; e come questi due giovani, così divisi dalle condizioni sociali, si fossero incontrati, raccozzati ed amati, vi racconterò fra poco.

Al momento in cui, quella sera di festa, appena udito il nome dell'amico che cercava di lui, Francesco Benda s'affrettava a recargli innanzi la sua aggraziata persona, la faccia serena, la fronte leggiadra coronata di bei capelli castagni riccioluti, lo sguardo degli occhi azzurro, limpido come quello d'una ragazza innocente, egli contava intorno a venticinque anni. Era conosciuto ed ammesso in [35] tutte le più eleganti società; se fosse stato un fatuo, avrebbe potuto contare molte di quelle che i Francesi chiamano buone fortune. Le signore più alla moda cantavano con espressione le sentimentali di lui romanze, e quando egli sedeva al pianoforte, anche le più schive e severe si accostavano a lui e non disdegnavano fissare i loro occhi lucenti sulla bella testa del giovane e si commovevano alle dolcissime melodie che egli sapeva suscitare dai tasti. Le adulazioni degli amici interessati che mangiavano le sue cene, fumavano i suoi sigari, cavalcavano i suoi cavalli, usavano sotto titolo d'imprestito da non restituirsi mai, della sua borsa, non lo guastavano, perchè egli alle adulazioni non credeva e le abborriva; e la compagnia di quei tali amici che ho detto più su, cui egli si procacciava il più spesso che gli fosse dato, creavagli intorno, direi quasi, un ambiente sano a premunirlo.

Egli adunque era corso sollecito alla chiamata di Maurilio; l'aveva intromesso nel vestibolo, e prendendo all'amico le mani grosse e volgari colle sue accuratamente inguantate di bianco, aveva soggiunto:

— Parla, parla. Spero che non sia accaduto nulla di disaggradevole nè a te, nè ai nostri amici; ma ad ogni modo, qualunque cosa sia, dimmela, e tutto ciò ch'io dovrò fare, sta certo che lo farò.

Maurilio teneva gli occhi bassi ed esitava a parlare. Una nuova menzogna, e detta a quel buono e leale amico, troppo ripugnava alla sua anima franca; e dire la verità si vergognava più che non si può esprimere.

Francesco interpretò quell'esitazione nel peggior senso.

— Dio! Esclamò egli tutto sgomentato. Tu mi spaventi. È dunque alcuna cosa di grave?

Abbassò la voce ed accostò ancora le labbra all'orecchio dell'amico.

— Forse, soggiunse con una voce che non era più che un soffio leggiero, forse siamo scoperti?....

Maurilio sollevò in volto a Benda il suo sguardo espressivo.

— No: rispose. Ciò che qui mi trasse, non è nulla che possa inquietare nessuno. Ebbi immenso bisogno di penetrar sin qui, ho immenso bisogno di fermarmici un istante..... Ho pensato ricorrere alla protezione del tuo nome.

Benda stupito stava per fare alcuna interrogazione, quando un movimento generale interruppe il colloquio dei due amici.

Un domestico passò correndo e gettò queste parole: — È qui la Corte. Sotto l'atrio suonò con voce vibrata il cenno del guardiavoi dato dal comandante delle Guardie del Palazzo: le Guardie del Corpo nel vestibolo e su per lo scalone si misero nella postura del soldato in rango e portarono a bracc'-arm le loro lucenti carabine: la Commissione dei soci incaricata del ricevimento scese la branca ultima dalla scala e s'avviò verso l'atrio.

Prima di riunirsi a questa schiera, Francesco Benda disse affrettatamente a Maurilio:

— Mettiti lì, dietro quel vaso, ed aspettami. Appena accompagnata la Corte negli appartamenti, torno giù, e riparleremo.

Maurilio non desiderava di meglio: sparì dietro un grosso vaso d'oleandro, mentre preceduto dal susurro della folla curiosa dal di fuori, entrava sotto l'atrio il battistrada a cavallo, coperto il mantello rosso di neve.

Presentat-arm! Comandò la medesima voce.

Si udì il rumore secco e vibrato del movimento dell'arma eseguito dalle guardie colla precisione di vecchi soldati, e sei carrozze della Corte, l'una dietro l'altra, entrarono in mezzo ad un profondo silenzio del popolo che si accalcava fuori del portone e che i Carabinieri e i Veterani tenevano indietro non sempre con buona grazia.

Quello non era ancora il tempo in cui ogni comparsa in pubblico del sovrano desse pretesto ad un'ovazione popolare.

Gli augusti personaggi scesero di carrozza e brevemente complimentati dall'apposita deputazione, si avviarono verso le scale. Veniva primo re Carlo Alberto, con alla destra la regina ed alla sinistra, d'un passo indietro, il presidente della Società che lo accompagnava; poscia il duca di Savoia Vittorio Emanuele colla duchessa, al cui lato dall'altra parte camminava il duca di Genova; dietro, dame ed ufficiali d'ordinanza ed aiutanti di campo e cortigiani.

Le brillanti uniformi degli uomini, i diamanti ed i vivaci colori delle acconciature femminili lucicchiavano alle mille fiamme di quella luminaria, come un'accolta di fuochi. Tutto quello che ha di più maestoso e di più splendido la società civile, radunato in quel gruppo di grandezze e di suntuosità, passava innanzi agli occhi abbagliati di Maurilio, di quel povero giovane senza nome e senza famiglia, nato e vissuto nella povertà e nel lezzo della più umile plebe, che veniva pur ora dagli sconci quartieri ove s'agita la più sprezzata ciurmaglia ed aveva a' suoi piedi appiccato il fango dei trivii più sozzi. Un mordente pensiero gli spuntò nel cervello, e un gran quesito, quello della sorte umana, lo morse improvviso nell'animo.

— Quelli son tutto, ed io nulla!... Perchè?

Sentì nel petto un'angoscia che gli parve la stretta d'un'invidia potente.

— Oh! se potessi aver mio uno di quei nomi, una di quelle grandezze!

Pensava a quella giovane beltà cinta di ricchezza e d'orgoglio che nella fila dei cocchi attendeva la sua volta per venire a montar quello scalone e introdursi in quell'Eden di gioie mondane a lui serrato dalla tirannia delle convenzioni sociali.

[36] — E v'è un uomo al mondo, continuava egli nel suo pensiero, il quale con atto di sua volontà potrebbe farmi grande e potente; e quest'uomo è quello che ora mi passa dinanzi; è quello che chiamano col nome di re.

Colle mani Maurilio aprì un piccol varco tra le frondi della pianta dietro cui si riparava, e spinse alquanto innanzi la faccia per vedere il re ch'egli conosceva soltanto dai ritratti che abbondavano presso tutti i mercanti di stampe.

La figura di Carlo Alberto era tale, che, non fosse pure stata quella d'un re, avrebbe in ogni dove attirata l'attenzione e meritato dall'osservatore un posto singolare ed una preminenza sulle altre. Sul suo sembiante stava l'impronta della sua natura generosa, ma in alcuni lati incerta, sostenuta in parte da una fede potente, travagliata in altra da un dubbio crudele — dubbio degli uomini e di sè stesso. La vastità della fronte informava di quella dell'intelligenza; le rughe precoci delle tempia, la canizie anticipata delle chiome svelavano segreti, forse da nessuno mai compresi dolori; il pallore quasi cadaverico delle guancie emaciate, lo sguardo spento de' suoi occhi affondati stavan segno di profondi travagli, in notti vegliate ai tormentosi studi, in cui un pensiero ribelle affannava un'anima, forse non vigorosa abbastanza, un generoso concetto lottava contro una volontà non adeguata di forza, una seducente ambizione ed un coraggio individuale, accresciuto da una tradizione di razza, contrastavano colle esigenze d'un prudente riserbo, alcune volte timido per necessità fatale e dolorosa.

Su questi tratti del politico e del re, gettava un velo, che ne accresceva l'incertezza, una specie di misticismo ascetico; sopra le sembianze del cavaliere scorgevi una traccia del rinunciamento, del sacrificio passivo dell'anacoreta; avresti detto che quelle tormentose veglie, onde rimaneva affranta la combattuta carne, cominciate nel faticoso problema delle cose terrene, finivano in rapimenti estatici nell'incomprensibile delle cose divine. Al postutto una grandiosa figura, una delle più complesse e delle più degne di studio che abbia la storia moderna.

Maurilio sentì una strana attrazione verso quella imponente figura di sì misteriosa espressione. Non era lo splendore della potenza che lo colpisse, non era la corona regale ch'egli vedesse su quella pallida fronte; era come la malìa d'un ignoto, che pur si sente racchiudere la grandezza d'un pensiero fecondo, era la traccia del travaglio doloroso di un'anima superiore, travaglio che pareva sin d'allora il preavviso che quella fronte avrebbe portata una corona ancora più preziosa: la corona di spine del martirio.

Il giovane plebeo non potè tenersi dallo spingersi alquanto innanzi a mirare di meglio quell'alta, scialba, severa, solenne persona di re incanutito, brillante il petto di tutte le cavalleresche insegne, circondato di tutte le mostre della potenza. Carlo Alberto ebb'egli attirata la sua attenzione dal lieve rumore del fruscio delle foglie, fu egli avvertito da un influsso magnetico dello sguardo penetrante di Maurilio? Il fatto è che il sovrano volse il capo a quella parte, e visto, in mezzo ai fiori dell'oleandro, due occhi, ardenti come carboni accesi, fissi su di lui, diede in un sussulto lievissimo, e il suo occhio semispento si affissò a sua volta in quegli occhi e balenò d'un istantaneo bagliore in cui si sarebbe potuto dire ci fosse dubbio, sospetto, un'ombra di fugace apprensione tostamente repressa. Ma non una linea de' suoi tratti si mutò, non un muscolo della sua faccia menomamente si mosse. Lo sconosciuto non aveva chinato le sue pupille nell'incontrare lo sguardo di quelle del re; ma in quegli occhi profondi non c'era pure un accenno di ostilità, piuttosto vi era un desiderio, una specie di aspirazione, un voto, quasi una speranza[1].

Carlo Alberto continuò il suo cammino, e l'occhio suo, senza pur muoversi, corse via dal viso squallido e tormentato del giovine plebeo all'imponente corporatura della Guardia del Corpo vicina, che presentava l'arma, immobile e dura come un pezzo di marmo.

Era l'epoca in cui credevasi Carlo Alberto aver detto, e certo avrebbe potuto dirlo con tutta verità, trovarsi egli fra il pugnale dei Carbonari ed il cioccolato dei Gesuiti. Damocle coronato, l'antico cospiratore del ventuno camminava sopra un terreno malfido, frammezzo a due abissi, senza una mano a cui sicuramente appoggiarsi, sotto le cortigianerie dei grandi e sotto il muto riserbo dei popoli sentendo romoreggiare cupamente odii infiniti, ed implacabili sospetti, ed infinite minaccie; camminava fra un sì ed un no che nel capo gli tenzonavano incessantemente, verso un'ignota [37] meta, di cui non iscorgeva egli stesso la qualità e la sorte. Che meraviglia se alcuna volta esitasse nel passo? Che meraviglia se all'aspetto d'ogni cosa ignota, s'attendesse ad un avverso colpo del fato? Se al semplice fatto d'un luccicar di due occhi accesi tra i fiori di una festa, nascesse nel suo cervello l'idea d'un pericolo?

Il Re passò lentamente, e dietro di esso la frotta ordinata e smagliante della Corte. S'udì in alto, per la vastità degli appartamenti suonare la marcia reale e perdersi il plauso di battimani, con cui i beati del censo, invitati a quella festa, salutavano l'arrivo di quei sommi rappresentanti dell'autorità sociale. Le Guardie del Corpo si formarono in isquadra e salirono lo scalone dopo il corteggio reale; e le carrozze degli arrivanti ripresero il loro sfilare sotto l'atrio, interrotto dall'arrivo degli equipaggi di Corte.

Maurilio non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo sventurato solletico d'una tentazione indefinita.

Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne affrettatamente a raggiungerlo.

— Eccomi a te, diss'egli a Maurilio, fattolo venire a mezzo il vestibolo. Che cos'è che mi dicevi? Che avevi mestieri di venir qui? Perchè? In che cosa posso giovarti? Vuoi forse parlarmi più agiatamente e in segreto? Posso condurti in una riposta cameretta qui sopra, segregata dalla festa.....

— No, no: s'affrettò ad esclamare Maurilio.

L'imbarazzo di proseguire nella risposta gli fu accresciuto dalla profonda emozione che di botto s'impadronì di lui. Dalla carrozza ferma in quell'istante sotto l'atrio era uscita e veniva verso i due giovani la persona che Maurilio stava con tanto desiderio aspettando.

Francesco Benda non fu in caso di scorgere il turbamento del suo compagno, perchè ancora egli era in preda ad uno per nulla minore. Mandò una esclamazione, e senza più badare all'amico, tutto preso com'era da un nuovo potentissimo sentimento, si spinse innanzi ad incontrare e salutare le due donne e l'uomo che le accompagnava.

L'attempata ed il cavaliere accolsero il giovane avvocato con molto altiero sussiego e risposero al suo saluto con modo di superba superiorità: ma la giovane gli diresse un gentile sorriso che ben valeva a scancellare ogni sinistra impressione per le maniere degli altri.

Benda si mise allato alla vecchia patrizia e venne accompagnando le due donne verso lo scalone. Il cavaliere s'era fermato un istante per dare qualche ordine al domestico dal lungo soprabito che seguiva col cappello in mano. La giovane all'altro lato della signora attempata passò proprio accosto a Maurilio fermo al posto in cui si trovava, come se vi avesse piantato le radici, incapace di fare il menomo atto, di dire la menoma parola, quasi di trarre il rifiato.

Ella passò colla stessa indifferenza con cui sarebbe passata presso ad una statua o ad uno spigolo della parete, e le vesti leggiere ed eleganti che avvolgevano come d'una nube candidissima la gran dama, sfiorarono frusciando i rozzi, umili panni del povero trovatello. Questi sentì un brivido scuotergli le intime fibre ed un subito gelo figgergli il sangue nelle vene, arrestargli il battito del cuore; una nebbia gli passò innanzi agli occhi e temette un istante cadere. Chi l'avesse guardato in quel punto, avrebbe esclamato: — Gran Dio! Quell'uomo sta per morire.

— Signora marchesa: diceva alla vecchia Francesco Benda, con voce un po' commossa, guardando la giovane: mi permette ch'io le offra il mio braccio?

— Grazie, signor Benda: rispondeva con altiera gentilezza la marchesa, stringendo vieppiù alla persona il suo braccio, come per rifuggire dal contatto di quello che le veniva offerto. Virginia, soggiunse ella poscia, volgendosi alla giovane, vedi un po' se i miei fiori in capo non sono andati fuor di posto?

— No, zia: rispose la ragazza con una voce soave che all'orecchia dell'estatico Maurilio suonò come la più dolce delle armonie.

In quella, il cavaliere che accompagnava quelle dame, finito di dare i suoi ordini al servitore, si affrettava a raggiungerle; e Maurilio trovandosi sul suo passaggio per la via più corta a recarsi allato alla bella giovane, egli senza il menomo riguardo lo ributtò con un urtone come si fa con un inciampo qualunque che vi capita tra i piedi.

Maurilio barcollò e di presente ebbe il sangue acceso da una subita ira che gli salì insieme con la vergogna alla testa. Si dirizzò della curva persona, e saettò uno sguardo pien di minaccia sopra il suo oltraggiatore, il quale, senza pur volgersi, senza badargli dell'altro, continuava il suo cammino, venendo a fianco della ragazza cui abbiamo udita chiamare Virginia, alla quale e' parlava lezioso e sorridente.

[38] Il nostro povero giovane ebbe un istante in pensiero di arrestare quell'elegante insolente e farsi dar ragione del tratto. Mosse un passo verso di lui; ma si contenne tosto. Che avrebb'egli detto? Ella si sarebbe volta a guardare chi fosse quest'importuno interrompitore; ella che era passata senza pur vederlo, ella che non sospettava nemmanco l'esistenza di lui che in essa aveva posta l'adorazione dell'anima sua. Ella avrebbe ascoltato le parole che egli avrebbe dette. Come osar parlare sotto il suo sguardo? E non sarebbe egli comparso troppo da meno in tutto, appetto a quei due eleganti e forbiti vagheggini che lei accompagnavano?

La piccola brigatella era già sullo scalone, e quindi tolta al suo sguardo, ed egli rimaneva ancora immobile a quel posto. Un domestico, che passò e lo guardò curiosamente, lo fece ricordare del dove si trovasse. Prima che l'altro venisse, come mostrò intenzione, a domandargli che facesse colà, Maurilio si sferrò di luogo e corse sotto l'atrio per partire.

S'imbattè quasi da urtarsi in un elegante giovinotto, sceso allor allora da un bel legnetto ad un cavallo. Maurilio strabiliò credendo riconoscere in lui quel suo antico compagno d'infanzia che aveva lasciato, non era forse nemmanco un'ora, vestito di poveri panni, nella lurida bettola di mastro Pelone.

— Gian-Luigi! Esclamò egli a mezza voce.

Quell'altro portò rapidamente al naso l'indice della mano destra come per intimargli silenzio, e proseguì verso lo scalone con tutta indifferenza, come se non avesse udito quelle parole, come se la faccia di colui che aveva incontrato gli fosse affatto sconosciuta.

— È dunque vero che Gian-Luigi vive da signore; pensò Maurilio. Che mistero è mai questo?

Quando era già per uscire del portone, un uomo gli passò dinanzi e si volse a guardarlo ben bene nel volto, ed a Maurilio parve aver già visto altra volta quella figura. Ed aveva ragione; l'aveva vista poc'anzi nell'osteria di Pelone altresì, perchè quell'uomo non era altri che quel tal messer Barnaba che spaventava sì forte l'onesto bettoliere.

Per ragione del suo ufficio, l'agente della polizia s'era trovato colà alla venuta della Corte, aveva visto la sollecitudine affannosa di Maurilio per intromettersi nel palazzo, i ratti colloquii coll'avv. Benda, e finalmente l'incontro coll'elegante giovanotto venuto da ultimo. Era suo mestiere l'osservar tutto, il tener conto di tutto e il trarre deduzioni da tutto. Troppo lontano per udire le parole mormorate da Maurilio nel trovarsi a fronte l'antico compagno d'infanzia, s'era pur tuttavia accorto della sorpresa che il primo aveva provata in quell'incontro.

— To', to'; aveva egli esclamato fra sè. Questo giovane deve conoscere qualche cosa del dottor Quercia il cui modo di esistenza è ancora un problema per me. Chi sa che costui non mi possa servire d'aiuto per iscioglierlo, questo problema? Ma per ciò bisogna ch'io conosca prima di tutto chi è costui.

E passatogli prima dinanzi per vederlo meglio e stamparsene i lineamenti nella infallibile memoria, lo lasciò poscia andare per la sua via, e lo venne con santa pazienza seguitando dalla lungi traverso la nebbia e la neve che calava giù più densa e a larghi fiocchi che mai.

E noi faremo lo stesso, riserbandoci di venir più tardi a dare un'occhiata in questa splendida festa, dove ci aspettano alcune scene non indifferenti allo svolgimento del nostro dramma.

CAPITOLO XI.

Maurilio giunse sino alla metà della piazza di San Carlo, e poi si fermò. Il suo sguardo acceso corse alle alte finestre del palazzo da cui pioveva tanta luce nella tenebria della notte. Pareva che volesse penetrarvi per entro, e con esso il suo spirito. Un'intensa aspirazione di desiderio vedevasi dipinta sul volto di lui, la quale tenevalo colà immobile coi piedi affondati nell'umido strato della neve, sotto i densi fiocchi che gli cadevano sulle spalle.

Ad un punto, con un evidente sforzo ch'egli fece, tolse gli occhi da quel bagliore in cui s'affissava, e li reclinò su se stesso. Un profondo sospiro dapprima gli uscì dal petto, poi un amarissimo ghigno gli stirò le pallide labbra, e quindi ruppe in una secca risata che avrebbe fatto pena l'udire.

— Come potrei io comparire in mezzo a tanto splendore, allato a tanta bellezza ed a tanta eleganza?

Si tolse dal luogo in cui pareva inchiodato e camminò con passo frettoloso come se rattamente volesse partire di là; ma il suo andare venne ben tosto rallentandosi; non era giunto per anco all'estremità della piazza, che diede volta, e venne lento lento, di nuovo, verso il palazzo dell'Accademia.

Sostò di colpo mandando un'esclamazione, e gettato indietro il cappello, percotendosi la fronte, come si fa quando ci sovraccoglie il lampo d'una idea:

— Ah! Diss'egli: come fu commosso Benda al vederla!

Il pensiero che si conteneva dietro queste parole parve profondamente turbarlo. I suoi lineamenti si scomposero in modo da far pietà, e giungendo convulsamente le mani, egli esclamò con un accento d'angoscia infinita:

— Gran Dio! Francesco l'ama!

[39] Stette un momento come annientato sotto il peso di quella rivelazione che si affacciava alla sua mente con tutta l'evidenza della verità. Al campanile della vicina chiesa di San Carlo cominciarono a suonare a lenti rintocchi le ore. Maurilio alzò a poco a poco il capo che gli era caduto sul petto e stette ascoltando, mentre le sue labbra, quasi meccanicamente, contavano l'un dopo l'altro i colpi della campana.

— Dieci ore! Diss'egli quando l'orologio ebbe finito di suonare; e colà mi aspettano. Suvvia! Andiamo.

Questa volta camminò di passo veramente risoluto verso la via di S. Teresa; da questa s'intromise poi nella strada che era scritta sulle cartoline ch'egli avea dato a Gian-Luigi ed alla Gattona, e giunto alla porta numero sette vi entrò.

Messer Barnaba, non ostante tutti gli andirivieni di Maurilio, con una pazienza che è una delle prime qualità del mestiere, non aveva cessato mai di tener d'occhio il giovane, ed ora era venuto seguitandolo dalla lungi sino alla casa in cui questi si era intromesso.

— Sta egli qui o viene soltanto a trovarci qualcheduno? si era domandato il poliziotto. Vediamo.

Era entrato ancor egli sotto il portone, e traverso un finestrino sopra del quale stava scritto: PARLATE AL PORTINAIO, aveva visto al fioco lume d'una lucerna una donna nella loggetta del portiere, la quale faceva andare i ferri in certe sue calze.

— Una portinaia! Aveva egli detto fra sè. Buono! Gli è il fatto mio.

E picchiando discretamente nell'uscio che vide allato al finestrino, domandò con una voce insinuante, tutto gentilezza:

— Si può?

— Avanti: rispose la portinaia alzando il naso dalla sua calza.

E Barnaba sgusciò dentro tutto umile e in sembianza peritoso. Verremo poi ad udire che discorsi avess'egli colla portinaia; per ora vi piaccia seguitare Maurilio che più triste in volto di quella notte nevosa va su per le scale sino al quarto ed ultimo ripiano.

Colà c'erano due usci. A quello in prospetto della scala era attaccata con quattro bullette una polizza, su cui stava scritto in mezzo a girigori a colori: Antonio Vanardi pittore; l'uscio a sinistra di quello era socchiuso ed una riga di luce ne usciva ad allungarsi per lo spazzo di quadrelli, facendo impallidire al confronto l'umile lanternino appeso sopra la scala, il quale misurava una scarsa luce a chi la salisse fin colassù.

Maurilio sospinse quest'ultimo uscio ed entrò.

Una stanza piuttosto grande: sulle pareti tappezzeria da poco prezzo a fiorami bianchi su fondo bigio scuro; appiccatevi su ai quattro lati, due per parte, delle litografie incorniciate di legno nero, che rappresentavano il trasporto delle ceneri di Napoleone; un camino e sopra la pietra di sporto un busto di Dante in gesso, ed al di qua ed al di là due altre figurine di gesso, l'una Gianni che ride, l'altra Gianni che piange; presso al camino, appese al muro a chiodi e funicelle, una dozzina di pipe d'ogni dimensione, forma, materia e colore, e inoltre più saccoccie da tener tabacco; un paravento separava un angolo della stanza nascondendo dietro sè i misteri d'un letto; in tondo presso alla finestra, da una parte una scrivania, dall'altra una scancia con suvvi pochi libri, tutti in disordine; vicino a questa scancia un uscio metteva in altre stanze. Nel mezzo della camera una gran tavola e sopravi una lampada con coprilume. Nel camino ardeva un vivissimo fuoco, il quale più che non facesse la lampada mandava un brillante chiarore per tutta la stanza. Seduti presso la tavola stavano tre giovani, i quali all'entrar di Maurilio si volsero vivamente e lo salutarono con molta cordialità.

Questi tre giovani erano gli amici di Francesco Benda e di Maurilio. A quest'ultimo da due anni tenevano luogo di famiglia ed erano come fratelli.

Il meno giovane, che era presso a compire i sei lustri, aveva nome Romualdo. Viveva modestamente d'un piccolo patrimonio lasciatogli dal padre, ch'egli con alcune follie di gioventù aveva alquanto sminuito, ma che bastava pur tuttavia ai gusti rimessi che aveva acquistati colla disillusione nelle cose della vita. Aiutava uno degli amici (il quale stava appunto in quel momento seduto alla sua destra), in qualche lavoro letterario, onde questi cercava alcuno stentato guadagno.

Quest'amico, per nome Giovanni Selva, era un bello, robusto ed aitante giovane, bruno di carnagione, d'occhi, di capelli, alto di persona, di atletiche membra, di franco, gaio e simpatico aspetto. Come Romualdo e come Francesco Benda, che abbiamo lasciato al ballo dell'Accademia Filarmonica, era avvocato, e tutti tre s'erano conosciuti e fatti amici intrinseci all'Università, benchè Romualdo fosse di alcuni anni più attempato e quindi più innanzi negli studi.

Giovanni Selva apparteneva ad un'agiata famiglia borghese, ma se n'era e viveva separato per dissensioni profonde colla madre, vecchia bigotta tutta in mano d'un intrigante di confessore, la quale per far guadagnare al figliuolo la vita del paradiso si era impuntata a fargli intollerabile quella della terra.

Messo fuor di casa dall'influenza d'un cattivo prete e d'un tristo fratello, senza sovvenzione alcuna, Giovanni s'era trovato nel caso di dovere trar profitto dal suo lavoro personale. Avea dapprima [40] voluto provare il mestiere dell'avvocato: ma dalle tasche polverose degli atti di lite non aveva tardato ad allontanarlo la faccia arcigna della noia. Allora s'era abbandonato all'aggradevole, ma poco fruttuosa occupazione della poesia e delle lettere.

— Che vuoi tu? (Quando s'incontrarono, disse a Romualdo, Giovanni con quel suo piglio scherzoso e vivace che era una delle sue maggiori attrattive.) Mia madre ed io non c'intendevamo. Era un concerto di strumenti discordi; ho pensato meglio di romperlo per amore dell'armonia... domestica. Ho lasciato le soglie materne consolate dalla santità di mio fratello teologo, e mi sono ridotto sul monte Aventino. Tu sei solo ed io pure. Andiamo insieme. Uniamoci contro il nemico comune, che sono le difficoltà della vita, troviamoci insieme la nostra strada; andremo per essa a braccia intrecciate, lavorando di compagnia, da buoni fratelli, al conquisto dell'avvenire.

Un terzo dei loro amici, ed era appunto quello che stava con essi quella tal sera di cui vi narro, aveva preso moglie, teneva in affitto un quartiere, di cui poteva cedere la maggior parte ai due compagni, e deliberarono vivere tutti insieme che sarebbe un gusto ed una economia. Questo terzo amico si chiamava Antonio Vanardi e faceva il pittore. Ancor egli era un profugo della famiglia. Possedeva uno zio ricco e droghiere nel quale si era tutta concentrata l'autorità domestica verso di lui. Lo zio aveva pensato dapprima, per ambizione, fare di Antonio un avvocato come tanti altri; e mandandolo a quest'uopo all'Università gli aveva dato occasione di stringere amicizia con Romualdo, con Giovanni Selva e con Francesco Benda; ma il buon Antonio, per quanta buona volontà ci mettesse, non era riuscito mai di farsi entrare in capo un bricciolo di Diritto romano; onde battuto tre volte di seguito alla prova degli esami, avea dovuto rinunziare alla toga dottorale con gran dispetto e disappunto del bravo zio droghiere.

Non potendo farne un Cicerone, il buon zio sperò almeno che Antonio diventerebbe un valente venditore di droghe e robe vive. Niente affatto: quel pazzerello s'era cacciato in testa di voler essere artista e di fare il pittore. Il nipote era testardo e lo zio più testardo ancora. Il primo fu scacciato di casa; ed egli corse allegramente a riparare in una soffitta colla tavolozza e coi pennelli. Forse la collera dello zio non avrebbe tardato a placarsi, se quel benedetto figliuolo non l'avesse rinfocolata con un'altra ed a senno dello zio assai peggiore pazzia: quella di sposare una povera fanciulla, che non aveva un soldo di dote e lavorava colle sue sante dita per vivere. Il droghiere, al colmo dello sdegno, aveva giurato che non avrebbe più perdonato ad Antonio, che non l'avrebbe più voluto veder mai, e finora aveva mantenuto il suo giuramento.

Francesco Benda, come ho già detto, non ostante il suo modo signorile di vita, non aveva scemato d'un punto l'amicizia che lo congiungeva a questi tre compagni, e veniva di spesso a visitarli.

Così vivevano essi, la moglie di Vanardi, che si chiamava Rosa, una buona creatura tutto ciarla e tutto cuore, facendo da donna di casa per tutti; quando un mattino Romualdo, entrato di buon'ora nella stanza di Selva, che non avea visto tornare la sera innanzi, lo trovò seduto al capezzale del proprio letto, sostenendo amorosamente colle mani la testa abbandonata d'un giacente a volto sparuto, il cui sonno l'irrequietudine soltanto distingueva dall'apparenza della morte.

Romualdo stupito fu per muovere un'interrogazione, e Giovanni fattogli cenno tacesse, depose con attenzione sovra i cuscini il capo ardente dell'addormentato e disse sotto voce:

— Lo riconosci?

Romualdo rispose col capo di no.

— Egli è quel giovane che venne due giorni sono a domandarci lavoro, e che noi mandammo a quella terra.

Quindi, tratto l'amico nell'altra stanza per potere più liberamente discorrere, soggiunse:

«— Un poveretto che ho salvo dal suicidio. Ieri sera mi sono fermato un po' più tardi in casa la Adelina; e ciò ha fruttato a me una buona azione, a costui la vita. Egli era là sul ponte di Po, che fissava lo sfilar dell'acqua sotto gli archi con quell'occhio che l'affamato un tozzo di pane. Lo vidi tra l'ombre spiccarsi per un salto, non poterlo, ricadere a terra. Accorsi: era svenuto. Lo riconobbi tosto e sentii quasi un rimorso del non averlo potuto soccorrere quando se ne venne qui elemosinando pudicamente lavoro. Che cosa fare? Tutte le botteghe erano chiuse, e non passava un'anima per colà. Me lo presi in braccio e venni più affrettatamente che potei verso la più vicina spezieria, deliberato a fracassare anche la porta per entrarci. Egli tornò in sè. Volle essere deposto in terra e camminare. Ma nol poteva, ed io dovetti sorreggerlo. Mi disse, quasi in delirio, che non aveva famiglia, non tetto, non pane, non più coraggio: lo lasciassi morire. — Ed abbandonato sarebbe morto senza fallo. La farmacia non mi venne aperta per quanto chiasso facessi; ma si apri il fondaco d'un liquorista, ed io gli feci bere un bicchierino di rhum. Questo gli diede forza, ma gli salì con impeto al cervello. Uscimmo, ed io lo accompagnava sostenendolo, e non sapevo dove. Ei si mise a parlare. Furono strani discorsi i suoi, in cui c'era un po' di tutto: scienza e poesia, erudizione e mattane fantastiche, ingegno e pazzia, un farnetico d'infermo, un vaneggiamento [41] della febbre, un racconto straordinario di Hoffmann. Ma in quella confusione di cose balenava a vivissimi sprazzi il genio. Stupito, commosso, talvolta rapito d'entusiasmo io non credeva a me stesso. Oh! come ha parlato questo demonio!..... E poi ha uno sguardo in que' suoi occhi verzigni che incanta; una testa che non è d'essere volgare; una fronte tanto vasta da posarvisi comodamente tutto un mondo di pensieri.

«Ho di subito determinato associarlo al nostro destino, e gli ho proposto di esserci fratello. Tacque un istante, tremò di tutte le membra e poi disse con accento da scendere nell'anima:

«— Dio v'ascolti!

«Venne meco e qui il suo male sovraccogliendolo di nuovo, dovetti io stesso spogliarlo e metterlo a letto. Tutta la notte delirò con parole tronche, inintelligibili. Ora corro per un medico, lo faccio guarire, e lo avremo nuova recluta nella nostra piccola schiera. Egli mi ha detto ad un punto mostrandomi questo suo piccolo involto:

— Qui, è tutto ciò ch'io posseggo; ma qui (e si toccava la fronte), qui sta la mia ricchezza.

«Lo ha detto con tale accento di convinzione e di verità che non ne ho riso, te lo giuro. Se non avesse una così bella testa direi che gli è un avventuriere; se non m'avesse incantato colle sue parole, avrei sentito compassione della sua miseria, ma non l'avrei amato così ad un tratto. Lì dentro c'è una grand'anima. Quando l'udrai, l'amerai anche tu.»

In quel piccolo involto che il povero giovane aveva seco non si contenevano che pochi libri: Dante — Orazio — Virgilio — Macchiavelli — La Scienza nuova del Vico — il Trattato di economia politica di G. B. Say, — ed un manoscritto tutto spiegazzato ed a strappi, su cui stava scritto a grossi caratteri: — Farragine.

Romualdo diede la sua approvazione a Selva con una stretta di mano; gliela diede eziandio Vanardi; e stettero aspettando con ansia lo svegliarsi del nuovo venuto.

Ed ecco che dalla stanza di Selva un grido richiama la loro attenzione. Ci corrono e trovano lo sconosciuto che, levatosi a sedere sul letto, getta le magre gambe fuori delle coltri per torsi di là, infuocato nelle guancie, gli occhi orribilmente fuor del punto, le mani agitantisi in moto convulso.

Giovanni fu in un salto allato al giovane e lo trattenne. Il delirante gli si abbrancò alle braccia e glie le serrò da fargliene sembrare le sue mani tanaglie di ferro. Le carni gli scottavano.

— Che avete? che volete fare? Gli domandò Selva; e l'altro, fissandogli negli occhi i suoi tutti smarriti, con voce affannosa, a balzi e vibrata, gli disse:

— Trista cosa è la vita! Un'empia lotta, che vince eterna la sventura. Ai primi passi tu se' di questa via d'affanni, e ti par che sorrida all'uom la terra felicemente, e duol supremo estimi il mister della morte. Oh folle! oh folle! Io spesso, il credi, ad invidiar mi trassi la sepolcral de' morti ignota pace; e i dolor della creta maledissi, che s'assuperba nel chiamarsi viva.

— Misericordia! Esclamò Romualdo, giungendo le mani, e' parla in una specie di versi. È matto!

— L'ho detto io che era un fratello: disse Giovanni. È poeta.

Poi, facendolo ricoricare a forza, disse al delirante:

— State quieto; e se avete bisogno di qualche cosa, ditecelo.

— Pace! Ripigliava l'altro. Pace! Pensi tu che l'abbiano da godere i morti?... Se tutto di noi va in cenere, bene! Un buffo di vento che spegne una candela, e buona sera. Se lo spirito non muore, come avrà pace? Come, perchè spogliatosi di questi ceppi di carne, sarà egli giunto di botto alla fine dei suoi travagli?..... Il rimedio sarebbe troppo facile..... Non sai? Io qui dentro ci ho un tumulto che è peggio d'ogni battaglia... Ci bollono tante cose! Tante facoltà che lottano, tanti pensieri che si cozzano, tante immensità che non furono mai dette, perchè non si possono dire. E tutto questo avrà da finire senza conclusione colla poca vita della mia materia?... Guardate! se ne dovrebbe piangere lagrime di sangue. L'anima continuerà a vivere e tramenarsi di dolore in dolore, di dubbio in dubbio, di morte in morte, donec longa dies, perfecto temporis orbe, concretam exemit labem, purumque reliquit ætherium sensum atque aurei simplicis ignem. Lo ha detto con indovinamento di poeta e con sentimento di cristiano il pagano Virgilio.

I tre amici che tenevano il delirante alle braccia si guardarono spaventati da quel latino.

— Io ho qui intorno al fronte un cerchio di ferro arroventato che m'arde e mi costringe in questa poca sfera lo spirito immortale..... Oh! se potessi allargare il mio cranio!... Se non fosse di questo cerchio, il mio spirito ha penne tali da pervolare tutto l'infinito degli spazi, di mondo in mondo, di sole in sole, di plaga in plaga di questo gran circolo della creazione che ha il centro dapertutto e la circonferenza in nessun luogo... sino ad andar posare il capo sulle ginocchia di Dio! Questo cerchio fatale che mi stringe la fronte, lo sapete? gli è il Zodiaco. I suoi segni mi danzano intorno un trescone d'inferno..... Li sento che mi cantano: — «Tu se' schiavo qui, tu se' condannato alla nostra carcere..... va là, va là che hai da gingillarti per un pezzo in una burlesca contraddanza fra il cancro e lo scorpione!» Pazienza! Fate fiammare la vaporiera. Io corro il mio regno su d'una via ferrata fatta sull'etere cosmico. Voglio [42] visitare la Vergine che è l'innocenza, e la Libbra che è la giustizia; ma la seconda fu trovata coi pesi falsi, e la prima s'è acconciata a stare in via de' Pelliciai... Il mio regno! È quello del pensiero; quello dove si gettano i germi del vero, nasce il sofisma e si raccoglie la confusione... Inchinatemi. Io sono l'ingegno dell'umanità dagherotipato sulla lastra d'un uomo. Datemi la penna. Essa è il mio scettro; in mia mano avrà ad essere una spada d'Alessandro da troncare l'eterno nodo gordiano dell'astruso problema che è la società all'uomo, che è l'uomo a se stesso.

Selva affissandosi nella faccia contratta del vaneggiante, disse:

— Poverino! Qui c'è uno squilibrio delle forze intellettuali colle fisiche.

— In altri termini, soggiunse Romualdo, gli è pazzo per davvero.

— Non tardiamo a domandare un medico: disse Vanardi; e la sua osservazione fu trovata la più giusta.

Il medico, venuto sollecitamente, pronunziò:

— È una famosa febbre cerebrale, e bisogna in fretta in fretta salassare alla brava.

Rosa, la moglie del pittore, da quella buona donna che era, si piantò al capezzale del malato, e gli fece un'assistenza da suora di carità. Francesco Benda, senza pur dire una parola agli amici, provvide del suo ad ogni spesa. Il giovane fu salvo per allora; ma il medico, dando siffatta assicurazione a Giovanni Selva che ne lo interrogava con molto interesse, come quegli che aveva posta una subitamente profonda affezione nello sconosciuto; il medico soggiungeva:

— È salvo per ora; ma il germe del male non è distrutto. Quello è un organismo che porta seco un elemento potente di sua distruzione, il quale alla prima circostanza opportuna può scoppiare di nuovo ed accopparlo. Deve aver sofferto troppo.

Maurilio (poichè desso era il giovane raccolto da Selva), salvato di quella guisa dalla morte per opera di Giovanni prima, di tutti gli altri di poi, circondato d'ogni amorosa cura, entrò in quell'amichevole consorzio, ne divenne anzi parte essenziale, ne fu amato come si ama una buon'opera nostra, ed amò come glie ne faceva obbligo la riconoscenza che era il solo ripago ch'egli per allora di tanto bene fattogli potesse dare.

Quand'egli fu guarito del tutto, con una semplicità di nobile orgoglio, disse agli amici:

— Ora aiutatemi a trovar lavoro.

Selva gli propose di collaborare con lui nelle sue opere letterarie; Maurilio sorrise un po' amaramente.

— Io vorrei, diss'egli, un lavoro che fruttasse il pane; e la nostra letteratura del giorno d'oggi non è tale.

Aveva una bella calligrafia. Si fece scrivano. Ebbe la fortuna di conoscere un causidico che gli diede atti di lite da copiare. La sua sollecitudine nel lavoro e la nitidezza della sua scrittura valsero a fargliene avere di molto di questa bisogna; e fra il copiare e il tener le ragioni di qualche mercatante, dandoci dentro al lavoro giorno e notte, era giunto a guadagnarsi dalle ottanta alle cento lire al mese.

Risanato, Maurilio non era mai più venuto in propositi che somigliassero a quei suoi farnetichi del primo giorno; ed ogni qualvolta Selva aveva voluto metterlo in siffatti discorsi, egli o s'era allontanato, od aveva pregato lo lasciasse tranquillo.

Parlava di rado; talvolta calava a sorridere e barzellettare; era buono, affettuoso, gentile il più spesso; ma a tratti, senza un visibile perchè, si faceva aspro, triste e scontroso. Allora la sua taciturnità s'accresceva, come pure la scarna pallidezza delle sue guancie, stava in sè, solo il più che potesse, presso che l'intiera notte vegliava passeggiando, quasi non mangiava, e si dava per disperato all'opera manuale del copiare. Sulle prime gli amici avevano cercato svagarlo e rompergli quegl'insulti splenetici di indefinita, profonda melanconia, ma poi, visto che gli era peggio, lo compativano, tolleravano, e vedendolo soffrire, soffrivano ancor essi.

Quando l'avevan visto, oppresso da troppo lavoro, starne le tante ore col petto incurvato al tavolino, in danno della sua salute, ne l'avevan voluto dissuadere, ma invano: gli avevano offerto con insistenza il loro aiuto, ed invano eziandio.

— Lasciatemi fare: diceva egli. Ne ho bisogno. La mano si affatica, ma la testa riposa. Se fossi stato robusto da tanto, avrei preso volentieri in mano la stiva dell'aratro, e sarei stato più utile al mondo.

Selva lo rimproverava alcune volte di che, con tanto ingegno quanto era il suo, nulla facesse, nulla imprendesse, nulla tentasse da recar fama al suo nome e giovamento al mondo.

All'udir menzione della fama lo strano giovane sorrideva compassionevolmente e recitava i versi di Dante: «Non è il mondan rumore altro che un fiato, ecc.»

— Che cosa cale a me della fama? Il mio nome è nulla, voglio essere tale. Non è un nome degno di risuonare nei secoli. Giovamento al mondo? quello sì lo vorrei. Ma se niente opero gli è perchè niente mi si presenta ch'io possa fare utilmente. Intanto penso.

Ma da qualche tempo l'occasione pareva venuta di poter fare alcuna cosa. Un'opera lentamente preparata era sul punto di vivamente intraprendersi con infinito ardore e colle più lusinghiere speranze. Gli amici tutti di Maurilio si erano ad essa consecrati col più vivo trasporto dell'anima; [43] ed ancor esso vi si era accinto, ma con un certo maggior riserbo che non era freddezza ma quasi una preoccupazione di quesito diverso e forse anco superiore.

Quale fosse quest'opera lo vedremo tosto.

Entriamo intanto nella stanza che ho detto, la quale era appunto quella abitata da Maurilio, e vediamo insieme i quattro amici raccolti.

CAPITOLO XII.

Maurilio rispose appena al saluto degli amici, gettò a casaccio sopra un attaccapanni il suo mantello fradicio e il suo cappello coperto di neve, e s'accostò al fuoco di cui guardava la fiamma vivace con una specie di desìo e d'amore. Senza profferir parola staccò dalla parete una pipa, la caricò di tabacco, l'accese con un ramoscello di legna ardente che tolse dal fuoco, sedette presso presso al camino, pose i suoi piedi bagnati nella calda cenere ed appoggiando i gomiti alle ginocchia, la faccia alle mani, stette lì, avvolgendosi nelle nubi di fumo della sua pipa, fissando lo sguardo nelle capricciose oscillazioni della fiamma crepitante.

Romualdo, Selva e Vanardi parevano ancor'essi sopra pensiero. Una certa aspettazione inquieta si dipingeva nelle loro franche ed aperte sembianze. Non parlavano, non lavoravano, non leggevano. La loro allegria naturale scorgevasi esser trattenuta e doma da qualche preoccupazione più che grave.

Dopo un poco Giovanni Selva si alzò e venne presso al camino ad accendere ancor egli il suo sigaro che gli si era spento in bocca.

Si chinò verso il fuoco per raccattar colle molle un pezzetto di brace accesa, e guardò di sottecchi la faccia scura di Maurilio, che si arrostiva immobile al calore di quella vampa.

— Tu non hai visto Mario Tiburzio? Domandò egli a mezza voce.

Il nome pronunziato da Selva, parve un talismano che rompesse un incanto. Maurilio si scosse, gli altri due giovani si levarono e vennero ancor essi vicino al fuoco.

— No: rispose Maurilio, togliendosi alla sua meditazione e volgendosi ai compagni. Credevo anzi di trovarlo già con voi.

— È veramente in ritardo: disse Romualdo: e ciò non è punto nelle sue abitudini, quindi non è molto rassicurante. Tanto più che per questa sera ci aveva annunziato delle comunicazioni e delle novelle importantissime.

— L'altro dì infatti: aggiunse con mal celata trepidazione Vanardi, che era il più timoroso fra i quattro: egli ci disse che parevagli d'essere sorvegliato. Purchè non gli sia capitato malanno? Potrebbero averlo scoperto, preso, e allora.....

— Via, via: interruppe Selva: non isgomentiamoci così facilmente. Nella strada in cui siamo entrati conviene avere fermezza, risoluzione e coraggio, e da una parte esser pronti al peggior male, dall'altra confidare nel bene.

— Tu hai ragione: rispose Vanardi; ma però non sei padre. Io sento sempre negli orecchi i pianti de' miei due bimbi che mi cantano l'antifona, che se il governo mi manda a villeggiare a Fenestrelle, essi non avranno di meglio che crepare di fame.

— Fenestrelle! Esclamò Giovanni ridendo, ma forse non con tutta sincerità. Tu ci credi? Quella è la befana con cui il nostro paternissimo regime fa paura a quel fanciullone del popolo. Va là che non avremo la fortuna d'esser fatti martiri a sì buon mercato. La nostra polizia non capisce nulla: l'insolente assolutismo che ci opprime, è, senza saperlo, il colosso dai piedi di creta. Crede esser forte e posa sopra una base che un buffo di vento può sovvertire. Quando venga il giorno che stiamo preparando, l'uragano popolare levatosi al santo grido di libertà, spazzerà via la tirannia nostrana e le baionette straniere che la sorreggono e le danno da sole la forza.

Maurilio volse la sua faccia intelligente, in cui era una lieve espressione d'ironia, verso Giovanni Selva, e gli disse:

— Queste sono belle frasi, da poeta, qual tu sei, ma non tolgono che Antonio abbia ragione. Le frasi rettoriche hanno inebriata molte volte la gioventù ed anche le masse popolari; ma non hanno mai salvato una rivoluzione. Non chiudiamo gli occhi ai pericoli dissimulandoci le difficoltà, secondo me, quasi insormontabili dell'impresa. I governi che ci opprimono sono più forti di quanto il nostro desiderio vorrebbe persuaderci e le nostre declamazioni tentano provare. Sono forti in primo luogo, perchè sono; ed ogni ordinamento che esiste, si afforza per le migliaia di interessi cui soddisfa, che sono come altrettante radici che getta ad abbarbicarsi nella massa sociale. Sono forti perchè effettuano un'idea che sta profonda e potente — sia merito o demerito — nel volgo: l'idea monarchica. Sono forti, perchè, come dicesti tu Giovanni, stanno a rincalzo dietro di loro le baionette straniere, che non sono mica da aversi in non cale. Contro tutte queste forze noi non ne abbiamo altra che quella d'un'idea, la quale certo è potentissima, ma sull'anima soltanto di coloro che possono comprenderla. Ora il popolo italiano è egli maturo per ciò? E badate che a portar giudizio su codesta quistione non dovete soltanto gettare il vostro sguardo su voi e sui pari vostri, ma li dovete abbassare nei ranghi inferiori, dove una massa di gente ancora affatto cieca di mente costituisce la maggioranza, lavora e non pensa. Questa maggioranza sia inerte, peggio ci sia avversa, e noi patrioti a fronte [44] dei governi saremo mille volte più deboli. Queste cose ve le dissi fino da principio e le ripetei a Vanardi, perchè badasse ai casi suoi. Io, tu Romualdo e tu Giovanni siamo soli, e non portiamo con noi la sorte di altre esistenze; libero a noi, anzi doveroso l'avventurarsi in questi tentativi che hanno pure un merito ed un benefizio: quello di mantener viva l'idea e di legare traverso le età per una tradizione di sacrifizi la catena dei cultori d'un santo principio che un dì, certo, avrà pur da trionfare; e poi è opportuno, è buono che in una società si trovino alcuni generosi che si consacrino alla follia dell'eroismo. Ciò serve di sale a difendere alcun poco il corpo d'una nazione caduta dalla corruzione che l'invade. Amo ed ammiro Mario Tiburzio, perchè è il tipo di codesti generosi; e lo seguo senza riluttanza ancorchè non fiducioso dei suoi mezzi. Il patibolo con lui, mi parrebbe davvero l'aureola del martirio. Ma Antonio non può regalarsi questa gloria, senza offendere altri suoi doveri. La famiglia per lui deve stare innanzi alla patria; e non deve posporre il bene certo di quella ad un bene incertissimo di questa. Tu, Antonio, non hai miglior partito da prendere che abbandonarci in questa via scabrosa, che probabilmente trae soltanto al precipizio, e ritrarti sotto la tenda della tua felicità domestica.

Vanardi si fece rosso in volto come una ciliegia.

— Tu mi consigli una viltà: proruppe egli con impeto; ed io non sono capace di commetterne. Ho dato il nome e tutto me stesso con voi all'impresa, e non me ne toglierò per Dio! qualunque cosa abbia ad avvenire, che colla vostra sconfitta o colla vostra vittoria.

Maurilio tornò a volgersi verso il fuoco ed affondò di nuovo lo sguardo nelle fiamme.

— Non esageriamo in nulla: disse con molta serietà Romualdo. La cosa non è sicuramente da pigliarsi a gabbo; ma non è poi così disperata che non ci resti altro davanti dalla probabilità in fuori d'un inutile sacrificio. Le condizioni d'Italia voi le sapete al pari di me, e le relazioni che abbiamo, specialmente pei carteggi di Tiburzio, la dipingono davvero nello stato d'una mina in cui già sono rammentate le polveri, e per cui basta una sola scintilla a far succedere lo scoppio. La scintilla sarà il primo moto popolare che avvenga, sia egli qui in Piemonte, sia in Lombardia, sia nelle Romagne, sia pur anche a Napoli. Gli elementi da ciò sono dappertutto. Quando sieno tutte a dovere ordinate le fila, quando accuratamente organata la impresa, un cenno e basta.

Maurilio, senza abbandonare la sua positura, scosse la testa, cui tornava a sorreggere colle sue mani e disse a mezza voce:

— Sì, se fosse possibile far muovere i popoli come le compagnie d'un reggimento al comando del colonnello nella manovra di piazza d'Armi. Ma i popoli sono guidati da altre norme e da ben altre leggi, e trama di congiure, per quanto astutamente combinata, non varrà mai a ridurli a questa certezza d'esecuzione, su cui i cospiratori fanno i loro calcoli.

Giovanni Selva interruppe con vivace uscita, che molto aveva dello sdegno:

— Ma tu sei il demone del dubbio.

Maurilio levò lentamente la testa e fissò Giovanni collo sguardo sicuro dei suoi occhi verzigni, intelligenti e profondi.

— Sono lo spirito d'esame: disse egli; poi si levò in piedi e si tirò su della persona in una mossa superba che parve ingrandirne la statura. Con voi credo poter parlare il linguaggio della verità: soggiunse. Siete voi così dappoco, che non altrimenti possiate perseverare in un'impresa, se non vedendone l'esito sicuro e scartati tutti i pericoli? Cogli altri che stimo da meno di voi, ho io tenuto mai un simile linguaggio? Venga il giorno della lotta, e vedrete questo demone del dubbio combattere come il genio della disperazione.

Selva si precipitò verso di lui e gli afferrò una mano che strinse con forza ed effusione.

— Perdonami! Diss'egli con accento che partiva veramente dal cuore.

Maurilio fece un mesto e pallido sorriso di indefinita espressione e si lasciò ricadere seduto.

In quella s'udì pel silenzio della notte l'orologio d'un campanile batter le ore.

— Undici ore! Esclamò Vanardi, poichè le ebbe contate. E Tiburzio non è ancora qui? Pur troppo ho paura.....

— No, no: disse vivamente Romualdo. Io lo conosco per bene. Mario alla sua foga ed alla sua audacia congiunge pur tuttavia una suprema prudenza. Fin da giovanetto si trovò a dover lottare colla polizia di Roma, poi, esule in Francia, con quella sospettosissima di Luigi Filippo. E' ne conosce tutti i mezzi e le arti, e sa a quelle di esse contrapporne delle altre che le sventano. Poichè è qui in Piemonte, son certo che niun sospetto ancora egli ha destato d'essere un emigrato politico ed un agente delle patriotiche società segrete. Qualche cosa lo avrà trattenuto, ma siccome ci ha promesso di venire, verrà senza fallo.

Romualdo non aveva ancor finito di pronunziare queste parole, che si udì il passo fermo e franco d'un uomo sul pianerottolo.

— Eccolo qui di sicuro: soggiunse Romualdo.

L'uscio d'entrata s'aprì e comparve un uomo alto di statura, avviluppato in un ampio mantello.

I quattro amici gli mossero all'incontro, salutandolo per nome.

[45] — Mario!

— Zitto! Disse il nuovo venuto, e chiudendo accuratamente l'uscio dietro di sè, si curvò a mettere l'orecchio alla toppa ad ascoltare qualche rumore che succedesse di fuori.

— Che cosa c'è? Domandò sommessamente Vanardi turbato alquanto.

— Siamo spiati: rispose Mario: ed un agente della polizia, ci scommetto, stava aspettando la mia venuta nel camerino della portinaia.

Vanardi, a quelle parole, impallidì, come se già vedesse sorgere alle sue spalle i tremendi cappelli a becco dei Carabinieri Reali.

— O mio Dio! Esclamò egli, giungendo le mani.

Mario stette un poco origliando, curvo così, alla porta, mentre gli amici rimanevano in sospeso, trattenendo il fiato; poi si drizzò, e gettando via il mantello ed il cappello, disse con un cotal sorriso di audacia superba:

— Oh! s'e' sono destri, io non sono punto nè uno scemo, nè un inesperto. Li conosco dalla lungi questi segugi, ed ho acquistato colla pratica una specie di istinto, che mi avvisa della loro presenza e delle arti loro. Sono tanti anni che lotto contro di essi!

— Ma che vedeste? Che fu? Domandò sollecitamente, non senza affanno il buon Vanardi.

— Nulla. Un bracco della polizia che mi diede la caccia. E' mi ha seguito sin quassù con passo ammorzato; un passo di spia; lo riconosco. Ora egli sa che sono entrato qui dentro e vorrà informarsi di voi, se pure già non è in giorno dei fatti di tutti. Bisogna stare all'erta, ed opporre alla mina una contromina. Ci provvederemo.

— Come avvenne? Richiese Romualdo. Come ti accorgesti di codestui?

— Venivo correndo, perchè l'ora è già tarda, e temevo di trovar chiusa la porta da via. Ma appena messo il piede sulla soglia, il mio sguardo, avvezzo a scrutar tutto per bene, si cacciò nella loggia della portinaia, dove vide un uomo, non dei casigliani; vestito da operaio, ma colla faccia d'un esploratore. Quel grugno lì l'ho già veduto altre volte con altri panni, e non esitai neppure un istante a giudicar quel che fosse. Rallentai di subito il passo e mi spinsi avanti come uomo che fa una cosa ordinaria venendo ad un solito ritrovo. Fissai con tutta sicurezza i miei occhi nel camerino e sul viso di quell'uomo, e passando la testa pel finestruolo, salutai molto amichevolmente la portinaia, «Buona sera, mamma Ghita, il vostro Bastiano sta bene?» — «Grazie per servirla:» mi rispose la portinaia, mentre l'uomo, tuttochè facendo a nasconderlo, mi sviscerava con acuti sguardi di sottecchi. «— È un po' tardi questa sera, soggiunsi io, e avevo paura aveste già serrato il portone, perchè voi siete la più diligente delle portinaie di questo mondo.» — «Oh come? È tardi? Esclamò essa: che ora la è?» — «Presto le undici: guardate là il vostro oriuolo a cassa che ve lo dice.» — «Eh sì che gli è vero. Diss'ella. Tò, soggiunse volgendosi a quell'uomo, voi m'avete trattenuta così bene in novelle che il tempo mi è sfumato via senz'avvedermene.» Ora noi conosciamo tutti la Ghita e sappiamo quindi che cosa ciò voglia dire. Quello sconosciuto l'ha fatta destramente chiaccherare, e la brava donna che ci ha il suo ripesco ha blaterato giù per parecchie ore, dicendo quello che è e quello che non è di tutti quanti quel sornione abbia voluto. — «Ho fatto più tardi del solito ancor io, questa sera (presi a dire), perchè mi fecero fermare sul palco scenico finchè fosse finita tutta l'opera; le altre sere, appena giù il telone dopo il primo atto, dove soltanto ci ho parte, me la svigno, ma stassera il primo baritono era mezzo infreddato ed aveva paura di non poter cantare sino alla fine. Siccome io gli faccio da supplemento, dovetti star lì pronto ad indossare il suo mantello e calzare i suoi stivaloni a tromba. Per fortuna, o bene male, fra scrocchi e stonature, e' si trascinò sino al fine. A proposito di teatro, Ghita, vi darò poi per domenica le polizze d'entrata per voi e pel vostro Bastiano.» La portinaia si profuse in ringraziamenti, ed io li accolsi con tutta la superbia d'un cattivo cantante che si crede un artista. Poi diedi e ricevetti la buona notte, e me ne venni su adagio adagio, canterellando una cabaletta. A quest'ora adunque il poliziotto sa che io mi chiamo Medoro Bigonci, che canto da baritono e faccio la stagione di carnevale al teatro Regio come seconda parte, che ho presa in affitto una cameretta ammobigliata dal pittore Vanardi, e che rientro regolarmente e quietamente a casa tutte le sere verso le dieci. Ci crederà o non ci crederà? Qui sta il punto: ed è necessario che per noi si faccia tutto a far parere codesta la assoluta verità. Perciò questa notte la passerò tutta qui con voi senza andarmene più all'altro mio quartiere. Non occorre che vi disturbiate a farmi posto in letto. Io sono avvezzo a di queste nottate, e starò benissimo allungato su tre o quattro seggiole vicino al fuoco. Del resto ho molto da scrivere, e la maggior parte del tempo la impiegherò nel carteggio.

Gli amici vollero fare qualche cortese opposizione per indurlo a prendere un più agiato riposo; ma il sedicente Medoro Bigonci li interruppe.

— Lasciamola lì: diss'egli bruscamente, con un certo accenno imperioso che pure non cessava di essere simpatico. Abbiamo ben altre più rilevanti cose onde discorrere. Sediamo ed ascoltatemi.

Sedettero intorno al fuoco su cui Maurilio non cessava di gettar della legna. Mario Tiburzio stava in mezzo, e le teste de' suoi quattro compagni erano [46] chine e tese verso di lui con sollecitudine d'aspettativa. Mario si passò una mano sulla fronte la quale, benchè egli fosse giovane, tuttavia cominciava a gittare i capelli e quindi ad apparire più grande e direi più angolosa nella sua forte ossatura da tipo d'antico romano; si raccolse un istante, e poi con voce bassa e contenuta cominciò a parlare.

Mario Tiburzio aveva a quel tempo ventisei anni incirca; ma le emozioni, i pericoli e i disagi di una vita da profugo vissuta sin quasi dall'adolescenza, la contenzione dello spirito e dell'anima in un gran proposito che tutte ne assorbiva le facoltà, davano al suo sembiante l'aspetto d'una età assai più inoltrata. La sua era una nobile figura tutto risoluzione e fortezza. I bei lineamenti del tipo romano erano in lui illuminati, per così dire, da una fiamma interiore, che era una convinzione, che era un culto ad un principio, che era una fede. Figliuolo d'un patriota repubblicano morto nelle carceri pontificie, egli ne aveva ereditato l'amore all'Italia ed alla libertà, e l'odio ai dominatori del nostro paese, contro cui sentiva inoltre ribollire in cuore un tremendo desiderio di vendetta, non solo pei mali e per la vergogna alla patria inflitti, ma per la dolorosa morte del padre, per i dolori alla santa donna, che a lui era madre, cagionati, per le sventure alla sua famiglia prodotte.

A quel tempo qual via aprivasi all'ardente gioventù italiana onde giovare ai troppi danni della patria; onde cercare di abbattere la soverchiante tirannia? Quella soltanto delle congiure, abbracciando le frementi ma vaghe teoriche di Giuseppe Mazzini. Il carattere cupo, dissimulatore e temerario nella sua finzione del congiurato è nell'indole degl'Italiani, massime di quelli del centro della penisola. Abbiamo tutti un po' della politica alla Macchiavelli in fondo dell'animo; ed oppressi ed oppressori giuocavano allora di macchiavellismo in congiure sempre rinnovantisi e sempre sventate dalle migliaia di Arghi delle tante polizie che avvolgevano come nelle maglie di una rete l'intiera Italia.

Mario apparteneva da molti anni alle società segrete che tentavano come talpe pazienti, scavare nella massa popolare, pian piano, sotto terra, un abisso ai piedi dei troni esistenti. La sua intelligenza, la forza del suo carattere e della sua volontà, il coraggio e l'ardenza del patriottismo insuperabili lo avevano fatto salire tra i primi dei capi e guidatori di quell'opera sotterranea. Stando egli in Francia, tutte le fila delle ordite trame facevano capo ad un comitato superiore stabilito a Parigi, di cui Tiburzio era parte. Egli consigliava, ammaestrava, ammoniva, andava preparando quanto meglio potesse per uno scoppio che si augurava e sognava poter essere sollecito e fortunato. Era in relazione coi repubblicani francesi, che intendevano da canto loro a quel segreto lavorìo, il quale doveva ad un tratto rivelarsi coll'immensa sorpresa di tutta Europa nella ibrida repubblica del 1848. Gli uni speravano poter essere d'aiuto agli altri e riceverne.

Ad un punto — per una di quelle solite illusioni cui vanno soggetti i profughi — parve al comitato parigino che le cose in Italia già fossero od almeno di molto s'avvicinassero ad essere mature per l'audacia dei fatti. Conveniva, e fu deciso di comune accordo, che uno dei componenti quella suprema direzione esecutiva, scendesse nella penisola, esaminasse lo stato delle cose, infiammasse gli animi degli adepti, ne accrescesse a tutto potere il numero, procurasse armi e danaro con ogni possibil mezzo, si mettesse a capo delle squadre ordinate in segreto, gettasse il grido della rivoluzione e cominciasse la sacra lotta.

La missione era delle più difficili e rischiose. Mario Tiburzio con superbia sublime la rivendicò per sè; e niuno volle ed osò contrastargliela. Venne in Italia sotto nome e professione simulati; come aveva bella voce e sapeva di musica, si diede per cantante, acconcio mestiere per correre le varie città, e coll'aiuto di qualcheduno dei congiurati che poteva in siffatte cose, ottenne di essere scritturato, come si dice, a quel teatro che egli volle.

Il paese più importante per l'umore bellicoso e pel carattere fermo de' suoi abitanti; quello che la congiura credeva più necessario guadagnare alla rivoluzione era il Piemonte. Insorta la Lombardia contro lo straniero, insorto il paese subalpino contro la monarchia più forte d'Italia, anzi la sola che fosse forte di per sè; tutto il resto della penisola era in balìa del movimento.

Mario Tiburzio venne in Piemonte. Aveva conosciuto a Parigi Romualdo, in un viaggio che questi aveva fatto colà, ed anzi avevagli reso un importante servizio d'amico, in occasione d'un duello che ho raccontato altrove[2]; aveva sempre continuato a carteggiare con Romualdo, il quale non aveva fatto la menoma difficoltà ad intingere nella congiura. Giunto a Torino, il cospiratore romano, per mezzo di Romualdo, era entrato in relazione con tutti gli amici di quest'esso, e per la generosità della loro indole, per la vivacità del loro amor patrio, per le doti d'ingegno e di cuore che li contraddistinguevano, Mario li aveva fatti suoi confidenti e principali aiutatori nella terribile impresa.

Ora erasi al punto di dover prendere gravi ed estreme decisioni; e nel convegno di quella sera della quale vi sto narrando, Mario Tiburzio aveva annunziato dovere comunicare agli amici le più importanti novelle.

[47] Ascoltiamolo adunque, ora ch'egli, abbassando la sua voce grave ed armoniosa, si fa a discorrere.

CAPITOLO XIII.

— Vi dissi che questa sera avrei comunicate gravi e serie novelle: così cominciò Mario Tiburzio; e quanto sto per manifestarvi è infatti più importante che forse non crediate, che io stesso non avrei pensato.

Trasse di tasca alcune lettere e mettendole spiegate sopra il suo ginocchio destro, vi pose su la mano.

— Qui, riprese egli, stanno le relazioni dei comitati parziali delle città delle Romagne, di alcuni di quelle del Napolitano, di Toscana e della Lombardia. Dappertutto la rivoluzione è pronta. Non si aspetta che un cenno da noi e si domanda che questo non tardi. Abbiamo noi da chiamarli alle armi?

Tacquero tutti sovraccolti, colla fronte corrugata, colle guancie pallide, cogli occhi fissi a terra, con un po' d'affanno nel respiro che dinotava il violento palpito del cuore. Il momento era solenne. Quei giovani si credevano — ed era in parte — avere in pugno la sorte della patria loro. Certo dal loro accordo in una decisione dipendevano centinaia di vite, e nuovi travagli e nuovi martirii.

Giovanni Selva, il più impetuoso di tutti, fece primo una mossa che accennava esser egli per parlare.

Mario alzò la destra e gli accennò attendesse.

— Un momento: pronunziò egli con accento più grave ancora e più solenne. La risposta che ciascuno di voi deve fare a questa domanda ha da essere l'effetto d'una matura riflessione e data con piena ed assoluta cognizione delle cose. Queste lettere mi pervennero oggi nelle prime ore del pomeriggio, ed io rinchiusomi nella camera dove mi nascondo, ho meditato su esse una mezza giornata che mi parve la più angosciosa che abbia vissuto mai e che pure mi passò come un lampo. Quando venne l'ora di andare a teatro, io aveva tuttavia un confuso tumulto nella testa, un ronzio negli orecchi per il rifluire del sangue nel cervello, degli abbagliamenti negli occhi. La febbre mi travagliava. Uscii tenendo sotto panni qui sul mio petto queste carte fatali, e il loro contatto mi pareva abbruciarmi. Corsi fuor di città a farmi flagellare la fronte dalla fredda aria notturna. Quello che s'avvicendò di pensieri nel mio capo non potrei esprimerlo a gran pezza. Quando entrai nel teatro ero calmo, la mia risposta era formolata. Non vi dirò per ora qual sia. Udite prima la lettura di questi rapporti, e poi meditateci sopra anche voi.

Lesse quei documenti ad uno ad uno con voce lenta e posata. In tutti dicevasi essenzialmente: essere stanchi della oramai incomportabile tirannia; rifornite di grandissimo numero di ascritti essersi dappertutto le file dei congiurati; il popolo impaziente anelare alla lotta contro i suoi oppressori; aversi raccolto di celato buona somma di denaro, cui ardenti patrioti erano disposti a venir man mano rinforzando; aversi delle armi nascoste e sapersi ancora onde provvedersene: coll'aiuto di certi agenti inglesi che facevano di questi traffichi; essere gran tempo d'una risoluta eroica decisione. Veniva per ultimo un disegno di rivolta del comitato parigino, per cui stabilivasi che ad un tempo nelle Romagne e in Piemonte avesse da seguire lo scoppio, al quale avrebbero tenuto dietro senza ritardo le insurrezioni di Lombardia, di Sicilia e del Napolitano. A Mario ed agli amici suoi il procurare e provvedere pel rivolgimento nelle terre subalpine. Si assegnava un corto periodo di tempo per gli ultimi preparativi, e i giorni di gazzarra della fine di carnovale erano posti come quelli in cui si sarebbe dovuto scendere in piazza. Italia e libertà il grido; via lo straniero l'impresa; repubblicano, colla formola di Mazzini, il vessillo.

Poichè Mario ebbe finito di leggere, nessuno ancora degli amici parlò. Tutti avevano lasciato spegnere in bocca lo zigaro o la pipa, loro compagni inseparabili.

Mario ripose in seno quelle carte pericolose e riprese a dire:

— Qui non è tutto. Siccome conviene che voi sappiate ogni cosa, mi resta da narrarvi d'un importante abboccamento che ho avuto testè. Voi sapete come da poco tempo sia sorta nel nostro paese una nuova schiera di amatori di libertà e di progresso, la quale, rompendo colle tradizioni del nostro popolo che sono tutte repubblicane e rivoluzionarie, pretende e sogna di effettuare l'impossibile vicenda d'un movimento pacifico di riforma, per cui l'Italia dalla monarchia, o meglio dalle monarchie che la opprimono, venga a ricevere aiuto precipuo a costituirsi in nazione ed acquistare la indipendenza dallo straniero. Questa scuola è anzi nata qui in Piemonte, e ne sono fondatori e precipui campioni i vostri Gioberti, Balbo e d'Azeglio. Essi chiamano utopia la nostra di sperare nella forza dell'ira popolare, nella potenza della rivoluzione, nel santo principio della libertà repubblicana; e noi chiamiamo utopia la loro di confidare in un miracoloso liberalismo di re che soltanto vivono per la tirannia, in un desiderio d'indipendenza di principi i quali dallo straniero soltanto hanno sostenuti i loro troni. Fra queste due schiere, come vedete, corre un abisso; e tuttedue si guardano con diffidenza a vicenda. Mi era già venuto parecchie volte il pensiero che opera buona sarebbe il tentare se possibil cosa non fosse l'indurre fra queste due [48] parti un accordo per cui, in servizio di quella libertà e di quel bene della patria che tutti in fondo vogliamo, si traesse profitto delle forze che in verità stanno presso dell'una e presso dell'altra.

«Siffatto pensiero, ch'io non avevo mai trovato modo, occasione ed incoraggiamento a porre in atto, ha or ora intrapreso di effettuare uno dei principali della parte che si chiama e dev'essere chiamata moderata, uno dei vostri, un di quelli che ho nominato adesso, Massimo d'Azeglio.

«Questo nobile liberale, questo soldato artista, questo scrittore patriota, viaggia per l'Italia, quasi messo del suo partito, apostolo della nuova dottrina della rivoluzione pacifica di complicità fra popolo e principi, sconsiglia ogni violento proposito, incuora alla tolleranza, alla calma, ad una rassegnata aspettazione, facendo sperare chi sa quali venturosi successi da un subito convertimento dei nostri reggitori all'amore della nazionalità. Ora, come sapete, ei trovasi in Piemonte, e fa nella società torinese la sua opera di propaganda moderata.

«Avevo più volte pensato di recarmigli innanzi. L'ho conosciuto quando visse in Roma come semplice e non ricco artista, ed io era giovanetto. Nell'infelice ultima rivoltura, a cui presi sì sfortunata parte, udii ch'egli avevala condannata: ma le nobili parole ch'egli stampò a far conoscere il vero all'Europa non mi lasciarono scemar d'un punto quella reverenza e quell'affetto che sin da prima ho concepiti per esso. Pur mi peritavo di venirgli innanzi, solamente per appurar meglio lo screzio profondo che divide le sue dalle nostre idee; e come non confidavo abbastanza nella mia forza di persuasione, per istaccar lui dalle sue opinioni, sentivo altresì che le mie mi erano eziandio così radicate nell'animo, che niuna parola, per quanto autorevole, me ne avrebbe potuto smuovere. Inutile quindi, e forse doloroso soltanto l'accontarsi con esso lui.

«Ma ciò che non io, si decise a far egli. Mercè i suoi rapporti con tutti quelli della parte liberale italiana, d'Azeglio seppe della mia venuta e del mio star qui in Torino, ed apprese ancora o indovinò l'opera mia. Volle ad ogni modo vedermi e favellar meco; e per un'interposta persona mi fece questa medesima sera domandare un luogo ed un'ora per un colloquio, e presto, che trattavasi di cose urgenti. Risposi che sarei andato da lui anche subito; mi si prese in parola, e quand'ebbi finito il mio poco di parte nell'opera, sgusciai via, raggiunsi in piazza l'uomo che mi aspettava, e fui condotto in presenza di Massimo d'Azeglio.

«Sono uscito da quell'abboccamento per correr qui da voi; e la cagione del mio ritardo fu questa. Importanti cose si dissero nel nostro colloquio, ed è mestieri che voi pure le intendiate.»

Qui Mario fece una pausa. I suoi compagni, sempre più presi dall'interesse, gli si accostarono ancora di vantaggio, pendendo proprio dalle sue labbra; ed egli così incominciò a parlare:

— Massimo d'Azeglio ha nella sua persona tutto quanto può sedurre ed ispirare rispetto insieme e simpatia: la gentilezza d'un cavaliere, l'abbandono d'un artista, la cortese domestichezza del tratto, la grazia dell'ingegno, e sopra tutto ciò lo splendore della fama sì giustamente acquistata al suo nome. Parla con una modesta sicurezza e con un'agevole semplicità che sono ben lungi dall'eloquenza, ma che più di questa vi si insinuano nell'anima, vi convincono e vi trascinano. Sul suo volto nobile ed aperto, nel suo sguardo limpido e schietto, nel suo sorriso arguto e tuttavia pieno, direi, di tolleranza, appaiono la sincerità delle sue convinzioni, la integrità della sua anima e la cavalleresca lealtà del suo carattere. Alto di persona e non ancora cinquantenne, sta curvo ed ha un aspetto stracco, come se le fatiche della vita sostenute lo avessero affranto; i capelli brizzolati, le rughe che si affollano sul suo viso dimagrato gli danno un'apparenza di età più inoltrata e non gli lasciano di giovane che lo sguardo ed il sorriso. Questa medesima aria di sofferenza e di affralimento accresce in lui quel fascino di simpatia che ho detto, ch'egli manda intorno a sè, su chiunque l'accosti. Tanto più che facilmente si scorge, cotale stracchezza non esser che delle membra, ma dentro esse perdurare vivaci, forti, ardenti l'animo e lo spirito, pronti, ove il bisogno ne occorra, a dare, colla forza indomata del volere, attività e robustezza anche al corpo.

«Vi dico tutto ciò, perchè vediate se io non era disposto meglio che altro a subire l'influsso della parola, delle ragioni, della giusta autorità di quell'uomo benemerito d'Italia.

«Al mio entrare si alzò dalla poltroncina su cui sedeva, presso ad una tavola, leggendo al chiarore d'una lampada, i cui raggi erano riflessi sul libro da un coprilume bianco al di sotto, verde al di fuori; depose il volume che teneva in mano sulla tavola colla parte in cui era aperto volta all'ingiù, e fece alcuni passi verso di me e la persona che mi introduceva. Appena udito da quest'ultima il mio nome, si accostò più rapidamente, tendendomi le sue due mani.

«— Tiburzio! Diss'egli con molto affetto. Con quanto piacere vi rivedo! Voi mi ricordate la mia diletta Roma, e il bel tempo che, giovane, ho vissuto in essa; voi mi recate innanzi il maschio volto d'un coraggioso patriota, d'uno che può dirsi per sangue e per animo discendente dai Romani dei due Gracchi.

«(Vi ripeto, quale egli le disse, le sue parole, che una per una, come potete immaginare, mi si stamparono nella mente e nel cuore).

[49] «Per le mani, che io aveva poste nelle sue tesemi così cordialmente, mi trasse presso la tavola, e levando il coprilume dalla lampada, fece che i raggi di essa si spandessero per la cameretta e percuotessero in pieno nei volti di ambedue che stavamo là l'uno a fronte dell'altro.

«— Così, diss'egli scherzosamente, che possiamo leggerci nella soprascritta.

«I suoi occhi si affisarono ne' miei ed i miei si affondarono ne' suoi. Parve che le nostre anime si incontrassero; e credo poter dire che niuno rimase scontento di questo mutuo, tacito esame.

«— Ah! Diss'egli con un sospiro insieme ed un sorriso: l'ultima volta che ci siam visti, voi eravate appena giovinetto ed io già uomo; ora voi siete un uomo ed io sono vecchio.

«La persona che mi aveva introdotto era testo sparita; ci trovavamo affatto soli.

«D'Azeglio tirò avanti una poltroncina, rimpetto a quella in cui egli sedeva poc'anzi, e fe' cenno mi vi assettassi.

«— Sedete e discorriamo: mi disse.

«Sedette egli stesso, ed appoggiando il gomito destro alla tavola sostenne il capo colla mano alla fronte, mentre mi seguitava a guardare con insistenza che non aveva nulla di offensivo o sgradito, ma invece di amorevole, onde non me ne sentivo menomamente turbato.

«Io dissi alcune parole ad esprimere la mia soddisfazione e la mia superbia nel trovarmi a quel colloquio con esso lui. Egli m'interruppe con quel suo aggraziato e malizioso sorriso.

«— Caro Tiburzio, non siamo qui per farci dei complimenti, che nella vostra bocca sento sinceri, ma che non fanno all'uopo. Io non vo' usare con voi ciò che suol chiamarsi della diplomazia. Lo faccio con nessuno — o con pochissimi, soggiunse sorridendo — e la gran ragione si è che non ci ho proprio gamba. Con voi poi meno che meno vorrei tentare codesto, perchè vi stimo di troppo, e inoltre la sarebbe cosa inutile ed anzi dannosa agli effetti che mi sono proposto d'ottenere. Gli uomini di ordinario hanno due verità come due coscienze; una verità vera ed una coscienza giusta a cui fanno contrapposto una verità affatturata e una coscienza che chiamerò legale. Nei nostri rapporti noi ci atterremo alle prime due, perchè tale è nostra natura, e vi dirò schietto che tale è eziandio il mio interesse. Dunque a noi, senza altro preambolo.

«E qui, ponendomi famigliarmente una mano sopra il ginocchio, mi disse che se io conosceva alcuna cosa de' fatti suoi, anch'egli non era del tutto al buio intorno ai miei, che sapeva la parte da me presa negli ultimi infausti rivolgimenti, la mia dimora in Parigi e in che cosa l'avessi occupata, la mia venuta in Italia, e l'opera a cui intendevo sotto il mio finto mestiere d'artista da teatro.

«— Quest'opera, diss'egli allora con molto calore, quest'opera non può riuscire, più che non abbiano riuscito gli ultimi tentativi di Romagna, credetene l'esperienza d'un uomo a cui pur troppo la maturanza dell'età non lascia abbandonarsi alle lusinghe della fantasia, d'un uomo che ha viaggiato palmo a palmo questa Italia che si tratta di sommovere, che ne conosce della popolazione gli elementi, le condizioni, gli umori, i difetti. Voi, col trasporto del vostro desiderio e del vostro patriottismo, vi create un popolo italiano immaginario che non esiste, e quindi allorchè lo chiamate alla lotta, esso vi manca e non sapete rendervene ragione. Fra noi v'è una massa stragrande di plebe, la quale non si cura di patria, nè d'indipendenza, nè di libertà, perchè non sa nulla, non comprende nulla, non avverte nessun suo interesse ad un cambiamento politico qualunque.

A questo punto Maurilio, che era sempre stato immobile ad ascoltare, coi gomiti appoggiati alle ginocchia e il volto sostenuto alle mani serrate a pugno, si volse di scatto ed esclamò vivamente.

— Gli è vero! Codesta osservazione tenetela a mente: ci tornerò sopra.

Mario continuava:

— E non solo — così diceva ancora D'Azeglio, e come vedete, io vi ripeto con tutta imparzialità le sue obbiezioni — non solo fallirà tristamente il vostro tentativo, ma sarà infaustissimo, oltre che a voi prime vittime della vostra generosa imprudenza, oltre che a migliaia d'altri martiri inutili, all'Italia medesima, a quella santa causa a cui volete appunto giovare, a cui vi disponete a sacrificare la vostra vita, ed alla quale invece arrecherete irreparabil danno, rimandandone il trionfo a chi sa qual più tarda età.

«Secondo lui i tempi vengono sì maturandosi e facendosi propizi ad un miglior destino per l'Italia, ma ciò, mediante altri mezzi da quelli della violenza, coi quali non può e non deve combattere il diritto. Invece che colle congiure e colle rivolte, diss'egli, noi liberali dovremmo combattere colla esposizione aperta, moderata, legale dei nostri diritti. Il tempo delle opere fatte nelle tenebre è finito, afferma D'Azeglio, bisogna congiurare pel bene della patria, pel bene morale, per qualunque siasi progresso alla chiara luce del sole. A suo avviso hanno giovato di più all'Italia i libri di Gioberti e di Balbo (per modestia non disse i suoi) che tutte le cospirazioni e le rivolture avvenute dal vent'uno in qua. L'esposizione pubblica dei voti, dei diritti del popolo forma la pubblica opinione, la cui forza nel nostro secolo è somma, e va ancora ogni giorno crescendo. Nè meno coraggiosa è l'opera di chi all'aperto proclama la verità che quella di chi affronta la morte o l'esilio, celatamente lavorando per questa verità medesima. Che un profondo e radicale rimutamento si venga facendo [50] in Italia, cieco è chi non veda; ma questo moto affatto nuovo ha da regolarsi con nuovi mezzi, abbandonati i vieti e dannosi delle congiure. I liberali hanno poca forza contro i proprii principi e contro lo straniero riuniti. Non sarebb'egli abile politica ed immenso guadagno dividere questi due elementi di nostra oppressione ed avere compagni, complici, direi, nella crociata contro gli stranieri i nostri principi medesimi? Le nostre forze non ne sarebbero esse centuplicate?

«Qui io l'interruppi, dicendo ciò che vi dicevo poc'anzi: il confidar ne' principi essere un'utopia più arditamente folle che la nostra di confidare nei popoli.

«D'Azeglio riprese con calore: — No, Mario, non è assolutamente vero ciò che dite. Anzi tutto, i principi sono italiani ancor essi oramai.

«Io scossi la testa.

«— Sono nati in Italia, ma hanno il cuore a Vienna od il sangue spagnuolo.

«— Non tutti, non tutti: riprese egli tornando a mettermi la mano sul ginocchio. Vi è una dinastia che da otto secoli — donde sia venuta non importa — da otto secoli ha le sue radici in Italia, e da più di quattro ebbe per obbiettivo della sua politica l'aspirazione di costituire l'Italia: chiamatela pure ambizione, un'enorme ambizione, ma grande e nobilissima. Questa dinastia ha una qualità caratteristica, attinta al popolo su cui domina da tanto tempo, benevisa quasi sempre, abborrita nè anche disamata mai: la tenacità dei propositi, e la prudenza, non disgiunta dall'audacia a tempo opportuno, negli atti. Nello scorrere di tanto tempo, fra tante sostenute vicende, in mezzo a così profondi rivolgimenti, ella non ha rinunziato mai al suo scopo finale; si è fermata, s'è raccolta, ha taciuto, ha dissimulato fors'anche, ma tosto che il potè, sempre riprese la via verso quella meta, a cui la chiamano la sua ambizione, il destino, lo svolgimento necessario delle sue premesse politiche. Voi mi direte che non c'è da fidarsi nell'amor patrio e nel liberalismo dei principi; ed io pel momento ve lo voglio anche concedere; ma per casa Savoia, o far l'Italia, od essere soggetta allo straniero, o collo svolgersi del tempo vedersi fors'anche schiacciata fra due contendenti e cancellata dalla lista dei regnanti, è una necessità fatale che le incombe inesorabilmente. Ne volete una prova? De-Maistre, il gran profeta della reazione, non vedeva altra sicurezza per la Monarchia Sabauda restaurata, in faccia all'Austria, che nella formazione in suo vantaggio di un regno solo dell'alta Italia. E codesto come volete che non lo capisca re Carlo Alberto, in cui gli umori liberali del vent'uno non possono essere affatto spenti, in cui l'umiliazione inflittagli dall'Austria per la bocca insolente del generale Bubna, e il minacciato trono, e l'imposta suggezione devono aver destato potente — tanto più potente, quanto più contenuto — il desiderio della vendetta?

«Io sorsi con impeto non potendo frenarmi.

«— Ah! non parlatemi di questo principe: esclamai. Le sue velleità liberali del ventuno, troppo ha egli ripagate col suo accorrere al campo austriaco, col Trocadero, colle fucilazioni e colle forche di Alessandria. Qual fede volete che si nutra pel re che si è stretto in legame di sangue colla casa austriaca, il cui governo perseguita accanitamente il pensiero e protegge i Gesuiti?

«D'Azeglio tacque un istante guardandomi commosso, ma senza il menomo segno di risentimento; poi mi disse con più amorevolezza ancora:

«— Sedete di nuovo, Mario Tiburzio, ed abbiate ancora la pazienza d'ascoltarmi un poco.

«Feci a suo senno, ed egli ripigliò a parlare. Mi disse che la condotta di Carlo Alberto era una necessità per conservarsi prima il diritto alla corona, quest'essa poi. Ma nell'animo di quel re taciturno, chi può leggere sicuramente e dire i pensieri e i propositi che vi si agitano? Un giorno — egli ne va persuaso — dovremmo benedire quegli atti che ora malediciamo, perchè, avendo dato lo scettro del Piemonte a questo re calunniato, lo avranno posto in grado di compire il riscatto d'Italia.

«— No, no: io proruppi. Codesto non crederò mai. Se cotali generosi propositi si covano sotto quella fronte coronata, perchè, una volta stretto in mano lo scettro, non s'è egli gittato francamente col popolo e non ha fatto suo programma di regno la stupenda lettera che gli indirizzava Giuseppe Mazzini?

«— Perchè, caro mio, rispose d'Azeglio, altro è far disegni di politica e di governo a scrittoio colle briglie abbandonate alla fantasia audace e poetica, altro è trovarsi all'atto pratico, nel cimento delle contingenze e potendo apprezzare la fattibilità delle cose. Io non voglio dire che Carlo Alberto, venuto al trono, non avesse potuto adottare un regime un po' più liberale; ma i pericoli per lui, sospettato dalla reazione interna e dall'influenza estera, circondato di stromenti avversi e malfidi che non poteva cambiare senza sovvertire tutto il regno, i pericoli erano molti e gravi e da atterrire facilmente qualunque animo più fermo. Gittarsi francamente col popolo, voi dite? Ma qual popolo? La gran massa ignorante è più facile stromento al sanfedismo che non altro. L'aristocrazia e la maggior parte dell'esercito erano per la reazione. La borghesia, poco illuminata ancor essa, non dava che un lieve contingente di gioventù alle schiere rivoluzionarie. Dov'era questo popolo che avrebbe potuto sostenerlo? Formiamolo noi, suscitiamolo noi, questo popolo, col lavoro palese, aperto, calmo e coraggiosamente tranquillo d'una propaganda nazionale; e quando [51] Carlo Alberto sarà sicuro di avere in esso una leva contro lo straniero, rivelerà quei segreti propositi che cova nel suo animo generoso.

«Io l'interruppi dicendo che la proposta propaganda era impossibile; la censura dei governi l'avrebbe contesa alla stampa, la polizia sospettosa e prepotente, e più che altrove in Piemonte, l'avrebbe impedita alla parola.

«— Tutto si cambia, tutto si va cambiando a questi giorni: ribattè egli. Se vi dicessi che, fatta colla voluta prudenza, quest'opera aggradirebbe al re medesimo? Se vi dicessi che qualche patriota, — qui esitò un momento, e poi soggiunse: — che io stesso parlando con esso lui, trovai sulle sue labbra le espressioni d'amore all'Italia, di desiderio, d'indipendenza che potremmo pronunziare noi stessi, io, voi Tiburzio, rivoluzionario ad ogni costo[3]? Se vi dicessi che per sua impresa segreta Carlo Alberto ha scritto: ATTENDO LA MIA STELLA; e che questa stella è il momento in cui potrà snudare la spada per la santa causa d'Italia? Che io stesso ho letto — letto con questi miei occhi, Mario — una lettera del re ad un suo confidente, in cui esso dice a chiare parole che il più bel giorno di sua vita sarà quello in cui potrà salire a cavallo in compagnia de' suoi figli, mettersi a capo al suo esercito, e farsi lo Sciamìl dell'Italia?[4]»

A queste parole l'impetuoso Giovanni Selva proruppe:

— Oh! se ciò fosse mai vero? Ma tutto il Piemonte sorgerebbe con entusiasmo dietro il suo principe, e si rovescierebbe addosso ai Tedeschi. Ed io, io stesso griderei: viva il re!

— Ed io? Corpo di bacco! Esclamò Vanardi il quale, all'idea di poter essere liberale e patriota d'accordo col governo, sentiva l'animo rassicurarsi non poco.

— Certo che sì! Soggiunse ancor egli Romualdo. Questa sarebbe pure la miglior ventura per l'Italia.

Maurilio solo si tacque e non si mosse nemmanco, sempre tenendo il mento appoggiato alle mani, l'occhio fisso nel crepitar della fiamma.

Tiburzio fece pausa un istante, come per dar tempo allo sfogo di quel subito nuovo sentimento nei compagni; poi girando attorno su di essi lo sguardo freddo ed acuto dei suoi occhi neri disse con ispiccato accento:

— Udite la risposta che io gliene diedi, e se vi parrà che in essa meco non possiate convenire, accusatemi pure d'aver errato respingendo assolutamente ogni accordo col partito monarchico, ogni fiducia nel liberalismo principesco. Signore, io gli dissi, quando un uomo ha nel suo passato i fatti del ventuno — chiamateli pure, con termine il più mite possibile, un abbandono soltanto; — quando quindici e più anni di regno assoluto e tirannico in cui si è governato coi poliziotti, col predominio della sciabola, del nobilume e dei gesuiti, a beneplacito dello straniero, hanno dato la misura dell'amore d'un principe verso il suo popolo, non è mercè alcune belle parole buttate là in una conversazione privata, scritte forse per arte politica in una lettera che non avrà mai carattere ufficiale di realtà, che quest'uomo e questo re possa far credere alla sincerità de' suoi sentimenti liberali, all'ardore del suo patriotismo. A nome di tutti i patrioti italiani che hanno travagliato e si travagliano per la libertà del loro paese, a nome di tutto il popolo che ha sofferto e che soffre, io sento il diritto di chiedere a questo come ad ogni altro principe d'Italia qualche maggiore e più effettiva guarentigia che questa non sia, per porre fidanza in esso lui.

«D'Azeglio mi prese per la mano e mi disse vivamente:

«— Ma se questo re vedeste scendere in campo e cimentare la corona e la vita per la nostra patria, non gli credereste? Non lo seguitereste voi?

«— Sì, risposi, allora sì: ma allora soltanto.

«— Ebbene aspettate: soggiunse egli, e questo bel momento verrà.

«Volle persuadermi ad ammorzar la congiura ch'egli sa ordita e presso allo scoppio; mi disse che l'esplosione della medesima non avrebbe ottenuto che di ricacciare indietro dalla strada del partito nazionale Carlo Alberto e gli altri principi che verso di essa si avviano: che saremmo immancabilmente oppressi: che era somma virtù anche quella di saper aspettare.

«— Ma l'Italia, io risposi, ha già di troppo aspettato, e i mali suoi sono intollerabili. Aspettare è molte volte una virtù, ma sovente ancora codardia. Noi siamo giunti al punto da meritarci quest'ultima nota in faccia alla vergognosa tirannia che ci opprime, di fronte alle altre nazioni che hanno il diritto di disprezzare la nostra ignavia, e la disprezzano. Noi cadremo? Spero di no perchè la giustizia è dalla nostra parte, e non sempre essa soccomberà; perchè il popolo abbiam prova essersi desto finalmente, e volontà di popolo ha la forza della Provvidenza. Ma fosse pur anche, non pentiti cadremmo ed oso dire non inutili, perchè ogni martirio radica la fede e la religione d'un'idea; il cristianesimo si fondò colle successive persecuzioni sanguinose che furono altrettante sconfitte materiali, ma altrettante morali vittorie; e l'amor della patria e della libertà è una vera religione ancor esso. Non inutili cadremmo, [52] perchè in una gente schiava è opportuno, è necessario, è sacrosanto debito dei forti che di quando in quando il sacrifizio di alcuni generosi dia esempio di animo maschio ed innalzi il livello de' caratteri cui la schiavitù e le codardie della servilità accasciano e corrompono. Si versi pure il nostro sangue di vinti: esso concorrerà a fecondare con quello dei martiri che ci precedettero, il sacro germe della libertà. Per noi, per me, la sorte è tratta, e bisogna che il destino si compia.»

Mario Tiburzio a queste parole sorse in piedi, levò risolutamente la sua bella testa e scosse le chiome con nobil mossa onde si accrebbe ancora l'aspetto di forza e di coraggio che improntava la sua fisionomia, tese la mano verso Romualdo, Selva e Vanardi, che s'erano alzati ancor essi, e soggiunse con accento di cui impossibile dire l'efficacia ed il fascino:

— E la risposta fatta all'Azeglio vi dica la mia decisione suprema. Fuori i ferri e via le guaine Viva Italia e libertà! E combattiamo per esse fino all'ultima stilla di sangue.

— Viva Italia! Gridò Selva scosso, trascinato dall'influsso magnetico, direi quasi, di Mario Tiburzio. La vostra decisione è la mia.

— Ed anche la mia; soggiunse Romualdo, affascinato egli pure.

— E la mia; mormorò Vanardi, che impallidì maggiormente.

— Ed anche quella di Benda, ne rispondo io: riprese Giovanni.

Maurilio solo si tacque, rimanendo al suo posto, a quel modo, senza dare il menomo segno di che pensasse o volesse.

Tiburzio gli si accostò e gli pose lievemente una mano sulla spalla.

— E voi, domandò, che avviso è il vostro?

Maurilio alzò il capo dalle mani e gli occhi in volto al richiedente; poi rispose con tranquilla indifferenza:

— Avete detto tutti di sì; tanto vale che lo dica ancor io. Ad ogni modo, sapete che io sarò sempre con voi; ma se, per via di discorrere, mi voleste lasciar dire quattro parole, io vorrei snocciolarvi alcune mie osservazioni.

— Parlate: disse Mario.

— Parla, parla: esclamarono gli altri.

Il nostro protagonista levò via i piedi dal fuoco e battè con essi sullo scalino del focolare per scuoterne la cenere, si volse sulla seggiola verso i compagni, e con tono lento e quasi indeciso, come se si peritasse o non avesse ben chiaro innanzi ciò che avesse da dire, incominciò a parlare con voce esitante e sommessa. Ma poi nel progredire del discorso venne via via rinfrancandosi, e le parole più fluidamente e più ordinatamente gli uscirono dalle labbra, e la voce eziandio si raffermò e crebbe di forza e d'efficacia nell'accento.

— Sì..... certo.... Mario Tiburzio ha ragione.... Credere così di piano all'amore dei re assoluti per la libertà è..... direi quasi..... almeno almeno poca prudenza..... Ma pure questa misteriosa figura di Carlo Alberto ha qualche cosa in sè di.... di speciale..... che accenna ad un'eccezione..... Non voglio già dire con ciò..... Io non vi parlo che di mie impressioni, e so bene che valore queste possono avere..... A me è avvenuto poc'anzi, per la prima volta, di trovarmi innanzi al re, a due passi..... alla distanza a cui ora sono da te, Selva.... e di guardarlo fisso negli occhi..... così..... come guardo te..... Fu uno sguardo e non più; fu un minuto, un attimo, un nulla, eppure vidi, sentii pensai, conobbi, quasi oserei dire, di quell'enimma coronato d'uomo assai cose.

Selva lo interruppe domandandogli dove e come gli fosse avvenuto questo incontro col re, il quale, nelle condizioni del giovane plebeo, pareva anzi che straordinario, impossibile.

Maurilio raccontò impacciatamente essersi introdotto, e tacendone il vero motivo disse per curiosità, nell'atrio dell'Accademia filarmonica, e ciò che colà eragli accaduto; poscia riprese tornando al suo discorso:

— Io credo alla teoria di Lavater, la quale se non ha tutte le rigorose deduzioni della scienza, ha i meravigliosi indovinamenti d'una ispirazione e d'un istinto. L'anima parla, anche malgrado la volontà, colle sembianze della faccia, coll'espressione dello sguardo, colle forme del corpo onde s'è vestita; e l'arte dell'uomo nel mondo è appunto di soffocare quel linguaggio, o dissimularlo, o fargli dire il contrario della verità. Ma non tutti, non sempre, riescono a questo violentamento della propria natura. Un sussulto, un atto, uno sguardo, rivelano ad un punto all'osservatore il nascosto essere dell'anima, ed in un minuto contraddicono alla finzione già perfino fatta abitudine di anni e di anni. Ho incontrato col mio lo sguardo di re Carlo Alberto; io, uno zero sulla terra, ho tenuti fissi i miei occhi in quelli del rappresentante della maggior potenza terrena; ed ho tanto orgoglio da credere che, meglio forse di tanti altri, per la ventura di averlo colto in uno di quei momenti in cui anche al più in sull'avviso cade la maschera, io ho letto nella sua anima. Stimo aver io travisto un istante i pensieri ed i propositi che si agitano nell'intimo essere di quel re taciturno.

«Massimo d'Azeglio ha ragione. Quell'uomo non è il tiranno che noi liberali accusiamo, non è il traditore che maledicono nelle loro conventicole i carbonari: è uno schiavo esso stesso morso dalle strettoie delle circostanze, che copre colla pallidezza ascetica del suo volto e colla clamide [53] di re le sue interne riluttanze e le ribellioni soffocate della sua natura. Non è un Tiberio, quale Tommaseo lo battezzò; è piuttosto una specie di Bruto primo incoronato.

«Quell'uomo soffre e pensa. Il pensiero ed il dolore nei re li fanno più acconci a comprendere ed amare i popoli. Quel principe ha una fede e un'ambizione. Vuole che il suo nome non passi inosservato fra la schiera dei regnanti di cui recita la litania lo scolaretto che ha mandato a memoria il trattatello di storia patria, ma che obliano le povere plebi memori soltanto di chi ha fatto loro molto bene o molto male; e crede che colla preghiera potrà ottenere da Dio le fortunate vicende onde conseguire il suo scopo. Quali mezzi trascegliere non sa, e forse non giunge sinora a vederne alcuno ad arrivo di sua mano. Esita ed oscilla forse innanzi a due grandissimi còmpiti: far la nazione e risuscitar l'Italia; o farsi il riformatore del suo popolo e lasciare al re venturo un paese più ricco, una popolazione più omogenea, una società meglio ordinata. Forse gli mancano la forza e l'intelligenza sia per l'uno che per l'altro di questi sommi propositi; e la turba di cortigiani, di mediocrità ignoranti e prosuntuose, di uomini del passato che si assiepano intorno al suo trono, non gli lascia scorgere nè la possibilità nè i modi per affrontare l'una o l'altra, o tuttedue codeste imprese. Vuole e disvuole; ora si rincora, ora si stanca e s'accascia; tenta tenersi preparato per questo e per quello; rinuncia ad ogni cosa; riprende lo sperare e l'agire; ma tace e tutto rinserra nel profondo dell'animo.

«Quell'indole incerta si lascia in balìa degli avvenimenti: forse egli non si deciderà mai e morrà senz'aver fatto nulla, dopo aver vagheggiato tutto, mantenendosi in quella timidità d'atti malgrado la temeraria audacia dei pensieri, se la forza delle circostanze o l'influenza d'una potente volontà non vengono ad esercitare un impulso su di lui. Bisognerebbe quest'impulso produrlo e farsi collaboratori, a sua stessa insaputa, dei suoi segreti, non anco ben precisi intendimenti.

«Il più agevol modo sarebbe quello d'una potente personalità, d'una grande intelligenza che lo accostasse, gli leggesse per entro, prestasse alle sue aspirazioni, forse ancora troppo vaghe, la precisione ed il vigore di concetti politici, lo persuadesse della possibile attuabilità di essi, lo dominasse coll'influsso della verità e coll'autorevolezza del genio. Ma dove trovarla questa eminente intelligenza speciale? Io non la so per ora vedere in Italia. Gioberti è un altissimo e vastissimo intelletto; nella sua un po' confusa filosofia si hanno degli sprazzi luminosissimi di vero; il suo Primato è un'esercitazione rettorica in cui rivive la potenza dei grandi scrittori italiani del cinquecento, in cui la vena immaginosa e ridondante dello stile va fino al paradosso, ma in cui non si mostra per nulla il politico pratico ed effettivo. Questa qualità ha di meglio Cesare Balbo, ma è troppo rimesso e senza le audacie prudenti di nuovi principii. Massimo d'Azeglio stesso è un buon scrittore, un egregio patriota, ma non discerno ancora in lui quelle qualità, che mi sembrano opportune, di operosità intellettiva infaticabile, di prontezza e continuità fecondissima di spedienti, di tenacità e d'unità di pensiero, pure colla varietà infinita delle capacità e dei modi, a seconda delle circostanze, degli uomini, dei casi, il quale, sempre presente a se stesso, tutto volge a benefizio, tutto intende all'ottenimento del suo fine; e su tutto codesto quell'influsso inesplicabile, quel fascino di superiorità che si fa riconoscere da chicchessia, e che anche i malvolenti obbliga a sottostare al predominio del genio. Forse — e voglio sperarlo per la nostra patria[5] — quest'uomo esiste nella massa dei nostri concittadini: ma chi sa additarlo? E donde potrebbe il re trarselo ai suoi fianchi consigliatore, ispiratore e ministro?

«Se non l'influsso d'un uomo, rimane allora che il concorso delle circostanze sia quello che mostri la via, che dia la spinta per essa all'animo esitante del nostro re. Possiamo noi crearle queste circostanze? Massimo d'Azeglio, secondo me, ha ragione: noi lo possiamo. E quando dico noi, intendo dire non soltanto i congiurati in nome della libertà, carbonari od altri, non solamente i Piemontesi e Liguri, non solo gli appartenenti alla classe mezzana che sono abbastanza istrutti da apprezzare che cosa sia nazionalità e libertà e da capire che non possedono nè l'una nè l'altra; ma intendo tutti quanti sono italiani da un estremo all'altro della penisola.

«Io sono d'accordo col semplice, ma vero e grandioso concetto di Massimo d'Azeglio: congiura universale, pubblica, aperta, in favore del bene e del progresso. Agire sopra un uomo solo che ha il potere, sarebbe più semplice e più speditivo; ma ce ne mancano i mezzi: agire sopra tutta la massa della nazione è più lungo, ma più sicuramente efficace ancora. Quest'opera ammette, include e comprende un'infinita varietà di mezzi, che tutti poi si raccolgono in una sola parola — una santa parola, amici miei: — Educazione popolare. Chiunque diminuirà non sia pure che d'un centellino l'ignoranza della nostra plebe, avrà lavorato pel bene, per la libertà e per l'emancipazione [54] d'Italia, più certo che non noi coi generosi giuramenti delle nostre segrete congreghe.

Mario Tiburzio accennò parlare; Maurilio fece segno non l'interrompesse, e continuando con più calore, soggiunse:

— Certo l'opera è più umile, ma è di tanto più fruttuosa di bene, poichè possiamo essere certi, quand'anche il propostoci fine da noi non si ottenga, che infiniti vantaggi resteranno nel popolo. Val cento mila volte più una scuola aperta nell'ultimo dei villaggi, che una insurrezione anche vittoriosa. Noi prepareremo un popolo conoscitore de' suoi diritti e scientemente desioso di libertà. Con un popolo tale sarà patriota anche il principe; e se per la lentezza dei progressi Carlo Alberto morrà senza aver potuto sguainar la spada contro l'Austria, legherà a suo figlio la vendetta del suo nome ed il debito della santa guerra.

«Nella nostra insurrezione credete voi d'avere il popolo dalla nostra parte? La parola popolo ha mille sensi; e noi siamo troppo usi ad intendere per essa quelli soltanto che partecipano dei nostri sentimenti e delle nostre opinioni. Io voglio significare l'universalità di quanti sono cittadini, fra cui il maggior numero non si merita ancora che il titolo di plebe. Questa plebe non l'abbiamo con noi; ben disse Massimo d'Azeglio. I nostri interessi patriotici e liberali si agitano al di fuori della sfera di quella misera gente e non la toccano. Ben altra è la quistione che incombe con tirannica pressura su quei diseredati: la questione del pane, la sicurezza della esistenza delle loro famiglie.

«Questa massa di popolazione ha in sè una forza latente di cui è inconscia essa stessa; e da tal forza soltanto noi potremo aver i mezzi da vincere le monarchie e lo straniero e l'attuale ordinamento politico; ma allorquando soltanto questa massa si gettasse volonterosa, confidente, spinta da un evidente suo vantaggio con noi. Invece che vantaggio possiamo noi arrecarle? Che cosa prometterle che poi siamo in grado di mantenere? La libertà? Ma se ella è in tali condizioni di mente da non capire che cosa sia. L'indipendenza della nazione? Sa ella forse che cosa sia una nazione? Domandate al villano piemontese, al cafone napolitano s'egli sia italiano. L'unità della patria? Ma per lui la patria è il campanile del villaggio, è la fangosa strada della sua officina. Come volete ch'egli abbia un amore platonico per quelle sublimi idee che ci commovono, noi che abbiamo studiato? La plebe vi domanderà, prima di scendere ad urtarsi contro il trono cui la tradizione se non altro le ha mostrato a rispettare: — Avrò meno miseria e men lavoro? — Se voi le rispondete affermativamente, mentite; ed ove questa menzogna la persuada, ne sarete puniti di poi tremendamente. Ma il vero è che nè anche se voi le affermaste questo suo riscatto dalla miseria, la plebe onesta non vi crederebbe, e non avreste con voi che la bordaglia ribelle ad ogni autorità, mantenuta nel dovere soltanto dal rigore delle leggi, la quale non vedrebbe in un rivolgimento che la guerra ai ricchi, e non farebbe altro che danneggiare e disonorare la vostra causa.

«La plebe dunque non l'avremo con noi, non bisogna nemmanco pensarci; e senza di essa noi siamo debolissimi nemici alle forze della monarchia....

— Avremo anche la plebe: interruppe Mario. Le cose che voi mi dite, Maurilio, credete voi che io non le abbia pensate? Ho cercato d'aver alleata — e dirò anzi complice — anche quella parte di popolo. In essa pure serpeggia il malcontento, ed il suo malessere presta favorevole occasione alla nostra propaganda. Quando si sta male, torna un vantaggio ogni cambiamento. Vi ha un uomo qui che si afferma — e me ne diede prove incontrastabili — avere sopra la plebe di questa città direttamente o indirettamente autorità grandissima ed impero sicuro. Con quest'uomo mi son posto in istretti rapporti. Sotto certe condizioni egli ci promette il suo appoggio.

— Chi è quest'uomo? Domandò vivamente Maurilio, a cui traverso la mente balenò un sospetto.

— È un essere misterioso che pur vivendo in mezzo alla più elegante società ha strette attinenze coi più bassi fondi della plebe. Nei salotti lo chiamano il dottore Luigi Quercia, nelle taverne dei più miseri cenciosi è conosciuto col nomignolo di Medichino.

— Lui! Esclamò Maurilio. Gian-Luigi?

— Voi lo conoscete?

— Lo conosco.

Maurilio curvò il capo e stette in silenzio, con atteggio di abbandono, come subitamente oppresso da una prepotente invasione di varii e tumultuosi innumeri pensieri.

Tiburzio continuava:

— Nella plebe, specialmente fra certe classi di operai, si intromisero e serpeggiano e già vastamente si dilatarono alcune segrete associazioni simili a queste nostre che hanno per iscopo la indipendenza della patria e la libertà del genere umano. Le associazioni plebee hanno un fine più speciale ai loro interessi: quello di abolir la miseria, di assicurare a tutti che vivono su questa terra i mezzi della loro sussistenza, di por fine agli stenti ed alle privazioni dolorose di tanta parte dell'umanità. Per giungere a codesto, una cosa hanno certa i guidatori di quelle società segrete: che bisogna intanto distruggere il presente regime politico, il quale grava con tutto il suo peso sulle classi povere e ne rende immutabili le [55] sciagurate condizioni. Noi abbiamo quindi questa forza della plebe che incomincia a sobbollire nell'imo del corpo sociale e prepara la sua esplosione. Perchè non ci serviremmo di essa? Come ci siamo accordati tutti quanti siamo amanti di libertà in Italia per unire tutte le nostre forze in una medesimezza d'azione, perchè non ci uniremmo altresì con quella parte di popolo, che giustamente, disse Maurilio, ci può accrescere di tanto le posse contro la monarchia? Ho pensato che questo era non solo un diritto, ma un dovere che avevamo. La plebe recherà a noi la forza del suo numero e delle sue braccia: noi daremo ad essa nel nuovo assetto politico ciò che vuole giustizia, migliori condizioni economiche e sociali. Mi sono accontato con quest'uomo che vi ho detto, — uno strano personaggio in vero, e di una potenza straordinaria d'animo e di parola — e se non è tuttavia conchiuso fra noi l'accordo, siamo prossimi, e confido che non mancheremo di stringerlo.

— Quest'uomo vi ha fatte delle condizioni, avete detto.

— Sì.

— Possiamo saper quali?

— Di due sorta. Alcune personali: accoglierlo lui fra i capi dell'impresa; ottenuto prospero successo, a lui uno dei primi posti nel nuovo ordinamento politico. Certo è un'audace ambizione che parla: ma egli richiede codesto qual guarentigia che saranno mantenuti i patti e procurati gl'interessi della classe ch'ei rappresenta. Non gli si può contraddire del tutto. Alcune altre condizioni sono politiche e sociali: che si darà il diritto di suffragio a tutta la plebe; che si faranno leggi regolatrici del lavoro e del compenso da darvisi, intese a migliorare lo stato degli operai in faccia al capitale; che lo Stato guarentirà sulle imposte prese dai patrimonii dei ricchi la sussistenza dei poveretti che non hanno pane nè mezzi da guadagnarsene; che dei beni di manomorta, e d'una parte di quelli posseduti ora dai ricchi, i quali si vedrebbero togliere tutto ciò che oltrepassa un certo limite d'agiatezza, di tutti questi beni si farebbe un cumulo, una proprietà comune, sociale con cui si provvederebbe ai varii bisogni della povera gente...

— Queste condizioni sono gravi, sono gravissime: disse Romualdo. Le sono prese ad imprestito ai socialisti della vicina Francia, i quali vogliono niente meno che la distruzione della società attuale.

— E sono misere utopie, proruppe Maurilio, che non hanno germe di buon frutto, che possono raggirare pur troppo le menti inesperte della plebe, ma che se mai poste in atto non farebbero capo che alla miseria ed alla rovina universale. Le condizioni economiche e sociali del popolo non si migliorano col violento rimedio delle rivolture. Suscitate questa misera gente che s'accalca nei bassi fondi sociali, scatenatela contro i ricchi; non avrete che un uragano, il quale dopo esser passato non vi lascierà che desolazione e rovine. La plebe avrà vendicato tutti i suoi stenti passati, non avrà nulla creato per impedire i futuri; anzi se li avrà accresciuti. Tutti gli accennati, e tutti quelli che pone innanzi il socialismo francese, sono mezzi fallaci, che mancano di possibilità effettiva, che urtano nei canoni assoluti, e non impunemente violabili, della scienza economica. La quistione sociale pende senza dubbio e inesorabile, sul secolo XIX; ma non è da sciogliersi colla spada d'Alessandro guidata dai sofismi dei comunisti. È il progresso lento e graduato delle istituzioni, è la diffusione dei lumi, è l'aumento cercato e ben diretto della prosperità pubblica, è l'applicazione giusta ed onesta delle buone teorie che regolano la produzione e la distribuzione delle ricchezze; è lo sviluppo del sentimento cristiano della fraternità, del sentimento civile della solidarietà umana, i quali devono ottenere il riscatto delle plebi. Guai, se gettiamo quest'ardente quistione sui serragli dell'insurrezione nelle strade, guai, se facciamo appello alla cieca forza! Sapete che cosa ci risponderà? Le più colpevoli cupidigie, le più inique passioni. Quell'uomo che con voi, Mario, intraprese gli accordi, sapete che cosa rappresenta, che cos'è? È l'invidia di chi non ha verso di chi ha: è la feroce smania di vendicarsi di non essere stato nulla: è l'agonia di imporsi prepotentemente ad una società che vi ha disprezzato, o peggio schiacciato col suo peso passando, come si fa d'un vil verme della terra; è la tirannia del volgo che anela a distruggere quella delle alte classi, per mettersi in sua vece e sfruttare a sua volta il mondo a suo profitto. Fra le due tirannie è meno perniciosa ancora l'esistente.

In questo momento s'udì un fischio particolare suonar nella strada.

— Silenzio! Disse Giovanni Selva; il nostro sibilo....

— A quest'ora! Esclamò Vanardi inquieto. È presto l'una dopo mezzanotte.

— Gli è Benda sicuramente: riprese Giovanni, e corso alla finestra, ne aprì le invetrate. Un vento freddo si cacciò nella camera, fece oscillare benchè difesa dal tubo di vetro la fiamma della lampada, e cacciò un brivido nelle ossa di Maurilio, che tutto si accoccolò presso il camino.

Selva si curvò fuori della finestra. La nebbia era più folta che mai, e nevicava sempre. Un alto silenzio regnava per la notte, le cui tenebre erano rotte appena da qualche raro lampione municipale nella strada, il quale pareva una macchia rossigna nel denso della nebbia.

[56] — Chi va là? Domandò Giovanni.

— Io: rispose la voce un po' alterata di Francesco Benda. Gettami giù la chiave del portone da via che è chiuso. Verrò su: ho bisogno di parlarvi.

— Subito: disse Giovanni ritraendosi dalla finestra per andare a prendere la chiave appesa ad un chiodo insieme colle pipe presso al camino.

— Gli è proprio Benda: diceva intanto Selva agli amici. Quel bravo ragazzo non ha voluto affatto mancare al convegno, sapendo che non si trattava di giuggiole. Giunge a proposito, per dire il suo parere ancor egli.

Selva gettò la chiave in istrada, avviluppatala in una pezzuola bianca; cinque minuti dopo Francesco Benda entrava nella stanza dove stavano raccolti gli amici.

CAPITOLO XIV.

Maurilio, appena udito della venuta di Benda, si era stranamente cambiato. Il suo volto si era fatto scuro, le sue guancie pallide, il suo sguardo che brillava vivo per intelligenza s'era spento. Accosciato sopra lo scalino del focolare, egli pareva fuggito via col pensiero di quel luogo e di quel momento le mille miglia lontano. Un'altra preoccupazione sembrava averlo assalito; tutto un altro ordine d'idee avergli presa la mente. Serrava quasi convulsamente le pallide labbra, contraeva i muscoli delle mascelle, come sotto la pressione d'un intimo affanno; e tratto tratto alcune lievi e fugacissime fiamme di rossore gli passavano sul volto e sulla fronte.

Quando Francesco Benda entrò, Maurilio non gli gettò che un ratto sguardo, il quale nulla vide se non che l'acconciatura elegante da ballo in cui il giovane appariva, gettato via il suo pastrano impellicciato. Forse a Maurilio parve che intorno a sè il nuovo arrivato recasse alquanto di quell'ambiente profumato di festa e d'eleganza donde veniva. Forse nel chiudere degli occhi come egli fece, apparve a Maurilio la splendida visione del luogo che Francesco aveva pur allora abbandonato, e in quel luogo pieno di luce, di profumi e d'armonia, la più splendida visione di una forma superba di divina bellezza. Chi avesse potuto cogliere le parole che la subita emozione fece mormorare a Maurilio fra le labbra serrate, avrebbe udito quest'esse:

— Egli viene di là dov'essa era! E' l'ha vista sino adesso! Egli osa parlarle; egli lo può.... Egli è ricco, egli è bello!.... Ed io invece?.... Io?..

Ma se Maurilio avesse un po' più attentamente esaminato il volto dell'amico, avrebbe visto che uno straordinario e profondo abbattimento era avvenuto nelle sembianze di Francesco, sì liete e benigne allorquando egli avevagli parlato sullo scalone dell'Accademia Filarmonica.

L'incarnato delle guancie era sparito, le sopracciglia erano corrugate, i lineamenti contratti, lo sguardo acceso, ma di una fiamma che pareva furore; perfino quell'aria di bontà, che dissi affatto naturale alle belle sembianze del giovane, aveva dato luogo ad un'espressione di sdegno profondo. Si vedeva ch'egli era in preda ad un'emozione gravissima cui si sforzava di padroneggiare e dissimulare, ma che tutto lo possedeva.

Strinse con vivacità febbrile le mani degli amici, da quella di Maurilio in fuori, il quale non mosse, come gli altri, all'incontro di lui, e prima che alcuno avesse campo ad interrogarlo, disse con voce di cui invano tentava frenare la concitazione:

— Sono qua ancor io.... Tardi non è vero?.... Ma che volete? Certe schiavitù di usi sociali..... E poi ben sapete che qualunque cosa decidiate io sarò sempre con voi. L'avevo detto a Selva..... Però ad un punto la vergogna ed il rimorso mi colsero.... Ebbi bisogno di partecipare alle vostre risoluzioni.... ebbi bisogno di vedervi... di venirvi a stringere la mano... di ritemprarmi ai forti propositi col vostro contatto.... Là donde vengo, in quella affatturata congrega che è il mondo elegante, si respira un'aura corruttrice che vi snerva a vi accascia... Per esso ho troppo sinora trascurato voi e la grand'opera vostra e i miei doveri di cittadino. Perdonatemi. Eccomi ora tutto a voi. Che cosa fu deciso? Siamo noi finalmente alle opere? Di parole ne abbiamo già dette troppe. È tempo di fatti, mi sembra. Orsù ditemi che mi tocchi di fare; assegnatemi qualunque còmpito, vedrete se io vi mancherò.

Parlava a balzi, vibrato, come uomo in cui il sangue batte in sussulto nelle vene e il cuore palpita violento.

Giovanni Selva in poche parole lo informò di quanto in tutta la serata si fosse detto, e di quanto stavasi pur allora discutendo.

— Mario Tiburzio ha ragione: esclamò Francesco Benda con violenza. Questa schiavitù è troppo vergognosa oramai a sopportare. Qualunque cosa si faccia, ma si scuota il giogo. Vengano in aiuto, non che le masse della plebe, ma le legioni dell'inferno, che saranno le bene accolte. Abbasso questo regime di privilegi; abbasso questa nobiltà superba che ne oltraggia; abbasso questa prepotenza di militari e di cortigiani, di carabinieri e di parassiti del popolo che ne umiliano, e, vivendo di noi, si credono dappiù di noi e si arrogano il diritto di calpestarci. Io do il mio suffragio a Mario Tiburzio. Finiamola pur una volta.

Maurilio si alzò dal suo posto e venne pian piano verso Francesco, guardandolo attentamente. Vide l'emozione profonda e nuova dell'amico, e [57] ne suppose la causa. Quando fu rimpetto a Benda, gli mise una mano sulla spalla e gli disse con accento pieno d'amorevole interesse:

— A te è capitato pur mo' qualche scontrosa faccenda. Tu hai avuto ad urtarti con questa oltracotanza, cui sì vivamente proclami ora intollerabile.....

— Ebben sì: proruppe Francesco. A me accadde il peggio oltraggio e la più scellerata prepotenza onde possa esser fatto segno un uomo onorevole....

Si fece rosso in volto come bragia, gli occhi suoi balenarono d'un'ardentissima fiamma e le vene della fronte gli divennero turgide.

— Udite, udite tutti, e rispondetemi se simile infame affronto si possa lavare altro che col sangue... Un impertinente di nobile... non ha guari.., adess'adesso.... in presenza d'un migliaio di persone... di signore e di cavalieri... mi ha percosso qui, su questa guancia col suo guanto...

Le lagrime gl'inumidirono gli occhi, si coprì colle mani la faccia, mandò un gemito e si lasciò cadere sulla seggiola vicina in preda al suo fierissimo turbamento.

I suoi amici, da Mario e da Maurilio in fuori, gettarono un grido di stupore e d'indignazione.

— Chi è questo scellerato? Domandò Giovanni Selva.

— Come avvenne codesto? Disse Romualdo.

— Perchè? A qual occasione? Interrogò Vanardi.

Benda ricacciò indietro quelle lagrime di sdegno che s'arrabbiava di sentir colare, premette sulle occhiaie e sulle guancie le sue mani contratte, levò il viso più fortemente sdegnoso di prima e disse con voce tremante dall'ira la più profonda:

— Chi è? Non conoscete voi tutti il brillante marchesino di Baldissero? Quell'impertinente che si vanta di trattare cavalli, cani e uomini del popolo nella stessa maniera, collo scudiscio?.... Il mondo, e' si vuol fatto tutto per questa razza di gente. Noi abbiamo da essere i loro servi, i loro giuocatoli; Carabinieri e polizia son lì per mantenerci in questa bella parte... Hanno il sangue azzurro loro!... A loro tutto è permesso. Noi non abbiamo che da curvarci e lasciarci percuotere.... Giuraddio!.... È tempo che ciò finisca!.... Quel giovinastro incominciò per oltraggiarmi fieramente con parole e col contegno. Non chiedetemene i particolari. Gli risposi — e non potevo a meno — che era un incivile. Si volse verso me, non in furore, ma colla calma d'un uomo che castiga il suo botolo che gli ha disobbedito, e col guanto che teneva nella mano snudata, mi colpì sul viso. L'atto era per me così inaspettato che non potei nemmanco ripararmi il colpo...

Il povero Francesco dirugginò i denti e si battè coi pugni chiusi la fronte.

— Sì, continuò egli con voce ansimante, sì fui percosso sul viso là, in quella tanta luce, innanzi a quei tanti sguardi. Oh che cosa avreste fatto voi altri se una tanta vergogna vi fosse stata inflitta? Io mi sentii girare la testa; una nebbia scura mi venne innanzi agli occhi, con un scintillio tramezzo d'infuocate faville; negli orecchi avevo un ronzio che mi pareva composto di mille sogghigni di scherno; non vidi più distintamente per un istante innanzi a me che quella faccia impertinente che ghignava colle labbra tirate. Lo afferrai pel collo. Un grido di voci femminili si alzò intorno a me. Fra queste voci ne distinsi una che ha su me un assoluto impero. Ciò mi tolse la forza e mi fece rientrare in me. Che avvenisse allora, non so bene. S'intromise della gente; pronunziai e ricevetti in iscambio delle parole di disfida; mi ricordo aver visto il conte Sanluca che conduceva seco il marchesino da una parte, mentre il dott. Quercia trascinava me dall'altra. Non sentivo più in me che una gran confusione. Mi pareva di sentire su me lo sguardo sprezzoso di certi occhi superbi, e non osavo più levare i miei. Quercia mi condusse in un salottino appartato.

«— E adesso che cosa volete fare? Mi domandò.

«— Voglio ampia soddisfazione: risposi. Appena sia giorno voglio battermi con quell'indegno. Oh! lo ammazzerò.

«Quercia mi propose di farmi da secondo e di combinare le cose relative ad un serio e sollecito duello. Lo ringraziai di tutto cuore. Volevo partire di colà, dove lo spazzo mi pareva m'abbruciasse i piedi. Il dottore me ne sconsigliò.

«— Perchè cedere così il campo? diss'egli. Sarebbe quasi un confessare il vostro torto e la vostra sconfitta. Il marchesino non partirà, egli, ma scorrerà a mostrare per le sale il trionfo della sua impertinenza. Rinfrancate anche voi il vostro aspetto, prendete l'aria più calma e più sicura che possiate e venite di nuovo in mezzo a quella turba a sfidare audacemente colla vostra presenza le mormorazioni e gli scherni. Li farete tacere, ed è tanto di guadagnato. Se alcuno v'interroga sull'accaduto, preparatevi un buon motto da rispondere, in cui si contenga un epigramma pel signor marchese, e quando v'incontrate con esso, fissatelo fermamente in viso, sforzandovi a frenare la collera, senza essere troppo provocante, ma guardandovi bene dal chinar gli occhi innanzi ai suoi.

«Compresi che Quercia aveva ragione. Mi feci calmo per quanto potei, e tornai nelle sale affollate. Innanzi a me sentivo interrompersi i discorsi o finire in bisbiglio al mio passaggio; alcuni timorosi mi sfuggirono; altri si mostravano molto stupiti della mia audacia. Vi fu chi mi consigliò a partirmene di tutta fretta.

[58] «— Non sapete che il vostro è un caso serio? Mi si disse. Avete portato la mano sopra un dignitario di Corte in un luogo dove c'è di presenza S. M., e che quindi è diventato come il Palazzo Reale: oh! non v'è da scherzare.

«Che cosa importava a me della presenza di S. M.! Era il marchese che primo era trasceso ad eccessi. Io non aveva fatto che difendermi. Fossi anche stato davvero nel palazzo del re, anche nella sua camera medesima sotto i suoi occhi, se un prepotente mi avesse oltraggiato di quella guisa, avrei avuto ogni diritto di propulsare l'offesa e nessuno, per Dio, avrebbe potuto frenarmi.

«Alcuni pochi mi vennero a stringere la mano. Nella gran sala vidi da lungi il mio avversario: era col suo amico Sanluca e collo zio di quest'ultimo il conte Barranchi, il comandante generale dei Carabinieri e capo della polizia. Parlavano animatamente: certo del fatto intravvenuto. Baldissero rideva con fatua insolenza; Sanluca narrava con calore cose che parevano destare una forte sorpresa e una maggiore indegnazione nel Generale dei Carabinieri. Al vedermi il marchesino fece un brusco movimento tosto represso, e il suo riso si ghiacciò sulle labbra. Sanluca, accortosi del cambiamento dell'amico, ne seguì la direzione dello sguardo e trovò me a capo della sala, che guardavo, lascio a voi pensare come. Disse alcune parole all'orecchio dello zio, accennando cogli occhi al luogo dove io era. Il conte Barranchi volse verso di me la sua faccia scura da poliziotto; vidi nel suo sguardo una minaccia; mi piantai fermo coi piedi dove mi trovavo, e mi promisi che non mi sarei mosso di là, finchè quei cotali fossero stati a guardarmi.

«Il Generale disse qualche paroletta a Sanluca, il quale si affrettò ad allontanarsi. Non cessavo di tener gli occhi fissi sul conte e sul marchese; quest'ultimo ostentava di non far la menoma attenzione a me: lo zio di Sanluca mi fulminava colle sue più tremende occhiate. Poco stante vidi il nipote tornar presso allo zio insieme con un ufficiale dei Carabinieri in gran montura. Il conte Barranchi disse a quest'ultimo poche ed asciutte parole che parevano un comando, accennando a me con un moto della testa. L'ufficiale volse gli occhi nella mia direzione, fece un inchino come per dire che aveva compreso ed avrebbe obbedito, e si allontanò. Bene avevo capito che si trattava di me, ma che cosa mi si volesse, non sapevo indovinare. Due minuti dopo l'ufficiale dei carabinieri essendosi fatto strada in mezzo alla gente, giungeva presso di me.

«— È lei l'avvocato Benda? Mi domandava col piglio altezzoso di un superiore che parla ad un subalterno.

«— Per servirla: gli risposi nel tono medesimo.

«L'ufficiale corrugò la fronte e prese un accento ancora più insolente.

«— Ho bisogno di parlarle. Venga meco.

«Io lo guardai dall'alto al basso.

«— Se ha qualche cosa da dirmi, risposi, può parlare qui stesso.

«— Signor no, questo non è luogo da simili discorsi. Orsù meno parole. Si compiaccia seguirmi.

«Questo dialogo, benchè fatto a voce bassa, aveva attirato l'attenzione dei circostanti, che si affollavano a far cerchio intorno a noi. Feci un lieve cenno di testa ad accennare che acconsentivo, e lo seguii fuori del gran salone.

«— Ora, mi dica senz'altro quel che mi vale la fortuna di questo colloquio: dissi, quando giunto in una delle sale vicine, piantandomi fermo a metà. E l'ufficiale, con quel medesimo piglio con cui s'arresta un malfattore, mi rispose seccamente:

«— D'ordine del signor Generale, conte Barranchi, le intimo di uscire dalla festa, e di presentarsi domani mattina dal commissario Tofi ad udire gli ammonimenti che le convengono.

«— Signore, risposi, di questa società che dà la festa e riceve lei come invitato, io sono parte. Posso dunque dire di essere a casa mia, e non ammetto in nessuno il diritto di scacciarmene.

«— Che diritto, o non diritto? Prorupp'egli. L'ordine è di farla partire e lei partirà.

«— No signore.

«— Badi bene a quello che fa!

«— Ho già bell'e badato.

«— Vuole dunque che io riferisca questa risposta a S. E.?

«— La riferisca a cui le pare e piace.

«— Va bene.

«Fece un giro sui talloni, e sparì. Pochi minuti dopo mi raggiunse più brusco e più inurbano di prima.

«— S. E. il Generale vuol parlarle egli stesso. È qui in questo gabinetto che l'aspetta.

«Mi condusse nel medesimo salottino dove Quercia mi aveva condotto poc'anzi.

«Il conte Barranchi stava piantato, duro come un piuolo, il mento fieramente appoggiato sul suo goletto duro, impettito nella sua corpulenta statura da granatiere, lo sguardo pieno di minaccia, la bocca atteggiata a severità sotto i suoi ispidi baffi, la mano sinistra posata sull'elsa del suo sciabolone, tutto sbarbagliante sotto i lumi nella sua gran montura da generale.

«Mi guardò con piglio di tanto superbo disprezzo che me ne sentii friggere il sangue; e poi, dirigendomi la parola con oltraggiosa imponenza, e dandomi del voi, come avrebbe fatto ad un suo carabiniere preso in fallo di disciplina, mi disse in tono d'interrogatorio fiscale:

[59] «— Ah ah! Siete voi il nominato Francesco Benda?

«Io sentiva l'ira venirmi crescendo sempre più entro l'animo. Quel volto poco intelligente ma impertinentissimo di poliziotto cortigiano, quel tono, quel darmi del voi, mi aumentavano il furore che appena potevo oramai contenere. Lo guardai in faccia come pochi osano guardare quel prepotente che dispone a suo scellerato arbitrio della libertà dei cittadini, audacissime parole mi vennero alle labbra, fui per dargliene del voi, come egli faceva meco, mi contenni a stento, e risposi asciutto:

«— Son io.

«Il mio contegno parve dapprima maravigliarlo altamente, poi indignarlo vieppiù.

«— Cospetto! Esclamò egli, battendo colla mano in sull'elsa. Voi tenete la cresta molto alta, signorino, ma ve la faremo abbassare. Oh oh! se ve la faremo abbassare.

«L'ufficiale che lì mi aveva condotto, accennava partire. Il Generale gli si volse bruscamente e con tono di comando militare, gli disse:

«— Lei stia qui, pronta ai miei ordini.

«Poi tornò parlare a me con accento d'interrogazione:

«— Avvocato, se non isbaglio?

«— Sì.

«— Ebbene sappiate che se all'Università S. M. vi ha lasciato insegnare a far l'avvocato, non è perchè cerchiate dei cavilli e delle ragioni da discutere gli ordini che vi si dànno in servizio di S. M. medesima.

«Io volli parlare, ma egli non mi lasciò aprir bocca.

«— Non vogliamo tanti ragionamenti e tanti ragionatori, avete capito? Vogliamo gente che ubbidisca, e basta. L'avvocato andate a farlo in tribunale, se qualche disgraziato vi confida il patrocinio della sua causa: ma quando un ufficiale dell'Arma d'ORDINE MIO, vi intima una cosa, corpo di bacco, vogliamo nissuna osservazione e pronta ubbidienza. Avete capito? Gli è proprio che viviamo in certi tempi, mio Dio! in cui questa gente da nulla mette su delle arie, e se la lasciassero fare!... Voi già vi conosciamo, signor avvocato, ve lo dico io, vi conosciamo ed abbiamo l'occhio aperto su voi.... Siete un liberale, voi, leggete i fogli, voi, vi fate venire dei libri, voi.... Buffone che siete!...

«— Signore! Esclamai io che non ne potevo più, affrontando arditamente il suo sguardo.

«Egli battè di nuovo e più forte, sull'elsa della sciabola.

«— Corpo del diavolo! Gridò. Che cos'è questo tono? Che cosa è questo guardarmi in faccia? Abbassate quegli occhi. State come si deve innanzi ad un superiore.

«— Ella non è mio superiore.

«— No? Proruppe con vivissima indignazione. Sentitelo! E' pretenderebbe forse d'essermi uguale? Che cosa siete voi? Figliuolo d'un ferraio, se non isbaglio. E perchè, coi pochi denari che vostro padre ha guadagnato bassamente trafficando, ei vi ha fatto studiare all'Università, vi credete qualche cosa.... Tutti così questi borghesi, e se non ci mettessimo riparo, la società sarebbe posta a soqquadro.... Avreste fatto meglio a continuare il mestiere paterno, signor avvocato, ed apprendere invece ad essere più rispettoso verso i poteri sociali e verso l'autorità. Signor tenente, soggiunse, volgendosi all'ufficiale, ella ha avuto torto quando questo bel signorino le rispose in quel modo, a non farlo prendere da due dei nostri uomini e condurre al Palazzo Madama. Colà sogliono sfumare i fumi e gli orgogli di questi signori liberali. E sarà ciò che farò per Dio! avete capito? E gli è quello che vi tocca, e niente più, sapete?... Noi abbiamo voluto essere generosi verso di voi, e voi ci rispondete in questa guisa? Bene! Vi farò tradurre in prigione, come avrei dovuto subito, e passerete sotto il vostro bravo processo innanzi all'Uditorato di Corte[6]. Voi siete reo di lesa maestà: voi avete osato trascorrere a vie di fatto sopra un ufficiale di Corte, figliuolo d'un ministro di Stato; perchè il marchesino di Baldissero è ufficiale di Corte, sapete, e suo padre, il signor marchese, è ministro di Stato; e codesto l'avete osato mentre qui trovavasi Sua Sacra Real Maestà!....

«— Ma io fui prima e fieramente insultato da quell'uomo....

«— Non m'interrompete! Gridò con voce tonante il Generale. Quell'uomo!! Chi osate chiamare così, voi? Il marchesino? Che nuova impertinenza è questa? Ardite dirvi insultato?

«Volli dir come; ed egli:

«— Zitto! So tutto. Vorreste mettervi a paragone col figliuolo di S. E. il marchese, voi figliuolo d'un ferraio? Zitto! vi dico, e abbasso quegli occhi, vi dico! Ringraziate la mia clemenza, se non vi ho fatto subito arrestare; ringraziatela, se anche adesso vi lascio andare a casa vostra invece di mandarvi a dormire sul tavolato nel Palazzo Madama. Andate, domani vi presenterete dal commissario Tofi, il quale vi dirà le ulteriori determinazioni che saranno prese a vostro riguardo.... Ancora una parola. Ho udito che avete avuto la temerità di parlare di sfida e di duello col marchesino. [60] Badate bene a non fare la menoma sciocchezza di questo genere. Dimenticate e fatevi dimenticare; è il meglio ch'io possa consigliarvi.... Andate.

«— Vado, signore; diss'io allora: ma gli è soltanto, perchè cedo alla forza. Quanto ai partiti che mi rimangono a scegliere, consulterò l'onor mio e null'altro.

«Mi volsi sui talloni e partii, udendo il Generale che mi borbottava dietro delle minaccie, fra cui compresi le parole: — Lo metteremo alla ragione. L'ufficiale mi accompagnò sino alla stanza dove son deposti i mantelli. Colà mi lasciò con un superbo saluto, e mentre io me ne usciva passò come per azzardo sul pianerottolo il dottor Quercia, il quale mi disse in fretta in fretta all'orecchio:

«— È tutto combinato. Domattina alle sette sarò a casa vostra. Abbiate con voi un altro amico. Vi batterete alla pistola.

«E guizzò via come un lampo.

«Corsi qui da voi. Ho bisogno di vendetta. Ma la mia vendetta personale non basta. È tutto un sistema infame che ci opprime e cui bisogna rovesciare ad ogni costo. Sia dunque benedetta la rivolta, e facciam presto a toglierci questa vergogna e questo peso di dosso.»

— È giusto: disse Maurilio. Bisogna volercene liberare da questa oppressione e da questa vergogna; ma bisogna pure calcolare i mezzi che si hanno e prevedere i possibili effetti di essi. Il tuo patriotismo, Francesco, il tuo amor di libertà, subitamente ancora concitati da un gravissimo oltraggio personale, ti fanno or ardente per le audacie estreme e per gli estremi rimedi al pari, se non più, di Mario Tiburzio, il quale ogni passione della sua giovinezza ha concentrata in questa passione sublime dell'amor di patria....

Francesco Benda fece un moto.

— Non ti dico ciò come un rimprovero: s'affrettò Maurilio a soggiungere. È quasi sempre così, deve essere così che a spingerci all'azione, a quel supremo passo in cui dal campo del desiderio, del pensiero, si va alla palestra del fatto abbia da concorrere una ragione personale, che assalendo direttamente la nostra individualità, sgombra ogni ritegno che questa suole pur sempre arrecare. Guglielmo Tell non amava egli la sua terra e la sua libertà? Ma per deciderlo alla rivolta occorse che il tiranno lo insultasse nella sua dignità d'uomo ed empiamente lo trafiggesse nelle sue viscere di padre. Favola o storia, quella è la verità della natura umana. Tu dunque, come ognuno di questi nostri amici, sei pronto alla disperata lotta ed alle prove estreme. E sia! Ma prevediamo un poco quale sarà quel futuro che noi riusciremo a provocare. Hai tu pensato, in caso di sconfitta, ciò che sarà di te e della tua famiglia? Noi, ribelli, ci può colpire anche la morte; sicuramente la carcere lunga e dolorosa o l'ugualmente doloroso esilio. Io fui sempre solo al mondo, Romualdo non ha più nessuno de' suoi, Mario Tiburzio e Giovanni Selva hanno ormai, per diversa ragione ma con identico effetto, spezzato ogni vincolo colla famiglia, e possono riputarsi soli ancor essi; ma tu, Francesco, ma tu, Antonio, avete un legame sacro che vi stringe a degli esseri carissimi, cui trascinerete con voi nella vostra rovina. Vinceremo, voi dite, e Mario, acquistato il concorso della forza cieca e irresistibile della plebe, è pronto ad affermare certo il successo. Ma anche di questa vittoria sono terribili gli effetti. Quella plebe suscitata adescandone i materiali istinti, che in una parola si traducono in sete di rapina, quella plebe manderà a soqquadro l'assetto sociale. Immaginatevi quanti eccessi, quanti danni, quante ruine! Anche in codesto noi non siam tutti in pari condizione. Che ci ho io da perdere, io che non possiedo nulla? Ma tu, Francesco, hai pensato che il baratro cui stai per aprire ingoierà molto agevolmente, e voglio anzi dire sicuramente, le ricchezze di tuo padre, le fortune della tua famiglia? Quelle vaste officine che tuo padre ora governa con mente retta e con mano ferma, saranno peggio che deserte, saranno devastate e distrutte; quegl'immensi capitali cui nella tua famiglia radunarono i lavori costanti e tenaci di più generazioni d'uomini attivi ed intelligenti, quei capitali ora investiti in edificii, in macchine, in magazzini di merci, in prodotti ed in istrumenti di nuova produzione, quei capitali che ora, mercè il lavoro, fruttano pane a tanta gente, saranno dispersi; per tuo padre è assai probabilmente la rovina, per la tua famiglia la miseria fors'anco....

Francesco Benda, in preda ad una viva agitazione, si coprì con una mano gli occhi e interruppe con febbrile commozione:

— Oh taci! taci!

Tiburzio, che aveva ascoltato colla fronte corrugata le parole di Maurilio, disse a sua volta con amaro accento:

— Questa è sapienza di troppo prudenti propositi. È legge fatale nella creazione che nissun bene cospicuo si ottenga senza passare tramezzo ad una severa prova di mali. Troppo facile appunto sarebbe l'eroismo, se il fine sublime che uom si propone potesse raggiungersi senza suo danno, senza suo schianto di cuore. Bisogna, assolutamente bisogna che anche un popolo, per arrivare un progresso, lo sconti colle lagrime e col sangue. Quando la meta è santa, è dovere camminare animosamente verso di essa, non curando se per arrivarci occorra lacerarsi fra i triboli e seminar qualche rovina. Chi pensa a questa soltanto e s'arresta pel timore di essa, non ha cuore di patriota.

[61] Maurilio divenne rosso sino sulla fronte e i suoi occhi balenarono d'una vivissima fiamma. Avreste detto che vivaci parole stavano per prorompere dalle sue labbra; invece, per una di quelle sue solite e subitanee riazioni, impallidì nuovamente di botto, si tacque e tornò a sedersi presso il camino, dove stette un po' accasciato, il petto curvo, gli occhi semispenti fissi di nuovo nell'agitarsi della fiamma.

Ebbe luogo un istante di silenzio, in cui tutti sei quei giovani stettero immobili, lo sguardo rivolto a terra, dominati da una preoccupazione suprema.

Fu Maurilio a riprender primo il discorso, ma colla voce più fievole, più sorda e sommossa che mai.

— L'uomo forte (disse egli senza cambiare punto di postura), affrontando il pericolo, deve rendersi conto di tutta l'estensione di esso. L'eroe è quello che colla coscienza dei danni che gli sovrastano, s'accinge pur tuttavia all'impresa, il debole chiude gli occhi, non vuol vedere i pericoli, e poi quando vi si trova avvolto, si pente, si smarrisce d'animo e vien meno a se stesso. Ho pensato miglior avviso richiamare le vostre menti alla realtà dei rischi che ci aspettano. Ciò non vi trattiene? Tanto meglio. Ed io — già ve lo dissi — sono con voi. Fate arrivare il giorno della battaglia, e vedrete se io, semplice soldato, non combatterò con tutta voglia e con tutto ardore.

Si strinsero tutti sei intorno al fuoco quegli imprudenti ma generosi giovani, e gravi decisioni furono prese; quali fossero vedremo in appresso.

Quindi si parlò eziandio del caso particolare di Francesco. Il duello col marchesino di Baldissero bisognava assolutamente che avesse luogo. Uno dei padrini era il sedicente dott. Quercia; l'altro fu deciso che sarebbe stato Giovanni Selva.

Francesco Benda, coi più affettuosi saluti e strette di mano degli amici, accompagnato dagli augurii di tutti, se ne partì per andare a casa, a porre in sesto alcune sue carte, a scrivere un addio alla sua famiglia; a prepararsi per lo scontro. Selva sarebbe andato da lui all'ora posta dal dott. Quercia.

Antonio Vanardi si ritrasse nelle sue stanze, dove fece piano più che potè a coricarsi per non isvegliare la moglie, la quale lo avrebbe tempestato di mille domande. Ma ciò non gli valse gran fatto, perchè quando fu a letto ed ebbe spento il lume, la profonda agitazione che aveva addosso per le cose avvenute nella sera, e specialmente per le decisioni prese, non gli lasciava non solo chiuder occhio, ma nemmanco quietar la persona; onde, e gira e rigira fra le coltri, e sospira e sbuffa, la Rosina fu presto svegliata, ed accortasi dello stato in cui si trovava suo marito dopo aver vegliato così tardi, cominciò quell'interrogatorio insistente e fastidioso, frammischiato di collere, di preghiere, di lagrime, di supposizioni, cui il buon Antonio temeva cotanto.

Certo il marito si difese bene in questa lotta contro la curiosità e diciamo pur anche l'affettuoso interesse della moglie, e non una parola gli scappò dalle labbra che potesse mettere in sulla strada della verità la Rosina, poco destra d'altronde nello indovinare e specialmente in questo genere di cose che costituivano un mondo affatto chiuso alla mente della brava donna; ma una cosa rimase per certa nell'animo della moglie, ed è che da qualche tempo fra suo marito e gli amici di lui si maneggiavano dei misteriosi raggiri, che in quella notte si era tenuta una di quelle conventicole, cui ella aveva già notato altre volte, e che le cose trattatesi dovevano essere state più gravi del solito, se suo marito le era tornato dappresso così tardi, così irrequieto, e d'un umore cotanto alterato che, mentre ella d'ordinario poteva ben vantarlo come un vero agnello, ora alle interrogazioni di lei si era posto a rispondere come un basilisco. Ma quali erano questi raggiri? Questo gli è che le cuoceva sapere. Ora non vi ha nulla di più pericoloso che una donna ciarliera, la quale sa che vicino a lei esiste un segreto, ed ha la matta voglia di apprendere questo segreto qual sia.

Mentre Antonio bisticciava colla moglie, Romualdo andava a letto dietro il paravento, Mario si metteva al tavolino a scrivere appunto per la grande impresa; Selva e Maurilio si ritiravano nella stanza vicina, dove avevano ambidue il loro letto l'uno accosto all'altro.

Non avevano sonno neppure. Erano dominati ambidue da una irrequieta tristezza di pensieri. Maurilio sedette presso al suo letticciuolo, ci pose su il braccio ed appoggiò a questo la testa che gli ardeva. L'avreste detto assopito al vederne gli occhi chiusi e l'immobilità della persona; ma il contrarsi tratto tratto de' suoi lineamenti manifestava che una dolorosa meditazione possedeva quell'anima. Ad un punto, di sotto alle palpebre abbassate comparvero due goccioline, s'ingrossarono fra i cigli, parvero direi quasi, esitare, poi, come staccatesene a malincuore, lentamente colarono due lagrime giù per le guancie. Quando le sentì sulle labbra, Maurilio si riscosse; sorse di scatto, le asciugò con rabbia, e si pose a passeggiare concitato per la stanza.

Giovanni, che s'era gettato sul letto vestito come si trovava, per essere pronto a recarsi fra poche ore presso Francesco; Giovanni gli disse affettuosamente.

— Vieni a riposare, Maurilio.

Questi al suono amichevole di quella voce si fermò e si volse ratto là donde era partita. La sua fisionomia era commossa con espressione [62] affatto nuova, quale nessuno in esso non aveva visto mai. Accorse al letto di Giovanni e gli prese vivamente la mano.

— Tu non mi disprezzi, non è vero Giovanni? Tu non credi che io sia un vile?

Selva sorse a sedere sul letto e rispose con caloroso affetto:

— Mai no. Che pensieri sono questi?

Maurilio si strinse con tuttedue le mani la vasta fronte e con voce soffocata e quasi affannosa proruppe impetuosamente:

— Giovanni, questo è un momento strano nella mia vita, un momento che forse non si rinnoverà più..... Io che sempre fui chiuso in me stesso, ho bisogno di espandermi.... Soffro ed ho bisogno di parlare. Tu sei quello che più m'ami... che io più amo.... A te debbo la vita, a te debbo d'essere stato chiamato fratello da labbro umano.... vuoi tu accogliere la piena del mio cuore che trabocca? Nessuno mi conosce, nessuno mi conoscerà forse mai! Vuoi tu leggermi nell'anima?

— Parla, parla: disse Giovanni con calore, abbracciando Maurilio.

Questi sedette sulla sponda del letto dell'amico, e le mani intrecciate con quelle di Giovanni, così di subito prese a parlare.

CAPITOLO XV.

«Quello, che ora è finito, è giorno solenne per me: dies nigra notanda lapillo: il giorno in cui ricorre quello dal quale incomincia, se così mi lasci dire, l'epoca storica della mia vita. Ventiquattro anni or sono, nella prima mattina di un tal giorno di questo mese, io, bambino di poche lune, fui trovato in mezzo al fango del selciato in una delle più luride vie di questa città.

«Era un giorno precisamente come quello che or ora è caduto nel baratro del passato, scuro, tristo, nebbioso, pieno di freddo e di neve. Me lo ha detto mille volte quel crudele che ebbe, trovandomi a vagire, la funesta pietà di raccogliermi.

«Non ho nome, non ho famiglia, non sono figliuolo di nessuno. Un fatal giorno, certo non desiderato, forse paventato, oggetto fin da prima del nascimento di rammarico e di odio, me ne venni al mondo per incontrarvi od una subita morte o l'abbandono. La mia nascita forse fu un peccato, forse un delitto, o venne accrescimento di miseria a miserissimi; vollero togliersi via dagli occhi con me un rimorso od una vergogna, o semplicemente una bocca di più da alimentare.

«Fui abbandonato! Là nelle immondizie d'una immonda strada, alla ventura d'essere schiacciato da un carrettiere incauto, o lasciato morire da insensibili passeggieri, o da qualche pietoso raccolto.

«Fui abbandonato! Forse di me nulla sapevan che fare! A me nessun affetto legava l'anima di qualcheduno! Per me la natura non parlava al cuore di nessuno!

«Non ebbi forse una madre?... Madre! Questo nome che fin dai primissimi anni mi suona così dolce nell'anima..... Questo nome che quando, ancora nell'infanzia, udivo pronunciato da' miei compagni mi venivano, e non sapevo perchè, le lagrime agli occhi!.... Oh forse la povera donna morì sopra parto e mi lasciò solo: o forse fu collo schianto dell'anima che dovette cedere alla mano di ferro della necessità che mi staccava dal suo fianco..... Ah! l'avrei amata cotanto mia madre!.....

«Questa sera mi piacque aggirarmi colà, per quella scura e sconcia strada in cui vagii neonato in quella cupa notte d'inverno, e scorsi il miserabile quartiere con lento passo, il cuor palpitante, la mente commossa, come se uno di que' sassi del selciato, una di quelle scalcinate ed annerite pareti, una delle anguste, umidiccie porticine, l'aria stessa che respiravo, mi dovesse ad un tratto miracolosamente rivelare il mistero, forse infame, della mia origine.

«Quante volte non ho io già fatto quel doloroso pellegrinaggio, e sempre con quanto spasimo dell'anima segreto, soffocato, dolorosissimo!

«Questa sera, la sorte, là su quella motriglia che a me fu culla, mi pose innanzi un bambino che piangeva. A quel suono di pianto in tal luogo, tutta la mia penosa esistenza, accompagnata di disprezzo e di vergogna, mi sorse innanzi spiccatamente ad un tratto. Se fosse stato un lattante quel bimbo, l'avrei preso fra le mie braccia, l'avrei recato meco, avrei voluto essergli padre, avessi dovuto vendere, per nutrirlo, il sangue delle mie vene. Rivissi in pochi minuti la sintesi intiera di tutti gli anni che ho travagliosamente trascorsi; ripiansi, per così dire, tutte le mie lagrime, imperocchè nella corta mia vita passata non ci sia nemmanco il ricordo d'un sorriso di gioia.

«Oh! perchè fui raccolto se non mi si voleva dar che tormenti? E può Dio ascrivermi a peccato se io desiderai come fortuna d'essere morto nell'abbandono, se più volte ho maledetto meco stesso chi seco mi prese e il momento in cui mi rinvenne?

«Era uno di quei venditori di latte che vengono il mattino per tempissimo a recare questa derrata ai fondachi di rivendita nella città. Correndo col suo carro, su cui saltavan le bigoncie, al trotto del suo cavallo, passò nella strada dov'io era, e il cavallo nell'istante di schiacciare quel corpicino colla sua zampa ferrata, atterrito forse dal vedersi innanzi ad un tratto quell'involto biancolastro, fece uno scarto che diede un fiero sobbalzo all'uomo seduto sul carro.

«— Che cos'è codesto? Disse Menico il quale travide in quello scuriccio nebbioso qualche cosa [63] per terra. E venuto giù, si chinò e prese tra mano quel viluppo.

«Visto che gli era un bambino mezzo intirizzito che non aveva nemmen più la forza di piangere, rimase lì un istante perplesso, non sapendo a qual partito appigliarsi. Poi, siccome in fondo quell'uomo non era cattivo, e quando non era ebbro aveva a sufficienza cuore e ragionevolezza, gli parve troppa crudeltà il lasciar lì quella creaturina e tirar dritto per la sua strada. Risalì sul suo carro tenendosi fra le braccia il bambino, e lasciò che il cavallo riprendesse l'andare, mentre egli si diceva: — Il diavolo mi porti se so che cosa fare di questo marmocchio.

«Siccome il bimbo pareva lì lì per basire senz'altro, Menico intanto cominciò per porre sulle labbra di esso una bottiglietta che aveva allato di latte munto di fresco al momento prima di partirsi di casa e ancora caldo. Glie ne fece colare in bocca a poco a poco alcune goccie, cui il bambino affamato assorbì avidamente e che di subito alquanto lo ristaurarono.

«Menico si recò qua e colà a fare gli affari suoi, e sempre teneva sul carro quel bambino cui aveva adagiato sovra un po' di fieno che ci aveva per ventura, e sul quale, per tenerlo caldo, aveva gettato la pesante coperta di lana del cavallo.

«Ad ognuno dei lattivendoli con cui parlava, Menico diceva il caso intravvenutogli e domandava se di quel piccino se ne volessero incaricare. Ognuno lo motteggiava e crollando le spalle lo mandava con Dio.

«— Ma che cosa ho io da fare di questo coso? seguitava a chiedere a sè stesso Menico sempre più imbarazzato.

«— Menatelo alla Maternità: gli disse qualcuno di coloro a cui egli recava la provvista del latte.

«— Dovreste recarlo al palazzo di città: diceva un altro: ma a quest'ora è troppo presto e troverete tutto chiuso.

«— Mettetelo sulla porta d'una chiesa: gli consigliò per ultimo un cotale. Lì sarà sotto la protezione di Dio, e potete esser tranquillo che capiterà bene.

«Menico adottò questo consiglio, e quando ebbe terminato tutte le sue faccende, siccome nella sua strada aveva da passare innanzi alla chiesa di San *****, determinò di porre sulla soglia di questa il trovato bambino.

«Non era ancora diradata la tenebra della notte dall'alba, che in quella nevosa giornata d'inverno tardava a venire. Un semispento lampione gettava una luce fievole e giallastra sulla neve che si rammentava sopra gli scalini di San *****, Menico, giunto all'altezza della chiesa fermò il cavallo, saltò giù del carro e prese su questo l'involto in cui era il bimbo, allo scrollar del veicolo addormentatosi. La strada era silenziosa come un sepolcro; nulla si muoveva, nel sonno generale di tutta la città. Menico si disse non senza soddisfazione che gli era affatto solo. Ma quando fu per salire gli scalini della chiesa, ecco dalla soglia di quest'essa staccarsi un'ombra nera, la quale si avanzò con sollecitudine verso il villano, ed una voce d'uomo pacata, benigna, soave, dirgli:

«— Giusto voi che aspettavo, Menico.

«Questi, per la sorpresa, poco mancò non lasciasse cadere in terra il bambino; ma, riavutosi tosto, riconobbe in chi gli parlava il parroco del suo paese.

«— Lei, Don Venanzio! Esclamò il paesano.

«— Sono venuto ieri a Torino per alcune mie bisogne: disse il prete; ma stamattina conviene che io torni al villaggio; e siccome il far tutta quella strada a piedi comincia a stancarmi di troppo, sono venuto ad aspettarvi qui, dove so che passate sempre, per pregarvi se volete usarmi la carità di prendermi con voi sul vostro carro e condurmi sino a casa.

«— Oh si figuri! Disse Menico imbarazzatissimo col suo fagotto in mano.

«Don Venanzio lo vide e domandò che cosa avesse costì, e il villano, non potendo altrimenti, contò tutto; come avesse trovato quel bimbo e come volesse lanciarlo in quel luogo.

«Il parroco scosse la testa.

«— No: diss'egli con quella voce così insinuante e persuasiva, di cui dovevo ancor io sentire cotanto l'influsso di poi: no, ciò non istà bene, Menico. Iddio vi ha posto innanzi una buona azione da fare e un gran merito da acquistarvi, e non dovete rigettare ingratamente l'uno e l'altra. Voi non avete giusto figliuoli; ed ecco che la Provvidenza ve ne manda perchè possiate godere di tutte le gioie della famiglia ed aver quindi un sostegno nella vostra vecchiaia.....

«Insomma seppe parlare tanto bene che Menico, il quale pure non era di cuor tenero, si lasciò convincere essere suo dovere ed anzi suo vantaggio il tenere presso di sè quel rinvenuto bambino.

«— Quanto a me son già bello e persuaso: finì egli per dire al buon sacerdote; ma gli è mia moglie che sarà un affar serio a fargliela entrare. Lei sa che razza di animale essa è.....

«— Vostra moglie, spero che si lascierà muovere ancor essa dalla voce della pietà che è quella di Dio. Se non glie la fa sentire il suo cuore, proverò fargliela suonare io all'orecchio; e la Provvidenza mi dia la grazia, come spero, di convincerla. E se poi ella non vorrà a niun conto, ebbene allora sarò io che prenderò meco il bambino.

«— Oh! se la si assume lei, sig. Prevosto, di parlare a mia moglie, disse Menico il quale non osava rifiutare, ma in realtà avrebbe voluto farlo, allora acconsento di venire innanzi a quella benedetta donna con questo bel regalo.

[64] «— Dunque andiamo: conchiuse Don Venanzio; e fate correre più che possa, senza soffrirne, il vostro cavallo, perchè questa povera creaturina prenda il men di freddo possibile.

«Salirono sul carro, e il buon sacerdote tolse me in grembo e mi tenne caldo, chiuso nel suo ferraiolo. Menico frustò il cavallo e lo cacciò al trotto serrato. Un'ora dopo, che tanto ci voleva di tempo a fare il cammino alla corsa del cavallo, giungevasi al villaggio di X., e il carro s'arrestava innanzi ad una porta ad arco in un muro di cinta, la quale metteva in uno sporco cortiletto entro cui la casupola abitata da Menico e dalla moglie.

«Il parroco discese ed entrò egli prima nel cortile, poi nella stanza a pian terreno che serviva alla coppia di cucina, di tinello, di camera da letto, di tutto. Io non seppi mai bene quel che avvenisse e si dicesse fra quelle tre persone. Ebbi ad apprendere di poi, perchè la Giovanna medesima, la moglie di Menico, me lo gettò migliaia di volte in sulla faccia, ch'ella aveva ricisamente e per assai tempo rifiutato il nuovo carico e resistito a tutte le belle parole e ragioni che le veniva dicendo il buon curato: e se cedette finalmente, fu certo per la promessa di qualche soccorso e di qualche vantaggio, che, quantunque la non ne avesse bisogno, Don Venanzio ebbe fatta a quella donna taccagna ed avida di denaro.

«Ah! non avesse ella ceduto! La mia infanzia sarebbe certo stata più lieta, e forse migliore e più felice tutta la mia esistenza.

«Don Venanzio mi lasciò nelle mani loro con mille raccomandazioni a mio riguardo, e promettendo che avrebbe sempre vegliato su di me; come di fatti non mancò di fare; ma che poteva egli mai?

«Un giorno, quando già grandicello, un giorno in cui avevo sofferto più che l'usato — e quanto soffrii sempre, te lo dirò — osai movere rimprovero a Don Venanzio di avermi fatto entrare in quella famiglia, la quale al mio bisogno d'affetto non doveva corrispondere che coll'odio, col disprezzo, coi più crudeli trattamenti.

«— Perchè non mi lasciaste abbandonare sul passo d'una chiesa, dissi al buon prete, come aveva intenzione di fare l'uomo che mi raccolse? Qualcun altro più veramente pietoso mi avrebbe forse preso seco di poi; o sarei stato recato all'ospizio dei trovatelli, e sarebbe stato meglio per me; e fossi anche morto di freddo, sarebbe stato meglio ancora.

«— Non ribellarti ai decreti della Provvidenza: mi rispose il curato con quella sua semplicità grave e quell'affettuosità mezzo di padre, mezzo di maestro in cui sentesi quasi un'ispirazione superiore e la fede d'una coscienziosa persuasione. Io non fui che lo stromento della Provvidenza divina. Menico e sua moglie erano soli, e l'avarizia e l'egoismo li facevano piegare verso il male e la durezza di cuore; sperai — e che ciò avvenisse pregai internamente, sallo Iddio — sperai che un nuovo affetto, quello paterno, che nuovi dolcissimi doveri e nuove gioie famigliari, cui la natura aveva loro rifiutato, avrebbero esercitato un benigno influsso su quelle anime per avviarle verso il bene. Così non fu pur troppo; e tu ne hai da soffrire. Non mi pento tuttavia di quanto feci; e non ti so dare altro miglior consiglio nè altro maggior conforto, fuor quello di dirti: rassegnati a quelle prove che Iddio ti manda, e benedici quella mano che ti percuote, se per essa può aquistare pregio maggiore e merito innanzi a chi la creò quell'anima immortale che in te alberghi.

«Ma ch'io ti narri le cose per ordine.

«Quando Menico mi raccolse, le mie piccole membra erano avviluppate in misere fascie senza puntiscritto nessuno. Su di me una lettera su carta grossolana, scritta da mano inesperta, ed un ricco rosario d'agata, a cui legato per un filo un bottone stemmato d'argento da livrea di domestico di nobil casa.

«Li conservo preziosamente questi oggetti: e molte, molte volte li guardo, li riguardo a lungo a lungo, leggo e rileggo quelle poche righe di scritto, li interrogo con affanno, come se mi potessero parlare e dirmi donde vengo, chi sono, chi furono i miei. Essi rappresentano per me il mistero del mio nascimento, che una folle speranza mi sta lusingando ancora nell'animo io possa scoprire un giorno. Essi furono i segreti confidenti delle mie pene d'infanzia, lo sono tuttavia degli attuali tormenti della mia giovinezza.

«Se li possiedo ancora ne vo debitore a Don Venanzio. Menico me li aveva tolti, e l'unico pensiero che gli avesse potuto suggerire l'avara moglie, in proposito, era quello di vendere il rosario ed il bottone, e beccarsene i denari. Per fortuna il curato indovinò il brutto loro disegno, e tanto bene e con tanta forza seppe parlare, che indusse Menico a consegnare quel sacro deposito nelle mani di lui, il quale avrebbe rimesso quegli oggetti a me, a cui spettavano, quando grandicello così da poterne capire l'importanza e custodirli colla voluta devozione.

«Ah! mi ricordo sempre il giorno in cui Don Venanzio mi fece entrare nella sua cameretta alla canonica, ed eravamo soli egli ed io, per consegnarmi quelle per me vere sacrosante reliquie. Avevo allora otto anni, ed avevo fatto in quel dì medesimo la mia prima comunione. Fisicamente ero indietro assai, debole, piccolo, miseruzzo come Dio tel dica; perchè d'ogni fatta stenti ne avevo sofferti; ma intellettualmente ero innanzi a tutti i miei coetanei non solo, ma a quelli ancora che mi sopravanzavano di più anni in età; onde il buon parroco che mi aveva preso ad istruire e [65] ad amare — fu il solo che mi amasse! — aveva voluto che celebrassi quell'anno medesimo la mia prima Pasqua, e venissi insieme in possesso delle uniche cose che io di mio possedessi al mondo. Era di festa, una domenica, ed una bella giornata primaverile rallegrava la natura. La cameretta imbiancata di calce del curato, modesta e pulita, povera e gaia, era tutto profumata dei fiori delle siepi di biancospino che gli avevan recati le ragazze del villaggio. Una vivacissima striscia di sole correva sull'ammattonato e si rifletteva in tinte rosee su tutti gli oggetti circostanti; un'arietta fra tepida e fresca entrava per la finestra aperta, faceva gonfiare le tende di semplice cotone e passava come una carezza sui fiori e sulle guancie del sacerdote e di me.

«Mi era avvenuto parecchie volte di entrare in quella camera o per domandare il parroco, o per cercare, mandatovi da lui, uno di quei pochi libri che schieravano a costa l'un dell'altro la loro legatura di pelle nera, sulla piccola scancìa di legno d'abete che si drizzava allato alla finestra, sopra una tavola nuda di tappeto; e ad ogni volta che io aveva messo il piede là dentro, non sapevo perchè, mi ero sempre sentito occupare da una soggezione reverenziale, come non m'ispirava neppure la venerabile figura del buon prete già tutto incanutito. La nudità di quelle pareti mi tornava solenne più che qualunque suntuosità d'apparato: la gran croce nera al di sopra del piccolo letticciuolo di abete, sulla quale un Cristo d'avorio tendeva le sue braccia magre e stecchite m'incuteva un'ombra di terrore. L'espressione di dolore che c'era sul volto di quel Cristo, invece di intenerirmi, facevami quasi paura; parevami che quell'appeso dovesse al mio avvicinarsi staccare uno di quei suoi bracci inchiodati e respingermi da quella stanza.

«Quel giorno invece, che ci entrai tenuto per mano da Don Venanzio, la mia impressione fu tutt'altra. Lo splendido sole che la invadeva le dava una giocondità inesprimibile. Colla mia nella mano del prete mi sentivo sicuro, come se il genio di quel luogo mi dovesse accogliere con benigna compiacenza. Volsi lo sguardo alla gran croce nera, e mi parve che anche la bella faccia del Cristo di avorio, illuminata dal riflesso di quel sole che batteva sullo spazzo, avesse acquistato più dolcezza nel suo patimento, e di dietro alla sua suprema rassegnazione al dolore, m'incoraggiasse ad avanzarmi con un benigno sorriso.

«Il parroco mi aveva detto che mi avrebbe parlato di cose assai gravi, a cui dovevo porre tutta la mia attenzione e che avrei dovuto rammentare per tutta la vita; onde, quando egli si fu assettato sul suo seggiolone impagliato a bracciuoli di legno non imbottiti, e fu in atto di parlare, io, aspettando ciò che fosse per dirmi, avevo il cuore che batteva forte nel petto.

«Che io fossi figliuolo di nessuno già lo sapevo pur troppo. Me ne avevan chiarito gl'improperii della Giovanna, accompagnati dalle percosse nelle sue frequentissime collere, nate per ogni più futile motivo e sfogate tutte addosso me; me lo veniva rammentando con dispregiosa insistenza il nome di bastardo gettatomi in volto come una maledizione da tutti i ragazzi miei compagni d'età che, in codesto già uomini, si compiacevano del mio soffrire e della mia vergogna.

«— Tuo padre e tua madre: mi disse Don Venanzio: non condannarli. Chi sa qual tremenda necessità, forse, fu quella che li costrinse a tanta colpa, a tanta sciagura! Tu dèi credere che non la volontà loro, ma un inesorabil destino fu quello che te da essi disgiunse: dèi compatirli, invece che accusarli, perdonarli ad ogni modo.

«Quelle miti parole con tanta soavità pronunziate da quel sacerdote di volto sì benigno, forse per l'ora del tempo, per la solennità del giorno in cui l'animo novello, appena aperto alla vita, mi sentivo inondato di sì intima gioia quasi sovraterrena e di un benessere non ancora provato mai; quelle miti parole mi si stamparono profondamente nel cuore, e furono la norma invariabile, alla quale, con qualche eccezione per taluni parossismi di dolore, ebbi informato i miei sentimenti ed i miei pensieri verso gl'ignoti autori dei miei giorni. No, non li accusai — o raramente soltanto, e me ne pentii subito, e chiesi perdono io stesso dell'accusa a quel Dio, a cui mi fu sollievo un tempo rivolgere con fede la mia preghiera. Non li accuso nemmanco adesso; e per quanto grave mi torni e conosca la infelicità del destino, a cui mi hanno, per qualsiasi cagione, condannato, li perdonai e li perdono.

«Poichè il parroco mi ebbe contato per bene tutto quello ch'egli sapeva di me, cioè come e dove Menico mi avesse trovato, soggiunse che stimavami oramai degno d'aver io stesso con me il deposito dell'unica ricchezza che mi appartenesse al mondo, ed aperto il cassettino della tavola, ne trasse un involto in cui erano la lettera, il bottone ed il rosario che ti ho detto.»

Qui Maurilio s'interruppe. Levossi dalla sponda del letto di Giovanni su cui sedeva ed andò ad uno stipo, ove teneva le poche sue robe, dal quale prese un picciolo viluppo di carta ingiallita dal tempo.

«Eccoli qui questi miei preziosi oggetti:» soggiunse egli di poi, tornando a sedere sul letto di Selva, dove recò ed apri la carta ripiegata.

Il rosario d'agata aveva ancora pel medesimo filo appeso il grosso bottone d'argento, il cui luciore era offuscato da un sottile strato rugginoso stesovi dagli anni. La carta della lettera cominciava [66] a tagliarsi nelle ripiegature, ma le parole scrittevi su, benchè l'inchiostro ne fosse sbiadito, si potevano tuttavia legger benissimo.

Maurilio la porse spiegata a Giovanni e gli disse:

— Leggila.

Non vi erano che le poche parole seguenti, scritte con una calligrafia ed ortografia degna della cuoca la meno istrutta del mondo.

«Abiate conpazione per costa povera masnà, che è già batesata, che è ciamata Maurilio, che è il nome di suo padre.»

Il rosario era d'agata, come dissi, e le anella per cui un grano si univa all'altro, e la medaglina appesavi in fondo, su cui l'immagine della Madonna era impressa, parevano d'oro. Poteva dirsi un ricco oggetto. Il bottone d'argento era un grosso bottone di livrea. Lo stemma che vi era scolpito sopra in rilievo era diviso orizzontalmente in due parti; nella superiore vi era un mezzo leone (per dirla in linguaggio araldico) rampante in campo azzurro, nell'inferiore tre stelle disposte a triangolo in campo d'oro; sormontato il tutto da cimiero con corona comitale, ed intorno una lista ripiegata, in cui scritta in carattere gotico una leggenda.

Come Giovanni Selva voltava e rivoltava il bottone al lume della lucerna per dicifrare il motto di quella leggenda, Maurilio gli disse:

— Quelle parole sono: voluntas ardua vincit. un bel motto, ma quante volte smentito dai fatti! Però io l'ho accettato come quello del mio destino, come un ammonimento, datomi, d'entro l'ignoto, dietro cui si nascondono, forse di là della tomba, dai miei genitori.

«Quando il curato mi ebbe posto in mano quegli oggetti, ancor io li guardai curiosamente, e compitai lettera per lettera le parole della carta, e mi sforzai ad interpretare questi gotici segni per me allora inintelligibili. Mi ricordo sempre che il mio animo si trovava in uno stato strano e così nuovo che nulla saprebbe esprimerlo. In certi momenti, a vedere, a toccare questi oggetti mi sentivo un'intima potentissima tenerezza nascermi in cuore e venirmi su, per così dire, e tutto possedermi, e riempirmi gli occhi di pianto: poi ad un tratto una subita freddezza subentrare in me; e guardavo queste robe con occhio asciutto e quasi indifferente, ed ascoltavo le parole del sacerdote come se di tutt'altri si trattasse che di me, e mi accorgevo che la mia mente si distraeva per correre dietro ad altri pensieri, ai più puerili, ad una farfalla che veniva ad aleggiare fuori della finestra, ad un'ape che veniva a ronzare sui fiori, ad una nuvoletta che traverso le tende bianche vedevo vogare sul fondo del cielo azzurro, a nulla di nulla.

«Tutto questo ti dico, perchè tu valga a conoscere meglio lo strano impasto ond'è formato il mio essere.

«I detti che mi rimasero impressi eziandio, furono quelli che mi rispose Don Venanzio, quando io lo interrogai che cosa volessero significare quelle cifre che invano mi sforzavo di leggere.

«— Sono parole latine che dicono, l'uomo savio, l'uomo dabbene superare ogni difficoltà, vincere ogni prova colla forza e colla rettitudine della volontà. L'uomo è in questo senso il fabbro del suo destino; che cioè si può costituire da se medesimo l'ambiente della sua coscienza. Bisogna volere, e rettamente e fortemente volere, e volere il bene; e poi, qualunque sieno le circostanze dei casi, l'uomo o le dominerà, o godrà almeno il supremo vantaggio della tranquillità che proviene dal merito di aver compiti i proprii doveri.

«Molte e molte altre, e tutte sante cose mi disse allora quell'egregio sacerdote su quella vita in cui da quel giorno, diceva egli, incominciavo ad entrare conscio di me e però imputabile dei miei atti; e quando, dopo circa un'ora, mi congedò baciandomi paternamente in fronte ed accarezzandomi colla mano le chiome, come benedicendomi, io mi partii da esso col cuore rigonfio e giocondo insieme, con mille confuse idee nella testa, e senza pur sapere formolare un pensiero. Mi stringevo al cuore le cose rimessemi dal parroco, e ripetevo meco stesso camminando frettolosamente le ultime parole pronunciate da Don Venanzio e che mi suonavano nell'animo come una dolce musica, la cui melodia ci piace revocare nella memoria.

«— Sono figliuolo di nessuno, ma sono figliuolo di Dio!»

«Non me ne tornai subito a casa. Avevo bisogno d'esser solo. Mi recai fuori del villaggio, presso a un torrentello sulle cui sponde inchinavano i loro rami delle acacie in quel tempo già illeggiadrite da quello splendido verde primaverile che è sì dolce alla vista, già coronate di bianche ciocche di fiori. Mi sedetti là su quella riva deserta e stetti lungo tempo così assorto, come se la più profonda meditazione mi occupasse. Non pensavo a nulla. Guardavo l'acqua che mi correva a' piedi e sembrava giuocare tra i grossi sassi che ne occupavano il letto. Di quando in quando, traevo dal seno, dove li avevo riposti, questi oggetti e li contemplavo attentamente, compitando ad una ad una le lettere di queste due righe di scritto e piacendomi delle forme strane di queste cifre gotiche cui non capivo per nulla. Poscia di colpo mi mettevo a pensare della comunione che per la prima volta avevo fatta. Il buon parroco m'aveva detto che, fatta bene la Pasqua, la mia anima sarebbe diventata così pura come quella d'un angelo. Questa pasqua l'avevo celebrata. In questo momento adunque mi trovavo [67] nello stato uguale a quello degli angeli. Pensavo al paradiso dove avevo udito dire si stava così felici in mezzo a tutte le cose belle che vi possano essere. Perchè non avrei potuto andare tosto tosto, in quel momento medesimo, insieme con quegli angeli così beati lassù nell'azzurro del cielo, senza freddo, senza fame, senza battiture, senza dolori fisici come quelli che a me la mia cagionevole salute e i mali trattamenti degli uomini mi procuravano con tanta intensità e frequenza? Oh! se il buon Gesù mi pigliasse seco in compagnia degli altri angeli: pensavo. Mi sentivo risuonare confusamente ma soavemente all'orecchio le armonie dell'organo che avevo udito nella chiesa, e le parole del buon curato dettemi di poi, delle quali non ricordavo più bene il senso preciso, ma erami rimasto come un'eco aggradevole; sentivo ancora il profumo dell'incenso cui avevo visto nella mattina innalzarsi alla volta del tempio in densi avvolgimenti di fumo biancolastro di cui indorava gli orli il sole, che invadeva co' suoi raggi, dalle alte finestre, la Chiesa.

«Non so perchè quelle ore di meditazione infantile mi rimasero di guisa impresse nella mente che di spesso le mi tornano innanzi così fresche di ricordo che mi par quasi di vivere in esse. Quando torno a rileggere quelle righe, a ricontemplare questi oggetti, raro è che io non mi riveda pure là in quel riposto luogo del torrente, sotto alle acacie fiorite, fruscianti colle frondi sotto il venticello della primavera.»

Maurilio tacque un istante, curvò il capo sul petto, come assorto appunto in quella interna visione del tempo trascorso che le sue parole eran tali da evocare.

Fece scorrere tra le sue dita i grani del rosario e volse e rivolse al raggio della lucerna il bottone d'argento.

— Questo rosario era forse la salvaguardia cui credeva affidarmi la religione di mia madre........ Certo ad essa appartenne questo simbolo d'una fede poco illuminata..... Mia madre adunque era forse ricca?...... E questo bottone di livrea?...... Forse appartenne a mio padre.... Gli è forse il segno della sua vil condizione di servo... Oh! se tu sapessi come e quante volte mi sono affannato in matte induzioni ed in congetture impossibili!..... E se mia madre era ricca, perchè fui abbandonato?..... Si vergognava forse di me, del mio nascimento, di avermi avuto figlio chi sa di qual padre!...... Oppure questo rosario loro non apparteneva, l'avevan tolto chi sa dove, chi sa da chi; non l'avevan posto tra le mie fasce che per compensare in alcun modo col valore di esso le prime cure di chi mi avrebbe raccolto.... Appena fui più grandicello, questo mistero della mia nascita mi tormentò con angustia incessante. Quante volte nella solitudine della campagna, dove conducevo al pascolo le giovenche di Menico, io obliai tutto il mondo per affondarmi in questi pensieri! Una velleità ambiziosa mi sentivo spuntare nell'animo, che mi pareva indizio di meno ignobil sangue. Stavo delle ore e delle ore, in me raccolto, collo sguardo della mente, per così dire, fisso in me stesso nel mio interno a scrutarmi con una minutezza inesorabile d'analisi per giudicare da me stesso quali istinti avesse posto nella mia natura il sangue paterno. Talora mi pareva che le generose aspirazioni e l'intelligenza, che superbamente riconoscevo in me superiore a quelle ond'ero circondato, fossero prova di non abbietto lignaggio; un'altra volta poi sentivo alcun che di basso ne' miei istinti, un'acquiescenza, direi quasi vigliacca a quella condizione in cui mi aveva precipitato il destino onde m'arrabbiavo dolorosamente meco stesso, e che conchiudevo esser sicuro indizio della volgarità della mia origine.

— No, codesto non può essere: disse Giovanni Selva. Il tuo solo desiderio di appartenere per sangue alle classi superiori, mi pare argomento da far credere che non eri nato per essere un povero mandriano. Del resto, poco importa chi e quali e che cosa fossero i genitori tuoi. Noi camminiamo verso un tempo, e ci siamo oramai giunti, in cui all'uomo non si domanderà più da cui sia generato, quali i meriti ed i titoli de' suoi padri, ma sibbene che cosa valga e quali meriti sieno i suoi. E questa dev'essere di noi liberali l'opinione immutevole.

— Verso questo tempo camminiamo, è vero. Ci siam presso... forse!... come tu dici... Ma non ci siamo ancora giunti. Ah! dei lunghi anni passeranno ancora, sta certo, prima che nella società non sia più una nota di vergogna la parola bastardo!

— Poichè tanto desiderio — e giustamente — ti possedeva e possiede di conoscere qualche cosa intorno a' tuoi genitori, od almeno intorno a coloro che ti posero addosso quegli oggetti abbandonandoti, non avresti potuto cercar modo di scoprire di qual famiglia sia questo stemma?

— Bene ci pensai... Anzi fu Don Venanzio medesimo che ci pensò, e volle incaricarsi egli stesso delle ricerche. Un giorno si fece consegnare da me e rosario e bottone, e venne a Torino con essi.

— Ebbene?

— Tornò dicendomi che quell'arma gentilizia apparteneva ad una famiglia affatto estinta, il cui ultimo rampollo era morto nelle guerre dell'impero. Più tardi volli cercare anch'io, e meno felice ancora di Don Venanzio, non potei raccapezzare da nessuna parte la menoma cosa. D'altronde, ancorchè scoprissi tuttavia esistente siffatta [68] famiglia, che induzione si potrebbe trarre riguardo ad essa da un oggetto così poco significante, come un bottone di livrea? No, no, non bisogna ch'io pensi a nulla di codesto; lo so bene; ma che cosa vuoi? Un intimo senso, una pazzia forse mi spinge, non dico a sperare, ma a fantasticarci sopra in una assurda aspettazione di impossibili avvenimenti...... Ma lasciamo ciò per ora, e ascolta il racconto della mia povera vita.

— Ti ricordi tu, Giovanni, così proseguì Maurilio dopo un istante; ti ricordi il primo momento che la tua intelligenza si destò alla vita? Io me ne ricordo. Fu sotto l'impulso del dolore, in un'ora di patimenti. Prima di quel punto la notte era stata sempre in me; l'anima mia non s'era scossa dal torpore. Certamente avevo sofferto di già, avevo di già pianto di molte lagrime, ma non ne avevo coscienza. Ad un tratto... ti dico che me ne ricordo, come se si trattasse d'un avvenimento accaduto da poco tempo soltanto..... una specie di luce si fece nel mio spirito, ebbi conoscenza dell'esser mio, della mia personalità, e mi diedi conto nel mio cervello della mia esistenza e delle cose che mi circondavano.

«Mi ci vedo ancora, là, dove e come mi trovavo a quel punto. Avevo da quattro a cinque anni. Era d'inverno come adesso, ma una bella giornata, benchè freddissima. Il fango del lurido cortile era tutto ghiacciato e faceva un pavimento irto di punte e rugoso come la vecchia corteccia d'una grossa quercia. Le galline razzolavano in un po' di fimo. Un sole giallastro indorava la paglia annerita del tetto della casa. Io era seduto sopra lo scalino della porta che metteva nella stalla, e l'uscio richiuso separavami dal benigno calore di essa. Ero vestito di una misera ciopperella di stoffa di cotone, il cui colore doveva essere stato rosso, ma che allora, per l'uso, per l'immondezza raccattata su nell'arrabattarmi comechessia entro il brago di quel cortiluccio che poteva dirsi tutto un truogolo, aveva una tinta bruna, ributtante come l'impiastratura nericcia di sporco che mi copriva la pelle delle mani e del viso, e queste e quello vergini di ogni lavatura. Tenevo i piedi nudi entro vecchi zoccoli di legno della Giovanna, che avrei perso ad ogni passo che avessi voluto fare. Tutte le membra mi erano intirizzite. Avevo fame — quella fame che dovevo provar tante volte! — soffrivo molto e piangevo con quanta voce e con quante lagrime mi restavano in corpo.

«Quella era una delle punizioni usate, e mi toccava ogni qualvolta la mia presenza diventasse un po' più uggiosa del solito alla Giovanna. La mi batteva, poi mi cacciava di fuor della stalla a macerare battendo i denti dal freddo, poi, il più delle volte per intromissione del marito, meno di lei crudele, si decideva a ripararmi di nuovo entro la casa, ma non senza prima avermi ribattuto.

«I miei pianti finirono per seccare la malvagia donna. Aprì l'uscio e mi gridò con quella voce che sola essa mi faceva tremare:

«— Vuoi finirla, bastardo del demonio?

«Mi rammento — tanto da quel punto in poi i miei sovveniri cominciarono ad essere, e furono sempre spiccati e precisi! — mi rammento che da quell'uscio semiaperto, da cui veniva la voce minacciosa della Giovanna, passava pure una ondata d'aria tepente, la quale venne quasi ad avvolgermi come una carezza. L'una e l'altra cosa fecero che io mi tacessi; ma attratto da quel dolce tepore, onde abbisognavo cotanto, io mi trascinai verso l'apertura per isgusciar dentro fra lo stipite dell'uscio e le gambe della donna. Ma questa duramente mi respinse con un calcio che mi mandò a rotolare nel cortile.

«— Sta in là, scimiotto! Diss'ella. Chi ti ha dato licenza di rientrare?

«E chiuse l'uscio inesorabilmente. Io rimasi là dov'ero caduto; non piangevo più, ma un singhiozzo mi usciva di quando in quando dal petto.

— Che scellerata megera! Esclamò Selva indignato.

— Passò allora un uomo, riprese Maurilio, e vistomi a quel modo, e uditomi, entrò sollecito e si curvò con interesse su di me a chiedermi che avessi, perchè fossi lì. Era Don Venanzio. Io non seppi, non potei rispondere altro colla voce interrotta che quelle crude parole cui mi rispose stassera un povero ragazzo: — Ho freddo, ho fame!

«Don Venanzio non ebbe schifo della mia lurida sporcizia; mi prese tra le sue braccia, e tenendomi in grembo andò all'uscio e picchiò forte. La Giovanna, domandato e udito chi fosse, venne ad aprire, e il parroco entrò recandomi seco. Con autorità ed amorevolezza insieme fece alla donna quei rimproveri che aveva già dovuto far prima e che ebbe da fare ancora mille volte di poi sul modo onde ero trattato, e per sua opera ebbi allora rifocillamento di pane e di calore.

«Non ti dirò tutto quanto m'intravvenisse di simile, che sarebbe una troppo lunga e monotona filza di maltrattamenti d'ogni genere. Stenti, improperi e percosse ne avevo senza interruzione, con raddoppiamento d'intensità, di quando in quando, che alla Giovanna la luna era più di traverso del solito, e che a Menico l'ebbrezza giornaliera aveva un grado maggiore. Mi ricordo, fra le altre cose, che più tardi mi facevano dormire sopra un impalcato d'una tettoia senza riparo ai lati, e per letto un po' di strame sminuzzato e sporco più che uom possa immaginare. Colà passavo la notte state ed inverno senza copertura sempre, avvolgendomi per riscaldarmi in quel tritume che poteva quasi dirsi letame. Per salire colassù non volevano nemmanco [69] scomodarsi a pormi all'uopo una scala a piuoli; e siccome io non aveva forza bastante da mettermela a posto, mi industriavo ad arrampicarmi, aiutandomi dei crepacci e di alcuni vuoti che c'erano nel pilastro onde il tetto era sostenuto. Infermiccio e deboluccio com'ero, sovente non me ne sentivo da tanto, e restavo sotto quell'impalcato spargendo lagrime impotenti, anelando a quella lurida paglia a cui non potevo arrivare, come ad un piccolo paradiso. Una volta mi mancarono a mezzo dell'ascesa le forze, caddi e mi ruppi gravemente il capo. Menico udì per mia fortuna il colpo ed il grido, venne fuori, mi raccolse, e d'allora in poi mi fece partecipare del giaciglio che aveva sotto il carro il cane di guardia.

«Se io non sono morto, convien dire che un fortissimo organismo mi avesse dato la natura...

— Ma Don Venanzio, interruppe a questo punto Giovanni Selva, come tollerava egli codesto? Piuttosto avrebbe dovuto toglierti a quei manigoldi ed allogarti altrove, anco prenderti seco.

— Don Venanzio, rispose Maurilio, non poteva veder tutto, e non seppe mai, come non sa neppure adesso ancora, la verità per intiero. Bene era già sufficiente ciò ch'egli vedeva perchè il buon sacerdote se ne commovesse, fieramente ammonisse Menico e la moglie, e li minacciasse eziandio di togliermi alle loro mani. Ma questa minaccia avrebbe egli avuto assai difficoltà poi a tradurre in atto; poichè quale altra fra le povere famiglie di quel povero casale avrebbe voluto accollarsi quel peso? E rendermi ad un ospizio di trovatelli, Don Venanzio non pensava fosse un vantaggio per me. E pigliarmi seco, la sua povertà, che pur trovava modo ancora di soccorrere altrui sottraendo al necessario per esso, la sua povertà di umil prete di campagna non glie lo consentiva. D'altronde sperava egli sempre che un po' d'affetto i due villani avrebbero posto in me, il quale, crescendo, cominciavo a diventar loro utile, e lo sarei stato sempre più; non avevano figliuoli, non congiunti prossimi, nulla era più naturale che a me lasciassero poi quelle sostanze che il parroco sapeva aver essi raccolte e venire aumentando ogni anno; e ciò, pensava egli, sarebbe stata la mia fortuna.

«Menico e Giovanna poi, appunto perchè col crescere degli anni io mi veniva facendo utilissimo, perchè avevano in me un servitore oramai necessario alla loro età più inoltrata e un servitore che pagavano soltanto con un tozzo misurato di pane; Menico e Giovanna, dico, simulavano per bene innanzi al curato, e sapevano all'occorrenza allontanare da lui l'idea di togliermi alla loro casa. Sì, lamentandosi della spesa maggiore che loro costava il mio mantenimento, arrivavano ancora a strappare dal buon prete alcun regaluccio di denari e di robe destinato a me, ma di cui non arrivavo mai a vedere neppur l'ombra.

«Quando la mia intelligenza fu abbastanza sviluppata da poter comprendere la crudeltà della rampogna continuamente gettatami in faccia dalla Giovanna: che io era un intruso in quella famiglia, che non appartenevo a nessuno, che rubavo, per così dire, quello scarso pane che mangiavo, una profonda umiliazione fu la mia. Mi sentii l'ultima delle creature viventi; qualche cosa di più basso che quegli animali, per cui, traendone profitto e costando loro denari, Menico e sua moglie avevano più cura e maggiori sembianze d'affetto che non per me, di più vile del cane, il quale almanco veniva lodato e mantenuto senza troppo rincrescimento perchè teneva lontani i ladri, custode vigile e fedele.

«Perciò allorquando potei dirmi che alcun servizio rendevo pur io a quella piccola associazione e compensavo così il datomi alimento, mi parve di essermi alcun poco rilevato ai miei occhi medesimi.

«Facevo in casa il servo di tutti — uomini e bestie; faticavo come un animale da soma. La sera cascavo dal sonno e dalla stanchezza; ero così sfinito certe volte che mi pareva dovesse mancarmi la vita. Mi lasciavo cadere spossato là dove mi trovavo. Ma gli improperi e lo staffile della Giovanna venivano a restituirmi ben presto il coraggio d'un nuovo sforzo.

«Conducevo alla pastura le vacche della stalla, e quello era il tempo più felice della mia giornata.

«I pascoli comunali, dove menavo e custodivo le vacche di Menico, erano sopra un'arida costa della collina, su cui una misera erba mezzo assecchita copriva appena il terreno ronchioso, pieno di sassi e di sterpi. Ma lì presso correva susurrando un'acqua a cui andavano a bere ghiottamente le bestie; sorgevano sulla sponda del ruscello alcuni ontani dal verde lussureggiante, all'ombra dei quali m'era dolce ripararmi dai troppo caldi raggi del sole; intorno intorno si aveva il sempre magnifico spettacolo della natura.

«Come imparai ad amarla questa gran madre di tutto e di tutti, io che non ne aveva di madre, io che non poteva amare nessuno, perchè non ero amato da nessuno!

«Nella solitudine di quel luogo nacquero nel mio capo i primi pensieri intorno alla vita, intorno all'esser delle cose, sorsero nella mia anima le prime aspirazioni verso gli affetti onde abbisognava il mio cuore e cui indovinava l'istinto.

«Era la sera e la mattina che io doveva recarmi colà. Com'è bello sempre il sole nella campagna! Ma nel suo sorgere e nel suo tramonto quanto ancora è più stupendo! Quanto l'amavo questo benedetto sole che mi scaldava le membra, [70] che mi regalava tanto sublime spettacolo di luce e di bellezza! Avrei potuto esclamare come Giuliano l'apostata: «Io sono adoratore del resole!.... Fin dalla mia infanzia fui posseduto straordinariamente dal desiderio di godere dei raggi suoi[7]. «Non c'è paesista per quanto abbia studiato dal vero che abbia esaminate e si sia impresse nella mente tutte le fasi di quelle ineffabili scene, che sono l'aurora e l'occaso, come ho fatto io. Il mattino, dritto sopra la più alta di quelle bozze del terreno, stavo immobile, volto all'oriente, desioso, palpitante, ad aspettare, dopo il mite splendore dell'alba, il primo irrompere della freccia d'oro d'un raggio di sole. Innanzi a me si apriva come un anfiteatro di colline, imboschite, scure ancora delle ombre della notte, addormentate tuttavia, mentre nella zona superiore, quasi precursori dell'astro che stava per sopraggiungere, correvano l'aria fresca mattutina e certe tinte color di perla nell'azzurro cielo in cui impallidivano le stelle.

«Quando il sole gettava i fasci irrompenti delle sue fiamme divine, e sorgeva imponente e soverchio alla pupilla di questa misera creatura che è l'uomo, io mandava un grido selvaggio di gioia, come facevano gli augelli ridesti; partecipavo direttamente a quell'omaggio della natura al suo re.

«Vivevo intimamente nella vita della natura; confondevo la mia povera persona in quel tutto onde ero avvolto. Al suo tramonto io seguitava il sole con occhio amoroso, pieno di rimpianto. Le nubi che velavano il suo splendore mi riempivano di tristezza. Nelle belle giornate serene sentivo entro l'anima una muta, segreta contentezza che non avrei saputo spiegare e che mi faceva bene pur tanto.

«Avrei voluto vivere così sempre. Mi sdraiavo all'ombra di quegli ontani e guardavo, guardavo. L'orizzonte non era molto vasto, gli oggetti che mi si presentavano erano pur sempre i medesimi; eppure non mi stancavo mai di guardare. Quante idee nascevano allora in me! E dove le attingevo io, che non sapevo niente, che non avevo visto niente, che non comunicavo con persona viva, fuorchè colle stupide bestie affidate alla mia custodia?

«Vi ha chi, rinnovellando il pensiero pitagorico, dice oggidì che gli spiriti prima di proseguire la loro misteriosa carriera nell'infinito, debbano incarnarsi più volte su questa terra entro le nostre miserabili spoglie d'uomo; che la memoria delle precedenti esistenze rimane sì obliterata in noi, ma che pure in taluni qualche vago accenno, che pare un presentimento, un istinto, una divinazione, permane, fugace richiamo d'un passato, forse di secoli e di secoli. Io sono presso a creder codesto. Non t'è avvenuto mai di trovarti innanzi a certi affetti, a certe sensazioni, a certe circostanze, eziandio che dovrebbero esserti novelli, come innanzi a cose già occorse e già sentite? A me accadde, ed accadde le mille volte. Ma questo momento, io mi domando, l'ho io già vissuto, lo vivo realmente adesso?

«Le idee che sorsero nella mia mente in quella solitudine, fanciullo io ancora, nulla di quanto mi avvicinava poteva darmele, e se io non le ho portate meco nascendo, residuo d'una vita anteriore, non saprei dove le abbia potute acquistare. Quello che travagliava me, misero, ignorante, disprezzato bùttero della campagna, era niente meno che il problema della nostra esistenza — il problema della vita — il problema della creazione.

«Perchè esistevo io? Perchè esisteva tutto quel mondo che mi attorniava? Avevo udito a nominar Dio. Che cosa era questo Dio? Egli aveva fatto tutto quello che esiste — ma pel suo bene o pel nostro? Se pel suo, come mai aveva egli da aver bene mercè il dolore delle creature? Imperocchè l'idea del dolore fosse la più spiccata e precisa che io avessi dai primi anni miei. Se pel nostro bene, come mai la creazione volgevasi a tale che ne risultava il male? Tutto questo non si combinava coll'idea che avrei voluto farmi di Dio. E s'egli aveva creato ed era onnipossente, avrebbe potuto bene non creare affatto, o distrurre l'opera sua? Non creare! Se non avesse creato ci sarebbe dunque stato il nulla!....

«Mi ricordo che quando questa tremenda idea invase il mio cervello, io credetti impazzire. Il nulla! Niente che esistesse. Dio solo nella sua solitudine infinita!... Ma un Dio inerte e che non facesse nulla si può egli concepire?... Dunque nè anche Dio!.... Nulla! Nulla!.... Sentivo la mia testa scoppiare sotto questo assurdo inconcepibile, e che volevo sforzarmi a concepire.

«La creazione, m'insegnava il catechismo che andavo alla domenica a sentire spiegato in chiesa, era appunto l'atto con cui Dio aveva formato il mondo dal nulla, dunque prima ch'egli creasse, questo nulla dominava lo spazio ed il tempo...

«Mi serravo violentemente colle mani le tempia, come per concentrarvi le idee e le forze del cervello che mi pareano disperdersi. Poi guardavo innanzi a me sbalordito. Vedevo le vacche qua e colà sparse, nella beata calma della loro stupidaggine. Una sdraiata ruminava cogli occhi semichiusi; un'altra mordeva la poca erba del suolo infecondo; una terza, andata a bere, sollevava il muso da cui gocciava l'acqua e guardava fissamente innanzi a sè. Pensavano a di queste cose nelle tante ore inoperose, quelle bestie così [71] placidamente rassegnate alla loro sorte? E se non le pensavano, non erano esse più felici di me? E perchè tali pensieri dovevo averli io, e non li avevano nè Menico, nè Giovanna? Era questo un mio torto, od un mio merito, od una mia sciagura? Non sapevo nè anche questo, ma pure non avrei osato svelarli ad anima viva.

Qui Maurilio tacque un istante e parve esitare; poi fece quel suo strano sorriso, scosse il capo; e riprese:

— Ned ora tuttavia, nemmeno con te, oso tutto disvelare degli intimi pensieri del mio spirito, degli intimi fenomeni che ha nel suo segreto l'anima mia...

— Perchè? Domandò con calore Giovanni Selva; tu dèi pure avere fiducia nella mia amicizia.

Maurilio stette un minuto a capo chino, poi, come riscuotendosi, disse risolutamente:

— Avrò il coraggio di dirti tutto, perchè molte volte ho bisogno d'aiuto nelle mie interne battaglie, e il tuo affetto e la risolutezza del tuo carattere potranno darmene... Ti dirò tutto, dovessi tu pure stimarmi un allucinato o ridere della vanità delle mie illusioni.

Selva lo interruppe vivamente.

— Ridere non mai!... E per crederti così agevolmente allucinato, conosco troppo già la tempra del tuo ingegno e la forza dell'anima tua.

— Giovanni, disse Maurilio volgendo verso l'amico il viso diventato più pallido e gli occhi di una strana luce illuminati: Giovanni, credi tu alle apparizioni? Credi tu al mondo degli spiriti? Credi tu che fra questi vivi della vita d'un giorno e i vivi della vita eterna possa esservi comunicazione diretta?... Io credo!... A me parlano gli spiriti dei morti; io sento nell'anima il susurro de' loro ispiratimi pensieri, alcune rare volte io ne vedo nelle ombre della sera disegnarsi, lievi come il fumo di poco incenso, le loro incerte sembianze... Non interrompermi, non parlarmi, non dirmi che vaneggio... Odimi sino al fine.

«Non avevo più di sette anni. Ero al solito pascolo. Una sera orridamente bella per lo strano spettacolo del cielo. All'occidente un ammasso di nubi di temporale, nero come il fondo dell'abisso, squarciate di quando in quando da un lampo sanguigno. All'estremità di queste nubi, pei raggi rifratti del sole già tramontato, un orlo vivo color di fiamma. Più in su dell'orizzonte un altro accavallamento di nubi bianche come la neve che correvano, avresti detto spaventate, avvolgendosi su se stesse sotto il soffio dell'aquilone. Per la campagna una luce incerta, biancolastra, freddiccia che dava delle tinte livide a tutti gli oggetti. Un gran silenzio in tutta la natura, cui rompevano tratto tratto il rombare del tuono lontano e l'ululato del vento che faceva piegare con gemiti gli alberi, che sollevava altissimi nembi di polvere e li cacciava in disordine innanzi a sè, e passava. Le vacche di quando in quando levavano il muso verso il cielo e muggivano dolorosamente.

«Io non sentiva paura; quell'imponente spettacolo piaceva anzi di molto agli occhi miei; ma pure avevo una certa ansietà nell'animo e un palpito nel cuore, di cui non sapevo dirmi il perchè. Sdraiato sotto gli ontani, guardavo i lampi nel cielo e stavo lì come aspettando qualche cosa che dovesse intravvenire.

«Ad un punto il vento cessò del tutto e il tuono si tacque. L'orlo di fiamma delle nubi all'occaso si spense, quelle altre nubi bianchissime che correvano pel cielo si fermarono, si oscurarono e diventarono color di piombo; parve cessasse dal respirare la natura intiera. Il mio cuore palpitava più forte. Udii al di sopra del mio capo le frondi degli ontani scuotersi leggermente, e mi stupii che il vento tacesse dappertutto e là soltanto agitasse i rami. Una voce — era essa bene una voce? — certo non umana, la suonava in modo così dolce e così nuovo che io non aveva udito nè udii mai rumore terreno che le si potesse paragonare. La sentii non cogli orecchi, ma coll'anima. Non avrei saputo dire se parlasse fuori di me o dentro me stesso; ma era una voce d'altra persona che non io, perocchè mi stupì forte e mi fece rivolgere a cercar chi fosse che parlava. Una voce mi disse: — Bambino! Povero bambino!

«Guardai tutt'intorno; non vidi nessuno. Mi alzai non atterrito, ma commosso. Gli ontani tornarono ad agitarsi; ed allora vidi — oh certo vidi — una figura, un'ombra bianca, diafana, leggiera, che pareva di donna, le cui sembianze non potevo discernere con precisione, ma che avrei detto mi guardasse benignamente affettuosa.

«Non ebbi timore di sorta. — Chi siete? Le domandai.

«Invece di rispondere alla mia richiesta l'ombra mi disse con quella sua voce di cui non posso spiegare la natura, nè l'incanto:

«— Iddio ti ha dato un'intelligenza, e tu devi coltivarla. Un'anima eletta verrà pietosamente a cercarti nelle tenebre della tua ignoranza. Studia. I tuoi patimenti non ti facciano tristo. Soffri, perdona e credi!

«E si dileguò alla mia vista.

«La notte era discesa quasi del tutto, le vacche muggivan più forte, il tuono e il vento romoreggiavano più intensamente; qualche gocciolone di piova cominciava a cadere con impeto qua e colà. Io mi sentiva tutto commosso e quasi lieto nell'animo. Avviai le bestie verso casa e ci arrivammo correndo che la piova incominciava a crosciare con iscatenato furore.

«Fui crudelmente percosso e condannato a star senza cena, perchè avevo tardato a rientrare. Coi panni tutti bagnati addosso fui mandato sul [72] mio giaciglio. M'addormentai placidamente, senza pure una lagrima. Sentivo ancora dentro di me, come una musica, il suono delle parole della visione.»

— Questa visione, disse Giovanni, altro non era che la tua coscienza. In te latente era fin d'allora il sentimento del tuo valore intellettuale, e per un fenomeno psicologico siffatto sentimento nell'estrinsecarsi prendeva quasi persona di essere estraneo, affine di incitarti all'opera.

Maurilio crollò con impazienza le spalle.

— Lascia stare, ti prego, le tue spiegazioni del razionalismo terreno a corta vista. Ascolta tutto in prima, e poi vedrai se quelle spiegazioni possono bastare.

«Il domattina corsi a quel solito luogo con una specie d'ansia desiosa. Speravo di rivedere quella forma indistinta, di riudire quella voce soave. Il fatto nè mi pareva meraviglioso, nè cercavo di darmene spiegazione alcuna. Non l'avrei detto a persona al mondo; già non avevo nessuno a cui favellarne, perchè a Menico ed a Giovanna non rivolgevo mai la parola che quando la necessità lo volesse; ma fossi pure stato uso a tutto svelare a qualcheduno, quel fatto avrei avuto caro di tenerlo segreto, per me solo, e un'istintiva ripugnanza avrei sentito a parlarne.

«Il temporale era passato e splendeva in una bella mattina il più allegro sole del mondo. Mi sedetti sotto gli ontani, là, a quel medesimo posto, e stetti aspettando. Inutilmente!.... Cioè no, inutilmente. La visione mi aveva annunziato che un'anima eletta sarebbe venuta a cercarmi nelle tenebre della mia ignoranza; e quest'anima venne.

«Nell'attesa che la desiata visione si manifestasse al mio spirito, io m'era siffattamente assorto fuori del mondo reale, che non vedevo e non sentivo più nulla. Ad un punto fra i miei occhi e lo splendore del sole nella pianura, cui fissavo inconsciamente, venne a frapporsi un corpo opaco, una persona vestita di nero. Levai lo sguardo, e mi trovai dinanzi le sembianze paternamente affettuose e il sorriso bonario di Don Venanzio.

«— Che fai tu? Mi disse. Dormi?

«— No, diss'io, penso.

«— Oh oh! Pensare, soggiunse egli ridendo, con quella testolina, alla tua età!.... Ma intanto non badi ai fatti tuoi; e vedi un po' che una delle tue vacche è fuori del pascolo, ha invaso il campo di Giammaria e sta mangiando a piene ganascie il suo trifoglio. Così cominci per lasciar far danno a quel pover uomo: e poi la bestia pasciuta di trifoglio gonfierà e potrà anche morire; e per Menico la sarà brutta, e la vedranno brutta anche le tue spalle.

«Mi scossi in sussulto «come persona che per forza è desta» e corsi a parar via la vacca dal campo di trifoglio.

«Quando tornai presso al parroco, questi mi pose amorevolmente una mano sul capo; e guardandomi non senza affettuoso interesse, mi disse:

«— Come sei concio! Tu non ti lavi mai, ci scommetto. Non sai che la pulizia è l'eleganza del povero?

«Io mi sentii arrossire e chinai la testa senza rispondere.

«— La Giovanna, continuava egli, non ti ha mostrato a tenerti pulito?

«— No.

«— Ebbene, ciò non ostante avresti dovuto impararlo da te stesso.

«Io arrossii ancora di più, e chinai più basso ancora la testa. Don Venanzio stette un poco a guardarmi così in silenzio, e il suo sguardo mi rendeva impacciato bensì, ma non mi faceva pena, tanto ci sentivo in esso di pietà e di affetto.

«— Oh Signor benedetto! Esclamò egli di poi come parlando a se stesso; è egli possibile che delle creature umane tirino su un'altra creatura a questo modo senza pulirne in niuna guisa nè il corpo nè lo spirito?

«E volgendo allora di nuovo a me la parola, chiese:

«— Tu non sai nemmeno che cosa sia leggere e scrivere, non è vero?

«— Sì, lo so: risposi levando gli occhi in volto al buon parroco. Vedo bene Menico che fa certi segni su certo suo libretto per tenere le ragioni di quanto vende e di quanto gli si paga, e alla domenica a messa vedo bene Lei che legge nel grosso libro in sull'altare, e al catechismo il vicecurato che legge la dottrina per ispiegarcela.

«— E ne avresti voglia tu di saper fare l'una cosa e l'altra?

«Veramente fino a quel punto, io non ci aveva ancora pensato mai: ma bastò che Don Venanzio me ne dicesse, perchè di subito io me ne sentissi invasare da un grandissimo desiderio.

«— Oh tanto, tanto..., risposi con calore.

«Il parroco mi fece una carezza alla mascella a dispetto dello sporco che m'impiastrava la faccia, e mi disse:

«— Va bene. Io faccio scuola a tutti i ragazzi che mi vogliono mandare, e la farò anche a te. Dirò a Menico che vi ti lasci venire, e siccome la scuola è gratuita, non dubito punto ch'egli acconsenta.

«E così fu di fatto. Benchè la Giovanna brontolasse assai, che quella, secondo lei, sciocca superfluità della scuola mi toglieva da farle in casa quei pochi servigi a cui ero buono, e quindi che le mangiavo più che mai il pane a ufo e a tradimento, pure non si osò contraddire Don Venanzio, e tutti i giorni, in quello spazio di tempo che le bestie non istavano alla pastura, io con immensa voglia, insieme con una frotta di altri [73] ragazzi del villaggio, prendevo dal buon parroco due ore di lezione.

«Ben presto fui primo tra i primi, e a seconda che imparavo con ardore, una smania indicibile di sapere s'impadroniva di me. Don Venanzio meravigliato de' miei progressi, e, come diceva egli, della precocità della mia intelligenza, mi pose affetto forse maggiore che non ad altri; e un anno appena era trascorso dal dì ch'egli mi aveva mostrato a discernere le lettere, quando egli mi ammetteva già alla prima comunione e, come ti ho raccontato poc'anzi, mi rendeva istrutto di quanto era a sua cognizione circa la mia origine.

«Un altro fra i ragazzi meco istruiti corrispondeva coi più lusinghieri successi all'insegnamento del parroco, ed era perciò ancor egli distintamente apprezzato da Don Venanzio.

«Per una strana combinazione della sorte, questo tale trovai, dopo lungo intervallo che eravamo divisi, questa sera medesima; e ciò valse ancora non poco a far più vivo in me il ricordo di quegli anni infantili.

«Eravamo ambidue superiori a tutti i nostri compagni per l'intelligenza; egli era tale altresì per la forza e l'avvenenza del corpo. Avevamo la sorte comune; ancor egli è un trovatello al pari di me; oltre ciò molte idee compagne, molte aspirazioni medesime ci assembravano. Fu quello il mio primo amico che avessi; l'unico finchè non ebbi trovato voi altri.

«Il suo nome è Gian-Luigi. Una buona donna lo tolse dall'ospizio per balìrlo, e lo ebbe come suo. Ancor egli ha un segno che può essergli stato messo per riconoscerlo di poi da chi lo abbandonò nella ruota degli esposti; ma un segno vago al pari del mio: una lettera stracciata longitudinalmente per metà di cui non si scorge data nè firma, e non si può capir nulla. Un altro segno di ricognizione a lui diede poi la natura in una macchia che par proprio un fiore di viola mammola sopra una spalla.

«La natura volle esser prodiga con lui d'ogni dono: bellezza, forza, intelligenza, coraggio; ma la sua anima irrequieta ed ambiziosa è dominata da un superbo egoismo che è capace di tutto. Un ardore di sapere ci possedeva entrambi, e ci animavamo l'un l'altro, e ci aiutavamo a vicenda, egli coi meravigliosi indovinamenti della sua ratta percezione e del suo intuito potente, io colle deduzioni forse più profonde della mia riflessione. In breve il buon parroco non ebbe più nulla ad insegnarci, perchè aveva trasmesso in noi tutta quella scienza ch'egli possedeva. Ah perchè quel sant'uomo non ci potè trasmetter del paro la calma sua acquiescenza nella sublime umiltà della fede? Quel poco che avevamo bevuto alla coppa del sapere era ben lungi dal bastare a dissetarci. Il nostro spirito audace andava al di là di quella cerchia che ci pareva troppo stretta e in cui si trovava pure a suo agio l'anima modesta del sacerdote. Avevamo divorato, poi letto di nuovo e riletto tutti i pochi libri posseduti da Don Venanzio. Per questi libri in modo incompleto e leggero pur anche, ma tuttavia in modo efficacissimo per le nostre anime giovanilmente vaghe e ansiosamente curiose, ci parlava il mondo coi suoi gran problemi filosofici, morali, sociali e politici. Sull'arido tema datoci da quei libri innocenti lavorava con ardore la nostra fantasia intemperante. Figurati che uno dei libri che più mi agitassero fu il Discorso sulla storia universale di Bossuet. L'umanità allora mi apparve primamente come una grande individualità esplicantesi traverso ai secoli per incarnare un disegno, un tipo, per effettuare un ideale. Afferrai il concetto della filosofia della storia, senza pur saperne il nome nè conoscerne nemmanco che altri l'avesse fondata, esplicata, tentato determinarla in leggi generali. Fui a me medesimo il mio Vico, mi credetti inventore e ci lavorai intorno con la superba passione dell'inventore. Creai il mio sistema, e con fatale orgoglio non conchiusi in favore d'una paterna provvidenza. La necessità generantesi delle cose e l'ingranaggio della dipendenza ineluttabile di cause e d'effetti, di premesse e di conseguenze mi parvero spiegazione sufficiente. Preso per guida e per esemplare il Bossuet, riuscii ad opposte conclusioni.

«Il verme che rode la moderna umanità intellettuale, lo scettico criticismo ci possedeva entrambi, me e Gian-Luigi. Eravamo proprio figliuoli di quella generazione, che avendo visto rovinar tutto, avendo tentato infinite cose e riuscito a nulla, non poteva più aver fede in cosa nessuna. Gian-Luigi, senza mai aver letto Voltaire, aveva il sarcasmo potente di questo demolitore; quando più tardi mi vennero tra mano le brillanti prose di quell'arguto polemista francese che il secolo scorso scambiò per un filosofo, stupii nel trovarvi le scherzose empietà del mio compagno d'infanzia.

«Don Venanzio s'accorse degli effetti dell'opera sua e molto se ne dolse. Forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza, nella quale probabilmente avrebbe continuata la nostra fede. Volle argomentare, vincere la nostra incredulità colla potenza della sua teologia: ma le vivaci uscite di Gian-Luigi lo confondevano, le serrate deduzioni dei miei ragionamenti lo imbarazzavano. Atterrito esclamava che per bocca nostra parlava il demonio. Povero prete! Così buono e ci amava cotanto! E l'abbiamo fatto soffrire!....

«Però se io non aveva più la cieca fede del cattolico insegnatami dal curato, non ero neppure andato all'assoluta negazione, a cui aveva fatto capo Gian-Luigi, il quale, di alcuni anni più innanzi nella vita di me, aveva nelle sue concitate passioni di giovane ribollenti nella sua anima audacissima [74] un incitamento alle maggiori temerità della coscienza. Oltre ciò quell'educazione che il parroco aveva incominciata di lui, era stata compita da un altro, ammirato pure dei tanti e luminosi talenti di quel giovanetto. Quest'altro era il medico del villaggio e, come tutti i medici d'un tempo, aveva per dottrina il più puro e franco materialismo. Gian-Luigi era troppo acconcio a far suoi quel sistema e quelle opinioni. Accusava me, timido ed inconseguente, perchè non sapevo spastoiarmi dagli assurdi pregiudizi, secondo lui, dello spiritualismo.

«Se avesse saputo poi che io nutriva entro me peggio di codesto, una credenza che tutti i dotti battezzano per superstizione; la credenza alle apparizioni degli spiriti umani spogliati della carne!....

«Ti confesso la mia viltà. Non ebbi mai l'ardire di pur fargliene cenno. Avrei temuto un suo scherno su questo proposito come una crudele trafittura nel più delicato dell'anima. Ci credevo, — e ci credo — e quella credenza era ed è una consolazione segreta ed un segreto conforto d'indefinita speranza. Questa credenza nel domma superbo dell'immortalità dell'anima, della permanenza della personalità umana, della perfezione dello spirito, mi riattaccava alla credenza di Dio.

— Ma dopo quella prima visione, disse Giovanni Selva a questo punto, ne avesti tu delle altre?

Maurilio fece un cenno affermativo col capo e con accento sommesso e commosso rispose:

— Sì, ma più vaghe ed incerte ancora della prima; tali però da non lasciare in me il menomo dubbio. Sempre quella medesima forma donnesca in atto pietoso. La voce soave non l'udii più, o qualche rara volta, un monosillabo, un'esclamazione soltanto. Mi appariva — e da qualche tempo tornò ad apparirmi — nel crepuscolo vespertino ad ogni volta. Io vedeva nell'aria un mesto sorriso; e mi si cancellava dinanzi. Le tendevo le braccia, la invocavo col grido dell'anima: era sparita. Quando avevo sofferto di più, quando Giovanna e Menico mi avevano peggio maltrattato, ella soleva consolarmi del suo fugace passare innanzi ai miei occhi. L'aspettavo. Certe volte ero contento d'aver patito assai lungo la giornata, perchè speravo che la sera avrei visto il mio buono spirito. E non sempre veniva, ed era allora in me un'amarissima delusione, nuovo più forte dolore. Mi sentivo allora tanto solo nell'universo! Poichè Don Venanzio mi aveva narrato dell'esser mio, avevo dato un nome a quella ombra, e non avevo pure un dubbio che quel nome non fosse suo. La chiamavo mia madre.

«Il mondo soprasensibile mi parlava così all'anima, ed il mondo reale, crescendo negli anni, mi parlava con agognante curiosità alla mente. Cominciò a travagliare il mio spirito intorno al problema della mia nascita. Volli cercare la ragione per cui de' genitori erano costretti a condannare i nati dal sangue loro a quell'insulto che mi gettavano in faccia gli uomini spietatamente colla parola bastardo; e questa ragione, in mezzo ai miei studi incompleti, mal digesti, fatti alla ventura, mi apparve circondata dagli spinosi avvolgimenti della quistione sociale. Il problema della ricchezza e della povertà mi affannò allora ancor esso con una dolorosa confusione del mio spirito. Il buon Don Venanzio non era a gran pezza capace di dire una parola che mi fosse in quello scombuiamento un richiamo, una guida; egli non aveva che una spiegazione sola, un unico principio a cui tutto subordinava come effetto a causa: la volontà di Dio. Questa spiegazione più non bastava al mio scetticismo crescente. Mi ribellavo a veder chiudere in quell'angiporto i miei audaci perchè. Il concetto dell'armonia universale mi sfuggiva, e facendo, come avviene, centro all'universo della mia povera individualità e tutto ad essa recando, conchiudevo suprema ragione delle cose terrene essere l'ingiustizia. L'umanità, quindi, credevo affatto fuor di strada; la rivoluzione sociale essere una necessità assoluta, chi non volesse la civiltà caduta in vecchiaia, fatta impotente, cristallizzata, per dir così, in forme inefficaci, colpite di morte, e però da spegnersi come le civiltà dell'antico Oriente.

«Non abbracciavo tutte le parti dell'immenso quesito. Non apprezzavo e non conoscevo la virtù immensa, e sola effettiva, e sola creatrice, del graduato e lento moto di riforma, in una parola, del progresso, a cui la terra medesima e tutto l'universo deve l'attuale suo stato e dovrà gl'immegliamenti avvenire. Circonchiuso in istretti limiti segnati, me inconscio, dal mio interesse personale, esageravo colla foga esuberante della prima giovinezza.

«Più di me esagerava Gian-Luigi, anche in codesto. Il suo pensiero aveva ancora più temerità e meno logica del mio. Dal medico, il quale con tanto amore l'avea preso a proteggere, egli era ogni anno mandato a Torino per gli studi. Il bravo uomo — senza prole — sognava vedere Gian-Luigi addottorato in medicina, succedergli nella clientela del villaggio, ed a lui vecchio prestare negli ultimi anni le amorose assistenze d'un figliuolo.

«Ma quanto una simile sorte era lungi dal bastare all'irrequieta ambizione del giovane! Fin dapprima questi non anelava che ad una cosa: potersi allontanare di tanto da quel villaggio che nessuno udisse mai più nulla di lui, fuorchè — com'egli si lusingava ottenere — la sua fragorosa celebrità; e non tornarci mai più, fuorchè circondato da una brillante aureola di gloria.

«— Vorrei, mi diceva più volte nei nostri confidenti [75] colloqui, vorrei che strabiliassero tutti che un uomo simile sia venuto fuori dal guscio di quel bastardo che essi disprezzavan cotanto.

«Questo disprezzo era eziandio per lui un tormento uguale se pur non maggiore a quello che io ne provava; quantunque verso di lui siffatto sentimento si manifestasse assai meno che non verso di me, perchè egli era forte, robusto, arditissimo, di sembiante meravigliosamente bello, possedeva una certa autorevole imponenza di persona che faceva effetto su tutti, ed inoltre gli era di salvaguardia la protezione del medico, uomo nel villaggio assai considerevole e stimato.

«Molte volte Gian-Luigi protesse la mia debolezza contro gl'insulti dei compagni, e talora — cosa che mi parve un'audacia incredibile — perfino contro i maltrattamenti di Menico e di Giovanna che io temeva, massime quest'ultima, più di ogni cosa al mondo. La comunanza dei pensieri e dei sentimenti e la riconoscenza che io dovetti mettere in lui per queste ragioni, fecero che io amassi allora Gian-Luigi più di tutti, più ancora del buon Don Venanzio, il quale era pure il solo in cui avessi trovato il tesoro d'un affetto che aveva del paterno. Credevo esser amato ancor io dal mio compagno, ma quanto m'illudevo! Egli ha in codesto uno dei privilegii consentiti alla sublimità del genio: non ama che sè, non pensa che a sè.

«Dappoi che gli era solito venir a passare in Torino, per cagione degli studi, la maggior parte dell'anno, il soggiorno del villaggio era diventato a Gian-Luigi intollerabile. Fastidiva tutto. Nei primi giorni dopo il suo arrivo, si piaceva alquanto a restar meco, per dirmi tutto quello che aveva provato, tutto quello che aveva visto, pensato, sentito, tutte le sue speranze, tutti i suoi pazzi progetti che detti da lui parevano i più facili del mondo a compirsi, tutti i suoi sogni impossibili, che passando per la sua bocca, nella foga eloquente del suo discorso, pigliavano l'aspetto di cosa naturalissima. Ero io il solo in quel paese che potesse capirlo, partecipare a quei suoi sentimenti, completarli quasi coll'appassionato concorso. Io faceva sempre la mia solita vita, se non che lavoravo assai più, pensavo ancora maggiormente, e rubavo le ore al mio sonno, di cui avevo pur tanto bisogno, per leggere e studiare di soppiatto. Gian-Luigi veniva a cercarmi là al pascolo; e che festa per me il vederlo! Ad ogni volta però egli mi si presentava così cambiato in signore che io rimaneva tutto interdetto e non osavo più abbracciarlo. Egli mi recava innanzi gli abiti, le maniere, il profumo, quasi direi, della vita signorile di città; e ti lascio pensare qual effetto tutto ciò dovesse produrre in me. Maggior effetto mi producevano ancora le sue parole. Esse mi svelavano alla fantasia desiosa il mondo novello vagamente immaginato, l'Eden sociale da cui eravamo esclusi noi due, ma di cui egli s'era già pur tuttavia avanzato sino sulla soglia a mirarvi per entro ed in cui giurava di voler entrare.

«Le sue parole mi destavano un tumulto indescrivibile, e me lo destavano del pari i libri che egli mi recava. Furono i primi romanzi che vennero a dar forma più precisa a quella moltitudine di esseri immaginarii che riempivano le scene svariate e confuse delle mie fantasticaggini. Come divoravo quei volumi! Li recavo meco dappertutto e leggevo, leggevo, leggevo, finchè mi bastasse la vista.

«Trascorsi alcuni giorni, quando egli mi avea detto tutto, anche la mia compagnia tornava sazievole a Gian-Luigi. Non solamente non mi cercava più, ma se io andava in traccia di lui, mi sfuggiva. Siccome l'amavo, ciò mi faceva soffrire. Con colpa ben maggiore, egli sfuggiva altresì la brava donna che l'ha allevato, e che aveva ed ha tuttavia in lui un affetto più che materno. A chi gliene muovesse rimprovero, egli rispondeva sdegnoso: non esser egli come tutti gli altri, e le sue azioni quindi da non misurarsi alla regola comune; non aver egli legami di sangue con nessuno sulla terra, epperò averlo sciolto il fato da ogni e qualunque obbligo verso chicchessia. Come nessuno, egli non amava nulla di colà, e quei luoghi che erano sì cari — e lo sono ancora — a me, che pure in essi ho sofferto cotanto, quei luoghi non dicevano niente all'anima sua; ed il suo più lieto momento era quello in cui li dovea abbandonare per tornarsene col pretesto degli studi a Torino.

«Se il medico, il quale lo manteneva all'Università, fosse vissuto, io non so che cosa sarebbe capitato di Gian-Luigi. Forse avrebbe finito per acconciarsi alle voglie del suo protettore ed al destino che questi gli preparava; ma prima che il giovane terminasse il suo corso di medicina, il dottore, assalito da una violenta malattia, in pochi dì soccombette.

«Unico suo desiderio, sul letto di morte, fu di vedere ancora Gian-Luigi che allora trovavasi a Torino. Mandato a chiamare in fretta in fretta, il giovane venne ad assistere all'agonia del suo benefattore. A quello che ne udii, fu uno spettacolo fatto per addolorare un credente, ma non per ammollire l'anima di un incredulo. Il medico materialista, malgrado tutti i tentativi di Don Venanzio, morì nell'interezza delle sue opinioni antireligiose. Gian-Luigi assistette al desolante spettacolo di un'anima che lotta fisicamente contro la morte e giace vinta da questa senza recare seco pure un barlume di speranza. La vita conchiusa tutta in questo breve periodo di tempo, per un'anima nata dal nulla e che torna nel nulla, gli apparve sempre più una lotta in cui bisognava [76] sopravanzare, un giuoco in cui bisognava vincere. Si confermò nella sua credenza: la soddisfazione dei proprii istinti, l'appagamento dei desiderii, essere legittima e suprema regola di vita.

«Il buon parroco non rifiutò le preghiere della Chiesa a quell'incredulo impenitente che ne avea rifiutato i sacramenti.

«— Preghiamo sempre, egli soleva dire in ogni occasione. La preghiera non può dirsi inutile mai, e dirla proibita mi par quasi un'eresia. D'altronde chi può porre un limite alla misericordia di Dio?

«Gian-Luigi accompagnò sino al cimitero la bara del suo benefattore. Credevo di vederlo piangere. Invece l'occhio suo era asciutto e quasi più vivace del solito; aveva le guancie un po' pallide. Stette muto, e non fece il menomo atto che svelasse il suo dolore. Quando la bara fu coperta di terra, egli si volse indietro tranquillo, senza pronunziare una parola e se ne partì lentamente.

«Il cane del povero medico morto aveva seguito ancor egli il funebre corteo, ed ora, sdraiatosi sul cumulo di terra smossa sotto cui giaceva il cadavere del suo padrone, guaiva dolorosamente.

«Io mi affrettai dietro Gian-Luigi, e lo raggiunsi che camminava col medesimo passo lento, a capo chino.

«— Povero dottore! Io cominciai per dire a Gian-Luigi. Come presto egli ti fu tolto! Ti compiango, e sento il tuo danno e il tuo dolore, come se fossero miei.

«Egli non mi rispose tosto, ma continuò a camminare di quella guisa, quasi che non prestasse la menoma attenzione alla mia presenza nè alle mie parole.

«Dopo un poco mi disse:

«— Sì, povero dottore! Che vita fu la sua? Aveva studiato assai, sapeva molto e la sua esistenza rimase rinserrata in questa misera tomba di vivi che è il villaggio! A che cosa gli valse avere ingegno? Passò come un'ombra nel mondo, come passano tutti gli stupidi che riempiono di loro inutil persona quelle brutte casipole laggiù per soffrir di stenti, d'ogni privazione, procreare altri stupidi ed altri infelici al pari di loro e venire poi colla loro putredine ad ingrassare le alte erbe del cimitero che abbiamo or ora lasciato. Forse quell'uomo si meritava di meglio.

«Tacque un istante, e poi crollando le spalle con un certo suo atto pieno di orgoglio, soggiunse:

«— Oppur no; ebbe la sorte che seppe o che volle acquistarsi. D'altronde oramai la sua vita era conchiusa. Ne aveva egli tratto tutto quello che poteva o sapeva. Per lui tutto era finito. La decrepitezza è un prolungato tormento; è stato avventurato che la sorte volle risparmiarglielo.

«Le fredde parole di Gian-Luigi mi facevano pena, e non sapevo pure come ripigliarnelo, e non osavo, perchè allora ancor io sottostava a quell'ascendente che la ricca di lui natura esercita sopra chi lo accosti. Ma conoscevo allora per la prima volta con precisione quanto il mio amico mancasse di cuore, e sentivo il mio invaso come da un gelo, e ne provavo entro di me irritazione e dolore.

«Proseguimmo per alcuni passi, senza parlare e l'uno e l'altro.

«Nella campagna, silenziosa a quel momento, suonavano lamentosissimi gli ululati del povero cane che piangeva sulla fossa del suo padrone.

«Non potei trattenermi dal dire a Gian-Luigi con manifesta allusione alle sue parole ed alle sue condizioni:

«— Povera bestia! Odi come quel cane si lagna sconsolatamente. Egli sente d'aver perduto il suo benefattore, egli piange la sua mancanza.

«Gian-Luigi m'interruppe vivamente:

«— Il suo è dunque un egoismo. Incapace di procurarsi la vita da sè, rimpiange il pane perduto con quell'essere sepolto.

«— Ah no: diss'io: in quel dolore c'è anche l'affetto.....

«— Un affetto, ribattè egli seccamente, regolato dall'istinto e non guidato dalla ragione.

«Io mi tacqui. Cominciai da quel momento ad esser chiaro della vera natura di Gian-Luigi, e una profonda amarezza mi scese nell'anima.

«Camminammo in silenzio fino all'entrata del villaggio; colà si separò da me con un brusco saluto, e volto a destra s'avviò di buon passo verso la campagna.

«Stetti alcuni giorni senza vederlo. Finalmente me lo vidi comparire innanzi mentre ero al pascolo, sotto i miei favoriti ontani. Aveva l'aspetto più serio dell'usato e risoluto come d'uomo che ha deciso oramai sulla sua sorte.

«Mi tese una mano e mi disse col simpatico accento della sua bella voce vibrata ed armoniosa:

«— Addio, Maurilio, io parto; abbandono questo villaggio — per sempre — e le più dolci memorie che io ne porti meco son quelle che ti riguardano, e se a questi luoghi ed a questi tempi trascorsi tornerà il mio pensiero, sarà per te soltanto, per trovarvi le traccie dei momenti che abbiamo insieme passato.

«Mi parve commosso, se pure non fingeva, se pure non era la mia commozione che mi faceva scorgere per errore la sua. Io mi sentii stringere il cuore e la gola. Lo guardai con occhi meravigliati, sgomenti, che di subito si riempirono di lagrime.

«— Tu parti! Potei dire soltanto. Per sempre?..... Gran Dio! Non ci vedremo dunque più?

«Egli sorrise compassionevolmente.

«— Qui, no certo, disse; od almeno è difficile molto; ma ciò non significa che non abbiamo ad [77] incontrarci mai più. Verrai tu pure a Torino, e là mi ci troverai tale e quale ora sono.

«Qual probabilità v'era allora per me, di venire a Torino? Nessuna. Mi credevo condannato a vivere in quel villaggio tutta la mia vita, per allontanarmene forse soltanto alcune volte ad accompagnare Menico nelle sue gite alla città, così mattiniere che potevano dirsi notturne. Come avrei potuto vedere ancora Gian-Luigi? Ritenni per sicuro che quello era fra noi l'ultimo addio. Colla partenza di lui, mi parve da me si dipartissero tutte le belle giovanili speranze, tutto quel mondo di sogni e d'idee in cui mi piacevo cotanto far correre la mente; mi parve rimanessi allora affatto solo sulla terra e venissi chiuso inesorabilmente in quella esistenza di miseria, di abbiezione, di ignoranza che aveva per cornice il fetido tugurio di Menico. Un impeto irrefrenabile di dolore mi invase di presente; sciolsi con brusco atto la mia mano dalle sue, e coprendomi la faccia scoppiai in pianto.

«Gian-Luigi tacque per un poco. Quando, già vergognoso di quello sfogo infantile, rivolsi gli occhi verso di lui, lo vidi che mi guardava con una certa compassionosa meraviglia che quasi mi produsse l'effetto d'uno scherno, e sorpresi in lui quel suo disdegnoso crollar di spalle che ti ho detto. Codesto mi rasciugò repentinamente le lagrime entro gli occhi. Mi sentii freddo ad un tratto ancor io, e benchè avessi tuttavia il cuor grosso, le mie sembianze poterono acconciarsi all'indifferenza.

«Egli sedette presso di me e mi raccontò come e perchè partisse. Il medico aveva scritto nel suo testamento che gli eredi fossero obbligati ad una annuale provvigione verso Gian-Luigi, fino a quattro anni dopo che egli avesse preso la laurea in medicina; aveva lasciato inoltre al suo protetto, per legato, tutti i suoi libri e stromenti della scienza che voleva il giovane finisse di apprendere. L'obbligazione loro imposta pareva un gravame intollerabile agli eredi, che se ne lamentavano come di una matta ingiustizia. Gian-Luigi, sdegnoso di codesto, impaziente di dover dipendere da quei tali, propose loro per transazione: gli pagassero di subito una data somma, egli li esonererebbe da ogni obbligo nell'avvenire, gli lasciassero prendere i libri e strumenti del legato, ed egli con essi si allontanerebbe che non avrebbero mai più avuto il menomo fastidio per fatto suo. La proposta fu volentierissimo accettata.

«— Ed ora, conchiudeva Gian-Luigi, io parto e vado ad affrontare l'ignoto. Con quella somma avrò bene di che vivere un anno! In dodici mesi quante cose possono succedere! Quante ne può compire una volontà tenace!... Che farò io? Non lo so ancora. Forse continuerò a studiare la medicina, forse no... come vedrò le circostanze, come sentirò l'interna ispirazione dettarmi. Ma ho diciannove anni soltanto! Ho qualche cosa entro questa fronte, e in questo petto. Voglio che gli uomini abbiano a conoscermi ed inchinarmi, per Dio! L'umanità mi ha rigettato fin dalla nascita... Me le imporrò colla forza di questo ingegno, colla potenza di questo volere cui nulla può piegare.

«Si drizzò in piedi, brillante lo sguardo, animato nel volto, tumide d'orgoglio le labbra; e voltosi dalla parte in cui al fondo al fondo, nel vaporoso aere della campagna, si vedevano vagamente indicate le ondulazioni della collina di Torino, tese la mano verso colà e pronunciò con indicibile accento di energia, di agognamento, di avida bramosìa:

«— A noi due, o mondo della ricchezza; mondo dei piaceri, della bellezza, dello sfarzo, dell'ambizione, della potenza, preparati ad aprirmi il varco. Lo voglio. Ci riuscirò. Voglio la mia parte de' tuoi tesori — e la mia parte ha da essere quella del leone. Nominor leo!

«Gian-Luigi partì. La brava e povera donna che gli aveva fatto da madre, ne pianse lacrime di sangue. Egli le diede l'ultimo addio, incommosso, fissando coll'occhio ardente quel punto lontano verso cui si dirigevano i suoi passi; promise con accento di leggerezza, quasi d'impazienza le avrebbe scritto, le avrebbe fatto sapere sue notizie, non l'avrebbe in niun modo dimenticata, ma ben si vedeva che le erano parole a cui non avrebbero tenuto dietro gli effetti.

«Fece pessima impressione in paese, ed anche in me il fatto che il giovane, della somma ricevuta dagli eredi del medico, neppure la menoma parte non offerisse a sollievo di quella donna ormai vecchia, che lo aveva allevato, la quale, rimasta vedova, era caduta in una vera miseria.

«Essa, la buona Margherita, non domandava nulla, non si lamentava di nulla, non vedeva nulla che fosse menomamente da rimproverarsi nel suo diletto Gian-Luigi; ella aveva tanta fiducia in lui, che credeva alle sue fredde parole ed alle sue leggiere promesse. Accompagnammo il giovane ella ed io soli un tratto sino al crocicchio in cui la via comunale attraversava quella reale di X... per a Torino, dove la Diligenza doveva prenderlo e portarselo seco alla capitale.

«Gian-Luigi aspettava con impaziente inquietudine questa Diligenza. Quando essa sopraggiunse, ci salutò in fretta, strinse appena a me la mano e staccatosi dalle braccia della Margherita, che si era gettata perdutamente al suo collo, si arrampicò alla svelta sull'imperiale della carrozza, e questa riprese la sua corsa pesante, avvolgendosi in dense nuvole di polvere.

«La donna ed io stemmo là piantati a seguitar collo sguardo la Diligenza; e quel crudele che con essa da noi si allontanava, mai non fu che si [78] volgesse pure una volta a darci un ultimo sguardo, a fare un ultimo cenno di saluto.

«Seguitammo cogli occhi quel polveroso carrozzone, finchè lo potemmo scorgere. Che cosa pensava, che soffriva essa la povera Margherita? Confesso che io la dimenticai un istante, assorto nel mio particolar sentimento, che a quel punto era una segreta invidia per quel felice il quale andava a gettarsi nel vortice del mondo, vagheggiato ed abbellito dalla nostra fantasia. Io pure mi sentiva nell'animo una certa ambizione che mi pareva nobilissima — e forse era. Io pure orgogliosamente mi dicevo, e mi dico, che sotto le ossa del cranio la natura mi ha posto una forza da sopravanzare nel mondo, la forza del pensiero, una ricchezza di fosforo cerebrale da accendersi, consumarsi, ma gettar luce e brillare!.....

«Quando la Diligenza fu affatto fuor dell'arrivo dei nostri sguardi, richiamò la mia attenzione verso la misera donna uno scoppio di singhiozzi che ruppero dal suo petto. Finchè essa aveva visto Gian-Luigi, finchè ancora aveva potuto vedere quel legno che seco lo portava, il dolore della infelice si era contenuto, quasi la si era fatta una pietosa illusione che la tremenda verità non fosse. Ma ora tutto era sparito ai suoi occhi: ogni coraggio ed ogni forza l'abbandonavano ad un tratto. Le lagrime che prima le colavano silenziosamente giù delle guancie arrugate irruppero con violenza irrefrenabile dai suoi occhi.

«— Me misera! Esclamò essa coll'accento straziante della disperazione. Sola! sola! rimango sola!... E lo vedrò io ancora sulla terra?

«Si lasciò cadere sopra la sponda della stradicciuola che mena al villaggio, e là, seduta, reclinò il capo sulle ginocchia, piangendo amaramente.

«Io volli consolarla. Che la capitale non era in capo al mondo, le dissi: che Gian-Luigi sarebbe tornato a vederla, che trattandosi della ventura di lui, ella doveva rassegnarsi a non averlo più seco di continuo.

«Ma essa, cui il dolore in quel punto faceva giustamente prevedere il futuro, mi rispose crollando il capo:

«— No, no, Gian-Luigi non tornerà più a vedermi. Egli mi dimenticherà del tutto..... forse mi ha già dimenticata fin d'adesso..... Non lo avrò a chiudermi gli occhi quando morrò; e chi sa se potrò ancora vederlo più sulla terra!

«Si tirò sugli occhi il fazzoletto di cotone onde si copriva il capo e mi pregò la lasciassi stare colà; aver ella bisogno di essere sola, la mia vista in quel momento esserle di pena. Mi allontanai e venni solo al villaggio, stranamente commosso nell'animo. Invidiavo il mio compagno d'essere partito per quella terra dei sogni, verso cui sì acceso pure si volgeva il mio segreto desio; lo invidiavo ancora di più per essere egli amato di quella guisa, come lo amava Margherita. Se io fossi stato amato così oh certo non sarei partito, mi dicevo; ma aimè! nessuno mi amava!...

«L'idea di fuggire dal villaggio, di correr sulle traccie di Gian-Luigi, di affrontare ancor io l'incognita del destino mi venne allora subitamente e per la prima volta; e bene spesso doveva tornarmi e sempre più imperiosa, di poi. Ma come porla in esecuzione? Quali mezzi avevo? E poi, se non l'affetto, il timore mi legava a quelli che mi avevano allevato, ai quali divenuti vecchi ero oramai necessario. Non avevo tanto coraggio da abbandonarli: mi pareva che la mano adunca della Giovanna e lo staffile di Menico mi avrebbero sopraggiunto dapertutto.

«Passai un anno più tormentoso e più arrabbiato degli altri. Anche la mia benigna visione pareva mi avesse abbandonato. In capo ad un anno fui libero di me, ma in virtù d'una tremenda catastrofe.»

CAPITOLO XVII.

Maurilio sospese un istante la sua narrazione, esitò visibilmente, le sue guancie pallide e smunte s'infuocarono ad un tratto di cupo rossore; prese fra le sue le mani di Giovanni, e stringendogliele con forza, curvandosi su di lui, riprese a dire con isforzo ed a voce sommessa:

— Poichè ti dico tutto in quest'ora di espansione dell'anima mia, ti dirò pure cosa che ho con infinita cura nascosta a tutti quelli che potei, ed a voi miei amici più studiosamente ancora che ad altri, e cui potete accusarmi l'avervi nascosta. Ma tu, che mi ami più di tutti, tu avrai compassione della mia vergogna, e perdonerai alla mia debolezza.

— Parla, parla: disse Giovanni con molto affetto, corrispondendo alla stretta convulsa delle mani di Maurilio.

— Odimi adunque, esclamò questi, levando il capo ed agitandolo, come per iscuoterne un peso che lo gravasse; e così continuò il suo racconto:

«Ti ho già detto e ripetuto che Menico e Giovanna erano le due creature più avare di questo mondo. A me misuravano con tanta parsimonia il pane che avevo continua compagna la fame; a se stessi rifiutavano ogni cosa che passasse il necessario, ed anco questo riducevano ai più stretti limiti che sia possibile immaginare; sola eccezione faceva Menico per sè, quando si abbandonava all'ebbrezza. Una mattina di autunno Menico ne tornava dalla città secondo l'usato, che codesto non aveva mai voluto smettere di far egli stesso, per nulla fidandosi di me, quando sull'orlo della strada trovò un bel mucchietto di funghi che parevano mangerecci ed i più belli che fossero mai. Pareva che alcuno li avesse raccolti e poscia abbandonati [79] colà. Al vecchio avaro a cui piacevan di molto, parve una buona ventura l'impadronirsene e farsene una corpacciata senza costo di spesa. Li prese, e recatili seco a casa, la Giovanna li fece cuocere, e se li mangiarono tutti con una ghiotta esultanza che nulla più. A me, non occorre pur dirlo, non diedero nè offerirono neppure un briciolo di tanta leccornia.

«Venuta la sera, se ne andarono a dormire che erano i più soddisfatti che fossero sotto la cappa del cielo. Io mi arrampicai a mia volta sopra il tavolato nella tettoia, che era definitivamente diventato mio abituro, e sulla paglia degna del canile che ci avevo colà non tardai ad addormentarmi. Avevo allora diciassette anni, lavoravo tutto il giorno più forse che non permettessero le mie forze, onde non è a dire se il mio sonno fosse profondo, duro e tenace.

«Quella notte certo alcun rumore dovette succedere nella stanza ove dormivano i due vecchi; forse chiamarono aiuto: Menico si levò e venne fino in sulla soglia per cercarne, e là di sicuro mi avrà chiamato colla voce già arrangolata dalla morte: ma io non udii nulla.

«Mi svegliai al mattino e mi stupirono forte due cose: che il sole battesse già sopra il fumaiuolo del tetto della casa, il che indicava esser l'ora più tarda di quella in cui ero solito a levarmi, e che Menico, come tutti gli altri giorni, non m'avesse fatto saltar giù al primo romper dell'alba. Il cane di guardia mandava tratto tratto un lamentoso ululato. Discesi in tutta fretta e quando fui nel cortile un miserando spettacolo mi si offerse. Menico giaceva bocconi sulla soglia della casa, il corpo mezzo fuori e mezzo dentro, immobile, le mani contratte, livide, irrigidite; e il cane sdraiatosi presso alzava di quando in quando il capo insù e guaiva dolorosamente come avevo udito fare quello del medico sulla fossa del suo padrone.

«Accorsi di slancio verso il giacente, chiamandolo per nome. Non sapevo che cosa dirmi di codesto, non avevo neppur travista tuttavia la tremenda verità, ma le gambe mi tremavano. Mi chinai su di lui, sempre chiamandolo e stupito non rispondesse, ne toccai le carni, erano fredde d'un gelo che mi fece correre per le vene un brivido ripulsivo di ribrezzo, feci a sollevarlo e lo trovai pesante come una massa di piombo. Un alto spavento si impadronì di me; gettai un grido e lo lasciai ricadere; il mio sguardo sgomento corse nell'interno della stanzaccia; la Giovanna giaceva traverso il letto, livida ed immobile ancor essa, riversa, le braccia ed il capo abbandonati, con certi occhi spenti, immoti, ma spalancati che parevano fissarmi con minacciosa insistenza. Gettai un altro grido, e fuggii di là tremante, smarrito, dissennato, le chiome ritte per orrore sul capo. Mi fermarono domandandomi che fosse, avvisati dal mio aspetto medesimo che alcuna grave cosa era avvenuta. Io non sapeva che rispondere, non potevo che dire: — Menico e Giovanna.... là.... là.... andate a vedere.

«Si accorse, in pochi minuti tutto il villaggio era colà, e sapeva che i due vecchi erano morti repentinamente d'una inesplicabil morte. Ora ciascuno voleva spiegarsela questa morte. Il caso aveva voluto che due giorni prima Menico e Giovanna mi maltrattassero più ancora dell'usato; ed io, che pensavo sempre più a fuggirmi di là, mi ero lasciato scappar di bocca in presenza di qualcheduno le parole, che non sempre le cose sarebbero andate di quella guisa e che avrei ben saputo un giorno o l'altro sottrarmi a quella vita da galeotto. L'occhio morto della Giovanna che mi aveva odiato e che io certo non amava, mi faceva paura; non osavo entrare in quella stanza, e per quanto mi facessero e dicessero, non lo volli mai; la mia agitazione, il mio turbamento in faccia a quella morte inaspettata erano indicibili. L'idea mi era venuta, che alcune volte, nei momenti di mio maggior dolore, io aveva pur pensato alla mia liberazione per questo modo fatale e quasi con desiderio; ora innanzi a questo fatto tremendo quel pensiero mi pareva un delitto ed io doveva aver di certo sul volto l'impronta del rimorso. Cominciai ad accorgermi che mi si guardava con sospetto, che le donne susurravano piano fra di loro, accennando verso di me, che se ne allontanavano con ribrezzo. Non capivo ancora; ma me ne sentivo inquieto. Venne la giustizia. Esaminò, interrogò anche me — che risposi il più impacciatamente e confusamente che fosse possibile. Il giudice poco accorto e poco istrutto del suo dovere eziandio, non fece procedere ad autopsia dei cadaveri nè ad altro; diede ordine i morti si seppellissero, ed iniziò contro di me processo per omicidio.

«Tutto mi accusava: le parole che avevo detto, il mio contegno, lo sgomento che provai all'udire la taccia appostami, l'antipatia stessa che ispiravano altrui la mia condizione disprezzata, la mia indole scontrosa, il mio umore superbo e vago di solitudine che mi faceva fuggir tutti e rispondere con asprezza all'oltraggio. Tutti mi credettero reo, da Don Venanzio in fuori, al quale protestai della mia innocenza, ma non seppi dar ragione del fatto.

«La casa e le sostanze di Menico e di Giovanna cadevano in mano a certi loro congiunti, i quali erano troppo lieti di succedere e di potersi sbarazzare di me senza aggravio nessuno; e quindi erano i più furibondi nell'accusarmi.

«Io fui arrestato, ammanettato e condotto in carcere a Torino. Quando n'ero uscito, infante, era d'inverno, e mi recava sobbalzando il carro [80] d'un lattaio; ora, dopo diciasette anni, rientravo in questa città, di sera, in una fosca giornata di autunno, sopra il carro d'un conduttore di ghiaia su cui mi si era fatto salire, perchè l'emozione e la vergogna mi avevan tolta ogni forza da poter camminare, scortato da due carabinieri.

«Ero così abbattuto dell'animo che non sapevo guari come e se vivessi. Quasi non avevo più coscienza di me; direi che non sentivo più nell'interno l'anima mia. Solo un gran sentimento di vergogna mi dominava. Nessuno mi conosceva in questa città a cui mi accostavo; nessuno sapeva pur che esistessi fra quella gente in mezzo a cui passavo; e parevami che sopra ogni parete di quelle case, sopra ogni volto di quelle persone leggessi la mia condanna, il mio disprezzo.

«La notte era già scura quando giungemmo. I lampioni accesi mi parevano macchie sanguigne nella tenebra notturna; sentivo un'aria soffocata come sotto una volta bassa ed angusta; il rumore delle strade mi suonava doloroso nel cervello, provai ciò che descrive Dante aver provato nell'affacciarsi alla «valle dolorosa.» Il carro si fermò in una viuzza stretta e scura; fui fatto discendere, mi si fece passare per una porta, poi per diversi anditi e salire diverse scale; dinanzi e di dietro a me mi veniva accompagnando il rumore fastidioso di chiavi agitate, di serrature che si aprivano e si richiudevano ad ogni volta, di catenacci che si toglievano e rimettevano con fracasso, di porte pesanti che cigolavano sui loro cardini, schiudendo il passo, e battevano con cupo rumore risserrandosi.

«Io andava guidato da un gruppo di persone che non sapevo quali, e neppur quante fossero. Pensandoci poi mi venne ricordato che mi avevan fatto fermare in una stanzuccia, innanzi ad un tavolino a cui sedeva un uomo, che mi fu chiesto il mio nome cui non seppi nemmeno balbettare, che i carabinieri avendo risposto per me, quando pronunziarono la parola trovatello, quest'uomo seduto mi saettò in volto uno sguardo incisivo, ironico, insultante, e pronunziò un'esclamazione che pareva dire: — Me lo aspettavo; ecco un abitatore predestinato di questi luoghi; che finalmente fui spinto in uno stanzone appena se illuminato da una lucernetta appiccata in alto alla parete di faccia all'uscio e una voce mi disse: — Guardate d'aggiustarvi lì dentro: per questa notte starete senza pagliericcio che non abbiamo tempo da procurarvelo, ma alla bella meglio, o qua o colà, fate di dormire.

«E la porta pesante si chiuse alle mie spalle con un lugubre suono.

«Io rimasi là dove m'avevano spinto, immobile, coi piedi piantati su quel quadrello dove si trovavano. La lucernetta fumosa, con un lucignolo che era un carbone, rischiarava a stento il locale. Vedevo delle forme che non sapevo ben discernere a tutta prima, stese in linea ordinata appiè delle due pareti laterali. Un'afa gravosa, piena di acri vapori e di cattivi odori, qual può esser quella d'un luogo chiuso in cui gli aliti impuri di troppa gente raccoltavi, mi serrava alla gola e mi rendeva difficile e penoso il rifiato, a me che ero avvezzo alle pure aure dell'aperta campagna. Un romore di voci rauche discorrenti con accompagnatura di violente bestemmie sorgeva di qua e di là, e frammischiatovi il russare profondo di qualche addormentato.

«Alcuni dei prigionieri all'udire aperto l'uscio s'erano levati a sedere sullo strammazzo su cui giacevano ed avevano guardato curiosamente chi fosse il nuovo compagno loro dato a quel punto.

«Ben mi era apparso che parole di scherno e di schifosa fratellanza, oltraggiosi saluti di buona venuta mi accogliessero, ma la mia mente confusa e smarrita non comprendeva bene. I più, squadratomi un poco, s'eran tornati a risdraiare, non curandosi altrimenti dei fatti miei; alcuni seguitavano a guardarmi con curiosa insistenza, ed io vedeva i loro occhi accesi o grifagni a me rivolti splendere nello scuriccio di quello stanzone d'una luce sinistra e maligna.

«Dopo alquanto tempo che io era colà, dato giù alquanto il tumulto che aveva luogo nella mia testa, potei udire questo dialogo:

«— Gli è un poverino d'un piluccaborse per sicuro, quel cazzatello intormentito: diceva una voce grossa e rauca non molto da me lontana.

«— Non ho mai visto quel muso lì, io che conosco dal primo all'ultimo tutti quelli che lavorano a Torino, soggiungeva un'altra voce esile e sottile che pareva di donna, eccetto che tratto tratto usciva in qualche nota da basso profondo. Di certo quel ragazzo non ha mai posto piede nella bettola di Pelone.

«— È vestito come un paesano del contado.

«— Sta a vedere che gli è un ladro di campagna.

«— Mi ha tutta l'aria d'un rimminchionito.

«— Bisognerà farlo cantare... A me, a me che gli vo torre il filo della camicia.

«Così disse quel della voce esile e dirizzando poscia il capo verso di me, fe' con esso un cenno di richiamo:

«— Ohei, martuffino, figliuolo d'una versiera, dà un po' retta qui.

«Io lo guardai: gli occhi piccoli, irrequieti, malignamente vivaci di colui che mi parlava — un omicciattolo mingherlino, collo stampo di tutti i vizi sulla faccia degradata e i bernoccoli di tutte le più brutte passioni sul cranio raso di capelli — quegli occhi mi fecero rabbrividire. Chinai lo sguardo innanzi al lume sinistro di quegli occhietti e mi sentii tutto invaso da una penosa [81] suggezione, da un profondo timore, da un insuperabile ribrezzo.

«— Sei tu muto o scemo, caro il mio bamboccio da forca? Riprese quel cotale. Vieni un po' qua che facciamo conoscenza, poichè siamo alloggiati alla medesima osteria.

«Io nè mi mossi, nè feci motto.

«Egli allora si levò a sedere.

«— Oh oh! esclamò: gli è un sordo e muto, nato e sputato: ma sta a vedere, Stracciaferro, che io fo il miracolo di guarirlo in un momento.

«L'omaccione della voce grossa e rauca si pose supino sul suo stramazzo, colle mani intrecciate sorreggendosi di dietro la testa, e disse ridendo sguaiatamente.

«— Vediamo un po' i tuoi miracoli, Graffigna.

«Quest'ultimo tornò a sdraiarsi, poscia strisciando come una serpe sul pavimento ed allungandosi in modo straordinario delle membra, mi sparò in uno stinco a tutta forza un calcio col suo piede armato d'un pesante zoccolo di legno, munito di chiodi di ferro.

«Il dolore che ne provai fu più forte d'ogni altro sentimento, più forte del mio orgoglio e della mia volontà. Diedi un grido, le gambe mi mancarono sotto, e caddi per terra là dove mi trovavo. Credetti per sicuro avere lo stinco spezzato. Le lagrime mi vennero agli occhi e non potei avere più tanta forza in quel momento da ricacciarle indietro o da nasconderle.

«L'omaccione sghignazzava a gola spalancata, come della più piacevole facezia che avesse visto mai; l'acuto mio grido aveva svegliato qualche dormente, il quale brontolava del sonno interrotto e mi mandava ai cento mila diavoli: Graffigna esclamava in tono trionfante colla sua voce in falsetto.

«— Ve', se l'ho saputo toccar nel debole!

«Quello scellerato, trascinandosi sempre per terra a guisa di rettile, mi si venne accostando. Sentivo una paura ed un abborrimento da non dire. Avrei dato non so che cosa per potermene allontanare. Provai ad alzarmi, e il dolore non me lo consentì.

«— Là là: diss'egli: non muoverti, non agitarti, sta buono, bell'amorino da galera. Questo non è altro che un piccolo ammonimento, che quando Graffigna ci parla bisogna rispondere. L'hai capito eh?

«Mi pose una mano sull'avambraccio; e quel contatto mi fece fremere.

«— Non toccatemi...... lasciatemi stare: gridai con vero terrore tirandomi in là più che potessi.

«Ed egli trattenendomi:

«— Sta buono che non ti voglio mica mangiare; se tu fossi un pezzo di prosciutto... meno male!

«Mi cacciò impudentemente le mani addosso e mi palpò con isfacciato cinismo.

«— Sei magro come un'acciuga. Che cosa faremo di te qui dentro? Sei buono nè da questo nè da quello.

«Dirti il ribrezzo che provavo è impossibile, eppure stavo là passivamente sotto lo schifoso toccare di quelle luride mani, incapace com'ero diventato assolutamente di muovermi.

«— I birri, t'avranno frugato ben bene, continuava Graffigna, e non t'avranno lasciato neppure la croce d'un centesimo, non è vero? vediamo un po'. (E mi frugava con una destrezza insuperabile). Se lo dicevo! Asciutto come un fiasco che è passato per le mani di Stracciaferro. E tu, povero coso, non avrai saputo mettere in salvo tanto da pagarci la buona venuta... E qui dentro, in un modo o nell'altro bisogna pagarla; e se non hai denaro la pagherai colle opere... Questo te lo dico io.

«Ed egli mi diceva il vero pur troppo. Io divenni il servo di tutti que' tristi e ad ogni più umiliante cosa, ad ogni loro capriccio mi obbligarono con sevizie di tutta fatta, piacendosi di quando in quando a tormentarmi per iniquo diletto da occupar loro la noia.

«Non ti dirò tutto quello che mi avvenisse in quella bolgia d'inferno. Ti basti sapere che d'ogni fatta orrori io ne udii narrati e d'ogni sorta sconcezze ne vidi; io cui la vita della campagna in mezzo alla natura aveva almeno conservato sino allora incorrotto nella mia pudica ignoranza.

«Credi pure: una delle prime riforme che occorrano nel nostro ordinamento civile si è quest'essa delle carceri. L'imprigionamento preventivo, in massima, può essere talvolta una solenne ingiustizia che punisca crudelissimamente un innocente, com'era il mio caso; in fatto poi, applicato com'esso è appo noi, è una scuola infame di corruzione e di delitti per chi o è puro tuttavia, dopo un primo fallo altresì potrebbe ancora esser facilmente ridotto alla buona strada.

«Pensa al mio caso ed alle mie condizioni, e non potrai a meno che rabbrividire. Giovane appena di diciasette anni, mentre non avevo ancora nemmanco in me l'idea del delitto, e l'uomo colpito dalle leggi mi appariva come un mostro quasi fuori della natura, ero gettato in mezzo ad una frotta di scellerati che dei loro delitti si compiacevano e menavano vanto, ed avevano dai compagni misurata la stima appunto dalla audacia e dalla grandezza della colpa commessa.

«A ritenere dal male giova moltissimo, forse più che ogni altra cosa, il pensiero ch'esso sia ripugnante alla nostra natura, che il delitto non sia il retaggio che di certi esseri predestinati da noi ben differenti, che fra noi ed i colpevoli corra [82] una gran distanza difficilissima a superarsi. Più state lontani dallo spettacolo e dalla conoscenza del male, e più sarà in voi radicata questa salutare idea. Non crederete possibile il far male, perchè non avrete l'abitudine di pensarci e conserverete per esso tutto l'orrore che vi hanno inspirato od avete da voi medesimi concepito. Ma prendete un povero diavolo cui la giovinezza faccia più impressionabile alle cose circostanti e cacciatelo in quella trista atmosfera di scelleratezze; dapprima il suo orrore sarà cresciuto a dismisura, e soffrirà moralmente, come parola umana non può esprimere; poscia, del pari che il corpo ai patimenti ed alle intemperie fisiche, la sua anima s'incallirà, per così dire, a poco a poco a quello sciagurato ambiente del male; la mostruosità del delitto, che gli pareva impossibile ad allignare nel suo animo, finirà per apparirgli la cosa più naturale del mondo e se ne sentirà entro se stesso i germi; se quell'infelice condizione perduri, giungerà a credere portato della natura umana il delitto, stoltezza o pregiudizio l'onestà e la virtù.

«Codesto press'a poco provai io stesso, e se non caddi fino a quest'ultimo grado, lo debbo ed al buon don Venanzio, che tutto s'adoperò per ottenere la mia liberazione, e più ancora all'intervento pietoso del mio buono spirito protettore.

«I due principali in quella congrega di scellerati erano i due che ho già nominati: Graffigna e Stracciaferro. Erano essi che più mi tormentavano e più mi tenevano seco. M'inspiravano odio e paura: il primo peggio che il secondo, quantunque Stracciaferro fosse il più violento e in apparenza anche il più feroce. Ma non so quale ignoto sentimento, che anche oggidì non so come spiegare, mi faceva desioso di conoscere, di esaminare quella rozza, selvaggia, barbara natura.

«Un vincolo fortissimo di antica complicità nei delitti si vedeva che legava questi due uomini in un'infame amicizia; ma essi lo dissimulavano. Graffigna, che era quello dei due il quale aveva la parola sciolta, raccontava ai compagni, che ammiravano, i fasti sciagurati della loro vita; e mentre l'uditorio applaudiva, Stracciaferro, giacendo quasi sempre disteso nella sua lenta mole, si contentava di sorridere con una specie di orgoglio bestiale.

«Fra tutti quei delitti ce n'era uno che Stracciaferro non voleva udire ricordato. Graffigna aveva fatto cenno di esso una volta, e il suo complice, divenuto pallido come un cencio, esclamò con ira insieme e quasi spavento.

«— No, no, non quello, non quello.

«Bastava codesto perchè grande fosse appunto in tutti la curiosità di saperlo, e ti confesso che ancor io partecipava di questa malsana curiosità.

«Eravamo in principio di novembre, il giorno tristissimo dei morti. Da qualche giorno Stracciaferro era tristo, cupo, taciturno; Graffigna sorrideva e crollava le spalle guardandolo con molta compassione. Quando s'interrogava Stracciaferro che cosa avesse, egli non rispondeva che mediante un grugnito con cui voleva dire: lasciatemi tranquillo; quando se ne chiedeva a Graffigna, egli diceva sottovoce, perchè il suo complice non udisse: — Siamo ne' suoi giorni neri; parecchi anni sono a questi dì ci capitò quel certo affare ch'ei non vuol mai gli si ricordi, e il pover uomo ha la debolezza di sentire qualche cosa a rosicchiarlo nello stomaco.

«La notte dei morti, io che dormiva non lontano da lui, udii Stracciaferro gemere, lamentarsi nel sonno, lo vidi agitarsi e ad un punto levarsi di scatto a sedere sul giaciglio come desto improvviso, esclamando:

«— Ah! la Gegia! la Gegia!

«Tutto taceva, eccetto il profondo russare di alcuni addormentati; il lumicino appiccato alla parete mandava una fioca luce nell'androne; a quello incerto chiarore mi parve scorgere livide per paura le guancie di quell'omaccione ed irte sulla sua testa le chiome. Stette egli un poco così, quasi smemorato, guardando attorno con occhi sbarrati, poi si passò la mano sulla fronte due o tre volte, come per cancellarne un tenace pensiero, e gettando un profondo sospiro tornò a sdraiarsi.

«Il domattina Stracciaferro era pallido ed aveva ancora contratti i lineamenti. Quasi non disse verbo di tutto il giorno. Mi guardai bene dal lasciarmi sfuggire un sol motto che potesse fargli supporre aver io visto il suo turbamento notturno.

«Graffigna cercò motteggiarlo; ma, senza neppur disserrare le labbra, Stracciaferro lo guardò di tal guisa che quell'altro non ebbe più ardire di aggiunger parola. Verso sera alcuni dei prigionieri avendo cominciato a cantare, secondo il solito, una delle luride loro canzonaccie, Stracciaferro con voce tonante impose loro silenzio, e tutti si tacquero, tanto era il predominio che gli avevano dato la sua superiorità di forza muscolare e di colpe.

«— Non c'è che un modo per addomesticare quest'orso: disse Graffigna ristrettosi cogli altri prigionieri a consiglio; ed è di ubbriacarlo d'acquavite. Il carceriere P....., se noi gli lasciamo scorrere qualche bianchetto, ci fornirà una famosa toppetta di branda, e con ciò noi otterremo l'intento.

«Così fu fatto. Quando si ebbe l'acquarzente, dapprima Stracciaferro rifiutò di bere; poi cedendo ad un tratto alle sollecitazioni di Graffigna, con un moto brusco e quasi rapace afferrò la fiaschetta e recatala alle labbra, ne tracannò giù come se fosse acqua di fonte. Di botto i suoi [83] occhi brillarono, un cupo rossore salì ai pomelli delle sue guancie, e il petto largo e potente gli si sollevò in un respiro ampio e profondo.

«— Neh, che così la va meglio? Gli disse, con tono insinuante Graffigna.

«— Sì, la va meglio. Questo è il farmaco per ogni melanconia.

«E rimettendosi il fiasco alla bocca non lo trasse giù più finchè non l'ebbe vuotato del tutto. Allora guardò intorno roteando gli occhi, con aspetto tra scemo e tra stupito; poi ruppe in una gran risata, scaraventò contro la parete di prospetto la bottiglia vuota che ne andò in mille frantumi, e cadde indietro lungo e disteso sullo strammazzo dov'era seduto, come fulminato.

«Alcuni s'appressarono quasi per soccorrerlo.

«— Lasciatelo, lasciatelo: disse Graffigna. E' fa sempre così; ora sta un poco a covarsi quel boccone di sbornia, e poi salterà su collo scilinguagnolo sciolto che lo udrete a contare vita e miracoli.

«Avvenne in questo modo appunto. Stracciaferro tornò a sedere sul suo pagliericcio. Aveva la faccia di un rosso cupo, color di mattone, gli occhi infiammati, le labbra turgide, allividite; pareva un infermo di trasporto cerebrale nel delirio della febbre. Tese la mano a Graffigna, e questi avendogli data la sua, glie la strinse con tal forza che il mingherlino fece una smorfia orribile e gettò un grido ed una bestemmia.

«— Alla croce di Dio, pendaglio da forca, tu mi stroppii.

«— Grazie, Graffigna: diceva Stracciaferro con una concitazione straordinaria: grazie! Sì questo mi fa bene.... forse mi uccide, ma che importa?... Questo mi guarisce dalla mia sciocca debolezza.

«Guardò intorno entro il viso dei suoi ascoltatori, un per uno, come per vedere se alcuno volesse contraddirlo.

«— Sì, sciocca debolezza: ripetè insistendo. Sono un uomo, e un fiero uomo in tutto, me ne vanto; ma in una cosa sola sono un bambino, sono una femminetta. Lo credereste? In questi giorni ho qui dentro qualche cosa che mi rode, che mi leva ogni forza, che non mi lascia dormire..... Ha da dirsi rimorso?.... Chiamatelo come volete.... È un maledetto tormento, ve lo assicuro.... Sono già diciasette anni che a questa stagione soffro di codesto male. Che cosa non darei perchè non venisse mai il mese di novembre, e sopratutto il giorno dei morti! Ne ho fatte d'ogni colore, parecchi ho visto morire sotto i miei colpi. Nè il sangue mi spaventa, nè il rantolo dell'agonia d'un uomo. Se penso a questo od a quello che ho mandato all'altro mondo, non mi fa nè caldo, nè freddo, non perdo l'appetito e la notte non dormo meno saporitamente per ciò; e invece quando il pensiero mi viene d'una donna, d'una debole donna, giovane e povera, ecco che gli è come se la vedessi — proprio lei — sorgere, e starmi dinanzi, e tendere verso di me le sue bianche braccia convulse a strapparmi dalle mani suo figlio, e vedo, come allora, le chiome scarmigliate, il nudo seno e gli occhi furenti...... Chi ha visto mai una madre che difenda suo figlio? Una leonessa non può essere più fiera.... L'ho sognata questa notte. Mi si avventava incontro come allora con morsi e graffiature; mi vomitava improperii e maledizioni; invano la respingevo; mi si attaccava con unghie di ferro, e il tempo stringeva; avevo promesso, avevo già preso parte del denaro, aspettavo di averne il resto; Graffigna mi sollecitava; Graffigna mi aveva fatto bere come stassera; io gridava alla donna: lasciami andare o succederà qualche precipizio; ella più ostinata che mai gridava: rendimi mio figlio, gridava accorruomo. Era notte; mi ricordo che le sue grida acute risuonavano pel silenzio di quella città in cui ero straniero come i rintocchi d'una campana a stormo. La gente l'avrebbe udita di sicuro. Sarebbero accorsi; a momenti potevano esser lì. Come salvarmi? Non ero pratico di Milano..... poichè gli è colà che eravamo.... fa presto, mi diceva Graffigna, il quale mi tolse il bambino di mano; fa presto..... Ma come? Pari ad un serpente la Gegia mi si avvinghiava intorno.... In che modo avvenne che mi trovassi in mano un coltello? Fu il demonio che me lo cacciò fra le dita, o fosti tu, Graffigna.... Bisognava fuggire.... Quel seno bianco era lì davanti a me. Gli piantai dentro la lama; il sangue mi zampillò caldo nel viso, lo vidi colar rosso rosso su quelle carni; la Gegia agitò le braccia, rantolò pur ripetendo ancora quelle parole che mi rimasero stampate come un marchio di fuoco nel cervello: rendimi mio figlio; e cadde! Graffigna mi afferrò, mi trasse con sè; fuggimmo portando via la preda — quell'infelice bambino.... Ebbene questa notte l'ho sognata tal quale. Boccheggiante nel suo sangue, quella misera donna venne ancora a ripetermi: rendimi mio figlio!

«Curvò il capo e si tacque. Graffigna prese egli a dire, con quella sua voce in falsetto che mi parve allora più acre e stonata che mai:

«— Fu la cosa più necessaria del mondo, e non si poteva fare altrimenti. Un cotale — gli è un signore di qui, e potrei anche dirne il nome, se non fossi un uomo prudente — un cotale adunque, con cui avevo per altri precedenti affari piuttosto strette relazioni, mi dice un bel giorno, sono appunto diciasette anni: «— Mio caro Graffigna, ho bisogno che tu mi procuri un bambino maschio che abbia circa due anni di età, di cui padre e madre non si dieno più pensiero e non cerchino di saper più nulla mai; ho bisogno che [84] nessuno al mondo sappia mai che io t'abbia data questa commissione e che tu l'hai eseguita. Se tu fai a modo avrai due mila lire.» Cospettone! Capirete anche voi che due mila lire non sono una manata di giuggiole. State tranquillo, messer Na... (Qui Graffigna s'interruppe e non disse intiero il nome). State tranquillo, insomma, gli dissi (così ripigliò) che la cosa è bella e fatta. Sapevo che Stracciaferro era in relazione con una tale che aveva dato alla luce un bambino, e pensai tosto che quello era il fatto nostro. Cercai subito di lui e gli contai la faccenda. Questo bravo uomo dapprima aveva degli scrupoli; ma poi all'udire delle due migliaia di lire cominciò a piegar l'orecchio. C'erano però due difficoltà. Quella donna s'era traslocata a Milano per seguitarvi una signora al cui servizio la si trovava, e quantunque non fosse più in quella casa, aveva però continuato a far dimora colà. Inoltre il bambino di lei non aveva che pochi mesi e non era ancora slattato. Ma io sono fatto per isciogliere le difficoltà. La prima era anzi un vantaggio. Avrei persuaso il nostro mandante come fosse molto meglio per la segretezza della cosa andare a prendere il fantoccio lontano, e che occorreva soltanto per la spesa maggiore un aumento della somma di compenso: quanto all'età, qualche mese più, qualche mese meno, pensavo di potergliela accoccare lo stesso a chi ci dava la commissione. E infatti quel signore fu lieto molto della mia proposta di prendere il bambino in una città lontana, e crebbe sino alle tre migliaia di lire, cotanto gl'interessava la cosa. Partimmo e andammo dritto da quella donna, sperando che spiegandole la cosa, ella si sarebbe acconciata volontieri per un cinquecento franchi a lasciarci il marmocchio, che non erale altro che un peso. Sì, va a far capire la ragione ad una testa matta di donna che si incoccia a dir no! Nè preghiere, nè minaccie ci valsero. Avevamo già intascato un migliaio di lire, e non è gente del nostro calibro che manca alla parola. Dissi allora a Stracciaferro di arraffare il naccherino e filare. Fu allora che successe il casa del diavolo. Il bambino fu portato via, e la donna andò all'inferno.....

«— Taci: urlò Stracciaferro: non parlar male di lei..... Povera Gegia! Povero bambino!.... Oh! che ne sarà stato di lui?

«— Peuh! Questo non era più affar nostro. Consegnato il marmocchio e presi i danari, che ne importava del resto?

«— A te! riprendeva Stracciaferro; ma io!... quello era mio figlio!

«Non puoi credere l'impressione che quel racconto fece su di me. Erano diciasette anni che quel delitto era successo. Quel bambino aveva dunque press'a poco la mia età; e mi domandavo, come faceva il feroce mio compagno di carcere, che cosa mai poteva essere avvenuto di lui, che vita, che sorte fossero le sue. Figliolo d'un tal padre! Non era ella una disgrazia peggiore che quella di non aver padre nessuno? Ma almeno egli non sapeva questa sua disavventura, e l'uomo che aveva fattolo rubare alle carezze della madre gli aveva forse creata una esistenza onorata e tranquilla. Pensavo a quella povera madre, e pareva anche a me udire le ultime parole arrangolate, pronunziate dalla morente: rendimi mio figlio!

«E di botto mi veniva alla mente il pensiero di quell'aerea forma che mi appariva di quando in quando, e ch'io m'era avvezzo a chiamar mia madre. Ella pure forse era stata da me disgiunta; e come? e chi sa con quanto dolore?

«Quegli che più di proposito aveva assunto l'impresa di volgermi decisivamente al male, era Graffigna. Si piaceva ad istillarmi ogni sorta di infami insegnamenti: come si concepiscono, si meditano, si preparano, si compiono i delitti. Era maestro in quest'arte sciagurata. Niuno meglio di lui sapeva far nascere le occasioni da un lato e fare sparir gl'indizi del fatto dall'altro. Aveva ridotto la cosa ad un giuoco di combinazioni che presentava la sua attrattiva come ogni lotta in cui l'attività e l'acutezza della mente s'impiegano più che le forze del corpo.

«A me poi, col serrato argomentare d'una logica inesorabile, voleva persuadere che ad ogni costo io doveva essere e sarei stato uno dei loro. Secondo lui, tutti gli uomini nascevano colle medesime disposizioni press'a poco; a gettarli di di qua o di là di quella linea ideale che separa nel mondo quelli che si chiamano galantuomini da quelli che si chiamano furfanti e che sono perseguitati dal codice penale, non è altro che il particolare presentarsi delle circostanze; in una sola parola, il caso. Per me questo giudice supremo aveva già pronunziato irrevocabilmente, ed avevo da appartenere di necessità alla schiera dei birbanti. Fossi non fossi reo di quel primo delitto, non montava nulla. Avevo assaggiato del carcere, e questo bastava per imprimermi il carattere indelebile d'individuo pericoloso alla società e condannato al bando dai cosidetti onesti. Uscito di là non avrei trovato più nè una mano che mi si tendesse, nè un pezzo di pane in compenso del mio lavoro; la sedicente virtù mi avrebbe chiuso la porta in faccia e lasciatomi dappertutto sul selciato a morir di fame, avrei dovuto riparare ad ogni modo nelle file dei reietti, e tanto valeva che di subito m'imbrancassi con loro. Ero povero, solo al mondo e colla nota di bastardo. La sorte mi aveva gettato in mezzo al genere umano precisamente apposta per accrescere d'una recluta l'esercito dei ribelli alla tirannia sociale: quello era il mio destino; uomo nessuno si può sottrarre [85] al suo destino, ed io, avessi fatto qualunque cosa, avrei dovuto pur sempre soggiacere ai decreti di esso.

«Le parole di quell'uomo mi confondevano la mente; sentivo con terrore in me l'impotenza di rispondere alle sue ragioni, di respingere l'influsso che m'invadeva del suo dire. Delle volte mi nasceva la tentazione di esclamare: ebben sì, sarò dei vostri; e tenuissimo era l'ostacolo di ripugnanza interiore che tuttavia me ne tratteneva. Spesso mi sentivo agitato come da una battaglia che si combattesse nell'animo mio: poi ad un tratto ero lasso e fastidito, e parevami che, presa una volta la decisione di essere ciò che erano tutti coloro che mi attorniavano, sarei stato più tranquillo. Anche la ingiustizia del trattamento che soffrivo, io innocente, mi destava talora dei veri parossismi di sdegno. Provavo un odio accanito contro chi mi aveva procurato codesto immeritato supplizio; e Graffigna mi apprendeva che questo cotale era tutta la società, era l'ordinamento delle cose fatto apposta per rassicurare tutti quelli che possedevano e che si chiamavano onesti, ed opprimere coloro che non avevano nulla e che i primi avevano battezzato per mariuoli.

«Te lo confesso schiettamente: stavo per cedere. Mi sentivo male. Il passare così ad un tratto dalla vita aperta dei campi all'aria impura di quel luogo chiuso dove si respirava in tanti: la passione stessa della mia anima combattuta, la rabbia, il dolore, la vergogna avevano scosso la mia salute già cagionevole fin dall'infanzia. Da più giorni mi ricorreva periodicamente una febbre che ad ogni volta si faceva più forte. Non dicevo nulla ma mi sentivo consumare la vita. Non potevo mangiar più neppure un boccone; avevo una sete inestinguibile e non avrei fatto che bere. I miei compagni che mangiavano la mia porzione si guardavan bene dal dirmi ammalato ai custodi: io nè voleva, nè osava parlare; nè pure ci pensavo. Quando l'accesso mi prendeva, avevo delle trafitture qui nel capo che mi pareva mi piantassero delle sottili lame arroventate traverso l'osso del cranio ed alle tempia a penetrarmi entro il cervello. Delle cose che mi attorniavano e di me stesso e del mio stato, avevo e non avevo coscienza. Le impressioni perduravano, ma non erano più esatte. I rumori e la vista degli oggetti a volta a volta mi tornavano velati, come lontani, come traverso ad una nebbia, oppure mi rispiccavano più vivi, più forti, destandomi una sensibilità quasi dolorosa. Perdevo in certi momenti la idea del tempo; tutto mi si confondeva in un tratto il mio passato a farmisi presente, e vivere in un attimo una serie d'anni; poscia quella confusione svaniva a lasciar sorgere più netta l'idea dello stato in cui mi trovavo; ed allora mi sentivo veramente a soffrire.

«In uno di questi accessi tutti i discorsi tenutimi da Graffigna mi sfilarono innanzi come incarnati in certe figure di persone che mi sembrava mi sorridessero, mi ammiccassero, mi chiamassero a sè passando. Ciascuno aveva la sua fisionomia propria, e mi guardavano molto onestamente, con aria d'interesse e con faccia d'amici. Li salutavo quasi con affezione, e siccome essi parevano invitarmi ad andar con essi loro, io mi drizzai sul mio giaciglio, pronto a seguirli e recarmi dal demonio tentatore a dirgli: sono cosa vostra.

«Ma ecco, di colpo, appena levatomi a sedere, tutta quella fantasmagoria sparire. D'improvviso io mi sentii libero il capo e chiara la mente; parvemi che un fresco alito mi ventasse sulla fronte a calmare il tumulto del mio sangue: provai un senso subitaneo di sollievo e di benessere; sentii che riprendevo per l'affatto il possesso della mia volontà e della mia intelligenza; mi trovai — te lo assicuro — nello stato medesimo di lucidità in cui sono al presente.

«Anche allora era sull'imbrunire. Il lume non era ancora stato acceso ed un'oscurità quasi piena ottenebrava il camerone. Innanzi a me, dritta ai piedi del mio pagliericcio, diffondendo intorno a sè una specie di debolissimo chiarore, stava quella forma incorporea di donna, stava lo spirito che da qualche tempo già non mi era più apparso. Benchè sempre incerte ne vedessi le sembianze, parvemi tuttavia che in esse fossevi una espressione di mestizia e di rimprovero. Io tesi le mani verso di lei e mandai una esclamazione. Ella si chinò allora verso di me; sembrommi che qualche parola pronunziasse, ch'io pure non potei afferrare; si volse alla parte dov'erano nell'ombra Graffigna e Stracciaferro e scosse la testa e fece un atto imperiosamente negativo colle mani, come per dirmi a loro non m'accostassi; poi si pose la destra sul petto, quasi volendo indicarmi, son io che te lo comando, io che te ne prego, e disparve.

«Parvemi che il buio della stanza si facesse maggiore. Fui per chiedere ai miei vicini se nulla avessero visto; ma poi questa mi parve quasi una profanazione e mi tacqui. Mi lasciai ricadere sul mio giaciglio, tutto riconfortato dell'anima. Questa benefica apparizione aveva fugate quelle perniciose della febbre: i sofismi di Graffigna erano vinti dalla sola presenza manifestatasi del mio buono spirito. Stetti più cheto, con una nuova tranquillità quale non avevo più da tempo gustata, e poco stante mi addormentai.

«Il domani ecco aprirsi la porta del camerone, ed il custode chiamarmi per nome.

«— Venite fuori, che c'è gente che vuol parlarvi.

«Appena potevo reggermi in piedi. Mi trascinai a stento dietro il carceriere fino in una stanza a piano terreno.

[86] «Colà Don Venanzio commosso mi tendeva le braccia e sclamava colle lagrime agli occhi:

«— Maurilio, tu sei libero.

«Gettai un grido di gioia e l'emozione fu tanta che per la debolezza non potendovi reggere, caddi svenuto nelle braccia del buon sacerdote.

«Don Venanzio non mi aveva dimenticato. Persuaso che io era vittima d'un errore, non aveva avuto pace più finchè non l'avesse visto riparato. A Torino egli conosceva una famiglia potente..... (Qui Maurilio esitò un momentino.) La famiglia Baldissero.

— Quella a cui appartiene il tracotante che insultò Benda? Domandò Selva.

— Quella stessa: rispose Maurilio. Al marchese, capo di questa famiglia, ricorse Don Venanzio, ed ottenne che sollecitamente si mandasse a procedere all'esame dei cadaveri di Menico e di Giovanna, che se ne scoprisse la cagion vera della morte, e che si dichiarasse non esser luogo a procedimento contro di me. Il buon prete aveva voluto recarsi egli stesso di persona a darmi la notizia della mia liberazione ed accompagnarmi fuor della carcere.

«Ma la infermità che mi aveva assalito mi obbligò a passare dalla prigione all'ospedale. Don Venanzio quando mi ebbe visto per sua cura allogato in un letto dell'ospizio X...., raccomandatomi con ogni premura alle suore di carità che pietosamente servivano i malati, se ne partì di nuovo pel suo villaggio, facendomi la promessa, che in realtà mantenne, di venirmi a vedere di sovente.

«Parecchi giorni rimasi senza cognizione; quando risensai mi sentivo una gran fiacchezza addosso, precisamente come allorchè incominciò la guarigione da quell'altra uguale malattia che sostenni qui dopo che tu mi avesti raccolto e dato ricetto. Ero in un lungo camerone a pareti tutte bianche; due file di letti nella direzione della lunghezza si schieravano in faccia l'una all'altra. Tutti questi letti erano similissimi, incortinati intorno d'una stoffa di cotone a righe bianche e bleu, con una coperta uguale: a capoletto di ciascuno di essi era appesa una lastra con suvvi la polizza che diceva il numero del letto, l'età, le condizioni, la malattia di chi vi giaceva. Non avvezzo sino allora che allo strame del soppalco di Menico ed al pagliericcio del carcere, io trovava quel materasso su cui ero allora disteso il più soffice del mondo; quella di sentirmi posare sulle membra un lenzuolo pulito mi pareva la dolcezza maggiore che avessi provato mai.

«Mentre stavo così meco assorto a gustare quel soddisfacimento tutto materiale, e non avevo pensiero fatto, ecco dal letto che m'era più vicino alla mia destra uscire un gemito dolorosissimo fatto per istraziare il cuore anche al più insensibile uomo del mondo.

«— Oimè! Oimè! Diceva una voce d'uomo faticosamente: oh quanto soffro!

«Volevo rivolgermi a guardare questo infelice che si lamentava, e la debolezza non mi consentiva moto nessuno. Il respiro affannoso del soffrente, interrotto tratto tratto da un'esclamazione di profondo dolore, da un lagno di spasimo incomportabile, mi faceva una pena da non potersi dire.

«— Da bere! Si mise poscia a domandare con quel po' di voce che gli rimaneva, onde appena era se poteva farsi udire fino da me: da bere!... un po' d'acqua, una goccia d'acqua per carità.

«Nessuno degl'inservienti poteva udirlo: io guardava intorno e non vedevo anima viva che fosse in caso da accorrere; le due lunghe file di letti soltanto, dai quali od uscivano gemiti o un silenzio di tomba. Facendo uno sforzo con tutto quel pochissimo vigore che mi restava, giunsi a volgere il capo verso quel povero tormentato, e lo vidi. Era un uomo sul mezzo della vita, con una folta ispida barba sul volto cresciutagli durante la malattia, le guancie incavate, giallo di colore, i pomelli sporgenti, le occhiaie infossate e al fondo le pupille accese d'un luciore di febbre.

«— Da bere, da bere: seguitava a dire il misero colla manchevol voce, ma con una specie d'irritazione nell'accento: da bere, un po' d'acqua per amor di Dio!... E non ci sarà un cane che mi dia una goccia... e mi lascieranno crepare senza pur darmi una stilla d'acqua!...

«Come avrei voluto potere saltar giù e andargliene a ministrare! Ma mi sentivo inchiodato nel letto del pari e forse più ancora che quegli non fosse; e ad un tratto mi assalì il pensiero che se ancor io avessi avuto quel tormento della sete non avrei potuto levarmelo, e nessuno sarebbe venuto neppure in mio soccorso. Bastò questo pensiero perchè tosto mi paresse davvero già esserne assalito ancor io. Volli chiamare e mi mancò la voce: mi parve che un'altra voce mi pronunziasse entro la testa: «— qui ci lascieranno crepare senza darci neanche una stilla d'acqua.»

«Intanto guardavo sempre quell'uomo, ed egli guardava me. Quegli occhi lucenti cupamente in mezzo a quel viso giallo di cadavere mi facevano paura: e non potevo distogliere da essi i miei quasi affascinati.

«Egli si lamentava sempre. Ad un punto cessò di fissar me per volgere il suo sguardo al tavolino verso il tazzone di terra in cui c'era la pozione da bersi. L'intensità del desiderio che c'era in quello sguardo, l'agonìa di arrivare a quella bibita, il tormento di non poterlo, erano indescrivibili. Vidi agitarsi lievemente la coltre sopra il petto di quell'infelice, e poi una mano scarna uscirne fuori a rilento, protendersi verso quell'agognata [87] tazza, allungarsi, allungarsi, mentre quello sguardo brillava sempre più e più di desiderio. Già la mano era per arrivarvi; il corpo s'era stentatamente voltato ancor esso ad assecondare quel movimento; io seguiva con infinito interesse quell'atto, parevami che a vedere quel dolorante afferrare la tazza e potersi saziare la sete, ne avrei provato grandissimo sollievo ancor io... Ma quando già era per toccare la sospirata meta, quella povera mano di botto ricadde; un sospiro o meglio un gemito sfuggì da quel petto affranto; il capo del giacente rimase più abbandonato sul guanciale, gli occhi si chiusero ed un'immobilità di morte gli tenne tutte le membra. Lo credetti estinto. Quella faccia cadaverica esprimeva nella contrazione de' suoi lineamenti una rabbia profonda: la mano giaceva sulla sponda del letto, pendente all'infuori; era una rozza mano di un rozzo uomo della plebe; ma ora la pelle villosa e bruna si piegava sulle ossa rugosamente, in modo che ogni falange, ogni tendine, ogni vena ne spiccava al di sotto con brusco risalto. Pensai che quella mano un tempo era di certo forte da sollevare ogni peso, ed ora non poteva nemmanco prendere una tazza d'acqua; così era quel povero uomo ridotto dalla malattia!

«Dopo un tempo che mi parve abbastanza lungo, il mio vicino risensò e si rifece da capo a lamentarsi, ma più fiocamente, e a domandar da bere, ma con appena intelligibili parole.

«E così durò lo spasimo di quell'infelice, senza che niuno venisse in suo soccorso, finchè il momento non giunse della visita medica.

«Io, che non avevo mai visto ospedale, nè uditone parlare, quasi mi spaventai quando vidi quella frotta d'uomini vestiti di nero, accompagnati da una monaca, che s'avanzavano pell'androne, si fermavano a tutti i letti, ora un po' più, ora un po' meno, ma non oltre i dieci minuti mai, borbottavano alcune parole fra di loro e passavano.

«Era il medico capo con dietro a sè gli allievi del corso. Prima d'arrivare al mio dovevano incontrare il letto di quel mio vicino di destra, e li vidi, come altrove, fermarvisi. Il professore, che camminava primo, s'inoltrò fino all'altezza della testa del giacente; gli allievi si aggrupparono a' pie del letto, e senza riguardi, con brusca strappata, tirarono via le cortine per poter veder bene tutti la faccia del malato. Notai che alcuni fra essi chiaccheravano fra di loro, parevano di tutt'altro occupati che dello spettacolo che avevano innanzi agli occhi, e ridevano come se di nulla fosse. Uno di essi, che era il più prestante della persona, il più elegante di abiti e tale per ogni verso da richiamare specialmente l'attenzione di chicchessia, attrasse i miei occhi, che, appena vistolo, non seppero staccarsene più. Ei mi pareva tutto tutto il mio compagno d'infanzia Gian-Luigi.

«Intanto il dottore aveva preso il polso del malato e gli aveva domandato come si sentisse.

«— Da bere! Aveva susurrato il miserello per tutta risposta.

«— Ah sì, avete sete: rispose il medico: una sete ardentissima non è vero? È naturale, me la aspettavo.

«E rivoltosi alla monaca che l'accompagnava:

«— È stato tranquillo?

«— Tranquillissimo: rispose con tutta assevezione la suora.

«— Uhm! Fece il dottore crollando il capo, in modo che pareva dinotare poca credenza in quella affermazione; poi, senz'altro preambolo, prese le coltri che coprivano il malato e le trasse giù fino a mezzo il letto: scoprì della camicia lo stomaco del giacente, vi pose su la mano sinistra piatta e si diede a battere su questa colle dita della destra fatte a gruppo; poi si curvò a mettere l'orecchio su quello stomaco e stette ad ascoltare. Drizzatosi rivolse la parola ai giovani che lo accompagnavano pronunziando barbari motti che io non capiva. Il petto rimasto denudato di quell'infelice era macilento come quello d'uno scheletro che fosse stato coperto da una pelosa epidermide; ancor esso era di color cereo, e nello stentato respiro sibilante del malato si alzava ed abbassava con una fatica che facevano pena a mirare. Quando il dottore ebbe finito di parlare, alcuni dei giovani vennero a lor volta a percuotere di quel modo sul petto del malato e porvi su il loro orecchio. L'infermo guardava tutta quella gente e i loro atti con occhio incerto, inquieto, ansioso, interrogatore. A me ispirava un senso di disgusto, quasi direi di ripugnanza e di ribrezzo il vedere tutti questi ignoti affollarsi indifferenti intorno al letto del soffrente, esaminarlo, guardarlo, palparlo come un oggetto di curiosità peggio. Mi dicevo che a momenti sarebbero stati del pari intorno a me e mi avrebbero fatto quel medesimo; e ciò mi faceva una pena che non ti saprei spiegare, tale che se avessi avuta la forza sarei saltato giù dal letto e me ne sarei fuggito.

«Quando il dottor capo si mosse per partirsi, uno del seguito, che teneva in una mano una specie di registro e nell'altra una penna, si avanzò domandando se si aveva da scrivere qualche ordinazione pel malato. Il medico crollò le spalle con un atto che significava chiaramente: è tutto inutile. Io mi sentii ghiacciare nel vedere quell'atto: pensati quell'infelice che stava appunto fissando il dottore coll'ansia interrogativa di chi aspetta la sua sentenza! Una specie di singhiozzo ruppe dal petto affannoso dell'infermo, e fra due sibili del suo faticoso rifiato egli disse:

[88] «— Per me dunque la è finita?

«— Peuh! Esclamò senz'altro il medico dondolando il capo ed avviandosi.

«Un nuovo gemito uscì dal petto affranto di quel misero; e mentre tutti da lui si partivano egli ripeteva con quel po' di voce che gli restava:

«— Almeno... da bere..... da bere..... che muoio di sete.

«Ma nessuno — da me infuori — badava alle sue parole. La comitiva col dottore a capo veniva al mio letto; io mi sentiva il cuore a palpitare, quasi di paura.

«Avvenne intorno a me, precisamente come era avvenuto intorno al mio vicino. Gli allievi si aggrupparono ai piedi; il dottore, la monaca ed alcuni pochi vennero a lato.

«— Oh oh! Eccolo tornato in sè questo giovanetto: disse il dottore appena mi ebbe visto; e voltosi alla monaca: gli è molto, domandò, che si trova di nuovo in cognizione?

«— Credo di no: rispose la suora; perchè passando non è guari di qua l'ho udito vaneggiare come il solito e dire le più strane cose del mondo.

«— Bene! disse il medico: l'accesso è vinto, ma per precauzione ci vuole un'altra dose di chinino. — Si ripeta la ricetta del solfato: soggiunse parlando a colui che teneva il registro, il quale scrisse in fretta in fretta due parole; poi, dirigendosi di nuovo alla monaca, il dottore continuava: dieta assoluta, acqua semplice da bere, il farmaco a cucchiai ogni due ore, da lasciarsi lì tosto, appena v'accorgiate che ripigli un po' di febbre. — Andiamo.

«Io non aveva detto neppure una parola: quella malavoglia, quella confusione per vedermi attorniato da tanta gente che mi guardavano non era cessata; ma la mia attenzione era principalmente rivolta su quello dei giovani che seguivano il dottore, il quale mi era sembrato essere Gian-Luigi.

«E' s'era venuto a postare a pie' del mio letto, precisamente come aveva fatto al letto del mio vicino, se non che a me accordava ancora meno attenzione di quella che avesse data a quell'altro. Quando l'ebbi davanti a quel modo, ogni dubbio in me scomparve: gli era proprio desso, più bello e più superbo che mai, tutto letizia, prosperità e brio. Parlava animatamente con un suo compagno, e pareva che l'argomento dei loro discorsi fosse le mille miglia lontano da quell'infelice luogo di miserie e di dolori ove si trovavano, poichè sorridevano spesso, e talvolta rompevano anche in piene risate, cui frenavano però tosto, se il dottor capo volgesse verso loro lo sguardo.

«Quando il medico, dopo quelle poche parole, si mosse per recarsi ad un altro letto, Gian-Luigi s'avviò ancor egli senza nè anche volgere uno sguardo alla mia volta. Non che non riconoscermi, io credo che non mi ebbe nemmanco veduto.

«Io, facendomi forza, chiamai la monaca che per fortuna s'era indugiata un poco affine di aggiustare le cortine del letto state scostate dagli allievi.

«— Che cosa volete? Diss'ella venendomi allato e curvandosi su di me.

«— Quel povero uomo da un'ora domanda da bere; abbiate la carità di dargliene.

«Il mio vicino pareva aver rinunciato alla sua inefficace richiesta; taceva e guardava. Certo non potè intendere le parole che io pronunziai con tanta voce appena da farmi udire dalla suora, ma le indovinò di sicuro, e ne fu certo, quando vide la monaca accostarglisi e porgergli finalmente alle labbra quel tanto agognato tazzone.

«Il misero bevve avidamente; poi, quando la monaca ebbe raggiunta la schiera de' medici egli mi rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e mi disse la parola grazie con un accento di tanto affetto, che io ne fui tutto commosso ed anche adesso, ricordandolo, me ne sento intenerito.

«Pover'uomo! Quella doveva essere una delle ultime sue soddisfazioni.

«A me l'accesso non tornò più: ma che notte penosa e lunga fu quella che succedette! Non potei chiuder occhio. Nel vasto e lungo camerone radi lumicini, posti qua e là, spargevano una fioca e debole luce, per la quale ricrescevano cupamente le ombre gettate dai letti. Ai miei occhi, in causa della mia debolezza, quelle ombre arrampicantisi sulle pareti come mostruosi ragni, stendentisi sul pavimento come giganteschi animali sdraiati, pigliavano mille forme stranissime e paurose. Ora mi parevano atteggiarsi a faccie orribili che mi facessero smorfie minacciose, contorcersi in corpi convulsi o spasimanti per dolore o raccoglientisi per un feroce assalto; ora mi parevano braccia immense terminate da mani adunche di rapina che si tendessero verso me ad afferrarmi; e, come rifiato di questo mostro indefinibile, inconcepibile, le respirazioni affannose dei malati e il rantolo di questo, la tosse convulsa di quello, i gemiti di tanti. Tutte queste voci di dolore facevano un accordo penosissimo che mi turbava profondo nell'anima; alcune volte però, per caso, capitava che tutti questi lamenti, questi suoni tacessero un istante, ed allora si aveva un silenzio — un silenzio di tomba — un silenzio che era più tremendo ancora, nel suo breve passaggio, del rumorìo interrotto. Mi pareva che fosse sorvolato l'angiolo della morte e colla sua ala potente avesse percosso ad un tratto tutte quelle esistenze, mi pareva di essere io solo vivente in mezzo ad una schiera di morti.

«Il mio vicino di destra era tra quelli che avevano più frequente il lamento; si capiva che il male veniva rapidamente compiendo la sua opera di distruzione, ed io ricordava l'atto del medico [89] che annunziava prossima la fine di quell'infelice e mi domandava se quelli non erano i rantoli dell'agonia, se quei gemiti penosissimi, ma sempre più deboli, non erano gli ultimi, se l'alba del mattino avrebbe ancora trovata accesa la fioca oscillante fiammella di quella vita.

«Io non aveva mai visto a morir nessuno. Menico e Giovanna li avevo trovati morti, ma non avevo assistito al tremendo momento della morte. L'idea di questo istante mi riempiva di terrore. Al pensare che un uomo lì presso stava per trar l'ultimo fiato, per diventare insensibile cadavere, io sentiva un alto spavento possedermi tutto. La idea del poi — di quel terribile ignoto che ci spalanca la tomba — il pensiero del nulla — i quesiti in cui s'era già cotanto affannata fin quasi dall'infanzia l'anima mia irrequieta, mi venivano ad assalire più vivaci e pressanti che mai, e in quel momento, per la debolezza del mio cervello, riuscivano ad una dolorosissima confusione, ad un più tormentoso ancora avvicendarsi di dubbi, ad uno sforzo impotente e penoso di padroneggiare e guidare i miei pensieri disordinati e strani.

«L'alba tanto desiderata e sì lenta ai miei voti, venne pur finalmente. Una maggior quietudine era in tutti i malati; avevano rimesso d'intensità i rantoli, i lamenti e le tossi; il mio vicino aveva meno ansimante il respiro. Ma che ora triste era quella pur tuttavia! I lumi accesi gettavano ancora debolmente intorno a loro un cerchio di raggi giallastri, oscillanti; i primi chiarori che penetravano per le alte finestre erano d'un grigio livido e mettevano sugli spigoli degli oggetti certi riflessi di tinte fredde, stonate affatto cogli ultimi sprazzi mandati dai lumi che venivan spegnendosi. Un'indicibile melanconia risultava da quell'aspetto di cose, dalla dubbiosità di quell'ora, che non era più notte e non era ancora giorno. Mi sentivo venire a folate alle nari più acre che mai il tanfo di tutte quelle esalazioni malsane, di tutti quei respiri viziati; parevami, in paragone, più tollerabile ancora l'atmosfera della carcere in cui avevo sofferto pur tanto. Pensavo con amaro repetio alle belle aurore della campagna, ove ero vissuto sino allora, a quelle pure brezze mattutine, a quel mio diletto gruppo d'ontani vicino al rigagnolo corrente. Quando avrei potuto far ritorno ad essi? E che cosa avrei dovuto andarci a far tuttavia, ora che Menico e Giovanna non eran più? Parevami che gli avvenimenti succeduti mi precludessero affatto la strada del ritorno a quel diletto paese, che la mano del destino, la quale me ne aveva violentemente tratto via ad un punto, fosse là tesa innanzi a me ad impedirmene il passo.

«Quei giorni che avevo vissuti non sarebbero tornati più mai; e quali altri avrei potuto e dovuto vivere io, povero trovatello, solo sulla terra? Me se m'avesse raggiunto la falce della morte, che male sarebb'egli stato? Per me, no certo nessuno; e per gli altri? Meno ancora, poichè la mia vita a persona al mondo non era utile, nè potevo pur dire diletta. E tuttavia un'intima ripugnanza si levava in me al pensier della morte, ed ogni fibra dell'esser mio anelava alla vita!

«Il mio vicino aveva cessato quasi del tutto il suo rammaricarsi. Credevo che dormisse, ma, essendomi rivolto verso di lui, lo vidi cogli occhi aperti, levati in su e pieni di lagrime. Sentii più viva la profonda compassione ch'egli m'ispirava, e parvemi che alcuna mia parola avrebbe fatto un po' di bene a quel misero. Il mio miglioramento era tale che m'era tornato in corpo un po' di voce da farmi sentire dal letto del vicino distante appena se di due passi.

«— La va meglio stamattina: gli dissi.

«Stette un istante senza rispondermi. Parve raccogliere tanto di fiato da poter parlare, e frattanto ringoiare quelle lagrime che gli velavan la vista; poi mi disse a sua volta con voce cavernosa e stentata:

«— Il meglio della morte..... Purchè potessi durar tanto che mia moglie e i miei figli venissero!... Oggi per fortuna è giorno di visita... Ma morire senza averli intorno... senza più vederli!... Oh esser povero! Oh morire all'ospedale!.....

«Fu interrotto di subito da un singulto, e come se troppo si fosso stancato nello sforzo di pronunziare tali parole, l'affanno lo riprese più forte di prima. Chiuse gli occhi, ned io osai più, nè ebbi voglia altrimenti di disturbarlo.

«Ma le disperate parole del morente mi suonavano nel capo come una fiera minaccia, come la pronunzia d'una tremenda condanna:

«Oh esser povero!... Oh morire all'ospedale!...

«A seconda che il giorno cresceva, crescevano pure nel mio vicino l'agitazione e il rantolar del respiro. I suoi occhi irrequieti non facevano che guardar fiso verso quella parte per cui s'inoltrava chi venisse dal di fuori; stanco li chiudeva di quando in quando, ma al primo rumor d'alcuno che si movesse li apriva sollecito con immensa ansietà di desiderio a mirar chi venisse, e poichè mai non erano quelli che con tanto spasimo stava aspettando, mandava un più desolato sospiro e tornava ad abbassar le palpebre con rassegnata disperazione.

«Quando la monaca di servizio gli si accostò per vedere s'egli alcuna cosa desiderasse, l'infelice con quel po' di voce che glie ne rimaneva onde appena nell'affanno del rantolo poteva formar le parole, domandolle che ora fosse, e poichè la suora gli ebbe risposto che appena le otto, egli non disse più verbo, non aprì gli occhi, ma quel sospiro desolato gli uscì ancora più doloroso dal petto, e giù dalle guancie gli calarono silenziosamente quelle lagrime che il giorno innanzi io [90] gli aveva già visto brillar nella pupilla. Il disgraziato aveva perduto ogni speranza di vedere ancora i suoi.

«Poco stante venne la visita medica del mattino. Gli stessi individui, lo stesso modo di procedere. Mancava però Gian-Luigi, pel quale quella era forse ora troppo mattutina.

«Quando furono al letto del mio vicino di destra, il dottore non istette nè a interrogare, nè a toccar polso nè altro. Il giacente aveva gli occhi chiusi ed ansimava penosamente.

«— Siamo alla fine: disse il medico senza riguardo di sorta; e parlando poscia alla monaca: chiamate pure il prete, soggiunse, che questo buon uomo è già entrato in agonia.

«Il corpo del moribondo si scosse in un lieve sussulto, e gli occhi gli si spalancarono vitrei, quasi opachi, ma pieni di spavento; guardò di qua e di là esterrefatto, agitò le labbra, ma nessuna voce ne uscì, e mentre i medici si allontanavano, un singhiozzo d'infinito dolore fisico e morale prorompeva da quel petto affranto, già oppresso dall'affanno della morte.

«La visita medica era finita in tutto il camerone, quando sopraggiunse il prete fatto venir dalla monaca per confortare gli ultimi momenti del moribondo. Io guardava con una curiosità mista d'ansia, di pena e di terrore. Il prete s'accostò freddamente al letto del moribondo, come uomo avvezzo a questa sorta di cose, nel quale perciò la sensibilità rimane smussata. La faccia grossa e volgare diceva inoltre che in lui quella sensibilità non doveva mai essere stata nè molta, nè viva; aveva un libro sotto il braccio ed una stola in mano; camminava adagio volgendo gli occhi di qua e di là, ed annasando lentamente una presa di tabacco. Giunto presso il letto, guardò il giacente che teneva gli occhi chiusi e rantolava in modo sempre più penoso, e domandò alla monaca:

«— È egli ancora in cognizione?

«— Mah! chi lo sa?

«Il prete si curvò sul letto del morente.

«— Ehi, brav'uomo, diss'egli con voce più alta, come per destare un che dormisse, mi udite voi? capite voi quello che dico?

«L'infermo non fece segno alcuno che indicasse aver egli inteso.

«— Questo povero diavolo è più di là che di qua: disse il prete; ma ad ogni buon conto qualche parola d'esortazione non può far male.

«E con voce trascinante, con quel tono convenzionale di bigotta che prega, si diede a pronunziare le seguenti frasi all'orecchio del giacente:

«— Pensate al vostro Salvatore che morì sulla croce per voi, pensate all'agonia ch'egli soffrì su quella croce.

«Qui s'interruppe per dire colla sua voce naturale alla monaca:

«— A proposito, dove ci avete un crocifisso?

«La monaca prese un crocifisso di legno su tavolino dove lo aveva posato, e lo porse al prete.

«— Eccolo qua.

«Il prete lo prese e lo pose sul petto del moribondo, poi ripigliò colla voce dolcereccia, nasale che ho detto poc'anzi:

«— Gli è qui che vi assiste il vostro Salvatore; mettete nelle sue mani l'anima vostra, e con profondo atto di contrizione domandategli perdono di tutti i vostri peccati.... Voi state per comparirgli dinanzi....

«Il moribondo fece un sussulto e il suo rantolo cessò.

«— È passato: disse la monaca.

«— Non ancora: rispose il sacerdote; ma siamo proprio agli estremi.

«Prese colle due mani la stola, ne baciò con atto puramente meccanico — atto di abitudine — la croce che si trova a metà di essa e passandosela sopra la testa se la pose in ispalla; poi aprì il libro che aveva recato seco e si mise a borbottare le preghiere pei moribondi.

«La monaca s'inginocchiò a piè del letto e veniva rispondendo amen di tanto in tanto e finalmente quelle stupende parole della liturgia: et lux perpetua luceat ei!

«Quando ebbe finito, il prete chiuse il libro, si levò la stola, che ripiegò intorno al volume e mise così avvolta sulla sponda del letto. Il giacente era immobile affatto; gli occhi gli si erano aperti, ma le pupille erano appannate, fisse, senza sguardo; la bocca erasi contratta e le labbra aperte ed immote pendevano da un lato.

«— Datemi un cerino, suora Genoveffa: disse il prete.

«La monaca trasse di tasca un cerino aggomitolato e lo diede al prete, il quale levatosi di tasca un fiammifero lo sfregò per terra e con esso infuocatosi accese il cerino. La fiammella fu posta innanzi alle labbra ed al naso del giacente, e non si ebbe la menoma oscillazione che potesse indicare il più lieve alito di fiato.

«Era proprio spirato.

«Il prete spense il cerino e lo restituì alla monaca; questa abbassò le palpebre sugli occhi del morto, e tutti due si apprestavano a partire, quand'ecco precipitarsi nel camerone e correre verso il letto dell'infelice estintosi allor allora, una donna che poteva dirsi il ritratto della miseria, trascinandosi dietro quattro bambini di varia grandezza, ma di cui il maggiore non passava certo i dieci anni.

«— Il mi' uomo! Gridò essa disperatamente.

«— È spirato adesso adesso: disse freddamente il prete.

[91] «La donna si fermò su due piedi e mandò un'esclamazione così dolorosa che me ne vennero le lagrime agli occhi ad udirla; poi si contorse le braccia con parossismo quasi furibondo di dolore, e levando al soffitto gli occhi convulsi, pronunciò fra i più penosi singhiozzi:

«— Dio! Dio mio!

«La monaca più pietosa le venne allato e mettendole dolcemente una mano sul braccio:

«— Coraggio e calma, le disse.

«Ma la sventurata, rigettandola quasi con ira:

«— Calma! calma? Il mio pover'uomo, il mio pover'uomo, il mio unico sostegno.... la morte me lo ha tolto.... Ah! Dio non è giusto.

«— Oh! oh! Esclamò con tono di rimprovero il prete: guardatevi bene dal bestemmiare, buona donna. Bisogna curvare il capo rassegnati innanzi a Quel di lassù, e quando ci manda una prova, benedirne la mano che ci percuote. Dunque non c'è nulla da farci e bisogna aver pazienza.

«Così dicendo, il prete fece ad allontanare la povera donna dal letto del morto; ma essa, rigettandolo con più forza ancora e con più furore di quello che non avesse fatto alla monaca, si pose a gridare:

«— Mi lasci passare, voglio vederlo il mi' uomo.... voglio vederlo per Dio!... Nessuno mi potrà impedire di abbracciarlo l'ultima volta.

«E con abbandono disperato si gettò sopra il cadavere ancora caldo di suo marito.

«— Oh perchè non ti ho potuto tener meco, mio pover'uomo? Diceva essa in mezzo ai più strazianti singhiozzi: perchè ti hanno voluto trasportar qui lontano da tutti i tuoi, qui dove ti hanno ammazzato?... Sì ti hanno ammazzato coi loro salassi, colle loro droghe.... noi povera gente sì che glie ne importa a loro che crepiamo.... tanti di meno a mangiar pane.... io t'avrei guarito, io che avevo da conservarti ai miei figli.... Ed ora che ne sarà di questi tuoi miserelli di figliuoli?.... Chi ne darà loro da mangiare?.... O almeno saresti morto in mezzo a noi, circondato da noi... e non qui, solo, senza uno de' tuoi allato...

«La sua voce suonava forte e straziante pel camerone: i bambini, che non capivano molto, ma che vedevano la loro madre così disperatamente desolata, si aggrappavano alle di lei vesti, la tiravano e strillavano piangendo; era pei malati una troppo dolorosa commozione; gl'inservienti e le monache accorsero in frotta al rumore. Presero in mezzo la donna e i bambini, li ragionarono, li rampognarono, li confortarono, e tanto fecero che la donna, diventata taciturna con grosse lagrime che le colavano giù dalle guancie, si rassegnò a lasciarsi condur via. Ma quando ebbe fatto appena pochi passi allontanandosi dal letto, tutta di colpo si riscosse; si sciolse dalle monache ond'era attorniata, e sclamando: — Ah! ch'io lo veda ancora una volta, tornò precipitarsi sul morto corpo del marito il cui volto coprì di nuovo dei baci suoi. Quindi se ne tolse da se stessa in apparenza più calma; si premette le mani nere ed incallite sugli occhi e pronunziò con tale accento di dolore che io non potrò obliare giammai, queste parole:

«— Non lo vedrò più.... più mai!... Oh almeno l'avessi visto a morire!

«E coi suoi figli aggruppati intorno si allontanò quindi mesta, curva, barcollante, come spinta ed oppressa insieme dalla mano della sventura.

«Povera donna! Io era voltato col viso dalla parte del morto e avevo innanzi gli occhi la faccia di quel cadavere. Non potevo staccarne lo sguardo quantunque mi facesse una pena quasi paurosa a mirarlo. La morte aveva passato su quei lineamenti contratti dal dolore pur dianzi, la sua mano appianatrice: una gran calma sembrava spirare da quel volto ingiallito, ma insieme una gran mestizia eziandio, una mestizia però rassegnata e mite. Il misero aveva cessato di soffrire, ma quanta angoscia non doveva essere stata la sua quando l'occhio smarrito, sbarratosi negli ultimi fremiti dell'agonia, cercava invano intorno a sè le care sembianze dei suoi! Ma qual dolore per l'infelice donna superstite, che non aveva potuto consolarne gli estremi momenti, che non aveva potuto far impartire l'ultima benedizione a' suoi figli così presto orfani di padre!

«Oh! pensavo, anche la morte è dunque più trista pel povero?...

«Ed allora un'immensa amarezza m'invase, uno scoraggiamento, quasi uno sgomento profondo dell'anima. Quel letto che al mio primo risensare mi era parso così agiato, ora mi tornava irto di spine, l'atmosfera satura di miasmi di quell'ospedale mi riusciva di botto gravissima a respirare, quasi intollerabile, quel cadavere innanzi agli occhi mi faceva paura.

«Fu sollecita, è vero, la monaca che lo aveva assistito nell'agonia, a tornare indietro, appena la donna fu uscita dal camerone, e tirò tutt'intorno le cortine del letto in guisa che la vista del morto venne tolta ad ogni sguardo; ma io sapeva che dietro quelle tende bianche e bleu c'era un cadavere, e coll'occhio della mente lo vedevo pur sempre, con quella sua bocca spalancata e storta, con quell'aspetto di mesta rassegnazione e di abbandonata quiete.

«Più tardi vennero due uomini con una barella, questa deposero ai pie' del letto, poscia entrarono sotto le tende e per parecchi minuti si agitarono uno da una parte dal letto e l'altro dall'altra, imprimendo alle cortine distese una nuova forma, nuovi sgonfi ad ogni loro mossa; quando ebbero finito, trassero ai lati le cortine e [92] il cadavere apparve sul letto, tutto avvolto nel sudario; lo presero a braccia, lo recarono nella barella coperta, e via, lasciando il letto disordinato.

«— Ora lo portano al gabinetto anatomico e domani sarà tagliuzzato per lezione degli studenti: mi disse l'altro mio vicino di sinistra con una specie di sogghigno e con una voce stridula che mi fece ghiacciare il sangue e correre un fremito per tutti i nervi.

«Neanche dopo morto, il povero, crepato all'ospedale, non è tranquillo.

«Nella giornata furono portati via il materasso e il pagliericcio di quel letto, ma due giorni dopo tutto era rimesso a posto, e un altro infermo dolorava a quel medesimo luogo.

«Quando ebbi visto giungere, sostenuto a braccio da un infermiere, un altro povero diavolo coi segni della miseria ancor esso negli abiti e nelle sembianze e venir condotto a quel letto ed esser fatto in esso coricare, un nuovo assalto d'amarezza mi prese. Pensai con ispavento che in quel letto eziandio dove avevan posto me, poco tempo prima, il giorno innanzi fors'anco, poteva esser morto un altro infelice, ed io era venuto a prenderne il posto, come questo nuovo sopraggiunto si sdraiava lì dove era spirato il suo predecessore.

«Per allora questi pensieri non facevano capo a nulla di preciso, ma più tardi, quando anche più maturata la mia mente, tornandovi su ne' miei fantasticari, si conchiusero in alcune opinioni che forse sono paradossastiche, ma che a me pare contengano la verità — se non quella dell'oggi — quella che condurrà seco il progresso di domani.

«La carità sociale ha già fatto molto creando quegli ospizi in cui si raccolgono a curare gratuitamente i poveri caduti infermi; ha fatto moltissimo, se si paragona codesto a quel tempo di barbarie, in cui si lasciavano morire nei loro miserissimi tuguri senza od appena con qualche stentato e inefficace soccorso. Gli è certo sotto l'ispirazione d'un progresso che la società si disse: «quegl'infelici di proletari che mancano di tutto alle case loro, come vi potranno ricevere assistenza appena discreta nelle loro malattie? Raccogliamoli tutti insieme in luoghi appositi, dove con minori mezzi appunto, per la forza maravigliosa dell'associazione, potrà ciascuno dei ricoverati avere tutto o quasi tutto quello che loro può occorrere.»

«Ma non si era tenuto conto a tutta prima di questo fatto, che se la mancanza di mezzi materiali è cosa essenzialmente sventurata pur troppo nella cura dei malati, di uguale forse o di poco minore importanza è altresì il difetto dell'amorevolezza nell'assistenza, di quella soave temperie che crea intorno l'animo del sofferente il vedersi circondato da un vero interesse e da un caldo affetto. Ciò fu ben sentito più tardi da quell'anima celeste che fu S. Vincenzo di Paola, il quale istituì l'ammirabile ordine monastico delle Suore di Carità; ma per quanto queste sieno pietose e zelanti e superiori ad ogni elogio (come niuno può negare che sieno in generale), è tuttavia pur sempre ben diversa cosa l'interessamento d'una persona estranea, la quale ancora, se dall'abitudine acquista una certa pratica del servizio degl'infermi, ha insieme da quest'abitudine medesima, o smussata d'alquanto la sensibilità o quanto meno di certo non pari e non capace di rivaleggiare con quella dei congiunti dell'infermo — madre, moglie, figliuola, sorella.

«A codesto si ha da aggiungere tutto il resto di malessere e di inconvenienti che risultano dall'agglomerazione nello stesso luogo, nella stessa stanza di più malati, dei quali il soffrire dell'uno va ad aumentare e rincrudire il soffrire dell'altro, e il servizio di questo è un incomodo, un turbamento, un danno anche parecchie volte, alle condizioni di quello.

«I pregiudizi del popolo, anche i più falsi e perniciosi, hanno quasi sempre un fondamento in alcuna realtà che viene pur troppo esagerata: consulta tutta la povera gente in proposito, e fra quei miseri, che pure non hanno modo alcuno da questo in fuori di aver soccorso, troverai pochi, per non dire nessuno, che non senta una viva ripugnanza a farsi ricoverare negli ospedali. Senza ragionarvi sopra, senza avere fors'anche un'idea precisa della causa di questa ripugnanza, ciascuno di essi sente che molto lascia a desiderare in quel modo di soccorsi la carità pubblica; ed accrescendo colla mobile e impressionabile fantasia i mali di quel sistema, per lo più non si acconsente a recarsi allo spedale che quando la necessità lo comanda loro in guisa assoluta, e per molti già con soverchio ritardo pur troppo.

«Io credo che un nuovo progresso sarà quello in cui il malato non venga più tolto dalla sua famiglia, ma nel seno di questa al medesimo vengano apprestati tutti quei soccorsi e d'assistenza, per mezzo delle stesse Suore di Carità per esempio, e di medici e di farmaci, per goder dei quali ora lo si costringe a recarsi negli appositi ospizi, e che in questi non saranno ricoverati altri più che quelli i quali o non hanno famiglia di sorta, od anche avendola consentono volonterosi a staccarsene per riparare all'ospedale.

«Codesta quistione sta legata con quell'altra non irrilevante essa pure degli alloggi della povera gente; ma se io entrassi a parlare di ciò la tirerei troppo in lungo. Forse verrà tempo in cui avrò da parlartene di proposito.... Ora perdonami la digressione e ritorno al mio racconto.

«Ero pressochè guarito, quando fra le molte [93] Don Venanzio venne a vedermi una volta. Mi disse che si preoccupava del mio avvenire, che era tempo oramai di pensarci e mi domandò se avessi qualche idea, qualche progetto in proposito. Gli confessai che non avevo su codesto nè anche un principio di decisione: che bene mi era balenato il pensiero e il desiderio di tornarmene alla dimora ed alla vita del villaggio, ma che non avevo tardato ad accorgermi ciò essere impossibile; che cosa sarei andato ancora a far colà peggio disprezzato di prima, e forse in sospetto ancora dei più? Alquanto mi allettava pure il soggiorno nella popolosa città, dove avrei trovato forse di meglio impiego alla mia attività. Se io fossi stato padrone del mio destino, forse non sarei venuto in questo viavai agitato e pericoloso, comecchè il segreto desiderio mi vi spingesse, ma poichè era il caso che mi ci aveva a forza trascinato, pensavo rimanerci. In che modo e con quali opere non sapevo ancora, ma speravo trovare occasione e compenso a lavorare, come ne avevo volontà.

«Don Venanzio, prima di rispondermi, stette un poco a pensarci su; poscia mi disse che non avevo affatto il torto, e che una parte di quelle cose che gli avevo espresse, aveva pensato ancor egli. Suo primo proposito, a mio riguardo, era stato quello, appena vistomi dotato d'una certa intelligenza, di allevarmi al sacerdozio; vestito della rispettata cotta pretesca, mi avrebb'egli ottenuto d'esser maestro al suo villaggio, diventato anche mio. La mia qualità di trovatello sarebbe così stata riscattata agli occhi dei contadini dalla dignità dell'abito sacerdotale, e i padri di famiglia non avrebbero avuto scrupolo nè ripugnanza più ad affidarmi i loro figliuoli da educare, cosa che forse e senza forse sarebbe accaduta conservando io le vesti da secolare. A vedermi insignito degli ordini sacri, aveva egli rinunciato già da un poco, e non senza pena, me lo confessava, quando ebbe visto in me cedere sventuratamente, coll'aumentar dell'istruzione, la fede. Ora nè a vestir io la cotta talare, nè a farmi maestro del villaggio, nè pel momento a tornar neppure in quest'ultimo non era da pensarsi più. Dopo quanto era intravvenuto, quella popolazione rurale mi avrebbe peggio riguardato di prima, e mettermi ad educare la prole di essa era impossibile impresa anzi tutto, e tale ancora di poi, cui egli nemmanco non avrebbe più voluto affidarmi, perocchè fosse sua ferma persuasione, il maestro dell'infanzia dovere agli allievi, coi primi rudimenti del sapere, istillare quella preziosa e doverosa cosa che io non aveva più, il tesoro delle credenze religiose ortodosse; creder egli quindi necessario cercassi qualche modo di ricavarmela a Torino stessa dove mi trovavo. Io abbisognava d'un impiego dove avessi potuto guadagnar subito, imperocchè non avessi modo alcuno di sparagni nè d'altro da sostentarmi, e la cosa era difficile assai a trovare, perchè, sapendo pur io molte cose in paragone del mio stato, in sostanza poi, che cosa per allora ero buono a fare? Ma egli aveva conoscenza con certe famiglie ricche e potenti, fra cui principale quella all'intromissione del cui capo io andava debitore della mia liberazione dal carcere; avrebbe parlato a questo ed a quest'altro ed avrebbe senza fallo trovato ad allogarmi o qua o colà per fare qualche servizio che mi potesse convenire e che mi guadagnasse onestamente il pane.

«Lo ringraziai con effusione, e ci lasciammo con questo fermato proposito. Si trattava insomma di entrare a far da servo in qualche famiglia signorile. La cosa a tutta prima mi tornò la meglio conveniente che mi si parasse dinanzi. Non ero io servitore poc'anzi di Menico e di Giovanna? Ma essi mi avevano preso fanciullo, mi avevano allevato, ero come cosa loro; entrare non conosciuto in una famiglia ignota per sottostare alle volontà di chi sa chi, più ci pensavo e vieppiù mi appariva di poi cosa diversa. Mi ricordai ad un tratto del bottone di livrea che tenevo sempre meco del pari che il rosario, come cosa preziosissima. Questi oggetti mi erano stati tolti all'entrare nel carcere, ma me n'era stata fatta la restituzione all'uscire di colà, ed ora all'ospedale, appena tornato in me, li avevo ridomandati e li tenevo sotto il guanciale ove posavo la testa. Trassi fuori quel bottone e lo stetti contemplando per un poco. Era forse un indizio della condizione a cui apparteneva mio padre. Ancor egli probabilmente aveva servito; nulla era più naturale che il figliuolo altresì mangiasse di quel pane. Eppure, a seconda che mi ingolfavo in questi pensieri, mi nasceva in cuore e si faceva sempre più viva una ripugnanza contro siffatta condizione, la quale mi pareva un umiliarsi, cui finivo per apprezzare come una vergogna alla mia personalità. Guardando quel bottone vedevo il soprabito a cui doveva essere attaccato, e vedevo me vestito del medesimo ai cenni d'un padrone capriccioso. A codesto doveva far capo quella intelligenza che sentivo in me? Nient'altro di meglio dovevano conseguire il tumulto de' miei pensieri, le mie audaci aspirazioni, quello che avevo imparato e la capacità, onde avevo coscienza, di imparare assai più?

«Ad un tratto una subita idea mi assalse. Qui a Torino era Gian-Luigi; perchè non sarei ricorso a lui? La memoria dell'infanzia passata insieme, la promessa ch'egli stesso mi aveva fatta di ciò, lo avrebbero sicuro spinto a darsi alcuna briga per me. Non avevo bisogno di cercar molto affine di rintracciarlo, perchè in quell'ospedale ov'egli veniva — quantunque frequenti fossero le mancanze — avrebbero saputo dirmi di certo dove lo [94] avrei potuto rinvenire. Mi parve quella la più felice ispirazione che fosse, e me ne sentii tutto lieto e quasi sollevato dell'animo.

«Ed ecco, quasi che la fortuna mi volesse in codesto assecondar proprio del tutto, ecco che io non aveva nemmanco finito di pensare ciò, quando vidi spuntare nel camerone la brigata degli studenti di medicina per la solita visita, col professore in capo, e nella schiera, aitante e sempre più per distinzione sopra ogni altro notevole, Gian-Luigi medesimo.

«Quando i visitatori furono al mio letto, siccome ero già in piena convalescenza, non si fermarono neppure; passandomi innanzi il medico volse verso me la testa e mi domandò:

«— La va sempre bene, giovinotto?

«E siccome io risposi di sì, continuò il suo cammino senz'altro.

«Gian-Luigi passava ancor egli, senza badare a me più questa che le altre volte. Io radunai tutto il mio coraggio, e lo chiamai per nome ad alta voce, ma un pochino tremante. Egli si riscosse, mi guardò fiso e mi riconobbe: parve un po' conturbato, o per dir meglio contrariato; esitò un istante e credetti fosse per tirar diritto cogli altri senza darmi punto retta; siccome assolutamente mi premeva il parlargli, benchè sentissi più tremante ancora farsi la mia voce, imperocchè il cuore mi battesse concitato, mi apprestavo a ripeter l'appello, quand'egli, come accortosi di quella mia intenzione, sembrò ravvisarsi e venne a me sollecitamente.

«— Sei tu? mi disse affrettato senza lasciarmi aprir bocca. Ed io non t'ho mai visto, o per dir meglio non riconosciuto? In fede mia non mi sarei mai più aspettato di trovarti qui.

«Nella sua premura, nell'accento delle sue parole non sentii caldezza nessuna d'affetto od interesse di sorta; ma piuttosto la fretta di sbrigarsi da colloquio che non molto gli andasse a grado, l'impazienza di trarsi fuori da cosa che lo contrariasse.

«Gli dissi del gran bisogno che avevo di parlargli.

«— Va bene: mi rispose interrompendomi; ma adesso no; adesso non posso. Bisogna ch'io segua la visita. Continuo i miei studi da medico, ed è perciò che tu mi vedi qui. Tornerò per udirti e parlarti in ora più opportuna, quando lo potremo con più comodo. A rivederci.

«Non mi strinse neanche la mano e mi lasciò per raggiungere in fretta i compagni.

«Quel suo contegno mi diede una tristezza che potrei chiamare un dolore. Ricordai la freddezza dell'addio nella sua partenza, e mi dissi che questo accoglimento nel rivedermi era peggio ancora scevro d'ogni affezione. Entro il suo cuore io dunque non ci aveva proprio più posto, e non sapevo capirne il perchè. Ero troppo inavvezzo ancora per indovinare che in presenza de' suoi attuali compagni, egli — il mio compagno d'infanzia, un trovatello al pari di me — si vergognasse di conoscere un cencioso villanello malato all'ospedale.

«Egli però mantenne la sua parola e quel giorno stesso venne a vedermi da solo. Il suo contegno fu tutt'altro da quello della mattina. Mi serrò con effusione tuttedue le mani, mi prese fra le sue braccia e mi strinse al suo seno, baciandomi e ribaciandomi; sedette presso il mio letto, e tenendo fra le sue mani la mia destra ascoltò con viva attenzione il racconto dei fatti miei.

«Innanzi a quei suoi modi gentilmente affettuosi tutta quell'amarezza che era nata in me contro di lui pel trattamento usatomi quel mattino medesimo si dileguò ratto come la prima neve sottile ai raggi caldi d'un bel sole. Mi sentii l'animo riconfortato; e la irresistibile seduzione che quel giovane esercita sopra ognuno quando voglia, riprese tutto il suo impero su me.

«Egli mostrò caldamente interessarsi ai miei casi cui compatì, si mostrò spiacente assai di ciò sopratutto che io fossi stato in prigione, e vivamente disse e ripetè insistendo che anzi ogni cosa io aveva da mettere tutte le mie cure nel nascondere ad ognuno e sempre questa circostanza. Le sue parole a tal proposito mi ricordarono quelle di Graffigna.

«— Il carcere, vedi, così mi diss'egli, nella nostra stupida società che vive di pregiudizi e di pecorili usanze, imprime a chi lo subisce una specie di marchio indelebile che lo addita al sospetto ed alla disistima di tutti — specialmente degli sciocchi che sono l'immenso maggior numero — e ciò qualunque sia la causa, fosse pure un errore, per cui questo carcere fu subìto. Codesto di certo non accade con me. Prima di tutto io ti conosco per bene; e poi sono superiore al volgo d'ogni fatta — anche a quello che calza guanti e va in carrozza, il quale in molte cose è più crassamente volgo dell'altro. Ma faremo bene in modo che niuno abbia mai da saperne un'acca. Per presentarsi nel mondo bisogna avere un nome ed una famiglia ed un passato che si possa raccontare francamente a tutti. Nè tu, nè io non abbiamo nulla di codesto; ebbene faremo per te ciò che ho già fatto per mio uso; ti fabbricheremo un passato, una famiglia ed un nome. Dimmi frattanto se tu hai qualche progetto sul tuo avvenire.

«Gli contai ciò che s'era detto e deciso fra Don Venanzio e me, e gli confessai la mia ripugnanza ad acconciarmi come servo. Gian-Luigi crollò il capo e levò le spalle.

«— Quel Don Venanzio è il miglior prete del [95] mondo, diss'egli, ma il più disadatto ad immischiarsi in queste cose. Eppoi ti ho detto che bisognava fabbricarsi un passato acconcio, ed il vecchio parroco è la realtà vivente del passato che occorre nascondere. M'incarico io del tuo avvenire; ho già in vista quello che fa per te; manda a spasso il parroco e lasciami fare.

«Mi affidai tutto in esso, e promisi avrei fatto a suo modo. Quindi lo richiesi di lui, della sua vita e delle sue condizioni.

«Egli mi rispose con una leggerezza spensierata e piena di allegro brio:

«— Io? Sono niente ancora, ma tendo le fila per diventare..... che cosa? Non so bene, ma pur tale che conti..... Vivo tuttavia sulla somma pagatami dagli eredi del mio protettore. Il giuoco, in cui la fortuna mi seconda, accresce i miei proventi ed allunga la vita a quel capitale che faccio correre al gran trotto a tiro a quattro sullo stradone delle spese e del lusso, lasciandone un lembo ad ogni segnacolo della via. È una vita turbinosa che inebria. Prima che quel capitale sia finito, qualche cosa avrò trovato. Seguito gli studii di medicina pro forma; e poi perchè la fisiologia, oltre all'essere curiosissima scienza, mi può diventar utile; ma intanto studio più profondamente il mondo e la società, questo gran libro in cui tutto è scritto e in pochi sanno leggere, questo malato cui la cancrena travaglia e il medico da saperlo curare non è ancora nato. Tu studierai meco; e ci aiuteremo a vicenda. La tua potenza d'osservazione e la mia nativa acutezza di scetticismo diffidente sono fatte apposta. Comincieremo per mettere a nudo questo mondo mascherato e imbellettato; lo sviscereremo come fa l'oste che aggiusta un pollo per farlo arrostire; poi lo domineremo. L'anatomia d'un cadavere è cosa interessantissima: è tale a mille doppi quella d'un organismo vivo, quella d'una personalità immensa quale si è la società umana. Siamo dunque intesi. Di quest'oggi stesso mi occuperò de' fatti tuoi, e non tarderò molto a venirtene a dire i buoni risultamenti. Addio.

«Si partì così, lasciandomi nel cuore un poco di quella vivacità, di quelle speranze, di quell'ambizione fors'anco che davano al suo carattere ed ai suoi modi animazione cotanta; e con ansia stetti aspettando il suo ritorno.

«Non tardò infatti gran tempo. Il domani stesso, non essendosi lasciato vedere alla visita, venne da me all'ora stessa in cui avevamo avuto il colloquio che t'ho detto, e mi apparve tutto raggiante.

«— È cosa fatta, mi diss'egli senza indugio, sedendosi presso il mio letto. Tu sei bello ed allogato. Lo stipendio non è dei più grassi: sessanta lire al mese, alloggio, tavola, bucato..... e qualche incerto guadagno che vedrai venire fuori e di cui imparerai ad approfittarti. Non è uno stipendio da ministro, ma per cominciare!..... I grassi stipendii verranno poi. Hai tu mai sentito a nominare il sig. Nariccia?... No? — È giusto. Laggiù nel villaggio nessuno lo conosce. Ma qui in Torino è cosa diversa. Ei tiene mezza la città nei suoi artigli — artigli è il vero termine — e tutta la gente lo conosce e nutre per lui un'osservanza!.... l'osservanza che si merita un Rotschild acconciato alle proporzioni del nostro paese! Questo personaggio, in apparenza umile, vestito come un vecchio usciere, maneggia i milioni come tu non hai potuto ancora fare coi centesimi. Ha denari da tutte parti. La banca Bancone lavora a suo conto; tutti gl'impresari di lavori pubblici vanno avanti co' suoi capitali; è il segreto padrone di tutti i pubblicani delle gabelle. Ti ricordi del bastone di Bruto? Una verga d'oro in una corteccia di ramo di sambuco. Questo è un milionario nei panni d'un usuraio. Ma un usuraio che sa fare ammodo; di quanti pela, nessuno ha gettato ancora mai un grido che lo compromettesse. Io l'ho conosciuto per azzardo, e ne ho coltivata la conoscenza per progetto. Ho acquistato presso di lui una domestichezza cui non accorda a chicchessia. C'è molto da imparare praticandolo, e mi sono fatto promessa solenne che avrei imparato tutto e per bene. Ha bisogno d'un cotale che gli scriva le sue lettere senza errori di grammatica e con buona ortografia, e che gli rediga con sintassi i discorsi che ha da pronunziare nelle congregazioni religiose e di carità di cui è membro zelantissimo e nelle società commerciali in cui abbindola pulitamente soci ed azionisti. Aveva offerto a me questo impiego: ma io sono già troppo innanzi negli occhi del mondo per accettarlo. Tu cominci appena, ed è questo il miglior principio e più vantaggioso economicamente che ti si possa presentare. Mi sono fatto dar parola che avrebbe accolto il mio raccomandato. Inventeremo una storiella apposita che ti intrometta colla più naturale verosimiglianza. Ponendo il piede sulla soglia di quella casa, tu entrerai nella strada che mena alla ricchezza. Mi dirai un bel giorno che mi devi la tua fortuna. Guarisci adunque sollecitamente perchè io possa presentarti a messer Nariccia. Le cose più presto si fanno e meglio è per ogni verso.

«La proposizione di Gian-Luigi, a dire schiettamente il vero, non mi lasciava del tutto soddisfatto; c'era anzi qualche segreta cosa che me ne allontanava; ma la foga delle parole e la sicurezza di Gian-Luigi mi stordivano quasi, e non mi permettevano il coraggio di pur manifestare quella specie di mia malavoglia. Accettai e ringraziai. Se non altro avevo un pane assicurato ed avevo i piedi fitti in questa folla agitata della capitale che mi attirava e spaventava nello stesso tempo.

[96] «Gian-Luigi mi aveva lasciato da pochi minuti, quando mi si presentò sollecita la faccia ilare e improntata di tanta benevolenza di Don Venanzio.

«— Il Signore ci ha aiutati: cominciò senz'altro il buon prete, tutto giulivo: ti ho trovato il miglior posto che si potesse desiderare. Ho parlato di te al marchese di Baldissero medesimo, e quel generoso ha consentito a prenderti seco egli stesso e provarti per sapere quale ufficio ti possa competere e debba quindi assegnarti. Gli ho detto tutto di te; non hai perciò nulla da nascondergli, nulla da dissimulare; come nulla del pari verrà più a farti ricordare le traversie passate. Il marchese sa che il labbro di questo vecchio servo di Dio non si è macchiato mai d'una menzogna, ed affermandogli io la tua innocenza, egli crede ad essa come ad una verità di cui avesse la prova: per la medesima ragione crede al tuo ingegno ed alla tua istruzione. Volentieri egli si presta per salvare dalla miseria e da ogni pericolo di male una creatura di Dio, i cui mezzi non comuni furono forse dalla Provvidenza concessi ad ottenere un gran bene. Se vi è uomo che possa coll'esempio, coll'autorità, cogli ammaestramenti indirizzare un'anima umana sulla buona strada, ispirarle i più sani principii e le più maschie e cristiane virtù; se v'è uomo che meriti rispetto, quello è il marchese. Tu, ne son certo, benedirai la benignità della Provvidenza, e me che fui di essa stromento, per averne ottenuto un tanto favore.

«Io rimasi imbarazzatissimo e non seppi di botto che cosa dire. Se il parroco fosse venuto a propormi d'entrar precisamente da domestico, avrei avuto il coraggio di manifestargli senza esitazione la mia ripugnanza e il mio rifiuto; ma ora le parole di lui mi adombravano una condizione ben diversa da quella che io aveva supposta, e in tal caso, posto in bilancia la fiducia che si meritava la prudenza affettuosa del buon vecchio e quella che l'avventatezza egoistica di Gian-Luigi, le qualità di gentiluomo presso cui voleva allogarmi Don Venanzio e quelle del trafficatore di denaro, al quale aveva promesso l'opera mia il giovane mio amico, non c'era da esitare un momentino nella scelta, anche per la mia inesperienza d'allora. Oltre ciò al marchese di Baldissero non doveva io già una certa riconoscenza per essere egli stato l'autore della mia sollecita liberazione? Quindi se alcun valore era in me, non mi toccava forse l'obbligo di questo impiegare in servizio di lui piuttosto che d'altri? Di più, senza che io me ne sapessi spiegare la cagione menomamente, il nome solo di quella famiglia — di Baldissero — fin dalla prima volta che io l'aveva udito, forse perchè il capo di essa m'era apparso come un genio tutelare che mi avesse protetto, m'aveva ispirato un certo non so che d'indefinito che era simpatia, che era reverenza, un misto confuso di sentimenti il cui effetto era di farmi sembrare che a quella famiglia io non fossi affatto affatto estraneo, che alcun legame segreto mi vi avvincesse, non so come; onde alle parole di Don Venanzio fortissimo di colpo mi si era destato il desiderio di entrare in essa.

«Era forse già un presentimento d'un venturo legame che doveva stringere il mio cuore.... Ah! più tardi mi domandai con profondo fremito di tutte le fibre, che cosa sarebbe avvenuto di me se io allora fossi stato intromesso in quella casa; e più vivo e doloroso ebbi il rammarico che ciò non fosse avvenuto, e d'altra parte per contro quasi benedissi l'error mio, perocchè più acuto sarebbe stato il tremendo dolore che mi aspettava, che mi ha raggiunto, che mi travaglia quest'anima combattuta.

«Ma tu non puoi ancora comprendere queste parole, che presto verrò a spiegarti, quantunque contengano il mio più caro e più tremendo segreto: — ma non ho io deciso di svelarti tutto? — tutto l'esser mio?

«Avrei dunque voluto a quelle parole di D. Venanzio poter rispondere con una sollecita accettazione; ma come, se avevo impegnata la mia parola con Gian-Luigi?

«Il parroco s'accorse della mia esitazione e del mio imbarazzo, e volle saperne la ragione. Tentennai alquanto; mi passò perfino nella mente il pensiero di tacer tutto a D. Venanzio, e di accettare subitamente come se nulla fossevi stato con Gian-Luigi. Però alla verità non sapevo ancora, e non lo so nemmanco adesso, fallire; avevo poi per quel vecchio sacerdote troppa reverenza perchè mi potesse durare a lungo il pensiero di ingannarlo, di pur dissimulargli alcun che. Alla seconda volta ch'egli inquieto e sollecito mi fece richiesta di che cosa avessi, gli dissi tutto.

«Se ne mostrò molto contrariato, mi rampognò amorosamente perchè, avendo egli promesso torsi briga de' fatti miei ed essendomi io affidato in lui, avessi poi, senz'aspettare una sua risposta, disposto delle cose mie; era quasi un mancar di parola verso di esso, era un mancar di fiducia in lui, cose che in me lo affliggevano e l'una e l'altra.

«Proposi vivamente di non tener conto nessuno della promessa data a Gian-Luigi; ed egli me ne ripigliò con severe parole. Avrei fatto maggiore ancora il mio fallo; creder egli di certo che la condizione da lui procacciatami sarebbe stata migliore sotto ogni riguardo, ma ora mio obbligo esser quello di mantenere la data parola; imparassi da ciò ad andar cauto a prendere impegni, ma allorquando ne avessi assunti, mi facessi una legge ad adempirli.

«Mi lasciò con queste parole non offeso, chè troppo buono è il suo cuore per offendersi mai, [97] ma disgustato; ed io da mia parte, nell'animo sentii una malavoglia, una scontentezza che era come il presentimento delle poco liete cose che mi aspettavano.

«Ciò però non tolse che una settimana dopo, guarito, ma debolissimo ancora, io non fossi insediato nel mio ufficio in casa di messer Nariccia.

«Messer Nariccia aveva allora intorno a cinquant'anni. Un ometto piccolo e grassotto a collo torto, a mani rozze e grossolane, a piedi enormi, con ventre proeminente e voce fessa che mi ricordava quella del ladro Graffigna. La faccia piena, la carnagione di color terreo, un'aria sommessa e da buonuomo, un sorriso improntato sulle labbra, troppo costante per essere sincero; i capelli grigi gli venivano giù bassi sulla fronte piccola; gli occhi piccini e birci guizzavano via, per dir così, innanzi allo sguardo degli altri, come timidi vergognosi. Portava un po' di barba d'un biondiccio slavato alle gote, la quale sembrava ancora lanugine; la cravatta bianca, pantaloni, panciotto e soprabito scuri di panno sempre logoro; orologio d'argento con grossa catena d'acciaio, scarponi da montagna, cappello a larga tesa da quacchero, e, suo fido compagno, un grosso bastone.

«Mi accolse con quel suo sorriso che mi parve ghiacciato; mi fece un discorso impacciato in cui le parole si affoltavano senza troppo senso e senza nessun ordine, mentre uno dei suoi occhi guardava la punta delle sue scarpe e l'altro il luciore degli stivalini di vernicato di Gian-Luigi. Trovò la maniera di ficcare in tutti i periodi la Madonna, i Santi, le piaghe di Gesù, il timor di Dio e il gesuita padre Bonaventura del Carmine, suo confessore.

— Buono! Interruppe Giovanni Selva. Gli è anche il confessore di mia madre; e conosco che pollo è.

«— Mi disse in sostanza, continuò Maurilio, che, giovane com'ero, col lavoro e coll'ingegno, avrei potuto arrivare ai favori della fortuna se avessi saputo guadagnarmi colla religione gli aiuti del Cielo. Prendessi ad esempio lui; venticinque anni prima egli era venuto a Torino dalle sue montagne di V... più povero e più solo di quello che fossi in allora, sapendo appena appena leggere e scrivere e già presso ai 25 anni. Ma egli aveva coraggio, buona voglia di lavorare e il santo timor di Dio. Egli entrò come servitore — vero servitore, a spazzar camere e lavar anche i piatti di cucina, e non se ne vergognava, perchè Iddio gli aveva fatta la grazia di non lasciargli perdere mai la umiltà, — entrò dunque come servitore nel collegio-convitto tenuto dai PP. Gesuiti al Carmine, dove tutte le principali famiglie torinesi della nobiltà e della borghesia facevano educare i loro figliuoli. Era appunto allora il 1815, quando colla ristaurazione in Piemonte dell'antico Principato Sabaudo, tornavano a regnare, secondo ch'egli diceva, i buoni principii e la vera religione; ed egli diede prove serie, costanti e solenni ai suoi superiori di essere il meglio pensante e il più zeloso e fedel servo della buona causa, onde si cominciò a distinguerlo e ben volergli, e poichè la Madonna dei sette dolori e quella della Consolata e S. Luigi Gonzaga di cui era specialmente devoto, lo aiutavano per loro bontà celeste, più che non fossero i poveri meriti suoi, ebbe campo di avere al suo zelo sì buona riuscita che quei santi uomini dei PP. Gesuiti lo elevarono a poco a poco di grado e di uffici, e giunse ad essere il dispensiere del collegio.

«Sempre aiutandolo Iddio, secondo la sua espressione, e la più severa economia, era già riuscito a mettersi in disparte un piccolo nucleo di capitale cui si guardava bene dal lasciare inoperoso, ma faceva senza riposo lavorare come lavorava instancabilmente egli stesso. I superiori del collegio, incantati delle sue virtù e della sua abilità, ne parlavano tanto bene che il marchese di Baldissero, avendo avuto bisogno d'un intendente, non volle saperne d'altri che di lui, e benchè assai gli rincrescesse abbandonare i buoni Padri del Carmine, tuttavia dietro le istanti sollecitazioni del marchese, animato a cedere anche dai Reverendi i quali contavano fra i primi loro protettori e amici il marchese medesimo, egli finì per acconsentire.

«Questo marchese di Baldissero non era mica l'attuale padre del marchesino, ma quello che Nariccia chiamava il vecchio marchese, padre al capo presente della famiglia ed avolo di quel tracotante insultatore di Benda. Ah quello era un uomo! esclamava pieno di compunzione e di ammirazione il sig. Nariccia. Il marchese attuale, soggiungeva egli, è certo un degno signore pieno di mille meriti; oh non era egli che ne volesse dire il menomo male; era ben pensante ancor egli, certo, ma il padre suo!... Che fermezza! che rigore! che testa e che mano d'acciaio contro i liberali! Che zelo per la buona causa, la religione, la monarchia legittima, i privilegi della nobiltà! Era un piacerone, per uomini della stampa di cui Nariccia si vantava di essere, lo aver da fare con lui.

«Egli era entrato al servizio del marchese nel 1821, quando, dopo il ridicolo tentativo dei Costituzionali, diceva il buon messer Nariccia, quel capo duro di Carlo Felice era venuto a metterli alla ragione. Il figliuolo — l'attuale marchese — aveva in quell'occasione dato qualche dispiacere al vecchio gentiluomo. Trentenne allora, il padre del marchesino erasi intromesso in quella schiera che si radunava intorno al principe di Carignano, nobili con velleità liberali, e benchè non fosse stato veramente compromesso nella rivoluzione, il [98] partito dei puri lo guardava con occhio sospettoso. Il padre lo aveva fatto partire per un viaggio, e quindi lo aveva fatto nominare addetto all'ambasciata in Ispagna, così che durante quasi tutto il tempo in cui Nariccia fu al servizio della famiglia, egli era stato assente dal paese.

«Quando poi il vecchio marchese, nel 1825, morì e fu capo della famiglia l'attuale, Nariccia già da un anno era uscito di quella casa. Iddio aveva continuato, diceva egli, a favorirlo, e con quel poco di ben di Dio che aveva potuto raggranellare coi suoi risparmi, s'era posto più definitivamente in certi traffichi che già aveva intrapresi, e colla benedizione del Cielo, colla protezione della Beata Vergine e dei Santi a cui lo legava una particolare divozione, i suoi affari avevano prosperato. Dunque accogliessi buona speranza anche pel mio avvenire, se avevo la ferma intenzione di seguitare il suo esempio e di adottare le sue umili virtù da buon cristiano. Egli, da canto suo, avrebbe fatto di tutto per tenermi nella buona via del Signore e rendermi degno dei favori del Cielo.

«— Amen! Disse a questo punto Gian-Luigi, il quale aveva già sbadigliato più volte durante quel lungo ed indigesto e scomposto discorso.

«Io mi sentiva invadere l'anima da un freddo morale, che era uguale e fors'anche conseguenza a quello fisico onde avevo tutte oramai ingranchite le membra, per lo star fermo in piedi in quel freddo salotto dove il sig. Nariccia ne aveva accolti. La casa in cui egli abitava ed abita tuttavia, di sua proprietà, è posta in via **, una delle più anguste di Torino. Tutto era grigio colà dentro; il color delle pareti, la vernice delle intelaiature delle porte, il pavimento, il soffitto, il colore del legno e della stoffa dei mobili, le cortine delle finestre sopraccariche di polvere, la poca luce che si stacciava traverso ai vetri sporchi in quella nuvolosa giornata d'inverno. Non c'era pure una favilla di fuoco, e il camino ornato d'un marmo grigio, con un po' di cenere rammucchiata nel focolare pareva, invece di calore, com'è suo ufficio, mandare anzi nella camera un freddo maggiore. Con quella freddolosità che ci entrava nel corpo per tutti i pori veniva compagna una mestizia, quasi un abbattimento che ti ammortava ogni vigore dell'anima. Ascoltai tutta la lunga diceria del mio nuovo padrone a capo basso; e sentivo una stanchezza, una malavoglia, quasi un'antipatia per quest'uomo, una impressione sgradevole insomma, che era forse accresciuta in me dalla debolezza in cui mi trovavo ancora per la recente malattia.

«Gian-Luigi, che era impaziente di finirla, fece osservare a Nariccia che io aveva bisogno di due cose: di riposarmi, perchè ero ancora in convalescenza, di venir vestito un po' convenientemente, perchè portavo tuttavia gli abiti rozzi e laceri che avevo nel villaggio.

«Nariccia mi guardò alla sfuggita con un occhio, mentre coll'altro pareva sbirciare Gian-Luigi, e poi mi disse:

«— Vi condurrò nella vostra camera. Vi permetto anche di andare a letto, se ne avete bisogno... D'ordinario io mi alzo alla mattina alle cinque — anche d'inverno — e occorrerà che siate in piedi a quell'ora anche voi, ma pei primi giorni potrete stare in letto a crogiolarvi anche sino alle sei... Quanto agli abiti, cercherò fra i miei vecchi panni se qualche cosa potrà adattarvisi, e ve lo manderò dalla Dorotea. Venite.

«Gian-Luigi si partì, ed io seguii messer Nariccia nella camera che mi aveva assegnata.

«Era un camerino stretto ed alto, posto verso il cortile, non illuminato che da un finestruolo così elevato da non poterci arrivare senza una scala, più nudo, più grigio, più uggioso del salotto che avevamo lasciato. In un angolo stavano per terra due grandi casse di quelle che si usano pel trasporto delle mercatanzie e sopravi gettato un pagliericcio che mi aveva da servire per letto; al disopra di esso tendeva le braccia, appesa al muro, una gran croce di legno nero; li presso, da una parte, un vecchio baule di cui la pelle, liberatasi dalle bullette, si rivolgeva contorta allo insù con volute che avresti detto rabbiose, dall'altra parte un tavolino che aveva perduto la vernice ed aveva acquistato una ricca crosta di polvere accumulata, zoppo e reggentesi a stento contro la parete; compieva il novero di quelle masserizie una seggiola che perdeva l'impagliatura del suo piano ed aveva perduto affatto la traversa della sua spalliera.

«Non era a me, avvezzo al fenile di Menico ed uscito allor allora di prigione e dell'ospedale, che la povertà di quella stanza e di quelle robe potesse parer soverchia o produrre soltanto alcun effetto; ma pure, entrando colà dentro, io sentii rinnovarsi e più forte quella specie di freddo onde avevo provato l'impressione sensibilissima al primo porre il piede in quella casa. Parvemi che una voce interna mi dicesse che la vita che avrei dovuto passare colà dentro sarebbe stata la più ingrata del mondo; feci girare intorno l'occhio quasi atterrito, come per cercare un mezzo di fuggire, e poichè l'uscio spesso e grossolano di abete si serrò con fracasso dietro di noi, e il mio sguardo non corse più che sulle pareti nude e scuramente grigiastre, mi sembrò d'essere entrato in una nuova carcere.

«— Suvvia, mettetevi a letto, mi disse il mio nuovo padrone, riposatevi, dormite, e domani stesso comincierete le vostre funzioni.

«Si avviò per uscire, ma quando fu alla porta si fermò per soggiungere:

[99] «— Forse avete bisogno di qualche cosa; or ora che venga Dorotea da voi, le direte ciò che v'occorre. Qui già non si mangia mai fuori pasto, ma per voi che siete ancora convalescente, credo bene che vi sarà un po' di brodo. Intanto dite le vostre orazioni e se aggiungerete un pater e una ave alla mia intenzione, mi farete piacere. Io da mia parte non vi dimenticherò nelle mie.

«Strinse le mani come uomo che prega, storse il collo e borbottò fra le labbra con aria compunta come chi dice una giaculatoria, quindi uscì. Io stetti un poco li piantato al luogo in cui mi trovavo, senza quasi sapermi render conto esattamente delle mie condizioni, di quello che succedeva e di me stesso. Una nuova vita incominciava per me, ciò era certo. Il passato cadeva irrevocabilmente nel baratro delle cose distrutte per sempre e che non tornano più. Questo passato ben era stato abbastanza infelice perchè io non avessi a rimpiangerlo: eppure sentivo un'esitazione, quasi una paura nell'affacciarmi all'oscurità di quel futuro che stava per incominciare.

«Mi riscossi sentendo invadermi sempre più le membra da quel freddo fisico a cui andava compagno un freddo morale che mi veniva avvolgendo l'anima. Tutto intirizzito mi affrettai a pormi a letto, il quale trovai ben diverso, quanto a comodità ed agiatezza, da quello che avevo all'ospedale. Ero inoltre non coperto abbastanza e per quanto rammontassi addosso a me quei pochi panni mezzo laceri che avevo allor allora svestito, sentivo tuttavia crescermi lo intirizzimento che mi faceva battere i denti come a chi è assalito dalla terzana.

«Poco stante entrò una vecchia trascinando le pianelle entro cui teneva i piedi, burbera d'aspetto, grossa e robusta della persona, con qualche cosa di virile nelle sembianze, che mi fece il più scontroso effetto del mondo. Come certe volte si è mai ingiusti nell'apprezzamento fatto dietro la prima impressione! Per quella creatura brutta e grossolana, io provai di botto una viva ripugnanza che mi fece sembrare di vedermi davanti risuscitata la Giovanna, più niquitosa che mai. Ella portava sopra il suo braccio in un fascio alcune vestimenta, destinatemi da messer Nariccia.

«— Ebbene, giovinotto, mi diss'ella coll'accento con cui si parla colle persone che si vogliono strapazzare, di che cosa avete bisogno? Orsù parlate.

«Io levai timidamente lo sguardo verso quella megera e il suo viso scuro colle sopracciglia aggrottate mi fece una vera paura. Mi parve che se domandassi alcuna cosa a quella donna, avrei incorso chi sa qual pericolo: risposi tremando e di freddo e di suggezione:

«— Non ho bisogno di nulla, non voglio nulla.

«La vecchia Dorotea mi guardò con aria più feroce di prima.

«— Che storie sono queste? Come, non avete bisogno di nulla? Avete mangiato? Non vedete che avete l'aria d'un pulcino colla pipita? E se monsù mi ha detto di venirvi a domandare se volete qualche cosa, bisogna prendere qualche cosa. È già un fatto straordinario che monsù offra una goccia d'acqua; andate là, che se fate delle cerimonie siete uno stolido.

«La verità era che io mi sentiva proprio un gran bisogno di ristoro; ma pure non osavo muovere la menoma domanda. Tacqui non osando pur levare più lo sguardo sulla faccia per me terribile di quella vecchia colossale.

«Dorotea stette un poco, gettò sopra il baule le vesti che aveva recate, poi crollò le spalle con impazienza soggiungendo colla sua voce più aspra ed ingrata:

«— E tal sia di voi! E così non avrò da pigliarmi altri incomodi, che se credete ch'io vi avessi da servire anche voi, la sbagliereste di grosso. Ne ho già di soverchio a servire monsù, che non c'era nessun bisogno che venisse a ficcarsi in casa un terzo che sarà buon da niente e che mi accrescerà lavoro, alla mia età!..... Eccovi intanto i panni che monsù vi manda. Li vestirete domani. Oh ci starete proprio bene dentro, come un bastone in un sacco.

«Mi pareva sempre più di riaver dinanzi viva e tal quale la moglie di Menico; onde la mia ripugnanza e il mio disagio crescevano sempre più.

«Ad un punto Dorotea s'accorse che battevo i denti.

«— Avete freddo? Mi domandò.

«— Sì, un poco: risposi con voce mozzicata, appena da potersi udire.

«Mi cacciò bruscamente le mani sotto le coltri a soppesarle.

«— Parevami pure che queste coperte dovessero bastare.

«Toccò le mie guancie e le braccia e le mani.

«— Questo babbuino è freddo come una manciata di neve. E' non ha niente affatto sangue nelle vene. Bel coso che monsù s'è andato a caricare! Egli ci basirà qui come un pippione da imbeccare tolto troppo presto dal nido.

«Stette un momentino in silenzio, poi mi disse ruvidamente, colla guisa che altri avrebbe fatta una minaccia o scaraventata in faccia un'ingiuria:

«— E vostra madre? Dove l'avete vostra madre?

«Queste parole mi scesero profondo nell'anima come una punta di lama che mi ferisse. A quell'essere sconosciuto che era stato mia madre pensavo cotanto e sentivo verso di essa tante e sì forti aspirazioni! Il rammentarmi ad un tratto in quelle condizioni che non avevo, nè mai avevo [100] avuto intorno a me una madre, mi fece sentire più doloroso, più disperante il mio isolamento, così che, senza potermi in nessun modo frenare, ruppi in un subito pianto.

«Dorotea stette un poco a guardarmi come stupita, poi mi disse collo stesso accento, senza che la sua voce avesse pure il menomo cenno di pietà:

«— Che? vostra madre è morta?

«Mi rasciugai le lagrime, soffocai a forza i singhiozzi, e risposi con più ferma voce che potei:

«— Non la ho mai conosciuta.

«E poi, come sentivo l'emozione vincermi nuovamente, nascosi la faccia sotto le coltri e mi premetti coi pugni chiusi gli occhi che a forza volevano piangere. Dopo un poco, non avendo udito più alcun rumore, alzai la testa, e non vidi più nessuno. Dorotea, forse infastidita di quelle mie lagrime, avevami lasciato lì, senza tentar pure una parola di consolazione. Provai quasi un sentimento di sollievo a trovarmi solo; ma il bisogno di ristoro si faceva sempre più forte, aumentava quel freddo che m'intirizziva e cominciava a darmi un vero tormento. Eppure domandare non osavo; avevo rifiutato un minuto prima ciò che mi si era offerto; ed ancora, se avessi pur domandato, non ero sicuro che alcuno sarebbe venuto al mio appello.

«Il bisogno divenuto incomportabile era lì lì per farmi superare la mia timidità e spingermi ad un tentativo di chiamar per aiuto, quando udii nello andito che conduceva al mio stambugio lo strascico delle pianelle di Dorotea, e tosto dopo vidi l'uscio aprirsi e quella vecchia con faccia da megera comparirmi dinanzi più burbera e stizzosa che mai, tenendo sopra un braccio una coperta e in una mano una scodella fumante.

«Non disse una parola ned io parlai. Io guardava quella benedetta scodella coll'occhio intentamente desioso d'un affamato. Dorotea s'avanzò, pose la scodella sul tavolino, e poi di mala grazia mi gettò addosso la coperta, cui non si diede punto cura di aggiustarmi intorno, ma lasciò spiegazzata come volle stare; poi ripigliata in mano la scodella me la pose innanzi a farmi venire alle nari l'odore riconfortante di un sugoso brodo di carne.

«Presi avidamente la ciotola con ambe le mani che mi tremavano.

«— Grazie! Mormorai osando levare lo sguardo su quella terribile faccia di donna.

«Ella nè rispose, nè parve tocca in alcun modo dal sentimento di riconoscenza che pur c'era nell'accento della mia voce. Mi volse le spalle ed uscì col suo passo lento e pesante, trascinando quelle sue ciabatte come aveva fatto venendo.

«Quella scodella di buon brodo mi riconfortò tutto; mi ravviluppai poscia per bene colla coperta stata aggiunta alle mie coltri e tornando nelle mie membra per ciò un benefico calore, io sentii un certo benessere invadermi il quale mi condusse senza ritardo un tranquillissimo sonno.

«E in quello stato incerto di dormiveglia che precede l'addormentarsi mi apparve annebbiato, ma non più spaventoso il sembiante di Dorotea che ora mi pareva confondersi con quello della Giovanna, ed ora mi pareva pigliare una tinta di benignità, facendomi oscillare fra la prima, istintiva ripugnanza che quella donna mi aveva ispirata, e quel certo sentimento di gratitudine che quel suo ultimo tratto mi aveva lasciato nell'animo.

«Il domattina dormivo ancora della grossa, quando una mano venne a scuotermi per una spalla ed una voce sottile e strillante mi gridò:

«— Ehi là giovinetto! Svegliatevi su! Altro che le sei, sono le sette.

«Mi destai in sussulto. A tutta prima non ebbi coscienza di dove mi trovassi. La mia stanza era tuttavia oscura ed appena se dall'alto finestrino discendeva un incerto albore in essa. Mi fregai gli occhi, guardai intorno, pensai in un attimo al fenile di Menico, alla prigione, all'ospedale, vidi che non ero in nessuno di questi luoghi, mi ricordai ad un tratto di ciò che era avvenuto il giorno prima, sorsi a sedere sul letto e riconobbi nell'uomo che mi aveva svegliato il signor Nariccia.

«— Orsù è più che il tempo di levarsi, soggiunse messer Nariccia. Avete dormito oltre il bisogno, Tognino.

— Tognino! Esclamò a questo punto Selva, stupito d'udir così chiamato Maurilio. Avevi tu cambiato di nome?

«— Era stato Nariccia medesimo, rispose Maurilio, a volere che così mi chiamassi. Appunto, mi sono dimenticato di narrartelo. Gian-Luigi aveva inventata una storiella sui fatti miei che si prese incarico egli stesso di narrare a Nariccia per farmene accettare. Io era figliuolo di certi negozianti che, avendo visto andare a male i loro affari, n'eran morti di crepacuore, lasciandomi orfano in tenerissima età alle cure d'uno zio prete, il quale mi aveva preso con sè, allevato ed istrutto in quel modo di cui non avrei tardato a dargli prova. Che adesso, morto essendo, e poverissimo ancor egli, lo zio, m'ero trovato affatto solo al mondo e nella massima miseria, ch'egli, Gian-Luigi, statomi compagno di scuola, s'interessava vivamente a me e perciò gli premeva vedermi allogato così bene ecc. ecc.

«Nariccia aveva egli creduto a codesto? Io non so; il fatto è ch'egli non se ne diede altra briga e forse, perchè io gli servissi all'uopo, niente gli importava donde venissi e che cosa fossi: soltanto, al dire di Gian-Luigi, poichè io [101] a quel colloquio tra di loro non fui presente, soltanto gli dispiacque assai il mio nome di battesimo, e qualunque ne fosse la ragione, che io mal saprei indovinare, Gian-Luigi mi disse come all'udire ch'io mi chiamava Maurilio, Nariccia avesse dato in un trasalto, avesse corrugato la fronte e sclamato con una emozione che invano avea cercato dissimulare:

«— Si chiama Maurilio?... Che razza di nome!... Ma ci sono dei Maurilii qui in Piemonte? Non ho mai sentito nessuno del nostro paese che fosse battezzato così.... Di che paese è egli mai?

«— Di Pinerolo, rispose francamente Gian-Luigi che non si lasciava punto imbarazzare da nulla al mondo.

«Questa risposta parve acquetarlo.

«— È un nome che non mi piace: riprese egli poi. Un nome che appena è se ha l'apparenza di esser cristiano. Non è un santo che abbiamo scritto nel calendario della nostra diocesi. Ditegli che si chiamerà Antonio. È il mio santo protettore; e sarà bene anche per lui l'essere sotto la sua protezione.

«Io dunque doveva rassegnarmi a diventar Tognino per quanto tempo sarei rimasto in casa di messer Nariccia, e benchè mi rincrescesse non poco abbandonare il mio nome cui posso credere postomi da mia madre medesima, Gian-Luigi facilmente mi persuase che sarei stato pazzo a rinunciare a quel posto per sì futile ragione, protestando ch'egli in caso simile si sarebbe acconciato a lasciarsi chiamare anche Bernardone.

«Per continuare adunque, Nariccia, quella prima mattina mi svegliò come io ti ho detto, e fattomi levare e vestire in fretta di que' suoi panni, che secondo l'espressione di Dorotea mi stavano proprio come un sacco ad un bastone, mi condusse poscia in un suo studiòlo che era mille volte ancora più triste del melanconico salotto in cui mi aveva accolto il giorno prima, e del tetro stambugio che mi era dato per istanza da dormire.

«Figurati una camera più lunga che larga, illuminata da una sola finestra, la quale, munita d'una grossa inferriata, poi d'una fitta graticola di ferro lasciava passare a stento la luce traverso i vetri sporchi tanto da esser ridotti poco meno che opachi. Pareva che quella benedetta luce si avesse in odio nella casa di messer Nariccia e le si misurasse a stento il passaggio e si premunisse contro di lei l'accesso come contro un nemico. Verso la finestra in questo freddo studiòlo senza camino, nè stufa, eravi una scrivania con sopravi una piccola scancia divisa in caselle da riporvi delle carte. La scrivania era del tutto adattata al resto della casa; vecchia, sverniciata, polverosa, il panno verde tirato sul piano dove scrivere frusto con larghe macchie d'olio e d'inchiostro, scollato da una parte, ed a chiamarlo verde ancora era un adularlo, tanto n'era misto di mille tinte sporche il colore. In faccia, presso l'altra parete, un semplice tavolino. Verso la parte più scura un cancello di sbarre di ferro con una fitta grata separava dal resto un angolo della stanza: in questo cancello s'aprivano un usciòlo per entrarvi ed uno sportello come quello che si trova presso i cambiamonete, per cui dare e ricevere il denaro, sportello che si chiudeva con una specie di cateratta che scorreva fra due scanalature da sottinsù e viceversa. Perchè non si vedesse entro questo cancello per i fori della grata, dietro di questa era tirata tutt'intorno una cortina di tela verde. Nessuno penetrava mai in quel sacrario, ma quando lo sportello ora aperto, chi vi gettasse dentro un'occhiata poteva sorgere nell'angolo una voluminosa e pesante cassa-forte di ferro, irta di grosse capocchie di chiodi piantati nelle lastre.

«Dietro la scrivania era un seggiolone frusto, di cuoio spellato, a spalliera altissima; sopra questa spalliera pendeva appeso al muro un almanacco, e lì vicino appiccata alla parete per quattro bullette una tavola di riduzione delle antiche misure, pesi e monete del Piemonte in monete, pesi e misure decimali. In prospetto a quel seggiolone e quindi al disopra del tavolino stava attaccato per un chiodo al muro un'incisione grossolana, grossolanamente colorita della Santa Vergine, inquadrata in una cornice di legno inverniciato a color naturale. Nel mezzo della stanza un braciere di ferro a tre piedi conteneva molta cenere ed un poco di carboncina mezzo spenta.

«Nariccia mi menò innanzi al tavolino sotto il quadro della Vergine e mi disse:

«— Questo è il luogo in cui lavorerete, in cui lavoreremo insieme, poichè io starò là (e mi additava la scrivania); e coll'aiuto del Signore e della Madonna della Consolata, spero che sarà benedetto il nostro lavoro.

«In quella fredda, oscura stanza, seduto a quel tavolino, passai poco meno di un anno, quasi incatenato, scrivendo lettere, facendo conti, compilando discorsi per conto del mio padrone, del quale non tardai molto a conoscere ed a prendere in disprezzo profondo l'industria scellerata. Quell'uomo, sotto la sua volgare ipocrisia religiosa, non ha altro sentimento, altro affetto, altra guida alle sue azioni che l'amor del guadagno, che la smania di far denaro. Colla sua impostura cerca di gettar polvere negli occhi alla gente, colla sua prudenza s'industria di fare il peggio male possibile che gli frutti, senza dar di cozzo nel Codice penale. Nello scrivere molte delle sue lettere, delle sue memorie, di cui egli mi dava una traccia confusa perchè le mettessi in netto, essendo che nè lingua, nè grammatica, nè sintassi egli non sapeva affatto che si fossero; [102] nello scrivere certe di quelle infamie, la mia mano fremeva con ripugnanza e l'onestà che era in me si ribellava con disdegno. Più volte fui lì lì per andar a gettar in volto all'ipocrita quelle carte che conchiudevano la rovina di un onest'uomo, che stavano per recar la disperazione in una povera famiglia; ma me ne trattenevano la soggezione che quell'uomo mi aveva saputo ispirare, il non saper di poi come avrei potuto guadagnarmi un tozzo di pane quando egli mi avesse scacciato, e poi ancora un allettamento potente che avevo trovato in quella dimora.....

— Ah ah! Interruppe Giovanni Selva, sorridendo, una sottana ci scommetto.

Maurilio arrossò sino sulla fronte e rispose vivamente:

«— No. Di donne colà non c'erano altre che la vecchia Dorotea. Io poi non aveva che diciasette anni, e ti assicuro che mai ancora il mio pensiero si era a quest'argomento rivolto. Per una stranezza della mia natura, in me s'era desto prima lo spirito che il cuore, e mentre quello s'affannava precocemente in quelle peste ch'io t'ho detto, questo ancora taceva per l'affatto. Era appunto un vivo allettamento pel mio spirito quello di cui ti voglio parlare, ed era il seguente.

«Ti ho detto che per giaciglio avevo un pagliericcio gettato sopra certe grandi casse in quello scuro stanzino che mi era stato assegnato. Un giorno, rifacendomi il letto, mi venne la curiosità di sapere che cosa fossevi colà dentro. Il coperchio inchiodato tutt'intorno, si sollevava un po' da una parte, dove mancava uno dei chiodi. Tirai con tutte le mie forze insù per allargare quell'apertura, e ci riuscii tanto da poterci ficcare la mano. Rimasi tutto sorpreso di quel che ci rinvenni, ch'io difatti non avrei mai immaginato di trovarci. Erano libri. Il primo volume ch'io ne trassi era un volume dell'Enciclopedia francese del secolo scorso. Figurati il mio disappunto! A sentire sotto la mia mano un libro, io che da tanto tempo non avevo più potuto averne neppur uno, il mio cuore aveva palpitato come all'incontro d'un amico da troppo lungo non più visto; l'avevo preso con una desiosa sollecitudine, quasi tremando, e i miei occhi s'erano spuntati, per così dire, contro pagine scritte in una lingua che ben conoscevo essere la francese, ma non sapevo leggere nè capire.

«Fui preso da una specie di furore che mi diede la forza di strappar via tutto quel coperchio, e mi posi a frugare in quella cassa con una ardenza quasi febbrile. Erano quasi tutti francesi i libri che vi si contenevano. Libri di storia, di economia politica, di filosofia. Una sola opera trovai in italiano e su quella mi gettai sto per dire rabbiosamente. Erano i primi volumi, usciti non era guari, della prima edizione della Storia Universale di Cesare Cantù.

«Questo titolo mi ricordò quel libro che primo aveva dischiuso la mia mente a più vasti e profondi pensieri e fattomi concepire l'idea dell'umanità come un complesso armonico e solidario svolgentesi nella storia traverso i secoli; il discorso del Bossuet, che Don Venanzio m'aveva dato da leggere tradotto, e senz'altro indugio cominciai la lettura del primo volume a quella fioca luce che in quell'ora mattutina pioveva stentatamente dall'alto finestruolo della mia stanza.

«Non potei continuare a lungo questa lettura che messer Nariccia venne a disturbarmene. Ero in ritardo a recarmi allo studiòlo, ed egli se ne veniva a vedere che cosa mi fosse capitato. Per fortuna io ne udii il passo nell'andito che conduceva alla mia stanza, e m'affrettai a gettare il libro e saltar fuori, così ch'egli non potè cogliermi intento alla lettura. Temevo che se ciò fosse avvenuto, Nariccia mi avrebbe proibito di toccare quei libri, e forse toltili dalla mia stanza; ed io pensava e sperava che avrei avuto in quelle casse un bel tesoro di ore di sollievo e di diletto da godere.

«Lasciai tutto in disordine per uscir presto: la cassa scoperchiata, i libri sparsi sul pavimento, pagliericcio, lenzuola e coperte gettate a casaccio; ma ero certo che Dorotea non ficcava mai il piede nella mia camera per ripulire, riordinare od altro, e se non era impossibile che ci andasse Nariccia, il quale soleva spesso visitare ogni parte della casa scrupolosamente, pure speravo di poter tornare a rimettere ogni cosa in sesto prima ch'egli ci venisse.

«— Che cos'è ciò? Mi domandò severamente messer Nariccia guardandomi con l'occhio destro incollerito, mentre il sinistro fulminava l'oscurità del corridoio in cui ci trovavamo. Cominciate già a fare il negligente? Questo non mi piace e non lo tollero. Siete in ritardo stamattina quasi di mezz'ora.

«Non tentai neppure di scusarmi, come non facevo mai, e perchè non è nella mia indole il raumiliarmi ne il difendermi innanzi ai rimbrotti, e perchè Nariccia — come ben presto ebbi scoperto — sotto la sua falsa arrendevolezza, affettatamente dolcereccia, è uomo a volere assoluto e di carattere imperioso che non ammette contrasti ai suoi desiderii, nè osservazioni alle sue parole.

«Lo seguii nello studiòlo, e lavorai tutto il giorno, come se di nulla fosse; ma la mia mente era sempre e tutta là, in mezzo a que' libri. Appena potei, corsi nella mia stanza e riposi i volumi entro la cassa e vi rifeci su il letto, lasciando però fuori, nascosto sotto le lenzuola, quel primo volume del Cantù che avevo già incominciato.

[103] «Ma un gran desìo mi pungeva: quello di poter leggere in que' libri francesi che erano lettera chiusa per me. Mi pareva che avrei dato non so che cosa per poter possedere un libro di grammatica francese da imparar quella lingua.

«Come fare a comprarmela? Nariccia non mi aveva ancora dato neppure un soldo dello stipendio promessomi; inoltre io non usciva quasi mai: prima perchè il mio padrone non me lo consentiva che raramente alla festa soltanto per andare alle funzioni di chiesa, e poi perchè, vestito sempre degli abiti frusti di messer Nariccia, facevo la più ridicola e brutta figura di questo mondo, e tutti i biricchini delle strade, vedendomi, mi correvan dietro facendomi le beffe.

«A levarmi d'impiccio venne giusto in quel torno di tempo il mio buon Don Venanzio. Lui pregai di provvedermi di quel libro onde avevo desiderio, ed a lui dissi averne anche bisogno per ragione del mio impiego, e quell'eccellente sacerdote, senza pure la menoma obbiezione, s'acconciò a fare la mia volontà. Al parroco, la faccia e i modi del mio nuovo padrone, benchè questi torcesse il collo e invocasse Dio e i Santi più che mai, non erano andati molto a sangue, e da parte sua messer Nariccia se aveva in sua presenza fatto mille esagerate dimostrazioni di riverenza a Don Venanzio, costui partito mi aveva detto bruscamente:

«— Chi è quel prete? In che modo vi appartiene? Che cosa è di voi?

«Io fui lì per ismentire tutta la storiella inventata da Gian-Luigi, dicendo la verità; ma me ne trattenni a tempo, e risposi, esser quello un amico di quel mio zio che mi aveva allevato, avermi visto bambino e perciò postomi un certo affetto paterno; però siccome a mentire non avevo l'abitudine e forte mi ripugnava, come anche oggidì mi ripugna, divenni rosso sino alla radice dei capelli e non potei pronunciare quelle parole che balbettando impacciatamente.

«Nariccia mi guardò ben fiso coll'uno e poi coll'altro di que' suoi occhi birci, e poi disse colla sua voce più acuta:

«In somma, non vi è nulla di nulla, e non saprei perchè avesse da venire a ficcare il naso in casa mia.

«Per fortuna Don Venanzio, tra che le sue gite a Torino si facevan sempre più rade per gli anni crescenti, tra perchè l'istintivo suo sentimento di profonda onestà lo respingeva dal cercare la presenza di messer Nariccia, più non venne a vedermi in tutto quel tempo che rimasi ancora nella casa di quest'ultimo.

«Io intanto ero in possesso della mia grammatica francese, e la studiavo con ardore. Il tempo che mi rimaneva per ciò era poco in verità, perchè appena alzato, e m'alzavo sempre prima che fosse giorno, mi toccava andar nello studiolo a lavorar pel padrone, in quella fredda, triste atmosfera, al melanconico chiaror d'una lampada mezzo moribonda; e colà seduto a quel tavolino stavo la giornata intiera con pochissimo riposo per l'ora dei pasti soverchiamente parchi e troppo scarsamente misurati. Ma quel libro portavo meco sempre, e quando Nariccia non era là, affrettatomi più che potevo a finire il lavoro affidatomi, studiavo la mia grammatica con tanta intensità di volere che il tempo pei risultamenti poteva contarci pel doppio. Ma ciò non mi bastava ancora. Volevo leggere eziandio i volumi del Cantù, volevo giungere il più presto possibile a poter divorare quegli altri che tanto mi facevan gola. Non c'era altro mezzo fuor quello di rubar delle ore al mio sonno e trar profitto della notte, in cui almeno ero libero dello sguardo inquisitore di Nariccia e di Dorotea. Ma qui c'era un altro guaio: bisognava procacciarsi del lume, e come giungere a tanto?

«Per andare a coricarmi non mi si dava mai altro che un piccolo moccolino di candela e guai ancora se il mattino seguente Dorotea avesse trovato che il consumo n'era stato soverchio! Pensai di raccomandarmi alla fante e di ottenere da lei un tanto favore; ma sempre quando fui sul punto di aprirmene con esso lei, il coraggio mi venne meno, e poscia la prudenza medesima me ne trattenne. Dorotea avrebbe voluto sapere che cosa ne avrei fatto, non l'avrebbe taciuto al padrone a cui le toccava pure di rendere strettissimo conto di tutto. Che scusa avrei allegato? Il mio segreto sarebbe stato scoperto e toltomi in conseguenza quell'unico sollievo che avessi. Denari da comprarmi ciò che mi occorreva non possedevo a niun modo. Un giorno, entrato per qualche bisogna nella cucina, vidi la serva, che giustamente approntava i lumi per la sera, aprire un certo cassettino riposto in un armadio ordinariamente chiuso a chiave e in tal momento aperto, e da quel cassettino trar fuori una candela. Gettai là dentro uno sguardo, dirò così di ardente cupidigia; quel cassettino era quasi pieno di candele. La vista di tutti i tesori del mondo non avrebbe esercitato una sì irresistibile tentazione sull'animo mio quale mi destò la vista di quei bastoncini di sego. Sentii come una fiamma invadermi tutto; delle stille di sudore mi spuntarono sulla fronte. La sorte voleva proprio farmi sostenere per intiero e in tutta la sua forza la prova tentatrice. La voce di Nariccia chiamò in quel punto Dorotea, e con quella insistenza e con quell'accento che esigevano di prontamente obbedire.

«La serva se ne partì lasciando aperto l'armadio, lasciando aperto il cassetto e me innanzi a quelle candele, per prender le quali [104] non avevo che da allungare la mano. Ciò che provai in un attimo allora, mi occorrerebbe non so quanto tempo a spiegartelo, tanti e sì diversi e sì complessi sentimenti contenne un solo minuto secondo. Per prima cosa mi precipitai sulla cassetta per afferrare una di quelle desiate candele, e tosto poi mi rigettai indietro vivamente, come se respinto con forza da una invisibil mano. Una voce mi aveva gridato nell'anima: «Disgraziato! questo è rubare!» Volli fuggire quel luogo, e non potei. Si fecero riudire le pianelle trascinanti di Dorotea che ritornava; l'occasione — se io tardava ancora un minuto — era persa, e chi sa se sarebbe tornata più! Mi trovai di nuovo presso presso alla cassetta senza pure essermi accorto d'avere fatto il passo, e la mia mano abbrancò una candela. Il passo di Dorotea era lì, proprio sulla soglia dell'uscio. Nascosi la candela sotto a' miei panni e corsi via senza dir parola, senz'alzar lo sguardo; corsi a riparare nella mia stanza, dove nascosi in fretta entro il pagliericcio il conquistato oggetto del mio desiderio.

«Ma appena ebbi ciò fatto, io fui assalito da paura, da rimorso, da vergogna de' fatti miei. Se Dorotea se ne fosse accorta! E come non accorgersene? La mia stessa fuga non mi accusava ella? Cielo! Quello che io aveva commesso era un latrocinio. Ero dunque degno compagno di que' tali con cui avevo divisa la carcere? Le parole di Graffigna mi tornarono alla mente. Egli aveva dunque avuto ragione nell'affermarmi predestinato al delitto, nell'assicurarmi che sarei caduto necessariamente in esso? Mi venne in pensiero di andarmi ad accusar tosto io stesso da Dorotea e restituire senza ritardo il mal tolto oggetto.

«Nariccia mi chiamò in quella per nome, ed io allibii; tremai tutto; prima un brivido mi assalse, poi una vampa di calore; mi credetti scoperto. Ripetendosi la chiamata, andai con passo vacillante dov'era il padrone, certo d'udire la mia condanna. Nulla era scoperto, Nariccia non mi chiamava che per darmi nuovo lavoro.

«La notte seguente, quando tutto fu quieto, saltai giù del mio giaciglio, accesi la candela e quasi tutte quelle silenziose ore impiegai nello studio e nella lettura. Ma la candela non istette gran tempo ad essere consumata, e oramai che il primo passo era fatto, oramai che il bisogno di quelle nottate era divenuto ancora più imperioso in me, gli scrupoli cedevano affatto innanzi al mio desiderio, che come tutte le passioni, ricorreva al sofisma per legittimare il suo soddisfacimento.

«Nariccia, mi dicevo, aveva promesso pagarmi uno stipendio, e di esso in parecchi mesi che già lavoravo da lui non avevo ancora visto neppure un centesimo. Non era che una piccolissima parte di ciò ch'egli mi doveva, ch'io veniva prendendomi sotto forma di candele, e quando il padrone mi avesse totalmente pagato del fatto mio, allora avrei trovato il modo di restituirgli quello che avevo preso per anticipazione. E così con mille industrie ed accortezze, di cui prima mi sarei creduto affatto incapace, io giunsi a provvedermi continuatamente di lume per la notte.

«Ma intanto, lavorando tutto il giorno, vegliando a studio la notte, non uscendo quasi mai, dormendo troppo poco, nutrito troppo male, pensati come se ne dovesse avvantaggiare la mia salute! Io diventava allampanato che era una compassione il vedermi, cotanto che ne fu tocca quella rozza, grossolana e burbera Dorotea.

«Costei aveva una certa influenza su messer Nariccia: era anzi l'unica persona ch'io mi accorgessi mai che avesse alcun potere su quell'uomo che non sentiva nulla, che non si preoccupava di nulla che non fosse l'oro e l'amor del guadagno. La sua ipocrisia medesima, la smania che sembrava avere di conseguire stima ed osservanza presso il pubblico non erano altro per lui che un mezzo maggiore con cui, ingannando la gente, aumentarsi gli spedienti e le probabilità degl'illeciti profitti. Ebbene a quest'uomo, quella vecchia donnaccia, sempre aspra ed incollerita, pareva incutere quasi direi una certa paura, e fosse abitudine presa da lungo tempo (erano di begli anni che que' due stavano insieme), fosse una dipendenza stabilita per qualche segreta ragione, il fatto è che Nariccia, per tutto quello che non toccava i suoi traffichi impuri e scellerati, in certa proporzione sottostava alle volontà della Dorotea.

«Or bene, questa donna che in fatto fin dal primo giorno, come ti ho narrato, non era stata senza pietà a mio riguardo, una bella volta manifestò più spiccatamente la sua compassione per me.

«Messer Nariccia era il più incontentabile uomo del mondo. Per quanto uno si industriasse a far con zelo il dover suo, non solamente egli non trovava mai una parola di lode per esso, ma non desisteva pur mai, ciò nulla meno, dal brontolare e rampognarlo. Con me gli era un rimprovero continuo, e il quale aumentava di intensità in due occasioni: quando veniva alcuno in istudio, e non si trattava d'affari segreti che io non dovessi ascoltare, perchè in tal caso ero sempre mandato in altra stanza, e quando ci sedevamo al desco per mangiare quello scarso cibo che ci era ammanito. Nel primo caso egli pigliava qualunque pretesto per entrare a dire della gran pazienza che io gli faceva esercitare, della croce che per causa mia gli toccava portare, [105] della grandissima carità che egli usava a mio riguardo tenendo seco un buon da nulla ed un ingrato; e torceva il collo più che mai, e giungeva le mani, e diceva le più infervorate giaculatorie del mondo. Nel secondo caso, cioè a tavola, egli mi rivolgeva per punta, come dice Dante, quella lama che già di taglio mi tornava troppo acre, e siccome s'era accorto, io credo, che per la commozione ond'era preso non potevo più mandar giù che pochi bocconi, sono persuaso che lo faceva apposta, avarissimo secondo che egli è, a cominciare quei discorsi appena ci trovavamo seduti a tavola.

«E se avesse almeno prorotto in una sfuriata, e poi smesso, pazienza! Per quanto frequenti fossero quelle sfuriate ci sarebbe sempre stato frammezzo un po' di tempo di riposo; ma no, il suo era un continuo tatamellare colle più untuose sembianze e colle esclamazioni della più afflitta anima del mondo. Non era un temporale che passa e cessa, e lascia venire il sole a rasciugare; era una piova continua che immolla senza riparo e senza interruzione.

«Una volta adunque ch'egli aveva incominciato all'ora del pranzo la sua solita tiritera contro di me, ed io, rimasto lì col groppo nella gola, non potevo più mandar giù il boccone, Dorotea interrompendo colla sua voce grossa quella esile e sottile del padrone, disse in quel tono di collera che le era abituale:

«— Eh! lasci un po' stare tranquillo un momento questo povero scempiatello, che la vede bene non ha più tanto fegato da tirar nemmanco il fiato. Certo che la non lo ingrassa, che lo manda pasciuto di rimbrotti e di trafitture.

«Nariccia alzò verso la serva il suo volto flosciamente paffuto, ed una fiamma di sdegno lampeggiò ne' suoi occhi balusanti.

«— Che temerità è questa vostra, Dorotea? Diss'egli. Voi abusate stranamente, mi pare, della bontà con cui tollero le vostre impertinenze.

«Dorotea mise le mani in sui fianchi nell'attitudine battagliera d'una treccona che si appresta a mandare ed a ricevere una bordata di ingiurie nella lotta con una sua compagna.

«— Abuso? Gridò essa con voce più sonora che mai. Le mie impertinenze? Ella tollera?... Un corno! Oh! non mi guardi pure di cattiv'occhio che a me la sa che non mi fa paura... Nè lei ned altri musi più brutti del suo. E le mie buone verità glie le ho sempre dette e voglio continuare a dirgliele.... Ah! Ed a me di questo cazzatello me ne importa tanto quanto delle prime scarpette che ho frustato, va benissimo; ed ella poteva far benissimo senza d'una nuova bocca da alimentare, e se avesse dato retta a me non si sarebbe caricato d'un impiastrino che non so a qual cosa le possa servire. Ma poichè le è piaciuto far di sua testa e condursi in casa questo tristanzuolo, io le dico che bisogna almanco trattarlo come un cristianello e non farlo morire a pizzichi ed a piccol fuoco.

«La fiamma di sdegno balenò più intensa e più viva negli occhietti di messer Nariccia, ed io credetti vicino il momento in cui fra quei due avvenisse un aspro battibecco; invece di botto quel lampo nel padrone passò, gli occhi suoi ed anche il volto si chinarono verso terra, le mani si congiunsero e le labbra mormorarono col solito tuono di giaculatoria:

«— Sant'Antonio, mio protettore, datemi voi pazienza, e che io possa sopportar tutto di buon animo, in espiazione de' miei peccati.

«— Sì, bravo, continuava più fiera la fante, intanto la espiazione de' suoi peccati la fa sostenere agli altri.

«E rivolgendosi a me, con aspetto ed accento così grazioso come un cane che voglia mordere:

«— E voi, povero martuffino che siete, non lasciate sgomentarvi così e fatevi un po' più di animo. Mangiate, sostentatevi, mettete un po' di carne addosso; non vedete che non avete altro che un po' di pelle tirata su quattro ossa mal giunte insieme?.... To', prendete, nutritevi, e non date retta più alle malignità di questo pilastro d'acquasantino.

«Nel dir così aveva afferrato il piatto di mezzo al desco e mi aveva fatto cadere nel tondo che avevo dinanzi una enorme porzione della pietanza.

«Nariccia si drizzò in piedi, levò gli occhi al soffitto, torse il collo, mandò un sospiro e poi a schiena curva, con quei suoi passi riguardosi che non facevan rumore, uscì dalla stanza senza più aggiunger nemmanco una parola.

«— Oh oh! Sì ch'io so tenergli il bacino alla barba: esclamò con tono di trionfo Dorotea colle mani nuovamente in su' fianchi guardando dietro al padrone che partiva.

«Anch'io mi levai di tavola e mi disposi ad uscire.

«— Ebbene, che cosa fate? Mi disse Dorotea. Suvvia mangiate quella roba.

«Io aveva sempre più stretto il groppo nella gola.

«— Grazie: risposi: non posso, non mi sento.

«La donna mi guardò con espressione tra di collera e di disprezzo.

«— Andate là che siete proprio un povero baggiano voi!

«Questa era la sola persona che mi manifestasse alcun interesse, e questo il modo in cui me lo dimostrava.

«Messer Nariccia aveva sofferto in tal occasione [106] una vera sconfitta, ma i danni di questa toccò sopportarli tutti a me, il quale se prima non poteva vantarmi d'avere l'affetto del padrone, di poi dovetti accorgermi che ero divenuto oggetto speciale della sua antipatia. Nell'ora dei pasti, ei non mi diceva più nulla; ostentava anzi di non badar più menomamente a me e faceva proprio come se io non esistessi, ma come se ne ricattava durante le lunghe ore che mi toccava passare con lui in quel tristissimo studio!

«Per mia fortuna mi rimaneva il compenso dei miei diletti studi, delle mie care letture la notte.

«Ti ho già detto come la grande soggezione che avevo per Nariccia, fosse ancora superata in ampiezza dalla grandissima disistima che avevo dovuto acquistare di lui.

«Diffatti non passò molto tempo che io dai lavori che venivo facendo e dai colloquii che udivo di coloro che venivano nel suo studio, avevo dovuto esser chiaro di tutta la scelleraggine che quell'uomo nascondeva sotto la sua schifosa ipocrisia. Ciò che peggio mi sdegnava era lo spietato rigore ch'egli, padrone di casa, usava verso i poveretti che avevano tolto da lui in affitto e non potevano pagare la pigione. Mentre ostentava di far parte di non so quante congregazioni di carità, egli toglieva a povere famiglie le ultime loro masserizie, mettendole sul lastrico, affine di esser pagato di ogni aver suo; e tutto ciò sempre invocando al suo solito Dio, la Madonna e tutti i Santi del calendario.

«Quelli poi che ricorrevano a lui per imprestito di denaro non potevano trovare altrove un peggiore usuraio. Fra questi vidi anche venire Gian-Luigi, e fu l'unica volta che lo vedessi dappoi che egli mi aveva allogato in quella casa. Nariccia trovavasi assente in quel momento, ma per tornare fra poco, e Gian-Luigi volle aspettarlo, stando meco in istudio a discorrere.

«Mi disse: che la somma avuta come legato del suo protettore era tutta consumata; che, avendo impreso a vivere con una certa eleganza non poteva nè voleva smetter più; che la professione della medicina avrebbe ancora tardato troppo assai a rendergli qualche cosa e i guadagni di essa non sarebbero pure stati mai tali da bastargli all'uopo; ch'egli perciò aveva rinunciato al proposito di farsi medico non sentendosi acconcio per istentar la vita ad arrampicar sulle soffitte a visitare degl'infelici che crepano di miseria, come deve fare ogni medico principiante, oppure per andarsi a seppellire in qualche paesucolo remoto, felice di avere uno scarso tozzo di pane in quello che si suol chiamare una condotta, non potendo aspirare a un po' di agiatezza e un po' di fama, anche avendo e mostrando molto talento, se non quando i capelli fossero brizzolati e la bella età tutta trascorsa. Egli aveva però, soggiunse, trovato il modo di pure strappare a questa nefasta matrigna che è per noi la società, i mezzi onde soddisfare ai suoi desiderii imperiosi. Il mondo era secondo lui un paese nemico da conquistare, e vi occorrevano forza, ingegno e tenacità di propositi. Egli possedeva tutto questo, e avrei dovuto vedere come sarebbe riuscito. Ma frattanto, durante il tempo della lotta, egli veniva a cercare munizioni di guerra anche all'usura di messer Nariccia e di altri suoi pari.

«Poichè il mio padrone tardava, discorremmo a lungo su tali argomenti: Gian-Luigi trascurava un poco le ragioni e le necessità d'ordine morale; nel suo materialismo scettico ed egoistico, egli veniva abituandosi a non discernere altro più che il suo vantaggio, inteso a modo suo. Dimenticava, anzi non curava appositamente, e quasi direi disdegnava tutti gli argomenti d'una filosofia superiore al sensismo epicureo, che in ogni fatta di quistioni pone per base e per norma il solo soddisfacimento dell'individuo. In me i libri avevano istillato qualche insegnamento superiore; gli amorosi ammonimenti della religione di Don Venanzio avevano lasciato tuttavia un tipo più elevato, un ideale più sublime della vita e del compito dell'uomo anche nell'ordine sociale come nel morale e nell'intellettivo. Abbracciavo col pensiero vedute e concetti più generali, e il motto del nostro destino mi pareva più grandioso che non quello cui affermava la smania di godimenti personali onde era travagliato Gian-Luigi.

«Fu quella la prima volta che io, contro il fascino seducente della persona e della parola ornata ed attraente del mio compagno d'infanzia, ebbi la fermezza di proclamare i miei diversi principii. Gian-Luigi se ne stupì. Volle ribattere, e il calore della disputa unita colla convinzione dovette darmi alcuna maggiore efficacia di discorso, di quella ond'egli mi credesse capace, perchè tutto attonito esclamò ad un punto:

«— Dove hai tu appreso cotante cose? Onde il tuo ingegno ha egli attinto tanta forza e tanto sviluppo? Se queste tue qualità tu impiegassi al conseguimento d'uno scopo preciso e definito, alla croce di Dio, che tu riusciresti senza fallo nell'intento.

«Nariccia sopraggiunse, ed entrato con Gian-Luigi dietro il cancello, discorsero abbastanza lungamente a voce bassa, senza ch'io potessi capire pure una parola, ma in tal modo che sembrommi l'usuraio opporre molte difficoltà alle domande del giovane, e finire per arrendersi poi sotto condizioni che udii Gian-Luigi in un momento in cui alzò la voce, chiamare enormi.

«Partendo, il mio compagno d'infanzia mi disse che sarebbe tornato a vedermi e che avremmo [107] ripreso il nostro discorso, ma non lo vidi più in quella casa per quel poco tempo durante cui ancora ci rimasi.

«Chi ci veniva sovente era quel gesuita che Nariccia diceva suo confessore, padre Bonaventura....

— Quello è uno scellerato di frate, interruppe Giovanni Selva. In quante famiglie egli ha cacciato la dissensione e seminato l'odio! La mia è una di quelle. Quante eredità ha captate! Quante intelligenze ha castrate per farne ciechi stromenti alle voglie ed alle ambizioni del suo ordine! Un povero giovane che caschi in quelle mani, ne viene impastato, maneggiato, plasmato al modello di quel menno San Luigi che i gesuiti han creato per ideale della gioventù educata da loro. Ho visto ciò che hanno fatto di mio fratello. Un automa a cui essi tirano i fili. Non ci hanno lasciato nemmanco più il posto per un po' di cuore.

— Quando veniva costui, così riprese la sua narrazione Maurilio, io era inevitabilmente mandato fuor della camera, e lunghe lunghe ore passavano prima che il gesuita partisse, ed io fossi richiamato al mio tavolino. Approfittavo di questo tempo, che avrei voluto si rinnovasse anche più spesso, per correre ai miei libri nella mia stanza.

— Ma come mai messer Nariccia, il quale non mi pare molto amante di libri e d'istruzione, aveva egli in suo potere quelle tali casse?

Così domandò Selva; e Maurilio rispose:

— Avevo pensato ancor io a codesto e mi ero immaginato che ciò fosse in dipendenza di qualcheduno di quei suoi prestiti da usuraio cui lo vedevo fare tutti i giorni agli infelici che gliene capitavano tra mano. E mi ero diffatti bene apposto come un giorno mi venne chiarito.

«Vidi entrare un uomo di età matura, vestito di poveri panni, ma pulitissimo, con aspetto di onestà e di dignità modesta insieme, che lo rendeva affatto rispettabile.

«Dal colloquio che ebbe con Nariccia appresi chi fosse e quali rapporti avesse con codestui.

«Egli era un libraio, il quale, volgendo a male i suoi affari, era stato costretto a ricorrere a quell'arpia affino di averne danari in imprestito. A poco per volta il debito del povero libraio si era cresciuto talmente, che non potendo bastar più a pagare nonchè il capitale, ma gli interessi enormi che erano pattuiti per Nariccia, questi avealo minacciato di fargli vendere ogni cosa sua per giustizia e il povero libraio pregando e strapregando aveva ottenuto un po' di respiro col patto di dare in pegno al creditore tutto quel meglio che aveva della mercanzia del suo fondaco. Si era egli obbligato a pagare in certe rate a dati tempi il suo debito a Nariccia, il quale credendosi che mai più il debitore sarebbe a ciò riuscito aveva già intanto in sua mano il più prezioso di quanto avesse mai potuto prendere al suo debitore, e ne sarebbe stato padrone senza intromissione di tribunali o d'altro e senza ulteriori spese di sorta.

«Il buon libraio aveva ristretto il suo negozio ad un modesto baraccone sotto i portici, e vivendo con ogni fatta di privazioni egli e la sua famiglia, coll'aiuto, com'egli diceva, di qualche caritatevole persona, era giunto a tale da poter mettere insieme i denari occorrenti per la prima rata, e si era affrettato a venirli portare. Pregava intanto Nariccia a volergli restituire se non tutti quei libri che avevagli dato in pegno, almanco una parte; ciò, soggiungeva, sarebbegli stato di gran vantaggio, perchè avrebbe potuto così dare nuovamente maggiore sviluppo al suo commercio che ora pareva volersi ravviare, e così porsi in grado eziandio di più sicuramente adempire a tempo agli obblighi assunti verso il creditore.

«Ma per quanto egli dicesse e pregasse e scongiurasse, Nariccia fu incrollabile. Il pegno doveva stare presso di lui fino a totale estinzione del debito; egli non voleva privarsi dell'unica guarentigia che avesse, e quindi non avrebbe consentito a nulla di codesto, finchè non avesse ricevuto sino all'ultimo centesimo il pagamento dell'aver suo.

«Durante questa discussione il mio animo era combattuto da diversi sentimenti. La pietà mi faceva desiderare che Nariccia cedesse alle domande del libraio; ma l'idea che sarei privato dei miei libri diletti mi era pur dolorosissima. Senza quell'unico conforto qual vita sarebbe stata la mia in quella casa? Mi dicevo fra me che certo, ove ciò avvenisse, non avrei resistito più e sarei partitomi di là. Ma per andar dove? Per far che?

«Frattanto l'idea che il libraio avrebbe potuto pagar quanto prima tutto il suo debito e riavere i suoi libri, mi pungeva continuamente e mi dava nuovo ardore a studiare. Non dormivo più che un'ora appena per notte, la mia salute se ne stremava sempre più, e le candele consumavano in fretta, così che la sottrazione ch'io ne faceva doveva pur finalmente apparire alla Dorotea. Ben lo pensavo alcuna volta, e un gran spavento mi occupava, ma come fare altrimenti?

«In questo frattempo ecco un giorno avvenire tal cosa che tutto mi conturbò più che non ti possa dire.

«Ero, secondo il solito, nello studiolo con Nariccia. Entra un uomo piccolo, mal in arnese, sottile, con faccia di faina, il quale interpella con una strana domestichezza il mio padrone:

«— Eh buon giorno, messer Nariccia. Come va? Mi riconoscete ancora? Gli amici non si debbono dimenticar mai.

[108] «Quella voce non mi era ignota. Alzo gli occhi e figurati come io mi rimanessi nel vedermi innanzi il naso affilato di Graffigna, il mio compagno di carcere!

«La presenza di codestui non parve andar molto a sangue neppure a messer Nariccia. La bassa di lui fronte s'intorbidò, gli occhi rotarono inquieti intorno, come a cercar uno scampo.

«— Chi siete voi? Che volete? Diss'egli, volendo assumere un aspetto imponente ed altezzoso.

«Graffigna s'inchinava umilmente, ma ad un tratto drizzando la persona, mettendo il suo muso volpino sotto il naso di Nariccia e piantandogli in faccia gli occhi, rispose con una certa sicurezza che toccava l'impertinenza:

«— Chi sono? Possibile che abbiate perduto siffattamente la memoria, messer Antonio, o che io mi sia tanto cambiato da non riconoscere più in me un antico amico?

«A questa parola Nariccia diede in un soprassalto, e uno de' suoi occhi fece scivolare uno sguardo verso di me, che tutto stupito di codesto stavo a guardare a bocca larga colla penna in mano.

«— Sono Graffigna, continuava quell'altro con accento e con sorriso ironici, e se volete che aiuti un poco la vostra memoria...

«— No, no: interruppe affrettatamente Nariccia, dando alla sua fisionomia l'ipocrita mansuetudine che soleva portarvi stampata su per maschera. Non vi avevo di subito ravvisato. È tanto tempo che non vi ho visto!...

«— Ma! Esclamò Graffigna con un dolentissimo sospiro. Non è la mia volontà che m'abbia tenuto lontano da voi sì a lungo. Sono le circostanze; è quel maledetto destino che non cessa di perseguitarmi, sapete. La calunnia si accanisce dietro di me e la persecuzione non si stanca mai contro questo povero diavolo. Ultimamente ancora, figuratevi che venni accusato....

«Nariccia lo interruppe di nuovo con sollecita premura:

«— Aspettate, venite qui, sedete, discorreremo più a bell'agio delle cose vostre.

«Poi si rivolse a me e mi disse con insolita dolcezza:

«— Andate da Dorotea, Tognino; può essere ch'ell'abbia bisogno di venire aiutata in qualche cosa. E vi riposerete anche un poco dal lavorare al tavolino.

«Uscii molto volentieri, perchè, oltre il resto, la presenza di Graffigna mi era supremamente impacciosa; invece di recarmi in cucina da Dorotea, fui nella mia cameretta intorno ai miei libri.

«Graffigna mi aveva egli riconosciuto? Avrei detto di no, avrei detto ch'egli non mi avesse neppur scorto, o quanto meno dato non mi avesse alcuna attenzione, se nel momento appunto in cui uscivo dalla stanza non mi avesse scoccato ratto e di sottecchi uno sguardo in cui c'era come un saluto, come una segreta intelligenza, come un segno di convenzione.

«Per un poco non potei attendere alla mia diletta lettura a cagione dell'ansietà in cui ero posto dal timore che Graffigna dicesse al mio padrone chi fossi e dove mi avesse conosciuto; poi, secondo il solito, lo studio prese tutta l'anima mia, e non badai più e non pensai più ad altro.

«Quando cessai, già stanco dallo studiare, mi stupii che tanto tempo di libertà mi fosse stato lasciato, senza venirmi ad interrompere, ed uscii dal mio stanzino assai peritoso. Nariccia era andato fuor di casa ned era ancora tornato. Dorotea impaziente ed inquieta, brontolava che il pranzo pel troppo ritardo andava a male.

«Il padrone rientrò con faccia evidentemente preoccupata, non mangiò nulla, non aprì bocca neppure per rispondere alle interrogazioni di Dorotea, e fu sollecito a ritrarsi nella sua camera.

«Due giorni dopo ricorreva la domenica. Nella mattina io aveva un'ora di libertà per andare a messa, e ne profittavo sempre per recarmi fuori porta a respirare un po' d'aria libera.

«Quel giorno appena fui sotto i viali di porta Susa, udii dietro me il passo d'un uomo che pareva affrettarsi sulle mie peste; mi rivolsi a guardare, e vidi con isgradita sorpresa Graffigna, il quale mi fece segno lo attendessi e camminava ratto per raggiungermi. Lo avrei evitato molto volentieri; mi venne in mente di correr via per isfuggirlo; ma in un attimo egli mi fu accosto e mi prese famigliarmente pel braccio.

«— Buon giorno, caro figliuolo, mi disse. Ho tanto piacere di vedervi; il diavolo mi porti, che sono stato più di un'ora stamattina alla porta della casa di Nariccia, aspettando che ne usciste. Non vi ho voluto fermare per le strade e per non darvi suggezione, e per prudenza; ma quando vi ho visto venir fuori di città, ho detto: bene! Giusto quello che ci vuole. Qui si può discorrere senza che vi sia un orecchio di troppo ad ascoltare.

«Prese a camminarmi accosto, avviandoci giù per lo stradale di Rivoli.

«— Misericordia! Come siete gramo, mio povero Maurilio; riprese egli a dire. Pare che viviate di lucertole e di brodo di malva. Quel caro messer Nariccia, birbone matricolato, brav'uomo d'un avaro degno della galera, che leverebbe la pelle ad una pulce, vi fa patir della fame, ci scommetto. Eh! lo conosco da un pezzo io. Sono sicuro che questa mattina non avete ancora fatto colazione. Lo si vede chiaro su quella vostra bella [109] faccia verde da minchione intisichito. Buono! Graffigna è un amico, sapete! C'è in questi dintorni una spelonca di bettolaccia che è la migliore del mondo, in cui uno scellerato di taverniere, mio buon amico, avvelena la gente nel modo più squisito del mondo. Venite meco che ci mangieremo una fetta di eccellente salame e due peperoni coll'olio che vi dico io!...

«Me ne scusai a gran pena. Quando vide che non poteva trarmi dov'egli voleva, Graffigna disse:

«— Ebbene, pazienza, discorreremo all'aria aperta. Si tratta del vostro interesse. Io sento, in fede di galantuomo, che il boia mi strozzi, una viva sollecitudine de' fatti vostri. Che bella vita è quella che vi tocca con quell'animale d'un usuraio, mio buon amico, ladro, impostore che vorrei vedere affogato nella pece bollente! Vi fa lavorare da un'alba all'altra quel cane e vi mantien magro come siete, e vi veste di questa bella guisa da farvi suonar le tabelle dietro, e sono più di certo che non vi lascia veder mai la croce d'una mezza muta. Ditemi un po' se la sbaglio.

«Non potei a meno di consentire che tutto codesto era vero.

«Graffigna strinse il pugno e lo levò con atto di minaccia verso il cielo.

«— Uh! appenderlo per la gola e poi dargli da bere. Gli è proprio un ingrataccio scellerato quel caro uomo che merita non so che cosa. E a me sapete che cosa ha fatto, a me che sono suo amico da vent'anni, a me che, non fo per dire, ma gli ho resi dei bei servigi, e sono stato causa ch'ei guadagnasse delle rotonde sommette di denaro? A me che, come sapete anche voi, ho avuto delle disgrazie, a me che esco di carcere pulito e liscio come un soldo frusto, egli ha il coraggio di rispondere che non può dare nè far nulla a mio vantaggio, e poichè io mi credo in diritto di ricordargliene alcune delle cagioni per cui mi dovrebbe essere riconoscente, sto birbone va dal commissario Tofi e mi denunzia come un individuo pericoloso che gli ha fatto delle minacce e che merita di essere sorvegliato da quella p.... invenzione che è la polizia. A me Graffigna se ne fanno di queste! Buono! Me la sono appiccata qui all'orecchia e tosto o tardi glie la farò pagare. Se fosse tosto mi piacerebbe tanto di meglio, ma se avessi ad aspettare ei non ci perderebbe nulla per questo, che vorrei dargliene il capitale coll'usura, usuraio che egli è appunto! Or dunque voi, giovinotto, potreste servirmi appuntino nei miei disegni, e fareste con un colpo un fatto e due servizi, perchè contentereste me ed aggiustereste nello stesso tempo i fatti vostri di guisa che non avreste mai più freddo ai piedi e vi impipereste di quanti sono al mondo.

«— Io? Che cosa c'entro io? Domandai, non comprendendo affatto le intenzioni di Graffigna.

«— Voi, sicuro. Egli rispose. Prima di tutto, mio caro ragazzo, se non siete proprio quel babbuino di cui avete l'aria, dovete rendervi conto della condizione in cui vi trovate. Nariccia vi tiene a rosicchiar le croste del suo pane, perchè non sa che siete stato in prigione. Lo sappia stassera, e domani voi siete messo bravamente sul lastrico con un caritatevole calcio dove m'intendo io. Vi converrebbe imbrogliar qualchedun altro perchè vi prendesse seco, per vedervene mandato via con quel medesimo garbo il primo momento ch'egli apprendesse il vostro passato. Ad un miseruzzo che si presenta colla vostra figura, coi vostri panni per guadagnarsi un tozzo di pane, tutti domandano donde viene, che ha fatto, che cos'è, e via dicendo. Ad un messere che comparisca vestito da milorde, colla borsa piena d'oro, nessuno cerca altro più per inchinarlo, riverirlo e stimarlo il più rispettabile uomo del mondo. Perchè dunque vorreste ostinarvi a far la brutta figura e crepar di miseria, mentre non avreste che ad allungar la mano e procacciarvi la più agiata esistenza?

«Io feci un movimento di stupore, e fors'anco di curiosità. Egli mi strinse forte il braccio e continuò, abbassando la voce, ma con molta forza nell'accento:

«— Sì, carissimo amico, stupido come un orciuolo, che il fistolo vi colga. Niente altro che allungar la mano. Ma non sapete voi che dietro quel cancello di ferro, in quella cassa-forte, in presenza della quale voi poverino, tòcco d'imbecille che Dio vi benedica, vi state sciupando gli occhi e la vita per guadagnarvi tanto da non morire di fame, colà vi stanno rammontati a centinaia di migliaia i marenghini? Or bene, è la cosa più semplice del mondo. Io vi do quattro pezzetti di cera: voi, un bel momento che vi trovate solo in quell'antro, applicate discretamente questi pezzi di cera alle serrature dell'uscio del cancello di ferro.... non dico alla cassa-forte, perchè avrei alcuni bravi amici, fior di gente, che verrebbero ad aiutarmi e senza tanti discorsi, per guadagnar tempo, se la porterebbero via in ispalla come un cuscino di piume! Poi date a me le impronte, ed io in pochi giorni ho le mie brave chiavi, per cui entro, e faccio, e dispongo, e porto a cambiar aria il tesoro di Nariccia...

«Io feci a liberarmi dalla mano di quel scellerato che mi teneva ancora pel braccio, e volli allontanarmi da lui.

«— Oh non c'è da aver pure un'ombra di paura: egli soggiunse interpretando in un altro senso il mio movimento di disgusto e d'orrore. Graffigna è prudente: sa disporre le cose, e non lascia nessuno de' suoi amici nelle peste. Voi, mio [110] bell'angioletto da f..., dopo che ci avreste aiutati nell'opera, verreste con noi, piglieremmo tutti il volo che nessuno dei segugi della polizia, per quanto di naso fino, potrebbe averne pure il minimo sentore; avreste la vostra buona porzione da vivere da signore in altro paese, e chi s'è visto si è visto.

«Io lo respinsi da me con disdegno.

«— Sciagurato, esclamai, per chi mi prendete? Ringraziate che qui non c'è anima viva; se fossimo in città, griderei al ladro per farvi arrestare.

«— Oh oh! Diss'egli con ironia. Che virtù delle mie ciabatte, caro il mio santino d'un maccherone! Ne ho sentito dei panegirici di santi meravigliosi, ma un tanto esempio di virtù non ci fu ancora mai! Bravo! Pensate che il vostro rifiuto vi può far mettere alla porta da Nariccia senza che abbiate più altro mezzo di sussistenza.

«— Come?

«— Una lettera anonima che dicesse a Nariccia: badate che quel vostro miseruzzo di segretario è un galantuomo di ladroncello uscito dalle carceri....

«— E voi scriverete questa lettera?

«— Se rifiutate di assecondarmi, certo che sì.

«Stetti un momento in silenzio, non perchè fossi dubbioso o perplesso, ma perchè la tristizia di quell'uomo mi gettava in una dolorosa attonitaggine.

«— Fate pure quello che credete contro di me: gli dissi poscia fermandomi sui due piedi; ma qualunque minaccia anche più terribile di questa, non m'indurrà mai a fallire all'onestà.

«Egli accennò voler parlare, ma io non gli lasciai pronunziare parola.

«— Ora basta. Esclamai con forza. Vi ho già dato retta di troppo; di troppo già ho tollerato la vostra compagnia. Lasciatemi, lo voglio, ve l'impongo!

«L'aspetto e l'accento dovettero avere in me una certa nuova autorevolezza onde quello sciagurato fu come sovraccolto. Mi guardò un poco ma fu costretto a chinare innanzi ai miei quei suoi piccoli occhi affondati; esitò un istante, e poi si decise ad allontanarsi.

«— Come volete: diss'egli: eccelso stupido che siete, caro figliuolo che la peste vi affoghi! Il colpo si farà lo stesso e voi avrete il gran merito di non avere neppure un da due denari. Così la vostra eroica virtù sarà contenta... Ma andate pur là che un giorno o l'altro la fame e il bisogno di ogni cosa vi faranno cascare, e invece di aver per primo un bel colpo, come quello che vi propongo io, mercè cui sareste colla pignatta provveduta per tanto tempo, sarete costretto a qualche miserabile ladroncelleria che vi manderà a marcire in prigione in causa di un tozzo di pane. Fate a vostro modo: vi lascio e non vi dico più nulla: ma vi pentirete, ne sono certo, e vi rincrescerà all'anima di avermi oggi risposto a questo modo.

«Dopo tali parole si allontanò a passo lento, e fermandosi tratto tratto, quasi nell'attesa ch'io lo richiamassi.

«Io guardava dietro lui con animo turbatissimo, le sue parole mi avevano richiamato alla mente che già pur troppo ero cascato là dov'egli diceva, e quello delle candele era un vero furto da me commesso.

«Tornando a casa ero agitato e perplesso. Graffigna mi aveva detto che, non ostante il mio rifiuto d'entrar complice, quel delitto si sarebbe compito la stessa cosa. Era certo il mio dovere farne avvisato il mio padrone. Parevami che se il fatto avvenisse e ch'io non avessi posto in sulle guardie Nariccia, anche su me avesse da ricadere parte della colpa. Ma come governarmi affine di renderne avvertito il padrone? Dirglielo io stesso non avrei osato mai; e come spiegargli il modo onde ero venuto in cognizione di codesto? Ad un tratto mi ricordai la minaccia di Graffigna, di svelare il mio passato a Nariccia per mezzo d'una lettera anonima.

«— Ecco il mezzo! Esclamai tra me stesso, e camminai di buon passo verso casa per mettere in esecuzione quel disegno, ed affrettandomi a scrivere la lettera falsando più che mi fosse possibile la mia scrittura, non fui tranquillo finchè ebbi visto ingoiata quella carta dalla buca della posta.

«Quella stessa sera Dorotea mi apparve assai sopra pensiero. Si sarebbe detto che alcuna cosa stava sulle sue labbra per venir fuori, e ch'ella tuttavia si studiava di trattenere. Due o tre volte colsi il suo sguardo fisso su di me con una certa acutezza osservativa che mi faceva intimamente tremare. Sentivo come una incognita minaccia incombermi sopra. Ero inquieto di tutto e ad ogni momento il cuore mi balzava con palpito quasi doloroso.

«La sera non potei addormentarmi che a stento; mi svegliai all'ora solita della notte, ed acceso il lume, secondo l'usato, mi posi allo studio. Non era gran tempo che io mi trovava tutto assorto in esso, quando mi sembrò udire uno strascico di pianelle nel corridoio. Sorsi di scatto, coll'idea di spegnere il lume, nascondere il libro e gettarmi sul pagliericcio: non era più tempo, l'uscio s'aprì e comparve la grossa faccia di Dorotea più burbera e più brutta del solito.

«A quella vista io stetti come annientato. La donna guardò me, guardò il lume acceso, e i suoi occhi mandarono lampi e faville; poi con uno scoppio di quella sua terribil voce da omaccione:

«— Ah! Sei dunque tu, gridò, lo scellerato di [111] ladro che mi ruba le candele! Da un po' di tempo mi pareva e non mi pareva che le consumassero troppo più che non per l'addietro; ma stamattina poi mi sono convinta che le mi sfumavano proprio dalla cassetta, e quantunque non ci sia altri che te in questa casa, tristanzuolo, non volevo credere che tu fossi capace di tal birbonata. Non ho voluto dir nulla ancora al padrone...

«Io la interruppi pregandola, scongiurandola a tacere la cosa. La paura mi aveva ridonata un po' di energia, cui dapprima tutta mi aveva tolta la vergogna. Le dissi il perchè di quel mio fallo, le affermai essere mio intendimento pagare tutte le prese candele, coi primi denari che avrei esatti dal padrone pel dovutomi stipendio; non volesse perdermi, non volesse precipitarmi per l'affatto, svelando la cosa a Nariccia che io prevedeva, che sapeva inesorabile.

«Non so se Dorotea si sarebbe acconciata ad accondiscendere alle mie preghiere; ma la cosa fu ridotta ad ogni modo impossibile, perchè Nariccia medesimo, il quale non dormiva che il sonno leggiero degli avari, sveglio dagli scoppi di voce della donna, accorreva sollecito a vedere che cosa fosse.

«Ti lascio immaginare il suo furore nell'apprendere la verità. Mi investì colle più atroci ingiurie. Le galere, che? il capestro erano poca pena al mio delitto. Egli non voleva tenere neppure un'ora, nemmeno un momento di più sotto il suo tetto un simil birbante: partissi in sull'atto e senz'altro; ma poi tosto si ravvisava e decideva serbarmi a peggior sorte. Gli era ai R. carabinieri che mi si doveva consegnare, affinchè pagassi del mio delitto il meritato fio.

«Se colla Dorotea avevo pregato, innanzi alla collera di Nariccia ero stato fermo, immobile e silenzioso; e quella mia calma pareva aizzarlo ancora di vantaggio. Ma quando udii minacciatami di nuovo la carcere, innanzi allo spavento di ritornare in quella bolgia infernale, la mia fierezza cedette.

«— Oh no, per carità! Esclamai, congiungendo le mani con ineffabile supplicazione.

«Ma Nariccia non era uomo a intenerirsi così per poco; ond'egli riprese le sue minaccie ed i suoi oltraggi, finchè Dorotea, quasi impazientita, lo interruppe col suo brusco parlare:

«— Per ora lasciamola un po' lì, e torniamo a dormire. Domani mattina discorreremo.

«Nariccia seguì la serva borbottando, ma non prima che avesse frugato in ogni dove nella mia stanzuccia per vedere se qualche cosa avessi di nascosto, e non senza portarmi via quella malaugurata candela. Uscendo chiuse a doppia mandata colla chiave la serratura dell'uscio, affinchè non me ne potessi fuggire.

«Il domani le determinazioni di messer Nariccia erano ancora più severe a mio riguardo. Egli aveva ricevute due lettere anonime; quella con cui Graffigna manteneva la sua parola e gli svelava l'esser mio; e quella che io gli aveva scritta per farlo avvisato del pericolo di latrocinio tramato a suo danno. L'usuraio si persuase tostamente che colui del quale gli si denunziavano le cattive intenzioni verso di lui, senza scriverne il nome, non poteva esser altri che io stesso già uscito di prigione, già côlto in flagrante di una ruberia. Gettò, come si suol dire, fuoco e fiamme; e la sua volontà di pormi in mano alla giustizia parve più irrevocabile che mai.

«Fui allora ad un pelo d'essere perduto. Alla vecchia Dorotea dovetti la mia salvezza, e glie ne consacrai perciò una riconoscenza eterna. Ella in quel frangente tolse dall'abisso in cui tutto congiurava precipitarla, un'anima umana, e per quanto quella donna sia stata cattiva, di quella buona opera, spero che glie ne sarà tenuto conto. Come conviene andare a rilento nel condannare i colpevoli! Soltanto chi non è stato nelle occasioni della tentazione, chi non ebbe nemica alla sua onestà la fortuna, colui soltanto può avere un disdegnoso disprezzo per l'infelice che soccombette. Quei che conosce la vita, quegli che ebbe da lottare colle difficoltà del destino, se impara a stimar tanto più l'uomo che si è serbato incolume, impara eziandio a sentir meno orrore e più compassione per chi ha fallito. Dove io fossi stato allora incarcerato per la seconda volta con un vero reato, come i giudici non avrebbero mancato di sentenziare che era il mio; quando parecchi mesi ancora avessi dovuto passare in quella orrida e scellerata compagnia che si trova in prigione, quale ne sarei venuto fuori?

«Dorotea ebbe pietà di me. Per sua intercessione Nariccia si contentò di mettermi alla porta riprendendomi financo i suoi logori panni e tornando a farmi vestire quei villerecci che pareva aver conservato in previsione d'una simile circostanza; ed io mi trovai sul lastrico della strada, senza un soldo, senza un tozzo di pane, senza sapere che far di me, nè dove rivolgere i passi.

CAPITOLO XXI.

«Ero in una confusione ed in una perplessità da non dirsi. Mi domandavo come avrei potuto guadagnarmi la vita, e non trovavo risposta. Una gran vergogna de' fatti miei mi possedeva tutto. Guardavo con occhio smarrito i brutti cenci che mi servivano da vesti, e mi dicevo che erano quelli dei più vili pezzenti. Tale doveva essere adunque la mia sorte? Sentivo tante cose nel mio cervello, mi pareva avere entro il capo una tanta ricchezza d'idee, e non mi avevano da servire a [112] nulla, e non avrei saputo spremerne nemmanco il mezzo onde guadagnarmi per un giorno l'esistenza?

«Camminai dritto innanzi a me colla testa confusa, sbalordita, senza direzione, ma con una smania ardentissima di allontanarmi, di fuggire da tutto e da tutti. Quasi un anno ti ho detto aver passato in casa di Nariccia: si era quindi nuovamente nella brutta stagione, e il freddo vento mi flagellava le guancie, m'intirizziva le membra da que' cenci mal coperte. Io correva e per iscaldarmi e per togliermi il più presto possibile a quei luoghi. Ero debole ed ero digiuno, ma la disperazione mi dava forza, e la passione dell'animo non mi lasciava sentire il bisogno. Che strada io abbia allora tenuta, non seppi mai; ma cadevano gli ultimi raggi del giorno ed io mi trovava presso alle prime case del villaggio dove ero stato allevato.

«A quella vista mi riscossi come destandomi improvviso da un sogno. Mi passai la mano sulla fronte, e mi parve esser rinato al tempo della mia infanzia dolorosa sì, ma cui pur tuttavia invidiava il mio presente; quando la carcere, l'ospedale, l'antro d'un usuraio non mi avevano ancora rivelate tante brutte e incancrenite piaghe del corpo sociale. L'animo mio fu sollevato e con più sciolto passo m'avviai per penetrar nel paese. Ma di colpo mi arrestai, come se una mano di ghiaccio mi si fosse posata sul cuore a trattenermi. Dove avrei rivolto i miei passi? Il povero tugurio di Menico non era più mia casa. Neppure l'ospitalità del fenile non mi vi sarebbe stata concessa più. E Don Venanzio? Egli sì che mi avrebbe accolto, egli aperto le braccia. Come una dolce visione mi passò innanzi alla mente l'aspetto della pulita cameretta dalle bianche pareti col crocifisso d'avorio tendente le braccia sulla croce nera; mi parve sentire il tepido ambiente di quella stanza aliarmi come una carezza sul volto. Mi pungeva la fame. Là avrei trovato ricetto, là ristoro, là sollecitudine amorosa. Ma che cosa avrei detto a quel buon prete? Qual ragione addotta della mia venuta, dell'avere abbandonato la casa di Nariccia? Mentire non sapevo e non volevo a niun conto: e dire la verità era troppa vergogna, non me ne sentivo affatto affatto il coraggio.

«No, no, non volli comparire colla fronte del reo innanzi a quell'uomo che è la virtù cristiana incarnata; ma per quanto deciso io fossi a non lasciarmene scorgere, un vivo impulso, un grandissimo bisogno io sentiva di veder lui — il buon sacerdote — di vederne almanco la casa, i luoghi ad esso diletti, de' quali egli è come l'anima avvivatrice che li santifica.

«Era caduta compiutamente la notte. In quella mesta sera d'inverno, muto e deserto era il villaggio; si sarebbe detto disabitato, se qualche riga di luce non fosse filtrata da qualche finestra socchiusa, se qualche cane entro i serrati cortili non avesse qua e là tristamente abbaiato. M'appressai cautamente alla casa parrocchiale, ed il cuore mi batteva, e gli occhi mi si inumidivano. La finestra del tinello a pian terreno non aveva chiuse che le invetrate, e per queste lo sguardo poteva penetrare entro la stanza. Mi alzai in punta dei piedi aggrappandomi alle sbarre dell'inferriata che difendeva esternamente la finestra e cacciai nell'interno lo sguardo cupido e desioso.

«Don Venanzio era appunto là, al posto in cui soleva, dove l'avevo visto tante volte, con quella medesima capigliatura tutto bianca, con quel medesimo volto tutto bontà, con quella medesima mossa, leggendo nel medesimo breviario. Sulla tavola, a cui il parroco appoggiava il suo gomito, era steso il medesimo tappeto di lana intessuta con cotone a fogliami ed a fiori; tutti i mobili erano tali e quali li avevo visti fin dalla mia infanzia e sempre a quel medesimo posto; ai piedi del parroco stava sdraiato Moretto il vecchio can volpino, compagno quasi indivisibile al suo padrone. Tutto era come prima colà, nulla era mutato; e in me invece, quanto cambiamento, quante rovine! Non avevo ancora diciott'anni, ed il destino pareva avermi in una resa impossibile l'esistenza del passato e chiusomi innanzi la porta d'ogni speranza per l'avvenire. Un gran desiderio mi prese di quella quiete, di quella pace esteriore che era compagna e simbolo di quella della coscienza; e sentii una cocente amarezza nel dirmi che forse io l'aveva perduta per sempre. Profondo rammarico fu il mio, pensando che a tale esistenza aveva voluto prepararmi e condurmi l'amoroso mio educatore, e che io l'aveva rifiutata e che da me l'avevano respinta irrevocabilmente le audacie del mio spirito. A quell'ora sarei stato lì ancor io, compagno nella vita e nell'opera a quel sant'uomo, forse sollievo, forse anco ne' suoi vecchi anni consolazione invocata. Ed invece?....

«Oh se avessi creduto a quel Dio, cui adorava Don Venanzio, ed in quella forma colla quale il buon parroco credeva! Per me al contrario, sempre più muto pur troppo era diventato il cielo; e la lettura degli enciclopedisti aveva spinto il mio dubbio verso lo scetticismo. A mala pena credevo ancora a quelle apparizioni che mi avevano servito come d'irrefragabile riprova d'una vita dell'anima superstite a quella del corpo; e siccome da assai tempo sembrava il mio buono spirito avermi ancor esso abbandonato, mi prendevo a dire le vedute di quel soave fantasma, nient'altro che illusioni del mio cervello.

«Mentre stavo ancora tutto intento a mirare per entro quella stanza, od un lieve rumore che io facessi muovendomi, o fosse il meraviglioso istinto proprio della sua razza che facesse avvertire [113] al cane la presenza di qualcheduno, Moretto alzò il muso verso la finestra, e vistomi forse, mandò alcuni abbaiamenti di lieto saluto, e venne a quella volta tutto festante. Lasciai le sbarre dell'inferriata e ratto mi nascosi nell'ombra. Udii la simpatica voce di Don Venanzio che diceva:

«— C'è qualcheduno, Moretto? Chi è là?

«Mi allontanai con infinita amarezza. In tutto il mondo era là soltanto che vi esisteva un affetto per me, e non osavo presentarmi, e dovevo strapparmene ed andar lontano.

«Quella notte dormii dentro una di quelle capanne che si fanno sotto i pagliai. La mattina era l'alba appena che io già camminava sulla strada che mi riconduceva a Torino. La vista del mio villaggio, la vista sopratutto della casa di Don Venanzio mi aveva fatto del bene. Una nuova risolutezza era entrata in me. Ero persuaso affatto e per sempre che non avevo nessuno al mondo a cui chiedere aiuto, che dovevo tutto fare, tutto procacciarmi da me, colle mie sole forze, e volevo provare arditamente a cimentarmi colla vita.

«Il sole era levatosi da poco sull'orizzonte, ed io non aveva proprio più forze da andare avanti. Il giorno precedente non avevo preso altro alimento che quello d'un po' d'acqua bevuta ai rigagnoli della campagna, rompendo la crosta superiore del ghiaccio: ed ora lo stimolo della fame erasi fatto intollerabile.

«Girai lo sguardo intorno, e vidi non molto lontano dalla strada un casolare sul cui tetto fumava direi quasi allegramente il comignolo del camino, mi diressi con coraggio a quella volta. I villani stavano giusto per sedere al desco su cui esalavano un odoroso vapore le scodelle schierate pel pasto mattutino, mentre la massaia con in mano l'asta d'una gran padella stava curva sopra una vivace fiamma di fascine a friggere un'enorme frittata.

«Il mio aspetto miserissimo e le mie vesti dissero senza bisogno d'altro il motivo che mi spingeva, e destarono la diffidenza degli uomini e la compassione delle donne. È raro, anzi quasi direi non succeder mai, che una famiglia di nostri villici ad un povero sopraggiunto all'ora del pasto, rifiuti una scodella di minestra. Gli uomini non vollero negarmi questa carità, ma non vedevano di buon occhio che mi assidessi al focolare domestico; le donne più pietose mi fecero posto sorridendo presso al fuoco fiammante, al cui calore sentivo in realtà immenso bisogno di riconfortare il mio povero corpo intirizzito.

«Prima di accettare dalle mani del capo di casa la scodella ammanitami, dissi ad alta voce:

«— Vi ringrazio della vostra carità, brava gente; ma io vi prego che non sia a titolo d'elemosina che mi concediate quel cibo onde pure tanto abbisogno; penso che ciascuno deve guadagnarsi coll'opera il suo sostentamento, e vi domando come un favore che mi diate poscia alcun lavoro, per cui io possa almeno in parte compensarvi di quanto fate per me.

«Mostrarono tutti una qualche sorpresa; gli uomini sorrisero, le donne mi guardarono con una certa benigna ironia, quasi volessero dire e queste e quelli che di poco o nulla era capace un miseruzzo della mia fatta.

«— Bene, bene; disse bonariamente il capo casa: cominciate per mangiare e poi vedremo a che cosa siete buono.

«Servii quel giorno ai più umili lavori della stalla, in cui c'era da rigovernare il letame, e ci posi tanta buona volontà che ognuno ebbe a rimanere di me soddisfatto. Ma il domani potei rendere a quella buona famiglia un servizio ben più importante e ad essa ben più gradito. La madre veniva sollecitando uno de' figliuoli a scrivere una lettera al primogenito della famiglia, il quale da due anni era soldato e di cui da più mesi non avevano ricevuto notizia, e vivevano perciò inquieti. Il figliuolo se ne schermiva, perchè, quantunque fosse il solo che sapesse scrivere, e' lo sapeva tanto poco che gli tornava uno stento ed una fatica a cui egli preferiva qualunque più aspro travaglio materiale. Udito codesto, mi proffersi a scriver io la lettera come la buona donna desiderava, e tutti ne furono sì contenti che per poco non parve io avessi compito a loro vantaggio un miracolo.

«Povera gente! Vivono e muoiono nella più crassa ignoranza; come non sarebbero essi vittime di superstizioni e pregiudizii che ne deturpano anche le più generose e favorite nature?

«Per quella famiglia c'erano due esseri che raccoglievano tutto l'odio di cui era capace, odio che essa pur dissimulava sotto le sembianze del più umile rispetto. Questi due esseri erano: uno il padrone della terra ch'eglino coltivavano, ed il quale senza spargere su di essa la menoma goccia di sudore, toglieva dei frutti della medesima la miglior parte, l'altro il Governo, cui non conoscevano altrimenti che per l'alto prezzo del sale cui dovevano pagare, per le contravvenzioni loro accagionate e dovute pagare per violazione alle leggi della caccia, e finalmente per quello che giudicavano il peggior eccesso della tirannia: lo aver loro tolto quel figliuolo, il cui lavoro era più utile, per trascinarlo lontano chi sa a qual vita, chi sa con quali effetti per quell'infelice temporali e spirituali, del corpo e dell'anima!

«Questo della coscrizione, è veramente il più duro e terribile tributo che la società abbia inventato a danno delle famiglie e dell'individuo — e in definitiva anche a danno di se medesima.

«La famiglia si alleva con mille stenti, con [114] mille cure un figliuolo, e quando questo comincia ad essere in grado di compensare col frutto del suo lavoro i sacrifizi che ha costato ai suoi, di corrispondere degnamente col suo all'affetto dei genitori, di restituire alla vecchiaia del padre e della madre quei beneficii di amorosi riguardi con cui padre e madre allevarono la sua infanzia, allora appunto intravviene il Governo che afferra questo figliuolo, lo strappa alle braccia, all'affetto, ai bisogni della famiglia, nulla si cura delle tendenze, degli studi precedenti, della vocazione del medesimo, ed impiccatolo in un cravattino duro, insaccatolo in un cappotto, lo caccia sotto la ferrea prepotenza d'un istruttore militare burbero, grossolano, il più spesso manesco, ad imparare le delizie dell'un-doi.

«Questo povero diavolo, sceverato sino allora dagli urti e dalle malizie del mondo per la soave cerchia della famiglia, stretto coll'amore tenace dei campagnuoli alla sua terra, ai suoi campi, attaccato alla sua officina, ai suoi studi, deve ad un tratto rinunciare a tutte le sue abitudini, guastare il suo avvenire, interrompendo la sua carriera, trovasi a contatto con una turba di compagni cui la vita soldatesca ha già svezzati da ogni domestica delicatezza, in cui sono rappresentati tutti i vizi sociali che fermentano e prosperano nelle agglomerazioni, a cui pare qualità di buon armigero ostentare un certo cinismo nella corruzion dei costumi, nell'assenza di gentilezza. Trasportato in paese lontano dal suo, obbligato a faticoso esercizio d'un mestiere faticoso, minutamente pesante, composto di atti di cui non vede l'utilità, oppresso da una disciplina che offende la sua libera personalità, costretto ad una vita innaturale, a cui tutto il più spesso in lui ripugna, l'infelice giovane soffre finchè o soccombe, ed il caso non è raro pur troppo[8], o vi si assuefa, avendo perciò obliterate alcune e delle più preziose qualità del suo animo; così bene che l'esercito avendo preso al villaggio un giovane onesto, morigerato, laborioso, buon figliuolo, che sarebbe buon marito e buon padre, gli rende poi molte volte un uomo vizioso, giuocatore, libertino, scaldapanche d'osteria, inavvezzo al lavoro, prepotente, rissoso, desolazione della famiglia e spargitore di funeste cattive abitudini fra la gioventù[9].

«Ed ecco quindi come anche la società ne riesce ad avere un danno più grave di quel che paia. Avrebbe potuto contare un buon operaio, un onesto agricoltore, un lavorante, insomma, che avrebbe concorso alla produzione della ricchezza comune; invece ne ha fatto per tanto tempo un consumatore improduttivo, e ne' più de' casi si è preparato un membro cancrenoso che diffonde il guasto intorno a sè.

«Quando il bisogno urgente della patria lo vuole, allora va benissimo che si passi sopra ad ogni altra considerazione, e tutti quelli che valgono accorrano a recare il braccio ed il sangue in difesa della sicurezza comune, ma in tempi ordinarii, quel sistematico sottrarre una parte della gioventù agli utili lavori, che è la coscrizione annuale, mi pare la più ingiusta barbarie che abbia saputo inventare la nostra vantata ma troppo manchevole civiltà. Più progrediti di noi l'Inghilterra e gli Stati Uniti d'America che non conoscono questo tremendo tributo, cui introdusse l'ambiziosa sete di dominio di Napoleone, e cui condannò pur tuttavia egli stesso negli ozi di S. Elena.

«Ma lasciamo codesto. Quasi una settimana io restai in casa di quei buoni campagnuoli, e quando mi partii, e' mi fecero mille sollecitazioni perchè rimanessi con loro, che un boccon di pane non mi sarebbe mancato più mai. Il mio destino mi traeva qui. Quando ci arrivai una delle prime persone in cui m'imbattei fu Graffigna.

«— Lo stupido animale che siete! Egli mi disse venendomi incontro con un'aria quasi minacciosa. Non solamente rifiutate la fortuna per voi, ma impedite che altri la colga. Voi avete [115] avvertito Nariccia, e quel caro amico che il diavolo attanagli, ha fatto cambiare tutte le serrature. È una cattiva azione la vostra.

«— Sì, risposi sogghignando con disprezzo, come fu buona la vostra di farmi scacciare di là.

«Egli si strinse nelle spalle.

«— Vi rincresce forse aver abbandonato quel dabbene scellerato d'un avaro che vi faceva vivere di stenti? Ho agito pel vostro vantaggio. Sicuro! Voi, contento di quel poco pane, vi sareste anneghittito come un minchione che siete, caro martuffino dell'amor mio, e non sareste mai più stato buono da nulla. Invece ora il bisogno vi aguzzerà l'ingegno e vi farà capire la morale del mondo. Sarete quanto prima dei nostri, ve lo predico io.

«— Mai! Dissi con tutta la forza del mio accento.

«Graffigna scrollò le spalle.

«— Peuh! Avete dei redditi da vivere? Vi è capitata qualche eredità dal mondo della luna?

«— Lavorerò.

«Egli ruppe in una risata secca e stridente:

«— Lavorare! Esclamò. Che cosa? Che mestiere è il vostro? E la forza dove la prenderete? Se non ci avete altra rivalsa, mi aspetto a vedervi morir di fame. Gira, gira, tirerete la vita coi denti, afferrerete il diavolo per la coda e finirete per essere dei nostri, ve lo dico io.

«— Ed io vi dico che voi non vi conosco, che non ho nulla da che fare con voi, e vi prego quindi a non parlarmi più, a non venirmi oltre fra i piedi.

«E con queste parole io lo lasciai.

«Girai tutti i fondachi di parecchie strade, ad ognuno dicendo che cercavo lavoro; non mi si chiedeva neppure che cosa fossi capace di fare, ma mi si rigettava, il più spesso di mala grazia. Stanco e scoraggiato, non sapevo più oramai a qual santo votarmi, quando in una di quelle strade che percorrevo vidi arrivare con gran fracasso un grosso carrozzone carico di viaggiatori e di bagagli. Una frotta di facchini si precipitava intorno a coloro che ne discendevano per offerirsi a portarne i rispettivi bagagli. Pensai che questo era intanto un modo di guadagnarmi qualche cosa; ma come aprirmi la strada in mezzo a quegli omaccioni che facevan ressa per contendersi la preda? E ci fossi anche arrivato, avrei potuto caricarmi di un pesante fardello com'erano i bauli e le casse che vedevo i facchini trasportare sulle loro spalle?

«Stavo guardando mestamente sfilarmi dinanzi e i viaggiatori che s'affrettavano verso le loro case e i facchini che li seguivano col loro carico, quando mi passò accosto uno di questi arrivati, la cui fisionomia o non mi era nuova, o mi era simpatica di tanto da ispirarmi fiducia più che non altri. Egli recava in sua mano un piccolo sacco da viaggio, ed a parecchi che gli avevano chiesto se volesse farlo portare da loro, aveva risposto con impazienza di no. Ebbi tanto ardire da fare un passo verso di lui, ed additandogli il sacco dirgli in tono pieno di supplicazione che me lo desse a portare; ma in quella il rossore mi saliva sino sulla fronte. Fosse il mio accento, il rossore, o l'aspetto, il fatto è che quel signore si fermò ad osservarmi.

«— Tu non sei di Torino? Mi diss'egli.

«— Signor no.

«— E ci sei venuto colla famiglia?

«— Non ho famiglia.

«— Come? Nessuno?

«— Sono affatto solo.

«Senza dir altro quel brav'uomo mi pose il sacco nelle mani.

«— Seguimi.

«Mi condusse in una delle principali strade ed entrò in una bottega da libraio che appariva aggiustata ed aperta di fresco. A quel punto riconobbi chi egli fosse, e dove l'avessi già visto. L'avevo veduto in casa di Nariccia, ed era quel libraio che aveva dato in pegno le casse di libri. Anzi queste benedette casse erano là ancor esse in mezzo a quella bottega, come se recatevi da poco tempo. Quell'eccellente uomo di libraio, come appresi di poi, aveva di nuovo avuta prospera la sorte, e dal baraccone era passato ad una bottega considerevole, al di sopra della quale, negli ammezzati, aveva preso l'alloggio per la sua famiglia. Pagato tutto il suo debito a Nariccia, ne aveva ottenuta la restituzione del pegno; e quel giorno egli tornava da un piccol viaggio che aveva dovuto imprendere in una delle primarie città di provincia per cagione del suo commercio.

«Appena entrato egli nella bottega, un giovinetto, che stava dietro il banco, s'alzò con impeto e venne a gettarsi nelle braccia di lui, dicendo:

«— Buon giorno, babbo. Hai tu fatto buon viaggio?

«Il libraio lo abbracciò e baciò con molta tenerezza, e poi gli domandò della madre e dei fratelli. Il giovanetto rispose che erano sopra nell'alloggio, e allora tutti due sollecitamente s'avviarono verso la scala che dalla retrobottega conduceva al piano superiore. Ma mentre il figliuolo, correndo, saliva ad annunziare tutto festoso che era giunto il padre, questi s'arrestava ricordandosi di me, e, prendendomi il sacco di mano, accennava volermi dare qualche moneta in pagamento; ma poi, come cambiando avviso, ripose di nuovo in tasca la borsa che ne aveva tratta, e mi disse:

«— Aspetta qui un momento. Vado ad abbracciare i miei figli e mia moglie e poi verrò a discorrerla teco.

[116] «Fui lasciato solo in quella bottega dove da tutte parti non vedevo che libri. Essi esercitavano su me una specie di fascino. Avrei voluto ad un tratto poterli esaminar tutti. Un ladro introdotto nella bottega d'un gioielliere piena di ori e diamanti, e lasciatovi solo, non ha più vive tentazioni di quella che io sentiva a quel punto. Quel sapere a cui anelava con tanto ardore l'anima mia, mi appariva là raccolto e fatto concreto in quei libri schierati nelle scancìe onde tutte le pareti erano coperte, rammontati in quelle casse aperte nel mezzo della stanza.

«Mi accostai a queste ultime. Al di sopra di una era appunto un volume che stavo leggendo e non avevo ancor finito quando venni scacciato da Nariccia. Lo presi in mano, quasi per atto meccanico, involontario; e pochi istanti dopo io era assorto nella lettura, avendo obliato tutto il resto del mondo.

«Fui interrotto ad un punto da una mano che si posò sopra la mia spalla. Mi riscossi, alzai la testa, mi vidi innanzi la faccia tutto stupita del libraio, e lasciai cadere il libro, coprendomi di rossore sino alla fronte.

«— Che stai tu facendo costì con quel libro in mano, e così assorto che non senti nemmanco la gente venirti addosso?

«— Mi scusi: diss'io balbuziando; leggevo e...

«— Tu leggevi? Mi stupisce già che tu sappia leggere, mi stupisce di poi che tu legga di questi libri. Quello è il trattato di economia politica di Say. Ora sai tu pure che bestia sia l'economia politica?

«Cedetti ad un impulso d'orgoglio e colla mia risposta gli feci conoscere che lo sapevo e che non ero digiuno di qualche idea intorno a quella disciplina, di cui, alla nostra Università, ancora oggidì non si trova neanche registrato il nome[10].

«Il libraio allargava tanto d'occhi.

«— Ma chi sei tu dunque? E come in quest'arnese? Qual mistero nascondi tu sotto quei miserabili cenci?

«Io esitai. Il primo mio avviso fu di dire a quel brav'uomo tutta la verità. In me il subitaneo impulso è sempre il migliore; gli è colla riflessione e col ragionamento che imparo a credere più conveniente la simulazione o i miseri consigli della diffidenza. L'offendere la verità è un peccato che quasi sempre si volge in danno di quel medesimo che lo commette. Anche dal lato dell'interesse, la sincerità è un buon partito da adottarsi: io ne ho fatto in tal occasione l'esperienza a mie spese. Se avessi detto le cose come erano realmente a quell'eccellente uomo, egli di certo avrebbe avutomi compassione ciò nullameno, e io non mi sarei messo nel brutto caso di perdere un giorno la sua simpatia e la sua stima; come avvenne pur troppo. Ma l'esitazione condusse tosto in me il timore e la vergogna. Non osai confessare le ragioni che dal mio villaggio mi condussero a Torino, quelle che dalla casa di Nariccia mi trassero sul selciato delle vie. Temei che se il libraio sapesse il vero, mai più non mi avrebbe accordato alcun interesse, come parevami da tanti indizi più che disposto a fare. Mi venne alla mente in quel punto la favola immaginata sul mio conto da Gian-Luigi per introdurmi da Nariccia, e la dissi macchinalmente, quasi ripugnante la mia volontà, condannandomi meco stesso di ciò pur nel parlare.

«La mia oscitanza e il mio imbarazzo apparvero certamente a quel bravo sig. Defasi (chè così chiamavasi) la timidità naturale e la pena impacciosa di un giovanetto che si trova con tali condizioni infelici nel mondo; epperò, compassionatomi assai e confortatomi a sperar bene nell'avvenire e nell'aiuto della Provvidenza, mi domandò che cosa volessi fare e quali progetti più mi arridessero. Risposi che ero fermo nella volontà di guadagnarmi la vita con qualunque sorta di lavoro anche il più umile, purchè onesto; ed egli, lodatomi assai di queste buone intenzioni, mi disse che tornassi poscia il domani da lui che avrebbe pensato ad alcun modo di darmi intanto qualche occupazione, e datomi, del piccolo servigio che gli avevo reso, un largo compenso che potesse bastare ad ogni mio bisogno per quella giornata, mi congedò con affettuose parole.

«Il primo mio pensiero, uscendo dalla bottega del sig. Defasi, fu quello di rifocillare il mio povero corpo affamato. Entrare in un'osteria un po' ammodo, con quei panni addosso, non osavo; più fiate passai e ripassai innanzi alle lucenti invetrate su cui stava scritto in caratteri d'oro restaurant, e la eleganza di quelle sale, che a me pareva allora la più sontuosa del mondo, mi toglieva ogni coraggio di pure approssimarmi a quelle tavole di marmo, a cui vedevo, traverso i cristalli, seduti signori riccamente vestiti.

«Mi ricordai ad un punto che non molto lontano dalla casa di Nariccia, nelle strette vie della parte più antica della città, eravi una bettola, della quale le apparenze, gli accorrenti e tutto erano in quelle più umili condizioni che alle mie si convenissero; e mi diressi allora con passo deciso a quella volta. Quella brutta e sporca bettolaccia — sporca moralmente e fisicamente — rividi stassera dopo assai tempo. Là [117] dentro condussi a sfamarsi, come sei anni sono c'ero entrato io, quel povero bambino che ti ho detto aver trovato colà, in quelle luride viuzze, sul fango del lordo selciato. Al momento di porre di nuovo il piede in quel covo, uno strano superstizioso timore mi assalse. Fra quel tempo di cui ora ti narro e questo in cui vivo circondato dalla vostra amicizia mi pare sia avvenuta fortunatamente una soluzione di continuità. La tua carità, salvandomi dal suicidio, la vostra carità di tutti, facendomi intorno quasi un ambiente di famiglia, hanno scavato sto per dire un abisso tra quelle prime prove della vita e queste che attualmente mi toccano. Entrando in quella povera e sconcia osteria, mi sembrò per un momento ch'io movessi incontro a quel destino che oso sperare mi abbia abbandonato e mi esponessi al pericolo ch'esso mi riafferrasse. Dovetti superare una istintiva ripugnanza, quasi ammonimento di minacciante sventura.

«Quella bettolaccia, che ora ritrovai tal quale, era frequentata dalla peggiore ciurmaglia in cui si reclutano i ribelli all'ordine sociale, ladri ed assassini. I miei cenci non erano in disaccordo colla povertà del luogo e colla qualità degli avventori. Alla miseria ed all'ambiente di essa ero ausato quant'altri mai, perchè mi trovassi colà come a mio posto. Per pochi soldi ebbero ristoro i miei bisogni. Per più tempo di seguito presi poscia colà i miei pasti, finchè un giorno mi si fece innanzi in quella fetida, fumosa atmosfera, la faccia maliziosa e malvagia di Graffigna. Egli riprese da capo le solite insinuazioni sarcastiche e le tentazioni. Risposi seccamente che avevo trovato onesto lavoro ed onesto guadagno; abbandonai issofatto quel lurido antro, e da quel giorno non ci entrai più.

«L'onesto lavoro e l'onesto guadagno l'avevo trovato per davvero in casa del signor Defasi. La fortuna questa volta mi aveva sorriso, e dalla casa di Nariccia conducendomi a quella del libraio aveva cambiato la mia vita in tal guisa, che gli era come avermi fatto passare dai rigori i più crudi d'un triste inverno alla mite e soave temperie d'una fiorente primavera.

«Tornato dal sig. Defasi, com'egli mi aveva detto di fare, il giorno dopo quel nostro incontro, io n'era stato accolto con ancora maggiore umanità. In breve egli aveva assestato fra noi le cose a mio sommo vantaggio. La buona piega presa dal suo avviato commercio gli consentiva di avere un commesso, e mi proponeva di esser quello. Ragionevole era lo stipendio; e per mettermi in grado di provvedere alle mie prime necessità, ebbi una conveniente anticipazione di alcune mesate del medesimo. Egli non poteva prendermi seco ad abitare. Dovetti adunque cercarmi un alloggio, che trovai in quelle vicinanze in un'allegra soffitta, contro i vetri della quale veniva sollecitamente a percuotere coi suoi raggi dorati il sol nascente. Là vivevo solo, ma non sentivo la solitudine, imperocchè quasi tutte le ore del giorno passassi nel fondaco, e in quelle poche della sera e della mattina avessi meco la compagnia de' più alti spiriti che furono nell'umanità, i quali, i portati della loro immaginazione, della scienza, fecero concreti nelle pagine di libri immortali....

«Ah! che felice tempo fu quello ch'io passai nella bottega del libraio e nella mia povera soffitta! La mia intelligenza si aprì allora a tutti i più severi ammaestramenti, e con quell'ardore che possiede la mia natura si gettò sopra tutte le parti del sapere e in ognuna fece bottino, confusamente, incompiuto, disordinato, ma con tanto trasporto dell'anima!... Oh! le sere ch'io passava studiando al lume della lucernetta, sere beate, in cui pareva che nel mio pensiero si ripercotesse tutto il pensiero dell'umanità, che innanzi alla mia mente venissero a schierarsi tutte le idee che sono e furono e saranno patrimonio dell'intelligenza di questa audace stirpe d'Adamo! Oh le mattinate che io stavo meditando in faccia al sole sorgente nella sua aureola dorata, con sotto i piedi le miserie della città sonnecchiante, sopra il capo l'infinito! Chi me le rende quelle ore? Chi può dirne la soavità e la bellezza?

«Coll'erudizione qua e là afferrata, senza metodo e senza logica distribuzione accatastata nel mio cervello, sobbolliva pure, non soffocata, ma forse anco fatta più viva, una potente fiamma di poesia; quella fiamma che avevo sentito desta fin dai primi giorni, innanzi ai meravigliosi spettacoli della natura; quella fiamma che non aspettava se non la forza meravigliosa d'un affetto divino per diventar luce raggiante ed illuminare i misteri del mio cuore, i segreti della vita, le tenebre dell'universo....

«O poesia! Come t'amai e come t'amo, figliuola divina, che sei il sole morale nell'universo infinito delle intelligenze! E quanto ti debbo di gioie tremende, di superbi conati onde l'anima s'innalza, di voluttà supreme nella vita mentale! Ben disse un poeta che tu sei un elisire, di cui basta una goccia nel sangue d'un uomo a dargli più devozione alla patria, più amore alla sua donna, maggior grandezza all'esistenza. Coloro che entro le vene ne hanno due goccie, sono i forti nella sfera politica, regnano nell'eloquenza, e dettano le ammirevoli pagine della miglior prosa; ma quegli in cui questo elisire è il liquore stesso della vita, quegli è il re del pensiero nel primo dei linguaggi.

«Poesia ed amore!... Due termini della grandezza dell'anima umana!...»

Qui Maurilio s'interruppe; nascose un istante [118] il volto fra le palme, e quando lo rialzò mostrò all'amico i tratti sconvolti e le guancie pallide più che non fossero prima.

— Ed ora, diss'egli, ho da svelarti il mio più caro e più importante segreto.... Ma debbo io svelartelo?

Giovanni gli prese una mano e gli disse con molto affetto.

— L'ho indovinato, il tuo segreto. Tu ami! Maurilio fu riscosso da un subito tremito, quasi convulso.

— Sì: rispose curvando il capo.

— Parla, dimmi tutto.....

— No..... non ancora..... Sono stanco, ho bisogno di rifletterci, lascia che io raccolga ancora le mie idee..... La notte è passata..... Questa sera ripiglierò il mio racconto, e ti dirò ogni cosa.

Un orologio suonò in quella con lenti rintocchi le sette ore.

Giovanni balzò con impeto giù del letto.

— Già le sette! E Francesco mi attende! Per fortuna ho buone gambe e, quantunque la sua casa sia così lontana, in due minuti sono da lui.

Corse fuori di casa. Mario era partito. Maurilio, rimasto solo nella stanza, appoggiò la testa alla sponda del letto e chiuse gli occhi, come dormisse. Ed era un sogno diffatti quello che si svolgeva nel suo eccitato cervello, ma un sogno da sveglio.

CAPITOLO XXII.

Noi ci siamo riservato il diritto (se vi ricorda) di introdurci nella sontuosa festa da ballo che aveva luogo nelle sale dell'Accademia Filarmonica, quella notte appunto in cui Mario Tiburzio raccoglieva i fili della congiura per affrettarne lo scoppio in rivoluzione, in cui Maurilio raccontava a Giovanni Selva una gran parte dei casi della sua vita.

Se non vi dispiace, venite, ascendiamo anche noi l'illuminato scalone, entriamo nell'ampia, vastissima sala che sta prima nell'appartamento signorile che occupa quella eletta società in cui concorre la parte più ricca della borghesia torinese.

Le sfarzose sale fanno risplendere le infinite loro dorature alle fiammelle di migliaia di doppieri. Dalla tribuna dell'orchestra nel gran salone, piovono onde d'armonia suscitate da quanti meglio valenti artisti conta la città. In faccia all'orchestra, sopra un palco tutto coperto di tappeti di velluto con frangie d'oro, sorge il trono per le LL. MM., ed ai lati i seggi dorati per le persone della Real Famiglia e della Real Corte, dalla presenza delle quali, dietro supplicazione dei soci, la festa dell'Accademia viene onorata. Nel salone e nelle sale circostanti si accalca una folla elegante, fra gli abiti neri della quale spiccano brillantemente le decorazioni che ingemmano gli stomachi impettiti degli uomini d'importanza, i ricami indorati e inargentati degli abiti di Corte, gli spallini, i bottoni e le armi delle divise militari, e i diamanti e gli ori e le splendide acconciature delle dame.

Nello slargo che in mezzo al gran salone si è fatto fra la siepe fitta dei riguardanti si avvolgono in ispire concitatamente le coppie dei danzatori, cui, come sferza che flagella la trottola, sospinge ed incita il ritmo balzante della musica da ballo; mentre nelle sale vicine si allunga e si contorce come un serpente in riposo la coda di quelle coppie che lasciano ansimando affannosamente la danza e il salone da una porta, per rientrare, dopo il lento progredire traverso il cammino segnato da cordoni di seta, da un'altra porta e precipitarsi con nuova foga in quella voragine, in quel turbine della danza.

Nelle sale più lontane la folla meno densa consente ai gruppi degl'invitati di assettarsi sopra i soffici sedili e godere quel gran diletto del mondo che è il mormorare, in conversazione cui accompagna il suono travelato della musica. Colà esercita il suo impero sovrano la critica malignamente urbana, armata di malvagie insinuazioni e di più malvagie apologie; le donne passano colà al crivello le assettature di tutte le altre donne, fanno il conto addosso alle trine, alle sete, a quelle nebbie che sono le stoffe d'un abito di danza, ai gioielli, alle grazie, alla bellezza, allo spirito delle loro rivali. Ogni donna che mette il piede in una simil festa è rivale a tutte ed ha per rivale ogni altra che vi si trova. Colà si susurrano all'orecchio con sorrisi che dicon troppo le spiegazioni del lusso misterioso della tale e della tal altra; fiorisce l'aneddoto calunnioso su quelle labbra color di corallo, si lacerano con motti arguti le rinomanze di donne, da bellimbusti e da vecchi celibi che la pretendono allo spirito e che si fanno un giuoco dell'onore delle famiglie. S'incrociano, si emulano, corrono il palio, per vincere la più ingegnosamente crudele, quelle maledette ciarle che con tanta leggerezza assassinano la fama altrui.

Più in là, in una sala meglio appartata, stanno i tavolieri da giuoco. In paragone allo splendore delle altre stanze questa la troverete oscura. Sopra il tappeto verde d'ogni tavolino riflettono la luce delle candele accesevi i coprilumi bianchi all'interno, verdi al di fuori. Intorno a quei tavolieri siedono giovani e vecchi con quell'uniformità di vestire che forma, direi quasi, la livrea della gente elegante; e nascondono sotto un'urbanità ostentata ed un'indifferenza d'accatto la gioia di guadagnare e il dispetto di perdere. Fra [119] quanti sono giuocatori in quella sala piacemi additarvene uno, la cui figura, in verità non è tale da confondersi colla massa delle fisionomie volgari.

È un uomo di età inoltrata, sulle cui sembianze un osservatore riconoscerebbe tosto che i vizi e gli abusi della vita e dei piaceri materiali andarono a gara cogli anni a togliere ogni fiore di giovinezza, ogni soavità d'espressione, ogni mostra di affettuoso sentimento. La sua fronte è calva, del colore dell'avorio antico, l'occhio grifagno, il naso adunco; un sogghigno permanente, pieno di scherno e d'ironia piega le pallide, sottili labbra tirate. Ha voce fioca e bassa, parola maligna, arguta, crudamente epigrammatica. Un egoismo che non si dissimula, un'aridità di cuore apertamente confessata con un cinismo, che per l'audacia e l'ingegnosità della forma ne impone altrui. Udendo parlare il scetticismo di quell'uomo, un'anima debole, tutto sbalordita, si prende a dubitare di ogni cosa ancor essa, e si domanda se non è una gran giunteria la virtù, se la filosofia della vita e la legge ultima dei rapporti sociali, non sono quell'egoismo di vizio avviluppato in forme eleganti, che colla vernice dell'urbanità la più squisita ride di tutto e non si dà un pensiero serio di nulla. Veste con eleganza inappuntabile secondo le leggi della moda e del gusto, senza smancerie da giovinotto che stonerebbero colla sua età, col suo stomaco curvo e colla calvizie della sua fronte. La beltà che gli è rimasta è quella d'una mano fina, ben fatta, per dirla in una parola, aristocratica, e come si usa dire e credere, vero indizio di razza.

Giuoca con ardore coperto da quella continua attenzione agli atti ed alle parole che ha un uomo in guardia contro le sue impressioni.

L'indifferenza abituale e beffarda della sua fisionomia, direste ora un po' simulata nell'atto con cui prende ed esaminar le carte da giuoco, dal valore delle quali dipende la sorte di quelle somme vistose in oro ed in argento che stanno in monete accumulate innanzi a ciascuno dei giuocatori. Dal suo occhio grigio e vivacissimo, l'unica parte del suo viso che conservi alcuna apparenza di gioventù, quasi direi di vitalità, partono a tratti a tratti lampi accesi, veri getti di fiamme, cui tosto s'abbassano a spegnere ed a velare le palpebre. Il mucchio di denari ch'egli tiene sul tappeto verde là al suo destro lato, è maggiore di quelli che stanno presso gli altri giuocatori. La sua mano affilata e bianca giuocherella sbadatamente colle monete; e soltanto alcuna rarissima volta si potrebbe notare in quella mano alcun movimento più secco, più convulso, come determinato da un sussulto, da un raggrinzamento di nervi. Un osservatore potrebbe, dopo sottile investigazione, conchiuderne che in quell'essere fatto apatico ad ogni cosa, una sola può tuttavia farne vibrare una fibra, che in quell'animo spento ad ogni passione, una ancora vi rimane e si suscita, ed è quella del giuoco. Quando perde, vede con volto inalterato passare i cumuli d'oro dalla sua alla parte dell'avversario; quando guadagna gli è con una superba freddezza che le sue dita sottili tirano le vinte monete verso il mucchio che gli sta davanti: ma gli è nel prendere le carte che la sua mano ha quelle certe lievissime contrazioni, gli è quando l'avversario le batte che il suo occhio, affissandosi su di lui, mandano quelle cotali faville.

Per sua ordinaria abitudine, ogni qual volta parla con qualcheduno, egli serra le ciglia ed usa guardare il suo interlocutore «come vecchio sartor fa nella cruna,» se non che a questo suo stringer degli occhi egli sa dare le più varie e diverse espressioni; ora di una specie di bonarietà fiduciosa, ora di una ironia profonda, ora, ed è il più frequente, d'un orgoglio che tocca l'impertinenza. Adesso ch'egli giuoca, codesto sogguardare è più intenso, direi quasi, e più maligno che mai. Da quelle sue ciglia socchiuse pare che scocchino vere puntine sottili d'acciaio a ferire gli occhi entro cui si piantano.

Questo personaggio si chiama Amedeo Filiberto Langosco conte di Staffarda; ed a quanti aveste a quel tempo chiesto di lui in Torino, tutti vi avrebbero risposto che era il più perfetto e il miglior gentiluomo che vi fosse.

Nato quando appunto era incominciata la rivoluzione francese che doveva abbattere i privilegi di casta, egli apparteneva ad una delle più antiche famiglie della più privilegiata aristocrazia piemontese. La sua stirpe feudale aveva conservato di primogenitura in primogenitura la maggior parte delle vaste tenute che erano state concesse in beneficio ai suoi antenati nella divisione delle terre fatta colla legge del più forte dai nordici invasori, a cui appartenevano. L'asse patrimoniale era stato accresciuto dalle graziose concessioni dei sovrani, alla causa dei quali essi erano stati dei primi a disposare la loro, dai vistosi stipendi goduti, dalle commende acquistate pei servigi resi allo Stato, per le arti cortigianesche presso il principe.

Il padre di Amedeo Filiberto possedeva due o tre villaggi e tre o quattro cariche di Corte. Il palazzo dei conti di Staffarda, fabbricato nuovo in uno dei quartieri nuovi della città rinnovellata dopo la pace d'Utrecht, con disegno del celebre Juvara, sta uno dei pochi monumenti di vera arte architettonica del secolo scorso che esistano in Torino. La grandiosa sontuosità di esso — forse troppo solenne — non è superata da nessun'altra, per quanto signorile, fra le abitazioni dei privati. Alla magnificenza delle forme esteriori [120] corrisponde intieramente lo sfarzo degl'interni ornamenti ed addobbi, dipinti, intagli in legno, dorature, arazzi e tappeti; ma anche tutto questo ha un'aria solenne, a cui aggiungendosi ora la vetustà, ne riesce un'apparenza melanconiosa più che non si potrebbe dire. Sotto le ampie volte di quelle sale fatte scuriccie dalle pesanti cortine, innanzi a quelle preziose antiche tappezzerie d'alto liccio a gran personaggi ed a grandi fiorami, in cospetto a quelle forme di mobili che appartengono ad un secolo spento, uno si trova rimpiccinito, quasi perduto, come fuor di luogo, e gli pare che la sua personalità, le foggie del suo vestire, le idee che sono nella sua testa stonino affatto con quell'ambiente che là si trova.

Un inesplicabile fastidio, un'uggiosa tristezza direste che emanino da quelle pareti, che regnino sovrani in quel cortile quadrato colle finestre a cartocci di genere rococò, sotto gli alti archi di quelle gallerie, come in volto ai ritratti polverosi degli antenati, che si schierano a costa l'un dell'altro, contando la storia di dieci secoli nelle date scritte sulle cornici dalla doratura annerita dei loro quadri.

Gli era in questa temperie che Amedeo Filiberto aveva passata la più triste e noiosa infanzia che possa toccare a creatura umana.

Suo padre, ciambellano di Corte, non pensava che ai suoi cavalli, alle sue partite di caccia, ai suoi uffici di cortigiano, alle sue belle, che con iscandalo manteneva spendiosamente; la madre era tutta presa dalla galanteria, che dalla Francia di Luigi XV aveva passate le Alpi ed aveva finito per piantarsi dominatrice anche intorno l'onesta Corte di Savoia; per l'uno e per l'altra l'ultimo soggetto della loro preoccupazione era il figliuolo che il più spesso riuscivano ad obliare, come appunto era lor desiderio.

Amedeo cresceva abbandonato alle cure d'un prete zotico ed ignorante, che lo annoiava di latino mettendo tutta la sua cura a insegnargli niente, egli che con la sua prosopopea non sapeva di niente. Sotto la cotta del prete c'era il villano rifatto che era gonfio di orgoglio coi suoi pari sopra cui credeva essersi innalzato, ed umile piaggiatore verso i titolati che gli davano il pane; un che di mezzo fra il domestico e il parassita, impertinenza da questa, servilità da quella parte, la crassa ignoranza su tutto.

Il padre e la madre, il bambino sapeva appena che esistessero. Se non li avesse visti una volta alla settimana, il mattino della domenica, avrebbe potuto avere di loro la stessa idea confusa che gli davano di Dio i barocchi insegnamenti del precettore. Quel momento in cui veniva introdotto alla presenza dei genitori, era per Amedeo un momento solenne che gli destava nessuna impressione di gioia, nessun movimento d'affetto, si invece un sentimento di soggezione, quasi di paura.

Gli era nel gran salone dell'appartamento da ricevere dove stavano il conte e la contessa; questa ordinariamente seduta sopra il seggiolone, dura stecchita nel suo busto, pettinata ed incipriata in grande acconciatura, con uno specchio in mano a guardarsi il bell'effetto seducente dei finti nèi sparsi con arte sulla sua faccia imbellettata, il marito dritto per solito presso la finestra fischiando fra i denti un'aria di caccia che accompagnava col tamburinar delle dita sui vetri.

Il bambino veniva introdotto, tenuto, quasi tirato per mano dal prete. Ci entrava con una segreta riluttanza che non osava manifestarsi, ma che gli faceva sembrare sempre più fastidioso e più grave quel momento. Se lo avessero lasciato fare e' sarebbe scappato le mille miglia lontano.

— Siete qui Amedeo? Diceva con sussiego la madre, staccando per un momento lo sguardo dallo specchietto affine di volgerlo sul figliuolo. Dio! com'egli cresce giorno per giorno questo disgraziato!

Tendeva con atto solenne e di protezione le dita della sua mano sovraccariche di anelli verso il piccino, il quale deponeva un timido bacio su quelle falangi che uscivano fuori del mezzo guanto.

— È egli buono il vostro allievo, Don Tabusso? Domandava la contessa col tono indifferente di chi chiede ad alcuno le novelle del suo cagnuolo, alzando un momento i suoi occhi brillanti in faccia al prete che si profondava in una riverenza.

— Buonissimo.

Il padre lasciava la sua finestra e s'accostava a passo lento.

— Che cosa gli fate studiare al contino? Diceva svogliatamente. Il Mandosio?... Non rompetegli di troppo la testa. Capite bene ch'egli di tutte le vostre bazzecole non ne avrà da far nulla mai.

Poneva la sua mano sul capo del figliuolo e soggiungeva:

— Ti piacerebbe più imparare la scherma e andare a cavallo, non è vero? Sta buono che fra pochi anni ti metterò il fioretto in mano, ti comprerò un cavallino e ti darò per aio un cavallerizzo.

La madre gli pizzicava la guancia destra, facendogli alcune ammonizioni a mezzo labbro; il padre piroettava sui suoi talloni da agile ballerino di minuetto ch'egli era, e il bambino veniva — sempre per mano del prete — ricondotto al fastidio grave e continuo della sua solitudine.

Quantunque a lui la Provvidenza avesse dato ricchezza e una famiglia, ben potevasi tuttavia ascrivere [121] alla infelice schiera dei derelitti, in quanto che, scevrato d'ogni affetto, vivesse solo, senza compagni, in mezzo alla poco nobile compagnia d'un corrotto e oziante servitorame.

Il destino gli avesse almeno conceduto dei fratelli! Ma no: solo a quell'ostico studio, solo al sollazzo, solo in quel vasto palagio pieno di ombra e di silenzio.

Ad interrompere quella uggiosa monotonia venne il terremoto, un compiuto cataclisma — la rivoluzione francese, che come la lava d'un vulcano in eruzione si sparse per tutta Europa.

La contessa che aveva fatto strette relazioni con alcuni emigrati francesi nel tempo ch'essi erano rimasti alla Corte di Torino, fuggì con loro in Germania; il conte, uomo coraggioso, si pose alla testa d'una di quelle bande che uccidevano i francesi sbandati e i giacobini isolati per amore del re legittimo e della religione cattolica; e la durò finchè un giorno, sorpreso in una forra egli ed i suoi uomini da un drappello di truppa repubblicana, piuttosto che arrendersi, lasciò che una palla gli spaccasse la testa. I beni della famiglia furono sequestrati; dall'alto della facciata del palazzo fu atterrato lo stemma dei conti di Staffarda; in quelle belle sale venne a crogiuolarsi la democrazia d'un commissario francese qualunque.

E Amedeo Filiberto?

Preso da un parente lontano, che viveva in provincia, passò da una solitudine ad un'altra, da una uggia ad una peggiore. Quando fu in caso di portar le armi, e' si partì ed andò a sostenere il grado di sottotenente nei reggimenti stranieri di cui allora si serviva l'esercito inglese. Visse qua e colà la vita scioperata dei campi e delle guarnigioni, senza amare, senz'essere amato, senza provare menomamente il bisogno d'un affetto. A forza d'essere privo d'ogni amore, il suo cuore ne aveva perduto ogni bisogno, come ogni stimolo. Una specie di atrofia l'aveva inaridito. Le forze della giovinezza che cercano e trovano solamente sfogo nella passione, sviate da tutto ciò che è sentimento, si volsero precipitose e prepotenti a tutto quanto è vizio. L'ardore della voluttà, le ansie del giuoco, gli eccitamenti dell'ebbrezza la più volgare tennero luogo in lui dei diletti soavi e dei trasporti dell'amore. A 26 anni, nel 1814, succeduta la ristaurazione, e' gettò via l'uniforme rossa e tornò in patria, logoro, disgustato, bacato nell'anima ed affralito di corpo. Si trovò in faccia con uno spettro imbellettato, un vero revenant del secolo spento, sua madre, cogli stessi sentimenti, cogli stessi nèi finti sulle guancie, cogli stessi modi, colle stesse abitudini, ma colle rughe in più sulla faccia e con diciasette anni di vantaggio sulle spalle. Si guardarono stupiti come una spiegazione ridicola d'un enimma di cui si fu lungo tempo curiosi. Nel petto loro non sentirono battere l'un per l'altro a vicenda, nemmanco un'apparenza di cuore. La madre si sgomentò di trovarsi innanzi un figliuolo così vecchio: il conte ebbe difficoltà a reprimere un sorriso nel vedere gli atti e l'aspetto di quella poppatola vecchia, imbellettata e mascherata da giovane. Fra di loro nessuna corrente di simpatia, nessun legame di fiducia, nessuna comunanza di sentimenti. Vissero come estranei, vedendosi raramente, quantunque abitatori del medesimo palazzo, finchè la contessa andò ad abitare il monumento sepolcrale della famiglia nella chiesa dell'antico feudo, restituito dalla ristaurata monarchia, monumento cui la fittizia pietà del figliuolo ornò di due statue e di una epigrafe latina di più in onore della memoria materna.

Amedeo Filiberto era proprio solo nel mondo. Non aveva amici, perchè il suo carattere non era simpatico a nessuno. Anche in amicizia è vera la profonda massima scritta in una sua novella dal Boccaccio: se vuoi essere amato, ama. E chi amava egli il giovane profondamente blasé, se non appena se stesso? Ebbe compagnia di parassiti, di mezzani, di cozzoni, di cortigiani, di complici nelle orgie; non ebbe nè amante, nè amico. Al matrimonio ci pensò — ma per giudicarlo una catena e un giogo che non avrebbe mai voluto portare.

Il giuoco e i soverchi dispendi gli avrebbero consumato il patrimonio, se il re non glie lo avesse salvato con un biglietto regio, per cui s'imponeva ai creditori di non molestarlo oltre, e di contentarsi di essere pagati a centellini del capitale, perdendo gl'interessi[11].

Sei anni prima del giorno in cui lo vediamo introdotto nel nostro racconto, egli aveva fatto strabiliare tutta la elegante società torinese, e massimamente coloro che lo conoscevano più davvicino, annunziando il suo matrimonio con una delle più belle ragazze della città, madamigella Candida, figliuola del ricco barone La Cappa.

Il conte di Staffarda aveva 52 anni e ne mostrava 60; la sua sposa ne aveva 18 e compariva di 16. Egli era pieno di debiti, ed ella recava un mezzo milione di dote allo stringer del contratto, forse più di due milioni d'eredità alla morte del padre.

La spiegazione di questo mistero era la seguente:

Anatolio La Cappa era un nobile di fresca data che avrebbe sacrificato la metà della sua ricchezza [122] (la quale eragli pure la cosa la più cara del mondo) affine di poter vantare senza menzogna di compilatori d'alberi genealogici un lungo ordine d'avi illustri con sangue azzurro di centinaia di generazioni. Egli aveva bensì una galleria di ritratti di antenati, ma suo padre — primo a portare il titolo di barone (ed era stato barone dell'impero) — li aveva comperati belli e fatti e polverosi da un rigattiere. La fantasia di un araldista aveva inventato per ciascuno di essi un nome, una qualità, una carica ed una data. L'avolo dell'attuale barone era stato commerciante, e la tradizione di ciò — il che scottava tremendamente al padre di Candida — non si era ancor affatto perduta in Torino. Il padre aveva incominciato ad innalzarsi col favore appunto delle ricchezze ammassate dal commercio dell'antenato. Il figliuolo del bottegaio era entrato nella magistratura, divenuto presidente o che so io, ed insignito del titolo di barone, cui ristaurata la Casa di Savoia, ottenne per gran ventura di avere riconfermato al suo nome. Il figliuolo era entrato nell'amministrazione, si era spinto su, parte per merito, parte per protezioni, che sapeva accortissimamente procurarsi e sfruttare, alle prime cariche dello Stato, si era coperto il petto di croci d'ogni ordine cavalleresco, aveva acquistata un'autorità, un'influenza delle prime ed aveva inoltre avuto il talento di saper accrescere ancora il patrimonio raccolto dall'avo, già aumentato dal padre.

La fortuna, in ciò solo avversa, gli aveva negato un figliuolo maschio. La sua Candida avrebbe adunato in sè tutte le glorie e tutti i denari dei La Cappa. Il padre, ambiziosissimo per sè e per lei, voleva ad ogni modo imbrancarla con una delle più antiche e delle più illustri prosapie della nobiltà torinese.

Il conte Langosco s'incontrò col barone e con sua figlia, un autunno, alla villa d'un comune conoscente. La fresca gioventù di Candida, rincalzata da una pura ingenuità di modi, di sembiante, di parole, accese un ultimo ardore stantio nel sangue corrotto del vecchio libertino.

A trent'anni, quando aveva l'audacia e la spensieratezza di Don Giovanni, avrebbe tentato sedurla. A cinquanta, con qualche reumatismo nelle ossa, fiacco della persona e poco acconcio ormai alle scalate dei balconi ed alle frasi incendiarie, sentì una certa tal quale lusinga del suo egoismo nel pensare ad una brava donnina che facesse da curatrice amorosa alle sue infermità, e che rallegrasse l'ora dell'addormentarsi ed il momento dello svegliarsi la mattina con un visino color di rosa, assai più gradevole a vedersi, che non la faccia senza garbo di un domestico.

Alla prima idea che gli balenò allora alla mente del matrimonio, il conte rise di se stesso a gola spalancata, e si promise di chiudere la porta del suo cervello ad ogni simile pensiero biscornuto, diceva egli con un sogghigno, che osasse ancora presentarglisi innanzi. Ma il giorno dopo, il barone La Cappa fu leggermente indisposto, ed il conte, come gli altri ospiti della villa, si recò a visitarlo nella sua stanza. Colà vide Candida nell'esercizio di uno dei più preziosi e cari uffici che la natura abbia affidato alle donne, quello di suora di carità; — e ancora la pietà naturale in essa addoppiata dall'affetto di figlia; — e le ironie del suo scetticismo si trovarono spuntate innanzi all'idea del matrimonio, che profittò di quell'occasione per ricomparire più ardita di prima. Candida, seduta presso il letto di suo padre con un lavoro in mano, gli parve mandare in quella stanza, traverso la sua modestia, una luce benigna e riconfortevole. Pensò alle lunghe ore ch'egli passava nella sua solitudine, quando il male lo inchiodava sopra il suo letto nelle ombre pesanti della sua alcova cortinata; e non ostante tutte le promesse che s'era fatto non iscacciò con mal garbo la bandita idea, ma anzi se ne compiacque. Ad un tratto sentì nascere in sè un sentimento che fino allora non s'era ancora mai manifestato: la voglia di continuare la nobile antica razza a cui aveva l'onore di appartenere. Gli parve un suo debito supremo codesto, grave colpa il non adempierlo. Che? Nessuno ci sarebbe stato, che, lui morto, com'egli aveva fatto per la madre, aggiungesse nella cripta del sepolcro famigliare un monumento ed un'epigrafe a ricordarlo? Nessuno più a portare negli alti gradi dell'esercito, o nelle ambasciate, o nelle sale della Corte colla chiave d'oro sulle reni, il fastoso, illustre nome di Langosco di Staffarda? Come non aveva egli pensato mai fino allora col dovuto orrore a tanta jattura della vera nobiltà e del paese? Finchè si era in tempo — e si era egli veramente ancora in tempo? in quel momento il conte osava sperarlo — finchè si era in tempo doveva affrettarsi ad antivenire un tal pericolo.

Siffatti pensamenti occuparono la mente del conte fino all'inverno, quando, raccolta di nuovo nella capitale tutta la società aristocratica, egli tornò avere l'occasione di trovarsi in presenza dei belli occhioni neri e delle lussureggianti chiome corvine di madamigella Candida.

Allora, per maggior stimolo ad affrettare quella decisione che pur tuttavia stentava a costituirsi e fermarsi, avvenne che i debiti dessero maggior fastidio al conte scialacquatore, e nella sua distretta, gli apparissero quali salvatori i denari della dote di Candida che facevano come un'aureola d'oro intorno alla bellezza della giovinetta. Si determinò ad un tratto al passaggio di questo rubicone matrimoniale. Che la sua domanda potesse venire respinta, egli non lo sognò neppure. [123] Aveva troppa coscienza del vantaggio che gli dava il suo antico casato, troppo riteneva per impareggiabile l'onore di portare il suo nome, sapeva troppo la smania del barone di affratellarsi colla nobiltà vera, per dubitare un momentino che la sua proposta non venisse accolta col meritato entusiasmo. Quanto al consentimento di Candida ed a quello che potesse avvenire nel cuore di lei, egli non se ne preoccupò menomamente. Apparteneva ad una società in cui i matrimonii sogliono intendersi e conchiudersi dietro dati tutto diversi da quelli delle reciproche simpatie e della comunione dei sentimenti.

Fece dunque la sua domanda, e il fatto diede ragione alle sue superbe previsioni. Il barone aveva fino allora invano tentato il terreno di qua e di là, per trovare un vero discendente dei paladini delle crociate, al quale piacesse guadagnare con un semplice sì la mano, la gioventù, la venustà ed i milioni di madamigella Candida. Ben è vero che questa non aveva che diciott'anni, ma il barone era premuroso di godere della gioia di vedere la figliuola innalzata a quell'altezza a cui la voleva spingere nell'olimpo degli Dei terreni, di vederla cinta di quello splendore, del quale ben contava seco medesimo che un riflesso avrebbe riverberato su di lui.

Il conte di Staffarda non era più giovane — ma la sua stirpe era tanto antica!; non aveva fama di morigerato — ma nella distinzione delle maniere non aveva chi lo superasse; aveva una infinità di debiti — ma il suo palazzo, il castello e le terre del suo feudo erano inalienabili, vincolate in un maggiorasco, e Candida aveva una fortuna che si acconciava proprio a dovere colla grandezza e collo splendore del nome.

La possibilità d'una opposizione da parte della sua figliuola, non fu nemmanco ammessa dal buon genitore. Ed invero la giovanetta non pensò menomamente a ribellarsi alla volontà paterna. Era stata allevata con questa idea; la felicità del matrimonio le era stata indicata nella purità nobiliare d'un blasone. Si era insinuato in lei la convinzione che il genere umano era diviso in ischiatte, una sovrapposta all'altra, e che la superiore soltanto meritava il suo riguardo; tutti gli uomini delle caste inferiori erano poco più che animali soggetti, bene o male addomesticati.

— Avrai diritto di sedere a Corte, le disse il padre trionfante, e potrai essere, sarai fatta di sicuro dama della regina.

Questo le parve un gran che. Certo avrebbe preferito che tutti questi vantaggi le venissero innanzi rappresentati da un giovane e leggiadro cavaliere; ma dove e quando mai si può ottenere tutto ciò che si desidera? Il suo cuore non aveva ancora parlato; l'educazione fornitale e il modo di vita adottato erano tali da impedirgli anzi che parlasse, contento di far tranquillamente il suo dovere d'organo essenziale alla vita. Non ebbe nessun trasporto di gioia, non travide colla fantasia nessuna regione dorata nell'avvenire fra nubi di rose con amori sorridenti; ma senza la menoma riluttanza si dispose a pronunziare quel monosillabo fatale da cui tutta l'esistenza, tutto il suo destino dovevano dipendere, senza più redenzione.

Quel giorno in cui essa andò innanzi all'altare, ad inginocchiarsi sul cuscino di velluto rosso gallonato d'oro per mettere la sua fresca manina nella destra asciutta del conte, potevasi scorgere una nube di mestizia onde, a dispetto di tutto, era circonfusa la bella di lei figura.

Quanto a bellezza, nessun indiscreto avrebbe potuto desiderare di più in una creatura di ossa e di carne. Un pallore che si sarebbe potuto chiamar pensoso, rendeva più brillanti i neri occhi della giovane, colla cui pura e bianchissima fronte si accordavano a meraviglia i bianchi fiori d'arancio della sua corona e del mazzolino appuntato al suo petto.

Ho detto pensoso il pallore della sposa in quell'istante, perchè diffatti la mente di lei era occupata da mille confusi pensamenti, da dubbi e paure, da un'incerta temenza e peritanza che parevale un presentimento. Era come se, affacciandosi alla soglia di un'abitazione ignota, sentisse ad un tratto una voce gridarle nell'anima: — prima di avventurarti là dentro, guarda quello che fai!

Ma ogni considerazione era inutile oramai, ogni esitanza non era più che una follia, quasi una colpa. Affrontò bravamente l'ignoto di quel destino che le si presentava, e se il suo cuore batteva forte nel pronunziare quell'irrevocabile SI', la sua voce fu ferma tuttavia.

Uscì della chiesa con passo sicuro ed il viso tranquillo nella sua pallidezza, la mano nella mano del conte.

I suoi 18 anni erano legati coll'indissolubile nodo del sacramento alla prematura e corrotta vecchiaia di quel libertino elegante, scettico ed egoista.

Candida non aveva, come dissi, la menoma lusinga d'una illusione: ma quanto stette essa prima di accorgersi che s'era chiuso definitivamente ogni accesso ad una legittima felicità? Fin dal primo entrare nel fosco palazzo degli Staffarda, cui il conte in omaggio alle tradizioni famigliari da lui rispettatissime aveva voluto lasciare tal quale nella sua antica eleganza solenne; la giovane sposa aveva sentito abbattersele addosso come una fredda cappa, aveva provato una sensazione quasi uguale a quella di chi venendo dalle calde carezze d'un bel sole d'estate entri d'improvviso nel freddo ambiente di una stanza umida e scura. Quelle gran [124] sale in cui regnava eterno il crepuscolo sgomentarono la giovinezza della ricca figliuola del barone, avvezza al suo salottino di ragazza color celeste ed al fresco nido della sua camera da letto color di rosa. Dagli angoli scuri di quegli immensi saloni pareva che il fastidio in agguato si slanciasse addosso a lei ad assaltarla. E qual difesa poteva ella fare? La compagnia del marito, dapprima le ispirò una gran soggezione, poi una indifferenza che piegava più verso la noia che altro; da ultimo, quando ebbe conosciuto per bene tutto l'arido scetticismo di quell'anima affatto spoglia d'ogni simpatica qualità, piuttosto rabbia e disgusto.

Durante il primo anno, la novità del genere di vita, le fastosità del mondo, la gran bisogna della toilette distolsero alquanto dalla reale miseria del suo stato la giovine donna; ma poscia un bel giorno ella ad un tratto intravvide che tutte le feste e le gioie della società erano una vana scorza sotto cui non c'era sostanza. Il vero diletto, la felicità della vita erano dunque in altre cose. Dove? Nella famiglia, per lei, no. Fuori della famiglia? Come? In che cosa?

Frattanto l'influsso deleterio degli esempi osservati in società, quello delle ciarle e delle mormorazioni che con un velo trasparente, onde maggiore ancora ricresce la realtà, pongono in mostra tutte le magagne dei costumi, esercitavano la loro opera corruttrice sulla giovane ed inesperta anima di quella donna, abbandonata ai suoi istinti. Il conte, come non poteva essere un marito ammodo, poteva tanto meno farle da consigliere, ufficio paterno d'uomo che ispira fiducia e rispetto. Il padre di Candida non parlava che di cortigianerie e di decorazioni. Candida, rientrando dalle adunanze, in cui aveva visto la sua bellezza eccitatrice d'ammirazione e di desiderii in tutti gli sguardi degli uomini — e per l'anima disoccupata d'una donna non c'è seduzione più perniciosa di questa — Candida si trovava sola col vuoto della sua vita e del suo cuore, col fastidio delle sue monotone giornate, mentre le susurravano ancora nell'orecchio, come il ricordo d'una musica soave, le frasi appassionatamente galanti di cui le si era fatto omaggio; e dietro le nubi di quell'incenso travedeva splendere affascinatore il sorriso dell'amorosa voluttà.

Di questa e di quella fra le più riverite e le principali dame della città si raccontavano gli amori, e le vicende e le mutazioni degli amori: nè mai era che una nota di biasimo suonasse per esse a tali racconti, sì invece si disegnava sul labbro del narratore e degli ascoltanti un sorriso quando si pronunziava il nome del marito, e Candida, senza punto condannarsene, senza nè anco accorgersene, già usava ella stessa partecipare a quel sorriso.

Quanti onesti non ha egli perduto questa considerazione: — se gli altri fanno così, e perchè non lo farei ancor io?

La giovane contessa Langosco era pervenuta d'altronde a quello stadio della vita in cui e cuore e sensi hanno raggiunto il pieno sviluppo ed imperiosamente domandano. Nel matrimonio nè questi nè quello per lei non trovavano risposta.

Il conte, qualunque fossero stati i suoi proponimenti nello stringere quel maritaggio, non aveva tardato a ricascare nelle primitive sue abitudini, e mentre lasciava alla contessa tutta quella libertà che nel secolo scorso lasciavano alle mogli i nobili mariti indifferenti, egli abusava di quella che si riservava piena ed assoluta per sè. I due coniugi vivevano affatto indipendenti l'uno dall'altro; appena era se si vedevano alle ore del pranzo, molte volte ancora il conte facendo annunziare alla contessa che non sarebbe venuto; e la medesima carrozza non li accoglieva insieme mai, se non quando le esigenze sociali comandavano che la moglie fosse accompagnata dal marito. D'uscire insieme a piedi non fu mai nemmanco quistione.

La giovane contessa viveva così infelice ed innocente, quand'ecco uno sciagurato amore invadere la, sua anima, e ridurla colpevole, e non certo felice davvero, ma darle almeno certe gioie febbrili, certe tremende emozioni, certi appassionati trasporti, che se non altro l'avevano tolta a quel marasmo in cui s'intorpidiva, che se non altro erano la vita.

La sua natura fino allora era rimasta coperta — era un mistero anche per lei. Di colpo, al contatto della passione, si rivelò in uno scoppio potente innanzi a cui ogni forza di resistenza sarebbe stata un nonnulla. Un'ardenza irrefrenabile la possedeva. Aveva nelle vene del sangue di Saffo. Amare, essere amata e morire: le parve tutto un invidiabile destino. Ed amò.

Aveva ella almeno scelto meritamente l'oggetto dell'amor suo?

CAPITOLO XXIII.

Quel dì in cui aveva luogo il festoso ballo dell'Accademia erano già passati quattro anni dal momento in cui si era presentato la prima volta allo sguardo della contessa l'uomo fatale che sì funesto influsso doveva esercitare su tutta la vita della sconsigliata donna.

Era essa in campagna, sola, suo marito preferendo di rimanere in città alle sue abitudini del circolo, del giuoco, della compagnia delle ninfe del corpo di ballo.

Si annoiava maledettamente la povera contessa nella monotonia delle sue giornate senza vicende di sorta. Alcune delle sue amiche erano state a [125] farle visita, e ripartite, lasciandole un po' di quel profumo storditore della vita cittadina, di quel fermento nell'anima, che depongono la mormorazione, la braca, come soglion dire i fiorentini, le ciarle maliziose della cronaca più o meno scandalosa; aveva ella appreso così che la marchesa tale aveva un nuovo amante, che la baronessa tal'altra era sempre fedele a quel suo ufficialetto di cavalleria, che il brillante contino *** si degnava far girare la testa d'una bellezza borghese, moglie ad un bravo commerciante della città, che per i begli occhi della presidentessa *** s'erano scambiati due colpi di sciabola un capitano delle guardie e un addetto d'ambasciata.

Rimasta con non altra compagnia che quella del suo specchio, il quale facevale i più adulativi complimenti sulla floridezza de' suoi venti anni, la noia spalancava in lei le porte della fantasia all'invasione delle più temerarie immagini; sentiva, come dice Alfredo di Musset, delle frasi di romanzo salirle al cervello. Guardava con profondo dispetto la calma della campagna, in cui il sole splendeva beatamente sopra una immutevole medesimezza di cose. Sentiva nascere in cuore un'uggia inesplicabile, ma viva contro i recessi ombrosi del suo parco, che non avevano per lei mistero nessuno, contro le amenità di quel soggiorno, che non dicevano nulla al suo cuore ed alla sua mente, nè una memoria del passato, nè una speranza dell'avvenire. Pensava di colpo far riempire le sue valigie e precipitare a Torino al trotto serrato dei suoi bei cavalli del Mechlenburgo. Perchè in quella sua solitudine il caso pietoso non avrebbe mandatole alcun avvenimento che rompesse quella desolante monotonia? Il più straordinario sarebbe stato il meglio venuto. Sognava da sveglia le più matte ed impossibili avventure cavalleresche. S'ingolfava nella lettura dei più strani romanzi che allora la moda voleva impinzati di fatti che non succederanno mai. Poi questa lettura la stancava, le faceva tanto di capo, le dava una specie di stordimento in cui la sua immaginazione quasi offuscata faceva scorrere con vertiginosa ridda tutte le vicende di quelle favole, aggrovigliandone i fili, complicandone gl'incidenti, riuscendo ad una faticosa confusione. Allora gettava il libro incollerita, serrava gli occhi, e faceva di per sè il suo romanzo, e lo vedeva incarnarsele dinanzi, come sopra le tavole d'un palco scenico, sotto le sue palpebre richiuse. Anche codesto finiva per irritarla. Sorgeva di scatto, faceva attaccare i cavalli alla carrozza frettolosamente, impazientandosi d'ogni indugio, come se la più importante cosa le premesse. Gettatasi sulle ricche treccie una cappellina qualsiasi, la prima che le capitasse, volava giù delle scale, si slanciava nella carrozza e comandava al cocchiere:

— Corri.

— Dove, signora contessa?

— Dove vuoi. Purchè tu vada lontano e presto!

L'aria che percoteva il suo viso parevale darle sollievo. Il moto che ne cullava la persona, il rumor delle ruote entro le orecchie, il sibilo del vento non le lasciavano più agio a formarsi ai suoi pugnaci e turbativi pensieri. L'intimo tumulto del suo spirito si calmava a poco a poco. Chi la vedeva in tali occasioni avrebbe detto per sicuro che un gran dolore occupava quell'anima, che una grande sciagura s'era precipitata su quella esistenza. Le ciglia aggrottate, le labbra pallide, serrate, lo sguardo profondo degli occhi neri fisso dinanzi a sè parevano indizio d'una preoccupazione dolorosissima. Se qualcheduno le avesse domandato in quella:

— Per amor di Dio, a che cosa pensate, contessa?

Ella avrebbe dato in uno scossone come persona sorpresa d'improvviso, ed avrebbe risposto in tutta buona fede:

— Niente!

Quando l'effetto di quella corsa concitata sul suo animo era ottenuto, Candida si passava la sua bianca manina sulla fronte e gridava al cocchiere:

— A casa!

E giuntavi risaliva nelle sue stanze per riprendere con più accanita perduranza la lettura dei nuovi romanzi francesi.

Quante volte, in quelle sue gite senza ragione e senza scopo, non prese ella a fantasticare che i suoi cavalli togliesser la mano, che la conducessero ad imminente pericolo di vita, che un eroe da novella saltasse fuori a salvarla con estremo suo rischio, cadendo vittima del suo bel tratto, gravemente ferito fors'anco! Cogli occhi della mente essa lo vedeva, questo incognito generosissimo e valorosissimo. Non era nessuno fra quanti giovani aitanti, leggiadri, aveva essa veduto fare sfoggio d'eleganza nelle sale della società più forbita, ma aveva un po' di tutti coloro; aveva specialmente quel non so che onde gli occhi della donna son presi, onde la sua fantasia è dominata. Pareva alla contessa che quest'individuo doveva esistere, che a un dato momento doveva comparire nella vita di lei, lo domandava alla fortuna, s'impazientava che tardasse.

I cavalli troppo ben guidati non ruppero mai il freno; il caso non si compiaceva mai di lasciar cadere il seme d'un'avventura in quel troppo ben disposto terreno.

Candida guardava sdegnata il bel sereno di quel cielo monotono sotto la cui volta non ispuntava nessun avvenimento, nessun pretesto di passione.

Un giorno la si era proprio decisa a partire [126] per Torino. Gli ordini erano già dati; essa, col pretesto di vestirsi da viaggio, aveva fatta una toilette del miglior gusto che sia possibile immaginare, elegante insieme e modesta, di colori, di taglio, di stoffe i più atti a farne valere le forme bellissime e tutta la grazia della persona, e tutta l'efficacia delle sue attrattive. Avreste detto che la si era preparata per ricevere incognito il Prince charmant de ses rêves.

Quando fu pronta del tutto, si compiacque, secondo il solito, fermarsi innanzi allo specchio. Fece a se medesima un sorriso, per cui un poeta avrebbe detto la stanza tutta riuscirne illuminata. Un istante la compiacenza di se medesima diede alla sua fisionomia l'espressione della contentezza. Ma poi tosto scrollò le spalle e la solita nube di noia discese sulle sue sembianze.

— A che pro? Mormorò essa; e colla solita sua irrequieta impazienza corse al balcone a vedere se già era in ordine la carrozza.

Il garzone di scuderia teneva i cavalli per mano, ma il cocchiere invece di attaccarli, guardava in su nel cielo con aria dubitosa.

— Fate presto: gli gridò la contessa che calzava affrettatamente i suoi guanti.

— Credo che sia più prudente l'aspettare: disse il cocchiere.

— Perchè?

— Guardi lassù, signora contessa.

E il cocchiere additava il cielo.

Candida volse gli occhi in alto, e il bel sereno che i giorni scorsi l'aveva irritata cotanto vide sparito dietro grossi nuvoloni scuri e minacciosi che s'avanzavano rapidamente. In quel punto stesso un lampo abbagliante correva in essi e fragoroso rimbombava il tuono ad annunciare prossimo lo scoppiar del temporale.

Se non altro era quella una variazione, e Candida non ne fu scontenta.

— Fate rientrare i cavalli, e riparate nella rimessa la carrozza. Partirò dopo il temporale.

I servi ubbidirono mentre larghe gocciolone di piova cominciavano a cadere qua e colà con un rumor secco.

La contessa, vestita com'era, trasse una poltrona presso al balcone aperto, vi si gettò sopra abbandonatamente, e seguitando con elegante trascuranza a calzare i suoi guanti, stette a contemplare lo spettacolo del temporale che ad un tratto era furibondamente scoppiato.

Il terreno su cui guardava il balcone dov'era la contessa, terreno battuto che serviva da cortile, era chiuso dalla parte che si trovava in prospetto al palazzo, da una folta siepe alta un metro, al di là della quale si stendevano le praterie della vasta tenuta patrimoniale dei conti di Staffarda.

La pioggia veniva giù impetuosamente scrosciando, mista a un po' di grandine, e in un momento ebbe allagato tutto il cortile. Non più un essere vivo vedevasi per la campagna, la quale per le fitte righe della piova appariva all'occhio della contessa, come traverso un velo. Il fresco vento del temporale battendo sulle guancie di Candida parevano rinfrescarle il sangue. I lampi che tratto tratto squarciavano le nubi, rompendo la tenebria che aveva invasa la terra illuminavano uno strano sorriso sulle labbra di quella giovane donna. A che pensava ella? Non l'avrebbe saputo dire. Guardava lo stupendo spettacolo dell'uragano con molto più interesse di quanto avesse guardato mai splendida rappresentazione sulle massime scene della città. Sentiva mosso da più concitazione il rifiato, sentiva sotto un apparente languore rifluire più potente nelle vene la vita, il sangue le scorreva con rapidità quasi febbrile, pulsando alle tempia. L'elettricità ond'era satura l'atmosfera le scuoteva i nervi con vivo sussulto che non le tornava sgradito. Si sentiva ad un punto il cuore più palpitante, come se fosse per avvenirle qualche gran fatto. Danae solitaria pareva aspettarsi che nella pioggia di fuoco d'un lampo scendesse a lei e le si rivelasse il Dio dello sconosciuto.

Nel maggior strepitare del temporale, ecco presentarsi al suo sguardo la vista d'un uomo che al di là della siepe, sotto i torrenti d'acqua che piovevano dal cielo, correva precipitosamente verso il castello. Dietro quel velo della pioggia fittissima, a quella dubbia luce che rimaneva, ella non potè scorgerne che in di grosso le forme, ma dalla leggerezza con cui correva, appariva esser giovane, e da una certa grazia di movenze, si mostrava aitante di persona. Giunse alla siepe, correndo, spiccò un salto che avrebbe fatto onore al più abile ginnastico, e si trovò in mezzo al cortile. Colà vide la contessa al verone che per curiosità si era sporta alquanto a guardare, salutò gentilmente, scoprendo una ricca capigliatura inanellata ed una fronte giovanile sotto cui splendevano due sguardi accesi, e diviato si gettò sotto l'atrio.

La contessa al saluto di quel giovane si trasse vivamente indietro. Quel tanto che aveva visto di lui le aveva fatto conoscere ch'era un bel giovane e non vestito da contadino. Ecco invero un avvenimento straordinario nella monotonia di quella vita. Chi era mai codestui? Come e per qual caso in quelle regioni deserte, dove ella non aveva mai visto ombra d'uomo fuori dei villani delle sue fattorie? Una gran curiosità la colse. Lo stato nervoso in cui la si trovava era acconcio precisamente a dar maggiore vigoria e quasi direi importanza a questo che, se non altro, era un sentimento che rivelava la vita. Si levò da sedere con mossa irrequieta, e si avviò per andare a [127] suonare il campanello con cui si chiamavano i servi.

Ma prima che ella giungesse al cordone che pendeva allato al camino, una mano discreta grattò all'uscio.

— Entrate: disse la contessa fermandosi e voltandosi a quella parte colle sopracciglia leggermente aggrottate.

Il battente s'aprì e comparve la cameriera tenendo in mano un piccolo vassoio d'argento.

L'occhio di Candida vide tosto in mezzo a quel piattello il bianco quadrato d'una polizzina di visita e avvisò tosto che la era quella dello straniero: ma, senza saperne essa stessa la ragione, credette bene dissimulare.

— Che cos'è?

— Un signore, sorpreso dal temporale in questi dintorni, rispose la cameriera, si riparò nel castello e prega la signora contessa a volergli permettere di aspettare qui che la pioggia abbia cessato. Perchè la signora contessa sappia a chi farebbe l'onore di accordargli questa momentanea ospitalità, le manda la sua carta.

— Va bene: disse Candida con isvogliata indifferenza che non era punto sincera, e presa la cartolina, con superba noncuranza vi gettò uno sguardo fugace.

In mezzo alla polizza eravi impressa una corona che pareva comitale, e sotto stava scritto:

Luigi Quercia Dottore.

Il labbro della contessa fece una lieve smorfia che significava:

— Non conosco costui e non mi cale di conoscerlo.

Gettò essa con mossa affatto superba quel biglietto in un'elegante paniera di porcellana di Sèvres con ornamenti di bronzo dorato, la quale stava per questo ufficio sopra il ricco tappeto della tavola, e disse alla cameriera:

— Stia pur quanto vuole. Offritegli tutto ciò di cui possa aver bisogno.

E fece un cenno di congedo, per cui la fante si affrettò a partire.

Quando fu sola, Candida si riaccostò lentamente al balcone. Il temporale imperversava più che mai, ed aveva l'apparenza di durare tutto il giorno.

— Per quest'oggi è inutile pensare a recarsi in Torino: disse a se stessa la giovane donna. Il cattivo tempo non cesserà più fino a questa sera, ci scommetto. E questo cotale dovrà star qui tutta la giornata? Certo non lo caccierò mica dal castello. Ma che ci farà egli tutte quelle ore che saranno eterne?

Sorrise lievemente.

— Poverino! Lo compatisco. E' gusterà una dose di quel bel divertimento che io ho ciascun giorno a tutto pasto... Giusto! Egli è dottore. Se avesse nella sua scienza medica qualche farmaco per guarire dalla noia. Bah! Questi farmaci non è da un medico che bisogna andarli a cercare, sibbene da un uomo di spirito. Veramente l'esser medico non esclude l'aver dello spirito. E da quel poco che ho visto di costui, egli dev'essere così poco medico che quasi nulla, perchè mi pare un giovinetto forse appena appena uscito dall'Università. Se la sua compagnia fosse dilettevole!...

Scrollò le spalle, come fa chi vede presentarglisi alla mente una idea assurda.

— Io di certo non vedrò questo signore per poterne giudicare. Un medico!... Peuh!

Tornò presso la tavola e riprese in mano la polizza di visita di quel cotale.

— Oh oh! esclamò. Qui c'è una corona da conte... almeno mi pare... È dunque un nobile?... Un nobile che fa il medico! È egli possibile?..... Forse qualche cadetto..... qualche rampollo di famiglia rovinata..... Ma come non aver scelto la carriera militare? E' mi pare giusto che quel giovane starebbe a meraviglia colla montura di cavalleria d'artiglieria addosso.

Le parve rivederlo in quel punto, come lo aveva visto poc'anzi nell'atto di saltare con tanta agilità la siepe del cortile.

Un'idea matta, balzana, ma piacevole alla sua immaginazione, l'assalse. Le sembianze di quel giovane potevano corrispondere benissimo a quelle dell'essere ideale che da tempo era l'eroe delle sue strane fantasticherie. Non aveva potuto veder bene quella faccia risoluta e leggiadra, ma pur le pareva che non avrebbe potuto disdire all'eroe de' suoi sogni. Si diede a ridere di sè stessa, ma nemmanco quelle risa non erano sincere. La preoccupazione curiosa si era impadronita fortemente della sua anima.

— Luigi Quercia! Ripeteva fra sè la contessa tenendo l'occhio fisso nei caratteri stampati su quel pezzetto di cartoncino. È un nome affatto ignoto per me. Non ho mai sentito a nominare un simil casato nella nobiltà torinese. In questo paese non esiste famiglia di tal nome. Ch'egli sia un qualche medicuzzo venuto da poco a stabilirsi nel vicino villaggio. Se io interrogassi codestui? Che male ci sarebbe? Ci occuperei se non altro un dieci minuti di tempo.

Si avvicinò vivamente al cordone del campanello, ma si fermò poi tosto.

— Può darsi che io mi trovi a fronte uno zotico campagnuolo..... Ebbene allora servirà per farmi ridere. Ah! in una solitudine come la mia, non bisogna guardarla tanto pel sottile nelle distrazioni che ci si presentano.

E diede una tirata al campanello.

Aveva appena suonato che si era pentita, non avrebbe voluto averlo fatto. Studiò di chiedere [128] qualcun'altra cosa alla cameriera che si sarebbe presentata. Quando udì il solito grattar dell'uscio si gettò a sedere abbandonatamente sul sofà e prese l'aria più indifferente che seppe.

— La signora contessa ha suonato? Domandò la cameriera, entrando.

— Sì..... Per oggi non si parte..... Riponete la mia roba.

— Signora sì.

Quando la cameriera fu presso all'uscio:

— E quel signore, disse la contessa sbadatamente giocherellando con un fiocco d'un cuscino, è egli ancora al castello?

— Sì signora. La vede bene: fa un tempaccio da non metter fuori un cane.

— E che fa egli?

— Guarda la piova a cadere e canterella fra i denti.... Ha domandato se non avrebbe potuto presentare i suoi omaggi e fare i suoi ringraziamenti alla padrona.

— Ah sì? E che aspetto ha egli?

— È un bellissimo giovane.

— Non vi domando questo: disse con voce severa la contessa, come se la giovane avesse pronunziato una sconvenienza. Vi domando se le sue maniere sono d'uomo ammodo.

— Per l'affatto. E' mi pare un perfetto gentiluomo.

— Qualcheduno dei famigli lo conosce?

— Signora no.

— E dei contadini?

— Neppure.

— Non è dunque abitante di questi dintorni?

— No signora; ma il cacciatore della signora contessa dice averlo già visto altra volta gironzare per queste parti. Una sera poi incontrò un elegante cabriolé che trottava sulla strada per a Torino, e in esso giurerebbe che c'era questo signore.

— Un cabriolé elegante?

— Sì signora con un cavallo di gran prezzo.

— È dunque un signore?

— Certo! L'aria lo dice a prima vista, e poichè è venuto a ripararsi qui al castello ha già dato tre o quattro scudi di mancia.

— Come? Esclamò la contessa dirizzandosi della persona con aria corrucciata.

— Sì signora: uno al domestico che gli ha fatto una fiammata, per asciugarlo, nel camino della sala della caccia; un altro al guattero che gli ha portato una scodella di brodo; un altro al lacchè il quale gli prestò una vesta da camera del signor conte perchè si potesse toglier di dosso il soprabito immollato... Oh! si vede subito che gli è una persona come si deve.

— Ne parli con troppo entusiasmo... Ha dato uno scudo anche a te? La cameriera diventò rossa e fece a schermirsi dal rispondere.

— Non dir bugia; anche tu hai preso la mancia?

— Poichè la signora contessa vuole saperlo... Il signor Dottore lo seppe fare con tanta grazia, che il rifiutarlo mi parve una inutile scortesia.

— Signor Dottore! Come sai tu ch'egli sia dottore?

— Il valletto mi ha data la carta di visita da portare alla signora contessa...

— E tu l'hai letta?

— Senza volerlo.... I miei occhi ci son caduti sopra.....

— Va benissimo. Mi piacerebbe soltanto sapere con qual pretesto quel signor dottore potè darti lo scudo.

— Mi pregò di fargli compagnia; mi disse che a star solo s'annoiava, che la mia compagnia gli era amenissima.

— Davvero! E a te la sua?

— Oh! Egli è il più gentile fra quanti signori io abbia visto, e sa dire di certe cose!... Di tutti quei giovani conti e cavalieri che fanno visita alla signora contessa non ce n'è uno che passando non si fermi alcun po' meco a barzellettare; ma le assicuro in verità che nessuno di essi può stare a petto di questo dottore.

La contessa prese un'aria sempre più severa:

— Mi dispiace che i miei famigli accettino così delle mancie dal primo venuto; e tanto più mi dispiace di voi che siete più specialmente addetta alla mia persona. Ne parlerò al maggiordomo perchè ci metta ordine, e ciò non accada mai più. Andate.

La cameriera si avviò a capo basso, ma quando fu per metter piede fuori della stanza, lanciò un'ultima domanda, come il Parto ritirandosi lanciava un'ultima frecciata.

— Se il dottore domanda ancora di presentarsi alla signora contessa, che cosa abbiamo da rispondere?

— Che non ricevo: disse asciuttamente la contessa, ma poi tosto correggendosi: cioè..... alla campagna si può vedere senza tratto di conseguenza certe persone che non si riceverebbero in Torino... anche senza che sieno presentate. Se domanda ancora d'essere introdotto presso di me, mi verrete ad avvertire e lo riceverò.

La fante partì. La contessa stette aspettando con certa impazienza. Trascorse circa mezz'ora, che parve lunga assai alla curiosità di Candida; prese uno dei suoi volumi di romanzo in mano e ne lesse una pagina: si accorse che non capiva, che gli occhi avevano seguitato a scorrere materialmente di parola in parola, ma che lo spirito era altrove.

Si disse che erano gli scoppi di tuono sempre frequenti, a disturbarla. Nella sua testa si [129] insinuavano le idee più bizzarre. Quel giovane che gettava via gli scudi con tanta larghezza era egli un medico secondo la comune? Mai più! Certo era un ricco che aveva voluto ornarsi di un inutile diploma. Era stato visto altre volte in quei dintorni. Che ci veniva egli a fare? Sarebb'ella stata un'assurdità il supporre che venisse per una donna? Quale? In quei dintorni ella non sapeva vi esistesse altra donna — eccetto che una di bizzarri costumi e di dubbia riputazione, che dicevasi un'antica artista da ippodromo. E perchè Candida sentiva ella ripugnanza cotanto a pensare che quello sconosciuto giovane venisse nel paese per quella donna? Che cosa gliene doveva importare? Aveva ella già visto altre volte il sedicente dottore? Si affaticava a consultare i suoi più segreti sovveniri per cercare se in qualche cantuccio della memoria non avesse trovato allogata quella virilmente leggiadra figura. Intanto guardava l'indice dell'orologio.

— Egli ha rinunciato a presentarmisi. Tanto meglio. Teme certo di non ottenere presso me il successo che gli valsero presso la cameriera alcune volgari frasi di complimento. Diffatti, che cosa avrebbe da dirmi, ed io da dire a lui? Il nostro sarebbe un colloquio di mutoli.... E piove sempre della più bella!... Eccomi condannata tutto il giorno a stare rinchiusa... Che noia!

Mancava forse un'ora al momento di andare a pranzo, quando la cameriera tornò nel salotto della signora contessa. Il dottor Quercia supplicava d'essere ricevuto.

— Venga: disse la contessa, e forse senza neppur badarci, prese un'attitudine sul suo sofà la più seducente ed avvenevole che si possa immaginare, e con una ratta occhiata consultò lo specchio sull'espressione della sua fisionomia. Lo specchio le rimandò la vista d'un volto giovanile, su cui una fiera tinta d'orgoglio aristocratico, ma bellissimo sotto ogni riguardo.

Luigi Quercia entrò coll'agevolezza rispettosa ed elegante di maniere, che può mostrare il più forbito gentiluomo e il più avvezzo alle usanze sociali.

I miei lettori conoscono già le esteriori apparenze di questo personaggio. L'hanno visto nella taverna di Pelone, vestito di abiti da popolano, conservare pur tuttavia sotto di essi una certa nativa distinzione ed un'elegante leggiadria che lo rivelava a primo aspetto superiore a quei suoi compagni ond'era circondato, e sui quali egli aveva un'incontrastata supremazia ed esercitava un impero che non trovava ribelli.

Ora, agli occhi della contessa, rivestito del suo soprabito rasciutto, e' si presentava nei panni alla moda del damerino cui mostrava saper portare come la vera divisa della propria condizione.

Aveva a quel tempo ventitre anni, e la sua florida giovinezza gli brillava in viso in una splendida avvenenza. I suoi occhi vivacissimi gettavano lampi; la bella sua fronte lisciamente rispianata, non aveva il solco di quella ruga fra le sopracciglia che abbiam visto dare a tutta la sua fisionomia un'espressione di ferocia; le sue labbra rosse di sì voluttuosa avvenenza sorridevano graziosamente; il suo contegno aveva la sicurezza non immodesta d'un uomo che conosce il suo merito.

Innanzi a quell'aspetto, l'orgoglio della contessa riconobbe un suo pari; e il cuore della donna sentì un principio d'interesse che potrebbe anche dirsi simpatia.

Candida staccò dalla spalliera del sofà la persona e chinò leggermente la testa per rispondere al riverente saluto che le faceva il visitatore.

— Il signor dottor Quercia? Disse la contessa guardandolo un momentino colle palpebre semichiuse, come farebbe chi avesse vista corta.

— Quel desso: rispose il compagno d'infanzia di Maurilio.

La contessa colla sua manina accuratamente inguantata gli accennò una poltroncina che si trovava a pochi passi dal sofà e gli disse, con accento che era più gentile di quello usato nel fargli la prima domanda:

— S'accomodi.

Gian-Luigi sedette, e un momentino stettero le due giovani e leggiadre creature guardandosi con tutta quella curiosità che la buona creanza poteva loro permettere. Quel primo esaminarsi aveva in sè quasi una diffidenza, si sarebbe potuto dire un'ombra di sospetto. Pareva che il caso avendoli posti a contatto, un segreto istinto ammonisse ambedue che le loro esistenze sarebbero state fatalmente intrecciate l'una nell'altra, e che quindi, prima di cominciare ogni relazione, volessero scrutarsi a vicenda. Il loro contegno avrebbe potuto paragonarsi a quello di due schermitori che innanzi d'incrociare il ferro si osservano l'un l'altro per indovinare l'abilità e il modo di tirare dell'avversario.

L'uomo avvisò che a lui toccava di rompere quel silenzio, il quale benchè non avesse durato che un mezzo minuto, era tuttavia già troppo lungo.

— Devo chieder perdono alla signora contessa, diss'egli, se di complicità col tempo mi sono permesso d'entrare nel suo castello, come un bersagliere all'assalto.

La contessa ricordò il modo con cui quel giovane si era introdotto nel cortile e non potè a meno di sorridere.

Un sorriso ottenuto da una donna in un colloquio, è una barriera che si abbatte fra lei e l'interlocutore.

— Ella fece veramente da bersagliere, diss'ella. Vedendola saltare con tanta agilità, non mi sarei [130] mai più immaginato che mi arrivava in casa un seguace d'Esculapio..... Poichè ella fa bene il mestiere di medico?

Gian-Luigi s'inchinò con tutta gentilezza.

— Direi per servirla, rispose, se invece non fossi costretto ad augurarle che ella non debba mai aver bisogno di questa razza di gente. Quanto a me poi sono medico è vero, ma ci ho una circostanza attenuante, ed è che non esercito quella nobile professione che ho studiato.

Queste ultime parole egli le disse senz'affettazione, ma non senza pesare alcun poco su di esse per farle notare, nella stessa maniera che, se le avesse scritte, avrebbe tirato sotto di esse un frego.

Candida si morse le labbra; un momento fu per cedere ad un po' d'irritazione che gliene nacque e rispondere aspramente; ma poi tosto capì che era suo il torto, e che quell'espressione che ella aveva usato conteneva una gratuita impertinenza, di cui l'aveva fatta avvertita il giovine dottore nella guisa la più urbana.

— Veramente, soggiuns'ella con garbo, lei è troppo giovane per un medico.

— Ah! è questo un difetto di cui pur troppo mi correggo tutti i giorni.

— Ella è pratica di queste vicinanze?

— No signora. Il trovarmici è un azzardo. La mia è una piccola odissea... che può avere anche la sua Calipso.

La contessa fece un atto di scontento. Egli si affrettò a soggiungere:

— Venuto per trovare un amico, ho perso la strada e la tramontana sotto il crosciar del temporale. Un lampo mi ha illuminata la fronte severa di questo castello, ed io lo salutai come un rifugio.

— Se pure non è uno sbaglio, alcuno crede averla già vista altre volte in questi dintorni.

La fronte di Gian-Luigi s'annebbiò fugacemente, e i suoi sguardi, acuti come lame di spada, si piantarono negli occhi della contessa. Stette un momento così guardandola senza rispondere. Candida provò una suggezione nuova, strana, indefinita. A tutta prima le nacque volontà di riagire contro l'audacia di quello sguardo, ma poi sentì, come da una potenza a cui non valesse a resistere, avvilupparsi l'anima e dominare lo spirito. Rimase confusa, non isdegnata nè offesa; le parve che quelle sue parole fossero state una grande indiscrezione.

Gian-Luigi da canto suo pensava:

— Perchè mi dice ella codesto? Fu ella stessa a vedermi? Saprebb'ella mai dove mi reco? È impossibile..... Per Dio quanto è bella! In quegli occhi c'è un ardore che domanda solamente un soffio per essere suscitato. È ricca a milioni. Non sarebbe forse la mia buona ventura che mi ha gettato qui? Se ne approfittassi?....

Tutto ciò passò in un lampo. Il giovane aveva già preso la sua determinazione, allorchè dopo un minuto secondo riprese a parlare.

— È vero, diss'egli. Non è la prima volta che mi aggiro in queste parti. Ma credevo che la mia presenza non avesse potuto essere notata da nessuno, ed era tale la mia intenzione. Venivo di soppiatto e partivo la notte, contento d'aver visto da lontano in mezzo alle masse degli alberi il comignolo d'un tetto.

— Quello dell'amico che mi disse poc'anzi: disse con un leggiadro sorriso la contessa.

— Quello che alberga la luce a cui mi chiama intorno un impulso superiore alla mia volontà....

— Come la luce delle candele chiama le farfalle a bruciarsi le ali: soggiunse Candida ridendo.

— E sia pure bruciarsi! Le farfalle sono felici. Ardere e consumarsi nell'oggetto del proprio desiderio, è la felicità maggiore che si possa sperare.

— Ah! le farfalle sono l'emblema della incostanza.

— Ma della passione che si sacrifica, altresì.

Gli sguardi del giovane davano alle parole significazione ancora maggiore e più chiara.

Candida si sgomentò di quel marivaudage, che spingeva il discorso sopra una china assai sdrucciolevole. Prese la sua aria più severa e con tutto quell'orgoglio che permetteva la gentilezza, interruppe:

— Ma queste hanno tutta la sembianza di confidenze; e il poco tempo da che ci conosciamo, se pure possiam dire di conoscerci, non autorizza nè lei a farmene nè me ad ascoltarle.

— Il poco tempo che ci conosciamo! Esclamò con fuoco il sedicente dottore. E chi le assicura che noi non ci conosciamo invece da secoli? Chi sa che in una vita precedente noi non siamo stati intimissimi? Su questa terra s'incontrano persone che dopo anni in cui le frequentate vi sono ignote come prima; altre invece che al primo accontarsi vi penetrano nell'anima e vi lasciano penetrare nella loro. Io credo alla favola di Platone. Ogni anima umana, prima d'incarnarsi, ha rapporto strettissimo con parecchie anime omogenee. Di queste, nella vita terrena, alcune saranno suoi amici, una sarà l'oggetto dell'amor suo. Quando si trovano, sentono un misterioso legame che le attira l'una verso dell'altra e le avvince. Riconoscono, senza saperlo, il vincolo preesistente e la legge della predestinazione. Non si sono mai visti, ma non sono estranei. Non sanno le vicende l'un dell'altro, ma già si conoscono e si amano. Così mi avvenne quando vidi la prima volta quell'essere divino di cui le feci cenno poc'anzi. Sentii che la mia vita era sua, che il mio destino era tutto nelle bianche mani di quella splendida bellezza.

[131] Il cuore di Candida palpitava. Perchè? Non lo sapeva dire; e non sapeva neppure se ciò le piacesse o rincrescesse. Avrebbe voluto imporre silenzio a quel giovane, e non osava: e parevale un affettato soverchio riserbo. Voleva parlare e temeva che la sua voce svelasse il suo turbamento che non riusciva a dominare.

Fece uno sforzo per prendere un'aria scherzosa e indifferente.

— Signor dottore, mi pare che la sua sia una buona e bella malattia di cui dovrebbe pensare a guarirsi.

— Mai più! Disse con sempre maggior fuoco Gian-Luigi. Perchè lo vuol ella chiamare un male? È un tormento sì, ma questo tormento mi è caro.

— E quell'essere divino, com'ella dice, trovasi in questa contrada?

Non aveva ancora pronunziato queste parole che già Candida n'era pentita ed avrebbe voluto ad ogni costo non averle dette; ma il giovane temerario non era tardo a coglier la palla al balzo.

— Trovasi qui, diss'egli con impareggiabile soavità d'accento; sola, nell'uggia di un vecchio castello, illuminando della sua beltà queste antiche sale, come il sole illumina le vecchie piante del parco.

— Signore... Disse Candida impacciata, sentendo venirle alla fronte un rossore che avrebbe fatto qualunque cosa per iscacciare.

Ma egli continuando con più ardore:

— Dal primo istante che l'ho veduta io rimasi tutto suo. Fu un abbagliamento dello spirito, fu una rivelazione del cuore. Non avevo ancora amato. Amai da quel punto.

Candida si levò in piedi.

— Che discorsi sono questi? La prego, signor dottore, a volersi ritirare.

Gian-Luigi invece d'ubbidire, con maggiore ancora l'ardimento le si accostò, pose un ginocchio in terra e prese una mano alla contessa, che nel suo turbamento non ebbe la forza nè pure il pensiero di ritirargli.

— Oh! mi lasci parlare: disse il giovane supplicando. Fra un'ora io sarò partito; e s'ella il comanda, mai più non mi presenterò innanzi agli occhi suoi. Non avrà difficoltà nessuna ad obbliare le mie parole — le parole d'un infelice, a cui ella avrà usato pietà, la pietà d'ascoltarlo. È così poca cosa codesta! E che danno ne avrà ella mai? Questo momento l'ho desiderato tanto, ed ora che Iddio me lo concede, non voglia ella levarmene il bene!

Candida si appoggiò tremante alla spalliera di una seggiola che si trovò vicina; il giovane con appassionato accento, sempre in quella positura, continuò il suo discorso.

— Ella me non vide pur mai. Se la mia temerità, se il caso benigno non m'avessero pôrto quest'occasione a venirle innanzi, ella avrebbe ignorato pur sempre perfino la mia esistenza: ma io da lungo tempo, nascosto, perduto nella folla, seguo con incessante adorazione lo splendore della sua bellezza nel mondo, come il povero pastore segue la stella del mattino nel suo corso del cielo. Se il pastore volge le braccia alla stella e le manifesta i suoi aneliti, la sua adorazione, la stella non s'offende, e continua a brillar mite e benigna, consolandolo de' suoi raggi pietosi. Perchè sarebbe ella più crudele con me? Io non domando di più. Un amore ardente come il mio, nel mondo, non è facil cosa, glie lo giuro; e nella sua ardenza esso è il più modesto e rassegnato. Che fastidio deve recare a lei che io l'ami? E forse non sarà senza alcuna dolcezza neppure per lei il pensiero che un uomo è là, celato, umile, noncurato, il quale l'adora ed è pronto a dare tutto il suo sangue per lei. Venga un giorno in cui ella abbia bisogno della vita d'un uomo; la non avrà che una parola da dire, che un cenno da fare, e quest'uomo accorrerà lietamente, pronto al sacrifizio.

Il temporale pareva raddoppiare di furore. Le nubi erano così dense e basse che oscurato ne rimaneva il giorno. I lampi frequenti saettavano su tutti gli oggetti una luce livida, fugace, che dava strani aspetti alle cose. I nervi fremevano per l'elettricità ond'era satura l'atmosfera. Candida, sempre appoggiata alla spalliera della seggiola, aveva un tumulto nell'anima che non le lasciava facoltà d'avviso. Le più fiere risoluzioni s'avvicendavano rattamente nell'animo suo colle più cedevoli tentazioni: voleva suonare il campanello, fare scacciar dalla sua presenza quel temerario; poi tosto si compiaceva stranamente di abbandonarsi alla dolcezza che le insinuavano nel cuore quelle parole più soavi d'una musica, quelle parole che aveva udito nelle sue fantasticaggini mormorare da un essere immaginario e che ora le suonavano con irresistibile malìa d'accento dalla bocca d'un giovane onde ogni donna avrebbe tenuto a pregio l'essere amata. Volse ella uno sguardo a quello spirito tentatore; nello scuriccio di quel momento la fronte bianca di Gian-Luigi spiccava come un'aureola, i suoi occhi brillavano come due diamanti che riflettano la luce di mille fiamme. Egli era supremamente bello. Il sogno delle sue ore di solitudine s'era dunque incarnato; ed essa viveva in realtà in quell'ambiente di passione vagheggiato cotanto! Non le sembrava vero e pur si diceva con palpito concitato di gioia che era così. Tutto l'ardore del suo sangue si destava nelle sue vene e vivaci fiamme le salivano al volto nel suo turbamento più leggiadro ancora. L'orgoglio del suo titolo ispiratole dall'educazione, la virtù e la dignità di [132] donna lottavano debolmente contro l'invadere della passione — di quella passione ond'ella con fatale imprudenza aveva rammentati in sè gli elementi e che ora ad un tratto divampavano. Il capo le tenzonava: i battiti del cuore erano frequenti e convulsi, come se timore e speranza, la gioia e l'affanno, tutti i più vivi sentimenti umani l'assalissero in una.

Il seduttore vide quello sguardo e seppe tutta interpretarne la significanza.

— Oh! t'amo: susurrò egli con voce che pareva un sospiro ed era dolce come la flebil nota notturna dell'usignuolo.

E premette le sue labbra ardenti sulla mano che ella, obliosa, conturbata com'era, non aveva pensato a togliere dalle sue.

A quel bacio — a quel caldo bacio che conteneva tutte le aspirazioni di voluttà d'un uomo desioso — a quel primo bacio appassionato di cui sentisse l'ardenza la sua epidermide, Candida fu scossa da un brivido, e come una vampa le corse per le vene e pei nervi. In quella un baleno più vivace illuminò del suo biancolastro chiarore la stanza, e il volto di quel giovane i cui sguardi gettavano fiamme negli occhi di lei, e la sua pallida figura, che Candida vide nello specchio drizzarsi come uno spettro. Gettò ella un gridolino soffocato e vacillò sotto l'èmpito delle varie emozioni. Gian-Luigi fu ratto a sorgere e l'accolse nelle sue braccia.

Si svincolò essa; si allontanò d'alcuni passi; ma non c'era sdegno nel suo aspetto, nè entro i suoi sguardi. Ell'era tutto tremante. L'audacia, la risoluzione, la forza di quel giovane avevano fatto in lei troppa impressione. Gian-Luigi venuto nel momento il più opportuno che si potesse per la seduzione di quella donna abbandonata e infastidita, si giovò di tutto l'interno lavorìo che aveva già fatto in essa la immaginazione malaticcia e sregolata; raccolse il frutto delle letture malsane, degli esempi perniciosi, del tumulto insoddisfatto dei sensi ond'era turbata la giovinezza di Candida. Le tante seducenti attrattive onde natura aveva fornito il compagno di Maurilio furono agli occhi della contessa ancora addoppiate dalla propria immaginativa che gli aveva preparato il terreno, che lo circondava di tutte le qualità del vagheggiato eroe.

Gian-Luigi — alla contessa conosciuto soltanto col nome di Luigi — tornò altre volte pur troppo in quel castello, mentre la giovine donna lo stava aspettando col cuor palpitante. L'Eden amoroso dietro cui ella aveva nella sua solitudine anelato cotanto, fu aperto all'incauta donna dalla mano di quel temerario che le appariva fornito d'ogni bellezza, d'ogni valore, di quella inesprimibile malia di forza e di affetto, onde l'uomo domina l'indole, l'anima e il cuore della donna.

Essa lo amò con tutta la potenza dell'anima sua, la quale dell'amore, sin dapprima, s'era fatto un bisogno, un idolo, un dovere, e non aspettava altro più che la venuta di quell'essere che di tanto tesoro sapesse impadronirsi. Luigi era venuto come un trionfatore e l'aveva di botto conquisa: era sua; le sembrava che avrebbe dovuto essere così ad ogni modo, che con ciò ella non faceva che acconciarsi agli obblighi del suo destino. Il suo orgoglio era tutto una umiltà in cospetto dell'amante. Quella superba figura da regina che nel mondo tutti accusavano di soverchia alterigia, nel solo a sola col suo diletto si cambiava nella devota natura di una schiava innamorata, pronta ad ogni cenno del suo possessore. Quella bellezza da tanti ammirata e desiderata, cui tutti avevano creduta inaccessibile: quella bellezza si concedeva con lieto e voglioso abbandono agli ardori d'uomo che compariva ricco e ben educato in società, ma cui pure nessuno sapeva chi fosse.

Il medichino a sua volta era stato sovraccolto dalla beltà di Candida; trovandosi con essa, quella prima volta, aveva ceduto alla subita ispirazione, allo ardore della gioventù, ed aveva mentito un amore che non esisteva ancora; poscia la sua tanta ventura, per quanto superbo egli fosse di sè, gli aveva prodotto una specie d'ebbrezza che diede ai suoi rapporti con lei tutte le sembianze d'un vero amore infuocato. La giovane donna ebbe dalla sua adultera passione momenti di trasporto ineffabili, gioie pur nella colpa sovrumane, delirii di paradiso.

Ah! infelice, con quante lagrime doveva ella scontare quegli istanti fugaci di un bene colpevole!

L'amore la dominava senza sua possibil difesa. Tutto il resto del mondo aveva essa obliato, o, per dir meglio, tutto concentrato in codesto. Luigi colla sua bellezza, colla sua ardenza, colla temerità della sua passione, rispondeva all'ideale che la sviata fantasia della contessa s'era formato d'un amante, rispondeva ai bisogni della sua indole, alla stranezza medesima dei sogni onde aveva cullato la sua noia precedente ed occupata la vacuità del suo spirito e del suo cuore.

Candida non aveva più cercato di saper nulla del suo amante. Si contentava di quel poco che egli avevale detto de' fatti suoi, — ed era invero sì poco! Le bastava conoscerlo quale a lei si presentava. Nell'espansione de' trasporti onde le inebriava l'anima, in quel fuoco di voluttà che le gettava nelle vene, la innamorata donna vedeva ogni ragione di essergli soggetta, di darglisi tutta, d'esser cosa di lui. Chi fosse, che contasse nel mondo, quali le sue attinenze, che cosa importava a lei?

Frequenti erano i segreti loro convegni. Il conte [133] passava la maggior parte del suo tempo in città; per lettera ella avvisava Luigi quando potesse venire, ed egli accorreva. La cameriera di necessità erasi dovuta far complice, e la padrona ne comprava il silenzio con regali e con meno dignitosa compiacenza. Che palpiti di cuore, che sussulti di nervi, che orgasmi dell'anima eran quelli onde la contessa era travagliata nelle ore lente e fugaci che precedevano il momento in cui il suo amante l'avrebbe stretta fra le braccia! La notte, appoggiata al verone, sporta all'infuori la sua bella persona, stava, l'occhio teso per penetrar quelle tenebre e vedere da più lontano l'ombra del suo diletto. Tratto tratto si staccava di là e correva nell'elegante boudoir illuminato, dove si guardava nello specchio con occhio diffidente della sua bellezza; ed ora aggiungeva un fiore alle chiome, ora una collana al niveo collo, ora un gioiello al seno, e si domandava palpitante: — Sono io abbastanza bella per lui? Gli piaccio come voglio?

Il cristallo che le rifletteva lo splendore di sì giovanile beltà, la rassicurava; si salutava con un sorriso pieno di fiducia e di malìa e correva di nuovo al verone. Erano ore tormentose insieme e piene d'un acre diletto.

Nessun'ombra era venuta ancora ad oscurare quella luce elisiaca di amore, nessuna nube ancora era passata su quel sereno in cui nuotava l'anima sua. Candida si sentiva e nel suo cuore con infinita gioia si proclamava felice. Non un sospetto la amareggiava, non l'accenno neppure d'un rimorso. Amava ed era amata: tutto il mondo era lì.

La prima spina che le si fece sentire fra quei fiori inebbrianti fu quella della gelosia. La non ci aveva neppur pensato ancora mai. Luigi era così ardentemente amoroso! Non poteva in niun modo entrarle in mente pur l'idea che potesse volgere un istante d'attenzione non che un desiderio ad altra donna. Una sera, aspettandolo secondo l'usato al suo castello, e vistolo a comparire sotto i raggi della luna filtrati fra le frondi delle piante, Candida si ritrasse dal verone ove era stata tanto tempo aguzzando gli sguardi, e suo primo impulso fu correre giù delle scale all'incontro dell'amante, per introdurlo essa stessa dalla segreta porticina che soleva schiudergli il passo, per gettargli due minuti prima le braccia al collo e sentire la voluttà per lei immensa di essere stretta al seno di lui; ma un sentimento di dignità, ultimo sforzo del suo orgoglio aristocratico soggiogato, pur la trattenne. Incaricata di aprire chetamente la porticina a Luigi era la cameriera. La contessa stette sulla soglia della prima stanza del suo appartamento aspettando che il suo diletto, fatta di corsa la scaletta riposta, comparisse tosto a prenderla, come soleva, fra le sue braccia in un amplesso pieno di forza e di passione: e il suo cuore di donna innamorata le balzava nel petto. Ma parecchi minuti erano trascorsi, e Luigi non veniva. Che poteva far egli colaggiù? Un ratto sospetto corse come un lampo nell'anima della donna; un sospetto affatto incerto e indefinito, ma che pur valse a tutta conturbarla. Come sotto l'impulso d'un sentimento irrefrenabile, aprì essa l'uscio e si slanciò fuori sul ripiano a guardare giù della scala. In fondo a questa Luigi sorridente ciarlava colla cameriera, la quale moineggiava con civetteria imitata in mal modo dalle grazie e dagli attucci della padrona. La fante aveva in mano un lume che rischiarava la scena, e la troppo chiara espressione del viso di lui, e la simulata renitenza della giovane, traverso alla vita della quale Luigi aveva passato il suo braccio. Candida in un attimo vide tutto, e l'amplesso, e il riso rivelatore, e il bacio che egli osò mettere sulle guancie fresche e rotonde della fanticella. Tutto il sangue della contessa si rimescolò; un subito bollore le infiammò le vene e si precipitò al cervello quasi offuscandole e la vista e la intelligenza. Per primo impeto volle correre abbasso a schiaffeggiar quella pettegola a scacciar di casa sua quello sciagurato sì vilmente offenditore di lei e dell'amor suo; ma si trattenne. Ritirossi sollecita nella sua camera col sangue che le pulsava dolorosamente nelle tempia. I più fieri propositi passarono con turbinosa rapidità nella sua mente eccitata. Mai più vederlo, piantargli un pugnale nel cuore, gettargli sulla faccia il disprezzo degno di tanta viltà, farlo scacciare come un ladrone dai domestici: mille pazzie in mezzo ad un fremito di furore.

Non aveva ella ancora preso determinazione di sorta, quando l'uscio s'aprì chetamente, e Luigi le venne in istanza con sulla faccia quel medesimo sorriso che aveva poc'anzi abbracciando la cameriera.

E' s'inoltrò colle braccia aperte per darle il solito amplesso. Candida indietrò come inorridita. Un vivo rossore la colorò sino alla fronte, poi tosto diede luogo ad una pallidezza di cadavere. In mezzo a quel pallore i suoi occhi neri lucevano come due carboni accesi. Volle parlare, ma le labbra le tremavano e non valse a pronunziar parola.

— Che è ciò? Disse Luigi arrestandosi stupito. Che cos'hai?

La contessa voleva tacere la ragione del suo sdegno. L'umiliazione che l'uomo da essa amato le recasse sulla bocca le labbra calde ancora del bacio della sua cameriera le pareva troppo e troppo vergognosa per esprimerla, per lasciare pur supporre ch'essa la sentisse. In quel tumulto in cui si trovava la sua mente, s'era detto, vedendo entrare l'amante, di umiliarlo a sua volta col suo disprezzo, di troncare violentemente con esso quel nodo di amore che pure fino a quel punto le era stato così dolce, di bandirlo dalla [134] sua presenza per sempre, senza pur dirgliene una ragione. Sentisse, egli che la sapeva, la sua colpa, ella non si abbasserebbe ad accuse nè a rimbrotti.

Ma la misera donna amava con tutta la forza dell'animo suo, e se codesto fiero modo sia possibile a donna che ami, lo lascio dire a voi, mie gentili lettrici.

Luigi domandò spiegazioni pressantemente, colla voce che pareva tremante di dolore, colla eloquenza della passione, colla malìa che ha su cuore di donna la voce dell'uomo amato. Alla resistenza di lei, all'asciutta fierezza delle risposte, all'orgoglio onde essa respingeva le sue supplicazioni, i suoi atti di amore, Luigi si disperò, parlò di morire, passò a sua volta ai rimbrotti.

L'orgoglio della debol donna non era più che una mostra. Ella cedette, disse tutto, e dalla maggior fierezza passando al più umile abbattimento, pianse. Che disse, che fece Luigi? Difficile il ripeterlo. Ben lo sanno gli amanti che si trovarono in tale situazione. Parlò con enfasi, giurò e spergiurò, la strinse fra le sue braccia con ardore irrefrenato, bevve le sue lagrime, la coprì di baci, la stordì con parole e con atti di amore; breve, all'alba si partì lasciandola persuasa che quella non era stata che una facezia, che il meglio era di farne caso nessuno e di non parlarne più.

Ma la spina era penetrata nel cuore di Candida, e l'arte del seduttore non l'aveva potuta estrarnela affatto, sibbene glie l'aveva infranta nella ferita e lasciatavi la punta, seme perenne di sospetti e di diffidenze, che avrebbe germinato.

Colla cameriera la contessa non disse nulla; e fuori di un maggiore riserbo e di una più esigente severità verso la fante, nessun cambiamento avvenne nella condotta della padrona. Fra i due amanti neppure non fu più mai parola di ciò, nè Luigi prestò più mai pretesto a somiglianti sospetti.

Ma un mese circa dopo questo avvenimento, per parte dell'amante accadde ciò che ancora mai non era accaduto; cioè ch'egli mancasse al convegno.

Fu una notte crudele per la contessa. Sino quasi all'alba stette essa al verone, inquieta, palpitante, ad aguzzar lo sguardo nella tenebra inutilmente. Come suole, mille paure, mille sospetti, mille crucciosi fantasimi l'assalsero. Che cosa poteva averlo trattenuto? Una disgrazia od un tradimento: l'uno e l'altra orribili al suo cuore di donna innamorata. In certi momenti faceva a calmare lo spasimo della sua anima, la febbre della diffidenza che la occupava. Esponeva la fronte alla brezza della notte per farsene rinfrescare il sangue; si sforzava a sorridere come per compassione della sua follia, cui chiamava il senno a vincere e domare. Voleva pensare che alcuna bisogna lo aveva trattenuto; ma qual bisogna mai, mentr'egli le aveva più volte dichiarato che l'unica sua occupazione era un tempo il darsi spasso ed ora s'era fatto l'amore per lei? Che non avesse ricevuto l'invito di venire? Impossibile! Il mezzo ond'ella si serviva per farglielo pervenire era sicurissimo. Che cosa adunque poteva averlo impedito, se non qualche ragione fatale per essa?

Era la logica istintiva ed assurda dell'amore, la quale raramente sbaglia.

Quando già spuntava l'aurora all'orizzonte, Candida si ritrasse dal verone affranta come dopo una notte di febbre, confusa la testa, pieno di amarezza il cuore. Si gettò sul suo letto, il seno gonfio di pianto, senza pur avere lo sfogo delle lagrime; il corpo stanco chiedeva il riposo del sonno, ma un mulinìo turbinoso d'idee, d'immagini, di propositi nella testa, non la lasciava dormire. Si assopì pur finalmente in un sonno leggero, affannato dai più tristi e maledetti sogni. Sorse tardi, colle traccie in volto che parevano d'un sopportato malore.

Nel pomeriggio, sentendosi bisogno di prender aria fece attaccare i cavalli, e corse, come soleva un tempo, in una passeggiata senza meta. L'azzardo, la sua maligna stella la condusse in luogo dove la carrozza in cui essa s'abbandonava ai suoi turbativi pensieri, incontrò un'altra carrozza occupata da un'altra donna, la cui figura, l'abbigliamento e il contegno erano tali affatto da chiamare l'attenzione di chicchessia.

Qual istinto segreto è quello che alberga nell'essere sensitivo della donna e lo avvisa dei pericoli che lo minacciano per quanto coperti essi sieno, dei nemici nascosti che gli si presentano nel cammino? Candida, all'aspetto di quella donna sentì una scossa interiore, come un urto nell'anima. Si tirò su della persona e incrociò lo sguardo con quello della sconosciuta, la quale a sua volta lasciò lo sguaiato abbandono in cui stava sdraiata per esaminare con attenzione quasi insolente la contessa che passava. Fu un ratto istante, poco più d'un baleno in cui le due carrozze si passarono a fianco, al trotto serrato dei cavalli; ma in quel fugace momento le due donne ebbero campo pur tuttavia, con quel meraviglioso loro sguardo complessivo, di vedersi in una a vicenda le sembianze, i modi, le vesti, i difetti della bellezza e del gusto. Candida dovette giudicare senz'altro che quella giovane — poichè la era giovane — non apparteneva nè alla sua classe nè ad alcun'altra di donne oneste. Era sfarzosamente vestita di stoffe abbaglianti, ma come tale che più si compiace di attrarre addosso a sè l'occhio dei riguardanti che non di contentarlo con acconcia armonia di colori ed avvenenza di complesso. Sulla faccia [135] non brutta, ma più provocante che bella, eravi troppo belletto, troppa sensualità e troppa impudenza. Il più strano di quel volto erano certi occhi verdi del color del mare, acuti, ora freddi come una lama d'acciaio, ora ardenti come la voluttà, ora feroci come quelli d'una tigre. Piantandosi in faccia a qualcheduno parevano dilatarsi e sprizzar fuori un fascio di raggi acuminati, per così dire, che vi stillavano nel sangue a seconda o il gelo del sospetto, d'una soggezione indefinita, quasi d'una paura, oppure nell'uomo il fuoco dei desiderii sensuali. C'era in quello sguardo alcun che dell'animale selvatico non affatto addomesticato, in cui la prisca selvaggia natura ricomparisce a tratti sotto la spalmata vernice della coltura.

Quella donna sentì forse ancor essa che nella vita di Candida doveva intrecciarsi la sua e l'una sull'altra esercitare un fatale influsso a vicenda, funesto troppo per la nobil dama? Il vero è ch'ella saettò sulla contessa uno di quei suoi sguardi felini di cui Candida non potè sostenere l'incontro, ne fu tutta conturbata in quell'atto, e dopo appena oltrepassata la carrozza ne provò lo sdegno maggiore come di ricevuto oltraggio.

Si piegò ella verso il cocchiere e gli domandò con indifferenza non affatto sincera:

— Conoscete voi chi sia quella donna?

Il cocchiere fece un certo atto colle spalle e sorrise in certo modo che dicevano di molto.

— Peuh! Diss'egli. La signora contessa ne avrà udito a parlare. È quella tale che fin dalla primavera ha preso in affitto la Villa-lunga, a poche miglia qui distante.

— Ah! Fece la contessa che in vero aveva sentito alcuna cosa di quell'avventuriera. È una ballerina, credo....

— Mah! Se ne dicono tante sul suo conto! Il più certo pare che fosse una di quelle che saltano sui cavalli. La chiamano ancora La Leggera. Dicono che qualche considerevole personaggio l'ha tolta dal dorso dei cavalli per metterla in un elegante appartamento con mobili, servitù, carrozza all'avvenante. Anzi si bisbiglia che i protettori sieno più d'uno. Quel che è certo, si è che nella Villa-lunga c'è baldoria tutti i giorni: conviti, festini, balli, giuoco tutta la notte..... e peggio, che non si finisce mai; e vi accorre gran gente d'ogni fatta; e si spendono allegramente dei gran denari.

Candida — e non sapeva il perchè — ascoltava con molto interesse le parole del suo cocchiere. Ad un punto s'accorse di questo suo eccesso di curiosità non troppo degna, e vergognatasene, arrossì leggermente.

— Non vi ho domandato la storia di madamigella Leggera: diss'ella con accento più severo di quello che il bisogno non fosse, e si ricacciò in fondo la carrozza, tornando a darsi in preda ai suoi confusi e disordinati pensieri.

Chi le avesse detto che quelle volte in cui Luigi era stato veduto in quei dintorni, prima ancora che essa lo conoscesse, egli o veniva dalla Villa-lunga o vi si recava a passar la notte in quelle baldorie della Leggiera! Chi le avesse detto che quel giorno stesso in cui il temporale lo fece riparare al castello di lei, Luigi era diretto a quella volta!

Due giorni dopo quell'incontro, la cameriera, fosse per interesse che sentisse verso la padrona, fosse per malignità femminile, trovò modo di far capire alla contessa che Luigi la sera innanzi era stato visto in que' luoghi e la mattina medesima era stato incontrato sulla strada per a Torino. Ora al castello egli non s'era lasciato vedere. Candida sentì quella certa spina infitta nel cuore dar sangue dolorosamente.

E perchè il suo pensiero corse allora a quella donna che aveva incontrata per via?

Il conte era allora al castello; Candida non poteva chiamare Luigi a sè perchè venisse a scolparsi; gli scrisse quattro pagine di rimbrotti e di accuse, invitandolo a difendersi per lettera ancor egli. Luigi rispose laconicamente affettuoso. Essa aveva fatto riguardo alla mancanza di quella notte mille supposizioni ed accolto mille sospetti; ma, diceva egli, aveva dimenticato la cosa la più semplice ad immaginarsi, che era la vera: esser egli, cioè, quel giorno stato preso da un malore che non gli aveva concesso la gita. Esser vero, soggiungeva, che una notte aveva egli passato nei dintorni del castello, ma ciò aver egli fatto per conseguir modo di poter meglio accostarsi a lei, di fare che più liberi e più frequenti potessero essere in avvenire i loro convegni. Le avrebbe spiegato a voce il mistero.

Difatti pochi giorni di poi questa spiegazione avvenne. Il conte si allontanava di quando in quando, ma non facendone prima avvertito nessuno, Candida non poteva mandare il solito invito a Luigi. Era avvenuto così che il marito passasse eziandio la notte fuor del castello, senza che la moglie pur lo sapesse, credendo ch'egli tornasse ad ora tarda e, secondo l'usato, senza prendersi la briga d'andarla a disturbare per darle un saluto, rientrasse chetamente nel suo quartiere.

Dove si recasse il conte in quelle gite, Candida non si curava per nulla saperlo; ma pure, da alcune vaghe parole udite dai servi, aveva finito per indovinare che egli era alla Villa-lunga, dove il vecchio libertino passava le molte ore di sua assenza. Cotesta scoperta aveva fatto nell'animo della contessa una strana sensazione ch'ella medesima non sapeva spiegare. Da una parte le pareva questa come una nuova scusa al suo fallire [136] alla fede coniugale, e insieme una nuova ragione di maggior libertà per essa, dall'altra sentiva una specie di ripugnanza e di sgomento al sapere che quella donna, di cui essa in quel solo vederla di sfuggita aveva portato sì avverso giudizio; che quella donna, dico, avesse attinenza con due uomini che maggiormente le appartenevano, il marito e l'amante; poichè Candida non dubitava punto che anche Luigi fosse stato là quella notte.

Una sera adunque che il conte, allontanatosi dal castello, mancava da più ore, Luigi comparve inaspettato agli occhi di Candida, la quale sola nella sua camera ruminando i suoi tristi pensieri, sentiva sotto l'influsso dei sospetti cambiarsi in profonda amarezza le primitive dolcezze dell'amor suo.

Al vedersi innanzi improvviso l'amante, essa gettò un grido di sorpresa e sorse come spaventata.

— Non ti sgomentare: disse col suo sorriso più amoroso Luigi; sono io... Io che anelavo al momento di venire a dissipare tutto quell'ammasso di brutti ed ingiusti pensieri che la tua lettera mi ha rivelato aver tu rammontato nella tua testolina riguardo a me.

La contessa guardò intorno con aria ancora smarrita.

— Mio marito è al castello; disse sommessamente. Potrebbe averti visto a venire, potrebbe vederti partendo. E' non entra mai di solito nel mio appartamento, ma pure...

— Rassicurati: rispose Luigi, prendendole una mano. Egli è là donde io vengo; l'ho lasciato a mezzo d'una partita di giuoco troppo interessante perchè egli l'abbandoni di tutta la notte. Mi sono affrettato a perdere tutto il denaro che avevo presso di me; poscia ho finto ritirarmi imbronciato colla fortuna ed irmene a fare svanire il cattiv'umore all'aria aperta. Avevo già ordinato mi si tenesse insellato il mio cavallo. In un salto ci fui sopra, e in un tempo di galoppo eccomi qua. Un'ora d'amore con te, anima mia, e poi ritorno colà che niuno avrà potuto pur notare la mia assenza.

Volle abbracciarla, ma essa freddamente si fece in là ed anzi levò da quella di lui, la mano che egli le aveva presa.

— Colà? Diss'ella con ironia sotto cui c'era sdegno e dolore. Dov'è egli questo colà?

Luigi accennò a rispondere, ma Candida non glie ne lasciò, prorompendo con impeto:

— Tacete! Non voglio nemmanco udirlo dalla vostra bocca. So tutto. Voi pure v'imbrancate all'impuro corteo di quella donna.

Queste parole furono pronunziate con tanto disprezzo che il rossore ne salì alla faccia di Luigi. I suoi occhi s'infiammarono un istante tremendamente, e sulla fronte si disegnò quella certa ruga che i lettori già conoscono, ma fu un baleno, e cambiata rapidamente quell'espressione collerica, quasi feroce, in un sorriso, egli disse con accento pacato ed amorevole:

— Via, via, non esageriamo, Candida mia. Ecchè? Potresti tu avere il torto di credermi capace di fallire a ciò che debbo a te ed a me stesso? Non conservare quell'aria sdegnosa, mio dolce amore; non mirarmi oltre con quell'occhio irritato in cui mi è sì dolce, invece, veder la fiamma della passione. Guarda che con una sola parola io posso abbattere tutti i tuoi sospetti, e tu ti pentirai d'averli avuti..... Ebbene sì, senza imbrancarmi a quell'impuro corteo, come tu dici, io mi sono recato alcune volte alla Villa-lunga. Ma sai tu perchè?.... La vera e la sola cagione ne sei tu.

— Io? Esclamò la contessa stupita.

— Tu stessa; ripigliò Luigi ancora più amoroso nel suo accento e nel suo sorriso. T'ho scritto che ciò avevo fatto per potermi avvicinare di più a te. Perchè non mi hai creduto?

— Ma come?

— Sapevo che colà avrei trovato il conte; volevo che fra lui e me si stringesse tale attinenza che mi schiudesse liberamente la porta di casa tua. Ho io avuto torto? Impiegai tutta l'arte di cui sono capace affine di entrare nelle grazie di tuo marito. Egli mi ha già offerto di presentarmi a te ed invitato al suo castello. Ho accettato senza mostrare troppa premura per allontanare sempre meglio ogni sospetto. Un giorno o l'altro egli mi guiderà per mano a te dinanzi.

Candida rimaneva perplessa e non rispondeva. In codesto sentiva essa alcun che ond'era urtata la delicatezza della sua anima. Avrebbe preferito che il marito e l'amante mai non si fossero trovati a fronte nel suo salotto, che quest'ultimo mai non avesse dovuto lusingare con compiacenti parole il primo, e stringergli la mano come amico. Le pareva che ne sarebbe stato abbassato il loro amore. Vedersi soltanto nel mistero — che niuno della società cui essa apparteneva, lo sapesse — le pareva preferibile, più dignitoso, più confacente al suo sentire.

Luigi s'accorse di codeste impressioni che le sue parole facevano nell'animo di lei, e quindi si affrettò a soggiungere:

— Pensa che se ciò non avvenisse quando tu sii ritornata in città le occasioni di vederci sarebbero troppo rade e troppo pericolose per la tua pace e pel tuo buon nome.

La contessa crollò leggermente le spalle, come per significare che appetto all'amore ella considerava come cosa da poco tutto il resto del mondo.

— Ed a questo; continuò con più calore Luigi; io debbo tenerci più ancora che non tu stessa, e ci tengo.

[137] Chi non sa com'è l'animo di donna innamorata? Quelle cose che a lei meno paiono acconcie diventano tali per essa, appena l'eloquente parola dell'amante ne la voglia persuadere. Con quanta facilità s'accolgono nel cuore di lei i sospetti, con altrettanta si dileguano alle proteste dell'uomo amato. Poco ci volle che Candida restò persuasa come d'ogni fallo era innocente Luigi e com'egli s'era adoperato pel meglio di tuttedue.

Diffatti qualche giorno dopo la contessa ebbe un rimescolo in tutto il sangue nell'udire sulle labbra del marito il nome del dottor Quercia.

Si era di tardo autunno ormai, e il conte soleva invitare alcuni conoscenti a partite di caccia nelle sue tenute. La vigilia di una di siffatte partite, il conte disse alla moglie in fin di tavola, dopo pranzo, come cosa di poco rilievo che allora soltanto gli fosse venuta alla mente:

— Ah! Domani mi prenderò la libertà di presentarti un nuovo ospite. Un giovanotto che ha abbastanza buone maniere per far dimenticare che non ha titoli; un certo dottor Quercia, medico senza clienti, e credo senza medicina.

Candida si volse dall'altra parte con un pretesto qualunque per nascondere il suo subito turbamento. Il conte non aggiunse altro: nè dove lo avesse conosciuto, nè come; la contessa non domandò nulla, e non se ne parlò più.

Luigi aveva saputo realmente andare ai versi del vecchio conte, e ricevuto il primo invito, seppe far di guisa da diventare in breve famigliarissimo di casa.

Tornati a Torino il conte e la contessa, questa domestichezza non solo si continuò ma si accrebbe.

Il mondo susurrò, poi parlò senza ritegno, prima indovinò, poi seppe. Le migliori amiche della contessa compassionarono perfidamente la povera donna che si perdeva in una tresca indegna con un uomo che non si sapeva chi fosse.

Gli ultimi a sapere queste cose sono sempre i mariti: ma il conte di Staffarda non era uomo da non vedere e da non capire. Cominciò per non dar più la mano a Luigi quando lo incontrava in qualche luogo o quando entrava nel suo salotto; si diede ad accoglierlo con un altezzoso sussiego che era quasi un'insolenza. Luigi usava tutti i mezzi che può un uomo di spirito per mostrare che non faceva attenzione a questo contegno del conte ma frattanto aspettava un'occasione affine di provocare una spiegazione che volgesse secondo quello ch'egli desiderava ed aveva in previsione immaginato. Il conte eziandio da parte sua cercava un'occasione per dire alla moglie il fatto suo, senza scene, senza scandali, con tutta la forbitezza e la disdegnosa indifferenza d'un vecchio libertino di marito allevato nelle tradizioni dell'elegante corruttela del secolo scorso.

Queste occasioni aspettate vennero per ambidue, e prima pel conte.

CAPITOLO XXIV.

Già s'era fatto tardi. Luigi erasi indugiato più forse che non solesse nel riposto stanzino della contessa. Nell'alto silenzio della notte, i sontuosi arazzi del gabinetto di Candida entro il superbo palazzo dei conti di Staffarda avevano udito suonare voci di rampogna e di sdegno (imperocchè l'amore fra quei due già ne fosse venuto allo stadio dei rimbrotti, delle accuse da parte di lei, delle impazienze e peggio da quella di lui; e vi narrerò di poi le fasi di questo periodo ed i torti e le colpe e — dirò fin d'ora la parola — l'infamia dell'indegno amatore), poscia voci più miti di perdono e di supplicazione sulle labbra della misera donna e per ultimo di tenerezza e di passione più concitata quanto più era stata lungamente repressa da altri sentimenti.

Ad un tratto si grattò alla porta. I due amanti sussultarono. Era cosa tanto nuova che in quei loro colloqui venissero disturbati! Tacquero un momento stando in sospeso ad ascoltare se il segno si ripetesse. In quella udirono l'orologio del campanile vicino suonar lentamente la mezzanotte. L'ultimo tocco aveva appena finito di battere che all'uscio fu dato un picchio abbastanza vibrato. Candida sorse di slancio, si racconciò in fretta i panni un po' disordinati, ed invece di domandare chi fosse si precipitò verso la porta e l'aprì con mano che tremava un pochino.

Sì trovò in faccia la cameriera:

— Che cosa c'è? Domandò la contessa con qualche corruccio.

E la fante sollecita:

— Il signor conte fa domandare alla contessa se vuole riceverlo.

Candida si volse pallida ed agitata verso il suo amante.

— Mio marito! Diss'ella frettolosamente. Egli non viene mai qui a quest'ora..... Parti!

Gli occhi di Gian-Luigi balenarono cupamente e nella fronte si incavò quella sua ruga caratteristica.

— Ah! il conte: diss'egli incrociando le braccia al petto; ben venga il signor conte. Vorrebbe egli per azzardo far da marito di tragedia?

Candida gli fu accosto in un baleno e con atto pieno d'avvenenza e d'amorevolezza gli gettò le braccia al collo.

— Parti, te ne prego: diss'ella.

La cameriera s'inoltrò d'un passo nel gabinetto, ed abbassando la voce, soggiunse:

— Il signor conte è qui nell'altra stanza, e il signor dottore non può a meno d'incontrarlo.

La contessa impallidì vieppiù.

[138] — Va nella mia camera: diss'ella affrettatamente a Luigi. Il conte non avrà gran cosa da dirmi e saprò sbarazzarmene tosto.

Gian-Luigi fece un sogghigno pieno di superbia e d'ironia.

— Fuggire! Diss'egli. Nascondermi! Nè l'un nè l'altro. Venga avanti il signor conte, e se ha cose da dire a Lei che io non possa ascoltare, allora mi ritirerò tranquillamente per la uscita comune.

— È mezzanotte: disse timidamente la contessa.

— Gli è che abbiamo saputo trovar abbastanza soggetti interessanti di conversazione da far passare il tempo senza badarci. Questo fa onore al nostro spirito, contessa.

Candida esitò un momentino, parve voler ancora dire alcuna cosa; ma ad un tratto prese la sua decisione, e voltasi alla cameriera le disse con accento affatto sicuro e tranquillo:

— Introducete il conte.

Poi si gettò a sedere abbandonatamente sulla sua poltroncina vicino al fuoco, al quale volgendo le spalle stava dritto Luigi colla più agiata disinvoltura di questo mondo.

Io non vi dirò che il cuore di Candida non battesse un po' più concitato nell'udire sul pavimento dell'altra stanza il passo del conte che si avvicinava; ma il suo aspetto era tranquillo, e quando l'uscio si aprì, ella volse verso chi entrava un viso forse un po' pallido, ma per l'affatto sicuro nella sua indifferenza.

Il conte s'inoltrò con un sorriso poco naturale, ma garbatissimo, sulle sue labbra tirate. La sua fronte calva pareva più gialliccia dell'ordinario riflettendo la luce delle due lampade che ardevano sul camino. Nell'occhio grifagno c'era molto più del solito di quell'ironia scettica e maligna che formava la base del suo carattere. Gli sguardi del conte e di Gian-Luigi s'incrociarono; erano gli sguardi di due uomini che non hanno timore. Stettero un attimo così fissi l'un nell'altro, come due lame in un assalto prima che uno dei duellanti si decida a trarre una botta. Prolungato per un minuto quello sguardo si faceva una sfida, una minaccia, un insulto: era uno di quelli sguardi, dopo i quali bastano poche parole per condurre due uomini sul terreno a cimentare in un duello la vita.

Gian-Luigi, a niun patto, avrebbe voluto esser egli il primo a chinare gli occhi. Sentiva entro il petto un orgoglio immenso dare rincalzo al suo coraggio per non cedere neppure un minuzzolo alla superba guardatura del conte. Il cranio pelato di quell'uomo che tutti conoscevano abilissimo nell'arte di uccidere il suo simile ed il cachinno insolente ed altezzoso di quella mordace ironia, solevano imporne a tutta la gente; il trovatello Gian-Luigi, il figliuolo di nessuno, il compagno d'infanzia di Maurilio, allevato nella più umile e nella più misera delle condizioni, non ne provò la menoma soggezione. Amedeo Filiberto di Staffarda che per lungo uso di mondo e trattare d'uomini, s'intendeva a giudicare, dalla fisionomia e dal contegno di qualcheduno, della fermezza e del valore del suo animo; il conte conchiuse fra sè che quel giovane non era tale da poter essere nè dominato, nè soverchiato.

In questo modo passarono due minuti secondi di grave silenzio, lunghissimi per la contessa, la quale con ansia stava mirando a sua volta quella tacita lotta di sguardi di quei due uomini innanzi a lei.

Fu il conte che primo sviò gli occhi da quelli dell'avversario e ruppe il silenzio.

— Ah! gli è Lei, dottore: diss'egli colla sua gentilezza aristocratica, in cui nella compiuta forbitezza appariva pur sempre una tinta di superiorità. Perdoni a' miei occhi miopi, se non l'ho tosto riconosciuto.

Gian-Luigi fece un lieve inchino senza rispondere.

Candida tirò più libero il fiato. Le parole del conte ed il modo con cui le aveva dette non erano già d'un uomo che si acconci a cedere per paura, ma di tale che crede miglior convenienza lo evitare uno scandalo.

— Come mai, conte, a quest'ora? Domandò la donna con un'apparenza scherzosa, in cui pure si sarebbe potuto sentir tuttavia la traccia delle sue inquietudini.

— Che? Rispose il conte. È egli per ventura così tardi?

Guardò l'orologio che faceva muovere il suo pendolo sulla mensola del camino, e per vederci l'ora avanzò la testa fin da essere presso presso a quella di Gian-Luigi, il quale non si mosse, come se i suoi piedi avessero piantate le radici sulla lastra di piombo che innanzi al focolare difendeva il tappeto del pavimento dalle faville che potessero mandare gli scoppi della legna.

— To'...... È passata mezzanotte: soggiunse il conte. Credevo fosse di meno. Vuol dire che il tempo mi è volato via rapidamente questa sera, come fors'anco per voi, contessa.

Candida arrossì un pochino.

— Sì davvero: diss'ella pigliando un parafuoco per ripararsi la faccia, più che dal calore dei tizzi che ardevano nel focolare, dalla luce delle lampade che pioveva dallo sporto del camino. Il dottor Quercia ha avuto la bontà di sacrificarmi la sera per tenermi compagnia.

Il conte si volse di nuovo verso Gian-Luigi e gli fece un saluto del capo che pareva quasi un ringraziamento, ed in cui l'ironia era di guisa dissimulata e così fine che un uomo accorto non [139] poteva a meno di sentirla, ma uno mediocremente educato non avrebbe potuto in nessun modo rilevarla.

Gian-Luigi corrispose con un altro saluto uguale; ma entro sè rodevasi maladettamente di quella situazione in cui si trovava, che sentiva ridicola e la più impacciosa che mai. Avrebbe dato non so che perchè la maliziosa gentilezza del conte si voltasse in un buono scoppio di collera.

Amedeo Filiberto disse allora alla moglie, con quel suo satirico sorriso:

— È un sacrifizio che la galanteria del signor dottore avrà trovato leggiero.

Prese la mano di Candida e gliela baciò mentre essa lo guardava tutto stupita.

— È un sacrifizio: soggiuns'egli, col tono d'un Don Giovanni dei tempi di Luigi XV di Francia: che sarei disposto a fare ancor io molto volentieri, se pensassi che potesse tornarvi ugualmente gradito.

Candida levò dalla mano del marito la sua che egli teneva ancora, si tirò indietro colla poltrona, come per allontanarsi, e non rispose.

— Duolmi se io sono venuto disturbatore del vostro colloquio: riprese il conte colla medesima bonarietà maliziosa: ma che volete, contessa cara? Ho gran desiderio, e dirò anzi gran bisogno di aver con voi uno di quei confidenti ed affettuosi colloquii che sono una delle maggiori gioie del matrimonio, e — ma foi! — non ho voluto ritardarmi questo regalo, perchè se sono del parere di quell'antico non so chi, il quale soleva rimandare gli affari al giorno di poi, credo invece che le dolci soddisfazioni conviene procurarsele tosto, senza ritardo, appena si può.

Ciò detto, diresse il suo sguardo grifagno su Gian-Luigi, che stava sempre al medesimo posto. Quello sguardo diceva apertamente:

— Conviene che mi cediate il luogo. È questo, se non altro, il mio diritto di marito, e intendo di valermene.

Gian-Luigi comprese. Ben sapeva che gli toccava ritirarsi, e fin dal primo momento che il conte era entrato, egli andava pensando come far ciò senza mostra alcuna di debolezza. Ora esitò tuttavia un momentino. Gli passò per la mente di rispondere un'impertinenza che obbligasse il conte ad uscire da quel garbo artifizioso che gli faceva, per così dire, una corazza adamantina; oppure di fare il sordo affine di spingere il marito di Candida a più aperto parlare che desse a lui pretesto di venirne a lotta dichiarata. Capì che avrebbe avuto assai torto sì a far questo che a far quello. Inoltre la irritata suscettività del suo amor proprio non fu tanto cieca da non lasciargli ricordare che il suo interesse gli sconsigliava fortemente una palese e scandalosa rottura col conte. Si staccò egli dal camino e andò lentamente a prendere il suo cappello, che aveva deposto sopra un guéridon.

Il conte si pose tosto a quel medesimo luogo che il giovane aveva abbandonato, come se anco materialmente volesse significare ch'egli intendeva rivendicato il suo posto di marito sulle invasioni dell'amante.

Gian-Luigi venne colla stessa andatura lenta fin presso alla signora, e tendendole una mano con famigliarità da amico, le disse:

— Buona notte, signora contessa.

— Buona notte: s'affrettò a rispondere Candida, stringendo forte la mano di lui, come per segreta intelligenza, come per ringraziarlo di cedere a quel modo, timorosa ch'ella era stata alquanto non volesse il giovane ribellarsi al pulito congedo intimatogli dal conte. Quando ci rivedremo? Domani è mia sera di palchetto al Regio; spero che non la mancherà di venirmi a far visita.

— Me ne farò un dovere: rispose Gian-Luigi. S'inchinò poscia leggermente verso il conte, il quale abbassò il capo con mossa molto superba. Il giovane uscì meno contento di sè di quanto avrebbe voluto, sentendo che in quello scontro ad armi cortesi egli aveva avuto il dissotto, e mulinando come avrebbe potuto conseguire una rivincita quale convenisse non solo all'amor proprio, ma al suo interesse ed ai suoi disegni.

Il conte e la contessa rimasero soli; ella sempre seduta giuocherellando col parafuoco di cui servivasi a riparare il suo volto dagli sguardi del marito, egli dritto dinanzi al camino, dove poco anzi stava l'amante.

Per un poco non parlarono nè l'uno nè l'altra.

Charmant garçon quel dottorino: disse poi il marito mettendo le mani dietro le reni come per riscaldarsele alla vampa.

Candida non rispose.

— A proposito! Di che cosa è egli dottore? Di leggi, no. Di medicina o di chirurgia, o di tuttedue?

Aspettò un momento la risposta della moglie, che non venne.

— Voi non sapreste dirmelo, contessa? Soggiunse egli facendo piombare il suo sguardo addosso alla donna che pareva assorta nella contemplazione delle figure chinesi trapunte sulla seta del parafuoco.

Candida crollò le spalle.

— Non andate già sognando, io spero, che discorriamo di medicina e di chirurgia. Che cosa volete dunque ch'io sappia? So che gli è un giovane molto a garbo... e mi basta.

Alla contessa era venuto di botto tutto il suo coraggio. Fino a che i due uomini erano stati a fronte, ella aveva dovuto fare uno sforzo per vincere la inquietudine che la occupava; ora ch'ella [140] sola trovavasi in faccia a quel marito, di cui nulla avea potuto in essa ispirare nè rispetto nè simpatia, nè alcun sentimento di affezione o di gratitudine, ora la si sentiva forte e di subito s'era trovata pronta ad accettare la lotta su qualunque terreno la volesse il conte impegnare.

Questi riprese con accento più ironico che mai.

— Sicuro! Molto a garbo! È quel che dicevo io: charmant garçon. Sa trattare quasi come s'ei fosse qualcheduno, e parlandogli uno può anche obliare che non si sa chi sia.

Candida arrossì fino alla radice de' capelli.

— Vi sono dei nobili, diss'ella con accento irritato, i quali hanno i più numerosi quarti scritti nelle pergamene, e non sanno la creanza, e non hanno lo spirito di questo giovane che, come voi dite, nessuno sa chi sia.

Il conte s'inchinò con ironica galanteria verso la moglie.

— Avete ragione: diss'egli. A certuni non basta l'esser nati di nobil sangue per aver nobili modi, come del pari, ai più non basta l'aver acquistato dei titoli per aver preso addirittura con essi la vera nobiltà.

Candida sentì l'aspra botta tirata contro suo padre e si morse le labbra.

— Ad ogni modo: diss'ella vivacemente di ripicco; quando uno ha del merito personale, per piacermi nella sua compagnia, io non istò a domandargli il suo albero genealogico.

Amedeo Filiberto tornò ad inchinarsi come prima.

— E voi fate molto bene. Ma il mondo è più curioso e più esigente di voi, e quando vede un cotale mettersi innanzi sulla scena del mondo vuol sapere d'ordinario d'onde venga, che cosa faccia, di dove tragga i mezzi delle spese che non va risparmiando. E allorchè si viene a scoprire — imperocchè badate bene contessa che tosto o tardi quel benedetto mondo riesce a scoprir tutto, e se trova troppa difficoltà a scoprire il vero, inventa, che è peggio, ed inventando anche, molte volte indovina; — allorchè si viene a scoprire che il brillante giovane di cui si comincia ad occupare l'attenzione del pubblico non ha famiglia di sorta, è capitato non si sa di dove, come un fungo sorto improvviso di terra, non ha capitali nè tenute da dargli la rendita che spende, giuoca come un disperato...

— Anche voi giuocate, signor conte: interruppe con vibrato accento la moglie.

Il conte si tirò su della persona colla più superba mossa del mondo.

— Vi prego di non offendermi con siffatti confronti. Io dietro la mia passione del giuoco posso mettere il patrimonio degli Staffarda...

— E quello di vostra moglie: disse Candida vivamente scoccandogli un'occhiata più maliziosa ancora della interruzione.

Fu la volta del conte di mordersi le labbra. Stette un poco, e poi riprese a dire senza rilevare la frecciata:

— Quando, dicevo, un giovane senza mezzi di fortuna la sciala da ricco, vivendo in una intimità poco onorevole con una donna cui per rispetto alle vostre orecchie non voglio qui qualificare.....

La contessa sussultò come riscossa da una violenta offesa. Si drizzò della persona che teneva abbandonata sul seggiolone, ed esclamò vivacemente:

— Non è vero, non è vero; questa è un'infame calunnia.

Il conte con una impertinente placidità le fe' cenno colla mano di calmarsi, e poi disse con accento tranquillamente sardonico:

Pour Dieu! contessa, voi prendete fuoco più d'un zolfino. Ora io vi prego di due cose: prima di ascoltarmi con un po' di pazienza e non interrompermi, se volete che più presto io ne venga a capo; secondo di ritener bene che un conte Langosco non si fa mai eco d'una infame calunnia, per ripetere la vostra non troppo misurata espressione.

Candida si lasciò ricadere contro lo schienale della poltrona, come rassegnata ad udire le parole del marito.

— Or dunque, continuò questi, avevo l'onore di dirvi che il mondo curioso, pettegolo, mormoratore, maledico, anche calunniatore so volete, vedendo di queste cose e sentendole e ripetendole, si fa troppo agevolmente il concetto che quel cotale in siffatte condizioni si guadagni le sue rendite colla protezione della donna perduta, che piuma i merli ricchi in favore dell'amico povero...

Candida non disse nulla, ma il parafuoco aveva dei movimenti convulsi nelle sue mani, e il suo piedino batteva con febbrile agitazione sui fiori del ricco tappeto.

Il marito si curvò verso di lei con una cortesia ed un'amenità che le tornavano più irritanti di qualunque altra cosa.

— Ritenete bene, contessa, che io qui ora non affermo nè contesto nulla di nulla. Ripeto quello che dice il mondo e non altro.

La contessa non si contenne oltre.

— Il mondo, interruppe ella con voce che invano voleva render calma: il mondo dice altresì che fra quei merli di cui lamentavate poc'anzi la sorte d'esser piumati da quella donna, si trova eziandio il conte Amedeo Filiberto.

Ed egli a rispondere con cinica tranquillità:

— Voi spostate la quistione, cara contessa. È possibile che il mondo, dicendo ciò che voi avete ripetuto adesso, non dica nemmanco una bugia. Ma siete troppo intelligente per non capire come in questa commedia la parte onorevole sia di chi lascia le proprie spoglie, non di chi vive delle altrui.....

[141] — Io non so vederci nulla d'onorevole per nessuno: disse seccamente la giovine donna.

Il marito s'inchinò di nuovo a suo modo.

Soit!... Ma, se vi piace, non divaghiamo oltre, per non prolungare fino al mattino questo colloquio che è per me un favore, ma che dubito possa essere per voi di molto divertimento. Quando adunque il mondo vede un giovane come quello di cui abbiamo detto, usare con troppa frequenza intorno ad una dama che è uno dei più begli ornamenti d'una sfera sociale a cui egli non appartiene, il mondo incomincia a domandarsi che razza di attinenze possa aver luogo fra quei due, poi biasima l'imprudenza della donna che si mette a repentaglio di voci maligne per causa di una relazione che non è degna di lei, poi ride del marito che la permette.

Candida era divenuta color del fuoco, ma lo sdegno e l'amore davano forza e coraggio al suo animo. Ebbe l'ardimento di guardar bene in faccia suo marito e gli disse con voce ferma e vibrata:

— Voi volete dire che mi sono compromessa?

— Il cielo me ne guardi! Per chi mi prendete voi, madama? La moglie del conte di Staffarda non può essere compromessa mai! Sapete bene che vi copre il mio blasone — e la mia spada.

Fu la volta di Candida d'inchinarsi leggermente.

— Ma, continuava il conte, non voglio, palsambleu! che si rida di me. Vi ricordate, contessa, il colloquio che avemmo insieme in quel fortunato giorno che voi consentiste ad essere mia moglie? Io vi dissi: libertà intera per tuttedue, ma guardiamoci dalle ignobili catastrofi del mondo borghese, rispettiamo il nostro nome a vicenda...

La contessa proruppe con impeto sotto l'impressione del traboccante sdegno:

— E l'avete voi rispettato, signor conte? Vi rispondano le vostre ballerine, le vostre mantenute, le vostre orgie notturne, in cui gettate non solo le vostre, ma anche le mie sostanze — quelle sostanze per cui unicamente mi avete fatto regalo del vostro nome.

— Ah contessa: esclamò egli colla solita calma: voi uscite di misura. Questi emportemens non sono da voi. Badate che correte rischio di cadere in una discussione da bottegaio...

Ma la donna sempre sotto l'impulso di quella concitazione:

— Eh! che cosa m'importa la roba mia? Quel che mi cale è la mia libertà. Non sono io più padrona di accogliere chi mi pare e piace? Vorreste voi far delle esclusioni nel mio salotto e impormi la presenza o l'assenza di questi o di quelli?

Il conte levò in alto una delle sue belle mani affilate in atto di protesta.

— Dio mi guardi! Diss'egli.

— Ed io vi dico, seguitava la contessa, che ciò non vorrei tollerare a niun patto... A niun patto, capite?

S'alzò in piedi quasi di balzo, e piantandosi in faccia al marito in atto pieno di risoluzione, soggiunse:

— Oh volete che vi parli affatto schietto? Quella libertà che mi avete promessa mi è più cara di quelle fortune che vi ho recate in dote; queste vi lascio manomettere senza opposizione, ma la prima non lo permetterò mai. Alla conoscenza, alla relazione, all'amicizia di quel giovane ci tengo più che a tutto il resto, e non sono disposta a rinunciarvi nè per farvi piacere, nè dietro vostro ordine. A me non salta neppure in mente d'imporre a voi di simili sacrifizi; lasciatemi quindi fare anche me a modo mio. In ogni caso, ve lo dichiaro apertamente, sono disposta a spingere le cose a qualunque estremo — anche ad una separazione.

Tudieu! contessa, esclamò il marito colla sua cinica freddezza, come vi scaldate! Queste cose potreste dirle senza incollerirvi come una bourgeoise. E poi che smania è la vostra di ficcarvi sempre in mezzo la quistione del danaro? Fi donc! Non è degno di voi codesto..... Una separazione fra di noi! Mai più affediddio! Sapete qual è l'intesa delle mie parole? Quella di trovar modo insieme noi due, da buoni amici, di evitare ogni scandalo. Io sono venuto qui, l'anima piena di pacifiche intenzioni per darvi qualche buon consiglio in proposito. Pensatevi se vorrei mandare la cosa ad un punto in cui lo scandalo avverrebbe il massimo possibile ed irrimediabile. No, no, signora contessa. Voi siete sotto la protezione del nome di Langosco, e non voglio che la perdiate, non voglio che mi priviate del vantaggio che ora posseggo di dare un bravo colpo di spada al primo cialtrone che osasse pronunciare una parola men che misurata sul vostro conto... Ma voi, benedette donnine, non avete mai la prudenza più necessaria: prudenza nello scegliere bene, prudenza nel regolarvi.

La contessa fece un atto come se volesse interrompere; ma egli non le lasciò dire.

— Capisco, soggiunse: quanto alla scelta non c'è più da parlarne; è troppo tardi. Lasciamola lì. Ma quanto al modo di fare, ah contessa, permettete ch'io vi dica che vi siete mostrata d'una ingenuità affatto puerile. Quel cotale accoglietelo quanto vi piace a huis clos, ma non trascinatevelo dietro a farne mostra nel mondo, que diable!

— Che cosa ne vorreste conchiudere? Domandò Candida guardando sempre risolutamente in faccia il marito.

— Voglio conchiuderne che allora provvederete di meglio a voi medesima ed alla mia dignità, quando farete che il signor dottore — si docteur il y a — conversi con voi così sovente come vi [142] piace, in segreto, ma il mondo non vi vegga mai più insieme, e ch'e' non si trovi mai sul mio passaggio, nè nel vostro salotto, nè altrove.

La contessa tacque alquanto sotto l'evidente effetto d'un po' di mortificazione.

— Signore, diss'ella poi, dopo un poco: le spiegazioni della mia condotta...

Il marito l'interruppe con quel suo atto della destra, di cui pareva compiacersi perchè metteva in mostra tutta la bellezza della sua mano.

— Ah! non ne voglio avere nessuna. Che cosa mi credete? Un marito da moderno dramma francese? Salvate le apparenze, io non vi domando altro. Avrei potuto prima darvi quel consiglio che ho accennato poc'anzi: ma ora.....

Si curvò nelle spalle ed allargò tuttedue le braccia come per dire: è fatta e pazienza!

Enfin, continuò egli, possano le cose volgere il meglio possibile a seconda del vostro capriccio, senza che mi mettiate nella necessità di farvi vedova di me — o di lui.

Candida si sentì l'anima offesa assai più da quel cinismo che non sarebbe stata dai più crudeli rimbrotti. Una profonda amarezza l'invase. Guardò alla sfuggita il sogghigno di quell'uomo corrotto a cui la Chiesa e la legge avevano unito tutta la sua vita, e le parve non che attenuata, ma quasi legittimata la sua colpa.

Ella tornò a sedere con una scioltezza quale avrebbe potuto avere in un colloquio indifferente colla persona che meno le ispirasse soggezione; ed aggiustandosi le sottane, disse al marito con accento di leggerezza in cui non avrebbe avuto torto chi avesse creduto scorgervi una tinta di disprezzo:

— E gli è per dirmi tutte queste belle cose da sermone che voi siete venuto in un'ora così insolita ad invadere il mio boudoir?

— No: rispose il conte: precisamente non è per questo. L'occasione ha mosse le mie parole. Certo non è ch'io non creda quell'argomento abbastanza di rilievo per dar ragione alla mia insolita comparsa; ma il vero è che io veniva per un'altra bisogna di cui mi occorre parlarvi.

— Ah ah! Esclamò la contessa guardando fisso il marito, mentre questi pareva tutto intento a scacciare colla punta affilata delle sue dita dalla rivoltura ricamata del panciotto nero qualche grano di polvere che non c'era. Che cos'è questa bisogna?... Ma volete voi star lì dritto come un piuolo tutta notte? Sedetevi una volta.

Il conte tirò presso al fuoco una poltroncina e vi si gettò su abbandonatamente.

— Come volete, contessa. Già, gli è una cosa spiegata in due parole. Sedendomi temevo di ispirarvi la paura d'una lunga conferenza; rassicuratevi, non è per tutta la notte che avrò l'onore di trattenervi, ma durante cinque soli minuti. Ecco di che si tratta. Il nostro intendente è il più onesto degl'intendenti. Quando si caccia in capo di rendermi i suoi conti mi annoia per un'ora con cifre interminabili alle quali io non capisco nulla. Questo benedett'uomo mi è venuto testè a far tanto di capo per certe faccende che io non so spiegarvi e che son certo, ancorchè ve le spiegassi, voi non sapreste capire. Non siamo di quel legno di cui si fanno i computisti, noi. Bref! conchiuse, dopo avermi fatto sbadigliare senza pietà, che occorre un certo atto per aver certi capitali a pagare certe partite, sotto il qual atto è necessaria, non che la mia, anche la vostra firma. Quell'originale mi proponeva di venire egli stesso da voi a dimostrarvi la qualità dell'affare e la necessità del medesimo. Vi ho voluto risparmiare tanto fastidio. Allons donc! gli dissi: queste son cose in cui non si ha da intromettere nessuno fra il conte e la contessa. Ed ecco il perchè io son qua. Ho domandato all'intendente: — Senza tante chiacchere, voi mi affermate in parola di galantuomo che codesto è necessario e che gl'interessi della contessa non ne sono menomamente lesi? — Egli me l'affermò. — Bene, io soggiunsi allora, quando sulla fede della vostra parola avrò ancora io affermato il medesimo alla contessa, ella mi crederà del pari, e sarà un affar finito. E voilà!

Tacque e si diede a lisciarsi e ripulirsi le unghie con un piccolo ferruccio che trasse dal taschino del panciotto. La contessa rimase un istante senza rispondere. Era evidente che la sottoscrizione di quella carta da parte sua equivaleva ad un qualche sacrificio di sue sostanze per trovare nuovo modo di procurar denari alla prodigalità del conte. Ella ebbe un momento il pensiero di non far così ad occhi chiusi; di mettere in campo la sua ignoranza degli affari per proporre al marito spiegasse la cosa al barone La Cappa, e dire ch'essa allora soltanto avrebbe firmato, quando il padre vi consentisse. Ma non osò. Ebbe paura prima del sogghigno con cui il conte le avrebbe fatto capire che quello era un diportarsi, come diceva egli, da bourgeois: poi rapidamente avvisò come quella domanda inchiudeva quasi un tacito patto che il conte veniva proponendole: di accordarle maggiore ancora quella libertà ch'essa invocava dietro il compenso della sua firma. Come ardire di rifiutarsi a quella domanda dopo ciò che era avvenuto e che s'era detto poc'anzi fra loro due?

Dopo due minuti di silenzio Candida disse bruscamente:

— E voi avete lì quella carta?

Il conte s'inchinò in segno affermativo.

— Date qui. Prese il foglio che il marito le porse ed andò ad un piccolo tavoliere elegantemente intarsiato, su cui c'erano un bellissimo buvard ed un calamaio lucente d'oro.

[143] — Dove ho da firmare? Domandò essa, senza gettare neppure un'occhiata su quanto era scritto in quella carta.

— Lì al fondo: rispose il conte alzandosi egli pure e venendo presso a lei. Così va bene.

Candida gli restituì il foglio aperto, colla sua firma; il marito lo prese e lo accostò al fuoco per farvi asciugare l'inchiostro.

— Or dunque, diss'egli, non mi resta più che tornare a domandarvi perdono dell'avervi recato sì inopportuno disturbo.

Ripiegò il foglio e se lo mise in tasca, poscia prese la mano di Candida e glie la baciò con fredda galanteria.

— Buona notte, contessa: e ricordatevi sempre che in ogni qualunque caso vi occorra il consiglio o l'aiuto d'un amico, io sarò sempre tutto per voi.

Girò sui suoi talloni e se ne partì, senza che Candida, la quale gli aveva abbandonato la sua mano affatto passivamente, pensasse pure a rispondergli, nè dirgli una parola.

Quando fu sola, la contessa si lasciò ricadere su quella poltrona su cui era seduta prima. Aveva l'anima confusa e turbata, ed insieme un vuoto tremendo in essa. Non si sentiva appoggiata da nessuna parte, non sentiva appo nessuno il caldo d'un vero affetto. Fra quell'amante e quel marito si trovava in mezzo a due egoismi che la sfruttavano. Una profonda melanconia l'assalse; si conosceva isolata nella vita, delusa in ogni sua aspettazione.

Il conte rientrò nel suo appartamento, lieto di avere dalla firma di sua moglie nuovo mezzo a fare rovinosi imprestiti, che a lui troppo oramai oberato, e colla inalienabilità del suo patrimonio, non si volevano più accordare da nessun usuraio.

Il domani Gian-Luigi riceveva il seguente bigliettino scritto dalla contessa in francese:

«Non venite stassera al teatro Regio. Ho il dolor di capo, ci vado di cattivo umore; sono persuasa che la mia acconciatura mi starà male. Vi vedrò al solito luogo, all'ora solita, domani».

Il medichino spiegazzò quella cartolina profumata fra le mani e lasciò sfuggire una espressione di contrarietà che andava sino alla collera. Candida aveva ceduto alla volontà del conte che le aveva imposto questo sfratto del giovane borghese dal palchetto frequentato dal fiore il più sopraffino dell'aristocrazia? Questo sfratto era egli il precursore d'un altro più grave ancora dal superbo palazzo degli Staffarda? La contessa si era ella indotta a rinunciare pubblicamente all'attinenza d'un amico non titolato per non compromettere l'orgoglio nobiliare della schiatta, contenta di abbandonarsi pienamente in segreto nelle braccia d'un amante plebeo? Se ciò era, la cosa non conveniva niente affatto al nostro eroe. Egli, per certi suoi calcoli, ci teneva non solo ad essere, ma a comparire l'amante di una delle prime dame della città; ad aver libera entrata nelle sale aristocratiche d'una famiglia fra le più illustri ed antiche e godervi d'un trattamento di pari a pari — o poco meno — con tutti i superbi blasonati che premevano coi piedi i tappeti di quelle sale. Ciò avrebbe messo suggezione alla curiosità ed alle ipotesi della gente; avrebbe dato a lui ed alle sue cose una onorabilità indiscutibile e posto in iscacco persino quell'Argo cieco molte volte in gran parte de' suoi occhi, ma pur tuttavia sempre più curioso d'ogni curiosità femminile, voglio dire la polizia.

Ma s'egli si lasciava allontanare così di piano, e chiudere l'uscio della sala in faccia da quella stessa mano che gli apriva l'usciolo segreto del boudoir, questo suo intento era irremissibilmente perduto. Inoltre non voleva Gian-Luigi che il conte potesse pur pensare ch'egli si fosse tenuto lontano per paura o suggezione di lui. Gli veniva in mente il sogghigno che avrebbe fatto il marito della contessa quando non avesse visto a comparire di tutta sera quel giovane ch'egli il giorno prima aveva già fatto partire dallo stanzino della moglie, e Gian-Luigi sentiva il suo sangue, più orgoglioso d'ogni altro mai, rimescolarglisi addosso. Egli aveva concepito l'audace disegno d'imporsi anche al conte, e mentre già parevagli per lo addietro essere bene progredito per quella via, ecco che ad un tratto e' se ne sarebbe lasciato sopraffare.

Si vestì con aggraziata eleganza e nel pomeriggio si recò al palazzo Langosco un po' prima dell'ora in cui la contessa soleva aprire il suo salotto alle visite. Il domestico a cui si presentò gli disse che la contessa, poco bene di salute, quel giorno non avrebbe accolto nessuno. Gian-Luigi non si mostrò nè stupito, nè offeso il meno del mondo. Chiese vedere la cameriera della contessa per sapere più esatte le notizia della preziosa salute della padrona. La fante — che era sempre quella medesima — fu chiamata, ed essa e il medichino si raccolsero a parlar sotto voce nella strombatura d'una finestra.

— Dimmi il vero, cominciò Gian-Luigi, l'ordine di non ricevere, riguarda me soltanto.

— No: rispose la cameriera, la quale colla famigliarità del suo contegno ben mostrava come fosse in intima attinenza col giovane: riguarda tutti.

— Quest'ordine è stato il conte a darlo, oppure la contessa?

— La contessa. Il conte non s'immischia mai in quanto fa o non fa sua moglie.

— E il motivo di quest'ordine?

— Non so. Veramente la contessa sta poco bene. È ancora in letto, e di tutto il giorno non ha preso che un consumato.

[144] — Sai tu s'ella vada al teatro questa sera?

— Credo che non lo sappia ancora nemmanco ella stessa. La sarta le ha portato l'abito e la modista gli ornamenti della pettinatura. S'è fatto mettere innanzi ogni cosa e la sta guardandoli, senza aver detto ancora nulla di ciò che voglia fare.

— Bisogna che tu la spinga per quanto più potrai ad andarci. E se ci riesci mi farai piacere. Domattina poi, quando ella ci sia stata, conviene che tu venga da me a dirmi con qual umore essa è tornata a casa, che ha detto, che ha fatto, se alcuna cosa è successo fra lei e suo marito.

La cameriera guardò con occhio sfavillante Gian-Luigi e disse con maliziosa modestia:

— Avrò da andare a casa sua, soltanto se la contessa sarà stata a teatro?

Il giovane sorrise.

— Ah biricchina! Vienci ad ogni modo. E siccome può essere che più per tempo io abbia qualche occupazione, fa di venirci verso le dieci che io procurerò d'esser libero affatto per poterti dare un'udienza come ti piace.

E in ciò dire fece scivolare uno scudo nella mano grassetta della giovane, la quale sorrise tutto lieta e della mancia e più ancora delle parole del bel medichino.

Questi uscì, si recò al tiro di pistola, dove si esercitò per un'ora, fu al caffè Fiorio dove mostrò al bigliardo una valentìa maggiore ancora del solito, andò a pranzo da Trombetta, e fece meravigliare i commensali della tavola da pasto della vivacità e dell'allegria del suo umore e del suo ingegno; poscia, fumato un sigaro d'Avana passeggiando lentamente fra la calca dei portici, andò a casa a vestirsi coll'abito nero, ed entrò verso le nove co' suoi guanti paglierini freschi freschi alle mani nel caldo ambiente della platea del Teatro Regio.

Un timore aveva egli nell'animo: quello che Candida non fosse andata al teatro. Ma questo timore fu dileguato di subito. Gettò egli tosto un'occhiata al palco di second'ordine che apparteneva alla contessa, e la vide abbagliante di bellezza e di gioie, in tutta la pompa d'una sfarzosissima acconciatura.

Candida vide tosto ancor essa, appena giunto, il suo amante nella platea. Gli occhi di lei si volgevano spesso alla porta d'entrata; ella avea scritto a Luigi di non venire, e pur non sapeva se in quel momento le fosse più caro ch'egli obbedisse a quel cenno o meno. La disobbedienza non sarebb'ella stata un segno del vivo desiderio di vederla, e quindi un segno d'amore? Forse, dov'egli non si fosse mostrato, questo sentimento sarebbe stato quello che avrebbe finito di predominare nell'animo della contessa, la quale avrebbe preso il facile rassegnarsi di lui per prova d'una quasi indifferenza; eppure al momento in cui i suoi occhi furono come per influsso magnetico chiamati alla platea dalla presenza di lui, Candida provò una viva contrarietà. I suoi lineamenti si atteggiarono rapidamente ad una espressione di dispetto e gli occhi lanciarono una fiamma di rimprovero al sopraggiunto per volgersi quindi altrove, mentre nell'aspetto e nelle parole essa si metteva ad ostentare un'allegria che non aveva prima, e degnava di sorrisi e risatine, che non meritavano punto, i discorsi dei visitatori del suo palco.

Gian-Luigi non apparve niente affatto mortificato di questa poco lusinghiera accoglienza; fece un suo superbo sorriso, e ripulito ben bene da ogni appannatura i cristalli del suo elegante cannocchiale che aveva preso, salendo la scala, dal custode che li tiene in guardia a comodo degli abbonati, si diede con attenzione ad esaminare la sala.

Il teatro era affollato da uno di quei pubblici eleganti che ora ci si vedono raramente, ma che allora, sotto il regno di Carlo Alberto, era il pubblico solito agli spettacoli di quella massima scena torinese. I due primi ordini di loggie erano riservati solamente all'aristocrazia, la quale mandava in gran pompa le sue dame cariche di titoli, di quarti e di diamanti; al terzo ordine cominciava a potersi insinuare la borghesia, quella più ricca e che avesse uno zampino nelle cariche dello Stato, magistratura o ministeri; nel quarto e quinto potevano introdursi, non senza stento il commercio e l'industria, cedendo il passo però all'ozio ed alla nullità ammantati sotto il comodo titolo d'avvocato, comprato con una facile laurea. Occhi belli e brutti, gioie ed ori, colori smaglianti e spalle nude, fiori artificiali e guancie imbellettate brillavano da tutte parti. Le regine della moda e della bellezza attiravano su di sè maggiormente l'attenzione, e gli abiti neri e le spalline lucenti della platea se le additavano a vicenda dicendo il nome. Alle bellezze nobiliari dei primi ordini faceva però quella sera concorrenza assai potente una strana bellezza che sfoggiava uno sfarzo impertinente in una mossa piena d'audacia nelle alte sfere del quarto ordine, e molti erano i cannocchiali che si appuntavano sino a quel rimoto cielo a contemplare quell'astro non ordinario di tali plaghe, che ci si mostrava come una stravagante cometa.

Era una donna giovane, sola, con apparenza tutt'altro che di modestia. Aveva una massa enorme di capelli d'un biondo che tirava sul rosso i quali facevano intorno al suo volto non brutto, ma più provocante che bello, un'aureola d'oro; aveva certi occhi di colore indefinibile, che ora ti parevano azzurri e limpidi come un cielo sereno, ora d'uno scuro verzigno come un mare commosso. Aveva [145] forme voluttuose che si vedeva compiacersi ella di mettere in mostra con procace atteggio. Le labbra carnose, rosse del color di sangue che spiccia fresco dalla vena, spiravano una voluttà che quasi direi feroce e potevano essere indizio ad un osservatore per giudicar male degli istinti di quella creatura. Si vedeva insomma che essa apparteneva a quella razza di donne-vampiri, che, senza ispirar mai un vero amore, pur tuttavia s'impadroniscono del senso, dell'anima, del cervello di quanti uomini sono troppo deboli e troppo incauti per non romper tosto la prima maglia della rete gettata su di loro, e fisicamente e moralmente li depauperano, li spogliano, come d'ogni avere, così d'ogni generoso affetto, d'ogni virtù; Dalile che fanno un debole e vile d'ogni più vigoroso Sansone.

Il contegno di questa donna era tutto una provocazione ai sensi e dirò anzi ai vizi degli uomini, una sfida all'onestà delle donne, in una calma che si sarebbe potuta dire cinismo; una calma da paragonarsi a quella d'una tigre in riposo, pronta a balzare al primo svegliarsi d'un istinto di sangue. Sotto alla pioggia di luce del lampadario che gettava i raggi delle sue fiammelle su quelle forme da etaira greca, le carni sode, leggermente abbrunate della sirena avevano dei riflessi, che quasi direi metallici, pieni d'incanto inesplicabile. Vestita d'un color di fiamma viva, ella spiccava sulla doratura monotona di tutto il teatro, come una nota acuta in un canto grave e solenne. Era, per dir così, una piacevole disarmonia. L'acconciatura di lei appariva come il portato d'un'arte selvaggia, istintiva, ma tanto più efficace; ed aveva intanto il merito rarissimo di uscir fuori dello stampo comune. Possibile che non piacesse, ma impossibile che su di lei non si fermasse l'attenzione di chicchessia.

Il medichino che seguendo la direzione dei cannocchiali della platea scoprì ancor egli la bizzarra, brillante figura di quella donna, la quale sporgeva fuori del parapetto il suo busto audacemente scollacciato, fece un moto di contentezza e schiuse le labbra ad un sorriso. Aveva riconosciuto la Leggera.

Ella vide pure Gian-Luigi in platea; i loro due cannocchiali s'incontrarono e si scambiarono un saluto da intimi amici ed un segno d'intelligenza. La Leggera fece un cenno che invitava a salire da lei il medichino, e questi rispose con un leggero atto di acconsentimento.

Ora la contessa, quantunque guardasse in apparenza in tutt'altra parte, per uno di quei meravigliosi sguardi delle donne che vedono ciò appunto a cui non volgono gli occhi, la contessa si accorse di questo scambio di segni e ne sentì una penosa puntura al cuore. I suoi sospetti intorno alle relazioni fra Luigi e quella donna non erano punto svaniti; ed ecco quei semplici cenni, ad un tratto confermarglieli ed afforzarglieli. Un dubbio crudele subitamente l'assalse; non era per lei che Luigi era venuto al teatro; era per quella donna ch'essa sentiva fatale al suo destino. Vide tosto dopo Luigi partirsi dalla platea, e pochi minuti di poi la Leggera rivolgersi all'interno del suo palchetto, dare un saluto e una stretta di mano a qualcuno, e rimanere colle spalle voltate al pubblico per confabulare vivamente con chi era entrato e stava indietro nella loggia affine di non esser visto. Candida non dubitò punto che Luigi trovavasi colà. Senza comprenderne il perchè i visitatori della contessa s'accorsero che l'umore di lei diventava più bizzarro e più forzata la sua falsa allegria.

— Che? Tu qui! Disse Gian-Luigi, entrando nel palchetto della Leggera. E non s'avvisa nemmanco la gente, di guisa che se un azzardo non mi avesse menato in teatro io non ne avrei saputo nulla!

La Leggera guardò il giovane bene in faccia con que' suoi occhi color di mare.

— Ebbene? E con ciò?

— Con ciò voglio dire che se avessi avuto bisogno di vederti non avrei saputo dove prenderti.

— Il bisogno di vedermi, tu ce l'hai quando io ho da esserti utile a qualche cosa.

Il medichino prese la mano inguantata della donna e la strinse, mentre i suoi occhi mandavano sulle giovanili, seducenti attrattive di lei l'omaggio di accesi desiderii.

— Oibò! oibò! Diss'egli in tono di galanteria. Possibile che mi giudichi così male! Ho bisogno di vederti quando mi occorre ricrearmi l'animo nell'amor tuo.

La Leggera scosse l'abbondante sua fulva capelliera.

— Ah! ti conosco, bel mobile: soggiunse. Amore tu per una donna? Eh via! Cerchi in noi povere creature uno spasso od uno stromento, a seconda, ma del resto....

Con una crollatina di spalle espresse, meglio che non avrebbe fatto colle parole, la fine della sua frase.

— Ah Zoe! Tu fai le parti alla rovescia e attribuisci a me colle donne ciò che tu usi fare degli uomini.

I loro occhi s'incontrarono, e sorrisero in quella ambedue come riconoscendosi e confessandosi pari.

— Lasciamola lì: rispose Zoe, aggiustandosi al seno proeminente l'orlo della veste scollacciata. Forse gli è appunto perchè sei tale che mi piaci.... Imperocchè, brutto mostro che sei, tu mi piaci.

Gian-Luigi s'inchinò con quel suo sorriso ironico, superbo e pur leggiadro.

— Ho lasciato detto a casa, continuò la donna, che se tu ci venivi, ti avvisassero che io era qui.

[146] Il medichino fece un cenno col capo come per indicare che ciò era bene e ne andava soddisfatto; poi domandò, quasi passando ad altro ordine di idee:

— Da chi ti sei fatto offrire questo palchetto?

— Da San Luca.

— L'hai nelle branche?

Zoe scosse leggermente le spalle con atto che diceva: — Ne farei quel che voglio.

— Benissimo. È ricco, vanaglorioso, superbo ed imbecille. È fatto apposta....

— Per che cosa? Domandò come risentita la Leggera.

— Per quello che ne vuoi far tu: rispose freddamente Gian-Luigi.

Ella fece il suo solito moto di spalle e guardò in platea.

— Quell'animale piumato, te lo raccomando anzi specialmente. Non lo posso soffrire. Osa aver certe arie con me che meritano una lezione; e siccome avrei bisogno di mettere un centimetro di lama od una mezz'oncia di piombo nel corpo di qualcheduno, sono lì esitante nella scelta del mio piastrone o del mio bersaglio fra il conte di San Luca e il marchesino di Baldissero meno vuoto di cervello, e superbo del pari.

La Leggera si volse vivamente verso il suo compagno.

— No, il marchesino. È un bel giocattolo; una scatola magica inesauribile di confetti....

— Vuoi dire di marenghi?

— Perchè guastarla?

— Tu mi decidi... Veramente avrei quasi preferito il marchesino, perchè ne avrei ottenuto una maggiore importanza del fatto. Dopo uno scontro avvenuto il più cavallerescamente possibile, in cui avrei dimostrato chiaro come quel lampadario che ho risparmiata la vita di quel nobile discendente di sì illustre stirpe; dopo uno scontro simile il marchesino sarebbe diventato mio amico e la sua famiglia mia protettrice obbligata; ma bah! anche San Luca appartiene a quell'aristocrazia che sta tutta unita come una congrega od una consorteria, e nella famiglia Baldissero d'altronde troverò altro modo meno tragico di introdurmi in buona vista. Per non guastarti un giuocattolo a cui ci tieni, mi appiglierò a quella testa vuota di San Luca.

— Vuoi fargli molto male? Domandò la donna coll'indifferenza con cui avrebbe domandato: piove o fa bel tempo?

— Anzi poco: rispose Gian-Luigi giocherellando col suo cannocchiale. Ecco il programma. Una ferita ad un braccio, due giorni di febbre, quindici di malattia; un déjeuner da Trombetta ed amiconi per la vita.

— Sai tu perchè ho voluto venire a teatro questa sera? Disse Zoe ad un tratto, come saltando in altro discorso.

— Veramente tu non sei di quelle che non abbiano un fine riposto in tutte le azioni loro, anche le più indifferenti. Se mi ci mettessi ad osservare e studiare, forse potrei giungere a scoprire da me questa ragione: ma per ora non ho tempo ed ho altro onde occuparmi. Se vuoi ch'io sappia questa ragione, dimmela; e se non vuoi, avanzati la pena di dirmi una bugia.

— Sono venuta per vedere la tua contessa.

— Ah!

— Non l'avevo ancora vista che di sfuggita in campagna, e ci tengo a conoscere com'è fatta una donna onesta che cammina sulle nostre traccie e ci ruba gli amanti. È una bellissima figura. Tu devi farle piangere lagrime molto amare. Mi desterebbe compassione se non mi muovesse dispetto. Ah! quante stupide pur troppo ci sono che guastano il mestiere di donna!... Se non isbaglio, San Luca le faceva la corte.

— Glie la fa ancora.

— Gli è forse per codesto che vuoi bucargli la pelle?

— Se ti dicevo che avrei avuto più caro aver da fare con Baldissero!

— Ma anche questi bazzica molto intorno alla Langosco.

Gian-Luigi alzò le spalle con espressione di suprema indifferenza.

— La ragione te l'ho già fatta capire... A proposito, San Luca è già stato qui a vederti?

— Non ancora.

— E il conte di Staffarda?

— Nemmeno.

— Benissimo. Converrà che tu faccia in modo da trarli senza fallo a casa tua dopo il teatro.

— Li inviterò a cena. Ho già tutto disposto, e il tavoliere del Faraone sarà là ad aspettarli.

— Brava!

— Necessariamente anche tu vuoi essere invitato?

— Sì, ci tengo a questo favore.

— Hai bisogno di guadagnare?

— Voglio anzi perdere.... E desidero trovarmi insieme a quei due.

— Vuoi fare una scena in casa mia?

— Non isgomentarti. Sarà una scena di commedia. Se non mi riesce di trarre San Luca a pie' del muro altrove, convien bene che lo cimenti a casa tua.

Si sentì in quella una mano che si posava sulla maniglia della serratura all'uscio del palchetto.

— Viene qualcheduno: disse affrettatamente Gian-Luigi. Siamo dunque intesi. Io conto su te.

L'uscio si aprì e comparve il cranio pelato del conte Langosco di Staffarda.

Gian-Luigi si alzò, strinse la mano a Zoe, e scambiato un lieve saluto del capo col conte, uscì dalla loggia. Quando fu nel corridoio, trasse di [147] tasca un taccuino, ne strappò un foglietto e col toccalapis vi scrisse le seguenti parole, in francese ancor esse:

«Non venite domani al convegno, non ci sarò. Se avete vergogna o fastidio di me, non io son quello che voglia impormi o farvi arrossire. Tenetevi la vostra boria e rinunciate all'amore. Io mi sento uguale a qualunque dei più superbi fra i vostri visitatori, e mi sento degno di voi. Se non lo credete non avrò la debolezza di volervene persuadere, e mi allontanerò per sempre.»

Ripiegò questo pezzetto di carta e lo pose nel taschino del panciotto. Poi discese rapidamente le scale, prese il suo pastrano al guardarobe, uscì di teatro e corse sollecito sino alla bottega del confettiere Bass. Vi comprò un'elegante scatola da dolci, e mentre la si riempiva, col pretesto di assaggiarne uno, fece cascare molto destramente in fondo ad essa la cartolina ripiegata che aveva presa fra le dita. Pagò senza ribatter parola le trenta lire che il confettiere gli domandò per prezzo, e presa la scatola tornò a corsa in teatro.

Pochi minuti dopo entrava nel palchetto di second'ordine, dove tutte due le panche erano occupate dai visitatori che si stringevano intorno alla contessa di Staffarda.

All'entrare del giovane che nella società elegante era conosciuto sotto il nome di dottor Quercia, nessuno di quanti si trovavano in quel palchetto fece il menomo cenno di saluto, e sogguardato appena chi fosse, non prestarono meglio attenzione a lui di quel che facevano al domestico quando veniva a porgere il cannocchiale incrostato di madreperla alla padrona.

Gian-Luigi non fu niente del tutto impacciato per questa accoglienza. Guardò bene l'un dopo l'altro in volto i presenti, fra cui notò non senza soddisfazione che c'erano eziandio il marchesino di Baldissero e il conte San Luca, quindi insinuandosi fra le gambe dei seduti tanto da poter porgere la mano a Candida, disse ad alta voce con accento rispettoso ma sicuro e con qualche tinta di amichevole domestichezza:

— Contessa, la saluto.

Candida fin dal primo momento che aveva visto Luigi entrare in teatro andava domandandosi s'egli si presenterebbe nella sua loggia. Il desiderio di pur vederla poteva averlo spinto a venire e il timore di scontentarla avrebbe potuto tenerlo dal recarsi a farle visita. Glie ne sarebbe stata riconoscente se così avesse fatto. Ma quando poi s'accorse che il dottore era andato nel palco della Leggera, ella si disse con irritazione concentrata che di certo egli non avrebbe più avuto l'audacia di introdursi nel palchetto di lei, che se mai avesse tanta temerità, non si potrebbe a meno che accoglierlo come un impudente importuno a cui si fa capire quello non esser luogo per lui.

Col meraviglioso istinto di donna innamorata, ella aveva tosto sentito all'aprirsi dell'uscio che chi entrava era egli; e una fiamma le era salita al volto, per dissimulare la quale la povera donna non aveva trovato di meglio che mettersi rapidamente il cannocchiale agli occhi e guardare con tutta attenzione un punto qualunque in platea, dove la non ci vedea nulla. Ella pensava intanto ad un tratto: non rispondere al saluto del giovane, mostrare di non accorgersi della sua presenza, oppure dirgli alcuna di quelle parole con uno di quei certi toni che servono a dare formale congedo al più audace uomo di questo mondo. Il suo cuore le palpitava penosamente e le tempia le battevano con frequenza tormentosa.

Luigi era lì, ad un passo dal suo cuor palpitante, chinato verso di lei; la voce di lui le aveva suonato all'orecchio, le stava dinanzi il guanto paglierino della mano ch'egli le aveva porto; ed ella non sapeva ancora, o meglio non sapeva più che cosa avesse da fare. Meccanicamente abbassò il cannocchiale dagli occhi, volse un quarto della faccia verso Gian-Luigi e senza punto guardarlo rispose con un'altezzosa freddezza:

— Buon giorno, dottore.

Poi si chinò verso il cavaliere che aveva seduto innanzi a sè a dirgli con molto interesse una cosa di nessuna importanza.

L'accoglimento fattogli non era tale da metter molto a suo agio il medichino; ma egli pur tuttavia, non apparve punto punto sconcertato. Al primo istante la sua fronte ratto si solcò di quella ruga che noi già conosciamo, ma poi tosto, per lo sforzo della sua potente volontà, si rispianò più placidamente che mai, e la sua fisionomia continuò ad essere la più serena e graziosa che si possa vedere.

— Contessa: soggiuns'egli col più soave accento della sua bella voce: ecco qui alcuni confetti di Bass che desiderano far conoscenza col corallo delle sue labbra[12].

Candida prese con mano disdegnosa la scatola che Luigi le porgeva e la lasciò cadere nella tasca che c'era nell'interno del parapetto.

— Grazie! Diss'ella asciuttamente.

Luigi si ritrasse in fondo alla loggia.

Siccome non c'era più luogo a sedersi, l'uso voleva che quello dei visitatori il quale da maggior tempo trovavasi nel palchetto partisse per lasciar posto, ma nessuno si mosse, e Luigi dovette [148] restare in piedi presso all'uscio, senza che alcuno gli rivolgesse la parola.

Sotto la placida espressione della sua figura, Gian-Luigi era come il leone quærens quem devoret, scorrendo cogli occhi le varie faccie dei presenti, affine di trovare sopra una di esse il pretesto per isfogare il suo interno dispetto e far pagare a qualcheduno l'inflittagli umiliazione, insistendo sopratutto nel fissare il conte San Luca, il quale, meno ancora degli altri, pareva darsi per inteso della presenza di lui.

Finalmente colui che sedeva in prospetto della contessa strinse la mano alla signora, si alzò e partissi. Un altro, ed era il turno di San Luca, passò a sedere sopra il seggio presso al parapetto rimasto vuoto; ciascuno si avanzò d'un grado verso la contessa, e Luigi potè sedersi sopra l'ultimo sgabello presso l'uscio. Si continuò a non rivolgergli la parola, e quando egli volle intromettersi nei discorsi che si tenevano, le cose ch'egli disse furono lasciate cadere come se non fossero state udite da alcuno. Il medichino sentiva aver bisogno di molta prudenza e dissimulava; ma frattanto cercava di far nascere qualche occasione di conflitto con San Luca, e in modo che a costui restasse tutto il torto.

Era il tempo del ballo e si applaudiva con frenesia la prima ballerina. Il conte San Luca batteva ancor esso le mani con entusiasmo cui non frenava neppure la presenza della contessa.

— Cara, carina, charmante! Esclamava egli colla sua voce mezzo blesa, biascicando gli erre. Ma guardi, contessa, quanta grazia, che precisione, che aplomb! E come va a tempo! Le dico che è una tempista di prim'ordine.

E per mostrare che la ballerina andava a tempo di musica, egli colla mano segnava fuor di misura la battuta sul velluto del parapetto.

— Già non ci sono che le francesi per ballare così bene. Si vede subito a primo colpo d'occhio che quella silfide lì è francese.

Gian-Luigi si sporse per far arrivare la sua voce sino al contino San Luca.

— Scusi, conte, gli disse, ma il suo colpo d'occhio ha torto. Quella furba d'una ballerina, sapendo come la scuola francese possa pretendere maggior valore nella nostra smania di non istimare che le cose forestiere, ha preso nome e linguaggio francese, ma è nata bravamente in un villaggio di Lombardia, allieva della scuola di Milano e recatasi poi a perfezionarsi nell'arte e nei costumi fra le corifee della Senna.

San Luca si volse in fretta a vedere chi fosse a contraddirlo, ma trattandosi del dottore pensò superfluo e non conveniente il pur rispondergli. Tornò a dirizzare la parola alla contessa.

— È una ragazza piena di spirito, sa contessa... Di quello spirito eziandio che si trova solamente nelle donne parigine...

— Ah davvero? Esclamò con ironia la contessa.

Pardon! Voglio dire nelle donne di quel genere lì... Quello spirito leggiero e mousseux come il loro vino di Sciampagna.

— Ho l'onore di ripeterle, signor conte, disse a voce più alta Gian-Luigi, ch'ella si sbaglia. Quella ragazza lì non è punto francese; lo so di sicuro. E s'ella desidera, io son pronto a fare qualunque scommessa più le piaccia a questo proposito.

San Luca continuò come se nessuno avesse parlato.

— Il barone di San Silvestro fa ogni sorta di follie per quella furbacchiona lì. Dicono che le ha offerto una rendita di due mila lire il mese se la voleva abbandonare le scene e dedicarsi interamente a far felice l'amore cinquantenne di lui. Ella ha risposto che preferiva continuare a volare in punta di piedi sulle tavole del palco scenico e mangiarne quattro di mila lire al mese ai suoi molteplici adoratori.

Gian-Luigi lasciò che il conte pigliasse fiato; e poi con voce calma, tranquilla ma ferma ed elevata da superare il bisbiglio delle conversazioni di tutto il teatro e i suoni dell'orchestra, disse:

— Ella forse non ha badato, signor conte, che le ho diretto la parola e che sono ancora in credito d'una risposta?

Il contino, così direttamente interpellato, rivolse un superbo cipiglio verso chi gli parlava.

— Che? Pronunziò egli a mezze labbra. Ella dice? Siamo così lontani, che le sue parole non arrivano fino a me.

L'intenzione di questa frase era notata con evidente affettazione nella pronuncia.

Gian-Luigi rispose colla maggior calma e colla maggiore urbanità:

— La pregherò allora di farmi conoscere qual sia la distanza alla quale sono accessibili le sue orecchie.

— Signore!... Esclamò il contino che divenne rosso come un galletto.

Candida fu sollecita ad intromettersi.

— Conte San Luca, diss'ella, mi saprebbe dire chi è quella signora vestita in azzurro, là, quasi di faccia, al terz'ordine?

San-Luca rispose alla contessa e non disse più altra parola al dottor Quercia: questi da parte sua non disserrò più le labbra.

Poco dopo, entrato un altro visitatore, fu la volta di San-Luca a dipartirsi. Passando innanzi a Gian-Luigi per dar luogo a colui che entrava e faceva ad inoltrarsi per salutar la signora, il contino dovette accostarsi al medichino e per [149] disavventura gli pestò un piede. Gian-Luigi alzò la faccia verso San-Luca come aspettandone una parola di scusa, e poichè questa non veniva, egli disse forte colla medesima calma:

— Le faccio osservare, signor conte, che quella cosa cui Ella ha calpestato con sì poca destrezza è il mio piede.

San-Luca non se ne diede per inteso il meno del mondo ed uscì. Luigi soggiunse allora a voce alta che tutti potessero udir bene:

— Ho sempre creduto sinora che chi facesse come ha fatto adesso il conte di San-Luca e non si scusasse commettesse atto da villano.

Il contino certo udì queste parole, perchè l'uscio si riaprì di nuovo a metà, come s'egli volesse rientrare; ma poi, cambiato avviso, continuò il suo cammino.

Luigi non parlò più. Aspettò con santa pazienza che il suo turno venisse di andarsi a sedere in prospetto alla contessa, e quando esso fu arrivato invece di passare sul seggio che gli competeva, porse la mano alla signora e ne tolse commiato.

Candida gli diede la punta delle sue dita.

— Ah! esclamò egli, come ricordandosi subitamente di qualche cosa. Debbo ancora dare una risposta a quanto ella mi fece l'onore di domandarmi ieri.

E chinatosi verso di lei, le disse sollecito sotto voce:

— Nella scatola c'è un biglietto; bisogna assolutamente che lo leggiate.

Poscia abbandonò il palchetto così calmo, sicuro e indifferente in apparenza come quando era entrato.

Al fondo delle scale dei palchi, in quel piccolo atrio che mette in platea, il medichino trovò il conte San-Luca che discorreva vivamente col marito di Candida; e s'avanzò verso di loro colla maggiore agiatezza del mondo.

San-Luca si tirò su della persona con mossa piena di superba minaccia, e guardando disdegnosamente Gian-Luigi, gli disse:

— Giusto lei che si aspettava. Ella ha bisogno d'imparare come si tratta con i pari miei ed io avrò la compiacenza di mostrarglielo. Il mio amico, il conte di Staffarda, ha ben voluto farmi il favore d'incaricarsi di dirgliene il modo.

Gian-Luigi s'inchinò con aria leggermente ironica.

— Ne godo, rispos'egli. Così imparerò quella giusta distanza a cui ho fatto allusione poc'anzi nella loggia della contessa.

Il contino represse un atto di dispetto, strinse la mano a Langosco, fece un cenno di saluto col capo al suo avversario e partì.

Il medichino ed il marito di Candida rimasero fronte a fronte, e si guardarono per un poco ambedue negli occhi. Il conte si ricordava del contegno tenuto la sera innanzi da quel giovane e non dubitava del suo coraggio; Luigi che diffatti non temeva nulla, divisava d'essere modesto e temperato pur tuttavia, per guadagnarsi i suffragi dello stesso padrino del suo avversario.

Cominciò a parlare il giovane:

— Duolmi, assai che il conte di San-Luca mi abbia prevenuto in due maniere; prima inviando a chieder da me quelle spiegazioni che io era in diritto e nella precisa intenzione di chiedere a lui; secondo incaricando di ciò colui appunto, al quale io aveva in animo di rivolgermi per domandare consiglio e il suo potente sostegno.

— Me? disse il conte tutto stupito, mettendosi una mano sul petto. Era suo proposito di richiedermi di farle da padrino?

Gian-Luigi s'inchinò.

— Non la avrei pregata subito d'essermi padrino, perchè codesto suppone già il duello come necessario, ed io mi sarei lusingato che coll'intervento della S. V. il contino di San-Luca avrebbe inteso ragione, ed uno scontro si sarebbe potuto evitare.

— Oh oh! Esclamò il conte. Avrebbe forse più caro d'evitarlo?

— Signor sì: rispose fermamente Luigi pur con evidentissima audacia nello sguardo: perchè se molto è l'onore per me nel cimentarmi col signor conte, credo poi che la cosa in fondo non valga la spesa di mettere a repentaglio la vita di due uomini, di cui uno d'illustre prosapia e l'altro non voglioso affè di tirar giù così presto il telone sulla commedia della sua vita.

— Di modo che: disse lentamente il conte di Staffarda, serrando le ciglia per gettare uno sguardo acuto ed incisivo sul giovane che gli stava dinanzi; di modo che lei rifiuterebbe uno scontro...

— Non dico questo: interruppe vivamente Gian-Luigi. Dico che se a me, come si doveva, fosse stata lasciata l'iniziativa in questo affare — imperocchè io sono l'offeso dai diportamenti del signor conte — io avrei mandato non a recare un cartello di sfida, ma a domandare a chi mancò di creanza verso di me le opportune spiegazioni...

— Il conte di San-Luca non dà spiegazioni di fatta alcuna: disse asciuttamente Langosco.

— Ha torto; ribattè pacato il medichino. Perchè quando si oltraggia qualcheduno senza ragione, si deve dichiarare che la cosa è successa involontariamente, o si confessa che si è un prepotente...

— La prego di risparmiarmi i suoi apprezzamenti. Noi siamo qui ora per altra bisogna. Accetta ella una disfida?

— Non la rifiuto e non l'accetto. Dico che c'è campo da trattare.

[150] — Noi non trattiamo. Se non vuole una disfida, è ella disposta a fare le sue scuse al conte di San-Luca?

Un vivo rossore corse al volto del medichino; pure si contenne calmo e diede lentamente la risposta.

— Farei queste scuse, quando fossi persuaso che il torto è dalla mia parte; ma siccome invece è chiaro che tutto il torto è da parte di colui ch'ella rappresenta, non posso far io una cosa che a lui in verità toccherebbe di fare. Permetta, signor conte, che io le parli colla franchezza cui mi pare che la non breve consuetudine facciano lecita al suo compagno di caccia e di sollazzi: un duello io non lo desidero, perchè ho l'onore di assicurarle che in un duello io sarei vincitore, e l'aver ferito o peggio, il conte di San-Luca è un troppo pericoloso onore per me. Quindi io sarò disposto a finir la contesa pacificamente affatto.... ma ad una condizione: che non mi si domandi nulla che altri non farebbe, che ella stessa, signor conte, non vorrebbe fare...

— Eh! io non farei nemmanco tante chiacchere: disse con impazienza il conte Amedeo.

Gian-Luigi prese subitamente un aspetto più superbo e più fiero di quello del suo interlocutore.

— Non facciamone più. I padrini del conte di San-Luca sono Ella e?....

— Il marchesino di Baldissero.

— Va benissimo. Li metterò tosto in rapporto coi miei...... To' per farla più presto, potranno trovarsi tutti quanti dopo lo spettacolo in casa la Leggera. In due parole tutto sarà combinato per domattina e a noi medesimi comunicati i presi accordi. Sta bene così?

— Sta bene: rispose il conte.

Si salutarono gravemente e si separarono, questo ultimo per salire nel palchetto di sua moglie, il medichino per entrare in platea. Qui, trovati due ufficiali suoi conoscenti, li informò di tutto, ottenne che gli servissero da secondi, diede loro per mandato di scegliere la pistola, poichè a lui come a sfidato si apparteneva la scelta dell'arma, e finito il teatro li condusse con sè nella suntuosa abitazione della Leggera, che faceva risplendere alla luce di centinaia di lumi la sfarzosa farragine dei suoi arredi di prezzo e dei suoi mobili di lusso.

CAPITOLO XXV.

Anche la Leggera era una povera creatura appartenente alla classe dei derelitti. Ella aveva bensì avuta la buona sorte di nascere da legittime nozze, nell'infima plebe, dove si stenta il pane ed è più travagliata la vita. Le memorie che le ne erano rimaste di quella sua prima infanzia erano debolissime, offuscate e cancellate dalle tante e sì strane vicende che le erano intravvenute di poi. Solamente si ricordava di aver avuto freddo l'inverno, caldo la state in una soffittaccia vuota di masserizie, fame tutto l'anno, e troppo sovente l'accompagnatura di battiture senza ragione.

Un bel giorno ella si ricordava essersi ferma sur una piazza a mirare una schiera di saltimbanchi che faceva degli esercizi i quali a lei parevano i più meravigliosi del mondo. C'erano due ragazze, presso a poco della sua età, che con un sorriso fisso sulle labbra sottili contorcevano le loro piccole membra in mosse le più forzate e violente. Gli occhi della piccola Martuccia — allora la non si chiamava ancora nè Zoe nè la Leggera — erano attratti come per una malìa dai lustrini che lucicchiavano nelle sottane corte e sporche di quelle sue coetanee, dai ricami dorati nei loro corpettini frusti e sgualciti che agli occhi della bambina abituati allo spettacolo della peggiore miseria parevano poco meno che una sontuosità ed una ricchezza.

Il capo di quella schiera di saltimbanchi, un uomo grande, grosso, straordinariamente membruto nelle braccia e nelle coscie, con un collo da toro ed una voce eternamente rauca, una matassa arruffata di capelli lanosi sulla grossa testa dalla fronte bassa, la faccia sempre sporca e la barba sempre da radere; il capo adocchiò questa bambina pallida, ma di avvenente aspetto e di sì ben costrutta corporatura che un ginnastico ne sarebbe stato molto soddisfatto ed un artista ammirato, la quale con tanto d'occhi stava intenta allo spettacolo offerto pubblicamente ai fannulloni della piazza. L'istruire dei bambini e sopratutto delle bambine all'arte dei salti mortali e delle contorsioni impossibili era, come si suol dire, la specialità di quell'uomo; il quale accortamente aveva notato come la vista degli esercizi di quelle povere creaturine, massime se femmine, eccitando assai meglio la compassione degli spettatori, procurasse una più abbondante raccolta di soldi.

Ora la sua compagnia infantile erasi ridotta a due soltanto; e ciò non gli bastava. Ancora, una delle due rimastegli minacciava intisichire ed andare a raggiungere quanto prima nel mondo di là le sue compagne, che il saltimbanco aveva seminato qua e colà pei varii cimiteri delle città traverso cui si era trascinata la sua nomade vita. Da qualche tempo cercava una preda, e l'aspetto della piccina strappata e macilenta, che vedemmo poc'anzi, fatta donna, in palco al teatro, che troveremo or ora nel suo splendido quartiere, l'attenzione profonda prestata da essa ai giuochi che le si venivano facendo dinanzi, gli parvero indizi quella essere fatta apposta pel suo bisogno.

Un vecchio organetto scordato, posto sopra un cavalletto di legno zoppo, accompagnava colle sue disarmoniche armonie irritanti gli esercizi di forza [151] e di destrezza che le due bambine venivano facendo sopra il logoro tappeto steso sul suolo a mezzo il circolo degli spettatori. Quest'organetto laceratore di ogni orecchio, anche del più mal costrutto, era suonato da un giovinotto magro magro, le cui guancie infossate erano coperte da un centimetro di belletto e che vestiva da pagliaccio. Il poverino con una fame da sedicenne non mai saziata, fatta azzittire mercè i mali trattamenti del principale, aveva l'incarico di tener allegri gli spettatori mediante certe facezie che aveva imparato a memoria a suon di bastonate e mediante le smorfie che doveva fare quando il capo gli tirava le orecchie o gli assestava un calcio nel sedere in presenza del rispettabile pubblico rappresentato da una frotta di facchini e di furfantelli, e dell'inclita guarnigione presente per mezzo di qualche sfaccendato coscritto. Queste tirate d'orecchio e questi calci dovevano essere figurativi, e il buon pubblico, che li prendeva per tali, si sganasciava allegramente alle boccaccie spiritate che faceva il meschinello di pagliaccio, ricevendoli; ma in realtà avveniva che troppo spesso erano di maledetto senno, sì che il giovinetto tutto indolenzito ne portava i contrassegni per un pezzo, senza che ciò andasse pure in diminuzione di quella provvista di cazzotti e di picchiature che il bravo principale aveva per abitudine di distribuirgli a domicilio.

Accanto allo strimpellante organetto, una donna di corporatura enorme, con lineamenti da uomo e colorito permanente da ubriaco sulle guancie paffute, con certe braccia da parer coscie di un alcide, batteva a contrattempo dei colpi tremendi sopra una gran cassa sostenuta ancor essa da un cavalletto di legno. Era essa vestita eziandio colla sottana corta di color rosso e giallo, tempestata di lustrini, e mostrava certe gambe che a paragonarle a quelle dell'elefante era far torto a queste ultime.

Il saltimbanco si accostò a questa donnaccia, ed accennando la piccola Martuccia, le disse sottovoce:

— Eh? mi pare che quel bocconcino lì sia l'affar nostro.

La donna fece rotare i suoi occhi senza luce verso la piccina, e rispose con un cenno affermativo. Martuccia sentì su di sè lo sguardo di quell'uomo e di quella donna, e benchè ne provasse una specie di malessere, non ebbe tuttavia la risoluzione e neppure l'idea di allontanarsi da quel luogo.

Gli esercizi erano finiti, il cerchio degli spettatori erasi dileguato, e Martuccia era ancora lì con occhi spalancati a fissare quelle due bambine, alle quali la femmina enorme aveva distribuito un pezzo di pane ed un pomo per ciascuna, e che se lo mangiavano avidamente, accoccolate sopra il tappeto ripiegato e portato presso l'organetto. Il pagliaccio, forse in punizione di qualche commesso malestro, non aveva ricevuto nè pomo nè pane, e sedutosi per terra dall'altra parte dell'organo, stava colle gomita appoggiate alle ginocchia e la faccia nascosta fra le mani.

Lo sguardo che Martuccia fissava sul pane e sul pomo delle due piccole saltatrici, era tutta una rivelazione. La donnaccia pensò subito trarne profitto. Si accostò alla piccina con in mano un pomo e sulle labbra un sorriso che voleva esser grazioso e riusciva ad orribile.

— Bella piccolina: diss'ella alla bimba. To', vorresti tu questo bel pomo?

Il primo movimento della piccina fu di paura. Si trasse in là vivamente e guardò esterrefatta quella faccia grossa di color pavonazzo, da cui usciva fuori una voce inqualificabile nella gamma delle voci umane.

Ma quel pomo che la megera faceva girare fra il suo pollice e l'indice grossi come bacchette da tamburo, innanzi agli occhi di lei, esercitava pure un fascino potente sulle viscere digiune di quella meschina. Stese ratto la mano ed afferrò il pomo: ma la donna non lo lasciò mica andare; preso invece nella sua la manuccia della bambina e tirandola verso l'organetto dove sedevano le altre bambine, le disse il più melatamente che seppe:

— Sì, cara, gli è tuo questo pomo, ed anche un altro se vuoi, e un pezzo di pane eziandio, se te ne dice la coscienza, ma vieni a mangiarlo qui in compagnia di queste due brave ragazzine....

E la trasse diffatti dove voleva.

Un pomo perdette il genere umano, secondo la Genesi: un pomo perdette per sempre la miserella, che avrebbe potuto diventare la moglie onesta di un lavoratore, madre di onesti operai.

— Oh! oh! che bella piccina! Disse colla sua voce rauca il saltimbanco facendo una carezza alla guancia di Martuccia. Questa sì che è una bella piccina davvero!

La vanità e la civetteria sono proprio istintive in una buona quantità del sesso femminile, e Martuccia le aveva dalla natura nel suo carattere maggiori che in altrui; quelle parole produssero in lei un soddisfacimento tanto più vivo in quanto che era la prima volta che le udiva. La si sentì rinfrancata, e con tutta scioltezza prese posto sul tappeto rotolato e si diede a mangiare il pomo e il pane con avidità pari a quella delle due piccole saltatrici.

La donnaccia e il saltimbanco, interrogando destramente la piccina, ebbero in breve saputo tutto ciò che la riguardava: la povertà della famiglia e il poco amore che i genitori le dimostravano.

— Di' un po', uscì fuori l'uomo ad un punto, pigliando nella sua grossa mano il mento delicato [152] di Martuccia, non ti piacerebbe egli venire con noi, veder tanti paesi, portare una vestina tutta oro ed argento, aver giocattoli e regali a macca, sentirti a lodare da tutti e gridar brava dal pubblico e buscar tanti soldi che stando in tua casa non ne vedresti mai pure la centesima parte?

Alla bambina quelle parole del saltimbanco parvero aprire dinanzi un avvenire tutto color di rosa; pensò che non avrebbe avute più le battiture del padre ubbriaco e della madre di cattivo umore per aver dovuto impegnare l'ultimo suo straccio onde averne del pane, che sarebbero finite le lunghe ore di noia in cui le toccava star seduta in un cantuccio di quella trista e scura soffittaccia ornata di ragnateli, che almanco avrebbe avuto l'aria aperta, il cielo, il sole, e visto cose nuove; i suoi occhi brillarono ed ella disse con gioia:

— Oh sì che mi piacerebbe.

— E va benissimo. Allora mi condurrai dal tuo babbo, ed io gli domanderò se vuole lasciarti venire con me.

Così fu fatto. La proposizione veniva a quegli sciagurati genitori in un momento appunto in cui peggio li percuoteva la miseria. Per onor loro devo dire che lottarono un poco, e la madre principalmente fu dapprima assai restia: ma il saltimbanco insistette accrescendo sino a cinquanta lire la somma che aveva offerto dapprima; gl'infelici, per cui questo era poco meno che un tesoro insperato, cedettero, e chi volesse non essere menomamente ingiusto nel condannarli, come si meritano, dovrebbe pur tener conto dei tristi e perniciosi effetti che a forza produce sull'anima umana il continuo, irrimediato tormento della miseria.

Martuccia seguì i saltimbanchi assai lieta; e da principio la sua vita le parve, paragonata a quella sino allora vissuta, un piccolo paradiso. L'avevano spogliata delle sue vestine strappate e sporche e del suo nome trovato poco adatto alle nuove sorti a cui era chiamata. Le avevano messo intorno i panni che aveva vestiti una delle sue precessore morta, nessuno si ricordava più dove, e il nome portato dall'ultima che aveva disertato la compagnia per la fossa. Questo nome era Zoe. Il bravo saltimbanco aveva un repertorio di nomi da affibbiare così alle sue allieve in luogo dei prosaici che ordinariamente esse portavano, e questi nomi faceva passare dall'una all'altra, quando la prima occupante veniva a mancargli. Pei primi giorni adunque tutto andò bene. A Zoe non si dava altro da fare che certi movimenti di braccia e di gambe per iscioglierne le membra; movimenti che non avevano nulla di faticoso e tanto meno di doloroso. Il saltimbanco usava palparla nelle spalle e nelle reni, press'a poco della guisa con cui una cuoca in mercato palpa un pollastro che vuol comprare, e diceva poscia tutto soddisfatto:

— Benissimo costrutta! La diventerà un soggetto, ma di quei fiamminghi!

Le si dava da mangiare quanto occorreva, passava la giornata sulle piazze, sollazzata dall'aspetto di tante cose e di tanta gente, dormiva benissimo la notte sopra uno strammazzo di paglia con accanto le sue due compagne; ed era tutto fiera quando, essendo andata alla colletta presso gli spettatori, tornava dal saltimbanco col piattello pieno di soldi, per cui quell'omaccione gli diceva una parola di elogio e gli faceva una carezza. La donna tentava far dolce la sua vociaccia ogni qual volta parlava colla piccola Zoe, e questa incominciava a darsi un po' d'importanza e credersi dappiù paragonando il modo con cui essa era favorita a quello onde erano trattati i suoi compagni.

Bene avrebbe potuto farla avvertita di quanto la aspettava l'esempio di ciò che accadeva a questi ultimi. Le percosse che prendevano le piccine, quelle più fiere ancora che toccavano al pagliaccio la movevano bensì a compassione dapprima, ma poi — la umana natura è così fatta! — la ci si era abituata e siccome non a lei toccavano in fin dei conti, le pareva ch'ella avrebbe dovuto esserne esente per sempre.

Le cose cambiarono, quando a capo un mese, la compagnia abbandonò Torino. Fosse timore che in questa città la piccina trovasse i suoi genitori e si lamentasse se maltrattata e da ciò potesse nascerne qualche richiamo all'autorità, qualche intromissione di quella noiosa d'una polizia, fino a che si fu nella capitale del Piemonte, la pelle di Zoe fu rispettata; ma fuori!... In breve tempo ella ebbe la sua parte cogli arretrati. L'uomo era crudele, ma la donna era feroce. In loro la natura era barbara e rozza, ma la educazione non aveva fatto nulla per migliorarli ed ingentilirli, e la loro sorte, gli esempi, l'ambiente in cui erano vissuti erano invece fatti apposta per inasprire il carattere, incrudire il cuore e svolgere i più fieri e cattivi istinti. Delle colpe, delle scelleraggini, delle infamie di quei derelitti, quanta imputabilità non è da darsi al mezzo sociale in cui vivono! Quell'uomo era nato in quella melma, s'era allevato fra gli stenti e i vizi di quei bassi fondi sociali, maltrattato, angustiato, senza conoscere, senza provare pur mai nessun effetto di istruzione, di dolci affetti, di bene morale. La donna era di pari condizione, fatta peggiore, perchè la natura femminea, come nel bene, così eccede pur anco nel male. Quindi ella si compiaceva non solo a tormentare essa stessa direttamente le povere vittime cascatele sotto le unghie, ma ad istigare ancora contro di esse la collera e la brutalità del marito.

Il peggio trattato era il povero pagliaccio. Che nome aveva egli? Chi era? Donde veniva, o meglio [153] a cui era stato tolto? I saltimbanchi stessi parevano averlo dimenticato, egli non ne sapeva nulla. Da tanti anni, che gli parevano secoli, egli cresceva in mezzo alle percosse di quei due crudeli. Non era altro più che pagliaccio, un essere fatto apposta su cui sfogare coi cazzotti, coi pugni e coi calci il cattiv'umore di chi gli dava uno scarso tozzo di pane. Egli soffriva e taceva. Raro è che parlasse. Si piaceva a rincantucciarsi e star solo, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani a meditare. Che meditava egli mai?

Una fra le due compagne di Zoe era più miseruzza dell'altra. Tossiva spesso, si lamentava di dolori allo stomaco, raramente poteva cibarsi con appetito, dormiva poco, troppo sovente tremava e sudava dalla febbre. I saltimbanchi uomo e donna, la rimbrottavano acerbamente, dicevano che quella era pigrizia, che gli eran vizi e malavoglia di fare il dover suo, e accadde più d'una volta che anche la picchiassero per obbligarla a star bene e scendere in piazza a fare i soliti esercizi. La poverina si travagliava miseramente nelle sue capriole e negli sforzi delle sue mosse ginnastiche, tenendo sempre fisso sulle labbra quell'imposto sorriso costretto e contratto, che era dolorosissimo a vedersi, chi per poco esaminasse la infelice, e poi cadeva ansimante per terra presso l'organetto, serrandosi colle mani convulse lo stomaco in cui soffrivano, i suoi polmoni, i più cocenti dolori. Pagliaccio lasciava scendere uno sguardo pieno di compassione sopra quella sofferente, ma lo sviava tosto da lei e con più violenta prestezza si dava a girare il manico di quel scellerato strumento disarmonico e stonato. Era la sola manifestazione di sentimento che potesse esser colta negli atti, nella fisionomia di quel giovanetto, che del resto si mostrava d'una indifferenza stupida e non mai smentita; manifestazione codesta ch'egli metteva assai cura a non lasciare scorgere nè da quel crudele nè da quella megera che erano i suoi padroni.

Un giorno finalmente la piccola inferma non potè a niun modo levarsi più dallo stramazzo in cui aveva dolorato tutta la notte. Il saltimbanco capì che la era spacciata come le altre mancategli della medesima guisa. La chiuse nel granaio tutto sola, e condusse in piazza il resto della compagnia. Quando tornarono la sera, la poverina era morta.

— Che peccato! Disse il saltimbanco poichè si fu accertato che la era freddo cadavere. Se avesse vissuto questa qui sarebbe diventata un fiero soggetto.

Fu l'orazione funebre di quella creatura sventurata, che non aveva conosciuto vivendo le carezze materne, che era morta abbandonata senza il conforto d'una mano amorevole, d'una parola pietosa.

Poscia il saltimbanco e la donna se ne uscirono di là per recarsi all'osteria secondo il solito, lasciando chiusi entro il granaio, col cadavere della piccola morta, Zoe, l'altra compagna superstite e Pagliaccio.

Era la prima volta che la Martuccia si trovava in faccia allo spettacolo della morte, e quel viso immobile color di cera, la bocca semiaperta e tirata, quegli occhi spenti entro le occhiaie infossate, di cui niuno aveva avuto la pietosa cura di abbassare le palpebre, le incutevano una tremenda paura. Guardava, guardava quella faccia di cadavere, e le era dolorosissimo il guardarla, e non poteva pur tuttavia staccarne gli occhi.

Fu il povero Pagliaccio quegli che abbassò le palpebre della piccola morta. S'inginocchiò presso di lei, le rese quel pietoso ufficio, poi si volse all'altra ragazzina che piangeva, forse più ancora di spavento che di dolore.

— Perchè piangere? Le disse con una voce straordinariamente grave per uno appena entrato nell'adolescenza. Essa è più felice di noi; ha finito di soffrire; e certo dov'essa è andata si sta meglio che non qui sotto la sferza del principale...... Una volta che, scappando di casa, ho potuto entrare in chiesa un momento, ho udito un prete a predicare, il quale diceva che chi muore senza aver fatto del male va in paradiso dove c'è un eterno benessere. Questa poveretta non ha mai fatto male a nessuno e dev'essere andata colassù. Sapete ciò che abbiamo da desiderare anche noi? Si è di far presto ad andarla raggiungere; poichè tanto e tanto questa ha da essere la nostra sorte.

Detto ciò Pagliaccio si accoccolò, come soleva, coi gomiti sulle ginocchia e la faccia nelle mani e stette immobile presso il piccolo cadavere. Le sue parole avevano ispirato nell'animo di Zoe una indicibile mestizia. Anche di poi, nel più brillante apogeo della sua sciagurata carriera, ella non aveva dimenticata quella notte e diceva non poterla dimenticar mai. Ella erasi stretta in un cantuccio lontano il più possibile dalla morta, insieme colla sua superstite compagna, e stette colà fino al mattino impedita dallo spavento di dormire di sonno fermo, sonnecchiando di tanto in tanto, solo per avere in quel sopore più tremende le immagini di inesprimibili confuse visioni. Ancora nel buio più fitto delle ore notturne, ella credeva vedersi innanzi quella faccia patita di color cerco, quegli occhi spenti a guardarla, quelle labbra livide a dirle con voce cupa le parole pronunciate da Pagliaccio:

— Anche questa ha da essere la tua sorte.

Il domani stesso, come sempre faceva in simili casi, il saltimbanco partì dalla città in cui si trovava e con viaggio più lungo del solito, mise una maggior distanza che non solesse fra la sua [154] nuova residenza e quella che aveva abbandonata.

— Orsù, aveva egli detto a Zoe quel domani medesimo, ora tocca a te a tener il posto di quell'altra, e bisogna sgranchirsi un po' meglio.

Queste parole furono il vero annunzio d'un accrescimento di lavori e di fatiche accompagnato necessariamente da una recrudescenza di battiture.

Ma Zoe era temprata con nervi d'acciaio, e in quella lotta dell'organismo per acconciarsi a siffatte condizioni d'esistenza, la parte fisica si era afforzata di guisa da vincere, soffocando quasi del tutto la parte morale, che in tali circostanze è quella che procura i maggiori tormenti alle anime oneste.

A dodici anni la era una delle acrobatiche e delle ginnastiche più brave che si potessero vedere, e il suo sviluppo fisico era tale da presentare una precoce adolescenza, ch'ella stessa, prematuramente corrotta nel suo pensiero, si compiaceva a rendere tentatrice ai vizi dei libertini. Le nozioni del bene dove avrebbe ella potuto attingerle? Del pudore e dell'onestà femminile dove averne gli esempi? Il vizio e la corruzione fin dalla sua infanzia le erano stati compagni, come cosa naturale, come l'ambiente necessario in cui vivere. S'era ausata ad udire, vedere e ridere di tutte le morali sconcezze che riguardano i rapporti dei due sessi, come se questa fosse una parte del suo mestiere, una condizione del suo essere. I suoi principali erano pronti a venderne la bellezza al primo che loro offrisse patti convenienti; e non glie lo nascondevano: il saltimbanco intanto sentiva di quando in quando delle velleità di appropriarsi esso stesso quel boccone che avrebbe fatto gola al più frusto libertino del mondo.

È doloroso aver da rivangare questa melma sociale, e noi passeremo solo di sfuggita sopra tali orrori. Zoe s'accorse delle intenzioni del suo principale, e non se ne indignò, non sapendo neppure che c'era caso da indignarsene. Per un preannunzio di quel carattere che doveva essere il suo, di quella infame sorte a cui era predestinata, essa non pensò altro che tentar di ricavare il miglior profitto possibile dalle intenzioni del saltimbanco. Fino d'allora la cortigiana si rivelava in tutta la sua essenza. Chi indovinò eziandio i tristi propositi del saltimbanco, e ne soffri immensamente, fu il povero Pagliaccio. Gli anni erano passati anche per lui, ma pure non avevano recato alcun cambiamento alle sue meschine sembianze. Era sempre il mingherlino macilento, le cui gambe sottili e le braccia grosse come canapuli ballavano nelle vestimenta troppo larghe, senza un pelo di barba sulla faccia, sempre colla sua aria melensa, tra mesta e timorosa e meditativa.

Eppure la sbocciante bellezza di Zoe aveva prodotto un grande effetto anche nell'anima di quell'infelice. Non le parlava quasi mai, eccetto per dirle ciò che era strettamente necessario, ma la seguiva cogli occhi continuamente, e quando nessuno poteva scorgerlo, il suo sguardo addormentato balenava d'una subita fiamma; talvolta, suonando l'organetto, mentr'ella faceva i suoi esercizii, egli dall'ammirazione rimaneva lì a bocca larga, colla mano per aria, e Zoe doveva gridargli colla sua voce chiara e vibrata, all'udir la quale egli si riscuoteva tutto:

— Animo Pagliaccio! Su la musica!

Ed egli, con nuovo ardore, quasi arrabbiato, si dava a girare il manico dell'organetto.

Anche per ragione d'interesse, Zoe era diventata carissima al saltimbanco. La bravura di lei e le grazie della sua persona, guadagnavano le simpatie di tutto il pubblico, e quando essa andava in giro col piattello, l'introito era sempre vistoso.

Il saltimbanco, incoraggiato da questi successi ad essere ambizioso, determinò lasciare il suolo libero ed il cielo scoperto delle piazze per provvedersi di un baraccone di tele tirate su listelle e piuoli; e volle quindi eziandio aumentare le attrattive dello spettacolo offerto agli avventori. Un bel dì, quando già la piccola compagnia dava le sue rappresentazioni nella baracca, il saltimbanco istrusse Pagliaccio ad essergli compare in un nuovo giuoco, che egli voleva eseguire, e mercè le strapazzate e le battiture, in poche lezioni ridusse il povero figliuolo a fare appuntino quello che egli voleva. Il giuoco era questo; il saltimbanco avrebbe fatto caricare da uno degli spettatori una pistola, mettendovi dentro una vera palla di piombo, ma Pagliaccio nel riprenderla dalle mani di colui che l'aveva carica, doveva destramente sostituire a quell'arma un'altra perfettamente identica solamente caricata a polvere; allora il saltimbanco avrebbe invitato chiunque volesse dell'assemblea a far fuoco su di lui alla distanza di due passi: naturalmente Pagliaccio avrebbe dato a questo cotale la pistola senza palla, e quando egli avesse sparato, il saltimbanco avrebbe mostrato al pubblico nella sua mano una palla che si terrebbe all'uopo fra le dita e che fingerebbe aver colta a volo.

Enormi cartelloni annunziarono questo giuoco sotto il titolo: L'uomo che non può essere ucciso. Straordinaria invenzione mai più vista, ecc., ecc. La curiosità degli abitanti di quella piccola città di provincia, in cui la compagnia si trovava, fu solleticata di modo che un numeroso pubblico accorse. A tutta prima nessuno volle sparar la pistola; ma poi, dietro le sollecitazioni del saltimbanco, un antico militare di più coraggio acconsentì a far fuoco. Il saltimbanco [155] illeso mostrò al pubblico entusiasmato la palla che aveva tra mano e che tutti credettero fosse quella cui avevan visto mettere nella canna della pistola. Tutta la città volle vedere siffatta meraviglia; e tra questo giuoco e le grazie di Zoe, la cassa del saltimbanco ebbe allora una fortuna non mai conosciuta dapprima.

E questa fu la causa della perdita del saltimbanco. I buoni guadagni lo resero più frequente nell'ubbriacarsi, e quando era ubbriaco egli diventava una belva feroce. Zoe aveva saputo temporeggiare e schermirsi sin allora; ma una sera lo scellerato uomo, non solamente le parole più, ma usò la violenza. Pagliaccio era in un cantuccio raccolto in sè al solito, dimenticato come sempre. Che cosa passò mai per l'anima di quell'infelice? E' saltò su come spinto da una molla e venne a piantarsi innanzi al saltimbanco a parare la vittima di lui, difensore fremente ed inefficace. L'ubbriaco, con uno sdegno pieno di stupore, gli diede parecchie ceffate e credette averne ragione: ma no: il disennato resistette, osò ribellarsi, ardì cimentare le sue deboli forze contro le erculee membra di quel sansone. Il trattamento che ne ebbe il temerario, fu tale che Zoe gettossi disperatamente in mezzo domandando pietà. Il saltimbanco gettò il giovane mezzo morto in un angolo: senza che quel disgraziato avesse pur disserrato le labbra per chiedere misericordia, per fare un lamento. Buttato là come uno straccio, egli teneva i denti stretti e i pugni contratti, pallido come un morto, sanguinoso pei colpi ricevuti, ma nello sguardo il fuoco d'un odio implacabile, feroce.

Il saltimbanco tornò senza più contrasto alla sua infame violenza.....

La giornata di poi si dovette far riposo perchè Pagliaccio non poteva a niun modo prender parte alla rappresentazione: ma due giorni dopo, all'annunzio d'una nuova ripetizione del giuoco dell'uomo invulnerabile, una gran quantità di spettatori s'accalcava nel baraccone, e Pagliaccio colle lividure del suo viso ricoperte dalla farina e dal belletto rallegrava il pubblico delle usate facezie.

Venne il momento di eseguire il tiro della pistola contro il saltimbanco. Questi, secondo il solito, diede a caricare l'arma ad uno degli spettatori, il quale mise in essa la sua brava palla; fece ritirare la pistola, com'era usato, da Pagliaccio, e poi domandò qualche coraggioso fra gli astanti che gliela sparasse verso il petto alla distanza di due passi. Come tutte le volte ebbe luogo una esitazione nel pubblico, e nessuno volle dapprima prestarsi a tale ufficio; ma il saltimbanco insistendo replicatamente e vivamente, uno acconsentì finalmente a questa prova. Prese da Pagliaccio la pistola, — ma nessuno osservò che in quel punto la mano di Pagliaccio tremava, — e impostatisi come occorreva, egli lo spettatore e il saltimbanco, il primo abbassò l'arma all'altezza del petto di quest'ultimo e fece fuoco. Il saltimbanco gettò un grido, la sua faccia si contrasse e di colpo precipitò lungo e disteso per terra. La palla gli aveva attraversato il cuore. Una voce sola d'orrore s'alzò da tutto il pubblico, alcune donne svennero, successe un tumulto indescrivibile. Zoe guardava tutto stupita di dietro la tenda ove si riparavano per vestirsi, quando Pagliaccio le fu accosto come caduto dal cielo.

— Ho vendicato me, te e le infelici che quell'infame ha assassinato. Diss'egli con voce sorda. Vuoi tu venir meco? Io per te affronterò ogni cosa.

La fanciulla si tirò indietro spaventata.

— No, no: diss'ella.

Pagliaccio la prese violentemente tra le braccia, la serrò con passione convulsa al suo seno, le stampò sulle labbra un bacio che ardeva, poi lasciatala libera, quasi respingendola da sè; fuggi dalla parte posteriore del baraccone. Zoe mai più non lo vide, nè mai più intese novella di lui.

Alla morte del saltimbanco, nella piccola compagnia ridotta alla donna ed alle due giovinette, successe la maggiore miseria che avessero ancora provato mai. I guadagni che si facevano ora, sulle pubbliche piazze dove erano tornate a dare spettacolo, dopo vendute le cose migliori; que' guadagni erano sì pochi che appena se ne avevano il pane da sostentarsi. L'umore della donna non avea ragione di abbonirsi e i mali trattamenti fioccavano sulle povere fanciulle rimaste alla discrezione della sua anima crudele e scellerata.

Zoe meditava sottrarsi ad ogni modo a quella vita d'inferno, quando la fortuna volle aiutarla, porgendogliene il mezzo. Il direttore d'una compagnia di cavallerizzi, vistala un giorno a fare i suoi esercizi sulla piazza, comprese che quella avrebbe facilmente potuto diventare una eccellente artista per la sua compagnia e fu dalla donnaccia, cui credeva madre della giovinetta, a domandargliela. La megera, che aveva soltanto più quelle due povere creature onde guadagnarsi il pane, rifiutò con male parole; ma Zoe, quando seppe che la compagnia equestre stava per partire da quella città, scappò di casa, e recatasi al direttore della medesima, gli disse:

— Son qua. Pigliatemi se volete e vi seguirò sino in capo al mondo.

Due anni dopo Zoe, battezzata col nomignolo di Leggera, faceva l'ammirazione di tutti i frequentatori di questa razza di spettacoli, e vedeva ai suoi piedi gli omaggi e le offerte più o meno spropositate d'un nugolo di libertini giovani e vecchi. Scaltrita come vi ho detto ch'ella era, la ragazza seppe scegliere assai bene i suoi adoratori. Le sue acconciature, che erano di quelle chiamate [156] dai Francesi tapageuses, costavano un occhio della testa e abbagliavano tutte le donne oneste in tutte le città dove recavasi a dare rappresentazioni la Compagnia. Avrebbe potuto cento volte abbandonare il dorso nudo del cavallo e le sottanine di garza per darsi di proposito alla rovina di qualche Creso; ma non si affrettava nella scelta, perchè le piaceva il lusinghiero tumulto del circo plaudente, la inebbriava il grossolano incenso dei battimani e delle grida d'entusiasmo della plebaglia stivata ad ammirarla nell'ultima galleria, le mordeva per così dire con diletto l'anima la lotta incessante col pericolo sempre affrontato e vinto. Nessuno era più temerario nel suo ardimento di lei, che le chiome rossigne abbandonate al vento passava innanzi ai guardi del pubblico sbalordito, al galoppo furibondo del suo cavallo, come una meteora, sicura, sorridente, colle sue forme di corpo da statua greca e la sua faccia e il suo atteggio da cortigiana e da baccante. Essa sapeva che, se non i cuori, i desiderii di tutti quegli uomini che la saettavano cogli occhi accesi, la seguitavano in quella corsa sfrenata, e se ne compiaceva con maligno disprezzo del sesso forte in fondo alla sua indole così prematuramente corrotta. Quando aveva fatto fremere tutte quelle centinaia di spettatori pei rischi a cui si esponeva con superba indifferenza, quando chiamata nell'arena sei o sette volte alle ovazioni del pubblico in entusiasmo, ella veniva a ringraziare con un sorriso che si sarebbe potuto dire quello d'una Messalina stanca ma non sazia, ella ai suoi compagni a mezza bocca soleva dire, mostrando il pubblico con una occhiata piena di disprezzo: — Massa d'imbecilli! — Ma l'unica cosa che le facesse battere un pochino il cuore erano tuttavia gli applausi di quegl'imbecilli.

Gian-Luigi, che appariva fra i giovani più eleganti della città, andava a prendere lezioni d'equitazione dal direttore di quella compagnia, e in tal modo aveva stretto conoscenza con tutti gli artisti ed assisteva alle prove dei loro spettacoli. Colla Leggera, egli, fosse calcolo, o indifferenza, aveva tenuto quel solo contegno che poteva servirgli per farsene notare: parlatole freddamente due o tre volte, non prestava a lei un'attenzione di maggior importanza che a qualunque altra. Questo modo di trattare in un giovane che era così potentemente leggiadro, che appariva ricco, che aveva dato assai prove di non esser timido, tornò per Zoe un mistero cui ebbe curiosità di penetrare. Poi la sua vanità fu punta da questa freddezza che pareva disdegno. Cominciò a lanciare verso di lui alcuni di quegli strali che tiene la civetteria nel suo turcasso, a cui Gian-Luigi oppose una corazza adamantina di noncuranza. Il vero è che si studiavano ambedue a vicenda, e l'uno voleva coglier l'altro nella rete.

Un giorno Gian-Luigi era presente alle prove e Zoe, forse desiderosa di eccitare in lui la meraviglia, volle tentare l'addestramento d'un cavallo indomato, cui temevano di cavalcare i più forti ed audaci degli uomini della compagnia. Era una magnifica bestia piena di fuoco, colle gambe asciutte, il collo arcato, la groppa incavata. Strepitava, scalpitava, s'inalberava, tenuto a mano pel morso dal mozzo di stalla. Zoe in un salto leggiero gli fu sopra e raccolse nel suo pugno piccolo ma nervoso le briglie, e la lotta fra il quadrupede e l'amazzone cominciò di botto. Ogni fatta scambietti, e corvette, e salti, e svolti, e sparar di groppa fece l'animale imbizzarrito, fremente, bianco di spuma la bocca, rosse come di fuoco le froge; ella stette salda, tranquilla, col suo sorriso quasi disdegnoso. Sì, Gian-Luigi l'ammirava: e chi non l'avrebbe ammirata? Tanta forza unita a tanta grazia, tanto coraggio in tanta leggiadria! Ad un tratto il cavallo, stanco, indispettito di quella pugna in cui la debolezza aiutata dall'intelligenza e dall'arte prepoteva sopra la sua forza, volle finirla ad ogni modo anche con suo danno. Prese la corsa e si precipitò verso uno dei pilastri che sostenevano le gallerie dell'anfiteatro, per isbattervi contro la sua nemica e se stesso. Fu un grido solo di spavento dalla bocca di tutti gli spettatori che miravano con vivissimo interesse quella contesa e che videro impossibile all'amazzone il frenare la bestia furibonda. Gli uomini si slanciarono tutti a quella parte, ma col timore pur troppo di non raccogliere più che un corpo sfracellato. Fra tutti giunse primo Gian-Luigi che in un salto fu ad abbrancare alla vita la fanciulla, la trasse violentemente di sella e potè recarsela via fra le braccia nell'istante appunto in cui il cavallo precipitava contro il pilastro.

Zoe era diventata pallida, il suo cuore le parve cessar di battere un istante, gli occhi le si appannarono e si chiusero. Ma non fu che un fugacissimo minuto. Tosto tosto si trovò pienamente padrona di sè e provò una specie di dolcezza che le riusciva affatto nuova, nel sentirsi appoggiata e sostenuta al petto potente di quel bel giovane, la cui faccia così splendidamente bella era tanto vicina alla sua che l'alito delle loro bocche si confondeva.

— Ah! Lei mi ha salva la vita: diss'ella al medichino, a voce bassa, come se si vergognasse di confessare la sua obbligazione, quasi che una sua sconfitta.

Poscia si sciolse dalle braccia di lui; si fermò sopra i suoi piedini, si riscosse come fa chi vuol torsi dalle spalle un peso che lo infastidisca, guardò fissamente in faccia i suoi compagni che le si serravano intorno ancora spaventati, e disse loro col suo sorriso impertinente:

— Ebbene? Gli è nulla..... E quel povero cavallo, che male si è fatto?

[157] Nemmanco il cavallo non s'era fatto gran male. Ei si levò ancora sbalordito, fremente in tutte le membra. Zoe gli passò sul collo la sua mano piccola ed asciutta.

— Che matto cattivo! Vorresti accopparmi anche a costo di rovinarti te..... E sarebbe peccato, perchè sei una troppo bella bestia..... Ma sta che fra noi la non è finita, e un altro giorno ti vorrò dir io un'ultima parola.

Stette seguendo attentamente collo sguardo l'animale che veniva ricondotto a lento passo nella scuderia, e parve che questo soltanto la occupasse. Poi ad un tratto si rivolse a Gian-Luigi e guardandolo fissamente entro gli occhi gli disse con una certa bruschezza:

— La vorrebbe farmi anche il favore di accompagnarmi a casa?

Il medichino si inchinò senza pronunziar parola.

Giunti nella sontuosa dimora della saltatrice, Gian-Luigi stette dieci minuti in compagnia di lei con tutto il riserbo che avrebbe potuto avere per una verginella, mentr'essa lo guardava sempre fiso con curiosa insistenza che poteva anche sembrare contrarietà. Il giovane si alzò, strinse la mano leggermente alla donna che stava sdraiata sopra la sua poltrona, e prese commiato dicendo:

— Avrete bisogno di riposo e vi lascio.

La Leggera non rispose a tutta prima, abbandonò freddamente la sua mano a quella fredda stretta, e con un solo cenno di capo rispose al saluto del giovane. Ma quando questi fu sulla soglia dell'uscio, mossa da un subito avviso, ella sorse di scatto, e fu in un salto innanzi a lui a contendergli il passo.

— Che strano uomo siete voi? Diss'ella piantando in faccia a Gian-Luigi i suoi occhi smaglianti, color del mare. Voi non cercate alcuna ricompensa al servigio che mi avete reso?

Il medichino fece un misterioso sorriso.

— Che ricompensa potrei domandare? Temerei essere indiscreto, o che a me stesso avesse a costar troppo caro quella che desidererei ottenere.

Zoe lo prese per mano e lo ricondusse a seder presso di sè sopra un sofà.

— Perchè non mi avete fatto mai la corte, voi? Diss'ella sfacciatamente, prendendo una delle sue mosse le più seduttive e procaci.

Il medichino rispose brutalmente:

— Perchè non sono abbastanza ricco per comprarvi, e mi accorsi tosto che voi non avete nè cuore, nè sensi da potere essere sedotta dall'amore.

La Leggera fece un miracolo, arrossì.

— Voi avete ben trista opinione di me..... E s'io ci tenessi a provarvi che avete torto?

— Non domando di meglio.

Alcuni mesi dopo questi due, da amanti — se si può dar loro tal nome per la relazione che avevano insieme — erano diventati confidenti e direi quasi complici nella prosecuzione d'uno scopo comune, che era una guerra nascosta, ma accanita e implacabile contro i favoriti dell'attuale assetto sociale. Si erano intesi compiutamente, le loro anime, i loro odii, le loro invidie, i rancori, le avidità s'erano affatto compenetrati e camminavano di conserva assecondandosi.

Zoe, dietro le splendidissime offerte d'un alto personaggio che teneva un posto dei primi nella gerarchia dei potenti della terra, aveva finito per abbandonare la sua carriera artistica, a ciò consigliata eziandio da Gian-Luigi; e nella sua dimora, la più sontuosa che si potesse immaginare, accoglieva tutta la gioventù mascolina elegante che avesse denari da gettare nelle matte spese, negli sfarzosi regali, nelle sciocche futilità del lusso il più sfrenato e nel giuoco, a cui sorgeva non mai abbandonato l'altare nelle sale della mantenuta.

In queste sale entriamo dunque sulle orme di Gian-Luigi, il quale dopo il teatro vi si recò insieme con quei due che aveva scelto a suoi padrini pel duello intimatogli dal conte San-Luca.

CAPITOLO XXVI.

Le sale della Leggera erano piene di luce e di uomini fedeli di tutto punto ai dettami del figurino. Ad un tavoliere di Faraone sedeva per tenerci banco Gian-Luigi. A mezzo d'un taglio, i due ufficiali ch'egli aveva condotto seco, i quali s'erano accontati in un salotto vicino col marchesino di Baldissero e col conte Langosco, vennero a dirgli in un'orecchia:

— Tutto è inteso.

— Va bene: disse con tutta indifferenza il medichino. Dopo il giuoco i ragguagli.

E continuò con tutta scioltezza e col più allegro umore del mondo a trar giù le carte, le quali, come se obbedissero alla volontà da lui manifestata in teatro alla Zoe, quella sera gli erano avverse inesorabilmente e lo facevano perdere a rotta di collo.

Ma nello stesso tempo che il giovane appariva in una vena di tanta disgrazia, mai non s'era mostrato tuttavia in tanta vivacità ed allegria di spirito; di guisa che i giuocatori che si stringevano al tavoliere da lui tenuto, tra per la contentezza del guadagnare, tra per la felicità e il brio dei motti che schioppettivano sulle labbra del medichino, avvicendavano le parole del giuoco colle più franche risate in una conversazione animatissima e burlona.

Il conte di Staffarda era venuto ancor egli ad aggiungersi a quel cerchio e guadagnava ancor egli, anzi guadagnava più ancora degli altri, quantunque avvezzo ordinariamente a perdere di molto: [158] le carte sotto le mani di Gian-Luigi parevano metterci una certa galante insistenza a farlo vincere. Anche il conte rideva delle uscite e dei motti del medichino, e, fra se, ammirava più che gli altri quella libertà dello spirito, quell'agiata noncuranza, egli che sapeva il giuocatore alla vigilia d'un giuochetto non affatto scevro di pericoli.

Dopo un'ora Gian-Luigi depose le carte e si alzò senza pure una moneta più innanzi a sè nè in tasca.

— Basta: diss'egli. Lascio altrui il vantaggio del banco.

Aveva pagato tutte le vincite a contanti, eccetto il conte Langosco al quale rimaneva ancora debitore d'una cinquantina di marenghi su parola.

— Signor conte: gli disse, passandogli vicino nell'allontanarsi dal tavoliere: le rincrescerebbe venir meco per cinque minuti di là?

Il marito di Candida nulla rispose, ma si alzò e si mostrò pronto a seguire il giovane, il quale, entrando innanzi, andò sino ad una galleria che guardava verso il cortile, nella quale, chiusa a cristalli, erano tenuti come in una stufa arbusti e fiori vagamente disposti. Lampade frammesse alle frondi e pendenti dalla volta entro cestellini vestiti di piante erratiche fiorite, illuminavano vagamente quel luogo in cui appena era se giungeva il mormorio delle voci di tanta gente raccolta nei due salotti.

Gian-Luigi incominciò senz'altro:

— Il debito che ho verso di lei, sono in obbligo di pagarglielo domattina....

Il conte fece un atto, come per dire: — Di che cosa mi venite a discorrere ora?

— E lo farò senza fallo io stesso, se il conte San-Luca me ne lascia la possibilità: ma siccome è tra le cose possibili — quantunque però io non la creda probabile — che il signor conte mi mandi all'altro mondo con due dita di lama o una pillola di piombo in corpo, perchè io non so ancora se ci batteremo alla spada o alla pistola....

— Alla pistola: disse il conte Langosco.

— Va benissimo. Siccome, dico, in tal caso non potrei adempire io stesso a quel mio dovere, non voglio per ultimo saluto lasciar lei defraudandola di ciò che le spetta.

— Eh via! Di queste cose non occorre parlare: disse superbamente il conte di Staffarda, accennando volersi partir di là per metter fine a quel colloquio.

— Signor sì, che gli occorre: soggiunse con voce ferma il medichino, senza punto muoversi.

Trasse di tasca un portafogli ed appoggiando ad una mensola carica di vasi di fiori un fogliolino di carta vi scrisse su poche parole, in cui si dichiarava debitore al conte della somma testè perduta al giuoco, quindi porgendo al marito di Candida quella carta ripiegata, riprese a dire:

— Se io soccombo, si troverà fra le mie carte un testamento. L'esecutore testamentario, che in esso ho nominato, è un buon sacerdote, un parroco di campagna: a lui abbia la compiacenza, signor conte, di recare questo foglio, ed egli, che conosce la mia scrittura, si affretterà a soddisfare per me il mio debito.

Il conte s'inchinò in segno d'acquiescenza e di ringraziamento. Egli non poteva a meno che riconoscere la delicatezza del tratto ed encomiarla fra sè, come aveva sin'allora ammirate la libertà e la vivacità di spirito di quel giovane, vero indizio di un coraggio reale, non millantatore, nè artefatto.

— Del resto, continuò Gian-Luigi, non occorrerà nulla di tutto ciò e sarò io a portarle domattina, prima di mezzogiorno, la somma dovuta a casa sua.

— Cospetto! Disse sorridendo il conte. Lei è molto sicuro del fatto suo.

— Sicurissimo. Il conte San-Luca mi sbaglierà, ed io lo ferirò dove mi parrà e piacerà.

— San-Luca tira bene.

Gian-Luigi crollò le spalle e fece un sogghigno.

— Al tiro del Valentino, con una pistola à double détente può darsi; ma in aperta campagna, in faccia ad un uomo che lo guardi entro gli occhi, così....

E fulminò addosso al conte uno sguardo così imponente ed imperioso che anche quest'esso lo sentì come una minaccia atta a turbare l'animo d'un uomo anche non pauroso.

— Le dico io, continuava il medichino, che non avrà più tutta quella fermezza della mano che si richiede per mandare all'altro mondo una creatura a lui simile e — mi permetta quest'orgoglio — uguale.

— E Lei? Disse Langosco. Crede che non farà alcun effetto anche a Lei il trovarsi dinanzi per bersaglio un uomo?

— No, signor conte. Anzi tutto io sono convinto d'aver la ragione dalla mia, e che il signor di San-Luca fu meco villano e screanzato. Ho quindi per me lo sdegno dell'orgoglio offeso e la coscienza del mio buon diritto. Inoltre, avessi anche torto, le confesso che non credo sia nato ancora l'uomo che possa incutermi un timore od una soggezione.

Gian-Luigi diceva codesto con tanta semplicità e con una sicurezza così spoglia di jattanza che il conte avvertì quella essere la pura e semplice verità.

— Quanto poi alla sicurezza del mio polso....

Adocchiò sopra il tavolino che era in mezzo alla galleria una di quelle piccole pistole a solo cappellozzo, che si dicono di salon, colla quale la Leggera si divertiva a tenersi la mano e l'occhio esercitati al tiro, e fu a prenderla.

[159] — To', continuò Gian-Luigi, ecco che posso dargliene tosto una prova.

Caricò la pistola d'uno di quei cappellozzi colla pallina di piombo, ond'era piena una scatoletta che trovavasi su quel medesimo tavolino, poscia fattosi ad un capo della galleria guardò verso l'estremità opposta qual oggetto potesse prendere per punto di mira.

— Guardi: riprese additando colla pistola un gruppo di fiori in fondo alla galleria; guardi quella ciocca di azalee; la vorrebbe farmi il favore d'indicarmi quale di quei fiori ho da abbattere col mio colpo?

Il conte, miope com'esso era, pose a cavalcioni sul naso il suo occhialetto a molla e guardò attentamente quel ramoscello fiorito.

— Questo qui: diss'egli poi additando uno di quei fiori che pendeva frammezzo a due fogliuzze.

— Bene!

Gian-Luigi chinò la pistola, e parve non aver nemmanco il tempo di mirare, si tosto sparò.

Il conte s'accostò frettolosamente al cespuglio. Il fiore da lui additato era sparito, senza che nè l'una nè l'altra delle due frondi in mezzo a cui si trovava fosse menomamente scalfitta.

— Bel colpo! Diss'egli approvando anche con un cenno del capo. Bel colpo davvero!

Il medichino gettò là quell'arma da giocattolo e si riavvicinò al conte.

— Credo poter dare per sicuro di colpire nove volte su dieci.

— Cospetto! Esclamò il conte guardando coll'occhialetto la faccia tranquilla di Gian-Luigi. Ed a quel povero San-Luca, gli vorrà Ella fare molto di male?

Gian-Luigi mosse le labbra ad una smorfia quasi disdegnosa:

— Peuh! diss'egli, il meno possibile. Lo colpirò nell'avambraccio. Io non avrei voluto fargliene affatto di male; ed è perciò che dapprima fui così rimesso con Lei che Ella signor conte me ne avrà stimato fin troppo pacifico. Ma poichè, dal contegno che Ella ha tenuto con me, ho dovuto accorgermi che il signor San-Luca aveva le fiere intenzioni d'un gradasso ho deciso di lasciargliene un ricordo che lo ammonisca per l'avvenire ad essere meno insolente prima e meno tenace di poi nella sua prepotenza....

In questa un'ondata di voci allegre ed un rumore di stoviglie e posate giunse sino alla galleria dove stavano i due nostri interlocutori.

Il medichino s'interruppe:

— Ve' che gli altri sono già a cena; andiamoci anche noi senza altro indugio.

Passò il suo braccio sotto quello del conte con una certa famigliarità da compagnone, che in quel punto non fu trovata sconveniente dall'orgoglioso aristocratico, non disposto a tollerarla da chicchessia, e s'avviarono di conserva verso la stanza da mangiare.

Il programma che Gian-Luigi s'era prefisso fu eseguito appuntino in ogni sua parte. Il domattina il povero San-Luca riceveva una palla nel braccio, che lo condannava a venti giorni di malattia; il medichino diventava più famigliare di prima con i due padrini del suo avversario, il conte Langosco e il marchesino di Baldissero; un mese più tardi si faceva una specie di festino di riconciliazione cui pagava il conte San-Luca, il quale così la pagò in tutte le maniere. Nessuno più dei nobili frequentatori del salotto e del palchetto della contessa, ebbe la menoma velleità di mostrar disprezzo o fare pure una sembianza d'oltraggio al dottore Luigi Quercia.

E Candida? Quella sera medesima in cui aveva luogo la contesa fra San-Luca e il suo amante, ella si struggeva dal desiderio di ritrarsi presto a casa, affine di leggere quel biglietto che Gian-Luigi le aveva detto essere nella scatola di dolci. Lo spettacolo, la compagnia e la conversazione dei visitatori, il rumore ed il caldo della sala, tutto la impazientava maledettamente. Avrebbe voluto andarsene tosto: ma non l'osava. Dopo ciò ch'era intravvenuto nel suo palchetto, che cosa avrebbe detto il mondo del suo sollecito ritirarsi? Quel complesso di persone indifferenti e maligne, all'autorità delle cui sentenze tutti vanno soggetti, agli strali delle cui ciarle tutti sono bersaglio, quel mostro indefinibile di mille lingue che chiamasi il mondo, che tutto vuol sapere, che tutto vuole indovinare, che si piace sciorinare ad oggetto di maldicenza i più riposti segreti; che all'uopo anche li inventa per generosamente regalare a questi ed a quelli le morali magagne ond'egli si diletta; il mondo avrebbe fatto le più maliziose induzioni; ed essa che aveva il coraggio di fronteggiare i giusti richiami e i legittimi rimproveri che potrebbe farle il marito, come ne avrebbe affrontata anche la collera, se il conte fosse stato uomo da dare in escandescenze, ella si arrestava intimorita ed esitava innanzi al susurrio delle ciarle mondane.

Finalmente, come a Dio piacque, giunse l'ora in cui ella poteva levarsi dal suo palchetto senza fare stupire i cannocchiali degli abbuonati e destare le non caritatevoli induzioni delle signore. Rispose con nervosa rapidità alle strette di mano, ai saluti, ai sorrisi dei suoi corteggiatori; avvolta nel suo mantelletto impellicciato, fece di volo quel po' di scale, si precipitò nella carrozza di cui un lacchè le teneva aperto lo sportello sotto l'atrio, e rincantucciatasi in un angolo, trovò che i cavalli camminavano troppo lentamente, quantunque col loro trotto serrato in meno di cinque minuti la conducessero sotto l'ampio portone del palazzo di Staffarda.

[160] Salì correndo sino al piano superiore, s'affrettò a recarsi nel suo camerino da acconciarsi. Pose sopra la sua toilette la scatola di dolci che s'era portata seco, e gettò uno sguardo nello specchio, dove le apparve la sua figura commossa colle sopracciglia corrugate. Gettò via il mantelluzzo che teneva ancora sulle spalle e si portò ambo le mani a quella bella fronte che le ardeva e doleva.

La sua cameriera le si avvicinò in quella, e Candida levando il capo ne vide l'immagine riflessa entro lo specchio. Si rivolse di scatto e disse con accento corrucciato:

— Che volete? Che fate costì?

— Sono qui per ispogliarla...

— No.... non voglio nessuno... Lasciatemi... farò da me... voglio esser sola.

La cameriera uscì di stanza, ma ch'ella si astenesse dall'ascoltare alla porta non oserei affermarlo, imperocchè la ci tenesse molto a soddisfare i desiderii manifestatile da Gian-Luigi.

Candida, quando la cameriera fu uscita, s'affrettò ad afferrare la scatola de' confetti e la rovesciò sopra il marmo della toilette, poi con mano agitata frugò fra i dolci fin che trovò ed ebbe preso il biglietto di Gian-Luigi. Lo aprì sollecita e lo lesse palpitando alla luce delle candele che la fante aveva accese innanzi allo specchio. Il primo sentimento in lei fu di sdegno.

— Gli è così che osa parlare a me? Alla contessa di Staffarda? Così potrebbe adoperare con quella sua vile creatura tolta dal trivio, ma con me? O Dio! Che ho mai fatto amando quell'uomo! Mi dice, come una minaccia da spaventarmi, che si allontanerà per sempre da me... E s'allontani!..... Sarà finita una volta! Avrò cessato di soffrire.... e di arrossire per lui.... Si allontani....

Ma questa parola — non ostante lo stato d'eccitazione in cui la si trovava — la seconda volta che essa la pronunciò le parve pungerla come una spina al cuore. Lasciò cadere sul piano della toilette la letterina che teneva ancora fra le dita e si diede a passeggiare concitatamente per lo stanzino tutto specchi e intagli di legno dorato. La sua immagine riflessa alle due pareti dagli specchi, a quella poca luce delle candele, apparivale come due spettri che l'accompagnassero nelle sue mosse agitate. Si stracciò i guanti che aveva ancora alle mani e li gettò per terra; si tolse rabbiosamente di capo i fiori che l'adornavano e li buttò via. Si sentiva addosso come un malessere materiale di cui le pareva avrebbe dovuto trovar modo a liberarsi. Andò a sedersi alla toilette, appoggiò il bel braccio denudato al freddo marmo di essa e guardò lungamente nello specchio la sua faccia pallida e conturbata, la bella forma del suo busto scollacciato, l'eleganza delle sue vesti da festa che stranamente contrastavano col rodimento che aveva entro sè, colla commozione dolorosa delle sue sembianze.

— S'egli almeno mi amasse! Esclamò ella: ma no: sento ne' suoi modi, anche ne' suoi detti più caldi che manca l'amore. Oh essere pareggiata a quelle ignobili donne!..... Ah! se m'amasse davvero, come tutto il resto gli perdonerei!...

Riprese in mano la lettera e la lesse di nuovo. Un subito rimutamento si fece in essa.

— Egli ha ragione, proruppe. Non ho io ascoltato più la mia boria che l'amore? Non ho ceduto al timore del mondo?... Egli si afferma degno di me... Oh! se potesse persuadermene....

Il domani a mattina la contessa, vestita modestamente di scuro con una fitta veletta sulla faccia, recavasi sollecita in un'umile casa posta in una viuzza remota della parte più antica della città, e per una scaletta deserta saliva ad un primo piano dove intromettevasi per un uscio socchiuso, cui serrava sollecitamente dietro di sè.

In quella camera, ove così di celato recavasi la contessa di Staffarda, stava ad attenderla Gian-Luigi, istrutto già quella stessa mattina dalla cameriera dell'agitazione e delle emozioni che, la sera innanzi, il suo biglietto aveva prodotte nella misera donna.

Il medichino era trascuratamente sdraiato sopra una poltrona presso il fuoco che ardeva nel camino. Al vedere entrare la contessa si alzò, ma non le mosse incontro, non le tese la mano, non fece atto alcuno di gioia, non le diede altrimenti la benvenuta che inchinandosi con un cerimonioso saluto, mentre il suo occhio la squadrava freddamente con una fierezza accusatrice.

Candida, quella notte, che aveva dolorosamente vegliato, quella mattina nel decidersi a venire colà, lungo la strada, che in fretta percorse combattuta l'anima fra la speranza ch'egli pur venisse al convegno e fra il timore che secondo quanto aveva scritto non ci si recasse; Candida aveva pensato mille modi, e tutti diversi, di contegno da tenersi con esso lui; ora un orgoglioso disdegno, ora una benignità da superiore, ora una indifferenza da umiliarlo, ora una dignità di generoso condono; ma quello che tenne in realtà fu il contegno a cui non aveva pensato e che era il più naturale: fu quello d'un'amante appassionata che teme, l'uomo da essa amato, voglia rompere il nodo che li stringe.

Da parte dell'uomo fu l'orgoglio, la superiorità, la freddezza: ella, appena entrata, appena visto l'aspetto severamente contegnoso di lui, dimenticato ogni altro suo proponimento, erasi gettata al collo del suo diletto e diceva in preda al suo commovimento, più forte della volontà d'ogni preconcetto disegno:

— Tu sei pur venuto, Luigi, e siine benedetto... Se qui non ti avessi trovato, sarei corsa a casa [161] tua... Avrei insistito in ogni modo fin che avessi potuto giungere presso di te... E se tu mi avessi inesorabilmente respinta... Dio mi perdoni!... Non so qual peggior pazzia non avrei fatta!

— E il mondo? Disse Gian-Luigi con un crudele sogghigno.

Candida scosse il capo ed arrossì come persona cui si rinfaccia un suo fallo.

— Il mondo? Riprese ella, quasi con isdegno. Che mi importa di esso mai? È il tuo amore che voglio.

Passò di nuovo il braccio intorno al collo di Luigi e soggiunse con appassionato abbandono:

— Vuoi tu ch'io lo lasci — e per sempre — questo mondo maledetto? Vuoi tu ch'io sia tutta per te e solo per te?

Gian-Luigi si tolse d'intorno al collo quel braccio leggiadro che lo cingeva:

— No: diss'egli: chè forse codesto avresti da rimpiangere un giorno.

Le prese le mani e glie le strinse forte sul suo petto, guardandola con quella potenza, ond'erano dotati i suoi occhi neri, di far penetrare in altrui la sua volontà.

— Voglio che tu non mi sacrifichi a questo mondo, che in presenza di esso non ti vergogni di me, che non faccia comunella coi miei nemici per umiliarmi della supposta inferiorità della mia condizione.

Candida fece un atto come per protestare; ma egli, stringendole con più forza le mani, non lasciò che parlasse.

— Io mi sento dappiù di tutti quei burleschi gentiluomini della tua società che non hanno oramai nulla del cavaliere fuor che i titoli e la superbia. Voglio che tu non solo riconosca in te stessa che così è: ma che non nasconda, come una colpa, l'averlo riconosciuto; voglio che i tuoi modi non dieno ansa all'impertinenza di quei scimiotti a trattarmi come io non tollererò mai che nessuno mi tratti, da inferiore, perchè io mi sento inferiore a nessuno.

— Ma io.....

— Tu ieri sera fosti complice di quell'imbecille di San-Luca, la cui oltraggiosa superbia ho dovuto punire questa mattina con un colpo di pistola.

La contessa fu presa da un subito sgomento retrospettivo.

— Che? Esclamò essa. Tu ti sei battuto!... O cielo! Esporti così al pericolo... E non hai pensato a me? Oh che cosa sarebbe avvenuto di me se alcuna disgrazia t'avesse colto!

— Ho pensato al mio onore: disse asciuttamente Luigi: ho pensato al mio giusto risentimento. Ora il contino espia la sua sciocca insolenza con una ferita nel braccio...

— E se io ho alcuna colpa, tu me la fai espiare più crudamente ancora col tormento che mi dànno le tue parole, il tuo contegno.... Se tu sapessi che brutta notte ho passata in seguito alla tua lettera!... Ma tu non vuoi aver nissun riguardo, non vuoi comprender nulla delle mie condizioni!... Che vuoi tu, che pretendi tu da me? Che io confessi pubblicamente aver per te mancato ai miei doveri, ai miei giuramenti, alla dignità del mio nome?... Oh va, che tu sei ingrato verso una donna che ha tutto sacrificato per te.

Luigi la interruppe con brusca violenza:

— Sacrificato, sacrificato!..... Tu pronunzi una parola che è un sanguinoso ed ingiusto rimprovero... Tu credi che da parte tua sia tutto il merito d'esser discesa fino a quest'umile individuo... Ma da parte mia credi tu che nulla siasi dovuto, che nulla debbasi fare oltre ciò che mi conviene, oltre ciò che io possa coi mezzi miei, per vivere nella tua sfera, per seguirti con passo pari in questa costosa esistenza?

La contessa fece un moto di stupore e parve voler parlare. Ma egli non glie ne diede il tempo. Lasciò le mani di lei che teneva ancora fra le sue, e dirizzandosi della persona con mossa piena di orgoglio, soggiunse:

— Io sono il figliuolo delle mie opere; non ho da un patrimonio inalienabile, trasmessomi dalle prepotenze de' miei maggiori, guarentito l'ozio e il soddisfacimento dei miei vizi e della mia vanità... Chi può indovinare i sacrifizi che mi costa questo lusso, il quale mi è condizione indispensabile per accostare la contessa Langosco?

Candida sentì una specie di gelo insinuarsele nel sangue. In quale quistione bassamente economica andava ad impigliarsi la discussione!

— Che vuoi tu dire con ciò? Spiegati..... Tu non sei ricco, tu hai fatto dei debiti?

— Io ho tutta una falange di difficoltà contro cui lottare. Fra me e te io vedo sorgere ad ogni istante mille ostacoli di varia natura, e tutti li voglio vincere e li vinco; nè di questo contrasto continuo e doloroso mi lamento o mi stanco..... Ma tu, perchè mi faresti più scabra la via, meno sicuro il coraggio concorrendo a ferirmi nell'intimo del mio amor proprio?

Candida ebbe un movimento dell'anima, quale avrebbe avuto ogni altra donna innamorata. Immaginò che il suo amante sostenesse crudeli privazioni per poter mantenersi in quella vita dispendiosa della società elegante dov'ella lo aveva trascinato. Un rincrescimento accompagnato da un generoso impulso di venire in di lui soccorso, la fece prorompere nelle seguenti parole:

— Ma io sono ricca!... Ma io posso venirti in aiuto. Tu forse hai sofferto!... Oh perchè non mi hai tu detto nulla mai?

Gian-Luigi fece un atto d'orgoglio offeso:

— Io domandare?... Io!! E lo penseresti forse? Ed ella per rimediare a quel nuovo colpo che [162] pareva aver portato all'anima di lui, con infinito amore, quasi supplichevole:

— Ma non sono io tua? E tu non sei mio? Quello adunque che mi appartiene, a te appartiene...

Il medichino sembrò commoversi alquanto. La guardò con occhio ch'ella trovò intenerito ed amoroso, le disse coll'accento più seduttivo della sua bellissima voce:

— Che tu sii benedetta per queste parole... In esse ho sentito il vero amore. Sì, tu sei mia ed io son tutto di te fino alla morte... Ma ciò nulla meno io non posso nulla accettare delle tue offerte. L'onore, quale lo fabbricano gli uomini, mi vieta di dare a te e di riceverne questo, che tra amici è uno dei migliori contrassegni di fiducia e di affetto. A me in ogni cosa si conviene lottar solo, lottare finchè le forze, la mente, l'audacia mi accompagnino, e quando l'accumularsi delle avverse circostanze impedisca ogni mezzo di scampo, non resta che sentire il freddo contatto d'una canna di pistola alla tempia, un lampo di dolore, e poi precipitare nel mistero della morte...

— O cielo! Che di' tu?... Ah no, per amor di Dio!... Oh vorresti tu troncar ad un colpo due vite?... A me non pensi, crudele!... A me che tutto ho posto in te, nell'amor tuo?... Oh che non farei io per renderti dolce e cara la vita? Come? Il mio amore non potrebbe nulla, niente affatto per recarti pure un sollievo?... Senti, Luigi, te lo dico dal fondo dell'anima mia, e tu devi riconoscere nel mio l'accento della verità..... — Io son pronta a tutto per te. Vuoi tu che fuggiamo insieme per vivere ignorati e modesti in qualche solitudine lontana?

Luigi scosse mestamente la testa.

— Vuoi tu che chiuda l'uscio del mio salotto a tutti, che non compaia in nessun luogo più, che rinserri la mia vita qui in questa camera dei nostri ritrovi?

— No, no; ti ho già detto che forse te ne pentiresti un giorno di poi.

— Oh no, te lo giuro... purchè tu mi ami!

— Tua natura e tuo destino sono di brillare in mezzo agli sfarzi sociali fra cui sei nata. Perchè ti imporrei io il sacrifizio di sceverarti da essi? Continua nella tua carriera di luce: io ti seguirò finchè mi basteranno le forze.

Per quella volta siffatto colloquio non ebbe altra conclusione; ma la contessa si partì di colà con una spina nel cuore. Luigi per causa di lei trovavasi costretto a penosi imbarazzi finanziari, ed ella voleva ad ogni modo venire in suo soccorso. A questo intento cercò di avere a sè l'uomo che serviva il medichino: una strana faccia che a primo aspetto ti pareva da melenso, a chi lo esaminasse per bene compariva da mariuolo. Questa figura avreste potuto vedere nella bettola di Pelone, entro quella camera riservata dalle tendoline rosse ai cristalli dell'uscio, far parte di quella specie di sinedrio, in mezzo al quale ci è apparso la prima volta il compagno d'infanzia di Maurilio; ed allora non lo avreste visto verso Gian-Luigi nelle relazioni di domestico a padrone, ma di pari a pari, con alcuna deferenza però come a capo, a cui il proprio consentimento ha accordata una certa autorità.

Questo pseudo-servitore, certo d'accordo col giovane, dopo finto mille tergiversazioni e mille ritrosie, si lasciò strappare dalla contessa il segreto cui aveva una gran volontà di svelarle: che cioè Luigi era perseguitato per alcune cambiali in iscadenza da certi creditori, i quali poi facevano tutti capo ad un famoso usuraio, primo di tutti gli usurai, quel falso sant'uomo di messer Nariccia.

La contessa non rimase guari a prendere la sua decisione, volle vedere essa stessa questa tremenda arpia che, a detta di quel domestico, aveva in pugno la sorte e la libertà del suo Luigi; e siccome la non voleva che un simile personaggio entrasse nel palazzo Langosco, un dì, vestita di scuro eziandio e colla veletta fitta in sugli occhi, come quando recavasi agli amorosi convegni, ella fu a visitare l'ipocrita usuraio, la cui abitazione già conosciamo pel racconto di Maurilio.

La gita della contessa al covo di Nariccia non si rimase pur troppo ad una sola. Di quando in quando la fronte annuvolata di Luigi, la parola sarcastica, alcune maledizioni alla sua sorte, ammonivano la povera Candida che qualche nuova difficoltà finanziaria sbarrava il cammino al suo amante: ed una volta appresa la strada della casa dell'usuraio, non c'era più ragione per tenersi dall'accorrere a cercare colà il rimedio al male e la salvezza pei pericoli che minacciavano il suo diletto.

Le sostanze della figliuola del barone La Cappa consumavano intanto come un mucchio di neve al sole, assalite dall'una parte dall'amante, dall'altra dal marito, il quale non aveva bisogno di alcun diretto intervento della moglie per ispiccare e fondere al crogiuolo del giuoco, i buoni pezzi di quella fortuna, stante la procura generale ch'egli aveva ottenuta da lei nel modo che abbiam visto.

Ah! se il padre di Candida avesse mai saputo una cosa simile! Ma in ciò andavano pienamente d'accordo marito e moglie, che ogni cautela era da loro adoperata per nascondere la verità al barone, il quale viveva felice nell'orgoglio di esser padre d'una contessa il cui blasone era stato in Oriente al seguito del Conte Verde.

Fra il conte e il dottor Quercia le cose andavano di pieno accordo e il più quietamente che mai. Amedeo Filiberto aveva in realtà posto una certa [163] affezione — l'affezione che può dare l'anima aridissima d'un vecchio libertino, tipo di perfetto egoista — in quel giovane che all'occasione era comparso così coraggioso, che mostrava in tutto che facesse tanta destrezza, che in compagnia era sempre così allegro, che si vantaggiava d'una distinzione naturale di maniere da parere poco diverso da un gentiluomo allevato sotto l'ali di una primogenitura, che aveva la squisita abilità di perder quasi sempre quando giuocasse contro il marito della contessa Candida.

E da questa buona e domestica attinenza col conte di Staffarda, il medichino tirava per intero quel vantaggio appunto che aveva avuto in mira, di fare cioè rispettare entro certi limiti dalla curiosità e dalle investigazioni della Polizia il mistero della sua vita. Quest'argo dai cento occhi, al quale è pure così facile accecarne cento e uno, aveva bensì rivolta la sua attenzione a due personaggi che in due sfere affatto diverse e così lontana l'una dall'altra, le si presentavano col velo d'una specie di enimma; e questi due personaggi erano il medichino della bettola di Pelone e l'elegante dottor Quercia del salotto della contessa Langosco. Del primo non avevansi che in nube alcune confuse nozioni che potevano lasciare in dubbio perfino sulla realtà dell'esistenza di quell'individuo, il quale appariva quasi un mito nella sua qualità di centro, ispiratore e direttore di ogni fatto di quella sorda guerra di delitti che muovono all'ordinamento sociale, alla proprietà ed alla sicurezza dei cittadini la miseria, il vizio e l'ignoranza della canaglia. Per quanto accortamente e con lusinghiere promesse si fossero interrogati tutti i soldati di quell'esercito di reietti che cascassero nelle mani della forza pubblica, intorno a quell'essere misterioso, da nessuno mai erasi potuto ottenere una risposta che mettesse sulle sue traccie; per quanto accurate indagini si fossero fatte, per quanta abilità ed audacia di spie ed esploratori si fosse adoperata, non si era potuto far capo a scoperta nessuna, e quell'individuo rimaneva pur sempre nelle nebbie d'un mistero impenetrabile, tanto che lo stesso commissario Tofi, espertissimo poliziotto, non credeva alla esistenza di lui. Ma ben credeva ad essa il più fine e destro segugio che avesse allora la polizia torinese, quel Barnaba che abbiam visto nella taverna di Pelone.

Del dottor Quercia conoscevasi l'elegante quartieretto che abitava in una delle strade principali della città, conoscevasi il modo dispendioso di vita, sapevasi la sua abitudine e la sua fortuna forse soverchia al giuoco, dal quale credevasi attingesse i mezzi di quella splendida esistenza; ma quando la curiosità della Polizia aveva voluto penetrare più in là nei fatti di lui, erasi trovata impacciata dalla qualità delle attinenze che il giovane aveva nella classe più elevata e che allora era onnipotente nella società torinese.

Gl'impiegati di Polizia erano poveri plebei che troppo temevano dover perdere l'impiego quando eccitassero lo sdegno di un nobile protettore di qualcheduno. La vessazione di quella Polizia, che non rispettava quasi nulla di ciò che avrebbe dovuto essere rispettato, si arrestava innanzi al timore di poter disgustare il marchese tale o il ciambellano tal altro. Come osar commettere un atto arbitrario in danno d'uno che viveva intimamente col conte di Staffarda, col marchesino di Baldissero, col contino di San Luca ed altri parecchi di simil razza? E senza un atto arbitrario si era già belli e certi, dalla sorveglianza che per alquanto tempo si era esercitata su di lui, che non si sarebbe potuto giungere a scoprir nulla sul conto del sedicente dottore, tanto erano in sembianza regolari e tranquilli gli atti della sua apparente vita abituale.

Ben si era tentato insinuare nella testa dura del conte Barranchi, generale dei Carabinieri, e quindi a quel tempo capo supremo della Polizia, alcuni sospetti riguardo a quel cotale, per eccitarlo a coprire della sua potente risponsabilità alcuni dei soliti atti illegali da farsi verso di lui. Ma il conte Barranchi per coprire una carica di sì delicata natura non aveva altre qualità che la superbia e la prepotenza. Alle prime parole fattegliene, aveva detto a suo modo, coll'accento di un comando militare:

— Arrestatelo!

E poi all'osservazione che glie ne venne espressa, che quel giovane era famigliarissimo dei tali e tali:

— No, cospetto; s'era affrettato a gridare: lasciatelo in pace... Aspettate!

Quindi tenutosi per cinque minuti nella mano il suo mento quadrato in attitudine di profonda meditazione, aveva soggiunto:

— Ne parlerò io col conte di Staffarda. Non prendete nessuna deliberazione ed aspettate i miei ordini.

Il conte Langosco, quando il generale avevagli manifestato i sospetti dei suoi agenti intorno al dottor Quercia si pose a ridere di tutto cuore.

— Che cosa vi salta per la testa? Aveva risposto. Credete voi che io voglia ammettere nella mia famigliarità un truffatore o un congiurato o un qualche cosa di peggio? Quel bravo giovane è una persona ammodo, a cui sarei dolentissimo se arrecaste il menomo fastidio.

— Basta, basta! Aveva risposto il famoso conte Barranchi, altrettanto arrendevole verso i potenti, quant'era duro ed intrattabile coi deboli. Poichè voi, conte, me ne parlate in questa guisa, non ho più nulla da dire.

[164] A tutti gli agenti fu dato ordine di non molestare menomamente in nessun modo diretto, nè indiretto il dottor Luigi Quercia.

Non ostante codesto uno di quegli agenti non si era tuttavia affatto persuaso che sotto la esistenza del pseudo-dottore non ci fosse un mistero, e che questo mistero non interessasse la Polizia; e questo agente era quel tal Barnaba, il quale esercitava il suo mestiere con una vera passione, di quella guisa che un valente artista professa la sua arte. Egli per un istinto della sua natura di poliziotto, per una inspirazione del suo ingegno attivissimo ed eminente in quest'ordine d'idee, era presso che sicuro nel suo intimo come l'elegante dottore e l'incognito medichino fossero una persona sola. Certo non faceva egli nulla che potesse motivare rimostranze e richiami del dottore, e quindi suscitare la collera del conte Barranchi; ma non cessava di tenerlo d'occhio; e per quanto le apparenze della vita e della condotta del signor Quercia fossero innocenti, per quanto impossibile fosse il cogliere in fallo quell'individuo, Barnaba non si stancava di vegliare e dubitare. S'era persuaso anzi che fra sè e quel cotale intravveniva quasi una tacita lotta, Quercia per sottrarsi alle ricerche di lui e renderle frustranee, egli per penetrare in quel segreto che si ostinava a supporre nella vita del sedicente dottore.

Laonde quando, la sera del ballo dell'Accademia Filarmonica, Barnaba ebbe notato Maurilio, alla vista del dottore, fare un atto di sorpresa, da cui il poliziotto argomentò che fra quei due correva alcuna attinenza, pensò egli subitamente che in quel giovane, ancora sconosciuto, incontrato dapprima nella bettola di Pelone e poi sotto l'atrio del palazzo in cui aveva luogo la festa da ballo; che in quel giovane, dico, la sorte gli aveva forse presentato un bandolo per penetrare nel fino allora chiuso mistero della vita e del passato del signor Quercia.

Quindi lo aveva ormeggiato; e, come ho narrato, s'era Barnaba intromesso nella loggia della portinaia in quella casa ove abitava Maurilio coi suoi amici. Ma prima di riferir qui il colloquio che intravvenne fra il poliziotto e la portinaia, occorre ancora che ci soffermiamo nelle splendide sale in cui aveva luogo la festa da ballo.

CAPITOLO XXVII.

Quella sera, al ballo dell'Accademia filarmonica, il conte Langosco, dopo avere per un po' di tempo tenuta in iscacco la fortuna del giuoco, n'era affatto vinto e perdeva a rotta di collo. Quel mucchio di monete che al cominciare del capitolo XXII gli abbiam visto allato sul tappeto verde del tavolino, era sparito affatto e da alcuni minuti il conte giuocava su parola. La sua faccia non era mutata per nulla; soltanto un po' più pallide forse si sarebbero potute dire le sue guancie, un po' più accesi gli sguardi, più ironico il sogghigno; ma l'urbanità elegante del tratto, era, se fosse stato possibile, ancora maggiore del solito.

La contessa sua moglie, appoggiata al braccio ora di questo ora di quel cavaliere, era già venuta due volte fino presso ai giuocatori con una aria che avreste detta inquieta, come di chi cerca e non trova, aspetta e non vede arrivare. Ella cercava, ella attendeva il suo amante, il quale tardava di troppo dopo la promessa fattale di venir sollecitamente alla festa.

Amedeo Filiberto, ad ogni volta aveva salutato con amichevol cenno la moglie e rivoltole alcune indifferenti parole in francese:

— Avete voi ballato? Siete già stanca di ballare? Vi occorre qualche cosa? Fa caldo, non è vero?

Ed altrettali simiglianti.

La terza volta che Candida, accompagnata dal conte San Luca, ricomparve presso al tavolino dove suo marito aveva perduto tutto il denaro recatosi allato e stava perdendo con implacabile persecuzione della sorte, Amedeo Filiberto le disse con isquisita galanteria:

— Ah sì, venite un po' qua, contessa, a recarmi fortuna. La vostra benigna influenza sopravanzerà, ne son certo, questo maledetto guignon che mi sta addosso.

Candida s'accostò con un cotal suo sorriso d'accatto che mostrava come la sua mente fosse a tutt'altri pensieri rivolta e venne ad appoggiare il nudo suo braccio bellissimo, bianco e ben tornito alla spalliera della seggiola del conte. Colà il suo sguardo seguitava a scorrere per tutta la sala ad ogni tavoliere, come se ad uno di essi dovessero pur finalmente apparirle quelle sembianze che finora aveva in tutta la festa cercato inutilmente.

Langosco prese sbadatamente le carte che gli venivano distribuite in quella, ed il valore delle quali decideva di qualche centinaio di lire; le guardò con un'apparente indifferenza e le ripose coperte sul tappeto della tavola. Nella sua mano si sarebbe potuto notare quel certo tremito nervoso che ho detto.

Mentre il banchiere distribuiva le carte agli altri puntatori e le prendeva per sè (giuocavasi al nove), Amedeo Filiberto si volse al conte di San-Luca per domandargli con tono affatto naturale di voce:

— Non avete voi veduto il dottor Quercia?

— No: rispose San-Luca.

Candida piegò gli occhi verso il marito senza nessuna esitazione, senza nessun impaccio e disse:

[165] — Non è ancora venuto. Credevo anzi trovarlo qui, perchè è più facile lo attiri il giuoco che non la danza....

— Ah voi calunniate la sua galanteria e il suo buon gusto: interruppe scherzosamente il conte. Il diletto del giuoco, sta bene per noi attempati, ma per un giovinotto la musica, la danza, la compagnia e la conversazione delle belle signore...

— Otto! Gridò il banchiere abbattendo le sue carte che facevano il numero detto.

Il conte Langosco gettò nel mucchio colle altre le sue carte dicendo freddamente:

— Ho perso; e se la consente raddoppio la posta.

Il banchiere fece un segno affermativo del capo.

— Cara contessa: riprese Langosco sorridendo con quella sua espressione che pareva sempre una ironia; la fortuna non vuole lasciarsi commovere nemmanco dalla vostra presenza, o piuttosto dove siete voi stima superfluo il venire ancor essa.

— Vuol dire che mi mandate via?

— No. Tutt'altro! non vorrei rubarvi di troppo al piacere di ballare ed all'ammirazione altrui.

— Ah! ecco il dottore! Esclamò ad un tratto Candida, la quale non potè tanto dissimulare che un lieve rossore non le corresse alle pallide guancie.

— Ah sì? Fece il conte alzando il viso e guardando al di sopra dei coprilumi colle ciglia serrate a suo modo.

Gian-Luigi si avanzava il cappello a schiaccia sotto l'ascella, guardando attentamente di qua e di là. Pareva, e forse era una finta, che non avesse visto nè il conte nè la contessa, ed il suo passo dirigevasi ad altra parte, quando il marito di Candida lo interpellò:

— Eh dottore, arrivate pur finalmente.

Quercia venne sollecito al tavolino dov'era il conte: salutò e strinse la mano a Candida, a Langosco ed a San-Luca.

— Arrivo tardi, non è vero?

— Oh sì: disse Candida lanciandogli un'occhiata di rimprovero.

— Sì proprio: soggiunse il marito con un accento che avrebbe potuto sembrare bonarietà a chi non conoscesse l'indole di quell'uomo.

— Spero tuttavia d'essere ancora a tempo per danzare una polka colla signora contessa, e per giuocare una partita con lei, conte.

— Sicuro; disse vivacemente Langosco. L'aspettavo appunto per codesto.

— Vorrebbe Ella mettere il giuoco innanzi alla nostra polka? Domandò la contessa, i cui occhi neri seguitavano a saettare rimproveri all'amante.

— Certo che no; e quando siasi ch'Ella voglia favorirmi...

— Subito: ecco appunto l'orchestra che incomincia a suonare.

Luigi offrì il braccio alla contessa, la quale vi pose sopra la sua piccola mano inguantata.

Amedeo Filiberto alzò il capo e scoccando verso di loro uno di quei suoi sguardi pieni di malizia, disse a Quercia mentre si allontanava colla contessa:

— La non si dimentichi nelle delizie della sala da ballo la promessa della nostra partita.

— Fra venti minuti sarò a mantenere la promessa: rispose Gian-Luigi, ed uscì con Candida avviandosi al gran salone.

— Perchè sei venuto così tardi? Domandò senz'altro la contessa appena allontanati di là, con molta passione. Dove sei tu stato? Mi avevi promesso di venir presto.

— Non l'ho potuto per certi affari che mi capitarono: rispose Gian-Luigi con una tranquillità che lasciava scorgere una certa impazienza ed un fastidio per queste domande.

— Che affari? Tu non hai altri affari che i tuoi sollazzi.

— Ah contessa! Disse Luigi guardandola ironicamente. Voi siete troppo curiosa.

Candida arrossì, e stringendo forte il braccio a cui si appoggiava disse all'orecchio del suo compagno:

— Lo sai che sono gelosa, lo sai che soffro immensamente pensandoti con altre.... Dimmi il vero. Tu sei stato da quella donna?

Quercia scrollò lievemente le spalle. Intanto erano giunti nella sala in cui passava col bisbiglio delle conversazioni a mezza voce e col fruscio delle vesti delle signore, il serpente della queue.

— Vuole che prendiamo posto nella queue? Disse Luigi alla contessa.

Questa lo trasse bruscamente indietro e lo guidò in un'altra stanza, dov'era meno frequente la folla.

— Che, tu pensi ch'io voglia ballare? Diss'ella con accento di rampogna, in cui c'era anche dolore. Sediamoci qui in quest'angolo, dove potremo parlare più liberamente e discorriamo.

— Come la vuole: disse Gian-Luigi inchinandosi con fredda pulitezza.

In quel salotto non c'erano che pochi gruppi d'invitati. Sedute nella cantonata opposta a quella dove si recò la contessa Langosco, erano due donne, l'una attempata e l'altra giovanissima, che noi, tenendo dietro a Maurilio, abbiamo già visto uscire dal loro palazzo in carrozza e salire le scale dell'Accademia, voglio dire la marchesa di Baldissero madre del marchesino, e la nipote di lei, madamigella Virginia di Casatorsa, una delle più splendide bellezze in quei giorni della città di Torino.

Passando loro dinanzi la contessa di Staffarda aveva fatto un saluto, al quale la giovane aveva [166] risposto con tutta grazia e gentilezza, la vecchia invece con un sussiego molto altezzoso e con un certo sguardo trascinato, per così dire, dalla contessa al compagno ch'ella aveva, nel quale sguardo eravi un complesso di cose — accusa e condanna.

Intorno alla marchesa ed alla bella nipote stavano alcuni giovinotti, fra cui il giovane che abbiamo già conosciuto sotto il nome di Francesco Benda.

Candida sedette e fe' cenno a Luigi le sedesse dappresso. Questi obbedì.

— Rispondimi: prese a dir tosto con accento concitato e volto acceso la contessa: e rispondimi il vero: tu sei stato da quella donna?

— Che donna? Domandò Quercia giocherellando sbadatamente colla catena e coi pendagli che gli luccicavano sul nero panciotto ricamato; ed intanto tenendo il suo sguardo fisso sul gruppo di persone che si trovava dall'altra parte della sala, in mezzo al qual gruppo splendeva, per così dire, la perfetta beltà della contessina Virginia.

— E mi domandi quale? Sai bene a cui alludo. A quella zingara, a quella perduta.....

— Non vi scaldate cotanto, contessa: disse tutto pacato Gian-Luigi. È bene teniate a mente che qui non siamo soli e che il vostro sembiante concitato può far nascere sospetto sul tenore del nostro dialogo e curiosità in altrui di udirlo, e che la indignazione con cui parlate dà alla vostra voce tanta forza da poter soddisfare quella curiosità più che non convenga.

Candida si morse le labbra, tacque un momento innanzi all'aspetto sorridente di Luigi, il quale parlavale colla guisa con cui si dicono i complimenti e si sussurrano le galanterie alle signore; poi riprese abbassando la voce:

— Ma rispondetemi almeno.

— Cara contessa, voi mi avete fatta una di quelle domande che una donna non dovrebbe muover mai. Perchè mettere l'uomo che vi ama nella dolorosa condizione o di mentire, o di darvi un dispiacere?...

— Ah dunque voi siete stato colà? Proruppe la contessa i cui occhi lampeggiarono.

— No, questa volta non ci fui, ma avrei potuto benissimo esserci andato, come mi avvenne per l'addietro e mi avverrà ancora per l'avvenire.....

Candida si gettò verso lo schienale del sofà dove sedeva, allontanandosi così da lui che le parlava chino verso di essa.

— Ah Luigi! Diss'ella con voce turbata da non lieve emozione, voi siete crudele.

— No, sono sincero. Del pari che vi dico di avere un certo interesse a continuare quell'attinenza, vi affermo che al presente non c'è nulla fra me e quella donna, che possa rassomigliare ad un rapporto amoroso.

— Al presente? Esclamò Candida con amarezza.

— E non vi basta? Del passato che cosa vi deve importare?

— Sì, m'importa. Vorrei poterlo distruggere tanto bene che non ve ne rimanesse pur la memoria. E poi chi mi guarentisce intorno l'avvenire?

— Eh! che queste rifritture io non le faccio più.

La contessa si ridrizzò della persona con un sobbalzo.

— Ah! voi confessate finalmente!...

— Confesso, confesso: disse Luigi impaziente.

— Non mi negaste finora di aver amato quella donna? Non mi diceste pur anco di averla voluta accostare soltanto per aver occasione di legarvi con mio marito?

— E così è...

— Menzogna! Voi avete mentito...

— Candida!

— Lo so di sicuro. Mi sono informata. E chi mi assicura che non mentirete nell'avvenire, che non mentiate anche adesso?

— Mia cara, torno a pregarvi a moderare la vostra voce e l'espressione della vostra fisionomia. Per quella dozzina di paia d'occhi che son qui, pensate che gli è tutta Torino che ci guarda.

— Luigi: riprese dopo un poco la contessa con accento quasi supplichevole. Tu mi dicesti più volte di amarmi.

— Sì, e te lo dico anche adesso.

— Ebbene, dammene una prova, che per me varrà più d'ogni qualunque dichiarazione e protesta.

— Che prova? domandò Quercia, tornando nella sua aria sbadata.

— Non andar più da quella donna...

— Eh via! Queste le son bambinate.

L'accento di Candida divenne affatto supplichevole.

— Contentami in codesto, diss'ella, mettendo la sua mano su quella di lui, te ne scongiuro.

Egli tolse via la sua destra e rispose con tono in cui cominciava ad apparire l'impazienza:

— Ti ho detto che avevo un certo interesse a continuare le mie gite in quella casa.

— Che interesse?

— Questo non te lo posso dire.

— Luigi, ti prego dal fondo dell'anima, dammi questa prova d'amore.

— Non posso.

— Io sono gelosa, lo sai, tremendamente gelosa di tutto e di tutte. Vorrei poter occupare io sola intiera la tua vita e la tua anima e il cuore. Sono gelosa anche del passato. Perchè sei tu venuto a destarmi quest'amore, se non volevi corrispondergli alla pari? Quando tu manifestasti alcun desiderio, non mi sono io affrettata ad acconciarmivi? Non ti domanderò nulla mai più; ma ora consenti a questo mio desiderio.

[167] La fisionomia di Quercia era degna di nota in quel punto, chi avesse saputo esattamente osservarne la duplice espressione. Mentre le sembianze del viso erano atteggiate a quella graziosità un po' leziosa con cui si ascoltano dai vagheggini le parole di una bella signora, lo sguardo ch'egli faceva piombare sulla sua interlocutrice, era freddo, duro, quasi minaccioso.

— Via via, che cos'è questa insistenza? Se ti affermo che non hai nulla da temere in codesto, non ti basta?

— No. E come puoi tu esitare per sì poca cosa? Non ti ho io dato l'esempio di cedere a tutti i tuoi desiderii?... Innanzi a quale sacrifizio ho io indietrato?

— Ah! ci siamo colla famosa parola dei sacrifici; che vuoi tu rinfacciarmi con essa?

La fronte di Luigi era solcata da quella tal ruga che conosciamo, e il suo occhio erasi fatto ancora più minaccioso.

— Nulla, nulla: s'affrettò a dire la povera donna quasi sgomentata. Non ti rinfaccio che una cosa sola... il poco amore che tu hai per me. Se tu mi amassi com'io t'amo, come forse meriterei, non esiteresti a fare a mio senno in quella poca cosa che ti domando.

— E lo farei se ne fosse il bisogno o ne valesse soltanto la pena; ma qui non accade nè l'una cosa nè l'altra.

Erano ancora in questi discorsi, quando il conte Amedeo Filiberto comparve sulla soglia aguzzando secondo soleva il suo sguardo per vedere entro la stanza. Vide dapprima la marchesa di Baldissero con intorno la schiera dei corteggiatori di sua nipote, e si diresse verso quella parte.

— Eh buon giorno, marchesa: diss'egli stringendole la mano. Voi state bene? Ne godo infinitamente. Madamigella Virginia, ricevete gli omaggi della mia servitù... Sapete marchesa che sono in via d'una spedizione da argonauto?

— Alla ricerca d'un vello d'oro?

— Alla ricerca di mia moglie.

— Ah!

La marchesa si morse le labbra per frenarvi l'epigramma che stava per iscoccarne.

— Non l'avete per caso veduta, marchesa?

— Sì: disse la marchesa mettendo agli occhi il suo occhialino a doppia lente per guardare intorno. Siete più fortunato che non vi meritiate. Eccola appunto là.

Amedeo Filiberto si volse: pose anch'egli nell'occhio il suo disco rotondo di vetro, che gli serviva da occhialino e guardò.

— Sicuro. La è là. Vi ringrazio, marchesa.

E andò senz'altro presso Candida e Quercia.

— Ah siete qui voi altri? Avevo bel cercarvi nel salone delle danze.

Luigi si alzò in piedi:

— Stia, stia comodo: soggiunse il conte. Siete stanca di ballare, contessa?

— Sì: rispose asciuttamente Candida.

— Allora non avrete difficoltà di cedermi per un poco il vostro ballerino.

— Volete lasciarmi qui sola?

— Ecco la marchesa di Baldissero con un cerchio di cavalieri. Vi lasciamo in buona compagnia.

Candida si alzò ancor essa. Aveva una nube di tristezza e di contrarietà sulla fronte, parve voler soggiungere alcune parole, ma poi non disse nulla: gettò uno sguardo di indefinita espressione verso Gian-Luigi di cui il conte pigliava famigliarmente il braccio per trarlo seco e s'accostò lentamente alla marchesa di Baldissero.

— Caro Quercia, disse il conte, io non ho mai avuto la disgrazia che mi perseguitasse tanto quanto stassera. Ho perduto con una pertinacia impossibile. Ho bisogno d'una rivincita.

— E la viene da me per farsela dare: disse Gian-Luigi mezzo ironico, mezzo scherzoso.

— Vengo a domandarle aiuto e consiglio.

— Aiuto? In che modo?...... Vuol forse domandarmi in imprestito?...

Il conte non lasciò che finisse. Tolse via da quello del dottore il braccio che vi appoggiava su e disse con un vivo sentimento d'alterigia vestito però della massima cortesia:

— Oibò! Per cotesto so bene a cui rivolgermi. Il consiglio è questo. Devo io ancora ostinarmi ad affrontare questa diablesse d'una fortuna? Se sì, Lei che ha d'ordinario sì prosperi successi al giuoco....

— Fuorchè contro di Lei, che mi guadagna sempre: interruppe Gian-Luigi, guardando il conte con una cert'aria scrutativa e piena d'una finezza indescrivibile.

Il conte fece un cenno grazioso d'assentimento, e continuò:

— Vorrebbe Ella ammettermi socio nel suo giuoco, accettando come messa di fondi la mia parola? Ecco l'aiuto. Ma foi le ho detto tutto.

— Molto volentieri: rispose Luigi. Vado a far banca durante un'oretta e non più. I guadagni saranno a metà.

— Vado ad assisterla.

— No: disse vivamente il giovane. Preferisco esser solo a tagliare. Che vuole? È una superstizione da giuocatore. Se qualcheduno, anche un socio del mio giuoco, mi sta presso o tocca le carte, queste mi tolgono ogni loro favore.

— Starò colà come spettatore soltanto.

— Anzi, faccia a mio senno, punti contro di me. Se la perde ne sarà compensato nella divisione dei guadagni; se vince... tanto meglio per Lei.

Entrarono nella stanza dove si giuocava. Gian-Luigi [168] scelse un tavolino, a cui il banchiere aveva le spalle al muro, così che nessuno poteva venirgli dietro, e recandosi colà, disse al signore il quale stava tagliando:

— Signore, avrei desiderio di succederle nella banca. Ha Ella intenzione di continuare ancora, o si acconcerebbe a rimettere il posto?

Il banchiere alzò il capo per guardare chi gli parlava a questo modo.

— Ah! gli è Lei, dottore. Se perdessi sarei pronto a lasciarle la mia seggiola per farle piacere: ma siccome sono in guadagno debbo a questi signori la loro rivincita.

— Non si dia pensiero di ciò. La darò io a suo luogo a chiunque voglia farmi l'onore di giuocare contro di me.

— Non ne dubito: disse alquanto seccamente il banchiere; ma ci tengo a far da me quel che mi tocca.

— Allora non c'è che un mezzo per aggiustarla: disse con un cortesissimo sorriso il dottore Quercia.

— Quale?

— Giuoco tutta la posta del banco e lo faccio saltare.

— Ah sì? E se invece la perdesse?

— Ripeterei il giuoco finchè mi riesca. Vuol Ella?

Il banchiere esitò un momentino: e poi la paura si dicesse aver egli indietrato per poco coraggio innanzi a questa sfida, lo fece acconsentire.

— Sia pure: diss'egli prendendo due nuovi mazzi di carte e rompendone l'involto.

Gli spettatori che attorniavano quel tavolino, interessati a quella specie di duello, fecero posto a Gian-Luigi, il quale venne a piantarsi in faccia al banchiere e non sedette neppure, ma puntandosi con una mano al tappeto verde, chinò alquanto la sua bella ed aitante persona e disse con tanta semplicità:

— Ecco due mila lire in oro e otto mila in biglietti di banca francese[13]. Li vuole accettare?

Il banchiere fè cenno di sì colla testa, sbirciando i rotoli di marenghi e i pacchetti di polizze di banca che il suo avversario schierava innanzi a sè.

— Non so neppure, diss'egli, se il fondo della banca giunga a tal somma.

— Non importa; rispose con indifferenza Gian-Luigi. Se perdo, conteremo dopo; se guadagno io prendo senza contare.

Intanto il banchiere batteva le carte, e le sue mani tremavano un pochino, quantunque la sua faccia tenesse un buonissimo contegno. Quercia teneva fisso sul banchiere e sulle carte ch'egli maneggiava uno sguardo intento, vivo, imperioso, che pareva doverne imporre all'azzardo, cui non era possibile sostenere senza un certo disagio.

Dopo due minuti passati nel più alto silenzio, il banchiere pose innanzi al puntatore le carte perchè tagliasse.

Luigi fece attendere un momentino, perchè aveva ancora da levarsi il guanto paglierino che calzava la sua mano poco meno aristocratica che quella del conte Langosco. Poi la destra di Quercia, al cui annulare brillava uno splendidissimo diamante in una verga d'oro, si abbassò sui due mazzi di carte battuti e raccolti insieme, e ci stette alquanto, quasi come fa la mano d'un magnetizzatore che voglia far penetrare in un oggetto il misterioso fluido; quindi come per subita ispirazione prese il mazzo, lo battè alquanto egli stesso affrettatamente con tutta l'arte d'una mano esercitatissima e lo ripose sulla tavola. Il banchiere tornò a mescolare a sua volta le carte egli stesso: poi le ripose innanzi all'avversario: Luigi vi battè sopra con un colpo secco della mano e disse:

— Dia.

— Vuole che ne brucii?[14].

Luigi fece un cenno negativo col capo.

Il banchiere esitò un momentino, come riflettendo a ciò che più gli convenisse, poi, tenendo il mazzo colla mano sinistra, prese colla destra un'alzata di carte e la gettò sul tappeto.

Poi gli occhi suoi interrogarono quelli dell'avversario, il quale rimase impassibile. Allora il banchiere diede le due carte al puntatore e ne prese due per sè. I giuocatori presero ambidue le loro carte raccolte nel concavo della mano in guisa che nessuno le potesse vedere e recatesele all'altezza dei loro occhi guardarono la prima e poi fecero scorrere la seconda lentamente oltre la compagna, per iscoprirne a poco a poco il numero dei punti, che è quello che chiamasi filar la carta. Nè l'uno nè l'altro manifestò la menoma impressione che questo esame avesse in loro prodotto. Quercia il primo posò sul tappeto le sue carte ricoperte e si diede a guardare con quel suo occhio penetrativo la faccia del banchiere. Questo eziandio depose le carte distribuitesi e prese in mano il mazzo. Stettero così mezzo minuto ad osservarsi.

— Son disposto a passare: disse poscia il banchiere.

— Io no: rispose freddamente Gian-Luigi; e rovesciando le sue carte scoprì un otto da fiori e un asse da quadri.

[169] Il banchiere frenò un movimento di rabbia che gli fece sgualcire il mazzo che teneva in mano; sforzò le sue labbra ad un sorriso e si alzò tosto.

— A lei dunque, signor Quercia, il campo e le spoglie.

Gian-Luigi andò ratto a sedersi su quella seggiola che lo sconfitto aveva abbandonata.

— Signori: diss'egli togliendo dal taschino l'orologio colla catenella e i pendagli d'oro, e mettendolo innanzi a sè. Premetto che sia che io perda, sia che guadagni, non terrò la banca più d'un'ora giusta da contarsi cominciata in questo momento. Non rifiuto nessuna posta, ma pregherei a non volerne fare di minori d'un napoleone d'oro; quanto più grosse sieno, tanto meglio mi converranno. Il fondo di banca è di circa venti mila lire.

Prese in mano i mazzi abbandonati dal suo precessore e ne raddrizzò le carte state alquanto sgualcite: in quest'operazione pochissime carte gli scivolarono di mano e caddero in terra. Egli si chinò in fretta a raccoglierle.

— Io preferisco di molto tagliare con mazzi di carte non adoperati affatto, e benchè questi non sieno stati battuti che una volta sola, se loro signori lo desiderano, faremo portare degli altri mazzi, chè qui di intatti non ce n'è più.

— Quei lì possono servire benissimo: disse uno che per la passione del giuoco mal tollerava ogni indugio.

— Eh! se piace loro, piacerà anche a me: disse sollecitamente Gian-Luigi; e il giuoco incominciò.

La banca ebbe una fortuna costante. Pochi vinsero fra i puntatori; fra questi pochi il conte di Staffarda.

Trascorsa l'ora assegnata Gian-Luigi depose le carte, ricordò la promessa che aveva fatto, raccolse le vistose somme che aveva dinanzi a sè e lasciò intorno al tavolino i merli che gli era riuscito di bellamente spennare.

Il conte Langosco gli tenne dietro quasi subito.

— La serata è stata buona: gli disse Gian-Luigi che lo attendeva, e lo condusse seco nel vano d'un finestrone. Ecco dodici mila lire che le spettano come sua parte.

Amedeo Filiberto si trasse in là e non porse la mano a ricevere i rotoli di monete d'oro che l'altro gli porgeva.

— Un momento: diss'egli. Abbiamo da levarne quel tanto che ho guadagnato puntando.

— Eh via! Si ha manco da discorrere di queste cose. Abbiamo fatto metà dei guadagni, eccole la metà.

— Bene! Disse il conte con qualche malavoglia. Come la vuole. Ma se le tornasse più comodo, invece di darmi tutta la somma in numerario, mi dia pure di quelle polizze di banco.....

— No: interruppe il giovane, il cui occhio si piantò entro quelli del conte con istrana acutezza scrutatrice: dei biglietti ne ho bisogno io per certe mie faccende.

Il conte prese i denari che Gian-Luigi gli offriva, e poi si partì da quest'esso per andar tosto a pagare alcuna di quelle perdite che aveva fatto su parola. Ma la sua fronte era alquanto annuvolata, e quei denari pareva che gli pesassero oltre il dovere nelle tasche. Aveva egli vergogna di aver acquistato in quel modo un capitale relativamente vistoso? di avere stretto quella società? C'era un po' di codesto, ma c'era anche in fondo in fondo un'ombra indefinita di sospetto, che per la prima volta gli si era affacciata, che la fortuna dell'elegante dottorino era stata troppa e troppo costante.... un sospetto a cui non sapeva trovare fondamento di ragione, che si condannava esso stesso di avere, che se fosse mai stato manifestato da altrui, egli avrebbe vivamente combattuto, ma pure non poteva discacciare dall'animo.

Quei denari gli facevano veramente pena. Quando li ebbe dati a quelli di cui n'era debitore, si trovò più libero, ma non più soddisfatto. Mai denari vinti al giuoco gli avevano prodotto un simile effetto. Deliberò quando Quercia giuocasse di non prender parte mai più al giuoco nè contro a lui, nè dalla sua parte, ma di esaminarlo attentamente.

La superba marchesa di Baldissero fece appena un piccol saluto alla contessa Candida che venne a sedersele dappresso, e continuò la sua conversazione che aveva avviata con due vecchi militari pieno il petto di insegne cavalleresche, e piena l'anima di boria aristocratica, mentre vicino a lei la nipote era il centro d'un piccolo gruppo di cavalieri, fra i quali il solo Benda non era titolato.

La conversazione della marchesa pareva intesa a bella posta per ferire la moglie del conte di Staffarda. La si aggirava intorno alla sconvenienza di certe relazioni, che obliando il loro decoro, alcuni titolati consentivano a stringere nel mondo con gente da meno. La marchesa parlava a voce un po' più alta di quello che forse sarebbe stato strettamente necessario: e le sue parole avevano la fortuna di colpire due delle persone presenti: la contessa Candida e il borghese Francesco Benda.

— Sì, barone, diceva la marchesa continuando nel suo discorso: la massima dei nostri antichi è pur sempre quella che si deve seguire, chi vuole vivere dignitosamente e secondo le esigenze del suo stato: conviene stare ognuno coi pari suoi. Io, per me, j'enrage, quando vedo alcuno dei nostri farsi famigliare con tali che dovrebbero stare nelle nostre anticamere o poco più: o peggio poi quando vedo qualche dama così oublieuse del suo sangue da lasciarsi avvicinare e corteggiare da qualche [170] figliuolo di non so chi, o notaio, o mercante, o va dicendo.....

Candida sentì a suo dispetto una vampa di rossore salirle alla fronte; gettò sulla vecchia marchesa dalla faccia di pergamena uno sguardo che l'avrebbe voluta incenerire, e si diede ad annasare il mazzo di fiori che teneva in mano.

Le parole della marchesa di Baldissero erano arrivate anche alle orecchie di quei giovani che attorniavano madamigella Virginia, e profondamente avevano commosso uno di essi, il nostro amico Benda, ricco, ornato d'ogni maggior vantaggio dell'educazione, colle più eleganti e signorili apparenze, ma figliuolo d'un fabbricante. In quella società aristocratica, nella quale a forza di tentare e insistere era pur riuscito, se non a mettere stabile piede, a potervi fare delle incursioni, aveva pur sempre sentito presso tutti verso di lui, quel certo tono e quel fare che colla massima urbanità sa nulla meno chiaramente esprimere a colui col quale si usa: — Badate che io sono il tale de' tali e voi siete un nulla! — E molte volte aveva provato un ribollimento interno, che se non era tale da farlo inalberare violentemente contro quei modi, lo spingeva almanco a tutta forza ad abbandonare quell'ambiente e ritrarsene per sempre. Ma una catena troppo salda era quella che lo riconduceva, ancorchè riluttante, ad ogni volta: l'amore immenso, violento, al di sopra d'ogni possibil freno della ragione, una vera passione che gli aveva ispirata la impareggiabile bellezza di madamigella Virginia.

La sera di cui discorriamo, quella offensiva superbia aristocratica era già stata trovata maggiore ancora del solito dal povero Benda, il quale, malgrado la contraria risoluzione che prendeva ad ogni momento, non poteva trattenersi dal capitare presso la giovane aristocratica ed aggirarvisi sempre dintorno, proprio come intorno all'ardente fiammella fa la mal cauta farfalla.

Le parole della marchesa suonarono alle sue orecchie come un congedo sì evidente, che suo primo pensiero fu di allontanarsi senz'altro — beninteso per non ricomparir mai più, diceva egli fra se stesso. Ma non osò farlo di botto: quelle parole dette in un discorso particolare a cui egli non pigliava parte, dovevano passare come non udite da lui; e poi, fosse caso, o benigno proposito della nobil fanciulla dall'animo generoso, in quella la signorina gli rivolse la parola, e non glie ne parve un'illusione una maggiore gentilezza, quasi potrebbe dirsi dolcezza ch'ella aveva nell'accento e nello sguardo. Rimase; ma col cuore ulcerato e desiderando fra sè che uno di quei giovani sprezzanti gli desse una buona occasione di prendere la sua rivalsa.

Fra questi giovani nobili, il più acconcio a questo uopo era il cugino di Virginia, il marchesino di Baldissero. E con lui diffatti, come già sappiamo, avvenne la scena che interrottamente narrò ai suoi amici Benda medesimo.

I suoni d'un'aria di danza giunsero sino a quella più riposta camera ad avvisare i personaggi del nostro dramma, che si cominciava a ballare una polka.

Benda porse la destra inguantata alla giovane e le disse con un inchino:

— Ecco la polka che Ella mi ha fatto l'onore di favorirmi.

Virginia rispose con un sorriso, e sorse in piedi.

Il marchesino di Baldissero, fece un passo innanzi, come per mettersi frammezzo a sua cugina ed al cavaliere che le tendeva la mano.

Pardon! Diss'egli con accento che nella sua apparente cortesia conteneva un'indicibile sprezzatura verso il Benda. Il signor avvocato avrà la compiacenza di aspettare un'altra polka perchè questa ha da esser mia.

Francesco volse verso il nobile uno sguardo che mostrava non domandar egli di meglio che trovare in quell'incidente l'occasione d'un conflitto.

— Questa compiacenza: diss'egli con tono in cui mal si celava il risentimento: questa compiacenza sarebbe veramente troppa, e non mi sento la forza di averla.

Qu'est-ce à dire? Domandò il marchesino levando il capo e inarcando le ciglia.

La ragazza s'intromise colla sua dolce voce così melodiosa e col suo sorriso così soave:

— Veramente questa polka la ho promessa all'avvocato Benda.

— Ah benissimo! Esclamò Baldissero con impertinente indifferenza. Ciò non toglie che io non domandi di ballarne teco una parte.

La ragazza si volse verso il giovane borghese con un legger cenno del capo, come per dire che in lui stava l'accordare o il rifiutare codesto.

Benda ebbe un istante la tentazione di negare asciuttamente ciò che il marchesino domandava: ma mentre esitava nella risposta, il nobile si affrettò a prendere il suo silenzio come un consenso.

— Siamo dunque d'accordo. Dopo il primo giro, l'avvocato mi farà il favore di cedermi il tuo braccio.

Il borghese non seppe trovare altra risposta fuori quella di chinar lievemente la testa. I giovani si avviarono tutti alla sala da ballo, eccetto la contessa Langosco che si disse stanca e non volle accettar la mano che le offriva un cavaliere. La marchesa si volse e le disse sotto voce col suo accento mordente ed incisivo:

— Come? Ella preferisce star qui con me a tutti i trionfi della gioventù e della bellezza che le spettano?

— Preferisco gli ammaestramenti dell'esperienza [171] che potrei attingere dalla sua conversazione s'Ella me la favorisce.

La marchesa la guardò d'alto in basso con aria sovranamente orgogliosa e fece frusciare il ventaglio aprendolo e chiudendolo colla mossa elegante con cui usava civettare leggiadramente venti anni prima.

— Ah sì! Ecco un sentimento che le fa onore. E difatti potrei dargliene parecchi di questi ammaestramenti di cui mi pare la contessa Langosco abbisogni.

— Nè v'ha chi sia meglio in caso di darli della marchesa di Baldissero.

— Senta, cara contessa. Non facciamo guerricciuola a ripicchi, che fra noi non è il caso. Io provo un grande interesse per lei. La famiglia Langosco e quella di Baldissero sono congiunte in parentela. Ogni giovane donna d'altronde della nostra classe m'interessa..... e quando vedo alcuna commettere delle imprudenze, vorrei poterla amichevolmente ritrarre dal mal passo.

Candida si turbò, ma interruppe con accento offeso:

— Come crede Ella potere a me volgere ed applicare simili parole?

— Come? E non crede Lei che sia un'imprudenza il manifestare apertamente l'impazienza e il cattivo umore d'una protratta aspettazione. E poi, cessata quest'attesa, lasciare così facile il varco a interpretazioni che si dovrebbe fare in ogni modo da escluderle circa certe attinenze?

Candida fece un moto. La vecchia marchesa le pose con gesto famigliare l'estremità del suo ventaglio sopra il braccio.

— Permetta. Io non le parlo come una madre, nè come un confessore. Le parlo da amica... una vecchia amica che non è molto severa... Allez. E mon Dieu! non è il male che si fa quello che merita maggior condanna, ma quello che apparisce... Non dico già che vi sia il male, ma è molto peggio che si mostri senza esservi, di ciò che sia quando esista e si nasconda; comprenez-vous? E poi, se una donna può disporsi ad affrontare con coraggio certe permalosità sociali, alcune pruderies du monde, conviene ancora che la cagione per cui la si espone a questo modo sia tale da meritarlo.....

Candida era per rispondere alcuna parola quando Virginia entrò frettolosamente, pallida e commossa, esclamando:

— Ah zia! Usciamo, torniamo a casa, ne la prego.

La marchesa si alzò non senza qualche sgomento.

Bon Dieu! Diss'ella. Che cosa è dunque capitato, ma petite?

Ed ecco quello che era avvenuto.

Benda e la signorina Virginia avevano appena finito il primo loro giro di danza, quando il marchesino di Baldissero si presentava a farsi cedere il braccio della sua nobile cugina, secondo l'ottenuta promessa.

Il giovane borghese, benchè assai a malincuore, si affrettò a lasciare il luogo all'insolente blasonato; e mentre la nuova coppia s'avviava a prender posto nella schiera dei danzatori, Benda udì il marchesino dire a sua cugina:

— Fai molto male tu ad accordare delle danze a chiunque venga a domandartene....

Ma non potè intendere la risposta che diede la signorina a bassa voce, allontanandosi.

Quelle parole erano fatte per offendere profondamente un uomo che sentisse la sua dignità, che avesse sangue giovanile nelle vene; figuratevi poi un innamorato che le oda dette a suo scorno in presenza della donna che ama! Francesco aveva capito che il ripigliarla subito per quei detti non era prudente nè conveniente; ma se aveva dovuto usare forza non poca per contenersi, erasi tuttavia proposto di averne ragione dal signor marchese col primo pretesto che gli si presentasse.

Era stato inteso fra i due giovani che il nobile avrebbe restituito la dama al primo di lei compagno, colà stesso dove egli l'aveva presa; onde Francesco stette piantato a quel luogo ad aspettare. Ma ebbe invano aspettato un poco che a lui parve assai, e nessuno venne. Guardò nel salone e vide il marchesino continuare a ballare colla cugina, anche dopo il giro che solamente gli era stato concesso. Benda si disse che quella era una indiscrezione che meritava i più vivi richiami. Ma vi fu peggio, perchè ad un punto, mentre la coppia si riposava, le si accostò un ufficialetto di cavalleria, e confabulato un poco, il povero borghese vide che il braccio della nobile danzatrice passava su quello dell'ufficiale, e che con costui la signorina si slanciava nel vortice del ballo senza che il meno del mondo si pensasse più a lui, il quale pel concessogli favore credeva di aver diritto a ballare tutta quella polka colla segretamente adorata ragazza.

Sapete che gl'innamorati hanno innanzi agli occhi certe lenti che ingrossano a dismisura o svisano le apparenze degli oggetti. All'amore qui si aggiunse l'amor proprio ferito. Parve a Francesco che quello fosse il peggior tratto che gli si potesse usare, e che bisognasse, per non averne avvilimento e disdoro, una buona e sollecita vendetta. Se quella non era un'irrepugnabile ragione per ammazzarsi in duello, Francesco non sapeva più vedercene altre. Stette covando, per così dire, la coppia che ballava sotto i suoi occhi, a dispetto de' suoi dritti, con isguardo pieno di collera e di minaccia. Pensava sfidare e il marchese e l'ufficiale e mandarli addirittura tuttedue all'altro [172] mondo. Egli, che pure aveva la più mite natura, immaginava senza orrore qualche tremenda opera di sangue.

Quella polka, che parve eterna al nostro giovane amico, ebbe pur termine finalmente! Le ultime note dei violini tremolavano ancora per la volta della vasta sala, quando Francesco si venne a piantare presso alla porta da cui, per tornare presso alla vecchia marchesa, dovevano passare il marchesino e madamigella Virginia. Il suo aspetto era fieramente corrucciato; il solo suo sguardo era una provocazione. Il marchesino che lo vide, pose l'occhialino sul naso e rispose a quella minacciosa del giovane con una sua guardatura impertinente e beffarda.

Francesco Benda fece un passo verso la giovane, e inchinandosi con quasi umile urbanità, le disse:

— La ringrazio, madamigella, di questa polka ch'Ella mi volle favorire, quantunque l'indiscrezione altrui mi abbia impedito di godere, come avrei dovuto, di tal favore.

Virginia volle pronunziare alcuna parola, ma il cugino non glie ne lasciò il tempo.

— Di quale indiscrezione, e di chi intende Ella parlare? Domandò egli con fiero cipiglio.

Benda lo guardò bene entro gli occhi e rispose con accento provocativo:

— Della sua.

— Signor avvocato: disse il marchese con beffardo disprezzo nell'accento, uno dei primi doveri del suo mestiere è quello di parlar convenientemente; ora Ella deve imparare che ad un pari mio non si parla in quel modo nè con quelle parole.

— Signor marchese: disse Benda di ripicco senza lasciar tempo in mezzo; uno dei primi doveri d'ogni uomo di garbo è di trattar bene; ed Ella usando ora meco in quel modo avrà forse trattato da nobile, ma certo non ha trattato civilmente....

Virginia allora fece ad intromettersi.

— Signori! Diss'ella colla sua soave voce tremante.

Ma il marchesino, con gentile violenza la trasse indietro, e come Francesco Benda stesso aveva narrato, freddamente aveva percosso col suo guanto la guancia del borghese.

Sappiamo che cosa n'era succeduto. Virginia s'era affrettata a riparare presso la zia; il marchesino e l'avvocato disgiunti dagli accorsi avevano scambiata una sfida.

Francesco era venuto presso i suoi amici e poi recatosi a casa sua: dove Giovanni Selva, interrotto il racconto di Maurilio, erasi recato ancor egli in sul giunger dell'alba per accompagnarlo qual testimonio nel duello.

Prima di seguitarlo noi pure sul terreno, conviene che facciamo più ampia conoscenza con quella buona, onesta ed operosa famiglia borghese a cui il giovane apparteneva.

Fine della 1ª Parte.

NOTE:

1.  Introdurre la figura di re Carlo Alberto nelle scene del mio racconto, è ella una imperdonabile temerità? Spero di no. Nello svolgersi di questa storia, insieme colle varie classi sociali, ho pensato introdurre anche la monarchia in presenza del problema della plebe. E il monarcato non poteva meglio rappresentarsi che nella nobile, maestosa figura di Carlo Alberto. L'arguto lettore, a quest'ora, si sarà accorto che nei personaggi introdotti a sostenere una parte in questo dramma, si incarnano varii tipi, e in quello di Maurilio stanno raccolte ed espresse in gran parte le qualità, i bisogni, i sentimenti della plebe che conoscesse i suoi mali, e travedesse i rimedi di essi, ed avesse acquistato il sapere di formolarli ed esprimerli. Se questa plebe si troverà in contatto colla monarchia, non è ella la cosa la più naturale del mondo; e quando nessuna delle parti ne resti calunniata o le sue condizioni falsamente espresse, qual legge di convenienza o di verità potrà dirsi offesa?

2.  Vedi Novelliere Contemporaneo.

3.  Vedi nel volume 2º dei Miei Ricordi di Massimo d'Azeglio la narrazione dell'abboccamento avvenuto fra lui e Carlo Alberto.

4.  Questa lettera fu scritta al conte di C.... nell'autunno del 1845.

5.  Maurilio aveva ragione. Quest'uomo esisteva già nelle file della nazione: ed era lo allora ignoto — anzi, peggio che ignoto, malvisto — Camillo Cavour. Se questi fosse stato ministro di Carlo Alberto a quei tempi, chi sa quante cose a benefizio del Piemonte prima, dell'Italia poi non si sarebbero allora compiute!

6.  Fra i tanti tribunali privilegiati che vi erano a quel tempo, contava l'Uditorato di Corte, il quale giudicava delle offese fatte alla Maestà Reale, e di ogni delitto commesso in palazzi reali o in luoghi dove fosse anche temporariamente qualche persona della famiglia regnante.

7.  In regem Solem ad Sallustium, Julian. Op.

8.  Una statistica francese ha calcolato che fra i coscritti mandati all'esercito, nel primo anno la mortalità è più del doppio di quel che dovrebb'essere; negli anni successivi questa mortalità diminuisce, finchè dopo quattro anni è ridotta allo stato normale. I superstiti si sono acclimatati.

9.  Non sono molti giorni passati che io stesso ne vidi coi miei occhi un esempio. Una povera vedova campagnuola ha due figliuoli maschi ed una femmina; tutti tre allevati con somma cura dalla brava donna e rinomati un tempo per i migliori che fossero nel villaggio. Uno dei figliuoli andò soldato e fece i suoi cinque anni. Quando tornò, nessuno l'avrebbe più riconosciuto per quel desso, essendosi dato al vizio dell'ubriachezza, al libertinaggio, ed avendo perso quella religione che alle passioni del popolo è il maggior freno. Fu la disperazione dell'intiera famiglia. Ultimamente fu richiamato sotto le armi per la nuova guerra contro l'Austria. Cominciò per ispillare dalla madre, dal fratello, ed anche dalla sorella — e non senza minaccie e cattivi trattamenti — tutto il denaro che avevano e che poterono procurarsi, vendendo questa o quella di loro robe; e non era ancora partito a raggiungere il Corpo, che tutto già aveva consumato in bagordi. Giunto all'esercito, non iscrisse mai che per domandar denari, e la povera gente a farsi in quattro per procacciarsene e mandargliene. Alla battaglia del 24 giugno cadde ferito, fu recato in un ospedale di Brescia, e figuratevi se la povera famiglia non ebbe a tagliarsi le vene per nuovi sussidi. Breve! Gli fu amputata una gamba e rinviato a casa con congedo assoluto. Ci giunse appunto di questi giorni. I suoi lo aspettavano con affetto trepidante. Egli arrivò ubriaco marcio, e non era passata un'ora ch'egli aveva battuta la sorella, minacciato il fratello e perso il rispetto alla madre.

10.  La prima cattedra di economia politica fu istituita all'Università di Torino nella primavera del 1847, e fu chiamato a professarvi lo Scialoja. Parve quella allora una gran concessione liberale.

11.  Queste cose, che ora sembrano incredibili, succedevano allora nel nostro paese. Quando un nobile era troppo perseguitato dai suoi creditori, il sovrano lo traeva dalle peste in siffatta guisa, ma bisognava che egli fosse proprio nobile di tutti i quarti. Così rispettavasi a quel tempo la giustizia civile!

12.  L'uso di recare in dono dolci e confetti alle signore che si vanno a visitare in palco al teatro Regio vive ancora oggidì — ma di vita stentata; — nei tempi addietro era assai più generale e seguitato.

13.  Allora non eravi ancora la Banca Sarda.

14.  Si dice bruciar carte il levarne dal mazzo una certa quantità che si gettano in mezzo a scarto e non si distribuiscono ai giuocatori.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (San Luca/San-Luca, desio/desìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Mancano nell'originale le intestazioni dei capitoli XVI, XVIII, XIX e XX.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






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including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg-tm work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg-tm work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at
www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
volunteers and employees are scattered throughout numerous
locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt
Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:

    Dr. Gregory B. Newby
    Chief Executive and Director
    [email protected]

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular
state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate

Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our Web site which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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