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DEDICA — SCARABOCCHIO

Ritratto

LE

COMMEDIE

DI

VALENTINO CARRERA

..... Se voeren sti poetta

Ciappottan i passion, moeven el cœur,

Hann de toccann i tast che ne diletta,

Ciapann, come se dis, dove ne dœur;

Senza andà sui baltresch a tirà a man

I coregh e i scuffion gregh e roman!

Carlo Porta.


VOLUME PRIMO


TORINO
TIPOGRAFIA L. ROUX E C.
1887


L'editore e l'autore, osservati tutti gli obblighi, intendono di fruire di tutti i diritti della proprietà sia per la riproduzione e la traduzione, che per la rappresentazione.

(918)


INDICE

LA DEDICA
SCARABOCCHIO


[iii]

LA DEDICA

In teatro; un teatro quale lo sogna chi abbia studiato la drammatica non meno dal palco scenico che dalla platea: elegante con semplicità, armonico, commodo per ogni verso, bene aerato e sempre in giusta temperatura; col pavimento delle corsie di platea, dei corridoi dei palchi e delle gallerie coperto di stuoie fitte; senza porte che cigolino o sbatacchino, coi servi puliti e zelanti, i siparisti astemî, la platea divisa dall'ambulatorio da doppie porte soppannate che impediscano di entrarvi tanto quella piccola corrente d'aria fredda che potrebbe ridurre allo zero il poco calore degli spettatori per la commedia, quanto le chiacchiere, spiritosissime del resto, fra le maschere che raccolgono i biglietti e la mutria dell'amministratore della Compagnia. Il teatro è pieno, ma non pinzo, di gente tutta a sedere, colla digestione bene avviata, esigente ma garbata, senza preconcetti, senza impazienze e senza tosse. Nè balie, nè bambinaje con fantocci; nè cani, sia in platea che sul palco scenico, bel caso. Ogni spettatore è dunque tanto a suo agio e in così conveniente luce da dovere nello stesso tempo rispondere di sè e non avere alcun motivo di far scontare all'autore ed agli attori il disagio solito dello stare in piedi o del sedere incommodo. Nei palchi, delle signore belle, e, se non guasta, un pochino colte; delle signorine amabili e vivaci e pure attente; delle matrone spiritose e tuttavia discrete: qualche celebrità di qualsivoglia mondo, tanto per crescere prestigio alla serata e dare un mezzo ai giornalisti di dire che c'era il solito fior fiore di tutte le aristocrazie, da quella della nascita, la più minchiona ed indulgente, a quella dell'ingegno, la più superba e procace. In platea e su nelle gallerie, in misura contemperante, un po' d'ogni viva classe, e magari degli studenti: le donne ascoltano, mentre si recita, e tacciono, e gli uomini non fumano, sebbene non sia vietato che dal galateo.

[iv] Nella Compagnia che recita non ci sono soltanto degli attori come in troppe altre; ma parecchi comici, e, per giunta, anche qualche vero artista. Il Direttore, che non è nè attore, nè impresario, ha fatto scrivere a lettere cubitali sulle pareti del palco scenico: non si può dare vita a qualsiasi parte se non si sa a memoria.

E nelle quinte non c'è caso che attori ed attrici stiano ripetendosi la sera quanto già si sono detto il giorno alla prova, il gran bene che si vogliono, poichè lo stesso Direttore, sapendo che la vanità e la puerilità dei comici sono assai più fiere nemiche dell'arte che non sia l'indifferenza apparente del pubblico, non tralascia occasione per dimostrare coll'efficace eloquenza delle multe i miracoli di Santa Disciplina. Poco repertorio ha questa Compagnia; ma spiegato e studiato con amore e allestito ammodo. Gli è che il capocomico ha proprio di suo, non par vero, due capitali, quattrini e intelligenza; così la sua nave veleggia sicura, attesa in ogni porto, lodata da chi se ne intende e gradita, che è meglio, a chi non se ne intende e paga il suo bravo biglietto. Ma l'abile orchestrina a cembalo ed archi ha ormai terminato la suonata di prefazione, e Tita è già nel suo buco, sebbene non abbia per ora da rammentare, e tanto meno poi da suggerire... Ecco, da una quinta, prima che si levi il sipario sulla commedia, l'Autore in persona, in giubba, con un libro nella destra e il cappello a soffietto nella sinistra, che s'avanza al proscenio inchinandosi al Pubblico, come al suo Sovrano...

Si sente a volare quella certa mosca.


L'autore: — Altezza Serenissima! La nuova edizione in cui raccolgo i miei meno peggio componimenti non può essere dedicata che alla ben degna Erede della più antica e sicura Dinastia, di quella che fra i suoi fasti gloriosi può sola vantarsi di avere inspirato la vita al più intero e nobile portato delle lettere e delle arti, la drammatica.

Questa dedica non dovrebbe veramente esservi fatta che nel lieto ricorrere della giocondissima fra le feste dei campi, la vendemmia, quando i colli trionfano, e gli uomini lieti per la larga ricompensa ritornano per un paio di settimane quali li ha fatti madonna natura, più inclinevoli all'amore ed alle canzoni che non alle torbide suggestioni dell'avarizia, della vanità e dell'invidia, poichè è proprio la vendemmia la solennità in cui è nata per non morire mai più quella Commedia cui il canto dei vignaiuoli e delle vendemmiatrici fu il primo coro, il mosto la prima maschera, e l'avvicendarsi scoppiettante delle botte salaci e delle risposte argute fra garzoni e maschiotte versanti nelle bigoncie i panieri ricolmi di grappoli, il primo dialogo scenico, saporito e vivace e rapido.

[v] Oh il bel natale che è stato questo della Commedia! E se questa potesse essere l'opera d'un uomo solo, io credo ch'egli potrebbe ritenersi senza peccato quale un Dio creatore di una seconda vita assai più bella della reale, poichè nella sua sintesi rapida e logica non presenta che azioni sempre rispondenti alle premesse, gioje più intere e dolori più brevi e con un termine così sicuramente lieto che basta il suo spettacolo ad aiutarci a sopportare i guai nostri.

Ad ogni modo la gloria di aver dato la prima forma a questa Commedia così benemerita dell'umanità e sempre viva e fresca quanto la tendenza dell'uomo al vendicarsi delle proprie debolezze ridendo e satireggiando le altrui, è splendidissima gloria nostra nè più nè meno di quelle altre minori di avere inventato la farsa, l'opera ed il ballo.

Nè vi sia discaro che io aggiunga che la Commedia, che è un giocondo contrasto di caratteri e di passioni, di volontà e di accidenti, è nata dove doveva nascere, nella terra dei maggiori contrasti, la Campania, paradiso di sopra e inferno di sotto, felicissima per splendore di orizzonti, fecondità di campi e mitezza di mare, in mezzo ad un popolo la cui prima memoria istorica è una solenne risata ed una vittoria: la risata dell'esercito romano quando lo vide scendere contro di lui in campo vestito di bianco, coll'elmetto di feltro e lo scudo inargentato, un quissimile di Pulcinella camuffato da Capitan Fracassa. Ma il popolo Osco era sceso dai monti al piano e s'era ingentilito alla dolce cote delle civiltà Fenicia, Greca ed Etrusca senza rimetterci il tipo d'origine, elastico ma resistente, e così mentre la risata mollava i muscoli ai Romani, i Campani poterono farsi loro addosso con tanta furia da obbligarli a correre alle navi con troppo maggior fretta che non comportasse la dignità Quirite.....

E questo popolo, che portava poi a Roma la sua Atellana per vincere un'altra volta ma in meno disuguale palestra i vincitori del mondo, anche oggi è su per giù quello stesso che descrissero nei libri, sulle pareti e nelle ceramiche scrittori e pittori da diciotto a ventiquattro secoli fa: un popolo piuttosto pronto alle mandòle ed alle chitarre che alle coltella, chiassoso ma docile, sensuale e pur frugale, facilmente millantatore e tuttavia rispettoso, più credenzone che bugiardo, più apatico che avido; un insieme di nobili entusiasmi e di paure ridicole, di malizie e di ingenuità, di arroganze e di abbandoni, di cinismo e di finezze, assai migliore, sopratutto nel popolino, della sua fama; un popolo insomma cui non [vi] mancò per arrivare i Greci nelle arti e nella filosofia che la loro febbre di sogni, la loro profonda passione per ogni alto ideale; il popolo, comecchessia, per il linguaggio, il gesto, le improvvisate e le antitesi, più comico di tutta la nostra Italia comicissima.

Dunque la Commedia allegra, la Commedia di carattere necessariamente basata sulla satira e sulla parodia e pure in ogni sua espressione temperata dall'antica severità dei costumi, è cosa italica e non importata di Grecia, come tante buone e brave persone suppongono per pigrizia, e parecchie che non furono mai nè buone nè brave tacciono per quello scellerato furore di negazione e di avvilimento che strappa così spesso agli italiani le penne maestre ad ogni volo.

Codesta gente, poca di numero e di virtù, ma sfacciata per cento, coll'aria di novatrice ma in fondo di quell'Arcadia che in Italia non muore mai, tace dell'Atellana maestra di Plauto; tace che gli antichi italiani insegnarono ai Greci con Epicarmo a perfezionare la Commedia così che si nutrisse essenzialmente del ridicolo dei contemporanei e si sostenesse più sui caratteri che sui viluppi e sugli equivoci; omette di sana pianta che la Commedia moderna trae la sua inspirazione nel nostralissimo Boccaccio, e che anche quando la maledetta fregola dell'erudizione e dell'imitazione tarpa le ali all'originalità paesana ed impedisce ad Ariosto di darci una rispecchiatura shaksperiana del tempo, la singolarità nativa rifulge ancora in P. Aretino, Macchiavelli, Cecchi e G. B. Porta — e basterebbe Macchiavelli, saldissimo anello fra Plauto e Goldoni; — dà di frego con disinvoltura pari alla buona fede a quella Commedia dell'arte che ha divertito per più di due secoli tutta Europa, maestra allo stesso Molière d'intreccio, di movimento, di dialogo e di teatralità, e dato uno sgambetto al Goldoni liberatore dell'Italia dai Goti e rievocatore del buon gusto in Francia, come se non avesse, unico fra i più insigni, il vanto di poter presentare dopo un secolo e mezzo la bellezza di venticinque Commedie tutte rappresentabili con sicurezza di successo, butta nel cestino il nostro teatro popolare, continuatore della tradizione atellana, scarso ma originale e invidiabile da ogni altra nazione, e per vuotare il sacco, finisce per sentenziare a faccia tosta che gli italiani, grulli, non hanno mai avuto una Commedia, nè possono averla.

Ma perchè tant'ira contro il nostro povero teatro?

Il perchè io lo farò dire a Vostra Altezza Serenissima dal Cavaliere senza macchia e senza paura, Massimo D'Azeglio. [vii] Il quale narrandoci nei suoi mirabili Ricordi come Luigi Vestri gli respingesse la sua prima ed unica Commedia, si lascia ingenuamente scappare che se ne consola facilmente col riflettere che torna affatto inutile pensare a scrivere commedie in Italia, «non essendovi nè lingua, nè attori, nè pubblico», quasi che due milioni di toscani non provassero che la nostra lingua è così piena di nervi, di muscoli e di grazie da essere sufficientissima, se non n'avanza, per sognare, far all'amore, insegnare, discorrere, canzonare e bestemmiare chiarissimamente per ogni italiano!... Quasi che non avessimo al tempo istesso della triplice bugia attori quali il Vestri e Gustavo Modena insuperabili, e anche ora altri da non essere di leggieri superati, quando il vogliano, dove che si sia!... Quasi che il nostro pubblico non fosse suscettibile di tanto progresso nella via del buon gusto da parermi talvolta più indipendente dalla moda e più largo nell'accettare forme e concetti di quello istesso cotanto vantato di Parigi!

Basta adunque un'offesa all'amor proprio, un'amara delusione perchè un gentiluomo fior di cortesia e di onestà sia tratto fuor dei gangheri a dichiarare che se nella commedia non c'è riescito lui, non è per altro se non perchè non ci si può riescire in nessun modo da anima nata!... Figuratevi poi quando cotesto strappo è dato all'orgoglio di gente che in troppe cose non arriva alle calcagna del D'Azeglio, e per giunta, per dirla colla felicissima trovata di Yorick che spiega da sola tutte le rabbie della stizza e dell'invidia, è rifischiona! Allora cotesta gente lascia in disparte il sonetto ed il romanzo per fare della critica, una critica nuova e seria che non ha nulla che fare, s'intende alla prima, con quella che da anni accompagna paziente e amorosa il travaglioso saliscendi del teatro nazionale. Da quell'istante tutti gli antichi che si sono riguardati come maestri nella commedia e nella tragedia sono dichiarati ferri vecchi, e tutti gli altri più o meno felici continuatori delle tradizioni goldoniane ed alfieriane, indegni di essere citati se morti, odiosi addirittura se per loro dabbenaggine vivi. A critica nuova un'arte nuova. Dopo la bella prova che quei messeri hanno fatto nella commedia, la comicità non è più indispensabile alla commedia quanto il sole alla primavera e l'amore alla gioventù, diventa anzi virtù volgare; così l'archeologia, non importa se incapace di trarre un sorriso od una lagrima, piglia il passo alla commedia viva e festosa che attinge la sua ispirazione dall'osservazione della vita contemporanea. Premesso che la più scipita farsa straniera vale meglio della [viii] più indovinata commedia italiana, la fama si nega o si distribuisce a seconda della parrocchia letteraria e senza via di mezzo: o alle stelle o alle stalle... bene inteso che se mandano alle stelle lassù è per goder presto il loro più gradito degli spettacoli, quello d'Icaro e di Fetonte precipitanti.

O che bel libro curioso ed onesto si potrebbe scrivere intorno a quello che gli stranieri, dopo averlo studiato, ci invidiano — e io penso sopratutto a Carlo Goldoni il cui nome cresce, oltralpi, ogni giorno più nell'ammirazione universale — e noi senza degnarci di guardare disprezziamo, forse perchè il nostro scetticismo di gente pigra ed invidiosa ci impedisce di avere in alto concetto altro che il nostro valore individuale!

Gli è adunque proprio il momento buono di mandar fuori tre o quattro volumi di commedie!!

Ma io sono, o Altezza Serenissima, di un ottimismo incorreggibile, e come uomo navigato in questo mare burrascoso so per qualche prova che quando si è sentito una volta la lusinga di poter vedere una folla agitarsi, fremere, ridere od intenerirsi sotto il nostro pensiero, è assai improbabile che passato lo sgomento del primo insuccesso non si ritenti l'esperimento, a costo di pigliarci quella febbre di cui non si guarisce più... In questo caso io sono sicuro che appena cotesti detrattori sistematici della nostra drammatica saranno riesciti ad ottenere il più modesto applauso, muteranno di punto in bianco registro non altrimenti che i detrattori del giornalismo appena possono leggere su per le gazzette il dolcissimo fra i nomi, il loro.

Dunque io spero tuttavia che Vostra Altezza Serenissima, che già si degna di fare buon viso a questi componimenti quando vi sono rappresentati, voglia pure gradire la dedica che con spontaneità d'animo riconoscente vi faccio della nuova edizione che li raccoglie a stampa... (un movimento nel pubblico...)

Capisco: Vostra Altezza è lì per dirmi: pigliate abbaglio; io sono il Pubblico, un cliente, un giudice, quel che vi pare, non mai un Mecenate; i vostri Mecenati naturali, secondo la sanzione della tradizione e della leggenda, sono i Principi, i Ministri, i Prelati ed i Patrizi; e lasciate stare anche il titolo, più conveniente ad un discendente di Caio Cilnio, se vi riesce di trovarne, che a me buon democratico imbevuto di idee di eguaglianza...

Una voce: — Bravooo!

L'autore: — Circa l'eguaglianza rispondo: speriamo che [ix] si trovi dinnanzi al diritto come al dovere in tribunale, allo sportello dell'agente delle tasse e dinnanzi al pericolo; ma cercarla in teatro, dove ognuno è così geloso del suo posto quanto l'attore della sua parte, lasciamola lì!... Non è punto a caso o per capriccio che ora che al teatro italiano si nega anche il Pubblico, io mi rivolgo contro ogni usanza cortigiana a Voi invece che ai Mecenati del buon tempo antico: per quanto mi guardi attorno per trovare un protettore cortese, generoso e duraturo, non mi riesce di vederne uno per ogni verso meglio disposto e conveniente di Voi, senza pericolo alcuno per la mia dignità.

Non mancano certo e Principi e Prelati e Ministri e Patrizi: ci sono per soprappiù i cresi della banca e della borsa, e giammai ci fu tanta ricchezza in tanti e sì ardente brama di farla ammirare; giammai si parlò tanto di coltura, di arti belle, di civiltà.

Eppure è bell'e passato il tempo in cui Alberto Nota, sebbene italiano e non più valoroso di Riccardo Shéridan — che poteva col solo successo di due o tre commedie conquistare le più illustri amicizie, la direzione del primo teatro drammatico, un posto nel Parlamento e poi una tomba in mezzo ai Re della corona e del pensiero — era dapprima assunto a segretario di Carlo Alberto, quindi fatto Barone, allora, Prefetto di una Provincia e socio, nientemeno, dell'Accademia delle Scienze; nè possono più esserci gli equivalenti delle compagnie assoldate nella prima metà del secolo dalle Corti d'Italia: ai Principi deve bastare ora, quando non ne hanno d'avanzo, la commedia politica che sono obbligati a giulebbarsi, anche quando fa stomaco.

Tutto quello che possono fare per la drammatica, dicesi, è lasciar cascare qualche commenda che ahimè! non ci farà più commendevoli, qualche ordine di cavalleria che ci lascerà a piedi e terra terra come prima!

I molto reverendi nostri Prelati poi fanno anche meglio: ignorando che il teatro risorse per solo merito del Clero nelle Cattedrali e conta nella sua istoria non solo Cardinali e Pontefici favorevoli, ma Santi Comici e Drammaturghi, involgono in un commodo disprezzo anche quell'arte che parve poter essere onesta ed utile allo stesso filosofo Aquinate.

I Patrizi o non possono più essere Mecenati o non sanno; e potendolo o sapendolo, temerebbero di essere mistificati dai farinelli che s'intruderebbero fra loro e i protetti per ingrassarsi alle spese degli uni e degli altri.

Quanto ai Ministri, bisogna loro rendere questa giustizia, [x] di dieci in vent'anni domandano in qual modo la possa campare questa benedetta drammatica, e questa sollecitudine così consona alle antiche tenerezze democratiche per la commedia aristofanesca, deve bastare. Non negherebbero fors'anche, a chi lo implorasse con un foglio di carta bollata da mandare all'archivio un sussidio; ma non è ancora bene assodato se la limosina farebbe più onore al Ministro od alla dignità dello scrittore. I membri del Parlamento, e più i molti che amoreggiarono poco corrisposti con Talìa, alieni da ogni favore verso la commedia, forse perchè trovano troppo facile la loro.

I Comuni, aboliti premj e scuole per la drammatica, serbano, al pari delle Accademie, le loro tenerezze per i pittori, non cerchiamo se giustificate, e per le ballerine, giustificatissime. La maggior parte dei milionari poi non ha l'aria di amare le arti che non concorrono al mobilio della casa, e meno che mai i libri: non può forse dimenticare di essere riescita nelle sue imprese senza aprirne uno. Tirati i conti, s'arriva a questo che ogni ragione è buona per non far nulla per il nostro teatro, e se si spende ancora qualche cosa per i commediografi che non associano in adultero connubio l'arte colla burocrazia o la politica dalle mani viscose, più che per nutrirli è per seppellirli.

Il pubblico: — (ride e sta per applaudire...)

Un signore: — (da un palco al proscenio, di scatto) Domando la parola! (risata generale) È per fare un'osservazione nell'interesse del Pubblico istesso che domando la parola!

L'autore: — (cui si rivolge ogni sguardo) Per me se la pigli.

Quel signore: — (all'autore) Le sue sono di gran belle parole...

L'autore: — Troppo buono!

Quel signore: — (attaccando sicuro, da conferenziere versato, gestendo per tre e cianciando per dieci, con aria di castigamatti e polmoni da avvocato...). Ma io mi permetto di far notare come questa sua dedica e gli argomenti per cui il Pubblico potrebbe lusingarsi di essere ormai il solo Mecenate possibile dell'arte drammatica, stonano maledettamente con tutto quello che del Pubblico medesimo dissero e scrissero loro poeti, drammaturghi e comici. (stendendo una mano verso l'autore per non essere interrotto, lui) Difatti, per non andare più in là, Plauto e Terenzio, come poco dopo Orazio, andarono a gara nell'asserirmi o puerile o distratto e sempre pretensioso e grossolano, più vago degli spettacoli maneschi in [xi] cui trionfa la forza che non degli intellettuali in cui ha ragione la grazia e lo spirito. Non sarò io che difenderò il Pubblico romano dall'accusa di aver spento nell'arena sanguinosa dei circhi ogni sentimento di gentilezza e di umanità; ma il gusto indegno ora di un beccaio, di stare a vedere da seduti chi si batte, strazia e macella a gara, non l'ebbero i Romani soltanto, ma anche i Ravennati, i Senesi, i Pisani ed i Bolognesi, mentre in queste città non c'era caso di poter dire che al popolo vincitore del mondo occorreva più vasto e fiero spettacolo della commedia. E i Santi Padri inventori dei Misteri che cosa non dissero del Pubblico che si consolava della rovina dei circhi con un baccanale di allegre parodie delle usanze antiche come delle nuove, delle cerimonie pagane come delle cristiane? E Dante, di cui nessuno potè fischiare la Commedia Divina, non chiamò forse il Pubblico «strupo di pecore matte?» E lo Shakspeare, che cito per fare il paio coll'Alighieri in autorità, non osò forse dire che il Pubblico è addirittura «una razza d'oche?». Ma fra Dante e Shakspeare, ecco che rispunta sul nostro orizzonte il sole d'una nuova civiltà italiana; ecco che dalle riaperte arche del sapere si diffonde una nuova splendidissima luce. La Commedia plautina e la terenziana si rinnovano nella volgare, e subito i Principi più famosi per ischiatta e per valore, i Prelati più colti e generosi, le Gentildonne più cortesi e belle, vanno a gara nell'accettarne la dedica, nel favorirne la rappresentazione col chiamarvi, per adornarla di ogni bell'arte, i più insigni pittori ed architetti. Credete che ne venga loro lode? Al contrario! Si dura per trecent'anni a dar loro la colpa degli strappi che i commediografi fanno ad ogni riguardo, convenienza e buon costume, quasi che e Pontefici e Cardinali e Principi e Gentildonne non potessero gustare quelle commedie che in ragione della crudezza acerba della favola, della licenza del linguaggio e dell'oscenità del gesto.... Già la colpa è tutta dei costumi rotti del Pubblico, quasi che il Pubblico a quelle rappresentazioni otto su dieci seccantissime non si fosse rotto e seccato nulla! Così il Tatio scrive fin d'allora: «ai nostri tempi vengono ascoltate solamente quelle commedie nelle quali sono inserte mille sciocchezze e diverse parole disoneste et altre cose molto vituperabili.» Carino tanto! Così i poeti comici scrivono le cose sciocche, disoneste e vituperabili e poi si fa colpa al Pubblico se le sente! E quanto è bello quel «solamente» come se allora delle commedie ce ne fosse delle altre parecchie gioconde quanto «La Mandragola», ma più oneste! E io mi [xii] domando se con questo andazzo di dare ad ogni modo addosso al Pubblico non si sarebbe detto peggio se il Pubblico d'allora, vale a dire le Corti dei Principi e dei Prelati ed i Patrizj, avessero chiuso le porte delle reggie e dei castelli ai comici scrittori ed attori! (un mezzo respiro e poi via subito, tutto d'un fiato):

È bensì vero che lo stesso Giustinopolitano si lascia poi sfuggire che cotesti comici, quali «inimici di ogni politica civile et d'ogni nobile conversatione» debbono essere cacciati da ogni bene ordinata città come la «vera origine della corruttione de' costumi et male creanze», e che Ottaviano Garzoni, poco più tardi, non dubita di asserire che appunto «per cagion di costoro giace sepolta nel fango l'arte comica!» (all'autore che si è mosso credendo che il signore arrivato all'impertinenza abbia come di regola finito) Aspetti che non ho finito! (l'autore incrocia sul petto le braccia rassegnato quanto alla lettura d'una tragedia) Non è soltanto in Italia che c'è il mal vezzo di pigliarsela con noi dopo di avere esaurito, bene inteso, ogni arte per avermi dalla loro. Giusto nel tempo in cui lo Shakspeare rincarava la dose della botta dantesca contro il Pubblico, il maggior genio letterario della Spagna, Cervantes, quello in cui si riflette più limpida, arguta ed originale la vita della sua epoca — vede che non gli nego giustizia — asserisce, per fare la terna, che il Pubblico «non sente entusiasmo che per le stravaganze», e che dopo di averlo studiato intus et in cute «non sa ancora se sia più sciocco o più ignorante». Nè meno grave è il carico che gli si fa in Francia riguardo al Molière, il suo maggior scrittore. Il quale avrebbe avuto dalla sua, e basterebbe, il Re che aveva dello spirito anche per gli altri, Corneille e Racine, due Regine, il Principe di Condé, La Fontaine e La Chapelle, non la borghesia di cui è pure alla stretta dei conti il poeta, e meno che mai il popolo indifferente e qualche volta ostile, quasi che il Pubblico d'allora non fosse ancora la Corte e l'aristocrazia, quasi che potesse dirsi ed essere Pubblico l'orda di mascalzoni che avrebbe fatto Dio sa quale sacrilego insulto alla salma istessa dell'autore del «Tartufe» quando la vedova non gli avesse gettato nelle canne ingorde l'offa di un sacco di quattrini! Da Molière vengo dritto al Goldoni: così non dirà che mi faccio commodo di citare soltanto degli ignoti o dei guastamestieri: da Plauto, Terenzio, Orazio agli inventori santificati del mistero; da Dante a Macchiavelli il cui prologo della «Mandragola» dimostra il pochissimo conto in cui tiene il Pubblico; [xiii] da Shakspeare a Cervantes, a Molière, a Goldoni. Ebbene il Goldoni, anima serena e sole di ottimismo, ebbe a dire che si gusta di più «Arlecchino finto principe» che non le commedie più fine, argute ed eleganti. Poco dopo Goldoni, ma assai meno discreto e cortese, il Goethe dice in Alemagna: «Bisogna guardarli da vicino questi Mecenati: o freddi, o rozzi, o disattenti, o svogliati e sempre vaghi di novità soltanto; vera ciurmaglia fluttuante, più cupida di vedere che di sentire, che si può abbagliare e non mai soddisfare, per cui è proprio un delitto l'incommodare le muse! Basta esaminarli da vicino, dico, per sentir subito venir meno ogni inspirazione e sentirsi spinti verso un abisso di volgarità!». Il Giove olimpico ha parlato così schietto che non monta sapere quanto si dicesse poco prima in Francia sull'argomento da Voltaire, Rousseau e Diderot; vediamo piuttosto se quell'altro astro splendentissimo del nostro firmamento che è il Manzoni abbia fulminato il Pubblico che non si vergognava di fischiargli l'«Adelchi» ed il «Carmagnola». Il Manzoni si contenta di dire con calma antica che il Pubblico non ha criterio: se un lavoro gli pare cattivo, non ha misura nel buttarlo a terra; se invece non sa farci un appunto, se ne sbriga con un «gh'è minga mal», aspettando che dai compari dell'autore gli si dia in mano un verdetto bell'e fatto. In fondo il giudizio non è meno acre dell'invettiva del Goethe. Intanto, mentre Lord Byron afferma che «nessun uomo di animo delicato e gentile può commettersi all'arbitrio d'una folla di spettatori», altri meno illustri e più arroganti affermano che questa è «sempre essenzialmente ipocrita, poichè rigorista fino all'assurdo colla prosa, tollera ogni più sconcio laidume in versi; perchè mentre pretende che la commedia rispetti le convenienze e le convenzioni sociali, corre nei teatrucoli dove l'arte si fa compiacente mezzana d'ogni foja e sguaiataggine». Sthendal e Berlioz colgono ogni occasione per dirla «vaga soltanto di scipitaggini e di platealità». Dumas figlio pubblicò pochi anni sono che «non si va al teatro se non dove si fa più chiasso e c'è maggior possibilità di stordirsi»; che «agli spettatori si può domandar tutto, meno l'attenzione», e che dessi «non chiedono all'arte che la sensazione di un momento». Altri loro appunta di correre, novelle pecore di Panurgo, dove picchia più forte la gran cassa, e altri invece rimprovera loro «di arrivare sempre troppo tardi, magari alla fine del primo atto, di chiacchierare mentre si recita, di ridere più allo sboccato che all'arguto e di sottolineare [xiv] col meno onesto cachinno ogni scellerata allusione, salvo poi a pigliare, appena calato il sipario, la prima maschera di Catone da strapazzo che loro capiti sotto la mano, per disapprovare..... se stessi». Finalmente.... (respiro unanime dell'autore, della stampa e del pubblico) a dare il resto del carlino e a darlo proprio al Pubblico italiano, ecco messer Hans De Bülow, scrittore musicale, concertista e battista in Italia di quel Messia che chiamò i nostri più ammirati maestri compositori da chitarra... averne noi e loro! Questi non potendo comportare la leggerezza con cui il Pubblico aveva accolto «la morte per lo Czar» del povero Glinka, dette in ciampanelle, non ricordò che lo stesso Pubblico non s'era dimostrato più riguardoso colla «Gazza ladra», la «Norma» ed il «Mefistofele», e gli scaraventò di botto tre micidiali imputazioni, accusando prima l'aristocrazia di «preferire, incurante d'ogni buona cosa paesana, alla divina musica del linguaggio nazionale il francese più sgrammaticato, cupida soltanto di vaudevilles e di operette come d'ogni altra frivolezza pur che straniera»; quindi scagionando la borghesia d'ogni responsabilità coll'affermarla «troppo povera e pigra per essere colta», e infine sentenziando «la plebe non essere bramosa che di scandali»... L'invidia essendo nel cuore italiano tanto potente quanto deve essere umiliante la coscienza della nostra impotenza, l'esito di ogni componimento teatrale dipende dal campanilismo o da una camorra, o dall'intonazione che si assumerà di dare al verdetto del Pubblico quel biricchino di ogni età e condizione che secondo il tedesco insatanassato sarebbe una delle maledizioni «di cui l'Italia ha il triste privilegio...» Nient'altro, e festa. Ultima, una Regina di spirito e di bellezza — e ne ho serbato la sentenza in fondo — Elisabetta di Rumenia, dice che «il Pubblico è come il mare» — meno male che il paragone è lusinghiero — «porta e sostiene l'arte e gli artisti» — ci si rende giustizia finalmente! — «per poi inghiottirli»..... Tombola! Ma io sarei indiscreto se non concludessi subito.....

Tutti gli altri: — (in cuore) Sissignore.

Quel signore: — ..... e concludo che mentre questi, fra scrittori ed attori, mi manda a scuola di garbo e discrezione, quell'altro mi accusa di applaudire soltanto quando non capisco; quegli di fare della politica, che come si sa è una porcheria poco pulita dappertutto, e di farla in teatro; questo qua, e m'ha l'aria di essere un vecchio comico, assicura che ho così poco criterio d'arte da bastare, per farmi salire [xv] all'entusiasmo, un passaggio repentino dal pianto dirotto alla risata più sgangherata — una cosa fra le tante che non si vedono che sulla scena — o il crescendo d'apostrofi a prova di polmoni, non importa se contro ogni verosimiglianza di situazione e di ambiente; Tizio dice che sono un tardigrado dalla pelle d'ippopotamo, col cervello privo di discernimento e il cuore con tanto di pelo; Caio che se non sappiamo essere che un sinedrio meticoloso coi valorosi ed un bimbo di anime senza entusiasmo coi genj, gli inetti ed i mediocrissimi sono sempre sicuri della nostra indulgenza più larga. Così tirati i conti, il Pubblico che si chiama inclito e colto sui cartelloni, finchè non ha pagato il suo biglietto, appena è in teatro se non è la «mala bestia», è l'«orbetto» o, alla meno peggio il «grand'asino!».

E con questo voglio dire che se in ogni tempo scrittori ed attori hanno sempre cercato con ogni artifizio il nostro concorso e il nostro suffragio, hanno sempre finito col morderci la mano, sia che la stendessimo larga di applausi e di corone, o che la ritraessimo sdegnosa. Mecenati noi? Non ci mancherebbe altro per crescere la burletta! (s'inchina al Pubblico, volgendo sdegnoso le spalle all'autore, e aspettando un applauso per sedere: il Pubblico intontito sta per applaudire; ma l'autore s'inchina al signore in atto di tanto ossequio e gratitudine che l'effetto della filippica si sbianca in una clamorosa risata).

L'autore: — Mille grazie sentitissime. (al Pubblico) Plinio il giovane consiglia come il migliore dei mezzi per acquistare la grazia di un Mecenate quello di spiattellargli intera la verità; ma davvero io non sarei arrivato neanche ad un terzo della correntina che ha fatto prendere al signore l'onesta premura di tener Vostra Altezza informata di tutte le bestemmie che hanno fatto profferire contro di Lei la stizza o la disperazione. So benissimo che per lo più le dediche non hanno altro scopo che trovare un Cireneo per le gravi spese della stampa; che servono assai più che alla lode del Mecenate al gonfiamento dell'autore, e qualche volta, fra una confidenza ed un'insinuazione, alla stroncatura dei rivali; che se n'è fatte d'ogni risma e colore, agli amici ed ai nemici, ai vivi ed ai morti, a Domineddio come a messer Belzebù, ai Sovrani dispensieri delle grazie come a Mastro Impicca...

Quel signore: — (interrompendo come per un fatto personale) Domando la parola!

L'autore: — (avvezzo) Parli, ma non più d'un'ora.

Il pubblico: — (atterrito) No! Basta! Alla porta!

[xvi] Quel signore: — (piglia due cappelli e poi la porta).

Una voce: — (mentre si ride) Lo metta in commedia.

L'autore: — Mette il conto? — Signore belle e gentili, signori cortesi e discreti, nulla può essere tanto vilipeso quanto quegli di cui s'invoca più ardentemente il favore: testimonj le donne e gli Dei. Ma nè io ho mai cercato con arti vili il vostro suffragio, nè vi ho morso la mano quando si ritraeva da me sdegnosa; no, neanche nei momenti nuovissimi in cui viene a meno ogni più sottile speranza di arrivare in porto, mi sono mai sognato di affibbiarvi la responsabilità del naufragio.

E qui bisogna che vi dica in confidenza che se voi conosceste quei momenti accogliereste con un sorriso pietoso gli sfoghi di chi vorrebbe aver l'aria di disprezzarvi perchè si sente privo della vostra grazia, dopo di aver cercato di meritarla o sperato almeno di ottenerla comecchessia; direste con noi: oh quanto è difficile quest'arte quando si propone di soddisfare ad un tempo la folla, il bel mondo ed i pensatori! quante debolezze non ispiega e scusa nei suoi cultori la sua incessante ed infinita esigenza!

E davvero si ha un bel conoscere il palco scenico con tutti i suoi spedienti dell'ottica e della meccanica, le botole e le trappole, le scalette ed i corridoj, da quello che striscia giù sotto le tavole fino al buco del rammentatore a quello che s'arrampica lassù al balconcino dei siparista, le stanghe che attraversano il cammino e le cantinelle che pendono sul capo minacciose, le mille cordicelle pioventi dal pajuolo come le fila d'una tela di ragno a reggere e governare tutto il leggero edifizio di carta che un fischio come una favilla possono mandar per aria in una mutazione di scena od in una fiammata; si ha un bell'aver passato sopra queste tavole delle mezze giornate nel lavoro struggente del mettere in iscena, averle attraversate in tutti i versi di giorno e di notte, e più d'una volta, di sera, a sipario alzato ed a teatro pieno ed abbagliante, col sorriso sulle labbra ed il cappello in mano, senza inciampare, riconoscente e dignitoso, si ha un bel possedere il segreto del far ridere e del far piangere che è il segreto dell'arte o l'arte medesima, un bel conoscere quasi di persona il Pubblico e quale la sua corda da far vibrare più sonora e quale convenga meglio lasciar muta; quale la sua passione, la moda, la debolezza od il capriccio del momento; in quale tono si sia più sicuri e in qual altro meno; si ha un bell'avere appreso gli artifizi e le malizie e i tratti di genio di tutti quelli che vi hanno preceduto..... Eppure [xvii] ecco che ad un tratto, dove meno lo si supponeva, le tavole traballano sotto i piedi; ecco che con tutto il congegno intellettuale e manuale della scena vi viene meno il favore del Pubblico!

Da quel momento, Altezza, non capite più nulla, non sapete più nè dove siate, nè quello che vi facciate: la gola arsa e serrata come nel pugno d'un manigoldo, lo sguardo che sfugge l'altrui sguardo come se si avesse commesso un delitto, il passo vacillante come se si fosse ubriaco di vino cattivo, andate innanzi fra le stonazioni e le papere più assurde, gli sbadigli più sganasciati, le tossi più ribelli, le ammirazioni più ironiche, come si va in mezzo ad una tempesta alpina, di notte, senza guida e senza lanterna, sopra un ghiacciaio irto di creste e di crepacci, quando i lampi vi spalancano il pericolo senza farvelo cansare.

Da quel momento non c'è più testa di bulletta in cui non s'inciampi, non quinta o capretta in cui non si dia del naso: sentite che state per cadere dinnanzi ad un bel migliaio di persone, a quel fiore dell'intelligenza e del buon gusto che la cortesia dei giornali ha invitato alla festa. Festa, sì giusto; ma di quelle orrende che finiscono con un sacrifizio umano, il vostro. Allora pensate con terrore che questo sacrifizio vi ucciderà tutto intero, peggio associerà il vostro nome al ridicolo. Ma che nome, che passato? Tutta un'illusione come la vostra pretesa intuizione teatrale. Guardate quel servo di scena che aspettava col fine della commedia il vostro trionfo e la mancia, nella prima quinta, di rimpetto a voi; quel servo dalla faccia scialba e lo sguardo ebete, che v'ha sempre fatto ridere per il contrasto della sua livrea troppo ampia e gallonata colle scarpaccie e le calze bucate sui magri stinchi, ora vi fa paura. Non vi sorride più; vi guarda come un uomo che lo ha tradito. E quel bisbiglio che v'arriva dal fondo della platea come lo distinguete in ogni sua interlocuzione attraverso al dialogo fra gli attori? Dicono di sicuro: senti che spropositi! Che sciocchezze pretensiose! Neanche il senso comune! Fischiarlo? Legnate! E lasciarlo morto sul tiro! Allora il vostro pensiero corre in un lampo la rassegna dei vostri successi incontrastati, quasi in appello per l'ultima difesa..... Ahimè, dessi non pajono più a voi stesso che un effetto di combinazioni passeggere. E non ne avrete più mai; siete finito e finito in un fiasco scandaloso. Ma perchè ve ne state qui a masticarvi l'anima in questo spasimo di berlina? Tanto non c'è miracolo di caso o d'arte che vi possa salvare; via, via subito, per la scaletta del [xviii] palco scenico. No, non potete più fuggire: dovete morire qui, dopo un'agonia che vi lascia comprendere che la vostra morte sarà senza dignità e pudore, ridicola. Giù! Giù! gridano. Bisogna che caschiate giù, di peso, tal quale un sacco di cocci, tal quale un pagliaccio da circo atterrato da una formidabile pedata; giù dinnanzi a tutto il Pubblico, giù proprio a quella scena dove gli attori vi dicevano che sareste salito sul carrettino trionfale; giù lungo e disteso in mezzo ad un'immensa saettata di risa e di fischi di quella stessa folla che v'ha tante volte applaudito, che v'ha detto tante volte che i vostri lavori erano belli ed onesti; come se nato per così dire di voi medesimo non aveste costrutto voi senza duca o maestro e pietra su pietra questo piccolo ma sudato edifizio della vostra riputazione a furia di volere e di studiare, come se invece di essere alla peggio un povero mattoide, foste una forca di borsaiuolo colto in sul fatto dai carabinieri!

E voi, disperato, vorreste uscire sulla scena a dire al pubblico: questa non è una giustizia, è un insulto, una vigliaccheria, perchè io non merito di essere insultato personalmente, direttamente, pubblicamente! E per insultare me paralizzate l'attore e gl'impedite di essere il mio interprete e vendicatore? Siete anche sciocchi; sì, vili e sciocchi, e chi se l'ha a male, venga su che l'aspetto!.....

Ebbene a me queste sparate neroniane non mi sono neanche passate per il capo. Ho sentito anch'io, e come! la mazzolata fra capo e collo, le fischiate trapassarmi acutissime gli orecchi e il cuore; ma poi passato il primo intontimento, appena uscivo all'aria e potevo, rimasto solo coi miei pensieri, fare nel nuovo e tardo e pur non inutile rigore della mia coscienza il lungo e minuto esame del mio peccato, io, senza dissimularmi gli sguardi di ironica pietà, i me ne duole ipocriti, le spallucciate ed i pettegolezzi che avrei dovuto sorbirmi dalla marmaglia farisaica che sta attorno al teatro, non solo non me la pigliavo più con voi, non solo non vi mandavo più l'usato semplicissimo accidente, ma a poco a poco finivo per meravigliarmi che foste stato così longanime, finivo per andarmene a casa, a letto, e per addormentarmi, sul mattino, certo non lieto nè tranquillo, ma senza rancore, anzi convinto e persuaso che se la malaugurata commedia invece che mia fosse stata vostra, io, parola d'onore, v'avrei fischiato molto di più!

Ad ogni modo la lezione non veniva nè invano nè senza appello, e così mentre posso dire di non essermi mai unito [xix] agli infallibili che soliti a pigliare il Pubblico sotto gamba lo coprono di vituperî tutte le volte che non dà loro del turibolo sotto il naso, non ho dimenticato che voi siete stato il primo a compatirmi, a darmi coraggio, e qualche volta, lo debbo dire? m'avete fatto così contento da compensare in tre ore ogni passato studio e travaglio.

Oh non nego di avere qualche volta provato la tortura di vedere la drammatica così bella e nobile fatta trastullo di mestieranti e di gente senza gusto, e peggio forse di non trovare negli spettatori quei criterii sui quali lo scrittore possa dare una base sicura al suo lavoro! Ma tirati i conti, data la tara alle debolezze ed ai capricci d'un momento, sarebbe stoltezza il dimenticare che nel Pubblico italiano si può ancora trovare quella somma serenità che proviene dall'indiscusso pontificato di Virgilio e di Orazio, di Dante e di Boccaccio, di Ariosto e di Leonardo, di Allegri e di Rossini e di Verdi; serenità che procede tanto dalla temperanza della nostra filosofia quanto dalla bellezza delle donne, della terra e del mare, dalla mite temperie quanto dallo splendore del cielo, dal bisogno pacifico e continuo di bellezza, di espansione e di cordialità, e più ancora da quella larghezza nell'accettare ogni forma, pur che inspirata a verità, che deriva forse dal trovarsi l'Italia fra la Grecia che ci attira verso la seducente squisita bellezza delle sue arti, e l'Occidente che ci attrae verso l'osservazione e l'umanità.....

Per questo voi siete, o Altezza, il migliore degli efficienti del nostro teatro, ed io vorrei, solo per fare più degna di voi questa pubblica dimostrazione di riconoscenza, che in me fosse pari alla volontà e l'ingegno e la fortuna.

Vorrei avere uno di quegli ingegni pronti e vivaci che mentre hanno il privilegio di saper dare l'atteggiamento e la movenza ad ogni pensiero più alto, scintillano e fiammeggiano di spirito inesauribile nell'espressione della vita comune, e arrivano così a lumeggiare ogni movimento d'idee e di passioni..... Vorrei sopratutto aver il talento del cogliere il vero in sul fatto che hanno avuto quei maestroni di rispecchiature che sono Carlo Goldoni, Carlo Porta e Gioachino Belli. E s'intende che colla lingua meglio appropriata, semplice e spontanea, senza riboboli e leccature, evidente ed elegante, possederei il segreto prezioso di quella forma schiettamente nostrale che aggiunge tanto prestigio ad ogni lavoro, e che deve tornare in onore anche sulla scena vituperata da così lungo tradimento di traduttori: allora sì che il dialogo mi riescirebbe naturale, saporito e frizzante e sempre rispondente [xx] ai personaggi ed alle situazioni; allora sì che le mie favole avrebbero semplicità, vigore e rapidità precipitante di avvenimenti e i caratteri aggetterebbero vivi e parlanti; allora sì che le mie commedie potrebbero avere il vanto supremo di rappresentare nell'osservazione e nella satira tutta la vita del mio tempo!

Nè mi farebbero difetto i soggetti; non nei libri, ma guardando attorno a me nelle case e nelle chiese, nei tribunali e negli uffici, nei parlamenti e nelle caserme, nei palazzi e nei tuguri, per le vie e per le piazze, dappertutto dove si vive e si muore, dappertutto dove si ride e si piange; dal dramma tragico alla farsa; dagli eroi meravigliosi dell'amore e dai campioni della civiltà ai miserabili odiosi o ridicoli, impantanati nel vizio o nel delitto, poichè l'arte, fatta ora più intima e nello stesso tempo più vasta, può abbracciare tutto, purchè faccia passare tutto attraverso a quell'analisi spassionata ma severa in cui tendono a purificarsi la società, le leggi e la stessa filosofia religiosa. E guardando, mi avvedrei che nel trionfo fulgoreggiante della civiltà moderna più d'una voce si leva a sfrondarne gli allori ed a turbare i vincitori coll'imporre loro gravi, imprescindibili doveri; mi avvedrei che nella moltiforme lotta per l'esistenza ci sono delle anime in su e in giù da difendere; che nella bufera di negazione che imperversa, quasi che le vittorie della scienza svincolassero gli uomini dai doveri, ci sono anime da sorreggere, le anime semplici, pietose, ingenue, che paiono deboli perchè non sono ribelli e sono invece i più forti baluardi della società, le arche della virtù antica, i capisaldi della famiglia e della patria, gli eroi del dovere e dell'abnegazione: a costoro la gloria che si merita chi in tanto germogliare di sterili vanità, in tanta gara di ignobili ambizioni ci ritempra collo spettacolo della sua fede gagliarda e della sua calma forte e rassegnata contro ogni dolore: gloria! gloria!

Mi ricorderei che la miseria incolpevole, ultima forma della barbarie, è il problema insoluto d'una società che ha più indulgenza per il farabutto che ammirazione per il galantuomo: carità e giustizia!

E canzonerei allegramente la molta gente più avida di chimica che di filosofia, di voluttà che di gioie profonde; satireggerei acre il venusto sensualismo paganeggiante che ha l'apparenza di non essere entusiasta che per l'arte, e in fondo è fior d'egoismo feroce; sferzerei a sangue il sentimentalismo isterico che declama molto e non fa mai niente; staffilerei la gioventù pretensiosa e nulla, senza passioni e [xxi] senza entusiasmi; morderei le donne belle dal cervello d'oca, la testa piena di cattivi romanzi ed il cuore vuoto, carne e non anima, carne destinata a far le spese della commedia dell'amore, la meglio rappresentata dagli uomini dopo la politica, che è quella in cui riescono anche quelli cui la teatrale fece cilecca, e mi divertirei, divertendo, collo smascherare gli ipocriti d'ogni altezza come d'ogni colore... E da tutta cotesta materia, or comica sino alla parodia sbardellata, or tragica fino alla terribilità, trarrei fuori la commedia, o limpida favola ridanciana o turbine violento di satira, ma sempre fermo nel voler far trionfare un'altra volta sulla scena la bellissima causa della verità, sempre senza dimenticare che il teatro deve anzitutto divertire, e, per questo, che il popolo, il creatore della commedia, quello che ha conservato viva l'Atellana attraverso ventiquattro secoli, è la fonte più abbondante e limpida di inspirazioni e di trovate, di scatti di passione e di impreveduto, di sentimento e di originalità: e così rammentando e più guardando, troverei.....

Quel signore: — (dal lubbione lassù con un ruggito) Un bel nulla!

Il pubblico: — (guardando all'insù fastidito) Ancora?

L'autore: — (stanco quanto il pubblico) E perchè di grazia?

Quel signore: — (trionfante) Perchè l'Italia non ha come la Francia una società che possa fornire fatti e caratteri prettamente suoi.

L'autore: — Davvero e proprio sul serio? O la sua trovata è di seconda mano come tant'altre che si fanno riguardo al nostro teatro finchè non ne abbiamo una storia intera e provata? In questo caso non ne arrossisca: le fanfaluche, i sofismi e le cantonate d'ogni razza sull'argomento sono così comuni che fra i loro autori si contano nomi di scrittori superlativi, quale il Gravina che confuse tutti i comici del 500 e del 600 fra gli imitatori di Grecia e Roma, provando per tal modo di non avere letto i quattro migliori, Aretino, Macchiavelli, Cecchi e Porta. Muratori disse che nessun poeta comico portò maggior danno morale del Molière. L'abate Galiani, a provare dopo il Gravina ed il Muratori cotanto benemeriti delle nostre lettere, che si può anche essere un uomo di spirito e dirle grosse, scrisse che «Il burbero benefico» che aveva udito leggere dallo stesso Goldoni, è la più scipita cosa del mondo. E per farla corta Lei la conosce a fondo questa Italia meravigliosa tanto per la riproduzione [xxii] del carattere antico, quanto per la sua inesauribilità nel crearne dei nuovi? E la Francia la conosce..... quanto l'Italia? Abbia pazienza; ma il nostro paese per costumi, attitudini ed espressione di sentimenti è meno diverso nelle sue Provincie di quello che non sia la nostra buona vicina dalla Moriana alla Brettagna, dal Giura alla Guascogna, dall'Alsazia e dalla Lorena a Marsiglia.

Quel signore: — (rincarando) E sia; ma è vano sperare intiero sulla scena l'uomo che fuori della scena intiero non è!

L'autore: — L'ho già intesa da altri; è una bella frase che riempie la bocca; ma, scusi, erano intieri o già non decadevano i Greci d'Aristofane, i Romani di Plauto e di Terenzio? Non è appunto quando gli italiani erano più guasti che s'è scritta quella stupenda «Mandragola» che la fortuna — me lo lasci dire — ha voluto darmi il vanto di rimettere per il primo dopo più di tre secoli sulla scena col plauso concorde del Pubblico e della Critica? Non è appunto quando gli Italiani non credettero più a Savonarola che al Pontefice che sorsero i cinquecentisti e s'ebbe poco appresso la commedia dell'arte, meraviglia del mondo civile e privilegio d'un popolo d'improvvisatori? Ed erano intieri gli Spagnuoli del tempo di Calderon, gli Inglesi dello Shakspeare, i Francesi di Molière, gli Italiani di Goldoni? Se i poeti drammatici fossero grandi in ragione diretta della interezza dei loro concittadini e della conseguente grandezza della loro nazione, l'Inghilterra moderna signora dei mari e potente quanto Roma antica, non camperebbe teatralmente di raffazzonatori, e la Germania, dove un popolo immenso disciplinato dalla volontà disperata d'una patria ha saputo gittare ai piedi dell'ara della sua futura grandezza ogni tradizione ed orgoglio di Provincia, dove giganteggiano uomini tutti d'un pezzo come il Cancelliere di ferro, Moltke ed il vecchio Imperatore, avrebbe già numerato a decine i degni successori di Lessing, di Schiller e di Goethe. E badi che cotesti Inglesi e Tedeschi posseggono per soprammercato due lingue fra le tre parlate in tutto il mondo!

Quel signore: — (sempre più in via di scoperte) Tutto questo non prova se non che veniamo dietro a tutti gli altri...

L'autore: — (compiendo il pensiero, ma a modo suo) Nell'avere un giusto criterio di se stessi. Sì, abbiamo anche noi aristocrazie frivole, borghesie ridicole per la boria delle ricchezze e la supina indifferenza per ogni cosa che non soddisfi la vanità e l'interesse, e plebi, specialmente dove si campa di forestieri ch'è quanto dire di accattonaggio, stemprate e [xxiii] impotenti a sollevarsi dall'unica brama dei piaceri bestiali; ma, a guardarci bene e potendo far confronti, da noi la boria, la frivolezza e anche la bestialità sono sempre temperate da quella moderazione che è la vera forza del popolo italiano e che tanto più si sente e s'ammira quanto s'è più visto e studiato in casa loro gli stranieri. Grazie a questa moderazione in Italia ci si travaglia meno sconsolatamente per la soluzione dei problemi sociali, e se la smania dell'arrivare là dove spinge furiosa la cupidigia e l'ambizione è anche qui il più cocente tormento del nostro tempo, è meno che altrove vertiginosa e sfacciata. Così pure la cieca vanità per la nascita, il grado e la ricchezza è da noi sempre meno pretensiosa e soverchiante che in qualsivoglia paese, perchè aleggia tuttora nelle nostre classi privilegiate un soffio dell'antica semplicità democratica, e nelle infime un senso di gentilezza che educato potrebbe renderle superiori ai pregiudizi dell'invidia e farle scampare ai politicastri, due bei miracoli. Dia tempo al tempo, mio caro signore, e vedrà che questo popolo appena sarà disciplinato e sicuro del proprio valore, piglierà il suo posto e molto più in su di quanto lei creda ora, e non cesserà intanto di fornire all'osservatore tipi ammirabili e curiosi.

Quel signore: — (con un sogghigno infernalissimo) Insomma Lei ci vuole dare ad intendere che senza codesto suo disprezzo di se medesima l'Italia riacquisterebbe subito il primato nella drammatica!

L'autore: — (colle tasche piene) Neanche per sogno, subito: ma mentre renderebbe il debito omaggio alle migliori composizioni d'ogni paese, sarebbe meno facile ammiratrice di ogni minuteria forestiera e più benigna e sollecita per gli scrittori che e nell'inspirazione e nella forma le rimangono fedeli.

Quel signore: — (con uno scroscio) Lei mi fa ridere...

L'autore: — Troppo onore!

Quel signore: — Voglio dire che mi fa pensare...

L'autore: — Allora mi confonde addirittura!

Quel signore: — Alle corte...

L'autore: — Senza la sua bontà avrei finito da un pezzo.

Quel signore: — Infine voglio dire che sperare si possa raccogliere in un pensiero i migliori elementi fra autori ed attori, fare meglio pregiata dal pubblico la comicità da cui sgorga la satira, imporre agli scrittori della commedia lo studio della vita contemporanea, rendere insomma onesta, seria, stimata e compensata l'arte nostrale, è da matto, come lo sperare sopra un miracolo!

[xxiv] L'autore: — Se ne fanno sempre!

Quel signore: — E lei spera questo dal favore d'un Ministro?

L'autore: — Manco per ombra!

Quel signore: — Dall'accordo dei capicomici?

L'autore: — Li conosco troppo.

Quel signore: — Forse da una società di autori?

L'autore: — Che Dio ne scampi e liberi!

Quel signore: — Allora spera nel dilettante?

L'autore: — Vade retro!... Ecco, ripeto, chi può fare il solenne miracolo quando che il voglia: Sua Altezza Serenissima il Pubblico; il Pubblico che unico può essere il restauratore del teatro nazionale, ed a cui ho dedicato ossequente e riconoscente queste mie commedie per quello solo che possono valere in quanto si richiamano alle fonti vive ed originali della drammatica. Se poi Vostra Altezza troverà che l'ingegno corrisponde troppo di rado al desiderio di fare cosa degna di Voi, dei Capicomici che hanno avuto fede in me, degli Artisti che mi hanno interpretato accrescendomi, e dei Critici che mi hanno sostenuto, lasciatemi almeno la onesta lusinga che nulla sia in esse che venga meno alla dignità del galantuomo ed al dovere del buon cittadino. (s'inchina e rientra nelle quinte; il pubblico, contento che la sia finita, applaude. Quel signore applaude anche lui, perchè osservato; ma se ne consola disapprovando coi vicini la chiusa, troppo discorde, dice, dai tempi nuovi...).


[265]

SCARABOCCHIO

COMMEDIA IN UN ATTO

rappresentata per la prima volta in Como dalla Compagnia drammatica di A. Monti la sera del 27 ottobre 1875

[266]

INTERLOCUTORI

La scena in un villaggio, oggigiorno.

[267]

ATTO UNICO

La dimora di Gaspare: una poverissima stanza al piano terreno in casa di Caterina. — Nel mezzo in fondo una porta che dà sopra la piazza: a destra dello spettatore una scala di sei o sette gradini che guida alle stanze di Caterina; a sinistra una finestra con inferriata, sul cui davanzale stanno alcuni vasi di fiori. — In fondo: a sinistra, una piccola fucina col suo mantice, la pila e l'incudine; a destra un armadio, e dietro la scala un lettuccio. — A filo di sipario: a sinistra, un banco da lavoro con una morsa, qualche utensile da armaiuolo ed una pistola a rivoltella. — A destra un tavolino ed una seggiola. — Attorno alla scena qualche seggiola di paglia. — È giorno.

SCENA I.

All'alzarsi del sipario CATERINA appare sul pianerottolo della scala, in abito di ricca campagnuola.

Cat. — Gaspare? (chinandosi verso il lettuccio, a voce meno alta) Dormite, Gasparino? (scende la scala) Mi pareva di aver sentito rumore... ma vedo che non è ancora arrivato. Inaffiamogli intanto quei poveri fiori che n'avranno bisogno... (va alla pila, vi attinge acqua con un ramaiuolo di ferro, e va ad inaffiare i fiori sulla finestra) Oh povera me, come glieli hanno conciati! Pieni di terriccio e di sassolini... E questo? Quasi svelto! E sì che c'è l'inferriata!.. Ma già per quei malestri ci vorrebbe altro che inferriate!... Io non so che gusto ci provino a fare tanti dispetti ad un povero disgraziato che non fa male a nessuno, anzi che farebbe molto bene, se lo potesse...

[268]

SCENA II.

BERNARDETTO dalla destra. Detta.

Bern. (fuori di scena). — Caterina! Dov'è la più bella delle Caterine?

Cat. — Sono qui, Bernardetto; scendete.

Bern. (entrando e fermandosi sul pianerottolo). — Ah! lo sospettava io!... Quando i vostri affari non vi trattengono di là, si può essere sicuri che siete sempre qui! (scende e si avvicina al banco)

Cat. — Ero venuta per inaffiare questi poveri fiori che Gaspare mi raccomandò tanto prima di partire.

Bern. — Già, già, i fiori!... (prende in mano la pistola) Chi è il matto che gli ha affidato un'arme come questa?

Cat. (volgendosi). — Per carità, è carica!

Bern. — Carica? (riponendo in fretta la pistola sul banco) E lui lascia in casa una pistola a sei colpi carica?

Cat. — Egli stava per andarla a provare nell'orto, e me ne aveva avvertita, quando gli arrivò quella lettera che lo invitava a recarsi subito in città... Io che mi trovava qui...

Bern. — Per caso...

Cat. — Già, perchè non era di là, gliela lessi... e allora, addio pistola! Ora tremava, ora rideva, e intanto gli venivano giù certi goccioloni così... Poveretto, è da compatire: si tratta forse di conoscere i suoi parenti.

Bern. — Dio sa che roba, poichè hanno aspettato ventitrè anni a ricordarsi di lui!

Cat. — Chi può sapere se non c'è stata qualche fatalità di mezzo? Se dai sentimenti del figliuolo si potessero arguire quelli dei suoi genitori, io avrei ragione di sperare una bella riparazione... Ma Gaspare era tanto fuori di sè dalla gioia, che appena si fu un po' riavuto, infilò la meglio giacca, prese il bastone, e via! Ma ora che mi ricordo; se l'avete visto anche voi, quando attraversò la piazza seguito dai soliti monellacci, senza darsene per inteso, anzi ridendo, come non aveva mai fatto per lo innanzi!

[269] Bern. — Si, io mi trovava al caffè cogli amici... I monelli, scimmiottando d'essere sciancati come lui e strombettando una marcia alla bersagliera, se lo presero in mezzo, e marche! lo avvolsero in un tale nuvolone di polvere che deve esser giunto alla città più infarinato d'un sacco in molino! Ah! ah! ah!

Cat. — Bernardetto, se mi volete bene, non fate così: quel ridere mi fa male!

Bern. — Come si fa a non ridere?

Cat. — Ma che colpa ha lui di essere così disgraziato? Se avessero avuto carità di lui quand'era piccino...

Bern. — Già... già... la solita storia: se uno è zoppo o sciancato, è sempre perchè lo tenevano in braccio soltanto da una parte: se è gobbo è sempre perchè lo lasciavano affondare troppo nella culla... Insomma, a sentirli loro, sarebbero tutti belli, se non fossero tutti brutti!

Cat. — Un bel merito avete voi di essere... diverso da lui!

Bern. — Un gran merito, poichè piaccio alla mia Caterina!

Cat. — Vanesio!

Bern. — Può essere; ma se fossi sciancato, sbilenco e rattrappito come lui, non mi sposereste.

Cat. — Se vi volessi bene, perchè no?

Bern. — Ma non mi guardereste neanche se fossi brutto come lui!

Cat. — Chi vi dice che Gaspare sia brutto?

Bern. — E non canzono!

Cat. — Lasciamo da parte la disgrazia di quella gamba...

Bern. — Obbligataccio! E non ne ha che due: se glie ne levate una!

Cat. — Di cera non è proprio brutto... Se si facesse tagliare i capelli come voi... la barba....

Bern. — La testa.

Cat. — Gli occhi sono dolci... Sicuro: l'avete obbligato a fuggir sempre, a cercar sempre di nascondersi! Ma se non ci fosse la disgrazia di quella gamba...

Bern. — Eh! gamba più, gamba meno, non importa!

Cat. — Sapete ciò che vorrei vedere io? Se Gaspare allevato [270] come voi ed abituato ad essere rispettato, coll'ingegno che ha... — voi stesso avete detto che imparò prestissimo quel po' d'arte che sa dall'armaiuolo che fu qui di passaggio, ed io aggiungo che quando non ha paura di essere deriso, dice cose che vanno al cuore e non dicono gli altri — vorrei vedere, diceva, se non sarebbe...

Bern. — Uno scarabocchio?

Cat. — Chiamatelo com'è battezzato, ve l'ho già detto, (passa a destra) altrimenti ci guastiamo.

Bern. — Dunque Gaspare, Gasparino, Gasparone! Ma voi convenite d'una cosa... (la piglia a braccetto)

Cat. — Sentiamo...

Bern. — Considerando, primo: che voi sola in tutto il paese lo chiamate Gaspare e non Scarabocchio come l'ha fatto mamma natura... lasciatemi dire; secondo: che seguitate a concedergli l'uso gratuito di questa stanza che con pochissima spesa potrebbe affittarsi come fior di bottega...

Cat. — Terzo: che quando non sono altrove sono sempre qui.....

Bern. — Si potrebbe concludere che la bella Caterina, se non capitava a tempo Bernardetto, avrebbe tollerato che lo sgorbio le facesse l'occhiolino di triglia!

Cat. — Lui? Oh poveretto, che non osa quasi guardarmi! Ma siete matto?

Bern. — A parte gli scherzi, appena ci siamo sposati, aria!

Cat. — Aria? E voi credete che io possa abbandonare nuovamente alla gente senza cuore perchè ne faccia il suo trastullo quello che mia madre buon'anima ha raccolto? Non ci pensate neanche: sarei una cattiva figliuola, una cattiva cristiana!

Bern. — Ebbene tenetevelo; ma non qui, laggiù in fondo all'orto sotto la tettoia... Vuol tanto bene alle bestie: terrà compagnia al ciuco.

Cat. — Bernardo, quando si ha la fortuna di esser nati sani, robusti, e fatti... via, in modo da essere contenti, si è come tenuti per dovere a fare meno dura la disgrazia degli altri; e voi potete odiare un disgraziato che è buono come il pane?

Bern. — Io lo odio? Neanche per sogno! Lo amo: mi fa [271] ridere! Ma non voglio che mia moglie abbia sempre sott'occhio un coso disgraziato, disgraziatissimo, ma brutto e ridicolo.

Cat. — Bernardo, state ad ascoltarmi, mentre siamo sul discorso e siamo sempre in tempo...

Bern. — Io non lo sono più, poichè m'avete preso l'anima!

Cat. — Io voglio che mi promettiate una cosa, ma sul serio.

Bern. — Ma mille, Rinuccia mia! (per abbracciarla)

Cat. — Una sola e le mani a casa che farà due. Io vedo con dolore che avete l'abitudine di scherzare su tutto, di farvi beffa continua delle altrui debolezze, e peggio poi delle imperfezioni del corpo...

Bern. — Per chiasso! semplicemente per chiasso!

Cat. — Or bene, io sono donna, e perciò mi sento debole anch'io; e i vostri bei scherzi, le vostre famose burle mi dànno tutte una sensazione dolorosa come se fossero fatte a me. Voi lo sapete, quando ammazzarono il povero gatto di Gaspare io stetti tutto il giorno senza poter mangiare... Sarà una cosa ridicola; ma io domando se nel petto di chi fa queste belle prodezze possa battere un cuore per un sentimento gentile, un cuore che mi sappia, se il Signore mi volesse mandare una disgrazia, compatire e consolare.

Bern. — Caterina... via... sentite: appena sono vostro marito, delle farse non se ne fa più... (E speriamo bene che non se ne faccia a me).

Cat. — Appena sarete mio marito?.. E perchè non da questo momento?...

Bern. — Per affrettare quell'altro momento che non viene mai!

Cat. — Proprio da uomo di cuore e di onore me lo promettete?

Bern. — Di cuore e d'onore.

Cat. — Allora, quand'è così, vado a mettermi un velo, e andiamo subito colla zia da ser Agapito a combinare il giorno del matrimonio... Aspettatemi qui.

Bern. — Ah! la più cara di tutte le Caterine!

Cat. (salendo la scala). — Ma badate, fine alle beffe, o finirete per farmi amare quelli che perseguitate.

[272] Bern. — Inteso. (le manda un bacio)

Cat. — Dieci minuti e sono in ordine...

Bern. — Dieci ma non venti... (indietreggia sino al banco per vederla allontanarsi)

Cat. — Ma lasciate stare quella pistola...

Bern. — Non dubitate: mi sta troppo a cuore vivere con voi, e per voi... Uh cara!... Spicciatevi a sposarmi... o io ve la faccio a voi l'ultima burletta!

Cat. — Matto! (via dalla destra)

Bern. (mandandole dei baci). — Matto! mattone! mattissimo! — Ah! Ah! Tu hai un bel dire, ma se Bernardetto è riuscito a far breccia nel tuo cuore, nel cuore d'una ragazza buona come il pane, bella come un fiore, e ciò che non guasta nulla nell'anno di poca grazia in cui mi trovo, ricca come un tesoro, è perchè sono un giovane allegro, che tutti i giorni ne sa inventare una per far dimenticare agli altri le tasse e a me... che non ho più da pagarne! Ma, a proposito, moriva dalla voglia di leggere la lettera che mi scrive dalla città l'amico Roberto... (trae di tasca una lettera suggellata) anche lui della confraternita del buon umore. Ho fatto bene a tenermela in tasca, chè se Caterina si avvedeva della cosa! mandava a monte la farsa. Ma sentiamo come è andata. (legge) «Carissimo amico — Il tuo raccomandato mi è arrivato ieri sera mentre io mi trovava a cena alla Corona di Spagna, secondo le nostre intelligenze — Bravo! — Sebbene non fosse prestabilito, ho avuto carità d'un povero diavolo che aveva fatto venticinque miglia a piedi, e gli ho fatto dare da cena — Benone! — Quando ebbe mangiato e bevuto, gli ho fatto intendere con gran mistero che io era incaricato da persone che ad ogni costo volevano rimanere incognite, di fargli noto che se dichiarava di rinunziare per sempre alla ricerca dei suoi parenti, questi gli avrebbero fatto pagare per tutto il tempo della sua vita cinquecento lire al mese. Per far corto, ti dirò che il tuo imbecille è caduto pienamente nella ragna; ma che mi ci volle del buono e del bello per rimetterlo in istato di ritornare a casa colla diligenza, di cui gli ho pagato un posto perchè non avesse da cambiare i biglietti. — Bravissimo; io non ci aveva pensato — Anzi, a dirti tutta intiera la verità, sono stato lì lì per isvelargli la burla, tale e tanta [273] è stata l'impressione che mi ha fatto il suo stato... A rivederci alle tue nozze e credimi, ecc.» Ma che impressione! Se tu sei di fibra tenera non sarai mai capace di condurre a fondo una bella burla coi fiocchi, amico mio! Ma già egli non riflette, come Caterina, che se il ridere è quello che distingue l'uomo dalle bestie, per far rider l'uomo necessariamente la natura ha dovuto inventare la classe benemerita degli uomini ridicoli! Che colpa ho io se quando vedo Scarabocchio mi dimentico subito che ci sono dei creditori? A proposito, ne ho uno che è gobbo... Un giorno, il giorno della sua festa, scrissi una circolare a nome suo a tutti i gobbi che c'è a tre miglia attorno, con invito a pranzo, adattando bene inteso i pretesti alle persone... Non ne mancò uno!... E io cogli amici in istrada a vederli arrivare all'ora fissata, picchiare, entrare, e poi uscire furibondi... Che risate! Ma di siffatte burle, ora non mi degno più: ora mi occupo delle mistificazioni colossali, machiavelliche, infernali! Ma per riuscire che potenza di calcolo! Che previdenza! Preveder tutto e non dare a veder nulla, conservando l'aria del più perfetto minchione di questo mondo, ma colla coscienza di fare anche onore più che non si pensi al paese... Sissignore, onore! perchè i forestieri che vengono a visitarci, vedendo che tutti ridono, scrivono a casa loro: gli abitanti di questo paese sono tutti di buon umore; dunque godono tutti buona salute, dunque hanno tutti quattrini in abbondanza, e governo e pappa a buon mercato; dunque questo è il paese più florido, felice e potente del mondo! (chiasso di fuori, urli, fischi ed applausi; si sente mettere in fretta una chiave nella toppa della porta di mezzo) Fischiano! È lui! (si nasconde dietro il fucinale)

SCENA III.

GASPARE dal fondo, con premura. Appena entrato si rivolge a parlare verso la strada, non tenendo fuori della porta che il capo. Detto.

Gasp. — Fischiate, figliuoli, fischiate pure; ma per l'ultima volta, poichè il vostro bel divertimento è finito per sempre! (chiude in fretta la porta e va a sedere sopra la seggiola [274] accosto al tavolo a destra) Miserabili quasi quanto me, e pur sì feroci nel deridermi! La colpa è anzitutto dei parenti che non vi dànno buon esempio, e poi delle autorità che tollerano, loro così permalose, che si insulti una creatura che non fa male a nessuno... Ma non pensiamo più al passato; l'avvenire è mio! che dico, il presente! Essa è in casa... ho sentito la sua voce dalla piazza... mai mi parve così dolce e cara! O povero me, come il sangue mi corre al capo! Sono sfinito dalla fatica e pure non riesco a calmarmi... Lo credo io! comincio ora a vivere!

Bern. (che frattanto gli si è avvicinato sulla punta dei piedi non sentito e non visto, gli pone le mani sugli occhi standogli dietro)

Gasp. — Ah! — Chi è? — Siete voi, Caterina? (toccando le mani di Bernardetto) No... Avete le mani troppo grosse voi! Siete Bernardetto.

Bern. — Bravo, hai indovinato.

Gasp. — Bel merito! Siete suo cugino, siete sempre qui... E poi chi vi avanza nel fare delle burle?

Bern. — Te l'hai a male anche questa?

Gasp. — Se non mi aveste mai fatto altra burla che questa!

Bern. — Ma ora sono finite per sempre, Gasparino mio.

Gasp. — (Non mi chiama più Scarabocchio?) Perchè dite che sono finite?

Bern. — Perchè basta guardarti, si capisce subito che hai fatto un'eredità... che hai trovato un tesoro... insomma che c'è del nuovo in aria!

Gasp. — E se anche fosse, non lo dirò a voi che me ne avete fatte tante!

Bern. — Ti ho fatto qualche burla, è vero; ma del male poi non te n'ho fatto punto.

Gasp. — Non m'ha fatto del male! Sicuro che non mi avete preso a sassate, no; ma alle volte fa più male una parola che un sasso!

Bern. — Io t'ho chiamato Scarabocchio come gli altri... Gran che!

Gasp. — Prima degli altri, e questo è peggio che una sassata!

Bern. — Prima o dopo, era per ischerzo... E se tu non [275] eri così permaloso, la cosa cascava da sè; ma sì, tu andavi sulle furie!

Gasp. — Non aveva ragione? Sono uno scarabocchio io? Ho questo difetto che non posso stendere la gamba come vorrei; ma quando io sto fermo sono alto come voi, e se sono seduto...

Bern. — Non sei più che un mezzo scarabocchio! Ma ritorniamo a bomba: tu vuoi fare dei misteri con me! ma sai a chi lo devi se sei contento? Lo devi a me solo.

Gasp. — A voi? Impossibile!

Bern. — Perchè ho riso qualche volta di te, credi che io sia capace d'impedirti di migliorare la tua condizione?

Gasp. — Voi potevate impedirmi?...

Bern. — Sicuro, tacendo! Ma sarei stato un fior di birbante, far del male a chi m'ha fatto tanto ridere!

Gasp. — Bernardo, provatemi che io debbo a voi il mio avvenire ed io vi domanderò perdono in ginocchio del mio dubbio!

Bern. — Allora inginocchiati e subito, imbecille! (trae di tasca due lettere; una è quella già letta; la rimette in tasca e legge l'altra) Questa... questa... «Onorevole signor Bernardetto». Ma prima di tutto guarda i timbri postali e la data. Tu non sai leggere; ma i numeri mi pare che li conosca...

Gasp. — Sì... arrivata qui il 26... marzo... colla posta, non c'è dubbio.

Bern. — Il 27 ho risposto.

Gasp. — Il 28 Caterina mi ha letto la lettera che m'invitava a recarmi in città...

Bern. — Il 29 sei partito, e oggi primo d'aprile sei di ritorno. Ora senti, (legge) «Sebbene io non abbia l'onore di essere da lei conosciuto, me le rivolgo sicuro che vorrà compiacermi, trattandosi di fare una buona azione, e sapendo dal negoziante Giuseppe Ferri che non mi indirizzerei invano alla sua cortesia ed alla sua probità». Vedi, non ci sei che tu a credermi un uomo feroce!

Gasp. — Proseguite...

Bern. (legge). — «Io sono incaricato di fare ricerche accuratissime di un bambino che sarebbe nato in questo circondario, or sono ventitrè anni, da una povera donna che [276] morì in viaggio dandolo alla luce. Siccome il bambino in questione, se è vivo, non può trovarsi che in istrettezze, e mio còmpito è appunto d'alleviarle, Lei ha già compreso che si tratta di aiutarmi nelle ricerche: sicuro del favore, Le anticipo i miei ringraziamenti... Eccettera... eccettera...». — Sei convinto?

Gasp. — E voi vi siete degnato di cercare...

Bern. — Che cercare! mi sono semplicemente ricordato che Scarabocchio è nato in una stalla di questo borgo da una donna che vi era di passaggio giusto ventitrè anni fa, e che è morta senza che si potesse sapere chi fosse; e ho scritto subito: il bambino che cercate, vive...

Gasp. — Oh sì, vive, ora!

Bern. — Ha ventitrè anni, dimora in casa di Caterina Belfiore che gli usa tutte le carità, fa l'armaiuolo, un cattivo armaiuolo, e si chiama Gaspare, e per soprannome...

Gasp. — Scarabocchio, finora; ma d'or innanzi, grazie a voi, nessuno mi avvilirà più con questa brutta parola! O Bernardetto, perdonatemi se vi ho giudicato male... Io credeva proprio che mi odiaste; ma ora riconosco che se mi avete fatto soffrire è senza volerlo, è perchè non sapevate quanta amarezza io avessi nel cuore...

Bern. — To', se te l'ho sempre detto, era per chiasso; era perchè io non posso vederti senza ridere!

Gasp. — Voi non potete vedermi camminare senza ridere? Ebbene... quando sarete di malumore, venite da me... e io vi farò ridere... (fa un giro nella stanza, mentre Bernardetto ride, e poi va a prenderlo per le mani) Ridete! ridete! pur che non ci sia presente Caterina! Ma non basta: d'or innanzi ricordatevi che sono tutto vostro, come lo sono per quell'angiolo della Caterina!

Bern. — Che cosa potresti fare per me? Difendermi no, chè con un soffio ti si butta in terra: darmi dei quattrini peggio che mai, dunque!

Gasp. (sottovoce). — Peggio che mai?

Bern. — Oh! qualche miseria!

Gasp. (traendo di tasca un involto di cinque biglietti da cento lire e spiegandoli uno alla volta). — Miseria?! Uno... due... tre... quattro e cinque! Cinque! Cinque!

[277] Bern. — Cinque biglietti da cento!

Gasp. — E mica per una sola volta!

Bern. — Ad ogni anno?

Gasp. — No! No!

Bern. — Allora ogni due anni? È sempre una bella fortuna!

Gasp. — Oh sì... ma di questi biglietti io ne avrò cinque ogni... mese!

Bern. — Ogni mese?

Gasp. (esaltandosi). — Sì, cinquecento lire, sì cento scudi al mese a me, che non arrivavo mai a mettere assieme in un anno due soldi! Dei soldi ora? Dieci mila soldi al mese ora! A palate i quattrini! A staia! A sacca! — Oh! perdonatemi, Bernardo, questo trasporto; ho sofferto tanto! E pigliate, pigliatene uno, due, quanti volete, per la mia riconoscenza!

Bern. — Sei matto? Se accettassi, non sarei così contento di quello che ho fatto..... Basta, ti dico! E poi che maniera è questa, appena hai quattro soldi, volerli buttar via a diritta ed a sinistra, anche a chi non ne ha bisogno? Pensa piuttosto al tuo.

Gasp. — C'ho già pensato. Prima pago alla Caterina il fitto di cinque anni per questa stanza, e poi vado dal sindaco a domandargli quanto costerebbe levare dalla strada tutti quei monellacci...

Bern. — Te lo dico io: tre soldi, quanto costa un bastone!

Gasp. — No! voglio che li mandino a scuola, e la scuola la pagherò io.

Bern. — Ti piglieranno a sassate alla sortita. E il resto?

Gasp. — Mi farò una bella bottega...

Bern. — Invece d'andare a spasso tutto il giorno..... E poi?.....

Gasp. — E poi..... del bene ai poveri..... Altro che cosa posso fare io?

Bern. — Tu hai ventitrè anni... Vieni qui che ti guardi negli occhi... Ecco, tu diventi rosso come una ciliegia... Tu vuoi pigliar moglie, ci si legge scritto!

Gasp. — Chi mi piglierebbe mai!

[278] Bern. — Le donne non lo sai che vanno matte per gli scarabocchi?

Gasp. — Non dite questo, Bernardo!

Bern. — Parola d'onore: hai visto mai un gobbettino che non abbia una bella moglie? Ma va là, ipocrita, che tu sai già dove andar a picchiare.

Gasp. (negando, sperando e ridendo). — Non è vero nulla!

Bern. — Già... perchè lui si permette di amare i fiori...

Gasp. — Bel merito!

Bern. — Perchè non vuole che si picchino le bestie...

Gasp. — Povere bestie, sono così buone appetto degli uomini!... E se sapeste la stretta che ho sofferto quando mi hanno ammazzato il mio povero Nanni!

Bern. — Consolati; egli ti aspetta nel paradiso delle oche.

Gasp. — Povero gatto, non gli mancava che la parola!... Era il mio unico amico, dopo Caterina!

Bern. — Pensiamo dunque, dopo l'amicizia, quando sentirà della fortuna!

Gasp. — Di chi parlate?

Bern. — Non del gatto, di Caterina che vuoi sposare.

Gasp. — Oh! non mi venne neanche per il capo un così fatto pensiero!

Bern. — Quando è contenta lei!

Gasp. — Lei... contenta!...

Bern. — Perchè no? E l'arriva in persona..... chiedigliene!

Gasp. (combattuto e vacillante per l'emozione). — Caterina... mia! No, no, è impossibile!

Bern. — Con sei mila lire di rendita? Babbeo! Ma se non mi ha parlato che di te anche questa mattina!

Gasp. — Sì?... E di questa gamba... non ha detto nulla?

Bern. — Ma va là, che, se ci metti sotto le tue migliaia, diventa subito una gamba come l'altra... meglio dell'altra!

Gasp. — Un'ultima parola, Bernardo, mentre sono in tempo: se ella è contenta, credete voi che un giorno i miei figliuoli non somiglieranno a me, e potranno fare i soldati?

Bern. — E diventar caporali!

[279] Gasp. — O Dio buono! Finora tanto avvilimento ed ora tanta felicità!... Rimanete, ve ne prego; ho quasi paura!

Bern. — A farti lume? Ti gira. (Se non vado via, o crepo, o mando tutto a monte). Coraggio, o Caterina se la sposa un altro.

Gasp. — Se basta il mio amore ed il mio denaro, ora è mia!

Bern. — Bravo! Coraggio! (via dal fondo, dicendo:) — (Se non vado... crepo!.. crepo!)

Gasp. — Ne ho del coraggio, sì; ma sarebbe tanto meglio essere come lui!

SCENA IV.

CATERINA dalla destra, in più ricco arnese e con un velo in capo. Detti.

Cat. (sul pianerottolo). — Eccomi in ordine, Bernardetto... O Gaspare! siete ritornato?

Gasp. — Sì, or ora... Mi riposava un momento e poi veniva subito da voi.

Cat. — Aspettatemi un istante che ritorno subito... (scompare dalla destra).

Gasp. — Badate, veh, che non ho bisogno di nulla... Oh sì, giusto lei mi dà retta! Ma io sono tutto coperto di polvere ed in disordine..... se ci pensavo quand'ero in città!.... Ma lei non baderà ai miei cenci, nè ai miei capelli arruffati..... Eccola: a me par sempre un angelo che cali dal paradiso!

Cat. (dalla destra, con una scodella di brodo ed un bicchiere di vino sopra un piccolo vassoio). — Un po' di brodo e un bicchier di vino vi faranno bene, dopo il viaggio... Ma sedete, Gaspare, sedete.

Gasp. — Sono stanco, ma non sono mica ritornato a piedi: c'è un signore che mi ha pagata la diligenza..... (siede e prende la scodella) Quanto siete buona, Caterina! (la guarda estatico)

Cat. — Bevete, Gaspare. Bernardetto è uscito?

[280] Gasp. — Per ritornare subito.

Cat. — Ma perchè non bevete?

Gasp. — Non posso... C'ho una cosa qui, come un nodo...

Cat. — Vi sentite male?

Gasp. — Mai così bene!

Cat. — Dunque buone notizie? Sentite; io non voglio sapere i vostri segreti, ma ad ogni modo ricordatevi che qui siete sempre come a casa vostra..... Ora che ci siamo intesi, bevete...

Gasp. — La mia condizione si è mutata, Caterina... (quasi arrossendo) Ora sono... quasi... ricco!

Cat. — Li avete dunque trovati i vostri parenti?

Gasp. — Vi dirò... I miei genitori sono morti, e, quanto ai parenti, ho dovuto promettere di rinunziare a cercarli..... Ma pure ho saputo una cosa, che m'ha levato dal cuore un gran peso...

Cat. — Intorno a vostra madre?

Gasp. — Sì... non mi si voleva dir nulla; ma io ho pregato tanto e tanto, che posso finalmente dire a tutti che la mia povera madre non era quella che dicono i maligni; ma una onesta, ma una santa donna!

Cat. — Bene, bene: questa è già una grande consolazione!

Gasp. — E non basta, Caterina. Mio padre — posso dirvene una parola sola, ma così bella! — mio padre era un soldato pieno di coraggio e di bontà!

Cat. — O Dio benedetto!

Gasp. — Col cuore sulle labbra! (E non mi domanda neanche quanto io sia ricco!) Ma c'è di più: c'è chi d'or'innanzi penserà a provvedermi di tutto.... di più che del necessario... di molto più!

Cat. — Oh ne ho proprio piacere come se fosse toccata a me la vostra fortuna; ma siete poi sicuro?

Gasp. — Le ho in tasca... cinquecento lire...

Cat. — Cinquecento...?

Gasp. (mostrandole l'involto dei biglietti). — Cinquecento lire... al mese.

Cat. — Al mese?!

Gasp. — Al mese.

[281] Cat. — Oh viva il donatore! Viva per voi ed anche per me, poichè tutto questo denaro vi metterà in grado di far vedere se io aveva ragione di proteggervi.

Gasp. — Sicuro che avevate ragione! Ed io benedico ora con tutta l'anima il Signore che ha permesso..... a me..... di poter dimostrare..... a voi... cioè... non so più quello che mi dica... ma voi mi capite... e mi perdonate, non è vero?

Cat. — Vi capisco, ma non ho da perdonarvi nulla, mio buon amico.

Gasp. (fra sè). — (Mio buon amico!... Coraggio!...) Caterina...

Cat. — Gaspare?

Gasp. (ride).

Cat. (lo guarda e ride anche lei, poi:) — Perchè ridete così?

Gasp. — Questa mattina avete parlato di me con qualcheduno?

Cat. — Si, con Bernardetto...

Gasp. — (Ah!) Un momento?

Cat. — Molti momenti!

Gasp. — Benedetti tutti, se non dicevate troppo male di me!

Cat. — Come potrei dir male di voi? Ho detto anzi molto bene!

Gasp. (turbato, oppresso dalla gioia). — Caterina...

Cat. — Forse, perchè ora siete ricco, io dovrò essere diversa da quella che sono stata finora? (gli porge le mani)

Gasp. — (Oh! è troppo! è troppo per il mio cuore!) (lascia le mani di Caterina, e con uno scoppio di pianto si abbandona sul banco) Basta! Basta!

Cat. — povera me!... Piangete adesso? Ma perchè, Gaspare? Avete qualche cosa nel cuore che vi dà pena, e non me la confidate? Non sono sempre per voi quella sorella, quasi una madre, che sapeva consolarvi quando eravate infelice? Ebbene, io vi aiuterò a sostenere anche la prova della buona fortuna..... Animo, asciugatevi gli occhi, così! e coraggio!

Gasp. — Sì, che ne avrò del coraggio... purchè la felicità non mi venga tutta intera ad un tratto! Voi sapete che io [282] sono vissuto tanti anni nel fango della strada, respinto, beffato, trattato peggio di un cane, perchè il più brutto cane riceve talvolta una carezza..... Ma io non aveva un padrone che mi difendesse; non un amico che pigliasse a proteggermi; non aveva nulla; non aveva la famiglia! Ma che dico? Io doveva fuggire gli uomini e cercare la compagnia delle bestie, perchè è scritto che una creatura possa ricevere una prova di affetto dalle bestie e null'altro che dileggi e beffe dagli uomini!

Cat. — Poveretto!

Gasp. — E se in uno di quei momenti terribili in cui la amarezza monta su su dal cuore ad abbuiarvi la mente, in cui si darebbe l'anima per una vendetta inaudita, io prorompeva in una maledizione..... ecco..... ecco..... lo sentite, gridavano: lo sentite il segnato da Dio? — Dio! Forse egli avrebbe fatto meglio se l'uomo potesse farsi bello o brutto a misura dei suoi pensieri e delle sue azioni... e allora! Ma è possibile che il Dio degli sventurati abbia detto questo, lui che inspirò vostra madre e voi ad avere compassione del povero reietto? Oh sì! non c'era che una donna che potesse fare quello che ha fatto lei, quello che fate voi! Ma che oltre alla consolazione ci possa essere per me anche la felicità, non me lo dite, Caterina, no, perchè io che ho resistito a tanti dolori, sento che non potrei resistere a tanta gioia... e morrei qui ai vostri piedi! (le si butta ai piedi)

Cat. — Che cosa volete dire? È Bernardo che vi ha dato ad intendere...? (colpita da un altro sospetto) (Ah! sarebbe troppo!) Mostratemi subito quei biglietti. (Bernardetto)

Gasp. (in ginocchio). — Eccoli: teneteli, essi sono tutti vostri!

SCENA V.

BERNARDETTO dal fondo, inosservato da Gaspare. Detti.

Bern. (a Caterina, che svolge l'involto dei biglietti). — Aspettate, venite di là, che vi dirò tutto.

Cat. — No, voglio vederli subito... voglio saper tutto... e non posso assolutamente prestarmi a qualsiasi inganno.

[283] Gasp. — Che inganno?

Cat. (guardati i biglietti con un grido di sdegno) Oh! (a Gaspare). Li ha avuti nelle sue mani?

Gasp. — Non uscirono dalle mie.

Bern. — Via, Caterina; era già fatta!

Cat. — Siete un disgraziato, e mi meraviglio che abbiate potuto farmi complice di una beffa più che brutta, crudele, feroce! (sale la scala a destra) Alzatevi, Gaspare; non è a voi che spetta stare in ginocchio!

(Gaspare rimane in ginocchio atterrito, ma senza comprendere chiaramente la situazione)

Bern. — Era già combinata, vi dico... (la segue)

Cat. — Vi credeva soltanto leggero, ma vedo che siete un uomo senza cuore... Lasciatemi; ora voi mi fate paura! (via dalla destra)

Bern. — Ma io non ho mancato alla mia parola... (volgendosi dal pianerottolo a Gaspare) Maledetto Scarabocchio, se mai non l'aggiusto, me l'hai da pagare..... Non capisci nulla! Una caricatura come te sposare la mia Caterina? Vatti a specchiare nella pila, e pulisciti la bocca coi biglietti della banca dei complimenti! (via dalla destra)

Gasp. (con un grido). — Ah! (vorrebbe avventarsi sui passi di Bernardetto, ma vacilla e cade boccone, prorompendo in un pianto disperato, rotto da singhiozzi convulsi. Quindi si solleva a sedere, accasciandosi a terra presso la seggiola accosto al tavolino) Ma quale delitto ho io commesso prima di nascere, da farmi dannare a questo supplizio? E voi, madre mia, perchè non m'avete soffocato appena nato, quando potevate salvarmi da quella carità che vi lasciava partorire e morire sul letame d'una stalla? Sarei morto con voi... Invece guardate che cosa ha fatto di me la vostra compassione: un essere che non può vivere che deriso! un essere che la donna non può amare! un essere inutile a sè ed agli altri, che la società schiaccia come un verme... come un mostro! Non un mostro... Il mostro fa paura... il mostro fa delle vittime... il mostro è la forza, la bellezza, la fortuna, ed io non sono che la vittima, ma la vittima ridicola, la vittima che non può essere nè soldato, nè sacerdote, nè amico, nè sposo... nulla! nulla! null'altro che ridicolo sempre! — Ma a qual ladro, a quale [284] assassino s'infligge questa umiliazione, questa berlina, questa tortura che m'accompagna per tutta la vita? E che cos'è la vostra bella libertà, la vostra famosa civiltà, se non protegge i deboli? — Ah! ah! ah!... proteggere lo Scarabocchio! Sei forse un uomo tu; sei forse fatto ad imagine di Dio, quando l'ultimo degli uomini, Bernardo, ti prova che non sei stato messo al mondo che per trastullo degli altri, e ti rapisce per giunta la donna del tuo cuore? Dio! Dio! se voi foste giusto, o non permettereste ch'io fossi, senza mia colpa, diverso dagli altri, o almeno non martirizzereste così una creatura che non ha mai fatto nulla, nulla di male!

(disperato, colle mani ne' capelli, si abbandona sul pavimento)

SCENA VI.

BERNARDETTO dalla destra. Detto.

Bern. — (Maledetto! gli darò le sue cinquecento lire, se non posso fare a meno, e così otterrò, col suo perdono, quello di Caterina). Che fai lì bocconi?

Gasp. (contenendosi). — Lasciami pregare!

Bern. — Pregare? A che? Nessuna preghiera può fare che ciò che è stato non sia stato e tu sia diverso da ciò che sei. Alzati adunque subito che discorriamo, o mi farai ridere peggio di prima. (raccoglie i biglietti e li mette nel portafoglio)

Gasp. (si alza inosservato). — (Ancora? Questo è troppo!) Io non posso che far ridere sempre?

Bern. — Dovresti esserne convinto da un pezzo. (Gaspare va a prendere sul banco la pistola).

Gasp. — Io non sono proprio un uomo come un altro?

Bern. — Come me, no certo.

Gasp. (balzandogli dinanzi terribile). — E allora a noi!

Bern. (indietreggiando). — Che vuoi fare?

Gasp. (colla pistola nella destra, ma senza appuntarla contro Bernardetto, con voce soffocata). — Ucciderti!

Bern. — Uccidermi? Questo non è uno scherzo da fare [285] neanche per burla! Metti via quella pistola che è carica, Gaspare!

(indietreggia fino all'estremità del proscenio a destra)

Gasp. (sempre a voce bassa) — Non Gaspare, Scarabocchio! Chiamami come mi hai battezzato, Scarabocchio!

Bern. — Ebbene, sì..... te l'ho fatta grossa..... ma uccidermi?

Gasp. (come sopra) — Se i ragazzi che hai scatenato contro di me meritano il bastone, sei tu che l'hai detto, tu, uomo, non meriti la morte? E tu morrai quando avrai sofferto in dieci minuti l'agonia che hai fatto soffrire a me per anni!

Bern. (sentendosi mancare). — Caterina! Soccorso!

Gasp. (sempre a voce bassa) — Sì, che venga, che ti veda la tua sposa!..... ma non sperare che anima al mondo possa salvarti!

Bern. — Pietà, Gaspare! (appoggiandosi alla parete per non cadere)

Gasp. (prorompendo) — Non c'è più pietà in me; tu l'hai ammazzata collo scherno; ma c'è Scarabocchio fatto apposta per farti ridere..... Dunque ridi! Ora è il momento buono di ridere! Guarda come zoppica, e dondola, e sbilenca Scarabocchio! (attraversa l'angolo della scena, dal mezzo alla scala, senza abbandonarlo collo sguardo) — Ridi! Ridi! — Ma tu non ridi? Tu batti i denti, e il sudore ti lava il volto bianco, mentre le tue belle gambe stanno per tradirti tutte e due?! (con una risata di scherno) Ah! Ah! Ah! Un'arma mi fa più forte di lui, e l'uomo perfetto non ride più! Il tiranno della strada ha paura!

SCENA VII.

CATERINA dalla destra. Detti.

Bern. — Venite, Caterina, per carità!

Cat. (impaurita dall'aspetto di Gaspare e dallo spettacolo di Bernardetto accasciato e presso a smarrire i sensi). — Che cosa è stato? (scende mezza la scala)

Gasp. — Giusto voi dovete esser qui — per un istante — ma [286] fermatevi lì, o lo inchiodo al muro sotto i vostri occhi! (a Bernardetto) Giù in ginocchio... e giù il cappello! Un po' per uno nel fango!

Cat. — Gaspare, o mio buon amico, o mio fratello!

Gasp. — Io non posso essere fratello di nessuno!

Cat. — Pietà!

Gasp. — E voi credete di ottenerla, quando la domandate per questa belva? Ma non calunniamo le belve! Le belve ci addentano, ci sgozzano, ma ci uccidono: per straziarci il cuore e non darci la morte, per lasciarci nella carne viva il dente velenoso dell'odio e della disperazione, ci vuole quello lì, l'uomo! Ma costui, che voi avete creduto degno del vostro amore, ha fatto anche meglio: mi ha sollevato fin lassù alla porta del cielo, non per darmi un istante di gioia, ma perchè precipitando da quell'altezza io mi sprofondassi di più nel mio inferno!

Bern. (sfinito). — Perdonami!

Cat. — Lo avete sentito?

Gasp. — Sì; ma non vi pare vile?

Cat. — Non più di prima.

Gasp. (a Bernardetto). — È vero; non più di prima, te lo dice lei. (a Caterina con un cenno imperioso) — E ora uscite.

Cat. — No, Gaspare; ora perdonate, come io, sentendo di non poterlo più amare, gli perdono.

Gasp. — Ma io perchè gli dovrò perdonare?

Cat. (dopo una breve pausa). — Perchè voi potrete avere un giorno da me... quello che egli ha perduto... quello che vi ha fatto sognare!

Gasp. — Caterina! (quasi smarrito) Non una parola di più; ora più che mai mi parrebbe un sogno!..... (colpito da un pensiero improvviso, rassicura Caterina, e va a deporre sul tavolo la pistola, accennandola a Bernardetto) — A te, ora non ti temo più!

(prende le mani di Caterina e le bacia riconoscente, mentre Bernardetto si alza, passa vacillando dietro il tavolo, ed esce dal fondo a capo chino)

Fine della commedia e del primo volume.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.

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