*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 43172 *** LA VITA ITALIANA DURANTE LA Rivoluzione francese e l'Impero _Conferenze tenute a Firenze nel 1896_ DA Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi. MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1897. PROPRIETÀ LETTERARIA _Riservati tutti i diritti_. Tip. Fratelli Treves. LA DELINQUENZA NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE CONFERENZA DI CESARE LOMBROSO. I. RIVOLUZIONE E MISONEISMO. Quella che si suole chiamare Rivoluzione dell'89, non fu che una grande rivolta e un grande delitto politico che servì ad aumentare una triste serie di comuni delitti; per cui chi vuol trattare dei suoi elementi criminosi dovrebbe rifarne tutta la storia; il che nè è mio cómpito, nè sarebbe possibile in poche pagine. Lasciando dunque agli storici l'esposizione dei tristi fatti, quella che sarebbe detta in lingua giuridica la requisitoria penale, facciamone noi che siamo solo poveri alienisti la diagnosi e la psicologia patologica. Ho detto che quella fu una rivolta ed un delitto politico, e mi occorre prima di ogni altra cosa darvene la ragione, e perciò partire dall'esporvi in che consista, ai miei occhi, dopo gli studi non brevi che feci in proposito, il delitto politico.[1] [1] LOMBROSO e LASCHI. _Il delitto politico e la rivoluzione._ Torino, Bocca, 1890 Il delitto politico ha la sua base nel ribrezzo naturale nell'uomo per ogni novazione, sia essa politica, religiosa o artistica, talmentechè, ogni progresso diventa un fatto antisociale, quindi un delitto, quando urta troppo profondamente gli istinti conservatori delle masse. Questi istinti sono tanto più tenaci e più radicati, quanto meno la razza è progredita. _Misoneismo._ — Un fanciullo a cui si affaccia la prima volta un oggetto nuovo, dà in ismanie e tenta fuggire, e ciò solo per paura del nuovo: perciò voi lo vedete farsi perfino feroce se lo cambiate di stanza, ed impaurirsi ad ogni mobile nuovo; se ne osservarono di quelli che volevano vedere sempre la stessa pittura e riudire la solita novella con gli stessi termini. Guai a mutarli! Varigny racconta come un fanciulletto di due anni, cui egli era carissimo, s'allontanò da lui con orrore quando dovè per un reuma infagottarsi una gamba nell'ovatta; il bimbo lo guardava sospettoso e poi gettava urli frenetici; ed anche dopo che egli guarì cercava evitarlo e gridava se gli si avvicinava un po' troppo; solo passati parecchi mesi, in presenza di un terzo, acconsentì ad ascoltarlo, ed a dargli la mano. Era evidentemente l'effetto del ribrezzo pel nuovo. Quest'odio per il nuovo, che si osserva nei fanciulli, si nota a maggior ragione nei popoli selvaggi, la cui debolezza psichica fa sì che una volta assimilate alcune sensazioni, impediscano l'assimilazione di altre, massime se la differenza sia viva, e non vi sia un passaggio, una sfumatura che le colleghi; così nelle lingue primitive _elefante_ è _bue con i denti_; nella chinese i cavalli sono _cani grandi_; nel sanscritto per esprimere _stalla di cavalli_ si dice _stalla di buoi di cavalli_; e per un _paio di cavalli_ un _paio di buoi di cavalli_. Mancando i punti di passaggio, la percezione si associa a tale fatica da produrre un vero dolore, che alle volte si traduce in orrore. Succede allora nell'uomo normale quanto riscontrai in una mia alienata, che non poteva recarsi, nemmeno accompagnata, in una regione dove non fosse stata prima, perchè l'orrore e la confusione che la prendevano allora erano tali da indurla al suicidio. Le menti deboli, o indebolite, o primitive, si mostrano dunque maggiormente esposte alla repulsione contro il nuovo: ben inteso che delle piccole innovazioni, come sarebbero la moda per la donna, il mutamento del tatuaggio da elittico in circolare per il selvaggio, i balocchi per il bambino, non solo non hanno orrore, ma anzi vivissimo desiderio, perchè vellicano, senza irritarli o addolorarli, i centri nervosi che hanno pur bisogno di qualche mutamento. Ma quando l'innovazione sia troppo radicale allora non è solo il selvaggio ed il bimbo che ne sentano orrore; la gran maggioranza degli uomini, per i quali il misoneismo è legge di natura, ne prova ribrezzo, e ciò per il dolore che produce il dover far subire al proprio cervello dei passaggi più rapidi che non siano alla sua portata; essendo naturali nell'uomo volgare, come in tutti gli animali, l'inerzia e la ripetizione dei moti già eseguiti, proprii od atavistici. Ed a questo proposito scrive egregiamente il Max Nordau: “Sono dispostissimo a credere che le tribù dei selvaggi spariscano di fronte alla civiltà irrompente, solo perchè il cambiamento immenso di tutte le condizioni le costringe a ricevere troppi concetti nuovi ed impone alla loro mente troppo nuove funzioni.„ — Questa, che parve una esagerazione, fu meglio spiegata ed illustrata dal Beard, il quale notò che, fino a che non sono a contatto della civiltà, i selvaggi hanno una resistenza straordinaria ai veleni, ai traumi, alla sifilide, all'alcool stesso e quindi vanno soggetti ad una minore mortalità. _Misoneismo nella religione._ — Altrettanto dicasi della religione, delle lettere, delle arti: dove vediamo trionfare il misoneismo. Per molto tempo nell'Oceania, nell'India e fra noi, per quanto vi si opponessero i sentimenti di pietà, l'abbondante alimentazione e leggi severissime, si mantennero il cannibalismo, l'assassinio sacro e la carneficina dei prigionieri, di cui un triste avanzo, Spencer lo dimostra, è la circoncisione ebrea, che, notisi, dovrebbe, ritualmente, essere eseguita con quei coltelli di pietra che contrassegnano l'epoca preistorica, — l'epoca della pietra. Anche in piena rivoluzione permase il feticcio; alla morte di Marat, Brochet fece stampare migliaia di copie di una giaculatoria che portava il ritornello: _Cuor di Marat, proteggici._ Nella valle di Ceresole si usa da quegli abitanti appendere agli alberi certi sacchetti coi prodotti del suolo, il che è un avanzo dell'antico culto dei numi delle foreste. Alla loro volta certe virtù attribuite ai santi riproducono quelle dei feticci e degli Dei pagani: contro la sterilità si invoca Sant'Andrea di Betsaida, contro l'epilessia San Giovanni, contro il mal di capo San Dionigi, Santa Lucia contro il male degli occhi, ecc. In Russia i vecchi dèi degli Slavi sono adorati sotto nomi diversi dal Mugik (contadino); Vodianj è l'antico Dio delle acque, Domovoï il genio della casa, San Blasi è l'antico nume pagano Vlas, o Volos Dio degli armenti; in molti siti si usa far benedire il campo dal prete per esorcizzarlo dal mago; per molti Dio è un gran mago. Il Giove slavo Peroum, il Dio della folgore, risalì sugli altari sotto la figura di Sant'Elia. In Francia, nella provincia di Saône e Loire, si trovano tuttora traccie dei Druidi nei cosidetti Bianchi, con regole religiose che ricordano l'antichissimo rito. E che dire della superstizione del venerdì, così universale e che risale ai tempi prima del Cristianesimo? A Parigi, dove gli omnibus trasportano in media 317.000 uomini al giorno, al venerdì si nota una differenza in meno di circa 27.000 persone. La conservazione fedele di religioni antichissime è anche essa una prova del misoneismo: si vide per esempio il Bramanismo, quasi preistorico, combattuto senza frutto da Mongoli, Persiani, Tartari, Mussulmani ed Europei; ed anche quando sorse a riformatore Budda, questi non ebbe mai per sè le masse, a cui pro si agitava; tanto che, per diffondersi, la sua religione dovette emigrare dall'India in Cina, al Tibet, a Ceylan, benchè non fosse in fondo che un Bramanismo depurato. Altrettanto avvenne dell'Ebraismo: il Cristianesimo nacque in Giudea da Ebrei, ma non ne trascinò la maggioranza che si disperse per tutto il mondo, serbandosi sempre immutabile nelle sue antiche superstizioni. _Misoneismo nella scienza._ — Nel campo scientifico la storia di tutte le persecuzioni contro i geni inventori o riformatori basterebbe a provare l'influenza terribile del misoneismo, tanto più intollerante e fanatico quanto più ignorante; e basti citare i nomi di Colombo, di Galileo, di Salomone di Caus, primo inventore del vapore, mandato a Bicêtre da Richelieu. Gli è per questo che non vi è scoperta moderna (fotografia, elettricità, vapore, gas illuminante, ecc.), grande o piccola, che non sia stata riscoperta non solo, ma più volte ed in più epoche e sempre a danno dell'inventore suo e restata intanto, al più, per molto tempo allo stato di giocattolo fanciullesco. Nel 1760 quando il Governo Spagnuolo propose di pulire le vie di Madrid, un'indignazione generale, fino nelle alte classi, l'accolse. Il Governo si appellò ai medici, che dissero pericolosa l'esperienza di cui era impossibile calcolare i danni: le stesse cattive esalazioni rendendo più greve l'aria, le toglievano, secondo il loro parere, qualunque proprietà malsana!! Nel 1787 non si credeva alla circolazione del sangue; si vietava all'Università di Salamanca d'insegnare le scoperte di Newton, perchè non si accordavano con la religione; mancavasi d'una biblioteca perfino in Madrid; i bastimenti erano così guasti che non potevano sopportare il fuoco dei propri cannoni. Essendosi riconosciuto che le miniere di mercurio di Almadeira non rendevano, perchè i minatori lavoravano perpendicolarmente invece di seguire la vena, fu ordinato di cambiare sistema, ma essi rifiutarono, sicchè si dovettero far venire dei Tedeschi e degli Irlandesi ed allora si ebbero buoni risultati. Pietro Verri lamentava che Giuseppe II e il Governo Austriaco avessero posti i numeri sulle case e illuminate le vie di Milano. Il Cinese, scrive Jamesel, guarda sempre indietro, mai davanti a sè; per lui ogni cosa buona ci viene dagli antichi, ciò che è nuovo non può essere che triste, e se per caso un'invenzione nuova ha proprio del merito, certo dev'essere così antica, che se ne perdettero le tradizioni. Ebbene noi ridiamo dei Cinesi, ma infine facciamo altrettanto; da noi mentre la Chiesa si può dire il baluardo officiale contro ogni novità nel mondo morale e negli usi, le Accademie sono lo strumento officiale contro il genio e contro ogni novazione scientifica o letteraria; e quindi mentre non si trova una scoperta che ne abbia avuto impulso o favore, molte ne furono combattute fieramente e con successo, perchè esse hanno nella lotta per alleato il sentimento pubblico delle plebi e dei governi, che sono in gran parte composti di plebe. Ma come io ho già dimostrato nell'_Uomo di genio_, non solo gli accademici, che sono, per lo più, dei meschini eruditi, ma gli scienziati di genio a lor volta sono i più atroci persecutori ed oppositori del nuovo: portando una enorme energia nel rifiutare le nuove scoperte degli altri, sia perchè la saturazione, direi, del loro cervello non permette loro altra soprasaturazione, sia perchè avendo acquistato una specie di sensibilità specifica per le proprie idee, restano insensibilizzati per quelle degli altri. Così lo Schopenhauer, che pure fu uno dei più grandi ribelli in filosofia, non ebbe che parole di pietà e di sprezzo per i rivoluzionari politici; sentiva, in questo, così vivamente, che legò tutta la sua vistosa fortuna a favore di coloro che nel 1848 avevano contribuito a reprimere colle armi i nobili conati rivoluzionari. Altrettanto si dica della vita pubblica. Malgrado l'opposizione dei pensatori, i popoli sono sempre inclini alle battaglie quasi ad una festa: ed il bilancio improduttivo della Guerra è, senza contrasto, sempre accetto da tutti, in confronto a quello della Pubblica Istruzione e dell'Agricoltura, il cui incremento ci renderebbe, pure, più ricchi e più forti e quindi più sicuri. Nella vita politica noi latini giuriamo per un uomo, per Cavour, per Mazzini; in piena rivoluzione, ogni partito ha un uomo su cui giura. Basta che un Governo od un partito abbia dominato, sia pure per breve tempo, perchè lasci dietro sè dei partigiani convinti, direi quasi congeniti, anche quando a loro sia succeduto un partito, od un Governo infinitamente migliore: ne sono un esempio quei fedelissimi seguaci che lavorano per il ristabilimento di Governi che furono detti la negazione di Dio, come in Italia i Borbonici e i Papisti, i Carlisti in Ispagna, i Legittimisti in Francia, ecc. Altrettanto si dica delle caste che abbiano avuto una supremazia per un dato tempo; anzi le caste stesse, secondo il Lacaze, rispondono alla tendenza nostra alla immobilità e perciò è impossibile sradicarle. L'Indiano teme più d'ogni altra cosa la perdita della sua casta: ora egli può perderla, se Bramino, col mangiar carne, anche contro voglia o per forza; col far un viaggio in Europa; col consumare un alimento preparato da seguaci di altra religione o casta, col coabitare con donne straniere o di classe inferiore. Il Garofalo, in un prezioso opuscolo, ha fatto osservare che l'aristocratico ha lasciato fra noi tale un'istintiva devozione, che negli stessi suffragi politici a base democratica, esso è con costanza preferito a persone non solo eguali ma superiori per merito. Ed anche coloro, come gli antropologhi ed i psichiatri, che sanno quanto la nobiltà, almeno fra i latini, presenti più spesso il fianco alla degenerazione e quindi ad una vera inferiorità fisiologica sui borghesi, per l'ozio, per i matrimoni consanguinei, ecc., si sorprendono attratti verso loro, non di raro, da illogici istinti di ossequio, analoghi a quelli del valligiano remoto che saluta umilemente ogni cittadino che incontra; e sono — gli uni quanto gli altri — ultimi vestigi, ereditari, delle antiche schiavitù feudali. Il dominio teocratico, è da un pezzo passato dai nostri costumi, almeno in apparenza; ma provatevi ad agitare una questione in cui sottomano e di lontano anche entri la punta teocratica, il divorzio, per esempio, come tempo fa la soppressione dei frati o solo del loro vestiario, e vedrete che opposizione si solleva, ben inteso sotto i termini più diversi, più liberali, della libertà individuale, del rispetto alla donna, della protezione dei figli, ecc. Abbiamo oggidì, si dice, la libertà, la giustizia per tutti; ma in fondo i privilegi non fecero che cambiare da una all'altra casta; non sono più i sacerdoti ed i nobili, ma pochi avvocati politicanti che predominano ed al cui vantaggio lavorano tutti — senza o quasi senza compenso — gli onesti ed i disonesti. Insomma il passato è così incarnato nelle nostre viscere, che anche i più riluttanti ne sentono attrazione potente; così possiamo essere miscredenti finchè si vuole, eppure dalle moine del prete qualche ora del giorno ci sentiamo colpiti ed attratti; possiamo essere egualitari, ma, come abbiamo accennato, sentiamo una venerazione per gli eredi dei nostri baroni; altri ha bel credere all'inutilità di alcune leggi, ma chi le difende trova subito il plauso di mille, solo perchè esse hanno esistito. E se la civiltà si fa strada non di rado, è perchè trova nei mutamenti di clima, di razza, o nell'insorgere dei genii o dei pazzi, circostanze tali che finiscono per sommare tanti piccoli movimenti in modo da farne col secolo un grande.[2] [2] Vedi il mio _Uomo di genio_, 6.ª ediz., parte IV. _Misoneismo nelle pene. Contro l'uso._ — Ecco perchè nelle legislazioni primitive vediamo le mancanze contro l'uso costituire il massimo delitto, la massima immoralità: ed un breve esame condurrà a veder in ciò l'origine di quasi tutte le leggi che vennero poi a tutelare lo Stato contro i ribelli all'ordine politico esistente, od a punire gli attentati rivolti contro i capi del Governo, discendenti dai sacerdoti, dai capi tribù primitivi, che nell'idea misoneistica, quali custodi dell'uso, venivano considerati come sacri e perciò, mentre godevano piena impunità, segnalavano ogni offesa contro sè stessi come delitto. Il codice di Manù (libro I, art. 108-9) così si esprime quanto alla violazione dell'uso: “Il costume immemorabile è la principale legge approvata dalla rivelazione; in conseguenza chi desidera il bene dell'anima sua deve conformarsi con perseveranza al costume immemorabile. Perciò i Muni, conoscendo che la legge si appoggia a consuetudini immemorabili, su queste fondarono ogni austerità.„ Così il supplizio dell'olio bollente era destinato al Sudra tanto audace da dare un consiglio ai Bramini relativamente al loro dovere e si giudicava un atto di rivolta quando cessava di approvare ciecamente l'attitudine di coloro che sono i maestri, i padri di tutta la creazione. (Manù, VIII, 272). — Come vedemmo, era a sua volta delitto per il Bramino, non solo l'andare all'estero, ma il coabitare con uno straniero, o farsi da questo preparare i cibi. Gli Egiziani spinsero l'amore dell'immobilità al punto di fissare con leggi immutabili la pittura, la scultura, i canti e la danza ed a giudicare come empi coloro che tentassero mutarli: persino il disprezzo dei rimedi suggeriti dai libri sacri era sacrilegio: il medico che vi contravvenisse poteva in caso di insuccesso essere condannato a morte. Nella Cina non si fece diversamente per lunghi secoli: ed è noto quanto anche ora quel paese si dimostri restìo al progresso europeo: nel 1840 un padrone di nave, avendo messo un'áncora all'europea, il Governo fece distruggere la barca e punire il barcaiuolo. Nei codici della dinastia Hia, ricordati da Confucio, si trovano dei curiosi esempi di misoneismo: vi si leggeva, per esempio: “chi alterando le parole corrompe le leggi — chi disordina i titoli e muta le regole — chi professa false dottrine per disordinare il Governo: pena di morte. Chi compone musica licenziosa — chi forma abiti strani — chi fabbrica meccanismi artificiosi o arnesi straordinari per commuovere la mente del principe: pena di morte.„ In tutte le città greche il sacrilegio e quindi la mancanza agli usi e alle credenze più assurde, era essenzialmente un delitto politico. Per i Daiacchi era delitto intaccare i tronchi degli alberi con dei tagli a V come gli Europei: non si dovea colpirli che perpendicolarmente all'asse. Nella antica Russia, scrive Stepniak, il concilio ecumenico condannava l'introduzione di una nuova foggia di pettinatura, di un nuovo piatto, come un reato: nel 1563 la prima stamperia vi fu chiusa come opera diabolica. Da noi è ancora vivo il ricordo come fossero considerati delitti di Stato i tentativi di mutare i costumi più semplici; come i cessati Governi dispotici perseguitassero quali proprii nemici non solo i veri ribelli, ma perfino i portatori di baffi e un tempo gli avversari della coda. II. RIVOLUZIONI E RIVOLTE. _Fondamento del delitto politico._ — Ora, se per tutto quanto abbiamo visto, il progresso organico ed umano non ha luogo che lentamente e per attriti potenti, provocati dalle circostanze esterne ed interne, e se l'uomo e la società umana sono conservatori istintivamente, è forza concludere che i conati al progresso, che si estrinsecano con mezzi troppo bruschi e violenti, non sono fisiologici: che se costituiscono qualche volta una necessità per una minoranza oppressa, in linea giuridica, sono un fatto antisociale e quindi un delitto. Ed un delitto spesso inutile: perchè essi destano una reazione in senso misoneistico, che basandosi solidamente sulla natura umana, ha una portata maggiore dell'azione anteriore. Ogni progresso per essere adottato deve essere lentissimo, altrimenti è un dannoso ed inutile sforzo. Coloro che vogliono imporre una novazione politica, senza tradizioni, senza necessità, intaccano il misoneismo e destano così la reazione negli animi aborrenti dal nuovo, con che giustificano l'applicazione della legge punitiva. _Rivoluzioni, ecc._ — E qui si pare la distinzione tra le rivoluzioni propriamente dette che sono effetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco più rapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente storico, — e le rivolte o sedizioni, le quali sarebbero un'incubazione precipitosa, artificiale — a temperatura esagerata — di embrioni tratti perciò a certa morte. La rivoluzione è l'espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, di sistema scientifico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi resultati politici, ecc., essa li cambia col minimo degli attriti e col massimo del successo, per cui le sommosse e le sedizioni che provoca, se pure ne sono una parte necessaria, sono appena avvertite e svampano appena comparse: è la rottura del guscio del pulcino maturo. Uno dei suoi caratteri distintivi, dunque, è il successo, che può raggiungersi presto o tardi, secondo che sia più maturo o no l'embrione e secondo che sieno i popoli e i tempi adatti alla evoluzione. Un altro carattere è il suo moto lento e graduato, altra ragione questa del successo, perchè allora è tollerato e subìto senza scosse; malgrado, non di rado, una certa violenza vi appaia necessaria contro i partigiani del vecchio che si trovano sempre, per quanto grandi siano le ragioni del nuovo: e ciò sempre per l'universalità del misoneismo e della legge di inerzia. Le rivoluzioni sono più o meno diffuse, generali e seguite da tutto un paese; le sommosse sono sempre parziali, opera di un gruppo limitato di caste o d'individui; alle prime non prendono parte quasi mai i ceti elevati, ben inteso quando essi non sieno presi di mira dagli altri per livellarsi con loro. Le sedizioni rispondono a cause poco importanti, non di rado locali o personali, spesso in rapporto all'imitazione, all'alcool, al clima, e durano di una vita tanto più corta, quanto più vivace. Come non mirano ad altri ideali, così non raggiungono uno scopo o lo raggiungono contrario al benessere generale e sono frequenti in popoli meno progrediti: esempi il Messico, San Domingo, le piccole repubbliche medioevali, e or non è molto, quelle dell'America meridionale; come nei ceti meno colti e nel sesso più debole — e assai più vi partecipano i criminali che gli onesti. Le rivoluzioni invece appaiono sempre di raro, mai nei popoli poco progrediti, e sempre per cause assai gravi o per alti ideali; vi prendono parte più gli uomini appassionati, cioè i rei per passione od i genii che i criminali. Così è che se le ribellioni cessano colla morte dei capi, le rivoluzioni ne hanno spesso, invece, incremento (Cristo): e benchè gli inizii ne siano il più delle volte poco favorevoli, finiscono quasi sempre per trionfare, all'inverso delle rivolte, vincitrici invece solo sul principio. Questo succede anche quando si tratti di popoli deboli opposti a forti, come in Grecia, nei Paesi Bassi, a Milano nel 1848, e nell'impresa dei Mille. Che se sulle prime tali rivoluzioni sembrano fallire, esse danno luogo a un lento lavorìo che finisce col farle trionfare: così il partito popolano di Roma represso da Silla, trionfò con Cesare; a Firenze, i Ciompi, sconfitti, finirono col prevalere coi Medici; nei tempi moderni i moti rivoluzionari del '48 e '49 dell'Ungheria e dell'Italia, debellati crudelmente dapprima, le condussero alla conquista della indipendenza politica. Ma se il terreno non sia preparato e sia troppa la distanza fra il precursore e la massa del pubblico, la sua voce resta inascoltata e non si ha allora che una sedizione, l'aborto della rivoluzione, la convulsione piuttosto che il moto normale, e quindi, come quella, è prova di malattia e di indebolimento. E ben l'esprime Dante parlando della sediziosa Firenze: “Quante volte del tempo che rimembre Legge, moneta, e uffici, e costume Hai tu mutato e rinnovato membre. E se ben ti ricorda, e vedi lume, Vedrai te somigliante a quella inferma Che non può trovar posa in sulle piume, Ma con dar volta suo dolore scherma.„ _Purgatorio_, Canto VI. Ecco perchè vedremo le sedizioni più numerose nei paesi caldi od in quelli a grandi altezze, dove la minor pressione atmosferica provoca l'anoxiemia, mentre si vedono le rivoluzioni esser più frequenti nelle regioni del freddo temperato che del caldo: esempio gli Ebrei progrediti quasi in Arî passando dal caldo al freddo temperato, mentre degli Arî purissimi, come i Vandali, passando dal freddo al caldissimo dell'Africa, subirono un regresso. Ecco perchè infine vi hanno paesi in cui mai avvennero vere rivoluzioni, in cui la religione restò bramina e feticcia, ed il Governo individuale e dispotico, anche nelle così dette repubbliche; mentre le sedizioni sono assai rare nell'Inghilterra, nell'America del Nord, in Germania, dove avvennero invece grandi rivoluzioni. III. RIVOLUZIONE NELL'89. Dopo queste premesse è facile comprendere perchè io opini che quella dell'89 fu una rivolta più che una rivoluzione. Certo la Francia aveva avuti ed avea momenti infelicissimi. Le carestie così ripetute e continuate che affermasi nel 1715 un terzo della plebe sia morta letteralmente di fame, e nel 1725 in Normandia si viveva dell'erba dei campi (Taine, pag. 431); e ai tempi di Fleury il paesano nascondeva il poco pane e il poco vino, per paura delle tasse, sicuro d'essere perduto se poteva credersi che egli non morisse di fame; e Massillon dice che i negri delle colonie soffrivano meno dei francesi plebei che si gettavano famelici sugli avanzi dei pranzi degli ufficiali. La causa del maggior malessere era che tutto gravava sul popolo e i minimi proprietari, in ragione di 54 e perfino di 71 di tasse per 100 di rendita. E giustamente nota Taine, che quando un uomo è misero si irrita, ma che quando è misero e proprietario, si irrita ancor più. Si può rassegnarsi all'indigenza, non allo spoglio. E con tante perdite nessun compenso. La borghesia e il popolo minuto non erano calcolati, come non esistessero nello Stato. La nobiltà, il clero che pur contavano tutto, a lor volta avevano ogni attività paralizzata dall'accentramento monarchico, cosicchè non avevano nemmeno la potestà e i mezzi di proteggere il popolo che a loro un secolo prima affidandosi, aveva imparato, per gratitudine, ad amarli. La nobiltà, dice Taine, era uno stato maggiore in vacanza intorno ad un generale che invece di comandare teneva un _salon_. Il suo merito consisteva unicamente nell'etichetta di corte; i suoi privilegi non erano che quelli della prepotenza, non ultima delle cause della fame essendo, per esempio, i suoi diritti di caccia, per cui intere lande restavan deserte, e per cui se anche coltivate venivano invase dalle predilette fiere, che era delitto respingere colle armi. Il monarca, dopo aver accentrato tutto, anche avesse voluto, non poteva provvedere ai mali, di cui del resto poco curavasi; la Francia era un suo dominio; se anche lo dissipava non era che roba sua; se faceva una guerra era per proprio puntiglio o per suo interesse; lo sperpero toccava il fantastico: la cameriera della regina spendeva 30.000 lire in candele; il capitano di caccia 20.000 lire in colombi. Vi erano a corte 295 ufficiali di bocca (noi li chiameremo cuochi), 75 cappellani, 48 medici e farmacisti, 45 lettori. Ogni principe aveva analoga corte speciale. L'alto clero che si trattava come i principi, non aveva altra missione che la persecuzione e l'arricchirsi; ancora nel 1716 i protestanti erano mandati in galera se si radunavano e i pastori appiccati. Ma questi malanni che davvero avrebbero giustificato qualunque reazione, cominciavano a medicarsi radicalmente pel consenso stesso di quelli che più ne aveano colpa. In grazia degli Enciclopedisti che avevano reso l'amor della libertà, una moda, un delirio epidemico, i nobili che accoglievano i letterati come loro superiori, a Berry avevano dichiarato doversi le imposte ripartire fra tutte le classi; avevano rinunciato spontanei a quasi tutti i privilegi. Nel '79 avevano perfino abbandonato le mode costose, e vestivano come i borghesi. Il re aveva soppresso le _corvées_, istituita la libera circolazione dei grani, reso lo stato civile ai protestanti, data libertà di stampa, nell'84 aveva soccorso con 3 milioni del proprio gli affamati. Alla Bastiglia nell'89 non vi erano più che sette individui di cui uno idiota. E chi di noi non ha sentito _Il Tartufo_ e il _Matrimonio di Figaro_ senza meravigliarsi che queste commedie fossero non solo tollerate, ma recitate davanti alla corte, al clero e a quella nobiltà, che criticavano così atrocemente? Noi crediamo di essere un popolo libero; ma mettiamoci la mano sul petto, confessiamo sinceramente: in quale città nostra si permetterebbe una commedia in cui ai magistrati pubblicamente si dicesse “senza il tocco e la toga noi non valiamo più niente„ e ai nobili “_tutto ci è permesso, perchè abbiamo fatta la fatica di nascere_„. Credo non andar errato nel supporre che si troverebbero non pochi magistrati pronti a condannarne gli autori per diffamazione, grazie alla famosa o meglio infame legge Zanardelli, o per eccitamento all'odio contro le classi sociali, e cittadini pronti se ei già non fossero da secoli morti, a mandarli per qualche mese a domicilio coatto. Libertà latina! Ora le riforme esagerate dell'89, improvvisate colle stragi e in mezzo alle stragi, dalla prepotenza di pochi, provocando una naturale reazione, per la stessa loro eccessività, impedirono quella evoluzione lenta e feconda che si andava manifestando in tutte le classi. Un centinaio di sconosciuti installati al municipio con un colpo di mano notturno rovesciano uno dei poteri dello Stato, soggiogano l'altro; sostenuti da 8 o 9 mila fanatici pervertono il corso della giustizia, impongono all'assemblea i loro capricci, che diventano leggi. Si appropriano dei tesori, a pagamento dei loro delitti. Per poter rimanere al Governo non hanno che la minaccia e l'audacia. Chiudono tutte le porte, chiudono Parigi come in una grande trappola. Arrestano 3000 persone, giovani, vecchi, malati, e quando l'assemblea lor s'oppone risolvono il grande macello del settembre, e Marat che sarebbe il Drumont d'allora più la pazzia, e meno la disonestà, diventa il loro dittatore supremo. La stessa dichiarazione dei Diritti dell'Uomo che parve e fu veramente la più bella delle manifestazioni di quell'epoca fu contraddetta nei giorni stessi in cui si emanava e da coloro che la dettavano. Mentre proclamavano che nessuno sarebbe stato condannato senza una sentenza di tribunale, essi lasciavano scannare, anzi colle proprie mani scannavano, centinaia di detenuti, auspice e complice lo stesso ministro della giustizia Danton. Mentre proclaman la libertà del pensiero, fanno ghigliottinare, auspice Robespierre, chi ricusava di adorare il loro _Ente supremo_. Mentre predicavano il rispetto per l'indipendenza dei popoli, avvertono il Bonaparte che sfrutti pure il Milanese, offa per l'Austria.[3] [3] Bonfadini, _Mezzo secolo di patriottismo_, 1888. E nella provincia Narbonne affamava Tolone; Roussillan rifiutava di soccorrere la Linguadoca; Tolone, e più tardi Marsiglia e Lione, si ribellavano; a Montauban i cattolici facevano strage dei protestanti e viceversa. Nè ritrovarono la pristina forza ed unità, finchè non caddero in braccio a quella dittatura militare che anche quando si copre di gloria nei campi di battaglia è il peggiore di tutti i governi, e non può convenire che a un popolo ed a un'epoca barbara. Ciò basta a dimostrarvi che l'89 fu un grave delitto politico, poichè senza migliorare le sorti della nazione, anzi peggiorandole, le fece soffrire dei parossismi così dolorosi e feroci; e per poco non ne mise l'esistenza in pericolo. IV. IL DELITTO COMUNE NELL'89. — CAPI CRIMINALI. E insieme ad un delitto politico fu l'89 una serie di delitti: e molti infatti dei suoi capi erano dei volgari malfattori a cui la politica forniva il pretesto ed i mezzi per associarsi nel male. E qui non saprei più dove cominciare per darne le prove. In un mese solo, nel luglio '89, in una sola provincia 36 castelli furono saccheggiati e abbruciati; e si vide, per esempio, il De Barras, un onesto ed anzi democratico castellano, tagliato a pezzi davanti alla moglie gravida che ne morì; D'Ambli trascinato nudo nel suo villaggio, messo in un letamaio, strappate le ciglia e i capelli, agonizzare mentre gli si danza d'attorno. Avignone era divenuto un nido di briganti. I contrabbandieri delle dogane francesi, i giuocatori di professione, evasi dalle prigioni di Tolone, pochi capi giacobini, cacciato il legato pontificio, accaparransi i capi della guardia nazionale, occupano il municipio. Ammazzano il loro primo generale Patrix e lo sostituiscono con Jourdan detto il _Taglia teste_, perchè dicesi aveva poco prima tagliato la testa a due guardie reali. Si fa un corpo di 5 o 6 mila uomini che chiamano _mandrins_, ma era, dice Taine, far vergogna a Mandrin. Alcune bande ammazzano, violano, estorcono denari a tutti. Al sindaco di Sarrians che offre le chiavi saccheggiano e incendiano la casa; tagliano in due un fanciullo di cinque anni, ne ammazzano la madre e ne mutilano una sorella; recidono le orecchie a un curato e gliele fissano sulla fronte a guisa di coccarda, poi lo scannano e danzano intorno. Quando tutti stanchi si sollevano contro loro, essi rinnovano i massacri; scannano 60 persone inerti, gettandole nella _glacière_, e 100 altre nei canali. Per tutte le lunghe ore delle fucilate, scrive Taine,[4] l'istinto omicida s'è risvegliato, e il desiderio di uccidere, trasformato in idea fissa, si è sparso lontano, nella folla che non ha ancora agito. Il suo clamore solo basta per persuaderla, per eccitarla; quando uno batte, tutti vogliono battere. — Quelli che non avevano armi, scriveva un ufficiale, mi lanciavano delle pietre contro, le donne strizzavano i denti e mi minacciavano coi pugni. Giunsi infine fra i gridi generali che mi volevano appiccato, fino a qualche centinaio di passi dall'Hôtel de Ville, quando mi si portò dinanzi una testa alla cima di una picca, che mi fecero vedere dicendomi che era quella di M. Delaunay il governatore. Questi uscendo aveva avuto un colpo di spada nella spalla destra. Arrivato in via Sant'Antonio, tutto il mondo gli strappava i capelli e gli dava dei colpi. Sotto l'arca di San Giovanni, era già coperto di ferite, intorno a lui gli uni dicevano “Bisogna accopparlo, bisogna attaccarlo alla coda di un cavallo, bisogna abbruciarlo„ ed allora disperato e desiderando di abbreviare il supplizio grida “datemi la morte„, e dibattendosi dà un calcio nel ventre a uno di quelli che lo tenevano. Nel momento stesso è passato da parte a parte dalle baionette, strascinato nei fossi mentre si grida intorno al suo cadavere: “È una carogna, un mostro che ci ha traditi.„ — [4] _Les origines de la France Contemporaine_, II, pag. 302. La nazione vuol il suo capo per mostrarlo al pubblico e prega l'uomo che ha ricevuto il calcio di troncarlo; costui, un vagabondo, cuoco di professione, che era andato alla Bastiglia per sola curiosità, crede che quella che domandan tutti debba esser un'azione patriottica: gli vien prestata una sciabola e colpisce il nudo collo; ma siccome lo stromento mal affilato non taglia, tira fuori di tasca un coltellino a manico nero e in qualità di cuoco che sa lavorare nelle carni, pone termine all'orribile operazione; poi mettendo quella testa su un forcone a tre punte e accompagnato da duecento persone armate senza contar il popolo, si mette in istrada e in via Saint-Honoré fa attaccare alla testa due iscrizioni per indicar bene a chi appartenesse. Ma il loro buon umore cresce. Dopo aver sfilato nel Palais Royal il corteggio arriva sul Pont Neuf davanti alla statua di Enrico IV; si fa inclinar tre volte quella povera testa gridando “saluta il tuo padrone„. È lo scherzo finale di cui si trova uno spizzico in ogni trionfo, dove sotto il carnefice trapela il monello Ma coloro finiscono per non accontentarsi più della strage; e volere prolungare la morte; non colpiscono più le vittime colla punta, ma col piatto delle spade e le tagliuzzano; e quando non hanno più carcerati politici ammazzano i delinquenti comuni, ahi! fino degli innocenti minorenni. Quando non ebbero più aristocratici nè nemici politici da scannare, i Settembristi scannarono dei ladri comuni e quando non ebbero nemmeno più questi giunsero a freddare i poveri ammalati di Bicêtre e della Salpetrière; violando prima, e dopo uccise, delle prostitute e, orribile a dirsi, delle impuberi orfanelle che giacevano nei dormitoi, e quando il ferro, il foco non bastava giunsero agli annegamenti in massa ed alla mitraglia.[5] [5] MICHELET, _Hist. de la Revolut._ Tom. 3, pag. 413. A Caen arrestano quindici povere donne ortodosse, le attaccano al cannone, le trascinano qua e là, solo perchè avevano sentito messa da preti non giuranti. A Lione (1791) il giorno di Pasqua una banda armata di staffili si slancia sulle donne che sortono dalla messa, le spoglia, le batte, così che una giovine ne muore. Ogni reggimento ha un comitato di soldati, che giudicano e battono gli ufficiali; alcuni saccheggiano la cassa del reggimento, a Nancy saccheggiano l'arsenale, a Brest s'ammutinano contro l'ammiraglio. Ottanta comunardi si impongono a tutte un paese per punire i malevoli, bastonano il primo venuto, che, dicono, _se non faceva il male, certo lo pensava_, e se ne fan pagare il disturbo.... della bastonatura. Vendemmiano una vigna di una povera vedova, minacciandola se li denunciasse, e quando questa se ne lagna, se ne fan pagare essi cinquanta lire di danni; e mentre battono i mariti, ne violano le mogli. Quando la folla è ridotta in questo stato e non le basta più uccidere, ma vuole che la morte sia accompagnata dai più atroci supplizi e dagli scherni più orrendi, quando l'istinto sanguinario giunge a tal punto di frenesia, non tardano a risvegliarsi insieme a questo anche gli istinti libidinosi. Crudeltà e lascivia allora si appaiano, e l'una aumenta il vigore dell'altra. Come il degenerato che funesta la poesia dell'amplesso amoroso coi tormenti e col sangue, la folla accresce la turpitudine dell'assassinio colle offese contro il pudore, e questa oscena follia di libidine e di sangue trova talvolta nel cannibalismo l'ultimo grado del parossismo. Tutti i mostri che strisciavano incatenati nel più profondo del cuore, escono allora insieme dalla umana caverna; non soltanto gli istinti dell'odio coi loro artigli, ma anche gli istinti osceni; nella infelice Madame Lamballe, uccisa troppo presto, i carnefici libidinosi non possono oltraggiar che un cadavere; ma per la Desrues, essi ritrovano la macabra immaginazione di Nerone. Di qui al cannibalismo la distanza è breve, e qualcuno la supera. All'Abbazia, un antico soldato di nome Damiens, pianta il coltello nel fianco dell'aiutante maggiore Laleu, introduce la mano nella ferita, strappa il cuore e lo porta alle labbra come per divorarlo. “_Le sang_ — dice un testimonio oculare — _dégouttait de sa bouche et lui faisait une sorte de moustache_„ (Taine). A Guillin mangiano arrostito a tavola il braccio dopo averlo straziato. “Erano vendette simili a quelle d'un re Orientale che colle proprie mani subitaneamente vendichi la maestà offesa e non conosca altra pena che la morte. Peggio anzi di tali re, perchè essi non possono essere dappertutto, nè sempre sono furiosi„ (Taine). Ma fermiamoci in questa orribile serqua, in cui nessuno dei più gravi delitti, dall'incendio al furto, all'assassinio, allo stupro, pare sia mancato. V. CAUSE DELL'INSORGERE VIOLENTO DELLA CRIMINALITÀ. Tentiamo di spiegare come essi sorsero. Le cause per cui il delitto politico si confuse col comune in modo così esplosivo e feroce furono: I. Dapprima le carestie ripetute, che aggiungendosi alle tasse enormi sugli ultimi strati popolari avevano rese le condizioni di questi insopportabili, e provocato perfino un'enorme mortalità. II. La seconda causa è che l'autorità e le caste oppresse avevano per una serie di strane ragioni perduta ogni abitudine e voglia di resistenza. I borghesi indeboliti dall'abito della tranquillità, divisi dagli interessi, credevano sfuggir la tempesta restando quatti, e intanto lasciavano tutti i gradi della guardia nazionale ai giacobini e diventavan lor gregge; per cui minoranze audaci imponevano a maggioranze armate. III. Terza causa fu il fondersi della criminalità comune colla politica. I prodromi della rivoluzione francese sono segnalati da stormi di vagabondi, di ladri, di assassini; Mercier ne calcola un'armata di oltre 10.000 che man mano si restringe intorno alla capitale e vi penetra, e quando l'opera del Terrore comincia, presiede all'esecuzione in massa, come poi alle fucilate di Tolone, agli annegamenti di Nantes, mentre i Comitati rivoluzionari erano, come ben li definisce il Meissenet, delle vere associazioni organizzate, per commettere impunemente ogni genere di assassinî, rapina e brigantaggio. I centri donde partirono le rivoluzioni, erano veri centri criminali, come Avignone, dove il contrabbando e il banditismo si era già dato la mano sotto la protezione del debole governo papale. Nelle campagne, banditi vestiti in uniforme arrestavano i vecchi terrieri e li svaligiavano, mentre de' gendarmi o non ve n'erano o erano intimiditi. I paesani finivano di arrestare e svaligiare tutti i forestieri sotto pretesto che fossero accaparratori. A Parigi, nelle terribili giornate del 1793, questi criminali furono l'anima di tutti i misfatti. Stormi immensi di vagabondi, stranieri alla città di Parigi, circa 40.000 secondo Taine, percorrevano i diversi quartieri, e si ingrossavano di numero coll'aggiungersi agli operai che uscivano dalle fabbriche. Si erano impossessati qua e là di ogni sorta di armi, e gettavano dei gridi di rivolta; gli abitanti fuggivano all'avvicinarsi di questi gruppi, tutte le case chiudevansi, e ovunque dove si incontravano queste orde le vie si facevano deserte. Entravano nelle case e negli uffici pubblici, e rubavano quanto poteva esser portato via, il resto devastavano spesso appiccandovi il fuoco. Una prova ne abbiamo nello studio antropologico dei così detti capi di costoro. A dir vero la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone. I così detti suoi capi erano ciarloni e ciarlatani, che vendevano al minuto la loro effimera influenza sulla povera plebe, la lor maschera di Eolo. Ora, una gran parte di costoro, quando non erano dei retori, erano dei puri delinquenti, e basta vederne la prova nell'immagine loro. Jourdan, Carrier e Marat, che riproducono in tutta la sua orridezza il tipo del delinquente nato, Legende,[6] un beccaio feroce, fino nell'Assemblea conserva i gesti del mestiere; Roussignol, antico soldato, poi carnefice, dopo aver presieduto ai massacri della Forge, si improvvisa generale. Manuel, il sindaco procuratore, aveva rubato in un deposito e falsificata la corrispondenza privata di Mirabeau. Varret aveva menato una vita così infame, che sua madre ne morì di dolore. Westermann era ladro e truffatore, come Pinie era ladro, Huguenin concussionario, Hebert borseggiatore, Henriot, prima servo di uno che lo cacciò per furto, poi guardia di una fattoria di dove fu cacciato per altri furti, infine capo di battaglione e carnefice in una delle carneficine di Settembre. Joussand, uno dei capi in Tolone, si firmava “_Le pendeur de la ville_„... [6] Vedi il mio _Delitto politico_, Tomo III. Una prova sociologica dell'indole puramente criminale di costoro è che sfuggivano ogni lavoro, tanto che la Comune non trovava operai per i lavori necessari a Montmartre e non trovava cittadini per far la guardia alle assemblee o ai depositi. Ora è noto che il ribrezzo del lavoro è uno dei caratteri dei criminali.[7] [7] Vedi _Uomo delinquente_, vol. I, cap. III, 1893. Nè mancavano i pazzi; l'orda rivoluzionaria ne avea loro aperte le porte; ed essi ebbero campo di sfogare il loro delirio sulle piazze e nelle vie, percorsero Parigi portando ovunque scompiglio e terrore. “Il figlio d'una pazza — narra il Tebaldi — che soleva alternare il soggiorno fra il manicomio e la prigione, fu uno degli attori più spietati nelle perquisizioni, negli eccidi, negli incendi.„ È più celebre fra tutti la Lambertine Théroigne, che guidò la folla all'assalto del cancello degli Invalidi e alla presa della Bastille, e finì alla Salpetrière (_Ragione e Pazzia, 1850_). A Lione, comanda Salix, un delirante mistico, omicida, che finisce a lasciar il comando in mano a prostitute, che eleggono commissarie femmine occupate tutto il giorno a saccheggiare i magazzini. Ma il tipo che fuse in sè i caratteri del pazzo e del criminale, era Marat. Marat era di origine italo-sardo e svizzero, nato da una buona famiglia. Marat, come bene ci descrive Taine, era alto cinque piedi, aveva una testa enorme, in sproporzione col corpo, assimetrica, la fronte sfuggente, l'occhio obliquo, gli zigomi voluminosi; lo sguardo torbido e irrequieto; il gesto rapido e a scatti; il volto in contrazione perpetua; i capelli neri e untuosi, sempre arruffati; nel camminare saltellava. Fin dall'infanzia manifestò una presunzione senza confini. Lo confessa apertamente egli stesso nel suo _Journal de la République Française_ scrivendo: “A cinque anni io avrei voluto essere maestro di scuola, a quindici professore, autore a diciotto, genio a venti. Fino dalla mia più tenera età io era divorato dall'amore della gloria, passione che cangiò di oggetto ogni tanto, ma non mi ha mai lasciato.„ Prima che scoppiasse la rivoluzione, cercò, ma indarno, di levar grido come scienziato. A Edimburgo, dove faceva il maestro d'inglese, nel 1774 stampò il suo primo lavoro: _The Chains of Slavery_ (_Le catene della schiavitù_), che tradusse poi da per sè in francese nel 1792 e che i suoi biografi giudicano un povero lavoro politico. L'anno dopo pubblica un trattato in tre volumi: _Sull'influenza dell'anima sul corpo, ecc._, giudicato un miscuglio di letture indigeste, di nomi cacciati all'azzardo, di ipotesi gratuite ove le dottrine del secolo XVII-XVIII si accoppiavano senza dar luogo ad altro che a vuote frasi. La sproporzione del suo ingegno colla straordinaria vanità, la sovraeccitazione continua, la copia dei suoi scritti, tutto caratterizzava il suo delirio ambizioso, cui come nel paranoico andò man mano associandosi il persecutorio, che gli faceva vedere invidiosi e nemici dapertutto. Medicastro, mal retribuito, di corte, nel passaggio dalla vita di studi all'azione, dal disprezzo a un poter sconfinato, da mattoide diventa monomane ed omicida. Sfoga dapprima il delirio sterilmente nel suo giornale, ma finisce per trovare eco nel popolo appunto per la sua assurdità. Eran sempre gli stessi articoli, le stesse frasi vuote e bestiali, eran dapprima 600, poi 100.000, poi 250.000 teste che egli (pretendendo applicare le teorie di Rousseau) chiamava al popolo, offrendosene, triste a dirsi, per giustiziere sommario. La sua immaginazione è avida di supplizi. Gli occorrono incendi, assassinî. Incita alle azioni atroci. “Marchiate gli aristocratici col ferro caldo, tagliate loro il pollice, troncate la lingua.„ “Non era questo il grido dell'appassionato, nota bene il Michelet (v. I), di un genio che veda ben tracciata la sua strada„, ma il grido feroce di un delirante epilettico. E la sua ferocia era così evidentemente patologica che Bordier, il suo medico, leggeva il suo giornale, e quando questo era troppo sanguinario lo salassava, tanto reputava quegli impulsi omicidi effetto di un morbo. “Ciarlatano, dice il Michelet, ingannatore e profeta da trivio, credente nelle proprie bugie, doveva gridare al miracolo almeno una volta al giorno.„ E questo era il letterato e certamente il più disinteressato di tutti. Figuriamoci gli altri. _Ubbriacatura._ — Ad aumentare la ferocia dei veri delinquenti e l'irritazione di tutti si aggiunga, oltre all'ubbriacatura morale che dà il numero stesso, l'ubbriacatura fisica, il vino bevuto a profusione. Monastier ubbriaco faceva ghigliottinare Lassalle, e al domani non si ricordava più dell'ordine dato. I Commissari della Vandea vuotavano in tre mesi 1974 bottiglie e contavano nel loro seno Rossignol, un operaio orefice, divenuto generale in capo, tutta la vita dedito alle crapule, e Vacheron, che violava donne e fanciulli e faceva fucilare chi si opponeva alle sue libidini accese dall'alcool. Ad Avignone un farmacista, fratello di uno dei capi masnada, ebbe l'orribile idea di intossicare con sostanze venefiche, probabilmente stramonio, i pacifici cittadini che divenivano così subitamente sanguinari. Non ci meravigli questa strana influenza nelle rivolte dei criminali e dei pazzi ad un tempo. Io ho a lungo dimostrato e più volte nelle mie opere, che mentre tutti gli uomini amano, odiano il nuovo, solo i matti, i mattoidi e i criminali nati hanno per questo una speciale attrazione. Il criminale è, sopratutto per la sua natura impulsiva e per odio delle istituzioni che lo colpirono o che lo inceppano, un ribelle politico perpetuo, latente, che trova nelle sommosse il modo di sfogar doppiamente le sue passioni, e di vederle, per la prima volta, approvate anco dal pubblico. Ed è certo che costoro vedono, forse ispirati dalla passione, i difetti dei governi che ci reggono, meglio e più giustamente che non faccia la media degli onesti. Gli è che in costoro l'anomalia organica prepara il terreno al minore misoneismo, ch'è il carattere normale dell'uomo onesto. VI. L'AZIONE DELLA FOLLA. Ma malgrado il coobarsi di tutte queste cause, sarebbe assurdo il pretendere che ad esse solo si debbano le feroci rivolte dell'89. La causa più forte di tutte, quella che gli alienisti soli, insieme a Ferri e a Sighele hanno avvertita in questi ultimi tempi, è quel virus terribile che nasce dalla folla. È un'osservazione che io feci fin dal'76[8] solo osservando le riunioni di persone onorate, come i colleghi e gli studenti, che dalla riunione di questi invece di aversi la somma si aveva la sottrazione delle loro virtù. [8] _Uomo delinquente_, 2.ª ediz., pag. 278-79. Chi ha studiato l'uomo, o meglio ancora sè stesso, in mezzo ai gruppi sociali, di qualunque genere siano, avrà osservato come esso sovente si trasforma, e da onesto e pudico che egli era e che è tutt'ora da solo e tra le pareti domestiche, si fa licenzioso, e fino immorale. Quanti radunati in un club ed in un'assemblea, per quanto assennata, non hanno lasciato, senza ribrezzo, insultare l'amico ed il maestro? E quanti non hanno gettato vilmente la pietra contro colui, che poco prima avrebbero sostenuto col massimo ardore! Un passo più in là, e voi vedrete l'uomo più onesto rubare per parere buon compagnone, giuntare al giuoco il novizio, o gettarsi nella più immonda libidine. Questa tendenza si fa maggiore quanto più i gruppi si fanno popolosi, dai cinque o sei scolari di campagna, alle migliaia d'operai di una fabbrica (ed ecco perchè i distretti manifatturieri danno più delinquenti degli agricoli), fino all'enorme massa d'uomini che la più lieve causa raggomitola nelle vie di Napoli e Parigi ed il cui grido si trasforma in una sentenza di morte. Una prova quasi diretta ce ne forniscono i gerghi, che abbiamo veduto assumere organismi sempre più tenaci e complicati, quanto più dalle associazioni innocenti e poco popolate si procede alle più fitte e criminose, e che anche nelle prime accennano pure ad una specie d'ostilità o di congiura verso gli estranei. Gli istinti primitivi del furto, dell'omicidio, delle libidini, ecc., che esistono appena in embrione in ciascun individuo fino che vive isolato, massime se temperato dall'educazione, si ingigantiscono, tutto ad un tratto, al contatto degli altri. Una prova se n'ebbe in molti che andati nella folla repugnanti, o solo curiosi, o anche per impedirne le stragi, finirono per parteciparvi. Così un certo Groppin, spedito dalle sue sezioni per salvar dai Settembristi due prigionieri, finì invece di sedere vicino al Maillard e con lui condannare a porte chiuse per 60 ore di seguito quei poveri carcerati. Un commesso di negozio, uscito nella via per curiosità, uccise di sua mano 20 preti e dopo poco tempo ne moriva d'orrore e di rimorso. E molti dei più feroci rivoluzionari divennero pacifici impiegati sotto Napoleone, come ben nota il Lebon; prova che non erano sanguinari. Ma se il fermento criminale epidemico spiega l'irruenza e la ferocia di molti eventi, non può spiegare come essi abbiano potuto durare tanto tempo. È giusto, nota Taine, che un uomo come Marat sbraiti: “Arrostate ministri, segretari, metteteli ai ferri. Il re non ha diritto di desinare quando voi mancate di pane. Domandate che con un contributo si dia il benessere agli indigenti; se vi si rifiuta, dividetevi le terre di quei scellerati, fate cadere le teste dei ministri, dei sindaci, dei generali, dei deputati.„ Che un tal matto dica questo non è strano, nè è strano che una plebe affamata, fanatizzata, pratichi questa teoria; ma che vi siano degli uomini di Stato, dei legislatori, che vedono per tre anni la sua mala esperienza e che abbiano sempre continuato ad adottarla come un dogma di fede; che giunti al termine, e vedendo che invece di un tempio trovavano un macello di cui essi erano il greggie e il beccaio, seguitassero a credervi, questo parrebbe inesplicabile. Ma la spiegazione vi è: giustamente diceva in questo luogo stesso, un forte pensatore italiano, il Bonfadini, una rivoluzione non può durare senza un'idea. Ora un'idea sussisteva e aveva conquistato si può dire tutti gli animi. Quella della sovranità popolare. VII. INFLUENZA DI ROUSSEAU. I germi della prima idea erano nati dietro alle prime scoperte dei grandi scienziati di quel secolo di Newton, Spallanzani, Reaumur, che tutti o scettici o panteisti o deisti, tendevano ad atterrare l'ortodossia religiosa e politica; se non che quelle idee in gran parte giuste, si guastarono attraversando le menti pervertite dal classicismo, pronubo alle tristi nozze, un delinquente e pazzo di genio, il Rousseau. Costui a vicenda cieco e veggente, poeta malato, in luogo dei fatti vedea i propri sogni, prendeva per atti i suoi propositi, e per propositi le sue velleità. Sognatore e selvaggio, dominato dalle idee di persecuzione e dall'ambizione, si foggia gli uomini sul proprio stampo. “L'uomo è buono, l'ambiente lo guasta, tornate alla natura.„ E perciò egli invece di punire il malvagio, “puniva il gendarme che deve contenerlo„. La proprietà, secondo lui, è ingiusta, il ricco diceva al povero: _vi do il permesso di servirmi ma in compenso dovete darmi tutto quello che vi resta._ La società dunque è basata su un contratto iniquo, il popolo è il sovrano, il governo invece in realtà ne è men che il commesso. Chi leggeva queste strane sentenze non ricordava che chi le dettava era un lipemaniaco, già ladro, già apostata, già cerretano, che aveva percorse tutte le gamme della scienza, e del vizio, che ritiratosi, come un selvaggio nei boschi, credeva di esser perseguitato dalla folla e che poteva ben dir col Tasso che così spesso citava: Sempre fuggendo avrò me sempre appresso. E qui le prove sovrabbondano[9]. [9] LOMBROSO, _L'uomo di genio_, 1897, 6.ª edizione. “Io ho (scrive egli stesso nelle sue Confessioni), passioni ardentissime; mentre queste mi agitano, non conosco più riguardi, non amore; non vedo che l'oggetto; tutto ciò dura un istante, e l'instante che segue mi accascia, mi prostra. “Dominato dai sensi, egli continua, non seppi resistervi mai; il piacere più piccolo, ma presente agli occhi, mi seduce più che tutte le gioie del paradiso.„ Infatti per il gusto di una cena fratesca (del padre Pontierre) si faceva apostata; per un lieve ribrezzo abbandonava crudelmente un amico epilettico sulla via. Nè le passioni soltanto erano in lui morbose e violenti, ma l'intelletto pur anco era nella sua compage e fino dai primi anni guasto ed alterato, e ne siano prova queste confessioni: “La mia immaginazione non è mai montata sull'allegro come quando sto male davvero. La mia testa non sa abbellire le cose veramente piacevoli che m'accadono, ma sì bene le immaginarie. Se voglio dipingere bene la primavera bisogna che sia d'inverno.„ “V'hanno tempi in cui sono sì poco simile a me stesso, che mi si prenderebbe per uomo di carattere affatto opposto. Prendetemi nella calma: sono l'indolenza, e la timidità stessa, e non so esprimere nulla dei miei pensieri; se io invece mi passiono, subito trovo ciò che ho da dire; le idee circolano imbarazzate, lentamente, sordamente, e non si presentano mai che dopo l'occasione. I piani più bizzarri (_Confess._, I, 129) più matti e fanciulleschi mi seducono, mi piaciono, mi paiono verosimili.„ Difatti a 18 anni si mette con un altro amico in viaggio con una fontanella di bronzo, e crede di poter vivere ed arricchire facendola vedere ai contadini. E così quest'infelice percorre la serie di quasi tutte le arti, dalle più nobili alle più vili, da quelle dell'apostata a denaro, a quelle dell'oriolaio, del cerretano, del maestro di musica, del pittore, dell'incisore, del servo e del segretario diplomatico in erba, e nella letteratura e nelle scienze si abbarbica alla medicina, alla musica, alla botanica, alla teologia, alla pedagogia. L'abuso del lavoro intellettuale, tanto più dannoso in un pensatore in cui le idee svolgevansi lente ed imbarazzate, e lo stimolo sempre crescente dell'ambizione, a poco a poco trasformano l'ipocondriaco in melancolico e per ultimo in maniaco. “Le mie agitazioni, scrive egli, le mie ire mi commossero, sì che durai in delirio dieci anni e non sono calmo che ora!„ Calmo!? Quando il morbo incronichito non gli lasciava omai distinguere più, nemmeno per brevi lampi, la parte reale dei dolori dalla immaginaria! E infatti ei si ritira dal gran mondo, in cui anche prima s'era trovato a disagio, e fugge nella solitudine; ma anche nella campagna il mondo della città lo perseguita; i vapori dell'amor proprio, i tumulti del mondo appannano la freschezza della natura. Ha un bel rivolgersi nei boschi; la folla ve lo segue e persegue. Più tardi crede che la Prussia, l'Inghilterra, la Francia, i re, le donne, i preti, gli uomini irritati da alcune frasi contenute nelle sue opere, gli abbiano mosso contro una terribile guerra, cogli effetti od apparenze della quale egli spiega il malessere interno che prova. “Nel raffinamento della loro crudeltà, i suoi nemici hanno dimenticato una cosa sola: di graduargli i dolori, onde potesse tutti a sorso a sorso provarli.„ (_Rêverie_, p. 371). Nella sua dimora a Londra, la sua melancolia si trasforma in un vero accesso maniaco. S'immagina che Choiseul lo facesse cercare per arrestarlo; lascia i denari ed i bauli all'albergo e fugge alla spiaggia pagando gli albergatori con pezzi di cucchiai d'argento; trova i venti contrari alla navigazione, e crede anche ciò un effetto del gran complotto; irritatissimo arringa dall'alto d'un colle, in cattivo inglese, la folla di Warton che lo ascolta, stupefatta, ed egli crede commossa. Ma, ritornato in Francia, non trova ancora calmati i suoi nemici invisibili che lo spiano e interpretano male ogni suo atto. Se legge un giornale “essi dicono ch'egli cospira„; se fiuta una rosa, certo sospettano che studi qualche veleno contro di essi. Di tutto gli vien fatto colpa. Per poter meglio spiarlo, essi collocano alla sua porta un rivenditore di quadri, e fanno che la porta di casa non si possa socchiudere; niuno entra in sua casa che prima non sia stato sobillato contro lui. Essi corrompono contro di lui il caffettiere, il parrucchiere, l'oste, ecc.; il lucidatore di scarpe non ha lucido quando egli lo desidera; il pontoniere della Senna non ha barche quando egli vuol traghettare. Egli chiede di esser messo in prigione, e.... fin ciò gli vien rifiutato. Per poter poi torgli l'unica arma, la stampa, arrestano un libraio, “ch'ei non conosce„ e lo mettono alla Bastiglia. L'uso di bruciare un pagliaccio di carta a mezza quaresima era abolito. Lo ristabiliscono certo per desiderio di bruciarlo in effige. Difatti le vesti che gli posero addosso s'assomigliavano alle sue!! (_Dialogues_, 11). Per diffondere questa sua difesa, da vero delirante ch'egli era, cominciò a distribuirne una bozza a tutti i passeggeri delle strade che alla faccia non paressero ispirati dai nemici suoi (sic); a tutti i francesi era indirizzato lo scritto, amanti della giustizia. Cosa singolare, malgrado e forse per l'intitolazione, non si trovò alcuno che accettasse con piacere lo scritto, anzi molti lo rifiutarono. Non potendo più oramai fidarsi di altro nume sulla terra, egli si indirizza a Dio, in una lettera assai tenera e famigliare; e, notate il concetto maniaco, per fargliela meglio pervenire ed assicurarsi così della sua protezione, pone la lettera ed il manoscritto dei Dialogues, sotto l'altare di Nostra Donna di Parigi. Nè vi mancò quel delirio megalomane, che si alterna col persecutivo: “sfida il genere umano a mostrare un essere migliore di lui„, le sue Confessioni sono un'opera unica, ecc. Ed egli fa della sua maniaca selvatichezza, il tipo ideale dell'uomo, e crede che ogni produzione naturale, dolce al palato od alla vista, possa essere innocua, cosicchè, l'arsenico, secondo lui, non sarebbe dannoso. La sua vita è un complesso di contraddizioni: preferisce i campi ed abita in via Platonière; scrive un trattato di educazione e mette i suoi, o quasi suoi, figli all'ospedale; giudica con sagace scetticismo le religioni, e getta un sasso contro un albero per indovinar l'avvenire e giudicar della propria salute, e scrivendo a Dio, pone le sue lettere sugli altari delle chiese, quasi che Dio vi avesse sua esclusiva dimora. Ora, è la dottrina di questo pazzo che è diventata una bibbia; e i gravi danni che da essa vennero furono aggravati dalla passione della parola che ha un'azione in Francia più ancor che nelle altre razze latine, e, come ben nota il Taine, dalla influenza classica, che fa preferire alle teorie giuste, le frasi ben dette, la forma alla sostanza, e non s'imbeve solo dalla forma, anzi, più che della forma (che almeno potrebbe tradursi in qualche capolavoro estetico) di un'adorazione feticcia di quella, e tanto più inesatta, tanto più sterile e cieca, quanto maggiore fu il tempo che inutilmente vi si consumava; da ciò il disprezzare per una parola sbagliata, una persona, una teoria; da ciò lo immaginare gli uomini tutti foggiati ad un conio, senza badare alle varietà nascenti dal clima, dalle classi, dal sesso, dall'età; da ciò il non poter cogliere la importanza delle leggi storiche, le quali appunto mostrano nulla svolgersi di sicuro e di utile se non per lentissime evoluzioni. Conforme allo spirito classico, la politica si trattava da lui astrattamente, isolando un dato semplice accessibile all'occhio e generalizzandolo. Non han bisogno dopo ciò i suoi seguaci di studiare per far leggi. La volontà del popolo basta, e un po' di _Contratto sociale_. Nè v'era commesso di negozio che avendo letto il contratto sociale non si credesse capace di fare una costituzione. “Siamo noi (dicevano i Giacobini) che siamo i monarchi legittimi.„ Grégoire giunge a dire: “Potremmo, volendo, cambiar la religione ai Francesi, ma non lo faremo„, e lo fecero invece; e in nome della rivoluzione, cambiarono perfino i nomi dei giorni e dei mesi. E non uno solo ripeteva: _Perano venticinque milioni di Francesi, ma resti la repubblica una e indivisibile!_ Era una scolastica di pedanti, declamata con enfasi da energumeni, e quel che è peggio messa in pratica colla più bestiale violenza (Taine). E qui ci pare un altro lato dannoso dell'educazione classica, quell'adorazione della violenza che fu il punto di partenza di tutti i ribelli, da Cola da Rienzi fino a Robespierre. “..... Tutta l'educazione classica, scrive Guglielmo Ferrero (_Riforma sociale_, 1894), che altro è se non una glorificazione continuata della violenza, in tutte le sue forme? che comincia dalla apoteosi degli assassinii commessi da Codro o da Aristogitone, per arrivare ai regicidi di Bruto. E tutta la storia del medio evo e tutta la storia moderna, e la storia stessa del nostro risorgimento, come la insegnano oggi, quasi dovunque, che altro è se non la glorificazione, fatta da un punto di vista speciale, di atti brutali e violenti? Non ha forse potuto un poeta, che tutti considerano come il rappresentante morale dell'Italia nuova, scrivere tra gli applausi generali: “Ferro e vino voglio io.... . . . . . . . . . . . Il ferro per uccidere i tiranni, Il vin per celebrarne il funeral?„ “In questo punto, tanto il vizio è profondo, tutti i partiti sono d'accordo: i clericali grideranno urrah alla pugnalata di Ravaillac; i conservatori alle fucilazioni in massa dei comunardi del 1871; i repubblicani alle bombe di Orsini; ma tutti sono d'un pensiero, nel celebrare la santità della violenza, quando torna utile ad essi. Il nuovo eroe di questi ultimi anni del secolo non è nè un grande scienziato, nè un grande artista, ma Napoleone I. “Chi può meravigliarsi, dopo ciò, se in una società così satura di violenza, la violenza scoppia fuori di tempo in tempo, da ogni parte, in lampi e tempeste? Non si può impunemente dichiarare santa la violenza, con il sottinteso che essa debba essere applicata solo in un modo determinato; presto o tardi arriva chi trasporta il Vangelo della forza da un credo politico ad un altro.„ E siccome dalla violenza al delitto il passo è breve, e siccome la passione politica trascina anche il senso morale e fa dimenticare, e noi ne abbiamo prove non poche, il ribrezzo del crimine anche agli onesti, così accadeva che anche la maggioranza di questi pur di veder trionfare le nuove bandiere politiche tolleravano di vederle in mano ai malvagi. E non s'accorgevano che non soffrivano essi soltanto, ma anche il loro principio, perchè nulla di buono esciva dal delitto. E perfino di quel grande criminale di genio che fu Napoleone non restò al suo paese che l'odio e il sospiro di tutti i popoli. S'aggiunga a spiegare la strana dedizione dei molti onesti ai pochi malvagi (poichè i Giacobini non oltrepassavano i 6000 in Parigi, e nelle piccole città non erano più di 14 o 15), che costoro erano una banda organizzata, contro una folla inerme, inorganica. E in uno Stato, chi ha la testa ha il corpo; grazie a quella strana acquiescenza che ci fa inclini a credere ad occhi chiusi, ad idolatrare, quanto emana dall'alto. Per cui quando uno è al governo, nelle miserabili nostre razze latine, per malvagio e ignorante che sia, trova mille che credono e che giurano sulla sua saviezza e onestà. E anche qui ripetesi in un'altra direzione, quell'errore che emana dall'uomo quando la ignoranza e la ignavia di ciascuno è moltiplicata dal fatto dell'appartenere a una folla, si chiami pur questa Senato, Parlamento od Accademia, e peggio.... una plebe. Migliaia e forse milioni di persone, nell'animo loro, avran dubitato della bontà, della saviezza dei governi Giacobini come ora della saviezza dell'impresa africana; ma, radunatisi insieme, ogni dubbio loro svaniva, sembrava fino una colpa che si scontava con nuove e più vigliacche dedizioni e idolatrie, e quello che è più strano con una più calda e fanatica convinzione di esser nel vero, salvo a dissiparsi alla loro completa rovina. Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of La delinquenza nella Rivoluzione francese, by Cesare Lombroso *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 43172 ***