LA
VITA ITALIANA
DURANTE LA
Rivoluzione francese e l'Impero
Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
L'arte italiana, verso la metà del secolo XVI, era stata vinta dall'antichità classica; e la sua natura male traspariva sotto il peso delle corazze e degli elmi, il viluppo delle clamidi e dei pepli. Non parlava più nell'idioma di Dante, non diceva nella lingua del popolo; perchè dai fòri, dai templi, dalle terme una folla di statue era uscita come una fuga di bianche ombre a inaridire il suolo toccato dai loro calzari. La tradizione cristiana e le forme neo-latine cessarono; e l'imitazione dell'antico determinò un'arte tutta a formule grammaticali, entro cui più non era l'anima illuminata dalla fede, lo spirito della vita nuova. Passarono il nuovo Achille chiomato, coi muscoli gonfi, la testa incassata nell'elmo; Ercole poderoso e Bacco ubbriaco, ma tutti quegli eroi, quei Semidei e quegli Dei rivissero in una cerchia angusta, senz'aria. Il popolo li aveva dimenticati, elaborando le immagini della Vergine, del Cristo e dei Santi; e l'umanesimo che li aveva scavati, non s'era accorto di dare alla luce mummie, non corpi vivi.
[488] La maschera antica rimase confitta sulla faccia dell'arte lungo il secolo XVII, benchè i barocchi ne torcessero in un ghigno le labbra, e la sciupassero ognor più nelle loro gazzarre carnevalesche. La maschera apparve tra i blocchi di marmo, i dirupi di macigno e i torrenti di bronzo; e intanto nelle magnifiche pompe, ne' meravigliosi apparati da festa, nell'aggrovigliarsi di giganti, nel ritorcersi de' colonnati dei curvi edifici, non v'era rifugio per l'anima in cerca di pace e di affetti. Giunto il secolo XVIII, l'arte si immiserisce, si gingilla, prende gaie proporzioni minori, si attorciglia com'edera, si volve a mo' di chiocciola, si rompe in ischegge, esce in isprizzi, si riversa nelle cascatelle d'Arcadia. E le figure umane perdono le ossa, e si sprigionano con le chiome al vento, e le braccia in atteggiamento sgangherato o convulso, da enormi cappe di marmo, o tra roccie e nuvoli. Allora fu che l'antichità classica attrasse di nuovo, come sirena a' suoi amplessi, l'artista moderno. Benedetto XIV dal trono bandiva la crociata per il classicismo; e Winckelmann suonava a raccolta intorno ai simulacri greco-romani. Tutta l'arte ricadde nell'imitazione! Quando, verso la metà del secolo XVI, era avvenuto lo stesso fenomeno del sopraccaricarsi dell'antico sul nuovo, l'arte, già arrivata al massimo grado di sviluppo e prossima [489] a ingrandire e a gonfiare, pareva continuare le forme precedenti, pure impregnandosi delle forme romane imperiali; ma nel secolo XVIII l'antico entra bruscamente in mezzo alla folla de' cicisbei. L'allegria era finita, il chiasso e le monellerie dovevano cessare, perchè s'avanzava con grave cipiglio, severo, altezzoso il vecchio tiranno. Proprio allora che l'arte, senza idealità, si volgeva alla vita sociale, rifacendone le smorfie, ripetendone gli scrosci di risa, riflettendone la caricatura, ma pure trovando un tesoro di osservazioni e di verità tra le mani di Watteau, dei Longhi e di Chodowjecki, di Leon Ghezzi, di Hogarth e Goya, sopraggiunsero l'erudizione, la filosofia, la scienza ad arrestare l'arte che dalla natura traeva nuove forze e fiori di bellezza. Il grave Mengs richiamò in onore i principî dei Carracci; e Winckelmann col suo entusiasmo ideale per la bellezza antica, stringeva tutti in ammirazione innanzi alla civiltà che a Pompei, ad Ercolano risorgeva come fenice dalle ceneri.
Allora fu che il Canova (nato l'anno 1757), moveva i primi passi nell'arte, e meditava sui gessi cavati da opere d'arte greca e romana nella galleria Farsetti a Venezia; e sentiva come lo studio del nudo fosse per la scultura la rigenerazione. Il giovinetto però, come un uomo del Medioevo, [490] a cui la bellezza ignuda era causa di terrore e di scrupolo, opera dello spirito del male, scrive sotto l'Euridice studiata dal vero: memento mori! La mano di una Furia esce dalle vampe che si innalzano ai piedi della figura, e le afferra la destra per trarla nel Tartaro. Così l'arte voleva spiegare ciò che un antico non aveva d'uopo, e svelava l'allegoria, senz'accorgersi che, tolto il velo, doveva ricorrere, come nel Medioevo, ai cartellini, ai nastri con le scritte, ai segni ideografici, ai simboli. L'imitazione dell'antico non poteva farsi senza commenti e dilucidazioni, perchè il pubblico, non avvinto dalla tradizione alla classica civiltà tanto differente dalla sua, non la capiva più. Vero è che il Canova fu aiutato dal senso vivissimo della realtà, dalla sincera natura di veneto, nel tradurre, e specialmente in giovinezza, i soggetti mitologici; e se nel suo primo lavoro dell'Orfeo e Euridice, compiuto a sedici anni, traspaiono la titubanza e l'inesperienza dell'adolescente, nel successivo gruppo d'Icaro e Dedalo è una vivezza naturalistica tutta nuova. Dedalo sta per annodare un'ala al figlio giovinetto, ad Icaro, e gli raccomanda con paterno amore di tenersi lontano dai vapori delle onde e dal sole cocente, e lo fissa ansioso in volto; ed egli abbassa gli occhi, quasi per nascondere il desiderio di sollevarsi a volo audace. Tuttavia anche [491] qui il Canova volle indicare con diligenza il modo di allacciatura dell'ala, le corde, gli strumenti fabbrili, tutto il meccanismo dell'operazione di Dedalo. Sempre così tra i moderni, quando l'arte esprime idee de' tempi lontani dalla nostra vita materiale, intellettuale e sociale, e, nonostante tutti quei particolari a schiarimento della rappresentazione e i richiami simbolici, non riesce a raccontare ai molti, e ai retori parla, e coi retori vive. Mentre nel Rinascimento, dopo la grande diffusione della cultura classica per opera degli Umanisti, era possibile innanzi alle forme ricavate dall'antico che arte e pubblico si intendessero, nella seconda metà del secolo XVIII non era possibile più; perciò l'arte andava perdendo il suffragio popolare, e si rivolgeva ai pochi che vivevano nelle biblioteche. E come smarriva il suo fine, perdeva pure il suo fondamento e il punto d'appoggio nell'architettura. Quei gruppi, quelle statue, che si reggono artificialmente, fuori dalle nicchie e dagli intercolonnî, dagli edificî e dalle piazze, sembrano mancare di tetto, di parenti, di patria. Quando l'arte era il frutto spontaneo della civiltà italiana, serviva sempre agli usi della vita, al decoro della casa, del palazzo signorile, della chiesa e del comune, e aveva la sua destinazione pratica, coordinata ad altre cose belle e grandi. Sul limitare del secolo [492] nostro invece ogni arte vive a sè, senza il suo sfondo naturale, separata da ciò che l'attornia, nell'astrazione. La formula dell'arte per l'arte, formula di collettori egoisti e di spiriti gretti e sterili, già si determina, e spezza l'armoniosa unità delle arti. In quel tempo di disgregamento nelle forme e di sfacelo negli ideali, il Canova si afferrò all'antico, come ad àncora di salvezza, illuso come gli altri del suo tempo, anzi più d'ogni altro, che si potesse ridare la vita ad una salma. Per raggiungere il suo scopo di sollevare a dignità l'arte, egli agognava di recarsi a Roma, e vi si recò infatti a ventidue anni. Alla sua immaginazione di artista, le rovine di Roma, opera di giganti, gli archi sotto cui passavano nelle quadrighe i trionfatori, i colossi che sembrano come atlanti sollevare la terra, esercitarono un influsso potente, un imperio, come e più che sugli altri artisti di ogni età. Il Canova rimaneva lungamente innanzi ai Dioscuri del Quirinale, forte animatissima riproduzione romana di un gruppo greco, e all'Apollo del Belvedere, buona copia d'un bronzo antico, che Winckelmann additava, come esemplare solenne della bellezza classica. Quelle traduzioni e copie, e le altre di opere greche eseguite in Roma, dopo l'ultimo secolo della Repubblica, non potevano fornire un vero saggio della idealità e del [493] purissimo sentimento della bellezza greca, perchè erano come studiate pagine di prosa traducenti un canto immortale. E quelle pagine erano anche guaste, e cioè i restauri avevano falsato il carattere di quei marmi, e la tarda levigazione ne aveva sfiorata la modellatura. Da quelle statue dei Dioscuri e dell'Apollo era possibile ricavare de' canoni, come fece il Canova, e non penetrare nell'intimità, nel carattere della forma, nell'anima dell'arte greca, e discoprire il diapason più perfetto della bellezza. Le copie, anche fedeli ed antiche, mancano del sentimento dell'opera originale, ne rendono le proporzioni, non tutto lo spirito del suo creatore, non il vivo tocco della sua mano, non la diretta e pronta osservazione della natura e della vita. Oltracciò nella copia traluce sempre il carattere dell'esecutore, e si manifestano le abitudini della sua mano e le predilezioni del suo gusto. Nelle copie romane di opere greche la fattura è meno sottile, il costume più pomposo, la ricerca del particolare più insistente. E quante idealità dovettero venir meno nelle copie, quanti segni che sembrarono insignificanti, ed erano invece i segni delle aspirazioni di un popolo! Chi direbbe, ad esempio, che l'artista il quale dia alla Vergine neri e non biondi i capelli, distrugge l'idealità bionda della bellezza muliebre nel mondo classico; la idealità [494] della bellezza di Afrodite, bionda come il fulgore dell'aurora rappresentata dalla dea? Non si tratta di sottigliezze, no! Un'opera d'arte non si rifà, non si traduce, senza scemarne l'essenza e farne svanire il profumo. D'altronde innanzi al Canova erano principalmente copie romane, le libere patetiche figure della decadenza ellenica, e quelle dell'epoca alessandrina in cui la grandiosità della forma muscolare, la complessa ingegnosità della composizione, la violenza della espressione, non avrebbero dovuto servire di modello alle generazioni nuove. Tutta l'arte del Cinquecento stette attonita innanzi al gruppo rodiese del Laocoonte, lo copiò, ne fece suo sangue; e la Decadenza si affrettò. E l'arte che stava innanzi ai Dioscuri e all'Apollo del Belvedere nella seconda metà del secolo XVIII doveva preferire i Caracci al Mantegna, le opere dell'inoltrato Rinascimento alle più gentili creazioni, alle più ingenue e candide forme del secolo decimoquinto. Innanzi ai Dioscuri ed all'Apollo, il Canova disconosceva i suoi Veneziani, che, a suo dire, avrebbero pensato e composto meglio se fossero stati a Roma, quasi che Gian Bellino e Giorgione, Tiziano e Paolo non giungessero nella forma alle maggiori altezze, e quasi che, col guardare all'antico, Pietro Lombardo, nella scultura, avesse guadagnato di cavalleresca eleganza nel rappresentare i zentilomeni [495] della Serenissima e Alessandro Vittoria di energia nel rendere i veneziani lupi di mare. Ma il Canova aveva detto a sè medesimo che conveniva vedere “la natura con l'occhio dell'antico„, mentre non era possibile veder bene a traverso quella lente d'ingrandimento e per soprappiù impura. A persuaderlo tuttavia di guardare a quel modo concorse Gavino Hamilton di Scozia, a cui il Canova, che lo incontrò a Roma, portò affetto e stima come a Mentore suo. Eppure quando si vedono nel museo della Villa Borghese le pitture di Gavino Hamilton vaporose, violacee, false, non si riesce a comprendere quale strana aberrazione di idee e di gusto fosse a Roma nell'anno di grazia 1780. Forse la mano dell'Hamilton non era docile al pensiero, e questo era assai più libero e giusto di quella, a giudicare dall'opera Schola picturæ italicæ, ove l'Hamilton raccolse, benchè con criteri eclettici, molti capilavori dell'arte italiana. Avesse o no l'Hamilton un influsso sullo spirito del Canova, egli è certo che, nonostante le regole che si imponeva e gli esempi anche non buoni sotto gli occhi suoi, e mentre l'arte del suo tempo pareva distruggere i corpi, il Canova d'un tratto, come per incanto, diede alle sue figure un'apparenza logica e ritmica; una forma, non più a strappi e a spezzature, ma svolgentesi, disegnantesi nello [496] spazio in una linea continua. Così nel monumento di papa Clemente XIV ai Santi Apostoli in Roma; il quale quantunque ispirato ai mausolei de' pontefici in San Pietro, in ispecial modo a quello di Alessandro VIII, ha una linea che gira naturalmente, nobilmente dall'alto della piramide del monumento giù per le cornici dell'urna e i corpi della Temperanza e della Mansuetudine. La Temperanza si china in atto di abbandono sulla tomba papale, immagine del dolore che il Canova figurò sulle sue stele sepolcrali, segno della malinconia dell'anima sua. Il dolore della terra circonda le tombe e i mausolei da lui scolpiti, non la speranza del cielo. La Mansuetudine stessa con le mani incrocicchiate e china la testa, medita sul triste destino, che tolse dalla terra il pontefice venerato. Sempre nei monumenti sepolcrali ed onorarî del Canova, sembra che il fato persegua il mortale, e non gli dia che eredità di dolori e di lagrime. La immagine della Pietà, sculta dal Canova, è quella di una madre addolorata, con le braccia cadenti, tutta avvolta nel velo; in un'altra statua della Mansuetudine si vede una giovane meditabonda, accasciata, quasi orba di affetti. In un gruppo Venere si strugge di dolore appoggiata alla spalla di Adone; il genio funebre della tomba di papa Rezzonico esala l'anima dagli occhi; passano, in [497] un bassorilievo, in lugubre ammanto Ecuba e le venerande donne di Troia; in un gruppo Amore si abbandona sull'omero di Psiche tristemente; e nella tomba dell'Alfieri piange l'Italia, in forma di Cibele, madre dei numi; si recano lagrimanti al mausoleo di Cristina d'Austria arciduchessa, le Vestali e le Età; portansi i drappi ai volti o le mani alla fronte le fanciulle allegoriche dei monumenti di Volpato, di Falier, del conte di Souze, del principe di Orange, della contessa d'Haro, dei Mellerio, del conte Tadini, ecc. Mai sulle tombe aleggia la speranza; il dolore copre di funebre manto i freddi marmi, e circonda la salma dei defunti: dolore pacato però, blanda costernazione, lagrime tranquille, melanconia diffusa nel marmo. Non roteano alle fanciulle gli occhi per ispasimo sotto le palpebre, come ne' monumenti sepolcrali dei barocchi; ma nelle tonde loro orbite cadono le ombre di lutto dalle sopracciglia. Clemente XIV è in cattedra, stende il braccio e la mano protettrice sui fedeli. Similmente, in molti mausolei papali del quattrocento in poi, il pontefice appare anche nei sepolcri, fastoso come se fosse portato sulla cattedra in trionfo, in pontificali paludamenti, con la tiara, e in atto di benedire l'orbe cattolico; ma il Canova, a cui l'idea del fasto, dell'impero parve non propria in un mausoleo, si attenne [498] nel monumento di papa Rezzonico al tipo di quello che si vede in San Pietro di Alessandro VII, raffigurato in ginocchio come innanzi a un altare o alla maestà dell'Eterno. Ed ecco il capolavoro del Canova, Papa Rezzonico che mormora con tremule labbra la preghiera, tutt'assorto in Dio, mentre due leoni posano nel basso, custodi della tomba sacra: l'uno con gli occhi spalancati sembra mandare dalle aperte fauci un ruggito, l'altro china la testa e chiude nelle grotte degli occhi le pupille di fuoco. Il Genio antico con le ali di cigno tiene la face riversa; e la Religione, con la croce nella destra s'avanza, e poggia la sinistra sul coperchio dell'urna. Qui pienamente si manifesta la forza del Canova nella figura del Papa e nei due leoni, mentre nel Genio funebre e nella Religione fu schiavo delle convenzioni del tempo. La Religione sembra una fantasima dalla smisurata fronte traforata da spilloni, col manto che come un baldacchino la ricopre e con la veste pesante come un materasso e la sottoveste per giunta. Quanto lontana l'allegoria dalla Religione che il Canova vide nel quadro di Tiziano al palazzo ducale in Venezia, giovane, ardente, con le auree chiome sparse, nel fulgore della luce! La sua è invece sopraccarica di simboli, reca una scritta sulla benda che le traversa la fronte, un'altra sulla cintura, i raggi sul capo [499] come la figura del Sole nel medioevo, la croce come una Sant'Elena. Anche negli antichi monumenti vi furono figure allegoriche, pazientemente elaboratesi nei secoli, come le Arti liberali e le Virtù; ma i loro simboli erano nel comune linguaggio, e non erano d'impaccio all'artista nel rendere l'espressione delle figure, mentre l'allegoria nuova non dall'intimità del sentimento, ma dall'apparenza traeva il valore, la ragione d'essere, epperò rimaneva un logogrifo scolpito. In altro modo si allontanano dall'arte moderna il genio funebre con la face riversa, la Speranza e la Carità in veste romana, a bassorilievo nell'urna di Papa Rezzonico: esse appartengono a un mondo immaginario, lontano da quello ove il Papa rivolge il pensiero al cielo, e sono fuor di posto in quel luogo sacro alla fede.
Questi errori si dimenticano, quando si guardi Clemente XIII nel raccoglimento della preghiera, nell'augusta solennità pontificale e nella semplicità dell'anima pia, e quando si scorga lo studio posto dal Canova nell'opera. Vi è l'accuratezza straordinaria dell'artefice che rende il lustro piviale di broccato, le pieghe fitte del camice, il manto serico del genio e le sue ali leggiere di cigno, la criniera arruffata del re della foresta e i suoi unghioni lucenti e il pelo del corpo e le narici umide e fumose. Gli scalpelli, i trapani, [500] le gradine gareggiano nel rendere al vero le superfici dolci o scabre, opache o lucenti; e nel tempo in cui la scultura pareva rendere i corpi di bambagia o di porcellana, il Canova, col variare dei mezzi tecnici e degli effetti, secondo la natura e la scorza e il carattere delle cose, segna il principio di un'êra nuova.
Ma il connubio dell'antico col nuovo, al limitare del secolo XIX, era fantasia di eruditi, non una pratica ricerca. Il genio funebre del mausoleo di Papa Rezzonico riapparirà nei monumenti Mellerio, Stuart e in altri; la Carità e la Speranza scolpite in bassorilievo sull'urna papale, ingrandiranno e sul lectus, sulla sella, sul bisellium classici diverranno i prototipi delle canoviane rappresentazioni; ma il nuovo sparirà sempre più. La mescolanza ineguale dell'antico col nuovo, che forma la figura della Religione, finirà col predominio dell'antico in un tutto più finito e più equilibrato, ma anche più materiale e più gelido.
Il mutarsi delle condizioni sociali e dei costumi favorì il predominio. I nomi degli eroi di Plutarco erano sulle labbra dei cittadini; Bruto riviveva nella rettorica repubblicana; le dame vestivano archeologicamente con le vesti alla Diana, le tuniche alla Minerva, i veli alla Vestale. Chaussard poteva descrivere l'Olimpo pagano [501] disceso al parco di Bagatelle, seguire i passi di Ebe, cadere in ginocchio innanzi a Venere, adorare le Grazie, ammirare Giunone, sfogliare le rose di Flora. L'arte romana e l'arte greca erano di moda dovunque, trionfavano col David in Francia, nel 1783 al Salon, col quadro degli Orazi, nel 1789 coi quadri di Bruto e di Paride con Elena; si affermavano con lo scultore Julien, autore della Galatea e del Gladiatore morente, e con Moitte, Roland e Chaudet. Il David ed il Canova, capi riconosciuti del movimento artistico, non vedono altro che gli eroi e gli Dei del mondo antico, e non trattano soggetti cristiani. Uno solo di questi piacque invero al Canova, che più volte lo ripetè, la Maddalena penitente, ma perchè si prestava allo studio del nudo che il Cristianesimo in genere voleva bandito. Nel panteon della storia il David come il Canova scelsero le figure e le gesta dei Grandi da scolpire: Luigi David talora per adombrare in esse gli uomini l'opera della Rivoluzione francese, Antonio Canova per ricordare i canti di Omero o per onorare la virtù. I bassorilievi rappresentanti la morte di Priamo, Socrate che prende congedo da' suoi, Socrate che beve la cicuta, Telemaco che ritorna ad Itaca, ed altri, si compongono di figure tutte tagliate di profilo e rigide; nelle statue invece Canova talora ricorda [502] la grazia vaporosa, la dolcezza molle dei decadenti del secolo XVIII in quella specie di abbandono, di stanchezza, di floscezza del marmo levigato. La sensualità sua si esprime, più che in altra opera, nell'Amore e Psiche, gruppo composto nel 1787. Amore solleva Psiche nelle braccia, con una mano le regge il seno e con l'altra carezzosamente la testa, la quale indietro si riversa, e volgesi con occhi d'amore, con mormorii e baci a Cupido, mentre gli stende le braccia intorno al capo a mo' di ghirlanda. Cupido avvicina le labbra alle labbra di Psiche, e sospende il volo come farfalla sul calice d'un fiore.
Come si vede, il corpo nell'opera del Canova si disgombra dal carico delle vesti e dalla soma dei drappi, secondo le teoriche del Mengs che il nudo fosse il linguaggio proprio della scultura. Tanto parve naturale quell'abbandono d'ogni spoglia nel marmo che al Denon, il quale accusava lo scultore di aver effigiato nudo Napoleone, rispose Ennio Quirino Visconti che il nudo meglio risveglia l'idea dell'eternità, non essendo mutabile come il vestimento, e che sotto la forma angolare delle nostre vesti il nudo non può indicarsi, come già si indicò sotto le pieghe del pallio greco e della toga romana. Il nudo esce tornito, liscio, accarezzato dalle mani del Canova, non sodo, senza vene ed arterie sotto l'epidermide, [503] e non libero come ne' tempi antichi, ma con la pudica cura d'involarsi agli sguardi, tanto che la Venere di Canova della galleria Pitti potrebbe sembrare Susanna che voglia nascondersi agli occhi dei Vecchioni.
L'alabastrina trasparenza dei corpi si assoggetta ai canoni del Winckelmann nel profilo con la linea diritta della fronte e del naso, nella fronte brevis di Marziale o tenuis di Orazio, nei capelli ad arco concorrenti a formare l'ovale del volto, nelle ciglia sottili e nel mento di rotondità graziosa. La fronte doveva essere uguale alla lunghezza del naso e all'altro tratto, dalla estremità del naso al limite del mento; e così via tutto il corpo umano era stretto nelle formule, e intanto il carattere sotto quell'algebra del bello sparisce.
Beatrice ritratta dal Canova sembra un'imperatrice velata. Laura ed Eleonora nei busti che le raffigurano potrebbero sembrare merveilleuses del Direttorio, come Calliope, Erato, Elena, Corinna, pure scolpite in busto dal Canova, e come quelle teste ideali di donna che egli inviò in dono al conte Sommariva, al Quatremère de Quincy, al duca di Wellington e ad altri, tutte con un'acconciatura del capo studiatissima, tale che la Albrizzi lodava l'opera particolare del maestro nel condurre in marmo la chioma d'una sua figlia ideale, appunto perchè l'aveva dedicata alla Francia [504] nella quale è sì ingegnoso lo studio del calamistro. Ma niuna si distingue per alcun tratto fisionomico o iconografico, per una particolare impronta o per espressione nelle orbite ovali. Sono teste muliebri, alla romana o alla greca, con le guance ammorbidite e i piani del volto tondeggianti e lisci, con riccioli sulla fronte e le treccie ben pettinate e annodate; ma non respirano e stanno in un'atmosfera fredda senza lampi di pensiero.
Il Canova nello scolpire ritratti dal vero, nello studio delle fisonomie tanto varie e mobili, avrebbe richiamata la forza naturalistica della sua tempra veneziana; ma egli rifuggì dal ritratto. “Si ricusò per quanto potè, così scrive Antonio d'Este suo discepolo, di fare ritratti, e se ne modellò o scolpì fu mosso sempre dall'affezione o da gravi motivi.„ Come uno scultore degli Augusti, egli diede a' suoi personaggi l'aspetto eroico o divino, chè i Romani avevano ridotta la Divinità, così altamente ideale con Fidia, a prendere l'aspetto dei mortali. E quindi Ferdinando I prese nell'opera del Canova le vestimenta di Marte, l'elmo laureato, la corazza e il paludamento; Giorgio Washington, “l'amico del genere umano,„ sembrò Cesare intento a scrivere i suoi commentarii; l'imperatrice Maria Luigia divenne l'immagine della Concordia diademata, con lungo scettro [505] nella destra e una patera nella sinistra; Leopoldina Esterhazy si atteggiò come una Musa sul Parnaso, Paolina Borghese in guisa di Venere vincitrice, Maria Elisa, principessa di Lucca, come la Musa Polinnia; Letizia Bonaparte ricordò Agrippina, e Napoleone I parve Cesare Augusto con asta nella destra e il globo sormontato dalla Vittoria alata.
Due grandi specie formano, all'infuori de' ritratti e de' monumenti sepolcrali, le opere del Canova: le une erano una reminiscenza di Arcadia, e rappresentano immagini già preferite nell'adornamento di salotti, di alcove e di giardini, e quindi Danzatrici, Grazie, Veneri, Endimioni; le altre, grandi esercitazioni accademiche, ricercano la forza dei Dioscuri del Quirinale, e sono le figure tragiche dell'Ercole che scaglia Lica, Perseo, Ettore, Aiace, Damosseno e Grengante, Teseo vincitore del Centauro. Le due specie di opere esprimono le due tendenze dell'arte al principio del secolo XIX, l'una si ispira alla molle grazia dei barocchi; l'altra alla forza guerresca che per le vittorie napoleoniche balenava sulla terra. Ma le une e le altre opere non avevano sale di terme o di palazzi imperiali da adornare, nè teatri e circhi e fori ove campeggiare, nè aria, come al tempo antico, nei cortili e porticati e bagni della casa. Era tutta [506] un'arte che doveva finire nei musei, perchè al di fuori lo spazio doveva essere conteso dalla popolazione in aumento e spinta innanzi in fretta, sempre più in fretta, dai bisogni della vita, dell'industria, de' commerci e dalla commozione economica che scuote sempre più forte la società moderna. E quando come a Monaco di Baviera, si trovò per caso strano, un re, Luigi I, che con animo romano trasformò la città sua, i suoi edifici, le statue dello Schwanthaler all'antica si posero in contrasto con le selve d'abeti del luogo, con le tradizioni dell'arte locale tutta irta di punte, le necessità e i sentimenti della vita moderna. L'arte non è buona che quando nasce nei luoghi che adorna. L'arte antica è un albero fossile che non può più dar fiori, non rallegrare di sua ombra gli uomini; e cercare innesti a quell'albero fu vano tentativo, perchè le linfe vivificanti non vi scorrono più per entro da secoli.
Invano si tentò di costruire nuovi archi di trionfo e basiliche e teatri di forma romana, come la Madeleine, la Bourse, l'arco di trionfo del Carrousel: mancò la opulenza, e più il senso romano dell'imperio. Le parti degli edifici corrisposero forse per misure, calcoli, segni di compasso e di squadra all'antico; ma il tutto risultò meccanico, materiale, scialbo, freddo. Tutto l'ornato girò in volute alla romana; ma non ebbe [507] colore, e cadde in forme identiche, calligrafiche, mancanti di sentimento architettonico. E la pittura decorativa dell'Appiani a Milano tentò richiamare in vita le grottesche delle terme romane e delle case di Pompei; ma rimase pedantesca e senza significato nella sua convenzionale eleganza. Tutta quell'arte doveva passare come una cometa che abbia impedito di vedere il sole e di scaldarsi al sole; e lasciò lunghi strascichi in una produzione artistica che mai la più misera, della prima metà del secolo, tutta di manichini in vestiarii di latta e di cartone. A chi guardi quell'arte tagliata nel legno o fusa nello stagno, vedrà anche estollersi di lontano il Canova pieno di slancio per la bellezza antica, lo vedrà meditare nei musei di Roma, patrocinarne i diritti innanzi a Napoleone che li aveva impoveriti, cercare il riscatto delle opere d'arte tolte dalla patria. Nel disfacimento dell'arte, la grande anima sperò nell'antico, ed iniziò uno dei tanti ritorni verso le civiltà passate che dal secolo XVI in poi sembrano fatali, ineluttabili. Di quando in quando nel nostro mare le onde s'innalzano, e corrono impetuose alle antiche rive, ove non sono più nè le Sirene, nè i Tritoni, nè le Nereidi, nè i velli d'oro; e quelle onde s'acquetano e tacciono in una morta gora. È fatale, e così sarà, fino a che l'arte avrà strumenti logori e mezzi insufficienti [508] e incerti ideali; l'arte classica apparirà coi suoi esemplari eterni in un'aureola di luce. Primo tra i suoi contemporanei il Canova vide quella luce, e ne fu abbagliato. Quando alla fine del 1815, lo scultore, riscattati a Parigi i tesori d'Italia, visitò Londra, e si vide innanzi i marmi del Partenone, le trionfali feste Panatenaiche di Fidia e della sua scuola, ove l'ideale avvolge la realtà e la bacia, il Canova sospirò come se avesse veduto sulla scala del bello, più in alto, più in alto l'arte. Come Giacobbe, egli vide quella scala diritta al cielo. Tardi, esclamò, troppo tardi! quando ebbe la visione olimpica. Ma non tardi mai, perchè il sacrificio della sua vita doveva sollevare a maggiori idealità l'arte; e a' suoi sforzi due generazioni già unirono i loro; e il secolo che sta per finire guarda all'antesignano, che lo ha iniziato gloriosamente. Il venerato patriarca non vide la terra promessa, ma altri nell'avvenire da lui generato vedrà per la scala, da lui intravveduta come in un sogno tra le nebbie di Londra, salire, salire al sommo il genio dei tempi nuovi.
Nota del Trascrittore
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