The Project Gutenberg EBook of La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814, by Leopoldo Armaroli and Carlo Verri This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814 Author: Leopoldo Armaroli Carlo Verri Editor: Tommaso Casini Release Date: May 25, 2011 [EBook #36212] Language: Italian Character set encoding: ISO-8859-1 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA RIVOLUZIONE DI MILANO *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
pubblicata da T. Casini e V. Fiorini. — N. 3
RELAZIONI STORICHE
DI
Leopoldo Armaroli e Carlo Verri
Senatori del Regno italico
a cura di
Tommaso Casini
ROMA
SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società si ritengono per contraffatti.
(7606) Roma, Tipografia Enrico Voghera.
Milano. — Atrio del Palazzo del Senato nel 1814.
INDICE
Prefazione
Note
Avvertimento
Sulla rivoluzione di Milano — Memoria storica
Note
Sugli avvenimenti di Milano — Relazione
Note
Indice delle persone e delle cose notabili
La rivoluzione milanese dell'aprile 1814 e la caduta del Regno italico, che ne fu conseguenza immediata, ebbero già parecchi storici o raccontatori; quali, per citare solamente i piú diffusi, il Fabi[1], il De Castro[2], l'Helfert[3]: ma sono avvenimenti tuttora avvolti in qualche oscurità, dei quali non si è colta ancora compiutamente la ragione storica, forse perché sin dal primo momento troppi furono gli interessati a nascondere il vero di quei rivolgimenti, o almeno a rappresentarli ciascuno in modo che ne restassero giustificate le proprie tendenze e la propria condotta. La serie delle scritture che rispecchiano direttamente i sentimenti e gli atti di coloro che furono spettatori o partecipi ai fatti del 1814 è lunghissima, e tutte andrebbero minutamente esaminate e raffrontate, chi volesse sceverare in ciascuna la particella di vero, che pur vi sarà, e di tutte le particelle comporre [viii] la storia genuina e sincera di quei moti. E dagli articoli, dalle notizie e dai documenti che a cominciare dall'aprile 1814 si vennero pubblicando quotidianamente sul milanese Giornale Italiano — l'officioso napoleonico, tramutatosi improvvisamente a officioso austriaco — la serie si produce lungamente sino a quelli Studi intorno alla storia della Lombardia negli ultimi trent'anni, che, dettati certamente dalla principessa Cristina Belgioioso Trivulzio, furono pubblicati in Parigi solamente nel 1846[4], ma erano eco non ancor fioca dei sentimenti e dei contrasti in mezzo ai quali il Regno italico di Napoleone I era caduto, lasciando, retaggio prezioso, agl'Italiani la coscienza della nazionalità, lo spirito delle armi proprie, il desiderio delle istituzioni civili e la tradizione di un illuminato liberalismo.
A rappresentare con sufficiente fedeltà lo svolgersi di quei memorabili avvenimenti mi è parso opportuno eleggere di mezzo alle scritture di cotesta serie copiosa le relazioni composte, quando erano recenti i fatti, da due uomini di spirito temperato ed equanime, entrambi per l'ufficio loro di senatori presenti e partecipi alle deliberazioni che furono motivo o pretesto alla rovina del Regno. L'una delle quali relazioni, col titolo di Memoria storica sulla rivoluzione di Milano seguita il giorno 20 aprile 1814, fu distesa solamente qualche mese dopo gli avvenimenti e indi a poco [ix] divulgata per le stampe con la data del novembre 1814[5]. Duplice, come appar chiaro dalla semplice lettura, era stato l'intendimento di chi scrisse questa relazione: difendere la condotta del Senato contro le postume accuse del partito indipendentista lombardo e rivelare la parte sinistra che i detrattori del Senato avevano avuto nei tumulti dell'aprile, nello strazio del Prina, nella caduta del Regno. Al primo di questi fini non era parso che corrispondesse abbastanza la Lettera sulla seduta del Senato del Regno d'Italia tenuta a Milano il 17 aprile 1814, la quale era venuta alla luce in Parma, sin dalla fine del maggio[6]: se n'era saputo subito autore uno dei senatori, «uomo illustre per probità, per carattere, per dottrina», e si disse che non aveva taciuto «la verità anche parlando di sé medesimo»,[7] ma il nome di lui, se pur corse sulle bocche dei contemporanei, non fu segnato sulle carte, né oggi sarebbe agevole a riconoscere se non per indizi che potrebbero esser fallaci[8]. Ad ogni modo la relazione o «commentariuccio», come la designò il Foscolo, fu come il punto di partenza alla piú diffusa «Memoria storica» del novembre, alla quale anzi la narrazione parmense sulla seduta senatoria del 17 aprile 1814 fu accodata come primo e principal documento[9].
Appena la Memoria storica fu pubblicata, la polizia si diè un gran da fare per impedirne la diffusione, [x] sino a ordinare la chiusura d'una libreria ove si era venduta, e molto si affaccendarono gli interessati, o i colpiti che dir si vogliano, a ribattere come meglio potevano le gravi accuse, alle quali aggiungeva valore la pacatezza del racconto e la temperanza dei giudizi e della forma. Il generale Domenico Pino, che per la parte avuta nelle giornate dell'aprile era già stato bersaglio a ben altre contumelie e alla meglio se n'era schermito[10], non volle lasciare senza risposta ciò che di lui si diceva nella Memoria storica, e diè fuori sul principio del 1815 certe sue, poco concludenti, Osservazioni... sopra alcune asserzioni dell'autore dell'opuscolo che ha per titolo «Su la rivoluzione di Milano seguita il 20 aprile 1814»; osservazioni le quali non valsero certamente a rimuovere tutti i sospetti che si erano venuti addensando sopra la sua condotta[11]. Il conte Federico Confalonieri stampò, con la data del 15 marzo 1815, la sua Lettera ad un amico, il conte Antonio Durini, nella quale, un po' confessando la parte avuta nei fatti dell'aprile 1814 e un po' impugnando le asserzioni della Memoria storica, tentò un'abile difesa di sé stesso e già si mostrò, politicamente, assai mutato da quello che era l'anno innanzi; ma anch'egli riuscí tutt'altro che convincente: fortunato che gli avvenimenti posteriori della sua vita e la grandezza del sacrificio e dell'espiazione, circondando la sua memoria di una fulgida aureola di [xi] patriottismo, facessero dimenticare quali erano stati i primi suoi passi sulla via malsicura delle congiurazioni politiche[12]. Finalmente il conte Ludovico Giovio, già consigliere di Stato napoleonico e presidente delle riunioni che nell'aprile e maggio 1814 avevano tenute in Milano i Collegi elettorali di una parte del Regno, difese quella convocazione in un opuscolo, nel quale anche cercò di scagionare sé stesso dalla taccia datagli nella Memoria storica di esser stato troppo facilmente ingrato verso un governo che lo aveva innalzato ai piú alti onori[13].
Mentre cosí si appuntavano le armi contro la relazione documentata, che in povera veste era venuta da Lugano a raccontar fatti che si volevano sopire, era naturale che si cercasse di sapere chi ne fosse l'autore. Sulle prime corse voce che l'avesse fatta Melchiorre Gioia[14], forse perché dell'economista piacentino si ricordavano altri opuscoli pubblicati nell'occasione di gravi mutazioni politiche nel ventennio anteriore; ma la voce cadde di per sé, senza bisogno di essere smentita. Maggior consistenza invece prese l'opinione che uno o piú senatori avessero lavorato a mettere insieme la Memoria storica, e a questa opinione aderí anche Ugo Foscolo, quando prese a confutar quella relazione nei suoi discorsi Della servitú dell'Italia[15]: generosi ed eloquenti discorsi, nei quali per altro non è dissimulato il dispetto del poeta di essere [xii] stato additato come frequentatore di mense ministeriali e sovvertitore della plebe ai tumulti del 20 aprile. Il Foscolo, come si vede da piú luoghi di quei discorsi e da altri della Lettera apologetica scritta quasi dieci anni di poi agli editori padovani della Minerva[16], teneva, se non per autore, almeno per ispiratore principale della Memoria storica il senatore Diego Guicciardi, fattosi, sempre secondo il Foscolo, sostenitore del principio della monarchia di diritto divino, appunto in quei giorni che l'Austria si preparava a soppiantare la Francia, e proclamatosi da sé per uomo di Stato a nessuno secondo. E questa ch'era stata l'opinione del Foscolo divenne presto universale, tanto che nel 1822 il Saint-Edme (cioè Teodoro Bourg, già commissario nelle guerre napoleoniche e sostenitore anche dopo il 1815 delle idee repubblicane e imperiali), pubblicando in Parigi la sua traduzione francese della Memoria storica,[17] vi poneva in fronte il nome del Guicciardi e nella prima delle note da lui aggiunte ragionava e argomentava tale attribuzione cosí:
1º Dans son avertissement, l'éditeur annonce que l'ouvrage qu'il publie est dû à un illustre personnage du royaume d'Italie, qui avait le droit de conserver près de lui les documens authentiques placés à la fin du mémoire: le comte Guicciardi était sénateur et chancelier du sénat.
2º L'exposé de la situation morale de l'Italie qui précède l'historique de la révolution, est basé: 1º sur des bruits auxquels n'aurait point ajouté foi tout autre écrivain de [xiii] l'époque qui n'aurait point eu à justifier une opinion émise dans une assemblée politique, opinion opposée à sa conduite antérieure, aux vues du prince, et peut-être au bien de son pays; l'auteur même avoue ses doutes: mais pourquoi se serait-il arrêté à des mensonges, en aurait-il, comme historien, entretenu le public, s'il n'avait eu l'intention de se servir de cet appui pour se justifier? 2º sur le caractère personnel de quelques individus employés par le gouvernement, tels que le secrétaire des commandemens du prince et le directeur des postes: on ne peut voir là que le fruit d'une animosité particulière, et l'on sait que l'esprit rétif de M. le comte Guicciardi avait été atteint par quelques-uns de traits de MM. Méjan et Darnay.
3º Le 17 avril, lorsqu'on lut au sénat le projet de décret du duc de Lodi, qui s'opposa à son adoption? M. le comte Guicciardi. Et le mémoire cherche à prouver que l'on avait machiné pour surprendre la délibération: l'opposition violente de M. Guicciardi est donc tout honorable pour lui, dans le sens de la marche qu'il avait adoptée.
Mais sans entrer à ce sujet dans une longue discussion, à laquelle le lecteur, une fois prévenue, suppléera facilement avec un peu d'attention, je me bornerai à fare remarquer que M. le comte Guicciardi a fait partie de la commission nommée pour l'examen de la proposition du duc de Lodi; qu'en sa qualité de membre de la commission, c'est lui qui s'est rendu auprès du duc, afin d'en obtenir les éclaircissemens nécessaires au travail de la commission; qu'il a fait le rapport; qu'il a été nommé député; qu'il a eu une entrevue avec le prince; que sa justification au gouvernement provisoire a été imprimée malgré la défense de la régence, et que là, comme dans l'ouvrage, oú il est tant question de lui, ses opinions et son caractère politique sont élevés à un haut degré.
Queste argomentazioni del Saint-Edme, per quanto avvedute e sottili, non hanno, si capisce subito, un grande valore probativo, poiché il Guicciardi in tutte le fasi del movimento milanese dell'aprile 1814 rappresentò le tendenze del partito austriaco, come ha ben dimostrato il Bonfadini[18], e la Memoria storica, se non tace per un senso di imparzialità gli errori e le colpe degli uomini di tutti i partiti, è manifestamente rivolta in particolare contro gli indipendentisti lombardi in quanto spianarono con la Reggenza la via all'Austria di occupare e tener per suo il paese: l'autore quindi, se non era un eugeniano, non poteva essere neppure un austriacante; e ben vide e sentì il significato dell'opera sua la polizia austriaca, che si sforzò di rimuoverla dalla circolazione. I documenti, che accompagnano la Memoria storica, parte erano stati pubblicati per altre vie, parte erano di tal natura da esser passati per molte mani, e l'apologia del Guicciardi poté ben essere comunicata da lui medesimo all'autore di questa relazione, non già perché la pubblicasse, ma come a senatore ch'egli era, poiché il Guicciardi, dopo il divieto della Reggenza di darla alle stampe, avrà sentito il bisogno che ne avessero conoscenza almeno i suoi antichi colleghi del Senato. E che tra i senatori fosse da cercare l'autore della Memoria storica, ove la condotta del Senato era difesa con tanto calore, pochi allora dubitarono; e presto [xv] anche si seppe che questo senatore era il maceratese Leopoldo Armaroli, magistrato onorando e insigne giurista[19]: si seppe presto, ma pubblicamente non fu detto se non nel 1823 da Federico Coraccini (sotto il quale nome, ben si sa, nascondevasi Carlo Giovanni Lafolie francese, stato nel 1812 segretario generale della prefettura del Tagliamento e nel 1813 viceprefetto di Ravenna) nella sua Storia dell'amministrazione del Regno d'Italia[20], e fu poi confermato piú tardi da piú credibile testimonio, lo storico dell'esercito cisalpino-italico[21]. Ciò non ostante, poiché si continuò da qualcuno ad attribuire la Memoria storica al Guicciardi[22], parmi opportuno dissipare ogni dubbio per mezzo di una lettera che l'Armaroli stesso scriveva nel 1830 a Francesco Cassi per ottenere dal marchese Antaldo Antaldi di Pesaro la restituzione dell'unica copia rimastagli del suo libretto; lettera che sulla divulgazione di questo scritto ci dà anche alcune particolarità rimaste sin qui ignorate.
Mio degno e rispettabile amico,
Macerata 25 aprile 1830.
Ho bisogno dell'autorità vostra municipale, per citare al vostro tribunale codesto diligentissimo amico nostro marchese Antaldo. È piú di un anno che in vostra presenza gli consegnai quel mio Opuscolo sulla rivoluzione di Milano del 1814, che gentilmente si offerí di farlo osservare [xvi] ai Revisori per vedere se s'incontrasse difficoltà nel ristamparlo. Ritornando da Bologna mi recai da lui e mi disse che non vi era opposizione, ma non potea restituirmi il libro perché era rimasto presso il Signor Canonico Coli.
Dopo di ciò gli ho scritto, gli ho mandata qualche mia pubblicata freddura, ho certezza che l'ha ricevuta, e non mi ha risposto. Gli ne ho fatta avanzar premure da Asiari, e ultimamente dal Ferri nipote del sordo, ed anche ciò inutilmente.
Parlando sul serio io ne ho vero e sommo bisogno: ho stimoli da piú parti e dalla stessa Lombardia di farne altra edizione corredata di abbondanti commenti; vi è anche dell'onore del mio nome il farlo perché sono stato citato con menzogna. Non solo non ne ho altra copia, ma è impossibile di procurarmela perché le 500 copie venute a Giegler, meno le poche esitate, furono sequestrate dalla Polizia, né so se potessi ottenerne da Parigi. Mi raccomando dunque alla vostra amicizia di farne cortese insistenza all'amico onde io possa ricuperarlo.
Viene qui Delegato Monsignor Ciacchi. Voi forse lo vedrete. Mi sarà grato che mi facciate conoscere ad esso per un uomo d'onore, tranquillo suddito, e vostro amico.
Addio. Alla vostra famiglia ed a voi cordialmente mi raccomando. Vale.
Il Vostro
Armaroli.
Al Nobil Uomo
Il chiarissimo Signor Conte Francesco Cassi
Gonfaloniere di
Pesaro[23].
La Memoria storica dell'Armaroli fu per molto tempo una delle piú copiose fonti d'informazioni a chi ebbe ad occuparsi dei fatti dell'aprile 1814: dal Jomini, che ne fece larghissimo uso nella sua storia dell'ultima campagna dell'armata franco-italiana[24], giú giú sino ai piú recenti narratori della fine del Regno italico, tutti si valsero della operetta del senatore maceratese; alla quale si presenta ora, in parte come opportuno riscontro, in parte come necessario correttivo, la relazione particolareggiata che di quelli avvenimenti stese e lasciò ai posteri il collega suo Carlo Verri milanese[25]. Il patrizio lombardo fu veramente nei moti del 1814 uno dei rappresentanti piú cospicui e sinceri del partito austriaco; meno vigoroso all'operare che non fosse il Guicciardi, giovò piú di lui al trionfo di quel partito rafforzandolo con l'autorità del suo nome, e prestò l'opera propria, come presidente della Reggenza provvisoria, alla consolidazione che fu lenta, ma sicura e avveduta, della nuova dominazione[26]. Però, come il Verri fu animato da un sincero, per quanto fallace, sentimento di giovare agli interessi del suo paese, cosí la sua testimonianza molto ci aiuta a intendere le cagioni e i procedimenti di un fatto che tanto sembrò contrastare con il desiderio dell'indipendenza nazionale, della quale in quei giorni tutte le parti politiche s'erano fatta una bandiera per conto proprio. Storia dolorosa di errori, se non [xviii] di colpe, onde procedette una espiazione ancor piú dolorosa durata oltre mezzo secolo; ma storia feconda di ammaestramenti, anche per noi che di quella espiazione raccogliemmo i frutti, poiché ci insegna come la rettitudine delle intenzioni non basti a salvare un paese quando non sia accompagnata dal senso dell'opportunità, dall'accortezza dei mezzi, dalla prontezza dell'azione.
T. Casini.
1. Milano e il Ministro Prina, narrazione storica del Regno d'Italia (aprile 1814) tratta da documenti editi ed inediti per Massimo Fabi, Novara, A. Pedroli, 1860; 8º, p. 248. È libro notabile perché vi sono raccolti molti documenti pubblici concernenti quei fatti; ma il Cantù, Cronistoria dell'Indip. ital., vol. 1, p. 869 attesta: «questo è lavoro del consigliere Carlo Castiglia, che lo esibí a me e ad altri, prima di venderlo al Fabi, che lo stampò per suo».
2. La caduta del Regno italico, narrazione desunta da testimonianze contemporanee e da documenti inediti o poco noti per cura di Giovanni De Castro, Milano, Treves, 1882; 16º, p. 366. È ricco, come tutti i libri del De Castro sull'età napoleonica, di notizie e giudizi tratti da scritture contemporanee, e ha uno spiccato carattere aneddotico che ne rende piacevole la lettura né poco conferisce all'intelligenza dei tempi e degli uomini.
3. Barone von Helfert, La caduta della dominazione francese nell'Alta Italia e la congiura militare bresciano-milanese nel 1814, traduzione consentita dall'autore di L. G. Cusani Confalonieri, con un'appendice di documenti, Bologna, N. Zanichelli, 1894; 16º, pag. 282. È importante specialmente perché l'autore attinse notizie da documenti riservati degli archivi di Vienna, ma, come altri libri dell'Helfert su cose italiane, tende a giustificare la politica austriaca, e però trascura fatti, censura persone, pronuncia giudizi dimostrando molta parzialità. La pubblicazione dell'originale tedesco è del 1880.
4. Il testo francese fu pubblicato in Parigi, Laisné, 1846, e la traduzione italiana, ivi 1847. È un libro ormai rarissimo, perché le copie venute in Italia furono quasi tutte confiscate dalla polizia austriaca, e però ci proponiamo di ristamparlo quando che sia in questa nostra Biblioteca storica del Risorgimento italiano. Intanto sovr'esso si vedano Cusani, St. di Milano, VII 84, De Castro, op. cit., p. 10, Helfert, op. cit., pag. 24.
5. Il titolo del libretto, stampato in carta grossolana e della dimensione di cm. 21×12, è riprodotto a fac-simile nella p. 1 del presente volume. La data di Parigi è probabilmente fittizia, poiché la carta, i caratteri ed altre particolarità materiali del libro lo mostrerebbero uscito dalla stamperia del Veladini di Lugano (cfr. De Castro, op. cit., p. 39; Catalogo del Museo del Risorgimento nazionale di Milano, II, 236): tuttavia a provenienza parigina sembra accennare l'autore stesso nella sua lettera al Cassi, che sarà riferita or ora.
6. Parma, stamperia Carmignani, 1814, 16º, p. 12.
7. Fabi, op. cit., p. 223.
8. A questa Lettera di stampa parmense accenna il Foscolo, Opere V, 221: «.... benché vi fosse da ridire, tuttavia si è lasciato correre, perché era dettato a difesa con modestia d'uomo dabbene: tace il vero, che forse [xxi] era occulto a quello scrittore; non però dice il falso». Non crederei di errare sospettando autore di questa relazione uno dei senatori Vincenzo Dandolo o Federico Cavriani, i soli, tra quelli che vi son nominati, cui possano applicarsi e la qualifica d'uomo dabbene, secondo il giudizio del Foscolo, e le lodi raccolte dal Fabi: per il Cavriani starebbe anche il fatto che a lui fu erroneamente attribuita la Memoria storica dell'Armaroli (cfr. G. Melzi Dizion. di opere anon. e pseudon., vol II, p. 470).
10. Alludo specialmente al libello, tribuito a Stefano Méjan, Le Roi Pino à la bataille des parapluies, stampato in Germania nel maggio 1814, e all'altro intitolato: Le Lamentazioni, ossieno le quattro Notti del general Pino. Italia 1815 (forse stampato a Milano): il Pino rispose con gli Schiarimenti sopra alcuni articoli esistenti nel libello intitolato, «Le quattro Notti del generale Pino,» anche questi del 1815.
11. È un opuscolo in 8º, di p. 16. — Da vedere in proposito ciò che scrisse, a cose quiete, A. Zanoli, Sulla milizia cisalpino-italiana cenni storico-statistici dal 1796 al 1814, Milano, Borroni e Scotti 1845, vol. II, pp. 441-445.
12. La Lett. ad un amico, senza note tipogr., è un opuscolo di p. 23, oggimai introvabile: una copia è nell'Ambrosiana (De Castro, p. 36), un'altra nel Museo milanese del Risorgimento (Catalogo I, 316): ma è stata ristampata in Memorie e lettere di F. Confalonieri, a cura di G. Casati, Milano, Hoepli, 1890, p. 253-273.
13. L'opuscolo del Giovio è rarissimo: una copia ne conserva l'Ambrosiana in una miscellanea S. C. v. v. 26, che è tutta di cose manoscritte e stampate sui fatti del 20 aprile 1814 (De Castro, pp. 36, 82).
14. Il nome del Gioia è dato da un esemplare della Memoria storica, posseduto dalla R. Biblioteca Vittorio Emanuele (22, 14, B, 11) con queste parole manoscritte: Vuolsi del senatore Conte Guicciardi, ma piú si attribuisce al Gioia.
15. Foscolo, Opere, vol. V, p. 171-253; specialmente si noti ciò che leggesi a p. 175, 178, 183, 211-213, 222.
16. Op., vol. V, p. 489-609; specialmente, p. 495, 568.
17. Relation historique de la Révolution du royaume d'Italie en 1814; par le comte Guicciardi, ex-chancelier du Sénat; traduit de l'italien par M. Saint-Edme. A Paris, chez A. Corréard, libraire, Palais-royal, Galerie de bois, n. 258, 1822; in-8º, di p. VI-204.
18. R. Bonfadini, Mezzo secolo di patriotismo, Milano, Treves, 1886, p. 84-91, dove il ritratto politico del Guicciardi è delineato con mano maestra, sebbene un po' indulgente. Non inutile mi sembra l'aggiungere che il Guicciardi fu di una famiglia nobile di Tresivio, ma nacque accidentalmente in Lugano il 26 febbraio 1756: fatti gli studi di legge, si volse ai pubblici uffici, e fu dapprima luogotenente del Vicario in Sondrio, poi delegato presso il Pretore in Morbegno, e non ancora trentenne fu chiamato nel 1785 alla piú eminente carica amministrativa che fosse nella Valtellina, quella di cancelliere di Valle. Nel 1787 fu uno dei deputati che trattarono innanzi alla Corte di Vienna la questione dei diritti valtellinesi contro i Grigioni, e fin d'allora cercò di collegare le sorti e gli interessi della Valtellina con quelli della Lombardia; e questo fine il Guicciardi raggiunse dieci anni di poi alla prima venuta dei francesi, poiché egli fu principal promotore dell'unione della Valtellina alla Cisalpina accaduta nel novembre 1797. L'amicizia allora contratta con Antonio Aldini, andato commissario organizzatore in Valtellina, gli aprí la via degli uffici politici nella novella Repubblica: fu chiamato da Bonaparte il 20 novembre 1797 nei Comitati riuniti e assegnato a quello di costituzione, e contemporaneamente fu fatto rappresentante del popolo al Corpo legislativo nel Consiglio dei seniori, ma chiese e ottenne la dimissione il 26 dicembre; nel febbraio 1798 fu Commissario straordinario del governo nei dipartimenti del Lamone e del Rubicone; il 15 aprile fu nominato ministro di polizia generale, il 10 luglio ministro dell'interno, nel quale ufficio rimase fino a tutto il gennaio 1799. Nella seconda Cisalpina il Guicciardi si tenne in disparte, finché mandato all'assemblea di Lione, come uno dei notabili del dipartimento del Lario, vi si segnalò per moderazione e dirittura d'idee, di modo che Bonaparte il 26 gennaio 1802 lo chiamò all'alto ufficio di segretario di Stato della Repubblica italiana. Vive antipatie sorsero tra il Melzi, vicepresidente di quella, e il Guicciardi, sí che questi lasciò l'ufficio passando il 31 maggio a far parte della Consulta di Stato, la quale alla formazione del Regno italico costituí poi la prima sezione del Consiglio di Stato. Nominato direttore generale della polizia il 1º agosto 1805, esercitò il difficile ufficio con tatto e moderazione, finché Napoleone I, per motivi non ancora chiariti, sospettò della sua condotta e lo tolse di mezzo nominandolo senatore il 19 febbraio 1809. Da questo momento fino al 1814 fu cancelliere del Senato ed ebbe gran parte nelle deliberazioni di quel corpo, mentre poi veniva insignito via via delle piú alte onorificenze napoleoniche. Nel 1814 fu a Vienna a procacciare il mantenimento dell'unione della Valtellina alla Lombardia, e riuscí gradito all'Austria sí da esser fatto nel 1818 vicepresidente dell'I. R. governo della Lombardia, nel 1825 I. R. consigliere intimo attuale e presidente della Commissione centrale di pubblica beneficenza. Collocato a riposo nel 1826, morí nel 1837.
19. Non si ha alcuna biografia dell'Armaroli, del quale ho potuto raccogliere che nacque in Macerata il 4 gennaio 1766 di famiglia patrizia, fece buoni studi di lettere in patria e fu laureato in giurisprudenza: entrato nella magistratura pontificia, era presidente del tribunale di Macerata allorché poco dopo l'unione delle Marche al Regno italico, fu con decreto del 5 luglio 1808 nominato presidente della Corte di giustizia in Fermo. Chiamato a far parte del Collegio elettorale dei dotti, fu designato come candidato al Senato, e nominato senatore il 19 febbraio 1809. Si trasferí quindi a Milano, donde solamente nel 1815 tornò, con una modesta pensione, in patria, dove si diede con fortuna all'esercizio dell'avvocatura e divenne presto il principe del foro marchigiano. Viveva ritirato nella solitudine della sua villa in Appignano, allorché scoppiata la rivoluzione del 1831 l'Armaroli fu chiamato a far parte del governo provvisorio delle Provincie unite come ministro della giustizia; ma la rapida fine di quel moto non gli diede tempo di recarsi a Bologna ad assumere il ministero, nel quale fu supplito da Antonio Silvani. Il 9 giugno 1843 l'Armaroli morí nella sua villa di Appignano che egli aveva battezzata col nome di Tusculano, lasciando alla famiglia Tambroni i suoi averi e i suoi libri.
20. Lugano, fr. Veladini [s. a., anno 1823 o poco dopo], p. LXV-256. La traduzione francese fu pubblicata in Parigi, Audin. 1823, poi raffazzonata con altro titolo.
21. A. Zanoli, op. cit., II 441: «... io ho dati per credere che [la Memoria storica] sia invece del di lui collega Leopoldo Armaroli».
22. Per es. nel libro Milano e il suo territorio, Milano, 1844, vol. I, p. 375: il Cantù, Il Principe Eugenio, vol. IX, p. 57, si mostra ancora dubbioso sull'appartenenza dell'opuscolo all'Armaroli.
23. Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Carte mss. di F. Cassi.
24. Dernière campagne de l'Armée franco-italienne sous les ordres d'Eugène Beauharnais, en 1813 et 1814, suivie des Mémoires secrets sur la révolution de Milan, du 20 avril 1814, et les deux conjurations du 25 avril 1815, la campagne des Autrichiens contre Murat, sa mort tragique et la situation politique actuelle des divers États d'Italie, par le chevalier S. J. *** témoin oculaire, précédé d'une notice historique sur Eugène Beauharnais. Paris, Dentu e Lugano, Veladini, 1817, in-8º, p. XVI-194. Questo opuscolo è da alcuni attribuito al Julhien, generale francese al servizio del Regno italico (cfr. Coraccini p. XCV; Cantù, Il Principe Eugenio, vol. VIII, p. 311).
25. Primo a servirsi della relazione del Verri fu il Cusani, che nella sua Storia di Milano, vol. VII, p. 91 e segg. ne riferí lunghi estratti: essa fu poi pubblicata con molti errori e lacune nel vol. IV, pp. 445-507 dalle Lettere e scritti inediti di Pietro e Alessandro Verri a cura di C. Casati, Milano, Galli, 1879-81. La mia ristampa è condotta sopra una copia piú corretta e compiuta, sebbene non ancora perfettamente, perché l'autore non poté darvi l'ultima mano.
26. Fratello ai piú famosi Pietro e Alessandro, Carlo Verri nacque in Milano il 21 febbraio 1743, e compiuta con buoni studi la propria educazione visse per molto tempo alieno dalle cure pubbliche, tanto intento alla cultura delle proprie terre e alle prove di miglioramenti agrari e tecnologici, sui quali anche pubblicò alcuni notabili scritti (registrati dal Corniani, I secoli della letteratura italiana, Torino, 1855, VII, 489). Venuti i tempi piú quieti della Repubblica Italiana, il Verri fu chiamato nel 1802 a far parte del Corpo legislativo, dal quale uscí allorché per le insistenze del Melzi accettò la prefettura del Mella conferitagli con decreto del 26 aprile di quell'anno. Il 29 settembre 1804 fu fatto membro del Consiglio legislativo, e cosí alla creazione del Regno italico fu coi decreti del 9 maggio e 9 giugno 1805 compreso tra i componenti il nuovo Consiglio di Stato. Nominato senatore il 10 ottobre 1809, fu in quel corpo uno dei piú autorevoli per dirittura e moderazione di idee, ed ebbe nel 1814 la parte larghissima ch'egli stesso racconta. Lasciato l'anno dopo l'ufficio di presidente della Reggenza provvisoria, si ritirò di nuovo a vita privata, e morí poi in Verona nel luglio 1823.
SULLA RIVOLUZIONE
DI MILANO
Seguita nel giorno 20 aprile 1814
SUL PRIMO SUO GOVERNO PROVVISORIO
E SULLE QUIVI TENUTE ADUNANZE
DE' COLLEGJ ELETTORALI
MEMORIA STORICA
CON DOCUMENTI.
PARIGI
Novembre 1814.
Il manoscritto della presente memoria, opera di un personaggio illustre del Regno d'Italia, e la di cui autorità è tanto piú rispettabile, che esso vi godette per molti anni di una riputazione fondata sulle di lui eminenti qualità, venne per una combinazione felice nelle mani dell'editore. Egli sarà facile di convincersene colla lettura delli documenti autentici che si presentano al lettore, e molti de' quali non potevano cadere in possesso di una persona, la quale per il suo posto non avesse avuto il diritto di leggerli non solo, ma anche di ritenerli presso di sé. L'editore si è fatto un dovere di dare questa memoria alla luce, senza aumentazioni, né diminuzioni, e senza permettersi veruna osservazione. Non è opinione sua quel che espone, ma bensí un racconto fatto da un uomo autorevole, di fatti autentici, e di cui gli effetti furono pubblici.[27]
MEMORIA STORICA.[28]
Dopo la ritirata di Mosca, tutte le molle politiche de' governi di Francia e d'Italia perdettero all'istante la loro elasticità. Il sentimento della potenza di Napoleone a rapidi gradi si estinse, e cessò l'illusione che la fortuna e la vittoria marciassero costantemente alla testa delle sue armate. Gli animi dei popoli sempre piú s'indispettirono per l'aumentato rigore delle finanze, e per l'accresciuto bisogno della coscrizione desolatrice delle famiglie. Ciò non ostante, il rovesciamento totale del sistema non entrò nei piani delle Potenze, e molto meno nelle viste dei sudditi, come quello che non sembrava verificabile senza rinnovare gli orrori di una rivoluzione. Miglior partito parve quello di sostenere il Governo e di somministrargli i mezzi, onde colla gloria delle armi ottenere finalmente una pace onorevole e solida. Non vi fu [6] perciò sforzo che si risparmiasse. Artiglieria ed armi si fabbricarono da ogni parte con un'attività che non ha esempio. La coscrizione ebbe il suo effetto quasi per intero, si offrirono persino gratuitamente dai corpi e dai privati cavalli in gran numero e guerrieri.
Lo spirito italiano, non mai versatile, ma attaccato sempre tenacemente ai suoi principi, superò, alla debita proporzione, la Francia nelle volontarie oblazioni. Nel Regno d'Italia si ebbe per istimolo ulteriore, che alla pace generale cessasse l'esercizio di un Governo per procura coll'organo di un Viceré, e che sul capo del Principe Eugenio passare ne potesse indipendente la corona. Non vi è dubbio che a quell'epoca concorressero nel Principe l'amore ed il desiderio dei popoli. Non vi è dubbio che si avesse di lui l'opinione di un buono e zelante amministratore, di un uomo di Stato, di un prudente e generoso condottiero di eserciti, educato ad una grande scuola. A ciò si aggiungeva la rispettosa affezione che si era conciliata la Principessa sua consorte, a cui tutti offerivano i loro omaggi, chi per la sua pietà e per le sue virtú, chi per le sue grazie e la sua amabilità, chi per le beneficenze che a larga mano spargeva, specialmente sulla classe degli indigenti che qual rifugio e madre la riguardavano.
Niun debito si faceva al Principe del complicato sistema di amministrazione, della coscrizione, [7] e soprattutto della gravezza delle imposte. Il solo Re ne sopportava l'odiosità, non che, rapporto alle finanze, quel Ministro, che aveva la bassezza di prostituire i suoi sommi talenti nel secondarlo e facilitargli i mezzi di esecuzione. I sentimenti del suo segretario degli ordini erano conosciuti da pochi nella capitale, da pochissimi nei dipartimenti. Quest'uomo, tuttoché naturalizzato italiano con la sua ammissione al Collegio elettorale dei dotti, si crede che non abbia mai naturalizzato il suo cuore.
Furono i pochi uffiziali reduci dalla campagna di Mosca, che inserirono nell'animo degli Italiani i primi semi di diffidenza verso la persona del Principe. Questi lamenti, già disseminati abbastanza, crebbero a dismisura nel 1813, allorché fu miseramente l'Italia ancora il teatro della guerra. Non piú il solo uffiziale, ma dal generale al soldato si chiamarono tutti mortificati dal Principe, offesi dal suo primo aiutante. Saranno state forse calunniose alcune acerbe proposizioni poste in bocca dell'uno e dell'altro, ma pure da moltissimi si recitavano come vere. Fece dispiacere il vedere trascurato il primo ed il piú provetto tra i generali italiani, che dal Nord al Sud ha sempre associata la sua carriera alla gloria delle armi italiane.
Ad alienare gli animi dal Principe concorse un terzo francese, il suo segretario di gabinetto, passato, contro il prescritto della costituzione, alla [8] direzione generale delle poste. Egli con la polizia esercitata negli ultimi tempi sul carteggio, col trattenere ed anche disperdere le lettere, specialmente de' negozianti, portò al colmo il malcontento in questa classe sí benemerita della società, la quale era già prima indispettita abbastanza per il sistema continentale e per l'incaglio totale di ogni ramo di commercio.
Altr'oggetto di avversione, e forse il maggiore, era negli abitanti della città di Milano, perché il governo ridondasse di forestieri, che spendevano in essa con i loro soldi, i quali venivano pure dai rispettivi dipartimenti, anche le rendite de' propri patrimoni. Unico paese in Italia, e forse in tutto il mondo civilizzato, ove in pochi si trovi una cordiale ospitalità, ed ove in moltissimi, specialmente fra i nobili, regna una decisa avversione contro i forestieri, e per forestieri quelli riconoscono che non sono oriundi della antica Lombardia Austriaca! Oggetto di gelosia e di rabbia erano i ministri ed il senato, quasi che tra sei ministri in Milano non se ne vedessero ultimamente due lombardi, due milanesi fra cinque dignitari, otto tra cinquanta senatori, quasi tutti i consiglieri di cassazione ed i giudici della Corte dei conti, la metà circa de' consiglieri di Stato, la maggior parte dei direttori generali, tutti i segretari generali dei ministeri e quasi tutti quelli delle direzioni, dieci tra ventiquattro prefetti, e cosí molto e molto piú nel restante, giacché [9] la Corte era popolata di ciambellani, di dame di palazzo, di scudieri e di altri soggetti milanesi tutti al soldo della corona, e non vi era dipartimento nel Regno, che non contasse e giudici ed uno stuolo grandissimo d'impiegati della capitale. Volere un regno costituzionale, ed un corpo per conseguenza intermediario, e pretendere che i membri non fossero oriundi dei dipartimenti, è un concepimento, un assurdo tutto nuovo.
Erano gli animi in questo caldo allorché i successi delle armi delle Alte Potenze coalizzate sempre piú si moltiplicavano in Francia, e facevano veder prossimo un qualche decisivo avvenimento. Si permettevano i discorsi i piú allarmanti ne' luoghi pubblici, ne' caffè e nei teatri. All'annunzio poi dell'ingresso degli Alleati in Parigi, non ebbe piú ritegno la commozione. I primari patrizi milanesi, e quegli stessi che allora prestavano piú ligio il servizio alla Corte e maggiori ne avevano sperimentati i benefizi, correvano da ogni parte baccanti, esagerando i torti del governo, e per maggiormente dilatare l'allarme associarono a loro tre soggetti d'amplissima trachea, che alzavano con piú coraggio la voce. Un generale di brigata italiano, sdegnato di non aver avuto i desiati avanzamenti, un generale straniero al soldo italiano riformato per demeriti, un estero letterato che non sembrava attaccato a questo paese da altri vincoli che da quelli delle tante mense de' ministri [10] alle quali era assiduo, questi furono i piú animosi apostoli della rivoluzione.
Bisogna credere che il Principe Eugenio, il quale gemeva in Mantova tra le gravi cure della guerra e tra le angoscie per l'incertezza della sua situazione, non fosse inteso di quanto si vociferava in Milano, ovvero bisogna convincersi che chi lo tradiva continuasse ad adularlo per non incontrare ostacoli all'esplosione della sua perfidia. La verità pur troppo non arriva che tardi e zoppa ai gabinetti dei principi. Egli, che si era mantenuto sempre costante e fedele nella sua direzione verso il proprio padre e sovrano, che aveva resistito a tutte le insinuazioni della politica, egli finalmente pensò ai destini del Regno, e forse anche a sé stesso, quando giunsero a sua notizia gli strepitosi avvenimenti seguiti in Parigi ne' primi giorni d'aprile e la singolar metamorfosi del primo corpo di quello Stato. Fu allora che nel dí 16 di aprile convenne in una capitolazione con il Feld Maresciallo Conte di Bellegarde, e mediante la cessione di alcune piazze ottenne una sospensione d'armi fino all'esito di una deputazione del Regno, da presentarsi alle Auguste Potenze coalizzate.[29] Le sue viste palesi furono di far chiedere che il Regno fosse chiamato a parte della pace generale, proclamata all'Europa, e godesse finalmente della sua indipendenza: tanto apparve sulla sostanza della convenzione, tanto e non piú manifestò [11] nella lettera scritta al duca di Lodi, resa poi da questo ostensibile alla commissione del Senato, e tanto assicurò ai deputati del Senato, quando a lui si presentarono in Mantova. È ben presumibile però che fosse tra i suoi desiderî che si domandasse per il suo capo la corona d'Italia. Fu almeno sicuramente questo lo sforzo dei ministri. Tra le persone piú addette ai suoi intimi consigli fu discusso sul modo di dare un carattere a tale deputazione e sulli stessi soggetti che dovessero comporla. Si sa che furono designati li generali Fontanelli e Bertoletti per l'armata, li conti Paradisi e Prina rappresentanti la nazione. Rapporto ai primi si ottenne facilmente l'adesione degli uffiziali, segno, checché si pretenda in contrario, che non aveva veramente perduto affatto il Principe il loro amore, o lo aveva ricuperato. Si decise di fare che il Senato autorizzasse i secondi, e qui si praticarono senza dubbio mezzi oscuri e subdoli. In niuno dei senatori era venuto mai meno il rispetto e l'attaccamento verso il Principe Eugenio, niuno aveva prestato fede alle voci accreditate nella piazza, e molto meno all'orgasmo dei nobili milanesi. Ma ognuno era penetrato dal sentimento de' propri doveri e da quello della rispettiva risponsabilità verso i suoi committenti, per non decidersi se non con gran ponderazione in un emergente cosí delicato e in un momento in cui l'attenzione e le congetture [12] degli Italiani erano rivolte verso i Sovrani d'Austria e di Napoli, che quasi tutta occupavano e tenevano la penisola.[30]
In forza di un dispaccio del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della corona, fu convocato straordinariamente il Senato nel giorno 17 aprile. È rimarcabile che di un affare, a cui si pretese di attaccare un sommo mistero, se ne parlasse contemporaneamente ne' caffè, e piú nella platea del teatro della Scala, e che i soli senatori ne fossero all'oscuro, come quelli che tali luoghi non frequentavano. Fu letto un messaggio del duca di Lodi in cui, dopo aver fatto un quadro per verità molto vago della situazione del Regno, presentava al Senato un progetto di decreto per autorizzare una deputazione a chiedere a S. M. l'Imperatore d'Austria, e pel di lui organo alle Alte Potenze, la cessazione assoluta delle ostilità, l'indipendenza del Regno ed un re nella persona del Principe. Che non si macchinò, che non si disse, perché a sorpresa si adottasse la deliberazione proposta? Fermi i senatori nella loro massima, vollero che la materia si digerisse prima da una commissione di sette membri, la quale prendesse, siccome fece, i migliori schiarimenti dal duca di Lodi e riferisse. Sul rapporto della medesima fu adottata la deputazione per i due primi oggetti della cessazione delle ostilità e dell'indipendenza del Regno, esclusa la domanda del Viceré in [13] nostro Sovrano, come diffusamente risulta dagli atti di quella seduta espressi nell'allegato num. 1 con gli analoghi documenti A, B, C. Pareva che i patrizi milanesi dovessero esser paghi del contegno dignitoso del Senato e della sua risoluzione. Se la loro volontà era quella dimostrata, che non si ricercasse il Principe in re, il Senato era stato del loro avviso. Indispensabile era la deputazione, per l'effetto della capitolazione col Feld Maresciallo Conte di Bellegarde. Sapevano tutti che a vuoto andarono le pratiche per la nomina de' conti Prina e Paradisi; sapevano che la scelta era caduta nel conte Guicciardi, uomo di Stato non secondo a veruno, il primo ed il piú acerrimo impugnatore del progetto del duca di Lodi; nel conte Luigi Castiglioni milanese, cavaliere di cui il solo nome bastava a giustificare la nomina. Si arrivò a spargere il dubbio, che le istruzioni date ai deputati dal duca di Lodi fossero divergenti dal decreto del Senato, quasi che questi fossero uomini da riceverle tali; quasi che le AA. PP. potessero ammetterle in contraddizione: tutto era artifizio e pretesto. Come i rivoluzionari erano prima de' senatori intesi del messaggio e del progetto del duca di Lodi, cosí mediante lo stesso mezzo conoscevano benissimo le istruzioni del medesimo, le quali a comune intelligenza si danno al num. 2, unitamente alla di lui credenziale per il principe di Metternich, [14] ministro di S. M. l'Imperatore d'Austria, num. 3. La sola intenzione loro fu quella di rovesciare la macchina del governo, di figurare da popolo sovrano, di trattare in piena confidenza con i potentati della terra, di fissar essi i futuri destini del Regno, senza il concorso di tutti i rappresentanti del medesimo, che come forestieri non dovevano entrare a parte degli alti loro consigli, far circolar calunnie, assoldare gente facinorosa, insultare la rappresentanza nazionale, trascorrere rapidamente di delitto in delitto; tutto ciò doveva operarsi, onde giungere allo scopo proposto, e tutto ciò fu maturatamente macchinato nel circolo di alcune primarie famiglie, d'onde partí l'allarme disseminato ne' luoghi pubblici. Le prime sottoscrizioni del foglio che forma l'allegato al num. 5, possono spandere gran luce sull'orditura della presente catastrofe.[31]
Si farebbe un torto all'accortezza ed ai vasti talenti di chi presiedeva alla polizia dello Stato, se si supponesse che tante pratiche rivoluzionarie sfuggissero alla di lui vigilanza. Non si sa quindi concepire come egli o il Principe non vi provvedessero, mentre, essendo spogliata di truppe la capitale, poteva ottenersene in qualunque numero nella vicina Cremona e forse anche in Lodi. Non si spiega neppure come nel giorno venti, quando cadeva l'ordinaria seduta del Senato, si mandasse contro il solito alla custodia del palazzo, non [15] l'ordinaria guardia, ma un picchetto non piú forte di otto o dieci coscritti, e cresce la maraviglia nell'essersi visto al portone del medesimo il capitano Marini, aiutante di piazza, che disse essere stato spedito per riparare qualche disordine che si temeva: qual riparo poteva opporre un solo uffiziale isolato, e neppur milanese?
Fu piú o meno piovosa la giornata de' venti aprile. Con tutto questo, verso un'ora pomeridiana, quando si radunavano i senatori, si videro nell'esterno del loro palazzo, sotto seriche ombrelle, una nobile corona di soggetti decorati e addetti per la massima parte alla Corte, da' quali tutt'altro poteva temersi che disordine; quivi era un conte Federico Confalonieri, marito di una dama di palazzo; quivi due fratelli Cicogna, l'uno ciambellano e scudiere l'altro; lo scudiere Ciani; quivi un Fagnani, che riuniva all'onore di ciambellano il rango di consigliere di Stato, e che, a spese del governo, aveva poc'anzi fatto il viaggio ed un lungo soggiorno in Russia; quivi, in uniforme, diversi uffiziali della guardia civica, tra li quali si distinse il capitano Benigno Bossi; quivi piú rampolli d'illustri famiglie, e Silva, e Serbelloni, e Durini, e Castiglioni, ed altri diversi. Si notò un uomo di alta statura con alle mani una breve scala, sulla quale uno degli astanti saliva all'arrivo di ogni carrozza, per riconoscere il senatore che era in [16] essa. Si seppe poi esser quegli un domestico travestito di alcuno dei cavalieri surriferiti. All'arrivo de' senatori facevano plauso ad alcuni, accompagnavano altri con urli plebei e con fischi, e precisamente quelli che in Senato avevano nel dí 17 mostrato di aderire al progetto del duca di Lodi; tanto è vero che erano al pieno giorno di ciò che si era parlato e risoluto in quella seduta, e non era che per un indegno pretesto che calunniavano l'intero corpo, accusandolo di quello che con piú di due terzi di suffragi aveva escluso.
Al momento della convocazione, alla quale non erano intervenuti li conti Paradisi e Prina, si erano confusi intorno al palazzo, con gli altri astanti cavalieri, diversi uomini di truce aspetto, che poi si seppe essere sicari stipendiati, e molti altri del popolo chiamati dalla curiosità, e varie indistinte voci cominciarono a sollevarsi. Si riuní nella sua sala il Senato, ove doveva solamente farsi leggere ed approvarsi il processo verbale della seduta antecedente. Prima di procedersi a tale lettura ed all'appello nominale e mentre l'esterno rumore cresceva, partecipò il presidente, non officialmente, ai senatori, che il Podestà di Milano aveva spedito al duca di Lodi ed a lui la copia di un'istanza fatta alla Municipalità, in cui si chiedeva, che nell'attuale posizione del Regno si adunassero i collegi elettorali, per trattare in essi della cosa pubblica. Il Podestà diceva nella sua lettera di attendere [17] su di essa le analoghe deliberazioni del Senato, allegati num. 4 e 5. La prima era firmata da 141 cittadini, e si dicevano per brevità ommesse molte altre firme. Erano firmati i primi il conte Pino generale di divisione, il conte Luigi Porro, il conte Giacomo Trivulzio, il conte Federico Confalonieri, il conte Federico Fagnani con la qualità di consigliere di Stato, il conte Giberto Borromei, Giacomo Ciani. De' consiglieri di Stato non vi era, oltre il conte Fagnani, che il conte Lodovico Giovio col solo carattere di elettore; vi erano il colonnello e molti uffiziali della guardia civica, tra i quali meritano attenzione il capo battaglione Pietro Balabio e il capitano Benigno Bossi: erano pure firmati nello stesso foglio il Podestà ed i Savi municipali.
In questo mentre chiese ed ottenne il permesso, e fu da un usciere introdotto nella sala il capitano aiutante Marini, il quale espose che gli ufficiali della guardia civica esclamavano ad alta voce di voler essi presidiare il Senato e difenderlo. Vi aderí il presidente e ne diede in iscritto l'autorizzazione, non sapendo neppure concepire il sospetto, che discendere si potesse all'infamia di tradire la fiducia dell'unico corpo di rappresentanza permanente del Regno, quando inerme si abbandonava in braccio de' cittadini della capitale, che ultroneamente offerivano assistenza e difesa. Ma il primo loro passo fu di accorrere con una forte e preparata pattuglia, [18] e cacciare bruscamente e con una somma indecenza dai loro posti i soldati di linea, e quelli persino che erano all'immediata porta della sala della seduta.
Prima di quel momento niuno del popolo aveva ardito di penetrare nel palazzo, niuno aveva ardito di sforzare i soldati di linea che erano schierati alla porta. Il solo conte Confalonieri si era appressato piú degli altri, e la sola sua voce si ascoltava esclamando: «Noi vogliamo la convocazione dei Collegi elettorali, e che si richiami la deputazione del Senato!». Tutto che il capitano Marini gli insinuasse che fosse entrato in seduta e senza innalzare in istrada clamori plebei e sediziosi avesse manifestati ai senatori i suoi voti, rispose di non poterlo fare, perché destituito di carattere e di rappresentanza, ma intanto sempre piú sollevava la voce, ripetendo le cose stesse.
Non appena i soldati di linea si ritirarono nell'appartamento del custode, non appena il palazzo fu in balia della guardia civica, che fu dato l'adito indistintamente ai grandi, ai sicari ed alla plebe di penetrare in esso liberamente. Il conte senatore Verri si offrí di perorare al popolo, ed a lui si unirono li conti senatori Massari e Felici. Piú volte andarono e tornarono e riferirono sempre l'inutilità de' loro sforzi, perché non emergeva cosa volesse un popolo tumultuante che sollevava grida confuse. Il conte Verri dette in Senato una carta che disse essergli stata posta in mano da persona [19] incognita e che non si ebbe tempo di leggere. Alcun senatore, che vi gittò sopra una rapida occhiata, vide che era scritta di carattere alterato, e nel primo paragrafo esponeva che, come la Spagna e la Germania avevano dato l'esempio, cosí doveva scuotersi dagli italiani il giogo francese.[32] La moltitudine si tratteneva nella gran corte, e niuno si faceva lecito di salire il maestoso scalone del palazzo. Furono i civici ufficiali che la incoraggiarono, la spinsero, e già in un momento il gran portico contiguo alla sala della seduta ridondava di popolo. Di piú, due cavalieri erano alla porta della prima anticamera, e senza entrare in essa si limitarono a prestare il loro nobile officio ed introdurre a forza que' tali che alla medesima si avvicinavano. Finalmente si restituí l'ultima volta in seduta il conte Verri, e palesò che non restavano che due soli minuti a deliberare, o tutto era perduto. Si domandò cosa alla perfine si domandasse dai senatori. Gli uffiziali della guardia civica, e tra essi il capo battaglione Pietro Balabio, erano entrati nella sala con viso pallido, alteratissimo, come di uomini cui non erano famigliari i delitti. Il capitano Benigno Bossi esclamò ad alta voce che si voleva il richiamo della deputazione e la convocazione dei Collegi. Il presidente, sull'insinuazione di qualche senatore e senza alcuna precedente regolare deliberazione, scrisse: «Il Senato richiama la deputazione e riunisce i [20] Collegi». Lo stesso capitano sortí dalla sala con questo foglio, e quindi, senza aver parlato con persona, come attestano gli uscieri del Senato, rientrò esclamando essere intenzione del popolo che si dichiarasse sciolta la seduta, e questo stesso scrisse di nuovo il presidente, con aggiungerlo in altro foglio in questi termini: «Il Senato richiama la deputazione, e riunisce i Collegi elettorali, ed è sciolta la seduta». Piú di trenta copie ne furono all'istante scritte dai segretari, dagli impiegati e dalli stessi uffiziali civici, che dopo averle fatte soscrivere dal presidente le recavano al di fuori.
Ciò conseguito si attendeva che fosse dissipato il tumulto; ma ben altre essendo le viste dei tumultuanti, crebbe anzi il disordine sempre piú. I senatori sortir dovettero da altra porta, e dietro di essi si affollò con impeto il popolo concitato. Il conte Confalonieri fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dal celebre Appiani, che con l'ombrello ruppe e gittò dalle finestre, dalle quali egli il primo cominciò a gettare le suppellettili della sala. Il suo nobile esempio fu avidamente eseguito dalla plebe. Sedie, tavolini, specchi, stufe, persino le persiane, le stesse porte, tutto fu fracassato e gittato in istrada. L'istessa sorte subirono i parati, i tappeti e parte delle carte e dei libri. Non erano ancora tutti i senatori fuori del palazzo che tutto era in preda al saccheggio, da cui fu solo in quel giorno risparmiata [21] la segreteria, e l'appartamento del conte cancelliere. Niuno dei senatori fu offeso nella persona, alcuno solamente fu urlato di nuovo.
Cessò la depredazione e lo spoglio, allorché alcuno dei capi andò spargendo la voce che era tempo di portare la vendetta ed il furore contro il Ministro delle finanze. Tutto il popolo, ed alla testa di esso quelli che si coprivano di seriche ombrelle, corsero al di lui palazzo. Infelicissimo conte Prina! Egli era stato avvertito fino dal giorno innanzi di quanto si macchinava contro di lui; nella mattina fece ogni sforzo un di lui cugino per condurlo a Pavia nella propria vettura: impavido volle rimanere al suo posto, fidato nell'attività della polizia, nella facilità di reprimere una sommossa al suo primo scoppio, e nell'opinione invalsa sempre che l'ardore della plebe milanese fosse fuoco di paglia, ristretto, come si vede giornalmente nelle loro risse, a semplici parole, non estensibili ad eccessi di fatto. Tanto è vero che a niuno è dato di evitare il proprio destino, contro il quale non siamo trattenuti né dalle sollecitazioni di persone sensate, né dalla forza e dalla maturità del raziocinio, né dalla evidenza stessa del pericolo! Non fu che la presenza del medesimo che inducesse il conte Prina a pensare finalmente alla sua salvezza: atterrate le porte, fuggiti i domestici, invaso da ogni parte ed occupato il palazzo, fu allora che si risolvette [22] a nascondersi; ma non era piú in tempo, non vi rimase piú scampo veruno. Inutilmente il mantovano Barone de Peyri, generale di divisione, si cacciò in mezzo alla folla in uniforme e tentò di salvarlo; nulla ottenne se non qualche momento di sospensione, e terminò col farsi strappare le fibbie d'oro dalle scarpe e le catene degli orologi. Il conte Prina fu rinvenuto, fu preso, denudato, percosso, strascinato, e rovesciato a capo in giú da una finestra.
Rifugge l'animo a rammentare la lenta carneficina e il feroce trastullo fatto a sangue freddo di un uomo cui pure niuno niega che fosse per ingegno, per facondia e per dottrina chiarissimo, e della di cui onestà ha fatto fede non dubbia il ristretto patrimonio lasciato. Mentre il basso popolo si è abbandonato al saccheggio del palazzo, dopo averlo spinto gli altri nell'atrio di una casa contigua, gli hanno fatto percorrere tutta la contrada del Marino sino alla piccola piazza del teatro della Scala: questa e quella erano ricoperte di agitate ombrelle vario-colorate. Vicinissimi erano il palazzo della polizia, quello del ministero della guerra, quello dell'intendenza ove un folto numero si era raccolto di guardie di finanza. A tutti fu interdetto di accorrere in suo aiuto; chi solo aveva mezzi ed autorità per salvarlo, se si fosse prestato con un atto di volontà deliberata, e non con ciarle artificiosamente vaghe, anzi allarmanti, passeggiava in una [23] contigua contrada in compagnia del conte Luigi Porro. Un buon negoziante di vino, esso solo ascoltò un sentimento di pietà, ed in un opportuno contratempo lo strappò dalle mani della moltitudine e nella sua cantina il nascose. Furenti erano gli ammutinati sul timore di averlo perduto. Scoprirono l'asilo, minacciarono d'incendio il mercante, finché l'infelice Prina, visto il pericolo del suo benefattore e non isperando per sé altra risorsa qualunque, si offerí in istrada alla ferocia de' suoi assassini, e «sfogatevi, disse, sfogatevi pure sopra di me, poiché sono già immolato alla vostra rabbia; ma fate almeno che sia l'ultima questa vittima». Estreme, memorande parole, dopo le quali non ebbe piú lena di proferirne. Fu allora che in mezzo agli scherni ed agli insulti volle ciascuno la sua parte di gloria nel percuoterlo coi puntali delle loro ombrelle. Per circa quattro ore gli fu fatto desiderare un colpo decisivo, che terminasse lo strazio. Egli è morto e strascinato per la città con torchi accesi, e trasfigurato tanto che aveva perdute le forme e l'effigie. È fama che il giudice di pace, nell'ispezione fatta del suo cadavere, non trovasse chi lo riconoscesse, come che non trovassero i professori tra le tante contusioni una ferita, una offesa veramente mortale: egli è morto d'angoscia e di spasimo.
Intanto chi può descrivere lo spoglio totale del [24] suo palazzo, e la veemenza e la prontezza della rapina? In poche ore non vi erano piú suppellettili non meno ordinarie che preziose, non una porta, non una finestra, non una pianta, non una persiana, un vaso, un utensile nell'amenissino giardino annesso. Tant'oltre si spinse la depredazione e la devastazione che tutte furono schiantate e rubate le moltissime ferrate, e cosí i calcani delle porte, i chiodi, i condotti, i canali dei tetti. I tegoli stessi furono sollevati tutti e scomposti, per la smania d'indagare nel tetto alcun tesoro nascosto. Insomma, un ampio, maestoso e ricco palazzo pubblico fu ridotto in brevi istanti uno scheletro trasparente, che il governo ha poi giudicato miglior partito di far demolire e formarci una piazza, la quale offrirà maggior comodo alle carrozze affluenti al vicino teatro.
Il Podestà di Milano, in mezzo all'imponenza di tanta sciagura, non trovò altro compenso che far stampare ed affiggere il decreto estorto al presidente del Senato, e successivamente pubblicare egli stesso un proclama, in cui dichiarò che il generale Pino andava ad assumere il comando delle forze della capitale, che i Collegi elettorali de' dipartimenti non occupati dalle armi delle AA. PP. coalizzate si sarebbero riuniti in una sola camera, al piú tardi nel giorno 22 dello stesso mese, e che il Consiglio comunale della capitale si radunava nell'indomani, tenendosi in seduta [25] permanente sino a che le circostanze lo esigessero, e che i reclami tutti si dirigessero alla Municipalità che li avrebbe fatti pervenire ai Collegi.
La giornata del ventuno fu una forse delle piú allarmanti e terribili, che abbia mai veduto Milano. Il folto popolo, allo spuntar del giorno, era in aspetto sedizioso per le contrade tutte della città. Le botteghe chiuse nella maggior parte, le guardie della finanza avevano abbandonate le porte della città ed i cosí detti dazî, un immenso numero di gente di campagna, armati altri di bastone, altri di lunghi chiodi resi acutissimi, scorreva d'ogni intorno, designando con lo sguardo la preda, e ne' complotti le persone de' proscritti e le case da saccheggiare. Si è detto che alcuni siano stati trovati muniti di pugnali, chi di ben organizzati capestri. Invano il Consiglio municipale pubblicò di avere nominata una Reggenza provvisoria, composta de' signori generale Pino, Carlo Verri, Giacomo Mellerio, Giberto Borromei, Alberto Litta, Giorgio Giulini e Bazzetta; invano il generale Pino pregò, in un suo proclama, che si avesse fiducia in lui e che si stesse pacifici spettatori delle determinazioni che si andavano a prendere dalle AA. PP.; invano il corpo municipale si espresse, in altra stampa, che il popolo poteva darsi quella forma di governo che piú desiderava, che la sua libera volontà fosse partecipata ai Collegi, i quali avrebbero adottati quei [26] mezzi, che il popolo stesso avesse giudicati piú opportuni alla sua felicità; invano il Vicario capitolare esortava nelle viscere di G. C. alla tranquillità, ordinava pubbliche preci con un triduo; invano lo stesso generale Pino, per salvare la forse minacciata persona del duca di Lodi, espose quelle dei senatori, avendo dichiarato in altro proclama che il duca non aveva avuto parte alcuna negli affari seguiti in Senato, poiché era in quei giorni gravissimamente infermo, e che le carte andate in Senato erano state fatte da tutt'altre persone, e neppure firmate da lui; invano il direttore delle privative e dei dazî di consumo, in un suo avviso che di concerto fu fatto col generale Pino, col cavaliere Podestà e col Consiglio comunale, aveva ridotto alla metà il prezzo dei sali e dei tabacchi e la tariffa dei dazî consumo; invano il primo atto della Reggenza fu quello di abolire la tassa del registro.
Tutto fu inutile: non era opinione politica, non desiderio di una piuttosto che di un'altra forma di governo, non animosità contro il medesimo o contro il Principe, non sentimento di pubblico bene, che animasse la moltitudine.[33] L'unico centro del voto generale era la rapina e la depredazione, e già si era tornato a compiere il guasto del palazzo del ministro e si era tentato in quello del Senato; fortunatamente il rimedio del male emerse dal male stesso. Emporio ricchissimo in merci, [27] in derrate, in danaro era la dogana generale, ossia il cosí detto Dazio grande nel palazzo del Marino, ove e fondachi e doviziosi depositi erano affidati dal commercio milanese, essendovi pure gli uffici del ministero delle finanze e di varie sue direzioni generali. Vi si diressero gli ammutinati, sotto pretesto di disperderne e distruggerne le scritture. Fu allora soltanto che, nell'affannosa trepidazione del loro cuore, si mossero ad un tratto i negozianti, con una energia imperiosissima. L'unirsi a tal voce i padri, i figli, i giovani, i garzoni, gli amici, i conoscenti, il correre ai quartieri, l'armarsi di fucili e il dividersi in numerose pattuglie, fu pressoché un punto solo. Il presidente del Consiglio comunale ed il generale Pino, con altri proclami, chiamarono all'armi tutti i cittadini indistintamente. Il Consiglio credette di aggiungere eccitamento, con accordare un distintivo nazionale in una coccarda rossa e bianca. Di egual saccheggio era minacciato il palazzo della Corte. La guardia reale, i cannoni e lo stesso generale Pino la difendevano debilmente. Il generale fu insultato, la guardia forzata piú volte ed astretta a ritirare dalla piazza i cannoni e nel palazzo celarli. La stessa milizia civica marciava pavida ed incerta. Si fecero sbarrare le strade che conducevano al palazzo del Marino, ma le sbarre erano a gran pena difese.
Un'accidentale combinazione presentò alla milizia [28] un vantaggio decisivo sul popolo. Andavano le pattuglie, per un certo riguardo, colla punta della baionetta rivolta verso la canna del fucile, ma una di esse aveva i fucili tanto dalla ruggine investiti che non gli fu possibile di togliere dalle canne le baionette. Presentatasi in piazza s'intese un subitaneo fremito popolare, nel quale si distinguevano le parole: «a basso le baionette.» Il che non ottenutosi, furono tratti de' sassi sulla pattuglia; la quale essendo forte in numero, fattosi coraggio, abbassò le armi e corse a passo di carica sugli ammutinati, che si dissiparono all'istante. Questo primo esperimento felice fu efficace, perché si vedessero subito in aria le punte delle baionette di tutte le pattuglie, perché si disperdessero i crocchi, perché i piú rivoltosi pertinaci nella loro insolenza si arrestassero. Molti e ben molti arresti seguirono nel rimanente del giorno e durante la notte; molti la polizia trovò tra questi che, facinorosi e debitori di delitti anche gravi, eludevano da piú anni la sua vigilanza e che, fidati allora nell'anarchia e nell'impunità, erano accorsi, e forse stipendiati, al bottino. Cosí terminò, senza altri orrori, quella nera giornata, in cui ebbe luogo soltanto il saccheggio di altra casa di campagna del conte Prina. Frattanto arrivò nella notte un corpo di cavalleria italiana, parte della quale salvò dal proclamato spoglio la regia villa di Monza e parte rinforzò l'efficacia della milizia.
Cessato lo spavento per il temuto disastro, di cui massimo bersaglio sarebbero stati i ricchi, tra' quali entravano quelli stessi che il primo impulso gli dettero, riavutisi questi appena dall'allarme, riammessero nel giorno 22 di aprile la marcia rivoluzionaria, e tutto lo studio loro rivolsero a distruggere la costituzione ed a sollevarsi ad una chimerica sovranità. In quel giorno ebbe luogo la prima sessione dei Collegi elettorali, illegalmente convocati, piú illegalmente costituiti. I soli elettori milanesi, compresi alcuni pochissimi appartenenti ai dipartimenti non invasi i quali erano in Milano per funzioni governative, essi soli, in numero di circa settanta, disponendo della sorte del Regno come di una loro proprietà baronale, approvarono la Reggenza, a cui si riserbarono di aggiungere altri individui per li detti dipartimenti, dichiararono il general Pino comandante in capo delle forze dello Stato, sciolsero tutti i sudditi e tutte le autorità civili e militari dal giuramento verso il sovrano, ordinando che altro se ne prestasse giusta gli ordini della Reggenza. Dichiararono come non avvenuta la deputazione del Senato, che cessato dissero; ordinarono la dimissione dei detenuti per motivi di opinione, di coscrizione, di finanza; ed accordarono amnistia ai disertori e refrattarî. Situatisi quindi al livello dei governi del piú alto rango ed assunto il tuono ed il linguaggio de' primi gabinetti, decretarono che «si [30] avvertissero non meno i Comandanti delle Alte Potenze, che l'Armata Italiana della nomina fatta del general Pino, e che un indirizzo si facesse alle stesse Alte Potenze, pregandole a voler concorrere alla felicità del paese».
Le norme della felicità a cui aspiravano furono indicate e prescritte alle AA. PP. nella successiva seduta del giorno 23. Il Consiglier di Stato Lodovico Giovio, decorato della Corona di ferro, quegli che pochi giorni innanzi, nella qualità di Commissario di governo, aveva perorato ai popoli del Lario mostrando loro la convenienza di sostenerlo con ogni mezzo di contribuzioni e di soldati volontari, egli fu acclamato dagli elettori in presidente de' Collegi. Aprí la seduta insinuando ad essi, che «chiedessero istituzioni liberali, un capo indipendente che, nuovo, non conosciuto da noi... accolga i nostri voti e le nostre benedizioni».
Né a quelle insinuazioni furono sordi i Collegi, che in poche ore (senza neppure curarsi del lavoro e del rapporto di una commissione, giusta l'adottato costume dei corpi morali, anche in oggetti assai meno gravi) la base e l'impianto formarono dell'ideata costituzione. Incominciando da ciò, in cui non poteva nascere controversia e che era pure il fondamento della costituzione di Lione[34], dichiararono che la religione cattolica era la religione dello Stato, la quale poi in altra seduta dissero piú accuratamente che essere dovesse [31] la cattolica apostolica romana. Deliberarono quindi di chiedere alle Alte Potenze:
Primo: Assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano, che sarà per rappresentare il Regno d'Italia, con la stessa denominazione o con quell'altra che alle AA. PP. piacerà di darvi.
Secondo: La maggiore estensione di confini del detto nuovo Stato, combinabile cogli interessi e colle mire delle AA. PP. e colla nuova bilancia politica d'Europa.
Terzo: Una Costituzione liberale, che abbia per base la divisione dei poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, colla totale indipendenza di quest'ultimo; che ammetta una rappresentanza nazionale, cui spetti esclusivamente il formare le leggi e lo stabilire e regolare le imposte; che assicuri la libertà individuale, la libertà della stampa e del commercio; e che porti una stretta responsabilità negli incaricati de' rispettivi poteri.
Quarto: Facoltà di fare questa Costituzione ai Collegi elettorali.
Quinto: Un governo monarchico ereditario, primogenitale, e un principe, che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali sofferti durante l'ora cessato governo.
Anche piú estesi erano i desiderî degli elettori; ma furono avvedutamente moderati da qualcuno, il quale fece riflettere, nella sua saviezza, che non si dovesse poi legare le mani alle Alte Potenze [32] coalizzate. Si credette però ommesso, e fu aggiunto in altra seduta, che si chiedesse un «Principe nuovo onde allontanare ogni idea di desiderio e di affetto verso il cessato». Decisero pure di «pregare i Monarchi di concedere la libertà de' loro figli prigionieri, vittime da tanto tempo di una causa ingiusta». Combinarono finalmente che la Reggenza nominasse «una Commissione tra i cittadini piú distinti, per recarsi al quartier generale delle potenze, onde esprimere a quei Monarchi il vóto della rappresentanza Nazionale Italiana». La Commissione fu subito formata da un cittadino di Brescia e da altri cinque e da un segretario milanese. Fu il primo il sig. Marc'Antonio Fè, e furono gli altri i signori Federico Confalonieri, Giacomo Ciani, Alberto Litta, Giacomo Trivulzi, Pietro Balabio capo battaglione, oltre Giacomo Beccaria segretario, li quali all'istante partirono.
Mentre lo spirito di vertigine agitava cosí le teste milanesi, li conti Guicciardi e Castiglioni si trovavano ancora in Mantova, ove si erano recati per prendere le credenziali del Principe ed i passaporti dal F. M. Conte di Bellegarde e per recarsi indi a Parigi per la via piú sicura di Baviera, via che prima di essi avevano tenuta li deputati dell'armata, i generali Fontanelli e Bertoletti. Seppero eglino appena quanto era avvenuto di disgustoso nella capitale, che subito si restituirono ad essa, tuttoché non richiamati da alcuna lettera, [33] da alcun avviso officiale. Avevano già tenuto col principe Eugenio quel grave e dignitoso linguaggio, proprio di due personaggi, di cui è stata sempre unica scorta l'onore e la lealtà. Continuando nel medesimo contegno, credettero di prendere congedo da lui e dispensarsi definitivamente sulla deputazione; ma invece di meritare cosí l'elogio dei milanesi, si videro investiti al ritorno da calunnie le piú impudenti. Non tardò il conte Guicciardi a garantirsene con un'apologia che presentò alla Reggenza, onde avere il permesso di pubblicarla colla stampa. La giustificazione fu ben accolta ed elogi sommi si prodigarono alle eminenti sue qualità personali, non che al contegno da lui tenuto in qualità di senatore, di deputato; ma la stampa non si permise, per la addotta ragione che «con ciò si farebbero rivivere delle animosità che si vogliono sopite, si urterebbe col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose avvenute». È pure necessario alla storia che ora tal memoria e la lettera della Reggenza siano conosciute, ed è perciò che si inseriscono ai num. 6 e 7.
Se il Principe Eugenio avesse fatto marciare sopra la capitale una porzione delle truppe italiane che restavano sotto i suoi ordini, poteva reprimere i sediziosi e restituire l'ordine facilmente; ma, riflettendo che con l'abdicazione di Napoleone era terminata la sua rappresentanza come [34] Viceré, deliberò di abbandonare il Regno e di restituirsi in Baviera e poi in Francia; lasciò che l'ordine fosse ripristinato dalle armi di S. M. l'Imperatore d'Austria, al quale oggetto combinò nel dí 23 aprile una seconda convenzione col F. M. Conte di Bellegarde, in forza di cui, e non mai delle non valutate deputazioni spedite dalla Reggenza alli diversi corpi delle armate alleate, prese questi possesso della capitale e dei paesi non ancora occupati. Difatti il generale Sommariva, giunto in Milano nel dí 25, scrisse alla Reggenza che in vista di essa capitolazione spiegava la sua qualità di Commissario delle AA. PP. e si poneva alla testa di tutte le Autorità. Ciò, a dire il vero, non fu grato ai sovrani novelli, a' quali molto meno fu accetto l'ingresso successivo delle armi austriache in Milano. Si trovò scritto a grandi caratteri, in tutti i quartieri di guardia civica, le parole: O indipendenza, o morte. Il Giornale Italiano, redatto e pubblicato sotto l'influenza e sotto la sorveglianza del Governo, come foglio officiale, nell'annunziare l'arrivo di dette truppe disse, che «la Guardia Civica ed una numerosa folla di popolo le accolsero con quelle dimostrazioni di gioia e di gratitudine ch'eccitar dee da per tutto la presenza di guerrieri che hanno tanta parte nella pacificazione dell'Europa; ma conservarono nello stesso tempo quel nobile contegno, che caratterizza una nazione il cui primo vóto è l'indipendenza».
Tanto e cosí gagliardo era in que' giorni il riscaldamento e il fanatismo da far pietà. Non risparmiando i Collegi alcuna delle attribuzioni sovrane, avevano annullato nella seduta dei 25 i celebri decreti di Berlino e di Milano[35] ed i relativi regolamenti; imponendo restrizioni preventive al loro Monarca, cui non si faceva torto, subito che nuovo doveva essere e non conosciuto, gli avevano limitato la riserva della caccia di Monza al solo parco, escluso il circondario esterno, ed alle sole valli ed ai boschi del Ticino. Avevano abolite diverse leggi penali, avevano dichiarata la cessazione del Senato ed avocata alla Nazione la sua dotazione, la cessazione del Consiglio di Stato con la sua segreteria, delle cariche di ministri e di consiglieri di Stato.
Questi elettori, che tanto di Nazione parlavano, non sono giunti mai a numero maggiore di 170. Erano 1153 gli elettori di tutto il Regno ed in forza della costituzione[36] doveva concorrere almeno un terzo perché fosse valida la convocazione. Anzi che giungere a questo prescritto numero, fu anzi tanto maggiore la nullità delle sessioni, perché tutti e dotti e commercianti del dipartimento di Olona vi concorsero, e dagli altri dipartimenti non si chiamarono che i possidenti, il che non fu senza grande artifizio, per la tema che persone intelligenti, saggie e non calde, non frastornassero col numero i concepiti giganteschi progetti. [36] Quanto goffamente presumesse una tale assemblea rivoluzionaria di distruggere i primi corpi del Regno, è dimostrato nella nota inserita in calce di questa memoria, al num. 8, la quale fu offerta all'Austriaca autorità dal presidente e dal cancelliere del Senato.
Il F. M. Sommariva, cui si presentò una deputazione de' Collegi, fece conoscere la poca sua soddisfazione che questi continuassero ne' loro lavori, acconsentí soltanto a di loro preghiera che alcun'altra seduta a propria convenienza tenessero, senza però nulla risolvere e determinare. L'ultima si convocò nel giorno due di maggio, in cui gli elettori dichiararono «aggiornate le loro operazioni fino al ritorno della deputazione diretta agli Augusti Sovrani, e finché per parte de' medesimi non siano intervenuti interessanti dispacci». Dichiararono infine che «l'esercito italiano ha sempre meritato della patria.» La sessione fu chiusa con un discorso del presidente, di cui fu acclamata la stampa. Mi sia permesso di ripeterlo per intiero, affinché meglio si riconosca [37] fino a qual esaltazione si delirasse in quel corpo. — I Collegi elettorali hanno saviamente determinato, nella seduta di ieri l'altro, dichiaratisi permanenti, di aggiornarsi fino a che, diradandosi il velo politico del nostro orizzonte, possano ancora riunirsi ad operare il bene, e a tutte realizzare le concepite liete speranze. Nell'atto che manifesto a' Collegi la somma mia gratitudine per l'immeritata onorificenza, ancora trepidante per l'incertezza di avere anche scarsamente corrisposto a tanta fiducia, fo mozione che venga indirizzato alla Reggenza un messaggio, in cui, dandole parte della sospensione dei nostri lavori, accolga fortemente i voti unanimi dei Collegi elettorali per la sua indipendenza, senza la quale non v'è né bene, né patria. Sia questa, mercé la protezione delle Alte Potenze alleate, dalle sue rovine ricomperata, e possa sotto un virtuoso indipendente Governo gloriosamente operare.
Anche un'altra volta figurò, non piú, la rappresentanza elettorale, allorché si recò in deputazione al F. M. Conte di Bellegarde, nel giorno dieci di maggio, giorno successivo al suo ingresso in Milano. Anche un'altra volta eloquentissimamente arringò il presidente Giovio, e pronunziò parole, che a tutt'altro che ad un consigliere di Stato convenivano, il quale tanta influenza aveva avuto nelle operazioni tutte del cessato governo. Il voto generale, che vi manifestiamo (disse egli al F. M.), si è l'indipendenza protetta da savie leggi e da un principe, che tutte accolga le nostre benedizioni. Pervenga questo nostro ardente desiderio agli Augusti Sovrani alleati. Non è egoismo, né orgoglio che domandare ne faccia una esistenza politica alla loro generosità, ma un sentimento caldissimo degno d'ogni animo virtuoso, quello di assicurare la felicità di un buon popolo che ha lottato finora con ogni sorta di mali.
Dopo quindici giorni sparí del tutto l'illusione dell'indipendenza italiana; con proclama de' 23 maggio il F. M. Conte di Bellegarde solennemente promulgò che non piú in nome delle Alte Potenze coalizzate, ma bensí per il suo sovrano e padrone l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia, riteneva Milano e le annesse provincie. Dichiarò nel tempo stesso, che da quel giorno cessava l'attività e l'influenza de' Collegi, non meno che del Senato e del Consiglio di Stato, e soppresse in seguito la guardia civica. Cosí palesò che il suo governo in niun conto aveva tenuto l'abolizione dei due primi corpi dello Stato, che con tanto strepito e trionfo si era operata dall'assemblea milanese. Essi sono cessati per effetto di sistema, e non per il capriccio e l'animosità di pochi elettori.
La sola Reggenza rimase, di cui alla testa si pose il Maresciallo col carattere di Commissario plenipotenziario. A compimento della storia resta pure, che si dia qualche cenno degli atti di questa provvisoria magistratura composta in origine di sette cittadini milanesi, alli quali nel dí 25 aprile associarono i collegi, con non giusta proporzione, altrettanti individui per gli altri sette dipartimenti. Gli oggetti di finanza richiamarono le prime cure della Reggenza. Essa trovò alla sua installazione che il generale Pino, il Podestà e il Consiglio comunale avevano ridotti a metà i prezzi del sale, [39] del tabacco e la tariffa dei dazî consumo; a ciò essa aggiunse l'abolizione totale della legge del registro, e nel dí 23 aprile diffuse a tutti i dipartimenti tali provvidenze, con aver anche ristretto a due sole terze parti il dazio sulle derrate coloniali, compreso lo zucchero. Limitò quindi a metà la tassa delle lettere; annullò quella del contributo delle arti e mestieri, e cosí pure la ritenuta del quinto sul soldo della truppa, decretata durante la guerra, ed ordinò la pronta liquidazione dell'arretrato credito dei militari, onde fissare poi pel medesimo le epoche di pagamento. Queste misure furono figlie della circostanza e del timore, poiché ben presto reintegrò il registro per la tassa degli atti giudiziali in aumento dei dritti di cancelleria, ed anche il registro delle scritture private, limitato però al solo dritto fisso. Pubblicò nuove tariffe sul prezzo de' sali e dei tabacchi, sulli dazî di consumo e sopra i dritti doganali per l'importazione ed esportazione delle derrate, mercanzie ed altri generi. La soverchia indulgenza de' primi giorni fece sí che si dovesse mantenere per li mesi di maggio e di giugno la prediale all'eccessivo rigorismo a cui fu portata dal decreto de' 6 aprile 1814.
Procedette ad altre innovazioni, parte di propria autorità, parte in esecuzione della volontà dei Collegi. Accordò amnistia ai disertori, ai refrattarî, ai condannati o detenuti per oggetti di coscrizione, [40] di finanza, di opinione e di trasgressione alle leggi e regolamenti sulle caccie. Riformò in qualche parte il catechismo del cardinale Caprara, restituí alle proprie case i figli unici e parificati agli unici e ai sostegni delle famiglie, requisiti per le armate. Abolí le Corti speciali, e cosí la pena della berlina alle donne, non che agli uomini per i delitti importanti la sola pena di reclusione.
Fece promozioni e destituzioni; promosse il generale di brigata Mazzucchelli a generale di divisione, richiamò e pose in attività di servizio il generale polacco Dembowski, rilasciò brevetto di capo squadrone al poeta autore de' Sepolcri e dell'Aiace. Riformata per effetto di sistema la direzione generale di polizia, promosse il conte Luini a consigliere di cassazione; ha poi destituito dal ministero della guerra il generale di divisione conte Fontanelli ed il suo segretario generale e dalla prefettura di polizia il signor Giovanni Villa. Si era fatto lecito quest'ultimo di indagare e porre in prospettiva le tracce e l'andamento della rivoluzione del venti aprile, con aver sottoposto ad inopportuni interrogatori i già arrestati in quel giorno dalle civiche pattuglie, tra i quali erano anche i piú acclamati rapinatori della sostanza Prina e molti dei stipendiati sicari. Questi furono restituiti in libertà, e fu dal suo officio rimosso l'arbitrario prefetto, che osava cosí di «far rivivere [41] delle animosità che si volevano sopite, ed urtava col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose avvenute» (v. il documento num. 7).
Furono finalmente ringraziati dalla Reggenza tutti i Francesi ed i Corsi che prestavano servizio all'armata, e furono dimessi tutti gl'impiegati oriundi di paesi che non hanno mai appartenuto al Regno d'Italia, o che hanno adesso cessato definitivamente di appartenervi, misura che solleva forse la finanza, ma non la gran famiglia de' cittadini, perché sarà ben maggiore il numero degli impiegati ne' suddetti paesi, che per giusto riverbero sono stati rimandati e si rimanderanno. Pareva inverosimile che in questa misura siano stati compresi i professori dell'università di Pavia e de' licei. Veramente gli uomini dotti sono stati sempre riputati cittadini indistintamente di ogni angolo della terra, ed è questa l'ultima volta che di essi si ricerchi la patria, e non i soli talenti, i lumi ed il bene prezioso dell'istruzione, che procurar possono ai consimili.
Ed ecco posta nella sua luce originale una serie di fatti, che non possono evitare una particolare menzione ne' nostri annali. Ne' primi giorni di fermento rivoluzionario si gloriarono i cittadini milanesi, ed i piú distinti, d'aver essi personalmente operato gli eccessi del venti aprile. Sono arrivati a far intagliare e pubblicare una stampa, [42] in cui si vede l'infelice Prina in atto di essere gittato dalla finestra per opera, non della plebe, ma di soggetti nobilmente vestiti, e di essere accolto in istrada colle punte delle loro ombrelle da altri personaggi in egual vestiario. Quindi, sentito il fremito d'indignazione di tutti i buoni, ed andati a vuoto tutti i loro progetti, si sono coperti di tanta vergogna, ed hanno fatto inserire in Parigi, nel Journal des Débats, che i milanesi non hanno preso parte ne' suaccennati disordini. È nato da questa mendace impudenza che in questa memoria siano stati nominati individualmente i soggetti che hanno pubblicamente figurato in essi. Cosí la storia imparziale non mancherà delle necessarie nozioni e di monumenti irrefragabili, onde assegnare a ciascuno il meritato tributo di lode o di biasimo.
Relazione della seduta del Senato Consulente del Regno d'Italia, tenuta nel dí 17 aprile 1814.
Prima della convocazione del dí 17, niuno de' senatori ne conosceva l'oggetto, se quei pochissimi si eccettuano che facevano parte del governo, e che l'intima confidenza godevano de' principali agenti del medesimo. Tutti erano al buio della politica situazione del regno. Privi da lungo tempo dei giornali ed anche delle lettere di Francia, diverse erano le voci, che incerte e contradditorie correvano. Altri davano Napoleone alla testa di potente esercito, assistito anche dall'insorgenza di piú provincie; altri lo dicevano morto; altri che avesse abdicato impero e regno; altri a favore della dinastia. Si fluttuava in questa incertezza; allorquando i conti pretori del Senato intimarono nel giorno 16, con la solita lettera, l'ordinaria seduta del giorno 20: ed allorché con lettera pressante diretta successivamente ai senatori poche ore innanzi la mezzanotte del giorno stesso, li chiamarono ad altra convocazione straordinaria per il dí successivo. Continuò ad esserne ignoto l'oggetto anche negli ultimi momenti che la precedettero; si osservò solo che tutti, contro il solito, erano intervenuti i senatori nel numero di 36, compresi i due ministri della giustizia e delle finanze, oltre il conte Vaccari ministro dell'interno, [44] sebbene come non senatore non vi avesse voce deliberativa: non mancavano che cinque membri assenti ed il conte di Breme che si disse ammalato.
Il conte Veneri, presidente, aprí la seduta coll'aver raccomandato e fatto promettere il piú rigoroso silenzio in tutti gli oggetti che si fossero proposti, discussi e risoluti. Quindi passò a leggere, 1. una lettera del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della corona, data il dí 16, in cui lo autorizzava a convocare straordinariamente il Senato; 2. il messaggio che qui si unisce, lett. A; 3. un progetto di decreto, che parimenti viene qui allegato, lett. B. Alla replicata lettura di tali fogli, la di cui sostanza era di spedire a S. M. l'Imperatore d'Austria una deputazione, onde implorare la cessazione delle ostilità, l'indipendenza del regno, con il principe Eugenio in re d'Italia, alcuni senatori chiesero simultaneamente la parola. L'ottenne il primo il conte Guicciardi, il quale propose di fare precedere in ordine l'esame se era costituzionale la convocazione, non vedendo facoltà sufficiente nel cancelliere guardasigilli. Fece riflettere, che questi male a proposito si qualificava nel messaggio qual rappresentante lo Stato, mentre tutto al piú poteva rappresentare il governo, e finalmente fece istanza che prima di procedersi ad alcuna discussione, si procurasse di sapere se il regno era veramente vacante, cioè se il re vivesse, se avesse, ed in quali termini, abdicata la corona. L'ottenne il secondo il conte Dandolo, il quale dimostrò, che in affare tanto grave, quanto ne fosse mai stato portato al Senato, non si doveva passare ad alcuna proposizione, se prima non fosse sottoposta alla matura analisi di una commissione, alla quale si accordasse almeno lo spazio di due giorni. A tali mozioni interpolatamente risposero il conte Paradisi, il conte presidente Veneri e il conte ministro dell'interno. Dissero che l'espressione rappresentante lo Stato era corsa per equivoco, e si sarebbe corretta; che il duca di Lodi era munito di tutte le facoltà, [45] che avrebbe resa ostensibile, quando si fosse voluto, una lettera di S. A. I. il principe Viceré, e che su gli altri fatti non chiari ancora, il Senato poteva somministrare lumi piú positivi. Il presidente Veneri propose come piú conveniente, che l'affare fosse discusso in comitato segreto, e cosí si prendessero momentaneamente quelle saggie e prudenti determinazioni che si credessero del caso. Si oppose il conte Guicciardi, mostrando che non si era mai praticato nel corpo il metodo del comitato segreto, il quale non era additato né dal sesto statuto costituzionale, né dal regolamento organico delli 9 novembre 1809. Appoggiò quindi la mozione del conte Dandolo, con l'aggiunta che la commissione si occupasse dell'affare, non meno in ordine che in merito, presi prima gli opportuni schiarimenti dal duca di Lodi. Il conte Vaccari, appoggiato dalli conti Veneri e Paradisi, aggiunse che la commissione poteva pure aver luogo, giacché si voleva, ma che onninamente doveva riferir e prendersi una risoluzione in giornata. In tale circostanza palesò che S. A. I. aveva combinato un armistizio con S. E. il generale Bellegarde, sotto la condizione, che si fosse spedita una deputazione in Francia, sino al risultato della quale si sarebbero sospese le ostilità, e che dalla nomina di tale deputazione dipendeva l'attuale esistenza politica del regno, e la concessione di uno spazio alle negoziazioni, mentre senza di essa era inevitabile l'invasione immediata della capitale. Asserí inoltre, che l'armata aveva acclamato il principe Eugenio, il che non era senza fondamento, sapendosi i movimenti promossi in Mantova da alcuni capi.
Questo riflesso quietò i molti che opinavano per la totale esclusione del progetto. Fu posto alle voci, se piacesse la commissione secondo le massime esternate dal conte Guicciardi, e fu approvata. Si chiese se doveva essere di cinque membri e si rigettò; se di sette, e vi si convenne. La commissione pertanto fu nominata, per via di schede, nelle persone delli signori Guicciardi, Bologna, Cavriani, [46] Castiglioni, Costabili, Verri e Dandolo. Si noti che la pluralità dei suffragi escluse dalla medesima ognuno di quei senatori che aveva opinato per il comitato segreto, o che aveva perorato in sostegno del progetto del duca di Lodi, o aveva mostrato adesione al medesimo. Il presidente invitò i membri della commissione a dare il loro rapporto nello stesso giorno, alle ore 8 della sera.
Adunatasi questa, all'istante combinò concordemente, che tre de' suoi membri, li signori Guicciardi, Verri e Dandolo, si recassero subito dal duca di Lodi, per porsi al giorno di quanto occorreva. Si prestò subito il duca alle ricerche; giustificò la sua autorizzazione con un decreto di antica data del re, che, nell'assenza del Principe Viceré, gli conferiva amplissime facoltà, tra le quali egli intendeva che anche quella vi fosse compresa di convocare il Senato. Mostrò loro una lettera di S. A. I., in cui gli partecipava di andare a segnare un armistizio, da durare fino all'esito delle negoziazioni da intraprendersi da una deputazione, che il regno avesse spedito alle AA. PP. Alleate, e parlava pure dell'unione del Senato per la nomina dei deputati. Molte e ben molte ragioni addusse inoltre per determinare l'adesione del Senato al suo progetto.
La commissione, ciò inteso dalli suoi tre membri, convenne unanimemente sulla necessità di occuparsi sul merito dell'affare, e passò a redigere un nuovo progetto che era nelle considerazioni e negli articoli differente di quello già proposto al Senato, a cui nella stessa sera fu letto dalla tribuna. Conteneva in sostanza: 1.º, che si spedissero tre deputati, in nome del Senato, alle Alte Potenze, per presentare loro i suoi omaggi, e supplicarle per la finale cessazione delle ostilità; 2.º, per chiedere che il regno fosse ammesso al godimento della sua indipendenza; 3.º, che il Senato coglieva quest'incontro per rinnovare a S. A. I. il principe Eugenio i sentimenti dell'alta sua stima e del piú sincero attaccamento.
Alla lettura di un tale rapporto fu grande la commozione di alcuni, massima poi quella del conte Paradisi e del ministro Vaccari. Dissero apertamente che, esclusa la domanda di S. A. I. in Re d'Italia, era inutile l'oggetto della controrisoluzione, e che l'intruso complimento era piuttosto ingiurioso. Il conte Paradisi ricercò che si leggesse di nuovo il progetto del cancelliere guardasigilli. Questo e l'altro furono letti piú volte. A ciò successe una ben lunga discussione, nella quale presero parte, da un lato, il presidente, Paradisi, i ministri Prina e Vaccari, e dall'altro, Guicciardi, Dandolo, Massari, Verri, Castiglioni.
Fra le altre opposizioni del conte Guicciardi vi fu quella, che i senatori attaccati da un giuramento all'osservanza de' statuti costituzionali, non potevano dimenticare il primo ed il quarto tra essi, li quali accordavano la successione, in preferenza di un adottivo, ad un figlio legittimo naturale del Re, quando non sia per portare nel suo capo la corona di Francia, e che era tra i possibili, che questo caso si verificasse nel Re di Roma. Motivò in risposta il conte Prina, un nuovo articolo da lui redatto in questi termini: «È incaricata la deputazione di far conoscere alle AA. PP. il dritto eventuale acquistato dal principe Viceré alla corona d'Italia in forza del primo e del quarto statuto costituzionale, diritto reso piú sacro dall'amministrazione, dalla gratitudine, dai voti e dal desiderio della nazione». Con molte ragioni dimostrò il conte Guicciardi, che non era lecito di porsi in campo il dritto eventuale, finché non fosse escluso il positivo, ed accennò l'inconvenienza di ricercare alle potenze alleate, e specialmente all'Austria, il principe Eugenio in sovrano. Il conte Massari insistette che non si dovesse improntare il nome della nazione; ma solamente quello del Senato, qualunque fosse la sua deliberazione. Il conte Verri fece delicatamente conoscere d'essere in dubbio che in questo momento concorressero a favore del principe i suffragi della nazione.
Dopo lungo dibattimento si decise di porre prima a partito il progetto della commissione, il quale, qualora non fosse accettato, poteva mettersi alle voci il progetto del duca di Lodi, e cosí le modificazioni proposte. Il conte Dandolo fece istanza che ciascuna delle proposizioni subisse lo sperimento dello scrutinio segreto per via di ballottazione. Il conte Presidente si rifiutò, avendo ordinato che i singoli dassero apertamente i loro voti per alzata in piedi e seduta, e con tal metodo la massima parte dei Senatori approvò le considerazioni e gli articoli dalla commissione proposti. Il solo terzo articolo subí la seguente modificazione, proposta dal conte Moscati, e redatta dal conte Mengotti: «Li deputati saranno incaricati di presentare in quest'occasione alle AA. PP. li sentimenti di ammirazione del Senato per le virtú del principe Viceré, e della sua viva riconoscenza per il di lui governo» (Allegato lettera C). Qui fu che gli individui del contrario sentimento, e sopratutti il conte Vaccari, si diedero a declamare fortemente contro l'ingiustizia e l'ingratitudine del Senato. Tacquero gli altri, ed ognuno si fece un riguardo di non dar luogo a contestazione in quest'argomento. Chiese la parola il conte Luosi, ed espose che, sebbene non si potesse piú proporre il progetto del duca di Lodi, come contradetto dall'altro adottato, pure gli sembrava che non fosse in opposizione con questo l'articolo redatto dal conte Prina, sul dritto eventuale del principe Eugenio. Domandò ed ottenne di interpellare su di esso la volontà del Senato, ma essendo stato confutato di nuovo dal conte Guicciardi, fu posto alle voci e fu escluso.
Altro allora non restava che la nomina dei deputati. Il conte Paradisi credette di proporre, che gli sembrava opportuno di rimettere la scelta di essi alla prudenza del governo. Questa istanza non si poté porre in deliberazione, perché un grido generale la escluse appena pronunciata. [49] Posteriormente poi si vociferò che il governo aveva destinato di spedire lo stesso conte Paradisi ed il conte Prina. Si passò dunque allo scrutinio e dallo spoglio delle schede risultò che il conte Castiglioni fu contemplato da 27 voti, il conte Testi da 25, Guicciardi da 23. L'ulteriore maggioranza de' voti concorse nel conte Paradisi il quale però non fu favorito che da sei solamente.
Il conte Testi si scusò di non poter presentarsi a tale onorifico incarco, per la sua manifesta malattia d'occhi. Il conte Guicciardi soggiunse, che se ammettevano scuse egli era il primo a proporre le sue, perché ognuno conosce le fisiche indisposizioni che soffre, non che il danno nell'allontanarsi da una famiglia di 14 figli. Alle rispettive deduzioni credette d'imporre silenzio il conte Presidente, col pronunziare che la seduta era sciolta; rispose alcuno che era in sua facoltà il chiudere la discussione, e passare la proposizione, se avesse avuto il suo sfogo. Egli però ripeté piú volte, che credeva di essere investito di tale facoltà, e perciò dichiarava onninamente sciolta la seduta. Non si poté insistere in ciò, perché i conti Paradisi e Carlotti erano partiti, e sebbene dagli uscieri richiamati, non furono raggiunti.
Messaggio del duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli della Corona.
Senatori,
Le nuove che ci pervengono ogni dí dalla Francia sono di tale natura, che il Senato del Regno d'Italia si renderebbe infallibilmente colpevole verso la patria, se differisse piú a lungo di occuparsi del di lei destino, e di cercare [50] nella sua saviezza que' mezzi migliori di conciliare la sua esistenza.
Un accesso di gotta, che questa notte mi ha assalito, è cagione, o senatori, ch'io non possa oggi recarmi in persona nel vostro seno, come mi era proposto, e provo di questa circostanza un profondo rammarico.
Ma tutti gli istanti sono talmente preziosi, che ho giudicato di non poter differire oltre la comunicazione, che doveva farvi. In conseguenza, autorizzato nella mia qualità di rappresentante lo Stato, in assenza di S. A. I. il principe Viceré, vi dirigo, o senatori, un progetto di risoluzione, che sottopongo al vostro patriottismo ed ai vostri lumi, e sul quale invoco da voi una pronta deliberazione.
I sentimenti che vi animano tutti mi garantiscono già, o senatori, che la vostra risoluzione sarà conforme ai veri interessi dello Stato, ed ai voti del popolo, di cui siete oggi il primo corpo rappresentante.
Aggradite, o senatori, l'espressione della mia alta considerazione.
Milano, li 17 aprile 1814.
Per ordine di S. E. il Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli, impedito dalla gotta alla mano destra.
Firmato Carlo Villa, Segretario.
Progetto di deliberazione del Senato, unito al messaggio del Duca di Lodi.
Il Senato del regno d'Italia:
Considerando, che le circostanze politiche d'Europa sono intieramente cambiate, che le AA. PP. alleate hanno solennemente proclamata la pace del mondo, e che non si [51] potrebbe senza ingiustizia temere che volessero eccettuare dalle loro benefiche intenzioni un regno che lontano dall'averle mai dato verun motivo di malcontento, professa per esse quei sentimenti che le sono dovuti;
Che di già è venuto il momento nel quale il regno può e deve sollecitare l'indipendenza della quale è degno e che sospira da cosí lunga stagione;
Che non di meno le truppe di una di queste potenze occupano una parte del regno, e minacciano in questo stesso momento il rimanente del suo territorio;
Che la potenza, alla quale appartengono queste armate, è precisamente quella sulla benevolenza di cui il regno d'Italia è assueffatto ed ama di contare di piú;
Che finalmente nello stato attuale di cose, la continuazione della guerra sul nostro territorio Italiano sarebbe senz'oggetto, e ciò null'ostante accrescerebbe le calamità, che da lungo tempo affliggono il regno;
Decreta:
Art. 1. Una deputazione del Senato si recherà senza dilazione presso S. M. l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia, affine di presentarle i rispettosi omaggi del Senato, e di supplicarla d'ordinare, che cessino da quel momento tutte le ostilità sul territorio italiano, e sino a tanto che il destino d'Italia sia stato definitivamente stabilito dalle AA. PP. coalizzate.
2. S. M. l'Imperatore d'Austria sarà egualmente supplicata di volere interporre la possente sua mediazione appresso i suoi augusti alleati, perché l'indipendenza del regno sia finalmente consecrata e riconosciuta, e che il regno sia ammesso a godere dei benefici tutti che le AA. PP. disegnano di spargere sopra la grande famiglia.
3. Che S. M. sarà egualmente supplicata di concorrere con tutto il suo interesse presso gli Augusti Alleati suoi, perché il Regno d'Italia, ricevendo in fine in tutta la sua [52] estensione, l'applicazione del suo primo e quarto Statuto costituzionale, sia sottomesso una volta a un Re libero e indipendente, e segnatamente al principe Eugenio, che colle sue virtú, co' suoi lumi e colla sua onorevole condotta, tanto in pace che in guerra, ha meritato del pari l'amore, la riconoscenza e la fedeltà dei popoli del Regno d'Italia, ed anche la stima di tutta l'Europa.
Fatto e deliberato in Senato, nel palazzo ordinario delle sue convocazioni.
Decreto adottato dal Senato.
Il Senato radunato nel numero prescritto dall'art. 29 del sesto statuto costituzionale.
Sentita l'esposizione del cancelliere guardasigilli della corona, sulle attuali circostanze e sulla necessità di una istantanea providenza;
Considerando che le AA. PP. alleate hanno proclamata la pace del mondo, e che quindi si avvicina la fortunata epoca in cui i popoli dell'Europa, dopo tante dolorose vicende potranno godere dell'insigne beneficio di liberali costituzioni;
Che in tali circostanze, la continuazione della guerra nel territorio italiano non ha piú alcuno scopo, e che anche questo regno può e deve sollecitare il godimento dell'indipendenza, e la calma che da sí lungo tempo sospira e che gli fu garantita ne' pubblici trattati;
Che in una convenzione fra le armate del regno e quelle delle AA. PP. alleate, è stabilita una provvisoria sospensione d'armi, che deve durare fino al ritorno di una deputazione del regno, che sarà spedita alle suddette AA. PP. alleate.
Ritenuta l'iniziativa per la convocazione della presente seduta straordinaria risultante da' dispacci del cancelliere guardasigilli:
Decreta:
Art. I. Una deputazione del Senato, composta di tre individui, si recherà presso le AA. PP. coalizzate, affine di presentare loro i rispettosi omaggi del Senato, e supplicarle per la finale cessazione delle ostilità.
» II. La deputazione richiederà alle AA. PP. che il regno venga ammesso al godimento reale della sua indipendenza, garantita da' pubblici trattati.
» III. Li deputati saranno incaricati di presentare in questa occasione alle AA. PP. i sentimenti di ammirazione del Senato per le virtú del Principe Viceré, e della sua riconoscenza per il di lui governo.
» IV. I membri di questa deputazione saranno nominati dal Senato, seduta stante.
» V. Il cancelliere guardasigilli della corona sarà pregato di dare ai medesimi le opportune istruzioni, e procurare le necessarie credenziali e passaporti.
» VI. Il presente decreto sarà spedito al cancelliere guardasigilli, con messaggio del presidente, anche all'oggetto che sia col di lui mezzo trasmesso al Principe Viceré in nome del Senato.
Milano, dal Palazzo del Senato, li 17 aprile 1814.
Firmato, il presidente ordinario
Conte Veneri.
Conte Lamberti | } | Segretari |
Conte Mengotti |
Successivamente essendosi messa alle voci la nomina dei deputati, dallo scrutinio delle schede risultarono nominati i Senatori conti Guicciardi, Castiglioni e Testi, il quale ultimo si è scusato a motivo dell'attuale sua malattia d'occhi.
Milano, dal palazzo del Senato 17 aprile 1814.
Firmati come sopra.
Istruzioni di S. E. Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli della Corona del Regno d'Italia, partecipate alli deputati del Senato, signori Conti Guicciardi e Castiglioni.
Non avendo in questo momento il Regno d'Italia corrispondenza colle corti di Russia e di Prussia, e non potendosi nella circostanza attuale, a seconda di quanto ha assicurato il sig. Conte Senatore Testi, incaricato del portafoglio delle relazioni estere, rilasciare credenziali nelle solite forme, si è supplito colla qui unita lettera di credito per il signor Principe di Metternich, ministro di Stato di S. M. l'Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria e di Boemia; i signori deputati si recheranno in Mantova per ricevere da S. A. I. il Principe Viceré i necessari passaporti e lettere di credito presso gli altri sovrani alleati. I signori deputati si presenteranno colla suddetta lettera al signor Principe di Metternich, domanderanno al medesimo di essere presentati a S. M. l'Imperatore d'Austria, ed insisteranno in seguito per essere presentati agli altri sovrani alleati.
I signori deputati domanderanno a S. M. l'Imperatore d'Austria, perché venga consacrata l'indipendenza del regno d'Italia, già stata riconosciuta, e garantita l'integrità del suo territorio a termini dei trattati, e specialmente di quello di Luneville.
Nel caso che i signori deputati si accorgessero che vi fossero delle difficoltà su questo articolo, perché le potenze alleate avessero già diversamente disposto del territorio Modenese, faranno osservare tutti gl'inconvenienti che ne [55] deriverebbero da questo distacco, il quale mentre priverebbe il Regno d'Italia di una diretta comunicazione colle legazioni, stante l'impraticabilità delle strade del Ferrarese per gran parte dell'anno, gitterebbe lo Stato di Modena, già unito al Regno d'Italia dal trattato di Luneville, ed accostumato alla legislazione ed alli metodi del Regno, in una vera confusione, cosicché sarebbe assai piú conveniente all'interesse delle AA. PP., di sostituire ne' compensi stabiliti un altro stato.
Qualora i deputati trovassero insuperabile questo punto, insisteranno perché venga accordato al Regno d'Italia un compenso, il quale potrebbe essere gli Stati di Parma e Piacenza, con una porzione di Genovesato, compresa la città di Genova, ed una linea del Piemonte per una facile comunicazione.
I deputati non mancheranno di far sentire, che uno dei primi oggetti, che la nazione si propone nel chiedere il riconoscimento solenne della sua indipendenza, è quello di darsi una costituzione conforme ai veri principi, ed ai suoi bisogni naturali, e tale da assicurare la sua felicità.
I deputati insisteranno pure perché lo Stato d'Italia conservi sotto le forme suddette il titolo di Regno, il quale era già stato riconosciuto da tutte le potenze, e che non ha meritato di perdere.
I deputati cercheranno prudentemente di mettersi in corrispondenza co' ministri del Regno in Parigi, onde valersi dei loro lumi e notizie; in tutti i casi poi non preveduti, i deputati si regoleranno con la conosciuta loro saviezza e prudenza.
Milano, 18 aprile 1814.
Per ordine di S. E. il Duca di Lodi, impedito dalla gotta alla mano destra.
Firmato Carlo Villa, Segretario.
Credenziale di S. E. il signor Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli, diretta a S. E. il signor Principe di Metternich onde accreditare presso di lui i deputati del Senato, Conti Guicciardi e Castiglioni.
A S. Ex. monsieur le Prince de Metternich, Ministre d'État de S. M. l'Empereur d'Autriche.
Monsieur le Prince,
Dans le moment dans lequel les intérêts de ma patrie me mettent dans le cas d'invoquer pour elle l'intervention de V. Ex. en sa faveur, il est bien doux pour moi de pouvoir me rappeler l'époque à laquelle j'ai eu le bonheur de faire sa précieuse connaissance.
Entraîné dans une guerre qui ne le regardait pas, le royaume d'Italie a dû passer par tous les malheurs qui en sont la conséquence; mais les événemens qui ont changé la face des choses en France, et doivent nécessairement influer sur tout le reste de l'Europe, lui présentent enfin une perspective heureuse, et l'espoir fondé de jouir de ses droits et de son indépendance, que les traités ont reconnue. Le vœu de la nation est tout-à-fait conforme aux principes proclamés par les Hautes Puissances coalisées: l'on réclame l'indépendance reconnue spécialement dans le traité de Lunéville, et l'étendue de territoire qui lui fut alors assignée; que si, par des combinaisons quelconques, une partie de ce territoire dût en être séparée, la nation se croit fondée à en demander la compensation. L'on desire, [57] pour premier fruit de son indépendance, d'établir sa constitution sur le vrai principe, et d'une manière plus conforme aux intérêts du pays, sous le gouvernement d'un roi indépendant.
La première démarche que dans cette position nous avons cru devoir faire, a été celle d'apporter nos vœux avec confiance aux pieds des Hautes Puissances coalisées, et principalement à ceux de S. M. l'empereur d'Autriche, dont la rectitude nous est depuis long-temps connue, et dont nous avons toujours éprouvé la bienveillance. Le Sénat du royaume d'Italie, en conséquence, a nommé les comtes sénateurs Guicciardi (Diego) et Castiglioni (Louis), députés auprès d'elles pour les leur présenter. Je prends la liberté d'adresser à V. Ex. ces députés, et de les recommander à sa bonté. Les circonstances qui ont brisé chez nous les formes établies, me font espérer que V. Ex. voudra les regarder comme accredités par cette lettre auprès du gouvernement autrichien. Ses nobles principes me sont trop connus, pour que je ne doive pas fonder mes espérances pour son intervention efficace, dans une circonstance où il s'agit des droits et du bonheur d'une nation qui n'a jamais démérité par sa conduite ni par ses sentimens envers l'auguste maison d'Autriche.
Tout ce que V. E. pourra faire pour appuyer nos vœux, lui assurera notre vive et éternelle reconnaissance, et ajoutera encore ces nouveaux sentimens à ceux de mon estime pour V. E. et de mon profond respect.
Milan, le 18 avril 1814.
Le chancelier garde-des-sceaux de la couronne: par ordre de monsieur le Duc de Lodi, empêché per la goutte à la main droite.
Signé Charles Villa, Secrétaire.
Li 20 aprile 1814.
Il Podestà di Milano a S. E. il sig. Presidente del Senato.
Mi viene indirizzata l'unita dichiarazione di molti rispettabili individui di questa capitale, affinché sia da me presentata alle autorità superiori.
Credo quindi del mio dovere di fargliene l'innoltro in copia conforme, e cosí secondare il desiderio di questi miei concittadini, i quali rimangono nella fiducia che ella vorrà degnarsi nella di lei saviezza di prenderla in considerazione, e compiacersi di farmi conoscere le deliberazioni che saranno state prese dal Senato.
Ho l'onore di attestarle le espressioni del maggiore rispetto
Firmato Durini, Podestà.
Milano, 19 aprile 1814.
Dopo l'adunanza del Senato del giorno 17 del corrente mese, delle cui deliberazioni nulla fu comunicato al pubblico, è opinione universale esservi stato proposto, discusso e definito un affare della maggiore importanza per il nostro Regno. Se nelle attuali straordinarie vicende è necessario d'invocare straordinari provvedimenti, credono i sottoscritti indispensabile, in coerenza de' principi della costituzione, che siano convocati i Collegi elettorali, ne' quali solamente risiede la legittima rappresentanza della nazione.
Seguono le firme per copia conforme, delle quali si garantisce l'autenticità:
Vi sono molte altre firme, che per brevità di tempo si omettono, e che in seguito si faranno conoscere.
Per copia conforme
Firmato Durini, Podestà.
Memoria data alla Reggenza del governo provvisorio di Milano, dal Conte Guicciardi Cancelliere del Senato del Regno d'Italia.
Un'erronea opinione circola già da alcuni giorni, e sembra diretta a scemare quella stima e confidenza che io ho procurato di conservarmi per il lungo corso di ben 56 anni di pubblico servizio, e che era per me il piú lusinghiero compenso della mia politica carriera.
Conscio della purezza delle mie azioni, ed indagando la causa di sí strano avvenimento, fui oltremodo commosso nell'udire che si pretendesse derivarlo da quella stessa recente commissione che mio malgrado accettai, nella sola speranza di concorrere, col piú leale ed onorato adempimento, a render paghi i pubblici voti. Confortato però dall'intima convinzione della mia innocenza, credetti che per comprovarla in modo positivo ed assoluto, bastar dovesse il mettere in chiaro que' fatti che, o non ben conosciuti, o forse alterati, hanno potuto dare spinta all'errore, o prestato fede alla malevolenza. Quindi determinato a pubblicare con le stampe la relazione del mio operato, col corredo di tutti i documenti che vi hanno rapporto, la sottopongo precisamente ai lumi del governo provvisorio, e perché altamente apprezzo il di lui suffragio, e perché fu sempre mio principio di agire colla protezione delle leggi e del governo.
Lo scopo di questa mia rimostranza è di provare, che [65] tanto nella qualità di senatore che in quella di deputato, ho sostenuto gl'interessi piú cari della patria, e seguita costantemente la via sacra dell'onestà.
Invoco sul primo punto la testimonianza di quelli fra i miei colleghi che seggono fra voi, o signori membri della Reggenza, e quella in particolare dell'ottimo vostro presidente. Con esso ebbi la sorte di essere socio nella commissione incaricata dell'esame del progetto, presentato dal governo al Senato nel giorno 17 del corrente aprile, commissione da me diretta ed instantemente promossa contro la proposta di un comitato segreto, che, per il consueto sommario metodo di procedura, mi sembrò non convenire all'importanza di un lecito argomento. Con esso e con altro de' membri della commissione mi recai dal cancelliere guardasigilli, per avere gli opportuni lumi di fatto, e sull'autorizzazione sua a convocare il Senato, e sulla gravezza ed urgenza de' motivi che lo avevano determinato.
Riferitene quindi le risultanze alla commissione composta di sette membri, unanime fu il voto di lei, e per la necessità di occuparsi dell'oggetto e per la riforma del decreto del governo.
Riunito il Senato, e lettovi il parere della commissione, chi piú di Dandolo che ne fu il relatore, chi piú del vostro presidente, chi piú di me lo difese e lo sostenne? Chi piú di me liberamente espose al Senato gli argomenti tutti, e politici e costituzionali, che ci comandavano imperiosamente la reiezione del terzo articolo del progetto del governo? Chi, se non io, dimostrò l'incostituzionalità della subdola e seducente mozione di un nostro, ahi troppo infelice collega, i cui sommi talenti lasciavano desiderare meno durezza di cuore e non servile adulazione? Ignoro se il processo verbale di quella seduta portasse tutta la discussione, e se siasi preservato dallo svolgimento degli effetti e delle carte del Senato; ma in di lui difetto, supplico l'invocata testimonianza de' membri del Senato, e sopra [66] ogni altra quella del vostro presidente, che con la sua eloquenza e col suo amore di patria sostenne meco il progetto della commissione, che con leggera modificazione venne definitivamente adottato dal Senato, con una maggioranza di voti superiori ai due terzi.
Cadde sfortunatamente sopra di me, forse per gli accennati liberi sentimenti espressi, la nomina in altro de' deputati al quartiere generale delle AA. PP. AA., unitamente ai signori senatori Castiglioni e Testi; ed essendosi quest'ultimo per attuale infermità scusato, feci registrare nel processo verbale, che ove il decreto del Senato non fosse coattivo per tutti, nessuno aveva di me maggior titolo per esserne dispensato. Ma la seduta fu levata senza occuparsene. Rinnovai all'indomani presso il signor Duca di Lodi, cancelliere guardasigilli, i miei tentativi per ischermirmi. Ma avendo egli autorevolmente risposto che ogni indugio poteva compromettere la convenienza del Senato e gl'interessi piú sacri della nazione, immolai a questi ogni privata considerazione, e diedi parola di partire, a condizione che anche il conte Castiglioni vi si prestasse, mentre mi era noto che egli pure si adoperava in ogni modo per esserne dispensato.
Fin qui, signori, ho parlato del mio contegno come senatore; parlerò come deputato.
Il protocollo che vi presento corredato di tutti gli atti relativi tanto alle cose proposte e deliberate in Senato, quanto a quelle che concernono la missione, rende conto del mio viaggio, soggiorno e ritorno da Mantova, ed io sfido arditamente chiunque possa impugnare la verità: sull'esame del medesimo voi potete fondare il nostro giudizio.
La prima censura che intesi farsi ai deputati, è di essersi recati al quartier generale del principe a Mantova, in vece di prendere la via piú breve e piú diretta per Parigi, ove si trovano i sovrani alleati. Parvero sorgere da ciò diffidenza [67] e sospetto di parzialità, e sino di collusione col principe: ed ecco come un intempestivo giudizio e la mancanza di cognizione de' fatti può per un momento far decadere l'uomo innocente da quel grado distinto cui ha diritto.
Leggansi le istruzioni del cancelliere guardasigilli, cui dal Senato era dato il carico di stenderle; e si vedrà che i deputati hanno eseguito un ordine preciso loro imposto da chi ne aveva diritto, né mai l'obbedienza potrà essere indizio di rea intenzione.
Nell'accennare questa circostanza, sono bene lontano di versare sopra altri ombra di colpa o di sospizione, ed anzi devo soggiugnere che il cancelliere guardasigilli ci mostrò l'ordine del principe, che dietro i concerti presi da esso con S. E. il signor maresciallo conte Bellegarde, dovesse sollecitare la pronta partenza de' deputati per Mantova. Né altrimenti avrebbesi potuto fare, perché senza la preventiva adesione del sullodato signor maresciallo, e senza i suoi passaporti regolari non avrebbe la deputazione potuto attraversare i posti delle armate coalizzate, e corso avrebbero rischio di non giungere troppo tardi al luogo di sua missione.
A quella necessità, al quartier generale del principe ed a quello del signore maresciallo, altra importantissima si aggiungeva, quella cioè di ottenere lettere credenziali per le altre potenze alleate, giacché il signor Duca di Lodi muniti li aveva di una sola per il signor principe di Metternich ministro di S. M. l'imperatore d'Austria. La missione essendo diretta ad implorare la protezione di tutte le auguste potenze alleate, ogni ragione voleva che appresso ciascuna delle medesime fosse accreditata.
Giustificata la gita a Mantova con le ricevute istruzioni strettamente analoghe col decreto del Senato e la necessità delle credenziali e de' passaporti, non resterebbe ora che a parlarsi del contegno tenuto dai deputati col principe.
Il protocollo dettaglia il modo con cui furono accolti, [68] le ritardate udienze, i colloquî e la franchezza del linguaggio tenuto con esso. Era il principe pienamente e minutamente informato delle discussioni del Senato, e delle opinioni de' senatori, né certo io poteva lusingarmi, dopo quanto aveva detto ed opinato, di una migliore accoglienza: ora come mai potrebbesi supporre tanta incoerenza di principî, come conciliare fatti sí diversi, idee cotanto disparate, per dedurre malignamente, che un uomo, la cui fermezza nella propria opinione è da tanto tempo conosciuta, la cui onestà e riputazione fu sempre illesa, volesse prostituirsi colludendo col principe, deviando dal proprio mandato, dalla mente espressa de' suoi colleghi, e della pubblica opinione da lui sí ben conosciuta? che se pure tutti questi argomenti non bastassero a convincere le persone piú diffidenti e maligne, il carattere, la probità, l'avvedutezza ed il civismo del di lui condeputato, uomo sí puro, sí accreditato, non avrebbe dovuto togliere e dissipare il primo la piú lieve ombra di sospetto? Né temo di avvilirmi accennando motivi, dove bastar dovrebbe il dire: «Non ho mai mancato al mio onore.» Ma l'afflizione che ho provato per sí nera calunnia ha voluto qualche sfogo.
Appena ebbero i deputati la notizia dell'occorso in Milano il giorno 20 aprile, senza alcuna lettera di comunicazione di quanto era seguito al Senato, senza il menomo officiale avviso del loro richiamo, presero congedo dal principe, ritornarono a Milano. Ed eccovi, o signori, altra luminosa prova che niun rapporto mi legava al principe, che nulla piú curai che l'interesse della patria, che rispettai la volontà del Senato e della nazione, qualunque fosse stato il modo, con cui era stata espressa. Cosí mostrai che come deputato fui sempre coerente coll'opinione manifestata come senatore.
Signori del governo, la mia giustificazione è compiuta: leggete tutti gli atti che vi rassegno, e pronunciate; io attendo con quella calma che l'uomo giusto ed onesto sa conservare in mezzo alle oscillazioni e alle politiche vicende. [69] Non dubito che riconoscerete aver io adempito al mio dovere, ed in tale fiducia domando alla vostra giustizia, che mi sia lecito di dare alle stampe questa mia memoria, col protocollo e tutti i suoi allegati.
Ogni uomo ha diritto al proprio onore, e molto piú un pubblico funzionario. Io devo anche a me stesso e alla numerosa famiglia mia la conservazione illibata del mio buon nome. Voi rappresentate il governo, ed il governo deve tutelare i diritti degl'individui. Vivo dunque nella fiducia che cotesta Reggenza aggiugnerà agli altri tratti di saggezza, che seguono i primi di lei passi, quello che rispettosamente richiama chi ha l'onore di essere colla maggiore venerazione.
Milano 29 aprile 1814.
REGNO D'ITALIA.
Milano 8 maggio 1814.
LA REGGENZA DEL GOVERNO PROVVISORIO
Al Sig. Conte Guicciardi.
La Reggenza ha letto la di lei memoria 29 aprile prossimo passato ed i relativi documenti.
Ella dovette sempre confermarsi nell'opinione che il di lei operato non aveva bisogno di giustificazione.
Nell'attestarle pertanto i sentimenti della particolare sua stima, dessa non fa che riconoscere nuovamente in lei quel diritto alla medesima, che le eminenti sue qualità personali ed i lunghi importanti servizi resi allo Stato le hanno da gran tempo meritamente acquistato.
La Reggenza poi, nella ferma opinione che la di lei convenienza non sia menomamente lesa, non crede di aderire alla richiesta fatta per la stampa della memoria di cui si tratta, giacché con ciò si farebbe rivivere delle animosità che vogliono essere sopite, e si urterebbe col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose avvenute.
Aggradisca, sig. Conte, le assicurazioni della maggior considerazione e somma stima.
Per la Reggenza. Firmato Verri Presidente.
Il Segretario generale
Antonio Strigelli.
Nota delli Conti Veneri Presidente e Guicciardi Cancelliere del Senato Consulente del Regno d'Italia
A S. E. il Sig. tenente Maresciallo Generale Sommariva Commissario Imperiale.
Alcune false voci, che il Senato, nella seduta straordinaria dal giorno 17 aprile, avesse proclamato al trono d'Italia il principe Eugenio, in allora Vicerè, ed a tal oggetto spedita una deputazione alle auguste potenze alleate, avevano sparso qualche allarme in Milano; quanto fosse ciò falso lo dimostrano gli atti di quel giorno che si rassegnano.
Nella successiva seduta ordinaria del giorno venti, una folla di persone, eccitata da chi credeva o affettava di credere siffatte voci, recossi al palazzo del Senato, impedí la regolare unione de' senatori, ed estorse dal presidente la qui unita dichiarazione. Persuasa poscia la stessa folla che ivi vi fosse il Ministro delle finanze Prina, lo ricercò invano per le stanze ove credevalo nascosto, e come sempre avviene in simili agitazioni popolari, disperse in gran parte gli effetti e le carte del Senato; di là si trasferí alla casa del detto Ministro, ed ebbero luogo que' tragici avvenimenti, che l'onore nazionale vorrebbe coperti di perpetua obblivione.
In tali luttuose circostanze, a freno di mali maggiori si credette di nominare un governo provvisorio della città e [72] di unire i Collegi elettorali. Tutto derivava dalla lodevole intenzione di ristabilire la quiete. Le savie misure del governo provvisorio, l'imponente attitudine della guardia civica, l'ottima direzione del generale comandante in capo, ottennero l'intento piú presto di quello che si fosse potuto sperare.
Intanto fu proclamata la convocazione de' Collegi elettorali, esclusi però tutti i membri di que' dipartimenti che erano occupati dalle armate alleate (quantunque un rispettabile numero di essi si trovasse in Milano), o dimenticati i dotti e i commercianti degli altri dipartimenti. La prima operazione dei Collegi fu quella di confermare il governo provvisorio, e di estenderne l'autorità agli otto dipartimenti non ancora occupati, colla riserva di aggiungervi altri individui tolti dai medesimi. Ma ben tosto sorpassando ogni confine costituzionale, abolirono e modificarono imposte, annullarono o restrinsero leggi amministrative e giudiziarie, e dichiararono aboliti i primari corpi dello Stato, e fra questi quello del Senato, alla conservazione delli di cui diritti è diretta la presente nota.
A dimostrare la mancanza d'ogni autorità ne' Collegi per tale operazione, basta l'esame delle loro attribuzioni costituzionali e di quelle del Senato. L'unito allegato ne presenta l'analisi.
Le attribuzioni de' Collegi elettorali, come importa lo stesso loro nome, tutte si riducono a nomine, a presentazione di candidati. I Collegi, o sono generali o sono dipartimentali. I primi devono unirsi in tre camere separate di possidenti, di dotti e de' commercianti, e ciascuna camera nella città destinata dalla costituzione. I secondi si uniscono nel capoluogo del dipartimento in una sola camera.
Appare chiaramente dall'esame delle loro attribuzioni, che ambedue i Collegi elettorali di tutto il Regno, uniti nelle forme e nei luoghi costituzionali, non hanno alcun [73] diritto di abolire altri corpi dello Stato voluti dalla stessa costituzione, per la quale essi esistono, e tanto meno poi il Senato, il quale per l'art. XV del sesto statuto costituzionale giudica sull'incostituzionalità degli atti de' Collegi elettorali.
Come mai dunque ciò che non avrebbero potuto fare tutti gli elettori del Regno, uniti legalmente nel numero di 1153, avrà potuto fare una frazione de' medesimi, che non oltrepassò mai il numero di 170? Nel qual proposito è da rimarcarsi che per la validità degli atti de' Collegi si richiede l'intervento almeno del terzo del loro numero totale. Cresce poi l'argomento per la circostanza che la maggior parte de' senatori furono nominati sulle proposizioni de' Collegi generali di tutto il Regno, e quindi al Regno intiero, e non ad una sola frazione appartiene il Senato. Né deve tacersi che la carica di senatore non si perde, se non per quelle cause per le quali si perde il diritto di cittadino, circostanza che rende ancora piú manifesta l'ingiustizia della pretesa abolizione.
Riducendo quindi ai semplicissimi termini la questione, ne emerge il seguente dilemma. O esiste costituzione, e deve esistere il Senato, che è il primo corpo permanente dalla medesima voluto, ed è solo autorizzato dall'articolo XVIII del sesto statuto costituzionale a far conoscere al Re i voti e i bisogni della nazione: o non esiste costituzione, e in tal caso neppure esistono Collegi elettorali, onde nulla e viziosa sarebbe la loro unione.
Le auguste potenze alleate hanno fatto la guerra alla Francia, e non ai popoli, ed hanno altamente proclamato colla pace del mondo l'indipendenza delle nazioni; in tutti i paesi occupati dalle loro armi vittoriose, hanno provvisoriamente conservate tutte le leggi fondamentali e le autorità nazionali sin tanto che nella maturità de' loro consigli determineranno la sorte dei medesimi. Tale è pure l'intenzione di S. E. il signore Maresciallo Conte Bellegarde, [74] che nel Regno d'Italia le rappresenta, come appare dagli articoli IV e V della convenzione 23 aprile, e dal relativo proclama di S. E. il tenente Maresciallo generale Sommariva. Quindi all'acclamata loro imparziale giustizia ed illuminato loro giudizio appoggia il Senato e sottopone le tante e sí chiare ragioni che lo assistono, e conchiude la presente nota con le seguenti riflessioni:
Primo. Il Senato del Regno d'Italia nella sua deliberazione de' 17 aprile altro non vi propose che di venerare gli alti principi delle AA. PP. AA., inviando alle medesime rispettosi omaggi e suppliche per la finale cessazione delle ostilità e per l'indipendenza del Regno.
Secondo. Non può esistere costituzione nel Regno d'Italia, se con i Collegi elettorali non esiste anche il Senato.
Terzo. Ogni fiducia del Senato è intieramente riposta nella magnanimità delle AA. PP. AA., nelle convenzioni stipulate e ne' proclami emanati da' loro legittimi rappresentanti, anteriori in data e in promulgazione all'incostituzionale abolizione pronunziata da una sola frazione de' Collegi elettorali, la quale nemmeno fu fino al giorno d'oggi legalmente pubblicata, nè si conosce da' senatori, se non per essere stata inserita ne' pubblici fogli del giorno 27 aprile 1814.
Milano, li 29 aprile 1814.
Firmato Veneri, Presidente.
Guicciardi, Cancelliere.
La presente nota è stata sottoscritta ed approvata dagl'infrascritti conti Senatori,
Il Saint-Edme, pubblicando nel 1822 la sua traduzione francese di questa operetta, vi aggiunse alcune Notes du traducteur, delle quali per piú rispetti si deve tener conto; però ho creduto opportuno riferirle o riassumerle, con richiamo ai luoghi stessi cui il traduttore le appose. Nella nota (28) ho, naturalmente, corretti i molti errori nei quali il Saint-Edme cadde pei cognomi italiani, e v'ho aggiunto molte altre indicazioni di uffici e personaggi notabili del Regno italico.
27. «Tout traducteur desire savoir le nom de l'auteur qu'il traduit. Ayant fait de vaines démarches pour parvenir à me satisfaire, j'ai dû chercher dans l'ouvrage même quelque indice qui pût m'éclairer. Après un mûr examen, j'ai été porté à croire que M. le comte Guicciardi, chancellier du sénat, était mon anonyme, ou que ce mémoire devait être attribué à un ennemi de cet ex-chancelier. Voici les motifs sur lesquels je m'appuie». Seguono gli argomenti, che ho riferiti nella prefazione, dai quali appare manifesto che qui ov'è detto doversi tribuire lo scritto a un ennemi del Guicciardi si ha senza dubbio un errore di stampa, poiché il Saint-Edme aveva certo il pensiero a un ami dell'ex-cancelliere.
28. «Afin — scriveva il Saint-Edme — de faciliter au public la lecture de cette traduction, je crois devoir lui donner ici le nom des différentes personnes qui occupaient les hauts emplois du royaume d'Italie»; e ciò ch'egli credeva già utile nel 1822, è oggi assolutamente necessario, poiché gli uomini e le cose del Regno italico sono ormai cadute per grandissima parte nella dimenticanza. A ravvivarla nella memoria degli studiosi potranno giovare le indicazioni seguenti, le quali si danno rettificando e allargando quelle del traduttore francese e per le quali si è seguito l'Almanacco reale per l'anno MDCCCXIII, che fu l'ultimo pubblicato di una serie oramai irreperibile.
GRANDI UFFICIALI DEL REGNO:
Grandi ufficiali della Corona:
Melzi d'Éril Francesco di Milano, Duca di Lodi, Cancelliere guardasigilli.
Codronchi Antonio di Imola, Arcivescovo di Ravenna, Grande elemosiniere.
Fenaroli Giuseppe di Brescia, Gran maggiordomo maggiore.
Litta Antonio di Milano, Gran ciambellano.
Caprara Carlo di Bologna, Grande scudiere.
Aldini Antonio di Bologna, Ministro Segretario di Stato [1805-1814].
Luosi Giuseppe di Mirandola, Gran giudice Ministro della giustizia [1805-1814].
Marescalchi Ferdinando di Bologna, Ministro degli affari esteri [1802-1814].
Vaccari Luigi di Modena, Ministro dell'interno [1809-1814].
Fontanelli Achille di Modena, Ministro della guerra e marina [1811-1814].
Prina Giuseppe di Novara, Ministro delle finanze [1802-1814].
Veneri Antonio di Reggio, Ministro del tesoro [1813-1814].
. . . . . . . . . . . . . . . . Ministro del culto [titolare era stato, 1802-1812, Bovara Giovanni; poi ff. di ministro, 1812-1814 fu Giudici Gaetano].
. . . . . . . . . . . . . . . . Arcivescovo di Milano [Sede vacante].
Bonsignori Stefano di Busto Arsizio, Patriarca di Venezia.
Codronchi, predetto, Arcivescovo di Ravenna.
. . . . . . . . . . . . . . . . Arcivescovo di Bologna [titolare Opizzoni Carlo, non riconosciuto].
Fava Paolo Patrizio di Bologna, Arcivescovo di Ferrara.
Pino Domenico di Milano, Generale di divisione, primo Capitano della Guardia reale.
Costabili-Containi Gio. Battista di Ferrara, Intendente generale dei beni della Corona.
Méjan Stefano francese, Segretario degli ordini del Viceré.
SENATO CONSULENTE:
I Principi della Casa Reale.
I Grandi ufficiali della Corona.
Fava, predetto, Arcivescovo di Ferrara.
Bonsignori, predetto, Patriarca di Venezia.
Moscati Pietro di Mantova, nominato 19 febbraio 1809.
Paradisi Giovanni di Reggio, id.
Costabili-Containi, predetto, id.
Guicciardi Diego di Lugano, id.
Giustiniani Leonardo di Venezia, id.
Carlotti Alessandro di Verona, id.
Massari Luigi di Ferrara, id.
Vidoni Giuseppe di Cremona, id.
Di Breme Luigi Giuseppe di Sartirana, id.
Polcastro Girolamo di Padova, id.
Castiglioni Luigi di Milano, id.
Bologna Sebastiano di Vicenza, id.
Longo Lucrezio di Brescia, id.
Alessandri Marco di Bergamo, id.
Felici Daniele di Rimini, id.
Volta Alessandro di Como, id.
Cavriani Federico di Mantova, id.
Testi Carlo di Modena, id.
Lamberti Giacomo di Reggio, id.
Peregalli Francesco di Debbio in Valtellina, id.
Frangipane Cinzio di Udine, id.
Thiene Leonardo di Vicenza, id.
Barisan Giovanni di Treviso, id.
Mengotti Francesco di Belluno, id.
Bruti Agostino dell'Istria, id.
Camerata Antonio di Ancona, id.
Sgariglia Pietro di Fermo, id.
Armaroli Leopoldo di Macerata, id.
Veneri, predetto, nominato 10 ottobre 1809.
Prina, predetto, id.
Berioli Spiridione di Città di Castello, arciv. di Urbino, id.
Melano Portula Vittorio di Cuneo, vesc. di Novara, id.
Serbelloni Marco di Milano, id.
Mocenigo Alvise di Venezia, id.
Martinengo Giovanni Estore di Brescia, id.
Condulmer Tommaso Gaspare di Venezia, id.
Oriani Barnaba di Milano, id.
Stratico Simone di Zara, id.
Dandolo Vincenzo di Venezia, id.
Fiorella Pasquale Antonio còrso, generale di divisione, id.
Verri Carlo di Milano, id.
Luosi, predetto, nominato 7 febbraio 1810.
De Moll Sigismondo di Trento nominato 23 dicembre, 1810.
CONSIGLIO DI STATO:
I. Consiglio legislativo: De Bernardi Stefano presidente — Maestri Giovanni — Bazzetta Giovanni — Sanfermo Rocco — D'Adda Febo — Bargnani Cesare — Méjan Stefano — Parravicini Raffaele — Guastavillani Giovanni Battista — cossoni Antonio — bossi Luigi — Polfranceschi Pietro — Luini Giacomo — Pedrazzini Michele — Quirini-Stampalia Luigi — Scopoli Giovanni — Colle Francesco — Giovio Ludovico.
II. Consiglio degli uditori: Pallavicini Giuseppe presidente — Aldini Giovanni — Sopransi Luigi — Valdrighi Luigi — Barbò Francesco — Riva Cristoforo — Nani Tommaso — Compagnoni Giuseppe — Brunetti Vincenzo — Caccía Gaudenzio — Casati Giuseppe — Tornielli Giuseppe — Custodi Pietro — Burri Giovanni — Borghi Carlo Jacopo — Brebbia Giuseppe — Re Antonio — Fagnani Federico.
III. Consiglieri di Stato in servizio straordinario: Gallino Tommaso, primo presidente della corte d'appello di Venezia — Strigelli Antonio, Segretario di Stato in Milano — Agucchi Alessando, prefetto del Passariano — Galvagna Francesco, prefetto dell'Adriatico — D'Allegre Paolo Lamberto, vescovo di Pavia — Ronna Tommaso, vescovo di Crema — Smancini Antonio, prefetto dell'Adige.
IV. Consiglieri di Stato onorari: Pedroli Carlo Antonio, primo presidente della Corte di cassazione — Taverna Francesco, primo presidente della Corte d'appello di Milano — Beccalossi Giuseppe, primo presidente della Corte d'appello di Brescia — Erizzo Guido, dimorante in Venezia.
CORTE DI CASSAZIONE:
Pedroli Carlo Antonio, primo presidente.
Negri Antonio, presidente.
De Lorenzi Antonio — Tonni Luigi — Sopransi Fedele — Pizzotti Francesco — Villata Guido — Sopransi Luigi — Bazzetta Giovanni — Repossi Francesco — Ragazzi Giuseppe — Pelegatti Cesare — Condulmer Pietro Antonio — Predabissi Francesco — Cisotti Giovanni Battista — Scaccabarozzi Cesare — Auna Giovanni Vincenzo — Luini Giuseppe, giudici.
Valdrighi Luigi, Regio procuratore generale — Borsotti Giovanni Gaudenzio, sostituto procuratore generale.
CORTE DEI CONTI:
De Bernardi Stefano, primo presidente.
Sabatti Antonio — Sommaruga....., presidenti.
Pampuri Giacomo — Busti Cristoforo — Ungarelli Pietro — Teulié Filippo — Pallavicini Giulio — Beccaria Giulio — Arrigoni Galeazzo — Silva Bernardino, giudici.
Noghera Giovanni Battista — Somaglia Gaetano — Sanner Baldassare — Pecchio Pietro, giudici per i conti arretrati.
Crespi Luigi, Regio procuratore generale.
SEGRETERIE DI STATO E MINISTERI:
Segreteria di Stato in Parigi: Aldini Antonio, predetto, Ministro Segretario di Stato — Marinoni Francesco, segretario generale.
Segreteria di Stato in Milano: Strigelli Antonio, Consigliere Segretario di Stato — Narducci Giampietro, Appiani Giuseppe, Germani Giuseppe, capi di divisione.
Ministero della giustizia: Luosi, predetto, Ministro — Biella Felice, segretario generale — Luosi Luigi, Stoppani Pietro, Alberti Francesco, Prandina Gaetano, capi di divisione.
Ministero degli affari esteri: Prima divisione in Parigi: Marescalchi, predetto, Ministro — Jacob, capo di divisione — Seconda divisione in Milano: Testi Carlo, incaricato del portafoglio del dipartimento degli affari esteri — Borghi Carlo Jacopo, capo di divisione.
Ministero dell'interno: Vaccari, predetto, Ministro — De Capitani Paolo, segretario generale — Ceriani Giuseppe Cesare, Bernardoni Giuseppe, Carmagnola Paolo, capi di divisione.
Ministero della guerra e marina: Fontanelli, predetto, Ministro — Zanoli [83] Alessandro, segretario generale — Arese Francesco colonnello, Locatelli Luigi Annibale ispettore alle rassegne, Patroni Giuseppe colonnello, Cruvelier Giovanni Pietro, ispettore di marina, capi di divisione — Cortese Francesco, direttore delle rassegne e della coscrizione.
Ministero delle finanze: Prina, predetto, Ministro — Custodi Pietro, segretario generale — Soldini Andrea, Petracchi Angelo, Amante Giovanni, Reina Giuseppe, Marchini Bartolomeo, capi di divisione.
Ministero del tesoro: Veneri, predetto, ministro — Tarchini Giovanni Battista, segretario generale — Carnaghi Amedeo, ispettore generale — Tordorò Luigi, capo della contabilità — Corridori Girolamo, cassiere generale del regno.
Ministero del culto: Giudici Gaetano, segretario generale, ff. di ministro — Farina Modesto, Casnati Filippo, capi di divisione.
DIREZIONI GENERALI:
Acque, strade e porti marittimi: Cossoni Antonio, direttore generale — Negri Gaetano, segretario generale — Artico Angelo, Assalini Antonio, Masetti Agostino, Parea Carlo, ispettori generali — Brunacci Vincenzo, Bonati Teodoro, Cossali Pietro, ispettori generali onorari.
Polizia: Luini Giacomo, direttore gen. — Brusa Paolo, segretario gen.
Istruzione pubblica, stampa e libreria: Scopoli Giovanni, direttore gen. — Poggiolini Giovanni Luigi, segr. gen. — Pini Ermenegildo, Rossi Luigi, ispettori generali degli studi.
Censo e imposizioni dirette: Brunetti Vincenzo, direttore generale — Lupi Carlo, segr. gen.
Dogane: Bargnani Cesare, dirett. gen.
Privative e dazî di consumo: Barbò Francesco, dirett. gen. — Caldarini Giovanni Battista, seg. gen.
Monte Napoleone (col titolo di Prefettura del M. N. e della liquidazione del debito pubblico): Maestri Giovanni, prefetto — Calderara Giuseppe, luogotenente prefetto — Negri, segretario gen.
Poste: Darnay Antonio, direttore gen.
Zecche e monete: Isimbardi Innocenzo, direttore gen. — Prina Luigi, segr. gen.
Lotto: Soldini Ambrogio, direttore gen. — Palmieri segretario gen.
ESERCITO E MARINA:
Stato maggiore generale dell'esercito.
Generali di divisione: Pino Domenico — Lechi Giuseppe — Severoli Filippo — Fontanelli Achille — Bonfanti Antonio — Peyri Luigi — Fiorella Pasquale Antonio — Palombini Giuseppe — Zucchi Carlo — Fontane Giacomo.
Generali di brigata: Polfranceschi Pietro — Bianchi d'Adda Giovanni Battista — Lechi Teodoro — Balabio Carlo — Mazzucchelli Luigi — Bertoletti Antonio — Villata Giovanni — Renard Brizio Giovanni Battista — Dembowski Giovanni — Balathier Carlo — Martel Filippo Andrea — Rougier Gillo — Schiazzetti Fortunato — Saint Paul Verbigier — Moroni Pietro — Jacquet Giuseppe — Sant'Andrea Pietro — Bellotti Gaspare — Julhien Giovanni Francesco — Campagnola Luigi — Milossewitz Andrea — Bertolosi Giovanni Battista — Galimberti Livio — Rambourgt Pietro Gabriele — Paini Giulio — Paolucci Amilcare — Peri Bernardo.
Aiutanti comandanti: Lechi Angelo — Cavedoni Bartolomeo — Montebruno Andrea — Mazzucchelli Giovanni — Rivaira Luigi — Casella Giovanni Battista.
Marina Reale.
Commissario generale: Maillot Stefano.
Capitani di vascello: Pasqualigo Nicola — Milius Pier Bernardo.
Capitani di fregata: Costanzi Giovanni Battista — Armeni Antonio — Rodriguez Francesco — Buratovich Vincenzo — Dandolo Silvestro — Aycard Romano — Saint Priest Filiberto Luigi — Tempiè Giacomo.
Direttore dell'artiglieria di marina: Trouchon Domenico.
Direttore delle costruzioni navali italiane: Salvini Andrea.
Comandante del porto di Venezia: Giaxich, capitano di fregata.
DIPARTIMENTI:
1. Adda, capoluogo Sondrio, popolazione 76,129, cantoni 6, comuni 29: Rezia Carlo prefetto; Renard generale comandante.
2. Adige, capoluogo Verona, popolazione 302,161, distretti 4, cantoni 15, comuni 76: Smancini Antonio prefetto; Milossewitz generale comandante.
3. Adriatico, capoluogo Venezia, popolazione 290,112, distretti 4, cantoni 10, comuni 38: Galvagna Francesco prefetto; Daurier generale francese comandante.
4. Agogna, capoluogo Novara, popolazione 348,429, distretti 5, cantoni 19, comuni 136: Luini Stefano prefetto; Bertolosi generale comandante.
5. Alto Adige, capoluogo Trento, popolazione 266,734, distretti 5, cantoni 20, comuni 121: Dal Fiume Filippo prefetto; Milossewitz generale comandante.
6. Alto Po, capoluogo Cremona, popolazione 363,196, distretti 4, cantoni 17, comuni 129: Ticozzi Francesco prefetto; Balabio generale comandante.
7. Bacchiglione, capoluogo Vicenza, popolazione 314,479, distretti 5, cantoni 14, comuni 99: Magenta Pio prefetto.
8. Basso Po, capoluogo Ferrara, popolazione 241,265, distretti 3, cantoni 11, comuni 82: Zacco Costantino prefetto.
9. Brenta, capoluogo Padova, popolazione 285,185, distretti 4, cantoni 12, comuni 85: Porro Ferdinando prefetto.
10. Crostolo, capoluogo Reggio, popolazione 167,123, distretti 2, cantoni 7, comuni 52: Zecchini Bonaventura prefetto.
11. Lario, capoluogo Como, popolazione 310,664, distretti 4, cantoni 23, comuni 168: Tamassia Giovanni prefetto; Renard generale comandante.
12. Mella, capoluogo Brescia, popolazione 312,778, distretti 4, cantoni 18, comuni 127: Sommenzari Teodoro prefetto; Fontane generale comandante.
13. Metauro, capoluogo Ancona, popolazione 305,037, distretti 5, cantoni 16, comuni 76: Gaspari Giacomo prefetto; Barbou generale francese comandante.
14. Mincio, capoluogo Mantova, popolazione 232,163, distretti 3, cantoni 15, comuni 51: Vismara Michele prefetto; Julhien generale comandante.
15. Musone, capoluogo Macerata, popolazione 220,643, distretti 5, cantoni 13, comuni 48: Villata Michele prefetto.
16. Olona, capoluogo Milano, popolazione 580,436, distretti 4, cantoni 20, comuni 155: Caccía Gaudenzio prefetto; Bertolosi generale comandante.
17. Panaro, capoluogo Modena, popolazione 181,130, distretti 2, cantoni 7, comuni 52: Minoia Giovanni prefetto.
18. Passariano, capoluogo Udine, popolazione 289,770, distretti 4, cantoni 18, comuni 136: Agucchi Alessandro prefetto; Schilt generale francese comandante.
19. Piave, capoluogo Belluno, popolazione 138,028, distretti 3, cantoni 11, comuni 67: Ferri Francesco prefetto.
20. Reno, capoluogo Bologna, popolazione 405,845, distretti [87] 4, cantoni 12, comuni 76: Tadini Oldofredi Girolamo prefetto; Roize generale francese comandante.
21. Rubicone, capoluogo Forlí, popolazione 280,034, distretti 5, cantoni 14, comuni 41: Frosconi Alessandro prefetto; Villata generale comandante.
22. Serio, capoluogo Bergamo, popolazione 305,202, distretti 4, cantoni 18, comuni 145: Cornalia Francesco prefetto.
23. Tagliamento, capoluogo Treviso, popolazione 301,114, distretti 5, cantoni 16, comuni 93: Del Maino Carlo prefetto.
24. Tronto, capoluogo Fermo, popolazione 185,423, distretti 3, cantoni 10, comuni 72: Staurenghi Leopoldo prefetto.
Riassunto: Dipartimenti 24, divisi in 91 distretti, 344 cantoni, 2155 comuni; popolazione 6,703,200 abitanti; superficie 84,043 miglia quadrate italiane.
29. Il Saint-Edme riferisce in questa nota: 1º il testo francese della Convenzione militare di Schiarino Rizzino, 16 aprile 1814 (vedasi anche nel Fabi, pag. 102-108); 2º il proclama del principe Eugenio ai soldati francesi, Mantova, 17 aprile 1814 (in Fabi, pag. 108-109); 3º l'indirizzo dell'armata francese al principe Eugenio, dello stesso giorno, firmato dai generali Grenier, Verdier, Vignolle, Marcognet, D'Anthouart, Fressinet, Quesnel, Rouyer, Mermet, Sainte-Laurent e Bode.
30. «Semblable en cela à tous les peuples et même à tous les hommes qui espèrent toujours ce qu'ils desirent, les Italiens crurent que les projets du roi Joachim tendaient à former un seul royaume de l'Italie, trompés par sa conduite envers son bienfaiteur, et par les bruits qu'il faisait courir à ce sujet. Admis dans la coalition, pensaient les Italiens, l'empereur d'Autriche, qui lui avait confié des troupes, préférait sans doute aider ses prétentions, et le voir monter sur le trône de l'Italie ou se placer à la tête d'une confédération des états et princes italiens, à laisser ce pays sous la domination de Napoléon ou de son fils adoptif.
Les idées, les rêves d'indépendance troublaient entièrement leur raison, et excluaient tout jugement. Partout où un souverain marche en conquérant, il faut s'attendre à y retrouver longs-temps encore les empreintes de son pouvoir. Ainsi ils devaient d'autant moins douter des plans de l'empereur d'Autriche, que ce n'était qu'à la force qu'il avait cédé l'Italie; qu'en sacrifiant son gendre, sa fille et son petit-fils, il n'avait point agi dans les intérêt de l'Europe, mais bien dans le siens propres, c'est-à-dire pour recouvrer ses anciennes possessions. Ils ne devaient donc aucunement compter sur Murat, qui appartenait d'ailleurs à une famille que les coalisées voulaient proscrire, et je n'examinerai pas ce poins délicat de leur politique.
Les Italiens espéraient-ils que l'Autriche serait assez généreuse pour leur donner un roi libre?... Je m'expliquerai dans une des notes suivantes».
31. «Il est impossible de croire que les sénateurs n'aient point eu connaissance le tous ces projets, que la craint des plus grands malheurs ne les ait pas portés à s'éclairer, à preparer dans le silence les moyens de les éviter. Je ne leur ferai pas l'injure de les supposer capables d'une indifférence odieuse de la part d'aussi grands magistrats, sur qui le royaume devait se reposer du soin d'assurer sa tranquillité. Mais comment expliquer leur inertie? Car, indépendamment qu'ils avaient à redouter les ennemis de l'intérieur, et ils ne pouvaient point l'ignorer, la conduite de l'Autriche était-elle de nature à leur inspirer quelque sécurité? Si je ne les comdanne point pour leur indifférence, je n'hésite point à les accuser d'un manque total de caractère; et les Italiens doivent les poursuivre de leur haine pour avoir, [89] ou par volonté, ou par une lâche indolence, méprisé le voeu national, en ne s'occupant pas exclusivement de l'indépendance si ardemment desirée. En supposant qu'ils ne partageassent pas ce voeu, ils devaient le connaitre: les grands corps d'un état n'existent que pour le bien de plus grand nombre, et ils auraient dû se soumettre. En supposant que l'esprit révolutionnaire ne leur fût pas exactement démontré, ce qui n'est pas croyable, l'Autriche était-elle environnée des ténèbres? La politique de cette puissance et la marche de tous les événemens, ne suffisaient-elles point pour les éclaircir? Il est juste que j'appuie mon accusation, et c'est ce que je vais faire le plus rapidement possible.» — E qui il Saint-Edme, esaminando la condotta politica dell'Austria verso Napoleone I dal 1812 al 1814, rileva come, dalla richiesta fatta nella conferenza di Praga per la cessione delle provincie italiane dal Mincio a Venezia e dall'ultimatum presentato al congresso di Châtillon che esigeva l'abbandono totale dell'Italia, risulti manifesto che la cessazione del Regno italico fosse uno dei fini della politica austriaca; e conclude: «Les sénateurs devaient être instruits de tous ces faits, en tirer les conséquences naturelles que Napoléon serait écrasé, que l'Autriche menacerait l'existence du royaume, qui ne consentirait point à lui accorder son indépendance, et qu'il fallait employer des mesures énergiques. Mais que doit-on attendre de la débonnaireté du peuple italien? Avec de l'audace et de la fermeté, en flattant ses desirs, on en eût peut-être tout obtenu. Pour attendre l'abdication de Napoléon, il fallait réunir les colléges, prononcer la consolidation du royaume, proclamer un chef, faire un appel au patriotisme du peuple, appeler tous les princes d'Italie à une confédération, mander a Milan les troupes de Cremone et de Lodi, et se défendre enfin, pour tenter de réussir ou succomber avec gloire, en se mettant à même de discuter avec l'Autriche un traité d'abaissement. N'eussent-ils fait autre chose que proclamer une [90] seconde fois la constitution de 1802, et nommer un président ou un vice-président, ils auraient sauvé le peuple de lui-même, le collége n'aurait pas compromis la nation: et qui sait si cette attitude nouvelle n'eût pas amené quelque résultat avantageux? Oui, les sénateurs d'Italie n'ont rien fait pour sauver la patrie.»
32. «Les Français étaient assez généralement aimés, et on les regrette aujourd'hui; tandis, au contraire, que les Autrichiens ont toujours été détestés, qu'on les hait encore plus, et que le nom de Tudesco (Tudesque, ou Allemand) donné à un Italien, est une injure des plus vives. Sous la domination des Français, les Italiens jouissaient des apparences de toutes leurs libertés; ils embellissaient leur pays; ils protégeaient les arts, l'industrie, le commerce; la presque totalité des emplois étaient occupés par des nationaux. Maintenant ils ne rencontrent que des entraves, et les Autrichiens gouvernent en conquérans».
33. «Cette déclaration concorde parfaitement avec la note précédente».
34. Il Saint-Edme riporta qui, tradotta in francese, la Costituzione della Repubblica Italiana adottata nei Comizi di Lione il 26 gennaio 1802: il testo originale di essa si ha nel Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, Anno I, Milano, Veladini [1802], pp. 1-19.
35. «Relatifs au système continental».
36. In questa nota il Saint-Edme dà il testo delle costituzioni del Regno d'Italia tradotte in francese, e cioè:
I. Statuto costituzionale, Parigi 17 marzo 1805, preceduto dal discorso di F. Melzi in nome della Deputazione della Repubblica Italiana [Marescalchi, Caprara, Paradisi, [91] Fenaroli, Costabili, Luosi e Guicciardi, membri della Consulta di Stato; Guastavillani, Lambertenghi, Carlotti, del Consiglio legislativo; Dabrowki generale di divisione; Rangone oratore del Corpo legislativo, Calepio membro del Corpo legislativo; Litta, Fè, Alessandri, del Collegio elettorale dei possidenti; Salimbeni generale di brigata, Appiani, del Collegio elettorale dei dotti; Busti, Giulini, del Collegio elettorale dei commercianti; Negri, commissario presso il tribunale di cassazione; Sopransi, presidente del tribunale di revisione in Milano; Valdrighi, presidente del tribunale di revisione in Bologna], dall'atto della Deputazione stessa che invoca la trasformazione della Repubblica in Regno d'Italia, dalla risposta di Napoleone I che dichiara di accettare la corona italica; tutto ciò riferito dalla Raccolta de' fatti, documenti, discorsi e cerimonie, il tutto relativo al cangiamento della Repubblica Italiana in Regno d'Italia, Milano, Sonzogno, 1805, pp. 10-23, 48-51. Il testo ufficiale del primo Statuto costituzionale fu pubblicato col proclama della Consulta di Stato, Parigi 19 marzo 1805, che si legge nel Bollettino delle leggi del Regno d'Italia, Milano, Veladini [1805], PP. 33-43.
II. Statuto costituzionale, Saint-Cloud 29 marzo 1805 [Reggenza — Grandi ufficiali del Regno — Giuramenti]; nella Raccolta cit. pp. 98-112 e nel Bollettino cit. pp. 54-63.
III. Statuto costituzionale, Milano 6 giugno 1805 [Beni della Corona — Viceré — Collegi — Consiglio di Stato — Corpo legislativo — Ordine giudiziario — Diritto di far grazia — Ordine della Corona di ferro — Disposizioni generali] firmato dai membri della Consulta di Stato [Marescalchi, Caprara, Paradisi, Fenaroli, Costabili, Luosi, Moscati, Guicciardi] e della Censura [Aldini presidente, Stanislao Bovara e Giovanni Tamassia segretari, Giuseppe Taverna, Giuseppe Soresina Vidoni, Lorenzo Scazza, Barnaba Oriani, Fè Marcantonio, Brunetti Vincenzo, Vertova Giambattista, Conti Francesco, Piazzoni Giambattista, Castiglioni [92] Luigi, Bignami Carlo, Bentivoglio Carlo, Salina Luigi, Peregalli Francesco, Bologna Sebastiano, Massari Luigi, Odescalchi, Bazzetta]: è nel Bollettino cit. pp. 91-112.
IV. Statuto costituzionale, Parigi 16 febbraio 1806 [adozione del Viceré Eugenio]: è nel Bollettino cit., Milano, R. Stamperia [1806], pp. 62-64.
V. Statuto costituzionale, Milano, 20 dicembre 1807 [creazione del Senato consulente]: è nel Bollettino cit., Milano, R. Stamperia [1807], pp. 1120-1221.
Degli altri Statuti del Regno non ebbe cognizione il Saint-Edme, il quale solamente accenna a un «sixième et dernier Statut constitutionnel» del 9 novembre 1809, sotto la qual data si ha invece il Regolamento che stabilisce la natura e la forma delle relazioni del Senato col Governo (nel Bollettino cit., Milano, R. Stamperia, pp. 302-312). Invece gli altri, veri e propri Statuti, furono i seguenti:
VI. Statuto costituzionale, Parigi 21 marzo 1808 [Organizzazione del Senato — Attibuzioni — Dotazione — Disposizioni speciali]: è nel Bollettino cit., Milano, R. Stamperia [1808], pp. 216-222.
VII. Statuto costituzionale, Saint-Cloud 21 settembre 1808 [Titoli e maggioraschi del Regno]: è nel Bollettino cit., pp. 824-847.
VIII. Statuto costituzionale, Parigi, 15 marzo 1810 [Dotazione della corona e appannaggi dei principi e delle principesse d'Italia]: è nel Bollettino cit., Milano, R. Stamperia [1810], pp. 194-210.
IX. Statuto costituzionale, Parigi 15 marzo 1810 [appannaggio del Principe Viceré d'Italia]: è nel Bollettino cit., pp. 211-213.
Finalmente il Saint-Edme, dopo aver notato che gli elettori del Regno, i quali secondo la Costituzione di Lione erano 300 nel Collegio dei possidenti, 200 in quello dei Dotti e 200 in quello dei commercianti, erano poi cresciuti di numero per i decreti del 5 dicembre 1807 e 17 luglio [93] 1808, sí che nel 1814 ammontavano a 1153 (possidenti 495, dotti 329, commercianti 329), conchiude la sua nota cosí: «Les électeurs aux colléges réunis à Milan en avril 1814, étaient au nombre de 170; et, conformément aux constitutions, ils ne pouvaient délibérer: si les sénateurs avaient eu plus d'énergie, ils auraient évité à ce collége le ridicule dont il s'est couvert, et auraient été sans doute utils à leur pays. Ils ont été chassés par quelques factieux: que méritaient-ils de plus?»
SUGLI AVVENIMENTI
DI MILANO
17-20 Aprile 1814
RELAZIONE
DEL
Conte CARLO VERRI
SENATORE DEL REGNO ITALICO
E
PRESIDENTE DELLA REGGENZA PROVVISORIA
SCRITTA IN NIZZA
Inverno 1817.
RELAZIONE.
Trascorsi ormai due anni dagli avvenimenti accaduti in Milano nell'aprile 1814, io, Carlo Verri, intraprendo a stendere una Memoria relativa a quella sfortunata epoca, che rimarrà lungamente scolpita negli animi dei Lombardi. Era mia intenzione di ciò fare, sino dal primo giorno nel quale seguí il movimento popolare; ma non mi è stato possibile. Le molte persone che vennero da me e l'essere io stato nominato Presidente del Governo non mi hanno lasciato libero il tempo. Avendo poi continuato a servire il Governo sino a tutto il 1815, distratto dagli affari ed essendo in debole salute, non ho saputo determinarmi a scrivere. Ora però che mi trovo in piena libertà e senza incombenza alcuna, io penso di esporre quanto la memoria saprà suggerirmi, né [98] mi dilungherò in riflessioni, attenendomi a' soli e semplici fatti, dei quali io stesso fui personalmente testimonio e che constino per pubblici documenti, o tali, per pubblica fama, che non se ne possa dubitare, non avuto riguardo alle voci sparse e prive di sodo fondamento. Narrerò quanto io stesso ho veduto e quanto è accaduto a me: cosí questa mia relazione, che penso deporre nell'archivio di famiglia, darà qualche idea della cosa pubblica ed una notizia certa di quanto è accaduto a me come uomo pubblico in quell'epoca ed in seguito. Né sarà discaro agli individui della famiglia se, scrivendo di me, sarò forse diffuso, e se brevemente discorrerò degli impieghi ai quali sono stato chiamato prima dell'epoca che intendo descrivere, giacché il principale mio scopo è appunto quello di stendere una Memoria intorno a ciò che mi appartiene come uomo pubblico.
Nel 1802, mentr'io da qualche tempo viveva quasi abitualmente in campagna attendendo all'agricoltura, il conte Francesco Melzi, fatto vicepresidente della Repubblica Italiana, chiese di me e mi offrí una prefettura. Contavo già il cinquantesimonono anno d'età e con salute debole. Presi tempo a riflettere, poi accettai, sempreché fossi destinato alla prefettura del Lario in Como, città triste, ma che offriva la vicinanza dei miei fondi, della patria e del fratello cavaliere Giovanni in [99] essa domiciliato. La fondata speranza di un buon Governo, lo Stato stabilito con pubblico trattato politico, il dovere che incombeva a qualunque probo cittadino di secondare la felice circostanza per il pubblico interesse mi determinarono all'assenso, avendo nei tempi antecedenti di rivoluzione della Cisalpina e dei variati governi vissuto affatto alieno da qualunque impiego. Erano le prefetture in quella loro istituzione di grado assai decoroso, ed erano i Prefetti quasi veri governatori; ma in seguito decaddero assai dal loro lustro.
Il vicepresidente Melzi avrebbe voluto destinarmi non a Como, ma in qualche altro dipartimento piú interessante, e probabilmente aveva fisso nell'animo quello del Mella, la cui capitale è Brescia. Ma le circostanze soprallegate fecero ch'io rimanessi nella mia prima adesione per il solo Lario in Como. Dopo circa un mese di sospensione, il vicepresidente, vedendomi costante, mi nominò per il Lario. Ma vari signori bresciani, mossi da propria opinione e probabilmente dal Governo istesso, mi fecero istanze assai lusinghevoli perché cangiassi di pensiero e accettassi il Mella, e tali furono le istanze che non senza imbarazzante difficoltà sarebbe accaduto che io mi dispensassi; al che si aggiunse una obbligantissima lettera del cittadino Villa, ministro dell'interno, colla quale mi partecipava il desiderio de' Bresciani e quello del Governo istesso, che io non mi rifiutassi per il dipartimento [100] del Mella. Erano pertanto le cose a tal segno spinte che il rifiuto sembrava inurbana ostinazione, onde mi determinai a secondare l'istanza. Ma se la vivacità di quella nazione e le difficoltà che poteva presentare lusingavano e mi rendevano assai preferibile il Mella al Lario, pure la poca salute, la distanza da' parenti, dagli amici e dalle mie proprietà mi facevano preferire il Lario. Quindi in giugno del 1802 partii per Brescia: onorevolmente accolto, ivi rimasi fino al settembre del 1804, nel quale tempo ebbi una grave malattia di petto e fui nominato Consigliere legislativo. Quale memoria abbia fortunatamente lasciata di me nel dipartimento non istà a me il dirlo: il Governo ne fu contento e mi premiò coll'avanzarmi di grado in patria.
Venuto in Milano nel 1805 Napoleone per prendere la Corona di ferro, fece una nuova nomina per il Consiglio interinale di Stato, poi la fece stabile; ed in entrambe vi fui nominato. Poi, istituito l'Ordine della Corona di ferro, fui tra i primi nominato Commendatore, e n'ebbi la decorazione nella prima e sola funzione pubblica che si fece in Sant'Ambrogio, dalle mani del Principe Eugenio Viceré, seduto sotto il trono in piena formalità. Varie e distinte incombenze ebbi come consigliere, nelle quali anche fui nominato il primo ove si trattava di piú consiglieri nominati. Tale fu la commissione per la Dalmazia, ove io fui nominato [101] per Zara e suo distretto; ma per motivi di salute mi dispensai. Cosí fui nominato il primo, e nei primi dipartimenti, come Ispettore di pubblica beneficenza.
Finalmente nel principio di aprile dell'anno 1808 il Principe Viceré, sebbene io per mia indole non avvicinassi né la real Corte né i Ministri, con maniere obbliganti mi chiese se avrebbe potuto disporre di me; al che risposi che tutto mi sarebbe stato gratissimo e ad onore, sempreché la mia poca salute ed i miei pochi talenti avessero potuto secondare le viste di S. A. R. Passati pochi giorni, il Principe con suo viglietto mi scrisse che mi disponessi a partire per Ancona e che conservassi il segreto che affidava alla mia discretezza. Poi volle a me solo manifestare il motivo della partenza, il quale era doversi da me organizzare i tre dipartimenti della Marca, cioè il Metauro, il Musone ed il Tronto. Comandava in essi, come governatore, il generale francese Lemarois. Volle il Principe ch'io carteggiassi direttamente con lui e diedemi per compagno Giacomo Luini, Consigliere uditore. Partii in aprile, pretestando un giro nei dipartimenti del circondario di pubblica beneficenza a me affidato, e giunsi in Ancona prima del giorno 21 del mese, epoca assegnatami. Rimasi in Ancona sino a tutto l'agosto, e ritornai in patria lasciando contente quelle popolazioni; e persino gli ecclesiastici di [102] Roma non disapprovarono la mia condotta. Il real Governo ne fu contento ed il Principe, pagate le spese, mi regalò una bellissima tabacchiera col suo ritratto contornato di brillanti. Non è a tacersi essere io andato in quei dipartimenti senza istruzioni, senza notizie delle finanze, essendosi il real Principe interamente affidato, com'egli graziosamente diceva, alla mia saviezza.
Erettosi da S. M. l'Imperatore Napoleone il Senato del Regno d'Italia, ed essendosi riservata la nomina di alcuni, oltre quelli che gli fossero stati presentati dai Collegi elettorali in conformità dello Statuto, mi nominò Senatore con decreto del giorno 10 ottobre 1809.
Questa è la carriera da me percorsa nei pubblici impieghi, dai quali sono stato alieno fino all'anno cinquantesimo di mia vita e per i quali non ho mai fatto passo alcuno sia colla Corte, sia coi Ministri. Dal che facilmente si scorge che nel Governo della Repubblica italiana ed in quello del Regno d'Italia i sudditi chiamati a pubblico impiego ottenevano la confidenza del Governo, e non erano gl'Italiani trattati come semplici operai e sottoposti all'umiliante diffidenza, che disgraziatamente forma uno dei principali caratteri del Governo austriaco verso gl'Italiani.
Ciò premesso per notizia della famiglia, passo ora alla seconda epoca, cioè a quella del cangiamento di Governo. Scrivendo ciò che la memoria [103] potrà fornirmi e senza prevenzione di partito, non esporrò che i fatti certi, dai quali potrà chi legge dedurre quelle conseguenze che offrono da loro medesimi. Parlerò molto di me, poiché la Memoria che stendo ha per iscopo principale appunto quello di lasciare in famiglia un documento di quanto m'è accaduto, perché possa da esso dedurre argomento delle stabilità politiche, e quanto meglio sia il fondare la felicità sull'esistenza propria, sulle abitudini e geniali occupazioni, sui lumi, sullo studio, di quello che sugli impieghi dipendenti sempre dall'altrui volere e dall'impensato cangiamento degli eventi politici ed amministrativi.
Era la sera del giorno 16 aprile 1814, quand'io essendo colla società di varie persone, che seralmente da me si sogliono unire già da vari anni, ricevetti lettera d'avviso che la mattina seguente si univa il Senato in seduta straordinaria. Convalescente per recente malattia di petto e debole assai, gli amici mi consigliarono a non intervenire alla seduta; ma riflettendo io che questa seduta, attese le cose di Francia e le sventure di Napoleone delle quali correvano incerte voci, doveva essere effetto di oggetto interessante, mi determinai d'andare al Senato, anche esponendo la propria salute. Ignorava di che trattar si dovesse; e la mattina del 17 me ne stavo seduto in letto trattenendomi in alcune geniali occupazioni ed attendendo l'ora di alzarmi, quando venne da me il conte Alfonso [104] Castiglioni mio nipote. Premessi i soliti atti di famigliare amicizia, egli mi chiese se pensava di andare al Senato; al che risposi affermativamente adducendone il motivo. Continuò egli interpellandomi se mi era noto l'oggetto della convocazione, e risposi che lo ignoravo. Allora egli mi disse: «Io ve lo dirò. Trattasi di un messaggio al Senato per ottenere che il Principe Eugenio, viceré d'Italia, sia dichiarato re.» Ignorando io ciò che era accaduto in Francia, come s'ignorava da tutti, fui sorpreso e meravigliato, onde ne parlai con stupore non potendo persuadermi di quanto mi veniva detto; ma il conte Castiglioni mi assicurò in modo cosí deciso e fermo che dovetti in certo modo persuadermi essere vero quanto mi diceva.
Dopo breve dialogo partito il Castiglioni e rimasto solo, riflettei fra me medesimo cosa dovessi fare e dubitai se fosse prudente cosa il non intervenire alla seduta, giacché la poca salute mi offriva giusto motivo. Da una parte io sentiva le molte obbligazioni mie verso il Principe, che sempre mi ha distinto sebbene io non frequentassi la Corte; non ignoravo, d'altronde, che già da un anno il pubblico non gli era piú affezionato e che molto di lui si doleva. Rammentavasi l'ordine, da lui emanato, di dare cinquanta colpi di bastone ciascun giorno di un intero mese a' vari condannati ai lavori forzati in Mantova per essere fuggiti: decreto che fu eseguito per alcuni giorni, poi sospeso, essendosi da Mantova [105] mandati in commissione speciale alcuni cittadini onde revocare sí terribile decreto, che riduceva quelli infelici a dura morte per cancrena. Né fece poca impressione nell'animo degli Italiani la condanna a morte per fucilazione del sig. ...... guardia d'onore, di famiglia distinta di Corinaldo, dipartimento del Metauro, per pensata e non effettuata diserzione. Varie altre cose spargevansi già da qualche tempo contro il Principe, e singolarmente alcune sue espressioni di disprezzo pe' militari italiani. Né poteva il pubblico tollerare l'influenza del signor Méjan, suo segretario degli ordini, né quella di qualche suo aiutante disprezzatore degli Italiani. Spiaceva inoltre che il signor Darnay fosse stato fatto Direttore delle poste, e dicevasi che le lettere erano tutte aperte, molte trattenute ed abbruciate. Il partito opposto al Governo esagerava questi fatti e declamava: i tributi gravosissimi diretti dal ministro Prina odiato dal pubblico; la coscrizione militare che offriva al macello tanta gioventú e che non lasciava famiglia che non fosse in profonda desolazione; la lusinga sempre facile nel popolo di migliorare la sorte presente con un nuovo Governo; la reazione del partito dei nobili e di quelli che dimenticati dal Governo speravano nelle vicende della guerra, dopo i disastri sofferti nel fine della campagna di Russia, davano animo ad eccitare il generale malcontento con tutti quei mezzi e con tutte quelle dicerie, che [106] l'entusiasmo e la vivacità dei partiti hanno poste in opera in tante fatali circostanze dell'età nostra.
Questi pensieri ed il dubbio del carattere che il Senato fosse per assumere in cosí difficile circostanza, l'intimo sentimento mio di esprimere il mio voto sempre diretto dall'onore, dal dovere e dal pubblico bene, mi davano grande perplessità e timore di espormi inutilmente. L'incertezza delle notizie, l'ignoranza del vero stato politico delle cose, la volubilità degli eventi, la generale avversione al Governo francese, le declamazioni contro il Principe erano tutti oggetti gravissimi di seria riflessione. Considerando però che l'uomo appunto nelle circostanze difficili non doveva smentire il proprio carattere e che l'uomo appunto in queste occasioni deve prestarsi in favore dello Stato e del bene della società, mi determinai di andare al Senato nella ferma risoluzione di parlare con quella libertà che era di preciso dovere, quand'anche avessi dovuto sacrificare me stesso, e di ragionare in conformità di quanto fosse stato proposto alla discussione del Corpo, giacché realmente non sapevo immaginare sotto quale aspetto, con quali motivi e come potesse essere disposto l'affare.
Giunto al palazzo del Senato, dubitando che la prevenzione di alcuni individui, la debolezza di molti, le private viste ed un antecedente maneggio potessero indurre il Senato o ad essere sospeso o a non mantenere quel nobile carattere e quella saviezza [107] che conveniva al primario Corpo del Regno, avvicinai due o tre senatori, e, chiesto loro se avessero notizia di quanto doveva trattarsi, essendomi stato risposto che lo ignoravano, dissi loro che l'affare doveva essere grave e che li esortava ad essere attenti e cauti contro qualunque sorpresa.
Era presidente il conte Veneri, modenese, ex-ministro del tesoro del Regno. Aperta la seduta, fu letto un messaggio del signor Duca di Lodi, guardasigilli del Regno, col quale annunziava al Senato che le vicende politiche e le circostanze esigevano la piú seria attenzione, ed essere necessario:
1º di spedire una Deputazione alle Alte Potenze alleate contro la Francia, onde interessarle a sospendere le ostilità e conservare il Regno coll'indipendenza dello Stato.
2º Convocare i Collegi elettorali.
Con questo messaggio venne proposta anche la forma del decreto da adottarsi, e dopo i due suddetti articoli eravi il terzo ed ultimo, col quale volevasi che
3º La Deputazione esprimesse alle Alte Potenze alleate il sentimento di riconoscenza che la nazione nutriva verso la persona del Principe Eugenio viceré, per l'ottima sua condotta nell'amministrazione pubblica.
Grande fu la sorpresa del Senato alla lettura di questo messaggio, col quale, tacendosi gli eventi [108] accaduti in Mantova ed a Parigi, si vedeva invitato a cangiare il Sovrano. E veramente in quell'epoca destinata a tanti cangiamenti, si sono commessi errori politici da tutte le parti, e anche da chi aveva dati non piccoli saggi di esperimentata prudenza e saviezza; come si vede dall'irregolare, imprudentissimo messaggio del Duca di Lodi al Senato, e come meglio apparirà considerando gli effetti degli opposti partiti, dei quali l'uno fu tanto imprudente da muovere la plebe contro il Senato, e l'altro non seppe, con opportuni modi, operare in favore dell'indipendenza dello Stato. Cosí avvenne in Roma per la dissensione fra la nobiltà e la plebe, allorché odiando quella la facoltà tribunizia e questa la consolare, si crearono i Decemviri; imperocché in quella straordinaria circostanza gravi errori commisero il Senato, la plebe e i Decemviri.
Fatta al Senato la proposizione, io voleva chiedere la parola; ma il senatore Guicciardi mi prevenne e fece una mozione d'ordine, chiedendo come il signor presidente avesse convocato il Senato in seduta straordinaria, la quale non poteva farsi senza un decreto del Principe. Parmi che il presidente rispondesse che il Duca di Lodi, guardasigilli, era autorizzato e che le circostanze lo esigevano; ma quali fossero quelle circostanze ignoravasi dal Senato. Chiesi, dopo Guicciardi, la parola; ma sedendo io nel rango superiore, poiché le sedie stavano in [109] due giri, l'uno piú alto dell'altro, il senatore Dandolo, che era appunto sotto di me nel circolo inferiore, si alzò e parlò con molta eloquenza e saviezza, ragionando sulle tante incongruenze, che di sua natura offriva quello strano progetto appoggiato a nessuna positiva notizia e solo in generale alle urgenti circostanze.
Dopo il conte Dandolo, chiesi la parola e mi limitai a poche domande: chiesi pertanto se l'imperatore Napoleone viveva o no, poiché le voci plateali ed il messaggio stesso davano luogo a supporlo morto; se, qualora fosse morto, non esistesse il figlio, re di Roma; se, vivo, Napoleone avesse abdicata la corona per sé e per la discendenza sua, senza di che il Senato si renderebbe colpevole di fellonia e di ribellione. Insorta cosí una viva discussione, voleva il presidente che senz'altro si adottasse il progetto di decreto; ma il Senato, per quanto mi sovviene, sulla ferma proposizione di Dandolo determinò che il progetto di decreto proposto al Senato fosse esaminato da una commissione, che ne facesse rapporto nello stesso giorno: la seduta fu dichiarata permanente. Fattosi lo scrutinio, furono nominati per la commissione Guicciardi, Bologna, Castiglioni, Dandolo, Cavriani, Verri e Costabili.
Rimaneva però sempre il dubbio con quale autorità legale vi fosse stata quella straordinaria convocazione; onde il Senato delegò Guicciardi, Dandolo e Verri, perché tosto si portassero personalmente [110] dal Duca di Lodi per intendere da lui le facoltà che avesse, e se vi fosse un armistizio fra il Principe Eugenio e l'armata nemica, poiché il ministro Vaccari, mentre il Senato discuteva sull'interessante oggetto, accennò che si era fatto un armistizio. È da sapersi che i ministri potevano intervenire alle adunanze del Senato quando pure non fossero senatori, ed in quell'occasione i ministri Vaccari dell'interno e Luosi della giustizia, che certamente erano al fatto e consci di tutto, intervennero. Anzi si poté sapere in seguito, e la condotta loro lo confermò, che Vaccari singolarmente ed alcuni senatori, cioè Prina, Paradisi e Carlotti, avevano avuta parte nel formare un cosí strano e assurdo progetto, o per lo meno ne erano prevenuti; progetto che per le sue incongruenze appena sembra credibile. Né fu poca la maraviglia mia e di altri estimatori ed amici del Duca di Lodi, nel vedere che egli approvasse e potesse secondare e dar mano a tanta assurdità. E tale fu la sorpresa nostra che io, sull'istanza che alcuni mi fecero, mi portai al gran tavolo ove sedeva il presidente co' segretari, e chiesi di vedere la firma del Duca di Lodi, dubitando di qualche sorpresa; tanto era lo stupore. Esaminata la firma, vi trovai sottoscritto il Segretario Villa per espressa commissione di S. E. il Duca di Lodi impedito dalla gotta; ed il carattere era del Villa, a me notissimo.
Eseguendo la commissione del Senato andai subito [111] co' senatori Guicciardi e Dandolo dal Duca Melzi, il quale ci partecipò l'armistizio, l'abdicazione di Napoleone e l'autorità a lui concessa per le occasioni straordinarie che potessero occorrere essendo assente il Viceré. Non è fuori di proposito di osservare che il Senato fu convocato in questo giorno 17 marzo, ad un'ora dopo mezzogiorno; che l'invito fu diramato il giorno antecedente e che l'armistizio suddetto non fu notificato che un'ora appunto dopo mezzogiorno del 17 istesso; come risulta dalla stampa pubblicatasi in Mantova, la quale incomincia, ecc.[37]
Ritornati noi al Senato, dopo lunga discussione, dichiarata permanente la seduta, partiti i senatori, rimanemmo noi sette delegati per esaminare e modificare il progetto di decreto stato proposto. Nessuna difficoltà si trovò nella forma dei due primi articoli del decreto, i quali furono facilmente tra noi ad unanimità di parere combinati, cioè:
1º Per l'invio di una Deputazione di tre senatori al quartiere generale delle Potenze alleate, onde supplicarle, in conformità de' liberali principî da esse pubblicati, non solo a sospendere, ma a cessare dalle ostilità e conservare il Regno con un sovrano indipendente.
2º Per la immediata convocazione dei Collegi elettorali.
Ma molte e gravi difficoltà insorsero nel combinare, ciò che riguardava il Principe viceré. Trattavasi, [112] nel primo progetto di decreto presentato al Senato, di un elogio del Principe da farsi alle Alte Potenze alleate, e di tal natura che sembrava indicarsi il vóto della nazione per averlo in sovrano. Ma il Senato non poteva parlare in nome della nazione, non avendone la rappresentanza, e questa dovevasi considerare, in quelle circostanze singolarmente, come riposta ne' soli Collegi elettorali; al che si aggiungeva il fermento generale del popolo contro il Governo francese e le fatali declamazioni contro il Principe. Egli è ben chiara cosa che l'interesse personale dei senatori e fors'anche il vero interesse della nazione ottimamente combinavano colla nomina del Principe Eugenio in sovrano. Ed in quanto a me lo avrei bramato assai, onde, parlando in Senato, dissi: nessuno piú di me essere riconoscente e per dovere essere a lui affezionato; ma che sfortunatamente l'opinione generale da qualche tempo erasi cosí cangiata riguardo al Principe che pericolosa cosa sembravami il proporlo ed anche l'insinuarlo come bramato dalla nazione. Il fatto provò quanto fosse fondato il timor mio, come si vedrà nel seguito di questa relazione. Quindi, dopo tentati tutti i mezzi fra noi sette delegati alla riforma ed all'esame del progetto, né ritrovando il modo di formare il terzo ed ultimo articolo, combinando i nostri privati sentimenti colle sfavorevoli circostanze della generale opinione e col moto che scorgevasi nella città [113] contro il Principe ed i Francesi, si stese un articolo nel quale il Senato esprimeva la sua riconoscenza verso il Principe. Nessuno di noi era contento di quel troppo semplice articolo e troppo meschine espressioni; ma che potevasi fare, quando il dire di piú esponeva il Senato al furore del popolo e la nazione ad una rivolta? Noi fummo occupati tutto il rimanente del giorno, studiandoci di trovare una piú onesta uscita; ma non ci fu possibile immaginarla.
Unitosi pertanto di nuovo il Senato la sera e montato alla tribuna il conte Dandolo, fece al Senato a nome della commissione formale rapporto e propose la riforma del decreto alla sanzione dei senatori. Qui grande discussione insorse: molto parlò il senatore Paradisi e con lui il senatore Prina, tentando con mille ragionamenti d'indurre il Senato a determinazioni piú analoghe al primo progetto; ma inutili furono i loro sforzi, persistendo il Senato nell'opinione della commissione. Sarebbe troppo lungo il riferire quanto fu detto; né io ora saprei colla necessaria esattezza narrare tutto l'occorso. Basterà pertanto il dire che il Senato passò alla nomina di tre individui da spedirsi in commissione alle Alte Potenze alleate, e furono nominati Guicciardi, Testi e Castiglioni. Io ero stato interpellato da Guicciardi, se potessi esporre la mia debole salute per la patria accettando di essere della commissione, ma risposi che [114] sarei sicuramente rimasto ammalato in cammino; e troppa infatti era la debolezza mia fisica per età non solo, ma per convalescenza di malattia di petto.
Mentre queste cose in Senato non senza vivacità si discutevano, quando si pervenne alla lettura del terzo articolo il ministro Vaccari, spinto dall'attaccamento suo al Principe, e poco o nulla ragionando sulle circostanze, alzatosi dalla sedia, disse: «Oh, questo poi è troppo, ed è un insulto, poiché appena è detto ciò che si direbbe ad un subalterno che cessa dal servizio». Che poco fosse il complimento ciascun di noi, con vero dispiacere, lo sentiva; ma come porvi rimedio? Questa mossa però del ministro Vaccari fece sí che alcuni senatori studiarono stendere in piú onesta maniera l'articolo; ma in fatto sempre insorgeva la terribile difficoltà che in nome della nazione il Senato non poteva parlare e che qualunque elogio fatto al Viceré, il quale potesse dare idea alle Potenze alleate che il Principe fosse bramato in sovrano, incorreva nella fatale contrarietà della fermentante opinione del popolo, con grave pericolo del Senato e della pubblica quiete. Dopo vari tentativi fu letto un articolo, che parmi fosse scritto dal senatore conte Mengotti, nel quale si stabiliva che fossero fatti i dovuti ringraziamenti al Principe per l'ottima sua amministrazione; fosse a lui partecipata la riconoscenza e l'affezione del Senato, con alcune [115] altre espressioni atte a dare favorevole opinione del Principe, che ora bene non saprei risovvenirmi. Fu quell'articolo adottato per istanchezza piuttosto che per persuasione in modo tumultuario, essendosi alzati i senatori ed essendo inoltrata la notte.
Aveva il conte Testi, nominato tra i delegati alle Alte Potenze alleate, dichiarata l'impossibilità di aderire alla propria partenza, adducendo il fisico incomodo che tuttora aveva negli occhi, incomodo che realmente sussisteva e non di poca conseguenza. Stette egli fermo nell'iscusarsi, e il Senato a tenore del suo decreto doveva supplire con altra nomina, onde tre fossero gli ambasciatori; ma il presidente, non avuto riguardo a questa circostanza, dichiarò sciolta la seduta: e sebbene io gli dicessi che ciò era irregolare e che la rinuncia del conte Testi esigeva un supplemento, egli rispose con qualche impazienza che la seduta era sciolta e che usava l'autorità della quale era investito. Fu la fine di questa seduta irregolare, e priva d'ordine, come spesso accade nelle assemblee quando gli animi sono stanchi; e mentre il senatore Paradisi, che molto aveva parlato in sentenza contraria alla generale opinione del Senato, se ne uscí frettolosamente col senatore Carlotti e mentre gli altri alzatisi dalle sedie si frammischiavano nella sala per partire, il ministro Vaccari disse che «la deputazione doveva prendere [116] la strada di Mantova e presentarsi al Principe Eugenio prima di portarsi al quartiere generale delle Potenze.» D'onde nacque in molti non poca meraviglia come ciò si dicesse da un ministro, che niuna autorità aveva sopra il Senato, e lo dicesse dopo levata la seduta.
Guicciardi e Castiglioni, prese le istruzioni dal Duca di Lodi per il modo di seguire l'ambasciata, partirono per Mantova, e Castiglioni partí, per la insinuazione degli amici e non senza difficoltà. Portatisi a Mantova, ritornarono in Milano senza effettuare la commissione; e non essendomi ben noto ciò che in Mantova è avvenuto, mi riservo informarmene dai delegati medesimi ed aggiungerne le relazioni.
Mentre il Senato sedeva, in tutto quel giorno il partito contrario al Governo non rimase ozioso, e nella città cresceva il fermento. La sera tale era la vivacità dell'opposizione che nel gran teatro della Scala fu proposto di andare al Senato ed ivi manifestare l'opinione del popolo e costringere il Senato a dimettere qualunque idea che tendesse ad avere il Principe Eugenio in sovrano. Ma, fosse per caso o per arte di un commesso della Polizia come fu detto, sparsasi nella platea del teatro la voce che il Senato era sciolto ed i senatori partiti, fortunatamente il progetto non ebbe effetto. Che se il popolo occupava di notte il Senato, questa infelice città avrebbe sofferta una [117] terribile calamità, ed i senatori non avrebbero potuto salvarsi, tanta era l'animosità del partito che divulgava volere il Senato il Principe in sovrano e tanta l'avversione popolare. Mosso il popolo e mossa di notte la plebaglia, i cattivi, per vendetta di parte e per avidità di saccheggio, avrebbero posta la città tutta in un vero caos di disordini e di crudeltà.
La mattina del giorno 18 andai a fare un piccolo passeggio verso Porta Orientale, e passai lungo la corsía de' Servi: la sera mi fu detto, non essere io stato riconosciuto da quelli che si trovavano alla bottega di caffè, se non quando la aveva oltrepassata, e che n'ebbero dispiacere, perché riconoscendomi prima m'avrebbero fatto applauso. In quello e nel seguente giorno 19 sempre crebbero i discorsi pubblici, l'incertezza delle cose politiche, l'avversione ai Francesi: lo spirito di partito agitava tutte le menti. Varie persone vennero da me, colle quali io procurava d'insinuare la quiete, assicurandole che il Senato nulla aveva fatto che si opponesse al bene generale e che la risoluzione presa era savia e prudente. Non mancò chi voleva la mia firma ad una carta rivoluzionaria, firma alla quale mi rifiutai, esortando chi la propose che considerasse a quante calamità esponesse lo Stato ed a quanti pericoli sé medesimo.
E qui piacemi narrare un fatto che può divertire [118] il lettore. Una mattina, non so se il giorno 18 o 19, mentre secondo il mio consueto me ne stavo a letto scrivendo, il cameriere mi annunziò esservi una signora che bramava parlarmi. Entrata ed avvicinatasi al letto, m'abbracciò e baciommi. Era donna di mezza età e di condizione civile. Sorpreso da questo singolare tratto, sorridendo le chiesi quale mai fosse il motivo di tanta tenerezza con me, mentr'io non aveva l'onore di conoscerla. Al che ella rispose che il carattere da me spiegato in Senato aveva eccitato il piú vivo sentimento di stima e di affezione in tutti; che essa si trovava in casa con vari amici e che mentre parlavano di me con lode, essa disse che volentieri m'avrebbe dato un bacio; e che applaudendo quelli alla proposizione si determinò ad eseguirla. Fatti alcuni vicendevoli complimenti e manifestata la sorpresa mia, poiché non aveva fatto se non ciò che il dovere e le circostanze esigevano e che altri pure in Senato aveva fatto, dopo breve dialogo partí. Seppi da essa il suo nome, ed essere moglie di un viceprefetto, e che alloggiava in casa Serbelloni ai Servi, ma non mi sovviene né il nome, né la viceprefettura; né piú la vidi, sebbene fosse mia intenzione di farle una visita, che le mie successive occupazioni non mi hanno poi permesso.
Le pubbliche voci, ciò che da varie persone mi fu detto del malcontento generale, il fermento [119] nella platea del gran teatro della Scala, ove vi fu chi propose la sera di lasciare il teatro e portarsi tumultuarii avanti al Senato, come già dissi, e varie altre circostanze presagivano un generale turbamento; ond'io, sebbene vivessi già da qualche tempo quasi privatamente attendendo alla mia sempre incerta salute, e poco anzi frequentassi il Senato stesso, deliberai portarmi dal conte Melzi Duca di Lodi, per informarlo del pericolo in cui trovavasi la città e lo Stato. E sebbene già da molto tempo fosse egli obbligato dalla gotta, che abitualmente lo affliggeva, a dimorare in casa, era però il primo fra i Magistrati, essendo Cancelliere Guardasigilli del Regno, rispettato dal Viceré, ed in diretta corrispondenza con Napoleone; sicché, assente il Viceré, doveva considerarsi la prima persona del Governo. Melzi era stato vicepresidente della Repubblica Italiana, nella quale coi suoi distinti talenti, colla grandezza del pensare, colla somma probità e con idee liberali confermò quell'alta opinione che tutti i buoni avevano di lui. Presiedeva il Consiglio dei ministri ed a lui era affidata l'alta polizia nell'assenza del Principe. Mosso io pertanto dal desiderio di liberare la mia patria dallo sconvolgimento, che tutto presagiva, tutto a lui esposi; ma, per quanto dicessi, non mi riuscí persuaderlo dell'imminente pericolo. Non lasciai di fargli osservare aver egli sempre in me considerata certa tranquillità di carattere e [120] nessuna tendenza di troppo mobile immaginazione, onde pur si persuadesse che non esagerate ma veritiere erano le circostanze tutte ch'io gli riferiva, e che, malgrado l'indole mia né esagerata, né timida, io non poteva se non considerare la città, il Senato, il Governo in grave pericolo.
Ma o fosse che la lunga malattia di gotta avesse in lui diminuita la forza delle intellettuali facoltà, o fosse egli male assistito dal magistrato di Polizia, come poi seppi da lui stesso, o non conoscesse l'opinione pubblica per il suo genere di vita affatto domestico, non vedendo che pochissimi amici e parenti, furono inutili tutte le mie parole. Fu questa la prima volta che egli non poté accostarsi alla mia opinione, e non senza mia gran maraviglia, imperocché come prefetto e consigliere di Stato ebbi sempre piú felice sorte. Quanto io gli andavo dicendo colla maggior forza di ragionamento, tutto fu inutile a porlo in diffidenza. Cosí sembra che il destino combinasse tutti gli elementi al fatale sconvolgimento dello Stato, accecando anche le menti de' piú illuminati e zelanti: di tale accecamento si scorgeranno le prove in tutto ciò che sono per dire, giacché il tutto forma un complesso di errori politici e governativi, altrettanto strano quanto fatale.
Trascorsero cosí i giorni 18 e 19 aprile, nei quali le private società non s'occuparono d'altro che di ragionare sulle circostanze dell'Impero francese [121] e del Regno d'Italia, e tutte si posero in moto le passioni dirette da vari ed opposti interessi. Molti, come suole accadere, speravano cangiando governo. La coscrizione militare spinta agli estremi, il timore di perdere nelle persone impiegate, la gravezza delle imposte, la lusinga di sorgere dalla dimenticanza nella quale molti nobili si trovavano sotto il dominio di Napoleone, l'attaccamento dei piú vecchi fra questi avversissimi ai Francesi e che molto speravano dagli Austriaci, ponendo in moto gli animi li agitava; e ciascuno agiva e si offriva pronto ad agire secondo le particolari sue mire ed il proprio interesse. Ma il partito che sembra avere in fatti influito allo sconvolgimento è quello dei vecchi nobili. Questi, dei quali potrei nominare alcuni, a quanto pare servendosi dell'autorità loro fondata sull'età e sulla nobiltà del sangue, approfittando della facile mobilità di alcuni giovani e della loro irritabile animosità, riscaldati gli animi hanno secondato o fatto nascere espressamente il progetto di portarsi al Senato nella prima seduta e di esprimere popolarmente il voto contrario al Governo francese. Ma quando pur voglia supporsi che retta nei principî fosse l'intenzione di un tale progetto, non era però fondata su principî di prudenza né di saggia previdenza, coi quali sarebbesi dovuto riflettere quanto facile cosa sia il porre in moto la plebe e quanto poi difficile il reprimerla nei suoi eccessi. Giovani [122] erano questi primi motori e delle cose pubbliche inesperti, e forse furono essi medesimi maravigliati di un esito cosí inaspettato e pericoloso. Né sarebbesi da essi saputo frenare quel moto a cui diedero principio, né evitare i terribili mali di un generale saccheggio, al quale essi imprudentemente avevano aperta la strada.
Era la sera del giorno 19, quand'io secondo il consueto me ne stava in casa colla società degli amici e parenti, allorché ricevetti la solita lettera d'invito al Senato per il giorno seguente. Aveva il Senato due sedute fisse in ciascun mese, cioè il 10 e il 20. Cosí anche in quelle tumultuose circostanze il Presidente fece spedire l'invito come cosa regolare e di pratica. E qui pure veggonsi i gravi errori politici e amministrativi. Era notorio il fermento pubblico, era generale il malcontento; nessuno ignorava che la sera del 17 nel teatro della Scala fuvvi chi propose, come si è detto piú sopra, di andare tumultuariamente al Senato per costringerlo a non secondare il progetto favorevole al Principe Eugenio. La seduta del Senato era di mera formalità per essere il 20 del mese, e non eravi alcun affare interessante e nessuna forza che assicurasse la tranquillità della seduta. Letta la lettera, tutti quelli della società, singolarmente in vista della debole salute in cui mi trovava per la sofferta malattia di petto, mi persuadevano a non espormi alla necessaria mutazione di vestito ed al [123] diverso ambiente delle stanze. Grato all'interesse degli amici, fermo in me stesso d'intervenire alla seduta, risposi che mi sarei determinato secondo mi ritrovassi di salute nella mattina seguente.
Il giorno 20, mi vestii di costume, come si soleva, e postomi in carrozza andai al Senato. Temendo però che passando per la corsía dei Servi potessero dai caffè che vi sono essermi fatti quelli applausi, che mi fu riferito non essermi stati fatti quando vi passai il giorno 18 per non essere stato conosciuto, volli che il cocchiere prendesse la contrada di S. Vittore Quaranta Martiri, poi quella del Senato. Giunto al ponte che sta a capo di essa, vidi alla porta del palazzo del Senato un complotto di venti persone circa, e non piú, colle ombrelle di seta perché pioveva. Fra quelle persone potei distinguere un giovane nobile da me conosciuto, il quale allo spuntare della mia carrozza fece un cenno e conobbi che indicò essere quella la carrozza mia. Fatto il piccolo tratto che sta fra il ponte e la porta del palazzo, udii grandi evviva, applausi e batter di mani a me diretti; feci un profondo inchino, e rapidamente entrato sotto il portico e sceso, continuando gli applausi, facendo inchini me ne andai frettolosamente alla gran sala. Venivano in seguito di mano in mano altre carrozze di senatori, e mentre lentamente io montava le scale, udii urli e fischiate non prive di minacce, colle quali gli altri senatori erano ricevuti [124] ed accompagnati. Passati i due lunghi portici, entrai nella prima stanza degli uscieri, e mentre pensava dirigermi alla destra, ove solevano radunarsi gl'individui prima di porsi nell'aula della seduta, mi fu indicato che i senatori erano nell'aula suddetta. Come ciò accadesse io non lo so; ma forse quello schiamazzo, sebbene di poche persone, aveva indotto i senatori a porsi subito nell'aula della seduta, sia per ottenere il vantaggio di rappresentanza pubblica del Corpo primario dello Stato, sia per accelerare le discussioni e le provvidenze che potessero occorrere.
Entrato nell'aula, ritrovai non molti senatori avermi preceduto, e fatti i consueti offici d'urbanità, vidi il Presidente che stava in piedi innanzi ad alcuni senatori seduti: mi accostai e lo salutai. Stavano gli altri separatamente parlando come nella società si costuma, poiché non era incominciata la seduta per mancanza del numero legale. Osservai che il Presidente discorreva con quelli ch'erano seco su alcune carte che avevano in mano, e vedendo che il loro discorso mostrava inquietudine, voltomi al Presidente, chiesi vedere le carte, e data una rapida occhiata, vidi contenere una forte protesta contro il Governo francese, e parmi vi fosse la domanda della convocazione dei Collegi elettorali e del richiamo della Deputazione spedita a Mantova. Osservai una grande quantità di firme d'individui delle piú ragguardevoli famiglie e di [125] persone distinte, coll'annotazione che molte ed assai piú non erano state trascritte per mancanza di tempo. Rivoltomi pertanto al Presidente, lo interpellai, se egli aveva ricevute quelle firme, e gli dissi che a me facevano grande impressione e che non sembravami cosa da prendersi leggermente, ma da essere ponderata assai. Appena ebbi ciò detto, un araldo entrò e disse che un aiutante del Comandante della piazza chiedeva di entrare. Ammesso nella sala, disse che per ordine del Comandante avvertiva il Senato che il popolo contornava il palazzo, che la folla cresceva e che vi era pericolo. È veramente meritevole di molta considerazione questo messaggio, senza che dal Comandante si accennasse provvedimento alcuno da lui dato, né forza comandata in difesa del Corpo e della pubblica sicurezza: cosí pure che ad alcuno dei senatori non si presentasse l'idea, che pur doveva essere la prima a sorgere, d'interpellare l'aiutante sulle provvidenze che fossero state date e da potersi dare. Io rimprovero me stesso di tanta mancanza, e non posso cessare dalla maraviglia come ciò non sia sovvenuto né a me, né ad alcuno.
Mentre però la sorpresa sembrava aver colpito i senatori, sentendo che il popolo era alla porta del palazzo e riflettendo agli applausi fattimi, rivoltomi ai senatori dissi: «Se lo giudicate, mi presenterò al popolo onde conoscere la cosa [126] e procurare la calma». Avendo essi aderito, uscii subito, e passati i lunghi portici, sceso dalla gran scala, mi portai alla porta del palazzo. Osservai non esservi ivi di guardia che sette od otto soldati, numero minore del consueto, e fu mio primo consiglio l'ordinare al capo-posto che nessun soldato facesse violenza. Pioveva; mi posi sul limitare esterno: ma quale fu la mia sorpresa allo scorgere totalmente cangiata la qualità delle persone ivi affollate. Eranvi al mio arrivo cittadini tutti per lo meno di civile condizione, e tutti con ombrelle di seta; ma ora non si ravvisavano che individui del piú basso popolo, nessuno fra essi di mia conoscenza, nessuno che mi conoscesse. Chiesi cosa si bramasse, e replicatamente dissi il mio nome; chiesi piú volte se vi fosse chi mi conoscesse personalmente, pregai perché alcuno s'inoltrasse e parlasse dichiarando quanto si chiedeva. Ma tutto fu inutile; nessuno proferí parola, nessuno si mosse dal luogo: quella massa non grande di popolo rimase muta, immobile, tranquilla, ma era composta di figure che non presagivano alcun bene e sembravano fatte per il saccheggio e la rapina. Dopo replicate inutili istanze, non movendosi alcuno, nessuno parlando, credetti mio dovere di fare una breve esortazione, nella quale, lodata la buona indole della popolazione e rammentata la savia condotta tenuta dai miei concittadini nei tempi della generale rivoluzione, assicurata [127] quella gente sulla mia parola d'onore che il Senato non aveva agito e non pensava che in conformità del pubblico interesse, esortai alla calma ed a ritirarsi ciascuno a' proprii offici domestici.
La tranquillità ed il silenzio conservato da quella parte di popolo che si era presentato alla porta del palazzo, che non ascendeva forse a sessanta persone, davano motivo di considerare quel piccolo tumulto come cosa da poco e calmato dal breve discorso fattogli. Ritornai pertanto al Senato; ma appena fui nella sala riferendo l'occorso, alcuni degli uscieri ed impiegati entrarono sbigottiti annunziando che il popolo s'ingrossava in modo minaccioso. Come ciò accadesse io non saprei assicurarlo. Forse la naturale curiosità, per cui suole il popolo accorrere ovunque si formi unione di gente, poté in poco tempo accrescere la folla; o forse, come da alcuni si è asserito, molta gente erasi anche radunata preventivamente dal partito dei giovani nobili, che pel primo diede il moto, e la teneva collocata nel bosco attiguo al palazzo. E sebbene dalla porta di questo all'aula del Senato siavi qualche distanza per i lunghi portici dei due cortili, né io potessi andare con passo molto celere perché convalescente, pure la rapidità colla quale il popolo si era ingrossato può in certo modo confermarne il sospetto.
Al nuovo annunzio nacque un momento di silenzio, [128] ed io, vedendo che nessuno parlava, dissi: «Se lo credete, o senatori, ritornerò, e mi presenterò al popolo». Aderirono essi, ed i senatori Massari e Felici si offrirono a venire con me. Scese le scale, ritrovammo essere il popolo entrato nel primo portico inferiore. Felici e Massari, mischiatisi colla moltitudine, la esortavano alla quiete, assicurandola della retta intenzione del Senato, ed io con essi faceva lo stesso. Eravamo vestiti da senatori, come solevasi allorquando si sedeva in Senato. Mentre però con urbane e ragionevoli esortazioni procuravamo, cosí frammischiati col popolo, persuaderlo alla quiete ed a ritirarsi, io osservai che non piú eravi silenzio, quiete, immobilità, come quando mi presentai solo, ma che il popolo questionando si avanzava, dimenticato quel rispetto che avrebbe dovuto mantenere alla presenza di tre magistrati in abito di costume e nel palazzo medesimo del primario Corpo dello Stato. Questo diverso contegno mi fece impressione ed ebbi un momento di dubbio sulla sicurezza dei nostri individui e del rispetto dovuto alla dignità del grado senatorio. Temetti, sebbene fossi stato applaudito all'ingresso, poi rispettato parlando solo al popolo, che in quella tumultuosa folla poco conosciuto potessi facilmente essere insultato, ché troppo diverso dal primo era il contegno di questa seconda massa. Nella prima l'immobilità ed il silenzio davano [129] luogo a sperare certo rispetto; nella seconda, superiore assai di numero, non piú silenzio, non piú immobilità: si questionava continuamente, la moltitudine andava inoltrandosi verso le scale, non mancavano schiamazzi, e tutto presagiva non aversi rispetto alcuno né al luogo, né alle persone.
Eransi i due senatori, che meco discesero le scale, separati, e ciascuno di essi parlava al popolo separatamente, esortandolo alla quiete con adatti modi. Ma questa separazione nostra e il frammischiarsi ciascuno separatamente colla massa ivi concorsa, togliendo molto alla dignità della rappresentanza, dava sempre piú animo ai tumultuanti; ond'io vedendo l'inutilità di quelle allocuzioni e che il popolo disputando e piuttosto confusamente mormorando s'inoltrava, credetti prudente cosa e necessaria rimontare le scale e rientrare in Senato. Il mio dubbio era giustamente fondato su tutte quelle poco felici speranze; infatti appena rientrai nell'aula, incominciai a riferire quanto accadeva nel primo gran cortile, che anche gli altri due senatori rientrarono. Trascorsi pochi momenti, crescendo il tumulto, sbigottiti gli uscieri e gli altri impiegati, alcuni bussando alla porta del Senato palpitanti, pallidi per lo spavento chiesero di entrare, e con interrotte parole annunziarono che il popolo s'ingrossava con manifesto pericolo. Fattosi un momento di silenzio, come suole accadere nelle circostanze che portano seco il sentimento [130] della sorpresa ed esigono per la loro importanza ponderazione e consiglio, io di nuovo mi offrii per arringare il popolo. Riflettendo però all'occorso sopra narrato, dissi: «Senatori, se cosí giudicate, io di nuovo mi proverò presentandomi alla moltitudine, ma bramerei presentarmi solo». Acconsentirono essi, ed io, per quanto le deboli forze me lo permettevano, presto uscii, e passati i lunghi portici superiori scesi la grande scala, e giunto al ripiano che dà all'ultima parte di essa che sta di faccia al lungo portico, lo vidi tutto pieno di gente, che confusamente faceva strepito. Era frattanto giunto al palazzo un corpo di Guardia nazionale, con vari ufficiali di essa. Alcuni di questi mi si avvicinarono dicendomi cose assai obbliganti, né mancò chi mi disse; «Siate pur fermo e tranquillo, noi siamo disposti ad esporre la vita; ma voi sarete salvo, ed in qualunque evento vi difenderemo». Io non saprei esprimere quali sentimenti eccitassero in me cosí lusinghiere espressioni, la condotta del popolo verso di me, la folla del tumulto e le circostanze tutte che lo accompagnavano. Giunto pertanto al ripiano superiore della prima salita, avendo di contro i lunghi portici del cortile pieni di popolo irrequieto e tumultuante, io rimasi sul ripiano, poi discesi circa alla metà della prima gradinata. Dissi qualche parola, ma lo strepito confuso degli insorti e la debolezza della mia voce rendevano inutile [131] qualunque esperimento. Alcune guardie nazionali eransi poste in ordine lungo il primo gradino al piano del portico: qualche uffiziale ed alcuni impiegati del Senato eran meco sulla scala. Essendo inutile per lo strepito il parlare, levatomi di tasca un fazzoletto bianco lo mostrai al popolo, tentando cosí con questo segno di pace e con volto ilare d'indurlo ad ascoltarmi. Ma ciò non ottenni se non dopo qualche tempo, imperocché alcuni indiscreti, probabilmente bramosi di tumulto onde approfittarne saccheggiando, non desistevano dagli urli e dallo schiamazzo; ed altri gridando silenzio, e non subito secondati, accrescevano lo strepito, che fu grande. Finalmente fattosi silenzio, io parlai, e chiesi qual fosse lo scopo di tanto movimento. Dopo un variare di voci di bisbiglio, tentando io di poter essere ascoltato e non riuscendomi, debole d'altronde di voce per fisica indisposizione, chiesi che alcuno di petto mi avvicinasse, onde portare la parola e dare campo alla persuasione. Il conte Confalonieri, giovane di bel carattere e di talento, mi si avvicinò, e cosí procurato di nuovo il silenzio, si chiese al popolo che dicesse qual fosse il motivo che lo moveva e quale l'intenzione, cosa chiedesse, mentre nello strepito confuso nulla potevasi comprendere. Frattanto io procurava, coi gesti e coll'ilarità del volto, di rendere la calma a quella furibonda massa; finalmente vi fu chi ad alta voce disse [132] volersi sapere cosa aveva decretato il Senato il giorno 17, nel quale si ordinò una Deputazione di alcuni senatori. A questa domanda successe un pieno silenzio, talché io stesso risposi ne' seguenti precisi termini e fui inteso: «Due buone cose ha il Senato decretato, per le quali ha nominata una Deputazione alle Alte Potenze alleate: primo per chiedere non un semplice armistizio, ma una piena cessazione di ostilità.» E qui applausi del popolo; e poi soggiunsi: «Secondo, che sia conservata l'indipendenza dello Stato, con un re indipendente che sia aggradito dalla nazione». Anche a questa seconda parte il popolo applaudi. Aveva il Senato, come si è sopra narrato, aggiunto in quel suo decreto un complimento sulla persona del Principe Eugenio Viceré; ma di questo io non feci parola: il solo accennarlo sarebbe stata imprudenza produttrice di maggior disordine. Calmossi il popolo dopo il riscontro da me dato, e dava segni di quiete, di tal modo che sembrava sciogliersi la turba tranquillamente ragionando sulla rettitudine dell'operato.
Io pertanto, seguito da alcuni impiegati del Senato resi piú calmi e dimesso il timore dal quale erano prima fortemente agitati, discorrendo con essi e con alcuni uffiziali della Guardia nazionale, rimontate le scale e passati i lunghi portici, andai all'aula delle sedute per riferire quant'era accaduto. In questo frattempo convien dire che alcuno dei [133] piú turbolenti spargesse la voce doversi chiedere al Senato la revoca del decreto che aveva ordinata la Deputazione. Sapevasi che questa era partita dirigendosi a Mantova, ove il Principe Viceré aveva il quartiere generale, e ciò affine di avere i necessari passaporti per andare al quartier generale nemico. Ma tanto era il sospetto sparso nel popolo che in modo indiretto si pensasse a porre sul trono il Principe, che rapidamente il popolo passò dalla calma ad assai maggiore tumulto, e dove fino a quell'istante era rimasto nei cortili e ne' portici inferiori, scagliossi con impeto, superando la Guardia nazionale che stava sul limitare della scala, e montato ne' portici superiori, tumultuariamente mormorava doversi assolutamente annullare il decreto che aveva ordinata la Deputazione, tanta era la diffidenza di alcuni capi e la divulgazione sul pericolo di avere un francese in sovrano. Infatti, appena io fui giunto alla porta del Senato, alcuni uffiziali della Guardia nazionale ansanti, sudati e timorosi corsero a me, e mi dissero: «Senatore, noi non possiamo piú contenere l'impeto della moltitudine; bisogna por rimedio tostamente, o non si potrà piú contenere». Fattasi da me quella breve riflessione che le circostanze permettevano, vedendo i capi della Guardia nazionale sbigottiti ed oppressi, gli impiegati pallidi ed ansanti, udito il fermento del popolo poco discosto dal luogo, giudicai non essere piú [134] tempo a deliberare. Entrato pertanto frettolosamente in Senato: «Senatori, dissi, non avete che pochi minuti alla salvezza: decretate tosto il richiamo della Deputazione o siete perduti».
Fattosi un momento di silenzio, né alcuno aprendo bocca, m'inoltrai alla gran tavola del Presidente e vivamente replicai, non esservi tempo da perdere. Rimaneva il Presidente ambiguo, e siccome io, parte per stanchezza, parte per la naturale emozione, non mi ritrovava colla mano abbastanza ferma per iscrivere con celerità, lo che già da qualche anno mi accade, «Almeno, dissi, venga qui e scriva il decreto di richiamo,» e con vari modi andavo instando «scrivete, scrivete». Il vecchio Presidente rimaneva immobile ed irresoluto, i due Segretari tacevano. Mossi pertanto alcuni senatori dalle mie parole e dalla fermezza colla quale io instava, persuasi della necessità di secondare il mio consiglio, levatisi dal loro posto e portatisi alla tavola del Presidente, presero la penna e scrissero il decreto di revoca. Io non saprei indicare chi fossero, e chi primo lo stendesse; ma appena uno fu scritto, che io preso il foglio lo presentai al Presidente. Egli, incerto, sembrava rifiutarsi alla firma, ma io replicai: «Presidente, firmate, non vi è tempo a deliberare, firmate se vi preme la salvezza vostra e del Corpo tutto». La ferma e decisa mia istanza, l'essersi alcuni membri portati al burò presidenziale per stendere il decreto e la generale agitazione lo determinarono a porvi la firma.
[135] Aveva io preveduto la necessità di molte copie del decreto stesso, onde spargerle fra l'insorta moltitudine; quindi dissi ai senatori, ch'erano venuti al burò, di fare delle copie, e ciò pure fu subito fatto. Pochi minuti furono impiegati per le mie istanze alla firma del decreto ed a farne delle copie, tutto essendosi rapidamente eseguito, come le pressanti circostanze richiedevano. Data pertanto la prima carta, non so bene se ad un ufficiale della Guardia nazionale o a qualche commesso del Senato, questi la presentò agli insorgenti. Tale era il tumulto e tanta l'agitazione degli animi che in Senato erano entrati alcuni della Guardia e degli impiegati, né piú si conosceva l'ordine delle sedute.
Io non uscii primo a presentare al popolo il decreto, preferendo rimanere sino a che varie copie fossero fatte. Erano concepite in brevi termini per il richiamo della Deputazione e furono in pochi momenti copiate da quei senatori che eransi presentati per stenderlo. Presa pertanto una copia, mi presentai tosto al popolo tenendo la carta colla mano alzata, onde tutti potessero vederla. Ed in vero se non fosse stato pronto il rimedio al male, il popolo, entrato in Senato, non avrebbe certamente rispettate le persone. E sebbene fossero in maggior pericolo quei senatori che furono colle voci e colle minacce insultati al loro primo ingresso, perché considerati noncuranti dell'opinione pubblica, pure nel tumulto delle offese nessuno poteva [136] lusingarsi di rimanere salvo. L'uniformità dell'abito e la natura degli uomini tumultuanti, parte non milanesi e nel maggior numero della bassa plebe, avrebbe prodotta una generale confusione, né sarebbero stati distinti e rispettati quelli che pur godevano della pubblica opinione. Il minore dei mali sarebbe stato lo spoglio de' ricchi abiti senatorii e di tutto ciò che ornasse ed arricchisse la persona. E ne sia prova quanto avvenne in seguito come narrerò. Il presentare alla massa tumultuante le carte col decreto distribuendole fra essa ed il fermarla nel luogo ove erasi inoltrata, cioè presso la stanza anteriore a quella delle sedute, fu un solo momento. Nemmeno piú s'inoltrò: calmossi il tumultuoso grido, e passando dall'uno all'altro la lettura del decreto, rimase la turba occupata e non minacciosa. In questo frattempo uscirono i senatori dall'aula, e cautamente sfilarono fra la moltitudine per i portici lungo il muro, onde, scese le scale, uscire dal palazzo.
Io rimaneva nel luogo dove aveva mostrato al popolo il decreto, e mi ritrovai al fianco due o tre delle guardie nazionali, fra i quali certo Radaelli fornaio, ed il popolo mi circondava cosí foltamente che appena potevo muovermi. Io esortava con maniere dolci e tranquille alla quiete, quando un uomo di alta statura, il cui aspetto dimostrava non essere milanese ma probabilmente abitatore di qualche luogo del Lago Maggiore, mi si affacciò [137] e disse: «Va bene, ma ora vogliamo Prina». Era il conte senatore Prina ministro della finanza ed in odio alla popolazione, che lo diceva duro nelle sue maniere e troppo zelante nello smungere i privati, onde impinguare il tesoro sempre bisognoso di denaro. Risposi a quella proposizione: «Prina non c'è». Ma quegli, «Evvi, disse, ed io l'ho veduto entrare nel palazzo pel primo». Replicai che Prina non vi era; insistette quelli, ed io soggiunsi: «Come! voi tutti avete tanta bontà e fede in me, poi mi credete capace di mentire? Io vi replico che Prina non c'è e che non è intervenuto».
Aveva il Presidente Veneri nel suo equipaggio qualche cosa di somigliante a quello del senatore ministro Prina, e, da quanto mi fu detto in seguito, la servitú del Presidente, quando il popolo entrò nel cortile, creduta essere quella del conte Prina, fu ingiuriata e maltrattata. Terminato quel breve dialogo fra me e l'incognito, vidi al mio lato destro il conte senatore Thiene, il quale, essendo gottoso ed essendo stato vivamente ingiuriato quando entrò nella porta del palazzo, lentamente si avviava e non senza timore. A tale vista io mi levai dalla moltitudine, che mi circondava, e, presolo sotto braccio, gli dissi: «Venite con me, ed andremo sicuri». Passai seco i portici e lentamente scesi le scale fra mezzo alla folla del popolo, il quale rimase tranquillo, e solo udivasi un moderato bisbiglio, [138] quale suole formarsi ove molti se ne stanno discorrendo di qualche fatto. Scese le scale, fortunatamente la mia carrozza s'inoltrò alla porta grande; ma quale non fu la mia maraviglia all'atto di farvi montare il conte Thiene e di entrarvi io stesso, veggendo in essa, sebbene non fosse che di quelle dette bastardelle, fatta per due o tre persone, tre senatori ivi rifugiatisi. Erano questi i conti Carlotti, Condulmer e Massari. Rimase in sospeso a tal visto il conte Thiene, e non senza timore; ma io presolo sotto braccio ed aiutandolo: «Salite, dissi, che in qualche modo ci entreremo tutti due». Montammo infatti, adagiandoci come potemmo; uscí dal palazzo la carrozza, ed il popolo gridando «Bravo Verri, evviva Verri» seguiva la carrozza correndo. A questa vista mi venne primieramente in pensiero di andare alla casa paterna situata dirimpetto al Monte Napoleone, e però vicina; cosí ordinai al cocchiere, lusingato che, quando fossi in detta casa, il popolo si sarebbe ritirato. Accortomi però subito della falsità di questo consiglio e del pericolo che anzi il popolo entrasse in casa disturbando la domestica tranquillità, mi appigliai a piú savio suggerimento, ed ordinai al cocchiere di andare alla mia abitazione posta in casa Cavenago nella contrada de' Cavenaghi, prendendo la via del Fòro, ed accelerando la corsa entrare nella porta che appunto guarda il Fòro. Cosí fu eseguito, e stancandosi il popolo per l'accelerato corso e [139] per la piú lunga strada, entrai in casa non piú seguitato da alcuno. I senatori, che meco erano, mostravansi sbigottiti assai, ed il conte Carlotti, uomo verboso secondo il costume de' Veneti, ed al cui aspetto ministeriale e personale compostezza nel dire poco corrispondeva la precisione delle idee e la saviezza del consiglio: «Io non so, disse, come mai accada tanto tumulto,» soggiungendo alcune altre parole in dimostrazione della sua maraviglia per ciò che accadeva. Alla quale proposizione io non potei trattenermi, ben conoscendo il soggetto per adulatore, ed illimitato, di chiunque abbia autorità, ed essendo stato informato delle pratiche da lui tenute preventivamente alla seduta del Senato del giorno 17, nella quale fu proposto con tanta irregolarità quel fatale decreto. Era egli fra' pochi Senatori col conte Paradisi di piena intelligenza; aveva scritto un viglietto al conte senatore Luigi Castiglioni, mio nipote, per interessarlo a secondare quello strano progetto di decreto, con tanta oscura irregolarità proposto al Senato. Gli dissi pertanto, non senza molta emozione: «Voi dovete tacere, giacché è noto quanto preventivamente avete fatto, dando mano ad un piano insensato col quale volevasi dal Senato ciò che in nessun modo era ammissibile, proposto in que' termini e tutte nascondendo le circostanze. A questa malaugurata condotta di alcuni pochi debbesi attribuire tutto il disordine». Fu questo mio rimprovero [140] esposto con qualche vivacità, che le circostanze naturalmente eccitavano; ed egli tacque. Giunti in casa, spedirono i senatori, che meco erano, per avere gli abiti di semplici cittadini, i quali giunti, se gl'indossarono e partirono. La servitú di mia casa mi disse che essi erano tremanti e pallidi; io non li vidi in quel frattempo, essendomi io pure ritirato per spogliarmi e vestire il frac, e portarmi subito dal Gran Cancelliere Melzi.
Era egli sdraiato su di una duchesse, incomodato fortemente dalla gotta. Siccome il messaggio al Senato, come dissi, era stato spedito da lui, né il pubblico lo ignorava; cosí egli era esposto alla popolare insurrezione e in grave pericolo. Narratogli pertanto quanto era occorso, egli mostrò qualche disapprovazione sul mio operato, quasi troppo avessi secondata l'indiscreta domanda popolare. Insistendo però io sulla totale mancanza di forza, sulla violenza del popolare fermento e delle palesi minacce, rimaneva egli silenzioso e probabilmente non persuaso. Io però non desistetti, e piú instai molto sul pericolo suo personale, persuadendolo a farsi trasportare altrove; al che egli non volle aderire. E qui non è fuori di proposito rammentare ciò che fu in seguito costantemente detto; cioè che il popolo, partendo dal palazzo del Senato, si rivolgeva verso Porta Nuova, dov'era la casa del Gran Cancelliere Melzi, e che il conte F. Confalonieri, ciò vedendo e ritrovandosi nella folla, gridasse meglio essere [141] dirigersi verso San Fedele, ché ivi era la casa del ministro Prina. Dicesi che a questo detto il popolo, cangiata direzione, si rivolgesse verso San Fedele.
Ma prima di continuare non debbo tacere, ritornando a quanto concerne il Senato, che, partiti i senatori, il popolo entrò tumultuariamente nella sala del Corpo, nella segreteria e nelle altre stanze, tutto guastando, insultando il ritratto di Napoleone, stracciando e trasportando le carte e tutto distruggendo il mobiliare e le finestre e quanto vi si trovava.
Ripiglio ora l'avvenuto presso il Duca di Lodi, Melzi. Mentre io seco dialogava, inutilmente procurando persuaderlo sulla vera natura delle circostanze, furono annunciati due o tre senatori, che, se la memoria di quei tumultuosi e rapidi eventi non mi inganna, erano il conte Cavriani ed il conte Veneri Presidente. Questi, riferendo l'occorso, ed io con essi secondando, tanto dissimo che il Duca di Lodi incominciò a persuadersi essere le cose spinte a tal punto che sommamente interessavano l'attenzione di qualunque non fosse affatto privo di senno. Fra le molte cose parlarono essi del pericolo nel quale era il senatore Prina: il che era confermato da quanto io in proposito aveva di già detto, sulla domanda che di lui erami stata fatta con quelle energiche parole dettemi al Senato: «Va bene, ma noi ora vogliamo Prina». Mosso pertanto il Duca Melzi da [142] quanto udiva, disse che bisognava scrivere subito a Prina un biglietto per avvisarlo di porsi in salvo. Cosí, ma troppo tardi, perché tale era il fatale destino del Regno, quell'ottimo e perspicace uomo incominciò a persuadersi essere la cosa pubblica in grave pericolo. Che se egli mi avesse prestata fede dopo la convocazione del Senato del giorno 17, non avrebbe permessa la seconda del 20 ed avrebbe provveduto alla pubblica sicurezza. Si pensò subito a prevenire il ministro Prina; ma troppo tardi, come si vedrà in seguito.
Partito che fui dal Duca di Lodi e giunto alla mia casa, ritrovai un commesso del giudice di pace Banfi, che mi disse essere quel giudice premuroso di parlarmi e che a momenti sarebbe giunto. Mi trattenni pertanto nel portico senza montare le scale e pochi momenti dopo venne il giudice. Dissemi aver bisogno di me, ed instò perché mi portassi seco alla casa del ministro Prina, ove il popolo si affollava minaccioso. Credeva egli essere questo il solo e piú prudente partito per sedare il tumulto, ragionando su ciò che al Senato era accaduto e supponendo che il popolo non si sarebbe inoltrato di piú quand'io mi fossi presentato. Ma non trovandomi io piú in abito di senatore, ma vestito nel modo consueto e comune, non credetti dovermi esporre con troppa facilità. Instando però egli e dicendo non esservi che io nel quale fondar si potesse la speranza di [143] calma, risposi: «In Senato, appartenendo al Corpo, ho fatto quanto esigeva il dovere di buon cittadino e di zelante magistrato; ma l'inoltrarsi nella folla del popolo in abito comune, poco conosciuto di persona per il genere di vita già da vari anni impostomi dalla sempre debole salute, sarebbe imprudente cosa ed inutile. Pure, disposto a tutto ciò che in qualche modo possa contribuire a togliere i disordini, ella si compiaccia di andare alla casa del Comune qui vicina, e ritorni con due ufficiali della Guardia nazionale, i quali possano ad alta voce dire chi io sia, e tosto verrò». Partí il Banfi pronto a seguire il mio consiglio; poi credette inoltre andare egli stesso al luogo del tumulto, che ritrovò giunto a tal segno da togliere ogni speranza.
Aveva il popolo furiosamente invasa la casa del Ministro ed i piú facinorosi e feroci suoi nemici tanto fecero che lo ritrovarono nascosto e con obbrobrioso vilipendio strascinaronlo per la strada percuotendolo ed ingiuriandolo. Nessuna forza pubblica si oppose a quei forsennati, che pochi soldati a cavallo avrebbero fugati e dispersi. In questo tumultuoso movimento, non so bene in qual modo accadesse, il Ministro fu ricoverato nella bottega o casa di un pizzicagnolo, situata sull'angolo della contrada detta alle Case Rotte, di contro al Gran Teatro e poco discosta dalla casa del Ministro. Ivi si portò il generale conte Pino, [144] il quale, stanco, ansante e malamente sostenendosi della persona avrebbe voluto poter salvarlo, esortando alla calma il popolo; ma quel suo qualunque tentativo fu del tutto inutile. Il popolo frattanto minacciava d'incendiare la casa e tale fu l'impeto e la decisione delle minacce che l'infelice Prina fu abbandonato al popolare furore, dal quale ebbe a soffrire insulti crudeli e percosse di ogni genere. Chiedeva egli pietà, ma sordi erano quelli arrabbiati sicari; chiese pur anche di un confessore, e credo gli fosse concesso; poi cadde vittima dei replicati colpi di bastone, de' pugni e de' colpi delle ombrelle. Fu il suo cadavere strascinato per le pubbliche strade con torce accese ed oltraggiato, poi dalla Guardia nazionale ricoverato nella casa della città detta il Broletto. La celerità e la violenza di quanto seguí in questa orrenda scena sono degne di maraviglia. In brevissimo tempo tutta la sua casa non solo fu saccheggiata e spogliata dei mobili, ma tutta guasta ed in parte distrutta. Le tegole, le ferrate, i sassi che ornavano le finestre non poterono rimanere immuni dalla popolare rabbia e sfrenata rapacità; ed in poco tempo era l'aspetto di quella casa non diverso da quello di una distrutta da forte incendio o da violento terremoto, anzi piú, perché rimasero le finestre spogliate delle ferrate e de' sassi che le ornavano.
Vuole la fama che i principali attori di questo [145] memorando e infelice evento non fossero cittadini milanesi, ma gente del Lago Maggiore, regione nella quale l'infelice Ministro avea molta corrispondenza. E serva questa popolare malvagità a dimostrare qual via di mezzo debbasi seguire dai grandi magistrati, allorché il popolo gli si rende avverso; imperocché, se la viltà d'animo nell'adempire ai doveri della carica è biasimevole e degna di sommo rimprovero, non lo è meno, né meno pericoloso, il troppo disprezzare la pubblica opinione. Non ignorava il Ministro ciò che di lui si dicesse e si opinasse, ma egli imprudentemente dispregiando il pubblico clamore andava per la città a cavallo, come se nulla vi fosse a temere, onde molti ciò riguardavano quale ingiurioso insulto. E tanto piú perché era noto, e molti ne parlavano ne' pubblici caffè, essere egli stato da alcuni giovani minacciato in queste sue cavalcate. Narrossi che alcuni di questi, seguendolo da vicino e mostrando discorrere fra loro, si esprimessero in termini ben chiari e con voce spiegata, essere ormai giunto il tempo di disfarsi dei cattivi ministri, privandoli di vita. Ma l'avverso destino, che tutto combinava alla distruzione del Regno ed alla ruina della capitale, volle anche offendere questa nella fama. Imperocché mentre la popolazione milanese erasi sempre meritata e goduta l'opinione di saviezza e di bontà, fu essa deturpata da quella feroce tragedia, alla quale troppo imprudentemente si espose quell'infelice, e [146] col suo contegno in pubblico e coll'essersi rifiutato in quello stesso giorno alla fuga apparecchiatagli da' suoi benevoli, che inutilmente lo esortavano pochi istanti prima dell'accaduto a fuggire con una vettura che già avevano pronta.
Grande era il fermento nella città; ed il popolo tumultuante, colla plebe avida di tumulto e di saccheggio, minacciava grandi disastri. Unissi pertanto presso il podestà, che era il conte Antonio Durini, il Consiglio municipale, il quale determinò doversi fare un Governo provvisorio e doversi invitare l'unione de' Collegi elettorali, i quali pensassero a richiamare la calma con piena autorità. Questo era il solo mezzo che rimanesse, piú non v'essendo chi rappresentasse il Governo. Il Principe Viceré era a Mantova coll'armata; il Ministro dell'Interno, partito per quella città quando intese ciò che accadeva intorno alla casa del Ministro Prina; nessuna forza militare che bastasse all'intento; il Senato, dopo ciò che era seguíto e dopo il sacco della sua residenza, nulla poteva, e non sarebbe stato opportuno. Sette onesti cittadini furono pertanto nominati dal Consiglio comunale per formare una Reggenza di Governo composta di persone che o per qualità di nascita o per esperienza negli affari avessero favorevole la pubblica opinione ed accetti al pubblico. Furono questi il conte Giberto Borromeo, conte Alberto Litta, conte Giulini figlio, Bazzetta consigliere, conte Mellerio, conte generale Pino, ed io con essi.
[147] La sera di quello stesso giorno io ricevetti la lettera di nomina, coll'invito di portarmi la seguente mattina al palazzo di città, onde concertarci su quanto occorresse fare. Frattanto, minacciando il popolo, con non equivoci schiamazzi e con il frequente mormorare de' crocchi, di tutta porre in sconvolgimento la città, saccheggiando la pubblica Dogana, la Zecca ed alcune case de' ricchi designate a scopo dell'odio, della vendetta e del saccheggio; i possidenti, i negozianti e tutte le oneste persone si armarono in Guardia nazionale, che fu in breve tempo, sotto il comando di Don Annibale Visconti, capo di essa, ridotta a ragguardevole numero e distribuita ove il bisogno lo richiedeva. E lo stesso Duca di Lodi, che troppo avea neglette e disprezzate le turbolenti circostanze, mosso finalmente dal timore, mi scrisse un biglietto acciò si pensasse alla sua difesa. Infatti, abitando egli vicino alla Zecca, fu ivi spedito un corpo di Guardia nazionale, che entrambi difendesse da qualunque attentato.
La mattina seguente, cioè il 21 aprile, mi portai al palazzo di città, ove eravi il conte Durini podestà, il conte Gian Luca della Somaglia presidente del Consiglio comunale, vari consiglieri, e dove si unirono i sette invitati a formare la Reggenza. Varie cose confusamente si trattarono; ed in quanto al luogo dove porre si dovesse la residenza dell'interinale Governo, io opinava risiedere nel palazzo stesso della città, sembrandomi inconveniente la [148] sede del palazzo di Corte, sebbene ivi sempre, nella varietà dei governi, risieduta fosse la pubblica governativa rappresentanza. Sembravami anche, in vista di vedere nominati al Governo sette nobili, prudente cosa e atta a cattivare la popolare opinione, l'astenersi da tutto ciò che potesse dar motivo d'invidia e di mormorazione. Ma quel fabbricato non offriva l'opportunità del sito. Fu dunque all'istante determinato che ci portassimo al palazzo reale, ma che, rispettando gli appartamenti reali, ci ponessimo ove solevano unirsi i Consigli legislativi e degli elettori. Tale fu il mio parere, che fu adottato. Trattavasi del modo col quale il nuovo Governo dovesse passare dal palazzo di città alla fissata residenza; e fu stabilito che, per illuminare il pubblico sulla presa determinazione e per procurare la calma con apparenza pubblica, dovessero i componenti la Reggenza andare a piedi con alcune guardie nazionali e con vari ufficiali di essa, i quali ad alta voce nominassero le persone nostre, esortando alla quiete ed alla fiducia nella saviezza e nella probità degli individui nominati. Partita quindi la Reggenza in questo modo dal palazzo di città, si avviò al luogo stabilito, alto gridandosi dagli ufficiali nazionali i nomi degli eletti ed esortando il popolo alla fiducia in essi. Era il cammino per la quantità degli uomini affollatissimo ed i balconi pieni di gente, come suole accadere nelle pubbliche feste. Giunti alla [149] residenza e dovendosi fra noi eleggere un presidente, vollero i miei compagni ch'io ne avessi l'onore, né mi giovarono i motivi da me addotti, e singolarmente la poca mia salute, per disimpegnarmi.
Giunti però in quell'abitazione, ben si conobbe che non offriva i necessari comodi per la rapida spedizione degli ordini, né per le udienze delle persone le quali accorrevano alla Reggenza per la moltiplicità delle cose. In questo frattempo il conte Fenaroli, maggiordomo maggiore del Regno, il quale dimorava nel palazzo, fece istanza perché la Reggenza si portasse a risiedervi, come quello che offriva le opportune comodità alle circostanze; e ciò fu eseguito, perché in realtà non era possibile il fare altrimenti. Giunti al palazzo, io feci quanto si richiedeva per stabilire i burò, ponendo un ben disposto protocollo, scegliendo le persone adattate agli uffizi.
Erasi finalmente pubblicato l'invito per l'unione dei Collegi elettorali; e la Reggenza diresse i suoi primi pensieri a porre in molta forza la Guardia nazionale per contenere le minacce dei malevoli, i quali nel giorno 21 singolarmente, che era il primo, davano non dubbi segni di grande sommossa con minacce di private vendette e di generale saccheggio. Fu la Guardia nazionale fortemente armata e divisa in vari corpi, ove piú vi fosse a temere, ed in forti pattuglie, che di giorno e notte proteggessero la [150] pubblica e la privata sicurezza. Ma voleva la prudenza che la forza stessa fosse cosí regolata che non irritasse la plebe. Si dovette pertanto non armare i fucili colla baionetta e combinare la forza con modi urbani, cosí richiedendo l'indole della nazione. E fu per ciò che invece di chiudere le porte della città, come fu proposto, dal che proveniva la mancanza delle provvigioni e molti altri inconvenienti, si posero alle porte persone savie, le quali, osservando chi voleva entrare, con bei modi li rimandassero, non permettendo l'ingresso se non a quelli che si vedessero avviati per qualche motivo di condotte o di affari, rifiutando l'ingresso agli oziosi o sospetti. Ottennero questi savi provvedimenti il bramato effetto, e mentre grandi erano le minacce nell'interno della città ed il romore rapidamente divulgatosi nella campagna aveva spinti molti abitanti di essa ad accorrere in città, fu col suddetto modo impedito il concorso. Né in quello mancava chi ad alta voce gridasse, chiamando quale era il luogo, quale il sito ove si saccheggiasse, spinti dall'avidità di rapina. Arrestaronsi in quel giorno, e molto piú nella successiva notte, vari popolani presso i quali furono ritrovati note, stili ed armi insidiose, tenaglie, martelli ed altri istromenti atti a rompere i ripari e perfino soghetti per strozzare alcune vittime del partito. Non mancò qualche minaccia contro la Reggenza medesima, la quale, sebbene fosse ordinata secondo l'opinione pubblica, [151] pure non poteva essere di aggradimento a chi poneva le proprie speranze nel disordine generale. Infatti essa dové far porre alcuni cannoni nel primo cortile, che furono poi ritirati tosto che al fermento successe la calma. Quelle tumultuose circostanze mi spingono ad una riflessione, che mi sembra interessante, intorno al sistema di polizia politica usata comunemente in questa nostra città dai sovrani. Scopo di essa è la pubblica sicurezza; ma in fatti ognuno sa a che si riduce la polizia affidata nella esecuzione pratica a persone di pessimo carattere, le quali vivono di spionaggio e tradimento. È facile la corruzione loro a chi tentasse contro la pubblica sicurezza, sempre che sia promossa con mezzi opportuni. Nessuno che tenti qualche azione grande si fida di persone, che in qualche modo diano sospetto di appartenere a quel magistrato. È per ciò che le congiure sono generalmente scoperte non già da esso, ma dal tradimento di qualcuno dei congiurati. Ma perché l'ufficio di quelli impiegati si renda in qualche modo interessante, essi per interesse proprio, ora riferendo alcune particolari circostanze, ora esagerandole, ora male interpretando una parola, un discorso, un gesto, gettano i semi della discordia fra il Governo e i governati e tutta corrompono la civile società, sostituendo alla socievole fiducia la generale diffidenza. Io la penso cosí, confermato in questa mia opinione anche da quanto ho praticamente veduto, essendo a capo del Governo [152] in quelle pericolose e turbolenti circostanze. In esse siccome infatti trattavasi della pubblica e della privata sicurezza, cosí gli onesti cittadini, e non le vili spie della polizia, accorrevano avvisando ed illuminando la Reggenza, come in particolare, dei pericoli privati e pubblici che insorgevano, e cosí potevasi da quel Governo provvisorio opporre al male un pronto rimedio; come accade nelle calamità pubbliche d'incendio o d'inondazione, ove tutti i buoni accorrono ed offrono l'opera loro. Ma quei mercenari infami, poveri e bisognosi per vizio, privi di morale e perduti nell'opinione pubblica, sono i primari stromenti sui quali si aggira e si fonda la cosidetta polizia: indifferenti al pubblico bene, altro non pensano che a rendersi interessanti, secondando quelle massime che a loro sembrano dominare negli animi dei loro principali; e siccome questi inclinano alla diffidenza del pubblico, essi la fomentano con mille alterati rapporti e sospetti, nulla curandosi dell'interesse sociale, né avendo l'ingegno che si richiede per conoscerlo e tutelarlo. Infatti se molte notizie utili e vere furono in quei calamitosi giorni date da cittadini onestissimi, nessuna me ne pervenne dalla polizia; e sebbene questa facesse rapporti giornalieri ed altri ne facesse la gendarmeria, erano cosí lenti e tardi che posso asserire sull'onor mio che neppur uno mi è giunto prima che non fosse di già il tutto noto e non vi fosse posto riparo, se la [153] natura della cosa lo esigeva. Né ciò è accaduto a me solo, ma anche al Duca di Lodi, prima che la rivoluzione scoppiasse, mentre avendolo io interpellato come si fosse permessa la riunione del Senato il giorno 20 in quelle pericolose circostanze, unione poi anche superflua per la mancanza del motivo, e mentre tutta la città conosceva il fermento e la minaccia di molti, egli mi assicurò che nulla mai la polizia gli aveva riferito. E tanta era la persuasione sua in quel tempo che a me non volle prestar fede intorno al pericolo di sommossa, allorquando gli parlai dopo la seduta del Senato del giorno 17, e si dichiarò pronto a provarmi, co' rapporti fatti dalla polizia, la verità dell'asserzione che nulla gli fu partecipato. Era in quell'epoca Direttore generale, e quasi Ministro di polizia, il conte consigliere Giacomo Luini, persona di talenti e di maniere non comuni; né io posso, senza grande maraviglia, riflettere al silenzio che il Duca di Lodi mi assicurò essersi seco conservato dal Luini. Era Luini affezionato anche per riconoscenza al Duca e per interesse proprio doveva essere opposto alla rivoluzione che si tentava, come quegli che dal Viceré era distinto e considerato. Non ignorava al certo il sussurro generale, né il complotto da eccitarsi al Senato; doveva temere il Governo austriaco, che nei tredici mesi lo confinò a Cattaro incatenato. Melzi, d'altronde, era incapace di mentire con me, né cosí poco saggio da [154] trascurare le notizie che gli fossero state date. In questo singolare conflitto d'idee ed incertezza di opinione, io non so cosa pensare, e solo ho in animo di parlarne liberamente al conte Luini, instando su ciascun punto di dubbio, per intendere da lui quale soluzione possa dare a questo strano mistero.
Ma ripigliando il discorso su quelle civili turbolenze, dico che mentre dalla Reggenza davansi tutti que' provvedimenti, che le circostanze offrivano, per impedire i maggiori disordini, unironsi i Collegi elettorali. Ma nacque dubbio, se alla loro unione si dovessero ammettere gli elettori che appartenessero a quei Dipartimenti, che già erano occupati dalle armate nemiche de' coalizzati. Alcuni elettori di quei Dipartimenti erano in Milano, parte per impiego e parte per caso. Ma si giudicò che il chiamarli potesse irritare le Potenze alleate, sembrando non conveniente che la parte del Regno già da esse conquistata avesse chi la rappresentasse unitamente alla parte tuttora libera. Unironsi pertanto i soli elettori degli otto Dipartimenti che rimanevano, cioè Olona, Mincio, Alto Po, Agogna, Lario, Mella, Adda, Serio. Alla prima unione la Reggenza delegò me, come Presidente, ed il conte Giberto Borromeo per complimentarli.
Costituita per tal modo la nazionale rappresentanza[38], fu la Reggenza cresciuta di sette individui, [155] scelto ciascuno dai sette Dipartimenti, i quali non avevano chi li rappresentasse nella Reggenza, stata nominata dal Consiglio comunale di Milano e però tutta composta di membri dell'Olona. Questa seconda nomina fu da me proposta ai Collegi elettorali quando fui a complimentarli, sembrandomi sconvenevole che il Governo fosse composto di soli milanesi, e tendente a procurare d'universale accordo la nomina comprensiva di tutti i Dipartimenti. Elessero i Collegi elettorali in loro Presidente il conte Lodovico Giovio, confermarono la Reggenza; poi la accrebbero di sette individui, e furono il conte senatore Lucrezio Longo pel Mella, il giudice di Cassazione Tonni pel Mincio, Tarsis per l'Agogna, il conte Muggiasca pel Lario, il conte Vertova pel Serio, il marchese Sommariva — fratello del tenente maresciallo al servizio austriaco, che fu il primo che giunse colla forza armata — per l'Alto Po ed il conte senatore Peregalli per l'Adda[39]. Ma il destino era fatale alla sussistenza del Regno, e volle che tutto fosse malamente condotto con errori politici di ogni sorta. La prima Reggenza con soli sette individui procedeva regolarmente, godeva la pubblica opinione e con somma tranquillità e accordo andava calmando le insurrezioni, che si andavano suscitando in vari luoghi dello Stato; ma i Collegi elettorali, guidati da alcuni pochi, sorpresi senz'avvedersene da mozioni poco saggie e contrarie ai veri interessi [156] della nazione, ebbero sedute poco plausibili. Fecero essi una Deputazione alle Alte Potenze alleate, le quali coi loro manifesti eransi dichiarate del tutto aliene di conquistare; la quale Deputazione chiedesse la libertà ed indipendenza dello Stato. Furono nominati il conte Alberto Litta membro della Reggenza, il conte Federico Confalonieri, Giacomo Ciani, il conte Gio. Giacomo Trivulzio, Pietro Balabio capo battaglione della Guardia civica, Gio. Luca della Somaglia presidente del Consiglio comunale di Milano, Marc'Antonio Fè di Brescia e Serafino Sommi di Cremona: in segretario poi della suddetta Deputazione fu nominato Giacomo Beccaria[40].
Mentre queste disposizioni erano date, parte dai Collegi, parte dalla Reggenza furono abolite alcune tasse odiose al popolo, ed altre diminuite, onde piú facilmente richiamare l'ordine. Cosí il Registro, che sommamente gravitava sulle eredità e sui contratti, e la tassa sulle arti e mestieri furono abolite, e diminuite quelle sui sali e tabacchi. In seguito fu ristretta la riserva della caccia nel circondario di tre miglia del regio Parco di Monza, riserva posta su campi sommamente coltivati e fertili, e però dannosissima: era essa resa poi anche insopportabile dalle soperchierie de' guardacaccia. Giovarono questi provvedimenti alla calma della nazione, e la Reggenza ne ordinò l'esecuzione. Ma i Collegi elettorali, mentre volevano conservato il [157] Regno, fecero varie proposizioni alla Reggenza, che in nessun modo erano combinabili con quello scopo. Proposero l'abolizione del Senato, del Consiglio di Stato e della Segreteria di Stato. Ma questa loro dichiarazione non fu dalla Reggenza pubblicata, come quella che si opponeva direttamente allo scopo principale della conservazione del Regno. E ben mi ricordo che, giunta alla Reggenza la carta portante le dette determinazioni, il segretario di Stato conte Strigelli venne da me e dissemi che egli se ne andava a casa abbandonando il posto; al che io mi opposi, dicendogli che rimanesse, non potendo il Governo procedere ove fosse privato della Segreteria: e cosí egli rimase al posto.
Sette giorni, se ben mi ricordo, fu la Reggenza a capo del Governo e poté con molta quiete ed assiduità provvedere al tutto. Sedevasi il giorno e la sera; né parmi possibile ch'io potessi reggere a tanto, poiché, come Presidente, io non aveva un momento di quiete, non esclusa la notte. Io dovea sorvegliare i burò per la pronta spedizione degli affari, regolare le sedute, ascoltare chi si presentava; e quando, o per cibarmi o per riposare, io andava a casa, non mancava subito chi fosse da me, o per istruzioni o per recarmi notizie o per provvedimenti a vari moti che da un momento all'altro accadevano: e ciò oltre tutte le revisioni e le firme da porsi ai vari ordini, ai proclami, alle lettere. Ma ciò che rese cosí grave l'impiego che [158] quasi era reso insopportabile, fu il poco accordo e la poca dignità di alcuni individui della Reggenza, dappoiché fu accresciuta di sette nuovi rappresentanti. Erano i primi dignitosamente interessati alla pubblica quiete ed al buon regolamento, le discussioni ed i partiti erano saggi, ponderati, tranquilli e fermi; poi divennero tumultuari e spesse volte poco decenti. Non voglio tacere che molto male fecero le basse e focose maniere del conte Longo del Mella, il quale con tanta rozzezza di modi, ostinazione e schiamazzo trattava gli affari e con tanto poco discernimento, non lasciando che altri con tranquilla dignità esponesse i propri pensieri, che oltre ad essere io stato obbligato ad ordinare che fossero chiuse le doppie porte, per impedire lo scandalo e l'udire agli uscieri ed altri, non potei un giorno dispensarmi dal chiamarlo all'ordine e dirgli ch'era libero di partire, giacché egli disse che, quando si fosse fatto certo decreto contrario alla sua opinione, egli avrebbe preso il cappello e se ne sarebbe andato. Non sarebbe stata gran perdita, se avesse eseguito quanto minacciava. Questo uomo, che era probo, ma sommamente focoso e di basse maniere, declamava furibondo quando era coi suoi eguali; ma poi si è manifestato vile d'animo quando l'occasione esigeva fermezza di carattere. Giunti i Tedeschi, egli in Reggenza non aveva fiato per parlare, né per leggere: non seppe mai fare rapporto d'alcun affare che potesse concepirsi, [159] sicché egli meschinamente, con sorpresa di tutti, rappresentò nella Reggenza. Questo stesso uomo che, udito in società, si sarebbe creduto di forte petto, di carattere tenace e fermo, terminò di vivere per patema d'animo, quando il Governo austriaco, cangiato il governo e abolita la Reggenza al principiare del 1816, lo dimenticò, lasciandolo in libertà.
37. [Il Verri accenna manifestamente alla convenzione militare di Schiarino Rizzino, la quale fu sottoscritta il 16 aprile 1814, ratificata dal maresciallo Bellegarde e dal Principe Eugenio il 17, e resa esecutiva con atto di cambio delle ratifiche sottoscritto il 17 a un'ora pomeridiana dai generali austriaci Neipperg e Dode e dal generale italiano Zucchi. Questi atti furono pubblicati sul Giornale Italiano del 19 aprile 1814].
38. La rapidità e la moltiplicità delle cose accadute nell'epoca che ora incomincio a descrivere, può troppo facilmente indurre a scrivere con poca esattezza istorica. Onde converrà per ora indicare le scene principali, poi, ritornato che sia in patria, mi procurerò i mezzi di maggiormente ed esattamente risovvenirmi di tutto. Al che molto gioverà la lettura dei processi verbali della Reggenza, stesi dal segretario De-Pagave. [Questi processi verbali si credettero per un gran tempo perduti; ma erano nella collezione Morbio, con la quale furon venduti in Germania: di là tornarono in Italia per compra fattane a Lipsia dal libraio V. Menozzi, e quindi furono ceduti a Luca Beltrami che ne fece dono alla Biblioteca Braidense e ne diede un riassunto nell'Archivio storico lombardo, anno 1892, vol. IX. pp. 700-705].
39. Dopo tre anni, non posso risovvenirmi esattamente delle epoche; e dubito che i Collegi elettorali abbiano nominati i sette reggenti dopo che i Tedeschi erano già in Milano con Sommariva e Strassoldo. [Gli Austriaci entrarono in Milano il 28 aprile: e la nomina per iscrutinio segreto degli individui degli altri dipartimenti da aggiungersi in membri della Reggenza provvisoria di Governo era stata fatta nella seduta dei Collegi elettorali del 25 aprile e pubblicata nel Giornale Italiano del 27].
40. Verificare cosa infatti siasi determinato doversi chiedere, e chi abbia invitati i Tedeschi ad entrare per assicurare la pubblica quiete, se la Città, se la Reggenza, se i Collegi elettorali. [Delle richieste da fare alle Alte Potenze, secondo la deliberazione presa da Collegi elettorali nella seduta del 23 aprile, è dato il testo dall'Armaroli, p. 31. Quanto all'invito ai Tedeschi di entrare in Milano, è noto che esso fu fatto dai conti Luigi Porro e Giovanni Serbelloni recatisi in nome della città al quartier generale austriaco la sera del 20 aprile; cfr. Studi intorno alla storia della Lombardia negli ultimi trent'anni, p. 76 e 91].
Acerbi Pompeo firma l'istanza pei Collegi elettorali, 60.
Adda, uno dei dipartimenti del Regno, 85; suo rappresentante nella Reggenza, 155.
Adige, id., 85.
Adriatico, id., 85.
Agogna, id., 85; suo rappresentante nella Reggenza, 155.
Agretti Ambrogio firma l'istanza pei Collegi, 60.
Agucchi Alessandro, consigliere di Stato e prefetto del Passariano, 81, 86.
Alberti Francesco, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.
Aldini Antonio, ministro segretario di Stato, grande ufficiale del Regno, 78, 82, firmato nel terzo Statuto del Regno, 91.
Aldini Giovanni, consigliere di Stato, 80.
Alessandri Marco, senatore, 79, firmato nel primo Statuto, 91.
Almanacco reale, 78.
Alto Adige, uno dei dipartimenti del Regno, 85,
Alto Po, id., 85; suo rappresentante nella Reggenza, 155.
Amante Giovanni, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.
Andreani Gio. Maurizio firma l'istanza pei Collegi, 61.
Anthouard (D'), vedi Danthouard.
Appiani Andrea, suo ritratto di Napoleone I rotto dal Confalonieri, 20, firmato nel primo Statuto, 91.
Appiani Gabriele firma l'istanza pei Collegi, 61.
Appiani Giuseppe, capo divisione nella segreteria di Stato, in Milano, 32.
Arese Francesco, colonnello, capo divisione nel ministero della guerra, 83.
Arese Marco firma l'istanza pei Collegi, 60.
Armaroli Leopoldo, sue notizie biografiche, xxiv, autore della Memoria storica, xv-xvi, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.
Armeni Antonio, capitano di fregata, 85.
Arrigoni Galeazzo, giudice nella Corte dei conti, 82.
Artico Angelo, ispettore generale delle acque e strade, 83.
Assalini Antonio, id., 83.
Augusta Amalia di Baviera, principessa, moglie del viceré Eugenio, sue virtú e sue lodi, 6.
Auna Gio. Vincenzo, giudice di cassazione, 81.
Austria, sua politica secondo il Saint-Edme, 87-90; suo partito in Italia alla fine del Regno, xiv, xvii.
Aycard Romano, capitano di fregata, 85.
Bacchiglione, uno dei dipartimenti del Regno, 85.
Balabio Carlo, generale di brigata, 84, comandante nell'Alto Po, 85.
Balabio Pietro, capo battaglione della guardia civica di Milano, firma l'istanza pei Collegi, 13, 61, sua parte nei fatti del 20 aprile, 19; deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 32, 156.
Balathier Carlo, generale di brigata, 84.
Banfi Alfonso, giudice di pace in Milano, suo tentativo di salvare il Prina, 142-143, non trova chi ne riconosca il cadavere, 23.
Banfi Ferdinando firma l'istanza pei Collegi, 60.
Barbò Francesco, consigliere di Stato, 81, direttore generale delle privative, 84.
Barbò Viscardo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Barbou Gabriele generale francese comandante nel Metauro, 86.
Bargnani Cesare, consigliere di Stato, 80, direttore generale delle dogane, 83.
Barinetti Carlo firma l'istanza pei Collegi, 63.
Barisan Giovanni, senatore, 80.
Basso Po, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Bazzetta Giovanni, consigliere di Stato, 80, giudice di cassazione 81, firmato nel terzo Statuto, 92, fa parte della Reggenza, 25, 146.
Bazzoni Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.
Beauharnais Eugenio, viceré d'Italia, sue lodi, 6; diffidenza e lamenti contro di lui, 7; specialmente per eccessi di rigore militare, 104, 105, distribuisce le onorificenze della Corona di ferro, 100; sua commissione al Verri per le Marche, 100; sue cure e incertezze in Mantova, 10; sua convenzione del 16 aprile col Bellegarde, 10, 87, 161; sua lettera al Melzi, 11; fedeltà del Senato a lui, 11; sue credenziali alla Deputazione senatoria, 32; delibera d'abbandonare il Regno, 33; sua convenzione col Bellegarde del 23 aprile 34; suo proclama all'armata francese e indirizzo dei generali francesi a lui, 87; Statuto pel suo appannaggio, 92; ricordato, 44, 45, 104, 107, 111, 114, 116, 119, 122, 132, 133, 146.
Beccalossi Giuseppe, consigliere di Stato onorario e primo presidente della Corte d'appello in Brescia, 81.
Beccaria Giacomo, segretario della deputazione dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 32, 156.
Beccaria Giulio, giudice nella Corte dei conti, 82.
Belgioioso Trivulzio Cristina, autrice degli Studi intorno alla Storia della Lombardia negli ultimi trent'anni, viii.
Bellegarde (conte di), feld-maresciallo austriaco, comandante l'esercito in Italia, sua convenzione con il viceré [166] Eugenio, 16 aprile 1814, 10, 87, 111; passaporti rilasciati ai deputati, 32; sua convenzione col viceré, 23 aprile, 34; riceve una deputazione dei Collegi elettorali, 37; dichiara di ritenere Milano e le provincie in nome dell'imperatore d'Austria, 38; in qualità di commissario imperiale assume la presidenza della Reggenza, 38; ricordato, 45.
Bellotti Gaspare, generale di brigata, 84.
Bentivoglio Carlo, firmato nel terzo Statuto, 92.
Berioli Spiridione, arcivescovo di Urbino, senatore, 80.
Bernardino Maurizio, firma l'istanza pei Collegi, 60.
Bernardoni Giuseppe, capo div. nel ministero dell'interno, 82.
Bertoletti Antonio, generale di brigata, 84, designato a far parte della deputazione del Regno alle Alte Potenze, 11, va a Parigi per la Baviera, 32.
Bertolosi Giovanni Battista, generale di brigata, 84, comandante nell'Agogna, 85, e nell'Olona, 86.
Besana Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Bianchi d'Adda Giovanni Battista, generale di brigata, 84.
Biella Felice, segretario generale nel ministero della giustizia, 82.
Bignami Carlo, firmato nel terzo Statuto, 92.
Bode, generale francese, 87.
Bologna Sebastiano, senatore, 79, fa parte di una commissione senatoria, 109, 45, firma la protesta del Senato 75, firmato nel terzo Statuto, 92.
Bolognini Alessandro firma l'istanza pei Collegi, 60.
Bolognini Luigi, id., 61.
Bonati Teodoro, ispettore generale delle acque e strade, 85.
Bonet Domenico firma l'istanza pei Collegi, 62.
Bonfanti Antonio, generale di divisione, 84.
Bonsignori Stefano, patriarca di Venezia, grande ufficiale del Regno e senatore, 79.
Borghi Carlo Jacopo, consigliere di Stato, 81, capo divisione nel ministero degli affari esteri in Milano, 82.
Borromeo Giberto firma l'istanza pei Collegi, 17, 59, fa parte della Reggenza, 25, 146, va a complimentare i Collegi, 134.
Borromeo Carlo, firma l'istanza pei Collegi, 60.
Borsotti Giovanni Gaudenzio, sostituto procuratore generale della Corte di cassazione, 81.
Bossi Benigno, capitano della guardia civica di Milano, sua parte nei fatti del 20 aprile 1814, 15, firma l'istanza pei Collegi, 17, 62, domanda al Senato la convocazione dei Collegi, 19.
Bossi Francesco firma l'istanza pei Collegi, 63.
Bossi Luigi, consigliere di Stato, 80.
Bourg Teodoro, v. Saint-Edme.
Bovara Giovanni, ministro del culto dal 1802 al 1812, 78.
Bovara Stanislao firmato nel terzo Statuto, 91.
Bozzi Galeazzo firma l'istanza pei Collegi, 63.
Brambilla Cesare id., 60.
Brebbia Giuseppe, consigliere di Stato, 81.
Brenta, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Brunacci Vincenzo, ispett. generale delle acque e strade, 83.
Brunetti Vincenzo, consigliere di Stato, 81, direttore generale del censo, 83, firmato nel terzo Statuto, 91.
Brusa Paolo, segretario generale della polizia, 83.
Bruti Agostino, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.
Buratovich Vincenzo, capitano di fregata, 85.
Burri Giovanni, consigliere di Stato, 81.
Busca Antonio firma l'istanza pei Collegi, 63.
Busti Cristoforo, giudice nella Corte dei conti, 82, firmato nel primo Statuto 91.
Caccía Gaudenzio, consigliere di Stato, 81, prefetto dell'Olona, 76.
Cagnola Luigi firma l'istanza pei Collegi, 61.
Cagnola Giuseppe id. 62.
Caldarini Gio. Battista, segretario gen. delle privative, 84.
Calderara Giuseppe, luogotenente prefetto del Monte Napoleone, 84.
Calepio Pietro firma il primo Statuto, 91.
Camerata Antonio, senatore, 80.
Campagnola Luigi, generale di brigata, 84.
Cananda (?) Pietro firma l'istanza pei Collegi, 62.
Cantú Giuseppe id., 62.
Caprara Giovanni Battista, cardinale e arcivescovo di Milano, suo catechismo riformato dalla Reggenza, 40.
Caprara Carlo, grande scudiere e grande ufficiale del Regno e della Corona, 78; membro del Senato, 79; firmato nel primo Statuto, 90 e nel terzo, 91.
Cardoni Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.
Carli Carlo id., 60.
Carlotti Alessandro, firmato nel primo Statuto, 91; senatore, 79; suo carattere e condotta, 139; propugnatore degli interessi del principe Eugenio, 110; lascia la seduta del 17 aprile, 49, 115; dopo quella del 20 si rifugia nella carrozza del Verri, 136; rimproveri fatti a lui dal Verri, 139; firma la protesta del Senato, 75.
Carmagnola Paolo, capo divisione nel ministero dell'interno, 82.
Carnaghi Amedeo, ispettore generale del tesoro, 83.
Carozzi Luigi firma l'istanza pei Collegi, 62.
Casati Giuseppe, consigliere di Stato, 81.
Casella Giovanni Battista, aiutante comandante, 84.
Casnati Filippo, capo divisione nel ministero del culto, 83.
Castelbarco Cesare firma l'istanza pei Collegi, 62.
Castiglioni Alfonso, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi, 60; nipote di C. Verri, gli preannunzia l'oggetto della seduta del Senato del 17 aprile, 104.
Castiglioni Antonio, avvocato, firma l'istanza pei Collegi, 61.
Castiglioni Carlo id., 62.
Castiglioni Luigi, senatore, 79; è nominato a far parte della [169] deputazione del Senato alle Alte Potenze, 13, 49, 53, 66, 163; va a Mantova, 116; da Mantova torna a Milano, 32, 116; fa parte di una commissione senatoria, 46, 109; parla in Senato, 47; istruzioni date a lui e al Guicciardi, 54, 55; firmato nel terzo Statuto 91.
Cavedoni Bartolomeo, aiutante comandante, 84.
Cavriani Federico, senatore, xxi, 79; fa parte di una commissione senatoria, 45, 109; firma la protesta del Senato, 75; presso il Melzi dopo la seduta del 20 aprile, 141.
Ceriani Giuseppe Cesare, capo divisione nel ministero dell'interno, 82.
Ciani Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 17, deputato dei Collegi alle Alte Potenze, 32, 156.
Cicogna Carlo, ciambellano di corte, sua parte nei fatti del 20 aprile 1814, 15.
Cicogna Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.
Cicogna ......, scudiere di corte, fratello di Carlo, sua parte nei fatti del 20 aprile, 15.
Cisotti Giovanni Battista, giudice di cassazione, 81.
Codronchi Antonio, arcivescovo di Ravenna, grande elemosiniere del Regno, grande ufficiale del Regno e della Corona, 78, membro del Senato, 79.
Colle Francesco, consigliere di Stato, 80.
Collegi elettorali del Regno d'Italia, istanza dei cittadini milanesi per la loro convocazione, 59-63; il Confalonieri ne chiede la convocazione, 18; prima riunione di essi il 22 aprile, con circa 70 elettori, e atti che vi si compirono, 29; deputazione loro alle alte Potenze, 32; altri atti, 35; numero degli elettori nel Regno, 92 e dei presenti a Milano, 35; loro deputazione al Sommariva, 36; altra al Bellegarde, 37; dichiarati sciolti dal Bellegarde, 38.
Compagnoni Giuseppe, consigliere di Stato, 81.
Condulmer Pietro Antonio, giudice di cassazione, 81.
Condulmer Tommaso Gaspare, senatore, 80, firma la proposta [170] del Senato, 75, si rifugia nella carrozza del Verri, 138.
Confalonieri Federico firma l'istanza pei Collegi, 59; sua parte nei fatti del 20 aprile, 15; sua intimazione al Senato, 18; rompe il ritratto di Napoleone dell'Appiani, 20; deputato dei Collegi alle Alte Potenze, 32, 156; suo contegno il 20 aprile, 131, 140; risponde alla Memoria Storica, x.
Consiglio di Stato, Statuto ad esso relativo, 91; sua composizione alla fine del Regno, 80, 81; molti consiglieri erano milanesi, 8; abolito dai Collegi elettorali, 35; dichiarato sciolto dal Bellegarde, 38.
Conti Francesco, firmato nel terzo Statuto, 91.
Conti Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.
Coraccini Federico (Lafolie Carlo Giovanni), pseudomino dell'autore della Storia dell'Amministrazione del Regno d'Italia, xv.
Cornaglia Francesco, prefetto del Serio, 87.
Corinaldo, patria di un militare fucilato, 105.
Corte dei Conti, sua composizione alla fine del Regno, 82; formata quasi tutta da milanesi, 8.
Corte di cassazione, sua composizione alla fine del Regno, 81; formata quasi interamente di milanesi, 8.
Corte reale in Milano, suo personale quasi tutto di milanesi, 8.
Corridori Girolamo, cassiere generale del Regno, 83.
Cortese Francesco, direttore delle rassegne e della coscrizione, 83.
Cossali Pietro, ispettore generale delle acque e strade, 83.
Cossoni Antonio, consigliere di Stato, 80, direttore generale delle acque e strade, 83.
Costabili-Containi Gio. Battista, senatore, 79, fa parte di una commissione senatoria, 46, 109; intendente generale della Corona e grande ufficiale del Regno, 79; firma il primo e il terzo Statuto, 91.
Costanzi Giovanni Battista, capitano di fregata, 84.
Cozzi Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 60.
Crespi Antonio id., 62.
Crespi Luigi, procuratore generale nella Corte dei conti, 82.
Crevenna Francesco, firma l'istanza pei Collegi, 62.
Crivelli Ferdinando id., 59.
Crivelli Ignazio id., 61.
Crivelli Mesmer Giuseppe, id., 62.
Crostolo, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Cruvelier Gio. Pietro, ispettore di marina, capo divisione nel ministero della guerra, 83.
Custodi Pietro, consigliere di Stato, 81, segretario generale del ministero delle finanze, 83.
Dabrowki, vedi Dombrowski G. E.
D'Adda Febo, consigliere di Stato, 80.
D'Adda Ferdinando firma l'istanza pei Collegi, 62.
Dal Fiume Filippo, prefetto dell'Alto Adige, 85.
D'Allegre Paolo Lamberto, consigliere di Stato e vescovo di Pavia, 81.
Dalmazia, sua unione al Regno e commissione per il suo ordinamento, 101.
Dandolo Silvestro, capitano di fregata, 85.
Dandolo Vincenzo, senatore, 80; suo contegno in Senato il 17 aprile, 44, 65, 108, 109; fa parte della commissione senatoria, 46, 109; parla in Senato, 47, 48, 111; va dal Melzi, 111; ricordato, xxi.
Danthouard Carlo Niccolò, generale di divisione, primo aiutante di campo del viceré Eugenio, 7; offende gli Italiani, ivi; accennato, 105; firma l'indirizzo dei generali francesi, 87.
Darnay Antonio, segretario di gabinetto del viceré Eugenio, 7; poi direttore generale delle poste nel Regno, 8, 84, 105; suo spionaggio nei carteggi privati, 8, 105.
Daurier, generale francese comandante nell'Adriatico, 85.
De Agostini Agostino, firma l'istanza pei Collegi, 62.
De Bernardi Stefano, presidente del consiglio legislativo nel consiglio di Stato, 80, primo presidente della Corte dei conti, 82.
De Capitani Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 62.
De Capitani Paolo, segretario generale del ministero dell'interno, 82.
De Carli Nazzari Luigi, firma l'istanza pei Collegi, 62.
Del Maino Carlo, prefetto del Tagliamento, 87.
De Lorenzi Antonio, giudice di cassazione, 81.
Dembowski Giovanni, generale di brigata, 84, designato nel generale straniero al soldo italiano, 9, richiamato in servizio dalla Reggenza, 40.
De Moll Sigismondo, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.
De Pagave Gaudenzio, segretario della Reggenza, 161.
Deputazione del Senato alle Potenze alleate, come e da chi proposta, 52, 53, 111, 112; istruzioni e credenziali date ad essa dal Melzi, 54-57; va a Mantova, 66, 116; ritorna a Milano, 68, 116; sua condotta difesa dal Guicciardi, 66-68.
Deputazione dei Collegi elettorali alle Potenze alleate, 30-31, 156; persone che ne facevano parte, 32, 156.
De Simoni Baldassarre, firma l'istanza pei Collegi, 63.
Di Breme Arborio Luigi Giuseppe, senatore, 79.
Dipartimenti del Regno d'Italia, loro capoluoghi, popolazione, circoscrizione, prefetti e comandanti militari, 85-87; solamente gli elettori di otto dipartimenti sono convocati a Milano, 155; loro rappresentanti nella Reggenza, 155.
Direzioni generali per l'amministrazione del Regno, funzionari che le componevano alla fine del Regno, 83, 84; quasi tutti milanesi, 8.
Dode, generale austriaco, 161.
Dombrowski Giovanni Enrico, generale di divisione, firmato nel primo Statuto, 91.
Durini Antonio, podestà di Milano, accennato 15; trasmette al Senato e al Melzi l'istanza dei cittadini per [173] la convocazione dei Collegi elettorali, 16, 58, fa pubblicare il decreto del Senato e altri proclami, 24, convoca il Consiglio comunale in seduta permanente, 24, 25, 146; firma l'istanza pei Collegi, 60, certifica conforme l'istanza, 63; presente all'insediamento della Reggenza, 147; il Confalonieri gli indirizza la sua apologia, x.
Erizzo Guido, consigliere di Stato onorario, 81.
Esercito, suoi ufficiali generali alla fine del Regno, 84.
Eulbrucca Carlo, firma l'istanza pei Collegi, 61.
Fagnani Federico, ciambellano di corte e consigliere di Stato, 81; sua parte nei fatti del 20 aprile, 15; firma l'istanza pei Collegi, 17, 59.
Farina Modesto, capo divisione nel ministero del culto, 83.
Fava Paolo Fabrizio, arcivescovo di Ferrara, grande ufficiale del Regno e senatore, 79.
Fè Marcantonio, deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 32, 156; firmato nel primo e terzo Statuto, 91.
Felici Daniele, senatore, 79, si offre di parlare al popolo, 69, insieme al Verri parla al popolo, 128; firma la protesta del Senato, 75.
Fenaroli Giuseppe, gran maggiordomo maggiore, grande ufficiale del Regno e della Corona, 78, membro del Senato, 79; invita la Reggenza ad occupare il palazzo reale, 149; firmato nel primo Statuto del Regno, 91 e nel terzo, 91.
Ferrarlo Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Ferri Francesco, prefetto del Piave, 86.
Fiorella Pasquale Antonio, generale di divisione, 84, senatore, 80.
Fontane Giacomo, generale di divisione, 84, comandante nel Mella, 86.
Fontanelli Achille, generale di divisione, 84, ministro della guerra e grande ufficiale del Regno, 78, 82; designato a far parte della deputazione del Regno alle Alte Potenze, 18, va a Parigi per la Baviera, 32, destituito dalla Reggenza, 40.
Foscolo Ugo, frequentatore delle case dei ministri, 9-10, promosso capo squadrone dalla Reggenza, 40, citato, ix, xi.
Fossano Luigi firma l'istanza pei Collegi, 59.
Francesco I, imperatore d'Austria, re d'Ungheria e di Boemia, le sue truppe occupano parte dell'Italia, 12; proposta di farlo mediatore presso le Alte Potenze per la cessazione delle ostilità, l'indipendenza del Regno e la creazione di Eugenio a re d'Italia, 12; è dichiarato in possesso di Milano e delle provincie, 35; dovevano presentarsi a lui i deputati del Senato, 54, 57.
Frangipane Cinzio, senatore, 80.
Frecarelli Prospero firma l'istanza pei Collegi, 62.
Fressinet Filiberto, generale francese, 87.
Frisiani Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 60.
Frosconi Alessandro, prefetto del Rubicone, 87.
Galimberti Livio, generale di brigata, 84.
Gallino Tommaso, consigliere di Stato e primo presidente della Corte d'appello di Verona, 81.
Galvagna Francesco, consigliere di Stato e prefetto dell'Adriatico, 81, 85.
Gaspari Giacomo, prefetto del Metauro, 86.
Gentili Antonio, firma l'istanza pei Collegi, 61.
Germani Giuseppe, capo divisione nella segreteria di Stato in Milano, 82.
Ghirlanda Girolamo, firma l'istanza pei Collegi, 62.
Giaxich ......, capitano di fregata, comandante del porto di Venezia, 85.
Giegler Pietro, libraio in Milano, xvi.
Gioia Melchiorre, creduto autore della Memoria storica, xi.
Giovio Ludovico, consigliere di Stato, 80, firma l'istanza pei Collegi, 17, 61, presiede i Collegi elettorali e suoi discorsi, 30 e seg., 155; era stato commissario straordinario nel dipartimento del Lario, negli ultimi tempi del Regno, 39; suo discorso di chiusura ai Collegi elettorali, [175] 36; altro discorso innanzi al Bellegarde, 37; risponde alla Memoria storica, xi, xxi.
Giudici Gaetano, segretario generale del ministero del culto, 83, e ff. di ministro dal 1812 al 1814, 78.
Giulini Cesare firma l'istanza pei Collegi, 60.
Giulini Giorgio, fa parte della Reggenza, 25, 146.
Giulini Giuseppe, firmato nel primo Statuto, 91.
Giustiniani Leonardo, senatore, 79, firma la protesta del Senato, 74.
Gorio Carlo firma l'istanza pei Collegi, 63.
Grandi ufficiali della Corona, 78; fanno parte del Senato, 79.
Grandi ufficiali del Regno, 78, 79; Statuto per la loro creazione, 91.
Grenier Paolo, generale francese, 87.
Greppi Antonio firma l'istanza pei Collegi, 62.
Guastavillani Giovanni Battista, consigliere di Stato, 80, firmato nel primo Statuto, 91.
Guerrini Camillo firma l'istanza pei Collegi, 63.
Guicciardi Diego, creduto autore della Memoria storica xii-xiv; sue notizie biografiche, xxii-xxiv; senatore, 79; combatte il progetto del Melzi ed è nominato della deputazione senatoria, 15, 49, 53, 11; suo contegno nella seduta del 17 aprile, 44, 45, 47, 65, 66, 108, 111, 113; va a Mantova col Castiglioni, 116; torna a Milano, 32, 116; istruzioni a lui date dal Melzi, 54, 55; sua memoria apologetica, 33; testo di essa, 64-69; lettera relativa della Reggenza, 70; firma la protesta del Senato, 74; firmato nel primo e terzo Statuto, 91.
Isimbardi Innocenzo, direttore generale delle zecche, 84.
Istanza dei cittadini milanesi per la convocazione dei Collegi elettorali, 59-63; trasmessa dal podestà al presidente del Senato, 58, 124, 125.
Jacob ...., capo divisione nel ministero italiano degli affari esteri in Parigi, 82.
Jacquet Giuseppe, generale di brigata, 84.
Julhien Giovanni Francesco, generale di brigata, 84, comandante nel Mincio, 86, ricordato xxv.
Lafolie Carlo Giovanni, vedi Coraccini Federico.
Lambertenghi Luigi, consigliere legislativo, firmato nel primo Statuto, 91.
Lamberti Giacomo, senatore, 80, segretario del Senato, 53, firma la protesta del Senato, 75.
Lario, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella Reggenza, 155; sua prefettura desiderata dal Verri, 98.
Laurent Francesco Guglielmo, generale francese, 87.
Lechi Angelo, aiutante comandante, 84.
Lechi Giuseppe, generale di divisione, 84.
Lechi Teodoro, generale di brigata, 84.
Lemarrois Giovanni, generale francese, governatore nelle Marche, 101.
Litta Alberto, fa parte della Reggenza, 25; deputato dei Collegi elettorali alla A. P., 32, 156.
Litta Antonio, gran ciambellano, grande ufficiale del Regno e della Corona, 78; membro del Senato, 79; firmato nel primo Statuto, 91.
Locatelli Luigi Annibale, ispettore alle rassegne, capo divisione nel ministero della guerra, 83.
Londonio Carlo firma l'istanza pei Collegi, 60.
Longo Lucrezio, senatore, 79, aggiunto alla Reggenza, pel Mella, 155, suo carattere e sua morte, 158, 159.
Luini Giacomo, direttore generale della polizia, accennato, 14; consigliere di Stato, 80, 101; aggiunto a C. Verri per l'organizzazione delle Marche, 101; suo carattere e sue attribuzioni, 153, 154; promosso dalla Reggenza a consigliere di cassazione, 40.
Luini Giuseppe, giudice di cassazione, 81.
Luini Stefano, prefetto dell'Agogna, 85.
Luosi Giuseppe, gran giudice ministro della giustizia, senatore, 80; grande ufficiale del Regno, 78, 82; presente [177] alla seduta del Senato 17 aprile, 43; parla, 48; sua parte nel progetto di decreto presentato al Senato, 110; firmato nel primo e nel terzo Statuto del Regno, 91.
Luosi Luigi, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.
Lupi Carlo, segretario generale del censo, 83.
Maestri Giovanni, consigliere di Stato, 80, prefetto del Monte Napoleone, 84.
Magenta Pio, prefetto del Bacchiglione, 85.
Maillot Stefano, commissario generale della marina, 85.
Manara Baldassarre firma l'istanza pei Collegi, 61.
Manzi Ignazio id., 60.
Manzoni Alessandro id., 62.
Marche, loro unione al Regno italico, 101; v. Metauro, Musone, Tronto.
Marchini Bartolomeo, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.
Marcognet, generale francese, 87.
Marescalchi Ferdinando, ministro degli affari esteri e grande ufficiale del Regno, 78, 82; firmato nel primo Statuto del Regno, 90 e nel terzo, 91.
Marina reale, suoi ufficiali superiori alla fine del Regno, 85.
Marini Giuseppe, capitano, aiutante di piazza, comandato a prestar servizio presso il Senato il 20 aprile, 15, 17, 18.
Marinoni Francesco, segretario generale della Segreteria di Stato in Parigi, 82.
Martel Filippo Andrea, generale di brigata, 84.
Martinengo Gio. Estore, senatore, 80.
Martini Francesco firma l'istanza pei Collegi, 61.
Masetti Agostino, ispettore generale delle acque e strade, 83.
Massari Luigi, senatore, 79; si offre di parlare al popolo, 18; parla in Senato, 47; insieme al Verri parla al popolo, 128; si rifugia nella carrozza del Verri, 138; firmato nel terzo Statuto, 92; firma la protesta del Senato, 74.
Mazzucchelli Giovanni Battista, aiutante comandante, 84.
Mazzucchelli Luigi, generale di brigata, 84; accennato, 9; promosso dalla Reggenza a generale di divisione, 40.
Medici Pietro firma l'istanza pei Collegi, 62.
Méjan Stefano, segretario degli ordini del viceré Eugenio, xxi, 7; ammesso nel Collegio elettorale dei dotti, ivi; registrato dal Saint-Edme tra i grandi ufficiali del Regno, 79; consigliere di Stato, 80; odiato dagli Italiani, 103.
Melano Portula Vittorio, vescovo di Novara, senatore, 80.
Mellerio Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 61; fa parte della Reggenza, 25.
Mella, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella Reggenza, 155; sua prefettura esercitata dal Verri, 99.
Meloni Abele firma l'istanza pei Collegi, 63.
Melzi Francesco, vicepresidente della Repubblica italiana, 98; trae il Verri alla vita politica, 99; duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della Corona e grande ufficiale del Regno, 11, 78; membro del Senato, 79; convoca il Senato per il 17 aprile, 12; sua lettera e messaggio relativo, 44; testo di essi, 49-50; sue istruzioni alla Deputazione senatoria, 13, 54-55; credenziali per il Metternich, 56-57; sua vita minacciata, 26, 140; non crede agli avvertimenti del Verri, 120, 140; ricordato, 12, 13, 16.
Melzi Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 59.
Melzi Giuseppe id. 62.
Mengotti Francesco, senatore, 50, segretario del Senato, 53; formula una proposta in Senato, 48; redige l'articolo relativo al principe Eugenio, 114; firma la protesta, 75.
Mermet Giuliano Agostino, generale francese, 87.
Metauro, uno dei dipartimenti del Regno, 86, 101; ricordato, 105.
Metternich (principe di), ministro degli affari esteri dell'imperatore d'Austria, credenziali del Melzi a lui per la deputazione del Regno, 13-14, 56-57.
Mezzoni (Mozzoni?) Ottavio firma l'istanza pei Collegi, 62.
Milius Pier Bernardo, capitano di fregata, 85.
Milossewitz Andrea, generale di brigata, 84, comandante nell'Adige e Alto Adige, 85.
Mincio, uno dei dipartimenti del Regno, 86; suo rappresentante nella Reggenza, 155.
Ministeri del Regno d'Italia, loro funzionari, 82, 83.
Minoia Giovanni, prefetto del Panaro, 86.
Mocenigo Alvise, senatore, 80.
Moiana Pietro firma l'istanza pei Collegi, 81.
Montebruno Andrea, aiutante comandante, 84.
Monteggia Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Monticelli Giovanni id., 62.
Monticelli-Strada Gio. Battista id., 62.
Mori Ambrogio id., 60.
Moroni Pietro, generale di brigata, 84.
Moscati Pietro, senatore, 79, fa una proposta in Senato, 48; firma la protesta in Senato, 74; firmato nel terzo Statuto, 91.
Mozzoni, vedi Mezzoni.
Muggiasca Giacomo, aggiunto per il Lario alla Reggenza, 155.
Muggiasca Gio. Battista firma l'istanza pei Collegi, 61.
Murat Gioacchino, re di Napoli, sua occupazione di parte d'Italia, 12; suoi disegni politici, 87.
Musone, uno dei dipartimenti del Regno, 86, 101.
Nani Tommaso, consigliere di Stato, 81.
Napoleone I, suo governo in Francia e in Italia, 5; porta solo l'odiosità delle gravezze finanziarie, 7; suo ritratto dipinto dall'Appiani e rotto dal Confalonieri, 20; ricordato, viii, 43.
Narducci Giampietro, capo divisione nella segreteria di Stato in Milano, 82.
Nava Ambrogio firma l'istanza pei Collegi, 61.
Negri ...., segretario generale del Monte Napoleone, 84.
Negri Antonio, presidente della Corte di cassazione, 81; firmato nel primo Statuto, 91.
Negri Gaetano, segretario generale delle acque e strade, 83.
Neipperg (conte di) Alberto, generale austriaco, 161.
Noghera Gio. Battista, giudice nella Corte dei conti, 82.
Odescalchi Tommaso, firmato nel terzo Statuto, 92.
Olona, uno dei dipartimenti del Regno, 86; da esso sono tratti i primi membri della Reggenza, 155.
Opizzoni Carlo, arcivescovo di Bologna, non riconosciuto, 79.
Oriani Barnaba, senatore, 80; firmato nel terzo Statuto, 91; firma la protesta del Senato, 75.
Ottolini Giulio firma l'istanza pei Collegi, 62.
Paini Giulio, generale di brigata, 84.
Pallavicini Giuseppe, presidente del Consiglio degli uditori nel Consiglio di Stato, 81; firma l'istanza pei Collegi, 59.
Pallavicini Giulio, giudice nella Corte dei conti, 82.
Palmieri ......., segretario generale del lotto, 84.
Palombini Giuseppe, generale di divisione, 84.
Pampuri Giacomo, giudice nella Corte dei conti, 82.
Panaro, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Paolucci Amilcare, generale di brigata, 84.
Paradisi Giovanni, firmato nel primo e terzo Statuto del Regno, 90, 91; senatore, 79; uno dei sostenitori del principe Eugenio, 110; doveva far parte della Deputazione senatoria, 11; non è nominato, 13; parla nella seduta 17 aprile, 44, 45, 47, 113; lascia la seduta, 49, 115; non interviene a quella del 20 aprile, 16; firma la protesta del Senato, 74.
Parca Carlo, ispettore generale delle acque e strade, 83, firma l'istanza pei Collegi, 60.
Parravicini Raffaele, consigliere di Stato, 80.
Pasqualigo Nicola, capitano di vascello, 85.
Passariano, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Patroni Giuseppe, colonnello, capo divisione nel ministero della guerra, 83.
Pecchio Pietro, giudice nella Corte dei conti, 82.
Peceis Gio. Odoardo firma l'istanza pei Collegi, 60.
Pedrazzini Michele, consigliere di Stato, 80.
Pedroli Carlo Antonio, consigliere di Stato onorario e primo presidente della Corte di cassazione, 81.
Pelegatti Cesare, giudice di cassazione, 81.
Peregalli Francesco, senatore, 80, aggiunto alla Reggenza per l'Adda, 155, firmato nel terzo Statuto, 92.
Perego Luigi, firma l'istanza pei Collegi, 61.
Peri Bernardo, generale di brigata, 84.
Petracchi Angelo, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.
Pevri Luigi, generale di divisione, 84, tenta di salvare il Prina dal furore popolare, 22.
Piave, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Piazzoni Gio. Battista, firmato nel terzo Statuto, 91.
Pini Ermenegildo, ispettore generale degli studi, 83.
Pino Domenico, generale di divisione, 79, 84, primo capitano della Guardia reale e grande ufficiale del Regno, 79; trascurato dal principe Eugenio, 7; firma la istanza pei Collegi, 17, 59; poteva salvare il Prina, 22; dichiarato comandante delle forze della capitale, 24; fa parte della Reggenza, 25, 146; suo proclama al popolo, 25; intende salvare il Melzi, 26; esorta il popolo alla calma, 141; chiama alle armi per difendere gli edifizi pubblici, 27; confermato dai Collegi elettorali nel grado di comandante delle forze militari; poi atti accennati, 38, 143; sue difese a stampa, x, xxi; censure a lui date, xx.
Pizzagalli Angelo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Pizzotti Francesco, giudice di cassazione, 81.
Poggiolini Giovanni, segretario generale dell'istruzione pubblica, 83.
Polcastro Girolamo, senatore, 79.
Polfranceschi Pietro, consigliere di Stato, 80; generale di brigata, 84.
Porro Ferdinando, prefetto del Brenta, 86.
Porro Luigi firma l'istanza pei Collegi, 17; in compagnia del Pino il giorno 20 aprile, 23; va a invitare gli Austriaci in Milano, 160.
Porta Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Prandina Gaetano, capo divisione nel ministero della giustizia, 82.
Predabissi Francesco, giudice di cassazione, 81.
Prevosti Giulio firma l'istanza pei Collegi, 62.
Prina Giuseppe, ministro delle finanze e grande ufficiale del Regno, 78, 83; senatore 80; cieco strumento della politica finanziaria di Napoleone, 7, e perciò odiatissimo, 105, 137; sua parte nel progetto di decreto del Melzi, 110; doveva far parte della Deputazione alle Potenze, 11; ma non fu nominato, 13; presente alle seduta del 17 aprile, 16; vi parla, 47, 113; non interviene a quella del 20 aprile, 16; ricercato durante la seduta stessa, 137, 141; tumulto popolare e strazio di lui, 21-23, 141-146; tentativi vani di salvarlo, 21, 23, 144; saccheggio del suo palazzo, 24, 137; della sua villa, 28; si sparge l'oblio sui colpevoli della strage, 40; incisione rappresentante il suo eccidio, 41.
Prina Giuseppe, professore a Pavia, cerca di salvare il ministro, 21.
Prina Luigi, segretario generale delle zecche, 84.
Protesta del Senato al Sommariva, 71-75.
Quesnel Francesco, generale francese, 87.
Quirini Stampalia Luigi, consigliere di Stato, 80.
Radaelli ....., fornaio, milite della guardia nazionale, trovasi ai fatti del 20 aprile, 136.
Raesini Carlo Luigi firma l'istanza pei Collegi, 61.
Raesini Rodolfo, id. 61.
Ragazzi Giuseppe, giudice di cassazione, 81.
Rambourgt Pietro Gabriele, generale di brigata, 84.
Rangone Giuseppe, firmato nel primo Statuto, 91.
Re Antonio, consigliere di Stato, 81.
Reina Giuseppe, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.
Reggenza provvisoria creata dal Consiglio comunale di Milano il 21 aprile 25, 146; suoi primi atti 26, 143-150; il Verri ne è fatto presidente, 149; suoi atti ulteriori, 38-41, 156-159; vi sono aggiunti i rappresentanti di sette dipartimenti, 38, 155; verbali delle sue deliberazioni, 161; non permette la pubblicazione dell'apologia del Guicciardi, 70; il Bellegarde ne assume la presidenza, 38.
Regno d'Italia, 1805-1814; sua formazione e suoi statuti costituzionali, 90-92; suoi alti funzionari civili e militari, 78-85; suoi dipartimenti 85-87; suoi collegi elettorali, 92, 93; contrasto fra i paesi della Lombardia e gli altri, 8; prevalenza dei milanesi negli alti uffici, 8; deputazione del Regno alle Potenze alleate secondo la convenzione del 16 aprile, 10, 11; unione al Regno della Dalmazia e delle Marche, 99; dipartimenti non occupati dagli Austriaci, 155.
Renard Brizio Giovanni Battista, generale di brigata 84, comandante nell'Adda, 85, e nel Lario, 86.
Reno, uno dei dipartimenti del Regno, 86.
Repossi Francesco, giudice di cassazione, 81.
Repubblica Italiana, 1802-1805; sua costituzione adottata nei comizi di Lione, 90; governata dal Melzi come vicepresidente, 97; deputazione di essa per la trasformazione in Regno, 90; atti e documenti di questa mutazione, 91.
Rezia Carlo, prefetto dell'Adda, 85.
Riva Cristoforo, consigliere di Stato, 81.
Rivaira Luigi, aiutante comandante, 84.
Rivolta Cristoforo firma l'istanza pei Collegi, 60.
Rodriguez Francesco, capitano di fregata, 85.
Roize, generale francese, comandante nel Reno, 87.
Ronna Tommaso, consigliere di Stato e vescovo di Crema, 81.
Rosmini Carlo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Rossi Luigi, ispettore generale degli studi, 83.
Rougier Gillo, generale di brigata, 84.
Rouyer, generale francese, 87.
Rubicone, uno dei dipartimenti del Regno, 87.
Sabatti Antonio, presidente nella Corte dei conti, 82.
Sacchini Girolamo firma l'istanza pei Collegi, 62.
Saint Edme (Bourg Teodoro), traduttore francese della Mem. stor. dell'Armaroli, 77, sue note alla medesima, 77-93; attribuisce la Mem. al Guicciardi, 77.
Sainte-Laurent, generale francese, 87.
Saint Paul Verbigier, generale di brigata, 84.
Saint Priest Filiberto Luigi, capitano di fregata, 85.
Salimbeni Leonardo, generale di brigata, firmato nel primo Statuto, 91.
Salina Luigi firmato nel terzo Statuto, 92.
Salvini Andrea, direttore delle costruzioni navali, 85.
Sanfermo Rocco, consigliere di Stato, 80.
Sanner Baldassarre, giudice nella Corte dei conti, 82.
Sant'Andrea Pietro, generale di brigata, 84.
Scaccabarozzi Cesare, giudice di cassazione, 81.
Scazza Lorenzo firmato nel terzo Statuto, 91.
Schiazzetti Fortunato, generale di brigata, 84.
Schilt, generale francese, comandante nel Passariano, 86.
Scopoli Giovanni, consigliere di Stato, 80, direttore generale dell'istruzione, 83.
Scotti Gallerati Costanzo firma l'istanza pei Collegi, 61.
Scotti Gallerati Francesco, id., 61.
Segretari generali dei ministeri e delle direzioni generali, 82, 84; quasi tutti milanesi, 8.
Segreterie di Stato in Parigi e in Milano, loro funzionari, 82.
Segri Antonio firma l'istanza pei Collegi, 63.
Senato consulente, Statuti per la sua creazione e ordinamento, 92; regolamento di esso, 92; sua composizione alla fine del Regno, 8, 79, 80; comprendeva otto senatori milanesi, 8; seduta straordinaria del 17 aprile, 12, 13, 103-115; [185] relazione di essa, 43-49; commissione in essa creata, 11, 45, 46; proposte presentate e deliberazioni prese, 50-53; sua deputazione alle Potenze, 11, 12, 113; seduta del 20 aprile, 15-21, 122-136; gli è chiesto il richiamo della deputazione e la convocazione dei Collegi, 18, 134; sua protesta al Sommariva, 71-75; abolito dai Collegi, 35, e sciolto dal Bellegarde, 38.
Serbelloni Gio. Battista, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi, 59; va a invitare gli Austriaci, 162.
Serbelloni Marco, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.
Serio, uno dei dipartimenti del Regno, 87; suo rappresentante nella Reggenza, 155.
Serpenti Angelo firma l'istanza pei Collegi, 60.
Severini Girolamo id., 61.
Severoli Filippo, generale di divisione, 84.
Sgariglia Pietro, senatore, 80.
Silva Bernardino, giudice nella Corte dei conti, 82.
Silva Ercole, accennato, 15, firma l'istanza pei Collegi, 60.
Silva Sigismondo, accennato, 15, id., 60.
Smancini Antonio, consigliere di Stato e prefetto dell'Adige, 81, 85.
Soldini Ambrogio, direttore generale del lotto, 84.
Soldini Andrea, capo divisione nel ministero delle finanze, 83.
Somaglia Antonio firma l'istanza pei Collegi, 60.
Somaglia Carlo, id., 60.
Somaglia Gio. Luca, id. 60; presidente del Consiglio comunale, presente all'insediamento della Reggenza, 147; deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 156.
Somaglia Gaetano, giudice nella Corte dei conti, 82.
Sommariva Annibale, generale austriaco, commissario delle Alte Potenze in Milano, 34, 155, 161; riceve la deputazione dei Collegi elettorali, 36.
Sommariva Matteo, fratello del precedente, aggiunto alla Reggenza per l'Alto Po, 155.
Sommaruga ...., presidente nella Corte dei conti, 82.
Sommenzari Teodoro, prefetto del Mella, 86.
Sommi Serafino, deputato dei Collegi elettorali alle Alte Potenze, 156.
Sopransi Fedele, giudice di cassazione, 81.
Sopransi Luigi, consigliere di Stato, 81, giudice di cassazione, 81, firmato nel primo Statuto, 91.
Soresi Giovanni, firma l'istanza pei Collegi, 61.
Sormani Alessandro id., 60.
Sormani Giuseppe id., 60.
Sormani Lorenzo id., 60.
Sozzi Carlo, vicario capitolare di Milano, esorta alla tranquillità, 26.
Spella Luigi firma l'istanza pei Collegi, 60.
Spreafico Pietro id., 60.
Statuti costituzionali del Regno d'Italia, 90-92.
Staurenghi Leopoldo, prefetto del Tronto, 86.
Stoppani Pietro, capo div. nel ministero della giustizia, 82.
Strassoldo, governatore austriaco in Milano, 162.
Stratico Simone, senatore, 80, firma la protesta del Senato, 75.
Strigelli Antonio, consigliere di Stato, segretario di Stato in Milano, 81, 82; vuole abbandonare l'ufficio, 157; segretario generale della Reggenza, 70.
Tadini Oldofredi Girolamo, prefetto del Reno, 87.
Tagliabue Francesco, firma l'istanza pei Collegi, 62.
Tagliamento, uno dei dipartimenti del Regno, 87.
Tamassia Giovanni firmato nel terzo Statuto, 91; prefetto del Lario, 86.
Tarchini Giovanni Battista, segretario generale del ministero del tesoro, 83.
Tarsis Giovanni Battista, aggiunto alla Reggenza, per l'Agogna, 155.
Taverna Francesco, consigliere di Stato onorario e primo presidente della Corte d'appello in Milano, 81.
Taverna Giuseppe, firmato nel terzo Statuto, 91.
Tempiè Giacomo, capitano di fregata, 85.
Testi Carlo, senatore, 79; incaricato del portafoglio degli affari esteri in Milano, 82; nominato della Deputazione senatoria alle Alte Potenze, 49, 53, 66, 113; rinunzia per motivi di salute, 49, 115; sua opinione sulle credenziali, 55; firma la protesta del Senato, 75.
Teuliè Filippo, giudice nella Corte dei conti, 82.
Thiene Leonardo, senatore, 80; esce col Verri dal Senato il 20 aprile, 137; firma la protesta del Senato, 75.
Ticozzi Stefano, prefetto dell'Alto Po, 85.
Tonni Luigi, giudice di cassazione, 81; aggiunto alla Reggenza, pel Mincio, 155.
Tordorò Luigi, capo della contabilità del Regno, 83.
Tornielli Giuseppe, consigliere di Stato, 81.
Trivulzio Gian Giacomo firma l'istanza pei Collegi, 17, 59; deputato dei collegi alle Alte Potenze, 32, 156.
Traversi Giovanni firma l'istanza pei Collegi, 59.
Trecchi Sigismondo id., 60.
Tronto, uno dei dipartimenti del Regno, 87.
Trotti Lorenzo id., 61.
Trouchon Domenico, direttore dell'artiglieria di marina, 85.
Ungarelli Pietro, giudice nella Corte dei conti, 82.
Vaccari Luigi, ministro dell'interno e grande ufficiale del Regno, 78, 82; presente alla seduta del Senato il 17 aprile, 43; vi parla, 44, 45, 47; sua parte nel progetto di decreto, 108; sostiene il principe Eugenio, 114.
Valdrighi Luigi, consigliere di Stato, 81; procuratore generale della Corte di cassazione, 81; firmato nel primo Statuto, 91.
Veneri Antonio, ministro del tesoro e grande ufficiale del Regno, 78, 83; senatore 80; presidente del Senato nella seduta del 17 aprile e sua condotta in essa, 44-49, 53, 107; sua condotta in quella del 20 aprile, 16-20, 134; scambiato col Prina e insultato, 137; va dal Melzi dopo quella seduta, 141; firma la protesta del Senato, 74.
Verdier, generale francese, 87.
Verri Carlo, autore della relazione sui fatti di Milano, xvii, 97; suoi intendimenti, 98; sue notizie biografiche, xxv; prefetto a Brescia, 98, 99; consigliere di Stato, 100; fa parte della commissione per la Dalmazia, 100; ispettore di pubblica beneficenza, 101; sua missione nelle Marche, 100-102; senatore, 80, 102; sua condotta nella seduta del 17 aprile, 47, 65, 108, 109; va dal Melzi, 109, 119, 140; approvato in pubblico o in privato, 117, 118, 123; sua condotta nella giornata del 20 aprile, 18, 19, 125-137; fa parte della Reggenza, 25, 146; suoi atti ufficiali 70; sua condotta come presidente della Reggenza, 147-157; va a complimentare i Collegi elettorali, 155.
Verri Giovanni, cavaliere, fratello di Carlo, dimorante a Como, 98.
Vertova Giovanni Battista, firmato nel terzo Statuto, 91; aggiunto alla Reggenza per il Serio, 155.
Vestarini Belingeri Carlo firma l'istanza pei Collegi, 62.
Vidoni Soresina Giuseppe, senatore, 79; firmato nel terzo Statuto, 91.
Vignolle, generale francese, 87.
Vigoni Gaetano firma l'istanza pei Collegi, 60.
Villa Carlo, consigliere comunale, id., 62.
Villa Carlo, segretario del Cancelliere guardasigilli della Corona, accennato come quello da cui i rivoluzionari conoscevano gli atti del Melzi, 13; firma il messaggio del Melzi, 50, 108; le istruzioni ai Deputati del Senato, 55 e le credenziali, 57.
Villa Giovanni, prefetto di polizia di Milano, destituito dalla Reggenza e perché, 40.
Villa Luigi, ministro dell'interno nella Repubblica italiana, 97.
Villata Giovanni, generale di brigata, 84, comandante nel Rubicone, 87.
Villata Guido, giudice di cassazione, 81.
Villata Michele, prefetto del Musone, 86.
Visconti Annibale, colonnello della guardia civica di Milano, firma l'istanza pei Collegi, 17, 60; assume il comando della guardia nazionale, 145.
Visconti (Antonio?) di Cremona, capo battaglione, firma l'istanza pei Collegi, 59.
Vismara Michele, prefetto del Mincio, 86.
Vitali Gaetano firma l'istanza pei Collegi, 61.
Volpi Caneriggi Benedetto id., 61.
Volta Alessandro, senatore, 79, firma la protesta del Senato, 75.
Zacco Costantino, prefetto del Basso Po, 86.
Zanella Carlo firma l'istanza pei Collegi, 62.
Zanella Carlo Grato id., 61.
Zanoli Alessandro, segretario generale del ministero della guerra, 83, destituito dalla Reggenza, 40.
Zecchini Bonaventura, prefetto del Crostolo, 86.
Zenghi Luigi Filippo firma l'istanza pei Collegi, 62.
Zucchi Carlo, generale di divisione, 84; firma l'atto di cambio della convenzione militare di Schiarino Rizzino.
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):
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