Project Gutenberg's Il re dei re, by Ferdinando Petruccelli della Gattina This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: Il re dei re Convoglio diretto nell'XI secolo (vol. 1) Author: Ferdinando Petruccelli della Gattina Release Date: January 6, 2010 [EBook #30878] Last Updated: December 5, 2013 Language: Italian Character set encoding: ISO-8859-1 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RE DEI RE *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
BIBLIOTECA NUOVA
PUBBLICATA DA G. DAELLI
Stabil. tip. già Benietti, diretto da F. Gareffi.
IL
RE DEI RE
CONVOGLIO DIRETTO
NELL'XI SECOLO
PER
F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA
VOL. I.
MILANO
G. Daelli e C. Editori.
1864.
(p. 7)Per chi ama la storia sbadiglio, come quella del Guicciardini e del Botta, questo libro è romanzo.
Per chi ama il romanzo, come quello di Paul de Kock, di Paul Feval o di Soulié, questo libro è storia.
A chi si delizia della storia-dramma di Michelet, della storia in azione di Balzac, di Vittor Hugo, di Dumas, queste pagine sono leggere.
Esse sono dei freschi di un secolo di giganti.
Ben m'accorsi ch'egli era del ciel messo,
E volsimi al maestro, e quei fe' segno
Ch'io stessi cheto ed inchinassi ad esso.
Ah! quanto mi parea pien di disdegno!
Giunse alla porta e con una verghetta
L'aperse, chè non v'ebbe alcun ritegno.
O cacciata dal ciel gente dispetta,
Cominciò egli in sull'orribil soglia,
Ond'esta tracotanza in voi s'alletta?
La mattina 26 giugno 1070 nella badia di Montecasino era affaccendato movimento. Frati che ivano e redivano pei chiostri colonnati recando vasi sacri e ricchi panni di chiesa, scudieri che lustravano usberghi e giacchi di maglia, palafrenieri attenti al governo di numerosi cavalli, damigelli che dalle cucine servivano succulenti asciolvere ai padroni negli assegnati appartamenti, oltre numero molto di vassalli intenti a servigi diversi dell'abadia, e grossa folla di chierici che accompagnavano i vescovi. Tutti trovavano alcuna cosa a dire, alcun comento a fare sulla povertà santa dei frati, ricevendo e comunicando ordini, ghignazzando, motteggiando. Erano nell'abadia quarantatrè vescovi, e dieci arcivescovi, Sergio duca di Napoli, Gisulfo II principe di Salerno e i suoi fratelli, Sergio duca di Sorrento, Riccardo principe di Capua con Giordano suo figlio e Rainulfo suo fratello, Landolfo principe di Benevento, i conti di Marsi, e moltissimi tra baroni normanni e longobardi di minor conto, e valvassori, ed uomini liberi. Infine vi era papa Alessandro II con codazzo pomposo di laici ed ecclesiastici. L'abate Desiderio aveva ristaurata la chiesa, ed invitato il papa a consacrarla. Ed onde al pontefice fosse resa maggiore onoranza, tutt'i sopra detti signori vennero sollecitati di preghiere molte a recarsi al monistero. Così che corte splendida al di là dei desiderii si ragunava intorno ad Alessandro, di queste vanità mondane ghiotto; superbo nei modi; svogliato nel condurre gli affari.
Nè per vero bisogna ingollarsi che papa Alessandro si togliesse al suo dolce far niente di Roma solamente per compiacere l'abate. Aveva sibbene riposto pensiero che in lui tutt'i dì teneva desto il suo cancelliero e consigliere. Al quale pensiero non avrebbe mai potuto dare altrimenti vigore, e forse vita, se non in occasione tanto solenne. Che perciò, nell'accettare l'invito, destramente all'abate insinuò di raccogliere a Montecasino quanto più di vescovi e baroni, onde i semi della supremazia ecclesiastica sulla laicale, che tre pontefici avevano di già principiato a spargere, si propagassero ancora. Non perchè allora si tenessero malcontenti dei progressi di questa idea, che per tre secoli formò base di dritto pubblico, ma perchè ogni Assuero ha il suo Mardocheo, il quale toglie il sonno alle vigili pupille, e la veneranza d'altrui neutralizza. Per modo che, compiute le cerimonie, diversamente la somma delle cose del mezzogiorno d'Italia il Papa, o il suo cancelliere, disegnava avviare, e rinsaldire i legami d'investitura per violenza da papa Niccolò II stabiliti. Aveva quindi benignamente accolto l'invito di Desiderio, e lasciate le mollezze di Roma.
A Costantinopoli l'abate aveva fatto fondere le porte di bronzo storiate, che ancora adesso sono alla chiesa; di Costantinopoli erano venuti i fabbricatori di musaici, che bellissimi di fiori e figure ornavano l'abside. I quali artefici, oltre dell'opere, istruirono altresì taluni dei frati i quali fecero poscia vivere quest'arte in Italia. Nè altri uomini periti nell'operare l'oro, l'argento, il ferro, il bronzo, l'avorio, il vetro, il legno, il talco, ed il marmo trasandò convocare di Francia, come altresì di Lamagna, d'Italia tutta e di Grecia, onde bellissima, e riccamente ornata tornare quella basilica. Alla cui splendidezza concorsero con donativi di oro e di ricchi drappi molti principi oltremontani, e quasi tutti i baroni del regno. Non mica già perchè d'uopo ne avesse l'abadia, potente e doviziosa a pari delle migliori di Europa, ma perchè quel di Montecasino era pellegrinaggio in voga a quei tempi, ed i nobili palmieri giammai tornavano alle patrie loro senza largamente pagare il perdono delle peccata. Sicchè maravigliosa a vedere quella mattina poteva dirsi la chiesa, non solamente perchè sfolgorava di lampade moltissime d'oro e d'argento e delle stoffe più sontuose che, tessendo sete per colori diversi e lamine d'oro e ricami di pietre preziose, allora si usassero; ma perchè il corteggio che formavano al papa tanti vescovi e signori abbarbagliava. Ed abbarbagliava nel pieno senso della parola, dappoichè i lumi bellamente risplendevano sugli ghiazzerini lustrati d'acciaio e di argento, e nei pomposi rocchetti di trine d'oro che adoperavano i vescovi. Il sole poi, che penetrava per le finestre a vetri colorati, tappezzava le mura ed il lastrico di marmo d'un profluvio d'iride quasi che tutto fosse incrostato di pietre preziose. Mazzi di fiori in guastade d'oro ingombravano gli altari ed impregnavano l'aria di un profumo indefinibile. Gli organi mandavano fiotti di armonia.
In mezzo a quell'opulenza soavissima di colori, di luce e di odori, in mezzo a quella calca rifulgente, però v'era bene un uomo vestito di nero, il più schietto, il più modesto in apparenza, che da tutti gli altri si distingueva, e che sembrava, fra tanto sfoggio di ricchezze e di potenza, come il famoso schiavo che ricordava al trionfatore il te hominem esse memento. Un'apparizione lugubre quell'uomo era quivi, un essere freddo e severo da cui tutti dovevansi allontanare, che tutti avevano a tenere in uggia; e pur nullameno l'abate veniva dimenticato, venivano trascurati principi e duchi, negletto lo stesso Alessandro II, e gli occhi pendevano da quel semplice frate per istudiarne la cera abbassata, per leggere un'idea sola nel raro levar di quello sguardo, per interpretare una sola di quelle rughe che la calva fronte gli solcavano. Quell'uomo era il cancelliero del papa.
Verso l'ora di sesta la funzione cominciò. Nel silenzio più profondo, nell'ordine meglio serbato, assistevano i circostanti, preparandosi alla comunione ed al riconciliamento coi nemici. Ed e' veramente pentiti allora, come disposti a rincrudelire negli odii e nelle avanie il dì dopo, rallegravano l'animo del pontefice, il quale la sottile sua politica vedeva profittare. Egli celebrava la messa; gran coro di damigelli francesi e di eunuchi romani cantavano, accompagnati dal suono dei tricordi e degli organi, cui toccavano maestri alemanni, i più periti allora in quest'arte. Così tirossi innanzi fino all'evangelo, cantato dall'arcivescovo di Bari. Allora il papa si assise sopra ricco trono per dar cominciamento al baciamano; perocchè allora la mano solamente al papa si baciava non il piede, come per la prima volta vilmente praticò Lottario II, il 4 giugno 1133. Sicchè dunque Alessandro fra l'arcivescovo di Bari e quello di Napoli, con in testa il berretto frigio sormontato dalla corona, che papa Osmida pel primo usò, ed in dosso magnifica cappa rossa, si prestava a quell'atto primamente agli arcivescovi poi ai vescovi ed agli abati, per indi ricevere i secolari.
Ma sino a costoro la cerimonia non giunge. Da poichè nel mentre l'abate di Bansi scendeva i due gradini del soglio, ed il principe di Benevento si appressava per profferire a sua volta quel segno di divozione al sommo pontefice, un rumore si ode nell'atrio della chiesa, e ben presto si vede entrare un cavaliere coperto tutto di acciaro, col morione in testa a buffa calata che, aprendosi ardito varco fra mezzo a tanti, passa i balaustri, ascende il soglio, e giunto innanzi ad Alessandro II, sguaina il pugnale cui punta sul destro cosciale come scettro, e la visiera si alza.
Stordito all'atto ardimentoso ognuno gli leva sopra lo sguardo. Ed ebbero a vedere un giovane di poco meno di venti anni, le labbra appena ombrate da biondi baffi, gli occhi turchini fieri e scintillanti come quelli di un rettile, la bianca carnagione infoscata dal sole, accese le gote. In quell'atteggiamento maestoso ed impavido sembrava l'arcangelo che guarda il soglio di Dio. Egli si compiace un istante a scorrere lentamente lo sguardo su quell'adunata, poi fissa con piglio severo il pontefice e dice:
—Sire papa, tu sei il più codardo uomo di cristianità.
Il volto di Alessandro, da bianco addivenuto per paura, arroventa. Nel tempo stesso cento destre cadono sui manichi dei pugnali, chè le spade avean tutti lasciate fuori la porta, ed il principe di Benevento fa qualche passo onde istrappare quel temerario di quel sito, e gittarlo lontano. Ma lo sguardo altero del giovane l'arresta, e, dopo averlo considerato un istante con aria di freddo disprezzo, si rivolta novellamente ad Alessandro e soggiunge a voce forte e tranquilla:
—Sì, sire papa, tu sei lo più vigliacco uomo di cristianità. E voi, baroni, non vi mostrereste per avventura meno dappochi, se segno alcuno di veneranza veniste a fare a costui.
—Se non si tratta che di ciò! si udì una voce partir dal gruppo dei baroni. Il cavaliere si volse da quel lato aspettando il seguito, ma non udendo più che un fremito indistinto in mezzo all'assemblea, continuò:
—Dio aveva chiamato il papa ad esser capo dei cristiani: in età più avventurosa e' ne fu sempre la voce, il sostegno e l'esempio; ora e' si fa oltraggiare dai più imbelli, si fa schernire dai suoi vassalli. Papa Alessandro II è il trastullo di Roberto Guiscardo e del priore Guiberto di Lacedonia.
Tutti aspettavansi grande esplosione dal pontefice, superbo e puntiglioso uomo, contro colui che gli gittava sul volto così mortali parole; pur nullameno diversamente avvenne. Dappoichè, se Alessandro II avesse voluto imaginare mezzo più efficace che al suo intento lo conducesse, meglio non avrebbe saputo. Anzi guardò in volto il suo cancelliero, pensando non fosse stato per consiglio di lui che quella scena quivi avvenisse. Ma vedendo che alfine anche costui radiava di gioia amara, si rivolge al giovane e calmamente favella:
—Bene dite, cavaliere, che noi siamo vigliacchi, e che non lo sono meno questi baroni, i quali, la nostra persona venerando, ci lasciano insultare da altrui. Essi per vero dimenticarono che Iddio noi rappresentiamo quaggiù e che ogni vituperio diretto al pontefice Iddio colpisce sull'eterno suo soglio di zaffiro.
—Essi non dimenticarono nulla, ser papa « lo interruppe il giovane » tratto il nobile giuramento che profferirono prendendo il cingolo di milizia. La religione non si difende più: la donna vilipesa, l'orfano spogliato non trova più braccio generoso che per essi si levi. E sta bene, baroni; la paura di Guiscardo vi ha infiacchiti nell'anima. Ma quelle offese, che per altrui oggi non vendicate, da un dì all'altro sopra di voi ancora cadranno, sopra di voi sicuri in boria indolente.
—Ma, col vostro permesso, santo padre, chi fia codesto temerario che ci viene a vilipendere di modi così villani? » dimanda il principe di Salerno, traendosi innanzi sino al soglio del papa.
Il giovane stava per rispondere, Alessandro gli fa cenno della mano e dice:
—Chi, messer principe? un inviato del Signore sicuramente. Egli ci ha chiamati vili perchè lasciamo conculcare la santa dignità, di cui noi, servo dei servi di Dio, fummo investiti. Egli si è apposto. Noi abbiamo scagliati gli anatemi contro codesto ribelle priore e contro codesto Guiscardo; abbiamo pianto su i mali della Chiesa ed invocata la forza laicale. I vigliacchi dunque siete voi, o baroni, che ci vedete spogliare, ci vedete offendere, e non curate delle nostre preghiere. Sa Iddio se questa amara parola di codardi noi vi avremmo mai fatta udire; ma poichè dessa uscì di bocca ad un generoso, se la tolga cui spetta, che noi la nostra missione compimmo fin dove la carità ci consigliava.
—Morte al priore, morte a Guiscardo « scoppiarono allora unanimi quanti erano nella chiesa, infiammati » vendetta, vendetta!
—Ah! « sclama il giovane sogghignando e rimettendo il pugnale nella vagina » levate pure la voce, levatela forte, messeri, chè Roberto è lontano, assai lontano per udirvi, il priore troppo immerso fra i bagordi delle sue concubine. Ma guardatevi bene, baroni, studiate attentamente di non inchinarli abbastanza umilmente quando essi vi saranno da presso, chè le incaute parole di questa mattina sono sentenza di morte per vassalli i quali ai loro padroni forfanno.
—Se questo ragazzo ha il braccio libero come ha lo scilinguagnolo, eh! eh!—mormora di nuovo una voce dal gruppo dei baroni.
—Noi non siamo vassalli di chicchessia, arrogante baccelliere « grida a sua volta il principe di Capua » nè di alcuno temiamo dopo il Signore. Il duca Roberto Guiscardo, il valvassore di Lacedonia, non ci oltraggiarono mai direttamente perchè noi, con l'aiuto di Dio, sappiamo bene come le offese si vendicano, e speriamo nell'arcangelo del Gargano ed in questo barone s. Benedetto di mostrarlo un poco anche a voi, se pur siete cavaliere. Il solo torto che abbiamo a rimproverarci d'innanzi a Dio gli è di non aver prestato mano al santo pontefice nelle sue querele con questi due baroni. Ebbene, per quelle sante reliquie dunque giuriamo che non saranno passati sei mesi...
—Col vostro beneplacito, principe « s'interpone Gisulfo » arrestatevi: non profferite giuramento che forse un giorno vorreste non aver fatto. Io non difendo il duca Roberto perchè mi viene cognato, nè il priore di Lacedonia perchè mi è amico. Ma le nostre leggi ordinano di non condannare alcuno, che prima non fosse stato citato e giudicato. Io quindi mi appello a voi, santo padre, di aprire un placito, dove le accuse contro costoro fossero più formalmente profferte e da loro pari discusse. Poi, se la sentenza che profferiranno li condannerà, io che adesso per loro campione mi constituisco, io il primo mi adopererò onde eseguirla. Ho detto, e la parola di un principe valga per voi più di quella di codestui, che se non è matto, è bene insolente e merita castigo.
—Uhm! meritare l'è uno, darglielo è un altro; ci badi messere, susurra taluno di mezzo all'adunanza.
—Ben diceste, nostro amato figliuolo « alquanto acerbo risponde il pontefice » prudente consiglio fu quello di vostra mercede, e per avventura assai cauto. Noi dunque apriamo questo placito qui. Lo presederà per noi il nostro cancelliero; i giudici saranno questi baroni; gli accusatori, gli offesi non pochi che qui si trovano per farci riverenza. La giustizia favelli nei vostri cuori, vi illumini Iddio. Ricordatevi però che i torti degli uomini si possono obliare e perdonare talvolta, ma quelli della Chiesa non mai, perchè contro di lei portæ inferi non prevalebunt. A domani.
—A domani « replica il principe di Capua ritirandosi » e riposate pure tranquillo, santo padre, chè il vostro dolore ci si scolpisce nel cuore. Ricominciate le cerimonie.
—Aspettate « interrompe il giovane facendo cenno al papa di sedere » Il principe Gisulfo da uomo prudente si dichiarò campione del marito di sua sorella e dell'audace priore: il principe Riccardo, da bravo cristiano, si arrestò in mezzo ad uno spavaldo di giuramento, che in cuore suo sapeva non poter compire giammai: i duchi di Sorrento e di Napoli, assorti nelle beate visioni dei loro feudi incantati, pensano a tutelarvisi dentro come le lumache nel guscio: il principe di Benevento medita la morte di languore, in cui, unitamente al suo Stato, si consuma: vescovi ed arcivescovi ardono di ritornare agli ozii voluttuosi dei loro castelli ed ordinare cacce e processioni onde viver lieti e tranquilli. Ma voi, ser papa, uditemi bene, voi direte al vostro monsignor Gesù Cristo, che fra qualche minuto chiamerete nell'ostia, voi gli direte che avete udito giurare a Baccelardo, duca di Puglia, spogliato dei suoi Stati dal suo zio Roberto Guiscardo, che allora e' perdonerà a costui, quando quelle sante reliquie di Macario e di Benedetto prenderanno di nuovo forma umana, e diranno: Dio non è! Dio non è! Voi, sire papa e baroni, siatemi testimoni del giuramento che ho fatto.
E sì dicendo il giovane proscritto scendeva dal soglio del pontefice, attraversava la chiesa con la medesima maestà con cui era entrato, montava a cavallo e partiva dal monistero. E quei signori, lungi dal fare onta alcuna al diseredato, lo compiansero e molti gli giurarono protezione. Il cancelliero di Alessandro dal suo primo apparire gli aveva fissato addosso l'immobile sguardo, quasi avesse voluto ben bene comprenderlo; poi aveva abbassato il capo, nè più fatto atto che il suo pensamento rivelasse, nè detto motto.
MAF. Madame, je suis Maffio Orsini frère du Duc de Gravina que vos sbires ont étranglé la nuit pendant qu'il dormait.
IEP. Madame, je suis Ieppo Liveretto neveu de Liverotto Vitelli, que vous avez fait poignarder dans les caves du Vatican.
OLOF. Madame, je m'appelle Oloferno Vitellozzo neveu de Iago d'Appiani, que vous avez empoisonné dans une fête après lui avoir traîtreusement derobé sa bonne citadelle seigneurial de Piombino.
DON APOS. Madame, vous avez mis à mort sur
l'échafaud Don Francisco Gazzella.......
Je suis Don Apostolo Gazzella.
Il domattina, all'ora di terza, nella vasta sala dove si ragunavano i monaci a capitolo, tutto era apparecchiato per l'augusto mallo, che il papa, come capo della cristianità, si lusingava poter tenere egualmente che l'imperatore d'occidente. Tre disposizioni preliminari il principe Gisulfo aveva creduto provocare dal cancellier-presidente onde meglio si fosse sicuri della giustizia che nel placito si sarebbe serbata.
Primamente, che oltre le dignità ecclesiastiche fino a quella di priore, ed alle laicali fino a quella di castellano o valvassore, non si permetteva a chicchessia intervenire all'adunata se non fosse per particolarmente far atto di accusa o di difesa contro i due giudicabili; da poichè gli uomini della condizione di Roberto Guiscardo e del priore barone di Lacedonia dovevano aspettarsi di essere giudicati da loro pari.
Secondo, che i membri del placito vi si potessero recare a piacimento scoverti o imbacuccati nei loro cappucci; onde, sia che accusassero, sia che difendessero, niuna ragione d'interesse individuale per odio o benevolenza, e nessun pungolo di tema o di gloria, l'inspirassero; le quali accuse e difese potevano profferire o con la voce con le scritte.
Infine, che ciascheduno metterebbe in un'urna il suo voto, designando con dado bianco l'assoluzione, con dado nero la condanna, giusta il codice longobardo in voga anche presso i Normanni.
Posti questi tre articoli, il giudizio si dispose. Giudizio arbitrario ed illegale, perchè gli sculdaschi, ossia i giudici, giudicavano ed accusavano nel tempo stesso, ed i rei niuno aveva chiamati alla difesa. Ma perchè il principe Gisulfo se ne era costituito campione, avvegnachè il principe non potesse dirsi assai istruito dei fatti, nè vigoroso del pari nell'intelletto come nel braccio; il papa si credette autorizzato ad aprir questo placito. Egli operava così perchè Roberto Guiscardo, ricevuta investitura dei suoi Stati da Niccolò II si era dichiarato vassallo della Chiesa, in egual modo che il priore lo era per lo spirituale; perchè egli usava del diritto di difendere gli oppressi contro i potenti, e come capo dei cristiani chiamare alla ragione i feudatari, che a niuno potere inchinavansi quando gl'imperatori tanto distavano dalle loro provincie; perchè la grande idea di sottrarre non solo gli ecclesiastici al dominio laicale, ma questo sottomettere a quello, faceva un passo di più, giudicando così possenti baroni; perchè infine a tal punto lo aveva tirato dei capelli il suo cancelliere, ed un simulacro di giustizia appariva nel loro comportarsi. Cosichè non stettero a pensarci sopra neppur tanto, ed il placito s'intimò.
A terza dunque, come si è detto, tutti trovavansi pronti nella grande sala del capitolo. Le porte del monistero si chiusero, onde niuno di fuori venisse a sturbarli. Innanzi ad un grande tavolo di legno di quercia sedeva il cancelliero di papa Alessandro, con la testa scoverta, severo e sereno. Presso di lui stava un'urna per raccogliere le tessere, il codice longobardo, ed il calamaio con pergamene. A fianco di lui il principe Gisulfo, scoverto del pari, con una manopola di ferro innanzi. Negli stalli del capitolo ed in altri seggi appositamente quivi allogati sedevano gli ecclesiastici ed i baroni. Alcuni ravviluppati in grandi cappe co' becchetti tirati infino agli occhi, altri con celate in testa e visiere calate; tal che per sola congettura alcun di loro si poteva ravvisare. Il lume delle finestre (a vetro colorato, et gypso, talco, come dice Leone Ostiense, bellamente lavorate), era stato temperato con tendine di seta. Tutto inspirava solennità luttuosa.
Quando furono accolti, le porte serraronsi e vi si apposero a guardia quattro labardieri. Il cancelliere allora si ginocchiò per invocare lumi di giustizia dallo Spirito Santo. Gli altri baroni ne seguirono l'esempio. Ciascuno pregò in segreto per un istante, poi tutti silenziosi si riassisero ed il cancelliero volgendosi verso uno degli stalli della destra, con maestà disse:
—Campione della Chiesa, la parola è a voi.
E lento lento da uno di que' stalli si alza come un'ombra un uomo strettamente involto nel mantello e tirasi in mezzo alla sala. Qualcuno pensò che colui fosse l'abate Desiderio in persona, altri il celebre Amato. Noi propendiamo pel primo. Egli dunque stava per favellare, allorchè gli sorge da canto un cavaliere chiuso nell'elmo e parla:
—Con la vostra sopportazione, bel sere, ancora un momento. Le querele del papa giungeranno a migliore proposito dopo ciò che io dirò.
Il campione della Chiesa fa con la testa cenno di assentire, e si ritragge a sedere. L'altro si alza la vantaglia, sì che ognuno ravvisa Baccelardo, e comincia:
—Io accenno a cose, baroni, che le vostre signorie già conoscono. Gli è però bene che abbiano la cortesia di rammentarsele. Nel cominciar di questo secolo, quaranta pellegrini sopra galee amalfitane, tornando di Terra Santa, approdavano a Salerno nel momento proprio che una flottiglia di Saraceni appariva nella rada e si cacciava nel porto, chiedendo forte riscatto. Il principe, per farli desistere dalle avanie, promette, ed i suoi vassalli comincia a tribolare per raccogliere la somma. I quaranta palmieri, maravigliati di tanta obbrobriosa condotta, dimandano armi e cavalli; e nel bel delle crapole e dell'orgie, in che guazzavano i Saraceni, vi dan dentro e ne fanno poderoso macello. Il rimanente ottiene appena in ventura risalir sulle navi e fuggire. Quei palmieri erano normanni. Guaimaro li colma di doni e di grazie, e li solletica con promesse di onoranze perchè restassero nella sua corte. Coloro però, caldi di riveder la patria loro, gli rispondono: « che non potevano rimanere avendo da molti anni peregrinato, che speravano visitare ancora i santuari di monte Gargano e di Montecasino, e risalutare i tetti paterni, promettengli l'invio di altri loro compagni. »
Il principe, confortato di tali promesse, li accomiata carichi di molti e bei regali. Quei Normanni giungono alla patria. I concittadini loro stupefatti de' ricchi presenti, spronati dal racconto de' splendori del cielo d'Italia, si pongono sotto la condotta di Osmondo Drengotto, ed uniti fra fratelli e nipoti, in pressochè cento, vengono in Italia.
Io non ricorderò a voi testimoni, parte, vittime dei Normanni, i loro fatti, le loro conquiste, coma e quando venissero i primi figli di Tancredi d'Altavilla, Guglielmo Braccio-di-ferro, Drogone ed Umfredo, nè quali servigi e' rendessero ai principi longobardi e quali ricompense ne togliessero, nè come infine, dopo largo pugnare, occupassero vasto paese, e Guglielmo Braccio-di-ferro fosse scelto a Matera capo dei Normanni e nominato conte di Puglia....
—Sta bene, sta bene, sclama il principe Gisulfo, sappiamo ciò, ser cavaliere; siateci cortese di venire ai vostri propositi.
—Ci siamo, monsignore, continua Baccelardo. I soldati longobardi adunque, i Normanni, gl'Italiani, i loro capi, il popolo, la maestranza, tutti si uniscono, e a suono di timpani e di oricalchi, levato Guglielmo sopra uno scudo, gli affidano il gonfalone della loro nuova terra, gli danno l'elmo sormontato da cerchio d'oro e la rotella insignita della divisa medesima in campo di argento, e lo proclamano conte di Puglia—riconoscendolo per loro primo condottiero e signore. Indi recandosi tutti ai dieta a Melfi, si dividono il conquisto. Non stette guari però e Guglielmo muore a Venosa.
—Da scomunicato.
—Da cristiano e da guerriero, senza rimorsi e senza paura, grida Baccelardo. Poi continua:
—I Normanni, accoltisi di nuovo a dieta, eleggono conte suo fratello Drogone. In quel tomo di tempo vennero gli altri figliuoli di Tancredi d'Altavilla. Umfredo padre mio, e maggiore tra i figli del secondo letto di Tancredi, fu creato conte. Roberto, che poscia per sua scaltrezza e perfidia addimandarono Guiscardo, fu mandato a sostenersi nella fortezza di San Marco in Calabria.
—E di chi era quel paese, ser cavaliere, se Dio vi aiuta? domanda una voce con accento commosso.
—Di Dio e di chi lo prendeva, riprende Baccelardo, perochè erano terre occupate da vili, ed i vili non meritano una patria.
« Enrico III intanto scendeva in Italia tra per assicurarsi la dipendenza dei Normanni, che conquistavano paese nelle provincie dell'impero, tra per mettere freno alle ribalderie dei romani pontefici che tre in una volta regnavano dentro Roma. Composte le cose dei papi, eleggendone un quarto, Enrico cavalca sopra Capua. Drogone conte di Puglia e Rainulfo conte di Aversa gli fanno quivi riverenza, e lo donano di cavalli e danari. In ricambio hanno investitura del paese conquistato sulle terre imperiali.
—Quella del papa non bastava dunque loro, domanda balbettando un membro dell'assemblea.
—Esse avevan tutte lo stesso valore, risponde Baccelardo. La investitura vera la tenevano dalle loro spade. Infrattanto i Pugliesi ribellati uccidevano molti Normanni a tradimento e facevano assassinare l'istesso conte Drogone dal suo compare Riso, mentre entrava nella chiesa di Montoglio ad udir messa. Il conte Umfredo, succeduto a Drogone, assedia e prende Montoglio e fa morire gli assassini di suo fratello quivi rifugiati.
—Adesso, ser cavaliere « l'interrompe il campione della Chiesa » abbiate la cortesia di cedere a me la parola. Questo punto del racconto vostro gli è bene che fosse rammentato da me.
—Vi ascolto « risponde Baccelardo e piegando le braccia si asside al seggio da cui il campione della Chiesa erasi levato. E quegli dice:
—L'ordine di Umfredo di governare i Pugliesi come roba da rubello fu troppo appuntino seguito. I beni della Chiesa, da costoro non rispettati; ed i santuarii violati e messi a ruba, i sacri arredi addicendo ad usi profani; le persone dei sacerdoti taglieggiate, le sante reliquie rubate e vendute come buoi tolti ad aldiani; i vassalli angariati nelle robe e nella vita, augumentati foderi e livelli; gli uomini di condizione libera manomessi; le donne vituperate fino nei santi asili dei chiostri; in una parola la più pesante mano che la guerra potesse aggravare sugl'infedeli, i Normanni calcavano sui cristiani di Puglia. Onde avvenne che di tante crudeltà le città e le chiese si mandassero a dolere col papa perchè, mercè sua, fussero sollevate.
—Avrebbero meglio fatto di sollevarsi, sclamava una voce; chiamare un aiuto gli era chiamare un nuovo padrone.
—Il papa è padre più che padrone, continua il campione della Chiesa. Infatti Leone IX, da quel santo che egli era....
—Calate, calate, interrompe una voce, santi di quel conio non vanno agli altari.
—Da quel santo che era, insiste il campione, Leone tenne qualche motto ai principi longobardi. Ma conoscendo questi baroni come i Normanni fossero ostinati nel proposito, e tenaci nelle loro risoluzioni, persuasero il papa che senza niente affatto avvilirsi a pregarli di carità verso i vinti, si volgesse all'imperatore Enrico.
—Il consiglio era eccellente, dice un membro dell'assemblea, perchè l'imperatore, mal doveva tollerare che nei suoi Stati si andasse levando gigantesca una dominazione novella, di uomini non mai sazi di guerre nè mai pieghevoli.
—Proprio così, ser cavaliere, soggiunse il campione. Ond'è che Leone si recò in Germania, ed Iddio fe' trovar varco alle sue parole nel cuore di Enrico il nero, il quale con settecento gendarmi alemanni lo rimandò in Italia.
—Così, li avesse mandati all'inferno! mormorava taluno; quei saccomanni vennero a desolare l'Italia.
—E non furono i soli, replica Baccelardo perchè in Italia Leone fece altre cerne di truppa ed accozzò esercito numeroso, alla cui testa si mise egli in persona da condottiero.
—Sì; Leone si mise alla loro testa per addolcire i mali della guerra, continua il campione. Però, udendo i Normanni di quella tolta di laici e chierici che il papa loro voltava contro, gli mandano ambasciadori, simulando pentimento e voglia di soddisfarlo all'intutto. Ma gli oratori normanni non sanno di tanto mascherarsi da accecare Leone. Talchè il sant'uomo, inasprito dall'insolenza di quei venturieri, che piccoli della persona e segaligni si davano in volta boriosi per conquistare il mondo, cavalca su quel di Civitade in Capitanata il 18 giugno 1053. I Normanni ridotti allo stremo di viveri e disperati per la troppa disuguaglianza di forze, si trovano costretti accettare l'abbattimento.
« Sire Iddio » sclama allora un cavaliere « giuro ammazzarti di mia mano dugento Saraceni, se ci dai di mandare al diavolo questi bricconi di papalini ».
—E l'uomo che così giurava, soggiunge Baccelardo, era Roberto Guiscardo. E gli altri a loro volta giurarono:
« Regina Maria di Lacedonia, facciamo voto di darti tante messe nel tuo priorato, quanti di questi mariuoli del papa ognuno di noi ucciderà ».
—Gli è proprio così, ser cavaliere, » disse, continuando, il campione della Chiesa. « Il conte Umfredo comandava i Normanni. Papa Leone celebra la messa nel mezzo dei suoi alloggiamenti, dà una grossa benedizione alla sua truppa, e la schiera nella pianura, separata dai Normanni per non difficile colle. Questi lo accolgono primi. Ed a vero dire forse la pugna si sarebbe risoluta per quei della Chiesa, se quel dannato di Guiscardo non avesse fatto suonare le trombe, e non si fosse precipitato sugli Svevi con truppa fresca e disperata. Lungamente si martellano di colpi, intrepidi gli uni, feroci gli altri. Infine gli Alemanni cominciano a piegare, sono rotti e si volgono alla fuga. Roberto gavazzando nel sangue come tigre, li segue tagliandoli ai garretti, li uccide tutti finchè uno solo non ne resta. A quello spettacolo terribile Leone IX inorridito si dà a fuggire ancor egli, e cerca asilo nella fortezza di Civitade. I Normanni ve lo assediano ed ai cittadini propongono o la resa o andar tagliati a pezzi.
—Sì, dice Baccelardo interrompendo, e chi questo supplizio loro minacciava era Guiscardo. Che perciò quei poltroni spaventati cacciarono il papa fuori le mura della fortezza. Un cavaliere allora si accostò, e prendendo le redini della sua bianca mula:
« Ser papa » gli disse sorridendo « siete prigione ».
—Quel cavaliere era ancora Roberto.
—Era Roberto, » continua il campione della Chiesa; « proprio lui, egli sempre. I Normanni, in apparenza rispettosi, punsero il pontefice di amari motteggi. Gli occhi pregni di lagrime, pallidissima la faccia, Leone venia tirato dalla briglia da Guiscardo ed attraversava i ranghi dei soldati, i quali ebri di tanta bella ed inaspettata vittoria, gli si ginocchiavano schernevolmente sul passaggio per riceverne la benedizione.
—Ed avrebbero meglio ricevuti dei bisanti, dei fiaschi di Orvieto e delle lacche di maiale! interrompe una voce chioccia dal fondo della sala.
—Può ciò essere ancora, continua il campione: eran tanto scomunicati! Il conte Umfredo però prese il santo padre sotto la sua custodia: nè il lasciò a libertà se non carpiti accordi che pienamente lo soddisfacessero. Il papa ridotto a tanto stremo mal volente o volentieri condiscese a tutto, tornò libero e poco stante morì a Roma di cordoglio per gli oltraggi ricevuti. E l'uomo che tanta sventura alla cristianità cagionava era sempre Roberto.
—Sventura poi non era tanta, mormorò un cavaliere dell'adunanza: quel Leone fu una mala ventura.
—La parola è a me adesso « l'interruppe il principe Gisulfo alzandosi ».
—Con vostra licenza, monsignore, ancora due motti « pregò Baccelardo » indi giustificherete a vostro piacimento, se potrete, la condotta di vostro cognato.
Gisulfo si riassise, e quegli continuò:
—Leone IX, così vinto, investì il conte Umfredo padre mio delle terre di Puglia, di Calabria e di quanto mai avesse saputo acquistare sui Saraceni di Sicilia. Ed i Greci perdettero ancora Trani, Venosa, Acerenza, Otranto e Troia.
—Piano « l'interruppe il campione della Chiesa » Troia era stata donata al pontefice da Enrico II. Papa Niccolò II si lamentò di questa occupazione dei beni della Chiesa, e Roberto promise ritornarla. Troia non è stata restituita più alla santa sede. Continuate.
—Ridotta la Puglia « proseguì il cavaliero » tutto l'animo del conte Umfredo si rivolge alle Calabrie. Vi manda Roberto con molta mano di truppa e di scorte. Cosenza, Bisignano, Malvito, Gerace e Martorano sono prese. Poco di poi, in Puglia il conte Umfredo muore. Dal suo letto supremo chiama Roberto, facendo cenno della mano ad un frate, che apprestavagli la comunione, di attendere ancora un istante.
« Fratello caro » a Roberto egli parlò « quanto amore io ti abbia posto tu lo sai. Io di Normandia ti chiamai in questo paese, io sempre ti tenni il più prode dei miei guerrieri, il più saggio nei miei consigli; e le missioni più perigliose affidai sempre a te. Ora muoio qui, lontano dalla nostra patria, in questa patria novella che mi ha conquistata la spada. Il libero volere dei conti normanni mi elesse a loro duce, proclamandomi conte di Puglia: l'imperatore Enrico III mi investì del paese da noi conquistato: il papa rese santi i nostri acquisti dichiarandoli tutelati dalla Chiesa, dandomene anch'esso investitura. Tu sai che Drogone succedette a Guglielmo, perchè senza prole, ed io a Drogone, perchè senza figli ancor esso. Ora io ho figliuoli. Per le nostre patrie costituzioni tu sai ancora che gli Stati del padre eredita il figlio. Ti raccomando dunque il mio figliuolo Baccelardo. Giurami, Roberto, giura al tuo fratel moribondo che tu sarai il padre di Baccelardo, che gli conserverai i conquisti di che i Normanni mi fecero capo, che lo addestrerai al governo, giuramelo sui piedi di questo Cristo che abbraccio, su quest'ostia che deve comunicarmi ».
E Roberto, stendendo una mano sull'ostia e prendendo dall'altra il crocifisso, fra molte lagrime, cadendo ai piedi del letto del fratello, gridò:
« Giuro su questa santa ostia e su questo Cristo che il tuo volere sarà fatto, fratel mio caro ».
» Umfredo radiò di gioia negli occhi, assunse l'ostia, e morì.
» Ora, baroni, Roberto non ha mantenuto il giuramento, e Baccelardo, il figliuolo del caro fratello suo, va ramingando di terra in terra, sprovvisto di ogni cosa, spogliato dei suoi Stati, perseguitato come il lupo, dannato a terribile morte da suo zio. Cotesto zio è Roberto Guiscardo. Giudicatelo.
—Uhm! giudicatelo! mormora l'abbate di Farfa dal fondo del suo cappuccio: e chi si incarica di eseguire la sentenza?
—Se altri manca, Dio! sclama il cancelliero del papa rizzandosi sul suo seggio.
—Proseguite le vostre accuse, signori « torvo e pensoso dice a sua volta Gisulfo » io parlerò per ultimo.
Allora dal fondo della gran sala sorge un altro cavaliere che tirandosi fino innanzi della tavola del cancelliero favella:
—Ed io accuso Roberto Guiscardo come spergiuro di altra promessa.
—Egli ha promesso di non tenerne mai una! mormora una voce stridula dal fondo della sala.
—Pare che la sia proprio così, soggiunge il cavaliero che aveva cominciato a parlare. Infatti udite questa. Sotto la fortezza di Malvito i Normanni avevano consumato lungo tempo in assedio, senza niuna speranza di prenderla. Una mattina un araldo d'armi, preceduto da banderaio con bianco pennoncello e due trombettieri, si presenta avanti alle porte e dimanda esser introdotto. I sergenti vanno a prender l'ordine, e non passa guari, si apre una porta di soccorso per fare entrare l'araldo. Il sire di Malvito, in piedi nel vestibulo del suo castello, lo aspetta, tutto pronto a ricevere i patti della tolta dell'assedio. L'araldo invece gli dice:
« Messer Asclettino, il mio nobile signore Roberto Guiscardo conte di Puglia vi manda salute e prosperità. Nel tempo medesimo prega la cortesia vostra che vogliate concedere sepoltura nella vostra chiesa al suo compare Brado, morto la notte scorsa di ferita al ventre, onde come scomunicato non venga sotterrato in rasa campagna. Che perciò egli in nome di Dio promette che domani toglierà il campo dalle mura e sulle reliquie dei santi ve ne fa sacramento.
« Bene sta, risponde Asclettino; il sire di Malvito che non teme i Normanni vivi non avrà paura degli estinti, nè incrudelirà verso i morti. Torna dunque al conte Roberto e digli: che noi gli diamo parola di cavaliere, col favore di Gesù Cristo, di non aprir mai le porte nostre ai soldati normanni finchè ci resteranno polpe alle braccia e cuoi a' calzari; ma che non le chiuderemo giammai ai loro cadaveri—dovessero pure cercarvi ricovero tutti quanti sono.
« Mille mercè, sire di Malvito, riprende l'araldo, ed Iddio misericordioso non ascolti le vostre parole.
La sera infatti il medesimo araldo si presentava alle porte per dimandare passo al funebre corteggio di compar Brado, giusta la permissione del sire di Malvito. Sotto una bara coverta da ampio drappo giaceva il cadavere: quattro cavalieri, armati solamente delle spade, ne sostenevano i lembi, quattro frati se la recavano sul dorso ed altri sei frati con ceri accesi venivano dietro cantando misereri e Deprofundis.
—Che lusso di frati! Ne avevano dunque delle caneve nel campo? grida l'uno.
—Più che di maiali per disfamarsene al desco—replica un altro.
—Voi credete, cavalieri? riprende il primo interlocutore. Ascoltate allora. Questo manipolo di frati tirò dritto alla chiesa. Fervorosamente tutti pregarono agli altari, poi supplicarono voler passare la notte in preghiere per l'anima del defunto, chè al domani gli avrebbero cantato messa, l'avrebbero sepolto, e sarebbero tornati al campo per dimandare a Roberto di mantenere la sua parola, avendo quel di Malvito mantenuta la sua. Asclettino, che era uomo di cuore, non rifiutò la preghiera, e nel sagrato fece loro recare molti bei fiaschi di vino e pasticci e camangiari che avevan proprio a farci uno stravizzo.
—E null'altro che questo? Capperi! i frati di Malvito si danno bene altre leccornie con le fanciulle del contado—sclama un capperuccio del sinedrio.
—Non dico mica no, continua il primo interlocutore: ma colà si trattava di mortorio, credeva il sire di Malvito. Se non che, nel cuore della notte, quando i cittadini dormivano tutti, i Normanni scoperchiarono la bara e misero fuori compare Brado vegeto e fresco come i canonici di Cosenza, e tolsero dal fondo della cassa molte belle armi, perchè di sotto le cappe e' già vestivano cotte di maglia.
—Oh birbi, birbi, birbi! sclama qualcuno.
—Spogliansi perciò degli abiti da frati, continua il primo, danno di piglio ad azze, spade e picozze, e queti queti se ne vengono alle porte. Quivi si gittano su gli arcadori di guardia e gridando: viva Guiscardo e s. Gotifrido! li scannano tutti. Indi aprono le porte a quei e fuori già in pronto, e mentre coloro della fortezza si levavano a tumulto, sapendo dentro il nemico, già i Normanni occupavano i posti delle mura, e s'impadronivano del sire di Malvito.
« Voi siete uno spergiuro, grida costui a Roberto quando gli fu menato d'innanzi, siete un disleal cavaliero.
« Mai no, risponde Guiscardo; sire di Malvito, vi giurai che dimani avrei tolto il campo dalle mura, vi ho mantenuta la parola questa notte; trasferito l'ho qui dentro.
Ora, baroni, giudicate voi se Roberto non spergiurò.
—Io non me 'l credo, mormorò una cocolla, che ben poteva essere l'abate di Farfa, che i monaci addimandavano il santo, i vassalli il maledetto.
—Vi è ancora qualcuno che ha querele da produrre? dimandò il principe Gisulfo volgendosi all'adunanza.
Ed un altro cavaliero traendosi ancora innanzi favellò:
—Io. Io che vengo ad accusare Guiscardo pel più villano ed infame di quanti mai abbian preso cingolo di milizia; avvegnachè le mie parole, monsignore, dovessero toccarvi più dappresso nel cuore.
—Messere, grida Gisulfo, rammentatevi che l'insolenza delle parole sconviene a cavaliere, se pure cavaliere voi siete, e che noi non sapremo perdonare tale inverecondia come non la sopportiamo.
—Sta bene, risponde l'altro; uditemi adesso, poi se vi piacerà regolar meco i vostri conti, non isdegnerò sollevare una maschera che per decoro non per paura mi tengo sul viso.
—Proseguite.
—Lode a Dio! Sappiate dunque che fra coloro i quali seguirono Roberto all'invasione di Calabria era un tal Giselberto Squassapostierle. Cavaliere senza macchia, aveva sposata una nipote di Tancredi d'Altavilla. Egli era primo alle scalate, ultimo nelle ritratte, avveduto nei consigli, disinteressato nel partaggio delle spoglie, ed amato e venerato dai soldati, i quali, alla presa di Gerace, gli dettero sopranome di Squassapostierle, perchè di un colpo di mazza sgangherò una porta di soccorso. Questo vecchio ed onorando cavaliero aveva una figliuola, una perla di figliuola, cui la madre mise a luce e morì. Il padre se l'aveva allevata sul Pavese e l'amava quanto non si può dire. Quella creatura era bella sovranamente e di una soavità di carattere che ammaliava ogni cuore. Sicchè il padre se la recava ognora da presso, custodita sotto il pennoncello della sua lancia, e della sua rotella. Ed era venuta su di quattordici anni quando si occupò Cariati. Roberto investì barone di quella piazza Giselberto, e gli dimandò la mano di Alberada, per la quale da più di un anno bruciava di fiamma forte e vereconda. Nè per vero dire ad Alberada tornava spiacevole Roberto, il quale nelle rare veglie della sera l'affascinava del suo sguardo ceruleo, e del rispettoso profferirle di ossequi. E poi i suoi fatti da prode facevano balzare il cuore d'ogni dama. Giselberto, che si sentiva invecchiare e forte piacevasi della caccia, gli dimandò ancora sei mesi di tempo da sperimentar libero il volere della figliuola; perocchè egli avrebbesi tolto piuttosto nemicarsi lui che contradire la volontà di Alberada. Roberto vi si acquetò malvolentieri, tardandogli godere della gioia di sì avvenente e cortese sposa; ma il barone Giselberto fu irremovibile. Si attesero dunque i sei mesi, a capo dei quali il barone si chiamò la figliuola nella sua stanza e le disse:
« Alberada, amor mio, oggi tu devi passare a marito e separarti da tuo padre, che alle tue nozze non sopravivrà di otto giorni. Parlami dunque schietto, proprio come parlassi a tua madre o alla madonna, ami tu Roberto Guiscardo? Perchè se per nulla e' ti riuscisse malgradito, giuro pel santo sepolcro, che non ho avuta la sorte di visitare, che toglierò la mia parola a Guiscardo e ti farò sposa di colui che più ami—fosse pure il chierico di San Nicodemo.
E la fanciulla cogli occhi velati di lagrime:
« Sì, padre mio, io l'amo.
« Bene sta dunque, figliuola, risponde il barone, torna alle stanze tue, chè fra poco mi vedrai.
E facendosi venire innanzi Roberto, Giselberto gli dice:
« Senti, Roberto, se tu mi avessi chiesta l'anima mia, io avrei voltate le spalle al mio angelo custode e te l'avrei data senza patti: ma tu mi hai domandata Alberada, gli è bene dunque che mi stii attento ad ascoltare. Roberto si assise incrociando le braccia sul petto, l'altro continuò:
In tante battaglie ho sparso il sangue per te, messer conte, e quando quel sangue se ne andava al diavolo giù per le vene io zuffolava un'aria di caccia. Ora tu mi vieni a dimandare più che il mio sangue, più che la mia vita, tu mi vieni a dimandare la gioia mia, il mio conforto, la mia preghiera, la mia speranza; l'angelo mio, la mia madonna—tutto insomma, tutto quanto può rendere deliziosa la vita di quaggiù, lieta quella del paradiso, e tutto questo per me è Alberada. Bene dunque, figliuolo mio, poggiati la mano sul cuore ed interrogalo. Se quello ti dice che malvagia cosa ell'è torre tanta beatitudine ad un vecchio e deserto cavaliere senza punto di amore per colei che lo bea, e tu metti la tua nella mia mano, e dimmi: Giselberto, tienti la figlia tua, io non sono quel tanto che tu puoi sperare per lei. Ma se codesto cuore ti dice che l'ami, e che l'amerai sempre, e che la saprai far felice, allora prenditela pure e lasciami morire come i vecchi cani, dimenticati, ma paghi di aver ben servito il loro padrone; perchè, pel santo giorno di Dio, io ti giuro che morirò contento.
E Roberto a lui:
« Giselberto, padre mio caro, io l'amo la tua Alberada e la farò lieta, la soave creatura.
« Dici tu vero, Roberto? gli dimanda di nuovo il barone pieno d'ansia, combattuto dalla gioia e dalla disperazione.
« Vero, risponde colui, e ti giuro per quell'ostia che deve comunicarmi al punto di morte, che io amerò sempre e terrò felice Alberada.
« Dio ci vede e ci ascolta, sclama il vecchio; Alberada sia tua.
Sapete voi, baroni, come Guiscardo ha mantenuto tanto solenne giuramento?
—Non fu colpa sua se non lo mantenne, grida Gisulfo.
—La colpa fu sua, ed io che l'accuso, l'attesto, continua l'altro. Del resto giudichi il placito. Dopo tre anni Alberada è stata ripudiata. E nel pieno delle gioie, madre di un figliuolo, col sorriso d'amore sulla labra, lusingata di lunga felicità, lussureggiante di speranze, è stata ripudiata Alberada, per isposarsi ad un demonio—a vostra sorella Sigelgaita, principe Gisulfo, per alimentare ambizioni e fatali desideri.
—Ciò non è vero, interrompe di nuovo Gisulfo.
—Io l'attesto, io lo giuro, grida l'altro. Le lagrime di Alberada, baroni, chiedono vendetta; voi lo farete.
—Sì, voi la farete, grida Baccelardo anch'esso in un impeto irresistibile, perchè suo padre non è più—dopo otto giorni dalla partita della figliuola moriva di languore nel castello di Cariati che gli avevano dato a guardare.
—Vi è ancora qualcuno che debba produrre sue accuse? dimanda il principe Gisulfo con l'accento soffogato dalla rabbia.
—Ancora un altro, monsignore, risponde una voce dal fondo della sala.
Ed a lentissimo passo, sorreggendosi ad un bordone, accompagnato da un cane, perchè cieco, avanza un vecchio. La sua testa era scoverta, pallidissima avea la faccia, lunga, scomposta la bianca barba, nuda e rugosa la fronte, livido tutto nella persona pel gelo della vecchiezza e della malattia che gli serpeva per le vene, incurvato, tremulo e lacero nei panni. La sua voce barcollava come quella di chi agonizza. Egli si trasse innanzi a stento, soffermandosi ad ogni passo. E come fu adagiato sur un seggio, che il campione della Chiesa sollecito gli appresta, il cane gli mette la testa sulle ginocchia e gli fissa gli occhi nel volto quasi avesse voluto leggerne i pensieri. Il vecchio gli stende la mano sulla testa, e parla:
—Nella fatale invasione dei Normanni il principato di Capua, fino al 1055, fu rispettato. Nel 1055, Riccardo conte di Aversa si sentì ben fermo nei suoi Stati, ed assai forte per non restarsene con le mani alla cintola, mentre i figliuoli di Tancredi di Altavilla facevano conquisto tanto opulento di paese. Riccardo dimanda a Roberto Guiscardo volere anch'egli fornir truppe e partire le città che nelle Puglie e nelle Calabrie si sarebbero occupate. Questo messaggio torna malgradito a Guiscardo, che perciò, unitisi il dì di Pentecoste 1054 ad Otranto, consigliò a Riccardo accrescere i suoi Stati dal lato del principato di Capua, perchè, invece, egli avrebbe fornito lui di scorte e di truppe per invaderlo. Il consiglio piace a Riccardo ed accetta. Nella prima domenica dell'avvento del 1055, Riccardo con esercito poderoso si reca infatti sotto le mura di Capua, e vi pone assedio. Allora, baroni, come sapete reggeva Capua Pandolfo V. Egli avrebbe potuto respingere il nemico con la forza; ama meglio calare ad accordi, ed ottiene che Riccardo sgomberi il campo mediante dodicimila bizantini. Una pace tanto vigliaccamente comprata durò poco. Morto Pandolfo nel 1057, Riccardo comparve di nuovo sotto le mura di Capua e le cinge di stretto assedio. Landolfo V, che era succeduto a suo padre, fa sonare a stormo le campane, e convocati i cittadini alla chiesa, dice loro:
« Capuani, qui si tratta di onore e di vita; oggi è tempo di riscattarveli. Raccomandatevi ai vostri santi, vestite le vostre armi, e dal ragazzo che sente poter lanciare una pietra al vecchio che ha forza di sostenere una spada, seguitemi tutti.
Le parole di Landolfo non piacciono ai Capuani. Gridano quindi tutti ad una volta: un riscatto, un riscatto: e scegliendo a loro araldo l'arcivescovo Gualdemaro, lo mandano a Riccardo per offrirgli dodicimila scudi d'oro.
« Noi non venimmo qui a mercanteggiare con codardi, risponde il fratello di Guiscardo; vogliamo la città a discrezione, perchè poi d'oro sappiamo noi dove trovarne.
Nè a quest'aspra risposta i Capuani si risentono. Landolfo fa inutili sforzi per menarli a battaglia; coloro tolgono piuttosto morirsi di fame che pugnare. E forse a tanto danno si sarebbe giunti, perchè il principe Landolfo ostinato era e deciso a non rendersi se non tutti morti; quando una notte prevale altro infame consiglio. Alcuni gialdonieri si uniscono a sinedrio nella piazza, e, dopo avere alquanto consultato, decidono capitolare per rendersi. Aprono perciò una porta di soccorso delle mura e spiccano un araldo d'armi al conte Riccardo, il quale per tutta risposta manda loro a dire: cacciate dalla città il principe Landolfo V, e mettetevi a discrezione. Così fecero. La mattina, tutte le campane di Capua suonano a festa come al giorno di Pasqua. Un drappello di giovani capuani si reca al palagio del principe, e balzatolo dal suo seggio, coi calci dell'asta sel menano innanzi fino fuori le mura della città. Allora le porte si aprono e quei di Riccardo si cacciano dentro per rompersi ad ogni maniera di libidine, di furti e di violenze.
—Gli è vero! sclama taluno; io vi ero.
—Baroni, quell'infelice principe Landolfo V sono io, soggiunse con voce articolata appena il vecchio, tremando in tutte le membra.
A questa rivelazione tutti i baroni del placito si alzano in segno di riverenza per l'infortunio, pel caduto. Ma Landulfo che nulla vede, continua:
—Baroni, per tredici anni ho condotta vita la più miserabile che fosse mai capitata a tapino. Ho veduto morire di freddo mia moglie, in una notte di gennaio, sulle scale di un monistero, arricchito da noi, e che ci rifiutò ricovero per paura di Roberto Guiscardo. Ho veduto morire di fame due figliuoli respinti da un vescovo, creato ed arricchito da noi, per paura di Roberto Guiscardo. Ho veduto trucidato mio nipote da un valvassore, che noi avevamo donato del feudo, e violate le figlie mie morir per mano di soldati che il nostro pane avevano mangiato, per tornar graditi a Roberto Guiscardo. Ho veduto in fine scomparirmi d'innanzi un ultimo figliuolo senza che mai novella me ne fosse arrivata. Solo questo cane è rimasto al principe di una dinastia che 509 anni dominò in Italia, 481 su queste contrada; ed io mi muoio. Muoio con non altro cordoglio, che le sventure mai provocate, accumulate su di me da questi Normanni ladroni, non saranno pagate da alcuno; muoio, non rimpiangendo altri, non considerando altri fra le creature di Dio che questo povero cane, il quale mi ha guidato nelle tenebre, mi ha riscaldato col fiato nelle gelide notti, ha meco diviso la crosta che con noi partì il povero vassallo. Baroni, io metto le mie vendette nelle vostre mani: voi ne sarete giudici. Ma ricordatevi, che sarete misurati della stessa misura che altrui misurerete come dice l'Evangelo, e che Iddio pesa il vostro giudizio.
E sì dicendo il vecchio si sforza di alzarsi e partire; ma fatto appena un passo cade al suolo come tronco abbattuto, e resta. Il cane gli si accosta tosto alle labbra per fiutargli il respiro, poi gitta forte un guaito e cade anch'esso. Precipitosi alcuni di quella sala corrono a sollevare l'infelice Landolfo V; era morto.—
PR. ENR. Abbominevole è quel Falstaff, un corruttore della giovinezza è quel vecchio Satana dalla barba grigia.
FALS. Vattene mariuolo! Terminate la vostra parte, molte cose mi rimangono a dire in favore di quel Falstaff.
Il principe Gisulfo, dopo che ebbero menati via i cadaveri di Landolfo e del suo cane, si studiò pigliar la parola e difendere Roberto, ma la voce gli mancò essendo anch'egli vivamente commosso. Imperocchè in quella del principe Landolfo, più che la morte di un uomo, egli egualmente che tutti considerava la morte di una forte ed annosa dominazione. Ed una dominazione che passa senza fasto e senza rumore, è tutta una storia di delitti, di grandezze, di ardimenti che si perde nella tomba, così come la memoria del vassallo che per inedia morì.
Il cancelliere del papa, il quale solo in quella adunanza non sembrava tocco per nulla, e che durante i diversi favellari, severo ed impassibile si era mostrato, attese ancora qualche istante perchè altri s'avanzasse a profferire accuse. Poscia vedendo che nè il principe di Salerno la difesa del primo suo accusato prendeva, nè alcuno presentavasi, accigliato, ma gelidamente, alza la fronte e dice:
—Proseguite, baroni, chè il tempo non è degli uomini ma di Dio.
Quindi il campione della Chiesa si tragge innanzi novellamente e favella:
—Nobili cavalieri, io accuso il priore Guiberto, barone di Lacedonia, come complice, esecutore e consigliero di quante scelleratezze mai contro gli uomini e contro la santità di Dio e della Chiesa, il duca Guiscardo commettesse. Lo accuso inoltre come nicolaita, come simoniaco, come sacrilego, come concubinario, ed ateo profanatore delle sacre cose.
—Accusare non basta, sclama Baccelardo dal suo seggio, bisogna provare.
—Gli è ciò che mi accingo a fare, ser cavaliere, ripiglia il campione della Chiesa, se ella mi sarà cortese di udirmi. Il priore di Lacedonia dunque il dì de' SS. apostoli Pietro e Paolo predicò dal pergamo, che se Salomone, re di un guscio di paese, poteva senza offendere Iddio ed il mondo tener seco settecento mogli e trecento concubine, e medesimamente donne idolatre, di cui Iddio aveva comandato: non ingredimini ad eas; neque de illis ingredientur ad vestras, certissime enim avertent corda vestra ut sequamini deos eorum; egli, signore di ricco e vasto priorato e barone di grosso contado, poteva bene avere una moglie e dieci concubine senza oltraggiare chicchessia. Ed una moglie e dieci concubine ha infatti nelle stesse sante mura del chiostro, egualmente che tutti gli altri frati.
—Il vescovo di Molfetta ha tre mogli e cinquanta concubine, eppure gli è amico di papa Alessandro, sclama Baccelardo.
Il campione della Chiesa non risponde all'interruttore e continua:
—Il priore di Lacedonia trascura i santi uffizi della Chiesa ed impazzisce fra crapule ed orgie. Egli il giorno di Pasqua ha fatto danzare nella chiesa i suoi frati con le loro donne, dicendo che stava scritto che Davide, per onorare Iddio, danzò innanzi l'arca: e la domenica delle palme li ha fatti entrare in chiesa a bisdosso di somari, perchè così Gesù Cristo entrò in Gerusalemme.
—Non si debbe dunque imitare Davide e nostro Signore? dimanda Baccelardo con impazienza.
Il cancelliero del papa solleva la testa e fulmina di uno sguardo il giovane cavaliere, senza però profferir verbo. Il campione della Chiesa, lo guarda anch'esso di modo uggioso e continua:
—Il priore di Lacedonia uffizia nelle chiese del suo priorato, avvegnachè il papa l'avesse interdetto, e fosse sotto i gravami degli anatemi. Egli invase le possessioni della badia di Grotta Minarda; ed avendo quella badessa mandato quattro giovani suore a portargliene gentile lamento, l'infame fe' recidere tutta la parte anteriore dell'abito alle ambasciatrici, dal petto in giù, e così sconce, con drappello di scostumati soldati, di nuovo le fece accompagnare all'abadia. Egli nella festa del Corpus Domini del 1063 benedisse il popolo accorso alla chiesa con inchiostro invece di acqua lustrale, profanando le sacre funzioni, tramutando la messa in giulleria con un popolo così laidamente imbrattato. Egli battezzò suo figlio col vino; ed avendo la madrina fatte osservazioni su tale sacrilegio, il priore le dà forte dell'aspersorio nella fronte sì che la stramazza, ed il figliuol suo, urtando delle tempie al pavimento, ne muore. Egli avendo ricevuti due messi di papa Alessandro II, il quale lo chiamava al ravvedimento, castra atrocemente i due diaconi, e così vituperati li rimanda al pontefice.
—Infame, infame! sclama senza quasi avvedersene il cancelliero, e senza alzar la testa poggiata sul petto.
—Un santo padre della Chiesa s'era bene castrato da sè per essere più uomo di Dio! mormora un cappuccio dell'adunanza.
Il campione della Chiesa continua:
—In tutte le guerre, in tutte le avvisaglie, in tutte le cacce, in tutte le corti bandite, accompagnato da istrioni e cantatrici, da chierici e da soldati, si trova il priore Guiberto, e nel più folto sempre delle mischie, nel più osceno de' bagordi. Egli ha rapita la moglie al sire di castel la Baronia che si recava alla caccia. Egli ha spogliato ed incendiato il monistero di Carbonaro, mutilandone i frati. Egli si condusse nella chiesa di Villanova, al momento che quei canonici cantavano mattutino, ed avendo loro tronche le teste, li lasciò negli stalli coi breviari sulle mani. Egli, e cinquanta compagni vestiti da demoni, una notte nel 1065 penetrò nel monistero di Accadia, ed avendo contaminate quelle sante sorelle di Cristo le fece frustare pei chiostri, cantando: chè di chicchesia d'allora in poi e' si sarebbe burlato, perocchè aveva a cognato Gesù. Egli insomma si è bruttato di tutte le infamie, di tutti i delitti; ha maltrattati gli ecclesiastici, ha oltraggiato il papa—è un empio furibondo e matto di cui la terra non ne sostiene peggiore.
—Chi attesta tutto ciò? sclama Baccelardo. Quando si danno di tali accuse, gli è mestieri che una fronte si scopra per sostenerle.
—Io levo la mia, risponde solennemente il cancelliero del papa, alzandosi in piedi. Vi è chi dubiti di mia parola?
Nessuno fa motto. Il campione della Chiesa allora soggiunge:
—Finora i laici hanno rispettato codesto malvagio priore perchè egli giammai offese nè le loro persone nè le loro possessioni—anzi e' ne' bisogni e nelle guerre di ciascuno si prestò sempre volentieri e disinteressatamente. Lo hanno temuto, perchè stretto di alleanza con Roberto Guiscardo, l'uno spalleggia l'altro, l'uno dà all'altro mano forte negli attentati, e si consigliano, e di qualsiasi potere ridono. Ma voi, baroni, voi non potrete adesso con cuor freddo udire i lamenti del Santo Padre, e saprete non solo giudicarlo debitamente, ma mandare a compimento la sentenza.
Com'ebbe detto ciò, il campione della Chiesa ritornò al suo posto e si assise. Allora dal centro dell'adunanza si leva un altro, camuffato da frate, col capperuccio tirato giù giù, ed avanzandosi fino al tavolo del cancelliere, toglie la penna e scrive affrettatamente sotto una pergamena alcune righe. Indi tornando fra gli stalli dei baroni consegna quella pergamena all'abate di Cluny, che scoverto e numerando i rosoni scolpiti nel soffitto di rovere si teneva cogli occhi levati al cielo, e gli dice:
—Padre riverendo, leggete.
L'abate mezzo assorto, mezzo alienato, si riscuote come svegliato improvviso dal sonno, e si trova fra le dita la carta. Si passa la mano sulla fronte, quasi volesse sgombrarla dalla pesantezza del sonno, e dimanda:
—Che debbo dunque fare di questo negozio?
—Leggete, leggete, ser abate, sclamano alcune voci dalla sala. Ed egli levandosi da sedere legge:
« Guiberto, per volere di Dio e di Enrico III imperatore, priore nel monistero di Lacedonia e barone, ad Alessandro II antipapa, salute e pace se la desidera ».
« Avendo inteso, monsignore, che voi di pieno arbitrio, provocato da sfortunato cavaliere, dal vostro cancelliere prevaricato, avevate intimato un placito in cui i medesimi baroni ed ecclesiastici dovevansi fare accusatori e giudici di me, priore e barone, e del duca Roberto Guiscardo, ed indi metter forse ancora esecuzione alla sentenza, la quale per istigazione di voi e del vostro leal cancelliero non mancherà tornarci contraria; ho creduto rispondere di per me ad alquante accuse fattemi pure altre volte, qualunque si fosse l'autorità di codesti giudici, e meglio per giustificarmi innanzi di loro, come cavaliere con cavalieri, anzi che reo con sculdaschi; ricordandovi inoltre cose a voi o mal conte, o mal gradite, o non volute rammentare. Bene inteso però, che, di voi parlando, monsignore, voglio sempre significare il vostro cancelliero, con me tanto grazioso, ed innanzi al mondo tanto santo.
« Paggio della contessa Beatrice di Toscana, di cui nacqui suddito, piacque alla reale memoria di Enrico III il nero, per lieve servigio resogli, di togliermi in grazia, e propormi la guerresca sua corte di Germania, dove avessi voluto istruirmi in altro, che nel mestiero della lancia e della daga. Come, per vero, avendo un dì dovuto risolvermi ad accettare le imperiali munificenze, dalla santa memoria di quell'imperatore fui accomandato a quel medesimo sir Adalberto arcivescovo di Brema, il quale dipoi il suo proprio figliuolo Enrico IV ebbe l'onore di consigliare. E quando quel possente imperatore mi credette in grado di prodigarmi favori, mi donò del priorato di Nostradonna di Lacedonia, e mandommi in Italia con commessa al duca Roberto Guiscardo d'investirmi l'annessovi feudo. I voleri del generoso principe, che ora è santo nella corte del cielo, furono compiuti. Per modo che io questa baronia e questo priorato per largizione imperiale tenni, tengo, e sempre al legittimo signore di esso i debiti censi, di due rose bianche ed un mazzolino di viole, nel dì di Pasqua, soddisfeci.
« Essendo quindi padrone del feudo l'imperatore di Lamagna, gli è a lui, o a messi suoi, che io debbo render conto dell'opere mie; perocchè, come sapete, o per meglio dire il vostro cancelliero sa, senza pecca di fellonia ad altrui nol potrei. Questo per quanto riguarda la competenza dei membri di codesto placito. In quanto alle accuse dichiaro: indebitamente querelarsi il papa degl'insultati suoi oratori contro la ragione delle genti, perchè e' mi accusarono di simonia per fatti che non sono se non dritti di feudalità che io come livelli esigo: mi accusarono di intrattener donne fra mogli e concubine non so quante, mentre ogni altro vescovo, cardinale, abate, e fino diaconi e chierici di questo secolo le tengono, le tennero quelli dei secoli passati, di cui io non sono nè mi vanto più santo: mi ordinarono lasciar via queste donne incontanente, a vituperio del Signore che solennemente fece precetto nelle sue sante Scritture: abbandona padre e madre, ma la tua donna non abbandonare; perchè e' mi vilipesero quando, non essendo messi imperiali, comando così oltraggiante per parte di altrui mi davano; perchè infine avendo i messi ecceduti gli ordini, forse pietosi del loro padrone, covrendomi d'insulti inauditi finora, con parole obbrobriose, io, per dritto di difesa, parimenti li oltraggiai. Così che indoverosi, per non dir petulanti, i lamenti vostri mi giunsero, messer lo papa, e mi giungeranno mai sempre, fino a che dritto l'imperatore non ve ne dia, mica canoniche censure.
—Costui bestemmia nefandamente, grida divampando il cancelliero; strappate, ser priore, strappate quell'infame scritta.
—No, no, leggete, continuate, gridano i baroni da tutti i punti della sala.
Ed il priore, senza punto avvedersi dei gridi dell'uno e dell'ingiunzione degli altri, riprende fiato e così prosegue leggendo:
« In quanto ai delitti per ultimo che il vostro cancelliero non manca tutti i giorni di appormi, io formalmente dichiaro, monsignore, sia a voi, sia ai nobili castellani che compongono il placito, sia agli uomini come ai miei santi avvocati ed a Dio, che egli ha mentito peggio di un giudeo, e mente; che egli è mio particolare nemico da lunghi anni, e studia di qual maniera per altrui mezzo di me vendicarsi; infine che le accuse, oltre dell'essere indegne di cavaliere, non debbono prodursi che al mio legittimo padrone.
« Queste sono le ragioni, monsignore, che per l'estrema volta io discendo ad addurvi, e che mi dispenserebbero da qualsiasi soddisfazione si potesse per avventura richiedere da me. Non pertanto, sentendomi io puro delle colpe aggiustatemi con tanta poca carità dalla frataglia mia nemica, in testa a' quali si leva il vostro santo cancelliero, e non volendo lasciare nell'animo vostro, di codesti nobili baroni, e del mio alleato duca Roberto Guiscardo, neppur l'ombra di sospetti sull'onor mio, accetto di scendere in lizza chiusa col vostro cancelliero e con prova, per giudizio di Dio, giustificarmi. Dopo ciò vi dimando la benedizione, se me ne stimate degno, e salutando codesti valorosi baroni, prego Iddio che v'illumini, e tra me ed il vostro cancelliero decida.
« Aggiungo, che la maggior parte delle accuse del campione della Chiesa sono false ».
Datum Lacedoniae triduo ante Kalendas Augusti 1070
Quando l'abate di Cluny ebbe letto ciò si strinse nelle spalle ed a passo lento si approssimò al tavolo del cancelliero, e gli pose avanti la carta. E questi, piegandosi, vide che la postilla diverso carattere aveva scritta. Dimandò perciò il pugnale al principe Gisulfo e sulla punta di quello prendendo la pergamena la gittò per terra, e sopra vi calcò il piede sclamando:
—Le cose degli scomunicati non lordino i vassalli di Dio.
Colui che aveva presentata la protesta di Guiberto, all'atto codardo si alza come preso da impeto generoso; ma poi, percotendosi di ambo le pugna la fronte, si asside di nuovo senza dir motto. Però il principe Gisulfo, che uomo generoso era, trovando la parola rampogna:
—Ser cancelliero, il vostro non è condursi da cristiano. Cristo rimproverò i discepoli che d'intorno gli scacciavano la Maddalena, e duolmi che, io laico, ve lo debba rammentare. Ma questi baroni hanno udite le accuse e le difese di Guiberto, e basta. In quanto a mio cognato Guiscardo poi rispondo—nè mi curo giustificar altrimenti le mie parole fuor della spada—che non mai egli rapì gli Stati a Baccelardo, perchè Roberto succedeva al conte Umfredo, come il conte Umfredo era succeduto al conte Drogone, e questi a Guglielmo Bracciodiferro: che se fece prigioniero papa Leone IX, si servì dei diriti di vincitore, e da cristiano fedele e leal cavaliere lo trattò: che non mai ripudiò Alberada per ambizione o per mutato amore, sibbene perchè scovrì Alberada riuscirgli parente: se prese Malvito con inganno, adoperò stratagemma di guerra e quindi commendabile a capitano: infine se lo sfortunato principe Landolfo V di Capua fu scacciato dalla casa dei padri suoi, vuolsene addebitare più il principe Riccardo, che stette sodo alle codarde condizioni dei Capuani, anzi che i consigli di Guiscardo, il quale pugnava allora nelle Calabrie. Al silenzio dunque le sciocche calunnie che ci avete fatte udire, e pensate da uomini e da cavalieri, non da stupidi servi da gleba. Queste sono le ragioni che io, principe Gisulfo II di Salerno, seppi addurvi. Se poi vi ha qualcuno che le creda deboli o non vere, ecco qui la manopola di un uomo, il quale da cavaliere saprà sostenere che costui ha mentito come un infedele. Ho detto. Ai voti.
—Ai voti, ai voti! gridarono molte voci dalla sala; e tutti si alzavano per andare a mettere le tessere nell'urna; allorchè triplicata squilla di tromba fuori le porte dell'abadia risuonò.
Derobe-les à l'oeil de leurs persécuteurs,
Je fuis, le jour m'epie, et s'il me voit je meurs!
I baroni restarono fissi ai loro posti, da poichè il cancelliero aveva dato ordine ad un araldo, che faceva da mazziere alle porte della sala, di riferire a quell'adunanza chi fosse e che significasse quella chiamata di tubatore. E non passò guari e l'araldo venne ad annunziargli che egli precedeva un oratore cui Roberto Guiscardo mandava al pontefice, e che questi ai baroni rimandava per dargli udienza. Infatti e' finiva di così parlare, allorchè i battenti della sculpita porta si schiudono e comparisce il vescovo di Bovino.
Il suo passo era maestoso come a personaggio di tanto cuore e di tanto rilievo convenivasi. Vestiva corsaletto di lamine di acciaio a rabeschi d'oro, sopra di cui gittato un manto soppannato di pelli preziose, e fermato da scheggiale di gemme. Egli venne in mezzo al salone, e dopo aver salutati i baroni da prima con grazioso piegare di testa, e con maggiore sussiego il cancelliero, che immobile gli aveva fermo l'occhio addosso, fece ancora un passo verso il principe di Salerno e parlò:
—Messer principe, la nostra missione, sebbene per avventura riguardasse voi più direttamente, si diresse a papa Alessandro, onde le nostre preghiere vi tornassero meno sgradevoli.
Gisulfo si rizza sulla persona quasi un punteruolo dell'armadura l'avesse offeso, ed accigliato domanda:
—E quali sono codeste preghiere che ci abbiano a tornar mal gradite!
—I cittadini d'Amalfi, messer principe, continua il vescovo con calma, i cittadini di Amalfi hanno mandato il priore di Lacedonia ad oratore a duca Guiscardo perchè a pro di loro intercedesse da vostra grandezza una tregua alle angarie ed ai soprusi, che, insopportabili, di vostro comando si praticano loro incessantemente. Le taglie imposte superano d'assai i prodotti delle loro terre: il commercio che quando Amalfi si reggeva a repubblica esercitava su tutte le città di Europa, per le vostre vessazioni è stato annullato: gli aldi, gli arimanni, le maestranze, e tutte le altre condizioni di uomini, liberi negli altri paesi, sono tornati schiavi in questa povera contrada. In una parola, monsignore, la vostra mano esorbitante pesa su quegl'infelici che a Roberto Guiscardo si volsero per supplicarvi di grazia.
—Mai no! per la santa messa di Pasqua che ci deve comunicare, mai no, sclama irritato il principe di Salerno, il quale, a misura che l'oratore parlava, si andava corrucciando nel volto e digrignava dei denti ferocemente. Hanno forse dimenticato quei traditori che assassinarono nostro padre sulla spiaggia deserta del mare come un miserabile pirata?
—Non l'hanno dimenticato, monsignore: ma forse appunto perchè troppo lo ricordano, vi si accomandano di non ridurli a disperazione.
—Ah! monsignor di Bovino, sogghignando sclama Gisulfo, e' ci minacciano dunque ancora, non è vero? ed il nostro grazioso cognato li spalleggia? Non è questo che siete venuto qui ad annunziarci, monsignore?
—Messer principe, il duca Roberto è incapace delle fellonie che voi sospettate. Egli ha mandato noi a papa Alessandro perchè lo pregassimo, onde con la sua autorità e benevolenza ottenere dal vostro valore pietà per li disgraziati. Questa e non altra è stata la nostra ambasciata. Quindi aspettiamo da voi risposta, perchè il pontefice si avvisò meglio dirigerci a voi stesso come ad uomo generoso e gentile.
—Sta bene, monsignor di Bovino, risoluto risponde Gisulfo, e la nostra risposta fia questa: agli Amalfitani saranno duplicati censi, livelli, foderi e decime, che di anno in anno troveremo ancora modo di augumentare; e' saranno spogliati della marineria, e tutti ridotti a servi di gleba. A Roberto Guiscardo poi direte, che Areco e Santa Eufemia, da lui usurpate, da questo momento rientrano nel nostro dominio, e che la costa, da Salerno a Fico, appartiene a noi. Inoltre, che noi rifiutiamo con disprezzo l'alleanza di un uomo che si fa intercessore di assassini; che verremo in persona a dimandargli ragione dell'affronto che con tal suo messaggio ci ha fatto. Al priore di Lacedonia per ultimo direte, che gli daremo l'opulenta mercede dalla sua traditrice pietà meritata.
Il vescovo di Bovino stette un istante silenzioso a riflettere, guardando in volto ben bene Gisulfo, girando lo sguardo intorno sull'adunanza poi riprende:
—Messer principe, veggo che voi siete sotto il dominio del demone dell'iracondia; acquetatevi, ed acconsento di aspettare fino a domani che ritragghiate la vostra risposta.
—Arrogante prelato, scoppia allora Gisulfo; se voi non foste un uomo di chiesa, vi avremmo di già insegnato con usura per qual modo un cavaliere ritratta le sue parole. Aggiungiamo dunque di più; che noi intendiamo gittare sul volto di lui, duca Roberto Guiscardo, questo guanto di ferro, così come sul tuo volto lo gittiamo, vescovo di Bovino.
—Alto là in nome di Cristo, sclama il cancelliero del papa, rattenendo il braccio del principe di Salerno, il quale abbrancava la manopola per percuoterne il viso del vescovo. Principe Gisulfo, ricordatevi che costui, comunque malvagio, è pastore della Chiesa; non trascendete. I servitori di Dio non son soggetti che a Dio.
Il vescovo di Bovino, che era rimasto immobile ad udire, atteggiò il volto a lieve sorriso di scherno verso i due che tanto brutalmente l'insultavano, poi disse:
—Sia fatto il vostro volere, principe di Salerno. Noi recheremo le parole vostre, così scortesi che ce le avete volute dire; ed innanzi a questa nobile assemblea di baroni, prendendo a testimoni Cristo, la Madonna di Lacedonia ed il barone san Tomaso di Bovino, facciamo sacramento, che, a contare da oggi a sei mesi, vi avremo dimandato conto dell'oltraggio, sotto la vostra medesima città di Salerno.
—Amen, spavalduccio prelato, acerbamente ghignando risponde Gisulfo. E perchè in qualche modo potessimo pure mostrarvi come ci tornano graditi i vostri giuramenti, osiamo offrirvi il dono di questa catena di oro e di gemme, che ci ha servito di monile nel dì delle nozze del vostro padrone con la sfortunata nostra sorella Sigelgaita.
—Mille mercè monsignore, soggiunge fieramente il vescovo. Non ci occorrono doni perchè ci ricordassimo di voi. Noi quindi non accettiamo da voi cosa alcuna, sibbene vi dimandiamo ciò che senza macchia di vigliacco non potreste rifiutarci, perchè ci appartiene—la vostra manopola.
—Ah! ah! per farne che uso, monsignor di Bovino?
—Per attaccarcela all'elmo, ser principe, e constringervi a venircela a dimandare la prima volta che sotto le mura di Salerno ci incontreremo.
—Per il santo sepolcro! monsignore, voi ci tornate ben singolare, scoppia Gisulfo. Ma sia fatto il vostro piacere. Non sarà mai detto che noi ci fossimo mostrati taccagni ad alcuno che di morire per nostra mano dimandò. Vi raccomandiamo però, monsignore, di farvi una bella confessione delle vostre peccata quel dì che avrete la sventura d'incontrarvi con noi.
—Va bene, messere: la morte e la vita sono in mano di Dio.
E sì dicendo toglieva il guanto di mano al principe di Salerno, ed usciva con non minore solennità di quella con che era entrato nella sala del Capitolo. Allora il cancelliero si volge ai baroni e dice:
—Ai voti, baroni, e ricordatevi bene, che Iddio giudica il vostro giudizio.
—Ai voti sia pure, esclama il principe di Salerno, mettendo pel primo a vista di tutti la sua tessera nera nell'urna ». Però, venga qual vuolsi il vostro giudizio, baroni, noi abbiamo dichiarata la guerra a questo pirata normanno ed a questo assassino priore, e speriamo, col soccorso di Dio e di s. Michele Arcangelo del Gargano, vendicare la Chiesa e gli sfortunati tutti che al pari di noi furono oltraggiati da costoro.
I baroni intanto l'un dopo l'altro si accostavano all'urna, situata d'innanzi al cancelliero, per gittarvi il loro parere. Allora, quello stesso che aveva recata la pergamena a leggere all'abate di Cluny, avvicinandosi al tavolo, e mettendo nell'urna bianco dado, susurra all'orecchio del cancelliero:
—Ildebrando, salvali!
A queste parole, al suon di quella voce, all'accento commosso, alla mano tremante come un serpente se gli si fosse avventato al sembiante, il cancelliero dà un salto sul suo seggio e si alza gridando:
—Sacrilegio, baroni, sacrilegio: una donna è in mezzo di noi.
E nel tempo stesso, strappando, senza nulla considerare, il cappuccio che ascondeva la testa del frate, scovre giovane donna, cui somigliante niun pittore aveva saputo mai fino allora idear una madonna. I baroni, che intorno a lei avevano fatto cerchio, al vedere così angelica creatura stupefatti traggono indietro, e l'abate di Cluny sclama maravigliato:
—Alberada! la ripudiata consorte di Guiscardo!
Ildebrando, che con le pupille spalancate ed immobili era restato a guardarla, quasi avesse voluto in quello sguardo racchiuderla, serrarla come la mano del catalettico serra piccolo disco, divorarla con avidità di belva concitata, incenerirla, alla parola di consorte si cangia in un istante, e con la mutabilità d'istrione, assidendosi, con un sorriso mefistofelico e ghiacciato soggiunge:
—La concubina del priore di Lacedonia, baroni, la concubina.
Alberada a quell'insulto si raddrizza a sua volta sulla persona, percuote il suolo del piede, e saettandolo di uno sguardo pieno di collera e di disprezzo, alteramente risponde:
—La moglie, messer cancelliero, la moglie.
Nil mihi de fatis thalami. Superisque relictum est,
Magne, queri nostros non rumpit funus amores.
Due cavalieri, sul cadere di una sera di estate, cavalcavano lungo la difficile spiaggia di Salerno, e propriamente per quel dirupato sito che la divide dalle montagne di Amalfi e di Sorrento. Onde godere del piacevole fresco del mare, avevano appesi alla sella gli elmi, e la testa coprivano di quei berretti che allora si dicevano mortai. Vestivano giacchi di maglia, serravano al fianco la spada ed il pugnale. E' sembravano intesi a premuroso favellare, da poichè di tanto in tanto il cavaliere che precedeva nella angusta callaia faceva sostare il cavallo, e volgendo la faccia all'altro restava ad udire. Spesso però si fermavano entrambi per dar ordini alle scolte, che vigilavano alla custodia degli alloggiamenti militari, stesi a foggia di semicerchio intorno Salerno, o a guardare il naviglio dalla bandiera amalfitana che ancorava nella perigliosa rada. Di tal che il loro andare era lento anzi che no, tra perchè favellavano e speculavano il campo, tra perchè la stradicciuola, praticata per mantenere la comunicazione tra le truppe sul dorso della brulla montagna che domina Salerno, era aspra ed ingombra di ciottoli. Da su quei gioghi però bello era contemplare questa città, la quale, a cavaliero di una cima di roccia dirupata, quasi nido d'aquila, aveva castello di gotica architettura, sul cui merlato scintillavano i ferri delle lance delle sentinelle, e tutti ricinti di mura merlate erano anche que' gioghi, popolati da soldati che a lento e misurato passo vi passeggiavano. Dalla città non partiva rumore nè fumo. Non si distingueva alcuno per quelle case aggruppate le une alle altre come alveoli di arnia, triste, nericce, squallide. Sembrava grande sepolcreto. Ben altrimenti intanto poteva giudicarsi di coloro, che novella città di tende le avevano rizzata intorno, scintillanti di vivi colori—le tende appunto che appartenute avevano, non era guari, ai Saracini di Sicilia. Quel popolo di soldati brioso si recava da un padiglione ad un altro, e dai padiglioni alle galee che si cullavano voluttuosamente sul mare tranquillo. Canzoni guerresche, rumori di armadure, nitriti di cavalli, un movimento, una vita, una gioia, quasi quivi non fossero convenuti per osteggiare la città e quindi dare e ricevere la morte, ma per tornar bello un corteggio di principessa che andava a marito. Questo insomma era il campo di Roberto Guiscardo, il quale assediava il principe Gisulfo II, suo cognato, constretto a ricoverarsi tra le mura della città. I due cavalieri cavalcavano adagio, considerando, nel tempo stesso che discorrevano, da qual punto si potesse assaltare la piazza, quale fosse il lato meno difeso; avendo per fermo che, a lungo andare, non fosse stato che della fame, la pazienza dei cittadini si sarebbe stancata—posto ancora che agli urti replicati e testardi degli assalitori avessero saputo resistere. Per lo che esaminavano le baliste; i mangani da rovinare la città con un diluvio di pietre, le torri mobili per avvicinarsi alle mura e pugnare di fronte a fronte: comandavano vigilanza e coraggio a quei prodi normanni, i quali non sentivano meno il pungolo della gloria che quello della preda doviziosa loro promessa dal sacco di Salerno. Si apparecchiava pel domani novello assalto.
La sera era splendida. Il tramonto cangiava il sottile vapore, che impregnava l'aria, in una polvere di oro. Le montagne di Amalfi si disegnavano a sinistra, a tinte violette e frangiavano l'orizzonte. Il mare che si confondeva con l'infinito del cielo era calmo e voluttoso, come il seno di una fanciulla che non abbia ancora palpitato di amore. Non uno spiro di vento. Non uno di quei susurri arcani della natura vergine. Le ultime allodole che fendevano il cielo si ritiravano. La campagna di Salerno si dileguava, grigia più che verde, sotto il progressivo invadere delle ombre. Le prime stelle nel cielo, le prime lucciole sulla terra cominciavano a corruscare. Solo un ronzio d'insetti invisibili animava gli ultimi aneliti della vita del dì. Soave, irresistibile languore s'insinuava nel corpo; l'anima s'innalzava nel vago, negli spazi illimitati di Dio. Un cristiano avrebbe creduto, un poeta vaneggiato, una donna avrebbe soccombuto a qualunque parola di amore, un uomo avrebbe perdonato.... I due viaggiatori non si accorgevano di nulla.
—Tutto va bene, diceva uno dei cavalieri; vedremo se questi marrani di Longobardi sapranno sostenere ancora le picchiate di domani, chè in fede mia, Guiberto, ti prometto io, vorranno riuscire belle e sonore. Già quei di dentro sono disperati, ed il martello della fame li travaglia, così che faranno i diavoli e peggio. Questi nostri, che sono inaspriti dalla lunga resistenza e spasimano cacciare le unghie nei tesori del nostro bel cognato, non si terranno le mani alla cintola, e la chirintana vorrà tornar graziosa. Staremo a vedere, per ora non posso dichiararmi scontento.
—Ma! non dirà altrettanto madonna Sigelgaita, messer duca, rispondeva l'altro cavaliere. Alla fin fine, il principe Gisulfo le è fratello, e questi disgraziati di Longobardi sono della sua nazione.
—Bah! tutto sta che Sigelgaita senta i primi squilli delle chiarine, e veda che si cominciano a menare le mani davvero con la grazia di Dio; chè poi il suo demonio tutelare s'incarica del resto. Se l'avessi veduta, Guiberto, alla presa di Palermo! Giuro pel santo sepolcro che saresti dato in dietro della paura. Sicuro che uccise di sua mano meglio di cento Saracini.
—Qual differenza da quell'altra! sclama fra sè Guiberto, quasi meditasse le parole del duca Guiscardo, perocchè desso appunto era il cavaliere che precedeva. Alberada non reggeva alla vista del sangue. Eppure l'avevano allevata dentro il pavese di suo padre, in mezzo ai soldati.
—A proposito, ser priore, dimanda Roberto; si ha novella alcuna di lei? Te l'han dunque menata via compiutamente?
—Voi mi toccate una piaga cruenta, monsignore.
—Sai che più ci penso e più mi persuado che quel mastro Ildebrando debb'essere un birbante bello e pulito!
—E ben altro ancora, monsignore. Quell'uomo lo conosco sol io—e voi pure, Roberto, se vorreste un po' rammentare perchè motivo ripudiaste Alberada, potreste congetturarne alcuna cosa.
—Non andiamo rimuginando nel passato, priore. Ti basti avermi tolto in pace che la fosse stata accolta da te, una donna cui io aveva discacciata, e non te ne dimandassi ragione di maniera qualunque.
—Con la vostra sopportazione, messer duca, avreste avuto gran torto. Dopo la fatale storia di quello sventato dell'abate di Cluny, voi mandaste via Alberada, pizzicato da gelosia. Vi apponeste, Roberto. Gli è vero che nell'anima mia io aveva amata Alberada; ma Iddio stesso, neppure Iddio sapeva di quel segreto. Alberada aveva l'anima immacolata di tutt'altro affetto che non fosse stato il vostro. Per modo che, monsignore, voi potreste giurare che giammai donna vi ha amato, e vi amerà più fortemente e con verecondia maggiore di quella giovane. Se l'aveste udita a singhiozzare....
—Baie! piangeva di dispetto.
—Mai no, monsignore, piangeva d'amore; chè, la Dio mercè, io so bene distinguere il grano dalla saggina. Se non vi avesse amato, l'avreste udita prorompere in lamenti ed ingiurie, quando a mensa, in presenza della sua rivale, le furono gittate sul volto le vostre seconde nozze con sì poco garbo e carità che n'ebbe a stringere a tutti il cuore del dolore e della sorpresa. Ed ella non disse altro motto, che: Iddio vi perdoni, messer duca! Poi baciò sulla fronte il figliuolo Boemondo, il quale svenuto le cadde ai piedi, e lasciò il castello sul fatto, senza togliere una pezzuola, senza fermarsi un momento.
—L'è vero! sclama Roberto abbuiato.
—E vi ricorderete, continuò Guiberto, con qual rassegnato contegno, uscendo dal castello di Melfi, rifiutasse le profferte di vendetta che il suo paggio Baccelardo le presentò. A piedi, digiuna, per notte orribile, in mezzo a fitto uragano, attraversò gioghi e campi, e giacque sfinita di stento e di paura innanzi la porta di tristo abituro; perocchè tutti, a timore di voi, monsignore, le rifiutavano asilo, quasi fosse stata tocca dal gavocciolo.
—Tutti—meno che voi, pietoso priore.
—Vi domando mercè, monsignore. Ella si riparò fra le mura del chiostro di Grotta Minarda. E solamente là, come sapete, io la rividi quando saccheggiai la badia, ed usai alle monache il giuoco di farle sorprendere dai diavoli. La strappai dalle grinfe dei soldati che l'avevano adunghiata, e come la più vezzosa se la disputavano a colpi di daga. La posi sulla groppa del mio cavallo, e la condussi al priorato di Lacedonia. Quivi la sposai in tutta regola. Ma non saprei dirvi quanto mi avessi da penare per indurla a nozze novelle, e quale resistenza la mi opponesse. Mi penso perciò, monsignore, che non vi debba dolere di alcun modo se me l'abbia tolta a moglie. Niuno oltraggio soffrì mai la donna che sposa fu prima di voi. Poi, se io non sono mica duca non sono neppure un paltoniere.
—Sta bene, te ne rendo anzi mercè, sclama Roberto pensoso, se vero gli è pure che quella donna mi abbia amato mai. Non veggo però che tu ne abbia fatto assai buon governo, e che molto ti stesse a cuore il decoro di una donna che era, è d'uopo lo confessi, anche a me stata carissima, e forse....
Roberto Guiscardo gittò un sospiro e si arrestò a mezza frase. Guiberto soggiunse:
—Ed anche in questo, col vostro permesso, monsignore, voi prendete fallo. Come ebbi inteso della venuta di Alessandro e del suo cancelliero a Montecasino, compresi di leggeri che tanto contro di voi come contro di me non si sarebbe mancato portare solenni accuse.
—Non occorreva essere Isaia per profetarlo.
—Nè santo per affliggersene. Ma se io, a vero dire, non dormo meno tranquillamente sotto le censure della Chiesa, i miei vassalli non la pensano come i vostri, Roberto. Così che mi misi alquanto in angustie, e confessai ad Alberada le mie dubbiezze. Ella, che voi sapete quanto sia generosa, si offerse rappattumar tutto col papa, meglio col suo cancelliero Ildebrando. Dell'animo di costui ella aveva capito alcun poco là a Cariati, in quella trista nostra dimora. E forse non solo me ella pensava in quel suo proponimento, monsignore, ma altresì voi, voi che parimenti avevate brighe col pontefice.
—Bah! sclama Roberto levando le spalle. Si direbbe, glorioso priore, che tu vorresti regalarmi dei rimorsi.
—Eh! perchè no? i rimorsi sono anch'essi una voluttà per le anime malate e angosciate.
—Allora conservali per uso tuo, susurra Roberto sforzandosi a comporre il viso a gaiezza.
Il priore continua:
—Partimmo dunque divisati da frati. Ella era risoluta dimandare un abboccamento ad Ildebrando fuori del chiostro, sapendo quanto e' fosse sollecito delle regolarità claustrali. Quel disgraziato di Baccelardo aveva guastato tutto. Ildebrando, onde destare dal torpore il pigro Alessandro II, aveva indotto il giovane andarlo a vilipendere di vigliaccheria proprio nel baciamano, e trascinarlo a mezzi di violenza contro di entrambi noi.
—Costui l'avrò dunque sempre tra i piedi, sclama torvo Guiscardo, digrignando i denti, quasi parlasse fra sè.
Guiberto continuò senza far vista di porgli mente:
—Nè messer Ildebrando fece i conti falliti, come sapete. Io che appostava a San Germano seppi di quello sproposito di placito, e scrissi la mia difesa. Del fatto vostro voi già stavate sicuro, sia che non tanto mastro Ildebrando vi aveva sul liuto come me, sia che vi difendeva il principe Gisulfo. Alberada quindi ebbe a presentarsi al placito e far leggere il foglio da me diretto al pontefice.
—Chi le avrebbe creduto tant'animo! mormora Roberto, sempre sopra pensiero.
—L'è vero. Però, voi sapete che succedesse colà, e come sotto pretesto di avere violate le leggi del chiostro ella fosse menata a Roma da Ildebrando per essere giudicata.
—Prete sciagurato!
—Chi sa se solamente sciagurato! riprende Guiberto sospirando. Ma la vendetta mi sta scritta nel cuore, monsignore; e voglia Iddio condannarmi a finire i miei giorni in un lebbrosaio, se non la torrò tale che se ne abbia a menar rumore per tutta Italia. Aspetto solo che ci sbarazziamo da questi ostinati di Longobardi, che poi andrò io a Roma, e in un modo qualunque farò visita a mastro Ildebrando.
—E niuna novella ve n'è arrivata da poi? dimanda Roberto dopo essere restato alcun tempo concentrato. Spero in Dio che non le abbiano fatto vitupero; dappoichè se così fosse, Guiberto, ti giuro per la mia santa corona di duca....
—Che sperate tramutare in quella di re.
—Taci. Ebbene, ti giuro in somma, che neppur io me ne starei indifferente, e l'insulto di una donna normanna sarebbe pagato a peso di sangue.
—Io non so, monsignore, se l'abbiano ingiuriata; solamente vengo assicurato di fermo da quello scimione di Laidulfo, non ha guari tornato di Roma, di avere inteso dire che l'avevan messa a languire nelle prigioni di qualche castello o monistero di là.
—Cosa è quell'aggrupparsi di soldati che corono, lì, verso borea?
—Qualche torneatrice che balla sulla corda, o qualche frate che predica il giudizio finale.
—No, non mi pare. Si affollano di troppa pressa, e tornano addietro troppo malvogliosi. Andate a vedete, Guiberto, e venitemi a raggiungere alle tende dove mi reco.
—Non è d'uopo che vada io, perocchè già un centurione trae alla nostra volta. E veggo...
—Due frati in un bel gruppo di lancieri con le picche calate. Che mai sarà?
—Io l'indovino, dice Guiberto, quei di dentro han cominciato a sentir troppo caldo dalla nostra vicinanza ed han dimandato soccorso.
—Eh! non può darsi. Io conosco la tempra ostinata di Gisulfo, e quanto superbo ei sia. Ho per sicuro che alcun altro vorrà venirci a guastare il giuoco ed a cacciare il suo cucchiaio nella nostra pentola, come fecero le dannate memorie di Nicolò II e Leone IX per le faccende di Puglia. Sta a vedere se la cosa non sia così. Qui ci menano due frati.
—Ebbene, centurione? dimanda Guiberto al soldato che loro si approssimava.
E quegli facendo cenno di saluto ai due cavalieri, si volge a Roberto Guiscardo e risponde:
—Monsignore, papa Gregorio VII manda due legati che dimandano tosto essere ammessi alla vostra presenza. Che dobbiamo fare di costoro?
—Frustateli, mormora il priore alzando le spalle e spingendo il cavallo per ritornare alle tende del duca.
Ma Roberto resta un tratto a pensare, poi ordina:
—Guidateli al nostro maestro di palazzo, monsignor di Bovino, che egli li provveda di alloggiamento per questa notte, e che dimani sieno presentati al nostro padiglione.
Ciò detto sprona il cavallo e raggiunge il priore che di male umore era partito.
Man. Dunque i nemici
Braman la pace?
Pub. A Regolo han commesso
D'ottenerla da voi. Se nulla ottiene,
A pagar col suo sangue
Il rifiuto di Roma egli a Cartago
È costretto tornar. Giurollo.
Trasportiamoci ora per un momento a Roma.
L'abate di Cluny, preceduto dal castellano e seguito da un uomo ravviluppato in bianco mantello, attraversarono parecchie sale della Tomba di Adriano, o Castel Sant'Angelo, come dal XII secolo si addimandò, fino a che non giunsero ad un appartamento all'angolo settentrionale di esso. Quivi, innanzi ad una porta centinata, il castellano si volge all'abate e dice:
—Ella è qui.
—Sta bene, risponde l'abate; aprite, ed attendete di fuori.
Il castellano obbedisce. Allora l'uomo avvolto nel mantello passa innanzi, entra, e si richiude l'uscio alle spalle.
Il castellano, che era restato a guardare, gitta un sospiro ed esclama:
—Senza neppure confessarla!
—Non paventate, bravo vecchio, risponde l'abate, se avrà giudizio non le sarà fatto alcun male, io credo; perchè negli occhi vi ha una mutazione secundum esse spirituale, come dice quel santo padre di Aristotile, e gli occhi di lei...
—Spero in Dio che così avvenga, lo interrompe il castellano; mi ci era affezionato, e mi porti il diavolo se non l'amava come figliuola. La si mostrava sì buona, sì dolce che neppure i martiri, Dio mi perdoni! io penso fossero stati più rassegnati.
L'abate non risponde e resta del capo appoggiato al muro a meditare.... Sa il cielo cosa meditasse l'abate di Cluny, perchè da tutti allora veniva riputato mago, a causa della indefinibile sua sapienza nei misteri dalla filosofia greca e dei rabini ebrei. Eppure oggi l'abate di Cluny è uno dei santi meglio constituiti del cielo! Come la sapevan lunga quegli uomini dei tempi di mezzo!
L'altro intanto, appena ebbe chiusa la porta, si svolse dal mantello e penetrò nelle stanze riposte.
Quel piccolo appartamento era addobbato col maggior lusso che allora si conoscesse. Vi era un salotto, col soppalco a legno intagliato e le mura coperte di cordovano a rosoni d'oro. Vi era un tavolo di frassino incrostato di avorio e di laminuzze di argento niellato, e grossi sgabelli di noce intagliati a sfingi, girigori e lacci aggroppati. Vi erano infine guastade di fiori ed una giga. Fra queste ed altre minuterie femminili però dominavano, appesi a' zoccoli e su pei tavoli, ogni maniera di attrezzi da guerra, lucenti, ricchi, ed in parecchi luoghi rintuzzati, sì che attestavano non avere appartenuto a poltrone. Più dentro poi, un letto coverto di un cielo di dommaschi paglini con grosse nappe che ne fermavano le bandinelle alle colonne attortigliate di noce brunito, un inginochiatoio con un libro di ore brutalmente alluminato, aperto, ed uno stipo capriccioso di forma, intarsiato di tasso a figure mostruose e fiori, su di cui una lamina di ossidiana forbita onde servire da specchio, e pettini, e calamistri, e vai, e fiori, ed un pugnaletto sottile come grosso spillo, e delle fiale che potevano contenere forse della nanfa, più probabilmente veleni. Presso ad una finestra infine sedeva giovane donna, neglettamente e semplicemente vestita tutta di bruno, ed assorta a contemplare il cielo così profondamente, che non si avvide dell'uomo penetrato di sì poca cerimonia nel suo santuario. Il qual santuario era, bello e buono, l'appartamento del castellano a lei per cortese affetto o per compassione ceduto. Il nuovo venuto gira lentissimamente intorno lo sguardo, poi aggronda e dice:
—Quante morbidezze!
A quella voce la donna si volge, gitta forte un grido, e retrocedendo fino al davanzale e tutta rannicchiandosi nella persona, convulsa e tremante sclama:
—Ildebrando!
All'esclamazione di entrambi succede un momento di silenzio. Finalmente l'uomo soggiunse:
—Per lo appunto, Ildebrando. Vi fo forse paura, Alberada?
—Paura no, mormora colei levandosi ritta, riprendendo con uno sforzo di volontà tutta la sua dignità e spezzando il fascino, donde in sulle prime il rossigno sguardo di quell'uomo l'aveva avvinta. Paura no, ribrezzo.
—Ah! e per qual ragione, madonna? Imperocchè, da quanto io mi sappia, giammai scortesia avete ricevuto da me.
—Sarà vero, messere, rispose ingenuamente colei, ma io veggo nella vostra persona qualche cosa di sinistro, ed ogni qual volta mi sono abbattuta in voi, sempre sventura novella mi colpì. Voi siete il demonio attaccato ai passi miei.
—Ah! siete dunque anche eretica, Alberada, per credere l'uomo subordinato a due geni come i Manichei. Male, male, figliuola mia.
—Insomma, messere, usatemi la cortesia di dirmi cosa cercate da me. Voi, per fermo, non venite che per annunziarmi la morte. V'incontrai nel castello di mio padre a Cariati, e scene di sangue lo funestarono. V'incontrai nel castello di mio marito a Melfi, e da lui fui ripudiata. V'incontrai a Montecasino, ed ecco che mi avete rilegata in una tomba, disgiunta dall'universo, priva di libertà. Sollecitatevi, profferite la sentenza che avete fatta decretare da Alessandro II; a me sarà sollievo maggiore la morte anzi che questa spasmodica prigionia.
—Tanto presto volete morire, Alberada? susurra Ildebrando con accento tristo e sospirando. Se la vita è un tribolo per voi, ricordatevi che ogni tribolo ha pure le sue rose, ogni notte le sue stelle. Ma mettiamo da banda ciò, e statemi bene ad udire, chè d'uopo ne avete assai.
—Sia. Tenetevi dunque lontano da me, e favellate.
—Io vi fo raccapriccio, Alberada? Ebbene ascoltatemi. Io voglio sollevare per un istante un velo che solo un uomo sollevò altra volta sotto suggello di confessione. Ma queste sono le ultime parole che l'uomo vecchio rivelano in me, sono gli ultimi aneliti che ricordano Ildebrando, la pagina estrema di un racconto che dovrà essere dimenticato, che i posteri dovranno ignorare. Qui finisce la storia dell'uomo, per cominciare quella del santo. Non resistermi, Alberada. Questo è l'ultimo tentativo di ravvivare una fiaccola già estinta.
—Vi ascolto, signore, mormora Alberada con voce tremante, vi ascolto bene, ma non v'intendo. Solamente mi accorgo che voi, per solito avaro di parole e cupo più delle prigioni di questa Tomba, siete dominato da delirio.
—Chi beve il vino s'inebria, chi si caccia nel fuoco si brucia. Questo delirio desta in me la vostra presenza. Voi mi fate rivivere a memorie, che il dì 25 marzo 1073 seppellii con Ildebrando. Sappi dunque, Alberada, che io ti ho amata, come giammai donna in terra si potè amare di veemenza maggiore.
—Oh! non mi era dunque ingannata io!
—Che? mi avevi forse penetrato tu? Avevi tu forse letto nell'anima mia una passione colpevole, un sacrilegio che tante notti insonni mi ha fatto trascorrere combattuto dalla volontà e dall'istinto? Dì, favella per amore di Dio, dimmi se nulla mai ne palesasti ad altro uomo, se il tuo sospetto fu anche sospetto d'altrui, se v'ha sulla terra altro essere umano, fuori del mio confessore e di te, che sia consapevole di tanta mia debolezza? Parla dunque, hai rivelato mai a vivente che Ildebrando ti abbia amato?
—No, perchè io mi credetti insozzata di codesto vostro amore, io, fidanzata di Roberto Guiscardo e figlia dei barone Giselberto Squassapostierle. Quella sera che, sul merlato delle torri di Cariati, credevate favellarmi dei perigli delle passioni inavvedute, quella sera, nel caldo del discorrere, il delirio vi dominò come adesso, e mi svelaste che mi amavate.
—E tu? tu rivelasti a... a quel demonio di mio fratello il segreto fatale?
—No, messere, perchè io non favello delle cose che mi tornano ad onta.
—Dio sia lodato! la mia debolezza morrà qui, sclama Ildebrando gittando un sospiro e lasciandosi cadere sur una sedia.
—Morrà qui con me! Non è questo che volevate dirmi, Ildebrando?
—Ah! mormora costui meditando la trista interpretazione che Alberada aveva data alle sue parole. Con te, dici? Ebbene, sì: può avvenire anche ciò, Alberada, e puoi anche essere libera, se alla mia volontà sarai pieghevole. Perocchè io ho fatto sacramento innanzi la persona di Cristo, che, da oggi in poi, non vi sarà altra volontà sulla terra che la mia.
—Audace giuramento, interrompe Alberada.
—Che sarà audacemente mantenuto, continua Ildebrando. Sì, Alberada, io ti ho amata, e quanta sciagura da questa passione mi fosse tornata, io dirti non potrei senza farti tutta raccapricciare novellamente. Io non aveva amato alcuno. Io non aveva conosciuta mia madre, che pochissimo, mio padre poco ancora ed aspro. Io insomma, mi era veduto isolato nei chiostri fanciullo. Io aveva udito predicarmi tutto dì, sotto pena di peccato, di segregarmi dal mondo e dalle sue passioni; avevo dovuto interdirmi ogni affetto tenero, ogni moto di sensibilità. Io avevo dovuto in ogni essere a me somigliante considerare un nemico che studiava trascinarmi all'inferno, in ogni desiderio un peccato. Sulla terra io non doveva vedere che me, e fuori di me Iddio. Ora, a Dio la fantasia indocile ed irritata dalle meditazioni cercava dare un'esistenza, una forma—e sempre gli dava quella di una donna! Così, una figura svelta, bianca, diafana, l'occhio azzurro soavissimo, la persona gentile, aereggiante in un velo di pudore e di candidezza, una forma come era la tua, Alberada, come eri tu nel castello del padre tuo. Ah! che la effigie più degna di rappresentare Iddio è quella della donna!
—E voi siete prete e cardinale?
—Io sono uomo, Alberada; Dio mi fe' uomo. E questa imagine ostinata della donna mi veniva sempre avanti nelle meditazioni, m'isprava nelle preghiere, mi apriva il cielo, m'indorava di luce la vita, mi travagliava nei sogni. Questa figura trovai in te; e ti amai, e mi lasciai trascinare interiormente a quel precipizio come chi è preso dalla vertigine. Seppi però dominarmi, o almeno il credetti, poichè tu mi dici che il segreto periglioso mi scappò pure dalle labbra. Ora non se ne parli più. Fu un momento d'aberrazione che con molte lagrime ho pianto poi; fu una colpa che di pena terribile ho pagata. Non se ne parli più, e guai, Alberada, guai a te, guai a colui cui questo tristo segreto fosse svelato. Io vivo oramai nell'avvenire: il passato mi fa orrore.
—Se gli è questo tutto quel che richiedete da me, messere, la vostra volontà sarà fatta. Codesta vostra passione non uscì mai dalla mia bocca, nè uscirà, perciocchè, certo, io non ho di che vantarmene.
—Forse che sì, forse troppo, riprende Ildebrando sollevando fieramente la testa ed alzandosi. Ma io credo di essermi spiegato abbastanza. Qui si snebbi dunque la frenesia che la tua vista ha in me rinnovellata, e parliamo di altro.
—Meglio così.
—Sai tu, perchè mi rivedi in questo castello?
—Se non è per venirvi a sollazzare delle sofferenze della vittima, o a venirle ad intimare il supplizio, io non saprei perchè altro.
—Per salvarti.
Alberada si stringe nelle spalle, volge la testa verso il cielo che le mandava un raggio di sole dall'abbaino, e non risponde. Ildebrando continua.
—Per rimandarti libera al priore di Lacedonia come messaggiera di pace.
—Mio Dio!
—L'ami tu dunque colui?
—È mio marito, checchè voi ne pensiate in contrario.
—Taci, non dirlo, grida Ildebrando di voce convulsa digridando. Per Gesù, codeste tue parole mi fanno male al cuore, ed io non so se giungo a dominarmi. Ascoltami bene, Alberada, e rammenta che il papa con una mano rimesta in cielo, con l'altra stringe la terra nel pugno, e può scuoterla, riempirla di sangue, desolarla dove al suo volere non pieghi, e che chi il papa tradisce, muore della morte dei traditori dentro l'anno.
» Orbene, continua Ildebrando, tu dunque devi recarti al priore di Lacedonia. Se Ildebrando l'odiava, il papa gli ha perdonato e seco vuole riconciliarsi. Egli ti aveva mandata a me a Montecasino, confidando nella tua mediazione, perchè lo salvassi. Mal non si appose, perchè io col tuo mezzo, e col tuo mezzo solamente, voglio e posso salvarlo. Che fiducioso torni a me. Non chiedo neppure che mi domandi perdono dappoichè già, per volere di Dio, lo perdonai. Egli non avrà limite nel mio amore. È priore di Lacedonia per dono di Enrico imperatore; per volere del papa sarà arcivescovo di Ravenna, che adesso appunto quel bravo prelato è morto.
—Ma il vescovado di Ravenna provvede pure l'imperatore.
—Donna, figgiti bene nella mente che sulla terra non v'ha più oggimai che un potere, e questo è quello del pontefice; che sulla terra non v'ha più che un nome, e questo è quello del papa. Un altro ordine di cose è cominciato. I vescovadi, i troni non esistono che nel pugno del papa. Egli li dà, egli li toglie. Dirai adunque a quel priore che lasci la scellerata vita che ha condotta finora, che abbandoni le bandiere dell'Amalacita Guiscardo, e torni a me.
—Ma.... interrompe Alberada.
—Ascolta, continua Ildebrando. Ti manderò in oratore a Salerno con l'abate di Cluny. Colà troverai destro abboccarti con Guiberto, perchè metterò ordine al principe Gisulfo comprare la pace a qualsiasi condizione, così Guiberto non mancherà neppure ai patti del duca di Puglia e di Calabria. Io non voglio che sia disonorato colui cui penso fare mio ornamento. Tu dunque spiegherai tutte le seduzioni, tutto il potere che egli in te riconosce e sente fatalmente, perchè Guiberto ritorni a me. Con lui riederai anche tu, cui non preparo minori dovizie di grandezze e di glorie. Io insomma non segno limite alle vostre ambizioni, se nella mia carità e nella mia affezione riporrete fiducia....
—E se si verificasse il contrario?
—Ah! se si verificasse il contrario? mormora Ildebrando pensieroso. Innanzi tutto, vuoi tu incaricarti della missione?
—Innanzi tutto giuratemi, Ildebrando, che male alcuno non verrà a Guiberto se aggiusterà fede alle mie parole.
—Donna incredula! non ti basta la mia parola?
—No, voglio il vostro giuramento. E, se debbo confessare il vero, neppure su questo ho piena credenza. Dappoichè voi che avete facoltà di mandare la gente all'inferno ed al paradiso secondo vi torna, sapete come sciogliervi di un giuramento, se vi piacesse non attenerlo.
—Tu sei un'empia assolutamente. Le parole di Guiberto hanno fruttificato in te. Ma, come tu vuoi, giuro che a Guiberto non verrà male.
—Giuro, giuro... di grazia, messere, per cui giurate voi?
—Per i santi, per Gesù, per la Vergine, per tutto il paradiso.
Alberada conserva il silenzio come aspettasse altro e fissa gli occhi su Ildebrando quasi col suo limpido sguardo cercasse penetrarlo nell'anima. Ildebrando resta calmo e mutulo. Ed Alberada soggiunge:
—Sta bene, adesso vi dico che assumo l'impresa, e che metterò ogni mia sollecitudine perchè Guiberto si concili con voi e con la Chiesa.
—Ciò non mi basta, riprende Ildebrando, mi è d'uopo che tu giuri altresì sull'ostia consacrata il giorno di Pasqua, chiusa in questa reliquia, che se Guiberto non ascolta le tue parole o non crede alle mie promesse, tu tornerai a me; che se egli vorrà per forza ritenerti tu gli sfuggirai; e che se non avrai mezzo a sfuggirgli, eleggerai piuttosto darti morte, che mancare al giuramento di qui rivenire.
Alberada rimane perplessa un momento, pensando la terribile promessa che a lei si richiedeva, poi dimanda:
—E tornando che cosa mi si riserba, messere?
Ildebrando ristà un istante e risponde:
—La morte.
—Bene sta, sclama Alberada, purchè sia una morte sollecita, una morte senza infamia e vereconda, io giuro.
—Una morte sollecita, senza infamia, senza oltraggio.
—Io giuro dunque, continua Alberada cadendo in ginocchio, giuro su questa sant'ostia che chiude il corpo di Nostro Signore, giuro di adoperarmi tutta per indurre la conciliazione tra voi ed il priore di Lacedonia, o di ritornare qui se la mia commissione, per qualsiasi evento, non riesca, o di non toccar cibo per trenta giorni, fuori della comunione, se vorrà ritenermi per forza. E se spergiuro, possano i demoni impossessarsi di me e menarmi senza posa pei quattro venti della terra, come Malco che diede lo schiaffo al signor nostro Gesù Cristo.
—Amen, risponde Ildebrando tutto radiante di gioia, seguimi adesso.
E sì dicendo si avvia, apre l'uscio senza curare di ravvilupparsi nel mantello, ed esce.
Il castellano, che stava fuori a guardare la porta, al vederlo retrocede di un passo, ed abbassa gli occhi. Ildebrando gli ordina:
—Al compiuto imbrunirsi della notte voi stesso, uomo misericordioso, guiderete a palazzo questa donna avvolta in cappa di frate benedettino. Imparate però ad interpretar meglio i nostri ordini per l'avvenire, ed a compierli giusta la nostra intenzione.
—Santo padre, benedicite; e mi porti il diavo.... perdono.... sarà fatto il vostro volere.
—Santo padre!! sclama Alberada sbalordita, e resta fisa ed immobile a guardare Ildebrando, che seguíto dall'abate di Cluny si allontanava.
Ildebrando era divenuto Gregorio VII.
Aristod. Or che n'è tempo
Assicuriamci e ragioniam di pace.
Lis. E l'accettarla e il ricusarla a tutta
Tua scelta l'abbandono.
Aris. Udirne i patti
Pria d'ogni altro conviensi.
Lis. Eccoli e brevi.
I legati dunque che papa Gregorio mandava a Roberto Guiscardo ed al principe di Salerno erano Alberada, camuffata della cocolla di frate, sì che pareva giovanissimo novizio, e l'abate Ugone di Cluny, entrambi incaricati di missione diversa. Conciossiachè se Alberada ebbe quella delicata di ricondurre il priore sotto le leggi della Chiesa ed a riconciliamento con Ildebrando, Ugone una più difficile doveva compierne, e nel tempo stesso segreta, per modo che la politica del pontefice doveva sentirsi, non dichiararsi di qual si voglia maniera. E per vero forse il solo abate di Cluny poteva condurre al fine sperato quella bisogna non trovandosi alcuno meglio adatto di lui a tal genere di pratiche nella corte del papa. Tuttavia questa e' si aveva tolta a malincuore. Poichè aveva compreso bene l'animo ed i disegni di Gregorio, avvegnachè questi non si fosse con lui aperto, e non gli avesse ingiunti i suoi severi ordini che in laconici ed oscuri detti, come soleva.
Ugone abate di Cluny, poteva dirsi la più eccellente pasta d'uomo quando arrivava a perder di vista le dottrine di Aristotile. Nei filosofemi di costui egli aveva cercato addentrarsi, con una perseveranza e con una pazienza da fare spavento, oggi che la più astrusa sapienza si succhia da vasi sparsi di soavi liquori. Compagnevole poi, motteggiatore, ilare, amico dei piaceri, si faceva amare dalle donne, desiderare nelle brigate, dove con venustà d'ingegno soleva raccontare aneddoti, miracoli, leggende di santi, storie di paladini e di fate, ed avventure occorsegli pei molti suoi viaggi. La sola macchia che poteva forse apporglisi era quel suo pizzicare un tantino di gioliva comare, quel piccarsi di sapere per minuto i fatti altrui. Ma tal difetto gli si menava buono volentieri, quando e' ne contava delle così saporite a proposito dei pontefici e dei principi che allora conducevano Europa. Ugone sapeva vivere bene fra tutte le classi; trovava sempre alcuna cosa di piacevole a dire a chiunque bazzicava con lui, passava volentieri sui peccatuzzi e sulle debolezze di chicchesia, desideroso che alle sue scappatuccie si desse pure passata. Non borioso della dignità di abate, nella quale eguagliavasi ai più grossi baroni ed infeudava castelli e terre: coi superiori lusingatore non servile, cogl'inferiori caritatevole e blando. In una parola Ugone coglieva il buono ed il piacevole dei suoi tempi difficili; alle tristizie non s'inchinava, ma non si ribellava neppure, come quel severo uomo di Gregorio VII praticò. La regola della condotta di lui chiudevasi in due parole: fare a suo modo, con l'orpello dell'onore e del dovere: altrui tollerare.
Questi era Ugone abate di Cluny, quando, uomo come gli altri uomini, alla vita terrena intendeva ed alle bisogne di questo mondo. Ma una volta sollevato nei bui circoli della metafisica di Aristotile, una volta preso ed impaniato in quel sistema—e qualcuno osava medesimamente dire che talora l'abate lo facesse a disegno per sottrarsi a cose a lui poco grate—una volta tolto in visione allo empireo dello Stagirita, Ugone si astraeva per segno che nè le miserie, nè le gioie della terra lo toccavano più, addiventava apata, inurbano, disadatto, perdeva ogni avvenenza di maniere, ogni attitudine a maneggiare affari, ogni sentimento di cristiano e di uomo.
Fortunatamente questi parossismi di alienazione in lui non erano nè lunghi, nè spessi. Egli aveva coscienza di quella malattia, chè malattia bella e buona poteva addimandarsi tal feroce meditazione. Che perciò ogni mezzo metteva in opera onde distorre la mente da lucubrazioni scientifiche. Ed ecco perchè amava i piaceri, i più delicati ed i più grossolani; usava le corti; accettava ambascerie; cercava la compagnia delle dame; banchettava lautamente; impazziva dietro a cacce ed a giullari; correva ai passi d'armi ed ai giudizi di Dio, dotto mastro in decidere di colpi di daghe e di levate di falchi; nutriva grossa corte di alani, smerigli, cantarini e destrieri. La solerzia però che avvedutamente piaggiatrice e delicata adoperava negli affari, faceva sì che poco e' si potesse ridurre al beato soggiorno di Cluny, cui lo stizzoso s. Pier Damiano, in una sua pistola (lib. VI, 4) chiama orto di delizie fecondo di grazie diverse in gigli e rose, compiuto campo del Signore, ubi velut acervus est coelestium. I principi ed i pontefici appellavano Ugone a compositore dei loro negozi, lo spiccavano ad oratore per gl'interessi dei loro Stati. Ed e' volentieri toglievasi dal sollazzevole soggiorno, e viaggi sosteneva e disagi per rendere altrui servigio. Perocchè la carità non ebbe ultima fra le molte sue virtù.
Così che, come il vescovo di Bovino si condusse alla tenda dei legati per guidarli al padiglione del duca Roberto, Ugone si volse ad Alberada e le disse sotto voce:
—Figliuola, noi abbiamo avuti dal santo pontefice ordini diversi; voi quello di ricondurre al bene il priore Guiberto, io quello di metter la pace fra i due principi. Pensate quindi a compiere la vostra parte, chè io farò di sdebitarmi della mia.
—Dio ci secondi, risponde Alberada. E l'abate uscì.
Roberto Guiscardo già lo attendeva. Sotto magnifico padiglione di seta di Persia e tela d'India, tolto all'emiro saracino nella conquista di Sicilia, aveva fatto rizzare un trono coperto di velluto di Venezia colore azzurro riccamente ornato. Su quel trono egli sedeva, vestito del suo manto ducale, robone di colori diversi, lungo fino ai piedi, soppannato di ermellino; in testa il berrettino traversalmente cinto da zona d'oro, senza raggi, ornata di gemme—che era appunto la corona di duca; l'anello al dito; la spada al fianco. Parte dei suoi dodici conti, e dei suoi capitani, rifulgenti d'armi e la testa scoverta, stavano in piedi nella tenda. A fianco al duca, sovra sgabello più basso, sedeva Sigelgaita, cui nessuno distintivo di femmina avrebbe contrassegnata, se non fosse stato dal bel giacco di maglia, intessuto di anelletti di oro e di argento, che là, sul petto, le si arrotondava di graziosa maniera, e dalle chiome inanellate che nudriva più lunghe degli altri—quantunque le donne longobarde vergini usassero portare intere le chiome e le tagliassero maritate. Ai piedi della sedia ducale stava un paggetto di forse dodici anni, nei cui turchini sguardi ben leggevasi quella scaltrezza prudente e vigorosa che in tanta fama lo tornò poi, e tanto alto le levò. Questi era Boemondo, più tardi principe d'Antiochia, figlio di Alberada e di Roberto.
All'avvicinarsi dell'abate, Roberto gli fece grazioso saluto e lo invitò a sedere. Ugone si recò a baciare la mano della duchessa, e s'inchinò prima al duca poi ai baroni che così pomposa corte gli componevano. Indi presentò la lettera del papa. E Roberto la prese dalle mani di lui e la passò al vescovo di Bovino, il quale lesse a voce alta e sonora:
« Gregorio VII, Pontefice massimo, servus servorum Dei, a Roberto Guiscardo duca di Puglia, Calabria e Sicilia salute ed apostolica benedizione, se vorrà meritarsela.
« Sappiate, signore e figliuolo, che abbiamo date nostre lettere credenziali ad Ugone abate di Cluny, il quale ve le presenterà: e lo abbiamo altresì investito di poteri quanti bastano perchè voi possiate con lui trattare sovra tutte le cose che egli esporrà. E con ciò siate sicuro che noi ci obblighiamo a tener per buono e valevole qualsivoglia accordo verrà fatto tra voi, e che ci compiaceremo molto se ai nostri consigli darete fede e compimento. Vi mandiamo intanto la nostra apostolica benedizione, e vi esortiamo a rendervene sempre più degno per l'avvenire ».
Datum Romæ, sub annulo piscatoris, Postridie nonas iunii anni MLXXV.
—Bene sta, ser abate, disse Roberto, vi riconosciamo per legato del pontefice, ed investito di tutte facoltà di trattar con noi. Ma, se Dio vi guarda, messere, noi non sappiamo di che cosa voi venghiate ad interessarci per parte del santo pontefice.
—Sono bene per dirvelo, messer duca, risponde Ugone, dove vogliate usarmi la cortesia di ascoltare.
—Favellate dunque, riprende Roberto, staremo attenti ad udirvi.
—Eccomi, continua l'abbate. L'animo del pontefice è vivamente commosso delle dissenzioni che spingono l'un contro l'altro il principe Gisulfo II vostro cognato e vostra magnificenza.
—Ah! gli è questo giusto il tribolo che molesta il santo padre? Me lo aveva figurato di già. Tirate avanti.
—Questo per lo appunto, messer duca, perchè Gregorio VII, come padre e capo della cristianità, deve acerbamente soffrire che i figliuoli della sua famiglia si accapiglino con sì poca carità e si uccidano senza misericordia.
—Ma il santo pontefice dovrebbe pure sapere.......
—Con la vostra sopportazione, monsignore, egli sa tutto. Sa di quale brutale maniera il principe Gisulfo accogliesse le vostre pratiche di mediazione a pro degli Amalfitani a Montecassino; quale invereconda risposta vi mandasse; come foste provocato alle ostilità senza motivo. Il beato padre sa come voi con blandi modi più volte sollecitaste la pace ed intelaste primo gli accordi onde calmare Gisulfo. Sa come questi accogliesse male le mediazioni di pace dell'abate Desiderio di Montecassino e del principe di Capua; come borioso facesse ingiuria alla vostra persona con parole, e disprezzasse la vostra amicizia. Insomma il pontefice sa tutto.....
—Tutto ciò che voi avreste dovuto restarvi dal dire, l'interrompe superbamente Sigelgaita, ricordando, ser abate, che favellavate avanti di noi—di noi sorella del principe Gisulfo II di Salerno.
—Le domando mercè, madonna, se commisi la sbadataggine di dispiacerle, peritoso risponde l'abate inchinando la duchessa, perocchè la sensazione, giusta le dottrine dell'apostolo Aristotile, è una potenza passiva cangiata dagli oggetti esterni; ed io aveva perduto di vista che ella è sorella del principe. Ma non voglia però, bella duchessa, punirmene col negarsi di afforzare le mie parole di pace tra monsignore suo marito ed il principe; da poichè vado sicuro che entrambi non saprebbero resistere ai voleri della più bella e valorosa dama di cristianità.
La duchessa pianta fitti gli occhi addosso all'abate per comprendere netto il valore di quello scipito complimento, e tace. Roberto risponde:
—Giacchè dunque il santo padre conosce come noi fossimo stati tirati pei capelli a questa guerra, perchè piuttosto a noi si dirige che al principe?
—Si dirige innanzi a voi, messer duca, sapendovi tanto meglio inchinevole agli accomodamenti quanto mal volentieri vi recaste a queste ostilità: ed inoltre, perchè da voi debbonsi cominciare le pratiche con accordare tre giorni o quattro di tregua, a principiare da domani, onde noi potessimo penetrare nella città e dar iniziamento ai negoziati. Infine, perchè voi pel primo dovete dettare a quali condizioni consentite togliere l'assedio dalla città e ristabilire la pace.
—Avete ragione, messer abate. Il papa ha calcolato da accorto uomo mandandovi a noi primamente. Bene sta. Noi dunque accordiamo la tregua dimandata; quantunque tutto avessimo disposto onde tormentare di tale assalto le omai poco solide mura, che non sapremmo se avessero ancora potuto reggere all'aspro travaglio. I patti poi della tolta dell'assedio saranno i seguenti—Monsignor di Bovino, soggiunge Guiscardo volgendosi a costui, datevi la pena di scriverli, perchè sbaglio non cada nè sulla validità di essi, nè sulle nostre intenzioni, che per nulla mai verranno mutate.
Ed il vescovo di Bovino essendosi messo sul punto di scrivere ad un bel tavolo di larice intarsiato di avorio che occupava il mezzo del padiglione, Roberto a voce ferma ed alta dettò:
1. La città di Salerno sarà messa a nostra discrezione unitamente alla sua rocca, senza che i cittadini ne tolgano cosa, e demoliscano pietra.
2. I cittadini consegneranno tutte le loro armi offensive, dal verrettone alla lancia, dal pugnale alla spada, sotto pena di essere condannato alla gleba chiunque alcuna di queste armi nascondesse.
3. Tutte le terre del principato di Salerno con borgate e castella passeranno sotto il dominio normanno, ai cui signori saranno pagati censi e livelli qual si trovano stabiliti dai padroni longobardi, salvo i mutamenti da farci.
4. Il principe Gisulfo II abdicherà in favore di Roberto Guiscardo il principato di Salerno, e, spoglio di ogni divisa, nelle mani di lui si andrà a collocare in piena dedizione, unitamente a tutti gli altri membri di sua famiglia e di sua corte, dei magistrati della città e dell'arcivescovo.
5. Infine....
—Ma, messer duca, lo interrompe Sigelgaita, cosa mai di peggiore potrebbe toccare al fratel mio se la sua sorte commettesse alla fortuna delle armi?
—Cosa potrebbe toccargli? Uditeci bene, madonna, e voi altresì Ugone abate di Cluny; perchè gli è bisognevole che voi sappiate la nostra volontà pienamente. Se la città ed il principe di Salerno si ostinano a tenerci occupati a questo assedio, noi facciamo sacramento che di qui non muoveremo se non quando non ci resterà più una mazza d'armi per percuotere le mura, un pugnale per uccidere i nostri nemici. E quando, col favore di monsignor Gesù Cristo e del santo barone del Gargano—cui facciam voto di offrire due candellieri d'oro del peso di venti libre—quando abbiamo presa la città, questa sarà data prima per otto giorni a saccheggiare ai soldati, poi bruciata tutta, ed il suo suolo arato e seminato di sale. I cittadini verranno lasciati alla taglia ed alla libidine dei soldati in loro piena discrezione di ucciderli o farli schiavi, di tenerli seco o venderli ai corsari di Africa. Il principe Gisulfo infine, e coloro della sua corte e della sua famiglia, a noi arrendendosi, saranno mandati a purgare le loro peccata in qualche chiostro; togliendo noi la città di assalto, verranno tutti sgozzati come animali immondi, ed appesi dai piedi ai residui merli delle mura. Questo è il pensamento che noi facciamo sulla città di Salerno, sui suoi abitanti, e sul suo principe, madonna.
—Della città e dei cittadini farete come vi aggrada, sclama superbamente Sigelgaita: il suo principe poi, messer duca, sa bene come i principi disgraziati debbano morire per non cadere in mano dei loro nemici. Se egli l'obliasse, io provvederei; e voi, monsignore, voi non potreste che insultare il suo cadavere—se io non fossi.
—Tanto meglio per lui e per la sua fama « risponde Roberto trascuratamente. » L'ultimo articolo infine che aggiungerete, monsignor di Bovino, gli è che, innanzi tratto, affinchè non fossero di modo alcuno trafugati o nascosti, vogliamo a noi consegnati gli oggetti di oro e di argento ed ogni maniera di pietre preziose che nella città si trovano, onde compensare gl'interessi degli Amalfitani nostri alleati, pagare delle spese della guerra il principe di Capua ed il priore di Lacedonia, ed i soldati soddisfare. Questa è la volontà assoluta ed irrevocabile di Roberto, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia.
—Monsignore, mormora dimessamente l'abate di Cluny, io non saprei con questi patti quali accordi potessi ottenere.
—Peggio per voi, messere. Non pigliate equivoco però sulle parole, perchè noi non diamo, nè dimandiamo accomodamenti, ma leggi—e leggi quali più umane possono dettare i vincitori ai vinti.
—A questo stremo non è ancor giunto mio fratello, messer duca, ripete disdegnosa Sigelgaita.
—Se non vi è giunto vi giungerà, risponde Roberto pieno di calma. Gli è per questo che vorreste dormire meno placidamente le vostre notti, madonna, e lasciare ad arrugginire la vostra spada nel fodero?
La duchessa tacque, ma i suoi sguardi scintillavano come quelli della tigre.
Rispose l'abate di Cluny:
—Ci siamo intesi, monsignore. Io mi reco nella città e spero condurre le cose a quel termine che debba soddisfare tutti. Solamente prego vostra grandezza di accordarmi di poi un momento di colloquio segreto, di cui forse abbisognerò, per favori di che io, abate di Cluny, debbo particolarmente supplicarvi.
—Il vostro volere si farà.
E sì dicendo il duca si alzava, e il parlamento finiva.
Tebani, ei grida in suon tremendo, Argivi,
Dal reo furor cessate. Armati in campo
Prodighi a nostro pro del sangue vostro
Scendeste voi: fine alla pugna ingiusta
Porrem noi stessi, in faccia vostra, in questo
Campo di morte.
Io non saprei propriamente dire di quale piglio l'iracondo e superbo principe Gisulfo accogliesse le dure proposizioni del duca Roberto. Basti sapere che mancò poco i legati, perocchè Alberada aveva seguìto l'abate, non avessero a patire di quei crudeli sgarbi che il priore di Lacedonia, a barba del dritto delle genti, usava fare ad oratori impertinenti e malaccetti. Fu loro salvaguardia la lettera che papa Gregorio a Gisulfo mandava, onde comandargli che ad accordi qualsiansi discendesse; da poichè egli dava sua parola che tutto avrebbe regolato in seguito con equità e prudenza, se allora gli era forza piegare alle circostanze. E se Gisulfo non trascese, e' fu altresì perchè egli aveva spiccati oratori al pontefice a fin d'indurlo a intramezzarsi con Roberto per la pace o a soccorrerlo di modo qualunque. Acerbamente non per tanto rispose, ed ogni proposta rigettò come infame. Ugone non si scorò ai primi urti che terribili anch'egli aveva preveduti da un carattere focoso e fiero. Cominciò quindi per dargli ragione, per piaggiarlo; finì con ridurlo ad una considerazione chiara sullo stato della città, spoverita di viveri e di coraggio, e su quello dei suoi soldati, mancanti d'armi e pochi di numero. E Gisulfo convenia sopra tutto. Però quando gli accennava di rendersi, e' si ribellava ad ogni ragione, ogni patto, anche modesto ed onorevole, rifiutava. In guisa che l'abate disgustato stava quasi per desistere dall'impresa, allorchè un mezzo gli sovvenne, decoroso e non fabbro di ruine.
—E non vorreste voi dunque, monsignore, disse l'abate, non condiscendereste voi che questa lite si decidesse per giudizio di Dio?
—Vale a dire? dimanda Gisulfo.
—Vale a dire che, in lizza chiusa, uno o più campioni longobardi contro uno o più campioni normanni definissero la bisogna. Se i Normanni avessero la fortuna di vincere, la città sarebbe loro consegnata, senza più armeggiare, nella maniera stessa che se l'avessero levata di assalto: se vincessero i Longobardi, come io ho fiducia nella misericordia dei santi, l'assedio sarebbe tolto e tutto restituito alla calma prima che tra la grandezza vostra ed il duca Roberto esisteva. E con tal fatto gran numero di vite sarebbe risparmiato, la città non manomessa, e forse tutto alla meglio aggiustato.
—Il consiglio è più da cristiano che da guerriero. Mi piace però, sebbene nessun riguardo dovrei usare a cittadini vigliacchi, i quali le loro sostanze e le loro vite non sanno tutelare. Pure non sono alieno dall'assentirvi. Cosa dunque ne pensate voi miei baroni?
Ed un giovane, uscendo dal gruppo dei cortigiani e capitani di Gisulfo, parlò:
—Monsignore, con la permissione vostra e dei bravi signori che mi ascoltano, io porto avviso che e' sarebbe meglio domandar prima come di tal proposta intenda Roberto Guiscardo.
—Bene detto, principe Baccelardo, risponde Gisulfo. Ritornate dunque al campo del Guiscardo, messer abate, e se mai consente che la guerra termini per un duello, mandi qui qualche suo cavaliere a distendere protocollo dei patti. Il qual cavaliere sarà da lui approvigionato di poteri pieni per tutto regolare senza ulteriormente consultarlo.
—Parto al momento, monsignore, risponde l'abate.
Infatti, lasciata Alberada nella corte di Gisulfo, al campo ritorna immediatamente.
Roberto Guiscardo stette in sulle prime dubbioso alla proposta. Non perchè fiducia di vittoria non avesse, come che gli fosse noto bella copia di valorosi guerrieri trovarsi pure tra i Longobardi; ma perchè egli serrava in pugno la vittoria in massa con una città quasi alla vigilia della resa. Per una tenzone in campo steccato invece egli poteva andar soggetto a cento di quelle fortune avverse, le quali solevano capitare anche ai più prodi, sia per un piede messo in fallo dal cavallo, sia per un colpo d'occhio non pronto, sia per una considerazione importuna che si ficca nella mente, giusto all'ora di maggiore confidenza, energia ed oblianza del mondo esterno, sia in fine per effetto di qualche talismano sulla persona o sul corridore del cavaliere, distrutto dalla benedizione del sacerdote, non tolto dal giuramento del campione. Ma infine, perchè rifiutare il duello e' sarebbe valso la confessione che nel suo campo non pugnavano cavalieri da stare propriamente a fronte ai cavalieri longobardi, Roberto accettò—nel suo pensiero risoluto di battersi egli in persona, come colui che della cosa più vivamente interessava. Chiamò perciò a consiglio i suoi conti ed i suoi baroni, i quali unitamente a lui avevano dritto a deliberare sulle cose della nazione, si fe' venire il priore Guiberto, e dopo aver seco lui lungamente favellato in segreto, lo fornì per iscritto di piena potenza nelle convenzioni pel duello, ed al principe lo mandò unitamente all'abate.
Lunga, viva, tumultuosa divampò la discussione che tra il principe Gisulfo, que' della sua corte, ed il priore Guiberto si aprì. Non vi era via di convenire del luogo dove il combattimento si sarebbe tenuto, perchè ciascuna delle parti lo voleva in terra dipendente della sua giurisdizione per tema di tradimento; non si volevano accettare patti gravosi da niuno dei due partiti, in caso di perdita; non si sapeva decidere nè del numero dei campioni che avrebbero combattuto, perchè molte sfide antecedenti erano pronte e precedute; nè del numero di coloro che li avrebbero accompagnati alla lizza per la sicurezza ed il mantenimento dell'ordine. Uno cercava trappolar l'altro lasciando o chiedendo patti per sottrarsi alla promessa, soccombendo. Ciascuno intendeva regolare a suo modo le condizioni della pugna, e voleva giudici e marescialli di campo il di cui favore si sapeva d'innanzi. In somma avrebbero ambedue bramato dar la legge a proprio talento.
E l'abate, distribuendo torti e ragioni ora all'uno ora all'altro, sceglieva un equo mezzo in ogni articolo, alla cui ragionevolezza dovevano infine entrambi star sodi. E per tal modo si venne a fine di compilare lungo protocollo, di cui facciamo grazia alle nostre leggitrici, segnato da Gisulfo e da Guiberto come commissario di Guiscardo, e da ambo i legati del papa. Ma come i patti che tutte le possibilità prevedevano—ed in quei tempi di buona fede e mica cavillosi e casisti come i moderni era facile—come i patti furono stabiliti, messo da banda il priore, altra discussione tra i guerrieri di Gisulfo cominciò.
Il campione doveva essere uno solo. Chi sarebbe stato costui?
Il principe Gisulfo, come il lione che si arrogava tutte le parti, voleva essere egli stesso, perchè lo più interessato. Il fratello di lui, Rainulfo, per affetto glielo contrastava, dichiarando, male stare che allo Stato si togliesse il capo, avventurandolo a tanto periglio, ma che, meglio a lui si addiceva, inspirato da eguale passione, doveroso di battersi con pari vigore. Baccelardo protestava altamente che giammai, per qualsiasi mezzo, avrebbe sopportato in pace che altri gli avesse messo avanti il piede, dove trattavasi di torre vendetta di Guiscardo e dei seguaci di lui; ch'egli avrebbe suscitati tumulti, si sarebbe scagliato nel campo da forsennato, insomma che, ad ogni modo, o avrebbe combattuto egli stesso ovvero il duello, per quanto era in lui, non sarebbe avvenuto. Altri baroni adducevano altre considerazioni e pretese onde ottenere la preferenza. In una parola, nella corte facevasi matto baccano, e poco mancava non si venisse ai pugnali.
Allora l'abate, che aveva assunta la parte di Nestore in quel consiglio di furibondi, sentenziò
—Principe, baroni, trovo buone le ragioni di ciascuno, lodo la generosa indole di tutti, che vorreste cogliere tanta nobile occasione per far mostra di valore e di carità di patria. Ma non è questo il lato della quistione che debbasi esaminare. Di che si tratta qui, miei signori? Si tratta di vincere il campione nemico per liberarvi della guerra. Si tratta di vincere il più prode tra i prodi Normanni, che al più prode dei prodi Longobardi verrà opposto. Ora, se Iddio vi aiuta, io dimando, castellani, come è dunque che la prodezza si mostra? Con le parole ardite, mai no: perchè di parole temerarie abbondano anche meglio i più vigliacchi. Coi fatti dunque si debbe provare la valentia, ed ai fatti io vi appello.
—Ed in che modo? dimanda Gisulfo che stava attento ed impaziente ad udire.
—In che modo? continua l'abate, eccolo. Quanti siete che volete essere i Curiazii di Salerno? Poniamo dieci. Ebbene questi dieci si disputino fra loro chi debbe affrontare il nemico.
—Ci uccideremo tutti, rispose sorridendo Baccelardo.
—Con vostra licenza, bel cavaliere, mai no. Io non consiglio che con le armi ciascun di voi faccia prova di sua gagliardia, ma per altro mezzo qualunque, e tale che e' crederà più acconcio, e che noi giudicheremo assai valido. C'intendiamo?
—Sì bene, messere abate, sclamò Baccelardo. Voi però non potete sapere che non sempre la forza decide della prodezza di un guerriero, ma più sovente ancora la destrezza. Ed infine, gli è con le armi che noi dobbiamo batterci, non coi sorgozzoni o col randello, come pare che la sapienza vostra voglia accennare.
—Voi parlate da scaltro mastro di guerra, bel cavaliere, soggiunge l'abate. Io però di lunga sperienza so pure, ed ho inteso dire dalle migliori lance d'Europa per le corti che ho frequentate, che giammai forte ed accorto cavaliere cedette campo a cavaliere più destro e più debole. E codesta fortezza e prudenza io vorrei che si mettesse a bilancia in una lizza.
L'abate aveva forse torto; però il suo consiglio prevalse e si propose pel domani tal pruova singolare.
Il priore di Lacedonia, avvegnachè la sua missione fosse compiuta, non tornò al campo: sia perchè fosse vago di assistere a quel saggio di vigoria—ed al principe Gisulfo non dispiaceva che sì forte ed inteso guerriero dell'oste contraria vedesse un po' quali uomini essi avessero ad affrontare, e se non giungesse fino a paventarli li ammirasse—sia perchè sotto il cappuccio di uno dei legati a Guiberto era sembrato di scorgere alcuni tratti che ad Alberada somigliavano. Restò quindi, proponendosi recar domani a Guiscardo, in una col protocollo dei patti, il nome del campione.
Atal. Ah! je suis de son sort moins instruite que vous
Cette esclave le sait.
Acomat. Crains mon juste courroux,
Malheureuse; réponds.
Nel punto stesso furono ordinati i preparativi della lizza: e perchè i patti della tregua erano stati soscritti, molti famigliari uscirono dalla città per provvedere di oggetti opportuni comandati dai loro padroni. La quale tregua giovò altresì a Gisulfo onde far provigioni per degnamente ospitare i legati del pontefice, cosa che non si sarebbe per fermo potuto fare, se la cinta dei soldati normanni durava. Perocchè lo stremo dei viveri nella città toccava il colmo, e medesimamente la moria dei cittadini. E Gisulfo avrebbe tolto invece cedere la piazza che malamente accogliere gli ospiti suoi, segnatamente poi che e' conoscevasi da tutti quanto l'abate di Cluny fosse amico delle brigate gioiose e morbinoso in fatto di desinari.
Si trascorse dunque lietamente la sera, fra i vini di Diamante e di Sant'Eufemia e fra gli ambrati moscadi di Trani, che allora, com'oggi, formavano la delizia dei bevoni. La profusione più pazza si osservò nella cena. Perocchè con la profusione facevano spanto di loro grandezza i Longobardi, dove che i Normanni si piacevano più della delicatezza squisita delle vivande, come più sobri e da un tempo meglio ingentiliti. Non mancarono bardi e buffoni che rallegrassero la mensa di canzoni e di motti ora spiritosi ora pungenti, e sempre a spese dei convivali, i quali pe' primi ridevano delle facezie. Vi furono suonatori di viole, e ciccantoni che occupavano il basso della sala, ed ora tutti insieme ora a parte a parte si facevano udire, rispondendo eco tumultuosa alle coppe percosse.
I favellari intanto, che placidi e ragionevoli dalla guerra erano partiti, senza verun riguardo alle dame principiavano a mutarsi in ingiurie alle persone ed in petulanze a causa del lavorio del vino. Caddero sul tappeto le discussioni di politica. Perocchè la politica fu sempre la broda a cui ciascuno si credette in dovere d'intingere il proprio biscotto, ed in tutti i tempi il leone morente a cui anche l'asino può scagliare il suo calcio. Si venne dunque a ragionare dei torti di Roberto Guiscardo; delle sue brighe col papa; della condotta di Gregorio VII; delle pertinaci ostilità di costui col priore di Lacedonia; del placito di Montecassino; della sparizione di Alberada; del ripudio di costei, e di cento altre di quelle cose che, sgominate, inutili, inopportune, scipite, zampillano alle mense, quando i liquori slegano lo scilinguagnolo tanto al sapiente che allo stupido.
—Ed io sostengo, disse l'arcivescovo di Salerno, che il pontefice ha fatto sgozzare Alberada in qualche fondo di chiostro, giusta la condanna dei canoni, come colei che violò le leggi claustrali.
—Ma in quali canoni, monsignor riverito, dimanda il priore, ha vostra mercede letto di codesta crudele condanna?
—Per il carro di s. Eliseo! voi dunque, ser priore, non avete mai studiato nella Georgica di Virgilio:
Dulce ridentem Lalagen amabo,
Dulce loquentem?
Alberada è stata strozzata come il cappone del vassallo a San Martino.
—A proposito, messer abate, chiede Baccelardo ad Ugone di Cluny, non sarebbero esse vere le parole di monsignore arcivescovo?
Ugone, che con gli occhi fitti nella sua coppa, quasi dal fondo di quella dovesse vedere a pullulare da un istante all'altro qualche cosa, si aveva fatto più volte passar d'innanzi il fiaschetto senza toccarlo, alcun poco scosso da Baccelardo, che da un lato gli sedeva da presso, risponde come se si risvegliasse subitamente dal sonno:
—Gli è veramente così, miei figliuoli: la materia è ciò che non è nè chi, nè quanto, nè come, nè niente di ciò per cui l'essere è mosso. Non vi sembra chiara l'idea? Non ne siete voi finalmente padroni?
—Codesta è una balorderia, riprende gridando l'arcivescovo, brillo piuttosto, se per rispetto alla sua dignità non vogliam dirlo briaco. La materia è la materia, come Roberto Guiscardo è un corsaro, e sua moglie Sigelgaita una pazza. Figuratevi un tanghero, come codesto buon figliuolo di legato che vi siede a fianco, matto abate di Cluny, e che becca i cibi come un passero, non beve vino come quel povero papero di Gregorio VII, e non parla, come il pievano di Santa Severina a cui una meretrice tagliò la lingua coi denti; ecco la materia; per la quale:
Motus doceri, gaudet ionicos
Matura virgo, et fingitur artubus
Iam nunc, et incestos amores
De tenero meditatur ungui.
Quod erat demonstrandum.
—Voi avete mentito come un Lombardo che vende uno smeriglio degli Appennini per un falcone d'Arabia puro sangue, grida Gisulfo, voi mentite, messer arcivescovo di Salerno, chiamando pazza mia sorella, e, se non foste poeta, vi direi improbo o scempio.
—Ed io vi rispondo, messer Gisulfo, sclama l'arcivescovo alzandosi, che voi foste dieci volte più matto di lei quando la sposaste a Roberto Guiscardo, che aveva già in moglie altra bellissima donna, e che amava monna Sigelgaita come io amo l'acqua nel vino—e fosse pur l'acqua benedetta nel sabato santo.
—Ed io torno a dirvi, becco di un prete, ruggisce il principe vinulento anch'esso ed alzandosi del pari, che voi mentite come un giudeo, perocchè Roberto Guiscardo sposò mia sorella, quando, trovandosi parente di Alberada, l'aveva già ripudiata.
—La ripudiò per gelosia,—scappa di bocca all'abate di Cluny, quasi non volendo.
Queste sbadate parole furono come il lupo negli armenti, la scintilla nella polveriera. Mille voci si levano, un buon numero di commensali si alzano rovesciando fiaschetti, doppieri, fiale e bicchieri e da tutti i punti si grida: No, no!
—Mai no, mai no, grida il principe con più veemenza degli altri, Roberto ripudiò Alberada perchè le era parente, perchè tra i parenti è peccato il matrimonio, perchè... perchè...
—Per gelosia, replica con fermezza il priore di Lacedonia intervenendo a sua volta nel colloquio, per gelosia puerile ed infame; dappoichè quella donna tanto oltraggio non meritava. E la colpa è vostra, della vostra storditezza, fantastico abate di Cluny.
E così parlando, gli occhi fissava sopra Alberada, che, tutta celata nel cappuccio a gote, si rannicchiava per tema di non essere scoperta da Gisulfo, capace di trascorrere a qualche violenza, ubbriaco come trovavasi. Costui però non ristava dallo strepitare:
—Non è vero, non è mica vero; io non so nulla di codeste storie. Voi pure mentite, priore di Lacedonia, al pari di quest'arcivescovo cotto come monna. Vi sfido a dimostrarmi che Alberada fu ripudiata per gelosia, ovvero a darmi ragione dell'insulto, qui, sul momento, con la spada o con la lancia, a piedi o a cavallo.
—Io non temo darvi qualunque ragione, risponde Guiberto, anch'esso caldo alcun poco, potrei provarvi con la daga e col pugnale che ho detto la verità, che io non soglio mentir mai parlando di quella pura donna che mi fu moglie, e che l'infame Ildebrando mi tolse. Ed è ben mestieri che sappiate, messer principe, che giammai la sorella vostra sarebbe andata a sposa di Guiscardo, se questo smemorato di abate non cacciava da' ferravecchi non so quale storia, che giammai avrebbe dovuta contare, poichè dessa riassumeva la confessione di due uomini; e che, dopo udita quella fatale leggenda, Roberto saltò in bestia, ricordandosi come Alberada ritrosa lo avesse seguito all'altare.
—Che ritrosia mi contate, continua a sbraitare Gisulfo, cos'è codesta ritrosia, cos'era codesta ritrosia; dite tutto, parlate chiaro, qui si tratta dell'onore di mia sorella.
—Quella ritrosia, riprende il priore, non era se non pudore e carità del padre, cui doveva lasciare a morir deserto e solitario nel castello di Cariati. Or quella verecondia interpretando di poco amore, o amore per altrui, Roberto, la notte stessa, vi mandò per il vescovo di Bovino a domandare la mano di vostra sorella, ed all'alba egli pure mosse alla volta di qui. Voi sapete poi come, di tutto ignara la povera fanciulla, chè diciotto anni solamente contava allora Alberada, credendo festeggiare gli ospiti di suo marito, molte cortesie praticasse a voi ed alla sorella vostra, messer principe, e come servendosi alla mensa il pavone, il duca Roberto si alzasse e dicesse: Conti e baroni, vi presento la mia novella moglie Sigelgaita sorella di monsignor Gisulfo di Salerno, perocchè ho già ripudiata la prima moglie Alberada, come quella che fu figliuola di una nipote di mio padre.
—Ebbene, ebbene, che cosa vuol dire codesto? gridava Gisulfo, non vuol dire forse che era parente? Chi l'oppugna? Chi sostiene che Guiscardo fece male? Chi accusa di ciò la sorella mia e me?
—Alcuno, riprende il priore, si biasima il modo. Alberada era presente. Alberada in contegno tranquillo e rassegnata bacia il suo figliuolo Boemondo sulla fronte ed esce. E voi, messer Baccelardo, che allora eravate paggio di quella dama e a lei più che mai caro e gradito, voi giuraste, e gittaste sulla tavola, proprio innanzi al duca Guiscardo, il vostro guanticino di velluto come pegno da sostenere il dì che avreste cinto il cingolo della milizia, che Alberada era la più bella donna, e la più ingiuriata dama di cristianità. La duchessa Sigelgaita sorridendo raccolse quel guanto, ed attaccatogli un nastro dei suoi capelli, ne fe' dono a Roberto. Ora sappiatelo, messer cavaliere, che Roberto ancora lo porta appeso alla guaina della sua spada, aspettando che da Baccelardo adulto venga riscattato il pegno di Baccelardo fanciullo.
—Ed io giuro a tutti i santi del paradiso, dice Baccelardo, che il pegno sarà ridomandato, sia che la fortuna mi secondi domani ed io sorga campione di Salerno, sia altra volta, prima che scorrano sei mesi a contare da oggi.
—Io non so di che parliate, io non so di quali insulsi racconti accenniate, ser priore, riprende il principe Gisulfo; io comprendo solamente che qui si calunnia l'onore della sorella mia, sposata dal Guiscardo per impeto di gelosia, come dite, non per elezione di amore. Andiamo, in nome della SS. Trinità e di tutti i santi, io voglio esser chiaro di tutto; io voglio udire codesta istoria. Poichè se vero è, come è verissimo che voi mentite, io giuro di toglierne tale vendetta da passare in esempio per l'avvenire ed insegnare di qual maniera fa mestieri parlare di una nobile dama longobarda. Sbrighiamoci. Chi è dunque che deve cantarci codesta filastrocca? Non sareste voi per avventura, messer abate—messer abate di Cluny?
—Io per l'appunto, monsignore. Ma pregherei vostro valore di farmene grazia, da poichè sento venirmi male; o almeno posporla fino a domani. Perocchè tre sono le condizioni della forma, o, per farvi comprender netta la dottrina dell'apostolo Aristotile, materia e forma sono principio delle cose increate; la materia contiene la possibilità di ciò che può ridursi una cosa; la forma porta la cosa possibile all'attualità ed all'energia. Ond'è...
—Per la croce di Cristo! scatta su di nuovo Gisulfo, cosa diavolo mi state sciorinando di forma e materia, e di sentirvi male e di attendere?... Steste voi pure sulle brace come s. Lorenzo, favellerete—favellerete sull'istante, e direte la storia per filo e per segno, tal quale la contaste a Melfi. Io rispetto gli uomini della Chiesa e gli oratori del papa. Però non avrei ritegno farvi appendere ai merli della rocca come un nibbio, e farvi frecciare per tre dì, se ricusaste darmi pieno ed ampio conto delle impertinenze che costoro si sono permesse a spese della famiglia mia, e che altri hanno udite—A voi, soggiunge poscia Gisulfo voltandosi verso i coppieri, recate un'anfora di vino all'abate, onde si rinfreschi la memoria; e badate bene, Ugone di Cluny, che io bevo una brocca d'acqua per dissipare ogni tenebra che alla mente avesse potuto portarmi il vino, onde non v'immaginiate di uccellarmi. E me e questi signori dovete convincere, che tanto voi come il priore di Lacedonia diceste il vero, quando dichiaraste Alberada ripudiata per gelosia.
L'abate di Cluny, che già viaggiava per le regioni del peripato, al baccano dei commensali, alle gomitate di Baccelardo, il quale sovente gli volgeva la parola sedendogli allato, alle minacce dell'ebro principe, in quello stato di tutto capace, torna pienamente in sè. Si frega la fronte con l'acqua fredda, si passa la mano sugli occhi, e levasi un momento da sedere per disperdere affatto ogni nube dal suo cervello, poi il principe Gisulfo prega:
—Monsignore, io farò il vostro piacere raccontandovi per minuto i fatti: vi bastino questi. Ma dispensatemi svelarvi i nomi delle persone. Ciò si attacca alla mia coscienza; ed io toglierei meglio sperimentare ogni vostra minaccia anzi che palesarvi gl'individui i quali mi facevano tal loro confessione, maggiormente poi che costoro son uomini che vivono ancora, e da Dio collocati a posti sublimi.
—Sia pure così: raccontate.
L'abate si asside e comincia.
Elle a voulu sa perte, elle a sû m'y forcer;
Que l'on me venge. Allons, il n'y faut plus penser.
Helas! j'aurais voulu vivre et mourir pour elle;
A quoi m'as-tu réduit, epouse criminelle?
—Dovete dunque sapere, mie belle dame, che in una piccola terra di Toscana, non ha molti anni, viveva un falegname, povero ma distinto per pensieri onesti. Dio aveva confortato il suo letto maritale di due figliuoli. Il maggiore, chiamato Cuno, aveva indole, figuratevi! tenebrosa e selvaggia come toro non domesticato, carattere altero, indomito, e sopra ogni credere ostinato e tenace nel suo proponimento. L'altro poi, Goccelino, di otto anni più giovane di Cuno, era un folletto, vispo, franco, sempre vago di piaceri e di armi, generoso e liberale come poteva. Perciocchè il corpo, giusta le dottrine del santo padre Aristotile, prende la qualità dall'elemento che prepondera e sovrabbonda; ed in Goccelino sovrabbondava il fuoco che è misto a tutti i sentimenti o a nessuno.
—Volete voi sì o no lasciar da banda codesto Aristotile, cui nessuno conosce fra i principi longobardi o normanni? l'interrompe Gisulfo.
—Egli era greco, esclama semplicemente l'abate. Or bene, questa opposizione di carattere dei due figliuoli non è a dirsi se contristasse il Bonizone, il quale, uno almeno dei fanciulli, destinava per l'arte sua. Ma il primo pensava solo da mane a sera a far sgorbi sulla segatura, quasi volesse scrivere. Ed in fatti si assicura che un tabellione, entrato nella bottega del falegname per ordinare non so qual lavoro, avesse letto in uno di quei trastulli le parole di Davide: dominerà da mare a mare. E sì che il taciturno putto nulla ancora conosceva di scrittura! Ovvero quel tristanzuolo andava in traccia di vecchie pergamene, di vecchi scartabelli, e nascosto in un angolo della casa simulava leggere, restando giorni interi in tal atto, dimentico di cibo e di bevanda. E quando non trovava di questi balocchi, metteva ogni suo sforzo ad arrampicarsi sui punti più culminanti della casa, oppure sollevava i più grossi ceppi da terra, addestrandosi così a superare tutte le resistenze, e livellarsi a tutte le altezze ond'isfidare la vertigine.
—Ma che domine ci entra codesto con Alberada, la gelosia, Sigelgaita, il diavolo e le sua corna? dimanda Gisulfo impaziente.
—Prego la vostra cortesia di udirmi, continua l'abate.
L'altro figlio di Bonizone al contrario teneva sempre dietro a picchieri, a falconieri, fabbricava labarde di legno, arrolava garzoncelli e comandava l'assalto di baluardi di neve, impazziva dietro a canterini, alani e girofalchi, sì che il povero padre non mai sapeva ridurlo a casa, neppure con le batoste, di cui col monello non mostravasi avaro.
—Gli era forza, sclama Guiberto, perchè questo fanciullo era nato ed aveva vissuto, nei suoi primissimi anni, in casa dei signori di Coreggi di Parma, dove sua madre era donna di governo, e dove la vecchia castellana lo tenne quasi figlio tra i militi e la corte del castello.
—Può esser anche ciò che gli avesse formato il carattere, risponde l'abate: ad ogni modo, Bonizone di là lo ritrasse per fare un falegname come lui. Ma non gli riescì. Allora, vedendo che la sua prole non voleva saperne del suo mestiere, per non farla crescere nell'ozio e quindi nel mal costume, mandò il maggiore ad un suo cognato, abate nel monistero della Beata Vergine del monte Aventino di Roma, perchè lo iniziasse nella carriera monacale, affidò il secondo a suo fratello, il quale occupava la carica di siniscalco presso uno dei più grandi feudatari del paese d'Italia.
—Alla buon'ora! sclama Baccelardo.
—Dio sa ciò che fa, replica l'abate continuando. Bonizone restò dunque deserto nella povera sua casa, perocchè gli era morta la consorte nel mettere a luce Goccelino, là in Parma. Lo confortavano solo le liete novelle che riceveva da suo cognato. Cuno infatti con prontezza d'ingegno ed avidità di apprendere senza limite progrediva nelle lettere, e compiva i doveri religiosi di tale austera perseveranza che lo facevano addimandare il piccolo santo. Però il buono abate non visse lungamente.
—Mori d'indigestione, grida l'arcivescovo, io lo conoscevo; e fu desso che mi apprese l'arte dei menestrieri.
—Così dissero gli empi, risponde l'abate peritoso: il vero è che morì di gocciola. Ora, siccome Cuno, tra pel favore dello zio, tra per natural talento usava di orgogliosi modi verso tutti i monaci, niuno rispettando, anzi qualcosa garrendoli della troppa lassezza nei doveri religiosi, e si mostrava duro in tutte le opere che con la sua volontà contrastavano; così i frati, all'elezione del novello abate, nemico di suo zio e di lui, a pieni voti lo cacciarono via dal monistero.
—Birboni di frati! sclama l'arcivescovo di Salerno. Se fosse stato un donnaiolo lo avrebbero nominato priore. Erano ben dessi, va!
—Figuratevi, belle dame, se Cuno piangesse, continua l'abate, nel mettere piede fuori la soglia claustrale. Egli a vero dire non piangeva già di dolore e di vergogna. Piangeva per offeso amore di sè, per dispetto, e forse un tantino ancora per qualche visioncella ambiziosa svanita. Pur nullamanco decise lasciarsi morire di fame. Ma Iddio non abbandona i figli suoi, poichè provvede gli uccelli di piume, gli agnelli di lana, come dice Salomone...
—E l'ubriaco di sete, soggiunge Baccelardo.
L'abate sorride e prosegue:
—Dovete dunque sapere che era stato grande amico di suo zio, un uomo piacevolone, quell'arciprete Giovanni Graziano, che fu poi papa Gregorio VI. Aveva costui veduto parecchie fiate il giovane Cuno, e dallo zio ne aveva udito mirabilia, riguardo all'ingegno ed alla pietà. Gli si era perciò venuto affezionando. Usciva dunque un giorno l'arciprete della chiesa di San Paolo, allorchè gli parve di scorgere alcuno che cercava evitarlo, e questi somigliare a Cuno. L'arciprete, curioso, accelera il passo e raggiunge il giovane, il quale rosso nel volto come bragia a lui si nascondeva. Cuno racconta tutto ingenuamente. L'arciprete, che l'aveva pigliato per l'orecchia, l'ascolta, lo crede, e perchè pizzicava anch'esso un po' dello stesso umore sel mena a casa. Indi scrive a Bonizone che non pensasse più a suo figlio, perocchè egli avrebbe tolta cura dell'ulteriore educazione di lui, e che avesse pregato per entrambi.
—To'! questa sì che è sublime! sclama l'arcivescovo di Salerno, incaricarsi dell'educazione di un giovane quel Gregorio VI, che fu il più grosso barattiero del suo tempo, ed a cui per la smisurata ignoranza il popolo romano ebbe ad assegnare un collega nell'esercizio del ponteficato! Oh! spectatum admissi risum teneatis amici?
—Voi favellate da sapiente, monsignore arcivescovo, risponde l'abate, ma Bonizone pregò tutti i giorni per l'arciprete, e non pensò più a suo figlio. L'arciprete poi comprò il papato da Benedetto IX e si dimandò Gregorio VI.
—Sì signore, l'interrompe ancora l'arcivescovo. Io ero a Roma allora. E fu nel tempo in cui Enrico III scese in Italia e venne a Roma, dove, come sapete, regnavano allora contemporaneamente tre pontefici: Gregorio VI a Santa Maria Maggiore, Silvestro III a San Pietro a Vaticano, Benedetto IX a San Giovanni a Laterano.
—Appunto così, continua l'abate. Or bene, Enrico accolse a Sutri un concilio, dove il solo Gregorio comparve, e ne creò un quarto papa, Clemente II. L'arciprete non si ostinò a restare nel ponteficato. Depose la tiara incautamente compra, e venuto in molta grazia dell'imperatore, unitamente al suo protetto lo accompagnò in Germania.
—Per divenirvi, sclama il priore, un bravo condottiere di lanzi, il più prode fra tutti a menar le mani con la grazia di Dio, a vuotare fiaschetti di Borgogna, e rimorchiare fanciulle.
—Dio l'avrà perdonato, mormora l'abate continuando. Cuno dunque si divise dal glorioso arciprete, entrò in un chiostro dove compì la sua istruzione, profferì il voto, e fu innalzato a priore.
» Ora lasciamo costui ad indurirsi peggio nelle rigidezze del convento e ad alimentare ambizioni nel silenzio, e torniamo a Goccelino nel castello... permettete che ve ne taccia il nome.
—Messer no, risponde Gisulfo, vi ho permesso tacer delle persone non dei luoghi; dite dunque in qual castello avevano allogato Goccelino; perchè noi già cominciamo a pescare di chi diavolo voi raccontate.
—Non fareste poi un miracolo! sclama l'abate qualcosa brusco. Indi più rassegnato soggiunge: Sia fatto il vostro piacimento, tanto più che ciò nè pon nè leva alla fama di chicchesia. Goccelino quindi veniva educato nella fortezza di Canossa in Toscana. Lo zio di lui era di quegli uomini bisbetici che credono un nipote essere una tignuola che Iddio manda per rosicchiare le costole del vecchio albero. Lo accolse perciò agriccio un cotal poco. Ma quando, guardatolo più da vicino, scorse un giovanetto che aveva vantaggiosa figura, occhio vivace, ardita risolutezza nell'espressione tutta del sembiante, lo azzeccò dalle orecchie, e levatolo fino all'altezza del suo capo, che non era poco! lo baciò in fronte e gli disse:
—Quel bestione di mio fratello non saprà fare nè porte nè casse, ma, se l'è tutta opera della sua persona, per la luce di Dio! che sa fare figliuoli bellocci.
Indi guardò in fronte il cattivello e con un tal qual piglio che non voleva significare durezza ma nemmanco benevolenza, soggiunse:
—Piccolo mariuolo! in questo castello sei entrato coi piedi dalla porta, pensa a non uscirne del capo per qualche abbaino. Qui son tutti santi. Qui si parla più con gli occhi che con la bocca. Qui gli uomini non valgono un baccello di fava. Qui si nomina in vano il nome di Dio, almeno dugento volte al giorno, il vino si beve con l'acqua, alle donne si parla al buio. Se sarai santo in casa, come un apostolo, e diavolo al campo, come un gendarme tedesco, ti prometto io che di codesto tuo legno saprò cavarne alcuna cosa. Ma se ti dai troppo attorno a frascherie di donne ed a bazzecole mondane, come per esempio, la caccia, il suono, il canto, e che so io, prega il tuo santo protettore—e qui non mancheranno d'assegnartene uno—pregalo di provvederti di buone gambe per varcare di un salto i quattro ricinti del castello, perocchè te li farò saltar io dall'alto di qualche merlo. Per omnia secula seculorum.
» Il giovanetto, che intrepido e con gli occhi spalancati lo aveva ascoltato, risponde tosto:
—Amen ».
» Il vecchio siniscalco sorrise, e dicendo fra sè:
—Questo galuppo la sa lunga, la sa »! andò via.
» Ricevuto di così strana guisa, Goccelino non si sconfortò, che anzi traendo partito dall'originale omelia dello zio, quantunque garzoncello, s'infinse e si adattò per modo a quella corte bigotta, che in pochissimo divenne il beniamino di tutti e paggio della contessa Beatrice. Il vecchio siniscalco strabiliava come egli, con settant'anni di fedeltà, non godesse di altrettanto favore, e ripeteva:
—Quello scimiotto di ragazzo infinocchierà tutti, infinocchierà!
Il ragazzo però crebbe adolescente, l'adolescente si fe' giovane, ed il paggio passò a scudiero. Un matto cappellano, che fabbricava versi come il cuciniere i pasticci a torre, si aveva tolta la pena di ficcargli nel cranio alcun buon migliaio di frasi latine, e gl'insegnava la gramatica, la teologia, la geometria. Non gl'insegnò filosofia perchè quello spropositato animale di mastro Donizone credeva Aristotile eretico. Vedete la bestial creatura! Nonpertanto lo addestrava in cento corbellerie di dialettica; nel tempo stesso che il marchese Goffredo se lo recava appresso saltando fossi a cavallo, fracassando crani della mazza ferrata, e forando corazze con la lancia. Goccelino sembrava un demonio nell'un mestiero e nell'altro—sebbene, a dir vero, meglio in quello del soldato che in quello del teologo.
—Diavolo, diavolo, sclama l'arcivescovo, ci sono anch'io. Ora so di chi si favella.
—Tanto peggio per voi, dice l'abate, e continua, stringendosi nelle spalle:
» In questi tempi capitò per quel paese l'imperatore Enrico III. Il marchese gli andò incontro per festeggiarlo, e menarselo al castello. Lo accompagnò Goccelino come scudiero. Vorreste voi, ser priore, raccontar questa parte della mia storia che anche voi conoscete, onde lasciarmi riposare? chiede l'abate indirizzandosi a Guiberto.
—No, sclama secco secco costui. E l'abate sospirando continua:
—Una sera l'imperadore ed il marchese Goffredo cavalcavano forte per arrivare a Parma. Il tempo era nebbioso, tutto il giorno aveva piovuto, e cadeva ancora un'acqueruggiola come vapore. Il Taro che dovevano passare gonfiava, talchè aveva menato via anche il ponticciuolo di assicelle che i borghesi vi avevano costruito pel comodo traffico della campagna. Il marchese disse all'imperatore:
—Sire, corre adagio tra i borghigiani, che non agisce da uomo prudente chi affronta il Taro in furore. Consiglio perciò vostr'altezza di arrestarsi alcun poco qui, fino a che la corrente non si abbassi.
—Il proverbio dice, l'interrompe il priore Guiberto,
Che l'estrema unzione innanzi prenda
Chi il Taro nel furor di guadar tenta.
—Torna lo stesso, risponde l'abate. L'imperatore all'osservazione del marchese fece una smorfiuzza di sprezzo, e per tutta risposta sprona forte il ricalcitrante cavallo, ed entra nel letto del torrente. Ma non vi ebbe appena messo il piede che puff! cavaliere e cavallo scompaiono sotto i fiotti della torbida corrente. Come sapete, tutti erano rimasti indietro, non escluso il marchese; e tutti indietreggiarono ancora più, spauriti e schivi di affogare nel fiume. Però Goccelino non bilancia neppur tanto. Salta da cavallo, si segna della croce, e vestito di maglia come trovavasi si gitta nell'acqua. La corrente già travolgeva precipitosa il corridore dell'imperadore, questi non appariva. Goccelino, cui lo zio, se vi ricordate, aveva minacciato annegare nell'Enza, che scorreva poco giù del castello, dove non si fosse condotto dritto, era addivenuto perito nuotatore e palombaro. Si spinge perciò giù nel fondo del fiume, afferra l'imperatore dalla gorgiera, e facendo forza di braccia per sotto la corrente stessa, lo tragge all'altra riva. Un grido di giubilo metton tutti i cortigiani del marchese e di Enrico; niuno però si avventura tampoco al valico. Così che dall'una sponda stavasi tutto il numeroso seguito dei due principi, dall'altra Goccelino che si teneva l'imperadore del capo giù sulle ginocchia onde fargli vomitar l'acqua, e richiamarlo in sè. Non passa guari in fatti che Enrico rinviene. Il suo primo sguardo cade su i pavidi suoi vassalli, l'altro sull'ardito giovane, che, col capo scoverto ed il ginocchio a terra, diceva:
—Perdonate, sire, se ho posta audacemente la mano sul corpo dell'altezza vostra. Consentiamo tutti che foste Alessandro Magno nel campo, ma non sapremmo condonarvi che così giovane vogliate morire affogato come lui.
—Bravo! sclama Baccelardo, le parole non furono meno belle dell'azione.
—Sicuro! ed Enrico III, che anima nobilissima e generosa aveva, lo guarda un momento, indi l'alza, e ponendogli famigliarmente la mano sulla spalla, gli dice:
—Cavaliere! va pure superbo di aver salvata la vita ad Enrico III. Non vogliam noi togliere giovane tanto prezioso e fedele al marchese Goffredo nostro parente: ma se nulla mai potessimo fare per te in qualunque tempo—perchè noi ne lasceremo altresì memoria nel nostro testamento—per la beata vergine di Goslar! non devi che dire una parola sola, e chiedessi tu il più bello dei nostri feudi imperiali, ti sarà accordato sul fatto.
—Mercè, sire, risponde Goccelino; l'altezza vostra viva lunghi anni; a me basta la gloria di aver toccata la vostra sacra persona.
Il torrente intanto era declinato, il guado reso più praticabile, e la gente dell'imperatore varcata all'altra sponda; così che la sera si giunse a Parma—Enrico III aggiustò le cose d'Italia e ripartì per Lamagna. Goccelino, cui l'imperatore in persona aveva armato cavaliere, restò. Non che lo rattenesse vaghezza del paese d'Italia, ma perchè il suo cuore non batteva più libero.
—Ah! sclama la principessa di Salerno parimenti alla mensa con le sue dame, supponevamo bene noi che la storia doveva andare a finire così. Tirate avanti, bravo abate.
—Tutte le storie dei giovani cavalieri, madonna, finiscon così, riprende l'abate salutando del capo la castellana.
» Trovavasi dunque al castello una Bertradina figlia del conte... figlia di un conte, damigella della divota contessa Beatrice, giovinetta, se volete niente avvenente, ma fastosa di natali nobilissimi e d'immaculata virtù. Su di costei aveva messo l'occhio Goccelino. Per molti anni egli tenne celato questo amore, contentandosi di muta adorazione e della proferta di uffici che la damigella non accettava mica con fierezza. Ella sembrava anzi incoraggiare l'ardimento nel giovane di qualche occhiata carezzevole, che era quanto dire in una corte di santi, dove l'amore veniva considerato come peccato. Dopo l'avventura dell'imperatore, Goccelino si fe' più ardito. Egli svela chiaro alla damigella le speranze osate concepire, richiede da lei franca risposta.
—Ed ella? dimanda Baccelardo.
—Ella non lo scacciò già con alterigia: solamente piena di contegno lo rimise al giudizio del padre suo.
—Ciò era giusto, mormora la principessa.
—Madonna, sì. Ora il conte che aveva solamente questa figliuola ed era ricco e borioso, quasi quasi non fe' cacciar via villanamente il cavaliere dal suo castello. Gli ordina però di non rimettervi più piede, e mai più favellare di sua figlia, il cui nome reputava macchiato nella bocca di un uomo, per le vene del quale scorreva il sangue di Bonizone il falegname. Poi ne muove lamento al marchese ed alla pia moglie di lui.
—Fu un minchione il vostro conte! risponde Gisulfo; io avrei dato quello sfrontatello a divorare ai segugi.
—Come vi piace, monsignore, riprende l'abate. Certo è però che Goccelino ebbe a sopportare grave riprensione dal marchese, lunga omelia dalla contessa, ed aspro e schernevole garrito dal siniscalco suo zio. Fastidito del pettegolezzo di quella corte, e' si accommiata dalla castellana e dallo sposo di lei, e se ne torna a Parma dove i signori di Correggio gli venivano altresì un poco parenti per parte di madre. Ma perchè neppur quel paese lo guariva dal fernetico, se ne rivenne alla casa paterna per disacerbare il duolo con la lontananza e l'amorevolezza dell'eccellente padre suo. Capitò allora che Cuno fosse a Roma. Goccelino vi si recò incontanente ed al fratello raccontò dell'affronto ricevuto. L'altero spirito di Cuno, che nelle dignità della Chiesa cominciava di già a progredire, ne rimane offeso. Perocchè il suo carattere era addivenuto anche più violento e puntiglioso nei rigori silenziosi del chiostro. In guisa che si fissa in mente, e fa unico scopo dell'ostinata ed intraprendente sua volontà di domare l'alterigia del conte, e di dare sposa al figliuolo del falegname Bonizone la figliuola del barone. E senza metter tempo in mezzo parte per Canossa.
—Non ci mancava che lui per completare la corona dei santi, dice Guiberto sorridendo.
—In fatti, continua l'abate, in una corte, in cui i laici non valevano una buccia, e la religione toccava il fanatismo, lascio a voi considerare se un frate, ed un frate favorito consigliero di due pontefici, e severo riformatore del costume degli ecclesiastici, dovesse tornare potente e gradito come un santo. Accadde dunque così. Da prima vi fu un po' di muffa dall'una parte e dall'altra, vi fu un po' di discussione, un po' di orgoglio, un poco di ostinazione, ancora qualche minaccia—il frate di gastighi spirituali, quelli di temporali. Infine la contessa toglie acconciar ella le cose col padre di Bertradina, e contentar tutti—tanto più che vivamente pel frate s'interessava l'unica figliuola di lei, Matilde, le quale più fanatica di tutti quanti, di nove in dieci anni, già dispotizzava sui parenti in prima, e poi sui vassalli ed i feudatari. Ad ogni modo, non saprei ben bene dirvi degli incantesimi che adoperasse la contessa Beatrice; certo gli è, che il frate, il quale già mirabilmente se la intendeva con Bertradina cui teneva dalla sua, fu contento, e si aggiustarono le nozze.
—Giorno di maledizione! si lascia uscir di bocca il priore. Tutti lo guardano. L'abate soggiunge:
—Goccelino sposa la giovane: ma si avvede presto che ella aveva per lui, anzi che amore, ripugnanza, e che mal volentieri lo seguiva all'altare. Invece pareva affascinata dal guardo di suo fratello. Donizone il cappellano poeta, divenuto altresì abate del cenobietto annesso al castello, benedisse gli sponsali; e Goccelino si menò a casa Bertradina. Fece rumore in allora che, al domani, la giovane sposa non ricevesse il morgingab dal marito[1]. Se ne dissero delle grosse, e parecchie anche insolenti.
Sia comunque, e Dio sa il vero, in queste trattative eran corsi alquanti mesi; alcuni altri il frate ne dimorò nella casa paterna. Infine ritornò a Roma dove seguì perigliosa e pertinace carriera di consigliere e di morigeratore.
—Volete che vi nomini costui? domanda l'arcivescovo sorridendo:
—Dio ve ne preservi, susurra l'abate con voce pietosa, e continua.
» In quell'intervallo Goccelino, che dalla donna sua si era compiutamente alienato, considerava quali spessi colloqui i due cognati avessero fra di loro, quale perfetta intelligenza, e come rammorbidivasi il cuore del fratel suo verso Bertradina. E sì che suo fratello ad affetto tenero e compassionevole non aveva ancora, e forse non aveva mai aperto il cuore! Ma Goccelino s'illudeva. Perocchè Cuno non dava a quella donna che pietosi avvisi, e la confortava a sopportar paziente il disgusto che il marito aveva concepito per lei, e le cento scipite fole che sul fatto del morgingab correvano pel volgo. Sia però come vuolsi, certo gli è che dopo sei mesi Bertradina sgravò, e mise a luce una bambina.
—Corpo dell'ostia! grida Gisulfo, dopo sei mesi voi dite?
—Sì, monsignore. Ma ciò non torna nulla al caso; imperciocchè anche dopo sei mesi una femmina può partorire, e la prole vivere. Non pertanto io non saprei dirvi quanta fosse l'indignazione di Goccelino. Senza pigliar tempo, senza nulla considerare, ei si reca al letto della moglie, e vilipendendola del nome di adultera, le lacera il seno col pugnale.
—Dio ti perdoni, accecato! potè solo profferire la misera, e spirò.
—E Dio l'ha perdonato, sclama il priore suo malgrado e quasi parlasse fra sè.
—Goccelino andava in cerca ancora della bambina, soggiunge l'abate, allorchè Bonizone entra nella fatale camera. Egli si getta ai piedi del figlio, gli abbraccia le ginocchia, e lo supplica di contentarsi di un delitto solo. Goccelino spinge il vecchio ad urtare di capo nel suolo ed esce, e fugge. Consentite intanto un momento, belle dame, che io beva un gocciolo per inumidirmi il gorgozzule, poi ricomincio.
Ito è così, e va senza riposo
Poi che morì: cotal moneta prende.
A soddisfar chi è di là tropp'oso—
E dopo che l'abate si fu qualcosa rifrancato, ed ebbe bevuta una larga sorsata di vino, continuò:
—Goccelino dunque corre subito alle scuderie, inforca il primo cavallo che gli si para alla mano e vola a Roma. Cuno era partito allora allora per l'abazia di Cluny. Goccelino gli tiene dietro. Appena e' si arrestava la notte per dare un po' di strame alla cavalcatura. Viaggiava solo, fosco come il turbine, furibondo come il tigre. Egli fece periglioso e stentato viaggio, scavalcò montagne di nevi eterne, valicò fiumi terribili, affrontò uragani, fame, incontro di belve feroci; e sempre in una tetra tensione di spirito, superò tutto, e giunse al monistero di Cluny. Non si nomò Chiese di Cuno suo fratello; ma questi era assente. Intanto gli fu proferta ospitalità se volesse attenderlo.
—Starà lungi molti dì? dimandò.
—Verrà stasera, gli risponde il frate portinaio, forse domani. Certo non tarderà guari, perchè deve ricevere il voto di certi novizi che debbono far professione, Kirie eleison! E siccome l'abate è a Goslar con l'imperatore Enrico, il padre priore farà la funzione, Christe eleison! Potete dunque attendere, ser cavaliere, se avete voglia del riverendo priore, e gustare un gocciolo, Kirie eleison! che il cellario può offrirvi buono come in ogni altro castello di barone. Kirie eleison! Christe eleison!
—Avete detto che torna domani? replica Goccelino.
—Cosa avete, ser cavaliere? chiede inquieto il portinaio, vi sentireste forse male? Kirie eleison! Gli è pur vero che il padre priore con reliquie ed agnus dei, con miracoli e senza guarisce infermi, Christe eleison! ma evvi ancora il vecchio padre Adalberto che.....
—Addio, frate, grida l'altro, e volgegli il dorso.
—Goccelino scomparve. Il portinaio allampanato gli tiene dietro dell'occhio; infine si segna di croce e sclama:
—Gran peccatore dovrà essere colui che per fermo veniva a confessarsi al priore. Christe eleison! La sua faccia però non è quella di un contrito. Kirie eleison! Ricusare anche un gotto! Christe eleison!—io me ne intendo di queste botti: gran peccatore! pingue furfante!
—Il brav'uomo che era quel portinaio, soggiunge l'arcivescovo. In un mese che passai a Cluny mi fece cotto quarantadue volte.
—Ne abbiamo fatto un santo dell'ordine, sclama l'abate, e Dio l'ha nel suo seno. Poi continua:
» Il priore infatti arrivò la sera, ma infermo. Il primo suo pensiero fu di andare a ringraziare s. Benedetto del prospero esito della sua spedizione, poi di cercare il letto.
» Al domani la chiesa rigurgitava di gente per contemplare la cerimonia di quattro o cinque novizi che profferivano il voto. Un sacerdote celebrò la messa. Finito l'evangelo i novizi si trassero avanti l'altare. Allora dall'attigua sacrestia uscì un frate col capperuccio calato per ricevere le loro promesse.
—Ah ci siamo, dice la principessa, io rabbrividisco di già.
—E vi è di che, riprende l'abate. Tutto il popolo infatti aveva assistito con divozione alla messa; ma con più fervore di tutti, giusto là presso ai balaustri di marmo del coro, avevano fissato un cavaliero che della fronte piegata nelle mani, immobile, fervoroso come un santo, aveva orato senza distogliersi mai.
—Birbo di santo! dice l'arcivescovo.
—Appena però si comincia la funzione della professione egli leva la testa. E' sta un momento, un momento solo a squadrare il frate che la compiva, indi di un lancio, come il gattopardo si avventa sulla preda, si avventa su colui, e col pugnale lo trafigge alla nuca. Fu l'opera di un baleno. Il povero cenobita manda un grido e cade supino. A questa vista, Goccelino anch'esso si dà un colpo di mano sulla fronte: poi come un fulmine passa per mezzo della gente atterrita, risale il cavallo che gli teneva lesto un pitocco dietro il sagrato, e scompare. Non era stato il priore che egli aveva ucciso.
—E chi dunque? dimanda la principessa di Salerno.
—Ma! un altro povero disgraziato di monaco, il quale aveva preso il luogo di lui, ambasciato da febbre urente e trattenuto a letto.
—Demonio di un giovane! sclama l'arcivescovo di Salerno. Enceladus jaculatar audax!
—Proprio un demonio, risponde l'abate, se vuolsi considerare l'arditezza; ma buono quanto altri mai nel cuore. In effetti, figuratevi se poche volte egli avesse versato il sangue sul campo di battaglia! Eppure, il sangue di quell'innocente, sparso nel santuario del Signore, pesò sull'anima dell'omicida come sull'anima di Caino pesava quello del fratello. Egli erra qualche tempo alla ventura per la Francia, ritorna nell'Italia, visita santuari, fa voti, cinge un cilizio, si confessa con un santo. Ma vanamente, perocchè la pallida spaventata faccia di quel frate gli stava sempre presente, sentiva sempre alle spalle la voce di Dio che l'inseguiva gridando: omicida! omicida!! Inoltre il padre di Bertradina ed il marchese di Toscana avevano messa taglia alla sua testa, ed ei si vedeva perseguitato da tutti—dall'ira degli uomini, cui temeva la meno, e dal castigo del cielo. Così che si decide andare in pellegrinaggio a Gerusalemme.
—Lasciate il viaggio, ser abate, lo consiglia Guiberto, se no l'alba ci coglie qui.
—Io non domando mica meglio. Non vi racconto dunque per minuto il difficile e lungo viaggio, perchè già sento abusar soverchio della cortesia di queste dame, e l'ore della notte inoltransi. Goccelino compì il voto. Sul sepolcro di Cristo, la schiavina coperta di cenere, il fianco allacciato da cilizio, pianse le sue peccata, si confessò, fece spaventevole penitenza. Infine l'immagine del frate, e la voce di Dio non lo perseguitarono più, ed ei si credette perdonato. Decise tornare in Italia e comporsi cogli uomini, i quali non potevano mostrarsi fieri dove che Iddio aveva accolto il suo pentimento. Sopra galera veneziana s'imbarca dunque a Cesarea.
» Ostinata burrasca li travoglie lungamente. I corsari barbareschi danno loro la caccia. Perigliano più volte andare a picco, e lunga tormentosa agonia li travaglia. Infine un fil di vento forte li gitta sulla spiaggia del Ionio, al lido di una terra di Calabria. I Veneziani rimpalmano il legno e salpano per le venete lagune. Goccelino, angustiato da febbre e stanco già di navigare, si arresta quivi, sprovveduto di scorte e di panni. Si dirige quindi al castello.
—Qual castello? domanda Gisulfo.
—Uditemi, monsignore. A Cariati.
Il barone Giselberto, e la figliuola di lui Alberada si eran messi allora allora a mensa. All'annunzio di un pellegrino, entrambi scendon nella corte per riceverlo e menarlo al tinello. Il barone gli scioglieva i sandali per lavargli i piedi, la giovinetta lo confortava di differenti ristori. Goccelino rendeva loro mercè dell'ospitale carità, e pregava che desistessero da quegli uffici.
Ma Giselberto dichiarava che, per lui, un palmiere figurava Iddio, e perciò poco quanto gli potesse praticare.
—Bravo uomo! sclama Baccelardo. I Normanni non ebbero mai nè più prode, nè più santo guerriero di lui.
—Infine l'infermo fu guidato al letto e vigilato con una amorevolezza senza esempio. Eppure non gli avevano dimandato ancora nè del nome, nè della condizione, nè d'onde venisse.
—La carità, figliuoli miei, è cieca.
—E più spesso sorda! dice l'arcivescovo sorridendo. L'abate prosegue:
—La malattia di Goccelino intanto volgeva al peggio, ed egli stesso credeva di aver contratta la peste in Oriente. Però non nudriva alcuna speranza di vita. Un giorno che più grave sentiva avvicinarsi l'ora fatale, risolve scrivere a suo padre ed a suo suocero onde dimandare loro perdono. Così fa, e le lettere partono per due vassalli che il barone spicca.
Suo suocero lo aveva da lungo tempo perdonato—chè anzi non aveva mai concepita veramente collera contro di lui, perchè anch'egli credeva Bertradina colpevole, e braccheggiava dietro a Cuno, dentro Roma sicuro e despota, per vendicare la seduzione della figlia. Bonizone, giunto alla sua ora finale, agonizzava. Aveva presso di sè chiamato Cuno, onde non passare al cospetto di Dio così sconfortato e deserto di ambo i figliuoli. Cuno si era recato per dare al padre la benedizione dei moribondi. La pietosa lettera di Goccelino arriva, li commove entrambi. Bonizone lo benedice e spira.
—E la ragazza? dimanda la principessa di Salerno.
—La ragazza di Bertradina fu salva da Bonizone. Questi però non volle tenerla presso di sè, sia che anch'egli credesse colpevole Cuno, sia che gli premesse allontanare ogni memoria del vituperio. Aveva quindi chiuso in un forzierino d'ebano il libro di ore di Bertradina, vi aveva aggiunto una lettera d'invio della bambina, fatta da pubblico tabellione di Soano, e l'aveva mandata a Cuno a Roma, per mezzo di un pellegrino che si recava a Nostra Signora da Loreto e che aveva tolta la missione di portarla. La fanciulla però non vi giunse e corse voce che quel romeo l'uccidesse al colmo di mezzanotte, e del grasso fecesse prezioso unguento pel male di luna.
—Oh! lo scellerato! sclama la principessa.
—E ve n'han tanti! dice l'abate. Cuno rese dunque gli ultimi ufficii a suo padre, e si accinse a viaggio per le Calabrie, onde, se fosse a tempo ancora, rinconciliarsi con l'illuso fratello, o ringraziare il barone Giselberto e sua figlia della carità cristiana largheggiata al pellegrino. I vassalli del barone gli tennero da guida.
—E rivide il fratello?
—Sì. Goccelino non era morto; chè anzi, mercè le amorevolezze di Alberada e le mediche cognizioni di lei, riacquistava la salute e di giorno in giorno volgeva alla convalescenza. Il barone non meno della figliuola gli prodigò cure. Ma come lo vide mettersi sul meglio, lo lasciò intero alla sapiente carità di Alberada, ed intese tutto alle cacce ed ai banchetti cui e' grandemente amava.
—Il resto si prevede, dice Baccelardo,
—Ahimè, troppo, continua l'abate. La giovinetta passava lunghe ore al governo dell'infermo, il quale, cominciandosi a riavere, raccontava maravigliose storie di terra santa, e la pietosa iliade dei suoi viaggi. Bella, ingenua, vereconda, lo ascoltava quella fanciulla, e sovente versava lagrime di pietà. Dio la benedica. Dio conforti lunghi anni quella pia, che io ebbi ventura conoscere ai suoi giorni felici! Ah! non mai resterò dal piangere l'involontario male che io le feci.
—Era dessa bella? domanda la principessa.
—Ah, madonna, figuratevi che brillava come la stella del mattino. Toccava appena la più fresca giovinezza, e nell'aria infantile del sembiante le traspariva tale immaculato candore che inspirava nel tempo stesso confidenza e venerazione religiosa. Ad una statura vantaggiosa e svelta, talchè un cantore la pareggiò un dì ai cedri del Libano di Salomone ed alla regina Saba, accoppiava un profilo purissimo ed una carnagione bianca per modo che le venuzze cerulee del seno vi si disegnavano sopra pallidamente. Il corruscare dello sguardo ceruleo splendeva come i fuochi dell'opala, segnatamente quando guardava alcuno dell'abituale sua benevolenza, lo che le dava qualche cosa di non terreno, come quelle apparizioni di anime celesti di cui si racconta nelle leggende, ovvero di quelle fate che proteggono le difficili avventure di un paladino, come nei circoli della sera sogliamo udire a narrare dai menestrieri. Non dico nulla poi della soave melode della voce e della parola cortese che perenne le volava dalle labbra. Allora io mi convinsi della dottrina del veggente di Stagira, che l'anima occupa ogni parte del corpo secondo la totalità della sua perfezione e della sua essenza, non già secondo la totalità delle sue facoltà.
—Ser abate, si direbbe per Dio che voi l'amaste, dice il priore.
—Non sarebbe già la prima testa bianca ed il primo cuore freddo che ciò abbia fatto, risponde l'abate.
Tanta bellezza dunque—e nei paesi, e nelle corti di Europa, perdonate bellissime dame, io nulla mai vidi di somigliante—infiammarono l'anima di Goccelino. Avrebbe voluto essere imperatore per elevarla fino a lui! Divisava però, come col fratello si aprì, recarsi alla corte di Germania, e supplicare Enrico di concedergli tanta parte dei suoi favori da poterla impalmare. L'avesse pur fatto, chè quella donna forse lo avrebbe tornato a virtù!
—Sì, mormora il priore, l'avesse pur fatto.
—Che può l'uomo, sclama l'abate d'accento commosso, quando Iddio diversamente divisa? Dio infatti, nei suoi riposti consigli disponeva diversamente. Ella era già fidanzata a Roberto Guiscardo.
Cuno giunse al castello. Tenera, effusiva dalla parte di Goccelino fu la riconciliazione. Cuno lo perdonò. Vide anch'egli intanto la giovinetta: seppe i pensieri di suo fratello. E fosse stato che Cuno palpitasse pei giorni di quella fanciulla, con un uomo che tanto ingiusto e brutale con Bertradina si era addimostrato, fosse stato pietà di quella vergine pura, la quale, avvegnachè con solenne promessa già fidanzata, sembrava sorbire lenta seduzione da Goccelino, fosse stato infine che quel cuore di ferro anch'e' una volta si schiudesse a teneri affetti, e per la prima fiata sentisse dolce moto; certo, Cuno cominciò a colloquire più spesso con la fanciulla, e le raccontava storie d'incauti affetti, e la teneva lungi da Goccelino con parole scaltre.
—Ser abate, gli dice Alberada sotto voce all'orecchio, rammentatevi che siete per isvelare la confessione di un uomo terribile.
—E chi lo dimenticherebbe? risponde l'abate segnandosi della croce. Indi continua:
—Goccelino si avvide di quelle pratiche e qualche sospetto gli si andava insinuando nell'animo. Si era levato già di letto, ed in parte aveva racquistate le forze.
Una sera che costui, addossato ad un davanzale di finestra contemplava malinconico tramonto, di sopra la sua testa, tra il merlato di una torricella, Cuno ed Alberada favellavano. Le loro parole non si udivano distinte, nè le pronunziavano tutte sul medesimo tuono. Ma Goccelino ne udì tanto che l'anima si senti lacerare e rivivere nei feroci affetti. Cuno, per compiutamente salvarla da suo fratello, raccontava alla fanciulla normanna la storia di Bertradina. Goccelino non proferì motto. La sera si addimostrò anzi lieto più del consueto e più facondo; al fratello, che immaginava già cotto di quella donzella, disse mille cose amorevoli. La notte però, mentre Cuno dormiva, egli cerca della stanza di lui, e con sorriso feroce e diabolica voluttà gli fa sulla persona tale oltraggio che fa inorridire e che mi è legge per pudore celare. Nel castello intanto si parlò solamente di pericoloso colpo di pugnale.
—Mio Dio! mormora Alberada sommessa.
—Indi scende alle scuderie, continua l'abate e simulando ordine premuroso del barone, si fa aprire le porte del castello e fugge in Germania—dove l'imperatore lo accoglie con ogni amorevolezza, e gli tiene la parola datagli a Parma.
Il povero Ildebrando intanto......
—Ildebrando? sclamarono Gisulfo ed altri parecchi della mensa; gli è dunque di lui e di suo fratello Guiberto, qui con noi, che racconta la vostra leggenda, ser abate? Non ci eravamo dunque apposti nel sospetto.
—No, baroni, scompigliato balbetta l'abate. Poi, rimettendosi, soggiunge: io aveva altrove fisa la mente, e quel nome mi volò dalle labbra scioperatamente. Non è di lui che io favello, non è di lui. Altri sventurati volle Iddio provare coi fatti che io sono stato costretto a narrare.
—Bene sta, ser abate, bene sta, freddamente dice Gisulfo; andate innanzi, perchè noi sappiamo oggimai distinguere l'astore dall'airone.
E l'abate tutto rosso e mortificato proseguì:
—Il povero Cuno intanto dal sonno cadde nello svenimento. E per fermo di emorragia sarebbe morto, se al maestro delle scuderie non nasceva tardo dubbio di verificare, se veramente il barone avesse data quella notturna commissione al favorito palmiere. Il maestro delle scuderie, vecchio torpido e credulo, va su all'appartamento del barone e lo fa risvegliare. Giselberto forte s'indigna della soverchieria che si pensa fatta per trappolargli un cavallo, e manda a vedere alla camera dell'altro fratello. Allo spettacolo miserando si commuove ognuno. Tutto il castello si caccia sossopra, si mette in opera ogni sollecitudine per aiutare il disgraziato. Cuno in effetti rinviene, e domanda di Goccelino. Gli narrano della fuga di lui. Egli allora col residuo di forze che rimanevangli, si rizza sul letto e di voce vacillante susurra:
—Ascoltami Iddio, ascoltatemi Gesù Cristo, e vergine Maria, ascoltate tutti, santi del cielo, angeli ed arcangeli, troni e dominazioni, il sacramento che io fo. Se di questa ferita non muoio, possano le mie ossa non avere quiete nel sepolcro, possa mancarmi il cibo alla fame, l'acqua alla sete, il sonno alle pupille, possano i demonii impossessarsi dell'anima mia e straziarla di rimorsi e di paure finchè vivo, e col fuoco eterno dopo la morte, se non mi vendico di mio fratello—fossimo entrambi a morire sul medesimo letto, fossimo entrambi a comunicarci al medesimo altare—giuro di non perdonargli mai, mai, mai!
—Mai! sclama fra sè Alberada colpita, mio Dio! che si richiede dunque da me?
—Baroni, ecco la storia che io contai a Melfi, soggiunse l'abate di Cluny, Cuno non morì. Roberto Guiscardo subito dopo sposò Alberada. Innocente come era ed angosciata per doversi separare dal padre, la santa fanciulla quasi invita lo seguitò all'altare. Questa memoria, udendo il mio racconto, allucina Roberto, che appone ad amore per altrui il pietoso stato dell'animo di colei, la quale avrebbe tolto anzi morire che dipartirsi dal padre suo. Alberada fu ripudiata. Decidete or voi, monsignore, se la verità noi favellammo.
—Vi domando perdono, ser abate, risponde Gisulfo, se vi aspreggiai di parole, ed a voi altresì, priore di Lacedonia. Roberto agì da forsennato. Alberada era innocente.
E sì dicendo il principe Gisulfo porgeva una mano all'abate, un'altra al priore, e si alzava dalla mensa. I suoi ospiti lo seguivano. Allora a lui si para innanzi l'arcivescovo di Salerno, Alfano, e dice:
—Ed a me, monsignore, a me non dimandate voi perdono dell'avermi detto mentitore?
—A voi, messer arcivescovo, che ardiste dare del pazzo a nostra sorella, fiero risponde Gisulfo, a voi non solo non dimandiamo scusa, ma aggiungiamo che siete uno scimunito ubriaco.
Alfano a quelle brutali parole corrusca negli sguardi, e portando la mano al fianco, dove soleva tenere il pugnale, fa due passi verso il principe. Poi tutto ad un tratto ristà e dice:
—A domani, principe Gisulfo.
La principessa intanto dimandava:
—E Cuno ha perdonato il fratel suo, messer abate?
A questa domanda Ugone sembra interdetto. Ei resta un momento a riflettere, poi risponde:
—L'ha perdonato.
—Mai! mai! sclama Alberada fra sè, uscendo dalla sala, mio Dio! che si richiedeva dunque da me!
Allora sotto l'uscio della stanza il priore le si accosta all'orecchio e dice:
—Alberada, deggio favellarti.
A quella voce ella si scuote: retrocede da prima, poi si accosta, e presa da subito tremito che le invade tutta la persona, risponde:
—Non è più tempo, Guiberto, guárdati: fuggi—le terre d'Italia non sono più per te.
Le nostre leggitrici han già del pari compreso che Cuno era Ildebrando, ora Gregorio VII; Goccelino, Guiberto priore di Lacedonia.
Io vinsi al cesto
Il figliuolo d'Enope Clitomede,
Alceo Pleuronio nella lotta, a cui
M'aveva sfidato; superai nel corso
L'agile Ificlo; e nel vibrar dell'asta
Polidoro e Fileo.
All'ora di sesta del domattino tutto era in punto pel proposto sperimento della forza e dell'agilità dei candidati al combattimento con i campioni normanni. Avevano steccata una lizza nello spianato della chiesa di San Matteo, che allora si edificava, e sopra cui davano le finestre delle case circostanti. Da queste, sì la principessa moglie di Gisulfo che le consorti dei suoi cortigiani potevan tutto bellamente osservare. Ad una estremità del parallelogramma avevano levato una tribuna, sulla quale sedevano, come giudici della tenzone, Ugone abate di Cluny, Guaimaro conte di Capaccio, Giordano sire del castello di Corneto nel Cilento, Castelmanno figliuolo del conte Adelferio, e Giovanni figlio di Ademario il rosso. Essendo tutti longobardi, stupenda vista e' facevano con le loro lunghe barbe ondeggianti sui petti coverti a guarnelli di bianco panno di Cipro. All'altra estremità della lizza aprivasi la porta per introdurre i campioni già radunati in numero di sette, ed erano, come si segnarono coi segni di croce sur una pergamena tenuta dal maestro di campo di Gisulfo: Gisulfo principe di Salerno; Baccelardo il diseredato come veniva addimandato; Alfano arcivescovo di Salerno; Astolfo figliuolo di Marino Capece di Napoli; Pietro conte di Atenolfo; un milite chiamato Romualdo, e Laidulfo lo Zanni. Il quale ultimo si segnò e scomparve dalla tenda, sì che tutti pensarono non fosse una burla, e col maestro di campo si dolsero aver ricevuto fra mezzo a loro un cotal satiro. Ma il maestro di campo li pregò di star cheti, perchè quell'uomo, comunque e' si fosse alcuno di loro non disonorava.
L'abate di Cluny celebrò la messa. I campioni l'udirono, giurando sull'ostia della comunione di non fare per niun modo uso di ciurmerie e d'invocazioni diaboliche onde vincere la prova. Dopo, l'abate si recò al suo posto, i campioni alla tenda.
Innanzi di essersi cimentato alcuno non poteva assistere allo sperimento dell'altro.
Ciò stabilito le trombe suonarono e la lizza si aprì.
Primo ad entrarvi fu il milite chiamato Romualdo. Un compagno di armi gli recò grosso ferro di cavallo ben compatto, ben chiuso, saldo, non forato. Romualdo andò dritto a presentarlo ai giudici, perchè minutamente l'osservassero, poi lo presentò al popolo, fitto e numeroso, che si addossava allo steccato, recandolo in giro. Egli aveva le maniche del ghiazzerino di bufalo rimboccate fino al gomito; portò il ferro sempre alzato in alto perchè di frode non si dubitasse. E come lo ebbero tutti veduto, Romualdo ritorna presso la bigoncia dei commissari, e lo lancia iteratamente in alto, facendo che netto risuonasse al suolo. Poi lo riprende, lo rileva novellamente sulla testa perchè tutti lo rivedessero intero, lo abbranca tra ambo le mani, ed in due secondi senza sforzo, senza alterare il colore del viso, come avesse rotta una ciambella, in due lo spezza, giusto nel mezzo, ed ai giudici presenta i due pezzi, con lo stesso garbo, con la stessa celerità che avrebbe messa un cerretano a fare scomparire due bossoli.
—Bravo! bravo! grida la plebe: ed i giudici stessi lodarono sì la sua forza che la sua destrezza.
Romualdo si appoggia delle spalle allo steccato ed aspetta.
Un araldo d'armi allora annunzia Pietro conte di Atenolfo, ed Astolfo figliuolo di Marino Capece di Napoli. Nel sorteggio erano dessi usciti dopo il milite. Entrarono in fatti i due signori accompagnati dagli scudieri che recavano le spade e le mazze di acciaro. Anch'essi si soggettarono alla cerimonia della visita. E poi gli era ben mestieri che si fosse misurato il diametro dei manichi delle mazze rispettive; e si trovò quello della mazza del conte Pietro un pollice e mezzo circa, due pollici quello del sire di Marigliano Astolfo. Fatto ciò, si portarono due ceppi nel mezzo dell'arena, sopra i quali ciascuno collocò la sua mazza. Fu primo il conte Pietro a scagliare il colpo. Alzò la daga lentamente sulla spalla sinistra, fissò il mezzo del manico, ed il colpo cadde. La barra di acciaro è recisa quasi che tutta; ma l'arma si rompe nell'elsa fra le mani del conte, di tal che si accagionò questo incidente se intera non fu partita.
Il sire di Marigliano sorride, ed a volta sua alzando la spada, la si vede corruscare per aria come baleno, la si ode sibilare e piombare sul manico d'acciaro con la forza di un mangano. Ed una parte della mazza era caduta da un lato del ceppo, l'altra dall'altro, messa in due, netta come se fosse stata di neve.
I giudici applaudiscono al colpo poderoso, e la plebe grida forte: alleluia, alleluia! quasi avesse voluto adular quel signore. Del che il conte Pietro adirato manda a dolersi col principe Gisulfo; e questi ordina che fossero presi trenta di que' sciagurati e frustati, da poichè e' non erano scesi nell'arena onde sollazzar la marmaglia e togliere applausi da lei, ma per far generosa prova di chi meglio avrebbe difesa la patria.
Il conte Pietro, che si era veduto umiliato da Astolfo, lo sfida alla lotta. E' si credeva certo di vittoria, perciocchè statura gigantesca aveva e membra robuste a petto di Astolfo, piccino anzi che no, e segaligno. Il sire di Marigliano resta un istante titubante alla sfida. Ma poscia, arrovetando la faccia, per solito pallida, accetta, e senza pigliare indugi si cava il giubettino, e si colloca in positura di aspettare l'assalto del nemico. A quell'inatteso spettacolo i commissari ed il popolo si alzano per meglio osservare. Ed in fatti il conte Pietro, vestito come si trovava di ferro, si avventa sopra il sire di Marigliano per ghermirlo dal collo, sollevarlo da terra, fargli perdere ogni equilibrio. Astolfo, al primo assalto, sfugge il pericolo avvinchiandosi alle braccia di lui e lotta di polsi onde ridurlo ad indietreggiare. Ma il conte sta fermo. Anzi gli restituisce tal urto, che il meschino va a cader supino due passi lontano. La sconfitta di Astolfo però è avvertita appena, tanto sollecitamente risorge dal terreno e in piedi si mostra a fronte al conte. Questi, confortato dal primo pegno di vittoria, ritorna per aggavignarlo dal collo. E vi riesce, e lo solleva circa otto pollici dal terreno. Astolfo allora sentitosi a quelle strette, gli si attorciglia ai fianchi con le braccia, gl'involge le gambe tra le gambe, e per tal modo lo stringe alla cintola che a poco a poco si vede il conte Pietro allascare le braccia, la faccia da prima s'impallidisce, poi colorasi a rosso, poi addiviene paonazza, poi livida, infine si annerisce come la vôlta di un camino, strabuzza gli occhi, il sangue gli rompe dalle narici e dalle orecchie, si spezza in due, e cade resupino con Astolfo sul ventre.
E questi così fittamente si era attaccato al conte Pietro che le sue braccia sembravano immedesimate nel corpo di lui. La corazza si era avvallata sotto la pressione delle braccia, la spina dorsale si era rotta, il conte Pietro era morto.
Cotal terribile prova fa restar tutti mutoli: e già si prevedeva che il sire di Marigliano sarebbe stato il campione per combattere contro il Normanno. Imperciocchè e' sembrava impossibile potersi dar saggio di vigoria maggiore dei due che Astolfo ne aveva dati.
Egli si ritira alla tenda, dove aspettavano gli altri tenitori della giostra, ed il corpo di Pietro conte di Atenolfo è menato via dall'arena.
Gli araldi annunziano Baccelardo duca di Puglia e di Calabria. Perchè questi siffattamente facevasi chiamare, agognando sempre ricuperare gli Stati del padre suo Umfredo da Roberto usurpati.
Entrò nella lizza Baccelardo vestito di gabbano di velluto scarlatto, avendo in una mano pennoncino dello stesso colore, e dall'altra uno stocco lungo e sfilato somigliante tutto ad uno spiedo. E subito appresso a lui vennero quattro scudieri, che menavano grosso toro nero con la testa bendata, ed un cavallo leardo rotato, svelto, lungo, vispo, che andava saltarellando dietro al palafreniere come un levriere. Baccelardo vi salta sopra e comanda agli scudieri di ritirarsi.
Egli allora si accosta alla bestia, si piega sul destriero, e con l'elsa a croce dello stocco le strappa la benda. La luce del sole che lo colpisce negli occhi fa restare il toro come stordito. Guarda il popolo imbiettato nello steccato con torvo e lento sguardo, fiuta il terreno, e con le zampe comincia a gittarselo alla pancia. Baccelardo prima fa sventolargli innanzi del muso la banderuola rossa, poi lo punge al fianco con lo stocco. Il toro mugnola ferocemente e non si muove. Il cavaliere lo torna a tribulare in più parti con punture e gli fa ripassare avanti agli occhi il rosso pennoncello. Ma anche questa volta la bestia si contenta di far udire cupo muggito e pestare dei piedi l'arena.
—Per l'anima mia! sclama Baccelardo, che torpido codardo animale!
E di bel nuovo forte lo punzecchia. Allora il toro tutto ad un tratto dà un salto dal lato dove egli si trovava e gli va sopra. La presta cavriuola che il giannetto spicca lo sottrae dal colpo cui giusto nel bel mezzo del petto il corno formidabile aveva diretto. Baccelardo fugge per lo steccato, sempre agitando la rossa banderuola, ed il toro lo insegue. Infine questo si ferma e Baccelardo gli torna sopra ad aizzarlo. E la belva novellamente ad inseguirlo sordamente, orribilmente muggendo, ed egli a novellamente fuggire. Ma come il cavaliere si fu accorto da quel muggito sordo e profondo, e dallo scintillare dell'occhio, arroventato come carbone ardente, che il parossismo del furore del toro toccava l'apice, e' si ritragge verso la porta, dove stavano già presti gli scudieri, con le lance arrestate per difendersi, e di un salto scendendo di cavallo lo consegna loro. Quest'operazione fu l'affare di un minuto. Pure il toro, che all'altra estremità della lizza lo puntava, incontanente gli corre addosso e si trovarono l'uno a fronte dell'altro. Baccelardo adesso non solamente non si ritrae, ma gitta lo stocco da un lato. Il selvaggio animale lo fulmina prima di uno sguardo, indi piega la testa per menargli terribile cornata. E di questa certo fuor fuori lo avrebbe passato e slanciato a morir lontano sulle teste degli spettatori, se egli non si trovava lesto a profittar di quella sfavorevole positura. Salta da un lato, afferra il toro di una mano per un corno, sì che lo costringe a ritorcere la testa, dall'altra per la coda irrequieta. Orribili ad udirsi furono i mugghi della belva così disquilibrata e resa inabile ad usar di sue forze. Perciocchè, chiunque una volta ha veduto una Corrida de toros sa, come a tutto disadatto sia questo in quella situazione, e quali erano las cositas che Pacquito Montes soleva fare per las sinoritas di Andalusia, ed io gliele vidi fare. Infrattanto sforzi spaventevoli metteva la fiera onde raddrizzare il capo, e palleggiarsi sulle corna l'ardito giovane; costui però, puntando, soda ed inchiodata la teneva, e di un occhio feroce dominava ed affascinava il sanguigno suo sguardo. Baccelardo allora descrive un mezzo giro, costringe il toro, sempre in quella attitudine, a seguirlo, lo trascina per l'arena fino innanzi alla tribuna dei commissari. E come si è colà, mentre della mancina se lo teneva la testa sommessa, con la destra gli scarica in un baleno fra le due corna cotal pugno con la manopola di ferro, che l'animale dà in un grido feroce ed a terra stramazza. Baccelardo tira quindi il pugnale, sottile come uno spillo, e fra le due corna glielo caccia.
Tutti allora gridano: al miracolo, al miracolo; è uno stregone!! E le donne segnatamente cominciavano a far delle croci a furia e sclamavano: ecco il diavolo: Iesus Maria! vedete là il diavolo.
In effetti, elleno non avevano torto. Dappoichè sull'impalcata che copriva la tribuna dei commissarii, tutto ad un tratto si vede rizzare un essere singolare, fino allora rimastovi accosciato. Colui aveva piuttosto l'aspetto di satiro che di uomo. Della persona era basso, scarno. I patimenti, e forse il digiuno, avevano consumato di sopra le sue ossa ogni adipe, ogni succo inutile. Però egli era altresì restato asciutto ed ossuto per modo, che i suoi tendini ed i suoi muscoli gli si disegnavano sotto la pelle abbronzata, come in certi s. Bartolomei che sogliono fare i pittori, per istomachevole e truce edificazione dei fedeli. Il collo aveva toruto; la mano lunga, stecchita, grandissima. Della faccia poi non distinguevasi gran cosa. Non aveva che un dito di fronte e le livide labbra scoverte di pelo, tutto il di più era irsuto di setolacce rossigne, folte e lunghe, che scomposte gli piovevano sul petto—non escluso il naso piccino alzato della punta verso la fronte. La quale fronte, bassa e stretta, circondava a guisa di zona bianca, lenticolata, la testa piatta e schiacciata come quella dei Samoiedi. In una parola, incarnava colui la figura di quel pittore, il quale rimproverò il Caracci di non saper dipingere animali, ed in animale dal Caracci fu ritratto, come nel museo napolitano si può vedere.
Solo spiccatamente risaltavano in quel deforme capo due occhi turchini, che vibranti e lucidi, quasi due fiaccole nel fondo di buia caverna, rutilavano nell'orbita; poi i denti bianchissimi che guarnivano una bocca, la quale fendeva la testa orizzontalmente in due parti disuguali. Perocchè, tutto al rovescio degli altri uomini, costui aveva corta altrettanto la metà del volto dalla bocca alla fronte che lunga dalla bocca al mento.
Ei vestiva un giubbetto di cuoio di bufalo bollito, dall'attrito raspato il pelo, dall'orgia e dall'incuria maculato in guisa da sembrare screziato come il manto della tigre. Poi un paio di brache, anche di cuoio di bufalo rattoppate di fresco a pelle di capra non rasa dei peli. Alla cintura non portava arma, tranne il pugnale.
Costui era Laidulfo lo Zanni.
Laidulfo aveva veduto il prodigioso colpo di Baccelardo, ed il toro atterrato. E' si lascia scorrere, della testa in giù, lungo uno staggio che serviva da pilastro alla tribuna, e come un gatto salta nello steccato. Ognuno pensò che, se colui non fosse davvero il diavolo, non poteva mancar di essere per fermo una belva che si avventava alla bestia uccisa per divorarla. Imperciocchè Laidulfo in due salti è sul toro, ed afferratolo dai piedi, con gioia feroce comincia a trascinarlo per la lizza. E' lo trasse fin presso la porta di rincontro ai giudici. Dove essendo giunto, con ambo le mani apprese ai piedi di dietro, sale sul parapetto di difesa che circondava il recinto, solleva di terra la smisurata bestia, e principia a dondolarla, a guisa di campana, a dritta ed a mancina. Indi mette uno sforzo spropositato e la scaglia parecchi passi lontano da lui. Ciò fatto dà novellamente un salto grottesco nell'arena, si slancia sulle palizzate dall'altro lato, e dispare in un momento, come un momento solo era durato l'apparizione e l'opera sua.
E la plebe che lo aveva riconosciuto e che per un suo eguale simpatizzava, rompe ogni riguardo e grida bravo, alleluia! Questo è il campione che si voleva, viva Laidulfo il pazzo, Laidulfo il buffone!
L'araldo interrompe le clamorose ovazioni, ed annunzia monsignor Alfano arcivescovo di Salerno ed il principe Gisulfo.
I nostri lettori si ricorderanno senza dubbio con quali parole la sera dell'orgia si separassero questi due signori, e come l'arcivescovo, poeta famigerato ai tempi suoi e in seguito, fusse stato offeso bestialmente dal principe. Non appena quindi un pochino di raggio dell'alba si mise nella camera di Alfano, che tutta la notte, malgrado il vino non aveva potuto chiuder pupilla, chiama a sè il suo maestro di palazzo e manda a pregare Baccelardo si volesse compiacere a lui venire. Al che, come Baccelardo ebbe obbedito, Alfano lo supplica di recarsi incontanente in nome di lui, arcivescovo di Salerno, a sfidare il principe per quella mattina, a primo transito o a tutta oltranza, secondo a lui fosse gradito. Baccelardo gli fece da prima gravi osservazioni. Però il prelato essendosi mostrato duro, gli fu giuoco forza portarsi ad intimare la sfida. E Gisulfo, che uomo di cuore era, l'accetta senza punto esitare, e decisero che si sarebbero battuti quella mane stessa, nello steccato della prova.
Infatti montati ambedue sopra superbi cavalli e coverti di piastra e di maglia entrano nella lizza. I loro scudieri portavano lance e rotelle. I preliminari dell'abbattimento non furono lunghi. Convengono subito che si sarebbero battuti fino che l'uno non fosse morto, o non avesse dimandato mercè. Si situano quindi l'uno di rincontro all'altro, avvegnachè lo steccato non fosse interamente atto a quella pugna, perchè corto, e mettono in resta le lance dopo aversi attaccato al collo gli scudi. Il maestro del campo fa suonare la tromba, e l'uno sull'altro si rovescia. La prima corsa di lancia è fatale al principe: perocchè la sua scivola sull'elmo di acciaro dell'arcivescovo, il quale piegandosi, la schiva, e si va a piantar nel terreno. L'asta di costui poi si rompe sul petto del principe dopo avergli forata la rotella e la corazza, attraversata la maglia, e sfiorato alquanto le costole. Gisulfo resta saldo sul cavallo: animosamente si tira dal petto il mozzicone, e riprende la lancia che il suo scudiero gli presenta. Novella lancia è data altresì ad Alfano, ed ai loro posti ricollocansi. La seconda corsa è pure a disvantaggio di Gisulfo: dappoichè egli fracassa l'asta sua sullo scudo dell'arcivescovo; questi lo colpisce di tal poderosa maniera sulla corona principesca, sormontante la celata, che rotte le gorgiere, lo fa percuotere delle spalle sulla groppa del cavallo, e spiccar sangue dalle narici.
Il principe di Salerno sbuffava di modo orrendo così due volte umiliato dall'offeso prelato. Si riprendono novelle lance, e si situano per cominciar la terza corsa. Questa fiata però la fortuna è diversa. L'asta dell'arcivescovo lambe il collo del principe, sguizzando sulla polita spalliera, e va a ficcarsi nell'estremo della groppa al cavallo; quella di Gisulfo passa Alfano da parte a parte dal petto, lo ribocca, spezza le cinghie della sella, gli fa perder le staffe, e sollevandolo di peso così infilzato, trascorre l'arena, trascinato dal cavallo furioso per la ferita, e va a gittarlo sotto la bigoncia dei commissarii.
Un grido di applausi fragoroso sbocca quasi involontario da ogni banda. Gli spettatori giudicano unanimemente doversi a lui la palma della vittoria.
Il misero arcivescovo intanto mormora le prime parole di quei versi memorabili di Orazio: Quo pius Eneas, e muore—muore quale aveva vissuto, valoroso cavaliere più che costumato ecclesiastico, fedele fino all'ultimo respiro alla poesia, ad Orazio, al centenario Falerno, che avevan formato la sua delizia invece della Bibbia.
Allora i giudici si riuniscono per decidere a cui spettasse l'onore della pugna del domani contro il normanno campione. E primo il sire del castello di Corneto si volge all'abate di Cluny per dimandargli del suo parere. Ma l'abate, che si trovava sotto il dominio del suo incubo sin dall'aprirsi della lotta, fraintende, e risponde:
—Il mio parere è che si seppellisca codesto arcivescovo, il quale è morto da gagliardo dopo aver vissuto da epicureo. Ed egli è ben mestieri che sappiate non intendere io per epicureo i settatori di quella dottrina severa che stabiliva il filosofo di Samo, di cui l'eloquente ed imaginoso Lucrezio sclamava: Deus ille fuit, qui princeps vitæ rationem invenit eam quæ nunc appellatur sapientia; ma quella sozza ed invereconda dottrina che professarono di poi i discepoli suoi, e che Orazio, Petronio e Marziale cantarono, e che la Chiesa condannò per canonizzare la sapienza del divino Aristotile. Ed avvegnachè i precetti sublimi dello Stagirita sembrassero talora eterodossi, perchè come il fulmine nasconde la sua luce nelle nuvole, quel filosofo nasconde la sua sapienza tra le tenebre della parola; non pertanto i santi Padri della Chiesa han convenuto, che niuna dottrina meglio si addice alla santità dell'evangelo, i cui proseliti, al dire di s. Giovan Crisostomo, son chiamati fedeli, affinchè mediante il disprezzo del ragionamento umano, alla grandezza della fede si elevassero. Io sovente ho meditate queste sante parole, e della predestinata incomprensibilità di Aristotile mi son persuaso. Pure non resterò mai dall'indagare cosa mai quell'onnipossente intelletto intendesse con l'entelechia e l'univocazione dell'essere. Conciossiachè quel principio impalpabile, incorporeo, etereo non ho saputo giammai conciliare come mai possa essere essenza della forma, ed il constituente dei corpi da cui ricevono organizzazione. Da poichè se è canone di logica che dat nemo quod non habet.....
E molto Ugone avrebbe seguitato a dire. Ma gli altri quattro commissarii, che vanamente avevano aspettato cavare un construtto da questa cantafera, e che fosse infine venuto ad una conchiusione sul fatto del campione, si tediano, e lasciandolo lì a predicare, si tirano da un lato per giudicare la bisogna fra di loro. In effetti, dopo alquanto di squittinio, e' decisero che:
« Al principe Gisulfo sarebbe toccato l'onore del combattimento per la città di Salerno e le terre dipendenti dal principato, come quegli che nella nobile lutta ogni altro aveva superato in vigore. Però essendo stato egli ferito, ancorchè lievemente, ed essendo la pugna di gravissimo peso, il suo posto si destinava al cavalier Baccelardo, il quale non meno ardito e forte si era addimostrato.
Voi imbottate come pevere:
I' vo bevere ancor mi.
La sentenza dei commissari, come che per tutte le considerazioni con lui fosse giusta, al principe Gisulfo non talentò. E' si riputava non solamente dei suoi dritti defraudato, ma insultato nell'onore, col dare importanza a ferita per sè stessa di niuno momento, e che in certo modo gli ottenebrava la pienezza della vittoria sopra l'arcivescovo. Inoltre, egli definiva la prodigiosa forza di Baccelardo meglio come bravo requisito di pugillatore, che come valentia di cavaliere. Di più, un sospetto lo tribolava per allontanar costui dal combattimento. Vale a dire, che essendo Baccelardo normanno, avrebbe e' forse potuto non dimenticarlo intieramente, quella gente vivendo sollecitissima della sua nazione, ed accordatosi innanzi di qualche verso con Roberto, lasciarsi vincere allora, salvo poi a riscattarsi l'onore della vittoria alcuni dì dopo. Infine Gisulfo considerava che la sarebbe stata un'onta alla nazione longobarda il non aver saputo mettere in piede un guerriero ad osteggiare un normanno. E queste ed altre moltissime riflessioni, tra generose e villane, andava facendo Gisulfo nel corso della giornata, e pensava come distruggere la fatale sentenza, la quale, a vero dire, non era stata proprio equa, avendo dimenticato affatto Astolfo, che forse meglio di ogni altro si era condotto, e dichiarato Gisulfo il più vigoroso tra i candidati. Ma, sia come vuolsi, avevano giudicato così, e non potevasi da quello recedere, come da tutti i giudizi che hanno spesso più inviolabilità che senno. Gisulfo vi pensò sopra tutto il giorno; si chiuse a consiglio con alquanti dei suoi più intimi e fedeli longobardi, si propose, si discusse, si confutò, si mise a scrutinio. Infine, si appigliarono a partito fatale, per non dire vituperoso.
Era una bella sera di luglio, una di quelle superbe sere italiane che han formato mai sempre il delirio dei poeti e la disperazione dei pittori. Iddio, che le ha destinate gelosamente per questo popolo, tanto maltrattato dagli uomini, non patisce che l'opera suprema della sua mano venga sfigurata dall'arte. Non vi era luna; ma più miriadi di stelle ingemmavano la vôlta azzurra, e producevano quel voluttuoso barlume cui s'imita nelle camere delle odalische attenuando la luce coi veli. Dalla marina spirava aura deliziosa, tutta pregna ancora dei baci degli aranceti di Sorrento.
Tutti dormivano. Solamente Alberada, nella cui mente si erano fitte come chiodi le fatali parole del giuramento d'Ildebrando, non poteva pigliar sonno. Ella si vedeva quel fantasima dinnante. Se lo vedeva prima, come al castello del padre suo l'aveva osservato, pallido, cupo, negli occhi riarsi, a giurare che giammai avrebbe perdonato al fratel suo, giammai! Poi se lo rammentava come nelle camere della Tomba di Adriano si era a lei presentato, febbricitante, ardenti gli sguardi, convulso nel volto, che dava a lei commessa di condurgli quel fratello, perchè con lui bramava riconciliarsi. E quell'uomo era Ildebrando! quell'Ildebrando, Gregorio VII, il severo, l'inesorabile pontefice, quegli che come globo di fuoco si levò nel suo secolo per purificare o incendiare. Ella dunque ora passeggiava pensierosa per la stanza, ora si fermava avanti la finestra spalancata e guardava. Non guardava il cielo Alberada. Nel cielo aveva una volta messa la sua confidenza e si era rassegnata. Ella guardava la terra. Guardava il placido mare che con un mormorio simile al favellare di giovanette che dei loro amanti si raccontano, venivasi a rompere alla riva. Guardava le galee amalfitane, che a traverso di tanti perigli si recavano a pigliare le tele dalla Persia, le sete dall'India, i profumi dall'Arabia, ed ora, come masse brune, si cullavano negligentemente nella perfida rada, solo animate dal fievole lumicino, che a guisa di stella caduta, rischiara il passo lento del timoniere che non può pigliar sonno. Guardava quei tranquilli accampamenti normanni, in mezzo ai quali aveva passata sorrisa giovinezza, ombreggiata dalla targa paventata di suo padre, allietata dal suo amore. E sotto quelle tende ora riposava tanta parte dell'anima sua, tutta la storia del suo cuore—Guiscardo, il priore, Boemondo! Guardava infine Alberada quella città che, colpita dal languore dell'agonia, non dava più voce, non accennava moto; quella città che era stata culla alla donna fatale per cui tutto aveva perduto, e quel castello, in cui, come il cuore nel corpo umano, si avvertiva ancora estremo battito di vita.
Ed in fatti un rumor sordo e confuso, maggiore del consueto, per la rocca si udiva—un rumore di voci molte che favellano sommesso, di armi che si urtano. Eran forse le scolte che si mutavano. Così pensò da prima Alberada e proseguì nel corso delle sue malinconiche meditazioni. Ma ecco che il rumor cresce più, si odono voci più distinte; ed affacciandosi alla finestra, vede come tante fantasime bianche che al castello si raccolgono. Un pensiero le sorge, un pensier molesto che scaccia via come ingiusto. Non di manco apre la porta della sua camera, e strisciando lungo buio corridoio, al cui fondo si apriva una finestra che dava sul cortile del castello, a quella si affaccia. Allora non dubita più di nulla. Queta queta, come era venuta, ritorna indietro, ed invece di entrare nella sua, entra nella camera dell'abate di Cluny, così dolce e quatta che costui non si sveglia, perchè anche dormendo sognava di Aristotile come donna innamorata del ganzo. Ella, tolto dallo scrittoio di lui un pezzo di pergamena ed il calamaio, esce. Rientrata nella sua camera scrive affrettatamente alcune righe, poi ripiega il foglio che ripone sul petto, e scende nella corte.
L'affollarsi della gente che andava e veniva, l'allestirsi di cavalli, il sordo trambusto, e la confusione per dare e ricevere ordini non fece avvertire il nero spettro che, rasentando di volo le oscure pareti, scivola fuori le porte e si avvia per la città.
Alberada discese con pena l'aspra roccia alla cui vetta sorgeva il castello, ai cui piedi starnazzava la città. Per non perder tempo a seguire i serpeggiamenti della strada consueta, ella si cala dritto carponi per la scoscesa, e presto si trova tra le buie e tortuose viuzze di Salerno, dalle quali con gran pena si può distrigare, e giungere fino presso alle mura.
Fiduciosi nella tregua stabilita, i Longobardi guardavano i baluardi con oscitanza. Imperciocchè Alberada, che sopra vi ascende, trova le sentinelle riunite intendere a berlingare anzi che a star vigili nei loro posti. Avevano appoggiate alle bertesche le labarde e gli archi, e giuocando alla zarra vuotavano fiaschetti alla ricuperazione della pace ed alla tolta dell'assedio. Alberada si accosta ad un gruppo di questi disattenti, e loro dice:
—Buona guardia, bravi soldati. Si passano le ore di pace allegramente: non è così?
—Venga, padre, venga con noi a bere un gocciolo. Non vorrà certo ricusarsi a buoni figliuoli che sanno godere nella tregua, e menar le mani nelle barruffe in onore di Dio ed in vantaggio dei loro borselli.
—Vi ringrazio, buone lance. Io son venuto a pigliar l'aria per sgomberarmi di un disgraziato mal di capo che mi tormenta; non vorrei riattizzarlo col vino.
—Baie, padre riverendo! Il vino è quel diavolo, che, entrato in casa, caccia via tutti gli altri. Non si dia molestia perciò, e lo creda a me che non ho usato mai di altro rimedio in mia vita fuori di questo.
—Beverò dunque una sorsata, non fosse che per farvi piacere, risponde Alberada, a patto però che accettiate una minuzia per vuotarne un fiaschetto di Procida; ma di quel che morde l'ugola e sganghera le ganasce con l'aiuto di Dio.
—Per santa Cunigonda!.... perdono, padre! non vi faremo dolente perciò. Ma berlo adesso che dobbiamo fare la guardia.... eh! quel dannato di vino azzanna, ed il minor pericolo che potremmo correre e' sarebbe di capitombolare dalle mura laggiù fra quei beccastecchi normanni.
—Se tutto il dubbio resta qui, bevete pur lieti e dormite, chè veglierò io; perchè il fresco del mare sento che va alleviandomi lo spasimo.
—Che ne pensi tu, Raspacalici, eh?
—Io penso che una coppa di vino rifiutata è una porta di paradiso chiusa. E tu, Strangolafrati?
—Senti, Raspacalici, ti ho detto che non voglio esser chiamato più così, e te lo ripeto l'ultima fiata: perchè te lo giuro pel mio santo battesimo, che un'altra volta ti manderò la parola nella gola con una pugnalata. Mi pare che non parli latino io. Or dunque, accettiamo i soldi del padre ed applichiamo l'ubbriacatura pel bene dell'anima sua.
—E tu, mastro coniglio, non saresti dello stesso avviso?
—Dominus vobiscum! io mi son confessato ieri mattina!
—Dunque?
—Dunque... quando si trattasse di non dispiacervi, mi ubbriacherò con voi—salvo poi a dirmi i sette salmi penitenziali.—Credo in unum Deum!
E mastro coniglio cantava come i preti a messa.
—Insomma pare che siamo proprio tutti di un avviso?
—Io no, risponde un compagno, perchè ho promesso a Ziga di andarle a far visita questa notte, dopo la guardia. Vi cedo perciò la parte mia, e ritorno al mio posto.
—Dies irae! sclama mastro coniglio, e tu fai di codeste visite, Randolfo?
—Non cominciarmi a tribolare con prediche, figliuol di una vacca, che ti spezzo il cranio con questa chiaverina. Io intendo di condurmi a mio modo.
—Basta basta, risponde il soldato che la faceva da caporione, to, mastro coniglio, questi sono i soldi del riverendo padre; recati dall'ostiere qui presso, gittagli a terra la porta se non vuole aprire, e comprane altrettanto prosciutto, vino di Procida ed acquarzente. Bada però a non dimenticar parte dei quattrini nel fondo della tua scarsella.
—Rubacristi! e la mia onestà? ti ho già detto, parmi, che m'era confessato ieri mattina.—
—Ragione per cui più ti ricordo di non fare il quare me repulisti.
—Va e corri presto, sai! perchè non ci resta che un'ora buona. E voi, riverendo padre, se non volete farci compagnia, toglietevi la pena di vigilare i nostri posti. Passeggiate tra lo spazio da porta Marina a porta d'Eboli, e se udrete rumore laggiù, negli accampamenti, o vedrete gente che si appressasse alle mura; insomma se crederete scorgere cosa che potesse darvi sospetto chiamateci, perchè verremo noi ad osservare di che domine trattisi. Già non ci è paura, perchè abbiamo tregua per tre dì; ma la cautela è cautela, e noi non siam soldati per niente.
—Lascino fare a me, buone lance, e banchettino tranquilli. Mi diano solo una labarda, un arco, che so io—potrebbe sempre giovarmi a qualche cosa.
—Servitevi là a piacere, riverendo: vi troverete ogni bene di Dio.
Alberada stacca dalla parete un arco ed alcuni verrettoni, e parte dicendo loro:
—Buona notte, figliuoli.
—Buona notte, rispondono i soldati, e ricominciano da capo i loro giuochi.
Non passò guari, ed innanzi ad una sentinella normanna cadeva un verrettone, nelle cui ale andava innestata una pergamena.
Passavan cheti e taciturni avanti
Senza ronde scontrar nè sentinelle;
Quando cessaro all'improvviso i canti,
E i gridi e gli urli andar fino alle stelle
I soldati longobardi, che lungi dal custodire le mura si deliziavano a bevere a isonne, furono avvisati da Alberada del rumore crescente che udivasi per la città. E non appena questa si allontanò per ritirarsi alla rocca, che un centurione capitò loro addosso e li garrì acerbamente dell'insubordinato condursi, ordinando che stessero in punto sotto le armi, perchè questo era il comandamento di monsignore Gisulfo. Nello stesso tempo e' videro calar giù dalla rocca grossa mano di soldati, con bianca camescia su per la corazza, conducendosi a redina i cavalli, e ragunarsi presso le porte uno stuolo, che dava sul migliaio, di uomini d'armi dello stesso modo divisati. Indi un'altra folla di arcadori, che a mano a mano si attelavano sui baluardi, allogandosi ad ogni merlo e ad ogni bertesca, guarnendo le torri delle porte e tutto lo spianato dei bastioni. Quei poveri soldati ubbriachi, che noi abbiam veduto nel capitolo precedente, guardavano allampanati, non comprendendo qual demonio volesse significare tutto quell'apparato ostile, mentre la tregua spirava il poi domani. Ma il loro stupore non fu lungo. Imperciocchè, non passò guari, e videro comparire il principe Gisulfo in persona, alla testa di un cinquecento cavalli ed un buon migliaio di fantiglia. Egli ordinò: che senza rumor fare si aprissero le porte; che i soldati di guardia vigilassero attenti, e che, nel caso ei fossero inseguiti da quei di fuori, le richiudessero loro alle spalle, appena stessero novellamente riparati tutti dentro; che quei delle mura travagliassero dei mangani e delle frecciate i Normanni, i quali benissimo da loro distinguevansi, perchè non vestiti di bianco; e che il resto dei cittadini e dei militari si tenessero pronti a spalleggiarli, in caso che dimandassero aiuto. Date queste disposizioni, la porta Marina e la porta di Eboli si aprono e Gisulfo col seguito esce.
Traditorescamente, e contro il sacramento della tregua, questo principe cercava sorprendere con un'incamiciata i Normanni, tra per decidere così guerra terribile, tra per distogliere il duello. Il perverso disegno gli tornò fatale. Perocchè non appena tutta la sua gente ebbe oltrepassate le porte, che da quegli accampamenti, fino allora sembrati stanza a gente neghittosamente addormentata, sbucano fuori a guisa di demoni i Normanni.
La faccenda era proceduta di questo modo. Come Alberada mandò nel campo, per lo mezzo del verrettone, la novella che i Longobardi preparavano una sorpresa, quella pergamena da un giovanetto, per ordine del padre lì collocato ad addestrarsi in tutti i travagli della milizia, fu recata a Roberto Guiscardo. Il giovanetto era Boemondo. Roberto senza prendere indugi fa svegliare le sue truppe tenda per tenda con cautela e silenzio; ordina loro tenersi presti a seguire monsignor di Bovino: vestissero le armi quetamente e solleciti, e del ventre per terra restassero ad orecchiare dinnante la tenda. Indi fa svegliare la sua quadriglia di Calabresi, ai quali comanda di seguirlo, strisciando di pancia al suolo, fin sotto le mura; ed un'ultima parte di gente affida al priore. Formava così il piano: di cacciarsi egli nella città a portarvi la morte e lo scompiglio, come che i Longobardi ne fossero usciti, trovando aperte le porte, sgangherarle a colpi di mazza se chiuse: il priore Guiberto tenergli dietro, sia per aiutarlo sia per proteggerne la ritirata: monsignor di Bovino dare addosso alla gente di Gisulfo. Questi ordini, questo disegno di attacco furono l'opera di un momento, e compieronsi con eguale sollecitudine e silenzio, stando le truppe ben distribuite nelle tende e da quelle protette dalla scoverta delle vedette longobarde.
Uscito quindi Gisulfo fuori le porte, e disposte le colonne delle sue truppe per procedere riuniti e con ordine, tutto ad un tratto ode dal campo, quasi vicino alle sue orecchie, uno squillo di tromba, ed a quel suono si vede rizzato innanzi, ai fianchi, e dietro un esercito come se fosse sbucato di sotterra. Roberto senza nulla incaricarsi di lui entra nella città, per le porte lasciate aperte, e vi precipita con tanto impeto e sollecitudine, e così prestamente se ne impadronisce, che i soldati longobardi di guardia hanno appena tempo di distinguere non essere i loro tornati indietro perchè scoperti dal nemico, ma Guiscardo in persona con quei suoi demonii di Calabresi. E subitamente dopo a Roberto entra il priore che si era alzato di fianco a Gisulfo. Guiberto non s'impaccia di scaricarsi sui Longobardi, credendoli assai bene affidati all'ospitalità apostolica del vescovo di Bovino. Penetrato anch'e' nelle mura, chè ormai le porte tenevano i Normanni, comincia a distendersi sui baluardi, sgozzando le guardie e precipitandole nei fossi, ed occupa le bastie, in guisa che, in minor tempo che noi non ne abbiamo posto a raccontarlo, le fortificazioni di Salerno cadono in mano a' nemici.
Il principe Gisulfo intanto, vistosi così di repente circondato dall'esercito nemico, e vistoselo in gran parte sgomberare d'attorno quasi fuoco fatuo, comprende di leggeri di che si tratta. Laonde, invece di avventarsi addosso alle masnade di monsignor di Bovino, che, le picche appoggiate al petto, stavan lì per riceverlo, pensa a rientrare nella città, finchè ne aveva ancor tempo. Infatti ordina ai suoi di voltare le spalle e seguirlo.
Io non vi dirò quale accoglienza preparasse loro Roberto di fronte, e come il vescovo e gli altri condottieri li carezzassero alle spalle. Fu fatto dei Longobardi macello da destar pietà, talchè non uno dello sciagurato seguito del principe rimase vivo. Ma Gisulfo ebbe ventura scampare, perchè quei di Salerno, al rumore ed alle grida svegliati, presero anch'essi la pugna e cominciarono a travagliare i Normanni, e perchè sua sorella, la quale come ogni altro soldato si batteva, lo coverse del suo pavese. Sfuggì quindi alla strage, e solo, affranto, ebbe campo appena di andarsi a chiudere nel castello e farne serrare le porte. Il vescovo di Bovino poi, essendo anch'egli venuto dentro in città con l'alba che spuntava, si riaccende per ogni straduzza, per ogni chiassuolo accanito badalucco, non volendo quei di Salerno ceder senza fare almeno gli ultimi sforzi. Li animava Baccelardo. Questi, restato nel castello a dormire, della perfidia di Gisulfo nulla sospettando, al trambusto si era svegliato. Comprende tutto in un baleno. Accoglie perciò gli avanzi del presidio del castello ed alquante milizie cittadine, e si apre varco sino alle porte, dove Roberto faceva aspro scempio di Longobardi e Salernitani. Là giunto, lo riconosce, lo chiama a nome, gli si scaglia sopra come demonio. Terribile, cieca è la lutta che fra loro s'ingaggia.
—Vengo a domandarti il mio guanto, gridava Baccelardo, gli è tempo omai che me lo renda, usurpatore de' Stati miei.
—Il tuo guanto è qui, appeso all'elsa della mia spada; prendilo, sclamava Roberto.
E cotal botta gli menava là, dove l'epa discende all'inguine, che, se di peggior tempra la panciera si fosse trovata, lo avrebbe passato da parte a parte.
E di rimando Baccelardo gli misurava una stoccata.
Roberto è ferito alla coscia e vacilla. Accorgendosi Baccelardo di averlo colpito e di poterlo finire più facilmente, l'incalza di maggiore vigoria. Però Sigelgaita, che d'appresso a Roberto pugnava unitamente a Boemondo—comechè di soli quindici anni—avvedutasi parimenti del colpo del marito, grida, ed ambo correndo in aiuto di lui, mentre fin allora non avevano fatto che guardargli le spalle, stringono siffattamente Baccelardo, che l'obbligano a retrocedere maggiormente perchè era omai restato solo. Allora questo sventurato principe non vede altro riparo per sè che fuggire da una città caduta in mano del suo più crudele nemico. Mette fischio acuto, e in un instante si sente comparire alle spalle il cavallo. Vi monta sopra senza toccar staffa, si caccia per tortuosi oscuri vicoli, finchè non giunge a porta di Ronca, che sola rimaneva ancora in potere dei cittadini, se la fa aprire, si lancia su per quegli aridi greppi, e scompare.
La città di Salerno già padroneggiavano i Normanni.
Si rivolsero quindi alla rocca, nella quale si teneva chiuso Gisulfo. Questo principe aveva combattuto con ferocia, e si era ritirato in quell'ultimo baluardo, credendo potere opporre estrema resistenza col presidio che si trovava lì dentro, o almeno capitolare dignitosamente. Indicibile fu perciò la sua disperazione quando udì che il presidio aveva menato via Baccelardo onde andare ad affrontare i Normanni laggiù nella città. Il tradimento da lui progettato gli tornava fatale anche per questo verso. Bestemmia, si dispera; però non gli resta meglio che implorare la pietà del vincitore. Laonde manda i due legati a supplicare Roberto affinchè volesse, se non altro, accordare la libertà sì a lui che alla sua famiglia, e lasciar loro la vita, perchè si sarebbero resi sul momento.
Alberada e l'abate vennero al padiglione di Roberto. Questi si era fatto condurre negli accampamenti per medicare la ferita. Giunto nel vestibolo della tenda, l'abate si volge ad Alberada e le dice:
—Madonna, vi ricordo ch'egli è omai tempo di mandare a compimento le commissioni che la beatitudine di papa Gregorio vi dava.
Ed Alberada a lui:
—Messer abate, la beatitudine di papa Gregorio è un infame. Ildebrando mi tendeva laccio codardo, che Iddio nella sua immensa misericordia ebbe pietà di farmi alfine comprendere, e cavarmi dal precipitar nel delitto. Questo sappiatevi, messer abate, e non cercate di penetrar oltre in tanto scellerato viluppo.
Ugone sospira nè dice altro. Dopo di che Alberada si tira il capperuccio fino agli occhi, ed entrano nella tenda.
Trovarono Roberto attorniato dai suoi fedeli, da parecchi conti e baroni, da Sigelgaita e da Boemondo che avevano assistito alla medicazione della profonda ma non pericolosa piaga. Come il duca li vide, comprese subito di che si trattasse. Per lo che, dirigendosi generosamente a sua moglie, le ordina:
—Madonna, vogliate avere la cortesia di dare udienza ai messi di vostro fratello, che certo di qualche cosa manda a noi a raccomandarsi.
Sigelgaita allora si rivolge ai legati e sclama:
—Favellate, messeri, chè la volontà di nostro fratello sarà fatta.
—Egli non vi sarà di molta molestia, madonna, risponde tristamente l'abate. Lo sventurato principe Gisulfo promette cedere la rocca, dove che a lui si conceda la vita e la libertà, unitamente ai membri della sua famiglia.
—E non altro? dimanda Sigelgaita.
—Non altro, madonna, conoscendo egli il suo torto, e come duramente col duca Roberto si sia comportato. Vogliate perciò usargli cortesia di non negargli così tenue grazia, in mercè del castello che consente di aprirvi senza colpo ferire.
—Il suo piacere sarà fatto, riprende Sigelgaita. E perchè il rendere la casa dei padri suoi gli torni men aspro, io medesima mi reco a pigliarne possedimento.
—Delicata idea! sclama l'abate, e basterebbe essa sola, madonna, se vi mancassero le grazie ed il valore, per allogarvi fra le più nobili dame d'Italia.
Sigelgaita esce, e l'abate, dopo alquanto di silenzio, rivoltosi a Roberto dimanda:
—Non vorreste, monsignore, accordarmi adesso l'onore di favellarvi breve tratto in segreto?
—Sì bene, risponde Roberto; traetevi altrove, signori—e tu altresì, Boemondo, col molto riverendo padre che accompagna l'abate.
Boemondo ed Alberada si ritirano allora in uno scompartimento della tenda, attiguo a quello dove Ugone e Roberto dovevano favellare—e non saprei dirvi quanto Alberada ne fosse contenta. Dappoichè, quivi giunta, si gitta indietro il cappuccio di un tratto, e toltosi in grembo Boemondo, prende a coprirlo di baci e di lagrime gridando, affogata dai singhiozzi:
—Io sono tua madre, Boemondo, io sono la sfortunata Alberada.
S'avons perdu et je et vous assez
Amis et drus et parens et privez.
Quel ribocco di amore però non fu di lunga durata. Alcune parole dell'abate, che parlava di Guiberto, colpiscono le loro orecchie. L'infelice donna si arresta a mezzo ai baci, taglia nette le parole di lungo amore compresso e le non mai sazie carezze, ed i non mai inebriati sguardi, e sta più attentamente ad ascoltare. Qual dubbio v'era? Il mercato era fatto, il patto di sangue era conchiuso. Il papa dava a Guiscardo investitura del principato di Salerno e del ducato di Amalfi, e Guiscardo al papa un uomo—l'abborrito, il paventato priore di Lacedonia! Laonde andasse egli, abate di Cluny, a chiamarlo a nome di Roberto alle tende, perchè quivi avrebbe questi di alcuna maniera provocate liti con lui, e tiratolo del ciuffo ad atto di violenza qualsiasi. Allora, gridando che il priore tentava assassinarlo, così inchiodato al letto come trovavasi, i suoi fedeli Calabresi sarebbero accorsi, lo avrebbero fatto prigione, e senza fallo, senza obbrobrio, si saria mandato al papa in olocausto.
A tale scellerato accordo Alberada abbrividìsce e lo stesso Boemondo si sente ardere di sdegno. Questo giovanetto si era trovato così fra le braccia di sua madre senza aspettarselo, senza esservi preparato di alcuna maniera. Fanciullo di appena tre anni, una mattina, nel più bel mezzo di lieto banchetto, aveva sentito avventarsela al collo per coprirlo di baci, poscia non l'aveva più veduta, e gli avevano anche inibito parlar di lei. Ma quei baci, quell'aspetto in cui qualche cosa d'inusitato favellava, non gli si era tolto più dalla mente. Anzi, a misura che cresceva negli anni e di quella scena si rammentava, ovvero alcun pietoso gli raccontava dei torti di suo padre e delle sventure della madre sua, quei baci sentiva ancora più affettuosi e disperati penetrargli fino al cuore, di quell'aspetto s'inebriava. In guisa che bastarono appena le prime carezze, le prime parole di Alberada per tutto tornargli alla mente, per vedere incarnata la visione di tante notti, ed i pensieri dell'ore meste in che l'obbligavano di fare la guardia al campo. Si precipitò fra le braccia di quella donna con ebrietà, con delirio, e le carezze ed i baci le restituì non meno ardenti ed affettuosi. Maggiormente poi che, ad onta degli anni e delle sofferenze, il volto di Alberada poco erasi mutato.
Alberada aveva di quei sembianti infantili i quali lieve e tardi risentono l'ala del tempo.
Quante cose non si avevano dessi a domandare, quante parole a ripetere, quante storie a raccontarsi, e sfoghi, e compiacenze, e tenerezze, e baci ed altri baci ancora, e non mai saziarsi di quella santa inenarrabile voluttà? Le parole di Roberto e dell'abate furono lo scongiuro che ruppe tutti gl'incanti, ogni delirio agghiacciò—nell'anima di Alberada, perchè si sentiva colpire nell'uomo che, dopo Guiscardo, amò più e che la riamava ardentemente; in quella di Boemondo, perchè il vituperato patteggiare di suo padre l'oltraggiava. In guisa che, quando udirono partito l'abate per consumare il tradimento e tirare nella trappola Guiberto, ambedue, senza affatto comunicarsi i pensieri, un medesimo sentimento inspirò. Usciti da un altro lato del padiglione, verso la rocca si avviano, sperando trovar quivi il barone di Lacedonia.
In effetti vi giunsero contemporaneamente all'abate di Cluny, quando il misero Gisulfo, che in lui vedeva spegnersi l'ultima facella della dominazione longobarda in Italia, usciva dal castello de' padri suoi con la desolata sua famiglia, nudo, la testa china, senza sapere dove la sera avrebbe riposato il capo, senza speranza di una crosta di pane pel domani.
Così ignotamente passava il dominio di una forte nazione sopra le contrade d'Italia. E quel che peggio era, non passava per andare a dormire nel sepolcro il sonno dell'oblio, ma per trascinarsi di castello in castello, di terra in terra, di porta in porta, accattando un frusto di compassione, e non trovando che disprezzo. Imperciocchè la miseria del debole commuove, l'abbiezione del forte rallegra, ed eccita al dileggiamento. E nel punto stesso che Gisulfo, accompagnato da sua sorella, nobilmente rassegnato e mutolo usciva, il priore Guiberto allogava agli spaldi guardie normanne, a nome di Guiscardo, e del castello prendeva possesso. Allora l'abate di Cluny gli si presenta e dice con voce peritosa e tremante:
—Messere, vogliate avere la cortesia di seguirmi alle tende del duca, perocchè egli, quivi trattenuto dalla ferita come sapete, ha gravi e pressanti comandi a darvi in ordine alla città.
—Sì bene, ser legato, vengo tosto. Però in avvenire non prendete sbaglio sulle parole. Io non ricevo comandi da chicchessia, fuori dell'imperatore, ed a Guiscardo sono alleato non vassallo.
—Vi dimando perdono allora, messer barone, se profferii motto che mal vi tornasse gradito. Non vorrei però che ciò fosse cagione del vostro non arrendervi ai desideri del duca Roberto che ha premuroso bisogno di voi.
—Vi ho detto che vengo sul fatto, risponde il priore.
E sì dicendo in compagnia dell'abate si avviava per discendere agli accampamenti.
Allora Alberada si presenta loro, e gittandosi dietro il cappuccio che le celava compiutamente il sembiante, al priore favella:
—Guiberto, non andate con codesto traditóre, perchè la vostra testa, da recarsi al papa, tra costui e Roberto è stata patteggiata. Fuggite anzi, fuggite senza indugio.
—Alberada! sclamano ad un tempo il priore e l'abate.
Ed ella:
—Fuggi, Guiberto, fuggi sollecito in nome di Dio! chè da un momento all'altro non saresti più a tempo. E tu, abate di Cluny, uomo fino ad ieri senza macchia, vergógnati e péntiti di essere disceso al mestiere del sicario.
A queste acerbe parole, Ugone, che sempre era stato buono ed onorato, si sente commuovere. Il suo fallo gli salta agli occhi spaventevole, si vede vituperato da tutta Europa, gli sembra udir raccontare il suo tradimento per tutte le corti, sente strapparsi fino dal sangue l'epiteto di virtuoso attaccato al suo nome, e conciossiachè anche in quell'azione condannevole e' fosse stato spinto da pietà per qualcuno, nell'anima s'intenerisce, nel volto si copre di rossore, e cadendo al ginocchio di Guiberto sclama:
—Perdono.
Quest'atteggiamento, questa sola parola profferita di accento pietosamente solenne e profondo, tutto rivelano a Guiberto. E leggendo altresì negli occhi di Alberada l'ansia paurosa che la divorava, e nel sembiante abbattuto di Boemondo, vergognoso dell'onta del padre suo, tutta l'urgenza, tutta l'estensione della cosa, alza il pugno armato della manopola di ferro onde percuotere l'abate sul calvo capo. Poi tutto ad un tratto ristà, si ferma un istante a guardarlo in quel supplice atto, stringe la mano a Boemondo, le gote gli bacia, e voltosi ad Alberada:
—Partiamo, sclama, Roberto Guiscardo udrà presto notizie di me.
—Parti tu, fuggi sollecito, Guiberto, risponde Alberada smaniosa; ricórdati quanto Roberto sia scaltro, Ildebrando terribile—fuggi, ti raggiungerò.
—Dove? quando? non saresti ancora tu in pericolo, Alberada?
—Non pensare di me, che vivo sicura sotto l'egida di legato. Non arrestarti nei paesi d'Italia, dove il potere del papa e del duca è illimitato; varca i monti. Ti raggiungerò in Germania. Ma presto, in nome di Gesù! fuggi presto; potresti essere inseguito.
Guiberto si getta al collo di Alberada, le dà lungo abbraccio, e parte.
Allora l'abate di Cluny le si volge e dice:
—Che facesti, Alberada! io lo tradiva per te!
—Vergogna! vergogna, sclama Alberada coprendosi il volto con ambo le mani. Nel mondo non v'ha dunque più un cuore che ricetti la virtù?
Ugone resta a considerarla un momento, poi sospirando dimanda:
—Ed al papa che recherai in risposta, sventurata! che recherai?
Alberada alza gli occhi al cielo, accenna della mano il suo capo, e risponde con nobiltà:
—La testa.
Fine del primo volume.
Perchè non si credano miracolose le pruove di forza accennate nel capitolo VIII si ricordino questi fatti storici.
Azzeddoulat, principe persiano, colle sole braccia stramazzava a terra un toro, e faceva la caccia ai leoni.
Babaram, figlio di Iezdegerdo re di Persia, tolse la competutagli corona fra due leoni affamati, che uccise, disarmato, e sbranò!!
Bouflers signore di Piccardia, come assicurano Loisel, Memorie del Beauvese, e La Marlière nelle sue Case Illustri, rompeva con le dita un ferro di cavallo—da stare su di un piede niuno lo rimoveva—si alzava sulle braccia un cavallo e lo portava per molta distanza—con gli stivali alle gambe passava di un salto i più larghi fossi—uccideva di una sassata i quadrupedi al corso, gli uccelli al volo—in una corsa di dugento passi avanzava un cavallo di Spagna.
Cleomede, dall'oracolo disegnato ultimo degli eroi, defraudato del premio della lotta, ruppe la colonna di una scuola sotto le cui rovine perirono 60 persone. E qui si ricordi anche Sansone—se i semidei della Bibbia non sono miti o favole come quelli delle Mille ed una notte.
Federico-Augusto I, re di Polonia—Ettore—Ercole—Federico II elettore di Brandeburg soprannominato dente di ferro, ebbero forza maravigliosa.
Firmio, chiamato il Ciclopo, che si fece proclamare imperatore in Egitto per vendicare Zenobia, si dava a battere i metalli sul petto come sopra un'incudine.
Luigi Gonzaga, signore di Sabbioneta nel Mantovano, soprannomato il Rodomonte, al dir del Guazzo, storico contemporaneo, ogni grosso ferro di cavallo apriva, e spezzava di una sola scossa una fune grossa come cinque corde d'arco.
Il padre di Giacomo Rouxel, de Medavy, conte di Grancey e maresciallo di Luigi XIII, avendo passato fuor fuori il signore di Frepigny, uomo d'arme, lo portò in aria tutt'armato qual'era ed infilzato alla sua spada per più di 4 passi.
Graziano, padre dell'imperatore Valentiniano I;
Marco Aurelio—Mario che con un dito fermava una carretta nel massimo del corso;
Giovanni Podikove che rompeva in due un ferro di cavallo;
Andrea Everardo Rauber signore di Petrouel, che rompeva anche un ferro di cavallo, e che aveva una barba lunga fino a terra e da terra alla cintura, per sposare una figlia naturale di Massimiliano duellò con uno spagnuolo a chi mettesse l'altro in un sacco, e ve lo mise;
Il celebre Giorgio Castriota detto Scandeberg, il quale per la sua forza invogliò Maometto II a volerne vedere la scimitarra. Giorgio gliela mandò dicendogli: che si era ben guardato mandargli altresì il braccio il quale l'adoperava;
Cervione—Charri—e per ultimo Ugone Tudextisen, di cui parla Summonte, che, per dar saggio di gagliardia agli ambasciadori greci, scaricò un colpo di pugno sulla testa di un cavallo, e l'uccise.
Questi esempi, ed altri numerosissimi, fanno fede che noi non esagerammo nelle prove che descrivemmo poc'anzi.
1: Il morgingab era un dono che il marito dava alla moglie dopo la prima notte delle nozze per averla trovata vergine. Ed era tanto l'entusiasmo degli uomini di allora per questa verginità, che le leggi ebbero a metter regola e modi ai loro doni.
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L'uso delle virgolette per il discorso indiretto è bizzarro e incostante, e probabilmente mal interpretato dai tipografi. Abbiamo riprodotto quanto appare nell'originale, nei limiti del possibile.
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